I racconti di Kolyma [Vol. 1] 8806177346, 9788806177348

La Kolyma è una desolata regione di paludi e di ghiacci all'estremo limite nord-orientale della Siberia. L'est

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I racconti di Kolyma [Vol. 1]
 8806177346, 9788806177348

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Varlam Salam ov I racconti di Kolyma V o lu m e p r i m o



Con q u ale facilità l’uom o si dim entica di e s s e r e un uom o

La Kolyma è una desolata regione di paludi e ghiacci all’e stre ­ mo limite nordorientale della Siberia. L’e sta te dura poco piu di un m ese; il resto è inverno, caligine, gelo fino a se s sa n ta s o t­ to zero. Laggiù, dalla fine degli anni Venti, alcuni milioni di per­ so n e vennero deportate per volontà di Stalin e sfruttate, in condizioni am bientali disu m an e, a fini produttivi: scavi nei giacimenti d’oro, costruzione di strade, disboscam en ti e rac­ colta di legnam e... Salam ov arrivò in quel «crem atorio bian­ c o » nel 193?, e vi rim ase fino al 1953. Nel 1954, subito dopo il ritorno a M osca, cominciò a scrivere questi racconti, ovvero a «vivere non per raccontare m a per ricordare». Larrivo sull’«iso la K olym a», la casistica dei vari tipi di carce­ rieri, i luoghi e le condizioni del lavoro forzato, la natura ostile e co si carica di significati sim bolici son o le linee portanti di una creazione poetica che è anche analisi di uno spietato fe­ nomeno antropologico: «c o n quale facilità l’uomo si dim enti­ ca di e sse r e un u om o » e, s e posto in condizioni estrem e, ri­ nuncia alla sottile pellicola della civiltà. In copertina: David Sterenberg, La tazza rossa, olio su tela, 1915-16, particolare. Kiev, Collezione G. Ju. Ivakin. Progetto grafico 46xy.

ET Scrittori ISBN 978-88-06-17734-8

9 788806

177348

Questo ebook è stato realizzato e condiviso per celebrare il Centenario della Rivoluzione russa 1917-2017



Varlam Tichonovic Salam ov аДа K olym a nel 1952, subito dopo la liberazione.

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Varlam Salamov I racconti di Kolyma

Edizione integrale a cura di Irina P. Sirotinskaja Traduzione di Sergio Rapetti Volume primo

Einaudi

Titolo originali Kolymskie rasskazy

© 1989, 1998 I.P. Sirotinskaja O t sostavitelja e Vospominanija о V. Salamove

© 1990 I.P. Sirotinskaja © 1999 G iulio Einaudi editore s.p .a., Torino Traduzioni di Sergio R apetti per I racconti di Kolyma, e Piero Sinatti per la Prefazione e i Ricordi. Lunghi anni di conversazioni

Prima edizione «I millenni» 1999 Progetto e cura editoriale: Anna R aff etto C ura redazionale: Patrizia M ascitelli www.einaudi.it

ISBN 978-88-06-17734-8

PREFAZIONE

di Irina P. Sirotinskaja

Per la prima volta vede la luce fuori della Russia l’edizione com­ pleta dei Racconti di Kolyma di Varlam Salamov, cosi come è sta­ ta concepita dall’autore stesso. Il gigantesco mosaico dell’epopea kolymiana comprende sei raccolte di racconti e saggi: I racconti di Kolyma, La riva sinistra, Il virtuoso del badile, Scene di vita criminale, La resurrezione del la­ rice, Il guanto ovvero KR-2. La disposizione delle raccolte è stata attentamente meditata dall’autore. Il dipanarsi spiraliforme del­ le tematiche, il simbolismo della struttura narrativa, il sottotesto filosofico, il ritmo della prosa - tutto è stato soppesato sulla pre­ cisissima bilancia dell’intuizione creativa e della maestria profes­ sionale. Un solo esempio: l’ipostasi dell’autore nella prima raccolta dei Racconti di Kolyma porta il nome di Krist, e in quella raccolta i racconti sono trentatre. Questo esempio non è l’unico: le figure evangeliche, la tangibile tradizione della fermezza romana e della precisione dello stile, i richiami alla pittura e alla letteratura, tut­ to questo attesta il profondo radicamento della prosa di Salamov nella cultura mondiale, e, insieme, l’energia insita in quella prosa, tale da abbattere gli idoli del xix secolo: la fede nel Progresso, nel­ la giustizia sociale, nella virtu dell’uomo... L ’epopea kolymiana di Varlam Salamov rappresenta la piu im­ portante testimonianza sulla tragedia del xx secolo, e un fenome­ no unico nella letteratura russa. Forse il lettore italiano sentirà piu vicina e comprensibile la for­ ma di quest’opera: cicli di novelle legate tra loro dall’unità di pro­ tagonista, contenuto, percezione del mondo e intonazione del­ l’autore... Nella letteratura russa questa è una parola nuova, è una forma che corrisponde alla terribile verità del materiale, dove la polifonia del romanzo e un tema d’invenzione apparirebbero in qualche misura sacrileghi.

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IRINA P. SIROTINSKAJA

Lo stile artistico di Varlam Salamov è divenuto oggetto di ri­ cerca da parte dei critici letterari. «Il mondo estetico di Varlam Salamov è coerente e antinomico, catastrofico e salvifico. Il testo parla non solo dell’assurdità e della paradossale tragicità della vi­ ta, ma va al di là di un orrore divenuto totale e ordinario. Questo superamento si compie in misura significativa attraverso l’onnipervasiva paradossalità artistica e ritmicità politonale» - scrive la studiosa dell’opera scialamoviana Elena V. Volkova1. Lo stesso Salamov nei suoi saggi Sulla prosa e «La mìa prosa»1 aveva formulato il credo della ‘nuova prosa’: «Il nostro proprio sangue, il nostro proprio destino - ecco che cosa esige la lettera­ tura d ’oggi [...]. Si deve e si può scrivere un racconto che sia indistinguibile dal documento. Solo l’autore deve indagare il suo materiale con la pro­ pria pelle, non soltanto con il cuore, ma con ogni poro dell’epi­ dermide, con ogni suo nervo [...]. La nuova prosa contemporanea può essere creata solo da perso­ ne che conoscono perfettamente il proprio materiale, la cui padro­ nanza e trasfigurazione artistica non costituiscono per loro un com­ pito puramente letterario, ma un dovere, un imperativo morale»123. Per quantovriguarda «la trasfigurazione artistica», nei quader­ ni di lavoro di Salamov troviamo questo giudizio: «Anch’io mi sen­ to un erede, ma non della letteratura umanistica russa del secolo xix, piuttosto del modernismo dell’inizio del xx secolo. Riscontro a orecchio. Politematicità e simbolicità»4. Il lettore di questo libro deve farsi carico di una grande fatica spirituale. Non basta la semplice lettura. «Ricordi la cosa principale: il lager è una scuola negativa per chiunque, dal primo all’ultimo giorno. L ’uomo - che non sia capo 1 E . Volkova, Esteticeskij fenomen V. Salamova, in IVMezdunarodnye Salamovskie ctenija. Moskva 18-19 ijunja 1997, M oskva 1997, P- 7 - Altri contributi importanti letti al IV Convegno internazionale su Salamov sono stati quelli di E. Michajlik (Australia) che ha esaminato il fenomeno del modernismo nella struttura della prosa; di F. Apanovic (Po­ lonia) che ha parlato delle relazioni intertestuali; di M. Berutti (Francia) attenta a evi­ denziare i principi esistenzialisti. Di E. Volkova inoltre ricordiamo il volume di recente pubblicazione, Tragiceskij paradoks V. Salamova, Moskva 1998: al momento lo studio piu completo e approfondito che mai sia apparso sull’opera dello scrittore. 2 Pubblicati per la prima volta rispettivamente in V. Salamov, Levyj bereg, Moskva 198^ e in «Novyj m ir», 1988, n. 6. Ripubblicati entrambi nel voi. 4 delle opere complete: V. Salamov, Sobranie socinenij, Moskva 1998. 3 V. Salamov, Oproze, in Sobranie socinenij cit., pp. 360, 362, 364. 4 «Znam ja», 1995, n. 6, p.155.

