Sotto il segno dello scorpione. Il cinema dei fratelli Taviani 8883210034, 9788883210037


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Italian Pages 264 [259] Year 1978

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Sotto il segno dello scorpione. Il cinema dei fratelli Taviani
 8883210034, 9788883210037

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gGuido Aristarco '5 MF

Sotto il segno dello scorpione II cinema dei fratelli Taviani

Introduzione

« DELIO/RUFFO ’60 »

Delusione delle aspettative: il sorpasso a sinistra non c’è stato. I tempi si fanno an­ cora una volta lunghi. Mi viene da pian­ gere... Ma a che serve? Ci sorregge, ancora e sempre, l’utopia. (Dopo le elezioni del 20 giugno 1976. L’autore, che ha votato Democrazia proletaria).

Ruffo '60, quando viene messo in onda nel 1975, non costituisce nell’attività di Paolo e Vittorio Taviani una « novità ». Scritto tra il 1958 e appunto il 1960, due anni prima della regia di Un uomo da bruciare, era originariamente una commedia e si intitolava Delio. Pronta per andare in scena con Franco Parenti al Pic­ colo di Palermo, rimase nei cassetti per l’incendio di quel teatro; solo in seguito, molto più tardi, giunse la proposta della Rai per un allestimento radiofonico. « Con la cinepresa o con il microfono quello che conta è rac­ contare », affermano i Taviani; e Ruffo '60 « è il rac­ conto che due amici — Olinto ed Eugenio — fanno di alcuni momenti della vita del protagonista; vissuto tra il 1928 e il 1960, in sintesi egli è un comunista in una accezione esistenziale, e rimane sempre un bor­ ghese pur vivendo una realtà più grande di lui » '. Vediamo Ruffo Senesi a otto anni; debole di salute, ha paura di notte e ricorre alla protezione della madre; ride del nonno, già « gran direttore » d’orchestra, di opera lirica, Dio in terra per casa sua, idolo per i log­ gioni di mezza Europa e ora malandato, avendo preso, a Casablanca, la malattia del sonno. Poi eccolo, Ruffo, sedicenne, durante l’occupazione tedesca a Cigoli, in To' Cfr. Una commedia dei Taviani per la radio, intervista rilasciata a Franco Mondini, in « Stampa Sera del Lunedi », Torino 25 novembre 1974.

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scana, nell’agosto 1944, nella villa di campagna dove la famiglia è sfollata; e diciottenne in piazza, a Livorno: il bambino che se ne stava malaticcio sempre in casa, è diventato un sanculotto. I dimostranti si stringono in gruppo, gridano tutti insieme: « No. No. No » e for­ zano il blocco della polizia; anche lui comincia a urlare « No », prima incerto e poi con violenza sempre mag­ giore. Ruffo diventa dirigente della commissione cultu­ rale del pei, ed ha il primo incontro con Olinto ed Eugenio, che allestiscono uno spettacolo di massa, la loro prima esperienza di teatro: vogliono raccontare la storia del porto, e i sindacati gliene offrono l’occasione. I fatti di Ungheria colgono Ruffo a trentacinque anni. La crisi lo coinvolge. Che importanza ha, pensa, firmare una lettera di protesta contro i carri armati so­ vietici a Budapest? Egli si sente dirigente politico a metà, musicologo a metà, critico d’arte sempre a metà. « Sulla mia lapide », dice ai compagni, « scriverete: di professione non identificata ». Non firma. Ora vuole oc­ cuparsi un po’ di se stesso: « Solo di Ruffo. E subito. Altrimenti divento matto come Beliindia [la moglie]. Che se ne può fare, ormai, il partito di falliti come me? » E non ascolta quei compagni che gli dicono: « Aiutia­ mo anche il partito a crescere. Tutti insieme però. At­ tenzione. Non scappare ora. Te ne pentiresti ». Abban­ donato il partito, Ruffo a poco a poco si isola sempre piu: apre una galleria d’arte a Roma, scrive un libro sull’arte informale, dirige una collana monografica, al­ lestisce la prima mostra, mentre i giovani manifestano contro la polizia che protegge un governo di destra. Da fuori giungono i rumori degli scontri di strada, di ca­ valli lanciati al galoppo e grida dei dimostranti; e Ruffo invita la figlia — Giulietta — che lo aiuta ad allestire

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la mostra, a chiudere porta e finestre. Cerca la sezione aurea. « I quadri devono dividere la galleria in propor­ zioni divine... Bisogna trovare la sezione aurea... la se­ zione aurea bisogna intuirla. La perfezione va intuita. Sta forse tra i numeri e la musica ». Ma Ruffo ha anche altre intuizioni, oltre a quella della sezione aurea. « Perché continuo ad essere un bor­ ghese in mezzo ai borghesi? » cercava di spiegarsi già quando militava nel partito; e prima di sposare Beliindia avrebbe voluto fare il contadino. « Continuo a lavorare [come critico d’arte], ma sono perduto. Sono perduto » dirà alla fine, prima di morire in un incidente d’auto, mentre insegue Valeria, il suo ultimo amore. « Se solo riuscissi a dare ordine a tutto questo. Se solo per rac­ cogliere un frutto nuovo, ogni volta non gettassi via l’altro che ho in mano. Che credete? Vorrei anch’io trovare un po’ di pace. Lo so: io non cresco volta volta. Ricomincio sempre da principio. Per questo, forse, Eu­ genio e Olinto stanno dando ordine, per me, alla mia vita... Fino a quando? Fin dove? Ho freddo. Basta. Io cosi son fatto. Qui sto », ad attendere Valeria, che lo fugge e non incontra quel giorno. Per non vederlo, Va­ leria era partita per Venezia. Ruffo la insegue, ma inu­ tilmente. « Correva nella sua auto sotto il sole di mez­ zogiorno e non si accorse dell’ultima curva. Al trenta­ duesimo chilometro, tra Mestre e Belluno ». E già prima, nella galleria d’arte, quando grida alla figlia di chiudere porta e finestra per non sentire i rumori di strada, dei di­ mostranti e dei cavalli della polizia, Ruffo, sfogliando il suo libro sulla pittura informale, aveva letto a voce alta: « Fin dove si può scendere nella materia senza che scen­ dere significhi sprofondare »; e, ancora sfogliando, sem­ pre leggendo, aveva pronunciato la parola « Fine ».

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Nel rendere pubblica la vita del loro migliore amico, Eugenio e Olinto non vogliono che i ricordi finiscano in rimpianti: sono persuasi che attraverso la vita di Ruffo la verità era passata in misura singolare, anche se questi non se ne rese conto, anche se la sua persona­ lità ne fu scossa ma non accresciuta. « Cercare nel pas­ sato di Ruffo è come cercare nel nostro. Come fare il ritratto di qualcuno a memoria, ecco, usando per mo­ delli anche noi stessi », dice Eugenio. Evidentemente Eugenio e Olinto sono Paolo e Vittorio Taviani; e Ruffo è personaggio emblematico, non individuale. La sua sto­ ria, avvertono gli autori, rispecchia la storia di una ge­ nerazione, quella cui appartengono i due registi. Opera dunque biografica di molti giovani di quegli anni, anche se gli elementi autobiografici sono parecchi. « Dobbiamo recitare la parte di noi stessi », afferma Eugenio. « Vi­ viamo tutti a Roma e siamo invece tutti e tre toscani », aggiunge Olinto; « io, lui, Ruffo. Ruffo di una città di porto [Livorno], noi di una città di preti [San Minia­ to] ». Eugenio ride, sorride; confessa sottovoce ad Olin­ to: « Non provi gusto a disporre di Ruffo come più ci piace? Farlo, disfarlo, di sotto e di sopra? » « Non vor­ rei dirlo », continua Eugenio, « ma Ruffo certe volte non mi era simpatico ». Ed ecco il loro primo incontro-scontro con Ruffo, che appunto dirigeva la commissione culturale del pei, la loro prima esperienza teatrale (Olinto aveva allora diciassette anni). L’occasione, come si è accennato, gliela offrono i sindacati. Eugenio ed Olinto vogliono raccon­ tare sul palcoscenico la storia del porto, a Livorno, dal fascismo alla Resistenza: portare in teatro un po’ di cinema neorealistico — la stagione del neorealismo era al suo culmine — e un po’ di Brecht e di folklore gram-

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scianamcnte inteso. Ma Ruffo pensa soltanto al comizio: « Questo è un comizio », insiste, « e rosso per di più ». Tante bandiere rosse e una grossa figura di cartone di Stalin. Nel mezzo ci sono i portuali, coautori del cano­ vaccio, che peraltro recitano, insieme con le loro donne, un po’ alla sovietica; ma grazie a loro si hanno lo spet­ tacolo e il comizio, un comizio come spettacolo. E tut­ tavia è proprio Ruffo a superare le difficoltà durante la « prima », quando le attrici professioniste, che gli au­ tori avevano richiesto e ottenuto, si danno malate. « Non è questo che volevate voi due? » urla Ruffo mentre tutto sembra perduto: « il dialogo diretto tra palcosce­ nico e pubblico? » « È stato un gran momento davvero nella vita di Ruffo », quello, ammette Eugenio. E Olin­ to: « C’è poco da dire; quella volta aveva ragione lui ». Nel ricostruirne la vita, i suoi due amici provano sì gusto a disporre di Ruffo come più a loro piace, a farlo, disfarlo; certe volte non risultava simpatico. Eppure, dopo la morte, mentre continua il motivo « vorrei e non vorrei » dal Don Giovanni, Olinto confessa: « Ruffo, non saprai mai quanto ti abbiamo amato ». Ed Eugenio: «Quanto abbiamo pianto la tua morte. Ruffo (con ri­ torno di pianto), oh Ruffo! » « Eppure dobbiamo rin­ graziarti anche per quella », aggiunge Olinto dopo una pausa, padrone di sé. « Per la sua morte. Ci serve. Gli è servita. Non aveva altro da dire, ormai, a nessuno. Abbiamo finito, Eugenio. Con la morte di Ruffo l’opera è conclusa ». Conclusa una prima esperienza dei Taviani. Il motivo « vorrei e non vorrei » si interrompe. « An­ diamo via », esorta Eugenio. « Per pensare a una nuova opera anch’io ho bisogno d’altro. Devo muovermi... Tutto diverso. Olinto, possiamo pensare a un’opera nuova. In Sicilia, tra i cafoni... »

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Un’opera nuova. Dopo le « pieces » Il nostro quar­ tiere (1950) e Marco si sposa (1951), due spettacoli di « Teatro di massa » — uno dei quali rievocato appunto in Ruffo ’60 — e alcuni cortometraggi (tutta questa attività in collaborazione con Valentino Orsini: proba­ bilmente nel personaggio di Ruffo c’è qualche riferimen­ to pure a lui), ecco l’esordio, sempre insieme con Orsini, nel lungometraggio a soggetto: Un uomo da bruciare. Anche se Ruffo ’60 è una commedia, meglio un dram­ ma teatrale che diventa radiodramma, è ricco di motivi che troviamo sparsi nei film di Vittorio e Paolo Taviani (e di Orsini): possiamo definirlo una « summa » della loro attività cinematografica. Del resto essi lo vedono « proprio in immagini, perché alla resa dei conti noi sentiamo il cinema come il vero linguaggio del nostro tempo. Il cinema più della radio; quella è la nostra ma­ niera di stare con il pubblico e di essere coinvolti »2. Olinto, nel finale, indicando gli spettatori, dice sottovo­ ce: « È per loro. Non possiamo indugiare oltre ». Ed Eugenio aggiunge: « Lo so. Non ci rimane che salutare e levarci di quassù » (dal parco pubblico di villa Sciarra, a Roma, dove i due fratelli rievocano la vita di Ruffo e insieme la loro, sino al 1960). Già la struttura di que­ sto radiodramma è una struttura cara ai due registi: quella a blocchi che si intersecano, con continui riman­ di, nel presente, al passato e viceversa, e l’avvicendarsi delle stagioni (Olinto ed Eugenio si ritrovano a villa Sciarra in primavera, poi in estate). Ci sono altre analogie, altri motivi che diventeranno costanti nei loro film. Anzitutto lo spettacolo nello spet­ tacolo, la ripulsa del personaggio individuale tutto ton2 Una commedia dei Taviani per la radio, intervista cit.

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do, dell’eroe positivo, per il protagonista contradditto­ rio, le sue crisi e la conseguente sconfitta intesa come contingente e non come condizione umana eterna e im­ modificabile, il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, il cristologico (l’educazione cattolica), il sogno, gli elementi psicoanalitici, astrologici anche, l’im­ piego della musica e del melodramma in particolare, le riflessioni ad alta voce del protagonista, il parlare del passato per vedere meglio il presente, e non ultime l’iro­ nia con la quale sono visti i personaggi — intesa come straniamento, mezzo di analisi critica — e la fantasia. Mentre Ruffo e il suo amico d’infanzia Costantino sono rinchiusi in un armadio della casa di campagna dove sono sfollati, per sfuggire ai tedeschi, il primo dice al secondo: « Ho fatto una scoperta, una scoperta che mi esalta... L’Orlando Furioso. L’Ariosto. Insieme, dob­ biamo leggerlo insieme, Costantino ». Non come lo han­ no letto a scuola. « Ariosto bisogna leggerlo da noi, per conto nostro. Tu non immagini nemmeno cosa ti aspet­ ta a leggerlo sul serio ». E Ruffo recita a memoria: « Rinaldo l’altro e l’altro giorno scorse, / spinto dal ven­ to, un gran spazio di mare... » E « poi, sai, è spinto, anche. Lo rileggiamo insieme, vero Costantino? » Più tardi, dinanzi al cadavere dell’amico, ucciso dai tedeschi, mentre scoppi di mine si fanno gradatamente vicini e poi decrescenti sino a scomparire, nel buio si alza la voce di Ruffo diciottenne: «... Rinaldo l’altro e l’altro giorno scorse, / spinto dal vento, un gran spazio di ma­ re... » « Senza scudiero e senza compagnia / va il cavallier per quella selva immensa... / [Senza scudiero... Senza compagnia...] facendo or una et or un’altra via, / dove più aver strane aventure pensa... » È qui che hanno inizio le « avventure » di Ruffo nel dopoguerra, di san-

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culotto; che egli si trova in mezzo alle manifestazioni dei portuali a Livorno: « Salviamo il porto », « No alla flotta americana ». « Il porto ai portuali ». E mentre i dimostranti spariscono nel buio, ancora la voce di Ruffo: « Sta Polinesso con la faccia mesta, / col cor tremante e con pallida guancia; / e al terzo suon mette la lancia in resta. / Cosi Rinaldo inverso lui si lancia, / che disioso di finir la festa... » Ruffo, tra i dimostranti, è coinvolto nella protesta, incontra Uliano, e decide di andare con il suo gruppo. Quando Ruffo, ormai in crisi, dopo i fatti di Bu­ dapest, decide di abbandonare la lotta e il partito, ecco il sogno che fa. Nel buio della camera da letto affiora una strana musica: il motivo « vorrei e non vorrei » dal Don Giovanni di Mozart, arrangiato bislaccamente. « Che musica è questa? » si domanda. « Deh, non ces­ sar! Dolce, dolce tu sei, come questo sapore che m’è rimasto nella lingua... Dolce e disgustoso... Che sapore sarà? Cinghiale all’agrodolce? O agnello? Bisognerebbe che mi svegliassi per saperlo... Lo dovrei, anzi... Lo dovrei... » Una fievole luce illumina Ruffo a letto, che continua il suo monologo: «... Prendere subito il lapis — dice il mio psicoanalista — e segnare. Segnare su­ bito il sogno appena sognato. Come ti sento fratello, Freud mio! Di quante colpe m’hai assolto! Dunque: lapis e segnare. Ma dov’è il comodino? La finestra ha cambiato parete... Dove mi hanno portato?! Ah! Roma... Roma... Sono a Roma. Sono stato trasferito a Roma. Mi ha svegliato il letto nuovo... Non deve essere ancora l’alba... Obbedisco a Freud: scrivo subito il sogno ap­ pena svegliato. Mi sono mangiato il coccodrillo! Era cer­ to il partito. Con che appetito l’hai divorato, il partito... Con che gusto l’hai digerito, il partito! Allora è proprio

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vero, professore: il mio opportunismo è oggi la mia sola forza? » Ruffo si mette a scrivere i suoi appunti. La musica aumenta. Sospende la scrittura e ascolta, riconoscendo l’autore del motivo: « Divino, Mozart, tu sei! » Si ri­ mette a scrivere: « Musica... Melodie mozartiane... Don Giovanni... Poi la musica si è interrotta... » Si doman­ da: « Chi è stato? Devo ricordarlo, ad ogni costo. Gufi! Loro hanno rotto l’incanto! I tre vescovi ». Sono ap­ parsi tre vescovi su una scalinata al centro del palcosce­ nico, nella penombra; rimangono immobili nei loro pa­ ramenti. Ruffo si rivolge a loro: « Che volete? » Due di essi fanno alcuni passi avanti, simultaneamente; si inginocchiano e pronunciano insieme: « Oleum sanctum crisma. Oleum sanctum crisma. Oleum sanctum crisma ». Il terzo vescovo si avvicina al letto di Ruffo, lascia cadere il mantello rivelando il suo vestito settecentesco: è Mozart. Mozart Ruffo, sci pronto? Ruffo Wolfango Amedeo?! Possibile ti debba trovare sempre davanti? Mozart Non sono io che ti precedo. Sei tu che mi segui.

I due vescovi ripetono: « Oleum sanctum crisma. Oleum sanctum crisma ». Mozart Non li senti? Vieni alla funzione. Lo faccio per il tuo bene. Se insisti a tirarti indietro domani non uscirai più dal gabinetto del tuo psicoanalista. Ruffo A te non piace, eh? Non ti ci trovi con questa ricerca della memoria. Eppure dovresti... psicoanalizzarti un po’. Mozart, devi avere certi complessi, tu... Mozart Guai se non li avessi: sono il pane, per noi artisti. Li coltiviamo, anzi, per coglierli al momento opportuno. Ruffo Avrei giurato che la psicoanalisi non ti piacesse. Mozart La tua. Perché sa un po’ di medicina.

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Ruffo Io non sono inalato! Ho bisogno solo di ritrovare le cose che ho dimenticato. Mozart Come il campanello, per esempio.

Mozart dà un campanello a Ruffo, di quelli che si sonano durante le funzioni. Ruffo II campanello?! Ah, sf, è vero. Il campanello. Oggi è il sabato... Mozart ... Santo! Senti?

Mozart, indicando i due vescovi (che si genuflettono come prima e come prima dicono: « Oleum sanctum cri­ sma. Oleum sanctum crisma. Oleum sanctum crisma »), avverte Ruffo: « Se non ci sbrighiamo, tra poco scio­ glieranno le campane ». Mentre Ruffo ripete «... scio­ glieranno le campane... » si avvicina al comodino e scri­ ve: « Sabato santo... Pasqua... » Alle sue spalle si avvi­ cina una strana figura, poi la madre, Anita: « Oggi è il sabato santo. Occorre silenzio... Ti porto io in Duomo... Dammi la mano... » Funzione religiosa, Ruffo suona il campanello; poi Anita, ancora prendendolo per mano, rincuora il figlio, che ha paura dell’esame di maturità: i membri della commissione, il presidente, sono tutti amici della mamma, che lo sospinge, lui riluttante, ora verso l’uno ora verso l’altro professore. Risuona l’ulti­ mo terribile grido di Don Giovanni. Ad interrompere il sogno, il grido di Ruffo: « Nooo! » Scompare la mu­ sica. Le varie figure si ritirano negli angoli. Il sogno è finito. « Che c’è, che c’è? Eccomi! Che ore sono? Oddio, le otto ». Ruffo si veste velocemente: « Correre, sissignore, correre. Da malfa ma. La colpa è forse tutta di mamma; sf, sempre della mamma... Ha rubato la scena a tutti. Santa psicoanalisi, ora pro nobis.

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Forse posso ancora salvarmi ». E decide di separarsi da una madre cosi possessiva. « Ladra » le grida. « Ladra della mia vita. Me l’hai rubata fino a stamattina. Fi­ gliolo, marito, fratello — un burattino. Ho recitato per te come un burattino. Tutte le parti. Padre, nonno, zio, amante. L’utero tuo comandava. Mi hai spolpato... Da oggi si cambia registro... Non ti voglio più vedere. Non ti voglio più sentire. Non metterai più piede in casa mia... Ti ho detto tutto? sì, mi pare di si. Mi guardi? Ti sembro matto. Non lo sono. Il tuo subcosciente lo sa... Addio ». Con un taglio netto, Ruffo guarisce dei complessi di madre. « Anche nei confronti della madre », riconoscono Eugenio e Olinto, « aveva ragione Ruffo ». Liberatosi anche dall’altra « mamma », il partito, da lui in­ goiato come un coccodrillo, a questo punto Ruffo se ne va a Roma, mette su la galleria d’arte, allestisce la prima mostra. Il motivo « vorrei e non vorrei » — che sta al centro del suo sogno, e delle sue perplessità, quel sa­ pore in bocca tra dolce e disgustoso, di cinghiale e di agnello insieme, la decisione di ritrovare le cose dimen­ ticate (di occuparsi un po’ di se stesso, di trovare un po’ di pace, di agio) e la coscienza del suo opportunismo, della resa — lo sentiamo all’inizio, quando viene rievo­ cata la sua infanzia, canticchiato da Rosanna (la sorella, che si fa ammirare da Costantino), e da lui, Ruffo, ri­ petuto insieme con l’amico; lo risentiamo alla fine, di­ nanzi al suo cadavere, mentre Olinto ed Eugenio ne in­ vocano il nome. « Vorrei e non vorrei ». Ruffo aveva bene interpre­ tato il suo oroscopo. Nato il 6 aprile, sotto il segno dell’ariete. Ascendente del leone, luna nel sagittario. Un triangolo di fuoco. Complicato da Marte nel toro e maleficato da Saturno. Fiammate e scoramenti. Incocrenza

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somma. E infatti Ruffo, come si è visto, alterna mo­ menti di entusiasmo a momenti di sgomento, depressio­ ne. « Padre mio che stai nei cieli, ariete, dove sei? » invoca prima dell’incidente automobilistico, mentre at­ tende Valeria, e guarda l’ombra che la luna, sbucando dal verde, disegna in terra; e contemplando il cielo, mor­ mora: « Quella è la vergine, tutta distesa... Le antenne dello scorpione... Questa la bilancia... Ecco, ora ti vedo, padre mio protervo ariete. Tu solo forse sei la mia giu­ stificazione. Ti sono figlio sin nel midollo delle ossa. Che debbo fare? Perché mi guardi e spingi le corna con­ tro la luna? Sei in una delle tue congiunture migliori ». Eppure egli non raggiunge Valeria e va incontro alla morte: l’incidente automobilistico non è che un suicidio. « Freud, fratello mio ». « Ariete, padre mio ». Al pari della psicoanalisi, l’astrologia è per Ruffo una giustifica­ zione: nell’una e nell’altra si sente assolto da tante colpe. Altri ancora sono dunque in Rufo ’60 i motivi che ritroviamo nei film dei Taviani: quello appunto gene­ razionale, della stanchezza con il passare degli anni, della resa, dell’« oraccia », del suicidio e al tempo stesso, nei giovani (e nei due registi) la presenza della prospet­ tiva, dell’utopia nell’accezione che vedremo; e ancora il coacervo di razionale e irrazionale, sino a certi rapporti sessuali, di lesbicismo, e alla figura del gelataio. « Con la cinepresa o con il microfono quello che conta è rac­ contare »: raccontare per immagini e rapporti di imma­ gini. Nell’ascoltare Rufo '60, noi vediamo oltre che sen­ tire. Il senso profondo dell’impiego del sonoro (della co­ lonna sonora, si potrebbe dire: rumori, dialoghi, mono­ loghi, squilli di campane e tintinnare di campanelli, Mozart) crea nell’ascoltare anche concrete immagini vi­

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sive. Persino il colore si vede, con una precisa semanti­ cità: là, nella galleria d’arte, quando Ruffo dice alla figlia di appendere alla parete il quadro tutto viola raffigurante una donna (Valeria?); la sezione aurea è trovata e la morte si avvicina. Egli continua a lavorare, ma è perduto, fini­ to: non ci si può salvare isolandosi nel lavoro individuale e mentre fuori infuria la lotta; una scelta rinunciataria è sempre e comunque un suicidio. Un’ultima preghiera a Giulietta di chiudere porta e finestre, affinché non gli giungano i rumori di strada, dei dimostranti e della po­ lizia che carica. Ruffo è solo accanto a quella tela viola; si siede, si alza, sposta leggermente la sedia, si risiede; sfogliando il libro, il suo libro, legge a voce alta il brano già riportato e la parola « Fine ». Il colore viola qui ha lo stesso significato — di morte, di suicidio appunto — che assumono a esempio i glicini in Allonsanfan. Ci­ tando un nome caro ai Taviani, Ruffo aveva detto alla figlia: « La sezione aurea del corpo umano. L’ombelico? Leonardo lo dice. Secondo te è piu vicino alla testa, ai piedi, alle braccia? Te lo dico io: è piu vicino e piu lon­ tano da tutto ». Ruffo non ha ormai altro da dire, a nes­ suno. Il suo fallimento — la sua morte-suicidio, prima mo­ rale e poi anche fisica — tuttavia serve: spiega davvero fin dove si può scendere nella materia senza che scendere significhi sprofondare. Serve, e niente rimpianti; che il tempo perduto — non solo quello sentimentale, psichico — diventa così, nel racconto dei Taviani, tempo ritrovato: nel riflettere sulle vicende passate, essi vedono gli errori commessi e, nel presente, quale la strategia possibile. La storia di Ruffo non è dunque la storia di un uomo in particolare: tra­ duce un dramma che è stato e perdura ancora: di chi,

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pur volendo diventare rivoluzionario, continua a essere borghese in mezzo a borghesi o tale rimane, anche viven­ do una realtà più grande di lui, in quanto crede di essere comunista ma lo è solo in una dimensione esistenziale, e unica sua forza può essere — come accade a Ruffo e a tanti altri intellettuali — l’opportunismo, la resa al conformismo. È una storia che denuncia il tentativo, spes­ so fallito, di estrarre dal nostro sangue culture che vor­ remmo non nostre, quella cattolica più retriva anzitutto; e sottolinea le difficoltà che si incontrano, le non poche lacerazioni nel percorrere la via verso la nuova sinistra per un approdo o un ritorno a Marx. Da una parte dun­ que la stanchezza, la rinuncia, la resa e la critica degli errori commessi anche dal pei — una critica da sinistra, non da destra —; e, dall’altra, la prospettiva, l’utopia: anche queste, costanti nell’opera dei Taviani: e un ritorno a Marx è appunto il tentativo che essi operano nei loro film. Dove, al pari di qui, « si presentano i fatti », come afferma Olinto, « più che i loro perché ». « I fatti », aggiunge Eugenio: « alcuni fatti. Basta ». Ma poi da que­ sti, rappresentati con fantasia e anche ironia, traggono — in una analisi condotta in diverse direzioni e con di­ verse ipotesi — implicazioni e deduzioni in modo critico, problematico; e indicano quanto c’è di « umano », di natura umana nei personaggi individuali e collettivi, negli errori che commettono, e insieme il « giusto » che all’« umano » può contrapporsi e si contrappone. « Sono ancora alla memoria e devo giungere alla fantasia », mi scriveva dal sanatorio il mio caro amico Carlo Corritore, poco prima della sua immatura scomparsa; « sono agli esa­ mi di coscienza e il realismo nasce dall’umiltà dei fatti » (ma egli aveva già raggiunto la fantasia, e con essa il rea­ lismo).

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Certamente Olinto ed Eugenio sono Paolo e Vittorio Taviani3: in queste due persone essi rappresentano se stessi, le proprie origini culturali, ideologiche, politiche, religiose; le ricerche e il cammino compiuti sino a Un uomo da bruciare realizzato con Orsini nel 1962 in Sici­ lia, tra i « cafoni »; raccontano si le loro memorie ma avendo raggiunto la fantasia, superato gli esami di co­ scienza nel realismo dei fatti. E suggeriscono anche alcuni dissensi nel lavorare a coppia (e, all’inizio, con Orsini), come risulta a esempio in questo colloquio tra i due amici di Ruffo, allorquando hanno finito di rievocare il « co­ mizio spettacolo »: Olinto Te lo dicevo io. Bisognava usare proprio una scena del nostro vecchio copione di massa. Eugenio (diffidente) Perché? Io non ero d’accordo? Olinto Non ti ricordi che ti sembrava troppo particolare? Eugenio Certo. Finché non ti ho convinto a mostrarlo anche nelle sue ingenuità. Altrimenti era un ibrido. Olinto (con forzata bonomia) In quanto a questo, no, Eugenio, no. L’idea centrale era già ben chiara... Eugenio Mi ti stai dimenticando che tutta la seconda parte, se non era per me... Olinto Per te? È sciocco fare tra noi queste storie, ma se si tratta di precisare, allora c bene precisare. Eugenio Precisiamo, precisiamo. Olinto Appunto, precisiamo.

* Forse Olinto è Vittorio; Eugenio, Paolo. Lo si potrebbe dedurre piu da Delio che da Ruffo. Dice nel primo testo Olinto ad Eugenio: « Lo scor­ pione! Delio aveva ragione: sei dello scorpione. Non ti domini! »; ed Eugenio, in entrambi i testi, accenna a Lina, che è la moglie di Paolo. Due battute, sempre in Delio, specificano che Eugenio-Paolo è « per l’effet­ to », Olinto-Vittorio « per la chiarezza ». Ma i registi, a un certo punto, confondono le attribuzioni: l’uno dà all’altro caratteri propri.

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Ma a questo punto, litigando sottovoce con control­ lata acidità, Olinto ed Eugenio escono, e termina la pri­ ma parte di Ruffo ’60. Come si è detto, Delio viene scritto tra il 1958 e il 1960; e Ruffo è messo in onda nel 1975. Da una lettura comparata di quella prima stesura — apparsa in « Tea­ tro Festival » (n. 1, Parma, aprile 1966) — e l’ultima, rie­ laborata per la Rai, la struttura dei due testi risulta ana­ loga; né molti sono i tagli e le aggiunte nel dialogo, i cambiamenti. Tuttavia alcune modifiche, nei dialoghi, attenuano l’elemento cristologico, in particolare nel con­ testo autobiografico degli autori. « Non ci si salva: il mio passato cattolico rifa capolino... A meno che la Pasqua non voglia dire... primavera... natura... Ma? Chi lo sa? » dice durante il sogno Ruffo. E quando Eugenio ed Olinto lo rimproverano di « averne fatte troppe » (« Tua moglie, il partito, ora anche tua madre »), risponde: « Amen. Due preti, guardateli. Mi chiedono le confessioni. Poi mi scomunicano. Guardalo l’Olinto Addolorato: si copre perfino la faccia con le mani ». Eugenio ed Olinto, cioè Paolo e Vittorio Taviani, nati in una « città di preti », hanno avuto una educazione cattolica provinciale: sempre più con il passare degli anni — a cominciare appunto da Delio — operano una critica alla religione, senza riuscire peraltro a togliersela completamente dal sangue (si vedano in Un uomo da bruciare, a esempio, le nuvole che abbuia­ no il paese natale di Salvatore quando questi viene ucciso, certi caratteri del personaggio). In Delio, Eugenio affer­ ma: « Non per niente alcune delle misure di Delio coin­ cidevano con le sue [indica Olinto] e con le mie. E per qualche tempo lui e noi vestimmo gli stessi panni ». Que­ ste parole, tolte in Ruffo, si possono riferire anche ai Ta­ viani e a Orsini prima che si dividessero. Del resto il

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Fausto di I dannati della terra è un Delio-Ruffo che rie­ sce a superare la crisi, dopo avere abbandonato le due madri, quella naturale e il partito, ed essersi rinchiuso nel suo lavoro individuale. In merito ai motivi che in Delio anticipano l’opera cinematografica dei Taviani (e di Orsini), va notato che nell’allestire il radiodramma essi si avvalgono anche di quell’esperienza. E Delio finisce si annunciando un’opera nuova, ma non accenna alla Sicilia, ai « cafoni »: cioè non era maturata ancora l’idea, appunto negli autori, di Un uomo da bruciare. Da una critica delle varianti di tali motivi risultano, infatti, alcune diversità. In Delio come in Ruffo ci sono rimandi a Freud, all’ariete (alla psicoanalisi e all’astrologia) e anche a Mozart; e il prota­ gonista — il cui cognome è qui Damiani e non Sanesi — finisce il sogno con l’ultimo terribile grido di Don Gio­ vanni, quel « nooo » diretto alla madre, inteso come nega­ zione di questa, liberazione dal complesso materno, « com­ plesso numero uno ». « Non vado nemmeno dallo psico­ analista », dice Delio. « Il sogno ha parlato chiaro: dal­ l’apparizione della madre in giu, il caos! Ma come non ar­ rivarci prima? » Non c’è tuttavia (così come nella scena in cui Delio e Costantino sono nascosti nell’armadio per sfuggire ai tedeschi) il motivo « vorrei e non vorrei »; altre sono le melodie mozartiane. Seconda variante. Mentre Delio allestisce la mostra aiutato dalla figlia, Giulietta, e cerca la sezione aurea, non giungono da fuori i rumori dei dimostranti e della polizia che carica; né ci sono le riflessioni sulla materia: egli non legge ad alta voce il brano del suo libro sulla pittura informale e la parola « fine ». Sempre in questa parte, Delio invita la figlia a prendere non la tela viola con la donna ma « il quadro di Dubuffet ». E quando

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con l’amico è nascosto nell’armadio, la scoperta esaltante che gli confessa non è Ariosto, l’Ariosto deW Orlando Furioso, ma Tacito, il Tacito degli Annali: anche in que­ sto caso non come vengono fatti leggere e si leggono a scuola: « Tacito bisogna leggerlo da noi, per conto no­ stro. Tu non immagini nemmeno cosa ti aspetta a leg­ gerlo sul serio ». Continuando con tono malizioso, per incoraggiarlo: « E poi, sai... è spinto, anche. Figurati un intero capitolo è dedicato agli stupri. Stupri di uomini con donne, e di donne con bambini ». « Storia e trage­ dia nello stesso tempo » conclude Delio. « Lo rileggiamo insieme, vero Costantino? » E tuttavia le varianti corrispondono ad equivalenze, ad altri motivi che troviamo nell’attività cinematografica dei Taviani (e di Orsini): l’insistere sull’analisi dell’ani­ mo umano inserito nella vita nazionale. In Delio, Euge­ nio ricorda ad Olinto che essi sono « qua solo in veste di storici ». E negli Annali, letti per conto proprio e non a scuola (cosi come nel ratto delle sabine nello Scorpione), essi vedono innanzitutto per l’appunto storia e al con­ tempo tragedia — quella tragedia che man mano liberan­ dosi dal cristologico, in una dialettica tra razionale e ir­ razionale, diventa sempre piu atea nei Taviani —, « ric­ chezza di casi drammatici », quali le vicende da essi rie­ vocate (l’occupazione tedesca, la Resistenza, il dopoguer­ ra, Budapest, ecc.); e in Tacito il « profondo indagatore dell’uomo », lo scrittore « curioso di penetrare, di là dalle contraddizioni della storia, nei recessi » intricati dei protagonisti, una « analisi insistente, acuta » delle loro passioni e difetti, una messa « in caricatura » di alcuni loro aspetti anche, miranti « a far rivivere, spo­ glia di ogni velo, la personalità umana ». E infatti qui come altrove, i Taviani, sulla falsariga anche di Tacito,

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guardano al comportamento dei personaggi, anche con « interesse psicologico largo e profondo » per il « divam­ pare violento delle passioni e delle ambizioni », e alla interpretazione problematica della storia. Al contempo — altro motivo dominante nell’opera dei Taviani, nella loro ricerca progressiva — essi vedono nello stile di Tacito un esempio di grande efficacia espressiva e allusiva. Probabilmente la « donna » di Jean Dubuffet che a Delio fa trovare, nella galleria, la sezione aurea, è il Grand nu charbonneux dell’agosto 1944: « su una superficie ruvida appare un nudo femminile evocato dalla memoria; si tratta », come annota Jurgen Claus, « di un’orma irri­ flessa, restituita in base alle proprie impressioni otti­ che »4. Delio-Ruffo era stato un « comunista in una ac­ cezione esistenziale », e non a caso nel suo isolamento approda all’arte informale e non a caso sceglie Dubuffet: infatti « nell’ambito delle poetiche dell’informale il tema della materia » — il quale « rientra nell’arco di pensiero che va dallo psicologismo di Bergson all’esistenzialismo di Sartre » — è stato affrontato in Francia da quel pittore e, in modo diverso, da Fautrier. La materia. Essa « è il flusso continuo della realtà o dell’esistenza: facendosi materia ciò che non è, il futuro, si trasforma in ciò che è stato, il passato. Si può dire » — continua Argan — « che la materia è il puro presente; ma che cos’è mai il presente se non l’istante inafferrabile, inesistente, in cui l’attesa (o l’ansia) del futuro diventa memoria (o rim­ pianto) del passato? In altre parole, la materia è me­ moria, come aveva affermato Bergson; ma è anche il

* Cfr. Jiirgen Claus, Teorie della pittura contemporanea, Il Saggiatore, Milano 1967.

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qui-ora dell’esistenza, e di un’esistenza che non arriva mai a prendere coscienza di sé, a riconoscersi, a situarsi in uno spazio certo, in un tempo storico ». Anche per Delio (e Ruffo) la materia è il puro pre­ sente inteso come istante inafferrabile, inesistente, in cui la sua attesa o ansia del futuro (Valeria) diventa memo­ ria o rimpianto del passato (« Se solo riuscissi a dare ordine a tutto questo. Se solo per raccogliere un frutto nuovo, ogni volta non gettassi via l’altro che ho in ma­ no! »); anche per lui la materia è dunque memoria e al tempo stesso il « qui-ora » dell’esistenza, e se egli pren­ de in qualche modo consapevolezza di sé (è solo Ruffo peraltro che legge: « Fin dove si può scendere nella ma­ teria senza che scendere significhi sprofondare »), se rie­ sce a riconoscersi borghese tra borghesi, non giunge a si­ tuarsi tuttavia in uno spazio certo, in un tempo storico. Rinchiuso nella galleria d’arte, Delio scorge in Dubuffet una « analisi spietata della realtà esistenziale, penetran­ do negli strati infimi dell’essere, scoprendo crudelmente i moventi bassi, addirittura fisiologici » di quelli che egli ormai considera « supposti grandi ideali, riportando la storia alla cronaca ». Il comico, che Lalo aveva definito una « svalutazione » e « soluzione di una dissonanza tra due voci sulla nota inferiore », diventa per Dubuffet, an­ nota Argan, « definitiva impossibilità di illusione, imma­ ginazione a rovescio, demistificazione a oltranza »5. Nel momento in cui Delio avverte la sua definitiva impossi­ bilità di illusione, di immaginazione alla rovescia e si rinchiude e rincorre Valeria, gli viene forse alla mente una confessione proprio di Dubuffet, che risale al 1933, quando questo « geologo dello spirito » ricomincia a di* Giulio Carlo Argan, L’arte moderna 1770/1970, Sansoni, Firenze 1970.

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pingere: « Io non volevo più sentir niente: facevo la mia pittura [...] Che piacere! tre anni belli. Solo sapevo fin troppo bene che questo non poteva durare: ma ero deciso a perseverare fino all’estremo possibile »6. Non vuole più sentire niente Delio (e Ruffo), che sa assai bene che questo non può durare; ed ecco l’estremo pos­ sibile: la morte. Il suicidio. « Paolo e Vittorio Taviani: un regista in due per­ sone. La regola è questa: Paolo dirige le scene scritte da Vittorio; Vittorio le scene scritte da Paolo. Dicono: “Siamo fratelli, quasi coetanei. Stessa storia familiare, stesse esperienze culturali, ideologiche, politiche. Ammi­ nistriamo la nostra affinità con cautela. Facciamo lo stes­ so tipo di vita. E poi il caso. Non ce la sentiamo di porre il nostro lavoro a due su un piano generale. Il nostro binomio è un caso appunto”. Il “caso” Pàolo e Vit­ torio Taviani si potrebbe spiegare con l’astrologia. Paolo è del segno dello scorpione, Vittorio della vergine: due segni opposti che si eliminano a vicenda e che si inte­ grano, si assommano perfettamente. È ancora un caso che l’autore preferito dai fratelli Taviani sia Goethe, il quale era della vergine con ascendente nello scorpio­ ne? »7 Non sappiamo se la regola dei Taviani sia quella sopra riferita; né ci sembra che il loro « caso » si possa spiegare con lo « zodiaco della vita », con l’astrologia, o solo con questa *. Qui, ora, cercheremo di analizzare un’alé Cfr. Jurgen Claus, Teorie della pittura contemporanea, op. eie. 7 Cfr. « Scheda del servizio stampa » n. 76 a cura della Rai-tv. * Attualmente assistiamo comunque a una « rinascita » dell’astrologia, « rinascita » che i Taviani hanno anticipato nella loro opera. Recensendo II segno zodiacale dello Scorpione di Luigi Aurigemma (Einaudi, Torino 1976), Giorgio Riccioli sottolinea che «esiste tra gli storici e gli psicologi una forte tendenza a riesaminare l’astrologia (e l’alchimia, o la magia) come un complesso di affermazioni c forze di cognizioni tutte da studiare con la

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tra vita; quella che emerge dai loro film (e dai film di­ retti insieme con Valentino Orsini): « poetica program­ mante » e « poetica in atto ». Torìno-Genova, luglio 1976.

massima serietà, superando quella sorta di preclusione assoluta che il razio­ nalismo scientifico aveva formulato nei confronti delle pseudoscienze del­ l’antichità, qualificate come pura superstizione senza alcun fondamento » (cfr. * Paese Sera », supplemento libri, del 2 luglio 1976). In questa « rinascita » dell’astrologia, primeggia per interesse e serietà Eugenio Garin che, in Lo zo­ diaco della vita (Laterza, Bari 1976), studia « la polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento », e di tale discussione esamina, « attraverso 1’analisi di alcuni testi esemplari, quattro temi: la teoria delle grandi con­ giunzioni, il nesso fra astrologia e magia, l’ermetismo, la polemica religiosa. Questo al fine di meglio intendere le radici di concezioni, e illusioni, tut­ tora operanti ». Dice tra l’altro Garin nella introduzione: « La verità è che il concepimento della scienza umana non è mai immacolato, e la ragione pura si rivela a sua volta un puro mito, o un’ideologia: nel più felice dei casi, un’idea regolativa in senso kantiano. Orbene, di questo inestricabile in­ treccio di teoria e di pratica, di concetti e di sentimenti, di miti c di ra­ ziocini, è documento esemplare proprio la discussione sull’astrologia agli inizi dell’età moderna, quando le scienze vengono definendo i loro metodi nella crisi di antiche concezioni del mondo che tramontano o si rinnovano. Pro­ prio perché nella molteplicità dei suoi aspetti l’astrologia era una conce­ zione globale del tutto, il dibattito sui suoi temi venne a investire ogni atti­ vità umana. D’altra parte nel loro commisurarsi le varie posizioni svelano anche limiti e contraddizioni. Se la lotta contro il fato astrale sembra una valida rivendicazione della libera azione dell’uomo, è pur vero che i difen­ sori del determinismo più rigoroso manifestano un senso robusto della ra­ zionalità delle leggi naturali e dell’unità della natura ("fata regunt orbem, certa stant omnia lege”). Cosi, se la lotta contro le superstizioni e i rituali magici sembra traversata da un illuminato razionalismo, l’appello al senso c alla passione — e a tutte le forze psichiche profonde che sfuggono alla presa concettuale, ai sogni, agli stati anormali — non solo sottolinea l’esi­ stenza di forze reali, e di campi inesplorati dell’esperienza, ma preannuncia talune delle imprese più feconde dell’indagine moderna». La discussione sull’astrologia, scoppiata con tanta asprezza alle origini della scienza mo­ derna, conclude Garin, «contribuisce a mettere a fuoco la reciproca fun­ zione delle visioni del mondo c delle ricerche specifiche e concrete, e, in pari tempo, la complessa e ambigua natura delle stesse posizioni astrologiche ». Comunque è bene fare attenzione a certe recenti sopravvalutazioni dell’astrologia.

« Dall'utile, attraverso il vero, verso il bello »

(Goethe)

RAZIONALE E IRRAZIONALE

È interessante, e per varie ragioni significativo, che due importanti, eccezionali film come San Michele aveva un gallo di Paolo e Vittorio Taviani e Sussurri e grida di Ingmar Bergman siano ispirati, o comunque partano da due racconti di Tolstoj, rispettivamente II divino e Vumano (1906) e Morte di Ivan Iljic (1884-1886), en­ trambi elaborati e scritti dopo la crisi religiosa del gran­ de scrittore russo, nel periodo fra la sua conversione e la sua morte. Cosi iniziavamo uno studio sul film del regista svedese *, cercando tra l’altro di vedere in quale modo le fonti culturali (e non soltanto tolstoiane) si collocano in Sussurri e grida, quali incidenze e risultati esso contiene. Le une e gli altri sono diversi, anzi opposti, in un giudi­ zio di cultura (non di valore) su San Michele aveva un gallo. Bergman parte da Tolstoj e approda alla psico­ analisi, in particolare a Jung, al « principio quaterna1 Cfr. Ltf bussola della psiche nell’ateismo religioso borghese, in « Ci­ nema Nuovo», Torino, a. XXIII, nn. 228 c 229, marzo-aprile e -maggiogiugno 1974.

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rio »: riafferma il suo ateismo religioso di tipo borghese. Nell’abbandono degli uomini da parte di Dio — il « lutto del cielo » — è possibile ad essi prendere coscienza dell’« ombra » della « nostra civiltà e dei suoi terribili mi­ sfatti »? E anche se riuscissero a vedere il « lato oscuro » di se stessi e del mondo, è data loro e in qual modo l’even­ tualità di « immunizzarsi da qualsiasi infezione sia mo­ rale che mentale »? Allo stato odierno, la prima ipotesi è possibile per Bergman (e lo dimostrano i suoi film, in particolare, appunto, Sussurri e grida), ma viene negata una risposta affermativa — anche utopica — al secondo interroga­ tivo: e «noi ci rendiamo [...] disponibili per ogni in­ fezione ». Anche l’agonia di Ivàn Iljiè inizia con grida disperate che si alternano a « sussurri ». Al pari di Agne­ se — la protagonista di Bergman — non vuole morire: ma il dubbio che lo invade e gli sembra invalicabile — « Si può fare ancora ciò che conta. E cos’è ciò che con­ ta? » (il corsivo è di Tolstoj) —, dopo il sacramento della comunione, si scioglie. « D’un tratto, smise di gridare ». Al « posto della morte, c’era la luce »12. L’Ivàn Iljic di Tolstoj, del Tolstoj ormai convertito alla religione, po­ teva dunque morire, annullando la morte e il dolore nella « luce ». « Finita la morte! [...] Essa non c’è più » e, al contrario di Agnese, spira sorridendo, in silenzio, senza « terrore » alcuno. Ciò che per lei è ormai « possibilità impossibile » pur sapendo « che cos’è ciò che conta », possibile era invece per lui. Possibile l’« annientamento dell’io egoista nell’amore e nella carità »: il cielo non era ancora vuoto, in lutto; Dio si rivelava ancora agli 1 Per questa e le altre citazioni da Morte d’Ivàn Iljii e II divino e l’umano cfr. Lev Tolstòj, Racconti, a cura di Agostino Villa, Einaudi, To­ rino 1955.

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uomini. Il « numinoso », quella qualità direttamente esperimentabile, che appartiene solo al divino — per dirla con Jung — è, nel momento attuale, nel mondo d’oggi appunto, una « possibilità impossibile »; o, se pos­ sibile ancora, solo in rari, eccezionali momenti della vita: condizione fuggevole, incapace comunque di annullare la morte — e il dolore — nella « luce ». Anche ne II divino e l’umano Anatòlij Svjetoglùb, il laureando condannato a morte per aver partecipato a un complotto contro il governo costituito, annulla nella « luce » la morte, di questa non ha paura: in car­ cere legge il Vangelo, e quella lettura, in un primo tempo priva di interesse, lo attrae sempre piu. « La maggior parte del suo tempo, aveva incominciato a passarlo nella lettura e nel ripensamento di ciò che era scritto in quel libro ». « Sì, se tutti vivessero a questo modo — pen­ sava —, allora non sarebbe necessaria neanche la rivolu­ zione ». « Tanto piu si persuadeva via via che, in questo libro, era detto qualcosa di eccezionalmente profondo ». E prima dell’esecuzione, chiede pietà a Dio: « Nelle Tue mani rimetto lo spirito mio ». Nella luce annulla la morte anche il vecchio contadino, il settario religioso in carcere per aver manifestato quel che pensava su « pop », funzionari e lo zar: dubitando dei suoi pastori spirituali va in cerca della vera fede. « Gli uomini hanno perduto la vera fede, e si son dispersi qua e là, come cuccioli ciechi lontani dalla madre. Ma egli sapeva, intanto, che una vera fede esiste. Lo sapeva perché sentiva questa fede nel suo cuore. E cercava questa fede dovunque. Soprat­ tutto sperava di trovarla nell’Apocalisse di Giovanni » che continuava a leggere. A Ighnàt Mezenjètzkij, uno dei principali rivoluzionari della corrente terroristica — che aveva persuaso Svjetoglùb a seguirlo — domanda

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quale sia la sua fede e quella dell’amico. « La fede no­ stra... Be’, accomodatevi — disse Mezenjètzkij stringen­ dosi nelle spalle. — La fede nostra, ecco in che consiste. Noi crediamo che vi siano degli uomini i quali si sono im­ padroniti del potere, e tormentano e ingannano il po­ polo; e che sia necessario .non risparmiare se stessi, lot­ tare contro questi uomini, per liberare il popolo, che da essi viene sfruttato [...] E quindi son loro che bisogna levar di mezzo. Loro uccidono, e loro devono essere uc­ cisi, fin tanto che non si ravvedranno [...] La fede no­ stra consiste in questo, nel non risparmiare noi stessi, nell’abbattere il governo dispotico, e nell’istituirne uno libero, elettivo, popolare ». Il vecchio contadino rifiuta una tale concezione di « fede ». Quando, dopo sette anni incontra Mezenjètzkij in un’altra prigione, lo rimprovera di non avergli rive­ lato la verità, che egli ora conosce e manifesta a tutti: « L’agnello... Io rivelo l’agnello... quel giovinetto [Svjetoglub] stava con l’agnello. E nel libro è detto: l’agnello li vincerà, vincerà tutti... E vinceranno anche quelli che stanno con lui, i suoi eletti e fedeli ». Mezeniètzkij non comprende queste parole dell’Apocalisse. « Il vecchio sapeva benissimo quel che diceva. E quel che diceva, per lui, aveva un chiaro e profondo significato. Questo si­ gnificato era che al male non restava più molto da re­ gnare, e che l’agnello, con il bene e con la mansuetudine, avrebbe vinto tutti. Che l’agnello avrebbe rasciugato ogni lacrima, e che non sarebbero più esistiti né pianto, né malattia, né morte. Ed egli sentiva che questo si stava compiendo, si stava compiendo in tutto il mondo, giacché si stava compiendo nell’anima sua, compenetrata di luce dalla vicinanza della morte ». E ancora, ripetendo dall’Apocalisse: « “Sì, vieni presto! Amen. Vieni, Signore

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Gesù”, [...] la faccia gli si soffuse di un sorriso pieno di espressione e (come parve a Mezenjètzkij) di follia ». Il vecchio settario dunque muore, « e allo sguardo del suo spirito si era scoperto tutto ciò che con tanto ardore aveva cercato e bramato per tutto il corso della sua vita. In mezzo a una luce abbagliante, egli scorgeva l’agnello, sotto forma di quello splendente giovinetto [Svjetoglùb]; e un’immensa moltitudine d’uomini d’ogni nazione stava rit­ ta dinanzi a lui, in vesti candide, e tutti esultavano, e il male non c’era più sulla terra. Tutto questo s’era com­ piuto contemporaneamente (il vecchio lo sapeva) nella sua anima e in tutto l’universo; e gliene veniva una grande esultanza, un grande appagamento ». « “Dappertutto c’è Dio, dappertutto c’è uomini” ». I testi di Paolo e Vittorio Taviani non sono certo il Vangelo, l’Apocalisse. Non sono comunque « sacri ». Se la poetica dei due registi, la loro visione del mondo non è certo spiritualistica, mistica, perché dunque essi si sono ispirati a Tolstòj, e al Tolstòj convertito alla religione? Non è forse vero — come più volte hanno dichiarato — che l’artista da loro preferito è Goethe? « Pensiamo al grande ignorato dalla cultura cinematografica, Goethe: forse il più adatto ad aiutarci oggi », affermavano nel 1963. Non è accidentale che, per Lenin, Tolstòj fosse lo scrittore prediletto e di questi avesse sottolineato aspetti e tendenze positive nella sua arte e nella sua estetica, pur non sottacendone i lati reazionari; e cosi pure altri pen­ satori marxisti, da Rosa Luxemburg a Karl Liebknecht a Lukacs. « Il mondo borghese ha rilevato unilateral­ mente i soli caratteri reazionari di Tolstòj, volendo ve­ dere in essi l’unica base della sua attività artistica », scrive Lukàcs. « Nulla di più facile che scoprire i lati de­ boli della critica tolstoiana dell’arte moderna. Il fatto

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stesso che Tolstoj definisce il giusto senso della vita co­ me senso religioso e fa dipendere la decadenza dell’arte dalla circostanza che le classi dirigenti sono diventate ir­ religiose, rivela chiaramente l’aspetto reazionario della sua estetica. E non bisogna credere che questa tendenza sia casuale deviamento di Tolstoj; essa è in stretta rela­ zione con i lati positivi dell’estetica tolstoiana [...] Il problema centrale [...] consiste nell *umanesimo plebeo e contadino espresso dall’estetica di Tolstoj. [...] Tolstoj, come pensatore, subisce i molteplici influssi di tendenze agnostiche, che si rivolgono contro le facoltà conosci­ tive della ragione umana e contro la ragione umana in generale [...] Ma, dietro a tutti questi traviamenti, sta solida la linea fondamentale dell’estetica tolstoiana: l’ar­ te [...] deve occuparsi dei grandi problemi della vita, [...] deve conservare quell’amica semplicità della forma che rende universalmente comprensibili Omero e i rac­ conti biblici. Utopisticamente, Tolstoj si immagina un avvenire in cui la società non avrà più parassiti [...] La linea fondamentale dell’estetica di Tolstoj porta verso i grandi problemi centrali dell’estetica umanistica »; egli « è stato uno dei pochi che nella sua epoca abbiano ten­ tato, secondo le loro possibilità, di mantenere in vita e sviluppare le tradizioni umanistiche »3. Una delle cose che avvicinano i Taviani al primo Vi­ sconti (da Ossessione a Senso), e che glielo fanno amare, è la rilettura critica dei classici nel contesto di uno svi­ luppo di tali tradizioni, un innesto attualizzato di certi problemi. Anch’essi sentono — non dimenticando i prin­ cipi marxisti sulla tradizione vitale — la necessità di un legame con il passato, e quindi anche con l’Ottocento, so* Gyorgy Luk&s, Saggi sul realismo, Einaudi, Torino 1950.

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prattutto russo (oltre a Tolstoj, Dostoevskij). Non nascon­ dono che alcune pagine tolstoiane fanno da « coagulatore » di certi loro umori nel momento in cui pensano e realizzano film, a cominciare dall’opera dell’esordio, Un uomo da bruciare, diretta in collaborazione con Valentino Orsini (il cristologico nel personaggio del sindacalista si­ ciliano, sia pure visto come elemento critico); e poi — al­ tro esempio — si veda Sovversivi. I Taviani non trascu­ rano « il problema dell’uomo di fronte alla sua individua­ lità; il momento irrazionale che, nel confronto non procrastinabile con la morte, si fa religioso — tutto un patri­ monio che la cultura di sinistra aveva abbandonato al decadentismo —, si impone oggi nella sua necessità » (e una riprova, calata nel versante opposto del materialismo storico, qui quello dello spiritualismo esistenzialista, l’of­ fre appunto Sussurri e grida, stroncato dalla sinistra e, fatte poche eccezioni, anche dalla nuova sinistra). La « saturazione illuministica ci fa scontrare con il troppo sconosciuto. Uno sconosciuto non inconoscibile, probabilmente; ma ancora da conoscere » *. Di qui una « diffidenza » dinanzi all’assoluta preminenza dell’uomo politico, storico (oltre che dell’« eroe »), solo parti di un tutto e non interazione tra interno ed esterno. « Ci mettiamo in sospetto quando sentiamo parlare di ideo­ logia. Ci ha rassicurato la sostituzione che qualcuno ha fatto usando ‘‘senso del film” al posto, appunto, di ideo­ logia », affermano nel 1967 a Pesaro, nel loro intervento alla tavola rotonda su « Linguaggio e ideologia nel ci­ nema ». « Questo termine ci riporta a precedenti preoccu­ pazioni aberranti: ideologia come falsa coscienza, come 4 Cfr. Situazione del cinema italiano, relazione alla tavola rotonda sul tema «Critica e nuovo cinema», Pesaro 1965.

