I racconti di Kolyma [Vol. 2] 8806177346, 9788806177348

La Kolyma è una desolata regione di paludi e di ghiacci all'estremo limite nord-orientale della Siberia. L'est

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Italian Pages 581 Year 2005

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I racconti di Kolyma [Vol. 2]
 8806177346, 9788806177348

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Varlam Salam ov I racconti di Kolyma Volume secondo

«Ogni mio racconto è uno schiaffo allo stalinismo», cosi nel 19?1 Varlam Šalamov definiva con secca, sonora immediatezza I racconti di Kolyma, tragica testimonianza sui gulag sovietici, su «quello che nessun uomo dovrebbe vedere né sapere». Dalla fine degli anni Venti al dopoguerra milioni di person e vennero deportate e morirono nei lager staliniani, e alla Koly­ ma, regione desolata di tundra e ghiacci dove «u n o sputo g e ­ la in aria prima di toccare terra», Šalam ov rim ase confinato dal 193? al 1953. L’anno su ccessiv o , subito dopo il ritorno a Mosca, tassello dopo tassello Šalam ov com inciò a com porre il suo m onum entale m osaico contro l’oblio, il su o poem a dante­ sc o sulla vita e sulla morte, sulla forza del m ale e del tempo. Edizione integrale a cura di Irina Sirotinskaja. Traduzione di Sergio Rapetti. Varlam Šalam ov (Vologda 1 9 0 ? - Mosca 1 9 8 2 ) studiò legge aH’Università di Mosca. Trascorse quasi vent’anni nei lager staliniani e in vita potè pubblicare solo alcune prose e poesie. In Russia I racconti di Kolyma sono usciti alla fine degli anni Ottanta. In Italia traduzioni parziali sono state pubblicate nel 1926, 1992 e 1 995. La p resente edizione Einaudi è la prima integrale ap p arsa fuori della Russia. In copertina: Aleksandr Labas, Treno in arrivo, olio su tela, 1928, particolare. New York, John Hittans Collection. Progetto grafico 46xy.

E T

Scrittori ISBN 978-88-06-17734-8

I due volumi € 21,00

9 788806 177348

Questo ebook è stato realizzato e condiviso per celebrare il Centenario della Rivoluzione russa 1917-2017

E T Scrittori

6 4 1 **

V

Varlam S alamov I racconti di Kolyma

Edizione integrale a cura di Irina P. Sirotinskaja Traduzione di Sergio Rapetti Volume secondo

Einaudi

Titolo originali K o ly m s k ie ra ssk a z y

© 1989, 1998 I.P. Sirotinskaja O t so s ta v ite lja e

Vo sp o m in a n ija

o V . S a la m o v e

© 1990 I.P. Sirotinskaja © 1999 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Traduzioni di Sergio Rapetti per I e Piero Sinatti per la P re fa z io n e e i R ic o r d i.

r a c c o n ti d i K o ly m a , L u n g h i a n n i d i co n v e rsa z io n i

Prima edizione « I millenni» 1999 Progetto e cura editoriale: Anna Raffetto Cura redazionale: Patrizia Mascitelli www.einaudi.it ISBN 978-88-06-17734-8

I racconti di Kolyma Volume secondo

A proposito di un errore della letteratura

La letteratura d’invenzione ha sempre rappresentato il mondo dei criminali con simpatia e talvolta compiacimento. Sedotta dal luccichio dozzinale dei suoi fronzoli ha soffuso il mondo della ma­ lavita di un’aura romantica. Gli artisti non hanno saputo discer­ nere il vero e ripugnante volto di questo mondo. E un peccato pe­ dagogico, un errore che la nostra gioventù paga a caro prezzo. Se a restare affascinato dalle figure «eroiche» di questo mondo è un ragazzo di quattordici-quindici anni la cosa si può anche capire; ma per un artista è imperdonabile. Eppure, perfino tra i grandi scrittori non ne troviamo uno che, avendo visto il vero volto del criminale di professione (il vor affiliato alla malavita), gli abbia vol­ tato le spalle o l’abbia biasimato, come ogni grande artista deve biasimare ciò che è moralmente inammissibile. Per un capriccio della storia, gli apostoli piu espansivi della coscienza e dell’onestà, come ad esempio Victor Hugo, hanno dedicato non poche forze a decantare il mondo dei malfattori. Hugo riteneva che il mondo del crimine fosse un settore della società che protestava apertamente, con forza e risolutezza, contro la falsità del mondo dominante. Ma Hugo non si è dato la pena di esaminare da quali posizioni questa comunità di malviventi combatte qualsiasi potere costituito. Non pochi ragazzi hanno cercato di incontrare dei «miserabili» in car­ ne ed ossa dopo aver letto i suoi romanzi. Il soprannome «Jean Valjean» ha tuttora corso tra i malavitosi. Nelle sue M em orie di una casa m orta Dostoevskij evita di dare una risposta chiara e netta alla questione. Dal punto di vista del vero mondo del crimine - degli autentici blatari, i malavitosi - tut­ ti quei Petrov, Lučka, Sušilov, Gazin1sono «diavolacci», «fessi», «contadini», cioè gente che la malavita può solo disprezzare, de­ 1

Petrov, Lučka, Sušilov, Gazin sono tutti personaggi del libro M em o rie d i un a (1861-62) di Dostoevskij, basato sull’esperienza dello scrittore che trascorse quattro anni ai lavori forzati in una fortezza della Siberia.

m o rta

casa

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rubare, calpestare. Dal punto di vista dei malavitosi, i ladri e as­ sassini Petrov e Sušilov sono molto piu vicini all’autore delle Me­ morie che non alla malavita stessa. Quelli che Dostoevskij chiama «ladri» erano destinati a essere assaliti e rapinati, allo stesso mo­ do di Aleksandr Petrovič Gorjančikov2 e i suoi pari, per quanto grande fosse l’abisso che separava i delinquenti che apparteneva­ no alla nobiltà dal popolo minuto. E difficile dire perché Do­ stoevskij non si sia risolto a dare dei malavitosi un’immagine ve­ ritiera. Il ladro può anche non essere un malavitoso. Si può ruba­ re, e perfino sistematicamente, senza essere un blatnoj, senza cioè appartenere a quel vero e proprio «ordine», abietto e clandestino, che è la malavita. Evidentemente nella colonia penale di Do­ stoevskij non c’era questa particolare «specie». In genere gli espo­ nenti di questa «specie» non avevano da scontare pene molto lun­ ghe - infatti essa non era prevalentemente costituita da omicidi. O meglio, non lo era ai tempi di Dostoevskij. I malavitosi con­ dannati per fatti «bagnati», di sangue, quelli con la «mano velo­ ce» non erano particolarmente numerosi. Svaligiatori, «acrobati», truffatori, borsaioli - ecco le principali categorie della società de­ gli urkì e urkagany, come la gente del mondo criminale designa se stessa. «Il mondo del crimine» è un’espressione con un significa­ to preciso. Furfante, urka, urkagan, persona, malavitoso - sono tutti sinonimi. Nella sua colonia penale Dostoevskij non ne ha in­ contrati; fosse accaduto probabilmente saremmo stati privati del­ le migliori pagine del libro - quelle che affermano la sua fede nel­ l’uomo, nell’esistenza del principio del bene insito nella natura umana. Ma Dostoevskij non ha incontrato malavitosi. I galeotti protagonisti delle Memorie di una casa morta, a cominciare dallo stesso Aleksandr Petrovič Gorjančikov, si sono trovati a delin­ quere per caso. Le ruberie, ad esempio, tra di loro, sulle quali Do­ stoevskij si sofferma piu volte, sottolineandole in modo particola­ re - sono forse qualcosa di concepibile nel mondo della malavita ? In esso vige la spoliazione dei «fessi», la spartizione del bottino, tornei a carte con conseguente passaggio di mano delle cose rapi­ nate da un nuovo padrone all’altro a seconda dell’esito delle par­ tite a stos o bum. Nella Casa morta Gazin vende l’alcol, e lo stesso fanno altri «cantinieri». Ma i malavitosi gli avrebbero immedia­ tamente requisito l’alcol con tanti saluti alla carriera. In base al zakon, la vecchia «legge» della malavita, il mala2 E il personaggio, nobile e proprietario, deportato per aver ucciso la moglie, al quale Dostoevskij fa condurre in prima persona la narrazione.

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vi toso, ovunque sia detenuto, non deve lavorare, e il suo lavo­ ro lo devono fare i fraera. Nel mondo dei ladri, ai Mjasnikov e ai Varlamov sarebbe stato affibbiato lo sprezzante soprannome di «scaricatori del Volga». Tutti questi «ossi» (soldati), questi «Baklušin», questi «mariti di AkuTka»1 non hanno niente a che vede­ re con il mondo dei criminali di professione, il mondo della mala­ vita. Sono semplicemente persone che si sono scontrate con la for­ za negativa della legge, piu che altro per disattenzione, per aver superato vagando nel buio certi limiti, come Akim Akimovič - il tipico fraerjuga. Quello della malavita, invece, è un mondo con leg­ gi sue, un mondo eternamente in conflitto con un altro mondo rap­ presentato dagli Akim Akimovič e dai Petrov unitamente al mag­ giore «ottocchi». Anzi il maggiore «ottocchi» è persino più vici­ no ai malavitosi. E l’autorità sancita da Dio, i rapporti con lui, in quanto rappresentante dell’autorità, sono semplici, e con un mag­ giore cosi sai quante belle cose può raccontargli un malavitoso in tema di giustizia, d’onore e altri argomenti elevati. Sono secoli che ci dan dentro. L ’ingenuo e brufoloso maggiore è il loro nemico di­ chiarato, mentre gli Akim Akimovič e i Petrov sono le loro vitti­ me. In nessuno dei romanzi di Dostoevskij sono raffigurati dei ma­ lavitosi. Dostoevskij non ne ha conosciuti, o se ne ha visti e co­ nosciuti, come artista ha voltato loro le spalle. In Tolstoj non ci sono ritratti significativi di questo genere di persone, neppure in Resurrezione, dove i vari dettagli esteriori e illustrativi sono tratteggiati in modo tale da non chiamare in cau­ sa la responsabilità dell’autore. Uno scrittore che invece si è imbattuto in questo mondo è Cechov. Durante il suo viaggio a Sachalin34 succede qualcosa che cambia la sua scrittura. In diverse lettere successive al ritorno, Cechov indica con chiarezza che in seguito al viaggio tutto quel­ lo che ha scritto precedentemente gli sembra futile, indegno di uno scrittore russo. Come nelle M em orie di una casa m orta anche sull’isola di Sachalin la turpitudine dei luoghi di detenzione - che è corruzione e abbrutimento - distrugge, e non può non distrug­ gere quanto nell’uomo c’è di puro, di buono, di umano. Il mon­ do della malavita fa inorridire lo scrittore. Cechov intuisce che in esso si cela il principale accumulatore di questa turpitudine, una 3 Questi e quelli successivi citati sono altri personaggi delle Memorie-, in particolare il marito di Akullca è il protagonista di un capitolo-racconto cosi intitolato. 4 Cechov ne pubblicò un resoconto (non solo impressioni personali ma anche statisti­ che e dati) dal titolo L ’iso la d i Sach alin (1893-94).

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specie di reattore nucleare in gradovdi produrre da sé il combu­ stibile fissile di cui ha bisogno. Ma Cechov poteva soltanto allar­ gare le braccia, sorridere sconsolato e indicare questo mondo con un gesto dolce ma insistente. Anche lui lo conosceva da Hugo. Cechov era rimasto a Sachalin troppo poco e fino alla morte non ebbe il coraggio di utilizzare quei materiali nelle sue opere d’in­ venzione. Ci si sarebbe aspettati che la componente biografica presente nell’opera di Gor'kij avrebbe dovuto fornire allo scrittore il destro di mostrare i malavitosi sotto una luce veritiera, in modo critico. Celkaš5 è incontestabilmente un malavitoso. Ma questo ladro in­ callito è raffigurato nel racconto con la stessa precisione artefatta e menzognera dei protagonisti dei M iserabili. Gavrila, beninteso, può essere interpretato non unicamente come simbolo dell’anima contadina. E il discepolo àt\V urkagan Ćelkaš. Un discepolo maga­ ri casuale, ma indispensabile. Un discepolo che forse domani po­ trà essere un porcenyj stymp, non ancora malavitoso ma già abba­ stanza guasto, «traviato» e salirà di un gradino la scala che porta al mondo del crimine. Poiché, come ha detto un malavitoso filo­ sofo, «non si nasce malavitosi, malavitosi si diventa». In Celkaš, Gor'kij, che pure in gioventù aveva avuto a che fare con la mala­ vita, si è soltanto conformato a certi facili entusiasmi dei profani per la presunta libertà di pensiero e la condotta intrepida di que­ sto gruppo sociale. Vas'ka Pepe]' (Ib assifo n d i ) è un malavitoso estremamente dub­ bio. Al pari di Celkaš, egli è idealizzato, esaltato, e non smitizza­ to. L ’autenticità di certi dettagli esteriori, l’evidente simpatia del­ l’autore nei suoi confronti fanno si che anche Pepel' sia messo al servizio di una cattiva causa. Tali sono i tentativi di Gor'kij di rappresentare il mondo cri­ minale. Neanche lui conosceva questo mondo, evidentemente non aveva avuto a che fare con veri e propri malavitosi, una cosa che in generale presenta difficoltà per qualsiasi scrittore. La malavita è un «ordine» molto chiuso, anche se non strettamente cospirati­ vo e clandestino, che non si lascia studiare o osservare da estranei. Nessun malavitoso aprirà mai il proprio cuore né a Gor'kij il va­ gabondo, né a Gor'kij lo scrittore, dacché Gor'kij per lui è prima di tutto - un fraer, un «fesso». 5 Čelkaš è il protagonista dell’omonimo racconto di Maksim Gor'kij (r868-i936), una delle prime opere, romantiche, dello scrittore; successivamente, sempre di Gor'kij, viene citato Vas'ka Pepel', personaggio del dramma 1 b assifondi.

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Negli anni Venti la nostra letteratura è stata conquistata dalla moda dei ladri e rapinatori. Benja Krik di Baber, II ladro di Leo­ nov, Mot 'ke Malchamovec di Selvinskij, Vas 'ka Svist nei guai di V. Inber, La fine di una banda di Kaverin e infine il truffatore, il farmazon Ostap Bender di Il'f e Petrov6 - sembra che tutti gli scrit­ tori abbiano dato a cuor leggero il proprio contributo all’improv­ visa domanda di romanticismo criminale. Questa sfrenata poeticizzazione della delinquenza, che si presentava come un «nuovo filone» della letteratura, ha tentato molte penne esperte. Nono­ stante avessero della materia da loro scoperta una comprensione assolutamente inadeguata, tutti gli autori citati - e anche altri non citati - di opere su questo argomento hanno avuto successo pres­ so i lettori causando di conseguenza notevole danno. In seguito le cose andarono ancora peggio. Iniziò un lungo pe­ riodo di infatuazione per la famigerata perekovka, quella «riedu­ cazione» di cui i malavitosi hanno sempre riso e continuano tut­ tora a ridere. Vennero create le comuni di Bolševo e Ljubercy, cen­ toventi scrittori firmarono un libro «collettivo» sul canale dal Baltico al Mar Bianco7, straordinariamente simile per impostazio­ ne grafica a un Vangelo illustrato. Il coronamento letterario di que­ sto periodo fu Gli aristocratici di Pogodin8, in cui il drammaturgo ripetè per la millesima volta il vecchio errore, senza darsi la pena di riflettere un po’ piu seriamente su quelle persone in carne e os­ sa che nella realtà interpretavano, sotto il suo sguardo ingenuo, uno spettacolo non cosi difficile da capire. Sono usciti molti libri e film, sono state allestite opere teatra­ li sul tema della rieducazione dei criminali. Ahimè! Dai tempi di Gutenberg e fino ai nostri giorni, il mondo del crimine è sempre rimasto, per letterati e scrittori, un libro sigilla­ to con sette sigilli9. Gli autori che si sono rivolti a questo tema estremamente serio l’hanno trattato con noncuranza, lasciandosi sedurre e ingannare dal luccichio fosforescente della malavita, ag6 Tra i protagonisti dei R a c c o n ti d i O d essa di Isaak BabeT sul pittoresco mondo della mala odessita c’è il leggendario e popolarissimo ladro Benja Krik; il romanzo di Leonid Leo­ nov è su un ex eroe della guerra civile, un comandante rosso, diventato ladro nel periodo della Nep; N lo t'k e M alch am o v e c è invece una poesia in dialetto di Odessa di ITja Sel'vinskij; di Venjamin Kaverin è citato un «poliziesco»; infine Ostap Bendeer, avventuriero, affarista e imbroglione, è il protagonista di due romanzi di Il'f e Petrov, L e d o d ici sedie e I l v itello d ’ oro.

7 E il B e lo m o r k a n a l (si veda il Glossario). 8 Nikolaj Pogodin (pseud, di Stukalov, 1900-62); la sua opera teatrale è del 1934 e ha per soggetto la rieducazione dei criminali attraverso il lavoro (i cantieri del B e lo m o rk a n a l). 9 A p o ca lisse , V.

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ghindandola con una maschera romantica e inducendo cosi nei let­ tori un’idea completamente falsa di un mondo maligno e ripu­ gnante che non ha niente di umano. Tutto questo brigare con le varie «rieducazioni» ha significa­ to per migliaia di professionisti del crimine una tregua e li ha sal­ vati. Ma cos’è il mondo del crimine ? tI959l-

O b o d n o j o ìib k e ch u dožestven n oj literatu ry ,

in «Don», 1989, n. 1.

Sangue di furfante

Un uomo come smette di essere uomo? Come si diventa dei malavitosi ? I nuovi adepti del mondo del crimine possono arrivare anche da altri ambienti: il kolchoziano che scontando in carcere una con­ danna per una ruberia di poco conto ha legato il proprio destino a quello dei delinquenti; il ragazzo sempre alla moda che a furia di piccoli reati si è trovato vicino a ciò che conosceva soltanto per sentito dire; il meccanico d ’officina che ha bisogno di soldi per non sfigurare quando fa bisboccia con i compagni; gente senza pro­ fessione che però vuol godersi la vita e altri che si vergognano a chiedere un lavoro o la carità - per strada o in un’amministrazio­ ne pubblica, non fa differenza - e preferiscono prendere piutto­ sto che piatire. E una questione di carattere e spesso di esempio. Anche il chiedere un lavoro può essere penoso per l’amor proprio esulcerato, morboso di un uomo che ha fallito. Soprattutto per un adolescente. Non è meno umiliante che mendicare. Perché allora non... II carattere selvaggio e ombroso dell’uomo adulto suggerisce a quest’ultimo una decisione di cui però un adolescente non è an­ cora in grado di valutare tutta la gravità e il pericolo. Ogni uomo, a un certo punto della sua vita, è posto di fronte alla necessità di prendere una decisione importante, di «dare una sterzata» al de­ stino, e nella maggioranza dei casi deve farlo negli anni giovanili, quando l’esperienza è minima e la probabilità di sbagliare enorme. Ma è anche l’età in cui è minima la routine e grande invece l’au­ dacia, la determinazione. Posto di fronte a una scelta difficile, abbindolato dalla lettera­ tura e da una gran quantità di leggende dozzinali sul misterioso mondo del crimine, l’adolescente compie il passo tremendo dal quale spesso non c’è ritorno. Poi si abitua, si incattivisce del tutto e comincia egli stesso ad arruolare altri giovani nelle fila di questo maledetto «ordine».

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Nella prassi di questo «ordine» c’è un dettaglio importante che non è stato messo in luce neanche dalla letteratura specializzata. Ed è che a dirigere questo mondo sotterraneo sono dei ladri per tradizione ereditaria - coloro i cui ascendenti, padri, nonni, o anche zii e fratelli maggiori sono stati degli urkagany, gente cre­ sciuta fin dalla più tenera infanzia nelle tradizioni della malavita, nell’odio accanito che questa nutre per il mondo intero; la quale per ragioni comprensibili non può mutare il proprio stato; gente infine il cui «sangue di furfante» è di una purezza che non può su­ scitare dubbio di sorta. E sono questi ladri «ereditari» a costituire il nucleo dirigente del mondo criminale, è proprio a loro che spetta l’ultima parola in tutte le decisioni delle pravilki, i tribunali d’onore della malavita che sono un fondamento indispensabile ed estremamente impor­ tante di questa vita sotterranea. Durante la cosiddetta «dekulakizzazione» il mondo della ma­ lavita si è considerevolmente ampliato. I suoi ranghi si sono in­ grossati con i figli di quelli che venivano dichiarati k u lak i. La re­ pressione dei contadini ha accresciuto gli effettivi di quel mon­ do. Tuttavia, in nessun luogo, mai, non uno di quei rampolli di famiglie contadine ha avuto un ruolo di rilievo nel mondo del cri­ mine. Rubavano con più impegno degli altri, erano i piu rumorosi nel­ le gozzoviglie, si sgolavano piu degli altri per cantare le canzoni della mala, bestemmiavano a più non posso, superando nell’arte elaborata e importante del turpiloquio gli altri malavitosi, li imi­ tavano in tutto e per tutto e ciononostante restavano degli imita­ tori, degli epigoni e niente piu. E nel cuore di quel mondo non venivano ammessi. C ’è stata qualche rara eccezione, singoli che si erano messi in luce non per qualche «eroica prodezza» durante una rapina, ma per come ave­ vano assimilato le norme di condotta dell’ambiente, e che talvol­ ta furono ammessi ai tribunali d’onore delle supreme istanze del­ la malavita. Disgraziatamente, a queste pravilki non sapevano co­ sa dire. Al minimo conflitto - e non c’è un malavitoso che non sia assolutamente isterico - agli allogeni venivano ricordate le loro ori­ gini «forestiere». - Sei un «traviato»! E vuol anche metter becco! Ma che raz­ za di ladro saresti! Sei uno «scaricatore del Volga», ecco cosa sei! Un olen ', un asinaccio della piu pura specie! Un porčak, «bacato» o «guasto» che sia, è un fraer, un «fesso» che ha smesso di essere un «fesso» ma non è ancora diventato un

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malavitoso («Non è ancora un volatile ma non è piu un quadru­ pede! » - come diceva Jacques Paganel in Jules Verne). E il «tra­ viato» sopporta pazientemente l’offesa. Naturalmente i poréaki non diventano mai i custodi delle tradizioni della malavita. Per essere un «buon» ladro, un ladro autentico, bisogna na­ scere ladro; solo a coloro che fin dall’infanzia sono stati legati a dei ladri - e deve trattarsi di «buoni» ladri, di ladri conosciuti a coloro che hanno passato con profitto l’intero corso pluriennale che prevede carcere, furto ed educazione malavitosa, spetta deci­ dere le questioni essenziali di quel mondo. Per quanto grande sia la tua fama di rapinatore, per quanto numerosi i tuoi successi, tra i ladri «ereditari» resterai sempre un estraneo e un isolato, un uomo «di seconda scelta». Non basta ru­ bare, bisogna far parte dell’«ordine», e non è questione solo di furti e assassinii. Non è affatto detto che uno scassinatore, anche un «mago delle cassaforti», o un assassino, occupi un posto d ’o­ nore tra i malavitosi solo in quanto scassinatore o assassino. Quel­ l’ambiente ha i propri tutori della purezza dei costumi, e i segre­ ti particolarmente importanti che riguardano l’elaborazione del­ le leggi generali di questo mondo (che cambiano, come cambia la vita), nonché la revisione della loro lingua, «il gergo furbesco» della malavita, - sono di competenza esclusiva della verchuska, del gruppo dirigente, composto di ladri, magari tutti borsaioli, ma «ereditari». Perfino il parere di un adolescente che sia figlio o fratello di un ladro importante verrà tenuto in maggior conto dal mondo mala­ vitoso che non le opinioni dei «traviati», fossero pure altrettanti Il'ja Muromec1della rapina a mano armata. E le «marianne» - le donne della malavita - vengono spartite in base al grado di nobiltà del padrone... Vanno anzitutto ai «san­ gue blu», e da ultimo ai «traviati». I malavitosi si preoccupano molto di prepararsi un ricambio, di formare dei «degni» continuatori delle proprie attività. Lo spaventoso mantello tutto fronzoli del romanticismo crimi­ nale attira con il suo vivo scintillio di mascherata il giovane, il ra­ gazzo, e lo intossica per sempre con il suo veleno. Questo ingannevole scintillio di vetri colorati fatti passare per diamanti si moltiplica nei mille specchi della letteratura. Di quest’ultima si può dire che invece di biasimare i delinquenti Eroe dell’epos russo.

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ha fatto l’inverso: ha approntato nell’anima candida e inesperta della gioventù il terreno favorevole alla crescita di germogli vele­ nosi. Un giovane non è in grado di orientarsi e di riconoscere subi­ to il vero volto dei malavitosi - e in seguito può essere troppo tar­ di, diventa loro complice perfino se la sua vicinanza ad essi è mi­ nima - ed eccolo bollato anche dalla società, e legato per la vita e la morte ai suoi nuovi compagni. Altro fatto fondamentale è che comincia a nutrire un rancore personale verso lo Stato e i suoi rappresentanti, scopre di avere con essi dei conti in sospeso. Gli sembra che le sue passioni e i suoi interessi personali lo portino a un irriducibile conflitto con la so­ cietà e lo Stato. Ritiene di pagare a troppo caro prezzo i propri «errori» che lo Stato non chiama errori ma crimini. Ad attirarlo è anche l’eterno fascino esercitato sulla gioventù dalla «cappa e spada», dai giochi segreti, e qui il «gioco» non è da ridere ma è un gioco reale e sanguinoso, per tensione psicologica neanche paragonabile agli stucchevoli «Discepoli di Gesù» o a Ti­ m ur e la sua squadra2. Fare il male è molto più attraente che fare il bene. Addentrandosi con il batticuore nel sotterraneo mondo dei ladri, il ragazzo vede che quelle accanto a lui sono persone che a mamma e papà fanno paura. Vede la loro apparente indipenden­ za, la loro falsa libertà. Le loro vanterie per lui sono moneta so­ nante. Li considera degli uomini che sfidano la società. Invece di un lavoro faticoso per ogni sudato centesimo, il ragazzo vede la «prodigalità» del ladro, la sua «classe» nel distribuire banconote a piene mani dopo un colpo messo a segno. Vede come beve e se la spassa, e queste scene di dissolutezza sono ben lontane dal re­ spingerlo. Fa il confronto fra il quotidiano lavoro, noioso e mo­ desto, di suo padre e sua madre, e il «lavoro» dei ladri per il qua­ le, sembrerebbe, l’unica cosa richiesta è l’audacia... Non pensa a quanto lavoro e sangue umano altrui abbia rubato e versato quel suo eroe, che ora dilapida senza batter ciglio. C ’è sempre della vodka, dell’«erba», della cocaina, e quelli lo fanno bere e lui non sta più nella pelle, tanta è la voglia di imitarli. Tra i suoi coetanei ed ex compagni nota nei suoi riguardi una certa diffidenza mista a paura, e nella sua ingenuità infantile la prende per un atteggiamento di considerazione. 2 E un romanzo breve del 1940 di Arkadij Gajdar (pseud, di Golikov, 1904-41), ope­ ra edificante su di un gruppo di giovani e patriottici pionieri dediti a opere di bene.

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E, fatto sommamente importante, vede che tutti hanno paura dei malavitosi, temono che uno qualsiasi di loro possa scannarli, cavar loro gli occhi... Nel covo - ïalman - si presenta un qualche Ivan Korzubyj fre­ sco di prigione e porta con sé migliaia di storie - chi ha visto, chi è stato condannato perché e a quanto - tutte cose pericolose e af­ fascinanti. Il giovane si rende conto che c’è gente la quale vive senza in­ teressarsi minimamente a tutto ciò che è invece la costante preoc­ cupazione della sua famiglia. Eccolo veramente ubriaco, ecco che si mette a picchiare una prostituta - deve saper picchiare una donna, è una delle tradizio­ ni della sua nuova esistenza. Sogna il tocco finale, la sua affiliazione definitiva all’ordine. E la prigione, che gli hanno insegnato a non temere. Gli anziani lo portano con sé per il suo primo «colpo» - all’i­ nizio solo a montare la guardia, a «fare il palo». Poi gli adulti co­ minciano a dargli fiducia ed ecco che ruba da solo, organizzando­ si per conto suo. Presto adotta le loro maniere, quelle risatine di un’impudenza indicibile, la loro andatura, rincalza i pantaloni sugli stivali con una piega tutta speciale, si mette una crocetta al collo, si compera per l’inverno una kuban ka, un colbacco di pelliccia d’agnello, e un berretto «da capitano» per l’estate. Durante il suo primo soggiorno in prigione si fa subito tatuare dai nuovi amici - dei virtuosi in materia. Il segno distintivo della sua appartenenza all’ordine dei malavitosi è per sempre inciso con l’inchiostro blu sul suo corpo, come il marchio di Caino. In segui­ to avrà spesso occasione di rammaricarsi per quelle punture, e si farà davvero cattivo sangue a causa loro. Ma questo sarà piu tar­ di, molto piu tardi. Il ragazzo ha già assimilato il «gergo della mala», la lingua dei ladri. E sempre pronto e a disposizione degli anziani. Il suo timo­ re non è di strafare, ma di non fare abbastanza. E il mondo della malavita gli apre, una porta dopo l’altra, i suoi ultimi e più profondi recessi. Ecco che già partecipa ai processi sanguinosi, ai tribunali d’o­ nore, e come tutti gli altri è tenuto a «mettere la firma» sul cada­ vere di colui che è stato strangolato in base alla sentenza del tri­ bunale della malavita. Qualcuno gli ficca in mano un coltello ch’e­ gli affonda nel corpo ancora caldo, a dimostrazione della propria completa solidarietà con le azioni dei suoi insegnanti.

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Eccolo giustiziare ormai di persona, su ordine degli anziani, il traditore, la «cagna»3 designata. Non c’è probabilmente un solo malavitoso che non sia stato al­ meno una volta anche un assassino. Tale è lo schema dell’educazione di un giovane b la ta r' venuto dall’esterno. Il processo formativo è più semplice nel caso dei «sangue blu», dei ladri ereditari o di quelli che non hanno mai conosciuto, e nep­ pure hanno mai voluto conoscere, una vita diversa da quella ma­ lavitosa. Non bisogna credere che questi futuri ideologi e caporioni del­ la malavita, questi principi dal sangue di furfante, vengano cresciuti in chissà quale modo speciale, nella bambagia. Nient’affatto. Nes­ suno li protegge dai pericoli. Semplicemente incontrano meno osta­ coli sul loro cammino verso le vette, o meglio gli abissi più profon­ di della malavita. Il loro cammino è piu semplice, piu rapido, me­ no condizionato. Si guadagnano la fiducia degli anziani prima degli altri, ricevono prima degli altri gli incarichi ladreschi. Ma per molti anni, anche se tra i suoi antenati ci sono degli in­ fluenti caporioni della malavita, il giovane b la ta r 'deve starsene at­ taccato ai banditi adulti, per i quali ha una venerazione, correre a prendere le sigarette, portare loro da accendere, andare in giro con i vari «messaggini», servirli in tutti i modi. Passeranno molti an­ ni prima che se lo portino dietro per un colpo. Il ladro - ruba, beve, se la spassa, gozzoviglia, gioca alle carte, imbroglia i «fessi», non lavora mai, né in libertà né in detenzio­ ne, stermina i rinnegati e partecipa alle pravìlki che elaborano le questioni essenziali della vita sotterranea. Custodisce i segreti della malavita (non sono pochi), aiuta i suoi compagni dell’«ordine», coinvolge ed educa le nuove leve e con­ trolla che la legge dei ladri si preservi nella sua austera purezza. Il codice in sé non è complicato, ma nel corso dei secoli si so­ no formati attorno ad esso migliaia di tradizioni e costumi sacro­ santi, sulla stretta osservanza dei quali vigilano scrupolosamente i custodi dei precetti della malavita. I malavitosi sono dei grandi dogmatici. Allo scopo di assicurare una migliore applicazione del­ le leggi, vengono di tanto in tanto organizzate delle assemblee ge­ nerali segrete, nelle quali si prendono delle decisioni che indicano le regole di condotta in relazione alle nuove condizioni di vita e si 3 II malavitoso che ha tradito la legge dei ladri; alla «guerra delle cagne» è qui dedi­ cato un intero racconto.

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elaborano (o meglio, si sanciscono) i cambiamenti di parole nel les­ sico continuamente aggiornato dei ladri, - il «gergo furbesco». Secondo la loro filosofia ci sono al mondo due tipi di uomini. Da una parte - gli «uomini veri», la «delinquenza», il «mondo cri­ minale», gli urki, urkagany, iuki-kukì e simili. Dall’altra - i fraera, vale a dire i «liberi», per i malavitosi, i «fessi». Fraerb una parola antica e viene da Odessa. Nella «musi­ ca» della malavita del secolo scorso si incontrano molte parole ger­ gali ebraico-tedesche. Altri nomi dei fraera sono stympy, muziki, oleni, asmodei, cer­ ti. Tra i fraera ci sono poi i «fessi traviati», vicini ai malavitosi, e i «fessi avvertiti» - che sono al corrente delle faccende della ma­ lavita o che almeno in parte le indovinano, persone d ’esperienza; «un fesso avvertito» vuol dire un tipo navigato e l’espressione si pronuncia con rispetto. Sono due mondi differenti, separati da molte piu cose che non le sbarre di una prigione. «M i dicono che sono un farabutto. D ’accordo, sono un fara­ butto. E anche un mascalzone e un assassino. E con ciò? Io non vivo come voi, ho la mia di vita, con altre leggi, altri interessi, una diversa idea di onestà! » - così parla il malavitoso. La menzogna, l’inganno, la provocazione ai danni di un «fes­ so» - fosse anche una persona che al malavitoso ha salvato la vita - tutto questo non soltanto è nell’ordine delle cose, ma è addirit­ tura speciale motivo di vanto, legge di quel mondo. Peggio che ingenue sono le esortazioni di Sejnin4 a «dar fidu­ cia» al mondo del crimine, una fiducia che è già costata troppo sangue. La doppiezza dei malavitosi non conosce limiti, poiché nei con­ fronti dei «fessi» (e i «fessi» sono il mondo intero, con l’esclusio­ ne dei soli malavitosi) non c’è altra legge che quella dell’inganno - e con ogni mezzo: lusinghe, calunnie, promesse... Il fraerb anzi stato creato proprio per essere turlupinato; quel­ lo che sta sull’avviso, poiché ha già fatto la triste esperienza dei malavitosi, si chiama «fesso avvertito» - e costituisce un gruppo a parte tra i certi, i fraera più disprezzati dai malavitosi. I giuramenti e le promesse di questi ultimi non conoscono né limiti né frontiere. Una quantità favolosa di capi di tutti i generi, educatori, di ruolo e non di ruolo, poliziotti e inquirenti hanno ab­ boccato all’amo rudimentale della «parola d ’onore di malavitoso». 4 Lev Sejnin (1906-67), lavorò per quasi trentanni nei tribunali, pubblicò romanzi po­ lizieschi e la serie M em o rie d i un inquirente.

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Probabilmente tutti coloro che per dovere d ’ufficio erano tenuti a frequentare quotidianamente quella gentaglia ci sono cascati e anche piu volte. Una volta, due volte e anche tre, perché non riu­ scivano a capire che l’etica di quel mondo è un’etica diversa e che la cosiddetta «morale ottentotta», con i suoi criteri di utilità im­ mediata, è, a confronto delle cupe pratiche dei malavitosi, la cosa piu innocente di questo mondo. I capi (i «capetti», come li chiamano quelli della malavita) si facevano invariabilmente ingannare, infinocchiare... E al tempo stesso nelle città si continuava a riprendere con in­ comprensibile ostinazione la commedia di Pogodin che da cima a fondo è una dannosa impostura, e le nuove generazioni di «ca­ petti» si imbevevano di idee sull’«onestà» di Kostja il capitano. Tutto il lavoro educativo con i ladri, nel quale sono stati but­ tati milioni di rubli statali, tutte queste «rieducazioni» immagi­ narie e leggende sul B elom orkanal, da un pezzo diventate una fa­ vola sulla bocca di tutti e oggetto di oziose spiritosaggini dei ma­ lavitosi, tutto il lavoro educativo, dunque, si fondava su una cosa assolutamente effimera quanto può esserlo la «parola d’onore di malavitoso». - Ci rifletta, - dice uno specialista del mondo della malavita, gran divoratore di libri di BabeT e Pogodin, - non è che Kostja il capitano abbia semplicemente dato la sua parola di emendarsi. So­ no un pesce troppo vecchio per mangiare quell’esca, e non sono tanto minchione da ignorare che a quelli non costa niente pro­ mettere sull’onore. Ma Kostja il capitano ha dato la «parola d ’o­ nore di ladro». Di ladro! Ecco dov’è il punto. Perché questa sua parola non può non mantenerla. Il suo amor proprio di «aristo­ cratico» non glielo consentirebbe. Morirebbe di vergogna se man­ casse alla sua «parola d’onore di ladro». Povero, ingenuo dirigente! Dare la propria parola d’onore a un «fesso», ingannarlo, poi mettersi sotto i piedi il giuramento e vio­ larlo - è per un malavitoso un titolo di gloria, un argomento di vanterie sui tavolacci del carcere. Molte evasioni sono state rese piu facili e propiziate da una «parola d ’onore di ladro» data in tempo utile. Se tutti i capi aves­ sero saputo ciò che rappresenta il giuramento di un ladro e l’aves­ sero apprezzata nel suo giusto valore (ma i soli a saperlo sono quel­ li smaliziati da anni di frequentazione dei «capitani») ci sarebbe stato molto meno sangue versato e meno atrocità. Ma forse l’errore sta proprio nel voler legare questi due mon­ di tanto diversi - quello dei fraera e quello degli urkagany.

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Forse le leggi dell’onore e della morale funzionano diversamente nel «mondo furbesco» e noi non abbiamo semplicemente il diritto di applicare ad esso i nostri criteri etici ? Forse la vera parola d’onore di un ladro può essere solo quella data a un altro ladro v zakone (che s’attiene cioè alla legge della malavita) e non a un «fesso» ? E questo l’elemento romantico che fa vibrare i giovani cuori, che in qualche modo giustifica e introduce nella vita dei ladri, nei loro reciproci rapporti, lo spirito di una certa «rettitudine», an­ corché molto peculiare. Forse il concetto di infamia è diverso nel mondo non malavitoso e nella società dei ladri ? I moti del cuore degli urkagany obbedirebbero, diciamo cosi, a proprie leggi. E so­ lo adottando il loro punto di vista potremmo comprendere e per­ fino accettare de facto la specificità della morale malavitosa. Anche certi malavitosi tra i piu avveduti non sono alieni dal pensarla in questo modo. E sono anche propensi a «darla a bere» ai sempliciotti. Qualsiasi sanguinosa infamia ai danni di un «fesso» è giustifi­ cata e consacrata dalle leggi della malavita. E si potrebbe pensare che nei confronti dei propri compagni il ladro sia tenuto a essere onesto. Le tavole della loro legge al riguardo parlano chiaro e una feroce punizione attende coloro che tradiscono il «cameratismo». Ma anche questo, dalla prima all’ultima parola, non è altro che posa teatrale e bugiarda millanteria. Basta osservare la condotta dei legislatori e arbitri della moda dell’ambiente malavitoso in cir­ costanze difficili, quando non si ha sottomano abbastanza mate­ riale umano «esterno» ed è giocoforza cuocere nel proprio brodo. Il ladro piu importante, «autorevole» (una parola che gira mol­ to da quelle parti - «ha preso autorevolezza», ecc.), fisicamente piu forte resiste a spese dei ladri piu deboli, che gli procurano da mangiare e lo accudiscono. E se proprio qualcuno deve andare a lavorare, si mandano i ladri piu deboli, e i caporioni pretendono da loro ciò che prima pretendevano dai «fessi». Nei tempi grami, il tremendo motto «muori tu oggi, e io do­ mani» comincia a concretizzarsi sempre più frequentemente in tut­ ta la sua sanguinosa realtà. Ahimè, l’espressione non è da inten­ dere in senso traslato, non è un’immagine. La fame spinge il malavitoso a sottrarre e mangiare le razioni dei suoi amici meno «autorevoli» e a mandarli in spedizioni di ap­ provvigionamento che non hanno nulla da spartire con la stretta osservanza delle leggi della malavita. Si spediscono per ogni dove messaggi minacciosi, ksivy con ri­

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chieste di aiuto e se c’è modo di guadagnarsi un pezzo di pane, e proprio non si può rubarlo, sono quelli che contano meno ad an­ dare a lavorare, a «zappare». Li mandano a lavorare come ieri li mandavano ad uccidere. Non sono mai i caporioni a pagare per gli omicidi, loro si limitano ad emettere le sentenze di morte. Sono i piccoli malavitosi ad eseguire le sentenze, timorosi di finire a pro­ pria volta giustiziati. Ammazzano o cavano gli occhi (specie nei confronti dei «fessi», una «sanzione» largamente applicata). Quando sono in difficoltà, i ladri arrivano a denunciarsi reci­ procamente alle autorità del lager. Quanto alle delazioni contro i «fessi», gli «Ivan Ivanovic», i «politici», non vale neanche la pe­ na di parlarne. E un sistema per facilitarsi la vita e i malavitosi non possono che andarne particolarmente fieri. I mantelli cavallereschi volano via e non resta altro che l’abie­ zione di cui è permeata la filosofia dei malavitosi. E un’abiezione che in circostanze critiche si volge logicamente contro i compagni stessi dell’«ordine». Non c’è niente di cui stupirsi. Il sotterraneo regno del crimine è un mondo che ha eletto a scopo della vita lo sfrenato soddisfacimento dei piu bassi istinti, che vive di interes­ si esclusivamente bestiali, peggio che bestiali, poiché qualsiasi ani­ male si spaventerebbe davanti a certe azioni che i malavitosi com­ mettono senza pensarci un momento. («La peggior bestia è l’uomo» - il diffuso proverbio malavito­ so è anche qui da intendere nel senso piu letterale e concreto). II rappresentante di un mondo del genere non può dar prova di forza d ’animo in situazioni nelle quali è minacciato di morte o di prolungati tormenti fisici, e infatti non ne dà prova alcuna. Sarebbe un grande errore credere che per quel mondo le no­ zioni di «prendersi una sbronza», «fare baldoria», «gozzovigliare» abbiano lo stesso significato che hanno per i non malavitosi. Tutto quello che fanno questi ultimi appare straordinariamente ca­ sto se paragonato alle scene selvagge della vita quotidiana dei ma­ lavitosi. Una prostituta tatuata o una svaligiatrice di negozi riesce a in­ trodursi (di sua iniziativa o perché chiamata) in una corsia d ’o­ spedale dove sono ricoverati dei blatari (naturalmente simulatori e autolesionisti) e di notte, minacciando l’infermiere di turno con un coltello, l’intera compagnia dei malavitosi si raccoglie attorno alla novella santa Teresa. Tutti quelli che hanno «sangue di fur­ fante» possono togliersi quella voglia. Presa sul fatto la donna spie­ ga, senza imbarazzo e senza arrossire, che «era venuta per dare una mano ai ragazzi - gliel’avevano chiesto loro».

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I malavitosi sono tutti pederasti. Nei lager, attorno a ogni ladro importante ronza uno sciame di ragazzetti dagli occhi gonfi e tor­ bidi, Zojka, Manica, Verka, che lui mantiene e con i quali dorme. In una ripartizione dei lager (dove non si soffriva la fame) al­ cuni malavitosi avevano addomesticato e depravato una cagna. La nutrivano, la carezzavano poi se la portavano a letto come una don­ na, apertamente, sotto gli occhi di tutta la baracca. Ci si rifiuta di credere che casi simili possano essere la norma a causa della loro mostruosità. E invece sono all’ordine del giorno. C ’era una miniera dove lavoravano solo donne, molto popolo­ sa, lavoro duro di scavo, fame. Il malavitoso Ljubov' era riuscito a capitarci. «Ah, che bell’inverno ci ho passato, - rievocava. - Laggiù, neanche a dirlo, con il pane, con la razioncina potevi avere tutto quanto. E c’era anche un’usanza, un accordo di questo genere: le metti in mano la razione - mangia! Nel tempo che ci«sto assieme, lei deve mangiarsi la razioncina, e quello che non fa in tempo a mangiare me lo riprendo. Allora io alla mattina ricevevo la razio­ ne e - sotto la neve ! Hai capito, la congelavo - quanto vuoi che ne potesse rosicchiare, di pane congelato, quella...» Certo è difficile immaginare che a un essere umano possa ve­ nire in mente una cosa del genere. Ma nel malavitoso non c’è niente di umano. Ogni tanto nei lager danno ai detenuti un po’ di soldi in con­ tanti, quel che avanza dopo il pagamento dei vari «servizi comu­ ni», tipo la scorta, le tende di tela catramata da usarsi a sessanta gradi sotto zero, le prigioni, i trasferimenti, l’equipaggiamento e le vettovaglie. Benché misera, la rimanenza è pur sempre un si­ mulacro di denaro. Le scale dei valori sono cambiate e anche un «salario» insignificante di venti o trenta rubli al mese suscita il vi­ vo interesse dei detenuti. Con venti o trenta rubli ci si può com­ prare del pane, e anche parecchio - e non è forse questo un sogno importante, un fortissimo «stimolo» durante le lunghe ore di fa­ ticoso lavoro su di un fronte di abbattimento, al gelo, con il fred­ do e la fame ? Quando i reclusi da uomini sono diventati solo per metà umani i loro interessi si sono certo ristretti ma non per que­ sto indeboliti. II salario, il compenso del lavoro, viene corrisposto una volta al mese e quel giorno i malavitosi fanno il giro di tutte le baracche e costringono i «fessi» a consegnare loro i soldi, o la metà o tutto quanto, questo dipende dalla coscienza degli estorsori. Se non ri-

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cevono senza storie quanto richiesto, si prendono tutto a suon di legnate - con il piccone, la leva da cavatore, il badile. Questi salari fanno comunque gola a parecchi, anche senza i malavitosi. Spesso le squadre che hanno delle buone tessere ali­ mentari, quelle messe meglio con il vitto, vengono preavvisate dal caposquadra che il denaro non verrà consegnato ai lavoratori ma andrà al «caporale» o all’addetto alle quote di produzione, il normirovicik. E se non sono d’accordo, neanche le loro tessere saranno piu cosi «buone», con il che si condanneranno da soli a una mor­ te per fame. Queste concussioni dei «capetti» - addetti alle quote, capora­ li, sorveglianti - sono un fenomeno diffuso. Lo stesso si può dire delle rapine dei malavitosi. Il racket è isti­ tuzionalizzato e non sorprende nessuno. Nel 1938, quando tra le autorità e la malavita esisteva un «con­ cordato» quasi ufficiale e i ladri venivano dichiarati «amici del po­ polo», gli alti dirigenti si servirono di loro come arma nella lotta contro i «trockisti» contro i «nemici del popolo». Presso le Kvč, le sezioni educativo-culturali, venivano perfino tenuti dei corsi di istruzione politica per i malavitosi nei quali gli educatori spiega­ vano simpatie e speranze del potere e chiedevano una mano per sterminare i trockisti. - Questa gente è stata mandata qui per essere sterminata e il vostro compito è di aiutarci. - Furono le testuali parole pronun­ ciate all’inizio del ’38, durante una lezione ai corsi, da Sarov, ispet­ tore della Kvč del giacimento Partizan. I malavitosi dettero il loro pieno consenso. Per forza! Questo salvava loro la vita trasformandoli in membri utili della società. Nei trockisti videro la personificazione di quell’intelligencija che essi detestavano tanto. Inoltre ai loro occhi quelli erano dei «capetti» caduti in disgrazia e destinati a una sanguinosa resa dei conti. Così i malavitosi, con la piena approvazione delle autorità, eb­ bero mano libera contro i «fascisti» - nel 1938 non c’erano altri soprannomi per quelli dell’articolo 58. I personaggi piu importanti, come Ešba5, ex segretario del Co­ mitato regionale del partito del Caucaso settentrionale, vennero arrestati e fucilati alla famosa Serpantinka, ma gli altri furono ster­ minati dai criminali, dalle scorte, dal freddo e dalla fame. Il con­ 5 E. A. Ešba (1893-1939), bolscevico dal 1914, contribuì alla sovietizzazione del Cau­ caso, segretario del CC del partito comunista georgiano nel 1922-24.

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tributo dei malavitosi alla liquidazione, nel 1938, dei trockìsti fu grande. «Ci saranno pure dei casi, - mi dirà qualcuno, - in cui il ladro, se gli si viene incontro, non tradisce la promessa e - senza darlo a vedere - contribuisce al mantenimento dell’“ordine” nel lager». - A me conviene, - dice un capo, - che quei cinque o sei ladri non lavorino affatto o lavorino dove vogliono, - se in compenso gli altri reclusi, senza più il problema dei loro assalti, possono la­ vorare bene. Tanto piu che il servizio di scorta è insufficiente. I malavitosi si impegnano a non rubare e a garantire che tutti gli al­ tri detenuti lavorino. E vero che riguardo poi alla realizzazione della norma lavorativa i ladri non promettono niente, ma questa è l’ultima cosa che ci deve preoccupare. I casi di simili accordi tra malavitosi e autorità locali non sono poi cosi rari. Rinunciando ad applicare, alla lettera, i regolamenti del regi­ me concentrazionario, il capo si facilita, e considerevolmente, il compito. Ma non capisce che i ladri l’hanno già preso al gancio, che lui è già appeso al loro gancio, è na krjučke. Già dando loro corda ha derogato dalla legge e il suo calcolo è sbagliato e crimi­ nale - perché la popolazione di non malavitosi del lager viene a trovarsi in balia dei ladri. Di tutta quella popolazione i soli che po­ tranno contare sul suo aiuto saranno i bytoviki, i detenuti «comu­ ni» condannati per reati connessi al servizio e altri reati, tipo mal­ versazione, omicidio e concussione. I condannati in base all’arti­ colo 58 invece non troveranno protezione. Questa prima concessione ai ladri porta facilmente il capo ad avere contatti più stretti con il «mondo criminale». Accetta una «mancia» - in «cuccioli di levriero»6 o in contanti - questo di­ pende dall’esperienza del donatore, dall’avidità del beneficiario. Nell’arte di «ungere le ruote», i malavitosi sono dei veri maestri. E lo fanno con particolare disponibilità e larghezza, tanto piu che i regali sono il frutto di furti e rapine. Si offrono vestiti da mille rubli (i malavitosi indossano o ten­ gono da parte indumenti civili di buon taglio proprio per farne dei «presenti» in caso di necessità), eccellenti calzature, orologi d ’o­ ro, considerevoli somme di denaro... Se il capo rifiuta, «ungono» sua moglie, si adoperano in tutte 6 Nella commedia di Gogol' L 'isp e tto re (1836), primo atto, il giudice Ljapkin-Tjapkin ammette di accettare «regali», però precisa: «Cuccioli di levriero. E tutta un’altra cosa».

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le maniere per fargli accettare qualcosa, deve solo prenderla, una volta o due. Sono dei regali. In cambio non gli verrà chiesto nien­ te. Anzi, con i regali gli diranno pure grazie. Le richieste arrive­ ranno piu tardi - quando il «capetto» sarà saldamente preso nel­ le reti dei malavitosi e avrà paura di essere smascherato davanti alle autorità superiori. Questa dello smascheramento è una mi­ naccia seria e di facile attuazione. Quanto alla parola d’onore del ladro che nessuno ne saprà nien­ te, - non è altro che il giuramento di un ladro a un «fesso». Inoltre, la promessa di non rubare è una promessa di non ru­ bare o rapinare in modo flagrante - e niente piu. Certo, un capo dell’amministrazione non può autorizzare spedizioni ladronesche (anche se qualche caso c’è stato). Ruberanno lo stesso per conto loro, perché questa è la loro vita, la loro legge. Essi possono pro­ mettere al capo di non rubare nel proprio giacimento, di non de­ predare il personale di servizio, di guardia, di non svaligiare gli spacci, ma è tutto fumo negli occhi. Si troveranno sempre degli «anziani» ben contenti di dispensare i propri compagni da «giu­ ramenti» del genere. Se è stata fatta la promessa di non rubare ciò significa che ci daranno dentro con il racket, e le estorsioni saranno accompagna­ te da minacce sempre piu terribili, fino a quelle di morte. In quei lager dove i ripartitori, cucinieri, sorveglianti e i capi stessi sono agli ordini dei malavitosi - i detenuti vivono peggio che altrove, hanno meno diritti, sono piu affamati, guadagnano meno e mangiano peggio. I soldati di scorta seguivano l’esempio dei loro superiori. La scorta che accompagnava i detenuti al lavoro «rispondeva» anche della realizzazione del piano, e questo per anni. Non era una responsabilità vera e propria, con effetti pratici, era piuttosto un impegno di tipo sindacale. Nondimeno, obbedendo alle consegne, i soldati esigevano dai detenuti che lavorassero. «Muoversi, muo­ versi! » - l’ingiunzione di rito che era sempre in bocca a capi­ squadra, sorveglianti e caporali divenne anche la loro. Per i solda­ ti si trattava di un lavoro supplementare rispetto ai soliti compiti di sorveglianza ed essi avevano accettato malvolentieri quella nuo­ va incombenza non remunerata. Ma un ordine è un ordine, ed es­ si si applicarono, usando piu di frequente il calcio del fucile, a ti­ rar fuori ai detenuti le «percentuali». Ben presto - voglio credere, empiricamente - le scorte trova­ rono il sistema per uscire da quella situazione resa complicata dal­

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le insistenti direttive inerenti alla produzione che arrivavano dai loro capi. Accompagnavano sul posto un gruppo (nel quale erano sempre mescolati «politici» e malavitosi) e davano il lavoro in appalto ai malavitosi. Questi erano ben contenti di giocare il ruolo di capi­ squadra volontari. Riempivano di botte i detenuti (con la benedi­ zione e il sostegno della scorta), costringendo dei vecchi mezzi mor­ ti di fame a compiere il duro lavoro ai giacimenti auriferi, cavan­ done a suon di bastonate quel «piano» nel quale era compresa anche la quota di lavoro che sarebbe toccata ai malavitosi stessi. I caporali non entravano mai in questi dettagli, ed erano esclu­ sivamente interessati ad ottenere, con qualsiasi mezzo, un aumento del guadagno complessivo. Erano quasi sempre dei corrotti, al soldo dei malavitosi. La co­ sa assumeva fin dall’inizio la forma diretta di una «mancia», in ve­ stiti o in denaro, senza bisogno di approcci particolari. Era il ca­ porale stesso a far capire che ci contava. Per lui era un introito ag­ giuntivo regolare e importante. Talvolta invece l’accordo passava per il «gioco dei metri cubi», partite a carte la cui posta erano i metri cubi scavati. II caposquadra (dei malavitosi) si sedeva a giocare con il capo­ rale e a fronte di una posta di «stracci» - vestiti, maglioni, cami­ cie, calzoni - esigeva che l’altro si giocasse dei «cubetti» - metri cubi di terra... In caso di vincita, e il malavitoso vinceva quasi sempre - tran­ ne che in quelle rare situazioni in cui ci voleva una mancia «lus­ suosa», degna di un marchese francese al tavolo di gioco di Luigi XIV - i metri cubi di terra e minerale scavati da altre squadre cam­ biavano attribuzione e la squadra dei malavitosi, senza lavorare, ne riceveva il compenso. Il caporale un po’ più istruito cercava di far tornare i conti a spese delle squadre dei trockisti. Nei giacimenti, la «vendita dei metri cubi», tutti questi giochetti con i dati erano un vero flagello. Le misurazioni topografiche ri­ stabilivano la verità e smascheravano i colpevoli... In questi casi i caporali disonesti venivano soltanto retrocessi o trasferiti altrove. E si lasciavano alle spalle i cadaveri di uomini affamati, dai quali si era cercato di cavare i «cubetti» persi al gioco dal loro capo. Alla Kolyma lo spirito corruttore della malavita impregnava l’intera esistenza. Senza una chiara comprensione della vera natura del mondo criminale è impossibile capire i lager. Sono i malavitosi a dare quel determinato volto ai luoghi di detenzione, a dare il tono della vi-

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ta di tutti - dalle autorità di piu alto grado ai rabotjagi affamati dei giacimenti d’oro. Il malavitoso ideale, il «vero ladro», il blatnoj Cascarilla7 non deruba i «singoli». Così dice una delle «leggende che si vanno creando»8di quel mondo... Il ladro, un «buon ladro» ruba solo al­ lo Stato - magazzini, casse, negozi, alla peggio appartamenti dei «liberi», ma non si metterà mai a togliere le ultime cose a un re­ cluso, a un detenuto. Il furto di biancheria, gli «scambi» forzati di vestiario e calzature in buono stato con altri malridotti, il fur­ to di manopole, pellicciotti, sciarpe (della fornitura statale) e di maglioni, giacche, pantaloni (civili) - tutte queste ruberie, sareb­ bero compiute da ladruncoli, teppaglia, feccia, «ladri di polli». - Se qui avessimo dei veri ladri, - sospira il benpensante, - non permetterebbero tutte queste ruberie della piccola delinquenza. Il povero fraer crede in Cascarilla. Non vuole capire che i la­ druncoli che gli rubano la biancheria sono mandati da altri piu im­ portanti e che se poi rivede le cose rubate tra le mani di ladri « au­ torevoli» non è perché i ladri piu deboli si siano fatti a loro volta sottrarre giacche e pantaloni. Il frae r non sa che il più delle volte a «sgraffignare» mandano dei ladruncoli che devono ancora farsi la mano nel mestiere e che di certo non si occuperanno della divisione del bottino. Quando si prevede qualche complicazione anche gli adulti partecipano al furto - sia con la persuasione: e dammelo, cosa te ne fai? - che con il famigerato «piccolo scambio», quando si obbliga il «fesso» a indossare certi stracci che non sono piu indumenti, ma ormai dei simulacri di indumenti, buoni solo per essere restituiti al cambio di stagione. E per questo che nei lager, uno o due giorni dopo la distribuzione dei corredi stagionali alle migliori squadre, si ritro­ vano i pellicciotti, giacconi e berretti nuovi indosso ai ladri, ben­ ché non siano stati loro ad averli ricevuti. Talvolta al «piccolo scambio» danno anche da fumare o un pezzo di pane - quando il malavitoso è «onesto» e buono per natura o teme che la vittima non la prenda bene e faccia un pandemonio. Il rifiutare un «piccolo scambio» o un «regalo» comporta un pestaggio, e se il «fesso» è ostinato anche un colpo di coltello. Ma nella maggior parte dei casi non si arriva a tanto. 7 Si veda qui a p. 770. 8 II termine allude al titolo di un romanzo scritto nel 1914 da Fëdor Sologub, m a ja le g e n d a.

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Questi «piccoli scambi», inoltre, non sono affatto uno scher­ zo quando si deve lavorare per ore e ore, con un freddo di cin­ quanta gradi sotto zero, e in più l’insonnia, la fame e lo scorbuto. Cedere gli stivali di feltro ricevuti da casa vuol dire congelarsi i piedi. Non ci lavori molto al gelo con quelle calzature di stoffa tut­ te bucate che ti offrono in cambio. Nel tardo autunno del 1938 ricevetti un pacco da casa - i miei vecchi stivali da aviatore con le suole di sughero. Ebbi timore a portarli fuori dalla posta - l’edificio era circondato da una folla di malavitosi che saltellavano nella bianca penombra della sera in at­ tesa delle loro vittime. Vendetti immediatamente gli stivali a un caporale, Bojko, per cento rubli - ai prezzi ufficiali kolymiani ne valevano duemila. Con quegli stivali ai piedi sarei anche potuto arrivare fino alla baracca - ma già la prima notte me li avrebbero rubati, sfilandomeli a forza. Ci avrebbero pensato i miei stessi vi­ cini a portare alla baracca i malavitosi, per una sigaretta, una cro­ sta di pane, avrebbero immediatamente «dato la dritta» ai rapi­ natori. Il lager era pieno di informatori e «puntatori» di quel ge­ nere. Invece i cento rubli rimediati con gli stivali volevano dire cento chilogrammi di pane - e i soldi sono molto più facili da cu­ stodire, nascondendoseli addosso e badando di non scoprirsi trop­ po con acquisti imprudenti. Ed ecco i blatarì che se ne vanno in giro, con gli stivali di fel­ tro rimboccati in alto alla loro maniera «perché non ci finisca den­ tro la neve», a «rimediare» pellicciotti, sciarpe, berretti con i paraorecchi, e neanche semplici berretti, ma quei colbacchi «giusti», sciccosi, di pelliccia d ’agnello, che fanno parte dell’uniforme dei malavitosi. E un giovane, contadino, operaio o intelligent che sia, ha la te­ sta che gli gira per tutte quelle cose inaspettate. Egli vede che nel lager i ladri e gli assassini vivono meglio di tutti, godono di un re­ lativo benessere materiale e si distinguono per la fermezza delle loro convinzioni e la condotta, sempre invidiabilmente spavalda e intrepida. Anche le autorità devono vedersela con i malavitosi. Nei lager essi sono i padroni della vita e della morte. Sono sempre sazi, rie­ scono a «far saltar fuori qualcosa» quando tutti gli altri sono af­ famati. Il ladro non lavora, riesce a ubriacarsi perfino in lager men­ tre al giovane contadino tocca «sgobbare» anche li. E a costrin­ gerlo a sgobbare non sono altro che i ladri - tanto sono stati abili a sistemarsi. Hanno sempre del tabacco, il parrucchiere del lager

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va a tagliare loro i capelli, «taglio alla boxe», «a domicilio», nella baracca, munito dei suoi migliori strumenti. Ogni giorno il cuci­ niere porta loro conserve e dolciumi rubati in cucina. Anche i la­ dri meno importanti possono contare su porzioni migliori e dieci volte piu consistenti. L ’addetto al taglio del pane non negherà mai loro un pezzo di pagnotta. Tutti gli indumenti «da liberi» li in­ dossano loro. I posti migliori sui tavolacci sono i loro - vicino al­ la luce, accanto alla stufa. Hanno materassini imbottiti e coperte di trapunta, mentre lui - giovane kolchoziano - dorme direttamente sui tronchi tagliati per il lungo dei tavolacci. E il contadi­ no comincia a pensare che in lager sono proprio i malavitosi i de­ tentori della verità, che da quelle parti sono loro a costituire l’u­ nica forza materiale e morale, se si eccettuano le autorità che comunque, nella maggior parte dei casi, preferiscono starsene al­ la larga per evitare conflitti. E il giovane contadino comincia a rendere loro dei servigi, a imitarli nelle imprecazioni, nei comportamenti, sogna di aiutarli, di essere illuminato dal loro fuoco. Non è lontana l’ora in cui, seguendo le loro istruzioni, farà il suo primo furto dalla mensa comune - e un nuovo porcak, «fesso» e «bacato», sarà bell’e pronto.Il Il veleno del mondo malavitoso è terrificante. Intossicarsi con esso equivale alla corruzione di tutto ciò che vi è di umano nel­ l’uomo. E chiunque abbia a che fare con quel mondo deve respi­ rarne il fetido respiro. Quali maschere antigas ci vorranno? Ho conosciuto un candidato in scienze, un medico «libero» che raccomandava cosi un «malato» all’attenzione di un suo collega: «M i raccomando - è un malavitoso di quelli importanti! » Dal to­ no di quella raccomandazione, si sarebbe detto che il paziente, co­ me minimo, era riuscito a mandare un razzo sulla Luna. E quel me­ dico non si rendeva neppure conto di quanto quell’atteggiamento fosse degradante per lui, per la sua stessa persona. I ladri non ci misero molto a scoprire quel punto debole di Ivan Aleksandrovič (cosi si chiamava il candidato in scienze). Nel re­ parto che dirigeva c’erano sempre delle persone sane come pesci che facevano una cura di riposo. («Il professore è come un padre», scherzavano i ladri). Ivan Aleksandrovič teneva aggiornate le false cartelle cliniche, senza risparmio di tempo sottratto al sonno, e di fatica, redigeva le prescrizioni giornaliere, ordinava analisi ed esami... Ho avuto occasione di leggere una lettera speditagli, da una pri-

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gione di transito, da un gruppo di malavitosi nella quale gli chie­ devano di far ricoverare certi commilitoni che secondo loro ave­ vano necessità di riposarsi. E i blatari che figuravano nell’elenco erano stati gradualmente ricoverati. Non è che Ivan Aleksandrovič li temesse. Era un vecchio kolymiano, ne aveva viste di tutti i colori, e i ladri da lui non avreb­ bero mai ottenuto niente con le minacce. Ma una pacca amiche­ vole sulla spalla, qualche complimento, che Ivan Aleksandrovič prendeva per moneta sonante, la sua reputazione nel mondo ma­ lavitoso, una reputazione sulla sostanza della quale non s’era mai posto né intendeva porsi troppe domande, - ecco cosa l’aveva le­ gato a quel mondo. Come molti altri era ipnotizzato dall’onnipo­ tenza dei malavitosi e la loro volontà era diventata la sua. Il danno causato alla società da tutti questi anni di salamelec­ chi alla malavita, che della società è la componente piu pernicio­ sa, la quale non cessa di avvelenare la nostra gioventù con il suo fiato pestilenziale - è incalcolabile, inimmaginabile. La teoria della perekovka ovvero della «rieducazione», fonda­ ta su presupposti del tutto astratti, ha portato a decine e centinaia di migliaia di morti inutili nei luoghi di detenzione e, per anni e anni, a un incubo creato nei lager da individui indegni del nome stesso di uomo. Di tempo in tempo il gergo malavitoso cambia. Le variazioni di questo vocabolario cifrato non derivano da un processo di per­ fezionamento ma sono una misura di protezione. Il mondo della malavita sa che la polizia criminale studia la loro lingua. Un uomo ammesso nella «famiglia» cui venisse in mente di esprimersi nella «musica della malavita» degli anni Venti quando dicevano «reg­ gere il gioco» o «fare il palo», insospettirebbe i malavitosi degli anni Trenta, abituati all’espressione «montare la guardia» e cosi via. Non abbiamo un’idea particolarmente precisa e giusta della dif­ ferenza tra i malavitosi e i piccoli delinquenti. C ’è poco da dire, entrambi i gruppi sono antisociali e anzi in guerra con la società. Ma solo molto raramente siamo in grado di valutare il reale peri­ colo rappresentato da ognuno di essi e di considerarli veramente per ciò che rappresentano. Indubbiamente i piccoli delinquenti ci fanno più paura dei malavitosi. Solo di rado ci capita di dover in­ contrare questi ultimi nella vita di tutti i giorni, e tali incontri av­

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vengono sempre in un posto di polizia o alla centrale investigati­ va, dove ci presentiamo in qualità di testimoni o di parti lese. 11 teppista è una minaccia molto piu reale - uno spauracchio ubria­ co, lo stupratore alla Cubarov che ti vedi venire incontro sul via­ le, al circolo, oppure nel corridoio dell’appartamento di coabita­ zione. La naturale propensione dei Russi a fare i bravacci - le lo­ ro sbronze alle feste «patronali», le risse di ubriachi, le molestie alle donne, le imprecazioni oscene - sono tutte cose che conoscia­ mo bene e che ci sembrano molto piu temibili di quel misterioso mondo della malavita del quale abbiamo, per colpa della lettera­ tura, un’idea estremamente confusa. Gli addetti della polizia cri­ minale sono gli unici in grado di valutare come meritano teppisti e criminali di professione; ma se guardiamo l’opera di Lev Sejnin vediamo che la competenza non sempre viene impiegata nel mo­ do piu giusto. Noi non sappiamo cos’è veramente un ladro di professione, un urka, un malavitoso, un recidivo. E cosi pensiamo che uno che ar­ raffa il bucato appeso fuori dalla dacia e va subito a berselo al buf­ fet della stazione sia chissà quale importante «scassinatore». Non ci viene il sospetto che un uomo possa rubare, e non per questo essere un ladro affiliato alla malavita. Non capiamo che un uomo può ammazzare e rapinare senza far parte del «mondo del crimine». Certo, il malavitoso ruba. Vive di questo. Ma non tut­ ti quelli che rubano sono malavitosi, ed è assolutamente indi­ spensabile rendersi conto della differenza. Il mondo criminale ha un’esistenza tutta sua accanto ad altre forme di criminalità, accantp alla microdelinquenza. E vero che alla vittima interessa poco chi sia stato a svaligiar­ lo del servizio di cucchiai d’argento o del vestito buono - se un malavitoso, un topo d ’appartamenti non malavitoso, oppure il vi­ cino di casa che non aveva mai rubato in vita sua. Ci pensi la po­ lizia a sbrogliare la faccenda, cosi ragiona. Ci fanno piu paura i piccoli delinquenti che non i malavitosi. E chiaro che nessuna « milizia popolare» potrà mai risolvere il pro­ blema della criminalità organizzata, della quale purtroppo abbia­ mo un’idea totalmente falsa. Talvolta ci si immagina che quei mi­ steriosi criminali vivano nella piu rigorosa clandestinità, celando­ si sotto falso nome. Svaligiano solo negozi e sportelli. Questi «Cascarilla» non si porterebbero mai via il bucato appeso ad asciu­ gare; ad ogni buon conto il benpensante è anche disposto ad aiu­ tare quelle «nobili canaglie» - li nasconde talvolta dalla polizia, vuoi per romantico impulso, vuoi per «fifa», ed è piu frequente.

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Il piccolo delinquente mette piu paura. E più quotidiano, com­ prensibile, vicino. Spaventoso. E cerchiamo di salvarcene rivol­ gendoci alla polizia o alle milizie popolari. Comunque, il piccolo delinquente, qualsiasi piccolo delin­ quente, è ancora ai limiti dell’umano. Il ladro-malavitoso si trova al di fuori dalla morale umana. Qualsiasi assassino, qualsiasi teppista, non è niente a confron­ to del malavitoso. Questi è anche assassino e teppista ma con un qualcosa in più che quasi non ha nome nella lingua degli uomini. Gli addetti del sistema carcerario e della polizia criminale non sono molto propensi a rendere di pubblico dominio le proprie im­ portanti esperienze. Abbiamo migliaia di mediocri romanzi poli­ zieschi. Ma non abbiamo una sola opera seria e coscienziosa sul mondo criminale scritta da qualcuno che per ufficio abbia lottato contro di esso. Eppure è un gruppo sociale - sarebbe più esatto dire «antiso­ ciale» - dotato di una sua stabilità. Esso inocula il proprio veleno nella vita dei nostri figli, combatte la nostra società riportando qualche successo perché si vede trattare con troppa fiducia e in­ genuità mentre usa armi affatto diverse - quelle dell’infamia, del­ la menzogna, del tradimento e dell’inganno - e vive la sua vita, in­ finocchiando, una dopo l’altra, le autorità preposte. Più il funzio­ nario è di grado elevato, piu è facile infinocchiarlo. Gli stessi malavitosi hanno una pessima opinione dei teppisti. «M a non è un ladro, è soltanto un teppista! » «è un’azione da tep­ pista, indegna di un ladro» - considerazioni del genere, il cui aspet­ to fonetico è impossibile da rendere, sono correnti in quel mon­ do. Gli esempi di questa ipocrisia malavitosa si incontrano a ogni piè sospinto. Il b latar 'ci tiene a distinguersi dai piccoli delinquenti, a collocarsi molto più in alto e insiste perché anche il benpensan­ te stabilisca una distinzione. Anche l’educazione del giovane malavitoso è orientata in que­ sto senso. Un ladro che si rispetti non deve essere un teppistello, e l’immagine del «ladro-gentiluomo», oltre che testimonianza dei «romanzi» ascoltati9, è «credo» ufficiale e simbolo della loro fe­ de. In questa immagine c’è anche una certa nostalgia di un ideale irraggiungibile. Per questo motivo « l’eleganza» e la «mondanità» degli atteggiamenti sono molto apprezzate in quel mondo sotter­ raneo. Di qui ha origine anche l’apparizione e il radicamento nel 9 Si veda, qui, il racconto a p. 839, dedicato ai «romanzieri» del lager.

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lessico malavitoso di espressioni come «il mondo del crimine», «frequentare», «désina con lui» - che non hanno niente di enfa­ tico o ironico. Sono termini dal senso ben preciso, espressioni idio­ matiche della lingua. Nelle «sure» della malavita è detto che il ladro non deve esse­ re un teppista Un sobrio vestito di taglio inglese, un fiore all’occhiello del paltò e alle sette e trenta, tal giorno, tal mese, lasciò la capitale e se ne andò.

Questo è l’ideale, il ritratto classico del mago delle casseforti malavitoso, del «ladro gentiluomo», in una parola del Cascarilla del film II processo dei tre m ilion i 10. Le azioni teppistiche sono troppo pure e innocenti per un ma­ lavitoso. Loro si divertono in altro modo. Ammazzare uno, sven­ trarlo, tirarne fuori gli intestini e con quelli strangolare un’altra vittima, ecco, questo è nel loro stile, e cose del genere si sono vi­ ste. Nei lager capitava spesso che ammazzassero qualche capora­ le, ma segare il collo a un uomo da vivo con una sega a due mani­ ci - un’idea tanto macabra poteva concepirla solo il cervello di un malavitoso, non quello di un essere umano. Il teppismo piu sfrenato appare un innocente gioco infantile a confronto degli abituali svaghi dei malavitosi. I blatari possono gozzovigliare e ubriacarsi e far cagnara tra di loro, in «famiglia», nel loro covo - senza creare troppo scompi­ glio, mostrando ciò di cui sono capaci solo ai loro compagni e agli adoranti neofiti la cui affiliazione all’«ordine» malavitoso è sol­ tanto questione di giorni. La piccola delinquenza, i furti occasionali costituiscono la pe­ riferia del mondo malavitoso, la zona di frontiera in cui la società incontra il proprio antipode. II reclutamento dei giovani o dei nuovi ladri riguarda raramente i piccoli delinquenti. A meno che qualcuno di loro non rinunci al­ le piazzate e, magari «bruciato» dalla prigione, passi nelle fila del mondo malavitoso dove comunque non avrà mai un ruolo impor­ tante in campo ideologico o nell’elaborazione delle leggi. I ladri «di carriera» sono i ladri ereditari o quelli che hanno se­ guito l’intero corso di scienze del crimine fin da quando erano pic­ coli - sono andati a prendere vodka e sigarette per gli «anziani», 10 II film P rocess o trëch m illio n a ch (1926) è del regista Jakov Protazanov (1881-1945) uno dei fondatori dell’arte cinematografica in Russia.

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hanno «montato la guardia» o «fatto il palo», si sono infilati at­ traverso la finestrella di aerazione per aprire la porta agli svaligia­ tori - si sono temprati il carattere in prigione, prima di organiz­ zare dei «colpi» autonomamente. Il mondo della malavita è nemico del potere, di qualsiasi pote­ re. E i blatari, almeno quelli che «hanno delle idee», lo capiscono. Non ritengono affatto che i tempi eroici dei «veterani» e dei «ga­ leotti» siano soffusi di gloria. «Veterani» è un soprannome che in­ dica i detenuti dei «battaglioni di prigionieri» dello zar. «Galeot­ ti» sono coloro che hanno fatto l’esperienza del bagno penale, la katorga zarista - a Sachalin, a Kolesucha. Alla Kolyma si è soliti chiamare le province centrali «continente», benché la Cukotka non sia certo un’isola, ma una penisola. Questo continente è en­ trato nella letteratura, nel linguaggio giornalistico, nei documenti e nella corrispondenza ufficiale, Questo termine-immagine è nato anch’esso nel mondo dei malavitosi - il collegamento via mare, la linea marittima Vladivostok-Magadan, lo sbarco su rocce deserte - era tutto molto simile ai quadri della Sachalin del passato. Fu co­ si che la denominazione di continente si radicò a est di Vladivo­ stok, e questo benché la Kolyma stessa non fosse mai stata chia­ mata «isola». Il mondo della malavita è il mondo del presente, di un presen­ te molto reale. I suoi adepti si rendono perfettamente conto che il leggendario Gorbačevskij della canzone « Il tuono ha tuonato che Gorbaceyskij è fregato» non è un eroe piu grande di un qualsiasi Vanita Cibis della miniera li vicino. L ’estero non attira affatto i malavitosi piu scaltriti, quelli che ci sono stati durante la guerra non ne dicono granché bene, spe­ cialmente della Germania - a causa dell’eccezionale severità delle pene per furto e assassinio. In Francia già si respira un po’, ma neanche li hanno molto successo le teorie sulla rieducazione, e per i ladri è dura. Le condizioni di casa nostra appaiono loro relativa­ mente piu propizie, con tutta quella fiducia che profondiamo a pie­ ne mani e le innumerevoli, ricorrenti campagne di rieducazione. È da annoverare tra le «leggende che si vanno creando» della malavita anche quella spacconata per la quale un «vero urka» gi­ ra alla larga dalla prigione e la maledice. Perché la prigione è solo una triste e inevitabile conseguenza della professione di ladro. An­ che questa è civetteria, affettazione. Ed è falso, come tutto ciò che esce dalla loro bocca. Il topo d ’appartamento Juzik Zagorskij (detto il Polacco), fa-

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cendo un sacco di smorfie e moine, si vantava di aver passato in prigione solo otto anni sui venti della sua carriera ladronesca. Ci voleva far credere che dopo un colpo fortunato lui non beveva e non andava a far baldoria. Lui, pensate un po’, frequentava l’o­ pera, aveva anche un abbonamento, e si rimetteva a rubare solo quando gli finivano i soldi. Proprio come nella canzone: L ’ho conosciuta nel parco ad un concerto, vero prodigio in terra di beltà. Ma i soldi come neve son spariti, e devo ritornare sui miei passi e tuffarmi di nuovo a capofitto nella cupa e feroce Leningrado.

Quell’amante della lirica non riusciva però a citare un solo ti­ tolo delle opere ascoltate con tanta passione. Juzik aveva chiaramente sbagliato registro" - e la conversa­ zione firn li. Il suo gusto per l’opera l’aveva sicuramente attinto ai «romanzi», piu volte ascoltati durante le serate dietro le sbarre. Ma anche riguardo agli anni di prigione Juzik aveva voluto si­ curamente farsi bello con la frase sentita da un altro, un qualche b la ta r' 'çivâ importante. I malavitosi dicono che al momento del furto essi provano un’e­ mozione particolare, una vibrazione dei nervi che apparenta l’at­ to del rubare all’atto creativo, all’ispirazione, - per cui vengono a trovarsi in un particolare stato psicologico di agitazione nervosa ed esaltazione tutta speciale che quanto ad attrattiva, pienezza, profondità e forza non hanno eguali. Dicono che nell’attimo del furto il ladro provi una sensazione incomparabilmente piu intensa di quella del giocatore al tappeto verde, - che è nel nostro caso un cuscino, il tavolino da gioco tra­ dizionale del mondo malavitoso. «Infili la mano cercando la tasca, - racconta un borsaiolo, - e hai il cuore che ti batte all’impazzata... mentre tiri fuori quel ma­ ledetto portafogli, dove magari ci sono solo due rubli, ti sembra di morire e resuscitare mille volte». Ci sono furti assolutamente privi di rischi, ma l’emozione «creativa», 1’« ispirazione» ladresca sono egualmente palesi. La sensazione del rischio, dell’azzardo, della vita. I ladri non si curano minimamente di coloro che derubano. Nei1

11 II modo di dire russo qui usato, indicante qualcosa che non c’entra niente con un dato discorso, è assai pertinente; si dice infatti v z ja t ' n o tu n e iz to j op ery, letteralmente «prendere la nota da un’altra opera».

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lager rubano talvolta degli stracci assolutamente inutili, unica­ mente per il gusto di farlo, per provare una volta di più la «subli­ me malattia»12del furto. Li chiamano «contagiati». Ma in lager gli adepti dell’«arte per l’arte» sono rari. La maggior parte, al furto con destrezza preferisce l’appropriazione con la forza, la ruberia aperta e sfrontata quando le vittime, davanti a tutti, vengono de­ predate dei loro averi: giacca, sciarpa, zucchero, burro, tabacco tutto ciò che si mangia e tutto ciò che può fungere da denaro nel­ le partite alle carte. Un ladro «ferroviario» raccontava l’emozione che provava aprendo una «quadrangola» (una valigia). «Non forziamo mai la serratura, - diceva, - un bel colpo del coperchio contro una pie­ tra e si apre da sola». Questa «ispirazione» ladresca è ben lontana dal semplice co­ raggio umano. Il coraggio qui non c’entra. Si tratta di impudenza allo stato puro, un’impudenza senza limiti che può essere argina­ ta solo opponendole rigide barriere. L ’attività del ladro non comporta sollecitazioni psicologiche d’altro genere, come i dubbi di coscienza. Le carte da gioco occupano un posto importante nella vita dei malavitosi. Non tutti i malavitosi giocano alle carte con accanimento, «co­ me dei malati», perdendo nella battaglia anche l’ultimo paio di cal­ zoni. Perdere tutto in questo modo non è comunque considerato disonorevole. Però sanno tutti giocare. E non potrebbe essere altrimenti. Sa­ pere giocare alle carte rientra nel «codice cavalleresco» di un «ve­ ro uomo» della malavita. I giochi d’azzardo che ogni malavitoso è tenuto a conoscere e che impara fin dall’infanzia non sono molti. I giovani ladri si esercitano in continuazione - sia nel fabbricare le carte che nell’arte del «rilancio della posta» in gioco. Tra l’altro questa espressione del gioco d ’azzardo che significa aumentare la puntata, è stata da Cechov trascritta nel suo L ’ isola di Sachalin come «riporto della posta» presentandola come tipica espressione dei criminali nelle partite a carte. E cosi questo erro­ re si ripete in tutte le edizioni dell 'Isola di Sachalin, comprese quel­ le accademiche. Il mondo dei malavitosi è un mondo retrivo nel quale la forza 12 In russo v y so k a ja b o le z n '; è il titolo di un poema di Pasternak pubblicato nel 19241928; la «sublime malattia» del poeta è quella di g o s t it 'v o vsech tnirach, di essere «ospite di tutti i mondi».

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delle tradizioni si fa molto sentire. Per questo vi si sono mante­ nuti dei giochi da tempo scomparsi dalla vita normale. Il gogoliano consigliere di Stato di IV classe Stoss13 nel mondo malavitoso è tuttora una realtà. Il gioco secolare dello štoss ha ricevuto il no­ me, piu agile dal punto di vista lessicale, di stos. In un racconto di Kaverin dei giovani vagabondi cantano una celebre romanza cam­ biando le parole secondo il loro gusto e intendimento: «La rosa ne­ ra, emblema di tristezza... » Ogni malavitoso deve saper giocare a stos, far frusciare le car­ te, come Hermann o Cekalinskij14. Il secondo gioco - ma primo come diffusione - è la bura, così i malavitosi chiamano il «trentuno». Simile all’ocAo, il «ventuno», la bura è rimasta un gioco dei malavitosi. A ocko invece tra di lo­ ro non giocano. Il terzo, il più complicato, nel quale si prende nota dei punti, è il terc, una variante del «cinquecentoeuno». Ci giocano i virtuosi, comunque gli «anziani», l’aristocrazia del mondo malavitoso, i piu istruiti. Tutti i giochi di carte dei malavitosi si distinguono per l’ecce­ zionale quantità di regole. Bisogna ricordarsele tutte e vince chi le ricorda meglio. Le partite sono sempre dei duelli. I malavitosi non giocano mai in molti, ma uno contro uno, separati dal tradizionale cuscino. Quando uno ha perduto, qualcun altro si siede in faccia al vin­ citore e finché si ha qualcosa da puntare la battaglia continua. In base alle regole, regole non scritte, chi sta vincendo non può interrompere il gioco, finché dall’altra parte c’è qualcosa con cui «rispondere» - pantaloni, maglione, giacca. Normalmente si defi­ nisce di comune accordo il valore dell’indumento «puntato» ed es­ so viene giocato come una posta in denaro. Tutti i calcoli vanno tenuti a mente e bisogna sapersi difendere - stando attenti a non pagare piu del dovuto, a non farsi imbrogliare. Imbrogliare al gioco è un titolo di merito. L ’avversario deve accorgersene e smascherare l’imbroglio, assicurandosi in tal modo la «bella». Tutti i malavitosi sono bari - ma così dev’essere - è all’avver­ sario che compete confonderlo, prenderlo in castagna, provare che ha barato... Ed è proprio per questo che si mettono a giocare, per 13 Štoss è invece il protagonista di un racconto di Lermontov. 14 Personaggi del racconto di Puškin, L a d am a d i p icch e (1833), sono entrambi accani­ ti giocatori.

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imbrogliarsi a vicenda, ognuno attuando i propri metodi truffal­ dini sotto il controllo dell’altro. Un duello «alle carte» - se ha luogo in un posto sicuro - è un flusso ininterrotto di reciproci insulti e imprecazioni oscene; la partita si svolge con l’accompagnamento di questi scambi di in­ giurie. I vecchi blatari sostengono che quando si giocava a carte ai loro tempi non ci si insultava in quel modo cosi turpe e osceno. I vecchi caporioni scuotono la testa e sussurrano: «O tempora! O mores ! » I modi dei malavitosi peggiorano di anno in anno. In prigione e in lager le carte vengono approntate a velocità fantastica poiché il meccanismo della loro fabbricazione è stato messo a punto dall’esperienza di intere generazioni di ladri e la so­ luzione adottata è quella più semplice e razionale possibile. Ci vuo­ le della colla di farina - cioè del pane, la razione che è sempre a portata di mano e che può essere masticata fino alla consistenza di una pasta collosa. Ci vuole della carta - può andar bene sia un gior­ nale che della carta da imballaggio, un opuscolo o un libro. Ci vuo­ le un coltello - ma c’è una cella, o un lager di transito dove non si possa trovare ? E infine - ed è la cosa piu importante - ci vuole una matita co­ piativa per colorare le carte - ed è per questo che i malavitosi ten­ gono cosi da conto le mine di matite copiative e cercano di sot­ trarle a tutte le perquisizioni. Questi frammenti di matita copia­ tiva hanno un duplice impiego. Quando ci si trova in una si­ tuazione critica possono essere sbriciolati e messi negli occhi - ob­ bligando cosi l’infermiere o il medico a mandarvi all’ospedale. Suc­ cede alle volte che l’ospedale sia per il malavitoso l’unica via di scampo in circostanze difficili che possono volgere al peggio. Se l’intervento medico tarda, la cosa si risolve egualmente in un di­ sastro. Molti malavitosi sono diventati ciechi in seguito a questa operazione temeraria. Ma molti altri hanno invece evitato il peri­ colo e sono poi guariti. Questo è il ruolo di «soccorso» della ma­ tita copiativa. I giovani «capetti» ritengono che queste matite copiative pos­ sano essere utilizzate per preparare timbri, bolli, documenti. Que­ sto impiego è estremamente raro, e comunque per fabbricare do­ cumenti falsi ci vuole ben altro. Lo scopo principale per il quale vengono reperite e nascoste le matite copiative, molto piu apprezzate di quelle di grafite, è l’uti­ lizzo per l’inchiostratura, la «stampa» delle carte da gioco. Come prima cosa si prepara una sagoma traforata, la trafaretka. Non è un termine della malavita, ma ha comunque un largo im­

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piego nel linguaggio carcerario. Vengono perforati i disegni dei se­ mi - le carte dei malavitosi non hanno rouge e noir, tutti i semi so­ no dello stesso colore. Il fante ha un disegno doppio, perché, co­ me universalmente convenuto, vale due punti. La donna tre dise­ gni in un unico motivo. Il re, quattro. L ’asso diversi motivi intrecciati al centro della carta. Il sette, l’otto, il nove e il dieci mantengono la loro configurazione solita, che è quella dei mazzi di carte venduti dai monopoli di Stato. Il pane masticato viene filtrato attraverso un pezzo di stoffa e l’eccellente colla di farina cosi ottenuta serve a incollare insieme due fogli di carta sottile che si fanno poi asciugare e dai quali si ri­ tagliano con un coltello affilato le carte da utilizzare. La matita co­ piativa viene avvolta in uno straccio umido e la macchina da stam­ pa è pronta. La sagoma, sovrapposta alla carta e tamponata con l’inchiostro violetto, lascia l’impronta voluta sulla parte anteriore della carta. Se la carta è già spessa, come nelle edizioni «Accademia», si può procedere direttamente al taglio e alla «stampa» delle carte. Per la fabbricazione di un mazzo di carte (compresa l’asciuga­ tura) ci vogliono due ore circa. E questo il metodo pili razionale di fabbricazione delle carte da gioco, un metodo suggerito da un’esperienza secolare. La ri­ cetta può essere applicata in qualsiasi circostanza ed è alla porta­ ta di chiunque. Nel corso delle perquisizioni nonché durante il controllo dei pacchi da casa, le matite copiative vengono scrupolosamente re­ quisite dalle guardie. Ci sono al riguardo rigide disposizioni. Si racconta che i malavitosi si giochino alle carte delle ragazze «libere» - c’è qualcosa del genere negli A ristocratici di Pogodin. Ma penso sia una delle tante «leggende che si vanno creando». Non mi è mai capitato di vedere scene di questo genere, che ri­ chiamano L a tesoriera di Tam bov di Lermontov15. E si dice anche che siano capaci di giocarsi e perdere il paltò quando è ancora indosso al suo proprietario, un «fesso» che si tro­ va li per caso. Personalmente non ho avuto occasione di imbat­ termi neppure in una situazione di questo tipo, che del resto non ha niente di inverosimile. Penso comunque che in questo caso la perdita riguardi una puntata «sulla parola», quando occorre tro­ 15 L a tesoriera di T a m b o v è un poema di Lermontov del 1838, nel quale il marito (il te­ soriere) perde la moglie giocando a carte.

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vare o rubare un paltò o qualcosa di equivalente valore entro un dato termine. Può succedere che nel corso di una partita arrivi un momento, dopo due o tre giorni di gioco, in cui la fortuna comincia a pen­ dere tutta da una parte. Non c’è piu niente da puntare, il gioco sta per finire. Montagne di maglioni, pantaloni, sciarpe e cuscini si in­ nalzano alle spalle di quello che sta vincendo. E il perdente im­ plora: «Lascia che ci riprovi, dammi ancora una carta, dammela a credito, “sulla parola” ». E se il cuore del vincitore è magnanimo, egli acconsente, e il gioco continua, con un partner che si è impe­ gnato sulla parola. Può vincere, se la fortuna torna dalla sua par­ te può recuperare uno dopo l’altro tutti gli indumenti, può risor­ gere e diventare lui il vincitore... Ma può anche perdere. «Sulla parola» si gioca una volta sola, la posta convenuta non cambia e il termine di riscossione del credito non ammette dila­ zioni. Se il capo di vestiario o il denaro non vengono consegnati en­ tro il termine, il debitore viene dichiarato «insolvente» e non gli resta altra strada che il suicidio o l’evasione dalla cella, dal lager, a casa del diavolo - deve pagare entro il termine il debito di gio­ co, un debito d’onore! E a questo punto che entrano in scena quei paltò altrui, anco­ ra caldi del calore corporeo dei fraera. Che fare! L ’onore, o piut­ tosto, la vita di un ladro vale molto di piu del paltò di un «fesso». Delle sordide esigenze morali di quella gente, delle loro carat­ teristiche e portata, abbiamo già parlato. Sono esigenze molto par­ ticolari, e lontanissime da tutto ciò che vi è di umano. Esiste anche un altro punto di vista sul comportamento dei ma­ lavitosi. Sarebbero dei malati mentali e di conseguenza, in qual­ che modo, degli irresponsabili. È un fatto che i malavitosi sono sempre e ovunque una massa di isterici e nevrastenici. Il famige­ rato «estro» malavitoso, la propensione a «dar fuori di matto» sono indicativi di un sistema nervoso scosso. Tra i ladri i soggetti pletorici e flemmatici sono rarissimi, anche se capita di incontrar­ ne. Il famoso borseggiatore Karlov, soprannominato « L ’appalta­ tore» (fini anche sulla «Pravda», negli anni Trenta, quando si fe­ ce prendere alla stazione moscovita di Kazan') era un omone gras­ so, rubicondo, con una gran pancia e un carattere allegro. Ma è un’eccezione. Ci sono degli studiosi di medicina i quali ritengono che ogni as­ sassinio sia frutto di una psicosi.

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S e i m a la v ito si so n o d e i m a la ti m e n ta li v a n n o rin c h iu si p e r se m ­ p re in m a n ic o m io .

Noi riteniamo invece che quello dei criminali sia un particola­ re mondo di uomini che hanno smesso di essere uomini. Q u e s t o m o n d o è se m p re e s is t it o e c o n tin u a a e s is te r e an c h e ai n o str i g io rn i, c o rro m p e n d o la n o str a g io v e n tù e c o n ta m in a n d o la c o n il su o r e sp ir o .

L ’intera psicologia della malavita si fonda sull’antica certezza, verificata nei secoli dai malavitosi, che la loro vittima non potrà mai fare - e neppure sognarsi di fare - niente di tutto ciò che es­ si invece compiono con piacere, a cuor leggero e con l’animo tran­ quillo, ogni giorno e ogni ora. La loro forza consiste in questo - in una tracotanza senza limiti, nell’assenza di qualsiasi morale. Per il b la ta r 'niente è mai «troppo». Anche se in base alla sua stessa «leg­ ge» il ladro non può considerare glorioso e onorevole lo scrivere delazioni contro i «fessi», la cosa non gli impedirà, se può rica­ varne qualche vantaggio, di delineare il profilo politico di uno dei suoi vicini non malavitosi e di consegnarlo alle autorità. E un fat­ to noto che, a cominciare dal 1938 e fino al 1953, le autorità concentrazionarie sono state letteralmente sommerse da migliaia di visite di malavitosi i quali si presentavano dichiarando che in quan­ to sinceri amici del popolo si sentivano in obbligo di denunciare i «fascisti» e «controrivoluzionari». Queste denunce hanno avuto un carattere di massa poiché nei lager i detenuti provenienti dall’intelligencija, gli «Ivan Ivanovic», sono sempre stati fatti ogget­ to di uno speciale, persistente odio da parte dei ladri. Ci fu un tempo in cui i borsaioli costituivano la parte più qua­ lificata della malavita. I maestri del furto con destrezza seguivano perfino una sorta di formazione professionale, imparavano le tec­ niche del mestiere e andavano orgogliosi della propria preparazio­ ne in un ambito tanto specifico. Intraprendevano lunghi viaggi e dall’inizio alla fine di queste loro «tournées» restavano sempre fe­ deli alla propria specialità, non lasciandosi tentare da «scassi» o truffe. La mitezza delle pene per il reato di borseggio e la como­ dità del bottino - moneta sonante - sono le due ragioni che han­ no in passato invogliato i ladri a dedicarsi a questa attività. Anche la capacità di darsi un contegno in qualsiasi ambiente sociale per passare inosservati era una delle qualità essenziali dei maestri del furto con destrezza. A h im è , la p o litic a m o n e ta r ia h a r id o tto gli « i n t r o i t i » d e i b o r ­

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saioli a proventi da fame, tenuto conto anche dei rischi e della re­ sponsabilità. Un volgare furto di biancheria dalla corda dov’è ap­ pesa ha finito per diventare piu «redditizio e attraente» - ren­ dendo meglio di quanto si può trovare nel portafoglio sgraffigna­ to su di un autobus o un tram. I borsaioli hanno cambiato specializzazione andando a ingros­ sare i ranghi degli scassinatori. E tuttavia il «sangue di furfante» non è sinonimo di «sangue blu». Perfino un non malavitoso può avere una goccia di questo «sangue di furfante», se condivide certe convinzioni della mala­ vita, ne fiancheggia gli «uomini» e mostra di comprendere la loro legge. «Una goccia di sangue di furfante» può averla perfino un in­ quirente se comprende l’anima del mondo malavitoso e nutre nei suoi riguardi qualche segreta simpatia. Perfino (e non è un caso ra­ ro) il capo di un lager, se permette loro rilevanti deroghe alla di­ sciplina senza aver ricevuto «mance» né essere stato minacciato. Tutte le «cagne» hanno «una goccia di sangue di furfante» - non per niente hanno fatto parte di quel mondo. Le persone con una goccia di quel sangue possono aiutare il ladro ed egli deve tenerlo presente. Anche tutti quelli che hanno «chiuso», hanno lasciato la malavita e hanno smesso di rubare, tornando a un lavoro one­ sto, conservano un po’ di quel sangue. Ci sono anche loro, non so­ no «cagne», e non ispirano alcun sentimento d ’odio. All’occasio­ ne, in un momento difficile, possono perfino dare una mano - se il loro «sangue di furfante» si fa sentire. Basisti, ricettatori, tenutari dei bordelli della malavita hanno sicuramente «sangue di furfante» nelle vene. Tutti i non malavitosi che, in un modo o nell’altro, hanno aiu­ tato uno di loro possiedono, come dicono i ladri stessi, una «goc­ cia di sangue uguale al loro». E questo l’elogio, condiscendente e ignobile che i malavitosi dispensano a tutti quelli che manifestano una qualche simpatia per la «legge» della malavita, a tutti quelli che essi ingannano sdebi­ tandosi con questa piaggeria dozzinale.

1959. Z u l'n ib e sk a ja k r o v ', in «Don», 1989, n. 1.

La donna nel mondo della malavita

Aglaja Demidova era stata ricoverata in ospedale con dei do­ cumenti falsi. Non che avessero falsificato il suo «fascicolo perso­ nale», quella che era la sua carta d’identità di detenuta. No, sot­ to questo aspetto era tutto in ordine - tranne che il fascicolo sta­ va in una cartellina gialla nuova di zecca - a riprova del fatto che la sua condanna era stata appena prolungata. Aglaja Demidova era arrivata con lo stesso nome che portava due anni prima. Niente era cambiato nei suoi «dati di base», tranne la durata della pena. Venticinque anni, mentre due anni prima la cartellina del suo fa­ scicolo personale era blu e la pena di dieci anni. Ai numeri a due cifre, registrati a inchiostro nella colonna « ar­ ticolo», si era aggiunto un altro numero, a tre cifre. Ma tutto que­ sto era assolutamente autentico e degno di fede, A essere stati fal­ sificati erano i suoi documenti medici - la copia della cartella cli­ nica, la prognosi, le analisi di laboratorio. E falsificati da persone che rivestivano incarichi ufficiali, i quali disponevano di bolli e timbri e di un certo nome - non importa se buono o cattivo. Il ca­ po della sezione sanitaria del giacimento aveva impiegato delle ore per mettere insieme una falsa cartella clinica, per redigere con au­ tentica ispirazione di artista un documento medico fasullo. La diagnosi di tubercolosi polmonare sembrava la conseguen­ za logica delle ingegnose note giornaliere. Una spessa cartelletta di fogli delle temperature e diagrammi con le tipiche curve della tubercolosi, formulari fittamente riempiti di tutte le possibili ana­ lisi di laboratorio, dai valori allarmanti. Per un medico, un lavoro del genere è simile a una prova scritta d’esame, per la quale sia ri­ chiesta la descrizione del processo della tubercolosi che si svilup­ pa in un organismo - fino al livello in cui si rende necessaria co­ me unica soluzione il ricovero d’urgenza. Un lavoro del genere può essere anche fatto per puro spirito sportivo - per dimostrare all’Ospedale centrale che neanche li al giacimento siamo nati ieri. Fa semplicemente piacere ricordarsi per

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filo e per segno le cose studiate a suo tempo all’istituto. Certo, non potevi immaginare che un giorno avresti avuto occasione di appli­ care le tue conoscenze in maniera cosi singolare, «creativa». La cosa piu importante era far ricoverare Demidova a tutti i costi. E l’ospedale non poteva, non aveva il diritto di respingere una malata come quella, neanche se i medici avessero avuto mille sospetti. E i sospetti c’erano stati, e immediati, e mentre la questione della sua ammissione veniva discussa nelle «alte sfere» locali, lei se ne stava seduta da sola nella vasta sala dell’accettazione. Era «sola» soltanto nel senso «chestertoniano» della parola. L ’infer­ miere e gli inservienti dell’accettazione evidentemente non con­ tavano. Non piu dei due soldati di scorta che non si allontanava­ no di un passo da lei. Il terzo soldato vagava con i suoi documen­ ti per i labirinti amministrativi dell’ospedale. Demidova non si era neppure tolta il berretto e aveva solo slac­ ciato il colletto del pellicciotto di montone. Fumava senza fretta una sigaretta dopo l’altra gettando i mozziconi in una sputacchie­ ra di legno colma di segatura. Camminava avanti e indietro per la sala dell’accettazione, an­ dando dalla porta alle finestre a tre luci munite di sbarre e i sol­ dati, seguendone i movimenti, si affrettavano dietro di lei. Quando il medico di guardia tornò con il terzo soldato di scor­ ta, si era già fatto buio, rapidamente, come avviene al Nord, e si dovette accendere la luce. - Non mi prendono? - chiese Demidova al soldato. - No, - disse quello con aria accigliata. - Lo sapevo che non mi avrebbero presa. E tutta colpa di Kroška. Ha infilzato la dottoressa e si vendicano su di me. - Nessuno si vendica su di te, - disse il dottore. - Lo so io. Demidova usci, seguita dai soldati, si senti sbattere la porta d’ingresso e il rombo del motore di un camion. Nello stesso istante una porta interna si apri senza rumore e il direttore dell’ospedale entrò nella sala con tutto un codazzo di uf­ ficiali della sezione speciale. - Allora dov’è? Quella Demidova? - L ’han già portata via, compagno capo. - Peccato, peccato, volevo proprio darle un’occhiata. Sempre lei, Pëtr Ivanovič, con le sue storielle... - E usci dall’accettazione insieme al seguito. Il direttore avrebbe voluto dare almeno una rapida occhiata

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alla famosa ladra, - in effetti la sua storia non era di quelle ba­ nali. Sei mesi prima la ladra Aglaja Demidova, condannata a dieci anni per l’assassinio di un’addetta alla ripartizione - aveva stran­ golato con un asciugamano quella narjadbica troppo attiva - stava rientrando sotto scorta dal tribunale al giacimento dove lavorava. La scorta era costituita da un solo soldato perché non erano pre­ visti pernottamenti - solo alcune ore di autocarro per andare dal­ la cittadina della direzione, dove era stata processata, fino al gia­ cimento di provenienza. Nell’Estremo Nord, spazio e tempo so­ no dimensioni affini. Spesso lo spazio viene misurato in termini di tempo - come fanno i nomadi jakuti - da una montagna all’al­ tra, sei giornate di cammino. Tutti quelli che vivono vicino all’ar­ teria principale, la grande rotabile, misurano le distanze in tratte automobilistiche. Il soldato di scorta di Demidova era un giovane «veterano», un raffermato abituato da molto tempo alle licenze di quel pecu­ liare servizio nel quale la guardia è signore e padrone del destino dei detenuti. Non era la prima volta che accompagnava una don­ na - e viaggi del genere promettevano sempre determinati svaghi, quali non toccano molto frequentemente a un «fuciliere» sempli­ ce dell’Estremo Nord. Avevano pranzato tutti e tre assieme - il soldato, l’autista e Demidova - in una mensa lungo la rotabile. Per farsi animo il sol­ dato aveva bevuto dell’alcol (nel Nord solo i capi importanti be­ vono vodka) e aveva portato Demidova tra i cespugli. Salici, vin­ chi e tremoli crescevano in folte macchie attorno a qualsiasi pun­ to abitato della tajga. Nei cespugli il soldato posò per terra il mitra e si avvicinò a De­ midova. Questa si divincolò, afferrò il mitra e con due raffiche in­ crociate ficcò nove pallottole nel corpo di quel lascivo. Gettata l’arma tra i cespugli tornò alla mensa e sali sul primo automezzo che passava. L ’autista rimasto alla mensa dette l’allarme, il corpo del soldato e il mitra vennero presto ritrovati e la stessa Demido­ va fu arrestata di li a due giorni ad alcune centinaia di chilometri di distanza dal posto della sua storia d ’amore con il soldato. La processarono di nuovo e le dettero venticinque anni. Neanche pri­ ma voleva lavorare, viveva derubando le vicine di baracca, e la di­ rezione del giacimento aveva deciso di sbarazzarsi a qualsiasi co­ sto della malavitosa. La speranza era che dopo l’ospedale non l’a­ vrebbero rimandata al giacimento ma in qualche altro posto. Demidova era specializzata in furti nei negozi e furti d’appar-

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tamento, una gorodušnica, una « svaligiatrice di negozi» secondo la terminologia dei criminali. La malavita conosce due categorie di donne - le ladre vere e proprie, il cui mestiere è rubare, e le prostitute, che fanno com­ pagnia ai ladri. Il primo gruppo è considerevolmente meno numeroso del se­ condo e nel giro degli urkact - i quali considerano le donne degli esseri inferiori - gode di un certo rispetto, visto che non si può fa­ re a meno di riconoscerne i meriti e le qualità pratiche. La ladra di solito è compagna di un ladro (qui le parole «ladro» e «ladra» vengono sempre usate nel senso di affiliato all’ordine clandestino dei malavitosi), e partecipa all’elaborazione dei piani dei furti e al­ la loro esecuzione. Ma non prende parte ai «tribunali d’onore», riservati agli uomini. Sono regole dettate dalla vita stessa dei luo­ ghi di detenzione, uomini e donne sono separati e questa circo­ stanza ha determinato certe differenze nel modo di vivere, nelle abitudini e regole dei due sessi. Le donne sono comunque meno dure degli uomini, i loro «tribunali» non cosi sanguinari, né le lo­ ro condanne tanto crudeli. Da loro gli assassini! sono piu rari che nella metà maschile della casa comune malavitosa. E del tutto escluso che una ladra possa «vivere» con un non malavitoso. Le prostitute sono il secondo, e piu consistente, gruppo di don­ ne legate al mondo della malavita. È li che il ladro trova l’amica, la quale gli procura di che vivere. Ovviamente anche le prostitu­ te, se ce n’è bisogno, partecipano ai furti, con ruoli di «basista» o «palo», e anche all’occultamento e allo smercio degli oggetti ru­ bati, ma non diventano mai membri a pieno titolo della malavita. Immancabili ospiti di ogni festino, possono togliersi dalla testa di poter mai partecipare a un «tribunale d ’onore». L ’urka ereditario impara fin dall’infanzia a disprezzare le don­ ne. I corsi «teorici» e «didattici» si alternano con esempi concre­ ti forniti dagli anziani. Creatura inferiore, la donna è stata creata unicamente per soddisfare gli appetiti bestiali dei malavitosi, per essere il bersaglio dei loro scherzi grossolani e l’oggetto di pubbli­ chi pestaggi, quando quelli «se la spassano». Un oggetto vivo di cui il malavitoso si serve temporaneamente. Mandare l’amica-prostituta nel letto di un capo dell’ammini­ strazione, se risulta utile alla causa comune - è un «approccio» nor­ male e da tutti approvato. Del resto è d’accordo anche lei. Le con­ versazioni su questi argomenti sono sempre di un cinismo estremo, di una concisione ed espressività senza pari. Il tempo è denaro.

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La morale della malavita riduce a zero sia la gelosia che il «la­ to poetico» dell’amore. Secondo un’antica usanza consacrata, il la­ dro-caporione piu «autorevole» di una determinata compagnia ha diritto a scegliersi come moglie provvisoria la migliore prostituta. E se la vigilia, prima che apparisse il nuovo capobanda, questa prostituta dormiva con un altro ladro ed era considerata alla stre­ gua di un suo oggetto personale, ch’egli poteva prestare ai com­ pagni, oggi tutti quei diritti passano al nuovo padrone. Se un do­ mani costui venisse arrestato, la prostituta tornerebbe dal suo ami­ chetto di prima. E se anche quest’ultimo finisse dentro - le indicherebbero un nuovo padrone. Il padrone della sua vita e del­ la sua morte, del suo destino, dei suoi soldi, delle sue azioni, del suo corpo. Dove potrebbe dunque albergare un sentimento come la gelo­ sia?... Nella morale dei malavitosi per essa non c’è semplicemen­ te posto. Il ladro, dicono, è un uomo, e niente di ciò che è umano gli è estraneo. E possibile che in qualche caso gli dispiaccia cedere l’a­ mica, ma la legge è legge, e i guardiani della purezza «ideologica», i difensori dell’integrità dei costumi malavitosi (senza virgolette di sorta) provvederanno immantinente a segnalare al ladro preso da gelosia il suo errore. Ed egli si sottometterà alla legge. Può succedere che l’innata selvatichezza e la propensione all’i­ sterismo, elemento questo che caratterizza quasi tutti i suoi simi­ li, spingano il malavitoso a difendere la sua donna. La questione diventa allora di competenza dei tribunali d’onore e i «procurato­ ri» malavitosi esigono la punizione del colpevole, richiamandosi all’autorità di statuti millenari. Ma in generale la faccenda non arriva fino alla lite, e la prosti­ tuta si rassegna a dormire con il suo nuovo padrone. L ’amore «a tre» o la donna «in comune» nel mondo dei mala­ vitosi non esistono. Nei lager uomini e donne sono separati. Ma nei luoghi di de­ tenzione ci sono ospedali, centri di smistamento, ambulatori, club nei quali uomini e donne possono incontrarsi e parlarsi. C ’è da restare stupiti di fronte all’ingegnosità e determinazio­ ne di cui danno prova i detenuti nel perseguimento degli scopi che si prefiggono. In prigione è sorprendente vedere quali colossali energie vengano messe in opera solo per procurarsi un pezzetto di latta ammaccata e trasformarla in coltello - strumento di omicidio o suicidio. Anche l’energia profusa in lager dal malavitoso per incontrar­ si con una prostituta è enorme.

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L ’importante è trovare il posto dove farla andare - del fatto che si presenti, il malavitoso non dubita un solo istante. La mano della vendetta si abbatterebbe sulla colpevole. Ed ecco che lei si traveste da uomo, va a letto, fuori programma, con il sorveglian­ te o il ripartitore, per potersi intrufolare all’ora convenuta nel luo­ go dove l’aspetta un amante completamente sconosciuto. Ë un amore frettoloso, come la fioritura estiva delle erbe nell’Estremo Nord. La prostituta se ne torna poi nella zona femminile, si fa sor­ prendere da una guardia, la mettono in cella di rigore, la condan­ nano a un mese di izoljator, la spediscono in un giacimento di pu­ nizione - ma lei sopporta tutto senza lamentarsi e perfino con una certa fierezza -, ha compiuto il suo dovere di prostituta. In un grande ospedale del Nord per detenuti una volta riusci­ rono a far venire, per tutta una notte, una prostituta: era destina­ ta a un malavitoso di rispetto ricoverato nel reparto di chirurgia, e li, su un lettino d ’ospedale, essa si coricò a turno con tutti gli ot­ to ladri che si trovavano nella camera. L ’inserviente era stato mi­ nacciato con un coltello, e all’infermiere di guardia, un libero sa­ lariato, avevano regalato un vestito sgraffignato nel lager - il pro­ prietario l’aveva poi riconosciuto, aveva sporto reclamo e si era dovuto faticare non poco per mettere tutto a tacere. La giovane donna non si era sentita per nulla in imbarazzo o a disagio quando al mattino l’avevano trovata in una camera della sezione maschile. - I ragazzi mi hanno chiesto di dar loro una mano e cosi sono venuta, - spiegò tranquillamente. Non ci vuole molto a indovinare che i malavitosi e le loro ami­ che sono quasi tutti sifilitici, mentre della gonorrea cronica, no­ nostante il nostro sia il secolo della penicillina, non vai neppure la pena di parlare. E nota la classica espressione «la sifilide non è una vergogna, ma una disgrazia». Qui la sifilide non solo non è una vergogna, ma viene considerata piu una fortuna del detenuto che una sua di­ sgrazia - è un altro esempio del famigerato «spostamento dei va­ lori di scala». Per cominciare, il trattamento forzato dei malati venerei è ob­ bligatorio, e ogni malavitoso lo sa. Sa di potersi comunque «im­ boscare» da qualche parte e che con la sua sifilide non finirà in un buco sperduto, ma potrà vivere e curarsi in cittadine relativa­ mente confortevoli, dove ci sono medici specialisti in malattie ve­ neree. Ci fanno cosi grande conto e hanno calcolato talmente be­ ne ogni cosa che perfino quei malavitosi ai quali Dio ha rispar­ miato le tre o quattro croci della reazione Wassermann si di-

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chiarano sifilitici. E sanno anche della scarsa affidabilità di una risposta negativa a questa reazione di laboratorio. False ulcere e lamenti menzogneri sono la norma accanto alle vere ulcere e ai la­ menti fondati. Gli affetti da malattie veneree sottoposti a cure vengono rac­ colti in zony speciali. Un tempo in queste «zone» non si lavorava e agli occhi dei malavitosi esse erano altrettanti apprezzati rifugi «Mon repos». In seguito le zony vennero organizzate in giacimenti speciali o cantieri forestali nei quali, a parte il «salvarsan»' e la ra­ zione alimentare, i detenuti dovevano lavorare secondo le solite norme. Ma di fatto in queste «zone» speciali non c’era un vero e pro­ prio obbligo di lavorare e ci si viveva molto meglio che negli altri giacimenti. Dalle zony «veneree» maschili affluiscono continuamente al­ l’ospedale le giovani vittime dei malavitosi - ragazzi contagiati at­ traverso l’orifizio anale. I malavitosi sono quasi tutti pederasti in assenza di donne, depravano e contagiano gli uomini, di solito sotto la minaccia di un coltello, piu raramente in cambio di «strac­ ci» (vestiario) o pane. Parlando della donna nel mondo dei malavitosi, non si può pas­ sare sotto silenzio il vero e proprio esercito delle varie «Zojka», «Manja», «Daska» e altre creature di sesso maschile ribattezzate con nomi di donna. Meraviglia il fatto che i titolari di questi no­ mignoli femminili rispondano ad essi con la massima naturalezza non trovandoci niente di vergognoso o insultante. Per un ladro, vivere alle spalle di una prostituta non è consi­ derato un disonore. Al contrario, essa deve saper apprezzare nel suo giusto valore questo rapporto. E anche l’attività di protettore viene considerato uno degli aspetti «attraenti» della professione, particolarmente apprezzato dalla gioventù malavitosa. Presto presto verrà la condanna, ci porteranno alla «Primo maggio», le ragazze alla mano vedranno, e verranno col loro omaggio, -

cosi dice una canzone di prigione. L e ragazze alla m ano 12 sono ap­ punto le prostitute. 1 E il primo prodotto chemioterapico (messo in commercio nel 1910) rivelatosi effi­ cace contro la sifilide. 2 In russo le ragazze sono statny e, cioè «di ruolo», «nell’organico».

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Ma ci sono anche dei casi in cui il sentimento che in esse so­ stituisce l’amore - in uno con amor proprio e autocommiserazio­ ne - spinge la donna della malavita ad atti «contro la legge». Sicuramente da una ladra si esige molto di piu che da una pro­ stituta. Una malavitosa che vive con un sorvegliante, secondo il parere degli esegeti della «legge», è colpevole di tradimento. Pos­ sono riempirla di botte per farle capire che sbaglia, o sgozzarla ad­ dirittura, come si fa con le «cagne». Nel caso di una prostituta, invece, fatti del genere non vengo­ no considerati una colpa per la quale debba essere «incriminata». In questi conflitti tra la donna e la legge del suo mondo, il pro­ blema non viene risolto sempre allo stesso modo ma dipende dal­ le qualità personali dell’interessata. Tamara Culukidze, una ladra ventenne, di grande bellezza, ex compagna di un noto malavitoso di Tbilisi, in lager si era messa assieme a Gracëv - un gagliardo tenente di una trentina d ’anni, gran bell’uomo, che dirigeva la sezione educativo-culturale. Nel lager Gracëv aveva anche un’altra amante, la polacca Leščevskaja - una delle famose «artiste» del teatro del lager. Quan­ do si mise con Tamara, questa non pretese che lasciasse Leščevskaja. E anche quest’ultima non aveva niente contro Tamara. Il gagliardo Gracëv viveva con due «mogli» contemporaneamente, all’uso musulmano. Essendo un uomo esperto cercava di dividere equamente le sue attenzioni tra le due donne e ci riusciva. Divi­ deva non solo l’amore, ma anche le sue manifestazioni materiali ogni regalo commestibile era preparato in due esemplari. Faceva lo stesso con rossetto, profumi e nastri, - sia Leščevskaja che Cu­ lukidze ricevevano nello stesso giorno esattamente gli stessi nastri, le stesse boccette di profumo, gli stessi fazzolettini. Il tutto appariva straordinariamente toccante. Tanto piu che Gracëv era di bell’aspetto e molto curato. Sia Leščevskaja che Cu­ lukidze (vivevano nella stessa baracca) erano entusiaste per il gar­ bo del loro comune amante. Tuttavia non erano diventate amiche e quando Tamara era stata improvvisamente chiamata a rispon­ dere davanti ai malavitosi dell’ospedale - Leščevskaja in cuor suo aveva gioito della sua disgrazia. Andò cosi: Tamara un giorno si ammalò e venne ricoverata in un reparto della sezione femminile. Nottetempo la porta del re­ parto si spalancò, e picchiettando con le stampelle apparve sulla soglia un ambasciatore degli urkacì. La malavita tendeva il suo lun­ go braccio verso Tamara. L ’ambasciatore le ricordò i diritti di proprietà che i malavito­

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si hanno per legge sulle loro donne e la invitò a presentarsi al re­ parto di chirurgia per eseguire la volontà di colui che lo aveva man­ dato. C ’erano li delle persone, a quanto disse, che conoscevano quel blutar' di Tbilisi del quale Tamara Culukidze era stata un tempo l’amica. Adesso il suo posto era stato preso da Sen'ka Gundosyj. E Tamara doveva passare seduta stante tra le sue braccia. Tamara afferrò un coltello da cucina e si scagliò sul malavito­ so zoppo. Gli inservienti fecero appena in tempo a toglierglielo dalle mani. L ’ambasciatore si allontanò coprendo Tamara di mi­ nacce e sanguinosi insulti. La mattina stessa del giorno successivo Tamara si fece dimettere dall’ospedale. Furono fatti altri numerosi tentativi per riportare la figlia pro­ diga sotto le insegne della malavita, ma ogni volta senza successo. Tamara si prese anche una coltellata, ma se la cavò con un graffio. Quando ebbe finito di scontare la pena, si sposò con un sorve­ gliante - un uomo con la pistola, e così la malavita dovette defi­ nitivamente rinunciare a riprendersela. Nastja Archarova, una dattilografa con gli occhi blu, di Kur­ gan, non era né una ladra né una prostituta, ma finì suo malgrado con il legare per sempre il proprio destino al mondo criminale. Per tutta la vita, fin dagli anni giovanili, Nastja era stata cir­ condata da una sinistra deferenza, un ossequio sospetto da parte di certi tipi che sembravano uscire dai romanzi polizieschi che leg­ geva. Questo rispetto, di cui essa s’era accorta già quando era «in libertà», lo ritrovò anche in prigione e nel lager - ovunque ci fos­ sero dei malavitosi. Non c’era niente di misterioso - il fratello maggiore di Nastja era uno sk ok ar', un ladro d’appartamenti famoso nell’UraT, e su Nastja, fin dagli anni giovanili, s’era irraggiata la fama criminale di lui, le sue fortunate sorti ladresche. Senza rendersene conto Na­ stja s’era venuta a trovare nella cerchia dei malavitosi, coinvolta nei loro interessi e occupazioni, e non aveva detto di no quando s’era trattato di nascondere della refurtiva. La sua prima pena di tre mesi la temprò e l’inasprì, rinsaldando i suoi legami con la ma­ lavita. Finché era rimasta nella sua città, i ladri, temendo l’ira del fratello, non si erano risolti a usare Nastja come cosa loro. Per po­ sizione «sociale» essa era piu vicina alle ladre, non era affatto una prostituta - e in quanto ladra venne spedita a una delle solite «de­ stinazioni remote» a spese dello Stato. Ma lì il fratello non c’era piu e nella città in cui venne a trovarsi dopo la prima liberazione, un capobanda locale se la prese in moglie, e già che c’era le attaccò

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la gonorrea. Di li a poco venne arrestato e quando si salutarono le cantò la canzoncina della mala. «Ti farà sua il compagno mio fi­ dato». Nastja non visse a lungo neanche con il fidato compagno, il quale finì anche lui dentro, e un nuovo padrone fece valere i pro­ pri diritti su di lei. Nastja lo trovava fisicamente ripugnante, era sempre pieno di bava e aveva anche una specie di tigna. Provò a tirar fuori il nome del fratello per proteggersi - ma le fecero no­ tare che fratello o no nessuno poteva permettersi di violare le gran­ di leggi della malavita. La minacciarono con il coltello ed essa smi­ se di opporre resistenza. All’ospedale Nastja si presentava docilmente alle «convoca­ zioni» amorose, finiva spesso in cella di rigore e piangeva molto o perché aveva le lacrime in tasca o perché aveva troppa paura di quello che le riservava il destino, il destino di una ragazza di ventidue anni. Vostokov, un medico dell’ospedale di una certa età, colpito dal­ la sorte di Nastja, simile del resto a migliaia di altre, le aveva pro­ messo di trovarle un impiego come dattilografa in un ufficio se so­ lo cambiava vita. «Non dipende dalla mia volontà, - scriveva Na­ stja con calligrafia ordinata rispondendo al medico. - Nessuno mi può salvare. Ma se vuole farmi qualcosa di gradito mi comperi del­ le calze di nylon, della misura più piccola. In tutto e per tutto pron­ ta a servirla, Nastja Archarova». La ladra Sima Sosnovskaja era tatuata dalla testa ai piedi. Stu­ pefacenti scene sessuali dal contenuto astruso e bizzarro si intrec­ ciavano in linee complicate sul suo corpo, ricoprendolo intera­ mente. Solo il volto, il collo e le braccia fino ai gomiti erano stati risparmiati dagli aghi. Questa Sima era famosa all’ospedale per un furto particolarmente sfacciato - aveva sfilato l’orologio d’oro dal polso di un soldato che aveva deciso strada facendo di approfitta­ re della disponibilità della graziosa Sima. Sima aveva un caratte­ re molto più pacifico di Aglaja Demidova, diversamente il solda­ to se ne sarebbe rimasto disteso tra i cespugli fino alle trombe del giudizio. Sima considerava la cosa alla stregua di una divertente avven­ tura e riteneva che un orologio d ’oro non fosse poi un prezzo trop­ po caro per le sue grazie. Quanto al soldato, ci mancò poco che im­ pazzisse, continuò a pretendere fino all’ultimo che Sima gli resti­ tuisse l’orologio, la perquisì anche due volte senza alcun risultato. L ’ospedale non era molto lontano, il convoglio numeroso - e il sol­ dato non osò sollevare uno scandalo. Sima si tenne l’orologio d’o­ ro. Venne presto bevuto e scomparve senza lasciare traccia.

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Nel codice morale del malavitoso, come nel Corano, c’è un ostentato disprezzo per la donna. La donna è una creatura spre­ gevole, inferiore, meritevole solo di percosse e indegna di pietà. Questo si riferisce nella stessa misura a tutte le donne - qualsiasi esponente femminile di quell’«altro» mondo, quello dei «fessi», è egualmente disprezzata dal malavitoso. Lo stupro «in coro» non è un evento così raro nelle miniere dell’Estremo Nord. I capi fan­ no viaggiare le loro mogli sotto scorta armata; una donna non va, e neppure viaggia da sola da nessuna parte. Anche le figlie giova­ ni vengono sorvegliate allo stesso modo: violentare una minoren­ ne è l’eterno sogno di ogni malavitoso. Questo sogno non sempre rimane tale. Il malavitoso viene educato a disprezzare la donna fin dagli an­ ni giovanili. Picchia talmente spesso la sua amica-prostituta che essa, dicono, non è piu in grado di provare pienamente le gioie del­ l’amore se per qualche motivo prima non riceve la sua razione di botte. Le tendenze sadiche sono inculcate dall’etica stessa del mon­ do criminale. Il malavitoso non deve provare nessun sentimento di camera­ tismo, di amicizia per una donna. E non deve neanche avere nes­ suna pietà per l’oggetto dei suoi sotterranei spassi. Non può es­ servi alcuna giustizia nei confronti della donna, neanche di quella del suo mondo - la questione femminile resta fuori dal portone della zona etica della malavita. C ’è tuttavia una sola e unica eccezione a questa regola sinistra. C ’è una sola e unica donna la quale non soltanto viene protetta da qualsivoglia attentato al suo onore, ma è posta bene in alto su di un piedestallo. Una donna che è stata poeticizzata dalla malavita, celebrata nelle liriche dei malavitosi, eroina del folclore di piu e piu generazioni. Questa donna è la madre del malavitoso. Nella sua immaginazione il b la ta r' si figura un mondo crudele e ostile cho lo circonda da ogni parte. In questo mondo popolato di nemici c’è un’unica figura luminosa, degna di un amore puro, di rispetto e venerazione. Ed è la madre. Il culto della madre unito a un feroce disprezzo per la donna in generale - ecco la formula etica della malavita sulla questione fem­ minile, espressa con il tipico sentimentalismo dei detenuti. Sul sen­ timentalismo carcerario sono state scritte molte scempiaggini. In realtà è il sentimentalismo dell’assassino che annaffia un’aiuola di rose con il sangue delle proprie vittime. Quello dell’uomo che fa­ scia la ferita di un uccellino e dopo un’ora è capace di smembrare

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questo stesso uccellino, ancora vivo, con le proprie mani, perché la morte di un essere vivente è per un malavitoso lo spettacolo piu bello che ci sia. Bisogna conoscere la vera faccia di questi promotori del culto della madre, un culto avvolto in poetici fumi. Con quella stessa sfrenatezza e teatralità che lo costringe a «fir­ mare» con il coltello il cadavere di un rinnegato assassinato, a vio­ lentare una donna in pubblico in pieno giorno, sotto gli occhi di tutti, o ad abusare di una bimba di tre anni o ad attaccare la sifi­ lide all’uomo che risponde al nomignolo di «Zojka» - con quella stessa espressività il malavitoso poeticizza l’immagine di sua ma­ dre, la deifica, ne fa l’oggetto del piu raffinato lirismo carcerario - e obbliga tutti quanti ad attestarle a distanza ogni e qualsiasi ri­ spetto. A prima vista l’affetto del malavitoso per la madre sembrereb­ be l’unico risvolto umano di sentimenti snaturati e pervertiti. Egli è come se fosse il figlio rispettoso di sempre, e nella malavita qual­ siasi discorso grossolano sulla madre di questo o quello viene im­ mediatamente troncato. La madre è una specie di ideale sublime e al tempo stesso qualcosa di assolutamente reale, che ognuno pos­ siede. La madre che perdona tutto, che ha sempre una parola com­ passionevole. «Per farci vivere, lavorava mammà. Ho cominciato a rubare di nascosto. Farai il ladro, come il tuo papà, - mi diceva la mamma in un pianto a dirotto». Di questo canta una delle canzoni classiche della «mala», I l de­ stino.

Comprendendo che in tutta la sua vita breve e tempestosa so­ lo sua madre gli resterà vicina fino alla fine, il ladro, pur nel suo cinismo, la risparmia. Ma quell’unico sentimento che parrebbe schietto, è falso, co­ me tutti i moti dell’animo del ladro. La glorificazione della madre è un’impostura, le sue lodi un espediente fraudolento, e nel migliore dei casi un’espressione piu o meno vivida del sentimentalismo tipico dei detenuti. E un sentimento che si presume elevato è, in bocca al ladro, so­ lo menzogna, come ogni altra sua parola. Nessun ladro ha mai man­ dato alla propria madre anche un solo copeco, o l’ha mai aiutata, sia pure a modo suo, mentre dilapida in bevute e stravizi migliaia di rubli rubati. Questo sentimento per la madre è solo scena e finzione tea­ trale.

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Il culto della madre è una specie di cortina fumogena che na­ sconde il sordido mondo dei ladri. Un culto della madre che non si estende alla moglie e alla don­ na in generale è solo falsità e menzogna. L ’atteggiamento nei confronti della donna è la cartina di tor­ nasole di ogni etica. Notiamo a questo proposito che proprio la coesistenza in Ese­ nin del culto della madre con un cinico disprezzo nei confronti del­ la donna ha reso questo poeta cosi popolare tra i criminali da tre decenni in qua. Ma di questo parleremo a tempo debito. Alla ladra o all’amica del ladro, e in genere alla donna che è en­ trata a far parte, direttamente o indirettamente, della malavita, è proibito avere una «storia» con un non malavitoso, un fraer. Tut­ tavia se il caso si verifica la traditrice del divieto non viene ucci­ sa, non viene «sistemata una volta per tutte». Il coltello è un’ar­ ma troppo nobile per essere impiegato con una donna, - per lei sa­ ranno sufficienti bastoni e attizzatoi. Le cose vanno ben diversamente quando è un ladro ad avere una relazione con una donna libera. In questo caso, solo onore e gloria, e racconti pieni di vanterie e la segreta invidia degli altri. I casi del genere non sono poi cosi rari. Ma danno spunto a tali mon­ tagne di favole che discernere la verità diventa molto difficile. La dattilografa si trasforma in procuratrice, la commessa in direttri­ ce dell’azienda, la venditrice in ministro. Il cumulo di fandonie re­ lega la verità in fondo alla scena, nell’oscurità delle quinte, e cer­ care di seguire lo spettacolo diventa un esercizio insensato. Un buon numero di malavitosi ha sicuramente una famiglia nel­ la città natale, una famiglia che è stata da tempo abbandonata. Le mogli con figli piccoli lottano per la vita come possono. Accade che i mariti ritornino dai luoghi di detenzione a casa dei propri fa­ miliari, solitamente per poco tempo. Lo «spirito errabondo» li spinge a nuove peregrinazioni, senza dire che anche la polizia cri­ minale del posto contribuisce ad accelerare la loro partenza. E nel­ le famiglie restano dei figli per i quali la professione del padre non ha nulla di orribile, ma ispira pietà e, soprattutto, il desiderio di seguire le orme paterne, come nella canzone II destino: Chi trova in sé la forza per lottare affronti fino in fondo il rio destino. Son molto debole ma devo continuare del padre morto il non facile cammino.

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I ladri ereditari costituiscono precisamente il nucleo stabile del­ la malavita, i suoi «capi» e «ideologi». II malavitoso è inevitabilmente lontanissimo dai problemi le­ gati al ruolo paterno e all’educazione dei figli - sono argomenti del tutto esclusi dal talmud della malavita. Per le figlie (se ne ha da qualche parte) vedrebbe bene un futuro nella carriera di prostitu­ ta o di amica di qualche malavitoso di rispetto. A questo riguardo la coscienza del malavitoso non è gravata da alcun peso morale (neanche dallo specifico punto di vista del codice malavitoso). E allo stesso modo trova del tutto normale che i figli maschi diven­ tino dei ladri. 1959.

Z en lcin a b latn o go m ira ,

in «Don», 1989, n. 1.

La razione carceraria

U n a d e lle le g g e n d e p iù p o p o la r i e p iu a tro c i d e lla m a la v ita è q u e lla su lla « r a z io n e c a r c e r a r ia » . A l p a r i d e lla fa v o la su l « l a d r o g e n tilu o m o » è u n a le g g e n d a p u b ­ b lic ita r ia , u n a v e tr in a d e lla m o ra le d e i m a la v ito si. E c c o in c o sa c o n s is te : il ra n c io c a rc e ra r io u ffic ia le (paè'k) - o m e g lio l ’u n ic a p a r te c e r ta , la r a z io n e d i p a n e (pajka) - n elle c o n ­ d iz io n i d i d e te n z io n e è « s a c r a e in v io la b ile » e n e ssu n la d r o h a il d ir itto d i a tte n ta r e a q u e s to m e z z o d i s u ss is te n z a fo r n ito d a llo S t a ­ to . C o lu i ch e lo fa è m a le d e tto d a q u e ll’is ta n te in a v a n ti, e n ei s e ­ c o li d e i se c o li. C h iu n q u e e g li sia - u n m a la v ito so e m e r ito o u n g io ­ v a n e « f e s s o » , l ’u ltim o d e i m o c c io si. É p o s s ib ile , se n z a tr o p p i tim o ri e p re o c c u p a z io n i, c o n se rv a r e la p r o p r ia ra z io n e c a rc e ra r ia - il p a n e - n a s c o n d e n d o la in u n c o ­ m o d in o , se ce n ’è u n o n ella c e lla , o p p u re m e tte n d o s e la s o tto la t e ­ s t a , se n o n c i so n o n é c o m o d in i n é rip ia n i. Il r u b a r e q u e s t o p a n e è c o n s id e r a t o v e r g o g n o s o e in c o n c e p i b ile . In v e c e i p a c c h i d a c a s a d e i « f e s s i » - s ia c h e c o n te n g a n o v e ­ s tia r io o p r o d o t ti a lim e n ta r i - so n o s o g g e t t i alle r e q u is iz io n i l a ­ d r e sc h e n o n r ie n tr a n d o n el d iv ie to . E b e n c h é sia p e r tu t t i e v id e n te ch e a p r o te g g e r e la ra z io n e è il s is t e m a c a r c e r a r io s t e s s o e n o n l ’ a n im o c a r it a t e v o le d e i m a la v i­ t o s i, so n o p o c h i q u e lli ch e d u b ita n o d e lla n o b iltà d ’ a n im o d i c o ­ sto r o . L ’ a m m in is tra z io n e , c o si r a g io n a q u e s ta g e n te , n o n è in g ra d o d i im p e d ire ai la d r i d i fa r e m an b a s s a d e i n o str i p ac c h i. D u n q u e , se n o n f o s s e p e r i m a la v ito s i... In e f f e t t i, è v e ro ch e l ’a m m in is tra z io n e n o n f a n ie n te p e r i p a c ­ ch i. L ’e tic a d e lla p rig io n e e sig e ch e u n d e te n u to d iv id a c o n i c o m ­ p a g n i d i c e lla c iò c h e r ic e v e d a c a s a . E i m a la v ito s i si fa n n o in v a ­ r ia b ilm e n t e a v a n ti, p r o t e s t a n d o s i « c o m p a g n i » d e l d e t e n u t o , e a v a n z a n d o a p e rta m e n te e m in a c c io sa m e n te le p r o p r ie p r e te s e su l p ac c o . I « f e s s i » e sp e rti e lu n g im ira n ti c e d o n o lo ro im m e d ia ta m e n te

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la metà del contenuto. Nessun ladro si interessa mai della situa­ zione materiale del «fesso» recluso. Per loro un «fesso», che sia in prigione o in libertà, è comunque una preda legittima e i suoi «pac­ chi», i suoi «indumenti» - altrettanti trofei di guerra. Capita a volte che i malavitosi si mettano a piatire il contenu­ to dei pacchi o gli indumenti personali, - su, dammelo, ti sapre­ mo ricambiare. E il fraer, che in libertà è due volte più povero del ladro in prigione, dà via le ultime briciole raccolte per lui dalla mo­ glie. Ci mancherebbe! É la legge della prigione! In compenso il buon nome è salvo, e Sen'ka Pup in persona gli ha promesso protezione e gli ha dato perfino da fumare una di quelle sigarette che sua mo­ glie gli aveva messo nel pacco. Spogliare, depredare i «fessi» in prigione è il primo e scanzo­ nato impegno dei malavitosi. Se ne incarica la gioventù, sempre in vena di ruzzare, i cuccioli della nidiata... Quelli più vecchi se ne restano distesi nell’angolo migliore della cella, vicino alla finestra, e sorvegliano l’operazione, pronti a intervenire in qualsiasi mo­ mento nel caso il «fesso» opponga resistenza. Naturalmente ci si può mettere a strillare, chiamare le guardie, il comandante, ma a quale scopo ? Per farti pestare non appena fa notte ? E in futuro, durante il trasferimento, ti possono perfino ta­ gliare la gola. Tutto sommato, che se lo prendano quel pacco... - In compenso, - dice il malavitoso al «fesso» battendogli sul­ la spalla, e intanto rutta sazio, - in compenso la tua razioncina car­ ceraria è intera. Quella, vecchio mio, m-m-mai. Talvolta i giovani malavitosi non capiscono perché non si pos­ sa toccare una razione di pane della prigione quando il suo pro­ prietario si è rimpinzato di dolcetti di farina bianca arrivati da ca­ sa. Neanche il proprietario di pane e dolcetti lo capisce. E i ladri adulti spiegano a questo e a quelli che cosi vuole la legge della pri­ gione. E apriti cielo se qualche ingenuo contadino affamato al quale nei primi giorni di detenzione in cella il mangiare non basta mai chiede al vicino malavitoso di staccargli un pezzetto di pane dalla razione rafferma dimenticata su una mensola. Che lezione magni­ loquente sulla sacralità della razione carceraria gli verrà impartita dal malavitoso... Nelle prigioni in cui i pacchi arrivano di rado e altrettanto di rado arrivano nuovi «fessi», il concetto di «razione carceraria» è limitato al pane mentre le pietanze - minestre, pappe e insalate di verdure cotte - per quanto scarse come assortimento, vengono

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escluse dall’inviolabilità. I malavitosi cercano sempre di essere lo­ ro a dirigere la distribuzione del vitto. Questo saggio criterio co­ sta caro agli altri abitanti della cella. A parte la razione di pane, della minestra ricevono solo la parte acquosa, la ju šk a, e le porzioni di secondo diventano quantomai esigue. Alcuni mesi di coabita­ zione con quegli zelatori della razione carceraria hanno, per espri­ mersi in termini ufficiali, delle conseguenze del tutto negative sul­ la «grassezza» del detenuto. Tutto questo è prima del lager, finora ci siamo occupati del re­ gime carcerario durante la fase istruttoria. In un lager ispravitel'no-trudovoj («di rieducazione attraverso il lavoro»), ai «lavori generali», il problema della razione carceraria diventa una questione di vita o di morte. Qui non c’è un pezzo di pane che cresce, qui sono tutti affa­ mati e tutti impegnati in pesanti lavori fisici. Il furto della razione carceraria assume qui il carattere di un crimine, di un lento assassinio. I malavitosi, i quali non lavorano, tengono i cucinieri nelle pro­ prie grinfie, prelevando dalla cucina gran parte della scorte di gras­ si, zucchero, tè, carne, quando ce n’è (ecco perché i «semplici mor­ tali» dei lager preferiscono il pesce alla carne; la norma è la stessa quanto al peso, ma la carne viene invariabilmente rubata). Oltre che ai ladri, il cuciniere deve riuscire a dar da mangiare al perso­ nale di servizio del lager, ai capisquadra, ai medici e anche alle sen­ tinelle del posto di guardia. E ci riesce - i malavitosi lo minaccia­ no semplicemente di morte, mentre i vari detenuti che hanno del­ le responsabilità amministrative (chiamati prìdurki nel gergo della malavita) possono in qualsiasi momento prendersela1con lui e far­ gli togliere l’incarico spedendolo in miniera, prospettiva che fa molta paura ai cucinieri, e non solo a loro. Le razioni carcerarie che vengono « alleggerite» sono quelle del numeroso esercito degli «sgobboni» addetti ai lavori generali. Del­ le «norme di alimentazione scientificamente calcolate» questi rabotjagi ricevono soltanto una piccola parte, povera di grassi e vi­ tamine. Persone adulte scoppiano in lacrime davanti alla scodella di minestra acquosa - tutta la parte densa è stata da tempo servi­ ta ai vari Seneèka e Koleèka. Se vogliono riportare almeno un minimo d ’ordine, le autorità, oltre che personalmente oneste, devono essere animate da un’e­ 1 C ’è un gioco di parole tra p rìd u rk i (si veda il Glossario) e p rìd ira t'sja , che significa «avercela», «prendersela con q.c.», «cercare il pelo nell’uovo», ecc.

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nergia sovrumana e incessante nella lotta contro i saccheggiatori di cibo, e in primo luogo i ladri. Ecco cos’è la razione carceraria in lager. Qui nessuno pensa piu alle dichiarazioni pubblicitarie dei malavitosi. Il pane diventa pro­ priamente pane senza simbolismi di sorta. Diventa il mezzo es­ senziale per mantenersi in vita. Sventurato colui che si è imposto di serbare un pezzettino della propria razione per svegliarsi nel mezzo della notte e sentirsi il sapore di pane, croccante fin dentro le orecchie, nella bocca prosciugata dallo scorbuto. Questo pane gli sarà rubato, gli verrà semplicemente tolto, strappato di mano dai giovani malavitosi affamati che ogni notte compiono le loro incursioni e requisizioni... Il pane ricevuto deve essere mangiato sul posto - è questa la pratica invalsa in molti gia­ cimenti dove la malavita è numerosa e i suoi nobili cavalieri han­ no fame e, benché non lavorino, vogliono lo stesso mangiare. Cinque o seicento grammi di pane non si inghiottiscono in un istante. Purtroppo, l’apparato digerente dell’essere umano diffe­ risce da quello del boa o del gabbiano. L ’esofago dell’uomo è trop­ po stretto e non ci si può infilare in un colpo solo una pagnotta da cinquecento grammi, tanto piu con la crosta. Bisogna romperla, masticarla e questo porta via tempo prezioso. E i malavitosi già gli strappano dalle mani i resti del pane, raddrizzandogli a viva forza le dita, lo colpiscono... Nel lager di transito di Magadan ci fu un tempo in cui la di­ stribuzione del pane venne organizzata in modo tale che la razio­ ne di ventiquattr’ore venisse distribuita ai rabotjagi sotto la pro­ tezione di quattro soldati armati di mitra, che tenevano a rispet­ tosa distanza dal posto della distribuzione la folla dei malavitosi affamati. Ricevuto il pane i rabotjagi cominciavano subito a ma­ sticarlo, masticavano e masticavano finché lo trangugiavano feli­ cemente - comunque, non ci furono casi di malavitosi che apris­ sero la pancia a qualche rabotjaga per recuperare quel pane. Ci fu invece - e ovunque - qualcos’altro. Per il loro lavoro i detenuti ricevono del denaro - non molto, alcune decine di rubli (per quelli che superano la norma), ma lo ri­ cevono. Quelli che non realizzano la norma non ricevono niente. Con queste poche decine di rubli allo spaccio del lager, il larëk, si può comprare del pane, qualche volta del burro, in una parola si può migliorare la propria alimentazione. Non tutte le squadre ri­ cevono denaro, solo alcune. Nei giacimenti in cui lavorano dei ma­ lavitosi questo salario è solo fittizio - i btatari lo confiscano, im­ ponendo ai lavoratori una «tassa». Per ogni ritardo nei pagamen­

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ti, una coltellata nel fianco. Queste incredibili «ritenute» durano da anni. Tutti sanno di questo racket che agisce alla luce del sole. Del resto se non ci pensano i malavitosi, le «ritenute» vengono ap­ plicate a vantaggio dei capisquadra, degli addetti alle norme di pro­ duzione, dei ripartitori... Ecco come si traduce nella realtà, nella vita, il concetto di «ra­ zione carceraria». 1959.

T ju rem n aja p a jk a ,

in «Don», 1989, n. 1.

La guerra delle «cagne»

Il medico di guardia era stato chiamato all’accettazione. Sulle assi leggermente bluastre, raschiate con il coltello, dell’impiantito lavato di fresco, si contorceva un corpo abbronzato e coperto di tatuaggi - un uomo ferito, denudato dagli inservienti. Il pavimento si stava sporcando di sangue e il medico ridacchiò con soddisfa­ zione maligna - ripulirlo sarebbe stato difficile; quel medico gioi­ va di ogni cosa cattiva gli capitasse di incontrare e vedere. Due uo­ mini in camice bianco erano chini sul ferito: l’infermiere dell’ac­ cettazione che reggeva una cassetta di bende e un tenente della sezione speciale con un foglio di carta in mano. Il medico capi subito che il ferito non aveva documenti e che il tenente della sezione speciale voleva ottenere almeno qualche prima informazione. Le ferite erano ancora fresche, alcune sanguinavano. Ce n’erano molte - più di una decina di tagli minuscoli. L ’arma usata do­ veva essere un temperino o un chiodo o qualcosa del genere. Il medico si ricordò di due settimane prima, l’ultima volta che era stato di turno, quando avevano ucciso la venditrice del nego­ zio, era stata ammazzata nella sua stanza, soffocata con un cusci­ no. L ’assassino non aveva fatto in tempo a fuggire non visto, qual­ cuno aveva dato l’allarme e quello, sguainato un pugnale, si era precipitato fuori nella nebbia gelata. Passando di corsa accanto al negozio aveva ferito alla natica l’ultima persona della fila - per pu­ ro teppismo o sa il diavolo per quale altra ragione... Ma stavolta era qualcosa di diverso. Le convulsioni del ferito si facevano meno violente, le guance impallidivano. Il medico ca­ piva che doveva esserci un’emorragia interna - anche il ventre pre­ sentava piccole piaghe, allarmanti anche se non sanguinavano. Po­ teva avere delle ferite interne, all’intestino, al fegato... Ma il medico non osava interrompere l’officiatura del servizio di registrazione. Si dovevano ottenere, a qualsiasi costo, i «dati fondamentali» - cognome, nome, patronimico, articolo, pena - ri­ cevere le risposte a quelle domande che vengono ripetute dieci voi-

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te al giorno a ogni detenuto - in occasione degli appelli, dell’adu­ nata prima del lavoro... Il ferito rispondeva qualcosa e il tenente si affrettava ad anno­ tare l’informazione sul pezzo di carta. Si sapeva già il cognome e l’articolo - 58.14... Restava la questione più importante e la ri­ sposta che tutti aspettavano - il tenente, l’infermiere dell’accet­ tazione, il medico di guardia... - Ma chi sei ? Chi sei ? - il tenente, in ginocchio accanto a lui, lo implorava al colmo dell’agitazione. - Chi sei ? E il ferito capi la domanda. Le sue palpebre ebbero un fremi­ to, schiuse le labbra screpolate e morsicate a sangue e disse in un prolungato sospiro: - Naca-a-agna... E perse conoscenza. - Una cagna! - gridò entusiasta il tenente, alzandosi e spolve­ randosi le ginocchia. - Una cagna! Una cagna! - ripetè tutto contento l’infermiere. - P o r t a te lo a lla s e ttim a , in c h ir u r g ia ! - fe c e il m e d ic o , e c o ­ m in c iò a d a r si d a fa r e . A d e s s o si p o t e v a p r o c e d e r e alle m e d ic a z io ­ n i. L a sa la s e tte e r a q u e lla d e lle « c a g n e » .

Per molti anni dopo la fine della guerra, sanguinose onde sot­ tomarine continuarono a sciabordare sul fondo del mare dell’u­ manità, in quell’imo che è la malavita. Queste onde erano una con­ seguenza della guerra - una conseguenza sorprendente, impreve­ dibile. Nessuno - né i penalisti dai capelli bianchi, né i veterani dell’amministrazione penitenziaria, né i navigati comandanti dei lager - potevano prevedere che la guerra avrebbe diviso la mala­ vita in due gruppi nemici. Durante il conflitto, parte dei criminali detenuti, e tra essi mol­ ti malavitosi - recidivi, urkì - vennero arruolati nell’esercito e man­ dati al fronte, inquadrati in compagnie di rinforzo. Gran parte del­ la fama e popolarità dell’armata di Rokossovskij1era dovuta pro­ prio a questa presenza nei suoi ranghi di elementi criminali. Dagli urkagany vennero fuori intrepidi esploratori, coraggiosi partigia­ ni. Il loro innato gusto del rischio, la determinazione e impuden­ za ne fecero dei soldati preziosi. Si chiusero tutti e due gli occhi sulla loro inclinazione al saccheggio e alla rapina. E vero che l’as­ 1 Konstantin Rokossovskij (1896-1968), maresciallo dell’Urss (dal 1944), durante guerra comandò il fronte bielorusso, nel 1945 fu designato da Stalin ad aprire la parata del­ la Vittoria a Mosca; ministro della Difesa della Polonia nel 1949, tornò in patria dopo la morte di Stalin.

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sa lto fin a le a B e rlin o n o n v e n n e a f f id a t o a q u e i r e p a r ti. L ’a rm a ta d i R o k o s s o v s k ij v e n n e m a n d a ta a ltr o v e e n el T ie r g a r te n m a r c ia ­ ro n o in v e c e le u n ità re g o la r i d e l m a re sc ia llo K o n e v - re g g im e n ti d a l sa n g u e p r o le ta r io p iu p u ro . N e l su o Gente dalla coscienza pulita lo sc ritto re V e r s ig o r a 2c i a s ­ sic u ra d i a v e r c o n o s c iu to u n urkac, V o r o n 'k o , ch e e r a d iv e n ta to un b u o n p a r tig ia n o (c o m e n ei lib r i d i M a k a r e n k o 3). P e r f a r la b r e v e , i c rim in a li a v e v a n o la s c ia to la p r ig io n e p e r il fr o n te , a v e v a n o c o m b a ttu to - q u a lc u n o b e n e , q u a lc u n o m a le ... Il g io rn o d e lla V itt o r ia e r a a r r iv a to , e g li urkaci-zxoi, c o n g e d a ti, e r a ­ no to r n a ti alle lo ro p a c ific h e o c c u p a z io n i. B e n p r e s to i trib u n a li so v ie tic i d e l d o p o g u e rra d u ra n te le u d ie n ­ ze c o m in c ia ro n o a p o p o la r s i d i fa c c e c o n o s c iu te . A p p a r v e c h ia ro - e n o n e ra p o i t a n to d iffic ile p re v e d e rlo - ch e i r e c id iv i, gli urkagany, i « l a d r i » , gli « u o m i n i» , in s o m m a la « m a l a v i t a » , n o n a v e v a ­ no n e ss u n a in te n z io n e d i rin u n c ia r e a lle a t tiv it à ch e p rim a d e lla g u e rr a a v e v a n o a ss ic u r a to lo ro m e z z i d i so s te n ta m e n to , e m o z io n i c r e a tiv e , m o m e n ti d i a u te n tic a is p ir a z io n e , n o n c h é u n a p o siz io n e n ella « s o c i e t à » . I b a n d it i e r a n o to r n a ti a i lo ro o m ic id i, g li sc a s s in a to r i alle lo ro c a s s e fo r ti, i b o r s a io li a e s p lo r a r e le fo d e r e , g li skokari a sv u o ta r e a p p a rta m e n ti. L u n g i d a ll’in se g n a re lo ro q u a lc o s a d i b u o n o , la g u e rr a li a v e v a so lo r e s i p iu im p u d e n ti e s p ie ta ti. E c o n s id e r a v a n o l ’o m ic id io co n a n c o ra m a g g io r e le g g e r e z z a e d is in v o ltu r a d i p rim a .

Lo Stato cercò di organizzare la lotta contro la dilagante cri­ minalità. Ci furono i Decreti del 1947 «Sulla difesa della proprietà socialista» e «Sulla difesa della proprietà personale dei cittadini». In base a questi decreti, un furto insignificante che un tempo co­ stava al ladro alcuni mesi di reclusione, adesso era punito con vent’anni. A d e c in e d i m ig lia ia , i la d ri « e x c o m b a t te n t i» d e lla G u e r r a p a ­ tr io ttic a 4c o m in c ia ro n o a e s se re c a r ic a ti su p ir o s c a fi e tre n i, e s p e ­ d iti s o tto s tr e ttis s im a so rv e g lia n z a n ei n u m e ro si la g e r d i la v o ro for-

2 Pëtr Veršigora (1905-63), insignito del premio Stalin nel 1947, nel romanzo citato celebrò gli eroismi dei Sovietici in tempo di guerra. 3 Anton Makarenko (1888-1939), pedagogista ed educatore, creò e diresse colonie per il recupero di giovani abbandonati e sbandati (b e sp riz o m ik i ); fautore della rieducazione e del recupero mediante l’ambiente collettivo e il lavoro, credeva nella possibilità di forgia­ re r«uomo nuovo». 4 In Russia la guerra russo-tedesca che si combattè nel 1941-45 nell’ambito della Se­ conda guerra mondiale viene chiamata V e lik a ja O tečestven naja V o jn a, Grande guerra pa­ tria.

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zato, la cui attività durante la guerra non aveva conosciuto un at­ timo di sosta. A quel tempo ce n’erano davvero moltissimi. Sevlag, Sevvostlag, Sevzaplag’’ , in ogni regione, in ogni cantiere grande o piccolo c’erano filiali delle varie ripartizioni concentrazionarie. Accanto a direzioni nane che superavano a malapena il migliaio di detenuti, c’erano i lager giganti con una popolazione, negli anni di massimo sviluppo, di alcune centinaia di migliaia di persone: il Barn lag, il T ajk tla g , il D m ìtlag, Temniki, Karaganda... I lager cominciarono a riempirsi di criminali. Due grandi ripartizioni lontane vennero rifornite con particolare cura - Koly­ ma e Vorkuta. La severa natura dell’Estremo Nord, il gelo peren­ ne, l’inverno di otto o nove mesi, associati a un regime determi­ nato, offrivano condizioni favorevoli per la liquidazione dei criminali. L ’esperienza condotta da Stalin nel 1938 sui trockisti era stata coronata da un completo successo ed era ancora nella me­ moria di tutti. A Kolyma e a Vorkuta cominciarono ad arrivare uno dopo l’al­ tro convogli di condannati in base ai Decreti del 1947. Anche se dal punto di vista lavorativo i malavitosi erano un materiale sca­ dente e certamente non utilizzabile per colonizzare la regione, in compenso fuggire dall’Estremo Nord era quasi impossibile. Il pro­ blema dell’isolamento era dunque risolto in modo soddisfacente. A questo riguardo, le particolarità geografiche di queste regioni artiche erano all’origine della comparsa alla Kolyma di una parti­ colare categoria di evasi (i «fuggiaschi dei ghiacci» - secondo la pittoresca espressione della malavita) che in sostanza non fuggi­ vano da nessuna parte, ma si nascondevano lungo la rotabile di duemila chilometri assaltando gli automezzi di passaggio. A que­ sti evasi veniva imputato come principale capo d’accusa non l’e­ vasione in sé e neppure il brigantaggio. I giuristi valutavano il ca­ so in rapporto al lavoro e lo facevano rientrare nella categoria del sabotaggio controrivoluzionario, di quel «rifiuto di lavorare» che nei lager è il peggiore dei crimini. Grazie agli sforzi congiunti dei giuristi e dei pensatori dell’amministrazione concentrazionaria, il criminale recidivo alla fine venne in qualche modo ficcato dentro la cornice del piu terribile degli articoli, il 38. In che cosa consiste il catechismo del «ladro» ? Un malavitoso, un membro del «mondo criminale» - sono gli stessi malviventi a chiamarlo in questo modo - deve rubare, ingannare i fraera, bere,5

5 Rispettivamente acronimi di (Sistema dei) «Lager del Nord», «Lager del Nordest», Lager del Nordovest», per significare tutti i punti cardinali della Kolyma.

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gozzovigliare, giocare a carte, non lavorare, partecipare alle pravilki, vale a dire i «tribunali d’onore». Per il ladro, la prigione an­ che se non è il focolare domestico, una «tana» o un «covo» caldo, è un posto dove, gli piaccia o meno, è costretto a passare una par­ te considerevole della sua esistenza. Ne consegue un’importante conclusione e cioè che in prigione i malavitosi devono garantirsi certi diritti - con la forza, l’astuzia, l’impudenza, l’inganno -, di­ ritti non ufficiali certo, ma importanti, come quello al posto piu comodo, al cibo migliore e cosi via. E se nella cella sono numero­ si ci riescono praticamente sempre. L ’importante è mettere le ma­ ni su quante più cose possibile tra quelle a disposizione. Queste «tradizioni» consentono al ladro di vivere meglio degli altri sia in prigione che nei lager. La breve durata delle pene e la frequenza delle amnistie dava­ no ai malviventi la possibilità di scontare le condanne senza par­ ticolari preoccupazioni e senza lavorare. Lavoravano solo gli ope­ rai specializzati - idraulici, meccanici, e anche quelli di tanto in tanto. Nessun ladro faceva il lavoro «nero», di manovalanza. Pre­ feriva piuttosto finire in cella di rigore, nel carcere di isolamento del lager... Con il Decreto del 1947 e le sue pene di vent’anni per delitti insignificanti il problema di «come impiegare il tempo» nel lager si pose ai malavitosi in modo nuovo. Se prima un ladro poteva spe­ rare di riffa o di raffa di tirare avanti alcuni mesi o un paio d’an­ ni, ora la prospettiva era di passare in detenzione praticamente tutta la vita o perlomeno una buona metà. Ma la vita di un ladro è breve. Tra i malavitosi, i pachany, gli anziani sono pochi. Non vivono a lungo. Nel loro ambiente, la mortalità è considerevol­ mente piu elevata della media nazionale. Il Decreto del 1947 pose al mondo criminale dei seri problemi e le migliori intelligenze della malavita si applicarono febbrilmen­ te a trovare una soluzione adatta. In base alla loro legge, il ladro in detenzione non può occupa­ re nessuna delle funzioni amministrative che vengono affidate ai detenuti. Non gli è consentito di fare il ripartitore, o lo starosta, o il «caporale». Per lui sarebbe lo stesso che entrare nei ranghi di quelli che sono i suoi nemici giurati per la vita. Il ladro che rive­ ste quel genere di funzioni amministrative smette di essere ladro e viene dichiarato «cagna», «imbastardito», diventa un vue zakom , «fuori legge», e ogni malavitoso considera un onore sgozzare alla prima occasione un rinnegato del genere. L ’intransigenza del mondo criminale su questo punto è molto

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grande e i commentari giuridici di certi casi complicati ricordano la logica sottile e tortuosa del Talmud. Un esempio: un ladro passa vicino al posto di guardia. Il sor­ vegliante di guardia gli grida: «Ehi, da’ un bel colpetto alla rotaia, per favore, suona tu visto che sei di strada...» Se il ladro batte sul­ la rotaia - il segnale della sveglia e degli appelli - ha già violato la legge, s’è «imbastardito». Le pravilki, ossia i tribunali d ’onore dove si «regola la giusti­ zia», si occupano prevalentemente proprio di queste trasgressioni e tradimenti nei confronti della propria bandiera, nonché dell’in­ terpretazione «giuridica» di questa o quell’azione dubbia. Colpe­ vole o non colpevole? Una risposta affermativa del tribunale d’o­ nore comporta generalmente e quasi immediatamente un sangui­ noso castigo. Naturalmente a uccidere non sono i giudici, ma i giovani. I capibanda hanno sempre ritenuto simili «atti» molto proficui per la gioventù malavitosa: che guadagna in esperienza, si tempra... I malavitosi condannati dopo la guerra cominciarono ad affluire a Magadan e a Ust'-Cil'ma su piroscafi e treni. «La cricca milita­ rista» - fu cosi che li chiamarono in seguito. Avevano fatto tutti la guerra e non sarebbero stati condannati se non avessere com­ messo dei nuovi delitti. Ahimè, quelli come Voron'ko erano mol­ to, molto pochi. La grandissima, schiacciante maggioranza dei ma­ lavitosi era tornata alla sua professione. A rigore, non l’avevano neppure mai lasciata - i saccheggi al fronte non sono poi cosi lon­ tani dalla principale occupazione del nostro gruppo sociale. Alcu­ ni dei ladri più animosi avevano anche ricevuto delle decorazioni. I malavitosi invalidi di guerra si erano trovati una nuova fonte di guadagno molto lucrosa - l’accattonaggio sui treni suburbani. Tra i «militaristi» c’erano molti urki importanti, esponenti di spicco di quel mondo sotterraneo. Adesso, dopo alcuni anni di guerra e di libertà, rientravano in luoghi familiari, in case con le finestre chiuse da inferriate, in zony concentrazionarie avviluppa­ te in dieci recinti di filo spinato, rientravano in luoghi familiari con pensieri che invece non lo erano, e un’evidente angoscia. Ne avevano già un po’ discusso durante le lunghe notti del viaggio di trasferimento e tutti avevano convenuto sul fatto che non si po­ teva continuare a vivere come prima, che nel loro mondo erano maturati dei problemi i quali richiedevano di essere discussi sen­ za indugio «al massimo livello». I caporioni della «cricca militari­ sta» desideravano incontrarsi con i loro compagni di un tempo che

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solo per caso - cosi pensavano - erano riusciti a tenersi lontano dalla guerra, con i compagni che avevano trascorso tutti gli anni del conflitto rinchiusi nelle prigioni e nei lager. I «militaristi» si figuravano già le scene gioiose dell’incontro tra vecchi amici, l’in­ contenibile gara di spacconate tra «ospiti» e «padroni di casa» e contavano sull’aiuto di tutti per risolvere i gravissimi problemi che la vita stessa poneva al loro mondo. Quelle speranze non erano destinate a realizzarsi. Il vecchio mondo criminale non li accolse nelle sue fila e i «militaristi» non vennero ammessi ai tribunali d ’onore. Risultò che i problemi che li tormentavano erano già stati discussi e risolti da molto tempo nella malavita. E la decisione presa non era affatto quella che si aspettavano i «guerraioli». - Hai fatto la guerra ? Hai preso in mano il fucile ? Dunque sei una «cagna», una «cagna» fatta e finita, e in base alla «legge» me­ riti di essere punito. Inoltre sei anche un vigliacco! Non hai avu­ to la forza di volontà di rifiutare la compagnia di rinforzo - e «bec­ carti una condanna» o perfino morire, pur di non prendere in ma­ no il fucile! Ecco cosa rispondevano ai nuovi arrivati i «filosofi» e gli «ideo­ logi» del mondo criminale. La purezza delle convinzioni della «mala» - dicevano - è la cosa piu preziosa. E non bisogna cambiare niente. Se è un «vero uomo» e non un «moccioso», il ladro deve sapere sopravvivere a qualsiasi decreto - se no che ladro sarebbe. I «guerraioli» si richiamarono allora ai passati meriti e insi­ stettero per essere ammessi ai tribunali d ’onore come giudici con gli stessi diritti e la stessa autorità degli altri, ma inutilmente. I vecchi urkagany che in tempo di guerra, nelle loro celle, s’erano dovuti adattare a razioni da fame, e anche a molte altre cose, fu­ rono irremovibili. Però tra quelli che tornavano c’erano molti personaggi di ri­ guardo del mondo criminale. Anche tra di loro c’erano abbastan­ za filosofi, ideologi e leader. Espulsi dal loro ambiente natio in mo­ do così categorico e sbrigativo, essi non potevano rassegnarsi allo stato di paria al quale li condannavano gli urkì ortodossi. I rap­ presentanti dei «militaristi» fecero invano notare che, quando era stato loro proposto di andare al fronte, il caso e le particolarità del­ la situazione di allora avevano reso impossibile un rifiuto. E na­ turalmente fuori questione che la malavita abbia mai potuto nu­ trire qualche sentimento patriottico. L ’esercito, il fronte - erano solo un pretesto per tornare in libertà, poi si sarebbe visto. A un certo punto gli interessi dello Stato e i loro personali interessi ave­

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vano coinciso - ed era proprio di questo che adesso erano chiamati a render conto ai loro compagni. D ’altronde la guerra rispondeva a certe aspirazioni dei malavitosi, come l’amore per il rischio, il pericolo. Né allora né adesso avevano mai pensato a rieducarsi, a rompere con il mondo criminale. L ’amor proprio ferito di queste «autorità» che avevano smesso di essere tali, la consapevolezza dell’inutilità del loro passo, tacciato di tradimento dai compagni, nonché il ricordo dei duri percorsi della guerra - tutto questo au­ mentava la tensione nei rapporti e surriscaldava all’estremo l’at­ mosfera di quel mondo sotterraneo. In effetti, c’erano stati dei la­ dri che erano andati in guerra per mancanza di coraggio - aveva­ no minacciato di fucilarli e a quel tempo l’avrebbero anche fatto. I piu deboli avevano seguito i caporioni, le autorità - la vita è sem­ pre la vita, gente. I malavitosi importanti, i «capi della cricca militarista» rima­ sero contrariati ma non si persero d ’animo. Pazienza, se la vecchia «legge» non li accettava, loro ne avrebbero fatta una nuova. E nel 1948, nel centro di smistamento della baia di Vanino, venne pro­ mulgata una nuova legge della malavita. Il villaggio e porto di Va­ nino erano stati costruiti durante la guerra, quando era saltato in aria il porto della baia di Nachodka. I primi passi di questa nuova legge sono legati al nome semi­ leggendario di un ladro soprannominato «il Re», un uomo del qua­ le molti anni dopo i ladri v zakone, «nella legge», che l’avevano conosciuto e l’odiavano, dicevano con rispetto: «S i ha un bel di­ re, ma almeno aveva carattere...» « Aver carattere » è presso i malavitosi un concetto particolare. E un insieme di sfrontatezza, ostinazione, parlantina sciolta, e uno speciale ardimento e tenacia uniti a isteria e doti istrioniche. II nuovo Mosè possedeva pienamente queste qualità. Secondo la nuova legge i malavitosi potevano lavorare nei la­ ger e nelle prigioni come starosty, ripartitori, caporali, capisqua­ dra, ed esercitare tutta una serie di svariate mansioni concentrazionarie. Il Re fece con il comandante della zona di transito un accordo terribile: gli promise di instaurare un ordine perfetto nella sua peresylka sistemando i ladri «nella legge» con i propri mezzi. Se in casi estremi fosse scorso il sangue - gli chiedeva di non badarci piu di tanto. Ricordò al comandante anche le proprie benemerenze militari (in guerra aveva ricevuto una decorazione) e gli dette ad intende­ re che in quel momento le autorità si trovavano di fronte a una

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scelta per la quale una giusta decisione poteva portare alla scom­ parsa della malavita e del crimine dalla nostra società. Lui, il Re, si impegnava a realizzare questo difficile compito e chiedeva che non gli mettessero i bastoni tra le ruote. E da ritenere che il comandante della zona di transito di Vanino si fosse affrettato a mettere al corrente della cosa i suoi supe­ riori e che avesse ricevuto il loro beneplacito per l’operazione del Re. Nei lager le autorità locali non decidono mai niente di propria autonoma iniziativa. Tanto piu che tutti si spiano reciprocamen­ te, è la regola. Il Re prometteva di emendarsi! Una nuova legge della malavi­ ta! Cosa si può volere di piu? Era quello che aveva sognato Maka­ renko, la realizzazione dei piu reconditi desideri dei teorici. Fi­ nalmente aveva inizio la «rieducazione» dei malavitosi! Final­ mente era arrivata la conferma pratica cosi lungamente attesa di quelle annose elucubrazioni teoriche sull’argomento, a comincia­ re dall’«elastico» di Krylenko per finire alla teoria del castigo di Vysinskij. Abituata a vedere nei blatari, nei «trentacinque» - gli «amici del popolo», l’amministrazione carceraria non seguiva molto i sot­ terranei processi che si sviluppavano nel mondo criminale. Da lag­ giù non arrivava nessuna informazione preoccupante - la rete di delatori e informatori di cui disponevano i capi era da tutt’altra parte. Gli stati d’animo della malavita e i problemi che l’agitava­ no non interessavano a nessuno. Era un mondo che già da molto tempo avrebbe dovuto emen­ darsi, ed ecco che il momento era finalmente arrivato. A provar­ lo - dicevano le autorità - era la nuova legge del Re. Tutto questo era il risultato del benefico influsso della guerra che aveva risve­ gliato sentimenti patriottici perfino nei criminali. Avevamo pur letto Veršigora, avevamo sentito parlare delle vittorie dell’armata di Rokossovskij. I veterani dell’amministrazione, incanutiti nel servizio dei la­ ger, anche se dubitavano che «qualcosa di buono potesse venire da Nazareth»6, ritenevano comunque che uno scisma, un conflit­ to intestino tra i due gruppi di malavitosi potesse solo portare dei vantaggi agli altri, alle persone normali. Meno moltiplicato per me­ no dà piu - argomentavano. Si poteva provare. II Re ricevette il loro consenso per il suo «esperimento». In una di quelle brevi giornate delle regioni nordiche tutta la popo­ 6 Cosi nel Vangelo,

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lazione della prigione di transito di Vanino venne allineata su due file. Il comandante della prigione presentò ai detenuti il nuovo starosta. Era il Re. Come comandanti di compagnia vennero designati i suoi aiutanti piu fidati. Il nuovo personale del lager non stette a perdere tempo. Il Re passava lungo lo schieramento scrutando ognuno con attenzione e si limitava a dire: - Esci! Tu! Tu! E tu! - Il dito si muoveva nell’aria e si fer­ mava spesso, e sempre senza sbagliare. La vita di ladro l’aveva abi­ tuato a essere osservatore. Se aveva qualche dubbio, verificare non era difficile e tutti - i malavitosi non meno del Re - lo sapevano perfettamente. - Svestiti! Togliti la casacca! I tatuaggi - le indelebili «bucature» segni di riconoscimento dell’ordine - svolsero il loro ruolo esiziale. I tatuaggi sono errori di gioventù dei malavitosi. Questi disegni eterni facilitano il lavoro della polizia criminale. Ma solo ora si rivelavano forieri di morte. Iniziò il massacro. A calci, bastonate, colpi di pietra e tirapu­ gni, la banda del Re cominciò a ridurre in briciole, «su basi lega­ li», gli adepti della vecchia legge della malavita. - Vi convertite alla nostra fede? - gridava trionfante il Re. Adesso sarebbe stato lui a verificare la forza d ’animo dei più osti­ nati tra quegli «ortodossi» che l’avevano accusato di debolezza. Vi convertite alla nostra fede ? Per il passaggio alla nuova legge della malavita era stato in­ ventato un rito, un’azione teatrale. La malavita ama una certa tea­ tralità e se N. N. Evreinov o Pirandello avessero conosciuto que­ sta circostanza - non avrebbero mancato di ricavarne degli spun­ ti per arricchire le proprie teorie sceniche. Questo nuovo rituale non aveva niente da invidiare alla famo­ sa cerimonia di investitura dei cavalieri. Non è escluso che proprio i romanzi di Walter Scott abbiano suggerito questa procedura si­ nistra e solenne. - Bacia il coltello! Alle labbra del malavitoso picchiato di santa ragione veniva av­ vicinata la lama di un coltello. - Bacia il coltello! Se il ladro «nella legge» accettava e posava le labbra sul ferro veniva considerato affiliato alla nuova fede e perdeva qualsiasi di­ ritto nel mondo della malavita, diventando per sempre una «ca­ gna». Questa idea del Re era veramente un’idea da re. Non solo

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perché quelle consacrazioni di cavalieri della malavita gli garanti­ vano innumerevoli riserve per l’esercito delle «cagne» - era infat­ ti poco probabile che, introducendo la cerimonia del coltello, il Re pensasse al giorno dopo e al giorno dopo ancora. Ma ad una cosa aveva sicuramente pensato. Avrebbe messo tutti i suoi vecchi ami­ ci di prima della guerra in quella stessa situazione - la vita o la morte! - nella quale lui, il Re, almeno a quel che ne dicevano i ma­ lavitosi «ortodossi», si era comportato da vigliacco. Adesso toc­ cava a loro dimostrare ciò di cui erano capaci! Le circostanze era­ no le stesse. Tutti quelli che si rifiutavano di baciare il coltello venivano uc­ cisi. Ogni notte, nuovi cadaveri venivano accatastati davanti alle porte delle baracche chiuse dall’esterno. Quegli uomini non veni­ vano semplicemente uccisi. Questo al Re non bastava. Su tutti i cadaveri c’erano le «firme» incise nella carne di tutti i vecchi com­ pagni che avevano baciato il ferro. Non ci si limitava ad assassi­ narli. Prima di farli morire li si «strigliava», li si calpestava, ba­ stonava, mutilava. E solo dopo li uccidevano. Quando, dopo un anno o due, arrivò un convoglio da Vorkuta (dove era successa la stessa storia) e alcune «cagne» di spicco sbarcarono dal piroscafo - si chiari che la gente di Vorkuta non approvava tutta quell’inu­ tile crudeltà dei kolymiani. «D a noi si ammazza e basta, ma a che pro “strigliare” ?» Dunque a Vorkuta non si facevano proprio le stesse cose che faceva la banda del Re. Le notizie dei massacri compiuti dal Re nella baia di Vanino attraversarono il mare e in tutta la terra kolymiana i ladri della vec­ chia legge si prepararono a difendersi. Venne proclamata la mobi­ litazione generale, l’intera malavita cominciò ad armarsi. Tutte le forge e officine meccaniche della Kolyma lavoravano in segreto al­ la fabbricazione di coltelli, picche e baionette. Naturalmente non erano i malavitosi a forgiarli ma dei veri artigiani del mestiere e lo facevano «di buon grado e tanta fifa» - come dicevano i malavi­ tosi. I malavitosi sapevano già prima di Hitler che spaventare un uomo è molto piu sicuro che comprarlo. E, va da sé, costa anche meno. Qualsiasi meccanico, qualsiasi fabbro ferraio è disposto a veder crollare la sua percentuale di realizzazione del piano pur di aver salva la vita. Nel frattempo l’energico Re aveva convinto l’amministrazione della necessità di una «tournée» nei centri di transito dell’Estre­ mo Oriente siberiano. Accompagnato da sette suoi accoliti fece il giro delle peresylki fino a Irkutsk - lasciandosi dietro decine di ca­ daveri e centinaia di convertiti, di nuove «cagne».