PREFAZIONE

IX

o detenuto - non deve vederlo. Ma se lo vede, deve dire la verità, per quanto terribile sia. Da parte mia, ho deciso che dedicherò tut­ to il resto della mia vita proprio a questa verità» - scrisse Salamov a Solzenicyn nel novembre del 1962. Disumana, tremenda è la verità sui campi della Kolyma. An­ cora piu tremenda è la verità sull’uomo che si rivela in quelle con­ dizioni estreme. Con quale facilità l’uomo rinuncia alla sottile pel­ licola della civiltà, «con quale facilità l’uomo si dimentica di esse­ re un uomo»5. Questa scoperta è fondamentale, come la teoria della relatività di Einstein. L ’uomo è tale solo in senso relativo, finché non è po­ sto in condizioni di esistenza inumane. Ma come in un enorme tempio le volte oscure, grevi portano l’anima in alto, a un’altezza impensabile, cui il cuore anela, cosi anche in quel mondo terribi­ le c’è una qualche luce. Sta nella verità detta impavidamente. In quei granelli di bontà che non sono stati schiacciati dagli stivali. Nell’indole dell’autore. Dopo essere passato per tutti i cerchi del­ l’inferno della Kolyma, dopo aver trascinato la carriola nei giaci­ menti d’oro e fatto girare l’argano con il petto nelle miniere di car­ bone, dopo essere morto sotto gli stivali dei criminali e dei solda­ ti di scorta ed essere resuscitato in una branda d ’ospedale, ha trovato in sé la grande forza d’animo per la scelta definitiva, fon­ damentale: non venir meno a se stesso, non tradire nessuno, non diventare «lacchè» о «narratore di romanzi» per i criminali, né ca­ posquadra con il diritto di comandare i propri compagni («è me­ glio^ penso - morire»), Salamov ha trovato in sé la forza di passare una seconda volta attraverso quell’inferno, scrivendo I racconti dì Kolyma e vincen­ do l’inferno con la creazione. «Ogni racconto, ogni sua frase viene prima di tutto gridata nel­ la stanza vuota: io parlo sempre da solo quando scrivo. Grido, mi­ naccio, piango. E non posso fermare le lacrime. Solo dopo, finito il racconto о una sua parte, asciugo le lacrime»6. Pur con tutto quel dolore cocente, con quell’estrema sincerità e precisione artistica che pervadono i Racconti di Kolyma, Salamov era assillato dall’i­ dea di non aver detto la verità fino in fondo. « C ’è una profondissima non-verità nel fatto che il dolore uma­ no divenga oggetto dell’arte, che il sangue vivo, il tormento, il do5 Ivi. 6 Da una lettera del 1971 a me indirizzata.

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IRINA P. SIROTINSKAJA

lore appaiano sotto forma di quadro, poesia, romanzo. Questo è un falso, sempre. Nessun Remarque restituirà il dolore e la sven­ tura della guerra. Peggio ancora è che scrivere significhi per l’ar­ tista allontanarsi dal dolore, alleviare il dolore, il proprio dolore, dentro. Anche ciò è male»7. Questo libro è indirizzato all’anima di ogni uomo. Salamov, in­ tenzionalmente, rifugge ogni meditata letterarietà che possa allon­ tanare lo scrittore dal lettore, una letterarietà «sacrilega in un te­ ma come questo». Egli esige che il lettore prenda parte alla crea­ zione, al dolore, alle emozioni, all’ira. E illimitatamente sincero, illimitatamente veridico. Spietatamente veridico. I racconti di questa epopea sono accomunati da un fitto in­ treccio di protagonisti, sviluppi tematici, iterazioni-refrain sia sul piano emozionale sia su quello narrativo, ma su tutto domina l’in­ tonazione dell’autore, la sua voce severa e calma che dà un’enor­ me forzavepica a quel flusso lirico emozionale. La natura del ta­ lento di Salamov è infatti eminentemente lirica. «Io sono l’anna­ lista della mia anima»8. La sua maniera creativa è assai strettamente legata alle qualità della sua indole insieme coerente e contraddit­ toria, della sua natura appassionata e spontanea, della sua intelli­ genza profonda e analitica. L ’algebra e l’armonia coesistevano tem­ pestosamente in lui. E io spesso penso che il fondamento della sua integrità fosse di ordine etico. Una morale semplice e salda, che non faceva differenze tra il grande e il piccolo. «Tutto in me è semplice, chiaro. Non ho segreti. Il ladro, il de­ latore li prendo a schiaffi. La mia morale è elementare». Questa fermezza, questa chiarezza senza compromessi Varlam Tichonovic se la portava dietro sin dall’infanzia. Proveniva dal mondo armonioso di una famiglia patriarcale di ecclesiastici, dal­ le cupole d ’oro della cattedrale di Santa Sofia in Vologda, dai gio­ chi fanciulleschi sul placido e limpido fiume Vologda. Là egli nac­ que il 18 giugno 1907. Proveniva da un mondo in cui il metro della morale era servi­ re con abnegazione il Bene e il Popolo. Ricordiamo il sacerdote Tichon Nikolaevic che senza paura difendeva gli Aleutini dell’isola Kodiak dalle compagnie americane che li derubavano e li ubriaca­ vano. Varlam Tichonovic non imboccò la strada del padre: lo spi­ rito di sacrificio per la causa, proprio di Narodnaja Volja, diven­ ne il suo modello per sempre. 7 «Novyj M ir», 1989, n. 12, p. 3. 8 Da una lettera del 1971 a me indirizzata.