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sovrastruttura diaframmatica tra noi e le cose; ideologia anche, almeno nell’accezione italiana, come assoluta pre­ minenza dell’uomo politico, dell’uomo storico. Oggi le nostre radici materialistiche ci portano a una posizione polemica verso ogni forma di ideologia che ponga l’ac­ cento su atteggiamenti storicistici tout court. Ci inte­ ressa, oggi, ritrovare anche l’uomo biologico, l’uomo nelle sue strutture base: l’istinto della sopravvivenza nell’amore e nell’orrore della morte; quei “dati costanti della condizione umana che sotto l’istinto sessuale, l’in­ debolimento della vecchiaia (con le relative ripercussioni psicologiche), la paura della morte propria e il dolore per la morte altrui”5. Cioè tutta quella continuità do-

5 Al primo Congresso degli scrittori sovietici (Mosca 1934), dove viene imposto un « realismo socialista » schematico, malamente inteso, Ilja Ehrenburg tra 1’altro afferma: « Una volta ho visto Contropiano. In questo film c’era tutto quello che “ci deve essere” però mi sono permesso di os­ servare che non somigliava alla realtà. Mi hanno risposto: ma che dite, il nostro “lavoratore d’assalto” è proprio vivo, abbiamo persino avuto l’auda­ cia di fargli bere un bicchierino di vodka. Adesso, poi, c’è chi decide di “vivificare” un racconto dedicato a un “lavoratore d’assalto” o a una sta­ zione di macchine e trattori con piccoli episodi amorosi, inseriti qua e là, a intervalli regolari. Ma i manichini rimangono manichini, non possono trasformarli in uomini né un bicchierino di vodka, né due o tre baci ben dosati, né una lacrimuccia razionata. I nostri operai sono uomini vivi, che lavorano, lottano, amano, baciano, leggono libri, fantasticano, qualche volta fanno stranezze, sono gelosi, insomma vivono. E somigliano cosi poco ai “lavoratori d’assalto” di certi libri come i loro ormai dimenticati e disgra­ ziati bisnonni non somigliavano affatto ai pastorelli galanti di una pasto­ rale. Molti autori seguono la via della minor resistenza. £ molto piu facile sbagliare nel mostrare l’uomo vivo, che non nel ripetere laconiche dichiarazioni programmatiche ». Ehrenburg, sempre al Congresso degli scrit­ tori, aggiunge: «Al posto della vita, calda c vibrante, invece di una bio­ grafia organica, ci troviamo spesso di fronte a una semplice dichiarazione, corredata dalla carta d’identità di un “lavoratore d’assalto” e di una decina di idee ormai arcinote a tutti [...] La nostra letteratura ha anche un altro difetto. Noi vediamo continuamente i nostri personaggi muoversi nel re­ parto della fabbrica o nella direzione del kolchoz. I ponteggi del cantiere si trasformano in una ribalta ultrateatrale, e l’uomo vi appare isolato da

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vuta al fatto che l’uomo, come essere biologico, è rima­ sto sostanzialmente invariato dagli inizi della civiltà a oggi; e poco sono mutati certi sentimenti e certe rap­ presentazioni che più da vicino si riferiscono ai dati bio­ logici dell’esistenza umana. Quella continuità, insomma, per cui, diceva Marx, sentiamo così vicina a noi la poesia di Omero ». Dopo un salutare ritorno a una coscienza semiologica, « personalmente ce ne sentiamo saturati », aggiungono i Taviani, sempre nel 1967, l’anno in cui esce Sovver­ sivi, dove, come si è accennato, troviamo un altro ri­ mando a Tolstoj, « senza paura dello scandalo »; tutt’altro. « Ci viene voglia di riprendere, polemicamente, una arcaica affermazione di Tolstòj, in uno di quei suoi scritti deliranti, diciamo pure folli, ma sempre rivelatori, che sono i suoi scritti sull’arte. L’affermazione è nota: “affinché ciò che dice l’artista sia espresso in modo com­ pletamente buono, è necessario che l’artista sia maestro del suo mestiere, in modo da operare pensando così poco alle regole di questo mestiere, quanto poco l’uomo che cammina pensa alle regole della meccanica che condizio-

tutto il resto della sua vita. Perché un "lavoratore d’assalto” non può essere un sognatore? Che cosa pensa, secondo voi, in una giornata di vacanza, osservando la superficie di un fiume increspata dal vento? Un capo­ squadra non è forse capace d'essere geloso, malizioso o triste? E se a un fonditore d'acciaio muore la figlia, non si possono dedicare venti pagine alla descrizione dei forni e alla morte della figlia due sole righe, aride come una registrazione anagrafica. Mi rendo perfettamente conto dell’im­ portanza del lavoro; so che proprio il lavoro trasforma ed eleva l’uomo, ma dall'autore di un romanzo voglio piuttosto conoscere nei particolari il dolore dell'operaio che ha perso la figlia, e non la descrizione dei forni; voglio sapere come egli è riuscito a vincere questo suo dolore, poiché so che la morte di una figlia è un avvenimento importante della vita, c che merita più di due semplici righe ». (Cfr. Rivoluzione e letteratura a cura di Giorgio Kraiski, Laterza» Bari 1967). [G. AJ

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nano il suo camminare”. L’affermazione, ripetiamo, suona arcaica. La coscienza del proprio camminare fa parte in­ tegrante dell’operazione camminare, certo. E inoltre: in momenti di malattia, quando questo camminare è dive­ nuto penoso, è necessario andare dal medico per stu­ diare i propri arti, riattivarli parte per parte. Ma oggi, che il momento critico è in via di superamento, almeno per il fatto di averne preso coscienza, personalmente nel­ l’affermazione di Tolstoj troviamo un invito, giusta­ mente impaziente, a riprendere di petto le ragioni per cui ciascuno di noi ha bisogno del cinema, per espri­ mere se stesso, ed esprimerlo chiaramente, global­ mente »6. Tutto questo non significa affatto che i Taviani de­ finiscano il giusto senso della vita — e della morte — come religioso nell’accezione tolstoiana, anche se di « re­ ligiosità » parlano; vale a dire del grande scrittore russo non subiscono i molteplici influssi di tendenze agnostiche, e non vanno a « predicare tra la gente » e contro le fa­ coltà conoscitive della ragione umana e contro questa in generale. Salvatore — il protagonista di Un uomo da bruciare — muore avendo orrore della morte, pur credendosi un Redentore, un Cristo, mentre le nuvole abbuiano il paesaggio come in una Crocifissione; la morte di Togliatti, nei Sovversivi, è l’emblema e al tempo stesso la realtà della fine di un’epoca; Giulio Manieri — il personaggio principale di San Michele aveva un gal­ lo — si suicida, certo non annullando nella « luce » le « tenebre » come accade a Ivàn Iljic e al giovane rivoluzio­ nario Svjetoglùb, al vecchio settario de II divino e l'umano. * Cfr. intervento tenuto in Pesaro 1967 alla tavola rotonda su «Lin­ guaggio e ideologia nel cinema ».

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Il divino scompare; rimane l’umano. E l’umano anche in senso tolstoiano, quale emerge a esempio in una me­ morabile pagina di Resurrezione, che senza dubbio i Ta­ viani conoscono assai bene: È una delle piu volgari e più diffuse superstizioni che ogni persona umana disponga esclusivamente delle sue determinate qualità, che ci siano persone buone, intelligenti, stupide, energiche, indifferenti, ecc. Le persone umane non sono fatte cosi. Noi possiamo dire di una persona umana che è più spesso buona che non cattiva, più spesso energica che non apatica o viceversa; ma abbiamo torto quando di una persona diciamo che è buona o in­ telligente e di un’altra che è cattiva o stupida. Eppure noi classi­ fichiamo sempre cosi gli uomini; ma ciò non è giusto. Gli uomini sono come i fiumi; l’acqua c uguale dappertutto, ma il fiume ora è ristretto, ora veloce, ora ampio, ora tranquillo, ora trasparente e freddo, ora sporco e caldo. Cosi anche le persone. Ogni per­ sona umana porta in sé i germi di tutte le qualità umane, solo che ora l’una ora l’altra appare alla superficie, e accade che tal­ volta una persona nemmeno somigli a se stessa, pur essendo rimasta quella che sempre era stata.

A proposito di questa pagina di Tolstòj, Lukacs os­ serva che una simile polemica contro la concezione troppo rigida del carattere umano, contro la pretesa rigidità della letteratura più antica nel descrivere i caratteri, è molto in voga anche presso i naturalisti moderni. « Ma, quando due persone dicono la stessa cosa (o una cosa simile), non si tratta mai veramente della stessa cosa. La polemica contro la rigidità dei caratteri ha portato i naturalisti verso la tendenza a dissolvere definitivamente la raffi­ gurazione dei caratteri in generale. Un personaggio poe­ tico non può acquistare un volto o lineamenti ben defi­ niti se non è in movimento, se non è in attivo conflitto con il mondo circostante, se non agisce ». Finché egli

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è in uno stato di calma, inquadrato in un ambiente sta­ tico — continua Lukàcs — gli si può bensì attribuire ogni sorta di caratteri essenziali, ma nessuno di questi può essere veramente reso in modo espressivo. « Vale a dire: non esiste mezzo poetico che possa distinguere un tratto di carattere essenziale da uno stato d’animo momen­ taneo. Se dunque i naturalisti hanno protestato contro i trucchi superficiali con cui si cercava di mettere in ri­ salto i caratteri costanti di un personaggio inquadrato in un ambiente statico (per esempio, gesti o espressioni ri­ correnti), la loro protesta non è stata ingiusta o incoe­ rente. Ma i naturalisti coerenti si sono dovuti spingere più avanti, facendo dei caratteri matasse caotiche e disor­ dinate di stati d’animo »7. I personaggi dei Taviani sono uomini con conflitti privati oltre che pubblici, hanno uno « spazio con­ creto » per le « loro manifestazioni psichiche » e, per dirla con Lukacs, essi personaggi non corrono il ri­ schio di dissolversi — come vedremo più avanti — in meri stati d’animo, e ciò perché gli sono esattamente prescritti il campo d’azione e definita la sfera entro la quale quegli stati d’animo devono manifestarsi. In altre parole i Taviani tendono al « radicale », ed « essere ra­ dicali », afferma Marx, « significa andare alla radice delle cose. Per l’uomo, però, la radice è l’uomo stesso ». La religiosità di un Tolstòj o di un Dostoevskij — come azio­ ne concreta e utopica —, oggi, nel nostro tempo — affer­ mano — si è trasformata in politicità: già in Sotto il segno dello scorpione (ma anche in Un uomo da bru­ ciare, aggiungiamo; la cristologia accennata) c’era qual­ cosa che aveva radici nel racconto di Tolstoj (Renno, il 7 Gyorgy Lukacs, Saggi sul realismo, op. cit.

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personaggio interpretato da Volontè): « alcune di quelle pagine fecero da coagulatore di certi nostri umori del momento. Il ’68 era passato, e se lo Scorpione era stato il film dell’utopia, San Michele è il film dopo l’utopia. La riflessione sull’utopia » *. Comunque non abbiamo mai « eroi », ma la critica all’eroe, al personaggio tutto tondo, senza contraddizioni e conflitti e dubbi: critica che trova la sua espressione formale anche e in particolare nell’assunzione dell’ironia, elemento costante nell’opera dei Taviani. Per il momento ci limitiamo ad osservare che la loro ironia è diversa da quella di Tolstoj: in Re­ surrezione, sottolinea Stefan Morawski, i populisti ven­ gono presentati con calda simpatia, ma l’operaio che legge Marx è trattato con « ironica condiscendenza »; la mede­ sima propensione appare ne II divino e l’umano nei con­ fronti del rivoluzionario Mezenjètzkij e della brunetta sovversiva che legge Kautsky. « Col passar degli anni Tolstòj superò il modo pas­ sivo, panteistico di considerare le cose troppo dei conta­ dini: egli rappresentò la società prendendo in considera­ zione la consapevolezza contadina dell’oppressione e il cre­ scente asservimento morale che si estendeva sulla na­ zione nel suo complesso. Da cui si sviluppò la critica sem­ pre più amara al sistema, che divenne la caratteristica dominante dell’opera sua [...] Sennonché l’atteggiamento critico fu sopraffatto dalla “ nuova ” religione che, tra l’altro, impedì al grande scrittore di comprendere la si­ tuazione sociale e politica del suo tempo » ’. Natural­ mente i Taviani respingono « l’intima contraddizione in­ • Cfr. Le pessimisme de la raison et l'optimisme de la volonté (inter­ vista), in « Ecran 72 », Paris, a. I, n. 10, dicembre 1972. * Stefan Morawski, Il marxismo e l'estetica, Editori Riuniti, Roma 1973.

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sita nell’opera di Tolstòj » messa in risalto da Lenin, e non soltanto per i tempi e le condizioni mutati — quelli dell’Italia inizio anni sessanta — ma appunto per la loro visione materialistica che esige la violenza (quella vio­ lenza che ne II divino e fumano il vecchio settario con­ testa, in nome dell’ “ agnello ”, a Mezenjètzkij), la lotta di classi come motore della storia. In quale senso e di­ mensione Salvatore è visto in Un uomo da bruciare, anzi egli si vede a immagine e somiglianza di Cristo? come i tre registi identificano la propria esperienza umana e poli­ tica — in questo loro « noviziato cinematografico » — con quella dei minatori siciliani brutalmente sfruttati dal capitalismo e dalla mafia? con quale realismo descrivono l’ambiente e il panorama particolare dell’isola, i caratteri dei personaggi e la psicologia dell *« eroe »?

IRONIA E FANTASIA Un uomo da bruciare esce nel 1962. La stagione del neorealismo è ormai consunta, appartiene allo ieri, con i suoi pregi e difetti, con principi teorici più avanzati ri­ spetto ai risultati pratici nel loro complesso ,0. Nel tenta10 II neorealismo — in particolare Rossellini, Visconti e Zavattini — ebbe un grande influsso sulla formazione dei fratelli Taviani e di Valen­ tino Orsini; il loro incontro con il cinema coincise appunto con la scoperta e l'adesione a quel movimento. « Un giorno, per caso, vedemmo Paisà », ricorda Vittorio (nato il 20 settembre 1929 a San Miniato di Pisa), « e ricono­ scemmo immediatamente in quelle immagini il riflesso delle nostre inquietudi­ ni. Il neorealismo ci riproponeva quello di cui avevamo bisogno: la necessità di ricominciare tutto da capo, di ripartire da zero, per reinventare tutto». « Ma eravamo molto giovani », aggiunge Paolo (nato 1’8 novembre 1931 a San Miniato di Pisa); « vivevamo in provincia, c fare del cinema era un interroga­ tivo. Cominciammo, appunto in provincia, scrivendo di Rossellini e Visconti, popolarizzando i loro film. Poi nel 1954, grazie all'aiuto di Zavattini, rea­ lizzammo il primo documentario, San Miniato, luglio '44, una inchiesta sull’eccidio compiuto dalle SS ». (Cfr. « Scheda del servizio stampa » n. 76 a cura della Rai-tv). Tra i documentari dai Taviani diretti in collaborazione con Orsini, va ricordato anche Carlo Pisacane (il pensatore politico c ri­ voluzionario napoletano sarà presente, come vedremo, nella loro opera suc­ cessiva). Prima di arrivare al loro esordio nel lungometraggio a soggetto, ave­ vano collaborato come aiuto registi con Rossellini e alla sceneggiatura c alla regia di L'Italia non è un paese povero di Joris Ivens (prodotto per la tele­ visione nel 1960). « Ivens era veramente il cinema come documentario », affermano; « aveva l’umiltà e la fantasia del documentarista. Noi, invece, volevamo raccontare storie, fare film veri e propri. Erano momenti dif­ ficili per il cinema italiano. Il neorealismo andava perdendosi nei rivoli

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tivo velleitario di un cosiddetto « nuovo corso » (in cui tra l’altro II generale della Rovere di Rossellini torna alla tematica della Resistenza non per approfondirla criticamente, ma per alimentare su di essa altri equivoci) si è fatto avanti il cinema dell’« alienazione », non in senso scientifico e marxiano, il cinema cioè dell’incomunicabi­ lità. I giovani in particolare non scelgono la direzione — sostenuta dal primo Visconti — del realismo critico: la constatazione dei fenomeni e l’analisi delle cause che li fanno nascere e perdurare. Prevalgono le strutture e le sug­ gestioni del nuovo Antonioni — dell’« avventura », in cui l’animo umano è un « grosso buco vuoto » — e del di un bozzettismo naturalista. Noi rifiutammo tutto questo. E la storia da raccontare nel nostro primo film era proprio questo rifiuto: la riafferma­ zione, sia pure tragica, della volontà dell’aggressione. Quello che andava scomparendo nella nostra società del benessere, lo andammo a ricercare in Sicilia dove le strutture arcaiche proponevano ancora uno scontro fron­ tale. Ciò che non trovavamo piu negli altri, lo ricercammo in un personag­ gio, Salvatore, il protagonista di Un uomo da bruciare ». A proposito della « crisi di libertà » che andava man mano coinvol­ gendo la crisi del nostro cinema — legata anche a fattori « interni », ai limiti insiti nello stesso neorealismo — ecco quanto mi scriveva Vittorio Taviani nel 1954: « Come le ho comunicato qualche tempo fa, stiamo curando, con la preziosa collaborazione di Cesare Zavattini e Mario Zafred, la realizzazione di un cortometraggio sulla Resistenza, e precisamente su un atroce episodio di rappresaglia nazista in una cittadina toscana, San Miniato. Il cortometraggio, che si intitola appunto San Minialo, luglio ’44, è patrocinato da un comitato cittadino costituitosi in quella cittadina per le celebrazioni del decennale della Resistenza e le onoranze ai caduti. L’ini­ ziativa — cui hanno dato il loro largo appoggio il comune e l’ammini­ strazione provinciale di Pisa — non è giunta gradita invece in altri am­ bienti, ben individuabili, per i quali il ricordo del passato non è certo un buon ricordo, e la commemorazione delle vittime della ferocia nazi­ fascista viene a turbare i piani febbrili di nuove alleanze interne e inter­ nazionali. Con l’appoggio delle autorità ecclesiastiche del luogo, ci si è preoccupati di sollecitare l’intervento delle autorità governative. Mentre stavamo girando, il capogabinetto della questura di Pisa, * espressamene ve­ nuto in missione a San Miniato per ordine del prefetto, ci intimava con formale diffida a sospendere le riprese, sotto la minaccia di sequestro del materiale girato ». (Cfr. « Cinema Nuovo », Milano, a. Ili, n. 40, 1 agosto 1954).

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« nouveau roman »: la dissoluzione del personaggio; la sfiducia nel racconto, nell’intreccio come sintesi con­ creta di complesse azioni e reazioni nella pratica della vita, nel conflitto quale forma fondamentale delle antino­ mie nell’individuo; il parlare l’uno accanto all’altro, non l’uno all’altro, senza intendersi o addirittura senza ascol­ tarsi. La solitudine dell’uomo insomma ridotto a cosa, reificato, piuttosto che le inclinazioni, gli impulsi, i com­ portamenti di un’altra parte della realtà, operante e viva pur nelle tenebre che ci circondano, nelle crisi sempre più laceranti. Questa « alienazione » diventa un nutrimento assai diffuso e comune nel cinema italiano agli inizi degli anni sessanta. Risulta davvero « una specie di chiave passe­ partout » atta a fornire un « alibi sociale » in una affret­ tata eziologia, diagnosi dell’epoca. E quando dell’« alie­ nazione » si tenta un’analisi, questa risulta spesso troppo generalizzata e semplificante, o approda alla Grazia, al miracolo, come già nel caso di Viaggio in Italia di Rossel­ lini ". Nondimeno la lezione di Visconti (di La terra trema da una parte, che per primo pone, accanto alla ricerca sti­ listica, la lotta di classi come prospettiva nel nostro ci­ nema; e dall’altra parte di Senso, che innesta nella strut­ tura linguistica il melodramma ed è l’antesignano del vero film storico, in una critica gramsciana del Risorgi­ mento come conquista regia e non popolare), questa le­ zione e lo sguardo dal regista rivolto, criticamente, ai classici — la grande lezione di cui parlava Franco For­ tini a proposito di « Lukàcs in Italia » — vengono accolti dai Taviani e da Orsini nel loro film d’esordio. (E anche " Cfr. Del senno di poi son piene le fosse, in Dalla critica cinemato­ grafica alla dialettica culturale. Antologia di « Cinema Nuovo », Guaraldi editore, Firenze 1975.

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I pugni in tasca di un altro singolare esordiente, Marco Bellocchio, deve non poco a quel Visconti). Uno dei maggiori interrogativi di Lukàcs, dei suoi punti archimedici, « domande ragionevoli », era ed è: « andare verso l’angoscia, che pure esiste e in gran mi­ sura, o cercare di arginarla? » Anche Un uomo da bru­ ciare nasce dall’angoscia e dalla paura: l’epoca delle cer­ tezze, delle prospettive vicine, è già lontana, e non solo per la « deviazione staliniana », fenomeno complesso e tragico che, se visto marxisticamente, non può coinvol­ gere un solo individuo o gruppo di individui, e restrin­ gersi alle illegalità socialiste, ma compromette lo stesso stato socialista nell’Urss. L’angoscia e la paura vengono assunte dai Taviani e Orsini in una accezione diversa, opposta. Paura dei fantasmi che il cinema — al pari di gran parte della cultura contemporanea — continua in quegli anni e nei seguenti a proporci: « uomini senza qualità » (o « qualità senza uomini »), inanimati, reificati, rinunciatari. Di qui l’esigenza, dichiarata dai tre registi, di rispetto per gli « altri », per coloro in cui le con­ trarietà, gli interrogativi dei tempi oscuri, diventano spinta alla loro decifrazione, a essere attori e non spettatori della storia. Non dunque « l’uomo fatto poggiare su se stes­ so », « terminologia hegeliana applicata a Feuerbach », ma appunto ripresa di una corretta posizione « materiali­ stica » della storia per andare « alla radice delle cose », radice che per l’uomo è l’uomo stesso. Salvatore, il protagonista del film, respinge la tesi er­ ronea secondo cui l’uomo e il suo prossimo — tutti gli uomini — sono diventati cose, che qualità quali l’amicizia e l’amore vengono sempre e comunque trasformate in « merci », che nessuno di noi può attivamente partecipare alla vita, riconoscere se stesso portatore solerte dei suoi

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propri pensieri; afferma invece un’altra tesi: che l’uomo non è estraneo a ogni aspetto sociale, economico, storico dell’esistenza, un misero oggetto dipendente da forze ester­ ne e fatali. Pur non essendone una biografia, il film riman­ da al trentaduenne contadino e sindacalista siciliano Car­ nevale, ucciso a colpi di lupara dalla mafia, a Sciata, presso Palermo, nel maggio 1955. Un sospetto va subito respinto: che gli autori intendano ritornare a proporre, a sostenere l’eroe positivo nel suo significato comune e volgare, dato come dogma al primo congresso degli scrit­ tori sovietici nel 1934, allorché viene imposto un « rea­ lismo socialista » privo di conflitti, e per ciò stesso antimarxista, altrettanto degenerante e volgare. Un eroe cioè senza difetti, edificante, apologetico. Qui interessa, e interessa alla composizione artistica, il ritorno sì al per­ sonaggio ma in una tipicità che ammette, anzi esige, per una adeguata ricchezza nella resa del rispecchiamento della realtà, le componenti contraddittorie dell’uomo nella vita pubblica come in quella privata, un legame tra le due sfere, interdipendente e non schematico o lineare, in definitiva astratto. Nel costruire la fisionomia del personaggio gli autori hanno tenuto presente codesta esigenza al fine di preci­ sarne meglio le tendenze e la natura, per andare appunto alle sue radici. Un uomo è un uomo, diceva Brecht. E Sal­ vatore è tale nei pregi — carica vigorosa, capacità intui­ tive, passione civile — e nei difetti. E se « eroe » è, lo è davvero e appunto « grazie e non malgrado questi ulti­ mi »: la cultura rozza e primitiva, le inibizioni sessuali, le crisi, gli scoramenti, un egocentrismo che lo porta a cre­ dersi un messia, un nuovo Cristo salvatore fermatosi al pic­ colo e arido paese siciliano. I risultati che persegue sono frutto della sua sicurezza come dei suoi dubbi, del suo co­

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raggio come dei suoi tentennamenti.' È proprio attraverso una cultura da film e da giornale a fumetti, da melodram­ ma, ma filtrata e interpretata al lume della ragione, che Sal­ vatore cerca di capire, di « farsi luce ». Ha intuizioni e il­ luminazioni dinanzi ai problemi che gli si presentano e sui motivi della sua vicina uccisione: non intesa come fatale e ineluttabile, ma come riprova della potenza dell’uomo, della sua intelligenza, delle sue capacità vitali. I « pensieri e i fatti, gli accadimenti dentro di lui e intorno a lui » im­ pongono non la paura e l’omertà, ma la denuncia e la sfida in campo aperto alla mafia. Per questo è « un uomo da bruciare », e viene « bruciato ». È vero, come afferma Sartre, che nel film non vi sia « niente di veramente nuovo »? Altri registi hanno costruito « eroi » complessi e contraddittori, dei « vinti-vincitori » come Salvatore. In Salvatore « ci interessava riconoscere l’uomo quale lo restituisce, oggi, Thomas Mann o Brecht », dichia­ rano i Taviani e Orsini. Un altro nome si potrebbe, si dovrebbe fare: quello appunto di Visconti. I rimandi al­ l’autore de La terra trema e Bellissima sono copiosi, emergono anche da parecchi particolari di Un uomo da bruciare. Anche Salvatore, al pari di ’Ntoni, è stato nel continente che gli ha schiarito le idee (dice Cola, il fratello di ’Ntoni, al nonno: « Antonio è stato nel continente, e le cose ingiuste non le può sopportare. Ora non ragiona piu come noi: ragiona in un altro modo ». E piu tardi aggiungerà: « Antonio ha ragione! Non so bene perché, ma Antonio ragiona come si deve ». Parimenti, verso la fine, Bastiano afferma, alludendo a Salvatore: « È bravo. Io non lo capisco, ma è bravo »). Ludovico, il nipote del mafioso don Carmelo, il suo alterco con Salvatore — in una delle sequenze soggettive in cui questi « vede » la propria morte — fanno venire in mente la lite di ’Ntoni,

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dinanzi alla casa dove sono sfrattati i Valastro, con uno dei grossisti: Lorenzo. Si vedano inoltre l’arresto e il ri­ lascio dei braccianti. I sottofondi visivi e sonori, la pro­ fondità di campo nella casa del medico condotto, quel brusio di bambini che si protrae, durante il colloquio con Barbara — fino a che il dottore non dice alla figlia maggiore: « Rossella, chiudi quella porta » —, sono un rimando sicuro a Senso, alla sequenza in cui Livia denun­ cia Franz. Copiosi risultano anche i rimandi alla vita e alla morte di Carnevale, al lamento funebre su di lui scritto da Ignagio Buttitta e cantato da Ciccio Busacca; restando ferma e costante la preoccupazione, da parte dei tre registi, di non cadere in una realtà schematizzata, di allontanarsi dalla mitologia politica — da certa mitologia politica anche e soprattutto italiana —, dai « furori senti­ mentali del neopopulismo ». Sulla scia di Bellissima e Senso, gramscianamente viene posto il problema della cultura melodrammatica del popolo italiano in genere, e di quello siciliano in parti­ colare. Salvatore ama la solennità gonfia, oratoria; i teatri popolareschi, gli spettacoli cosi detti da arena, certo ci­ nema sonoro d’appendice — con i dialoghi che corri­ spondono alle didascalie del muto compilate appunto in stile melodrammatico (toccandosi con il dito la tempia, dice alla madre, nel suo primo incontro con lei al ritorno dal continente: « Ho un cinematografo qui ») — sono, per dirla con Gramsci, della massima importanza per creare questo gusto e il linguaggio conforme. Formatosi non alle letture sistematiche e alla meditazione intima della poesia e dell’arte, ma alle manifestazioni retori­ che l2, Salvatore viene affascinato e al tempo stesso scon­ 12 Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950.

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volto, nel cinematografo del suo paese, dalla storia di un marinaio innocentemente ucciso nel disperato tenta­ tivo di portare con sé la cantante di cui è innamorato, prigioniera di un gruppo di gangsters. Vediamo come è strutturata tutta questa parte, pre­ ceduta dal primo piano di Ludovico e di un altro mafioso mentre fuori campo si sente la voce di don Vincenzo: « Raimondo è fuori. Ha già ricevuto le disposizioni neces­ sarie » (per uccidere appunto Salvatore). Stacco. Inserto film d’appendice. Mezza figura della cantante; carrellata indietro fino a figura intera: E piango vedendoti partire, per l’ultima volta ti offro l’amor! Addio! Addio! Non darmi la mano...

Stacco. Primo piano di Salvatore nel cinema; pano­ ramica da destra a sinistra che scopre Barbara — la don­ na di Salvatore — mentre entra nella sala; movimento di macchina inverso che si ferma al primo piano di Salvatore. Barbara C’è posto? C’è posto?

Continua la canzonetta: «... c’è un domani per noi, solo per noi. Addio... » Sulla parola « Addio », per stac­ co inserto film. Mezza figura del marinaio di spalle. Entra in campo un gangster; il marinaio si volta. Gangster Se entri, ti ammazzano.

Campo medio dei due. Marinaio Senza di lei non posso partire. Gangster (ripete) Se entri ti ammazzano.

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Contemporaneamente la voce della cantante prose-' gue: « ...ti vedo lontano, ma c’è un’anima ancora accanto a me... » Il marinaio esce di campo. Stacco. Piano ravvi­ cinato di Salvatore con le dita in bocca, pensieroso; fuori campo voce della cantante: « ...E piango veden­ doti partire... » Panoramica da destra a sinistra sino al primo piano di Barbara, che volta lo sguardo verso lo schermo. Fuori campo la canzonetta: « ...Per l’ultima volta ti offro l’amore... » Stacco. Inserto film: due bal­ lerine scendono in piano americano; raggiungono il ma­ rinaio. Campo totale. Guardarobiera Imbarcati prima che sia troppo tardi. Marinaio Ma per lei sarà la fine...

e, accompagnato in panoramica, sale le scale dalle quali erano scese le due ballerine. Si ferma; risoluto dice « No », e torna indietro. Totale dall’alto. Si inginocchia. « No », ripete; « mi uccidano pure, ma io la devo sal­ vare, la devo salvare ». Alla parola « salvare » ripetuta la seconda volta, stacco. Mezza figura di Barbara; il suo sguardo dallo schermo si rivolge a Salvatore. In una pa­ noramica da destra a sinistra la donna raggiunge Salva­ tore e si siede dietro di lui. Barbara Adesso ci leveremo anche le scarpe.

Stacco. Inserto film. Mezza figura del marinaio ripre­ so di spalle. Canzonetta fuori campo: « ...E piango ve­ dendoti partire... » Il marinaio apre una tenda, si ri­ trae, due gangsters vengono contro di lui. Indietreggia e si volta guardando in alto alle parole « ...vedendoti partire... » Inquadratura ripresa dal basso: sul pratica­ bile del teatro appare uno zoppo che procede da sinistra a destra. Seguita fuori campo la canzonetta: « ...Per l’ul­ tima volta... » Sulla parola « volta », stacco. Mezza figura

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del marinaio. Stacco. Lo zoppo sul praticabile e canzonet­ ta: « ...ti offro l’amor... » A queste parole fuori campo, piano americano dello zoppo che apre un coltello a serra­ manico. Stacco. Ancora lo zoppo: in figura intera, lancia il coltello contro il marinaio. Stacco. Alle parole « ...ti offro l’amor... » il marinaio in primo piano colpito. Stac­ co. Piano ravvicinato di Salvatore. Panoramica da destra a sinistra che lo accompagna; mentre esce dalla sala, fuori campo si sente: « ...addio! » Stacco. Primo piano di Bar­ bara; fuori campo canzonetta: « ...Addio non darmi la mano, c’è un domani per noi, solo per noi... » Stacco. Mezza figura cantante: « ...Addio, ti vedo lontano ma... » Stacco. Figura intera di Salvatore che scende le scale di casa mentre canticchiando ripete: « ...Ma c’è un’anima ancora accanto a te... » Salvatore si interrompe; dopo una breve pausa sussurra: « Che mi sta succedendo? » Pa­ noramica da destra a sinistra. Continua il suo monologo: « Quel marinaio ammazzato mi ha fatto impressione. E io? Mi sono spinto troppo avanti l’altra sera in piazza? » Inquadratura buia, che si rischiara mentre egli accende un lume. Totale camera di Salvatore, il quale sta davanti al letto. Seguita a pensare parlando a se stesso: « Devo mettermi nella testa di don Carmelo, di don Vincenzo. Sono stanco. No, devo prevedere cosa mi preparano quelli. Qualcuno di loro mi vorrà dare l’ultimo avviso? Chi? » Alla domanda « Chi? » lenta dissolvenza incrociata. Cam­ po medio del cortile. Salvatore si sta lavando all’abbe­ veratoio; al richiamo fuori campo « pst, pst », risponde: « Dio mi ha dato un nome, chiamami con quello ». Mo­ vimento di macchina laterale indietro che scopre alle spalle Ludovico mentre salta da un muricciolo. Carrello in avanti: Ludovico raggiunge Salvatore e lo avverte che vogliono ammazzarlo. Alle parole di Ludovico « Paura

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eh? », stacco. Salvatore in casa, che guarda dinanzi a sé: « Che posso fare? » Stacco. Mezzo busto di Ludovico che invita Salvatore a fuggire con lui nel continente. « Non ho niente a spartire con te », gli risponde Salvatore; frat­ tanto riprende il motivo della canzonetta « Addio! » Stacco. Campo totale scalinata del paese ripreso dal basso. Entra in campo Salvatore che, deciso, sale; continua il motivo musicale. Salvatore si volta al richiamo della ma­ dre che lo raggiunge. Insieme con lei seguita a salire. « Non devi aver paura, sono pronto anche a morire », le dice. Campo medio. « Paura? Vergogna! » risponde la madre. I due indietreggiano. Stacco. Campo medio. Salvatore Vergogna, che dite? Madre Che non ti vuole ammazzare nessuno! Che devi finirla, devi finirla con queste fissazioni. Sei lo scherzo del paese. Salvatore Madre, voi non Io pensate. Madre Sin da quando eri piccolo. Sempre esagerato. Sempre di­ scorsi. I tuoi amici si son fatti una famiglia.

La madre esce di campo. Salvatore in primo piano: « Ma allora, che sono io? Che faccio ora? » La macchina lo segue mentre egli scende le scale ripetendo: « Che sono? » Raggiunge la madre, che gli dice: « Vai a fare quello che fanno gli altri ». Stacco. Dall’alto, i due in campo lungo. Mentre riprende il motivo « Addio! » Sal­ vatore risale la scalinata avvicinandosi alla cinepresa. La madre esce nuovamente di campo. Salvatore ridiscende: « No, mamma ». A quest’ultima parola termina il motivo musicale. Campo lungo ripreso dall’alto. Salvatore si inginocchia dinanzi alla madre. Salvatore Madre mia, perdonami. Non sono un figlio come gli altri. Ma io credo che qui ci sia bisogno di me. Forse della mia morte. Madre Zitto! chi credi di essere?

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Stacco. Panoramica su un muro fino a scoprire il pri­ mo piano di Salvatore. Voce fuori campo della madre: « Gesù Cristo? » Salvatore si alza e si sente di nuovo il motivo « Addio! » Alle parole fuori campo « Gesù Cri­ sto? » panoramica a inquadrare in figura intera i due. La madre abbraccia il figlio, invocando: « Figghiu, figghiu, figghiu! » Salvatore in panoramica si allontana risalendo la scalinata mentre continua il motivo musicale « Addio! » Stacco. Cava. Dettaglio di Salvatore che si è avvicinato a una botte piena d’acqua e primo piano di lui mentre beve. Finisce il motivo musicale. Salvatore guarda a sinistra avvertendo la presenza di qualcuno. Stacco. Panoramica sulla parete della cava verso destra e poi in alto a scoprire un mafioso appostato con la doppietta. Stacco. Salvatore si volta, continua a guardare a sinistra poi a destra. Pa­ noramica soggettiva in varie direzioni finché scopre un altro mafioso anche lui appostato, con la doppietta. Stac­ co. Piano ravvicinato di Salvatore che insiste a guardare: a sinistra, a destra e poi in alto. È accerchiato. Stacco. Campo lungo angolato dal basso. Appare sulla cima della cava uno zoppo con la torcia in mano che procede da destra a sinistra (come lo zoppo dell’inserto filmato) fino a scomparire dietro le rocce. Stacco. Richiami di voci lontane. Riprende il motivo « Addio! » Primo pia­ no di Salvatore, che con il fazzoletto si copre gli oc­ chi: « Addio, compagni miei. Addio Cola, addio Ba­ stiano, addio mamma, addio tutti ». Stacco. Campo medio, lo zoppo accende la miccia. Termina il motivo musicale. Stacco. Mafioso con la doppietta che si ritrae. Stacco. Anche l’altro mafioso si ritrae. Stacco. Campo medio: miccia che brucia. Stacco. Mezza figura di Salva­ tore in casa: « Ora è tardi » dice a se stesso. Stacco.

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Cava. Mezza figura di Salvatore: « Ora preparati, è tardi », aggiunge. China la fronte. Riprende il motivo « Addio! » e al contempo egli si abbottona i polsini della camicia. Carrello in avanti fino a primo piano di Salvato­ re; il motivo musicale è in crescendo. Stacco. Cava che esplode. Stacco. Inserto film. Figura intera della cantan­ te: « ...accanto a te, a te... » Veloce carrello in avanti sino a piano ravvicinato di lei e poi indietro sino a figura intera e campo totale. Lenta dissolvenza incrociata e dissolvenza sonora degli applausi del pubblico. Casa di Salvatore; egli è ripreso a mezzo busto; lento carrello indietro che scopre il letto; Salvatore vi si corica adagio, ricoprendosi con il lenzuolo — quasi un sudario — anche la testa. Dissol­ venza in chiusura. Con le stesse cadenze fumettistiche del film cui aveva assistito — e questo inserto, girato appositamente dagli stessi Taviani e Orsini, è un particolare di grande ri­ levanza formale e tematica — Salvatore « vede » la pro­ pria morte, immagina che alla cava i mafiosi — para­ gonati appunto ai gangsters — gli abbiano teso un agguato, che gli facciano crollare addosso la monta­ gna. Una morte « teatrale », da « eroe » d’opera, me­ lodrammaticamente grandiosa: ma le ragioni della pro­ pria eliminazione gli appaiono, come si è accennato, or­ mai chiare. Questo parallelismo, e tutta la parte finale del film, sono esemplari sul piano del linguaggio; l’in­ serto della pellicola « passionale » — popolaresca, da Grand Guignol — non spezza affatto l’omogeneità del­ l’andamento espressivo: le inquadrature, il montaggio delle inquadrature e nell’inquadratura, i segni si tradu­ cono in precisi significati. E alla domanda posta da Gram­ sci — « come combattere il gusto melodrammatico? » — i Taviani e Orsini rispondono con Gramsci stesso:

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attraverso la critica di un tale gusto; critica che qui si esprime mediante la categoria dell’ironia. Nuovo quindi, e comunque raro nel panorama cine­ matografico agli inizi degli anni sessanta, questo ritorno stilisticamente ragguardevole al realismo critico, alla co­ struzione del personaggio, in un momento in cui tutto sembra sommerso nel maremagno dell’« alienazione », e si riduce l’uomo a frammenti, lo si dissolve nelle forme suggestive — e, tutto sommato, spesso comode — della incomunicabilità. Rivisto oggi, attualissimo risulta Un uomo da bruciare, in ispecie nella sequenza-chiave del­ l’assemblea delle leghe contadine, quando Salvatore, forte dell’esperienza di Mazzata, vuole portare avanti la lotta, fare la « rivoluzione », ma viene ridicolizzato dai com­ pagni. « L’esperienza di Mazzata ha avuto successo », dice il capolega; « ma la situazione è piu complessa di quel che sembrava. Questa quinta assemblea deve segnare la fine di ogni tendenza settaria. Occorrono metodi di lotta diversi, che non isolino i contadini dal resto dell’opi­ nione pubblica ». « D’accordo, metodi di lotta diversi », interrompe Salvatore. « Ma ripetiamoglielo bene, ai con­ tadini siciliani... Basta con le paure. Siamo noi i Sansoni della terra. Contadini che soffrite, che della terra diritto avete... Fermi, fermi, io sto ai risultati di Mazzata ». « Taratira taratera, andiam alla rivoluzione » è la bef­ farda risposta alle sue parole. « Troppo rischio, troppo rischio », urla un compagno. « Questi metodi erano buoni una volta. Oggi la legge è dalla nostra parte ». « Ti sei abituato a montarci in testa. Ma su questa testa non ci monti piu », aggiunge un altro compagno. « E se non ti persuade, se ti rimane la voglia di cantare, ti mettiamo il morso ». E le proteste di Salvatore vengono sommerse dal coro « Nella vecchia masseria, ia, ia, o... » Si antici­

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pano qui certe critiche che sarebbero poi state mosse (e dallo stesso Orsini in I dannati della terra) alla strate­ gia dei sindacati e del partito comunista italiano. Sono proprio i compagni delle leghe contadine che assumono in questa sequenza l’atteggiamento di Tolstòj dinanzi al­ l’operaio che, ne II divino e l’umano, legge Marx e al rivo­ luzionario Mezenjètzkij. Nella struttura aperta di Un uomo da bruciare c’è, per così dire, una intuizione di cosa sareb­ be accaduto anni dopo con la nascita della nuova sinistra. Indicative in tale senso le ultime inquadrature e la parola « fine » che appare per subito dopo scomparire prima che il film abbia termine. La mafia non vuole che il funerale di Salvatore passi per la piazza, e non vuole bandiere. To­ tale della piazza, carrellata e panoramica da sinistra verso destra sino a scoprire in campo lungo il corteo che avanza senza paramenti religiosi, da una strada, con il tricolore in testa e bandiere rosse. Il corteo si av­ vicina sempre più verso di noi accompagnato da una di quelle melodie che si suonano nei venerdì santi in Si­ cilia. A poco a poco viene in primo piano il tricolore ed è qui precisamente che spunta sovrimpressa la parola « fine » per subito dopo scomparire al passaggio della bara rico­ perta da un grande drappo rosso. Il funerale, laico, con­ tinua ad avanzare, e sul feretro che prende quasi tutto lo schermo, dissolvenza in chiusura. Godardianamente potremmo dire oggi « fine di un inizio », dell’inizio del­ l’attività cinematografica dei Taviani, i quali, infatti, par­ tendo da Un uomo da bruciare, costruiranno un pro­ gressivo discorso, tenendo presenti, anche sul piano strut­ turale, alcuni loro motivi dell’esordio. Valga da esempio proprio l’assemblea delle leghe contadine e la sequenza che la precede. Dalla piazza del paese, quando Salvatore e i compagni sono rilasciati dalla polizia, per dissolvenza

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vediamo l’autobus che li conduce al teatro comunale di Palermo. Salvatore siede a parte, isolato dagli altri; e la radio trasmette la stessa canzonetta — « Nella vecchia fattoria ia, ia, o... » — con la quale si chiuderà la scena dell’assemblea. I Taviani prefigurano con questo motivo musicale la sconfitta di Salvatore, così come la donna che finge di partorire, e il saltarello che vediamo senza sentir­ ne la musica all’inizio della scena della pescheria, fanno presagire, in Allonsanfan, l’esito negativo della spedi­ zione nel Sud. Da che cosa deriva, quali le fonti dell’ironia, elemen­ to strutturale e contrassegno costante — come vedre­ mo — in tutta l’opera dei Taviani? Si è già detto che questa ironia è diversa da quella tolstòjana. In Salvatore si sottolinea la persistenza della religione nei contadini ma, contrariamente allo scrittore russo, i tre registi ri­ volgono — attraverso il cristologico interno al personag­ gio — una critica a riguardo, anche se un campo tota­ le — rimando evidente al Golgota — ci mostra il paese sassoso attraversato da nuvole dense e nere subito dopo l’inquadratura in cui Salvatore viene ucciso (e ucciso non come aveva sognato in modo grandioso). « La critica della religione è il presupposto di ogni critica », afferma Marx, che trasforma la « critica del cielo », dell’« al di là », in « critica della terra », dell’« al di qua ». « Che una [...] concezione in cui la religione rappresenta la leva decisiva della storia del mondo debba in conclusione andare a fi­ nire nel puro misticismo, è cosa chiara »,J. Ed è chiara ai Taviani e a Orsini. Nell’« umano » di Salvatore c’è an­ cora del « divino », ma attraverso la critica degli autori c’è già in Un uomo da bruciare anche una fase di transiu Cfr, Marx ed Engels, Sull’arte e la letteratura, Colip, Milano 1954.

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zione al « politico », con le contraddizioni che un tale passaggio comporta, e che troviamo in Salvatore. Da dove assumono la categoria dell’ironia i Taviani? C’è in essi una compresenza delle fonti culturali tolstoiane e del grande assente nella cultura cinematografica ita­ liana: Goethe, che più preme in loro, insieme con altri autori, da Mann a Brecht. Gli influssi qui sono più ampi e profondi, conservando una loro continuità non soltanto nel fatto — sottolineato da Lukàcs — che la maniera epica dello scrittore russo è vicina all’ideale di Goethe, ma anche in altri motivi, oltre a quelli sin qui detti, confessati nel 1963 dagli stessi Taviani, i quali hanno sempre respinto il marxismo volgare, la « satura­ zione illuministica »: Goethe e il recupero del filone cui appartiene è da loro inteso come reagente necessario per trasformare in forza creativa, ridimensionandole, le pro­ poste più stimolanti dell’altra grande corrente, dell’ir­ razionalismo. Goethe (e Brecht e Mann) e Tolstoj dunque. Ma è proprio il « recupero della ragione », e dei mezzi strutturali per un tale recupero, che guida i Taviani. Di qui anzitutto, e già in Un uomo da bruciare, la loro ricezione goethiana, il motivo del superamento dell’« alie­ nazione »: come Goethe e altri grandi realisti, essi lot­ tano contro di essa. Costruzione della ragione e invito all'ironia è il ti­ tolo di uno scritto che pubblicano in « Cinema Nuovo » nel 1963, l’anno in cui esce I fuorilegge del matrimonio, ancora diretto in collaborazione con Orsini. È un testo importante, che non riguarda soltanto la loro poetica. Così inizia: « Mai come oggi il cinema italiano si è arti­ colato in ricerche individuali, in una molteplicità di pro­ poste: le opere di noi “giovani” ne sono la testimonian­ za. Anche in questo modo il cinema si riconferma come

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l’arte più trasparente del nostro tempo: il suo riflesso più immediato; lo specchio di quel travaglio di idee, addirittura di quello sbandamento ideologico, che sono poi legati, naturalmente, a un travaglio più in profon­ dità, di strutture ». Pure i Taviani avvertono che in­ torno al 1963 i termini sono mutati, e meno facilmente identificabili le « certezze » del dopoguerra: ieri queste mitiche certezze, oggi un socialismo « non come mèta prefabbricata » ma come ricerca aperta; ieri Stalin oggi il XX Congresso. E anch’essi si domandano: quale la strada, il tentativo di ricerca da fare? Non certo il ripu­ dio dei nuovi fenomeni emersi — rispondono —, chiu­ dere gli occhi dinanzi a una crisi in atto; ma neppure lo sconforto e la paura: la crisi è materia viva che ci in­ forma, la situazione di fatto che ci condiziona; è l’atteg­ giamento verso di essa che va cambiato; non si deve dare un giudizio definitivo e disperante nel difficile momento attuale, ma averne piuttosto una visione organica, indi­ viduarne la natura, le componenti negative, positive; combattere le prime, sollecitare le seconde: la crisi, in questo senso, può assumere un valore prezioso, di situa­ zione limite, dove i vari elementi si evidenziano al mas­ simo. « Tutte le ragioni della crisi debbono quindi essere presenti in noi giovani autori, in quanto è nei momenti di passaggio che l’uomo si rivela, si costruisce: doloro­ samente, certo. Di più: pericolosamente, dato che l’esito non è garantito in partenza; va raggiunto. Bisogna stare dalla parte dell’uomo senza farsi prendere dal panico. Più impietosa sarà in noi l’urgenza degli interrogativi, più violenta la necessità di dar loro una risposta ». È il momento — aggiungono — di tener anche presenti le esperienze, le ipotesi che oggi vengono avanzate dalle parti

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più disparate: nel campo della psicoanalisi e della psico­ logia come in quello della musica e della pittura, che si stanno avviando verso il dissolvimento dei loro lin­ guaggi; pure in tal caso, tuttavia, senza disperdere l’uomo bensì arricchendolo. Come condurre questa operazione « necessaria », « urgente »? Con il recupero della ra­ gione, il reintegrare l’uomo in se stesso e nella colletti­ vità, nella natura stessa — rispondono —; nel collocare l’esperienza individuale in un hic et nunc che sottintenda il passato e si rivolga all’avvenire, nel rendere intere le illuminazioni dell’individuo calandole nelle strutture del­ la storia. « Per noi marxisti si tratta insomma di trovare un equilibrio tra soggettività e marxismo. Abbiamo bi­ sognò di quello che qualcuno ha chiamato “nuovo uma­ nesimo”: un umanesimo, naturalmente, non contempla­ tivo dell’io idealistico, ma rivoluzionario. D’altra parte quale ricerca più inquietante e necessaria e avventurosa di questa, volta a individuare il nuovo aspetto che l’uomo sta rivelando attraverso le lacerazioni e i raggiungimenti della nostra drammatica, ricchissima età? » Tutto ciò comporta di conseguenza — concludono — la ricerca dei modi, degli strumenti più adatti — non ultimo il linguag­ gio — per avvicinarci, attivamente, allo stato attuale di emergenza. Uno degli elementi da recuperare al film è appunto, per i Taviani, l’« ironia »; elemento che « non a caso la nostra cultura cinematografica, e non soltanto cinemato­ grafica, ha dimenticato ». Per ironia non intendono, come si è visto, « comicità » o mancanza di rispetto nei con­ fronti della materia da trattare, una posizione qualun­ quistica, o agnostica o addirittura fuori della mischia; né un modo « brillante » di raccontare e tantomeno un mezzo per fustigare i costumi. Elemento, invece, che nasca dalla

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necessità di porre un argine alla marea delle cose che quo­ tidianamente ci assale, per non essere travolti da essa e per dominarla, trasformarla in energia al nostro ser­ vizio. « Significa voler essere tanto dentro alla “cosa”, da uscirne al di fuori per possederla nella sua tota­ lità ». La realtà si è fatta oggi troppo ricca e disperante per affrontarla con atteggiamenti tutto sommato senti­ mentali — continuano —: è necessario un controllo critico costante, che rappresenti il momento coesivo dei mille fattori differenzianti; a un cinema tutto soggettivo dobbiamo sostituire un cinema dell’« oggettività », nella direzione non del magma ma in quella indicata da Brecht nella teoria dell’« estraneazione », cioè dei « comporta­ menti » del personaggio, intesi come altrettanti strumenti offerti allo spettatore perché « giudichi », confrontando ciò che muore e deve morire, con ciò che nasce e deve nascere. È in questo senso che i Taviani propongono il « re­ cupero dell’ironia »: come « valvola di sicurezza » nel­ l’accezione — specificano — del grande filone del rea­ lismo: dal Brecht appunto del Galileo al Mann di Giu­ seppe, « amabile e insieme ripugnante »; da Chaplin, che « nonostante il suo patetismo deve la propria potenza all’irrisione di se stesso », a Goethe, « forse il più adatto ad aiutarci oggi ». Questi e altri motivi confortano il « nuovo umanesimo » rivoluzionario che ci ripropone — affermano i Taviani — l’uomo come strumento e protago­ nista della storia, ipotesi e portatore di ipotesi; il recu­ pero di tale filone — insistono ancora una volta nello scritto del 1963 — è tra l’altro reagente necessario per trasformare in forza creativa, ridimensionandole, le pro­ poste più stimolanti dell’altra grande corrente, dell’irra­ zionalismo: « se non vogliamo che il patrimonio che va

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da Schopenhauer a Nietzsche, a Joyce, a Kafka, a Musil, a Pollock giunga e si disperda nelle mani funamboliche di un qualsiasi albergatore di Marienbad che poi, guarda caso, gestisce un “Grand Hotel” ». Anche di fronte al linguaggio — problema connesso con i precedenti, aspetto di una stessa questione — il pa­ norama si presenta nel 1963 carico di interrogativi, sti­ moli e insidie: da una parte film e autori legati a moduli passati, sia pure gloriosi, o meglio a un tutto già codi­ ficato, senza abbagli e illuminazioni — aggiungono i Ta­ viani —; dall’altra, l’eco della cosi detta scuola francese, iconoclasta per definizione, dove si tende magari a un’ope­ razione necessaria, efficace, ma che risulta nuovamente evasiva, e si vuole « fare la rivoluzione » partendo non dalla struttura, bensì dal di fuori, dai « modi » senza interne necessità, o ipotesi nuove; e ancora, sempre in questo secondo ambito, la « scuola », sulla scorta soprat­ tutto di esperienze americane (Ombre, Occhio selvag­ gio, ecc.), del così detto cinema verità, o diretto, o inchie­ sta, tendente al frammento lirico o al pezzo giornalistico. Partendo da queste e altre esperienze, dall’insieme di tante proposte, si deve reinventare il linguaggio filmico — concludono i Taviani —, verificandolo a volta a volta nella materia da esprimere: « Occorre un linguaggio nuo­ vo; ma al servizio di storie, di idee ». Di qui la necessità, da loro sentita, di una struttura narrativa assai rigorosa: non secondo uno stanco e stancante ordinamento di fatti senza illuminazioni (prologo, crescendo, epilogo) bensì nel senso di una narrazione aperta, disponibile a tutte le el­ lissi, gli iati possibili e tuttavia possibili solo in quanto ancorati a una trama logica dei fatti, a un impianto ideo­ logico sempre riconoscibile. Per tornare ancora a Goethe, confessano che il Wilhelm Meister rimane, anche nell’im­

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pianto narrativo, una delle loro e principali opere di ri­ ferimento 14. Già la Missione teatrale del Meister tende infatti a ri­ solversi nei Taviani in Missione cinematografica, nel film inteso « come mezzo per sviluppare liberamente e comple­ tamente la [...] personalità umana »; e negli Anni di no­ viziato essi vedono l’esempio di come allargare i loro interessi sul piano concettuale e della forma. Lo sviluppo della personalità, che il Rinascimento e ITlluminismo ave­ vano sognato e che nella società borghese dovrebbe rima­ nere sempre un’utopia — sottolinea Lukàcs a proposito de­ gli Anni di noviziato —, è posto da Goethe davanti a noi come un divenire reale di uomini concreti in mezzo a circostanze concrete. « La poesia del Rinascimento e dell’Illuminismo rappresenta o uomini singoli che raggiun­ gono in circostanze particolarmente favorevoli lo sviluppo completo della loro personalità, l’armonia del loro svolgi­ mento umano oppure tratta questa utopia con chiara con­ sapevolezza come un’utopia [...] La novità specifica del romanzo di Goethe sta nella rappresentazione concreta del risultato positivo degli ideali umani della rivoluzione borghese. Cosi, tanto dal lato attivo della realizzazione di questo ideale, quanto anche il carattere sociale dello stesso, passano in prima linea. La personalità umana, se­ condo Goethe, non si può sviluppare che nell’azione. Agire, però, implica sempre un influsso reciproco tra gli uomini nell’ambito della società. Goethe, realista, vede le cose chiaramente e naturalmente dubita che la società bor­ ghese che egli ha davanti a sé, e in modo particolare un paese misero e arretrato come la Germania di allora, possa avviarsi alla realizzazione sociale di questi ideali ». M Paolo e Vittorio Taviani, Costruzione della ragione e invito all'ironia, in « Cinema Nuovo », Milano, a. XII, n. 161, gennaio-febbraio 1963.

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È impossibile che la socialità dell’attività umanistica possa svilupparsi organicamente dalla concezione reali­ stica della società borghese — continua Lukàcs —; quindi neanche nella rappresentazione realistica di questa so­ cietà essa può essere un prodotto organico e spontaneo del suo movimento autonomo; d’altra parte Goethe sente chiaramente e profondamente, come pochi altri uomini prima e dopo di lui, che questi ideali sono necessariamente prodotti di questo movimento sociale. « Per quanto la società borghese reale tenga nella vita di ogni giorno di fronte a questi ideali un contegno ostile e freddo, pure gli ideali stessi sono sorti sul terreno di questo movi­ mento sociale; sono dunque, dal punto di vista della cul­ tura, quanto di meglio questo sviluppo abbia prodotto ». In conformità a questi principi contraddittori della sua concezione della società, Goethe — aggiunge Lukàcs — forma dentro alla società borghese una specie di « isola », e quest’« isola » è peraltro composta da un gruppo di persone attive, di persone cioè che svolgono un’attività nella società: la vita di ciascuna di tali persone è radicata con realismo vero nelle fondamenta e nelle premesse reali della società; neanche il fatto che queste persone si in­ contrino e si riuniscano può essere chiamato non reali­ stico. « Goethe ha stilizzato l’accolta di queste persone soltanto perché le ha dato forme ben determinate — che poi si risolvono ironicamente — e perché ha tentato di rappresentare 1’ “isola” come una società nella società, co­ me una cellula della trasformazione graduale di tutta la so­ cietà borghese [...] L’ “isola” ideata da Goethe può otte­ nere un effetto convincente soltanto nel corso dello svilup­ po dell’uomo. La mano maestra di Goethe si rivela nel mo­ do come egli fa scaturire tutti i problemi dell’umanesimo — sia negativi che positivi — da circostanze concrete, dal­

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le esperienze concrete di determinati uomini; questi idea­ li non hanno mai in lui una forma utopistica bell’e pronta, ma determinate funzioni pratiche e psicologiche, quali ele­ menti dell’ulteriore sviluppo di determinate persone in determinate svolte critiche del loro divenire [...] La svolta nella educazione di Guglielmo Meister si ha quando egli si stacca dalla pura interiorità, che Goethe, come più tardi Hegel nella Fenomenologia dello spirito, condanna e definisce vuota e astratta [...] Soltanto in figure come Lotario e Natalia, soltanto in ciò che Guglielmo Meister tende a raggiungere per sé si forma il carattere della vera anima bella che supera il dissidio tra interiorità e atti­ vità ». Chi volesse vedere nell’autrice delle confessioni l’idea­ le goethiano dell’anima bella — osserva Lukàcs — da­ rebbe prova di non capire le intenzioni di Goethe e di non accorgersi della fine ironia di tono: l’anima bella è in Goethe l’unione armonica di consapevolezza e spon­ taneità, di attività esteriore e di vita interna, armonicamente conseguita; l’autrice delle confessioni è un estremo di soggettivismo, di vita interiore, come molte delle fi­ gure della prima parte, intente a cercare qualcosa nel mondo, come Guglielmo Meister stesso; questo cercare soggettivistico che si rifugia nell’interiorità pura, forma il polo opposto — relativamente giustificato, ma soltanto relativamente — dall’attività pratica vuota e frammen­ taria di Werner, di Laerte e persino di Serio. « Ma la po­ lemica rappresentata nelle figure del Guglielmo Meister non è diretta soltanto contro i due estremi suddetti, falsi tutti e due; essa mira anche a sconfiggere le tendenze ro­ mantiche [...] Tutto il romanzo vive nella lotta contro il romanticismo sterile. La nostalgia per il teatro di Gu­ glielmo Meister è la prima tappa di questa lotta; il roman-

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ticismo religioso nelle Confessioni di un'anima bella ne è la seconda tappa. E lungo tutto il romanzo appaiono le due figure romantico-poetiche, senza patria, di Mignon e dell’arpista, personificazioni massime del romantici­ smo ». Se seguiamo da vicino la fatica artistica di Goethe nel rielaborare La missione teatrale per adattarla al Gu­ glielmo Meister vediamo in opera — conclude Lukàcs — quelle tendenze che nel romanzo dell’Ottocento diven­ tarono essenziali; l’arte di Goethe rappresenta un’ere­ dità molto attuale, poiché proprio la rappresentazione pacatamente armoniosa, eppure viva e immediata, degli sviluppi piu importanti per lo spirito e per l’anima è uno dei grandi compiti che il realismo socialista dovrà risol­ vere 1S. Ritorno soltanto a Goethe, o non piuttosto — fermo restando un tale punto di riferimento — ritorno anche e in particolare a Marx, al « realismo socialista » rettamente inteso, in un momento in cui, nelle crisi laceranti intorno al ’63, si vedeva ormai che il marxismo volgare e il realismo socialista dogmatico avevano condotto (e continuano a condurre spesso), per reazione, a tante deviazioni, errori e fraintendimenti nel campo stesso della sinistra? Commentando nel Dissolvimento della ragione 16 questo scritto dei Taviani, ci parve giusto ribadire quanto gli autentici studiosi di Marx, e anche i suoi seri divul­ gatori, hanno sempre messo in risalto sulla scorta diretta dei testi dello stesso Marx: che questi del socialismo non ha mai dato un’idea o proposto una meta prefabbricate, quale « paradiso in terra » e facile da raggiungere; che l’esito anzi non è garantito automaticamente in partenza ” Giorgio Lukàcs, Goethe e il suo tempo, Mondadori, Milano 1949. * Feltrinelli, Milano 1965.