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Le «cagne» non potevano restare in eterno nella baia di Vanino, Vanino era una tranzìtka, un lager di transito, di smistamen­ to. Attraversarono dunque il mare alla volta dei giacimenti d’oro. La guerra si allargò a macchia d’olio. I malavitosi ammazzavano le «cagne», le «cagne» i malavitosi. I dati degli «archivi n. 3» - (quel­ li dei morti) - si impennarono, pareggiando quasi i record del fa­ migerato 1938 quando i trockisti venivano fucilati a intere squa­ dre per volta. Le autorità si precipitarono al telefono per chiamare Mosca. Ci si rese conto che nell’allettante espressione «nuova legge della malavita», la parola «malavita» era la più importante, e che di «rieducazione» neanche si parlava. Le autorità si erano fatte in­ finocchiare di nuovo - stavolta dall’intelligente e crudele Re. Dall’inizio degli anni Trenta, i malavitosi - sfruttando abil­ mente la diffusione delle idee sulla «rieducazione attraverso il la­ voro», distribuendo a destra e a manca milioni di parole d ’onore, sfruttando spettacoli come Gli aristocratici e le ferme direttive del­ le amministrazioni sulla necessità di dare «fiducia» al criminale re­ cidivo - si dedicano alla salvaguardia dei propri «quadri dirigen­ ti». Anzi, sono proprio le idee di Makarenko e la famigerata perekovka a consentire ai malavitosi, sotto la loro copertura, di salvare i propri quadri e rafforzarli. Si sosteneva che nei confron­ ti dei poveri criminali andassero adottate sanzioni esclusivamen­ te rieducative e non punitive. Di fatto la cosa appariva come una curiosa sollecitudine per la preservazione della delinquenza. Qual­ siasi persona con i piedi per terra - chiunque lavorasse in un lager - sapeva, e aveva sempre saputo, che la questione di un recupero o una «rieducazione» dei criminali di professione non aveva nes­ sun senso, e che era solo un mito pericoloso. Che ingannare i «fes­ si» e le autorità era per un malavitoso qualcosa di cui andare fie­ ro; che a un «fesso» si potevano fare anche mille giuramenti, da­ re milioni di parole d’onore,vpurché abboccasse. Drammaturghi scarsamente perspicaci, tipo Sejnin e Pogodin, continuavano, e la malavita ne approfittava, a predicare la necessità di «dar fiducia» ai ladri. Per un Kostja il capitano che si rieducava, c’erano dieci­ mila malavitosi usciti di prigione prima del termine che commet­ tevano ventimila assassinii e quarantamila rapine. Ecco il prezzo pagato per Gli aristocratici e Diario di un inquirente1. Sejnin e Po­ godin erano troppo incompetenti per trattare una questione cosi 7 In realtà Z a p isk i sled o v ate lja, M em o rie d i un

inquirente

(si veda qui la nota 4 a p. 755).

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importante. Invece di smitizzare i malviventi, li hanno circonfusi di un’aura romantica. Nel 1938, nei lager, i malavitosi vennero esplicitamente invi­ tati a sterminare i trockisti; pestarono e ammazzarono vecchi iner­ mi, «morituri» affamati... Quando perfino l’«agitazione contro­ rivoluzionaria» era punita con la morte, i crimini dei malavitosi venivano coperti dalle autorità. Sintomi visibili di rieducazione non ne apparivano, né presso i malavitosi né presso le «cagne». L ’unica cosa certa era che cen­ tinaia di cadaveri venivano ogni giorno raccolti negli obitori dei lager. Cosi che le autorità, rinchiudendo insieme malavitosi e «ca­ gne», mettevano deliberatamente o gli uni o gli altri in pericolo di morte. Gli ordini di «non interferire» furono presto annullati e ven­ nero ovunque create delle zone speciali, separate, per le «cagne» e i ladri «nella legge». In fretta e furia, anche se un po’ tardi, il re e i suoi correligionari furono sollevati dalle loro mansioni ammi­ nistrative e ridivennero dei semplici mortali. L ’espressione «sem­ plice mortale» assunse imprevedibilmente un senso particolare, si­ nistro. Le «cagne» non erano immortali. Si vide che la creazione di zone speciali sul territorio di uno stesso lager non era di nessu­ na utilità. Il sangue continuò a scorrere. Si dovettero assegnare ai ladri «nella legge» e alle «cagne» miniere separate (nelle quali na­ turalmente accanto ai malfattori lavoravano anche titolari di altri articoli del codice). Ci furono spedizioni, incursioni di «cagne» o ladri armati nelle vicine «zone nemiche». Si dovette allora adot­ tare un’ulteriore misura organizzativa - attribuire a ladri e «ca­ gne» intere direzioni, ognuna con diversi giacimenti. Cosi, tutta la Direzione dell’Ovest, con i suoi ospedali, prigioni e lager ven­ ne lasciata alle «cagne», mentre i ladri furono concentrati nella Di­ rezione del Nord. Nelle zone di transito ogni malavitoso era tenuto a dichiarare alle autorità se era un ladro o una «cagna», e a seconda della ri­ sposta veniva assegnato a un convoglio destinato là dove la sua vi­ ta non sarebbe stata in pericolo. Il termine di «cagna», benché rendesse in modo impreciso la sostanza della questione e fosse anche sbagliato dal punto di vista terminologico, attecchì subito. Nonostante tutte le proteste dei caporioni della nuova legge contro questo soprannome offensivo, non se ne trovò uno migliore, più appropriato, fu con questo no­ me che entrarono nei documenti ufficiali, e molto presto comin­ ciarono essi stessi ad usarlo. Per chiarezza. Per semplicità. Qual­

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siasi disputa linguistica avrebbe potuto trasformarsi immediata­ mente in tragedia. Il tempo passava, ma questa sanguinosa guerra di sterminio non si placava. Come sarebbe finita? Come? - congetturavano i saggi del lager. E rispondevano: con l’assassinio dei caporioni dell’una e dell’altra parte. Lo stesso Re era già saltato in aria in una miniera lontana (sul suo sonno, nell’angolo di una baracca, vegliavano ami­ ci armati; i malavitosi avevano piazzato sotto l’impiantito una ca­ rica di ammonale sufficiente a far volare in cielo tutti i tavolacci). Già la maggior parte dei «guerraioli» giacevano nelle fosse comu­ ni dei lager, con una targhetta di legno legata alla gamba sinistra, immortali nel gelo perenne. Già i ladri piu ragguardevoli, Ivan Unoemezzo Babalanov e Ivan Unoemezzo Grek, erano morti sen­ za aver baciato il coltello. Ma altri, non meno eminenti, Cibis, Miška l’Odessita, l’avevano baciato e ora ammazzavano i malavi­ tosi per la maggior gloria delle «cagne». Nel secondo anno di questa guerra «fratricida» si produsse un fatto nuovo di una certa importanza. Ma come ? Davvero la cerimonia del bacio del coltello poteva cambiare l’anima di un malavitoso? O il famigerato «sangue di fur­ fante» poteva cambiare la propria composizione chimica nelle ve­ ne di un urkagan per il fatto che le sue labbra si erano accostate al ferro di una lama? Quelli che avevano baciato il coltello non erano affatto tutti concordi nell’approvare le nuove tavole della legge. Moltissimi di loro restavano nell’anima dei seguaci delle vecchie leggi - del re­ sto anch’essi a suo tempo avevano condannato le «cagne». Una parte di questi malavitosi che avevano mancato di forza d ’animo cercarono alla prima occasione di rientrare «nella legge». Ma una volta di piu l’idea del Re dimostrò tutta la propria forza e profon­ dità. I malavitosi «nella legge» minacciavano di morte le «cagne» convertite e non le volevano distinguere da quelle «di ruolo». Al­ lora alcuni vecchi ladri che avevano baciato il coltello delle «ca­ gne» e che erano tormentati dalla vergogna e dalla rabbia che que­ sta alimentava, fecero un’altra incredibile mossa. Venne promulgata una terza legge della malavita. Stavolta i «novatori» della terza legge non avevano le forze teoriche neces­ sarie per la messa a punto di una piattaforma ideologica. Essi ob­ bedivano unicamente al proprio rancore e le loro uniche parole d ’ordine erano la vendetta e un odio sanguinoso sia per le «cagne» che per i ladri rimasti v zakone - nella stessa misura. Posero quin­

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di mano allo sterminio fisico degli uni e degli altri. Agli inizi, al gruppo aderirono inaspettatamente cosi tanti urkagany che le au­ torità dovettero assegnare anche a loro una miniera a parte. La se­ rie di nuovi ammazzamenti, che l’amministrazione non aveva af­ fatto previsto, creò grande turbamento negli intelletti del perso­ nale concentrazionario. I malavitosi del terzo gruppo ricevettero l’espressivo nome di bespredel'šciki, «senza confini». Venivano chiamati anche machnovcy - l’aforisma di Nestor Machno pronunciato durante la guer­ ra civile a proposito dei propri rapporti con i Rossi e con i Bian­ chi era ben noto nel loro mondo. Cominciarono a nascere sempre nuovi gruppi che assumevano i nomi piu svariati, ad esempio, Krasnye šap ačk i, «Cappuccetti rossi». Le autorità del lager non sape­ vano piu dove sbattere la testa e assegnavano a ciascun gruppo de­ gli alloggi separati. In seguito si vide che i «senza confini» non erano poi cosi nu­ merosi. I ladri agiscono sempre in compagnia - un malavitoso so­ litario non è concepibile. Il carattere pubblico delle gozzoviglie e dei tribunali d ’onore nel sotterraneo mondo della malavita è indi­ spensabile ai ladri, grandi o piccoli che siano. Essi hanno bisogno di questa appartenenza a un mondo qualsivoglia, dove poter cer­ care e trovare aiuto, amicizia, comuni affari. I «senza limiti» furono essenzialmente delle figure tragiche. Nella guerra delle «cagne» non trovarono molti sostenitori, costi­ tuirono piuttosto un fenomeno di tipo psicologico, e suscitarono qualche interesse soprattutto da questo punto di vista. Dato il lo­ ro scarso numero, i «senza limiti» dovettero subire molte specifi­ che umiliazioni. II fatto è che in base alle disposizioni le celle di transito poste sotto la vigilanza della scorta erano di due tipi: per i ladri «nella legge» e per le «cagne». I «senza limiti» dovevano piatire presso le autorità un posto, dilungarsi in spiegazioni, per poi sistemarsi in un angolino in mezzo ai «fessi» che non li avevano per niente in simpatia. I «senza limiti» erano quasi sempre dei viaggiatori so­ litari. Erano costretti a ricorrere continuamente alle autorità, i la­ dri e le «cagne» li aspettavano al varco. Cosi uno di loro, dopo es­ sere stato dimesso dall’ospedale, passò tre giorni e tre notti (pri­ ma della partenza) sotto una torretta di guardia - era il posto piu sicuro -, nel lager potevano ucciderlo e lui si era rifiutato di en­ trare nella zona recintata. Il primo anno sembrò che fossero in vantaggio le «cagne». Le azioni energiche dei loro caporioni, i cadaveri dei malavitosi in tut-

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ti i centri di transito, l’autorizzazione a destinare le «cagne» alle miniere nelle quali prima non si arrischiavano a mandarle - erano altrettanti sintomi della loro superiorità nella «guerra». Il reclu­ tamento con il rito del bacio del coltello aveva acquisito una larga notorietà. Il lager di transito di Magadan era un loro caposaldo. L ’inverno stava finendo e i malavitosi «nella legge» attendevano smaniosi che iniziasse la navigazione. Il primo piroscafo avrebbe deciso la loro sorte. Che cosa avrebbe loro portato - la vita o la morte ? Con il piroscafo arrivarono le prime centinaia di malavitosi or­ todossi dal «continente». E tra loro neanche una «cagna»! Le «cagne» del lager di transito di Magadan vennero rapida­ mente spedite alla «loro» Direzione dell’Ovest. Ricevuti i rinfor­ zi, i malavitosi «nella legge» rialzarono la testa e la guerra si riac­ cese con rinnovata forza e ferocia. In seguito, un anno dopo l’al­ tro, i loro «quadri» venivano integrati con i nuovi arrivi portati dal continente. Anche gli effettivi delle «cagne» si moltiplicava­ no con il noto sistema del bacio del coltello. Il futuro era come sempre incerto. Nel 1951, Ivan Cajka - Gab­ biano - uno degli esponenti piu «autorevoli» della legge della ma­ lavita a quel tempo e in quei luoghi - venne inserito in un convo­ glio in trasferimento dopo un mese di cure all’Ospedale centrale per detenuti. In realtà non era stato per niente malato. Il respon­ sabile della sezione sanitaria della miniera dov’era «registrato» quel malavitoso di rispetto era stato minacciato di rappresaglie se non lo avesse mandato a riposarsi all’ospedale, e gli avevano an­ che promesso due vestiti se avesse invece obbedito alla racco­ mandazione. Aveva dunque fatto ricoverare Cajka. Le analisi cli­ niche non rivelarono alcunché di preoccupante per la sua salute, ma nel frattempo anche il responsabile del reparto terapeutico ave­ va ricevuto tutte le delucidazioni necessarie. Cajka era rimasto in ospedale per un mese intero, poi aveva accettato di farsi dimette­ re. Ma al momento di lasciare la peresylka ospedaliera, il malavi­ toso, quando senti il suo nome all’appello per Yetap, chiese: dove è diretto il convoglio? Il ripartitore, per fargli uno scherzo, no­ minò una delle miniere di quella Direzione dell’Ovest dove di nor­ ma i malavitosi «nella legge» non venivano mandati. Dopo dieci minuti Cajka dichiarò di essere malato e chiese di chiamare il re­ sponsabile del centro di transito. Il capo, che era anche medico, arrivò. Cajka appoggiò la mano sinistra sul tavolo, allargando le dita, e le inferse ripetuti colpi con il coltello che impugnava nella destra. Ogni volta la lama affondava fino al legno e Cajka la estrae­

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va con un gesto brusco. Fu questione di un paio d ’istanti. Cajka spiegò allo spaventatissimo capo che lui era un ladro v zakone e co­ nosceva i suoi diritti. Lui doveva andare alla Direzione del Nord, quella dei ladri. Di andare a quella dell’Ovest, per morirci, non aveva nessuna intenzione, preferiva piuttosto perdere la mano. Spaventato com’era, il capo non riusciva avcapire cosa fosse tutta quella storia - infatti stavano mandando Cajka proprio dove vo­ leva lui. Cosi, grazie al ripartitore, il mese di riposo di Cajka fu un po’ rovinato. Se non avesse chiesto il luogo di destinazione, ogni cosa sarebbe andata per il meglio. L ’Ospedale centrale per detenuti con i suoi mille e piu letti, orgoglio della medicina kolymiana, era situato sul territorio del­ la Direzione del Nord. Era perciò normale che i ladri lo conside­ rassero più l’ospedale di una regione, la loro, che non un’istitu­ zione centrale. Le autorità ospedaliere si sforzarono a lungo di re­ stare «al di sopra della mischia» facendo finta di curare malati provenienti da tutte le direzioni. Non era propriamente cosi, poi­ ché i malavitosi «nella legge» consideravano la Direzione del Nord la propria roccaforte e accampavano speciali diritti su tutto il suo territorio. Avevano ottenuto che le «cagne» non venissero cura­ te in quel complesso ospedaliero, dove la qualità dell’assistenza era migliore della media, e che soprattutto, in quanto Ospedale centrale, poteva emettere i certificati di invalidità che autorizza­ vano il trasferimento sul continente. L ’avevano ottenuto, s’è det­ to, ma non con reclami, ricorsi e proteste, bensì con i coltelli. Ba­ stò qualche assassinio sotto il naso del direttore dell’ospedale e questi se ne fece una ragione, capi qual era il suo vero posto in faccende tanto delicate. Gli sforzi dell’ospedale per mantenersi su posizioni esclusivamente mediche non durarono a lungo. Quan­ do di notte un malato ficca il coltello nella pancia del suo vicino di letto - la cosa risulta alquanto convincente, per quante di­ chiarazioni poi possano fare le autorità riguardo al non lasciarsi coinvolgere nella «guerra civile» della malavita. All’inizio alcune «cagne» si erano lasciate ingannare dalla testardaggine della di­ rezione dell’ospedale e dalle assicurazioni che non avrebbero cor­ so alcun pericolo. Avevano accettato il ricovero all’Ospedale cen­ trale che veniva proposto loro dai medici delle miniere (qualsiasi medico era disposto a redigere con tutti i crismi le cartelle clini­ che necessarie, pur di sbarazzare la miniera da quei criminali, an­ che solo temporaneamente); la scorta li accompagnava all’ospe­ dale, ma piu in là dell’accettazione non andavano. Qui, una vol­ ta appresa la situazione, esigevano di essere immediatamente

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rispediti indietro. Il piu delle volte venivano riaccompagnati dal­ la stessa scorta. C ’era stato, però, anche un caso in cui il capo del­ la scorta, dopo il rifiuto dell’accettazione di procedere al ricove­ ro, aveva buttato in un vicino canale l’involto dei fascicoli per­ sonali e, abbandonati i malati, aveva cercato di squagliarsela sulla sua macchina con i militari che lo accompagnavano. Avevano già percorso una quarantina di chilometri quando erano stati raggiunti da un’altra macchina che aveva a bordo soldati e ufficiali del di­ staccamento di guardia dell’ospedale, muniti di fucili e revolver con il percussore alzato. I fuggiaschi erano stati riportati sotto scorta all’ospedale, qui avevano restituito loro detenuti e fasci­ coli e li avevano congedati. Un’unica volta, quattro «cagne» - malavitosi importanti - si arrischiarono a passare la notte tra le mura dell’ospedale. Barrica­ rono la porta della camerata messa a loro esclusiva disposizione e montarono la guardia a turno, con il coltello pronto. Il mattino do­ po li rimandarono indietro. Fu anche l’unico caso in cui vennero apertamente introdotte in ospedale delle armi - l’amministrazio­ ne cercava di non vedere i coltelli nelle mani delle «cagne». Generalmente si provvedeva a disarmarli all’accettazione, e in modo molto semplice - prima di essere condotti nel locale succes­ sivo per la visita medica, i malati venivano completamente spo­ gliati. Dopo ogni convoglio restavano sul pavimento e dietro le panche i coltelli e gli altri ferri abbandonati dai malavitosi. Addi­ rittura si doveva sbendare le medicazioni e rimuovere il gesso dal­ le fratture, poiché i coltelli venivano nascosti sotto le fasciature, a contatto della pelle. Piu si andava avanti, meno «cagne» arrivavano all’Ospedale centrale - nel conflitto che li opponeva alle autorità i ladri v zakone avevano praticamente già vinto. Un capo ingenuo che aveva fat­ to indigestione di Sejnin e Makarenko, grande ammiratore - in se­ greto, ma anche pubblicamente - del «romantico» mondo del cri­ mine («Sa, è un importante malavitoso! » - era detto con un tono tale, da credere che si stesse parlando di un accademico che aveva svelato i segreti del nucleo atomico), si riteneva un esperto degli usi e costumi della malavita. Aveva sentito parlare della Croce Ros­ sa, dell’atteggiamento dei malavitosi nei confronti dei medici, e il fatto di avere con essi dei rapporti personali solleticava piacevol­ mente il suo amor proprio. Gli avevano detto che la Croce Rossa, cioè la medicina, il per­ sonale sanitario e in primo luogo i medici, occupavano agli occhi della malavita una particolare posizione. Erano intoccabili, «ex­

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traterritoriali» per le operazioni della malavita. Non solo, nei la­ ger i malavitosi li proteggevano anche da ogni possibile disgrazia. Molta gente ha abboccato, e continua ad abboccare a questa ele­ mentare e rozza lusinga. E nel lager non c’è ladro o medico che non vi sappia raccontare la leggenda, vecchia come il cucco, del dottore derubato che s’era visto restituire l’orologio (la valigia,sil vestito) non appena i ladri avevano saputo che era un medico. É, in diverse versioni, la favola del Bréguet-Herriot di precisione. Circola anche la storia del medico affamato, nutrito in prigione (con i pacchi sottratti agli altri ospiti della cella) da ben pasciuti malavitosi. Esistono parecchi soggetti classici dello stesso tipo, che vengono raccontati secondo regole precise, come le aperture delle partite a scacchi. Che cosa c’è di vero, come stanno le cose? Si tratta di un cal­ colo freddo, rigoroso e ignobile dei malavitosi. E quel che c’è di vero è che nei lager l’unico difensore del detenuto (anche mala­ vitoso) è il medico. Non il capo del lager, non l’addetto cultura­ le responsabile della Kvč, ma unicamente il medico, il quale di­ spensa al detenuto un aiuto quotidiano e concreto. Il medico può firmare l’ordine di ricovero. Il medico può dare un giorno o due di riposo - e questa è una cosa molto importante. Può mandare da qualche parte, o non mandare - per ogni trasferimento è ri­ chiesta la ratifica del medico. Può fare assegnare un lavoro leg­ gero, abbassare la «categoria lavorativa» - e in questo ambito es­ senziale, vitale egli non è soggetto ad alcun controllo, o quasi, e comunque non compete al capo locale esercitarlo. Il medico sor­ veglia l’alimentazione dei detenuti e può farlo anche molto bene, sempre che non sia lui stesso coinvolto nello scialo delle dotazio­ ni alimentari. Può prescrivere razioni migliori. I suoi diritti e do­ veri sono grandi. E fosse anche un cattivo medico, in lager è pro­ prio lui la forza morale. Potere influire sul medico è molto piu im­ portante che tenere na k rju ck e il capo stesso del lager o «com­ prare» l’addetto della Kvč. Per corrompere i medici ci vuole una grande abilità, e caute intimidazioni, e in effetti è anche proba­ bile che vengano loro restituiti gli oggetti rubati. Di questo non si conoscono comunque esempi certi. Per cóntro, non è raro ve­ dere indosso ai medici - non esclusi i «liberi» a contratto - ve­ stiti completi o pantaloni in buono stato regalati dai ladri. La ma­ lavita resta in cordiali rapporti con il medico (o qualsiasi altro ad­ detto del servizio sanitario) finché questi viene incontro a tutte le pretese dell’impudente banda, pretese che crescono man mano che lui si impegola sempre più nei suoi legami apparentemente in­

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nocenti con i malavitosi. E cosi persone malate, vecchi allo stre­ mo devono morire sui tavolacci perché i loro posti all’ospedale so­ no occupati da blatari sani come pesci che devono riposarsi. E se il medico si rifiuta di ottemperare ai desideri dei criminali, que­ sti non lo trattano affatto come un rappresentante della Croce Rossa. Surovoj, un giovane moscovita, medico in una miniera, si era categoricamente rifiutato di dar corso alle richieste dei mala­ vitosi in merito al ricovero di tre di loro presso l’Ospedale cen­ trale per un periodo di riposo. La sera del giorno dopo venne as­ sassinato mentre visitava in ambulatorio - l’anatomopatologo contò sul suo cadavere cinquantadue ferite da coltello. Una don­ na-medico avanti con gli anni, SiceT, che lavorava alla sezione sa­ nitaria di una miniera di donne, non aveva voluto dispensare dal lavoro una blatarka. Il giorno dopo venne ammazzata a colpi d ’ac­ cetta. E fu la sua inserviente opedaliera a eseguire la sentenza del­ la malavita. Surovoj era giovane, onesto e pieno di fervore. Quan­ do venne ucciso, al suo posto fu designato il dottor Krapivnickij - che aveva già diretto delle sezioni sanitarie nelle miniere di pu­ nizione, un medico «libero a contratto», esperto, che ne aveva vi­ ste di cotte e di crude. Il dottor Krapivnickij si limitò ad annunciare che non avrebbe fatto visite e neppure curato direttamente. I medicinali indispen­ sabili sarebbero stati distribuiti tutti i giorni tramite i soldati del distaccamento di guardia. La zona veniva chiusa ermeticamente e avrebbero lasciato uscire solo i cadaveri. A due anni e rotti dalla sua assegnazione a quella miniera, il dottor Krapivnickij era sem­ pre lf e in piena salute. La zona cosi sbarrata, circondata da mitragliatrici e tagliata fuo­ ri dal resto del mondo, viveva di una propria spaventosa vita. La macabra fantasia dei criminali vi allestiva in pieno giorno dei pro­ cessi in piena regola, con udienze, arringhe d ’accusa e deposizio­ ni di testimoni. Smontati alcuni tavolacci, avevano eretto in mez­ zo al lager una forca alla quale erano state poi impiccate due «ca­ gne» «smascherate». Tutto questo veniva fatto non di notte ma alla luce del giorno, sotto gli occhi delle autorità. Un’altra zona di questa miniera era considerata «lavorativa». Da lf partivano i malavitosi di rango inferiore per andare a lavo­ rare. Con l’arrivo in forze dei delinquenti comuni, la miniera per­ se naturalmente il suo valore produttivo. L ’influenza della zona vi­ cina, dove non si lavorava, si faceva sentire in permanenza. Pro­ prio da una di queste baracche di lavoratori arrivò all’ospedale un vecchio, recluso nel lager per reati comuni, ma che non era del gi-

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ro dei criminali di professione. Come raccontarono i malavitosi ar­ rivati insieme a lui, «aveva mancato di rispetto a Vasečka! » «Vasecka» era un giovane ladro di una famiglia di ladri ere­ ditari, dunque un caporione. Il vecchio era due volte piu anziano di lui. Offeso dal tono dell’anziano («e risponde pure! ») Vasečka si era fatto portare un pezzo di miccia Bickford e una cartuccia. Si­ stematagli la cartuccia tra le palme, gli avevano legato le mani in­ sieme - quello non aveva osato protestare - e poi avevano acceso la miccia. L ’esplosione gli strappò via le mani. Tanto gli costò ave­ re mancato di rispetto a «Vasecka». La guerra delle «cagne» continuava. E cominciò anche a ma­ nifestarsi per conto suo un fenomeno che certi capi intelligenti ed esperti temevano piu di ogni altra cosa. Preso gusto agli ammaz­ zamenti - e a quel tempo per chi ammazzava nel lager non c’era la pena di morte - sia le «cagne» che i malavitosi cominciarono a por mano ai coltelli ad ogni minima occasione, anche se non aveva nien­ te a che fare con la loro «guerra». Il cuciniere è stato troppo scarso con la minestra o l’ha data troppo brodosa ? - gli si pianta un pugnale nel fianco, e il cucinie­ re rende l’anima a Dio. Un medico non dispensa dal lavoro ? - gli avvolgono un asciu­ gamano attorno al collo e lo strozzano... Il responsabile del servizio di chirurgia dell’Ospedale centrale rimproverò a un malavitoso influente il fatto che i ladri uccides­ sero i medici e non rispettassero piu la Croce Rossa. Come mai la terra non si apriva loro sotto i piedi? Ai malavitosi fa estremamente piacere quando le autorità li interpellano su simili... «que­ stioni teoriche». Quello rispose, con le leziosità e l’affettazione dell’irriproducibile accento della malavita: - E la legge della vita, dottore. Le situazioni variano. In un ca­ so può essere così, e in un altro tutto l’incontrario. Le cose non stanno ferme. Il nostro malavitoso non era un cattivo dialettico. Ce l’aveva a morte con tutti per via di una cosa che gli era successa. Un gior­ no, per uscire dal carcere di isolamento e farsi ricoverare in ospe­ dale, si era messo negli occhi del lapis copiativo polverizzato. Per uscire, era uscito, ma i medici specialisti lo avevano soccorso trop­ po tardi e lui era rimasto cieco per sempre. La cecità non gli impediva comunque di prendere parte alle di­ scussioni su tutti i problemi della malavita, di dare consigli ed espri­ mere pareri, autorevoli e vincolanti. Come il sir Williams di Ro-

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cam bole, il malavitoso cieco continuava a vivere a pieno titolo la

propria vita di criminale. Nelle istruttorie sulle «cagne» un suo verdetto di colpevolezza era sufficiente a chiudere il caso. Da tempi immemorabili, nel mondo criminale si chiama «ca­ gna» il traditore della causa, il malavitoso passato dalla parte del­ la polizia. E anche se nella guerra delle «cagne» si trattava di qual­ cosa di diverso, di una nuova legge dei ladri, i cavalieri del nuo­ vo ordine dovettero portarsi dietro comunque l’offensivo sopran­ nome. Le autorità concentrazionarie, tranne che nei primi mesi della loro «guerra», non li gratificarono mai di un particolare affetto. Preferivano di gran lunga avere a che fare con i malavitosi di vec­ chio stampo, gente piu facile da capire, più semplice. La guerra delle «cagne» rispondeva a un’esigenza oscura e im­ periosa dei malviventi: il piacere di uccidere, l’appagamento della sete di sangue. Questa guerra non era altro che un calco degli av­ venimenti dei quali i malavitosi erano stati per molti anni testi­ moni. Episodi della vera guerra si riflettevano, come in uno spec­ chio deformante, negli avvenimenti della vita criminale. La realtà di quei fatti cruenti, tale da togliere il respiro, affascinava i capo­ rioni. Già un semplice borseggio da tre mesi di prigione o uno «scasso» d ’appartamento comportano una sorta di «esaltazione creativa». Si accompagnano, raccontano i malavitosi, a qualcosa di incomparabile, a una tensione spirituale d’ordine superiore, a una salutare vibrazione dei nervi, quando il ladro si sente vera­ mente vivere. Quanto più viva, e sadicamente acuta deve essere la sensazio­ ne data dall’omicidio, dal sangue versato; e il fatto che l’avversa­ rio sia anch’esso un ladro non fa che accrescere l’intensità del tur­ bamento. Il senso della teatralità connaturato alla malavita trova sfogo in questo gigantesco e cruento spettacolo che si protrae per anni. Qui tutto è reale e tutto è un gioco, un gioco spaventoso e mortale. Come in Heine: «La carne sarà vera carne, e il sangue sarà sangue umano». I malavitosi giocano, parodiando la politica e la guerra. I ca­ porioni occupavano città, mandavano pattuglie in avanscoperta, tagliavano le vie di comunicazione dell’avversario, processavano i traditori e li impiccavano. Era tutto reale e al tempo stesso un gio­ co, un gioco sanguinoso. La storia della criminalità, che ha già molti millenni alle spal­ le, conosce molti esempi di lotte feroci tra bande nemiche - per le

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zone da saccheggiare, per il predominio nel mondo della malavi­ ta. Tuttavia molti tratti peculiari della guerra delle «cagne» ne fan­ no un evento unico nel suo genere. 1959.

« S u e 'ja» v o jn a ,

in «Don», 1989, n. 1.

Apollo tra i malavitosi

I malavitosi non amano le poesie. I versi non hanno niente a che fare con il loro mondo cosi concreto. A quali bisogni recondi­ ti, a quali aspirazioni estetiche dell’anima dei ladri dovrebbe ri­ spondere la poesia ? Quali loro esigenze dovrebbe soddisfare ? Due o tre cose in proposito Esenin le sapeva e molte altre ne indovinò. Tuttavia perfino i blatari più istruiti rifuggono i versi - la lettura' di strofe in rima sembra loro un passatempo vergognoso, una buffonata, offensiva per la sua incomprensibilità. Puškin e Ler­ montov sono poeti eccessivamente complessi per chiunque affronti per la prima volta la poesia. Essi esigono una particolare prepara­ zione, un certo livello estetico. E impensabile iniziarsi alla poesia partendo da Puškin, o anche da Lermontov, Tjutčev, Baratinskif. Tuttavia nella poesia russa classica ci sono due autori i cui versi hanno una presa estetica su ascoltatori anche non preparati, e pro­ prio partendo da loro bisogna cominciare a educare all’amore e al­ la comprensione della poesia. Si tratta, beninteso, di Nekrasov e so­ prattutto di Aleksej Tolstoj3. Vasilij Sibanov e La ferrovia sono in questo senso le poesie piu «efficaci». Ho potuto verificarlo in mol­ te occasioni. Ma né La ferrovia né Vasilij Sibanov producevano la minima impressione sui malavitosi. Appariva chiaro che ad inte­ ressarli era unicamente la trama delle opere, e avrebbero preferi­ to ascoltarne la versione in prosa, o quantomeno farsi racconta­ re Il principe Serebrjanyj. Allo stesso modo, una descrizione lette­ raria di paesaggio in un romanzo letto a voce alta non diceva nien­ te all’anima degli ascoltatori malavitosi, ed era evidente la loro im-1

1 C ten ie in russo indica sia «lettura» che «declamazione, recitazione», ad esempio di poesie proprie o altrui in pubblico, molto praticata in Russia. 2 Evgenij Baratynskij (1800-44), un classico della poesia russa, noto per la sua lirica fi­ losofica e i motivi elegiaci. 3 Aleksej K. Tolstoj (1817-75), scrittore, poeta e drammaturgo, autore della ballata V a silij S ib a n o v e del romanzo I I p rin cip e Serebrjan yj.

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pazienza di arrivare il più in fretta possibile al dunque dell’azio­ ne, dei fatti o perlomeno dei dialoghi. Naturalmente il malavitoso, anche se gli rimane ben poco di umano, non è privo di esigenze di tipo estetico. Esse trovano ap­ pagamento nella cosiddetta canzone di prigione - le canzoni del genere sono molto numerose. Si va dalle canzoni epiche - tipo O plà, batti i tacchi, che è già in via di sparizione, alle stanze in ono­ re del famoso Gorbačevskij e di altre analoghe stelle del mondo criminale, alle canzoni L e isole Solovk i. Ci sono canzoni liriche, nelle quali trovano sfogo i sentimenti dei blatari, che hanno un’im­ pronta molto particolare e si distinguono immediatamente dalle altre - sia per intonazione, che per tematica e visione del mondo. La canzone lirica di prigione è in genere molto sentimentale, malinconica e commovente. Al di là delle numerose pecche or­ tofoniche, è qualcosa che sgorga dal cuore. A ciò contribuisce an­ che la melodia, spesso molto originale. L ’interpretazione, per quan­ to primitiva possa essere, ne aumenta a dismisura la suggestività - poiché l’esecutore non è un uomo di spettacolo, ma un perso­ naggio di quella stessa vita di cui canta. L ’autore di un monologo lirico non ha bisogno di indossare un costume di scena per inter­ pretarlo. I nostri compositori non hanno ancora attinto al folclore mu­ sicale della malavita - i tentativi di Leonid Utësov4 («Dal carcere di Odessa...») non fanno testo. Una canzone molto diffusa e notevole dal punto di vista musi­ cale è II destino. La sua melodia malinconica può talvolta far pian­ gere qualche ascoltatore sensibile. Un malavitoso non si lascerà commuovere fino alle lacrime dalla canzone, ma anche lui starà a sentirla con aria compresa e solenne. Inizia cosi: E il destino a muover tutto quanto, niente e nessuno gli sfugge - mai tutti dirige, ci è sempre accanto, dove dispone, docile tu vai.

II nome del «poeta di corte» che ha composto il testo è scono­ sciuto. Successivamente nella canzone si narra con la massima na­ turalezza del «lascito» che il malavitoso ha ricevuto dal padre, del­ le lacrime della madre, della tisi contratta in prigione, e si procla­ ma la ferma intenzione di seguire fino alla morte la strada intrapresa. 4 Leonid Utësov (1895-1982), popolarissimo autore ed esecutore di canzoni.

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Chi trova in sé la forza per lottare affronti fino in fondo il rio destino.

Il bisogno di teatro, di scultura e pittura è nei malavitosi pari a zero. Il b la ta r' non prova alcun interesse per queste muse, per queste forme d’arte - lui è troppo concreto; le sue emozioni d’or­ dine «estetico» sono troppo sanguinose, troppo vitali. Non si sta parlando di naturalismo - i confini tra l’arte e la vita sono indefi­ niti e gli «spettacoli» troppo realistici che i malavitosi mettono in scena spaventano sia l’arte che la vita. In una miniera della Kolyma dei malavitosi avevano rubato al­ l’ambulatorio una siringa da venti centilitri cubi. Per farne cosa? Per iniettarsi della morfina ? Forse l’infermiere del lager aveva ru­ bato ai suoi capi delle fiale di sostanze stupefacenti per offrirle ai malavitosi e ingraziarseli ? Oppure, dato che nel lager quello era uno strumento cosi pre­ zioso, l’avevano preso per ricattare il medico esigendo in cambio una contropartita sotto forma di «esenzione dal lavoro» per i ma­ neggioni della mala ? Né l’una né l’altra cosa. I malavitosi avevano sentito dire che se si inietta a qualcuno dell’aria nelle vene, le bolle bloccano le ar­ terie del cervello provocando un «embolo». E l’uomo muore. Ave­ vano dunque deciso di verificare senza indugio la veridicità di que­ ste interessanti informazioni raccolte in ambiente medico. La lo­ ro immaginazione già disegnava misteriosi omicidi che nessun commissario della sezione criminale, nessun Vidocq5, Leacocq o Van'ka Kain avrebbe mai potuto scoprire. Una notte, nel carcere interno del lager, avevano immobilizza­ to e legato un «fesso» affamato e alla luce di una torcia fumante avevano fatto alla loro vittima l’iniezione. L ’uomo era morto in bre­ ve tempo - si dimostrò che il loquace infermiere aveva ragione. I malavitosi non capiscono niente di balletto classico, tuttavia l’arte della danza, folcloristica e zigana, fa parte da sempre del lo­ ro «Onesto specchio della gioventù»6. I virtuosi del genere non devono essere «importati» da fuori. L ’ambiente malavitoso è già ricco per conto suo di cultori e co­ reografi. 5 Vidocq, capo della polizia criminale di Parigi e autore di memorie che fecero scal­ pore, è noto al pubblico russo grazie a un articolo di Puškin del 1830 in cui il poeta chia­ ma «Vidocq russo» il noto pubblicista e scrittore F. V. Bulgarin. 6 Ju n o s ti cestn oe zercalo\ letture edificanti per la gioventù, un genere diffuso in Russia tra il XIV e il xvn secolo.

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Queste danze folcloristiche e questi tip-tap zigani non sono af­ fatto cosi primitivi come potrebbe sembrare di primo acchito. Tra i «Ballettmeister» malavitosi si possono incontrare artisti straordinariamente dotati, capaci di danzarvi un discorso di Achun Babaev o l’editoriale del giornale di ieri. Son molto debole ma devo continuare del padre morto il non facile cammino.

C ’è una vecchia romanza lirica molto diffusa nel mondo cri­ minale, che ha un inizio «classico»: Le acque eran gli specchi lucenti della luna, -

e nella quale il protagonista, afflitto per la separazione, si rivolge all’amata: Amami, bimba, finché sono fuori, sono tuo se sono in libertà, dietro le sbarre non c’è l ’amore e il mio amico più caro, compagno ti sarà.

Invece dell’«amico piu caro» ci vorrebbe una cosa piu breve, «un altro», ad esempio. Ma il malavitoso che interpreta la romanza è pronto ad allungare un verso e spezzare il ritmo purché si con­ servi quel determinato senso della frase, l’unica cosa che per lui conti davvero. «Un altro» che ti soffia la donna è qualcosa di ba­ nale, che va bene per i «fessi». Mentre « l’amico piu caro», a cui passare la donna, è già piu in sintonia con le leggi della morale ma­ lavitosa. Con tutta evidenza, l’autore di questa romanza non era un malavitoso (a differenza della canzone II destino, dove c’è l’in­ confondibile mano del criminale recidivo). La romanza prosegue su toni filosofici: Son figlio della mala, un furfante di Odessa, un ladro, difficile da amare. Forse è meglio, bambina, che qui stesso ci lasciamo per poi dimenticare.

E più in là: La condanna è sicura, la Siberia la meta, qualche remota plaga di laggiù. Diventerai forse ricca, sarai certo lieta. E invece io - mai più, mai più.

Tra le canzoni della malavita sono molto numerose quelle epi­ che, ad esempio, L ’isola S o lo v k i: Punti dorati, piccole fiammelle come quelle del lager Solovki.

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Dello stesso genere è l’antichissimo O plà, batti i tacchi, una spe­ cie di inno della malavita, molto conosciuto anche al di fuori de­ gli ambienti criminali. Un altro classico è la canzone R icordo una scura notte d ’autun­ no. Ne esistono molte versioni, e successivi rifacimenti. Tutte le aggiunte e rimaneggiamenti posteriori sono meno buoni, piu roz­ zi della prima variante che delinea l’immagine classica dello scas­ sinatore ideale, il suo lavoro, il suo presente e futuro. Nella canzone viene descritta la preparazione e l’esecuzione di un colpo in banca a Leningrado, la forzatura della cassaforte. Ricordo i forti trapani vibrare con un fitto ronzio di calabroni.

Ed ecco che già si apre lo sportello metallico: E su tutte le mensole occhieggiare, in mazzi tutti uguali, quei milioni.

Uno dei partecipanti allo scasso, ricevuta la propria parte, la­ scia immediatamente la città - travestito da Cascarilla. Un sobrio vestito di taglio inglese, un fiore all’occhiello del paltò, e alle sette e trenta, tal giorno, tal mese, lasciò la capitale e se ne andò.

Per «capitale» si intende Leningrado, ma è piu verosimile che si tratti di Pietrogrado, il che ci permette di far risalire l’appari­ zione di questa canzone agli anni 1914-247. Il protagonista parte per il Sud dove incontra un «prodigio di beltà»: Quel che succede è chiaro: Ma i soldi come neve sono spariti, e devo ritornare sui miei passi e tuffarmi di nuovo a capofitto nella cupa e feroce Leningrado.

Segue il «colpo», l’arresto e la strofa conclusiva: Scorta severa e strada impolverata, Vado a sentire cosa m’hanno dato, O dieci anni di quelli di rigore O un viaggio sulla luna, sola andata.

Sono tutte opere con una tematica molto particolare. Con­ temporaneamente ad esse, altre stupende canzoni come A prite la 7 Sankt-Peterburg, costruita da Pietro il Grande nel 1703, venne ribattezzata con il nome slavo di Petrograd tra il 1914 e il 1924; nel gennaio di quell’anno divenne Leningrad (in onore di Lenin), per poi tornare al nome iniziale nel 1991.

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finestra,fate presto o Non piangere, piccola amica mia, quest’ultima soprattutto nella sua versione originale di Rostov, godono di una grande popolarità tra i malavitosi e hanno tra essi interpreti e ascol­ tatori. Romanze quali Com’era bella e azzurra quella notte o Ricordo quel giardino e quel suo viale non hanno un testo specificamente «malavitoso», e ciononostante sono molto popolari anche in quel­ l’ambiente. Tutte le canzoni della mala, compresa la famosa Non per noi suoneran le fisarmoniche o Notte d ’autunno hanno decine di va­ rianti, come se la romanza seguisse la stessa sorte del «romanzo» orale, ridotto puramente a schema, a intelaiatura di sostegno per l’effondersi del narratore. Talora certe romanze dei «fessi» subiscono rilevanti modifi­ che, e si impregnano di spirito malavitoso. Cosi la romanza Non parlatemi di lui si è trasformata presso i malavitosi nella lunghissima (il tempo della prigione è un tempo che non passa mai) Muročka Bobrova. Nella romanza originale non c’è nessuna Muročka Bobrova. Ma il malavitoso ama la precisio­ ne. E ama altresi le descrizioni particolareggiate. Arriva al tribunale di corsa un calessino. Scenda ! - le dice un tale e salga quella scala, quella che gira in tondo, ma non si guardi intorno.

Gli elementi relativi al luogo sono resi con parsimonia. E la bionda, occhi ardenti, china docile la testa, tutta pallida diventa, e con il velo si fa schermo. E le chiede l’inquirente: dica un p o’, Mura Bobrova, è colpevole o innocente, vuole dirci una parola ?

Solo dopo questa dettagliata «esposizione», si prosegue con il testo abituale della romanza: Non mi dite di lui una parola il passato non è dimenticato -

tee. Tutti mi dicono triste e desolata, sfiduciata e delusa dalla gente, anche ammalata, ma semplicemente della vita non m’importa niente.

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E, infine, l’ultima strofa: Un grido risuonò dentro il suo petto, non appena ebbe terminato, e dei giudici il verdetto restò non letto e inascoltato.

Il fatto che la sentenza non sia stata pronunciata intenerisce sempre molto i malavitosi. Molto caratteristica è l’avversione dei ladri per il canto corale. Perfino Frusciava i l giuncheto nella notte scura, universalmente no­ to, non faceva vibrare i cuori dei malavitosi, e non godeva di al­ cuna popolarità nel loro ambiente. I malavitosi non hanno canzoni corali, non cantano mai in co­ ro, e se dei «fessi» intonano qualche aria immortale come C i son stati giorni gai o C haz-Bulat, il ladro non solo si guarda bene dall’unirsi a loro, ma non resta neanche ad ascoltarli: se ne va. I malavitosi cantano esclusivamente «a solo», seduti accanto alla finestra chiusa dalle sbarre o allungati sul letto, le mani dietro la nuca. Un ladro non si metterà mai a cantare su richiesta, ma sempre in modo improvviso, obbedendo a un impulso interiore. Se è un buon cantante, nella cella le voci tacciono e tutti si met­ tono ad ascoltarlo. Lui, senza alzare troppo le voce, articolando distintamente le parole, esegue le sue canzoni una dopo l’altra, na­ turalmente senza nessun accompagnamento. L ’assenza di accom­ pagnamento sembra rafforzare l’espressività del suo canto e non è affatto avvertita come un difetto. Nei lager ci sono orchestre di fiati e di archi, ma è tutto un di più che «viene dal maligno» - è raro che i malavitosi vi partecipino, anche se la legge della mala­ vita non proibisce espressamente attività di questo tipo. Che l’arte vocale carceraria potesse svilupparsi esclusivamente sotto la forma del canto solistico è del tutto comprensibile. E una insuperabile necessità determinata dalla storia. Tra le pareti di una prigione non può essere ammesso nessun canto corale. Ma anche quando sono fuori, al riparo dei loro «covi», i mala­ vitosi non cantano mai in coro. Durante gozzoviglie e festini ne fanno tranquillamente a meno. Ci si può vedere una riprova della loro natura ferina e solitaria, del loro spirito anticollegiale, ma for­ se il vero motivo va cercato nelle abitudini carcerarie. Tra i malavitosi non si incontrano molti amanti della lettura. Tra decine di migliaia di ladri, ne ricordo solo due per i quali il li­ bro non era qualcosa di estraneo, lontano, ostile. Il primo era il borsaiolo Rebrov, un malavitoso ereditario - il padre e il fratello

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maggiore erano già del ramo. Rebrov aveva la forma mentis del fi­ losofo, era in grado di farsi passare per chiunque e di sostenere con cognizione di causa qualsiasi conversazione su argomenti d’ordi­ ne generale. In gioventù Rebrov aveva potuto ricevere una certa istruzione - aveva studiato in un istituto professionale di cinematografia. In famiglia, la madre, ch’egli amava molto, aveva condotto una bat­ taglia accanita per il figlio minore, nel tentativo di evitargli ad ogni costo la sorte del padre e del fratello maggiore. Ma il suo «sangue di furfante» s’era rivelato più forte dell’amore per la madre e Re­ brov, una volta lasciato l’istituto, non s’era più dedicato a nessu­ na occupazione che non fosse quella di rubare. Ma la madre ave­ va continuato a lottare per il figlio. L ’aveva fatto sposare con un’a­ mica della figlia, una maestra che insegnava in un villaggio. A suo tempo Rebrov l’aveva violentata ma poi, cedendo alle insistenze materne, aveva finito per sposarla, la vita in comune s’era rivela­ ta tutto sommato felice e dopo ogni nuovo «soggiorno al fresco» lui tornava sempre in famiglia. Lei gli aveva dato due bimbe, e Re­ brov portava sempre con sé la loro fotografia. Lei gli scriveva an­ che spesso, lo consolava come poteva, e lui non si vantava mai del suo amore, non mostrava mai le lettere a nessuno, benché di nor­ ma nell’ambiente s’usasse in altro modo e le lettere femminili, quando si era tra «amiconi», fossero patrimonio comune. Aveva più di trent’anni. Successivamente si converti alla legge delle «ca­ gne» e fu sgozzato nel corso di uno degli innumerevoli e sangui­ nosi combattimenti. Gli altri ladri gli manifestavano rispetto, ma anche diffidenza, se non avversione. A respingerli era il suo amore per la lettura, e in generale la sua istruzione. La sua natura era agli occhi dei com­ pagni troppo complessa e quindi incomprensibile e inquietante. La sua abitudine di esporre i propri pensieri in modo chiaro, logico e breve li irritava e li induceva a sospettare in lui qualcosa di estraneo al loro mondo. E costume dei ladri sostenere i propri giovani, anche provve­ dendo a mantenerli, e ogni ladro «importante» è circondato da una corte di adolescenti che dipendono da lui. Rebrov aveva introdotto un altro criterio di condotta. - Se sei un ladro, - diceva all’adolescente, - devi essere in gra­ do di cavartela da solo, non sarò io a mantenerti, preferisco piut­ tosto dare qualcosa a un «fesso» che ha fame. E benché fosse riuscito a dimostrare le proprie ragioni davan­ ti a una pravilka nella quale si era discusso di questa nuova «ere­

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sia», e la decisione del «tribunale d ’onore» gli fosse stata favore­ vole, il suo atteggiamento, che andava contro le tradizioni mala­ vitose, non suscitò alcunavsimpatia. Il secondo era Genka Cerkasov, il parrucchiere di una delle ripartizioni concentrazionarie. Genka era un vero appassionato di libri, pronto a leggere tutto quello che gli capitava tra le mani, gior­ no e notte. «Per tutta la strada cosi» (cioè per tutta la sua vita) spiegava. Genka era un dom ušnik, uno s k o k a r 'v ale a dire uno spe­ cialista nel «ripulire» appartamenti. - Tutti gli altri, - raccontava a voce molto alta e in tono fiero, - rubano «stracci» (cioè vestiti) di qualsiasi genere. Io invece - li­ bri. I compagni mi prendevano sempre in giro. Una volta ho ru­ bato un’intera biblioteca. Me la sono portata via su un camion, potessi morire! Pivi che i successi nell’attività ladresca, Genka sognava una car­ riera di «romanziere», di narratore, gli piaceva raccontare a chi voleva ascoltarlo i vari Prìncipe V jazem skij o Fante di cuori - che costituiscono dei classici della letteratura orale delle prigioni. Ogni volta chiedeva di segnalargli i difetti della sua interpretazione e sognava una narrazione «a piu voci». Ecco due uomini della malavita per i quali il libro era qualcosa di importante e necessario. La restante massa dei malavitosi invece prendeva in conside­ razione solo i «romanzi» e ne era completamente appagata. Va soltanto detto che non a tutti piacevano i polizieschi, an­ che se, apparentemente, era proprio questo il genere preferito dai ladri. Tuttavia un buon «romanzo» storico o un dramma d ’amo­ re venivano ascoltati con molto maggiore interesse. «Sono tutte cose che conosciamo, - diceva il ladro “ferroviario” Serëza Ušakov, - cose della nostra vita. Ci siamo stufati delle storie di investiga­ tori e ladri. Come se non ci interessasse nient’altro». Oltre ai «romanzi» e le romanze carcerarie ci sono i film. Tut­ ti i malavitosi sono dei grandi appassionati di cinema - è l’unica forma d ’arte con la quale abbiano un rapporto diretto, «faccia a faccia» - e inoltre non vedono meno film di un abitante di città medio, anzi ne vedono di pili. Hanno una predilezione per i film polizieschi, specialmente stranieri. Le commedie le apprezzano solo se sono molto elemen­ tari, quando è l’azione a far ridere. I dialoghi spiritosi non sono il loro pane. Oltre ai film c’è la danza, il punta-e-tacco.

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C ’è anche un’altra cosa di cui si nutre lo spirito estetico del ma­ lavitoso. E lo «scambio di esperienze» carcerario - i racconti che si fanno l’un l’altro sui rispettivi «colpi» - distesi sui tavolacci del­ la prigione, in attesa dell’istruttoria o della deportazione. Queste narrazioni, questi «scambi di esperienza» occupano un posto assai rilevante nella loro vita. Non è un futile passatempo. E un tirare le somme, un apprendistato e un’educazione. Ogni ma­ lavitoso confida ai compagni certi dettagli della propria vita, del­ le proprie spedizioni e avventure. A questi racconti (che possono occasionalmente mirare in parte a verificare, a mettere alla prova un ladro sconosciuto) i malavitosi dedicano una parte considere­ vole del loro tempo in prigione, ma anche nei lager. Un modo per raccomandarsi è dire «con chi s’è fatta quella ca­ patina» (riferendosi a qualche famoso ladro che tutti nella mala­ vita, almeno per sentito dire, conoscono). «Chi sono gli “uomini” che ti conoscono?» Questa domanda determina generalmente un’esposizione dettagliata delle proprie imprese. E «giuridicamente» obbligatorio - dal racconto dello sco­ nosciuto, i malavitosi possono farsi un’idea abbastanza esatta su di lui, sanno dove fare la tara, e che cosa prendere per oro colato. L ’esposizione delle gloriose imprese ladresche, sempre ornate di fronzoli a maggior gloria delle leggi e dei costumi della malavi­ ta, è per i giovani un’esca romantica estremamente pericolosa. Ogni fatto è dipinto con dei colori cosi allettanti, cosi attraen­ ti (i malavitosi non lesinano sui colori) che il giovane ascoltatore capitato nella loro cerchia, diciamo in occasione del primo furto, ne resta affascinato, entusiasmandosi per l’eroico comportamento dei malavitosi. Però il racconto è, ad ogni piè sospinto - pura fan­ tasia, un’invenzione dall’inizio alla fine. («Se non ci credi, fa’ con­ to che sia una favola! »). I «milioni in mazzi tutti uguali», i diamanti, i festini e soprat­ tutto le donne - tutto questo è un modo per affermarsi, e, nella circostanza, mentire non è peccato. E anche se la grandiosa gozzoviglia nel covo è stata in realtà un modesto boccale di birra al Giardino d’Estate, per giunta preso a credito, - la voglia di ricamarci sopra è irresistibile. Se il narratore è uno già «controllato», può raccontare tutte le storie che vuole. Lasciandosi portare dall’ispirazione, lo spaccone si attribuisce delle imprese immaginarie che ha sentito in qualche prigione di transito, e a loro volta i suoi ascoltatori, caricando dieci volte le tinte, spacceranno per proprie queste avventure altrui.

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E così che si crea il romanticismo del crimine. Al giovane, che spesso è solo un ragazzo, gira la testa. Non sta piu nella pelle, vuole imitare quelli che per lui sono dei veri e pro­ pri eroi. Rende loro piccoli servigi, pende dalle loro labbra, spia ogni loro sorriso, si beve ogni loro parola. A dire il vero, in pri­ gione questo ragazzo non ha nessun altro sul quale poter contare, perché malversatori di città o trasgressori di campagna si tengono ben lontani da simili piccoli malviventi destinati a diventare in­ calliti criminali. Autoincensamento e spacconate celano indubbiamente un sen­ so in qualche modo estetico, affine a quello della letteratura. Se la prosa d ’invenzione dei malavitosi è il «romanzo» - l’opera lette­ raria raccontata - le narrazioni di questo tipo costituiscono una forma di memorialistica orale. Non vi vengono esaminate questioni tecniche connesse alle operazioni ladresche, ma vi si racconta con estro come «Kol'ka la Risata ha fatto fuori il marmittone», come «Kat'ka la Taccheggiatrice s’è fatta sposare dal procuratore», - in una parola sono ricordi per quando ci si riposa. La loro influenza corruttrice è enorme. 1 9 5 9 - A p o llo n sredi b latn y ch ,

in «Don», 1989, n. 1.

Sergej Esenin e il mondo della malavita

... Son tutti ladri e omicidi come ha voluto la loro sorte. Ho amato i loro tristi sguardi le loro guance incavate. C ’è molto male nella loro gioia, son semplici di cuore, ma sui loro volti anneriti si storcono le azzurre labbra .

Il convoglio che andava al Nord attraversando i villaggi degli Urali sembrava tratto di peso dai libri - tanto somigliava a ciò che avevamo potuto leggere in Korolenko, Tolstoj, Figner, Morozov... Era la primavera del ’29. Soldati di scorta completamente ubriachi, dagli occhi folli, che distribuivano manrovesci e ceffoni, e ad ogni momento lo scatto degli otturatori dei fucili. Un settario seguace di Fëdorov12, che ma­ lediceva i «dragoni»; la paglia fresca sul pavimento in terra bat­ tuta delle legnaie delle isbe dove si faceva tappa; misteriosi uomi­ ni tatuati con berretti da ingegnere, infiniti appelli e controlli, e conteggi, conteggi, conteggi... L ’ultima notte prima della tratta a piedi è la notte della sal­ vezza. E guardando i volti dei loro compagni, quelli che conosce­ vano i versi di Esenin, e nel 1929 non erano pochi, furono colpi­ ti dall’esauriente precisione delle parole del poeta: ma sui loro volti anneriti sì storcono le azzurre labbra. T u t t i a v e v a n o p r o p r io le la b b r a a z z u rr e e il v o lto n e ro . T u t t i a v e v a n o la b o c c a ch e si s to r c e v a - p e r il d o lo r e , a c a u sa d e lle in ­ n u m e re v o li s c r e p o la tu r e sa n g u in a n ti. 1 Da una poesia del 1915; tutti i versi citati sono tratti da poesie o poemi del 1915-25. 2 Nikolaj Fëdorov (1828-1903), filosofo religioso, nella sua opera principale L a f il o s o ­ f i a della ca u sa co m u n e preconizzò il superamento della morte con i mezzi della scienza mo­ derna.

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Un giorno che camminare era stato per qualche motivo meno faticoso, o la tratta piu breve del solito - al punto che tutti si era­ no sistemati per la notte quando ancora faceva giorno e avevano potuto riposarsi davvero -, dall’angolo dove si trovavano i ladri si era sentito un canto, o meglio un recitativo con una melodia ele­ mentare: Tu non m’ami, non hai per me pietà...

Il ladro finì di cantare la romanza, che aveva raccolto molti ascoltatori, e disse con aria d ’importanza: - Roba proibita. - E Esenin, - fece qualcuno. - Vada per Esenin, - concesse il cantante. Già a quel tempo - ad appena tre anni dalla morte del poeta la sua popolarità negli ambienti malavitosi era molto grande. Era l’unico poeta «riconosciuto» e «consacrato» dai malavito­ si, gente che non apprezza affatto la poesia. Piu tardi i malavitosi fecero di lui un «classico» - citarlo con rispetto diventò per i ladri una questione di galateo. Ogni blatar' istruito conosce poesie come Dacci dentro, fisar­ monica o Di nuovo qui si beve, e sono zuffe e pianti. Molto cono­ sciuta La Lettera a mia madre. Ma i Motivi persiani, i poemi, i ver­ si giovanili sono completamente ignorati. In che cosa Esenin è vicino all’anima dei malavitosi? Anzitutto, una sincera simpatia nei confronti del mondo dei malavitosi attraversa tutti i versi di Esenin. Più di una volta vie­ ne espressa in modo chiaro e diretto. Ricordiamo bene che: Fin dall’inizio ogni essere vivente ha un marchio suo speciale. Non fossi stato poeta, certamente sarei stato ladro e canaglia.

Anche i malavitosi ricordano molto bene questi versi. Allo stes­ so modo di poesie precedenti, come In quella terra dove l’ortica gial­ la (1915), e molte, molte altre. Ma non è solo questione di dichiarazioni dirette. Non è solo questione di versi come L ’uomo nero, in cui Esenin riferisce a se stesso una valutazione squisitamente malavitosa: L ’uomo era certo un avventuriero ma della più alta e migliore qualità.

L ’umore, l’atteggiamento e il tono di tutta una serie di poesie di Esenin sono vicini al mondo dei malavitosi.

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Quali sono dunque le note familiari che i malavitosi sentono risuonare nella poesia di Esenin? Anzitutto, note di tristezza, tutto ciò che provoca compassio­ ne, che si apparenta al «sentimentalismo carcerario». E gli animali, fratelli nostri più piccini mai li ho picchiati sulla testa.

I versi sul cane, la volpe, le vacche e i cavalli vengono inter­ pretati dai malavitosi come le parole di un uomo che è crudele con l’uomo e tenero con gli animali. I malavitosi però possono accarezzare un cane e un momento dopo smembrarlo vivo - non conoscono limiti morali, ma hanno una grande curiosità, specie per tutto ciò che riguarda la questio­ ne «sopravviverà o no?» Il b la t a r ' che già nell’infanzia ha comin­ ciato ad osservare le ali strappate a una farfalla o un uccellino al quale ha bucato gli occhi, quando diventa adulto cava gli occhi a un uomo, mosso da quello stesso genuino interesse che aveva nel­ l’infanzia. E dietro ai versi di Esenin sugli animali credono di vedere uno spirito affine al loro. Non ne colgono tutta la tragica serietà. Li prendono per un’abile dichiarazione in rima. Le note di sfida, di protesta, di irrimediabile perdizione sono tutti elementi della poesia di Esenin ai quali i malavitosi sono mol­ to sensibili. Invece, dei V ascelli dì gium ente o del Pantocratore non sanno che farsene. I malavitosi sono realisti. Nei versi di Esenin ci sono molte cose per loro incomprensibili, e quello che non ca­ piscono lo rifiutano. Mentre nei più semplici versi del ciclo M osca delle bettole essi riconoscono una percezione che è in sintonia con la loro anima, con la loro esistenza sotterranea insieme alle pro­ stitute, tra oscure gozzoviglie segrete. L ’ubriachezza, i bagordi, la celebrazione della dissolutezza tutto questo trova una rispondenza nell’anima dei ladri. Essi tralasciano completamente il lirismo paesaggistico di Ese­ nin, le sue poesie sulla Russia - per tutto questo non hanno il mi­ nimo interesse. E anche nei versi che conoscono e che a modo loro prediligo­ no, fanno dei tagli temerari. Così, nella poesia D acci dentro, fisa r­ m onica le forbici malavitose tagliano l’ultima strofa a causa delle parole: Mia cara, io piango, perdono... perdono...

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Il turpiloquio che Esenin ha introdotto in alcune poesie susci­ ta l’entusiasmo generale. E non potrebbe essere altrimenti, poiché la conversazione di ogni malavitoso è infarcita di imprecazioni oscene, le più complesse, elaborate, stratificate che si possano im­ maginare - è un lessico e un modo di vivere. E qui hanno di fronte un poeta che non dimentica questo aspet­ to della realtà per loro tanto importante. La poeticizzazione del teppismo, del chuliganstvo contribuisce pure alla popolarità di Esenin tra i ladri, anche se, apparentemen­ te, egli non dovrebbe riscuotere su questo punto le loro simpatie. Essi infatti tengono a distinguersi dai teppisti, agli occhi dei «fes­ si», e in realtà costituiscono un fenomeno affatto diverso - infi­ nitamente più pericoloso. Tuttavia, agli occhi dell’uomo della stra­ da, un teppista fa ancora più paura di un malavitoso. Il «teppismo» che Esenin ha celebrato nelle proprie poesie, è visto dai malavitosi come una sorta di cronaca dei loro covi, delle loro sotterranee gozzoviglie, dei loro tetri e sfrenati bagordi. Io sono, come voi, un uomo perduto e indietro non posso più tornare.

In ogni poesia di M osca delle bettole risuonano note che fanno vibrare l’anima del malavitoso; ma della profonda umanità, del lu­ minoso lirismo del creato che permeano i versi di Esenin essi non sanno che farsene. Ciò che a loro serve è cavarne fuori i versi con cui sentirsi in consonanza. E questi versi ci sono, c’è in Esenin questo tono del­ l’uomo offeso dal mondo, in collera con il mondo intero. C ’è ancora un altro aspetto della poesia di Esenin che lo avvi­ cina alle idee dominanti nella malavita, al codice di quel mondo. Si tratta dell’atteggiamento nei confronti della donna. Il ma­ lavitoso tratta la donna con disprezzo, considerandola un essere inferiore. La donna non merita altro che maltrattamenti, scherzi grossolani, percosse. Il malavitoso non pensa affatto ai propri figli; nella sua mora­ le non ci sono obblighi, non c’è un’idea che lo leghi ai propri «po­ steri». Cosa farà sua figlia? La prostituta? La ladra? Che ne sarà del figlio - per il malavitoso è del tutto indifferente. Forse che non è obbligato «per legge» a cedere la propria amica a un compagno più «autorevole»? I figli miei ho sparso per il mondo la moglie mia l’ho lasciata a un altro.

SERGEJ ESENIN E IL MONDO DELLA MALAVITA

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E qui i principi morali del poeta coincidono pienamente con le prescrizioni e i gusti consacrati dalle tradizioni e dall’uso dei ladri. Bevi, acciughina, bevi!

I malavitosi sanno a memoria i versi di Esenin sulle prostitute ubriache e li hanno da tempo presi «in dotazione». Esattamente come L ’ usignolo ha una sua bella canzone e T« non m ’am i, non hai per m e pietà che, con delle melodie inventate li per li, sono state incluse tra le opere migliori del «folclore» criminale, cosi come: Non sbuffare, trojka mia fatale, la vita se ne è andata in un momento, forse domani un letto d ’ospedale calmerà per sempre il mio tormento.

Al posto del letto «d ’ospedale» i cantanti malavitosi mettono quello «di prigione». II culto della madre, associato all’atteggiamento cinico e sprez­ zante nei confronti della donna-moglie, è un tratto caratteristico del mondo criminale. Anche sotto questo aspetto la poesia di Esenin riproduce con eccezionale perspicacia i concetti di quel mondo. Per un malavitoso, la madre è l’oggetto di un tenero attacca­ mento sentimentale, è il suo sancta sanctorum . Anche questo rien­ tra nelle regole di buona condotta del ladro, nelle sue tradizioni «spirituali». Combinato alla vigliacca prepotenza nei confronti del­ le donne in generale, lo sdolcinato atteggiamento sentimentalisti­ co verso la propria madre appare falso e menzognero. Tuttavia il culto della madre fa parte dell’ideologia ufficiale della malavita. Tutti i malavitosi senza eccezione conoscono la prima Lettera alla madre («Sei ancora viva, mia vecchierella?»). Questa poesia è L ’ uccellino di D io 3 dei malavitosi. E anche tutte le altre poesie di Esenin sulla madre, benché per popolarità non possano essere paragonate alla Lettera, sono co­ munque note e apprezzate. Lo stato d ’animo di Esenin in una parte delle sue poesie ri­ sponde con una precisione e un intuito straordinari alle concezio­ ni del mondo della malavita. Ed è proprio questo che spiega la grande e speciale popolarità di Esenin tra i ladri. Nello sforzo di sottolineare in qualche modo la loro vicinanza al poeta, di dimostrare al mondo intero il proprio legame con la 3 P tičk a b o ž ija , « L ’uccellino di Dio che non conosce cure né lavoro» è una notissima poesia di Puškin, conosciuta da ogni scolaro e messa anche in musica.

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sua poesia, i malavitosi, con la teatralità che li caratterizza, si fan­ no tatuare sul corpo sue citazioni. I versi più popolari che ricor­ rono spesso nei tatuaggi di molti giovani, frammischiati a disegni sessuali, carte da gioco e lapidi cimiteriali, sono: Quanto poco cammino percorso, quanti e quali errori commessi.

Oppure: Se si deve bruciare, che sia fino in fondo, chi s’è bruciato non riprende fuoco. Ho puntato sulla dama di picche, e ho giocato l’asso di quadri.

Penso che nessun poeta del mondo abbia mai avuto una pub­ blicità del genere. Solo Esenin, una volta «riconosciuto» dal mondo dei malavi­ tosi, è stato gratificato di questo particolare onore. Questo riconoscimento andò per gradi. Dal manifestarsi di un primo fugace interesse, quando si cominciò a conoscerlo, fino al­ l’inclusione dei versi di Esenin nell’obbligatoria «biblioteca del giovane malavitoso», con l’approvazione di tutti i caporioni del mondo sotterraneo, sono intercorsi due o tre decenni. Sono pro­ prio quegli anni in cui del poeta si pubblicava poco o niente (M o ­ sca delle bettole non è stato a tutt’oggi ristampato). E questo fat­ to aumentava la fiducia e l’interesse dei malavitosi nei suoi con­ fronti. Il mondo della malavita non ama i versi. La poesia non ha nien­ te a che fare con questo mondo tenebroso. Esenin è un’eccezione. Da notare che la sua biografia, il suo suicidio non hanno assolutamente influito sulle sue fortune in quest’ambiente. I criminali di professione non sanno cosa sia il suicidio, da lo­ ro la percentuale di suicidi equivale a zero. I malavitosi piu istrui­ ti spiegavano la tragica fine di Esenin con il fatto che il poeta non era proprio del tutto un ladro, era piuttosto qualcosa come un porčak, un non malavitoso che comunque tendeva a «tralignare» - e da quelli cosi, argomentavano, ci si poteva aspettare di tutto. Ma, certamente - cosi vi dirà qualsiasi malavitoso, istruito o non istruito - almeno una «goccia di sangue di furfante» Esenin l’aveva. [...] Sergej

E sen in i v o ro v sk o j m ir,

in «Don», 1989, n. 1.

Come «si tirano i romanzi»

Il tempo della prigione è un tempo lungo. Le ore della prigio­ ne sono interminabili perché uniformi, senza storia. La vita com­ presa nell’intervallo di tempo tra la sveglia e la ritirata è definita da un rigido regolamento, nel quale si nasconde una specie di prin­ cipio musicale, di ritmica cadenza della vita carceraria che intro­ duce un elemento d ’ordine nel flusso di emozioni individuali e drammi personali portati dall’esterno, da quel mondo eterogeneo che rumoreggia dall’altra parte delle mura. Entrano in questa sinfo­ nia carceraria il cielo stellato diviso in piccoli riquadri e il barba­ glio di sole sulla canna del fucile della sentinella in piedi sulla tor­ retta, simile nella sua struttura architettonica ai grattacieli. E an­ che l’indimenticabile suono delle serrature della prigione, il loro musicale tintinnio che ricorda quello dei vecchi bauli dei mercan­ ti. E molte, molte altre cose ancora. Nel tempo carcerario le impressioni esteriori sono poche, ed è la ragione per cui, successivamente, la detenzione sembra una ne­ ra voragine, un vuoto, una fossa senza fondo, dalla quale la me­ moria riesce a estrarre a fatica e controvoglia questo o quell’episo­ dio. Ed è naturale - l’uomo non ama i brutti ricordi e la memoria, obbedendo docilmente al segreto desiderio del suo padrone, ri­ muove, nascondendoli negli angoli più oscuri, gli avvenimenti sgra­ devoli. Ma erano dei veri avvenimenti ? Le scale dei valori si sono spostate, e i motivi di una sanguinosa rissa carceraria risultano in­ comprensibili all’osservatore esterno. Più tardi questo tempo sem­ brerà senza storia, vuoto; sembrerà essere volato via a tutta velo­ cità, tanto più veloce quanto più lento sarà stato a scorrere. Ma il meccanismo degli orologi non è affatto una pura con­ venzione. Si deve ad esso se il caos diventa ordine. E quel retico­ lo geografico di meridiani e paralleli sul quale sono tracciati i con­ tinenti e le isole delle nostre vite. E una regola che vige anche per la vita normale, ma in prigio­ ne è ridotta alla sua essenza più nuda, più assoluta.

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Durante le interminabili ore di prigione, i ladri, per far passa­ re il tempo, non si dedicano unicamente alle loro «memorie», ai loro duelli di millantatori, alle inqualificabili sbruffonate nel de­ scrivere ruberie e altre avventure. Questi racconti sono delle in­ venzioni, una simulazione artistica degli avvenimenti. In medici­ na c’è il termine aggravatila, - quando da parte del malato c’è in­ teresse a esagerare il proprio male, per cui un’insignificante indisposizione diventa un’atroce sofferenza. Nei racconti dei la­ dri succede qualcosa di simile. Il centesimo di rame della verità quando entra in circolazione viene quotato come rublo d ’argento. Il malavitoso racconta con chi «ci ha fatto un salto» quella vol­ ta, dove ha rubato in precedenza, si presenta ai suoi sconosciuti compagni, racconta quante volte ha forzato certe inaccessibili cas­ seforti, mentre in realtà il suo «scasso» si è limitato a un furto di biancheria tirata giù dalla corda dov’era stesa, sul retro di una da­ cia suburbana. Le donne con le quali è vissuto sono sempre di straordinaria bellezza e dispongono di patrimoni quasi miliardari. In tutte queste frottole, queste panzane fatte passare per «me­ morie», al di là di un certo piacere estetico che il racconto procu­ ra sia al narratore che agli ascoltatori - c’è un aspetto molto piu essenziale e pericoloso. Il fatto è che queste iperboli carcerarie costituiscono il mate­ riale dell’«agitazione e propaganda» della malavita, ed è un mate­ riale piuttosto importante. Questi racconti sono l’università dei malavitosi, la cattedra della loro scienza spaventosa. I giovani la­ dri ascoltano i «vecchi» e si confermano nella loro fede. Si com­ penetrano di una vera venerazione per quegli eroi di prodigiose imprese e sognano di poterne compiere anch’essi qualcuna degna. E l’iniziazione del neofita. Sono precetti che il giovane malavito­ so ricorderà per tutta la vita. Forse il narratore malavitoso, come Chlestakov1, finisce per credere lui stesso alle proprie frottole ispirate? Fatto sta che gli sembra d ’essere il piu forte e il migliore. Poi, una volta esaurite le presentazioni con i nuovi amici, quan­ do i questionari orali dei nuovi arrivati sono stati compilati, i flut­ ti della sbruffoneria si sono quietati e gli episodi piu piccanti so­ no stati ripetuti due volte, imprimendosi nella memoria, cosi che ognuno degli ascoltatori, in altre occasioni, potrà raccontare que­ ste avventure come proprie, e la giornata carceraria sembra non 1 II protagonista della commedia L

’ispettore

di N. Gogol'.

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voler passare mai - ecco che a qualcuno viene in mente una felice idea... - Che ne direste di «tirare un romanzo»? Una figura coperta di tatuaggi sbuca con lentezza sotto la luce giallastra di una lampadina elettrica, una luce di cosi poche can­ dele che sembra fatta apposta per rendere difficoltosa qualsiasi let­ tura, si mette comodo e parte veloce con le battute d’esordio, si­ mili alle prime mosse di una partita a scacchi. «Nella città di Odessa, prima della rivoluzione, viveva un fa­ moso principe con la sua bella moglie». «Tirare» nel gergo malavitoso significa «raccontare» e non è difficile indovinare l’origine di questa colorita espressione gerga­ le. Raccontare un «romanzo» è come «tirare una bozza» orale del­ la narrazione. Il «romanzo» in quanto genere letterario non è necessariamente un romanzo, una novella o un racconto. Può essere basato su di un libro di memorie, un film, un saggio storico. Un «romanzo» è sem­ pre un’opera anonima altrui, esposta ad alta voce. Nessuno cita mai il nome dell’autore e nessuno lo conosce. Si richiede che il racconto sia lungo, poiché uno dei suoi obiet­ tivi è di fare passare il tempo. Un «romanzo» è sempre per metà improvvisato in quanto, do­ po essere stato ascoltato chissà dove, viene magari in parte di­ menticato, e in parte infiorato di nuovi dettagli piu o meno pitto­ reschi - questo dipende dalle capacità del narratore. Esistono alcuni «romanzi» particolarmente diffusi e apprezza­ ti, e alcune sceneggiature che qualsiasi teatro d ’improvvisazione potrebbe invidiare alla malavita. Sono naturalmente dei polizieschi. Curiosamente, il romanzo poliziesco sovietico contemporaneo non viene neanche preso in considerazione dai malavitosi. Non perché non sia ben congegnato o risulti semplicemente mediocre - certe storie che i ladri ascoltano con grande piacere sono anco­ ra piu rozze e prive di talento. Inoltre il narratore avrebbe co­ munque la facoltà di ovviare alle lacune dei romanzi di un Adamov2o di uno Sejnin. No, piu semplicemente, ai malavitosi non interessa il mondo contemporaneo. «La nostra vita la conosciamo già meglio di chiun­ que! » sostengono a buon diritto. 1 «romanzi» piu popolari sono II principe V jazem skij, L a banda 2 Arkadij Adamov (1920), autore di romanzi polizieschi e di avventure.

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dei fa n ti di cuori, l’immortale R ocam bole, residui di quella straor­

dinaria letteratura d’appendice - russa e tradotta - cosi apprezza­ ta tra gli abitanti della Russia nel secolo scorso, tra i cui classici si annoveravano non solo Ponson du Terrail ma anche Xavier de Montépin con i suoi romanzi in piu volumi: I l detective assassino o L ’innocente giustiziato, ecc. Tra i soggetti tratti da opere letterarie di qualità, quello del Conte di M ontecristo occupa una buona posizione, mentre al con­ trario la trama dei Tre moschettieri non riscuote il minimo succes­ so, essendo considerata alla stregua di un romanzo comico. Dun­ que l’idea di un regista cinematografico francese di girare I tre m o­ schettieri come un’operetta non era poi cosi peregrina. Nessuna «mistica», niente di fantastico o di «psicologico». Un buon soggetto e un naturalismo con qualche propensione sessuale - ecco la ricetta della letteratura orale della malavita. In uno di questi romanzi si poteva riconoscere, sia pure a gran fatica, Bel-A m i di Maupassant. Naturalmente sia il titolo che i no­ mi dei personaggi erano completamente differenti e l’intreccio stes­ so aveva subito notevoli modifiche. Ma l’ossatura di base dell’o­ pera - la carriera di un mantenuto - era rimasta. A nna Karenina è stato rimaneggiato dai romanzieri malavitosi esattamente come nell’adattamento del Teatro dell’Arte. Tutta la linea Levin-Kitty è stata eliminata. Senza scenografia e con i no­ mi dei protagonisti cambiati, faceva una strana impressione. Un amore passionale, nato da un colpo di fulmine. Gli approcci del conte alla protagonista sul predellino del treno. La visita al bam­ bino della madre traviata. La bella vita all’estero del conte e del­ la sua amante. La gelosia del conte e il suicidio della protagonista. Solo dalle ruote del treno si riusciva a capire di cosa si trattava. Jean Valjean (da I m iserabili) viene sempre raccontato e ascol­ tato con piacere. A correggere gli errori e le ingenuità dell’autore nella rappresentazione dei malavitosi francesi provvedono con con­ discendenza i colleghi russi. Il piu delle volte, questi «ròmanzi» vengono raccontati al pub­ blico di appassionati in modo monotono e noioso, tra i narratori malavitosi sono rari gli artisti che siano anche poeti nati e attori, capaci di colorire qualsiasi soggetto con mille dettagli imprevisti, e, quando capita, attorno al virtuoso si raccolgono tutti i blatari che si trovano in quel momento nella cella. Possono fare anche matti­ na senza che nessuno si addormenti - e la fama sotterranea del «ro­ manziere» si diffonde molto lontano. La sua celebrità non è infe­ riore a quella di un Kaminka o di un Andronikov e anzi la supera.

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Si, «romanziere» - è cosi che vengono chiamati questi narra­ tori. Una nozione ben definita, un termine del vocabolario mala­ vitoso. «Romanzo» e «romanziere». Naturalmente, non è detto che questo narratore debba essere per forza un malavitoso. Al contrario, un « romanziere »-fraer è per­ fino piu apprezzato, perché ciò che raccontano, ciò che sono in grado di raccontare i ladri è limitato - qualche soggetto popolare ed è tutto. Può sempre succedere che un «forestiero», un nuovo arrivato abbia in serbo qualche storia interessante. Se la saprà rac­ contare avrà in cambio l’indulgente attenzione degli urkaèi; quan­ to agli effetti personali e ai pacchi da casa, in queste circostanze neanche l’Arte vale a salvarli. La leggenda di Orfeo è pur sempre solo una leggenda. Ma se non insorge nessun conflitto vitale, al «romanziere» verrà assegnato un posto per dormire vicino ai ma­ lavitosi e una scodella di minestra supplementare per pranzo. Comunque non bisogna pensare che l’unico scopo dei «ro­ manzi» sia quello di aiutare a ingannare il tempo in prigione. No, essi hanno un significato piu importante, piu profondo, piu serio ed essenziale. Il «romanzo» è quasi l’unico tramite che i malavitosi abbiano con l’arte. Esso risponde ai bisogni estetici, magari mostruosi, ma robusti, di uomini che non leggono né libri né giornali e si «rim­ pinzano di cultura» (chavat'chul'turu è la specifica espressione ger­ gale) in questa forma orale. Quella dei «romanzi» raccontati è una specie di tradizione cul­ turale nei confronti della quale i malavitosi manifestano un gran­ de rispetto: vengono narrati da tempi immemorabili e sono con­ sacrati da tutta la loro storia. Per questo si considera buona nor­ ma di galateo ascoltare, amare e proteggere quest’arte. I blatnye sono i tradizionali mecenati dei «romanzieri», sono educati in que­ sto spirito e nessuno di loro si rifiuterà mai di ascoltare un rac­ conto, a costo di dover sbadigliare fino a slogarsi le mascelle. Na­ turalmente è chiaro che gli affari ladreschi, le discussioni interne nonché l’immancabile passione per il gioco alle carte, con brave­ rie e baldorie connesse - restano più importanti dei «romanzi». I «romanzi» sono la tipica occupazione dei momenti d ’ozio. Il gioco delle carte in prigione è proibito e benché vengano fabbri­ cate - con carta da giornale, un mozzicone di matita copiativa e un pezzo di pane masticato - a una velocità straordinaria, che te­ stimonia l’esperienza millenaria di generazioni di ladri, non sem­ pre è poi possibile giocarci.

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Nessun ladro ammetterà mai di non amare i «romanzi». Essi sono in qualche modo consacrati dalla professione di fede dei la­ dri, che è alla base del loro codice di condotta, delle loro esigenze spirituali. I malavitosi non amano i libri, non amano leggere. E raro, ra­ rissimo incontrare tra di loro persone cresciute nell’amore per i li­ bri. Questi «mostri» leggono quasi di soppiatto, di nascosto dai propri compagni, - ne temono i sarcasmi e le canzonature grosso­ lane, come se stessero facendo qualcosa di indegno di un malavi­ toso, qualcosa che «viene dal maligno». I malavitosi invidiano e detestano l’intelligencija, sentono in ogni «istruzione» superflua qualcosa di estraneo, di ostile, però al tempo stesso, Bei-A m i o II conte di M ontecristo, presentati nell’ipostasi del «romanzo», su­ scitano l’interesse generale. Certo, qualcuno dei rari malavitosi-lettori potrebbe spiegare ai malavitosi-ascoltatori due o tre cose in proposito ma... il potere della tradizione è grande. Nessun critico letterario, nessun memorialista si è mai interes­ sato, neanche di sfuggita, a questa forma di letteratura orale che esiste da che mondo è mondo. II «romanzo», secondo la terminologia malavitosa, non sempre è un romanzo, e non mi riferisco qui allo spostamento dell’accen­ to. E una pronuncia tipica delle cameriere d ’albergo con un mini­ mo d ’istruzione che s’appassionano ad Anton Krečet, come della Nastja di GorTcij che legge e rilegge Un am ore fata le. «Tirare romanzi» è un’antichissima usanza della malavita, ha un carattere vincolante di tipo religioso e fa parte del credo del la­ dro alla pari del gioco alle carte, l’ubriachezza, le dissolutezze, il furto, le evasioni e i «tribunali d ’onore». E un elemento indi­ spensabile della loro vita quotidiana, della loro letteratura. La nozione di «ròmanzo» è piuttosto ampia. Comprende di­ versi generi di prosa. Può trattarsi di un romanzo, una novella, un qualsiasi racconto, una cronaca di vita vissuta, un saggio etnogra­ fico, un lavoro storico, un’opera teatrale, un allestimento ra­ diofonico, un film che dal linguaggio dello schermo torna allo sta­ to di libretto. L ’intelaiatura della trama si intreccia alla personale improvvisazione del narratore e il «ròmanzo» è dunque, in senso stretto, la creazione di un istante, come uno spettacolo teatrale. Esso appare una sola ed unica volta, ancora piu effimero e preca­ rio dell’arte dell’attore sul palcoscenico, perché almeno un attore si attiene al testo ben definito che fornisce il drammaturgo. Nel famoso «teatro d’improvvisazione», improvvisavano molto meno

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di quanto non faccia qualsiasi «romanziere» delle prigioni o dei la­ gerAntichi «romanzi» come L a banda dei fan ti di cuori o 11princi­ pe V jazem skij sono scomparsi da piti di mezzo secolo dal mercato librario russo. Gli storici della letteratura si abbassano solo fino a R ocam bole o a Sherlock Holmes. La letteratura d ’appendice del secolo scorso si è conservata fi­ no ai nostri giorni nel mondo sotterraneo della malavita. I suoi «romanzieri» raccontano, «tirano», proprio questi vecchi roman­ zi. Sono per cosi dire i «classici» di quell’ambiente. Nella maggioranza dei casi, il narratore «non malavitoso» può raccontare solo opere lette «in libertà». Dell’esistenza di opere co­ me I l principe V jazem skij viene a sapere, con suo grande stupore, soltanto in prigione, ascoltando un «romanziere» malavitoso. - Accadde a Mosca, al Razguljaj, c’era un «covo» dell’alta so­ cietà dove si recava spesso il conte Potockij. Era un tipo giovane e ben piantato. - Non correre, non correre, - chiedono gli ascoltatori. Il «romanziere» rallenta il ritmo dell’esposizione. Di solito va avanti fino a quando non ha più forze, perché interrompere il rac­ conto prima che almeno uno degli ascoltatori si sia addormentato è considerato sconveniente. Teste mozzate, pacchetti di dollari, pietre preziose trovate nello stomaco o nell’intestino di qualche «marianna» dell’alta società - si avvicendano nella sua narrazio­ ne. Finalmente il «romanzo» termina, lo stremato «romanziere» raggiunge il proprio giaciglio, gli ascoltatori soddisfatti stendono le loro variopinte coperte imbottite - elemento indispensabile del corredo di ogni malavitoso che si rispetti... Ecco com’è il «romanzo» in prigione. Ma non è cosi nel lager. La prigione e il lager di lavoro sono due cose diverse, distanti l’una dall’altra dal punto di vista psicologico, nonostante i molti elementi in comune. La prigione è molto più vicina alla vita nor­ male di quanto non lo sia il lager. Quella sfumatura tipica dell’innocente esercizio letterario e di­ lettantesco che in prigione quasi sempre caratterizza il fraer-« ro­ manziere», nel lager assume improvvisamente riflessi tragici e fu­ nesti. A prima vista sembra che non sia cambiato niente. Gli stessi committenti-malavitosi, le stesse ore serali, la tematica di sempre. Ma qui i «romanzi» si raccontano per una crosta di pane, per una «minestrina» versata nella scatola da conserva che fa da scodella.

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Di «romanzieri» ce ne sono a bizzeffe. Gli affamati preten­ denti di quella crosta di pane, di quella minestra sono decine, e si sono visti «romanzieri» pili morti che vivi svenire per l’inedia nel bel mezzo della narrazione. Per prevenire simili evenienze, si è so­ liti far sorbire al narratore un po’ di minestra prima che cominci a «tirare» il suo romanzo. Un’usanza sensata che ha finito per im­ porsi. Nei sovraffollati izoljatory dei lager - specie di prigioni nella prigione - la distribuzione del vitto viene solitamente gestita dai malavitosi. L ’amministrazione non è in grado di farci niente. So­ lo dopo che essi stessi hanno mangiato a sazietà, gli altri abitanti della baracca possono accostarsi al cibo. L ’enorme baracca dal pavimento in terra battuta è illuminata da un’unica benzinka, il piccolo lume artigianale a stoppino. Tutti, tranne i ladri, hanno lavorato per l’intera giornata, han­ no trascorso parecchie ore in un freddo glaciale. Il «romanziere» avrebbe voglia di scaldarsi, di dormire, di stendersi, di sedersi, ma ancor piu del sonno, del caldo e della quiete, ha voglia di un po’ di cibo, qualsiasi cibo. E con un incredibile, prodigioso sforzo di volontà, mobilita il proprio cervello per un «romanzo» di due ore che delizi i ladri. Non appena ha terminato il suo poliziesco, il «ro­ manziere» sorbisce la «minestrina» ormai fredda, coperta da una pellicola gelata, lappando e leccando fino all’ultima goccia la ru­ dimentale scodella di latta. Non ha bisogno di cucchiaio - con le dita e la lingua si arrangia meglio che con qualsiasi posata. Allo stremo delle forze, non potendone piu dei vani tentativi di riempirsi anche per un solo minuto lo stomaco deperito che ha cominciato a divorare se stesso, un ex docente universitario si pro­ pone come «romanziere». Egli sa che in caso di successo, se i com­ mittenti resteranno soddisfatti - riceverà da mangiare e potrà an­ che evitare le botte. I malavitosi, nonostante sia malridotto e sfi­ nito, non dubitano delle sue capacità di narratore. Nel lager non ci si ferma alle apparenze, e qualsiasi «faville» (un termine pitto­ resco per indicare un pezzente coperto di stracci e di sbuffi di ovat­ ta che escono da tutti i buchi del giaccone imbottito) può dimo­ strarsi un grande «romanziere». Guadagnatosi cosi la minestra e, se ha avuto un particolare suc­ cesso, anche una crosta di pane, il «romanziere» mangia rumoro­ samente in un angolo buio della baracca, suscitando l’invidia di tutti gli altri suoi compagni, che non sanno «tirare romanzi». Se il successo è stato ancora maggiore gli offriranno anche del tabacco. Questo, poi, è il colmo della beatitudine! Decine di oc­

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chi spieranno le sue dita tremanti che stipano la m achorka e arro­ tolano la sigaretta. E se con un movimento maldestro farà cadere per terra qualche prezioso minuzzolo, si metterà anche a piangere lacrime vere. Quante mani si allungheranno verso di lui dal buio per accendergli la sigaretta al fuoco della stufa, approfittandone per aspirare anche un solo sbuffo di fumo. E piu di una voce os­ sequiosa dirà alle sue spalle la fatidica formula «si fuma?» o ri­ correrà invece all’enigmatico sinonimo di questa formula: «qua­ ranta...»3. Ecco cosa sono i «romanzi» e i «romanzieri» nei lager. A partire dal giorno del suo successo, non si consentirà piu a nessuno di offendere o picchiare il «romanziere», e si provvederà anche a rifocillarlo. Già chiede senza timore di che fumare ai ma­ lavitosi, e quelli gli lasciano i loro mozziconi - ha ricevuto un ti­ tolo a corte, ha indossato l’uniforme di gentiluomo di camera... Ogni giorno deve tenersi pronto con un nuovo «romanzo» - la concorrenza è enorme! - e che sollievo per lui quando una sera i suoi padroni non sono dell’umore giusto per «rimpinzarsi di cul­ tura», ed egli può abbandonarsi a un sonno profondo. Ma anche questo sonno può essere brutalmente interrotto se ai malavitosi frulla per il capo di rimandare la partita a carte (cosa che natural­ mente capita molto di rado, perché un terc o uno stos sono piu im­ portanti di qualsiasi «romanzo»). Tra questi «romanzieri» affamati, soprattutto dopo qualche giorno di relativa sazietà, si possono incontrare anche degli «uo­ mini di idee». Essi tentano di raccontare ai loro ascoltatori qual­ cosa di piu serio della Banda dei fa n ti di cuori. Un «romanziere» di questo tipo vede se stesso come una specie di addetto culturale presso il trono della malavita. Tra di essi ci sono ex uomini di let­ tere, tutti fieri di questa fedeltà alla propria principale professio­ ne, esercitata in circostanze cosi sorprendenti. Certi si sentono de­ gli incantatori di serpenti, flautisti che suonano davanti a un gro­ viglio di rettili velenosi... Delenda Carthago! Il mondo dei malavitosi deve essere distrutto ! 1959.

K a k « t is k a ju t rò m a n y »,

in «Don», 1989, n. 1.

3 Quel so ro k è in realtà una richiesta molto piu temeraria di quella abituale di «un tiro»; significa «lasciami il 40 per cento della tua sigaretta».

L a resu rrezion e d e l larice I

II mio libro «L a resurrezione del larice» è dedicato a Irina Pavlovna Sirotinskaja. Senza di lei non ci sarebbe stato questo libro

I l sen tiero

Nella tajga avevo un magnifico sentiero, tutto mio. Io stesso l’avevo tracciato in estate, facendo provvista di legna; attorno all’izba c’erano parecchie ramaglie secche, larici grigi simili a coni di cartapesta, conficcati come pali nel terreno paludoso. L ’izba si ergeva su un’altura circondata da cespugliosi pini nani con i rami irti di verdi ciuffetti di aghi - in autunno scendevano a sfiorare il terreno con i loro coni gonfi di pinoli. Il sentiero passava attra­ verso queste macchie di pino giungendo fino alla palude che un tempo tale non era - ci crescevano alberi, poi, a causa dell’acqua le radici marcirono e gli alberi morirono - fu molto, molto tempo fa. Il folto degli alberi vivi si era spostato sulle pendici del monte, verso il ruscello. La carrabile, invece, percorsa da automezzi e uo­ mini, si trovava dall’altro lato dell’altura, già sul pendio montano. I primi giorni mi dispiaceva calpestare i bei mughetti turgidi, gli iris simili a farfalle color lillà, i grossi crochi azzurro scuro che crepitavano sgradevolmente sotto le suole. Quei fiori, come tutti quelli del Grande Nord, non avevano odore; ogni tanto mi sor­ prendevo a comporre, con gesto automatico, un mazzetto e por­ tarlo alle narici. Ma poi persi quell’abitudine. La mattina control­ lavo quanto era successo durante la notte sul mio sentiero - il mu­ ghetto che il giorno prima mi era finito sotto la scarpa si era rialzato, piegandosi un poco di lato, ma comunque tornava a vi­ vere. Un altro mughetto invece era stato schiacciato per sempre e giaceva, simile a un minuscolo palo telegrafico con gli isolatori di porcellana dei suoi fiorellini, mentre laceri fili di ragnatela spen­ zolavano come cavi tranciati. Quando il sentiero fu definitivamente tracciato, non notai piu i rami di pino nano che si protendevano intralciando il mio cam­ mino, quelli che mi fustigavano il viso li spezzai e non vi prestai più caso. Ai lati del sentiero si innalzavano giovani larici di un cen­ tinaio d ’anni che sotto i miei occhi rinverdivano e tornavano a spargere di minuti aghi secchi il tracciato. Questo diventava ogni

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giorno pili scuro fino ad assumere l’aspetto di un sentiero monta­ no come tanti altri. Nessuno tranne me lo percorreva. Là saltella­ vano gli scoiattoli azzurri, e parecchie volte vidi i geroglifici delle impronte lasciate dalle pernici e mi imbattei nell’orma triangola­ re della lepre, ma uccelli e piccoli animali fan conto a sé. Percorsi questo mio sentiero per quasi tre anni. Era l’ideale per comporre versi. Talvolta, di ritorno da un viaggio, mi avviavo lun­ go il suo tracciato e immancabilmente saltavano fuori questa o quella strofa. Ci avevo fatto l’abitudine e cominciai a considerar­ lo una specie di studiolo silvano. Lo ricordo nella fredda stagione che precede l’inverno, con il gelo che già rapprendeva il fango del­ la traccia e il fango che si cristallizzava come della conserva di frut­ ta. E per due autunni, prima della neve ero venuto sul sentiero a lasciare un’orma profonda, perché sotto i miei occhi si indurisse in una traccia tale da resistere per tutto l’inverno. E in primave­ ra, quando la neve si scioglieva, vedevo questa mia sigla dell’anno precedente, posavo il piede nella vecchia traccia, e di nuovo i ver­ si nascevano con facilità. D ’inverno, naturalmente, il mio studio restava deserto: il gelo non permette di pensare, solo al caldo si riesce a scrivere. D ’estate conoscevo tutto alla perfezione, ogni co­ sa su quel magico sentiero era di gran lunga più variopinta che in inverno: il pino nano e i larici, e i cespugli di rosa selvatica evoca­ vano invariabilmente qualche poesia, e se non mi venivano in men­ te versi altrui adatti allo stato d’animo del momento, borbottavo dei versi miei che poi, quando tornavo all’izba, mi annotavo. La terza estate sul mio sentiero passò qualcuno. In quel mo­ mento non ero in casa e non so dire se si trattasse di un geologo errante o di un appiedato postino delle montagne o di un caccia­ tore: lasciò comunque le orme dei suoi pesanti stivali e da quel mo­ mento sul sentiero non fu piu composto un verso. L ’orma estra­ nea era stata lasciata verso la primavera e per tutta l’estate non scrissi un solo verso che fosse nato laggiù. Per l’inverno successi­ vo venni trasferito altrove, ma non provai nessun rimpianto: il sen­ tiero era ormai irrimediabilmente rovinato ai miei occhi. E a proposito di questo sentiero ho cercato molte volte di scri­ vere una poesia, ma non mi è mai riuscito. [1967].

T ro p a,

in «Moskovskij komsomolec», 7 gennaio 1988.

G r a fite

Con che cosa vengono firmate le condanne a morte? con l’in­ chiostro chimico, con quello di china dei passaporti, con l’inchio­ stro grasso delle penne a sfera o con dell’alizarina diluita in puro sangue umano ? Di una cosa si può essere certi: nessuna condanna a morte è sta­ ta mai firmata con un semplice lapis. Nella tajga non abbiamo bisogno di inchiostro. Pioggia, lacri­ me e sangue lo farebbero sciogliere insieme a qualsiasi segno di ma­ tita copiativa. Con i pacchi da casa è vietato inviare matite copia­ tive ed esse vengono anche confiscate durante le perquisizioni. Questo per due motivi. Anzitutto il detenuto potrebbe contraffarre qualche documento e poi questo tipo di matita fornisce un inchiostro quasi tipografico che i malavitosi utilizzano per la pre­ parazione delle loro carte da gioco, le stirki e di conseguenza... È ammessa solo la matita nera, di semplice grafite. Alla Koly­ ma la grafite ha un’importanza straordinaria, unica. Quando i cartografi, aggrappati alla volta stellata e al corso del sole, finiscono i loro conciliaboli con il cielo, stabiliscono un pun­ to d’appoggio sulla nostra terra. Sopra questo punto d ’appoggio una lastra di marmo incassata nella roccia in cima ad un monte, al culmine di un pendio - fissano un treppiede, un paletto di segna­ lazione. Questo treppiede indica un punto preciso della mappa e, partendo da lf, dalla montagna, dal treppiede, per creste a stra­ piombo e valli profonde, attraverso radure, deserti, occasionali pa­ ludi, si stende un invisibile filo: la rete incorporea dei meridiani e dei paralleli. Nella fitta tajga si aprono dei sentieri e ogni asta, ogni punto di riferimento è là dove si incrociano gli invisibili fili della livella, del teodolite. La terra è misurata, la tajga è misurata e noi ci muoviamo incontrando sui nuovi punti di riferimento le tracce del cartografo, del topografo, del misuratore della tajga: la sem­ plice grafite nera. La tajga kolymiana è tutta cosparsa di segnali dei topografi. Ma

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non dappertutto, solo nelle foreste attorno alle cittadine, dove è concentrata la «produzione». Le terre deserte, le radure, le rade re­ gioni della tundra coperte di foreste, cosi come le spoglie cime ar­ rotondate dei monti sono percorse unicamente da tracciati aerei, da linee immaginarie, poiché non c’è un solo albero utile al rileva­ mento, non ci sono punti di riferimento sicuri. I riferimenti ven­ gono messi sulle rocce lungo i letti dei torrenti, sui nudi dorsi del­ le montagne. E a partire da questi appoggi sicuri, biblici, viene mi­ surata la tajga, viene misurata la Kolyma, viene misurata la prigione. Le tacche sugli alberi formano una rete di punti di riferimen­ to, a partire dalla quale, dal suo incrociarsi di fili negli oculari del teodolite, si vede e si computa la tajga. Si, per questi segnali non c’è che la semplice matita nera. Non copiativa. La matita copiativa sbava, sciolta dalla linfa dell’albero, dilavata da pioggia, rugiada, nebbia, neve. La matita artificiale, chi­ mica non si presta a iscrizioni che attengono all’eternità, all’im­ mortalità. A questo ben si presta la grafite, il carbonio compresso a enormi pressioni nel corso di milioni di anni e trasformato - se non in carbon fossile o in diamante - in qualcosa di piu prezioso dello stesso diamante: nell’esile anima di pietra nera, capace di annotare tutto quello che sa e che ha visto... Un miracolo piu grande del dia­ mante, anche se la natura chimica di entrambi i minerali è la stessa. Le disposizioni che vietano ai topografi l’impiego di matite co­ piative non riguardano soltanto segnali e punti di riferimento: Ogni legenda o ogni minuta di legenda di qualsiasi rilevamento a vista devono essere immortalati con la grafite. La leggenda vuole la grafite per essere immortale. La grafite è natura, essa partecipa al ciclo terrestre, talvolta difendendosi dal tempo piu efficace­ mente della stessa roccia montana. Le montagne calcaree si disfa­ no sotto le piogge, per l’azione del vento, delle piene dei fiumi, ma il giovane larice - ha soltanto duecento anni e tutta una vita da­ vanti a sé - serba sulla propria tacca l’appunto cifrato che collega mistero biblico e mondo contemporaneo. La cifra, il segno convenzionale, viene tracciato su una tacca appena incisa, sulla fresca ferita dell’albero, l’albero lacrimante linfa, stillante resina come in un pianto. Nella tajga si può scrivere solo con la grafite. I topografi han­ no sempre nelle tasche dei loro giacconi imbottiti, dei loro corpetti di morbida ovatta, giubbotti, calzoni e pellicce, qualche mozzico­ ne, qualche avanzo di matita di grafite. Della carta, un notes per gli appunti, una tavoletta topografi­ ca, un quaderno - e un albero con una tacca.

GRAFITE

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La carta è un altro degli aspetti, delle trasformazioni che lega­ no l’albero al diamante e alla grafite. La grafite è l’eternità. L ’e­ strema durezza fatta duttilità estrema. Eternità della traccia la­ sciata nella tajga da una matita. La tacca viene praticata con ogni precauzione. Con la sega si eseguono sul tronco di un larice due incisioni all’altezza della cin­ tola e, con l’angolo della scure, si asporta il legno ancora vivo, per far posto all’iscrizione. Si forma in tal modo un tettuccio, una pic­ cola casa, un’assicella pulita con un riparo per la pioggia, pronta a conservare la scritta per sempre, praticamente per sempre, fino al­ la fine della vita del larice - sei secoli. Il corpo ferito del larice è simile a un’icona miracolosa: una No­ stra Signora della Cukotka, o una Vergine Maria della Kolyma, che attende un miracolo, che è essa stessa un miracolo. E l’aroma tenue, finissimo della resina, il profumo della linfa del larice, l’odore del sangue versato dalla lama dell’uomo, lo si in­ spira come se venisse dalle lontananze dell’infanzia, un profumo di incenso intriso di rugiada. La cifra è stata segnata e il larice ferito, bruciato dai venti e dal sole, custodisce questo «appiglio» che porta al vasto mondo par­ tendo dal profondo della tajga: per un varco, fino al treppiede piu vicino, fino al treppiede cartografico sulla cima della montagna, sotto il quale c’è una buca colma di pietre che nasconde la lastra di marmo con incisi gli autentici dati di latitudine e longitudine. Questa iscrizione non è certo fatta con la matita di grafite. E lun­ go le migliaia di fili che partono dal treppiede, lungo le migliaia di linee da una tacca all’altra, torniamo nel nostro mondo per ricor­ darci sempre della vita. Il lavoro topografico è un lavoro di vita. Ma alla Kolyma, il topografo non è l’unico ad essere obbligato ad usare la matita di grafite. Oltre al lavoro di vita, c’è anche un lavoro di morte nel quale la matita copiativa è pure proibita. La direttiva dell’«archivio n. 3» - cosi si chiama la sezione preposta alla registrazione dei de­ cessi di detenuti nei lager - stabilisce che alla gamba sinistra del defunto, all’altezza della tibia, vada legata una targhetta, una tar­ ghetta di compensato recante il numero del «fascicolo personale». Il numero del fascicolo personale deve essere scritto con una co­ mune matita di grafite, non copiativa. Anche qui la matita artifi­ ciale è d’intralcio all’immortalità. Ci si potrebbe chiedere quale sia il senso di una disposizione che al massimo può essere utile in vista di un’esumazione. O è in vista dell’eternità ? della resurrezione ? di una traslazione delle ce­

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neri ? Con tutte le fosse comuni e senza nome della Kolyma, fos­ se in cui la gente è stata scaricata senza nessuna targhetta! Ma una direttiva è una direttiva. Ragionando in teoria, tutti gli ospiti del gelo perenne sono immortali e pronti a ritornare a noi perché noi si sfili loro la targhetta dalla tibia sinistra e se ne ristabilisca iden­ tità e stirpe. Purché il numero sulla targhetta sia stato annotato con la co­ mune matita nera. In questo caso il numero del «fascicolo perso­ nale» non verrà cancellato dalle piogge, né dalle sorgenti sotter­ ranee, e neppure dalle acque primaverili ove raggiungessero il ghiaccio, il gelo perenne il quale di norma non cede al calore del­ l’estate, e quando lo fa, rivela i suoi sotterranei segreti solo in mi­ nima parte. Il «fascicolo personale», il modulo dei dati, è il pasport, la car­ ta d’identità del detenuto, con accluse fototessere di faccia e di profilo, le impronte di tutte quante le dieci dita e la descrizione dei segni particolari. L ’addetto alla registrazione, l’impiegato dell’« archivio n. 3» deve redigere il verbale della morte del dete­ nuto in cinque esemplari con le impronte digitali di tutte le dita e con l’indicazione se si è proceduto o meno all’estirpazione di den­ ti d’oro. Per i denti d ’oro viene redatto un documento a parte. Si­ mili procedure sono nate con la nascita stessa del sistema concentrazionario, e sono in vigore da sempre; le notizie sul fatto che an­ che in Germania toglievano i denti d ’oro, alla Kolyma non me­ ravigliarono nessuno. Lo Stato non vuole perdere l’oro dei cadaveri. Ci sono verba­ li riguardanti denti d ’oro strappati dacché esistono prigioni e la­ ger. L ’anno 1937 ha portato all’istruttoria e ai lager molte perso­ ne con i denti d ’oro. Per quelli che sono morti sui fronti di estra­ zione della Kolyma - e non hanno resistito a lungo - i denti d’oro, strappati loro dopo la morte, sono stati il solo metallo prezioso che essi abbiano dato allo Stato in quei giacimenti auriferi della Koly­ ma. C ’è piu peso in oro nelle loro protesi che in tutto il materiale che essi sono riusciti a scavare, picconare e rastrellare sui fronti di cava della Kolyma durante la loro breve vita. Per quanto duttile sia la scienza statistica, difficilmente questo aspetto avrà ricevuto adeguata trattazione. Le dita dei cadaveri devono essere colorate con l’inchiostro ti­ pografico e tutti gli addetti alla «registrazione» ne hanno una scor­ ta consistente perché il consumo è molto elevato. E questo il motivo per il quale ai fuggiaschi uccisi vengono ta­ gliate le mani, per non dover trasportare i corpi per l’identifica-

GRAFITE

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zione: due palme umane in una borsa militare sono molto piu fa­ cili da trasportare che non un corpo, un cadavere. La targhetta assicurata alla gamba è indice di cultura. Il prin­ cipe Andrej Bogoljubskij1non aveva una targhetta del genere: e si dovette identificarlo in base alle ossa, ricorrendo alle misurazioni di Bertillon2. Noi crediamo alla dattiloscopia: è qualcosa che non ci ha mai tradito, malgrado tutti gli espedienti messi in atto dai criminali per storpiarsi l’estremità delle dita, bruciandole con il fuoco o l’acido o tagliuzzandole con il coltello. La dattiloscopia non ci ha mai tra­ dito perché le dita sono solo dieci e nessun malvivente si è mai ri­ solto a rovinarsele tutte quante. Non crediamo invece a Bertillon, a questo capo della polizia giudiziaria francese, padre del principio dell’antropologia applica­ ta alla criminologia, un metodo basato su una serie di misurazio­ ni, di correlazioni tra le varie parti del corpo. Le scoperte di Ber­ tillon possono servire forse agli artisti, ai pittori: a noi la distanza che c’è tra la punta del naso e il lobo dell’orecchio non ha svelato niente. Noi crediamo alla dattiloscopia. Imprimere le dita inchiostra­ te, «suonare il pianoforte» è alla portata di chiunque. Nel ’37, quando finirono dentro tutti quelli che erano stati marchiati in precedenza, ognuno, con gesto abituale, mise le sue dita ormai al­ lenate nelle altrettanto allenate mani degli addetti carcerari. Queste impronte vengono conservate per sempre nel fascicolo personale. La targhetta con il numero del fascicolo personale cu­ stodisce non solo il luogo, ma anche il segreto della morte. Que­ sto numero è scritto con la grafite. Il cartografo che apre nuove vie sulla terra, nuove strade per gli uomini, e il becchino che soprintende alla regolarità delle se­ polture, all’applicazione delle leggi sui morti, devono entrambi uti­ lizzare un solo e unico strumento: una matita nera di grafite. [1967].

G r a fit ,

in «Znamja», 1990, n. 7.

1 Andrej Bogoljubskij (1111-74), principe di Vladimir, Rostov e Suzdal', cercò di uni­ ficare sotto di sé i principati russi, ma venne assassinato in una congiura di palazzo. 2 Alphonse Bertillon (1853-1914), medico e alto funzionario della polizia di Parigi, in­ ventò l’antropometria giudiziaria.

A ttra c c o a l l ’ in fern o

I pesanti sportelli della stiva si aprirono sopra le nostre teste e noi salimmo lentamente sul ponte, in fila indiana, per una stretta scaletta metallica. I soldati di scorta erano disposti in una catena dalle maglie fitte contro le murate di poppa e tenevano i fucili pun­ tati su di noi. Ma nessuno prestava loro attenzione. Qualcuno gri­ dava: piu in fretta, piu in fretta, la folla premeva come alla sta­ zione ferroviaria per salire sul treno. Indicavano la strada solo agli uomini davanti: lungo i fucili fino a una larga passerella, scendere nella chiatta ormeggiata e da li raggiungere la terraferma attraverso un’altra passerella. Avevamo finito di navigare. Il nostro piroscafo aveva portato dodicimila uomini e prima che li sbarcassero tutti c’era tempo e modo di guardarsi un po’ in giro. Dopo le calde giornate di Vladivostok, soleggiate come sempre in autunno, dopo i purissimi colori del cielo dell’Estremo Orien­ te al tramonto, colori immacolati e vividi, senza passaggi sfumati e che si incidono per sempre nella memoria... Una pioggia fredda e minuta cadeva da un cielo tetro, di un uniforme colore bianco sporco. Proprio davanti a noi si innalza­ vano montagne brulle, senza boschi, rocciose e verdastre, e nelle radure, protendendosi fino alle loro pendici, si libravano lacere e scompigliate, torbide e grigie, le nuvole. Come se i brandelli di un’enorme coperta coprissero la lugubre landa montana. Ricordo bene il mio stato d’animo: perfettamente calmo, ero pronto a qual­ siasi cosa, ma il cuore cominciò ugualmente a battermi forte e a stringersi mio malgrado. E distogliendo gli occhi pensai: ci hanno portati qui a morire. II mio giubbotto si inzuppava a poco a poco. Ero seduto sulla valigia che, obbedendo all’eterna vanità umana, avevo preso con me quando erano venuti a casa ad arrestarmi. Tutti, tutti aveva­ no con sé degli effetti personali: valigie, zaini, coperte arrotola­ te. .. Molto tempo dopo, mi sarei reso conto che il corredo ideale del detenuto era una sacca di tela con dentro un cucchiaio di le­

ATTRACCO A LL’INFERNO

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gno. Tutto il resto, perfino un mozzicone di matita o una coper­ ta, è solo un fastidio. Si ha un bel dire, ma almeno il disprezzo per la proprietà privata ce l’hanno insegnato a dovere. Guardavo il piroscafo attraccato al molo, cosi piccolo e oscil­ lante sulle plumbee onde. I cupi profili delle rocce che contornavano la baia di Nagaevo emergevano a tratti attraverso la grigia rete della pioggia, e sol­ tanto in un punto, là da dove era venuto il piroscafo, si vedeva l’o­ ceano, la sua infinita schiena ricurva, come se un’enorme bestia selvaggia si fosse coricata sulla spiaggia, ansimando pesantemen­ te, e il vento scompigliasse la sua pelliccia che ricadeva in onde di scaglie scintillanti nonostante la pioggia. Avevamo freddo e paura. Il caldo e variopinto splendore au­ tunnale della soleggiata Vladivostok era rimasto laggiù, da qual­ che parte, in un altro mondo, il mondo reale. Qui c’era un mondo lugubre e ostile. Non si vedeva alcuna casa d ’abitazione nelle vicinanze. L ’uni­ ca strada saliva su per la montagna, perdendosi da qualche parte in alto. Lo sbarco fu infine terminato e, ormai al crepuscolo, il corteo dei detenuti si avviò lentamente in direzione delle montagne. Nes­ suno chiedeva niente. La folla di gente fradicia di pioggia comin­ ciò a trascinarsi lungo la strada, con frequenti soste per riposarsi. Le valigie si fecero troppo pesanti, i vestiti zuppi. Dopo due tornanti vedemmo accanto a noi, ma più in alto sul fianco della montagna, alcune barriere di filo spinato. Delle per­ sone, dall’interno della recinzione, si accalcavano contro di essa. Gridavano qualcosa, e all’improvviso verso di noi cominciarono a volare delle pagnotte di pane. Essi lanciavano il pane sopra le bar­ riere di filo spinato, noi lo prendevamo, lo facevamo a pezzi e lo dividevamo. Alle nostre spalle c’erano mesi di prigione, quaran­ tacinque giorni di viaggio in treno e cinque per mare. Eravamo tutti quanti affamati. Di soldi per il viaggio non ne avevano dati a nessuno. Il pane venne divorato con avidità. Chi aveva avuto la fortuna di prendere al volo una pagnotta la divideva fra tutti quel­ li che ne chiedevano: una generosità d ’animo che avremmo di­ simparato in capo a tre settimane, e per sempre. Ci portavano sempre più lontano, sempre più in alto. Le soste si facevano sempre più frequenti. Ma ecco infine un portone di le­ gno, una recinzione di filo spinato e, all’interno, alcune file di ten­ de di tela catramata, bianche e verde pallido, scurite dalla pioggia, enormi. Ci divisero in gruppi, contandoci e riempiendo una ten-

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da dopo l’altra. Nelle tende c’erano dei tavolacci di legno a castello del tipo vagonka, «vagone cuccette»: ogni singola incastellatura per otto persone. Ognuno occupò il proprio posto. La tela catra­ mata lasciava passare la pioggia, c’erano pozze d ’acqua sia per ter­ ra che sui tavolacci, ma io ero talmente stanco (e gli altri non me­ no di me - stanchi per la pioggia, l’aria, il tragitto, gli abiti fradi­ ci, le valigie), che rannicchiandomi alla meno peggio, senza preoccuparmi di far asciugare i vestiti - e come avrei fatto ? - mi distesi e mi addormentai. Era buio e faceva freddo... [1967].

P r ìc a la d a ,

in «Sel'skaja moloctež», 1988, n. 11.

I l sile n z io

Noi tutti, tutta la nostra squadra, con un senso di meraviglia, incredulità, circospezione e timore, ci distribuimmo ai vari tavo­ li della mensa: erano i tavoli sporchi e appiccicosi sui quali con­ sumavamo tutti i nostri pasti della vita di qui. Come mai fossero cosi appiccicosi non era dato sapere: qui non si rovesciava certo la minestra, nessuno «mancava la bocca con il cucchiaio» e non lo avrebbe fatto, neanche se ci fossero stati i cucchiai, il che non era il nostro caso; e se anche fosse stata rovesciata della minestra sul tavolo, la si sarebbe raccolta con il dito e semplicemente lec­ cata. Era l’ora del pasto del turno di notte. La nostra squadra era stata dissimulata nel turno di notte, sottraendola allo sguardo di chissà chi - se pure esisteva qualcuno che guardasse dalla nostra parte! - perché era composta dei più deboli, dei piu scarsi, dei piu affamati. Eravamo dei rifiuti umani e nonostante ciò bisognava nutrirci, e non di rifiuti e neanche di scarti. Anche a noi spetta­ vano determinati grassi, del liquido caldo e soprattutto del pane esattamente con le stesse qualità di quello ricevuto dalle migliori squadre che avevano ancora conservato qualche residua energia e realizzavano il piano della produzione fondamentale: e fornivano oro, oro, oro... Ma se pure ci nutrivano, lo facevano per ultimi, di giorno o di notte che fosse. Anche stanotte ci era toccato venire all’ultimo turno. Vivevamo in una stessa baracca, nella stessa sezione. Cono­ scevo alcuni di quei cadaveri ambulanti fin dai tempi della prigio­ ne, dei lager di transito. Mi spostavo ogni giorno insieme a quei fagotti di laceri giac­ coni, di berretti di stoffa con il paraorecchi, sfilati e rimessi da un bagno all’altro; di calzari di trapunta ricavati da resti di calzoni strappati, bruciacchiati ai fuochi da campo, e solo sforzando la me­ moria potevo ricordare che tra loro c’era il tataro Mutalov dal vi­

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so paonazzo, l’unico abitante di tutta Cimkent ad avere una casa con il primo piano e un tetto metallico, ed Efremov, l’ex primo se­ gretario del comitato cittadino del partito di Cimkent, che nel 1930 aveva «liquidato come classe» lo stesso Mutalov. C ’era anche Oksman, già responsabile di una sezione politica di divisione, che il maresciallo Timošenko - all’epoca non ancora maresciallo - aveva cacciato in quanto ebreo. E c’era Lupinov, un sostituto del procuratore generale dell’Urss Vysinskij. Zavoronkov, un macchinista del deposito di locomoti­ ve Savelovskij. E ancora un ex capo dell’Nkvd della città di Gor'kij, che un giorno in un lager di transito aveva intavolato una discussione con uno dei suoi vecchi «clienti». - Ti hanno picchiato? E allora? Se hai firmato, vuol dire che sei colpevole^, un nemico, intralci il potere sovietico, ci impedisci di lavorare. E proprio a causa di canaglie come te che mi sono pre­ so quindici anni. Mi ero intromesso: - Ti ascolto e non so cosa fare: se ridere o sputarti sul muso... In questa squadra «arrivata all’ultimo approdo» c’erano per­ sone d’ogni tipo... C ’era anche un membro della setta B o g z m e t, ma forse la setta si chiamava in altro modo, comunque «lo sa Id­ dio» era l’immancabile risposta del settario a ogni domanda dei superiori. Naturalmente il suo cognome mi è rimasto comunque impres­ so nella memoria - si chiamava Dmitriev - anche se all’appello lui stesso non rispondeva mai quando veniva chiamato il suo nome. Erano le mani dei suoi compagni, del suo caposquadra a far spo­ stare Dmitriev, a farlo mettere in fila, a condurlo. La scorta si avvicendava spesso e quasi tutti i nuovi soldati cer­ cavano di penetrare il mistero del suo rifiuto di rispondere allo stentoreo e minaccioso « Dichiararsi ! » quando ci facevano allineare per l’uscita, prima di condurci al cosiddetto lavoro. Il caposquadra chiariva rapidamente le circostanze e il soldato di scorta, soddisfatto, continuava l’appello. Nella baracca il settario era venuto a noia a tutti. Di notte la fame non ci lasciava dormire, e non facevamo altro che riscaldar­ ci e riscaldarci ancora accanto alla stufa, stringendoci ad essa e cir­ condandola con le braccia, per afferrare gli ultimi sprazzi di calo­ re del ferro che si andava raffreddando e avvicinando il viso alla superficie metallica. Naturalmente in questo modo impedivamo a quel misero calo­ re di raggiungere gli altri inquilini della baracca che erano distesi

IL SILENZIO

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in angoli lontani coperti di brina e che, proprio come noi, non riu­ scivano a dormire per la fame. Da laggiù, da quegli angoli scuri e lontani, saltava fuori all’improvviso qualcuno che aveva ogni di­ ritto di gridare e perfino di picchiare, e a forza di ingiurie e spin­ toni cacciava via dalla stufa i lavoratori affamati. Trattenersi accanto alla stufa per farci seccare del pane era in­ vece del tutto legittimo, ma chi ne avanzava di pane per quell’u­ so ? E per quante ore si può far seccare un pezzettino di pane ? Odiavamo le autorità, ci odiavamo gli uni con gli altri, ma so­ prattutto odiavamo il settario: a causa dei suoi canti, dei suoi in­ ni, dei suoi salmi... Tacevamo tutti e ci stringevamo alla stufa. E quello cantava, cantava in continuazione con voce rauca e raffreddata, non mol­ to forte, ma senza smettere un momento, inni, salmi e canti, uno dopo l’altro, interminabilmente. Io lavoravo in coppia con lui, era il mio napam ik. Gli altri abi­ tanti della sezione durante il lavoro potevano riposarsi dai suoi in­ ni e salmi, ma io non avevo neppure quel sollievo. - Sta’ un po’ zitto! - Sarei morto da un pezzo se non avessi i canti. Me ne sarei an­ dato - nel gelo. Non ce la faccio. Se solo avessi un po’ pili di for­ ze. Non chiedo a Dio di farmi morire. Vede ogni cosa lui stesso. Nella nostra squadra c’erano ancora altre persone vestite di stracci, sporche e affamate come noi, con lo stesso luccichio negli occhi. Chi erano ? Generali ? Eroi della guerra di Spagna ? Scrit­ tori russi? Colcosiani di Volokolamsk? Ci eravamo dunque messi a tavola alla mensa e non capivamo perché non ci dessero da mangiare, che cosa si stesse aspettando. Che novità ci avrebbero annunciato ? Per noi, qualsiasi novità non poteva che essere buona. C ’è un confine al di là del quale tutto ciò che vi capita non può che essere per il meglio. Una novità può es­ sere solo buona. Di questo ci rendevamo conto tutti con il nostro corpo, non con il cervello. Lo sportello della piccola finestra dalla quale veniva distribui­ to il cibo si apri dall’interno e cominciarono a portarci delle sco­ delle di minestra: era bollente! Poi della kaša, anch’essa calda! E come terzo piatto il kisel', freddo quasi al punto giusto! Furono distribuiti anche dei cucchiai, uno per uno, e il caposquadra ci av­ vertì che avremmo dovuto restituirli. Certo che li avremmo resti­ tuiti. A cosa ci servivano dei cucchiai? A scambiarli con del ta­ bacco in un’altra baracca? Certo che li avremmo restituiti. A co­ sa ci servivano ? Da molto tempo ci eravamo abituati a mangiare

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dal bordo della scodella. Che ce ne facevamo dei cucchiai ? Quel­ lo che resta sul fondo, si può sempre spingerlo con un dito verso il bordo, la bocca... Non c’era nient’altro a cui pensare: davanti a noi c’era del ci­ bo, delle pietanze. Avevano distribuito anche il pane, e messo in mano a ognuno una razione da duecento grammi. - Per il pane, solo la razione, - aveva solennemente annuncia­ to il caposquadra, - ma per il resto a crepapelle. E noi avevamo mangiato «a crepapelle». In qualsiasi minestra ci sono due parti ben distinte: la parte densa e quella acquosa, la ju šk a. Quella acquosa ce la dettero a volontà. In compenso il se­ condo, la kaša, non nascondeva nessun inganno. Del terzo piatto che dire ? acqua tiepida con un leggero gusto di fecola e tracce ap­ pena percettibili di zucchero caramellato. Era questo il kisel'. Gli stomaci dei detenuti non hanno assolutamente perso sen­ sibilità, le loro capacità di percezione del gusto non sono per nien­ te indebolite dalla fame e dal cibo grossolano. Al contrario, la sen­ sibilità al gusto dello stomaco di un detenuto affamato è straordi­ naria. La reazione qualitativa che si produce nello stomaco di un detenuto non ha nulla da invidiare, quanto a finezza, a un qual­ siasi laboratorio fisico di qualsiasi paese della seconda metà del xx secolo. Nessuno stomaco «libero» avrebbe rilevato la presenza di zuc­ chero fuso in quel k ise l' c he avevamo mangiato o, piu esattamen­ te, bevuto in quella notte della Kolyma al giacimento Partizan. Ma a noi il k ise l' e tà sembrato dolce, eccezionalmente dolce, un miracolo: ognuno si ricordò che in questo nostro mondo c’era ancora dello zucchero e che poteva perfino capitare nella dieta del detenuto. Per chissà quale magia... Il mago non era lontano. L ’avevamo individuato dopo la pri­ ma portata del secondo pasto. - Per il pane, solo la razione, - aveva detto il caposquadra, ma, per il resto a crepapelle. - E aveva guardato il mago. - Si, si, - aveva detto il mago. Era un omino lindo e pulitino, un moretto, con un viso anco­ ra senza geloni. I nostri superiori, sorveglianti, caporali e capicantiere, coman­ danti dei lager e soldati delle scorte, avevano tutti quanti già as­ saggiato la Kolyma, e la Kolyma aveva lasciato su ogni viso le pro­ prie parole, aveva impresso le proprie tracce, scavato rughe sup­ plementari, inferto per sempre le lesioni dei congelamenti, il suo stampo incancellabile, l’indelebile marchio!

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Sul viso rubicondo dell’omino lindo e bruno non c’era ancora nessuna macchia, nessuno stampo. Era il nuovo educatore capo del nostro lager, appena arrivato dal «continente». L ’educatore capo stava facendo un esperimento. Si era accordato con il comandante del lager, aveva insistito perché si interrompesse quella che alla Kolyma era una consuetu­ dine: secondo la vecchia tradizione, secolare se non millenaria, gli avanzi di minestra e kaša venivano portati ogni giorno dalla cuci­ na alla baracca dei malavitosi, quando restava «la parte densa in fondo», e poi li si distribuiva nelle baracche delle squadre miglio­ ri per sostenere quelli che avevano meno fame invece di quelli che ne avevano di piu, per incardinare tutto sul piano di produzione e trasformare ogni cosa in oro - le anime, i corpi di tutti: capi, sol­ dati di scorta e detenuti. Quelle squadre - e anche i malavitosi - si erano ormai abitua­ ti a far conto sugli avanzi. Dunque, si prospettava anche un dan­ no morale. Ma il nuovo educatore, il nostro nuovo vospitatel', non voleva accettare l’usanza e aveva insistito perché gli avanzi di cibo ve­ nissero distribuiti ai piu deboli e affamati: la loro coscienza, so­ steneva, si sarebbe in tal modo risvegliata. - Macché coscienza, al suo posto hanno ormai un corno lungo cosi, - aveva detto il caposquadra cercando di intromettersi, ma l’educatore era rimasto sulla sua posizione ottenendo l’autorizza­ zione all’esperimento. Come cavia fu scelta la squadra piu affamata, la nostra. - Adesso vedrete. Quando avranno mangiato lavoreranno me­ glio perché saranno riconoscenti al governo. Come si fa a preten­ dere da dochodjagi come questi che lavorino ? D ochodjagi, si dice proprio cosi, mi pare ? Dochodjagi-, è la prima parola del gergo del­ la malavita che ho imparato alla Kolyma. Dico bene ? - Si, - fece il responsabile dei lavori, un «libero» a contratto, vecchio arnese della Kolyma, che aveva spedito «sotto il colle» qualche migliaio di persone solo in quel giacimento. Era venuto a godersi l’esperimento. - Questi qui, questi scansafatiche, questi simulatori li si po­ trebbe rimpinzare a carne e cioccolata per un mese intero, e te­ nendoli a completo riposo, ma neanche cosi si metterebbero a la­ vorare. C ’è qualcosa che s’è guastato nelle loro zucche, e per sem­ pre. Sono delle scorie, dei rifiuti. La produzione farebbe meglio a nutrire quelli che ancora lavorano e non degli scansafatiche come questi !

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Accanto al passavivande della cucina si cominciò a discutere, a gridare. L ’educatore sosteneva con fervore le proprie ragioni. Il caposettore lo ascoltava con una faccia scontenta, e quando risuonò il nome di Makarenko lasciò perdere e si dedicò ad altro. Noi pregavamo ciascuno il proprio Dio e anche il membro del­ la setta pregava. Pregavamo perché non richiudessero lo sportel­ lo, perché l’educatore avesse la meglio. Due decine di detenuti con­ centrarono tutta la loro volontà su quell’unica idea e l’educatore vinse. Continuavamo a mangiare, poco disposti a dire addio a quel miracolo. Il caposettore tirò fuori l’orologio, ma già la sirena urlava: l’a­ cuta sirena del lager ci chiamava al lavoro. - Beh, gran lavoratori, - disse il nuovo educatore, proferendo con una certa esitazione queste parole assolutamente superflue, ho fatto tutto quello che ho potuto. Adesso tocca a voi risponde­ re a questo con il lavoro, solo con il lavoro. - Lavoreremo, cittadino capo, - dichiarò con solennità il so­ stituto del procuratore generale dell’Urss, stringendosi in vita il giaccone con un asciugamano sporco e soffiandosi nelle manopole per riscaldarle. La porta si apri lasciando entrare un vapore bianco, e noi ci tra­ scinammo fuori, nel gelo, perché il ricordo della felicità di quel giorno restasse per sempre in quelli tra noi che avrebbero conti­ nuato a vivere. Il freddo ci sembrò meno forte, piu sopportabile. Ma questa impressione non durò a lungo. Il gelo era troppo intenso per non avere il sopravvento. Raggiungemmo il fronte di cava e, in attesa che arrivasse il ca­ posquadra, ci sedemmo in circolo: ci sedemmo li dove un tempo facevamo il fuoco, attorno al quale ci accalcavamo, respirando nel­ la fiamma dorata, bruciacchiandoci manopole, berretti, pantalo­ ni, giacconi e calzari, nella vana speranza di scaldarci veramente, di difenderci dal freddo. Ma era stato tanto tempo prima, l’anno precedente, mi sembra. Quell’inverno ai lavoratori non era per­ messo riscaldarsi, poteva farlo solo la scorta. Il nostro soldato di scorta si sedette, dispose le braci del suo fuoco e attizzò la fiam­ ma. Si abbottonò la pelliccia, si sistemò su un tronco e appoggiò il fucile. Una nebbia lattiginosa circondava il fronte di cava, illuminato solo dal fuoco del soldato. Il settario, che era seduto accanto a me, si alzò, passò davanti al militare e si allontanò nella nebbia, nel cie­ lo...

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- A lt! Alt! Il soldato di scorta non era un cattivo diavolo, ma conosceva bene il proprio fucile. - Alt! Poi risuonò uno sparo, lo scatto secco dell’otturatore - il set­ tario non era ancora scomparso nella nebbia - e un secondo spa­ ro... - Allora hai visto anche tu, olen ', asinaccio che non sei altro, - disse alla maniera dei malavitosi il responsabile dei lavori all’e­ ducatore capo. Erano venuti anch’essi sul posto. Ma l’educatore non osò ma­ nifestare il proprio stupore per l’uccisione, quanto al responsabi­ le dei lavori in fatto di uccisioni aveva visto ben altro. - Tu e il tuo esperimento. Queste carogne lavorano peggio di prima. Un pasto in piu significa più forze per lottare contro il fred­ do. Ma non c’è che il freddo per obbligarli a lavorare, questo te lo devi ficcare in testa, bello. Non il tuo pranzo e neanche i miei ceffoni, ma solo il freddo. Agitano le braccia per riscaldarsi. E noi gli diamo in mano picconi e badili - tanto, sbracciarsi per sbrac­ ciarsi - e gli facciamo trovare carriole, casse, barelle, e il giaci­ mento realizza il piano. Produce l’oro. Questi qui adesso sono sa­ zi e non lavoreranno per niente. Finché non sentiranno di nuovo freddo. Allora ricominceranno ad agitare i badili. Ma dargli da mangiare non serve a niente. Hai combinato proprio una gran ca­ voiata con questo tuo pranzo. Per una volta, sei perdonato. Siamo stati tutti degli asini come te. - Non li facevo cosi carogne, - disse l’educatore. - La prossima volta darai retta ai tuoi superiori. Adesso di quel­ li c’è n’è uno di meno. Uno scansafatiche. Ha mangiato a sbafo per sei mesi le razioni governative. Ho notato che t’interessa il ger­ go: un filo n di meno. Ripeti: filon . - Filon, ripetè l’educatore. Io mi trovavo proprio accanto a loro, ma la mia presenza non imbarazzava le autorità. Avevo comunque un legittimo motivo per restare li ad aspettare: il caposquadra doveva assegnarmi il nuovo compagno con il quale lavorare in coppia. Mi portò Lupinov, l’ex sostituto del procuratore generale dell’Urss. E cominciammo a mettere la roccia frantumata con l’e­ splosivo nelle casse, a fare il lavoro che facevo con il settario. Rientrammo per il cammino di sempre, come al solito senza aver realizzato la norma, e senza preoccuparcene. Ma eravamo me­ no gelati del solito, almeno cosi ci sembrava.

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Avevamo cercato di lavorare, ma la distanza che separava la nostra vita da ciò che si può esprimere in cifre, in carriole, in per­ centuali di piano era troppo grande. Quelle cifre costituivano un oltraggio sacrilego. Ma dopo quel pasto notturno, per un’ora, per un istante, le nostre forze - spirituali e fisiche - si erano rinvigo­ rite. E, rabbrividendo per ciò che avevo intuito, compresi che quel pasto notturno aveva dato al settario la forza di suicidarsi. Era pro­ prio quella porzione di k a ìa in più che mancava al mio compagno di turno per decidersi a morire: talvolta l’uomo deve affrettarsi, se non vuol perdere la volontà di darsi la morte. Come al solito, circondammo la stufa. Soltanto che quel gior­ no non c’era piu nessuno che cantasse gli inni. E, tutto sommato, ero perfino contento di quel silenzio, ormai. 1966.

T išin a,

in «Literaturnaja Rossija», 29 gennaio 1988.

D u e in co n tri

Il mio primo caposquadra fu un tale Kotur, un serbo che era fi­ nito alla Kolyma dopo la liquidazione del club internazionalista di Mosca1. Kotur non prendeva molto sul serio i propri obblighi di caposquadra, rendendosi conto che il suo destino, come quello di noi tutti, non si decideva sui giacimenti auriferi ma da tutt’altra parte. Nonostante ciò, Kotur ci metteva egualmente tutti i giorni al lavoro, misurava i risultati ottenuti con il sorvegliante e scuo­ teva la testa con aria di disapprovazione. I risultati erano miseri. - Vediamo, tu, tu conosci il lager. Mostrami come si maneggia la pala, - mi chiese una volta Kotur. Presi la pala e, spicconato un pezzo di terreno friabile, caricai la carriola. Tutti si misero a ridere. - Cosi lavorano solo gli scansafatiche. - Ne riparliamo fra vent’anni. Ma non ci fu modo di riparlarne di li a vent’anni. Al giacimento arrivò un nuovo capo, Leonid Michajlovič Anisimov. Alla prima ispezione sollevò Kotur dall’incarico. E il serbo spari... Era andata cosi. Il nostro caposquadra era seduto nella cassa di una carriola e non si era alzato all’avvicinarsi del capo. La carrio­ la, niente da dire, è perfettamente adatta agli usi che le sono pro­ pri, ma la sua cassa si presta ancor meglio al riposo. Però è diffi­ cile alzarsi, riemergere rapidamente da quella poltrona profonda, profondissima: occorre uno sforzo di volontà, e forza fisica. Sic­ ché Kotur era sprofondato nella carriola e non si era alzato, o me­ glio non aveva fatto in tempo ad alzarsi del tutto quando si era av­ vicinato il capo. Fucilato. Con il nuovo capo - cominciò come sostituto del capo del gia­ cimento - tutti i giorni e tutte le notti si misero a prelevare gente

1 Riferimento ai numerosi dirigenti comunisti stranieri, membri del K o m in te m , che vivevano a Mosca a metà degli anni Trenta, decimati dalle repressioni del 1937-38.

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dalle baracche e a portarla via. Nessuno di loro ritornò al giaci­ mento. Aleksandrov, Klivanskij, e altri i cui nomi si sono ormai cancellati dalla mia memoria. I nuovi che arrivavano di rincalzo neppure l’avevano un nome. Nell’inverno del 1938, le autorità decisero che i convogli di dete­ nuti in partenza da Magadan alla volta dei giacimenti del Nord do­ vevano fare la strada a piedi. Di una colonna di cinquecento per­ sone, sulla distanza di cinquecento chilometri, a Jagodnoe ne ar­ rivavano trenta o quaranta. Gli altri si accasciavano lungo la strada: congelati, morenti di fame o colpiti da una fucilata. Ebbene, di nessuno dei nuovi arrivati si conosceva il cognome: erano persone arrivate con altre traduzioni di detenuti, che non si distingueva­ no né per i vestiti, né per la voce, né per le macchie da congela­ mento sulle guance, né per le vesciche da congelamento sulle dita. Le squadre si assottigliavano a vista d’occhio: sulla strada che portava alla Serpantinka, centro della «missione di servizio» del­ la Direzione del Nord incaricata delle fucilazioni, autocarri stra­ colmi di gente arrivavano giorno e notte e ritornavano indietro vuoti. Mettevano insieme piu squadre, cominciava a non esserci gen­ te abbastanza, e il governo prometteva di fornire nuova manodo­ pera, ma intanto esigeva il rispetto del piano. I capi dei giacimen­ ti sapevano che nessuno avrebbe mai chiesto loro di rispondere per le persone: ci sarebbe mancato! E anche se ai corsi di educazione politica avevano insegnato loro che l’elemento umano, i quadri, erano la cosa piu preziosa - era sui fronti di scavo dei loro giaci­ menti che si realizzava la messa in pratica di tanti bei discorsi. A quel tempo, il capo del giacimento Partizan della Direzione mineraria del Nord era Leonid Michajlovič Anisimov, futuro gran capo della Kolyma, che avrebbe consacrato tutta la sua vita al D al'stroj: come capo della Direzione dell’Ovest e capo del Cukotstroj.

Ma la sua carriera nei lager Anisimov la cominciò al giacimen­ to Partizan, il mio giacimento. Fu precisamente sotto la sua direzione che il giacimento ven­ ne invaso dalle scorte, furono costruite le «zone» e creato l’appa­ rato degli oper , i delegati: si cominciò a fucilare la gente, a squa­ dre intere e singolarmente. Durante gli appelli e gli avvicendamenti dei turni di lavoro, si cominciarono a leggere interminabili elen­ chi di condanne a morte. Gli ordini erano firmati dal colonnello Garanin, ma era Anisimov a segnalare, a fornire al suo superiore i nominativi del giacimento Partizan, e furono davvero molti. Il

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giacimento Partizan non era grande. Nel 1938 vi risultavano re­ gistrate soltanto duemila persone. I giacimenti vicini, Verchnij AtUrjach e Sturmovoj, avevano una popolazione di dodicimila per­ sone ciascuno. Anisimov era un capo molto zelante. Ricordo molto bene le due conversazioni personali che ebbi con il cittadino Anisimov. La pri­ ma ebbe luogo nel gennaio 1938, quando il cittadino Anisimov in persona venne ad assistere all’uscita al lavoro delle squadre re­ standosene in disparte a osservare i suoi aiutanti, che, sotto lo sguardo del capo, si davano da fare più del necessario. Ma non ab­ bastanza per il gusto di Anisimov. Toccava alla nostra squadra schierarsi e Sotnikov, il caposet­ tore, mi indicò con il dito, mi fece uscire dai ranghi e mi condus­ se davanti ad Anisimov. - Ecco uno scansafatiche. Non vuole lavorare. - Chi sei? - Un giornalista, uno scrittore. - Qui puoi sempre firmare le etichette delle scatole di conser­ va. Ti ho chiesto chi sei. - Minatore della squadra di Firsov, detenuto tal dei tali, pena cinque anni. - Perché non lavori, perché continui a sabotare lo Stato ? - Sono malato, cittadino capo. - Che malattia può avere un pezzo d’uomo come te ? - Il cuore. - Il cuore. Hai un cuore. Anch’io ho il cuore malato. I medici mi hanno proibito l’Estremo Nord. Eppure sono qui. - Per lei è una faccenda diversa, cittadino capo. - Ma guarda un po’, quante parole ! Devi tacere e lavorare. Pen­ saci prima che sia troppo tardi. Prima o poi i conti li regoliamo. - A g li o r d in i, c itta d in o c a p o .

La mia seconda conversazione con Anisimov ebbe luogo in esta­ te, sotto la pioggia, al settore quattro, dove ci tenevano bloccati, inzuppati fino alle ossa. Praticavamo dei fori per le mine. Da mol­ to tempo la squadra dei malavitosi era stata rimandata alla barac­ ca a causa della pioggia, ma noi eravamo dei «cinquantotto» e do­ vevamo restare nei nostri pozzetti; non erano molto profondi, ci arrivavano al ginocchio. Il soldato di scorta si riparava dall’ac­ quazzone sotto il suo «fungo». S o t t o q u e lla p io g g ia to rr e n z ia le v e n n e a fa r c i v is it a A n isim o v , in c o m p a g n ia d e l r e sp o n s a b ile d e i la v o ri d i b rilla m e n to . Il c a p o v e ­ n iv a a c o n tr o lla r e c h e c i in z u p p a ssim o a d o v e r e , c h e f o s s e r o ese-

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guiti i suoi ordini riguardo ai «cinquantotto», i quali non poteva­ no beneficiare di nessuna aktirovka, ovvero sospensione del lavo­ ro, per motivi meteorologici, e dovevano pensare solo a meritarsi il paradiso, il paradiso, il paradiso... Anisimov indossava un lungo impermeabile con un certo par­ ticolare cappuccio. Camminava agitando i suoi guanti di pelle. Conoscevo la sua abitudine di colpire i detenuti in faccia con i guanti. Conoscevo quei guanti che in inverno erano sostituiti da manopole di pelliccia lunghe fino al gomito e conoscevo la sua abi­ tudine di colpire in faccia con queste e con quelli. Li avevo visti in azione decine di volte. Nelle baracche dei detenuti del Partizan si parlava molto di questa particolarità di Anisimov. Ho assistito personalmente, nella baracca, a violente discussioni che degene­ ravano quasi in scontri cruenti sulla questione che segue: il tal ca­ po picchiava con il pugno 0 con i guanti, con un bastone o una can­ na, con una frusta o con il calcio del revolver? L ’uomo è davvero un essere complicato: a queste discussioni che sfociavano quasi in zuffe partecipavano ex professori, membri del partito, colcosiani, ex alti ufficiali. In generale, tutti lodavano Anisimov: picchiava, certo, ma chi non lo faceva? Almeno, di norma, i suoi guanti non lasciavano ec­ chimosi, e se faceva sanguinare il naso a qualcuno con il bracciale dei guanti invernali, anche questo era da mettere in conto a un «cambiamento patologico della circolazione sanguigna dovuto al­ la prolungata detenzione», come ci aveva spiegato un medico al quale, ai tempi di Anisimov, non consentivano di lavorare confor­ memente alla sua professione, ma costringevano a faticare come tutti quanti. Da tempo avevo giurato a me stesso che se mi avessero colpi­ to sarebbe stata la fine della mia vita. Avrei colpito a mia volta il capo e sarei stato fucilato. Ahimè, allora ero un bambino ingenuo. Quando piu tardi mi indebolii, anche volontà e giudizio si inde­ bolirono allo stesso modo. Mi convinsi allora facilmente che do­ vevo sopportare e non trovai più in me stesso la forza d ’animo ne­ cessaria a colpire a mia volta, ad affrontare il suicidio, la protesta. Ero diventato un comune dochodjaga e vivevo secondo le leggi che sovrintendono alla psicologia di questi cadaveri ambulanti. Tutto ciò sarebbe accaduto molto tempo dopo, ma allora, quando ebbe luogo quel mio incontro con il cittadino Anisimov, ero ancora in forze, fermo e fedele alle mie decisioni. I guanti di pelle di Anisimov si avvicinarono e io preparai il pic­ cone.

DUE INCONTRI

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Ma Anisimov non mi colpi. I suoi begli occhi, grandi, color marrone scuro, incontrarono il mio sguardo e Anisimov distolse gli occhi. - Ecco come sono, tutti quanti, - disse il capo del giacimento al suo accompagnatore. - Tutti, senza eccezione. Non se ne potrà cavare mai niente. [1967].

D v e v stre ci,

in «Sibirskie ogni», 1989, n. 4.

Il «termometro» dì Griska Logun

Era tale la stanchezza che prima di rientrare ci eravamo sedu­ ti sul bordo della strada, direttamente nella neve. Invece dei quaranta gradi sotto zero della vigilia, c’erano solo venticinque gradi e ci sembrava di essere in estate. Vedemmo passare Griška Logun, il capocantiere del settore vi­ cino al nostro, con indosso una corta pelliccia sbottonata. In ma­ no aveva un manico di piccone nuovo. Griška era giovane, straor­ dinariamente rosso in faccia e molto istintivo. Era un caposqua­ dra, e anche dei piu giovani, e spesso non poteva trattenersi dal dare una mano e la propria spalla per tirar fuori un veicolo finito nella neve, o per sollevare un tronco, o spostare una grande cassa piena di terra incollata al suolo dal gelo: atti chiaramente censu­ rabili per un capocantiere. Dimenticava in continuazione di es­ serlo. Dalla direzione opposta stava arrivando la squadra di Vino­ gradov: non granché come lavoratori, un po’ del nostro genere. Per composizione era identica alla nostra: ex segretari di comita­ ti regionali e cittadini del partito, professori e liberi docenti, mi­ litari dei gradi intermedi... Queste persone si ammassarono timorose contro il bordo di ne­ ve, stavano rientrando dal lavoro e cedevano il passo a Griška Lo­ gun. Ma si fermò anche lui: la squadra lavorava nel suo settore. Vinogradov usci dai ranghi. Era un chiacchierone, ex direttore di una Mts, una stazione di macchine e trattori, in Ucraina. Logun si era allontanato di molto dal posto dove eravamo se­ duti noi, quindi non potevamo sentire le voci, ma tutto ci fu per­ fettamente comprensibile anche senza parole. Vinogradov, gesti­ colando in continuazione, spiegava qualcosa a Logun. Poi Logun lo colpi sul petto con il manico di piccone e Vinogradov stramazzò a terra... Non si rialzava. Logun gli saltò sopra e cominciò a cal­ pestarlo agitando il bastone. Nessuno dei venti lavoratori della

IL «TER M O M ETRO » DI GRISKA LOGUN

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squadra di Vinogradov accennò la minima reazione in difesa del capo. Logun raccolse da terra il berretto che gli era caduto, mi­ nacciò ancora con il pugno e prosegui per la sua strada. Vinogra­ dov si rialzò e come niente fosse si avviò a sua volta. E neanche gli altri - la squadra ci passò davanti - sembravano particolarmente indignati o solidali. Quando fu alla nostra altezza, Vinogradov stor­ se le labbra spaccate e sanguinanti: - Come termometro, ha un termometro niente male quel Lo­ gun, - disse. - «Calpestarti», è uno spasso dei malavitosi, è il loro ballo, disse a bassa voce Vavilov, - magari con accompagnamento voca­ le-strumentale, tipo «Oh ingresso, ingresso della mia casa...» - Tutto qui quello che hai da dire ? - chiesi a Vavilov, già mio compagno alla prigione di Butyrki, dalla quale eravamo venuti di­ rettamente al giacimento. - Bisogna prendere una decisione. Fi­ nora non ci hanno ancora picchiati. Ma può capitare anche doma­ ni. Cosa avresti fatto se Logun ti avesse trattato come Vinogra­ dov ? Eh ? - Avrei sopportato, sicuramente, - rispose con mitezza Vavi­ lov. E compresi che già da molto tempo pensava a quell’evenien­ za come a qualcosa di ineluttabile. Piu tardi mi sarei reso conto che per quanto riguardava capi­ squadra, addetti alla baracca, sorveglianti, vale a dire persone che non erano armate, era tutta una questione di superiorità fisica. Finché sono piu forte io, non mi picchiano. Non appena divento debole, mi picchiano tutti. Mi picchia l’addetto alla baracca, l’ad­ detto ai bagni, mi picchiano il barbiere e il cuciniere, il caposqua­ dra e il caporale, mi picchia qualsiasi malavitoso, anche il piu ma­ landato. La superiorità fisica del soldato di scorta è invece data dal suo fucile. La forza del capo che mi bastona è la legge, la condanna, il tri­ bunale, la scorta e i soldati. Non gli ci vuole molto a essere più for­ te di me. La forza dei malavitosi è il loro gran numero, il loro «col­ lettivo», il fatto che vi possono tagliar la gola alla seconda parola che pronunciate (e quante volte l’ho visto fare!) Ma io sono an­ cora forte. Il capo, la scorta, il malavitoso mi possono picchiare. Ma l’addetto alla baracca, il caporale e il barbiere ancora no. Un giorno, Poljanskij - un tale che un tempo si occupava di educazione fisica, e riceveva molti pacchi da casa senza mai divi­ dere una briciola con nessuno - mi disse con tono di disapprova­ zione di non capire come facesse la gente a ridursi in un tale sta­

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to da lasciarsi picchiare senza reagire, e si indignò per le mie obie­ zioni. Ma non era passato neanche un anno quando incontrai di nuovo Poljanskij: era al lumicino, uno scheletro ambulante racco­ glitore di cicche, un relitto che anelava soltanto, per un piatto di minestra, a grattare i piedi a un qualche pachan dei malavitosi du­ rante la notte. Poljanskij era onesto. Era lacerato da certi segreti tormenti, co­ si forti, acuti e incessanti che erano riusciti a vincere il gelo, la morte, l’indifferenza e le percosse, l’insonnia e la paura. Venne un giorno festivo. Nei giorni festivi, ci tenevano sotto­ chiave - per quello che si chiamava «isolamente festivo» - ed era precisamente in simili occasioni che certe persone avevano modo di incontrarsi, di far conoscenza, e di credere uno all’altro. Per quanto orribile e umiliante fosse l’isolamento, per i condannati in base all’articolo 58 era sempre piu sopportabile del lavoro. Perché l’isolamento era comunque un riposo, anche se solo momentaneo, e chi di noi era allora in grado di sapere quanto ci sarebbe voluto per recuperare il nostro corpo di prima, se un momento, un gior­ no, un anno o un secolo ? Quanto alla nostra anima di prima, non contavamo piu di ritrovarla. E non l’abbiamo piu ritrovata, natu­ ralmente. Nessuno di noi. Dicevamo dunque che Poljanskij era un uomo onesto e durante quella giornata di isolamento lo ebbi per vicino di tavolaccio. - Era da un po’ che volevo parlarti di una cosa. - Di cosa si tratta ? - Fino a qualche mese fa, quando ti guardavo camminare e ve­ devo che non riuscivi a scavalcare un tronco e dovevi aggirarlo quando anche un cane sarebbe riuscito a passarci sopra; quando trascinavi i piedi sui sassi e la minima irregolarità del terreno, una minuscola gibbosità sul cammino ti sembravano un ostacolo in­ sormontabile che ti dava il batticuore, ti toglieva il respiro, dopo di che dovevi riposarti a lungo, ti guardavo e pensavo: che razza di poltrone, che scansafatiche, un mascalzone che sa il fatto suo, un simulatore. - E allora ? Ma poi hai capito ? - Poi ho capito. Ho capito quando anch’io sono diventato de­ bole. Quando hanno incominciato a spintonarmi, a battermi - e si trova sempre chi vuole togliersi la soddisfazione di constatare che c’è qualcuno più a malpartito di lui. - Non sarà per questo che i «lavoratori d’assalto» vengono in­ vitati alle conferenze pubbliche, non sarà che la forza fisica costi­ tuisce un’unità di misura morale? Se è piu forte fisicamente si-

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gnifica che è migliore di me, anche da un punto di vista morale, etico. E non potrebbe essere altrimenti. Solleva dei massi di die­ ci pudy, quando io mi piego in due sotto un sassetto di mezzo pud. - Ho capito tutte queste cose e te l’ho voluto dire. - E per questo ti ringrazio. Poljanskij mori di li a poco: cadendo malamente in uno scavo. Il suo caposquadra gli aveva dato un pugno in faccia. Non era Griška Logun ma uno dei nostri, Firsov, un militare, anche lui un «cinquantotto». Ricordo bene la prima volta che sono stato picchiato. La pri­ ma volta di centinaia, di migliaia di ceffoni, quotidiani, di giorno e di notte. Ricordarsi di tutti i ceffoni è impossibile, ma il primo colpo me lo ricordo bene, c’ero stato perfino in qualche modo preparato dal comportamento di Griška Logun e dalla rassegnazione di Vavilov. In mezzo al gelo e alla fame, alle giornate lavorative di quat­ tordici ore nella bianca caligine ghiacciata dei pietrosi giacimenti auriferi, balenò all’improvviso qualcosa di diverso, una specie di felicità, una specie di elemosina di un passante frettoloso: non un’e­ lemosina di pane o medicine, ma un’elemosina fatta di tempo, di riposo extra. E fu Zuev a ficcarmela in mano. Zuev era il nostro desjatnìk e sorvegliante al giacimento, a quel tempo era un «libero», ma ex zek, e dunque era stato nella nostra pelle di detenuti. C ’era qualcosa nei suoi occhi neri: l’espressione di una certa qual compassione nei confronti del doloroso destino dell’uomo. Potere significa corruzione. Liberata dalle catene, la fiera che si nasconde nell’animo di ogni uomo è bramosa di soddisfare quel­ la che è la sua primordiale, istintiva essenza: percuotere, ucci­ dere. Non so se il fatto di firmare una condanna a morte possa esse­ re fonte di soddisfazione. Anche lf c’è sicuramente un cupo pia­ cere, un torbido slancio dell’immaginazione che non cerca giusti­ ficazioni. Ho visto persone, e molte, che a suo tempo avevano dato l’or­ dine di fucilare altra gente e che ora subivano la stessa sorte. E niente, nient’altro che viltà, nient’altro che l’urlo: « C ’è un erro­ re, non sono io quello che dovete ammazzare per il bene dello Sta­ to, io stesso so come si fa! » Non ho avuto occasione di conoscere persone che abbiano im­ partito l’ordine di fucilare. Le ho viste solo da lontano. Ma penso che un ordine del genere possa nascere solo da quegli stessi impulsi

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dell’anima, possa poggiare solo su quegli stessi fondamenti su cui si regge la fucilazione medesima, l’uccisione con le proprie mani. Il potere è corruzione. L ’ubriacatura che viene dal potere sugli altri, l’impunità e i pri­ vilegi, gli scherni e le umiliazioni: è su questa scala morale che si misura la carriera di un capo. Comunque Zuev picchiava meno di altri: dunque c’era andata bene. Eravamo appena arrivati al lavoro e la squadra si accalcava nel­ l’unico angolino al riparo dal vento forte e tagliente, dietro la spor­ genza di una roccia. Il caporale Zuev ci raggiunse, riparandosi il viso con le manopole. La squadra fu distribuita ai vari posti di la­ voro, ai vari scavi, e solo io restai disoccupato. - Avrei una richiesta da farti, - mi disse Zuev con la voce af­ fannata per la propria temerarietà, - una richiesa, sia chiaro: non un ordine! Scrivimi un’istanza da mandare a Kalinin'. Perché mi annulli la condanna. Ti racconterò di cosa si tratta. Nella baracchetta del caporale, dove c’era una stufa accesa, quelli come noi non li lasciavano entrare: chiunque osasse solo soc­ chiudere la porta per respirare almeno per un istante il caldo te­ pore della vita veniva cacciato via a pugni e pedate. L ’istinto animale ci spingeva verso questa porta proibita. Ci in­ ventavamo delle domande: «Che ore sono?», delle questioni: «Lo scavo deve andare verso destra o verso sinistra ?», «Mi farebbe ac­ cendere?», «Per caso non è qui Zuev? E Dobrjakov?» Nella baracchetta queste domande non ingannavano però nes­ suno. I visitatori venivano ricacciati a calci fuori dalla porta aper­ ta, nel freddo. Ma per un momento erano stati comunque al cal­ do... Adesso non mi cacciavano, me ne stavo anzi seduto proprio vi­ cino alla stufa. - Chi sarebbe, un giurista? - sibilò qualcuno con disprezzo. - Si, Pavel Ivanovič, mi è stato raccomandato. - Beh, beh. - Era il caporale anziano, indulgente con il proprio sottoposto in difficoltà. Il caso in questione - Zuev aveva finito di scontare la sua pe­ na Tanno precedente - era di un tipo assai comune, frequente in campagna, ed era stato innescato da una questione di alimenti ai genitori: costoro avevano per l’appunto fatto metter dentro il fi-1 1 Michail Kalinin (1875-1946), bolscevico della prima ora, dopo la rivoluzione presiedette il CC esecutivo e poi il presidium del Soviet supremo.

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glio. Quando ormai non gli mancava molto al termine della pena, le autorità carcerarie erano riuscite a spedirlo alla Kolyma. La co­ lonizzazione della regione esigeva una linea indefettibile: da una parte frapporre ostacoli d’ogni genere ai rilasci e alle partenze, dal­ l’altra l’aiuto attento e costante dello Stato affinché il flusso degli arrivi, dei convogli di detenuti non venisse mai meno. Una cate­ na di convogli è il sistema piu semplice per popolare una nuova, difficile terra. Zuev voleva chiudere i conti con il D al'stroj, chiedeva che la sua condanna fosse annullata, o di potere almeno tornare nel «con­ tinente». Scrivere mi costava fatica, anzitutto perché le mani mi si era­ no riempite di calli e le dita si erano talmente incurvate attorno ai manici del badile e del piccone che mi riusciva incredibilmente dif­ ficile raddrizzarle; non potevo far altro che avvolgere una striscia di stoffa attorno alla matita e alla penna per ispessirle, avvicinan­ dole in qualche modo a un manico di piccone o badile. Trovato il sistema, ero pronto a tracciare le lettere con tutta l’accuratezza del caso. Ma scrivere mi costava fatica anche per un altro motivo: per­ ché il cervello mi si era indurito come le mani, perché il cervello mi sanguinava, proprio come le mani. Bisognava rianimare, resu­ scitare parole ormai uscite dalla mia vita, uscite, cosi pensavo, per sempre. Scrivevo quel testo sudando e gioiendo. Nella baracchetta fa­ ceva caldo e i pidocchi si erano risvegliati, li sentivo muoversi per tutto il corpo. Evitavo di grattarmi non volendo disgustare il mio salvatore e temendo che mi cacciassero fuori al gelo come pidoc­ chioso. Per sera avevo finito di scrivere l’istanza a Kalinin. Zuev mi ringraziò e mi ficcò in mano una razione di pane. La razione an­ dava mangiata immediatamente, e in generale avevo ben impara­ to la regola: mai rimandare all’indomani tutto quello che puoi man­ giare subito. La giornata volgeva al termine - secondo gli orologi dei capo­ rali, perché la nebbia lattiginosa che ci avvolgeva era sempre ugua­ le, a mezzanotte come a mezzogiorno - e ci riportarono a casa. Dormii e come sempre feci quello che era il mio sogno ricor­ rente alla Kolyma: pagnotte di pane sospese a mezz’aria che riem­ pivano tutte le case, tutte le strade, il mondo intero. Il mattino dopo aspettavo con impazienza la venuta di Zuev magari m’avrebbe dato da fumare.

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E Zuev arrivò. Senza badare alla squadra o alla scorta, mi tra­ scinò fuori dal riparo, in pieno vento, e urlò: - Mi hai imbrogliato, carogna ! Durante la notte aveva letto l’istanza. E non gli era piaciuta per niente. Anche i suoi vicini, gli altri caporali, l’avevano letta e neanche a loro era piaciuta. Troppo asciutta. Poche lacrime. Un’i­ stanza cosi non aveva senso neppure inoltrarla. Per una fesseria del genere Kalinin non si sarebbe mai impietosito. Non avevo potuto, non avevo proprio potuto spremere dal mio cervello disseccato dal lager una sola parola inutile. Non avevo po­ tuto soffocare l’odio. Non ero riuscito a fare quello che mi era sta­ to chiesto, e non perché fosse troppo grande lo scarto tra la libertà e la Kolyma, e neppure perché il mio cervello fosse stanco fino al­ l’estenuazione, ma perché in esso, li dove si formavano aggettivi e fervidi voti non c’era più nulla se non l’odio. E dire che Do­ stoevskij, per tutti i dieci anni di ferma punitiva come soldato sem­ plice2 che scontò dopo la «casa di morti», scrisse lettere afflitte, lacrimose, magari umilianti ma capaci di muovere a compassione le autorità cui erano indirizzate. Dostoevskij scrisse perfino dei versi dedicati all’imperatrice. Nella «casa di morti» non c’era la Kolyma. Diversamente Dostoevskij sarebbe stato colpito dal mu­ tismo, quello stesso mutismo che non mi aveva consentito di scri­ vere l’istanza per Zuev. - Mi hai imbrogliato, carogna! - sbraitava Zuev. - Ti farò ve­ dere io cosa vuol dire prendermi in giro! - Non ho imbrogliato... - Te ne sei rimasto per tutta la giornata al chiuso, al caldo. So­ no responsabile io di quel che fai, carogna che non sei altro, e la tua poltroneria mi può costare una condanna! Ti credevo un uomo! - Ma io sono un uomo, - sussurrai, muovendo indeciso le lab­ bra bluastre e gelate. - Te lo faccio vedere subito che razza di uomo sei! Zuev protese di slancio il braccio e io sentii un tocco leggero, quasi inavvertibile, non piu forte delle raffiche di vento che mi avevano già atterrato piu di una volta su quello stesso fronte di ca­ va... Caddi e, riparandomi con le braccia, leccai con la punta della lingua qualcosa di dolce e appiccicoso che mi era colato nell’ango­ lo della bocca. 2 Nel 1849 Dostoevskij si vide infliggere una condanna a morte, poi commutata in die­ ci anni di detenzione da scontare in Siberia, quattro di lavori forzati e sei di servizio mili­ tare come soldato semplice.

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Poi Zuev mi assestò alcuni colpi di stivale nelle costole, ma non sentii nessun dolore. 1966.

Term om etr G r n k i L o g u n a ,

in «Znamja», 1989, n. 6.

L a retata

La Willis con quattro «combattenti» seduti dietro abbandonò la rotabile principale con una brusca sterzata e, dando gas, avanzò sobbalzando sul paludoso terreno pieno di gobbe, lungo il traccia­ to serpeggiante e infido, ricoperto di calcare bianco, che portava all’ospedale. La Willis era ormai vicina e Krist si senti stringere il cuore dall’inquietudine, l’abituale inquietudine che lo prendeva ad ogni incontro con le autorità, la scorta, il destino. La Willis ebbe uno scatto e si impantanò nella palude. Dalla rotabile all’ospedale c’erano forse cinquecento metri. La dotto­ ressa responsabile del centro medico aveva fatto costruire quel tratto di strada in economia, adottando il sistema di Stato dei «sa­ bati comunisti», che alla Kolyma vengono chiamati u d am ik i, «la­ vori d ’assalto». E il sistema alla base di tutti i grandi lavori della p jatiletk a, il piano quinquennale dell’epoca. I malati in via di ri­ stabilimento venivano mandati alla costruzione della strada: per portarci chi un sasso, chi due o una barella di pietrisco. Gli in­ servienti, anch’essi dei detenuti - non era previsto personale di ruolo in quel bell’ospedaletto riservato ai detenuti - andavano a questi lavori senza protestare, diversamente c’era il giacimento, il fronte aurifero. Ai «lavori volontari» non veniva mai mandato il personale del reparto di chirurgia: dita scorticate o ferite avreb­ bero messo i lavoratori di chirurgia fuori causa per lunghi perio­ di. Ma per convincere le autorità del lager c’era voluto un ordine di Mosca. Gli altri detenuti invidiavano in modo terribile, osses­ sivo questo privilegio: l’essere esentati dai «lavori d’assalto», dai «sabati comunisti». Anche se non si capiva molto il perché di tan­ ta invidia: in fondo, cosa ci voleva a farsi quelle due o tre ore « d ’assalto», come tanti altri, e via? ma ecco il punto: c’erano dei compagni che venivano dispensati dal lavoro mentre noi lo si do­ veva fare. Era questo l’infinito oltraggio, da non poterlo dimen­ ticare per tutta la vita. Malati, medici, inservienti, ciascuno prendeva il suo sasso, o

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magari anche due, si avvicinava al bordo del terreno melmoso e lo gettava nella palude. Era stato cosi che Gengis Khan aveva costruito strade e inter­ rato mari, ma lui aveva a disposizione molta piu gente della dot­ toressa a capo dell’Ospedale centrale provinciale per detenuti, co­ me si chiamava pomposamente quell’istituto. Gengis Khan aveva piu gente e poi colmava i mari, e non un terreno perennemente gelato e senza fondo come quello, del tut­ to impermeabile all’acqua, che però durante la breve estate della Kolyma disgelava in superficie trasformandosi in uno stagno non prosciugabile. In estate la strada era molto peggio che in inverno; non c’era niente che potesse sostituire la neve e il ghiaccio. Piu la palude sge­ lava e sprofondava, piu sassi ci volevano, e in tre estati, nonostante le teorie di malati in continuo avvicendamento, non si era riusci­ ti a rinforzare la strada in modo apprezzabile. Solo in autunno, quando il freddo rapprendeva nuovamente anche in superficie il terreno, si poteva realizzare questa impresa alla Gengis Khan. La dottoressa capo e i malati che ci lavoravano vedevano bene fino a che punto l’impresa fosse disperata, ma tutti avevano fatto da tem­ po l’abitudine a quella che alla Kolyma era la norma: un lavoro pri­ vo di senso. Ogni estate gli ammalati in via di guarigione, i medici, gli in­ fermieri, gli inservienti portavano i loro carichi di sassi per quella maledetta strada. Il pantano si apriva sotto i sassi, tra schiocchi e gorgoglii, e li risucchiava, li risucchiava senza fine. Ne risultava una selciatura - di calcare bianco e scintillante - quantomeno in­ stabile. Restava un acquitrino, una palude impraticabile e la stradicciola coperta di calcare bianco e friabile serviva giusto a segnalare il cammino, la direzione da seguire. Cinquecento metri di percor­ so che il detenuto, il capo o il soldato di scorta potevano superare spostandosi da un appoggio all’altro, da una pietra all’altra, a sal­ telli, balzi, lunghe falcate. L ’ospedale si trovava in cima a una col­ linetta: una decina di baracche di un piano, esposte ai venti da tut­ ti e quattro i lati. Tutto attorno non c’era la zona di filo spinato. Per prelevare quelli che venivano dimessi, veniva mandata una scorta dalla direzione, la quale si trovava a sei chilometri dall’o­ spedale. La Willis aumentò il gas, fece un altro balzo in avanti e si im­ pantanò definitivamente. I combattenti saltarono giù dalla jeep e a questo punto Krist notò qualcosa di inconsueto. Sui vecchi pa­

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strani dei militari c’erano delle spalline nuove di zecca. E l’uomo sceso dalla cabina di guida aveva delle spalline d ’argento... Era la prima volta che Krist vedeva delle autentiche spalline militari. Ne aveva viste solo al cinema, sullo schermo, e in riviste illustrate ti­ po «Sole di Russia». E poi, dopo la rivoluzione, una sera, nella pe­ nombra della piccola città di provincia dove era nato, Krist aveva visto strappare le spalline a un ufficiale arrestato per strada e im­ pettito sull’attenti davanti a... Davanti a chi stava sull’attenti quel­ l’ufficiale ? Questo Krist non se lo ricordava. All’infanzia erano seguite un’adolescenza e una giovinezza segnate da una tale quan­ tità di impressioni - cosi dure e intense - che avrebbe avuto di che riempire decine di vite. Non poteva allora immaginare che sulla sua strada ci sarebbero stati cosi tanti ufficiali e soldati Ma adesso un ufficiale e dei soldati tiravano fuori la Willis dal­ l’acquitrino. Non si vedeva da nessuna parte il cineoperatore, non si vedeva neppure il regista, non era l’ultimo allestimento scenico per un film d’attualità. Le rappresentazioni di quaggiù prevede­ vano invariabilmente la partecipazione di Krist: le altre, quelle in cui lui non c’era, non lo interessavano minimamente. Era chiaro che la Willis, i soldati e l’ufficiale che erano appe­ na arrivati stavano interpretando un atto, una scena alla quale avrebbe poi partecipato lo stesso Krist. Quello con le spalline d ’ar­ gento era l’alfiere. No, adesso lo chiamavano in un altro modo: te­ nente. La Willis superò, procedendo a strappi, il passaggio meno sicu­ ro e raggiunse di gran carriera le baracche dell’ospedale, ferman­ dosi davanti a quella del panificio. Ne saltò fuori il fornaio, che era privo di una gamba, e non mancava mai di benedire la propria sor­ te di mutilato e la gamba superstite, e salutò militarmente l’uffi­ ciale che scendeva dalla cabina della jeep. Due belle stelline d’ar­ gento nuove nuove rilucevano sulle spalle dell’ufficiale. Questi sce­ se dalla Willis, il custode invalido abbozzò un rapido movimento, quasi scartò di lato, come per correre via. Ma l’ufficiale lo bloccò, trattenendolo per il giaccone con un gesto deciso e familiare. - Non occorre. - Cittadino capo, mi permetta... - Non occorre, ti ho detto. Rientra nel tuo panificio. Ce la ca­ veremo da soli. Il tenente si mise a gesticolare, indicando a destra e a sinistra, e tre dei soldati raggiunsero correndo le loro posizioni tutt’attor­ no all’abitato dell’ospedale, fattosi all’improvviso deserto e silen­ zioso. L ’autista scese dalla jeep. Quanto al tenente, si lanciò su per

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i gradini dell’ingresso che portava al reparto di chirurgia, seguito dal quarto soldato. Una donna scendeva la collinetta facendo battere i tacchi dei suoi stivali da soldato: era la dottoressa capo che il fornaio-guar­ diano con una gamba sola non aveva fatto in tempo ad avvertire. Questo tenente, giovane capo ventenne di un Olp, una delle «singole unità» del sistema concentrazionario, era stato congeda­ to dal fronte, lo avevano dispensato a causa di un’ernia strozzata o almeno cosi dicevano, mentre in realtà s’era più probabilmente trattato di una raccomandazione, una mano dall’alto che aveva spostato quel tenente dai carri d’assalto di Guderjan1alla Kolyma, con relativo avanzamento di grado. I giacimenti esigevano uomini, sempre nuovi uomini. Lo sfrut­ tamento predatorio delle vene aurifere, l’estrazione forsennata del metallo, fino ad allora proibita, ora veniva incoraggiata dal gover­ no. Il tenente Solov'ëv era stato inviato laggiù per dar prova della sua capacità, sagacia, abilità e autorità nel far rispettare la legge. I capi delle singole unità del sistema concentrazionario di soli­ to non si occupano personalmente di riunire i convogli di detenu­ ti, non mettono il naso nelle cartelle cliniche, non esaminano i den­ ti di detenuti e cavalli, non palpano i muscoli degli schiavi. A tutte queste incombenze provvedono i medici. L ’organico dei detenuti - la forza lavoro dei giacimenti - si squagliava un giorno dopo l’altro come la neve al sole di quell’e­ state, e una notte dopo l’altra alla Kolyma c’era sempre meno gen­ te da spedire al lavoro. I minatori dei fronti auriferi finivano «sot­ to il colle» o all’ospedale. La direzione regionale aveva già da tempo spremuto tutto quel­ lo che c’era da spremere; aveva ridotto tutto il «personale» possi­ bile, eccezion fatta, naturalmente, per la propria personale ordi­ nanza e gli uomini addetti ai vari servizi: piantoni e uomini di fi­ ducia delle autorità superiori, domestiche e cuochi personali scelti tra i detenuti. A parte questi c’era stata una scrematura generale. Dappertutto. Un solo settore, tra quelli che rientravano nella giurisdizione del giovane capo, non aveva dato il tributo richiesto: l’ospedale. Ecco dove si nascondevano delle riserve. Simulatori imboscati con la criminale complicità di medici-detenuti. Noi, le riserve, sapevamo il motivo di quella visita del giovane 1 Heinz Guderjan (1888-1954), generale tedesco che mosse su Mosca nel giugno del 1941, quando la Germania nazista dichiarò guerra alTUrss.

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capo, del suo arrivo con la Willis alle porte dell’ospedale. Per in­ ciso, da noi non c’era un portone, né recinzioni di sorta. L ’ospe­ dale regionale si ergeva su di un’altura nel bel mezzo delle paludi della tajga: bastava allontanarsi di due passi per imbattersi in ce­ spugli di mirtilli, scoiattoli grigi, striati. L ’ospedale si chiamava Belič'ja, «Degli scoiattoli», benché di questi animali sul suo terri­ torio ormai non ce ne fosse piu neanche uno. Da una gola monta­ na un ruscello di acqua gelida scorreva sotto un lussureggiante tap­ peto di muschio rosso. E l’ospedale era situato li dove il ruscello si gettava in un torrente. Né il ruscello né il torrente avevano un nome. Nel pianificare la propria operazione, il tenente Solov'ëv ave­ va tenuto conto della topografia. Per circondare un ospedale in mezzo a una palude della tajga non sarebbe stata sufficiente nean­ che una compagnia di soldati. Bisognava trovare un’altra tattica. Il tenente Solov'ëv era tormentato dalle proprie cognizioni mili­ tari, che cercavano sfogo in quel gioco mortale in cui lui vinceva sempre, in quella lotta contro un mondo di detenuti privi di qual­ siasi diritto. Quei giochi di caccia - caccia all’uomo, caccia allo schiavo - gli rimescolavano il sangue. Non vi cercava né metafore né analogie: era un gioco militare tutto suo, un’operazione elaborata da molto tempo, il suo personale D-day. I soldati della scorta portarono fuori dall’ospedale alcuni uo­ mini, il carniere di Solov'ëv. Tutti quelli che erano vestiti, tutti quelli che lui aveva trovato in piedi e non a letto, ma anche cer­ tuni che erano stati prelevati dai lettini perché il loro colorito ave­ va destato qualche sospetto, furono condotti alla rimessa dove era stata sistemata la Willis. L ’autista estrasse la pistola. - Chi sei ? - Un medico. - Alla rimessa. Poi si vedrà. - E tu? - Infermiere. - Alla rimessa. - E tu? - Infermiere di notte. - Alla rimessa. II tenente Solov'ëv conduceva personalmente la propria ope­ razione intesa a integrare la manodopera dei giacimenti auriferi. Ispezionò di persona gli armadi, i solai, le cantine, ogni posto dove secondo lui si sarebbero potuti nascondere quelli che vole­ vano sfuggire al metallo, al «primo metallo».