PREFAZIONE

XI

Veniva da un mondo che crollò nel 1918. Le forze primordia­ li e cruente della rivoluzione si scagliarono sul mondo della sua gio­ vinezza. Le croci d’oro furono abbattute, la famiglia cadde in mi­ seria, il fratello fu ucciso, il padre divenne cieco. Il nuovo potere non aveva bisogno degli ideali progressisti e degli elevati principi del padre-sacerdote. Lo scontro di Salamov con lo Stato totalitario fu inevitabile. La rispondenza tra parola e azione non fu solo massimalismo gio­ vanile, ma divenne principio di vita, portandolo - era il 1927 - nei ranghi dell’opposizione, nelle fila dei dimostranti che innalzava­ no lo slogan «Abbasso Stalin», nella tipografia clandestina e, - or­ mai è il 1929 - negli Urali settentrionali, alla Visera, sezione di­ staccata dei lager delle Solovki; e infine - è il 1937 - alla Kolyma. Lo Stato rispose al suo tentativo di restare se stesso con venti anni tra lager (1929-1931, 1937-1951) e confino (1951-1956). Ma vent’anni di deportazione non gli fecero mutare il fondamentale principio della sua vita. Nel 1966 scrive nel suo diario: « L ’arte ri­ chiede rispondenza tra azione e parola detta, e il vivo esempio può convincere i vivi all’iterazione, non nel campo dell’arte, ma in ogni loro opera»9. Appena tornato dalla Kolyma, nel novembre del 1953, comin­ cia a scrivere i Racconti di Kolyma. Nell’izba dove vive insieme a cinque о sei persone, operai di uno stabilimento addetto alla produzione della torba nella regio­ ne di Kalinin, egli, non ancora riabilitato, scrive di notte i pri­ mi racconti: Di notte, Kant, I carpentieri... Nel 1973, malato e so­ lo, finisce di scrivere gli ultimi racconti del ciclo II guanto ovvero KR-2. E stata composta nell’arco di vent’anni questa epopea che è compenetrata della sua vita, dei suoi pensieri, dei suoi sentimen­ ti, del suo talento, della sua anima, del suo ricordo dei vivi e dei morti. Passarono altri quindici anni prima che nel 1989 uscissero in Russia i primi libri dei Racconti di Kolyma-. La riva sinistra (Mo­ sca, 1989), La resurrezione del larice (Mosca, 1989), I racconti di Kolyma (Mosca 1991; voli. I e II, Mosca 1992), Raccolta delle ope­ re, (voli. I-IV, Mosca 1998). I manoscritti dei racconti si sono conservati: già nel 1966 Sala­ mov affidò il suo archivio all’Archivio Centrale di Stato per l’Ar­ te e la Letteratura (ora Archivio Centrale Russo - Rgali) e nel 1979, al momento di trasferirsi nel pensionato per vecchi e inva­ 9 «Znam ja», 1995, n. 6, p. 14.

XII

IRINA P. SIROTINSKAJA

lidi, dette tutto, fino all’ultimo foglio, al fondo istituito a suo no­ me (Rgali, f. 2596). Questi manoscritti sono divenuti le fonti dei testi per le edi­ zioni dei Racconti di Kolyma. Nella pubblicazione è stata conser­ vato l'ordine stabilito dall’autore10. Si, è duro leggere tutto questo. Ma è necessario, giacché i la­ ger non sono solo il passato. «Il fatto fondamentale è la corruzione della mente e del cuore, quando l’enorme maggioranza delle persone si persuade di giorno in giorno, in modo sempre piu netto, che si può vivere senza car­ ne, senza zucchero, senza vestiti, senza scarpe, ma anche senza onore, senza coscienza, senza amore, senza dovere. Tutto viene messo a nudo, ma l’ultimo denudamento è terribile»". Questa verità crudele sull’uomo e sul mondo, la possibilità che vengano sterminati degli esseri umani, che si commettano violen­ ze e crudeltà, che si annientino i concetti stessi di coscienza e di onore, avvelenano la società russa - e non solo essa -, distruggo­ no l’etica, diffondono una vile, sotterranea morale criminale. E il ladro, ministro о borseggiatore che sia, non si vergogna di rubare, l’assassino non teme il peccato, il truffatore e il mentitore irrom­ pono con sicumera nell’economia e nella politica. In che modo restiamo saldi sul limite del precipizio ? Dove tro­ viamo le forze per reggerci in piedi ? Una volta chiesi a Varlam Tichonovic: «Come vivere?» Egli rispose: «Con i dieci comandamenti. Li è detto tutto». E semplice, ma quanto difficile... Ricordo il viso di Varlam Tichonovic, solcato da rughe profon­ de, la fronte alta, i capelli gettati all’indietro, gli occhi azzurro­ chiari e uno sguardo intenso, penetrante, tutta la sua figura alta eV .

V. Salamov raramente datava i suoi racconti. Perciò le date di molti di essi sono state stabilite indirettamente e vengono indicate tra parentesi quadre. E stato di grande aiu­ to per la datazione l’indice che ne fece l’autore man mano che scriveva i racconti. Con­ frontando i testi datati esattamente con l’indice è stato possibile determinare l’ambito cro­ nologico di ciascuno. Salamov, inoltre, fino al 1967 scrisse i suoi racconti su quaderni di scuola che avevano un marchio tipografico relativo all’anno e al quadrimestre di stampa. Altre fonti utili sono stati appunti, lettere, la calligrafia stessa dell’autore che variò dagli anni Cinquanta ai Settanta, e infine il tipo di carta adoperata. Molti dei Racconti di Koly­ ma, ad eccezione della raccolta 11 guanto, vennero pubblicati dal periodico dell’emigrazio­ ne russa «Novyj zum ai'» (New York) tra il 1966 e il 1976. V. Salamov considerava molto negativamente la pubblicazione in forma sparsa della sua opera principale: riteneva infat­ ti che cosi venisse distrutto il tessuto artistico dell’epopea kolymiana e inammissibilmente violata la sua volontà. 11 Dalla lettera a B. Pasternak dell’8 gennaio 1956.

PREFAZIONE

XIII

possente di «ex-ilota», come si definisce in certi versi. Eterno ca­ valiere, Don Chisciotte che voleva salvare gli uomini, le loro ani­ me deboli e i loro deboli corpi. Ma, nascondendosi dietro le mie spalle, giace e respira il globo terracqueo, fidando tutto il giorno ingenuamente nella mia ombra salvatrice.

Cosi Salamov misurava la responsabilità del Poeta. IRINA P . SIR O TIN SK A JA Mosca 1999.

Traduzione di Piero Sinatti.