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come se esso, il socialismo, « avesse per sé l’avvenire allo stesso modo che per lo storicismo di tipo idealistico la libertà ha per sé l’eterno »; che la storia si presenta co­ me uno sviluppo di situazioni assai complesso e sempre nuovo e mutevole, e sfugge a ogni rigida determinazio­ ne, la quale finirebbe con l’impoverirne l’immagine estre­ mamente drammatica e intricata; che l’atto storiografico, non ponendosi in funzione esclusiva della ricerca degli ele­ menti economici, ci deve impegnare a rappresentare nella sua « totalità » l’insieme dei rapporti tra struttura, sovra­ struttura e ideologia, tutti legati in modo stretto tra loro e con il loro peso nel reciproco influsso che esercitano scambievolmente l’uno sugli altri; che l’intimo legame tra la vita materiale e la produzione delle idee non va inteso come se Marx avesse accettato una concezione determini­ stica e grettamente materialistica, riducendo tutta la sto­ ria a storia economica e intendendo gli stessi rapporti economici come assolutamente stabiliti da un regime di produzione naturale e necessario, perché in tal caso egli avrebbe subordinato l’uomo alla materia e sarebbe stato d’accordo con gli economisti « classici », da lui aspra­ mente criticati; che l’uomo insomma non è determinato da certe condizioni, quelle biologiche, in modo assoluto, come avviene a esempio nell’evoluzionismo positivistico n. E chi è quel « qualcuno » cui i Taviani accennano, che ha sentito l’esigenza di un « nuovo umanesimo », non idealistico ma rivoluzionario, se non Marx (non certo Sartre)? Fu appunto Marx a sostenerlo, a sottolineare che esso costituisce uno dei capisaldi del suo pensiero, il quale per l’appunto rifiuta di cercare altrove, se non nell’uomo ” Cfr. Introduzione di Alfredo Sabetti a La concezione materialiastica della storia di Karl Marx, La Nuova Italia, Firenze 1964.

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e quindi nelle sue radici, il fattore determinante del corso stesso della storia, del « fare storia » — il cui motore è la lotta di classi —; che il problema principale di code­ sto umanesimo nuovo e integrale consiste nel risolvere il rapporto uomo-mondo in modo del tutto diverso dalle posizioni concettuali e dell’idealismo e dello pseudo materialismo, quello di tipo empiristico: nel dare l’uomo oggettivamente reintegrato nella sua essenza, e come tale, attraverso la lotta di classi, arbitro del proprio destino. Pa­ re dunque a noi che anche i Taviani siano qui caduti, alme­ no in un certo senso e misura, nell’equivoco di confondere il marxismo autentico con le sue deviazioni volgari, mi­ stificazioni, come quando a esempio denunciano l’ideo­ logia e lo sbandamento ideologico senza tener presente l’accezione marxiana dell’ideologia, o auspicano — co­ sa mai negata dal marxismo autentico — una interdi­ pendenza tra soggettività e oggettività, la necessità di prendere in considerazione anche le esperienze, le ipo­ tesi, avanzate nel campo della psicoanalisi e della psi­ cologia come in quello della pittura e della stessa se­ miologia, di cui peraltro — se appunto non innesta­ ta nel materialismo storico e dialettico, non intesa co­ me uno degli elementi ma come elemento unico della critica e della costruzione delle opere — essi denunciano i limiti. Sia pure per altre vie, i Taviani confermano la ne­ cessità — avvertita da filosofi prima come Lukàcs poi come Althusser — di un « ritorno a Marx »: ritorno che presuppone anzitutto una critica all’èra di Stalin, alla deviazione staliniana nel senso indicato: ieri come oggi la questione centrale è l’esame attento ed elaborato di quell’èra, volta a vedere tra l’altro, come dice Lukàcs, quali esigenze lo zdanovismo aveva posto agli uomini;

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chi e come aveva resistito alla prova, conservando di­ gnità e integrità, e dove invece la sostanza umana venne deformata, spezzata e distrutta. La denuncia del « culto della personalità », al XX Congresso, non fu che un pa­ ravento — e del resto non molto efficace — per nascon­ dere la vera essenza di un fenomeno complesso come quello di una rivoluzione, la rivoluzione d’ottobre, che si era fermata anzi era regredita. I cosi detti film del di­ sgelo e non soltanto nell’Urss (ne abbiamo avuti e ne abbiamo copiosi anche in Italia; e tali si possono defi­ nire, almeno in un certo senso, i film « politici » di un Loy o di un Damiani, di un Petri e pure di un Rosi: film contro l’abuso del potere e non contro il sistema neocapi­ talistico) avrebbero potuto assumere un’importanza storica precisa, anche senza raggiungere un particolare valore ar­ tistico, se non avessero eluso il problema di fondo, mentre insistevano e insistono tra l’altro su certi schemi che conti­ nuano a rimandare a uno pseudo « realismo socialista ». È interessante anche notare, sempre nello scritto dei Taviani del 1963 e a proposito dell’ironia — quale ele­ mento primario da proporre e recuperare al cinema —, come già Marx ed Engels la tenessero in alta considera­ zione, e non per fustigare i costumi, unicamente per fini politici, ma pure estetici. Basti ricordare quanto il secondo scriveva a Minna Kautsky, là dove le riconosceva di trattare i personaggi dello Stefan von Grillenhof con « quella sotti­ le ironia che attesta il dominio del poeta sulla sua creatu­ ra » È da ricordare un’altra lettera, meno nota, in cui En­ gels diceva ad August Bebel: « Questa continuazione del loro movimento [dei lavoratori tedeschi, quando erano già operanti le leggi antisocialiste fatte approvare da Bis11 Marx cd Engels, Sull'arte e la letteratura, op. cit.

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marck], sicura, certa della vittoria, e perciò appunto serena e piena &humour, è esemplare e insuperabile » ”. E infine lo stesso concetto brechtiano di « straniamento » non è già in nuce nella lettera alla Kautsky quando lo stesso Engels afferma che « è sempre un male che il poeta spa­ simi per il suo eroe »? Del resto è noto quanto fosse alta la stima di Engels per Goethe, pur avvertendo di questi limiti e contraddizioni. Ritornare a Marx significa inoltre — e non infine — un costante interesse e preoccupazione per la forma oltre che per il contenuto, termini intesi non certo in senso idealistico; e, nell’arte, nel linguaggio, tenere presenti i « diritti della fantasia », le ipotesi di questa: quei di­ ritti e quelle ipotesi che i Taviani giustamente reclamano negli scritti e nella pratica: la fantasia è un altro e deci­ sivo elemento strutturale delle loro opere: « Anche il piu sfrenato gioco della fantasia poetica, la più fantasiosa raffigurazione dei fenomeni, sono pienamente conciliabili con la concezione marxista del realismo », sottolinea Lu­ kàcs; ed è noto come Marx ammirasse in modo partico­ lare alcune novelle fantastiche di Balzac e di Hoffmann. Naturalmente c’è fantasia e fantasia, specifica il filosofo ungherese — che annovera il Don Chisciotte di Cervantes tra le opere più altamente realistiche —; c’è fantastico e fantastico: per creare un criterio di distinzione occorre rifarsi alla dialettica materialistica, alla tesi del rispec­ chiamento artistico della realtà, non manipolando la realtà ma nel renderne sensibile l’essenza19 20. Le visioni fanta-

19 Cfr. Georg Lukécs, Contributi alla storia dell*estetica, Feltrinelli, Milano 1957. 20 Cfr. Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino 1953. £ « ne­ cessario che il poeta “inventi” situazioni» insiste Lukàcs. «La poeticità

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stiche di Salvatore in Un uomo da bruciare, quando egli vede in una serie di proiezioni soggettive i diversi modi gloriosi della sua morte, rientrano in questo contesto.

non può derivare che dalla piu profonda rappresentazione dei caratteri umani, dai drammatici rapporti umani reciproci. Quando lo scrittore riesce a creare connessioni umane e a inventare situazioni in cui i reciproci rap­ porti degli uomini in lotta fra di loro si intensificano fino a costituire un grande dramma — in questo dramma tutti gli oggetti che rispecchiano c mediano quei rapporti umani, acquisteranno, in seguito a questa loro fun­ zione mediatrice, un fascino poetico [...] L'esempio di Robinson dimostra che la lotta contro la prosa del mondo capitalistico non può essere coronata di successo se non quando il poeta *inventa * situazioni di per sé non im­ possibili nel quadro della realtà (seppure non verificatesi in alcun tempo e in alcun luogo), e quando in queste situazioni create con vivacità d’inven­ tiva egli fa agire liberamente la vita dei suoi personaggi, comprendendo tutti i rapporti della loro esistenza sociale. L'incomparabile grandezza epica di Tolstòj si fonda su tale capacità inventiva ». (Saggi sul realismo, op. cit.) «Avere fantasia», diceva Thomas Mann, «significa non immaginare le cose, ma dare importanza alle cose».

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Si è già detto che I fuorilegge del matrimonio (1963) esce nello stesso anno in cui viene pubblicato Costru­ zione della ragione e invito all’ironia. Sul « piccolo di­ vorzio » proposto dal senatore Sansone, è un film « mi­ nore » e tuttavia importante soprattutto per la sperimen­ tazione formale, in direzioni diverse — tante quante sono gli episodi componenti l’opera — ma tutte confluenti nell’ambito della fantasia nell’accezione indicata, per esprimere una realtà non deformata, la situazione di certi abnormi « casi » nella famiglia italiana, solo in parte superati di recente dalla legge Baslini-Fortuna. « Era ine­ vitabile che, parlando di matrimonio, ci incontrassimo an­ che noi con il tema dell’incomunicabilità » — scrivono a « Cinema Nuovo » i Taviani e Orsini —; ma questa non viene intesa come « fatale, preesistente all’uomo, bensì radicata nel nostro mondo e nelle sue leggi ». Il loro avvi­ cinarsi al tema dell’incomunicabilità non contraddice af­ fatto Un uomo da bruciare, ma allarga l’analisi a quella parte della realtà, e certo quantitativamente ragguarde­ vole, che è appunto « alienata »; il fenomeno non viene dato come generale e livellatore, condizione umana tout court; ed è posta la domanda ragionevole: andare verso

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l’angoscia o cercare di superarla lottando contro le leggi che l’hanno determinata e la fanno perdurare? Dinanzi alle suggestioni dell’inchiesta, i tre registi ancora una volta rifiutano la « cronaca ». E la fantasia a esempio si traduce in essenza della realtà nell’ultimo episodio, sulla « contrapposizione tra una seduta della Sacra Rota vera, affidata all’applicazione del codice cano­ nico, e quella di una Sacra Rota come la immagina una cattolica fervente, di estrazione popolare: un tribunale della pietà — evangelico più che cattolico — volto alla ricerca disperata di una soluzione, ma impotente nella realtà a darla, a costo dell’eresia » n. Per quanto riguarda la ricerca formale, basti qui ricordare l’episodio dei due « concubini », di un uomo e di una donna cui la legge non permette di vivere insieme e sono « incapaci di affron­ tare lo “scandalo” di una vita in comune »; la situazione è suggerita, espressa con una struttura linguistica che si avvale soprattutto di primi piani in un montaggio alterno ora dell’uno ora dell’altra, mai visti insieme, contempora­ neamente: essi parlano si, rivolti verso lo spettatore, ma in spazi « disuniti », imprigionati nei loro rispettivi « cam­ pi », quasi privi di ogni altro elemento plastico, in uno sfon­ do sempre grigio e uniforme. Anche se non a episodi, tale può definirsi Sovversivi (1967), sulle crisi profonde e complesse susseguitesi dopo la deviazione stalinista, e an­ cor più in Italia a partire dai funerali di Togliatti (25 ago­ sto 1964), Leitmotiv del film. Un’epoca, quella delle illu­ sioni per la sinistra, si chiude. E si chiude problematica­ mente nei personaggi e nelle figure che costellano, interse­ candosi, l’opera: i fotoreporters Ermanno e Muzio; Seba” Valentino Orsini, Paolo c Vittorio Taviani, Impegno civile e diritti della fantasia, in « Cinema Nuovo », Milano, a. XII, n. 165, settembreottobre 1963.

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stiano — dirigente comunista —, la moglie Giulia e Paola, l’amica di entrambi; Ludovico, il regista che sta girando un film su Leonardo, e l’aiuto Luciano; il venezuelano Ettore, e Giovanna e altri ancora: la donna in vestaglia che scrive su un foglio, accanto alla finesta: « Alle tre di oggi il funerale passerà qui sotto le nostre finestre. Ti rac­ conterò quel che vedo. Molti aspettano questo giorno come se dovesse accadere qualcosa di rivelatore. So che vorresti essere qui... Ma i miei occhi vedranno anche per te. La gente sta arrivando da ogni parte d’Italia ». La finestra, più tardi, la rivediamo spalancata mentre salgono le note della marcia funebre; e la donna scrive sul foglio della lettera: « Addio, Togliatti, giovinezza nostra, ad­ dio ». La massa segue, lenta, il funerale. La folla ha rotto i cordoni, corre intorno al corteo; su una scalinata la gente alza il pugno al passare della bara; un uomo, pian­ gendo, stringe tra le braccia il figlio; Ermanno muove le labbra, agita appena le mani in maniera strana: un mo­ vimento ritmico, intenso; come un direttore d’orchestra, asseconda la musica, la marcia funebre. Tra i volti che pas­ sano, quello di Giulia sola, che si guarda intorno; Seba­ stiano avanza pallido, stretto ai compagni; Muzio si muove incerto22. « Si stava soffocando », ricordano i Taviani. « La vita politica, culturale e privata stagnava; mancava una di­ rettrice unica che convogliasse energie, desideri, odi [...] Tutto pareva cristallizzato in un equilibrio pacifi­ cante e un po’ enigmatico: che era invece soltanto il co­ perchio posato sulla fossa dei leoni, sul nido delle vi­ pere. Sono momenti di svilimento, squallidi... Non vole22 Per la descrizione di questa e altre scene di Sovversivi mi sono ser­ vito della sceneggiatura pubblicata da «Cinema 60» (Roma, a. Vili, n. 62-63, s.i.d.)

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vamo soffocare. Sentivamo il bisogno, fisiologico prima di tutto, di rompere quello pseudoequilibrio. Come? Non esisteva un movimento di massa. Le avanguardie sarebbero balzate fuori dopo, proprio da questo putri­ dume. La sola rottura possibile era a livello personale. Essere costretti a questo significava già dare testimonianza di quei giorni. Sovversivi è la storia di cinque personaggi che cercano di far saltare il loro stato di quiete appa­ rente. Cercano qualcosa. Non sanno bene cosa. O meglio sanno solo quello che non vogliono più. Vogliono cambia­ re. Forse sbagliando. Ma “conviene sbagliare”: questo sa­ rebbe potuto essere il sottotitolo del film » « Gattini ciechi » — appena nati in una stalla, in campagna — e una gatta che si inalbera, aggredisce; la bandiera rossa, a mezz’aria, sul fienile; su uno striscione si legge: « Il compagno Togliatti è morto ». Ermanno fotografa i gattini e Muzio non capisce: « Che c’entrano i gattini con il funerale di Togliatti? » Risposta: « Che fa­ rete alla mia morte, poveri gattini ciechi? disse la gatta ». Ermanno vuole vedere. Farà due servizi, uno ufficiale, come lo vogliono quelli del partito, e uno per sé. Si sente più comunista di altri, e legge le parole alla rovescia, a cominciare dal nome di Togliatti. Passa dinanzi alla bara, la guarda un attimo e guarda Muzio; ripete, sillabando, senza emettere suono: « era l’ora ». Dopo alcune se­ quenze, uno stacco introduce un inserto di Pierrot le fou di Godard: Beimondo grida correndo verso il mare, si rivolge al pubblico, si fascia la testa con la dinamite. Alla battuta: « Quello che volevo dire... Boh! » Ermanno, sdraiato su una poltrona, ripete, senza accorgersene, a fior di labbra, le parole pronunciate dall’attore francese. “ Cfr. Le pessimisme de la raison et l’optimisme de la volonté, cit.

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Continua la citazione: Pierrot con intorno alla testa il rotolo di dinamite. Ermanno è proteso verso quell’im­ magine. È attraversato da improvvisi brividi di freddo. Sullo schermo la dinamite, intorno alla testa di Beimondo, esplode. Stacco. Ermanno in ascensore, guardandosi allo specchio, si avvolge rapidamente intorno alla testa un asciugamano, con la stessa mossa con cui Pierrot si era avvolta la dinamite. Esce dall’ascensore, rimane a lun­ go immobile; poi fa un gesto osceno verso lo spec­ chio, verso l’immagine riflessa di se stesso « suicida ». Di li a poco reagirà contro un anziano e signorile bor­ ghese che ironicamente dice: « Stessero tutti a casa pro­ pria, il mondo non andrebbe alla rovescia »; e a chi gli fa osservare che in quel giorno « noi dobbiamo dare una lezione di civismo », che « tutti ci guardano » e « niente confusione, niente provocazioni », risponde: « Che me ne frega, a me, del vostro civismo? » Se a episodi può definirsi Sovversivi, la struttura espressiva è diversa rispetto a I fuorilegge del matrimonio-, le singole vicende si intrecciano tra loro, sono a incastro: da quella del fotografo ribelle a quelle di Giulia che fa esplodere la sua vocazione di lesbica e del venezuelano che lascia l’Italia per tornare al suo paese. Ettore, per il quale Togliatti era già morto da dieci anni, deve pren­ dere il posto di Michel, ucciso annegato, ma non vuole fare la stessa fine. Anche lui si ribella, sia pure in modo diverso da Ermanno; nell’osteria romana, dinanzi a tanti dialoghi vuoti dei compagni, prende la decisione: « Io torno in Venezuela. Ma per fare la rivoluzione ». Ai com­ pagni italiani che gli dicono di « essere stati bocciati dalla storia », risponde: « La destra del partito! Non la linea rivoluzionaria. La guerriglia continua o non con­ tinua? » A chi gli fa osservare che « la gente non è più

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disposta a farsi torturare per una prospettiva troppo lunga », che « bisogna ripiegare, ripiegarsi », reagisce iro­ nicamente: « Su posizioni tattiche di pace democrati­ ca, ecc. »; all’italiano che commenta: « Se lui ha ragione, anche in Venezuela la rivoluzione arriverà tra vent’anni! » e al compatriota che aggiunge: « Può capitare! E noi ci dedicheremo a migliorare il tenore di vita », Ettore ri­ sponde: « Viver meglio è una concezione tra epicureismo e illuminismo, che io rifiuto! Io sono contro il benessere... Vedi queste mani? Sono sporche, vado a lavarle ». I dubbi, le perplessità, certo non mancano in Ettore di­ nanzi alla manifestazione per i funerali di Togliatti. Dice a Giovanna, che si appresta a lasciare: « Immaginarli nella piazza grande di Caracas sarebbe un sogno... Un milione di comunisti, di bandiere rosse che cuociono al sole, che danno spettacolo! Sembrerebbe di aver vinto e stravinto. Sembrerebbe... Pensare che noi andiamo a farci massacrare per questo ». E indicando la piazza, ri­ pete: « E pensare che noi andiamo a farci massacrare per questo! » Subito aggiunge: « Credo che il momento finale persino di una rivoluzione vera sia solo l’inizio della prossima». «Rimanere qua?! » si domanda. «A che fare? sarebbe vita questa, per me? » Ludovico, che è preso di tanto in tanto da un male inesorabile alle gambe, vuole fare il suo turno di veglia alla bara di Togliatti; è come se fosse lui nella cassa; ep­ pure desidera non interrompere il film che sta girando. Quel dettaglio — la grande fotografia di scena raffigu­ rante Leonardo mentre grida, issata sul furgoncino della produzione e che compare e scompare tra la folla, corre nelle strade, attraversa il traffico — ha una semanticità precisa, come il film stesso su Leonardo e il particolare delle forbici quando Ludovico, accanto alla bara, inse­

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gue altre immagini. Stacco. Leonardo in camicia da notte è di fronte a uno specchio; ha in mano un paio di for­ bici; se le porta alla barba fluente; con colpi decisi la taglia con eroica violenza. Più tardi, ancora Leonardo nella sua camera. Un panno lo copre; apre un occhio. Intorno al letto, i visitatori e un servo lo guardano tra il rispetto e la commiserazione. Gli ospiti vengono invitati ad uscire dalla camera e Leonardo spalanca gli occhi, ira­ condo, folle. La stessa immagine vista con obiettivi di­ versi. Leonardo tira via la coperta. È completamente ve­ stito: un misto di panni da frate e da mendicante. Si siede sul letto. Sulla porta è apparso Sandro — un giovane in costume cinquecentesco, quasi adolescente — che guarda il vecchio con amore, venerazione, ma anche con l’ironica pazienza dei giovani per i vecchi un po’ rimbecilliti. Pure Leonardo, come Ettore, se ne vuole an­ dare, lontano. Particolare di un foglio di sceneggiatura: Leonardo Sandro Leonardo Sandro Leonardo

Lontano da qui. E che volete fare? Predicare, parlare con gli uomini. Ma voi parlate con le vostre opere. Tutte le mie opere insieme possono salvare un solo bambino che muore di fame?

Stacco. Ludovico muove la testa con insofferenza. Stacco. Ancora camera di Leonardo di notte. Ritorna la stessa pagina di sceneggiatura. Una matita traccia due righe in diagonale, cancella con rabbia. Poi scrive: « ar­ madio! » Inquadratura dell’armadio. Stacco. Camera ar­ dente, notte. Ludovico guarda nella direzione di Sandro. Stacco. Ancora camera di Leonardo, sempre di notte. Leonardo, con un sorriso un po’ folle, furbo, senile, in­ dica a Sandro un armadio: « Prendi i miei ultimi disegni...

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Quelli in fondo », gli dice. L’armadio è pieno di fogli. Leonardo indica a Sandro un gruppo di pergamene su una mensola molto alta; per prenderle Sandro entra nel­ l’armadio. Stacco. Camera ardente, notte. Ludovico guar­ da verso Leonardo; fa un gesto come per dire « ora! » Stacco. Camera di Leonardo. Questi, con lo stesso sguardo di Ludovico, scatta in piedi; chiude a chiave gli sportelli dell’armadio e fugge nella direzione della porta. È colto da un’angoscia improvvisa; si siede un attimo, ma si rialza. Corre fuori dalla stanza. Stac­ co. Camera ardente. Ludovico, senza rendersene con­ to, muove la testa, le labbra; si riprende in tempo. Si ri­ compone in fretta, si immobilizza a lungo. Improvviso, incontrollabile, un fremito di gioia gli attraversa ancora il viso, per un attimo. Dopo la sequenza in cui la donna scrive nella lettera « Addio Togliatti, giovinezza nostra, addio » — e quella in cui la massa segue, lenta, il fu­ nerale — rivediamo Leonardo fuggire nel bosco; San­ dro lo guarda allontanarsi. « Con le ciabatte che ha dove può arrivare? » do­ manda scettico l’attore che interpreta Leonardo. « Non lo sa neppure lui. Vecchio; arteriosclerotico... » risponde Ludovico; « meraviglioso è che, vecchio e rimbecillito, voglia ugualmente fuggire, andare a predicare. Voglio ve­ dere te all’età sua ». E anche Ludovico corre nella bosca­ glia, facendo cenno all’operatore di seguirlo con la mac­ china da presa a mano. Ludovico ha intuito quanto non aveva capito prima, mentre si apprestava a dirigere la sequenza chiave del suo film. Tra le dune, vicino al ma­ re, accanto alla sua piccola troupe, era concentrato, pen­ sieroso. Dinanzi al mare la figura di un vecchio, alto, in una lunga tunica cinquecentesca; Ludovico aveva comin­ ciato a spiegare la scena all’attore che interpreta Leo­

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nardo: « Hai raggiunto il massimo di quanto si può raggiungere con Parte... Uno che ha dipinto la Gioconda, capisci... Sei venerato, amato, metti soggezione. Ti vo­ gliono incoronare poeta, scienziato, filosofo... o che so io. Ma non ti basta. Sei vecchio, vicino a morire. L’arte non ti basta. L’arte non basta. Ti ripugna, anzi. Vuoi pian­ tare tutto, andare in giro tra gli uomini. Come un men­ dicante... un predicatore... Non lo sai nemmeno tu... » Come Ermanno, pure se in modo diverso, anche Ludovico aveva tentato il suicidio; ma, al pari di altri « sovver­ sivi », cerca una rottura, un superamento della crisi a livello personale: con la fantasia crea appunto la scena della fuga, dà un significato agli sbadigli di Leonardo che aveva indicato all’attore con sguardo ammiccante, provo­ catorio mentre un giovane diceva: « Lasciamolo in pace. Chi sa quali pensieri passano tra lui e il mare », rivolgen­ dosi al grande artista. Modifica la sceneggiatura di parten­ za. Il materiale, in proiezione, risulta splendido, e un lampo di rinnovato interesse guizza negli occhi di Ludo­ vico; seduto su un carretto a due ruote — la malattia gli ha ormai tolto l’uso delle gambe — incita Luciano a spingerlo di corsa. Le forbici suscitano anche la fantasia di Ermanno, che taglia deciso la fotografia di un uomo con il pugno alzato, isolando il viso, in primissimo piano. Una istan­ tanea di Giulia piangente di fronte alla bara di Togliatti viene vista in vari ingrandimenti, seguita dalla fotografia, anche questa ingrandita, di uno dei gattini ciechi del­ l’inizio. La bara di Togliatti, portata a braccia, entra nel cimitero. Stacco. Ancora il Verano: la bara, spinta a fa­ tica dagli uomini, scende nella fossa. Con un’altra bara si chiudeva Un uomo da bruciare ; nonostante la decisio­ ne della mafia che il funerale di Salvatore dovesse non

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passare in piazza e avvenire senza bandiere, esso si snoda lentamente, minaccioso, proprio in piazza e con tante bandiere, con compagni che erano arrivati anche dalla città. Non Salvatore era stato bocciato dalla storia, non la linea rivoluzionaria, ma la destra del partito: e ormai i tempi della prospettiva, quando viene realizzato Sov­ versivi, si son fatti davvero lunghi in ripiegamenti su posizioni tattiche di « pace democratica » (si ricordi­ no, nel film precedente, le sequenze dell’assemblea del­ le leghe contadine). Dunque davvero questi « sovver­ sivi » del 1967 cercano qualcosa, non sanno bene cosa; o meglio sanno solo quello che non vogliono piu: vogliono cambiare, forse sbagliando; ma comunque « con­ viene cambiare ». Cosi le singole vicende, che si intrecciano a mosaico, tra loro si ricollegano in una struttura la quale, dati il momento storico e una ricerca linguistica adeguata, non poteva non essere che quella del « film da fare » nel­ l’accezione pirandelliana del « romanzo da fare »: e quindi narrazione la piu aperta, disponibile appunto a tutte le ellissi e gli iati probabili in un impianto ideolo­ gico peraltro marxista. Sovversivi (e 1 dannati della terra di Orsini, ormai separatosi dai Taviani, sarà un « film da fare » e insieme un « film nel film » M) diviene, si delinea e incessantemente si costruisce, direbbe Argan, nella suc­ cessione stessa degli eventi, senza schemi o modelli aprio­ ristici, secondo un ordine interno all’esistenza, al suo continuo attuarsi. Dinanzi alle « illusioni perdute », alle « certezze » passate — all’idea dell’« onda di probabi­ lità » che viene a sostituirsi all’idea della « legge di causa ed effetto » —, l’antitesi nei personaggi si scopre rivelando 14 Cfr. Appendice.

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un loro e un nostro « oltre » in una nuova realtà che pro­ spetta una diversa serie di problemi, di antinomie: così salta lo stato di quiete apparente. Dietro la « maschera » in cui si era chiusa, esplode il lesbicismo nella giovane moglie del dirigente comunista, Giulia; ed esplodono, su un altro versante, il ribellismo anarchico di Ermanno, il « di là da se stesso » di Ludovico. Non c’è dubbio che Ludovico e i Taviani si identifi­ chino: nel modo come il film su Leonardo viene realiz­ zato, nelle interruzioni del film stesso, nei dubbi, le per­ plessità, i momenti di fantasiose intuizioni del primo si intravede la stessa ricerca linguistica e ideologica dei se­ condi. La rottura è a livello personale, cioè parziale: e non è un caso che Ludovico sia impedito alle gambe, e abbia bi­ sogno dell’aiuto di altri per camminare e, affannosamente, inciti a correre (si ricordi, a proposito di « rotture perso­ nali », che Pasolini un anno prima aveva realizzato Uccel­ larti e uccellini, dove pure appaiono i funerali di Togliatti e si offre una riflessione filosofica, coerente alle posizioni in quegli anni dell’autore, sulla crisi del marxismo, o me­ glio del marxismo volgare applicato in genere in Italia e altrove; di qui il sospetto accennato, l’avversione espressa dai Taviani, proprio nel 1967, per l’« ideologia »). Del resto gli stessi Taviani affermano che con il personaggio di Leonardo viene messo in discussione anche il lavoro dell’autore, dell’artista, e quindi anche il fare film. « Leo­ nardo è in riva al mare. Guarda l’immensità del mare... I suoi discepoli, i visitatori, lo spiano con venerazione e senso di mistero. “Chi sa quali pensieri corrono tra lui e il mare...” Leonardo invece sbadiglia, a lungo, da solo, a piena bocca. Tutto ciò che ha trovato — e molto egli ha trovato — con i mezzi dell’arte, della scienza, gli si rivela insufficiente. “L’arte non basta”, suggerisce Lu­

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dovico all’interprete preparandolo alla scena; “ti an­ noia, ti disgusta anzi”. Di altro ha bisogno, e la vita di un uomo è troppo breve. È l’idea fissa che troviamo nella vecchiaia di Leonardo, appunto ». Ed ecco ancora un ri­ mando a Tolstòj. « Ma è anche l’idea fissa che troviamo in Tolstòj, che abbandona la sua villa di Jasnaja Poljana per andare a cercare gente e a predicare tra loro. È un’idea che torna sotto altri aspetti in Sartre (“Tutte le mie opere” — è una frase che la sceneggiatura attribuisce a Leonardo — “possono salvare un solo bambino che muore di fame?”) È un assillo che la presenza, l’imminen­ za della morte rendono più ossessivo »

° Cfr. Le pessimisme de la raison et l’optimisme de la volonté, cit.

A CAVALLO DEL MAGGIO

Il metodo marxista si tramuta davvero nel suo oppo­ sto — diceva Engels — se negli studi della produzione artistica e storica anziché come filo conduttore, esso viene considerato come modello già bello e pronto sul quale ritagliare i fatti dell’arte e della storia. Finite le illusioni e passate le certezze, tutto è da ricominciare, e guardando al passato remoto come presente, indicazione per il pre­ sente. Di qui nasce Sotto il segno dello scorpione (1969), considerando appunto, in pieno maggio francese in Ita­ lia, il metodo marxista come filo conduttore e non quale modello bello e pronto. Le parole che attraverso Ludo­ vico i Taviani hanno messo in bocca a Leonardo — « l’arte non basta » — non significa affatto che essi, anche dopo Sovversivi, non siano preoccupati dai pro­ blemi formali. Tutt’altro. Una delle ragioni fondamen­ tali, non l’unica, che li hanno spinti a separarsi da Orsini, rompendo un singolare e fecondo « collettivo » (e dall’Orsini che nel 1969, come abbiamo accennato, avrebbe anche lui girato un « film da fare » e un « film nel film »: i motivi della divisione sono quindi da ricercare anche altrove), è la differente posizione — come vedremo più avanti — dagli uni e dall’altro assunta, a un certo momen­ to, dinanzi al cinema. Nonostante l’affermazione dai Tavia-

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ni attribuita a Leonardo, essi continuano a dare molta im­ portanza all’arte e all’estetica, sia pure intendendole in una particolare accezione, in nuove nozioni di entrambe, par­ tendo da Brecht e risalendo a Benjamin, ad Engels, a Marx. Anche se la realtà è brutta, affermano con Brecht, non deve essere bandita dalla scena e quindi dallo schermo preoccupati da problemi stilistici; sarà anzi proprio que­ sta bruttezza il soggetto principale della rappresenta­ zione; la smania di abbellire è di per se stessa cosa asso­ lutamente vile quanto l’amore del vero è di per se stesso nobile. « L’arte è capace di bellamente rappresentare il brutto della bruttezza e nobilmente il volgare della vol­ garità, giacché gli attori spno pure in grado di rappresen­ tare con grazia ciò che è sgraziato e con vigore la debo­ lezza ». Il teatro (e il cinema) di vera cultura, continua Brecht, non acquista il suo realismo al prezzo della ri­ nuncia alla bellezza artistica: quando il regista ha da rappresentare la volgarità, la perfidia, la bruttezza — si tratti di pescivendole o di regine — non può assolutamente fare a meno né del senso del giusto né del senso del bello. « Abbiamo visto un’arte crearsi una natura a pro­ prio uso, un mondo per sé: quello appunto dell’arte che con il mondo reale aveva ben poco più a che fare e che così voleva », conclude Brecht; « e abbiamo visto un’arte esaurirsi accontentandosi di copiare il mondo qual è, e perdere in questo processo quasi tutta la sua fantasia. Noi abbiamo bisogno di un’arte che domini la natura, abbiamo bisogno della rappresentazione artistica della realtà e dell’arte naturale » *. In Sotto il segno dello scorpione — opera cspressi* Bertolt Brecht, Scritti teatrali, Einaudi, Torino 1962.

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vamente la più matura rispetto a quelle in precedenza dirette dai Taviani — le immagini preoccupate di pro­ blemi stilistici non sono mai messe da parte; anzi questi problemi appaiono ancor più vivi e presenti anche nel­ l’impiego del colore, e non certo per abbellire una real­ tà estremamente complessa e grondante sangue, ma pro­ prio e appunto per amore del vero. I due registi tendono cosi e ancora al realismo e al tempo stesso alla bellezza artistica, intesi come elementi necessari e interdipenden­ ti: la loro vuole essere una rappresentazione artistica della realtà. A parte il vago ricordo scolastico del ratto delle Sabine, nello Scorpione ogni residuo autobiogra­ fico è bruciato: l’autobiografia era assai presente nei Sov­ versivi, anche se diventava la biografia di una generazio­ ne, o meglio di un’epoca. « I film dove gli elementi diaristici, privati, vengono fatti reagire con dati politici, so­ ciologici, ci sono venuti a noia », dichiarano polemi­ camente i Taviani, alludendo forse ad Orsini: « il ma­ cerarsi su se stessi, sia pure il più autentico e disinte­ ressato, può portare alla paralisi dell’azione; un discorso a livello psicologico, personale, non ci interessa più ». Sovversivi (la crisi vista da due registi in crisi che voglio­ no vedere in essa) chiudeva dunque un periodo nell’at­ tività dei Taviani e ora se ne apre un altro, quello del film storico, dove la storia è vista nei suoi riflessi e corre­ lazioni con il presente. Nello Scorpione, affermano, l’apo­ logo tende a ridurre l’uomo, e il pubblico, a una visione scarnificata delle cose, liberandoli dalla frustrazione di troppe false scelte. La prima novità del film è davvero il superamento di una tendenza del « nuovo cinema »: quella, predo­ minante, dell’avanguardia viscerale. Ripudiando il sog­ gettivismo portato all’estremo, nell’ambito dell’« opera

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aperta » — che non conclude e non vuole concludere —, lo Scorpione segna un ritorno all’oggettività; non al mag­ ma ma all’avanguardia razionale. « Sentiamo il bisogno di concretezza e di semplicità » ” affermano i Taviani; « quindi di vicende lineari (pochi fatti, pochi sentimenti radicati alla necessità delle cose) di là dalle complicazioni sovrastrutturali, dalla esasperazione individualistica, nel­ le quali si stanno crogiolando questi anni così detti di crisi ». L’abbandono di ogni residuo autobiografico porta qui al film corale, alla esclusione del personaggio — dei personaggi individuali —, a un cinema ejzenstejniano, del primo Ejzenstejn, dove appunto la massa, le collet­ tività sono protagoniste, e la lotta di classi è il motore del­ la storia. Due comunità in conflitto; alla base la necessità (e la volontà, o la non-volontà) di una struttura diversa per vivere: la prima, minacciata da vulcani in eruzione, lascia per sempre l’isola in cui abita e dove l’esistenza è or­ mai impossibile, ma approda all’isola della seconda; vuo­ le raggiungere il continente, e per raggiungerlo occor­ rono fatica, pazienza, violenza, anche se la vittoria non ha nulla di consolatorio perché non ha niente di defini” I Taviani tengono presente un altro invito, criterio di valutazione tolstoiano: la « semplicità » — la chiarezza — della forma (una semplicità espressiva, anche « raffinata », nella profondità) in correlazione con la « sem­ plicità » — chiarezza non meno in profondità — delle tematiche. « La storia dello Scorpione è semplicissima, nei modi di un apologo, o se volete di una favola », riaffermeranno i Taviani. « Ma che cosa significa tutto questo a livello dello stile, del linguaggio? Significa riproporre la stessa semplicità. Ma è proprio la semplicità a cui il pubblico non è piu abituato. £ la sem­ plicità che dà scandalo. Perché semplicità è severità ». (Cfr. Cinema di periferia nel decentramento culturale, in « Cinema Nuovo », Genova, a. XX, n. 210, marzo-aprile 1971). Cosi, come vedremo, la struttura a tre blocchi in San Michele aveva un gallo c la « fabula » sono lineari; articolato, in modo severo, il passaggio dalla « fabula » al soggetto, a quei segni visivi (compresi i colori^ e sonori che si fanno soggetto e questo traducono in film.

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tivo. Così i Taviani riassumono la « fabula », la loro « storia elementare », il loro apologo. E al primo Ejzenstejn rinviano direttamente quando, a proposito del protagonista, dei personaggi centrali, di­ chiarano che questi sono espressione di una civiltà e di una rivoluzione borghesi. Nello Scorpione gli uomi­ ni sono così poco idealisticamente individui, che non hanno neppure nomi e cognomi. « Tanto il mettere in risalto la personalità dell’eroe quanto la sostanza stessa della “trama-narrazione” nascono da una concezione del mondo individualistica », sosteneva negli anni venti Ejzen­ stejn, « e non sono compatibili con la concezione clas­ sista del cinema »n. Oggi protagoniste sono le collet­ tività, ripetono con il grande regista sovietico i Taviani. E poiché, aggiungono, l’uomo tende a non essere valo­ rizzato come individuo, e tanto meno come protagonista, ma si presenta come parte di una comunità, e questa a sua volta non si pone come « isola ideale » in sé com­ piuta ma quale momento della storia, il film è strutturato soprattutto con dei « totali »: l’« uomo come parte attiva della natura » * Di qui anche la tendenza, ancora sottoli­ neata dai Taviani, a un cinema polifonico; la lettura, per usare i loro termini musicali, spesso « verticale » e non ” Sergej M. Ejzenstejn, Forma e tecnica del film e lezioni di regia, Einaudi, Torino 1964. 29 Come è noto, ed è stato più volte sottolineato, « Marx intende il rapporto uomo-ambiente nel senso di un'interazione, la quale implica da parte dell'uomo stesso lo sforzo costante per dominare la realtà naturale, per assoggettarla a sé e per modificare le sue condizioni di vita. Proprio perché l'uomo indicato da Marx come soggetto di storia non è Vhomo oeconomicus degli economisti, ma agisce al fine di modificare l'ambiente e la lotta per il recupero effettivo della sua essenza alienata in un determi­ nato regime di produzione, il processo delle idee ha un immenso valore nell'azione che l'uomo compie al fine di realizzare il suo dominio sulla realtà naturale, e di attuare nella sua pienezza la sua essenza specifica».

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« orizzontale » del sonoro (altro rimando ad Ejzenstejn, al suo « montaggio verticale »): la « coralità, dalla polifonia a Stravinsky ». La scelta della scrittura polifonica — l’emissione si­ multanea di più suoni di altezze diverse — e non di quella melodica, è legata all’epoca arcaica in cui si svolge l’azione del film (e alla stessa epoca rinvia l’impiego dei campanacci, in uso nell’antica Sardegna). In forma inconscia e rudimentale, quale si manifesta ancor oggi presso i popoli primitivi — ricordano le storie della musica —, la polifonia fu senza dubbio praticata spontaneamente fin dalle prime età dell’uomo. Rispetto all’insieme, le varie « voci » degli uomini facenti parte delle due comu­ nità sono contrappuntistiche (gli atteggiamenti dell’una comunità in opposizione a quelli dell’altra) e al tempo stesso si comportano, rispetto all’insieme medesimo, co­ me parti dipendenti. La scrittura polifonica raggiunge particolare tensione ed esito espressivo laddove abbiamo lo « spettacolo nello spettacolo », e cioè quando i naufra­ ghi, per convincere Renno e gli altri ad andare con loro nel continente, a uno a uno e poi insieme, e anche liti­ gando, raccontano, come se fossero ancora sotto choc — esagerando la recitazione, intrecciando e sovrappo­ nendo voci e gesti —, la catastrofe nella loro isola. La regia di Rùtolo (Giulio Brogi) fa sembrare che anche nella nuova isola il vulcano stia per svegliarsi. « Fate spettacolo, come se l’isola stesse per saltare », egli sugge­ risce ai compagni mentre anche lui recita gemendo la parte di chi è terrorizzato dal ricordo. « Più forte, più for­ te », incita. Quando il racconto della catastrofe diventa quasi una ripetizione, la musica sovrasta le voci, seppure altissime. Stesso esito della scrittura polifonica lo si ha nella scena della fossa — dove Renno ha imprigionato i

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naufraghi ribelli — che, pur non essendo montata subito dopo lo « spettacolo nello spettacolo », a questo si ricol­ lega concettualmente. I profughi sono prostrati, nervosi (« Mi siete venuti a noia. Tu sapessi quanto mi sei venuto a noia », urla uno di loro a Rùtolo: particolare questo che verrà ripreso in Allonsanfan-. « Mi siete venuti a noia », dirà Fulvio ai « Fratelli ») quando essi sentono, senza poter vedere cosa sta accadendo, strani versi di ani­ mali e rumori — gli stessi da loro evocati nel racconto della catastrofe (ora sono gli isolani a riprodurli, artifi­ cialmente) —: si accapigliano, cercano di salire uno sul­ l’altro nel tentativo di una via d’uscita. In un certo senso lo Scorpione è un film « sonoro-muto », vale a dire che spesso il dialogo non è concettualmente determinante, come invece ne 1 dannati della terra (che del resto ha molti ri­ mandi al linguaggio televisivo); la punteggiatura cinemato­ grafica, in luogo delle dissolvenze o dei diaframmi, è costi­ tuita da inquadrature del tutto nere, che sostituiscono, nel­ le loro interruzioni spaziali e temporali, le didascalie del « muto », con una finalità inversa: mentre le didascalie spiegavano e commentavano, le code nere intendono lasciare tempo allo spettatore per riflettere su quanto ha visto, in modo che, dovendo giudicare fatti, avveni­ menti, non sia immesso in qualche cosa ma, brechtiana­ mente, posto di fronte a qualcosa, ad argomenti e non a suggestioni “ w Le inquadrature nere erano già state impiegate dai Taviani c da Orsini — ma senza queste finalità — nel loro film d'esordio: Wilma, la ragazza di Roma, appare all’inizio del ricordo di Salvatore con un movi­ mento di macchina che parte da una parete buia; buia è anche l’inquadra­ tura prima che la donna apra la finestra nella casa del mafioso e compaia la piazza dove si vede Salvatore arrestato; oscura è la stanza di Salvatore quan­ do, dopo aver visto il film d’appendice, egli comincia a prevedere la sua morte.

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Il dialogo fa parte della colonna sonora spesso come elemento formale, come rumore e suono, e col suono con­ nesso; di qui quelle parole sovente sussurrate, volutamente incomprensibili e che poi all’improvviso diven­ tano talvolta intelligibili: non nell’accezione e nella struttura, assai diversa anzi opposta, del « nouveau ro­ man », in quanto in questo film non sono percepibili le parole i cui significati sono facilmente intuibili (si veda qui anche la già ricordata ripetizione del racconto dei naufra­ ghi con la musica che sovrasta le parole). Piu determi­ nante in tale contesto sonoro-stilistico l’urlo della frase musicale durante l’eccidio (subito dopo l’uccisione bru­ tale dei due bambini e, a intervalli, mentre Renno sta lavorando nei campi e giungono i ribelli per eliminarlo); urlo che risentiamo mentre Rùtolo sorride nel veliero che porta gli scorpionidi verso la terra ferma e dà un ulti­ mo sguardo all’isola; urlo che ritorna alla fine, quando i ribelli approdano al continente senza trovarvi nulla di consolatorio. Se la colonna sonora di Gelmetti (autore legato ad opere quali II deserto rosso) è considerevole negli esiti espressivi raggiunti, non meno lo è l’impiego del colore. Anche qui il rimando ad Ejzenstejn si appa­ lesa, e il rinvio a un genio a lui caro e caro ai Taviani, Leo­ nardo. I colori sono quelli dell’aridità primitiva in zone desolate, « terragni » come appunto nel Giudizio univer­ sale , dove la « natura è avversa ». « Tra uomo e natura appare un’antitesi che talora è sentita in modo dramma­ tico »; e c’è la « superficie scabra » teorizzata dallo stes­ so Leonardo. I colori sono ridotti infatti nello Scorpione al « verde marcio, al marrone, al grigio, a qualche azzurro (il mare). Il rosso è assente; lo si trova purtroppo in qualche faccia bruciata dal sole », specificano i Taviani. E come l’urlo della frase musicale ritorna alla fine, cosi

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il rosso — che rimanderebbe a significati sociopolitici ancora tutti da verificare —, per lo stesso motivo è eli­ minato anche nella presentazione del continente: il finale infatti, come si è detto, è « aperto », non ha nulla di con­ solatorio e di definitivo. All’interno di un’epoca, diceva Marx, ci sono cambiamenti evolutivi; tra un’epoca e un’altra c’è la rivoluzione; nella storia mondiale, la so­ cietà umana si evolve perciò da una rivoluzione all’altra, e ogni rivoluzione contraddistingue una nuova epoca. La storia « elementare » dello Scorpione, le vicende lineari, i pochi fatti e i pochi sentimenti sono carichi di significati, di rimandi allusivi, emblematici, allegorici. Essi intendono rispecchiare artisticamente, pur essendo ambientati in un’epoca antica — arcaica, primitiva — una situazione del 1969, l’esigenza da più parti sentita, a cavallo del Maggio, di ricominciare da capo, di verifi­ care il passato e guardare al presente e al futuro: i con­ trasti tra comunità — società — che hanno fatto la rivo­ luzione e si sono poi fermate, e comunità — società — che si oppongono all’antistoria e vogliono, appunto con nuove rivoluzioni, portare avanti la storia. Il vero pro­ gresso non è l’essere progredito ma il progredire, ci ri­ corda Brecht: il vero progresso è ciò che rende possibile o necessario il processo del progredire, e che lo fa impli­ cando nel moto di progresso un vasto fronte di categorie aggregate; il vero progresso ha come causa l’insostenibilità di una condizione reale e come conseguenza il modifi­ carla 31. L’uomo che governa l’isola dove approdano i nau­ fraghi dell’isola distrutta dal terremoto (lo chiamiamo Renno per comodità, non avendo al pari degli altri nome e cognome) è soddisfatto di sé. « Anche qui c’è il vulc

Jl Bertok Brecht, Scritti teatrali, op. cit.

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cano. Ha distrutto le nostre case, venti anni fa. Ma noi le abbiamo ricostruite con calma, con pazienza, dalla parte opposta dell’isola. Non è stato facile. Ma ora il vulcano è distante. Il vulcano di qua non si vede nemmeno. Que­ sta valle è un po’ soffocata, specialmente d’estate, ma è più protetta... Le costruzioni sono basse e solide. Ho una mezza idea di rifarle tutte, con i muri doppi ». Renno è progredito, ma non progredisce. Ha già fat­ to la rivoluzione (il ricordo del terremoto), e una seconda rivoluzione, ora e subito, gli sembra troppo; nella sua « saggezza » che corrisponde al « buon senso » borghe­ se, pensa ormai a fortificare lo « status quo ». Eppure ha intuito che il vero progresso è ciò che rende possibile e necessario il processo del progredire; che si, hanno ragione gli altri, quelli che vogliono andarsene nel con­ tinente, tra i quali anche molti « scorpionidi ». In uno dei ribelli la madre di Renno vede il ritratto del figlio: « Qualche anno fa, avevate la stessa faccia. No, la faccia no. Nemmeno il naso. Ma c’è qualcosa negli occhi... ». Renno, dopo la rivoluzione, si è seduto; e si accorge che anche qualcuno dei suoi ormai disapprova la sua tattica e la sua strategia; il figlio gli si ribella. Come non vedere in Renno tante rivoluzioni fermatesi? e non ravvisare nel suo non progredire l’odierno stato dell’Unione Sovietica a esempio, o l’atteggiamento di coloro che nella Cina popolare si sono opposti a Mao e, in quegli anni, alle guar­ die rosse, e l’uno e le altre alterate dalle opinioni corren­ ti, lontane da un esame concreto, fondato sulla radi­ ce dei fatti? ” Sia pure ormai divisi da Orsini, i Taviani 32 Nonostante la rivoluzione, nelle università della Cina popolare la percentuale degli studenti non proveniva dalla classe operaia e contadina, ma da categorie di origine borghese e agraria, dai figli di una élite dirigente, quella dei piu alti funzionari del partito comunista; il sistema gerarchico,

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nello Scorpione trattano, oltre allo « spettacolo nello spet­ tacolo », diverse tematiche e problemi posti ne I dan­ nati della terra — che esce nello stesso anno — an­ che se in quest’ultimo ha un peso rilevante la confes­ sione privata, la quale tuttavia coinvolge molti di noi, della generazione, per così dire, togliattiana. Si vedano il problema della violenza, l’ambiguità di quegli intel­ lettuali che ci ricordano sempre ciò che hanno fatto nel passato per giustificare il loro discutibile presente. Indi­ cativo a riguardo il vecchio che, nello Scorpione, mostra ai giovani che vogliono andarsene dall’isola per raggiun­ gere una nuova dimensione, per modificare la realtà, le cicatrici di ferite contratte in antiche battaglie. Giusta­ mente i Taviani affermano che il loro apologo deve es­ sere leggibile anche in questa chiave: l’impossibilità di migliorare, dal di dentro, strutture logore; la necessità di salti qualitativi nella storia, di dimensioni nuove e diverse, e della violenza alla violenza: la violenza della rivoluzione alla violenza del sistema.

simile a quello tecnocratico vigente ancor oggi nell’Urss, tendeva a raf­ forzare e a restaurare i « valori » della Cina tradizionale: « Le guardie rosse affermarono: “il Krusccv cinese [Liu Shao-ch’i] divideva le nostre scuole in due categorie: una doveva preparare i lavoratori intellettuali, co­ loro cioè che sarebbero divenuti quadri dirigenti, ingegneri, scrittóri, lette­ rati, teorici, educatori, ecc. L’altra categoria era invece destinata ad adde­ strare i lavoratori manuali: quelli cioè che sarebbero dovuti diventare 'operai, contadini, addetti ai servizi, ecc.” [...] In questo senso il "vec­ chio sistema produceva da un canto i lavoratori intellettuali che gover­ navano il popolo e da un altro canto i lavoratori manuali che erano gover­ nati'9 *. Per quanto riguarda direttamente l’Urss, « nel 1930 la percentuale dei lavoratori all’interno del pcus era del 63,3 per cento, contro il 14>5 per cento dcir'intellighentzia e altri impiegati”. Nel 1956 i lavoratori assom­ mavano solo al 32 per cento, mentre gli “intellettuali e gli altri impiegati” co­ stituivano la maggioranza assoluta con il loro 50,9 per cento ». (Cfr. La rivoluzione culturale all'università di Pechino, in « Monthly Review » edi­ zione italiana, Bari, a. II, n. 8-9, agosto-settembre 1969).

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I due autori non dimenticano peraltro la problema­ ticità, le contraddizioni all’interno di fenomeni visti nelle loro interdipendenze. I dubbi non sono solo in Renno: « E se avesse ragione lui? » si domanda uno dei ribelli. E Renno è tratteggiato con simpatia, mentre i suoi av­ versari appaiono talvolta addirittura scostanti, com’è naturale in chi deve ricorrere alla forza — alla violenza appunto rivoluzionaria — contro il sistema che è sordo alla discussione, al ragionamento, alla necessità di mu­ tare il mondo (la disputa che i naufraghi intraprendono inutilmente con Renno, sottolineata da quel reiterato suono dei campanacci) Il modificare una situazione storica, mandare avanti il motore della storia — la lot­ ta di classi —, la rivoluzione, comporta lacrime e sangue, ed esclude la « bontà » Ed è proprio questa, del resto, fonte della fine di Renno e dei suoi seguaci, degli scorpionidi che decidono di rimanere nell’isola: egli libera i ribelli dalla fossa dove li aveva imprigionati, e da essi viene ucciso ed uccisi coloro che sono rimasti accanto a lui. I « santi » sono pericolosi per sé e per gli altri. Le donne dell’isola, una volta rapite, e raggiunto il conti­ nente, iniziano a suicidarsi; si legano a vicenda mani e 13 I campanacci, che servono alla comunità di Renno nel rito religioso prima dei pasti» diventano per i ribelli un mezzo di provocazione, un ri­ chiamo materialistico alla coscienza degli « scorpioidi »: costituiscono un elemento della dialettica marxista per la persuasione all’azione. Cosi il « sal­ tarello», in Allonsanfan, invita all’azione ed è, insieme con il colore rosso — come vedremo — il contrassegno del film, il suo « elemento orientatole »: alla fine, nella soggettiva del giovanissimo Allonsanfan, diventa ballo e marcia in avanti al tempo stesso. * Nella rivoluzione sono coinvolti anche degli innocenti, viene tolta la vita pure a persone non compromesse. « Non c’era bisogno di ucciderlo », dice un ribelle al compagno che ha massacrato un ragazzo, per tema che costui desse Fallarme durante la sommossa. « Anche la collera per l’ingiustizia / rende rauca la voce. Ahimè, noi / che volevamo preparare il terreno per la gentilezza, / non potemmo, noi stessi, essere gentili » (Brecht).

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gambe e una dopo l’altra si gettano nell’acqua: alcune si rifiutano, ma vengono costrette in particolare dalla com­ pagna di Renno, la piu risoluta. Tuttavia è proprio costei, alla fine, per intuizione liberatasi dallo stato di sogge­ zione femminile, a gridare: « Non mi ammazzate! » « Le donne, nella società che noi rappresentiamo », annota­ no Ì Taviani, « sono senza dubbio l’elemento più debole; il peso del passato in loro ha una tale violenza che quan­ do si trovano costrette a una nuova realtà, pensano di risolverla con la negazione assoluta. Ma proprio il sui­ cidio — la negazione — fa sorgere un nuovo elemento di contraddizione: è una donna che corre a chiamare i giovani perché intervengano per evitare che il suicidio continui ». E se gli scorpioni, prima che l’eccidio abbia inizio, legano e incappucciano le donne per non permet­ tere loro di muoversi né di vedere, il film offre d’altra parte un esempio di uguaglianza già raggiunta tra i due sessi, attraverso un montaggio parallelo e incrociato di inquadrature angolate diversamente, là dove sono presen­ tati due amplessi: quello di Renno con la compagna, e quello — contemporaneo — di un naufrago con una abitante dell’isola. Mentre il primo amplesso è ripreso dall’alto con Renno sopra e la compagna sotto, il secondo amplesso è presentato con i due ripresi verticalmente, l’uno alla stessa altezza dell’altra. Teso com’è a ima consapevolezza della società in cui viviamo, al dilemma « il cuore e la mente », lo Scorpione è opera dunque ricca di motivi ideologici — dell’ideo­ logia intesa in senso positivo — e politici. E tuttavia pro­ prio sul piano concettuale ci sembra contenere dei limiti, che più avanti vedremo. Ci fermiamo per il momento a sottolineare il rimando al famoso fascino che esercitava Omero in Marx e dai Taviani assunto, nel senso che essi,

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per dirla con Lukacs, nelle grandi opere d’arte rivivono il presente e il passato dell’umanità, le prospettive dello sviluppo futuro degli uomini, ma li rivivono non come fatti esterni, la cui conoscenza può essere più o meno importante, bensì come qualcosa di essenziale per la propria vita, come momento importante anche per la pro­ pria esistenza individuale: « in questo arricchimento del­ l’io consiste in primo luogo la felice esperienza che è of­ ferta dall’arte realmente grande », come quella di Omero e di Goethe.

RITORNO AL PERSONAGGIO INDIVIDUALE Sotto il segno dello scorpione termina con l’urlo della frase musicale, una volta che i sovversivi delle isole sono giunti nel continente (e si è visto il significato di quell’urlo, cosi strettamente legato agli altri che esplo­ dono durante l’eccidio). San Michele aveva un gallo (1971) si apre, dopo le prime inquadrature, con una filastrocca, che dà il titolo al film: Giulio Manieri bambino, da una camera gentilizia, viene portato e rinchiuso in uno stan­ zino buio in quanto disubbidiente; la parete sulla quale si chiude la porta dello stanzino è azzurra; il tappeto sul pavimento della stanza, di un azzurro più intenso con macchie bianche. In castigo, nella « piccola prigione », con stizza Giulio bambino inizia la filastrocca: San Michele aveva un gallo, bianco rosso verde e giallo, e per addomesticarlo gli dava latte e miele. San Michele...