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Anche il guardiano con una gamba sola fu spedito alla rimessa: poi si vedrà. Quattro donne, delle infermiere, furono indirizzate al deposi­ to: poi si vedrà. Alla fine, accanto alla rimessa si accalcava una piccola folla di ottantatre persone. Il tenente pronunciò un breve discorso: - Vi farò vedere io come si mette insieme un convoglio. Rade­ remo al suolo il vostro covo. Le carte! L ’autista estrasse alcuni fogli dalla cartella del capo. - Medici, uscire dai ranghi! Si fecero avanti in tre. Nell’ospedale non ce n’erano altri. Uscirono anche due degli infermieri: gli altri quattro restaro­ no al loro posto. Solov'ëv teneva davanti a sé la lista dell’organi­ co dell’ospedale con le varie mansioni. - Donne, lasciate i ranghi; gli altri: aspettare! . Solov'ëv andò in ufficio a telefonare. I due autocarri che ave­ va ordinato fin dalla sera prima raggiunsero l’ospedale. Solov'ëv prese una matita copiativa e un foglio. - Avvicinarsi per la registrazione. Non interessano articolo e pena. Solo il cognome, poi se la vedranno laggiù. Eseguire! E il capo compilò di proprio pugno la lista dei detenuti: un con­ voglio destinato all’oro, alla morte. - Cognome ? - Sono malato. - Cos’ha? - Una poliartrite, - disse la dottoressa capo. - Bah, è una parola che non mi dice niente. Un pezzo d’uomo, in buona forma. Al giacimento. La dottoressa capo non stette a discutere. Krist aspettava, confuso tra gli altri, e una rabbia che conosce­ va bene gli martellava le tempie. Ormai sapeva cosa doveva fare. Aspettava, riflettendo con calma. «Davvero conti poco, capo, se devi perquisire di persona i solai e ficcare i tuoi occhi chiari sot­ to ogni lettino dell’ospedale. Avresti potuto dare semplicemente l’ordine e avrebbero spedito tutti quanti a destinazione senza bi­ sogno di questa messinscena. Se tu, il capo, il padrone di tutti i detenuti in forza ai giacimenti, compili le liste di tuo pugno, ac­ chiappi la gente di persona... Beh, io, voglio farti vedere come si fa a scappare. Lascia che ci diano anche solo un minuto per pre­ pararci...» - Cinque minuti per i preparativi! Muoversi! Krist aspettava solo queste parole. Rientrato nella baracca do-

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ve viveva, Krist non si mise a fare i bagagli, afferrò soltanto la giubba imbottita e il berretto con il paraorecchie, si ficcò nelle ta­ sche tutte le riserve di pane, fiammiferi, tabacco e carta di gior­ nale che aveva, ci aggiunse una scatola da conserva vuota e usci, non dalla parte del magazzino, ma sul retro della baracca, verso la tajga, aggirando senza difficoltà la sentinella per la quale la battu­ ta di caccia era ormai conclusa. Krist sali per un’ora intera costeggiando il torrente finché non trovò un luogo sicuro, si distese sul muschio asciutto e cominciò ad aspettare. Che calcolo aveva fatto? E presto detto: se si trattava di un semplice rastrellamento - prendere la gente a casaccio, caricarla sui mezzi e portarla al giacimento - non avrebbero fatto aspetta­ re l’autocarro fino a notte per una sola persona. Al contrario, se si trattava di una vera caccia all’uomo, avrebbero mandato qualcu­ no a cercarlo prima di sera, non l’avrebbero aspettato all’ospeda­ le ma avrebbero cercato di scovarlo, di snidarlo dal suo buco sot­ toterra e spedirlo a destinazione. All’ospedale, avrebbero chiuso un occhio. E visto che non gli avevano neanche sparato addosso, Krist sarebbe tornato al suo la­ voro di infermiere. Ma se era lui che cercavano, personalmente, avrebbe provveduto la dottoressa capo anche senza il tenente Solov'ëv. Krist attinse dell’acqua al torrente, si dissetò, fumò una siga­ retta facendosi riparo con la manica, se ne restò un po’ disteso e quando il sole cominciò a calare, scese giu per il declivio, verso l’o­ spedale. Sulle passerelle Krist si imbattè nella dottoressa capo. Lei gli sorrise e Krist capi che sarebbe vissuto. L ’ospedale morto e desolato tornava a rianimarsi. Nuovi ma­ lati indossavano vecchi camici e venivano designati ai posti di in­ serviente che si erano resi vacanti; iniziavano cosi, forse, un cam­ mino che li avrebbe portati alla salvezza. Medici e infermieri di­ stribuivano i medicinali, misuravano la temperatura e sentivano il polso dei malati gravi. 1965. 1989.

O b la v a , in V.

Salamov,

V oskrešenie listvennicy , Chudožestvennaja

Literatura, Moskva

Occhi coraggiosi

Il mondo delle baracche era accatastato nella stretta gola mon­ tana. Delimitato da cielo e roccia. Qui il passato era al di là delle pareti, delle porte e delle finestre; all’interno, nessuno ricordava niente. All’interno c’era il mondo presente, il mondo delle nostre piccole occupazioni, che non si poteva neppure definire pieno di affanni poiché non dipendeva dalla nostra volontà ma da una vo­ lontà estranea. Uscii per la prima volta da questo mondo seguendo un sentie­ ro d’orso. Costituivamo una base di prospezione e ogni estate, ogni bre­ ve estate, riuscivamo a fare alcune incursioni nella tajga: erano spe­ dizioni di cinque giorni lungo il corso dei torrenti, alle sorgenti di ruscelli senza nome. A quelli che restavano alla base toccava scavare: fori, canali, cunicoli; quelli che partecipavano alle spedizioni raccoglievano campioni di rocce e di terreno. Quelli che restavano alla base era­ no i piu robusti, quelli delle spedizioni i piu deboli. Tra questi, na­ turalmente, Kalmaev, l’eterno attaccabrighe, assetato di giustizia, Yotkazcik renitente al lavoro. Alla prospezione si costruivano le baracche, e trasportare dal­ la rada foresta della tajga i tronchi di otto metri dei larici abbat­ tuti era un lavoro da cavalli. Ma di cavalli non ce n’erano, tocca­ va agli uomini trasportare i tronchi, servendosi di cinghie e funi, alla maniera degli alatori, e uno, e due, e via. Kalmaev aveva avu­ to da ridire. - Vedo bene che ci vorrebbe un trattore, - diceva al caporale Bystrov durante l’appello per l’avvicendamento. - Perché non fa rinchiudere nel nostro lager anche un trattore ? Cosi potrà trasci­ nare e accatastare tutti i tronchi che vorrà. Non sono mica un ca­ vallo, io. Il secondo era Pikulev, un siberiano di cinquant’anni, carpen­ tiere. In tutto il nostro lager non c’era persona piu tranquilla di

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lui. Ma con il suo occhio esercitato e fatto esperto dal lager, il ca­ porale Bystrov aveva notato in lui una particolarità. - Che razza di carpentiere sei, - diceva Bystrov a Pikulev - se il tuo sedere è sempre alla ricerca di un posto dove appoggiarsi ? Appena finito il lavoro non resti in piedi un minuto di piu, non fai neanche un passo e ti siedi all’istante sul tronco. La realtà era che Pikulev, vecchio a cinquant’anni, ormai reg­ geva l’anima con i denti, ma Bystrov sembrava convinto di dire delle cose sensate. Il terzo ero io: un vecchio nemico di Bystrov. Già l’inverno precedente, quando mi avevano mandato per la prima volta al la­ voro e mi ero avvicinato al caporale, Bystrov aveva detto, ripe­ tendo con piacere la sua battuta preferita nella quale metteva tut­ ta l’anima, il suo piu profondo disprezzo, tutto l’odio e l’ostilità che provava nei confronti di quelli come me: - E lei quale lavoro gradirebbe? Faticoso o di tutto riposo? - Per me fa lo stesso. - Spiacente, ma di tutto riposo non ne abbiamo. Si va a ster­ rare. E anche se conoscevo quella battuta a memoria, anche se tutto sommato sapevo lavorare - mi arrangiavo in qualsiasi lavoro non peggio degli altri e nel caso potevo anche mostrare come si face­ va -, il caporale Bystrov manteneva il suo atteggiamento ostile nei miei confronti. Naturalmente non gli avevo mai chiesto niente, mai nessuna «leccata», non gli avevo mai promesso né dato «regalini»: avrei potuto passargli le mie razioni di alcol, ogni tanto ce ne di­ stribuivano. Tuttavia, per farla breve, quando ci fu bisogno di un terzo uomo per la spedizione, Bystrov aveva fatto il mio nome. Il quarto era il geologo Machmutov, un «libero» assunto a con­ tratto. Il geologo era giovane, sapeva tutto lui. Camminando succhia­ va ora dello zucchero ora della cioccolata, mangiava per conto suo, estraendo dallo zaino gallette e conserve. Ci aveva promesso che avrebbe abbattuto per noi una pernice o una gallinella di monte ed effettivamente lungo il cammmino cogliemmo a due riprese un frullio di ali: non erano galli di monte ma i grandi urogalli dalle ali screziate. Il geologo aveva sparato e per l’agitazione li aveva man­ cati. Non era capace di tirare al volo. E la speranza che abbattes­ se qualcosa per noi andò in fumo. Facevamo cuocere le conserve di carne per il geologo in una gavetta a parte, ma questo non era considerato contrario alle usanze. Nelle baracche dei detenuti nes­ suno pretende che il cibo venga suddiviso, e qui era oltretutto una

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situazione veramente particolare che riguardava due mondi diversi. Questo non impediva che, la notte, tutti e tre, Pikulev, Kalmaev e io stesso, venissimo svegliati dal croccare e schioccare e ruttare di Machmutov. Ma la cosa non ci esasperava più di tanto. Le speranze riguardo alla selvaggina erano svanite fin dal pri­ mo giorno e noi stavamo montando la tenda sulla riva di un ru­ scello che serpeggiava ai nostri piedi come un nastro argenteo, mentre dall’altra parte c’era un’erba folta, trecento metri circa di erba folta prima che la riva di fronte, quella destra, si facesse er­ ta e rocciosa. L ’erba cresceva nell’alveo del ruscello - in primave­ ra l’acqua allagava tutto all’intorno, e il prato, come ogni alveo montano di piena, verdeggiava ora in tutto il suo splendore. Improvvisamente tutti drizzarono le orecchie. L ’oscurità del crepuscolo non si era ancora infittita. C ’era un animale che si spo­ stava nell’erba piegandola: un orso, un ghiottone o una lince. Tut­ ti potevano vedere quei movimenti nel mare d’erba: Pikulev e Kal­ maev presero le accette e Machmutov, che si sentiva un eroe alla Jack London, si sfilò il fucile dalla spalla e lo spianò: era un fucile di piccolo calibro caricato con una pallottola zakan, un pezzo di piombo adatto a un orso. Ma l’erba smise di ondeggiare e vedemmo avanzare verso di noi, ormai allo scoperto, pancia a terra e scodinzolante, il cuccio­ lo Heinrich, figlio della nostra cagna Tamara ch’era stata uccisa. Il cucciolo si era fatto qualcosa come venti chilometri di tajga e ci aveva raggiunti. Dopo esserci consultati, lo cacciammo via, perché tornasse là da dove era venuto. Restò a lungo senza capire il perché di un’accoglienza tanto crudele. Ma fini per farsene una ragione e tornò strisciando nell’erba, e l’erba cominciò nuovamente a muoversi, ma stavolta in direzione opposta. Le tenebre si fecero più fitte e la giornata successiva cominciò sotto il segno del sole e di un fresco vento. Salivamo lungo le bifor­ cazioni di innumerevoli e interminabili ruscelletti, cercavamo de­ gli sfaldamenti dei pendìi per portare Machmudov su terreni mes­ si a nudo dove fossero leggibili i segni del carbone. Ma la terra ta­ ceva e noi continuavamo a salire seguendo un sentiero d ’orso: non c’erano comunque altre vie possibili tra quegli alberi travolti dal­ la tempesta, quel caos di tronchi atterrati dai venti di molti seco­ li nella gola montana. Kalmaev e Pikulev spostavano la tenda più in alto costeggiando il ruscello; io e il geologo entrammo nella taj­ ga, trovammo il sentiero d’orso e lo seguimmo in salita facendoci strada con l’accetta attraverso i tronchi abbattuti. I larici erano coperti da una patina verdeggiante, si percepiva

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il profumo degli aghi mescolato al sottile odore di decomposizio­ ne dei tronchi abbattuti: perfino la muffa aveva un che di verzura primaverile, sembrava anch’essa viva, e i tronchi morti esala­ vano un odore di vita. L ’aspetto di viva sostanza della muffa sem­ brava un simbolo, un sintomo della primavera. Mentre in realtà era il colore della decrepitezza, il colore della decomposizione. Ma la Kolyma ci poneva in continuazione davanti a problemi ben piu complessi e questa somiglianza tra la vita e la morte non ci mera­ vigliava affatto. Il sentiero era dunque una traccia d’orso, sicura, antica, speri­ mentata. E ora, per la prima volta dalla creazione del mondo, la percorrevano degli uomini: il geologo con il suo fucile di piccolo calibro e un martello in mano e io, dietro a lui, con un’accetta. Era primavera, i fiori erano fioriti tutti insieme, e tutti gli uc­ celli cantavano tutti i loro canti e gli animali si affrettavano a egua­ gliare gli alberi nella forsennata riproduzione della loro specie. Il sentiero d’orso era sbarrato di traverso da un enorme tron­ co di larice: un ceppo immenso, un albero la cui cima era stata spez­ zata dalla tempesta e rovesciata a terra... Quando era accaduto? L ’anno precedente o due secoli prima? Non so per quanto tempo, alla Kolyma, restino a terra questi che un tempo erano alberi, e quali siano i segni che il tempo, anno dopo anno, deposita sui lo­ ro ceppi. Gli alberi vivi contano il tempo in anelli: ogni anno, un anello. Ma come si imprima la successione degli anni sui ceppi, su­ gli alberi morti, lo ignoro. E solo gli animali sanno per quanto tem­ po si possa utilizzare - come nido, come tana - un larice morto, una roccia frantumata, o un bosco devastato dalla tempesta. Io non lo so. Non so che cosa induca un orso a scegliersi una nuova tana. O una fiera a cercare riparo due o tre volte nello stesso co­ vile. La tempesta aveva piegato il larice spezzandolo ma non era riu­ scita ad atterrarlo del tutto: non aveva avuto abbastanza forza. Il tronco spezzato spioveva sul sentiero che a questo punto deviava, aggirando l’albero morto, per poi ridiventare diritto. Si poteva facilmente calcolare l’altezza dell’animale a quattro zampe. Machmutov colpi con il suo martello da geologo il tronco e l’al­ bero rispose con un suono sordo, un rumore di albero cavo, il ru­ more del vuoto. Il vuoto era cavità, corteccia, vita. Dalla cavità cascò fuori proprio sul sentiero una donnola, una belvetta minu­ scola. L ’animaletto non si eclissò nell’erba, nel folto, nella tajga. La donnola alzò gli occhi sugli uomini: occhi atterriti e impavidi.

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Era lì lì per sgravarsi: le contrazioni del parto continuavano sul sentiero, davanti a noi. Prima che avessi il tempo di far qualcosa, di capire, gridare, tentare di scongiurare ciò che stava accadendo, il geologo aveva sparato a bruciapelo sulla donnola con il suo fu­ cile di piccolo calibro caricato con piombo adatto a un orso. Machmutov era una schiappa non solo nel tirare al volo. La donnola ferita cominciò a strisciare sul sentiero dell’orso, in direzione di Machmutov e questi cominciò a indietreggiare, bat­ tendo in ritirata davanti al suo sguardo. Una zampa posteriore del­ la donnola gravida era stata strappata via dallo sparo ed essa si tra­ scinava dietro la poltiglia sanguinolenta dei suoi piccoli non anco­ ra nati, che non sarebbero nati, che avrebbero potuto nascere di lì a un’ora, quando io e Machmutov ci fossimo lasciati alle spalle il larice abbattuto, destinati, nascendo, a entrare nel mondo dif­ ficile e severo degli animali della tajga. Vidi la donnola trascinarsi verso Machmutov, vidi l’ardimen­ to, la collera, la vendetta, la disperazione nei suoi occhi. Vidi che in essi non c’era traccia di paura. - Mi bucherà gli stivali, la carogna, - disse il geologo indie­ treggiando di nuovo, preoccupato per i suoi stivali da palude nuo­ vi. E preso il suo Berdan per la canna avvicinò il calcio al muset­ to della donnola agonizzante. Ma gli occhi dell’animale si spensero e anche la collera volò via. Sopraggiunse Pikulev, si chinò sulla bestiola morta e disse: - Aveva degli occhi coraggiosi. Aveva capito qualcosa? O no? Non lo so. Seguendo il sentie­ ro d’orso, sbucammo sul bordo del ruscello, vicino alla tenda dov’era il punto di raccolta convenuto. Il giorno dopo saremmo rien­ trati alla base, ma per un sentiero diverso. 1966.

C h ra b ry e g la z a ,

in «Sibirskie ogni», 1989, n. 4.

Marcel Proust

Il libro era sparito. Il grande e pesante volume in folio posato sulla panca era sparito sotto gli occhi di decine di malati. Chi ave­ va assistito al furto non l’avrebbe mai ammesso. Non esistono cri­ mini al mondo - si dice - che non abbiano testimoni, animati o inanimati. O forse ne esistono? Il furto di un romanzo di Marcel Proust non è in sé un segreto tanto tremendo da dover esser ser­ bato per sempre. Di conseguenza se la verità non salta fuori si­ gnifica che c’è una minaccia, vaga ma infallibile, lanciata per l’oc­ casione. Chi ha visto manterrà il silenzio per un buon motivo: «ho paura». Quanto questo silenzio porti benefici e vantaggi è con­ fermato non solo da tutta la vita del lager, ma anche dall’intera esperienza della vita civile. Il libro avrebbe potuto rubarlo un qual­ siasi fraer, un «fesso» qualsiasi, su commissione di un ladro, per mostrare la propria audacia e il desiderio di entrare a far parte del mondo criminale, del mondo di quelli che nel lager sono i padro­ ni della vita. Ma quel «fesso» di cui si diceva avrebbe potuto ru­ bare il libro anche senza un motivo, semplicemente perché era «sta­ to appoggiato male», cioè lasciato incustodito. E in effetti era an­ data veramente cosi, il libro era rimasto sul bordo di una panca nel grande cortile dell’edificio in muratura a due piani dell’ospedale. Quel giorno, seduti su quella panca, io e Nina Bogatyrëva aveva­ mo scambiato quattro chiacchiere. Io ero reduce dalla Kolyma e da dieci anni di peregrinazioni per i suoi monti e valli, Nina dal fronte di guerra. La nostra conversazione, triste e agitata, non era durata molto. Nei giorni di sole i malati venivano fatti uscire per la passeg­ giata - le donne separatamente - e Nina, che era aiutoinfermiera, sorvegliava i malati. Accompagnai Nina fino all’angolo, tornai indietro, la panca era rimasta vuota: i malati a passeggio non osavano occuparla perché pensavano fosse riservata agli infermieri, alle crocerossine, ai sor­ veglianti e alla scorta.

MARCEL PROUST

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Il libro era sparito. Ma chi avrebbe dunque letto questa prosa così strana, quasi senza peso, come pronta a involarsi nel cosmo e nella quale tutte le proporzioni sono scompigliate, rimescolate, in cui non c’è piu né il grande né il piccolo ? Davanti alla memoria, come davanti alla morte, tutti sono uguali ed è facoltà dell’autore ricordare il vestito della domestica e dimenticare i gioielli della pa­ drona. Questo romanzo allarga in modo straordinario gli orizzon­ ti dell’arte letteraria. Io, uno zek della Kolyma, ero stato traspor­ tato in un mondo perduto da tempo, in altre abitudini, dimenti­ cate, inutili. Il tempo per leggere non mi mancava. Ero infermiere al turno di notte. Ero stato sopraffatto da I G uerm antes. Da li, dal quarto volume, I G uerm antes appunto, era iniziata la mia cono­ scenza di Proust1. Il libro era stato inviato a Kalitinskij, un infer­ miere mio conoscente che si pavoneggiava in corsia con indosso un paio di calzoni da golf di velluto, la pipa in bocca, spargendo dappertutto l’impareggiabile aroma del Capstan. Sia il Capstan che i calzoni da golf erano arrivati con lo stesso pacco del libro. Ah, donne, donne, care ingenue amiche! Invece della m achorka, il lus­ suoso Capstan, invece di calzoni di pelle da poterci vivere dentro, calzoni di velluto da golf, invece di una larga sciarpa di cammello - pura lana calda, lunga due metri - un non so che di etereo, si­ mile a un nastro o un fiocco: una sfarzosa sciarpa di seta, che di­ venta una cordicella dello spessore di una matita quando s’attor­ ciglia al collo. Nel 1937 avevano inviato dei calzoni di velluto simili, e una sciarpa di seta come quella a Fritz David, un comunista olandese ma forse il cognome era un altro - che era mio vicino in una com­ pagnia disciplinare (Rur). Fritz David non era in grado di lavora­ re, era troppo estenuato, e al giacimento non c’era neanche la pos­ sibilità di scambiare i calzoni di velluto e la sontuosa cravatta a fioc­ co con del pane. E David mori: cadde sul pavimento della baracca e mori. Anzi, si era cosi allo stretto - dormivamo tutti in piedi che il morto non ce la fece a morire disteso. Il mio vicino Fritz Da­ vid prima mori, e solo in un secondo tempo cadde a terra. Tutto questo era accaduto dieci anni prima: cosa c’entrava A l­ la ricerca del tempo perduto ? Io e Kalitinskij rievocavamo insieme il nostro mondo, il nostro tempo perduto. Nel mio, di tempo, non c’erano pantaloni da golf, ma c’era Proust e io ero felice di legge­ 1 In Urss, la R ech erch e venne pubblicata negli anni 1934-38, ma fu presto messa al bando «come manifestazione di arte reazionaria borghese»; tra la metà degli anni Settan­ ta e l’inizio degli anni Ottanta ne uscì una nuova traduzione molto apprezzata dall’intelligencija.

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re I G uerm antes. Non andavo neanche a dormire. Proust valeva per me più del sonno. E poi Kalitinskij mi faceva fretta. E adesso il libro era scomparso. Kalitinskij montò su tutte le furie. Ci conoscevamo poco ed era convinto che fossi stato io a far sparire il libro per poi rivenderlo a caro prezzo. Rubare ad ogni piè sospinto era nella tradizione della Kolyma, una tradizione det­ tata dalla fame. Sciarpe, pezze da piedi, asciugamani, croste di pa­ ne, tabacco da sigarette - qualche presa o tutta la borsa - spari­ vano senza traccia. Secondo Kalitinskij alla Kolyma non c’era nes­ suno che non sapesse rubare. La pensavo cosi anch’io. Avevano rubato il libro. Fino a sera si poteva ancora sperare che qualche volontario si sarebbe fatto vivo, un eroico delatore che facesse la sua «soffiata» e dicesse dov’era il libro e chi era il ladro. Ma la se­ ra passò, passarono decine di sere e dei Guerm antes non si ritrovò traccia alcuna. Se non era stato venduto a un estimatore - estimatori di Proust tra le autorità del lager ! nel loro mondo si poteva al massimo tro­ vare chi stravedeva per Jack London, ma Proust ! - sarebbe servi­ to a fare carte da gioco. I Guerm antes era un in-folio bello grosso. Era stato anche per quello che non mi ero tenuto il libro sulle gi­ nocchia, ma l’avevo posato sulla panca. Era un tomo ponderoso. Per le carte, per le carte da gioco... L ’avrebbero fatto a pezzettini - e chiuso. Nina Bogatyrëva era una bellezza, una vera bellezza russa, ed era stata portata dal «continente» al nostro ospedale da non mol­ to. Tradimento della patria. 58.1/a o i/b. - Dai territori occupati ? - No, non eravamo sotto occupazione. È successo nella zona a ridosso del fronte: me ne hanno dati venticinque piu cinque2, an­ che senza i tedeschi. Devo ringraziare un maggiore. Mi hanno ar­ restata, il maggiore voleva portarmi a letto. Non ci sono stata. E m’hanno appioppato la condanna. Alla Kolyma. E adesso me ne sto qui su questa panca. E andata proprio cosi. Non c’è niente di vero in quello che hanno detto. Non ci sono voluta stare, ed è tut­ to. Se mi va di divertirmi voglio essere io a scegliere. Con te per esempio... - Sono impegnato, Nina. - L ’ho sentito dire. - Non avrai vita facile, Nina. Per la tua bellezza. 2 Venticinque anni di detenzione piu cinque di interdizione dai diritti civili.

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- Sia maledetta, questa bellezza. - I capi ti hanno promesso qualcosa? - Di lasciarmi all’ospedale come inserviente. Studierò da in­ fermiera. - Di donne qui non ne tengono, Nina. Almeno fino ad ora. - Ma a me l’hanno promesso. C ’è un tale. Mi aiuterà. - Chi è ? - E un segreto. - Guarda che questo è un ospedale statale, ufficiale. Non c’è nessuno che abbia tanto potere. Nessuno dei detenuti. Ma nean­ che dei medici o degli infermieri. Non è l’ospedale di un giaci­ mento. - Fa lo stesso. Sono contenta cosi. Farò dei paralumi. E poi se­ guirò dei corsi, come te. Nina rimase all’ospedale a fabbricare paralumi di carta. E quan­ do ebbe finito con i paralumi la rimisero in un convoglio. - Ma quella che sta partendo con il convoglio non è la tua don­ na? - Proprio cosi. Mi voltai a guardare. Dietro di me c’era Volodja, un vecchio lupo della tajga, infermiere ma privo d ’istruzione medica. In pas­ sato propagandista culturale o segretario di soviet cittadino o qual­ cosa del genere. Volodja aveva abbondantemente superato la quarantina e co­ nosceva la Kolyma da una vita. E anche la Kolyma conosceva Vo­ lodja. Affarucci con i malavitosi, regalini ai medici. Era stato man­ dato qui per seguire i corsi, per rafforzare la sua mansione d’in­ fermiere con il titolo. Volodja aveva anche un cognome: Raguzin, se non ricordo male, ma tutti lo chiamavano Volodja. Volodja il protettore di Nina? Era una cosa troppo terribile. Dietro di me, la voce tranquilla di Volodja stava dicendo: - A suo tempo, sul continente, mi ero organizzato alla perfe­ zione in un lager femminile. Non appena cominciavano a far spia­ te sul fatto che vivevo con una, la mettevo nell’elenco e hop! Via con il primo convoglio. E ne chiamavo un’altra. A fare dei para­ lumi. E tutto era di nuovo in ordine. Nina parti. All’ospedale restò sua sorella Tonja. Questa vive­ va con l’addetto al taglio del pane - un’amicizia vantaggiosa. Zolotinskij, cosi si chiamava quel marcantonio bruno e prestante, era un bytovicëk, cioè un detenuto comune di quelli lesti. Era arriva­ to all’ospedale per quella mansione di tagliatore di pane - che pro­ metteva e in realtà dava profitti milionari - grazie a un’ingente

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«bustarella» passata, si diceva, al direttore dell’ospedale in perso­ na. Tutto perfetto, quindi, ma era saltato fuori che quel bel gio­ vanotto bruno era sifilitico: doveva sottoporsi, e non era la prima volta, a un trattamento. Fu dimesso dalle sue funzioni di taglia­ tore di pane e trasferito in una venzona maschile, un lager per i de­ tenuti affetti da malattie veneree. Zolotinskij era stato nell’ospe­ dale per qualche mese ma aveva fatto in tempo a contagiare una sola donna: Tonja Bogatyrëva. Anche Tonja fu portata in una ven­ zona femminile. L ’ospedale era in subbuglio. Tutto il personale medico si sot­ topose all’analisi, alla reazione Wassermann. L ’infermiere Volodja Raguzin si guadagnò quattro croci. 11 sifilitico Volodja spari dal­ l’ospedale. E di li a qualche mese arrivarono sotto scorta all’ospedale al­ cune donne malate, tra le quali Nina Bogatyrëva. Ma lei era di pas­ saggio, si era fermata all’ospedale solo per riposare. La sua desti­ nazione era una venzona femminile. Uscii ad accogliere il gruppo di detenute in trasferimento. Quei suoi grandi occhi marroni, ora profondamente cerchiati, erano l’unica cosa che restava della Nina di un tempo. - Ecco, vado in una venzona... - In una venzona ! Ma perché ? - Come ? Sei infermiere e non sai perché si manda la gente nel­ le venzony ? Sono stati i paralumi di Volodja. Ho avuto due ge­ melli. Erano cagionevoli. Non ce l’hanno fatta. - Ti sono morti ? Per te è stata una fortuna, Nina. - SI. Adesso sono libera come un uccello. Mi farò curare. L ’hai poi ritrovato il libro quella volta ? - No, non l’ho più ritrovato. - L ’avevo preso io. Volodja mi aveva chiesto qualcosa da leg­ gere. 1966.

M a r se l' P ru st,

in «Znamja», 1989, n. 6.

La fotografìa cancellata

Uno dei sentimenti che si provano con maggior forza nel lager è quello di un’umiliazione cosi sconfinata da trovare sollievo nel fatto che c’è sempre qualcuno, in qualsiasi situazione o circo­ stanza, messo peggio di te. La varietà e gradualità delle situazio­ ni altrui è infinita. Ma il cercare consolazione dal confronto con esse ha un effetto salvifico e forse racchiude^perfino il segreto più importante dell’uomo. E un sentimento... E un sentimento che, come una bandiera bianca, significa aver salva la vita e al tempo stesso accettare ciò che è inaccettabile. Krist era appena scampato alla morte, scampato fino al giorno dopo, non oltre, poiché l’indomani del detenuto è quello che si di­ ce un mistero insondabile. Krist era uno schiavo, un verme, sicu­ ramente un verme visto che, a quanto sembra, il verme è l’unico in tutto il regno animale a non avere un cuore. Krist si trova ricoverato in ospedale, la sua pelle disseccata dal­ la pellagra si desquama tutta; le rughe gli hanno scritto sul volto l’ultima sentenza. Sforzandosi di trovare in fondo alla propria ani­ ma, nelle ultime cellule integre del proprio corpo ossuto, un re­ siduo di forza, fisica e spirituale, per sopravvivere fino al giorno dopo, Krist ha indossato un camice sporco di inserviente, lavora di ramazza in corsia, rifà i letti, lava, misura la temperatura ai ma­ lati. Già cosi Krist è un dio: e i nuovi affamati, i nuovi malati lo guardano come si guarda al proprio destino, a una divinità che può aiutarli, può liberarli... da che cosa, neanche il malato saprebbe dirlo. Il malato sa solo di avere davanti un inserviente preso tra i ricoverati, che può buttar li al medico la parola giusta per farlo re­ stare un giorno di piu all’ospedale. O che potrà perfino, quando verrà dimesso, lasciargli il proprio posto, la propria scodella di mi­ nestra, il camice di inserviente. E se non accadrà niente di tutto questo, pazienza, di delusioni nella vita ce ne sono sempre tante. Krist si è infilato il camice ed è diventato una divinità.

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- Ti lavo la casacca. La casacca. Di notte, ai bagni. E te la fac­ cio asciugare sulla stufa. - Non c’è acqua. La portano da fuori. - Beh, mettimene da parte un mezzo secchio. Da molto tempo Krist avrebbe voluto lavarsi la casacca. L ’a­ vrebbe anche fatto, ma alla fine della giornata le gambe non lo reg­ gevano piu per la fatica. La casacca veniva dal giacimento: era tut­ ta impregnata di sudore, e lacera com’era non sembrava neanche più una casacca. E al primo lavaggio si sarebbe forse ridotta in ce­ nere, in polvere, in una massa informe. Una delle tasche era stata strappata via, ma la seconda era intatta e conteneva tutto quello che Krist considerava, per qualche suo motivo, importante e ne­ cessario. E tuttavia bisognava proprio lavarla. Perché si era in un ospe­ dale. Un inserviente non poteva avere una casacca cosi lurida. Si ricordò di un episodio di qualche anno prima, quando, come la­ voro extra, lo avevano messo a compilare delle tessere all’econo­ mato - le tessere di vettovagliamento per dieci giorni, in base al­ la percentuale di realizzazione della norma. E tutti gli altri inqui­ lini della baracca lo detestavano a causa di quelle notti passate in bianco che però procuravano a Krist un buono pasto supplemen­ tare. Cosi avevano deciso di farlo fuori; alla prima occasione fe­ cero notare a uno dei contabili di ruolo dell’ufficio, un malavito­ so, che dal bavero della sua casacca, strisciava lentamente all’e­ sterno un pidocchio, affamato come Krist. Un pidocchio, emaciato come Krist. E immediatamente una mano di ferro afferrò e tra­ scinò fuori dall’ufficio Krist buttandolo in strada. Si, era meglio lavarla, quella casacca. - Intanto che dormi te la lavo. Per un pezzettino di pane, e se non ne hai, fa lo stesso. Krist di pane non ne aveva. Ma in fondo all’anima una voce continuava a ripetergli che sarebbe stato meglio tenersi la fame e lavare la casacca. E Krist smise di opporsi all’insistente, paurosa volontà di quell’uomo affamato. Krist dormi come sempre: sprofondando non nel sonno ma in una sorta di deliquio. Un mese prima, quando non era ancora all’ospedale ma vaga­ va mescolato all’immensa folla dei «morituri», i dochodjagi all’ul­ timo stadio come lui - dalla mensa all’ambulatorio, dall’ambula­ torio alla baracca nella nebbia lattiginosa della zona del lager - gli era capitata una disgrazia. Gli avevano rubato la borsa del tabac­ co. Vuota, naturalmente, almeno quanto al tabacco. Erano anni

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che in quella borsa non s’era vista una briciola di m achorka. Ma in essa Krist conservava - a quale scopo poi ? - le fotografie e le lettere della moglie. Molte lettere. Molte fotografie. E anche se non rileggeva mai le lettere, e non guardava le fotografie - era per lui troppo penoso - teneva da conto il pacchettino, in attesa, si­ curamente, di tempi migliori. Era difficile spiegare perché Krist si fosse sempre portato dietro, in tutte le sue peregrinazioni di de­ tenuto, quelle lettere, scritte a grandi caratteri infantili. Nel corso delle perquisizioni le lettere non venivano requisite. E cosi il mucchietto di fogli nella borsa da tabacco si era fatto con­ sistente. E adesso gliel’avevano rubata. Certamente avevano pen­ sato che ci fosse del denaro, che in mezzo alle fotografie potesse nascondersi qualche sottile foglietto da un rublo. Ma di rubli non ce n’erano... Comunque Krist non aveva mai ritrovato le sue let­ tere. In base alle note leggi vigenti per i furti nel mondo fuori dal lager - leggi osservate sia dai malavitosi che da quelli che li imita­ no - i documenti vanno gettati nelle cassette della spazzatura e le fotografie restituite per posta o gettate anch’esse in una discarica. Ma Krist sapeva che questi residui di umanità erano stati comple­ tamente aboliti nel mondo della Kolyma. Le lettere le avevano si­ curamente bruciate in un fuoco da campo o in una stufa per go­ dersi la loro vivida fiammata nel buio, e quindi non c’era da con­ tare sulla loro restituzione o il ritrovamento. Ma le fotografie, cosa potevano farsene delle fotografie ? - Non le ritroverai, - gli aveva detto un vicino. - Le hanno prese i malavitosi. - E per farne cosa ? - E me lo chiedi ? Erano le foto di una donna ? - Ma si. - Per una seam , una «seduta», ecco per cosa. E Krist aveva smesso di fare domande. Nella borsa da tabacco Krist teneva le lettere piti vecchie. Ma l’ultima lettera e l’ultima fotografia che gli erano arrivate - la fo­ to era una piccola istantanea formato tessera - Krist le conserva­ va nella tasca sinistra, l’unica rimasta, della casacca. Dormi dunque, come sempre, piu che un sonno un deliquio. E si svegliò con la sensazione che quel giorno dovesse accadere qual­ cosa di buono. Non ci mise molto a ricordarsi cosa. Una casacca pulita! Krist spinse le gambe pesanti giu dal tavolaccio e andò in cucina. Gli si fece incontro il malato del giorno prima. - E quasi asciutta, è quasi asciutta: sulla stufa. All’improvviso Krist si senti venire i sudori freddi.

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- E la lettera ? - Quale lettera ? - Nella tasca. - Le tasche non le ho sbottonate. Non mi permetterei mai di guardare nelle sue tasche. Krist afferrò la casacca. La lettera era intatta, bagnata fradicia ma intatta. La casacca era quasi asciutta ma la lettera era umi­ da, d’acqua o di lacrime. La fotografia si era scolorita, alterata; quasi cancellata dall’acqua, ricordava solo a grandi linee il volto che Krist aveva conosciuto. Le parole della lettera erano sbiadite, ma Krist ne conosceva il testo a memoria e potè decifrarne ogni frase. Era l’ultima lettera di sua moglie. Non potè però conservarla ancora per molto tempo: le parole si cancellarono del tutto, di­ ventarono indistinte e Krist cominciò anche a non ricordare mol­ to bene il testo. La fotografia e la lettera scomparirono definiti­ vamente dopo una certa disinfezione particolarmente accurata a Magadan, ai corsi per infermieri, quelli che trasformarono Krist in un dio della Kolyma, stavolta reale e non immaginario. Per i corsi nessun prezzo era troppo alto, nessuna perdita sem­ brava eccessiva. Fu in questo modo che Krist venne punito dal destino. Dopo una matura riflessione, di If a molti anni, Krist dovette riconosce­ re che il destino era stato giusto: non avrebbe dovuto, allora, far­ si lavare la casacca da un altro, non ne aveva ancora il diritto. 1966.

S m y ta ja fo to grafaci,

in «Večernjaja Moskva», 17 dicembre 1988.

Il capo della direzione politica

Il clacson della macchina strepitava, strepitava, strepitava... Chiamava il direttore dell’ospedale, lanciava l’allerta per tutti... E gli ospiti già salivano i gradini della scala d’ingresso. Erano fa­ sciati da stretti camici bianchi che sulle spalle, in corrisponden­ za delle mostrine, sembravano dover scoppiare: l’uniforme ospe­ daliera andava decisamente troppo stretta a quei militari in tra­ sferta. Precedendo tutti quanti di due gradini, incedeva un uomo al­ to e dai capelli bianchi, il cui cognome all’ospedale era noto a tut­ ti, ma che nessuno aveva mai visto in faccia. Era domenica - beninteso per i salariati liberi - era domenica e il direttore dell’ospedale giocava a biliardo con i medici, e vin­ ceva una partita dopo l’altra: con il direttore perdevano sempre tutti. Il direttore riconobbe subito lo strepitante clacson e si ripulì dal gesso le dita sudate. Mandò un messo a dire che stava arri­ vando, che sarebbe arrivato subito. Ma gli ospiti non aspettavano. - Cominciamo dal reparto chirurgia... In chirurgia c’erano circa duecento ricoverati, ottanta per ognu­ no dei due grandi padiglioni principali, uno di chirurgia trauma­ tologica senza complicazioni, l’altro di setticemici gravi; nel pri­ mo tutte le fratture non esposte, le lussazioni. E poi delle piccole camerate per la degenza postoperatoria. E la camerata dei malati in fin di vita del reparto setticemici: sepsi, cancrene. - Dov’è il chirurgo capo ? - E andato nella cittadina qui vicino. Dal figlio. Ha il figlio che va a scuola li. - E il chirurgo di turno ? - Il chirurgo di turno adesso arriva. Ma il chirurgo di turno, Utrobin, che tutti all’ospedale prende­ vano in giro chiamandolo Ugrobin, qualcosa come Tammazzo, era

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ubriaco e non si presentò alla convocazione delle autorità superiori. Ad accompagnare le dette autorità provvide quindi l’infermie­ re anziano, un detenuto. - No, non ci servono le tue spiegazioni, e neanche le tue car­ telle cliniche. Sappiamo come vengono fatte, - disse l’importante personaggio all’infermiere, entrando nel padiglione e richiudendo la porta dietro di sé. - E per adesso non fate entrare il direttore dell’ospedale. Uno degli attendenti, un maggiore, si mise di guardia vicino al­ la porta del padiglione. - State a sentire, - disse il capo dai capelli bianchi, mettendo­ si in mezzo alla corsia e abbracciando con un ampio gesto i lettini che erano sistemati in due file lungo le pareti - statemi a sentire. - Sono il nuovo capo della direzione politica del D al'stroj. Se qual­ cuno di voi ha fratture o contusioni procurate sul fronte di scavo o nella baracca ad opera dei desjatnikì o dei capisquadra, in una pa­ rola, mediante percosse, si faccia sentire. Siamo venuti per svol­ gere un’indagine sul tasso di infortuni. Ha un’incidenza tremen­ da. Ma la faremo finita con queste cose, una volta per tutte. Chiun­ que abbia subito dei traumi di questo tipo, lo riferisca al mio attendente. Maggiore, scriva! Il maggiore apri il blocco per gli appunti, estrasse la stilografica. - Beh? - E le congelazioni, cittadino capo ? - Le congelazioni no. Solo le percosse. Io ero l’infermiere di quel padiglione. Su ottanta malati, set­ tanta avevano traumi del genere e nelle cartelle cliniche c’era scrit­ to tutto quanto. Ma neanche uno di questi rispose all’invito del capo dai capelli bianchi: non si fidavano. Prova solo a lamentarti e ti sistemeranno per le feste, senza neanche allontanarsi dal let­ tino. Cosi, invece, come ricompensa per la tua indole pacifica e il tuo buonsenso, ti terranno in ospedale un giorno di piu. Tacere era molto più conveniente. - Ci sarei io, mi ha rotto il braccio un combattente. - Un combattente ? Non verrà a dirmi che da noi i combattenti picchiano i detenuti ? Magari non sarà stato un combattente della scorta, ma un qualche caposquadra, dico bene ? - SI, dev’essere stato un caposquadra. - Ecco, vedete, avete proprio una cattiva memoria. Eppure un fatto del genere, come la mia presenza qui, è un fatto raro. Io so­ no l’autorità di controllo. Non tollereremo piu certi comporta­ menti.. E piu in generale bisogna farla finita con le grossolanità,

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gli atteggiamenti teppistici, il turpiloquio. Sono già intervenuto su questo argomento a una riunione dell’attivo dei responsabili eco­ nomici. Ho detto: se il capo del D al'stroj è scortese nei suoi collo­ qui con il capo di una direzione, e poi il capo di una direzione mi­ neraria, strigliando i capi dei giacimenti, si permette di ingiuriar­ li in modo offensivo e volgare, ditemi voi come si rivolgerà ai capisettore un capogiacimento. Con una serie di ingiurie. E fin qui, ingiurie del «continente», comunque. Invece il caposettore striglia i capicantiere, i capisquadra e i capimastri con una sfilza di imprecazioni nel piu puro gergo malavitoso della Kolyma. E che cosa resta da fare al capomastro o al caposquadra ? Prendere un ba­ stone e dare una bella ripassata ai suoi quattro rabotjagi. E cosi o non è^cosi? - E cosi, compagno capo, - disse il maggiore. - A quella stessa riunione è intervenuto Nikišov. Ha comin­ ciato con il dire che eravamo nuovi del posto, non potevamo co­ noscere la Kolyma, che qui le condizioni erano diverse, la morale tutta particolare. E io gli ho detto: siamo venuti qui per lavorare, e lavoreremo, ma lavoreremo non come dice Nikišov, ma come di­ ce il compagno Stalin. - Proprio cosi, compagno capo, - disse il maggiore. I malati sentirono che la cosa era arrivata fino a Stalin e am­ mutolirono del tutto. Dietro alla porta si accalcavano i capireparto, li avevano con­ vocati dalle loro abitazioni, e c’era anche il direttore dell’ospedale, e tutti aspettavano che l’alto funzionario finisse il suo discorso. - Che mandino via Nikišov? - azzardò il responsabile del se­ condo reparto terapeutico, ma lo zittirono e non disse piu niente. II capo della direzione politica usci dal reparto e salutò i medi­ ci dando loro la mano. - Voglia gradire uno spuntino, - disse il direttore dell’ospeda­ le. - Il pranzo è servito. - No, no. - Il capo della direzione politica guardò l’orologio. - Dobbiamo proseguire, stanotte dobbiamo raggiungere la Dire­ zione dell’Ovest, a Susuman. Domani c’è una riunione. Ma a pen­ sarci bene... No, di pranzare non se ne parla. Piuttosto... Mi dia la borsa. - Il canuto ufficiale prese la sua pesante borsa dalle ma­ ni del maggiore. - Non mi farebbe il glucosio? - Il glucosio ? - ripetè il direttore dell’ospedale, non riuscendo a capire. - Ma si, il glucosio. Un’iniezione per via endovenosa. Non be­ vo mai niente di alcolico dall’infanzia... Non fumo. Ma un giorno

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si e uno no mi faccio il glucosio. Venti centimetri cubi di glucosio per endovena. Me l’ha consigliato il mio medico quando ancora ero a Mosca. E cosa crede? E un tonificante di prim’ordine, me­ glio di tutti quei ginseng o testosteroni. L ’ho sempre con me. La siringa invece non me la porto dietro, tanto in qualsiasi ospedale mi fermi, possono farmi l’iniezione. Sicché, mi faccia quest’inie­ zione. - Non sono capace, - disse il direttore dell’ospedale. - Maga­ ri tengo il laccio. C ’è qui il chirurgo di turno, è l’uomo che fa per lei. - No, - disse il chirurgo di turno, - neanch’io son capace. Si tratta di iniezioni, compagno capo, che non tutti i medici sono in grado di fare. - Beh, un infermiere. - Qui da noi non ci sono infermieri salariati «liberi». - E questo qui ? - É un zek, un detenuto. - Non si direbbe. Ma fa lo stesso. Me la puoi fare? - Sì, - dissi io. - Fa’ bollire l’ago. Feci bollire l’ago, lo lasciai raffreddare. L ’anziano militare estrasse dalla borsa una scatola con il glucosio, il direttore dell’o­ spedale si versò dell’alcol sulle mani e assistito dal partorg, il se­ gretario della sezione locale del partito, ruppe la fiala e aspirò con la siringa la soluzione di glucosio. Il direttore dell’ospedale infilò l’ago sulla siringa, poi me la consegnò e, preso un laccio di gom­ ma, lo strinse attorno al braccio dell’alto dirigente; io iniettai il glucosio, poi tamponai con un batuffolo d’ovatta il punto dell’i­ niezione. - Ho le vene di uno scaricatore, - scherzò con condiscenden­ za, rivolto a me. Non dissi niente. - Beh, mi sono riposato, è anche ora di andare. - Il militare dai capelli bianchi si alzò. - E i reparti terapeutici? - disse il direttore dell’ospedale, temendo che se gli ospiti fossero tornati un’altra volta per ispe­ zionare anche i malati di quei reparti, si sarebbe senz’altro gua­ dagnato un’ammonizione perché non aveva ricordato la cosa per tempo. - Nei reparti terapeutici non abbiamo niente da fare, - disse il capo della direzione politica. - Il nostro viaggio è finalizzato a uno scopo preciso.

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- E il pranzo ? - Niente pranzi. Il dovere prima di tutto. Si senti di nuovo strepitare il clacson e l’automobile del capo della direzione politica spari nella nebbia gelata. 1967.

N a č a l'n ik p o litu p rav len ija,

in «Sibirskie ogni», 1989, n. 4.

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All’ospedale Rjabokon’ aveva come vicino di letto - il letto era un pancaccio con un saccone imbottito di ramaglia di pino - Pe­ ters, un lettone che si era battuto, come tutti i Lettoni, su tutti i fronti della guerra civile. Kolyma era l’ultimo fronte di Peters. Il corpo gigantesco del lettone assomigliava a quello di un annegato: bianco bluastro, tumefatto, reso gonfio dalla fame. Un corpo gio­ vanile in cui tutte le pieghe della pelle si erano spianate, tutte le rughe scomparse: dove tutto era stato capito, raccontato, spiega­ to. Da molti giorni Peters non parlava, temendo di fare un movi­ mento superfluo: le piaghe avevano cominciato a mandare odore, a puzzare. E solo gli occhi bianchicci seguivano attentamente il medico, il dottor Jampol'skij, quando entrava nel camerone. Il dot­ tor Jampol'skij, il capo della sezione sanitaria, non era dottore. E neppure infermiere. Il dottor Jampol’skij era semplicemente un ti­ po scaltro e sfrontato, uno stukac che aveva fatto strada a furia di delazioni. Ma Peters questo non lo poteva sapere e si sforzava di guardarlo con occhi speranzosi. Invece Rjabokon', il quale era stato, anche se si stentava a cre­ derlo, un salariato libero, un vol'n jaška, di Jampol’skij sapeva tut­ to. Ma odiava allo stesso modo tutte e due, sia Peters che Jam­ pol'skij. E taceva rabbioso. Rjabokon' non assomigliava a un annegato. Enorme, ossuto, con le vene sporgenti. Il materasso era corto, la coperta bastava per le sole spalle, ma a Rjabokon' non importava niente. Dal gia­ ciglio sporgevano due piedi delle dimensioni di quelli di Gulliver, e i gialli talloni, simili per colore e consistenza a palle da biliardo, battevano sul pavimento di tronchi d ’albero quando Rjabokon' si muoveva per piegarsi e infilare la testa nel vano della finestra: le spalle ossute non riuscivano a spingersi fuori verso il cielo e la li­ bertà. Il dottor Jampol'skij si aspettava che il lettone morisse nel gi­ ro di qualche ora: i distrofici come lui morivano rapidamente. Ma

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il lettone tirava in lungo, innalzando il dato medio di numero di degenti per giorni di ricovero. Anche Rjabokon' aspettava la mor­ te del lettone. Peters occupava l’unico pancaccio lungo dell’ospedaletto, e il dottor Jampol'skij aveva promesso che dopo il lettone quel giaciglio sarebbe stato suo. Rjabokon' inspirava avidamente l’aria che veniva dalla finestra, non temeva quell’aria primaverile, fredda e inebriante, l’inspirava a pieni polmoni e pensava a come si sarebbe disteso sul giaciglio di Peters dopo che Peters fosse mor­ to, a come avrebbe potuto finalmente allungare le gambe almeno per qualche giorno. Gli sarebbe bastato distendersi e stirarsi per tutta la lunghezza, far riposare i muscoli piu importanti e avrebbe potuto continuare a vivere. Il giro del medico si concluse. Mancava l’occorrente per le cu­ re: il permanganato e lo iodio avrebbero fatto miracoli anche nel­ le mani di Jampol'skij. Mancava dunque, come sempre, l’occor­ rente, ma Jampol'skij restava al suo posto, accumulando esperien­ za e anzianità. Non gli imputavano mai i decessi. Del resto, venivano mai imputati a qualcuno ? - Oggi ti facciamo un bagno, un bagno caldo. Va bene? Un lampo di collera attraversò gli occhi biancastri di Peters che però non disse niente, neanche un bisbiglio. Il dottor Jampol'skij e quattro inservienti-detenuti spinsero l’e­ norme corpo di Peters in una botte di legno che aveva contenuto dell’olio minerale, e che era stata ripulita ad acqua e vapore. Il dottor Jampol'skij controllò l’ora sull’orologio da polso: era un regalo all’amato dottore da parte dei malavitosi del giacimen­ to in cui Jampol'skij aveva lavorato prima di arrivare in quella pie­ trosa trappola per topi. Dopo quindici minuti il lettone cominciò a rantolare. Gli in­ servienti e il dottore estrassero il malato dalla botte e lo trascina­ rono sul giaciglio, il suo lungo giaciglio. Il lettone mormorò di­ stintamente: - La biancheria! La biancheria! - Quale biancheria? - chiese il dottor Jampol'skij. - Non ne abbiamo. - Chiede la camicia mortuaria, - intuì Rjabokon'. E osservando il mento tremante di Peters, i suoi occhi che si chiudevano, le dita enfiate e bluastre che si muovevano disordi­ natamente per il corpo, Rjabokon' pensò che la morte di Peters era la sua fortuna, e non solo a causa del letto lungo ma anche per­ ché erano dei vecchi nemici: si erano fronteggiati in battaglia dal­ le parti di Sepetovka.

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Rjabokon' era un seguace di Machno. Il suo sogno si era rea­ lizzato: aveva avuto il giaciglio di Peters. E su quello di Rjabokon' mi ero messo io, e scrivo questo racconto. Rjabokon' aveva fretta di raccontare: lui aveva fretta di rac­ contare e io di mandare ogni cosa a mente. Tutti e due eravamo esperti sia della vita che della morte. Conoscevamo la legge dei memorialisti, la loro legge fondamentale, costitutiva: ha ragione colui che scrive dopo tutti gli al­ tri, sopravvivendo ad essi, riemergendo dal flusso delle testimo­ nianze, e pronuncia il suo giudizio con il fare di chi possiede la ve­ rità assoluta. La storia dei dodici Cesari di Svetonio è costruita su finezze quali la smaccata adulazione nei confronti dei contemporanei e il vituperio nei confronti dei morti, vituperio al quale nessuno dei vivi risponde. - Pensi che Machno fosse antisemita? Tutte idiozie. La vostra propaganda. I suoi consiglieri erano ebrei: Iuda Grossman-Roščin, Baron. Io ero un semplice combattente, stavo su una tačan k a ', al­ la mitragliatrice. Ero uno di quei duemila che il b a t'k o 1 si è porta­ to in Romania. Ma laggiù non mi ci sono ritrovato. Un anno do­ po ho attraversato la frontiera in senso inverso. Mi hanno dato tre anni di ssylka, al ritorno dalla relegazione sono stato in un kolchoz, e poi nel ’37 hanno preso anche me... - Profilassi sociale ? - Precisamente, cinque anni di «accampamenti lontani». La cassa toracica di Rjabokon' era rotonda, enorme: le costole gli sporgevano come i cerchi di una botte. Da far pensare che se Rjabokon' fosse morto prima di Peters, dalla cassa toracica del machnoviano si sarebbero potuti ricavare i cerchi per la botte del­ l’ultimo bagno del lettone, quello prescritto dal dottor Jampol'skij. La pelle era tesa sullo scheletro e l’intero corpo di Rjabokon' sembrava un preparato per lo studio dell’anatomia, un docile pre­ parato vivente, vera carcassa, non plastico. Non parlava molto ma trovava ancora la forza di difendersi dalle piaghe, rigirandosi sul giaciglio, alzandosi, camminando. La pelle secca gli si squamava su tutto il corpo e numerose macchie bluastre di piaghe future co­ minciavano a disegnarsi su fianchi e lombi. - Sicché arrivo io. Eravamo in tre. Machno era sulla porta. «Sai 12 1 Carro scoperto leggero con tiro a due cavalli, usato in Ucraina e sul Kuban'; armato con una mitragliatrice fu largamente impiegato in cavalleria dalle varie forze in campo du­ rante la guerra civile. 2 «Padre» in ucraino.

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sparare?» «Sì, b a t 'k o \» «E dimmi un po’: se ti attaccano in tre, cosa fai?» «Inventerò qualcosa, b a t 'k o \» «Hai detto proprio be­ ne. Se avessi detto “li faccio a pezzi” , non ti avrei preso nel mio reparto. Ci vuole astuzia e ancora astuzia». E comunque, sai quan­ to me ne importa di questo Machno. Sempre Machno e Machno. Un ataman, e allora? Moriremo tutti comunque. Poi Rjabokon' aveva soggiunto: - Ho sentito dire che è morto... - Sì, a Parigi. - Che Dio lo abbia in gloria. E ora di dormire. Rjabokon' si tirò la vecchia coperta sulla testa, scoprendo così le gambe fino alle ginocchia, e cominciò a sbuffare. - Senti un po’ ... - Sì?

- Raccontami di Maruslca e della sua banda. Rjabokon' scostò la coperta dal viso. - Beh, cosa c’è da dire ? Una banda è una banda. Oggi con noi, domani con gli altri. Lei era un’anarchica, Marus'ka. Sotto gli zar si era fatta vent’anni di katorga, di ergastolo. Era scappata dalla prigione Novinskij, a Mosca. L ’ha fatta fucilare Slaščov3 in Cri­ mea. «Viva l’anarchia! » ha gridato ed è morta. Sai chi era? Di co­ gnome era Nikiforova. Un vero e proprio ermafrodita. Hai capi­ to? Ma adesso dormiamo. Quando ebbe finito di scontare i suoi cinque anni l’ardente par­ tigiano di Machno venne liberato, ma con la proibizione di lasciare la Kolyma. Non riportavano la gente sul «continente». E così al machnovista toccò lavorare come scaricatore nello stesso magaz­ zino dove aveva sfacchinato per cinque anni con il grado di dete­ nuto. Un uomo ormai libero, un vo l'n jaïk a, e doveva lavorare nel­ lo stesso magazzino di prima e fare lo stesso lavoro di prima ? Era un’offesa insopportabile, un colpo in pieno viso, un ceffone che pochi riuscivano a sopportare. Se si eccettuano gli specialisti, na­ turalmente. Per un detenuto, infatti, la piu grande speranza è che, con la sua liberazione, qualcosa cambi, migliori. Partire, essere mandato altrove, trasferirsi anche questo poteva bastare a tran­ quillizzarti, a salvarti. La paga era scarsa. Mettersi a rubacchiare dal magazzino, co­ me prima? No. Rjabokon' aveva altri piani. 3 Jakov Slaščov (1885-1929), generale dei Bianchi nella guerra civile (1919-20), entrò in conflitto con Wrangel che lo degradò; rientrò in Russia nel 1921, venne amnistiato dal governo sovietico e lanciò un appello ai Bianchi invitandoli a seguire il suo esempio.

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Se ne andò via, «nei ghiacci» con altri tre ex zek\ fuggi nel cuo­ re della tajga. Organizzò una banda di briganti, interamente com­ posta di fraery , gente estranea al mondo dei criminali, ma che ave­ va respirato l’aria di quel mondo per alcuni anni. Fu a memoria d’uomo l’unica evasione di volnjaški, di «liberi» della Kolyma: non un’evasione di detenuti, guardati a vista e con­ tati quattro volte al giorno agli appelli, ma la fuga di liberi citta­ dini. Tra loro c’era il capocontabile del giacimento, ex detenuto come Rjabokon'. Di lavoratori a contratto - che avevano già tro­ vato i «rubli pesanti» che cercavano - nella banda naturalmente non ce n’erano; erano tutti z/k z/k. che avevano finito di scontare la pena. Gente insomma esclusa da ogni lista d’impiego e da ogni pro­ spettiva di lauto guadagno, la quale aveva deciso di procurarselo a mano armata. I quattro assassini si diedero a rapinare e ad assaltare lungo mil­ le chilometri di strada - la rotabile principale della Kolyma - per un anno intero. Si spostarono liberamente per un anno, saccheg­ giando automezzi e abitazioni nei villaggi. Si impadronirono di un autocarro e gli trovarono anche una rimessa: una gola montana. Rjabokon' e i suoi amici si risolvevano facilmente anche all’o­ micidio. Nessuno aveva paura di una nuova condanna. Un mese, un anno, dieci, vent’anni sono pene quasi uguali se ci si basa sugli esempi della Kolyma, sulla morale del Nord. Fini come finiscono tante vicende analoghe. Un contrasto, un litigio, una spartizione ingiusta del bottino. La perdita di autorità dell’ataman, che era poi il contabile. Il contabile aveva dato delle false informazioni, ne era venuto fuori un gran pasticcio. Fini dun­ que davanti ai giudici. Venticinque anni piu cinque di interdizio­ ne dai diritti civili. Allora per l’omicidio non c’era la fucilazione. In quella compagnia non c’era un solo malavitoso. Erano tutti dei semplici fraery, dei «fessi» dal punto di vista dei criminali di professione. E anche Rjabokon' non era diverso. La disposizione ad ammazzare a cuor leggero era qualcosa che s’era portato dietro per tutta la vita, dai tempi di Guljaj-Pole4. 1966.

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in «Moskovskij komsomolec», 19 gennaio 1989.

4 II villaggio natio di Machno, in provincia di Ekaterinoslav (oggi Dnepropetrovsk), dove si formò il nucleo dell’armata contadina.

Vita e opere dell’ingegner Kipreev

Per molti anni ho pensato che la morte fosse una forma della vita e, confortato da questa vaga certezza, avevo elaborato una massima per difendere attivamente la mia esistenza in questa val­ le di lacrime. Ritenevo che l’uomo possa considerarsi veramente un uomo quando in qualsiasi momento avverte con tutto il proprio corpo di essere pronto a uccidersi, a intervenire cioè di persona nella pro­ pria vita. Ed è questa consapevolezza a dare la volontà di vivere. A piu riprese mi ero messo alla prova e, sentendomi abbastan­ za forte per morire, avevo continuato a vivere. Molto tempo dopo capii di essermi semplicemente costruito un rifugio, di aver eluso il problema, perché nel momento di decide­ re non sarei piu stato quello di prima, quando la vita e la morte sembravano far parte dello stesso gioco della volontà. Sarei di­ ventato debole, sarei cambiato, avrei tradito me stesso. Non mi misi a riflettere sulla morte ma mi resi conto che la questione esi­ geva una risposta diversa e che la promessa a se stesso, i giuramenti della gioventù erano troppo ingenui e parecchio convenzionali. A convincermi fu la storia dell’ingegner Kipreev1. In tutta la mia vita, non ho mai tradito, non ho mai venduto nessuno. Ma non so dire come mi sarei comportato se mi avesse­ ro riempito di botte. Tutte le mie istruttorie s’erano svolte nel mi­ gliore dei modi: senza percosse, senza terzo grado. Durante le mie istruttorie, nessun inquirente mi ha mai sfiorato neanche con un dito. E un puro caso, niente di più. Le mie istruttorie hanno avu­ to semplicemente luogo abbastanza presto, nella prima metà del ’37, quando ancora non si faceva ricorso alla tortura. Ma l’ingegner Kipreev era stato arrestato nel 1938 e tutto il si-

1 II prototipo dell’ingegner Kipreev è G. G. Demidov, che Šalamov conobbe alla Koly­ ma e con il quale si mantenne poi in contatto anche epistolare [Nota all’edizione russa].

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nistro quadro dei pestaggi durante l’istruttoria gli era ben noto. Egli aveva resistito ai colpi gettandosi sull’inquirente e facendosi mettere in cella di rigore, massacrato di botte. Ma gli inquirenti riuscirono facilmente a far cedere Kipreev sulla questione della fir­ ma: lo minacciarono di arrestare la moglie e Kipreev sottoscrisse la propria confessione. Il colpo morale fu cosi terribile da accompagnare Kipreev per tutta la vita. Umiliazioni e abiezioni non mancano certo nella vi­ ta del detenuto. Nei diari di questo o quell’esponente del movi­ mento di liberazione antizarista in Russia si ripete un trauma spa­ ventoso: la richiesta di grazia. Prima della rivoluzione una cosa del genere era considerata un’infamia, un’infamia incancellabile. E dopo la rivoluzione, nell’ambiente dei reduci da condanne all’er­ gastolo o alla deportazione nell’esilio siberiano, venivano catego­ ricamente respinti i cosiddetti podavancy, vale a dire i «postulan­ ti» che anche una sola volta, per qualsiasi motivo, si erano rivolti allo zar chiedendo di essere rimessi in libertà o di avere attenuata la pena. Negli anni Trenta non solo si perdonava ogni cosa ai «postu­ lanti» di quel tipo, ma si giustificavano perfino quelli che aveva­ no «firmato» confessioni palesemente menzognere, qualche volta grondanti sangue, che riguardavano non solo loro stessi, ma coin­ volgevano anche altri. Gli esempi viventi erano diventati molto vecchi, erano scom­ parsi nei lager o nei luoghi di relegazione mentre quelli che si tro­ vavano in prigione per l’istruttoria erano ormai tutti quanti dei «postulanti». Per questo motivo nessuno poteva immaginare i tor­ menti morali ai quali Kipreev si era condannato partendo verso il mare di Ochotsk, Vladivostok e Magadan. Kipreev era un ingegnere-fisico del famoso Istituto di fisica di Char'kov che fu il primo di tutta l’Unione Sovietica ad arrivare vicino alla fissione nucleare. Ci lavorava anche Kurčatov1. L ’Isti­ tuto di Char'kov non potè sfuggire alle «purghe». E una delle pri­ me vittime della nostra scienza atomica fu proprio l’ingegner Ki­ preev. Egli era consapevole del proprio valore. Ma i suoi nuovi supe­ riori, gli inquirenti, non gliene attribuivano affatto. Nella circo­ stanza risultò che la fermezza morale non ha molto a che fare con il talento, con l’esperienza scientifica o perfino con la passione per 2 Igor' Kurčatov (1902-60), fisico e accademico, diresse vari programmi nucleari tra cui quello che portò al primo esperimento atomico sovietico (1949).

VITA E OPERE DELL’INGEGNER KIPREEV

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la scienza. Erano cose diverse. Sapendo delle percosse durante l’i­ struttoria, Kipreev ci si era preparato in modo molto semplice: de­ cise che si sarebbe difeso come una belva, che avrebbe restituito colpo su colpo senza preoccuparsi di distinguere l’esecutore dal­ l’istigatore all’uso di quei sistemi da terzo grado. Ogni volta Ki­ preev veniva coperto di botte e gettato in cella di rigore. Per poi ricominciare tutto da capo. Le sue forze fisiche piano piano lo tra­ divano e, con il loro affievolirsi, lo tradi anche la fermezza mora­ le. Kipreev firmò. Avevano minacciato di arrestare sua moglie. Ki­ preev provava un’incommensurabile vergogna per questa debo­ lezza, per aver ceduto - lui, Vintelligent Kipreev - quando si era trovato a fronteggiare la forza bruta. E fu allora, ancora in pri­ gione, che Kipreev giurò a se stesso che non avrebbe mai piu com­ piuto un’azione cosi vergognosa. Va detto che Kipreev era l’uni­ co a considerare vergognoso il proprio comportamento. Le perso­ ne che giacevano accanto a lui sui tavolacci avevano tutte quante firmato e diffamato. Se ne stavano li tranquille e non è che mo­ rissero per la vergogna. La vergogna non ha confini precisi o, per meglio dire, i suoi confini sono sempre personali e ognuno degli ospiti della cella del carcere istruttorio era al riguardo piu o meno esigente nei confronti di se stesso. Arrivato alla Kolyma con la sua condanna a cinque anni, Ki­ preev era convinto che avrebbe trovato il modo di ottenere una li­ berazione anticipata, che sarebbe riuscito a riconquistare la libertà e a tornare nel «continente». Avrebbero sicuramente apprezzato l’ingegnere. E l’ingegnere si sarebbe portato avanti nel computo dei giorni lavorativi, ottenendo uno sconto sulla pena e guada­ gnandosi la libertà. Kipreev considerava con disprezzo il lavoro fi­ sico del lager, aveva capito che alla fine di quel cammino non c’e­ ra altro che la morte. Ma se avesse lavorato là dove era possibile utilizzare almeno l’ombra delle conoscenze specialistiche di cui di­ sponeva, Kipreev sarebbe presto tornato libero. E almeno non avrebbe perso la sua qualificazione professionale. La sua esperienza di lavoro al giacimento, le dita prese in una ruspa e spezzate, la debolezza, addirittura gracilità, fisica: tutto questo aveva fatto finire Kipreev in ospedale, e dopo l’ospedale in un lager di transito. Il guaio stava anche nel fatto che l’ingegnere non poteva fare a meno di inventare qualcosa, di cercare delle soluzioni tecnico­ scientifiche in quel caos che era la vita quotidiana del lager in cui viveva. Il lager, i capi del lager lo consideravano niente di piu che uno

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schiavo. Ma l’energia di Kipreev, per la quale egli stesso si era ma­ ledetto mille volte, cercava uno sfogo. C ’era un’unica posta, in tutto quel gioco, degna di un inge­ gnere, di uno scienziato. Questa posta era la libertà. La Kolyma è un «pianeta incantato» non soltanto perché lag­ giù l’inverno dura «nove mesi su dodici» È anche un posto dove durante la guerra si pagavano cento rubli per una mela, e dove un errore nella ripartizione di pomodori freschi, portati dal conti­ nente, provocava drammi di sangue. Tutto questo - le mele e i po­ modori - riguardava naturalmente il mondo dei liberi, dei salaria­ ti, mondo del quale il detenuto Kipreev non faceva parte. E un «pianeta incantato» non soltanto perché laggiù «la legge è la tajga». Non soltanto perché la Kolyma è tutta uno speclager', un la­ ger staliniano di sterminio. E neanche perché le cose più difficili da trovare sono il tabacco e il tè concentrato: m achorka e cifir ', la vera valuta kolymiana, il suo oro autentico, in cambio del quale si può ottenere qualsiasi cosa. Ancora più introvabile era il vetro: manufatti, recipienti da la­ boratorio, strumenti. Il gelo rendeva il vetro più fragile, ma la nor­ ma dei «cocci» non veniva aumentata. Un semplice termometro clinico costava trecento rubli ed era praticamente introvabile. Non era un articolo trattato al mercato nero. Per averne uno il medico doveva farne richiesta al delegato locale degli organi: la procedu­ ra tendeva a impedire che i termometri venissero imboscati: ef­ fettivamente era più difficile che non trafugare la G ioconda. Co­ sì il medico non presentava nessuna richiesta e usava un termo­ metro per il quale aveva a suo tempo sborsato personalmente trecento rubli, che teneva a casa e portava in ospedale solo quan­ do c’era da misurare la temperatura ai malati gravi. Alla Kolyma la b an k a , il barattolo da conserva, è un intero poe­ ma. Il barattolo da conserva di latta è uno strumento di misura co­ modo e sempre disponibile. Per misurare l’acqua, e poi granaglie, farina, k isel', minestra e tè. È una caraffa per il cifir', non c’è nien­ te di più comodo per «farsi un cifirino». E una caraffa sterilizza­ ta: ripulita con il fuoco. Ideale per riscaldarci la minestra, per far­ ci bollire il tè, sulla stufa, su un fuoco da campo. Il barattolo da tre litri è la classica gavetta di quei cadaveri am­ bulanti dei dochodjagi, con il suo manico di fil di ferro che si pre­ sta ad essere appeso alla cintura. E chi nella Kolyma non è stato o non sarà un dochodjaga ? Il barattolo di vetro è un barbaglio di luce nel telaio di un in­ fisso a cellette, studiato per l’utilizzazione di frammenti e scheg­

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ge. È un barattolo trasparente, nel quale è cosi pratico conserva­ re i medicinali in infermeria. Il barattolo da mezzo litro è una perfetta stoviglia per la terza portata della mensa del lager. Ma non sono i termometri, né i recipienti da laboratorio, né i barattoli da conserva gli articoli di vetro di cui c’è piu penuria al­ la Kolyma. La carenza principale è quella di lampadine elettriche. Alla Kolyma ci sono centinaia di giacimenti e miniere, migliaia di settori, sbancamenti, pozzi di miniera, decine di migliaia di fron­ ti di taglio dei giacimenti d’oro, uranio, stagno e tungsteno, non­ ché migliaia di trasferte di lavoro dal lager, di insediamenti di sa­ lariati «liberi», di zony di lager e baracche destinate ai reparti di guardie, e dappertutto ci vuole luce, luce e ancora luce. Per nove mesi la Kolyma vive senza sole, senza la luce del giorno. E nean­ che l’impetuosa luce del sole senza tramonto è sufficiente per tut­ te le occorrenze. La luce e l’energia vengono forniti da trattori accoppiati, o da una locomotiva. Apparecchiature, fronti di taglio e movimentazione non pos­ sono fare a meno della luce elettrica. Fronti di taglio illuminati da proiettori permettono di prolungare il turno di notte e rendono il lavoro più produttivo. Ma di lampadine elettriche c’è grande necessità dappertutto. Le fanno arrivare dal continente, lampadine da trecento, cinque­ cento o mille candele, pronte a illuminare baracche e fronti di ta­ glio. La luce discontinua fornita dai motori condanna queste lam­ padine a usurarsi prematuramente. Alla Kolyma le lampadine elettriche sono un problema di Stato. E non ci sono solo i fronti di taglio a dover essere illuminati. Bisogna che lo siano, e in modo adeguato, anche le «zone», le re­ cinzioni di filo spinato con relative torrette di guardia: un’esigen­ za che nell’Estremo Nord non fa altro che aumentare, invece di diminuire. Deve assere assicurata adeguata illuminazione anche al distac­ camento delle guardie. Qui non te la cavi con un semplice verba­ le - come ai fronti di taglio dei giacimenti - perché c’è gente che potrebbe tagliare la corda e anche se è evidente che in pieno in­ verno non c’è dove scappare e che alla Kolyma nessuno è mai scap­ pato in questa stagione, la legge resta la legge e quando non c’è lu­ ce e neppure illuminazione, tutto attorno alla zona vengono di­

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sposte delle torce accese, lasciate nella neve fino al mattino suc­ cessivo, fino a quando fa giorno. La torcia consiste in uno strac­ cio imbevuto di benzina o di olio minerale. Le lampadine elettriche si consumano in fretta. E non si pos­ sono riparare. Kipreev scrisse un rapporto che meravigliò il capo del D al'stroj. Questi si vide già con una decorazione sulla divisa, una divisa mi­ litare, beninteso, non una giacca o una giubba civile. Le lampadine potevano essere riparate a condizione che il ve­ tro fosse intatto. E ordini perentori attraversarono in lungo e in largo la Koly­ ma: far arrivare con ogni precauzione tutte le lampadine bruciate a Magadan. Presso una fabbrica del kom binat industriale del chi­ lometro quarantasette venne allestito un reparto per la rigenera­ zione della luce elettrica. L ’ingegner Kipreev venne messo a capo del reparto. Il resto del personale, l’organico a foglio paga che si sarebbe occupato della ri­ parazione delle lampadine elettriche, era costituito esclusivamen­ te di salariati liberi. Si voleva affidare la riuscita dell’impresa a ma­ ni sicure, le mani dei salariati. Kipreev non ci badò nemmeno. Ma i creatori della fabbrica ci avevano badato e come. Il risultato fu brillante. Naturalmente le lampadine rigenerate poi non duravano molto a lungo. Ma Kipreev fece risparmiare al­ la Kolyma un certo numero d’ore, di giorni d ’oro. E nel comples­ so erano tanti. Lo Stato ne trasse un guadagno enorme, un van­ taggio militare, un vantaggio misurabile in oro. Il direttore del D al'stroj venne insignito dell’ordine di Lenin. Tutti i capi che avevano avuto a che fare con la riparazione delle lampadine elettriche ricevettero delle onorificenze. Però a nessuno né a Mosca né a Magadan passò neanche per la testa di far avere un qualche riconoscimento al detenuto Kipreev. Per loro Kipreev era uno schiavo, magari uno schiavo intelligen­ te, ma niente di piu. Tuttavia, il direttore del D al'stroj ritenne che non gli fosse pos­ sibile dimenticare del tutto l’autore della fatidica lettera dalla lon­ tana tajga. Alla Kolyma ci fu una grande festa, una festa decisa a Mosca, in una cerchia ristretta, una serata solenne - in onore di chi ?... ma del direttore del D al'stroj, di tutti quelli che erano stati decorati ed encomiati, perché a parte il decreto del governo, il direttore del D al'stro j aveva emanato una propria disposizione con ringrazia­ menti, gratifiche e citazioni al merito. Oltre alle decorazioni e agli

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encomi erano stati preparati - a beneficio di tutti coloro che la­ voravano alla riparazione delle lampadine, e di tutti i responsabi­ li della fabbrica in cui si trovava l’officina di rigenerazione della luce elettrica - dei pacchi americani del tempo di guerra. Questi pacchi, che facevano parte delle fornitura in lend-lease - il piano «affitti e prestiti» statunitense - contenevano eleganti completi, cravatte, camicie e scarpe. I completi erano spariti, sembra, du­ rante il trasporto, ma in compenso le scarpe - scarpe americane di cuoio rosso con la suola rialzata - erano il sogno di ogni capo. Il direttore del D al'stroj si era consultato con il suo attendente e tutti avevano concordato sul fatto che l’ingegnere zek non pote­ va neanche sognarsi una felicità piu grande, un regalo migliore di quello. Quanto a domandare a Mosca una riduzione di pena o addi­ rittura la liberazione, il direttore del D al'stroj, in tempi inquieti come quelli, non ci pensava neppure. Uno schiavo doveva già es­ sere contento di ricevere le vecchie scarpe del padrone, il suo com­ pleto smesso. In tutta Magadan, in tutta la Kolyma non si parlava d’altro che di questi regali. Le autorità del posto avevano ricevuto decorazio­ ni ed encomi a iosa. Ma vuoi mettere un completo americano, un paio di scarpe con la suola alta ? Era qualcosa come un viaggio sul­ la luna, un volo in un altro mondo. E arrivò il grande giorno, la serata solenne: le scatole di carto­ ne lucido che contenevano i vestiti erano accatastate su di un ta­ volo coperto da un drappo rosso. Il direttore del D al'stroj détte lettura della disposizione nella quale naturalmente il nome di Kipreev non veniva ricordato, non poteva essere ricordato. Il capo della direzione politica lesse l’elenco dei beneficiari dei regali. Kipreev venne citato per ultimo. L ’ingegnere si avvicinò al tavolo vivamente illuminato dalla luce di molte lampadine - le sue lampadine - e ricevette la scatola dalle mani del direttore del D al'stroj.

Distintamente e a voce alta, Kipreev dichiarò: «Non intendo indossare la roba smessa degli americani», e posò la scatola sul ta­ volo. Kipreev venne arrestato seduta stante e si prese otto anni di pena supplementare in base all’articolo... non saprei dire quale, ma questo alla Kolyma non ha nessuna importanza e non interes­ sa a nessuno. Ma davvero ci sarà un articolo che punisce il rifiuto di accet­

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tare i regali degli americani? E come se non bastasse, c’era del­ l’altro. Nelle conclusioni dell’inquirente riportate sul nuovo «fa­ scicolo» istruttorio c’era scritto: «ha dichiarato che la Kolyma è una Auschwitz senza camere a gas». Kipreev accolse tranquillamente l’annuncio del suo secondo pe­ riodo di pena. Sapeva a cosa andava incontro rifiutando i regali americani. Ma l’ingegnere adottò comunque certe misure per ga­ rantire meglio la propria sicurezza personale. Ecco quali. Chiese a un suo conoscente di scrivere alla moglie, sul continente, che lui, Kipreev, era morto. E smise anche lui di scrivere. Lo fecero andar via dall’officina e lo inviarono a un giacimen­ to, ai «lavori generali». Di li a poco fini la guerra e il sistema dei lager diventò ancora piu complesso: ormai la destinazione di Ki­ preev, recidivo incallito, poteva essere solo un lager nom em oj, un posto dove sparivi per sempre dietro a un numero. L ’ingegnere si ammalò e fini nell’Ospedale centrale per dete­ nuti. Li c’era un gran bisogno del suo lavoro: si doveva montare e far funzionare un apparecchio a raggi X, di fatto montarlo con fer­ ri vecchi e pezzi difettosi. Il direttore dell’ospedale, il dottor Dok­ tor, gli promise la libertà, uno sconto di pena. L ’ingegner Kipreev non prese molto sul serio quella promessa, lui era registrato tra i malati e le giornate di lavoro potevano essere computate solo ai la­ voratori effettivi dell’ospedale. Ma voleva comunque credere a quello che gli dicevano e poi un gabinetto di radioscopia non era comunque il giacimento, né il fronte di taglio. Fu allora che venimmo a sapere di Hiroshima. - E la bomba, è a questo che lavoravamo a Char'kov. - Suicidio di Forrestal3. A seguito di un’ondata di telegrammi di ingiurie. - Sai qual è il punto? Per un intellettuale occidentale una de­ cisione come quella di lanciare una bomba atomica è parecchio dif­ ficile e penosa. Depressione psichica, pazzia, suicidio: ecco il prez­ zo che un intellettuale occidentale paga per una decisione del ge­ nere. Un Forrestal di casa nostra non sarebbe mai impazzito. Quanta gente per bene ti è capitato di incontrare in vita tua ? Ma intendo davvero per bene, di gente che si vorrebbe imitare, con i quali si vorrebbe lavorare ? 3 James Vincent Forrestal (1892-1949), uomo politico americano, fu sottosegretario alla Marina con Roosevelt e ricopri altre cariche importanti tra cui quella di segretario di Stato per la Difesa (1947-49); ricoverato in clinica per una grave forma di esaurimento ner­ voso, si uccise gettandosi dalla finestra.

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- Aspetta, adesso mi viene in mente: l’ingegnere sabotatore Miller e forse altre cinque persone. - Sono tante. - L ’Assemblea ha firmato il protocollo sul genocidio4. - Il genocidio ? E roba da mangiare ? - Noi la convenzione l’abbiamo firmata. E naturale, il ’37 non è stato un genocidio: è stato lo sterminio dei nemici del popolo. Quindi la convenzione si poteva firmare. - Il regime stringe dappertutto le viti. Non dobbiamo tacere. Come nei sillabari: «Non siamo schiavi, schiavi non siam». Dob­ biamo fare qualcosa, per provarlo a noi stessi. - Una cosa sola si può provare a se stessi, la propria idiozia. Vi­ vere, sopravvivere, eccolo il nostro obiettivo. E non perdere il con­ trollo... La vita è piu seria di quanto tu non creda... Gli specchi non conservano i ricordi. Ma quello che tengo na­ scosto in valigia è difficile chiamarlo specchio: è un frammento di vetro, come una superficie acquea intorbidata, e il fiume è rima­ sto torbido e sporco per sempre, ricordando qualcosa d’importan­ te, di infinitamente più importante del cristallino fluire della cor­ rente trasparente e limpida fin sul fondo. Lo specchio si è intor­ bidato e non riflette piu niente. Ma un tempo era un vero specchio, un regalo disinteressato che ho portato con me attraverso due de­ cenni: decenni di lager e di libertà simile al lager, e di tutto ciò che è venuto dopo il X X Congresso del partito. Lo specchio regalato­ mi da Kipreev non era il frutto di un commercio; era un esperi­ mento, un esperimento scientifico, la traccia di questo esperimento nel buio di un gabinetto di radioscopia. A questo frammento di specchio avevo anche messo una cornice di legno. Non l’avevo fat­ ta proprio io, l’avevo commissionata. La cornice è ancora intatta; me l’ha costruita un falegname, un lettone, che era convalescente in ospedale, in cambio di una razione di pane. Allora ero già nel­ le condizioni di poter dar via del pane solo per togliermi una vo­ glia, un frivolo capriccio. Guardo questa cornice rozza, dipinta con una vernice ad olio del tipo di quelle usate per i pavimenti - all’ospedale si facevano lavori di manutenzione e il falegname aveva ottenuto un po’ di vernice. Poi aveva anche rifinito il tutto con della lacca, che era stata la prima a venir via. Ormai in questo specchio non si vede 4 E la Convenzione, per la prevenzione e repressione del genocidio, stipulata nel 1948 tra gli Stati membri dell’Ònu.

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piu niente, ma c’era stato un tempo in cui potevo usarlo per far­ mi la barba e tutti i liberi me lo invidiavano. Me lo invidiarono fi­ no al 1953, anno in cui un libero, uno che sapeva il fatto suo, fe­ ce arrivare nella cittadina una partita di specchietti, di specchiet­ ti di qualità scadente. E questi minuscoli specchi, rotondi e quadrati, del valore di qualche copeco, furono venduti a prezzi vi­ cini a quelli delle lampadine elettriche. Ma tutti prelevarono sol­ di dai libretti per acquistarne. Gli specchi vennero venduti in un giorno, in un’ora. E a quel punto il mio specchio di fabbricazione artigianale ces­ sò di suscitare l’invidia dei miei ospiti. L ’ho ancora con me. Non è un amuleto. Non so neanche dire se porti fortuna. Anzi, magari è uno specchio che concentra delle radiazioni malefiche, che le attira e riflette, impedendo cosi che io mi dissolva nella fiumana degli altri uomini, tra i quali non ce n’è uno, oltre a me, che conosca la Kolyma o abbia mai sentito no­ minare l’ingegner Kipreev. Kipreev era indifferente a tutto. A un certo punto un delin­ quente recidivo, un quasi professionista della malavita, appena un po’ piu istruito degli altri, un malavitoso non del tutto ignorante che il capo spingeva a migliorarsi, era stato iniziato ai segreti del gabinetto di radioscopia e alzava e abbassava le leve dei comandi; questo malavitoso, che si chiamava Rogov, era stato messo alla scuola di Kipreev per apprendere da lui le tecniche radiologiche. I vantaggi che le autorità si ripromettevano di ricavare dalla si­ tuazione non erano di poco conto, e in cima ai loro pensieri non c’era certo il malavitoso Rogov. Fatto sta che Rogov si era ormai sistemato da Kipreev, nel gabinetto di radioscopia: lo controllava, lo sorvegliava, riferiva, partecipava a un lavoro di Stato nella sua qualità di «amico del popolo». Era un informatore in pianta sta­ bile, che preavvertiva di qualsiasi conversazione, di qualsiasi visi­ ta. E anche se non arrivava a intromettersi, controllava e riferiva ogni cosa. Era questo l’obiettivo principale dell’autorità. E inoltre Ki­ preev preparava personalmente il proprio sostituto, scelto nel­ l’ambiente dei bytoviki, dei detenuti per reati comuni. Non appena Rogov avesse imparato il lavoro - ed era una pro­ fessione per tutta la vita - Kipreev sarebbe stato mandato al Berlag, a un lager nom em oj per recidivi. Kipreev se ne rendeva perfettamente conto ma non aveva in­ tenzione di opporsi al destino. Istruiva Rogov, senza pensare a se stesso.

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La fortuna di Kipreev era che Rogov stentava a imparare. Co­ me ogni buon detenuto per reati comuni che aveva capito l’essen­ ziale - e cioè, le autorità non si sarebbero mai dimenticate di lo­ ro, i bytoviki, qualsiasi cosa accadesse - Rogov non si applicava molto. Ma il momento fini per arrivare. Rogov comunicò di esse­ re in grado di farcela da solo e Kipreev venne mandato nel lager nom em oj. Ma qualcosa nell’apparecchio di radioscopia si guastò e Kipreev, tramite i medici, venne richiamato all’ospedale. Il gabi­ netto di radioscopia tornò a funzionare. È a quest’epoca che risalgono gli esperimenti di Kipreev con la «blenda». Il dizionario dei termini stranieri del 1964 spiega la parola «blenda» nel modo seguente: «Ted. B lende... 4 diaframma (scher­ mo munito di foro ad apertura regolabile), utilizzato in fotografia, microscopia e radioscopia». Vent’anni prima nel dizionario dei termini stranieri la parola «blenda» non c’era. E una novità del tempo di guerra: un’inven­ zione legata al microscopio elettronico. Era bastato che capitasse in mano a Kipreev una pagina tutta strappata di una rivista tecnica, perché il gabinetto di radioscopia dell’ospedale per detenuti sulla riva sinistra della Kolyma fosse do­ tato del moderno accessorio. Quel diaframma era l’orgoglio dell’ingegner Kipreev: era la sua speranza, un’esile speranza, comunque. Ne era stata fatta una pre­ sentazione a una conferenza medica, e un rapporto era stato inol­ trato a Magadan, a Mosca. Nessuna risposta. - E uno specchio potresti farlo ? - Certamente. - Uno grande. Tipo trumò. - Di qualsiasi tipo. Mi ci vuole solo dell’argento. - Anche cucchiai d’argento? - Possono andare. Venne ordinata dal magazzino una lastra di vetro di un certo spessore, di quelle per le scrivanie dei capi, e venne trasportata nel gabinetto di radioscopia. Il primo tentativo si risolse in un fiasco e in un accesso di col­ lera Kipreev fece a pezzi lo specchio con un martello. Uno di questi pezzi è il mio specchio, regalo di Kipreev. La seconda volta tutto andò come doveva e la direzione rice­ vette dalle mani di Kipreev ciò che aveva sognato: un trumò. Il capo non pensò neanche per un istante di doversi sdebitare

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in qualche modo con Kipreev. Perché ? Uno schiavo istruito come lui doveva già essere grato che lo si tenesse in ospedale a occupa­ re un posto letto. Se il diaframma avesse incontrato l’interesse del­ le autorità, Kipreev avrebbe ricevuto la sua razione di ringrazia­ menti e niente di piu. Ma il trumò era una realtà, mentre il dia­ framma era un mito, qualcosa di fumoso... Kipreev era perfet­ tamente d’accordo con il capo. Ma di notte, addormentandosi sul suo giaciglio in un angolo del gabinetto di radioscopia, dopo aver aspettato che se ne andas­ se l’amichetta di turno del suo aiutante, allievo e controllore, Ki­ preev non voleva piu credere alla Kolyma né a se stesso. Perché, pensava, quel diaframma non era uno scherzo. Era un’invenzione di tutto rispetto. Una grande impresa tecnica. Possibile che a Ma­ gadan o a Mosca nessuno volesse prenderla in considerazione ? Nel lager non rispondono mai alle lettere e non amano essere sollecitati. Non restava che aspettare. Un caso inatteso, un in­ contro importante. Tutto questo logorava i nervi: se pure quella pelle di zigrino te­ neva ancora, consumata e lacera com’era. La speranza, per un detenuto, significa sempre una sola cosa: catene. La speranza è sempre mancanza di libertà. Un uomo che spera in qualcosa cambia il proprio comportamento, transige con la propria coscienza più spesso di un uomo che non ha piu spe­ ranze. Mentre aspettava una decisione riguardo a quel maledetto diaframma, l’ingegnere teneva la lingua a freno, non faceva caso alle battute piu o meno felici che sembravano cosi divertenti ai suoi immediati superiori, per non parlare del suo aiutante che aspettava solo il giorno e l’ora in cui sarebbe diventato lui il pa­ drone. Rogov aveva perfino imparato a fabbricare gli specchi: il profitto, il «lucro» era garantito. Tutti quanti erano al corrente della faccenda del diaframma. E tutti prendevano in giro Kipreev, compreso il segretario della se­ zione di partito dell’ospedale, il farmacista Krugljak. Il farmaci­ sta, con quel suo faccione, non era un cattivo ragazzo ma si in­ fiammava con troppa facilità e, soprattutto, gli avevano insegna­ to che un detenuto è un verme. E questo Kipreev... Il farmacista era arrivato da poco all’ospedale, non aveva mai sentito parlare della storia della riparazione delle lampadine elettriche. Non era in grado di immaginare cosa significasse montare un gabinetto di radioscopia nel cuore della tajga dell’Estremo Nord. Krugljak riteneva che il diaframma fosse un’astuta trovata di

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Kipreev, dettata dal desiderio di «gettare fumo negli occhi», «con­ tando frottole»: parole che il farmacista aveva ben assimilato. Nel locale dell’accettazione del reparto di chirurgia, Krugljak copri di ingiurie Kipreev. L ’ingegnere afferrò uno sgabello e fece l’atto di scagliarlo contro il segretario della sezione. I presenti gli strapparono immediatamente lo sgabello dalle mani e lo portaro­ no nel reparto. Kipreev rischiava la fucilazione. O l’invio a un giacimento di punizione, in una «zona speciale», il che era peggio della morte. All’ospedale Kipreev aveva molti amici, e non soltanto grazie agli specchi. La storia delle lampadine elettriche era ben conosciuta e ancora fresca nella memoria. C ’erano persone disposte ad aiutar­ lo. Ma c’era in ballo l’articolo 58.8: terrorismo. Si pensò di ricorrere al direttore dell’ospedale. Furono le dot­ toresse a farlo. Vinokurov, il direttore dell’ospedale, non aveva molto in simpatia Krugljak. Stimava invece l’ingegnere, aspettava la risposta al rapporto sul diaframma, e soprattutto non era un uo­ mo cattivo. Era un capo che non si serviva del suo potere per fa­ re del male. Profittatore e carrierista, Vinokurov magari non fa­ ceva del bene alla gente, ma neppure voleva loro male. - D ’accordo, - fu la risposta di Vinokurov, - non trasmetterò al delegato degli «organi» il materiale per una nuova istruttoria contro Kipreev, ma soltanto a condizione che la parte lesa Kru­ gljak non presenti rapporto. Se lo fa, partirà il nuovo caso. E si prenderà il lager di punizione, come minimo. - Grazie. A p a r la r e c o n K r u g lja k a n d a ro n o gli u o m in i, alcu n i su o i am ici.

- Possibile che tu non te ne renda conto ? lo fucileranno ! É uno senza diritti. Non è come me o come te. - Ma ha alzato la mano contro di me. - No, non l’ha fatto, nessuno ha visto niente del genere. Ma se fossi stato io al posto suo, alla seconda parola ti avrei davvero aggiustato un pugno sul muso: perché ti vuoi sempre immischiare, ti attacchi a qualsiasi cosa. Krugljak, che in fondo era un bravo ragazzo, il che lo rendeva assolutamente inadatto a posti di comando alla Kolyma, fini per lasciarsi convincere. Non fece rapporto. Kipreev restò al suo posto. Di li a un mese arrivò all’ospedale il generale di divisione Derevjanko, il vice del direttore del D al'stroj per i lager, vale a dire l’autorità suprema per i detenuti. A lle a lte a u to r ità d e l N o r d p ia c e v a f a r t a p p a a ll’o s p e d a le . L i

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c’era modo di alloggiare convenientemente, bere e mangiare, ri­ posare. Il generale di divisione Derevjanko, rivestitosi di un camice bianco, passava in rassegna i reparti per sgranchirsi le gambe pri­ ma di pranzo. L ’umore del generale di divisione era affabile e Vi­ nokurov decise di correre il rischio. - Ho qui un detenuto che fa un lavoro molto importante per lo Stato. - Che lavoro ? Il direttore dell’ospedale spiegò in qualche modo al generale di divisione la faccenda del diaframma. - Vorrei proporre questo detenuto per un rilascio anticipato. Il generale di divisione chiese delucidazioni sui «dati anagrafi­ ci»: articolo, pena, pendenze, e dopo aver sentito la risposta, bofonchiò: - Ecco cosa ti dico, direttore, il diaframma sarà anche impor­ tante, ma faresti meglio a spedire questo tuo ingegnere... Korneev... - Kipreev, compagno capo. - Ecco, ecco, Kipreev. Spediscilo li dove dovrebbe già trovar­ si tenendo conto dei suoi «dati anagrafici». - Ai suoi ordini, compagno capo. Una settimana dopo trasferirono Kipreev, ma dopo un’altra settimana l’apparecchio di radioscopia si guastò di nuovo e l’inge­ gnere venne richiamato all’ospedale. Ma ormai non c’era piu da scherzare: Vinokurov temeva che la collera del generale di divisione gli piombasse tra capo e collo. Il capo della direzione dei lager non avrebbe creduto a un gua­ sto dell’apparecchio. Kipreev fu messo in lista di trasferimento ma si ammalò e di nuovo non parti. Ma non avrebbe piu potuto lavorare al gabinetto di radiosco­ pia. Questo l’aveva capito. Kipreev aveva una mastoidite: aveva preso freddo alla testa, al giacimento, sui tavolacci del lager. Perché sopravvivesse era ne­ cessaria un’operazione. Ma nessuno voleva credere alla sua febbre né ai rapporti clinici. Vinokurov tempestava reclamando un’ope­ razione d ’urgenza. I migliori chirurghi dell’ospedale si apprestavano a operare Ki­ preev della sua mastoidite. Il chirurgo Braude era quasi uno spe­ cialista in mastoiditi. Alla Kolyma ci sono più infreddature di quan­ te ce ne vorrebbero e Braude era molto esperto, aveva eseguito centinaia di operazioni di questo genere. Ma Braude doveva sol­ tanto fare da assistente. L ’operazione sarebbe stata eseguita dalla

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dottoressa Novikova, una grande otorinolaringoiatra, allieva di Vojaček, la quale lavorava da molti anni al D al'stroj. Novikova non era una detenuta, né lo era mai stata, ma da molti anni non lasciava quelle estreme terre nordiche. E non a causa dei «rubli pesanti», ma perché nell’Estremo Nord su molte cose si chiudeva un occhio. La Novikova era un’alcolizzata cronica. Dopo la morte del mari­ to, questa specialista dell’orecchio, bella e piena di talento aveva cominciato le sue peregrinazioni per le terre dell’Estremo Nord, che duravano ormai da anni. Ogni volta partiva benissimo, poi si lasciava andare per lunghe settimane. La Novikova era sulla cinquantina. Non c’era nessuno piu qua­ lificato di lei. Ma in quel periodo era in piena crisi alcolica, e in attesa che ne uscisse, il direttore dell’ospedale autorizzò Kipreev a restare ancora qualche giorno. In quei pochi giorni, Novikova si rimise in piedi. Le sue mani smisero di tremare e la specialista, assistita da Braude, operò bril­ lantemente Kipreev: una specie di regalo d’addio, un regalo del tutto medico, al suo tecnico di radioscopia. Kipreev venne rico­ verato per la degenza postoperatoria. Egli si rendeva conto che era inutile sperare, che a quel punto non lo avrebbero tenuto in ospedale un’ora piu del necessario. Lo aspettava il nom em oj dove si andava al lavoro in fila per cin­ que, gomito contro gomito, con trenta cani a controllare la colon­ na dei detenuti in marcia. Anche in quest’ultima situazione disperata, Kipreev non de­ rogò dai suoi principi. Quando il responsabile del reparto prescrisse al malato operato di mastoidite, in quanto reduce da una grave ma­ lattia, una dieta speciale con cibo di migliore qualità, Kipreev ri­ fiutò argomentando che su trecento persone ricoverate nel repar­ to c’erano dei malati in condizioni peggiori delle sue, che quindi avevano piu diritto di lui a una dieta speciale. E Kipreev venne portato via. Ho cercato l’ingegner Kipreev per quindici anni. Ho dedicato un lavoro teatrale alla sua memoria: è un modo decisivo per in­ tromettersi nell’aldilà. Ma non bastava scrivere un lavoro teatrale su Kipreev e dedi­ carlo alla sua memoria. Era ancora necessario che in una via cen­ trale di Mosca, nell’appartamento di coabitazione dove viveva una mia vecchia amica, arrivasse una nuova vicina. A seguito di un an­ nuncio e uno scambio di alloggi. La nuova vicina, che stava facendo il giro di conoscenza degli

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altri inquilini, entrò e notò sul tavolo il lavoro dedicato a Kipreev: se lo rigirò tra le mani, lo scorse rapidamente. - Le iniziali coincidono con quelle di un mio conoscente. Però non si trova alla Kolyma ma da tutt’altra parte. La mia nuova conoscente mi telefonò. Dapprincipio non le vo­ levo dar retta. Si confondeva con qualcun altro. Tanto piu che nel testo il protagonista è un medico, mentre il Kipreev reale era un ingegnere fisico. - Proprio cosi, un ingegnere fisico. Mi vestii e andai a trovare la nuova inquilina dell’appartamento in coabitazione. Il destino tesse degli arabeschi molto complicati. E per quale motivo? Per quale motivo c’erano volute tante coincidenze per­ ché la volontà del destino si manifestasse in modo tanto convin­ cente? Ci cerchiamo poco l’un l’altro, e cosi il destino prende le nostre vite nelle sue mani. L ’ingegner Kipreev è rimasto tra i vivi e oggi vive nel Nord. L ’avevano liberato un dieci anni prima. Quando aveva lasciato la Kolyma era stato portato a Mosca e aveva lavorato in lager segre­ ti. Dopo la sua liberazione era ritornato nel Nord. Intendeva la­ vorare li fino alla pensione. Mi sono incontrato con l’ingegner Kipreev. - Ormai non sarò piu uno scienziato. Ma un semplice inge­ gnere. Sono tornato privo di ogni diritto, e in ritardo rispetto a tutti i colleghi e compagni di corso, pluripremiati da chissà quan­ to tempo. - Che assurdità! - No, non sono assurdità. Nel Nord respiro meglio. E cosi, con­ tinuerò a respirare meglio fino alla pensione. [1967].

Z itte in ietterà K ip reev a,

in «Smena», 1988, n. 88.

D o lo re

È una storia strana, cosi strana da non poter essere compresa da chi non è stato nel lager, da chi non ha conosciuto i cupi abis­ si del mondo criminale, del regno dei malavitosi. I lager sono i bas­ sifondi della vita, ma di quei bassifondi il mondo criminale non è semplicemente lo strato più profondo. E anche un’altra cosa, af­ fatto diversa, estranea all’umanità. C ’è un’espressione abusata secondo la quale la storia non fa al­ tro che ripetersi: la prima volta come tragedia e la seconda come farsa. No. C ’è anche un terzo modo di riflettersi di uno stesso avve­ nimento, dello stesso soggetto: il riflesso nello specchio concavo del mondo sotterraneo. Un soggetto inimmaginabile e tuttavia rea­ le, esiste davvero e vive accanto a noi. In questo specchio concavo dei sentimenti e delle azioni si ri­ flettono i patiboli del tutto concreti delle «leggi» e dei «tribunali d’onore» dei malavitosi che sono in vigore nei giacimenti aurife­ ri. Sono luoghi dove si gioca alla guerra, dove si allestiscono spet­ tacoli di guerra ma si sparge sangue vero. C ’è il mondo delle forze superiori, il mondo degli dèi di Ome­ ro che scendono sulla terra per mostrarsi a noi e migliorare la raz­ za umana con il proprio esempio. E vero che di solito sono in ri­ tardo. Omero lodava gli Achei ma noi ci entusiasmiamo per Etto­ re: il clima morale si è alquanto modificato. Talvolta gli dèi chiamano l’uomo in cielo e lo fanno spettatore di «spettacoli su­ perni»12. Da molto tempo tutto questo è stato decifrato dai poeti. C ’è anche un inferno sotterraneo, dal quale gli uomini talvolta ri­ tornano, nel quale non spariscono per sempre. Perché ritornano? 1 II soggetto è ripreso da un racconto autobiografico di Ju. Dombrovskij [Nota all’e­ dizione russa]. 2 Citazione da Tjutčev (cfr. p. 75).

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Il loro cuore è colmo di un’angoscia eterna, di un eterno orrore per questo mondo di tenebre che non è affatto l’aldilà. E un mondo piu reale dei cieli di Omero. Selgunov era riuscito a «imboscarsi» nel lager di transito di Vla­ divostok: era un «renitente» al lavoro, un otk azcik cencioso, spor­ co e affamato, provvisoriamente sopravvissuto ai maltrattamenti della scorta. Bisognava vivere, ma c’erano quei piroscafi che, co­ me i carrelli per le camere a gas di Auschwitz, facevano la spola con la terra al di là dal mare. Un piroscafo dietro l’altro, un con­ voglio dietro l’altro. Dall’altra parte del mare, da dove nessuno era mai tornato, Selgunov era già stato l’anno prima: in un’«antica­ mera della morte», all’ospedale dove aveva aspettato fino a quan­ do l’avevano rimandato sul «continente» - non avevano voluto le sue ossa per le miniere d’oro. Ora il pericolo tornava ad avvicinarsi; Selgunov avvertiva sem­ pre piu nettamente tutta la precarietà della sua condizione di de­ tenuto. E non c’era nessuna via d’uscita da questa incertezza, da questa precarietà. La peresylka, il lager di transito, è un grande insediamento, sud­ diviso in tutte le direzioni in quadrati di forma regolare - le «zo­ ne» - avviluppato nel filo di ferro spinato e costantemente sotto il tiro di centinaia di torrette di guardia, illuminato a giorno da mi­ gliaia di proiettori che accecano gli occhi indeboliti dei carcerati. I tavolacci a castello di questo enorme lager di transito - la por­ ta della Kolyma - ora si svuotavano all’improvviso, ora si riempi­ vano nuovamente di gente sporca ad esausta: i nuovi convogli che arrivavano dal mondo dei «liberi». I piroscafi tornavano, il lager di transito rigurgitava una nuo­ va porzione di gente, si svuotava, poi tornava a riempirsi. Nella zona in cui viveva Selgunov, la piu estesa di tutto il lager di transito, si svuotavano in questo modo tutte le baracche tran­ ne la numero nove. Era quella dei malavitosi. Ci viveva, e se la spassava, il Re in persona: il capo. In quella baracca i sorveglianti non si facevano mai vedere e gli inservienti del lager sbarazzava­ no ogni giorno i cadaveri, abbandonati sulla soglia, di quelli che avevano trasgredito le leggi del Re. Qui i cucinieri portavano i loro piatti migliori; e gli «stracci» piu pregiati - gli effetti personali di maggior valore dei vari con­ vogli - se li giocavano a carte, invariabilmente, nella baracca nu­ mero nove, quella «reale».

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Discendente diretto dell’omonima famiglia di proprietari ter­ rieri - nel «mondo precedente» suo padre era accademico e sua madre docente universitaria - Selgunov era vissuto fin dalla pri­ ma infanzia di libri e per i libri; bibliofilo e accanito lettore, ave­ va succhiato la letteratura russa insieme al latte materno. Il xix se­ colo, secolo d’oro dell’umanità, lo aveva formato. Dividi con gli altri il tuo sapere. Abbi fede negli uomini, ama gli uomini: ecco cosa insegnava la grande letteratura russa, e Sel­ gunov si sentiva dentro la forza necessaria per poter restituire al­ la società quanto aveva ricevuto in retaggio. Per sacrificarsi - a fa­ vore di chiunque. Per ribellarsi alla menzogna, anche la piu pic­ cola, specialmente se questa menzogna era lf vicino. La prigione e la deportazione furono le risposte del governo ai tentativi di Selgunov di vivere come gli avevano insegnato i libri. Egli non finiva di stupirsi per la meschinità delle persone che lo circondavano. Nel lager non c’erano eroi. Selgunov non voleva cre­ dere che il XIX secolo l’avesse ingannato a quel modo. Alla profon­ da delusione nei confronti degli uomini, che l’aveva accompagna­ to duranté l’istruttoria, il trasferimento e il lager di transito, su­ bentrarono di colpo l’ardimento e l’entusiasmo di un tempo. Selgunov aveva cercato e trovato ciò che voleva, ciò che sognava: degli esempi viventi. Aveva incontrato una forza a proposito del­ la quale aveva letto molte cose e in quella forza credeva, la fede gli era entrata nel sangue. Era la forza del mondo della malavita, del mondo criminale. Le autorità che calpestavano, picchiavano e disprezzavano i suoi vicini e amici, e riservavano lo stesso trattamento anche a Sel­ gunov, temevano e rispettavano i criminali. Ecco un mondo che si era audacemente messo contro lo Stato, un mondo che avrebbe potuto aiutare Selgunov a placare quella sete di bene, romantica e travolgente, che lo divorava, quella bra­ ma di rivalsa... - Non ci sarebbe un romanziere qui da voi ? Qualcuno si stava infilando una scarpa, appoggiando il piede sul tavolaccio. Dalla cravatta e dai calzini, in un ambiente nel qua­ le da anni si vedevano solo pezze da piedi, Selgunov stabili a col­ po sicuro: era della baracca numero nove. - Ce n’è uno. Ehi, tu, scrittore! - E qui lo scrittore ! Selgunov emerse dall’oscurità. - Andiamo dal Re, «tirerai» un romanzo per lui.

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- Non ci vado. - Come sarebbe a dire che non ci vai. Sarai morto prima di se­ ra, stupido! La letteratura aveva ben preparato Selgunov all’incontro con il mondo criminale. Varcò con venerazione la soglia della baracca nu­ mero nove. Tutti i suoi nervi, tutta la sua aspirazione al bene era­ no tesi e vibravano come corde. Selgunov doveva assolutamente avere successo, conquistare l’attenzione, la fiducia e l’amore del suo grande ascoltatore, il padrone di quei luoghi, il Re. E Selgunov eb­ be successo. Tutte le sue disavventure ebbero fine nel medesimo istante in cui le secche labbra del Re si schiusero in un sorriso. Cos’aveva dunque «tirato» Selgunov grazie alla sua memoria? Non aveva voluto aprire il gioco con un atout come II conte di Montecristo. No. Aveva risuscitato al cospetto del Re le cronache di Stendhal e l’autobiografia di Cellini, il Rinascimento italiano e le sue cruente leggende. - Bravo! bravissimo! - esclamò con voce rauca il Re. - Quan­ do si dice una scorpacciata di cultura! Dopo quella serata per Selgunov non si parlò piu di andare a lavorare. Gli portarono del cibo e del tabacco e il giorno seguente lo fecero trasferire nella baracca numero nove con un permesso di soggiorno permanente, sempre che in lager potessero esistere per­ messi del genere. Selgunov diventò il romanziere di corte. - Cos’hai da essere triste, romanziere? - Penso a casa mia, a mia moglie... - Ah! - Ma si, l’istruttoria, il trasferimento, il lager di transito. Non autorizzano la corrispondenza finché non ci hanno portato alle mi­ niere. - Ma va’ là, stupido che non sei altro. E noi cosa ci stiamo a fare? Scrivi alla tua bella e alla spedizione ci pensiamo noi: senza cassette delle lettere, con la nostra ferrovia personale. Eh, cosa ne dici, romanziere ? - Vi sarò eternamente riconoscente. - Scrivi. E Selgunov cominciò a scrivere una lettera alla settimana, de­ stinazione Mosca. La moglie di Selgunov era un’attrice, un’attrice della capitale, apparteneva alla famiglia di un generale. Al momento del suo arresto, tanto tempo prima, si erano ab­ bracciati.

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«Anche se non ci saranno lettere per un anno o due, aspetterò, sarò sempre al tuo fianco». «Le lettere arriveranno prima, - l’aveva tranquillizzata Selgunov, con tono fermo e virile. - Troverò i miei canali. E tramite questi canali potrai ricevere le mie lettere. E anche rispondere». «Si, si, s i!» - Dobbiamo proprio chiamare il romanziere? Non ti è venuto a noia? - chiese con fare premuroso Kolja Karzubyj al suo capo. E se ti portassi un bel petjunčik del nuovo convoglio ?... Se ne può avere uno dei nostri o anche uno dei «cinquantotto». I malavitosi chiamano petjunciki i loro trastulli di pederasti. - No, chiama il romanziere. Di cultura abbiamo fatto il pieno, questo è vero. Ma sono tutti rom anzi, teoria. Adesso con questo fesso d ’un fra e r voglio fare un nuovo giochetto. Abbiamo tutto il tempo che ci serve. - Vedi, romanziere, - disse il Re, quando tutti i riti che pre­ cedevano il sonno furono compiuti: le piante dei piedi grattate, la croce messa al collo, e invece delle coppette o ventose, energici pizzicotti e buffetti applicati alla schiena - il mio sogno, roman­ ziere, è che una femmina come la tua mi scriva delle lettere da fuo­ ri. E proprio bella! - Il Re si rigirò tra le mani la fotografia lace­ ra e consunta di Marina, la moglie di Selgunov, fotografia che que­ sti era riuscito a conservare attraverso migliaia di perquisizioni, disinfezioni e furti. - Bella davvero! Ideale per una seans. La figlia di un generale! Un’attrice ! Ne avete di fortuna, voialtri fraera, a noi invece ci toc­ cano soltanto delle sifilitiche di merda. Allo scolo poi non ci fac­ ciamo neanche piu caso. Beh, piantiamola li. Ho un sonno che mi si chiudono gli occhi. E il giorno dopo il romanziere non «tirò» romanzi. - C ’è qualcosa in te che mi va a genio, fraer. Quanto a essere un fesso lo sei senz’altro, mi sa però che almeno una goccia di san­ gue nostro, truffaldino, ce l’hai anche tu nelle vene. Scrivimi dun­ que una lettera, serve a un mio compagno da spedire alla moglie; è un uomo anche lui, no? Tu sei uno scrittore. Qualcosa di tene­ ro e intelligente, visto che conosci tanti romanzi. Di sicuro non ce n’è una che saprebbe resistere alle tue lettere. Noi invece siamo gente incolta. Scrivi. Il ragazzo poi la ricopia e la spedisce. Avete anche lo stesso nome, Aleksandr. Sai le risate. E vero che si chia­ ma Aleksandr solo nel procedimento vin corso. Ma non importa, è comunque Aleksandr. Sura, quindi, Suročka.

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- Non ho mai scritto lettere del genere, - disse Selgunov. - Ci posso comunque provare. Per ogni lettera, il Re esponeva a voce il concetto e SelgunovCyrano lo trasfondeva nello scritto. Selgunov scrisse una cinquantina di lettere di questo genere. In una, c’era: «H o confessato ogni cosa, chiedo al potere so­ vietico di perdonarmi...» - Da quando in qua un urkac, un malavitoso tosto, chiede per­ dono ? - non potè trattenersi dal chiedere Selgunov interrompen­ do la lettera. - E perché no? - disse il Re. - E una patacca, un «pacco», fu­ mo negli occhi. Una diversione, una mossa astuta. Selgunov non chiese piu niente e scrisse sempre docilmente tut­ to quello che gli dettava il Re. Selgunov rileggeva le lettere a voce alta, correggeva lo stile ed era fiero della forza ancora viva del proprio cervello. Il Re appro­ vava schiudendo appena le labbra in un sorriso regale. Ma ogni cosa ha una fine. E fini anche la stesura delle lettere per il Re. E forse c’era un motivo serio: correva la voce - p arala nel gergo dei lager - che, Re o non Re, il capo della baracca nu­ mero nove sarebbe stato messo su un convoglio per la Kolyma, do­ ve lui stesso, con inganni e ammazzamenti, aveva fatto finire tan­ ta gente. Significava che si preparavano a prenderlo mentre dor­ miva per caricarlo sul piroscafo legato mani e piedi. Era tempo di por fine alla corrispondenza, e del resto era quasi un anno che Selgunov-Cyrano diceva parole d ’amore a Rossana con la voce di Cri­ stiano. Ma bisognava che il gioco terminasse alla maniera dei ma­ lavitosi, con un vero spargimento di sangue... Il sangue si era rappreso sulla tempia dell’uomo il cui corpo gia­ ceva ai piedi del Re. Selgunov voleva coprirgli il viso, gli occhi che continuavano a guardare con un’espressione di rimprovero. - Hai visto chi è ? E proprio il tuo omonimo, Sura, quello per cui scrivevi le lettere. Oggi gli «operativi» l’hanno servito di bar­ ba e capelli, gli han quasi staccato la testa con una scure. Di sicu­ ro se ne andava in giro con la faccia nascosta nella sciarpa. Scrivi: «E un compagno del vostro Sura che vi scrive! Ieri Sura è sta­ to fucilato e mi affretto a scrivervi che le sue ultime parole...» - Hai finito? - disse il Re. - Adesso la ricopiamo ed è fatta. Con le lettere abbiamo chiuso. Questa lettera avrei potuto benis­ simo scriverla senza di te, - prosegui il Re con un sorriso. - Noi ci teniamo all’istruzione, scrittore. Anche se siamo gente ignorante... Selgunov fini di scrivere la lettera con il funereo annuncio.

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Il Re aveva visto giusto, fu preso nottetempo e mandato dal­ l’altra parte del mare. Quanto a Selgunov, non riusci a stabilire un nuovo collega­ mento con la famiglia e perse ogni speranza. Si batté in solitudine per un anno, un secondo, un terzo: faceva la spola tra l’ospedale e il lavoro, sempre piu indignato con sua moglie che si era rivelata una carogna o una fifona, che non aveva utilizzato i «canali sicu­ ri» di collegamento, che l’aveva evidentemente dimenticato, cal­ pestando ogni ricordo di lui. Ma le cose andarono in modo tale che anche l’inferno del lager fini e Selgunov ritornò libero a Mosca. La madre disse di non sapere dove fosse Marina. Il padre era morto. Selgunov riuscì a rintracciare l’indirizzo di un’amica di Ma­ rina, una sua collega di teatro e si recò da lei. Entrò nell’appartemento dove viveva. L ’amica dette un grido. - Cosa succede? - chiese Selgunov. - Ma non eri morto, Sura? - Morto ? Ma se sono qui ? - Significa che lei vivrà in eterno, - disse un tale scivolando fuori dalla camera attigua. - Porta buono. - Vivere in eterno, non credo sia il caso, - disse a bassa voce Selgunov. - Ma cos’è successo? Dov’è Marina? - Marina è morta. Quando ha saputo che ti avevano fucilato si è buttata sotto a un treno. Non nello stesso posto di Anna Kare­ nina, ma a Rastorguev. Ha messo la testa sotto le ruote. Tagliata di netto. Il fatto è che tu avevi confessato di essere colpevole e Marina non poteva crederci, aveva troppa fiducia in te. - Confessato? - Ma sì, l’hai scritto tu stesso. Invece che ti avevano fucilato l’ha scritto uno dei tuoi compagni. Ma ecco il suo bauletto. Nel bauletto c’erano le cinquanta lettere che Selgunov aveva scritto da Vladivostok. Marina le aveva ricevute per quei «canali sicuri» di cui le aveva detto suo marito quando si erano lasciati. I canali lavoravano in modo eccellente, ma non per i frnery, i «fes­ si» come lui. Selgunov bruciò quelle lettere che avevano ucciso Marina. Ma allora dove erano finite le lettere di Marina indirizzate a lui, dov’era la fotografia che lei gli aveva spedito a Vladivostok ? Selgunov si figurò il Re mentre leggeva le lettere d’amore di Marina. Se lo figurò mentre utilizzava la fotografia di sua moglie «per una se­

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duta». E Selgunov si mise a piangere. E avrebbe pianto cosi tutti i giorni, per tutta la vita. Selgunov si precipitò dalla madre di Marina per vedere di tro­ vare una cosa qualsiasi, anche solo un rigo scritto da sua moglie. Anche non destinato a lui. Trovò due lettere, due lettere tutte sbia­ dite, e Selgunov le imparò a memoria. La figlia di un generale, un’attrice, e scrive a un malavitoso. Nel gergo della malavita c’è la parola chlestat'sja, nel senso di «van­ tarsi», ed è la grande letteratura che ha dato questo verbo al lin­ guaggio della malavita. Chlestat'sja significa essere un Chlestakov1. Il Re aveva ben ragione di menar vanto: «Questo “fesso” è un ro­ manziere. Uno spasso. Tenero Sura. Ecco come si devono scrive­ re le lettere, ma tu, schifosa puttana, non sei neanche capace di mettere due parole in fila... » Il Re stava leggendo degli estratti del suo personale romanzo a Zoja Talitova, una prostituta. «Mi man­ ca l’istruzione» - «Le manca l’istruzione! Ma imparate a vivere, bestie ! » In piedi in un androne buio, a Mosca, Selgunov poteva facil­ mente immaginarsi questa e altre cose. La scena di Cyrano, Cri­ stiano e Rossana, rappresentata nel nono cerchio delTinferno, pra­ ticamente sul ghiaccio dell’Estremo Nord. Selgunov si era fidato dei criminali e loro gli avevano fatto uccidere la moglie, proprio con le sue mani. Le due lettere erano logore, ma l’inchiostro non si era scolori­ to del tutto e la carta non si era ridotta in cenere. Ogni giorno Selgunov rileggeva le lettere. Come conservarle per sempre ? C ’era una colla per riparare le crepe, i tagli di quei fo­ gli ingialliti, un tempo bianchi? Non il «vetro liquido»: li avreb­ be bruciati, distrutti. C ’era sicuramente un procedimento per preservare quelle let­ tere. Gli archivisti lo conoscevano di certo, specie quelli dei mu­ sei di letteratura. Ma bisognava far si che le lettere continuassero a parlargli - tutto qui. Il tenero viso femminile fissato su vetro stava accanto a un’i­ cona russa del xn secolo raffigurante la Madre di Dio dalle tre brac­ cia34, giusto un po’ piu in alto. Il viso femminile, la fotografia di Marina, aveva qui una collocazione del tutto opportuna e preva­ leva sull’icona... In che cosa Marina non era una deipara, in che 3 Personaggio di Gogol' (si veda la nota 1 a p. 840). 4 In russo B o i J a M a t'T ro e ru č ic a ; questo canone iconografico, già testimoniato in Gre­ cia e in Serbia fin dai primi secoli, fece la sua comparsa in Russia nel xvn secolo, ed è le-

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cosa non era una santa? In che cosa? Perché tante donne sono con­ siderate sante, eguali agli apostoli, martiri venerate e Marina, in­ vece, davvero non sarebbe stata nient’altro che un’attrice, un’at­ trice che aveva messo la testa sotto il treno ? Oppure la religione ortodossa non accoglie i suicidi nelle schiere degli angeli? La fo­ tografia si nascondeva tra le icone ed era essa stessa un’icona. Qualche volta Selgunov si svegliava di notte e, senza accende­ re la luce, cercava a tentoni la fotografia di Marina sul tavolo. Le sue dita congelate nel lager non potevano distinguere le icone dal­ la fotografiat il legno dal cartone. O forse Selgunov era semplicemente ubriaco. Beveva tutti i giorni. Sapeva per certo che la vodka era dannosa, l’alcol un vele­ no e che solo l’antabuse5 gli faceva bene. Ma cos’altro gli restava se sul tavolo c’era quell’icona di Marina? - Ma te lo ricordi quel romanziere, ma si lo scrittore, eh, Genka? O te lo sei già dimenticato? - chiese il Re quando, esple­ tati tutti i riti, venne il momento di mettersi a dormire. - E perché dovrei? Lo ricordo benissimo. Quell’asino, quel de­ ficiente ! - E Genka fece un gesto espressivo, agitando la mano con le dita allargate sopra l’orecchio destro. 1967.

B o i',

in «Nedelja», 25 luglio 1988.

gato a una leggenda della vita di san Giovanni Damasceno: come nei nostri ex voto, il ter­ zo braccio sarebbe stato raffigurato sull’icona dal santo stesso, in ricordo del braccio fat­ togli mozzare dal visir di Damasco, e tornato al suo posto grazie all’intercessione della Ver­ gine. 5 Preparato per disabituare dall’uso dell’alcol; la sua somministrazione impedisce di ingerire bevande alcoliche, pena la temporanea insorgenza di gravi disturbi.

La gatta senza nome

La gatta non riuscì a saltar fuori in tempo e l’autista Misa l’ac­ chiappò nell’ingresso. Afferrata una vecchia punta da trivella, un’a­ sta d ’acciaio corta e massiccia, Miša le spezzò la spina dorsale e le costole. Poi prese la gatta per la coda e, aperta la porta con una pe­ data, la gettò in strada, nella neve, nella notte, con un freddo di cinquanta gradi sotto zero. La gatta era di Krugljak, il segretario della sezione di partito dell’ospedale. Krugljak occupava un inte­ ro appartamento in una casa di due piani - pianterreno e primo piano - della vicina cittadina libera, e nella stanza sopra quella di Misa allevava un porcellino. Sul soffitto di Misa si era allargata una macchia di umido, l’intonaco aveva cominciato a sollevarsi, formando delle bolle e diventando sempre piu scuro, finché la se­ ra prima aveva ceduto. Dal soffitto il liquame era colato in testa all’autista. Miša era andato di sopra a chiedere spiegazioni, ma Krugljak l’aveva cacciato in malo modo. Misa non era un cattivo ragazzo, ma l’offesa gli bruciava e quando la gatta gli era capitata a tiro... Di sopra, nell’appartamento di Krugljak, non si sentiva un ru­ more: nessuno era sceso in soccorso della gatta sentendo i suoi mia­ golii, gnaulìi, strilli. Ma erano veramente delle invocazioni di aiu­ to ? In realtà la gatta non credeva che gli uomini potessero vera­ mente aiutarla: si trattasse di Krugljak o dell’autista, per lei era lo stesso. Quando si riebbe, la gatta si trascinò fuori dal cumulo di neve fino alla stradina gelata che scintillava alla luce della luna. Io sta­ vo passando di lì proprio in quel momento, così presi la gatta e me la portai all’ospedale, un ospedale per detenuti. Non ci era con­ sentito tenere gatti in corsia, benché ci fossero topi dappertutto e non disponessimo di stricnina o arsenico in quantità sufficiente, per non parlare di trappole ed esche. I veleni venivano comunque tenuti rigorosamente sottochiave e non erano destinati ai topi. Supplicai l’infermiere del reparto di neuropsichiatria di tenere la

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gatta dai matti. Là la gatta guari e si rimise in forze. La coda con­ gelata si staccò, le restò un moncherino, una zampa era rotta e an­ che qualche costola. Ma il cuore era intatto e le ossa si saldarono. Due mesi dopo la gatta già dava battaglia ai topi e presto ripulì il reparto di neuropsichiatria dell’ospedale. Si guadagnò anche un tutore, Lënecka: un simulatore che non valeva neanche la pena di smascherare tanto era palese, una vera nullità, che durante tutta la guerra se l’era cavata grazie all’osti­ nato capriccio di un medico, protettore di malavitosi, il quale in presenza di qualsiasi recidivo cominciava a trepidare: non per pau­ ra ma per un misto di ammirazione, rispetto e venerazione. «Un grande ladro» diceva il rispettabile dottore dei suoi pazienti, si­ mulatori manifesti. Non che il medico avesse degli obiettivi «com­ merciali»: mance, regalie. No. Semplicemente non aveva abba­ stanza energia per prendere l’iniziativa di fare del bene, e per que­ sto i ladri lo comandavano a bacchetta. Infatti i veri malati non riuscivano a entrare all’ospedale, anzi non riuscivano neanche a farsi vedere dal dottore. E, a parte questo, dov’è nel lager il con­ fine tra vera e falsa malattia ? Un simulatore, un aggravante un ma­ lato veramente sofferente si distinguevano poco l’uno dall’altro. E comunque anche il vero malato, se voleva guadagnarsi il suo let­ tino all’ospedale, doveva diventare un simulatore. Comunque sia, la gatta in mezzo a tutti questi capricci di mat­ ti e dottori si era salvata la vita. Presto cominciò ad andare a spas­ so, ebbe dei gattini. La vita è la vita. Poi nel reparto cominciarono a farla da padroni i malavitosi, ammazzarono la gatta e due dei gattini, li cucinarono in un paio­ lo e diedero al mio conoscente infermiere, che era di turno, una scodella di zuppa di carne: per il suo silenzio e in segno di amici­ zia. L ’infermiere riusci a salvare per me il terzo gattino, una fem­ mina grigia, della quale non ho mai saputo il nome: io non mi risolsi a dargliene uno, a battezzarla, per non attirare su di lei la sventura. Fu allora che partii alla volta del mio settore nella tajga e mi portai nascosta in petto la gattina, la figlia di quella gatta scianca­ ta e senza nome finita nella pentola dei malavitosi. Nel mio am­ bulatorio detti da mangiare alla gatta, feci per lei un giochino con un rocchetto di filo, le preparai un barattolo con l’acqua. Il guaio era che per il mio lavoro dovevo spostarmi spesso. Lasciare la gatta chiusa nell’ambulatorio per alcuni giorni non era possibile. Dovevo affidarla a qualcuno che per tipo di mansioni svolte nel lager fosse in grado di dar da mangiare a un altro esse­

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re, uomo o animale che fosse. Il desjatnik, il caporale? Ma quello non poteva soffrire gli animali. I soldati della scorta? Nel locale del posto di guardia tenevano soltanto dei cani, dei cani da pasto­ re, e voleva dire condannare la gattina a continui spaventi, scher­ ni quotidiani, persecuzioni, pedate... Affidai la gattina al cuciniere del lager, Volodja Bujanov. Volodja era stato l’addetto alla distribuzione del cibo nell’ospedale dove lavoravo prima. Una volta, nella minestra dei malati, nel pen­ tolone comune, Volodja aveva trovato un topo, un topo cotto a puntino. Volodja aveva fatto un po’ di chiasso, anche se non mol­ to e comunque del tutto inutilmente, visto che nessuno dei mala­ ti avrebbe voluto rinunciare a una scodella in piu di quella mine­ stra di topo. Fini che Volodja venne accusato di averlo fatto ap­ posta, ecc. La responsabile della cucina era una salariata libera, a contratto, così avevano sollevato dall’incarico Volodja e l’aveva­ no spedito a fare il cuciniere nella tajga, in un cantiere forestale. E proprio lì lavoravo anch’io, come infermiere. La vendetta della responsabile della cucina raggiunse Volodja anche nella foresta. La mansione di cuciniere era di quelle che suscitavano molte invidie. Contro di lui ci furono delle denunce scritte, i volontari lo con­ trollavano giorno e notte. Nessuno poteva sperare di avere l’inca­ rico al posto suo, ma questo non fermava le denunce, gli appostamenti, i tentativi di incastrarlo. Alla fine Volodja perse anche que­ sto lavoro e mi riportò indietro la gattina. La diedi al barcaiolo. Il fiume o, come si dice alla Kolyma, «la sorgente» Duskan'ja, lungo le cui rive allestivamo le nostre cataste di legname era, co­ me tutti i fiumi, fiumicelli e torrenti della regione, di larghezza in­ certa, variabile, e dipendeva dalla quantità d ’acqua, e questa di­ pendeva a sua volta dalle piogge, dalla neve, dal sole. Ma per quan­ to la portata d’acqua del fiume si riducesse in estate, era comunque indispensabile un traghetto, una barca per trasportare la gente da una riva all’altra. Accanto al torrente c’era una piccola izba dove viveva il bar­ caiolo, che era anche pescatore. Gli incarichi ospedalieri che si ottenevano per «raccomanda­ zione» non erano sempre di tutto riposo. Di solito i «raccoman­ dati» facevano tre lavori invece di uno, e per i malati che occupa­ vano un posto letto in quanto titolari di una «cartella clinica» la cosa era ancora piu complessa e delicata. Era stato scelto un barcaiolo che fosse anche in grado di rifor­ nire di pesce le autorità. Pesce fresco per la tavola del direttore

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dell’ospedale. Nel Duskan'ja il pesce c’è, non è molto ma c’è. Quel barcaiolo catturava con grande zelo il pesce destinato personal­ mente al direttore dell’ospedale. Tutte le sere, l’autista dell’ospe­ dale che trasportava il legname ritirava dal pescatore un sacco ba­ gnato, scuro, pieno di pesci ed erba bagnata, lo spingeva nella ca­ bina di guida e l’autocarro ripartiva per l’ospedale. Al mattino l’autista riportava al pescatore il sacco vuoto. Se i pesci erano tanti, il direttore, dopo aver scelto per sé i mi­ gliori, mandava a chiamare il primario e altra gente di minor ri­ guardo. Al pescatore le autorità non davano neanche un po’ di machorka, ritenendo che per chi, come lui, era «sulla cartella» - va­ le a dire figurava in una cartella clinica - fosse già un premio sufficiente poter svolgere la mansione di pescatore. Persone di fiducia - capisquadra, impiegati dell’ufficio - con­ trollavano di loro iniziativa che il pescatore non vendesse il pesce alle spalle del direttore. E anche in questo caso, tutti scrivevano, denunciavano e fornivano informazioni rivelatrici. Il pescatore era un vecchio ospite dei lager, capiva bene che al primo insuccesso l’avrebbero sbattuto al giacimento. Ma di in­ successi non ne aveva. Temoli, salmoni e coregoni artici filavano nell’ombra sotto la roccia seguendo, lungo la corrente, la limpida rapida del fiume, il suo corso veloce, per poi nascondersi nell’oscurità, nel luogo piu profondo, tranquillo e sicuro. Ma proprio li aspettava la barca del pescatore e le canne da pe­ sca pendevano dalla prua, stuzzicando i temoli. E la gatta acco­ vacciata, anche lei impietrita come il pescatore, teneva d ’occhio i galleggianti. Sembrava quasi fosse stata lei a gettare qua e là nell’acqua quel­ le lenze, quelle esche. Aveva fatto presto ad abituarsi al pescatore. Se cadeva dalla barca, la gatta nuotava senza difficoltà ma qua­ si controvoglia fino a riva, fino a a casa. Non c’era stato bisogno di insegnarle a nuotare. Ma non imparò mai a raggiungere a nuo­ to, da sola, il pescatore quando questi, dopo aver ancorato tra due pertiche la barca di traverso alla corrente, in mezzo al fiume, lan­ ciava le sue lenze. La gatta attendeva paziente il ritorno del pa­ drone a riva. Il pescatore tendeva anche i palamiti - lunghi fili muniti di cor­ dicelle armate di ami, con avannotti per esche - sia di traverso al fiume che lungo la riva, in corrispondenza di buche, conche e de­ pressioni. Così si catturavano i pesci piu grossi.

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Piu tardi, il pescatore sbarrò uno dei bracci del fiume con del­ le pietre, lasciando quattro passaggi e chiuse i passaggi con le nas­ se di rami di salice che lui stesso aveva intrecciato. La gatta os­ servava attentamente il lavoro del pescatore. Le nasse andavano sistemate per tempo, cosi da non lasciarsi sfuggire la preda quan­ do fosse iniziata la migrazione autunnale dei pesci. L ’autunno era ancora lontano, ma il pescatore sapeva che la mi­ grazione autunnale sarebbe anche stata il suo ultimo lavoro da pe­ scatore all’ospedale. L ’avrebbero mandato al giacimento. È vero che per un po’ di tempo ancora avrebbe potuto dedicarsi alla rac­ colta di bacche e funghi. Significava guadagnare un’altra settima­ na, meglio che niente. La gatta però non sapeva raccogliere bac­ che e funghi. Ma l’autunno non sarebbe arrivato il giorno dopo e nemmeno quello successivo ancora. Per intanto la gatta pescava: con una zampina, nell’acqua bas­ sa, mantenendosi ben salda sul pietrisco della riva. Quella pesca era raramente fortunata, ma in compenso il pescatore dava alla gat­ ta tutti gli avanzi di pesce. Dopo ogni pescata, alla fine di ogni giornata di lavoro, il pe­ scatore selezionava le prede: i pesci piu grossi, quelli destinati al direttore dell’ospedale, li metteva in un apposito nascondiglio tra i salici, nell’acqua. I pesci di taglia media erano per i capi meno importanti, il pesce fresco fa gola a tutti. Infine quelli piu piccoli li teneva per sé e per la gatta. A un certo punto i combattenti della nostra missione furono trasferiti altrove e lasciarono al pescatore un cagnolino di circa tre mesi, dicendo che sarebbero passati a riprenderselo in un secondo tempo. L ’intenzione era di vendere il cucciolo a qualcuno dei ca­ pi ma - sia che non si trovasse qualcuno interessato sia che non ci si accordasse sul prezzo - fatto sta che in autunno inoltrato nes­ suno era ancora venuto a riprenderselo. Il cucciolo entrò senza alcuna difficoltà a far parte della fami­ glia del pescatore, fece amicizia con la gatta, che era piu vecchia di lui, non tanto di anni quanto per esperienza di vita. La gatta non aveva assolutamente paura del cucciolo e aveva accolto il suo primo attacco scherzoso con le unghie, graffiandogli in silenzio tutto il muso. Poi, fatta la pace, avevano cominciato ad andare d’a­ more e d ’accordo. La gatta insegnava al cucciolo a cacciare. E ne aveva pieno ti­ tolo. Un paio di mesi prima, quando viveva ancora dal cuciniere, avevano ammazzato un orso, l’avevano scuoiato e la gatta gli si era

LA GATTA SENZA NOME

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gettata sopra, trionfante, affondando le unghie nella rossa carne cruda delFanimale. Invece il cucciolo aveva incominciato a guaire e si era nascosto sotto un tavolaccio della baracca. La gatta non era mai andata a caccia con la madre. Nessuno le aveva insegnato quell’arte. Dopo la morte della madre l’avevo al­ levata a latte. Ed ecco: era venuta su combattiva, sapeva tutto quello che una gatta doveva sapere. Sempre ai tempi del cuciniere aveva preso un topo, il suo pri­ mo topo. Alla Kolyma, i topi di campagna sono grossi, appena un po’ piu piccoli di un gattino. Aveva soffocato il nemico. Chi le ave­ va insegnato tutta quella cattiveria, quell’animosità? Una micina sazia, che viveva in cucina! La gatta restava acquattata per ore davanti alla tana di un to­ po di campagna e il cucciolo di cane restava immobile come lei, imitando ogni suo movimento, in attesa del risultato della caccia, del balzo risolutivo... La gatta divideva la preda con il cagnolino, come se fosse sta­ to un cucciolo suo, gli lanciava il topo catturato e il cucciolo rin­ ghiava e imparava anche lui a cacciare i topi. La gatta non aveva dovuto imparare niente. Sapeva tutto dal­ la nascita. Quante volte avevo visto manifestarsi in lei questo istin­ to della caccia, e non l’istinto soltanto, ma anche la scienza e l’ar­ te del cacciare. Quando la gatta tendeva gli agguati agli uccelli, il cucciolo re­ stava immobile, in preda a un’agitazione estrema, aspettando il balzo, il colpo. Topi e uccelli non mancavano. E la gatta non si risparmiava. Con il cucciolo erano diventati grandi amici. Insieme avevano inventato un gioco di cui mi parlava molto il pescatore; ma io stes­ so potei assistervi tre o quattro volte. Davanti alla piccola izba del pescatore c’era una grande radu­ ra e in mezzo alla radura un grosso ceppo di larice alto tre metri circa. Il gioco iniziava in questo modo: il cucciolo e la gatta cor­ revano per la tajga e spingevano verso la radura i burunduki stria­ ti - scoiattoli di terra, piccoli animaletti dai grandi occhi - uno do­ po l’altro. Il cucciolo correva in tondo cercando di acchiappare lo scoiattolo, e lo scoiattolo non aveva difficoltà a mettersi in salvo in cima al ceppo, dove avrebbe aspettato un momento di distra­ zione del cucciolo per saltar giu e sparire nella tajga. Il cucciolo continuava a correre in cerchio per poter controllare insieme la ra­ dura e il ceppo con lo scoiattolo in cima. Nascondendosi nell’erba, la gatta raggiungeva di corsa il cep­

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po e ci saliva all’inseguimento dello scoiattolo, il quale per sfug­ girle saltava giu finendo tra i denti del cucciolo. Scendeva anche la gatta e il cucciolo mollava la preda. La gatta esaminava lo scoiat­ tolo morto, poi con la zampa lo spingeva verso il cucciolo. A quel tempo passavo spesso per quella strada, mi fermavo a far bollire l’acqua per il cifir' nell’izba del barcaiolo, mangiavo, dormivo, prima della lunga camminata che mi aspettava: dovevo farmi venti chilometri a piedi nella tajga per arrivare a casa, al­ l’ambulatorio. Guardavo la gatta, il cucciolo, il pescatore, l’allegro chiasso del­ la loro compagnia, e ogni volta pensavo all’inesorabile autunno, alla precarietà di un breve momento felice e al diritto che ciascu­ no ha a quella precarietà: animale, uomo, uccello. L ’autunno li avrebbe separati, pensavo. Ma la separazione venne prima del­ l’autunno. Il pescatore andò a far provvista di viveri al lager e quan­ do tornò la gatta non c’era piu. La cercò per due notti, risalendo il fiume per un lungo tratto, controllò tutte le sue trappole, le ta­ gliole, si sgolò, chiamandola per nome, un nome che la gatta non aveva mai avuto e non conosceva. Il cucciolo era a casa quando la gatta era sparita, ma non pote­ va raccontare niente. Il cucciolo ululava, la chiamava. Ma la gatta non tornò. [1967]. I991-

B ez y m ja n n a ja k o š k a ,

in V. Salamov,

K o ly m sk ie ra ssk azy ,

Sovremennik, Moskva

Il pane di un altro

Era il pane di un altro, il pane del mio compagno. Il mio com­ pagno si fidava solo di me, era andato a lavorare nel turno di gior­ no e aveva lasciato a me il pane, in un piccolo bauletto russo di le­ gno. Adesso bauletti cosi non se ne fanno più, ma negli anni Ven­ ti le belle donne di Mosca amavano farne sfoggio: una di quelle valigette sportive, rivestite in finta pelle «tipo coccodrillo». Nel bauletto c’era il pane, una razione. A scuotere il contenitore, si poteva sentire il pane che si spostava. Mi tenevo il bauletto sotto la testa. Era da un pezzo che cercavo di prendere sonno. Un uo­ mo affamato dorme male. Ma io non dormivo proprio perché ave­ vo quel pane sotto la testa e in testa il pane di un altro, il pane del mio compagno. Mi sollevai e restai a sedere sul mio giaciglio... Ave­ vo l’impressione che tutti stessero guardando dalla mia parte, che tutti sapessero cosa stavo per fare. Ma il piantone era intento a rattoppare qualcosa vicino alla finestra. Un altro, un tale di cui non so il nome, lavorava come me nel turno di notte e adesso era disteso su un giaciglio non suo nella parte centrale della baracca, con i piedi rivolti verso la calda stufa di ferro. Dov’ero io quel ca­ lore non arrivava. L ’uomo stava sdraiato sulla schiena, con la fac­ cia voltata in su. Mi avvicinai a lui: aveva gli occhi chiusi. Passai rapidamente in rassegna i tavolacci superiori e vidi che in un an­ golo della baracca c’era qualcuno che dormiva o comunque se ne stava disteso, coperto da un mucchio di stracci. Tornai a coricar­ mi al mio posto, fermamente deciso ad addormentarmi. Contai fi­ no a mille e mi alzai di nuovo. Aprii il bauletto e tirai fuori il pa­ ne. Era una razione da trecento grammi, fredda come un pezzo di legno. Me l’avvicinai al naso e le narici colsero di soppiatto l’odo­ re appena percettibile del pane. Rimisi il pezzo di pane nel bau­ letto e lo tirai fuori nuovamente. Capovolsi il contenitore e mi ro­ vesciai sul palmo alcune briciole di pane. Passai la lingua sul pal­ mo, la bocca mi si riempì immediatamente di saliva e le briciole si sciolsero. Non ebbi più esitazioni. Staccai tre pezzetti di pane, pie-

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colissimi, non piu grandi dell’unghia del mignolo, riposi la razio­ ne nel baule e mi coricai. Spilluzzicavo e succhiavo le briciole di pane. E presi finalmente sonno, fiero di non aver rubato il pane al mio compagno. [1967]-

C u ž o j ch leb ,

in «Moskovskij komsomolec», 7 gennaio 1988.

Un furto

Nevicava, e il cielo era grigio, e la terra era grigia, e la catena umana che passava da una collina innevata all’altra si era distesa per tutto l’ampio orizzonte. Poi si dovette aspettare a lungo, fin­ ché il caposquadra non ebbe finito di allineare tutti i suoi uomini, come se dietro la collina e la neve si nascondesse un generale. La squadra si mise in fila per due e abbandonò il sentiero - la via piu breve per tornare a casa, alla baracca - prendendo un’al­ tra pista, piu larga ma accidentata. Recentemente ci era passato un trattore, la neve non aveva ancora fatto in tempo a ricoprire le sue tracce, simili alle orme di un animale preistorico. Si aveva mol­ ta piu difficoltà a procedere su questa pista che sul sentiero pre­ cedente, tutti avevano fretta, e ad ogni momento qualcuno usciva dalla fila e restava indietro per il tempo necessario a sfilarsi rapi­ damente gli stivali imbottiti, pieni di neve, per poi raggiungere di corsa i suoi compagni. All’improvviso, dietro a una curva, vicino a un grande cumulo di neve, vedemmo la sagoma nera di un uomo che indossava un’ampia pelliccia bianca. Solo quando arrivammo più vicino, mi resi conto che il cumulo di neve era in realtà una ca­ tasta non molto alta di sacchi di farina. Un autocarro si era pro­ babilmente bloccato nella neve in quel punto, era stato scaricato per alleggerirlo, quindi portato via senza carico, a rimorchio di un trattore. La squadra marciava diritto verso il guardiano, aggirando la ca­ tasta con passo rapido. Poi il suo passo rallentò, la squadra ruppe le file e le file si trasformarono in una calca indistinta. Incespi­ cando nell’oscurità, i lavoratori raggiunsero finalmente la luce del­ la grande lampadina elettrica sospesa sul portone del lager. La squadra si schierò davanti al portone, in file irregolari, la­ mentandosi per il freddo e la stanchezza. Il sorvegliante usci, apri il portone e fece entrare gli uomini nella zona. Anche all’interno del lager, tutti continuarono a marciare in fila, e io continuavo a non capire niente.

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Solo verso mattina, quando cominciarono a distribuire la fari­ na attingendo nel sacco con una gavetta come unità di misura, com­ presi di aver partecipato, per la prima volta nella mia vita, a un furto. La cosa non mi turbò particolarmente; del resto, non c’era neanche il tempo per analizzare l’accaduto in tutti i suoi aspetti, dovevo far cuocere la mia parte con qualsiasi mezzo e procedi­ mento utilizzabile nella nostra situazione: sotto forma di gnocchetti, «colla», o i famosi «straccetti» acqua e farina, o le classi­ che schiacciate alla segale, crespelle e frittelle assortite. [1967].

K ra ž a ,

in Salamov,

V o skresenie listvennicy

cit.

La città sulla montagna

Fui portato in quella città sulla montagna, per la seconda e ul­ tima volta nella mia vita, nell’estate del 1945. Da quella stessa città due anni prima mi avevano mandato sotto processo, in tribunale, dove mi avevano dato dieci anni, quindi avevo peregrinato per sva­ riate spedizioni «vitaminiche», anticamera della morte, a sfoglia­ re rami di pino, avevo passato un periodo in ospedale, avevo di nuovo lavorato in altre spedizioni e infine dal settore «Riodiamante», in cui le condizioni di vita erano insopportabili, avevo tentato la fuga, ero stato arrestato e messo nuovamente sotto in­ chiesta. Ma poiché avevo appena incominciato a scontare il pe­ riodo di pena dell’ultima condanna, l’inquirente aveva ritenuto che lo Stato non avrebbe ricavato un grande vantaggio da una nuo­ va istruttoria, una nuova condanna, un nuovo periodo di pena, un nuovo computo del tempo della mia vita carceraria. Nella sua re­ lazione si parlava del giacimento di punizione, della speczona alla quale sarei stato rispedito e dove sarei rimasto da quel momento e fino alla fine del secolo. E di tutti i secoli dei secoli. Ma io non volevo dire «amen». Nei lager vige la norma di non trasferire i detenuti con una nuo­ va condanna nei giacimenti dove hanno già lavorato in preceden­ za. In questo c’è un grande senso pratico. Lo Stato salvaguarda la vita dei suoi seksoty, i collaboratori segreti, dei suoi stukaci, con­ fidenti e spie, dei suoi falsi testimoni e spergiuri. E il loro diritto minimo. Ma con me si comportarono diversamente - e non solo per pi­ grizia dell’inquirente. No, gli eroi dei confronti processuali, i te­ stimoni del mio caso precedente, erano già stati portati via da quel­ la zona speciale. Sia il caposquadra Nesterenko che il suo vice, il caporale Krivickij, nonché il giornalista Zaslavskij e un per me sco­ nosciuto Sajlevic avevano già lasciato Dželgala. Essi, in quanto uo­ mini che si erano emendati, dando prova di fedeltà, erano già sta­ ti trasferiti altrove, lontano dalla speczona. Dunque, lo Stato ri-

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compensava con onestà spie e falsi testimoni per il loro lavoro. Il mio sangue, la mia nuova pena detentiva ne erano il prezzo e il compenso. Smisero di convocarmi per gli interrogatori e me ne stavo non senza piacere nella cella piena zeppa di gente della sezione istrut­ toria che dipendeva dalla direzione settentrionale. Non sapevo co­ sa sarebbe stato di me: avrebbero deciso di considerare la mia eva­ sione come un’assenza ingiustificata, trasgressione incomparabil­ mente meno grave dell’evasione ? Circa tre settimane dopo venni convocato e condotto in una cella di transito, dove, accanto alla finestra, era seduto un tale con l’impermeabile, buoni stivali e una giubba imbottita quasi nuova, senza uno strappo. Mi «fotografò» subito, come dicono i malavi­ tosi, capi che ero un comunissimo dochodjaga e che non potevo avere niente a che vedere con il suo mondo. E io «fotografai» lui: non per dire, ma neanch’io ero un fraer qualunque, un povero «fes­ so», ma un fraer di quelli navigati. Davanti a me c’era uno dei ma­ lavitosi del lager che, considerai, doveva avere la mia stessa desti­ nazione. Infatti stavano per spedirci in una zona speciale, quella Dželgala che io conoscevo bene. Un’ora dopo la porta della nostra cella si apri. - Chi è Ivan il Greco ? - Sono io. - C ’è un pacco per te - Il combattente consegnò a Ivan un in­ volto e il malavitoso, senza affrettarsi, lo posò sul tavolaccio. - Manca molto ? - Stanno preparando il mezzo. Di lf a qualche ora l’autocarro, dando gas e ansimando, si tra­ scinò faticosamente fino a Dželgala e si fermò vicino al posto di guardia. Ci venne incontro lo starosta del lager e guardò i nostri docu­ menti - quelli di Ivan il Greco e i miei. Era proprio quella stessa zona in cui ai vari turni di lavoro, tut­ ti quanti «fino all’ultimo», indistintamente i sani e gli ammalati, venivano cacciati fuori dalle baracche, talvolta usando i cani, e so­ spinti verso il posto di guardia. La formazione dei ranghi e gli ap­ pelli dei turni venivano fatti poco oltre, davanti al portone della zona, e da qui partiva una ripidissima strada in discesa, una stra­ da che volava attraverso gli alberi della tajga. Il lager si trovava sulla montagna, mentre i lavori si svolgevano giù in basso, e que­ sta era la dimostrazione che non c’è limite alla crudeltà umana.

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Sulla spianata davanti al posto di guardia due sorveglianti faceva­ no dondolare, uno dopo l’altro, tenendoli per le braccia e le gam­ be, tutti gli otkazciki, i renitenti al lavoro, e li buttavano giu. Il detenuto ruzzolava per trecento metri, restava a terra, in basso c’era ad attenderlo un soldato, e se il renitente non si rialzava, se non si muoveva neanche a calci e spintoni, veniva legato ai quat­ tro pali di un graticcio trainato da un cavallo e trasferito in que­ sto modo fino al fronte di cava: un chilometro almeno. Avevo as­ sistito a scene del genere ogni giorno fino a quando non mi ave­ vano trasferito da Dželgala. E adesso ero ritornato. Essere buttati giu dalla montagna - quella zona speciale si pre­ stava a simili procedure - non era l’aspetto piu terribile della fac­ cenda. E neanche il fatto che il lavoratore fosse trascinato al la­ voro attaccato a un cavallo. La cosa veramente tremenda era il rientro, perché dopo un’intera giornata di estenuante lavoro nel gelo bisognava trascinarsi su per la salita, arrancando e aggrap­ pandosi ai rami, alle sterpaglie, ai tronchi caduti. Arrancare, por­ tando per giunta la legna degli uomini della scorta. Nonché la le­ gna «per se stessi», come dicevano le autorità. Dželgala era un’impresa seria. Qui c’erano naturalmente squa­ dre di stachanovisti, come quella di Margarjan, c’erano squadre un po’ meno valide tipo la nostra, e c’erano anche i malavitosi. Co­ me in tutti i giacimenti degli Olp di prima categoria, sul posto di guardia c’era la scritta: «Il lavoro è una questione d’onore, una questione di gloria, una questione di valore e di eroismo». Beninteso anche di denunce, pidocchi, inchieste, inquisizioni. Nella sezione sanitaria non c’era piu il dottor Mochnač che su richiesta dell’inquirente, benché per mesi mi avesse visto ogni gior­ no in ambulatorio durante l’orario di visita, su richiesta dell’in­ quirente, dunque, aveva scritto in mia presenza: il detenuto z/k tal dei tali è sano e non ha mai presentato lagnanze di sorta alla se­ zione medica di Dželgala. - E l’inquirente Fëdorov aveva riso e mi aveva detto: «mi fac­ cia i nomi di dieci detenuti del lager, quelli che vuole, a sua scel­ ta. Dopo che li avrò fatti passare dal mio ufficio, tutti quanti de­ porranno contro di lei». Era la pura verità e io lo sapevo bene, al­ meno quanto lui... Adesso Fëdorov non era piu a Dželgala: l’avevano trasferito al­ trove. E non c’era neppure Mochnač. E chi c’era alla sezione sanitaria di Dželgala? Il dottor JampoFskij, un salariato libero, ex detenuto. Il dottor Jampol'skij non era neanche un infermiere. Ma al già-

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cimento Spokojnyj, qualcosa come «La quiete», dove c’eravamo incontrati la prima volta, curava i malati con il permanganato e lo iodio, e nessun professore avrebbe potuto fare prescrizioni diver­ se dalle sue... Le autorità superiori, sapendo che non c’erano me­ dicinali appropriati, non pretendevano neanche molto. La lotta inutile e senza speranza - contro le affezioni da pidocchi, i visti formali dei responsabili della sezione sanitaria sugli atti, la «su­ pervisione» generale, erano tutto ciò che le autorità superiori pre­ tendevano da JampoLskij. Il paradosso consisteva nel fatto che, non dovendo rispondere di nulla e non curando nessuno, Jampol'skij accumulava gradualmente esperienza e veniva apprezzato al pari di qualsiasi altro medico della Kolyma. Con lui ebbi uno scontro piuttosto singolare. Il primario di quell’ospedale dove ero stato ricoverato in precedenza aveva in­ viato a JampoLskij una lettera in cui gli chiedeva di aiutarmi a tor­ nare all’ospedale. JampoLskij non aveva trovato niente di meglio che trasmettere la lettera al capo del lager, mi aveva insomma de­ nunciato. Ma Emel'janov non aveva capito la reale intenzione di JampoLskij e, incontrandomi, mi aveva detto: «Ti ci manderemo, ti ci manderemo». E mi ci avevano mandato. Adesso ci eravamo nuovamente incontrati. Sin dalla prima visita, JampoLskij dichiarò che non solo non mi avrebbe dispensato dal lavoro, ma mi avreb­ be sbugiardato e smascherato come simulatore. Due anni prima ero arrivato li con un tetro convoglio militare: ero stato espunto dagli elenchi del signor Karjakin, caposettore della miniera di Arkagala. In base agli elenchi delle varie direzio­ ni e giacimenti avevano messo insieme un convoglio di condanna­ ti a morte e lo stavano portando in una delle tante Auschwitz del­ la Kolyma, una delle «zone speciali»; i campi di sterminio dopo il ’38, quando l’intera Kolyma era un unico campo di sterminio. Due anni prima, da quegli stessi luoghi, ero stato portato al mio processo - diciotto chilometri di tajga, una sciocchezza per i com­ battenti che avevano fretta di andare al cinema, ma tutt’altro che una sciocchezza per uno che era stato un mese di fila in una cella di rigore cieca, buia, a pane e acqua: una caraffa d ’acqua e trecento grammi di pane al giorno. Ritrovai anche il carcere di rigore, o meglio le sue tracce, poi­ ché da tempo nel lager c’era un nuovo izoljator. l’attività era in crescita. Mi ricordai che a suo tempo il soldato della scorta re­ sponsabile del carcere di isolamento aveva paura a lasciarmi usci­ re per lavare le stoviglie al sole, in un rivolo d’acqua che non ve­ niva dal fiume ma da una conduttura di legno: era comunque esta-

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te, c’erano il sole, l’acqua. Il responsabile dell’isolamento aveva paura a lasciarmi andare a lavare le stoviglie, però non si sognava nemmeno di lavarle personalmente e non per pigrizia ma sempli­ cemente perché era un lavoro degradante per il responsabile di un carcere d ’isolamento. Non poteva rientrare nelle sue mansioni. E di detenuti senza invio al lavoro ce n’era uno solo: io. Gli altri de­ tenuti a regime di rigore andavano a lavorare ed erano proprio le loro stoviglie a dover essere lavate. E io le lavavo con piacere: per l’aria, per il sole, per la zuppa. Non ci fosse stata quella passeg­ giata quotidiana, chissà se ce l’avrei fatta ad arrivare fino al pro­ cesso, a sopportare tutte le botte che mi davano ? Del vecchio carcere smantellato erano rimasti solo il tracciato dei muri e le buche annerite delle stufe, e io mi sedetti sull’erba, riandando con la memoria al mio «processo» di allora. Un cumulo di ferrivecchi affastellati crollò quasi da solo, e io frugandoci in mezzo vidi all’improvviso il mio coltello, un picco­ lo «finlandese» che mi era stato regalato tempo prima da un in­ fermiere dell’ospedale per il viaggio. Nel lager il coltello non mi poteva essere granché utile, me la cavavo benissimo anche senza. Ma ogni detenuto è fiero di possedere un oggetto del genere. Sul­ la sua lama da entrambi i lati c’era un marchio a forma di croce, inciso con la raspa. Questo coltello me l’avevano requisito due an­ ni prima al momento dell’arresto. E ora potevano nuovamente te­ nerlo tra le mani. Lo rimisi nel cumulo di ferri arrugginiti. Due anni prima, ricordai, ero arrivato li con Varpachovskij, che da tempo era a Magadan, e Zaslavskij, che ora si trovava a Susuman. E io ? Io mi ritrovavo per la seconda volta nella zona specia­ le. - Hanno portato via Ivan il Greco. - Avvicinati. Sapevo già di che cosa si trattava. L ’ampio colletto rialzabile della mia giubba imbottita, il cinturino per stringerlo, la sciarpa di cotonina fatta a maglia, la mia larga sciarpa lunga un metro e mezzo che tentavo invano di tenere nascosta, aveva attirato l’e­ sperto sguardo dello starosta, il rappresentante dei detenuti. - Sbottonati la giubba. - Mi sbottonai. - Si fa uno scambio. - Lo starosta indicò la sciarpa. -N o . - Guarda che ti trattiamo bene. -N o . - Poi sarà tardi.

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- No. Iniziò cosi una vera e propria caccia alla mia sciarpa, ma io la custodivo bene, me la legavo attorno al corpo quando si andava ai bagni, non me la toglievo mai. Ben presto la sciarpa si riempi di pidocchi, ma io ero disposto a sopportare anche il loro tormento pur di conservarla. Talvolta di notte me la toglievo per avere un po’ di sollievo dalle punture e la vedevo muoversi sotto la luce, spostarsi. Tanto si erano moltiplicati i pidocchi. Una notte non ne potei più, avevano caricato la stufa piu del solito, faceva un gran caldo e io mi tolsi la sciarpa e l’appoggiai accanto a me sul tavo­ laccio. In quello stesso istante la sciarpa scomparve, e scomparve per sempre. Una settimana dopo, mentre uscivo per l’appello al la­ voro e mi predisponevo a finire nelle mani dei sorveglianti e a vo­ lare giù dalla montagna, vidi lo starosta fermo davanti al portone del posto di guardia. Intorno al suo collo faceva bella mostra di sé la mia sciarpa. Beninteso, era stata lavata, fatta bollire, disinfe­ stata. Lo starosta non mi degnò di uno sguardo. E anch’io guardai la mia sciarpa una volta sola. Ero riuscito a resistere due settima­ ne, due settimane di vigile lotta. Sicuramente il pane che lo staro­ sta aveva dato al ladro come ricompensa era meno di quello che avrebbe dato a me quel primo giorno, all’arrivo. Chi lo sa ? Ma non ci pensavo. Mi sentii perfino sollevato, le punture sul collo co­ minciavano a rimarginarsi e dormivo anche meglio. E tuttavia non dimenticherò mai quella sciarpa di cui avevo po­ tuto disporre per cosi poco tempo. Nella mia vita al lager quasi non ci furono mani anonime a so­ stenermi nella tormenta, nella bufera, anonimi compagni a salvarmi la vita. Ma ricordo tutti i pezzi di pane ricevuti dalle mani di un altro - e non dallo Stato - e mangiati, tutte le sigarette arrotolate dalle mani di un altro. Sono finito molte volte in ospedale, per no­ ve anni ho vissuto tra l’ospedale e il fronte di scavo, senza spera­ re in nulla, ma senza disprezzare l’elemosina di nessuno. Ho la­ sciato molte volte l’ospedale per poi essere spogliato d ’ogni cosa dai malavitosi o dai capi dell’amministrazione nel primo lager o prigione di transito. La zona speciale si era ampliata: posto di guardia e carcere di isolamento, tenuti sotto tiro dalle torrette dei recinti, erano nuo­ vi. Anche le torrette erano nuove, la mensa invece era sempre la stessa, quella dove ai miei tempi, due anni prima, l’ex ministro Krivickij e l’ex giornalista Zaslavskij si divertivano sotto gli occhi di tutte le squadre con un terribile passatempo carcerario. Senza farsi vedere abbandonavano su un tavolo del pane, una razione da

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trecento grammi, lo lasciavano incustodito, come una cosa di nes­ suno, come fosse la razione di un deficiente che l’avesse «appog­ giata male». Prima o poi uno dei dochodjagi presenti, reso quasi folle dalla fame, si gettava su quel pane nero, l’afferrava, se lo por­ tava in un angolo buio e rosicchiandolo con denti malfermi per lo scorbuto, che lasciavano tracce di sangue sul boccone, tentava di far sparire rapidamente il maltolto. Ma l’ex ministro era anche un ex medico, sapeva che l’affamato non sarebbe comunque riuscito a divorare tanto in fretta la razione, non aveva i denti per farlo, e lasciava continuare lo spettacolo finché non ci fosse piu modo di tornare indietro e le prove diventassero incontrovertibili. Una folla di «sgobboni» imbestialiti si gettava sul ladro, che aveva abboccato come un pesce, ma non riusciva a inghiottire del tutto l’esca. Ognuno si riteneva in dovere di colpirlo, di castigar­ lo per il delitto, e anche se i colpi di quegli uomini ridotti anch’essi al lumicino non erano tali da poter rompere le ossa, all’anima fa­ cevano egualmente un gran male. Questa durezza di cuore è soltanto dell’uomo. E un tratto che mostra quanto l’uomo si sia allontanato dall’animale. Pesto e sanguinante, il ladro sfortunato andava a rannicchiar­ si in un angolo della baracca e l’ex ministro, che nella squadra era il vice, pronunciava davanti ai suoi uomini roboanti discorsi sulla dannosità dei furti e la sacralità della razione carceraria. Tutto questo accadeva sotto i miei occhi e io, guardando tutti quei «morituri» che pranzavano, che leccavano le scodelle con il classico, abile movimento della lingua mentre leccavo, anch’io la mia scodella con analoga destrezza, pensavo: «Tra poco comparirà sulla tavola il pane-pastura, il pane “esca viva” . Di sicuro sono già qui sia l’ex ministro che l’ex giornalista, artefici di casi giudiziari, provocatori e falsi testimoni». Ai miei tempi il gioco del «pescio­ lino» era molto in voga nella zona speciale. Questa durezza di cuore ricordava in qualche modo le «storie d’amore» dei malavitosi con prostitute affamate (ma erano poi pro­ stitute?) quando una razione di pane era l’«onorario» o, piu pre­ cisamente, secondo gli accordi, la parte di quella razione che la donna riusciva a mangiare nel tempo che l’altro si giaceva con lei. Tutto quello che la donna non riusciva a mangiare se lo riprende­ va il malavitoso. «La razioncina la faccio congelare prima nella neve e poi glie­ la ficco in bocca, non potrà rosicchiarne molta se è gelata... Quan­ do ho finito la razioncina è li, bella intera». Questa crudeltà dei criminali nell’amore è estranea all’uomo.

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L ’uomo non può escogitare divertimenti di questo genere, solo un criminale può farlo. Giorno dopo giorno mi avvicinavo alla morte e non aspettavo nient’altro. Eppure mi sforzavo ancora di trascinare le gambe oltre il por­ tone della zona, di andare a lavorare. Una cosa sola non si doveva fare: rifiutarsi di lavorare. Dopo tre rifiuti c’era la fucilazione. Co­ si era stato nel ’38. E adesso eravamo nel ’45, l’autunno del ’45. Ma le leggi erano quelle di prima, specialmente nelle zone speciali. I sorveglianti non mi avevano ancora gettato giu dalla monta­ gna. Al cenno del soldato della scorta mi lanciavo verso l’orlo del pendio di ghiaccio e lo discendevo a precipizio, aggrappandomi a rami gelati, spuntoni rocciosi e appigli taglienti. Arrivavo in tem­ po per mettermi nei ranghi e marciare, tra le maledizioni di tutta la squadra perché marciavo male; in realtà, appena un po’ peggio, un po’ piu lentamente degli altri. Ma proprio quell’insignificante divario mi rendeva oggetto della rabbia e dell’esecrazione genera­ le. Sembrava quasi che i compagni odiassero piu me della scorta che li portava al lavoro. Strascicando gli stivali nella neve avanzavo verso il posto do­ ve lavoravamo, mentre il cavallo trainava accanto a noi, riversa sul traliccio, la vittima di turno della fame e delle battiture. Lascia­ vamo passare cavallo e traino e anche noi arrancavamo verso la stessa meta e l’inizio di una giornata di lavoro. Quanto alla fine della giornata di lavoro, non ci pensava nessuno. La fine del lavo­ ro arrivava per conto suo, e in qualche modo non importava a nes­ suno che arrivasse una nuova sera, una nuova notte, un nuovo gior­ no, o non arrivasse affatto. Ogni giorno che passava, il lavoro mi lasciava sempre piu este­ nuato e sentivo che era arrivato il momento di ricorrere a qualche misura speciale. Gusev. Gusev! Gusev mi avrebbe aiutato. Dal giorno precedente lavoravo in coppia con lui, c’era da rior­ dinare una nuova baracca, bruciare scarti e rifiuti, seppellire il re­ sto sottoterra, nel terreno eternamente gelato. Conoscevo Gusev. Avevamo avuto occasione di incontrarci in quello stesso giacimento ed era stato lui ad aiutarmi a trovare un pacco che mi era stato rubato, mi aveva indicato chi dovevo pic­ chiare, io l’avevo fatto insieme a tutta la baracca e il pacco era sal­ tato fuori. A Gusev avevo dato un pezzo di zucchero e un pugno di composta di frutta: non è che per la segnalazione e il ritrova­ mento dovessi poi dar via tutto quanto.

LA CITTÀ SULLA MONTAGNA

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Sì, Gusev era uno di cui potevo fidarmi. La via d ’uscita che avevo trovato era di rompermi un braccio. Mi ero anche dato una picconata sul braccio sinistro ma non ne era venuto fuori nient’altro che qualche livido. O non avevo la for­ za sufficiente per rompere un braccio o dentro di me c’era una sor­ ta di guardiano che mi impediva di assestare il colpo giusto. Che fosse Gusev a farlo. Gusev rifiutò. - Potrei denunciarti. In base alla legge, ti accuserebbero per autolesionismo e ti prenderesti una condanna supplementare di tre anni. Non lo farò, ricordo ancora quella frutta cotta. Ma non chie­ dermi di prendere il piccone, non lo farò. - Perché ? - Perché tu, quando si metteranno a picchiarti dal delegato de­ gli organi, dirai che sono stato io. - Non lo dirò proprio. - Il discorso è chiuso Dovevo cercarmi un lavoro piu che leggero, leggerissimo, e chie­ si al dottor JampoPskij di prendermi con sé al cantiere dell’ospe­ dale. JampoPskij non mi poteva soffrire, ma sapeva che in prece­ denza avevo lavorato come inserviente ospedaliero. Secondo lui non ero adatto. - Vogliamo scherzare? - disse JampoPskij, grattandosi la bar­ betta assira, - è che non hai voglia di lavorare. - Non sono in condizioni. - E viene a dirlo a me, a un medico. «Macché medico», - volevo rispondergli, perché io lo sapevo chi era JampoPskij. Ma «se non ci credi fa’ conto che sia una fa­ vola». Nel lager, ognuno - detenuto o libero, «sgobbone» o capo che sia - è ciò che lui vuol dare a intendere... E di questo si tiene conto sia quanto alla forma che alla sostanza. Certo, il dottor JampoPskij era il capo della sezione sanitaria mentre io ero soltanto uno «sgobbone», e per di piu uno speczonnik eternamente a regime di rigore. - Adesso ti ho capito, - diceva con rabbia il dottore. - Ti in­ segnerò io a stare al mondo. Io tacevo. Quanti uomini nella mia vita mi avevano insegnato a stare al mondo. - Domani te la farò vedere io. Domani capirai con chi hai a che fare... Ma quel domani non arrivò. Di notte, risalendo il torrente, giunsero alla nostra città sulla

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montagna due automezzi, due camion. Ansimando e forzando il motore si arrampicarono fino al portone della zona e cominciaro­ no a scaricare. Negli autocarri c’erano degli uomini vestiti con una bella uniforme straniera. Erano dei rimpatriati. Dall’Italia, unità lavorative dall’Italia. Uomini di Vlasov ? No. Del resto, il termine vlasovcy aveva un suo­ no troppo poco chiaro per noi, vecchi della Kolyma, isolati dal mondo, mentre per i novellini era fin troppo vicino e vivido. Un riflesso di difesa diceva loro: taci! Quanto a noi, l’etica della Koly­ ma non ci consentiva di fare domande. Al giacimento di Dželgala da tempo correva voce che avreb­ bero portato dei rimpatriati. Senza un periodo di pena definito. Le sentenze di condanna li avrebbero seguiti di 11 a poco. Ma gli uomini erano vivi, piu vivi dei dochodjagi della Kolyma. Per i rimpatriati era la fine di un itinerario iniziato in Italia, nei comizi per il ritorno in patria. La Patria vi chiama. La Patria vi perdona. Appena superata la frontiera russa ai vagoni era stata messa una scorta armata. I rimpatriati erano arrivati direttamen­ te alla Kolyma: per separarmi dal dottor JampoLskij, per salvarmi dalla zona speciale. Di quello che avevano portato con sé, ai rimpatriati non era ri­ masto niente tranne la biancheria di seta e l’uniforme militare stra­ niera nuova di zecca. Gli orologi d ’oro, i vestiti e le camicie li ave­ vano scambiati strada facendo con del pane - come avevo fatto an­ ch’io, la strada era lunga e la conoscevo bene. Da Mosca a Vladivostok un convoglio impiegava quarantacinque giorni. Poi il piroscafo Vladivostok-Magadan: cinque giorni e cinque notti, e le interminabili giornate delle tranzitki, carceri e lager di transito, fi­ no al punto di arrivo: Dželgala. Gli autocarri che avevano portato i rimpatriati ripartirono con un nuovo carico: una cinquantina di «detenuti speciali», alla vol­ ta della direzione - verso l’ignoto. Io non ero in quelle liste, ma ci era finito JampoLskij, e non ebbi mai piu occasione di rivederlo. Portarono via anche lo starosta e gli vidi al collo per un’ultima volta la sciarpa che mi aveva procurato tante inquietudini e tor­ menti. I pidocchi naturalmente non c’erano piu, erano stati tutti eliminati con il vapore bollente. Voleva dire che quell’inverno sarebbe toccato ai rimpatriati su­ bire il nostro stesso trattamento: i sorveglianti li avrebbero fatti dondolare sul ciglio della scarpata, buttati giu, legati mani e piedi e trascinati a lavorare agli scavi. Come facevano con noi...

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Era l’inizio di settembre, cominciava l’inverno kolymiano... I rimpatriati furono sottoposti a perquisizione e la cosa creò un certo scompiglio. Gli esperti sorveglianti del lager riportarono al­ la luce qualcosa che aveva superato decine di precedenti perquisi­ zioni, a cominciare dall’Italia: un foglietto, un documento, il ma­ nifesto di Vlasov! Ma la notizia non produsse la minima impres­ sione tra i vecchi della baracca. Di Vlasov e della sua Armata di liberazione nessuno di noi aveva mai sentito niente e adesso, al­ l’improvviso, quel manifesto. - E cosa gli faranno per una cosa del genere ? - chiese uno de­ gli uomini intenti a far abbrustolire il pane sulla stufa. - Non gli faranno proprio niente. Non so se tra loro ci fossero degli ufficiali. Di norma gli uffi­ ciali di Vlasov venivano fucilati e quindi è possibile che fossero ri­ masti soltanto i soldati semplici, tanto più se si considerano certe caratteristiche poco simpatiche della psicologia, della natura russa. Un paio di anni dopo questi fatti ebbi l’occasione di lavorare come infermiere in una zona di prigionieri giapponesi. Li ogni man­ sione - piantone, caposquadra, inserviente ospedaliero - era rico­ perta immancabilmente da un ufficiale e la cosa era considerata del tutto ovvia, anche se i prigionieri giapponesi all’ospedale non indossavano l’uniforme. Da noi invece i rimpatriati si davano un gran da fare a sma­ scherare e denunciare, seguendo esempi da tempo consolidati. - Lavora nella sezione sanitaria ? - S i. - Hanno nominato inserviente Malinovskij. Mi permetto di ri­ ferirle che Malinovskij ha collaborato con i Tedeschi, lavorava nei loro uffici a Bologna. L ’ho visto con i miei occhi. - Non sono affari miei. - E di chi allora ? A chi mi devo rivolgere ? - Non saprei. - Strano. E una camicia di seta può interessare? - Non so. II piantone della baracca si avvicinò tutto contento, finalmen­ te se ne andava, andava via, via dalla zona speciale. - T ’han beccato, caro mio ? Con le divise italiane nel gelo pe­ renne! Ben vi sta. Non dovevate mettervi con i Tedeschi! E allora il novellino disse senza alzare la voce. - Noi almeno l’Italia l’abbiamo vista! E voi? Il piantone si fece scuro in volto e non disse pili niente. La Kolyma non spaventò i rimpatriati.

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- In generale qui non ci dispiace. Si può vivere. C ’è però una cosa che non capisco: perché alla mensa i vostri non mangiano mai la razione di pane; a proposito, queste dvuchsotki e trëchsotki, due­ cento e trecento grammi, significa che le razioni sono in base a quanto uno ha lavorato ? Ci sono delle percentuali ? - Si, ci sono. - Sicché, mangiate zuppa e kaša senza pane e il pane chissà per­ ché ve lo portate nella baracca. Per puro caso, il rimpatriato aveva toccato il problema centra­ le della vita quotidiana alla Kolyma. Non avevo voglia di rispondergli. Altrimenti gli avrei detto: «Tempo un paio di settimane, ognuno di voi farà lo stesso». [1967].

G o r o d n a go re,

in «Kaskad», ottobre-novembre 1989.