RICORDI

Lunghi anni ài conversazioni

Un grand’uomo. Fu questa la prima impressione che ricevetti da Varlam Tichonovic. Anche soltanto per il suo aspetto fisico: al­ to, largo di spalle; sin dalle prime parole, dal primo sguardo la chia­ ra percezione di una personalità di spicco, fuori del comune. Ho avuto modo di conoscerlo nel corso di molti anni. La pri­ ma impressione non è mutata, si è solo fatta piu complessa... Non si può e neppure si deve ridurre questa complicata, contradditto­ ria personalità a un denominatore comune. In lui coesistevano, contrapponendosi, le diverse ipostasi di una stessa personalità, por­ tate sempre al «punto di ebollizione». Un poeta che percepiva le forze recondite che muovono il mon­ do, i legami segreti tra cose e fenomeni; un poeta la cui anima sa­ peva sfiorare i fili dei destini. Un uomo di grande intelligenza, dalla memoria stupefacente. Tutto lo interessava: letteratura, pittura, teatro, fisica, biologia, storia, matematica. Un divoratore di libri. Uno spirito fatto per la ricerca. Un ambizioso - un tenace che aspirava ad affermarsi nella vi­ ta, a conquistare la gloria, l’immortalità. Un egocentrico. Un invalido che ispirava pena, incattivito, un’anima irrepara­ bilmente schiacciata. «La principale conclusione che trai dalla vi­ ta: la vita non è un bene. La mia pelle si è rinnovata, tutta... Ma non la mia anima». Piccolo ragazzo indifeso, avido di calore, di cure, di simpatia. «Vorrei che tu fossi mia madre». Cavaliere dall’abnegazione senza limiti, dalla dedizione senza limiti. Un uomo autentico. Ora sono i di lei colori che io porto, dipinti sulla sciarpa e sullo scudo.

XVI

IRINA P. SIROTINSKAJA

2 marzo 1966. Mettendo ordine nel suo archivio, trovai, conservato con cura in una piccola busta, il foglietto di un calendario da tavolo - la da­ ta era quella, 2 marzo 1966, - con un’annotazione di suo pugno: 11,30. Proprio quel giorno e a quell’ora ero andata da lui per la prima volta. I motivi erano di servizio, lavoravo nel settore «ac­ quisizioni» dell’Archivio Centrale di Stato per la Letteratura e l’Arte (Cgali)1. Aveva organizzato l’incontro la mia amica NataTja Jur'evna Zelenina, la cui madre, la poetessa e studiosa Vera Niko­ laevna Kljueva, aveva fatto amicizia con Varlam Tichonovic. Natasa mi aveva avvertito: - Attenta, è uno molto brusco, se solo non gli va qualcosa, ti ritrovi giu dalle scale. Decisi di rischiare, tanto piu che allora Varlam Tichonovic vi­ veva al primo piano. A quell’epoca avevo letto i suoi racconti che circolavano nel samizdat. La quarantena del tifo suscitò in me sem­ plicemente dolore, un dolore penetrante, una fitta al cuore. Era come se dovessi fare subito qualcosa, senza rinvii. Vivere diver­ samente, pensare diversamente. Erano crollate le fondamenta, si erano schiantati i supporti di un’anima abituata a credere nella giu­ stizia, nella giustizia finale del mondo: il bene trionfa, il male è punito. Andai da lui come da un nuovo profeta: per chiedergli come vi­ vere. Ma il pretesto era accettabile e ufficiale - mi accingevo a pro­ porgli di affidare in custodia permanente all’Archivio Cgali i suoi manoscritti. Mi spalancò la porta un uomo alto, dagli occhi azzurro chiari, con rughe profonde nel volto arso dal vento. Un vichingo! (Varlam Tichonovic mi redarguiva per le espressioni libresche, ma gli piacque quel «vichingo», lo mise persino nei suoi versi). Il vichingo galantemente mi aiutò a togliere il cappotto, mi con­ dusse in un’angusta stanzetta (di sette, otto metri) e mi invitò a sedere su una sedia tutta scrostata. Senza indugio, gli esposi la mia missione ufficiale. Mentre parlavo mi fissava con sguardo pene­ trante, socchiudendo appena le palpebre, come se davvero mi pas­ sasse da parte a parte. E tuttavia io, chissà perché, non ne fui tur­ bata, sebbene mi capitasse sempre di confondermi per un nonnulla e di arrossire fino alle orecchie. Ben presto, tuttavia, dal suo viso 1 L ’Archivio ha cambiato nome in anni recenti; attualmente è noto come R G A LI, Ar­ chivio Russo di Stato per la Letteratura e l’Arte [N. d. Т ].

RICORDI

XVII

spari quella tensione e l’espressione divenne indulgente e benevo­ la. Dette il suo assenso alla proposta sui manoscritti. E io, senza preamboli, arrivai subito al cuore della questione. Come vivere? La domanda non lo stupì. Forse non ero la prima ad avergliela po­ sta. Rispose che si deve vivere cosi com’è scritto nei dieci coman­ damenti. Non c’è, né occorre niente di nuovo. Restai un po’ de­ lusa. Tutto qui? E allora lui aggiunse un undicesimo comanda­ mento - non insegnare. Non insegnare a vivere agli altri. Ognuno ha la sua verità. E la tua verità può essere inadatta a un altro, pro­ prio perché è la tua, non la sua. Andandomene, gli chiesi se qualche volta potevo fargli visita. Con tono cattedratico, autorevole, come se mi desse un voto, rispose: «Ritorni, lei mi è piaciuta». Replicai: «Anche lei». Vidi che il severo vichingo si era improvvisamente confuso come un ra­ gazzetto, mentre goffamente mi porgeva il cappotto. In realtà non mi aveva deluso - era tale quale doveva essere l’autore dei Racconti di Kolyma. Solo che quell’undicesimo comandamento gli capitò di violarlo spesso. Le sue convinzioni pren­ devano sempre i colori vivi, contrastati della passione. I mezzi to­ ni non erano nella sua natura. Non si limitava a parlare, pensava a voce alta: insegnava, predicava, profetizzava. In lui c’era lo spi­ rito intransigente, intollerante degli Avvakum. A me, per esempio, madre di tre bambini piccoli e figlia di ge­ nitori che amavo, riamata, non si stancava di predicare la falange di Fourier, in cui lo Stato mette sotto la sua completa tutela vec­ chi e bambini. «Nessuna generazione è in debito con un’altra, - affermava agitando irosamente le mani. - Nasce un bambino: subito alla Ca­ sa per l’infanzia». Questo non gli impediva di accogliere con buffa deferenza i miei bambini (andavo spesso a trovarlo con loro), di conservare i loro disegni, di scrivere persino dei versi su di loro. Il mio cono­ scente Picasso - è una poesia sui disegni di mio figlio Alèsa. Anche un altro essere, oltre all’amica NataLja Jur'evna, mi die­ de la sua protezione favorendo la conoscenza con Varlam Tichonovic. All’inizio non attribuii la giusta importanza a questa refe­ renza, e quando un grosso gatto cominciò a strofinarsi con insi­ stenza contro le mie gambe, lo sfiorai distrattamente con il piede. Allora mi saltò sulle ginocchia e cominciò a cozzare con il muso contro le mie mani, e io senza tanti complimenti me lo tolsi di tor­ no perché non disturbasse. Mi meravigliai quando Varlam Tichonovic disse con voce commossa: «Non si adatta agli estranei». Mi