Stacco. Titolo del film e titoli di testa, sui quali ri­ prende la filastrocca che diviene coro. Stacco. Partico­ lare di una lettera riservata, con l’intestazione « Regno

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d’Italia », indirizzata al Ministero dell’interno. Una voce fuori campo legge: ... Risulta che gruppi di cosiddetti Internazionalisti stiano tramando colpi di mano in località disparate. Risulta che la loro tattica — dagli stessi nominata « propaganda del fatto » — pre­ vede: 1. provocazione di torbidi nelle campagne, approfittando del malcontento per le ultime tasse sul macinato; 2. azioni su piccoli Comuni, a scopo dimostrativo, sovver­ tendo, anche temporaneamente, i poteri locali, in nome della « fratellanza universale »; 3. eventuale armamento di bande contadine, previa distri­ buzione di terre ai suddetti contadini. Comunichiamo che siamo in grado di stroncare le sortite dei vari gruppi, prima che vengano a maturazione. Soltanto un gruppo, il gruppo nominato « Pisacane », sfugge attualmente alla nostra sorveglianza. Riteniamo ne sia a capo certo Giulio Manieri, già appartenente a pregiatissima famiglia di possidenti, ex laureando in matematica, oggi dedito al mestiere di gelataio.

Quando la voce fuori campo sottolinea le parole « sol­ tanto un gruppo, il gruppo nominato “Pisacane”, sfug­ ge... », con stacco vediamo in piano americano Giulio Manieri, cappotto giallo sopra le spalle; sullo sfondo la campagna. Mentre continuiamo a sentire il seguito della lettera sull’attività del gruppo, particolare delle mani di Manieri che le strofina una sull’altra (per il freddo pun­ gente, o anche per nervosismo?). Campo totale: il gruppo su un altipiano. Stacco: arrivano i compagni del paese, San Lapo. San Michele è dunque ancora la storia di un perso­ naggio politico, un internazionalista — precisamente un anarchico internazionalista — in un arco di tempo che

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va, alTincirca, dal 1870 al 1880. I Taviani tornano al personaggio individuale dell’esordio, quello di Un uomo da bruciare, in un momento in cui il personaggio indi­ viduale è generalmente respinto: su di esso si hanno molti sospetti, e cosi pure sulla storia, l’intreccio, la psi­ cologia. A parte il breve prologo, strutturano la « fabula » tre capitoli: Manieri, appunto, guida un’azione in un paese di contadini, seguendo quello che gli internaziona­ listi definivano la « propaganda del fatto »; Manieri, in prigione, vive per dieci anni segregato, e nella solitudine medita su se stesso e cerca di immaginarsi il mondo di fuori, per rimanere al passo; Manieri, dopo dieci anni, incontra il mondo esterno, ma non è quello che aveva visto nella sua mente: tutto è cambiato. Che cosa rappresenta Manieri di là dalle connotazioni che risultano dalla lettera al Ministero dell’interno? È un rappresentante « troppo puro dell’entusiasmo »? Un « rivoluzionario nella sua fantasia »? Perché la sua spe­ dizione fallisce? Per rispondere a questi e altri interro­ gativi occorre anzitutto vedere, attraverso l’analisi degli elementi espressivi, come Manieri sia caratterizzato — parafrasando Engels — non solo da « ciò che fa », ma dal « come lo fa ». Egli è soddisfatto nel sentire un compagno del paese domandare a un altro, con ammira­ zione: « Ma è proprio lui, Manieri il gelataio? » Al « cul­ to della personalità » si contrappongono peraltro i con­ sigli che proprio i compagni di San Lapo danno al gruppo « Pisacane »: di tenere il fucile sotto il cappotto, finché non saranno arrivati in piazza; di non farsi vedere insie­ me; di attendere che suoni la campana della messa per incontrare meno gente in istrada. Nonostante i dubbi di Battilana, il compagno a lui più affezionato, che vorrebbe rimandare la spedizione (gli altri gruppi non sono giunti

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nel luogo convenuto, e loro sono appena in dodici), Ma­ nieri ordina di non dire niente dei compagni che mancano. « Non li scoraggiate. Noi ci muoviamo lo stesso ». Al rintocco della campana, gli internazionalisti e i compagni contadini dall’altipiano in cui si erano incon­ trati — i colori della campagna rimandano a quelli dello Scorpione — si avviano verso San Lapo. Stacco. Strada; le campane cessano di suonare. Di Martire e Renzo — due dei compagni del paese — si staccano dal gruppo; avanzano; il gruppo li segue in soggettiva, e sempre in soggettiva, sono accompagnati dalla musica — soltan­ to musica, senza le parole — di « San Michele » ese­ guita da un unico strumento. Stacco. Interno della chie­ sa, musica sacra. Stacco. Esterno, piazza. Accompagna­ ti dalla musica sacra, gli internazionalisti raggiungono il municipio. Giulio, dal balcone, stende la bandiera nera e rossa degli anarchici, scaraventa all’aria carte « false come Giuda », mentre gli abitanti del paese ri­ mangono chiusi in casa e nella chiesa, o alla porta di questa si affacciano per spiare, sospettosi e con paura. Si sparge la voce che sta arrivando l’esercito. Nella con­ fusione che ne deriva, Manieri tiene (ostenta?) la calma; con voce ferma ripete le battute per convincere gli altri (e forse anche se stesso): Battilano Te l’ho detto, sta arrivando l’esercito. Giulio Sta arrivando l’esercito. Battilana Saranno più di un migliaio. Giulio Un migliaio. Contadino K un’ora da qui. Giulio A un’ora da qui. Mannonì Lo sapevo che era successo qualcosa. Giulio È successo qualcosa. Guelfi Che facciamo della guardia e del sindaco? Giulio II sindaco e la guardia.

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Dinanzi alla non collaborazione del paese, alla diffi­ denza, Giulio sempre con calma (apparente?), mentre i compagni aprono il granaio e ne portano fuori i saccbi di farina per distribuirla ai contadini, grida: Anche se vi siete nascosti, so che mi state ascoltando, dietro le finestre e dentro la chiesa. Mi sentite bene? Mi sentite, vero? La vostra diffidenza è giusta. Non ci conoscete. Siamo gli inter­ nazionalisti. Siamo venuti da voi proprio per farvi conoscere chi siamo e che cosa vogliamo. Alcuni di voi certo lo sanno... Ma noi vogliamo farlo sapere a tutti con i fatti e non con le parole. Aiutateci. Lo vedete da voi cosa vogliamo. Fare piazza pulita di tutte le autorità, delle loro carte scritte, delle loro carte bol­ late, delle loro carte catastali, false come Giuda. Vogliamo ri­ darvi il grano, la farina che sono vostri... Allora questa porta si apre o non si apre?! Il grano vi appartiene come vi appartengono le terre... Aspettate! Abbiamo ancora un’ora. C’è un’ora prima che arrivino i soldati. Aspettate! Avevamo prevista questa possibilità. L’avevamo prevista. Aspettate! Se vi erano rimasti dei dubbi... Un compagno mi dice che sono piu di cinquemila soldati! Aspet­ tate! Per dodici di noi si muove un battaglione intero di soldati. Questa è la prova migliore che potevano darvi della nostra forza e della nostra...

Alle parole di Manieri nessuno degli abitanti usciti in istrada si ferma. Egli riprende a parlare: Si muovono in cinquemila perché non vogliono che voi e noi ci incontriamo. Ma noi ci siamo incontrati. E falli fermare, no?! [rivolto a un compagno]. E come noi — sentite almeno questo — come noi altri ne esistono in Italia, in Europa, qui a San Lapo. Di quante armate dovrebbe disporre lo Stato... quando ci muoveremo da dieci, cento parti? ... No, non temete, ce ne andiamo. Non vi coinvolgeremo in una sparatoria.

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Sulla voce di Manieri che continua, ma ora fuori cam­ po — « Questa volta è andata così; la prossima andrà meglio » —, la porta della chiesa si chiude dietro gli abi­ tanti del paese. « Beh! Andata così così... però è anda­ ta », dice Manieri cercando di rincuorare i compagni. Panoramica da sinistra a destra. Il sindaco e la guar­ dia municipale con un fucile avanzano verso la piazza; il primo costringe il secondo a sparare. Guelfi viene col­ pito' a morte; Manieri, dopo una colluttazione con il sindaco, l’uccide. Mannoni è fatto prigioniero da un guardacaccia, che lo tiene immobile puntandogli l’arma alla nuca. Il gruppo si siede sulla scalinata della chiesa. Manieri continua a invitare alla calma; poi borbotta a bassa voce; Battilana crede che egli stia male, e invece pensa a cosa dirà al processo: « Io, Giulio Manieri, di professione gelataio, internazionalista... » E rivolgendosi a Battilana: « Prepara piuttosto quello che dirai d’ora in avanti. Il processo sarà un’altra occasione per farci co­ noscere pubblicamente. Manda a memoria uno schema di deposizione ». Panoramica dalla scalinata della chiesa verso la piazza del municipio; si ferma all’imbocco della strada da dove arriveranno i soldati. Stacco. Esterno pa­ lazzo del Primo ministro. Stacco. Piano ravvicinato di un bambino che, con un grissino in bocca, ascolta il colloquio tra il padre — il ministro — e due generali. Stanno discutendo la sentenza per Manieri: l’esecu­ zione immediata, che stroncherebbe ogni ultima possibi­ lità di confusione, oppure la grazia reale, che propa­ ganderebbe la superiorità dello Stato, la magnanimità della corona. Piani alternati dei famigliati del ministro, seduti a tavola mentre mangiano, e degli uomini nella stanza accanto. Sull’invito rivolto al segretario di leggere le dichiarazioni dal Manieri fatte in aula, passiamo con

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stacco nella sala da pranzo. Il bambino, figlio del mini­ stro, in primo piano dice: « Mamma, se io fossi papà, io cercherei... » Primo piano della nonna: « Se io fossi tuo padre », dice interrompendo, « cercherei una via di mezzo. Farei fucilare quell’uomo tra due o tre anni, quando sarà finita tutta questa confusione ». « Io vorrei soltanto che Giovanni fosse liberato da questa responsa­ bilità », interviene la moglie del ministro. Stacco. La ca­ mera accanto. Il segretario legge la deposizione di Manieri: Io, Giulio Manieri, ex possidente, ex laureando, di profes­ sione gelataio, internazionalista, non dirò piu una parola. Salvo questa: grazie per l’opportunità che mi avete dato con questo processo di dire pubblicamente chi siamo e che vogliamo. Grazie per il motivo di soddisfazione che mi viene dai vostri visi, dai vostri occhi. Non sapete dove guardare. Ecco, ora che mi guar­ date negli occhi, guardatemi bene. Che cosa aspettate da me? Ma possibile siate cosi sciocchi da credere che io, scegliendo que­ sta attività, non mi sia preparato al peggio? Avevo previsto anche questa possibilità. Io posso sbalordirvi e spaventarvi. Mentre voi non avete alcuna possibilità di spaventarmi né di sbalordirmi.

Stacco. Primo piano di una bambina, figlia del mini­ stro. Stacco. La bambina riprende le parole del fratello prima interrotte dalla madre e dalla nonna e, come rac­ contando una favola, dice: Io farei cosi. Mentre, mentre i soldati mettono quell’uomo da fucilare sotto il muro della fortezza, farei partire dalla reggia un signore... un messaggero reale, a cavallo, che porti un foglio con la grazia del nostro re. Mentre l’ufficiale nella fortezza dà il primo ordine: « plotone, attenti! » il messaggero entra al ga­ loppo nella fortezza. Mentre l’ufficiale grida « plotone, carica­

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te! » il messaggero scende da cavallo. Mentre l’ufficiale grida: « plotone, puntate! » il messaggero gli dà il foglio della grazia. L’ufficiale grida: « Plotone, alt » ma il plotone, che ormai si aspettava la parola « fuoco », spara.

Durante questo racconto vediamo primi piani della bambina, della madre, del fratellino, della nonna. Disin­ volti appaiono fratello e sorella; turbate la madre e la nonna. « Tu hai capito, nonna? » domanda la bambina. Totale salotto. Dissolvenza veloce fino a inquadratura tutta nera. L’inquadratura si fa chiara; il giudice legge la condanna: Si dà comunicazione al condannato Giulio Manieri che verrà data esecuzione alla sentenza capitale il 29 del corrente mese, alle ore 7 del mattino mediante fucilazione, in luogo che verrà comunicato a suo tempo.

Stacco. Esterno. Manieri scortato da carabinieri. Ri­ conosce la badia vicina alla sua città, pensa che sarà fu­ cilato là sotto. Stacco. Manieri vien fatto salire su un carro. Cinguettio di uccelli, rumore assordante delle ruote sul ciottolato. Dopo l’incontro con il contadino Scardi­ gli, che muto gli dà la ciotola d’acqua richiesta, Manieri rivolgendosi alla guardia che siede accanto aF cocchiere, inizia il testamento, mentre il carretto procede, con qual­ che fermata. Senti. Ricordati bene il tragitto che stiamo facendo, perché tra una decina d’anni rifarai lo stesso percorso. Anche meno di dieci anni. Anche meno. Lo rifarai con me dentro la cassa per­ ché i miei l’avranno dissepolta; sarà tutta ricoperta di bandiere. Le nostre. Un corteo che neanche te lo immagini. Rivoglio lo stesso percorso, ricordatelo. Adesso abbiamo girato per via Ar­

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duino, imboccheremo via Dante. Lo lascio come testamento a te. Anzi. Voglio proprio questo carro e tu a guidarlo. Sarai famoso perché sarai stato l’ultimo a parlare con me. Dove stai voltando?

Stacco. Panoramica su case del paese. Piano ameri­ cano di Costantino alla finestra. Primo piano di Manieri che gli domanda se sia tornato a stare 11, se lavori an­ cora in municipio. Stacco. Muro con le finestre; la mo­ glie di Costantino ordina al marito di chiudere le im­ poste. Stacco. Manieri riprende il suo testamento: Ah, lo stesso percorso e avvertire tutti i compagni per tempo, dieci giorni prima. Dieci giorni prima. No, quindici è meglio. Ci devono essere tutti. Amici e compagni. Guarda che sono molti e ci vorrà tempo per avvertirli, perché stanno dappertutto. Molti sono contadini e stanno nelle campagne dell’interno. Bisogna dirlo a Franco, Gino, Tullio, Mario. Ora non mi vengono in mente, ma sono moltissimi. Gaetano, Guido, Delio, Augusto, Bernardo... Ermanno e Giuliano! Ermanno e Giuliano! Guarda che piango di commozione, non di paura. Riferisci anche questo ai compagni... a Gianni, a Valentino, a Roberto...

Soggettiva di Manieri: vede un bambino che segue il carro. Controcampo: Manieri gli sorride. Controcampo, il bambino volta il capo indietro per guardare la scorta; poi, con gesto improvviso e rabbia, lancia contro Manieri una pietra e fugge. Panoramica sulle finestre della casa di Manieri. « Ma questa è la strada di casa mia... Ti han­ no ordinato di passare sotto le finestre dei miei fratelli. Non vi affacciate, eh? Vi vergognate?! Vi vergognate ». Riprende la panoramica sulla casa gentilizia. Fuori campo si sente, urlato una, due volte, il nome di Giulio. « Trop­ po tardi, Gianfranco », risponde Manieri. Dopo che il carro è passato accanto alla sua casa, panoramica su cat-

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Solfo il segno dello scorpione

tedrale e campane a morto. « Ehi, niente campane, per il mio funerale; niente campane a morto », riprende il suo testamento Manieri. Sonoro soggettivo: musica sacra, requiem. « Della musica sf, ma non questa. So io quale... Siamo vicini, vero? Conosco la strada ». Sonoro sogget­ tivo: attacca la parte centrale — poche battute — di « Capriccio italiano » di Cajkovskij. « Di’ ai miei compagni che voglio musica da festa ». Ritornano, come sentite da lui, le campane a morto. « E che attacchi solo quando la carretta entra in piazza ». Primo piano di Manieri. Stacco. Piazza ripresa dall’alto; entra in campo da destra il carro con esplosione soggettiva di « Capriccio italiano »; il carro è seguito dalla « camera » che inquadra sempre più dall’alto; la tonalità dei colori parte dal grigio per volgere verso l’azzurro. Sempre ripresa dall’alto, mentre « Capriccio italiano » continua in soggettiva, il carro si porta con una conversione al lato opposto all’ingresso della piazza. Si ferma, Manieri scende, viene portato di­ nanzi a una colonna e preparato per l’esecuzione. Primo piano di Manieri; sul crescendo e sempre come da lui sen­ tita, cessa « Capriccio italiano », mentre egli, rivolgen­ dosi alla guardia cui aveva fatto il testamento, dice: « E non hai pietà tu di me? » Manieri rifiuta il cappuccio, che gli viene tuttavia messo sul capo. Figura intera di Manieri che, incappucciato, cerca di tenersi in equilibrio e, preso dalla paura, piega impercettibilmente le gambe. « Viva la ri... » Non fa in tempo a terminare la parola « rivoluzione ». Gli tolgono di colpo il cappuccio. « Non mi ammazzate più? » Attimi di sbigottimento. Si china sulle ginocchia, si copre il volto con le mani, mentre si sentono rulli di tamburo. Voce fuori campo: « La con­ danna capitale viene commutata nel carcere a vita ».

Ritorno al personaggio individuale

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Primo piano di Manieri sconcertato, come se non credes­ se. Manieri tra due carabinieri. Stacco. Su un palco, la folla — tra la quale dame e notabili — grida tre volte « Viva il Re! Viva il Re! Viva il Re! »35 Si odono rulli di tamburo. Manieri, impaurito, si volta verso un cara­ biniere prendendogli per un attimo il braccio. Stacco. Ha termine il primo capitolo del film. La finta esecuzione è strutturata come una messa in scena d’opera: il palcoscenico è la piazza ripresa dall’alto; la carretta entra da un lato, fa una conversione lungo il proscenio, per poi fermarsi al lato opposto. Il « Capriccio italiano » — le poche battute centrali che Manieri aveva udito nella sua immaginazione quando, durante il testa­ mento, parlava del suo funerale, della sua bara che, tra dieci anni o anche meno sarebbe stata dissepolta dai compagni, dopo la vittoria — esplode proprio nel mo­ mento in cui il carro entra in piazza. E come un eroe da melodramma Manieri si appresta a morire, anche se per qualche attimo ha paura; sta per gridare « Viva la rivo­ luzione », ma la grazia era già stata concessa: non si ve­ rifica esattamente quanto aveva pensato la figlia del mi­ nistro; e abbiamo qui una specie di Tosca capovolta. C’è anche il coro: la folla che, in controcampo, sul palco, in­ neggia al Re. E da melodramma — da personaggio melo­ drammatico (si ricordi Salvatore) — è il testamento. L’ironia con la quale Manieri viene visto, attraverso questa finta esecuzione a mo’ d’opera e il testamento, è sottoliw Questa sequenza ricorda l’inizio di Ltf congiura dei boiardi di Ejzenstejn. Sigismondo, nella sala del trono — presente il traditore Kurbskij — minaccia di spezzare l’unità della Russia di Ivan, annuncia una crociata di re cristiani contro lo zar moscovita. Alle sue parole (« Cacccremo i russi dall’Europa sino alle ultime sleppe dell’Asia »), squilli di tromba e le dame di corte, agitando le mani, inneggiano al re di Polonia: « Viva! Viva! Viva! »

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Sotto il segno dello scorpione

neata da quel bambino cui egli aveva sorriso pensando a una calda simpatia e ammirazione — e che invece gli ha lanciato contro una pietra con rabbia. Il culto della perso­ nalità a quel punto era già minato; e la morte di Manieri, come vedremo, è già avvenuta; e il funerale ci sarà, ma non nel modo da lui sognato. Nell’attimo stesso in cui — la pena capitale convertita in carcere a vita — egli si china sulle ginocchia coprendosi il volto con le mani, si sentono rulli di tamburi; e di li a poco, con stacco, inizia il secondo capitolo del film.

CIÒ CHE SI FA E COME LO SI FA La guardia — la stessa che si trovava nel carro in­ sieme con il conducente — e Manieri dinanzi alla porta della cella; la {Sorta ha una tonalità grigio-azzurra. Fai bene a star zitto. Hai parlato anche troppo ieri, sulla carretta, quando facevi testamento a forza di testate. I compagni con le bandiere... Tra dieci anni tutto il mondo alla rovescia... Io sulla stessa carretta... Cosa dovevo diventare io? Famoso? ... apri bocca. Sulla carretta avevi tirato fuori una voce di quelle che fanno pensare ai miracoli. Il conducente non ti stava nem­ meno a sentire. Ma hai fatto fesso me. Non te la perdono [...] O era la voce della paura?! Di’ la verità. Meno male che non ti hanno sparato, se no chissà cosa avrei raccontato di te per il resto della vita.

Dissolvenza rapida. Manieri disteso sul pavimento della cella di segregazione. Entra il dottore che lo corica sul tavolaccio e si appresta a dargli una medicina; Ma­ nieri d’improvviso lo prende per le orecchie tirandogliele. Gente come voi verrà spazzata via. Gente come voi non può che essere spazzata via. Sarà questione di anni. Ma gente come voi verrà spazzata via [...] Questione di anni, e allora stai at­ tento a gente come me. Perché il giorno in cui uscirò, mi ritro­ verete più giovane, più forte di quando mi avete acchiappato.

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Sotto il segno dello scorpione

Invece di un cucchiaio di medicina, come gli indica il dottore, ne prende due: si odono rulli di tamburo. In­ quadratura buia, che si apre alla luce. Figura intera di Manieri seduto sullo sgabello: Dunque, primo: parlare ad alta voce. Primo: parlare ad alta voce. Abituarsi a non aver paura della propria voce. Cercare il tono giusto... parlare con lentezza... scandire... ad alta voce! Devo aiutare a non dimenticarlo, ecco... [fa un nodo al faz­ zoletto]. Non basta. Ogni volta che smetto di pensare ad alta voce, cosa posso fare... cosa posso fare?

Sonoro soggettivo: voce di Giulio bambino che re­ cita « San Michele aveva un gallo, bianco rosso verde e giallo, e per addomesticarlo gli dava latte e miele ». So­ noro oggettivo: Manieri riprende la filastrocca con voce più alta, in crescendo. Non sono pazzo. Perché sono io che ho deciso di parlare ad alta voce. Non sono pazzo. Ma mi sento ridicolo. Attenzione a non parlare a vanvera forse... E invece no. Parlo anche a van­ vera. Meglio ridicolo che rassegnato. Anzi... Se ho voglia di fare una smorfia, la faccio. Ah! Non sono mai stato tanto libero.

Sempre in figura intera si stira le braccia; inizia fra­ se musicale « Capriccio italiano », egli segue il ritmo della musica in crescendo battendo i piedi sul pavimen­ to. La musica termina alla parola « secondo ». Secondo. Dividere la giornata con ordine. Ogni due ore gin­ nastica. Alle undici del mattino, riunione con i compagni. Pranzo. Lezione di geometria. Storia. Inglese. Secondo i giorni della set­ timana. Cena. Libera uscita. Dormita di almeno undici ore. Eh, si, undici ore. Allora cominciamo, cominciamo.

Ciò che si fa e come lo si fa

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Stacco. Porta della cella dinanzi a Manieri; egli ri­ prende, senza che si oda la musica, e con voce incerta e affannata, le prime parole della filastrocca: « San Miche­ le aveva un gallo ». Pausa; pronuncia « San » e si ferma come preso da un pensiero improvviso. Ancora pausa. Ri­ prende l’inizio della filastrocca: « San Michele, Miche­ le... » Si domanda: « Io esco? » e decide di uscire, nell’immaginazione. Esco. Devo ricordarmi quello che incontravo uscendo di casa... le strade... i negozi... la gente... Esco con il mio carrettino di gelati. Apro la porta. Via! ... Avanti. Volto a sinistra. Che c’è a sinistra? C’è il viale che porta al centro. Il viale, si.

Alle parole « devo ricordarmi quello che incontravo uscendo di casa », attacco di musica melanconica. Manie­ ri si è seduto sullo sgabello volgendo le spalle alla « ca­ mera ». Rumori soggettivi: scampanellio del carretto da gelataio, chiasso della strada, cigolìi di ruote, passi, si­ bili di vento, cinguettio di uccellini. « Ancora. Sempre dritto ». Riprendono i cinguettìi de­ gli uccelli. La parete della cella, dinanzi a Manieri, diventa un muro ricoperto di muschio; breve panoramica sul muro. Stacco. Manieri sempre di spalle dice: « ... all’in­ gresso del Collegio reale, sulla piazza del lungomare ». Al ricordo del lungomare, panoramica sul muro; una stri­ scia umida vi si forma, diventando a poco a poco un ri­ volo d’acqua. Vocìi di bimbi mentre il rivoletto sulla parete aumenta. Venite, venite, bei bambini! Venite! Se le vostre mamme, se le vostre balie sapessero chi c’è dentro la palandrana del vostro gelataio! Venite! Venite! Gelati! Gelati!

Sotto il segno dello scorpione

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Stacco. Il carceriere, dallo spioncino della porta, guar­ da meravigliato; crede che Manieri sia impazzito. « È proi­ bito gridare », dice. Piano americano di Manieri: « Per­ ché, se grido, cosa potete farmi di peggio? » Campane a morto in crescendo. « Sono le undici e tutto va bene. Sono le undici e faccio ginnastica » urla quasi con rabbia. Si pone a testa in giù, appoggiandosi alla parete verti­ calmente. I rintocchi a morto cessano con una dissol­ venza rapida su Manieri nella stessa posizione. Manieri si rimette in piedi. « Ore undici: riunione con il grup­ po “Pisacane” ». Mezza figura di Manieri che, in sogget­ tiva, vede la sua immagine moltiplicarsi per tre, mentre dice: Ciao. Ciao. Allora tu, Negrini, ti metti là. Tu, Marinoni, sullo sgabello, e tu, Battilana, li... li... Allora, amici e compagni, la riunione è aperta. Tu, Battilana, riferisci perché Negrini c tornato solo ieri da Londra.

Inizia la discussione-monologo immaginaria. Questa volta ci hanno fottuto o quasi. Lo dici anche tu, vero Giulio? La spedizione San Lapo è fallita. Il Sud deve diventare il nostro nuovo obiettivo. I contadini del Sud tornano ad essere ancora oggi la vera « polveriera d’Italia », vero Giulio? Giulto-Mannoni Si, bisogna scegliere il luogo. Il Maltese o le Puglie, su. Giulio Sto già organizzando il piano. Reclutamento qui da noi di una trentina di volontari. Finanzia­ mento del piano... armamento... Giulio-Negrini Ladro. Giulio Parole d’ordine le* stesse. Terre ai contadini. Giulio-Negrini Ladro. Giulio Autogoverno a livello municipale. Giulio-Negrini Ladro.

Giulio-Baltilana

Ciò che si fa e come lo si fa

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Ma ladro chi? Il governo?! Eh, eh. Ladro lui, Giulio. Luciano, smettila. Ma ti rendi conto? No, lascialo dire. Preferisco. Eh no, Giulio. Devi parlare tu. Con che soldi stai finanziando il tuo nuovo piano? Giulio Con i tuoi, c ti ringraziamo. Giulio-Negrini Non puoi ringraziarmi per quello che non ti ho dato. Giulio-Mannoni Ma come, Luciano, abbiamo scontato le cam­ biali che hai firmato! Su, no?! Giulio-Negrini Non io le ho firmate. Ma lui, Giulio, le ha firmate a nome mio. Giulio Eri l’unico che avesse ancora delle proprietà. Battilana, mi sbaglio? Giulio-Batlilana No. Noi ci siamo disfatti ormai da vari anni di tutto quello che avevamo. E qui, Giulio, in par­ ticolare, ne aveva delle proprietà. Giulio-Negrini Ma non erano soldi miei. Erano anche di mio fratello. Per me non importa. Ma lui non c’en­ tra. E ha figli, lui. Giulio Per questo ho firmato per te. Da solo non ce l’avresti mai fatta, Negrini. Giulio-Negrini No, no Giulio. No, tu sei un... Giulio-Mannoni Un... un?

Giulio-Mannoni Giulio-Negrini Giulio-Battilana Giulio Giulio-Negrini

Su questa domanda, campo lungo della cella con Manieri solo, ripreso di spalle; lo sgabello dinanzi a lui è vuoto. Riprende, dopo questa interruzione, l’incontro immaginario. Figura intera di Manieri con la faccia rivolta verso il pubblico. Poi sua mezza figura. Giulio

Giulio-Negrini

So quello che sono. Per me, figurati, il vero politico è fratello del delinquente o del pazzocaro il mio Negrini. Negrini, ecco. È l’unico che chiama i compagni per cognome. Tiene le distanze, lui. A chi, Giu-

Sotto il segno dello scorpione

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Giulio

Giulio-Battilana

Giulio-Negrini

Giulio

Giulio-Negrini Giulio-Mannoni

Giulio

lio, a chi hai mai aperto il tuo cuore? Chi hai mai accolto nella tua vita? Tu parli sempre del prossimo, ma hai una grande considerazione di te stesso. Ma si lavora sempre per se stessi quando si lavora per gli altri. Ma certo io voglio un mondo di liberi perché ciascuno possa essere se stesso sino in fondo. Battilana, parla un po’ an­ che tu! Ma... faccio fatica a seguirti. Sei sempre esa­ gerato. Ma sto con te, lo sai, non mi ci fare entrare. Sono stanco. Ma certo, Giulio. Tu coltivi la devozione degli altri per servirtene. Ora hai disposto dei miei affetti familiari senza pensarci neanche due volte. Se tu avessi dei figli, capiresti. Non mi capiterà mai. Mettere su famiglia, avere una donna, dei figli, oggi tutto ciò è normalità, abitudine, pacificazione. £ l’equilibrio che par­ torisce i mostri. Ma tu, Giulio, che ne sai della famiglia? che ne sai delle donne? Io l’ho scoperto, una volta, con... con una di quelle. Ma non era... una donna di proporzioni normali, era... enorme, una donna cannone, eh Giulio? Scherza...

Giulio-Mannoni ridendo canta, seguito da GiulioNegrini: « Sono nostre figlie le prostitute che muoiono tisiche negli ospedal. / Le disgraziate si sono vendute per una cena, per un grembial... » Verso la fine della canzo­ netta, mentre Giulio-Mannoni si dondola sullo sgabello, attacco di chitarra che prosegue in crescendo il motivo senza parole. Ritorna l’inquadratura precedente con Ma­ nieri solo nella cella ripreso di spalle e lo sgabello vuoto davanti. Dalle soggettive si passa a un’oggettiva. Stac­

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co. Il carceriere che guarda dallo spioncino. Cessa il suono della chitarra. Manieri guarda nella direzione del car­ ceriere, muto. Si soffia il naso. Il carceriere mette per terra una ciotola con brodaglia e un barattolo pieno d’acqua. Manieri li raccoglie e li mette accanto a sé sullo sgabello. Dettaglio ciotola. Silenzio. Ritorna l’inquadratura con la ciotola e il barattolo messi per terra; dall’apertura, sotto la porta, entra un raggio di sole, e si odono le cicale. Ma­ nieri ora è a torso nudo. Dettaglio ciotola; nella sua fanta­ sia egli immagina che la brodaglia sia pollo in gelatina con contorno di insalata mista, un piatto appetitoso condito con pepe, olio, sale, prezzemolo e limone; l’acqua, vino bianco del Reno. Sulla parola « limone », da Manieri ripetuta per la terza volta, parte lentamente frase musicale « Capriccio italiano ». Stacco. Ancora inquadratura della ciotola e del barattolo. Cessa il motivo di « Capriccio »; si odono in lontananza rumori di temporale. Figura intera di Manieri che prende, come prima, il rancio e lo mette sopra lo sga­ bello. Si siede. I rumori del temporale continuano. Par­ ticolare della ciotola. Davanti alla brodaglia e all’acqua, ora egli pensa a un altro piatto succulento — « oggi, po­ lenta e osei » — e a un vino pugliese. Mentre pronuncia « innaffiare con vino pugliese », crescendo di « Capric­ cio », con rumori sul fondo di tuoni. Stacco. Feritoie della cella. « Capriccio » cessa. Stacco. Manieri sdraiato sul tavolaccio: Devo prepararmi. Tra poco suoneranno le sei del pomeriggio. È un’oraccia per me. Non mi devo far trovare impreparato.

Inizio rintocchi di campane a morto. Stacco. Feritoie della cella; hanno tonalità rosse. Stacco. Manieri ancora sdraiato:

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Di già?! Ora mi alzo. Ora mi alzo, mi alzo. San Michele, se è possibile allontana da me quest’ora, allontana da me quest’ora maligna. Allontana da me l’ora che non finisce mai. San Michele, non farmi prendere dallo sgomento, aiutami a cominciare l’ora di geometria. Oggi alle sei, lezione di geometria. Terzo teorema di Rolle.

Sulla equazione che ha scritto sul muro, attacco di musica triste con strumenti ad arco. Dopo essersi grat­ tata la schiena contro un angolo del muro, si siede per terra, mentre la musica triste termina: È un’oraccia. Mi sto mettendo di mezzo. Ho paura di an­ dare sino in fondo. Ho paura di scoprire che cosa davvero ho voglia di fare. Ho paura a dire che ho soltanto voglia di piangere. E allora devo piangere. È l’unica soluzione, è l’unica... aiuto, aiuto! £ l’unica... è l’unica...

Manieri piange. Subito dopo, stacco sulle feritoie della cella; le tonalità non sono più rosse come prima, ma bianche; si odono campane a morto. Manieri si ri­ volge verso lo spettatore: Si, amici. Ora vengo, è l’ora della passeggiata con voi. Vengo. Adesso sto meglio. Mi sono sfogato. Ho di nuovo tutti i nervi in azione. Anzi erano giorni che non mi sentivo tutto cosi rime­ scolato. Io riprendo la tabella di marcia. Mi fa piacere riprendere la tabella di marcia.

Tonalità bianche contrastano con il buio nella cella. Primo piano di Manieri: Dove mi portate? Dove andiamo? Ho bisogno di luci, sta­ sera, di bella gente, di colori. Ne abbiamo diritto, mi sembra. Bisogna distrarci.

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Su queste parole stacco e lenta panoramica a sinistra sulle feritoie — sempre di tonalità bianche — con suono acuto di piatti in crescendo, sino a scoprire una candela accesa di là da una feritoia, sulla quale la « camera » si sofferma. Stacco. Primo piano di Manieri. La panora­ mica riprende partendo da lui, verso sinistra. « No, è stata una giornata troppo faticosa. Nemmeno a vogare sul fiume »: inizia musica d’opera. All’opera, eh? Si, ma almeno stasera in loggione no, vi prego. Per stasera, almeno, non cosi scomodi. Andiamo in poltrona, stasera.

La panoramica continua. Tutti insieme. Anche tu Battilana, e anche tu Negrini. Vieni anche tu. Pago io per tutti [...] Su, svelti, svelti: è cominciato. Seduti accanto a me, cosi; ora silenzio, silenzio!

e mentre si siede, la panoramica finisce. Particolare candela accesa oltre la feritoia. Riprende, in crescendo, la musica d’opera. Carrello indietro — men­ tre la musica continua — fino a inquadrare il rettangolo dello spioncino nella porta della cella. Stacco. Manieri sul tavolaccio; continua in sottofondo la musica d’opera mentre dice nel sonno: E ora buona notte, amici, e grazie. Buona notte a tutti. E tu, San Michele, ti prego, ridammi il sogno di ieri notte. Le spedi­ zioni sono riuscite. I contadini marciano con noi. Mi hanno libe­ rato. Marciano insieme. Le altre regioni insorgono, in tutta Italia, in tutta Europa. In Giappone. È il nuovo avvento. Vogliono farmi presidente. Una donna bellissima... due, quattro donne bellissime si ammazzano perché non riescono ad avermi. I giovani mi accia-

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mano presidente... Ma io rifiuto... Non ci devono essere capi. Mi ritiro, scompaio. Ma travestito... irriconoscibile... mi aggiro fra la gente... La faccio parlare di me... Sento quello che dicono di me.

Sulle parole « sento quello che dicono di me », la musica d’opera termina. Panoramica da sinistra a destra (nella direzione inversa di prima) sulle feritoie, che hanno una predominanza di tonalità bianche, sino a raggiungere la candela, che viene portata via. Manieri sul tavolaccio. Chiusura lenta di dissolvenza, mentre egli mormora « So­ no vergognosamente felice ». La dissolvenza termina su uno schermo tutto nero; sul nero, porta della cella che si apre. Entrano prima il carceriere c poi il dottore. Dieci anni di segregazione sono finiti. « Ti trasferiscono in un altro carcere. Sull’isola di Sant’Alvise, nella laguna ve­ neta ». E alla domanda del dottore — « dovresti partire tra un’ora... Ma ti senti in grado? » — Manieri alza con un braccio lo sgabello. Nel primo capitolo Manieri è soprattutto caratteriz­ zato da « ciò che fa »: appare sicuro, non rimanda la spe­ dizione anche se sono solo in dodici, e gli altri gruppi non li hanno raggiunti; durante la confusione che segue all’an­ nuncio che l’esercito sta arrivando, invita alla calma; impossibilitato a muoversi con i compagni quando il guardiacaccia tiene il fucile puntato su Mannoni, pensa al processo, a quanto dirà ai giudici, ad una nuova occa­ sione per far conoscere chi sono e cosa vogliono. Ma già nel primo capitolo, e in particolare nelle sequenze del testamento, l’ironia e l’impianto teatrale della finta esecu­ zione — all’ironia strettamente connesso — Manieri non è semplicemente caratterizzato da « ciò che fa » ma anche dal « come lo fa ». Il « come lo fa » viene maggiormente articolato in questo secondo capitolo, dove il contenuto ideologico, psicologico e storico si arricchisce e — attra­

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verso gli elementi formali — del protagonista vengono date le contraddizioni via via in modo più netto e ricco di particolari. Se sulla carretta aveva tirato fuori una di quelle voci che fanno pensare ai miracoli, nella cella di segregazione si sente ridicolo, ma « meglio ridicolo, che rassegnato ». Si impone una disciplina, una tabella di marcia; e tuttavia proprio in prigione salta il suo stato di quiete — di calma — in realtà apparente; e se prima sapeva quello che voleva, ora la certezza vacilla. La fantasia — quelle ciotole di brodaglia e quei ba­ rattoli pieni d’acqua che immagina siano piatti succulenti e vini pregiati; quelle passeggiate all’esterno, nelle vie del suo paese, sul lungomare; quel rivoletto e quei ru­ mori, voci, cinguettio di uccelli che nel ricordo si proiet­ tano sulla parete e si odono dinanzi a lui — e l’autodi­ sciplina, la tabella di marcia che si impone, hanno mo­ menti di crisi, e di crisi laceranti, profonde: solo in parte superati, e senza che la riflessione critica abbia una reale incidenza. Di particolare rilevanza a riguardo, e sul piano introspettivo, le sequenze di Manieri e del suo triplice sdoppiamento, che non rimandano certo al principio « qua­ ternario » junghiano ma comunque a quella psicoanali­ si intesa dai Taviani come una delle esperienze da re­ cuperare anche per il cinema. Attraverso Giulio-Negri­ ni, Giulio-Mannoni e Giulio-Battilana, abbiamo un giu­ dizio di tonalità su Manieri, sulle sue contraddizioni e la sua natura da « eroe ». Nella riunione immaginaria del gruppo « Pisacane », è ancora lui a indicare dove i compagni debbano prendere posto, a guidare il di­ scorso, a scegliere le parole d’ordine, il luogo della nuo­ va spedizione. Anche se ammette ora che quella di San Lapo è fallita, è sempre lui che organizza il piano — il « suo » piano —, il reclutamento dei volontari, il finanzia­

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mento, l’armamento. È da Giulio, nel suo triplice sdoppia­ mento, che veniamo a sapere con quale denaro intende fare la nuova impresa; che egli è l’unico a chiamare i compagni per cognome, a tenere le distanze; che non ha mai aperto il cuore a nessuno; che non ha accolto nessuno nella sua vita; che parla si sempre del prossimo ma ha una grande considerazione di sé. Inutile è la reazione di Manieri — una reazione esagerata, per tentare di convincersi — là dove afferma con forza che il vero politico è fratello del delinquente o del pazzo; che si lavora sempre per se stessi quando si lavora per gli altri e che vuole un mondo di liberi perché ciascuno possa realizzarsi sino in fondo. In effetti egli coltiva la devozione degli altri per servir­ sene (come qui, di' Battilana), e dispone dei loro affetti familiari senza pensarci due volte. Manieri non ha figli, e non può capire: non ne avrà mai. Averne, mettere su famiglia, vivere con una donna, è per lui normalità, abitu­ dine, pacificazione; e « l’equilibrio partorisce i mostri ». Ma egli non sa nulla né della famiglia né delle donne che, come vedremo nel terzo capitolo, non tiene in consi­ derazione. È semanticamente indicativo che in queste sequenze soggettive, di sdoppiamento nel colloquio immaginario con i tre compagni, Manieri sia sempre in piedi, e gli altri seduti o sdraiati; e che esse siano interrotte, alla domanda di Giulio-Mannoni chi sia Giulio-Manieri, da un’inquadratura oggettiva: il campo lungo della cella con Manieri solo, ripreso di spalle, lo sgabello dinanzi a lui vuoto. È una prima presa di coscienza, una riflessione sulla propria natura, le proprie contraddizioni. Parimenti indicativo a riguardo il ritorno della stessa oggettiva — Manieri ancora solo, ripreso di spalle, con lo sgabello dinanzi vuoto — quando il colloquio immaginario (le sog­

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gettive) ha termine: inquadratura preceduta da quella in cui Mannoni — il compagno piu affezionato a Giu­ lio — si dondola sullo sgabello (lo sgabello appunto vuoto nelle oggettive) e udiamo la chitarra che prosegue in cre­ scendo il motivo, senza parole, della canzonetta sulle pro­ stitute. Il controcampo che segue mentre cessa il suono della chitarra — Manieri che guarda muto e solo nella di­ rezione del carceriere e si soffia il naso — esprime un altro suo momento di sfiducia, che ritorna sottolineato dal primo dettaglio della ciotola con la brodaglia — tutto è silenzioso — e poi dall’analoga inquadratura, anche se di sotto la porta entra un raggio di sole e si ode il gra­ cidare delle rane; finché, ancora una volta attraverso la fantasia, lo scoramento viene superato: dinanzi al det­ taglio della ciotola, che per la terza volta compare, Ma­ nieri immagina appunto che quella brodaglia sia un piat­ to appetitoso, succulento. I dettagli della ciotola di brodaglia e del barattolo d’acqua che il carceriere mette per terra, dall’apertura bassa della porta, danno al tempo stesso il passare delle stagioni, degli anni: essi si ripetono con variazioni; ora, come si è visto, appare un raggio di sole e si sente il graci­ dare delle rane, ora rumori in lontananza di temporale. I vari stati d’animo di Manieri — gli scoramenti e le ripre­ se — sono qui suggeriti, oltre che dalla colonna visiva, da quella sonora. « Ogni qualvolta che smetto di pensare ad alta voce, cosa posso fare? » si domanda Manieri. Ed ecco fuori campo la voce di Giulio bambino, un rimando immediato a quando, rinchiuso per castigo nello stanzino, si era messo a recitare « San Michele ». Ancora una volta nel buio, rinchiuso per « punizione », Manieri adulto ripete la filastrocca con voce piu alta, in crescendo. « Al­ lora cominciamo, cominciamo » (l’autodisciplina, il pro-

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gramma che si è imposto). E con uno stacco sulla porta della cella, lo vediamo riprendere, senza che si oda la musica, e con voce incerta e affannosa, le prime parole di « San Michele »: « San Michele aveva un gallo... » Pausa. Pronuncia « San... » e si ferma come preso da un pen­ siero improvviso. Riprende: « San Michele... » ma, invece di proseguire, decide: « Ora esco ». La filastrocca dunque, legata com’è a Giulio bambino rinchiuso nella stanzetta buia e a Giulio adulto in pri­ gione, rinvia qui al desiderio della libertà, dell’esterno: la ribellione, il reagire, dinanzi al « castigo », il farsi coraggio per vincere, nell’oscurità, la paura (parimenti, per abituarsi a non aver paura, egli parla ad alta voce). « Capriccio italiano » è connesso con questo desiderio di libertà, con i momenti in cui Manieri si sente rivivere, con la speranza e la gioia. Cosi, quando nella cella dice « Non mi sono sentito mai così libero » e si stira le brac­ cia, segue il ritmo della musica in crescendo di Cajkovskij, battendo i piedi per terra; la musica termina alla parola « Secondo », al secondo punto del suo programma. Ancora « Capriccio italiano » quando, dinanzi alla ciotola con la brodaglia e il barattolo d’acqua, immagina che siano pollo in gelatina e vino del Reno prima, e poi polenta e uccel­ li e vino pugliese. Il crescendo musicale cessa nella inqua­ dratura delle feritoie: la fantasia si dissolve dinanzi alla realtà della segregazione. Eppure né « San Michele », che rimanda come si è detto al farsi coraggio, al desiderio di ribellione, di uscire nel mondo esterno, né « Capric­ cio italiano », a sua volta connesso con questo desiderio di libertà, con i momenti in cui si sente rivivere, con la gioia che cerca sia pure nella fantasia, riescono a predominare. Sulla filastrocca e su Cajkovskij hanno il sopravvento la

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musica melanconica e le campane a morto36. La prima vie­ ne introdotta alle parole di Manieri « devo ricordarmi quel­ lo che incontravo uscendo di casa » e all’equazione scrit­ ta sul muro, e continua, con strumenti ad arco, mentre egli si gratta la schiena su uno spigolo della cella. Le cam­ pane a morto in crescendo s’odono quando Manieri urla « Sono le undici e tutto va bene. Sono le undici e faccio ginnastica », per cessare nella dissolvenza rapida su Ma­ nieri nella stessa posizione verticale della inquadratura precedente: la testa in giù, appoggiato ad una parete. Il contrappunto semantico è evidente, e viene sottoli­ neato da successivi rintocchi di campane a morto, che ini­ ziano quando Manieri dice: « Tra poco suoneranno le sei del pomeriggio. È un’oraccia per me. Non mi devo far tro­ vare impreparato ». È qui che Manieri viene preso da una crisi di pianto e abbiamo subito dopo uno stacco sulle feritoie dalle tonalità non più rosse, quelle di prima, ma bianche; di nuovo campane a morto. Queste campane a morto sono collegate a quelle udite nel capitolo pre­ cedente, e ai rulli di tamburo poco prima che esso abbia termine. L’« oraccia », le sei del pomeriggio. « È un’orac­ cia per me. Mi sto mettendo di mezzo. Ho paura di andare sino in fondo. Ho paura di scoprire che cosa * davvero ho voglia di fare. Ho paura a dire che ho soltanto voglia di piangere. E allora devo piangere ». E piange. Ma la vera paura, che non osa confessare a se stesso, di scoprire che cosa davvero abbia voglia di fare, è un’altra. « È l’uni­ ca soluzione, è l’unica... aiuto, aiuto! È l’unica... è l’uni­ ca... » L’unica soluzione dinanzi alla quale invoca « aiu­ to » — sottolineata dalle campane a morto — è il suicidio. 36 Manieri è un intellettuale; di qui i suoi rimandi soggettivi alla mu­ sica che egli conosce assai bene. E si noti che ih San Michele, come negli altri film dei Taviani, la musica non è illustrativa.

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L’« oraccia » è quella della sera, della fine. Di qui: « Non mi devo far trovare impreparato ». La speranza dei « tem­ pi brevi » è ormai lontana. « Tra dieci anni tutto il mondo alla rovescia » aveva commentato ironicamente il car­ ceriere. « Gente come voi verrà spazzata via » aveva detto Manieri al dottore. E già nel testamento aveva profetizza­ to che la sua bara sarebbe stata dissepolta dai compagni, a vittoria conseguita, tra dieci anni o forse meno. Dopo lo scoramento, la crisi, ancora la speranza, ancora un anelito verso la vita e la gioia. L’idea del sui­ cidio viene accantonata. « No, è stata una giornata troppo faticosa », dice a se stesso; e subito aggiunge: « Si, amici, è l’ora della passeggiata con voi. Vengo. Adesso sto meglio. Mi sono sfogato. Ho di nuovo tutti i nervi in azione. Anzi erano giorni che non mi sentivo tutto cosi rimesco­ lato ». E riprende la tabella di marcia. Ed ecco l’invito di andare all’opera rivolto a Battilana, a Mannoni, allo stesso Negrini. Ha bisogno di luci, ora, di bella gente, di colori; e di prendere posto in poltrona. Il teatro d’opera non piu come una Tosca alla rovescia, ribaltata. Il particolare della candela accesa, oltre la feritoia, è come se iniziasse appunto la rappresentazione (siamo nell’Ottocento); preceduto nella panoramica da destra a sinistra sulle feritoie con suono acuto di piatti, Manieri è seduto guardando la « camera », come in un palco. Il carrello indietro — mentre la musica continua — e che finisce per inquadrare il rettangolo dello spioncino nella porta della cella, rimanda alla bocca di un palco teatrale. La rappresentazione non ha termine con lo stacco su Manieri sopra il tavolaccio; la musica d’opera conti­ nua in sottofondo mentre egli saluta gli amici e prega San Michele di ridargli il sonno e il sogno, di allontanare da sé l’« ora maligna », le sei del pomeriggio, la sera ap­

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punto, il tramonto. E nel sogno prosegue la rappresen­ tazione — sempre d’opera —: è libero, le spedizioni sono riuscite, i contadini marciano con il gruppo « Pisacane »; le altre regioni insorgono dappertutto, in Italia, in Europa, in Giappone. È il nuovo avvento, e vogliono farlo presidente; donne bellissime si uccidono perché non riescono ad averlo; i giovani lo acclamano presidente, rifiuta, non ci debbono essere capi, decide di ritirarsi ma, travestito, irriconoscibile, si aggira tra la gente, la fa par­ lare di lui, e di lui ascolta quello che dicono. È qui che la musica d’opera finisce, che la rappresentazione ha ter­ mine, che la panoramica da sinistra a destra sulle feri­ toie (nella direzione inversa di prima) si ferma sul parti­ colare della candela che viene portata via, proprio e per l’appunto come in una rappresentazione teatrale, con l’« eroe » che trionfa. In questo trionfo peraltro le to­ nalità delle feritoie, da rosse che erano, diventano dopo il pianto biancastre: dalle tenebre a sprazzi di luce. La preghiera a San Michele ha dato a Manieri il sonno e il sogno di gloria, ed egli si sente « vergognosamente fe­ lice ». Anche qui, come nella precedente riunione imma­ ginaria con il gruppo « Pisacane », i momenti di riflessione critica non modificano il carattere egocentrico di Manieri. Non ci debbono essere capi: si ritira ma non scompa­ re; vuole che parlino di lui, e sentire quello che di lui dicono. Prefazione- a questa rappresentazione d’opera, un’altra messa in scena teatrale: Manieri seduto sullo sgabello, volgendo questa volta le spalle alla « camera », con la fantasia vede sul muro della cella quello che ve­ deva uscendo di casa; e quel muro è come se fosse un palcoscenico.

CRITICA DELLE FONTI E DELLE VARIANTI Da Manieri che alza con un braccio lo sgabello — alla domanda del dottore se si senta in grado di lasciare la segregazione per essere trasferito in un altro carcere — passiamo con stacco al terzo capitolo del film: piano ame­ ricano di Manieri su una barca; indossa il pastrano giallo dell’inizio; accanto a lui un carabiniere, Cipolla, e il bar­ caiuolo Fiorello. Lunga carrellata sui canali ampi della laguna. Ad un tratto inizia frase musicale sinfonica, che si interrompe, per riprendere prima che il movimento di macchina abbia termine. Stacco. Il viso dall’espressione dura di una giovane donna. Stacco. Totale di un’altra barca, con la donna — Virginia — e un gruppo di pri­ gionieri politici ammanettati. Manieri chiede a Cipolla di raggiungerla; urla il proprio nome: « Sono Giulio Ma­ nieri. Sono Giulio Manieri ». Al silenzio che segue, in­ calza: « Forse non avete capito chi sono io ». « Sei Giulio Manieri », risponde con indifferenza una voce fuori cam­ po: è quella di Virginia. Dissolvenza rapida in chiusura e in apertura su Manieri in piano americano: chiede che gli tolgano le manette per poter remare anche lui e avvici­ nare la barca dei giovani. Le due barche arrivano in uno stretto canale della laguna; poche battute della musica tri­ ste, già udite a più riprese nella cella di segregazione. Ma-

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nicn non erede che quei giovani — Virginia, Enzo, Ro­ berto, Enrico, Gaetano, Sanvilli e altri — i quali si com­ portano con tale freddezza con lui, siano sovversivi: che, come gli dice Cipolla, quello con la sciarpa è risultato, al processo, collegato, alla organizzazione dell’Italia cen­ trale; che la donna faceva la staffetta tra l’Inghilterra e la Svizzera; che altri due — operai — distribuivano clan­ destinamente un giornale. Quei giovani rimangono impassibili al suo nome, non si curano dei suoi consigli, quando a esempio dice loro che non sono tenuti ad aiutare i carabinieri nel remare. Si meravigliano che egli chieda quale spedizione abbiano fatto. Ora le due barche sono ferme, una accanto all’altra, vicine alla riva. Manieri finge di essere svenuto, e ascolta. Ad Enzo, Manieri appare meno vecchio di quanto gli sembrasse prima. Gaetano vuole che si eviti ogni discus­ sione: « Non servirebbe né a lui né a noi. Ne abbiamo avute altre prove ». Virginia è d’accordo: « Si, si, è gente che non ha piu la.capacità di... » « No, non si tratta di discutere », interrompe Manieri. « Solo devi spiegare alla signorina che anche se lei ha partecipato ad una spedi­ zione sfortunata... Anche se lei ha studiato i piani migliori per distribuire la terra ai contadini... Anche se lei... » Manieri dimostra un disprezzo particolare per Virginia, riconfermando l’atteggiamento negativo verso la donna emerso nelle sequenze del triplice sdoppiamento. « È una donna, figurati! » Enzo cerca di spiegare: No... Virginia non voleva... Sei fuori strada. Non puoi sa­ pere come stanno le cose oggi, dopo dieci anni. E allora è giusto che te le riassuma io. Alla svelta, però, prima che ci dividano. No, non puoi immaginarti. Continui a parlare del tuo gruppo. Di spedizioni armate. Qui, nessuno ha fatto spedizioni armate né in città, né in campagna. L’ultima cercò di organizzarla Man-

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noni [...] Ecco: la organizzò proprio lui, quando usci dal car­ cere. Si trovò praticamente solo. Fini prima di iniziare. No, non gli successe niente di male, anzi credo che ora faccia l’ingegnere ferroviario [...] È questo che non puoi immaginare. Non è più sulle campagne che punta il movimento [...] È proprio la terra anzi che rende il popolo reazionario o schiavo. Quanto pri­ ma il contadino è costretto per fame a migrare nelle fabbri­ che, tanto prima... Ma si, fabbriche; Manieri, l’industrializzazione sta cambiando la faccia del mondo [...] Oggi abbiamo decine di leghe operaie, circoli socialisti [...] Quel tuo amico, Battilana, ha cercato di starci dietro come meglio poteva. Poi l’ho perso di vista. Ma forse lavora ancora per il movimento... da qualche parte [...] Niente iniziative personali. Niente colpi di testa. Una organizzazione troppo vasta, per rimanere clandestina... Per pre­ parare il momento della sovversione generale, per spazzare via tutto, ma veramente... [...] Ci dividono... Degli altri, di quel Negrini non so... Dopo il carcere non ci è risultato più nulla...

Sulle parole « ci dividono », panoramica da destra a sinistra che scopre i compagni di Enzo per poi inqua­ drare l’azzurro del cielo; rumore dei remi nell’acqua. Carrellata da destra a sinistra, sulla laguna, mentre si vede la parte superiore di una briccola passare da destra a sinistra. All’apparizione della briccola, riprendono brevi battute della musica triste. Ancora inquadratura del cielo; la musica triste cessa. Manieri è coricato sul fondo della barca e, alla voce fuori campo « Come sta Manieri? », si copre il volto con un pastrano. Ancora la musica triste. Dissolvenza sino a immagine buia, mentre la musica triste non si sente piu. Panoramica su una basilica. Stacco. Pri­ mo piano di Manieri che guarda la basilica. Ancora pano­ ramica su di essa; ancora primo piano di Manieri. Ritorna in panoramica la basilica. Stacco. Manieri urla: Ammesso, ma non concesso, che il popolo si trasformi tutto in proletariato, chi vi autorizza... chi vi autorizza a pensare che si organizzerà come dite voi?!

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Ci autorizza il fatto... [...] Ci autorizza il fatto che la cosa ha delle basi scientifiche. Manieri Ma la tendenza naturale dell’uomo... Virginia Non sappiamo di filosofia, noi. Solo scienza. Economia. Vi siete mai posti il problema di una statistica, di un’analisi di classe? Manieri Statistiche?... no. Ma intanto noi abbiamo bruciato la nostra vita, mentre voi vi limitate a predicare, e ve la godete, la vita, voi! Enzo Non molto, ci godiamo la vita. Non molto mi sem­ bra eh! Manieri No, non volevo dire questo. Aspetta. Non volevo dire che vi divertite. Volevo dire... [...] Volevo dire che noi, pur di forzarle le cose, noi... Enzo Voi avete ritardato di almeno quindici anni la na­ scita del movimento operaio. Oilà!

Gaetano

Piano americano di Manieri; con scatto d’ira lancia una padella contro la barca dei giovani. Stacco. Campo lungo della laguna con le due barche affiancate, quasi ferme. Vocii incomprensibili, concitati, di lite: si com­ prendono di tanto in tanto solo alcune parole isolate dal contesto37. Stacco. Campo lunghissimo con le due barche. Vocii piu deboli. Stacco. Barca dei giovani. San villi

E meno male che lui [Enzo] sarebbe quello compren­ sivo. L’anima gentile del gruppo. Grazie a te quello laggiù [Manieri] l’abbiamo fatto gentilmente a pezzi.

La barca di Manieri è dietro, distante. Enzo

Oddio, ora ci sto male. Vi giuro. Vi giuro che non l’ho fatto apposta. Volevo solo porre fine a... [...] Io

” Qui i Taviani rimandano alle parole incomprensibili, intese come suono soltanto, da loro impiegate nello Scorpione c per i motivi già sot­ tolineati.