L'esame

Se sono sopravvissuto, se sono uscito dall’inferno della Koly­ ma lo devo unicamente al fatto di essere diventato infermiere, di aver ultimato i corsi nel lager e superato l’esame di Stato. Ma an­ cora prima, un dieci mesi prima, c’era stato un altro esame, quel­ lo di ammissione ai corsi, ancora piu importante e particolarmen­ te significativo, per me e per il mio destino. La prova di carico era stata superata senza il cedimento della struttura. La scodella car­ ceraria di zuppa di cavoli ricordava l’ambrosia, o qualcosa del ge­ nere: non è che alla scuola media mi avessero insegnato granché riguardo al cibo degli dèi. Lo stesso discorso vale per la formula chimica del gesso. Il mondo in cui vivono gli dèi e gli uomini è uno solo. Ci sono eventi che minacciano allo stesso modo uomini e dèi. Le formule di Omero sono del tutto giuste. Ma ai tempi di Omero non esi­ steva il criminale mondo sotterraneo, il mondo dei campi di con­ centramento. A confronto di questo mondo criminale il mondo sotterraneo di Plutone è il paradiso, il cielo. Ma anche il nostro mondo di tutti i giorni si trova al piano immediatamente sotto quel­ lo di Plutone; e da li gli uomini possono innalzarsi fino ai cieli e gli dèi possono talvolta scendere, lungo la loro scala, pili in basso dell’inferno. A quei corsi lo Stato aveva ordinato di ammettere solo i bytoviki; tra i «cinquantotto», invece, solo quelli con il punto dieci: «agitazione e propaganda». Io avevo proprio il 58.10 - ero stato condannato durante la guerra per aver detto che Bunin era un classico russo. Però avevo anche alle spalle non una, ma due condanne in base ad altri para­ grafi dell’articolo, incompatibili con una candidatura in piena re­ gola. Conveniva comunque tentare: dopo l’ondata dell’anno ’37, e poi anche la guerra, nei registri carcerari c’era una tale confu­ sione che fare quella scommessa - la cui posta in gioco era la vita - aveva senso.

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Il destino è un burocrate e un formalista. E stato notato che fermare la spada del boia mentre si leva sulla testa del condanna­ to è altrettanto difficile quanto fermare la mano del carceriere che disserra la porta per la libertà. La buona sorte, il colpo gobbo alla roulette, Montecarlo, il simbolo del caso cieco reso poetico da Do­ stoevskij, a un certo punto risultavano essere uno schema scienti­ ficamente conoscibile. L ’ardente volontà di concepire un «siste­ ma» vincente per il casinò aveva trasformato la fortuna in qual­ cosa che poteva essere studiato e compreso, in una realtà scien­ tifica. La fede nella buona sorte - nel limite estremo di questa buona sorte - è accessibile alla comprensione umana? E l’intuito, la cie­ ca libertà animale di scelta, è basato su qualcosa di piu del puro caso? «Finché gira dalla nostra, bisogna lasciarla andare, dire sem­ pre di sf» mi diceva un cuciniere del lager. Ma è qui il punto ? Nel come gira la fortuna ? La disgrazia è inarrestabile. Ma anche la for­ tuna. O meglio ciò che i carcerati chiamano fortuna, la buona stel­ la carceraria. Affidarsi al destino in presenza di un felice vento propizio e ri­ petere per la milionesima volta la navigazione del Kon Tiki' per i mari dell’umanità? 0 fare invece qualcosa di diverso: incunearsi in una fessura del­ la gabbia - non ci sono gabbie senza fessure ! - e scivolare fuori, indietro, nell’oscurità. O ficcarsi in una cassa, che trasportano ver­ so il mare, dove per te non ci sarebbe posto, ma finché non sbro­ glieranno la cosa il formalismo burocratico sarà la tua ancora di salvezza. Tutto questo è una millesima parte dei pensieri che avrebbero potuto venirmi in mente allora, ma che invece non vennero. La condanna era da lasciar tramortiti. Il mio peso vivo era già stato portato alle condizioni necessarie per il decesso. Il periodo istruttorio in un carcere cieco, senza finestre e senza illuminazio­ ne, sottoterra. Un mese a pane e acqua, una caraffa e trecento grammi di pane nero. Del resto ero stato anche in carceri piu duri di quello. Il can­ tiere di lavori stradali di Kadykcan si trovava in una štrafzona, una zona di punizione. Le «zone» di punizione, le «zone speciali», le Auschwitz della Kolyma, i giacimenti auriferi della Kolyma cam­ biano di posto, si trovano in perpetuo e minaccioso movimento,1 1 Nome della zattera con la quale nel 1947 l’etnologo norvegese Thor Heyerdahl, con cinque compagni, attraversò in 101 giorni il Pacifico dal Perù alla Polinesia.

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lasciandosi dietro una scia di fosse comuni e carceri di rigore. Ai cantieri stradali di Kadykcan il carcere di rigore era scavato nella viva roccia, nel gelo perenne. Una notte li dentro equivaleva di so­ lito a una condanna a morte, significava gelarsi senza rimedio. In un carcere come quello neanche otto chili di legna ti avrebbero sal­ vato. Era il carcere di rigore utilizzato dagli addetti dei cantieri stradali. Quelli dei cantieri avevano una loro direzione, loro leggi e metodi, che per esempio non prevedevano l’uso di soldati di scor­ ta. Dopo i cantieri il carcere passò al lager di Arkagala e il capo del settore di Kadykcan, ingegner Kiselëv, potè a sua volta mettere dentro gli indisciplinati «fino al mattino». Il primo esperimento ebbe nel complesso una cattiva riuscita: due uomini, due polmo­ niti, due morti. Il terzo ero stato io. «Svestirlo, con la sola biancheria, carcere di rigore fino al mattino». Ma io ero più esperto di quelli che mi avevano preceduto. Mi dedicai subito alla stufa: accenderla pote­ va sembrare strano poiché le pareti ghiacciate si scongelavano e poi tornavano a ghiacciarsi di nuovo, ghiaccio sulla testa, ghiaccio sotto i piedi. Il pavimento di assi era stato bruciato da tempo. Cam­ minai tutta la notte, la testa affondata nelle spalle e me la cavai con il congelamento di due dita dei piedi. La mia pelle, diventata ancora piu bianca al chiuso, si era scot­ tata al sole di giugno scurendosi in due o tre ore. Mi processaro­ no in giugno - una minuscola stanza nel villaggio di Jagodnoe do­ ve tutti sedevano stretti e vicini - membri del tribunale e soldati della scorta, imputato e testimoni - ed era difficile capire chi fos­ se l’imputato e chi il giudice. E venne fuori che la sentenza invece della morte aveva porta­ to la vita. Il mio delitto comportava, nel corrispondente articolo che lo puniva, un alleggerimento rispetto all’altro articolo che mi aveva condotto alla Kolyma. Mi dolevano tutte le ossa, le ulcerazioni non volevano saperne di rimarginarsi. E soprattutto non sapevo se sarei riuscito a stu­ diare. Poteva anche darsi che le lesioni inferte al mio cervello dal­ la fame, dal freddo, dalle battiture e dagli spintoni, anche se cica­ trizzate, fossero permanenti e che fino alla fine dei miei giorni fos­ si condannato a grugnire come un animale con il muso nella scodella carceraria e a pensare solo alla reclusione. Ma valeva la pena di rischiare; un certo numero di cellule del mio cervello era rimasto intatto e in grado di decidere. Una decisione ferina per un balzo di una belva ferita per raggiungere il regno degli uomini.

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E anche se mi avessero coperto di botte sulla soglia dei corsi e rigettato fuori, dentro il mio scavo, all’odiato badile, al piccone, cosa poteva importare?! Sarei semplicemente rimasto l’animale che ero, ecco tutto. Tutto questo era il mio segretissimo segreto, che era cosi faci­ le custodire: bastava non pensarci. E cosi facevo. L ’automezzo aveva lasciato da tempo la rotabile principale ben spianata e saltellava da una buca all’altra, buche e buche a non fi­ nire, facendomi battere in continuazione contro il bordo del cas­ sone. Dove mi stava portando? Non m’importava dove, non sa­ rebbe stato comunque peggio di quello che mi ero lasciato alle spal­ le, quei nove anni di peregrinazioni carcerarie sballottato tra scavi e ospedali. La ruota della macchina carceraria mi trascinava verso la vita e desideravo ardentemente una cosa sola, che quella ruota non si fermasse mai. Sì, mi accettano in quel lager, mi accompagnano nella zona. Il «piantone» apre il plico dei documenti di accompagnamento e non mi grida: fatti piu in là! Aspetta! Mi fanno fare il bagno, lì devo lasciare la biancheria, un regalo del dottore - nelle mie pe­ regrinazioni per i giacimenti non sempre ero privo di tutto. Un regalo per il viaggio. Biancheria nuova. Qui, in questo lager ospe­ daliero, vigono regole diverse, qui la biancheria è «impersonale», si segue la vecchia moda concentrazionaria. Al posto della robu­ sta biancheria di tela di cotone mi danno degli stracci tutti rat­ toppati. Fa lo stesso. Vanno bene anche gli stracci. Va bene an­ che quella biancheria «impersonale». Ma c’è un pensiero che mi guasta la festa. Nel caso di un «sì» avrei comunque potuto lavar­ mi per bene al bagno successivo, ma nel caso di un «no» potevo anche fare a meno di lavarmi. Ci portano alle baracche, con dei tavolacci a castello a due piani del tipo «vagone ferroviario». Dun­ que, sì, sì, sì... Ma è ancora tutto nel futuro, sommerso da un ma­ re di dicerie. Chi ha il 58.6 non viene accettato. Dopo questa co­ municazione portano via uno di noi, Lunev, che non mi capiterà mai piu di incontrare. Con il 58.1 - ah! - niente da fare. Con il Krtd neanche a par­ larne. E persino peggio del tradimento della patria. E il Kra? Il «K ra» è la stessa cosa del 58.10. Quelli con il Kra li accettano. E l’«A sa»? Chi ha l’Asa? Io - dice un tale con una faccia car­ ceraria pallida e sporca, quello insieme al quale ero stato sballot­ tato per tutto il viaggio fino a qui. Asa è la stessa cosa del Kra. E il Krd? Il Krd, certo, non era

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come il Krtd, ma neppure come il Kra. Ai corsi i Krd non li pren­ dono. Meglio di tutto è un bel 58.10 pulito senza sostituti cifrati in lettere. Il 58.7 è il sabotaggio. Non ne accettano. Il 58.8 è il terrori­ smo. Non ne accettano. Io ho il 58.10. E resto nella baracca ad aspettare. La commissione che seleziona i candidati ai corsi per infermieri presso l’Ospedale centrale per detenuti mi ammette infine alle pro­ ve. Le prove? SI, gli esami. Gli esami di ammissione. E cosa cre­ devate? I corsi sono un’istituzione seria, che rilascia attestati. I corsi devono sapere con chi hanno a che fare. Niente paura. Per ogni materia, un voto: lingua russa - orale e scritto, matematica - prova scritta, e chimica. I medici dell’ospe­ dale, gli insegnanti dei corsi terranno dei colloqui preparatori con i candidati ai corsi. Prova di dettato. Da dieci anni non mi si di­ stende la mano, piegata per sempre sulla misura del manico del ba­ dile e si raddrizza solo con uno scricchiolio, solo con dolore, solo nel bagno, tenendola a mollo nell’acqua calda. Raddrizzai le dita forzandole con il palmo della mano sinistra, ci sistemai in mezzo la penna, intinsi la penna nel calamaio di si­ curezza e con mano tremante, sudando freddo, scrissi quel male­ detto dettato. Dio mio! L ’ultimo esame di lingua russa l’avevo sostenuto nel ’26 vent’anni prima - per l’ammissione all’università di Mosca. Su un tema «libero» avevo realizzato il duecento per cento ed ero stato dispensato dalle prove orali. Sul dettato di oggi non era prevista una succesiva prova orale. A maggior ragione! A maggior ragione dovevo stare attento: era Turgenev o Babaevskif ? Per me faceva decisamente lo stesso. Non era un testo difficile... Controllai le virgole, i punti. Dopo la parola «mastodonte» un punto e virgola. Si trattava evidentemente di Turgenev. In Babaevskij non pote­ vano esserci mastodonti di sorta. E neanche punti e virgola. «Volevo dare un testo di Dostoevskij o di Tolstoj, ma ho avu­ to paura di essere accusato di propaganda controrivoluzionaria», mi avrebbe poi raccontato uno degli esaminatori, l’infermiere Borskij. Tutti quanti - professori e insegnanti - non fidandosi granché delle proprie cognizioni rifiutarono concordemente di tenere i col-2 2 Semën Babaevskij (1909), autore di romanzi sulla ricostruzione postbellica dell’eco­ nomia rurale dai toni propagandistici e rosei, premiatissimi e pubblicati in milioni di co­ pie; a partire dagli anni Sessanta cominciarono ad essere criticati per la «mancanza di con­ flittualità».

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loqui previsti per la lingua russa. L ’indomani l’esito. Un cinque. L ’unico voto massimo: in generale il dettato era stato un disastro. I colloqui di matematica mi causarono non pochi spaventi. I problemi che bisognava risolvere furono risolti a furia di intuizio­ ni, di lampi improvvisi, accompagnati da un tremendo mal di te­ sta. Ma furono comunque risolti. Quei colloqui preliminari, che in un primo momento mi ave­ vano spaventato, finirono per tranquillizzarmi. E aspettavo con impazienza l’ultimo esame, o meglio l’ultimo colloquio: chimica. Di chimica non sapevo niente e pensavo che i compagni mi avreb­ bero raccontato qualcosa. Ma nessuno si preoccupava degli altri, ognuno badava solo a mandare a mente quello che serviva a lui. Nel lager non si usa aiutare gli altri e quindi non me la presi; aspet­ tavo semplicemente il colloquio con l’insegnante per conoscere la mia sorte. Titolare dell’insegnamento di chimica ai corsi era il membro dell’Accademia ucraina delle scienze Bojčenko - con­ danna a venticinque anni più cinque. Bojčenko era anche nella commissione d’esame. Alla fine della giornata, quando venne annunciata la prova di chimica, ci dissero che Bojčenko non avrebbe tenuto nessun col­ loquio preliminare. Non lo riteneva necessario. Per farsi un’idea gli bastava la prova. Per me era una catastrofe. Non avevo mai studiato chimica. Quando avevo fatto io la media c’era la guerra civile e il nostro in­ segnante di chimica, Sokolov, era stato fucilato. In quella notte d’inverno restai lungamente disteso con gli oc­ chi aperti nella baracca dei corsisti, ricordando la Vologda della guerra civile. Sul tavolaccio sopra al mio c’era Suvorov, anche lui come me arrivato li per l’esame da una lontana direzione minera­ ria e sofferente di incontinenza. Non avevo voglia di litigare. E temevo anche che mi proponesse di scambiarci di posto per poi magari cominciare a lamentarsi lui per qualcosa che non andava. Mi limitai a voltare la faccia da quello schifoso gocciolio. Sono nato a Vologda dove ho trascorso anche l’infanzia. Que­ sta città del Nord è una città fuori del comune. In essa, nel corso dei secoli si è stratificata la deportazione zarista: nel corso di sva­ riate generazioni, protestatari, ribelli, critici di vario genere vi han­ no determinato un clima morale particolare, di un livello superio­ re rispetto a qualsiasi altra città della Russia. Qui le esigenze mo­ rali e culturali erano parecchio più elevate che altrove. I giovani seguivano con entusiasmo certi vivi esempi di generosità e abne­ gazione che avevano sotto gli occhi.

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E ho sempre considerato con meraviglia il fatto che Vologda è l’unica città della Russia in cui non c’è mai stata una rivolta con­ tro il potere sovietico. Rivolte del genere sconvolsero tutto il Nord: Murmansk, Archangel'sk, Jaroslavl', Kotlas. Anche nei territori ai confini settentrionali divamparono le rivolte: fin su nella Cukotka, fino all’Ola, per non parlare del Sud, dove ogni città eb­ be a sperimentare, e non una volta sola, gli avvicendamenti delle autorità. E solo Vologda, la nevosa Vologda, la Vologda dei deportati taceva. E io sapevo perché... C ’era una spiegazione. Nel 1918 era arrivato a Vologda il capo del Fronte settentrio­ nale M. S. Kedrov3. Il primo ordine che impartì per il rafforza­ mento del fronte e delle retrovie fu la fucilazione degli ostaggi. Vennero cosi fucilate duecento persone, in una città come Volog­ da, che contava sedicimila abitanti. Kedrov era precisamente il Sigalév4profetizzato da Dostoev­ skij. L ’operazione era talmente inconsueta anche per quei tempi san­ guinari che da Mosca chiesero spiegazioni. Kedrov non batté ci­ glio. Mise sul tavolo niente di meno che un messaggio personale di Lenin. L ’appunto è stato poi pubblicato nella «Rivista storica militare» all’inizio degli anni Sessanta o forse un po’ prima. Ecco il suo testo approssimativo: «Caro Michail Stepanovič. Lei è can­ didato a un posto di grande importanza per la nostra Repubblica. Le chiedo di non dar prova di debolezza. Lenin». In seguito Kedrov lavorò per parecchi anni alla Včk-Mvd, sem­ pre smascherando e denunciando questo e quello, pedinando, con­ trollando e sterminando i nemici della rivoluzione. In Ežov, Ke­ drov vide qualcosa di piu del narkotn, il commissario del popolo leniniano, riconobbe in lui il commissario staliniano. Ma Berija, che era subentrato a Ežov, a Kedrov non piacque. E Kedrov or­ dinò che Berija venisse sorvegliato... Poi decise di portare i risul­ tati della sorveglianza a conoscenza dello stesso Stalin. Intanto si era fatto grande il figlio di Kedrov, Igor', che lavorava all’Mvd. Si misero d ’accordo che il figlio avrebbe presentato un rapporto sulla direzione del ministero dove lavorava e che se in seguito a 3 Michail Kedrov (1878-1941), dopo gli incarichi militari, fu negli anni 1919-20 ai ver­ tici della Ceka (presidente della Sezione speciale) e delTNkvd. 4 Personaggio del romanzo I dem ò n i (1872); nella conventicola di nichilisti-terroristi è quello che propugna il progetto rivoluzionario piu estremo per un futuro «assetto sociale»: «l’illimitato dispotismo» di «un decimo» dell’umanità sui restanti «nove decimi» ridotti a mandria obbediente da condurre verso il «paradiso in terra».

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ciò l’avessero arrestato, il padre avrebbe informato Stalin che Berija era un nemico. Kedrov riteneva che le sue entrature lo met­ tessero al sicuro. Il figlio fece il suo rapporto di servizio, venne arrestato e fuci­ lato. Il padre scrisse una lettera a Stalin, venne arrestato a sua vol­ ta e sottoposto a interrogatorio. L ’interrogatorio venne condotto personalmente da Berija che spezzò a Kedrov la spina dorsale con una sbarra. Stalin aveva semplicemente mostrato a Berija la lettera di Ke­ drov. Kedrov scrisse una seconda lettera a Stalin a proposito della propria schiena rotta, e dei metodi di Berija. Dopo di che Berija ficcò una pallottola in testa a Kedrov nella sua cella. Stalin aveva mostrato a Berija anche la seconda lettera. Venne ritrovata insieme alla prima nella cassaforte personale di Stalin dopo la sua morte. Al X X Congresso Chruscëv parlò del tutto apertamente di en­ trambe le lettere, del loro contenuto e delle circostanze di quella corrispondenza «al massimo livello». E il biografo di Kedrov con­ fermò tutto quanto nel suo libro. Non so dire se, prima della morte, Kedrov si sia ricordato o meno degli ostaggi fatti fucilare a Vologda. Il nostro insegnante di chimica di allora, Sokolov era uno di quegli ostaggi e venne fucilato insieme a tutti gli altri. Ecco il mo­ tivo per il quale non avevo mai studiato la chimica. Non conosce­ vo la scienza del signor Bojčenko, che non aveva trovato il tempo per una consultazione preliminare. Insomma, tornare da dove ero venuto, al fronte di scavo, e con­ tinuare a essere una non-persona. Piano piano mi si accumulava dentro, pulsando nelle tempie, la mia antica rabbia e già non ave­ vo piu paura di niente. Doveva comunque succedere qualcosa. Il periodo fortunato è altrettanto ineluttabile del periodo di sfortu­ na nera, come sa ogni giocatore di carte, che giochi a terc o rams o all’očko... La posta era molto alta. Chiedere ai compagni un manuale? Di manuali non ce Aera­ no. Chiedere che mi raccontassero almeno quattro cose «chimi­ che»? Ma che diritto avevo di far perdere del tempo prezioso ai miei compagni? Una valanga di improperi: ecco l’unica risposta che potevo rimediare. Restava solo da concentrarsi, raccogliersi e aspettare. Quante volte avvenimenti d’ordine superiore erano entrati in modo imperioso e fatale nella mia vita, dettando comportamenti, salvando, allontanando oppure infliggendo ferite, immeritate, inat­

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tese... A questo esame, a queste fucilazioni di un quarto di secolo prima era collegato un importante tema della mia vita. Fui uno dei primi ad affrontare l’esame. Un Bojčenko sorri­ dente, straordinariamente ben disposto nei miei riguardi. E in ef­ fetti colui che gli stava davanti, anche se non era un luminare del­ l’Accademia ucraina delle scienze e neanche un dottore in scienze chimiche, sembrava uno che almeno sapeva leggere e scrivere, un giornalista, due cinque nelle altre prove. Vestito piuttosto pove­ ramente, certo, e di aspetto macilento, sicuramente uno scansafa­ tiche, un simulatore. Bojčenko non era ancora stato piu in là del ventitreeismo chilometro da Magadan, dal livello del mare. Quel­ lo era il suo primo inverno alla Kolyma. Per quanto poltrone fos­ se il tale che gli stava davanti, bisognava aiutarlo. Il libro dei verbali - domande, risposte - era appoggiato sul ta­ volo davanti a Bojčenko. - Beh, spero che con lei ce la sbrigheremo in fretta. Mi scriva la formula del gesso. - Non la so. Bojčenko restò di sasso. Colui che gli stava davanti era un im­ pudente, uno che non ne voleva sapere di studiare. - E la formula della calce ? - Non so neanche quella. Entrambi eravamo infuriati. Il primo a riprendersi fu Bojčenko. Certo, dietro quelle risposte si celava qualche mistero che lui non voleva o non era in grado di capire, ma si trattava probabilmente di un mistero meritevole di rispetto. In fondo lo avevano anche avvertito: un candidato promettente, non sia troppo severo. - Secondo la legge, ti devo porre tre domande, - Bojčenko era ormai passato al «tu», - tre domande da mettere a verbale. Te ne ho già fatte due. Adesso la terza: il sistema periodico degli ele­ menti di Mendeleev. Restai in silenzio, richiamando al cervello, alla laringe, alla lin­ gua e alle labbra tutto quello che potevo sapere sul sistema perio­ dico degli elementi. Certo, sapevo che il poeta Blok aveva sposa­ to la figlia di Mendeleev e avrei potuto raccontare tutti i dettagli di questa strana relazione. Ma non era certo quello che serviva al dottore in scienze chimiche. Sotto il suo sguardo disgustato bor­ bottai alla meno peggio qualcosa che aveva una vaga attinenza con il sistema periodico degli elementi. Bojčenko mi mise un tre, era comunque la sufficienza, e io so­ pravvissi, uscii dall’inferno. Avrei terminato i corsi, e finito di scontare la pena, avrei potuto vedere l’ora della morte di Stalin e quella del mio ritorno a Mosca.

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LA RESURREZIONE DEL LARICE

Con Bojčenko non approfondii la conoscenza e non entrai in discorsi. Durante i corsi Bojčenko sembrava non potermi soffrire e riteneva che le mie risposte di allora all’esame fossero un’offesa personale a un eminente rappresentante della scienza. Bojčenko non seppe mai nulla del destino del mio insegnante di chimica, di quell’ostaggio fucilato a Vologda. Quelli che seguirono furono otto mesi di felicità, di ininter­ rotta felicità, di avido assorbimento, di impregnamento di nozio­ ni e cognizioni, dove per ogni corsista il voto equivaleva alla vita, e gli insegnanti, che mostravano di essere al corrente della situa­ zione - tutti tranne uno, Bojčenko - elargivano al popolo etero­ geneo e irriconoscente dei detenuti tutto il loro sapere, tutta la lo­ ro competenza, acquisita lavorando a livelli certo non inferiori a quello di Bojčenko. L ’esame di ammissione alla vita era stato superato, l’esame di Stato anche. Tutti noi ricevemmo il diritto a curare, a vivere, a sperare. Io fui mandato come infermiere -nel reparto chirurgia di un grande ospedale per detenuti, dove curavo, lavoravo, vivevo, mi trasformavo - molto lentamente - in un uomo. Trascorse quasi un anno. Improvvisamente fui invitato a presentarmi presso il direttore dell’ospedale, il dottor Doktor, ex funzionario di un Politotdel organo di indirizzo politico presso le direzioni dei lager -, che ave­ va consacrato tutta la sua vita nella Kolyma a fiutare le tracce, sma­ scherare, esercitare la vigilanza, perquisire, denunciare e perse­ guitare i detenuti condannati per reati politici. - Detenuto infermiere tal dei tali, mi ha mandato a chiamare... Il dottor Doktor aveva capelli chiarissimi tendenti al rossiccio e portava dei favoriti alla Puškin. Era seduto dietro la sua scriva­ nia e sfogliava il mio fascicolo personale. - Raccontami un po’, come ci sei capitato ai corsi? - Come ci capita un detenuto ai corsi, compagno capo ? Lo con­ vocano, prendono il suo fascicolo personale, danno il fascicolo al­ la scorta, lo fanno salire su un automezzo e lo portano a Magadan. E in quale altro modo, compagno capo? - Togliti di torno, - disse il dottor Doktor, sbiancando per la collera. [1966]. Ekzatnen, in «Volga», 1989, n. 7.

In viaggio per la lettera

Il radiotelegrafista, mezzo ubriaco, spalancò la mia porta. - C ’è un messaggio per te dalla direzione, passa a trovarmi. E scomparve nella foschia nevosa. Scostai dalla stufa le piccole carcasse delle lepri che mi ero por­ tato a casa dal viaggio: quell’anno c’era grande abbondanza di le­ pri, non facevi quasi a tempo a tendere i lacci, e il tetto della ba­ racca era già coperta per metà di corpicini di lepri, lepri congela­ te... Poiché non c’era comunque modo di venderle, quel regalo dieci piccole lepri - non era troppo impegnativo, non andava con­ traccambiato, pagato. Avevo cominciato a scongelarle ma adesso avevo altro a cui pensare. Un messaggio dalla direzione - telegramma, radiogramma, te­ lefonogramma a mio nome - era il primo telegramma in quindici anni. Sconvolgente, preoccupante, come in campagna, dove ogni telegramma è qualcosa di tragico, collegato alla morte. Una con­ vocazione per un rilascio anticipato non poteva essere, non erano cose che facessero con particolare urgenza, e poi ero già stato ri­ messo in libertà e da un bel po’ di tempo. Andai dal radiotelegra­ fista nel suo fortino, una stazione con tanto di feritoie e tripla pa­ lizzata, tripli cancelletti chiusi da lucchetti e chiavistelli, che la moglie del telegrafista apri davanti a me e che io superai uno do­ po l’altro avvicinandomi all’abitazione del padrone di casa. Un’ul­ tima porta, ed entrai in uno strepito d’ali, nella puzza di sterco di pollame, facendomi strada tra galline che starnazzavano e galli che cantavano, curvandomi, proteggendomi il volto, superai un’altra soglia, ma il telegrafista non era neppure li. C ’erano soltanto dei maiali, lindi e ben curati, tre maialetti piccoli con la madre, più grossa... Era l’ultimo ostacolo. Il telegrafista sedeva circondato da cassette piene di pianticel­ le da trapianto di cetriolo e porro. Era infatti seriamente inten­ zionato a diventare milionario. Alla Kolyma si diventa ricchi an­ che in questo modo. Il «rublo pesante» - stipendi elevati, inden­

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nità di «zona polare», computo di percentuali - è una prima stra­ da possibile. Il commercio di tè e tabacco la seconda. L ’alleva­ mento di pollame e maiali la terza. Costretto da tutta la sua fàuna e flora all’estremità del tavolo, il radiotelegrafista mi tese una pi­ la di foglietti - tutti uguali - come a un pappagallo che dovesse ti­ rar fuori dal mazzo il biglietto della buona sorte. Frugai tra i telegrammi, ma non venni a capo di nulla, non riu­ scii a trovare il mio; il radiotelegrafista con aria di condiscenden­ za estrasse infine con la punta delle dita il telegramma che mi ri­ guardava. «Presentarsi lettera», vale a dire presentarsi per ritirare una lettera: il servizio postale faceva economia sul significato, ma il de­ stinatario, naturalmente, capi di cosa si trattava. Andai dal capo dell’amministrazione distrettuale e gli mostrai il telegramma. - Quanti chilometri sono ? - Cinquecento. - Beh, perché no... - Me la caverò in cinque giorni. - D ’accordo. Ma sbrigati. Non stare ad aspettare un automez­ zo. Domani gli Jakuti ti daranno uno strappo con i cani fino a Baragon. E li, se non starai troppo a lesinare, ti prenderà su il tiro di renne, quello postale. L ’importante per te è raggiungere la rotabi­ le principale. - Bene, grazie. Non appena uscito mi resi conto che non sarei mai arrivato a quella maledetta rotabile, che non sarei arrivato neanche fino a Baragon perché non avevo un pellicciotto. Ero alla Kolyma e non avevo un pellicciotto. Ed era solo colpa mia. Un anno prima, quan­ do ero stato liberato dal lager, il magazziniere Sergej Ivanovič Ko­ rotkov mi aveva regalato un pellicciotto bianco quasi nuovo. Mi aveva anche regalato un grande cuscino. Ma siccome stavo cer­ cando di chiudere con gli ospedali e di tornarmene sul «continen­ te», alla fine avevo venduto pellicciotto e cuscino, semplicemen­ te per non avere cose superflue che finiscono sempre allo stesso modo: rubate o requisite a viva forza dai malavitosi. Cosi avevo pensato bene di fare allora. Comunque non ero poi riuscito a par­ tire: l’ufficio personale e l’Mvd di Magadan non mi avevano con­ cesso il nulla osta e, una volta rimasto a secco di soldi, avevo do­ vuto tornare a lavorare per il Dal'stroj. E cosi avevo ripreso servi­ zio ed ero finito li dove c’era il radiotelegrafista, e le sue galline svolazzanti, ma un pellicciotto non ero riuscito a procurarmelo.

IN VIAGGIO PER LA LETTERA

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Chiederlo in prestito a qualcuno per cinque giorni ? Da queste par­ ti, a una richiesta del genere ti ridono solo in faccia. Non mi re­ stava altro da fare che comprarmi un pellicciotto al villaggio. Un pellicciotto lo trovai, e anche qualcuno disposto a vender­ melo. Solo che il pellicciotto - nero, con un bellissimo collo di mon­ tone - aveva piu della giubba che del pellicciotto. Era privo di ta­ sche, tagliato corto in basso, praticamente il collo e due ampie ma­ niche. - Ma cosa ci hai fatto, hai tagliato le falde ? - chiesi al vendi­ tore, il sorvegliante del lager Ivanov. Ivanov era scapolo, tetro. Le falde le aveva tagliate via per farne delle manopole, del tipo a brac­ ciale, in voga allora: da quel mezzo pellicciotto erano venute fuo­ ri cinque paia di manopole e ogni paio valeva quanto l’intero pel­ licciotto. Certo, quello che ne era rimasto non poteva piu essere definito propriamente un pellicciotto. - E per te non fa lo stesso ? Io vendo questo pellicciotto. Per cinquecento rubli. E tu lo comperi. Se ho tagliato le falde o meno non è una questione che ti riguardi. E in effetti la questione non mi riguardava e io mi affrettai a pagare Ivanov e portai a casa il pellicciotto, lo provai e mi misi ad aspettare la notte. Il tiro di cani, il rapido sguardo dei neri occhi dello jakuto, le dita intorpidite con le quali mi tenevo aggrappato alla slitta, il vo­ lo e, dopo una curva, il piccolo corso d ’acqua, il ghiaccio e i ce­ spugli che mi sferzavano dolorosamente il volto. Ma ho legato per bene ogni cosa e stretto i nodi. Dieci minuti di volo ed ecco il vil­ laggio di posta dove... - Cosa dice, Marija Antonovna, me lo daranno un passaggio ? - Glielo daranno, vedrà. Era stato qui che l’anno prima, d ’estate, si era perso un picco­ lo jakuto, un bambino di cinque anni, e io e Marija Antonovna sta­ vamo già per intraprenderne la ricerca. Ci aveva fermato la ma­ dre. Fumava la pipa, fumò a lungo, poi puntò i suoi occhi neri su me e Marija Antonovna. - Non c’è bisogno di cercarlo. Verrà da solo. Non si perderà. Questa è la sua terra. Ed ecco il tiro di renne - i sonagli, la slitta, il bastone del con­ ducente. Solo che questo bastone si chiama cborej e non ostol co­ me quello per i cani. Marija Antonovna si annoia a tal punto da accompagnare ogni viaggiatore di passaggio per un lungo tratto: fin oltre i «confini» del villaggio, sempre che di confini si possa parlare nella tajga.

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- Addio, Marija Antonovna. Corro di fianco alla slitta, ma piu che altro cerco di sedermi, ci riesco, mi aggrappo, cado, mi rimetto a correre. Verso sera ecco le luci della grande rotabile, il frastuono dei rombanti automezzi che sfrecciano nel buio caliginoso. Saldo il conto con gli Jakuti, mi avvicino al locale riscaldato della stazione di servizio. La stufa è spenta, manca la legna. E co­ munque un tetto con quattro muri. C ’è già la fila per un mezzo che porti al capoluogo, a Magadan. La fila non è molto lunga: una persona sola. Romba un automezzo e l’uomo esce di corsa nel buio. Un altro rombo. L ’uomo è partito. Adesso è il mio turno di cor­ rere fuori nel gelo. L ’autocarro da cinque tonnellate vibra tutto, si è appena fer­ mato per me. Nella cabina il posto è libero. Viaggiare di sopra, nel cassone, non è possibile per una distanza come quella e un tale freddo. - Dove vai ? - Sulla riva sinistra. - Non ti prendo. Porto del carbone a Magadan e se è solo fino alla riva sinistra non mi conviene farti montare. - Ti pagherò come se andassi a Magadan. - Allora è tutta un’altra faccenda. Sali. La tariffa la conosci? - Si. Un rublo a chilometro. - Pagamento anticipato. Tirai fuori i soldi e pagai. L ’autocarro si immerse nella bianca foschia e diminuì la velo­ cità. Non si poteva proseguire: la nebbia. - Ci facciamo una dormita, eh? AlYEvraska. Cos’è l’Evraška? Una marmotta. Alla locanda «Marmotta». Ci raggomitolammo nella cabina, con il motore acceso. Ce ne stemmo cosi sdraiati finché non fece giorno e la bianca foschia in­ vernale non ci sembrò piu cosi spaventosa come la sera prima. - Adesso quello che ci vuole è un č if i r , poi si parte. L ’autista mise a bollire un intero pacchetto di tè in una caraf­ fa ricavata da un barattolo di conserva, lo fece raffreddare nella neve e lo bevve. Lo fece bollire una seconda volta, bevve di nuo­ vo e ripose la caraffa. - Si parte ! E tu di dove sei ? Glielo dissi. - Ci sono stato da voi. Ho perfino lavorato come autista nel vostro distretto. Nel vostro lager c’è un mascalzone che te lo rac­ comando: Ivanov, un sorvegliante. Mi ha rubato la pelliccia. Me

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l’aveva chiesta per arrivare al lager - l’anno scorso ne ha fatto di freddo - e chi s’è visto s’è visto. Sparito senza tracce. E non me l’ha più restituita. Gliel’ho fatta chiedere da certe persone. Lui di­ ce: non ho preso nessuna pelliccia, punto e basta. Ma un giorno o l’altro mi decido e vado a riprendermela. Una cosi bella pelliccia, nera, ricca. Cosa se ne fa? A meno che non intenda tagliarla per farne delle manopole e rivenderle. Ê proprio la moda di adesso. Avrei potuto farlo anch’io, e invece mi ritrovo senza manopole, senza pelliccia e senza Ivanov. Mi girai dall’altra parte, tormentando il collo del mio pellic­ ciotto. - Guarda, era proprio nera come la tua. Bastardo. Beh, abbia­ mo dormito, adesso bisogna darci dentro a tutto gas. L ’autocarro si lanciò rombando e ruggendo in curva: il cifìr' aveva rimesso in sesto il conducente. Chilometro dopo chilometro, ponte dopo ponte, giacimento dopo giacimento. Ormai era giorno. Autocarri che si sorpassava­ no, autocarri che si incrociavano. All’improvviso si senti un gran fracasso, tutto crollò e il nostro camion accostò fermandosi sul bor­ do della strada. - Tutto alla malora! - urlava agitatissimo il conducente. - Al­ la malora il carbone! Alla malora la cabina! Alla malora la sponda del cassone! Alla malora cinque tonnellate di carbone! Lui non si era fatto neppure un graffio e io ci misi un po’ di tempo a capire cos’era successo. Il nostro automezzo era stato urtato da un Tatra cecoslovacco proveniente dalla direzione opposta. Il suo cassone non aveva ri­ portato nessun danno. Gli autisti avevano frenato ed erano scesi dai mezzi. - Fa’ un calcolo veloce, - gridava il conducente del Tatra, - di quanto può essere il danno, il carbone, la sponda nuova. Paghia­ mo tutto. Ma senza verbale, hai capito? - Va bene, - disse il mio conducente. - Saranno... - D ’accordo. - E io? - Ti sistemerò su un camion che va nella stessa direzione. Ci saranno una quarantina di chilometri ancora, ti ci porteranno. Fammi questo favore. Quaranta chilometri sono un’ora di viaggio. Accettai, salii nel cassone del primo autocarro di passaggio e salutai con la mano il conoscente del sorvegliante Ivanov. Prima che finissi di congelarmi del tutto, il camion iniziò a fre­ nare: il ponte. La riva sinistra. Scesi.

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Dovevo trovare un posto dove pernottare. Li dove mi aspetta­ va la lettera non potevo. Entrai nell’ospedale dove avevo lavorato un tempo. In quel­ l’ospedale per detenuti gli estranei non erano ammessi e io ci en­ trai con l’intenzione di restare un solo minuto, giusto il tempo per riscaldarmi un po’. Passò un infermiere che conoscevo, un sala­ riato libero, e gli chiesi un posto per la notte. Il giorno dopo bussai alla porta di un appartamento, entrai e mi misero tra le mani una lettera scritta con una grafia che cono­ scevo bene: impetuosa, volante e allo stesso tempo chiara e leggi­ bile. Era una lettera di Pasternak1. 1966.

Z a p is'm o tn ,

in «Znamja», 1989, n. 6.1

1 Nel racconto è descritto il viaggio di 1500 chilometri che l’Autore fece nel 1952 per ritirare una lettera di Boris Pasternak, Il 22 marzo, dall’Ospedale centrale di Debin, Salamov aveva inviato due suoi quaderni di poesie a Pasternak e questi aveva risposto il 9 lu­ glio con una lunga lettera «piena di calore, bontà, delicatezza» (come scrisse poi Salamov).

L a m e d a g lia d ’ oro'

All’inizio ci furono le esplosioni. Ma ancora prima delle esplo­ sioni, prima dell’isola Aptekarskij, dove saltò per aria la residen­ za di campagna di Stolypin2, c’era stato il ginnasio femminile di Rjazan', la medaglia d’oro. Per gli eccellenti voti in profitto e con­ dotta. Cerco i vicoli. Leningrado, la città-museo, conserva i tratti di Pietroburgo. Troverò la dacia di Stolypin sull’isola Aptekarskij, il vicolo Fonarnyj, la via Morskaja, corso Zagorodnyj. Farò un salto al bastione Trubeckoj della fortezza dei Santi Pietro e Paolo, do­ ve ci fu il processo e la sentenza, che conosco a memoria e una co­ pia della quale, con il sigillo di piombo dell’Ufficio notarile di Mo­ sca, ho tenuto recentemente tra le mani. 1 V. T. Salamov scrisse il racconto L a m edaglia d ’o ro in modo per lui inusuale: racco­ gliendo materiali, analizzando documenti e lettere di NataTja Sergeevna Klimova (18851918), la protagonista del racconto, una rivoluzionaria russa. L ’altra protagonista è la fi­ glia, NataTja Ivanovna Stoljarova (1912-84), traduttrice, donna di elevate qualità morali che, in circostanze storiche diverse, ha dato prova di un eroismo non inferiore a quello del­ la madre quando preparava l’attentato sull’isola Aptekarskij. Nel 1966 V. T. Salamov scriveva a N. I. Stoljarova: «H o avuto bisogno di un gran­ dissimo coraggio per proporLe di scrivere un racconto su Sua madre - “Il racconto dei no­ stri padri” . E non perché non lo senta vicino. Al contrario è l’unico tema che mi stia ve­ ramente a cuore fin da quando ero giovane, addirittura dalla piu tenera età. L ’eroe fisico, le persone fisiche sono le stesse per lei e per me. Sokolov-“Orso” ha sempre attirato la mia attenzione, fin da quando ero piccolo. E ri­ cordo ancora adesso quelle righe del romanzo di Savinkov: “ ... Quindi Volodja vide un ca­ vallo alto, un morello e il volto inquieto di Elizar: e poi cominciarono a dondolare le so­ spensioni e i fanali a balenare uno dopo l’altro, e anche le case. E solo sul Nevskij Prospekt, dove il trottatore, frustato da Elizar, rallentò schiumante la folle corsa, Volodja capi che Elizar gli aveva salvato la vita...” Non che sia una gran prosa, o che abbia una particolare poeticità. Ma nella vita di ogni uomo c’è un libro che egli sente particolarmente suo e im­ portante proprio per la vita. E per me questo libro è C iò ch e non è stato di Savinkov [...] Non voglio scrivere una biografia ma un racconto a modo mio, secondo la mia solita ma­ niera [...] Scriverò un racconto per me stesso, sulla grande continuità, su quei Buddha vi­ venti di cui si nutre la Terra, sui rapporti personali tra le generazioni, sugli eroi senza no­ me [...]» [Nota all’edizione russa]. 2 Pëtr Stolypin (1862-1911), governatore di Grodno e poi di Saratov, ministro degli Interni e poi presidente del Consiglio (1906) fu inviso sia ai conservatori sia ai nichilisti ri­ voluzionari; subì ad opera di questi diversi attentati, restando infine ferito a morte in un teatro di Kiev da M. Bogrov.

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«Nell’agosto 1906, facendo parte di un’associazione a delin­ quere, autodenominatasi organizzazione combattente dei sociali­ sti-rivoluzionari massimalisti3, e che notoriamente si erano prefis­ si quale scopo della loro attività il cambiamento violento della for­ ma fondamentale di governo stabilita dalla legge...» «... si configura necessariamente come complice nell’attentato alla vita del ministro degli Affari interni mediante l’esplosione del­ la dacia da lui abitata sull’isola Aptekarskij per motivi inerenti al compimento dei doveri del suo ufficio...» I giudici hanno altro a cui pensare che alla grammatica. Le pec­ che letterarie di sentenze del genere possono balzare all’occhio di lf a cinquant’anni, non prima. «Natalija Sergeevna Klimova, 21 anni, nobile, e Nadežda An­ dreevna Terent'eva, 25 anni, figlia di mercante... sono condan­ nate alla pena di morte mediante impiccagione con le conseguen­ ze stabilite dall’art. 28». Che cosa intenda il tribunale per «conseguenze dell’impicca­ gione» è noto solo agli esperti, ai giuristi. Klimova e Terent'eva non vennero giustiziate. II presidente della corte distrettuale ricevette nel corso dell’i­ struttoria una lettera dal padre della Klimova, un avvocato di Rjazan'. Lo scritto ha un tono strano, dissimile sia dalla supplica che dalla perorazione, è piuttosto qualcosa come un diario intimo, una conversazione con se stesso. «... Dovrà apparirvi senz’altro fondata la mia opinione che nel caso in questione abbiate a che fare con una ragazza ^ventata, in­ fatuata dall’epoca rivoluzionaria in cui viviamo. [...] È sempre sta­ ta una brava ragazza, dolce, buona, ma propensa a entusiasmarsi. Non piu di un anno e mezzo fa si è entusiasmata per l’insegna­ mento di Tolstoj che predica “non uccidere” come il comanda­ mento piu importante. Per un paio d ’anni ha vissuto da vegeta­ riana e si è comportata come una semplice operaia, non permet­ tendo alla domestica di aiutarla a lavare la biancheria, né a ras­ settare la stanza o lavare i pavimenti, e ora all’improvviso ha par­ tecipato a un terribile assassinio, il cui motivo consisterebbe nel­ l’inadeguatezza rispetto alle condizioni attuali della politica del si­ gnor Stolypin. [...] Ho l’ardire di assicurarvi che mia figlia di po­ litica non capisce assolutamente niente, ella, con tutta evidenza, è stata una marionetta nelle mani di persone piu forti dalle quali la politica del signor Stolypin viene appunto considerata in somGli

esery

(si veda la nota io a p. 301).

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mo grado dannosa e pregiudizievole. [...] Mi sono sempre sforza­ to di inculcare delle opinioni corrette nei miei figli, ma in un tem­ po, devo riconoscerlo, così caotico, l’influenza dei genitori non ha nessun peso. La nostra gioventù è cagione di grandi sciagure e sof­ ferenze per le persone prossime e tra esse i genitori...» L ’argomentazione è originale. Le osservazioni incidentali stra­ ne. Il tono stesso della lettera sorprendente. Questa lettera salvò la Klimova. Sarà più giusto dire che a sal­ varla non fu la lettera in sé, ma l’improvvisa morte di Klimov pa­ dre, subito dopo aver scritto e spedito questa lettera. Quella morte conferiva alla supplica un tale peso morale, tra­ sferiva l’intero procedimento giudiziario a tali altezze spirituali, che nessun generale della gendarmeria si sarebbe risolto a confermare la condanna a morte di Natalija Klimova. Un grazie di cuore! Sull’originale della sentenza è scritta la seguente ratifica: « Con­ fermo la sentenza della corte, ma con la commutazione, per en­ trambe le imputate, della pena di morte in deportazione ai lavori forzati a tempo indeterminato con tutte le conseguenze di det­ ta pena, 29 gennaio 1907. L ’Aiutante del Comandante in capo, Generale di Fanteria Gazenkampf. Verificato e controllato con l’originale: Il Segretario del Tribunale, Consigliere di Stato Men'čukov. Apposto il sigillo del tribunale distrettuale di San Pie­ troburgo». All’udienza del tribunale per il caso di Klimova e Terent'eva si svolse una scena assolutamente originale, unica, che non ha egua­ li nei processi politici in Russia, e non solo in Russia. Questa sce­ na è registrata nel verbale della seduta, nella scarna enunciazione che ne dà il cancelliere. Alle imputate venne concessa l’ultima parola prima della sen­ tenza. Il dibattimento giudiziario nel bastione Trubeckoj era stato molto breve, non più di due ore. Le imputate si erano rifiutate di replicare al discorso del pro­ curatore. Pur ammettendo di avet partecipato all’attentato a Stolypin, non si erano riconosciute colpevoli. Avevano anche rinuncia­ to al ricorso in cassazione. Ed ecco che nella perorazione finale - davanti alla morte, da­ vanti al patibolo la «ragazza propensa a entusiasmarsi» Klimova all’improvviso cedette alla propria natura, al furore del proprio sangue e disse tali parole e si comportò in tal modo che il presi­ dente della corte, interrompendo la perorazione, allontanò la Kli­ mova dall’aula del processo per «condotta indecente».

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LA RESURREZIONE DEL LARICE

A Pietroburgo la memoria può respirare senza fatica. Piu dif­ ficile a Mosca, dove i Chamovniki sono frantumati dai viali, la Presnja scompigliata, e spezzato l’ordito dei vicoli, l’ordine dei tem­ pi... Vicolo Merzljakovskij. Ci sono stato spesso negli anni Venti, quando ero studente universitario. Nel vicolo Merzljakovskij c’e­ ra un convitto studentesco femminile: in quelle stesse stanze, vent’anni prima, proprio all’inizio del secolo, aveva vissuto l’allieva - e candidata insegnante - Nad'ja Terent'eva, dell’Istituto pedagogico di Mosca. Ma non sarebbe mai diventata insegnante. Via Povarskaja, numero 6, dove nel registro degli inquilini del­ l’anno 1905 c’è scritto che soggiornarono insieme Natal'ja Klimova e Nadežda Terent'eva: un elemento probatorio dell’istruttoria. D ov’è la casa nella quale Natal'ja Klimova trascinò tre bombe di dinamite da sedici chili l’una ?

Non fu in via Povarskaja al numero 6 che Michail Sokolov «O rso» - si incontrò con Natal'ja Klimova per condurla alla mor­ te e alla fama, poiché non ci sono vittime inutili, non c’è eroica impresa che resti senza nome ? Nella storia nulla va perduto, si al­ terano solo le proporzioni. E se il tempo vuole perdere il nome del­ la Klimova, noi ci batteremo perché ciò non accada. Dov’è quella casa?

Cerco i vicoli. E un passatempo di gioventù, salire quelle sca­ le già segnate dalla storia ma non ancora trasformate in museo. Io indovino, ripeto i movimenti di quelle persone che hanno salito quegli stessi scalini, sostato a quegli stessi incroci di vie, per acce­ lerare il corso degli eventi, affrettare la corsa del tempo. E l’epoca si smosse.

Sull’altare della vittoria si sacrificano bambini. È questa l’anti­ ca tradizione. La Klimova aveva 21 anni quando la processarono. La passione del Signore, i misteri nei quali i rivoluzionari in­ terpretavano parti di spada e pugnale, travestendosi, nasconden­ dosi negli androni, saltando dal tram a cavalli in sella a un de­ striero, la capacità di seminare le spie erano in questa università russa altrettanti esami di idoneità. Chi concludeva l’intero corso finiva sulla forca. Di tutto questo hanno scritto in molti, e molto, troppo. A me però non servono i libri, ma le persone, non i tracciati delle vie, ma i vicoli silenziosi. All’inizio c’era la causa. All’inizio c’erano le esplosioni, la con­ danna a morte di Stolypin, tre pudy di dinamite contenuti in tre

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borse di pelle nera; di che materiale fossero gli involucri e che aspet­ to avessero le bombe lo taccio. «L e bombe sono state portate da me, ma quando e da dove, e parimenti in che modo - lo taccio». Che cosa innalza la statura delle persone ? Il tempo. Nel momento in cui finiva, il secolo fiori: la letteratura, la fi­ losofia, la scienza e la morale della società russa si elevarono a un’al­ tezza mai vista. Tutto ciò che il grande secolo xix aveva accumu­ lato di moralmente importante e forte, tutto venne trasformato in una causa viva, in vita viva, vivo esempio, e gettato nell’estrema battaglia contro l’autocrazia. Lo spirito di rinuncia, l’abnegazio­ ne fino all’anonimato: quanti terroristi perirono senza che se ne conoscesse neppure il nome. Lo spirito di sacrificio del secolo ave­ va trovato nell’unione della parola con l’azione una libertà piu al­ ta, una forza più elevata. Avevano cominciato da «non uccidere», da «D io è amore», dal credo vegetariano, dal servizio al prossimo. Le esigenze morali e la sete di sacrificio erano cosi grandi che i mi­ gliori dei migliori, delusi dalla non violenza, passarono dal «non uccidere» alle «azioni», misero mano alle rivoltelle, alle bombe, alla dinamite. Non fecero in tempo a restare delusi anche dalle bombe: tutti i terroristi morivano giovani. NataTja Klimova era originaria di Rjazan'. Nadežda Terent'eva era nata nel centro metallurgico di Beloreck negli Urali. Michail Sokolov era originario di Saratov. I terroristi nascevano in provincia. A Pietroburgo andavano a morire. In questo c’è una certa logica. La letteratura classica, la poesia del xix secolo con le sue esigenze morali piantava radici piu salde e profonde in provincia e proprio li diventava impossibile non rispondere alla domanda «in cosa consiste il senso della vita ?» Cercavano il senso della vita con passione, con abnegazione as­ soluta. La Klimova trovò il senso della sua vita nel prepararsi a emulare e superare in eroismo la Perovskaja. Come sarebbe ap­ parso chiaro in seguito, non le mancavano forze spirituali adegua­ te; non per niente aveva vissuto gli anni dell’infanzia in una fa­ miglia tutt’altro che ordinaria: la madre di NataTja Sergeevna era stata la prima donna-medico in Russia. Mancava solo l’incontro con qualcuno, un esempio personale perché tutte le forze interiori, spirituali e fisiche fossero portate al culmine della tensione, e la ricca natura di NataTja Klimova fa­ cesse il resto: collocandola da subito nel novero delle donne piu eminenti dell’intera Russia. Questo impulso, questo esempio le vennero dal rapporto con Michail Sokolov, «O rso».

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L ’incontro con Sokolov portò il destino di Natal'ja Klimova sulle piü alte vette dell’eroismo rivoluzionario russo, all’esperien­ za di una dedizione alla causa fino all’estremo sacrificio. La «causa» ispirata dal massimalista Sokolov era la lotta con­ tro l’autocrazia. Organizzatore nato, Sokolov era anche un emi­ nente teorico di partito. Il terrorismo «agrario» e il terrorismo nel­ le fabbriche sono altrettanti contributi di «O rso» al programma dell’«opposizione» nell’ambito del partito degli esery, il partito so­ cialrivoluzionario. Principale comandante dei combattimenti alla Presnja duran­ te l’insurrezione di dicembre a Mosca4 - la Presnja deve a lui se la resistenza durò cosi a lungo - Sokolov si trovò in disaccordo con il suo partito e dopo l’insurrezione ne usci, creando una propria «organizzazione di combattimento dei socialisti rivoluzionari mas­ simalisti». Nataša Klimova era la sua aiutante nonché sua moglie. Moglie ? Il castigato mondo della clandestinità rivoluzionaria dà una par­ ticolare risposta a questa semplice domanda. v «Sui documenti d’identità eravamo Vera Sapošnikova con il marito Semën Sapošnikov». «Desidero aggiungere questo: ignoravo che Semën Sapošnikov e Michail Sokolov fossero la stessa persona». Documenti d’identità? In via Morskaja, Natalija Klimova di­ venta Elena Morozova con il marito Michail Morozov, quello stes­ so che saltò in aria con la sua bomba nella sala di ricevimento di Stolypin. Mondo clandestino di documenti contraffatti e di sentimenti genuini. Si riteneva che tutto ciò che era personale dovesse esse­ re soffocato, subordinato al grande fine della lotta, nella quale vi­ ta e morte erano la stessa cosa. Ecco un estratto dal manuale poliziesco Storia del partito dei so­ cialisti rivoluzionari scritto dal generale della gendarmeria Spiridovič: «Il i ° dicembre Sokolov stesso viene preso per strada e il gior­ no 2 giustiziato per sentenza del tribunale. Il giorno 3 viene scoperto l’appartamento clandestino della Kli­ mova, dove tra le altre cose sono rinvenuti circa un pud e mezzo di dinamite, 7600 rubli in banconote e sette timbri di vari uffici 4 T r a Ü 9 e i l i 8 dicembre 1905, i bolscevichi e i socialrivoluzionari fecero un estremo tentativo per sollevare i soviet operai e cittadini e imprimere una svolta alla cosiddetta «R i­ voluzione del 1905» scoppiata nel paese il 22 gennaio, la famosa «domenica di sangue».

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governativi. Viene arrestata la stessa Klimova e altri massimalisti di spicco». Perché la Klimova a tre mesi dall’attentato sull’isola Aptekarskij si trovava ancora a Pietroburgo? Avevano aspettato «Orso», c’era stato un congresso dei massimalisti in Finlandia e «O rso» e gli altri erano tornati in Russia solo alla fine di novembre. Nel corso della breve istruttoria che la riguardava, Nataša sep­ pe della morte di Sokolov. In quella esecuzione, in quella morte non c’era nulla di inatteso, e tuttavia Nataša era viva, e «Orso» non più. Nella Lettera prima dell’esecuzione si parla con serenità della morte delle persone care. Ma Nataša non avrebbe mai di­ menticato Sokolov. Nelle casematte del carcere giudiziario di Pietroburgo, Natalija scrisse quella famosa Lettera prima dell'esecuzione che avrebbe fatto il giro del mondo. E una lettera filosofica, scritta da una ragazza di vent’anni. Non è un addio alla vita ma un’esaltazione della gioia di vivere. Improntata a un vivo sentimento di comunione con la natura - un tema al quale Klimova restò fedele per tutta la vita - è una lettera davvero straordinaria. Per freschezza di sentimenti e sin­ cerità. In essa non c’è neppure un’ombra di fanatismo, di didatti­ cismo. E una lettera sulla libertà nel suo significato più alto, sulla felicità che nasce dall’unione della parola con l’azione. Una lette­ ra che non è una domanda ma una risposta. La lettera venne pub­ blicata sulla rivista «Obrazovanie» dove figura accanto a una pun­ tata di un romanzo di Marcel Prévost. Ho letto questo testo, tagliuzzato da una serie di interventi cen­ sori, interrotto da eloquenti sequenze di puntini. Dopo cin­ quantanni la lettera venne ripubblicata a New York: i tagli erano gli stessi, uguali le imprecisioni, i refusi. Nella copia newyorkese anche il tempo aveva aggiunto i suoi tagli: il testo s’era sbiadito e stinto, ma le parole avevano conservato tutta la loro forza, non avevano tradito il loro alto significato. La lettera della Klimova aveva sconvolto la Russia. Anche adesso, nel 1966, per quanto sia stato lacerato il legame tra le epoche, il nome della Klimova trova subito un’eco nel cuo­ re e nella memoria degli intellettuali russi. - Ah, Klimova! La lettera prima dell’esecuzione... Si. Si. Si. In quella lettera non c’erano soltanto l’inferriata della cella, il patibolo, non c’era soltanto l’eco dell’esplosione. No. Nella lette­ ra della Klimova c’era qualcosa di particolarmente significativo, di particolarmente importante per l’uomo.

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Il filosofo Frank5 sul diffuso quotidiano pietroburghese « Slovo», dedicò alla lettera della Klimova un lungo articolo intitolato I l superamento della tragedia.

Frank vede in questa lettera il manifestarsi di una nuova co­ scienza religiosa e scrive che «queste sei pagine superano per va­ lore morale l’intera vasta produzione filosofica e poetica impron­ tata al tragico». Dichiarandosi meravigliato per la profondità dei sentimenti e pensieri della Klimova - a 21 anni di età - Frank paragona la sua lettera con il D e profundis di Oscar Wilde. È una lettera-libera­ zione, una lettera - via d’uscita, un lettera-risposta. Ma allora perché non siamo a Pietroburgo? Perché sia l’atten­ tato a Stolypin sia la Lettera prim a d ell’ esecuzione , come risultò in seguito, non bastavano ancora ad appagare quella vita che fu gran­ de e singolare e soprattutto in sintonia con il suo tempo. La Lettera prim a dell'esecuzione venne pubblicata nell’autunno del 1908. Le onde luminose, sonore e magnetiche suscitate da que­ sta lettera fecero il giro del mondo e di li a un anno, quando non avevano ancora fatto a tempo ad attenuarsi, a calmarsi, all’im­ provviso una nuova straordinaria notizia raggiunse gli angoli piu remoti del globo terrestre. Dalla prigione femminile moscovita Novinskaja erano evase tredici ergastolane e insieme a loro era fug­ gita una guardiana, Tarasova. Dall’« Elenco delle persone fuggite nella notte tra il giugno e il x° luglio dal carcere governatoriale femminile di Mosca»: «n. 6. Klimova Natalija Sergeevna, condannata dal Tribunale militare distrettuale di Pietroburgo il 29 gennaio 1907 alla pena di morte mediante impiccagione, pena commutata dal Sost. Com. del Di;str. Mil. di Pietrob. nei lavori forzati a tempo indetermina­ to. 22 anni di età, corporatura robusta, capelli scuri, occhi azzur­ ri, colorito roseo, tipo russo». L ’evasione, appesa a un filo tanto sottile che un ritardo di mezz’ora sarebbe equivalso alla morte, riusci alla perfezione. German Lopatin, un uomo che di evasioni se ne intendeva, de­ fini le ergastolane evase dalla prigione Novinskaja «amazzoni». In bocca a Lopatin questa parola non era semplicemente una lode ami­ chevole, appena venata di ironia e di condiscendenza. Lopatin av­ verti la realtà del mito. 5 Semën Frank (1877-1950), filosofo religioso e critico letterario; inizialmente di orien­ tamento marxista, passò presto a posizioni vicine all’esistenzialismo e alla fenomenologia occidentali; dopo la rivoluzione, nel 1922, venne espulso dall’Unione Sovietica.

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Lopatin, come nessun altro, capi che cosa significa un’evasio­ ne riuscita da una cella di prigione nella quale casualmente e non da molto tempo si erano trovate riunite ergastolane con i piu sva­ riati «fascicoli» giudiziari, con i piu vari interessi e destini. Lopa­ tin capiva che per trasformare quel variopinto collettivo in una unità di combattimento, legata dalla disciplina della clandestinità, che è ancora piu elevata di quella militare, era indispensabile una mente organizzativa. E questa mente organizzativa fu appunto Natalija Sergeevna Klimova. I più svariati «fascicoli», si è detto. All’evasione prese parte l’anarchica Marija Nikiforova, la futura atamana'’ Marus'ka del­ l’epoca di Machno e della guerra civile, che sarebbe finita fucila­ ta per ordine del generale Slaščev e che è ormai assurta a tipo ci­ nematografico della bella fuorilegge; Marija Nikiforova per poco non fece fallire l’evasione. Nella cella (la numero otto) c’erano an­ che due detenute per reati comuni con i loro bambini. Fu in quell’occasione, per via di quelle fuggiasche, che in casa Majakovskij confezionarono gli abiti a causa dei quali lo stesso Majakovskij conobbe la prigione (fu interrogato alla polizia in re­ lazione a questo caso). Le ergastolane impararono a memoria le scene del futuro spet­ tacolo, studiarono e ristudiarono ognuna la propria parte, in co­ dice. L ’evasione comportò lunghi preparativi. Per la liberazione del­ la Klimova arrivò in Russia il rappresentante all’estero del Comi­ tato centrale del partito dei socialisti rivoluzionari, il «generale», come lo chiamavano Koridze e Kalašnikov, gli organizzatori del­ l’evasione. I piani del generale vennero bocciati. I socialrivolu­ zionari di Mosca Koridze e Kalašnikov avevano elaborato un pia­ no diverso che era già in una fase avanzata. Prevedeva la libera­ zione dall’interno, con le forze delle stesse ergastolane. Era pre­ visto che a liberare le ergastolane sarebbe stata la guardiana car­ ceraria Tarasova, che sarebbe poi fuggita all’estero con loro. Nella notte del x° luglio le ergastolane disarmarono le altre guardiane e si dispersero per le vie di Mosca. Delle «tredici in fuga», si scrisse molto sui giornali e nei libri. Anche questa evasione è un pezzo da antologia della rivoluzione russa. Può essere interessante ricordare che la chiave, infilata nel bu-6 6 È il femminile di a ta m a n , termine che indica sia, in epoca presovietica, un capo elet­ tivo dei cosacchi sia un capo di bande irregolari nella guerra civile, ed è il nostro caso.

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co della serratura della porta d ’uscita dalla Tarasova, che era la pri­ ma della fila, non voleva saperne di girare. E che la Tarasova la­ sciò cadere sconsolata le braccia. E come le forti dita dell’ergastolana Gel'me presero la chiave dalle mani della Tarasova, la in­ filarono nella serratura, la girarono e aprirono la porta verso la libertà. Merita d ’essere ricordato anche questo: le ergastolane stavano uscendo dalla prigione quando cominciò a trillare il telefono sul tavolo della guardiana di turno. La Klimova alzò il ricevitore e ri­ spose alterando la voce. All’altro capo del telefono c’era il capo della polizia: «Secondo le nostre informazioni, alla prigione Novinskaja si sta preparando un’evasione. Prendete le misure oppor­ tune». « L ’ordine verrà eseguito, Vostra Eccellenza. Prenderemo le misure del caso». E la Klimova riagganciò il ricevitore. Merita ricordare anche la lettera sbarazzina della Klimova - ec­ cola - tengo tra le mani i due foglietti stazzonati ma ancora vivi di quel biglietto postale. Il biglietto, scritto il 22 maggio, era in­ dirizzato ai piccoli della famiglia - i fratelli e sorelle minori anco­ ra piccini - che la matrigna, zia OTga Nikiforovna Klimova, ave­ va portato piu di una volta a Mosca a visitare Natala. Questi in­ contri con i bambini in prigione erano stati un’idea della stessa NataTja Sergeevna. La Klimova riteneva che quelle impressioni, quegli incontri non potessero che giovare all’animo dei piccoli. Ed ecco che il 22 maggio la Klimova scrive una lettera sbarazzina che finisce con parole che mai si erano lette nel messaggio di un con­ dannato a tempo indeterminato alla galera: «Arrivederci! Arrive­ derci a presto! » La lettera venne scritta il 22 maggio e il 30 giu­ gno la Klimova scappò di prigione. A maggio non solo l’evasione era stata decisa, ma tutte le parti studiate a memoria e la Klimo­ va non si era potuta trattenere dal fare quello scherzo. Tuttavia non si videro presto, anzi fratellini e sorelline non si incontrarono mai piti con la sorella maggiore. La guerra, la rivoluzione, la mor­ te di Natala. Con l’aiuto degli amici le ergastolane evase scomparvero in quella notte buia e calda del primo giorno di luglio. NataTja Ser­ geevna Klimova era la figura di maggior spicco tra le fuggiasche e per metterla definitivamente in salvo bisognava affrontare parti­ colari difficoltà. Le organizzazioni di partito di quei tempi erano piene di infiltrati e Kalalnikov, intuendo le intenzioni della poli­ zia, fece la mossa risolutiva e vincente. Si incaricò personalmente di mettere al sicuro la Klimova e quella stessa notte affidò NataTja Sergeevna a un uomo che non aveva legami di nessun genere con

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il partito: era una sua conoscenza personale e niente di piu, un in­ gegnere ferroviario che simpatizzava per la rivoluzione. La Kli­ mova trascorse un mese in casa dell’ingegnere a Mosca. E intanto Kalašnikov e Koridze venivano arrestati e tutta Rjazan' veniva ri­ voltata da capo a piedi da perquisizioni e retate.

Trascorso il mese l’ingegnere accompagnò NataTja Sergeevna, che figurava essere sua moglie, in viaggio, lungo la Grande via si­ beriana. Da li, la Klimova attraversò il deserto del Gobi a dorso di cammello raggiungendo poi Tokyo. Dal Giappone in Italia. E a Parigi. Sono quindi dieci le fuggitive che raggiungono Parigi. Tre era­ no state prese il giorno stesso dell’evasione: Kartašova, Ivanova e Siskarëva. Le processano, aggiungono loro un supplemento di pe­ na, e in qualità di loro avvocato al processo interviene Nikolaj Konstantinovič Murav'ëv, futuro presidente della Commissione d ’in­ dagine sull’operato dei ministri zaristi, nominata dal governo prov­ visorio, il futuro avvocato di Ramzin. In tal modo si intrecciano con la vita della Klimova i nomi di persone poste sui piu vari gradini della scala sociale: ma sempre persone di grande levatura e capacità.

L ’impeto della Klimova è quello dell’onda decumana. Fa ap­ pena in tempo a tirare il fiato dopo due anni di galera e una fuga che l’ha portata attraverso mezzo mondo, e nuovamente è in cer­ ca di nuove battaglie. Nel 1910 il Comitato centrale del partito dei socialisti rivoluzionari incarica Savinkov di formare un nuovo gruppo di combattimento. La selezione del gruppo è una faccen­ da complicata. Su incarico di Savinkov il membro del gruppo Cernavskij attraversa la Russia, arrivando fino a Cita.vI combattenti di prima non vogliono piu saperne di tirar bombe. Cernavskij tor­ na indietro con un nulla di fatto. Ecco la sua relazione pubblicata sul periodico «Katorga i ssylka». «Il mio viaggio (in Russia, fino a Cita, da A. V. Jakimova e V. Smirnov) non ha consentito di trovare i rincalzi necessari al grup­ po. Entrambi i candidati designati si sono rifiutati di entrare a far­ ne parte. Sulla strada del ritorno già mi figuravo come questo smac­ co avrebbe buttato a terra il già scarso morale dei compagni. Ma i miei timori si rivelarono infondati. La comunicazione del mio in­ successo risultò compensata da un colpo di fortuna avvenuto du­ rante la mia assenza. Fui presentato a un nuovo membro del grup­ po, Natalija Sergeevna Klimova, la nota massimalista da poco evasa dall’ergastolo di Mosca con un gruppo di altre detenute

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politiche. Uno dei membri del Comitato centrale era sempre al cor­ rente di dove si trovasse in un determinato momento il nostro gruppo e per mezzo suo ci eravamo messi in contatto con lei. Sem­ pre attraverso il nostro tramite N. S. aveva fatto sapere a Savinkov che desiderava entrare a far parte del nostro gruppo e, come è ov­ vio, era stata accolta a braccia aperte. Tutti noi ci rendevamo per­ fettamente conto di quanto questa presenza ci rafforzasse. Ho ri­ cordato prima che, secondo il mio parere, l’elemento piu forte del nostro gruppo era M. A. Prokof'eva. Adesso avevamo due elementi forti e senza volerlo le contrapponevo mettendole a confronto. Mi tornava alla mente la famosa poesia in prosa di Turgenev L a so ­ glia. Una fanciulla russa varca una soglia fatale, nonostante una voce presaga l’ammonisca che al di là di quella soglia l’attendono disgrazie d ’ogni genere: fame, freddo, odio, scherni, disprezzo, in­ giurie, prigione, malattia e morte fino al disinganno riguardo a ciò in cui ella oggi crede. La Klimova e la Prokof'eva avevano da tem­ po varcato questa soglia e patito in sufficiente misura le sciagure preconizzate dalla presaga voce, ma le prove subite non avevano minimamente fiaccato il loro entusiasmo, e la loro volontà ne era stata anzi temprata e rinvigorita. Dal punto di vista della dedi­ zione alla rivoluzione e della disponibilità a qualsiasi sacrificio, tra le due donne si poteva tranquillamente mettere un segno d ’ugua­ le: erano egualmente forti e integre. Ma bastava osservarle atten­ tamente per qualche giorno per convincersi di quanto poco si as­ somigliassero e, per alcuni aspetti, fossero anzi diametralmente al­ l’opposto. Anzitutto saltava agli occhi il contrasto del loro stato di salute. La Klimova, che aveva avuto il tempo di ristabilirsi do­ po la galera, era una donna fiorente, sana e vigorosa; la Prokof'eva era ammalata di tubercolosi e il processo era talmente avanzato e si era a tal punto riflesso nel suo aspetto fisico da evocare in tutti noi l’immagine di una candela che si stesse spegnendo. Allo stesso modo erano diversi i loro gusti, il rapporto con la vita e l’ambiente, tutto il loro abito mentale. La Prokof'eva era cresciuta in una famiglia di Vecchi creden­ ti7, nella quale di generazione in generazione si erano tramandati abitudini e atteggiamenti ascetici tipici di quella setta. La scuola e poi l’adesione al movimento di liberazione fecero scomparire dal­ la sua visione del mondo ogni elemento religioso, ma nel caratte­ re le rimase una traccia quasi impercettibile di condiscendente di­

7 Si veda II « w e issm a n ia n o » , la nota 2 a p. 608.

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sprezzo nei confronti delle gioie della vita, la traccia di un’indefi­ nita tensione verso l’alto, un’aspirazione al distacco dalla terra e dalle piccole cose terrene. Forse questo tratto del suo carattere era anche alimentato e accentuato dall’infermità. La Klimova era tut­ to l’opposto. Ella accettava ogni gioia della vita, poiché accettava la vita nel suo insieme, con tutte le sue gioie e tutti i suoi dolori, organicamente legati tra loro e inseparabili. Non si trattava di una concezione filosofica ma dello spontaneo sentire di una natura ric­ ca e forte. E l’azione eroica, il sacrificio erano da lei considerati le piu grandi e desiderabili gioie dell’esistenza. Élla venne da noi cosi lieta e ridente che il nostro gruppo si ria­ nimò tutto. Non si capiva che cosa stessimo ancora ad aspettare. Perché non mettersi all’opera con le forze disponibili? Ma Savinkov ci informò che ancora una volta c’era un punto interroga­ tivo sospeso sul nostro gruppo. Raccontò che durante la mia as­ senza era vissuto li da loro Kirjuchin, arrivato dalla Russia, e in poco tempo era riuscito a suscitare una serie di dubbi. - Racconta un sacco di menzogne, - spiegò Savinkov. - Una volta ho dovuto fargli tutta una predica sulla necessità di tenere un atteggiamento piu responsabile. Ma forse le sue chiacchiere so­ no solo una questione di sciatteria. Al momento è di nuovo in Rus­ sia, gli è nata una figlia. Deve tornare a giorni. Bisognerà osser­ varlo piu attentamente, da vicino. Poco dopo il mio arrivo all’isola di Guernsey sul nostro oriz­ zonte apparve un altro punto nero. “M a” (M. A. Prokof'eva) de­ periva a vista d ’occhio facendosi ogni giorno più debole. Il timo­ re che quella candela languente stesse per spegnersi definitiva­ mente si impadroni di tutti noi. Avvertivamo quanto ci fosse cara e indispensabile quella luce limpida e quieta nel cupo sotterraneo della nostra clandestinità, e ci allarmammo. Il medico del posto ci consigliò di far ricoverare la malata in un sanatorio adatto, meglio di tutti quello di Davos. Savinkov dovette profondere non poche energie per convincere M. A. a trasferirsi a Davos. Dopo una pro­ lungata lotta l’accordo fu definito, a quanto sembra nei termini se­ guenti: Savinkov si impegnava a informarla di quando il gruppo sarebbe stato pronto alla spedizione in Russia e lei avrebbe avuto il diritto, valutando autonomamente il proprio stato di salute, di decidere da sola la questione se continuare le cure o lasciare il sa­ natorio e unirsi al gruppo. Nel frattempo Savinkov aveva ricevuto la notizia che il com­ battente F. A. Nazarov, che egli conosceva, aveva scontato la sua pena ai lavori forzati e si trovava ora nel luogo di relegazione. Na-

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zarov aveva ucciso il provocatore Tatarov, ma la breve condanna che aveva appena finito di scontare riguardava un altro caso. Nei giorni del trasferimento di M. A. a Davos, Savinkov inviò da Parigi alla Siberia un giovane incaricato di prendere contatto con Nazarov e proporgli di entrare nel gruppo. Quando il gruppo si era formato questo giovane aveva posto la sua candidatura, ma non era stata accettato. Adesso gli era stato promesso che, nel ca­ so avesse felicemente portato a termine l’incarico, sarebbe stato accolto. Il nostro gruppo si trasferisce dall’isola Guernsey sulla terra­ ferma e si stabilisce in un paesino a 5-6 chilometri da Dieppe. Ar­ riva anche Kirjuchin. Adesso siamo in sette: Savinkov e sua mo­ glie, la Klimova, Fabrikant, Moiseenko, Kirjuchin e io stesso. Kirjuchin si comporta bene, con semplicità. Non racconta fando­ nie. Viviamo una vita noiosa. Un litorale piatto, uggioso. L ’ug­ gioso tempo autunnale. Durante la giornata raccogliamo i pezzi di legno ributtati a riva dal mare per farne legna da ardere. Le carte da gioco sono trascurate dai tempi del soggiorno a Newquay, an­ che gli scacchi giacciono dimenticati. Di normali conversazioni su temi comuni nemmeno l’ombra. Di tanto in tanto ci scambiamo qualche frase frammentaria, ma piu che altro restiamo in silenzio. Ògnuno segue gli arabeschi del fuoco nel camino e intreccia con essi i suoi malinconici pensieri. Tutti noi, sembra, ci convinciamo, sperimentandolo nella pratica, che il lavoro più snervante è l’at­ tendere con le mani in mano senza sapere esattamente quanto du­ rerà l’attesa. Una volta qualcuno aveva fatto una proposta: - Facciamo cuo­ cere delle patate nel camino. In questo modo prendiamo due pic­ cioni con una fava: 1) abbiamo un’interessante occupazione per passare le serate, 2) risparmiamo sulla cena. La proposta era stata accolta ma gli intellettuali della compa­ gnia si rivelarono dei pessimi cuochi e solo il marinaio (Kirjuchin) dette prova di un notevole talento in questo campo. Mi scuso mol­ to di dedicare tanta attenzione a particolari cosi trascurabili, ma non mi è proprio possibile evitare di parlare di quelle patate cotte nella brace. Passa circa un mese: doveva essere il dicembre del 1910. Tut­ ti noi ci annoiavamo a morte, ma più di tutti Kirjuchin. Si era mes­ so ad andare a Dieppe e un bel giorno ne tornò piuttosto brillo. La sera si sedette al solito posto davanti al camino e cominciò ad attendere alla sua abituale incombenza. Ma il caldo del camino lo buttò giù del tutto: le patate non gli obbedivano più e neanche le

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mani volevano piu saperne di obbedirgli. Nataša Klimova comin­ ciò a prenderlo in giro: - Ho l’impressione, Jakov Ipatyc, che abbiate lasciato tutta la vostra arte a Dieppe... Temo proprio che oggi non combinerete niente... Iniziano a punzecchiarsi. Kirjuchin butta li sempre più spesso la frase allusiva: “ Sappiamo bene chi siete” . - Ma se non sapete proprio niente. Beh, ditemi un po’, che co­ sa sapete ? Kirjuchin andò definitivamente su tutte le furie: - Certo che lo dico! Vi ricordate di quella volta che voi massi­ malisti vi eravate riuniti, fingendo un banchetto, in una saletta ri­ servata del ristorante Palkin? E che nella sala comune c’era il vi­ cedirettore del dipartimento di polizia ? Ricordate ? E ricordate anche dove siete andata dopo la riunione - e non certo da sola! fu la trionfante conclusione. E tale lo stupore di Nataša che gli occhi le salgono fin sulla fron­ te e sembrano volerle saltar fuori dalle orbite. Prende da parte Savinkov e lo informa che è tutto vero, fingendo un banchetto c’e­ ra stata una riunione in una saletta riservata. Erano stati anche informati che nella sala comune c’era il vicedirettore del diparti­ mento. Avevano comunque continuato la riunione e si erano se­ parati senza nessun problema. Nataša era andata a dormire con il marito in un albergo sulle isole. La mattina dopo viene chiesto a Kirjuchin da dove gli siano ve­ nute tutte quelle informazioni. Risponde che glielo ha raccontato Fejt. Savinkov va a Parigi, vi convoca anche Kirjuchin e ben pre­ sto ritorna da solo. E risultato che Fejt non ha raccontato niente del genere e neppure poteva farlo poiché i fatti in questione gli erano completamente sconosciuti. A Kirjuchin viene di nuovo chie­ sto chi gli abbia riferito quei fatti. Stavolta risponde di averli sen­ titi raccontare dalla moglie che li aveva a sua volta appresi da cer­ ti conoscenti della gendarmeria. Viene cacciato. Al suo ritorno, Savinkov chiese che il gruppo votasse sulla se­ guente questione: avevamo o no il diritto di dichiarare Kirjuchin un provocatore? Segui un’unanime risposta affermativa. Fu deci­ so che ci saremmo rivolti al Comitato centrale con la richiesta di pubblicare sull’organo del partito una dichiarazione che smasche­ rava l’infiltrato. Quando, dopo il soggiorno a Newquay, era ma­ turata in noi la convinzione che Rotmistr fosse un provocatore non ci eravamo comunque risolti a denunciarlo pubblicamente poiché ci sembrava che gli elementi a nostra disposizione fossero insuffi­

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cienti per un simile passo. Per questo ci eravamo limitati a infor­ mare il Comitato centrale della sua espulsione dal gruppo perché sospettato di essere un provocatore. Sapevamo che si era stabilito a Meudon (spero di citare correttamente il nome della cittadina nei pressi di Parigi), e che si teneva alla larga dagli emigrati. L ’inatteso incidente con Kirjuchin ci mostrò quanto fossimo ri­ dicoli e assurdi nel nostro giocare a nascondino per gli angoletti ap­ partati dell’Europa occidentale, mentre il dipartimento di polizia poteva procurarsi sul nostro conto tutte le notizie che gli serviva­ no: volendo, poteva perfino sapere chi di noi preferiva le patate cotte alla brace. Perciò lasciammo il paesino e ci trasferimmo a Pa­ rigi. Questa fu la prima conclusione che traemmo dall’accaduto. La seconda fu quella che ci indusse a rivedere il caso di Rotmistr. Vi­ sta e considerata la scarsissima prova di sagacia di cui avevamo da­ to prova nei confronti di Kirjuchin, nacque spontaneamente il dub­ bio se non avessimo fatto lo stesso grossolano errore - ma in senso opposto - anche nei confronti di Rotmistr, vale a dire se non aves­ simo sospettato un uomo innocente. Quando Kirjuchin si era a tal punto scoperto da non rendere piu possibile alcun ragionevole dub­ bio al riguardo, era sorta da sola la domanda: «E come la mettia­ mo con Rotmistr? Era un provocatore o no?» Savinkov decise di incontrarsi con lui e di ottenerne una franca spiegazione. Nel frat­ tempo propose a me e Moiseenko di andare a Davos e informare la Prokof'eva delle importanti novità nel nostro gruppo. Trascorremmo a Davos, mi sembra, quasi due settimane. Ogni giorno andavamo a trovare “Ma” al sanatorio. La sua salute stava considerevolmente migliorando. Un po’ alla volta aumentava di peso, e i medici attenuavano gradualmente la severità del regime ospedaliero, le consentivano delle passeggiate, ecc. Avremmo vo­ luto prolungare la nostra permanenza a Davos quando inaspetta­ tamente ricevemmo un telegramma di Savinkov: “Tornate. Rot­ mistr morto” . Quando incontrai Savinkov fui colpito dal suo stato di estre­ ma prostrazione. Mi passò un foglietto e disse cupamente: - Leg­ gete. Siamo passati sopra a un uomo -. Era la lettera che Rotmi­ str aveva scritto in punto di morte. Era breve, forse non piu di dieci righe, ed era scritta con semplicità, senza niente della ma­ gniloquenza dell’altra lettera che ci aveva a suo tempo spedito a Newquay. Non cercherò di ricostruirne il testo. Riferisco l’essen­ ziale. “ Si è trattato dunque di questo, eravate convinti che fossi un provocatore, e io che pensavo che tutto il guaio fosse nato dal­ la lite con B. V. Vi ringrazio, compagni!”

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Ecco come era andata. Savinkov aveva chiesto a Rotmistr di venire a Parigi per uno scambio di idee. Rotmistr era venuto. Sa­ vinkov gli aveva raccontato di Kirjuchin, aveva confessato di aver espulso Rotmistr perché lo sospettava di essere un provocatore. Aveva cercato di convincerlo ad aprirsi, a spiegare perché aveva detto quelle menzogne a proposito del treno e del bagno. Rotmi­ str aveva ammesso che sia nell’uno che nell’altro caso aveva men­ tito, ma non aveva fornito nessuna spiegazione e si era chiuso in un cupo mutismo. Purtroppo non era stato possibile concludere il discorso perché nell’appartamento dove aveva luogo l’incontro era­ no arrivati dei visitatori e li avevano interrotti. Savinkov aveva proposto un nuovo incontro per il giorno dopo. Rotmistr aveva promesso ma non era venuto, l’avevano trovato nella sua camera, si era sparato un colpo, trovarono anche il suo estremo messaggio. Non avevamo ancora fatto in tempo a digerire l’autosmascheramento dell’“uomo con la coscienza tranquilla” , che ci veniva get­ tato in faccia un cadavere. Nelle nostre teste tutto si capovolse. Tutti noi adottammo la formulazione di Savinkov: “eravamo pas­ sati sopra a un uomo” . Dopo qualche tempo si dovette far ricoverare V. O. Fabrikant in una clinica per malattie nervose. Eravamo tutti quanti abbat­ tuti ma continuavamo a farci forza pensando: “non appena arriva Nazarov ce ne andiamo subito in Russia” . Non ricordo quanto durò l’attesa. Arrivò infine la persona che avevamo mandato in Russia. Raccontò che Nazarov aveva accettato di entrare a far par­ te del gruppo, che avevano raggiunto insieme la frontiera ma che nel passarla Nazarov era scomparso. Vicino alla frontiera si erano nascosti in un fienile. Il giovane aveva dovuto allontanarsi per qual­ che motivo e quando era tornato di Nazarov non c’era piu traccia. Evidentemente era stato arrestato: cosi pensava il giovane, cosi pensavamo noi. Questo incidente dette il colpo di grazia al grup­ po, che venne sciolto. Dopo la liquidazione del gruppo un giorno, in una via di Pari­ gi, qualcuno mi chiamò. Era Misa Kirjuchin. Sapevo che dopo la sua espulsione dal gruppo, su richiesta di Savinkov, gli avevano trovato un posto di lavoro a Parigi, come autista di una compagnia di autopubbliche. Adesso sostava con la sua macchina in attesa di un passeggero. Parlammo del passato e del presente. Mi propose: - Vorrei portarvi a fare un giro. Salite -. Mi rifiutai. La conver­ sazione continuò, ma presto vidi che gli occhi gli si stavano riem­ piendo di lacrime e mi affrettai a salutarlo. “E sempre cosi poco equilibrato” , mi venne da pensare.

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Partii per l’Italia. Dopo qualche mese mi arrivò la notizia che Misa si era sparato e che in un biglietto scritto prima di uccidersi chiedeva di essere sepolto vicino a Rotmistr...» In queste persone la morte era talmente contigua alla vita da po­ ter irrompere in essa con la massima facilità. E con facilità si deci­ deva la propria morte, come un diritto al quale fare ampio ricorso. Il gruppo di Savinkov a Guernsey-Dieppe-Parigi costituisce l’ultimo percorso di guerra di Natalija Klimova. E improbabile che si fosse lasciata abbattere dalla sfortuna. Non era nel suo caratte­ re. La Klimova era abituata, aveva abituato se stessa alle grandi perdite: anche le umane bassezze non erano certo una novità nel­ la vita clandestina dei rivoluzionari. Era stato da tempo smasche­ rato Azef8, ucciso Tatarov. Le traversie del gruppo non potevano convincere Natal'ja Sergeevna dell’onnipotenza dell’autocrazia, della disperata inutilità di ogni sforzo. Comunque sia, fu l’ultimo lavoro in prima linea della Klimova. Evidentemente certi traumi avevano finito per lasciare qualche traccia nella sua psiche... Nel 1911 Natal'ja Sergeevna conosce un socialrivoluzionario, un militante che era fuggito dalla galera di Cita. Era un conterra­ neo di Michail Sokolov, «Orso». Innamorarsi di Natal'ja Sergeevna non è difficile. Lei stessa ne è perfettamente consapevole. L ’ospite si presenta alla colonia del­ le «amazzoni» con una lettera per Natal'ja Sergeevna e un viatico scherzoso: «S ta’ attento a non innamorarti della Klimova». Vie­ ne ad aprirgli la porta Aleksandra Vasil'evna Tarasova, quella che aveva liberato le «amazzoni» dalla prigione Novinskaja, e l’ospi­ te, prendendo la Tarasova per la padrona di casa e ricordando le raccomandazioni degli amici, non può che stupirsi per l’inatten­ dibilità dei giudizi umani. Ma da un’altra stanza esce Natal'ja Ser­ geevna; l’ospite di li a poco riparte per tornare a casa, ma alla pri­ ma stazione scende e torna indietro. Per Natal'ja Sergeevna, un amore, un matrimonio decisi fret­ tolosamente. Tutta l’appassionata affermazione di sé si trasfonde improvvi­ samente nella maternità. Una prima nascita. Una seconda. Una terza. Le difficili condizioni di vita dell’emigrazione. 8 Evno Azev misterioso personaggio definito ora come «informatore» della polizia se­ greta, ora come «agente doppio» del governo e dei terroristi, ora come «agente provoca­ tore». Pare certo che abbia contribuito a sventare molti attentati e altri ne abbia portato a compimento. Lo stesso primo ministro Stolypin discusse il suo caso davanti alla Duma nel 1909, dopo il suo clamoroso smascheramento.

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La Klimova, l’abbiamo già detto, aveva in sé l’energia straordi­ naria della mitica onda decumana. Nei trentatre anni della sua vita il destino l’aveva portata sulle creste più alte e pericolose dei maro­ si della tempesta rivoluzionaria che aveva sconquassato la società russa, e Natal'ja Klimova era riuscita a far fronte a quella tempesta. Fu la bonaccia a perderla. La bonaccia alla quale Natal'ja Sergeevna si era consegnata con la stessa passione e abnegazione di quando aveva scelto la tempe­ sta... La maternità, la prima creatura, la seconda, la terza costi­ tuirono per lei qualcosa di altrettanto eroico, di altrettanto asso­ luto che tutta la sua vita di dinamitarda e terrorista. E fu la bonaccia a perderla. Un matrimonio malriuscito. La trappola per topi della quotidianità, le inezie, il dover correre di qua e di là la legarono mani e piedi. Come donna accettò anche questa sua sorte, obbedendo alla natura, che era cosi abituata a se­ guire fin dall’infanzia.

Il matrimonio malriuscito: Natal'ja Sergeevna, gli fosse stata o meno moglie, non aveva mai dimenticato «Orso». L ’attuale ma­ rito è conterraneo di Sokolov, ergastolano e cospiratore - un uo­ mo degnissimo - e la loro storia d’amore si sviluppa con tutta la passione e il trasporto di cui è capace la donna. Ma lui resta pur sempre un uomo come tutti gli altri, mentre «O rso» era quell’on­ da eccezionale che segue le prime nove, il primo e unico amore del­ la ginnasiale Klimova. Invece delle bombe di dinamite bisogna portare avanti e indie­ tro i pannolini, montagne di pannolini, lavare, stirare, spazzare.

Gli amici? Gli amici piu cari della Klimova erano morti sulla forca nel 1906. Con Nadežda Terent'eva, processata insieme a lei per la faccenda dell’isola Aptekarskij, non aveva un vero rappor­ to d’amicizia. Neanche la Terent'eva - compagna nella causa ri­ voluzionaria - le era particolarmente vicina. Si rispettavano reci­ procamente, provavano una certa simpatia, nient’altro. Non c’è uno scambio epistolare, né incontri, né il desiderio di sapere qual­ cosa di più Luna dell’altra. La Terent'eva stava scontando l’erga­ stolo nella galera femminile Mal'cevskaja in Transbajkalia, dov’era anche il carcere Akatuj, e avrebbe riacquistato la libertà con la rivoluzione. Dalla prigione Novinskaja, dove la popolazione carceraria era molto eterogenea, Natal'ja Sergeevna portò nella propria vita una sola amicizia: quella con la sorvegliante Tarasova. Questa amici­ zia si conservò intatta per sempre. N ell’isola Guernsey, invece, le persone che entrarono nella

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vita della Klimova furono piu numerose: Fabrikant, che aveva sposato la Tarasova, e Moiseenko diventarono suoi intimi amici. Natal'ja Sergeevna non intrattiene invece rapporti molto stret­ ti con la famiglia di Savinkov, non cerca di consolidare questa co­ noscenza. Per la Klimova, come nel caso della Terent'eva, Savinkov è niente piu che un compagno di lotta. La Klimova non ha alcunché del teorico, del fanatico, dell’agi­ tatore o del propagandista. Tutte le sue convinzioni - le sue azio­ ni - sono un tributo al proprio temperamento, fatto di «buoni sen­ timenti piu filosofia». La Klimova era capace di fare qualsiasi cosa, ma era negata per la vita quotidiana. C ’erano cose per lei ben piu difficili che l’ina­ zione e l’attesa, i mesi di fame, con le patate del camino per cena. Gli eterni traffici per guadagnare qualcosa, per il sussidio, i due bambini piccoli, che esigono cure e decisioni. Dopo la rivoluzione, il marito va in Russia - l’intenzione è pre­ parare il ritorno della famiglia, in realtà rivedrà i figli solo di li a qualche anno. Natal'ja Sergeevna desidera solo potere tornare anch’essa in Russia. Incinta del terzo figlio, si trasferisce dalla Sviz­ zera a Parigi, con l’intenzione di raggiungere la Russia passando per Londra. Madre e bambini si ammalano e non guariscono in tempo per prendere il piroscafo. Ah, quante volte nelle lettere dal carcere giudiziario di Pietro­ burgo Nataša Klimova aveva dispensato consigli alle sorelline mi­ nori, che la zia, nonché matrigna, Ol'ga Nikiforovna Klimova le portava periodicamente, da Rjazan', in visita alla prigione. Mille raccomandazioni: non prendete freddo. Non state vici­ no al finestrino. Oppure niente viaggio. E le bambine seguivano i consigli della sorella maggiore, si riguardavano e gli incontri pote­ vano avere luogo. Nel 1917 Natalja Klimova non aveva nessuno che potesse dar­ le dei buoni consigli. I bambini si erano raffreddati, e avevano per­ so il piroscafo. In settembre nasce il terzo figlio, una bambina, ma non vive a lungo. Nel 1918 Natal'ja Sergeevna fa un ultimo tenta­ tivo di partire per la Russia. Acquista i biglietti per il piroscafo. Ma una dopo l’altra le sue bambine - Nataša e Katja - si ammalano di influenza. Accudendole si ammala lei stessa. E l’influenza del 1918, la «spagnola», che miete vittime in tutto il mondo. La Klimova muore e le figlie vengono cresciute dagli amici di Natal'ja Sergeev­ na. Il padre - che è in Russia - incontrerà le figlie solo nel 1923. Il tempo va piu in fretta di quanto non credano gli uomini.

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La felicità familiare non si realizzò. La guerra. Natal'ja Sergeevna era stata un’appassionata e atti­ va fautrice della necessità che la Russia si difendesse e aveva mol­ to sofferto per la disfatta militare, mentre la rivoluzione con le sue torbide fiumane suscitava in lei sentimenti contraddittori ed esa­ sperati. Non c’è dubbio però che in Russia Natal'ja Sergeevna avreb­ be comunque ritrovato se stessa. Ma ritrovò se stesso Savinkov? No. E ritrovò se stessa Nadezda Terent'eva? No. A questo punto il destino di Natal'ja Sergeevna Klimova ri­ guarda la grande tragedia dell’intelligencija russa, dell’intelligencija rivoluzionaria. Quelli che erano i migliori elementi della rivoluzione russa su­ birono perdite enormi, perirono giovani, sconosciuti, nel tentati­ vo di minare il trono, si immolarono in così grande numero che al momento della rivoluzione il loro partito non aveva piu né forze né uomini per portarsi dietro la Russia. Una frattura aveva spaccato in due l’epoca - non solo in Rus­ sia ma nel mondo intero - e avrebbe visto da una parte tutto l’u­ manesimo del XIX secolo, la sua abnegazione, il suo clima morale, la letteratura e l’arte, e dall’altra: Hiroshima, il bagno di sangue della guerra e i campi di concentramento, e torture medievali e corruzione delle anime - il tradimento visto come valore morale, sintomo terrificante dello Stato totalitario. La vita e il destino della Klimova sono inscritti nella memoria dell’uomo proprio perché sono una vita e un destino significativi di questa frattura epocale. Il destino della Klimova è l’immortalità, il simbolo. La vita ordinaria lascia di sé meno tracce che non la vita del co­ spiratore clandestino, anche se quest’ultima è intenzionalmente nascosta, occultata sotto altri nomi e abiti altrui. E un’antica cronaca che viene comunque scritta, emergendo a tratti in superficie, come la Lettera prim a d e ll’esecuzione, come le memorie, come l’annotazione di qualcosa di molto importante. Di tale natura sono tutti i racconti che riguardano la Klimova. Ne esistono parecchi. La traccia che ha lasciato è consistente. Sem­ plicemente, tutte queste sparse memorie non son state ricondotte all’unità di un monumento letterario.Il Il racconto è un palinsesto che conserva tutti i suoi stratificati misteri. Il racconto è l’occasione per un incantesimo, l’oggetto di una magia, qualcosa di vivo, una cosa non ancora morta che ha ve­ duto l’eroe. Può essere in un museo: una reliquia; all’esterno: una

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casa, una piazza; in un appartamento: un quadro, una fotografia, una lettera... La scrittura del racconto è ricerca, e nella confusa coscienza del cervello deve entrare l’odore di un foulard, una sciarpa, un fazzo­ letto dimenticati dall’eroe o dall’eroina. Il racconto è viva cronaca e non paleografia. Altrimenti non c’è racconto. E la cosa stessa a raccontarsi. Perfino nel libro, nella ri­ vista l’aspetto materiale del testo - la carta, il carattere, l’impaginazione - deve essere insolito. Ho tenuto tra le mani una lettera di Natal'ja Sergeevna dalla prigione e alcune lettere degli ultimi anni dall’Italia, dalla Svizze­ ra e dalla Francia. Queste lettere sono già di per sé un racconto, una viva cronaca con un soggetto concluso, rigoroso e inquietante. Le ho tenute tra le mani dopo la sanguinosa ramazza di ferro degli anni Trenta, quando veniva cancellato e distrutto sia il no­ me che la memoria stessa di coloro che ci avevano preceduti: di lettere autografe della Klimova non se ne sono conservate molte. Nondimeno esistono e aggiungono vividi dettagli al ritratto. So­ no lettere da Pietroburgo, dalla prigione Novinskaja, dall’estero dopo l’evasione e la fuga, indirizzate alla zia e matrigna, ai fratel­ li e sorelle minori, al padre. Fortunatamente all’inizio del secolo la carta da lettere la fabbricavano con gli stracci, la carta non è in­ giallita e l’inchiostro non si è scolorito... La morte del padre di NataTja Sergeevna, avvenuta nel mo­ mento piu critico della vita di lei, durante l’istruttoria sul caso del­ l’esplosione sull’isola Aptekarskij, quella morte che alla Klimova aveva salvato la vita - poiché nessun giudice si arrischierebbe mai a condannare a morte una figlia il cui padre, supplicando per la sal­ vezza di lei, muore lui stesso. La tragedia della casa di Rjazan' avvicinò Nataša alla matrigna, il sangue le uni l’una all’altra: le lettere di N atala diventano straor­ dinariamente affettuose. Aumenta l’attenzione per i problemi familiari. Ai bambini dedica dei racconti su fiori rossi che crescono in ci­ ma alle vette dei monti piu alti. Per loro venne scritta la novella II fio re rosso. La Klimova arrivava a tutto. Nelle lettere ai bambini dalla prigione c’è un intero programma di educazione dell’animo infantile, senza toni sermoneggianti o intenti di edificazione. Plasmare l’uomo: è questo uno dei temi prediletti di Natal'ja Sergeevna. Nelle lettere ci sono righe anche più vivide della Lettera prim a d e ll’esecuzione. Ci si vede un’enorme forza vitale: la soluzione del

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problema e non i dubbi sulla correttezza del cammino intrapreso. Il segno di interpunzione preferito di Natal'ja Sergeevna sono i puntini sospensivi. Vi ricorre con una frequenza decisamente maggiore di quanto sia invalso normalmente nel discorso lettera­ rio russo. I puntini sospensivi di Natala non celano necessaria­ mente un’allusione, un senso riposto. E un modo colloquiale. La Klimova riesce a rendere i puntini sospensivi eccezionalmente espressivi e se ne avvale con frequenza. Puntini sospensivi di spe­ ranze, rilievi critici. Puntini sospensivi di argomentazioni, con­ trasti. Strumento di descrizioni scherzose, o tremende. Nelle lettere degli ultimi anni non ci sono punti sospensivi. La grafia si fa meno sicura. I punti e le virgole si trovano come prima ai loro posti e i puntini sospensivi sono completamente spa­ riti. E tutto chiaro anche senza punti sospensivi. I calcoli sul cam­ bio del franco non hanno bisogno di punti sospensivi. Le lettere ai bambini sono piene di descrizioni della natura e avverti che non si tratta di una concezione libresca del senso filo­ sofico delle cose, ma di una comunione, sin dall’infanzia, con il vento, la montagna, il fiume. C ’è una splendida lettera sulla ginnastica e le danze. Le lettere ai bambini, naturalmente, tengono conto della com­ prensione infantile della questione trattata, nonché della censura carceraria. La Klimova sa come far passare notizie sulle carceri di puni­ zione; Natal'ja Sergeevna fini spesso nelle celle di rigore delle va­ rie prigioni e il motivo era sempre lo stesso: la difesa dei diritti dei carcerati. I. Kachovskaja, che aveva incontrato la Klimova sia a Pietroburgo che a Mosca - e naturalmente sempre in celle di ri­ gore - ha raccontato molte cose al riguardo. I. Kachovskaja racconta di come nella cella di isolamento vici­ no alla sua, nella prigione di transito di Piter9, Natala Klimova bal­ lasse con foga al suono ritmico delle catene certe danze stravaganti. O come battesse contro la parete i versi di Bal'mont: Chi vuol vedere le ombre sparire e dileguarsi, chi non vuole che la tristezza abbia a rinnovarsi, deve venire in aiuto di se stesso deve, con imperiosa mano gettare quanto c’è in lui di vano. 9 Nomignolo affettuoso per San Pietroburgo, in uso nell’ambiente intellettuale anche in epoca sovietica e fino ai nostri giorni.

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« L ’ergastolana a tempo indeterminato N. Klimova batteva sul­ la parete questi versi di Bal'mont in risposta alle mie lamentele. Sei mesi prima era passata per l’esecuzione delle persone pili vici­ ne, la fortezza Petropavlovskaja e la condanna a morte». Bal'mont era il poeta preferito di Natal'ja Sergeevna. Era un cosiddetto «m odernista», e Natal'ja, anche se non usa la parola, sembra sentire l’importanza dell’elemento innovativo nell’arte. Dalla prigione scrisse ai bambini un’intera lettera su Bal'mont. La natura di Natal'ja Sergeevna aveva bisogno di un’immediata giustificazione logica dei propri sentimenti. «Buoni sentimenti piu filosofia», cosi il fratello Miša definiva questa peculiarità del suo carattere. Bal'mont significa che anche in fatto di letteratura il gusto di Natal'ja Sergeevna, coerentemente con tutta la sua vita, la porta­ va sulle frontiere piu avanzate della poesia contemporanea. E se Bal'mont corrispondeva alle speranze della Klimova, basterebbe una vita come la sua per giustificare l’esistenza di Bal'mont, la sua arte. Nelle lettere, la Klimova mostra di tenere moltissimo alle poe­ sie, si preoccupa di avere sempre con sé la raccolta Sarem o com e i l sole.

Se nei versi di Bal'mont c’era un motivo, una melodia che fa­ ceva vibrare le corde di uno strumento sensibile come l’anima del­ la Klimova, già solo per questo la sua non è stata vana. Sembre­ rebbe che il piu semplice Gor'kij debba esserle piu consono, con la sua procellaria, o Nekrasov... No. Il poeta prediletto della Kli­ mova è Bal'mont. Anche il motivo blokiano della Russia mendica e battuta dal vento era molto forte nella Klimova, specialmente nei tristi anni passati all’estero. Natal'ja Sergeevna non riusciva a immaginarsi fuori della Rus­ sia, senza la Russia e non per la Russia. Il rimpianto della natura russa, della gente russa, della sua casa di Rjazan': la nostalgia per la patria nella sua forma piu pura è espressa nelle lettere dall’este­ ro con molta chiarezza e, come sempre, con ragionata passione. E c’è ancora un’altra lettera, e questa fa paura. Natal'ja Ser­ geevna, che soffre il distacco con tutta la passione della quale è ca­ pace, che pensa in continuazione alla patria, che ne scrive, quasi scongiurando, con ardore, all’improvviso sembra esitare e dice del­ le parole che non si addicono a una razionalista, a una volterria­ na, a una seguace dell’irreligiosità del xix secolo: N atal'ja Ser­ geevna scrive parole piene d ’angoscia, pervase dal presentimento che non avrebbe mai piu rivisto la Russia.

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Che cosa è rimasto di questa vita appassionata ? Soltanto una medaglia d’oro scolastica nella tasca della giubba carceraria della figlia maggiore di Natal'ja Sergeevna Klimova. Sulle tracce della Klimova non sono solo. Con me c’è la figlia maggiore e quando troviamo la casa che cerchiamo, la donna en­ tra e io resto in strada oppure, entrando dietro a lei nell’apparta­ mento, mi appiattisco contro una parete o mi confondo con la ten­ da di una finestra. L ’ho vista neonata, ho rivisto con il ricordo le mani forti e sal­ de della madre - che trascinavano senza sforzo le bombe di dina­ mite da un pud destinate all’uccisione di Stolypin - ho rivisto quel­ le mani abbracciare con impaziente tenerezza il corpicino della sua prima bambina. L ’avrebbero chiamata Nataša: la madre avrebbe chiamato la figlia con il suo stesso nome, per votarla ad atti eroi­ ci, a continuare la causa materna, affinché per tutta la vita risuo­ nasse questa voce del sangue, questo richiamo del destino, affin­ ché per tutta la vita ogni volta che la chiamavano con il nome del­ la madre rispondesse alla voce materna che la chiamava per nome. Aveva sei anni quando la madre mori. Nel 1934 andammo a trovare Nadežda Terent'eva, la massi­ malista compagna di Natal'ja Sergeevna nel primo caso clamoro­ so, quello dell’isola Aptekarskij. «Non assomiglia alla madre, non le assomiglia», continuava a gridare la Terent'eva alla nuova Nataša, la fulva figlia di una ma­ dre dai capelli scuri. La Terent'eva non aveva saputo riconoscere in lei la forza ma­ terna, non aveva indovinato, non aveva sentito l’enorme forza vi­ tale che sarebbe servita alla figlia della Klimova per prove ancora maggiori del fuoco e della tempesta che erano toccate in sorte al­ la madre. Facemmo visita alla Nikitina, che aveva preso parte alla fa­ mosa evasione, leggemmo i due libri che aveva scritto sull’argo­ mento. Visitammo il Museo della Rivoluzione, nella sezione degli an­ ni Novanta c’erano due fotografie. Natal'ja Klimova e Michail Sokolov. «Mandatemi la fotografia dove sono in camicetta bian­ ca e paletot a mantellina, molti mi chiedono delle foto, e se non c’è quella (Misa mi ha detto che è andata persa), allora una foto di quand’ero al ginnasio. Ho molte richieste». Queste righe spontanee sono tratte dalla prima lettera di Natal'ja Sergeevna dopo la fuga.

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Adesso è il 1947 e ci troviamo nuovamente insieme in via Sivcev Vražek a Mosca. La giubba imbottita conserva ancora, come l’alone di costosi profumi, l’odore appena percettibile delle scuderie dei lager del Kazachstan. Era una specie di odore primigenio, dal quale sono derivate tut­ te le essenze della terra, l’odore dell’umiliazione e della boria, del­ la mendicità e dell’ostentazione. Nel lager, nella steppa del Kazachstan, la donna aveva impa­ rato ad amare i cavalli per la loro libertà, la libertà senza ferri del branco, che nessuno aveva cercato di calpestare, distruggere, pie­ gare, cancellare dalla faccia della terra. La donna nel suo indu­ mento da detenuta, la figlia della Klimova, si era resa conto trop­ po tardi di avere lo straordinario dono di ispirare fiducia ad ani­ mali e uccelli. Lei cittadina, conobbe la dedizione di cani, gatti, oche, colombi. L ’ultimo sguardo d ’addio di un cane da pastore in Kazachstan fu anch’esso una sorta di confine, di ponte bruciato nella sua vita; la donna entrava di notte nella scuderia e tendeva l’orecchio alla vita, alla libertà dei cavalli, i quali, diversamente dagli uomini, la circondavano con il loro interessamento, la loro lingua, la loro vita. Di li a molti anni, a Mosca, all’ippodromo, la donna avrebbe cercato di incontrarsi nuovamente con i cavalli. Ma l’aspettava una delusione. I cavalli da corsa, stretti in balze, bindelle e cappucci, pervasi dalla frenesia dello sprone, assomigliava­ no piu a uomini che a cavalli. E non cercò un’altra occasione. Ma tutto questo era ancora in un futuro lontano, e per intan­ to la giubba imbottita continuava a conservare l’odore appena per­ cettibile della scuderia di quel lager nel Kazachstan. Ma cosa c’era stato prima del Kazachstan? Quel pesce della razza dei salmonidi era ritornato al fiume natio per scorticarsi a sangue i fianchi contro le rive rocciose. «M i piaceva molto balla­ re, è tutto qui il mio peccato nei confronti della tetra Mosca del ’37». Era ritornata per vivere in quella terra dov’era vissuta sua madre, per raggiungere la Russia su quel piroscafo che sua madre Natal'ja Klimova non aveva fatto in tempo a prendere. Il pesce della razza dei salmonidi non ascolta ragioni, la voce interiore è piu forte, piu imperiosa. Clima funesto degli anni Trenta: il tradimento di persone vi­ cine, diffidenza, sospetto, invidia e odio. La donna comprese al­ lora e per tutta la vita che non c’è peggior peccato della mancan­ za di fiducia e giurò... Ma prima che potesse giurare l’arrestarono. Arrestarono suo padre, che scomparve nei sotterranei inonda­

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ti di sangue dei cosiddetti « lager senza diritto alla corrisponden­ za»10. Il padre aveva un cancro alla gola e non potè sopravvivere a lungo all’arresto. Ma quando si avviarono delle ricerche, la rispo­ sta fu che era morto nel 1942. La straordinaria efficacia antitu­ morale, la miracolosa proprietà anticancerogena del lager dove pre­ tendevano fosse vissuto e morto il padre, non attirò l’attenzione che meritava della medicina mondiale. Un macabro scherzo, come ce ne furono parecchi in quei tempi. Per molti anni due donne avrebbero cercato almeno l’ombra di una traccia del loro con­ giunto, e non avrebbero trovato niente. Dieci anni di lager, interminabili «lavori generali», mani e pie­ di congelati: voleva dire, ormai per sempre, che l’acqua fredda sul­ le parti danneggiate vi avrebbe fatto vedere le stelle. Micidiali tem­ peste, alle quali sei li li per soccombere. Mani anonime che ti sor­ reggono nella tormenta, che ti riportano alla baracca, ti mas­ saggiano, ti riscaldano, ti rianimano. E non sai neanche chi siano queste persone senza nome, degli anonimi come i terroristi della gioventù di Nat al'ja Klimova. Le mandrie di cavalli. Di cavalli del lager, cavalli kazachi, più liberi degli uomini, con una loro vita speciale: quella donna di città aveva lo strano dono di sapersi guadagnare la fiducia di animali e uccelli. Gli animali infatti sentono gli uomini con maggior perspi­ cacia di quanta ne usino fra di loro gli uomini, e meglio degli uo­ mini ne distinguono le qualità. Animali e uccelli si comportavano nei confronti della figlia di Nataša Klimova con fiducia: proprio quel sentimento che era cosi carente tra gli uomini.

Nel 1947, quando l’istruttoria e i dieci anni di lager erano or­ mai alle spalle, le prove erano appena cominciate. Il meccanismo che macinava e uccideva sembrava dover durare in eterno. Colo­ ro che avevano resistito, che erano sopravvissuti fino allo spirare della pena, erano condannati a nuove peregrinazioni, a nuovi in­ finiti tormenti. Questo disperante arbitrio, questa ineluttabile con­ danna era l’alba nera di sangue del domani. Capelli d ’oro, folti e pesanti. Cosa l’aspettava ancora? Pere­ grinazioni di anni e anni per il paese, senza diritti, richieste di per­ messi di soggiorno, ricerca di un lavoro qualsiasi. Dopo il rilascio, dopo il lager, il primo impiego come domestica presso uno dei ca­ pi: il maialetto di casa da lavare e accudire, altrimenti di nuovo al­ la sega in un cantiere di abbattimento nella foresta. E la salvezza: 10 La formula adottata nascondeva in realtà l’esecuzione in carcere dell’arrestato e tor­ nava utile agli inquirenti che spesso istruivano processi anche a carico di familiari e amici.

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un lavoro come sportellista. Brighe continue per ogni documento, città e province compatibili con il «regim e» di un ex detenuta, il pasport, il documento di identità insultante come un marchio d ’in­ famia... Quanti limiti dovranno essere superati, quanti ponti bruciati dietro di sé...

Ed ecco che qui, nel 1947, la giovane donna capi per la prima volta e senti che non era venuta su questa terra per celebrare il no­ me materno, che il suo destino non era l’epilogo, il poscritto di un’altra vita, sia pure tanto cara, sia pure tanto grande. E che lei aveva un destino suo proprio. E che il cammino per l’affermazione di questo suo destino era appena cominciato. E che anche lei era una rappresentante del secolo e dell’epoca, allo stes­ so titolo della madre. E che preservare la fede nell’uomo con la sua personale espe­ rienza, con la sua vita era un atto non meno eroico della causa ma­ terna.

Mi è venuto spesso da pensare come mai l’onnipotente, l’on­ nipossente meccanismo dei lager non abbia calpestato l’anima del­ la figlia della Klimova, non le abbia triturato la coscienza. E tro­ vavo la risposta: per disintegrare e calpestare, come fa il lager, ogni residua dignità umana, occorre un considerevole lavoro prepara­ torio. La corruzione era tutto un processo, e un processo prolungato, che durava molti anni. Il lager ne era solo il finale, la chiusa, l’e­ pilogo.

Furono dunque gli anni passati nell’emigrazione a preservare la figlia della Klimova? Però nei processi istruttori d e l’3 7 gli emi­ grati non si comportarono meglio dei «locali». A salvarla furono piuttosto le tradizioni familiari. E quell’enorme forza vitale che sarebbe riuscita a superare tutto, fino alla prova del maialetto da accudire, disabituandola solo dal piangere, per sempre. Lei non solo non avrebbe perso la fede negli uomini ma avreb­ be eletto a propria norma di vita l’affermazione di questa fede, la sua costante sottolineatura: «si deve dare per scontata la bontà di ognuno; solo il contrario va dimostrato». In mezzo a tanta rabbia, diffidenza, invidia e rancore la pu­ rezza della sua voce avrebbe avuto un risalto tutto speciale. «Era un’operazione complicata, calcoli al fegato. Era il 1952, l’anno piu difficile, il peggiore della mia vita. Distesa sul tavolo operatorio, pensavo... Queste operazioni - calcolo al fegato - non si fanno in anestesia generale. L ’anestesia generale in operazioni

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del genere darebbe il cento per cento di decessi. Mentre mi ope­ ravano in anestesia locale io pensavo a una cosa sola. Bisogna smet­ tere di soffrire, smettere di vivere - ed è cosi facile, basta un ce­ dimento della volontà - e la soglia verrà superata, la porta che si apre sul non essere verrà spalancata... Perché vivere? Perché ri­ sorgere, ripresentarsi in vita all’appuntamento del 1937 ? Del 1938, 1939. 1940, 1941, 1942, 1943. 1944. 1945. *946, 1947. 1948,

1949, 1950, 1951 e cosi per tutta la vita, tutta cosi orribile?

L ’operazione andava avanti e anche se potevo sentire ogni pa­ rola, cercavo di concentrarmi unicamente su me stessa, e dal piu profondo, dalla sostanza stessa del mio essere sentii scaturire qual­ cosa come un sottile rivolo di volontà, di vita. Questo rivolo di­ ventava sempre piu forte, piu consistente e a un tratto cominciai a respirare liberamente. L ’operazione era finita. Nel 1953 mori Stalin e cominciò una nuova vita con nuove spe­

ranze, una vita viva con vive speranze. La mia vera resurrezione fu quell’appuntamento con il mese di marzo del 1953. Quando mi ero alzata come rinata dal tavolo ope­ ratorio sapevo che si doveva vivere. Ero vissuta, e adesso ero ri­ sorta». Siamo in quell’anticamera di via Sivcev Vražek e aspettiamo una risposta. Esce la padrona di casa, un tacchettio di tacchi, il ca­ mice bianco abbottonato, il berrettino bianco infilato stretto sui capelli grigi accuratamente ravviati. La donna scruta senza fretta l’ospite con i suoi begli occhi grandi e scuri. E presbite. Io sto in disparte, confondendomi con il tendaggio pesante e polveroso della finestra. Io che conosco il passato e vedo il futu­ ro. Nel campo di concentramento ci avevo già soggiornato, mi ero fatto io stesso lupo ed ero in grado di riconoscere la presa di quel­ le mascelle. Nelle abitudini ferine piu o meno mi raccapezzavo.

Mi si insinuò in cuore una certa inquietudine - non paura, ma inquietudine - e vidi il domani di quella donna dai capelli rossi, non molto alta, la figlia di Nataša Klimova. Vidi il suo domani e sentii una stretta al cuore. - Si, ho sentito parlare di quella fuga. Tempi romantici. E ho letto la «Lettera dopo l’esecuzione». Signore! Tutta la Russia in­ tellettuale... Ricordo, ricordo ogni cosa. Ma il romanticismo è una cosa e la vita - mi vorrà scusare - è un’altra. Quanti anni è stata in lager ? - Dieci. - Vede? Posso aiutarla, lo faccio per sua madre. Ma non vivo sulla luna. Sono un’abitante della terra. Magari qualche suo pa-

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rente ha un oggetto d ’oro: che so un anello, un anello con una pie­ tra... - Ho solo una medaglia, la medaglia scolastica di mamma. Anel­ li niente. - E un vero peccato che non abbia anelli. La medaglia può giu­ sto servire per le capsule dentarie. Sono medico dentista e prote­ sista e l’oro mi va via come il pane. - Deve andarsene, - le sussurrai. - Devo vivere, invece, - disse con tono fermo la figlia di Nataša Klimova. - Ecco... - Ed estrasse un piccolo involto di strac­ ci dalla tasca del suo giubbotto da detenuta. 1966.

Z o lo ta ja m e d a l',

in «Pod"em», 1990, n. 3.

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L ’uomo era vecchio, con le braccia lunghe, forte. In gioventù aveva subito un trauma psichico, era stato condannato a dieci an­ ni per sabotaggio e deportato nella regione degli Urali settentrio­ nali, dove si stava costruendo l’impianto di carta e cellulosa della Visera. Qui era risultato che il paese aveva bisogno delle sue co­ gnizioni ingegneristiche sicché Pokrovski], cosi si chiamava l’in­ gegnere, invece che allo sterro era stato messo a dirigere i lavori. Dirigeva uno dei tre settori del cantiere ed era allo stesso livello di altri due ingegneri detenuti, Morduchaj-Boltovskij e Budzko. Pëtr Petrovič Budzko non era dentro per sabotaggio. Era sempli­ cemente un ubriacone, condannato in base all’articolo 109. Alle autorità un bytovìV, un «comune» faceva sempre comodo; co­ munque per i compagni Budzko restava un autentico «cinquan­ totto punto sette». Pokrovskij voleva andare alla Kolyma. Berzin', il direttore del Višchimza, l’impianto chimico della Visera, era in partenza per i giacimenti d ’oro, stava passando le consegne e ingaggiando i «suoi». Alla Kolyma, tutti, tutti contavano di trovare il paese del­ la cuccagna e addirittura speravano in un rapido rilascio anticipa­ to. Pokrovskij aveva presentato la sua domanda e non capiva per­ ché Budzko l’avessero preso e lui no, si tormentava nell’incertez­ za e aveva deciso di farsi ricevere da Berzin in persona. Trentacinque anni dopo ho messo per iscritto il racconto di Pokrovskij. Ne ho rispettato non solo la lettera, ma anche il tono, a cui Pok­ rovskij, grande ingegnere russo, rimase fedele per tutta la sua vita. - Il nostro capo era un grande democratico.1 1 Eduard Petrovič Berzin (1894-1938), nel 1918 contribuì a far scoprire il complotto di Lockhart; nel 1930-31 diresse la costruzione del complesso chimico di Visera; nel no­ vembre 1931 fu trasferito alla Kolyma dove dal 3 dicembre assunse la direzione del Dal'stro j; il 19 dicembre 1937 venne arrestato nella città di Aleksandrov e il 1“ agosto 1938 fucila­ to [Nota all’edizione russa].

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- Un democratico ? - Si, sa bene anche lei come sia difficile arrivare fino alla gen­ te che conta. Vuoi parlare con il direttore del consorzio, il segre­ tario del comitato regionale ? Devi passare per il segretario e sen­ tirti dire: perché? per quale motivo? dove? e poi tu chi saresti? Invece qui, dove sei uno privo di qualsiasi diritto, un recluso, al­ l’improvviso scopri che puoi farti ricevere senza problemi da un’au­ torità così alta, e per giunta militare. E per giunta con una bio­ grafia come la sua: l’affare Lockhart, il lavoro con Dzeržinskij. Non ti pare vero. - Intende il generale-governatore ? - Proprio lui. Posso dirglielo in tutta franchezza, senza falsi pudori, che qualcosa per la Russia l’ho fatta. E nel mio campo pen­ so di essere conosciuto in tutto il mondo. La mia specializzazione è l’approvvigionamento idrico. Il mio nome è Pokrovskij, l’ha mai sentito ? - No. - Beh, è davvero da ridere. Un soggetto cechoviano o, come dicono oggi, un modello. Il modello cechoviano, dal racconto II passeggero di prima classe. Beh, dimentichiamo chi è lei e chi sono io. La mia carriera di ingegnere l’ho iniziata con l’arresto, la pri­ gione, l’imputazione e la condanna a dieci anni di lager per sabo­ taggio. Sono passato per la seconda tornata dei processi per sabotag­ gio; quando c’era stata la prima, quella degli sachtincy, i tecnici carbonieri, noi avevamo condannato e stigmatizzato i sabotatori al soldo dei vecchi padroni. A noi era toccato il secondo turno, l’anno 1930. Nel lager sono finito nella primavera del ’31. Ma co­ s’era stato l’affare dei tecnici carbonieri? Di per sé una scioc­ chezza. Che però consentì la messa a punto di un modello, un pri­ mo saggio, per la popolazione e i quadri dirigenti, di certe novità che sarebbero diventate del tutto chiare nel ’37. Ma allora, nel ’30, dieci anni erano una condanna da restare tramortiti. E per cosa poi? Era l’arbitrio a lasciarti così tramortito. Sicché, eccomi alla Visera, e costruisco qualcosa, edifico anch’io. E posso chiedere udienza al massimo livello. Berzin non aveva giorni di ricevimento. Ogni giorno gli face­ vano trovare il cavallo pronto vicino all’ufficio - di solito un ca­ vallo da sella, ma a volte anche un calesse. E intanto che monta­ va in sella, il capo dava udienza a questo o quel detenuto. Dieci persone al giorno, senza burocratismi - si trattasse di malavitosi, membri di sette religiose o intellettuali russi. C ’è da dire che né i

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malavitosi né i settari si rivolgevano mai a Berzin con delle ri­ chieste. Ci si metteva in fila - una fila dalla quale non ci si pote­ va allontanare un momento se non si voleva perdere il posto, e si aspettava. La prima volta arrivai in ritardo, ero l’undicesimo e quando i primi dieci furono passati, Berzin spronò il cavallo e parti al galoppo alla volta del cantiere. Avevo quasi deciso di parlargli sul posto di lavoro, ma i com­ pagni me lo sconsigliarono, rischiavo di compromettere tutto quan­ to. Le regole sono regole. Dieci persone al giorno, mentre il capo monta in sella. Il giorno successivo arrivai un po’ prima e riuscii a parlargli. Gli chiesi di portarmi con sé alla Kolyma. Ricordo quella conversazione parola per parola. - E tu chi sei ? - Con la mano Berzin fece scostare il muso al cavallo per sentirmi meglio. - Ingegnere Pokrovskij, cittadino capo. Sono dirigente di set­ tore dello stabilimento chimico. Costruisco il fabbricato principa­ le, cittadino capo. - E cosa vuoi ? - Mi prenda con lei alla Kolyma, compagno capo. - Quanti anni ti hanno dato ? - Dieci, cittadino capo. - Dieci ? Non ti prendo. Fossero stati tre o, che so ? cinque, sa­ rebbe stato diverso. Ma dieci! Vuol dire che qualcosa c’è. Qual­ cosa c’è. - Le giuro, compagno capo... - Va bene, d’accordo. Mi farò un appunto. Come ti chiami? Pokrovskij. Prendo nota. Ti faranno sapere. Berzin spronò il cavallo. Alla Kolyma non mi presero. Otten­ ni il rilascio anticipato lavorando in quello stesso cantiere e presi il largo. Sono stato dappertutto. Ma in nessun posto ho lavorato meglio che sotto Berzin, alla Visera. Era l’unico cantiere dove tut­ to veniva fatto entro i termini stabiliti e, se qualcosa era in ritar­ do, bastava un ordine di Berzin e tutto veniva su come d’incanto, sorgendo dal suolo. Gli ingegneri (dei detenuti, figuriamoci!) ave­ vano facoltà di trattenere gli uomini al lavoro per superare la nor­ ma del piano. Tutti noi ricevevamo delle gratifiche, venivamo pro­ posti per il rilascio anticipato. Allora non esisteva il computo del­ le giornate lavorative. E i capi ci dicevano: metteteci l’anima, e chi lavorerà male verrà spedito al Nord. E indicavano con la mano la destinazione, su per il corso della Višera. Ma che cosa sia questo Nord, non ne ho idea.

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Anch’io ho conosciuto Berzin. Ai tempi delia Višera. Alla Koly­ ma, dove mori, non avrei avuto modo di vederlo, mi ci trasferiro­ no troppo tardi. Il generale Groves2 provava per gli scienziati del progetto Manhattan un assoluto disprezzo: il dossier di Robert Oppenhei­ mer3 basta e avanza! Un disprezzo che non si faceva scrupolo di manifestare. Nelle sue memorie Groves spiega il motivo per cui volle essere nominato generale prima di assumere la direzione del progetto Manhattan: «H o spesso avuto occasione di osservare che i simboli del potere e i gradi hanno piu effetto sugli scienziati che sui militari». Berzin nutriva un assoluto disprezzo per gli ingegneri. Per tut­ ti quei sabotatori: Morduchaj-Boltovskij, Pokrovskij, Budzko. Quegli ingegneri detenuti che costruivano il complesso della Visera: «Lo realizzeremo nei tempi stabiliti! In un lampo! Avan­ ti con il piano! », non ispiravano al cittadino capo altro che di­ sprezzo. Per un sentimento diverso come lo stupore, lo stupore fi­ losofico di fronte a quell’illimitata mortificazione e infinita disin­ tegrazione della persona, Berzin non aveva semplicemente tempo. La forza che aveva fatto di lui un capo conosceva gli uomini me­ glio di quanto non li conoscesse lui stesso. I protagonisti dei primi processi per sabotaggio - gli ingegneri Bojaršinov, Inozemtsev, Dolgov, Miller, Findikaki - lavoravano di buona lena per la razione giornaliera, nella vaga speranza di es­ sere proposti per un rilascio anticipato. Di computi precisi per sconti di pena allora non si parlava an­ cora, ma si era già capito che per poter dirigere con facilità le co­ scienze ci voleva una sorta di scala graduata che agisse a livello del­ lo stomaco. Berzin assunse la direzione dei cantieri del kombinat di Visera nel 1928. Lasciò la Visera per la Kolyma alla fine del 1931. Perciò, io che passai alla Visera il periodo dall’aprile 1929 al­ l’ottobre 1931, trovai e conobbi unicamente l’«èra di Berzin». II pilota personale dell’idrovolante di Berzin era il detenuto Vo2 Leslie Groves (1897-1970), generale americano, nel 1942, su incarico di Roosevelt, diventò il responsabile operativo del progetto Manhattan; diresse resperimento di Almagordo e il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. 3 II fisico americano Julius Robert Oppenheimer (1904-67), direttore scientifico del progetto Manhattan, nel 1954 entrò in conflitto con il governo per il suo rifiuto di lavo­ rare alla bomba termonucleare; accusato di simpatie comuniste, fu poi riabilitato.

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lodja Gince - un aviatore di Mosca condannato a tre anni per sa­ botaggio. Il fatto di essere cosi vicino al capo dava a Gince la spe­ ranza di una liberazione anticipata e Berzin, con tutto il suo di­ sprezzo per gli uomini, se ne rendeva conto. Durante i suoi viaggi, Berzin dormiva sempre dove capitava; naturalmente presso le autorità del posto, ma senza preoccuparsi di avere la scorta personale garantita. La sua esperienza gli sugge­ riva che, nel popolo russo, non solo qualsiasi congiura sarebbe sta­ ta denunciata, venduta, ma che perfino l’ombra di una congiura avrebbe trovato zelanti delatori. Delatori d’ogni risma: ex comu­ nisti sabotatori, o membri dell’intelligencija piu blasonata, o ma­ lavitosi figli di malavitosi. Faranno la loro brava denuncia, non c’è da preoccuparsi. Dorma tranquillo, cittadino capo. Berzin aveva perfettamente compreso quest’aspetto della vita del lager, dormi­ va sonni tranquilli e viaggiava altrettanto tranquillo, in aereo o via terra, e quando arrivò la sua ora fini ucciso per mano dei suoi stes­ si superiori. Quel Nord che agitavano come uno spauracchio davanti al gio­ vane Pokrovskij esisteva davvero, eccome. Il Nord accumulava al­ lora forze, stringeva i tempi. La Direzione del Nord era a Ust'-Uls, dove l’Uls confluisce nella Višera: adesso ci hanno trovato i dia­ manti. A suo tempo anche Berzin li aveva cercati, ma senza tro­ varli. Al Nord c’erano i cantieri di abbattimento forestale: per un detenuto della Visera il lavoro più pesante di tutti. I giacimenti a cielo aperto della Kolyma, le cave di pietra della Kolyma, da pic­ conare a sessanta gradi sotto zero, erano ancora di là da venire. Ma la Visera ha fatto non poco perché potesse esserci la Kolyma. Quelli della Visera sono gli anni Venti, la fine degli anni Venti. Al Nord, nei settori forestali di Pel e Myk, Vaj e Vetrjanka, i detenuti, quando li «imbrancavano» (quelli dei detenuti non so­ no infatti trasferimenti di persone ma spostamenti di mandrie pun­ golate dalle guardie, e peregon e gonjat'sono i termini ufficiali usa­ ti), i detenuti condotti al lavoro, dunque, chiedevano che fossero loro legate le mani dietro la schiena in modo che la scorta non po­ tesse ammazzarli per via «durante un tentativo di fuga». Coloro che trascuravano questa precauzione si esponevano a un pericolo mortale. Gli uccisi «durante un tentativo di fuga» erano molto nu­ merosi. In una sezione del lager i malavitosi requisivano ai fraera, i «fes­ si» non malavitosi, ogni pacco che ricevevano. Il direttore a un certo punto perse la pazienza e fece fucilare tre di loro. E fece esporre i cadaveri, nelle bare, davanti al posto di guardia, e ce li

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lasciò per tre giorni e tre notti. I furti cessarono, il direttore ven­ ne sollevato dall’incarico e trasferito altrove. Il lager era tutto un fervore di arresti, nuovi casi montati ad arte, indagini interne, istruttorie. La «terza sezione», enorme per numero di addetti, era costituita da cekisti che li dove lavoravano si erano resi colpevoli di qualcosa, erano stati condannati e spedi­ ti da Berzin con una scorta speciale, per riprendere immediata­ mente posto e mansioni di prima a un tavolo degli uffici inquirenti. Non c’era uno di questi ex cekisti che non fosse impiegato nel pro­ prio campo specifico. Il colonnello Ušakov, capo della sezione in­ vestigativa del Dal'stroj, che sarebbe felicemente sopravvissuto a Berzin, aveva alle spalle una condanna a tre anni per abuso di po­ tere, in base all’articolo i io. Di li a un anno aveva finito di scon­ tare la pena, ma era rimasto in servizio presso Berzin e insieme a quest’ultimo sarebbe poi andato a costruire la Kolyma. E non fu­ rono pochi quelli che si ritrovarono in galera «a causa di Ušakov», arrestati preventivamente, come misura cautelare... Non che Ušakov fosse un «politico». Il suo campo era piuttosto quello delle in­ vestigazioni, della caccia agli evasi. Fu anche il capo dei reparti a regime di rigore, sempre alla Kolyma, e firmò perfino il testo dei «Diritti z/k z/k» o, piu propriamente, delle «Regole di detenzio­ ne», che consistevano di due parti: i) Doveri: il detenuto deve, il detenuto non deve; 2) Diritti: il detenuto può: presentare recla­ mi, scrivere lettere, dormire un po’, mangiare un po’ . Da giovane Ušakov era stato agente della polizia criminale di Mosca, ed era li che aveva «commesso un errore» ed era stato con­ dannato a tre anni: ecco com’era finito alla Visera. Zigalëv, Uspenskij e Pesnjakevič istruirono a un certo momento un grosso caso contro il capo di un lagotdelenie, precisamente la Terza ripartizione, la Berezniki. Era una faccenda di bustarelle e dati falsificati e fini in niente grazie alla fermezza di alcuni dete­ nuti che per tre-quattro mesi restarono sotto inchiesta subendo continue minacce nelle celle di rigore del lager. Una condanna supplementare non era una rarità alla Višera. La subirono Lazarenko, Glucharev. Per tentata evasione a quel tempo non davano supplementi di pena, erano previsti tre mesi di carcere duro neti.’izoljator del lager, con le sue celle dal pavimento di ferro che, per uomini svestiti, con indosso la sola biancheria, d’inverno equivaleva alla morte. Ci venni rinchiuso anch’io, dagli «organi» locali, due volte, e due volte venni condotto con una scorta speciale da Berezniki alla Vižaicha, due volte passai per l’istruttoria, per gli interrogatori.

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Quelli che ne avevano fatto l’esperienza temevano Yizoljator. Evasi e malavitosi supplicavano il comandante della Prima ripar­ tizione, Nesterov, di non mandarli in carcere. Non l’avrebbero fat­ to mai piu, mai piu sarebbero evasi. E il comandante Nesterov, mostrando loro il pugno peloso, diceva: «Vabbè, scegli, una ri­ passata o l’isolamento». «L a ripassata!» rispondeva lamentosa­ mente il mancato fuggiasco. Nesterov alzava il braccio e il dete­ nuto stramazzava coperto di sangue. Nel nostro convoglio di detenuti, era l’aprile del 1929, quelli della scorta facevano ubriacare la dentista Zoja Vasil'evna, con­ dannata in base all’articolo 58 per « l’affare del Placido Don»4, e ogni notte la stupravano in gruppo. In quello stesso convoglio c’e­ ra il settario Zajac. All’appello si rifiutava di alzarsi. E a ogni ap­ pello il soldato della scorta lo riempiva di calci. Un giorno uscii dai ranghi per protestare e quella notte stessa fui portato fuori dalla baracca, al gelo, spogliato nudo e lasciato nella neve per tutto il tempo che piacque alla scorta. Era l’aprile del 1929. Nell’estate del 1930 nel lagotdelenìe Berezniki si era formato un contingente di circa trecento detenuti per i quali in base al­ l’articolo 458 era stata avviata la procedura di rilascio o trasferi­ mento per invalidità. Erano esclusivamente reduci dal Nord con macchie nero bluastre da necrosi, lesioni e contratture da scorbu­ to, moncherini al posto di arti congelati. Tra essi non c’erano samoruby. gli «autolesionisti», sempre in base al 458, non potevano essere comunque liberati e restavano in lager fino al termine del­ la pena o un’eventuale morte accidentale. Il capo di quel lagotdelenie, Stukov, un giorno ordinò per gli in­ validi in corso di trasferimento delle passeggiate all’aria aperta a scopo terapeutico, ma quelli si rifiutarono concordemente di far­ le: il timore era che rimettendosi un po’ in salute si sarebbero poi visti rispedire al Nord. SI, decisamente quello spauracchio del Nord che avevano agi­ tato davanti a Pokrovskij non era inconsistente. Nell’estate del 1929 vidi per la prima volta un convoglio di detenuti che veniva dal Nord: un grosso serpente di polvere che scivolava lentamente giu per il pendio, visibile da lontano. Poi, attraverso la polvere, cominciarono a balenare le baionette, quindi gli occhi. Nessun ba­ gliore di denti, caduti per lo scorbuto. Bocche riarse, labbra ere4 In ambienti non ufficiali e nei circoli di opposizione al regime venne messa ripetu­ tamente in discussione, per decenni, la paternità del P la c id o D o n , il celebre romanzo di M. Solochov, uno degli scrittori sovietici piu celebrati in patria, premio Nobel nel 1965.

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paté, le grigie solovcanki calcate in testa, berrette con i paraorecchi di vecchio panno militare, fagotti di vecchio panno i giacconi, i calzoni. Quel convoglio non l’ho pili potuto dimenticare. E non si era forse ai tempi di Berzin, di quel Berzin vicino al­ la cui staffa trepidava l’ingegner Pokrovski] ? Questo avvilente servilismo, questa venerazione nei confronti di qualsiasi autorità concentrazionaria costituiscono una tremen­ da peculiarità del carattere russo. L ’ingegner Pokrovskij era solo uno delle migliaia di individui pronti a implorare, a leccare la ma­ no a quelli che comandavano. La sua qualità, nonostante tutto, di membro dell’intelligencija, lo dispensò dal dover piegare completamente la schiena. Si fermò all’altezza della mano. - Come avrà fatto poi a piacerle tanto la Vižaicha ? - C ’è da dirlo ? Ci permettevano di fare il bucato al fiume. Do­ po il carcere, dopo il viaggio di trasferimento era una cosa impor­ tante. Senza parlare della fiducia. Una fiducia incredibile. Face­ vamo il bucato proprio al fiume, sulla riva,e i soldati di guardia ci vedevano e non sparavano! Ci vedevano e non sparavano! - Quel fiume nel quale sguazzavate era all’interno della zona sorvegliata, circondata da una cintura di torrette di guardia, in mezzo alla tajga. Che rischio correva Berzin a farvi lavare la bian­ cheria ? E al di là dell’anello delle torrette c’era un’altra cinta, mo­ bile, di postazioni segrete, pattuglie di operativniki, squadre vo­ lanti di intervento che si controllano a vicenda. - S-s-sì... - E lo sa qual è stata la frase di congedo con la quale mi ha ac­ compagnato la Višera, la sua e mia Visera, quando sono stato li­ berato nell’autunno del 1931 ? A quel tempo lei lavava già la sua biancheria al fiume. - Qual è stata? «Addio. La nostra piccola “trasferta di servizio” l’ha provata, di sicuro gliene toccheranno di piu impegnative». La leggenda di Berzin, grazie ai suoi inizi, che agli occhi dei conformisti devono apparire piuttosto esotici - il «complotto Lockhart», Lenin, Dzeržinskij! - e alla sua tragica fine - Berzin venne fatto fucilare da Ežov e Stalin nel 1938 - non cessa di cre­ scere in una rigogliosa fioritura di esagerazioni. Con 1’« affare Lockhart» tutti quanti in Russia dovettero fare una scelta, lanciare la moneta: testa o croce. Berzin decise di de­ nunciare, di tradire Lockhart. Simili azioni sono spesso determi­ nate dal caso: aveva dormito male perché l’orchestrina di fiati, ai

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giardini, suonava troppo forte. O forse la faccia dell’emissario di Lockhart aveva qualcosa che gli aveva ispirato un senso di disgu­ sto. Oppure, ufficiale zarista qual era, intuì che quella poteva es­ sere una lampante prova di fedeltà verso un potere ancora in pro­ cinto di nascere ? Come dirigente di lager Berzin non si distingueva dagli altri, era un solerte esecutore della volontà del suo mandante. Aveva presso di sé in servizio alla Kolyma tutti gli agenti dell’Ogpu di Lenin­ grado dei tempi dell’«affare Kirov». Per essi il trasferimento alla Kolyma non era diverso da una qualsiasi altra trasferta per motivi di servizio con mantenimento di anzianità, aumenti e cosi via. F. Medved', capo della sezione di Leningrado dell’Ogpu, alla Kolyma era a capo della Direzione mineraria meridionale. Finirà fucilato per 1’« affare Berzin», dopo Berzin stesso; questi, convocato a Mo­ sca, verrà tirato giu dal treno dalle parti di Aleksandrov. Né Medved', né Berzin, né Ežov, né Berman, né Prokof'ev erano persone particolarmente dotate, con qualche qualità fuori dell’ordinario. A renderli celebri furono i galloni, il titolo, l’uniforme milita­ re, la carica. Nel 1936 anche Berzin ammazzava: «per ordini superiori» ma ammazzava. Il giornale «Sovetskaja Kolyma» è pieno di comuni­ cati, di articoli su processi, di appelli alla vigilanza, di pubbliche confessioni e discorsi sulla necessità di essere implacabili e spie tati. Nel corso degli anni 1936 e 1937 lo stesso Berzin aveva fatto assiduamente e regolarmente discorsi di questo genere, nel timo­ re di trascurare qualche occasione o di non dimostrarsi abbastan­ za vigile. Alla Kolyma, anche nel 1936, la sorte dei nemici del po­ polo era l’esecuzione sommaria. Uno dei principi basilari degli assassini dell’epoca staliniana fu di far annientare tutta una determinata serie di esponenti del par­ tito per mano di un’altra. E questi a loro volta venivano elimina­ ti da terzi elementi, appartenenti a una terza serie di esecutori. Non so chi in definitiva traesse giovamento da tutto questo e se qualcuno agisse in forza di qualche convinzione o specifico cri­ terio. E del resto non ha molta importanza. Berzin venne arrestato nel dicembre del 1937. Dopo aver tan­ to ammazzato per Stalin, venne fatto ammazzare proprio da que­ sti... Non è difficile dimostrare l’inconsistenza della leggenda di Ber­ zin, basta dare una scorsa ai giornali della Kolyma di quei tempi:

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il 1936! l’anno 1936! E il ’37, naturalmente. La Serpantinnaja la prigione per detenuti sotto istruttoria della Direzione minera­ ria settentrionale, che nel 1938 vide le fucilazioni di massa del co­ lonnello Garanin - è stata fondata ai tempi di Berzin. E un’altra la circostanza che si stenta a comprendere. E cioè il motivo per cui il talento non riesca a trovare in se stesso sufficienti forze interiori e fermezza morale tale da avere rispetto per se stes­ so e non venerare la divisa, il grado. Perché uno scultore di talento si mette a raffigurare con tra­ sporto, dedizione e venerazione un qualche capo del Gulag? Che cosa attrae così imperiosamente l’artista in un capo del Gulag ? E vero, anche Ovidio, tra delazioni e relegazione, fu un esponente dell’eterno sistema della schiavitù, ma non è certo a questo che de­ ve la sua fama. Mettiamo che un pittore, uno scultore, un poeta o un compo­ sitore possa essere ispirato da un’illusione, preso e trascinato da un impeto emotivo a creare una sinfonia, un’opera d’arte, badan­ do unicamente al fluire dei colori, dei suoni. Ma come e perché questo fluire può essere evocato dalla figura di un capo del Gulag ? Perché, davanti a quello stesso capo, uno scienziato scrive le sue formule sulla lavagna e trova proprio in una figura del genere ispirazione per le sue concrete ricerche di ingegneria ? Perché uno scienziato prova venerazione per un qualsiasi capo del lager ? So­ lo perché è un capo. Scienziati, ingegneri e scrittori, gli intellettuali in genere, quan­ do sono alla catena sono pronti a strisciare davanti a un qualsiasi imbecille semianalfabeta. - Non mi rovini, cittadino comandante, - disse in mia presen­ za l’economo del lagotdelenie, in stato di arresto, rivolgendosi al delegato locale dell’Ogpu, nel 1930. L ’economo si chiamava Osi­ penko. Prima del ’ 17 era stato segretario del metropolita Pitirim e compagno di bagordi di Rasputin. Ma si fosse trattato solo di lui! Tutti i vari Ramzin, Očkin, Bojaršinov si sono comportati allo stesso modo. Majsuradze, che «in libertà» faceva il proiezionista, vicino a Berzin aveva fatto carriera nel lager arrivando a dirigere l’Uro, l’ufficio della Direzione centrale che si occupa dell’organizzazio­ ne della forza lavoro. Majsuradze sapeva di trovarsi «vicino alla staffa». - Sì, siamo all’inferno, - diceva. - Siamo nell’altro mondo. In libertà eravamo gli ultimi. Ma qui saremo i primi. E ogni Ivan Ivanovič, chiunque egli sia, dovrà tenerne conto.

VICINO ALLA STAFFA

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«Ivan Ivanovič»: cosi vengono chiamati gli intellettuali nel ger­ go della malavita. Per molti anni ho creduto che tutto ciò attenesse alla «Raseja»5, gli insondabili abissi dell’anima russa. Ma le memorie del generale Groves sulla bomba atomica mi hanno fatto capire che il servilismo caratterizza in eguale misura il mondo degli studiosi e l’ambiente scientifico. Che cos’è l’arte? E la scienza? Nobilitano forse l’uomo? No, no e poi no. Non è dall’arte, né dalla scienza che l’uomo trae le sue poche buone qualità. É qualcos’altro a dargli la forza morale, non la sua professione e neanche il talento. È tutta la vita che osservo il servilismo, la piaggeria, la sottomissione deU’intelligencija; e degli altri strati sociali non vale nep­ pure la pena di parlare. Quand’ero molto giovane a ogni mascalzone dicevo in faccia: sei un mascalzone. Negli anni della maturità ho continuato a ve­ dere le stesse cose di prima. Le mie maledizioni non avevano cam­ biato niente. Ero cambiato solo io, mi ero fatto più accorto, più vile. Conosco il misterioso segreto della gente che sta «vicino alla staffa». E uno di quei segreti che mi porterò nella tomba. Che non racconterò. Lo conosco e non lo racconterò. Alla Kolyma avevo un caro amico, Moisej Moiseevič Kuzne­ cov. Amico magari no - l’amicizia laggiù non esiste - era sempli­ cemente una persona che rispettavo. Era il fabbro del lager. Ave­ vo lavorato con lui come martellatore. Mi raccontò una parabola bielorussa su tre party, tre signorotti i quali - ancora ai tempi di Nicola, ovviamente - avevano frustato per tre giorni e tre notti di fila un povero disgraziato di mugico bielorusso. Il mugico piange­ va e gridava: « Cosi a stomaco vuoto ! » Cos’ha a che fare questa parabola con il nostro racconto? In effetti niente. E una parabola, tutto qui. 1967.

U sfrem etti ,

in Šalamov,

V oskrešente listvennìcy

cit.

5 È la pronuncia deformata di «Rossija», di cui rappresenta la temibile versione scio­ vinistica e irrazionale.

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Aleksandr Aleksandrovič Tamarin-Mereckij' non era né Tama­ rin né Mereckij e neppure Samarin o Nereckij. Era il principe ta­ taro Chan-Girej, generale del seguito di Nicola II. Quando Korni­ lov12nell’estate del ’ 17 mosse verso Pietrogrado, Chan-Girej era ca­ po di Stato Maggiore della «Divisione selvaggia» che raggruppava unità militari cosacche particolarmente fedeli allo zar. Kornilov non arrivò a Pietrogrado e Chan-Girej si trovò fuori gioco. Piu tardi, rispondendo al noto appello di Brusilov3 che tentò la coscienza di tanti ufficiali in crisi, Chan-Girej si arruolò nell’Armata Rossa e volse le proprie armi contro gli amici di un tempo. Fu allora che Chan-Girej scomparve lasciando il posto al comandante di cavalle­ ria Tamarin: comandante del corpo di cavalleria, tre rombi sulla scala dei gradi militari dell’epoca. Tamarin partecipò con questo rango elevato alla guerra civile e alla fine di questa diresse autono­ mamente le operazioni contro i basmaci4, contro Enver Pascià5. I basmaci vennero sgominati e dispersi, ma Enver Pascià sgusciò via 1 Aleksandr Tamarin (pseud. Mereckij, 1882-1938), servi nell’esercito zarista e poi dal 1917 nell’Armata Rossa; fu congedato nel 1925, e alla fine degli anni Venti venne arre­ stato; scontò la pena nel lager di Visera. Nel 1932 parti con E. Berzin per la Kolyma. Nel 1938 venne arrestato e fucilato [Nota all’edizione russa]. 2 Lavr Kornilov (1870-1918), già comandante di un corpo d’armata nella Prima guer­ ra mondiale, nominato generalissimo il 31 luglio da Kerenskij, entrò in conflitto con que­ sti e dopo un tentativo fallito di marciare su Pietrogrado venne arrestato; fuggi e organizzò insieme agli altri generali Bianchi, in Ucraina e nel Kuban', un esercito di volontari per combattere i bolscevichi che avevano nel frattempo preso il potere; mori in combattimen­ to (si veda anche la nota 3 a p.705 del racconto L 'e c o d elle m ontagne). 3 Aleksej Brusilov (1853-1926), generale zarista, dal governo provvisorio fu investito del comando supremo delle forze armate (giugno-luglio 1917); nominato nel 1920 presi­ dente del Consiglio militare consultivo dell’Urss, il 30 maggio lanciò un appello agli ex uf­ ficiali zaristi chiedendo loro di «venire a difendere la Russia sovietica contro l’aggressione della Polonia latifondista e borghese». 4 Dall’uzbeko b a sm a , «incursione», «razzia». I b asm aci erano i membri del movimen­ to insurrezionale antibolscevico delle popolazioni musulmane di origine turca e iraniana dell’Asia Centrale che restò attivo fino ai primi anni Trenta. 5 Enver Pascià (1881-1922), generale e uomo politico turco; ministro della Guerra nel 1914, si alleò con i Tedeschi e fece bombardare Odessa e Sebastopoli; assunse anche per-

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tra le dita dei cavalleggeri rossi, filandosela tra le sabbie dell’Asia Centrale, e facendo perdere le proprie tracce in quel di Buchara, per poi riapparire ai confini sovietici e restare ucciso in un casuale scambio di colpi con una pattuglia. Cosi ebbe fine la vita di Enver Pascià, capo militare e politico di talento, che aveva proclamato la Jihad, la guerra santa, contro la Russia sovietica. Tamarin dirigeva dunque le operazioni per eliminare i basmaci e quando si seppe che Enver Pascià era riuscito a fuggire, facendo perdere ogni traccia, venne aperto un fascicolo intestato a suo no­ me e parti l’indagine. Tamarin protestava la propria buona fede, spiegava le circostanze della fallita cattura di Enver. Ma Enver era un personaggio troppo importante. Cosi il nostro principe venne congedato e restò senza un futuro, e senza un presente. Gli mori la moglie, ma la vecchia madre era ancora in vita e in buona salu­ te, e c’era anche la sorella a cui pensare. Tamarin, che aveva cre­ duto a Brusilov, sentiva di essere responsabile per la famiglia. L ’interesse di sempre per la letteratura, perfino per la poesia contemporanea, il gusto per queste cose dettero all’ex generale l’opportunità di procurarsi qualche guadagno su questo versante. Aleksandr Aleksandrovič pubblicò alcune recensioni sulla «KomsomoTskaja Pravda». Si firmava A. A. Mireckij. L ’onda straripa e poi rifluisce nell’alveo. Ma in certi altri luo­ ghi qualcuno scartabella schede, sfoglia incartamenti, e invece di inserire quel tal foglietto nel fascicolo personale, s’affretta a fare rapporto. Tamarin viene arrestato. La nuova istruttoria ha ormai tutti i crismi dell’ufficialità. Tre anni di campi di concentramento per non avere ammesso i propri errori. Un esame di coscienza avreb­ be alleggerito la colpa. Nel 1928 c’era una sola struttura concentrazionaria in Russia, l’Uslon, la Direzione dei lager a destinazione speciale del Nord (concentrati nelle isole Solovki). La Quarta ripartizione dei lager a destinazione speciale delle Solovki ne costituiva una filiazione di poco successiva ed era localizzata nella regione degli Urali, cor­ so superiore della Visera, a cento chilometri da Solikamsk, nei pres­ si del villaggio di Vižaicha. Tamarin viene tradotto sugli Urali in un vagone ferroviario per detenuti, uno stolypin, e durante il viagsonalmente il comando di un corpo d'armata sul fronte russo del Caucaso, compiendo stra­ gi di Armeni. Condannato a morte in contumacia dopo la sconfitta turca (1919) fuggi a Berlino; nel 1920 offri i suoi servigi alle autorità delPUrss; nel 1921 era in Asia Centrale con l’incarico di portare i b asm aci dalla parte dei bolscevichi, ma in realtà li volse contro il regime sovietico, con qualche effimero successo fino alla sconfitta finale.

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gio non fa altro che rimuginare un suo importantissimo piano a lungo termine studiato nei minimi dettagli. Il vagone sul quale stanno trasportando Aleksandr Aleksandrovič al Nord è dunque uno stolypin, ma di quelli autentici, uno degli ultimi rimasti. L ’u­ tilizzazione a pieno regime del parco ferroviario, combinata con la scadente manutenzione generale, ha comportato il rapido diradarsi dei vagoni originali, sempre piu malandati e via via inutilizzabili. Per uno che deragliava, e finiva per essere usato come abitazione dagli addetti alla manutenzione della rete, un altro ormai decre­ pito veniva scaricato dall’inventario e scompariva. Il nuovo go­ verno non poteva aver nessun interesse a rammodernare, di tutto il materiale rotabile, proprio il parco vagoni «stolypiniano». C ’è stata la «cravatta di Stolypin», la forca. Le aziende agri­ cole di Stolypin. La riforma agraria di Stolypin è entrata nella sto­ ria. Ma riferire a Stolypin gli speciali vagoni ferroviari muniti di inferriate nei quali si trasportano oggigiorno i detenuti è pura dab­ benaggine. In realtà gli ultimi veri stolypin, quelli introdotti nel 1905, ven­ nero sfruttati dallo Stato fino a renderli inutilizzabili ai tempi del­ la guerra civile. Di vagoni Stolypin non ce n’è piu da lungo tem­ po. Attualmente qualsiasi vagone munito di inferriate è detto «di Stolypin». Il modello originale classe 1905 era un vagone riscaldato con una piccola feritoia a metà parete, munita di una fitta inferriata, una porta cieca e all’interno uno stretto corridoio per la scorta su tre lati. Ma il detenuto Tamarin aveva altro per la testa che il va­ gone «di Stolypin». Aleksandr Aleksandrovič Tamarin non era solo un generale di cavalleria. Era anche un esperto di giardinaggio, un floricoltore. Si, Tamarin aveva spesso fantasticato di poter infine dedicarsi al­ la coltivazione delle rose: come Orazio, come Suvorov6. Il gene­ rale dai capelli ormai bianchi, con le forbici da giardinaggio in ma­ no, offre agli ospiti un fragrante mazzo di rose che ha appena fi­ nito di tagliare: sono le rose Stella di Tamarin, una speciale varietà insignita del primo premio all’esposizione internazionale dell’Aia. O anche un’altra varietà, l’Ibrido Tamarin, una bellezza nordica, una Venere pietroburghese. 6 Aleksandr Suvorov (1729-1800), feldmaresciallo russo al servizio di Caterina II e poi di Paolo I, vittorioso sui Turchi, guidò la repressione delle rivolte polacchç; nel 1799, a ca­ po delle armate austro-russe, sconfisse ripetutamente i Francesi in Italia; lo «sfavore im­ periale» cui accenna l’A. è quello che vide Suvorov relegato per due anni nel villaggio di Končanskoe nel governatorato di Novgorod, su ordine dello zar Paolo I.

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Era un sogno che Tamarin accarezzava fin dall’infanzia: dedi­ carsi alla coltivazione delle rose, il classico sogno di tutti i capi mi­ litari a riposo, di tutti i presidenti e primi ministri pensionati del­ la storia mondiale. Nella scuola per allievi ufficiali, prima di abbandonarsi al son­ no, Chan-Girej si immaginava di essere Suvorov nell’atto di vali­ care il Ponte del diavolo78, o Suvorov con le forbici da giardiniere in mezzo al suo giardino nel villaggio di Končanskoe. O meglio, non Končanskoe. Per Suvorov quelli erano stati i giorni dello sfa­ vore imperiale. Chan-Girej, stanco delle imprese in gloria di Mar­ te, si sarebbe dedicato a coltivare rose semplicemente perché era arrivato il tempo di farlo, era giunta la data fissata. Non avrebbe piti lasciato le rose per il campo di battaglia. Questo sogno si faceva sempre piti intenso, finché non diven­ ne una passione. E quando divenne una passione, Tamarin com­ prese che per la coltivazione delle rose occorreva conoscere la ter­ ra e non solo i versi di Virgilio. Da floricoltore si fece gradualmente orticoltore e giardiniere. Chan-Girej assimilava queste nozioni ra­ pidamente, lo studio per lui era uno scherzo. Non lesinava mai il suo tempo quando si trattava di sperimentare qualche nuovo pro­ cedimento di floricoltura. O di leggere un altro manuale di bota­ nica o di orticoltura. SI: fiori e versi! Il limpido suono del latino lo chiamava ai ver­ si dei poeti di quel tempo. Ma soprattutto: Virgilio e le rose. O forse, più Orazio che Virgilio. Virgilio era stato, chissà per quale motivo, scelto da Dante come guida nel suo viaggio attraverso l’in­ ferno. C ’era un simbolismo, era buono o cattivo? Il poeta delle gioie campestri poteva essere una guida sicura per l’inferno? Tamarin avrebbe avuto modo di ricevere risposta a questa do­ manda. Ma prima che potesse dedicarsi alla rosicoltura era arrivata la rivoluzione, quella di Febbraio“, la «Divisione selvaggia», la guer­ ra civile, il campo di concentramento negli Urali settentrionali. Tamarin aveva deciso di fare una nuova puntata in quel gioco che aveva per posta la sua vita. I fiori coltivati da Tamarin nell’azienda agricola del lager del­ 7 Durante la «campagna di Svizzera», nel settembre 1799 i Russi riuscirono a forzare quella strettoia sul fiume Reuss (Prealpi svizzere) sotto il fuoco dei Francesi. 8 La rivoluzione incruenta del febbraio 1917 vide una serie di scioperi e dimostrazio­ ni che provocarono l’abdicazione dello zar e il passaggio del potere alla Duma e al governo provvisorio; ad essa segui quella bolscevica dell’ottobre, con lo scioglimento dell’Assem­ blea costituente e lo scatenamento della guerra civile.

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la Višera venivano presentati con grande successo alle esposizioni floricole di Sverdlovsk. Tamarin comprese che quei fiori del Nord erano il suo passaporto per la libertà. Da allora quel vecchio sem­ pre accuratamente rasato con indosso un caffettano cosacco tutto toppe aveva messo ogni giorno una rosa fresca sul tavolo del di­ rettore del Vischìmza nonché capo dei lager della Visera, Eduard Petrovič Berzin. Anche Berzin sapeva qualcosa di Orazio e della coltivazione delle rose. Il ginnasio classico dava nozioni di queste genere. Ma soprattutto Berzin aveva piena fiducia nei gusti di Aleksandr Aleksandrovič Tamarin. Il vecchio generale zarista che ogni giorno met­ teva una rosa fresca sulla scrivania del giovane cekista: non era ma­ le. E meritava riconoscenza. Berzin, egli stesso a suo tempo ufficiale zarista, a 24 anni di età con l’affare Lockhart aveva puntato tutta la sua posta - la sua vi­ ta - sul potere sovietico. Berzin capiva Tamarin. Non si trattava di compassione, ma della comunanza dei rispettivi destini, un fat­ to che li avrebbe legati per lungo tempo. Berzin si rendeva conto che era solo per la volontà del caso che lui era finito nell’ufficio di direttore del Dal'stroj e Tamarin nell’orto del lager con la vanga in mano. Erano persone che avevano ricevuto la stessa educazione e vissuto la stessa catastrofe. Nella vita di Berzin non c’era stato nessuno spionaggio né controspionaggio finché non era saltato fuo­ ri il caso Lockhart e l’inevitabile scelta. A ventiquattro anni si pensa che la vita debba durare per sem­ pre. Non si crede alla morte. Qualche tempo fa è stata calcolata con macchine cibernetiche l’età media dei traditori nella storia mon­ diale, da Hamilton a Wallenrod9. Appunto ventiquattro anni. Dun­ que, anche in questo Berzin è stato un uomo del suo tempo... Aiutante di campo, sottotenente Berzin... Pittore dilettante, conoscitore della scuola di Barbizon. Esteta, come tutti i cekisti dell’epoca. Anzi, non era ancora un cekista. L ’affare Lockhart fu il prezzo che pagò per il titolo, la quota iniziale d’iscrizione al par­ tito. Io arrivai in aprile e in estate andai da Tamarin, attraversando il fiume con un permesso speciale. Tamarin viveva nella serra. Una stanzetta con il soffitto invetriato, l’odore languido e intenso dei 9 James II Hamilton (1515-75), reggente di Scozia dopo la morte di Giacomo V, du­ rante la minorità di Maria Stuarda, si barcamenò tra il partito inglese e quello francese, tra protestantesimo e cattolicesimo; Konrad Wallenrod è invece il protagonista dell’omonimo poema del polacco Adam Mickiewicz: ambientato nel xiv secolo narra della vendetta di un lituano sull’Ordine Teutonico, consumata grazie all’inganno.

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fiori, della terra umida, i cetrioli di serra e piantimi, piantimi ovun­ que... Aleksandr Aleksandrovič sentiva la mancanza di un inter­ locutore. Nessuno dei suoi compagni di baracca, e neppure degli aiutanti e dei capi, era in grado di distinguere tra acmeisti e imaginisti. E presto iniziò l’epidemia della perekovka, la «rieducazione». Le ltd, «case di lavoro correzionale» passarono sotto la giurisdi­ zione dell’Ogpu e i nuovi dirigenti, forti delle nuove leggi, parti­ rono per i quattro angoli della terra, aprendo in continuazione nuo­ ve ripartizioni concentrazionarie. Il paese si ricopri di una fitta re­ te di campi di concentramento, di konclagerja, che a quel punto avevano anche ricevuto la nuova denominazione di ispravitel'no trudovye lagerja, vale a dire «campi di lavoro correzionale». Ricordo un’affollata riunione di detenuti nell’estate del 1929 nella Direzione dell’Uslon alla Višera. Dopo il discorso del vice di Berzin, il cekista della sezione punitiva Teplov, sui nuovi piani del potere sovietico e le nuove frontiere dell’impresa concentrazionaria, un propagandista di partito di Sverdlovsk, tale Pëtr Pešin, po­ se la seguente domanda: - Mi dica, cittadino capo, che differenza c’è tra i campi di la­ voro correzionale e quelli di concentramento ? Teplov ripetè la domanda con voce sonora e un certo compia­ cimento... - É questa la domanda ? - Precisamente, - confermò Pešin. - Non c’è nessuna differenza, - articolò sonoramente Teplov. - Non mi ha capito, cittadino capo. - L ’ho capita benissimo. - E Teplov volse lo sguardo altrove, o sopra o sotto Pešin, ignorando i cenni che questi gli indirizzava. - C ’è un’altra domanda? Prego. L ’onda della «rieducazione» mi portò a Berezniki, alla stazio­ ne UsoTskaja, come si chiamava allora quella località. Ma ancora prima, la notte prima della mia partenza, Tamarin venne nel lager, alla quarta compagnia dove vivevo, per salutarmi. Seppi da Tamarin che partiva anche lui: veniva trasferito a Mo­ sca, con uno speckonvoj, una scorta speciale. - Mi congratulo, Aleksandr Aleksandrovič. É sicuramente per il riesame, la rimetteranno in libertà. La sua rasatura lasciava a desiderare. Aveva una barba cosi ispi­ da che alla corte dello zar doveva radersi due volte al giorno. Nel lager invece si radeva una sola volta. - Non si tratta di riesame e non mi libereranno. Mi resta da

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scontare un anno, la condanna era di tre. Pensa davvero che si met­ tano a riesaminare casi del genere ? E certamente la procura, per un controllo, oppure una qualche riorganizzazione. Non ho fatto nessuna domanda di riesame. Voglio vivere qui, al Nord. Mi ci tro­ vo bene; prima, quand’ero giovane, non conoscevo il Nord. A mia madre piace. E anche a mia sorella. Mi piacerebbe morirci. E ades­ so questa novità. - Spediscono via anche me in un convoglio, a inaugurare il nuo­ vo insediamento di Berezniki, a buttare la prima badilata nel prin­ cipale cantiere del secondo piano quinquennale... Non potremo fa­ re il viaggio assieme. - No, per via della scorta speciale. Ci salutammo e l’indomani caricarono me e i miei compagni su una chiatta fluviale che navigò fino a Dedjuchin, sulla Lenva; e qui; in un vecchio capannone, venne sistemato il primo gruppo di quei prigionieri che avrebbero edificato, a prezzo di sudore e san­ gue, il primo fabbricato dello stabilimento chimico di Berezniki. Durante l’«era Berzin» nei lager era molto diffuso lo scorbuto e non solo tra quelli che arrivavano dal terribile Nord, dal quale di tanto in tanto calavano dai monti, strisciando lentamente, pol­ verose teorie di reduci al colmo dello sfinimento. La minaccia del Nord veniva agitata alla direzione, veniva agitata a Berezniki. Il Nord significava Ust'-Uls e Kutim, dove in seguito avrebbero tro­ vato i diamanti. Li avevano cercati anche prima, ma gli emissari di Berzin non avevano avuto fortuna. In generale, il complesso concentrazionario - con lo scorbuto che infieriva, i pestaggi, le violenze gratuite, gli omicidi impuniti - veniva visto con diffidenza dalla popolazione locale. Solo piu tardi la sorte dei deportati del­ la collettivizzazione forzata, i «dekulakizzati», intere famiglie con­ tadine del Kuban' scaricate nella neve e abbandonate a morte cer­ ta nelle foreste degli Urali, fece capire a tutti che per l’intero pae­ se si preparavano grandi spargimenti di sangue. La prigione di transito sulla Lenva era nello stesso capannone in cui eravamo stati sistemati noi, o, per meglio dire, in un setto­ re del capannone, al piano di sopra. Un giorno una guardia di scorta ci accompagnò un uomo con due valigie, avvolto in un logoro caftan caucasico... Anche di schie­ na, una figura molto familiare. - Aleksandr Aleksandrovič ? Ci abbracciammo. Tamarin era sporco ma allegro, molto piu al­ legro che alla Vižaicha durante il nostro ultimo incontro. E ne ca­ pii subito il motivo.

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- C ’è stato il riesame? - Proprio cosi. Erano tre anni, e adesso me ne hanno dati die­ ci, la pena capitale commutata in dieci anni e posso tornare! Alla Visera! - Ma cosa c’è da essere contento ? - Cosa c’è, dice lei ? Come la vedo io, nella mia filosofia la co­ sa piu importante è restare in vita. Ho 65 anni. Alla fine del nuo­ vo periodo di pena non ci arriverò comunque. Ma almeno è finita tutta questa indeterminatezza. Chiederò a Berzin di consentirmi di morire nell’azienda agricola, nella mia luminosa stanzetta con il soffitto a vetri. Dopo la condanna potevo chiedere qualsiasi de­ stinazione ma io mi son dato un gran da fare per ottenere di ri­ tornare da dove ero venuto, per ritornare qui. E quanto agli anni che mi hanno dato... Sono tutte sciocchezze. Gli anni non conta­ no. Quello che fa la differenza è l’«ordine di servizio», la «mis­ sione», se la komandirovka alla quale sei destinato è una cosa im­ portante o di nessun conto. Adesso riposo, passo la notte qui e do­ mani alla Visera. E il motivo, la spiegazione di quello che stava succedendo... Certo, il motivo c’era. E anche la spiegazione. All’estero erano apparse le memorie di Enver Pascià. Nelle me­ morie vere e proprie non c’era una sola parola riguardo a Tama­ rin, ma nel libro c’era anche una prefazione, scritta dall’ex aiu­ tante di campo di Enver. E l’aiutante aveva scritto che Enver era riuscito a filarsela solo grazie alla collaborazione di Tamarin. Per Enver, secondo quanto diceva l’aiutante, Tamarin non era un sem­ plice conoscente, ma un amico e i due si scrivevano fin dai tempi in cui Chan Girej prestava servizio alla corte dello zar. Questa cor­ rispondenza continuò anche successivamente. Le indagini, nean­ che a dirlo, appurarono che se Enver non fosse rimasto ucciso al­ la frontiera, Tamarin - segretamente musulmano - avrebbe do­ vuto mettersi a capo della «guerra santa» e deporre Mosca e Pietrogrado ai piedi di Enver. Questo peculiare stile investigati­ vo sbocciò in rigogliosi fiori di sangue negli anni Trenta. Una «scuola», con un’unica scrittura uguale per tutti. Ma Berzin conosceva questa scrittura dei provocatori e non cre­ dette a una sola parola della nuova istruttoria sul caso Tamarin. Aveva letto le memorie di Lockhart, gli articoli di Lockhart sulle vicende che lo avevano riguardato. In quegli articoli rievocativi il lettone Berzin veniva presentato come alleato di Lockhart, vale a dire non come spia sovietica ma inglese. Tamarin poteva contare su quel posto all’azienda agricola e contarci per sempre. Le pro-

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messe dei capi sono una cosa fragile, ma comunque piu forte del­ l’eternità, come dimostrava l’epoca. Tamarin cominciò a prepararsi a un lavoro un po’ diverso da quello di cui voleva occuparsi subito dopo la «revisione» del suo caso. E anche se il vecchio agronomo in caffettano, ogni giorno, come un tempo, metteva una rosa fresca della Visera, un’orchidea del Nord, sulla scrivania di Berzin, ormai non pensava piu soltan­ to alle rose. Spirò la prima condanna, quella a tre anni, ma Tamarin aveva altro per la testa. Il destino esige sacrifici cruenti e la vittima vie­ ne immolata. Toccò alla madre di Tamarin, una vecchia caucasica grande, grossa e allegra, alla quale piaceva cosi tanto il Nord e che aveva voluto incoraggiare il figlio, credere nel suo fervore, nel suo progetto, nel suo cammino, nel suo tortuoso cammino. Quan­ do si seppe della nuova condanna, e che era a dieci anni, la vec­ chia mori. Si spense rapidamente, in una settimana. Le piaceva co­ si tanto il Nord, ma il cuore quel Nord non lo resse. Restò la so­ rella. Piu giovane di Aleksandr Aleksandrovič, ma anch’essa già in età e con i capelli bianchi. Lavorava come dattilografa nell’uf­ ficio del Vischìmza, senza mai perdere la fiducia in suo fratello, nella sua fortuna, nel suo destino. Nel 1931 Berzin assunse un nuovo importante incarico: di di­ rettore del Dal'stroj alla Kolyma. Era un posto in cui Berzin riu­ niva in sé i massimi poteri di queU’immensa regione di frontiera l’ottava parte dell’Unione Sovietica: potere partitico, governati­ vo, militare, sindacale e cosi via. La prospezione geologica - le spedizioni di Bilibin, di Caregradskij - dette eccellenti risultati. Le riserve aurifere erano ab­ bondanti, restava da risolvere solo un dettaglio marginale: estrar­ re l’oro con una temperatura di sessanta gradi sotto lo zero. Che nella Kolyma ci fosse l’oro lo si sapeva da trecento anni. Ma nessuno degli zar si era risolto a estrarre quell’oro con il lavo­ ro coatto, il lavoro di detenuti, di schiavi, si dovette aspettare Sta­ lin. .. Dopo il primo anno - il Belomorkanal, la Višera - parve a Sta­ lin che dell’uomo si potesse fare qualsiasi cosa, che non ci fossero limiti alle umiliazioni che poteva subire, né alle sue capacità di re­ sistenza fisica. Furono dimostrate le potenzialità creative di una se­ conda portata per pasto, purché si collegassero le diverse razioni a una scala basata sul rendimento del lavoro: razioni «produttive», «d ’assalto», «stacanoviste», come cominciarono a classificare nel ’37 le razioni aumentate dei detenuti o, come li chiamavano allora

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i giornali, dei «combattenti della Kolyma». Per questa impresa au­ rifera, per la colonizzazione della regione e in seguito la distruzio­ ne fisica dei nemici del popolo ci voleva l’uomo adatto. E Berzin faceva al caso loro. Nei confronti delle persone Berzin provava un assoluto disprezzo, non odio, no, ma disprezzo. Primo capo della Kolyma ad avere piu potere di quanto ne aves­ se a suo tempo il generale-governatore della Siberia orientale Ivan Pestel', il padre del decabrista - Berzin prese con sé Tama­ rin, per il settore agricolo, affinché con le sue sperimentazioni des­ se anche lustro e fama al suo comando. Vennero create delle azien­ de agricole sul tipo di quella della Višera, dapprima nei dintorni di Vladivostok, e poi sull’altopiano dov’era ETgen. La dislocazione delle colture agricole a ETgen, nel cuore della Kolyma, fu un ostinato capriccio sia di Berzin che di Tamarin. Berzin riteneva che futuro centro della Kolyma non sarebbe stata la città marittima di Magadan, ma Taskan e la sua valle, con Magadan come sbocco sul mare. Nella valle del fiume Taskan c’era solo un po’ piu di terra ri­ spetto a quella attaccata alle spoglie rocce del resto della regione. Misero in piedi un sovchoz, dove sperperarono milioni di rubli per dimostrare l’indimostrabile. Le patate non volevano saperne di maturare. Coltivavano le piantine in serra, poi le trapiantava­ no, come i cavoli, nel corso di interminabili udamiki, la versione concentrazionaria dei subbotniki i «sabati di lavoro volontario non retribuito», costringevano i detenuti a prendervi parte, a occuparsi di quei piantimi dicendo che era «per loro». «Per noi»! Ci ho la­ vorato non poco in quei subbotniki... Di li a un anno la Kolyma concentrazionaria dette il primo oro e nel 1935 Berzin venne insignito dell’ordine di Lenin. Aleksan­ dr Aleksandrovič ottenne la riabilitazione, con la cancellazione dei precedenti penali. A quel tempo gli era morta anche la sorella, ma lui non si arrendeva. Scriveva articoli per i giornali, non piti sulla giovane poesia komsomoliana ma sui propri esperimenti agrari. Aleksandr Aleksandrovič aveva ottenuto una varietà di cavolo, T«ibrido di Tamarin», molto particolare, settentrionale, una va­ rietà alla Miéurin10, 32 tonnellate a ettaro. Cavoli e non rose! Sul­ le fotografie il cavolo sembra un’enorme rosa: un grande bocciolo 10 Ivan Mičurin (1855-1935), agronomo russo, accademico sovietico; sosteneva che l’ambiente è in grado di modificare i vegetali in modo piu determinante dei fattori geneti­ ci stessi; per sperimentare questa teoria ebbe a disposizione un laboratorio centrale di ge­ netica da lui fondato; da lui prese spunto Lysenko per la sua teoria ufficializzata da Stalin (si veda la nota 1 al racconto I I «w e ism a n n ia n o » , p. 605).