XVIII

IRINA P. SIROTINSKAJA

raccontò di un altro gatto, anzi di una gatta, Mucha, che era mor­ ta nel 1965: «Nessun altro mi è mai stato cosi vicino. Piu di mia moglie...» Mucha andava a passeggio con lui la sera, come fosse stata un cane. Sedeva sulla scrivania quando lui scriveva. Una crea­ tura che non disturbava, amava. Quando la gatta scomparve, Var­ lam Tichonovic la cercò dappertutto, persino al centro di raccolta dei randagi. Me lo raccontava, tremando in tutto il corpo: «En­ trai, mi vennero i brividi; là, nella gabbie sui ripiani, stavano i gat­ ti, in silenzio. Tutti in silenzio. Avevano capito ogni cosa ed era­ no pronti a morire. Chiamai Mucha, ma non c’era». Gli operai che stavano lavorando in cortile dissero a Varlam Tichonovic che al mattino avevano sotterrato una gatta morta ammazzata. Su sua ri­ chiesta la dissotterrarono. Egli la lavò, la asciugò sul radiatore, le dette l’ultimo addio e la seppellì. Provai un’infinita pena per lui e anche per Mucha. Tra i ricor­ di della mia infanzia continua a vivere quello dell’amatissimo bastardino Dek, un amico, anche lui morto ammazzato. Continuo a vederlo in sogno. Con i suoi occhi castani, lucidi d ’amore. Sve­ gliandomi, penso che un amore cosi grande non può sparire dal mondo senza lasciare traccia. Varlam Tichonovic capi che la mia compassione era autentica. «Ce ne corre di differenza tra uomini e gatti, - disse, - ma lei può esserlo, un gatto». Ecco che compli­ mento mi fece, e solo dopo capii quanto fosse straordinario. Lunghi anni di conversazioni. Capitavo spesso da Varlam Tichonovic. In previsione del mio arrivo preparava strette strisce di carta, su cui scriveva quello che doveva dirmi. Alcune si sono conservate nel suo archivio. E io fi­ nivo letteralmente sotto un diluvio di racconti. Era un narratore magnifico, tanto che davanti ai miei occhi rivivevano con imme­ diatezza frammenti del suo passato. «Non so perché, ma è come se vedessi tutto direttamente», - dissi una volta. «Perché sono io stesso che lo vedo», - rispose. Anche ora sento la sua voce abbas­ sarsi e il ritmo della narrazione rallentare quando il racconto toc­ cava il suo culmine: stringeva le palpebre, gli occhi scintillavano, il corpo pareva tendersi. E quasi cantilenando: «Ma-a non prese la scatola...» (Mi raccontava di G. G. Demidov, un episodio de­ scritto in Vita e opere dell’ingegner Kipreev). Pausa. E piu avanti, come uno sparo, «Non intendo indossare la roba smessa degli ame­ ricani». Pausa.

RICORDI

XIX

Quasi tutti i suoi racconti, specialmente quelli scritti nel 1966 e i successivi, prima li ho ascoltati da lui, poi li ho letti. Scher­ zando, ma talvolta quasi sul serio, mi chiamava co-autore. Lo scris­ se nella dedica premessa alla raccolta La resurrezione del larice. Di vero in tutto questo c’è soltanto che il mio entusiasmo per la sua prosa, la mia disponibilità ad ascoltarlo stimolavano in qualche mo­ do il suo flusso creativo. Piu di una volta mi disse quanto contava per lui la possibilità di «esprimersi fino al fondo». Avevamo an­ che delle discussioni. Gli rimproveravo un’esposizione talvolta troppo dilatata, a mio avviso, un filosofeggiare superfluo. Mi sembrava che ciò derivasse dalla sua sete inappagata di espri­ mersi. Era questa la ragione per cui tutto finiva nel racconto, an­ che quello che sarebbe dovuto confluire in saggi, memorie, lette­ re. Le parole gli volavano via nell’impeto dei pensieri e dei senti­ menti non espressi. «Tutti i miei racconti sono gridati...» mi scrisse nel 1971. E cosi era. Nel momento in cui i racconti nascevano, proprio l’alta ten­ sione emotiva gli impediva di controllarne il flusso. E dopo, rara­ mente tornava sul racconto già scritto. Probabilmente mi sbagliavo, il valore della sua prosa sta nel­ l’essere allo stato naturale, primigenio - sentimento, pensiero, pa­ rola primigeni -, nella capacità di fissare l’attimo in cui l’anima si rivela. Tra lui e il lettore non c’è quella barriera appena percetti­ bile, quel distacco, quella premeditazione propri dello stile lette­ rario, il lettore entra direttamente nel flusso della comunicazione spontanea con la sua anima. La letterarietà, infatti, poteva essere solo d’ostacolo in questo caso. Eppure, i mezzi letterari li cono­ sceva bene, li aveva meditati fin nelle estreme sottigliezze. Gli dicevo che doveva essere almeno un po’ il redattore di se stesso: rifinire, correggere, una volta scritto il racconto. Si ama­ reggiava molto e in risposta scrisse quasi un intero saggio, difen­ dendo «la libera manifestazione dell’anima dello scrittore» come metodo creativo. «Ogni mio racconto è uno schiaffo allo stalinismo e, come ogni schiaffo, ha leggi di carattere puramente muscolare [...] Nel rac­ conto la rifinitura non sempre risponde alle intenzioni dell’auto­ re: i racconti piu riusciti sono scritti in bella, о meglio, copiati dal­ la minuta una sola volta. Cosi sono stati scritti tutti i miei racconti migliori. Non ci sono rifiniture, ma la compiutezza c’è... Tutto quello che già è accaduto è come se languisse nel cervel­ lo, basta abbassare una leva nel cervello, prendere la penna e il rac­ conto è scritto.