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Virginia

Enzo

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credo che una cosa del genere non mi doveva capi­ tare. Mi farà star male per tre giorni [...] Chissà perché, chissà perché, appena sento parlare del Manieri, mi viene voglia di buttarlo di sotto dalla barca. È piu forte di me. Forse non bisognava di­ scutere. Non è possibile fargli capire a parole. Ci vor­ rebbe un mese, ma nemmeno, ci vorrebbe che non avesse fatto dieci anni [...] Gente come il Manieri vorrebbero vedere l’uomo cam­ biare sotto i propri occhi... Ecco perché è gente che vorrebbe il premio immediato a quello che fa. Invece noi sappiamo che, con tutta probabilità, non noi...

« Non noi, ma altri domani » — termina la frase En­ rico con amara ironia — « non noi, ma altri, domani, lo avranno anche per noi: il premio... » Alle parole di Enzo (« È per questo che stiamo lavorando »), Enrico aggiun­ ge: « Certo, che allegria! Che prospettiva allegra! » Ri­ sate. Manieri crede che si rida di lui. Stacco. Fiorello, il barcaiuolo, offre da mangiare a Manieri; inizia frase musicale « Capriccio italiano » che continua sul dettaglio di una paletta di legno contenente crostacei e poi su inquadratura di Manieri con a sinistra vela rossa e fondo tutto azzurro. La musica finisce quando egli dice a se stesso: « Proprio a me doveva capitare? » Sul suo primo piano, rintocco di campane: Ma che ore sono? Sono le sci? Le sei! Ma come? C’è il sole alto e sono già le sei? Le sei... È un’oraccia per me... E io che faccio ora?

« Sono le tre, vostra signoria » risponde il barcaiuolo. Riprendono i rintocchi delle campane, che continuano nel campo lungo della laguna per terminare nello stacco che introduce un « totale » della barca con Manieri ri­

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preso di spalle. Si odono la musica a ritmo lento e le parole « San Michele aveva un gallo, bianco rosso verde e giallo... »; il tono della musica è mesto, con accompa­ gnamento di tamburo. Sulla ripresa « San Michele... » la musica si interrompe. Manieri si alza; in piedi e di spalle, dice: Riunione. Bisogna verificare. Ma alla svelta. Tu Negrini ti metti alla mia sinistra; alla mia destra Mannoni; tu, Battilana, ti metti... tu Battilana...

Si interrompe. Ripreso sempre di spalle, si siede, con la testa tra le mani. Carabiniere e Fiorello lo guardano; il primo fa un gesto come per dire: « è pazzo ». Stacco. Ma­ nieri sempre di spalle. Ritorna vivace, cantata a coro, « San Michele aveva un gallo... » Riunione, ho detto. Dunque, primo: ricominciare tutto da capo [...] Qui all’aperto non mi riesce, ragazzi. Appena saremo di nuovo in cella. Nella cella.

Manieri ora è rivolto verso la « camera ». Stacco. In­ quadratura dell’acqua azzurra della laguna; lunga car­ rellata sull’acqua; al termine del movimento di macchina si sente, prima in lontananza e poi sempre piu forte, un rullo di tamburo. L’azzurro dell’acqua improvvisamente si muta in un’inquadratura nera, mentre il rullo dei tam­ buri aumenta. Dal nero, con un movimento di macchina da destra a sinistra (inverso alla direzione della barca) si scopre un muro della cella in cui Manieri era rimasto per dieci anni; riprende la musica triste, già udita piu volte pro­ prio in quella cella, con accompagnamento di tamburi.

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Panoramica sulla cella vuota, mentre la musica triste scompare ma continuano i tamburi. Voce fuori campo di Manieri: Primo: ricominciare tutto da capo.

Anche il tamburo cessa. Stacco. Manieri in barca, visto di fronte. Enzo gli fa dei cenni per dire di scostarsi, di mettersi dinanzi a Cipolla, in modo da nascondere Vir­ ginia che vuole stare accanto a un compagno. Manieri crede che quei cenni siano un invito di Enzo a buttare nell’acqua Cipolla. Sorride, rivolgendo lo sguardo al gio­ vane; muove le braccia verso la schiena del carabiniere come per dire: « lo butto giu? » Sibili del vento. Sco­ perto nel suo gesto da Cipolla, comincia a fischiettare « Capriccio italiano ». Su uno sfondo di cielo azzurro e accanto alla vela rossa, Manieri guarda la barca dei giovani che si allontana. Panoramica sull’acqua. Stacco. Manieri ripreso di spalle: Secondo... non ce la faccio a ricominciare, non ce la faccio ragazzi. State ridendo ancora di me?

Manieri ora cammina all’indietro, fissando la « ca­ mera », va verso la parte anteriore dell’imbarcazione, fi­ schiettando ancora « Capriccio italiano » ma con tono sempre più basso. Raggiuntala, si abbottona il pastrano giallo, si alza il bavero; si siede sulla prua, poi vi si sdraia lentamente, ponendo le mani nelle tasche. Sempre visto di fronte, si accosta al fianco destro della barca. Di colpo, si getta nell’acqua. Sulla schiuma bianca provocata dal tonfo, improvvisamente schermo nero. Rullo di tamburi, con inserimento di musica triste. Sul rullo dei tamburi e

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la musica triste, la parola « fine » avanza, ingranden­ dosi. La lunga carrellata sui canali ampi della laguna e la frase musicale sinfonica che si interrompe per riprendere prima che il persistente movimento di macchina abbia termine — inizio del terzo capitolo, dopo il piano ameri­ cano di Manieri in barca — suggeriscono, passata una se­ gregazione di dieci anni, un senso di spazio aperto, di moto; e tuttavia è un senso illusorio, temporaneo; un falso procedere in avanti. Lo stacco con il quale viene introdotto il volto duro di Virginia annulla quella mu­ sica sinfonica, quell’azzurro dell’acqua sul quale la « ca­ mera » si era a lungo soffermata: riporta subito alla realtà, a un legame stretto tra il primo e il terzo capitolo attra­ verso il secondo. Al percorso del carretto che conduce in cella di segregazione Manieri corrisponde — struttural­ mente — il percorso delle due barche verso una nuova prigione. Ci sono addirittura analogie visive e sonore, insieme con analoghi movimenti di macchina: il proce­ dere del carretto e il procedere delle barche; alcuni par­ ticolari in entrambi i tragitti, come le panoramiche sulla cattedrale della città di Manieri e sulla badia accanto alla laguna. È cambiato l’interlocutore: non più il carceriere che raccoglie il testamento, ma i nuovi sovversivi che contestano Manieri. Dopo due lustri, il mondo è mutato ma non nel modo che egli aveva previsto. Il sogno in cella è del tutto svanito: inutile la preghiera a San Mi­ chele di ridargli quel sogno: i contadini che marciano con il gruppo « Pisacane », le spedizioni riuscite, le altre regioni che insorgono e i giovani — proprio i giovani — che lo acclamano presidente, e le donne che per averlo si ammazzano. Non è più tempo di spedizioni. L’ultima, organizzata

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da Marinoni, era finita prima che cominciasse; Battilana aveva cercato di stare dietro ai nuovi tempi, senza riu­ scirvi; di Negrini nessuna notizia. Niente più colpi di testa, iniziative private. Niente filosofia, ma solo scienza; non la tendenza naturale dell’uomo ma basi scientifiche: economia, statistiche, analisi di classe. I Manieri, la gente come lui, hanno ritardato di almeno quindici anni la na­ scita del movimento operaio. La padella che con ira Manieri scaglia, a questo punto, contro la barca dei gio­ vani, rimanda alla pietra che il bambino aveva lanciato a Manieri sulla carretta: il bambino avrebbe ora la stes­ sa età di quei giovani. I tempi che Manieri vorrebbe fossero brevi, sono lunghi. Egli capisce di aver sba­ gliato tutto; e tuttavia crede ancora nei colpi di testa, alle iniziative private e si illude che Enzo lo inviti a but­ tare nella laguna il carabiniere; è invece a Virginia che viene voglia di spingere sotto la barca proprio lui: è persuasa che non sia possibile discutere con Manieri, far­ gli capire con le parole l’impossibilità di veder cambiare gli uomini sotto i propri occhi. Le due barche rappresentano generazioni estremamente lontane l’una dall’altra: due diversi modi di pen­ sare e di operare. E la barca di Manieri è vista quasi sem­ pre indietro; egli tenta di raggiungere con tutte le sue forze l’altra, ci riesce, talvolta sono entrambe accanto, ma poi si ritrova distaccato, isolato. L’« oraccia » è ormai giunta; inesorabile si avvicina per lui il momento che gli incute tanta paura, le sei del pomeriggio, cioè il tra­ monto, la fine della vita, la morte. Davvero, rifacendo la barca Io stesso percorso del carro, il suo è un funerale; non è più giovane e più forte di quando l’avevano arre­ stato. Solo il funerale rimane del testamento che aveva fatto; ma a seguire la barca-feretro non ci sono i com-

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pagni che avrebbe voluto: Battilana, il suo Battilana anzi­ tutto, e Mannoni e anche Negrini. Già nel secondo ca­ pitolo « San Michele » e « Capriccio italiano » cedevano alla musica mesta, ai rintocchi a morto; ora la stessa fila­ strocca, esplosa all’inizio sino a diventare coro, e che tenta di riesplodere in coro quando Manieri riprova inutil­ mente la riunione immaginaria con il suo gruppo, nel suo andamento mesto, con accompagnamento di tamburo, si trasforma, per l’appunto, quasi in una marcia funebre. Al brevissimo ritorno vivace di « San Michele aveva un gallo... », un ultimo guizzo di ribellione, di speranza, di volontà di « verificare, ma alla svelta », Manieri non dice più: « Dunque, primo: parlare ad alta voce »; ma « Primo: ricominciare tutto da capo »; e tuttavia come prima, come sempre, indica i posti a Battilana, Negrini, Mannoni: non riesce a superare le sue contraddizioni. Il rosso della vela, l’azzurro dell’acqua appaiono di tanto in tanta; ma la lunga carrellata sulla laguna improv­ visamente diventa un’inquadratura nera sottolineata dal rullo dei tamburi; e anche nella cella che Manieri rivede buia e vuota, mentre pensa di poter rifare la riunione che non gli riesce all’aperto, musica triste e ancora rullo di tamburi. È solo dopo l’illusione che Enzo lo inviti a buttare in acqua Cipolla, che Manieri, guardando la « ca­ mera », cammina indietro fischiettando con tono sempre più basso, sommesso, « Capriccio italiano ». L’idea del suicidio — già venutagli in cella — si realizza. Quei rulli di tamburo, con inserimento di musica triste, mentre l’in­ quadratura diventa buia, rimandano agli stessi rulli di tam­ buro con i quali si chiudeva il primo capitolo, dopo la finta esecuzione; e agli altri rulli di tamburo che si sen­ tono di tanto in tanto, quasi un Leitmotiv, durante tutto il film. Al pari della filastrocca e di « Capriccio italiano »,

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sopraffatti dalla musica triste e dai rulli di tamburo — e ora le tonalità e dell’ima, la filastrocca, e dell’altro so­ no basse —, l’azzurro del cielo e dell’acqua, il rosso della vela nella barca di Manieri (ultima speranza di non aver sbagliato tutto, o di poter ricominciare tutto da capo) la­ sciano il posto alle tonalità nere, proprio come il buio nello stanzino, nel prologo, era preceduto dall’azzurro della parete e del tappeto chiazzato di bianco. L’inquadratura nera finale rimanda anch’essa ad altre inquadrature nere nel corso del film e in stretta relazione con il rullo dei tamburi: esse intervengono dopo che la figlia del ministro ha raccontato la sua « favola »; quando Manieri dice al dottore che lo ritroveranno più giovane e più forte; nel momento in cui confessa di « essere ver­ gognosamente felice » e dopo la segregazione; là dove si copre il volto con il pastrano e appunto dopo la lunga carrellata sull’acqua azzurra. Qui le inquadrature nere assumono ima duplice semanticità: e quella già riferita parlando dello Scorpione e quella, per Manieri, del « lutto dell’alternativa »38 : dinanzi alla scoperta di aver sba­ gliato tutto e all’incapacità di ricominciare tutto da capo, non gli rimane infatti che il suicidio. Quasi un destino, di cui egli si rende conto, prende coscienza. Di qui Ma­ nieri a volte ripreso di spalle, altre visto di fronte. Volge le spalle alla « camera » quando guarda il muro della cella come se fosse un palcoscenico; nelle inquadrature oggettive durante le soggettive del triplice sdoppiamento (riunione immaginaria del gruppo « Pisacane »); quando verso la fine — nell’ultimo ricorso alla fantasia, nelM « Lutto dell'alternativa » è espressione di Ugo Finetti, che l’ha ado­ perata al Convegno di Fiesole 1974 per l’opera di Orson Welles.

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l’estremo tentativo di riunione immaginaria con i com­ pagni — dice che « bisogna verificare, ma subito ». Sennonché, nello sforzo di modificare il punto primo della sua tabella di marcia, di darsi una nuova autodisci­ plina — e al « Primo: parlare ad altra voce » sostituisce « Primo: ricominciare tutto da capo » —, Manieri in barca è visto sì di fronte, ma mentre cammina indietro. Anche « Capriccio italiano », che egli continua a fischiet­ tare sempre più dimessamente, non ha più nulla di festoso, di felice; anch’esso assume un tono funereo. Cosciente di aver tutto sbagliato e di non aver più le forze per rico­ minciare (anche il suo più caro amico, Battilana, aveva cercato di star dietro al nuovo movimento), volge le spalle alla barca dei giovani che, dinanzi alla sua, si al­ lontana e, con essa, la prospettiva; ma appunto in questa presa di coscienza, mentre cammina indietro, guarda lo spettatore. Qui l’impianto da opera — legato come s’è vi­ sto all’ironia, alla critica del personaggio, all’estraniamento — vale a dire la « bella morte » da teatro lirico non è possibile. Quel tonfo nell’acqua — richiamo formale evidente alla chiusa di Paisà — è come una scarica di fu­ cileria, e tale risulta infatti. Giulio bambino per farsi co­ raggio nel buio della stanzetta, per ribellarsi al « castigo » e in attesa di uscire, aveva cantato con rabbia « San Mi­ chele ». Manieri adulto, in cella, ancora nel buio, canta la stessa filastrocca per farsi coraggio e ribellarsi alla se­ gregazione; ricorre alle note di Cajkovskij per esaltarsi nella sua immaginazione, per ritrovare la gioia di vivere. Il viaggio nel carretto e quello in barca — con le ana­ logie accennate — seguono dunque uno stesso percorso verso la fine. Si avvera, si era già avverato il tragico fi­ nale nel racconto della figlia del ministro, quell’« alt! » che nella fantasia della bimba diventa « Fuoco! » E non

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è certo accidentale il fatto che Manieri si copra il volto con le mani dopo la finta esecuzione e poco prima del suicidio. Analizzato dunque, attraverso gli elementi espressivi, non solo ciò che Manieri fa ma anche come lo fa, e nel contesto dei tre capitoli e del prologo, possiamo rispon­ dere agli interrogativi avanti posti. Manieri intanto nau­ fraga, e non poteva'non naufragare perché appunto, per dirla con Marx, rivoluzionario nella sua fantasia: da una parte si fa organo delle idee moderne e dall’altra, in ef­ fetti, in quel suo entusiasmo che può apparire troppo puro, rappresenta, finisce con il rappresentare un « inte­ resse di classe reazionario » (reazionario nel senso che ha ritardato di alcuni lustri il movimento operaio). I Taviani, che hanno letto Marx, sanno bene che un nobile come Manieri, rappresentante di una tale rivoluzione, non do­ veva assorbire tutto l’interesse del film; di qui i giovani della seconda barca che, come del resto in Tolstoj, costi­ tuiscono uno sfondo attivo di grandissima importanza, un elemento dialettico della storia. E il personaggio non diventa « noioso » proprio perché nella sua struttura non è visto in modo astratto, come personalità pura ed astratta, ma criticamente attraverso l’ironia, a comin­ ciare dall’impianto da teatro d’opera nelle sequenze ana­ lizzate, e l’impianto musicale. L’ironia, ancora una volta nei due registi, « attesta il dominio del poeta sulla sua creatura ». San Michele aveva un gallo coglie l’elemento vera­ mente tragico della sorte di Manieri — per dirla con Engels — nel sottolineare che l’attuarsi della rivoluzione nazionale della nobiltà era possibile solamente attra­ verso un’alleanza con le città e con i contadini, partico­ larmente con questi ultimi, e che tale condizione fonda­

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mentale, appunto l’alleanza con i contadini, era impos­ sibile: « la politica della nobiltà dovette perciò neces­ sariamente essere angusta [...]; nel momento stesso in cui la nobiltà voleva mettersi alla testa del movimento nazionale, la massa della nazione, i contadini, protesta­ rono contro la sua direzione e così essa andò necessa­ riamente verso il fallimento ». Dalla impostazione lin­ guistica e dalla strutturazione del film emerge dunque l’antinomia, la « collisione tragica tra il postulato sto­ ricamente necessario » (l’alleanza appunto con i contadini) « e l’attuazione praticamente impossibile »3’. Così i Tavia­ ni non riducono il conflitto tragico alle ristrette dimensioni di Manieri (che tanto rimanda, per certi suoi caratteri e aspetti, a certi gruppi extraparlamentari odierni, alla loro « propaganda del fatto » *). L’ironia peraltro si esten­

* Marx ed Engels, Sull'arte e la letteratura, op. cit. Come non si può giudicare ciò che un individuo è da quello che egli pensa di essere (si veda appunto Giulio Manieri), cosi — diceva Marx — non si può giu­ dicare un'epoca di sconvolgimenti dalla coscienza che essa ha di se stessa; si dovrà invece spiegare questa coscienza partendo dalle contraddizioni della vita materiale, dal conflitto in atto tra le forze sociali di produzione e i rapporti di produzione. L’aver « pensato » come Manieri alla rivoluzione, non basta perché questa possa essere « fatta »: « occorre che l’idea della rivoluzione si leghi alla situazione concreta in atto, che esistano le condi­ zioni materiali e si sia costituita la “massa rivoluzionaria” capace di fare quella rivoluzione». * È interessante notare alcune corrispondenze tra San Michele e il romanzo di Francesco Leonetti Irati e sereni (Feltrinelli, Milano 1974), dove è descritto un mondo extraparlamentare di ieri che rimanda, per diversi aspetti, a quello odierno; e si muovono personaggi come Manieri avventu­ rosi c « un po’ poeti, molto piu dotati di fantasia che di chiarezza poli­ tica», con «disposizione al “sogno”, all'* immaginazione” ». San Michele e poi Aìlonsanfan non sono tuttavia contro la nuova sinistra nata nel '68 e nel '69, come alcuni esponenti di essa hanno creduto e credono e perciò hanno osteggiato e osteggiano l’uno o l’altro film o entrambi. I Taviani, si è già av­ vertito, sono critici solo verso alcuni gruppi extraparlamentari (quelli appunto spontaneisti) e la loro critica si cala comunque in un contesto di umana sim­ patia. Si tenga inoltre presente — come analizzeremo — che in Aìlonsanfan

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de anche ai giovani della seconda barca: anche qui i due registi attestano il dominio sulle loro « creature »; al tempo stesso, nel tentato colloquio dei giovani con Ma­ nieri, nei discorsi che fanno, dinanzi alla realtà in cui si trovano, non manca un giudizio amaro sui « tempi lun­ ghi » per ottenere il « premio » e, come vedremo, vanno oltre tale giudizio. Oggi non siamo più nell’ottocento, nell’epoca in cui si svolge la vicenda del film; e tuttavia rimane valida l’affermazione engelsiana sul romanzo, tra­ sferibile al cinema: e San Michele, mediante « una fedele descrizione delle condizioni reali » (e, tra le altre, i « tempi corti » che Manieri e certi gruppi odierni esi­ gono, e i « tempi lunghi » cui la nuova generazione è costretta), « infrange le illusioni convenzionali dominanti, scuote l’ottimismo del mondo borghese » (e non soltanto borghese), « rende inevitabile il dubbio sull’eterna va­ lidità di ciò che in atto sussiste, senza neppure direttamente fornire una soluzione, anzi in certi casi, senza neppure prendere ostensibilmente partito »41. A guardar bene, attraverso l’analisi strutturale del film, i Taviani non prendono partito neppure per la barca dei giovani. Se Manieri è un rivoluzionario soltanto nella sua fantasia, certo i « nuovi sovversivi » della seconda barca, quelli della generazione venuta dopo di lui, si tro­ vano in uno stato di impatto: l’organizzazione, la loro organizzazione, è incapace di incidere sulla realtà per mo­ dificarla. La critica coinvolge, e ancora anche attraverso l’ironia, sia Manieri sia i giovani che lo contestano. Di qui la necessità di una terza barca, che non si vede ed è tuti « Fratelli Sublimi » sono visti attraverso gli occhi di Fulvio, cioè sog­ gettivamente da costui, mentre il giovane Allonsanfan è presentato in inqua­ drature oggettive. 41 Marx ed Engels, Sull'arte e la letteratura, op. cit.

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tavia presente: quella dell’utopia nel significato positivo del termine. Il « si può fare ancora ciò che conta » non è un dubbio, e un dubbio invalicabile; e conosciamo « ciò che conta ». Pur partendo i Taviani e Bergman da uno stesso autore, da due racconti scritti da Tolstoj nel periodo della conversione religiosa, gli approdi sono di­ versi, anzi opposti: il « lutto del cielo », l’ateismo di tipo borghese moderno nel regista svedese; la tragedia atea in San Michele aveva un gallo, nonostante, anzi, in virtù anche del titolo, e della presenza di quel « cristolo­ gico » già operante in Un uomo da bruciare, che ritro­ viamo nella preghiera di Manieri quando l’« oraccia » in­ combe: nel reale c’è sempre una parte di irrazionale; nell’individuarla, si rende necessaria la critica alla reli­ gione, a qualsiasi religione. Manieri è un innesto di Anatòlij Svjetoglùb con il suo maestro Ighnàt Mezenjètzkij. Svjetoglùb, laureando, ha dato tutto il suo avere per la causa del popolo, per lo svolgimento della sua attività; aveva dato poca importanza alla prima difficoltà, l’indifferenza del popolo, giacché era stato troppo turbato e sdegnato dalla seconda: da quelle angherie del governo, cosi dissennate e oltrag­ giose. Lo stesso era accaduto anche a coloro che cooperavano con lui in altre località; e il sentimento di rivolta contro il governo, rinfocolato vicendevolmente, era arrivato al segno che la mag­ gior parte dei componenti di quel gruppo aveva deciso di usare la violenza nell^ lotta contro il governo.

Mezenjètzkij era a capo di quel gruppo, uomo che tutti stimavano d’incrollabile forza di volontà, d’in­ vincibile acume logico c dedito interamente alla causa della ri­ voluzione. Svjetoglùb aveva subito l’influsso di costui e, con la stessa energia con cui dianzi aveva operato fra il popolo, si era ora dato all’attività terroristica.

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Di Svjetoglùb, Manieri ha il carattere eroico, il desi­ derio di martirio, l’esultanza per la condanna; in pri­ gione anche Svjetoglùb fantastica, e con l’immaginazione va in giro per la sua città, cerca di raffigurarsi il mondo di fuori; si riunisce, sempre nell’immaginazione, con i compagni; parla per sé e per gli altri, nascono discus­ sioni, dispute ad alta voce; e con la fantasia modifica i pasti; sogna di essere eletto presidente, si impone una disciplina e, dopo una crisi di pianto, sopraffatto dalla angoscia, gli viene l’idea del suicidio; si incontra con il dottore; e là, nella cella, c’è il grigio chiazzato d’umidità. Anche lui fa il viaggio, scortato, con la carretta, la mat­ tina dell’esecuzione, con calma solenne, mentre la mag­ gioranza del popolo non solo resta indifferente ma lo guarda quasi con disprezzo. D’altra parte Manieri non va verso la morte con un sorriso d’esultanza ma di sfida, che tradisce talvolta la paura; né il bambino, « d’improvviso, come nessuno si sarebbe potuto aspettare », gli si rivolge con un « sor­ riso pieno di bontà ». Diversa la vita spirituale che egli conduce in carcere, isolato da tutti. Diverso il suo testamento, che non è l’« agnello », il Vangelo: non ri­ mette l’anima a Dio per superare il buio nella luce. Ma­ nieri è soltanto in parte Svjetoglùb; è, in misura mag­ giore, Mezenjètzkij, di cui abbiamo visto quale sia la « fede ». I due personaggi tolstoiani diventano uno solo, e scompare la figura del vecchio settario religioso. Il viag­ gio di trasporto di Mezenjètzkij ai lavori forzati corri­ sponde al tragitto in laguna di Manieri; invece che nella laguna, l’incontro con gli altri condannati politici avviene al carcere di Krasnojàrsk.

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Sei persone in tutto, due uomini e quattro donne. Erano tutti giovanissimi, gente di formazione nuova, sconosciuta a Mezenjètzkij. Erano rivoluzionari della generazione seguente a quella di lui, successori suoi, e quindi gli destavano un eccezio­ nale interesse. Mezenjètzkij si aspettava di trovare in costoro della gente che calcasse le sue tracce, e che quindi dovesse altamente apprezzare tutto ciò che era stato compiuto da chi la aveva pre­ ceduta, e particolarmente da lui, Mezenjètzkij. Si era già preparato ad assumere con loro un atteggiamento di affettuosa condiscen­ denza. Ma, con sua sgradita sorpresa, questa gioventù non sol­ tanto si guardava bene dal considerarlo un predecessore e un maestro, ma era essa a trattarlo con una specie di condiscendenza, evitando e scusando le sue concezioni invecchiate. Secondo il modo di vedere di costoro, di questi nuovi rivoluzionari, tutto ciò che avevano fatto Mezenjètzkij e i suoi compagni, tutti i ten­ tativi di rivolta dei contadini, e soprattutto il terrorismo con la sua serie di assassini! (da quello del governatore Krapòtkin a quello di Mezèntzev e dello stesso Alessandro II), non erano che una filza di errori. Tutto questo non aveva fatto che condurre alla reazione, la quale era venuta a trionfare sotto Alessandro III, e aveva riportato indietro la società fin quasi ai tempi della ser­ vitù della gleba. La via della liberazione del popolo, secondo l’opi­ nione di questi « nuovi », era completamente diversa.

Le discussioni tra Mezenjètzkij e i suoi nuovi cono­ scenti — discussioni che nel romanzo durano due intere giornate e per quasi due notti — sono analoghe a quelle tra Manieri ed Enzo, che in Tolstoj si chiama Roman: Bisognava educare il popolo, bisognava abituarlo alla soli­ darietà: e questo si poteva ottenere soltanto con una maggiore industrializzazione, e con la conseguente organizzazione sociali­ stica del popolo. La terra, non soltanto non era necessaria al popolo, ma proprio essa lo rendeva conservatore e schiavo. Ciò non soltanto da noi, ma anche in Europa. E Romàn, a memoria, adduceva le opinioni delle autorità, e cifre statistiche. Il popolo, insomma, doveva essere liberato dalla terra. E quanto più presto

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questo fosse avvenuto, tanto meglio. Quanta piu gente del popolo fosse migrata nelle fabbriche, e quanta più terra si fosse accumula­ ta nelle mani dei capitalisti, tanto meglio. Abbattere il dispotismo, e soprattutto il capitalismo, era possibile unicamente mediante la solidarietà della gente del popolo, e tale solidarietà poteva essere raggiunta unicamente mediante leghe, corporazioni di operai, vale a dire unicamente quando le masse popolari non fossero state più composte di proprietari di terre, ma di proletari.

Le fonti tolstoiane di San Michele sono più cospicue di quanto possano apparire a una prima lettura sia del racconto e sia del film; un’analisi comparativa mette in risalto anche che alcuni dialoghi e battute sono press’a poco identici. « E non hai compassione, tu, di me? » do­ mandano Svjetoglùb e Manieri al boia. « Ma possibile che siate cosi ingenui da credere che io, mettendomi in quell’attività per la quale mi state giudicando, non mi sia preparato al peggio? » dicono ai giudici Mezenjètzkij e Manieri; « voi non possedete nessun mezzo né di sba­ lordirmi, né di spaventarmi ». « Non va bene cosi, gio­ vanotto! » reagisce il dottore; « alle cattive maniere, ab­ biamo anche noi il modo di rispondere ». « Ammesso pure » — gridano entrambi ai nuovi rivoluzionari — « (e io non lo concedo), che il popolo si trasformi tutto in pro­ letariato, che cosa vi autorizza a credere che esso si orga­ nizzerebbe in quella forma, appunto, che voi gli asse­ gnate in precedenza? » — « “Ci autorizza a crederlo il fatto che ciò ha delle basi scientifiche” — buttava qua la brunetta... ». « Il primo di marzo [del 1881], giorno dell’attentato in cui Alessandro II venne ucciso] me lo chiamate uno spreco di forze! Noi abbiamo fatto sacri­ ficio di noi stessi, delle nostre vite, mentre voialtri, tran­ quillamente, ve ne state in casa vostra, godendovi la vita, e vi limitate a predicare » urlano e l’uno e l’altro. « “Non

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molto, in verità, ci godiamo la vita” ribattè calmo Roman [ed Enzo], girando lo sguardo sui suoi compagni [...] “Non molto, in verità, ci godiamo la vita. Ma se, come sta di fatto, ci troviamo rinchiusi qui, possiamo ringra­ ziare la reazione, e la reazione è un prodotto, appunto, del primo marzo!” » (vale a dire, nel film, che gente come Manieri ha ritardato di quindici anni la nascita del movi­ mento operaio). Anche Mezenjètzkij — che come Manieri ha in così poca considerazione le donne — comincia a riflettere che tutto quello che lui e i compagni suoi hanno fatto (Chaltùrin, Kibàlcic, la Pjeròvskaja = Battilana, Mannoni, Negrini) sia stato inutile, anzi nocivo: « Dunque davvero cosi, vanamente, ho mandato in rovina tutte le mie forze? La mia energia, la mia forza di volontà, la mia genialità [...] le avrei mandate in rovina per nulla? » « Davvero, dunque, tutta la vita sua era stata un errore? » E con il cuore in tumulto si impicca. « Non prima dell’ispezione mattutina il custode s’avvide di Mezenjètzkij, diritto sulle gambe, incurvate ai ginocchi, di lato allo sgabello rovesciato sul fianco ». Nonostante tutte queste ed altre analogie e rimandi al racconto di Tolstoj, gli spostamenti dei personaggi nel film, le omissioni (come quelle del grande settario religioso e della conversione religiosa di Svjetoglùb), le aggiunte, le diversità profonde, insomma la visione del mondo dei Taviani, portano, come si è visto, a un approdo diverso. I due registi non possono né vo­ gliono chiudere con il grande romanziere russo: « Il ca­ davere di Mezenjètzkij fu trasportato nella camera mor­ tuaria, e collocato su quel tavolaccio, di fianco al cada­ vere del settario ». Eliminati il vecchio settario e la conversione di Svjetoglùb, scompare il « divino », anche il « divino »

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di un Manieri visto come eroe astratto, come culto della personalità; e rimane l’« umano ». E un umano strettamente connesso con la vita psichica del protagonista: la sua intimità illumina infatti « le linee essenziali dei con­ flitti essenziali » concepita com’è in « un’organica fu­ sione con i momenti storici e sociali »: i Taviani sanno bene che, « avulsa da questi, abbandonata del tutto a se stessa e alla propria dialettica immanente », la vita psi­ chica « costituisce un aspetto non meno astratto, una espressione non meno sviata e deformata dell’ “uomo to­ tale”, di quella che ci offre il fisiologismo naturali­ stico » Contrari dunque allo psicologismo che si rin­ chiude nella sfera del « privato », l’analisi psicologica — soprattutto nel secondo capitolo, in particolare nel triplice sdoppiamento di Manieri — serve non soltanto alla critica del personaggio ma a sottolineare anche il suo decennale isolamento dal mondo. Dall’umano, nella orga­ nica fusione del « privato » con i momenti storici e so­ ciali, si passa quindi al politico, in una dimensione ben diversa da quella prospettata da Tolstoj. Di là dalle sug­ gestioni che i Taviani sentono per lo scrittore russo, non è un caso che essi abbiano scelto, quale fonte culturale di partenza, uno di quei suoi racconti in cui, come ab­ biamo già visto, l’autore sviluppa la critica sempre piu amara al sistema; critica che, « già visibile in Anna Kare­ nina, raggiunge l’apice in Resurrezione, come pure nella 42 Gyorgy Lukàcs, Saggi sul realismo, op. cit. A proposito del «pro­ blema dell’inconscio », Lenin riporta da Abel Rey: « Ma se è difficile esage­ rare l’estensione che l’inconscio occupa nella nostra organizzazione, non biso­ gnerebbe, come ha fatto molto spesso certa psicologia pragmatista, esagerare l’importanza qualitativa di questo inconscio. Secondo certi pragmatisti, la coscienza chiara, la coscienza intellettuale e razionale sarebbe la parte più superficiale e più trascurabile della nostra attività » (Quaderni filosofici, Fel­ trinelli, Milano 1958).

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sua attività pubblicistica con Confessione, Il regno del cielo è in noi, e Non posso tacere ». Sennonché i Taviani respingono l’atteggiamento critico tolstoiano sopraffatto dalla « nuova religione » che, tra l’altro, impedì al grande romanziere di comprendere la situazione sociale e politica del suo tempo: in Resurrezione — mette conto ripe­ tere — Tolstòj aveva descritto i populisti con calda sim­ patia, ma Kondratev, l’operaio che legge Marx, è trattato con ironica condiscendenza; la medesima propensione è avvertibile ne II divino e l’umano, dove al posto di Marx la brunetta invita Mezenjètzkij a leggere Kautsky.

COLORI E SUONI: MONTAGGIO INTELLETTUALE

San Michele aveva un gallo si svolge in un arco di tempo che va all’incirca dal 1870 al 1880 (la stessa epoca de II divino e Vumano). Nel ricostruire, « montare » la storia, la nostra vita nazionale del passato con costanti ri­ ferimenti e rimandi al presente, Allonsanfan (1974) torna cronologicamente indietro. Se Sotto il segno dello scor­ pione rappresenta il momento della rivoluzione (e sotto­ linea la necessità che ad una rivoluzione ne succeda un’al­ tra, in quanto marxianamente la società umana si evolve appunto da una rivoluzione all’altra, ognuna contraddi­ stinguendo una nuova epoca), Allonsanfan vuole essere ed è un ulteriore ripensamento critico su quanto è acca­ duto dopo il Maggio (raggiunto il continente, uno scorpionide dice: « Pensavo che fosse qualcosa di diverso »). E non è anche qui accidentale che l’anno in cui si svolge la vicenda sia il 1816, l’anno che vede l’inizio in Europa, e quindi pure in Italia, della restaurazione. 1816. L’impero napoleonico è crollato. In Italia, come in tutta l’Europa, sfinita da venti anni di guerre,'i regnanti spode­ stati tornano sui troni. Le ultime conquiste della rivoluzione francese vengono liquidate, gli ultimi rivoluzionari dispersi.

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Questa didascalia, nella sceneggiatura di partenza, appare all’inizio in sovrimpressione su una inquadratura con un fregio scolpito in oro con le insegne del potere papale, per poi sparire mentre la « camera » scopre la sedia gestatoria, sormontata dallo stesso fregio d’oro, sulla quale il Papa, nei suoi paramenti suntuosi, sta parlando, alacre e sinistro, alla folla: ... Figlioli diletti, non prestate dunque ascolto alla voce de­ gli ultimi figli di Satana: senza guida e senza speranza, piu rab­ biosi perché impotenti, essi finiranno con il dilaniarsi tra loro, si faranno l’uno Caino all’altro. Affidatevi al vostro Papa, ai vo­ stri regnanti, che pensano e vegliano per voi: essi si sono uniti in una Alleanza che noi benediciamo come Santa e che schiac­ ce™ l’idra rivoluzionaria là dove cercasse di risorgere. Aiutateci a riportare l’ordine nelle vostre case, nelle vostre famiglie. Ri­ prendete le vostre sante abitudini di decoro e di rispetto. Tornate al vostro lavoro benedetto da Dio. E ringraziate il Signore. Noi ordiniamo che in tutte le chiese d’Italia venga celebrato un so­ lenne Te Deum di ringraziamento...

Così, nella sceneggiatura di partenza. Nel film appare, con caratteri azzurri su campo rosso, il titolo Aìlonsanfan. Al dileguarsi del titolo, i cartelli di testa; dopo questi, schermo tutto rosso e poi, su di esso, la didascalia « Negli anni della restaurazione ». Scompare la didascalia; lo schermo ritorna tutto rosso. Il fondo rosso si apre, a mo’ di sipario, sulla prima scena. La scalinata della questura; in campo lungo vediamo un uomo, Fulvio Imbriani, che scende le scale mentre viene bastonato dai poliziotti schie­ rati ai lati. Il segretario del questore, rivolto a Fulvio, gli annuncia di essere libero; un birro gli mette addosso un pastrano — il pastrano di Fulvio —: rosso. Primo piano di Fulvio mentre inizia una frase musicale del Te Deum. Fulvio esce in istrada, seguito di nascosto da due uomini.

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Alcuni incappucciati, della Misericordia, vengono avanti con i loro mantelli bianchi, di corsa, spingendo una let­ tiga; vi introducono a forza Fulvio, febbricitante. Sog­ gettiva di Fulvio: guarda dal finestrino verdastro della lettiga e vede, del colore del vetro, gli incappucciati. Uno di costoro si scopre il viso. Sua soggettiva — il colore è sempre verde —; ancora soggettiva di Fulvio, che rico­ nosce Lionello; sempre in soggettiva scorge le guglie del Duomo di Milano, strade, persone. Chi è Fulvio Imbriani, chi Lionello e gli altri in­ cappucciati che lo hanno rapito? E perché l’hanno rapito? Nato a Laveno, quarantenne, di nobile famiglia che lo ha ripudiato, musicista, poi ufficiale dell’ex imperatore Bonaparte ed ex ministro della disciolta Repubblica Cisal­ pina; esiliato, segnalato all’estero come giacobino, è rien­ trato clandestinamente in patria in compagnia di Filippo Govoni — noto alla polizia come « Gran Maestro » della setta Carbonara « Fratelli Sublimi » — allo scopo « delit­ tuoso » di riorganizzare le file disperse del loro gruppo; messo in carcere, anche se sottoposto a ogni genere di in­ terrogatorio, non ha rivelato dove si nasconde il suo capo. I movimenti di opposizione erano uniti tra loro solamente dall’odio comune per i regimi del 1815 e dalla tradizionale soli­ darietà che legava tutti quelli che erano contrari, per qualunque motivo, alla monarchia assoluta, alla chiesa e all’aristocrazia,

scrive Eric John Hobsbawm in Le rivoluzioni borghesi 1789-1848 * . Durante il periodo della Restaurazione (1815-30) la coltre della reazione copriva allo stesso modo tutti i dissenzienti, e sotto di essa era ben difficile distinguere le differenze tra bonapartisti ° Il Saggiatore, Milano 1963.

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e repubblicani, tra moderati e radicali. Non esisteva ancora, al * meno in politica, un sentimento rivoluzionario o socialista operaio autocosciente, tranne in Gran Bretagna, dove verso il 1830 si sviluppò un proletariato indipendente, politicamente e ideologica­ mente, sotto l’egida della « cooperazione » owenista. Il malcon­ tento delle masse europee era ancora, in genere, di carattere politico, o al massimo palesemente legittimista e clericale, come per una muta protesta contro la nuova società che pareva appor­ tasse null’altro che male e caos. Perciò, salvo poche eccezioni, l’opposizione era limitata a gruppi sparuti di ricchi o di intellet­ tuali, il che era praticamente lo stesso, poiché anche in quel po­ tente baluardo della sinistra che era l’École polytechnique solo un terzo degli studenti — un gruppo particolarmente sovversi­ vo — proveniva dalla piccola borghesia (per lo piu attra­ verso i gradi inferiori dell’esercito e dell’amministrazione statale) e solo lo 0,3 per cento dalle « classi popolari ».

Tutti i rivoluzionari — continua Hobsbawm — si consideravano, a buon diritto, come una piccola élite di emancipati e di progressisti, che operava nel mezzo, e per il bene finale, di una massa numerosa e inerte di gente ignorante e ingenua, che avrebbe indubbiamente accolto con gioia la liberazione se fosse arrivata, ma non avrebbe certo contribuito gran che a prepararla; essi concepivano la rivoluzione come qualcosa di unito e indivisibile: un unico, fenomeno europeo, e non un aggregato di libera­ zioni nazionali o locali; tutti tendevano ad adottare il medesimo tipo di organizzazione rivoluzionaria, se non addirittura la medesima organizzazione: le società se­ grete. Queste società, ciascuna con il suo rituale coloritissimo e con una gerarchia derivata o copiata da modelli massonici, pullula­ vano verso la fine del periodo napoleonico. La piu nota, perché la più internazionale, era quella dei « buoni cugini », o dei car-

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bonari. Discendeva presumibilmente da logge massoniche o da altre logge consimili della Francia orientale, portate in Italia da uffi­ ciali francesi antibonapartisti; prese forma dopo il 1806 nell’Italia meridionale e si diffuse, dopo il 1815, assieme ad altri gruppi ana­ loghi, nel nord e in tutto il mondo mediterraneo [...] Ideolo­ gicamente i carbonari erano una compagine multicolore, tenuta assieme dall’odio comune per la reazione. Poiché i rivoluzio­ nari piu accesi erano i radicali, e fra questi i giacobini e i babuvisti di sinistra, era ovvio che le sette subissero sempre piu il loro influsso. Abilissimo e infaticabile fra quei cospiratori fu Fi­ lippo Buonarroti, vecchio compagno d’armi di Babeuf, le cui dot­ trine, però, tendevano probabilmente molto più a sinistra di quelle della maggior parte dei suoi confratelli e cugini44.

Chi sono dunque i « Fratelli Sublimi » in Allonsanfan? In un clima di sconfitta generale — rispondono i Taviani — soltanto pochi ed esigui gruppi di disperati tentano generosamente ma invano di resistere alla repres­ sione scatenata dai regimi borghese, papalino ecc.; essi si ispirano ai princìpi originari della rivoluzione fran­ cese e alle prime esperienze di politica democratico-bor­ ghese vissute durante la breve vita della Repubblica Cisalpina. Più che dalle « classi popolari » è da pensare — i Taviani non sono espliciti a riguardo (oltre alla estra­ zione di Fulvio, sappiamo che nel gruppo c’è un me­ dico) — che i « Fratelli » provengano dalla piccola bor­ ghesia, che siano per lo più degli intellettuali. Durante il processo a Fulvio, accusato dai confratelli di tradimento, di aver rivelato il luogo dove si nasconde il « Gran Maestro », ecco come Tito, in nome del gruppo, inizia la requisitoria tra le colonne spezzate, gli archi fati­ scenti di una grandiosa costruzione romana in sfacelo:

* Eric John Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, op. cit.

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rovine che rimandano appunto a quelle della restaurazione dopo la rivoluzione: In questo di, 23 brumaio dell’anno ventiseesimo della Grande Rivoluzione di Robespierre, di Marat, di Babeuf [in nome dei principi che regolano la nostra setta — rispondere alla vio­ lenza della repressione raddoppiando la violenza dell’azione sov­ versiva, accendendo il fuoco della rivolta, ovunque c appena sia possibile, armando il popolo —]4S, il tribunale dei Fratelli Su­ blimi è qui convocato.

I « Fratelli Sublimi » sono dunque, a giudicare dalle parole di Tito, rivoluzionari tra i più accesi, radicali e gia­ cobini; si ispirano ai princìpi di Robespierre, Marat e an­ che di Babeuf. Fulvio, di origine aristocratica, ha abban­ donato il bonapartismo per la Repubblica Cisalpina e, di­ sciolta questa, anche lui giacobino, si trova nella setta. Non ha tradito. Filippo Govoni si è impiccato sotto i rami di glicine in fiore di cui l’inquadratura è satura. Lentamente, quasi esitando, la « camera » si muove, cer­ ca mentre inizia una frase musicale, di saltarello; die­ tro il ramo più grosso e fiorito, scopre il cadavere pen­ zoloni del Gran Maestro. La bambina del guardiano, compitando a fatica, legge il testamento trovato nella tasca del suicida: ... Ai miei Sublimi Fratelli... Guardo il consuntivo dell’anno che non finirò, il mio quarantacinquesimo anno. Si chiude in perdita, e non riesco ad avere idee per porvi rimedio. Mi rimane solo un po’ di coraggio. È quanto mi basta per togliermi di mezzo. Non perdono a nessuno e a nessuno chiedo perdono... Se mai ci sarà un mondo diverso, pacifico e felice, che penserà di queste cose? forse quello che noi pensiamo dei cannibali, della caccia alle streghe... Ciao' per sempre. Filippo. 45 Le parole tra parentesi quadre, che si trovano nella sceneggiala di partenza, sono state tolte dalla edizione definitiva del film.

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Sta per giungere la polizia; i « Fratelli » si dividono: in una inquadratura ripresa dall’alto, li vediamo correre in tutte le direzioni, dandosi un appuntamento in altro luogo. Ritorna la frase musicale del saltarello. Carrello sulla villa paterna di Fulvio, la Villa Imbriani, vista dal giardino, splendida e livida nella luce incerta di fine ago­ sto. Termina la frase musicale di saltarello. Fulvio vede il nipote, al quale hanno dato il suo nome; senza farsi riconoscere, sotto le vesti di un frate e il cappuccio in testa, si presenta alla famiglia. Solo il cane e Concetta, la vecchia fantesca, avvertono subito chi egli sia. Sequenza della cena, al lume di candele. Un ultimo raggio di sole illumina, di arancione, i capelli di Esther, sorella di Fulvio. A capotavola siedono Fulvio iunior e lo zio; ai lati, oltre ad Esther, il fratello Costantino e la di lui moglie, Fiorella. Ecco come si svolge il dialogo, in in­ quadrature oggettive: Fulvio iunior La mamma [Esther] è arancione. Esther Comunque il mio colore non è arancione, diceva Fulvio; mi vedeva viola, papà nero. Tu, Costan­ tino, di che colore eri? Fiorella Celeste, per me Costantino è celeste. Esther No, celeste no. Celeste è il colore della felicità, diceva Fulvio; lui, però, non riusciva mai a ve­ dere nessuno di quel colore. Lui [indicando Co­ stantino] lo vedeva verde, verde cavolo. Fulvio iunior E lui, mamma, lo zio, di che colore si vedeva? Esther D’oro. Sempre grandioso lui. Fiorella Giallo, vuoi dire. Esther No, oro.

Seguono due piani ravvicinati, su fondo scuro, di Fulvio; al primo corrisponde in soggettiva il controcanti-

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po di Esther, al secondo — sempre in soggettiva — il controcampo di Costantino che strizza l’occhio, a mo’ di intesa, e poi, con stacco, quello di Fulvio iunior sorri­ dente. Esther, Costantino e Fulvio iunior: Esther viene vista — appunto da Fulvio — viola; Costantino, verde cavolo; Fulvio iunior, d’oro. Ancora, con stacco, un pri­ mo piano scuro di Fulvio. Questa è una sequenza base per decifrare il tema cro­ matico e i diversi significati che i colori assumono ri­ spetto ai personaggi. Se la « missione teatrale » del Mei­ ster corrisponde in un certo senso alla « missione cinema­ tografica » dei Taviani, e gli « anni del noviziato » dello stesso Meister, sempre in un certo senso, al « noviziato » dei due registi — la « prospettiva » teatrale, cioè filmica, che s’allarga a esperienze più complesse sul piano concet­ tuale ed espressivo —, non c’è dubbio che gli autori di Allonsanfan abbiano anche presente, qui, La teoria dei colori elaborata da Goethe e, al tempo stesso, il famoso saggio ejzenstejniano Significato del colore, che, tra l’altro, a quel­ la teoria rimanda. Proprio rifacendoci ad Ejzenstejn, vedia­ mo come i colori vengono impiegati in questa sequenza, e in genere nel film, dai Taviani; i quali, anche in tale ambito, guardano sempre a una dialettica correlazione tra signifi­ cati e significanti. Scrive Ejzenstejn: In arte non è la correlazione assoluta a decidere, sibbene quelle correlazioni arbitrarie comprese nel sistema d’immagini dettato da una particolare opera d’arte. Pertanto il problema non è, né sarà mai risolto, da un catalogo fisso di colori-simbolo, ma l’intelligibilità e la funzione emotiva del colore nasceranno dall’or­ dine naturale seguito nello stabilire la raffigurazione coloristica dell’opera coincidente con il processo formativo del movimento vitale dell’opera intera. Anche entro le limitazioni di una scala cromatica compresa fra il bianco e il nero, colori in cui viene

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ancora realizzata la maggior parte dei film [il saggio di Ejzenstejn risale al 1940], uno di questi toni cromatici non solo sfugge al­ l’attribuzione di un valore « unico », come immagine assoluta, ma può assumere perfino significati affatto contraddittori, dipenden­ do, questi significati, unicamente dal metodo generale di raffi­ gurazione stabilito per quel dato film . *

Ejzenstejn a questo proposito cita due film, La linea generale e il Nevskij, sottolineando come nel primo il nero venga associato a ogni fatto o dato reazionario, cri­ minale e retrivo, mentre il bianco alla vita, a nuove forme di governo; e come nel secondo, invece, i man­ telli bianchi dei cavalieri teutonici siano associati a temi di crudeltà, di oppressione, di morte, mentre il nero dei guerrieri russi esprima i temi positivi dell’eroismo. Si pos­ sono citare, a proposito del giallo, dell’impiego di questo colore, due film dei Taviani: San Michele e appunto Allonsanfan. Nel primo, Manieri, e nel secondo, Imbriani, vestono un pastrano giallo; ma l’uso associativo di questo colore è diverso, anzi opposto: da « positivo » — Manieri rimane fedele alla causa e si uccide per i mo­ tivi già analizzati — diventa « negativo »: dopo un ul­ timo tentativo di ribellione (l’alterco con Remigio, l’uffi­ ciale austriaco marito di Esther), Imbriani diventa, come vedremo, un traditore. Continuando la tradizione di di­ videre i significati di giallo secondo le varie associazioni, in un capitolo della Teoria dei colori, precisamente in Effetti dei colori, con riferimenti alle associazioni morali, Goethe — come ricorda Ejzenstejn — osserva:

* Sergej M. EjzcnStcjn, Forma e tecnica del film e lezioni di regia. op. cit. Al saggio di Ejzenstejn facciamo continuo riferimento per ranalisi del colore in Allonsanfan.

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con una leggera e appena percettibile alterazione, l’impressione piacevole di fuoco e d’oro è trasformata in qualcosa che si me­ rita bene l’epiteto di sozzura; e il colore dell’onore e della gioia si trasforma nel colore della infamia e della ripugnanza47.

Analizziamo dunque, dal punto di vista delle tonalità interne, la sequenza della cena nella villa Imbriani per valutare in essa i valori psicologici dei colori, il loro im­ piego associativo, i mutevoli e contrastanti significati sim­ bolici- Come « vedeva » Fulvio, quando era giovane, nel ricordo di Esther? e come questa è vista dal figlio? « La mamma è arancione », dice Fulvio iunior. Goethe divide il rosso in tre gradazioni: rosso, rosso-giallo e giallo-rosso. A quest’ultima sfumatura — che è poi il nostro arancione — egli attribuiva la « capacità » di esercitare una certa influenza psichica. 47 Goethe « racconta ampiamente come nei suoi rapporti con la pit­ tura gli sia diventato sempre piu evidente il fatto che nella questione del colorito domina una completa anarchia di opinioni, che nessuno è in grado di dire qualche cosa di obiettivo sui principi estetici di questo importante campo dell’arte. I problemi che ne derivano lo inducono a indagare scien­ tificamente tutto il complesso dei colori, delle relazioni fra i colori, ccc: “Io avevo cioè capito, alla fine, che bisogna avvicinarsi ai colori, come fenomeni fìsici, in primo luogo dalla parte della natura, se si vuole appren­ dere qualche cosa su di loro in riguardo all’arte*. Solo da questo punto di vista si può capire perché Goethe respinga cosi duramente il metodo di Newton e una qualsiasi applicazione della matematica ai problemi ottici, mentre considera le esperienze della tecnica della tintura come un impor­ tante elemento della teoria dei colori. E con la stessa decisione egli afferma che non si tratta soltanto di un impulso estetico, ma piuttosto del fatto che tutta la teoria dei colori deve sboccare in una fondazione scientifica dell’estetica del colore in pittura. “E cosi”, dice Goethe, “senza quasi averlo osservato io stesso ero approdato in un campo estraneo, in quanto dalla poesia passai all’arte figurativa, da questa all’indagine sulla natura e ciò che avrebbe dovuto servirmi soltanto di ausilio mi eccitava ormai come uno scopo. Ma quando mi fui attardato abbastanza a lungo in queste re­ gioni estranee trovai il felice cammino di ritorno verso l’arte attraverso i colori fisiologici e attraverso il loro effetto estetico c morale in generale” ». (Gyorgy Lukacs, Prolegomeni a un'estetica marxista, Editori Riuniti, Roma 1957).

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L’arancione contiene il giallo, che rimanda anche alla gelosia, all’invidia, alla tristezza. Esther, donna di una bellezza « indurita dal tempo », è gelosa del fratello, invidia Charlotte, la compagna di Fulvio: ha qualcosa di sensualmente torbido, equivoco, nei rapporti sentimen­ tali con lui, e su di lui esercita un influsso psichico: è lei, con il suo « Dirin din din » — a sua volta sensual­ mente torbido più che serenamente gioioso — a deter­ minare, a concorrere a determinare, in misura maggiore rispetto agli altri famigliari, e alla vita agiata che la casa paterna gli offre, la prima e ancor vaga idea di tradimen­ to. Esther corregge il figlio: « Comunque il mio colore non è arancione, diceva Fulvio; mi vedeva viola, papà nero ». Il nero è il contrassegno del padre; viene associato qui, come nell’Ejzenstejn de La linea generale, a fatti e dati reazionari: da quel « nero » familiare Fulvio si al­ lontana per aderire al « rosso », e viene diseredato. Gau­ guin, nel dipingere il quadro M.anao Tupapau, ritiene il violetto necessario per evocare uno sfondo terrifican­ te — ricorda il regista sovietico — e « non a caso il violetto è stato scelto da molte nazioni come il colore caratteristico del lutto », non è dinamogeno come il rosso ma, per converso, snervante e inibitivo (Max Nordau). E snervata, inibita è Esther; sarà lei a chiamare i soldati bor­ bonici nella villa, provocando il ferimento e poi la morte di Charlotte — la compagna di Fulvio — e la morte di alcuni « Fratelli Sublimi ». Fiorella vede il marito, Costantino, celeste, il « colore della felicità » come diceva Fulvio. Fio­ rella non ha problemi, sciocca e insipida, ha trovato nel­ l’unione matrimoniale il sr sogno, una vita tranquilla e sicura. Ma Costantino .xon è affatto come lei lo vede:

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considera la restaurazione un fatto positivo; è un confor­ mista: Abbiamo bisogno di tutti, ora, per ricostruire, in pace. Anche di musicisti, abbiamo bisogno. E Fulvio era un buon violinista...