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compatto. La «zuccamelone» di Tamarin: 40 chilogrammi di pe­ so! Le patate «selezione Tamarin»! Aleksandr Aleksandrovič diresse alla Kolyma la sezione di scienze agrarie dell’Accademia delle scienze dell’Estremo Orien­ te sovietico. Tamarin teneva conferenze all’Accademia delle scienze dell’agricoltura, si recava a Mosca, era sempre in faccende. L ’angoscia del ’35, il sangue del ’35, i flussi di persone arre­ state, tra i quali c’erano molti amici e conoscenti dello stesso Ber­ zin, spaventarono e misero in allarme Tamarin; Berzin interveni­ va pubblicamente per condannare e denunciare le varie spie e sa­ botatori scoperti tra i suoi sottoposti, stigmatizzandoli come individui che «si erano intrufolati, infiltrati tra i suoi collabora­ tori» e lo fece fino al giorno in cui non divenne anche lui «una spia e un sabotatore». Una commissione dopo l’altra, il regno di Berzin veniva esa­ minato da ogni parte, si susseguivano gli interrogatori, le convo­ cazioni... Tamarin sentiva tutta la precarietà, la fragilità della propria po­ sizione. Era troppo recente la riabilitazione, con la cancellazione dei precedenti e la «reintegrazione nei diritti». Tamarin era infatti stato autorizzato a tornare alla Kolyma co­ me libero salariato addetto allo sviluppo dell’agricoltura nel Nord - salutato anzi come il Mièurin dell’Estremo Oriente sovietico e mago del Dal'stroj - ma il relativo contratto firmato a Mosca por­ tava la data del 1935. Il successo dei raccolti di ortaggi nei lager in provincia di Vla­ divostok era considerevole. La forza lavoro gratuita dei detenuti, praticamente illimitata nei centri di smistamento del Dal'stroj, fa­ ceva miracoli. Gli agronomi individuati nei vari convogli e tratte­ nuti, ispirati dalla promessa di un rilascio anticipato, di sconti di pena in base alle giornate lavorate, si dedicavano anima e corpo a qualsiasi sperimentazione. Per i fallimenti, in questa fase, non era­ no previste punizioni. Cercavano quindi febbrilmente il successo. Siamo comunque, lo ricordo, sul «continente», la Grande Terra, l’Estremo Oriente sovietico e non l’Estremo Nord. Ma anche nel­ l’Estremo Nord cominciavano gli esperimenti: nella valle del Taskan, a ETgen, a Sejmčan, sul litorale vicino a Magadan. Ma non c’era la libertà, quella libertà che Tamarin si era cosi accuratamente preparato, a prezzo di infinite umiliazioni, eserci­ tando prudenza e destrezza. Alla Kolyma arrivavano in continua­ zione convogli di detenuti dal continente. Il mondo creato da Ber-

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zin per Tamarin cadeva in pezzi. Molti personaggi dei tempi di Ki­ rov o di prima ancora trovarono presso Berzin una specie di ser­ vizio di complemento. Cosi F. Medved', capo dell’Ogpu di Le­ ningrado al tempo degassassimo di Kirov, presso Berzin era capo dell’Ogpu meridionale. Nel primo caso «gp» significa «politico dello Stato» e nel secondo soltanto «industriale-minerario»: sono gli spassi linguistici del personale degli «organi». Arrivò il ’36, con le esecuzioni, le rivelazioni, le confessioni pubbliche. E al ’36 segui il ’37. Anche alla Kolyma ci furono molti «processi», ma Stalin non poteva accontentarsi di quelle vittime locali. Bisognava gettare nel­ le fauci del Moloch una vittima piu consistente. Nel novembre del ’37 Berzin venne convocato a Mosca con la concessione di un anno di ferie. Come direttore del Dal'stroj ven­ ne designato Pavlov. Berzin presentò il nuovo direttore ai dirigen­ ti di partito del Dal'stroj. Non fece a tempo ad accompagnare Pav­ lov nei vari giacimenti per le consegne, Mosca gli faceva fretta. Prima della partenza Berzin aiutò Tamarin ad ottenere un pe­ riodo di vacanza con il permesso per il continente. Con due anni di anzianità di lavoro al Dal'stroj, Aleksandr Aleksandrovič non aveva ancora maturato le ferie. Fu questo l’ultimo favore reso dal direttore del Dal'stroj al generale Chan-Girej. Viaggiarono nello stesso vagone. Berzin era del suo solito umo­ re cupo. Quando furono nei pressi di Mosca, ad Aleksandrov, in quella gelida notte decembrina avvolta nella tormenta, Berzin sce­ se sul marciapiedi della stazione. E non tornò piu nel vagone. Il treno arrivò a Mosca senza Berzin. Tamarin, trascorsi alcuni gior­ ni di quella che era la sua prima vera libertà - la prima in ventan­ ni - cercò di sapere qualcosa sulla sorte del suo pluriennale capo e protettore. Nel corso di una di quelle sue visite negli uffici di rap­ presentanza del Dal'stroj a Mosca, Tamarin apprese di essere sta­ to licenziato, espulso anche lui «dal sistema», senza che lo aves­ sero interpellato, e per sempre. Tamarin decise di sfidare ancora una volta la sorte. Qualsiasi lettera di domanda o di protesta in quegli anni significava attirare l’attenzione sul richiedente ed era un rischio mortale. Ma Tamarin ormai era vecchio. Non voleva aspettare. Si, si sentiva vecchio, non voleva e non poteva aspettare. Presentò alla direzione del Dal'stroj la richiesta di riassunzione, chiedendo di poter tornare a lavorare nella Kolyma. Gli risposero con un rifiuto, la Kolyma del dopo Ber­ zin non aveva bisogno di specialisti del suo genere. Era il marzo del ’38, tutti i centri e percorsi di transito e smi­

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stamento erano stracolmi di convogli di deportati. Il senso della risposta era: se anche ti ci volessimo portare, sarebbe solo sotto scorta. Questa domanda è l’ultima traccia di Chan-Girej, generale e giardiniere, su questa nostra terra. I destini di Berzin e di Tamarin sono molto simili. Tutti e due hanno servito la forza e obbedito a essa. Hanno creduto nella for­ za. E la forza li ha ingannati. A Berzin non fu mai perdonato l’affare Lockhart. In Occiden­ te i memorialisti ritenevano certa la partecipazione di Berzin al complotto inglese. Né Lenin, né Dzeržinskij, che conoscevano nei particolari l’affare Lockhart, erano ormai tra i vivi. E quando ven­ ne il momento Stalin uccise Berzin. Vicino ai segreti di Stato ci si brucia, e neanche avere il sangue freddo come Berzin aiuta. 1967.

C h an -G ire j

(variante:

T a m arin -M ereckij),

in «Sovetskij voin», 1989, n. 1.

L a preghiera della sera

A partire dal 1930 diventò di moda vendersi gli ingegneri. Il lager ricavava un considerevole profitto dalla vendita a terzi di questi titolari di conoscenze tecniche. Ogni lager riceveva l’inte­ ro salario del detenuto e da esso venivano detratte le spese per l’a­ limentazione, il vestiario, una quota per il servizio di scorta, l’ap­ parato istruttorio e perfino la Direzione centrale. Ma anche dopo la detrazione di tutte le spese generali restava una discreta som­ ma. Questa non finiva affatto nelle mani del detenuto o in una partita di accredito a lui intestata. No. La somma veniva incame­ rata dallo Stato e il detenuto riceveva invece certe gratifiche del tutto arbitrarie che talvolta bastavano appena per l’acquisto di un solo pacchetto, o al massimo due o tre, di papirosy «Puška». Qual­ che direzione concentrazionaria piu intelligente aveva cercato di ottenere da Mosca l’autorizzazione a corrispondere una determi­ nata percentuale, anche piccola, del guadagno, e a consegnare la somma direttamente al detenuto. Ma Mosca non aveva mai auto­ rizzato simili forme di pagamento e si andava avanti con gli in­ centivi arbitrari. Agli ingegneri come agli sterratori e ai carpen­ tieri. Il governo, chissà per quale ragione, aveva paura perfino del­ la parvenza di un salario e lo trasformava in gratifica, incentivo, e chiamava questo salario «premio». Uno dei primi ingegneri-detenuti del nostro lagotdelenie a es­ sere venduti dall’amministrazione del lager a quella della costru­ zione di impianti industriali fu Viktor Petrovič Findikaki, che era mio compagno di baracca. Viktor Petrovič Findikaki - una condanna a cinque anni, arti­ colo 58.7 e .11 - era stato il primo ingegnere russo a installare in Ucraina - un impianto di laminazione per metalli non ferrosi. I suoi lavori specialistici erano ben conosciuti tra gli addetti ai la­ vori del ramo e quando il suo nuovo padrone - il kombinat chimi­ co Berezniki - gli propose di curare la redazione di un manuale sulla sua materia, si mise all’opera con entusiasmo, ma presto di-

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ventò triste e io durai molta fatica a fargli dire il motivo della sua afflizione. Senza l’ombra di un sorriso Viktor Petrovič mi spiegò che nel manuale che aveva curato si era imbattuto alcune volte nella pa­ rola vredit, «nuoce» e ogni volta l’aveva cancellata e sostituita con la parolaprepjatstvuet, «è di ostacolo»1. Comunque la sua fatica era all’esame dei capi. La correzione di Viktor Petrovič non incontrò obiezioni da par­ te della direzione e l’ingegnere restò al suo posto. Una sciocchezza, certo. Ma per Viktor Petrovič si trattava di un’importante questione di principio e ora spiego perché. Viktor Petrovič era uno che «aveva vuotato il sacco», i mala­ vitosi e i capi dei lager usano il verbo raskolot'sja. Al suo processo aveva collaborato con gli inquirenti, aveva partecipato a una serie di confronti, spaventato a morte, atterrato e calpestato. E non so­ lo in senso traslato. Era passato per diversi konvejer, le «catene di montaggio», come di li a quattro o cinque anni si sarebbero co­ munemente chiamati gli interrogatori con avvicendamento degli inquirenti. Il direttore del lager di produzione, Pavel Petrovič Miller, co­ nosceva Findikaki fin dai tempi della prigione. E anche se lui per­ sonalmente aveva resistito sia alla «catena di montaggio» che ai manrovesci e si era preso dieci anni, considerava con una certa in­ differenza quella debolezza di Viktor Petrovič. Invece Viktor Petrovič si tormentava terribilmente per il suo tradimento. In tutti quei casi di vreditel'stvo per i «sabotatori» c’erano state anche del­ le condanne a morte. Non tanto frequentemente, è vero, ma già si cominciava a fucilare. Arrivò nel lager lo sachtinec Bojaršinov, condannato nel processo intentato nel 1928 ai tecnici delle miniere di carbone e fu visto conversare, sia pure senza particolare cor­ dialità, con Findikaki. La coscienza di un tragico fallimento, di un’incommensurabi­ le caduta morale per lungo tempo non abbandonò Findikaki. Ad­ dirittura Viktor Petrovič (il suo giaciglio era accanto al mio) si ri­ fiutava di assumere qualsiasi incarico privilegiato, che sapesse an­ che lontanamente di blat, di favoritismo sospetto, come quelli di caposquadra, «caporale» o vice dello stesso Pavel Petrovič Miller. Findikaki era un uomo fisicamente robusto, non molto alto e largo di spalle. Ricordo che Miller non parve molto sorpreso quan­ 1 V re d it 'significa sia «nuocere» che «sabotare»; e all’ingegnere ricordava il suo tradi­ mento.

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do Findikaki gli chiese di farlo andare nella squadra di carico e sca­ rico alla fabbrica di soda. Questa squadra, non potendo restare sta­ bilmente all’esterno della zona, veniva chiamata dal lager alla fab­ brica in qualsiasi momento, di giorno o di notte, a caricare o sca­ ricare i vagoni ferroviari. La rapidità del lavoro era una qualità tenuta in gran conto dall’amministrazione della fabbrica per via del rischio di multe da parte dell’amministrazione ferroviaria. Mil­ ler consigliò all’ingegnere di parlarne con il caposquadra degli sca­ ricatori. Il caposquadra, Judin, era alloggiato nella nostra stessa baracca e scoppiò a ridere udendo la richiesta di Findikaki. Capo­ rione nato, Judin, come gli altri malavitosi, non amava gli scansa­ fatiche dalle mani liscie, gli ingegneri e gli scienziati in genere. Co­ munque, per fare un favore a Miller, prese Findikaki nella sua squa­ dra. Da allora, anche se eravamo vicini di letto, cominciai a veder­ lo molto raramente. Passò qualche tempo e al cantiere del complesso chimico eb­ bero bisogno di uno schiavo intelligente, uno schiavo scienziato. Cercavano una mente ingegneristica. Un lavoro per Findikaki. Ma Viktor Petrovič rifiutò: «No, non voglio tornare in un mondo do­ ve ogni parola mi è odiosa, ogni termine tecnico sembra apparte­ nere alla lingua della delazione, al lessico dei traditori»: Miller si strinse nelle spalle e Findikaki continuò a lavorare come scarica­ tore. Ma presto Findikaki si raffreddò un poco, il trauma giudizia­ rio cominciò ad attenuarsi. Nel lager arrivarono altri ingegneri, an­ che loro spezzati dal «nastro convogliatore». Viktor Petrovič li os­ servava con attenzione. Vivono la loro vita e non muoiono affat­ to per la vergogna o il disprezzo delle persone circostanti. E nei loro confronti non c’è nessun boicottaggio: gente normalissima. E Viktor Petrovič cominciò a dolersi di aver ceduto a un capriccio, a un impulso puerile. Saltò fuori un nuovo posto di ingegnere al cantiere e Miller era attraverso di lui che si doveva passare - respinse tutte le rela­ tive domande di assunzione degli ingegneri appena arrivati. Ven­ ne interpellato di nuovo Viktor Petrovič che stavolta accettò. Ma la nomina provocò la fiera e aspra protesta del caposquadra degli scaricatori: «M i portano via il miglior scaricatore della squadra e per che cosa? Per fargli fare il passacarte in ufficio. No, Pavel Petrovič. Avete chiuso con il sistema delle raccomandazioni. Arri­ verò fino a Berzin, e vi smaschererò tutti quanti». Venne avviata una vera e propria inchiesta a carico di Miller

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per sabotaggio ma, per fortuna, qualcuno della vecchia direzione indusse a piu miti consigli il caposquadra degli scaricatori. E Vik­ tor Petrovič Findikaki tornò al suo lavoro di ingegnere. Riprendemmo di nuovo a coricarci alla stessa ora, nei nostri giacigli contigui. E di nuovo sentivo Findikaki mormorare prima di addormentarsi, come fosse un’orazione: «La vita è una merda. Una roba davvero merdosa». Cinque anni. Né il tono né il testo di quello scongiuro di Viktor Petrovič cambiarono mai. [1967].

V e čem jaja m o litv a,

in «Sibirskie ogni», 1989, n. 4.

Boris Juzanìn

Un giorno dell’autunno del 1930 arrivò un gruppo di detenu­ ti: carro merci riscaldato numero quaranta di un convoglio diret­ to a Nord, a Nord, sempre piu a Nord. Tutte le vie di comunica­ zione erano congestionate. La ferrovia stentava a smaltire i tra­ sporti dei raskulacennye, i kulaki espropriati e deportati, che dal Kuban' venivano trasferiti al Nord, con donne e bambini piccoli, per essere scaricati - loro che non avevano mai visto in vita loro una foresta - nella fitta tajga degli Urali. Al centro industriale fo­ restale di Cerdyn' già di li a un anno avrebbero mandato una com­ missione: gli immigrati morivano uno dopo l’altro e il piano di ab­ battimento e ammasso del legname era in pericolo. Ma tutto que­ sto sarebbe accaduto poi, per intanto quei lisency, pur privati di ogni diritto, potevano ancora tergersi il viso con un variopinto asciugamano ucraino, lavarsi, contenti e insieme scontenti di quel­ le soste, di quel forzato riposo. Il treno faceva prolungate soste per lasciar passare i convogli carichi di detenuti. Costoro almeno sa­ pevano cosa li aspettava: una vita sotto i fucili spianati, e stava ad ognuno barcamenarsi, combattere per la propria sorte, giocarsela come meglio poteva. Invece i kubancy non sapevano niente: il ti­ po di morte che li attendeva, dove e quando. Kubancy deportati e convogli di detenuti condannati - questi pivi numerosi di quelli - viaggiavano tutti in vagoni riscaldabili, le cosiddette tepluski. Di vagoni «stolypiniani» autentici ormai ne erano rimasti pochi e da tempo venivano ordinati alle officine fer­ roviarie semplici vagoni di seconda classe adattati per l’uso carce­ rario. 1 Boris Semënovic Južanin, fondatore e leader del S in ja ja b lu z a , «Blusa blu» (1923 inizi anni Trenta), che allestiva spettacoli di teatro leggero legati all’attualità politica; per il collettivo «Blusa blu» lavorarono V. V. Majakovskij, V. E. Ardov, M. I. Blanter, V. I. Lebedev-Kumač, L. B. Mirov, B. M. Tenin, B. R. Erdman e altri poeti, compositori, ar­ tisti [Nota all’edizione russa].

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Questi vagoni muniti di sbarre e rinforzati, utilizzati per la tra­ duzione dei detenuti, continuarono a essere chiamati «stolypiniani» anche se ormai non avevano piu niente a che fare con il mo­ dello originale del 1907. E lo stesso fenomeno per cui, nella Kolyma, le regioni centra­ li della Russia vengono chiamate «continente», benché la Kolyma non sia un’isola ma una regione della penisola di Cukotka. Il fat­ to è che il gergo invalso, il viaggio invariabilmente via mare, la tratta marittima di alcuni giorni, tutto concorre a creare l’illusio­ ne di un’isola. Da un punto di vista psicologico invece, nessuna il­ lusione: la Kolyma è un’isola. Dalla quale tornare sul continente, sulla Grande Terra. Continente e Grande Terra sono termini del vocabolario di tutti i giorni: della routine giornalistica, pubblici­ stica e letteraria. Sicché nell’elenco del vagone riscaldabile numero quaranta c’e­ rano trentasei detenuti. La norma! La traduzione carceraria av­ veniva senza sovraffollamento di sorta. Nell’elenco per la scorta, scritto a mano, c’era la colonna «professione», e una delle anno­ tazioni in essa contenute attirò l’attenzione dell'učetčik, l’addet­ to al mansionario: « Sinebluznik», «Blusablu»! Che mestiere era? Non meccanico, non contabile o «operatore culturale», ma «blu­ sablu». Era evidente che con questa risposta al questionario del lager il detenuto aveva voluto rispondere alla domanda di routine carceraria con qualcosa cui teneva molto. O su cui voleva attirare l’attenzione di qualcuno. Nell’elenco figuravano altri dati. Gurevič Boris Semënovic (Južanin), art. p-š. (nel particolare co­ dice in lettere delle Commissioni speciali: «Sospetto spionaggio»), condanna a tre anni - impensabile per una simile imputazione an­ che per quei tempi! - anno di nascita 1900 (coetaneo del secolo), professione, dunque, «blusablu». Gurevič venne portato nell’ufficio del lager. Era un uomo dal­ la testa grossa, i capelli tagliati corti e la pelle olivastra e sporca. Un pince-nez rotto e senza lenti gli stringeva saldamente il naso ed era anche assicurato al collo con una funicella. Non aveva né ca­ micia né casacca e neppure biancheria. Sotto il giaccone indossa­ va solo un paio di stretti calzoni blu di cotone senza bottoni, chia­ ramente non suoi, frutto di un forzato baratto. Naturalmente i ma­ lavitosi lo avevano ripulito di ogni cosa. Si erano giocati alle carte i suoi indumenti, gli stracci di quel «fesso» di frajer. I piedi spun­ tavano, nudi e sudici, da sotto i calzoni e dal volto e dai grandi oc­

BORIS JUZÄNIN

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chi marrone chiaro traspariva misero un fiducioso sorriso. Cono­ scevo bene quegli occhi. Si trattava di Boris Južanin, il famoso ini­ ziatore del famoso movimento «Blusa blu», il cui quinto anniver­ sario era stato festeggiato al teatro Bol'šoj, e in quell’occasione Južanin era seduto non lontano da dove mi trovavo io, ed era at­ torniato dalle colonne del movimento - Tret'jakov, Majakovskij, Foregger, Jutkevič, Tenin, Kirsanov2 - autori e collaboratori del­ la rivista «Blusa blu» che pendevano dalle sue labbra di ideologo e guida, attenti a cogliere ogni sua parola. E ce n’erano di parole: Južanin era sempre impegnato a dire qualcosa, a convincere qualcuno, a delineare instancabilmente nuove vie. Ora «Blusa blu» è finita nel dimenticatoio. All’inizio degli an­ ni Venti in essa erano state riposte molte speranze. Sembrava qual­ cosa di piu di una nuova forma teatrale, portata al mondo dalla ri­ voluzione d’Ottobre, destinata a diventare rivoluzione mondiale. Quelli del movimento «Blusa blu» non consideravano abba­ stanza di sinistra neanche Mejerchol'd e proponevano non solo una nuova forma di azione teatrale - il «Giornale vivente», la Zivaja gazeta di Južanin - ma anche una nuova filosofia di vita. «Blusa blu», nel pensiero dell’iniziatore del movimento, era una sorta di ordine. L ’estetica, posta al servizio della rivoluzione, portava anche a vittorie di tipo etico. Nei primi numeri del nuovo almanacco letterario «Blusa blu» (in cinque-sei anni ne uscirono parecchi) gli autori, per quanto ce­ lebri (Majakovskij, Tret'jakov, Jutkevič), non si firmavano mai. L ’unica firma era quella del redattore della rivista Boris Južanin. I diritti d’autore venivano devoluti al fondo «Blusa blu» per ulteriori iniziative del movimento. «Blusa blu», secondo Južanin, non doveva essere un’associazione di professionisti. Ogni ente, ogni fabbrica e stabilimento dovevano avere i propri collet­ tivi teatrali. Collettivi amatoriali. I testi dei «Blusa blu» richiedevano motivi musicali semplici, scelti tra quelli già esistenti e noti. Non erano richieste partico­ 2 Sergej Tret'jakov (1892-1939), poeta e drammaturgo futurista, teorico del Lef (cfr. nota 5), primo traduttore di Brecht in Russia; Nikolaj Foregger (1892-1939), regista e co­ reografo, gli allestimenti della sua «officina teatrale» combinavano elementi del music-hall, del circo, parodie e travestimenti; Sergej Jutkevič (1904-85), regista e teorico cinemato­ grafico, dopo gli inizi futuristici diviene uno dei cineasti ufficiali piu apprezzati (realizza quattro film su Lenin); Boris Tenin (1905), attore teatrale (lavorò con MejerchoTd) e ci­ nematografico; Semën Kirsanov (1906-72), poeta, collaborò con Majakovskij alla rivista «Lef»; autore negli anni Trenta di poemi d’argomento e di impegno politico.

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lari doti vocali. Ma se si trovava la bella voce, il talento, tanto di guadagnato. Dall’attività dilettantistica si passò alle esibizioni del Collettivo modello. Qui si trattava in effetti di professionisti ma, secondo l’idea del fondatore, sarebbe stata una fase transi­ toria. Južanin si pronunciò assai negativamente nei confronti della vecchia arte teatrale. Criticò duramente il Teatro d’Arte3e il Malyj Teatr, i principi stessi del loro lavoro. Per molto tempo i teatri non riuscirono ad adattarsi al nuovo potere. Južanin cominciò a parlare in nome di questo potere, pro­ mettendo un’arte nuova. In questa arte nuova il posto piu importante veniva assegnato al teatro della ragione, al teatro della parola d ’ordine, al teatro po­ litico. «Blusa blu» era duramente avversa al teatro delle emozioni. Tut­ to quello che passa sotto il nome di «teatro di Brecht» è stato sco­ perto e mostrato da Južanin. Il quale, però, pur avendo elaborato per via empirica tutta una serie di nuovi principi e procedimenti artistici, non fu capace di generalizzarli, svilupparli e lanciarli sul­ la scena internazionale. Lo fece Brecht: a lui onore e gloria! La prima «Blusa blu» si presentò sul proscenio di un circolo, un circolo del komsomol, nel 1921. Di li a cinque anni c’erano in Russia quattrocento collettivi. Come sede principale e stabile, con rappresentazioni a ciclo continuo nelle ventiquattro ore, a «Blusa blu» venne assegnato il cineteatro Chat noir su piazza Strastnaja, proprio quello che è stato abbattuto nell’estate del 1967. Il nero vessillo degli anarchici sventolava ancora su una casa vi­ cina, sul circolo anarchico della Tverskaja, dove appena poco tem­ po prima si potevano sentire gli interventi di Mamont-Dal'skij, Iuda Grossman-Roščin, Dmitri) Furmanov e degli altri apostoli del­ l’anarchia. Il bravo giornalista Jaroslav Gamza prese parte al dibattito sulle vie e i destini del nuovo teatro sovietico, delle nuo­ ve forme teatrali. I collettivi centrali erano otto con nomi come «Modello», «Esemplare», « D ’assalto», «Principale»: Južanin ci teneva che fossero su un piede di parità. 3 II Teatro d’Arte di Mosca, M o sk o v sk ij C h udozestvennyj T eatr (MChT), fondato nel 1898 da Stanislavskij e Nemirovič-Dančenko come teatro o b sie d o stu p n y j, «accessibile a tutti»; tra il 1898 e il 1904 vi furono rappresentati i grandi lavori di Cechov; annoverato nel 1920 tra i teatri «accademici» (MChAT), venne nel 1932 intitolato a Gorlcij.

BORIS JU 2ÂNIN

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Nel 1923 entrò a far parte del movimento, pur mantenendo la propria autonomia, il teatro di Foregger. E nonostante tutta questa crescita, questo movimento in esten­ sione e in profondità, ai «Blusa blu» continuava a mancare qual­ cosa. L ’adesione del teatro di Foregger costituì l’ultima loro vittoria. Apparve all’improvviso evidente che «Blusa blu» non aveva piu niente da dire, che la «sinistra» teatrale tendeva piu al teatro di Mejerchol'd, al teatro della Rivoluzione, al teatro da Camera. Questi teatri avevano conservato la propria energia e inventiva, avevano conservato il proprio personale, molto piu qualificato dei collettivi «dimostrativi» di Južanin. Boris Tenin e Klavdija Kore­ neva4, che sarebbero poi passati al Teatro dei bambini, erano le uniche personalità di spicco nate nel movimento. Jutkevič comin­ ciò a essere attratto dal cinema. Tret'jakov e Kirsanov dal «Nuo­ vo Lef»5. Perfino il compositore Konstantin Listov6 tradì il «gior­ nale vivo». Risultò anche che i teatri accademici si erano riavuti da tutti quegli sconvolgimenti ed erano disposti, addirittura molto dispo­ sti a servire il nuovo potere. Gli spettatori tornarono nelle sale di sempre, davanti al sipa­ rio con il disegno del gabbiano7, i giovani ripresero a far smorfie negli studi delle vecchie scuole teatrali. Non c’era piu posto per le «Bluse blu». E apparve perfino chia­ ro che, sotto un certo aspetto, l’intera vicenda era stata un bluff, un miraggio. Che l’arte aveva certe sue collaudate vie. Ma questo sarebbe venuto alla fine, all’inizio invece fu un trionfo unico. Gli attori si presentavano sulla scena indossando le loro bluse blu e con questa sfilata-entrata iniziavano lo spettaco­ lo. Le sfilate-entrate erano sempre le stesse, come le marce spor­ tive prima delle radiocronache di calcio: 4 Klavdija Koreneva, dal 1926, dopo gli studi all’Istituto statale d’arte drammatica e la partecipazione al movimento «Blusa blu», lavorò al Teatro dei bambini e in altri teatri. 5 Lef, L e v y j F ro n t Isk u sstv a, «Fronte di sinistra dell’arte», gruppo letterario sorto a Mosca, per iniziativa di Majakovskij, alla fine del 1922 e scioltosi nel 1929; riunì poeti e scrittori delle varie avanguardie artistiche vicine al futurismo; accusato di «formalismo» e di scarso rispetto per i «classici» entrò in conflitto con la potente Vapp degli scrittori «pro­ letari». L’omonima rivista usci dal 1923 al 1925 e come «Novyj Lef» nel 1927-28. 6 Konstantin Listov (1900-83), compositore, autore di moltissime canzoni e di ope­ rette (tra cui celebre I I v alzer d i S e b a sto p o liK 1962). 7 II gabbiano dell’omonimo lavoro di Čechov al MChAT assurse a simbolo dell’indi­ rizzo teatrale naturalistico.

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LA RESURREZIONE DEL LARICE Noi siamo i sinebluzniki, le forze del lavoro, non siam bardi canori ma viti e controdadi d ’un nobile congegno, d’un’àlacre famiglia che tutti ci assomiglia.

Il lefovec S. Tret'jakov era un grande maestro di tutti questi «controdadi e bulloni». Anche il redattore dell’almanacco «Blusa blu» scrisse diversi oratori, sketch e scenette. Dopo la sfilata venivano rappresentate alcune scenette. Gli at­ tori erano senza trucco, «senza costumi», con i vestiti prosaici di ogni giorno, a parte qualche collage simbolico. Il tutto si conclu­ deva con il «gran finale»: Quanto sapevamo ve l’abbiamo cantato, meglio non potevamo, e lo scopo è centrato se qualcosa di utile s’è dato.

Questo angusto mondo degli editoriali giornalistici trasposto nel gergo teatrale ebbe un successo straordinario. La nuova arte del proletariato. «Blusa blu» andò in Germania. Due collettivi con a capo Južanin in persona. Nel ’24, mi pare. Nei circoli operai della re­ pubblica di Weimar. Qui Južanin incontrò Brecht che rimase sba­ lordito di fronte alla novità delle sue idee. «Sbalordito» è l’e­ spressione letterale usata da Južanin. Južanin si incontrò con Bre­ cht tutte le volte che gli fu possibile, in quei tempi caratterizzati da reciprochi sospetti e pedinamenti. La prima tournée vera e propria degli operai dei «collettivi tea­ trali d’assalto» all’estero, una trasferta - giro del mondo si colloca nel 1933. Il rapporto operaio-commissario politico della compa­ gnia era di uno a uno. Anche con Južanin viaggiavano non pochi commissari politici. Era Marija Fëdorovna Andreeva® ad organizzare questi viaggi. Dopo la Germania il «Blusa blu» si spostò in Svizzera e da qui, sazio di trionfi, tornò in patria. 8 Marija Andreeva (1868-1953), attrice, nel partito dal 1904, segretaria e compagna di Gor'kij, l’accompagnò all’estero dal 1906 al 1912; al ritorno riprese a lavorare in teatro.

BORIS JUZANIN

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Dopo un anno Južanin portò in Germania altri due collettivi, scelti tra quelli che non avevano preso parte alla prima trasferta. Il trionfo di sempre. Nuovi incontri con Brecht. Rientro a Mo­ sca. I collettivi si preparano ad andare in America, in Giappone. Južanin aveva una peculiarità che lo svantaggiava come leader del movimento: era un cattivo oratore. Non sapeva preparare una conferenza, né fronteggiare adeguatamente gli avversari in un di­ battito. E all’epoca erano attività molto in voga: una conferenza dietro l’altra, un dibattito via l’altro. Južanin era una persona mol­ to schiva, addirittura timorosa. E al tempo stesso non era per nien­ te disposto a giocare un ruolo secondario, a farsi da parte, a restare nell’ombra. La lotta dietro le quinte esige molta inventiva, molte energie. Queste qualità facevano difetto a Južanin. Lui era un poeta e non un politico. Un poeta e un dogmatico, un poeta fanaticamente vo­ tato alla sua causa bluvestita. Mi stava davanti, sudicio e lacero. I piedi sporchi e scalzi non riuscivano a star fermi: Boris Južanin continuava ad appoggiarsi ora su un piede ora sull’altro. - I malavitosi ? - gli domandai, accennando aEe sue spalle nude. - Sf, proprio loro. Ma è stato meglio, mi hanno fatto un favo­ re. Cosi strada facendo mi sono preso un po’ di tintarella... Nelle alte sfere stavano già preparando disposizioni e direttive riguardo ai «Blusa blu»: togliere loro i fondi, depennarli dalle sov­ venzioni. Si erano anche fatti avanti dei pretendenti per il teatro Chat noir. La parte teorica dei manifesti dei «blusa blu» diventa­ va sempre piu scialba e inespressiva. Južanin non portò, non seppe portare il proprio teatro all’al­ tezza della rivoluzione mondiale. E la stessa prospettiva globale di una rivoluzione di questo genere alla metà degli anni Venti co­ minciò a offuscarsi. L ’amore per gli ideali del «Blusa blu»! Come si vide non ba­ stava. Amore significa responsabilità, discussioni a non finire alla sezione del Soviet di Mosca, relazioni di servizio, tempeste in un bicchier d ’acqua, colloqui con attori che rimanevano senza paga. E al centro di tutto, una questione cruciale: cos’erano quelli del «Blusa blu», professionisti o dilettanti? L ’ideologo e leader del «Blusa blu» pensò bene di tagliare tut­ te quelle questioni con un colpo netto di spada.

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Boris Južanin cercò di scappare all’estero. Un tentativo puerile. Consegnò tutti i suoi soldi a un marinaio a Batumi e il marinaio lo portò all’Ogpu. Restò in prigione per pa­ recchio tempo. Gli inquirenti di Mosca appiopparono all’« eroe della nuova for­ ma teatrale» il liter sospetto spionaggio, cioè p . e tre anni di cam­ po di concentramento. «Quello che avevo visto all’estero era talmente diverso da quel­ lo che scrivevano sui nostri giornali. Mi passò la voglia di essere un giornale vivo. E mi venne voglia di una vita vera». Feci amicizia con Južanin. Lo aiutai in piccole cose - la bian­ cheria, i bagni - ma presto lo chiamarono alla direzione, a Vižaicha, dove c’era il centro dell’Uslon, per un lavoro nel suo campo professionale. L ’ideologo e iniziatore del movimento «Blusa blu» diventò ca­ po del collettivo «Blusa blu» nei campi di concentramento della Visera, «giornale vivo» dei detenuti. Un finale a effetto! Anch’io scrissi, per questo «Blusa blu» concentrazionario, a quattro mani con Boris Južanin, alcuni sketch, oratori e canzo­ nette. Južanin diventò poi redattore della rivista «Nuova Višera». Al­ la biblioteca Lenin se ne possono ancora trovare degli esemplari. Cosi, il nome di Južanin verrà tramandato ai posteri. Grazie alla grande invenzione di Gutenberg, anche se il torchio tipogra­ fico è stato sostituito dalla macchina a cilindro. Uno dei principi del movimento «Blusa blu» era l’utilizzazio­ ne di qualsiasi testo, di qualsiasi soggetto. Se serviva, sia le parole che la musica potevano essere prese di peso da altri autori. Non c’erano furti letterari. Il plagio era di prammatica. Nel 1931 riportarono Južanin a Mosca. Una revisione del suo caso ? Chissà ? Južanin visse molti anni confinato ad Aleksandrov: evidente­ mente il suo caso non l’avevano poi riesaminato molto. Nel ’57 venni a sapereche era vivo: la Mosca degli anni Venti non poteva non conoscerlo e ricordarlo. Gli scrissi una lettera, proponendogli di raccontare della « Blu­ sa blu» ai moscoviti della fine degli anni Cinquanta. Questa pro­ posta suscitò la decisa opposizione del direttore della rivista alla quale collaboravo: della «Blusa blu» non sapeva e non voleva sa­ pere niente. Non potei confermare quella che pure era stata una

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mia iniziativa e mi rimproverai aspramente la troppa fretta. Poi mi ammalai sicché la lettera di Južanin, scritta nel 1957, restò nel cassetto dove è tuttora. [1967].

B o ris J u ia n in ,

in Šalamov,

K o ly m sk ie rassk azy

cit.

La visita di mister Popp

Mister Popp era il vicedirettore della ditta americana Nitrogen che stava installando dei gasometri nel primo lotto del cantiere del complesso chimico di Berezniki. Era una grossa commessa, il lavoro procedeva bene e il vicedi­ rettore aveva ritenuto indispensabile assistere di persona alla con­ segna dei lavori. A Berezniki erano impegnate diverse ditte straniere. « L ’In­ ternazionale capitalista», come diceva M. Granovskij, il respon­ sabile della costruzione. I tedeschi per le caldaie, la ditta inglese Brown-Boveri per le macchine a vapore, inglesi anche le caldaie Babcock-Wilcox, americani i gasometri. I tedeschi avevano dei problemi: piu tardi sarebbero stati ac­ cusati di sabotaggio. Le cose non andavano meglio per gli inglesi, alla centrale elettrica. Anche per loro ci sarebbe stata poi la stes­ sa accusa. Io lavoravo allora alla centrale elettrica, o meglio elettrotermi­ ca (Tee), e mi ricordo molto bene dell’arrivo di mister Holmes, l’ingegnere capo della ditta Babcock-Wilcox. Era un uomo molto giovane, sulla trentina. Il giorno del suo arrivo non volle neppure passare dall’albergo ma si recò direttamente sul luogo dove stava­ no montando le caldaie. Uno dei montatori inglesi lo aiutò a to­ gliersi il cappotto e a indossare una tuta da lavoro, e Holmes re­ stò per tre ore ad ascoltare le spiegazioni dei suoi tecnici. La sera ci fu una riunione. Di tutti gli ingegneri presenti Holmes era il piu giovane. A ogni rilievo, a ogni relazione, mister Holmes rispon­ deva con una sola breve parola che l’interprete traduceva nel mo­ do seguente: «L a cosa non preoccupa mister Holmes». Ciò nono­ stante, Holmes passò due settimane al kombinat, la caldaia co­ minciò a funzionare all’ottanta per cento della potenza prevista nel progetto. Granovskij firmò l’atto e mister Holmes prese il suo aereo per Londra. Di li a qualche mese la potenza della caldaia diminuì e venne

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convocato per una consulenza uno specialista dei nostri: Leonid Konstantinovič Ramzin. Protagonista di un processo che aveva fatto rumore, Ramzin, come del resto era negli accordi, non era ancora stato liberato, non era stato ancora insignito dell’ordine di Lenin e non aveva ancora ricevuto il premio Stalin. Tutto questo era ancora di là da venire, ma Ramzin lo sapeva e alla centrale elet­ trica tenne un atteggiamento molto indipendente. Non venne da solo ma accompagnato da un tale dall’aspetto inconfondibile e ri­ partì sempre in sua compagnia. Ramzin non si infilò nella caldaia come mister Holmes ma restò nell’ufficio di Kapseller, il diretto­ re tecnico della centrale, anche lui un deportato, condannato per sabotaggio alle miniere di Kizel. Ufficialmente il direttore della centrale termoelettrica era uno che si chiamava Račev, un passato di «direttore rosso», ragazzo non cattivo che almeno aveva il pregio di non occuparsi di que­ stioni delle quali non capiva niente. Io lavoravo all’Ufficio di eco­ nomia del lavoro della centrale e per molti anni ho conservato un reclamo dei fuochisti indirizzato a Račev. Su questo reclamo, con il quale i fuochisti intendevano attirare l’attenzione su svariate ne­ cessità, c’era un’annotazione a margine piuttosto ingenua che ca­ ratterizza bene Raèev; «Al Resp. dell’Ufficio. Prego valutare e pos­ sibilmente rifiutare». Ramzin dette alcuni consigli pratici, ma non apprezzò affatto il lavoro di mister Holmes. Al momento del suo arrivo alla centrale mister Holmes non era accompagnato da Granovskij, il responsabile della costruzione, ma dal suo vice, l’ingegnere capo Cistjakov. Non esiste al mondo nien­ te di piu dogmatico dell’etichetta diplomatica, dove la forma è an­ che sostanza. E un dogma che avvelena la vita, che costringe uo­ mini attivi a perdere tempo nell’elaborazione di norme di reciproca cortesia fondate sul livello della carica, l’anzianità di servizio e co­ se del genere. Così, benché ne avesse tutto il tempo, Granovskij ritenne di non dover accompagnare l’ingegnere capo della ditta nella visita al cantiere. Fosse venuto il padrone in persona, sareb­ be stato diverso. Fu quindi l’ingegnere capo Cistjakov - un uomo corpulento, massiccio, dall’aspetto «signorile», come scrivono nei romanzi ad accompagnare Holmes al cantiere. Alla direzione del kombinat Cistjakov aveva un grande ufficio di fronte a quello di Granovskij e ci stava parecchie ore al giorno, chiuso a chiave con una giova­ ne commessa. Allora ero giovane e non comprendevo la legge fisiologica per

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la quale i grandi capi, oltre alle mogli, hanno a disposizionevcom­ messe, stenografe, segretarie. Dovevo spesso rivolgermi a Cistjakov per qualche questione e mi trovai a imprecare davanti a quel­ la porta chiusa. Io abitavo nello stesso albergo, situato vicino alla fabbrica di soda, che ha ospitato per qualche tempo Paustovskij1; in una del­ le camere di quell’albergo Paustovskij ha messo giu il suo Kara-Bugaz■ A giudicare da quanto ha scritto su quell’epoca - gli anni ’30 e ’31 - non ha assolutamente visto la cosa essenziale che l’ha ca­ ratterizzata, con conseguenze per tutto il paese, e per l’intera sto­ ria della nostra società. Qui, sotto gli occhi di Paustovskij, si conduceva un grande espe­ rimento di corruzione delle anime umane, esperimento che venne in seguito esteso a tutto il paese fino a sfociare nel sangue del ’37. Fu precisamente in questo luogo e in questi anni che venne speri­ mentato per la prima volta il nuovo sistema concentrazionario, im­ perniato sulla samoochrana e la perekovka, «autosorveglianza» e «rieducazione-riforgiatura», e inoltre il vettovagliamento in rela­ zione alla produttività e il computo dei giorni lavorati in funzio­ ne dei risultati ottenuti. Un sistema che ebbe il suo massimo rigo­ glio con il Belomorkanal e pati uno smacco con il Moskanal, dove anche oggigiorno continuano ad affiorare resti umani dalle fosse comuni. A Berezniki, fu Berzin a condurre l’esperimento. Non da solo, naturalmente. Berzin è sempre stato il fedele esecutore delle idee - sanguinarie o meno - di qualcun altro. Ma Berzin fu anche di­ rettore del Višchimza, lo stabilimento chimico della Visera, che è anch’esso una realizzazione del primo piano quinquennale. Il suo subordinato con responsabilità specifiche per i lager era Filippov, e il lager della Visera, di cui facevano parte sia Berezniki che So­ likamsk con le sue miniere di potassio, era enorme. Solo a Berez­ niki, alla costruzione del Bereznikchimstroj, lavoravano dalle tre alle quattromila persone. Gli operai del primo piano quinquen­ nale. Fu qui, e proprio qui, che venne risolta la questione se i lager dovessero o meno esistere: sottoponendoli alla prova del rublo, della redditività. Dopo l’esperimento della Visera - che secondo le autorità fu un successo - il sistema dei lager si estese a tutta l’U1 Konstantin Paustovskij (1892-1968), scrittore programmaticamente «romantico», apprezzato per finezza di stile, dedicò alcune opere all’industrializzazione sovietica, tra cui il romanzo breve K a ra -B u g a z (1932) sullo sfruttamento delle risorse minerarie del mar Ca­ spio.

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nione Sovietica e non ci fu una sola regione che non avesse il suo lager, non ci fu un solo cantiere in cui non lavorassero dei dete­ nuti. Fu proprio dopo la Višera che il numero dei detenuti nel pae­ se raggiunse i dodici milioni. E stata proprio la Višera a segnare l’inizio di un nuovo orientamento della politica carceraria. Le ca­ se correzionali passarono sotto la giurisdizione delI’Nkvd e iniziò l’opera celebrata dai poeti, drammaturghi e registi cinematogra fici. Ecco che cosa non vide Paustovskij, preso com’era dal suo Kara-Bugaz. Alla fine del 1931 dividevo la mia camera d’albergo con un gio­ vane ingegnere di nome Levin. Lavorava al cantiere dello stabili­ mento chimico di Berezniki come interprete dal tedesco ed era as­ segnato a uno degli ingegneri stranieri. Quando gli chiesi come mai un ingegnere chimico di professione lavorasse in qualità di sem­ plice interprete per trecento rubli al mese, lui mi rispose: - Sf, è vero. Ma è meglio così. Nessuna responsabilità. Tanto per dire, è la decima volta che viene rimandata la messa in eserci­ zio e per questo ne metteranno in galera almeno cento. E io? Io sono un interprete. Per di più ho poco lavoro e molto tempo libe­ ro. E so come metterlo a profitto. Levin sorrise. Sorrisi anch’io. - Non ha capito ? -N o . - Non ha notato che rientro nelle prime ore del mattino? - No, non ci ho badato. - Non è un buon osservatore. Mi occupo di un lavoro che mi procura un discreto guadagno. - Di cosa si tratta? - Gioco a carte. - A carte ? - Sì. A poker. - Con gli stranieri ? - Ma no, perché? Con gli stranieri al massimo rimedierei una bella istruttoria penale. - Con gente nostra allora ? - Certo. Quaggiù c’è una marea di scapoli. E le poste sono al­ te. E i soldi non mi mancano, non finirò mai di ringraziare mio pa­ dre, mi ha insegnato lui come si fa a vincere a poker. Non vor­ rebbe provarci? Glielo insegno in quattro e quattr’otto. - No, la ringrazio.

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Levin è capitato per puro caso nel mio racconto su mister Popp, racconto che decisamente non mi riesce di cominciare. Le operazioni di montaggio da parte della ditta americana Ni­ trogen procedevano come si è detto ottimamente, la commessa era di quelle importanti e il vicedirettore in persona si era mosso per venire in Russia. M. Granovskij, il direttore del Bereznikchimstroj era stato avvertito per tempo e almeno mille volte dell’arrivo di mister Popp. Avendo deciso, in forza del protocollo diplomatico, che lui, M. Granovskij - vecchio membro del partito e responsa­ bile della costruzione di uno dei più grossi impianti del primo pia­ no quinquennale - era di rango più elevato rispetto perfino al pa­ drone della ditta americana, decise che non sarebbe andato a ri­ cevere di persona mister Popp alla stazione di UsoLe (che più tardi verrà chiamata Berezniki). Non sarebbe stato serio. L ’avrebbe ac­ colto alla direzione, nel suo ufficio. Granovskij era al corrente del fatto che l’ospite americano viag­ giava su di un treno speciale - locomotiva e vagone al traino - e quanto all’ora di arrivo prevista in stazione, gli era stata notifica­ ta da almeno tre giorni con un telegramma da Mosca. Il cerimoniale dell’incontro era stato definito in anticipo: l’au­ to personale del responsabile dell’impianto sarebbe stata messa a disposizione dell’ospite che doveva essere prelevato alla stazione e accompagnato all’albergo, dove già da tre giorni il direttore Cyplakov, un membro emerito del partito, teneva la migliore came­ ra del suo albergo per stranieri a disposizione dell’ospite d’oltreoceano. Dopo la toeletta e la colazione, mister Popp sarebbe stato accompagnato alla direzione, dopo di che sarebbe cominciata la parte concreta dell’incontro, la cui tabella di marcia era fissata al minuto. Il treno rapido con l’ospite d’oltreoceano doveva arrivare alle nove del mattino e già alla vigilia l’autista personale di Granovskij venne convocato, istruito a dovere e abbondantemente ingiuriato. - Che ne dice, compagno capo, se la macchina ce la porto alla stazione stasera stessa e dormo li ? —disse l’autista, inquieto. - Neanche per sogno. Bisogna mostrare che qui da noi si fa ogni cosa spaccando il minuto. Il treno fischia, rallenta e tu arrivi alla stazione. Solo in questo modo. - Bene, compagno capo. Sfinito dalle ripetute prove - il percorso della stazione avanti e indietro almeno dieci volte a vuoto, per misurare la velocità e calcolare il tempo necessario, la notte precedente l’arrivo di mi-

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ster Popp l’autista di M. Granovskij si addormentò e sognò il tri­ bunale: o non si sognavano ancora i tribunali in quell’anno 1931 ? Il garagista di turno - Granovskij non aveva ritenuto di infor­ marlo delle esigenze di servizio per l’indomani - svegliò l’autista in seguito a una telefonata dalla stazione; messa rapidamente in moto la macchina, l’autista si precipitò a incontrare mister Popp. Granovskij era un uomo molto attivo. Quel giorno arrivò in uf­ ficio alle sei del mattino, ebbe due riunioni, fece tre lavate di ca­ po. Tendendo l’orecchio al minimo rumore dabbasso, si avvicina­ va ogni tanto alla finestra, scostava le tende e guardava giu in stra­ da. L ’ospite d ’oltremare non si vedeva. Alle nove e mezza telefonò dalla stazione un addetto chieden­ do del direttore dell’impianto. Granovskij sollevò il ricevitore e sentf una voce sorda con un forte accento straniero. La voce si di­ ceva stupita che si riservasse una cosi cattiva accoglienza a mister Popp. Non c’era nessuna macchina ad attenderlo. Mister Popp chiedeva che gli fosse mandata al piu presto. Granovskij montò su tutte le furie. Scendendo i gradini dell’in­ gresso a due a due e respirando affannosamente arrivò al garage. - Il suo autista, compagno capo, è partito alle sette e mezza. - Come alle sette e mezza ? Ma sentf rombare una macchina. L ’autista, con un sorrisetto da ubriaco, varcò la soglia del garage. - C os’hai combinato, ti venisse... Ma l’autista spiegò ogni cosa. Alle sette e mezza era arrivato un treno passeggeri da Mosca. Grozovskij, il capo del dipartimento finanziario del cantiere rientrava dalla ferie con la famiglia, su quel treno, e aveva fatto chiamare la macchina di Granovskij, come sempre. Al telefono l’autista aveva cercato di dirgli di mister Popp. Ma Grozovskij aveva tagliato corto dicendo che si trattava senz’al­ tro di un errore, che lui non ne sapeva nulla, e gli aveva ordinato di andare immediatamente alla stazione. L ’autista aveva obbedi­ to. Aveva pensato che il viaggio dello straniero fosse stato annul­ lato e in generale, Grozovskij o Granovskij, non sapeva piu a chi dar retta, e gli girava anche la testa. Poi avevano viaggiatovper quattro chilometri, fino al villaggio di nuova costruzione di Curtan dove si era trasferito da poco Grozovskij. L ’autista l’aveva aiu­ tato a portar su i bagagli, poi i padroni di casa gli avevano offerto un goccetto per il viaggio... - Ne parleremo piu tardi, ti spiegherò io chi è piu importante, Grozovskij o Granovskij. Nel frattempo fila alla stazione.

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L ’autista ci dette dentro e arrivò alla stazione che non erano ancora le dieci. L ’umore di mister Popp non era dei migliori. L ’autista, correndo a tutto gas e senza stare a scegliere le stra­ de, portò mister Popp all’albergo per stranieri. Mister Popp si si­ stemò nella sua camera, si lavò, si cambiò e si calmò. Ora toccava a qualcun altro stare in ansia: a Cyplakov, il «co­ mandante» dell’albergo per stranieri, era cosi che si chiamava al­ lora, non direttore, non responsabile, ma comandante. Chissà quanto valeva, in termini economici, una mansione del genere: me­ no di quella, ad esempio, di «direttore di distributore d ’acqua» pure esistente all’epoca? Lo ignoro, quello che so è che si chiama­ va proprio cosi. Il segretario di mister Popp apparve sulla soglia della camera. - Mister Popp vorrebbe far colazione. Il comandante dell’albergo prese dal buffet due grandi cioccolatini senza involto, due fette di pane con la marmellata, due con il salame, dispose tutto quanto su di un vassoio e, dopo averci ag­ giunto due bicchieri di tè - piuttosto chiaro -, lo portò nella ca­ mera di mister Popp. Immediatamente il segretario riportò fuori il vassoio e lo de­ pose su un tavolino accanto alla porta. - Se la colazione è questa, mister Popp preferisce non far co­ lazione. Cyplakov si precipitò a riferire l’accaduto al responsabile del­ la costruzione, ma Granovskij sapeva già tutto: l’avevano avver­ tito per telefono. - Cosa mi combini, vecchio cretino, - urlava Granovskij. - Non disonori me, disonori lo Stato! Passa le consegne! A lavorare! Al­ la cava di sabbia! Con il badile in mano ! Sabotatori! Canaglie! Vi farò marcire nei lager! E il vecchio Cyplakov dai capelli bianchi, mentre aspettava che il capo finisse di imprecare, pensava: «E vero, può farlo». Era tempo di passare alla parte concreta della visita e qui Gra­ novskij si calmò un poco. Al cantiere la ditta lavorava bene. In­ stallavano i gasometri sia a Solikamsk che a Berezniki. Mister Popp sarebbe sicuramente andato anche a Solikamsk. Era venuto per questo ed era improbabile che alla fine restasse scontento o delu­ so. E del resto non lo era. Magari un po’ meravigliato. Ma erano comunque cose di poco conto. Al cantiere, Granovskij volle accompagnare di persona mister Popp, lasciando da parte tutti i suoi calcoli diplomatici, e riman­ dando tutte le sue riunioni e appuntamenti. L ’accompagnò di per-

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sona anche a Solikamsk e ritornò con lui. I verbali sullo stato di avanzamento dei lavori furono firmati e mister Popp, soddisfatto si apprestò a rientrare a casa, in America. - Ho un po’ di tempo, - disse mister Popp a Granovskij, - gra­ zie al buon lavoro dei nostri... - l’ospite fece una pausa - e dei vo­ stri mastri ho risparmiato due settimane buone. Il fiume Kama è magnifico. Voglio discendere il Kama in battello fino a Perm' e magari fino a Nižnij Novgorod. E possibile? - Certamente, - disse Granovskij. - Ma posso noleggiare un battello ? - No. Sa bene che da noi c’è un altro sistema, mister Popp. - E comprarlo ? - No, non si può neanche comprarlo. - Beh, che non si possa comprare un battello passeggeri que­ sto lo capisco, la cosa intralcerebbe la circolazione sull’arteria flu­ viale, ma se fosse un rimorchiatore, eh? Tipo questo «Gabbiano», per esempio. E mister Popp indicò un rimorchiatore che stava passando sot­ to le finestre dell’ufficio del responsabile della costruzione. - No, neanche un rimorchiatore. La prego di voler compren­ dere... - Mi rendo conto, ne ho sentite dire tante... Comunque com­ prarne uno sarebbe la cosa più semplice. Lo lascerei a Perm'. Un regalo per lei. - No, mister Popp, da noi non si accettano regali del genere. - Ma allora come facciamo ? È una cosa assurda. Siamo in esta­ te, un tempo splendido. E uno dei più bei fiumi del mondo - e in­ fatti dicono che è il vero Volga, l’ho letto da qualche parte. E per finire ne avrei il tempo. Ma non si può. Chieda a Mosca. - Perché Mosca? E lontana Mosca, - citò, come d’abitudine, Granovskij. - Beh, decida un po’ lei. Sono suo ospite. Sarà come vorrà lei. Granovskij chiese una mezz’ora per rifletterci e convocò nel suo ufficio Mironov, il capo della navigazione, e Ozols, il capo del settore operativo dell’Ogpu. Granovskij li mise al corrente del de­ siderio di mister Popp. A quel tempo c’erano solo due battelli passeggeri che passava­ no da Berezniki: YUral rosso e il Tataria rossa. La linea era quella Cerdyn'-Perm'. Mironov comunicò che YUral rosso era a valle, vi­ cino a Perm', e che non sarebbe mai potuto arrivare in tempo uti­ le. Invece a monte il Tataria rossa stava risalendo il fiume, stava per raggiungere Cerdyn'.

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- Se lo si richiama subito - e qui ti potranno dare una mano i tuoi ragazzi, Ozols! - e gli si fa discendere il fiume senza scalo, il Tataria rossa potrà attraccare qui a Berezniki in giornata. E mister Popp potrà partire. - Mettiti al selettore - disse poi Granovskij a Ozols - e tem­ pesta i tuoi. Bisogna che uno dei ragazzi prenda il battello e si fac­ cia il viaggio, per controllare che non perdano tempo inutilmente e non facciano soste. Di loro che è una questione di Stato. Ozolsvsi collegò con Annovy, lo scalo di Cerdyn'. Il Tataria ros­ sa lasciò Cerdyn'. - Dacci dentro! - Ci diamo dentro! Il capo dei cantieri fece visita a mister Popp nella sua camera d’albergo - il «comandante» era già stato sostituito - e lo informò che un battello di linea avrebbe avuto l’onore di prendere a bor­ do il prezioso ospite l’indomani, alle due del pomeriggio. - No, - disse mister Popp, - mi dica l’ora esatta, per non do­ ver stare ad aspettare sulla riva. - Allora diciamo alle cinque. Alle quattro manderò una mac­ china per i bagagli. Alle cinque, Granovskij, mister Popp e il suo segretario anda­ rono all’imbarcadero. Il battello non c’era. Granovskij si scusò, si allontanò e si precipitò alla postazione telefonica dell’Ogpu. - Non ha ancora passato leer. Granovskij emise un gemito. Due ore buone. - Potremmo rientrare in albergo e ritornare all’arrivo del bat­ tello. E intanto mangiare un boccone, - propose Granovskij all’o­ spite. - Si riferisce alla colazione di domattina2? - articolò caustico mister Popp. - No, la ringrazio. E una magnifica giornata. Il so­ le. Il cielo. Aspetteremo sulla riva. Granovskij restò con gli ospiti sull’imbarcadero, non smetten­ do mai di sorridere e di raccontare qualcosa, e intanto lanciava continue occhiate al di là del promontorio a monte, da dove sa­ rebbe apparso da un momento all’altro il battello. Nel frattempo i collaboratori di Ozols e il capo in persona occupavano tutte le linee telefoniche e ci davano dentro a tutto spiano. 2 In russo c’è un gioco di parole; infatti p o z a v tr a k a t' « far colazione» contiene la paro­ la zav tra, «domani».

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Alle otto della sera il Tataria rossa emerse da dietro il promon­ torio e cominciò lentamente ad avvicinarsi all’imbarcadero. Granovskij si profuse in sorrisi, ringraziamenti, saluti e raccomanda­ zioni. Mister Popp lo ringraziò senza sorridere. Il battello accostò. E qui emerse una difficoltà imprevista, un contrattempo che rischiò di mandare all’altro mondo il cardiopa­ tico M. Granovskij, un contrattempo che potè essere superato so­ lo grazie all’esperienza e alla grinta del capo della sezione provin­ ciale degli organi. Risultò infatti che il battello era tutto occupato, stracolmo di passeggeri. I viaggi di linea erano rari, e c’era in movimento una marea di gente; tutte le cabine e i ponti, perfino la sala macchine, erano pieni da scoppiare: sul Tataria rossa non c’era posto per mi­ ster Popp. Non solo tutti i biglietti di cabina erano stati venduti e tutte le cabine impegnate, ma in ognuna di esse c’erano segreta­ ri di comitati provinciali, capiofficina e direttori di aziende di im­ portanza nazionale diretti a Perm' che non vedevano l’ora di go­ dersi le ferie. Granovskij si rese conto che stava per svenire. Ma Ozols ave­ va ben piu esperienza nel disbrigo di affari del genere. Ozols sali sul ponte superiore del Tataria rossa con quattro dei suoi giovanotti, armati e in uniforme. - Sgomberare tutti ! Con la roba ! - Ma abbiamo i biglietti. Fino a Perm'! - Va’ al diavolo con i tuoi biglietti! Tutti giu nella stiva. Vi dò tre minuti per pensarci. - La scorta vi accompagnerà fino af Perm'. Vi spiegherò quan­ do saremo partiti. Di li a cinque minuti il ponte superiore era stato ripulito e mi­ ster Popp, vice direttore della ditta Nitrogen, prendeva posto a bordo del Tataria rossa. [1967].

V izit m istera P o p p a,

in «Volga», 1989, n. 7.

Lo scoiattolo

La foresta circondava da ogni parte la città, entrava nelle sue vie. Bastava passare da un albero all’altro per ritrovarsi già su un viale cittadino e non piu nel bosco. Pini e abeti, aceri e pioppi, olmi e betulle erano sempre gli stes­ si, sia che attorniassero una radura della foresta o la piazza «Lot­ ta contro la speculazione», come avevano appena ribattezzato la piazza del mercato principale. Quando lo scoiattolo guardava la città da lontano gli sembra­ va tagliata in due da un coltello verde, o da un raggio verde, e il viale pareva un fiumicello verde lungo il quale poter navigare fino a raggiungere una foresta sempreverde come quella nella quale vi­ veva. E lo scoiattolo si decise. Passò da un pioppo all’altro, da una betulla all’altra, muoven­ dosi con abilità, con calma. Ma betulle e pioppi non finivano mai e portavano sempre piu lontano dentro gole scure, in radure di pie­ tra cinte da bassi arbusti e alberi isolati. I rami delle betulle erano più flessibili di quelli dei pioppi, ma questo lo scoiattolo lo sapeva. S’accorse ben presto di non aver preso la strada giusta e che la foresta invece di infittirsi si faceva sempre più rada. Ma era trop­ po tardi per tornare indietro. Doveva attraversare di corsa quella piazza grigia e morta e al di là della piazza avrebbe ritrovato la foresta. Ma i cani già ab­ baiavano e i passanti guardavano in su. La foresta di conifere era sicura con la sua corazza di pini e la seta degli abeti. Il fruscio delle foglie di pioppo era traditore. Il ra­ mo di betulla resisteva meglio e piu a lungo, e il corpo flessuoso della bestiola determinava da sé, bilanciandosi sul proprio peso, fino a dove poteva piegare il ramo: lo scoiattolo lasciava la presa delle zampe, volava nell’aria, metà uccello, metà animale. Gli al­ beri gli avevano insegnato il cielo, il volo. Quando si staccava dai rami allargando le unghie di tutte e quattro le zampe, lo scoiatto­

LO SCOIATTOLO

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lo volava alla ricerca di un appiglio più saldo, piu sicuro dell’aria. E assomigliava veramente a un uccello, aveva qualcosa di un giallo astore in volo sopra la foresta. Come invidiava gli astori e i loro voli celesti! Ma lui non era un uccello. Il richiamo della ter­ ra, la pesantezza della terra, il suo stesso peso (quintali e quintali) lo scoiattolo li avvertiva continuamente, non appena i muscoli del­ l’albero cominciavano a indebolirsi e il ramo a piegarsi sotto il suo corpo. Doveva allora raccogliere tutte le forze a disposizione ed evocare forze nuove nel più profondo del suo essere, poi saltare nuovamente su un altro ramo, se non voleva cadere a terra per non innalzarsi mai più fino alle verdi corone degli alberi. Socchiudendo le fessure degli occhi, lo scoiattolo saltava, ag­ grappandosi a un ramo, si dondolava misurando lo slancio, e non si accorgeva della gente che aveva cominciato a inseguirlo. Nelle via della città già si accalcava una folla. Era una tranquilla città di provincia, che si alzava al levar del sole e al canto del gallo. Il fiume che l’attraversava era cosi placi­ do che a volte la corrente si fermava e l’acqua cominciava addi­ rittura a scorrere all’indietro. La città conosceva due tipi di di­ vertimento. Anzitutto gli incendi, le allarmanti segnalazioni dalla torre di guardia dei pompieri, il fragore dei carri antincendio lan­ ciati sull’acciottolato delle strade principali, lo scalpitio degli zoc­ coli dei cavalli montati dai pompieri che erano divisi in tre squa­ dre: i cavalli erano bai, grigi pomellati o morelli a seconda della squadra. Negli incendi gli ardimentosi trovavano un campo d’a­ zione, tutti gli altri d’osservazione. Per ognuno comunque una le­ zione di coraggio: tutti quelli che erano in grado di camminare por­ tavano i bambini e, lasciando a casa solo ciechi e paralitici, anda­ vano «a guardare l’incendio». Il secondo spettacolo popolare era la caccia allo scoiattolo, un classico svago dei cittadini. Capitava che degli scoiattoli attraversassero la città, e accade­ va spesso, ma sempre di notte, quando la città dormiva. Terzo divertimento, la rivoluzione: in città si ammazzavano borghesi, si fucilavano ostaggi, si scavavano fossati, si distribui­ vano fucili e si addestravano e si mandavano a morire giovani sol­ dati. Ma nessuna rivoluzione al mondo poteva togliere il gusto di quello svago popolare tradizionale. Nella folla ognuno ardeva dalla voglia di essere il primo a rag­ giungere lo scoiattolo con un sasso, a ferirlo a morte. Di esibire la mira più precisa, di mostrare destrezza con la fionda - attrezzo bi­ blico - stavolta lanciata dalla mano di Golia contro il giallo corpi-

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LA RESURREZIONE DEL LARICE

cino di Davide. I Golia galoppavano all’inseguimento dello scoiat­ tolo, con fischi e urla di scherno e si spingevano l’un l’altro in una sorta di frenesia assassina. C ’era tra loro sia il contadino che ave­ va portato al mercato un mezzo sacco di segale, contando di scam­ biarlo con un pianoforte a coda o uno specchio - gli specchi erano a buon mercato in quell’anno di morte -, sia il presidente del co­ mitato rivoluzionario delle officine di manutenzione delle ferro­ vie venuto al mercato a dar la caccia ai borsaneristi, sia il conta­ bile della Mutua società panrussa di consumo; e inoltre Zuev, un orticoltore famoso ai tempi dello zar, nonché un «comandante ros­ so» in pantaloni a sbuffo color cremisi: il fronte era a sole cento verste da li. Le donne della città stavano lungo le palizzate, davanti ai cancelletti o alle finestre: incitavano gli uomini e protendevano i bam­ bini tra le loro braccia perché potessero vedere anche loro la cac­ cia, e imparare... I bambini, cui non era consentito cacciare autonomamente lo scoiattolo - bastavano già gli adulti - provvedevano ai rifornimenti di sassi e bastoni, perché la bestiola non avesse scampo. - Tieni, zietto, beccalo. E lo zietto tirava e lo colpiva, e la folla urlava e l’inseguimen­ to continuava. Tutti galoppavano per i viali della città all’inseguimento della fulva bestiola, tutti i padroni della città, sudati, paonazzi, invasa­ ti dalla smania di uccidere. Lo scoiattolo sapeva di non aver piu un minuto da perdere, ave­ va compreso il senso di quelle urla, di quella febbre. Doveva scendere, arrampicarsi di nuovo, scegliere un ramo principale o un ramoscello, misurare la distanza, dondolarsi e pren­ dere il volo... Lo scoiattolo osservava attentamente la gente e la gente osser­ vava lui. Seguiva la sua corsa, il suo volo: tutta una folla di esper­ ti assassini abituali... I piu anziani, i veterani delle zuffe provinciali, degli spassi, cacce e battaglie non si sognavano neanche di gareggiare con i gio­ vani. Seguivano la folla restando un po’ indietro e, da assassini esperti, davano da lontano i loro buoni consigli, consigli giudi­ ziosi e importanti, a quelli che potevano correre velocemente, cat­ turare, uccidere. Loro non potevano più correre come un tempo e prendere lo scoiattolo. Ne erano impediti dal fiato corto, l’adi­ pe, la grassezza. Ma avevano una grande esperienza e potevano dare dei buoni consigli: da quale parte correre per tagliare la stra­ da alla preda.

LO SCOIATTOLO

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La folla continuava a crescere: allora i vecchi la divisero in plo­ toni e reparti. Una metà si mosse per organizzare rim boscata e in­ tercettare la bestiola. Lo scoiattolo vide gli uomini uscire a passo di corsa da una viuz­ za laterale prima che questi lo avvistassero e capi tutto. Doveva scendere, attraversare di corsa la via, una decina di passi, avreb­ be ritrovato gli alberi del viale, e gliela avrebbe ancora fatta ve­ dere a quei cani, a quegli eroi. Lo scoiattolo saltò a terra e si lanciò proprio verso la folla mal­ grado i sassi e i bastoni che gli volavano incontro. E dopo essere passato in mezzo a quei bastoni, dopo aver attraversato la folla pesta! pesta! non fargli riprendere fiato! - lo scoiattolo si voltò a guardare. Aveva tutta la città addosso. Una pietra lo colpi al fian­ co, cadde, ma si rialzò immediatamente e si lanciò in avanti. Rag­ giunse un albero, un pino, la salvezza, s’arrampicò lungo il tronco e passò su di un ramo. - E immortale quella carogna! - Adesso bisogna accerchiarlo dalla parte del fiume, dove c ’è la secca. Ma non fu necessario. Lo scoiattolo si trascinava a fatica su per il ramo e la folla se ne accorse immediatamente e cominciò a fre­ mere. Lo scoiattolo fece dondolare il ramo, raccolse un’ultima volta tutte le sue forze e cadde in pieno sulla folla urlante. Nella folla ci fu un movimento come in una pentola quando l’acqua comincia a bollire, poi la pentola viene tolta dal fuoco, il bollore si arresta, l’acqua cala; la gente cominciò ad allontanarsi dal posto dove giaceva riverso sull’erba lo scoiattolo. La folla si diradò rapidamente: ognuno doveva andare al lavo­ ro, aveva qualcosa da fare in città, nella vita. Ma nessuno se ne andò via senza prima aver dato almeno un’occhiata allo scoiatto­ lo morto, senza essersi assicurato di persona che la caccia era sta­ ta coronata da successo e il dovere compiuto. Mi avvicinai facendomi strada tra la folla che si stava disper­ dendo: anch’io avevo lanciato grida di scherno, anch’io avevo uc­ ciso. E avevo diritto, come tutti quanti, come tutta la città, tutte le classi sociali e i partiti... Guardai il corpicino giallo dello scoiattolo, il sangue rappreso sulle labbra, il musetto e gli occhi che contemplavano sereni il cie­ lo blu della nostra tranquilla città. 1966.

B e lk a ,

in Salamov,

K o ly m sk ie rassk azy

cit.

La cascata

In luglio, quando di giorno la temperatura raggiunge punte di quaranta gradi della scala Celsius - contributo della Kolyma con­ tinentale al riequilibrio termico - obbedendo alla forza irresisti­ bile di improvvisi acquazzoni, nelle piccole radure si innalzano, mettendo paura alla gente, delle amanite innaturalmente grandi con viscide pelli di serpente, pelli di serpente variopinte: rosse, blu, gialle... Queste piogge improvvise portano alla tajga, alla fo­ resta, alle rocce, al muschio, al lichene solo un sollievo di breve durata. La natura neppure ci contava su questa pioggia feconda, vivificante e benefica. La pioggia scopre tutte le forze nascoste della natura e le cappelle delle amanite si fanno pesanti, e cresco­ no, crescono, fino a mezzo metro di diametro. Sono funghi mo­ struosi, impressionanti. La pioggia porta solo un sollievo momen­ taneo: nelle profonde gole montane si celano gli eterni ghiacci in­ vernali. I funghi con la loro giovanile energia non vanno per niente d’accordo con il ghiaccio. E non ci sono piogge, né fiumane che possano dar pensiero alle lisce lastre di ghiaccio colore dell’alluminio. Il ghiaccio riveste le pietre dell’alveo fluviale, cementan­ dole come una pista di decollo... E lungo questo alveo, lungo que­ sta pista di decollo, accelerando il suo movimento, la sua corsa, l’acqua vola, quell’acqua che si è accumulata negli strati montani per effetto delle prolungate piogge, unendosi alla neve sciolta, la neve che si trasforma in acqua e anch’essa chiama al cielo, al vo­ lo... L ’acqua corre, vola impetuosa giu dalle cime, si versa nelle go­ le, diretta all’alveo del fiume dove il duello tra sole e ghiaccio si è concluso e il ghiaccio si è sciolto. Lungo il percorso invece il ghiac­ cio non si è ancora sciolto. Spesso tre metri non è un ostacolo per l’acqua che corre diritta al fiume lungo la pista di decollo ghiac­ ciata. Sotto il cielo blu il ruscello sembra di alluminio opaco, sì, ma luminoso e lieve. Il ruscello prende lo slancio sul ghiaccio liscio e splendente. Prende lo slancio e salta nel vuoto. Già da tempo,

LA CASCATA

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già all’inizio della corsa sulle cime dei dirupi, il ruscello pensa di essere un aereo e il suo unico desiderio è alzarsi in volo sul fiume. Impetuoso, dalla forma compatta e tersa come un cannello d ’al­ luminio, il ruscello vola nell’aria, si scaraventa giu dal ciglio del di­ rupo. Sei il leggendario servo della gleba Nikitka che inventò le ali, ali d ’uccello per il volo. Sei Tatlin-Letatlin1, che rivelò al le­ gno i segreti dell’ala dell’uccello. Sei Lilienthal12... L ’impetuoso ruscello salta e non può non saltare: le onde suc­ cessive premono su quelle già sull’orlo del dirupo. Salta nell’aria e contro l’aria si frantuma. L ’aria rivela una for­ za, una resistenza di pietra - solo a prima vista e da lontano l’aria può sembrare 1’« ambiente» dei testi scolastici, ambiente aperto, nel quale si può respirare, ci si può muovere, vivere, volare. Si vede chiaramente il rivolo cristallino dell’acqua urtare l’az­ zurro muro dell’aria, un solido muro aereo. Lo urta e si frantuma in mille pezzi, spruzzi, gocciolii che ricadono senza piu forza nel­ la gola da un’altezza di dieci metri. Risulta che quell’acqua gigantesca - raccolta nelle gole e sca­ tenata con una forza sufficiente a far franare rive rocciose, a sra­ dicare alberi e scagliarli nella corrente, a far vacillare e frantuma­ re rupi, a spazzare via, sul proprio cammino, ogni cosa che s’op­ ponga alla piena - quell’acqua, dunque, non ha abbastanza forza da prendere il sopravvento sull’inerzia dell’aria, di quella stessa aria che si respira con tanta facilità, trasparente e cedevole, cede­ vole fino a essere invisibile, fino a sembrare un simbolo di libertà. Quest’aria ha in sé tali forze inerziali che al confronto non regge nessuna rupe, nessuna fiumana. Spruzzi e gocciolii tornano a riunirsi istantaneamente, rico­ minciano a cadere e a frantumarsi, mugghiando e gorgogliando in­ traprendono l’ultimo tratto che li separa dal fiume, il cui alveo cor­ re tra immensi macigni erosi dai secoli, dai millenni... Il ruscello si fa strada fino al letto del fiume in migliaia di trac­ ciati tra rocce, sassi e sassolini che le gocce, i rivoletti, i fili sotti­ li dell’acqua placata temono perfino di smuovere; cosi frantuma­ to e quieto, si insinua senza rumore nel fiume, tracciando un se­ 1 Vladimir Evgrafovič Tatlin (1885-1953), pittore e scultore russo, antesignano del di­ segno industriale; autore di un famoso bozzetto in legno del Monumento alla Terza Inter­ nazionale (1917); all’inizio degli anni Trenta realizzò il modello di una macchina volante che chiamò Letatlin con un gioco di parole sul proprio nome: le t a t 'significa «volare». 2 Otto Lilienthal (1848-96), ingegnere tedesco, pioniere dell’aviazione, considerato il padre del volo veleggiato (dal 1891); sugli alianti realizzati insieme al fratello compì piu di duemila voli, e mori durante uno di questi.

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micerchio più chiaro nel largo nastro d ’acqua scura che scorre ve­ loce. Il fiume non ha tempo da perdere con quel ruscello-Letatlin, quel ruscello-Lilienthal. Il fiume non ha tempo di aspettare. Co­ munque si scosta, appena appena, per far posto all’acqua chiara del ruscello frantumato, e si può vedere come dal profondo salga­ no verso il semicerchio piu chiaro, per dare un’occhiata al ruscel­ lo, i salmoni montani. I salmoni si fermano volentieri nelle acque scure del fiume accanto al semicerchio d’acqua piu chiara, alla fo­ ce del ruscello. Qui la pesca è immancabilmente fortunata. 1966.

V o d o p ad ,

in «Sibirskie ogni», 1988, n. 3.

Il fuoco domato

Mi è già capitato, e in più di un’occasione, di trovarmi in mez­ zo a un incendio. Da ragazzo, una volta, ho percorso le vie della mia città, tutta di legno, che stava bruciando. Era pieno giorno e non dimenticherò per tutta la vita quelle vie violentemente illu­ minate, come se il sole non bastasse alla città ed essa stessa aves­ se chiesto il fuoco. Il tremolio dell’azzurro cielo arroventato, sen­ za un soffio di vento. Il fuoco stesso, le fiamme che si alzavano e crescevano, avevano in sé la forza di cui avevano bisogno. Non c’era vento ma le case ruggivano, tremavano con ogni fibra del cor­ po e scagliavano dall’altro lato della via tavole incendiate che fi­ nivano sui tetti delle case di fronte. All’interno tutto era semplicemente secco, caldo e chiaro e io, bambino, avevo attraversato senza difficoltà o paura quelle vie che mi avevano lasciato passare sano e salvo per subito dopo ridursi in cenere. Tutte le case da un lato del fiume erano bruciate e solo il corso d ’acqua aveva salvato la parte piu importante della città. Anche da adulto mi è capitato di provare come una sensazione di pace nel divampare di un incendio. Di foreste incendiate ne ho viste parecchie. Ho camminato su un muschio di un metro di spes­ sore, blu scuro, soffice come un tessuto, caldo e divorato lenta­ mente dal fuoco. Mi sono inoltrato in una foresta di larici scon­ volta da un incendio. I larici erano stati divelti con le radici e ab­ battuti: non era stato il vento ma il fuoco. Il fuoco era come una tempesta, generava esso stesso la tem­ pesta, rovesciava gli alberi e lasciava per sempre la sua scia nera nella tajga. Per poi magari spegnersi esausto sulla riva di qualche ruscello. Una fiamma vivida e gialla percorreva l’erba secca che ondeggiava e si piegava come al passaggio di un serpente. Ma nel­ la Kolyma non ci sono serpenti. La gialla lingua di fiamma correva su per l’albero, sul tronco di un larice e, alimentandosi, il fuoco ruggiva scuotendo il tronco. Queste convulsioni degli alberi, le convulsioni dell’agonia era­

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no sempre le stesse dappertutto. È la facies ippocratica degli albe­ ri e ho avuto occasione di osservarla piu di una volta. Sull’ospedale dove mi trovavo pioveva a dirotto da tre giorni, ecco perché mi era venuto da pensare agli incendi e al fuoco. Una pioggia come quella avrebbe salvato la città, la foresta, la tajga in fiamme. L ’acqua è piu forte del fuoco. I malati convalescenti venivano mandati a raccogliere bacche e funghi dall’altra parte del piccolo fiume, dove c ’era una profu­ sione di mirtilli rossi e neri, e intere colonie di variopinti porcini giganti, dalle cappelle viscide e fredde. Quei funghi ricordavano delle strane creature a sangue freddo come i serpenti, o qualcosa di simile, tutto tranne che dei funghi. I funghi spuntano tardivamente, dopo le piogge, e non tutti gli anni, ma quando l’annata è favorevole circondano ogni tenda, riempiono ogni bosco, punteggiano ogni sottobosco. Andavamo a raccogliere quei doni della natura tutti i giorni. Stavolta faceva freddo, tirava un vento gelido ma aveva smes­ so di piovere, attraverso le nuvole lacere si poteva scorgere un pal­ lido sole autunnale ed era chiaro che quel giorno non avrebbe più piovuto. Si poteva, si doveva andare in cerca di funghi. Dopo la pioggia il raccolto. Attraversammo il corso d ’acqua in tre, a bordo di una barca di piccole dimensioni, come facevamo tutte le mattine. L ’ac­ qua era appena un po’ piu alta del solito, un po’ piu veloce. Le on­ de erano un po’ piu scure degli altri giorni. Safonov con il dito indicò l’acqua, poi il monte e capimmo tut­ ti quello che voleva dire. - Faremo a tempo. E pieno di funghi, - disse Verigin. - Non vorremo mica tornare indietro, - aggiunsi io. - Facciamo cosi, - disse Safonov, - verso le quattro il sole è proprio di fronte a quella montagna, si ritorna sulla riva a quel­ l’ora. E leghiamo la barca il piu lontano possibile dall’acqua... Ci sparpagliammo in tutte le direzioni: ognuno aveva i suoi an­ golini preferiti per i funghi. Ma fin dai primi passi nella foresta mi resi conto che era inu­ tile affrettarsi e che il regno di funghi ce l’avevo già sotto i piedi. Le cappelle erano delle dimensioni di un berretto, di un palmo ste­ so e non ci avrei messo molto a riempire i miei due grossi cesti. Po­ sai le ceste in una radura, accanto alla pista di un trattore, per ri­ trovarle subito e andai avanti piu leggero per gettare almeno un’oc­ chiata sui funghi che erano cresciuti lassù, nei posticini migliori che avevo da tempo individuato.

IL FUOCO DOMATO

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Entrai nella foresta e la mia anima di cercatore di funghi ri­ mase sconvolta: dappertutto si ergevano enormi porcini, isolati, piu alti dell’erba, sovrastando anche i cespugli di mirtilli rossi; fun­ ghi freschi, elastici e sodi, funghi fantastici. Sferzati dagli scrosci di pioggia i funghi erano cresciuti in mo­ do abnorme, con cappelle di mezzo metro, a perdita d ’occhio, e cosi sani, compatti e freschi! C ’era soltanto una cosa da fare: re­ cuperare i cesti, gettare nell’erba tutto quello che avevo raccolto fino ad allora e tornare all’ospedale con quei funghi miracolosi tra le braccia. E cosi feci. Tutto questo richiese del tempo ma avevo calcolato che, per ritornare alla riva seguendo il sentiero, ci avrei messo una mez­ z’ora. Ridiscesi la collina, scostai i cespugli: un’acqua fredda e scura aveva sommerso per metri e metri il sentiero. Il sentiero era scom­ parso sotto l’acqua intanto che io raccoglievo i miei funghi. Il bosco frusciava e l’acqua fredda continuava a salire. Il rom­ bo diventava sempre piu forte. Mi arrampicai su di un’altura e co­ minciai a costeggiare la montagna sulla destra, in direzione del luo­ go dell’appuntamento. I funghi non li avevo buttati via: mi ero ap­ peso sulle spalle i due pesanti cesti legati insieme con un asciu­ gamani. Giunsi in prossimità del boschetto dove avevamo lasciato la barca. Il boschetto era completamente sommerso e l’acqua conti­ nuava a salire. Mi arrampicai su di una collinetta, all’asciutto. Il fiume mugghiava, sradicando gli alberi e gettandoli nella cor­ rente. Del piccolo bosco dove avevamo attraccato la mattina non restava neppure un arbusto, tutti gli alberi erano stati scalzati, di­ velti e portati via dalla spaventevole forza di quell’acqua musco­ losa, di quel fiume simile a un lottatore. La riva opposta era roc­ ciosa e il fiume s’era sfogato sulla riva destra, la mia, quella co­ perta di latifoglie. Il fiumicello che avevamo attraversato non più tardi di quella mattina si era da tempo trasformato in un mostro. Cominciò a far buio e capii che dovevo risalire la montagna per la notte e là aspettare l’alba, il più lontano possibile da quell’ac­ qua gelida e scatenata. Bagnato fradicio, saltando da una gobba all’altra del terreno e finendo comunque a ogni istante con i piedi nell’acqua, trascinai i miei cesti ai piedi della montagna. La notte autunnale era nera,

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LA RESURREZIONE DEL LARICE

fredda e senza stelle, il mugghiare sordo del fiume non mi con­ sentiva di tendere l’orecchio all’ascolto di voci umane, ma dove avrei potuto sentirla una voce umana ? All’improvviso vidi brillare una luce in una valletta, anzi in un primo momento non capii che non si trattava della stella della se­ ra ma del fuoco di un bivacco. Erano geologi? Pescatori? Erbaioli? Mi diressi verso il fuoco, lasciando i due cesti ai piedi di un grande albero fino al mattino e portando con me il paniere pic­ colo. Nella tajga le distanze ingannano: un’izba, una rupe, un bosco, il fiume, il mare possono essere inaspettatamente vicine o ina­ spettatamente lontane. La decisione «andarci o no» fu semplice. C ’è un fuoco: è lì che bisogna andare senza starci a pensare. Quel fuoco era una forza nuova e importante in quella mia notte di allora. Una forza salvi­ fica. Ero pronto ad affrontare anche un cammino estenuante, sen­ za respiro, anche a tentoni se necessario, perché da qualche parte laggiù c’era un fuoco notturno, dunque degli uomini, la vita e la salvezza. Avanzai lungo la vailetta senza perdere di vista il fuoco e di 11 a una mezz’ora, aggirata una grande roccia, improvvisamente mi vidi il falò davanti, un po’ più in alto rispetto a dov’ero, su una piccola piattaforma rocciosa. Era acceso davanti a una tenda, co­ si bassa da confondersi con le rocce. Attorno al fuoco erano sedu­ te delle persone. Non mi prestarono la minima attenzione. Non feci nessuna domanda sul motivo della loro presenza e mi avvici­ nai al fuoco per riscaldarmi. Il falciatore anziano svolse uno straccio sporco e mi tese in si­ lenzio un pezzo di sale e presto l’acqua nella gavetta cominciò a fi­ schiare, a saltellare, a imbiancarsi di schiuma e di calore. Mangiai il mio fungo miracoloso, che non sapeva di niente, ci bevvi sopra dell’acqua bollente e in tal modo mi riscaldai un po­ co. Restai a sonnecchiare vicino al fuoco e lentamente, silenziosa­ mente sorse l’alba, si levò il nuovo giorno e io mi diressi alla riva senza ringraziare gli erbaioli per l’ospitalità. I miei due cesti sot­ to l’albero erano visibili a una versta di distanza. L ’acqua stava già calando. Passai per il bosco, aggrappandomi agli alberi rimasti in piedi, alberi dai rami spezzati, dalla corteccia strappata. Camminai sulle rocce posando talvolta il piede su cumuli di sab­ bia spostata dall’acqua.

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L ’erba che doveva tornare a crescere dopo la tempesta si era nascosta in profondità sotto la sabbia, dentro la pietra, si era ag­ grappata alla corteccia degli alberi caduti. Arrivai alla riva. Si, era proprio la riva - una riva nuova - e non la linea malcerta della piena. Il fiume correva, ancora gonfio di pioggia, ma si vedeva che il livello decresceva. Lontano lontano, sull’altra riva, come su un’altra riva della vi­ ta, notai delle piccole sagome che si sbracciavano. Vidi anche la barca. Mi misi anch’io ad agitare le braccia, mi intesero, mi rico­ nobbero. Aiutandosi con delle pertiche avevano portato la barca sulla riva, e si trovavano circa due chilometri più a monte di dove mi trovavo io. Percorsero il tratto che ci separava. Safonov mi al­ lungò la razione di pane giornaliera, seicento grammi, ma non ave­ vo voglia di mangiare. Tirai fuori i miei cesti con i funghi giganti. A causa della pioggia e del mio vagare con i cesti attraverso la foresta in piena notte, sbattendoli qua e là contro gli alberi, ne era­ no rimasti solo alcuni pezzi sul fondo. - Li buttiamo, eh ? - Ma no, perché... - Noi i nostri li abbiamo buttati ieri. Siamo a malapena riusci­ ti a recuperare la barca. Quanto a te, ci siamo detti, - aggiunse con risolutezza Safonov, - è piu facile che ci chiedano di render con­ to della barca che di te. - In effetti non sono granché richiesto, - feci io. - Appunto. A noi e al capo non avrebbero chiesto di dar con­ to di te ma piuttosto della barca... Ho fatto bene? - Certamente. - Sali, - disse Safonov, - e prendi questi maledetti cesti. E lasciammo la riva per la traversata: un fragile legno sul tor­ rente ancora tempestoso e rapido. All’ospedale venni accolto senza ingiurie e senza gioia. Safo­ nov aveva avuto ragione di preoccuparsi anzitutto della barca. ■Pranzai, cenai, feci colazione per poi di nuovo pranzare e ce­ nare: mangiai tutta la mia razione di due giorni e cominciai ad ave­ re sonno. Mi ero riscaldato. Nella baracca misi la gavetta piena d ’acqua sul fuoco. Un’ac­ qua ammansita su un fuoco placato. E presto la gavetta cominciò a gorgogliare e a bollire. Ma io già dormivo... 1966.

U k ro šča ja o gon

' (variante:

O g o n ' iv o d a ) ,

in Šalamov,

V o sk relen ie listvennicy

cit.

La resurrezione del larice

Siamo superstiziosi. Vogliamo il miracolo. Ci inventiamo dei simboli e di questi simboli viviamo. Un uomo dell’Estremo Nord cerca una via di sfogo al proprio sentimento, non distrutto né del tutto avvelenato da decenni di vita alla Kolyma. L ’uomo spedisce per via aerea un plico: non li­ bri, fotografie o versi, ma un ramo di larice, un ramo morto della natura vivente. A Mosca mettono questo strano regalo - il ramo di un albero artico, colore marrone chiaro, secco, raffreddato dai venti della traversata aerea, avvizzito, strapazzato nel vagone postale, seve­ ro e scarno - nell’acqua. Lo mettono in un barattolo da conserva, riempito con la cau­ stica acqua clorata e disinfettata dell’acquedotto di Mosca, un’ac­ qua che, si direbbe, è ben contenta di far disseccare ogni cosa che vive: la morta acqua dei rubinetti di Mosca. I larici sono qualcosa di piu serio dei fiori. In questa stanza ci sono abitualmente molti fiori dai vividi colori. Fasci di rami di ci­ liegio selvatico o di lillà vengono divisi e disposti in grandi mazzi immersi nell’acqua calda. II larice è nell’acqua fredda, appena appena riscaldata. Viveva piu vicino al fiume Nero di tutti questi fiori, di tutti questi rami fioriti di ciliegio e lillà. La padrona di casa lo capisce. E anche il larice. Obbedendo all’appassionata volontà umana, il ramo raccoglie tutte le sue forze, fisiche e spirituali, poiché il ramo non può ri­ sorgere con le sole forze fisiche - il caldo moscovita, l’acqua clo­ rata, l’indifferente barattolo di vetro. Nel ramo si risvegliano al­ tre forze, misteriose. Passano tre giorni e tre notti e la padrona di casa viene sve­ gliata da uno strano, vago odore di resina, debole, sottile, nuovo. Nella ruvida pelle legnosa si sono aperti e sono apparsi distintamente gli aghi - freschi, giovani e vitali, dal colore verde brillan­ te - i nuovi germogli.

LA RESURREZIONE DEL LARICE

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Il larice è vivo, il larice è immortale, questo miracolo della ri­ surrezione non poteva non realizzarsi poiché il larice era stato mes­ so nell’acqua nell’anniversario della morte, alla Kolyma, del mari­ to della padrona di casa, il poeta'. Persino questo ricordo contribuisce al ritorno alla vita, alla re­ surrezione del larice.

Il delicato profumo, la smagliante verzura sono importanti prin­ cipi vitali. Deboli ma presenti, richiamati da qualche misteriosa forza spirituale, nascosti nel larice prima di manifestarsi al mon­ do. Il profumo del larice era debole ma definito, e nessuna forza esistente avrebbe potuto soffocare quel profumo, avrebbe potuto spegnere quella luce verde, quel colore verde.

Per quanti anni - storpiato dai venti, dal gelo, nel suo ostina­ to seguire il corso del sole - il larice aveva levato al cielo a ogni primavera i rami verdeggianti. Per quanti anni? Cento. Duecento. Seicento. Il larice di Daurija giunge a maturità in trecento anni. Trecento anni! Il larice, il cui ramo, un rametto, respirava su quel tavolo di Mosca è coetaneo di NataTja Seremeteva-Dolgorukova12e ne può ricordare il doloroso destino: le alterne fortune della, vita, la fedeltà e la fermezza, la tenacia dello spirito, le sof­ ferenze fisiche e spirituali, per nulla diverse da quelle dell’anno ’37, con la natura del Nord, piena di odio violento per l’uomo, il pericolo mortale delle piene primaverili e delle tormente inverna­ li, le delazioni, l’arbitrio grossolano dei funzionari, le esecuzioni, lo squartamento, il supplizio alla ruota di marito, fratello, figlio e padre, che si accusano a vicenda, tradendosi l’un l’altro. Non è forse un eterno soggetto russo ? Dopo la retorica del moralista Tolstoj e il frenetico predicare di Dostoevskij ci sono state guerre e rivoluzioni, Hiroshima e i campi di concentramento, delazioni ed esecuzioni. Il larice ha spostato le scale temporali, ha svergognato la me­ moria dell’uomo, ha ricordato ciò che non può essere dimenti­ cato. Il larice che ha visto la morte di Natalija Seremeteva e ha vi­ 1 Si tratta di MandeTštam e la «padrona di casa» è la vedova, Nadežda Jakovlevna, che TA. frequentò negli anni dal 1965 al 1968. 2 NataTja Šeremeteva-Dolgorukova (1714-71), figlia di B. N. Šeremetev, moglie del principe decaduto I. A. Dolgorukij, nel 1730 segui quest’ultimo nella relegazione prima a Kasimovskie Derevni poi a Berëzovo; sono note le sue M em o rie (1767) [Nota all’edizione russa].

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sto milioni di cadaveri - immortali nel gelo perenne della Kolyma - che ha visto la morte del poeta russo, quel larice vive da qualche parte nel Nord per vedere e gridare che in Russia non è cambiato niente: né la sorte degli uomini, né la loro malvagità e indifferen­ za. Natalija ha tutto raccontato, tutto annotato con mesta forza e fede. Il larice, un ramo del quale ha ripreso a vivere su un tavolo di Mosca, esisteva già quando'la Seremeteva percorreva la sua stra­ da di dolore fino a Berézovo, una strada cosi simile a quella per Magadan, al di là del mare di Ochotsk. Il ramo di larice stillava, proprio cosi, stillava il suo profumo, come linfa. Il profumo si trasfondeva nel colore e non c ’erano tra essi confini. Il larice respirava nell’appartamento moscovita per ricordare a ognuno il proprio dovere, perché nessun uomo dimenticasse i mi­ lioni di cadaveri, i milioni di persone che avevano perso la vita al­ la Kolyma. Il debole ma persistente profumo era la voce dei morti. E d era a nome di quei morti che il larice osava respirare, par­ lare e vivere. Per risorgere ci vuole forza e fede. Sistemare un ramo in un va­ so non basta di sicuro. Anch’io una volta avevo messo un ramo di larice in un barattolo con dell’acqua: il ramo si era seccato, era di­ ventato fragile e vuoto, senza più vita. Il ramo era sparito nel nul­ la, non era risorto. Ma il larice nell’appartamento del poeta, sf. SI, ci sono rami di ciliegio fiorito, rami di lillà, ci sono roman­ ze che pungono il cuore; il larice non è un argomento, un sogget­ to adatto alle romanze. Il larice è un albero molto serio. E l’albero della conoscenza del bene e del male - non era un melo e neanche una betulla l’albero che si trovava nel giardino dell’Eden prima della cacciata di Ada­ mo ed Èva. Il larice è l’albero della Kolyma, l’albero dei campi di concen­ tramento. Alla Kolyma non ci sono uccelli che cantano. I fiori della Koly­ ma sono vividi, frettolosi, grossolani - non hanno profumo. Un’e­ state breve - nell’aria fredda e senza vita - con caldi secchi, e di notte un freddo che ti ghiaccia. Alla Kolyma profuma solo la rosa di montagna con i suoi fiori color rubino. Non manda odore il roseo mughetto, rozzamente mo­ dellato, e neppure le grosse viole delle dimensioni di un pugno, né l’anemico ginepro, né il sempreverde pino nano. Solo il larice riempie boschi e foreste del proprio vago sentore

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di resina. Sembra a tutta prima un odore di decomposizione, l’o­ dore dei morti. Ma se ti ci abitui, se lo aspiri piu profondamente capisci che è l’odore della vita, l’odore di ciò che resiste alla spie­ tatezza del Nord, l’odore della vittoria. E del resto alla Kolyma i morti non puzzano, troppo sono esau­ riti e dissanguati; e poi a conservarli provvede il gelo perenne. No, il larice non è un albero che si presti per le romanze, di quel ramo non canterai, su quel ramo non comporrai una roman­ za. Qui la parola è a un’altra profondità, appartiene a un diverso livello del sentire umano. Un uomo manda per posta aerea un ramo della Kolyma: non per farsi ricordare. Non per ricordare se stesso ma quei milioni uc­ cisi, straziati a morte, che giacciono nelle fosse comuni a Nord di Magadan. Aiutare gli altri a ricordare, togliersi dall’anima questo peso co­ si gravoso: vedere tutto quanto, trovare il coraggio non di rac­ contare ma di ricordare. L ’uomo e sua moglie avevano adottato una bambina - la bambina reclusa di una madre morta in ospeda­ le: assumersi almeno un qualche obbligo personale, adempiere un proprio personale dovere. Aiutare i compagni, quelli che erano sopravvissuti ai campi di concentramento dell’Estremo Nord... Spedire quel ramo severo ed elastico a Mosca. Spedendo il ramo l’uomo non supponeva, non sapeva, non pen­ sava che a Mosca lo avrebbero rianimato e che esso, risorto, avreb­ be di nuovo odorato di Kolyma, sarebbe fiorito in una via di M o­ sca; che il larice avrebbe dato prova della propria forza, della pro­ pria immortalità - seicento anni di vita del larice significano per l’uomo praticamente l’immortalità - ; e che altre persone a Mosca avrebbero toccato con le mani quel ramo severo, modesto, scabro, avrebbero guardato il suo verde manto smagliante, la sua rinasci­ ta, la sua resurrezione, avrebbero respirato il suo profumo non co­ me memoria del passato, ma come una nuova vita. 1966.

V o sk rešen ie listvennicy,

in «Sel'skaja molod0ž'», 1987, n. 7.

Il guanto, ovvero KR-2'

1 KR è un’abbreviazione dell’Autore per K o ly m sk ie R a ssk a z y «Racconti di Kolyma»; si tenga tuttavia presente che nelle litery (sigle) utilizzate dagli organi extragiudiziali per formulare le condanne, KR sta per k o n trrev o lju cio n n y j , «controrivoluzionario».

Il guanto

A Irina Pavlovna Sirotinskaja

Da qualche parte, nel ghiaccio, si conservano i miei guanti da cavaliere antico, che per ben trentasei anni hanno calzato le mie dita, piu aderenti del morbido daino e del camoscio finissimo di una guantaia alla moda. Quei guanti vivono nel ghiaccio museale - documento, testi­ monianza, pezzo da esposizione del realismo fantastico della mia vita di un tempo - e aspettano, al pari dei tritoni o dei celacantiformi1, il loro turno per diventare la latimeria di quella sotto­ classe. Dei verbali mi fido, io stesso sono per professione fattografo, fattologo ma che fare se i verbali non ci sono ? Se non ci sono piu fascicoli personali, archivi, cartelle cliniche... I documenti del nostro passato sono stati distrutti, le torrette di guardia segate, le baracche rase al suolo, il reticolato arruggini­ to riavvolto e portato altrove. Sulle macerie della Serpantinka è fiorito l’epilobio, il fiore dell’incendio, dell’oblio, nemico degli ar­ chivi e della memoria dell’uomo. Siamo mai esistiti? Rispondo: «siamo esistiti», con tutta la forza espressiva del ver­ bale, con tutta l’autorevolezza, la precisione del documento. Questo è il racconto del mio guanto, del pezzo esposto al mu­ seo della sanità pubblica della Kolyma - o non sarà piuttosto quel­ lo etnografico ?

Dove sei ora, mio guanto di sfida cavalleresca, gettato nella ne­ ve, in faccia al ghiaccio della Kolyma nell’anno 1943 ? Sono un «m orituro», un dochodjaga, un invalido di ruolo il cui 1 Sottoclasse dei pesci osteittiti a cui è ascritta l’unica famiglia dei latimeridi; questa specie, ritenuta estinta, è stata rinvenuta nel 1938 nell’Atlantico meridionale, lungo le co­ ste africane.

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destino è l’ospedale, salvato, addirittura strappato alle grinfie del­ la morte dai medici. Ma nellg mia immortalità non vedo alcunché di buono né per me stesso, né per lo Stato. Le nostre concezioni, oltrepassando i confini del bene e del male, rispondono a metri di­ versi. La salvezza può essere un bene e può anche non esserlo: è una questione che per me resta tuttora irrisolta. Forse che si può reggere la penna con la mano indossando un guanto del genere, adatto piuttosto alla formalina o all’alcol di un museo, anziché all’anonimo ghiaccio? Il guanto che in trentasei anni è diventato parte del mio cor­ po, parte e simbolo della mia anima. Tutto si è poi risolto in niente e la pelle è di nuovo ricresciuta. Sono ricresciuti i muscoli attorno allo scheletro, ne sono uscite un po’ malconce le ossa, incurvate dalle osteomieliti dopo i congela­ menti. Perfino l’anima, evidentemente, si è rimpolpata attorno al­ le ossa malandate. Perfino l’impronta dattiloscopica è la stessa sul guanto morto di allora e su quello vivo attuale, che regge in questo momento la matita. Ecco un autentico miracolo della criminologia. I guanti gemelli. Un giorno o l’altro scriverò un poliziesco su un soggetto come questo, i guanti, dando il mio contributo a quel ge­ nere letterario. Ma adesso ho ben altro a cui pensare. I miei guan­ ti sono due persone, due sosia con lo stesso disegno dattiloscopico - un prodigio della scienza. Un argomento degno di riflessione per i criminologi, filosofi, storici e medici di tutto il mondo. Non sono l’unico a conoscere il segreto delle mie mani. L ’in­ fermiere Lesnjak, la dottoressa Savoeva hanno tenuto quel guan­ to tra le mani. Forse che la pelle ricresciuta, la pelle nuova, i muscoli attacca­ ti alle ossa hanno diritto di scrivere ? Ma se scrivere devono - che siano quelle stesse parole che avrebbe potuto tracciare il guanto di allora, della Kolyma, il guanto di uno «sgobbone», il palmo callo­ so, spellato a sangue dal piccone, con le dita contratte a forza di stringere il manico della pala. Ma no, quel guanto non avrebbe scritto questo racconto. Quelle dita non possono distendersi per prendere la penna e raccontarsi. Quel fuoco della nuova pelle, le rosee vampe del candelabro a dieci fiamme delle mani assiderate non è stato forse un miracolo ? Non è forse scritta in quel guanto, allegato alla cartella clinica, la storia non soltanto del mio corpo, del mio destino, della mia ani­ ma, ma anche dello Stato, dell’epoca, del mondo? Con quel guanto si sarebbe potuto scrivere la storia. Invece adesso - anche se il disegno dattiloscopico è lo stesso -

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esamino alla luce la pelle sottile e rosea e non le palme sporche e sanguinanti di allora. Ora sono piu lontano dalla morte che nel 1943 o nel 1938 quando le mie dita erano quelle di un cadavere. Io, come un serpente, ho gettato la mia vecchia pelle nella neve. Ma anche adesso la nuova mano reagisce dolorosamente all’acqua fredda. I colpi inflitti dai congelamenti sono irreversibili, eterni. E ciononostante la mia mano non è piu quella di allora, la mano di un morituro della Kolyma. Quella pelle mi è stata strappata dal­ la carne, separata dai muscoli, come un guanto, e allegata alla car­ tella clinica. Il disegno dattiloscopico di entrambi i guanti è lo stesso: è il disegno del mio gene, il gene della vittima e del rivoltoso. Come il mio gruppo sanguigno. Gli eritrociti di una vittima e non di un conquistatore. Il primo guanto è stato lasciato al museo di M aga­ dan, il museo della direzione sanitaria, e il secondo è stato porta­ to sulla Grande Terra, nel mondo umano, per lasciare al di là del­ l’oceano, al di là della catena montuosa Jablonovoe, il mondo del­ la disumanità. Alla Kolyma, ai fuggiaschi catturati tagliavano le mani per non aver l’incomodo del corpo, del cadavere. Le mani tagliate potevano trovar posto in una cartella, in una sacca da viaggio, visto che la car­ ta di identità di una persona alla Kolyma - si trattasse di un libero salariato o di un detenuto fuggiasco - era comunque una sola: il ri­ lievo dei polpastrelli. Tutto ciò che occorreva per l’identificazione poteva essere riportato indietro in una cartella o una sacca da viag­ gio, senza bisogno di autocarri, «pick-up» o «W illis» di sorta. Ma il mio guanto dov’è? Dove viene conservato? A me la ma­

no non è stata tagliata. Nell’autunno inoltrato del 1943, poco dopo la nuova condan­ na a dieci anni, non avendo né forze né speranze di poter vivere oltre - c’erano troppo pochi muscoli sulle ossa per conservare in esse un sentimento da lungo tempo dimenticato, rifiutato, inutile per l’uomo come la speranza - io, dochodjaga, moribondo respin­ to da tutti gli ambulatori della Kolyma, capitai nella propizia on­ data della campagna ufficiale contro la dissenteria. Dissenterico di vecchia data quale ero, disponevo di solide credenziali per il ri­ covero in ospedale. Ero orgoglioso del fatto di poter presentare il mio posteriore a qualsiasi medico e - cosa ancora piu importante - a qualsiasi non-medico, e il detto posteriore avrebbe sputato un grumo di salutare muco, mostrando al mondo uno smeraldo gri­ gioverdognolo con venature sanguigne - la sua gemma diarroica piu preziosa.

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Era il mio lasciapassare per il paradiso, dove non ero mai sta­ to in trentotto anni della mia vita. Fui destinato all’ospedale - incluso in certi interminabili elen­ chi da un bucherello in una scheda perforata, inserito, sistemato in una salvifica ruota di salvataggio. Devo dire che allora il mio ul­ timo pensiero era come avrei fatto a salvarmi e neppure sapevo che cosa fosse un ospedale, assoggettato com’ero esclusivamente all’e­ terna legge dell’automatismo carcerario: levata - appello del turno - colazione - pranzo - lavoro - cena - sonno o convocazione dal de­ legato degli «organi». Sono risorto molte volte, e molte volte mi sono nuovamente ri­ dotto a un «relitto» alla deriva, peregrinando da un ospedale a un fronte di cava e viceversa per molti anni, non giorni o mesi, ma anni, e anni kolymiani. Sono stato curato, finché non ho comin­ ciato a curare io stesso gli altri, e da quella stessa ruota automati­ ca della vita sono stato rigettato sulla Grande Terra. Dochodjaga allo stremo, aspettavo il trasferimento, ma non al­ la volta dei giacimenti auriferi, dove avrei dovuto scontare i dieci anni supplementari che mi avevano appena appioppato. Per l’oro ero troppo sfinito. Il mio destino divenne quello delle «missioni vitaminiche». Aspettavo il convoglio all’Olp del comando di Jagodnoe; le re­ gole per i detenuti in attesa di trasferimento erano note: i dochodjagi venivano cacciati al lavoro, con i cani e sotto scorta, co­ me una mandria. La scorta c’era e non c’era, i dochodjagi, sempre. E anche se il loro lavoro non veniva registrato da nessuna parte, venivano comunque imbrancati - magari solo per mezza giornata - a scavare buche con il piccone nella terra gelata o a trasportare tronchi fino al lager, o magari a spaccare cataste di legna a dieci chilometri di distanza dall’abitato. E in caso di rifiuto ? Sarebbe stata la cella di rigore, con razio­ ne ridotta a trecento grammi di pane e una scodella d’acqua. E il verbale. Nel 1938 con tre rifiuti di fila, era la fucilazione - alla Serpantinka, la prigione istruttoria del Nord. Essendo al corrente di questa pratica, non pensavo minimamente a sottrarmi al lavoro o tantomeno di rifiutarmi di farlo, ovunque ci avessero portati. Nel corso di una delle trasferte ci condussero strada facendo in un laboratorio di sartoria. Dietro a una palizzata c’era una barac­ ca dove confezionavano guanti a sacco da vecchi pantaloni im­ bottiti e suole per scarpe dagli stessi scampoli di ovatta. Quando si lavora di trivella - e io ho lavorato non poco con la

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trivella a mano - un paio di manopole nuove di tela cerata con rinforzi in pelle resistono a dir tanto una mezz’ora: quelle di ovat­ ta cinque minuti. La differenza non era poi così grande da far spe­ rare in una spedizione di quegli articoli da lavoro dalla Grande Terra. Nel laboratorio di sartoria di Jagodnoe lavoravano al confe­ zionamento delle manopole sei-dieci persone. C ’erano delle stufe e paratie contro il vento: sarebbe piaciuto molto anche a me lavo­ rare in quella sartoria. Purtroppo le mie dita contratte e irrigidite nella presa del manico della pala e del piccone, le mie dita di mi­ natore di giacimento aurifero non erano in grado di tenere gli aghi nella posizione corretta, così che perfino per aggiustare le mano­ pole si trovò gente più adatta di me. Il mastro che osservava come me la cavavo con l’ago fece un gesto di disapprovazione con la ma­ no. Non avevo superato l’esame di sarto e cominciai a prepararmi a un lungo viaggio. Del resto, lontano o vicino per me faceva as­ solutamente lo stesso. Il nuovo periodo di pena che mi era stato inflitto non mi spaventava affatto. Far progetti su quello che sa­ rebbe accaduto piu in là del giorno successivo era una cosa asso­ lutamente priva di senso. Di per sé la nozione di «senso» difficil­ mente ha qualcosa a che vedere con il nostro mondo fantastico. A questa conclusione - di non preoccuparsi di ciò che poteva acca­ dere piu in là del giorno dopo - ci eravamo arrivati non con il cer­ vello, ma con una sorta di nostra viscerale percezione di detenuti, una percezione dei muscoli che ci aveva consentito di formulare un assioma assolutamente certo. Mi sembrava di aver percorso ogni cammino, le vie piu lonta­ ne, piu oscure, pili sorde; di averne avuto illuminati gli angoletti più reconditi del cervello; di avere sperimentato gli estremi limiti dell’umiliazione, botte, manrovesci, spinte e pedate, quotidiani pestaggi. Avevo tutto provato e bene assimilato. Tutto ciò che è piu importante me l’ha insegnato il corpo. Al primo colpo di un soldato della scorta, del caposquadra, del ripartitore, di uno qualsiasi dei capi io crollavo a terra e non era una simulazione. Altro che simulazione! La Kolyma aveva messo ripetutamente alla prova il mio apparato vestibolare, e non solo la mia «sindrome di Ménière»2, ma anche la mia imponderabilità in senso assoluto, vale a dire la mancanza di peso propria del dete­ nuto alla Kolyma. 2 Malattia dell’orecchio interno, determinata da turbe organiche o funzionali del la­ birinto, provoca crisi di vertigine associate a fenomeni neurovegetativi come nausea, vo­ mito, diminuzione dell’udito, sensazioni acustiche, ecc.

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E nelle sue centrifughe ghiacciate che ho passato l’esame, co­ me un cosmonauta per il volo nei cieli. Afferravo con la coscienza annebbiata: mi avevano colpito, at­ terrato, mi calpestavano, i denti già traballanti per lo scorbuto e spezzati perdevano sangue. Bisognava stendersi, rattrappirsi, ap­ piattirsi al suolo, stringersi alla umida madre terra. Ma la terra era neve, ghiaccio, e nel tempo estivo pietra, e non umida terra. Mi hanno pestato molte volte. Per ogni cosa. Perché ero un trockista, perché ero un «Ivan Ivanyé». Per tutti i peccati del mondo rispon­ devo io con i miei fianchi, ero stato ammesso a far da bersaglio al­ la vendetta ufficialmente autorizzata. E tuttavia avevo l’impres­ sione che mancasse qualcosa, un ultimo colpo, un ultimo dolore. Allora non pensavo all’ospedale. B oi'e bol'nica, dolore e ospe­ dale, sono concetti diversi, specie alla Kolyma. E cosi arrivò troppo inaspettato il colpo di Mochnaé, il medico responsabile dell’infermeria nella zona speciale di Dželgala, dove mi avevano processato appena qualche mese prima. All’ambulato­ rio dove lavorava il dottor Vladimir Osipovié Mochnaé andavo a farmi visitare tutti i santi giorni, nella speranza di riuscire prima o poi a essere dispensato dal lavoro, anche per un giorno solo. Quando mi arrestarono nel maggio del 1943 chiesi di essere sottoposto a visita medica nonché che acquisissero la documenta­ zione delle cure ricevute nell’ambulatorio. L ’inquirente prese nota della mia richiesta e la notte stessa la porta della cella - nella quale ero stato rinchiuso per starci una set­ timana, senza illuminazione, con una caraffa d ’acqua e trecento grammi di pane di razione giornaliera, disteso sul pavimento di terra battuta, poiché nella cella non c’erano né pancaccio né altri mobili - la porta dunque si spalancò e sulla soglia si affacciò un uo­ mo in camice bianco. Era il dottor Mochnaé. Venni spinto fuori dalla cella e Mochnaé mi scrutò restando a una certa distanza, mi illuminò il viso con una lanterna e senza starci a pensare si sedet­ te al tavolo a scrivere qualcosa su di un foglietto. E se ne andò. Ri­ vidi quel foglietto il 23 giugno 1943 al mio processo. Venne pro­ dotto davanti a quel tribunale rivoluzionario in qualità di docu­ mento a carico. C ’era scritto testualmente, lo ricordo a memoria: «Certificato. Il detenuto Salamov non si è rivolto all’ambulatorio n. I della zona speciale Dželgala. Il responsabile dell’infermeria, dottore medico Mochnaé». Di questo certificato venne data lettura al mio processo, a mag­ gior gloria del delegato degli «organi» Fëdorov, che si occupava del mio caso. Nel mio processo non ci fu una sola cosa che non fos-

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se menzogna: l’accusa, i testimoni, le perizie. Di autentico ci fu solo l’umana vigliaccheria. In quel giugno del 1943 neppure mi rallegrai per la condanna a dieci anni: un regalo per il mio compleanno: «Un vero regalo, cosi mi dicevano tutti gli esperti di analoghe situazioni. - Non ti hanno condannato alla fucilazione. Non ti hanno dato una con­ danna con il peso - sette grammi di piombo». A confronto della realtà presente, dell’ago, che non riuscivo a tenere con perizia sartoriale, tutte le mie tribolazioni passate sem­ bravano sciocchezze. Ma anche quelle attuali erano sciocchezze. Da qualche parte - sopra o sotto, in tutta la mia vita non sono in definitiva riuscito a saperlo - giravano le ruote elicoidali che muovevano la nave del destino, il pendolo oscillante tra la vita e la morte, per esprimersi con uno stile elevato. Da qualche parte si scrivevano circolari, cicalavano i telefoni nei collegamenti via selettore. Da qualche parte qualcuno rispon­ deva di qualcosa. E come trascurabile risultato di questa resisten­ za medica - la piu burocratica immaginabile - alla morte, davan­ ti alla vindice spada dello Stato, nascevano istruzioni, disposizio­ ni, risposte formali delle autorità superiori. Le onde di quel mare cartaceo sciabordavano sulle rive di destini niente affatto carta­ cei. I docbodjagi, i distrofici della Kolyma non potevano contare sull’assistenza medica e il ricovero in base alla loro vera malattia. Perfino all’obitorio l’anatomopatologo travisava ostinamente la verità, mentiva perfino dopo la morte, stabilendo una diagnosi di­ versa. Diagnosi veritiere che chiamavano in causa la distrofia ali­ mentare sarebbero apparse nei documenti medici dei lager solo do­ po il blocco di Leningrado, durante la guerra si sarebbe consenti­ to di chiamare fame la fame; ma per intanto i docbodjagi venivano stesi a morire con diagnosi tipo poliavitaminosi, polmonite in­ fluenzale e, molto sporadicamente, Rfi, ovvero esaurimento fisi­ co acuto. Perfino lo scorbuto soggiaceva a tetti massimi di giornate di ri­ covero oltre i quali per i medici non era consigliabile andare. Un dato elevato di giornate-letto, il richiamo dei superiori, e il medi­ co aveva finito di fare il medico. La dissenteria fu l’elemento che a un certo punto apri le porte degli ospedali ai detenuti. Il flusso di malati di dissenteria spazzò via tutte le barriere ufficiali. Il dochodjaga ha una particolare sen­ sibilità nell’individuare i punti deboli: dove, per quali passaggi è

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possibile entrare per riposarsi un po’, tirare il fiato, fosse anche per un giorno solo, un’ora. Il corpo, lo stomaco del detenuto non è un barometro. Non fa previsioni. Ma l’istinto di conservazione costringe il dochodjaga a guardare alla porta dell’ambulatorio che potrà anche condurlo alla morte, ma che forse significa la vita. «Mille volte malato» è un’espressione che suscita l’ilarità di malati e autorità mediche ed è invece profonda, corretta, esatta, seria. Il nostro morituro strappa al destino non fosse altro che un gior­ no di riposo per tornare poi a percorrere le sue vie terrene, molto simili alle vie celesti. Ma la cosa piu importante è la cifra di controllo, il dato di ri­ ferimento iscritto nel piano. Entrarne a far parte è un’ardua im­ presa, indipendentemente dalla consistenza del flusso di dissente­ rici: le porte dell’ospedale sono strette. Il kombinat «vitaminico» dove vivevo aveva in quota all’ospe­ dale regionale, per i malati di dissenteria, solo due posti; due or­ dini di ricovero preziosi e per giunta conquistati combattendo, poi­ ché la dissenteria di un giacimento aurifero o quella di una minie­ ra di stagno o la dissenteria di un cantiere stradale comportano una perdita produttiva maggiore di quella dei dissenterici del complesso «vitaminico». Quello che veniva chiamato kombinat vitaminico era poi una semplice rimessa, con dei pentoloni nei quali veniva fatto cuoce­ re l’estratto di pino: un intruglio acre, amarissimo, disgustoso, co­ lor marrone scuro, reso denso da giorni e giorni di bollitura. Que­ sta mistura veniva preparata con gli aghi di pino nano, che i dete­ nuti «spennavano» in lungo e in largo per la Kolyma, dochodjagi sfiancati dai fronti di abbattimento dell’oro. Scampati a stento al­ lo scavo dell’oro, erano costretti a morire sul fronte di un’altra pro­ duzione: il preparato vitaminico estratto dagli aghi di pino. Nel nome stesso del kombinat c’era un’amarissima ironia. L ’idea dei dirigenti, confortata dall’esperienza secolare dei viaggi di esplora­ zione nel Nord del pianeta, era che gli aghi di pino fossero l’uni­ co rimedio locale per la malattia degli esploratori artici e dei car­ cerati: lo scorbuto. Al Nord quell’estratto era stato ufficialmente preso in dota­ zione da tutta l’organizzazione medica dei lager come unico pre­ parato salvavita, se neanche l’ago di pino aiutava, significava che niente poteva piu aiutare. Ci dovevamo sorbire quel miscuglio vomitevole tre volte al gior­ no, senza di esso non veniva distribuito il cibo alla mensa. Per

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quanto spasmodicamente il detenuto - il suo stomaco - aspettas­ se una qualsiasi sbobba farinosa e fosse pronto ad esaltarsi per qua­ lunque cibo, Pamministrazione del lager gli guastava in modo ir­ reparabile quell’importante momento, che ricorreva tre volte nel­ la giornata, obbligandolo ad assaporare preventivamente un sorso di estratto di aghi di pino. L ’amarissima mistura provocava il sin­ ghiozzo, convulsioni allo stomaco e rovinava senza rimedio l’ap­ petito. Anche in questo fatto del pino era presente un intento pu­ nitivo, l’elemento del castigo. Le baionette presidiavano uno stretto passaggio nella mensa, un tavolino sul quale era seduto il lepilo, l’aiutomedico del lager, munito di un secchio e di un minuscolo mestolo ricavato da una latta di conserva: era lui che versava in bocca a ognuno una dose curativa di quel veleno. La peculiarità di quella prolungata tortura con il pino curativo, di quella punizione inflitta, su tutto il territorio dell’Unione, con il mestolino, consisteva nel fatto che nella magica pozione prepa­ rata nei sette calderoni, non c’era nessuna vitamina C che avreb­ be potuto salvare dallo scorbuto. La vitamina C è molto instabile e si volatilizza dopo quindici minuti di bollitura. Ciononostante si stilavano statistiche mediche del tutto atten­ dibili nelle quali veniva dimostrato, con esaurienti argomentazio­ ni e «cifre alla mano» che, grazie al decotto, la miniera dava piu oro e i giorni-letto diminuivano: e che le persone o meglio i dochodjagi che erano morti di scorbuto erano morti unicamente per­ ché avevano sputato il salutare preparato. Vennero perfino redat­ ti dei verbali contro i trasgressori, che venivano puniti con la cel­ la di rigore o la Rur, la compagnia disciplinare. Di casi del genere ce ne furono parecchi. Tutta la lotta contro lo scorbuto fu una tragica, sanguinosa far­ sa, del tutto corrispondente al realismo fantastico della nostra vi­ ta di allora. Ormai dopo la guerra, quando ai piu alti livelli esaminarono a fondo questa materia grondante sangue, il decotto di pino venne proibito assolutamente e ovunque. Dopo la guerra si cominciò a portare al Nord, in grandi quan­ tità, i frutti della rosa selvatica che contengono realmente la vita­ mina C . Di rose selvatiche alla Kolyma ce n’è una marea, della varietà montana, nana, con bacche carnose color lilla. E a noi, ai nostri tempi, proibivano di avvicinarci alla rosa selvatica durante il lavo­ ro e addirittura sparavano, uccidendoli, a coloro che volevano man­

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giare quella bacca, quel frutto, senza neanche sapere delle sue pro­ prietà salutari. La scorta difendeva la rosa selvatica dai detenuti. La rosa selvatica marciva, si seccava, si nascondeva sotto la ne­ ve, per rispuntare di nuovo in primavera, per far capolino da sotto il ghiaccio come un’esca dolcissima, tenerissima, tentando la lingua solo con il sapore, con una fede misteriosa, e non con la scienza e i dati dello scibile, che trovavano posto nelle circolari in cui si rac­ comandava solo l’estratto di pino, la mistura preparata al kombinat vitaminico. Ammaliato dalla rosa selvatica il dochodjaga oltrepas­ sava la zona di rispetto, il magico cerchio delineato dalle torrette di guardia, e riceveva una pallottola nella schiena. Se si voleva conquistare l’ordine di ricovero per dissenteria, bi­ sognava fornire 1’« evacuazione»: un grumo di muco dallo sfinte­ re anale. Il detenuto allo stremo, il dochodjaga, con la dieta nor­ male del lager ha un’«evacuazione» una volta ogni cinque giorni, non di pili. Un altro miracolo della medicina. Ogni briciola di ci­ bo viene assorbita da ogni cellula del corpo, nessuna esclusa, e non solo, sembrerebbe, dallo stomaco e dall’intestino. Anche la pelle vorrebbe, sarebbe pronta ad assorbire il cibo. L ’intestino resti­ tuisce, elimina qualcosa di scarsamente riconoscibile, è perfino dif­ ficile spiegare di che cosa si tratti. Non sempre il detenuto può costringere il proprio retto a eva­ cuare nelle mani del medico il salutare grumo di muco documen­ tario. Non è naturalmente questione di imbarazzo o vergogna. Pro­ vare vergogna è un concetto troppo umano per la Kolyma. Ma ecco che è saltata fuori un’opportunità di salvarsi e l’inte­ stino non vuole funzionare, non espelle quel grumo di muco. Il medico aspetta pazientemente senza allontanarsi. Niente gru­ mo, niente ospedale. Dell’ordine di ricovero approfitterà qualcun altro, e di questi altri ce n’è sempre un buon numero. Puoi essere tu il fortunato, soltanto che il tuo sedere, il tuo retto non riesce ad avere lo scatto decisivo, lo sputo, il via per l’immortalità. Finalmente cade fuori qualcosa, spremuto dai labirinti dell’in­ testino, da questi dodici metri di tubo la cui peristalsi ha comin­ ciato improvvisamente a perdere colpi. Seduto dietro il tramezzo, premevo sul ventre con tutte le mie forze, scongiurando il retto di voler far sprizzare qualcosa, di vo­ ler produrre il quantitativo richiesto del fatidico muco. Anche il medico era seduto, e mentre aspettava paziente il ri­ sultato dei miei sforzi si fumava una sigaretta di machorka dal boc­ chino di cartone. Il vento faceva muovere il prezioso ordine di ri­

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covero appoggiato sul tavolo, sotto una lampada artigianale a ben­ zina, la kolymka o kolymcanka. Solo un medico poteva firmare or­ dini di quel genere, e sotto la propria personale responsabilità per la diagnosi. Chiamai in soccorso tutta la rabbia che avevo dentro. E l’in­ testino entrò in funzione. Il retto buttò fuori una specie di sputo, uno schizzo, uno spruzzolo, un grumetto di muco verdegrigiastro con un prezioso filino rosso, venatura di eccezionale valore. Il campione di feci venne sistemato al centro di una fogliolina d ’ontano e in un primo momento mi parve che nel mio muco di sangue in realtà non ce ne fosse proprio. Ma il medico era più esperto. Avvicinò lo sputo del mio retto agli occhi, annusò il muco, gettò la fogliolina d’ontano e, senza la­ varsi le mani, scrisse l’ordine di ricovero. Quella notte stessa, una notte bianca boreale, fui portato al­ l’ospedale provinciale Belič'ja, «Degli scoiattoli». L ’ospedale por­ tava sul timbro «Ospedale regionale centrale della Direzione mi­ neraria del Nord» e questa combinazione di parole era usata nel­ le conversazioni, nella vita di tutti i giorni e nella corrispondenza ufficiale. Che cosa sia venuto prima e cosa poi - se cioè era stato l’uso a istituzionalizzare l’arabesco burocratico di quella denomi­ nazione, o la formula esprimeva solo uno slancio dell’anima del bu­ rocrate - non saprei dire. Come dice il proverbio malavitoso: «Se non ci credi, fa’ conto che sia una favola». In realtà l’ospedale « De­ gli scoiattoli» era un ospedale regionale come tanti altri al servi­ zio delle varie regioni della Kolyma - Occidentale, Sudoccidenta­ le, Meridionale - e serviva insieme ad altri la regione del Nord. Il vero Ospedale centrale per i detenuti era quello, enorme, che si innalzava vicino a Magadan, al ventitreesimo chilometro della stra­ da rotabile principale Magadan-Susuman-Nera, un ospedale con mille posti letto, trasferito successivamente sulla riva sinistra del fiume Kolyma. Un complesso vasto, con attività agricole e ittiche connesse, mille posti letto, mille morti al giorno nei mesi di massima affuenza di dochodjagi. Qui al ventitreesimo chilometro era in pieno corso Yaktirovka - compilazione e registrazione degli atti di rilascio o ri­ covero - ultima tappa della trasferta prima del mare, prima della libertà o della morte in qualche lager per invalidi nei pressi di Komsomol'sk. Al ventitreesimo chilometro i denti del drago, schiu­ dendosi un’ultima volta, rimettevano «in libertà» gente che, be­ ninteso, era sopravvissuta solo per caso ai geli e alle battaglie del­ la Kolyma.

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Il Belič'ja era invece al chilometro cinquecento e uno di quel­ la stessa rotabile principale, vicino a Jagodnoe, a soli sei chilome­ tri da quel centro del Nord trasformatosi da parecchio tempo in una città, mentre nel 1937 io stesso avevo dovuto passare a gua­ do il fiume e il nostro «combattente» aveva sparato al volo a un grosso gallo cedrone, senza neanche far fermare e sedere per ter­ ra i detenuti che scortava. A Jagodnoe mi avevano processato qualche mese prima. L ’ospedale Belič'ja disponeva di cento posti letto per detenuti e di un organico modesto - quattro medici, quattro tra infermie­ ri e inservienti - tutti detenuti. Solo il medico capo, una donna membro del partito, era a contratto. Nina Vladimirovna Savoeva, di nazionalità osseta, soprannominata «Mamma nera». A parte gli addetti, l’ospedale poteva costituire con i detenuti malati tutti gli OP e OK che voleva: non si era piu nel ’38 quan­ do ad esempio presso l’ospedale del Partizan non c’erano certo gli OP o le OK; con Garanin imperante all’ordine del giorno erano solo le esecuzioni. Le perdite e il calo della popolazione dei detenuti a quei tem­ pi si reintegravano facilmente con i nuovi arrivi dal «continente» e nella giostra infernale venivano immessi sempre nuovi convogli di deportati. Nel ’38 si videro addirittura partire alla volta di Ja ­ godnoe colonne di detenuti appiedati. Di una colonna di trecento persone arrivavano fino a Jagodnoe in otto, gli altri si accasciava­ no per via con le gambe congelate e li restavano a morire. Non c’e­ ra nessuna ozdorovitel'naja komanda, nessuna «squadra di ristabi­ limento», per i nemici del popolo. Durante la guerra le cose cambiarono. Mosca non era piu in gra­ do di provvedere ai rincalzi. Ai capi dei lager venne ordinato di te­ ner da conto gli effettivi che già avevano a disposizione sul posto. E anche alla medicina venne dato qualche diritto. Fu in quel pe­ riodo che al giacimento Spokojnij mi imbattei personalmente in un dato sorprendente. Su un organico complessivo di tremila persone erano al lavoro, nel primo turno, in novantotto. Gli altri erano ri­ coverati nelle «baracche sanitarie», o «semisanitarie», negli ospe­ dali o ambulatori, o erano stati esentati dal lavoro per malattia. E anche il Belič'ja all’epoca aveva diritto a formare una pro­ pria squadra di malati in via di guarigione, una OK. O addirittu­ ra un «punto di ristabilimento», un OP. Fu allora che negli ospedali si concentrò una grande quantità di manodopera gratuita, detenuti disposti, per la razione e un gior­ no in piu all’ospedale, a spostare intere montagne di qualsiasi ma­

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feriale, purché non si trattasse del terreno roccioso dei giacimen­ ti d’oro. A dire il vero i convalescenti del Belič'ja si erano già cimenta­ ti anche con le montagne dell’oro, e le avevano anche spostate, ne facevano fede gli scavi nei giacimenti del Nord; ma non vennero a capo dell’impresa di prosciugare i terreni attorno all’ospedale, il sogno gentile del primario, della «Mamma nera». Non riuscirono a interrare la palude attorno all’ospedale. Il Belič'ja si trovava su una collinetta, a un chilometro dalla rotabile principale MagadanSusuman. In inverno questo chilometro non costituisce un problema, né a piedi, né a cavallo, né su quattro ruote. L ’inverno è la risorsa principale delle strade della Kolyma. Ma d’estate è tutto uno scia­ guattare e sciabordare pantanoso, il soldato di scorta accompagna i malati uno alla volta, costringendoli a saltare da un rialzo all’al­ tro, da un sassetto all’altro, da un tratto asciutto all’altro, benché fin dall’inverno sia stato praticato nel terreno gelato un sentiero. A tracciarne il percorso ideale con mano esperta è stato un rico­ verato ingegnere. Ma in estate il terreno comincia a sgelare in superficie e non si sa fino a che punto, fino a che limite arretrerà il ghiaccio. Di un metro? Di mille metri? Non lo sa nessuno. Non lo sa l’idrografo, venuto da Mosca sulla sua Douglas, e non lo sa lo Jakuto anche se suo padre, e il nonno e gli avi, sono nati proprio qui, su questa ter­ ra paludosa. Sul terreno è già stato predisposto in mucchi il calcare frantu­ mato che si userà per il lavoro di colmatura, tra buche nascoste dal­ l’acqua, piccole frane, smottamenti, rischiando l’osso del collo, e tutto ciò sotto un cielo abbagliante: alla Kolyma in questa stagio­ ne non ci sono piogge, piogge e nebbie sono solo sul litorale. Anche il sole senza tramonti si occupa della bonifica. In questa strada paludosa - il chilometro dal Belie'ja alla rota­ bile - sono stati confitti quarantamila trudodni, milioni di ore di lavoro dei convalescenti. Ognuno doveva gettare il proprio sasso nell’impraticabile pantano senza fondo. Per il personale ospeda­ liero era l’impegno fisso di ogni giorno estivo. Il pantano gorgo­ gliava e inghiottiva i doni. Le paludi della Kolyma sono tombe un po’ piu serie dei vari tu­ muli sepolcrali degli slavi e anche di quell’istmo interrato dall’e­ sercito di Serse. Ogni malato dimesso dal Belič'ja, prima di partire, doveva por­ tare un ultimo contributo alla palude ospedaliera: una lastra di cal­

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care, preparata sul posto dagli altri malati o dagli addetti ospeda­ lieri durante il lavoro volontario straordinario detto udamik. Mi­ gliaia di persone gettavano pietrisco e lastre nella palude. La pa­ lude gorgogliava e inghiottiva ogni cosa. In tre anni di energico lavoro non si ottenne alcun risultato. Ad aggiustare le cose provvedeva ogni volta l’inverno, e l’inglo­ riosa lotta contro la natura veniva sospesa fino alla primavera suc­ cessiva. In primavera tutto ricominciava da capo. Ma in tre anni non si riusci in nessun modo a tracciare una strada per la quale po­ tesse passare senza grandi danni un’automobile. Come prima si dovettero portar via quelli che venivano dimessi facendoli saltel­ lare sulle gobbe del terreno. E portare in su per quelle stesse gob­ be quelli che venivano a curarsi. Dopo un triennio di ininterrotti sforzi generali era stato ab­ bozzato solo un tratteggio: una specie di via zigzagante e insicura dalla rotabile al Belič'ja, che non si poteva percorrere normalmente né a piedi né in macchina, ma solo saltando da una lastra di calca­ re all’altra, come mille anni fa da un monticello all’altro. L ’inglorioso duello con la natura esasperò il primario «Mam­ ma nera». La palude aveva trionfato. Stavo arrancando verso l’ospedale a salti. L ’autista, un ragaz­ zo pratico, era rimasto con il suo autocarro sulla rotabile, perché qualcuno di passaggio non se lo portasse via, o gli smontasse il mo­ tore. In notti bianche come questa i rapinatori saltano fuori non si sa da dove e gli autisti non lasciano incustodite le macchine nep­ pure per un’ora. E storia di tutti i giorni. Il soldato di scorta mi fece saltellare per le lastre bianche fino alla piccola izba del custode e, lasciatomi ad aspettare seduto per terra vicino al terrazzino d’ingresso, portò dentro il pacchetto dei miei documenti. Appena un po’ piu in là delle due baracche che costituivano il nucleo dell’ospedale si stendevano, grigie come la tajga, alcune fi­ le di grandi tende di tela catramata. I passaggi tra le tende erano stati pavimentati con un tavolato di pertiche, un marciapiedi di vinchio, piuttosto sopraelevato rispetto al suolo roccioso. Il Belič'ja si trovava alla foce di un torrente e ci si cautelava contro le inonda­ zioni, le piogge torrenziali, le piene improvvise della Kolyma. Le tende di tela, oltre a richiamare alla mente la precarietà del mondo, ribadivano con il tono piu severo che tu - dochodjaga non eri affatto una persona gradita anche se non ti trovavi li per caso. E che in quel luogo non avrebbero preso granché in consi-

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derazione la tua vita. Al Belič'ja non c’era agio alcuno, ma solo un clima da «tutti alle vele! » Il cielo catramato delle tende del Belič'ja non si distingueva per niente da quello delle tende al giacimento Partizan nel 1937, pie­ no di buchi e aperto a tutti i venti. Non si distingueva neppure dai ricoveri interrati e ricoperti di torba, con riscaldamento e un gia­ ciglio a castello, del kombinat delle vitamine, che riparavano dal vento ma non dal gelo. Ma per un dochodjaga anche un riparo dal vento è una gran cosa. Quanto alle stelle, visibili attraverso i buchi del soffitto di te­ la catramata erano dappertutto le stesse: una porzione sghemba della volta stellata dell’Estremo Nord. Stelle o speranze, non faceva differenza, ma non ce n’era nep­ pure la necessità: né di stelle né di speranze. Al Belié'ja il vento scorrazzava in lungo e in largo per le ba­ racche, denominate reparti dell’Ospedale regionale centrale, apri­ va le porte davanti al malato, le richiudeva, sbattendole, alle spal­ le del medico. Tutto questo mi preoccupava ben poco. Semplicemente non mi era mai stato dato di comprendere la comodità di una parete di le­ gno, di poter mettere a confronto questa parete con la tela catra­ mata. Le mie pareti erano di tela catramata, il cielo pure. Gli oc­ casionali pernottamenti tra pareti di legno durante i trasferimen­ ti non mi davano, a ricordarli, né felicità né speranza in qualcosa di davvero realizzabile. Miniera di Arkagala. Li c’era piu che altro legno. Ma anche molte pene, e fu da li che partii alla volta di Dželgala a prendermi la condanna: ad Arkagala ero ormai una vittima designata, già nel­ le liste e nelle mani esperte dei provocatori della «zona speciale». La tela catramata dell’ospedale era una delusione per il corpo non per l’anima. Il mio corpo tremava ad ogni soffio di vento, mi piegavo su me stesso, non riuscivo a fermare il tremito di tutta la pelle, dalle dita dei piedi alla nuca. Nella tenda buia non c’era neppure la stufa. Da qualche parte, in mezzo a un gran numero di giacigli fatti con assi di legno appe­ na sgrossato, c’era, uguale a tutti gli altri, anche il mio topean, il mio posto di domani, di oggi - un lettuccio, dunque, con il pog­ giatesta di legno - senza materasso, né cuscino, solo l’incastella­ tura con il poggiatesta e una coperta logora, decrepita, nella qua­ le potersi avvolgere come in una toga romana o nel mantello dei sadducei. Attraverso la coperta ragnata potrai vedere le stelle del­ l’antica Roma. Ma le stelle della Kolyma non erano le stelle del-

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l’antica Roma. E la carta del cielo stellato boreale non è la stessa dei luoghi evangelici. Mi avvolsi strettamente il lembo superiore della coperta-cielo stellato attorno alla testa, cercando di scaldarmi nell’unico modo che conoscevo. Qualcuno mi afferrò per le spalle e mi condusse lungo una stra­ dina sterrata. Scalzo com’ero, incespicavo, urtavo contro ostacoli invisibili, le dita nude dei piedi suppuravano in conseguenza dei congelamenti, non ancora rimarginati dal ’37. Prima di potermi coricare sul mio giaciglio dovevo essere lava­ to. E mi avrebbe lavato Aleksandr Ivanovič, un tale con due ca­ mici sopra il giubbotto, un inserviente detenuto, di quelli la cui condanna era designata con delle lettere, un litemik, comunque un «cinquantotto» che dunque si trovava li in base alla cartella clini­ ca e non perché preso in ruolo: di ruolo può essere solo un dete­ nuto per reati comuni, un bytovik. Un catino di legno, una botte d ’acqua, un mestolo, un arma­ dietto con la biancheria: tutte queste cose erano sistemate nell’angoletto della baracca dove c’era il giaciglio di Aleksandr Iva­ novie. Questi mi riempi il catino attingendo l’acqua dalla botte, ma io da molti anni ero abituato a bagni simbolici, a un impiego piu che parsimonioso dell’acqua, attinta d ’estate da magri ruscelli e d ’inverno facendo sciogliere la neve. Potevo e sapevo lavarmi con qualsiasi quantitativo d’acqua, dal cucchiaino da tè alla cisterna. Anche un cucchiaino da tè poteva bastare: mi sarei lavato gli oc­ chi e via. E qui non ce n’era un cucchiaino, ma un catino intero. Come capelli ero a posto, aveva già provveduto a dar loro un aspetto decente la «macchinetta» del parrucchiere Rudenko, ex colonnello di Stato Maggiore. L ’acqua dispensata dall’ospedale per le simboliche abluzioni degli ammalati naturalmente era fredda. Ma non gelata, come sem­ pre in estate o in inverno, l’acqua della Kolyma. Ma di questo non mi importava niente. Neanche l’acqua bollente mi avrebbe riscal­ dato il corpo. Neanche a versarmi sulla pelle una mestolata di bol­ lente pece infernale, quel calore d’inferno non avrebbe potuto scal­ darmi le viscere. Non pensavo alle ustioni, e neanche all’inferno quando mi stringevo con la pancia nuda contro il tubo ardente del­ la caldaia nello scavo del giacimento Partizan. Era l’inverno del 1938, mille anni fa. Dopo il Partizan resisto bene alla pece infer­ nale. Ma al Beliè'ja non ho avuto modo di farne uso. L ’acqua fred­ da del catino, controllata a occhio o meglio a tasto da Aleksandr

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Ivanovič, non poteva né doveva essere tiepida o calda. Non era gelata e questo bastava e avanzava secondo il criterio di Aleksan­ dr Ivanovič. Quanto a me tutto questo mi era assolutamente in­ differente, visto che era indifferente al mio stesso corpo - e il cor­ po è qualcosa di piu serio ed esigente dell’anima umana, il corpo ha piu qualità morali, diritti e obblighi. Prima del lavacro, Aleksandr Ivanovič mi rase personalmente il pube con un rasoio di dubbia sicurezza, lo passò nei paraggi del­ le ascelle, quindi mi condusse nello studio del medico, dopo aver­ mi fatto indossare della vetusta biancheria ospedaliera, rattoppa­ ta ma pulita; lo studio era uno spazio delimitato da paraventi tra le pareti di tela della stessa tenda. La cortina si scostò e sulla soglia apparve un angelo in camice bianco. Sotto il camice era stato infilato un giubbotto imbottito. L ’angelo indossava dei pantaloni ovattati e si era gettato sulle spal­ le un pellicciotto di seconda mano, vecchiotto ma di buona qua­ lità. Le notti di giugno non scherzano, e questo vale per i liberi e i detenuti, gli scansafatiche e gli «sgobboni». Dei morituri, i dochodjagi, non vai neanche la pena di parlare. Essi hanno sempli­ cemente superato i confini del bene e del male, del caldo e del freddo. Era il medico di turno, il dottor Lebedev. Lebedev non era né medico né dottore, e neppure infermiere, era semplicemente un insegnante di storia di scuola media, professione, com’è noto, pe­ ricolosissima. Detenuto ricoverato, si era fatto una certa pratica e aveva in­ cominciato a lavorare come infermiere. All’appellativo di «dotto­ re» aveva ben presto smesso di reagire con fastidio. Come perso­ na comunque non era cattiva, di denunce ne faceva poche o forse non ne faceva affatto. In ogni caso non prendeva parte agli intri­ ghi ospedalieri - quegli intrighi che laceravano ogni istituzione sa­ nitaria, e il Belič'ja non faceva eccezione - comprendendo che qual­ siasi coinvolgimento poteva costargli non solo la carriera medica, ma la vita. Mi accolse con indifferenza, compilò senza manifestare alcun interesse particolare la mia «cartella clinica». Ero stupefatto. Il mio cognome veniva trascritto in bella grafia su un autentico mo­ dulo clinico, sia pure non a stampa ma accuratamente suddiviso in caselle da una mano abile. Quel modulo clinico era la cosa più attendibile nella fantastica illusorietà della notte bianca kolymiana, in quella tenda di tela ca­

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tramata con duecento lettucci per detenuti ammalati. Una tenda dalla quale filtrava, attraverso il divisorio, il familiare rumore not­ turno di una baracca di detenuti della Kolyma. L ’uomo in camice bianco compilava il modulo, intingendo con gesto energico la penna da scolaro in un calamaio di sicurezza, sen­ za servirsi del bel completo da scrittoio che troneggiava davanti a lui nel centro del tavolo, opera artigianale di un detenuto dell’o­ spedale, ricavato intagliando un rametto a forcella di un larice di tre anni, o di tremila - coetaneo di un Ramesse o di un Asarhaddon, ma non mi era dato accertarlo, non potevo calcolare gli anel­ li annuali del taglio. L ’esperta mano dell’artigiano aveva abilmen­ te afferrato quell’unica, particolarissima curvatura naturale del­ l’albero, che aveva affrontato, piegandosi, le gelate dell’Estremo Nord. La curvatura era stata colta, il ramo fissato per sempre, scor­ tecciato e intagliato dalla mano del mastro, e l’essenza della cur­ vatura, dell’albero messa a nudo. Sotto la corteccia si era rivelato uno stereotipo molto andante, un prodotto pienamente commer­ cializzabile: una testa di Mefistofele, inclinata su una boccetta dal­ la quale sembrava fosse li li per zampillare una fontana di vino. Vi­ no e non acqua. Il miracolo di Cana o quello nella taverna di Li­ psia3 non vennero replicati alla Kolyma solo perché quaggiù avrebbe incominciato a zampillare una fontana di sangue umano, e non di alcol - di vino alla Kolyma non ce n’è comunque -, san­ gue, e non un geyser di calda acqua sotterranea, come alla fonte curativa della stazione termale Talaja, in Jakutija. Proprio questo rischio - che facendo saltare il tappo non sa­ rebbe scorsa l’acqua e neppure il vino, ma sangue - aveva qui trat­ tenuto il taumaturgo Mefistofele, o Cristo, fa lo stesso. Anche il medico di turno Lebedev temeva sorprese e preferiva servirsi del calamaio di sicurezza. Il documento della mia «mis­ sione vitaminica» venne accuratamente incollato al nuovo modu­ lo. Lebedev si serviva come colla di quello stesso estratto di pino di cui teneva accanto al tavolo un’intera botte. Il pino afferrò e fissò saldamente il povero foglietto. Aleksandr Ivanovič mi riaccompagnò al mio posto, dandomi al­ cune raccomandazioni a gesti, evidentemente perché, anche se fa­ ceva chiaro come di giorno, ufficialmente era notte, e bisognava, vuoi per i regolamenti vuoi per tradizione medica, parlare sussur­ rando; e questo anche se i vecchi della Kolyma, i dochodjagi che 5 Nel F a u st di Goethe, prima parte, quando Mefistofele in presenza di Faust fa «but­ tar vino al tavol di legno» per rallegrare una brigata.

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dormivano li nella tenda, non li avrebbe svegliati neanche il clas­ sico colpo di cannone vicino all’orecchio; e anche se i duecento miei nuovi vicini erano considerati tutti, dal primo all’ultimo, dei morituri, e niente di piu. Il linguaggio gestuale di Aleksandr Ivanovič si riduceva a poche osservazioni: quando avessi voluto andare di corpo, guai a correre chissà dove alla latrina, per sistemarmi sulla «comoda», che poi era un foro praticato nell’assito in un angolo della tenda. Dovevo pri­ ma farmi registrare da Aleksandr Ivanovič e solo in sua presenza fornire il prodotto della mia permanenza sulla «comoda». Aleksandr Ivanovič, di sua mano, con un bastone, doveva poi sospingere la risultanza nel fetido sciabordante mare di escrementi dell’ospedale per dissenterici, un mare che, a differenza delle la­ stre bianche nella palude, non veniva risucchiato dal terreno gela­ to della Kolyma, ma aspettava di essere rimosso e trasportato da qualche altra parte. Aleksandr Ivanovič non faceva uso né di cloruro di calcio, né di fenolo, né del grande e universale permanganato, non c’era nien­ te del genere, neanche nei paraggi. Ma cosa potevano interessar­ mi tutti questi problemi troppo umani. Il nostro destino non di­ pendeva certo dalla disinfezione. Correvo alla «comoda» parecchie volte al giorno e Aleksandr Ivanovič registrava i risultati degli sforzi del mio intestino - il qua­ le continuava a lavorare nello stesso modo capriccioso e arbitrario di quando la facevo dietro la palizzata del kombinat delle vitamine - chinandosi per esaminare dappresso le mie feci e apponendo cer­ ti segni misteriosi sulla tavola di compensato che teneva in mano. Il ruolo di Aleksandr Ivanovič nel reparto era molto rilevante. La tavola di compensato del reparto dissenteria rifletteva al mas­ simo grado il quadro esatto, riferito al giorno, all’ora, del decorso della malattia per ognuno dei dissenterici... Aleksandr Ivanovič teneva da conto la tavola, e se la infilava sotto il materasso in quelle rare ore in cui, sfinito dalla veglia del suo turno di ventiquattr’ore, si abbandonava a un profondo so­ pore, qual è il sonno di ogni detenuto alla Kolyma, senza sfilarsi il giubbotto né i due camici, semplicemente addossandosi alla pa­ rete di tela catramata nel suo angolo, e perdendo istantaneamen­ te conoscenza, per poi di li a un’ora, massimo due, alzarsi di nuo­ vo, raggiungere strascicando i piedi il tavolino di guardia, e fare un po’ di luce accendendo la lanterna detta «pipistrello». In passato Aleksandr Ivanovič era stato segretario di un comi­ tato regionale del partito in una delle repubbliche della Georgia,

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ed era finito alla Kolyma in base all’articolo 58 con una condanna a una pena astronomica. Non aveva istruzione medica, non era neanche un ammini­ strativo, anche se il responsabile del reparto, Kalembet lo faceva figurare come «contabile». Era passato per gli scavi in miniera, aveva toccato il fondo dello sfinimento, e seguendo il solito itine­ rario di tutti i docbodjagi era finito in ospedale. Come lavoratore era molto zelante, per qualsiasi capo uno su cui fare assoluto affi­ damento. Cosi per trattenere Aleksandr Ivanovič come malato bisogno­ so di cure tutti gli espedienti e falsi certificati erano buoni, e non si trattava di un luminare della chirurgia o di un esperto in agrobiologia. Contadino e inserviente ospedaliero, aveva dalla sua l’il­ limitato zelo. Serviva con dedizione qualsiasi capo, e se glielo aves­ sero ordinato i superiori avrebbe spostato le montagne. Non era stato lui ad avere l’idea della tavola di compensato ma Kalembet. La tavola doveva stare in mani fidate e Kalembet le trovò nella persona di Aleksandr Ivanovič. I favori erano reciproci. Kalembet teneva opportunamente aggiornata la cartella clinica di Aleksan­ dr Ivanovič e questi garantiva al reparto il computo esatto e co­ stantemente aggiornato dei casi in cura. Aleksandr Ivanovič non poteva essere un inserviente di ruolo, l’avevo indovinato subito. Gli inservienti di ruolo non si mettono a lavare personalmente i malati. Un inserviente ospedaliero di ruo­ lo, immancabilmente un detenuto comune, un bytovik, è un pa­ dreterno, che minaccia tutti i condannati in base all’articolo 58, è l’occhio insonne della locale sezione degli «organi». L ’inserviente di ruolo ha molti aiutanti, scelti tra i volontari disposti a tutto per una «buona minestrina». Cosi, se c’è qualcosa che l’inserviente detenuto comune fa di persona è andare - e anche qui con l’ac­ compagnamento di una decina di schiavi in vario grado di intimità con il semidio - andare dunque dall’addetto alla distribuzione del cibo, padrone della vita e della morte dei docbodjagi. Mi ha sem­ pre colpito la secolare abitudine russa a disporre immancabilmen­ te di uno schiavo al proprio servizio. Cosi il dneval'nij presso i de­ tenuti comuni non è semplicemente il «piantone», l’addetto alla baracca, ma un dio che può assoldare, al prezzo di una sigaretta, di una presa di tabacco, di un pezzo di pane, un rabotjaga, uno «sgobbone» dei «cinquantotto». Ma neanche lo «sgobbone» dei «cinquantotto» se ne sta a dormire. Lo si creda o no, ma di que­ sti assuntori alla ricerca di schiavi ce n’è anche tra i «cinquantot­ to». Una mezza dose di tabacco, metà pagnotta o mezza scodella

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di sbobba e il nostro porta ai detenuti comuni, per le grandi puli­ zie, i propri compagni, minatori sul fronte dell’oro, barcollanti per la stanchezza e la fame dopo una giornata di quattordici ore lavo­ rative al giacimento. Io stesso sono stato uno di loro, uno schiavo di schiavi, e so quel che dico. Compresi subito, quindi, perché Aleksandr Ivanovič cercasse di arrivare a fare ogni cosa con le proprie mani: lavare i malati, la­ vare la biancheria, distribuire i pasti, misurare la temperatura. Questa versatilità doveva senz’altro fare di lui un elemento pre­ zioso per Kalembet e per qualsiasi altro caporeparto che fosse an­ che un detenuto non dei comuni, non dei bytovìki. Ma la chiave di tutta la faccenda stava solo nella scheda personale, nel peccato originale. Infatti il primo medico detenuto comune, che non ri­ tenne di dover tanto dipendere, come Kalembet, dal lavoro di Aleksandr Ivanovič, fece dimettere quest’ultimo dall’ospedale con destinazione il giacimento, dove fini per morire, perché il XX Congresso era ancora di là da venire. E mori, probabilmente, da giusto. L ’incorruttibilità di Aleksandr Ivanovič, legata anche alla fac­ cenda della sua cartella clinica, costituiva il pericolo principale per molti dochodjagi in fin di vita. Fin dal primo giorno Aleksandr Ivanovič, come accade sempre e dappertutto, aveva puntato sui su­ periori, sull’accuratezza e onestà della propria occupazione prin­ cipale, la cerca degli escrementi di duecento malati di dissenteria. L ’intera attività terapeutica del reparto dissenteria si reggeva su di lui. E tutti se ne rendevano conto. La tavola di compensato su cui venivano fatte le registrazioni era suddivisa in righe e riquadri in base al numero di dissenterici sotto osservazione. Nessun blatar'o malavitoso che fosse arrivato all’ospedale sull’onda della dissenteria allora in voga, avrebbe po­ tuto mai corrompere Aleksandr Ivanovič. Questi l’avrebbe subi­ to denunciato ai superiori. Non avrebbe dato retta alla voce della paura. Lui aveva i suoi conti in sospeso con i malavitosi fin dai tempi del lavoro in miniera. Ma i malavitosi corrompono i medi­ ci e non gli inservienti ospedalieri, tanto meno gli inservienti pre­ si tra i malati, con tanto di cartella clinica. Aleksandr Ivanovič cercò sempre di mostrarsi degno della fi­ ducia dei medici e dello Stato. La sua solerte vigilanza non si eser­ citò però mai su materiali politici. Fu sempre impeccabile e preci­ so, ma la sua sorveglianza riguardò sempre e soltanto gli escrementi dei malati. Nel flusso di coloro che simulavano la dissenteria (ma c’erano

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poi questi simulatori ?) era estremamente importante controllare quotidianamente le «evacuazioni» del malato. Cos’altro di lui si doveva controllare ? La sua infinita stanchezza ? L ’esaurimento al­ l’ultimo stadio? Tutto questo esulava dal campo di osservazione e vigilanza non solo dell’inserviente sanitario ma del caporeparto medico. Solo il medico era abilitato a controllare le evacuazioni. Ogni annotazione riguardante cose «riferite», alla Kolyma è dub­ bia. E poiché il centro dei centri del malato di dissenteria è l’in­ testino, diventava straordinariamente importante sapere la verità - se non vedendola con i propri occhi, almeno per il tramite di un proprio personale rappresentante nel fantastico mondo sotterra­ neo della Kolyma, nella luce alterata delle finestre di cocci di bot­ tiglia - e se non tutta la verità, almeno un suo aspetto, anche se rozzo e approssimativo. Alla Kolyma la scala di idee e giudizi subisce uno spostamento che arriva talvolta al capovolgimento completo. Ad Aleksandr Ivanovič era stato chiesto di vigilare non sul pro­ cesso di guarigione, ma su possibili inganni, furti di giorni-letto a danno dello Stato-benefattore. E lui si riteneva fortunato di po­ ter tenere il registro delle defecazioni della baracca dei dissenteri­ ci, e il dottor Kalembet - un medico vero, non simbolico come il dottor Lebedev - avrebbe considerato una fortuna registrare la merda piuttosto che spingere la carriola, come gli era capitato, al pari di tutti gli intellettuali, di tutti gli «Ivan Ivanovic», o «con­ tabili», senza esclusione. Anche se era un medico di professione, e anzi era stato pro­ fessore dell’Accademia militare di medicina, nel 1943 si conside­ rava fortunato perché poteva registrare le «evacuazioni» intesti­ nali di altri, invece di essere lui stesso a fornire sulla seggetta la propria personale «evacuazione» per l’analisi e le registrazioni. La meravigliosa tavola di compensato - principale documento della diagnostica e della clinica medica nel reparto dissenteria del Belie'ja - conteneva l’elenco, continuamente aggiornato, di tutti i dissenterici. La regola era: liberarsi solo in presenza dell’infermiere. E co­ me infermiere, o meglio facente funzioni, inaspettatamente ti tro­ vi davanti l’angelico «dottor» Lebedev. Aleksandr Ivanovic si è assopito, ma può di punto in bianco saltar su, già all’erta, pronto alle notturne battaglie con i dissenterici. Ecco quanto può risultare utile per lo Stato una semplice ta­ vola di compensato nelle mani virtuose di un Aleksandr Ivanovic. Purtroppo non visse abbastanza per vedere il X X Congresso.

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E non ci arrivò neanche Pëtr Semënovic Kalembet. Scontati die­ ci anni e rilasciato, e diventato poi direttore di un’unità sanitaria, si rese conto che, a parte la qualifica, niente nel suo destino era sostanzialmente cambiato: la mancanza di diritti degli ex detenu­ ti saltava agli occhi. Come tutti i kolymiani onesti, Kalembet ave­ va perso ogni speranza. La situazione non cambiò neppure dopo la fine della guerra. Kalembet si uccise nel 1948 all’El'gen, dove era direttore della sezione sanitaria, iniettandosi in vena una so­ luzione di morfina; lasciò un biglietto dallo strano - e però a lui confacente - tenore: «Troppi cretini. Non ti lasciano vivere». Anche Aleksandr Ivanovič mori, dochodjaga stremato, senza fi­ nire di scontare la sua pena di venticinque anni. La tavola di compensato era divisa verticalmente in colonne: numero, cognome. Non c’erano le apocalittiche colonne dell’arti­ colo del codice e periodo di pena - e questo mi stupì un poco la prima volta che mi avvicinai alla preziosa tavola, raschiata con un frammento di vetro e ripulita con il coltello - e la colonna dopo quella del cognome portava l’intestazione «colore». Ma non ci si riferiva agli occhi o ai capelli e neppure a galline o cani. La colonna dopo ancora non portava nessuna intestazione, an­ che se il termine c’era, eccome. Può essere che ad Aleksandr Ivanovič fosse sembrato troppo difficile, un termine dimenticato o mai conosciuto della dubbia cucina latina, la parola era konsistencija, ma le labbra di Aleksandr Ivanovič non riuscivano a ripeter­ la correttamente quando si trattava di trasferire l’importante ter­ mine su di una nuova tavola. Cosi Aleksandr Ivanovič semplicemente faceva a meno di scriverlo, lo teneva a mente e sapeva perfettamente il senso della risposta che doveva dare in quella co­ lonna. L ’«evacuazione» poteva essere liquida, solida, semiliquida o semisolida, poltigliosa... - queste le poche risposte che Aleksandr Ivanovič teneva nella memoria. Ancora più importante era l’ultima colonna che si chiamava «frequenza». I compilatori di liste e dizionari di frequenza po­ trebbero ricordare questa priorità di Aleksandr Ivanovič e del dot­ tor Kalembet. La «frequenza», appunto: quella tavola di compensato era pro­ prio il dizionario di frequenza del deretano. Era la colonna in cui Aleksandr Ivanovič tracciava con un moz­ zicone di matita copiativa una piccola asta, come in una macchina cibernetica, registrando l’unità di defecazione. Il dottor Kelembet andava molto orgoglioso di questa sua in­

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gegnosa trovata, che consentiva di matematizzare la biologia e la fisiologia, di ingerirsi nei processi digestivi con le formule della matematica. Addirittura arrivò a dimostrare e perorare l’utilità del proprio metodo a un congresso scientifico, rivendicandone la priorità ap­ plicativa; forse da parte del professore dell’Accademia medica mi­ litare c’era solo la voglia di divertirsi un po’, di prendere un po’ in giro se stesso per la propria sorte, o forse tutto questo era qualco­ sa di molto serio, una sorta di dislocazione mentale, un trauma che non coinvolgeva soltanto la psicologia dei dochodjagi ma anche quella dei loro medici. Aleksandr Ivanovič mi riaccompagnò al mio lettuccio e io mi addormentai. Mi lasciai andare in un soporoso oblio, per la prima volta dacché ero sulla terra della Kolyma non mi trovavo in una baracca di lavoro, né in una cella di isolamento o in una compa­ gnia di disciplina. Quasi subito - o forse erano passate molte ore, anni, secoli mi svegliai alla luce di una lanterna che mi illuminava in pieno vi­ so, benché la tenda fosse immersa nel chiarore della notte bianca e ci si vedesse bene lo stesso. Qualcuno con indosso un camice bianco e sopra al camice un pellicciotto gettato sulle spalle - la Kolyma era la stessa per tutti - mi illuminava in viso. Anche l’angelico dottor Lebedev era li e mi sovrastava, senza pellicciotto sulle spalle. Una voce risuonò sopra di me con tono interrogativo: «Contabile?» «Si, Pétr Seménovic», rispose affermativamente l’angelico dot­ tor Lebedev, quello che aveva registrato i miei «dati» nella car­ tella clinica. Il caporeparto chiamava «contabili» tutti gli intellettuali capi­ tati alla Kolyma in quella bufera sterminatrice del ’37. Kalembet stesso era un contabile. Contabile era anche l’infermiere del reparto chirurgia Lesnjak, studente del primo anno della facoltà di medicina della Prima uni­ versità di Mosca, mio concittadino, che aveva studiato come me alle superiori a Mosca, e che avrebbe svolto il ruolo piu importante nel mio destino alla Kolyma. Non lavorava nel reparto di Kalem­ bet. Lavorava da Traut, nel reparto chirurgia, nella tenda accan­ to, come assistente operatorio. Non si era ancora intromesso nel mio destino, neppure ci co­ noscevamo. Contabile era anche Andrej Maksimovič Pantjuchov, che mi

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avrebbe mandato ai corsi di infermeria per detenuti, cosa che nel 1946 decise del mio destino. Il completamento di questi corsi in­ fermieristici, il diploma che abilitava a curare, avrebbe risposto in un colpo solo a tutti i miei problemi. Ma allora il 1946 era ancora lontano, tre anni interi: da quelle parti era come dire l’eternità. Contabile era anche Valentin Nikolaevič Traut, chirurgo di Sa­ ratov, che in quanto tedesco buscava piu legnate degli altri e per il quale neanche lo spirare della pena significava la soluzione dei suoi problemi. Solo il X X Congresso gli dette pace, e conferì tran­ quillità e sicurezza alle sue mani di valente chirurgo. Traut, come persona, alla Kolyma venne completamente an­ nientato, era disposto a calunniare chiunque gli ordinassero i ca­ pi, e non difendeva mai nessuno di quelli che venivano da essi per­ seguitati. Ma l’animo e le mani del chirurgo riuscì a preservarle. E, cosa più importante di tutte, «contabile» era anche Nina Vladimirovna Savoeva, una «libera» assunta a contratto, origina­ ria dell’Ossezia, membro del partito e primario del Belič'ja, una giovane donna sulla trentina. Proprio lei poteva fare del bene, e parecchio. E del male, e an­ che molto. L ’importante era dirigere utilmente la sua eroica e in­ credibile energia di reputatissima amministratrice dal piglio pret­ tamente mascolino. Nina Vladimirovna era molto lontana dalle questioni elevate. Ma quello che capiva, lo capiva a fondo e cercava di dimostrare con i fatti la giustezza o semplicemente la forza della propria po­ sizione. La forza delle conoscenze, delle protezioni, dell’influen­ za, della menzogna può essere utilizzata anche a fin di bene. Dotata di un estremo amor proprio, che non sopportava obie­ zioni, Nina Vladimirovna nell’ambiente degli alti ufficiali della Kolyma di allora affrontò di petto certe pratiche vigliacche di tan­ ti capi, ingaggiando una campagna personale contro la bassezza in cui utilizzava gli stessi strumenti degli avversari. Amministratrice straordinariamente capace, Nina Vladimirov­ na aveva bisogno di una cosa sola: tenere sott’occhio tutto il pro­ prio regno, strapazzare personalmente tutti i propri sottoposti. La promozione a direttrice dell’unità sanitaria provinciale non ebbe successo. Comandare e dirigere attraverso le scartoffie era qualcosa che non sapeva fare. Dopo una serie di conflitti con le autorità superiori, la Savoe­ va era già nella lista nera. Alla Kolyma tutti i pezzi grossi si servono da sé, per ogni oc­ correnza, di generi alimentari e altro. Nina Vladimirovna non co-

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stituiva un’eccezione. Ma almeno non scriveva denunce contro gli altri, i quali invece le scrivevano, e ci rimise. Cominciarono a scrivere denunce contro di lei poi fu la volta delle convocazioni, degli interrogatori, dei buoni consigli, nel ri­ stretto ambito dei membri del partito all’interno della direzione. Quando poi parti il suo protettore e conterraneo colonnello Gagkaev, nonostante questi andasse ad occupare un posto a Mo­ sca, Nina Vladimirovna si trovò alla stretta finale. La sua convivenza con l’infermiere Lesnjak fini per farla espel­ lere dal partito. Fu allora che feci conoscenza con la famosa «Mam­ ma nera». Ancora oggi è a Magadan. E anche Boris Lesnjak è a Magadan. E i loro figli. Subito dopo il rilascio di Boris Lesnjak, Nina Vladimirovna lo sposò, ma questo non cambiò il suo de­ stino. Essa aveva sempre fatto parte, magari capeggiandolo, di qual­ che gruppo, e spendeva energie sovrumane per ottenere il licen­ ziamento di questo o quel farabutto. Capitava di veder spendere energie altrettanto sovrumane anche per allontanare qualche per­ sonalità eminente e degna. Boris Lesnjak portò nella vita di Nina Vladimirovna altri sco­ pi, scopi morali, portò nella sua vita l’elevato standard culturale nel quale lui stesso era stato educato: Boris era un «contabile» per tradizioni familiari, sua madre aveva conosciuto carcere e depor­ tazione. Sua madre era ebrea. Il padre un funzionario doganale. Boris trovò in sé le forze per dare un proprio contributo alla questione dell’onestà personale, fece a se stesso alcuni giuramen­ ti e li mantenne. Nina Vladimirovna lo seguiva, viveva dei suoi giudizi e mo­ strava insofferenza nei confronti dei propri colleghi a contratto. E proprio alla buona volontà di Lesnjak e Savoeva sono debi­ tore, in quello che fu il periodo piu difficile della mia vita. Non potrò mai dimenticare come ogni sera, letteralmente ogni sera, Lesnjak mi portasse alla baracca del pane o un pugno di ta­ bacco: cose preziose in quella che era allora la mia semiesistenza di dochodjaga allo stremo. Ogni sera aspettavo che giungesse quell’ora, quel pezzetto di pane, quella presa di tabacco, e temevo che Lesnjak non venisse, e che fosse tutta una mia invenzione, un sogno, un famelico mi­ raggio kolymiano. Ma Lesnjak veniva, appariva sulla soglia. Allora non sapevo affatto che tra Nina Vladimirovna e il mio benefattore ci fosse del tenero. Accettavo quelle elemosine come

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un miracolo. Tutto il bene che Lesnjak poteva fare per me - come lavoro, cibo, riposo - lo faceva. La Kolyma la conosceva bene. Ma lo poteva fare solo con le mani del primario Nina Vladimirovna, e lei era una persona potente, cresciuta tra beghe, intrighi e colpi bassi d ’ogni genere. Lesnjak le aveva mostrato un mondo diverso. Risultò che non avevo la dissenteria. Ciò di cui soffrivo si chiamava pellagra, distrofia alimentare, scorbuto, poliavitaminosi all’ultimo stadio, ma non dissenteria. Dopo forse due settimane di cure e due giorni di riposo che non mi spettavano, venni dimesso dall’ospedale; completamente in­ differente a ciò che sarebbe stato, stavo già indossando i miei strac­ ci, vicino all’uscita dalla tenda, ma ancora all’interno, quando al­ l’ultimissimo momento fui convocato nello studio del dottor Kalembet, quell’angolo tramezzato con il Mefistofele dove mi aveva ricevuto Lebedev. Se avesse lui stesso preso l’iniziativa di quel colloquio o glielo avesse consigliato Lesnjak, non so dire. Kalembet non era in rap­ porti di amicizia né con Lesnjak né con la Savoeva. Non so neppure se Kalembet avesse visto nei miei occhi affa­ mati un lampo, il barlume di qualcosa che gli lasciasse ben spera­ re, non so. Ma durante il periodo di ricovero il mio lettuccio era stato, spostato diverse volte e io mi ero trovato per vicini alcuni dei «contabili» piu affamati e irrecuperabili. Cosi il mio lettuccio era stato messo vicino a quello di Roman Krivickij, già segretario di redazione delle «Izvestija», omonimo, ma non parente del no­ to viceministro delle forze armate fatto fucilare da Ruchimov. Roman Krivickij era stato contento del nuovo vicinato, aveva cominciato a raccontare alcune cose sul proprio conto, ma il gon­ fiore edematoso della sua pelle bianca preoccupava Kalembet. Kri­ vickij mi mori accanto. Il suo solo interesse, naturalmente, era il cibo, come per tutti noi. Ma, dochodjaga di ancor piu lungo corso, Roman scambiava la zuppa con la semolata, la semolata con il pa­ ne, il pane con il tabacco, e tutto questo in granelli, pizzichi, gram­ mi. Nondimeno si trattava di perdite letali. Roman mori di di­ strofia alimentare. La branda del mio vicino si liberò. Non era un topčan di pertiche come gli altri. Il giaciglio di Krivickij era una branda elastica, con una vera rete, dai bordi arrotondati e verni­ ciati, un autentico lettuccio d ’ospedale tra duecento tralicci di le­ gno. Un altro capriccio di quell’ammalato grave, e Kalembet era riuscito a esaudirlo. E ora sentivo Kalembet che mi diceva: «Sicché, Salamov, non hai la dissenteria, ma sei esaurito. Puoi restare per due settimane

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come inserviente ospedaliero, misurerai la temperatura, accompa­ gnerai i malati, laverai il pavimento. In una parola quello che fa l’inserviente attuale, Makeev. Ha poltrito abbastanza e già fa lo schizzinoso con il mangiare; oggi si decide se dimetterlo. Vedi tu. Non ti prometto molto ma per almeno due settimane di “cartella clinica” riesco a tenerti». Accettai e al mio posto venne dimesso Makeev, il protetto di un infermiere salariato, di cognome Michno. Era in corso una lotta, un’autentica guerra per il potere e l’in­ fermiere a contratto Michno, un komsomoliano, sceglieva gli ele­ menti che lo spalleggiassero nella lotta contro Kalembet. La sche­ da dei dati personali di Kalembet conteneva elementi che lo ren­ devano a dir poco vulnerabile, e un drappello di delatori, capeggiati dallo stukac numero uno Michno, si apprestava a far fuori il capo­ reparto. Ma Kalembet assestò il suo colpo preventivo e dimise, spedendolo al giacimento, l’elemento di fiducia di Michno, il de­ tenuto per reati comuni Makeev. Tutto questo l’avrei capito soltanto dopo, in quel momento pensai soltanto a darmi un gran da fare nella mia nuova mansio­ ne. Ma non avevo le risorse di Makeev, anzi non ne avevo nessu­ na. Non ero sufficientemente svelto, non abbastanza ossequioso verso i superiori. In una parola, mi fecero fuori il giorno dopo che Kalembet fu trasferito. Ma intanto, durante quel mese, avevo avu­ to il tempo di far conoscenza con Lesnjak. E proprio Lesnjak mi aveva dato tutta una serie di importanti consigli. Mi diceva: «Tu cerca di ottenere il cambio di destinazione. Se l’ottieni non ti ri­ manderanno indietro, non ti negheranno un passaggio in ospeda­ le». Boris con i suoi buoni consigli non capiva che io ero già un dochodjaga perso, e che nessun lavoro, fosse anche stato il piu sim­ bolico - tipo ricopiatura - o il piu sano - tipo raccolta di bacche e funghi, o la raccolta di legna da ardere o ancora la pesca - senza minimo di produzione, all’aria aperta, neanche quello avrebbe piu potuto aiutarmi. Tuttavia Lesnjak faceva per me tutte queste cose, insieme a Ni­ na Vladimirovna, meravigliandosi per gli scarsi progressi della mia salute. Non avevo la tubercolosi, né, ad ogni buon conto, la ne­ frite, e cercare di imbucarsi in ospedale con l’esaurimento e la di­ strofia alimentare era un rischio, poteva significare fallire il ber­ saglio e infilare invece che la porta dell’ospedale quella dell’obi­ torio. Riuscii a rientrare in ospedale per la seconda volta solo a prezzo di grandi sforzi, ma comunque ci riuscii. L ’infermiere del «reparto vitaminico» - ho dimenticato il suo nome - mi picchia­

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va e lasciava che la scorta mi picchiasse ogni giorno, agli appelli dei turni di lavoro, come sfaticato, poltrone, speculatore, reni­ tente, e si rifiutava recisamente di farmi ricoverare. Riuscii co­ munque a gabbarlo: di notte il mio nome venne inserito tra quel­ li di un elenco con destinazione diversa, in quel lager l’infermiere era odiato da tutti, e furono contenti di darmi una mano tra com­ pagni della Kolyma, e io potei strisciar via alla volta del Belič'ja. E strisciai davvero, per sei chilometri, ma ci arrivai a quell’astan­ teria. Le tende dei dissenterici erano vuote e mi depositarono nel fabbricato centrale, il cui medico responsabile era Pantjuchov. Io e gli altri nuovi ricoverati, eravamo in quattro, ammucchiammo tutte le coperte e i sacconi che c’erano e ci infilammo sotto tutti insieme, e insieme battemmo i denti fino al mattino, non in tutti i reparti accendevano la stufa. Il giorno dopo mi trasferirono in una corsia riscaldata e lf me ne restai in piedi ed aspettai vicino al­ la stufa finché non mi chiamarono per l’iniezione o la visita, ren­ dendomi conto a fatica di quello che mi stavano facendo e sen­ tendo soltanto fame, fame, fame. La mia malattia si chiamava pellagra. E fu nel corso di questo secondo ricovero che conobbi oltre a Lesnjak e Nina Vladimirovna Savoeva, anche Traut e Pantjuchov, tutti i medici del Belič'ja. Mi trovavo in un tale stato che non mi si poteva piu fare del bene. Mi era completamente indifferente che mi facessero del be­ ne o del male. Immettere nel mio corpo pellagroso di morituro del­ la Kolyma anche una sola goccia di bene era un’azione inutile. A meno che la buona azione non consistesse in un po’ di calore. E cercarono anche di curarmi con delle iniezioni calde di ammide di acido nicotinico: i malavitosi comperavano l’iniezione «PP» per una razione di pane, e i pellagrosi vendevano la propria iniezione vitaminica per un pezzo di pane da trecento grammi, e invece del dochodjaga si presentava al medico per l’iniezione un qualche urkaè dei malavitosi. E riceveva la sua iniezione. Io il mio «PP» non lo vendevo mai a nessuno e ricevevo quanto mi spettava direttamente in vena e non, sotto forma di pane, per via orale. Chi avesse ragione e chi torto, non spetta a me giudicarlo. Non biasimo nessuno, né i dochodjagi che si vendevano le iniezioni vi­ taminiche, né i blatari che le compravano. Per me non cambiava comunque niente. Non si manifestava la voglia di vivere. Tutto quello che mangiavo sembrava lo mangias­ si nel pensiero e ingurgitavo senza appetito qualsiasi cibo. Durante questo secondo ricovero la mia pelle cominciò a de­

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squamarsi irrimediabilmente, me la sentivo prudere su tutto il cor­ po, e con il prurito cadeva a scaglie e perfino a strati interi. Ero un pellagroso classico, un modello diagnostico, il cavaliere delle tre D: demenza, dissenteria e distrofia alimentare. Non ricordo granché di questo secondo ricovero al Belič'ja. Qualche nuova conoscenza, qualche faccia, dei cucchiai leccati a dovere, un torrente gelato, un’uscita per funghi quando a causa della piena del torrente dovetti vagare tutta notte per le monta­ gne incalzato dall’acqua. Il ricordo di funghi, giganteschi porcini e amanita, che ti crescono proprio sotto gli occhi, cosi grandi da non entrare nemmeno nel secchio. Non era incipiente demenza, ma uno spettacolo affatto reale, la dimostrazione di quali prodigi può realizzare l’idroponica: porcinelli che diventano altrettanti gulliver in un batter d ’occhio. Le bacche, che raccoglievo al modo della Kolyma, sarchiando a secchiate le cespugliose distese di mir­ tilli... Ma tutto questo sarebbe stato dopo la desquamazione: quan­ do la pelle mi si staccava a scaglie come una scorza, e in aggiunta alle mie piaghe da scorbuto, mi suppuravano le dita dei piedi per l’osteomielite conseguente ai congelamenti; i denti traballanti per lo scorbuto, le croste da piodermite, le cui tracce conservo tutto­ ra sulle gambe. Ricordo la costante, irrefrenabile voglia di man­ giare, che nulla appagava, e a coronamento di tutto: la pelle che cadeva a larghe falde. Di dissenteria non soffrivo, ma avevo la pellagra - quel grumo di muco che mi aveva riportato sugli oscuri cammini terreni era un grumo eruttato dall’intestino di un pellagroso. I miei escrementi erano gli escrementi di un pellagroso. Era qualcosa di ancor piu pericoloso, ma allora non me ne im­ portava niente. Non ero l’unico pellagroso al Belič'ja, ma il piu gra­ ve, il piu manifesto. Già componevo versi: Il sogno di un poliavitaminosico, perfino nei versi non mi risolvevo a chiamare la malattia con il suo nome. Tra l’altro non sapevo neppure esattamente cosa fosse la pellagra. Sapevo solo che le mie dita scrivevano, in rima e non in rima, e che non avevano ancora detto la loro ultima parola. Fu in quel momento che sentii i guanti sfilarsi dalle mie mani. Veder cadere dal proprio corpo interi strati di pelle, vedere squa­ me e scagliette staccarsi dalle spalle, dal ventre, dalle braccia su­ scitava in me piu curiosità che paura. Diventai un pellagroso cosi manifesto, cosi classico, che si sa­ rebbero potuti staccare per intero due guanti di pelle da entram­ be le mani e due calzerotti dai piedi.