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IRINA P. SIROTINSKAJA

I miei racconti rappresentano una lotta vittoriosa e consape­ vole contro quello che viene chiamato il genere del racconto [...] Lo schiaffo deve essere secco, sonoro [...] Ogni mio racconto è as­ solutamente autentico. Ha l’autenticità del documento [...] Per l’artista, per l’autore fondamentale è la possibilità di esprimersi, di affidare il libero cervello a quel flusso. L ’autore stesso è un te­ stimone, con ogni sua parola, con ogni virata della sua anima dà la formula definitiva, esprime la sentenza. E l’autore è libero non tanto di affermare о respingere qualcosa per mezzo di un senti­ mento о di un giudizio letterario, quanto di esprimersi fino in fon­ do a modo suo. Se il racconto è condotto in porto, ecco che si ma­ nifesta un giudizio siffatto» (1971). Dopo la morte di Varlam Tichonovic, mi rimproverai di non aver registrato le nostre conversazioni. Ma poi, dopo aver letto i suoi appunti, tutto quanto aveva scritto, capii che lui aveva an­ notato quasi ogni cosa. Pensavo allora - e continuo a pensarlo oggi - che Salamov ha imboccato una strada nuova per la letteratura russa. Nella prosa russa contemporanea la tradizione più forte è for­ se quella classica tolstoiana. Solzenicyn è tutto dentro questa tra­ dizione. Indubbiamente è una tradizione rispettata e rispettabile. E i critici vi si erano conformati: tipi, psicologie, linee tematiche e loro intersezioni, io narrante... Non può essere tuttavia questo l’approccio alla prosa di Sala­ mov. Così come non si può comprendere Hiroshima, Auschwitz e Kolyma restando dentro la struttura psichica dell’aureo secolo xix. Ho sempre detto a Varlam Tichonovic che egli aveva trovato la forma artistica adeguata alla materia della vita, che questo era il suo grande contributo alla letteratura russa: l’estrema concisio­ ne del racconto che è come se racchiudesse in sé la molla che schiz­ za verso l’alto e penetra, tagliente, nella coscienza, nel cuore del lettore. Una sola frase di Misurato a parte, «Dugaev rimpianse di aver lavorato, di aver tanto patito per niente, anche quel giorno», entra nella memoria e vi resta per tutta la vita. Egli ha mostrato la vita e la psiche oltre ogni limite, al di là del bene e del male, e solo così la si può mostrare, senza iniezioni di emotività, senza indagini psicologiche - le parole superflue ap­ paiono un sacrilegio. Severo, laconico, preciso. Questa laconicità altro non è che l’ira e la sofferenza dell’autore compresse fino al limite estremo. L ’effetto prodotto dalla sua prosa sta nel contra­ sto tra la serenità severa del narratore, che si traduce in un distacco narrativo, e il contenuto esplosivo, ustionante.

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Allora erano poche le persone che gli dicevano questo. E an­ che il mio modesto sostegno fu importante per lui. Nel 1966 mi scrisse: «Tu mi dài la consapevolezza del mio piccolo posto nella vita». Piccolo - era già orgoglio. Apprezzavo la sua prosa piu dei suoi versi e questo lo offende­ va molto. E mi pesava sentirgli dire, ogni tanto, negli anni Set­ tanta: «I racconti non hanno niente di speciale». In quegli anni il suo flusso creativo si era trasferito in qualche misura nei versi, ma i versi sempre piu raramente conservavano, secondo me, la forza della vera poesia. Si sforzava di scrivere anche versi «d ’occasio­ ne». Ma questo non gli riusciva, vale a dire che gli riusciva male. Naturalmente non gli dicevo niente, ma lui lo sentiva. La prosa si inaridiva. Dopo il 1973 in prosa scrisse pochissimo. Vologda. Nel 1968, d’estate, visitai Vologda. Fui nella casa presso la cat­ tedrale di Santa Sofia, dove Varlam Tichonovic trascorse l’infan­ zia, passeggiai sul poggio degli Salamov. Gli portai le fotografie e (riconosco il vandalismo insito nel gesto) un frammento che ave­ vo staccato dallo zoccolo della cattedrale. Quell’estate Varlam Ti­ chonovic mi scrisse: 8 giugn o 1 9 6 8 . P en sav o , la c ittà d a tem p o è d im e n ticata, gli in con tri con v e c­ ch i co n o sce n ti 2 n o n m i h an n o p ro c u rato n essu n a em o zio n e , né seg re ta, né m an ife sta - con la m o rte d i m ia m ad re, è fin ito tu tto , ho m esso una croce so ­ p ra la c ittà ... E d ecco, o r a 4 d o p o il tu o v iag gio , ho sen tito q u alco sa d i caldo scorrerm i nel p ro fo n d o ... E sta to strao rd in ariam en te b ello che tu a b b ia v i­ sto la c a sa d o v e ho v issu to i p rim i q u in d ici ann i d ella m ia v ita e sia p ersin o p a ssa ta d al terrazzin o d ’in g resso , - l ’in g re sso p rin cip ale, c o si p rim a si c h ia ­ m ava - co n la scala p e r il seco n d o p ia n o , e il v e tro ro tto . U n a fia b a , sem p li­ cem en te. L a p ie tra d el L ag o B ia n c o m i è m en o cara d i q u e lla della c a tte d ra ­ le, p erch é sul L ag o B ia n c o non sono m ai sta to e v icin o alla c a tte d ra le ho v is­ su to q u in d ici anni. L à n on c ’eran o alberi (sul d av a n ti d ella casa). N o n ci sono m ai sta ti. C ’ eran o u n cam p o sp ian ato , un a stra d a. S o tto le fin e stre un a sie­ pe di bian co sp in o . U n albero - un p io p p o - e ra in v ece nel co rtile, d ietro c a ­ sa ...

Cosi iniziava il flusso dei ricordi, La quarta Vologda3. In quegli anni Varlam Tichonovic raccontava quasi ininterrottamente dell’in­ fanzia, ma qualcosa non è entrato nel racconto che ci ha lasciato. 2 II pittore V. N. Sigorskij e sua moglie, nativi di Vologda [N. d. A.]. 3 E questo il titolo dell’autobiografia di Salamov che comprende gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza trascorsi a Vologda [N. d. Т ].