Fulvio vedeva Costantino, corregge Esther interrom­ pendo Fiorella, verde cavolo. Il verde, per Portai, ha un significato perverso: « e come era stato il simbolo della saggezza e della rigenerazione dell’anima, significava an­ che, per l’opposto, la degradazione morale e la follia ». Fulvio, nell’infanzia — ricorda sempre Esther — si ve­ deva non giallo, come afferma Fiorella, ma d’oro, « semgrandioso * pre »; e, per dirla con il Belyj, commentatore del Gogol’ di Anime morte, lo « scampanar dell’oro » si equilibra con il « rosso scampanare » della gloria. I due primi piani di Fulvio e i tre rispettivi controcam­ pi soggettivi confermano, specificandole, le tonalità interne dei famigliati; e il cambiamento avvenuto in Fulvio stesso. Egli vede viola Esther, senza che ciò venga a contraddire l’arancione attribuitole dal figlio; Costantino non verde nel significato positivo di questo colore, ma verde cavolo, per sottolinearne inequivocabilmente il significato nega­ tivo. Vede d’oro il nipote: nel ricordo dell’infanzia, se stesso com’era da bambino; ma i suoi tre primi piani, nel cappuccio da frate che gli nasconde il viso, sono neri, come nero vedeva il padre. Il verde era apparso, in due acce­ zioni contraddittorie, contrarie, già nella sequenza in cui i « Fratelli Sublimi », credendo che Fulvio avesse tra­ dito il « Gran Maestro », lo avevano rapito con la lettiga: le soggettive di Lionello che, attraverso il vetro, vede verde Fulvio, e questi che, sempre soggettivamente e

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attraverso il vetro vede dello stesso colore Lionello e gli altri « Fratelli », e la natura circostante in lunghi movi­ menti di macchina, le guglie del Duomo, vie e persone, e poi alberi piegati dal vento. « Il verde [...] è direttamente associato ai simboli di vita, tenere gemme, fogliame e “verzura” in generale; quanto, del resto, lo è ai sim­ boli di morte e di sfacelo: la melma, le foglie putride e le ombre sul volto di un morto ». Il verde è lo spettro prossimo al giallo; e le stesse cose dette per il giallo, annota Ejzenstejn, possono essere riferite al verde: « il colore del­ la speranza può diventare il colore della disperazione ». E disperato è Fulvio nella lettiga: non comprende, deli­ rante com’è per la febbre, perché si trovi li dentro; di­ sperati sono i « Fratelli Sublimi », credendo che Fulvio abbia tradito, rivelato alla polizia dove si nasconde il « Gran Maestro ». Anche il viola ritorna — simbolo di lutto, di morte — nella sequenza in cui viene scoperto il corpo penzoloni del « Gran Maestro » suicida: si è impiccato ad una pianta di glicine dai bellissimi fiori a grappoli. Il nero dei primi piani di Fulvio nella sequenza della cena, associan­ dosi a fatti e dati reazionari, criminali e retrivi (della restaurazione) si ricollega in modo stretto e progressivo al giallo nel senso negativo già accennato, a temi di cru­ deltà, di oppressione, di terrore, di morte. Il giallo è il colore dominante nella scala cromatica del protagonista. Parlando del giallo, Portai sottolinea come le idee di perfidia, peccato, tradimento si vennero ad associare ad esso ed Ellis ricorda che Giuda fu presentato con vesti gial­ le. Cosi, man mano che a Fulvio viene l’idea di tradire, e porta avanti questo suo disegno in continui e crescenti tentativi, il giallo diventa sempre piu un segno « sinistro » e gli indumenti di tale colore che indossa aumentano al

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pari delle cose accanto a lui: compare sugli sfondi, le pa­ reti, gli ambienti familiari. Fulvio appare per la prima volta, mentre scende le scale interne della questura, con un abito rosso e rosso è il pastrano che il segretario del capo della polizia gli getta sulle spalle, quando è messo in libertà; poi ne veste uno giallo: nella sequenza del seppellimento di Charlotte (tutta questa parte tende allo stesso colore), nella scena in cui fa affogare Lionello nel lago. E giallo è il mantello che, dopo aver ucciso il compagno, i giovani mascherati gli mettono sopra per asciugarlo. Gialla è la vestaglia che Fulvio indossa quan­ do è a letto con Charlotte, e le propone di fuggire in­ sieme in America; gialla è la sciarpa quando Fulvio con­ valescente è seduto sulla terrazza prima che Esther intoni il « Dirin din din ». Rifiutando dunque con Ejzenstejn un catalogo fisso di colori-simbolo, l’intelligibilità e la funzione del colore na­ scono dall’ordine che i Taviani seguono nello stabilire di volta in volta la raffigurazione cromatica di Allonsanfan (come già nello Scorpione e in San Michele)} danno ai per­ sonaggi tonalità interne e le relative associazioni psicologi­ che e morali seguendo una personale scala di tinte, operan­ do scelte nelle ambivalenze dei significati che i colori offro­ no, legandoli ora a una caratteristica positiva e ora negati­ va, o all’una e all’altra al tempo stesso. Escludono cioè « corrispondenze assolute », ed assumono immagini le cui tonalità associano appunto a personali concetti di co­ lore. Non divideva forse il loro Goethe i colori in gruppi « attivi » e « passivi » (plus e minus), in rapporto ai co­ lori « caldi » e « freddi » (il verde cavolo qui, a esempio, di Costantino)? In questo anche i Taviani rinviano, come Ejzenstejn indica, alla « storia dell’evoluzione dei signi­ ficati simbolici riguardo a certi colori »: « un medesimo

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concetto, un medesimo significato e una medesima pa­ rola rappresentano due cose opposte che si escludono a vicenda ». Essi non si fermano alle tonalità interne dei personaggi e dell’intero film; alle « associazioni morali » e psicologiche del colore aggiungono quelle « sociali », in un rapporto strettamente interdipendente. Il rosso, particolarmente dinamogeno e « favorito da Marx » è qui in genere associato all’idea di rivoluzione (ma anche in questo caso esistono i contrari: per Bergman, in ispecie il Bergman di Sussurri e grida, e per 1’Antonioni di Deserto rosso, a esempio, il rosso rimanda all’anima uma­ na, all’interno dell’uomo; viene impiegato psicologica­ mente, sul piano psicoanalitico; e si ricordi come nello Scorpione sia quasi del tutto assente il rosso). Si è già sottolineato che in Aìlonsanfan il titolo appare, all’inizio, con caratteri azzurri su campo rosso e che di tale colore rimane tutto lo schermo; e che su campo rosso è anche la didascalia « Negli anni della restaura­ zione »; e che il fondo rosso si apre, a mo’ di sipario, sulla prima scena; parimenti il titolo del film riappare, alla fine, con caratteri azzurri su campo rosso. Ne ve­ dremo il significato. Il giallo stesso assume la seman­ ticità, oltre che di valori interni — psicologici, morali —, di valori sociali e qui, in entrambi i casi, nell’accezione negativa. L’interpretazione del tradimento in un rapporto di unione matrimoniale o comunque tra un uomo e una donna « può andare molto più in là »: il giallo rimanda anche a un « membro di una camera del lavoro antiso­ cialista ». Il « giallo quale colore del tradimento è stato conservato persino nello stigmatizzare i traditori delle classi lavoratrici ». I Taviani non si limitano a una inter­ pretazione semantica personale dei colori scelti, ma li as­ sociano anche in montaggi intellettuali di inquadrature

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e all’interno delle stesse inquadrature. Vediamo come na­ sce ed è espressa l’idea del tradimento in Fulvio. Dopo il suo alterco con Remigio — quando gli getta contro la tazza con la tisana in un’ultima ribellione che prelude alla resa (il bianco della divisa di Remigio, e dei soldati, che tra poco, chiamati dalla moglie, arriveranno nella villa, assume un valore negativo analogo al nero dei poliziotti, che vengono in aiuto ai soldati: nero e bianco qui si equivalgono) — Fulvio rivela la propria iden­ tità: la. « camera » carrella alternativamente in avanti e indietro sulla scala che porta al reparto notte della villa, accompagnando ora Fulvio che scende ora Esther che, con uno scialle viola sulle spalle, sale sino all’incontro e all’abbraccio dei due. Dissolvenza sulla stanza da letto di Fulvio gravemente malato; estrema unzione; dissol­ venza su interno giorno: sopra la tenda lattescente (sia­ mo a fine estate) spicca uno scarabeo dalla vistosa tinta metallica, che vediamo poi sulla camicia bianca di Fulvio ancora dormente. Dissolvenza su un gatto: comodamente accovacciato, ammicca; controcampo: Fulvio che guarda il gatto. Dissolvenza sulla volta della stanza. Soggettiva di Fulvio: sul soffitto vede delle ombre verdi. Dissol­ venza, sempre soggettiva di Fulvio: ora egli vede, sul soffitto, ombre rosse e gialle che prima si incontrano e poi si dividono, prendendo direzioni opposte. Questi segni esprimono lo stato d’animo del prota­ gonista in quel momento, la sua trasformazione interiore: il verde delle ombre qui, dal colore della disperazione, diventa il colore della speranza (di tornare a vivere nella comodità, di restare nella casa paterna: il bianco delle tende, lo scarabeo che si posa su di lui, il gatto comoda­ mente ammiccante; e al tempo stesso ha un significato perverso, connesso appunto con il movimento del rosso

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e del giallo, che prima si incontrano e poi si dividono. Il rosso viene in collisione con il giallo, e da questo si allontana: comincia a prendere forma, nel protagonista, l’idea del tradimento; ed ecco, per stacco, due soggettive di Fulvio: il teatrino dell’infanzia prima, e poi i suoi stru­ menti musicali ad arco; una panoramica dal basso in alto — sempre soggettiva — scopre alla parete il quadro giallastro di un veliero; il movimento di macchina, quasi una carezza su quel quadro, si ferma sulla scritta in cima al quadro stesso: « Verso le Americhe ». Una serie, un succedersi di dissolvenze: sul forno, con il fuoco acceso e il pane fumante; su Fulvio, sempre nella camera da letto, proteso verso l’odore di quel pane fresco; sulla fantesca che, al pari di quando Fulvio era giovane, lo chiama « fringuello » e lo lava, ne ammira la virilità. Dissolvenza ancora: su Fulvio ormai alzato, accanto alla finestra aperta dalla quale entra una luce molto viva, ab­ bagliante. Fulvio guarda fuori, dinanzi a sé, lasciandosi inondare dal caldo chiarore, mentre si odono rintocchi di campane; altra dissolvenza su Fulvio che appare rige­ nerato e dice al barbiere: « Fammi bello! » Tutte queste dissolvenze sviluppano il tema delle in­ quadrature del soffitto, delle ombre rosse che si allonta­ nano dalle ombre gialle, legate alla fiamma rosso fuoco del forno w. La decisione è ormai presa: quella di tornare a vivere — respingendo il rosso per il giallo, la rivolu­ zione per la restaurazione — nella comoda casa paterna, in attesa della fuga in America. I « rapporti figurativi » del colore, attraverso il montaggio senza stacco (le dis­ solvenze) e lo stacco che immediatamente segue, costiu Legate nel senso già detto: l’impressione piacevole di fuoco che si trasforma in qualcosa di sporco, cosi che il colore dell’onore e della gioia — il rosso — si trasforma in quello dell’infamia.

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tuiscono in connessione con i « rapporti sonori », e non soltanto la campana, l’« elemento orientatore » del tema del tradimento. Ecco infatti, per stacco, Esther — la quale con lo scialle viola sulle spalle aveva abbracciato il fra­ tello sulle scale — nel patio della villa: inizia a intonare, tra comico e osceno, il motivo popolare delT« Uva fogarina ». « Ti ricordi? » domanda a Fulvio. Altro stacco: Fulvio bambino alla spinetta suona lo stesso motivo, che a poco a poco diventa corale e sempre piu forte: tutti gli appartenenti al nucleo familiare cantano — eccetto Fulvio iunior — in concomitanza con un « totale » della villa. Il motivo di snoda, a piu riprese e sempre in cre­ scendo: Dirin din din... Dirin din din Dirin din din din din Oh come è bella l’uva fogarina oh come è bello... saperla vendemmiar far l’amor con la mia bella far l’amore in mezzo al pra’. Dirin din din Teresina creatura poca voglia de lavorar... Teresina creatura poca voglia de lavorar ti sei tolta la sottana... ti t’hai voglia da pagar. Oh come è bella l’uva fogarina oh come è bello saperla vendemmiar... far l’amor con la mia bella far l’amore in mezzo al pra’. Dirin din din

Anche la fantesca canta, con movenze volgari; e, dopo qualche esitazione, pure Fulvio si lascia trascinare

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dal motivo. Con stacco, vediamo il nipote che fa cadere una statuetta raffigurante un pappagallo (intuisce, nel « Dirin din din » e nel tono in cui è cantato, oscuri le­ gami tra la madre e lo zio). Fulvio continua il motivo insieme con gli altri: si trova ancora piu a suo agio in quell’ambiente. Stacco. Esterno facciata della villa. Men­ tre il coro continua in un clima sensuale, carrelli intrec­ ciati a panoramiche sul parco, sugli alberi lussureggianti con i rami mossi dal vento, sui prati vicini. Avanza, con passo deciso, la figura di un viandante. Il « Dirin din din » cessa d’improvviso; il nucleo familiare e il nuovo venuto si fronteggiano, a mo’ di sfida. Primo piano di Fulvio, che si avvicina imbarazzato allo sconosciuto, e lo bacia. È Charlotte, appartenente alla setta dei « Fra­ telli Sublimi », la compagna di Fulvio, dalla quale ha avuto un figlio, cui hanno messo il nome di Robespierre: Massimiliano. Fulvio e Charlotte nella camera da letto. Fulvio non rinuncia all’idea del tradimento; anzi la persegue e la perseguirà con ostinazione. Propone alla compagna, che gli porta i fondi raccolti in Inghilterra per una nuova spedizione (da quell’Inghilterra dove, come abbiamo vi­ sto, si sarebbe sviluppato un proletariato indipendente, politicamente e ideologicamente, sotto l’egida della « coo­ perazione » owenista), di fuggire con lei e Massimiliano in America. Immagini sfocate; un movimento di macchina, mentre i contorni si fanno definibili, scopre un primo gruppo di « Fratelli Sublimi », poi altri. Sono vestiti pit­ torescamente da cacciatori, con al collo selvaggina morta — fagiani, tordi, lepri —; chi è a piedi, chi a cavallo, chi su muli. Sono cosi travestiti per non farsi ricono­ scere, ma agli occhi di Fulvio appaiono figure tra l’eroico e il grottesco. Ritorna il motivo del saltarello, già inserito

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nella colonna sonora allorché la « camera » scopre il ca­ davere di Filippo Govoni e quando, dopo, i « Fratelli » si dividono al sopraggiungere della polizia. Il saltarello e il « Dirin din din » costituiscono altri elementi « orientatori », in stretta connessione con l’impiego della scala cromatica, e non soltanto con quello del rosso e del giallo. Anche qui i Taviani seguono un principio indicato da Ejzenstejn a proposito dei rapporti tra colori e suoni: Noi non obbediamo a qualche « legge inevitabile » di « si­ gnificati » e corrispondenze assolute fra i colori e i suoni, e di assoluti rapporti fra questi e certe specifiche emozioni [...] Noi stessi decidiamo quali colori e quali suoni siano i più adatti a risolvere una data esigenza e a fornire una data emozione quali noi le vogliamo.

Il « Dirin din din » riattacca, violento, là dove Esther si getta su Fulvio e lo percuote con la frusta prima che il fratello, proteggendosi con il corpo del nipote, e Charlotte ferita fuggano con il calesse dinanzi ai soldati che, chiamati dalla stessa Esther, hanno ucciso alcuni « Fratelli »; a poco a poco il motivo si spegne mentre Fulvio iunior, lasciato dallo zio in istrada, corre verso la villa e l’inquadratura si dissolve su un fondo tutto rosso: il « rosso » continua ad allontanarsi: il ragazzo che fugge è visto in soggettiva da Fulvio. Il saltarello, al­ l’opposto — sia come suono in se stesso, sia come suono e immagine visiva insieme —, è sempre associato ai « Fra­ telli Sublimi ». Lo sentiamo per la prima volta nell’in­ quadratura dei glicini che precede quella con il corpo penzoloni del « Gran Maestro » dove finisce per poi ri­ prendere quando i « Fratelli », di li a poco, all’annuncio della bambina che sta arrivando la polizia, si disperdono e si passa alla villa paterna di Fulvio; lo sentiamo ancora

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durante i funerali di Charlotte, allorché essi riappaiono e annunciano a Fulvio di aver deciso la spedizione nel Sud e, nella stessa sequenza, quando se ne vanno fidu­ ciosi che Fulvio — il quale peraltro continua a ingannarli, a voler trattenere il denaro per fuggire in America — provveda a comperare i fucili; nel campo totale del ve­ liero che li conduce nel Meridione; nell’inquadratura in cui si avviano verso il paese di Vanni. Vediamo il salta­ rello senza sentirne la musica all’inizio della scena della pescheria, dove la spedizione viene organizzata; lo vedia­ mo e lo sentiamo in sincrono prima della fine, quando Aìlonsanfan dice a Fulvio che l’impresa è riuscita e in sog­ gettiva i « Fratelli » avanzano uniti con i contadini e con Vanni in prima fila. E, legato a questa soggettiva, lo risen­ tiamo — senza vederlo — alla fine riattaccare in crescendo sul cadavere di Fulvio, mentre riappare per stacco su cam­ po rosso la scritta dell’inizio (il titolo): « Aìlonsanfan ».

IL FLUSSO DI COSCIENZA

E in concomitanza con il saltarello che abbiamo i « monologhi interiori » di Fulvio, sentiamo i suoi pen­ sieri segreti, i propositi di tradimento; il suo « flusso di coscienza », il giudizio sui compagni, si esprimono con un elemento ricorrente nell’opera dei Taviani — da Un uomo da bruciare in avanti —: il pensare ad alta voce del personaggio, il parlare a se stesso. Quando i « Fra­ telli Sublimi » lo raggiungono alla villa, travestiti da cac­ ciatori, la voce fuori campo di Fulvio dice: Perché venite a riprendermi? Ma dove credete di andare cosi mascherati? Sono venti anni che andate, venite, vi ma­ scherate...

Dalla seconda persona plurale, dopo una pausa, passa alla prima persona plurale: ... Che corriamo dietro a faville che sono soltanto cenere.

La persona del verbo cambia ancora, ridiventa se­ conda plurale: Dio mio, come mi siete venuti a noia. State diventando anche voi soltanto delle tremende abitudini [come vecchie sono le abi­ tudini nella sua casa paterna].

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Fulvio non vede bene i compagni, ma può fare il nome di ciascuno di loro. E mentre la macchina inquadra ora a fuoco ora no questo o quel « Fratello », il monologo continua: Da come cavalchi il tuo « purosangue », Gioacchino, ti rico­ nosco... da come cammini, Ugo, con la tua artrosi... da come saltelli, Lionello! So perché stai saltando: cerchi di nascondere la vocazione alla morte che ti porti [...] Dovevi affogarmi, Lionello [nella vasca dietro l’arena; allude al processo, dopo la sua li­ berazione]. Dovevate lasciarmi morire di febbre. Avete sba­ gliato a lasciarmi guarire... Sono guarito. Sono cambiato. Sto bene, qui [nella villa paterna] dove tutti mi vogliono bene. E tu dove guardi, Massimo? Abbassa gli occhi, o inciamperai... Non sopporto i vostri occhi sempre volti al futuro. A me la vita è data una sola volta e non voglio aspettare la « felicità univer­ sale ». Chi di voi pazzi mi ama abbastanza da proteggermi contro la morte?

La voce cambia di tono, alla vista di Tito. Da ironica diventa affettuosa, melanconica, quasi di rimpianto: Tito... Tito mio, ho perso la fede. E non cercare nemmeno di consolarmi: perché sono io che ho pena di te... Tu non vivi, Tito mio, sopravvivi a qualcosa che è finito da tempo e che forse ricomincerà quando io e te saremo vecchi. Non chiedermi quello che voglio. So soltanto quello che non voglio piu... [Questa ultifha frase è uguale — ma calata in un contesto opposto — a quella dai Taviani riferita ai personaggi in crisi di Sovversivi],

Tito guarda la « camera », come se avesse sentito la voce di Fulvio. Il tono della voce cambia ancora, di­ venta « aspra e aggressiva »: Non guardarmi cosi! Se qualcosa ti deve spaventare non è la mia disperazione, ma la mia allegria! Tu neanche immagini che cosa si possa chiedere di diverso alla vita!

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E mentre con una sventagliata la macchina scopre i soldati austriaci dietro i cespugli, per stacco, con un carrello rapido in avanti sino a raggiungere il primo piano, riappare agli occhi di Fulvio il quadro del ve­ liero con in cima la scritta « Verso le Americhe ». Ful­ vio, che ha visto i soldati, non avverte i « Fratelli ». È Charlotte — che aveva riunito nella villa Imbriani i compagni sparsi nella regione — a gettare un grido di allarme. Sempre in connessione con il motivo del saltarello, abbiamo un altro « monologo interiore » quando i « Fra­ telli Sublimi » lasciano il cimitero — dove Charlotte è stata sepolta — con l’intesa di ritrovarsi per la spedizione al Sud e credendo alla promessa fatta da Fulvio di procu­ rare i fucili: Addio ragazzi. Questa è l’ultima volta che vi vedo. Scendete pure nel vostro Sud, a suicidarvi, tra i vostri contadini che non sanno neppure chi siete e che volete. Io prendo da un’altra parte... Chissà se in America riuscirò mai a sapere quale è stata la vostra sorte.

Dopo questo « monologo interiore », il quale finisce sul primo piano di Massimiliano che, con stacco, intro­ duce la scena del ristorante dove Fulvio festeggia il sesto compleanno del figlio e per la prima e l’ultima volta lo ve­ diamo suonare il violino (molti anche qui i movimenti di macchina: panoramiche e carrellate sui clienti costituisco­ no, a un certo punto, un piano-sequenza; ma parecchi anche i campi e i controcampi), il « flusso di coscienza » riprende nel dialogo immaginario di Fulvio con Lionello. Proprio Lionello, che all’inizio avrebbe dovuto annegare Fulvio, da questi viene invece annegato, nel lago, quando non è più sostenibile l’attesa di quei fucili promessi e mai com-

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perati. L’inutilità del passare del tempo, l’aspettare privo di fondamento, è suggerito da un susseguirsi di dissol­ venze incrociate assai lente. Di Lionello, Fulvio ha preso la compagna, tra repulsione di lei e insieme attrazione; come già a Charlotte, propone a Francesca — gli occhi scavati, le trecce infantili sulle spalle — di fuggire in­ sieme, con il denaro per l’impresa nel Sud: Io ho fatto per te quello che nessun Lionello avrebbe mai avuto la forza di fare: ho lasciato morire il mio compagno piu caro [...] Se hai il coraggio, confronta il suo amore con il mio [...] Possibile che non ti immagini la vita che ti aspetta? Non pensi che invecchierai anche tu? Non sarai sempre bella cosi come ora. Se non resterai con me, ti dico io come andrà a finire. Passerai da un disperato all'altro... vivrai sola, in esilio. In carcere anche, per complicità sovversiva [...] Io sono capace di salvarti. Abbiamo molto denaro. È importante il denaro; ce ne eravamo dimenticati.

Fulvio ha appena avuto, nella camera da letto nella villa Belvedere, dinanzi al lago, ripetuti amplessi con Francesca; la persuasione è stata raggiunta, e la donna si è assopita (per la prima volta si era vista tutta intiera nello specchio a tre ante di quella stanza, aveva ammi­ rato la sua immagine riflessa moltiplicata su uno specchio così grande, da lei mai posseduto). Fulvio non riesce a prendere sonno. Seguendo il suo sguardo, la macchina si allontana, avanza nella camera buia, si avvicina al vetro azzurro-viola della finestra, lo oltrepassa, scopre una pan­ china nel parco. Il movimento di macchina — in un rap­ porto di contrasti semantici tra immagine e suono — è accompagnato dal motivo fischiettato che Francesca aveva cantato dinanzi alla bara di Charlotte: Erba non cresce piu, ape non vola più,

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bocca non bacia più; ma io vorrei, ma io vorrei... addormentarmi con te. Alto e lontano è il ciel nel ciel lontano il sol4’.

Sulla panchina, dinanzi al lago, è seduto Lionello (è lui che ha fischiettato, fuori campo, « Erba non cresce più »). Fulvio lo raggiunge. Ed ecco il suo dialogo imma­ ginario, nelTallucinazione, con il compagno che ha ucciso e vede bagnato e tremante per il freddo. Cerca di giusti­ ficarsi, di convincere se stesso: Io amo Francesca. Prima le ho mentito. Ma ora no!

Lionello risponde come Fulvio, nel suo stato di allucinazione, vuole che risponda: Povero Fulvio! ti eri dimenticato che l’amore fosse così bello. [Nella villa Imbriani, Fulvio aveva rifiutato l’amplesso con Charlotte].

Dopo un tentativo di Fulvio di respingere l’imma­ gine di Lionello (« Imbecille. Tu sei affogato perché non sai nuotare. Sei una mia allucinazione »), dinanzi all’espres­ sione di affetto e di comprensione dell’amico — l’affetto e la, comprensione che egli vuole vedere ancora in Lionello — continua il suo tentativo di giustificarsi e, come preso da una disperata pietà di se stesso, aggiunge: ...eppure vorrei credere in te... Vorrei credere a tutto quello in cui non riesco a credere più... * Le parole di questo motivo sono di Giuliani G. De Negri, sin­ golare produttore dei film dei Taviani e di altri film coraggiosi, anticommcrciali, come appunto I dannati della terra di Orsini.

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« Sei troppo intelligente per crederci ancora » — sem­ pre nel subconscio Fulvio fa rispondere a Lionello —: Hai capito quello che nemmeno Tito osa pensare: che noi siamo arrivati troppo tardi... o troppo presto... E ti sei ribellato.

Ed ecco, nell’allucinazione, un momento di coscienza critica, e Fulvio fa dire a Lionello: Solo che non ci si ribella, povero Fulvio, sprofondando in­ dietro... Stai cadendo dalla padella nella brace.

Ma Fulvio subito respinge l’immagine di Lionello: Imbecille! Tu sei affogato perché non sai nuotare. Sei una mia allucinazione.

L’immagine di Lionello non scompare; e Fulvio sup­ plica il compagno da lui ucciso di non fargli del male. Gli altri Fratelli, certo, te ne faranno, se non li previeni, se non andrai fino in fondo per la tua strada. Io che male potrei farti, ormai?

La macchina inquadra sulla panchina Fulvio, che è solo. Qui terminano le immagini soggettive insorte in Fulvio e da lui scambiate per oggetti e persone reali. Fulvio aveva già combattuto — e combatterà — con la sua falsa coscienza. « Dovevi farlo, ma non dovevi dirmelo », dice a Esther quando apprende che la sorella ha chiamato nella villa Imbriani i soldati. « Hai sempre voluto farlo! » dice a Lionello mentre lo convince al suicidio, gli propone di annegarsi insieme e lo fa cadere nel lago e non lo soccorre quando invoca aiuto. « Certo ti faranno male gli altri Fratelli se non li previeni, se non

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andrai fino in fondo per la tua strada » fa dire a Lionello nella chiusa del dialogo immaginario. E Fulvio va sino in fondo per la sua strada. Ha già lasciato Massimiliano (l’ultimo rimando a Robespierre, alla rivoluzione) in un collegio, quello della sua infanzia. Il figlio, prima di co­ ricarsi con lui, gli chiede cosa significhi « mon amour ». Significa « mio amore », risponde; che una persona vuole bene ad un’altra. Massimiliano bacia il padre, si addor­ menta sorridente. Nella notte, si sveglia febbricitante e, con voce torva, diffidente e nemica, lo respinge: « Pussa via, tu. Pussa via ». Si avvicina alla porta, per fuggire. Fulvio lo trattiene: « Attento, se l’apri, dietro c’è il rospo ». E inizia a raccontare la favola del bambino che, scappato di casa, vive solo nella foresta ma non sa che un rospo ha deciso di mangiarlo. Fulvio ha avvolto con un fazzoletto verde la lam­ pada a petrolio, e il verde domina tutta la stanza. Nel­ l’ambivalenza di significato che, abbiamo visto, in ciascun colore si può leggere, i Taviani questa volta associano al verde l’accezione negativa e insieme quella positiva. La tin­ ta della stanza rimanda alla melma, a foglie putride (dove appunto i rospi vivono), a ombre sul volto di un morto, al­ lo sfacelo e alla disperazione (quella disperazione, sia pure diversa, nella sequenza della lettiga). I riflessi verdastri, quasi verde-cavolo — la tonalità interna di Costantino — vengono peraltro in conflitto con il richiamo a simboli di vita, tenere gemme — Massimiliano —, a fogliame e « verzura » in genere (la casa in cui il bambino viveva e alla quale vuol tornare). Il verde, lo « spettro prossimo al giallo », da colore dello sfacelo e della disperazione, della degradazione morale e della follia, diventa anche il colore della speranza, il simbolo della salvezza e della rigenerazione dell’animo umano. Massimiliano, che Fulvio

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ha avuto da Charlotte, e lo stesso nome che hanno dato al figlio, esprimono, nella decodificazione del segno al­ l’interno del « flusso di coscienza », un momento di ri­ morso nel padre, un’idea-baleno di potersi salvare. E Fulvio invoca aiuto al figlio, quell’aiuto che nella scena del lago e che segue a questa per dissolvenza, Lionello, mentre sta affogando, chiede a Fulvio. Aiutami Massimiliano, aiutami. Guardami. Guarda. Il rospo sta prendendo me. Mi trascina sul letto. Vieni, Massimiliano, aiutami!

Fulvio spegne la lampada. Tutto è buio; ritorna il nero come colore associato alla reazione, al criminale, al retrivo; e nel buio confessa: Sf, sono vivo. Sono il rospo incarnato. Ho mangiato tuo padre e prima che lo digerisca solo un bambino può salvarlo. Si, un bambino che abbia il coraggio di darmi un bacio sulla bocca.

Massimiliano si avvicina al padre e, chiudendo gli occhi, lo bacia. Stringendolo a sé, accarezzandolo tra i sin­ ghiozzi, Fulvio gli sussurra: Sono io, Massimiliano... Ora basta... ora basta... sono io...

Bussano alla porta. Primo piano di Fulvio e inquadra­ tura soggettiva: un rospo enorme, grigiastro con mac­ chie verdi, quasi un mostro, occupa tutto lo schermo. Stacco. È il guardiano del collegio che viene a svegliare Fulvio per la partenza.

LE « OGGETTIVE » DI ALLONSANFAN

Dunque conosciamo ormai le ragioni della meta­ morfosi di Fulvio, del suo tradimento; perché egli ha perso la « fede », prende e va sino in fondo per un’al­ tra strada: durante anni e anni ha corso dietro favil­ le che ai suoi occhi si sono rivelate cenere; ha apparte nuto a quella categoria di uomini che cerca senza tro­ vare, che non vive ma sopravvive a qualcosa che ritiene finito da tempo e che forse ricomincerà quando egli sarà vecchio, morto, spazzato via; e le spedizioni ora gli sem­ brano mascherate (l’apparizione dei « Fratelli » nella villa Imbriani), e i compagni vecchie, tremende abitudini. Fulvio non sopporta più gli occhi volti al futuro, la voca­ zione alla morte: scendere nel Sud, significa suicidarsi tra contadini che neanche li conoscono e non sanno per­ ché combattano. Non intende aspettare la « felicità uni­ versale ». In qualche momento vorrebbe magari credere a quello in cui non riesce più a credere, ma ha deciso di vivere, di vivere in un altro modo, qualsiasi altro modo. E il suo grande amore per i « Fratelli » si è così mutato in odio, anche fisico: non li sopporta più accanto a sé, gli sono venuti a noia. Come sono visti dai Taviani i « Fratelli Sublimi »? L’elemento strutturale dell’ironia non manca naturalmente

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neppure in Aìlonsanfan, e con ironia è presentata la setta rivoluzionaria; ma questa, se la si analizza attraverso i mezzi espressivi, in genere la vediamo con gli occhi di Fulvio, con le sue « soggettive ». È lui che la guarda dalla sua angolazione. Tale angolazione è condivisa dagli autori? e, nel caso affermativo, quale rispecchiamento del pas­ sato il film offre e, nei suoi stretti rimandi al presente, in quali dimensioni rappresenta la realtà odierna? Il punto di vista sui « Fratelli » non corrisponde sempre e comunque a quello di Fulvio. Se le inquadrature soggettive, del prota­ gonista nei riguardi dei compagni sono parecchie, non mancano le inquadrature oggettive, che ce li presentano in modo diverso. A esempio Lionello ha forte il senso dell’amicizia; l’idea di aver sospettato di tradimento Ful­ vio è per lui cosa così grave che cerca dì rimediare per riconquistarne la fiducia: non è un « mediocre » come Fulvio lo definisce, ma ingenuo in questo suo totale senso dell’amicizia da non accorgersi che appunto a Fulvio sarà facile eliminarlo. La sua vocazione al suicidio ri­ manda sì all’« eroico » (piuttosto di essere fatto prigio­ niero, quando i soldati arrivano nella villa Imbriani, tenta di sgozzarsi), ma al tempo stesso alla coscienza dell’inu­ tilità ormai della lotta, di tenere ancora gli occhi volti al futuro. Condivide il testamento del « Gran Maestro »: anche lui guarda il consuntivo che si chiude in perdita (i fucili per la nuova spedizione non ci sono) e non riesce ad avere idee per porvi rimedio: gli rimane solo un po’ di coraggio, quello appunto di uccidersi: prima che siano gli altri a cancellarlo, vorrebbe cancellarsi con le proprie mani. Lionello è ormai anziano. E anziano Tito: hanno ol­ trepassato la quarantina (il « Gran Maestro » si uccide nel giorno del suo quarantacinquesimo compleanno). Il

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modo di fare di Tito è quello di decidere anche per gli altri, e all’insaputa degli altri; di prendere su di sé le re­ sponsabilità che vanno invece prese collettivamente. È ot­ timista, o meglio cerca di esserlo, nei momenti dispe­ rati. Non vuole fermare la spedizione: Non è vero di Lionello... delle armi... del denaro... Dobbiamo partire lo stesso... Quella gente ha bisogno di noi.

Il suo ottimismo, il suo voler essere ottimista, non esclude affatto la consapevolezza della situazione, il dub­ bio che l’impresa possa fallire. Nel battello che li porta nel Meridione dice: Preferirei essere al maggio prossimo... cosi sapremmo se tutto questo ha avuto un senso.

Sospetta che l’impazienza sua e dei compagni, nelle circostanze storiche in cui vengono a' trovarsi e agiscono, sia sbagliata. Denuncia il suo orgoglio: Non mi guardate cosi, mi fate vergognare [...] Anch’io spesso mi chiedo se quanto faccio sia solo per orgoglio. Perché non voglio ammettere [...] che forse oggi occorrerebbe la pa­ zienza invece di questa mia fretta. Se non avessi quarant’anni, ci proverei [...] Mi piacerebbe provare. Ma li compio proprio in questo maggio... e ormai sono capace di fare soltanto questo, quello che ho fatto fino a oggi. Non riesco che a vivere cosi, in questo mondo dove tutti sembra che dormano e soltanto noi siamo svegli, [...] che tornerei a fare, io, indietro? Non saprei neanche dove andare.

Ormai, già nel battello che li porta nel Sud, non può che continuare a sperare, pur intuendo che l’esito della spedizione sarà negativo.

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Lionello, Tito e in genere i « Fratelli Sublimi » ap­ partengono alla passata generazione, al pari del « Gran Maestro » e dello stesso Fulvio. Giovanissimi sono sol­ tanto Allonsanfan e Vanni, il quale a loro si unisce per la spedizione nel Sud (contadino calabrese ricercato dalla polizia, dal Sud appunto viene; conosce bene la sua terra, e potrà guidare i compagni nella nuova impresa). Nel soprannome del primo, che deriva dalle due parole ini­ ziali della « Marsigliese », è già indicata allusivamente una natura diversa da quella dei compagni anziani; egli è il filo rosso che sottende il film, e non è un caso che il titolo del film stesso — titolo che apre e chiude la vi­ cenda, la « storia », con caratteri azzurri su campo ros­ so — corrisponda al suo nome. Figlio del « Gran Mae­ stro » suicida, ne continua la lotta. Non è neppure acci­ dentale il fatto che, nei « monologhi interiori », Fulvio non lo veda mai. Appare, per la prima volta — e non in soggettiva, come visto da Fulvio — nella sequènza del cimitero, ai funerali di Charlotte, quando viene presa la decisione di partire per il Sud. « È lui » — dice Tito — « che ha saputo che Fulvio si trovava li » (nel cimitero). In contrasto con le « soggettive » di Fulvio nelle sequenze del funerale, quando questi crede di dire per l’ultima volta « addio » ai compagni trattenendosi il denaro, viene introdotto con un piano ravvicinato, mentre il saltarello continua in sottofondo: solo, in disparte, in piedi, con lo sguardo duro; e con asprezza risponde al prete che vorrebbe la funzione religiosa. Nuovamente con un primo piano — quasi un quadro fiammingo — ancora in di­ sparte, fermo e duro, in sincrono con il motivo del sal­ tarello lo rivediamo nella pescheria ascoltare Vanni che, venuto dal Sud, racconta le sue vicende e per quale mo­ tivo la polizia lo stia cercando.

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Al racconto del giovane contadino, le parole fuori campo si integrano a immagini che esplodono in squarci violenti, a inquadrature lampo prima e poi di durata meno breve: piano ravvicinato della moglie, lei per terra; contadini e soldati che intimano a Vanni di non toc­ carla; lui che sgozza, con il falcetto, due soldati. Nel si­ lenzio sopraggiunto, al termine del racconto, altro primo piano di Allonsanfan; stacco; carrellata su di lui, mentre si avvicina a Vanni e, raggiuntolo, lo bacia due, tre volte. Nel battello, a Tito che dice di essersi assunta tutta la responsabilità (della spedizione anche senza i nuovi fu­ cili) Allonsanfan muove deciso il rimprovero: Chi ti ha dato il diritto di decidere anche per me? Troppo spesso dici « io ».

Egli è contro le facili avventure e per l’organizza­ zione. Vediamo come si articolano, vengono strutturate le sequenze dello sbarco e del dopo sbarco. A un certo punto, dal veliero, qualcuno crede di scorgere il conti­ nente; si tratta invece di un’isola “ Nella notte che pre­ cede la discesa a terra, si sente per la prima volta il mo­ tivo della « Marsigliese ». Piano ravvicinato di Fulvio che chiude gli occhi; accompagnato dal canto dei « Fratelli » — la « Marsigliese » appunto —, carrello indietro, imma­ gine di Massimiliano nel collegio, che ancora stringe le palpebre per non vedere il padre. Stacco, altro pensiero, soggettiva di Fulvio: Francesca sul letto, nella villa Bel* Qui torna un motivo dello Scorpione, dei naufraghi dell’isola di­ strutta che credono di approdare al continente, e invece si trovano in un’al­ tra isola.

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vedere, serra le mani intorno alle trecce, in un gesto muto e disperato, sino a farsi male. Ancora carrello indietro. Dialogo con Vanni, il quale ha fatto ai « Fratelli » un rac­ conto con omissioni. Ecco cosa aveva detto Vanni nelle sequenze della pescheria: C’era ’o culera in giro per la campagna. La mia sposa stava lavorando... con noialtri sul campo davanti alla casa. Era miezzojuorno quando sedette a terra. Era caldo ma idda avia friddo. Noi la guardammo e facimmo cinque passi indietro. Guai a chi la toccava. Io la volevo toccare, ma gli altri non volevano. Dice­ vano che se pur’io pigliava *o male, tutta ’a famiglia moria di fame. Chi lavorava la terra? Anche la mia sposa diceva che non l’avia da toccare. Io... Io ’a lassai sopra il suo letto e scappai a cer­ care un cavallo e un carro per la purtari dal medico de lu paese, per la guariri. Quando cu ’o carru tornai sopra l’aia, i soldati inchiodavano ’a porta d’a casa. La sposa mia era dentro sopra ’o letto e manco gridava. Io pregavo i surdati come in chiesa di fermarsi. Per lo meno mi lasciassero entrare da lei. « Culera », rispunneano iddi... Pure io guardava la falce che stava dietro a l’erba. I surdati... « Siamo nove », ci dicevo ai cumpari che stavano là a guardare, « e i soldati quattro. Diamoci contro ». Iddi mi guardavano e restavano con le mani in mano. « Idda piange », dissi. La mia sposa piangeva, ma non forte, sapete? Piangeva come una bambina... Quando tornai, la sposa mia stava morta sopra ’o letto. Allora entrai nella casa dei cumpari, quelli che avevano visto ma erano rimasti là a guardare. A uno a uno ci sparai. In mezzo agli occhi ci sparai. Poi tornai alla mia casa. La misi a fuoco e rimasi li a vederla bruciare.

Vanni non ha detto tutto ai « Fratelli »: che al suo paese — è quanto viene ad apprendere ora Fulvio nel colloquio con lui — lo chiamano Vanni Peste (di qui, nel racconto, le immagini visive che esplodono in squarci violenti, in inquadrature-baleno prima e poi di du­

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rata meno breve; di qui per l’appunto la descrizione che procede con veemenza). Sto bene, ora. Grazie di avermi portato con voi,

esulta Fulvio, che vede un’altra possibilità — la defini­ tiva — per il tradimento. I « Fratelli » non sanno come è chiamato e considerato Vanni nel suo paese: la « pe­ ste ». E bisogna far sapere ai contadini che Vanni è tor­ nato: la spedizione fallirà certamente. Dopo il colloquio, il motivo della « Marsigliese » cessa, per non piu ripren­ dere. Il « giorno di gloria » di cui parla l’inno di Rouget de Lisle non è affatto arrivato. Inutile risulta l’appari­ zione, nel subconscio di Fulvio, del figlio con gli occhi chiusi e di Francesca muta e disperata. Più forte in lui è l’idea di poter portare a compimento il suo disegno, dopo tanti tentativi falliti. La vallata del Meridione. Si sente risuonare il richiamo « Noi per il popolo! » Ma nes­ suno risponde « Il popolo con noi! », se non gli stessi « Fratelli ». I collegamenti non ci sono. Allonsanfan in­ terroga uno del luogo per avere notizie, ma non riesce a decifrare le parole in dialetto. « Hai capito qualcosa? » gli domanda un compagno. Brusca la risposta: « No ». Nasce in Allonsanfan la coscienza che la spedizione avrà un esito negativo51. Totale del paese di Vanni, spoglio e arido come i sassi di Matera. L’arretratezza è data anche da flagellanti in processione. Fulvio va in chiesa; al prete, dice di volersi confessare: Venti uomini del Nord, armati, sono sbarcati per mettere a soqquadro il paese, il Regno. Avverta subito la guarnigione... ” I Taviani sottolineano, con il Visconti di La terra trema, che « la lingua italiana non è la lingua dei poveri ».

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Dica che li guida Vanni Gavina, per vendicarsi. Vanni Peste, sf, alla testa di venti ladroni.

Aggiunge: Io sono uno di quei venti e sto tradendo i miei compagni.

Il prete lo rincuora: Ma a fin di bene, figliolo.

Per non essere ucciso o fatto prigioniero, Fulvio lo avverte che si toglierà la camicia rossa: £ la nostra... la loro divisa.

Il prete lo assolve, facendo finta di non capire lo stato d’animo di Fulvio: Guarda che se hai dei rimorsi per i tuoi compagni, la sof­ ferenza che dimostri ti riscatta di fronte a Dio.

Montaggio parallelo: i « Fratelli » stanno per muo­ versi verso il paese. Tito deve ancora mettersi una scarpa; invita i compagni ad attendere qualche minuto. Ancora e più cosciente della fine, dice: Ci diciamo tutto, è vero? Non sappiamo quello che ci aspetta. Potrebbe anche andar male. Promettiamoci allora che, se vivremo, non ci dimenticheremo mai di questo momento, di come siamo ora qui... con le scarpe in mano... uniti da una speranza, dicia­ molo, giusta. Io parlo poco chiaro da qualche tempo. Ma vorrei dirvi che se un uomo riesce... a raccogliere anche uno solo di questi ricordi... è salvo, io ne sono sicuro. Forse ci disperderanno. Forse tra dieci, venti anni... avranno fatto diventare cattivi anche noi. Perché anche questo può accadere [è appunto quanto è

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diventato Fulvio, e altri Fulvio sarebbero venuti]. E quando ci ricorderemo di stamattina, magari ci prenderemo in giro... Eppu­ re sono sicuro che, appena avremo sorriso, subito diremo che abbia­ mo fatto male a sorridere... perché non si ride di queste cose. Ma io parlo cosi perché ho paura che vada male. E perché dovrebbe andar male?

Il gruppo si muove tra commosso e sconcertato. Un « Fratello » supera un compagno che per gli anni avanza lentamente, ma allunga il passo. Altri « Fratelli », a loro volta, di corsa, si portano avanti. Stacco. Ancora un mon­ taggio parallelo: il prete parla alla folla davanti la porta della chiesa, con voce esasperata: Chi sono? Che vogliono da nuautri? Che ci portano? Acqua? Medicina? Farina? Sono stranieri senza Dio. Ci portano armi e duluri. ’O culera, ci portano; i’ ’u saccio. Sono iddi ca por­ tano ’o culera. E sapiti chi è ch’i guida? Vanni Peste ’i guida. Vanni Peste!

Stacco: in campo lungo i contadini avanzano, e anche donne e qualche bambino. Sono armati di vanghe, falci, bastoni. Controcampo: tra i sibili del vento, i « Fratelli ». Gioacchino ha dispiegato la bandiera rossa. Tito apre una pergamena, e in fretta, sottovoce, tenta di leggere le prime righe del proclama: Fratelli, noi siamo qui da voi, per voi...

Mentre un compagno esulta, credendo che Fulvio sia tra i contadini, Aìlonsanfan guarda e capisce: Quelli ci vengono ad ammazzare.

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I « Fratelli » indietreggiano, si stringono attorno a Tito. I contadini si fanno sempre piu avanti. Si fermano, indecisi. Vanni, che non si è mosso, guarda verso Tito. Chiude gli occhi, alza il vecchio fucile e spara. Ferisce una bambina. Primo piano della bambina; la « camera » si sofferma su quel viso che fissa dinanzi a sé, nel pallore della morte vicina. Tito spara a Vanni e, gridando e tra i singhiozzi, ne raccoglie il corpo esanime, lo abbraccia. I contadini ora avanzano con furore; i « Fratelli » non oppongono resistenza, si raccolgono in gruppo, si fanno ammazzare: rimangono fedeli al programma « Noi per il popolo », anche se il popolo non è con loro. Dal muc­ chio si alza Allonsanfan, ferito al volto; corre verso Ful­ vio che, nell’altra parte della piana, si è tolto la camicia rossa. Lo raggiunge, gli dice che la spedizione è riuscita, che i contadini si sono uniti a loro, che gli uomini del Sud stanno venendo insieme con quelli del Nord. « Ti racconto tutto da principio », dice a Fulvio incredulo. Motivo del saltarello. Campo lungo dei due. Primo piano di Allonsanfan. Stacco. Riprende il saltarello: come se fos­ se una « soggettiva », cioè visti da Allonsanfan, i « Fratel­ li » e i contadini avanzano in un unico e compatto gruppo, con Vanni in testa, battendo i piedi al ritmo musicale. Stacco. Fulvio continua a non credere. Cessa il motivo del saltarello. Suoni di campane; egli pensa che davvero l’impresa sia riuscita; raccoglie da terra la camicia rossa e l’indossa. Si odono spari, appaiono soldati. Campo lungo: al centro, il corpo di Fulvio morto; sul suo ca­ davere, una macchia sulla pianura, attacca in crescendo, travolgente e « vendicatore », il ritmo del saltarello e riap­ pare per stacco su campo rosso la scritta dell’inizio — il titolo — con gli stessi caratteri azzurri: « Allonsanfan ».

NELL’ATTESA CHE L’UTOPIA DIVENTI SCIENZA

Abbiamo così risposto alla domanda avanti posta: quale rispecchiamento del passato (il periodo della restau­ razione 1815-30) e del presente i Taviani offrono con il loro ultimo film. I riferimenti all’oggi, in Italia (ma non soltanto in Italia), sia per quanto riguarda i « Fratelli Sublimi » sia Fulvio Imbriani, appaiono palesi; anche la nostra è un’epoca soprattutto di restaurazione: non solo rispetto al 18 aprile ma anche in particolare al 1968, da Pier Paolo Pasolini definita ormai data arcaica. In Al­ lonsanfan le analogie tra passato e presente sono molte — le analogie, si intende, non Je uguaglianze: la Storia non è un farsi e rifarsi sempre uniforme, in direzione unica: un « fenomeno puro ». Le « faville », anche nelle sconfitte, non si sono rivelate soltanto « cenere ». II mo­ tore della storia — la lotta di classi — ha portato e porta a modifiche, a eventi non paragonabili a esempio alla nostra situazione nel ’22. Nel comportamento di Fulvio sono riscontrabili quei molti tradimenti di intellettuali man mano susseguitisi, a partire appunto dal 18 aprile e dal 1968 a oggi (ma anche prima). Quanti « sovversivi » di ieri o l’altro ieri sono « guariti », « cambiati », ritor­ nando nelle comode ville, nell’agiatezza momentanea­ mente abbandonata, integrandosi nel « sistema »? Quanti

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di coloro che, pur avendo aderito al comuniSmo — in ispecie se romanticamente, intendendolo appunto come « fe­ de », o anche per interesse — per quella visione e inter­ pretazione del mondo, volutamente confondendo il co­ muniSmo con l’iscrizione al pei, nutrono ora, al pari di Ful­ vio, un odio addirittura fisico? E quanti hanno preso un’al­ tra strada, anche se magari vorrebbero ancora « crede­ re » nella rivoluzione, ma dinanzi ai tempi che si fan­ no sempre piu lunghi, in essa non riescono più a crede­ re, e non sopportano gli occhi di chi, nonostante tut­ to, tra le crisi profónde e laceranti, continua a guarda­ re al futuro non certo per raggiungere la « felicità uni­ versale », il « paradiso in terra » da Marx e dal marxismo autentico mai promessi? Lo sconforto ramifica accanto e dentro di noi, spesso anche in chi non ha ceduto ma esige i « tempi brevi », « avere tutto e subito » senza attendere la vecchiaia e la morte, mentre i tempi si fanno sempre più « lunghi »? Ancora una volta si ripropone la « domanda ragionevole » di Lukàcs, nel suo invito a ritornare a Marx: andare verso l’angoscia o cercare di combatterla, evitando che le azioni volte a modificare il mondo, la società, di­ ventino « vecchie abitudini »? Ci sembra che Allonsanfan, storia di un tradimento e di una sconfitta per chi non ha tradito (da una parte appunto le frustrazioni di tanti intellettuali delusi dalla rivoluzione sempre più lon­ tana e, dall’altra, le amarezze di tanti sovversivi ancora militanti), sia davvero un film di riflessione, ripartendo

51 « Confessiamo l’inconfessabile », dichiarano i Taviani: «Fulvio è una parte di ciascuno di noi »; intendendo dire, appunto, che in tutti noi c’è il pericolo, la tentazione di cedere, in certi momenti della nostra vita, dinanzi ai tempi che si fanno appunto sempre piu lunghi.

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i Taviani — nel discorso unitario condotto attraverso la successione delle loro opere che costituiscono un unico « corpus » — proprio dall’opera dell’esordio, da Un uomo da bruciare, nato, come abbiamo visto, in un momento di « alienazione » — reificazione — do­ minante e non soltanto in Italia; e tuttavia, proprio per questo, teso al rispetto per gli « altri », per coloro in cui le contrarietà, gli interrogativi dei tempi oscuri, dei « tempi lunghi », diventano spinta alla loro decifrazione, mentre molti, troppi « dormono » come dice il vecchio e malandato Tito nel suo ultimo colloquio con i « Fra­ telli »: un incontro, peraltro, che sembra sospeso tra quelli di vecchi partigiani rivolti al passato e quelli de­ gli alpini della prima guerra mondiale. Pensare, e non essere pensati, anche per decifrare nelle restaurazioni pas­ sate e presenti le responsabilità delle vittime, compresi i corregionali di Vanni. Non la « fabula » ma il « soggetto », il linguaggio che articola e struttura il soggetto e lo traduce in segni, indica le cause della sconfìtta, non imputabile certo al solo tradimento di Fulvio. I « Fratelli » sono disorga­ nizzati, operano isolatamente, sono romantici e degli il­ lusi: le loro azioni radicali disperate. « La storia del pe­ riodo che va dal 1815 al 1848 », ricorda Hobsbawm, « è la storia della disgregazione », di quell’unità limitata, nei movimenti di opposizione in genere, cui si è accen­ nato: costituita cioè soprattutto dall’odio comune per i regimi dell’epoca, dalla solidarietà che legava tutti coloro che erano contrari, per qualunque motivo, alla, monar­ chia assoluta, alla chiesa, all’aristocrazia. Anche se il loro « Gran Maestro », Filippo Govoni, rimanda per certi aspetti a Filippo Buonarroti — aristocratico nato a Pisa; e a San Miniato di Pisa sono nati i Taviani —, il comu-

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nismo di questi « Fratelli Sublimi » (eccetto Allonsanfan) è umanitaristico e sentimentale, ascientifico, non esce dal « terreno dell’utopia per apparire come concreto program­ ma politico », non s’« incontra con l’analoga concezione (analoga a quella di Buonarroti) elaborata da Babeuf ». Si è già detto della continuità nei film dei Taviani, e abbiamo cercato, in uno stretto legame tra mezzi espres­ sivi e società, la « comprensione delle singole opere concrete come dell’intera oeuvre » dei due autori; fat­ to uno « specifico tentativo di assimilazione e quindi di trasformazione di una descrizione fenomenologica in senso marxista, che proietti la struttura artistica stu­ diata, il dato “microcosmo”, nella struttura globale, so­ ciale, il cui significato — modificato e mediato — si ri­ trova nell’opera, primo e preciso oggetto dell’indagine ». Molte sono le analogie, in particolare, tra San Michele aveva un gallo e Allonsanfan, sia sul piano concettuale che su quello espressivo: l’uno, nei Taviani, non privilegia mai l’altro ma sono messi allo stesso livello. Abbiamo visto a esempio il parallelismo tra Giulio Manieri e certi extra­ parlamentari d’oggi, il loro volere tutto e subito, lo stesso impiego della « propaganda del fatto »; un analogo paral­ lelismo possiamo fare tra alcuni gruppi extraparlamen­ tari d’oggi e Ì « Fratelli Sublimi », e non soltanto perché questi e Manieri esigono, vogliono i « tempi brevi », ma per il loro stesso modo di agire, la loro tattica e strategia: e gli uni e gli altri progettano utopisticamente di opporsi alla marea della restaurazione tentando soluzioni radicali ma disperate. In tale contesto, i Taviani colgono alcuni elementi storici oltre che psicologici, a cominciare ap­ punto da quello dell’isolamento. L’isolamento dei « Fra­ telli Sublimi » è espresso tra l’altro da quel carnevale che infuria sguaiato e osceno accanto alla pescheria dove

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essi « organizzano » la nuova spedizione nel Sud, mentre risuona il Te Deum dell’inizio, quando Fulvio viene rila­ sciato dalla polizia; da quei giovani che, nella villa Bel­ vedere, si occupano soltanto degli « spostamenti del pia­ cere »(«... mi sembra che tutti dormano e solo noi siamo svegli », aveva detto Tito); ed è proprio in quella villa che Francesca, dopo aver visto Lionello annegare per colpa di Fulvio, con questi giace. Il Te Deum, che ritorna durante il carnevale, benedice il disimpegno — che alimenta ogni restaurazione —; parimenti il prete as­ solve con gioia, benedice chi ha tradito. E al carnevale è legato il falso parto, introdotto proprio nella pescheria dove si « organizza » la nuova impresa: il mostriciattolo, fantoccio peloso o animale immondo, che la donna estrae oscenamente e con false grida di dolore dalla gonna, è il segno di qualcosa di inatteso e, nell’atmosfera venutasi a creare, suggerisce un sinistro, funesto presentimento; prelude all’esito negativo dell’impresa. La danza del Sud, il saltarello — che i « Fratelli » dicono di provare per giustificarsi alla domanda di che cosa stessero facendo — di cui Vanni aveva accennato i primi passi, una volta usciti gli estranei, riprende violento e appassionato: a Vanni si sono aggiunti, nella danza, i compagni, e tutti insieme avanzano verso la « camera ». Va notato — a so­ stegno di quel presentimento — che qui, in questa se­ quenza, per la prima ed ultima volta vediamo il salta­ rello senza udirne la musica. Il fattore storico dell’isolamento in quale misura e dimensioni determina nei Taviani il « destino » dei loro personaggi? Si suicida il « Gran Maestro »; un suicidio collettivo è quello dei « Fratelli » che, piuttosto di spa­ rare contro i contadini, a questi non oppongono resistenza

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e si fanno uccidere 53 ; e Tito uccide Vanni che su quei con­ tadini ha sparato. Un suicidio, anche se non fisico, è quello dello stesso Fulvio Come si è visto, avanti di ritornare nella villa Imbriani, egli si difende dalla falsa accusa di tradimento, di aver rivelato il luogo in cui si nasconde Fi­ lippo Govoni; e, appena arrivato nella casa paterna, prima di farsi riconoscere, ha ancora un momento di ribellione: urla che non ha nulla da imparare da Remigio, dalla sua divisa da lacchè. L’idea del tradimento nasce in lui in se­ guito, quando, superata la malattia che lo aveva portato alle soglie della morte, riassapora gli agi familiari e si in­ tegra nel « sistema » di una comoda vita. Chi infrange la barriera della propria classe d’origine per votarsi alla

u II gruppo di Manieri, in San Michele, si chiama « Pisacane »; e qui la spedizione nel Sud dei « Fratelli Sublimi » rimanda a quella di Pisacane a Sapri, anche se cronologicamente posteriore. « I ventiquattro votati alla morte, in massima parte popolani animati da un disinteressato aimore di libertà, si impadroniscono della nave e la dirigono su Ponza. Arruolano colà detenuti comuni e politici (i trecento “giovani e forti” della canzone di Mercantini) c sbarcano il 28 giugno a Sapri. Disorganizzazione o viltà, nessuno è ad attenderli [come in parte accade in San Michele}, nessuna traccia di insurrezione nei villaggi della costa. In mezzo all'ostilità delle po­ polazioni, gli uomini di Pisacane si inoltrano sulle colline dell’interno. Un primo scontro con i borbonici ne sbanda gran parte. Turbe di contadini, aiz­ zati dall’ignoranza e dal fanatismo religioso, armati di croci, di forconi e di falci, danno l’assalto ai superstiti. Pisacane ordina di non aprire il fuoco sulla plebe italiana che egli è venuto a riscattare e che sarà un giorno —. egli ne è certo — la creatrice della propria libertà. Muoiono massacrati, intorno alla bandiera tricolore, i suoi compagni; c quando tutto è perduto egli stesso si uccide » (Giona, Carlo Pisacane, in « Il Politecnico », Mi­ lano, n. 5, 27 ottobre 1945). Probabilmente i Taviani non hanno visto Salmo rosso (« Még kér a nép », 1972), ma formalmente la sequenza in cui i « Fratelli Sublimi » si fanno uccidere ha una analogia con una simile sequenza in quel film di Miklós Jancsó, dove pure protagonista è una setta rivoluzionaria nell’Ungheria del secolo scorso (peraltro è una setta religiosa, e l’ideologia del grande regista magiaro è, dal punto di vista marxista, abbastanza ambigua). M Si ricordino, a proposito di suicidi, quelli tentati in Sovversivi, sia dal giovane fotoreporter Ermanno sia dall’anziano regista Ludovico.

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rivoluzione, imbocca una via senza ritorno — sottoli­ neano i Taviani — e, « nel caso che tale ritorno avvenga comunque, non può costituire che un ulteriore, esiziale tradimento. Non si dà infatti possibilità di tradire al con­ tempo la propria classe e la scelta rivoluzionaria se non a prezzo dell’abdicazione piu radicale dalla dignità di uomo o dalla stessa vita ». Cosi il « tragico destino » di Fulvio « è piu forte della decisione di abbandonare i compagni di lotta, anche piu forte del tradimento e della sua disperata volontà di rinuncia »s$. Invano cerca di fuggire in America con il denaro per la spedizione raccolto da Charlotte: ogni qual­ volta tenta di abbandonare i « Fratelli », se li ritrova inesorabilmente davanti; più cerca di allontanarsi dai com­ pagni di lotta, e sente per loro una rabbia cieca, un di­ sgusto anche fisico, e sempre più cade in una « trappola ». Personaggio non manicheo, con accoratezza di Fulvio vengono analizzate le frustrazioni e le tentazioni involu­ tive di intellettuale deluso per la rivoluzione mancata, per i tempi che si fanno man mano maggiormente lunghi; e messi in risalto contraddizioni, amarezze, dubbi, il desiderio continuo di giustificazioni. « Hai capito quello che nemmeno Tito osa pensare: che noi siamo arrivati troppo tardi... o troppo presto... Che apparteniamo a co­ loro che cercano, purtroppo, non a quelli che trovano... E ti sei ribellato » fa dire a Lionello, come abbiamo visto, in una sequenza dell’allucinazione; e, subito dopo: « Solo che non ci si ribella, povero Fulvio, sprofondando all’indietro... Stai cadendo dalla padella nella brace ». Dall’alternativa suicidio o tradimento (che, nel caso generalizzante di Fulvio, equivale dunque e comunque 55 Cfr. intervista a «l’Unità», Milano, 11 ottobre 1973.