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Cominciarono a mostrarmi ai dirigenti medici di passaggio, ma neanche questi guanti li meravigliarono piu di tanto. Venne il giorno in cui la pelle mi si rinnovò per intero, ma l’a­ nima no, quella non si rinnovò. Decisero di sfilarmi dalle mani i guanti della pellagra, e dai pie­ di i calzerotti. Guanti e calzerotti mi vennero tolti da Lesnjak e Savoeva, in­ sieme a Pantjuchov e Traut, e furono allegati alla «cartella clini­ ca». Quindi inviati a Magadan con la medesima cartella clinica, come vivo reperto per il museo di storia della regione, o perlome­ no di storia della sanità della regione. Lesnjak non spedi proprio tutti i miei reperti. Con la cartella clinica spedirono solo le calze e uno dei guanti, l’altro lo conser­ vai presso di me, con la mia prosa di allora, piuttosto debole, e gli esitanti versi. Con indosso un guanto morto non si potevano scrivere buoni versi e neanche buona prosa. Il guanto stesso era prosa, sentenza, documento, verbale. Ma il guanto è andato perduto, e perciò viene scritto questo racconto. L ’autore garantisce che il disegno dattiloscopico è lo stes­ so su entrambi i guanti. Avrei dovuto scrivere già da molto tempo di Boris Lesnjak e Nina Vladimirovna Savoeva. Proprio Lesnjak e la Savoeva, non­ ché Pantjuchov, sono le persone che mi hanno realmente aiutato nei miei difficilissimi giorni e notti alla Kolyma. Devo loro la vi­ ta. Se si considera la vita un bene - cosa di cui dubito - io sono debitore di un fattivo aiuto, non simpatia né compatimento ma aiuto reale, a quelle tre reali persone dell’anno 1943. Bisogna sa­ pere che essi sono entrati nella mia vita dopo otto anni di pere­ grinazioni dal fronte di taglio del giacimento d ’oro alle prigioni delle fucilazioni di massa, sono entrati nella vita di un dochodjaga del ’37 e del ’38, un morituro che non aveva piu le stesse idee di prima sulla vita come bene. A quel punto invidiavo solo coloro che avevano avuto il coraggio di farla finita durante la formazione del nostro convoglio per la Kolyma nel luglio del ’37, alla sezione tran­ siti della prigione di Butyrki. Ecco, quelle persone le invidio dav­ vero: non hanno visto quello che ho visto io nei diciassette anni successivi. Ho cambiato idea sulla vita come bene, felicità. La Kolyma mi ha insegnato tutt’altro. Il principio della mia epoca e della mia personale esistenza, di

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tutta la mia vita - ciò che ho tratto dalla mia personale esperien­ za, la regola che ne ho desunto - può essere espresso in poche pa­ role. Prima di tutto bisogna restituire lo schiaffo e solo in un se­ condo tempo l’elemosina. Ricordare il male prima del bene. Ri­ cordare tutto il bene ricevuto per cent’anni, e tutto il male per duecento. E in questo che mi distinguo da tutti gli «umanisti» rus­ si del XIX e x x secolo. [1972].

P erča tk a ,

in «Volga», 1988,

i. i l .

Galina Pavlovna Zybalova

Nel primo anno di guerra il fumigante stoppino della lanterna della vigilanza rivoluzionaria venne accorciato al massimo. Ri­ mosso il filo spinato attorno alla baracca dei «cinquantotto», i ne­ mici del popolo furono ammessi a svolgere certe importanti man­ sioni - di fuochista, «piantone», custode - che in base alla costi­ tuzione concentrazionaria erano state fin li esclusivo appannaggio di detenuti per reati comuni o, alla peggio, di qualche criminale recidivo. Il dottor Lunin, capo della nostra sezione sanitaria, un dete­ nuto del tipo realista e pragmatico, considerò a giusta ragione che si dovesse cogliere il momento e che il ferro andasse battuto fin­ ché era caldo. Il piantone del laboratorio chimico della regione car­ bonifera di Arkagala si era fatto cogliere sul fatto mentre rubava della glicerina statale (dolce come il miele ! cinquanta rubli il ba­ rattolo!) e quello che l’aveva sostituito ne aveva fatto sparire già la prima notte il doppio, sicché la situazione stava prendendo una piega pericolosa. In tutte le mie peregrinazioni per i lager ho po­ tuto osservare che ogni detenuto quando raggiunge un nuovo po­ sto di lavoro per prima cosa si guarda in giro: c’è qualcosa da ru­ bare? Questo si riferisce a tutti quanti, dall’uomo di corvée al ca­ po di una direzione. C ’è una sorta di principio mistico in questa propensione dell’uomo russo al furto. Quanto meno nelle condi­ zioni del lager, del Nord, della Kolyma. I nemici del popolo sono prontissimi a cogliere i momenti di crisi, di svolta come quello descritto, e che si ripetono con una cer­ ta regolarità. Dopo il fallimento, una dopo l’altra, delle prospetti­ ve di carriera di due custodi-bytoviki, Lunin raccomandò me co­ me piantone del laboratorio: non mi sarei messo a rubare, cosi re­ putava, i tesori chimici li racchiusi, e quanto ad alimentare la stufa a botte, per giunta con la provvista di carbon fossile, non c’era de­ tenuto dei «cinquantotto», durante quegli anni kolymiani, che non fosse in grado di farlo egregiamente, con maggior professionalità

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di qualsiasi fuochista. Anche la lavatura dei pavimenti, con la tec­ nica marinara dello straccio avvolto attorno a un manico da sco­ pa, non aveva per me segreti sin dal 1939, dai tempi della peresylka a Magadan. Non per dire, ma io, già famoso come lavapavimenti a Magadan, avendo atteso a questa occupazione per l’intera primavera del 1939, l’ho imparata per tutta la vita. Quando venne fatto il mio nome lavoravo in miniera, realizza­ vo la «percentuale» - il carbone era tutt’altra cosa che l’oro - ma naturalmente non potevo neanche sognarmi un lavoro favoloso co­ me quello di piantone nel laboratorio di chimica. In tal modo mi fu data l’opportunità di riposare, di lavarmi fac­ cia e mani: quanto all’escreato intriso di polvere di carbone, po­ teva schiarirsi soltanto dopo molti mesi, se non anni, di un nuovo lavoro. Potevo quindi fare tranquillamente a meno di preoccu­ parmi del colore della mia scatarrata. Il laboratorio, che occupava un’intera baracca dell’insedia­ mento e impiegava un personale numeroso - due ingegneri chimi­ ci, due tecnici e tre laboratoristi - era diretto da Gaiina Pavlovna Zybalova, una giovane komsomoliana della capitale, assunta a con­ tratto, come il marito, Pëtr Jakovlevič Podosenov, un ingegnere specializzato che dirigeva il centro automezzi del distretto carbo­ niero di Arkagala. Per i detenuti la vita dei liberi è come una pellicola cinemato­ grafica: drammatica, comica o di vedute, secondo la classica suddivisione prerivoluzionaria dei vari generi ai fini della distribu­ zione. Raramente i protagonisti delle pellicole (o dei film come si dice adesso)1 scendono dallo schermo nella sala dell’elettroteatro (cosi si chiamavano i cineteatri degli inizi). I detenuti guardano la vita dei liberi come fosse un film. E ne ricavano solo soddisfazioni. Tanto non è qualcosa che comporti il prender parte per questo o per quello. E una vita nella quale non ci si può comunque intromettere. Così, la coesistenza dei due mon­ di non pone nessun problema reale ai detenuti. Quell’altro è sem­ plicemente un mondo diverso. Mi occupavo dunque della stufa. Con il carbone sottomano non era un problema, non era una scienza molto complicata. Lavavo pa­ vimenti. Ma soprattutto, mi curavo le dita dei piedi, l’osteomieli­ te del ’38 me la sarei comunque portata, sul «continente», fin qua­ si al X X Congresso. O forse non si rimarginò neppure allora. 1 Si è resa in tal modo l’osservazione che in russo riguarda le parole f i l m nile, desueto) e f i l m (al maschile, in uso).

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Riavvolgendo le bende fatte di stracci puliti, cambiando la me­ dicazione su entrambi i piedi, stillanti pus dalle dita, mi immobi­ lizzavo beato davanti alla stufa ben calda, sentendo il dolore sot­ tile, l’indolenzimento diffuso di quelle dita, ferite dal giacimento, mutilate dall’oro. Proprio la piena beatitudine richiede una stilla di dolore, lo dice l’esperienza sociale, ne parla la letteratura. Ma c’era qualcosa che mi impediva di pensare alla società, o alla let­ teratura, qualcosa che mi sembrava importante. Al punto da farmi dolere la testa; le dita doloranti vennero di­ menticate, la sensazione di prima venne scacciata da un’altra piu intensa, piu vitale e urgente. Ancora non avevo ricordato, deciso, trovato alcunché, ma tut­ to il mio cervello, ogni sua cellula inaridita, era inquieto e teso. La memoria, cosi superflua per un abitante della Kolyma - e, vera­ mente, cosa ne può venire all’ergastolano da una memoria talmente precaria, talmente fragile, e cosi tenace, e cosi onnipotente come la sua ? - questa mia memoria doveva suggerirmi qualcosa. Ah, che memoria avevo un tempo, solo quattro anni prima! Una memoria veloce come uno sparo, se non ricordavo qualcosa all’istante ne fa­ cevo una malattia, non riuscivo piu a combinare niente finché non ricordavo quello che volevo. In tutta la mia vita, di questi con­ trattempi, di questi «ritardi nella consegna» ne avevo avuti ben pochi, un numero contato di casi. E il fatto di essere consapevole del ritardo ha quasi sempre significato ulteriore stimolo e accele­ razione della corsa già veloce della memoria. Ma il cervello di adesso, quello che mi porto a spasso per Arkagala, straziato dalla Kolyma del ’38, straziato dal quadriennale an­ dirivieni tra fronti di cava e ospedali, custodiva un segreto e non voleva obbedirmi nonostante qualsiasi ordine, richiesta, supplica, lagnanza, preghiera. Pregavo il mio cervello, come si prega l’essere supremo, di ri­ spondermi, di aprire una certa paratia, di illuminare la stretta in­ tercapedine nella quale si nascondeva ciò di cui avevo bisogno. E infine il cervello si impietosi, accolse la richiesta, esaudi la preghiera. Di cosa si trattava ? Ripetevo continuamente il nome della responsabile del labora­ torio dove lavoravo: Gaiina Pavlovna Zybalova! Zybalova, Pav­ lovna! Zybalova! Quel cognome non mi era nuovo. Avevo conosciuto qualcuno con quel cognome. Zybalov - non Ivanov, né Petrov, né Smirnov. In una capitale, comunque. E improvvisamente, madido di sudo­

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re per la tensione, ricordai. C ’era stato un uomo con quel cogno­ me, ma non a Mosca, né a Leningrado o a Kiev. Nel 1929, quando scontavo la mia prima condanna lavorando a Berezniki, negli Urali Settentrionali, alla fabbrica di soda del po­ sto avevo conosciuto un economista, un deportato, che dirigeva l’ufficio pianificazione, il quale si chiamava proprio Zybalov, for­ se Pavel Pavloviè. Zybalov era stato membro del Comitato cen­ trale dei menscevichi e veniva mostrato a dito agli altri deportati, da lontano, dalla soglia dell’ufficio di direzione della fabbrica di soda dove lavorava. Presto Berezniki era stata sommersa da un’i­ nondazione di detenuti d’ogni genere - ssyl'nye condannati alla de­ portazione, lagem ìki, condannati ai lavori forzati, e pereselency, colcosiani trasferiti in modo piu o meno coatto - per via dei cla­ morosi processi che erano iniziati, e tutti quei nuovi protagonisti avevano finito per relegare in secondo piano Zybalov. Questi ave­ va smesso di costituire un’attrattiva locale. La stessa fabbrica di soda, l’ex Solvay, entrò a far parte del kom binat chimico di Berezniki, confluendo in quello che era uno dei giganteschi cantieri del primo piano quinquennale - il Bereznikchim stroj - il quale assorbì centinaia di migliaia di operai, in­ gegneri e tecnici, nostrani e stranieri. A Berezniki nei vari inse­ diamenti c’erano sia stranieri, sia semplici deportati, sia specpereselency, formalmente liberi cittadini, in realtà assegnati coat­ tivamente ai cantieri, sia, infine, detenuti rinchiusi in lager e co­ lonie penali. Solo di lagem iki ce n’erano fino a diecimila per ogni turno di lavoro. Le cifre dell’avvicendamento in questo grande complesso hanno dell’incredibile, in un solo mese potevano esse­ re assunti tremila liberi, a contratto o con ingaggio, e potevano scapparne senza liquidazione quattromila. Berezniki aspetta an­ cora qualcuno che racconti la sua storia. Le speranze riposte in Paustovskij non si sono realizzate. Paustovskij andò bensì a scri­ vere sul posto e scrisse Kara-Bugaz, ma evitò accuratamente ogni contatto con il tumulto e il fervore della folla nascondendosi nel­ l’albergo locale, senza mai mettere fuori il naso. L ’economista Zybalov passò dall’impiego nella fabbrica di so­ da al Bereznikchim stroj , dove circolavano pili soldi e i progetti era­ no piu grandiosi, ma dove funzionava anche meglio il sistema del­ le tessere annonarie. Presso il kom binat chimico di Berezniki, Zybalov aveva orga­ nizzato un circolo per lo studio delle scienze economiche, aperto a tutti e gratuito. Svolgeva questa sua attività di pubblico inte­

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resse in un locale presso gli uffici direttivi del Chimstroj. Nell’am­ bito di questo circolo avevo assistito anch’io ad alcune lezioni. Zybalov, già professore in una città importante, sapeva inse­ gnare, e traeva dall’insegnamento un evidente piacere. Sentiva no­ stalgia per il suo lavoro di docente, per il rapporto con gli allievi. Non so se nel corso della sua vita sia arrivato a tenere undicimila lezioni, come un altro mio conoscente del lager, ma che siano sta­ te migliaia anche nel suo caso non ho dubbi. A Berezniki il deportato Zybalov aveva visto morire la moglie; gli era rimasta un figlia, una bambina di circa dieci anni, che di tanto in tanto faceva visita al padre durante le lezioni. A Berezniki io ero piuttosto conosciuto. Mi ero rifiutato di se­ guire Berzin alla Kolyma, agli inizi del Dal'stroj, e avevo cercato una sistemazione a Berezniki. Ma di che tipo? Come giurista? Avevo una formazione giuri­ dica, però incompleta. Fu proprio Zybalov a consigliarmi di ac­ cettare l’incarico di responsabile dell’ufficio di economia del la­ voro (Bet) della Centrale elettrotermica (Tee) di Berezniki. Prati­ camente a dirigere il Bet della Tee - tutte trovate linguistiche che nascevano proprio allora, nei nostri cantieri del primo piano quin­ quennale. Il direttore della Tee era un ingegnere detenuto per sa­ botaggio, Kapeller, il quale era passato per i processi di Sachty, o per altre liste analoghe. La Tee era ormai da mettere in esercizio, ma la fase di avviamento andava scandalosamente per le lunghe, era comunque uno scandalo per così dire elevato a legge. Kapeller - con la sua condanna a dieci o addirittura a quindici anni - non riusciva in alcun modo a digerire il chiassoso e disordinato siste­ ma di lavoro vigente, con operai e tecnici che cambiavano ogni giorno, capi arrestati e fucilati, e l’arrivo di sempre nuovi convo­ gli di deportati della collettivizzazione. Nella sua Kizel, Kapeller era stato condannato per mancanze di gran lunga meno gravi di quelle mostruose pecche della macchina produttiva che qui si ma­ nifestavano e crescevano come un’inarrestabile valanga. Di fian­ co al suo ufficio stavano ancora martellando i carpentieri e già da Mosca convocavano per telegramma esperti stranieri al capezzale della caldaia principale che la ditta Ganomag finiva di montare. Quando mi assunse, Kapeller non manifestò alcun interesse nei miei riguardi: era tutto assorbito dalle questioni tecniche, dalle tragedie tecniche, che non erano da meno di quelle economiche e quotidiane. La locale organizzazione del partito aveva raccomandato come

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rincalzo a Kapeller, in qualità di suo vicedirettore per i rapporti di produzione, Timofej Ivanovič Račev, una persona poco istruita ma energica, il cui principale criterio si riassumeva nel motto «Non lasciar fiatare». L ’ufficio di economia del lavoro era alle sue di­ pendenze e io serbai a lungo un documento con una sua disposi­ zione. I fuochisti avevano presentato un ponderoso e documenta­ to reclamo sui mancati pagamenti di salari e conguagli loro dovu­ ti, riguardo ai quali si erano in precedenza incontrati piu volte con Račev. Senza neppure leggere l’esposto, Račev aveva annotato a margine del primo foglio: «Al resp. del Bet comp. Salamov. Pre­ go verificare e possibilmente rifiutare». Come ho già ricordato avevo intrapreso questo lavoro, con i miei studi giuridici non portati a termine, proprio su consiglio di Zybalov: - Sia piu risoluto. Si impegni e cominci. Se anche la mandas­ sero via dopo due settimane - prima non possono per via del con­ tratto collettivo - in queste due settimane si sarà comunque fatto una certa esperienza. Poi si cercherà un altro impiego. Cinque di questi licenziamenti e sarà un esperto economista. Non abbia ti­ more. Se le capita qualcosa di veramente complicato venga a tro­ varmi. L ’aiuterò. Tanto di qua non mi sposto. Per me non valgo­ no le leggi della mobilità del lavoro. Avevo dunque accettato quell’incarico ben remunerato. Fu proprio allora che Zybalov cominciò a organizzare una scuo­ la tecnica serale a indirizzo economico. Pavel Pavlovič (mi sembra che fosse proprio Pavlovič) vi avrebbe svolto gli insegnamenti fon­ damentali. Stavano approntando un corso anche per me: «igiene e fisiologia del lavoro». Avevo già fatto domanda per la scuola tecnica, e stavo già pen­ sando a come impostare la prima lezione, quando avevo improv­ visamente ricevuto una lettera da Mosca. I miei genitori erano vi­ vi, i miei compagni di università pure e mi sembrò che restare a Berezniki per me fosse lo stesso che morire. Lasciai la Tee, senza liquidazione, e Zybalov restò a Berezniki. Ricordai tutte queste cose ad Arkagala, nel laboratorio chimi­ co dell’omonimo distretto carbonifero, anticamera dei reconditi misteri racchiusi negli acidi umici. Nella vita di ognuno il caso ha un ruolo molto rilevante, e an­ che se l’ordine mondiale generale tende a punire l’utilizzazione del caso a scopi personali, può anche accadere che le cose vadano in un modo diverso. Dovevo andare a fondo di quella faccenda di Zy­ balov. O forse no. A quel tempo non ero piu ridotto a dover cer­

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care un pezzo di pane. La miniera di carbone non era il giacimen­ to, e il carbone non era l’oro. Forse non valeva la pena di tirar su quel castello di carte, il vento l’avrebbe fatto crollare, disperden­ dolo verso i quattro punti cardinali. L ’arresto per il «complotto dei giuristi» di tre anni prima mi aveva infatti insegnato un’importante legge del lager: non rivol­ gere mai delle richieste a persone conosciute quand’eri libero: il mondo è piccolo e incontri del genere non sono infrequenti. Ri­ chieste del genere alla Kolyma sono quasi sempre sgradevoli, tal­ volta impossibili da esaudire, e possono anche comportare esiti fa­ tali per il richiedente. Alla Kolyma - ma anche nel mondo concentrazionario in ge­ nere - è un pericolo reale. A me capitò di ritrovare Cekanov, mio compagno di cella alla prigione di Butyrki. Cekanov non solo mi individuò subito in mezzo alla folla degli altri rabotjagi quando ri­ cevette le consegne in qualità di «caporale» del nostro settore, ma da allora ogni giorno mi faceva uscire dai ranghi prendendomi per mano, mi picchiava e mi destinava ai lavori piu pesanti, dove na­ turalmente non potevo realizzare nessuna percentuale di piano. E Cekanov ogni giorno faceva rapporto al caposettore sul mio com­ portamento, assicurando che avrebbe distrutto il bastardo, che non negava la conoscenza personale, ma che avrebbe dimostrato la pro­ pria dedizione, e corrisposto alla fiducia. A suo tempo Cekanov era stato condannato in base al mio stesso articolo. In definitiva venni sbattuto in una sezione disciplinare ma restai vivo. Conoscevo anche il colonnello Ušakov, capo della polizia giu­ diziaria e in seguito di quella fluviale della Kolyma, lo conoscevo da quando era un semplice agente del Mur, condannato per un qualche reato di servizio. Non cercai mai di ricordare al colonnello Ušakov la mia esi­ stenza. Sarei stato ucciso entro brevissimo tempo. Infine, conoscevo tutti i massimi dirigenti della Kolyma, a co­ minciare da Berzin e, oltre a lui, Vas'kov, Majsuradze, Filippov, Egorov, Cvirko. Al corrente com’ero di certe invalse tradizioni, non uscii mai dalle file dei detenuti per presentare una richiesta a un capo che conoscevo personalmente, o per attirarne in qualche modo l’at­ tenzione. Con il «caso dei giuristi», che si verificò alla fine del 1938 quan­ do ero al giacimento Partizan, scampai per puro accidente a una pallottola in testa: alla Kolyma era l’epoca delle fucilazioni di mas­ sa. Nel «caso dei giuristi» tutta la provocazione aveva di mira il

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presidente del tribunale del Dal'kraj, Vinogradov. Lo accusavano di aver dato del pane e trovato un lavoro al suo collega della fa­ coltà di diritto Dmitrij Sergeevič Parfent'ev, ex procuratore a Celjabinsk ed ex procuratore generale della Cardia. Nel corso di una sua visita al giacimento Partizan, il presiden­ te del Dal'krajsud Vinogradov non aveva ritenuto necessario te­ nere segreto il fatto che conosceva uno dei minatori intenti a pic­ conare il fronte di cava - appunto il professor Parfent'ev - e ave­ va chiesto al capo del giacimento L. M. Anisimov di adibirlo a un lavoro piu leggero. L ’ordine venne prontamente eseguito e Parfent'ev fu trasferi­ to al lavoro di martellatore; un lavoro meno faticoso non si trovò, ma era pur sempre meglio che al vento e al freddo di meno ses­ santa del giacimento a cielo aperto, con il piccone, la pala, la leva da cavatore. È vero che la fucina aveva la porta sempre mezza spa­ lancata, che sbatteva in continuazione, e le finestre aperte, ma c’e­ ra anche il fuoco della forgia, e ci si poteva riparare se non dal fred­ do almeno dal vento. E il trockista Parfent'ev, il nemico del po­ polo Parfent'ev aveva subito un’operazione a un polmone aggredito dalla tubercolosi. Il capo del giacimento Partizan, Leonid Michajlovič Anisimov, era bensì andato incontro al desiderio di Vinogradov, ma aveva anche immediatamente presentato rapporto a tutte le istanze pos­ sibili e immaginabili. E cosi erano state poste le fondamenta del «caso dei giuristi». Il capitano Stolbov, capo dello Spo di Maga­ dan, aveva arrestato tutti i giuristi della Kolyma, e si era messo a controllare i loro legami e contatti, allestendo, stringendo e tiran­ do il laccio della provocazione. Al giacimento Partizan eravamo stati arrestati in due, Par­ fent'ev e io stesso, trasferiti a Magadan e li rinchiusi nel carcere cittadino. Ma nel giro di ventiquattr’ore lo stesso capitano Stolbov era stato arrestato e tutti i detenuti imprigionati in base agli ordini da lui stesso rilasciati. Ho dettagliatamente raccontato l’episodio nella memoria II complotto dei giuristi, ogni parola della quale è documentaria. Mi avevano rilasciato, ma non ero libero di tornare al lager; al­ la Kolyma per libertà non si intende niente di diverso dalla de­ tenzione nel lager, in una baracca insieme a tutti gli altri, con i di­ ritti di tutti gli altri detenuti. Non c’è libertà alla Kolyma. No, ero stato avviato insieme a Parfent'ev a un centro di smi­ stamento - una tranzitka da trentamila detenuti - con una specia-

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le timbratura color lilla sul fascicolo personale: «Proviene dal car­ cere di Magadan». Era un marchio che mi condannava a restare sotto la lanterna della vigilanza per un interminabile numero di anni, mi segnalava all’attenzione dei superiori fino a quando il vec­ chio fascicolo e il suo marchio lilla non fossero stati sostituiti dal­ la copertina intonsa di un nuovo fascicolo personale, di una nuo­ va condanna. E potevo reputarmi fortunato se la condanna non era di quelle inflitte con il «pesino» - i sette grammi di una pal­ lottola. O forse, chissà, sfortunato: la condanna ai «sette grammi di piombo» mi avrebbe almeno liberato da ulteriori, pluriennali tormenti, che non potevano servire a nessuno, neanche a me stes­ so, come arricchimento della mia esperienza spirituale o morale e ulteriore tempra della mia resistenza fisica. In ogni caso, ricordando tutte le peripezie dopo l’arresto per il «caso dei giuristi» al giacimento Partizan, mi ero ripromesso di at­ tenermi fermamente alla seguente norma: non rivolgersi mai di propria iniziativa a persone che si conoscono e non evocare alla Kolyma le ombre del continente. Però il caso della Zybalova per qualche motivo mi era sembra­ to diverso: non correvo cioè il rischio di nuocere alla titolare di quel nome conosciuto. Era una brava persona e se pure faceva del­ le distinzioni tra liberi e detenuti, non assumeva posizioni di atti­ va ostilità nei confronti di questi ultimi: quell’ostilità che incul­ cano in tutti i nuovi assunti in tutti gli uffici politici del Dal'stroj a partire dalla stipulazione del contratto. Il detenuto, quando si trova davanti a un libero, è in grado di percepire da certe sfuma­ ture se il contratto di questi contiene solo le solite condizioni o an­ che qualcosa di diverso. Le sfumature qui sono molte e varie, co­ me le persone stesse. Ma c’è una frontiera, un passaggio, un con­ fine tra il bene e il male, un confine morale che si percepisce immediatamente. Gaiina Pavlovna, come del resto il marito Pëtr Jakovlevič Podosenov, non era di quei fanatici ostili a qualsiasi detenuto unica­ mente perché detenuto, anche se Gaiina Pavlovna era segretario dell’organizzazione komsomoliana del distretto carbonifero di Arkagala. Pëtr Jakovleviè invece era un «senzapartito». La sera Gaiina Pavlovna spesso si tratteneva fino a tardi nel la­ boratorio: la baracca per famiglie nella quale viveva con il marito non doveva essere piu confortevole degli studioli del laboratorio di chimica. Le chiesi se avesse vissuto a Berezniki sugli Urali alla fine de­ gli anni Venti o all’inizio degli anni Trenta.

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- Proprio cosi ! - E suo padre è Pavel Pavlovič Zybalov ? - Pavel Osipovič. - Verissimo. Pavel Osipovič. E lei era una bambina di dieci anni. - Quattordici. - Portava un cappotto rosso bordò. - Una pelliccetta color ciliegia. - D ’accordo, una pelliccetta. Portava la colazione a Pavel Osipovič. - SI. Mamma era morta, sul Curtan. Era presente anche Pëtr Jakovlevič. - Ma guarda un po’, hai sentito, Petja? Varlam Tichonovič ha conosciuto papà. - Ho frequentato le sue lezioni. - E Petja è nato a Berezniki. E proprio del posto. I suoi geni­ tori hanno una casa a Veretja. Podosenov mi elencò tutta una serie di nomi di famiglie di Be­ rezniki, Usol'e, Solikamsk, e a Veretja, sul Curtan, e a Dedjuchin, tipo i Sobjanikov o i Kičin, ma io a causa delle peculiarità della mia biografia non avevo avuto l’occasione di conoscere e fre­ quentare molti abitanti di quei luoghi, e neanche me ne sarei po­ tuto ricordare. Tutti questi nomi avevano anzi per me un suono strano come «Quiché e Comanche», come versi in una lingua sconosciuta, ma Pëtr Jakovlevič, sempre più ispirato, li recitava come una giacula­ toria. - Ormai è tutto sepolto sotto la sabbia, - disse Podosenov a modo di conclusione. - Il kom binat chimico. - E papà adesso è nel Donbass, - soggiunse Gaiina Pavlovna, e dal tono capii che si trattava di un altro soggiorno coatto. Dopo di che non ritornammo piu sull’argomento. Provavo un’autentica intima soddisfazione - una vera festa - per il fatto che il mio povero cervello avesse funzionato tanto bene. Una sod­ disfazione squisitamente accademica. Passarono circa due mesi e un giorno Gaiina Pavlovna, non ap­ pena arrivata, mi convocò nel suo studio. - Ho ricevuto una lettera da papà. Eccola. Scorsi le righe tracciate con una scrittura chiara, a grandi ca­ ratteri, a me affatto sconosciuta. «Non conosco Salamov e non mi ricordo di lui. Del resto in tut­ ti questi vent’anni di ssylka, dovunque mi trovassi, ho sempre or-

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ganizzato circoli di studio. Anche adesso. Ma non è questo il pun­ to. Che razza di lettera mvi hai scritto? Cosa sarebbe, un control­ lo ? E chi riguarderebbe ? Salamov ? Te stessa ? Me ? Per quanto mi riguarda, - scriveva con la sua grafia a grandi caratteri nitidi Pa­ vel Osipovič Zybalov, - la mia risposta è la seguente. Nei riguar­ di di Salamov comportati come ti comporteresti nei miei riguardi se mi incontrassi alla Kolyma. Ma per sapere come la pensavo, c’e­ ra forse bisogno di scrivere lettere?» - Ecco, ha visto cosa ne è venuto fuori... - disse amareggiata Gaiina Pavlovna. - Lei papà non lo conosce. Non mi perdonerà mai questo sproposito. - Ma non le avevo detto niente di particolare. - E neanch’io gli ho scritto niente di particolare. Ma vede co­ me la pensa su queste cose. Ormai lei non può più lavorare qui co­ me piantone, - rifletteva malinconicamente tra sé Gaiina Pavlov­ na. - Dobbiamo rimetterci alla ricerca. Quanto a lei la farò assu­ mere come tecnico, abbiamo un posto non coperto negli organici dei salariati. Il direttore del distretto carbonifero Sviščev sta per andare via, e verrà sostituito dall’ingegnere capo Jurij Ivanovič Kočura. La farò assumere da lui. Non ci furono licenziamenti dal laboratorio sicché con il mio arrivo non dovetti «fare le scarpe» a nessuno e - sotto la direzio­ ne e con l’aiuto degli ingegneri Sokolov e Oleg Borisovič Maksi­ mov, quest’ultimo tuttora vivo e vegeto e membro dell’Accademia delle scienze dell’Estremo Oriente sovietico, - intrapresi la car­ riera di analista e tecnico. Su richiesta del marito di Gaiina Pavlovna, Pëtr Jakovlevič Podosenov, scrissi un grosso lavoro lessicografico - attingendo alla memoria compilai un vocabolario dei termini usati dalla malavita, origini, accezioni, significato. Conteneva circa seicento parole e non aveva niente a che vedere con certi manuali specializzati che la polizia giudiziaria pubblica ad uso dei collaboratori; articolato su di un piano diverso e piu ampio, recepiva anche le forme piu esplicite e crude. Questo vocabolario regalato a Podosenov fu l’u­ nico mio lavoro in prosa scritto alla Kolyma. Neanche la separazione di Gaiina Pavlovna dal marito riuscì a turbare la mia felicità senza nubi, la storia d’amore cinematogra­ fica restava cinematografica. Di questa storia io ero un semplice spettatore, e per lo spettatore la vita, la tragedia, il dramma vis­ suti sullo schermo - anche se ripresi in primissimo piano - non di­ ventano mai parte, sia pure illusoria, della sua vita. Comunque, la causa della disgregazione di quella famiglia non

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era stata la Kolyma - paese dove ogni aspetto critico della que­ stione femminile, e familiare, risulta straordinariamente esaspe­ rato, fino ad assumere connotati mostruosi, fino allo smarrimen­ to d’ogni e qualsiasi senso della realtà e delle proporzioni. Galina Pavlovna era, oltre che una donna intelligente, una ve­ ra bellezza, dai tratti leggermente mongolici; ingegnere chimico, incarnava al femminile la professione allora piu nuova e alla mo­ da, ed era figlia unica di un deportato politico russo. Pëtr Jakovlevič, un permjako2, era piuttosto timido e non reg­ geva il confronto con la moglie quanto ad orizzonti culturali, in­ teressi, esigenze. Saltava subito agli occhi che i coniugi non erano una coppia ben assortita e anche se per la felicità familiare non ci sono leggi definite sembrava che nel caso specifico la famiglia fos­ se destinata a disgregarsi, come del resto tutte le famiglie. La Kolyma non fece altro che catalizzare e accelerare il pro­ cesso di disgregazione. Gaiina Pavlovna aveva una storia con l’ingegnere capo del di­ stretto carbonifero, Jurij Ivanovič Kočura, o meglio non una sto­ ria ma un secondo amore. E Kočura aveva figli e famiglia. Anch’io gli venni presentato, prima della mia consacrazione a tecnico. - La persona che le dicevo, Jurij Ivanovič. - Bene, - disse Jurij Ivanovič, senza guardarmi né guardare G a­ iina Ivanovna, ma tenendo gli occhi fissi sul pavimento davanti a sé. - Faccia avviare la pratica di assunzione. Ma in questo drafnma tutto doveva ancora succedere. La mo­ glie di Kočura presentò una denuncia alla direzione politica del Dal'stroj, iniziarono i viaggi di una commissione, l’ascolto di te­ stimoni, la raccolta di firme. L ’autorità statale si levò con tutto il suo apparato in difesa del primo nucleo familiare con il quale il Dal'stroj aveva stipulato un contratto di lavoro. Le piu alte autorità di Magadan, seguendo il consiglio di Mo­ sca - e cioè che una separazione avrebbe immancabilmente ucci­ so l’amore - rimossero Gaiina Pavlovna trasferendola ad altro in­ carico. Naturalmente provvedimenti del genere sono del tutto ineffi­ caci e neanche questo caso poteva fare eccezione. Tuttavia la se­ parazione degli amanti è l’unica via approvata dallo Stato per rad­ drizzare simili situazioni. Altri sistemi, a parte quello indicato in Giulietta e Romeo, non esistono. È una tradizione della società pri2 Komi-Permjaki: popolazione autoctona stanziata un tempo in una grande regione tra i bacini dei fiumi Kama e Vycegda.

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mitiva e la civiltà non ha sostanzialmente portato alcun contribu­ to innovativo a questo problema. Dopo quella risposta di suo padre, tra me e Gaiina Ivanovna s’erano instaurati rapporti di maggiore fiducia. - Guardi, Varlam Tichonovič, c’è quel Postnikov, quello delle mani. Quel Postnikov, quello delle mani, non volevo davvero per­ dermelo ! Qualche mese prima, quando ancora sfacchinavo a Kadykcan e il trasferimento ad Arkagala - fosse stato anche in una miniera, non certo al laboratorio - mi sembrava un miracolo irrealizzabile, alla nostra baracca si era presentato di notte un fuggiasco. La ba­ racca era in realtà una tenda di tela, isolata - dai sessanta gradi sotto zero dell’esterno - con uno strato di cartone catramato in un’intercapedine di venti centimetri: la camera d ’aria prescritta dalle direttive congiunte di Mosca e Magadan. Sicché, il fuggia­ sco era comparso sulla soglia. Il percorso più breve, via terra, fino al continente, lungo la di­ rettrice Jakutija, Aldan, Kolyma e Indigirka, passava per l’Arkagala, la sua tajga, i fiumi, le alture e i declivi. Questa via di migrazione, misteriosa mappa degli itinerari, i fuggiaschi se la portano dentro: è un istinto segreto a guidarli nel­ la giusta direzione. E lo fanno a colpo sicuro, come per le migra­ zioni delle oche selvatiche o delle gru. La Cukotka non è comun­ que un’isola ma una penisola, la Grande Terra si chiama conti­ nente per le mille analogie esistenti: il lungo tragitto per nave, partenze e arrivi in porti di mare, costeggiando l’isola di Sachalin, i luoghi della galera zarista. Tutte cose che sanno anche i capi. Per questo, in estate, pro­ prio attorno all’Arkagala erano particolarmente numerosi i posti di blocco, i reparti volanti, gli operativniki in abiti civili e in divi­ sa. Qualche mese prima il sottotenente Postnikov aveva fermato il fuggiasco e, non avendo nessuna voglia di portarselo dietro fino a Kadykcan - che distava dieci o quindici chilometri - gli aveva sparato sul posto. Dopo tante impegnative ricerche del detenuto che aveva cre­ duto di prendere il volo per il vasto mondo bisognava presentare qualcosa all’ufficio dov’era immatricolato. Qualcosa che lo iden­ tificasse con certezza. Un tale documento di identità esisteva, e molto preciso: l’impronta dattiloscopica delle dieci dita, un’im­ pronta conservata nel fascicolo personale di ciascun condannato:

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a Mosca, nel casellario centrale, e a Magadan presso la direzione locale. Per togliersi l’incomodo di recapitare il fuggiasco al punto di partenza, il giovane sottotenente gli mozzò a colpi di scure ambe­ due le mani, le ripose in una borsa e rientrò con il rapporto sulla cattura del detenuto. Ma il fuggiasco si rialzò e si presentò di notte alla nostra ten­ da: pallido e mezzo dissanguato, non riusciva a parlare, protende­ va solo le braccia senza mani. Il nostro caposquadra corse a chia­ mare i soldati della scorta, che lo prelevarono e si avviarono in­ sieme a lui nella tajga. Se l’abbiano riportato vivo a Kadykcan o l’abbiano semplicemente finito in mezzo ai cespugli, non saprei: la seconda ipotesi era la soluzione piu semplice sia per il fuggiasco stesso, sia per i soldati, sia per il sottotenente Postnikov. Non ci furono sanzioni disciplinari di sorta, e del resto nessu­ no neanche se le aspettava. Ma di Postnikov, perfino in quel mon­ do di fame e lavoro forzato nel quale vivevo allora, si parlò mol­ to, il fatto era troppo fresco. Per questo io, afferrato un pezzo di carbone per poter avanza­ re il pretesto delle mie incombenze di addetto alla stufa, entrai nel­ l’ufficio della direzione. Postnikov era un biondino dai capelli chiarissimi, non comun­ que albino, ma piuttosto quel tipo nordico con gli occhi azzurri del litorale: statura leggermente sopra la media. Assolutamente ordi­ nario. Ricordo di averlo osservato intensamente, avido di cogliere sul suo viso impaurito3 almeno un minimo indizio che rimandasse a un tipo lavateriano o lombrosiano... Una sera che eravamo seduti accanto alla stufa, Gaiina Pav­ lovna mi disse: - Vorrei consigliarmi con lei. - A proposito di che cosa ? - Della mia vita. - Io, Gaiina Pavlovna, da quando sono diventatoadulto, mi at­ tengo a un importante precetto: «Non insegnare al prossimo tuo». Alla maniera del Vangelo. Ogni destino è irripetibile. Ogni ricet­ ta falsa. - E io pensavo che gli scrittori... 3 In una variante soppressa, FA. spiegava che Postnikov aveva appena ricevuto una strigliata dalla responsabile del komsomol locale per la sua scarsa assiduità alle lezioni di «istruzione politica».

GALINA PAVLOVNA ZYBALOVA

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- La disgrazia della letteratura russa, Gaiina Pavlovna, è che si impiccia dei fatti altrui, orienta gli altrui destini, dice la sua su pro­ blemi di cui non capisce niente, senza alcun diritto di immischiarsi in questioni morali, di giudicare, senza sapere né voler sapere al­ cunché. - Bene. Allora le racconterò una favola e lei mi dica cosa ne pensa da un punto di vista letterario. Mi assumo io ogni respon­ sabilità per il carattere convenzionale - o realistico, il che mi sem­ bra lo stesso - della narrazione. - Eccellente. Proviamo con la favola. Gaiina Pavlovna tracciò rapidamente un banalissimo schema di triangolo, e io le consigliai di non lasciare il marito. Per mille ragioni. Anzitutto, l’abitudine, la familiarità: una con­ suetudine con il marito che per quanto modesta era l’unica che avesse, mentre dall’altra parte era ancora tutto da vedere, una sca­ tola a sorpresa. Certo, poteva poi lasciare anche quell’altro. Seconda ragione: Pëtr Jakovlevič Podosenov era chiaramente una brava persona. Ero stato nei luoghi dov’era nato, per lui ave­ vo scritto con sincera simpatia il lavoro sui blatari, invece Kočura non lo conoscevo per niente. Infine, terzo punto, ma altrettanto importante, non mi piac­ ciono i cambiamenti, di nessun tipo. Mi piace tornarmene a dor­ mire a casa, nella casa dove vivo, non amo le novità, neppure nel­ la mobilia, faccio fatica ad abituarmi ai mobili nuovi. Nella mia vita, tutti i cambiamenti radicali sono sempre avve­ nuti mio malgrado, indipendentemente dalla mia volontà, evi­ dentemente per la volontà malvagia d ’altri, visto che io non li ho mai cercati, non ho mai lasciato il bene per il meglio. L ’ultimo motivo era tale da alleviare un poco il peccato morta­ le del consigliere. Nelle faccende di cuore, del proprio cuore, s’ac­ cettano solo consigli che non contraddicano l’intimo convinci­ mento: ogni altra cosa viene respinta o resa vana con travisamen­ ti vari. Come ogni oracolo, correvo ben pochi rischi. E neanche il mio buon nome ne correva. Avvertii Gaiina Pavlovna che il mio consiglio era puramente letterario e non celava alcun obbligo d ’ordine morale. Ma prima che Gaiina Pavlovna prendesse una decisione, in­ tervennero forze superiori, in linea con una tradizione di fatti na­ turali che all’Arkagala arrivano tempestivamente a soccorrere cer­ te situazioni critiche. Il marito di Gaiina Pavlovna, Pëtr Jakovlevič Podosenov, ven-

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ne ucciso. Una composizione di sapore eschiliano. Con un sogget­ to ben collaudato. Podosenov venne falciato nell’oscurità inver­ nale da un automezzo di passaggio e mori in ospedale. Nella Koly­ ma incidenti automobilistici del genere sono frequenti e nessuno avanzò l’ipotesi di un suicidio. Del resto non era tipo da potervi ricorrere. Era piuttosto un fatalista: se non era destino, dunque non era destino. E invece era proprio destino, eccome se lo era. Proprio Podosenov non avrebbe dovuto fare una fine del genere. Forse che si ammazza uno perché ha buon carattere ? Se nella Koly­ ma il bene è peccato, non è detto che il male non lo sia. Questa morte non risolse alcunché, non sciolse, o recise, nessun nodo, e tutto restò come prima. Apparve solo evidente che certe forze su­ periori si erano interessate a quella piccola insignificante tragedia kolymiana, al destino di una donna. Al posto di Gaiina Pavlovna arrivò un nuovo chimico, un nuo­ vo capolaboratorio. Come primo provvedimento mi rimosse dal­ l’incarico, cosa che mi aspettavo, e senza dirmene i motivi. In ca­ si del genere i dirigenti della Kolyma, quando si tratta di detenu­ ti - ma questo valeva, come si è visto, anche per i liberi - non si ritengono in dovere di spiegare niente, e io neanche lo pretende­ vo. Sarebbe stata una cosa troppo letteraria, troppo nel gusto dei classici russi. Andò tutto in modo piu semplice: il ripartitore del lager, all’adunata mattutina per lo smistamento ai vari lavori gridò il mio cognome leggendo l’elenco dei detenuti destinati alla mi­ niera, io presi posto nei loro ranghi, mi aggiustai le manopole, la scorta ci contò, diede l’ordine e io mi avviai per la strada che già conoscevo bene. Non rividi mai pili Gaiina Pavlovna. I9 7 °'7 I - G a lin a

P av lo v n a Z y b a lo v a ,

in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

Lèsa Čekanov, ovvero «compagni dì pena» alla Kolyma

Lèsa Čekanov, un tecnico edile originario di una famiglia che da generazioni coltivava cereali, era stato mio compagno di tavo­ laccio nella cella n. 69 della prigione di Butyrki tra la primavera e l’estate del 1937. Come avevo fatto per molti altri, avevo provveduto io, in qua­ lità di anziano della cella, a prestargli «i primi soccorsi»: gli ave­ vo cioè praticato la prima iniezione di quell’elisir di forza d’ani­ mo, speranza, sangue freddo, collera e amor proprio - un com­ plesso preparato medicinale - che è indispensabile a chiunque venga a trovarsi in prigione, e questo vale in ispecie per i novelli­ ni. E quello che i malavitosi - cui non si può negare secolare espe­ rienza - esprimono nei tre noti precetti: non credere, non temere e non chiedere. Con lo spirito cosi rinvigorito, in luglio Lèsa Cekanov parti al­ la volta dei lontani lidi della Kolyma. Eravamo stati condannati nel­ lo stesso giorno, l’articolo del codice era lo stesso e il periodo di pe­ na pure. Anche il vagone sul quale viaggiavamo era il medesimo. Avevamo sottovalutato la perfidia delle autorità: da paradiso terrestre quale ce l’eravamo immaginata, la Kolyma doveva rive­ larsi al nostro arrivo un vero inferno in terra. Ci avevano portati laggiù a morire: dal dicembre 1937 fummo lasciati in balia delle fucilazioni di Garanin, dei pestaggi, della fa­ me. Notte e giorno veniva data lettura di nuove liste di condan­ nati. Tutti coloro che non erano morti alla Serpantinnaja - il carce­ re istruttorio della direzione mineraria, dove nel 1938 avevano fu­ cilato decine di migliaia di persone con l’accompagnamento del rombo dei trattori - venivano fucilati in base alle liste, lette quo­ tidianamente con accompagnamento orchestrale, fanfara che ri­ suonava due volte al df agli appelli, sia per il turno di giorno che per quello di notte. Rimasto casualmente in vita dopo questi sanguinosi eventi,

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neanch’io potei sottrarmi alla sorte cui ero stato destinato già a Mosca: una nuova condanna a dieci anni, nel 1943. Decine di volte avevo toccato il fondo, peregrinando dal giaci­ mento all’ospedale e viceversa, e nel dicembre del 1943 mi ritro­ vai assegnato a una minuscola squadra che, in trasferta di lavoro, stava predisponendo le prime strutture di un nuovo giacimento, lo Spokojnyj. I desjatniki - «caporali» o «controllori», come venivano chia­ mati da quelle parti - erano per me dei personaggi troppo altolo­ cati, con una missione speciale e un destino speciale, i cui itinera­ ri non potevano incrociarsi con i miei. II nostro caporale era stato trasferito altrove. Ogni detenuto ha un destino intrecciato alle sorti delle battaglie di certe forze supe­ riori. L ’uomo-detenuto o il detenuto-uomo, senza neppure saper­ lo, diventa un’arma in una battaglia che gli è estranea e perisce, sapendo per che cosa ma non perché. Oppure sapendo perché ma non per che cosa. Proprio in base alle leggi di questo misterioso destino il nostro caporale era stato rimosso e destinato altrove. Non so, né mi com­ peteva saperlo, come si chiamasse, e quale fosse la sua nuova de­ stinazione. La nostra squadra, dieci «morituri» in tutto, venne affidata al­ le cure di un nuovo caporale. La Kolyma, ma non solo la Kolyma, si caratterizza per il fatto che lf sono tutti capi, tutti quanti. Perfino in una ridottissima squa­ dra di due persone ci sono il senior e lo junior; nonostante tutta l’u­ niversalità del sistema binario le persone non vengono divise in par­ ti uguali, e neanche se sono due costituiscono due parti uguali. Ogni cinque persone viene designato un caposquadra permanente, tenu­ to comunque a lavorare come gli altri rabotjagi della squadra. Ma per una squadra di cinquanta persone c’è sempre un caposquadra esentato dal lavorare, cioè un caposquadra «con il bastone». Si vive tutti senza speranza, ma la ruota del destino ha i suoi imperscrutabili percorsi. Il ruolo principale del caposquadra nella produzione, tanto piu di una produzione che è al servizio dei lager di sterminio, è quel­ lo di strumento della politica statale, di mezzo per l’eliminazione fisica dei nemici politici dello Stato. Qui il caposquadra non può difendere nessuno, è a sua volta un condannato, ma cercherà fino all’ultimo di sfruttare ogni appiglio per salire, s’aggrapperà ad ogni pagliuzza che gli tenderanno i ca­ pi, e in nome di questa illusoria salvezza sarà disposto a far mori­ re chiunque.

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Per i dirigenti la selezione dei capisquadra è una questione prio­ ritaria. Il caposquadra è colui che sostenta - nutre e disseta - la squa­ dra, ma soltanto nei limiti che gli vengono assegnati dall’alto. Lui stesso è soggetto a un severo controllo, ai giacimenti c’è poco da fare: prima o poi arriva quella misurazione del topografo minera­ rio che smaschera i metri cubi gonfiati, falsi, e il caposquadra è bell’e fritto. Perciò il caposquadra segue una via piu collaudata e sicura: ca­ vare tutti i «bei metri cubi» che ci vogliono dai «morituri» che sgob­ bano per lui, tirarglieli fuori letteralmente, in senso fisico: a colpi di manico di piccone sulla schiena; quando non c’è più sangue da spremere il caposquadra parrebbe destinato a sua volta a diventare un rabotjaga, a condividere la sorte di coloro che ha ucciso. Ma le cose vanno in altro modo. Il brigadir viene trasferito a un’altra squadra, perché la sua esperienza non abbia a perdersi. E così raddrizza le ossa anche alla nuova squadra. Lui si mantiene in vita, e il resto della squadra finisce sottoterra, tranne, di diritto, il suo vice, il «piantone», cioè il braccio destro dell’omicida, che protegge dai malintenzionati il sonno del principale. Durante la guerra, un mortale corpo a corpo, allo Spokojnyj si arrivò a far saltare in aria con una carica di ammonale l’angolo del­ la baracca dove dormiva un caposquadra. Era l’unico sistema si­ curo. Morirono il caposquadra e il piantone, nonché alcuni fidati amici, di quelli che dormono accanto al caposquadra perché la ma­ no armata di coltello del vendicatore non arrivi al bersaglio. I delitti dei capisquadra alla Kolyma sono innumerevoli: infat­ ti essi sono gli esecutori materiali delle superiori direttive politi­ che di Mosca negli anni staliniani. Ma neanche il caposquadra agisce in modo incontrollato. La sua esistenza quotidiana, nelle ore in cui i detenuti vengono tolti dal lavoro e si abbandonano al sonno, viene controllata dai sorve­ glianti dell’Olp. Anche il capo della singola unità concentrazionaria e il delega­ to degli organi li tengono d ’occhio. Alla Kolyma tutti si controllano a vicenda e riferiscono quoti­ dianamente a chi di dovere. I àeì&ton-stukaa di solito hanno pochi dubbi: il loro compito è riferire ogni cosa, quello dei capi distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Verità e menzogna sono categorie assai poco con­ facenti agli informatori. Tutto questo riguarda comunque la sorveglianza dall’interno della zona, da dentro l’anima prigioniera. A soprintendere invece

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all’attività lavorativa del caposquadra è - in modo del tutto uffi­ ciale e scrupoloso - il suo superiore nella linea produttiva: il desjatnik, da queste parti chiamato anche smotritel', reminiscenza dell’ispettore-controllore dei bagni penali zaristi. Il desjatnik-ca­ porale viene controllato dal caporale anziano, sul caporale «anzia­ no» vigila il capocantiere, sul capocantiere il caposettore, sul ca­ posettore l’ingegnere capo e il direttore del giacimento. Non in­ tendo sviluppare oltre, verso l’alto, questa gerarchia: essa è cosi straordinariamente ramificata e varia da sbrigliare qualsiasi fan­ tasia e ispirazione: dei poeti o dei non meno ispirati dogmatici. L ’importante è sottolineare che nella vita del lager il punto di contatto tra cielo e terra è precisamente costituito dal caporale. Proprio tra i capisquadra migliori, che hanno dato prova della propria solerzia omicida, vengono assoldati gli addetti al control­ lo della produzione, i caporali: un rango già piu elevato di quello dei capisquadra. Il caporale si è ormai lasciato alle spalle il cam­ mino sporco di sangue dei capisquadra. Il potere del caporale sui rabotjagi è illimitato. Alla luce incerta dell’artigianale lampada a benzina - un ba­ rattolo da conserva con quattro tubicini e relativi stoppini di strac­ cio ritorto - unica luce, oltre a quella della stufa e del sole, per il popolo kolymiano di «sgobboni» e «morituri» - mi parve di rico­ noscere qualcosa di familiare nella figura del nuovo caporale, il nuovo padrone delle nostra vita e della nostra morte. Una lieta speranza mi riscaldò i muscoli. Nella fisionomia del nuovo venuto c’era qualcosa di familiare. Qualcosa di molto re­ moto, ma reale, eternamente vivo, come la memoria dell’uomo. Quando il cervello è estenuato e prosciugato dalla fame risulta molto faticoso scavare nella memoria: lo sforzo di ricordare è ac­ compagnato da un acuto dolore, un particolare dolore puramente fisico. Da lungo tempo gli angolini della memoria erano stati ripuliti da ogni inutile ciarpame, la poesia ad esempio. E adesso un pen­ siero piu importante, piu eterno dell’arte cresceva, si tendeva, mi ronzava dentro, ma non riusciva in alcun modo a divincolarsi e trovare la via nel mio vocabolario di allora, in qualcuno dei rari settori funzionanti di cui ancora poteva disporre Ü mio povero cer­ vello di dochodjaga. Delle dita di ferro spremevano la memoria co­ me un tubetto di colla avariata, schiacciando, spingendo verso l’al­ to quell’unica goccia, quella piccola goccia non ancora del tutto priva di parvenza umana. Questo processo con cui richiamavo il passato alla memoria e a

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cui prendeva parte tutto quanto il mio corpo - con una sensazio­ ne di sudore freddo sulla pelle disseccata, ma senza vero sudore nello sforzo di accelerarlo, si concluse con una vittoria... Dal cer­ vello emerse un nome: Cekanov! SI, era lui, Lëàa Cekanov, il mio compagno alla prigione Butyrki, quello cui avevo insegnato a non aver paura dell’inquiren­ te. Nella mia baracca affamata e gelida era apparsa la salvezza: era­ no trascorsi otto anni da allora, otto secoli, era iniziato da tempo il secolo XII con gli Sciti che sellavano i cavalli sulle prode roccio­ se della Kolyma, e seppellivano i re nei tumuli-mausolei, e milio­ ni di instancabili lavoratori si allineavano stretti nelle fosse comuni della Kolyma. Si, era lui, Lésa Cekanov, compagno di viaggio della mia gio­ vinezza senza ombra, delle radiose illusioni della prima metà del­ l’anno ’37, ancora ignare del destino loro assegnato. La salvezza apparve nella mia baracca affamata e gelida nelle vesti di Lésa Cekanov, di professione tecnico edile, e nostro nuo­ vo caporale. Era davvero splendido! Un caso davvero prodigioso, che vale­ va la pena di aver aspettato per otto anni ! Doplyvanie, toccare il fondo, l’ultima meta, come un relitto. Avanzo qui un diritto di priorità nell’uso di questo neologismo, perlomeno nell’accezione specifica che ho detto. Il dochodjaga, co­ lui che ha toccato il fondo, non lo fa in un giorno solo. E un accu­ mularsi di perdite, prima fisiche, poi morali, dei residui nervi e va­ si sanguigni, un restringersi dei tessuti che non riescono più a te­ nere insieme i sensi e sentimenti di prima. Al loro posto ne arrivano di nuovi: sensi-surrogato, speranzasurrogato. Nel processo di doplyvanie c’è un determinato limite, oltre il quale si perdono gli ultimi punti di appoggio, un confine oltre il quale tutto si situa al di là del bene e del male e il processo stesso di doplyvanie si fa piu veloce assumendo i caratteri di una valan­ ga. Una reazione a catena, per dirla in termini contemporanei. Allora non sapevamo della bomba atomica, di Hiroshima e di Fermi. Ma del carattere inarrestabile e irreversibile del processo di doplyvanie sapevamo tutto. Per descrivere questa particolare reazione a catena la lingua dei malavitosi con un’intuizione geniale ha adottato l’espressione, pre­ sente nei vocabolari, letet'pod otkos, «deragliare», un termine as­ solutamente esatto, senza bisogno della statistica di Fermi. Tant’è che ha potuto essere registrata in rari studi statistici e

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per converso in numerosi libri di memorie la formula, precisa e storicamente documentata: « L ’uomo può diventare un relitto in due settimane». E la norma anche per un tipo forzuto, se lo si tie­ ne al freddo kolymiano di meno cinquanta - meno sessanta gradi per quattordici ore al giorno a fare lavori pesanti, con in piu le per­ cosse, la sola razione del lager e il sonno scarso e difficoltoso. Per giunta con le difficoltà di acclimatizzazione che vi sono nel­ l’Estremo Nord, una faccenda seria per tutti. E questo il motivo per cui i figli di Medvedev non riescono a capacitarsi della morte così rapida del padre, un uomo sano, sulla quarantina, che dopo la prima lettera da Magadan, dal piroscafo, ne mandò una seconda dall’ospedale di Sejmčan, e questa missiva ospedaliera restò anche l’ultima. È per questo che il generale Gor­ batov, finito al giacimento Mal'djak si ridusse completamente in­ valido in due settimane e solo una casuale spedizione di pesca lun­ go l’Ola gli permise di ristabilirsi e aver salva la vita. È per questo che Orlov, il consigliere di Kirov, al tempo della sua fucilazione al Partizan, nell’inverno del 1938, era ormai un dochodjaga, che non ce l’avrebbe comunque piu fatta a restare al mondo. Due settimane è proprio il periodo sufficiente a trasformare un uomo sano in un «morituro». Sapevo tutto questo, capivo che con quel lavoro non c’era nes­ suna speranza di salvarsi, e peregrinavo dall’ospedale al giacimen­ to e viceversa, e questo da otto anni. Ma finalmente era arrivata la salvezza. Nel momento di maggior bisogno, la mano della Prov­ videnza condusse Lèsa Cekanov alla nostra baracca. Dormii tranquillamente di un sonno profondo e lieto, pervaso della vaga sensazione di un evento pieno di gioia che era lì lì per verificarsi. Il giorno dopo, all’adunata - la quotidiana breve procedura di avviamento delle squadre ai vari lavori, che alla Kolyma ha luogo, sia per i caporali che per milioni di altre persone, a quella data ora del giorno al suono di un pezzo di rotaia percosso con il martello, come il grido del muezzin o il suono della campana dal campanile di Ivan il Grande - e Terribile e Grande sono nella lingua russa sinonimi -, all’adunata, dunque, ebbi conferma della miracolosa fondatezza delle mie speranze in un miracolo. Il nuovo caporale era davvero Lèi a Cekanov. Ma in una situazione del genere non basta che il tale riconosca il talaltro, occorre che anche quest’ultimo faccia lo stesso, il rico­ noscimento dev’essere reciproco e bilaterale. Dalla faccia di Lèsa Cekanov si vedeva chiaramente che mi ave­

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va riconosciuto anche lui e che naturalmente mi avrebbe aiutato. LëSa Cekanov mi sorrise con cordialità. Chiese subito al caposquadra come mi comportassi sul lavoro. L ’attestato di servizio non fu lusinghiero. - E cosi, puttana che non sei altro, - disse a voce alta Lèsa Cekanov, guardandomi diritto negli occhi, - pensi davvero che se veniamo dalla stessa prigione puoi anche fare a meno di lavorare ? Io gli scansafatiche non li aiuto. Ti toccherà meritartelo. Lavo­ rando onestamente. Da allora cominciarono a incalzarmi con maggior impegno di prima. Di li a qualche giorno Lësa Cekanov annunciò all’adunata del mattino: - Non voglio picchiarti per il tuo lavoro, ti mando semplicemente in un altro settore, nella zona. È il posto giusto per le caro­ gne come te. Andrai nella squadra di Polupan. Ti insegnerà lui a stare al mondo! Hai capito, mi conosce! Da prima. Un amico! Sie­ te stati proprio voi, figli di cagna, a rovinarci. Sono otto anni che peno quaggiù e tutto per colpa di questi schifosi imbrattacarte! La sera stessa il caposquadra mi accompagnò al nuovo settore portando l’involto dei miei documenti. Nel settore centrale della direzione del giacimento Spokojnyj venni alloggiato nella baracca dove viveva la squadra di Polupan. Il caposquadra lo conobbi invece la mattina successiva, all’a­ dunata. Sergej Polupan era un giovanotto di circa venticinque anni, con un viso aperto e un ciuffo biondo da malavitoso. Ma Sergej Polu­ pan non era un malavitoso. Era un vero ragazzo di campagna e ne aveva l’aspetto. Polupan era finito sotto la ramazza di ferro del­ l’anno ’37, si era preso una condanna in base all’articolo 58 e ave­ va chiesto ai capi, in espiazione della propria colpa, di potersi de­ dicare a raddrizzare le gambe ai nemici del popolo. La proposta era stata accolta e la squadra di Polupan era di­ ventata una specie di battaglione di disciplina dall’organico flut­ tuante e in continuo avvicendamento. Un reparto disciplinare den­ tro un reparto disciplinare, una prigione dentro la prigione di un giacimento già di per sé punitivo, che ancora non esisteva. Per que­ sto eravamo lì, per allestire la zona e l’abitato del nuovo lagpunkt. La baracca era fatta di tronchi freschi di larice, di umidi tron­ chi di un albero il quale, proprio come gli uomini, nell’Estremo Nord deve battersi per la propria vita e quindi è spigoloso e noc­ chiuto e con il fusto ritorto. In questa e altre consimili baracche non c’erano stufe. Non ci sarebbe stata comunque legna bastante

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a prosciugare quei corpi di trecent’anni cresciuti nel padule. A ren­ dere piu asciutta la baracca provvedevano gli abitanti stessi, i co­ struttori, con i propri corpi. E proprio qui iniziò una delle mie tante settimane di passione. Ogni giorno Sergej Polupan mi picchiava davanti a tutta la squa­ dra: a pedate, con i pugni, con un ciocco, con il manico di un pic­ cone, usando il badile. Era in odio al mio saper leggere e scrivere. I pestaggi si ripetevano quotidianamanente. Il caposquadra Po­ lupan portava un giaccone di vitello, un roseo giaccone di pelle di vitello - la regalia di qualcuno per scampare ai pugni, per impe­ trare requie anche per un solo giorno. Ne avevo viste di situazioni del genere. Per quanto mi riguar­ dava, non avevo nessun giaccone, ma anche se l’avessi avuto non l’avrei dato a Polupan: solo i malavitosi ce l’avrebbero fatta a to­ gliermelo dalle mani, a sfilarmelo dalle spalle. Accalorandosi, Polupan si toglieva il giaccone e restava con il solo giubbotto, lavorando ancor piu liberamente di picchio e pic­ cozza. In questo modo ne ebbi rotti alcuni denti e incrinata una costola. E questo sotto gli occhi di tutta la squadra. Nella squadra di Polupan c’erano più o meno venti uomini. La composizione era fluttuante, gli avvicendamenti frequenti, una squadra-scuola. Le bastonature mattutine continuarono per tutto il tempo che restai al giacimento, che si chiamava Spokojnyj, come dire «La Quiete»... In base a un rapporto del caposquadra Polupan, confermato dai responsabili del giacimento e dell’Olp, che mi caratterizzava co­ me un nocivo filon, venni trasferito alla Direzione centrale del Nord, nel centro abitato di Jagodnyj, per l’avvio della causa pe­ nale e una nuova condanna. Me ne stavo nel carcere di isolamento di Jagodnyj, l’istruttoria procedeva, la causa si metteva in moto, si succedevano gli inter­ rogatori. L ’iniziativa di Lòia Cekanov si delineava con sempre maggior chiarezza. Eravamo nella primavera del ’44, una chiara primavera kolymiana degli anni di guerra. Anche gli inquisiti rinchiusi nelì'izoljator vengono condotti al lavoro, per vedere di trarre profitto, sia pure per una sola ora, da quella gente di passaggio, e i detenuti in trasferimento non ama­ no affatto questa radicata tradizione di lager e tranzìtki. Quanto a me, ci andavo non certo per tentare di realizzare una

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qualche quota di produzione in una buca di sassi, ma semplicemente per respirare un po’ d’aria, e per chiedere, ma non era det­ to che l’avrei ricevuta, una scodella supplementare di minestra. E poi in città, perfino una città concentrazionaria come l’in­ sediamento di Jagodnyj, si stava meglio che nel carcere di isola­ mento, dove ogni tronco della baracca era impregnato di sudore di morte. Per ogni uscita al lavoro davano pane e minestra, o minestra e kaša, o minestra e aringa. Riuscirò prima o poi a scrivere l’inno al­ l’aringa, l’unica riserva di albumina del detenuto, alla Kolyma non è certo sulla carne che si basa l’equilibrio proteico. E l’aringa a get­ tare gli ultimi pezzi di legna nel focolare energetico del dochodjaga. E se il dochodjaga è riuscito a conservarsi in vita, lo deve pro­ prio al fatto di aver mangiato dell’aringa, sia pure salata, sia pure bevendoci sopra - in questo equilibrio tra vita e morte l’acqua non conta. Ma la cosa piu importante era che fuori si poteva rimediare del tabacco, oppure, anche se non si arrivava a tanto, ci si poteva affu­ micare ben bene, annusando a volontà accanto a un compagno che fumava. Quanto alla nocività della nicotina o alla cancerosità del ta­ bacco, nessun detenuto potrà mai crederci. La cosa può comunque essere spiegata con l’eccessiva rarefazione, dalle nostre parti, della famosa goccia di nicotina in grado di ammazzare un cavallo. Nel «tiro», nella boccata, c’è sicuramente poco veleno e molte fantasticherie, molta intima soddisfazione. Il tabacco è la gioia suprema del detenuto, la vita che continua. Anche se, già l’ho detto, non so se la vita sia un bene o meno. Obbedendo unicamente al mio istinto ferino, mi muovevo per le vie di Jagodnyj. Lavoravo, scavavo piccole fosse con il piccone, le svuotavo con il badile, dando con quel raschiare il mio contri­ buto all’opera di palificazione di un abitato che conoscevo cosi be­ ne. Solo un anno prima mi ci avevano processato condannandomi a dieci anni e confermandomi ufficialmente «nemico del popolo». Questa condanna a dieci anni, a un nuovo periodo di pena inizia­ to cosi di recente avrebbe sicuramente fermato alle prime battute la causa per renitenza al lavoro. Vilony e otkazcìkì potevano certo ricevere pene supplementari, ma all’inizio di un nuovo periodo di pena era difficile. Ci portavano al lavoro con una scorta piuttosto nutrita, erava­ mo comunque persone inquisite: inquisite senz’altro, quanto al­ l’essere ancora persone... Prendevo posto nella mia fossa di pietre e cercavo di non per­

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dere di vista i passanti, numerosi: lavoravamo proprio sulla stra­ da principale dell’abitato e con l’inverno erano stati chiusi i can­ tieri stradali sia a Magadan che sull’Indigirka. La serie di piccole buche si estendeva per tutta la lunghezza della strada e le truppe di scorta, nonostante fossero in gran nu­ mero, avevano dovuto essere scaglionate ad intervalli ben piu am­ pi di quelli consentiti dalle disposizioni. Incontro a noi e parallelamente alle nostre fosse vedemmo avan­ zare quella che a prima vista mi sembrò una grande squadra, ma forse era solo un folto gruppo non ancora organizzato in squadre. Per far ciò occorreva suddividere i detenuti in gruppi di almeno tre persone e assegnare loro una scorta armata. Quelli erano stati ap­ pena scaricati da alcuni automezzi che sostavano ancora nei pressi. Una delle guardie che avevano accompagnato il gruppo al no­ stro Olp Jagodnyj stava chiedendo qualcosa al soldato che ci scor­ tava. E all’improvviso sentii una voce gridare allegramente, a squar­ ciagola: - Salamov, Salamov! Era Rodionov, della squadra di Polupan, uno «sgobbone» piu morto che vivo come me, proveniente anche lui dallo štrafnjak Spokqjnyj. - Salamov! L ’ho proprio fatto fuori quel Polupan. Con l’ac­ cetta, in sala mensa. Mi stanno portando dall’inquirente per apri­ re il caso. L ’ho fatto secco! - e Rodionov si abbandonò a un bal­ lo frenetico. - In sala mensa con l’accetta. E in effetti la lieta notizia mi scaldò il cuore. I soldati di scorta ci separarono trascinandoci via a forza. La mia istruttoria fini in niente, non si parlò neanche di sup­ plementi di pena. Probabilmente qualcuno in alto considerò che, anche a rifilarmi un periodo aggiuntivo, allo Stato non veniva nien­ te in tasca. Dal carcere istruttorio passai direttamente a una komandìrovka «vitaminica». Come finisse l’inchiesta sull’omicidio di Polupan, non so. A quei tempi di teste di capisquadra fatte volare a colpi di accetta ce ne furono parecchie, e addirittura alla nostra «missione vitamini­ ca» i malavitosi segarono via la testa all’odiato caposquadra con una sega a due manici. Con Lèsa Cekanov, il mio conoscente dei tempi di Butyrki, non ebbi piu occasione di incontrarmi. 1970-71.

L è s a C ek an o v , ìli O d n o d el'cy n a K o ly m e ,

in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

Triangolazione del terzo ordine

Nell’estate del 1939, rigettato dall’onda della tempesta sulle ri­ ve palustri del Lago Nero, in una prospezione carboniera, in quan­ to invalido e inabile al lavoro dopo il fronte dell’oro del 1938 al giacimento Partizan, candidato alla fucilazione ma non fucilato di notte non pensavo a cosa e come mi fosse toccato in sorte. O al perché: non era una domanda che si ponesse nei rapporti tra uo­ mo e Stato. Ma con la fiacca volontà di allora avrei voluto che qualcuno mi raccontasse il mistero della mia stessa vita. Incontrai nella tajga primavera ed estate del ’39, sempre senza rendermi conto di chi io fossi e cosa dovessi fare di quella mia vi­ ta che continuava. Mi sentivo come se fossi morto sui fronti di ca­ va del Partizan nell’anno 1938. Prima di tutto bisognava capire se un anno ’38 c’era stato. O se quell’anno era solo un incubo, non importa di chi: mio, tuo, del­ la storia. I miei vicini di tavolaccio, quei cinque che erano arrivati con me da Magadan qualche mese prima, non potevano raccontare al­ cunché: le loro labbra erano per sempre chiuse, le lingue per sem­ pre legate. E io non mi aspettavo da loro niente di piu: il capo Va­ silenko, lo «sgobbone» Frisorger, lo scettico Nagibin. C ’era tra lo­ ro perfino un delatore, Gordeev. Tutti insieme erano la Russia. Non da loro mi aspettavo una conferma ai miei sospetti, una verifica delle mie sensazioni e pensieri: non da loro. É natural­ mente, neanche dai capi. II capo della prospezione Paramonov, quando a Magadan gli avevano sottoposto della «gente» per il suo settore, ci aveva scel­ ti senza esitare benché invalidi. Già capo del MaTdjak sapeva co­ me morivano quelli come noi e come si aggrappavano alla vita. E come dimenticavano in fretta. Dopo un certo periodo - forse alcuni mesi o forse alcuni istan­ ti - a Paramonov sembrò che il riposo fosse durato abbastanza: e

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quindi gli invalidi smisero di essere considerati tali. Ma Filippovskij era un macchinista di locomotiva, Frisorger un falegna­ me, Nagibin un fuochista e Vasilenko un «caporale» di miniera. Solo io, letterato di Russia, risultavo adatto per i lavori di mano­ valanza. E già li avevo assaggiati quei lavori. Il caporale Bystrov aveva esaminato con una smorfia di disgusto il mio corpo sudicio e pi­ docchioso, le piaghe purulente sulle gambe, le grattature a sangue per il prurito, il lampo famelico degli occhi, articolando con gusto la sua battuta preferita: «Che lavoro desidera? Faticoso o di tut­ to riposo? Di tutto riposo non ne abbiamo. C ’è solo quello fati­ coso». La mia specializzazione di allora era di addetto all’acqua calda. Ma per scaldare l’acqua c’era la ban'ja già costruita e in esercizio, e quindi dovevano mandarmi da qualche altra parte. Un uomo di alta statura con indosso un vestito blu a buon mer­ cato da «libero» era in piedi su di un piccolo ceppo davanti alla tenda. Bystrov, caporale di cantiere, vol'njaška ma con un passato di z/k, era sul Lago Nero per rimediare i soldi e fare ritorno sul «con­ tinente». «Ritornerete nella Grande Terra con tanto di cilindro in testa» era il ritornello di un altro spiritoso, il capintesta Paramonov. Bystrov non mi poteva sopportare. Considerava le perso­ ne istruite il vero flagello della vita. Vedeva in quelli come me la fonte di tutti i suoi guai. Mi odiava e si vendicava su di me con cieco furore. Bystrov era passato per il giacimento d ’oro nel 1938 come ca­ porale o sorvegliante che dir si voglia. Contava di mettere da par­ te molti soldi, come in passato. Ma il suo sogno era stato infranto da quell’onda di piena che aveva spazzato via tutti e tutto: l’on­ data del ’37. E cosi adesso se ne stava senza il becco di un quattrino in quel­ la maledetta Kolyma, un posto pieno di nemici del popolo che non ne volevano sapere di lavorare. E avrebbe voluto rivalersi su di me. Su di me che ero passato per quello stesso inferno, ma giu in basso, nello scavo, con carrio­ la e piccone, e Bystrov questo lo sapeva e vedeva, poiché la nostra storia è tutta li: scritta a chiare lettere sul volto, sul corpo di ognu­ no di noi. Bystrov avrebbe voluto rivalersi su di me a bastonate, ma non aveva abbastanza potere. Mi ero sentito rivolgere da Bystrov quella domanda riguardo al lavoro, se faticoso o di tutto riposo - evidentemente l’unica fred­

TRIANGOLAZIONE DEL TERZO ORDINE

I I

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dura che Bystrov aveva in repertorio - già una volta, in primave­ ra, e gli avevo anche risposto. Ma lui se ne era dimenticato. O for­ se no, e l’aveva ripetuta apposta, tanto ci provava gusto. Chissà quante volte e a quanti l’aveva rivolta. Ma forse mi sono immaginato io ogni cosa e per Bystrov era del tutto indifferente che cosa chiedermi e che risposta ottenere. Può anche darsi che Bystrov stesso sia solo il mio cervello in­ fiammato, che nulla vuol perdonare. In una parola, trovai un nuovo lavoro: aiutotopografo o meglio addetto ai segnali di rilevamento. Nel distretto carbonifero del Lago Nero era arrivato un topo­ grafo, un «libero». Giornalista del quotidiano di Išim, membro del komsomol, Ivan Nikolaevič Bosych era mio coetaneo, lo ave­ vano condannato, in base all’articolo 58. io, a tre anni, e non a cin­ que come me. Era stato condannato molto prima di me, ancora nel ’36, e subito portato alla Kolyma. Come me, aveva trascorso il ’38 sui fronti di taglio, poi in ospedale, «aveva toccato il fondo» ma, meravigliandosene per primo, era rimasto vivo e aveva perfino ot­ tenuto i documenti per ripartire. Adesso si trovava qui per un la­ voro di breve durata affidatogli da Magadan: l’«impacchettamento» topografico del distretto del Lago Nero. Avrei lavorato alle sue dipendenze, avrei portato a spasso pa­ lina e teodolite. In caso di bisogno avremmo cercato un rincalzo. Ma per quanto possibile avremmo cercato di farcela da soli. A causa della mia debolezza non riuscivo a caricarmi sulle spal­ le il teodolite, e cosi il teodolite lo portava Ivan Nikolaevič Bosych. Io portavo la sola palina, che all’inizio risultò comunque anch’essa troppo pesante per me, finché non mi ci abituai. A quel tempo la fame più acuta, la fame da miniera d’oro era già passata anche se l’avidità era rimasta quella di prima e come prima, il piu delle volte, avrei voluto mangiare tutto quanto pote­ vo vedere e afferrare. Però alla nostra prima uscita - quando ci sedemmo nella tajga a riposare e Ivan Nikolaevič svolse un involto con del cibo per me - non per fare dei complimenti, ma proprio perché non me la sen­ tivo, mi limitai a piluccare dei biscotti, e a mangiucchiare del pa­ ne e burro. Ivan Nikolaevič restò meravigliato da tanta discrezio­ ne e io gliene spiegai il motivo. Quell’autentico siberiano, nonché titolare di un classico nome russo - Ivan Nikolaevič - cercò da me la risposta a certe insolubi­ li questioni. Chiaramente non era un delatore, uno stukac. L ’anno ’38 po­

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teva fare a meno di delatori o provocatori di sorta, tutto accade­ va indipendentemente dal loro apporto e volontà, in forza di su­ periori leggi della società degli uomini. - E quando ti sei ammalato ti sei rivolto ai medici ? - No, avevo paura di Legkoduch, l’infermiere del giacimento Partizan. Quello i «relitti» come me non li salvava. - Invece a Utinyj il padrone del mio destino fu il dottor Be­ ridze. Ci sono due tipi di crimini di cui si possono macchiare i me­ dici kolymiani: il primo è un crimine attivo, quando il medico ti destina a una hrafzona, di fatto a una pallottola in testa: giuridi­ camente infatti nessun verbale di renitenza al lavoro può fare a meno della controfirma del medico. Questo è il primo tipo di cri­ mine medico alla Kolyma. L ’altro tipo di crimine medico è quello che nasce dall’inazio­ ne. Nel caso di Beridze si trattò di questo. Non fece niente per aiutarmi, ai miei reclami opponeva l’indifferenza. Mi trasformai in un dochodjaga ma non feci comunque in tempo a morire. Come mai siamo sopravvissuti, vio e te? - chiedeva Ivan Nikolaevič. Perché siamo giornalisti. È una spiegazione che ha un qualche sen­ so. Sappiamo aggrapparci alla vita fino in fondo. - Mi sembra che questo caratterizzi piu gli animali che non i giornalisti. - Ma no. Nella lotta per la vita gli animali sono piu deboli de­ gli uomini. Non replicavo. Sapevo tutto quanto anch’io. Che al Nord un cavallo non regge a una stagione sul fronte dell’oro, e muore, e che un cane tenuto a razione carceraria crepa anche lui. In un’altra occasione Ivan Nikolaevič sollevò delle questioni familiari. - Sono scapolo. Mio padre è morto nella guerra civile. Mia ma­ dre mentre ero dentro. Non ho nessuno a cui trasmettere il mio odio, il mio amore, tutto ciò che ho imparato. Ma ho un fratello, un fratello piu piccolo. Crede in me, come fossi Dio. E io vivo pro­ prio per poter raggiungere un giorno la Grande Terra, tornare al­ la mia città, Isim, entrare nel nostro appartamento, via Voroncov, al numero 2, guardare negli occhi mio fratello e svelargli tutta la verità. Mi sono spiegato ? - Si, - dissi io, - per una cosa cosi, ne vale la pena. Ogni giorno, e di giorni ce ne furono molti - piu di un mese Ivan Nikolaevič mi portava il suo cibo, il quale non si differen­ ziava per niente dalla nostra razione polare, e io, per non offen­ dere il topografo, mangiavo insieme a lui il suo pane e burro.

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Bosych mi portava perfino la sua razione di alcol - ai «liberi» ne davano. - Non bevo.

- Io bevevo. Ma l’alcol dopo il passaggio dai vari depositi e per le mani dei vari capi era di una gradazione talmente ridotta che Bosych in realtà non avrebbe corso alcun rischio anche a continuare. Era qua­ si acqua. Nell’estate del ’37, ancora ai tempi di Berzin, Bosych era sta­ to per alcuni giorni al Partizan e aveva assistito all’arresto della fa­ mosa squadra di Gerasimov. E un caso avvolto nel segreto, del quale sono in pochi a sapere. Quando fui portato io al Partizan, il 14 agosto 1937, di fronte alla tenda di tela catramata dove venni sistemato c’era una bassa baracca seminterrata di tronchi d ’albe­ ro, con le porte sghembe incardinate solo in alto. I cardini delle porte alla Kolyma non sono di ferro ma ricavati da pezzi di pneu­ matici d’auto. Quelli vecchi del posto mi raccontarono che in quel­ la baracca era vissuta la squadra di Gerasimov, settantacinque ele­ menti trockisti che non lavoravano per niente. Ancora nel ’36 la squadra aveva attuato una serie di scioperi della fame ottenendo da Mosca l’autorizzazione a non lavorare, continuando a ricevere la razione «di produzione» e non di rigo­ re. Il vitto allora poteva essere di quattro «categorie» - l’uso di questa terminologia filosofica restando del tutto indebito: «cate­ goria stachanoviana» a fronte della realizzazione della norma al 130 per cento o piu: 1000 grammi di pane; «udarnaja», dal 1 io al 130 per cento: 800 grammi; «di produzione», da 90 a 100: 600 grammi; di rigore: 300 grammi. Ai renitenti al lavoro, gli otkazciki, almeno ai miei tempi si applicava il regime di rigore: pane, i 300 grammi, e acqua. Ma non sempre. La lotta si svolse nel ’35 e ’36 e con una serie di scioperi della fame i trockisti del giacimento Partizan ottennero che fossero isti­ tuzionalizzati i 600 grammi giornalieri. Li esclusero dalle vypiski di accesso allo spaccio, ma rinuncia­ rono a farli lavorare. Fu decisiva, con quei dieci mesi di stagione invernale che ci sono alla Kolyma, la questione del riscaldamento. Li autorizzarono cioè a provvedere alla legna non solo per se stes­ si ma per tutto il lager. Fu a queste condizioni che aveva potuto continuare ad esistere la squadra di Gerasimov.

Se qualcuno in un qualsiasi momento della giornata in qualun­ que periodo dell’anno dichiarava di volersi trasferire in una squa­ dra «normale» lo accontentavano immediatamente. E per con-

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verso, qualsiasi otkazcìk renitente al lavoro poteva avviarsi diret­ tamente dall’adunata mattutina non alla solita Rur o al carcere di isolamento, ma alla squadra di Gerasimov. Nella primavera del 1937 in quella baracca vivevano settantacinque uomini. Una not­ te di quella stessa primavera vennero portati tutti quanti alla Serpantinnaja, all’epoca sede del carcere istruttorio della Direzione mineraria del Nord. Nessuno li rivide mai piu, da nessuna parte. Ivan Nikolaevič Bosych aveva avuto occasione di vedere quelle persone, io vidi so­ lo la porta spalancata dal vento della loro baracca. Ivan Nikolaevič mi spiegava gli arcani della sua arte: come e qualmente a partire da quel treppiede, e dopo opportuna sistema­ zione delle nostre paline su per la gola montana, puntando il teo­ dolite s’arrivasse a traguardare l’«incrocio dei fili»: - Gran cosa la topografia. Meglio della medicina. Praticavamo passaggi nel folto della foresta, tracciavamo le no­ stre cifre di riferimento sui tronchi, in tacche dalle quali colava una resina ambrata. Tracciavamo le cifre con una semplice matita nera, solo la nera grafite, sorella del diamante, era affidabile: gli inchiostri di composizione chimica, azzurri o verdi che fossero non si prestavano a misurare la Terra. La nostra missione veniva gradualmente avvolta da una imma­ ginaria, impalpabile rete di linee, attraverso i cui varchi il teodoli­ te fissava attentamente lo sguardo sul numero del palo successivo. Sulla superficie di piccoli fiumi e ruscelli si rapprese un ghiac­ cio sottile, bianco. Minute foglie rosse come fiammelle cosparse­ ro i nostri itinerari e Ivan Nikolaevič cominciò ad aver fretta: - Devo tornare a Magadan, consegnare al piu presto il mio la­ voro alla direzione, farmi liquidare il dovuto e partire. I piroscafi viaggiano ancora. Mi pagano bene ma devo sbrigarmi. Per due mo­ tivi. Il primo è che ho voglia di tornare nella Grande Terra, tre an­ ni di Kolyma bastano e avanzano per conoscere la vita. Anche se, a quel che dicono, per viaggiatori come noi, come te e come me in­ tendo, la Grande Terra continua a restare avvolta nella nebbia. Ma devo comunque buttarmi, per il secondo motivo. - Che sarebbe ? - Che non sono un topografo. Sono un giornalista, un gazzet­ tiere. La topografia l’ho imparata proprio qui, alla Kolyma, al gia­ cimento Razvedčik, dove ho lavorato come aiutotopografo. Ho cercato di imparare almeno ^questa scienza, visto che sul dottor Be­ ridze non potevo contare. E stato il mio capo a consigliarmi di ac­ cettare il lavoro di rilevamento della zona del Lago Nero. Ma qua

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e là ho fatto un po’ di confusione, ho saltato qualcosa. E non c’è piu tempo per ricominciare tutto da capo. - Ah, ecco... - Questo lavoro che stiamo facendo è una specie di prima ste­ sura topografica. Ha anche un nome: triangolazione del terzo or­ dine. Ma ci sono anche classi superiori: secondo ordine, primo or­ dine. A quelli non oso neppure pensare, e poi mi sa che di faccen­ de del genere non avrò piu occasione di occuparmi. Ci salutammo e Ivan Nikolaevič parti per Magadan. Era già passato quasi un anno, era l’estate del ’40, e io da un pezzo lavoravo di pala e piccone alla prospezione, quando mi ca­ pitò un altro colpo di fortuna: un nuovo topografo era arrivato da Magadan per ripetere il rilevamento. Venni distaccato al suo ser­ vizio come elemento già pratico, ma naturalmente non feci paro­ la dei dubbi del suo predecessore. Gli chiesi però se sapesse qual­ cosa di Ivan Bosych. - E sul continente quel figlio di buona donna, da un bel po’. E noi qui a correggere il suo lavoro, - articolò cupo il nuovo topo­ grafo. 1973,

T rian gu ljacija I I I k la ssa ,

in V. Salamov,

P e rca tk a , ili K R - 2 ,

Orbita, Mosca 1990.

La carriola. I

La stagione dell’oro è breve. Di oro c’è n’è molto, il problema è prenderlo. La febbre dell’oro del Klondyke, il vicino d ’oltrema­ re della Cukotka, avrebbe potuto restituire la vita a quelli che non l’avevano piu, e molto rapidamente. Ma perché non imbrigliare questa febbre dell’oro, far si che il polso del cercatore d ’oro, del­ lo scopritore, non fosse piu febbrile, ma all’incontrario rallentato, addirittura appena pulsante, solo un barlume di vita in persone morenti? E il risultato era ancor piu lampante che nel Klondyke. Un risultato del quale colui che poneva mano a setaccio e carrio­ la, che estraeva il metallo non avrebbe mai saputo niente. Colui che estraeva era solo uno scavatore, uno sterratore, un tagliapie­ tre. Dell’oro nella sua carriola non si interessava. E neanche per­ ché «non si doveva», ma per la fame, il freddo, l’estenuazione fi­ sica e spirituale. Trasportare alla Kolyma un milione di persone e dar loro un la­ voro per l’estate è difficile ma non impossibile. Ma come avreb­ bero trascorso l’inverno ? A ubriacarsi nelle bettole di Dawson' ? O piuttosto di Magadan ? Cosa far fare a centomila, a un milione di persone d’inverno ? Alla Kolyma il clima è marcatamente con­ tinentale, assai rigido, con il freddo a meno sessanta, e per uscire al lavoro bisogna che ci siano almeno cinquantacinque gradi. Per tutto l’inverno del ’38 fioccarono gli atti di dispensa dai la­ vori esterni per il freddo e bastava una temperatura di cinquantasei gradi sottozero, naturalmente della scala di Celsius e non Fah-, renheit, per far restare tutti quanti nella baracca. Nel ’40 sarebbe stato addirittura alzato il limite, a meno cinquantadue si rimaneva a casa ! Stando cosi le cose, come si faceva a colonizzare la regione ? 1 Fondata nel 1897 ai tempi della corsa all’oro alla confluenza del Klondyke e dello Yukon, in Alaska, prese il nome da un geologo; fino al 1951 fu capoluogo del territorio del­ lo Yukon.

LA CARRIOLA. I

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Nel 1936 venne trovata la risposta. Tutte le operazioni, preparazione del terreno e carreggio, bril­ lamento, picconatura e caricamento, vennero indissolubilmente le­ gate tra loro. Gli ingegneri calcolarono la movimentazione otti­ male della carriola, i suoi tempi di rientro e nuovo riempimento mediante pale, con l’utilizzo di piccone e talvolta leva da cavato­ re per la cernita del grezzo a contenuto d’oro. In questo modo, il cavatore non trasportava del suo: quella era una cosa da cercatore d ’oro solitario. Lo Stato provvedeva ad or­ ganizzare altrimenti il lavoro dei detenuti. Intanto che il carriolante portava il carico a destinazione, il suo compagno o compagni dovevano fare in tempo a riempire un’altra carriola. Il calcolo era questo: quante persone adibire al caricamento, e quante al carreggio. Bastavano due persone per unità o ne servi­ vano tre ? In quel giacimento d ’oro l’impiego delle carriole alternate era la norma. Una particolare linea di lavorazione a ciclo continuo. Capitava anche di utilizzare delle barelle a traino con l’impie­ go di cavalli, ma di solito vi si ricorreva per lavori preparatori esti­ vi come la rimozione di uno strato superficiale di torba. Precisiamo subito: la torba è uno strato di roccia privo d’oro. Lo strato aurifero è quello sabbioso sottostante. E il lavoro estivo con barella e cavallo serviva a portare via la torba e far affiorare lo strato di sabbia. Al trasporto della sabbia provvedevano poi altre squadre e non la nostra. Ma per noi face­ va lo stesso. Anche le barelle venivano usate a rotazione: sganciavamo sot­ to l’occhio del cavallante la barella vuota, agganciavamo quella ca­ rica già pronta. La catena di montaggio kolymiana funzionava. La stagione estiva è breve. Dalla seconda metà di maggio a metà settembre, poco piu di tre mesi in tutto. Per questo, per farcela con il piano di produzione, si elabora­ vano tutte le ricette tecniche e ultratecniche possibili. In questo senso, il ciclo di lavorazione continuo al giacimento era il minimo, anche se proprio la carriola alternata ci toglieva le forze, ci dava il colpo di grazia, ci faceva diventare dei dochodjagi. Non c’erano meccanismi di sorta, tranne una teleferica colle­ gata a un argano continuo. La catena di montaggio applicata alla miniera è un contributo di Berzin. Non appena apparve chiaro che ogni giacimento sarebbe stato rifornito di braccia a qualsiasi costo e in quantità illimitata - si fosse anche trattato di far arrivare cen­

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to piroscafi al giorno, vi avrebbero provveduto le linee di naviga­ zione del Dal'strof - non si badò piu al costo in vite. E fu dall’ele­ mento umano che il piano venne cavato fuori, letteralmente. Con la piena approvazione, comprensione e sostegno dall’alto, da Mo­ sca. C ’era l’oro, e allora? Che alla Kolyma ci fosse l’oro lo si sape­ va da trecento anni. Quando il Dal'stroj iniziò la sua attività alla Kolyma c’erano molte organizzazioni: impotenti, semiufficiali, sempre timorose di superare un certo limite e di guastare cosi i rap­ porti con i propri salariati. Alla Kolyma c’erano anche uffici del Cvetmetzoloto2 e sezioni culturali: tutti quanti lavoravano con sa­ lariati liberi, ingaggiati a Vladivostok. Berzin portò i detenuti. Berzin non si appoggiò alle vie di comunicazione esistenti, ma fece costruire una strada, la rotabile principale della Kolyma, at­ traverso acquitrini, montagne - a partire dal mare... [1972]. Tacka I, in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

2 Acronimo di Cvetnye metally i zoloto, «M etalli non ferrosi e oro».

La carriola. II

Simbolo dell’epoca, e suo emblema, è la carriola, la carriola del detenuto. La macchina dell’OEsseO, carica o vuota, due stanghe e una ruota.

Oso sta per Osoboe soveščanie, quella Consulta o Commissio­ ne speciale - istituita presso il ministro-commissario del popolo dell’Ogpu - la cui firma ha spedito senza processo all’Estremo Nord milioni di persone per trovarvi la morte. In ogni fascicolo personale dei condannati, una cartelletta nuova e sottile, veniva­ no inseriti due documenti: un estratto della delibera dell’Oso e lo specukazanie, una direttiva speciale in base alla quale il detenuto taldeitali doveva essere impiegato solo in lavori fisici pesanti e non doveva essergli consentito di accedere ai servizi postali e telegra­ fici in quanto soggetto «senza diritto di corrispondenza». Inoltre la direzione del lager doveva tenere Mosca al corrente della con­ dotta del detenuto taldeitali con rapporti almeno semestrali. Alla direzione locale invece tali rapporti-promemoria andavano inol­ trati una volta al mese. «Pena da scontare alla Kolyma» significa­ va una condanna a morte, era sinonimo di uccisione, lenta o rapi­ da a seconda dei gusti del capo locale del giacimento, della minie­ ra, dell’Olp. Quella cartelletta cosi nuova e sottile era destinata a gonfiarsi, a stratificarsi nel tempo con una grande massa di infor­ mazioni: verbali sul rifiuto di lavorare, copie di delazioni dei com­ pagni, promemoria degli organi inquirenti su «elementi» d ’ogni sorta e d’ogni colore. Talvolta la cartelletta non faceva tempo a gonfiarsi, ad acquistare consistenza: non erano pochi coloro che perivano fin dalla prima estate in cui facevano conoscenza con la macchina Oso - «carica o vuota, due stanghe e una ruota». Per quanto mi riguarda, ero di quelli il cui fascicolo aveva fatto in tem­ po a gonfiarsi e appesantirsi, come intridendosi di sangue. E le let­ tere dei documenti non si erano scolorite: il sangue umano è un buon fissatore.

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Alla Kolyma la carriola rientra in quella che viene definita «meccanizzazione minore». Sono un carriolante altamente spe­ cializzato. Al giacimento Partizan della Kolyma aurifera del Dal'stroj ho portato la carriola sui fronti di cava a cielo aperto per tutto l’autunno del ’38. D ’inverno, quando non è stagione di la­ vaggio dell’oro, alla Kolyma si trasportano casse di materiali di ri­ sulta, quattro persone per ogni cassa, spostando montagne di de­ triti, asportando la camicia di torba per far affiorare prima dell’e­ state le sabbie, lo strato contenente l’oro. All’inizio della primavera del ’38 tornai ad impugnare i manici della macchina dell’Oso e li lasciai soltanto nel dicembre del 1938, quando venni arrestato al giacimento e portato a Magadan per il «caso dei giuristi». Il carriolante incatenato alla carriola è l’emblema della Sacha­ lin degli ergastolani. Ma Sachalin non è la Kolyma. Accanto all’i­ sola di Sachalin passa la corrente calda di Kuro-shio. Ci fa piu cal­ do che a Magadan o sul litorale, non si va sotto i trenta-quaranta gradi, neve in inverno e piogge continue in estate. Ma l’oro non è a Magadan. Il valico dei monti Jablonovye è un confine a mille me­ tri di altitudine, il confine climatico dell’oro. Mille metri sul li­ vello del mare: il primo serio valico sulla strada dell’oro, a cento chilometri da Magadan lungo il tracciato della rotabile principale, sempre piu in su, sempre piu nel gelo. La Sachalin dei bagni penali non ha niente da insegnarci. L ’incatenamento alla carriola era piu che altro una sofferenza di tipo morale. Allo stesso modo dei ceppi ai piedi. I ceppi del tempo za­ rista erano leggeri, si sfilavano facilmente. Con quei ceppi ai pie­ di i detenuti in traduzione affrontavano tragitti di migliaia di ver­ ste. Era una misura intesa a umiliarli. Alla Kolyma non incatenavano alla carriola. Nella primavera del ’38 lavorò in coppia con me per qualche mese un comunista francese che era stato alla Caienna, ai lavori forzati. Dorfel, cosi si chiamava, era stato in quel bagno penale francese due anni, a spaccare pietre. Ma era tutta un’altra cosa. Là il lavoro era meno pesante, faceva caldo, non c’erano detenuti politici. Non c’era la fame, quel freddo infernale, mani e piedi congelati. Dorfel mori nello scavo, per arresto cardiaco. Ma l’esperienza della Caienna gli era comunque servita e Dorfel aveva resistito un mese piu dei suoi compagni: era stato un bene o un male ? Era sta­ to un mese in piu di sofferenze. Fu in quell’unità dove c’era Dorfel che portai la carriola per la primissima volta. Non si può amare la carriola. La si può solo odiare. Come gli

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altri lavori fisici, quello alla carriola diventa immensamente umi­ liante per il carattere schiavistico che assume alla Kolyma. Ma co­ me ogni altro lavoro fisico quello del carriolante richiede una cer­ ta applicazione, professionalità e rendimento. E quando il tuo corpo capirà quel poco che c’è da capire, por­ tare la carriola diventerà piu facile che lavorare di piccone, pic­ chiare con la leva da cavatore, affondare il ferro della pala nel pie­ trisco. E tutta questione di equilibrio, la difficoltà è trattenere la ruota sulle passerelle, le strette assi del carreggio. Per quelli dell’articolo 58 al giacimento d ’oro c’erano solo il piccone, varie pale e badili, un assortimento di leve per frantumare il terreno, un cucchiaio dal lungo manico per raschiare i materiali di scavo. E la carriola. Altri lavori non ce n’erano. L ’impianto di lavaggio, dove si provvedeva a trattare il minerale - spostando avanti e indietro un raschiatore di legno per smuoverlo e sminuz­ zarlo, non era posto per i «cinquantotto». Il lavoro al crivello, al­ le tavole di lavaggio, piu leggero e piu vicino all’oro, era riservato ai detenuti comuni, i bytoviki. Ai «cinquantotto» era precluso. Si poteva lavorare come conducenti di cavalli: ne prendevano anche tra i «cinquantotto». Ma il cavallo è una creatura fragile, sogget­ ta a malattie d ’ogni genere. La sua razione nordica veniva sac­ cheggiata da stallieri, capistalla e cavallanti. Il cavallo diventava debole e con il freddo a meno sessanta gradi moriva prima del­ l’uomo. Il cavallo comportava tanti di quei problemi che la car­ riola appariva la soluzione piu semplice, migliore della barella a traino, una soluzione inoltre piu onesta nei confronti di se stesso, piu vicina alla morte. L ’articolazione del piano di produzione statale arrivava a li­ vello di giacimento, settore, fronte di taglio, squadra, gruppo di lavoro. La squadra si compone di gruppi di lavoro e per ogni grup­ po avviene l’assegnazione delle carriole, due o tre, quante ne ser­ vono, ma mai una! In questo si cela un grande segreto inerente al­ la produzione, l’arcano della galera kolymiana. C ’è un’altra mansione, stabile, che è nei sogni di ogni lavora­ tore della squadra, ogni mattina di un nuovo giorno, ed è quella di chi porta gli strumenti. Le lame dei picconi perdono rapida­ mente il filo contro la roccia. Le leve si spuntano. E diritto degli schiavi pretendere un buon utensile e la direzione fa di tutto per­ ché il ferro sia affilato, la pala comoda e la ruota della carriola ben lubrificata. Ogni settore produttivo del giacimento ha una propria fucina, dove giorno e notte il fabbro insieme con il suo martellatore può

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ridare il filo a un piccone e la punta a una leva. Il fabbro ha mol­ to lavoro e l’unico istante in cui il detenuto può tirare il fiato è quando non c’è l’utensile perché è stato portato alla fucina. Non che si metta seduto a far niente: ripulisce lo scavo, riempie la car­ riola. Nondimeno... Ecco, ognuno avrebbe voluto che gli capitas­ se questo lavoro - di addetto al trasporto di utensili - almeno per un giorno, anche fino all’ora di pranzo. La direzione aveva ben presente la questione delle fucine. Ci furono molte proposte per risolvere in modo piu efficace il pro­ blema della manutenzione degli utensili, per modificare le proce­ dure vigenti, dannose ai fini della realizzazione del piano, per far si che la mano della direzione sulle spalle del detenuto si facesse ancor più pesante. Non c’è qualche affinità con certi ingegneri che lavorarono al­ le soluzioni tecniche da dare a un problema scientifico chiamato bomba atomica? Il primato della fisica, come amavano ripetere Fermi e Einstein. Cosa me ne importa degli uomini, degli schia­ vi? Sono un ingegnere, e se mi pongono un problema tecnico io rispondo. SI, alla Kolyma, a una riunione su come organizzare nel modo migliore il lavoro nelle cave aurifere, vale a dire su come uc­ cidere nel modo migliore e piu rapido, prese la parola un ingegne­ re e disse che avrebbe voltato da cosi a cosi la Kolyma se gli aves­ sero dato delle forge da campo, forge mobili per i vari giacimenti. E che l’impiego di queste forge volanti avrebbe veramente risolto il problema. Non ci sarebbe piu stato bisogno degli addetti agli utensili. Costoro avrebbero potuto, piu utilmente, portare a spas­ so la carriola come gli altri, invece di starsene ad aspettare nella fucina, facendo perdere tempo a tutti e a tutto. Nella nostra squadra l’addetto agli utensili era un ragazzino, uno scolaro di sedici anni di Erevan, condannato per l’attentato al pri­ mo segretario del comitato regionale locale del partito, Chandžjan. Il ragazzino aveva una condanna a vent’anni ma mori molto pre­ sto, non reggendo ai rigori dell’inverno kolymiano. Di li a molti an­ ni appresi dai giornali la verità sull’assassinio di Chandžjan. A quan­ to pare fu Berija in persona a sparargli contro, nel proprio ufficio. Fu cosi che mi tornò per caso in mente la morte di quello scolaro nel giacimento kolymiano. Anch’io avrei desiderato, magari per un giorno solo, occupar­ mi degli utensili della squadra, ma mi rendevo conto che il ragaz­ zino, lo scolaro con le dita congelate avvolte in sudici bindelli di stracci e un lampo famelico negli occhi, rappresentava una candi­ datura piu valida della mia. Non mi restava che la carriola. Dove­ vo essere capace di lavorare di piccone, di maneggiare la pala e ado­

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perare la leva, certo, ma in quella buca di pietra della cava aurife­ ra tutte le mie preferenze andavano alla carriola. La stagione dell’oro è breve: da metà maggio a metà settem­ bre. Ma perfino nella calura del mese di luglio, che di giorno arri­ va a quaranta gradi, i piedi dei detenuti restano a bagno nell’ac­ qua diaccia. Calzano curii ricavati da vecchi copertoni, di cui - co­ me accade per gli utensili - c’è pure penuria. Sul fondo dello scavo - una cava pietrosa di forma irregolare - sono state sistemate del­ le grosse assi, non semplicemente appoggiate ma saldamente uni­ te tra di loro in una particolare struttura ingegneristica: la passe­ rella principale. La larghezza è di mezzo metro, non di più. Tut­ ta l’impalcatura è fissata e rinforzata in modo tale che le assi non abbiano a imbarcarsi, la ruota non scarti di lato e il tacecnik pos­ sa portare correndo la sua carriola a destinazione. La passerella principale ha una lunghezza di circa trecento me­ tri. Presente in ogni giacimento, è del giacimento l’anima, e l’ani­ ma anche del lavoro forzato manuale con impiego di meccanizza­ zione minore. Dalla passerella principale si dipartono come giova­ ni rami numerose passerelle secondarie che raggiungono ogni angolino, ogni sterro in attività del giacimento. E ponticelli del ge­ nere, meno solidi di quello principale ma comunque sicuri, ven­ gono lanciati verso ogni squadra al lavoro. Le tavole di larice del­ la passerella principale, consumate dal forsennato rotolio delle car­ riole - la stagione dell’oro è breve -, vengono rimpiazzate con tavole nuove. Lo stesso si fa con le persone. Per immettersi sulla passerella principale ci vuole una certa pe­ rizia: la carriola va portata fuori dal proprio ponticello secondario, badando a non farla finire con la ruota nella carreggiata che si è formata al centro dell’assito e che si allunga come un nastro o un serpente - a proposito, alla Kolyma non ci sono serpenti - dai fron­ ti di taglio alk rampa di carico, vale a dire dall’inizio alla fine, al­ la tramoggia. E importante, quando si svolta sulla passerella prin­ cipale, aver cura di mantenere la carriola in equilibrio tendendo i muscoli per poi, cogliere il momento opportuno e immettersi nel­ la corsa sfrenata sulla passerella principale - una corsa senza sor­ passi, poiché non ce ne sarebbe lo spazio - e tu devi portare la tua carriola al galoppo sempre piu su, piu su, piu su, lungo la passe­ rella che si innalza lentamente sui puntelli, sempre in salita e di buona lena perché altri più sazi e più giovani di te non abbiano a farti volar giù insieme alla carriola. Devi tenere ben aperti gli occhi e stare attento che non ti but­ tino giù almeno finché non raggiungi con il tuo mezzo la rampa di carico, alta tre metri, e a quel punto sei arrivato: in cima c’è una

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tramoggia di legno rinforzata con travi e tu devi svuotare la car­ riola rovesciandola nella tramoggia, dopo di che puoi anche non preoccuparti piu di niente. Sotto la rampa, dall’altra parte, si muo­ ve avanti e indietro un carrello di ferro, ma non sarai tu a portar­ lo fino all’impianto di lavaggio. Il carrello viaggia sulle sue rotaie fino all’impianto di lavaggio e annessi. Ma è una cosa che non ti riguarda. Quel che ti riguarda è spingere in alto i manici, in modo che la carriola finisca proprio a ridosso della tramoggia - il colmo della raffinatezza! - e poi afferrare la carriola vuota e scostarsi ra­ pidamente, per guardarsi in giro, tirare un po’ il fiato e cedere il passo a quelli che ricevono ancora da mangiare a sufficienza. Dalla rampa della tramoggia agli scavi corre in senso inverso la passerella di rientro, fatta con vecchie assi dismesse - e comunque rinforzate con chiodi e ancora utilizzabili - dell’impalcatura prin­ cipale. Cedi il passo a quelli che corrono a rompicollo, fa’ loro stra­ da togliendo la tua carriola dalla passerella - avrai sentito il grido d’avvertimento - se non vuoi che ti spingano giu. Vedi di riposa­ re - in un modo qualsiasi: ripulendo la carriola o lasciando passa­ re gli altri - perché c’è una cosa che devi tenere sempre presente: quando per la passerella dei vuoti sarai tornato al tuo scavo non riposerai un solo minuto: riempita dai tuoi compagni mentre ar­ rancavi sotto la rampa, ti aspetta già una nuova carriola da porta­ re sulla via di carreggio. Perciò ricorda che l’arte di portar la carriola consiste anche in questo: al ritorno per la passerella di servizio la carriola vuota non andrà portata come all’andata, quand’era carica. La carriola vuota va capovolta, e spinta con la ruota in avanti, appoggiando le dita sui manici sollevati. E questo è riposo, economia di forze, deflus­ so del sangue dalle braccia. Torna il carriolante con le braccia al­ zate. Il sangue defluisce. Il carriolante ha risparmiato le sue forze. Riportata la carriola al tuo scavo, la butti da una parte. Una nuova carriola pronta è lf ad aspettarti sulla passerella di carreg­ gio, e sul fronte di taglio nessuno può starsene senza fare qualco­ sa, senza essere in attività o in movimento, quantomeno nessuno dell’articolo 58. Sotto lo sguardo severo del «caporale», del sor­ vegliante, del soldato di scorta, del capo dell’Olp, del direttore del giacimento ti aggrappi ai manici di quest’altra carriola e te la tra­ scini su per la carreggiata: è proprio ciò che si intende per catena di montaggio, con rotazione delle carriole. Una delle leggi piu spa­ ventose della produzione, da rispettare comunque. E ti andrà bene se ti capiteranno dei compagni caritatevoli sul caposquadra non puoi far affidamento, ma sull’anziano del

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gruppo sì: a qualsiasi livello c’è chi è senior e chi è junior e la pos­ sibilità di diventare senior non è preclusa ad alcuno, neanche ai «cinquantotto». Se i compagni si riveleranno caritatevoli e ti per­ metteranno di tirare un po’ il fiato sarà tanto. Neanche a parlar­ ne di perekur per farsi un tiro o cose del genere. Nel 1938 la «pau­ sa sigaretta» era considerata un delitto politico, un sabotaggio pu­ nibile in base all’articolo 58.14. No. I tuoi stessi compagni controllano che tu non defraudi lo Stato riposandoti quando non è previsto. Che ti guadagni onesta­ mente la razione. Non che vogliano persuaderti di alcunché o aiu­ tarti a elaborare l’odio e la rabbia che sono in te, la fame e il fred­ do che provi, semplicemente a loro non importa niente di te. E poi anche se i compagni sono a posto - cosa rara nel ’38 alla Kolyma - dietro a loro c’è sempre il caposquadra, e se il caposquadra è an­ dato da qualche parte a riscaldarsi, ha incaricato uno dei lavora­ tori di sorvegliare i compagni in vece sua. Fu cosi che il dottor Krivickij, a suo tempo viceministro dell’Industria bellica, si bevve goc­ cia a goccia il mio sangue in una speczona kolymiana. E se non ti vedrà il caposquadra, ti vedrà il caporale o sorve­ gliante che sia, il direttore dei lavori, il caposettore, il direttore del giacimento. Ti vedrà il soldato della scorta e con il calcio del suo fucile ti farà passare la voglia di prenderti delle libertà. Ti ve­ drà il responsabile di turno della sezione locale del partito, il de­ legato provinciale degli organi e la sua rete di informatori. Ti ve­ drà il rappresentante della Direzione occidentale, di quella Su­ doccidentale e della Direzione del Nord del Dal'stroj, ti vedrà fin da Magadan il rappresentante moscovita del Gulag. Tutti, tutta la letteratura e pubblicistica del paese sorvegliano ogni tuo movi­ mento: sarà andato davvero a cacare ? riabbottonarsi i calzoni è un problema, le mani non si piegano nel movimento giusto. Hanno preso la forma del manico del piccone, della stanga della carriola. Quasi una contrattura. E il soldato di scorta grida: - E la merda dove sarebbe? Dov’è la tua merda, ripeto? E alza il calcio del fucile. Non è tenuto, lui, a sapere di pella­ gra o scorbuto o dissenteria. Per questo il carriolante deve ripo­ sarsi durante il tragitto. Ora il nostro racconto sulla carriola si interrompe per far po­ sto a un documento: un ampio stralcio dall’articolo La questione della camola, pubblicato sul giornale « Sovetskaja Kolyma» nel no­ vembre del 1936: ... Almeno per un certo periodo il problema del trasporto di terra, torbe e sabbie andrà strettamente collegato a quello delle carriole. E difficile dire

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quanto si prolungherà questo periodo, durante il quale il trasporto continuerà a essere effettuato con carriole a mano, ma possiamo affermare con suffi­ ciente precisione che dai criteri costruttivi delle carriole dipendono in larga misura sia i tempi che i costi di produzione. La questione è che queste car­ riole risultano avere una capacità che non supera gli 0,075 metri cubi, men­ tre sarebbe necessaria una capacità di almeno 0,12 metri cubi... Per i nostri giacimenti nei prossimi anni saranno necessarie alcune decine di migliaia di carriole. Se le nuove carriole non saranno rispondenti alle esigenze prospet­ tate dagli operai stessi e richieste dai ritmi di produzione, ne conseguirà in primo luogo un rallentamento della produzione, in secondo luogo un di­ spendio improduttivo della forza muscolare degli operai e in terzo luogo l’i­ nutile spreco di enormi risorse di denaro.

Tutto giusto. Con un’unica imprecisione: per il 1937 e anni successivi ci vollero non alcune decine di migliaia ma alcuni mi­ lioni di queste grandi carriole da un decimo di metro cubo «ri­ spondenti alle esigenze prospettate dagli operai stessi». A distanza di molto, molto tempo da quest’articolo, un trent’anni dopo, a un mio buon amico venne assegnato l’apparta­ mento e noi ci riunimmo per festeggiare. Ognuno regalò quello che poteva e particolarmente apprezzato fu un abatjour con tanto di filo e interruttore. Negli anni Sessanta a Mosca già se ne poteva­ no trovare. Gli uomini stavano cercando di venire a capo della par­ te elettrica del regalo. Proprio in quel momento mi presentai io al­ l’ingresso e un’altra mia conoscente gridò: «Si svesta e faccia ve­ dere lei a questi rammolliti che un kolymiano sa far di tutto, conosce qualsiasi lavoro». - No, - dissi io. - Alla Kolyma m’hanno insegnato soltanto a spingere la carriola. E a lavorare di piccone. E in effetti la Kolyma non m’ha dato niente in fatto di com­ petenza e mestiere. Ma con tutto il mio corpo conosco, so e pos­ so mostrare come si fa a spingere, a condurre una carriola. Quando è alle prese con la carriola - quella grande, odiosa, da dieci carriolate per metro cubo - o la «prediletta» piccola - il car­ riolante deve per prima cosa raddrizzarsi. Allungare tutto il cor­ po, restare diritto e facendo ruotare le spalle spingere le braccia in giu e leggermente all’indietro con le dita allargate. Le dita di am­ bedue le mani devono afferrare saldamente i manici della carriola carica. La prima spinta al movimento deve essere data con tutto il cor­ po, la schiena, le gambe, i muscoli del cingolo omerale sui quali si concentra il massimo sforzo. Quando la carriola comincia a muo­ versi, e la ruota a girare, si possono spostare le braccia un po’ avan­ ti, allentando un poco i muscoli delle spalle. Il carriolante non ve­

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de la ruota, la intuisce soltanto, e tutte le curve, dall’inizio alla fi­ ne, vengono fatte alla cieca. I muscoli di spalla e avambraccio ser­ vono a voltare, spostare e spingere la carriola su per la rampa di ca­ rico finale. Per la corsa vera e propria della carriola sulla passerel­ la non sono questi i muscoli che contano. L ’unità di ruota e corpo, la direzione e l’equilibrio vengono so­ stenuti e mantenuti da tutto il corpo insieme, collo e schiena non meno dei bicipiti. Finché non si sviluppa l’automatismo di questo movimento, di questa trasmissione di forza alla carriola, alla sua ruota, non si può parlare di carriolante. Il corpo ricorda le abitu­ dini acquisite per tutta la vita, per sempre. Alla Kolyma ci sono tre tipi di carriole: la prima, normale, «da cercatore», della capacità di 0,03 metri cubi, tre centesimi di me­ tro cubo, trenta carriole per unità volumetrica di minerale. Quan­ to pesa ognuna di queste carriole ? Per la stagione dell’oro del ’37 alla Kolyma le carriole «da cer­ catore» vennero bandite da tutti i giacimenti in quanto sottodi­ mensionate al limite del sabotaggio. Le carriole «da Gulag» o «di Berzin», approntate per le sta­ gioni del ’37 e del ’38 avevano una capacità di 0,1-0,12 metri cu­ bi ed erano denominate «grandi». Dieci carriole per metro cubo. Centinaia di migliaia di queste carriole vennero fabbricate per la Kolyma e portate dal «continente» con precedenza rispetto a ma­ teriali meno importanti come le vitamine. Ai giacimenti si potevano trovare anche delle carriole metalli­ che, fabbricate anch’esse sul continente, in lastre di ferro rivetta­ te. Avevano una capacità di 0,075 metri cubi, il doppio di quelle «da cercatore», ma naturalmente ai padroni non bastavano. Il Gu­ lag esigeva sforzi sempre crescenti. Erano comunque inadatte ai giacimenti della Kolyma. Avrò la­ vorato un paio di volte in tutta la vita con una carriola di ferro. Nella loro struttura c’era qualcosa di sbagliato. Quando la spin­ geva, il carriolante non poteva raddrizzarsi, l’unità di corpo e me­ tallo non si realizzava. Invece con la struttura di legno il corpo umano si armonizzava meglio, trovava facilmente un’intesa. Si poteva spingere quella carriola solo piegandosi in due e la ruota se ne andava per conto suo uscendo dalla passerella. E non ce la si faceva a rimettere in strada la carriola da soli. Ci voleva l’aiuto di qualcuno. Procedendo in posizione eretta non si riusci­ va a manovrare la carriola metallica mediante le sole stanghe, e modificarne la struttura, la lunghezza delle impugnature o l’ango­ lo di inclinazione era impossibile. Cosi queste carriole fecero ra­

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pidamente il loro tempo, tormentando tutti quanti piu delle car­ riole grandi. Ho avuto modo di scorrere alcune relazioni sulla «principale produzione» e «primo metallo» della Kolyma, e anche tenendo presente che la statistica è una scienza menzognera e le vere cifre non vengono mai pubblicate, qualche elemento di interesse l’ho potuto trovare. Anche a voler accettare le cifre ufficiali, il lettore o spettatore potranno facilmente orientarsi in certi misteri kolymiani. Certi dati possono essere presi per buoni e in particolare: 1) estrazione di sabbie dalle sezioni di taglio con carreggio a mano fino a 80 metri, ecc. 2) asportazione di torbe (cioè il lavoro invernale di sbancamento e spostamento della ganga) con carreggio a mano fino a 80 metri. Ottanta metri è già una distanza considerevole. Ma dietro al dato medio si nasconde ben altro: anzitutto che alle squadre mi­ gliori - di detenuti comuni, malavitosi, «elementi d ’avanguardia della produzione», cui ancora non era riservato il trattamento da dochodjagi, che ancora ricevevano le razioni previste per stachanovcy e udamiki e realizzavano per intero la quota di produzione - venivano assegnati i fronti di cava piu vicini e vantaggiosi, con carreggio fino alla rampa e alla tramoggia di soli cinque-sei metri. La cosa non era priva di senso da un punto di vista produtti­ vo, politico, ma era un senso carico di disumanità omicida. In un anno e mezzo di lavoro al giacimento Partizan, dall’ago­ sto del ’37 al dicembre del ’38, non ricordo una sola volta che io o la mia squadra si lavorasse - per un giorno o un’ora - in uno sca­ vo vicino, avvantaggiato, l’unico possibile per dei dochodjagi che erano piu di là che di qua. Ma noi non potevamo garantire «la percentuale» e quindi la nostra squadra (una squadra di dochodjagi cosi la si trovava sem­ pre e io ne facevo immancabilmente parte) veniva piazzata in uno scavo di lungo carreggio. Duecentocinquanta, trecento metri di carreggio equivalevano a un assassinio: un assassinio premeditato e pianificato, perfino per una squadra d ’avanguardia. Sicché noi si arrancava per quei trecento metri, accompagnati dai latrati dei cani, ma anche quei trecento metri - la media era ottanta - na­ scondevano un segreto. Ai «cinquantotto», gente spogliata d’ogni diritto, sottraevano per giunta la quota di produzione per attri­ buirla ai detenuti comuni e malavitosi degli scavi situati a dieci metri di carreggio. Ho un vivo ricordo di quella volta che, in un notte estiva, spin­ gevo sulla via di carreggio una carriola grande riempita dai miei

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compagni. Nel nostro giacimento le carriole piccole erano bandite. La carriola era carica di sabbia fangosa: alla Kolyma lo strato utile ha una consistenza variabile, ghiaia, fango, sassi misti a fango. Per la debolezza avevo i muscoli percorsi da un tremito conti­ nuo per tutto il corpo stremato, piagato da scorbuto e congela­ menti, dolente per i pestaggi. Dovevo uscire dall’asse di raccordo del nostro scavo e immettermi sulla passerella principale. Questa rimbombava tutta per il continuo passaggio delle carriole di mol­ te squadre. Di certo non sarebbero state li ad aspettarmi. I capi andavano avanti e indietro lungo la passerella, incitando i carreggiatori a bastonate e insulti, lodando coloro che passavano di cor­ sa e coprendo di ingiurie le lumache affamate come me. Andare bisognava comunque, anche sotto la gragnuola di col­ pi, ingiurie, urla, e io sospinsi la carriola sulla passerella principa­ le, la feci voltare a destra e svoltai io stesso, assecondando il mo­ vimento della carriola per essere pronto a rimetterla in carreggia­ ta se la ruota fosse andata per conto suo. Puoi dire di portar bene la carriola solo quando fai un tutto uni­ co con il mezzo, solo allora puoi veramente guidarla. La sensazio­ ne fisica è la stessa della bicicletta. Ma a suo tempo la bicicletta era stata qualcosa come una vittoria. La carriola invece significa sconfitta, oltraggio, odio che ti rode, disprezzo per te stesso. Spinsi la carriola sulla passerella, la carriola si mosse in dire­ zione della rampa e io le corsi dietro, tenendomi sull’assito, ma an­ che finendone fuori con i piedi, sbandando da una parte e dall’al­ tra, pur di mantenere la ruota sul carreggio. Dopo alcune decine di metri, alla passerella principale era ac­ costato il pontile di un’altra squadra e da quell’asse laterale incli­ nata si poteva saltar fuori con la carriola solo correndo. Venni subito spinto, rudemente, fuori dalla passerella e riuscii a malapena a mantenere diritta la carriola: era carica di fanghiglia e tutto quello che si seminava per strada lo si doveva raccogliere e portare a destinazione. Ero perfino contento che mi avessero ur­ tato, potevo approfittarne per riposare. Al giacimento non si poteva riposare neanche un minuto. Ci pensavano capisquadra, caporali e scorta a far rispettare i ritmi, e i loro argomenti erano convincenti: li conoscevo tanto bene che per riposare avevo imparato a «cambiare posizione» come a letto, ma camminando, alternando muscoli di braccia e spalle a chissà quali altri muscoli che mi aiutavano comunque a restare in piedi. La squadra passò con le sue grandi carriole e io potei tornare sulla passerella principale. Alla questione se quel giorno ti avreb­

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bero dato o meno qualcosa da mangiare non pensavi affatto e in ge­ nerale non avevi in testa nessun pensiero, nel cervello non restava alcunché, salvo improperi e rabbia impotente. Trascorse non me­ no di mezz’ora prima che riuscissi ad arrivare con la mia carriola alla rampa finale. La rampa non era molto alta, poco piu di un me­ tro, con in cima uno spesso tavolato che recintava una fossa-tra­ moggia, e in quell’imbuto andava rovesciato il materiale di scavo. Ai piedi della tramoggia due carrelli di ferro che facevano la spola e dei vagoncini dondolanti su un cavo assicuravano il rifor­ nimento dell’impianto di lavaggio, dove il materiale veniva fatto passare sotto un getto d’acqua e l’oro si depositava sul fondo del lungo tronco scavato che faceva da vasca. Attorno alla vasca di le­ gno, lunga una ventina di metri, lavoravano in molti: caricavano con piccole pale l’impianto, muovevano avanti e indietro raschiatori e crivelli. Erano numerosi, ma tra loro non c’erano mai car­ riolanti, come ho già detto i «cinquantotto» venivano tenuti alla larga dall’oro. Chissà come, ma al lavoro di lavaggio - beninteso molto piu leggero di quello allo scavo - venivano ammessi solo gli «amici del popolo». Scelsi un momento in cui sulla rampa non c’e­ rano carriole e altre squadre. La rampa era bassa. Avevo lavorato anche su rampe alte, die­ ci metri di salita. In casi del genere all’attacco della rampa c’era un addetto che aiutava il carriolante a portare il suo carico fino in cima, al bordo della tramoggia. Era un modo serio di affrontare le cose. La rampa di quella notte era bassa, ma io non avevo comun­ que forze sufficienti per spingere la carriola fino in cima. Mi rendevo conto di essere in ritardo e tendendo i muscoli in un ultimo sforzo spinsi la carriola fino all’inizio della salita. Ma non ce la facevo piu a spingere quella carriola, che non era neanche pie­ na, fino in cima. Io ero uno che da molto tempo se ne andava avan­ ti e indietro per il giacimento strascicando, muovendo a stento le gambe, senza staccare le suole da terra, poiché non potevo fare di­ versamente: non potevo cioè alzare di più il piede né piu in fretta. Da molto tempo mi muovevo in questo modo per il lager e il giaci­ mento, accompagnato dai colpi di capisquadra, soldati di scorta, ca­ porali, capisettore, «piantoni» e sorveglianti vari. Mi sentii urtare alla schiena, non molto forte, e mi resi conto che stavo cadendo giu dalla rampa assieme alla carriola che continuavo a trattenere per un manico, come se avessi dovuto condurla, portarla ancora da qualche altra parte che non fosse l’inferno. Mi avevano semplicemente dato uno spintone: dei «cinquan­ totto» con le carriole grandi ben cariche salivano alla tramoggia.

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Ed erano compagni nostri, di una squadra del settore accanto al nostro. Ma sia la squadra che Fursov, il caposquadra, volevano semplicemente mostrare che né loro, né le loro grosse carriole ave­ vano alcunché da spartire con un fascista morto di fame come me. Accanto alla tramoggia c’era il nostro caposettore Pëtr Bražnikov, un «libero» a contratto, in compagnia del direttore del­ la miniera, Leonid Michajlovič Anisimov. Avrei dovuto raccogliere il mio carico di pietrisco fangoso con la pala: era un ammasso poltiglioso di pietre simile per peso e per inafferrabile, sfuggente consistenza al mercurio. Con la pala avrei dovuto frantumarlo in pezzi piu piccoli da raccogliere e gettare sul­ la carriola: era impossibile, non avevo neppure la forza di solleva­ re la pala, cosi mi ero messo a staccare con le mani pezzi di quella melma viscida e pesante, di quella melma preziosa. Non lontano da dov’ero, Anisimov e Bražnikov avevano aspet­ tato che raccogliessi nella carriola tutto quanto, fino all’ultimo sas­ solino. Ripresi a trascinarmi con la carriola verso la passerella per affrontare di nuovo la salita. I capi seguivano i miei sforzi, preoc­ cupati solo che non ostruissi il passaggio alle altre squadre. Rimisi la carriola sulla passerella e cercai di darle un’ultima spinta fino al­ l’attacco della rampa. E mi urtarono di nuovo. Stavolta non mi fe­ ce cogliere di sorpresa e riuscii a spostare la carriola di lato, man­ tenendola sulla rampa. Arrivarono e ripartirono altre squadre e io ripresi da capo la mia salita. Sbucai infine in cima, rovesciai la car­ riola: il carico non era molto, con la pala raschiai dai bordi della cas­ sa i resti della preziosa fanghiglia, poi spinsi la carriola in direzio­ ne della passerella di ritorno, il ponteggio secondario per le carrio­ le vuote che rientravano al giacimento. Bražnikov e Anisimov avevano seguito il mio lavoro fino alla fine e me li ritrovai accanto mentre aspettavo che passassero le carriole vuote di altre squadre. - Ma dov’è il compensatore d’altezza? - disse con voce di tenorino il direttore della miniera. - Qui non è previsto, - disse Bražnikov. Il direttore della miniera era uno dell’Nkvd che stava studian­ do da tecnico minerario alle serali. - Il fatto è che il caposquadra non vuole saperne di darci uno dei suoi, e dice di metterci piuttosto qualcuno della squadra dei docbodjagi. E anche Ven'ka Byk non ne vuole sapere. Con una rampa del genere, il gancio non serve, e poi non è affar mio, cosi dice. E in effetti vuoi che qualcuno non ce la faccia davvero a spin­ gere una carriola per due metri di altezza con un pendio cosi co­ modo? Solo un nemico del popolo, un delinquente.

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- Si, - disse Anisimov, - si! - L ’ha fatto apposta di sicuro a cadere quando guardavamo dal­ la sua parte. Non occorre nessun compensatore di altezza. Compensatore di altezza era chiamato l’agganciatore, un ope­ raio di rincalzo che sugli accessi alla tramoggia agganciava dal da­ vanti la carriola con un raffio speciale e aiutava il prezioso carico nell’ultimo balzo su per la rampa. Questi raffi erano ricavati da trivelle a cucchiaio lunghe un metro, appiattite e incurvate a un­ cino nella fucina. Il nostro caposquadra non voleva dare un suo uomo perché avrebbe dovuto aiutare anche le altre squadre. Pote­ vo tornarmene allo scavo. Il carriolante deve per forza sentire la carriola, il suo centro di gravità, la sua ruota, l’asse su cui gira, la direzione che prende. In­ fatti la ruota in movimento non la vede mai, né all’andata, quan­ do è carica, né al ritorno. Quindi deve sentirla. La ruota della car­ riola può essere di due tipi, uno con una corona piu sottile e un diametro maggiore, e l’altra con la corona piu larga. In piena conformità alle leggi della fisica, quella del primo tipo gira meglio, la seconda però è piti stabile. La ruota, munita di copiglia per im­ pedire che si sfili dal perno, e ben lubrificata con olio minerale, grasso e pece viene saldamente collocata nella sua sede alla base della carriola. Anche la carriola va ben ingrassata. Le botti di lubrificante di solito erano tenute nelle utensilerie. Ma quante centinaia di migliaia di carriole finivano fuori uso in una stagione di estrazione dell’oro alla Kolyma ? Con riferimento a una sola direzione e per giunta piuttosto piccola, si parla di de­ cine di migliaia. Nelle direzioni dei lavori stradali, che non si occupano di estra­ zione dell’oro, impiegano le stesse carriole, sia le grosse che le pic­ cole. La pietra è pietra dappertutto. Un metro cubo è comunque un metro cubo. La fame è sempre fame. La stessa trassa che attraversa tutta la Kolyma, può essere vi­ sta come una specie di passerella principale della regione aurifera. Dalla rotabile si dipartono dei rami secondari, strade sassose con un fitto andirivieni nei due sensi di marcia; sulla rotabile princi­ pale gli automezzi si muovono invece in otto file, in costante mo­ vimento per collegare miniere e giacimenti al resto della Kolyma. Il tracciato della rotabile fino alla Nera è di milleduecento chilo­ metri, non contando le deviazioni, e con la strada Deljankir-Kulu-Ten'ki si superano i duemila chilometri. I bulldozer arrivarono durante la guerra. Prima ancora le sca­ vatrici. Nel 1938 non c’erano né questi né quelli. Eppure, oltre Ja-

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godnyj, seicento chilometri di trassa vennero ad aggiungersi alle strade già in esercizio per i giacimenti del Sud e del Nord. La Koly­ ma forniva già il suo oro, e i capi ricevevano le loro onorificenze. Tutti questi miliardi di metri cubi di rocce polverizzate con gli esplosivi, tutte queste strade, rampe, vie di carreggio, impianti di lavaggio, villaggi e cimiteri: tutto quanto è stato fatto a mano, con il piccone e la carriola'. [1972]. Tacka II, in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

1 Nel novembre 1936 la Kolyma celebrò una ricorrenza - i cinque anni del Dal'stroj. In vista di quella data il movimento stachanovista moltiplicò gli sforzi per guadagnarsi il diritto di figurare tra i firmatari del rapporto a Stalin.Un brano di questo rapporto, ap­ parso sulla «Sovetskaja Kolyma» del 7 novembre 1936, è qui riportato. Salamov scrisse L a carriola proprio dopo averlo letto. «Alla guida dei popoli, all’organizzatore delle nostre vittorie, al compagno Stalin ... Realizzando la tua direttiva per lo sviluppo dell’estrazione dell’oro, abbiamo co­ struito un porto e una strada che collegano stabilmente il litorale del Mare di Ochotsk ai principali distretti auriferi. Questo ci ha consentito, col superamento della stagionalità dei lavori e la coltivazione invernale delle torbe, di raddoppiare anno dopo anno i quantitati­ vi di metallo estratto e di aggiungere per quanto possibile il nostro contributo alla realiz­ zazione della tua direttiva sulla necessità di quadruplicare l’estrazione dell’oro nel nostro Paese... Sviluppando il movimento stachanovista e senza mai perdere d’occhio i nostri ne­ mici, i tirapiedi trockisti-zinovieviani, continueremo a lottare per nuovi successi, per nuo­ vi piu elevati indici del lavoro stachanovista, per conquistare al collettivo dei lavoratori della Kolyma il nome di collettivo stachanovista... Ti ringraziamo per questa vita felice, questa vita piena di gioia! Viva la nostra guida amata e saggia, viva il compagno Stalin! Il rapporto viene firmato dai migliori stachanovisti della Kolyma». Al secondo raduno degli stachanovisti kolymiani, nelle relazioni dei loro dirigenti ven­ nero riferite queste cifre: la manodopera impiegata tra il ’32 e il ’36 era aumentata di 9,4 volte; erano stati eseguiti lavori di scavo per «quasi 19 milioni di m3» - quasi un altro Belomorkanal.

«... E giunta una nuova era. Per la prima volta si è qui manifestata la tenacia bolsce­ vica, determinazione e costanza ferree... Pareva che nelle condizioni della Kolyma - dove si arriva anche ai settanta gradi sotto zero, e il suolo permanentemente gelato è la norma - non si potesse neanche pensare all’estrazione a cielo aperto nella stagione invernale. Il programma di estrazione dell’oro indicato dal governo al D al'stroj non si accordava con si­ mili condizioni. Il compito non era facile. Ma i risultati sono stati eccellenti: è stata aboli­ ta la stagionalità dei lavori minerari a cielo aperto nell’Estremo Nord. In inverno si è im­ piegata manodopera supplementare». Da Come abbiam o estratto l ’oro, 7 novembre 1936 [Nota all’edizione russa].

L a c ic u t a

L ’accordo era questo: se li avessero destinati al lager nomemoj Berlag si sarebbero suicidati tutti e tre, non avevano nessuna vo­ glia di andare nel mondo, contrassegnato da numeri, degli speclagerja. Tipico errore da lager. Ogni suo abitante si basa sulla giornata appena trascorsa e pensa che da qualche parte fuori dal suo mon­ do ci siano posti ancora peggiori di quello dove ha passato la not­ te. Ed è vero. Posti del genere esistono, il pericolo di finirci in­ combe sempre sul capo del detenuto, e il lagemik guardingo fa a meno di cercare di andare chissà dove. Perfino i venti della pri­ mavera non portano il desiderio di cambiamenti. Il cambiamento è sempre pericoloso. Questa è una delle importanti lezioni che l’uo­ mo assimila nel lager. Per poter guardare con fiducia ai cambiamenti bisogna non aver soggiornato in quei luoghi. Il lagemik esperto è contrario a qual­ siasi cambiamento. Per quanto stia male li dov’è, dietro l’angolo può essere ancora peggio. Per questo i tre avevano preso la decisione di morire proprio nel momento cruciale. L ’estone Anti, un pittore d ’avanguardia estimatore di Ciurlionis1 parlava sia l’estone che il russo. Il lituano, medico senza di­ ploma, Draudvilas, studente del quinto anno, ammiratore di Miczewicz12, parlava il lituano e il russo. Lo studente del secondo an­ no della facoltà di medicina Garlejs parlava sia il lettone che il russo. Cosi i tre baltici avevano progettato il suicidio parlando in russo. 1 Mykolas Konstantinos Čiurlionis (1875-1911), pittore lituano, simbolista, influenzò Kandinskij; della sua opera, in gran parte distrutta e oggi raccolta a Vilnius, c’è stata una rivalutazione internazionale postuma. 2 Adam Mickiewicz (1798-1855), il grande poeta nazionale polacco, amico di Puškin; attivo nella lotta per l’indipendenza del suo paese, per questo fu esiliato dai Russi.

LA CICUTA

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Anti, l’estone, era il cervello e il motore di quell’ecatombe bal­ tica. Ma come ? Dovevano lasciare delle lettere? Le ultime volontà? Anti era contrario e Garlejs pure. Draudvilas era per lasciarle, ma gli amici lo avevano dissuaso dicendogli che nel caso di un fallimento le let­ tere avrebbero costituito delle prove contro di loro, delle inutili complicazioni difficili da spiegare quando li avessero interrogati. Decisero di non lasciare lettere. Tutti e tre erano finiti da tempo in certi elenchi e ognuno di loro lo sapeva per certo: li aspettava un lager nomemoj, un lager a regime speciale. E insieme si erano convinti a non tentare oltre la sorte. In quanto medico, Draudvilas non avrebbe dovuto temere un peggioramento della propria sorte, neanche nel lager speciale. Ma aveva ben presente come gli era stato difficile, anche in quel lager a regime normale, rimediare un posto nel servizio medico. Sarebbe dovuto accadere un miracolo. Lo stesso pensava Garlejs, mentre il pittore Anti capiva che con la sua arte era messo perfi­ no peggio di un attore e un cantante e sicuramente non ci sareb­ be stato alcun bisogno di lui nel nuovo lager, proprio come li dov’era adesso. Il primo sistema di suicidio preso in esame fu quello di gettar­ si sotto le pallottole della scorta. Ma poteva finire in un semplice ferimento con contorno di calci. Difficile trovare chi ti ammazzi sul colpo. I fucilieri del lager erano come i soldati di re Giorgio nella commedia di Bernard Shaw II discepolo del diavolo e poteva­ no fallire il bersaglio. La scorta non dava decisamente affidamen­ to e questa variante venne scartata. Annegarsi nel fiume? Il fiume Kolyma era nelle vicinanze, ma era inverno e trovare un buco per infilarcisi dentro era un proble­ ma. Il ghiaccio spesso tre metri ricopriva in un istante qualsiasi bu­ co. Trovare una corda era semplice. E il sistema sicuro. Ma dove si sarebbe appeso il suicida, sul posto di lavoro, nella baracca? L ’a­ vrebbero tirato giu, e il ricordo della figuraccia l’avrebbe accom­ pagnato per sempre. Spararsi un colpo ? I detenuti non avevano armi. Aggredire la scorta era peggio che sfidarne le pallottole fuggendo: una monta­ gna di sofferenze ma non la morte. Aprirsi le vene, come Petronio, era poi del tutto impossibile. Era necessaria dell’acqua calda, una vasca da bagno, se non si vo­ leva diventare un invalido con la mano rattrappita: un invalido, ec­ co cosa sarebbe capitato a fidarsi della natura, del proprio corpo.

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Non c’era che il veleno, una coppa di cicuta, ecco il metodo si­ curo. Ma cosa avrebbero usato come cicuta ? Procurarsi del cianuro di potassio era impossibile. Ma l’ospedale, la farmacia erano un deposito di veleni. Ci sono veleni che aggrediscono la malattia, di­ struggendo la parte malata e facendo posto alla vita. No, solo il veleno. Solo una coppa di cicuta, il mortale calice di Socrate. Si trovò infine, la cicuta, e Draudvilas e Garlejs ne garantiro­ no la comprovata efficacia. Era il fenolo. Acido fenico in soluzione. Al reparto di chirur­ gia dove lavoravano Draudvilas e Garleis c’era un scorta perma­ nente di quell’energico antisettico, tenuta in un comodino metal­ lico. Draudvilas mostrò la fatidica bottiglia all’estone Anti. - Sembra cognac, - disse Anti. - Ci assomiglia. - Gli faccio l’etichetta: «Qualità tre stelle». Lo speclag raccoglie le proprie vittime ogni quattro mesi. Ven­ gono organizzate delle vere e proprie retate poiché anche in isti­ tuzioni come l’Ospedale centrale esistono posti e mansioni che consentono di «imboscarsi» in attesa che passi la tempesta. Ma se non sei capace di «imboscarti», devi vestirti, raccogliere le tue co­ se, pagare i debiti, sederti su una panca e aspettare pazientemen­ te che il soffitto crolli, chissà mai, sulla testa dei nuovi venuti o è l’altra possibilità - sulla tua. Devi aspettare docilmente un even­ tuale intervento del direttore dell’ospedale: che magari a furia di insistenze ottenga dai compratori la restituzione di quella merce che a lui serve e della quale i compratori possono benissimo fare a meno. Ë passata quell’ora, o quel giorno, e si è chiarito che non c’è nessuno che possa difenderti e salvarti, e che il tuo nome resta nel­ le liste «da trasferire». E allora giunge il tempo della cicuta. Anti prese dalle mani di Draudvilas la bottiglia e ci incollò so­ pra un’etichetta da cognac che sembrava vera, perché Anti aveva dovuto nascondere in fondo all’anima tutti i suoi gusti d ’avan­ guardia e optare per il realismo. L ’ultima opera dell’ammiratore di Ciurlionis fu proprio l’eti­ chetta da cognac «Qualità tre stelle», una raffigurazione squisita­ mente realistica. All’ultimo momento, Anti aveva ceduto al reali­ smo. Che nella circostanza risultò piu adatto.

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- E perché tre stelle ? - Le tre stelle siamo noi tre, è un’allegoria, un simbolo. - E come mai l’hai raffigurata così naturalisticamente, questa tua allegoria? - celiò Draudvilas. - Se dovessero entrare e saltarci addosso spiegheremo che si tratta soltanto di un cognacchino per festeggiare la partenza. - Intelligente. E qualcuno entrò per davvero, ma non per saltar loro addosso. Anti riuscì a infilare nell’armadietto farmaceutico la bottiglia e la riprese non appena la guardia fu uscita. Anti versò il fenolo nei boccali. - Beh, alla vostra salute! Anti bevve, bevve anche Draudvilas. Garlejs invece ne prese solo un sorso, ma senza inghiottire, poi lo risputò e superando con cautela i corpi dei compagni riversi sul pavimento raggiunse la conduttora dell’acqua e si sciacquò la bocca ustionata. Draudvilas e Anti si contorcevano e rantolavano. Garlejs pensava a ciò che avrebbe dovuto dire all’inquirente. Restò ricoverato in ospedale due mesi, la laringe ustionata guarì. Di lì a molti anni, di passaggio a Mosca, Garlejs venne a far­ mi visita. Giurò e spergiurò che il suicidio era stato in realtà un tragico errore, che il cognac «Tre stelle» era vero cognac, e che quando aveva recuperato la bottiglia dall’armadietto farmaceuti­ co Anti l’aveva confusa con l’altra, simile, contenente il fenolo, la morte. Le indagini andarono per le lunghe, ma Garlejs non venne con­ dannato, gli credettero. La bottiglia di cognac non venne piu ri­ trovata. Difficile accertare a chi fosse stata data in premio, sem­ pre che fosse mai esistita. L ’inquirente non aveva niente da obiet­ tare alla versione di Garlejs, per lui era una noia in meno, si risparmiava tutta la sequela di riscontri, ammissioni e confessioni varie. Garlejs proponeva all’inquirente una via d’uscita ragione­ vole e logica. Draudvilas e Anti, gli organizzatori dell’ecatombe baltica, non poterono mai sapere se della loro azione s’era parlato poco o invece molto. Se ne era parlato molto. Con il tempo Garlejs aveva ristretto, se non tradito, la propria specializzazione medica optando per la redditizia professione di protesista dentario. Garlejs era venuto da me per un consiglio giuridico. Non gli avevano concesso il permesso di residenza a Mosca. Glielo aveva­ no rilasciato per Riga, la città di origine della moglie. Anche la mo­ glie di Garlejs era medico ed esercitava a Mosca. Era successo che,

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quando Garlejs aveva presentato domanda di riabilitazione, s’era fatto consigliare da uno degli amici della Kolyma, dopo avergli rac­ contato tutti i fatti della sua giovinezza in Lettonia per i quali era finito dentro, compresa la faccenda dello scoutismo3 e altre cose ancora. - Gli ho chiesto consiglio, e cioè se dovevo scrivere tutto quan­ to. E il mio migliore amico mi ha detto: «Scrivi tutta la verità. Tutti i fatti come si sono svolti». L ’ho fatto e non ho ottenuto la riabilitazione. Ho ottenuto solo l’autorizzazione a risiedere a Ri­ ga. Mi ha proprio giocato un brutto tiro, altroché miglior amico... - Non le ha giocato nessun tiro, Garlejs. E stato lei a chiedere consiglio su una faccenda per la quale non si possono dare consi­ gli. Qualsiasi altra risposta le avesse dato, lei cosa avrebbe fatto? Il suo amico poteva anche pensare che lei fosse una spia, un pro­ vocatore. Perché avrebbe dovuto rischiare? Le è stata data l’uni­ ca risposta che può essere data a una domanda del genere. Il se­ greto di un altro è molto piu gravoso di un segreto proprio. 1973. Cikuta, in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

3 Presente in Russia dal 1909, l’organizzazione di Baden-Powell venne sciolta tra il 1920 e il 1922, ma certi suoi metodi e principi furono mutuati dai «pionieri» (futuri komsomoliani) su nuove basi comuniste.

Il dottor Jampol'skìj

Nelle mie memorie degli anni della guerra capiterà spesso di trovare il nome del dottor Jamporskij. Il destino ci fece ripetutamente incontrare piu di una volta nelle zony a regime speciale del­ la Kolyma durante il periodo bellico. Nel dopoguerra, ultimati nel 1946 i relativi corsi a Magadan, cominciai io stesso a lavorare co­ me infermiere e non ebbi piu occasione di imbattermi nell’attività del dottor Jampol'skij, praticante di medicina e capo di sezioni sa­ nitarie di giacimenti. Il dottor Jamporskij non era né dottore in medicina né infer­ miere diplomato. Moscovita, condannato in base a un articolo per reati comuni, da detenuto si era presto reso conto della solida po­ sizione che gli sarebbe potuta derivare da una formazione di tipo medico. Ma di tempo per studiare da medico o almeno da infer­ miere non ne aveva. E gli riuscì, da inserviente di corsia - addetto a misurare la feb­ bre ai malati, a rassettare il reparto, a trasportare i malati gravi di imparare le mansioni del praticante infermiere. La cosa, di per sé non proibita nel mondo esterno, nel lager apriva addirittura grandi prospettive. L ’esperienza pratica infermieristica è facile da acquisire e - con il costante deficit di quadri medici nei lager - può dare a parecchi un pezzo di pane sicuro. JampoLskij aveva un’istruzione media e quindi qualcosa delle spiegazioni dei medici riusciva ad afferrarlo. L ’attività pratica con la supervisione non di uno ma di parec­ chi medici, poiché i dirigenti specializzati si avvicendavano con frequenza, incrementava le specifiche nozioni di Jampol'skij e so­ prattutto faceva crescere la sua presunzione. Ma non era la classi­ ca presunzione dell’infermiere il quale, pur sapendo che con dei malati gravi non serve, si dedica ugualmente a tastare il polso, a contarne, orologio alla mano, i battiti, con un sussiego e una pre­ sunzione da barzelletta.

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Jampol'skij era piu intelligente. Faceva l’infermiere già da al­ cuni anni e si rendeva conto che, in assenza di altre cognizioni me­ diche, il fonendoscopio, al momento dell’auscultazione non gli avrebbe rivelato proprio nessun segreto. La carriera infermieristica consenti al detenuto Jampol'skij di sopravvivere senza problemi al periodo di pena e di completarlo felicemente. E all’importante bivio successivo pose anche le basi di una vita sicura e giuridicamente garantita. Jampol'skij decise cioè che avrebbe continuato a lavorare in campo sanitario anche dopo la detenzione. Non che intendesse ac­ quisire un’istruzione medica, voleva semplicemente entrare a far parte dell’organico della sanità, piuttosto che fare il contabile o l’agronomo. Come ex detenuto non avrebbe avuto diritto ad extra salaria­ li, ma non era al «rublo pesante» che pensava. La qualifica medica garantiva già di per sé prebende e vantag­ gi assolutamente rispettabili. Ma se un infermiere privo di titoli può, sotto la direzione di un medico, svolgere le sue mansioni infermieristiche, c’è qualcuno a dirigere il lavoro propriamente medico ? Nel lager e alla Kolyma e dappertutto c’è la mansione ammi­ nistrativa di direttore della sezione sanitaria. Poiché il 90 per cen­ to del lavoro medico consiste in carte e moduli vari, questa man­ sione dovrebbe in teoria lasciar liberi gli specialisti di fare il loro vero lavoro. La mansione economico-amministrativa, impiegatizia, di direttore sanitario può essere ricoperta da un medico, ma se anche lo fa qualcun altro poco male, l’importante è che si trat­ ti di una persona energica dotata di capacità organizzative. I direttori d’ospedale, i capi delle sezioni sanitarie devono ave­ re queste caratteristiche, che poi siano anche medici è relativo. I lorostipendi sono più elevati di quelli dei medici specialisti. E a questa mansione che puntò Jampol'skij nei suoi progetti. Curare gli ammalati non sapeva e non poteva. Non che gliene mancasse il coraggio. S ’era anche impegnato in una serie di inca­ richi propriamente medici, ma ogni volta aveva dovuto desistere, ripiegando su ruoli amministrativi e organizzativi, dove - tra l’al­ tro - poteva aspettare con maggiore tranquillità la fine di questa o quella ispezione. La mortalità tra i ricoverati è elevata: e allora ? Ci vorrebbe lo specialista. Ma lo specialista non c’è. Dunque sarà giocoforza la­ sciare il dottor Jampol'skij al suo posto. Gradualmente, passando da un incarico all’altro, Jampol'skij

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acquisi anche delle cognizioni mediche e soprattutto assimilò la ca­ pacità di tacere quand’era il caso, di scrivere nel momento giusto una delazione, un’informativa a chi di dovere. Una situazione tutto sommato normale se contemporaneamente non fosse cresciuto in Jampol'skij l’odio nei confronti di quei po­ veracci dei dochodjagi in genere e dei dochodjagi dell’intelligencija in particolare. Al pari di tutti i dirigenti dei lager della Kolyma, Jampol'skij vedeva in ogni poveraccio stremato un simulatore e un nemico del popolo. E non sapendo capire l’uomo che gli stava davanti, non volen­ do credergli, Jampol'skij si prendeva la grande responsabilità di spedire ai forni crematori dei lager kolymiani - al gelo dei meno sessanta - delle persone in preda all’inedia, che in quei forni fini­ vano di morire. Jampol'skij si assumeva bravamente la propria par­ te di responsabilità, firmando quei certificati di morte certa pre­ parati dai superiori, o addirittura redigendoli di persona. Incontrai per la prima volta il dottor Jampol'skij al giacimento Spokojnyj. Interrogati alcuni malati, il dottore - camice bianco e fonendoscopio gettato sulla spalla - scelse me come inserviente, per misurare la temperatura, riordinare la corsia, trasportare i ma­ lati gravi. Tutte cose di cui ero già pratico, dai tempi dell’esperienza al Belič'ja, agli esordi del mio difficile cammino nel settore medico. Dopo che avevo «toccato il fondo» ed ero stato ricoverato con la pellagra in quell’ospedale regionale del Nord e inaspettatamente mi ero ristabilito, restando a lavorare in corsia, finché i capinte­ sta non mi avevano rigettato appunto allo Spokojnyj dove mi ero di nuovo ammalato, con la «temperatura alta»: il dottor Jampol'skij, di fronte al resoconto orale che gli feci del fascicolo kolymiano a me intestato, decise di attenersi unicamente agli aspetti medici del caso, constatò che non lo ingannavo e anche che sape­ vo a menadito nome e patronimico di tutti i medici ospedalieri, e insomma mi propose lui stesso di dare una mano in corsia. In realtà il mio stato era tale da non consentirmi neanche quel lavoro. Ma alla sopportazione umana non ci sono limiti e così co­ minciai a misurare la febbre - per la qual cosa ricevevo in conse­ gna quella rarità preziosa che era un autentico termometro - e a prenderne nota sugli appositi fogli. Per quanto modesta fosse all’epoca la mia esperienza dell’ospe­ dale, capivo chiaramente che i ricoverati ci venivano per morire. Come quel detenuto, gonfio gigante edematoso: non riusciva in nessun modo a riscaldarsi e lo avevano ficcato a forza in un ba­

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gno caldo senza che neanche in quel modo il distrofico riuscisse a sentire un po’ di tepore. Per tutti questi malati veniva compilata una cartella clinica, ve­ nivano annotate delle prescrizioni che poi nessuno osservava. Nell’infermeria della sezione sanitaria non c’era niente di niente, a parte il permanganato. E cosi davano quello, per uso interno in una soluzione debole, e come medicazione topica sulle piaghe da scorbuto e pellagra. Può essere che, in sostanza, non fosse neppure il peggior ri­ medio possibile, ma trovavo comunque la cosa deprimente. Nel reparto erano ricoverate sei o sette persone. Costoro, destinati l’indomani, se non il giorno stesso, a diven­ tare cadaveri, ricevevano la quotidiana visita del capo della sezio­ ne sanitaria del giacimento, il libero salariato dottor Jampol'skij con la sua camicia candida, il camice ben stirato, il completo gri­ gio da «libero» che gli era stato regalato da certi malavitosi come compenso per averli fatti trasferire all’Ospedale centrale sulla ri­ va sinistra, anche se erano sani come pesci, mentre si era tenuto invece ben stretti i candidati cadaveri. Fu qui che incontrai Rjabokon', il seguace di Machno. Il dottore con l’abbagliante camice inamidato passeggiava tra gli otto giacigli di legno con i sacconi imbottiti di fronde di pino nano, gli aghi secchi ridotti a una macinatura, un pulviscolo ver­ de e i rami contorti che premevano da dentro la tela e qua e là la perforavano come dita di uomini vivi o forse morti, altrettanto rin­ secchiti, altrettanto anneriti. Su quei sacchi di ramaglie, coperti da coltri logore, ragnate, mille volte riutilizzate, e che non erano in grado di trattenere nean­ che una goccia di calore, né io, né i miei vicini morenti - il letto­ ne e il machnoviano - riuscivamo minimamente a scaldarci. Il dottor Jampol'skij mi annunciò che il suo capo gli aveva or­ dinato di tirar su un reparto proprio, fatto in economia, e che, il giorno dopo - lui e io - avremmo iniziato i lavori. «Per adesso ti trattengo in base alla cartella clinica, poi si vedrà». La proposta non mi rallegrò. Desideravo solo la morte, ma non mi risolvevo al suicidio e cosi tiravo in lungo, un giorno dopo l’al­ tro. Vedendo che non potevo decisamente essergli di nessun aiuto nei suoi progetti edilizi non ce la facevo a smuovere non dico un tronco ma neppure un bastone - e me ne stavo semplicemente se­ duto (stavo per scrivere «per terra», ma alla Kolyma non ci si sie­ de mai per terra, visto il gelo perenne che c’è laggiù, non si usa, a

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scanso di esiti mortali), me ne stavo dunque seduto su un ceppo o un mucchio di frasche e guardavo il mio superiore impegnato in un esercizio di scortecciatura, Jampol'skij non stette a trattener­ mi oltre e prese subito un altro inserviente, e il ripartitore del gia­ cimento mi mandò ad aiutare il fuochista del carbone. Lavorai da lui alcuni giorni, dopo di che passai a un altro la­ voro che non ricordo, e poi l’incontro con Lëàa Cekanov impres­ se alla mia vita un micidiale moto rotatorio. A Jagodnyj, intanto che procedeva il mio caso - poi finito in niente - per renitenza al lavoro, riuscii a mettermi in contatto con Lesnjak, il mio angelo custode alla Kolyma. Non che Lesnjak fos­ se l’unico custode del destino che mi era stato assegnato - a tan­ to non potevano bastare le sole forze sue e della moglie Nina Vla­ dimirovna Savoeva: era una circostanza della quale ci rendevamo benissimo conto tutti e tre. Comunque - tentare non nuoce - pro­ vai a mettere un bastone nella ruota di quella macchina di morte. Ma io ho «ossa dure e mani pesanti», come dicono i malavito­ si, e prima di rendere il dovuto agli amici preferisco pareggiare i conti con i nemici. Prima viene il turno dei peccatori, poi quello dei giusti. Per questo motivo Lesnjak e Savoeva cedono il passo al farabutto Jam­ pol'skij. E cosi deve essere, evidentemente. Non me la sentirei di cele­ brare il giusto senza prima chiamare per nome il vigliacco. Dopo questa digressione, niente affatto lirica ma indispensabile, torno al mio racconto su Jampol'skij. Quando dalla cella di isolamento del carcere istruttorio tornai allo Spokojnyj trovai naturalmente chiuse tutte le porte alla se­ zione sanitaria, e le mie possibilità di farmi ascoltare compietamente esaurite, tant’è che incontrandomi nella zona il dottor Jam­ pol'skij voltò la testa dall’altra parte, come se non mi avesse mai veduto. Invece, ancora prima che ci incontrassimo nella zona, Jampol'skij aveva già ricevuto una lettera dalla direttrice dell’ospedale regio­ nale, la «libera» a contratto e membro del partito, dottoressa Sa­ voeva, nella quale gli chiedeva di venirmi in aiuto - Lesnjak l’ave­ va informata della mia situazione - facendomi senz’altro trasferi­ re all’ospedale provinciale come malato. E lo ero davvero, malato. La lettera era stata portata allo Spokojnyj da uno dei medici. Il dottor Jampol'skij, senza convocarmi e senza neppure dirmi niente, trasmise semplicemente la lettera al capo dell’Ólp Emel'janov. Fece cioè una spiata ai danni della Savoeva.

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Quando io, essendo stato informato dell’esistenza di quella let­ tera, sbarrai il passo a Jampol'skij nel lager e, usando naturalmen­ te le espressioni piu riguardose che mi suggeriva l’esperienza car­ ceraria, mi informai circa la sorte della lettera, Jampol'skij mi dis­ se di averla trasmessa per competenza, di averla consegnata al capo dell’Olp e quindi era 11 che dovevo rivolgermi e non a lui, Jam­ pol'skij, né alla sezione sanitaria. Non stetti ad aspettare molto e chiesi di essere ricevuto da Emel'janov. Il capo dell’Olp mi conosceva un poco anche di per­ sona - eravamo andati insieme, nel bel mezzo di una tempesta e in una sola giornata di marcia, ad aprire quel giacimento, con il vento che mandava a gambe all’aria tutti quanti senza distinzio­ ne, liberi salariati, detenuti, dirigenti e lavoratori. Lui natural­ mente non si ricordava di me, ma considerò la lettera del prima­ rio ospedaliero Savoeva alla stregua di una normalissima richiesta. - La manderemo, la manderemo. E dopo qualche giorno mi ritrovai al Belie'ja, passando per la komandirovka forestale dell’Olp di Jagodnyj, il cui infermiere era un tale Efa, anche lui senza titoli come quasi tutti gli infermieri kolymiani. Efa accettò di informare Lesnjak del mio arrivo, il Be­ bé'ja era a sei chilometri da Jagodnyj. La sera stessa arrivò un au­ tomezzo da Jagodnyj e io, per la terza e ultima volta, venni accol­ to all’ospedale provinciale del Nord, lo stesso dove un anno prima mi avevano sfilato dalle mani i guanti da allegare alla cartella cli­ nica. Qui lavorai come organizzatore culturale, del tutto ufficial­ mente, sempre che alla Kolyma ci sia qualcosa di veramente uffi­ ciale. Lessi i giornali ai malati fino alla fine della guerra, fino alla primavera del ’45. E nella primavera del ’45 Savoeva, il primario medico, venne trasferita a un altro lavoro e le subentrò un nuovo primario, una tale con un occhio artificiale, non mi ricordo se il destro o sinistro, e il soprannome di Sogliola. Questa Sogliola mi rimosse senza indugio dall’incarico e la se­ ra stessa mi mandò sotto scorta all’Olp del comando militare di Ja­ godnyj dal quale la notte stessa venni spedito a un cantiere fore­ stale nei pressi della sorgente Diamante dove preparavano i pali per le linee ad alta tensione. I fatti che vi accaddero li ho descrit­ ti nel mio racconto Riodiamante. Anche se laggiù si lavorava senza scorta armata le condizioni erano inumane, eccezionali perfino per la Kolyma. A chi non realizzava la norma minima di produzione per le ven­ tiquattro ore non davano semplicemente il pane. Venivano espo­

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ste delle liste con i nomi di quelli che il giorno dopo in base al la­ voro della giornata non avrebbero ricevuto il pane. Ho visto ogni forma di arbitrio, ma cose del genere mai, da nes­ suna parte. Cosi quando finii a mia volta in quelle liste non posi tempo in mezzo e tagliai la corda, andai a piedi a Jagodnyj. La mia fuga riuscì. Poteva anche essere classificata come assenza ingiu­ stificata visto che non mi ero eclissato tra i ghiacci, ma mi ero pre­ sentato all’ufficio del comando. Mi misero nuovamente dentro e aprirono una nuova istruttoria. E ancora una volta lo Stato deci­ se che il mio nuovo periodo di pena era cominciato da troppo po­ co per affibbiarmi un’altra condanna. Stavolta però non fui avviato per una peresylka, ma venne di­ sposto il trasferimento alla speczona di Dželgala, la stessa dove mi avevano processato un anno prima. Di norma nel posto dove si è stati processati non si torna piu. Qui andò diversamente, forse per un errore, va’ a sapere. Varcai quel portone, salii su per la montagna al centro del gia­ cimento, dove ero già stato e mi ero preso dieci anni. Né Krivickij né Zaslavskij erano piu a Dželgala e questo mi con­ fermò una volta di piu nell’idea che i capi regolano i loro conti con i collaboratori con onestà, e non cercano di cavarsela con qualche cicca e una scodella di sbobba. E saltò fuori all’improvviso che a Dželgala c’era qualcuno che me l’aveva giurata, uno dei salariati liberi. Chi poteva essere? Il nuovo capo della sezione sanitaria del giacimento, il dottor Jampol'skij appena trasferito a quel nuovo incarico. Jampol'skij gridava a tutti che mi conosceva bene, che a quanto gli risultava ero un delatore, che c’era perfino una lettera personale di un me­ dico salariato, Savoeva, che si occupava di me, e che ero uno sfa­ ticato, un poltrone, un informatore di professione, e che per poco avevo rovinato due poveri disgraziati come Krivickij e Zaslavskij. La lettera della Savoeva! Ero un delatore e uno stukac, e co­ s’altro potevo essere! Lui, Jampol'skij, aveva ricevuto dalle auto­ rità superiori l’ordine di alleggerire la mia situazione e ci si era at­ tenuto, mantenendo in vita un farabutto come me. Ma qui, nella zona a regime speciale, lui, Jampol'skij, non avrebbe avuto per me nessuna pietà. Di un lavoro in campo medico naturalmente neanche a parlar­ ne, e io mi preparai per l’ennesima volta a morire. Era l’autunno del 1945. E all’improvviso chiusero Dželgala. La speczona con la sua geografia e topografia studiate a tavolino al­ l’improvviso tornò utile per un altro scopo. E uno scopo urgente.

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Tutto il nostro «contingente» veniva dislocato a occidente, la direzione occidentale era a Susuman e intanto che cercavano il po­ sto per una nuova speczom ci avrebbero sistemati nella prigione di Susuman. A Dželgala mandavano i rimpatriati: il primo bottino in terra straniera direttamente dall’Italia. Erano soldati russi che avevano prestato servizio nell’esercito italiano. Quegli stessi rimpatriati che avevano risposto all’appello a tornare in Patria. Al confine i loro convogli erano stati circondati da scorte ar­ mate e il loro treno aveva cambiato destinazione: era diventato l’e­ spresso Roma-Magadan-Dželgala. Tutti - anche se non avevano conservato né la biancheria né gli oggetti d ’oro, barattando in viaggio ogni cosa con il pane - tut­ ti quanti restavano in uniforme. Continuavano a lottare. Davano loro da mangiare quello che davano anche a noi, lo stesso, nella stessa quantità. Dopo il primo pasto alla mensa del lager un «ita­ liano» dallo spirito indagatore mi domandò: - Perché alla mensa tutti i vostri mangiano solo minestra e kaša e invece il pane, l’intera razione, lo tengono in mano e se lo por­ tano via ? Come mai ? - Tempo una settimana, capirai tutto quanto da solo, - gli ri­ sposi. Con il trasferimento della speczona portarono via anche me, a Susuman, nella malaja zona, quella di transito. Da lf riuscii a far­ mi ricoverare in ospedale e con l’aiuto del medico Andrej Maksimovič Pantjuchov riuscii ad essere ammesso ai corsi di infermiere per detenuti a Magadan, o piu esattamente al 230 chilometro del­ la rotabile principale. Proprio questi corsi, che riuscii a portare a termine con suc­ cesso, dividono in due parti la mia vita kolymiana: dal 1937 al 1946, dieci anni di peregrinazioni tra ospedali e giacimenti e vi­ ceversa, con il supplemento di pena - dieci anni - nel 1943. E dal 1946 al 1953, quando, lavorando come infermiere, riuscii a farmi computare i giorni lavorativi e a ottenere il rilascio nel 1951. Fu solo dopo il 1946 che compresi di essere davvero rimasto vivo e che sarei sopravvissuto fino al termine della pena e anche oltre, e che il compito che mi si prospettava - il compito princi­ pale - era proprio di continuare a vivere anche in seguito come ero vissuto tutti quei quattordici anni. Le regole che mi sono imposto non sono numerose, ma le os­ servo, le osservo tuttora. 1970-71. D oktor Jam pol'skij, in «Literaturnaja Armenija», 1989, n. 5.