XXII

IRINA P. SIROTINSKAJA

«Non amavo mio padre», - diceva Varlam Tichonovic. C ’era tra loro un rapporto tutt’altro che semplice. In breve, si verificò lo scontro inevitabile tra due caratteri egualmente forti e passio­ nali. Il padre non era poi un deposta così terribile: non costrinse mai nessuno dei figli a scegliere la carriera religiosa, sebbene lo vo­ lesse, non ostacolò i liberi passatempi dei figli e delle figlie, non impose i suoi conoscenti. E le occupazioni culinarie della madre erano cosa consueta e inevitabile in una famiglia non ricca. Nel 1989 fui di nuovo a Vologda, lavorai negli archivi per orien­ tarmi un poco nella genealogia di Varlam Tichonovic. Mi turbò l’o­ rigine zyriana - così l’aveva definita Varlam Tichonovic - del padre («sciamano», «mezzo-zyriano»). Accertai che Tichon Nikolaevic era figlio e nipote di preti ortodossi e che le radici di questa famiglia era­ no a Velikij Ustjug. Nell’«angolo sperduto di Ust'-Sysolsk» finì so­ lo il padre di Tichon Nikolaevic, Nikolaj Ivanovic, mentre il nonno Ioann Maksimovic Salamov proveniva dal clero urbano, sebbene avesse servito in una chiesa parrocchiale del distretto di Ustjug ver­ so la fine della sua vita. La famiglia di Tichon Nikolaevic non era affatto povera: egli riceveva 1350 rubli di pensione annua per il ser­ vizio prestato nella diocesi del Nord America, uno stipendio di 600 rubli come sacerdote della cattedrale, un’entrata di 250 rubli dalla cassetta delle offerte. Rispetto ai prezzi in vigore prima della rivo­ luzione, era un reddito non ricco, ma buono. Quanto alle incombenze culinarie della madre, risalgono, na­ turalmente, al dopo-rivoluzione. Varlam Tichonovic non poteva ricordare la madre e la sorella Natasa senza piangere. Ma quale donna non si trascina dietro il carro dell’economia familiare? E la madre in cucina e la sorella al mastello del bucato non costituiscono ancora una tragedia. Ma i soldi in casa li amministrava la madre, i trofei di caccia era lei a spartirli... Né la madre doveva poi essere così schiacciata dalla vo­ lontà del padre se in seguito potè sorreggere le volte dell’universo che erano crollate sopra la famiglia. Tichon Nikolaevic morì il 3 marzo 1933; la madre, Nadezda Aleksandrovna, il 26 dicembre 1934 - entrambi all’età di 65 anni. Salamov deve molto alla sua famiglia: per la fermezza morale inflessibile e per la forza d’animo che ci si può portare dietro solo dall’infanzia, quando la personalità nasce, si forma. E un’onestà scrupolosa e un’orgogliosa aspirazione all’indipendenza. Come disprezzava i balzelli «sulla povertà» fissati dagli intelli­ genty moscoviti a favore di chi era caduto in disgrazia. «Uno dà tre rubli ed è già nel novero dell’umanità progressista. Tre rubli

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per l’ingresso ed è già il tuo benefattore». Viene in mente suo pa­ dre cieco che ingaggiava battaglie nel nome di Dio, e la madre che in solitudine lottava contro la miseria. E a proposito del fratello Sergej. C ’è una quartina di Varlam Tichonovic: Chiama, chiama la sorda tenebra e la tenebra verrà, invidia tuo fratello e il fratello morrà.

È il fratello maggiore Sergej, leader riconosciuto dei ragazzi di Vologda. Il miglior cacciatore, il piu audace nuotatore, l’artefice del «poggio degli Salamov». Nell’intonazione della voce di Var­ lam Tichonovic, quando raccontava del fratello, del suo potere il­ limitato sui coetanei, risuonava una venerazione monellesca. Un episodio per tutti: sul poggio di ghiaccio un giovane disse a lui, Varlam, ancora ragazzino: - Scansati, monellaccio. E il suo accompagnatore (qui Varlam Tichonovic prese un’aria assai buffa di compassata dignità e serrò le labbra come a pregu­ stare l’allegro trionfo) scandi lentamente con tono grave: - Non è un monellaccio. E il fratello di Serëzka Salamov. C ’era anche una certa invidia fanciullesca per il fratello, il be­ niamino di tutti. - Nella fanciullezza avrei voluto essere storpio, malato. - Perché ? - chiesi meravigliata. - Per essere amato. Forse i genitori avevano un presentimento. Sergej era tallona­ to dalla morte. Mori a 22 anni. Con gli uomini Varlam Tichonovic aveva raramente un atteg­ giamento cordiale. Rispettoso, si. Ma non cordiale. Ma Sergej... Po­ tevo vederlo quel vivo amore infantile, quell’entusiasmo che anco­ ra legavano Varlam Tichonovic al fratello morto da tanto tempo. Giorno di compleanno insieme a Tjutcev. Molti suoi versi nascevano sotto i miei occhi. Racconterò di una poesia. Bufere con grandine greve, con grandine di lacrime grevi. Meglio, quando ci sei. Meglio, quand’è sul serio.

XXIV

IRINA P. SIROTINSKAJA O r a ch ied o p erd o n o , nella luce d o p o la b u fe ra, le tue p ro ib izio n i, no, non le violerò. G io r n o d i co m p lean n o in siem e a T ju tcev in siem e a T ju tc e v e a te, co n tro la m ia o m b ra, con l ’o m bra o ra scen d o in b a ttag lia . L a ragio n e d el sole che selv aggio acceca, la sen ten za о il d u b b io - anche q u e sto sei tu'.

L ’occasione di questa poesia è, come sempre, reale. Nel 1968 avevamo festeggiato il suo compleanno, il 18 giugno. Terrine con dolci e mele, cetrioli freschi, una gallina da una gastronomia, la mia fotografia sotto il Cremlino di Vologda sul tavolo. E la divi­ nazione nel nome di Tjutcev. Ma capitava anche nel nome di Blok. Chissà perché, mai con Pasternak. A luglio andai in vacanza con i bambini e gli ordinai con la massima severità di non crogiolarsi al sole al Serebrjanyj Bor: era un anno di intensa attività solare e lui amava nuotare e prendere il sole al Serebrjanyj Bor. Cosi scrisse anche delle mie proibizioni. Fu quello un periodo luminoso, felice della sua vita, le ombre della Kolyma per un po’ si erano diradate. Era l’estate del 1968, egli defini il giugno di quel­ l’anno il mese migliore della sua vita. Da una lettera: M o sc a , 12 luglio 19 6 8 . Il giugn o d el ’6 8 è il m ese m igliore d ella m ia v i­ t a ... S e fo ssi un fu tu ro lo g o , le cui m an sioni fin o a p o co tem p o fa eran o di co m p ete n za d ei m ag h i... m i augurerei p er l ’e tern ità u n fu tu ro com e il giugn o ap p e n a trasc o rso . M i p red irrei q u e sto g iu gn o , au sp ich erei p er m e so ltan to q u e sto giu g n o ...

La ragione del sole è la ragione della luce, della felicità. Come a una mostra di Matisse.

Cosi iniziava la poesia « Qualcuno mi stringerà il cuore in una morsa» (1969). «Le onde dello Stige»45vi apparvero su insistenza del redattore, al quale sembrava scarsamente etico accusare un’in­ 4 La poesia, dedicata a I. P. Sirotinskaja, porta il seguente commento dell’autore: «Scritta nel giugno del 1968. Una delle poesie piu importanti per m e» [N. d. Т ]. 5 Si allude a una variante pubblicata nel volume Moskovskie oblaka, Moskva 1972. I primi versi della stesura definitiva edita nel 1998 suonano così: «Com e a una mostra di Matisse I un giorno morirò. I Qualcuno mi stringerà il cuore in una morsa I lo immergerà nel fuoco, nella brace» [N. d. Т ].