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a morte) uno solo si salva, Aìlonsanfan, il quale non va inteso, anche lui, come individualità fisica ma emblema­ ticamente. Abbiamo già accennato che il suo soprannome, derivante dalle due prime parole della « Marsigliese », è allusivo sul piano della prospettiva; che egli — figlio del « Gran Maestro » e con una natura diversa dai com­ pagni anziani — costituisce il filo rosso del film. Ecco così che pure qui, nella struttura formale, il segno si fa simbolo. Il rosso, nella sua dimensione morale e insieme sociale, finisce con Pavere il sopravvento sul giallo, il viola, l’arancione, il verde e tutti gli altri colori, com­ presi il bianco dei soldati (e non solo dei soldati) e il nero dei poliziotti; parimenti il saltarello (come già i campanacci in San Michele) sul Te Deum, sul « Dirin din din », sullo stesso « Erba non cresce più ». Nelle cor­ rispondenze, nei rapporti tra colori e suoni, il rosso e il saltarello risolvono espressivamente, strutturalmente, l’esigenza sentita dai Taviani: la ripulsa di ogni fatto reazionario, criminale e comunque retrivo. La scena a esempio in cui Fulvio abbandona in istrada il nipote, che fugge verso la villa Imbriani, e si chiude in dissolvenza su uno schermo tutto rosso significa sì che Fulvio conti­ nua ad allontanarsi dalla rivoluzione, ma, al contempo, che questa rimane come prospettiva: sempre per dissol­ venza l’inquadratura si disserra su Massimiliano che canta « Lucciola, lucciola », e Massimiliano è un ri­ mando a Robespierre. Robespierre, l’idea della rivolu­ zione passata e futura — diversa — è indicata e suggerita nel film che inizia e termina con il titolo, il nome di Aìlonsanfan, scritto in caratteri azzurri su campo rosso. Il fondo tutto fiammeggiante — dopo la didascalia « Negli anni della restaurazione ». — che si apre a mo’ di sipario su un momento storico, quello appunto della

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restaurazione e al tempo stesso della rivolta dei « Fra­ telli » — riappare insieme con il titolo alla fine ma non s’abbassa come un sipario, non si chiude, riconfermando il valore semantico della visione soggettiva di Allonsanfan, e forse dello stesso Fulvio; dei « Fratelli » che, affiancati ai contadini, con Vanni in testa, avanzano al suono e al passo del saltarello, decisi, verso lo spettatore. È deliran­ te Allonsanfan? la sua è una allucinazione? Immediata-, mente prima una inquadratura ce lo aveva mostrato, fe­ rito alla testa, mentre — musica in crescendo — muove le labbra senza che si sentano parole. Comunque, come ave­ va detto un « Fratello » sul veliero, « anche nel delirio si può dire la verità ». E verità qui corrisponde ad utopia nel significato già riferito e che ulteriormente specifiche­ remo. Visione dunque soggettiva, cosciente della necessità di una tattica e una strategia diverse; di qui, infatti, nella scena della pescheria, i « Fratelli » che vengono si avanti ma al ritmo dei loro movimenti non si accompagna la mu­ sica. Il celeste, in genere il colore della felicità, è escluso dal film; l’azzurro, che è piu pieno del celeste e più chiaro del turchino, appare nei caratteri del titolo posto all’ini­ zio e alla fine: il marxismo, il socialismo scientifico, auten­ tico e non volgare, non ha niente a che vedere con quel sogno realizzato del paradiso terrestre ove tutte le difficol­ tà e le tensioni proprie della vita sociale vengono per sempre eliminate — ci ricorda Marx —; ma, aggiunge, è programmazione sociale sempre nuova e varia, me­ todicamente programmata sulla base di una situazione in atto. Come lo Scorpione e San Michele (l’urlo della frase musicale nelle ultime inquadrature nel primo; la terza ipotetica barca nel secondo), Allonsanfan — titolo che va letto come invito, prospettiva — è opera aperta. Pur non essendo affatto anche questo un film consola­

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torio ma fondato su « eroi » negativi (e negativi, in di­ versa misura e per ragioni difformi, contrarie, sono, ad eccezione di Allonsanfan, sia i « Fratelli Sublimi » che Fulvio), al pari delle altre opere dei Taviani mostra un « donde » e un « dove ». Una provenienza e una direzione indica Allonsanfan. Dove va alla fine? alcuni si domandano. Dalla parte op­ posta di Fulvio è la risposta: verso i compagni, i conta­ dini e Vanni che uniti avanzano; verso cioè l’utopia; e, sia pure in modo implicito, egli muove ai compagni un rimprovero analogo a quello che, in San Michele, i giovani della seconda barca rivolgono a Manieri: di aver ritar­ dato, con iniziative personali e colpi di testa, la nascita del movimento operaio. Si ricordi il rimprovero che Al­ lonsanfan muove a Tito, quando apprende che questi ha deciso per i compagni, di fare la spedizione nel Sud senza i fucili. In un certo senso egli indica l’esigenza dell’orga­ nizzazione, intesa come partito. Ma quale partito della sinistra tradizionale oggi ha e persegue in Italia una tat­ tica e una strategia rivoluzionarie, o comunque tali da essere condivise senza perplessità? Non rimane quindi ai Taviani, a proposito della prospettiva, che darla in quan­ to tale, riconfermarne l’innegabile e concreta esigenza nel « fare storia » anche e in particolare in tempi di restau­ razione e involuzioni.

ETÀ BIOLOGICA ED ETÀ DI PRODUZIONE INTELLETTUALE

« L’arte socialista farà rinascere la tragedia. E, na­ turalmente, senza Dio [...] In ogni caso noi non accette­ remo una nuova tragedia dove a disporre sia Dio e l’uomo si rassegni » ripetono i Taviani con Trockij; e anche per loro, come abbiamo visto e per dirla ancora con Trockij, lo scontro tra il personale e il transpersonale è possibile non soltanto su una base religiosa né soltanto sulla base di una passione umana che superi l’uomo: « Il transper­ sonale è, prima di tutto, il sociale. Finché l’uomo non diventa padrone della propria organizzazione sociale, que­ sta lo sovrasta come fato. Getti essa, un’ombra religiosa o no, è in ogni caso una circostanza secondaria, che di­ pende dal grado di debolezza dell’uomo ». E circostanza secondaria, che in parte rispecchia peraltro una realtà complessa e contraddittoria, è il cristologico in Salvatore, la preghiera che a San Michele rivolge Manieri. Anche per i Taviani, che contribuiscono a far rinascere la nuova tragedia, un’arte atea, la « tragedia delle chiuse passioni personali è troppo insipida per il nostro tempo [...] per­ ché noi viviamo in un’epoca di passioni sociali ». E anche per loro possiamo ripetere, in un certo senso, quanto Trockij disse a proposito di Babeuf: « La lotta di Babeuf

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per il comuniSmo in una società che non è matura per esso è stata la lotta di un eroe antico contro il fato. Il destino di Babeuf ha tutte le caratteristiche di una vera tragedia, come il destino dei Gracchi, di cui Babeuf prese il nome ». La « tragedia della nostra epoca è lo scontro tra la personalità e la collettività, oppure lo scontro tra due col­ lettività ostili che avviene attraverso una personalità. Il nostro tempo è di nuovo un tempo di grandi fini. In que­ sto è il suo contrassegno. Ma la grandiosità di questi fini sta nel fatto che Tuomo cerca di liberarsi dalla nebbia mistica e da ogni altra nebbia e di ricostruire la propria società e se stesso secondo un piano che egli ha creato. È, naturalmente, un’impresa un po’ più grossa del gioco fanciullesco degli antichi » — conclude Trockij — « che si addiceva alla loro età puerile, o del delirio monastico del Medioevo, o dell’alterigia dell’individualismo, che stacca l’individuo dalla collettività e poi, dopo averlo esaurito rapidamente sino in fondo, lo precipita nel vuoto del pessimismo e lo butta di nuovo carponi davanti a un rinnovato bue Apis » “. Come abbiamo visto, la psi­ cologia e la psicoanalisi sono assunte dai Taviani come strumenti integrativi necessari, essi non gettano mai i per­ sonaggi nella nebbia mistica o in ogni altra nebbia: l’eroe individuale, romantico, astratto, il rivoluzionario solo nella fantasia è costantemente criticato in un con­ testo sociale, e anche politico. Su Tolstoj predomina, nei due registi, Goethe: « Goethe non si occupava volentie­ ri di Dio », scrive Engels: « la parola stessa gli recava fastidio; egli si sentiva a suo agio solamente nel mondo umano, e questa umanità, questa emancipazione dell’arte “ Lev Trockij, Letteratura e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973.

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dai ceppi della religione costituisce precisamente la gran­ dezza di Goethe. Né gli antichi, né Shakespeare possono commisurarsi con lui sotto questo riguardo » Nel ritornare dopo Sovversivi e lo Scorpione al per­ sonaggio dell’esordio, i Taviani non contraddicono affatto i loro principi sul film corale: anche in quella prima opera, come nelle due ultime, l’uomo non tende ad essere valo­ rizzato come individuo — o individuo soltanto — e tanto meno come protagonista, ma viene presentato quale parte di una comunità e questa a sua volta non si pone come « isola ideale » in sé compiuta ma quale momento della Storia (e si veda quanto si è detto dell’« isola » in senso goethiano). Essi « shakespeareggiano » più che « schillereggiare », cioè, per dirla con Marx, non trasformano « gli individui in semplici portavoci dello spirito dell’epo­ ca » * Un uomo da bruciare è lo scontro tra due colletti­ vità ostili che avviene attraverso una personalità (Sal­ vatore); scontro tra due collettività (quelle delle due isole), lo Scorpione-, tra due collettività che diventano ostili (Manieri, i rivoluzionari come lui e i sovversivi della seconda barca), San Michele-, e scontro tra la collettività (i « Fratelli Sublimi ») e una personalità (Fulvio Im­ briani), Allonsanfan. Ma perché per i Taviani possiamo ripetere solo in un certo senso quanto Trockij ha detto a proposito di Babeuf? Si è visto, a esempio, che il mo­ mento tragico, la contraddizione tragica in San Michele e in Allonsanfan, sta soprattutto nel fatto che la condi­ zione fondamentale — cioè l’alleanza con i contadini — era impossibile (e, nei riflessi sul presente, in parte pos­ sibile; di qui, in Allonsanfan, l’indecisione dei contadini quando, sia pure aizzati dal prete, si trovano dinanzi ai M Marx ed Engels, Sull’arte e la letteratura, op. cit. M Ibidem.

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« Fratelli Sublimi »); i due registi respingono la posi­ zione lassalliana secondo la quale « il conflitto tragico che [...] costituisce il fondamento di ogni rivoluzione » è l’antinomia tra l’« entusiasmo », cioè « la fiducia im­ mediata dell’idea nella propria forza e infinità » e la « ne­ cessità di una “politica realistica” » intesa tutta « nel tener conto dei mezzi limitati a propria disposizione ». Il conflitto tragico deriva da due forze inevitabilmente in contrasto, quella progressista e quella reazionaria, e insieme dal contrasto, le contraddizioni all’interno della prima. Sennonché quest’ultimo conflitto si determina, o sembra determinarsi nei Taviani, come generazionale: i giovani rappresentano le forze nuove e gli anziani, al­ l’interno appunto della classe, quasi un « ancien régime ». Si viene cosi a opporre a un pregiudizio — secon­ do il quale il mondo è quello che è e niente possiamo fare per modificarlo — un altro pregiudizio: il motore della storia è si la lotta di classe, delle classi, ma inevi­ tabilmente sono i giovani che, nelle varie epoche dell’uma­ nità, a cominciare dall’età arcaica, sono capaci di questa lotta, fanno la storia. Cosi nello Scorpione i figli ucci­ dono i padri, fatalmente. È qui che i Taviani assumono la psicoanalisi, specificatamente Freud, nell’accezione del complesso edipico, del « cannibalico » cui ricorre Paso­ lini nel suo intelligente e interessante ma non certo marxiano Porcile. « Ci interessa oggi ritrovare anche l’“uomo biologico”, l’uomo nelle sue strutture base » — affermano come si è già visto —: « l’istinto della so­ pravvivenza nell’amore e nell’orrore della morte; quei “dati costanti della condizione umana che sono l’istinto sessuale, l’indebolimento della vecchiaia (con le relative ripercussioni psicologiche), la paura della morte propria

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e il dolore per la morte altrui”. Cioè tutta quella conti­ nuità dovuta al fatto che Tuomo, come essere biologico, è rimasto sostanzialmente invariato dagli inizi della ci­ viltà a oggi; e poco sono mutati certi sentimenti e certe rappresentazioni che piu da vicino si riferiscono ai dati biologici dell’esistenza umana. Quella continuità, insom­ ma, per cui, diceva Marx, sentiamo così vicina a noi la poesia omerica ». Del resto gli stessi Taviani non negano il conflitto generazionale: « Sì, a noi interessa realmente, ma come elemento appunto biologico, nel senso che il giovane dovrà rifarsi sul padre, ma soltanto nei casi in cui la storia, proprio attraverso il rinnovarsi delle generazioni, crea nella nuova generazione un nuovo dato e nuove propo­ ste » S9. E non si può non essere con loro d’accordo. Tut­ tavia i casi contemplati dai film di cui sono autori sono sempre questi ultimi: Salvatore.è un trentenne; gli scorpiònidi rinnovano la rivoluzione un tempo fatta da Ren­ no, ormai anziano e stanco; Manieri è superato dai sov­ versivi della seconda barca e, quando si accorge di aver sbagliato tutto, non ha le forze fisiche per ricominciare da capo. Allonsanfan è il solo a salvarsi dal suicidio collet­ tivo dei « Fratelli ». Il conflitto generazionale sembra davvero inteso in una accezione fatalistica, quasi classista. Se Manieri non si fosse ucciso — sostengono i Taviani — àvrébbe tradito; e Fulvio è appunto un Manieri o un Fi­ lippo Govoni che non si è ucciso. Disperato per quanto pensavano di lui i « Fratelli » — di aver rivelato al ne­ mico il nascondiglio del « Gran Maestro » — egli ha sì tentato il suicidio, all’inizio, durante il processo, gettan** Dichiarazione fatta dai Taviani .durante il loro incontro con gli studenti all’istituto di storia del cinema, e dello spettacolo dell’università di Torino nel 1973.

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dosi nello stagno dell’arena. « Dovevate lasciare che mi affogassi », rimprovera a Lionello nella sequenza del­ l’allucinazione; ma l’idea del tradimento nasce subito dopo in lui, e si consolida man mano. Che cosa c’è dietro il suicidio di un Majakovskij, quale la sua vera tragedia? Forse un movente biologico o biologico soltanto — il fatto che non riusciva ad avere più le forze fisiche per « tenere il passo » con le nuove generazioni — e di con­ seguenza l’alternativa suicidio o tradimento? Non il ratto delle Sabine, ma il richiamo a Omero fatto da Marx — il fascino artistico ed eterno di cui il filosofo parla a proposito deWIliade e dell’epos greco in generale — sottende l’idea di partenza per lo Scorpione (e del resto ricordi di Omero sono presenti in Allonsan­ fan-. il cane, la fantesca che riconoscono subito Fulvio al ritorno nella casa paterna, dopo tanti anni di as­ senza). Ma non è proprio Marx ad osservare, nell’occa­ sione e parlando dei popoli, che vi sono « fanciulli rozzi », « fanciulli saputi come vecchietti » e « fanciulli nor­ mali »? Gli « uomini nuovi » non dipendono necessaria­ mente e meccanicamente dall’età o dall’età soltanto; in essi possono rientrare sia i giovani sia i non giovani. E senza dubbio il « giovane Marx » è meno avanzato del Marx del Capitale. Ugualmente possiamo dire per Fi­ lippo Buonarroti o Leonardo — cosi come del resto ce lo presentano i Taviani nei Sovversivi — o Goethe (si pensi soltanto ai Colloqui) negli ultimi anni della sua vita, rac­ colti da Eckermann). Rimandando a Leopardi, i Taviani riconoscono che ci « sono momenti in cui il rapporto padre-figlio, quando la storia procede in maniera piana, è semplice e non drammatico, per cui tra un padre e un figlio se ci sono venti anni di differenza di età, i venti continuano ad essere venti anche quando il pa­

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dre ne avrà sessanta; quando invece il periodo storico comporta mutamenti violenti, il rapporto di età non è piu di venti anni ma può diventare di sessanta, di settanta anni ». Riconoscono cioè che « non esiste, nella deter­ minazione generazionale, una legge assoluta » Ma do­ mandiamo se in questa legge non assoluta, e per le ra­ gioni indicate dai Taviani, si possano fare entrare, ap­ punto, anche i non più giovani Marx e Buonarroti: né l’uno né l’altro vissero in momenti tranquilli, in un pe­ riodo storico piano, semplice, non drammatico. « La ri­ voluzione è un fatto molto specifico a cui non ci si può avvicinare con la psicologia della vita quotidiana », scrive Lukàcs. « Il rivoluzionario è quella persona in cui la pazienza si unisce all’impazienza. L’impazienza da sola può creare una specie di “happening” e dopo quindici o venti “happenings” può accadere che l’ex rivoluzionario, rimasto un uomo deluso, cinico, si integri nell’ “esta­ blishment” », come accade appunto a Fulvio e a tanti altri come lui oggi, e come lui anziani, ma anche a gio­ vani, a esempio dopo il ’68. « Il fatto che uno diventi rivoluzionario — come era rivoluzionario Blanqui in Fran­ cia e Bebel in Germania e poi come lo erano i grandi teo­ rici e maestri Marx, Engels e Lenin — dipende da tutta una vita. II compito del rivoluzionario è questo », con­ clude Lukàcs: « in ogni momento, in qualunque modo, preparare la rivoluzione; in ogni momento essere pronto per una eventuale realizzazione, ma nello stesso tempo deve sapere che non dipende da lui quando viene la “si­ tuazione rivoluzionaria” come diceva Lenin »él. * Dichiarazione fatta dai Taviani durante rincontro con gli studenti all’università di Torino, cit. *■ Gyòrgy Lukàcs, Rivoluzione e psicologia della vita quotidiana, in « Cinema Nuovo », Torino, a. XXI, n. 217, maggio-giugno 1972.

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Tantomeno dipende dal segno zodiacale, anche se l’Ottobre sotto lo scorpione è avvenuto. I destini umani non sono determinati, scientificamente, dalla condizione degli astri, né questi presiedono in assoluto alla nostra na­ scita. Certo il titolo Sotto il segno dello scorpione è allusivo — come gli altri titoli dei film dei Taviani, eccetto I fuori­ legge del matrimonio —; legato com’è a un apologo, non va preso nel suo significato letterale bensì simbolico: nel senso che gli uomini, i popoli, sono tutti sotto l’ottavo se­ gno zodiacale, cioè governati da Marte e tutti hanno quindi a che fare con le guerre o, meglio, con le rivoluzioni (Goe­ the non è certo amato dai Taviani per il fatto che Paolo è appunto dello scorpione, Vittorio della vergine — « due segni opposti i quali si eliminano a vicenda e si inte­ grano, si assommano perfettamente » — e il grande scrit­ tore tedesco « era della vergine con ascendente nello scorpione »). E tuttavia l’ineluttabilità del « lutto » per le generazioni anziane rispetto alle nuove, rimane nello Scorpione-, e rimane in San Michele e Allonsanfan: Ren­ no, Manieri e Imbriani sono tutt’altro che dei « vintivincitori » quando per loro — così legati al ritmo dram­ matico degli eventi biologici — suonano le campane a morto. E rimangono, oltre agli altri elementi concettuali, sociali e politici, la tensione e i risultati formali, l’im­ pianto, la struttura musicale nei tre film, anche se l’ultimo vuole essere una « conversione al film spettacolare » al fine di pervenire a quel pubblico, a quegli strati più larghi di spettatori, che sino a San Michele, e non soltanto per il rigore stilistico delle loro opere, i Taviani non avevano raggiunto.

L’UTILE, IL VERO, IL BELLO

La scelta di un attore di successo come Mastroianni62 è già significativa di una tale conversione, e in ispecie se si tiene conto degli esiti dai Taviani ottenuti in San Mi­ chele con Giulio Brogi: questi, interprete singolare nell’esprimere in modo adeguato la fisionomia intellettuale, il significato umano, psicologico e sociale del personaggio di Manieri, sotto la loro direzione arriva alla grandezza dell’attore-creatore, dando un eccezionale esempio di col­ laborazione artistica. Parimenti significativo il ricorrere a Morricone invece che, a esempio, a Vittorio Gelmetti. « Nel 1968 abbiamo avuto il desiderio di sperimentare forme espressive nuove, le teorie del film “povero” e corale, un rapporto con il pubblico realizzato attraverso la provocazione », dichiarano i Taviani. « Adesso il mo­ mento è di ripensamento, di riflessione critica: forse abbiamo rinunciato a troppo, buttato via troppe idee an­ cora valide. Non ci castriamo, non ci rinneghiamo: anche Picasso tornò alla figurazione dopo il cubismo, anche Stravinskij tornò armonioso dopo la Sagra della primavera, tutte le avanguardie hanno sempre fatto due passi avanti In un primo momento i Taviani avevano pensato, per il perso­ naggio di Fulivio Imbriani, a Maximilian Schell.

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e uno indietro. In questo film noi recuperiamo lo spet­ tacolo, il personaggio ». Del resto, aggiungono, « lo spet­ tacolo lo abbiamo sempre amato, un nostro autore pre­ diletto è Shakespeare, i nostri padri cinematografici sono Rossellini e Visconti » w. Non nel 1968, ma anche prima dello Scorpione e dopo con San Michele, i Taviani hanno sperimentato forme espressive nuove; e, come s’è visto, non solo sul piano del colore, nello stesso Allonsanfan, con il quale abbandonano le teorie del film « povero » sul piano dei mezzi finanziari, della produzione. E non è il personaggio — già presente in Un uomo da bruciare e in San Michele — che essi recuperano, ma il personaggio in un intreccio, in uno spettacolo alla Visconti, il Visconti di Senso: spettacolo e intreccio questi sf nuovi per loro. Gli influssi di Visconti — alcuni dei quali già accen­ nati —, e soprattutto e per l’appunto di Senso, sono copiosi e palesi in Allonsanfan. Il fondo rosso che all’ini­ zio si apre a mo’ di sipario rimanda subito al sipario che si apre all’inizio di quel film; la villa Imbriani alla villa di Aldeno; il ristorante in cui Fulvio festeggia il com­ pleanno del figlio, alla Fenice di Venezia; l’insulto di Fulvio a Remigio, all’insulto di Ussoni a Franz; il carne­ vale, con la carrozza in cui si trovano Fulvio e Francesca, e la confusione di voci e di canti, all’arrivo a Custoza di Livia Serpieri appunto in carrozza che stenta ad aprirsi un varco tra i soldati ubriachi e nel caos dei festeggia­ menti per la vittoria; il tradimento di Livia, al tradimento di Fulvio; Allonsanfan, a Ussoni — entrambi scompaiono prima della fine —; Charlotte che consegna a Fulvio il denaro per la spedizione, è una Livia capovolta; e come Franz inganna Livia cosi Fulvio raggira Francesca, con “ Cfr. intervista a « La Stampa ». Torino, 17 ottobre 1973.

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voce suadente, calcolate tonalità. L’impiego, e non solo in Aìlonsanfan, del melodramma, dei motivi musicali, delle canzoni popolari, è un altro richiamo a Visconti, e al Visconti addirittura dell’esordio: si ricordi il « Fiorin Fiorello » in Ossessione. Le citazioni da questo autore sono riscontrabili in altri film dei Taviani; già Un uomo da bruciare ricorda talvolta, e per certi aspetti, La terra trema; e l’inizio di San Michele evoca Senso-, cosi come la scena in cui il ministro e i due generali discutono la condanna di Manieri, la sequenza in cui Livia denuncia Franz al comando austriaco: ci sono in entrambe molte analogie nei sottofondi, nella profondità di campo, nel montaggio delle e nelle inquadrature riguardanti i famigliari. Non meno evidenti e palesi le suggestioni, gli influssi di Rossellini. In particolare quando i « Fratelli » sono nella piana del Meridione: immagini quasi documentari­ stiche, da « attualità » ricostruita; parimenti in San Mi­ chele la laguna, quei suoi canali, rimandano alla valle di Cornacchie nell’ultimo episodio di Paisà; e Manieri che improvvisamente si getta in acqua, al primo parti­ giano che, d’un tratto, mani e piedi legati, viene buttato nel Po, provocando un rumore cupo e sordo. Si tratta di suggestioni formali, richiami, citazioni, ricordi di Vi­ sconti e Rossellini rimasti vivissimi nei Taviani; diversi il contesto e le soluzioni. Nell’approdare allo « spettacolo » per il recupero di più larghi strati di pubblico, non ci pare davvero che i Taviani abbiano rinnegato stilisticamente se stessi; tutt’altro. Hanno certo fatto concessioni al « noleggio » per il cast e il credit; ma cosa rimane, a esempio, di Morri­ cone nella colonna sonora? La colonna sonora è dei Ta­ viani. E abbiamo visto come questa si arricchisca in Allonsanfan in una ulteriore ricerca di associazioni non for-

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tuite, di simboli non convenzionali nei loro intrinseci rapporti con i colori. Il loro « fare spettacolo » tende a Shakespeare nel senso che il film è costruito su diversi livelli di lettura, da quelli maggiormente comprensibili a quelli più difficili (come il montaggio intellettuale dei colori e dei suoni) in modo da poter raggiungere appunto più e diversi strati di spettatori, secondo le capacità di ricezione, di coscienza, in ciascuno strato. Né hanno rin­ negato mai se stessi sul piano concettuale, dei contenuti, sempre in stretta connessione con gli aspetti stilistici, con la struttura formale, musicale nel senso riferito: con la fantasia — quella fantasia di cui parlava anche Lenin — trasformano la realtà in opera cinematografica, la quale spesso ci rimanda nuovamente alla realtà. Ogni film dei Taviani viene elaborato ed appare in momenti storici e culturali, sociali, decisivi per la nostra vita nazionale e il nostro cinema, con una predisposi­ zione critica, di analisi e verifica senza sentimentalismi o con il sentimentalismo visto ironicamente Potremmo cosi schematizzare tali momenti: quello delle certezze ormai al tramonto, del « compromesso storico » già ope­ rante, dopo la consunzione del neorealismo — tanto vi­ cino al neoverismo e al populismo, fatte alcune ecce­ zioni —, e il sopravvento dell’« alienazione » peraltro non in-senso marxiano (è il momento in cui esce Un uomo da bruciare}', quello delle cadute delle certezze e delle illusioni dopo il XX Congresso e la morte di Togliat­ ti, delle rivoluzioni possibili e non fatte nel ’45 e nel ’47 (è il momento in cui esce Sovversivi}-, quello dell’utopia ** In un certo senso fa eccezione I fuorilegge del matrimonio, che tut­ tavia tratta, come si è visto, un problema particolarmente importante e drammatico nella società italiana di allora (ma anche di oggi): quello del divorzio.

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del Maggio ’68, di un’utopia intesa in senso positivo (è il momento in cui esce lo Scorpione ma con quell’urlo premonitore della frase musicale alla fine: nel continente raggiunto tutto rimane aperto, e anche alla restaurazione); quello dei tempi che si fanno ancora piu lunghi, della prospettiva rivoluzionaria che si allontana (è il momento in cui esce San Michele)’, quello, infine, pochi anni dopo il Maggio, dei tempi che si fanno sempre più lunghi — e l’avere tutto e subito appare impossibile —, della massima restaurazione, del « compromesso storico » dichiarato: molti — « lavorare stanca » — tradiscono per inserirsi nel sistema (è il momento in cui esce Allonsanfan’, e non è certo un caso che Tito, prima della spedizione, in un mondo dove tutti sembrano dormire e solo i « Fratelli » rimangono svegli, dica ai compagni: « Preferirei essere al maggio prossimo... cosi sapremmo se tutto questo ha avu­ to un senso ». E un senso comunque lo ha, come lo stesso Tito ammette). « La rappresentazione del mondo riunisce tre fattori: la dinamica del processo storico, l’individuo munito di una data conoscenza, Ì dati reali determinati (naturali e sociali) ». Essere dialettici significa per Lenin, e riassu­ mendo Lenin, « cogliere via via, in maniera vivida e mol­ teplice, il mondo che, nonostante tutti i suoi conflitti, è un’unità; la realtà sociostorica, con le sue leggi tutt’altro che meccaniche e rigide, con tutti i suoi scontri e le sue collusioni, presa e raffigurata in un momento e in un con­ testo ben definiti da uno spirito scientifico o artistico, il quale può ingannarsi a sua volta, ma deve impegnarsi — in base alla sua comprensione migliore o peggiore del mondo secondo che abbia passioni forti o meno forti — dalla parte del progresso o dalla parte opposta ». Certo il « futuro diverso e migliore » appare sempre più lon­

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tano e difficile da raggiungere, come sottolineano i Ta­ viani; e tuttavia la tragedia dei « tempi lunghi » non coincide in loro con il « lutto dell’alternativa ». Questo è, nelle diverse forme che assumono, in Manieri come in Imbriani; non nel contesto in cui si muovono, dove la prospettiva è sempre presente, mai negata. I Taviani si sono impegnati e si impegnano dalla parte del progresso, e contro la reazione e i riformismi. Il « si può fare an­ cora ciò che conta » non è un dubbio invalicabile, e nep­ pure un dubbio; e si conosce « ciò che conta ». La possibilità rivoluzionaria, anche se lontana, perma­ ne. In questo senso pure il nostro è tempo di grandi fini e di tragedia atea. Il muoversi appunto nella dire­ zione della prospettiva rivoluzionaria per mutare l’utopia in scienza, in realtà, faticosamente, tra contraddizioni profonde, crisi laceranti, compromessi storici, tradimen­ ti: la storia « non è solo sviluppo, è anche discontinui­ tà, negazione ». La prospettiva, quella appunto di Allosanfan, e l’utopia nell’accezione positiva — non come evasione ma riferimento per una strategia, non come « possibilità impossibile » di modificare il mondo ma come indicazione dei fini dell’azione politica e critica alle istituzioni politico-sociali esistenti per mutarlo, ribaltar­ lo — costituiscono il « punto archimedico » con il quale dominare l’angoscia dinanzi alla realtà nel suo insieme, la vita intesa come caos o labirinto e riconoscere nella vita leggi e tendenze di sviluppo. Ai compagni italiani che Io accusano di essere un illuso, Ettore — il venezue­ lano dei Sovversivi — rivendica l’utopia come « momen­ to della verità »; e Aìlonsanfan si salda con Ettore per ricordarci i compiti rivoluzionari e come nel 1871 Marx sostenesse l’importanza della Comune di Parigi pur giu­ dicando disperata l’impresa. È questo « punto archi­

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medico » che offre ai Taviani la capacità, con forte pas­ sione, di analizzare nei loro film la problematicità del presente in alcune essenziali sue forme vere, concrete, non deformate. Tornare a Marx (e a Engels) significa — questione non ultima — un costante interesse per la forma arti­ stica oltre che per il contenuto, termini naturalmente non intesi in senso idealistico. E per i Taviani anche oggi, nell’ambito delle sovrastrutture, « bisogna realizzare i grandi fini attraverso l’arte », come diceva Trockij: una nuova nozione dell’arte e della tragedia. Ci pare di poter concludere rimandando alle parole dal loro amato Goethe messe in bocca a uno dei suoi personaggi: « Dall’utile, attraverso il vero, verso il bello ». Dove l’« utile » nel­ l’opera dei due registi sono la prospettiva e l’utopia nella accezione riferita; il « vero » (a parte certe riserve: il pri­ vilegiare, a esempio, il dato biologico nel conflitto gene­ razionale), la realtà rappresentata; « verso il bello », gli esiti artistici perseguiti e raggiunti. E infatti anche qui l’« utile » « non scaccia gli altri due valori, ma è il primo scalino per raggiungere gli altri due ».

Appendice

« IL DIO AFFOGATO NEL NOSTRO SANGUE » *

Tra i pensieri di Mao, uno ha colpito in particolare Fau­ sto Morelli: « Non c’è popolo più solitario, più solo, di un popolo in rivoluzione. Chi si trova all’avanguardia della rivo­ luzione è sempre isolato, attaccato dal nemico e, a tratti, da coloro che dovrebbero essere i suoi compagni naturali ». Già Aleksandr Blok aveva affermato con amarezza, agli inizi del secolo: « La maggioranza della umanità è costituita da socia­ listi rivoluzionari di destra »Anche il film di Valentino Orsini I dannati della terra (1969) — di cui Fausto Morelli è il protagonista — è rimasto isolato, preso di mira e dai nemici e da una parte di coloro che avrebbero dovuto appog­ giarlo, appunto perché all’avanguardia del cinema italiano degli anni sessanta e perché respinge in modo deciso sia i « rivoluzionari di destra » sia alcuni di coloro che si procla­ mano di sinistra: oggetto, gli uni e gli altri, di critiche e riserve precise e motivate. « Per un intellettuale, la rivoluzione non è una cosa sem­ plice », scriveva Sklovskij nel 1928: « L’intellettuale è geloso * Parte di questo scritto (sino a pag. 246) su I dannati della terra, il film realizzato da Valentino Orsini dopo la separazione dai Taviani, è apparsa in «Cinema Nuovo» n. 200 (a. XVIII, luglio-agosto 1969). Va­ lentino Orsini, anche lui toscano, è nato a Pisa il 19 gennaio 1926. “ Viktor Sklovskij, Il punteggio di Amburgo, De Donato, Bari 1969.

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della rivoluzione come di una moglie. Non la riconosce. Ha paura. È piu facile il riconoscimento estetico di una rivolu­ zione ancora debole » *. Non è questo il caso di Morelli, quarantenne regista europeo cui l’amico e allievo africano Abramo Malonga, morto di leucemia a ventisette anni, ha lasciato in eredità il film dell’esordio: i capitoli realizzati nel paese natio e rimasti incompleti, perché li porti a ter­ mine e ne faccia il montaggio. È facile vedere in Morelli lo stesso Orsini: l’età è la medesima, e cosi pure l’ideologia, la prospettiva politica di ieri e di oggi. Va subito detto pe­ raltro che non ci troviamo dinanzi alle solite « stagioni del nostro amore », anzi. L’atteggiamento di Orsini — la sua poetica e prassi — non è affatto sentimentale (o sentimen­ tale soltanto); non c’è in lui la contemplazione delle « illu­ sioni perdute », della rivoluzione « tradita », la nostalgia delle promesse del dopoguerra non mantenute. Il ricordo non diventa qui rimpianto, ma riesame del passato in senso critico, per verificare gli errori commessi sia sul piano indi­ viduale che su quello collettivo, le ragioni dello « scacco sto­ rico » subito. È indicativo a riguardo il colloquio di Fausto con il vec­ chio operaio ed ex partigiano Gioiello che, dinanzi a pro­ spettive sempre piu lunghe, lontane, ha accettato la linea togliattiana chiudendosi sempre più nel partito per difen­ derlo, e difendendolo ne ha condiviso anche la politica: « Certo, a quell’epoca gli avvenimenti ci sorprendevano. I conti non tornavano », dice Fausto; « le prospettive erano tanto lontane, da perderle di vista ma », aggiunge, « non si vedeva perché non si voleva vedere: sin da allora il partito era quello che è oggi, e cioè a rimorchio e non all’avanguardia della realtà e della rivoluzione: una promessa non mante­ nuta ». In cambio, Fausto proponeva di cercare insieme, senza verità in tasca da distribuire ai compagni; con questi e

“ Citato da Sklovskij ne II punteggio di Amburgo, op. cit.

Appendice: Il Dio allogato nel nostro sangue

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dentro il partito, non fuori, voleva trovarle. Fu piu facile isolarlo: « Avete cercato di farmi sentire in colpa; mi hanno tolto il saluto. Mettervi un cerotto alla bocca. Non sentirvi parlare. Ricordare e basta, come vi avevo conosciuto ». Fausto, abbandonata la politica, credette che il suo la­ voro fosse l’unica garanzia e bastasse seguirlo. Ma ora si accorge anche del proprio errore: « A te rimase il partito, a me il mio lavoro. Due illusioni. E ci siamo cascati dentro tutti e due. Tutti, ognuno a suo modo. Se il partito non mo­ dificava la realtà, figurati il mio lavoro », riconosce. « Di­ fatti la crisi non era mia personale, o tua. Era storica, ogget­ tiva. Oggi abbiamo imparato a non confonderle, a non affo­ gare in un bicchier d’acqua ». E la critica di Fausto al partito continua ancora oggi. Si veda la sequenza della veglia all’Adriano di Roma, a favore del Vietnam. « Che la veglia sia unitaria, a cosa serve, e dove porta? Ci illudiamo di po­ ter fermare la politica americana in questo modo? » do­ manda. Cioè con i discorsi di Pajetta e Trombadori, le poesie declamate da Buazzelli, le dichiarazioni di Zavattini, i canti popolari e della Resistenza? « Una politica si batte con un’al­ tra politica, una classe con un’altra classe: la violenza impe­ rialistica si ferma con una politica rivoluzionaria; le forme devono e possono essere diverse da quelle dell’avversario, ma una sola necessaria condizione: che siano efficaci. Nel Vietnam si lotta per il diritto alla rivoluzione. O si vince e lo si afferma, o si perde e lo si nega. Non è sufficiente ve­ gliare i nostri morti; è ormai troppo tempo che lo fac­ ciamo ». Al dirigente del pei che lo accusa di fare confusione, an­ che e appunto all’Adriano, Fausto replica: « Ha parlato l’ordine. Bella tempra di rivoluzionario. Ha vegliato tutta la notte e ha cantato, ha fatto il discorso e ora a letto con la coscienza tranquilla ». — « E tu cosa proponi, stratega? La bomba contro la tigre di carta, la contro-escalation, la contestazione globale? Non è la strategia di moda? »

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— « La rivoluzione. La parola ti fa paura? Certo, avete smobilitato il partito ». — « Smobilitato? » — « Mobilitato! Per la caccia ai voti. E la violenza rivoluzionaria? In cantina, al fresco! » Una conferma a riguardo la troviamo nel dialogo tra un bianco e Abramo, in uno dei capitoli del film da Abramo lasciato incompiuto: — « I bianchi vi fanno paura. Nel cervello l’avete la paura! Vi fate far fuori come mosche, svegliatevi! Non siete stati capaci di fare una sola rivoluzione! » — « E voi? È da vent’anni che non ci provate piu! Il capitale vi ha tagliato le mani sul serio, e non bastano le medicine, i manifesti » (e quindi anche le veglie). « L’inter­ nazionalismo è fare la rivoluzione qui per aiutare le nostre », aggiunge Abramo. « E passato, Fausto, è passato tutto ». Fausto non grida piu, come un tempo. A Gioiello, che gli rimprovera di aver sempre gridato e lo invita a continuare, ironicamente risponde di aver perso la voce. E rimanda ancora alle parole di Abramo: « Europei, non chiedeteci nulla perché noi abbiamo imparato che non possiamo chie­ dervi nulla. Le nostre storie separate ci spingono oggi alle rispettive solitudini, e nessuno deve gridare per l’altro, tanto meno gridare assieme, perché facciamo baccano e basta ». Fausto ha dunque capito — come sottolinea la sequenza del­ la veglia — che il baccano non serve, ma occorre ragionare e operare. Quando Mario, l’amico e scrittore di sinistra, gli dice che non riesce più a lavorare, che l’ultimo suo libro si è fermato a metà, e sono mesi che cerca di andare avanti ma si accorge di ripetersi, Fausto non vuole sentirlo: respinge la confessione d’impotenza e chiude la porta dietro di lui; l’esperienza gli ha insegnato che un lavoro di qpel genere non costituisce garanzia alcuna, che non bisogna considerare l’ope­ ra (romanzo o film) come l’ultimo rifugio per la salvezza indi­ viduale. Se Fausto era in crisi, ora non lo è più.

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Gli appunti e il diario di Àbramo, i capitoli del film già realizzati, pongono a Fausto problemi ideologici prima an­ cora che espressivi, la necessità di far luce nel labirinto in cui viviamo per contrapporre alla resa la sfida. Analizzando il materiale girato dall’amico, egli annota che le parti sulla storia della colonizzazione contengono la violenza imperiali­ stica in tutte le sue forme, la distruzione della società e della cultura africane, la schiavitù. « In due parole abbiamo tra­ sformato l’Africa e i suoi abitanti in mezzi di produzione, per edificare questa avventura dello spirito che chiamiamo ancora civiltà occidentale ». Dinanzi ai capitoli di interro­ gazione sul futuro, avverte la necessità di analizzare l’espe­ rienza politica del partito africano, l’indipendenza della Gurnea, del Capo Verde e degli altri movimenti di liberazione nelle colonie portoghesi come esperienze politiche di lotta armata, intesa quale unica strategia possibile per la lotta di liberazione. « Rivedere Fanon »é7. I capitoli sulle indi** Una delle principali fonti di Orsini — per quanto riguarda i pro­ blemi del Terzo Mondo, le idee politiche «sul ruolo della violenza rivo­ luzionaria e della sua concezione generale del processo rivoluzionario nel mondo intero», il contributo ad una ideologia africana e non soltanto africana — è Frantz Fanon, da un libro del quale, I dannati della terra ap­ punto, il film prende il titolo. A Fanon, Abramo rimanda in piu occasioni e in piu punti e per diverse analogie. Anche Fanon, « particolare mescolanza di intelletto e passione », viene in Europa da un possedimento coloniale, e sposa una bianca, muore giovanissimo di leucemia, concludendo una vita al servizio della rivoluzione « nera » e per una prospettiva rivoluzionaria su vasta scala. Anche lui combatte la politica che si fonda sulla « semplice persuasione, razzistico-evoluzionistica, che le culture indigene fossero pri­ mitive e retrograde, e che il loro progresso consista nel divenire sempre più simili all'uomo bianco, la cui cultura ha rappresentato il più alto pinnacolo della evoluzione umana ». Non è realmente e seriamente possibile ritenere che la cultura occidentale sia la cultura tout court, afferma Fanon; e, pur di­ sprezzandola per la sua oppressione, il nemico non è per lui l'uomo bianco nel suo insieme, ma il colonialismo. « Lungi dal celebrare la violenza in assoluto, Fanon sottolinea che l'odio non è un programma». Nonostante i travisamenti di cui egli è oggetto, respinge ogni forma di razzismo. « Lo sfruttamento », scrive, « può avere una faccia nera o araba », e « addita il sostegno dato alla causa nazionalistica da alcuni bianchi [...] Anche l'umanità dell'uomo bianco si realizza quando questi si decolonizza politicamente

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pendenze degli anni sessanta, annota Fausto, demistificano criticamente i movimenti nazionalisti da Lumumba a Nkruma; e quelli sullo sviluppo del neocolonialismo (colpi di stato, lotte di secessione, interventi armati diretti) mettono in risalto come l’esperienza africana sia la riprova della tendenza unitaria della strategia dell’imperialismo ad uno sfruttamento mondiale, nelle zone sviluppate e sottosvilup­ pate. « Cosa hanno significato le lotte di liberazione per noi? Hanno mascherato il carattere mondiale della violenza del capitale, demolito l’eurocentrismo richiamandoci a nuova responsabilità. Hanno fatto capire una volta per tutte che non siamo piu l’ombelico del mondo ». Autentico marxista, Abramo è cosciente che occorre mo­ dificare il mondo; e trasforma la « critica del cielo » in « cri­ tica della terra ». Un poeta americano, negro come lui — ri­ corda in una pagina di diario — ha scritto: « Libertà, non il cielo. Rivoluzione, non il cielo. Io sono quello che osa dire: sarò libero o morto, oggi stesso ». I santi sono perico­ losi, avverte Abramo: anche se si chiamano Lumumba. È ne­ cessario saper demistificare e demistificare appunto criticamente, seppellire i nostri morti; distinguere, per dirla con Sklovskij, la data del calendario dalla festa del santo: « il contadiname vive secondo i santi ». « Ho riletto i discorsi di Lumumba », ha annotato nel diario Abramo; « nel suo pen­ siero politico già c’è la sconfitta. Ho fatto bene ad introdurre nel film l’esempio del suo sacrificio? Sarà chiaro il mio amore e il mio disaccordo? “Onesti e integri”. Ma che senso possono avere per noi queste parole? Che assurdità! I compagni del­ la Guinea Bissau mi hanno risposto che l’onestà e l’integrità attraverso la rivoluzione»; di qui Famicizia di Abramo per Fausto. (Sulle teorie rivoluzionarie di Fanon e la sua evoluzione di rivoluzionario, cfr. — tra l’altro — gli scritti di Peter Worsley e Peter Geismar pubblicati in « Monthly Review » edizione italiana — giugno 1969 —. cui abbiamo attinto per questa nota). Partito da Fanon, Orsini giunge peraltro alle posizioni marxiste, più avanzate, di Amilcar Cabrai, capo del movimento guerrigliero nella Guinea Bissau.

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consistono nell’esercizio della violenza rivoluzionaria. Hanno ragione. E mi hanno anche detto: “a coloro che non ci cono­ scono ancora, tu rispondi che siamo i dannati della terra. La nostra realtà è quella che gli occidentali chiamano sotto­ sviluppo: dominazione, miseria, paura, fame, sopraffazione, ignoranza, tribalismo, terrore, morte, violenza. A coloro che non sanno ancora dove il nemico stia di casa, tu rispondi che il sottosviluppo è l’imperialismo, e che questa è la casa grande del capitale. A coloro che non hanno ancora capito a cosa crediamo, tu rispondi che la nostra lotta armata non è né un dogma né uno scopo, è solo un metodo. A coloro infine che vorranno sapere tutto sul nostro futuro, tu rispondi, secca­ mente, che la nostra rivoluzione dipende da noi, s(, ma nella stessa misura in cui noi dipendiamo dalla sorte della rivo­ luzione” ». Il giudizio su Lumumba — analogo a quello che possiamo dare su Luther King — è duro e magari sconcertante, ma vero. Perché tenere sull’altare questo inutile ed erroneo sa­ crificio? Ha fatto bene Abramo a introdurlo nel film; rimane il dubbio, in lui, di essere riuscito a rendere palese amore e disaccordo insieme. E come tradurre in immagini chiare, in una sintesi definitiva le verità che i compagni della Guinea Bissau gli hanno affidato? « I globuli bianchi, cosi dicono i dottori, stanno velocemente distruggendo gli altri. Che ironia! Ho voluto fare un film solo africano. Ho voluto stare sino in fondo al mio posto, invece oggi ho il dubbio di essere stato schematico. Avrei dovuto fare un film che tenesse conto degli altri movimenti rivoluzionari », scrive Abramo a Fausto nel consegnargli il materiale girato, nel delegarlo a risolvere que­ sti interrogativi. « Il mio film è tuo. Nel montarlo e nel finirlo, non farti influenzare né dai negri con la testa da bian­ chi, né dai bianchi con la testa da negri ». Dinanzi al difficile compito che Abramo gli ha affidato, anche Fausto ha dubbi e incertezze. Agli interrogativi già posti, altri se ne aggiungono. Cosa non risulta dai frammenti

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girati? La visione, nell’amico, delle cose; visione che alla fine non risulta né africana né europea, ma semplicemente rivo­ luzionaria. « Il fallimento dell’indipendenza africana, la crisi dei vari processi rivoluzionari attuali testimoniano la nostra in­ capacità di stabilire un efficace collegamento politico fra le lotte del terzo mondo e le lotte nelle società neocapitalistiche », annota Fausto sotto l’appunto già riferito di Abramo. « ...Le nostre storie separate ci respingono alle rispettive solitudi­ ni... » Fausto avverte che ci troviamo in uno stato di rimessa in discussione che investe la maggioranza delle forze rivolu­ zionarie mondiali, le quali oggi si trovano di fronte a un vuoto strategico, di conoscenza e di azione politica unitaria. E si ripromette di tenere presente il riferimento esplicito di Àbra­ mo alla responsabilità della sinistra ufficiale europea sia nei paesi occidentali sia in quelli orientali. « E questo riguarda noi tutti ». Il film incompiuto rimanda dunque ad un altro film, come del resto suggeriscono il diario e gli appunti di Abramo. Dopo le incertezze e le verifiche attraverso le quali lo abbia­ mo visto nella sua realtà passata e presente, anche e proprio in base a certe intuizioni e interrogativi dell’amico, Fausto arriva alla decisione di concludere l’opera con una grande metafora in cui appaiano tutti: europei e africani, italiani e terzo mondo. La metafora è semplice, dice sul set alla troupe: « esistono soltanto due classi di uomini e il loro unico legame è la violenza. Quelli che la esercitano e quelli che la subiscono. L’autore per mezzo nostro e dei nuovi personaggi, vi mo­ strerà soltanto coloro che la violenza la subiscono e, dicia­ molo, che la rifiutano, la combattono. Il labirinto, invece, rappresenterà il capitale. Gli altri, il sistema di coloro che la violenza la esercitano quotidianamente e che qui non vedrete mai. Per individuarli vi basterà osservare bene le condizioni di violenza nelle quali ci troviamo, perché sono loro che le hanno determinate e le hanno volute ». E questo riguarda noi tutti. Nell’allegoria troviamo in­

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fatti i personaggi già incontrati nei frammenti di Abramo e anche dei nuovi: Margherita, simbolo di quegli argentini che considerano l’Europa un grande mito, l’evasione, e che cosi hanno contribuito in modo diretto o indiretto alla morte del Che (« Dietro al fucile di Barrientos non c’erano sol­ tanto gli Stati Uniti d’America, ma anche la vostra indiffe­ renza, la tua evasione, Margherita »). E troviamo il cinese ormai non più cinese (non di « quelli che vorremmo incontra­ re tutti i giorni »); Alibe, che da anni lontana dall’America, nei nights per un pubblico di bianchi scimmiotta i divi negri combattuta tra il rimorso per quelli che sono rimasti laggiù e l’invidia per quelli che oggi hanno il coraggio di ribellarsi al potere dei bianchi (« Dillo, che hai paura di tornare tra loro e hai vergogna di restare tra noi »). E ci siamo noi ita­ liani, con il nostro terzo mondo — le nostre zone e città depresse68 — ieri configurato nel fascismo (« O ti adat­ tavi », aveva detto Fausto ad Abramo, nell’accompagnarlo nella propria casa natale, « o finivi in carcere. Vivevamo fuori porta, a Pisa, relegati in periferia, come gli appestati »). Nell’allegoria si fa chiara l’affermazione di Sartre (e brech­ tiana), e che Orsini fa sua: si vive nella tragedia perché siamo vittime e al tempo stesso carnefici: vittime, in quanto subiamo il potere altrui; carnefici, in quanto permettiamo al potere la violenza nei confronti dei nostri simili. In questo consiste — afferma Orsini — il sentimento tragico della vita, nel rapporto dell’uomo con la propria storia, e non in quello dell’uomo-natura o dell’uomo-esistenza; la mancanza delle nostre risposte diventa determinante nello scacco storico su­ bito w. Del nuovo rapporto, alla base della poetica di Orsini, si rendono conto-Fausto e Abramo, coscienti entrambi della “ Terzo mondo sono, a esempio, la Sicilia, città e regioni dellTtalia meridionale e anche settentrionale. ** Cfr. Valentino Orsini, Ipotesi ideologica aperta nell'esplosione della bomba H, in « Cinema Nuovo », Genova, a. XVI, n. 189, settembre-otto­ bre 1967.

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sconfìtta che stanno e stiamo soffrendo, del nostro vivere carnefici e insieme vittime nella tragedia, e manifestano la loro volontà di trovare una via d’uscita. A illuminare il la­ birinto in cui egli stesso si trova, Abramo afferma: « Pane vuol dire pane; capitale, capitale; come la rivoluzione significa rivoluzione. Dopo tante parole, le parole sono ancora là che attendono di essere prese per dire cose chiare. Prendiamole!70 Voglio con voi guardarmi intorno. £ inutile negarlo, oggi subiamo il potere. Questo sistema violento, sempre violento, perché infatti è retto sullo sfruttamento continuo degli uo­ mini da parte della classe del capitale. Sf, lo so che è una frase che vi farà ridere, e ognuno è libero di farlo; anzi insi­ sto: lo sfruttamento si accresce e contemporaneamente con esso la violenza ». Quella violenza che la pace nasconde, e quella che non riesce a nascondere, ma che tutti conosciamo, perché porta nome e cognome — continua Abramo —: il loro sistema così si mantiene c cosi si sviluppa; siamo noi che dobbiamo spez­ zarlo, e non c’è nessuna altra scelta: o la nostra rivoluzione o la loro violenza. « Vedo crescere alta la loro continua vio­ lenza ma non vedo crescere, altrettanto alta, la nostra rivo­ luzione. Lo scompenso tra la loro violenza e le nostre rivo­ luzioni mancate, o non compiute sino in fondo, è il vero problema sul quale dobbiamo riflettere, perché questo è il nostro scacco storico »71. Il nostro scacco. La loro violenza o la nostra rivoluzione. « Ora nel dirlo mi accorgo che questo scacco storico è anche il mio scacco individuale, perché rende piu relativa la mia vita. Lo so che questo mio presente è breve cosa, ma è l’unica realtà da cui mi è dato partire. Non 70 Orsini sente la necessità di ridare valore preciso alle parole, non mettendone tra parentesi il significato o dando a esse un significato neutro o ambiguo o opposto. Godard, attraverso le sue interviste cinematografiche, dimostra — a esempio ne La cinese (1967) — che il termine «reazione» viene anche inteso come « rivoluzione ». 71 A proposito dello « scacco storico », si veda cosa dice ai compagni del pei il venezuelano Ettore nei Sovversivi.

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ho nessun’altra scelta. Mi rimane un’unica possibilità di esistenza, ed è quella di negare questa storia violenta ma ferma, dove la vita non vive. Sì, negare, ricominciare a ne­ gare, con ogni mezzo ». « Negare », insiste Fausto — divenuto regista-personag­ gio — continuando il discorso di Abramo; « negare anche sapendo che le mie azioni non si potranno probabilmente unire subito ad altre azioni, e che come oggi non riesco a moltiplicare e a rendere efficace l’agire degli altri, cosi gli altri non riescono a moltiplicare e a rendere efficace il mio agi­ re. Negare, sapendo che la negazione può essere un salto nel futuro e che può rimanere un atteggiamento individuale ». Una certezza soggettiva, utopica probabilmente, conclude Fausto, ma necessaria per non subire la storia presente o per poterla cosi cambiare 11 12. Abramo e Fausto hanno raggiunto, una loro certezza rivoluzionaria ma quali attori, commenta lo speaker, e questo non basta come non basta misurarsi con la violenza rappresentata nei film per illudersi di stare eliminando la violenza storica del capitale. « Cosi, per non ingannare nessu­ no, il film si sospende, perché ora tocca a noi, fuori di qui, misurarci con la loro violenza. Negare quindi, ma non esau­ rirsi nella negazione » (come pensa erroneamente di Abramo, il fratello)M. E il film si interrompe — fine di un inizio74 — con una reiterazione: sullo schermo riappare in primo piano il volto di Abramo che ripete: « Il nostro scacco! La loro

11 Anche Orsini, come i Taviani, pone il problema della utopia, della prospettiva rivoluzionaria; e rimanda a gruppi extraparlamentari; peraltro in un discorso che si svolge nel presente e non nel passato con riflessi e correlazioni con l’oggi. ” Questo fratello, dice la vedova di Abramo — una bianca — « è un politico dell’altra generazione, come mi diceva mio marito». Ed è ovvio che egli attribuisca ad Abramo il suo stesso errore: di vedere la situazione africana senza realismo politico. Analoga accusa veniva rivolta a Fanon. M Godard, che si muove nella direzione di Brecht senza dimenticare Pirandello, chiude La cinese con la didascalia «Fine di un inizio».

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violenza o la nostra rivoluzione. Ora nel dirlo mi accorgo che questo scacco storico è anche il mio scacco individuale, per­ ché rende relativa la mia vita ». La nostra vita. Vediamo Àbra­ mo sospendere il discorso per poi riprenderlo, ma dalle sue labbra che si muovono non esce piu il suono della voce, non sentiamo più le restanti parole: « Lo so che questo mio pre­ sente è breve cosa... » Prima che la voce scompaia e il film si interrompa, Àbra­ mo aveva peraltro già chiarito uno dei miti di tutti i tempi e in particolare del nostro: quello — al pari di ogni altro mito, usato dalle elites al potere — della non-violenza. « Io posso anche dire: basta con la violenza. Io la rifiuto. Sono per la pace. Allora evviva la pace. Ma con la pace non si ferma la violenza, perché chi subisce la loro violenza non è certo in pace. Allora abbasso la pace, che non ferma la violenza. Per la verità la pace verrà dopo, quando non ci sarà più la violen­ za e fino a quando durerà la loro violenza noi non saremo certo in pace. Abbasso la violenza. Si può dire, con la scusa della pace, “io sono in pace!” Ma come? Sono io. Io solo ad es­ sere in pace e, con la mia pace, faccio violenza a quelli che la violenza la subiscono, e non sono affatto in pace. E allora? Viva la violenza. Che può fermare la violenza e riportare la pace. E allora perché soltanto dirlo e non farlo? Quando sappiamo che la loro violenza è un bel fare, e la nostra pace solo un bel dire. E allora? Viva la violenza ». L’alternativa violenza - non-violenza è un’alternativa bor­ ghese e non rivoluzionaria: « la borghesia combatte e rifiuta la violenza solo quando questa mette in questione il sistema e non allorché vengono criticati i metodi cui il sistema ri­ corre per esistere », come appunto Abramo denuncia. « Il benpensante che protesta contro la brutalità dei mezzi sollecita l’anima umanistica del capitale; l’ideologia della non-violenza non spezza il sistema capitalistico, ma esige da esso nuove idee e metodi per ottenere fini identici [...] Per queste ragioni nel film non poniamo l’accento sull’immagine celebrativa della

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violenza, anzi ne capovolgiamo la mistificazione » corrente Respingere dunque il mito della non-violenza — anche to­ gliendo dall’altare un Lumumba (e, a maggior ragione, Lu­ ther King) —, ideologia che dovrebbe essere comunque e soltanto nei subalterni, e chiarire perché esso mito sia nato e perduri al servizio del capitale, e come si viva nella tra­ gedia non già per l’antinomia uomo-natura o uomo-esistenza, ma per il rapporto dell’uomo con la propria storia che spesso lo rende vittima nel subire il potere altrui e in­ sieme carnefice nel permettere al potere la violenza nei con­ fronti dei nostri simili. Smascherare cioè il carattere mon­ diale della violenza del sistema ed essere per quella violenza che la violenza del sistema può impedire, individuare nel­ l’imperialismo l’origine e il persistere di ogni forma di sot­ tosviluppo: dominazione, miseria, paura, fame, sopraffazione, tribalismo, terrore, morte; è l’imperialismo ad avere tra­ sformato l’Africa e gli africani in mezzi di produzione per alimentare la cosiddetta « civiltà occidentale ». La critica della religione (anche quella di un Lumumba o di un King o di un Gandhi, contrari alla violenza) è il presupposto — ci ricorda Marx — di ogni critica: « la lotta contro la religione è [...] indirettamente la lotta contro quel mondo la cui quin­ tessenza spirituale è la religione »76, in ogni aspetto in cui si manifesta. E ancora: il considerare l’opera dell’intellettuale, del­ l’artista, l’ultimo rifugio per la salvezza personale, fuori della politica; e lo stesso partito comunista italiano — non più all’avanguardia — come garanzia e fenomeno di per se stesso atto a modificare la realtà; la mancanza delle risposte a inter­ rogativi fondamentali, che diventa determinante nel nostro ” Alberto Filippi, Critica della violenza nei «Dannati della terra», in « Cinema Nuovo », Genova, a. XVII, n. 191, gennaio-febbraio 1968. Filippi ha collaborato alla sceneggiatura e alla regia del film. H Karl Marx, Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel. E con Marx, Abramo vuole di conseguenza la « critica della terra ».