I l te n e n te c o lo n n e llo F ra g in

Il tenente colonnello Fragin, capo della sezione speciale, lo spe­ cotdel, era stato generale della polizia prima di essere degradato. Generale di divisione della milicija di Mosca, lungo tutto il suo cammino di valoroso aveva lottato con successo contro il trockismo ed era stato fidato collaboratore dello Smers durante la guer­ ra. Il maresciallo Timošenko, che non poteva soffrire gli ebrei, de­ gradò Fragin a colonnello e gli propose di lasciare il servizio atti­ vo. Laute prebende, gradi e prospettive di carriera, nonostante la degradazione, restavano però a portata di mano: con il lavoro nei lager, solo laggiù gli eroi della guerra potevano conservare intatti gradi, mansioni e prebende. Dopo la guerra il generale della poli­ zia diventò colonnello nei lager. Fragin aveva una famiglia nume­ rosa, e dovette cercarsi un lavoro che, pur nelle condizioni del­ l’Estremo Nord, gli consentisse di risolvere in modo soddisfacen­ te le varie esigenze familiari: nido d’infanzia, asilo, scuola, cinema. Cosi Fragin fini all’Ospedale per detenuti della Riva sinistra; il suo inquadramento non era quello di ufficiale di carriera come avrebbero desiderato lui stesso e i suoi superiori, ma di capo del­ la Kvč, la sezione educativo-culturale. Gli assicurarono che sarebbe riuscito nel compito di educare i detenuti. Erano rassicurazioni del tutto fondate. Poiché era ben nota l’inconsistenza di quella sezio­ ne, come di tutte le altre, si sapeva che era una sinecura per un la­ voro inesistente, la designazione di Fragin venne accolta con ap­ provazione o al più con indifferenza. E in effetti l’elegante colon­ nello, con i suoi riccioli mossi color sale e pepe, la fodera del colletto sempre linda, il profumo di colonia, a buon mercato ma non dozzinale, era di gran lunga più simpatico del sottotenente Zivkov, predecessore di Fragin in quell’incarico. Zivkov era scarsamente interessato ai concerti, al cinema e al­ le riunioni e aveva concentrato ogni risorsa del proprio attivismo sulla questione nuziale, risolvendola felicemente. Zivkov, un bel­ l’uomo, il ritratto della salute, era scapolo e se la faceva contem­

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poraneamente con due detenute. Lavoravano entrambe all’ospe­ dale. L ’ospedale era come un paesotto della provincia piu profon­ da, non c’erano segreti, tutti sapevano tutto. Una delle amiche del bell’ufficiale era una blatarka che aveva «chiuso» con la malavita ed era passata al mondo dei fraera, una bella donna fiera di Tbili­ si. I blatari avevano cercato di far cambiare idea a Tamara. Era stato tutto inutile. E agli ordini dei pachani, i caporioni, di pre­ sentarsi in questo o quel posto a esercitare le proprie funzioni isti­ tuzionali, Tamara opponeva ogni volta insulti e risate, e mai un ti­ moroso silenzio. La seconda passione di Zivkov era un’estone, infermiera di­ plomata, detenuta in base all’articolo 58, una bellezza bionda e dalla pelle chiara in puro stile tedesco, l’assoluto contrario della bruna e scura Tamara. Contrapposte nell’aspetto esteriore, tutte e due accettavano di buona grazia le premure del sottotenente. Zivkov era uomo generoso. All’epoca c’erano difficoltà con le vet­ tovaglie. Ai salariati liberi i commestibili venivano distribuiti so­ lo in determinati giorni e Zivkov portava all’ospedale sempre due involti uguali: uno per Tamara e l’altro per l’estone. E si sapeva altresì che Zivkov si dedicava alle visite amorose in uno stesso gior­ no, se non addirittura alla stessa ora. E questo Zivkov, caro ragazzo, aveva atterrato un detenuto con un colpo sul collo davanti a tutti, ma poiché quello dei capi era un mondo diverso, superiore, di norma nessuno veniva chia­ mato a rispondere per sciocchezze del genere. Stavolta andò diversamente e il suo posto venne rilevato da Fragin, brizzolato e di bell’aspetto anche lui. Fragin in realtà pun­ tava al posto di capo dell’Isc, la Terza sezione, per continuare a la­ vorare nel proprio campo, ma non era stato possibile. E l’ufficia­ le di carriera, con tutta la sua specializzazione, dovette occuparsi dell’educazione culturale dei detenuti. Alla Kvč e alla he gli sti­ pendi erano gli stessi e quindi Fragin non ci rimetteva niente. Il brizzolato tenente colonnello non imbastì relazioni amorose con le detenute. Per la prima volta sentimmo leggere i giornali e, cosa ancora piu importante, sentimmo raccontare la guerra da uno che la guerra l’aveva fatta. Prima di allora ce l’avevano raccontata i vlasovcy, i polizei, ele­ menti condannati per atti di sciacallaggio o per collaborazionismo. Capivamo quanto l’informazione potesse essere diversa e aveva­ mo voglia di ascoltare un vincitore, un eroe di quella guerra. E ta­ le era per noi il tenente colonnello che aveva tenuto nel corso del­ la sua prima riunione con i detenuti una conferenza raccontando

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degli ufficiali degli alti comandi. Naturalmente suscitava un par­ ticolare interesse Rokossovskij. Di lui avevamo sentito parlare mol­ to e da parecchio tempo. E Fragin aveva per l’appunto lavorato nello Smeršdi Rokossovskij. Fragin lodava Rokossovskij come co­ mandante militare che non teme la battaglia, però alla domanda piu importante - e cioè se veramente il maresciallo era stato in pri­ gione e se era vero che nei suoi reparti ce n’erano alcuni formati da malavitosi - Fragin non dette risposta. Era il primo racconto sulla guerra, fatto dalla viva voce di un partecipante, che sentivo dal giorno del mio arresto nel gennaio 1937. Ricordo che non mi lasciavo sfuggire una sola parola. Eravamo nell’estate del 1949, durante una grande komandìrovka forestale. Tra i taglialegna c’e­ ra Andrusenko, un biondino comandante di un carro armato che aveva partecipato alla battaglia di Berlino, eroe dell’Unione So­ vietica, condannato per atti di sciacallaggio, per saccheggi com­ piuti in Germania. Ci era ben noto quel confine giuridico che ta­ glia in due la vita di un uomo, gli avvenimenti prima e dopo la da­ ta di promulgazione di una legge, per la quale lo stesso uomo, per gli stessi identici comportamenti, oggi è un eroe e domani un de­ linquente, e neanche lui sa più bene cosa sia, se un delinquente, o meno. Andrusenko era stato condannato a dieci anni per sciacallaggio. La legge era stata appena approvata. Il tenente Andrusenko era caduto sotto i suoi rigori e dal carcere militare di Berlino era sta­ to portato alla Kolyma. Più si andava avanti piu gli era difficile di­ mostrare di essere un autentico eroe dell’Unione Sovietica con tan­ to di titolo e decorazione. Il numero di falsi eroi era in continuo aumento. Arresti e smascheramenti degli avventurieri, e relative punizioni, scorrevano tumultuosi come un torrente, con un ritar­ do di qualche mese. Da noi nel 1949 venne arrestato un reduce dal fronte, eroe dell’Unione Sovietica e primario medico che non so­ lo non era medico ma neanche eroe. Le proteste di Andrusenko restavano senza risposta. A differenza degli altri detenuti che era­ no finiti alla Kolyma direttamente dalla prima linea, Andrusenko aveva conservato un ritaglio di giornale pubblicato al fronte nel 1945 con la propria fotografia. Fragin, come Kvč locale e membro in passato dello Smerš, aveva in mano gli elementi per valutare la sincerità di Andrusenko e favorirne la liberazione. Per tutta la vita mi ha sempre accompagnato uno spiccato sen­ so della giustizia, e quando c’è in ballo una questione del genere non faccio distinzione tra fatti piccoli e grandi. Ad esempio, a evo­ care quell’ospedale, il suono di quei nomi - Andrusenko, Fragin -

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ricordo piu che altro il torneo di scacchi organizzato da Fragin tra i detenuti, con la grande tabella appesa nell’ingresso dell’ospeda­ le che aggiornava i risultati del campionato, il quale, secondo i cal­ coli di Fragin, sarebbe stato vinto da Andrusenko. Il premio in pa­ lio - una scacchiera da tasca con i pezzi, un oggettino delle di­ mensioni di un portasigarette in pelle - era già stato acquistato. Di piu, il capo l’aveva regalato ad Andrusenko senza aspettare che si concludesse la gara, il torneo l’avevo poi vinto io. E non avevo ricevuto nessun premio. Un tentativo di far recedere l’autorità era completamente fal­ lito e Fragin, affacciandosi sul corridoio, aveva spiegato ai dete­ nuti che la Kvč non aveva i mezzi per acquistare un premio. Non li aveva e basta. Sono passati la guerra, la vittoria, Stalin e il X X Congresso1, la mia vita è repentinamente cambiata, da parecchio tempo vivo a Mosca, eppure quando penso ai primi anni del dopoguerra a ve­ nirmi in mente è quella piccola ferita al mio amor proprio, l’at­ tentato di Fragin a un mio sacrosanto diritto. Nel ricordo, accan­ to a fame ed esecuzioni ci sono sciocchezze come questa di Fragin, il quale in seguito si sarebbe comunque dimostrato capace di ben altro. Quando venni trasferito all’accettazione, per via del nuovo in­ carico ebbi occasione di incontrarlo più frequentemente. Nel frat­ tempo Fragin era passato dalla Kvč all’Urč, l’ufficio amministra­ tivo che sovrintendeva alla distribuzione della manodopera dete­ nuta, ed era tutto zelo e vigilanza. Avevo un inserviente ospe­ daliero, Grinkevič, che era un bravo ragazzo, chiaramente finito nel lager senza motivo, anche lui dalla guerra, in quella torbida fiu­ mana di falsi generali e malavitosi imboscati. I suoi si erano dati un gran da fare con proteste e dichiarazioni, c’era stato il riesame e la revoca della sentenza. Per la comunicazione di rito il tenente colonnello Fragin non convocò Grinkevič nel proprio ufficio all’Urč, ma si presentò di persona alla mia accettazione e lesse a vo­ ce alta a Grinkevič il testo dell’atto ricevuto. - Ha visto, cittadino Salamov, - disse Fragin, - quelli che de­ vono essere liberati li liberano. Tutti gli errori vengono corretti, e chi deve restar dentro, ci resta. Ha capito, cittadino Šalamov? - Perfettamente, cittadino capo. Quando nell’ottobre 1951 venni rilasciato, con lo sconto pre­ 1 Si intende il processo di denuncia postuma dei suoi crimini ed errori avviato con il X X Congresso (1956).

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visto per i giorni lavorati, Fragin si oppose nel modo piu perento­ rio a che io continuassi a lavorare all’ospedale come libero salaria­ to fino a primavera, quando avrebbero riaperto la navigazione. Ma fu l’intervento del direttore dell’ospedale N. Vinokurov a decide­ re la questione. Vinokurov mi promise che in primavera mi avreb­ be fatto partire come detenuto in traduzione, che quindi non mi avrebbe inserito in organico e che di li alla mia partenza mi avreb­ be trovato un sostituto all’accettazione. La legge prevedeva que­ sta possibilità e la proposta di Vinokurov veniva anche incontro a certe mie esigenze. Il fatto è che per i detenuti rilasciati dal lager era previsto il viaggio di ritorno sulla Grande Terra a spese dello Stato, sia pure lungo gli itinerari della traduzione carceraria. Invece viaggiare co­ me lavoratore a contratto era troppo dispendioso: il biglietto fino a Mosca con partenza dalla riva sinistra della Kolyma costava più di tremila rubli, senza poi parlare dei prezzi per il cibo; la maggior disgrazia e il principale inconveniente dell’esistenza è la necessità che ha l’uomo di mangiare tre o quattro volte al giorno. Il trasfe­ rimento carcerario prevede per contro refezioni volanti, mense, pentolate di cibo nelle baracche dei centri di tranisto. In alcuni ca­ si nelle stesse baracche dei viaggi di andata: viaggiando in una di­ rezione la baracca si chiama etap, di transito, nell’altra direzione karpunkt («punto di quarantena»). La baracca però è sempre quel­ la e sul recinto di filo spinato non c’è nessun cartello che ne indi­ chi la destinazione. In una parola, trascorsi l’inverno del 1951-52 all’ospedale con­ tinuando a fare l’infermiere all’accettazione, mentre il mio status venne cosi modificato: «soggetto in corso di trasferimento». Ar­ rivò la primavera e non mi mandarono da nessuna parte; il diret­ tore dell’ospedale mi dette però la sua parola: sarebbe stato per l’au­ tunno. Ma neanche in autunno mi mandarono da nessuna parte. - Cosi è, piaccia o meno, - vbuttò li una volta durante il suo tur­ no all’accettazione il dottor Safran, il nuovo psichiatra, un tipo giovane, chiacchierone e di sentimenti liberali, che era vicino di casa del tenente colonnello, - vuoi che ti racconti perché sei an­ cora qui, perché non sei partito ? - Racconta, Arkadij Davidovič. - Eri già negli elenchi fin dall’autunno scorso, stavano già pen­ sando su quale macchina caricarti. E saresti partito se non fosse stato per il colonnello Fragin. Ha guardato le tue carte e ha capi­ to con chi aveva a che fare. «Quadro trockista e nemico del popolo»: cosi è detto nei tuoi

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documenti. Si tratta per la verità di un promemoria fatto qui alla Kolyma e non a Mosca. Ma certe cose, ha pensato lui, non posso­ no essere del tutto inventate. Fragin è di scuola moscovita e cosi ha drizzato subito le antenne; una sana vigilanza, si è detto, non ha mai fatto danni. - La ringrazio per avermelo detto, dottor Safran. Ricorderò il colonnello Fragin nelle mie preghiere. - La cultura del servizio, - gridava tutto allegro Safran. - Se gli elenchi li avesse preparati qualche sottotenente non sarebbe successo, ma Fragin! E o non è un generale? La vigilanza genera­ lesca. - O la codardia generalesca. - Ma ai giorni nostri vigilanza e codardia sono quasi la stessa cosa. E non solo ai giorni nostri, mi sa tanto, - disse il giovane me­ dico specializzato in psichiatria. Presentai domanda scritta di congedo, e mi fu restituita con l’annotazione di pugno di Vinokurov: «Licenziare in base alle di­ sposizioni del Codice del lavoro». In tal modo perdevo lo status di «soggetto in corso di trasferimento» e con esso il diritto a viag­ giare gratuitamente. Dei miei guadagni non avevo potuto mette­ re da parte neanche un copeco, ciononostante non mi sognavo af­ fatto di far marcia indietro. Ero in possesso del pasport, il docu­ mento di identità, anche se privo delle varie registrazioni: alla Kolyma vigono normative diverse rispetto alla Grande Terra e i timbri relativi ai permessi di soggiorno vengono apposti solo a po­ steriori, al momento del licenziamento. Speravo di ottenere a Ma­ gadan il permesso di partire e di essere incluso nel convoglio di de­ tenuti che mi ero lasciato scappare un anno prima. Pretesi il rila­ scio dei documenti che mi servivano, compreso il mio primo e unico libretto di lavoro, che conservo tuttora gelosamente, raccolsi le mie cose, vendetti tutto il superfluo: il giaccone imbottito, il cu­ scino; bruciai le mie poesie nella camera di disinfestazione dell’o­ spedale e cominciai a cercare un passaggio per Magadan. Ma la mia ricerca non era destinata a protrarsi.. Quella notte stessa il colonnello Fragin accompagnato da due soldati mi tirò giu dal letto, si fece consegnare il pasport, lo sigillò in un plico insieme a un foglio, consegnò il plico al soldato che mi avrebbe scortato a destinazione e distese il braccio indicando un punto nello spazio. - Lo consegnerai dove si è detto. Si riferiva a me. Durante i lunghi anni della mia detenzione mi ero abituato a

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portare un certo rispetto per l’uniforme, specie se corredata di fu­ cile, e poi avevo visto milioni di volte un arbitrio milioni di volte piu grave di quello che subivo quel giorno - Fragin era soltanto un timido allievo dei suoi innumerevoli maestri di rango piu elevato - e cosi non dissi niente e mi sottomisi a quell’inaspettata, insul­ tante e illegale pugnalata alla schiena. Non arrivarono, è vero, a mettermi le manette, ma mi indicarono comunque in modo lam­ pante qual era il mio posto e che cos’era un ex detenuto nel nostro solido mondo. Percorsi ancora una volta sotto scorta quelle cin­ quecento verste fino a Magadan che avevo già percorso cosi tante volte. Alla sezione provinciale degli organi si rifiutarono di pren­ dermi e il soldato ciondolava sulla via non sapendo a chi conse­ gnarmi. Gli consigliai di portarmi all’ufficio personale della sezio­ ne sanitaria, la destinazione piu logica in base all’atto di licenzia­ mento. Il capo dell’ufficio personale, di cui ho scordato il nome, si dichiarò estremamente meravigliato per le modalità di quel tra­ sferimento di un libero salariato. Rilasciò comunque al soldato una ricevuta, mi restituì il pasport e io uscii in strada sotto la grigia pioggia di Magadan. 1973. Podpolkovnik Fragin, in Šalamov, Percatka, ili K R -2 cit.

Gelo perenne

Il mio primo lavoro indipendente come infermiere fu ad Adygalach, un settore della direzione dei cantieri stradali dove i me­ dici si facevano vedere solo saltuariamente; per la prima volta mi liberavo dalla tutela del medico e lavoravo in piena autonomia, non come all’Ospedale centrale della Riva sinistra. Nell’organigramma medico di Adygalach il mio nome figurava per primo. Soltanto a considerare tre dei molti centri che rientra­ vano nella mia competenza i detenuti assistiti erano trecento. Do­ po aver fatto il giro completo, e visitato uno per uno i miei pa­ zienti, elaborai un piano d ’azione in base al quale dovevo muo­ vermi nel mio nuovo incarico. Esso contemplava una lista di sei nomi. Il numero uno era Tkačuk. Tkačuk era il capo dell’Olp di com­ petenza della mia sezione sanitaria. Il discorso che dovevo fargli era il seguente: nel corso delle varie ispezioni, a tutti i detenuti so­ no stati trovati i pidocchi, ma io, il nuovo infermiere, posso pre­ disporre un piano per la rapida ed efficace eliminazione d ’ogni e qualsiasi pediculosi, della quale mi occuperò personalmente assu­ mendomene ogni responsabilità e alla presenza di chiunque voglia assistere. Nei lager i pidocchi erano da sempre un vero flagello. Tutte le camere di disinfestazione della Kolyma - se si eccettua­ no quelle della prigione di smistamento di Magadan - significava­ no soltanto un tormento in più per i detenuti ed erano inefficaci contro i parassiti. Io invece conoscevo il metodo giusto, me l’ave­ va insegnato l’addetto alla banija di un cantiere di abbattimento forestale sulla riva sinistra: facendo passare al vapore bollente in bidoni da benzina gli indumenti infestati si otteneva la completa eliminazione sia dei pidocchi che dei lendini. Unico accorgimen­ to: in ogni bidone non andavano messi piu di cinque completi di biancheria e indumenti. L ’avevo fatto per un anno e mezzo a Debin, e avevo mostrato come si faceva anche a Baragon. Il numero due era Zajcev. Zajcev era il cuciniere, un detenuto

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che conoscevo già dal chilometro ventitré, dai tempi dell’Ospeda­ le centrale. Sul suo lavoro qui io avevo voce in capitolo, essendo tenuto ai controlli sulla qualità del cibo. Avrei dovuto dimostrar­ gli, facendo appello alla sua coscienza di cuciniere, che con un im­ piego piu razionale delle vettovaglie previste, e lui sapeva non me­ no bene di me come fare, si poteva incrementare del quadruplo le portate che per pura pigrizia di Zajcev erano scarse e insufficien­ ti. Infatti in questo caso non c’entravano furti dei sorveglianti o simili. Tkačuk era un tipo severo e ai ladri non ne lasciava passa­ re una; la scarsa qualità dell’alimentazione dei detenuti dipende­ va proprio dal capriccio di Zajcev. Ero infine riuscito a convince­ re Zajcev, a fargli provar vergogna, Tkačuk gli promise qualcosa in cambio, e Zajcev, con gli stessi prodotti di prima, cominciò a sfornare molte piti portate, arrivando al punto di far portare bi­ doni di minestra e kaša calde sul posto di lavoro: una cosa che a Kjubjuma e Baragon non si era mai vista. Il terzo era Izmajlov. Era l’addetto alla banija, un libero sala­ riato, lavava la biancheria ai detenuti e la lavava male. In tutto il giacimento 0 alle varie prospezioni sarebbe stato difficile trovare qualcuno con una forma fisica cosi smagliante. Per giunta, dal la­ voro con i detenuti Izmajlov poteva ricavare solo pochi spiccoli. Nonostante ciò, il banšcik si aggrappava al suo lavoro, non voleva ascoltare i consigli e non restava altro che licenziarlo. Nel suo com­ portamento non c’era nessun mistero. Se è vero che trascurava il lavoro per i detenuti si dedicava per contro a lavare a regola d’ar­ te il vestiario dei vari dirigenti a contratto, compreso il delegato degli organi, ricevendone generose regalie: denaro e prodotti ali­ mentari; Izmajlov restava comunque un libero salariato e io spe­ ravo di riuscire prima o poi a ottenere che la sua incombenza pas­ sasse a un detenuto. Il quarto era Lichonosov, un detenuto che a Baragon non si era presentato alla visita medica; poiché dovevo andarmene avevo de­ ciso di non ritardare la partenza a causa di una persona sola, quin­ di avrei confermare le vecchie formulazioni contenute nel fasci­ colo personale. Ma all’Urč non si trovò traccia di tale fascicolo e poiché Lichonosov lavorava come «piantone» mi sarebbe toccato tornare sulla spinosa questione. In occasione di un’altra visita al settore ebbi occasione di trovare Lichonosov e di parlare con lui. Era un uomo vigoroso, ben nutrito e dalle guance rosee, di una quarantina d’anni, con una splendida dentatura, una massa di fol­ ti capelli brizzolati e una grande barba che gli incorniciava tutto il viso. L ’età? Del suo fascicolo personale era precisamente que­ sto dato a interessarmi.

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- Sessantacinque. A Lichonosov era stata riconosciuta l’invalidità per l’età avan­ zata e proprio in quanto invalido lavorava come piantone negli uf­ fici. Evidentemente c’era sotto un imbroglio. Colui che mi stava davanti era un uomo adulto nel pieno delle forze, che poteva be­ nissimo essere addetto ai lavori generali. Sempre a suo dire, ave­ va una condanna a quindici anni, e non in base all’articolo 58, ma äl 59 Il quinto era Nišikov. Nišikov, un ricoverato, fungeva da aiutoinfermiere all’ambulatorio. Questi aiuti esistono in tutti gli am­ bulatori dei lager. Ma Nišikov era troppo giovane, avrà avuto un venticinque anni, e con le guance troppo rosse. Dovevo pensarci. Quando scrissi il numero sei del mio elenco bussarono alla por­ ta e il numero sei in carne e ossa varcò la soglia della mia stanza nella baracca dei «liberi». Misi accanto al suo nome un punto in­ terrogativo e mi voltai verso di lui. Leonov aveva in mano due stracci da pavimento e un catino. Non un catino vero e proprio, naturalmente, di quelli della dota­ zione statale, ma kolymiano, sapientemente ricavato da una gros­ sa scatola da conserva. Ai bagni c’erano soltanto catini di quel ge­ nere. - Come mai ti hanno lasciato passare al posto di guardia a que­ st’ora, Leonov? - Mi conoscono, ho sempre lavato il pavimento all’infermiere di prima. Era uno che ci teneva molto alla pulizia. - Beh, io ci tengo meno. Comunque oggi non ce n’è bisogno. Torna al lager. - E gli altri pavimenti, nelle stanze dei «liberi»... - Neanche. Se li laveranno da soli. - Volevo pregarla, cittadino infermiere, di non togliermi que­ sto posto... - Ma di quale posto parli ? - Beh, qualcuno mi ci ha messo. Laverò tutto per benino, farò ordine, sono malato, mi fa male qui dentro. - Non sei malato, prendi soltanto in giro i medici. - Compagno infermiere, ho il terrore del giacimento, delle squadre, dei lavori generali. - Beh, ce l’hanno tutti. Sei un uomo completamente sano. - Ma lei non è dottore. - E vero, non sono dottore, comunque sia o domani vai ai la­ vori generali o ti spedisco alla direzione. Così ti farai esaminare dai medici.

GELO PERENNE

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- L ’avverto, cittadino infermiere, se mi tolgono questo lavoro non vivrò più, non mi darò pace. Inoltrerò reclamo. - Beh, basta chiacchiere, vai. Domani in una squadra. E falla finita con le scene. - Non faccio scene. Leonov richiuse silenziosamente la porta. Sotto la finestra fru­ sciarono i suoi passi e io mi coricai. All’adunata mattutina per lo smistamento ai vari posti di la­ voro Leonov non si presentò; come argomentò Tkačuk, sicura­ mente aveva preso un automezzo di passaggio ed era già ad Adygalach con le sue lagnanze. Verso le dodici di quel giorno di un’estate di San Martino kolymiana, caratterizzato da un sole freddo i cui raggi accecanti splen­ devano in un luminoso cielo azzurro e da un’aria fredda e senza vento, venni convocato nell’ufficio di Tkačuk. - Si va a redigere un certificato. Si è ucciso il detenuto Leo­ nov. - Dove ? - E appeso nella vecchia stalla. Ho dato ordine di non tirarlo giti. Ho mandato a chiamare il delegato. Intanto tu come respon­ sabile medico puoi redigere il certificato di morte. Non doveva essere stato facile impiccarsi in quella stalla, non c’era quasi lo spazio per muoversi. Il corpo di Leonov occupava le postazioni di due cavalli, l’unico rialzo sul quale era potuto salire per poi scalciarlo via era il catino che si portava in giro. Leonov era appeso da molte ore, sul collo era visibile il taglio della corda. Il delegato degli organi, lo stesso al quale il libero salariato Izmajlov lavava la biancheria, scrisse: «riscontrabile solco da strangola­ zione...» Tkačuk disse: - I topografi hanno la triangolazione. Non c’è nessun rappor­ to con questa tua strangolazione ? - Nessuno, - disse il delegato. E firmammo tutti il certificato. Il detenuto Leonov non aveva lasciato lettere. Il cadavere venne portato via: gli avrebbero lega­ to alla gamba sinistra il cartellino con il numero del fascicolo per­ sonale e l’avrebbero seppellito nella pietra del gelo perenne, dove il defunto avrebbe aspettato il Giudizio universale o qualsiasi al­ tra eventuale risurrezione dei morti. E compresi all’improvviso che per me ormai era troppo tardi per imparare qualcosa, della medicina come della vita. 1970. Vecnaja m erzlota , in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

Iv a n B o g d a n o v

Ivan Bogdanov, omonimo di quel tal capo del settore del Lago Nero, era un bell’uomo biondo con gli occhi grigi e una corporatu­ ra atletica. Era stato condannato in base all’articolo 109 - per un reato di servizio - a dieci anni, ma si rendeva perfettamente conto di qual era la reale situazione in quell’epoca in cui la falce stalinia­ na mieteva così tante teste. E capiva che se era scampato al mor­ tale marchio dell’articolo 58 era stato soltanto per puro caso. Bogdanov lavorava alla nostra prospezione carbonifera come contabile, e si era voluto scegliere per questa mansione proprio un detenuto, per poterlo coprire di improperi, per potergli ordinare di rammendare e rappezzare le imbrogliate registrazioni degli am­ manchi: una greppia alla quale si ingrassava il capintesta locale Paramonov con familiari e famigli, una vera pioggia d ’oro di con­ centrati alimentari, razioni polari e ogni altro ben di Dio. Il compito di Bogdanov, cosi come era stato per il capo del set­ tore del Lago Nero, già inquirente nell’anno ’37 - di lui ho dato un esauriente profilo nel mio Bogdanov - non consisteva nello sco­ prire le malversazioni, ma al contrario nel mascherare qualsiasi ir­ regolarità, conferendo al tutto un aspetto piu cristiano. Quando cominciò il lavoro di prospezione, nel 1939, in tutto il settore c’erano solo cinque detenuti (tra i quali io stesso, reso in­ valido dal lavoro di scavo nei giacimenti auriferi del 1938) e, na­ turalmente, non si poteva spremere alcunché dal lavoro forzato di cosi poche braccia. L ’esperienza della secolare tradizione dei campi di concentra­ mento sin dai tempi di Ovidio, il quale com’è noto ebbe a che fa­ re, e da maggiorente, con i Gulag dell’antica Roma - insegna che non ci sono falle nel sistema che non possano essere aggiustate con il lavoro dei detenuti - lavoro forzato gratuito non retribuito proprio quel lavoro che secondo Marx costituisce il valore princi­ pale del prodotto. Stavolta non era possibile utilizzare il nostro la-

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voro di schiavi dato che eravamo troppo pochi perché si potesse­ ro riporre in noi aspettative economiche minimamente fondate. Per contro, sull’utilizzazione del lavoro di quelli che erano dei semischiavi - gli ex detenuti attualmente «liberi» - si poteva far affidamento, erano piu di quaranta, e Paramonov aveva loro pro­ messo che di li a un anno se ne sarebbero tornati sul «continente» con tanto di «cilindro in testa». Paramonov, ex direttore del gia­ cimento Mal'djak - nel quale il generale Gorbatov aveva sconta­ to quelle due o tre settimane kolymiane sufficienti ad «arrivare» a toccare il fondo e ad essere ammessi nel novero dei dochodjagi Paramonov, dunque, aveva una grande esperienza nell’«avviare» imprese al di là del circolo polare e sapeva bene che cosa conveni­ va fare. In definitiva Paramonov non finì sotto processo per abu­ so d’autorità, come al Mal'djak, poiché non di abuso si trattava ma della mano del destino che distruggeva con l’ampio movimen­ to della falce i «liberi» e soprattutto i detenuti della categoria ter­ rorismo e controrivoluzione. Paramonov ne era comunque uscito pulito poiché il Mal'djak, dove nel ’38 morivano trenta persone al giorno, non era certo il posto peggiore della Kolyma. Paramonov e il suo vice per la parte economica Chochluškin erano perfettamente consapevoli di dover agire con rapidità, pri­ ma che il nuovo settore fosse dotato di registri e di una ragioneria qualificata e responsabile. Le ruberie - e cose come i concentrati alimentari, le conserve, il tè, il vino, lo zucchero potevano rendere milionario qualsiasi di­ rigente che appena sfiorasse quel moderno regno di re Mida kolymiano - erano qualcosa che Paramonov capiva alla perfezione. E capiva anche di essere attorniato da delatori, e controllato ad ogni passo. Ma la sfrontatezza è compagna della fortuna, se­ condo l’adagio dei malavitosi, e Paramonov conosceva il gergo dei blatnye. Per farla breve, alla fine della sua gestione - una gestione mol­ to umana, tendente in qualche modo a riequilibrare l’arbitrio del­ l’anno precedente, vale a dire il ’38, quello del Mal'djak - venne accertato un deficit enorme di prodotti, e proprio di quei prodot­ ti capaci di trasformarsi in oro. Il moderno re Mida riuscì comunque a farsi perdonare coprendo di doni gli inquirenti. Non venne arrestato ma soltanto rimosso dall’incarico. Per ripristinare l’ordine erano arrivati i due Bogda­ nov, il capo e il contabile. L ’ordine venne rispristinato, ma tutte

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le malversazioni dei dirigenti finirono per essere pagate da quella quarantina di vol'njaski i quali (come del resto anche noi) non si erano praticamente messi in tasca niente, o meglio, avevano rice­ vuto solo un decimo del pattuito. I due Bogdanov insieme riusci­ rono con false registrazioni a mascherare il buco che si andava pe­ ricolosamente allargando sotto gli occhi di Magadan. Questo era dunque il compito che era stato posto a Ivan Bog­ danov. Il suo bagaglio di studi da libero: le medie e un corso di ra­ gioneria. Bogdanov era compaesano di Tvardovskij1e raccontava parec­ chi dettagli sconosciuti della sua biografia, ma a quei tempi il de­ stino di Tvardovskij ci interessava poco, c’erano problemi ben piu seri... Con Bogdanov feci amicizia e benché, a norma di regolamen­ to, un bytovik fosse tenuto a marcare la propria superiorità rispetto a un detenuto senza diritti quale io ero, il comportamento di Bog­ danov nel corso della brevissima trasferta di servizio che ci vide insieme fu ben diverso. Ivan Bogdanov era uno cui piaceva scherzare, ascoltare «ro­ manzi», raccontarne lui stesso: è grazie a un suo racconto che mi sono imbattuto per la prima volta nella classica storia dei pantalo­ ni dello sposo. La storia mi venne raccontata in prima persona, e la sostanza era questa: alla vigilia delle nozze la promessa sposa aveva fatto confezionare un paio di pantaloni per il suo futuro ma­ rito, Ivan. Lo sposo promesso era povero, la famiglia della fidan­ zata un po’ più ricca e l’iniziativa di lei era pienamente nello spi­ rito dell’epoca. Una cosa del genere era accaduta anche a me, in occasione del mio primo matrimonio, quando, per l’insistenza della mia fidan­ zata, erano stati prelevati tutti i soldi dal libretto di risparmio ed era stato commissionato un paio di pantaloni scuri della migliore qualità al miglior sarto di Mosca. In verità quei miei pantaloni di allora non avevano poi subito tutte le trasformazioni dei pantalo­ ni di Ivan Bogdanov. Ma questo non mi impedì di apprezzare nel­ l’episodio da lui raccontato la verità psicologica e la verosimiglianza documentale che c’era sotto. Il soggetto dei pantaloni bogdanoviani consisteva, abbiamo det­ to, nel fatto che all’ultimo momento prima delle nozze la fidanza1 Aleksandr Tvardovskij (1910-71), direttore tra il 1950 e il ’54 e tra il 1958 e il ’70, di quella che con lui divenne la piu prestigiosa rivista letteraria russa dell’epoca, «Novyj Mir» che ospitò le opere piu coraggiose del «disgelo».

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ta aveva ordinato un completo per il fidanzato, giacca e pantalo­ ni. Il vestito era stato confezionato in ventiquattro ore, ma i pan­ taloni erano troppo lunghi, almeno dieci centimetri. Decisero che l’indomani li avrebbero portati al sarto per la riparazione. Ma l’ar­ tigiano viveva a decine di chilometri di distanza, il giorno delle nozze era già stato stabilito, avvertiti gli invitati e preparate le tor­ te. Le nozze rischiavano di andare a monte per colpa di quei pan­ taloni. Da parte sua, Bogdanov era dispostissimo a presentarsi al matrimonio anche con il vecchio vestito, ma la fidanzata non ne voleva sapere. Cosi tra discussioni e recriminazioni lo sposo e la sposa erano tornati nelle rispettive abitazioni. Ma durante la notte si erano verificati i fatti seguenti. La pro­ messa sposa aveva deciso di rimediare personalmente all’errore del sarto e, tagliati una decina di centimetri dai pantaloni del futuro marito, tutta contenta, era tornata a coricarsi e aveva dormito il sonno profondo della moglie fedele. Poi si era svegliata anche la suocera, determinata a risolvere al­ lo stesso modo il problema. Si era alzata e, manovrando con me­ tro e gessetto, aveva tagliato via altri dieci centimetri, aveva ri­ passato con il ferro da stiro righe e orli, era tornata a letto, e ave­ va dormito il sonno profondo della suocera fidata. Il disastro era stato scoperto dal fidanzato stesso che si era ri­ trovato i pantaloni accorciati di venti centimetri e irrimediabil­ mente rovinati. Aveva dovuto celebrare le nozze con i pantaloni vecchi, che era poi quello che aveva proposto fin dall’inizio. In seguito ritrovai la stessa storia non ricordo se in Zoščenko o in Averčenko2, o forse in qualche Decamerone moscovita3. Ma il mio primo incontro con la vicenda risale alla narrazione che ne fe­ ce Bogdanov, al Lago Nero, in una delle baracche della prospe­ zione carbonifera del Dal'ugol'. A un certo punto alla prospezione si liberò un posto di guar­ diano notturno: una faccenda della massima inportanza, l’oppor­ tunità di un’esistenza piacevole per un lungo periodo. Il guardiano di prima era un salariato libero ma adesso il suo posto faceva gola un po’ a tutti. - Perché non ti sei proposto tu ? - mi chiese Ivan Bogdanov su­ bito dopo quell’avvenimento cruciale. 2 Arkadij Averčenko (1881-1925), scrittore umoristico e satirico, direttore della for­ tunatissima rivista «Satyrikon», dopo la rivoluzione e la soppressione della rivista emigrò. 3 Negli anni Settanta circolava nel samizdat, l’« editoria» dattiloscritta, un Butyrskij Dekameron, il «Decamerone della prigione Butyrki».

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- Non mi daranno mai un posto simile, - risposi io, che ricor­ davo gli anni ’37 e ’38, quando al giacimento Partizan mi ero ri­ volto al capo della Kvč, il salariato libero Sarov, chiedendogli se mi poteva far avere qualche lavoretto come scrittore. - Neanche le etichette sui barattoli da conserva ti faremo scri­ vere ! - esclamò raggiante il capo della Sezione educativo-culturale, richiamandomi subito alla mente un’analoga conversazione del 1924 con il compagno Ežkin della Sezione provinciale della pub­ blica istruzione di Vologda. v Due mesi dopo quella nostra conversazione il capo della Kvč Sarov sarebbe stato arrestato e fucilato in relazione all’«affare Ber­ zin», ma non per questo mi credo dotato dei poteri del genio del­ le Mille e una notte, anche se devo dire che tutto ciò che ho vedu­ to supera qualsiasi immaginazione, dei Persiani come di ogni altro popolo. - Non mi daranno quel lavoro. - E perché ? - Ho il Krtd. Attività controrivoluzionaria e trockista. - A Magadan conosco decine di persone, anche loro con il Krtd, che fanno lavori come questo. - Beh, allora ci sarà di mezzo la privazione del diritto di corri­ spondenza. - E sarebbe ? Spiegai a Ivan che in ogni fascicolo personale inviato alla Koly­ ma era inserito un modulo prestampato con degli spazi predispo­ sti per il nome e altre direttive riguardanti il detenuto: 1) priva­ zione del diritto di corrispondenza; 2) impiego esclusivo in lavori fisici pesanti. Questo secondo punto era il piu importante, la fac­ cenda della corrispondenza in confronto a questa disposizione era una bazzecola, un palloncino gonfio d ’aria. C ’erano poi altre di­ sposizioni: il divieto per il detenuto di utilizzare mezzi di comu­ nicazione, il che era un’evidente tautologia se riferito alla diretti­ va numero 1 riguardante i detenuti a regime speciale. L ’ultimo punto impegnava ogni caporipartizione del sistema a riferire con frequenza almeno trimestrale circa il comportamento del detenuto in oggetto. - Però io questo foglio non l’ho visto. Eppure nel tuo fascico­ lo ci ho guardato, adesso come secondo lavoro sono anche re­ sponsabile dell’Urč. Passò un giorno, non di piu. Stavo lavorando a uno scavo, in fondo a un buco su un ripido pendio lungo il fiume, al Lago Ne­ ro. M ’ero interrotto per accendere un falò contro le zanzare e non

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mi preoccupavo più di tanto di realizzare la mia norma lavorativa quotidiana. I cespugli si aprirono e alla mia tana si avvicinò Ivan Bogda­ nov, sedette, accese una sigaretta, si frugò nelle tasche. - E per caso questo ? In mano aveva una delle due copie del famigerato atto di pri­ vazione del «diritto di corrispondenza», staccata dal mio fascico­ lo personale. - Naturalmente, - disse con aria assorta Ivan Bogdanov, - il fascicolo viene redatto in due copie: una viene conservata nello schedario centrale dell’Uro, la polizia giudiziaria, mentre l’altra viaggia per tutte le Olp e angiporti vari insieme al detenuto. Però nessun responsabile locale si prenderà la briga di chiedere a Ma­ gadan se nel tuo fascicolo c’è o meno il foglietto sulla privazione del diritto di corrispondenza. Bogdanov mi mostrò ancora una volta il foglietto e poi lo bru­ ciò sul fuoco del mio piccolo falò. - E adesso presenta la tua brava domanda per quel posto di guardiano. Come guardiano non mi vollero lo stesso e dettero il posto al­ l’esperantista Gordeev, condannato a vent’anni in base all’artico­ lo 58, però delatore. Di li a poco Bogdanov - il dirigente non il ragioniere - fu ri­ mosso dall’incarico per ubriachezza e il suo posto venne preso dal­ l’ingegnere Viktor Plutalov, il quale per la prima volta organizzò il nostro lavoro di prospezione carbonifera in modo efficace, se­ condo le buone norme dell’ingegneria e della tecnica edilizia. Se la direzione di Paramonov era stata caratterizzata dalle dif­ fuse ruberie e quella di Bogdanov dalla persecuzione dei nemici del popolo e dall’inveterata ubriachezza, Plutalov mostrò per la prima volta che cosa significasse in realtà essere in prima linea sul fronte del lavoro: non delazione ma produzione, la quantità di me­ tri cubi che ognuno può riuscire a scavare se solo lavora normal­ mente anche nelle anormali condizioni di lavoro kolymiane. Noi invece conoscevamo solo l’umiliazione di un lavoro senza pro­ spettive, le ore senza fine di una fatica insensata. Comunque, probabilmente eravamo noi a sbagliarci. Nel no­ stro lavoro forzato, coatto, «nelle ore di luce» - e chi conosce le abitudini del sole polare capisce quel che si vuol dire - era rac­ chiuso, pur se indefinito, un senso superno, precisamente quel sen­ so che lo Stato attribuiva a un lavoro insensato. Plutalov cercò di mostrarci l’altra faccia di quello stesso nostro

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lavoro. Plutalov era un uomo nuovo, era appena arrivato dal con­ tinente. Il suo intercalare preferito era: «Non sono mica uno dell’Nkvd». Purtroppo la nostra ricognizione non dette i risultati sperati e la nostra potenziale impresa carboniera chiuse prima di incomin­ ciare. Una parte delle persone venne mandata a Cheta (dove a sbri­ gare le incombenze di «piantone» provvedeva allora Antal Hidas4) che era a sette chilometri da noi, e una parte ad Arkagala, nella miniera dell’omonima regione carbonifera. Andai ad Arkagala an­ ch’io. Di li a un anno - ero ammalato ma non mi risolvevo a chie­ dere l’esonero dal lavoro a Sergej Michajloviè Lunin, uno che aiu­ tava unicamente i malavitosi e quelli che erano nella manica della direzione, e cosi stringendo i denti continuavo ad andare in mi­ niera, facendomi l’influenza in piedi - mi rigiravo febbricitante sul mio giaciglio nella baracca. E nel delirio febbrile di quella baracca di Arkagala mi venne una voglia irrefrenabile di cipolla, che non avevo piu assaggiato da Mosca, e anche se non ero mai stato un estimatore di cipollate, per chissà quali misteriosi motivi feci quel sogno che mi lasciò con l’ar­ dente desiderio di mettere sotto i denti proprio una cipolla. Per un abitante della Kolyma un sogno sconsiderato. E quando al ri­ sveglio ci ragionai sopra, tale lo valutai. Non mi ero però sveglia­ to al suono della rotaia percossa con il martello ma, come mi ac­ cadeva spesso, un’ora prima dell’adunata. La bocca piena di saliva invocava cipolla. Pensai che se fosse accaduto il miracolo e veramente fosse apparsa una cipolla, sarei guarito. Mi alzai. Nella nostra baracca, come dappertutto, c’era, siste­ mato per il lungo, un tavolo con due sedie ai lati. Seduto al tavolo, di schiena, c’era un tale in giubba e pellic­ ciotto, che si voltò verso di me. Era Ivan Bogdanov. Ci salutammo. - Beh, beviamoci sopra almeno un buon tè, per il pane ognu­ no mette il suo, - dissi e andai a prendere la caraffa. Ivan tirò fuo­ ri la sua e il pane. Cominciò la cerimonia del tè. - Hanno chiuso il Lago Nero, non c’è piu neanche il guardia­ no. Sono andati via tutti quanti. Come addetto all’Urè sono par4 Antal Hidas (1899-1980), scrittore ungherese, fu dal 1926 al 1932 segretario delrUnione internazionale scrittori rivoluzionari a Mosca; arrestato nel 1938, liberato nel 1944, riabilitato nel 1955, nel r 9 5 9 tornò in Ungheria.

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tito con l’ultima squadra ed eccomi a destinazione. Pensavo che come prodotti foste messi un po’ meglio. Ci ho fatto conto e ho sbagliato, l’avessi saputo mi sarei portato dietro qualche conser­ va. In fondo al sacco ho solo una decina di cipolle, restavano in gi­ ro e cosi me le sono portate via. Impallidii. - Cipolle ? - Ma si, cipolle. Cos’hai da smaniare? - Da’ qua! Ivan Bogdanov rivoltò il sacco. Cinque teste di cipolla piovve­ ro rumorosamente sul tavolo. - Ne avevo di piu, ma le ho distribuite per via. - Non importa quante sono! Cipolla! Cipolla! - Ma cos’è, avete lo scorbuto ? - Niente scorbuto, ti racconterò poi. Dopo il tè. E raccontai tutta la storia a Bogdanov. In seguito Ivan Bogdanov potè continuare a esercitare la sua professione all’ufficio contabilità del lager ed era ad Arkagala quan­ do scoppiò la guerra. Ad Arkagala aveva sede la Direzione centrale della regione e si dovettero interrompere gli incontri regolari tra il bytovìk, detenuto comune vicino all’amministrazione, e il literka, detenuto marchiato dalle quattro lettere dell’infamia controrivo­ luzionaria. Ma capitava che ci vedessimo comunque e ci raccon­ tavamo sempre qualcosa. Nel ’41, precedendo la tempesta in arrivo, mi rimbombò sopra il capo il primo tuono: il tentativo di affibbiarmi la responsabilità di un incidente in miniera. Il tentativo era abortito solo per l’ina­ spettata ostinazione del mio compagno di turno, già marinaio del­ la flotta del Mar Nero, il bytovìk Cudakov, il quale aveva per l’ap­ punto provocatovI’incidente, e io mi ero fatto raccontare detta­ gliatamente da Cudakov tutto lo svolgimento dell’istruttoria. Naturalmente avevo potuto incontrarlo solo dopo che aveva scon­ tato i suoi tre mesi di carcere di isolamento ed era stato rilasciato, non in libertà, ma nella zona. Raccontai tutte queste cose per filo e per segno a Bogdanov, ma non per chiedergli consiglio: alla Koly­ ma non solo i consigli non servono, ma non si ha il diritto di ri­ chiederli, in quanto costituiscono per l’interpellato un gravame psicologico al quale egli può reagire in modo inconsulto, cercando a sua volta qualche consiglio consolatorio, o per bene che vada può opporre il silenzio, l’indifferenza, il rifiuto. Bogdanov manifestò un certo interesse per il mio problema. - Saprò quel che c’è da sapere. Me lo farò dire da loro, - dis-

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se indicando con un gesto espressivo verso l’orizzonte, dalla par­ te della stalla dei cavalli, nei cui pressi si trovava la casetta del de­ legato degli organi. - Me lo farò dire. Ho pur lavorato per loro, no? Come informatore. Con me non staranno a fare i misteriosi. Ma prima che Ivan riuscisse a mantenere la promessa già mi avevano mandato alla speczona di Dželgala. 1970-71. Ivan Bogdanov, in «Literaturnaja Armenija», 1989, n. 5.

Jakov Ovseevič Zavodnik

Jakov Ovseevič Zavodnik era piu vecchio di me, avrà avuto venti o forse venticinque anni al momento della rivoluzione. La sua era una famiglia numerosa ma non di quelle che hanno costi­ tuito il lustro delle Ešibot1ebraiche. Nonostante l’aspetto tipica­ mente ebreo - barba e occhi neri, naso pronunciato - Zavodnik non conosceva l’yiddish e teneva in rus'-o i suoi discorsi incendia­ ri, discorsi-slogan, discorsi - parole d’ordine: non facevo fatica a immaginare Zavodnik nel ruolo di commissario del popolo sul fron­ te della guerra civile, che porta i combattenti dell’Armata Rossa all’assalto delle trincee di Kolčak trascinandoli alla battaglia con l’esempio personale. E Zavodnik era stato in realtà commissario militare sul fronte di Koléak, con due decorazioni dell’Ordine del­ la Bandiera Rossa per il valore dimostrato. Grande urlone, attac­ cabrighe, propenso ad alzare il gomito e anche il pugno, Zavodnik aveva speso i suoi anni migliori e messo tutta la sua passione, e tro­ vato il senso della vita, in incursioni, battaglie, attacchi. Come cavalleggero era superlativo. Dopo la guerra civile, Zavodnik aveva lavorato in Bielorussia, a Minsk, nell’ambito dei soviet insieme a Zelenskij, del quale era diventato amico durante la guerra civile. Quando Zelenskij si era trasferito a Mosca l’aveva preso con sé al Commissariato per il commercio. Nel 1937 Zavodnik fini dentro per l’«affare Zelenskij», non venne fucilato, ma condannato a quindici anni di lager, il che al­ l’inizio del ’37 costituiva una pena notevole. Come nel caso mio, la sentenza moscovita specificava che la pena doveva essere scon­ tata alla Kolyma. Il carattere selvaggio, la cieca furia che si impadroniva di lui nei momenti cruciali, inducendolo a galoppare incontro alle pai1 Nella trascrizione russa dell’ebraico, lesiva (pi. Iešivot), ma nella tradizione russa Esibot : sono le Accademie ebraiche per lo studio della Legge e del Talmud nelle quali si preparano i rabbini.

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lottole nemiche, non abbandonarono Zavodnik neanche durante l’istruttoria. A Lefortovo saltò su dalla panca e si lanciò contro l’inquirente per colpirlo: era la sua risposta alla richiesta di de­ nunciare il nemico del popolo Zelenskij. Si ritrovò nell’ospedale della prigione con un’anca fratturata. Quando l’osso dell’anca si saldò, Zavodnik venne spedito alla Kolyma. Si trascinò dunque, con quella sua gamba zoppa rimediata a Lefortovo, per i giacimenti e le zony a regime di rigore della regione. Zavodnik non venne dunque fucilato, gli dettero quindici an­ ni piu cinque «sulle corna», vale a dire di interdizione dei diritti civili. Il suo compagno nell’«affare», Zelenskij, era da tempo nel mondo dei piu. A Lefortovo, Zavodnik aveva sottoscritto qual­ siasi cosa avesse potuto salvargli la vita; Zelenskij era stato fucila­ to, e a lui avevano messo fuori uso la gamba. - Si, ho firmato tutto quello che mi hanno chiesto. Dopo che mi avevano spaccato l’osso dell’anca e l’osso si era saldato, ero sta­ to dimesso dall’ospedale di Butyrki e trasferito a Lefortovo per il proseguimento dell’istruttoria. Ho firmato tutto senza leggere neanche un verbale. All’epoca Zelenskij era già stato fucilato. Quando al lager gli chiedevano l’origine della sua menomazio­ ne, Zavodnik rispondeva: «Un ricordo della guerra civile». Ma in realtà era una zoppia da detenzione a Lefortovo. Alla Kolyma, il carattere selvaggio di Zavodnik e i suoi acces­ si di furore determinarono presto tutta una serie di conflitti. Nel corso della sua vita ai giacimenti, Zavodnik venne ripetutamente pestato da soldati e sorveglianti per i suoi tempestosi e vociferan­ ti scandali pubblici, innescati da questioni di nessuna importanza. Cosi Zavodnik ingaggiò, piu che una zuffa, tutta una battaglia con i sorveglianti di una zona di rigore perché non voleva lasciarsi ta­ gliare la barba e i capelli. Nei lager tutti i detenuti vengono rasa­ ti «a macchinetta»; mantenere la propria capigliatura costituisce una sorta di privilegio, di premio che ogni detenuto, se appena può, fa valere senza deroghe. Ai detenuti che lavorano nel servi­ zio sanitario, ad esempio, è consentito portare i capelli non tagliati e questo suscita invariabilmente l’invidia generale. Zavodnik non era né medico né infermiere, ma in compenso la sua barba era fol­ ta, lunga, nera. I capelli non erano capelli ma un falò di fiamme nereggianti. Difendendo la barba dalle forbici di un sorvegliante, Zavodnik gli si gettò addosso e ricevette un mese di štrafnjak - car­ cere di isolamento di rigore - ma continuò a portare la barba fin­ ché non venne rasato a forza dai sorveglianti coalizzati. «M i trat­ tenevano in otto», raccontava con orgoglio Zavodnik; la barba co-

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munque era poi ricresciuta e Zavodnik se la portava in giro, aper­ tamente e con aria di sfida. Quella lotta per la barba era l’affermazione di sé dell’ex com­ missario al fronte, la sua vittoria morale dopo tante sconfitte mo­ rali. Le peripezie furono molte e in conclusione Zavodnik fini al­ l’ospedale e ci restò a lungo. Era chiaro che non avrebbe ottenuto nessun riesame del suo caso. Restava solo da aspettare e intanto vivere. Qualcuno suggerì ai dirigenti che l’abito mentale, la natura di quell’eroe della guerra civile, la sua chiassosità, grinta e onestà per­ sonale, l’incontenibile energia potevano trovare un’utile applica­ zione nell’espletamento delle mansioni di desjatnik o di caposqua­ dra. Ma per un nemico del popolo, un trockista come lui un lavo­ ro legale nei ruoli concentrazionari era fuor di discussione. E cosi Zavodnik riapparve con lo status di membro di una squadra di con­ valescenti nell’ambito dei famosi OP (punto di ristabilimento) e OK (squadra di ristabilimento), il cui biglietto di presentazione (e motto conclusivo) è la facezia: OPè, targhetta al piè, OKà, e sei di là.

In realtà ne sarebbero dovute succedere di cose prima che a Za­ vodnik legassero una targhetta alla caviglia sinistra, come fanno con i lagemiki quando li seppelliscono. Per intanto l’interessato si dedicò ad approvvigionare di legna da ardere l’ospedale. In un pianeta dove l’inverno dura dieci mesi, quello dell’ap­ provvigionamento di scorte di legna è un problema serio. L ’Qspedale centrale per detenuti vi aveva adibito in pii. nta stabile, nel­ l’intero arco dell’anno, almeno cento uomini. Il larice giunge a ma­ turità in trecento-cinquecento anni. Le zone forestali assegnate all’ospedale venivano, naturalmente, sfruttate in modo predato­ rio. Questioni come i turni di taglio e la coltivazione del patrimo­ nio forestale alla Kolyma non si ponevano neanche, e se pure si ponevano, la risposta era burocratica e formale oppure romanti­ camente campata per aria. I due approcci, il burocratico e il ro­ mantico, hanno molto in comune e un giorno gli storici, gli stu­ diosi di letteratura e i filosofi lo capiranno. Nella Kolyma gli alberi da legname sono sparsi per gole e stret­ toie, vallette laterali, prode di corsi d’acqua. E Zavodnik, dopo aver esplorato a cavallo tutti i fiumi e torrenti circostanti, presentò una relazione al direttore dell’ospedale. Direttore dell’ospedale era allora Vinokurov, profittatore ma non mascalzone, non di quelli

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che ci godono a veder soffrire la gente. Aprirono il cantiere fore­ stale, cominciò il taglio e l’approvvigionamento. Qui naturalmen­ te, come in tutti gli ospedali, a lavorare non erano i malati ma ele­ menti in buona salute - per intenderci, quelli dell’OP e dell’OK - gente che da tempo sarebbe dovuta tornare ai giacimenti. Una contraddizione, certo, anche pericolosa, e comunque inevitabile. Vinokurov era considerato un valido esperto di gestione econo­ mica. Una questione da risolvere era che una certa quantità di le­ gna da ardere (molto grande!) doveva andare a finire di straforo nel fondo di riserva, al quale i delegati degli organi, i dirigenti eco­ nomici e lui stesso erano abituati ad attingere senza remore e con­ trolli, in modo assolutamente gratuito e illimitato. All’ospedale la legna, al pari di altri beni, era a pagamento solo per lo strato me­ dio dei liberi salariati, mentre i dirigenti di rango ricevevano tut­ to gratuitamente; nel complesso questo corrispondeva a somme non indifferenti. A capo della complicata cucina dell’approvvigionamento e im­ magazzinamento della legna fu messo Jakov Zavodnik. Non es­ sendo un idealista egli accettò di buon grado di dirigere produ­ zione e scorte, tanto piu che doveva risponderne esclusivamente al direttore. E insieme a quest’ultimo si dedicò, senza scrupoli di coscienza, ogni giorno e ogni ora, a derubare lo Stato. Il capinte­ sta riceveva ospiti da tutta la Kolyma, manteneva un cuoco per­ sonale e la tavola sempre apparecchiata, mentre Zavodnik, re­ sponsabile delle scorte di legna da ardere, si presentava, la gamel­ la in mano, all’appuntamento con la marmitta comune. Zavodnik era uno di quei capisquadra ex militanti del partito che non si ver­ gognavano di mangiare assieme agli altri e non si concedevano il minimo privilegio in fatto di cibo o di abbigliamento, tranne la barba nera, forse. Nel mio lavoro di infermiere anch’io mi ero sempre attenuto a comportamenti del genere. Dovetti lasciare l’ospedale in seguito a un aspro e ampio con­ flitto che nella primavera del 1949 arrivò a coinvolgere la stessa Magadan. E cosi mi mandarono a fare l’infermiere nella foresta, da Zavodnik: la base della sua komandirovka si trovava a una cin­ quantina di chilometri dall’ospedale, sul fiume Duskan'ja. - Ha già fatto fuori tre infermieri, quel Zavodnik, non gli va mai bene nessuno, a quel bastardo. Così mi salutavano i compagni alla partenza. - E da chi prenderò le consegne del settore medico ? - Da Griša Barkan.

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Conoscevo Griša Barkan, ma non di persona, solo per sentito dire. Era un infermiere militare, un rimpatriato che era stato as­ segnato all’ospedale, al reparto tubercolosi, l’anno prima. Di que­ sto Griša i compagni non dicevano un gran bene, ma mi ero ormai abituato a non dare molto peso agli eterni discorsi su informatori e delatori. Mi sentivo troppo impotente di fronte a certe manife­ stazioni del supremo potere della natura. Ma in questo caso ac­ cadde che tra i membri del comitato redazionale di un giornale mu­ rale che stavamo allestendo in occasione di una ricorrenza che non ricordo, ci fosse la moglie del nostro nuovo delegato Baklanov. La stavo aspettando fuori dall’ufficio di suo marito - avrebbe dovu­ to darmi le osservazioni censorie di questi - e quando bussai sen­ tii una voce dire: «Entri! » Entrai. La moglie del delegato Baklanov era seduta sul divano, mentre il marito stava conducendo un confronto. - Sicché lei, Barkan, - diceva il delegato - scrive nel suo espo­ sto che l’infermiere Savel'ev (anch’egli presente, era stato convo­ cato per il contraddittorio), che Savel'ev dunque ha espresso aspre critiche nei confronti del potere sovietico e ha esaltato i fascisti. Dove è successo? Su un lettino d’ospedale. Ha per caso provve­ duto nella circostanza a misurargli la febbre ? Magari delirava. Si riprenda il suo esposto. Appresi cosi che Barkan era uno stukac, una spia. Baklanov in­ vece - unico tra i molti delegati degli organi che mi capitò di co­ noscere in tutta una vita passata nei lager - non mi dette l’im­ pressione di essere un vero inquirente, e infatti non era un cekista. Era arrivato alla Kolyma direttamente dal fronte e non aveva mai lavorato nei lager. E non avrebbe mai imparato. Né lui né sua moglie riuscirono a farsi piacere quel lavoro. Compiuto il loro pe­ riodo di servizio tornaror^ entrambi sul «continente». Da molti anni vivono a Kiev. Baklanov era originario di L'vov. A disposizione dell’infermiere c’era una piccola izba a parte, per metà adibita ad ambulatorio, e confinante con la banija. Per piu di dieci anni non avevo mai potuto restare solo né di giorno né di notte, cosi ora assaporavo con tutto il mio essere quella feli­ cità, per giunta intrisa del sottile aroma dei verdi larici, delle in­ numerevoli erbe e del loro fiorire impetuoso. L ’ermellino attra­ versò di corsa l’ultima lingua di neve, si alzarono dalle tane e pas­ sarono, scrollando i rami degli alberi, gli orsi... Fu qui che co­ minciai a mettere per iscritto i miei versi. Questi quaderni si so­ no conservati. Carta grossolana, giallastra... Ma la carta di alcuni è piu bianca e di qualità migliore, anche se è carta da imballaggio.

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Questa carta, due o tre rotoli della piu bella carta del mondo, mi fu regalata dal delatore Griša Barkan. Aveva tutto l’ambulatorio ingombro di rotoli come quelli: dove li avesse presi e dove li aves­ se poi portati non so davvero. Dopo il rientro dalla komandirovka di Zavodnik, non restò molto a lungo all’ospedale, si fece trasfe­ rire al vicino giacimento ma da noi capitava spesso, tutte le volte che poteva approfittare di un passaggio. In una di quelle occasioni, il bel Griša Barkan, che ci teneva al­ l’eleganza, ebbe l’idea di farsi il tragitto nel cassone di un auto­ carro stando in piedi su dei barili per non sporcarsi di benzina gli stivali lucidi di vitello e i calzoni azzurri «da libero». Nella cabi­ na non c’era posto. Il conducente gli aveva dato il permesso di sa­ lire nel cassone per quei dieci chilometri, ma con tutti gli scosso­ ni della salita Barkan era volato giu e si era spaccato il cranio con­ tro una pietra. Andai a vedere il suo corpo all’obitorio. La morte di Barkan fu l’unico caso, a mia conoscenza, di un intervento del destino ai danni, e non a favore di un delatore. Intuii presto il motivo per cui Barkan non si era inteso con Za­ vodnik. Aveva probabilmente fatto qualcuna delle sue «soffiate» su quella spinosa faccenda che era l’approvvigionamento della le­ gna, senza star troppo a pensare da dove e a favore di chi nasces­ se l’imbroglio. Al mio primo incontro con Zavodnik chiarii subi­ to una cosa: io non gli avrei dato nessun fastidio, ma mi aspetta­ vo che neanche lui si ingerisse nelle mie faccende. Gli esoneri dal lavoro che decidevo non potevano essere discussi. Non avrei de­ ciso nessuna dispensa dal lavoro su sua indicazione. Il mio atteg­ giamento nei confronti dei blatari era sufficientemente noto e Za­ vodnik non aveva da temere al riguardo sorprese e indebite pres­ sioni. Come Zavodnik, mangiavo il rancio comune. I taglialegna vi­ vevano in tre insediamenti nel raggio di cento chilometri rispetto alla base. Facevo la spola tra base e filiali trattenendomi due o tre notti in ognuna di esse. La base era Duskan'ja. Alla Duskan'ja im­ parai una cosa della massima importanza per ogni operatore sani­ tario: dall’addetto alla banija (un tataro che era li dalla guerra) im­ parai il metodo per disinfestare facendo a meno della camera ap­ posita. Per i lager kolymiani, nei quali ai rabotjagi non mancava mai la compagnia dei pidocchi, era una questione di non seconda­ ria importanza. Di queste disinfestazioni, che utilizzavano bidoni di ferro, ne feci parecchie, e con risultati al cento per cento ap­ prezzabili. Il metodo avrebbe in seguito fatto sensazione ai cantieri stra-

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dali - i pidocchi erano un tormento per tutti: i detenuti ma anche le guardie e i militi fieri. Un immutato successo, dunque, che però devo a quel che im­ parai sulla Duskan'ja, quand’ero da Zavodnik. Questi, vedendo che evitavo accuratamente di interessarmi ai complessi maneggi attorno a legname, cataste e metri cubi steri, si rabbonì alquanto; quando poi potè constatare che non avevo nessun «cocco» da pro­ teggere e non facevo favoritismi, si sciolse del tutto. E mi raccontò di Lefortovo e della sua lotta per la barba. Mi regalò un libro di poesie di Erenburg. La letteratura, di qualsiasi genere, gli era as­ solutamente estranea. Quindi non gli piacevano neanche i roman­ zi e cose simili, cominciava a sbadigliare fin dalle prime righe. I giornali, le notizie politiche erano tutta un’altra faccenda. A quel­ li reagiva sempre. Zavodnik amava i fatti reali con persone vere. Ma soprattutto si annoiava, si tormentava non sapendo come ap­ plicare le proprie energie, e si sforzava di riempire con le preoc­ cupazioni dell’oggi e del domani ogni sua giornata, dalla levata al sonno. Addirittura, dormiva sempre il piu vicino possibile al la­ voro: agli operai, al fiume, alla fluitazione, in tenda, su un tavo­ laccio in una baracca, senza materasso e coperte, e la giubba come cuscino. Nel 1950, in estate, dovevo recarmi sul fiume Bachajga, a una quarantina di chilometri risalendo la Kolyma, dove si trovava un nostro settore, con un insediamento di detenuti sulla riva che do­ vevo visitare nell’ambito del mio giro medico. La corrente della Kolyma è forte e una barca a motore ci mette dieci ore a risalire quaranta chilometri di fiume. Al ritorno, in zatte a, ci si impiega un’ora, anche meno. Il pilota dell’imbarcazione era un salariato, forse addirittura a contratto, un meccanico, specializzazione di cui c’era sempre carenza; come ogni motoscafista e meccanico da quel­ le parti si era presentato al momento della partenza fortemente be­ vuto, ma alla specifica maniera kolymiana, e cioè in grado di ra­ gionare, tant’è che se stava in piedi dicendo molte cose sensate, e soltanto l’alito pesante denunciava l’alcol che aveva in corpo. Il pilota era addetto al trasporto del legname. La sua barca a moto­ re avrebbe dovuto mollare gli ormeggi fin dal giorno precedente, ma si metteva in movimento solo all’alba di quella notte bianca kolymiana. Il pilota naturalmente era al corrente del mio viaggio, ma sull’imbarcazione pronta a partire aveva preso posto un capo, o l’amico di un capo, o semplicemente un passeggero che pagava bene, il quale con la faccia voltata dall’altra parte aspettava che il pilota finisse di farmi il suo discorso e mi dicesse di no.

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- Non c’è posto. Ho detto di no. Partirai la prossima volta. - Ma se proprio ieri... - Ieri era ieri... E oggi ci ho ripensato. Allontanati dal molo. Il tutto, come d’uso, intrammezzato da elaborate oscenità kolymiane e dal turpiloquio malavitoso. Zavodnik viveva non lontano da lì, in una tenda in cima a una collinetta e dormiva con un occhio solo. Capi subito cosa stava suc­ cedendo e schizzò sulla riva con indosso la sola camicia, senza cap­ pello e aggiustandosi in qualche modo gli stivali. Il pilota si era in­ filato dei gambali di gomma, era sceso in acqua vicino al motoscafo e aveva cominciato a spingerlo. Zavodnik si avvicinò a sua volta all’acqua: - Cos’è, non ti va piu di prendere l’infermiere, eh? Il pilota si raddrizzò e si voltò verso Zavodnik: - Già. Non lo prendo. Ho detto che non lo prendo e chiuso! Zavodnik dette un pugno in faccia al pilota e quello cadde e scomparve sott’acqua. Io già temevo una disgrazia e feci per muo­ vermi verso il fiume, ma il pilota si rialzò, con la sua tuta di tela cerata che era tutta un ruscello. Raggiunse arrancando il moto­ scafo, si sistemò al posto di guida senza dire una parola e accese il motore. Io, con la mia borsa medica ben stretta, mi sedetti vicino al bor­ do, allungai le gambe e il natante salpò. Prima che facesse notte approdammo alla foce della Bachajga. Tutta l’energia di Zavodnik, tutte le sue forze spirituali erano concentrate nell’adempimento d ’ogni desiderio del direttore del­ l’ospedale Vinokurov. Si trattava di un tacito accordo tra padro­ ne e schiavo. Il padrone si assume la piena responsabilità per il fatto di na­ scondere un nemico del popolo, un trockista, la cui sorte sarebbe quella di vivere nelle zony a regime speciale, e lo schiavo ricono­ scente, senza aspettarsi computi di giorni lavorati o altri sconti di pena, provvede il padrone di beni materiali come legna, pesce fre­ sco, selvaggina, bacche e altri doni della natura. Zavodnik con­ trolla con mano ferma i suoi taglialegna, veste solo roba in dota­ zione e si contenta del vitto passato dallo Stato. Lo schiavo capi­ sce che il suo padrone non è in grado di ottenergli una liberazione anticipata, ma può comunque consentirgli di aver salva la vita, let­ teralmente, nel piu elementare senso della parola. Zavodnik venne rilasciato allo scadere della pena, a quindici anni esatti di calendario, i computi per il rilascio anticipato in ba­ se al rendimento sul lavoro non potevano essere applicati al suo

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reato. Zavodnik venne rilasciato nel 1952, nel giorno esatto in cui si compiva il periodo di quindici anni cui era stato condannato nel 1937 a Mosca, alla prigione di Lefortovo. Aveva compreso da tem­ po che chiedere il riesame del suo caso era una perdita di tempo. Tutti i reclami che aveva inoltrato durante i primi ingenui anni kolymiani erano rimasti senza risposta. Così si era lasciato assor­ bire completamente da una serie ininterrotta di progetti tra cui la realizzazione di una speciale slitta per il legname; aveva ideato e costruito per i taglialegna un vagone semovente con dei larghi pat­ tini da neve invece delle ruote. In quel modo la squadra avrebbe potuto spostarsi alla ricerca del legname. Alla Kolyma infatti la fo­ resta è rada e con pochi grossi alberi, si alterna alla tundra; per evi­ tare di montare le tende e costruire casette di legno provvisorie, Zavodnik aveva progettato quel vagone permanente su pattini, completo di cuccette a due piani. I venti elementi della squadra dei taglialegna con i loro attrezzi ci trovavano comodamente po­ sto. Ma quando Zavodnik aveva messo a punto il vagone era esta­ te e l’estate alla Kolyma è molto calda, o meglio è calda di giorno, e fredda di notte, e anche se il vagone poteva essere utilizzato, era comunque molto peggio della solita tenda di tela catramata. Per l’inverno le pareti del vagone erano troppo fredde, sottili. Il gelo kolymiano costituisce un collaudo severo per cartoni catramati, impregnati, per i compensati d ’ogni genere e tipo, li sbriciola, li fende. D ’inverno non era possibile vivere nel vagone e i tagliale­ gna tornarono alle loro piccole izbe sperimentate da millenni. Il vagone venne abbondonato nella foresta. Suggerii a Zavodnik di affidarlo al museo regionale di Magadan, ma non so dire se abbia seguito il mio consiglio. Un altro giocattolo di Zavodnik e Vinokurov fu la slitta a eli­ ca - una specie di idroplano per volare sulla neve. L ’uso di queste slitte, inviate da non so quale ente o fabbrica della Grande Terra, era vivamente consigliato dai prontuari per la valorizzazione del­ l’Estremo Nord. Ma la slitta a elica richiede illimitate distese ne­ vose, mentre il terreno della Kolyma è al cento per cento coperto di gibbosità e avvallamenti, con sopra una spolverata di neve che venti e tempeste soffiano via anche dalle minime fenditure. In quella Kolyma cosi scarsamente nevosa l’aeroslitta non durò a lun­ go, si ruppe durante una delle prime uscite. Ciononostante Vi­ nokurov insisteva molto, nei suoi rapporti, su vagoni semoventi e aeroslitte varie. Zavodnik si chiamava Jakov Ovseevič. Non Evseevič, non Evgen'evič, ma proprio Ovseevič, cosa sulla quale egli insisteva al­

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zando la voce durante i diversi controlli e appelli, mettendo ogni volta in agitazione i vari addetti all’anagrafe. Zavodnik non solo sapeva leggere e scrivere perfettamente, ma aveva un’eccellente calligrafia. Non so quale sarebbe potuto essere il giudizio di ZuevInsarov sulle caratteristiche della grafia di Zavodnik, ma ciò che colpiva maggiormente era lo svolazzo, lento, accurato, assai ela­ borato. Non delle semplici iniziali, Ja.2 Z. - tirate via con un ghi­ rigoro distratto, ma tutto un complicato ricamo tracciato con scru­ polo, senza fretta, qualcosa che si può apprendere solo nella pri­ ma infanzia o nella tarda prigionia. Per scrivere il proprio cognome Zavodnik impiegava non meno di un minuto. Vi trovavano posto, delineati con tratto elegante e sottile sia l’iniziale del nome, Ja., che l’iniziale del patronimico - un’O rotondissima, particolare nonché il cognome a lettere grandi e chiare e, un energico svolaz­ zo a incorniciare il solo cognome, seguito da ghirigori particolar­ mente ricercati e aerei, quasi il congedo dell’artista dall’opera ese­ guita con amore. Come ebbi occasione di verificare in diverse cir­ costanze, perfino in sella o appoggiando il foglio a una tavoletta geodetica la firma del commissario Zavodnik risultava invariabil­ mente accurata, decisa e chiara. Il rapporto che fini per instaurarsi tra noi era piu che buono, eccellente. In quell’estate del 1950 mi avevano proposto di rien­ trare all’ospedale come responsabile dell’accettazione. L ’accetta­ zione di un’ospedale per detenuti di quelle dimensioni, mille po­ sti letto, era una faccenda di non poco conto e da anni non riusci­ vano a farla funzionare a dovere. Su indicazione delle varie istanze l’avevano proposto a me. Ottenuto dal nuovo primario, Amosov, un assenso su quei quattro principi generali ai quali mi sarei atte­ nuto nella riorganizzazione del lavoro, avevo deciso di accettare l’incarico. Zavodnik era arrivato di corsa. - Solleciterò la revoca, farò saltare tutto l’inghippo. - No, Jakov Ovseevič, - feci io. - Sia io che lei sappiamo cos’è il lager. II suo destino ha un nome, Vinokurov, il capo. E Vi­ nokurov sta per andare in ferie. Non passerà una settimana dalla sua partenza che lei verrà dimesso dall’ospedale. Invece per il mio lavoro Vinokurov non è cosi importante. Voglio dormire al caldo, visto che è possibile, e occuparmi seriamente almeno di una cosa, cercare di rendermi utile in qualche modo. Capivo che all’accettazione sarei riuscito a scrivere dei versi so­ lo di rado. La carta di Burkan l’avevo esaurita tutta. Nella tajga 2 È l’ultima lettera dell’alfabeto russo e si legge «ja».

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scrivevo ogni minuto libero. Già la poesia con l’ultimo verso «I geli che talvolta in paradiso», scritta alla gelida foce della Duskan'ja, l’avevo dovuta scarabocchiare sul mio ricettario. Sarebbe stata pubblicata, sulla «Literaturnaja Gazeta» solo quindici anni dopo. Zavodnik non sapeva che scrivevo versi, e comunque non li avrebbe capiti. Per la prosa la Kolyma era un territorio troppo in­ fido, si poteva rischiare con i versi, ma non scrivendo della prosa. E questo il principale motivo per il quale alla Kolyma ho scritto solo poesie. A dire il vero, pensavo anche all’esempio di Thomas Hardy, lo scrittore inglese che negli ultimi dieci anni di vita ave­ va scritto solo poesie, e alle domande dei giornalisti aveva rispo­ sto che lo preoccupava il precedente di Galileo. Se Galileo avesse scritto poesie non avrebbe avuto seccature con la Chiesa. Per l’ap­ punto io non ero disposto a correre questo rischio galileiano, e non per considerazioni relative alla tradizione letteraria o storica, ma semplicemente perché il mio fiuto di prigioniero mi suggeriva, in quel gioco a moscacieca con il destino, cos’era bene o cos’era ma­ le, dove faceva caldo e dove faceva freddo. Ed ero stato davvero profeta: Vinokurov parti, e di li a un me­ se Zavodnik venne spedito in un giacimento dove comunque non restò a lungo, avendo finito il suo periodo di pena. Ma il dono del­ la profezia c’entrava poco: in realtà, in quell’arte o scienza che si chiama vita, si trattava di cose molto semplici, elementari. Dell’abbici. Quando veniva rilasciato uno come il detenuto Zavodnik, il suo conto personale presentava un saldo attivo di tanti zeri virgola ze­ ro. E così fu anche stavolta. Naturalmente non gli permisero di tornare nella Grande Terra ed egli trovò un impiego come addet­ to al movimento in un centro autotrasporti di Susuman. Anche se come ex detenuto non riceveva le indennità speciali previste per il lavoro all’Estremo Nord, lo stipendio gli bastava per vivere. Nell’inverno del ’51 mi arrivò una lettera. La dottoressa Mamučašvili si era portata alla Kolyma una lettera di Pasternak a me indirizzata. E così, preso qualche giorno di ferie - lavoravo come infermiere in un cantiere stradale - intrapresi il viaggio facendo conto sui mezzi in transito. La tariffa per i passaggi - già aveva co­ minciato a gelare - era di un rublo a chilometro. Dal posto dove lavoravo, vicino a Ojmjakon, il punto piu freddo della Terra, rag­ giunsi non senza problemi Susuman. A Susuman incontrai per stra­ da Zavodnik che lavorava proprio al centro autotrasporti. Cosa potevo chiedere di piu? Alle cinque del mattino grazie a Zavod-

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nik venni sistemato nella cabina di un enorme Tatr con il rimor­ chio. Gettai la valigia nel cassone, avrei voluto salirci anch’io, ma l’autista voleva attenersi alla lettera alla richiesta del suo princi­ pale e insistette perché restassi nella cabina. Mi dovetti rassegna­ re al rischio di perdere di vista la valigia. Il Tatr volava. Stava viaggiando senza carico e si fermava in ogni villaggio a raccogliere passeggeri. Alcuni scendevano, altri salivano. In un pic­ colo villaggio un militare fermò il Tatr e fece salire una decina di commilitoni provenienti dal continente. Si trattava di giovani co­ scritti in servizio di leva, lo si capiva dalla pelle che non conosce­ va ancora l’energica azione abbronzante del Nord, il sole bruciante della Kolyma. Dopo una quarantina di chilometri ci venne incon­ tro un camion militare che fece inversione e si fermò per caricar­ li. I soldati trasbordarono armi e bagagli. Mi sentivo dentro un dubbio, un allarme che non mi lasciava in pace. Chiesi di fermare l’autocarro e guardai nel cassone. La valigia non c’era più. Sono stati i soldati, - disse l’autista. - Ma adesso li raggiun­ giamo, non spariscono di sicuro. Dato un colpo di sirena, il Tatr si lanciò rombando in avanti. E in effetti di li a mezz’ora il Tatr raggiunse l’autocarro dei sol­ dati, un Zis, e lo superò bloccandosi di traverso per fermarlo. Spie­ gammo cos’era successo e io recuperai la mia valigia con la lettera di Pasternak. - L ’ho fatta tirare giu insieme alle altre valigie, non l’ho fatto apposta, - disse il capo. - Dici che non l’hai fatto apposta e ti credo, quel che conta co­ munque è il risultato. Arrivammo a Adygalach e io mi misi a caccia di un altro pas­ saggio, per Ojmjakon o Baragon. Nel ’57 - vivevo ormai a Mosca - venni a sapere che Zavodnik era tornato e aveva ripreso a lavorare al ministero del Com­ mercio, nella stessa posizione di vent’anni prima. A raccontarme­ lo fu Jarockij, un economista di Leningrado, che aveva fatto mol­ to per Zavodnik ai tempi di Vinokurov. Lo ringraziai, mi feci dare l’indirizzo di Zavodnik, gli scrissi una lettera ed egli mi rispose proponendomi un incontro, direttamente al ministero, avrebbe la­ sciato all’ingresso un lasciapassare per me, ecc. La lettera era fir­ mata con lo svolazzo calligrafico a me ben noto. Identico a sem­ pre, senza un ghirigoro di troppo. Nella circostanza appresi che Zavodnik era li per cumulare un ultimo periodo utile per la pen­ sione, gli mancavano formalmente pochi mesi. Mi dissi dispiaciu-

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to che Jarockij non avesse potuto tornare a Leningrado, benché si fosse congedato dalla Kolyma molto prima di me e di Zavodnik, e che ora fosse costretto a vivere a Kisinév. Conoscevo molto bene il caso di Jarockij, un membro del komsomol di Leningrado che aveva a suo tempo votato per l’opposi­ zione. Non c’era nessuna ragione perché ora gli fosse impedito di vivere nella capitale, ma Zavodnik di punto in bianco disse: - Il governo sa quello che fa. Per quanto riguarda me, o lei, è stato tutto chiarito, ma evidentemente per Jarockij è tutta un’al­ tra faccenda. Anche se gli sono rimasto amico, non sono piu andato a trova­ re Jakov Ovseevié Zavodnik. 1970-71. Jakov Ovseevic Zavodnik , in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

G l i s c a c c h i d e l d o t t o r K u z 'm e n k o

Il dottor Kuz'menko rovesciò i pezzi sul tavolo. - Che meraviglia, - dissi io, disponendo le piccole figure sulla scacchiera di compensato. Erano scacchi di finissima fattura. Ispi­ rati al tema dell’«Epoca dei Torbidi»1 Soldati di fanteria polacchi e cosacchi circondavano una figura piu alta, quella del Primo Im­ postore, che era il re dei bianchi. La regina dei bianchi aveva i trat­ ti energici e marcati di Marina Mniszek. Gli ataman Sapieha e Radziwill sulla scacchiera erano gli alfieri dellTmpostore. I neri, con il metropolita Filaret alla testa, indossavano tonache austere. Peresvet e Osljabja, cinti da corazze sopra le vesti monacali, bran­ divano corte spade snudate. Le torri della Lavra della Trinità e di San Sergio si ergevano in a 8 e h 8. - Una meraviglia davvero. Non mi stancherei mai di ammirar­ la... - Però, - dissi io, - c ’è un’imprecisione storica: il Primo Im­ postore non ha mai assediato la Lavra. - SI, si, - disse il dottore, - ha ragione. Ma non le è mai sem­ brato una cosa strana che ancor oggi la storia non sappia chi fosse in realtà il Primo Impostore, Griška Otrep'ev ? - E solo una delle molte ipotesi, e neanche la piu verosimile.

1 In russo Smutnoe Vremja , l’Epoca dei Torbidi seguita alla morte dello zar Ivan il T ribile, durante il regno di Boris Godunov (1598-1605), con carestie, rivolte contadine, e l’apparizione di un Primo Impostore, pretendente al trono, appoggiato da Sigismondo III di Polonia, e sposato alla figlia di un voevoda, Marina Mniszech, incoronata con lui nel 1606 a Mosca. In seguito apparve anche un Secondo Impostore, ma l’intervento militare polacco (1608-6io) venne infine respinto e gli usurpatori uccisi; un ruolo importante nel­ la vicenda fu sostenuto dalla Lavra (monastero della Trinità di San Sergio) contro i cui ba­ stioni si infranse l’assalto delle truppe del Secondo Impostore. I Torbidi finirono nel 1613 con l’incoronazione del primo Romanov, Michail, figlio del futuro metropolita Filaret; il monastero della Trinità già ai tempi del fondatore san Sergio aveva svolto un ruolo di so­ stegno spirituale e materiale alla nascente nazione quando il principe di Mosca e Vladimir, Dmitrij Donskoj, aveva affrontato e sconfitto i Tatari nella battaglia di Kulikovo (1380): è il nesso che permette all’autore della scacchiera di inserire anche due monaci-guerrieri, protagonisti di quei piu antichi eventi.

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Però è quella di Puškin. Neanche Boris Godunov era come lo rap­ presenta Puškin23. È il ruolo del poeta, del drammaturgo, del ro­ manziere, del compositore. Interpretare gli avvenimenti. E il xix secolo, con la sua brama di spiegare l’inesplicabile. Alla metà del XX secolo un documento avrebbe fatto piazza pulita di ogni diversa ipotesi. E si crederebbe solo al documento. - C ’è una lettera dell’impostore. - Si, e lo zarevic Dmitri) vi appare come una persona colta, un monarca istruito, degno dei migliori zar del trono di Russia. - Detto questo, però, chi era ? Nessuno sa chi fosse questo mo­ narca russo. Ecco cosa vuol dire un segreto polacco. L ’impotenza degli storici. Una faccenda vergognosa. Fosse successo in Germa­ nia, prima o poi i documenti sarebbero venuti fuori. I Tedeschi amano i documenti. Ma gli altolocati padroni dell’impostore sa­ pevano bene come mantenere un segreto: e quante ne sono state assassinate di persone, solo per averlo sfiorato. - Lei esagera, dottor Kuz'menko, nel negare la nostra capacità di mantenere un segreto. - Non la nego affatto. La morte di Osip Mandel'štam non è forse rimasta un segreto ? Dove e quando è morto ? Ci sono cento testimoni della sua morte, dovuta alle percosse, alla fame e al fred­ do - non ci sono divergenze riguardo alle circostanze della morte, - ma ciascuno di loro inventa la sua storia, la sua leggenda. E la morte del figlio di German Lopatin2, ucciso per l’unica ragione che era figlio di suo padre? Se ne cercano le tracce da trent’anni. Ai familiari di vecchi dirigenti del partito come Bucharin, Rykov dan­ no informazioni sulla loro morte, informazioni che abbracciano un periodo di diversi anni, dal 1937 al 1945. Però nessuno li ha mai più incontrati dopo il 1937 o 1938. Tutte queste informazioni ven­ gono date perché i familiari se ne stiano tranquilli. Le date di mor­ te sono arbitrarie. Sarebbe piu giusto supporre che siano stati tut­ ti fucilati nei sotterranei di Mosca al pili tardi nel ’38. - Mi sembra... - E Kulagin se lo ricorda ? - Lo scultore ? - Sì! È sparito senza lasciare traccia, in un’epoca in cui erano 2 Nella tragedia in versi Boris G odunov composta nel 1825 e pubblicata nel 1831; il musicista Musorgskij ne trasse l’omonimo melodramma. 3 German Lopatin (1845-1918), primo traduttore in russo del Capitale di Marx, ven­ ne arrestato nel 1868 per attività rivoluzionaria ma fuggi all'estero, dove divenne amico di Marx e collaboré alla Prima Internazionale; tornò parecchie volte in Russia venendo ogni volta arrestato.

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in molti a sparire cosi. È sparito sotto un altro nome, cambiato in lager con un numero. Poi al numero è stato attribuito un terzo no­ me ancora. - Anch’io ho sentito parlare di cose del genere, - replicai. - Bene, questi scacchi sono opera sua. Kulagin li ha fatti con del pane impastato alla prigione delle Butyrki nel ’37. Tutti i de­ tenuti della sua cella hanno masticato per ore e ore il pane che gli serviva. La cosa fondamentale qui era cogliere il momento esatto in cui la saliva e il pane masticato arrivavano a una specie di pun­ to di fusione irripetibile. Solo il maestro stesso poteva decidere e aveva fortuna se riusciva a far uscire dalla bocca una pasta adatta ad assumere qualsiasi forma sotto le sue dita e poi indurire per l’e­ ternità, come il cemento delle piramidi egizie. Kulagin fabbricò in questo modo i pezzi per due scacchiere. Quelli della seconda rappresentavano «La conquista del Messico da parte di Cortez». L ’epoca dei Torbidi messicana. Kulagin ven­ dette o dette via per niente i suoi Spagnoli e Messicani a qualcu­ no della direzione carceraria, mentre si portò nei vari trasferimenti « L ’epoca dei Torbidi» russa. L ’avrà scolpita con un fiammifero, con l’unghia, visto che in prigione qualsiasi ferretto è proibito? - Ne mancano due pezzi, - dissi. - La regina nera e una torre bianca. - Lo so, - rispose Kuz'menko. - La torre è proprio andata, men­ tre la regina nera non ha più la testa e la tengo sottochiave nella mia scrivania. Cosi non ho ancora capito chi dei difensori neri del­ la Lavra nell’Epoca dei Torbidi fosse la regina. La distrofia alimentare è qualcosa di terribile. Nei nostri lager hanno incominciato a chiamare con il suo vero nome questa ma­ lattia solo dopo l’assedio di Leningrado. Prima la diagnosticavano come poliavitaminosi, pellagra, dimagramento acuto su base dis­ senterica. E così via. Anche qui, si faceva a chi nascondeva meglio il segreto. Il segreto della morte del detenuto. Ai medici era fatto divieto di menzionare la parola «fame», di scriverne o parlarne in documenti ufficiali, cartelle cliniche, durante conferenze o corsi di perfezionamento. - Lo so. - Kulagin era un uomo alto, grande e grosso. Al momento del suo ricovero in ospedale pesava quaranta chili, il peso delle ossa e della pelle. Una fase irreversibile della distrofia alimentare. Tutti gli uomini affamati vengono colpiti, in certi momenti acu­ ti, da un ottenebramento dell’intelletto, una perdita della capacità di ragionare, un accesso di demenza, una delle «d » della famosa

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triade kolymiana: demenza, dissenteria, distrofia... Lei sa cos’è la demenza? - La pazzia ? - Si, si, la pazzia. Una pazzia, un’alienazione mentale acquisi­ ta. Quando portarono in ospedale Kulagin io, che sono medico, ho subito capito che il nuovo malato doveva aver manifestato da tempo i sintomi della demenza... Kulagin non si è più ripreso fino alla morte. Teneva sempre con sé un sacchettino con gli scacchi, che avevano attraversato indenni ogni cosa - disinfestazioni come rapacità dei malavitosi. E a un certo punto Kulagin succhiò, mangiò, inghiottì una del­ le torri bianche, morse, staccò e inghiottì la testa della regina ne­ ra. Emettendo suoni indistinti difese il sacchettino dagli inser­ viente che volevano toglierglielo di mano. Credo che volesse in­ ghiottire la sua opera, semplicemente per distruggerla, cancellando cosi ogni traccia della propria esistenza. Invece avrebbe dovuto incominciare a mangiare le piccole figu­ re di pane qualche mese prima. Lo avrebbero salvato dalla morte. - Ma era quello che desiderava, salvarsi ? - Non ho fatto recuperare la torre dallo stomaco. Con l’auto­ psia si poteva. E cosi la testa della regina... Ecco perché la nostra partita dovrà fare a meno di questi due pezzi. A lei la prima mos­ sa, maestro! - No, - gli dissi. - Non so perché, ma me ne è passata la vo­ glia... [1967]. Sachmaty doktora K uz'm enko, in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

h ’uomo del piroscafo

- Scriva, Krist, scriva, - diceva il medico, anziano, stanco. Erano le tre del mattino, la montagna di mozziconi sul tavolo dell’astanteria cresceva a vista d’occhio. Sui vetri delle finestre si era incollato uno spesso strato di ghiaccio irto di aghi. La nebbia azzurrino della machorka ristagnava riempiendo la stanza, ma man­ cava il tempo per aprire lo sportello e ventilare lo studio medico. Avevamo cominciato il lavoro la sera prima alle otto e non se ne ve­ deva la fine. Il medico fumava una papirosa dopo l’altra, arroto­ lando rapidamente le cartine di carta da giornale nelle più sempli­ ci «marinare» o - se voleva riprendere il fiato - dedicandosi a una piu elaborata «zampa caprina» a imbuto. Le sue dita in movimen­ to, bruciacchiate dal fumo di trinciato come quelle di un contadi­ no, mi balenavano davanti agli occhi, il calamaio di sicurezza tic­ chettava come una macchina da cucire. Le forze del medico erano agli sgoccioli, gli occhi gli si chiudevano, non c’erano flotskie o koz 'i noiki che potessero più fargli vincere la stanchezza. - E un cifirino? Se preparassimo del čifir'... - disse Krist. - E dove lo trovi, il tuo cifirino... Il «/ir'era un tè particolarmente forte - conforto di malavito­ si e camionisti nei viaggi lunghi - cinquanta grammi per bicchie­ re, rimedio particolarmente efficace contro il sonno, valuta pre­ giata kolymiana, valuta dei percorsi piu lunghi, dei tragitti che du­ ravano giorni. - E poi non mi va, - disse il medico. - Non che abbia riscon­ trato effetti deleteri per la salute. E ne ho esaminati di «cifiristi». È anche un preparato noto da tempo. Non l’hanno inventato i ma­ lavitosi e neanche i camionisti. Già Jacques Paganel in Australia preparava un infusione del genere e ne offriva ai figli del capitano Grant. «Per un litro d ’acqua mezza libbra di tè e lasciare sul fuo­ co per tre ore» ecco la ricetta di Paganel... E lei sempre a ripete­ re: i malavitosi! Come se fossero gli iniziatori di ogni cosa! Non c’è niente al mondo che già non si sia visto.

L ’UOMO DEL PIROSCAFO

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- Si distenda un po’. - No, dopo. Deve imparare la raccolta di dati e la prima visi­ ta. Benché sia proibito dalla legge prima o poi dovrò pur dormire anch’io. I malati si presentano nell’intero arco delle ventiquattro ore. Non sarà un gran guaio per qualche malato se la prima visita la farà lei, che è comunque un uomo con il camice bianco. Chi può dirlo se è un inserviente ospedaliero, un infermiere, un medico, un accademico? Vedrà che finirà nel libro di memorie di qualcu­ no e sarà ricordato come il medico del settore, del giacimento, del­ la direzione generale. - Ma ne verranno scritte ? - Sicuramente. Comunque se dovesse esserci un caso partico­ larmente importante potrà sempre svegliarmi. Beh, - soggiunse il dottore, - cominciamo. Il prossimo. Un malato, nudo e sporco, aveva preso posto sullo sgabello da­ vanti a noi. Piu simile a uno scheletro che a un modello anatomi­ co illustrativo. - Non male come scuola per infermieri, eh? - disse il medico. - E anche per medici. In realtà sarebbero ben altre le cose che un praticante in campo medico dovrebbe vedere e imparare. Tutto quello che avremo oggi sotto gli occhi è materia che interessa un campo molto ristretto e specifico della medicina. Potessero spro­ fondare queste nostre isole, - mi segue ? - sprofondare sottoter­ ra!... Scriva, Krist, scriva... Anno di nascita 1893. Sesso: maschile. Attiro la sua attenzio­ ne su questo importante elemento. Sesso: maschile. E un dato di rilievo per il chirurgo, l’anatomopatologo, l’impiegato dell’obito­ rio, il demografo della capitale. Ma che non ha nessun interesse per il malato stesso, ha ben altro a cui pensare che al suo sesso... Il mio calamaio riprese a ticchettare. - No, non c ’è bisogno che il malato si alzi, gli faccia portare dell’acqua calda e lo faccia bere. Quell’acqua di neve dal bidoncino. Che si scaldi un po’, cosi poi passiamo all’analisi del dato «vi­ ta»1, le informazioni sulle malattie parentali - e il medico pic­ chierellò con il dorso del ricettario sulla cartella clinica - può an­ che non raccoglierle, non abbiamo tempo da perdere con sciocchezze del genere. Ah, ecco, precedenti malattie: distrofia ali­ mentare, scorbuto, dissenteria, pellagra, avitaminosi A, B, C, D, E , F, G, H, I, L, M, N, O, P, Q, R S, T, U, V, Z... Può inter­ rompere l’elenco in un punto a piacere. Nega affezioni veneree, In latino nel testo.

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nega altresì rapporti con i nemici del popolo. Scriva... Ha inoltra­ to reclamo per il congelamento di entrambi i piedi, determinatosi a seguito di una prolungata permanenza al freddo, con conseguente azione del freddo sui tessuti. Ha scritto ? Dei tessuti... Ecco, si co­ pra con questa. - Il dottore sfilò una sottile coperta, macchiata di inchiostro, dal lettino del medico di guardia e l’accomodò sulle spalle al malato. - Allora quando la portano questa maledetta ac­ qua calda? Ci vorrebbe del tè dolce, ma tè e zucchero all’accetta­ zione non sono previsti. Andiamo avanti. Statura: media. Quale precisamente? Non disponiamo dell’asta graduata. Capelli: bian­ chi. Grassezza: il medico dette un’occhiata alle costole e alla pel­ le bianca e secca tesa e appesa tra esse - quando vede una gras­ sezza come questa, bisogna scrivere «inferiore alla media». Il medico strinse con due dita un lembo di pelle del malato e lo tirò. - Debole turgore della pelle. Lo sa cos’è il turgore? -N o . - L ’elasticità. Dunque, ha qualcosa che qui possiamo curare? No, è un malato da chirurgia, dico bene? Lasci nella cartella cli­ nica uno spazio libero per Leonid Markovič, domani o, meglio or­ mai stamattina, ci darà un’occhiata anche lui e scriverà le sue con­ clusioni. Scriva in cirillico status localis. E metta due punti. Avanti un altro! [1962]. Celovek s parochoda, in «Znamja», 1989, n. 6.

Aleksandr Gogoberidze

È davvero bella: sono passati solo quindici anni e non ricordo piu il patronimico dell’infermiere Aleksandr Gogoberidze. L’ar­ teriosclerosi! Eppure ero convinto che il suo nome fosse di quelli che mi si dovevano incidere per sempre nelle cellule del cervello: Gogoberidze era una di quelle rare persone che rendono la vita de­ gna di essere vissuta, e io mi ero dimenticato il suo patronimico. Non era semplicemente l’infermiere del reparto dermatologia del­ l’Ospedale centrale per detenuti della Kolyma. Era stato il mio in­ segnante di farmacologia ai corsi per infermieri. Ah, che impresa difficile trovare un insegnante di farmacologia per quei corsi che davano garanzia di vita e di salvezza a venti fortunati allievi, scel­ ti tra i detenuti. Umanskij, già professore a Bruxelles, aveva ac­ cettato di tenere anche il corso di latino. Umanskij era poliglotta, profondo conoscitore delle lingue orientali e si intendeva di morfo­ logia comparata ancor piu che di anatomia patologica, che era la sua principale materia di insegnamento ai corsi. Il corso presenta­ va peraltro alcune lacune. Avendo del lager una discreta cono­ scenza (Umanskij stava scontando il terzo o quarto periodo di pe­ na, come tutti quelli finiti dentro negli anni Trenta sull’onda dei «casi» staliniani), il professore di Bruxelles si era recisamente ri­ fiutato di svolgere a beneficio degli studenti kolymiani il capitolo sugli organi sessuali - maschili e femminili. E non per eccesso di pudicizia. Comunque sia, agli allievi venne proposto di studiarsi questo capitolo autonomamente. Per il corso di farmacologia c’e­ rano stati molti candidati, ma poi era successo che il prescelto do­ vesse partire «per la provincia», «la tajga», «la rotabile», erano queste le espressioni in uso allora. Ciò aveva comportato un ulte­ riore ritardo nell’inizio dei corsi, e a quel punto Gogoberidze - in passato direttore di un istituto farmacologico di ricerca in Geor­ gia - vedendo che i corsi erano seriamente in pericolo - inaspet­ tatamente decise di accettare. I corsi ebbero inizio. Gogoberidze comprendeva l’importanza dei corsi sia per i ven-

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ti «studenti» che per la Kolyma tutta. Erano corsi che educavano al bene, seminavano ragionevolezza. Il potere dell’infermiere nel lager è grande, la sua utilità (o nocività) assai considerevole. Ebbi occasione di parlare con lui di questo successivamente, quando fui diventato un lepila dei lager a tutti gli effetti e comin­ ciai a frequentare la sua «cabina» nel reparto dermatologia dell’o­ spedale. Le baracche ospedaliere venivano costruite in base a una tipologia standardizzata, a differenza di quanto avveniva in loca­ lità piu lontane da Magadan, dove spesso ospedali e ambulatori erano allestiti in capanni seminterrati che non si distinguevano granché dalle altre zemljanki della tajga. Comunque la percentua­ le di mortalità era tale che si dovettero abbandonare quei covili e adattare all’uso ospedaliero parte delle baracche abitative. In par­ ticolare reclamava spazi e locali il famigerato «Gruppo T », quel­ lo dei temporaneamente esentati dal lavoro, il cui numero conti­ nuava a crescere in modo inarrestabile. La morte resta morte, co­ munque la si spieghi. Nella descrizione delle cause si può mentire e costringere i medici a escogitare le diagnosi piu ampollose, tut­ ta la tastiera con desinenze in «osi» e «ite», per sfruttare ogni mi­ nima possibilità di mascherare, con l’enfatizzazione di elementi secondari, l’aspetto centrale e lampante. Ma anche quando l’evi­ denza non poteva essere negata, accorrevano in soccorso ai medi­ ci le varie «poliavitaminosi», «pellagra», «dissenteria», «carenza acuta». Nessuno voleva pronunciare la parola «fame». Fu solo do­ po l’assedio di Leningrado che nelle diagnosi di anatomopatologia e piu raramente in quelle terapeutiche cominciò a figurare sulle cartelle cliniche il termine di «distrofia alimentare». Si sostituì su­ bito alle poliavitaminosi, semplificando le cose. E proprio in quel periodo acquistò vasta notorietà nei lager la strofa del Meridiano di Pulkovo di Vera Inber: Una languente candela consumata: l’arida sfilza di sintomi e di dati per ciò che nella scienza dei dottori si definisce distrofia alimentare, e chi di filologia e latino non s’intende la definisce con il nome russo: «fam e».

Ahimè, il professor Umanskij, anatomopatologo, era anche fi­ lologo e latinista. E per lunghi anni si dedicò a registrare nei ver­ bali della sezione medica gli astrusi «osi» e «iti». Aleksandr Gogoberidze era un tipo taciturno e posato - il la­ ger gli aveva insegnato riservatezza e pazienza, e a non giudicare un uomo dal vestito - giubba o berretto che fosse - ma da tutta una serie di altri elementi, talvolta vaghi e inafferrabili, ma non

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per questo meno certi. Le simpatie si basano proprio su tali im­ percettibili sintomi. Capita che prima ancora di scambiarsi due pa­ role si senta uno per l’altro una favorevole disposizione di spirito, oppure ostilità, o indifferenza, o diffidenza. «In libertà» questo processo evolve più lentamente. Quaggiù invece simpatie o anti­ patie, che sembrano attenere all’inconscio, si manifestano in mo­ do rapido, sicuro, infallibile. L ’enorme esperienza di vita del de­ tenuto, la tensione dei suoi nervi, la grande semplificazione e im­ mediatezza dei meccanismi di relazione e conoscenza dell’altro, stanno alla base dell’infallibilità di certi giudizi solo apparente­ mente inconsapevoli. L ’interno della baracca ospedaliera - una struttura con due uscite e un corridoio in mezzo - era sudddiviso in camerette, le cosiddette «cabine», che potevano essere agevol­ mente adattate a ripostiglio, farmacia o box di isolamento ospe­ daliero. In «cabine» come quelle di solito vivevano anche i dete­ nuti medici e infermieri. Ed era questo un privilegio concreto di tutto rispetto. Le «cabine» erano minuscole, due metri per due o per tre. Nel­ la cameretta trovavano posto un letto, un comodino, qualche vol­ ta un simulacro di minuscolo scrittoio. Al centro una piccolissima stufetta accesa estate e inverno, sul tipo di quelle che si tengono in cabina i camionisti della Kolyma. Stufa e legna da ardere - in pez­ zi minuti - occupavano a loro volta non poca parte dello spazio abi­ tativo utile. Ma era tuttavia uno spazio abitativo privato, di cui si era padroni, quasi un appartamento personale a Mosca. Una fine­ strella di dimensioni minime, schermata con una garza. Tutto lo spazio rimanente della «cabina» era occupato da Gogoberidze. Di alta statura, spalle larghe, braccia e gambe grosse, sempre con la te­ sta rasata e le grandi orecchie sporgenti, assomigliava parecchio a un elefante. Il bianco camice da infermiere lo fasciava strettamen­ te accentuando l’effetto «zoologico» dell’insieme. Solo gli occhi non erano elefantini: grigi, mobili, occhi d’aquila. Gogoberidze pensava in georgiano e parlava in russo, sceglien­ do lentamente le parole. Di quello che gli dicevano capiva e affer­ rava al volo la sostanza, lo rivelava il lampo che gli attraversava gli occhi. La prima volta che ci incontrammo fu vicino a Magadan, nel 1946, e lui doveva aver superato da parecchio la sessantina. Ave­ va grandi mani senili, gonfie e bluastre. Camminava lentamente, quasi sempre appoggiandosi a un bastone. Inforcava e toglieva con gesto abituale gli occhiali «da anziano», da presbite. Avremmo presto constatato che quel corpo gigantesco aveva conservato l’a­ gilità dei movimenti e la capacità di incutere timore.

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Il superiore diretto di Gogoberidze era il dottor Krol', uno spe­ cialista delle malattie della pelle, condannato per reati comuni, for­ se per speculazione o truffa. Un leccapiedi volgare, eternamente ridacchiante: alle lezioni continuava a ripetere agli allievi che se studiavano le malattie della pelle «non sarebbero mai rimasti a pan­ cia vuota», e temeva come il fuoco la «politica» (e chi non la te­ meva in quegli anni!) Un concussore, maneggione e speculatore, cucito a doppio filo ai malavitosi, che non gli facevano mai man­ care lepëcbi e skery, «giubbotti e pantaloni». Krol' era da sempre tenuto « al gancio » dai malavitosi che lo fa­ cevano correre a loro piacimento. Gogoberidze non parlava mai con il suo capo, faceva quel che doveva fare - iniezioni, fasciatu­ re, prescrizioni - ma evitando accuratamente ogni conversazione con Krol'. Un giorno tuttavia Gogoberidze venne a sapere che Krol' aveva chiesto a un detenuto - un fraer, non un malavitoso un paio di scarpe di pelle morbida conciata al cromo per farlo ri­ coverare nel reparto, e che la regalia era già arrivata a destinazio­ ne. Gogoberidze attraversò a passo di marcia tutto il reparto fino alla stanza di Krol'. Questi si era già ritirato e l’uscio era sbarrato da un pesante chiavistello, preparato apposta per Krol' da uno dei ricoverati. Gogoberidze divelse l’uscio ed entrò nella stanza del capo. Aveva il viso paonazzo, gli tremavano le mani. Gogoberid­ ze mugghiava, barriva come un elefante. Afferrò le scarpe e con queste scarpe di pelle morbida schiaffeggiò Krol' sotto gli occhi di inservienti e malati. Poi restituì le scarpe al proprietario. Gogo­ beridze si aspettava di ricevere la visita del ripartitore o del co­ mandante degli organi di sicurezza. Quest’ultimo, presa visione del rapporto di Krol', avrebbe senz’altro fatto mettere il teppista in carcere di isolamento o l’avrebbe magari spedito agli estenuan­ ti lavori generali: in situazioni «disciplinari» come quella, nean­ che l’età veneranda poteva salvare dal castigo. Ma Krol' non ave­ va fatto rapporto. Non gli conveniva attirare l’attenzione: per quanto debole, un raggio di luce avrebbe potuto illuminare qual­ che traccia dei suoi oscuri maneggi. Medico e infermiere conti­ nuarono a lavorare fianco a fianco. Il mio vicino di banco ai corsi si chiamava Barateli. Non so in base a quale articolo fosse stato condannato, ma non credo si trat­ tasse del 58. Barateli me l’aveva anche detto, ma a quel tempo i codici penali erano alquanto complicati e avevo subito dimentica­ to l’articolo. Barateli non se la cavava molto bene con il russo e non aveva superato le prove di ammissione ai corsi, ma Gogobe­ ridze lavorava da molto all’ospedale, aveva le sue entrature e go­ deva di rispetto, e così era riuscito a ottenerne l’ammissione. Go-

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goberidze lo aiutava nello studio, per un anno intero gli diede par­ te della sua razione, gli comperava tabacco e zucchero allo spac­ cio, e Barateli aveva verso il vecchio un atteggiamento ricono­ scente, affettuoso. Ci sarebbe mancato altro! Passarono otto mesi di quegli eroici studi. Infermiere a tutti gli effetti, partii per lavorare in un nuovo ospedale a oltre cinquecento chilometri da Magadan. E mi affacciai da Gogoberidze per salutarlo. Fu allora che mi chiese lento lento: - Lei non sa dove sia Ešba? Questa domanda veniva fatta nell’ottobre del 1946. Ešba, uno degli esponenti piu illustri del partito comunista della Georgia, era caduto vittima delle repressioni moltissimo tempo prima, quando ancora c’era Ežov. - Ešba è morto, - gli dissi, - è morto alla Serpantinka proprio alla fine del ’37 o forse è sopravvissuto fino al ’38. Era con me al giacimento Partizan, e alla fine del 1937, quando alla Kolyma «co­ minciò»' tutto quanto, Ešba venne portato insieme a molti altri, «in base agli elenchi», alla Serpantinnaja dove c’era il carcere istruttorio della Direzione mineraria del Nord e dove per tutto il ’38 si susseguirono ininterrottamente le fucilazioni. Che razza di nome: Serpantinnaja! La strada per andarci ser­ peggia tra le montagne come una stella filante, e proprio cosi l’han­ no chiamata i cartografi. Quelli possono permettersi molte cose. Alla Kolyma c’è anche un fiume con il nome da foxtrot Rio Rita, e un lago che si chiama Lago dei coregoni danzanti e le sorgenti Faccialei e Uffa! Per scherzo, ma con stile. Nel 1952 ebbi occasione di fare un viaggio in piu tappe con i piti svariati mezzi di trasporto - renne, cani, cavalli, cassone di au­ tocarro, tratte a piedi, e poi al ritorno cassone di autocarro (un enorme Tatr cecoslovacco), cavalli, cani, renne - alla volta dell’o­ spedale dove avevo lavorato fino a un anno prima. Dai medici di quell’ospedale, dove avevo tra l’altro studiato da infermiere, sep­ pi che Gogoberidze - il quale aveva una condanna a quindici an­ ni piu cinque di interdizione dei diritti civili - ce l’aveva fatta a restare vivo fino alla fine della pena ed era stato condannato alla ssylka con relegazione perpetua in Jacutija. Era un provvedimen­ to ancora piu duro del solito confino a vita, nell’insediamento piu prossimo al lager, che veniva normalmente adottato allora e anche successivamente, fin quasi il 1955. Gogoberidze era riuscito a ot­ tenere il permesso di restare in una cittadina della Kolyma, eviSi veda il racconto Come incominciò a p. 465.

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tando il trasferimento in Jacutija. Era chiaro che l’organismo del vecchio non era in grado di reggere a un simile viaggio nell’Estre­ mo Nord. Gogoberidze si era stabilito nella cittadina di Jagodnoe, al chi­ lometro 543 da Magadan e lavorava nell’ospedale. Sulla strada del ritorno, nei pressi di Ojmjakon, mi fermai a Ja­ godnoe per rivedere Gogoberidze e seppi che si trovava, nei pan­ ni del malato e non dell’infermiere o del farmacista, all’ospedale dei salariati. Ipertensione. Una fortissima ipertensione. Entrai nella corsia. Coperte rosse e gialle, vivamente illumina­ te da una luce laterale, tre lettini vuoti e nel quarto, con una co­ perta color giallo vivo rimboccata all’altezza della vita, c’era Go­ goberidze. Mi riconobbe subito, ma non potè quasi parlare per il gran mal di testa. - Come sta? - Ma cosi. - Gli occhi grigi brillavano vivaci come sempre. Era­ no aumentato le rughe. - Si rimetta, guarisca. - Non lo so, non lo so. Ci salutammo. Ed è tutto quello che so di Gogoberidze. Ormai sulla Grande Terra una lettera mi informò che Aleksandr Gogoberidze era mor­ to a Jagodnoe, non era riuscito a sopravvivere fino al giorno della riabilitazione. Tale fu la sorte di Aleksandr Gogoberidze, morto in quel mo­ do per un solo e unico motivo: perché era fratello di Levan Go­ goberidze2. Per Levan, si vedano le memorie di Mikojan3. 1970-71. Aleksandr Gogoberidze, in Salamov, Percatka, ili K R -2 cit.

2 Levan Gogoberidze (1896-1937), rivoluzionario caucasico, lottò per l’instaurazione del potere sovietico nel Caucaso, nel 1923-24 fu vicepresidente del Consiglio dei ministri della Georgia, e sempre in Georgia, dal 1926 al 1930 segretario del CC del partito, venne arrestato durante le epurazioni e fucilato. 3 Anastas Mikojan (1895-1978), nato in Armenia, membro del partito comunista fin dal 1915, partecipò alla guerra civile nel Caucaso e guidò l’insurrezione di Baku; commis­ sario del popolo al Commercio estero dell’Urss dal 1938 al 1946, primo vicepresidente del Consiglio dei ministri, nel 1964-65 presidente del Presidium del Soviet supremo dell’Urss.

Lezioni d ’amore

- Lei è una brava persona, - mi disse una volta il nostro trapovščik, il carpentiere della squadra addetto alla sistemazione del­ le passerelle sulle quali spingevamo le carriole dalla cava fino alla tramoggia e alle vasche di lavaggio. - Lei non dice mai cose catti­ ve o sporche sulle donne. Quel carpentiere era Isaj Rabinovič, ma in passato aveva di­ retto il Gosstrach, l’Ente statale di assicurazione dell’Urss. Era an­ che andato a ricevere dai Norvegesi l’oro per la cessione delle iso­ le Spitsbergen nel Mare del Nord, e nel pieno di una tempesta ave­ va trasbordato sacchi d ’oro da una nave all’altra: un espediente, quello del trasbordo in mare, per nascondere le tracce di un ac­ cordo segreto. Era vissuto per quasi tutta la vita all’estero, era sta­ to a lungo in rapporti di amicizia con molti importanti magnati: ad esempio Ivar Kreuger. Ivan Kreuger, il re dei fiammiferi, che sarebbe morto suicida, nel 1918 era ancora vivo e aveva anche ospitato Isaj Rabinovič con la figlia sulla Còte d ’Azur. Il governo sovietico cercava ordinazioni all’estero e il tramite e garante di Kreuger era Isaj Rabinovič. Nel 1937 venne arresta­ to, e si prese dieci anni. A Mosca gli restavano moglie e figlia, i suoi unici parenti. Durante la guerra la figlia si sposò con l’addet­ to militare degli Stati Uniti d’America, capitano di vascello Tol­ ly. Tolly ricevette il comando di una corazzata nel Pacifico e parti da Mosca. Prima di sposarsi, il capitano Tolly e la figlia di Isaj Rabinovič avevano scritto alcune lettere al futuro suocero e padre, detenuto in lager, e in una di esse il capitano aveva chiesto la mano della ra­ gazza. Rabinovič si era rattristato, aveva sbuffato, poi aveva dato il consenso. I genitori di Tolly avevano inviato la loro benedizio­ ne. L ’addetto militare si era dunque sposato. Ma quando Tolly do­ vette partire risultò che le autorità non avrebbero consentito alla figlia di Isaj Rabinovič di seguire il marito. Senza por tempo in mez­ zo, i coniugi divorziarono e il capitano Tolly raggiunse la nuova de­

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stillazione; l’ex moglie invece aveva un incarico di nessuna impor­ tanza al Narkomindel, il Commissariato del popolo per gli Affari esteri. Interruppe la corrispondenza con il padre. Il capitano Tolly non scriveva né all’ex moglie né all’ex suocero. Passarono due an­ ni interi di guerra e la figlia di Rabinovič ottenne una breve tra­ sferta di servizio a Stoccolma. A Stoccolma era pronto per lei un aereo speciale, e la moglie del capitano Tolly venne portata dal ma­ rito... Dopo questi fatti, a Isaj Rabinovič nel lager cominciarono ad arrivare lettere con francobolli americani, scritte in inglese, il che irritava straordinariamente i censori... Questa storia d ’amore co­ ronata dalla fuga dopo due anni di attesa - evidentemente il capi­ tano Tolly non considerava il proprio matrimonio alla stregua di un amorazzo moscovita - era una di quelle a noi tanto necessarie. Non mi ero mai soffermato a pensare al modo in cui parlavo del­ le donne, se bene o male: tutto mi sembrava ormai da cosi tanto tempo cancellato, dimenticato, e non mi abbandonavo a fantasti­ cherie su incontri femminili. Per dedicarsi all’onanismo come fan­ no molti in carcere bisogna prima di tutto essere sazio. Non ci si può immaginare un vizioso, un onanista e neppure un pederasta affamati. C ’era un bel ragazzo di ventotto anni, il detenuto Vas'ka Švecov, «caporale» al cantiere dell’ospedale. L ’ospedale era nel sovchoz femminile, la sorveglianza scarsa e anche disposta a chiude­ re un occhio, sicché Vas'ka Svecov mieteva strabilianti successi. - Ho conosciuto un mucchio di donne, davvero tante. Non ci vuole molto. Però, mi creda, ho ormai quasi trent’anni e non so­ no mai riuscito ad andare a letto con una donna, intendo un vero letto: impossibile. Sempre di corsa, su sacchi e casse, alla svelta e via... E perché sono dentro da quand’ero ragazzo... Un altro era Ljubov'1, un malavitoso, o piu probabilmente un non malavitoso, uno stymp, che con il tempo era diventato piu mar­ cio di quelli, e da questi stympy marci escono dei soggetti che in fatto di immaginazione malata possono superare le piu morbose fantasie del mondo criminale. Ljubov', alto, sorridente, piuttosto tracotante, sempre in movimento, raccontava come faceva a esse­ re felice. - Con le donne ho sempre avuto fortuna, non dovrei dirlo ma è la sacrosanta verità. LI dov’ero prima di venire alla Kolyma, c’e­ ra un lager femminile, e noi che ci capitavamo per dei lavori di carLjubov' significa «amore» ed è un nome femminile.

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penteria, abbiamo dato al ripartitore un paio di pantaloni grigi po­ co usati perché ci facesse entrare. C ’era una tariffa fissa, una ra­ zione di pane, seicento grammi, e funzionava cosi: intanto che fac­ ciamo, lei deve mangiarsi la razione. E quello che avanza si ha il diritto di riprenderselo. E una cosa organizzata cosi, da loro stes­ se, da chissà quando, non è che abbiamo incominciato noi. Beh, in fatto di astuzia quelle da me avevano solo da imparare. Si era d’inverno. La mattina mi alzo, esco dalla baracca, e infilo il pane nella neve. Quando è ben congelato vado da lei - che se lo rosic­ chi cosi congelato, non ne rosicchierà molto. Si, era un bel vive­ re... Può un essere umano anche solo pensare una cosa del genere ? E chi riesce a immaginarsi cosa sia una baracca femminile nel lager, una baracca dove sono tutte lesbiche, frequentata malvo­ lentieri da sorveglianti e medici che abbiano ancora una goccia di umanità, e attorno alla quale ronzano invece sorveglianti eroto­ mani e medici erotomani. E la piangente Nadja Gromova, una ve­ ra bellezza di diciannove anni - «maschio» dell’amore lesbico con i capelli tagliati corti e un paio di pantaloni maschili addosso, la quale, con orrore degli inservienti, si era installata nella poltro­ na in uso esclusivo della responsabile dell’accettazione - quell’unica poltrona, fatta su misura, che conteneva per intero il sedere della detta responsabile - quella Nadja Gromova che piangeva per­ ché non volevano ricoverarla in ospedale. - Il medico di turno non vuole farmi ricoverare perché pensa che io... e io, parola d’onore, mai, mai. Ma guardatemi le mani, non vedete che unghie lunghe ? vi pare che le terrei cosi ? Il vecchio inserviente Rakita, scandalizzato, aveva sputato con sdegno: «Ah, strega, strega». E Nadja Gromova piangeva e non si capacitava che nessuno vo­ lesse capirla: era praticamente cresciuta nei lager, in quelle barac­ che, in quella compagnia. E il lattoniere-idraulico Chardžiev, un giovane ventenne dalle guance rosee, ex vlasoviano, che era stato in prigione a Parigi per furto continuato. In prigione Chardžiev era stato violentato da un africano malato di sifilide - proprio di quel tipo virulento dell’ul­ tima guerra - e nell’ano di Chardžiev si erano formati dei condi­ lomi, delle escrescenze corimbiformi, insomma il famigerato «ca­ volfiore». Dal giacimento dove lavorava venne mandato all’ospe­ dale con la diagnosi prolapsus recti, vale a dire «prolasso rettale». All’ospedale avevano imparato a non stupirsi piu di niente, un de­ latore che era stato buttato giu da un automezzo in corsa e che ave­

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va rimediato tutta una serie di fratture multiple al bacino e alle gi­ nocchia era stato avviato al ricovero con la diagnosi «prolapsus da automezzo». Chardžiev era un idraulico di quelli bravi, un uomo che poteva tornare molto utile in ospedale. La sua sifilide capita­ va a proposito: intanto che gli facevano un ciclo di cure completo riuscì a montare l’impianto di riscaldamento a termosifone e lo fe­ ce del tutto gratuitamente, visto che era titolare di un posto letto. Nella sezione istruttoria della prigione di Butyrki non si parla­ va quasi mai di donne. Li ognuno si sforzava di apparire buon pa­ dre di famiglia e forse era proprio cosi, e alcune delle mogli, quel­ le che non erano iscritte al partito, venivano a trovare i mariti e li provvedevano di piccole somme di denaro, dimostrando quanto fos­ sero esatte le considerazioni di Herzen nel primo volume de II pas­ sato e i pensieri1a proposito delle donne della società russa dopo il 14 dicembre. Può avere a che fare con l’amore la perversione cui un malavi­ toso assoggettava la cagna vivendo more uxorio con lei sotto gli occhi dell’intero lager? E la depravata cagnetta agitava la coda e si comportava con tutti quanti gli uomini come una prostituta. E nessuno si sognava di incriminare il malavitoso, benché nel Codi­ ce penale ci sia tanto di articolo sull’«accoppiamento con anima­ li». Ma ce n’era di gente nel lager per la quale non valeva il Codi­ ce penale. Uno per tutti: il vecchio pederasta dottor Penelopov, la cui moglie era l’infermiere Volodarskij. E rientra nel tema la sorte di quella donna di piccola statura mai avuto niente a che fare con prigioni o lager - che era arrivata quaggiù con il marito e due figli alcuni anni addietro ? Il marito era rimasto ucciso: era un desjatnik e di notte, al buio e sul ghiac­ cio, era andato contro una ruspa con argano al traino - un colpo di maglio in piena faccia - e portato ancora vivo all’ospedale. La ferita gli attraversava di sbieco il viso e la testa. Tutte le ossa del volto e della scatola cranica sotto la fronte erano state spostate all’indietro, ma era ancora vivo e sopravvisse per qualche giorno an­ cora. La moglie restò con due bambini piccoli, di quattro e sei an­ ni, un maschietto e una femminuccia. Presto si risposò con una guardia forestale e visse per tre anni con lui nella tajga, senza mai farsi vedere nelle cittadine della zona. In tre anni mise al mondo 2 Dopo il tentativo di sollevazione dei «decabristi» (14 dicembre 1825) le mogli dei molti condannati ai lavori forzati intrapresero il viaggio per la Siberia per stare accanto ai propri mariti; Aleksandr Herzen, ne parla nella prima parte, terzo capitolo, della sua ca­ pitale opera.

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ancora due figli, un maschio e una femmina, partorendoli in casa con il solo aiuto del marito che con mani tremanti le porgeva le forbici, e lei stessa si tagliava e annodava il cordone ombelicale, disinfettandone l’estremità con della tintura di iodio. Trascorse con i quattro figli ancora un anno nella tajga, poi al marito co­ minciò a dolere l’orecchio: pensando a un colpo di freddo non andò all’ospedale, ma l’infiammazione originò un’infezione purulenta dell’orecchio medio che poi si estese in profondità infettando le meningi, la febbre sali e lui venne ricoverato. L ’operarono d’ur­ genza ma era ormai troppo tardi e mori. Lei tornò nella foresta, senza piangere: che aiuto potevano darle le lacrime? Ha qualcosa a che vedere con il tema il raccapriccio di Igor' Vasil'evič Glebov quando si rese conto di non ricordare piu il nome e patronimico di sua moglie ? Il gelo era intenso, le stelle alte e splendenti. Di notte i soldati della scorta diventano piu umani, di giorno temono i capintesta. Di notte ci permettevano di andare a riscaldarci a turno vicino al boiler, il boiler era la caldaia a vapore che, collegata con dei tubi al fronte di cava, portava l’acqua calda fino allo scavo dove i trivellatori con l’aiuto del vapore bollente praticavano i fornelli di mina che servivano ai brillatori. Il boiler era in una capanna di tavole e quando era acceso nella piccola iz­ ba faceva un bel caldo. Quella di fuochista addetto al boiler era la mansione piu invidiata al giacimento, il sogno di tutti. Ed era un lavoro per il quale prendevano anche i «cinquantotto». Nel 1938 gli addetti ai boiler, in tutti i giacimenti, erano degli ingegneri, la direzione non si fidava molto a mettere nelle mani di malavitosi una «tecnologia» come quella, temendo distrazioni come il gioco alle carte o chissà cos’altro ancora. Ma Igor' VasiTevič Glebov non era un esperto di impianti ter­ mici. Era minatore nella nostra squadra, e fino al ’37 era stato pro­ fessore di filosofia all’università di Leningrado, il gelo, il freddo, la fame gli avevano fatto dimenticare il nome della moglie. Al ge­ lo non sei in grado di pensare. Non pensi piu a niente: il gelo te ne toglie ogni possibilità. E questo spiega la dislocazione dei lager al Nord. Igor' Vasil'evič Glebov stava accanto al boiler e, scostando con le mani giubba e casacca, riscaldava il ventre nudo assiderato con­ tro il boiler. Si riscaldava e piangeva, e le lacrime non gli si ghiac­ ciavano sulle ciglia, sulle guance, come in genere capitava a tutti noi: merito del boiler. Di li a due settimane - in piena notte, nel­ la baracca addormentata - Glebov mi svegliò tutto raggiante. Se l’era ricordato: Anna Vasil'evna! E io non lo mandai al diavolo e

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mi sforzai di riprendere sonno. Glebov mori nella primavera del ’38: era troppo grande e grosso per la razione concentrazionaria. M ’è sempre parso che gli unici veri orsi fossero quelli del giar­ dino zoologico. Nella tajga della Kolyma, e ancor prima nella tajga degli Urali settentrionali, ho avuto occasione alcune volte di ve­ dere degli orsi, sempre di giorno, e ogni volta mi sono parsi degli orsi giocattolo. Anche quella primavera, quando ovunque c’era an­ cora l’erba dell’anno prima e neppure uno stelo color verde vivo aveva cominciato a raddrizzarsi, di verde vivo c’erano solo il pino nano e i bruni larici dalle unghie smeraldine, e il profumo di resi­ na - quelle del giovane larice e della rosa selvatica sono le uniche fragranze della Kolyma. Un orso passò di corsa accanto all’izba dove alloggiavano i no­ stri «combattenti», i soldati della scorta: Izmajlov, Kočetov e an­ cora un terzo, del quale non ricordo il nome. Quest’ultimo, l’an­ no precedente era venuto spesso alla nostra baracca di detenuti per farsi dare dal caposquadra berretto e giubbotto: andava sulla «ro­ tabile» a vendere mirtilli, un tanto al bicchiere o «tutta la parti­ ta», e provava imbarazzo a farlo in divisa. I soldati erano calmi e tranquilli, capivano che nella foresta non era il caso di comportarsi come nell’abitato. Non insolentivano i detenuti, non li costringe­ vano a lavorare. L ’anziano era Izmajlov. Quando doveva andare da qualche parte, nascondeva il suo pesante fucile sotto l’impian­ tito, svellendo con l’accetta e spostando le pesanti tavole di lari­ ce. L ’altro, Kočetov, non si fidava a nascondere il fucile sotto il pavimento e cosi se lo portava sempre appresso. Quel giorno l’unico a essere in casa era Izmajlov. Quando senti dal cuciniere che c’era un orso nelle vicinanze, Izmajlov infilò gli stivali, afferrò il fucile e corse fuori con indosso la sola bianche­ ria: intanto l’orso era già sparito tra gli alberi. Izmajlov e il cuci­ niere si lanciarono all’inseguimento, ma non riuscirono piu a ve­ derlo, per giunta il terreno era melmoso e cosi rientrarono all’in­ sediamento. Il suo nucleo principale sorgeva sulla riva di un torrentello di montagna, la riva opposta era alta e dirupata, co­ perta da una rada vegetazione di larici e cespugli di pino nano. Dall’altro lato del fiume la riva a strapiombo era completamente visibile - da cima a fondo - fino all’acqua, e sembrava molto vici­ na. Gli orsi, due, erano in una piccola radura: uno piu grande, l’al­ tro, la femmina, piu piccolo. Si accapigliavano per gioco, spez­ zando rami e scagliandosi sassi, senza fretta, senza accorgersi del­ la gente in basso, delle isbe di tronchi del nostro campo, che erano cinque in tutto, compresa la stalla dei cavalli.

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Izmajlov, armato di fucile, sempre con indosso la sola bian­ cheria di cotone grezzo, e dietro a lui gli altri uomini del campo, chi portando un’accetta o un pezzo di ferro qualsiasi, il cuciniere con un enorme coltellaccio da cucina, si avvicinarono, tenendosi sottovento, agli orsi intenti nel gioco. A un certo punto ritennero di essersi avvicinati abbastanza e il cuciniere, agitando il coltel­ laccio sulla testa del soldato di scorta Izmajlov, cominciò ad ansi­ mare: «Spara! Spara!» Per aggiustare meglio la mira Izmajlov sistemò il fucile su un tronco di larice abbattuto e gli orsi sentirono qualcosa oppure fu­ rono messi in allarme da quel presentimento che indubbiamente esiste e accomuna cacciatore e preda. L ’orsa si precipitò su per il pendio, risalendolo veloce come una lepre, mentre il maschio non si mise a correre, anzi, si avviò co­ steggiando la china e affrettando appena il passo; in questo modo l’animale attirava su di sé l’incombente pericolo del quale era si­ curamente consapevole. Risuonò lo sparo e contemporaneamente l’orsa scomparve al di là del crinale. L ’orso cominciò a correre più in fretta, in mezzo ai tronchi spezzati, l’erba e i massi muscosi, ma a questo punto Izmajlov ce la mise tutta e sparò un altro colpo: e l’orso rotolò giu per il pendio, come un ceppo, un’enorme pietra, andando a finire in una gola, sullo spesso strato di ghiaccio del tor­ rente che comincia a scorrere solo in agosto. Su quel ghiaccio ab­ bagliante l’orso restò a giacere immobile, coricato su un fianco, co­ me un enorme giacattolo di pezza. La morte cavalleresca di un’in­ domita fiera. Molti anni prima, in una squadra di prospezione, camminavo su un sentiero d ’orso; avevo la scure in mano per farmi eventual­ mente strada tra gli alberi abbattuti. Dietro a me avanzava il geo­ logo Machmutov con una carabina di piccolo calibro a tracolla. Il sentiero aggirava un grande albero abbattuto, cavo e mezzo mar­ cio, e io passandoci accanto battei con il manico della scure con­ tro l’albero e dal cavo cadde sull’erba una donnola. La donnola sta­ va per partorire e si muoveva lentamente sul sentiero, senza nep­ pure cercare di scappare. Machmutov imbracciò la carabina e sparò a bruciapelo contro l’animale. Il colpo non la uccise ma le strappò le zampe di dietro e la minuscola bestiola insanguinata, quella ma­ dre gravida morente strisciò in silenzio verso Machmutov per ad­ dentargli gli stivali di similpelle. I suoi occhi brillavano intrepidi e pieni di rabbia. E il geologo si spaventò e indietreggiò sul sen­ tiero. E mi venne da pensare che quello aveva ben motivo di rin­ graziare il suo dio se io non gli avevo calato la scure in testa li, su

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quel sentiero d’orso. Dai miei occhi trapelò qualcosa che avrebbe indotto Machmutov a non prendermi con sé nella successiva spe­ dizione... Cosa sappiamo dell’altrui dolore? Niente. Dell’altrui felicità? Ancora meno. Ci sforziamo di dimenticare anche il nostro di do­ lore, e la memoria è scrupolosamente labile in tema di pene e feli­ cità. La capacità di vivere è capacità di dimenticare e nessuno può saperlo meglio dei kolymiani, dei detenuti. Cos’è Auschwitz? Letteratura o qualcos’altro?... e per Stefa dopo Auschwitz c’era stata la rara gioia della liberazione e poi, in­ sieme a decine di migliaia di persone come lei, era caduta vittima della spiomania finendojn un posto anche peggiore di Auschwitz, era finita alla Kolyma. E vero che alla Kolyma non c’erano le ca­ mere a gas, preferivano farti morire per assideramento, per este­ nuazione: il risultato era più confortante per tutti. Stefa era inserviente del reparto femminile di tisiologia in un ospedale per detenuti: tutti gli inservienti ospedalieri erano presi tra i malati stessi. Per decenni avevano mentito dicendo che le pla­ ghe montane dell’Estremo Nord erano una specie di Svizzera no­ strana e che le pendici del Deduškina Lysina ricordavano quasi Davos. Nei bollettini medici dei primi anni del sistema concentrazionario della Kolyma non si parla mai di tubercolosi, o se ne parla assai raramente. In realtà il terreno acquitrinoso, l’umidità e la fame fecero l’o­ pera loro, le analisi di laboratorio indicavano l’aumento dei casi di tubercolosi, ne confermavano i frequenti esiti mortali. Qui non si poteva tirare in ballo (sarebbe avvenuto in seguito) stravaganti cau­ se endogene come per la sifilide: era tedesca, dicevano, importata nei lager dalla Germania. Cominciarono a ricoverare i tubercolotici negli ospedali, a di­ spensarli dal lavoro, la tubercolosi si conquistò sul campo il «di­ ritto di cittadinanza». A quale prezzo? Il lavoro al Nord era peg­ gio di qualsiasi malattia: cosi anche i sani si facevano ricoverare senza timore nei reparti per tubercolotici contando di ingannare i medici. Prelevavano da tubercolotici conclamati, da malati ago­ nizzanti, un po’ di espettorato, una «scatarrata», la avvolgevano accuratamente in uno straccetto, nascondendolo come un tali­ smano e quando gli addetti passavano a ritirare i campioni per le analisi mediche si mettevano in bocca l’altrui espettorato bruli­ cante dei «provvidenziali bastoncelli» e lo risputavano nel conte­ nitore presentato dall’inserviente. Questi era un elemento navi­ gato e di fiducia - il che dal punto di vista dei dirigenti di allora

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era piu importante della formazione medica stessa - ed esigeva che il malato espettorasse il catarro in sua presenza. Non c’era verso di far desistere gli aspiranti tisici da simili pratiche: la vita nel la­ ger e il lavoro al gelo facevano più paura della morte. I sani di­ ventavano presto malati e titolari, a pieno titolo legale, di un tot di giornate letto. Stefa era inserviente in uno di quei reparti e lavava, e monta­ gne di ruvida biancheria sporca e gli odori pungenti del sapone, della liscivia, del sudore dei corpi si mescolavano al caldo vapore maleodorante e avvolgevano il suo «posto di lavoro»3... [1963]. Uroki Ijubvi, in Šalamov, Percatka, ili K R -2 cit.

3 La misteriosa Stefa viene evocata anche in un brevissimo e intenso episodio dei R i­ cordi: «Al 230 chilometro», pubblicato in «Znamja», aprile 1993.

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Quando finii i corsi di infermiere e iniziai il lavoro in ospeda­ le, la questione numero uno del lager - se ce l’avrei fatta o no a vi­ vere - venne meno e fu chiaro che solo uno sparo, o un colpo d’ac­ cetta, o l’universo stellato che mi rovinasse in testa avrebbero im­ pedito la mia sopravvivenza fino al giorno per me stabilito nell’alto dei cieli. Tutto questo lo sentivo con ogni fibra del mio corpo di prigio­ niero, senza alcuna partecipazione del pensiero. O per meglio di­ re, il pensiero si era fatto sentire, però non come procedimento lo­ gico graduale, ma come repentina illuminazione a coronamento di processi puramente fisici. Questi processi si verificavano a livello delle piaghe da scorbuto, piaghe da decenni non rimarginate nel mio estenuato organismo di galeotto, nei suoi sfibrati tessuti i qua­ li, sollecitati da continue prove di rottura, con mia grande mera­ viglia avevano resistito mantenendo enormi riserve di energia. Sotto i miei occhi la formula di Thomas More si arricchiva di nuove implicazioni, Nell’Utopia Thomas More ha cosi determi­ nato i quattro principali sensi fisici dell’uomo il cui soddisfaci­ mento procura sommo diletto. In primo luogo la fame, e il piace­ re di mangiare; poi il piacere sessuale; e infine il liberare dal cor­ po da «quanto il corpo contiene in sovrabbondanza»: minzione e defecazione. Nei lager venivamo privati proprio di questi quattro principa­ li piaceri fisici. I nostri superiori ritenevano che per noi l’amore fosse qualcosa da dimenticare, accantonare, snaturare... «La f... te la puoi scordare per sempre» era una facezia corrente dei nostri padroni. I dirigenti del lager combattevano l’amore con le circolari, con l’applicazione della legge. La distrofia alimentare era la costante e potente alleata del potere in questa sua lotta contro la libido del­ la gente. Ma anche gli altri tre sensi che abbiamo detto subivano

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sotto i colpi della sorte, impersonata dalla direzione concentrazionaria, le stesse trasformazioni, alterazioni e snaturamenti. La fame era un eterno tormento, e non c’è niente che possa es­ sere confrontato con quella trafiggente sensazione di fame che co­ stituisce la condizione normale del detenuto, specie se è un dochodjaga dei «cinquantotto». La raccolta degli avanzi dalle sco­ delle, il leccamento delle stoviglie dei vicini, le briciole di pane fatte cadere sul palmo e raccolte con la lingua, che si muovono in­ consistenti verso lo stomaco con un meccanismo ormai avviato dal­ la sola idea del cibo e non dalla sua consistenza vera. Saziare una fame del genere non è semplice, anzi è del tutto impossibile. Pas­ seranno molti anni prima che il detenuto si disabitui a questa sua eterna propensione al cibo. Per quanto mangi, dopo mezz’ora o un’ora ne ha di nuovo voglia. La minzione ? Parliamo, piuttosto di incontinenza, che per la popolazione affamata ed estenuata dei lager ha i caratteri di una malattia endemica. Che piacere può venirne, se dal tavolaccio di sopra ti gocciola in faccia Purina di un altro e ti tocca sopportar­ lo? Tu stesso sei disteso sul tavolaccio in basso per caso, potresti esserci tu là sopra e urinare addosso a quello del piano sotto. Per questo ti limiti a qualche fiacca imprecazione, ti tergi Purina dal viso e riprendi il sonno interrotto, un sonno pesante con un uni­ co sogno: pagnotte di pane che volano, come angeli del cielo, d’un volo leggero. La defecazione. Ma per i dochodjagi andare di corpo non è una faccenda cosi semplice. Già sbottonare e riabbottonare i pantalo­ ni con cinquanta gradi sotto zero è un’impresa non alla portata di tutti, e comunque il nostro stremato «morituro», contrariamente a quanto sostengono i manuali di fisiologia e anche di patologia, evacua una volta ogni cinque giorni. Un’evacuazione di escrementi secchi in p'allottoline: l’organismo ha spremuto ogni cosa atta a mantenere in vita. Dalla defecazione, quindi, il detenuto a malpartito non può ri­ cavare alcun piacere. Come per la minzione, l’organismo ha le sue esigenze che non dipendono dalla volontà e cosi il dochodjaga si ri­ duce all’ultimo momento e deve affrettarsi a tirar giu i pantaloni. Mezzo animale come si è ridotto, cerca di giocare d’astuzia sfrut­ tando la defecazione per riposarsi, per tirare il fiato sulla via cru­ cis del giacimento d’oro. L ’unica astuzia dei detenuti nella lotta contro la potenza dello Stato e i suoi eserciti di milioni di soldati, di organizzazioni sociali ed enti governativi. Il dochodjaga oppone a questa forza possente Pistinto del proprio deretano.

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Il dochodjaga, l’uomo che ha toccato il fondo, non ripone alcu­ na speranza nel futuro: in tutti i libri di memorie, in tutti i romanzi quelli come lui vengono irrisi come sfaticati, pesi morti per i com­ pagni, traditori della squadra, del giacimento, del piano di produ­ zione dell’oro. Il primo scrittore di passaggio cui venisse in men­ te di specularci un po’ sopra può perfino rappresentare il do­ chodjaga come una macchietta. E già ce n’è stato uno, di questi scrittori attenti a fiutare il vento, che ci ha provato: per lui del la­ ger si può anche ridere, non è peccato. C ’è il tempo giusto per ogni cosa. Anche per mettere in burletta il lager1. A me invece parole del genere sembrano sacrileghe. Ritengo che per comporre e ballare un’« Auschwitz rumba» o il «Serpantinnaja blues» si debba essere un vigliacco o un affarista, due co­ se che spesso coincidono. Il tema del lager non può essere il tema di una commedia. Il no­ stro destino non può fornire spunti umoristici. E non sarà mai un soggetto umoristico, né domani né fra mille anni. Non ci si dovrà mai accostare ai forni di Dachau o alle gole del­ la Serpantinnaja con un sorriso sulle labbra. I tentativi di riposare - slacciando i pantaloni e accovaccian­ dosi per un secondo, anzi meno, per un istante di requie dal tor­ mento del lavoro - meritano rispetto. A provarci sono sempre quel­ li nuovi i quali ancora non sanno che poi raddrizzarsi risulta piu difficile e doloroso. Ma i novellini ricorrono talvolta a questo ille­ gittimo espediente per riposare, defraudando lo Stato di preziosi minuti della giornata lavorativa statale. In casi del genere il soldato di guardia interviene con il fucile spianato a smascherare il pericoloso criminale-simulatore. Io stes­ so sono stato testimone - nella primavera del 1938 sul fronte di cava del giacimento d’oro Partizan - di come un soldato della scor­ ta, agitando il fucile, ordinava urlando al mio compagno. - Fammi vedere la tua merda! E la terza volta che ti siedi! Dov’è questa merda ? - e accusava quel dochodjaga piu di là che di qua di simulazione. Di merda non se ne trovò. II dochodjaga Seréàa Klivanskij, mio compagno di università, se­ 1 L ’A. si riferisce a Solženicyn e al romanzo Una giornata di Ivan Denisovič (1962), per il modo a parer suo irridente con il quale vi è stata tratteggiata la figura del dochodjaga Fetjukov; dopo un’iniziale ammirazione reciproca (pubblicamente esternata da Solzenicyn riguardo ai racconti sulla Kolyma nel suo Arcipelago Gulag), l’incontro nel 1962 alla reda­ zione di «Novyj Mir» e una corrispondenza che durò dal 1962 al 1966, tra i due scrittori calò un muro di incomprensione e ostilità.

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condo violino del teatro Stanislavski]', venne accusato in mia pre­ senza di sabotaggio, di avere - con i meno sessanta che c’erano! arbitrariamente prolungato la sosta per defecare, venne accusato di aver fermato il lavoro del gruppo, della squadra, del settore, del gia­ cimento, della regione, dello Stato: come nella famosa canzoncina del cavallo e del chiodo che mancava per ferrarlo a dovere2. E ad accusare Serëia non furono solo i soldati di scorta, i sorveglianti e i capisquadra, ma gli stessi compagni di lavoro, quel lavoro dalle ra­ re virtù curative visto che poteva mondare da ogni peccato. Di merda, comunque, nell’intestino di Ser0ža non c’era trac­ cia; gli stimoli «a sedersi» però c’erano. Ma ci sarebbe voluto un medico, per giunta un medico non kolymiano, ma della capitale, del «continente», anzi di quelli di un tempo, di prima della rivo­ luzione, per capire come stavano le cose e spiegarlo anche agli al­ tri. E invece Sereža era li in attesa di essere fucilato semplicemente perché il suo intestino non era riuscito a spremer fuori alcunché. Ma Sereža non venne fucilato, non allora. L ’avrebbero fucilato di li a poco, alla Serpantinka, una, la sua, delle tante esecuzioni in serie di Garanin. Il mio dibattito a distanza con Thomas More si è alquanto pro­ tratto, ma è ormai quasi alla fine. I quattro sensi umani che erano stati umiliati, calpestati e offesi - una sopraffazione che non si­ gnificava ancora la fine della vita - sarebbero nonostante tutto ri­ sorti. Dopo la resurrezione - sia pure deforme e alterata, di ognu­ no di questi quattro sensi - il lagemik poteva starsene, poniamo, accovacciato sul foro della latrina seguendo con vivo interesse quel qualcosa di molle che scivolava lungo l’intestino ulcerato, però sen­ za dolore, però con tenerezza, con un senso di calore, quasi che al­ le feci rincrescesse accomiatarsi dall’intestino. E sentire le feci ca­ dere nella fossa con spruzzi, uno schizzo, per poi attardarsi a gal­ leggiare sulla densa superficie delle deiezioni quasi in cerca di un posticino: era un inizio, un miracolo. Già potevi urinare a co­ mando, perfino a più riprese, interrompendo a tuo piacimento la minzione. E anche questo era un piccolo miracolo. Già incrociando lo sguardo di una donna avvertivi un interes­ se confuso, non terreno, non un’emozione, no, anche perché non sapevi bene se ti fosse rimasto qualcosa da offrirle, e se il proces­ so che ti aveva portato all’impotenza, o per meglio dire alla ca­ 2 E una canzone popolare inglese, nota in Russia nella versione di Maršak: «Mancava un chiodo e il cavallo incespicò, il comandante ucciso restò, l’esercito ripiegò, il nemico in città entrò, senza far prigionieri, perché ieri, il maniscalco quel chiodo non trovò».

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strazione, fosse reversibile o meno. L ’impotenza per gli uomini e l’amenorrea per le donne è la costante e normale conseguenza del­ la distrofia alimentare, detta volgarmente fame. E il coltello che il destino pianta nella schiena di ogni detenuto. La castrazione si verifica non a causa della prolungata astinenza in prigione o nel la­ ger ma per altri motivi, più diretti ed efficaci. Il vitto carcerario, ecco la spiegazione, con buona pace di Thomas More. Vincere la fame è ancora piu importante. Tutti i tuoi organi si tendono nello sforzo di non farti mangiare troppo. Devi smaltire un arretrato di molti anni. Duri fatica a spezzare la giornata in co­ lazione, pranzo e cena. Nel tuo cervello, e non da un anno solo, tutto il resto non esiste. Non ti è possibile mangiare di gusto, man­ giare abbondantemente, mangiare a sazietà: te ne resta sempre la voglia. Ma giunge l’ora, il giorno, in cui con uno sforzo di volontà re­ spingi il pensiero del cibo, non pensi alle pietanze, non ti arrovel­ li per la kaša di grano saraceno: la daranno già per cena o se ne ri­ parlerà solo il giorno dopo? Alla Kolyma non c’erano patate. Per questo motivo la patata era esclusa dal menu delle mie fantasti­ cherie gastronomiche, esclusa per ottimi motivi, perché in caso contrario le fantasticherie non sarebbero piu state tali: sarebbero state troppo inverosimili. I sogni gastronomici dei kolymiani era­ no a base di pane, e non di torte, a base di kaìa - in tutte le pos­ sibili versioni: semola, grano saraceno, avena, orzo periato, maga­ va, frumento - e non di patate. Dopo quindici anni che non mettevo sotto i denti una patata, quando, ormai in libertà nella Grande Terra, a Turkmen nella re­ gione di Kalinin, ne assaggiai, mi sembrò quasi veleno, un cibo sconosciuto e pericoloso, e reagii come un gatto quando gli vo­ gliono mettere in bocca qualcosa che non conosce e ha motivo di temere. Dovette passare non meno di un anno prima che mi ria­ bituassi alle patate. Ma mi ci abituai e niente piu, ché di tornare ad assaporarne con gusto certe elaborate preparazioni non sono piu in grado. E questa è per me la riprova che le prescrizioni del­ la dietetica concentrazionaria, con le sue «tabelle di equivalenza» e «norme di alimentazione», riposano su approfondite valutazio­ ni, scientificamente fondate. Ma tu pensa, le patate! Viva l’età precolombiana! L ’organismo umano può benissimo farne a meno. Piu acuto del pensiero del cibo, del mangiare, era una nuova esigenza, un senso del tutto dimenticato da Thomas More nella sua rozza classificazione dei piaceri.

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Questo quinto senso, o sentimento umano è il bisogno di poe­ sia.

Scopro che ogni infermiere che sa leggere e scrivere, ogni col­ lega in quell’inferno, possiede un blocco per appunti, sul quale an­ nota, con casuali inchiostri di vario colore, versi: non citazioni trat­ te da Hegel o dal Vangelo, ma precisamente versi. Ecco l’esigen­ za che a quanto pare si manifesta oltre alla fame, al desiderio sessuale e alle funzioni corporali. Il bisogno di ascoltare versi, trascurato da Thomas More. E tutti ne hanno una scorta personale. DobrovoTskij3 si nasconde in seno un grosso e sudicio notes, dal quale scaturiscono però suoni divini. Ex sceneggiatore cine­ matografico, DobrovoTskij lavora all’ospedale come infermiere. Portugalov, che dirige la «squadra culturale» dell’ospedale, gra­ zie alla sua eccellente memoria di attore può sbalordire con certi saggi di declamazione poetica appena appena «lubrificati» dalla routine della sua attuale mansione. Portugalov declama tutto a me­ moria, senza bisogno di fogliettini. Sforzo il cervello, un tempo cosi assorbito dai versi, e, con mia grande sorpresa sento riaffiorare e articolarsi, indipendentemen­ te dalla mia volontà, parole che credevo dimenticate. Non poesie mie, ma, nella mia laringe, versi dei poeti preferiti: Tjutčev, Ba­ ratynski], Puškin, Annenskij. Siamo in tre nella sala di medicazione del reparto di chirurgia dove lavoro come infermiere e oggi sono di turno. Poi c’è Dobro­ voTskij, infermiere al reparto oculistico, e il terzo è Portugalov, attore, del servizio culturale. Il locale è sotto la mia giurisdizione, e mia è anche la responsabilità della serata. Ma alle responsabilità non ci pensa nessuno, si fa tutto senza autorizzazioni. Attenen­ domi a quella che era una mia vecchia, e perfino inveterata abitu­ dine: fare cioè quello che dovevo fare e chiedere poi il permesso avevo cominciato quelle letture nella sala di medicazione del no­ stro reparto di chirurgia «settica». Un’ora di letture poetiche. Un’ora in cui tornavamo al nostro mondo incantato. Eravamo tutti emozionati. Dettai perfino a Do­ brovoTskij la poesia Caino di Bunin4. Mi era rimasta nella memo­ ria per caso, come poeta Bunin non è grande, ma in quell’antolo3 Arkadij Dobrovol'skij (1911-1969), sceneggiatore cinematografico, lavorò con I. A. Pyr'ev, venne arrestato e imprigionato nel 1937 e nuovamente condannato nel 1944 [No­ ta all’edizione russa]. 4 Del 1906-907, è un paradossale inno a Caino, l’uomo che per primo ha conosciuto la morte e ha lanciato la sua sfida a Dio.

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già orale che si andava componendo alla Kolyma non sfigurava per niente. Queste notti poetiche iniziavano alle nove di sera, dopo il giro medico di controllo, e finivano verso le undici o mezzanotte. Io e DobrovoTskij eravamo di turno e Portugalov poteva fare tardi. Di queste notti di poesia all’ospedale, che in seguito avrebbero rice­ vuto il nome di «notti ateniesi», ne organizzammo parecchie. Apparve subito chiaro che eravamo tutti e tre appassionati cul­ tori della lirica russa dell’inizio del xx secolo. Il mio contributo: Blok, Pasternak, Annenskij, Chlebnikov, Severjanin, Kamenskij, Belyj, Esenin, Tichonov, Chodasevič, Bu­ nin. Dei classici: Tjutčev, Baratynski], Puškin, Lermontov, Nek­ rasov e Aleksej Tolstoj. Il contributo di Portugalov: Gumilev, MandePštam, Achmatova, Cvetaeva, Tichonov, SeTvinskij. Dei classici: Lermontov e Grigor'ev che io e DobrovoTskij conoscevamo piu per sentito di­ re che altro e di cui cominciammo ad apprezzare nel loro giusto valore gli straordinari versi solo alla Kolyma. La quota di DobrovoTskij: Maršak con le versioni da Burns e Shakespeare, Majakovskij, Achmatova, Pasternak, fino alle ulti­ me novità del samizdat? di allora. La poesia A Lilecka, in luogo di una lettera6venne declamata proprio da DobrovoTskij, il quale, nel­ la stessa occasione ci fece ascoltare anche S ’avvicina l’inverno5678. Sempre DobrovoTskij lesse la prima versione, quella di Taškent, del futuro Poema senza eroé\ Pyr'ev e Ladynina l’avevano spedi­ to all’amico sceneggiatore insieme a I trattoristi9. Tutti noi capivamo che i versi sono versi, e quando non lo so­ no non lo sono, e che in poesia la fama conta meno di niente. Ognu­ no di noi aveva i suoi criteri in fatto di poesia, una sua scala di pre5 Esemplato su sigle editoriali ufficiali come Goslitizdat, ecc. samizdat significa «autoe­ ditoria» ed è il fenomeno, rilevante nei tempi del «disgelo» e brežneviani, della circolazio­ ne di testi dattiloscritti o manoscritti, moltiplicati dagli stessi lettori; in questo modo circo­ lavano i materiali del «dissenso» politico e spciale, ma anche interi volumi di grandi scrit­ tori e poeti proibiti; anche molti racconti di Šalamov sono stati diffusi in questo modo. 6 Poesia di Majakovskij, scritta a Pietrogrado nel maggio 1916. 7 Poesia del 1943, un paesaggio autunnale di Pasternak. 8 II Poem a senza eroe, l’opera più complessa della poetessa Anna Achmatova, fu scrit­ ta tra il 1940 e il 1942, in una prima variante, a Taškent, dove la poetessa era sfollata da Leningrado; allora non venne pubblicata ed era nota solo agli amici; la versione definitiva sarebbe stata stampata per la prima volta solo nel 1966, in traduzione italiana con testo russo a fronte (Torino). 9 Ivan Pyr'ev (1901-68), regista cinematografico, realizzò negli anni Trenta e Qua­ ranta, nel solco del realismo socialista, film musicali di successo, tra cui appunto I trattori­ sti (1939), interpretato come gli altri dall’attrice Marina Ladynina.

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ferenze, direi un suo «punteggio di Amburgo»10 se l’espressione non fosse cosi abusata. Decidemmo di comune accordo che non avremmo sottratto tempo prezioso alle nostre notti poetiche con l’inclusione nell’antologia orale di nomi tipo Bagrickij, Lugovskoj, Svetlov, anche se Portugalov aveva avuto modo di frequentare qualcuno di loro in un certo gruppo letterario. La cerchia dei no­ stri poeti d’elezione s’era sedimentata e decantata a lungo. Li ave­ vamo eletti, con voto segreto nell’intimo del nostro cuore: e già molti anni prima, ognuno all’insaputa dell’altro e tutti alla Koly­ ma, avevamo espresso le stesse preferenze. La scelta coincideva quanto ai nomi, alle poesie, alle strofe e perfino al singolo verso preferito. Il lascito poetico del xix secolo non ci soddisfaceva, lo consideravamo insufficiente. Ciascuno di noi declamava quello che era riuscito a ricordare e annotare nell’intervallo tra una «notte di poesia» e la successiva. Prima che riuscissimo a passare ai versi scritti da noi stessi - cosa che evidentemente tutti e tre facevamo o avevamo fatto in passato - le nostri notti ateniesi vennero in­ terrotte in modo inaspettato. Il reparto di chirurgia dell’ospedale ospitava piu di duecento detenuti sui mille posti letto complessivamente previsti per i lage m ik i. Un settore del fabbricato, che era a forma di T, era stato invece destinato al ricovero dei liberi salariati bisognosi di cure mediche. Era stato un provvedimento corretto e utile. Ai medici­ detenuti - e tra loro c’erano non pochi luminari della medicina di livello nazionale - veniva ufficialmente consentito di curare i pa­ zienti liberi, in qualità di consulenti sempre a portata di mano e disponibili in qualsiasi momento del giorno e della notte, degli an­ ni, dei decenni... Quell’inverno delle nostre serate poetiche non esisteva ancora il reparto per i liberi salariati. A loro disposizione c’era solo una camera a due letti nel reparto di chirurgia, per traumi gravi che ri­ chiedevano un ricovero d’urgenza, ad esempio in conseguenza di un incidente automobilistico. La camera non restava mai inutiliz­ zata. Stavolta vi era ricoverata una ragazza di circa ventitré anni, una di quelle komsomoliane moscovite che venivano ingaggiate per l’Estremo Nord. Gli altri ricoverati attorno a lei erano tutti malavitosi dal primo all’ultimo ma la cosa non la preoccupava: la ragazza era infatti segretario della sezione del komsomol del vici­ no giacimento. Ai malavitosi non pensava, si comportava con na10Allusione allo scritto di Viktor Šklovskij: [’«importantissimo punteggio» consente di stabilire la classe reale di ciascun poeta e scrittore «senza i trucchi» imposti «dall'im­ presario» negli incontri pubblici.

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turalezza, probabilmente ignorando certi specifici aspetti della Kolyma. La ragazza si annoiava a morte. Gli esami avevano ac­ certato che la malattia per la quale era stata ricoverata d ’urgenza non c’era. Ma la medicina è medicina, e la ragazza doveva tra­ scorrere in ospedale il periodo di degenza previsto, prima di po­ terne varcare la soglia e scomparire nel mare di gelo dal quale era venuta. A quel che si diceva, a Magadan essa aveva delle cono­ scenze importanti, a livello della stessa direzione. Cosi si spiega­ va il fatto che avesse potuto farsi ricoverare nel nostro ospedale maschile per detenuti. La ragazza mi chiese di poter assistere a una delle nostre sera­ te poetiche. Detti il mio assenso. Alla serata successiva - erano ap­ pena iniziate le letture - entrò nella sala medicazioni del reparto di chirurgia settica e vi restò fino alla fine. Venne anche la volta dopo. Le serate avevano luogo durante il mio turno - facevo le ventiquattro ore ogni tre giorni - e fino a quel momento tutto era filato liscio. Ma all’inizio della terza serata la porta della sala me­ dicazione si spalancò e sulla soglia apparve il direttore dell’ospe­ dale in persona, il dottor Doktor. Il dottor Doktor non mi poteva soffrire. Sul fatto che prima o poi gli avrebbero riferito delle nostre serate non avevo il minimo dubbio. I dirigenti kolymiani di solito si comportavano cosi: se c’e­ ra la «segnalazione» seguivano i provvedimenti. Il signal da que­ ste parti si era consolidato come termine attinente aU’informazione ben prima che nascesse Norbert Wiener" e con questo signifi­ cato aveva da sempre trovato largo impiego in ambito carcerario e istruttorio. Se però non c’era «segnalazione» - ovvero mancava lo stuk, la «spiata» sia pure a voce, ma comunque ufficiale, o un ordine delle autorità superiori, che erano riuscite a captare per pri­ me il famoso signal (la cosa non meravigli: dall’alto di quelle mon­ tagne non solo si vede ma anche si sente meglio) - se non c’era, non se ne faceva niente. Di propria iniziativa, i dirigenti locali ra­ ramente si risolvevano ad affrontare ufficialmente questo o quel nuovo fenomeno, anche se riguardava la vita del lager affidato al­ la loro responsabilità. Ma il dottor Doktor era tutto un altro tipo. Di quelli che consi­ deravano una vocazione, un dovere e un imperativo morale il per­ seguitare tutti i «nemici del popolo» in ogni forma, con qualsiasi pretesto, in qualsiasi circostanza e ad ogni possibile occasione. Del tutto convinto di aver scoperto qualcosa di grosso, egli ir-1 11 Norbert Wiener (1894-1964), matematico statunitense, con l’allievo C. Shannon sviluppò la moderna teoria dell’informazione; coniò il termine «cibernetica».

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ruppe nella sala di medicazione, senza neanche infilarsi il camice, che pure cercava di porgergli, inseguendolo a braccia tese, Pomane, l’infermiere di turno del reparto terapeutico, un tale dal fac­ cione tutto rosso, ex ufficiale rumeno e beniamino di re Michele. Così il dottor Doktor entrò nella sala di medicazione con una giub­ ba di pelle simile per taglio alle giacche di Stalin, e perfino i suoi favoriti biondi alla Puškin - il dottor Doktor era molto orgoglio­ so di questa somiglianza - erano scomposti per la tensione della caccia. - A-a-a-à! - cantilenò il direttore dell’ospedale facendo scor­ rere lo sguardo da uno all’altro dei partecipanti alla riunione e sof­ fermandosi infine su di me, - proprio te cercavo! Mi alzai, mi raddrizzai con le braccia distese lungo i fianchi, e riferii come di dovere. - E tu da dove vieni fuori ? - Il dottor Doktor spostò l’indice in direzione della ragazza, la quale era seduta in un angolo e non si era alzata all’apparire dell’infuriato dirigente. - Sono ricoverata qui, - rispose freddamente, - e la pregherei di non darmi del tu. - Cosa significa: è ricoverata qui ? Il komendant, che era entrato assieme al direttore, gli spiegò la situazione della ragazza ricoverata. - Bene, - disse con tono minaccioso il dottor Doktor, - chia­ rirò ogni cosa. Il discorso non finisce qui ! - E usci dalla sala di me­ dicazione. Sia Portugalov che DobrovoTskij erano sgusciati fuori alla chetichella fin dalle prime battute. - E adesso che cosa succederà ? - disse la ragazza, ma il tono della sua voce non tradiva preoccupazione, ma solo una certa cu­ riosità per gli aspetti giuridici di ciò che sarebbe seguito. Interes­ se, e non timore o paura per la propria sorte 0 per quella di qual­ cun altro. - A me, - risposi, - niente, almeno credo. Però per quanto ri­ guarda lei, potrebbero farla dimettere dall’ospedale. - Beh, se mi farà dimettere, - fu la replica, - questo dottor Dok­ tor avrà finito di vivere tranquillo. Si provi solo a fiatare e ci pen­ serò io a fargli conoscere tutti i massimi dirigenti della Kolyma. Ma il dottor Doktor non fiatò. La ragazza non venne dimessa. Doktor era stato ragguagliato a proposito delle entrature della ra­ gazza e aveva deciso di chiudere un occhio sull’accaduto. Trascorso all’ospedale il periodo di degenza stabilito la ragazza parti dile­ guandosi nel nulla. Neanche nei miei confronti il direttore prese provvedimenti di sorta, non venni arrestato, né messo in carcere di rigore o spedito

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a una compagnia disciplinare e neppure trasferito ai lavori gene­ rali. Ma alla prima relazione sull’attività ospedaliera che svolse da­ vanti a tutti i dipendenti e collaboratori, nella sala cinematografi­ ca da seicento posti piena zeppa, il direttore riferì dettagliatamente i fatti scandalosi che a lui, il direttore, era toccato vedere con i propri occhi nel corso del suo giro medico al reparto di chirurgia, quando l’infermiere tal dei tali se ne stava seduto in sala operato­ ria in compagnia di una donna a mangiar mirtilli dalla stessa sco­ della. In sala operatoria... - Non in sala operatoria, ma nella sala di medicazione del re­ parto Jesioni settiche. - E la stessa cosa! - Non è affatto la stessa cosa! Il dottor Doktor strizzò scontento gli occhi. A intromettersi era stato Rubancev, il nuovo responsabile del reparto di chirurgia - un chirurgo proveniente dal fonte di guerra. Doktor ignorò co­ munque il criticone e continuò nella sua invettiva. La donna non venne citata per nome. Il dottor Doktor, padrone assoluto delle nostre anime e dei nostri corpi e cuori, per qualche motivo tenne celata proprio l’identità della protagonista. In tutti gli analoghi ca­ si, relazioni e ordinanze ci si diffonde nei minimi particolari, pos­ sibili e immaginabili. - E fu preso qualche provvedimento a carico di questo infer­ miere, che era anche uno zek, per una violazione cosi evidente, e per giunta appurata dal direttore in persona ? - Niente. - E la ragazza ? - Niente neanche lei. - E chi era ? - Non lo sa nessuno. Qualcuno aveva consigliato al dottor Doktor di trattenersi per quella volta - dagli eccessi di zelo amministrativo. A distanza di sei mesi o un anno da questi avvenimenti, quan­ do il dottor Doktor aveva ormai lasciato da tempo l’ospedale - un premio al suo zelo: sempre piu in là e sempre piu in alto - un in­ fermiere già mio compagno ai corsi mi domandò, mentre percor­ revamo il corridoio del reparto di chirurgia dell’ospedale: - É questa la sala di medicazione dove si svolgevano le vostre notti ateniesi ? A quel che dicono, li... - Si, - risposi, - è proprio quella. 1973. A finskie noci, in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

Il viaggio p e r Ola

A Magadan, in una giornata piena di sole, una domenica lumi­ nosa, assistetti a un partita delle formazioni locali Dinamo-3 e Dinamo-4. Il fiato della standardizzazione staliniana aveva determi­ nato questa noiosa uniformità dei nomi. In questa finale, come nelle precedenti eliminatorie, a fronteggiarsi erano tutte squadre con la stessa denominazione: «Dinamo», cosa che ci si doveva del resto aspettare visto la città dove ci trovavamo. Io ero seduto lon­ tano, sui lontani posti in alto, e caddi vittima di un’illusione otti­ ca, mi sembrò che i giocatori di entrambe le squadre, cercando il tiro a rete con tutta una serie di passaggi, corressero molto lenta­ mente, e che quando il tiro in porta partiva, il pallone descrivesse nell’aria una traiettoria talmente lenta che tutta l’azione da goal poteva essere paragonata a una ripresa televisiva rallentata. Ma la ripresa télévisa al rallentatore non era ancora nata, anzi non era ancora nata la televisione stessa, cosi che il mio paragone costi­ tuisce uno di quegli anacronismi della narrazione ben noti agli stu­ diosi di letteratura. Però la ripresa cinematografica rallentata c’e­ ra già ai miei tempi, aveva fatto la sua comparsa prima di me o al massimo mi era coetanea. Avrei dunque potuto paragonare quel­ l’incontro di calcio a una ripresa cinematografica rallentata, e co­ munque solo in un secondo momento realizzai che la ripresa ral­ lentata non c’entrava e che semplicemente l’incontro aveva luogo nell’Estremo Nord, in altri spazi e distanze, e che il movimento dei giocatori era rallentato come rallentata era tutta la loro vita. Non so dire se tra i partecipanti ci fossero delle vittime della fa­ mosa purga staliniana dei giocatori di calcio. Stalin interferiva non solo nella letteratura e nella musica, ma anche nel gioco del calcio. La squadra Cska, la migliore formazione del paese, squadra cam­ pione di quegli anni, venne sciolta nel 1952 dopo essere stata scon­ fitta alle Olimpiadi. E non risorse mai piu. Tra i partecipanti del­ l’incontro di Magadan non credo ci fossero ex giocatori di quella squadra olimpionica. In compenso avrebbe potuto esserci il quar-

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tetto dei fratelli Starostin - Nikolaj, Andrej, Aleksandr e Pëtr tutti giocatori della nazionale. Ai miei tempi, nei tempi qui de­ scritti, per dirla al modo degli storici, tutti e quattro i fratelli Sta­ rostin erano in prigione con l’accusa di spionaggio a favore del Giappone. Il presidente del Vsfk, il Consiglio superiore per l’educazione fisica e sportiva, venne eliminato, fucilato. Mancev aveva milita­ to tra i vecchi bolscevichi, era stato uno dei piu attivi protagoni­ sti del rivolgimento dell’Ottobre. E proprio per questo venne an­ nientato. La carica puramente formale che Mancev aveva rivesti­ to negli ultimi mesi che lo separavano dalla morte non poteva certamente placare, appagare la sete di vendetta di Stalin. Al rajotdel di Magadan mi dissero: - Non c’è da parte nostra alcuna preclusione a che lei parta per il «continente», per la Grande Terra. Può trovarsi un lavoro, li­ cenziarsi, partire: da parte nostra non ci saranno ostacoli, e conmunque non c’è neanche bisogno di rivolgersi a noi. Era un vecchio trucco, un giochetto che conoscevo dall’infan­ zia. La mancanza in realtà di ogni via di uscita, la necessità di man­ giare tre volte al giorno costringevano gli ex detenuti a sorbirsi anche discorsi del genere. Consegnai i miei primi documenti di «libero», i miei striminziti certificati di una nuova vita all’ufficio del personale del Dal'stroj, il libretto di lavoro con un’unica iscri­ zione, la copia dell’attestato rilasciatomi alla fine dei corsi per in­ fermiere controfirmato da due degli insegnanti medici. Il terzo giorno arrivò una richiesta di infermieri per Ola, nell’omonima «provincia nazionale» della regione di Magadan: qui il potere go­ vernativo preservava la popolazione autoctona dall’invasione dei detenuti e la fiumana di molti milioni di persone passava oltre, di­ retta verso Nord per gli itinerari della Kolyma. Sul litorale c’era­ no Arman, Ola, località che erano state visitate se non da Colom­ bo, almeno da Erik il Rosso1, centri di quel litorale del Mare di Ochotsk conosciuti fin dall’antichità. Alla Kolyma c’era anche la leggenda toponomastica che il fiume e la stessa regione della Koly­ ma derivassero il proprio nome nientemeno che da Colombo e che il famoso navigatore in persona fosse stato da quelle parti nel cor­ so dei suoi viaggi in Inghilterra e Groenlandia. Non tutti gli ex de­ tenuti potevano stabilirsi su quel litorale protetto dalla legge: ad ' Condottiero e navigatore normanno del x secolo, dallTslanda raggiunse la Groenlandia.

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esempio i malavitosi, che fossero ex o ancora tali, che avessero «chiuso» o fossero ancora «in servizio» non li ammettevano, ma io come vol'njaska fresco di rilascio avevo diritto di visitare quel­ le isole felici. C ’era la pesca, quindi cibo. C ’era la caccia, ancora una volta cibo. C ’erano aziende agricole: sempre cibo, ed erava­ mo a tre. C ’erano mandrie di renne: cibo per la quarta volta. Queste mandrie di renne - e inoltre, sembra, certi yak che Ber­ zin aveva fatto venire agli inizi dell’attività del Dal'stroj - costi­ tuivano un problema di non poco conto per lo Stato. Richiedeva­ no grossi stanziamenti. Tra i numerosissimi fatti curiosi ricordo be­ ne gli sforzi prolungati e infruttuosi del Dal'stroj per insegnare ai cani da pastore2 a custodire le renne. Questi cani, che da un capo all’altro dell’Unione Sovietica facevano la guardia con eccellenti ri­ sultati alle persone, che scortavano i trasferimenti dei detenuti e cercavano i fuggiaschi nella tajga, si rifiutavano assolutamente di custodire le mandrie di renne, e la popolazione locale aveva dovu­ to continuare ad arrangiarsi con i soliti cani da slitta. Questo straor­ dinario fatto storico non è molto noto. Di che cosa si trattava ? For­ se nel cervello del cane da pastore era inserito un programma per le persone che non valeva per le renne ? Era questo ? La caccia in gruppo praticata ad esempio dai lupi ai danni delle mandrie di ren­ ne contiene tutti gli elementi utili per custodire questi animali. Ma nessuno di quei cani, mai, riuscì a imparare a custodire la mandria. Non si riusci a riaddestrare i cani esperti e neppure a tirar fuori dei pastori invece che dei cacciatori dai loro cuccioli. Il tentativo si con­ cluse con un fallimento, con la piena vittoria della natura. Dunque avevo espresso l’intenzione di recarmi in quel di Ola traboccante di renne, pesci e frutti selvatici. Certo, laggiù i salari erano la metà di quelli del Dal'stroj, del sistema concentrazionario, ma in compenso a Ola facevano valere la legge contro sfatica­ ti, ladri e ubriaconi semplicemente espellendoli dalla provincia al­ la volta di Magadan e i territori del Dal'stroj dove vigevano altri ordinamenti. Il provvedimento era di competenza del presidente del comitato esecutivo, che poteva adottarlo senza indagini e pro­ cesso: il ritorno del giusto nel mondo dei peccatori. Questa di­ sposizione naturalmente non valeva per gli autoctoni. Anche la modalità dell’espulsione non era molto complicata: fino a Maga­ dan. via mare c’erano cento chilometri, attraverso la tajga trenta. All’arrivo, un milicioner afferrava il peccatore per le braccia e lo 2 In russo ovcarki : quelli impiegati nei lager erano per lo piu pastori tedeschi, ma an­ che caucasici.

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portava nel purgatorio della prigione di transito di Magadan, do­ ve c’era anche un centro di smistamento - il karpunkt -, che i «li­ beri» potevano utilizzare allo stesso titolo dei detenuti. Insomma, l’idea mi sorrideva: cosi mi feci rilasciare la putëvka, l’ordine di servizio senza il quale non potevo viaggiare, con desti­ nazione Ola. Ma come arrivarci ? Ci sarebbe stato il rimborso a par­ tire dal momento in cui la putëvka mi era stata allungata attraver­ so l’oscuro pertugio dello sportello dalla mano profumata di qual­ che tenente-ispettore dell’ufficio del personale, ma era anche vero che da queste parti l’inverno era precoce e avrei voluto raggiunge­ re in tempo utile il posto di lavoro, che sicuramente, visto che ero l’ultimo venuto, non sarebbe stato in città. Cercare un passaggio su qualche automezzo? Demandai ogni decisione all’istituto del­ l’opinione pubblica, raccolsi cioè i pareri di tutti i miei vicini di co­ da nelle interminabili attese all’ufficio del personale e il 99,9 per cento si pronunciò a favore del motoscafo. Cosi decisi per il moto­ scafo, che partiva dalla baia dell’Allegria. E a questo punto co­ minciai ad aver fortuna, una fortuna favolosa, incredibile. Incon­ trai per strada Boris Lesnjak, che insieme a sua moglie, Savoeva, mi aveva tanto aiutato in uno dei miei anni di fame, dei miei ma­ cilenti anni di vacche magre. C ’è nella scienza della vita la ben nota espressione «periodo fortunato». Una serie di fortune, piccole o grandi. Le disgrazie, dicono, non vengono mai sole. Lo stesso fa la fortuna. Il giorno dopo mentre pensavo a come fare per trovar posto sul battello, in­ contrai, sempre per strada, Jarockij, ex ragioniere capo dell’ospe­ dale. Jarockij ora lavorava nella baia dell’Allegria e sua moglie mi permise di lavare le mie cose da lei, cosi passai l’intera giornata a casa loro a lavare di gusto tutto quello che si era accumulato nel periodo in cui ero in balia del tenente colonnello Fragin, il quale mi faceva andare di qua e di là a suo piacimento. E anche questa era una fortuna. Jarockij mi diede un bigliettino per il controllo­ re. Il motoscafo partiva tutti i giorni, trascinai a bordo le mie due valigie, era una furberia da malavitoso, una valigia era vuota e nel­ l’altra c’era il mio unico completo blu, acquistato a poco prezzo sulla riva sinistra quando ancora ero detenuto, e i quaderni con le mie poesie, quadernetti sottili, non quelli fatti con la carta di Barkan. Quei quadernetti mi si riempivano uno dopo l’altro di ver­ si rimati indipendentemente dalla mia volontà e, se anche mi aves­ sero rubato la valigia, non potevano dar fastidio a nessuno. Ma non me la rubarono. Il motoscafo salpò all’ora prevista e mi portò a Ola, all’ospedale per tubercolotici. Nell’albergo, una baracca, si

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trovava anche la sezione sanitaria provinciale diretta da un giova­ ne medico. Il direttore dell’ospedale era in trasferta di lavoro e avrei dovuto aspettare due o tre giorni. Ne approfittai per visita­ re Ola. La cittadina era vuota, silenziosa. I salmoni, del tipo keta e gorbuša, avevano iniziato a ridiscendere il fiume dai luoghi di depo­ sizione delle uova fino al mare, e la loro corsa, sul filo di quella corrente che avevano risalito all’andata, era accompagnata dalla stessa frenesia, dalla stessa voglia di saltare l’ostacolo, di lanciar­ si attraverso la strettoia. I cacciatori, gli stessi del tragitto d’an­ data, li aspettavano agli stessi varchi di sempre. Uomini, donne, bambini, capintesta e sottoposti, l’intera cittadinanza - si trasfe­ riva sul fiume a mietere le argentee messi. Fabbriche ittiche, affumicatoi e impianti di salatura lavoravano giorno e notte. Rima­ neva all’ospedale solo il personale di turno, mentre i malati con­ valescenti andavano anch’essi al fiume. Di tanto in tanto attraverso la polverosa cittadina passava di corsa un carro con un’enorme cas­ sa fatta di tavole lunghe due metri nella quale sciabordava un ar­ genteo mare di salmoni. Qualcuno gridò con voce disperata: «Sen'ka, Sen'ka! » Chi po­ teva gridare a quel modo in quel frenetico giorno di raccolto ? Uno sfaccendato? Un sabotatore? Un malato grave? - Sen'ka, dammi un pesciolino! E Sen'ka, senza fermare il carro, abbandonando per un istan­ te le redini, gettò nella polvere un enorme salmone di due metri, luccicante sotto il sole. Un vecchietto del posto, un guardiano di notte che faceva an­ che i turni come infermiere, quando accennai al fatto che avrei vo­ lentieri messo qualcosa sotto i denti, sempre che ce ne fosse anche per me, disse: - Cosa ti posso dare? Non abbiamo granché, della zuppa di keta avanzata da ieri. Non gorbuša, costa troppo. Prendila e scal­ dala. Ma sono sicuro che non la mangerai. Noi ad esempio la zup­ pa del giorno prima non la mangiamo. Dopo aver mangiato una mezza gavetta della keta del giorno avanti e aver riposato, andai sulla riva a fare il bagno. Sapevo co­ sa aspettarmi da una nuotata nel Mare di Ochotsk - sporco, fred­ do e salato - ma, a scopo di istruzione generale, ci andai lo stesso e nuotai anche un poco. Ola era una cittadina polverosa. I carri, attraversandola, solle­ vano montagne di polvere. Ma faceva anche caldo, e non da pochi giorni, e mi chiedevo se quella polvere si sarebbe poi trasformata

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in un’argilla rocciosa come ad esempio avevo visto nella regione di Kalinin, ma era una curiosità destinata a restare insoddisfatta. La giornata che passai a Ola mi permise di vedere due particolarità di quel paradiso del Nord. Anzitutto, la straordinaria quantità di galline di razza italiana, la varietà livornese ad ali bianche: tutti tenevano solo ovaiole di questa razza, evidentemente per l’elevata produttività. A quei tem­ pi un uovo costava al mercato di Magadan cento rubli. E siccome tutte le galline si assomigliavano, ogni padrone contrassegnava le proprie con della vernice sulle ali. Le combinazioni di più colori visto che la gamma dei sette fondamentali non era sufficiente - fa­ cevano in definitiva assomigliare le galline, cosi variopinte, alle formazioni calcistiche nei loro incontri piu impegnativi e ricorda­ vano una parata di bandiere nazionali o una carta geografica. In una parola tutto, tranne un branco di galline. La seconda particolarità erano gli steccati tutti uguali delle ca­ sette degli abitanti. Ogni steccato circondava molto da vicino la casetta, il terreno annesso era minuscolo, ma era pur sempre il po­ dere di pertinenza. E poiché le recinzioni di tavole o di filo spi­ nato, senza varchi, erano prerogativa dello Stato e la bassa paliz­ zata russa costituiva uno sbarramento piuttosto precario, su tutti gli steccati delle case di Ola erano tese delle vecchie reti. L ’effet­ to era bello e anche pittoresco, come se l’intero mondo di Ola fos­ se stato riportato sulla carta millimetrata per uno studio accurato: le reti da pesca difendevano il pollame. In base al mio foglio di servizio sarei dovuto andare all’isola Si­ gnal nel Mare di Ochotsk, ma la responsabile dell’ufficio provin­ ciale del personale, data una scorsa al mio «stato di servizio», non mi ci volle mandare e mi propose di rientrare'a Magadan. Non ne feci un dramma, c’erano altre possibili destinazioni, e riebbi i miei documenti. Però dovevo ritornare a Magadan, e per questo tro­ vare un posto su quello stesso motoscafo che mi aveva portato li. La cosa però si rivelò tutt’altro che semplice e non per ragioni che riguardavano me, vagabondo con documenti dubbi, ex detenuto o altro ancora. Il pilota del motoscafo viveva a Ola stabilmente e per trasci­ narlo sul suo motoscafo, a fare il suo lavoro, ci volle del bello e del buono. Dopo tre giorni di sbornie durante i quali il motoscafo era rimasto inutilizzato, finalmente si riuscì a trascinare fuori dal te­ pore dell’izba il pilota, e a condurlo lentamente, sorreggendolo, la­ sciando che si sedesse per terra e poi aiutandolo a rialzarsi, per due chilometri fino all’imbarcadero dove era attraccata l’imbarcazio­

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ne e si era raccolto un nutrito gruppo di passeggeri, una decina. Ci volle non meno di un’ora, forse due. L ’enorme sagoma del gras­ sone si avvicinò, si inerpicò nella cabina di guida, avviò il motore Kawazaki. Il motoscafo cominciò a vibrare ma non era ancora la partenza. Dopo tutta una serie di maneggi e sfregamenti il pilota appoggiò le mani sulla ruota del timone. Nove passeggeri su dieci (il decimo ero io) si affollarono attorno alla cabina pregando il pi­ lota di fermare tutto e tornare a casa. Ormai avevamo mancato la bassa marea e non saremmo piu arrivati a Magadan in tempo uti­ le. Ci sarebbe toccato tornare indietro o finire alla deriva in mare aperto. In risposta echeggiarono le urla del pilota, che lui l’avreb­ be ficcato in bocca e nel naso a tutti i passeggeri e che il pilota era lui e non avrebbe mancato nessuna marea. Il Kawazaki filò verso il largo e la moglie del pilota fece il giro dei passeggeri con il ber­ retto in mano «per il bicchiere della staffa», io detti cinque rubli. E uscii sul ponte a guardare come giocavano foche e balene e co­ me ci avvicinavamo a Magadan. Ma Magadan non era in vista, al suo posto c’era una riva rocciosa, in direzione della quale andava­ mo, andavamo senza però riuscire ad avvicinarci. - Salta, salta, - a un tratto mi sentii rivolgere questa esorta­ zione da una donna che doveva aver già fatto l’esperienza della traversata Ola-Magadan, - salta, salta, ti butto io le valigie, qui si tocca ancora. La donna saltò tenendo le braccia alzate e tese. L ’acqua le ar­ rivava alla cintola. Comprendendo che l’alta marea non sarebbe rimasta ad aspettarmi, gettai in mare le mie due valigie - fu quel­ la l’occasione in cui ebbi a benedire i malavitosi per la saggezza dei loro consigli - e saltai anch’io, sentendo subito sotto i piedi, sci­ voloso ma saldo e sicuro, il fondo dell’oceano. Acchiappai tra le onde le valigie sospinte dall’azione combinata di salinità e legge di Archimede e mi mossi al seguito dei miei compagni di viaggio i quali, tenendo sollevato il bagaglio sopra la testa si avvicinavano alla riva; superando le onde dell’alta marea, raggiunsi il molo del­ la baia dell’Allegria, e salutai con la mano Ola e il pilota, per sem­ pre. Il pilota, vedendo che tutti i passeggeri erano arrivati sani e sal­ vi all’imbarcadero, virò e riparti in direzione di Ola, a finire di be­ re quello che era rimasto. 1973. Putešestvie na O lu, in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

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Era stata la paura della vecchiaia a portare alla Kolyma il te­ nente colonnello Rjurikov: ormai gli mancava poco alla pensione e gli stipendi del Nord erano due volte piu alti di quelli di Mosca. Il tenente colonnello del servizio medico Rjurikov non era né me­ dico chirurgo, né internista né specialista in malattie veneree. Nei primi anni della rivoluzione, dopo i corsi preparatori al Rabfak, era stato ammesso alla facoltà di medicina dell’università e ne era uscito con la specializzazione in neurologia, ma aveva presto di­ menticato tutto - non aveva mai esercitato, neanche per un gior­ no - dedicandosi a lavori di tipo amministrativo: primario, am­ ministratore ospedaliero. Anche quaggiù era arrivato come diret­ tore di un grande ospedale per detenuti: l’Ospedale centrale, mille posti letto. Non è che non gli potesse bastare lo stipendio di di­ rettore di uno degli ospedali di Mosca. Il tenente colonnello Rju­ rikov aveva da molto superato i sessanta e viveva da solo. Aveva tre figli adulti che lavoravano tutti quanti in vari posti come me­ dici, ma Rjurikov non voleva saperne di farsi mantenere o aiutare dai figli. Fin da quando era giovane aveva maturato a questo ri­ guardo una ferma convinzione e cioè che non sarebbe mai dipeso da nessuno, e piuttosto avrebbe preferito morire. C ’era anche un altro aspetto della situazione, del quale il tenente colonnello pre­ feriva non raccontare, neppure a se stesso. La madre dei suoi figli era morta da molto tempo, facendo promettere a Rjurikov in pun­ to di morte che non si sarebbe mai risposato. Rjurikov aveva fat­ to questa strana promessa alla defunta e da allora, da trentacinque anni, l’aveva rigorosamente mantenuta, senza mai azzardarsi nep­ pure a sfiorare con il pensiero qualsiasi altra diversa soluzione. Gli sembrava che se avesse cominciato a considerare altrimen­ ti la questione, avrebbe violato, con un atto peggio che sacrilego, quel qualcosa di delicato e sacro che teneva in cuore. Poi era su­ bentrata l’abitudine e non ci aveva più pensato. Di questo non ave­ va mai fatto parola ad alcuno, né si era mai consigliato con i figli

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o con le donne che gli erano state vicino. La donna con la quale viveva negli ultimi anni, una dottoressa del suo stesso ospedale, aveva due figlie dal primo matrimonio, due scolare, e Rjurikov avrebbe voluto anche per questa sua seconda famiglia una certa si­ curezza economica. Questo era il secondo motivo che l’aveva in­ dotto a intraprendere un viaggio tanto impegnativo. C’era anche un terzo motivo, quasi un capriccio da ragazzo. Il fatto era che in vita sua il tenente colonnello Rjurikov non era mai stato da nessuna parte che non fosse la provincia di Tumsk della regione di Mosca, di cui era originario, e Mosca stessa, dove era cresciuto, aveva studiato e lavorato. Perfino negli anni giovanili prima del matrimonio e durante gli studi all’università, Rjurikov non aveva mai passato un solo giorno di vacanza, neanche in esta­ te, lontano dalla casa materna nella provincia di Tumsk. Gli sem­ brava scomodo e anche sconveniente andare in vacanza in qualche stazione climatica o chissà dove. Temeva troppo le rampogne del­ la propria coscienza. La madre era vissuta a lungo, non aveva vo­ luto trasferirsi dal figlio, e Rjurikov non si sentiva di darle torto: aveva passato tutta la vita al paese natale. La madre era morta pro­ prio alla vigilia della guerra. Rjurikov non era riuscito ad andare al fronte, anche se indossava l’uniforme, e per tutto quel periodo aveva diretto un ospedale a Mosca. Non era mai stato all’estero, né a Sud, né a Est, né a Ovest e gli capitava spesso di pensare che presto sarebbe morto senza aver visto niente. Una cosa che l’interessava e appassionava partico­ larmente erano le trasvolate artiche e in generale la vita romanti­ ca e fuori dal comune dei conquistatori del Nord. Il suo interesse per il Nord trovava alimento non solo in Jack London, che il te­ nente colonnello amava molto, ma anche nei voli di Slepnév e Gromov1,2nella tragica deriva del C e lju sk in 1. Davvero avrebbe finito cosi la sua vita senza vedere ciò che piu sognava ? E quando gli avevano proposto di andare al Nord per tre anni, Rjurikov aveva subito capito che quella era la realizzazione di tutti i suoi desideri, un colpo di fortuna che premiava il suo la­ voro di così tanti anni. E aveva accettato, senza consigliarsi con nessuno. 1 Michail Gromov, pilota collaudatore, nel 1937 compi la prima trasvolata Mosca-Po­ lo Nord-America; Mavrikij Slepnëv (1896-1965), tracciò nuove rotte in Medio Oriente, Artico ed Estremo Oriente, partecipò ai soccorsi al Celjuskin. 2 Nave rompighiaccio sovietica che nel luglio 1933 tentò la traversata in una sola sta­ gione da Murmansk a Vladivostok; bloccata dai ghiacci presso lo stretto di Bering, affondò nel febbraio 1934; i naufraghi, piu di cento, furono tratti in salvo nei giorni successivi con una serie di voli.

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C ’era un’unica circostanza che impensieriva Rjurikov. L ’ave­ vano destinato a un ospedale per detenuti. Naturalmente sapeva che nell’Estremo Nord, come nell’Estremo Oriente e nel vicino Sud, e nel vicino Ovest sovietici, c’erano dei lager correzionali. Lui però avrebbe preferito lavorare con del personale liberamen­ te assunto. Ma in quell’ambito non c’erano posti disponibili e poi, di nuovo, gli stipendi dei medici a contratto che lavoravano nelle strutture per detenuti erano molto superiori, e Rjurikov lasciò da parte i dubbi. Nei due colloqui che i dirigenti ebbero con Rjurikov, questo aspetto della questione non venne affatto lasciato in om­ bra o contraffatto, al contrario venne sottolineato. Il tenente co­ lonnello Rjurikov venne invitato a considerare con la massima at­ tenzione il fatto che quelli che si trovavano laggiù erano nemici del popolo, nemici della patria, al momento messi a colonizzare l’Estremo Nord, criminali di guerra, pronti ad approfittare di ogni momento di debolezza, di indecisione della direzione per i propri scopi abbietti e malvagi, e che pertanto era necessario esercitare la massima vigilanza nei confronti di quel «contingente», cosi si espressero i dirigenti. Vigilanza e fermezza. Ma Rjurikov non do­ veva temere. Avrebbe potuto contare sulla leale collaborazione di tutti i lavoratori liberi salariati dell’ospedale e dell’importante col­ lettivo del partito, sempre presente pur nelle proibitive condizio­ ni del Nord. Durante il suo trentennale lavoro nelle varie amministrazioni, Rjurikov si era fatto un’idea diversa dei sottoposti. Se c’era qual­ cosa che lo disgustava a morte era il saccheggio di attrezzature e materiali di proprietà statale, gli intrighi di uno contro l’altro, l’u­ briachezza inveterata. Rjurikov fu contento di quello che gli ave­ vano raccontato, era come una chiamata alle armi contro i nemici dello Stato. Ed egli, nel settore che gli era stato affidato, avrebbe compiuto tutto il suo dovere. Rjurikov arrivò nel Nord in aereo, in una poltrona di prima classe. Il tenente colonnello non aveva neppure mai volato - chissà come, non ce n’era mai stata l’occa­ sione - e l’impressione fu magnifica. Non soffri di nausea, solo un po’ di giramento di testa agli atterraggi. Rimpianse sinceramente di non aver mai volato prima. Le rocce dirupate e i colori puri del cielo settentrionale lo colmarono di entusiasmo. Diventò allegro, si senti quasi un ventenne e non volle fermarsi in città, per cono­ scerla un po’ meglio, neppure per pochi giorni, non vedeva l’ora di cominciare a lavorare. Il capo della direzione sanitaria gli consegnò la Z is-n o perso­ nale e il tenente colonnello raggiunse a bordo della vettura l’O­

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spedale centrale, che si trovava a cinquecento chilometri dalla «ca­ pitale» locale. Il cortese responsabile della direzione sanitaria non si limitò a preavvertire dell’arrivo del tenente colonnello l’ospedale, ma se­ gnalò la cosa anche a chi doveva provvedere alla sua sistemazione per la notte. Il fatto è che il direttore di prima era stato in ferie «sul continente» e non aveva sgomberato per tempo l’apparta­ mento. Accanto all’ospedale, a trecento metri dalla strada, c’era la cosiddetta Casa della direzione - uno dei tanti alberghi costruiti lungo tutta la rotabile principale per i massimi dirigenti e genera­ li vari. Rjurikov trascorse li la notte, osservando con meraviglia i ten­ daggi di velluto ricamato, i tappeti, le sculture d ’avorio, la teoria di armadi per abiti, di legno massiccio lavorato a intaglio. Rjurikov non disfece i bagagli, la mattina seguente prese un tè abbondante e andò all’ospedale. L ’edificio dell’ospedale era stato costruito poco prima della guerra per una divisione militare. Però il grande edificio a due pia­ ni a forma di lettera T piantato in mezzo a nude rocce costituiva un punto di riferimento troppo comodo per gli aerei nemici (in­ tanto che si decideva e avviava la costruzione, la tecnica si era por­ tata molto avanti), e alla fine era stato dichiarato inadatto dal com­ mittente, e ceduto alla sanità. Nel breve tempo in cui il reggimento si preparava alla parten­ za e l’edificio era rimasto incustodito, erano andati distrutti l’im­ pianto idraulico e la fognatura, e la centrale termoelettrica a car­ bone con le sue due caldaie era stata messa completamente fuori uso. Al posto del carbone, di cui era stata sospesa la fornitura, si cominciò ad alimentare la centrale con del legname bruciando tut­ to quello che si trovava, e per l’ultima festicciola tra commilitoni se ne andarono cosi, nelle caldaie della centrale termica, tutti i se­ dili del cineteatro. La direzione sanitaria aveva un po’alla volta ripristinato tutto quanto, con il lavoro gratuito dei malati-detenuti, fino a restitui­ re all’ospedale un aspetto decoroso e perfino imponente. Il tenente colonnello entrò nel suo studio e restò meravigliato per le dimensioni. A Mosca non gli era mai accaduto di avere de­ gli studi personali di quella capienza. Piu che uno studio, era una sala di riunioni, per cento persone almeno, secondo i criteri mo­ scoviti. Quell’ambiente cosi ampio era stato ottenuto abbattendo alcune pareti divisorie e unendo piu locali. Alle finestre erano appese tende di panno con splendidi ricami

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e il rosso sole autunnale vagava sulle cornici dorate dei quadri, sui divani in pelle foderati a mano, scivolava sulla superficie tirata a lucido della scrivania di insolite dimensioni. Tutto questo piacque al tenente colonnello. Era impaziente di definire gli orari in cui avrebbe ricevuto e il calendario, ma non fu possibile farlo cosi rapidamente come avrebbe desiderato, gli riu­ scì solo in capo a due giorni. Anche l’ex direttore non vedeva l’o­ ra di partire, il biglietto d ’aereo era stato ordinato da molto tem­ po, da prima che il tenente colonnello Rjurikov lasciasse la capi­ tale. Trascorse quei due giorni a osservare la gente, l’ospedale. Nel­ l’ospedale c’era un grande reparto malattie interne, diretto dal dot­ tor Ivanov, ex medico militare ed ex detenuto. A capo del reparto di neuropsichiatria c’era Pëtr Ivanovič Polzunov, anch’egli ex de­ tenuto benché candidato in scienze’. Era quella una categoria di persone da considerare con particolare sospetto, e di questo ave­ vano avvertito Rjurikov già a Mosca. Erano persone che da una parte avevano passato la scuola del lager, nemici, di sicuro; dall’al­ tra però avevano accesso all’ambiente dei liberi salariati, i «con­ trattisti». «E impensabile che il loro odio per lo Stato e la patria sparisca d’incanto nel momento in cui ricevono l’attestato del rila­ scio, - pensava il tenente colonnello. - E tuttavia è anche un loro diritto, hanno una posizione diversa, per cui non posso far altro che credergli». Entrambi i responsabili di reparto ed ex detenuti non andarono per niente a genio al tenente colonnello e questi non sa­ peva quale atteggiamento prendere nei loro riguardi. In compenso il capo del reparto di chirurgia, il chirurgo di reggimento Gromov, gli piacque moltissimo: era un libero stipendiato, sia pure senzapartito, aveva combattuto durante la guerra e nel suo reparto fa­ ceva rigare diritto tutti quanti, cosa si poteva desiderare di meglio ? Per quanto riguarda il servizio militare, Rjurikov ne aveva avu­ to un assaggio, e per di piu nei ranghi medici, solo in tempo di guerra, e per questo motivo la gerarchia militare gli piaceva piu del dovuto. Quell’elemento di organizzazione che essa introduceva nella vita era indubbiamente utile e Rjurikov ricordava talvolta con risentimento certe oltraggiose situazioni del suo lavoro prima della guerra: la continua opera di convincimento, le interminabili spiegazioni e suggerimenti, le dubbie promesse dei dipendenti in­ vece dell’ordine secco dell’ufficiale e il rapporto preciso e circostanziato reso dal sottoposto. 3 Titolo accademico analogo al nostro «dottorato di ricerca».

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E quello che gli era piaciuto nel chirurgo Gromov era proprio il fatto che fosse riuscito a trasferire le condizioni di un ospedale militare nel reparto di chirurgia dell’ospedale. Era stato a fargli vi­ sita nel reparto, nel silenzio senza vita dei lunghi corridoi ospeda­ lieri, nel luccichio di lunghe teorie di maniglie di rame. - Con che cosa le pulisci ? - Usiamo il frutto del mirtillo rosso, - riferì Gromov, e Rjurikov restò di sasso. E dire che lui per mantenere lucidi i bottoni del cappotto e della giubba si era portato fino a li da Mosca una crema speciale, e invece bastava il mirtillo. Nel reparto di chirurgia ogni cosa risplendeva di pulito. I pa­ vimenti raschiati e verniciati, i cassetti di alluminio tirati a lucido e gli scintillanti armadi dello strumentario... Ma al di là delle porte delle camerate si sentiva respirare un mo­ stro dalle mille teste che incuteva un certo timore a Rjurikov. Tut­ ti i detenuti gli sembravano uguali: incattiviti, pieni d ’odio... Gromov spalancò davanti al direttore una di quelle camerate non molto grandi. Ne venne un tanfo di pus e di biancheria non lavata che non piacque per niente a Rjurikov; richiuse la porta e passò oltre. Per il precedente direttore e sua moglie arrivò il giorno della partenza. Rjurikov pensò con piacere al fatto che già l’indomani avrebbe assunto le piene mansioni direttive. Restò solo nel gran­ de appartamento di cinque locali con balcone a veranda. Le stan­ ze erano vuote, la mobilia - magnifici scaffali a specchio di fattu­ ra artigianale, certe ribaltine tipo mogano, un imponente buffet lavorato a intaglio - era nata dai sogni del proprietario, il prece­ dente direttore, e se n’era andata via con lui, divani imbottiti, se­ die, e strapuntini. Ora l’appartamento era vuoto e disadorno. Il tenente colonnello Rjurikov ordinò all’economo del reparto di chirurgia di portargli una branda e della biancheria per il letto in dotazione all’ospedale, e l’economo, a suo rischio e pericolo, re­ cuperò anche un comodino che appoggiò a una parete della stan­ za piu grande. Rjurikov cominciò a disporre le sue cose. Tolse dalla valigia l’a­ sciugamano e il sapone e li portò in cucina. Come prima cosa appese alla parete la sua chitarra con un fioc­ co rosso scolorito. Non era una chitarra qualsiasi. All’inizio della guerra civile, quando il potere sovietico faceva ancora a meno di decorazioni e altre distinzioni onorifiche - al punto che nel T8 Podvojskij venne tacciato di «rigurgito zarista», per aver caldeg­ giato sulla stampa l’introduzione delle onorificenze - sul fronte

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dei combattimenti si veniva premiati per gli atti di valore anche senza insegne e medaglie: un fucile con inciso il proprio nome o una chitarra, una balalaika. E anche il combattente della Guardia Rossa Rjurikov, dopo uno scontro nei pressi di Tuia, venne insignito di un premio del genere: quella chitarra. Rjurikov non aveva molto orecchio per la musica e aspettava di rimanere solo per pizzicare con cautela e ti­ more questa o quella corda. Le corde risuonavano e il vecchio ri­ tornava, sia pure per un solo istante, nel mondo grandioso e ca­ ro della sua gioventù. Custodiva cosi il suo tesoro da più di trent’anni. Fece il letto, appoggiò sul comodino lo specchio, si svesti e, in­ filati i piedi nelle pantofole, si avvicinò alla finestra per guardare fuori: le montagne attorno sembravano delle oranti in ginocchio. Come se molte persone fossero accorse all’incontro con un tau­ maturgo: per pregarlo, riceverne lumi e ammaestramenti sulla via da percorrere. Rjurikov pensò che forse la stessa natura non aveva le risposte riguardo al proprio destino e cercava come tutti un buon consiglio. Staccò la chitarra dalla parete e gli accordi - in quella camera vuota, di notte - gli sembrarono particolarmente vibranti, solen­ ni e significativi. Come sempre, lo strimpellare le corde dello stru­ mento lo calmò. Le prime decisioni si formarono allora, nel corso di quel notturno convegno a tu per tu con la chitarra. E con le de­ cisioni, la volontà per realizzarle. Si coricò nel lettino e subito si addormentò. La mattina, ancor prima di iniziare la sua giornata lavorativa nel nuovo, ampio studio, Rjurikov convocò il tenente Maksimov, suo vice per la parte economale e disse che avrebbe usato solo una delle cinque camere, la più grande. Nelle altre potevano sistema­ re quei collaboratori che non disponevano di spazio abitativo. Il tenente Maksimov non nascose la propria perplessità e cercò di spiegargli che non era il caso. - Ma non ho famiglia, - disse Rjurikov. - Anche il precedente direttore aveva solo la moglie, - disse Maksimov. - Ma i dirigenti della capitale sono moltissimi, e ver­ ranno a trovarla, e dovranno pernottare e dovrà pensare alla loro sistemazione. - Possono alloggiare in quella casa dove ho dormito la prima notte. E a due passi. In una parola, faccia come le è stato detto. Ma nel corso della giornata Maksimov si affacciò nello studio ancora parecchie volte per chiedere a Rjurikov se non avesse per

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caso cambiato idea. E si arrese solo quando il nuovo direttore co­ minciò ad arrabbiarsi. Il primo a essere ricevuto fu il delegato locale Korolëv. Fatta la conoscenza e reso brevemente rapporto, Korolëv disse: - Avrei una cosa da chiederle. Domani devo andare a Dolgoe. - E dove sarebbe ? - E laggiù la mia direzione, a un’ottantina di chilometri da qui... Ci va la corriera ogni mattina. - Beh, buon viaggio, - disse Rjurikov. - No, non ha capito, - sorrise Korolëv. - Le chiedo il permes­ so di utilizzare la sua macchina personale... - Perché, ho una macchina personale ? - S I. - E l’autista? - E l’autista... - E Smolokurov (era il nome del direttore di prima) andava da qualche parte con questa macchina personale. - La usava poco, - disse Korolëv. - Quel che è vero è vero. Poco. - Ma guarda, - Rjurikov aveva capito ogni cosa e aveva deciso il da farsi. - Tu prendi la corriera. La macchina per ora lasciamola agli ormeggi. E l’autista trasferitelo all’autorimessa a lavorare con gli autocarri... Della macchina posso fare a meno. Se dovrò anda­ re da qualche parte mi servirò dell’ambulanza o di un autocarro. La segretaria socchiuse la porta. - C ’è Fedotov, il meccanico: dice che è per una cosa urgente... Il meccanico aveva l’aria spaventata. Dal suo racconto agitato e sconnesso Rjurikov capi che nell’appartamento del meccanico, al pianterreno, era quasi crollato un soffitto, s’era staccato rinto­ naco e colava giù qualcosa. Bisognava effettuare la riparazione, ma l’economato non ci sentiva e il meccanico anche volendo non ave­ va i soldi. E poi non era giusto. Doveva pagare il responsabile del distacco dell’intonaco, anche se era membro del partito. Quelle in­ filtrazioni... - Aspetta un po’, - disse Rjurikov. - Quali infiltrazioni? Se non sbaglio sopra di te non c’è il tetto, ci vive dell’altra gente, no ? Rjurikov capi non senza difficoltà che nell’appartamento di so­ pra tenevano un maialino, si accumulava il letame, il piscio, ed era per questo che l’intonaco del soffitto dell’appartamento al piano terra era crollato, e adesso il maialino pisciava direttamente in te­ sta agli inquilini di sotto. Rjurikov montò su tutte le furie.

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- Anna Petrovna, - gridò alla segretaria, - faccia subito veni­ re qui il segretario della sezione di partito e quel farabutto che tie­ ne il maiale in casa. Anna Andreeva agitò concitata braccia e mani e sparì. Di lì a dieci minuti entrò nello studio il segretario della sezio­ ne del partito, Mostovoj, e si sedette vicino alla scrivania. I tre Rjurikov, Mostovoj e il meccanico - restarono in silenzio. Tra­ scorsero così almeno dieci minuti. - Anna Petrovna! Anna Petrovna si affacciò di profilo sulla soglia. - Allora, dov’è il proprietario del maiale? Anna Petrovna si eclissò. - Eccolo qui il proprietario del maiale, il compagno Mostovoj, - disse il meccanico. - Ah, ecco, - e Rjurikov si alzò. - Per il momento se ne torni a casa, - e accompagnò alla porta il meccanico. - Come si permette? - cominciò a gridare all’indirizzo di Mo­ stovoj. - Come si permette di tenere in casa?... - Non urlare, - disse Mostovoj con calma. - Dove devo tener­ lo? In strada? Quando avrai anche tu qualche pollo o il porcelli­ no vedrai cosa vuol dire. Sapessi quante volte ho chiesto di darmi un appartamento al pianterreno. Non me lo danno. E fossi io l’u­ nico. Solo che il nostro meccanico qui è un gran chiacchierone. Il direttore di prima sapeva come fare a chiudere il becco a tipi si­ mili. E tu invece stai a sentire questo e quello, per niente. - La riparazione sarà tutta a tuo carico, compagno Mostovoj. - No davvero, neanche per sogno... Ma Rjurikov si era già attaccato al telefono, aveva convocato il ragioniere, e dettato la disposizione. Il seguito degli appuntamenti risentì di quell’inizio sconclusio­ nato. Il tenente colonnello non riuscì a conoscere neppure uno dei suoi sostituti, appose innumerevoli volte la firma su innumerevo­ li carte che gli venivano fatte passare davanti da mani abili ed esperte. Ognuno dei relatori si muniva dell’enorme tampone che troneggiava sulla scrivania direttoriale - la torre del Cremlino scol­ pita a mano con tanto di stella rossa di plastica - e asciugava con solerzia la firma del tenente colonnello. Si andò avanti così fino a pranzo e dopo pranzo il direttore fece il suo giro per l’ospedale. Il dottor Gromov, faccia rossa e denti bianchi, lo stava già aspet­ tando: - Voglio vedere il suo lavoro, - disse il direttore. - E previsto che venga dimesso qualcuno, oggi? Nello studio eccezionalmente ampio di Gromov s’era formata

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una lunga teoria di malati che sfilava lentamente. Per la prima vol­ ta Rjurikov vide coloro che avrebbe dovuto curare: la fila di sche­ letri gli passava davanti. - Avete i pidocchi ? Il malato si strinse nelle spalle e guardò spaventato il dottor Gromov. - Ma mi scusi, questo è un reparto di chirurgia... Come mai so­ no ridotti in quello stato ? - La cosa non ci riguarda, - disse allegro il dottor Gromov. - Però li dimette ? - E fino a quando dobbiamo tenerli ? E come la mettiamo con i giorni letto ? - Ma come si fa a dimettere uno così? - Rjurikov indicò un ma­ lato con delle scure piaghe purulente. - Questo se ne va perché ha rubato il pane ai suoi vicini. Arrivò il colonnello Akimov che era a capo di quella non me­ glio identificata unità militare - reggimento, divisione, corpo d ’ar­ mata o armata che fosse - che era dislocata negli enormi territori del Nord. Quell’unità militare aveva a suo tempo costruito l’edi­ ficio dell’ospedale per proprio uso. Akimov non dimostrava i suoi cinquant’anni, era un tipo giovanile, curato, allegro. La sua alle­ gria contagiò anche Rjurikov. Aveva portato la moglie, malata: nessuno ci capisce niente e qui con i vostri dottori... - Provvedo immediatamente, - disse Rjurikov, telefonò e An­ na Petrovna apparve sulla porta con in viso l’espressione della piu completa disponibilità a eseguire gli ordini che le sarebbero stati impartiti. - Non abbia fretta, - disse Akimov. - Sono stato anch’io in cu­ ra qui. A chi vuol fare vedere mia moglie? - Ma direi a Stebelev. - Stebelev era il responsabile del repar­ to malattie interne. - No, disse Akimov. - Uno come Stebelev c’è l’ho anch’io. Vor­ rei che la facesse vedere al dottor Glušakov. - Va bene, - disse Rjurikov. - Ma il dottor Glušakov è un de­ tenuto. Non pensa che... - No, non penso niente, - disse con fermezza Akimov e i suoi occhi non sorridevano. Restò in silenzio. - Vede, il fatto è, - sog­ giunse, - che a mia moglie serve un medico, e non... - il colonnello lasciò in sospeso la frase. Mentre Anna Petrovna andava di corsa a ordinare lasciapassa­ re e convocazione per Glušakov, il colonnello Akimov presentò sua moglie a Rjurikov.

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Di li a poco portarono dal lager Glušakov, un vecchio rugoso dai capelli candidi. - Salve, professore, - disse Akimov, alzandosi e tendendogli la mano, - ecco, avrei un favore da chiederle. Glušakov propose di visitare la donna nella sezione sanitaria del lager («li ho tutto a portata di mano, qui non saprei da dove cominciare»), e Rjurikov chiamò al telefono il suo vice che era re­ sponsabile per il settore lager dicendogli di preparare i lasciapas­ sare per il colonnello e sua moglie. - Stia a sentire, Anna Petrovna, - disse Rjurikov alla segreta­ ria, quando gli ospiti se ne furono andati. - E vero che Glušakov è un tale specialista ? - Beh, da fidarsi piu di lui che dei nostri di sicuro, - ridacchiò Anna Patrovna. Il tenente colonnello Rjurikov sospirò. Ogni giorno vissuto aveva per Rjurikov una coloritura partico­ lare, irripetibile. C ’era il giorno della rinuncia, della perdita, e quel­ lo della sfortuna, bontà, comprensione, diffidenza, collera... Tut­ to ciò che avveniva in quel dato giorno aveva un carattere deter­ minato e qualche volta Rjurikov riusciva perfino ad adattare le proprie decisioni, i propri atti a questo «sfondo» apparentemente indipendente dalla sua volontà. Quello odierno era il giorno dei dubbi, delle delusioni. L ’osservazione del colonnello Akimov aveva toccato qualcosa di importante, di fondamentale nella vita attuale di Rjurikov. Si era aperta una finestra, alla cui esistenza Rjurikov prima non si era mai risolto a pensare. Non solo, dunque, quella finestra esisteva, ma attraverso di essa si poteva vedere ciò che Rjurikov prima di allora non aveva mai visto o notato. Quel giorno ogni cosa sembrava voler confermare quello che aveva detto Akimov. Il nuovo responsabile pro tempore del repar­ to di chirurgia, dottor Braude, comunicò che gli interventi di oto­ rinolaringoiatria fissati per quel giorno dovevano essere rimandati perché la dottoressa Adelaida Ivanovna Simbirceva - orgoglio di tutto l’ospedale, diagnostica di rara finezza e virtuosa della chirur­ gia (era una specialista di una certa età, allieva del celebre Vojaček, e non lavorava li da molto) - perché dunque la Simbirceva « s ’era rimpinzata di stupefacenti», secondo l’espressione di Braude, e in quel momento stava dando in ismanie nell’accettazione del repar­ to di chirurgia. Mandava in frantumi ogni oggetto di vetro che le capitasse tra le mani. Cosa si doveva fare ? Si poteva legarla, chia­ mare qualche soldato della scorta e portarla nel suo appartamento ?

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Il colonnello Rjurikov ordinò di non legarla, di farla star zitta imbavagliandole la bocca con il suo scialle, riportarla a casa e la­ sciarla Il dopo aver chiuso a chiave. Oppure versarle in gola qual­ cosa di ipnotico - del cloralio, ma assolutamente una dose doppia - e portarla via addormentata. Però se ne dovevano occupare dei collaboratori liberi salariati, i lagemiki andavano tenuti fuori dal­ la faccenda. Nel reparto di neuropsichiatria un malato aveva ammazzato il suo vicino di letto con un ferro acuminato. Il dottor Pëtr Ivanovič, il responsabile di reparto, riferì che l’omicidio era legato a una sanguinosa faida tra gruppi criminali, entrambi i malati - sia la vit­ tima che l’assassino - erano delinquenti abituali. Nel reparto malattie interne di Stebelev, l’economo, un dete­ nuto aveva rubato e venduto quaranta lenzuola. Il delegato L'vov le aveva già recuperate: erano nascoste sotto una barca capovolta in riva al fiume. La responsabile del reparto femminile esigeva che la sua razio­ ne alimentare fosse parificata a quella dei graduati e della questione era stata investita la capitale. Ma la cosa piu sgradevole di tutte fu quella che gli comunicò il suo vice per il lager, Anisimov. Questi, sprofondato nel comodo divano dello studio del direttore, aveva aspettato che il flusso dei visitatori si esaurisse. E quando restarono soli disse: - E cosa ne facciamo, Vasilij Ivanovič, di Ljusja Popovkina? - Quale Ljusja Popovkina ? - Ma come, non sa niente ? Saltò fuori che era una detenuta, una ballerina, con la quale se la intendeva il precedente direttore, Semën Abramovič Smolokurov. Adesso («da quasi un mese», pensò Rjurikov) è lf che aspet­ ta, senza lavoro, in mancanza di disposizioni. Rjurikov senti l’impulso di lavarsi le mani. - Quali disposizioni ? Mandatela immediatamente fuori dai piedi. - La trasferiamo in una zona di punizione ? - E perché di punizione, poi ? E colpevole di qualcosa ? Tu piut­ tosto, una nota di biasimo non te la leva nessuno, un mese intero senza lavoro, e tu cosa guardavi ? - La tenevamo da conto, - disse Anisimov. - Da conto? Cosa intende dire? - E Rjurikov si alzò e comin­ ciò ad andare su e giu per la stanza. - Immediatamente, domani stesso la faccia andare via.

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Mentre si inerpicava per la stretta scaletta di legno che porta­ va al primo piano dove abitava il medico capo Antonina Sergeev­ na, Pëtr Ivanovič considerava che nei due anni in cui avevano la­ vorato insieme in quell’ospedale non era mai stato invitato una volta in quella casa. Quando credette di aver intuito il motivo per il quale l’avevano invitato, sogghignò. Beh, quell’invito equivale­ va a essere introdotto - lui ex detenuto - nel locale «giro delle per­ sone che contano». Pëtr Ivanovič non capiva la gente come Rjurikov, e non capendola la disprezzava. Quello del nuovo capo gli sembrava solo un modo diverso per far la solita carriera, il siste­ ma dell’«onesto» per modo di dire e tra virgolette, che giocando la carta dell’«onestà» mira né più né meno alla poltrona della di­ rezione sanitaria. E per questo rompe tanto, fa il di piu, atteg­ giandosi a verginella. Pëtr Ivanovič aveva visto giusto. La stanza era affollata e pie­ na di fumo. C ’era il medico radiologo, e Mostovoj, e il ragioniere capo. Quanto a Antonina Sergeevna era impegnata a versare da una teiera in alluminio dell’ospedale del tè, caldo e leggero. - Entri, Pëtr Ivanovič, - disse, quando il neurologo si fu tolto la mantella di tela cerata. - Cominciamo, - disse Antonina Sergeevna, e Pëtr Ivanovič pen­ sò: «É ancora passabile» e cominciò a guardare dall’altra parte. Il capo del lager disse: - «Vi ho chiamati, signori (Mostovoj aggrottò la fronte) per co­ municarvi una spiacevolissima notizia»4. Tutti risero, e rise anche Mostovoj, pensando come gli altri che fosse qualcosa di letterario. Questo pensiero lo tranquillizzò, ché la parola «signori» non man­ cava mai di allarmarlo, anche quando si trattava di un’arguzia o di un lapsus5. - Cosa contiamo di fare ? - disse Antonina Sergeevna. - Un an­ no cosi e ci ridurremo tutti in miseria. E lui è venuto per tre an­ ni. Ha proibito a tutti quanti di prendere la domestica tra i dete­ nuti. E cosi queste povere ragazze dovranno soffrire ai lavori ge­ nerali. Perché ? dico io. Per colpa di chi ? Per colpa di quello. Della legna non vai neppure la pena di parlare. Lo scorso inverno non ho messo sul libretto neanche un rublo. In fin dei conti, ho dei fi­ gli da tirare su. 4 Sono le parole con le quali, nella commedia L'ispettore di Gogol', il podestà annun­ cia ai maggiorenti della cittadina che è in arrivo da Pietroburgo un ispettore in incognito. 5 La rivoluzione ha abolito i «signori» e in epoca sovietica ci possono essere solo i «compagni» (di partito) e, quando si devono mantenere le distanze, i «cittadini».

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- Tutti abbiamo dei figli, - disse il ragioniere capo. - Ma cosa si può fare nel caso specifico ? - Avvelenarlo, e che vada a farsi fottere, - bofonchiò Mostovoj. - Abbia la compiacenza di non usare espressioni del genere in mia presenza, - disse il ragioniere capo. - In caso contrario sarò costretto a riferire a chi di dovere. - Scherzavo. - Abbia la compiacenza di astenersi da simili scherzi. Pëtr Ivanovič alzò la manov. - Dobbiamo far venir qui Curbakov. E lei, Antonina Sergeev­ na, deve parlargli. - E perché io? - Antonina Sergeevna arrossi. Il maggiore del servizio medico Curbakov - capo della direzione sanitaria - era famoso per la sua dissolutezza senza freni e per come sapeva reg­ gere l’alcol nelle gozzoviglie. Quasi in ogni giacimento c’erano dei figli suoi: avuti dalle dottoresse, infermiere diplomate e non, e in­ servienti. - Perché è meglio cosi. E spieghi al maggiore Curbakov che il tenente colonnello Rjurikov ambisce al suo posto, è chiaro? Gli dica che lui, il maggiore, è membro del partito da ieri 0 ieri l’al­ tro, mentre Rjurikov... - Rjurikov è membro del partito dal 1917, - disse, sospirando, Mostovoj. - Ma cosa se ne farebbe del posto di Curbakov? - Bah, lei non capisce proprio niente. Pëtr Ivanovič ha perfet­ tamente ragione. - E se invece gli scrivessimo, a Curbakov ? - E la lettera chi la porta? Chi non è affezionato all’unica te­ sta che ha sul collo ? E se poi il nostro corriere viene intercettato o, piu semplicemente, si presenta direttamente allo studio di Rju­ rikov con la lettera in mano? Ci sono dei precedenti. - E per telefono ? - Per telefono si può solo invitarlo. Sa bene che Smolokurov faceva ascoltare le telefonate. - Beh, ma questo non lo fa. - Va’ a saperlo. In una parola, cautela e azione, azione e cau­ tela... [1963]. Podpolkovnìk m edicìnskoj sluzby, in Salamov, Percatka, ili K R -2 cit.

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sto il motivo per cui non aveva saputo spiegare come gli fosse ca­ pitato nell’esofago quello che al tatto sembrava un osso piuttosto grosso, e che adesso gli premeva a quel modo la trachea: non lo la­ sciava neanche parlare se non con un sussurrio sforzato. Con quel corpo estraneo nell’esofago, Kononov sarebbe potu­ to senz’altro arrivare fino a Magadan, dove alla direzione non man­ cavano medici in grado di aiutarlo... Ma Kononov lavorava al voenkomat da quasi un anno e aveva sentito parlare molto bene dell’ospedale della Riva sinistra, un grande complesso sanitario per detenuti. I dipendenti dell’ospedale, uomini e donne, conserva­ vano il proprio libretto militare presso Kononov. Quando l’osso gli si era messo di traverso in gola ed era apparso evidente che nes­ suna forza l’avrebbe spostato di lì senza l’intervento dei medici, Kononov aveva preso la macchina e si era recato all’ospedale per detenuti sulla riva sinistra. Il direttore dell’ospedale era all’epoca Vinokurov. Questi com­ prendeva bene quanto avrebbe guadagnato in prestigio l’ospeda­ le, alla direzione del quale era appena stato nominato, se l’opera­ zione avesse avuto un buon esito. Tutte le speranze erano riposte nell’allieva di Vojaček, poiché neanche a Magadan c’erano spe­ cialisti di quel calibro. Purtroppo, la Novikova aveva lavorato an­ che a Magadan circa un anno prima: «Trasferimento al Riva sini­ stra o licenziamento dal Dal'stroj». «Al Riva sinistra, al Riva si­ nistra», aveva strillato la Novikova convocata all’ufficio persona­ le. Prima di Magadan, aveva lavorato ad Aldan, prima di Aldan a Leningrado. E ogni volta la cacciavano, sempre piu a Nord. Cen­ to promesse, mille giuramenti infranti. All’ospedale Riva sinistra si era trovata bene, e aveva deciso di tener duro. Che Anna Ser­ geevna fosse dotata di qualità professionali non comuni traspari­ va da ogni sua osservazione. Visitava indifferentemente i «liberi» e i detenuti, accompagnava i malati, eseguiva interventi, parteci­ pava a consulti e d ’un tratto ricominciava con il bere, i malati re­ stavano abbandonati a loro stessi, i «liberi» ripartivano e al sanamento dei detenuti provvedeva l’infermiere. Anna Sergeevna non si faceva neanche pili vedere nel reparto. Ma quando Kononov arrivò e risultò chiaro che s’imponeva un’operazione d’urgenza, venne dato l’ordine di rimettere in pie­ di Anna Sergeevna. Una complicazione consisteva nel fatto che la degenza di Kononov non poteva essere breve. L ’asportazione del corpo estraneo era un’operazione di chirurgia «pulita», non c’e­ rano suppurazioni in atto. Naturalmente nel grande ospedale c’e­ rano due reparti di chirurgia: quella per interventi in presenza di

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processi suppurativi e quella «pulita», e anche il personale era di due tipi: nel reparto «pulito» un po’ piu competente, nell’altro un po’ più scarso. Bisognava anche seguire il processo di rimarginazione della ferita, tanto piu che interessava l’esofago. Natural­ mente per il commissario si sarebbe trovata una camera singola. Kononov non voleva trasferirsi a Magadan, nella capitale della Kolyma i suoi gradi di tenente colonnello l’avrebbero aiutato ben poco. Certo, l’avrebbero accettato, ma non sarebbe stato oggetto di attenzioni né di cure particolari. Laggiù c’erano fior di genera­ li e mogli di generali, e i medici erano troppo occupati a darsi da fare attorno a loro. A Magadan, Kononov sarebbe morto. Certo che morire a quarant’anni per un maledetto osso nella strozza... Kononov aveva firmato tutte le carte che gli avevano presentato, e sottoscritto ogni cosa che gli chiedevano. Capiva anche lui che era questione di vita o di morte, della sua vita e morte, e non si dava pace: - Opererà lei, Valentin Nikolaevič? - Si, io, - diceva non molto convinto Traut. - E allora, cosa stiamo aspettando ? - Aspettiamo ancora un giorno. Kononov non ci capiva niente. Lo alimentavano attraverso il naso, immettendo dei cibi liquidi, e se era scritto che doveva mo­ rire non sarebbe stato per fame. - Domattina la visiterà anche un altro medico. Avevano accompagnato al suo lettino una dottoressa. Le sue dita esperte avevano subito trovato l’osso e l’avevano sfiorato sen­ za quasi fargli male. - Beh, Anna Sergeevna ? - Facciamo domani mattina. Con quel tipo di operazione c’era un trenta per cento di esiti mortali. Ma Kononov ne usci e occupò la stanza che avevano pre­ parato per la sua degenza postoperatoria. L ’osso si rivelò di cosi grosse dimensioni che Kononov, quando glielo lasciarono nella stanza in un bicchiere per qualche ora, si vergognava a guardarlo. Egli riposava nella sua stanzetta e il direttore gli portava di tanto in tanto i giornali. - Va tutto bene. Kononov era ricoverato in una stanza minuscola che contene­ va a malapena un letto. I giorni previsti per il controllo del decor­ so passavano uno dopo l’altro, tutto procedeva a meraviglia - non si poteva desiderare di meglio - la competenza dell’allieva di Vojaček s’era fatta valere nuovamente, ma c’era qualcosa che po­

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tessero fare per il tedio opprimente che l’aveva preso? Un dete­ nuto, un galeotto può ancora costringere questo sentimento in cor­ nici per cosi dire materiali, può padroneggiarlo meglio con l’aiuto della scorta, delle inferriate, degli appelli e controlli, della distri­ buzione del cibo, ma il povero tenente colonnello? Kononov si consigliò con il direttore dell’ospedale. - Mi aspettavo da tempo che me lo chiedesse: un uomo è sem­ pre un uomo. Certo, una noia mortale. Ma non posso farla dimet­ tere prima di un mese perché il rischio è troppo elevato e i margi­ ni di successo troppo esigui perché non si adottino le massime pre­ cauzioni. Posso autorizzarla a trasferirsi in una camera per detenuti, ci saranno quattro persone, e lei sarà il quinto. Tra l’al­ tro gli interessi dell’ospedale e i suoi in questo modo raggiunge­ ranno un perfetto punto di equilibrio. Kononov accettò senza indugio. Era una buona soluzione. L ’uf­ ficiale non temeva i detenuti. L ’esperienza dell’ospedale lo aveva convinto che i detenuti erano delle persone come le altre e che non si sarebbero messi a morderlo, non l’avrebbero confuso, lui che era il tenente colonnello Kononov, con qualche cekista o pubbli­ co ministero, dopotutto era un alto ufficiale, un graduato di car­ riera. Lui, il tenente colonnello Kononov, non aveva però nessu­ na intenzione di studiare, di osservare i nuovi vicini. Era sempli­ cemente stufo di starsene da solo, tutto qui. Per molte settimane ancora il colonnello con indosso la vesta­ glia grigia dei ricoverati andò su e giu per il corridoio. La vestaglia era di quelle in dotazione ai detenuti. Attraverso la porta aperta mi capitò anche di vederlo, sempre avvolto nella solita vestaglia, tutto intento ad ascoltare uno dei soliti «romanzieri». Io allora ero capoinfermiere al reparto di chirurgia, ma poi mi trasferirono a lavorare nella foresta. Così Kononov era uscito dalla mia vita, come altre migliaia di persone, lasciandomi tracce appena percettibili nella memoria, una simpatia a malapena avvertita. Ci fu un’altra occasione, a un convegno medico, in cui sentii parlare di Kononov; a farlo era stato il relatore, il nuovo primario dell’ospedale, il maggiore medico Korolév. Ex combattente, non disdegnàva mai una buona bottiglia e qualche buon bocconcino d’accompagnamento. Come primario non durò molto a lungo non poteva trattenersi dall’accettare piccoli donativi, dal mandar giu un bicchierino di alcol attinto alla dotazione ospedaliera - e dopo un affare che fece scalpore fu degradato e rimosso, poi ven­ ne assunto di nuovo riemergendo come direttore, stavolta alla se­ zione sanitaria della Direzione del Nord.

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Nel dopoguerra sulla Kolyma e il Dal'stroj si riversò, in cerca di soldi facili, un flusso di avventurieri e millantatori che, na­ scondendosi sotto nomi falsi, cercava di sottrarsi a tribunali e pri­ gioni. A un certo punto venne assunto come direttore dell’ospedale un certo Alekseev, che portava l’ordine della Stella Rossa e le spal­ line di maggiore. Una volta Alekseev venne a piedi a visitare la mia infermeria nella foresta, ma non mi fece nessuna domanda e riprese la strada del ritorno. Il mio settore forestale era a venti chi­ lometri dall’ospedale. Ebbe appena il tempo di ritornare che, quel giorno stesso, fu arrestato da gente venuta da Magadan. Alekseev venne processato per uxoricidio. Non era né medico, né militare ma era riuscito grazie a documenti falsi a svignarsela da Magadan strisciando fino ai cespugli della nostra riva sinistra e nasconden­ dosi li. L ’onorificenza, le spalline: era tutto falso. Ancor prima, all’ospedale Riva sinistra arrivava spesso il capo della sezione sanitaria della Direzione del Nord. Il suo posto sa­ rebbe stato poi preso, come ho avuto modo di ricordare, da quel primario affezionato alla bottiglia. Al visitatore, uno scapolo sem­ pre vestito molto bene e abbondantemente profumato, venne con­ sentito di fare un corso di perfezionamento e di assistere agli in­ terventi in sala operatoria. - Ho deciso di riqualificarmi come chirurgo, - sussurrava con un sorriso di condiscendenza Pal'cyn. I mesi passavano, nei giorni previsti per le operazioni Pal'cyn arrivava con la propria macchina da Jagodnyj, centro della Dire­ zione del Nord, pranzava dal direttore, ne corteggiava con discre­ zione la figlia. Il nostro Traut si accorse che Pal'cyn non sembrava conoscere molto bene la terminologia medica, ma si sa: il fronte, la guerra; insomma tutti gli credevano e iniziavano di buon grado il nuovo capo ai segreti degli interventi chirurgici, e tanto piu ai ru­ dimenti di cose come la diuresi. E improvvisamente Pal'cyn fu ar­ restato: era un altro caso di omicidio, stavolta al fronte, e Pal'cyn non era neppure dottore ma un Polizaf che cercava di nascon­ dersi. Tutti si aspettavano che anche con Korolév succedesse qualco­ sa di analogo. E invece no, tutto quanto lo riguardava - decora­ zione, tessera del partito, grado - era a posto. Sicché, proprio questo Korolév, all’epoca primario all’Ospeda-1 1 Storpiatura popolare del tedesco Polizei , indicava i collaborazionisti dei Tedeschi nei territori occupati.

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le centrale, tenne a un convegno medico quella relazione di cui di­ cevo. La relazione non era né peggiore né migliore delle altre. Fat­ ta eccezione, forse, per quella di Traut che era anche un vero in­ telligent, allievo del chirurgo Krauze a Saratov. Ma la spontaneità, la sincerità, la democraticità trovano eco in qualsiasi cuore, perciò, quando il primario, capo di tutti i chirur­ ghi dell’ospedale Riva sinistra, iniziò a raccontare con gran gusto l’impresa chirurgica durante una conferenza scientifica, per ascol­ tare la quale erano convenuti specialisti da tutta la Kolyma... - Avevamo un paziente che aveva inghiottito un osso, ecco un osso cosi, - e Korolëv lo mostrò. - E cosa credete, glielo abbiamo asportato. I medici sono presenti e anche il paziente. In realtà il paziente non c’era. Di li a poco mi ammalai, venni trasferito a lavorare a una komandirovka nella foresta, poi dopo un anno tornai all’ospedale a dirigere l’accettazione e quasi subito, for­ se il terzo giorno, vidi arrivare proprio li il colonnello Kononov. Il colonnello fu straordinariamente felice di vedermi. La direzione dell’ospedale era tutta cambiata e Kononov non aveva trovato nes­ suno di quelli che conosceva. Cosi era stato doppiamente felice di incontrare colui che riteneva un buon conoscente. Feci per lui tutto quello che potevo: radiografie, un promemo­ ria per i medici, telefonai al direttore e gli spiegai che si trattava del protagonista della famosa operazione della riva sinistra. Ko­ nonov risultò essere in buona salute e prima di ripartire passò a sa­ lutarmi all’accettazione. - Ti devo un regalo. - Non prendo regali. - Ma quella volta avevo portato regali per tutti, per il diretto­ re, i chirurghi, l’infermiera, perfino i miei compagni di stanza, ai chirurghi dei tagli di stoffa per abiti. Ma a te non ho fatto a tem­ po a dar niente, non ti ho piu trovato. Voglio sdebitarmi. Dei sol­ di allora, ti torneranno comunque utili. - Non prendo regali. - Beh, almeno una bottiglia di cognac, te la porto la prossima volta. - Non voglio neanche il cognac, faccia a meno di portarlo. - Che cosa posso fare per te. - Niente. Kononov doveva tornare in radiologia e l’infermiera, una «li­ b e r a t ile era venuta a prenderlo, disse: - E il commissario di leva, vero ? - S i. - Vedo che lo conosce bene.

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- Si lo conosco, è stato ricoverato qui. - Gli chieda, visto che per lei stesso non ha bisogno di niente, se mi può mettere il visto di registrazione sul libretto militare. Io sono del komsomol, un’opportunità come questa di evitare un viag­ gio di trecento chilometri è un vero dono del cielo. - D ’accordo, glielo dirò. Kononov tornò e gli esposi la richiesta dell’infermiera. - Dov’è? - E li che aspetta. - Beh, dammi il libretto, non ho con me i timbri, comunque lo riporto fra una settimana, dovrò passare da queste parti e lo ri­ porto. - E Kononov si infilò il libretto in tasca. Una macchina co­ minciò a rombare all’ingresso. Passò una settimana e il commissario di leva non arrivò. Due settimane... Un mese... Dopo tre mesi l’infermiera venne da me per parlarmi. - Ah, che errore ho fatto! Dovevo... Sono caduta in un tranello. - Quale tranello ? - Non lo so, fatto sta che mi espellono dal komsomol. - E per quale motivo ? - Per aver intrattenuto dei rapporti con un nemico del popolo, e per essermi fatta sottrarre il libretto militare. - Ma se l’ha consegnato al commissario di leva! - No, non è andata cosi. L ’ho consegnato a lei, e lei al com­ missario oppure... E questo che vogliono stabilire al comitato. Nel­ le mani di chi l’ho lasciato, se a lei o direttamente al commissario. Io ho detto a lei. Non è così? - Si lo ha dato a me, ma io l’ho trasmesso in sua presenza al commissario. - Di questo non so niente. So solo che mi sta succedendo qual­ cosa di orribile, mi espellono dal komsomol, mi licenziano dall’o­ spedale. - Dovrebbe andare al commissariato di leva e li chiarire le cose. - Perdere due settimane ? Ma perché non ho fatto subito così ? - Quando va via ? - Domani. Di lì a due settimane incontrai in corridoio l’infermiera, piu ne­ ra di una nuvola temporalesca. - Beh, allora ? - Il commissario è tornato sul continente, si è licenziato. Ades­ so saranno guai per avere un nuovo libretto militare. Ma, quanto

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a lei, farò in modo che la caccino dall’ospedale, a un giacimento di rigore deve finire. - Ma io cosa c’entro ? - E chi, se no ? Ë un tranello ben congegnato, così mi hanno spiegato all’Mvd. Cercai di dimenticare questa storia. In fin dei conti nessuno mi aveva ancora accusato di niente e non ero stato convocato, né in­ terrogato da nessuno, ma la figura del colonnello Kononov si tin­ se nel ricordo di certe nuove sfumature. Una notte improvvisamente mi chiamarono al posto di guardia. - Eccolo, - gridava dall’altra parte della sbarra il colonnello Ko­ nonov. - Dica che mi facciano passare! - Passi. A quel che dicono, è in partenza per il continente. - Contavo di prendermi un periodo di ferie, ma non me l’han­ no concesso. Così mi sono fatto liquidare e mi sono licenziato. Per sempre. Parto. Sono passato a salutarla. - Solo per questo ? - No. Quando ho passato le consegne, in un angolo della scri­ vania ho trovato un libretto militare, e non riuscivo in alcun mo­ do a ricordare dove l’avessi preso. Fosse stato il tuo, mi sarei ri­ cordato. E da quella volta non ero piu passato da queste parti. Ec­ co, adesso è tutto a posto: il timbro, la firma. Pensaci tu a con­ segnarlo a quella signora. - No, - dissi. - Glielo dia lei di persona. - Come sarebbe? É notte. - Mando qualcuno a tirarla giu dal letto. Ma la consegna, com­ pagno Kononov, va fatta personalmente. L ’infermiera arrivò di corsa e Kononov le consegnò il docu­ mento. - Troppo tardi, ho già inoltrato tutte le richieste per averne uno nuovo, mi hanno anche espulsa dal komsomol. Aspetti, scri­ va quattro parole su quello che è successo, qui su questo modulo. - Chiedo scusa. E sparì nella nebbia gelata. - Beh, complimenti. Nel ’37 per scherzetti del genere l’avreb­ bero fucilata, - mi disse con cattiveria l’infermiera. - Sì, - risposi io, - e lei insieme a me. 1970-71. Voennyj komissar, in Šalamov, Percatka, ili KR-2 cit.

Riva-Rocci

La morte di Stalin non suscitò alcuna nuova speranza nei cuo­ ri induriti dei detenuti, non dette nuovo slancio a quegli usurati motori che non riuscivano più a pompare nelle ispessite arterie un sangue sempre piu denso. Ma su tutte le frequenze radiofoniche, riflettendosi nell’eco molteplice delle montagne, della neve, del cielo, si insinuava in ogni pertugio, sotto ogni tavolaccio dell’esistenza quotidiana di noi detenuti, una parola, una parola importante che prometteva di risolvere in un modo o nell’altro tutti i nostri problemi: vuoi de­ cretando che i giusti erano peccatori, vuoi con la sanzione dei re­ probi, o infine con la scoperta di un sistema indolore per rimet­ terci in bocca i denti che ci avevano fatto sputare. Cominciarono a sentirsi e a circolare le solite classiche voci su un’imminente amnistia. In qualsiasi Stato, gli anniversari, che celebrino la prima o la trecentesima ricorrenza di qualcosa, l’incoronazione di un erede, l’avvicendamento delle autorità o perfino di questo o quel gover­ no, quando vengono calati dalle altitudini superne nel sotterranep mondo dei detenuti, si traducono in una cosa sola, l’amnistia. E questa la classica forma dell’incontro tra l’eccelso e l’imo. L ’amnistia ha anche un altro risvolto, ed è quello della tradi­ zionale parala o panzana, alla quale tutti finiscono per credere: di tutte le speranze dei prigionieri quella legata all’amnistia è la piu burocratica. Il governo, rispondendo alle tradizionali aspettative, fa da par­ te sua il tradizionale passo: proclama appunto l’amnistia. Neppure il governo dell’epoca poststaliniana si scostò da quel­ lo che era l’uso. Parve ad esso che il compimento di quell’atto tra­ dizionale, la ripetizione del nobile gesto che era stato degli zar, si­ gnificasse assolvere in qualche modo un dovere morale nei con­ fronti dell’umanita, e che già il solo fatto del provvedimento, indipendentemente dalle modalità assunte, lo rendesse per signi­ ficato e sostanza consono alla tradizione.

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Ogni nuovo governo dispone, per mettersi a posto la coscien­ za, di un vecchio e tradizionale istituto che è appunto l’amnistia, e non applicarla significa non ottemperare a un dovere che si ha nei confronti della storia e del paese. Per non derogare al classico modello, fervevano, addirittura con procedure urgenti, i preparativi. Berija, Malenkov1e Vysinskij avevano mobilitato giuristi fida­ ti e meno fidati dando loro l’idea dell’amnistia: il resto era soltanto una questione di tecnica burocratica. Dopo il 5 marzo 19531 2l’amnistia raggiunse alla Kolyma persone che per tutta la guerra avevano subito il moto oscillatorio del desti­ no carcerario, dalla cieca speranza alla delusione piu cocente: a ogni sconfitta e a ogni successo sui campi di guerra. E non c’era persona cosi lungimirante e saggia da poter stabilire che cosa convenisse mag­ giormente al detenuto, in che cosa potesse riporre le sue speranze di salvezza: se nella vittoria o nella sconfitta del paese. L ’amnistia raggiunse i trockisti ancora in vita e i litemiki scam­ pati alle fucilazioni di Garanin, sopravvissuti al freddo e alla fame nei giacimenti d’oro della Kolyma del ’38, i campi di sterminio sta­ liniani. Raggiunse tutti coloro che non erano stati uccisi, fucilati, pic­ chiati a morte, percossi con i calci dei fucili e calpestati dagli sti­ vali di guardie, capisquadra, ripartitori della manodopera e capo­ rali, tutti coloro che erano scampati pagando per la vita quello che c’era da pagare, senza sconti: con doppi, tripli supplementi di pe­ na da aggiungersi ai cinque anni che ogni detenuto si era portato alla Kolyma da Mosca... Alla Kolyma non c’era nessun condannato in base all’articolo 58 che avesse da scontare solo cinque anni. C ’erano stati, è vero, dei detenuti condannati a cinque anni: uno strato esiguo, sottilis­ simo rispetto alla massa complessiva. Q uelkloro condanna del 1937 era precedente all’incontro di Berija e Zdanov3 con Stalin, svoltosi nella dacia di quest’ultimo nel giugno del 1937, quando le 1 Georgi] Malenkov (1902-88), dopo la morte di Stakin, dal 1953 al 1955 fu presidente del Consiglio dei ministri, ma nella lotta per il potere ChruScëv lo accusò di fare parte del «gruppo antipartito»; venne destituito ed espulso dal partito. 2 II giorno della morte di Stalin. 3 Andrej Zdanov (1896-1948), fu tra i collaboratori piu fidati di Stalin; dal 1934 se­ gretario del CC del partito comunista sovietico, dal 1944 segretario del CC per le questioni ideologiche condusse una lotta spietata contro le «deviazioni borghesi» di artisti e lettera­ ti (il famoso intervento contro Zoščenko e Achmatova e la chiusura delle riviste «Zvezda» e «Leningrad»).

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pene di cinque anni finirono nel dimenticatoio e venne autorizza­ to il ricorso negli interrogatori al «metodo numero tre» per l’ac­ quisizione delle prove. Ma all’inizio del conflitto e negli anni di guerra di quel breve elenco, di minuscola porzione di condannati a un quinquennio di pena non ne era rimasto uno che non avesse avuto il suo supple­ mento di dieci, quindici, venticinque anni. E ce n’erano poi alcuni, piu unici che rari, che non avevano ri­ cevuto l’aggiunta, non erano morti, finendo tra le pratiche dell’«ar­ chivio numero tre», ma erano stati da tempo liberati e assunti per ammazzare la gente: come caporali, sorveglianti, capisquadra, ca­ pisettore, negli stessi giacimenti d ’oro di prima, e per ammazzare i propri compagni di un tempo. Alla Kolyma, nel 1953, ci furono condanne a cinque anni solo in alcuni procedimenti per reati comuni. E neanche molto nume­ rosi. L ’inquirente non aveva avuto semplicemente voglia di tirare in ballo l’articolo 58. In altri termini: un procedimento istruito nel lager ha in sé tali requisiti di evidenza e chiarezza da rendere su­ perfluo il ricorso alla vecchia ma pur sempre minacciosa arma del­ l’articolo 58, quell’articolo universale che colpiva in modo equa­ nime, senza riguardi per il sesso o l’età. Il condannato in base al­ l’articolo 58 che aveva finito di scontare la pena detentiva e si trovava ora relegato a vita in quei luoghi, si industriava per far si che, se proprio dovevano beccarlo di nuovo, fosse almeno per qual­ cosa di universalmente rispettato - dagli uomini, da Dio e dallo Stato - come il furto o l’appropriazione indebita. In una parola, chi riusciva a farsi condannare per reati comuni anziché politici poteva anche essere contento. La Kolyma era il lager dei recidivi, e non solo dei recidivi po­ litici ma anche di quelli criminali. Il vertice della perfezione giuridica dell’epoca staliniana - da­ to dalla confluenza delle due scuole, dei due poli del diritto pena­ le: Krylenko e Vysinskij - consisteva negli «amalgami», nell’im­ pasto di due tipi di reato, penale e politico. E Litvinov4 nella sua famosa intervista in cui dichiarava che nell’Urss non c’erano de­ tenuti politici ma solo criminali colpevoli di delitti contro lo Sta­ to non aveva fatto altro che riecheggiare Vyšinskij. Trovare qualcosa di criminale e attribuirlo a un politico puro: ecco la vera sostanza deU’«amalgama». 4 Maksim Litvinov (1876-1951), dal 1918 al 1921 vicecommissario e dal 1930 al 1939 commissario agli Esteri; dal 1941 al 1943 ambasciatore negli Stati Uniti.

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Formalmente la Kolyma era - come Dachau - un lager spe­ ciale per recidivi, sia criminali che politici. Tant’è che li teneva­ no insieme. Per disposizione dall’alto. Sempre per disposizione superiore, motivata da considerazioni d ’ordine teorico e di prin­ cipio, Garanin trasformò a un certo punto i detenuti comuni e amici del popolo che si rifiutavano di lavorare da amici in nemi­ ci del popolo e li fece condannare per sabotaggio in base all’ar­ ticolo 58.14. Nella sua logica, era la cosa piu utile che potesse fare. Per i blatari piu importanti, nel ’38 questo significò la fucilazione mentre ai pesci piccoli dettero quindici, venti, venticinque anni. Li mise­ ro insieme ai fraera - quelli che erano dentro in base all’articolo 58 - dando in tal modo ai malavitosi la possibilità di vivere gli ultimi anni di vita in modo confortevole, a spese dei fraera, i «fessi» di sempre. Garanin non era per niente un estimatore dell'ugolovsčina, del mondo criminale. Tutto quel brigare con i recidivi era stato piut­ tosto una mania di Berzin, e Garanin aveva riveduto il lascito del suo predecessore anche sotto quest’aspetto. Come in un diascopio didattico - sotto gli occhi che avevano visto di tutto, e a tutto avevano fatto l’abitudine, dei direttori del­ le carceri, degli eroi dell’impresa concentrazionaria, degli entusia­ sti della galera - durante il decennio incollato alla guerra, quello dal ’37 al ’47, ora avvicendandosi, ora integrandosi come nell’e­ sperimento della fusione dei raggi colorati di Bič, apparivano e scomparivano gruppi, contingenti, categorie di detenuti, a secon­ da che il raggio della giustizia illuminasse questi o quelli: non era però una luce ma una falce, una spada che mieteva e tagliava teste in modo affatto reale. Nella macchia luminosa del diascopio, manovrato dallo Stato, apparivano i detenuti tout court, contrassegnati - dalla denomi­ nazione dei luoghi dov’erano costretti - con la sigla Iti, da non confondersi con gli Itr: lavoratori tecnici e ingegneri, mentre Iti significa campo di lavoro correzionale. Ma spesso l’analogia delle lettere era analogia di destini. Altro gruppo distinto, gli ex dete­ nuti, gli ex zeka: vasto gruppo sociale, marchiato a vita dalla pri­ vazione di diritti; e infine, simmetricamente, i detenuti del futu­ ro, tutti coloro i cui casi erano già stati messi in lavorazione ma non ancora rifiniti, e coloro i cui casi non erano ancora stati av­ viati alla produzione. In una canzone scherzosa che circolava tra gli ospiti degli isprav-

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dom, le «case correzionali» degli anni Venti - le prime colonie di lavoro forzato - l’anonimo autore, un Bojan5 o Pimen6 della reci­ diva penale, confrontava in versi il destino di chi era in libertà con quello del recluso nel correzionale concludendo che era il secondo a trovarsi nella situazione migliore: Nel nostro futuro c’è la libertà, ma nel vostro... chissà?

Lo scherzo diventò tutt’altro che uno scherzo negli anni Tren­ ta e Quaranta. Nelle alte sfere elaborarono i piani per trasferire nei lager i condannati alla relegazione e al confino, e la cosa ri­ guardava i ssyl'nye cui avevano appioppato la clausola del minus, da minus una a minus cinquecento città e cittadine o, come veni­ vano definite nelle disposizioni, «centri abitati». Tre fermi di polizia equivalevano nell’aritmetica classica a un’incriminazione. E due incriminazioni costituivano motivo giu­ ridicamente sufficiente per l’impiego della forza e l’invio dietro le sbarre, dietro al filo spinato. Nella sola Kolyma quell’anno i contingenti - ognuno con la sua direzione e il personale addetto - erano cinque: A, B, C, D, E. Il contingente « E » era costituito da «liberi» mobilitati su ba­ se volontaria nelle miniere di uranio, un segreto circondato alla Kolyma da una sorveglianza militare ben piu stretta di quella a suo tempo dedicata a un Bejdeman7. Accanto a una di queste miniere, alla quale per motivi di se­ gretezza non potevano accedere gli zeka detenuti, era situato il gia­ cimento Katoržnyj. Qui non solo era previsto per i reclusi il nu­ mero e il vestito a strisce, ma vigevano la forca e le sentenze capi­ tali applicate con tutti i crismi di legge. Accanto al giacimento Katoržnyj c’era una miniera del Berlag, che pur non essendo uno degli infernali Ktr, prevedeva comunque che il detenuto portasse un numero - una targhetta di latta - sul­ la schiena e l’accompagnamento di scorte particolarmente nutrite con doppio numero di cani. A un certo punto ci sarei dovuto andare anch’io, ma non se ne fece nulla, per il Berlag c’era una selezione in base alla scheda per­ 5 Bojan, leggendario aedo dell’antica Rus' (secoli xi -xii ), cantore della gloria dei prin­ cipi russi. 6 II monaco-cronista nella tragedia in versi, di Puškin, Boris Godunov. 7 Michail Bejdeman (1839-87), rivoluzionario russo, in Italia combattè con Garibaldi, a Londra lavorò nella tipografia di Herzen; tornato in Russia nel 1861, venne arrestato per via di un appello ad abbattere l’autocrazia, che portava con sé, e senza processo rinchiuso in isolamento per vent’anni; lasciò la fortezza per il manicomio.

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sonale. Invece molti miei compagni ci finirono, con il loro bravo numero sulla schiena. Va detto che in quei lager si stava meglio e non peggio rispet­ to agli Iti a regime normale. Nei lager a regime normale il detenuto era solo una preda in ba­ lia di malavitosi, sorveglianti e capisquadra-detenuti. Invece in quelli con il numero c’erano molti «liberi» tra gli addetti ai servi­ zi: il loro impiego era ad esempio consentito per la cucina e lo spac­ cio. Quanto al numero sulla schiena, era veramente il meno. L ’im­ portante era che a toglierti il pane di bocca e a farti sfiancare sul lavoro - cavandoti a bastonate il risultato necessario alla realizza­ zione del piano - non fossero i tuoi stessi compagni di pena. Lo Stato chiedeva agli «amici del popolo» di dargli una mano nel­ l’annientamento fisico dei nemici del popolo. E gli «amici» - ma­ lavitosi e detenuti per reati comuni - proprio questo facevano con impegno: ci annientavano nel vero senso fisico della parola. E sempre nei paraggi c’era anche un giacimento dove lavora­ vano dei condannati che avrebbero dovuto scontare la loro pena in prigione e non ai lavori forzati: ma per lo Stato la katorga era ben piu conveniente e cosi le loro condanne erano state commu­ tate nel lavoro all’«aria aperta» del lager correzionale. Chi scon­ tava la pena in carcere sopravviveva, nel lager moriva. Negli anni della guerra il rifornimento di contingenti freschi scese a zero. Le varie commissioni al lavoro negli stabilimenti pe­ nali del «continente», per ridurne l’affollamento preferivano man­ dare i detenuti al fronte - a espiare la propria colpa in una com­ pagnia di rinforzo - piuttosto che alla Kolyma. Cosi gli effettivi alla Kolyma si erano ridotti in modo cata­ strofico, anche se nessuno dei kolymiani era stato richiamato al fronte: non un solo detenuto aveva potuto tornare nella Grande Terra per andare al fronte benché naturalmente fossero parecchi - d’ogni articolo punto e comma, esclusi i blatarì - quelli che ave­ vano fatto richiesta in questo senso. La gente moriva di morte kolymiana naturale, e nelle vene del sistema dei lager speciali il sangue cominciò a circolare piu lenta­ mente, con saltuari sbalzi e trombi. Si ricorse allora, per immettere nuovo sangue in quel sistema circolatorio compromesso, ai «criminali di guerra». Nel ’45 e nel ’46 arrivarono, per essere smistati nei lager, interi piroscafi di repatrianty, novellini che venivano scaricati sulla riva rocciosa di Ma­ gadan in base a un semplice elenco, senza fascicoli personali né al­ tre formalità. Quelle formalità che talvolta stavano un passo in­

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dietro rispetto alla vita vissuta. Sopperiva allora, si è visto, l’e­ lenco: scritto su carta velina e stazzonato dalle mani sudicie dei soldati di scorta. Tutte queste persone (erano decine di migliaia) ritrovavano però una collocazione giuridica formalmente ineccepibile nella sta­ tistica del lager: bezuctniki, si chiamavano, vale a dire fuori ma­ tricola o non immatricolati. E qui, di nuovo, c’erano diversi contingenti: lo sbizzarrirsi del­ la fantasia giuridica di quegli anni attende ancora la sua specifica trattazione. C ’erano gruppi (molto consistenti) con condanne che erano in realtà formulate come «ordini di servizio»: «Sei anni per verifi­ che». A seconda della condotta che avrebbe tenuto, il destino del de­ tenuto sarebbe stato deciso nell’arco di ben sei anni passati alla Kolyma, un posto dove solo sei mesi costituivano una pena atro­ ce, mortale. La maggior parte di quei condannati a sei anni non resse alla fatica del lavoro forzato e coloro che sopravvissero vennero libe­ rati, tutti in un giorno solo, su decisione del X X Congresso del partito. Quei «fuori matricola» erano stati bensì spediti alla Kolyma senza documentazione di sorta, ma non furono di li in poi trascu­ rati dall’apparato giudiziario: squadre di inquirenti - apposita­ mente distaccate da Mosca al loro seguito - lavoravano giorno e notte sui loro casi. In angusti ricoveri interrati, nelle baracche kolymiane si succedevano senza sosta gli interrogatori dei condanna­ ti-inquisiti, poi da Mosca arrivavano le decisioni: a chi quindici, a chi venticinque e a chi la pena capitale. Non ricordo casi di per­ sone mandate assolte, ma non posso sapere tutto. Può anche dar­ si che qualcuno sia stato assolto e pienamente riabilitato. Tutti gli inquisiti compresi i fuori-matricola, in sostanza degli inquisiti anch’essi, erano costretti a lavorare secondo le leggi del­ la Kolyma: per tre rifiuti, la fucilazione. Erano approdati alla Kolyma, come si è visto, per rimpiazzare i trockisti morti o quelli ancora in vita, ma cosi esausti da non es­ sere in grado di cavare non dico un solo grammo d’oro dalla pie­ tra, ma un solo grammo di pietra dallo scavo. I traditori della patria e saccheggiatori vari riempirono le ba­ racche e i ricoveri interrati che si erano svuotati nel corso della guerra. Ripararono le porte, cambiarono le grate di baracche e co­ vili, rinnovarono i reticolati attorno alle zony, dettero una rinfre­

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scata a quei posti dove ancora nell’anno ’38 ferveva talmente la vita - ma sarebbe meglio dire: ferveva la morte. A parte il 58, c’era un altro particolare articolo che era alla ba­ se di molte condanne: il 192. Questo articolo 192, del tutto inos­ servato in tempo di pace, fiorì come un fiore rigoglioso alla prima cannonata, alle prime esplosioni e raffiche. A quell’epoca l’artico­ lo 192, come ogni articolo che si rispetti in consimili situazioni, cominciò a riempirsi di integrazioni e postille, commi e paragrafi. Apparvero immediatamente il 192.a, .b, .c, .d, .e, fino ad esauri­ re tutto l’alfabeto. Questo alfabeto denso di minaccia proliferò in parti e paragrafi. Così: 192.3, parte prima, paragrafo secondo. Ogni paragrafo si arricchì di postille e quel 192 dall’aspetto così modesto si gonfiò come un ragno, e il suo schema ricordava ormai un bosco intricato. Non c’era punto, parte, comma, lettera che non minacciasse una pena di almeno quindici anni e non prevedesse il lavoro coat­ to. Questa del lavoro costituiva la maggiore preoccupazione dei le­ gislatori. Il destino che attendeva alla Kolyma tutti i condannati in ba­ se all’articolo 192 era l’immutabile e nobilitante lavoro: lavori ge­ nerali per tutti, lavori di piccone, badile e carriola. Nonostante non si trattasse dell’articolo 58. Negli anni della guerra rifilavano quest’articolo a tutte quelle vittime della giustizia dalle quali non si riusciva a spremere né l’agitazione e propaganda antisovietica, né il tradimento, né il sabotaggio. Vuoi perché l’inquirente per mancanza di grinta si rivelasse non all’altezza, e, non compreso a sufficienza dei tempi e dei luoghi, non riuscisse ad affibbiare l’etichetta piu aggiornata al solito vec­ chio reato, vuoi perché la persona fisica si opponesse con tale ac­ canimento da venire a noia all’inquirente e ciononostante questi non si risolvesse a ordinare il ricorso al terzo grado negli interro­ gatori, fatto sta che il 192 fornì l’ideale misura di ripiego. Anche l’universo inquirente ha i suoi flussi e riflussi, le sue mode, le sue sotterranee lotte per la supremazia. La sentenza di condanna è sempre il risultato dell’azione con­ comitante di tutta una serie di fattori spesso esterni. La psicologia dell’arte inquisitoria non ha ancora trovato chi la descriva, non siamo neppure alla posa della prima pietra nell’ese­ gesi di questa importante struttura portante dell’epoca. Fu dunque in base all’articolo 192 che venne deportato alla Kolyma, con una condanna a quindici anni, Michail Ivanovič No­ vikov, un ingegnere edile di Minsk.

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L ’ingegner Novikov era un iperteso grave con un valore di mas­ sima, controllato con l’apparecchio Riva-Rocci, costantemente at­ torno ai duecentoquaranta. Per la sua grave ipertensione Novikov non poteva affrontare viaggi di trasferimento - era cioè un detenuto del tipo non tra­ sportabile - e viveva sotto la costante minaccia di un ictus cere­ brale o colpo apoplettico che dir si voglia. Questo lo sapevano sia a Minsk che a Magadan. Alla Kolyma vigeva il divieto di traspor­ tare malati gravi del suo tipo, anche per questo esistevano i con­ trolli sanitari. Ma a partire dal 1937, tutti gli enti sanitari di pri­ gioni, centri di smistamento e lager, su disposizione dall’alto, abo­ lirono ogni limitazione posta a salvaguardia di invalidi e anziani; per la tratta di traduzione Vladivostok-Magadan la direttiva ven­ ne data addirittura due volte e concerneva i detenuti di lager spe­ ciali, i Krtd e piu in generale i contingenti che erano destinati a vivere e soprattutto a morire alla Kolyma. Ai dirigenti del sistema kolymiano veniva proposto di provve­ dere autonomamente all’eliminazione delle scorie accumulate, se­ guendo lo stesso cammino burocratico, ma percorso in senso in­ verso: certificati, elenchi, commissioni mediche, trasferimenti, mi­ gliaia di atti. E in effetti di scorie ne furono rigettate indietro molte. Ven­ nero avviati alla volta dei giacimenti non solo debilitati gravi che si reggevano a malapena in piedi, non solo sessantenni schiantati anzitempo dalla fatica, ma anche malati di tisi e cardiopatici gra­ vi. In una compagnia del genere, un iperteso, con quella sua fac­ cia rossa, non sembrava per niente un malato, ma faceva la figura dello scansafatiche sano come un pesce che non voleva lavorare e si approfittava dello Stato, sbafando a ufo la razione che altri do­ vevano sudarsi. E uno scansafatiche dalla faccia rubiconda appariva agli occhi dei dirigenti anche il nostro ingegner Novikov, detenuto nel set­ tore di Baragon non lontano da Ojmjakon, dove si trovava - par­ liamo dell’estate del r953 - la Direzione dei lager di lavoro corre­ zionale dei cantieri stradali del Nord-Est. Purtroppo non tutti medici della Kolyma avevano a disposi­ zione un apparecchio Riva-Rocci, anche se tastare il polso, con­ tarne i battiti e sentirne l’andamento sarebbero dovute essere ope­ razioni alla portata - oltre che dei medici - di qualsiasi infermie­ re o inserviente sanitario. Gli apparecchi Riva-Rocci erano stati distribuiti a tutti i setto­ ri sanitari, insieme a termometri, bende e tintura di iodio. Ma nel

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posto medico che avevo appena rilevato come infermiere stipen­ diato - il mio primo lavoro da «libero» in dieci anni - non c’erano né termometro né bende. C ’era però il Riva-Rocci e, a differenza dei termometri, non era neanche rotto. Alla Kolyma, scaricare dal­ la dotazione un termometro rotto è un vero problema, al punto che finché l’operazione inventariale non è conclusa e registrata vengo­ no conservati tutti i frammenti di vetro, neanche si trattasse di re­ perti pompeiani o dei cocci di qualche ceramica ittita. I medici della Kolyma erano abituati a fare a meno non solo dell’apparecchio Riva-Rocci ma anche del termometro. Perfino al­ l’Ospedale centrale si ricorreva al termometro solo per i malati gra­ vi, agli altri la febbre veniva misurata «al polso» e lo stesso acca­ deva nei numerosissimi ambulatori del sistema. Tutto questo mi era ben noto. A Baragon potei constatare che il Riva-Rocci era perfettamente funzionante ma il mio predeces­ sore lo aveva lasciato inattivo. Ai corsi per infermiere ero stato istruito a dovere circa l’uso dell’apparecchio. L ’avevo impiegato un’infinità di volte sia du­ rante i corsi che quando ero stato incaricato di misurare la pres­ sione a tutta la popolazione delle baracche per invalidi. Dal lato del Riva-Rocci ero ferratissimo. Ricevetti le consegne: le liste degli assistiti, circa duecento per­ sone, i medicinali, lo strumentario, gli armadietti. Non si trattava di uno scherzo: ormai ero un infermiere «libero», anche se ex de­ tenuto; vivevo già all’esterno della zona, non piu in una «cabina» della baracca ospedaliera ma in un dormitorio per il «personale» all’esterno del recinto - quattro pancacci di assi appena sgrossate - molto piu povero, freddo e scomodo dell’angolino di cui dispo­ nevo nel lager. Ma dovevo andare avanti, guardare avanti. Questi insignificanti cambiamenti nella mia vita quotidiana non mi disturbavano piu di tanto. Non bevo comunque alcol e per il resto non c’era niente che esorbitasse da standard accettabili di vi­ ta, tanto piu per un detenuto o ex detenuto. II primo giorno di ambulatorio notai un uomo di una quaranti­ na d ’anni con indosso un giaccone da detenuto che si tratteneva vicino alla porta aspettando che terminassero le visite per poter evidentemente parlare con me senza testimoni. Rifuggivo questi incontri a quattr’occhi nel lager perché di solito si concludevano con la proposta di una regalia, e va detto che la promessa di un «regalino», e la regalia stessa, venivano dispensate cosi, a casac­ cio, per ogni evenienza. La cosa non è priva di un suo significato

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anche profondo, e un giorno mi piacerebbe affrontare il problema in tutti i dettagli. Quella volta a Baragon c’era però qualcosa nel tono del mala­ to che mi aveva indotto ad ascoltare la sua richiesta. L ’uomo mi chiese di essere visitato di nuovo, anche se un’ora prima aveva già passato la visita generale. - Il motivo della sua richiesta ? - E presto detto, infermiere, - disse l’uomo. - La questione è, cittadino infermiere, che sono malato e non mi danno l’esonero. - Vale a dire? - Ma sf, mi duole sempre il capo, sento le pulsazioni qui nelle tempie. Mi segnai il suo nome sul registro: Novikov Michail Ivanovič. Gli tastai il polso. Il ritmo era energico e irregolare, impossi­ bile contare i battiti. Sollevai perplesso gli occhi dalla clessidra contaminuti. - Sarebbe in grado, - mi sussurrò Novikov, - di utilizzare quel­ l’apparecchio? - e fece un cenno in direzione dell’angolo del ta­ volo, dove c’era il Riva-Rocci. - Certo. - E mi potrebbe misurare la pressione ? - Prego, anche subito. Novikov si affrettò a sfilare il giaccone, sedette accanto al ta­ volo e si rimboccò polsini e maniche, anzi - in mancanza di polsi­ ni, maniche e della stessa camicia - mi presentò braccia e spalle. Mi applicai alle orecchie il fonendoscopio. Sentii i battiti pre­ cipitosi del polso e vidi il mercurio del Riva-Rocci schizzare verso l’alto. Presi nota dei valori registrati dall’apparecchio: duecentosessanta su centodieci. L ’altro braccio! Il risultato fu lo stesso. Annotai in termini perentori sul registro: «Esonerare dal lavo­ ro. Diagnosi: ipertensione 260/1 io». - Vuol dire che domani posso non lavorare? - Certo. Novikov scoppiò in lacrime. - Cos’hai? Che storie sono? - Vede, infermiere, - disse Novikov, evitando di premettere «cittadino» quasi a volermi ricordare che ero stato anch’io un de­ tenuto, - quello prima di lei non sapeva usare l’apparecchio e di­ ceva che era guasto. E io soffro di ipertensione fin da Minsk, dal

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continente, da quando ero un uomo libero: mi hanno portato quag­ giù senza mai controllarmi la pressione. - Bene, per intanto hai l’esonoro, poi ti daranno il certificato di invalidità e potrai partire se non per la Grande Terra almeno per Magadan. Già il giorno dopo venni convocato nello studio di Tkačuk, il comandante del nostro Olp. Tkačuk era un sottufficiale e non avrebbe avuto titolo per il comando del lager mansione che pre­ vedeva il grado minimo di tenente. Ciò spiegava il particolare at­ taccamento di Tkačuk al posto che occupava. - Sicché hai esentato dal lavoro Novikov. L ’avevo già control­ lato io: è un simulatore. - Novikov non è un simulatore, è un iperteso. - Adesso convoco la commissione, il tempo di fare la telefona­ ta. Quella medica. Quando avrà dato il suo parere allora parlere­ mo di esonerarlo. - No, compagno comandante, - dissi io, rivolgendomi a Tkačuk da libero e libero, ormai mi riusciva più facile che dargli del «cit­ tadino comandante», come avrei fatto solo un anno prima. - No, compagno comandante. Intanto lo esonero dal lavoro, e lei con­ vochi la commissione medica della direzione. Questa potrà ap­ provare il mio operato o in caso contrario licenziarmi. Può anche farmi rapporto se crede, ma la pregherei di non interferire nella mia attività propriamente medica. E su questo si concluse la mia conversazione con Tkačuk. No­ vikov restò nella baracca e Tkačuk convocò la commissione della direzione. Essa era composta da due medici soltanto, entrambi mu­ niti di apparecchio Riva-Rocci, uno era di fabbricazione nostrana, uguale al mio, e l’altro giapponese, «bottino di guerra», con un manometro rotondo grande cosi. Ma l’uso del manometro non era un problema. Controllarono la pressione arteriosa di Novikov, i valori coin­ cisero con i miei. Compilarono il certificato di invalidità di No­ vikov e questi cominciò ad aspettare che si formasse una tradu­ zione di invalidi o che passasse un qualche convoglio che gli per­ mettesse di lasciare Magadan. Quanto a me, i dirigenti medici non si scomodarono neanche a ringraziarmi. Però gli altri detenuti della baracca di Novikov non restarono all’oscuro della mia battaglia con Tkačuk. Un altro settore nel quale mi stavo cimentando con successo era la liquidazione dei pidocchi, ottenuta con un metodo, speri-

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meritato nel corso della Seconda guerra mondiale, che avevo ap­ preso all’Ospedale centrale: il lavaggio con getti di vapore bollen­ te degli indumenti raccolti in fusti di benzina vuoti. E fu proprio quel sistema di disinfestazione applicato alle condizioni del lager, quel personale metodo antipidocchi caratterizzato da versatilità, rapidità ed efficacia a farmi in definitiva riconciliare con Tkačuk. Ma Novikov si annoiava, il trasferimento tardava. - Potrei fare qualche lavoretto leggero, - mi disse una sera che era venuto per una visita di controllo. - Se la richiesta partisse da lei. - Non lo farò, - dissi io. La questione Novikov era ormai di­ ventata una questione personale, che metteva in gioco il mio pre­ stigio di infermiere. Comunque, sia il dramma dell’iperteso che i prodigi del meto­ do sterminapidocchi vennero spazzati via da nuovi tempestosi ac­ cadimenti. Arrivò, come già si è detto, quell’amnistia che passò alla storia come amnistia di Berija. Il testo del provvedimento, stampato a Magadan, venne diffuso fin negli angoli pili remoti della Kolyma, affinché il popolo concentrazionario, edotto e riconoscente, sen­ tisse come un sol uomo apprezzamento, gioia e grata riverenza. L ’amnistia riguardava tutti i detenuti, ovunque si trovassero, e prevedeva la reintegrazione d ’ogni loro diritto. Era previsto il rilascio di tutti i detenuti dell’articolo 58 - d ’o­ gni punto, parte e paragrafo - dal primo all’ultimo e con il pieno ristabilimento dei diritti, purché le loro condanne fossero inferio­ ri ai cinque anni. Solo che cinque anni in base all’articolo 58 li si poteva pren­ dere solo ai primi incerti albori dell’anno ’37. E gli interessati era­ no morti, o erano stati liberati o avevano ricevuto un pena sup­ plementare. Le pene che Garanin aveva fatto infliggere ai malavitosi - per sabotaggio, articolo 58.14 - vennero revocate e i malavitosi rila­ sciati. Per tutta una serie di articoli riguardanti reati comuni ven­ nero disposte riduzioni di pena che quindi riguardarono anche i condannati in base all’articolo 192. I detenuti in base all’articolo 58 venivano esclusi dall’amnista se avevano subito una seconda incriminazione, ma il criterio del­ la recidività non veniva fatto valere per i delinquenti comuni. Era una tipica «rimescolata» staliniana. Non un solo uomo con una condanna iniziale in base all’arti­ colo 58 potè varcare le recinzioni dei lager. A meno che per «uo­

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mo» non si intenda quello che intendevano i malavitosi nel lo­ ro gergo. «Uomo» nella terminologia dei blatnye era appunto uno della loro confraternita malavitosa, un membro del mondo crimi­ nale. Fu questa dunque la principale conseguenza dell’amnistia di Berija. La staffetta staliniana continuava e Berija ne riceveva il te­ stimone. A essere rilasciati erano i soli blatari, che Garanin aveva a suo tempo perseguito in ogni modo. I delinquenti comuni liberati dall’amnistia di Berija uscivano «puliti» con la reintegrazione di tutti i diritti. Il governo vedeva in loro i veri amici e il sicuro sostegno di sempre. Un colpo a sorpresa, ma non certo per i detenuti dell’articolo 58, i quali a sorprese del genere avevano ormai fatto il callo. Un colpo a sorpresa sicuramente per l’amministrazione di Ma­ gadan, che si aspettava tutt’altra cosa, e un colpo da lasciar senza fiato per gli stessi blatari che si ritrovavano di punto in bianco il libero cielo azzurro sopra la testa. Per Magadan e per ogni villag­ gio della Kolyma cominciarono ad aggirarsi assassini, ladri, stu­ pratori, i quali, in ogni caso e circostanza, dovevano mangiare se non quattro almeno tre volte al giorno, e se non minestrone di ca­ voli con carne di montone almeno la kasa di orzo periato. Perciò la cosa piu sensata, la piu sensata e semplice al tempo stesso che potesse fare un dirigente dotato di senso, pratico era di predisporre in tempi brevi il trasporto, con destinazione finale il continente, la Grande Terra, di questo potente flusso. I tragitti possibili erano due: Magadan, poi via mare fino a Vladivostok, la classica via di questi kolymiani che per abitudini e linguaggio con­ servavano l’impronta dei loro progenitori galeotti, quelli spediti a Sachalin dallo zarismo e in particolare dallo zar Nicola. II secondo tragitto era quello che attraversava la tajga fino all’Aldan e da li risaliva il corso superiore della Lena, quindi di­ scendeva in battello lungo la Lena. Era una via meno frequenta­ ta, ma sia i «liberi» che i fuggiaschi si servivano anche di questa per raggiungere la Grande Terra. La terza via era quella aerea. Ma i voli artici della Sevmorput', data l’instabilità del tempo estivo, promettevano solo imprevisti. E inoltre il Douglas da carico, che disponeva di quattordici posti per i passeggeri, non poteva evidentemente risolvere il problema del trasporto. La voglia di tornare liberi era tanta, e quindi tutti - sia i mala­ vitosi che gli altri detenuti, i fraera - si affrettavano a espletare le

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formalità previste e partire al piu presto, anche perché, e ne era­ no consapevoli pure i malavitosi, il governo avrebbe potuto ri­ pensarci e decidere altrimenti. In tutti i lager della Kolyma non c’era un autocarro che non fosse impegnato nel trasferimento di questa torbida fiumana. Sicché a Baragon non c’era nessuna speranza che i malavitosi locali togliessero il disturbo in tempi brevi. Si decise allora una via alternativa e i malavitosi amnistiati ven­ nero spediti in direzione della Lena, perché poi la discendessero autonomamente partendo da Jakutsk. Quelli della compagnia di navigazione fluviale procurarono loro un battello, li videro salpa­ re, li salutarono con la mano, e tirarono un grosso sospiro di sol­ lievo. Una volta partiti, si scopri che i viveri erano insufficenti. Non c’era modo di barattare qualcosa con gente del posto, sia per man­ canza di cose da barattare sia perché non c’era traccia di abitanti che potessero vendere qualcosa di commestibile. I malavitosi - che nel frattempo avevano preso il controllo del battello e del coman­ do (capitano e ufficiale di rotta) - nel corso di un’assemblea ge­ nerale adottarono la seguente risoluzione: utilizzare come riserva di carne fresca i compagni di viaggio, i fraem. Questi erano molto meno numerosi di quelli, ma anche se la proporzione fosse stata inversa la risoluzione sarebbe stata la stessa. Gli ex detenuti non malavitosi vennero sgozzati uno o piu alla volta, a seconda dell’occorrenza, e cotti nella marmitta di bordo, comunque a destinazione non ne arrivò uno solo vivo. Della prov­ vista avanzò, a quel che si dice, soltanto il capitano, o l’ufficiale. Per quanto riguarda il lavoro nei giacimenti, esso si fermò e pas­ sò parecchio tempo prima che venissero ripristinati i ritmi con­ sueti. I malavitosi, si è detto, avevano una fretta dannata: se era un errore qualcuno poteva accorgersene. E anche i capi avevano un buon motivo per accelerare le cose, e cioè la voglia di liberarsi di quel pericoloso contingente. Ma non di errore si trattava, bensì di un’esplicazione affatto cosciente della libera volontà di Berija e ac­ coliti. Conosco bene i dettagli della vicenda poiché nel gruppo parti­ to da Baragon c’era anche Blumštejn, un compagno - stesso arti­ colo, stessa condanna - dell’invalido Novikov. Blumštejn aveva cercato di liberarsi dalla presa della macchina carceraria con trop­ pa precipitazione, aveva forzato il movimento dei rotismi e ne era stato stritolato.

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Da Magadan arrivò l’ordine: sveltire in tutti i modi il disbrigo e l’espletamento delle pratiche di rilascio. Vennero formate delle apposite commissioni, qualcosa come delle sezioni penali operan­ ti fuori sede, che rilasciavano i documenti sul posto invece che al­ la direzione, a Magadan, nell’intento di incanalare in qualche mo­ do l’impeto delle torbide ondate della criminalità scatenata. On­ date che non potevano dirsi umane. Le commissioni si portavano nelle improvvisate sedi le prati­ che già istruite: a chi uno sconto, a chi una commutazione della pena, a chi un bel niente, a chi la libertà incondizionata. Il grup­ po di rilascio, come veniva chiamato, lavorò sodo anche nel nostro lager. Il nostro lager, che era un cantiere stradale con molti delin­ quenti comuni, si svuotò completamente. La commissione venuta da fuori consegnò - con lo stesso solenne cerimoniale e la stessa orchestra di fiati che intonava fanfare di trombe d’argento alla let­ tura di ogni condanna a morte nei giacimenti dell’anno ’38 - con­ segnò dunque il lasciapassare per la vita a piu di cento abitanti del nostro lager. Tra questi cento che erano stati liberati o avevano avuto uno sconto di pena (per la qual cosa si doveva controfirmare il regola­ mentare modulo compilato a macchina e munito di tutti gli stem­ mi statali previsti) ce ne fu uno che non sottoscrisse alcunché e neppure volle prendere in mano l’attestazione di ricevuta. Si trattava di Michail Ivanovič Novikov, il mio iperteso. Il testo dell’amnistia di Berija era stato affisso su tutte le re­ cinzioni della zona e Michail Ivanovič Novikov aveva avuto tem­ po e modo di studiarselo bene, di rifletterci sopra e prendere una decisione. Stando ai calcoli che aveva fatto, Novikov riteneva di aver di­ ritto a uscirne «pulito», po cistoj e non in base a chissà quale ri­ duzione di pena. «Pulito» come i malavitosi. I documenti portati da Magadan, invece, prevedevano per Novikov una semplice ri­ duzione di pena, sicché gli sarebbero rimasti da scontare ancora alcuni mesi prima di poter uscire. Novikov si rifiutò di prendere i documenti e non firmò da nessuna parte. I componenti della commissione insistevano, dicendogli che era contro il suo interesse rifiutare quella notifica che comportava co­ munque un nuovo computo, ridotto, della pena. E poi alla dire­ zione il suo caso sarebbe stato di sicuro riesaminato e, nell’even­ tualità di un errore, corretto. Però Novikov non volle credere a questa possibilità. Non prese i documenti e presentò un controri­

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corso; lo aiutò nella stesura un suo concittadino di Minsk, un giu­ rista, quel Blumštejn di cui già si è detto, e con il quale Novikov aveva diviso sia la prigione in Bielorussia che il lager alla Kolyma. Nella baracca di Baragon dormivano vicini e, come dicono i blatari «mangiavano insieme». Nel controricorso era indicato l’esat­ to computo degli anni secondo il ricorrente e le considerazioni re­ lative. In tal modo Novikov restò tutto solo nella baracca deserta, con la taccia d’esser cosi stupido da non voler credere ai capi. Simili controricorsi - da parte di persone sfinite e stremate pro­ prio quando sarebbe stato il caso di abbandonarsi alla speranza, anche a un suo tenue barlume - erano estremamente rari alla Koly­ ma e nei lager in generale. La dichiarazione di Novikov venne trasmessa a Mosca. E non poteva essere altrimenti. Solo Mosca poteva pronunciarsi in me­ rito alle proprie competenze giuridiche e alla loro applicazione. E anche Novikov lo sapeva. Una torbida fiumana di sangue scorreva per i vasti spazi e le camionabili della Kolyma, aprendosi una via verso il mare, verso Magadan e la libertà della Grande Terra. Un’altra torbida fiuma­ na risaliva la Lena, devastando moli, aeroporti e stazioni ferro­ viarie della Jacutija, della Siberia a Oriente e Occidente, lamben­ do Irkutsk e Novosibirsk e sciabordando oltre sulla Grande Ter­ ra, ingrossata dai flutti non meno torbidi e carichi di sangue provenienti da Magadan e Vladivostok. I blatari cambiarono il cli­ ma delle città: a Mosca si rapinava ormai con la stessa facilità che a Magadan. E si sarebbero persi non pochi anni e non poche vite umane prima che la torbida fiumana venisse fatta rifluire dietro le sbarre. Migliaia di voci incontrollabili, e altrettante frottole, parasi nel gergo malavitoso, circolavano per le baracche del lager, una piu fantasiosa e terrificante dell’altra. Ma quello che ci portò il corriere militare Mosca-Magadan non fu una parala in piu - e del resto con quel tipo di posta è raro che succeda - ma l’atto con il quale si disponeva la liberazione imme­ diata e senza condizioni di Novikov. Con i suoi certificati, Novikov arrivò buon ultimo, a piatti la­ vati e lumi spenti delTamnistia, e cominciò ad aspettare un pas­ saggio su quattro ruote, non osando neppure pensare di avventu­ rarsi per l’itinerario fluviale di Blumštejn. Passava le giornate da me, seduto sul bordo del lettino del­ l’ambulatorio e aspettava, aspettava...

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Intanto Tkačuk ricevette i primi rincalzi di detenuti dopo lo sfollamento dell’amnistia. Il lager dunque non chiudeva, ma cre­ sceva in estensione e organizzazione. Al nostro Baragon venne as­ segnato un nuovo territorio, una nuova zona, dove cominciarono a sorgere le baracche e con quelle il posto di guardia, le torrette, il carcere di rigore e il piazzale per gli appelli e le adunate dei va­ ri turni di lavoro. Sul frontone dell’arco sovrastante il portale del lager era già stato affisso lo slogan ufficiale. «Il lavoro è una que­ stione d ’onore, una questione di gloria, una questione di valore e di eroismo». Di manodopera ce n’era a volontà, le baracche e annessi ulti­ mati, ma nel cuore del capo dell’Olp restava una spina: mancava­ no le aiuole, il prato rasato e fiorito. L ’occorrente era a disposizio­ ne: l’erba, i fiori, le zolle e le assicelle per le recinzioni, mancava solo qualcuno che fosse in grado di effettuare le misurazioni topo­ grafiche per prati e aiuole. E senza prati e aiuole, senza quella bel­ la simmetria concentrazionaria, che razza di lager poteva essere, anche se di terza classe! Certo, anche con le aiuole Baragon resta­ va comunque distante dai vari Magadan, Susuman, Ust'-Nera. Nondimeno anche la terza classe esige fiori e simmetria. Tkačuk interpellò uno a uno tutti i detenuti, si recò anche ne­ gli Olp vicini, ma non scovò nessuno che fosse provvisto di for­ mazione ingegneristica o tecnica e che fosse in grado di biffare pra­ ti e aiuole senza la livella. L ’uomo che faceva per lui però c’era, ed era Michail Ivanovič Novikov, il quale tuttavia, visto come l’avevano trattato, non vo­ leva neanche sentirne parlare e riteneva di potersi ormai infischiare di qualsiasi ordine di Tkačuk. Tkačuk però, per la solita indefettibile fiducia dei capi nel fat­ to che i detenuti dimenticano presto ogni cosa, insisteva con lui perché li mettesse quei paletti. Ma la memoria del detenuto si ri­ velò molto piu tenace di quanto non ritenesse il dirigente dell’Olp. Il giorno della «messa in esercizio» dell’impianto concentrazionario si avvicinava. E non c’era nessuno in grado di sistemare decentemente le aiuole. Due giorni prima dell’inaugurazione Tkačuk, passando sopra all’amor proprio, tornò a rivolgersi a No­ vikov, stavolta non con un ordine o per un parere ma con una ri­ chiesta personale. Alla richiesta del capo dell’Olp Novikov rispose nel modo se­ guente: - Escludo tassativamente di poter fare qualcosa nel lager su sua richiesta. Ma per venirle incontro le suggerisco una possibile so-

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lu2Ìone. Dica al suo infermiere che me lo chieda lui, e nel giro di qualche ora sarà tutto pronto. Tkačuk mi riferì l’intera conversazione, condendola con insul­ ti vari all’indirizzo di Novikov. Valutata la situazione, chiesi a No­ vikov di sistemare quei benedetti allineamenti. Di lì a un paio d’o­ re era tutto fatto e il lager splendeva di ordine e pulizia. Le aiuo­ le vennero tracciate, i fiori messi a dimora, l’Olp inaugurato. Novikov lasciò Baragon con l’ultimissimo convoglio prima del­ l’inverno del ’53-54. Ci incontrammo prima che partisse. - Auguro anche a lei di andarsene presto, di essere liberato per davvero, - mi disse quell’uomo che aveva saputo liberare se stes­ so. - L ’orientamento è questo, glielo assicuro. Darei chissà cosa per poterla incontrare di nuovo a Minsk o a Mosca. - Sciocchezze, Michail Ivanovič. - No, no, non sono sciocchezze. Sono profeta, e ho il presen­ timento, il presentimento certo della sua liberazione ! Di lì a tre mesi ero a Mosca. [1972]. Riva-Ročči, in «Novyj Mir», 1989, n. 12.

'

.

Il glossario spiega in una forma stringata ed essenziale i termini specifici del mondo dei Iager sovietici, i termini del gergo delle carceri e della malavita, le sigle, ed è strettamente correlato con il testo, non contenendo altro che i termini in esso citati. Per la sua compilazione sono stati utilizzati, oltre alle opere di Varlam Salamov (i racconti kolymiani stessi, i racconti autobiografici Visera. Antiroman , e Butyrskaja tjur'm a, raccolti nel vo­ lume V. Salamov, Percatka ili K r-2, Moskva 1990, e infine il testo V ospom inanija, in «Znamja», 1993, n. 4) i seguenti libri: A. Solženicyn, Archipelag G U L ag, 1974 (trad. it. Milano 1975-1978); E. Ginzburg, Krutoj maršrut, 1 e 2, 1967 e 1979 (trad. it. Viaggio nel­ la vertigine , Milano 1967 e 1979); O. Volkov, Pogruženie vo t'm u , Paris 1987; e soprattut­ to, di J. Rossi, Spravocnikpo G U Lagu (Il manuale del GULag), London 1987. Dei nomi e degli aggettivi si segnala generalmente anche il plurale. Talvolta si forni­ sce, tra parentesi, il femminile. All’interno di ciascun lemma le voci di particolare utilità per la comprensione del testo vengono segnalate con asterisco e si possono ritrovare nel Glossario stesso secondo l ’ordine alfabetico.

a gg rav an t , aggravan ty

Detenuto che esagera la gravità (a gg ra v ac ìja ) dei sintomi o delle conseguenze di una m alattia o ferita per farsi ricoverare, oppure per pro­ lungare la degenza in ospedale. L ’agitazione e la propaganda antisovietica e controrivoluzionaria sono reati contem plati all’art. 5 8.10 del Codice penale russo; nel sistem a extragiu­ diziario delle lite ry * sono siglati con A sa *, K r a *.

a g ita c ija

Form alizzazione di una pratica relativa a un singolo dete­ nuto o a una squadra; il verbo corrispondente è s a k tir o v a t'; fra le a . più im­ portanti, quella medica del «certificato di invalidità» e quella sulle condizio­ ni del tempo (specie la temperatura) che certificano l’im possibilità dell’uscita al lavoro. a lim e n ta z io n i , n o rm e d i vedi p a c k .

a k tir o v k a , a k tir o v k i

« a m ic i d e l p o p o lo » vedi d ru z ’j a n aro d a. A m e r ik a m k a ja ad m in istra cija p o m o sé i, l’American Relief Administration che negli anni 1919-23 aiutò le popolazioni della Russia sovietica colpite dalla ca­ restia.

A ra

arch iv n . 3

D etto anche «A rch iv A » , contiene i fascicoli personali dei detenuti morti. are stan t vedi z a k lju ië n n y j.

Nel sistema delle lite ry * sigla di A n tiso v e tsk a ja a g ita c ija («agitazione anti­ sovietica») che a partire dagli anni Trenta soppiantò il corrispondente K ra* (« agitazione controrivoluzionaria »). a u to so rv e g lia n z a vedi sam o o c h ran a . A sa

Tipico bagno russo a vapore (simile alla sauna); i detenuti lo fanno di nor­ ma ogni dieci giorni. B e lo m o r k a n a l Belomorsko-baltijskij kanal, canale che collega il M ar Bianco al M ar Baltico; voluto da Stalin, venne costruito «con badile e carriola» da cir­ ca trecentomila detenuti; grande cantiere del primo piano quinquennale, esem­ pio insigne di «rieducazione socialista attraverso il lavoro» fu con V ise ra * il preludio dell’estensione dei lager di lavoro forzato in tutto il paese. ban ja

b e sk o n v o jn y j

Detenuto che può muoversi senza la scorta

(k o n v o j)

di guardie ar­

mate. b esp artijn y j

«S en za p artito», che non è membro del partito (comunista).

B e t B ju r o e k o n o m ìk i tru d a, ufficio di economia del lavoro.

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GLOSSARIO

b e z u c ë tn ik , b e z u c ëtn ik i Anche b e z u ë ë tc ik , lett. «fu ori m atricola» o «fu ori ruo­

lo», detenuto che si trova in lager o in prigione senza che sia documentata un’i­ struttoria in corso o sia stata emessa una condanna, neppure da un O so *; dun­ que senza neppure una parvenza di legalità. b la t Voce yiddish odessita (del gergo furbesco: «palm o della m ano»), «entratu­ ra », conoscenza utile, scorciatoia; p o blatw . illegalmente, per vie traverse. b la ta r ', b la ta r 'i (f. b la ta r 'k a )

M alavitoso, lo stesso che b la tn o j.

b la tn o j, b la tn y e (f. b la tn a ja )

Malavitoso.

b la tn o j m ir M alavita o mondo della m alavita; quello dei b la ta r i o u g o lo v n ik i (de­ linquenti abituali) o vory (ladri di professione) che rispettano il z a k o n * , la leg­

ge non scritta che regola la loro vita e condotta, e che fa di essi, anche nei la­ ger e prigioni, una specie di «ord in e» molto unito e chiuso; ci tengono a d i­ stinguersi dagli u g o lo v n ik i* non affiliati, dai c h u lig a n i*- t e p p is t i, dai f r a e r a * e soprattutto dalle cagne (s u k ì *) i quali sono i m alavitosi»che hanno tradito la legge, lavorando o passando dalla parte delle autorità. b lìn c ik , b lin c ik i Fritelline sottili di pastella lievitata di farina di frumento, sono piu piccole dei noti blin y.

«C om batten ti», cosi vengono chiamati i soldati della scorta, del d i­ staccam ento di guardia o'le sentinelle sulle torrette dei lager.

b o e c , b o ic y

E roe dell’epos popolare e delle favole, di grande prestanza, bellezza e valore.

b o g a ty r', b o g aty rì

M inestrone a base di barbabietola rossa, cavolo e altre verdure, con ag­ giunta di carne, viene servito con panna acida (sm etan a)\ piatto tipico ucrai­ no.

b o rse

« b o t t e g a » vedi la rëk . b rigadir, brigadiry (f. b rig ad irša) Caposquadra è il capo della b rig ad a (squadra); or­ ganizza e controlla il lavoro dei suoi uomini (b rigad n ik i), presenta rapporti gior­

nalieri sul rendim ento e risponde dei risultati; nei lager «sp eciali» per politi­ ci, i b . venivano spesso scelti tra i criminali recidivi che «cavavan o» dai b ri­ g a d n ik i la «no rm a» di produzione a suon di percosse. b u rk ì

i) Stivali di feltro con suola di cuoio. 2) Calzari di ovatta trapuntata.

B u ty rk i Piu raramente, Butyrka, carcere per detenuti sotto istruttoria dell’Nkvd-

M vd deH’Urss; è la più grande prigione di M osca; già usata in epoca zarista, piu volte ampliata in epoca sovietica; l’A. vi fu rinchiuso nel 1937 e ne scris­ se in un racconto, B u ty rsk a ja t ju r ’m a (1961). b y to v ik , b y to v ik i (f. b y to v ic k a )

Detenuto per reati comuni, non «politici»; an­ che se si è macchiato di colpe gravi, dall’amministrazione penitenziaria è con­ siderato recuperabile alla società, potenziale «am ico del popolo» e utilizzabi­ le in varie mansioni privilegiate; il b y to v ic ëk (o b y to v ic o k ) è un b . particolar­ mente abile nello sfruttare i privilegi e le opportunità di cui nel lager gode rispetto ai detenuti politici.

« c a g n a » vedi su k a . c a p o vedi n a c a l'n ik . « c a p o r a le » vedi d esja tn ik . c a p o se tto re vedi p ro ra b .

GLOSSARIO

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c a p o sq u a d ra vedi b rig ad ir c a so

(istruttorio, giudiziario) vedi vedi k on vejer.

d eio.

c a te n a d i m o n tag g io C e k a vedi V ik .

c e k ist C ekista (forma italianizzata), ovvero agente della C eka, ma in generale

qualsiasi collaboratore delle varie organizzazioni per la sicurezza dello Stato subentrate alla prim a polizia segreta: G pu, N kvd, M vd, M gb, ecc. c ë m y j v o ro n «C orvo nero», furgone chiuso per il trasporto dei detenuti. c ë rt, certy «D iav o li», è uno dei vari epiteti di cui i b la tn y e gratificano i fr a e r a . C h ìm str o j ( C h im iie s k o e stro ite l'stv o ) C antieri dello stabilim ento chimico Višc h im z a *.

Teppisti, piccoli delinquenti. (anche c ifir ') Infuso di tè molto concentrato.

ch u lìg an , c h u lig an y (f. c h u lig an k a ) iifir

Denom inazione dei detenuti «p o litici» condannati, nel periodo dal 1926 al 1959, in base all’art. 58 del C odice penale della Rsfsr (Repubbli­ ca russa, con articoli corrispondenti nei codici della altre Repubbliche dell ’Urss) il quale contempla in quattordici punti i «crim ini controrivoluzionari».

« c in q u a n t o t t o »

« c o m b a t t e n t i» vedi b o e c . c o m m issio n e sp ec ia le vedi O so . co n ce n tra z io n a rio vedi lager. « c o n tin e n te » vedi k o n tin en t. c o r v o , co rv o n ero vedi ië m y j v oron .

Club sportivo centrale dell’esercito. Stupratore; dal Cubarov pereulok, una via di Leningra­ do dove negli anni Venti avvenne uno stupro di gruppo. c u r a Calzature estive dei detenuti, ricavati da vecchi pneumatici. C sk a

C e n tra l'n y j sp o rtiv n y j k lu b a rm ii,

cu b aro v e c , c u b aro v c y

D a l'k r a j E il Dal'nevostocnyj kraj (1926-38), Territorio dell’Estrem o Oriente sovietico con capitale Chabarovsk; il D a l'k r a js u d è il locale organo giudiziario.

D a l's tr o j G la v n o e u p rav len ie stro ite l'stv a D a l'n e g o S ev era (Direzione centrale dei cantieri dell’Estrem o N ord), impresa per la colonizzazione e lo sfruttamento dell’Estrem o N ord-E st della Siberia, anzitutto per l’estrazione dell’oro (baci­ no del fium e Kolym a); creata dall’O gpu nel 1932-33, passò in seguito sotto l’N kvd; per rifornire il D . di sempre nuova manodopera forzata venne creata la U svitl*. d e k u la k iz z a z io n e d ele g a to

vedi

vedi

k u la k i.

oper.

d e io E il caso istruttorio o giudiziario del detenuto; un «fascicolo personale» (licn o e d eio ) è la sua carta d ’identità nel lager; un nuovo d eio avviato nel lager

può in qualsiasi momento prolungare o modificare, aggravandola, la condan­ na in corso; d a t 'd e i o significa appunto «rifilare un nuovo caso » e ci sono delo d a v a te li , inquirenti e delatori sempre all’opera. d e sja tn ik , d e sja tn ik i «C ap o rale», l’agente del «datore di lavoro» il quale orga­ nizza e controlla la m anodopera di detenuti e liberi (voln y je) in un dato setto­

re produttivo.

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GLOSSARIO

d irettiv a sp ec ia le

vedi sp e c u k a z a n ie .

(f. d n e v a l'n a ja ) «Piantone», l’addetto alle pulizie e a pic­ cole incombenze nelle baracche dei detenuti, negli uffici del lager, nelle abi­ tazioni dei capi (qui detenuti e detenute svolgono mansioni di veri e propri domestici); viene considerato un lavoro «leggero» ed è molto ambito. d o c h o d ja g a , d o c h o d ja gi Morituro, il detenuto ormai al lumicino («lucignolo») che si trascina a stento sul posto di lavoro, estenuato dalla fatica e dalla fame. Il verbo d o c h o d i t '- d o tti indica nel linguaggio popolare «morire». d o g o v o m ìk «Contrattista», lavoratore libero a contratto. d o p ly t', d o p ly v a t' Il verbo significa raggiungere nuotando o lasciandosi traspor­ tare; in questo caso, trattandosi di un equivalente di d o c h o d it ' (nel senso illu­ strato sopra), il movimento è quello di un «relitto», o di chi «tocca il fondo». d ru z 'ja n aro d a «Amici del popolo», sono - contrapposti ai «nemici» controri­ voluzionari, ai «cinquantotto» - i b y to v ik i, «socialmente vicini», recuperabi­ li e utilizzabili dalle autorità. d n e v al'n y j, d n e v al'n y e

vedi v o sp itate l'. Alla Kolyma, nell’ambito dell’Usvitl*, zona agricola (so v c h o z ) con un la­ ger femminile e una colonia infantile (d e tg o ro d o k ). eser, esery (SR) Dalla pronuncia russa delle iniziali S e R (Es, er), i membri del partito socialista rivoluzionario. e ta p , e tap y Convoglio in trasferimento; colonna di detenuti che vengono tra­ sferiti da un luogo all’altro, via mare o via terra, scortati da soldati armati. e d u c ato re E ig e n

Libero pensatore, nichilista, uomo spregiudicato, storpiatura popola­ resca di fra n c -m a ç o n . « f a s c ic o lo p e rso n a le » vedi d e lo. f e l ’d se r Infermiere specializzato, aiutomedico, in grado di far funzionare anche autonomamente l’ambulatorio o il dispensario di una k o m a n d ir o v k a * . « f e s s o » vedi fra e r. fa r m a z o n

Scansafatiche; c’è anche il verbo fil o n it Stoppino, lucignolo; è il d o c h o d ja g a ridotto al lumicino. m e n s a » vedi k o tël.

f il o n , filo n y f i t i i , (itili « f o g l io

Altre denominazioni: fra je r jr a e r ju g a -, nel linguaggio corrente indica (derivato dal tedesco F reier ) un bellimbusto, un buono a nulla; nei la­ ger, per la malavita, fr a e r a sono tutti i «non malavitosi», «fessi» da brutalizzare, sfruttare e derubare in ogni occasione.

fr a e r , fr a e r a o fr a e r y

g a lu š k i

Gnocchi ucraini, cotti nel brodo o nel latte. vedi sle d o v a te l'.

g iu d ic e istru tto re

G o su d a rstv e n n a ja p la n o v a ja k o m issija , Commissione di Stato per la pia­ nificazione (fino al 1948), poi Com itato presso il Consiglio dei ministri dell’Urss.

G o sp la n

G p u vedi O gp u . G ra n d e T erra

vedi

k o n tin e n t.

GLOSSARIO

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Gulag Glavnoe upravlenie ispravitel'no trudovich lagerej i trudovich poselenij Sssr, Direzione generale dei campi di lavoro correzionale e delle colonie di lavo­ ro deU’Urss, è dal 1930, dopo la trasformazione dei konclagerja* in Iti*, la nuova denominazione del maggiore sistema concentrazionario dell’Urss; dal 1930 lo gestisce l’Ogpu, dal 1934 l’Nkvd, dal 1946 l’Mvd (fin dopo la morte di Stalin). inquirente vedi sledovatel'. intelligencija Ceto intellettuale. Storicamente, nella Russia del secolo scorso, tut­ ti coloro che abbracciarono le idee riformiste o rivoluzionarie influendo in mo­ do decisivo sull’evoluzione culturale, sociale e politica fino al 1917; per esten­ sione, l’insieme delle persone che in un paese svolgono un lavoro intellettua­ le nelle discipline e professioni umanistiche, scientifiche e tecniche; intelligent, intelligenty (f. intelligentka): membro dell’!. h i Informacionno-sledstvennaja cast', sezione informazioni e istruttoria; negli an­ ni Venti e Trenta l’equivalente della «terza sezione»*, quella del delegato de­ gli organi. Iti Ispravitel'no-trudovoj lager', campo di lavoro correzionale; o complesso di que­ sti lager; nel 1934 la denominazione subentra, con il Gulag, all’iniziale deno­ minazione di konclager' (campo di concentramento). Ivan Ivanovii Nomignolo spregiativo dato dai malavitosi agli intellettuali o alle persone comunque istruite. ìzba, izby La casetta di legno contadina. izoljator, izoljatory 1) Prigione di isolamento «a destinazione speciale» per de­ tenuti politici «pericolosi». 2) Carcere costruito all’interno del lager dove ven­ gono scontate le punizioni (celle di rigore). juška La parte liquida della minestra carceraria, detta anche «rigovernatura». kant 1) «Lavoro leggero» che consente al detenuto di rimettersi in forze. 2) «Tempo morto» nella giornata lavorativa. karpunkt Karantinnyj punkt, posto di quarantena. kaša Pappa, semolino a base di cereale: avena, orzo, frumento; una tipica pie­ tanza russa gustosa e nutriente; nel lager è spesso liquida e senza sostanza. katorga La galera zarista nella quale si scontavano i lavori forzati in Siberia; fu abolita dal governo provvisorio nel marzo 1927; nel 2943 vennero reintrodotti lager dal regime durissimo, espressamente denominati katorinye («di lavori forzati»), per i «traditori della Patria». kisel' Gelatina a base di fecola di patate e frutta fresca o succhi; nel lager, ac­ qua colorata e leggermente zuccherata. kljuc, kljuii Fonte, sorgente, ma alla Kolyma indica qualsiasi corso d ’acqua, dal torrentello al grande fiume. kolchoz, kolchozy Kolletivnoe chozjajstvo, Azienda collettiva, cooperativa agri­ cola di produzione. Kollegija Vck Istituita dal Consiglio dei commissari del popolo il 7 dicembre 2927, fu il primo tribunale degli organi, presieduto da Dzeržinskij in persona; poteva comminare autonomamente pene, compresa quella «capitale».

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Kolyma Fiume e regione della Siberia nordorientale tra Voblast'di Magadan e la Jakutija; il fiume nasce da una catena montuosa vicino al Mare di Ochotsk e scorre verso nord per quasi 2200 km sfociando nel Mare della Siberia orien­ tale; ricco di giacimenti auriferi (nel corso superiore). kolymka 1) Piccola lampada artigianale a benzina ricavata da un barattolo. 2) Berretto di fortuna con paraorecchi. komandirovka Missione, spedizione, trasferta di lavoro; indica una sezione di­ staccata, anche temporanea o stagionale, di un lager, ad esempio per lavori fo­ restali o di prospezione geologica, per le famose spedizioni «vitaminiche», ecc. kombinat Complesso industriale costituito da un insieme di imprese comple­ mentari per una specifica produzione e situate in una stessa area o regione. komendant Svolge compiti di controllo poliziesco all’interno di una «zona», ad esempio un ospedale per detenuti; può essere un detenuto, scelto tra i «co­ muni» o un ufficiale dei servizi di sicurezza. Komintern Kommunističeskij lntemacional, o Terza Internazionale, dal 1919 al 1943 Komsomol Kommunisticeskij sojuz molodëii, Unione comunista della gioventù, organizzazione giovanile del partito comunista dell’Urss. konclager', konclagerja Campo di concentramento, abbreviazione di koncentracionnyj lager'. I k. nascono nei mesi successivi all’inizio della guerra civile, tra il giugno e l ’agosto 1918; il governo bolscevico affida alla Vck* l’incarico di rinchiudere in strutture di questo tipo i «controrivoluzionari» e «nemici di classe»; la denominazione, ma non le caratteristiche e funzioni, verrà mutata in «campi di lavoro correzionale» nel 1934. kontinent «Continente», nella percezione dei suoi abitanti la Kolyma, cosi lon­ tana e isolata, raggiungibile perlopiù via mare, viene vista come un’«isola»; il resto del paese, quello da cui si proviene, è allora il «continente» o «Grande Terra».

,

konvejer konvejery Catena di montaggio, nastro trasportatore (dall’ingl. con­ veyer); consiste nel prolungare senza interruzioni l’interrogatorio dell’accusa­ to, giorno e notte, mediante l’avvicendamento di diversi inquirenti. konvoj Scorta armata che accompagna di norma i detenuti durante i trasferi­ menti e le uscite per il lavoro; konvoir, konvoiry, il soldato o i soldati membri di detta scorta. kotèl Calderone, caldaia per cottura, ma anche mensa, il termine designa il ci­ bo cucinato che, con la razione di pane, costituisce il vitto del detenuto; varia a seconda delle diverse «categorie alimentari», legate soprattutto al rendimento sul lavoro; kotlovyj list è il «foglio mensa» dei vari prodotti preparato quoti­ dianamente dagli addetti in base ai dati delle varie categorie dei detenuti che fruiscono quel giorno della mensa. Kra Nel sistema delle litery':\ sigla di Kontnevoljucionnaja agitacija, agitazione controrivoluzionaria. krasnye šapočki «Capuccetti rossi», categoria di malavitosi (anni Quaranta) com­ posta di reduci della guerra; forse il nome deriva dalla banda rossa sul berret­ to militare; furono dichiarati «fuori legge» dai loro compagni malavitosi ri­ masti fedeli alla legge, al zakon* dei ladri, e fecero gruppo a sé.

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Nel sistema delle lit e r y * , sigla di K o n trre v o lju c io n n a ja d e ja te l'n o st', attività controrivoluzionaria. k r ju i o k Gancio; m k r ju c k e è un’espressione malavitosa; tenere qualcuno «al gancio» significa poterlo ricattare. K rd

Nel sistema delle lit e r y * , sigla di K o n trrev o lju c io n n o -tro c k ista ja d e ja te l'n o st', attività controrivoluzionaria trockista; la « t » peggiorava notevolmente la si­ tuazione del detenuto; vedi sp ec u k a z a n ie. K t r K a to r z n y j lager o k ato rz n y e rab o ty , Lager di lavoro forzato duro (dal 1943); K rtd

vedi k ato rg a . Popolazioni del territorio del fiume K u b an ' (Caucaso set­ tentrionale) . k u la k i «C ontadini agiati» contro i quali fu scatenata nel 1929 e fino al 1937 una campagna di deportazioni per la loro «liquidazione come classe»; la «dekulakizzazione», r a sk u la č iv a n ie , portò nei lager masse di k u la k i e anche di p o d k u la c n ik i, contadini poveri ma assimilabili anch’essi ai «nem ici». K ubanec, K ubancy

k u l'tb rig ad a

Squadra culturale organizzata da un k u l'to rg , nell’ambito della Kvč*.

Bevanda acidula rinfrescante, a base di pane raffermo fatto fermentare nel­ l’acqua.

k v as

K u r tu m o - v o s p ita te l'n a ja c a s t ', sezione educativo-culturale del lager, svolge propaganda per un maggior rendimento del lavoro, organizza conferenze, con­ certi e spettacoli am atoriali, ecc.

K vč

K u l't u m o - v o s p ita t e l'n y j o td e l, dipartimento educativo-culturale (di una direzione del sistema del Gulag, 1934-53), cui fanno capo le K vč* dei vari lager.

Kvo

lad ro vedi b la tn o j m ir. la g er In russo: la g e r ’, la g erja; dal 1918, quando nasce il sistema dei lager di la­

voro forzato, permane sostanzialmente invariato per 35 anni assumendo di­ verse denominazioni: k o n c la g e rja , Iti, Gulag, quest’ultima universalmente no­ ta; la g e m ik , la g e m ic a : detenuto, detenuta dei lager; la g e m y j (m.), la g e m a ja (f.), la g e m o e (n.): gli aggettivi riferiti a la g e r ' sono talvolta resi con il neologismo « concentrazionario ». Ripartizione concentrazionaria, l’unità fondamentale del com­ plesso dei lager.

lago td elen ie (I/o )

Abbreviazione di la g em y j p u n k t; filiale del la g o td elen ie, organizzato nei pressi di un settore produttivo isolato per sveltire i tempi di trasferimento del­ la manodopera e dell’approvvigionamento. la rek Detto anche la v k a , la v o ik a , è lo spaccio interno dove il detenuto può ac­ quistare alimentari e generi vari; il suo accesso (vyp ìsk a) può essere precluso al singolo o alla squadra per motivi disciplinari o per la mancata realizzazione della norma di produzione.

la g p u n k t

« la v o r a to r e d ’a s s a l t o » vedi u d a m ik . O b sc ie rab o ty , quelli più faticosi, minerari, di abbattim ento fore­ stale, stradali, ecc., svolti dalla m assa dei detenuti; contrapposti alle ambite mansioni nei servizi e negli uffici.

lav o ri g en erali

Grande e famosa prigione di Mosca per detenuti sotto istruttoria, ne­ gli anni Trenta vi venivano direttamente eseguite le fucilazioni.

L e fo r to v o

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« le g g e d ella m a la v it a » vedi z a k o n .

II Lend-Lease Act è una legge statunitense votata nel marzo 1941 per gli «affitti e prestiti» di materiali a paesi, tra cui l ’Urss, la cui difesa era vita­ le per le sorti della Seconda guerra mondiale. le p ila Aiuto medico, medicastro. len d -lease

lib ero

vedi v o l'n y j

D al verbo liš it', «p riv are»; le varie categorie d i cittadini private nell’U rss dei propri diritti civili, a cominciare da quelli che nel luglio 1918 se li videro togliere perché «elem enti nocivi per la rivoluzione socialista».

lišen ec, lìsen cy

Anche lìte rk a (peggiorativo); «sig lato », condannato in base a una lette­ ra o sigla del sistem a inquirente extragiudiziario dell’O so (Commissione spe­ ciale).

lìte m ik

Le sigle o lettere che sostituiscono per l’Oso gli articoli del Codice pena­ le; ad es.: A ra*, A sa*, K rtd*, ČS (membro della famiglia), PS (sospetto spio­ naggio), ecc.

lìtery

lu n a

N a lu n u , «spedire sulla luna» significa fucilare, uccidere.

Trinciato comune, tabacco semilavorato per confezionare le sigaret­ te; il suo lucroso traffico ne fa l’«oro della Kolym a».

m ac h o rk a

C ittà e porto (Nagaevo) sul M are di O chotsk, capoluogo di oblast'-, la «cap itale» della Kolyma dei lager, nata agli inizi degli anni Trenta (27 000 ab. nel 1937) per lo sfruttamento delle risorse dei territori del N ordest sovietico.

M a g ad a n

m ag a ta (m a g ar) V arietà di sorgo da granella, usato nel lager per preparare una k a ša piuttosto scadente. m a la c h a j

Berretto jakuto di pelliccia con paraorecchi.

m ala v ita vedi b la tn o j m ir. m edpun kt

Infermeria in una miniera, un accampamento nella tajga, ecc.

m erz lo ta vedi v e č n a ja m e r z lo ta . m ilic ija Polizia sovietica, svolge anche mansioni di vigilanza urbana; l’agente è il m ilicio n er. M o ges M o sk o v sk o e o b "ed in e n ie gosu d arstven n y ch e le k tro stan c ii, E nte delle cen­

trali elettriche statali di Mosca. m o ritu ro vedi d o c h o d ja ga .

Lesione o malattia procurate dal detenuto per evitare il la­ voro 0 farsi ricoverare in ospedale, talvolta con conseguenze gravi. M u r M o sk o v sk ij u g o lo v n y j ro zy sk , polizia investigativa criminale di Mosca. m o sty rk a , m o sty rk i

m u z ik , m u z ik ì Contadino, «uom o rozzo», è uno degli epiteti riservati dai ma­ lavitosi ai fra e ra . M v d M in isterstv o V nu tren n ich D e l, ministero per gli A ffari interni, denomina­

zione assunta nel 1946 dall’N k v d *. n a c a l'n ik , n a i a l ’n ik i (f. n a c a l'n ic a ) Capo, termine con il quale vengono indicati,

oltre ai dirigenti e ufficiali del sistem a concentrazionario, anche i «cap etti» {n a c a l'n ìc k i) , scelti tra i detenuti comuni o malavitosi fuori dal z a k o n * , o tra

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gli ex detenuti anche politici, i quali rivestono le varie mansioni di comando e potere (capisquadra, d e s ja t n ik i * , ecc.); raramente viene impiegato il termine «d irettore», «com andante», ecc. Sorvegliante, uomo o donna (n a d z ira te l'n ic a ) , agente di custodia nei luoghi di detenzione.

n a d z ir a te l', n a d z ira te li

Com pagno di turno in un lavoro svolto in coppia.

n a p a m ik

«R ipartitore»; l’impiegato dell’U rč * incaricato di ripartire il complesso dei lavori e delle mansioni tra la manodopera; può essere un detenuto - però un b y to v ik e non un «cinqu antotto» - e il suo ruolo è molto importante (può destinare ai lavori generali o a mansioni di servizio).

n arja d c ìk

Abbreviazione di n aro d n y j k o m issa r, commissario del popolo, titolare di un Com m issariato del popolo (n a rk o m a t ) nell’am bito del S o v n a rk o m (Consi­ glio dei commissari del popolo) che dal 1917 al 1946 fu l’organo centrale del governo sovietico; nel r94Ó i n . divennero ministri e il commissariato si tra­ sform ò in Consiglio dei ministri.

n ark o m

N elle baracche dei lager, impalcatura di tavolacci sovrapposti a due (rara­ mente tre) piani, sui quali ci sono i giacigli dei detenuti; possono essere «con ­ tinui» oppure strutturati « a scompartimento ferroviario» (v ag o n n aja siste m a o v a g o n k a ): a gruppi di quattro posti distribuiti su due piani.

n ary

n astro co n v o gliato re vedi k o n v ejer. N a r o d n y j k o m issa ria t V n utren n ich d el, Com missariato del popolo per gli A ffari interni, subentrò nel 1934 alla O g p u *, venne diretto da Jagoda, Ežov, Berija, e nel 1946 cambiò denominazione in M vd.

N kvd

Lager o iz o lja to r * con un regime particolarmente duro, dove il nome del detenuto viene sostituito da un numero (n om er).

nom em oj

Rendim ento minimo che viene richiesto sul lavoro; dalla realizzazione della norma dipende l ’alimentazione piu o meno completa del detenuto.

n o rm a (d i p ro d u z io n e )

n o rm iro v šc ik , n o rm iro v šc ik i (f. n o rm iro v siìc a )

A ddetto al controllo della realiz­ zazione della norma; in lager di solito è scelto tra i detenuti.

obkom

A bbreviazione di o b la s tn o j k o m ite t (Kpss), «C om itato regionale» del

Pcus. o b l a s f Regione amministrativa (ad esempio, 0 . di M osca, 0 . di M agadan), ter­

ritorio. o b sc ìe rab o ty Lavori generali. o ch ran a Servizio di guardia, svolto da reparti di guardie militarizzate (v o c h ra , v o e n iz iro v an n a ja o c h ra n a ) che agiscono, al comando di ufficiali degli organi,

sul territorio dei luoghi di detenzione, con compiti di sorveglianza e come scor­ ta durante i trasferimenti. O b "e d in ë n n o e g la v n o e p o litic e sk o e u p rav len ie S ssr (Amministrazione gene­ rale politica unificata delPUrss), nome assunto dagli organi della Sicurezza do­ po la soppressione della C eka nel 1922; inizialmente (1922) prese il nome di G pu, quinsi si trasform ò in O gpu e come tale operò nell’ambito dell’N kvd; nel 1934 venne riassorbito dall’Nkvd. O K O z d o r o v ite l’n a ja k o m a n d a , «Squad ra di ristabilim ento» vedi OP.

O gp u

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' Ingenuo, inesperto, f r a e r nel traslato carcerario e malavitoso; il termine propriamente significa «cervo», «renna»; una forma piu elaborata: «.olen dal­ le coma ramificate».

ö le n

O t d e l’n yj la g e m y j p u n k t , «singola unità del sistema concentrazionario», di­ pende direttam ente dalla Direzione generale centrale o da una ripartizione; il G olp, Golovnoj o Glavnyj O lp, è quello in cui hanno sede direzione e ammi­ nistrazione comuni di un determinato gruppo di Olp.

O lp

O z d o ro v ite l'n y j p u n k t, punto di ristabilimento; gli O P vengono organizzati quando la m ortalità tra i detenuti supera certi livelli e non è possibile rim­ piazzare le perdite con nuova manodopera; una baracca del lager è adibita al­ l’uso e ospita i lavoratori esausti, che qui vengono meglio nutriti e adibiti a mansioni non faticose; stessa funzione svolgono le «squadre di ristabilimen­ to » che svolgono lavori forestali meno pesanti, ad esempio in filiali del lager nella tajga.

OP

Abbreviazione di o p e ru p o ln o m o ie n n y j , è l’Agente locale della sicurezza del­ lo Stato (o del ministero degli Interni) nel lager, il «delegato» degli «organi» solo formalmente soggetto alle autorità amministrative del posto; sovrinten­ de alla «terza sezione»* o o p e rc a st', e al lavoro degli o p e ra tiv n ik i.

o p er

o p eratìvn ik , o p erativ n ik i Ufficiale o sottufficiale degli «organi» con compiti «op e­

rativi» stabili o saltuari (ad esempio nel caso di un’evasione di detenuti quan­ do entra in azione il sy sc ik -o p era tiv n ìk ); gli o., organizzati in o p e ra tìv k a o opergru p p a, sono a disposizione dell’oper (il delegato responsabile locale degli or­ gani). o rg an i Denominazione non ufficiale in uso tra i detenuti per indicare gli addet­

ti delle varie organizzazioni preposte alla sicurezza dello Stato che si sono suc­ cedute nell’Urss: Včk-Gpu-Ogpu-Nkvd-Nkgb-M vd-M gb-Kgb. O so b o e S o v e šč a n ie , Com missione speciale presso la O gpu dalla fine degli anni Venti, erede della K o m issija della Ceka e della trojka*, è un organo ex­ tragiudiziario che, in assenza dell’im putato, lo condannava a «sanzioni am­ m inistrative» consistenti in anni di lager; dal 1937 potè anche emettere con­ danne a morte; le sentenze non facevano riferimento al Codice penale ma a un sistem a interno di lite ry * o bu k v y .

O so

Renitente al lavoro; quando un detenuto si rifiuta di andare a lavora­ re viene compilato un apposito verbale; se, secondo le autorità mediche e am­ m inistrative, risulta che l’o. è in grado di lavorare, viene severamente punito; dall’inizio degli anni Trenta per il terzo rifiuto si prevedeva la fucilazione; dal 1937 Y o tk a z si considera «sabotaggio controrivoluzionario dell’edificazione del socialism o» e si punisce in base all’art. 58.14.

o t k a z iik

p a c h a n , p ac h an y

Vecchio, padre, in gergo un capo autorevole della malavita; nei lager è anche uno degli epiteti non ufficiali di Stalin. Razione, vitto carcerario, composto di pane (p a jk a *) e di cibo cotto sul cui valore nutritivo però il detenuto non può fare molto affidam ento (ruberie, «screm ature» e distribuzioni irregolari lo rendono «u na lotteria»); ci sono di­ verse categorie alimentari in base al «regim e» del lager - che può anche esse­ re un « lager di punizione» - , e ai risultati del lavoro del singolo e della squa­ dra: p ro iz v o d stv e n n y j (di produzione standard), u d a m y j (d’assalto), stach an o v s k ij (stachanovista).

paëk

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L a razione di pane giornaliera del detenuto che, più del p r iv a r o k , costi­ tuisce la base certa della sua alimentazione; nei giacimenti auriferi della K oly­ ma degli anni Q uaranta, per una giornata lavorativa di dodici-quattordici ore la p . variava da 300 a 850 grammi al giorno a seconda della percentuale di rea­ lizzazione della n o rm a * lavorativa.

p a jk a

p ap iro sa-p a p iro sy p ara ša -p a ra ši p arto rg

Sigaretta con il bocchino di cartone.

1) Bugliolo. 2) Voce, diceria che di solito si rivela fondata.

P artijn n y j organ izator, organizzatore del partito (comunista).

Docum ento di identità introdotto nel 1932 con l’indicazione di vari ele­ menti: nazionalità, posto di lavoro, licenziamenti, trasferimenti, ecc; deve es­ sere fatto registrare alla m ilic ija anche in caso di spostam enti di breve durata; non è un «p assap o rto » valido per l’estero.

p a sp o r t

(Kpss) Partito comunista dell’Unione Sovietica, in russo Kommunističeskaja Partija Sovetskogo Sojusa.

P cus

Riforgiatura, «rimodellamento (il termine deriva dalla metallurgia): la rieducazione del carattere dei detenuti mediante l’azione del lager e del la­ voro.

p e re k o v k a

Anch e p o se le n e c , «colon o» che viene ingaggiato su base volontaria per lavorare nelle lontane regioni di nuova colonizzazione (ad esem ­ pio l ’Estrem o Nord); anche se formalmente libero, deve sottostare a determ i­ nate limitazioni; gli sp ecp ereselen cy * invece sono veri e propri deportati, de­ stinati alla colonizzazione forzata dei territori di destinazione,

p ereselen ec, pereselen cy

D etenuto che al termine del suo periodo di pena non vie­ ne liberato detto anche sv erch sro cn ik o p o v to m ik (ripetente).

p e re sid č ik , p e re sid c ik i

«Prigione o lager di transito» (anche tran zìtk a) per detenuti in trasfe­ rimento o smistamento dopo l’arrivo dal «continente».

p e re sy lk a

« p ia n t o n e » vedi d n e v al'n y j. P ja tile tn ie p la n y raz v itija n aro d n o g o c h o z ja jstv a , «Piani per lo sviluppo dell’economia nazionale», i piani quinquennali di industrializzazio­ ne dell’Urss; fin dal primo di essi (1929-32), la m anodopera (r a b s ik ) forzata vi ebbe un ruolo non secondario (es. B e lo m o r k a n a l, V isera).

p ja tile tk a , p ja tile tk i

p ìr o io k , p ir o ik i

Involtini di pasta, fritti o al forno, ripieni di riso, carne, cavolo.

podavanec, podavancy

Condannato a morte che presenta la domanda di grazia.

p o d n a m ik , p o d n a m ik i D etenuto che in celle o baracche affollate non trova p o­ sto sui tavolacci a castello e si adatta a dormire sul pavim ento, «so tto i n a r y » .

«D eten uti politici», cioè non per reati comuni, ufficialmente inesistenti nella Russia bolscevica e poi sovietica, vennero definiti con vari eufemismi: controrivoluzionari (KR), «cin q u an to tto »*, «elem enti antisovietici»; i detenuti condannati in base all’art. 58 del C odice penale che punisce i «crim ini contro lo Stato » erano in realtà in gran maggioranza vittim e casuali e inconsapevoli di indiscriminate repressioni di massa.

p o lit z a k lju ië n n y j, p o litz a k lju c ë n n y e (l. p o litz a k lju c ë n n a ja )

p o lito td e l D al 1937 presso ogni direzione concentrazionaria viene istituito una

«Sezione politica» che realizza il controllo del partito comunista sui vari u ffi­ ci della direzione stessa, tranne la sezione dell’oper*, la «te rz a», con la quale comunque collabora strettamente.

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GLOSSARIO

p o r tja n k a , p o rtja n k i

Pezze da piedi.

Insediamento, centro abitato; nell’uso delle autorità kolymiane, termine generico che può designare sia una cittadina sia un accampamen­ to nella foresta.

p o sè'lo k , p o s ë lk i

Tribunale d ’onore della malavita, decide in particolare delle violazioni del z a k o n * .

p r a v ilk a , p ra v ilk i

Detenuto impiegato in ufficio o comunque in mansioni che comportano lavori non fisici o lavori fisici leggeri, il quale evita in questo mo­ do, magari provvisoriamente, i lavori generali.

p r id u ro k , p rìd u rk i

piu propriamente, Ufficio importazioni di prodot­ ti industriali del ministero del Commercio dell’Urss. p r o ra b Capomastro, capocantiere, direttore dei lavori, responsabile tecnico - in un settore, una filiale, una k o m a n d iro v k a - delle attività produttive connesse ai campi di lavoro forzato. p u d , p u d y Antica misura russa di peso, equivale a 16,3 kg. p u n to d i rista b ilim e n to vedi O P . P ro m ìm p o rt P ro m ìm p o rtto rg

r a b fa k R a b o b ij fa k u l't e t , C orso parauniversitario per operai. r/s, M anodopera, forza lavoro; il termine in uso ufficiale nei documenti e comunicazioni dall’inizio degli anni Venti, venne poi proibito perché si presta­ va a essere interpretato come ra b sk a ja sila dove r a b sk ij significa «d a schiavi». ra b o tja g a , ra b o tja g i Lavoratore che non ha paura di lavorare; quindi con sfuma­ tura ironica e/o affettuosa, gran lavoratore o «sgobbon e». rab sila

r a jk o m

R a jo n n y j k o m itet, Com itato provinciale (o anche di quartiere) del Pcus.

Q uartiere (in città), provincia (attorno alla città), genericamente regione 0 distretto, ad esempio «d istretto carbonifero». r a jo td e l Sezione cittadina della polizia (m ilic ija ) o degli «organ i» presso la qua­ le, in particolare, i detenuti presentano o ricevono i documenti di identità e registrano documenti di viaggio, ecc. rajo n

(f. raz d a tc ic a) In prigioni, lager e ospedali Taddetto/a alla distribuzione del cibo.

r a z d a t iik , ra z d a tè ik i

Scarico in senso letterale, è l’«alleggerim ento» della popo­ lazione carceraria; gli elementi ormai non piu utilizzabili come forza lavoro vengono eliminati mediante fucilazioni (ai tempi della Ceka), condanne alla ssy lk a (relegazione) e infine amnistie; una raz g ru zk a imponente fu quella che nel 1932 vide il ricambio dei rab o tja g i esauriti con le forze fresche dei k u la k i deportati.

raz g ru zk a, raz g ru zk i

raz io n e vedi p a jk a

Adunata che precede l’uscita al lavoro; ha luogo accanto al posto di guar­ dia e al portone del lager, di solito con l’appello (oppure una semplice «con­ ta») dei detenuti, che si schierano e si avviano, di norma scortati dal k o n v o j verso la loro destinazione.

raz v o d

« r e le g a z io n e » vedi ssy lk a. « r e lit t o » vedi d o p ly t '. ren iten te a l la v o ro vedi o tk a z č ik .

GLOSSARIO

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Rim patriati: furono persone che rientrarono nell’U rss per m otivi patriottici, vecchi em igrati o i loro figli, alla vigilia o dopo la Seconda guerra mondiale; o ancora reduci dalla prigionia nei lager dei Tedeschi, o emi­ grati al loro seguito dai territori occupati, ecc.: tutte persone che ripopolaro­ no i lager sovietici esauriti dallo sforzo bellico.

r e p a triate , rep atrian ty

R e sk o e f iz iie s k o e isto rie n te, esaurimento fisico acuto, formula introdotta nel­ l’uso medico-amministrativo del Gulag alla fine degli anni Trenta; fu la prima ammissione ufficiale dell’esistenza di un problema «fam e» tra i detenuti. ried u cazio n e, « r ifo r g ia t u r a » vedi p e re k o v k a .

R fi

rip artito re

vedi

n arja d c ik .

R s fs r R o s sijsk a ja S o v e tsk a ja F e d e ra tiv n a ja S o c ia lis tìc e s k a ja R e sp u b lik a , la Repub­

blica russa, una delle 15 che componevano l’Urss. r u b i'd lin n y j «R u b lo lungo»; si è tradotto con rublo pesante e allude all’oppor­

tunità, per i «lib eri», di rapidi e consistenti guadagni nelle disagiate condi­ zioni dell’Estrem o N ord e del sistem a concentrazionario. ru k a v ic a , ru k a v ic y M uffola, manopola, uno dei capi d ’abbigliamento obbligatori del detenuto in inverno; le ru k a v ic i-k ra g i, con comodi bracciali svasati, so­ no i guanti-manopola spesso indossati da «c a p i» e «delegati». R u r R o t a u silèn n o go r e iim a , «C om pagnia (squadra) a regime disciplinare raffor­ zato»; è l’antecedente negli anni Venti della Bur (b ara k u silè n n o g o re iim a ) che a sua volta è il modello per le carceri di rigore e gli iz o lja to ry *’ che vennero or­ ganizzati all’interno di ogni lager. G li im putati, ingegneri e tecnici, in un processo pubblico d i­ m ostrativo svoltosi tra m aggio e luglio del 1928 nel centro carbonifero di Sachty; si riconobbero colpevoli dell’accusa di aver sabotato la produzione e vennero condannati. sam o o c h ran a Autosorveglianza, quando a provvedere al servizio di sorveglian­ za e repressione nel lager vengono adibiti alcuni fra i detenuti stessi; metodo introdotto all’inizio degli anni V enti alle Solovki: si utilizzavano ex cekisti condannati per reati comuni e delinquenti. sa m o r u b , sam o ru b y Detenuto che produce volontariamente una mutilazione sul proprio corpo per evitare il lavoro forzato (da r u b it', tagliare); i casi piu fre­ quenti: alcune dita della m ano sinistra, ma anche un’intera mano; gli stru ­ menti: coltello o accetta; alla fine degli anni Trenta cominciarono a condan­ nare i s. per «sabotaggio antirivoluzionario» (articolo 58.14 del Codice pena­ le). sam o stre l, sam o stre ly Autolesionisti come i precedenti (da stre lja t', sparare); ri­ corrono a piccole cariche di esplosivo usate in miniera. s a n c a s t', r an c asti S a n it a m a ja c a s t ', sezione sanitaria; dal 1930 è l’unità di base del servizio medico sanitario del sistem a penitenziario dell’U rss; dipende sia dal­ le autorità del carcere o del lager dove è distaccata, sia dal Sanotdel, il D ipar­ timento sanitario della direzione concentrazionaria di appartenenza. san itar, san itary Inserviente o ausiliario ospedaliero, assiste il fe l'd š e r, infermie­ re o aiutom edico, e il medico. sa n o td e l, san o td e ly S a n ita m y j O t d e l U p ra v len ia L a g e r ja , Dipartim ento della sa­ nità della Direzione concentrazionaria, da cui dipendono tutte le sa n c a sti dei vari lager e prigioni coordinati da quella direzione.

sach tin ec-sach tin cy

1300

GLOSSARIO

san p u n k t, san p u n k ty

Infermeria, ambulatorio, presso una miniera, un cantiere

forestale, ecc. Vecchia misura lineare russa precedente il sistem a metrico deci­ male; equivale a 2,134 metri.

sa ž e n ', s a ie n i se a n s

Seduta di onanismo tra malavitosi (dal fr. séa n c e ).

Postazione segreta mobile degli agenti operativi nella tajga per l’intercettazione e la cattura degli evasi dai lager.

sek re t, sek rety

S ek retn y j so tru d n ik , detenuto che collabora segretamente con gli «organ i» come confidente, delatore e agente provocatore.

se k so t, se k so ty

« s e m a p a r t it o » vedi b e sp a rtijn y j. « s e m a s c o r t a » vedi b e sk o n v o jn y j.

Serpantinka, «Serp en tin a», carcere istruttorio dei lager kolymiani in una località a O vest di M agadan; nel 1938 vi vennero fucilati circa venticinquemila detenuti.

S erp an tin n a ja

« s g o b b o n e » vedi rab o tja ga . « s ig la t o » vedi lite m ik . sk ery (ì k a r y ) Calzoni; l’espressione lep éch i i sk ery significa nel gergo malavitoso

ciò con cui si può corrompere l’autorità medica o amministrativa. s le d o v a te l' Inquirente o «giudice istruttore» che alla Kolyma quasi sempre non

ha niente a che vedere con l’amministrazione giudiziaria; è pili spesso un inve­ stigatore degli organi che, istruito il caso, decide abitualmente di deferire l’in­ dagato non al giudice ma ad organi giudicanti dell’«istituzion e» tipo l’O so *. S io n vedi U slo n .

Servizio del controspionaggio militare attivo dal 1942 al 1946 con com­ piti speciali; si occupò particolarmente dei territori che erano stati sotto oc­ cupazione nemica e dei militari sovietici presi prigionieri dai Tedeschi; la de­ nominazione è forse acronimo dello slogan S m e r t 'S p io n a m , «M orte alle spie».

S m ers

Berretto (in russo: ša p k a ) con paraorecchi, confezionata con vecchio panno militare dei depositi militari zaristi; prende nome dal lager delle Solovki.

s o lo v c a n k a , s o lo v c a n k i

S o lo v k i o S o lo v e c k ie ostro v a

G ruppo di isole del M ar Bianco; nell’antico mona­ stero fortificato del secolo x v venne insediato un lager « a destinazione spe­ ciale», U slon *, che funzionò dal 1923 al 1939.

Montagne tondeggianti e non molto elevate dell’Estrem o Nordest sovietico, ma anche piccoli colli e tumuli della stessa forma; p o p a s t 'p o d so p k u , lett: «finire sotto il colle», significa nel gergo del lager «finire sottoterra».

so p k a , s o p k i

so rgen te vedi k lju c . so v c h o z , so v ch o zy S o v n a rk o m

S o v e tsk o e c h o z ja jstv o , Azienda agricola statale.

S o v e t n aro d n ich k o m issa ro v . Consiglio dei commissari del popolo, de­

nominazione, dal 1917 al 1946, del Consiglio dei ministri dell’Urss. Servizio di scorta di singoli detenuti o piccoli gruppi convocati con urgenza; può essere effettuato con qualsiasi mezzo, compresi l’aviazione civi­ le e il treno; ma s. si chiama anche la speciale scorta che accompagna i dete­ nuti al luogo di fucilazioni collettive.

sp e c k o n v o j

GLOSSARIO

1301

sp ec la g er', s p e c la g e r ja ovvero sp e c ia l'n y e lag erja Sistem a di lager di lavoro for­

zato con un regime particolarmente severo per soli detenuti politici; furono istituiti dall’N kvd-M vd nel 1948 con l ’intento di ovviare al fatto che la « d i­ rettiva speciale», s p e c u k a z a n ìe * , sull’impiego esclusivo per lavori fisici pesan­ ti dei p o lìtz a k lju c e n n y e restava spesso lettera m orta, poiché i migliori specia­ listi di varie discipline si trovavano proprio tra i «p o litici»; vengono aboliti di fatto dopo il 1953-54. sp ecpereselen ec , specpereselen cy

Persone trasferite coattivamente in luoghi di nuo­ va colonizzazione; nell’N kvd-M vd esisteva dal 1936 una sezione apposita; ne­ gli anni 1936-37 e fino agli inizi degli anni Q uaranta furono deportate intere popolazioni: «m inoranze» nazionali del Caucaso, i Tatari di Crim ea, i T ed e­ schi del Volga, ecc.

sp e c u k a z a n ie , s p e c u k a z a n ija

S p e c ia l'n o e u k a z a n ie , Direttive speciali fornite dal­ l ’O so * al «d elegato » locale le quali disponevano che un detenuto fosse impie­ gato esclusivam ente in lavori fisici pesanti, gli fosse tolto il diritto alla corri­ spondenza e fosse oggetto di rapporti periodici da inoltrare alla Direzione del Gulag. S e k re tn o -p o litic e sk ij o td el, «Sezion e politica segreta»; lo Spo dell’O gpu al­ l’inizio degli anni Trenta si occupa in particolare dell’apparato del partito, gli intellettuali, scienziati, ecc.

Spo

sq u a d r a d i r ista b ilim e n to vedi O K . S r vedi eser. ssy lk a , ssy lk i Relegazione, «esilio interno»; tradizionale pena dell’epoca zarista,

in unione o in alternativa ai lavori forzati, la deportazione per un certo perio­ do in luoghi lontani con il divieto di ritornare alla propria residenza è rein­ trodotta dai bolscevichi fin dal 1918, in un primo tempo nella form a piu blan­ da di v y sy lk a , ma poi come s . a tutti gli effetti; di solito è una pena aggiuntiva alla condanna al lager, quando non si trasform a in un esilio b e ssro cn y j che trat­ tiene « a v ita » l’ex detenuto lontano dal «continente». Stachanovista, partecipante al movimento di emula­ zione per una sempre m aggior produttività del lavoro, sorto in Urss dopo il 1935 e ispirato agli exploit lavorativi del minatore Aleksej G rigor'evič Stachanov. sta c io n a r Baracca sanitaria in un’unità del sistem a dei lager; il personale sanita­ rio è quasi sempre com posto da detenuti. staro sta , staro sty Anziano, figura tradizionale del mondo rurale e artigiano rus­ so; in particolare, qui, «an zian o» eletto da tutti i detenuti; veniva designato dai reclusi di un istituto penitenziario per rappresentarli presso l’amministra­ zione; era questo un uso di epoca zarista e si estese anche ai lager; ma dall’i­ nizio degli anni Trenta lo s. potè rappresentare solo la propria cella, dal 1938 non fu più elettivo e cominciò a essere nominato dall’amministrazione con fun­ zioni di «responsabile» della cella.

s ta c h a n o v e c , sta c h a n o v c y

Pino nano, dal verbo s tla t'sja «distendersi, serpeggiare»; termine bota­ nico generico che designa le varietà arbustive, nane e «p ro strate » di diverse specie arboree, che si sono adattate alle condizioni climatiche del N ord; lo s. di Šalam ov, citato anche come k e d r o k e d rac , è il K e d ro v y j s tla n ìk , Pinus pu­ ntila, delle Pinacee.

stla n ìk

1302

GLOSSARIO

Vagone ferroviario per il trasporto dei detenuti, dal nome del primo ministro dei tempi di Nicola II che lo introdusse; in epoca sovietica si conti­ nuano a chiamare s. i vagoni passeggeri o merci adattati alle esigenze delle e tap y , ma poi subentrano altri nomi: v a g o n z a k o z a k v a g o n (da z a k lju ie n n y j) .

sto ly p in

štra fn ja k

Baracca di punizione o altro settore della

zon a*

destinato a tale uso.

settore del lager o anche una filiale, una komandirovka, ecc., dove vigono, a fini di punizione, condizioni di alimentazione e regime particolarmente dure. s tu k a c , stu k a c i (f. s t u k a c k a ) Delatore, spia, dal verbo s tu c a t', «bussare». U ra fz o n a

S tra fn a ja z o n a ,

Corrisponde a f r a e r * ; il p o rc en n y j ity m p o p o r c a k è un «non ma­ lavitoso» però «traviato», «marcio», dal quale secondo i malavitosi «ci si può aspettare di tutto». s u b b o tn ik , su b b o tn ik i Sabato comunista, di lavoro straordinario gratuito (da su b b o ta , sabato). s u k a , s u k ì Cagna, è il b la tn o j che ha violato la «legge» non scritta della malavi­ ta secondo la quale non bisogna lavorare o collaborare con le autorità; tra i ma­ lavitosi rispettosi delle legge e le «cagne» scoppiò una vera e propria guerra ( su e 'ja v o jn a ) negli anni Quaranta. sverch srocn ìk vedi p eresìd eìk . sty m p , stym py

sy sc ìk -o p e ratw n ìk

O p e ra tiv n ik *

che dà la caccia ai detenuti evasi.

Carriolante in un giacimento o in un cantiere (da t a c k a , car­ riola). tajg a Foresta boreale, formata prevalentemente di conifere (larici, pini e abeti) delle zone settentrionali del continente euroasiatico e delimitata a nord dalla tundra artica e a sud da praterie, foreste di latifoglie e steppe. ta ie c n ik , ta c e c n ik i

T ee

T e p lo v a ja e le k tro c e n tra l',

Centrale termoelettrica.

Vagone riscaldabile per trasporto merci, adattato per il tra­ sporto dei detenuti. « te r z a s e z io n e » Detta anche o p e rc e k istsk a ja c a s t ’, è solo formalmente una sezio­ ne del la g o td e le n ie o della prigione in cui si trova; in realtà dipende per scala gerarchica dalle autorità della sicurezza dello Stato, gli «organi» ai quali ri­ sponde l ’op er, il «delegato» titolare della «sezione»; diversamente dagli altri uffici amministrativi, la sede dell’o p e r si trova all’esterno della z o n a , in una ca­ setta isolata. t i s k a t ' rò m a n y «T irare» o «stampare romanzi» (espressione dei b la tn y e ): rac­ contare romanzi, racconti, ecc. adattandoli al gusto degli ascoltatori malavi­ tosi; un buon «narratore» ha cibo, letto e protezione assicurati. to p ea n , to p ia n y Tavolaccio, pancaccio, rozzo telaio al quale si riduce spesso il letto del detenuto; il sacco che fa da materasso, se c ’è, è imbottito di ramaglie. to rb a z y , to rb a sy Morbidi stivali di pelle di renna con il pelo all’esterno. T orgsin V se so ju z n o e o b "e d in e n ie p o to rgo v le s in o stra n e am i Associazione panso­ vietica per il commercio con gli stranieri. tran z itk a vedi p e re sy lk a . te p lu sk a , te p lu šk i

Addetto all’allestimento e alla manutenzione delle passerelle per il carreggio in uno sterro o scavo di miniera (da trap , passerella).

trap o v šč ik

GLOSSARIO

1303

C e n tr a l'n a ja trassa-šosse, strada rotabile principale che da M agadan si svi­ luppa per oltre 1000 chilometri (2000 con le diramazioni) verso N ord fino al fiume Kolym a, piegando poi a ovest fino a O jmjakon e al fiume Indigirka: col­ lega centri abitati, giacimenti e lager della Kolym a; fu costruita dai detenuti del D a l's tr o j senza macchine di movimentazione, con pala e carriola.

trassa

trëc h so tk a , trëch so tk i Razione di pane itr a fn a ja , « d i punizione» (300 grammi gior­

nalieri) per la incompleta realizzazione della «n o rm a» o per altre infrazioni. Analogam ente ai «cin qu an totto», i condannati alla deportazio­ ne in base all’art. 35 del C odice penale della Repubblica russa per una gene­ rica «pericolosità sociale». L ’art. 35, in vigore dagli anni Trenta, comporta l ’obbligo del lavoro coatto, quasi sempre con detenzione in lager.

« tr e n ta c in q u e »

trib u n ale d ’o n o re vedi p ra v ilk a .

«T ribunale di tre inquirenti» della V čk o del Gpu-O gpu che, a co­ minciare dal rc)i8 e fino al 1934, emise condanne inappellabili, anche capita­ li, in assenza degli im putati e senza osservare nessun’aìtra procedura penale; è alle origini delle successive O so.

tr o jk a , tr o jk ì

Trockista, persona condannata per attività e legami di tipo trockista, reali o supposti; i prim i arresti iniziano nel 1925, dopo la destitu­ zione di Trockij, e continuano per quindici anni; speciali sp e c u k a z a n ija impo­ nevano un trattam ento particolarmente duro.

tro c k ist, tro c k isty

tru d o den ' tru d o d n i G iornata lavoro.

udamik, udamiki G iornata di lavoro straordinario gratuito per svolgere lavori extra non previsti dal piano. Termine ispirato alVudamìcestvo, il movimento di emulazione socialista dei lavoratori d ’« u r to » o « d ’assalto», Vu. nel lager equivale al subbotnik. ugolovnik, ugolovnìki Crim inale detenuto, non necessariamente vor o blatnoj, affiliato alla malavita.

upravlertìe Direzione di un complesso di lager. U ië tn o -ra sp re d e lite l'n a ja c a st', sezione destinata alla registrazione e riparti­ zione della m anodopera, ufficio dell’amministrazione di un la g o td e le n ie ; di so­ lito diretto da un «lib ero », si avvale della collaborazione di n q rjad c ik i, ripar­ titori, u c ë tc ik i, com putisti, e ispettori scelti tra i detenuti; risponde all’Uro, il corrispondente ufficio a livello di direzione concentrazionaria.

U rč

u rk a , u rk i

ladro

V

1) G rosso ladro, un elemento di spicco della m alavita; 2) B la tn o j, un zakone.

u r k a c , u r k a ii (f. u rk ack a)', u rk a ga n , u rk agan y

Altri sinonimi di u rk a .

JJp rav le n ie sev em y ch lagerej o so b o g o n az n a c e n ija , Direzione dei lager del N ord a destinazione speciale, o Sion, S ev e m y e lagerja o so b o g o n a z n a c en ija , è la

V slo n

denominazione ufficiale del lager delle Solovki*. U s c iti U pravten ie sev ero-vostocn y m i isp ravitel'n o-tru d ovy m ì lagerjam i Ogpu-Nkvd-

M vd Sssr, Direzione dei lager di lavoro correzionale del N ordest; nasce con­ tem poraneamente al D a l's t r o j * per provvedere alle sue esigenze di m anodo­ pera.

GLOSSARIO

1304 v a le n o k , v a le n k i V čk

Stivali invernali di feltro.

V se ro ssijsk a ja C re z v y c a jn aja K o m is s ìja , Commissione straordinaria panrus­

sa presso il Consiglio dei commissari del popolo per la lotta alla controrivolu­ zione e al sabotaggio, nota come C eka, venne creata nel dicembre 1917 ed è la capostipite di tutte le succesive organizzazioni per la sicurezza dello Stato; nel febbraio 1922 venne abolita e le subentrò la Gpu. v e č n a ja m erz lo ta Strato di terreno perennemente gelato della Kolyma; con un termina coniato recentemente: «perm afrost», ttenzona, ven zon y Zona per detenuti affetti da malattie veneree. v ersta, verste Form a italianizzata di v e rsta , vè’r sty, antica unità di misura di lun­ ghezza, equivale a 1067 metri circa. V išch im z a V isersk i] c h im ic e sk ij z a v o d , Stabilim ento chimico di V isera. Fiume nella provincia di Perm (Urali settentrionali); alla fine degli anni Venti vi venne istituita la IV ripartizione dello Sion (lager delle Solovki), che nel 1930 divenne l’autonomo Višerlag dell’O gpu, con direzione a Vitaach; il lager comprendeva Solikamsk, Berezniki, Kizel'. Salamov vi passò oltre due anni tra il 1929 e il 1931 e ne scrisse in V ise r a . A n tiro m a n z o (1961).

V isera

M issioni vitaminiche per la raccolta di aghi di pino; ne veniva ricavato un infuso ritenuto efficace contro lo scorbuto; la lavora­ zione si svolgeva in appositi v . k o m b ìn a ty .

v itam in n y e k o m a n d iro v k i

Seguaci dell’ex generale sovietico A. Vlasov; già prigionieri dei Tedeschi, combatterono poi al loro fianco; consegnati alla fine della guer­ ra all’Unione Sovietica dagli alleati, vennero in parte fucilati e in parte con­ dannati a 10-15-25 anni di lager. v o ch ra vedi o c h r a n a . v la so v e c , v la so v c y

V oen kom at

V oen n y j k o m issa ria t, D istretto militare.

v o l'n y j, v o l'n y e (f. v o l'n a ja )

Anche v o l'n ja š k a e v o l'n o n a ë m n y j, «lib ero » o «lib e­ ro salariato»; sono coloro, medici, ingegneri, geologi, che lavorano alla Koly­ ma senza essere né detenuti né membri dell’amministrazione penitenziaria, avendo accettato un ingaggio in vista dei grossi guadagni che si possono rea­ lizzare con le varie «ind en n ità»; oppure anche ex detenuti che restano a la­ vorare come salariati sia volontariamente sia perché non è loro consentito di tornare sul «continente». v o r, vo ry vedi b la tn o j m ir. v o ra n vedi c ë m y j voron .

G iornata di lavoro volontario gratuito (da v o sk resen ie, domenica), analogo a su b b o tn ik .

v o sk re sn ik , v o sk re sn ik i

U nità di misura empirica usata nel lager per misurare tabacco e altri aridi (da v o se m ', otto); equivale a otto scatole di fiammiferi.

v o s 'm u šk a

Educatore; per conto della K v č * svolge presso i detenuti, durante il loro tempo libero, un’attività propagandistico-educativa: esorta a impegnarsi di piu nel lavoro, legge articoli di giornale che gli passa il delegato degli organi, ecc.

v o sp ita te l', v o sp itate li

v y p isk a , v y p isk i O rdinazione allo spaccio della prigione o del lager di determi­

nate quantità e tipi di prodotti consentiti; per motivi disciplinari al detenuto può essere interdetto l’accesso allo spaccio. v y ia k Vy ssa ]a m era, pena capitale.

GLOSSARIO

1305

Com puto dei giorni lavorati ai fini della liberazione anticipata; si­ stem a che consente di calcolare piu giorni per ogni giornata di lavoro, purché sia completata e superata la norma di produzione; questo riguarda anche la­ vori particolarmente im portanti e pericolosi. z a k lju c ë n n y j , z a k lju c ë n n y e (f. z a k lju c ë n n a ja ) D etenuto; abbreviazione indicata sui documenti: z/k-, pi. z /k z /k ; pronuncia: z e k , z e k à \ f. z e c k a .

z a c ë t, z a c ë ty

Legge; il v o ro v sk o j z . è la «legge dei ladri», il codice d ’onore della mala­ vita; i ladri V z a k o n e sono quelli che ad essa si attengono; vn e z a k o n a gli altri. Z in i M arca di automobile prodotta nel Gordcovskij avtomobil'nyj zavod imeni M olotova (Fabbrica autom obilistica M olotov della città di Gorlcij). Z is M arca d i automobile prodotta nel M oskovskij avtomobil'nyj zavod imeni Staiina (Fabbrica autom obilistica Stalin di Mosca). zakon

Spazio nel lager delim itato da recinzioni, filo spinato e palizzate, e tenuto sotto tiro da guardie e sentinelle dall’alto delle torrette d ’osservazione e dai posti di guardia; ma anche qualsiasi spazio di rispetto: può essere la z . delimi­ tata con segni convenzionali dalla scorta durante un trasferimento e che i de­ tenuti non devono oltrepassare pena la morte.

zon a

.

p.

v ii

XV XXX IX X L iii

Prefazione di Irina Sirotinskaja R icordi. Lunghi anni di conversazioni Cronologia Nota del traduttore

I racconti di Kolyma I racconti di Kolyma 5 7

14 17 23 26 31 35 41 57

59 63

68 74 80 84 89 96 103

in 115 120

Nella neve Sulla parola Di notte I carpentieri Misurato a parte II pacco da casa Pioggia «Kant» A razione secca L’iniettore L’apostolo Paolo Le bacche La cagna Tamara Cherry-brandy Disegni di bambini II latte condensato II pane L’incantatore di serpenti II mullah tataro e la vita all’aria aperta La prima morte Zia Polja La cravatta

1310 p. 127 132 136 144 148 158 162 172 173 184 203

INDICE

La tajga dorata Vas'ka Denisov, ladro di maiali Serafim Giorno di riposo II dom ino Ercole Shockterapia II pino nano La Croce Rossa II complotto dei giuristi La quarantena del tifo

La riva sinistra 225 229 233 239 245 248 238 271 280 287 295 311 325 339 343 353 338 367 383 390 393 407 414 430 438

II procuratore della Giudea I lebbrosi L ’accettazione I geologi Gli orsi La collana della principessa Gagarina Ivan Fëdorovic L ’accademico La mappa dei diamanti II non convertito La lode migliore II discendente del decabrista I com itati dei poveri M agia Lida Aneurisma dell’aorta Un pezzo di carne II mio processo Esperanto Menu speciale L ’ultima battaglia del maggiore Pugacëv II direttore dell’ospedale II bouquiniste In lend-lease Sentenza

INDICE

II virtuoso del badile p. 449 451 465 477 482 485 489 491 504 511 516 526 536 544 391 601 610 617 626 633 639 648 694 701 712 717 720 731

Un accesso Orazione funebre Come incominciò Bella scrittura L ’anatra II businessman Caligola II virtuoso del badile Rur Bogdanov L ’ingegner Kiselëv L ’amore del capitano Tolly La croce I corsi II primo celtista II «weismanniano» A ll’ospedale Giugno Maggio Ai bagni Riodiamante II procuratore verde II primo dente L ’eco delle montagne Alias Berdy Le protesi Inseguendo il fumo della locomotiva II treno

Scene di vita criminale 743 749 780 794 799 822 833 839

A proposito di un errore della letteratura Sangue di furfante La donna nel mondo della malavita La razione carceraria La guerra delle «cagne» Apollo tra i malavitosi Sergej Esenin e il mondo della malavita Come «si tirano i romanzi»

I3II

1312

INDICE

La resurrezione del larice p. 851 853 838 861 869 874 882 889 894 899 903 908 913 929 938 943 947 949 961 971 977 1007 1018 1031 1035 1044 1054 1058 1061 1066

II sentiero Grafite Attracco all’inferno II silenzio Due incontri II «term om etro» di Griška Logun La retata Occhi coraggiosi Marcel Proust La fotografia cancellata II capo della direzione politica Rjabokon' Vita e opere dell’ingegner Kipreev Dolore La gatta senza nome II pane di un altro Un furto La città sulla montagna L ’esame In viaggio per la lettera La medaglia d ’oro Vicino alla staffa Chan-Girej La preghiera della sera Boris Južanin La visita di mister Popp Lo scoiattolo La cascata II fuoco domato La resurrezione del larice

Il guanto, ovvero KR-2 1073 1105 1121 1131 1138 1141

II guanto

Gaiina Pavlovna Zybalova L ésa C ekanov, ovvero «com p agn i di p e n a» alla K olym a Triangolazione del terzo ordine L a carriola. I L a c a r r i o l a .i l

INDICE p. 1156 1161 1169 1176 1180 1189 1202 1206 1209 1215 1224 1235 1242 1256 1265

1285

La cicuta Ildottorjampol 'skij II tenente colonnello Fragin Gelo perenne Ivan Bogdanov Jakov Ovseevič Zavodnik Gli scacchi del dottor Kuz'menko L’uomo del piroscafo Aleksandr Gogoberidze Lezioni d’amore Le notti ateniesi II viaggio per Ola II tenente colonnello del servizio medico II commissario di leva Riva-Rocci Glossario

1313

Stampato per conto della Casa editrice Einaudi presso Mondadori Printing S.p.A., Stabilimento N.S.M., Cles (Trento) c.L . 1 7 7 3 4 * *

Edizione 8

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Anno io

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2013