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scacco subito; il demolire l’eurocentrismo e capire che noi europei non siamo piu l’ombelico del mondo; le storie sepa­ rate dei popoli che ci spingono oggi alle rispettive solitu­ dini; il non gridare l’uno per l’altro, e tanto meno insieme, perché facciamo baccano e basta; l’incapacità di stabilire un efficace collegamento politico fra le lotte del terzo mondo e le lotte nelle società neocapitalistiche mentre le nostre rivo­ luzioni dipendono da noi ma nella misura in cui noi dipen­ diamo dalla rivoluzione mondiale; la lotta armata vista come unica strategia possibile per la liberazione: non come dogma e fine, ma metodo. Far luce insomma nel labirinto in cui ci troviamo spesso dispersi e ci dibattiamo, per contrapporre alla resa la sfida, a una politica un’altra politica, a una classe un’altra classe, alla violenza imperialistica la rivoluzione, alla « democrazia formale » la « democrazia integrale », che non ha — come Marx dice — lo scopo di attuare soltanto la libertà, ma anche la giustizia ponendosi in funzione degli interessi effettivi della collettività e dei popoli. Da una parte, cioè, nei Dannati della terra, l’individuazione degli errori commessi, le responsabilità della sinistra uffi­ ciale europea sia nei paesi occidentali che in quelli orientali, l’odierna situazione connessa con quella di ieri; dall’altra, gli elementi di una verifica e, infine, una prospettiva per il futuro immediato o prossimo: la necessità di una rimessa in discussione che investa la maggioranza delle forze rivo­ luzionarie mondiali, oggi spesso di fronte a un vuoto stra­ tegico, di conoscenza e di azione politica unitaria di contro alla tendenza unitaria, nell’imperialismo, della strategia per lo sfruttamento su larga scala nelle zone sviluppate e depres­ se: fenomeno unitario di cui l’esperienza africana offre ri­ prove. E il richiamo ancora a Marx, che « non spiega la prassi partendo dall’idea, ma spiega le formazioni delle idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza al risultato che tutte le forme e i prodotti della coscienza possono es­ sere eliminati non mediante la critica intellettuale » ma « solo

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mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esi­ stenti ». Non la critica, aggiunge Marx, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della reli­ gione, della filosofia e di ogni altra teoria: ad una società, nella quale Fazione dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta e lo soggioga, invece di essere da lui dominata, corrisponde una ideologia che si fa specchio di quella situazione nel senso che riproduce sotto forma spi­ rituale quella stessa alienazione — intesa in senso scienti­ fico — che quella società attua sotto l’aspetto del lavoro alienato77. A questi e ad altri principi marxiani — e alla critica del marxismo volgare — rimanda I dannati della terra, che ideo­ logicamente e politicamente ci sembra film tra i piu avan­ zati e maturi. Opera « didattica », di insegnamento, pro­ vocatrice di idee e non gastronomica, essa si inserisce in un preciso modo di pensare il cinema, rimanda cioè a Brecht anche se appalesa la presenza di Pirandello. Al pari di Godard ma in misura maggiore e forse piu consapevole, Orsini sem­ bra qui « salvare » nell’arte soltanto lo scrittore tedesco, te­ nendo tuttavia un occhio (e quale occhio) rivolto allo scrit­ tore italiano. Mutuando e in parte cambiando quanto ha os­ servato de Castris a proposito dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, possiamo dire che nei Dannati della terra il diario, le memorie di Fausto e Abramo rendono rappre­ sentabili in una concezione unitaria i contenuti frammentari dell’esperienza passata e che il film si costruisce su due direzioni: sul tempo disorganico, frammentario della strut­ tura della vicenda « esterna » e sul tessuto unitario della storia concettuale e sentimentale (e abbiamo visto in quale accezione questo aggettivo vada qui inteso) di Fausto. Anche qui un costruirsi in « un succedersi slegato di fotogrammi, di bagliori descrittivi, di figurazioni sintetiche [...], un frammi” Karl Marx e Friedrich Engels, L'ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1958.

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sto ritmo di ricordi e di ansie »78, di verifiche e ragionamenti ma per un salto nel futuro. Abramo è in fondo un personaggio « in cerca di autore »: conscio dei dubbi sul suo film-saggio incompiuto, perplesso e problematico è « anelante » all’opera di Fausto, che lo « fissi, lo faccia essere ». A sua volta anche Fausto cerca l’autore e lo trova, leggendo quei dubbi e analizzandoli cri­ ticamente, proprio nel diario, negli appunti, nei frammenti di film che l’amico gli ha lasciato in eredità: egli infatti dà ordine, ragionando, a quei materiali e dove le sue conclu­ sioni sono già in nuce. L’opera di Orsini si costruisce cosi sulle memorie di Fausto e frammenti lasciati da Abramo, e il diario dell’uno si sovrappone al diario dell’altro, inte­ grandosi a vicenda. « Concludere il film di Abramo: mo­ strare le condizioni nelle quali ci troviamo tutti, e che ci rendono tutti simili », appunta nel suo giornale, concluden­ dolo, Fausto. Con i capitoli di Abramo, egli costruisce man mano l’opera: un’opera dunque « in fieri », da fare, aperta e che non conclude, e non vuole concludere. L’ipotesi ideo­ logica è « una ipotesi aperta », afferma Orsini, e « la ideolo­ gia nel corso del film cerca continuamente se stessa, afferman­ dosi e negandosi senza interruzione. Ogni chiusa esige un nuo­ vo inizio. Il linguaggio segue lo stesso itinerario » (la vita, diceva Pirandello, non conclude mai e non può concludere, in quanto incessante mutamento e farsi). « Il linguaggio segue lo stesso itinerario » ”. La conclusione — la conclusione del qui e adesso — è lasciata semmai allo spettatore, o meglio a questo si chiede, qui e adesso appunto, cosi come nel futuro, un’azione concreta e conseguente, la prassi fuori della sala, dopo aver visto il film. E c’è, nell’allegoria finale, l’opera nell’opera, il problema dei rapporti tra finzione e realtà. 71 A. Leone de Castris, Storia di Pirandello, Laterza, Bari 1962. * Cfr. Valentino Orsini, Ipotesi ideologica aperta nell'esplosione della bomba H, cit.

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Parimenti ai Quaderni di Gubbio, I dannati della terra (l’influsso di Pirandello cresce man mano nel cinema odierno, e non soltanto in quello italiano) vale tra l’altro come « do­ cumento di poetica ». E tuttavia di una poetica diversa, anzi opposta dal punto di vista concettuale, della prospettiva. Fausto non diventa alla fine muto, e neppure cieco come il Thomas cosi significativo dell’Antonioni di Blow-up, non perde l’uso della parola o della vista. Al contrario, accre­ sce questa e quella. « La realtà terrificante dell’uomo », il « fenomenismo dei suoi pezzi di vita » escludono qui la dimensione di « una testimonianza senza tempo » appunto perché quei pezzi non sono e fatalmente, in lui (e in Abramo), « incongruenti ». Fausto respinge quel « silenzio di cosa », quel distacco che in Gubbio brucia « tutti i rapporti e risol­ ve in contemplazione tutto il suo sentimento » dell’esistenza. In lui non c’è affatto l’idea, « condotta all’estremo limite, della progressiva rivelazione di un fallimento totale, di cui la storia dell’oggi rappresenta l’ultimo atto, il feroce ina­ sprirsi di una legge assoluta della vita ». Orsini nega infine e risolutamente la « compassione pirandelliana », l’« appro­ do di un iter sentimentale che si definisce tutto e si risolve nell’ambito della pietà », la decisione di Serafino di « acco­ glier tutto e tutti in questo » suo « silenzio, ogni pianto, ogni sorriso » in modo che tutti trovino dentro di lui « non solo dei loro dolori ma anche e più delle loro gioie, una te­ nera pietà che li “affratelli” almeno per un momento ». C’è in Fausto, come abbiamo visto, la consapevolezza dello scacco storico subito e la tragedia di essere noi al tempo stesso carnefici e complici; ma i fallimenti — individua­ li, di gruppo, di partito, della sinistra ufficiale europea in oc­ cidente e in oriente —, le sconfitte e le integrazioni nel sistema, per quanto numerose e perduranti e drammatiche, sono intese come transitorie e contingenti. La sua « chiaroveggenza » non è affatto « spaventosa » nel senso che non respinge tutto questo come « ultimo atto » e come « legge assoluta della

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nostra vita ». « Sono oggettivamente complice di tutto quello che il capitale combina nel mondo, per il semplice fatto che ci vivo dentro », scrive nel diario. « Ma saperlo », aggiunge, « non basta. Marx aveva ragione: ciò che la coscienza fa da sola, è del resto senza importanza ». E alludendo a Mario, lo scrittore di sinistra in crisi — nell’analoga crisi in cui egli stesso si era trovato — annota: « L’autoritratto della nostra (mia) cultura? Vivere per l’opera, oggi, significa essere l’altra parte: credere al diritto di possedere, di comandare, di sal­ varsi da solo ». Il « si gira » di Fausto, il suo fare l’opera­ tore « nel mondo in cui vive e di cui vive », significa volontà di operare davvero, in modo concreto: la « camera » gli serve, e non è lui a servirla; egli respinge la sorte del testimone muto e impassibile, della mano che gira meccanicamente una ma­ novella, lo stato di uno di quegli « impiegati » ai lavori per i consueti svaghi cinematografici. E operare in modo con­ creto equivale alla volontà di contribuire al cambiamento della società, del mondo, dell’uomo, per un salto in un fu­ turo nuovo, diverso dal presente: in questo l’« oltre » di Fausto, ciò che di solito viene inteso come « superfluo » (il mondo è quello che è, si dice, e nulla possiamo fare per mo­ dificarlo). « L’ultima consolazione: lasciarsi amare. Perpetua infanzia », sottolinea Fausto nel diario. « Non chiedermi sor­ risi. Oggi si può sbagliare compagna, ma l’unico vero sbaglio sta soltanto nello stare fermi, senza agire. Solo in questo ». Da Pirandello, passiamo cosi in pieno ambito brechtiano. In che senso serve infatti l’opera? E in quale va inteso lo svago? Con Brecht, Orsini ripete: l’uomo cosi com’è non deve restare: bisogna vederlo anche come potrebbe essere; al pari della trasformazione della natura, quella dell’indi­ viduo e della società è un atto di liberazione, ed è la gioia che da tale liberazione nasce ciò che il cinema di un’era scientifica come la nostra deve comunicare. Quale ricrea­ zione migliore di quella volta a trasformare l’uomo, a toglierlo dalla sua passività, dal suo atteggiamento acritico, dalle varie

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e sedimentate forme di avvilimento culturale? Alla doman­ da posta dallo scrittore tedesco, Orsini con lui risponde: la diffidenza di fronte ai fatti consueti, « ovvi », mai posti in dubbio (il mondo è quello che è, appunto) è una meditata conquista della scienza, e non esiste ragione perché l’arte, e quindi il teatro e il cinema, non adottino questo atteg­ giamento utile quant’altri mai: scienza e arte si incontrano nel fatto che scopo di entrambe è di agevolare la vita degli uomini, l’una curandosi del loro mantenimento, l’altra della loro ricreazione. « Nell’era che si annuncia, l’arte attingerà il divertimento dalla nuova produttività, la quale è in grado di migliorare in gran misura il nostro benessere e potrebbe, qualora non ostacolata, costituire essa stessa il diletto piu grande ». Stabilirsi nel regno di un « piacevole » cosi intenso, significa anche imparare”. Ecco dunque la funzione dell’opera, del film per Orsini: il mondo d’oggi può essere espresso anche per mezzo del cinema, « purché sia visto come un mondo suscettibile di cambiamento ». E alla luce brechtiana vanno interpretate e chiarite le « memorie » di Fausto e la stessa allegoria finale dei Dannati della terra, nei loro contenuti concettuali e nella loro struttura espressiva, in altre parole alla luce di una « linea razionale » e non « viscerale » dell’avanguardia. È vero, come afferma Lukàcs, che l’allegoria è quella categoria estetica in cui possono affermarsi artisticamente concezioni del mondo che costituiscono una scissione di esso, in seguito alla trascendenza della sua essenza e fondamento ultimo, in seguito all’abisso tra l’uomo e la realtà. Quando la rappre­ sentazione letteraria del tempo (e, possiamo aggiungere, quella cinematografica) si stacca dagli oggetti e dal loro movi­ mento e, trasferita nel soggetto, si rende indipendente — os­ serva il filosofo ungherese —, il mondo rappresentato deve ne­ cessariamente spaccarsi in mondi parziali reciprocamente etew Bertolt Brecht, Scritti teatrali, op. cit.

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rogenei: in questo irrigidimento il mondo dell’uomo, il solo grande oggetto della narrativa, va subito in pezzi non appena anche solo una componente strutturale effettiva è avulsa dal contesto portante della sua totalità. Ma lo stesso Lukàcs sottolinea che la categoria estetica dell’allegoria è in sé estremamente problematica: « L’allego­ rizzare come tendenza stilistica è cosi profondamente pro­ blematico, perché respinge in linea di principio l’immanenza come visione artistica del mondo, quell’immanenza del si­ gnificato nell’essere umano e nell’attività umana che è sem­ pre stata, ed è tuttora, spontaneamente (spesso senza divenire consapevole come tale, anzi, nel corso della storia, spesso immediatamente vincolata a concezioni di trascendenza re­ ligiosa, e quindi con una falsa coscienza estetica) la base di ogni prassi artistica ». In linea di principio; e l’allegoria in­ fatti assume in Orsini un significato diverso rispetto alla « linea viscerale » dell’avanguardia, e così pure le « memo­ rie » di Fausto. Contrariamente a quanto avviene nell’am­ bito di quella linea, il tempo « genuino », « autentico », pos­ siamo proprio dire lukàcsianaménte, non diventa nei Dannati della terra il tempo del tutto soggettivo, dell’esperienza vissuta e basta, non si stacca cioè, e interamente, dal mon­ do reale e oggettivo, nonostante certi evidenti rimandi del regista a Resnais. Respingendo Proust e i proustiani nel cine­ ma, come appunto è Resnais (e, come nel caso del raffronto con Pirandello, non intendiamo dare giudizi di valore ma di tendenza culturale), Orsini descrive « una vita come è stata » e non « una vita così come, chi l’ha vissuta, si ricorda di questa vita », o meglio svolta « dal tessere del suo ricordo, dal lavoro di Penelope della memoria »81. " Per questo e gli altri rimandi, qui, a Gyorgy Lukàcs, cfr. Il signi­ ficato attuale del realismo critico, Einaudi, Torino 1957. Walter Benjamin, secondo il filosofo ungherese il piò importante teorico artistico dell’avan­ guardia, « ritorna continuamente sul nesso fra distruzione della storicità e allegoria come forma espositiva [...] “Allegorie sono nel regno delle idee ciò che le rovine sono nel regno delle cose” ».

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Parafrasando il filosofo ungherese, possiamo affermare che il tempo, in Orsini, non viene isolato e liberato dal mondo oggettivo e che quindi esso non trasforma il mondo interiore di Fausto in un fluire misterioso e vuoto, non conduce a una rigidezza e staticità terrificanti; e che, se talvolta, infine, il regista accoglie nel proprio metodo crea­ tivo le tendenze della disintegrazione degli elementi (il sog­ gettivarsi e rendersi « indipendente » del tempo, appunto) al pari dei maggiori realisti odierni lo fa come contributo ad una esatta descrizione del presente nel senso che pro­ prio cosi l’unità da spontanea diventi consapevole. Nella « memoria » della casa paterna, a esempio, questa non assu­ me in Fausto la connotazione di « una pausa lirica della gio­ vinezza », ma il tempo pisano viene oggettivato nella tragica condizione, come abbiamo già detto, di un suo e nostro « terzo mondo », in un passato chiuso nel fascismo: l’io di Fausto, allora e ora, è tutt’altro che un fluire misterioso e incono­ scibile, astratto e vuoto. Orsini, direbbe Brecht, differenzia l’adesso e il qui, onde divenga visibile la connessione degli avvenimenti; rievoca un’epoca dopo averla vissuta e, co­ sciente di quello che avvenne dopo, ricorda del passato quanto era valido per quel dato momento, nel senso che è valido ciò che oggi ha assunto validità. Parimenti nell’alle­ goria finale la concezione del mondo non risulta affatto una scissione di esso; la immanenza del significato nell’essere umano e nell’attività umana rimane la base della prassi arti­ stica, del « fare cinema »; il mondo rappresentato non si stacca in mondi parziali reciprocamente eterogenei; l’uomo e il suo habitat non vanno a pezzi e non sono avulsi dalla totalità. Orsini si mostra consapevole dei pericoli insiti nell’im­ piego del tempo e di altre categorie estetiche quale l’allegoria, quando afferma che il linguaggio segue lo stesso itinerario dell’ideologia: « Non c’è forma che non comporti una re­ sponsabilità, che non abbia insita in sé l’ideologia. La co­

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scienza che il linguaggio, questo “ Dio affogato nel nostro sangue”, fa parte di un patrimonio che riceviamo da una cultura non nostra, deve renderci vigili, perché il linguag­ gio ha la forza di reintegrare ogni nostra attitudine di con­ testazione al sistema » “. L’allegoria finale diventa infatti uno « happening » politico e artistico insieme. Politico, e ideologico, nell’accezione avanti accennata; artistico nel sen­ so, tra l’altro, che provoca ed esige un atteggiamento critico nello spettatore; un atteggiamento critico raggiunto è, come dice Brecht, « innegabilmente artistico ». Margherita, Ali­ ke, il cinese europeizzato, gli stessi Fausto ed Abramo non sono, in questo « film nel film », Margherita e Alibe e il cinese europeizzato e Fausto e Abramo, ma li rappresen­ tano. Gli attori si limitano cioè brechtianamente a mostrare la ragazza argentina, l’afroamericana e il falso cinese, l’ita­ liano e l’africano, o meglio non si limitano a vivere soltanto i loro personaggi ma, respingendo l’immedesimazione, si estraneano in modo da suggerire e proporre, e in modo che con i sentimenti dei personaggi stessi lo spettatore non identifichi i propri, resti cioè assolutamente libero: libero di assumere un atteggiamento di indagine e di critica nei confronti della vicenda esposta, di condurre un colloquio sulle condizioni sociali politiche ideologiche economiche, e di giustificarle o di rifiutarle e non secondo la classe cui appar­ tiene. « Il pubblico, che rappresenta la società, deve poter afferrare gli avvenimenti dal lato suscettibile di esercitare un’influenza », aggiunge Brecht nel suo Breviario-, le figura­ zioni (problematiche e contraddittorie) « richiedono una re­ citazione che consenta libertà e mobilità allo spirito dello spettatore. Questo deve, per cosi dire, essere in grado di ef­ fettuare continui montaggi fittizi sulla nostra costruzione, enucleandone in forma di pensieri i moventi sociali, oppure

12 Valentino Orsini, Ipotesi ideologica aperta nell’esplosione della bimba H, cit.

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sostituendoli con altri: processo che conferisce al comporta­ mento effettivo un che di “innaturale”, e fa sì che i mo­ venti presentati appaiano meno naturali e, di conseguenza, meglio maneggevoli » M. « Tutto ciò che ora vedrete è una rappresentazione degli attori », avverte Fausto; « tutta finzione dunque. A voi con­ ferire peso, valore, significato a quello che rappresentano; a voi negarli, relegarli nell’indifferenza ». Ad evitare che il pubblico sia indotto a gettarsi nella vicenda — e, qui, in ciò che l’allegoria esprime —, come ci si getterebbe in un fiume, per lasciarsi trascinare alla deriva, Orsini, rimandando ancora a Brecht, collega i singoli avvenimenti in modo che i nodi del­ l’azione, e dell’allegoria, diano nell’occhio, colpiscano lo spet­ tatore, per dirlo con Walter Benjamin, come proiettili : ** gli avvenimenti non si susseguono cioè inavvertitamente ma in maniera che Io spettatore possa appunto intervenire con un suo giudizio tra l’uno e l’altro. Quelle labbra di Abramo che nella reiterazione finale si muovono senza che si odano questa volta le ultime parole (« Io lo so che questo mio presente è breve cosa, ma è l’unica realtà da cui mi è dato di partire. Non ho nessuna altra scelta. Mi rimane una unica possibilità di esistenza ed è quella di negare questa storia violenta, ma ferma dove la vita non vive. Sì, negare, ricominciare a negare, con ogni mezzo »; parole che illuminavano le altre di Fau­ sto: « Negare, anche sapendo che le mie azioni non si potranno probabilmente unire subito ad altre azioni, e che come oggi non riesco a moltiplicare e a rendere efficace l’agire

” Bertolt Brecht, Scrini teatrali, op. cit. ** Diceva Brecht: « Il personaggio, come tutto il resto, non deve tanto convincerlo [lo spettatore] quanto sorprenderlo». (Scritti teatrali, op. cit.) Nella metafora finale si vedono solo quelli che subiscono la violenza, e sono proprio costoro che muoiono nella metafora stessa, in una finzione che è anche realtà, che fa riflettere lo spettatore sulla realtà: sono appunto le vittime che non si oppongono alla violenza del sistema, ad essere da questa sopraffatte.

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degli altri, così gli altri non riescono a moltiplicare e a ren­ dere efficace il mio agire. Negare, sapendo che la negazione può essere un salto nel futuro e che può rimanere un atteg­ giamento individuale. Una certezza soggettiva, utopica pro­ babilmente, ma necessaria, per non subire la storia presente e per poterla così trasformare ») — quelle labbra che si muovono senza il suono della voce, trovano il loro signi­ ficato nel fatto che Abramo attore « passa » la continuazione del suo discorso al pubblico, cui suggerisce per così dire la « battuta », affinché verifichi il discorso stesso, lo condivida portandolo avanti o lo respinga. Come Fausto e Abramo si costruiscono a vicenda, il primo integrando il secondo e vice­ versa, e gli attori che li rappresentano si impadroniscono del personaggio seguendone criticamente le molteplici reazioni, così avviene, sempre per dirla con Brecht, non solo nei ri­ guardi degli antagonisti e di tutti gli altri personaggi, ma anche nei riguardi appunto del pubblico: « le diverse rea­ zioni si illuminano a vicenda ». Orsini opera dunque spostamenti di peso dal cinema « drammatico » a quello « epico »: seguendo i princìpi brech­ tiani fa innanzitutto dello spettatore un osservatore, ne sti­ mola l’attività, lo costringe a decisioni, a una visione gene­ rale invece di involgerlo in un’azione cinematografica ed esaurirne l’attività e di consentirgli sentimenti ed emozioni soltanto: non lo immette in qualcosa ma lo pone dinanzi a qualcosa, ad argomenti e non a suggestioni, e comunque non a quelle prodotte con il vecchio sistema delle sceneggiature commerciali. Anzi, la preoccupazione di fare « spettacolo » edulcorando la « genuinità della testimonianza », è così pre­ sente e polemica in Orsini, che egli esclude per principio quan­ to invece lo spettacolo inteso in senso giusto può contenere e ancora contiene. Questa preoccupazione la ritroviamo, rispec­ chiata in altri elementi e aspetti, in tutta la struttura del film, il primo da lui diretto senza la collaborazione dei fratelli Tavia-

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nitó. Con lo Sklovskij degli anni venti e, oggi, con le guardie rosse, è invece nel vero quando egli afferma che bisogna smet­ terla con la « salvaguardia » della cultura aristocratica, sacrale, tradizionale in senso ideologicamente retrivo: quella cultura occidentale che Abramo, in fondo non del tutto a suo agio neppure con Fausto, allo stesso Fausto rimprovera. « Non è questione di pelle », spiega; « diciamo che è di storia. Sei o non sei europeo? Ti volti indietro e trovi storia, certezze. Io sono quello che sono. Dietro le mie spalle, cosa? Umaru, Umaru, Umaru. Morto, mio amico come te. Sai come? Bombardato ». Bombardato da una « civiltà » che con la guerra si unifica, si spande e « vi produce benessere, vi permette di mantenere e godere tutte le cose belle che avete: Bach, Michelangelo, Baudelaire, Giotto o quella cosa molto bella, si, che mi hai fatto sentire. Come si chiama? Vedi? il nome non me lo ricordo, ma la musica si », continua Abramo mentre la colonna sonora registra l’allegretto della Settima di Beethoven. « Sono tutte cose che appartengono a voi. Dovervele mantenere, ci costa molto ». Con l’afroamericano Julius Lester, Abramo riafferma che « il concetto occidentale dell’arte è, nella sua essenza, l’antiarte in quanto l’arte occidentale si preoccupa della bellezza invece del miglioramento della condizione dell’uomo », anche se egli sa, sempre con Lester, « che le due cose non si escludono » w. La formazione cultu-

u Dopo I dannati della terra Orsini ha tentato, ma con scarso suc­ cesso, il film spettacolare, commerciale. Se Corbari (1970) è ancora opera interessante per certi aspetti (i modi con cui esprime il senso dell’amicizia e il tentativo di offrire criticamente nel contesto della Resistenza un per­ sonaggio — il protagonista, che dà il titolo al film), L’amante dell'órsa Maggiore (1971) è decisamente mediocre, e non ha nulla di Orsini; va peraltro sottolineato che la girò, firmandola per generosità, solo nel tenta­ tivo, del resto fallito, di salvare dal disastro finanziario l’Ager Film, che aveva prodotto, sotto la direzione di Giuliani G. De Negri, i film di Orsini e dei Taviani. “ Cfr. Albert Ruben, Dov'è l'avanguardia, in « Monthly Review » edizione italiana, Bari, a. I, 11 novembre 1968.

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rale di Àbramo è soprattutto politica: « la prima forma di cultura per me è la rivoluzione ». Nell’affermare che ogni forma comporta una responsabilità e contiene in sé l’ideologia; che il linguaggio della tradizione europea — questo « Dio affogato nel nostro sangue » — fa parte di un patrimonio derivante da una cultura non nostra e che dobbiamo quindi essere vigili per non venire da quel lin­ guaggio stesso reintegrati e allontanati da ogni attitudine di contestazione al sistema, Orsini aggiungeva nella lettera a me inviata e che riassume la sua poetica: « Perciò vivere tutte le contraddizioni della ricerca ideologica per me ha significato an­ che vivere tutte le contraddizioni del “fare cinema” ». La com­ presenza, anzitutto e già analizzata, di due modi diversi di pensare il cinema, quello pirandelliano e quello brechtiano; compresenza che, appunto per la vigilanza del regista, non reintegra l’idealismo ma riafferma il materialismo storico e risulta cosi interessante e feconda. E poi l’assunzione della memoria e dell’allegoria ma non isolando il tempo e oggetti­ vando l’una e l’altra sempre nell’ambito del diverso significato che in tale oggettivazione queste categorie estetiche vengono ad assumere. Al tempo stesso I dannati della terra mostra e dimostra quanta sofferenza, oltre all’impegno, esiga questo « Dio affogato nel nostro sangue » per il nostro riscatto, la liberazione dalla schiavitù in cui esso ci tiene, dall’egemonia di un linguaggio patrimonio di una cultura non nostra, che vorremmo non fosse nostra ma ancora cosi affascinante e « bella » (come lo stesso Abramo riconosce). Pur oggettivando il tempo e nelle memorie e nell’alle­ goria, non sempre Orsini riesce infatti a nascondersi e a nascondere le « intermittenze del cuore », l’incanto e le lu­ singhe che da quella cultura e da quel Dio gli vengono e ci vengono: da Proust appunto e per esempio, e dai proustiani come il Resnais di Hiroshima e, Muriel. I rimandi al regi­ sta francese sono evidenti, e così pure le citazioni: nelle scene erotiche tra Fausto e Adriana — questo loro amarsi male,

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squallido —”, nelle reiterazioni delle immagini (dettagli, movimenti di macchina in avanti sino a primi piani) quando Abramo grida sulla spiaggia il nome dell’amico ucciso dai bombardamenti, o quando si asciuga il viso al Centro speri­ mentale. E a una cultura non nostra, che vorremmo non fosse nostra, al fascino che essa continua ad esercitare su di noi, rimanda lo stesso nome emblematico da Orsini dato all’amico di Fausto. Se Fausto, dal latino « faustus », significa pro­ pizio, benigno, ben disposto e favorevole, il nome Abramo (= Dio è sublime) ci riporta addirittura al Vecchio Testa­ mento, all’uomo scelto dal Signore, al capostipite del popolo ebraico. E certo per Orsini questo nome sta a sottolineare che il suo personaggio è uno di quelli da cui discende la nuova Africa. Ma, appunto quale rappresentante del nuovo Con­ tinente Nero, Abramo non è, come si è visto, un santo, anzi demistifica persino Lumumba. Non ripete, col suo poeta afroamericano, « Libertà, non il cielo. Rivoluzione, non il cielo »? Nel rifiutarsi di assumere l’opera come ultimo rifugio per la salvezza personale e desiderando in essa solo rischiare, Orsini così terminava la sua lettera: « Se nei Dannati della terra sono riuscito a trovare questo equilibrio » (l’equili­ brio cioè tra le contraddizioni della ricerca ideologica e le contraddizioni del « fare cinema »), « forse il film potrà risultare anche bello, compiuto ». L’equilibrio — o meglio la dialettica delle contraddizioni sia sul piano concettuale che su quello espressivo —, seppure minacciato e talvolta anche turbato, non risulta mai rotto. E I dannati della terra, se non certo compiuto, è « bello ». Bello nell’accezione marxista del termine, e in quella dei marxisti afroamericani o afri­ cani come Lester e Abramo. Anche per questo, oltre che per le ragioni avanti accennate, I dannati della terra ci sembra " II sesso è qui inteso come evasione; è proprio nel momento di crisi più acuta che Fausto ha contatti carnali con la vedova di Abramo.

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un modo inconsueto di pensare il cinema, film ideologica­ mente e politicamente avanzato. E film rivoluzionario dun­ que, anche se — come qualcuno afferma per demolirlo, e tra coloro che dovrebbero esserne gli alleati naturali — Orsini non presenta tutte le forme con le quali si può abbattere il sistema e prendere il potere. « Fare un film è come fare un’azione: la conclusione ti diventa anche sempre l’inizio », appunta nel diario Fausto, il quale del resto aggiunge: « ma dai film, oggi, non inizia nulla ». Anche se questo fosse il caso dei Dannati della terra — ma non ci pare —, il conte­ nuto rivoluzionario dell’opera rimarrebbe, per quanto dice e riesce ad esprimere di critica e negazione non soltanto al sistema imperialistico ma anche, come si è visto, di cri­ tica e negazione a coloro che gridano da soli o insieme, fa­ cendo baccano e basta (certi pseudocontestatori, certe « om­ bre rosse »), ai riformismi della sinistra ufficiale nei paesi occidentali e orientali che tentano di impedire un efficace colle­ gamento politico fra le lotte del terzo mondo e le lotte nelle società neocapitalistc. Dinanzi alla crisi di vari processi ri­ voluzionari, Orsini ribadisce con fermezza che nella lotta armata è l’unica strategia possibile per la liberazione; ha fiducia in quanto dice ed esprime, e nella allegoria finale ci richiama alla prima responsabilità: la prassi. Lo scritto dai Taviani pubblicato nel 1963 — Costru­ zione della ragione e invito all'ironia — porta il contrasse­ gno, anche se da lui non firmato, di Orsini: il 1963 è l’anno in cui esce I fuorilegge del matrimonio} il collettivo è ancora unito e, unito, invia un altro scritto a « Cinema Nuovo », Impegno civile e diritti della fantasia M, dove molti dei prin­ cipi sostenuti nel precedente vengono riconfermati. « Iden­ tico è il nostro atteggiamento nei confronti della materia M Articolo cit.

Appendice: Il Dio affogato nel nostro sangue

247

da trattare », scrivono, « di passione e ironia, di partecipa­ zione e distacco, secondo quella che è la nostra costante tangente di stile »; e riaffermano che Brecht è « il più grande poeta didascalico del nostro tempo ». E quando Orsini, nello . stesso anno di Sotto il segno dello scorpione, realizza da solo — il distacco dai Taviani avviene con Sovversivi — I dannati della terra, al pari di loro non chiude affatto gli occhi dinanzi alla crisi in atto, respinge lo sconforto e la paura; anche per lui la crisi è materia viva che lo informa, situazione di fatto che lo condiziona e occorre cambiare l’atteggiamento verso di essa: non darne un giudizio definitivo, ma averne piut­ tosto una visione organica, individuarne la natura, le com­ ponenti negative e positive: la crisi, in questo senso, può assumere un valore prezioso, di situazione limite, dove i vari elementi si evidenziano al massimo. Anche ne 1 dannati della terra le ragioni della crisi, dello « scacco storico », sono tenute presenti, in quanto è nei mo­ menti di passaggio che l’uomo si rivela, si costruisce, certo dolorosamente e pericolosamente, dato che l’esito non è mai garantito in partenza, va raggiunto; e più impietosa è nei Taviani e in Orsini l’urgenza degli interrogativi, più violenta la necessità di dare una risposta. Contrariamente a Lo scorpio­ ne ne 1 dannati della terra ogni residuo autobiografico non viene bruciato, ma l’autobiografia diventa, come nei Sov­ versivi, biografia di una generazione, di un’epoca. Orsini rimane ancora al personaggio (che sarà ripreso dai Taviani in San Michele e Allonsanfan) ma, contrario all’avanguardia viscerale, è per quella razionale (da Majakovskij a Brecht); non contempla l’« io idealistico », tutt’altro. C’è il motivo di chi ha fatto la rivoluzione e poi si è seduto; la critica alla religione, e come abbiamo visto, altre tematiche comuni a Lo scorpione. A guardar bene, non si può neppure dire che le cause del dissenso dei Taviani rispetto ad Orsini pos­ sano risiedere in un modo diverso di vedere l’arte e i problemi estetici. La polemica di Orsini è contro il « bel-

248

Sotto il segno dello scorpione

Io » nella accezione data da Abramo, del « Dio affogato nella nostra coscienza ». Ma anche I dannati della terra è preoccupato da problemi estetici, dall’arte intesa in una dimensione nuova, al servizio della storia, di idee; la sua struttura narrativa non segue uno stanco e stancante ordi­ namento di fatti, senza illuminazioni (prologo, crescendo, epilogo; elementi che i Taviani del resto recuperano in San Michele e in Aìlonsanfan anche, ma con molte illumi­ nazioni, molta fantasia e ironia): essa è aperta a tutte le ellissi, gli iati possibili, e possibili solo in quanto ancorati a un impianto ideologico sempre riconoscibile. Anche se ne I dannati della terra ha una parte rilevante la confessione privata, questa non si esaurisce dunque in se stessa, ma diventa elemento dialettico rispetto alla sfera pub­ blica, oggettiva (cosi come negli ultimi due film dei Taviani, e anche in Un uomo da bruciare, in Sovversivi). E se la strut­ tura del film rimanda per certi versi alla « nouvelle vague » francese (in particolare a Resnais) e al linguaggio televisivo — correttamente inteso, comunque —, nel primo caso si vuole fare la « rivoluzione » partendo dalla struttura e non dal di fuori, dai « modi » senza intime necessità e ipotesi nuove; nel secondo non abbiamo mai il frammento lirico o il « pezzo » giornalistico, ma il « didattico » alla Brecht (e qui si appalesa l’influsso, e non solo per l’impiego delle didascalie, dei Sola­ nas e Getino de L'ora dei forni (« La hora de los hornos », Argentina 1966-’68, « note e testimonianze sul neocoloniali­ smo, la violenza e la liberazione »). Quale dunque la diversa posizione dai Taviani e Orsini assunta dinanzi * al cinema? A parte l’impianto da struttura musicale — da Lo scorpione in poi — il tendere dei primi al film storico, al passato con i riflessi e le correlazioni con il presente; alla attenzione rivolta, ne I dannati della terra, al presente visto nei suoi legami con il passato prossimo. Come i film dei Taviani e di Orsini sono sempre « aperti », così aperto rimane forse un riavvicinamento dei tre registi, la

Appendice: Il Dio affogato nel nostro sangue

249

ricostituzione di un collettivo che, nella dialettica delle ri­ spettive esperienze e personalità, potrebbe procedere verso un discorso ancora più rigoroso e fecondo. Un loro eventuale riavvicinamento rientrerebbe nei risultati di una critica fau­ trice.

LE OPERE

1950-51 11 nostro quartiere e Marco si sposa, spettacoli di « Tea­ tro di massa ». Testo e regia in collaborazione con Va­ lentino Orsini. 1954 San Miniato, luglio '44, cortometraggio. Sceneggiatura in collaborazione con Cesare Zavattini e Orsini. Regia in collaborazione con Orsini. 1954-59 Documentari in collaborazione con Orsini, tra i quali Curtatone e Montanara, Carlo Pisacane, Pittori in città, Moravia, Lavoratori della pietra, Carvunara, Volterra, comune medioevale, I pazzi della domenica.

1959-60 Delio, testo teatrale.

1960 L'Italia non è un paese povero, lungometraggio docu­ mentario di Joris Ivens. Collaborazione alla sceneggia­ tura e alla regia. 1962 Un uomo da bruciare. Regia, soggetto e sceneggiatura in collaborazione con Valentino Orsini-, fotografìa: Toni Secchi-, scenografia: Piero Poletto; musica: Gianfranco Intra-, montaggio: Lionello Massobrio-, interpreti: Gian Maria Volonté (Salvatore), Didi Perego (Barbara), Turi Ferro (Vincen­ zo), Spyros Focas (Jachino), Marina Malfatti (Wilma), Lydia Alfonsi (Francesca), Vittorio Duse (Bastiano), Alessandro Sperii (Carmelo); produzione: Giuliani G. De Negri per Ager Film, Sanerò Film, Alfa Cinemato­ grafica-, distribuzione: Cino Del Duca.

252

Sotto il segno dello scorpione

1963

I fuorilegge del matrimonio. Regia in collaborazione con Orsini-, soggetto e sceneg­ giatura: Lucio Battistrada, Giuliani, Renato Nicolai, P. e V. Taviani, V. Orsini-, fotografia: Erico Menczer; co­ stumi: Lina Nerli Taviani-, musica: Giovanni Fusco; montaggio: Lionello Massobrio; interpreti: Ugo Toguazzi (Vasco), Annie Girardot (Margherita), Romolo Valli (Francesco), Didi Perego (Caterina), Scilla Gabel, Marina Malfatti, Gabriella Giorgelli, Isa Crescenzi; pro­ duzione: Giuliani G. De Negri per Ager Film, Film Coop, D'Errico Film; distribuzione: Cidif.

1967

Sovversivi. Regia, soggetto e sceneggiatura; fotografia: Gianni Narzisi, Giuseppe Ruzzolini; costumi: Una Nerli Taviani; musica: Giovanni Fusco; montaggio: Franco Taviani; interpreti: Giulio Brogi (Ettore), Marija Tocinovskij (Giulia), Lucio Dalla (Ermanno), Ferruccio De Ceresa (Ludovico), Pier Paolo Capponi (Muzio), Enrica Chiaromonte (Rosanna), Luciana Galli (moglie di Muzio), Barbara Pilavin (madre di Ermanno), Raffaele Tùggia (padre di Ermanno), Giorgio Arlorio (Sebastiano), Udija Jurakic (Paola), Fabienne Fabre (Giovanna), Rodhelle Vallardi (madre di Giovanna), Piero Anchisi, Pier Annibaie Danovi, Alberto Filippi, José Torres; produzione: Giuliani G. De Negri per Ager Film; distri­ buzione: Cidif.

1969

Sotto il segno dello scorpione. Regia, soggetto e sceneggiatura; fotografia (eastman­ color): Giuseppe Pinori; costumi: Lina Nerli Taviani; scenografia: Giovanni Sbarra; musica: Vittorio Gelmetti; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Gian Ma­ ria Volonté (Renno), Lucia Bosè (Glaia), Giulio Brogi (Rùtolo), Samy Pavel (Taleno); produzione: Giuliani G. De Negri per Ager Film; distribuzione: Cidif.

1971

San Michele aveva un gallo. Regia, soggetto e sceneggiatura; fotografia (eastman­ color): Mario Masini; scenografia: Giovanni Sbarra; co-

Le opere

253

sfumi: Una Nerli Taviani; musica: Benedetto Chiglia; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Giulio Brogi (Giulio), Samy Pavel, Virginia Ciuffini, Renato Scarpa, Marcello Di Martire, Giuseppe Scarcelia, Vittorio Fanfoni, Sergio Serafini; produzione: Giuliani G. De Negri per Ager Film e Rai-tv italiana; distribuzione: Cooperati­ va Nuova Comunicazione.

1974

Aìlonsanfan. Regia, soggetto e sceneggiatura; fotografìa (eastmancolor): Giuseppe Ruzzolini; costumi: Lina Nerli Taviani; sceno­ grafìa: Giovanni Sbarra; musica: Ennio Morricone; mon­ taggio: Roberto Perpignani; interpreti: Marcello Ma­ stroianni (Fulvio), Lea Massari (Charlotte), Mimsy Far­ mer (Francesca), Bruno Cirino (Tito), Laura Betti (Esther), Renato De Carmine (Costantino), Stanko Mol­ nar (Aìlonsanfan); produzione: Giuliani G. De Negri per Una Cooperativa Cinematografica; distribuzione: Italnoleggio cinematografico.

1975

Ruffo ’60, radiodramma in due tempi. Rielaborazione del testo teatrale Delio. Regia; musica: Giorgio Gaslini; interpreti: Paolo Bonacelli (Ruffo), Giulio Brogi (Euge­ nio), Roberto Herlitzka (Olinto), Adriana Asti (Bel­ iindia), Riccardo Rossi (Ruffo bambino), Corrado Gaipa (nonno di Ruffo), Maria Fabbri (Anita).

1969

I dannati della terra. Regia: Valentino Orsini; collaboratore alla regia: Al­ berto Filippi; soggetto e sceneggiatura: Alberto Filippi e Valentino Orsini; fotografìa: Giuseppe Pinori; mon­ taggio: Paolo Lucignani; scenografia: Giovanni Sbarra; musica: Benedetto Chiglia; interpreti: Frank Wolff (Fau­ sto Morelli), Serigne N’Diaye Gonzales (Abramo), Mari­ lu Tolo, Daniel Sorano, Carlo Cecchi, Marina Malfatti, Roberto Bisacco, Calisto Calisti, Marcello Di Martire, Steffen Zacharias, Romano Scavolini; produzione: Giu­ liani G. De Negri per la Ager Film; distribuzione: CidifNip.

VOCI ESPLICATIVE ESSENZIALI

- È il punto di vi­ sta da cui l’autore, attraverso la macchina da presa (o « ca­ mera »), riprende oggetti e per­ sone. In teoria i punti di vi­ sta sono infiniti. Ogni ango­ lazione determina una inqua­

Angolazione.

dratura.

- Si ha quando pa­ role, rumori, musica (colon­ na sonora) si odono prima di vederne la fonte o mentre non se ne vede piu la fonte: non corrispondono cioè a quanto si vede sullo schermo (colon­ na visiva). Il contrario — quando si ode il suono veden­ done la fonte — si chiama

Asincronismo.

sincronismo.

quando si colloca tra il campo lunghissimo e il cam­ po medio; Medio (o mezzo campo lungo), quando delimita i campi visi­ vi in cui una o più figure inte­ re, non necessariamente uma­ ne, sono situate a una distan­ za appunto media dalla mac­ china da presa, occupando cir­ ca metà del quadro; Totale (o semplicemente « to­ tale »), quando in esso vengo­ no ripresi tutti gli oggetti e i personaggi — questi ultimi di solito in figura intera — che prendono parte ad una scena. Coincide talvolta con il cam­ Lungo,

po lungo.

Si ha quando la « ca­ mera » si sposta, generalmen­ te appunto sopra un carrello, in avanti, indietro o in altre direzioni seguendo il personag­ gio o le cose o entrambi in­ sieme. Di qui le espressioni

Carrellata. -

Camera. -

È la macchina da presa.

Delimita lo spazio scel­ to dalla macchina da presa. £ una delle forme à.e\Vinquadra­ tura. I campi possono essere: Lunghissimo, quando la ripre­ sa abbraccia in maggiore spazio possibile mediante il più am­ pio angolo di visuale; la figura umana, se è in campo, è molto piccola (lontanissima) rispetto all’altezza dello schermo;

Campo. -

carrello in avanti, carrello in­

(quan­ do accompagna persone che camminano od oggetti che si muovono a distanza costante), ecc. La carrellata può essere impiegata insieme con la padietro, carrello a seguire

Sotto tl segno dello scorpione

256

Quando la ripresa avviene da! basso in alto, ser­ vendosi di una gru, si ha ap­ punto il carrello gru (o sem­ plicemente gru). Si ha la car­ rellata soggettiva quando il movimento della « camera » corrisponde al movimento del­ lo sguardo di un personaggio. noramica.

- Inquadratura terminale di una sequenza o scena. Si dice coda nera quella in cui le immagini (oggetti e perso­ ne) non si vedono appunto perché mancano di luce.

Coda.

- È costituita da parole, rumori, musica.

Colonna sonora.

è il contrario del­ la precedente; Incrociata, quando un’immagi­ ne va scomparendo in modo lento o accelerato e, in sovrim­ pressione, ne appare un’altra. Le dissolvenze possono anche essere sonore. Figura. - Si riferisce alle inqua­ drature comprendenti figure umane. La figura può essere: Intera, quando riprende tutta la persona; Mezza figura (o piano medio), quando riprende una persona sino ai fianchi. In chiusura,

- L’elemento minimo costitutivo di una inquadratu­ ra, con la quale non si iden­ tifica: infatti per percepire una inquadratura occorre la suc­ cessione di piu fotogrammi.

Fotogramma.

- Corrisponde a quanto si vede sullo schermo.

Colonna visiva.

Inquadratura che offre un punto di vista oppo­ sto a quello determinato dal campo che la precede.

Controcampo. -

- Inquadra un parti­ colare degli oggetti o della per­ sona.

Dettaglio.

- Si ha quando, at­ traverso un mascherino posto dinanzi all’obiettivo, si inten­ de limitare, nell’inquadratura, il campo di ripresa.

Diaframma.

Lento o accelerato abbuiarsi o schiarirsi dell’im­ magine visiva. Le dissolvenze possono es­ sere: In apertura, quando da una inquadratura nera si passa al definirsi di un’immagine;

Dissolvenza. -

- Persona, oggetti, parole, rumori, musica che si avvertono fuori del campo di ripresa e che hanno un rap­ porto diretto o indiretto con l’azione che si svolge. Per la parte sonora coincide con

Fuori campo.

Yasincronismo.

- Limite dell’imma­ gine visiva. Quando si inten­ de anche il limite temporale di una singola azione ripresa senza interruzione, è più ap­ propriato parlare di quadro. Le inquadrature sono di di­ verse specie: orizzontali, obli­ que, supine, dall’alto, dal bas­ so, a piombo, ecc. Possono

Inquadratura.

Voci esplicative essenziali

essere anche soggettive quan­ do l’obiettivo della « camera » coincide con l’occhio del per­ sonaggio. - Il materiale cinema­ tografico è formato dai vari pezzi di pellicola impressio­ nata (inquadrature: piani e campi). L’elaborazione di que­ sto materiale — vale a dire la collocazione nel film di que­ sti vari pezzi di pellicola — è il montaggio. Esistono di­ versi tipi di montaggio: pa­ rallelo, intellettuale, ecc. I mo­ vimenti di macchina danno luogo al montaggio senza ta­ glio, cioè a un’unica inquadra­ tura detta piano-sequenza.

Montaggio.

Movimenti di macchina. tengono con il carrello, noramica e la gru.

Si ot­ la pa­

Movimento di mac­ china che si ottiene facendo ruotare la « camera » sul pro­ prio asse per riprendere la veduta di uno stesso ambien­ te, per seguire oggetti o per­ sone in movimento, per pas­ sare da un oggetto o persona a un altro. Le panoramiche possono essere: orizzontali, verticali, diagonali e compo­ ste. Si ha la panoramica sog­ gettiva quando il movimento della « camera » corrisponde al movimento dello sguardo di un personaggio.

Panoramica. •

Particolare. - Equivale al detta­ glio, ma in genere si riferisce

alla persona.

257

Riguarda la disposizione nello spazio delle persone in­ quadrate. I piani possono essere: Piano americano, inquadratu­ ra che sta tra la figura intera e la mezza figura. Riprende la persona tagliata all’altezza del­ le ginocchia. Piano medio, vedi mezza fi­

Piano. •

gura. Primo

inquadra una persona dalla testa alle spalle. Primissimo piano, inquadra il volto. Piano ravvicinato, vedi primo piano,

piano. Piano sequenza. Sequenza sen­ za stacchi tra le inquadrature

che la compongono, e dove il susseguirsi di tali inquadra­ ture è dato dal montaggio ap­ punto senza taglio, vale a dire dai vari movimenti di mac­ china. Quadro. -

Vedi

inquadratura.

Insieme di inquadrature in cui l’azione si svolge nello stesso tempo e nello stesso ambiente; è cioè un comples­ so di piani e/o di campi che costituiscono la medesima azione.

Scena. -

Scenario. - Comprende e la sceneggiatura.

il soggetto

Il complesso delle costruzioni che vengono alle­ stite o che preesistono per la realizzazione di un film. Di qui scenografia costruita o sce­ nografia naturale.

Scenografia. -

Sotto il segno dello scorpione

258

- Insieme di inquadra­ ture nelle quali si sviluppa una determinata azione indi­ pendentemente dal tempo e dall’ambiente. Sincronismo. - Vedi asincronismo. Soggettiva. - Vedi carrellata, in­ Sequenza.

quadratura, panoramica.

Si ha quando parole, rumori e musica ven­

Sonoro soggettivo. •

gono uditi solo dal personag­ gio, spesso nella sua immagi­ nazione.

- L’apparizione di due immagini l’una sull’al­ tra. Può essere anche sonora.

Sovrimpressione.

- È l’interruzione di una immagine sullo schermo. Di solito è il mezzo per passare da un’inquadratura a un’altra.

Stacco.

INDICE DEI NOMI

Althusser (Louis), 71. Antonio (Michelangelo), 46, 167, 235. Argan (Giulio Carlo), 27, 28 n, 84. Ariosto (Ludovico), 15, 26. Aurigenna (Luigi), 29 n.

Cabral (Amilcar), 224 n. Cajkovskij (Pètr Il’ié), 126, 142. Carnevale (Salvatore), 49, 51. Cervantes (Miguel de), 73. Chaplin (Charles Spencer), 64. Claus (Jurgen), 27 e n, 29 n. Corritore (Carlo), 22.

Babeuf (Francois-Noel), 157, 158, 196, 203, 204, 205. Bach (Johann Sebastian), 243. Balzac (Honoré de), 73. Barrientos (Juan), 227. Basiini (Antonio), 75. Baudelaire (Charles), 243. Bebel (August Friedrich), 72, 209. Beethoven (Ludwig van), 243. Bellocchio (Marco), 48. Belmondo (Jean-Paul), 78, 79. Belyj (Andrej), 164. Benjamin (Walter), 88,238 n, 241. Bergman (Ingmar), 31, 32, 146, 167. Bergson (Henri), 27. Bismarck (Otto), 72. Blanqui (Louis-Auguste), 209. Blok (Aleksandr), 219. Brecht (Bertolt), 12, 49, 50, 61, 64, 88, 95, 98 n, 229 n, 233, 236, 237 n, 239, 240, 241 e n, 242, 247, 248. Brogi (Giulio), 92, 211. Buazzelli (Tino), 221. Buonarroti (Filippo), 157, 195, 196, 208, 209. Busacca (Ciccio), 51. Buttitta (Ignazio), 51.

Damiani (Damiano), 72. De Castris (Leone), 233, 234 n. Dostoevskij (Fèdor Michajlovié), 37, 42. Dubuffet (Jean), 25, 27, 28.

Eckermann (Johann Peter), 208. Ehrenburg (Ilja), 38 n. Ejzenstejn (Sergej M.), 90, 91, 92, 94, Uln, 160, 161 e n, 163, 165, 166, 172. Ellis (Henry Havelock), 165. Engels (Friedrich), 72, 73, 87, 88, 103, 143, 144 n, 145 n, 204, 205 h, 209, 217, 233 n. Fanon (Franz), 223 e n, 224 n. Fautrier (Jean), 27. Feuerbach (Ludwig), 48. Filippi (Alberto), 231 n. Finctti (Ugo), 141 n. Fortini (Franco), 47. Fortuna (Loris), 75. Freud (Sigmund), 16, 20, 25, 206. Gandhi (Mohandas Karamchand), 231. Garin (Eugenio), 30 n. Gauguin (Paul), 163.

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Sotto il segno dello scorpione

Geismar (Peter), 224 n. Gelmetti (Vittorio), 94, 211. Getino (Octavio), 248. Giona, 198 n. Giotto, 243. Giuliani (G. De Negri), 179 n, 243 n. Godard (Jean-Luc), 78, 228 n, 229 n, 233. Goethe (Johann Wolfgang), 29, 31, 35, 61, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 73, 100, 160, 161, 162 en, 166, 204, 205, 208, 210, 217. Gogol’ (Nikolaj Vasil’evié), 164. Gramsci (Antonio), 51, 57. Guevara (Ernesto, detto « Che »), 227.

42, 47, 48, 61, 66, 67, 68, 69, 71, 73, 100, 151 n, 162 n, 194, 209, 237, 238 c n. Lumumba (Patrice Emery), 224, 225, 231, 245. Luxemburg (Rosa), 35.

Kafka (Franz), 65. Kautsky (Karl), 43, 152. Kautsky (Minna), 72, 73. King (Martin Luther), 225, 231. Kraiski (Giorgio), 39 n.

mero, 36, 39, 99, 100, 208. rsini (Valentino), 14, 23, 24, 25, 26, 30, 37, 45 n, 47, 48, 50, 57, 59, 60, 61, 75, 76 n, 84, 87, 89, 93 n, 96, 179 n, 219249.

Majakovskij (Vladimir Vladimirovié), 208, 247. Mann (Thomas), 50, 61, 64, 74 n. Mao Tse-tung, 96, 219. Marat (Jean-Paul), 158. Marx (Karl), 22, 39, 42, 43, 59, 60, 69, 70, 71, 72, 73, 88, 91 n, 95, 99, 143, 144 n, 145 n, 152, 167, 194, 201, 205, 207, 208, 209, 216, 217, 231, 232, 233 en, 236. Hegel (Georg Wilhelm Friedrich), Mastroianni (Marcello), 211. Mercantini (Luigi), 198 n. 68. Hobsbawm (Eric John), 155, 156, Michelangelo, 243. Mondini (Franco), 9 n. 157 n, 195. Hoffmann (Ernst Theodor Ama­ Morawski (Stefan), 43 en. Morricone (Ennio), 211, 213. deus), 73. Musil (Robert), 65. Ivens (Joris), 45. Newton (Isaac), 162 n. Jancsó (Miklós), 198 n. Nietzsche (Friedrich Wilhelm), Joyce (James), 65. 65. Jung (Carl G.), 31, 33. Nordau (Max), 163.

Lalo (Charles), 28. Lenin (Ul’janov - Vladimir Il’ié), 35, 44, 151 n, 209, 214, 215. Leonardo, 21, 77, 80, 85, 86, 94, 208. Leonetti (Francesco), 144 n. Leopardi (Giacomo), 208. Lester (Julius), 243, 245. Liebknecht (Wilhelm), 35. Liu Shao-ch’i, 97 n. Loy (Nanni), 72. Lukécs (Gybrgy), 35, 36 n, 41,

Pajetta (Gian Carlo), 221. Parenti (Franco), 9. Pasolini (Pier Paolo), 85, 193, 206. Petri (Elio), 72. Picasso (Pablo), 211. Pirandello (Luigi), 229 n, 233, 234, 235, 236, 238. Pisacane (Carlo), 198 n. Pollock (Jackson), 65. Portal (Frédéric), 164, 165. Proust (Marcel), 238, 244.

Indice dei nomi

Resnais (Alain), 238, 244, 248. Rey (Abel), 151 n. Riccioli (Giorgio), 29 n. Robespierre (Maximilien-Maric), 158, 181, 200. Rosi (Francesco), 72. Rossellini (Roberto), 45 n, 46, 47, 212, 213. Rouget de Lisle (Claude-Joseph), 189. Ruben (Albert), 243 n. Sabetti (Alfredo), 70 □. Sansone (Renato Luigi), 76. Sartre (Jean-Paul), 27, 50, 70, 86, 227. Schell (Maximilian), 211. Schopenhauer (Arthur), 65. Shakespeare (William), 205, 212, 214. Sklovskij (Viktor), 219 e n, 220 n, 224, 243. Solanas (Fernando), 248.

261

Stalin, 13, 62, 71. Stravinskij (Igor), 92, 211.

Tacito (Publio), 26, 27. Togliatti (Paimiro), 40, 76, 77, 78, 79, 80, 82, 83, 85, 214. Tolstòj (Lev Nikolaeviè), 31, 32, 35, 36, 37, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 59, 61, 74 n, 86, 143, 146, 148, 150, 151, 152, 204. Trockij (Lev), 203, 204, 205, 217. Trombadori (Antonello), 221. Villa (Agostino), 32 n. Visconti (Luchino), 36, 45 n, 46, 47, 48, 50, 189 n, 212, 213. Volonté (Gian Maria), 43.

Welles (Orson), 141 n. Worsley (Peter), 224 n. Zafred (Mario), 46 n. Zavattini (Cesare), 45, 46 n, 221.

INDICE

Introduzione « Delio/Ruffo ’60 » Razionale e irrazionale Ironia e fantasia Alla morte di Togliatti A cavallo del maggio Ritorno al personaggio individuale Ciò che si fa e come lo si fa Critica delle fonti e delle varianti Colori e suoni: montaggio intellettuale Il flusso di coscienza Le « oggettive » di Allonsanfan Nell’attesa che l’utopia diventi scienza Età biologica ed età di produzione intellettuale L’utile, il vero, il bello

7

31 45 75 87 101 113 131 153 175 183 193 203 211

Appendice

« II Dio affogato nel nostro sangue »

219

Le opere

251

Voci esplicative essenziali

255

Indice dei nomi

259