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sufficienza cardiaca visitando la mostra dell’illustre pittore fran­ cese. Quel giorno eravamo insieme all’inaugurazione, c’era molta gente, faceva un caldo soffocante e Varlam Tichonovic si senti ma­ le: lo vidi impallidire mentre la fronte gli si imperlava di sudore. Ma risolutamente, con ostinazione, disse: «Va tutto bene. Bene». A fatica lo condussi in un’altra sala e lo feci sedere; respirò meglio e si riprese. In seguito, su questo episodio scrisse una poesia. Andavamo spesso alle mostre: Matisse, Rodin, Petrov-Vodkin, Pirosmanisvili, Falle, Picasso, Van Gogh, Vrubel'... О semplicemente andavamo alla galleria Tret'jakov, al museo Puskin. Non amava gli Ambulanti. Giudicava mediocre, di maniera quel tipo di pittura. La pittura ha la sua lingua: i colori. Con essi deve anche esprimersi l’anima del pittore, sosteneva. Ricordo che a una mostra di Petrov-Vodkin discutemmo da­ vanti al quadro Attacco psichico, in cui uomini dalle facce stravol­ te si lanciano in avanti per ammazzare loro simili e uno di questi, già ucciso, la mano sul cuore, sembra non tanto cadere, quanto piuttosto prendere il volo, estraneo a ogni cosa - ed è l’unico fra tutti ad avere un volto umano. Davanti a quel quadro dissi a Varlam Tichonovic che anche il soggetto è importante perché esprime il pensiero e l’anima del­ l’artista. Varlam Tichonovic obiettò irosamente che se nel quadro ci fossero stati solo i colori verde e rosso, senza il soggetto, sareb­ be stato egualmente inquietante. Una discussione analoga ci fu alla mostra di Rodin, riguardo a una scultura che raffigurava Balzac. Varlam Tichonovic afferma­ va che non è assolutamente necessario che il ritratto somigli all’o­ riginale. L ’importante è rendere l’anima del soggetto, la percezio­ ne che l’artista ne riceve. Io invece sostenevo che anche il volto esprime la nostra anima e che tra migliaia d ’anni desteranno piti emozione le fisionomie realistiche dei ritratti del Faiyùm che il vol­ to fuori dal tempo della Sfinge. Oggi, ricordando il volto di Var­ lam Tichonovic, sono felice che la scultura di F. Suckov e il di­ pinto di B. Birger abbiano una certa somiglianza con l’originale e che proprio grazie a questa somiglianza sembri possibile cogliere anche qualcosa della sua anima. Il pittore preferito di Varlam Tichonovic era probabilmente Van Gogh, la tela prediletta La ronda dei reclusi. Penso che egli fosse influenzato non solo dai colori, ma anche dal soggetto. Sia l’uno sia l’altro, sia il «che» sia il «come».

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IRINA P. SIROTINSKAJA

Letteratura. Nei confronti della tradizione tolstoiana Varlam Tichonovic aveva un atteggiamento recisamente negativo. Secondo lui, Tol­ stoj aveva allontanato la prosa russa dal percorso tracciato da Puskin e GogoT. Tra i prosatori russi, stimava piu di ogni altro GogoT e Do­ stoevskij. Nella poesia sentiva piu vicina la lirica filosofica di Baratynskij, Tjutcev, Pasternak. Nel suo amore per Pasternak c’era qual­ cosa di mentale, se cosi si può dire. Varlam Tichonovic leggeva spesso versi di Mia sorella la vita e diceva: «Che sguardo! Non so come abbia fatto, nel campo poetico ha portato in superficie inte­ ri nuovi filoni». Era l’entusiasmo professionale del poeta. Ma Blok, lo amava dal profondo dell’anima. Quando leggeva Blok, non parlava mai di invenzioni poetiche, piuttosto era come se sentisse in lui qual­ cosa di suo, della sua anima. A volte mi sembrava che fossero ricordi di giovinezza, una qual­ che eco della sua esistenza prima della Kolyma. Non glielo chie­ devo, erano sensazioni cosi sottili che non si potevano esprimere ad alta voce, tradurre in parole. Vedevo solo il suo viso ringiova­ nire, illuminarsi. ... E subito in risposta qualcosa intonavano le corde...

e ancora: Nati in anni sordi la nostra via non ricordiamo.

Sempre piu spesso Tjutcev era sul suo tavolo. Come, noi declinando, il nostro amore è più tenero e più superstizioso...

oppure: Beato chi questo mondo visitò nei suoi istanti fatali, tutti i beati lo invitarono, come un commensale al banchetto...

C ’erano versi prediletti anche di altri poeti, che spesso legge­ va: L ’uomo nero di Esenin, Il corno di Orlando di Cvetaeva, Chodasevic:

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XXVII

Gioco a carte, bevo vino con gli uomini vivo, non corrugo la fronte, tanto lo so che il cuore vola egualmente nella bufera prediletta... vola, mia navicella, vola, inclinati, non cercare salvezza, non ne esiste sulla via cui conduce l’ispirazione.

Io amavo Gumilëv e ciò irritava Varlam Tichonovic. Tutta quell’Africa, quell’esotismo erano per lui di cattivo gusto. Eppu­ re leggeva II tram che ha sbagliato strada. Io amavo anche Ezbekie, I capitani, e sempre Le perle. Naturalmente tutta La colonna di fuo­ co. Spesso leggevo Gumilëv. Guidano biancoalati i capitani, scopritori di nuove terre.

Una volta alla Biblioteca Lenin trascrisse l’intero ciclo Alla stel­ la azzurra e me lo portò. Fu il suo dono migliore. Anche ora con­ tinuo ad amare Gumilëv. Memoria, con mano di gigante tu conduci la vita, come un cavallo per le briglie.

Gumilëv ha una ricchezza ritmica e una profondità molto mag­ giori di quanto comunemente si creda. Nessuno lo ha capito me­ glio di Anna Achmatova che ha scritto nei suoi taccuini: «Gumilëv poeta non è ancora stato letto, e come uomo non è stato ancora conosciuto». Noi «ci parlavamo» anche con i versi. Entrambi non amavamo spiegarci. Nei primi anni, non so dove, mi indicò le parole di MandeTstam: Si faranno rosse sotto le sferze le tue strette spalle, sotto le sferze si faranno rosse, nel gelo bruceranno. Le tue mani infantili ferri da stiro solleveranno, solleveranno ferri da stiro, corde legheranno.

E si voltò quasi in lacrime. Era la sua abituale, acuta compas­ sione per la sorte delle donne. Io, veramente, non la sentivo come sofferenza e ritenevo fosse normale, ritenevo una fortuna darmi ai figli, alle persone amate. Allora questo tratto del carattere, dar­ si agli altri, prodigarsi, mi sembrava inesauribile. In seguito mi so­ no convinta che le forze fisiche e, soprattutto, quelle morali e spi­ rituali hanno un limite. Venne il momento e anch’io, non ricordo dove, fu durante il ’70, parlai con le parole di Blok:

XXVIII

IRINA P. SIROTINSKAJA Eri severo, non cercavi amici, né gente della tua stessa fede, una lama aguzza conficcasti crudele nel cuore aperto alla felicità.

Nel ’75 all’improvviso durante una conversazione mi porse un volumetto della Cvetaeva e indicò la strofa: Tu non mi ami piu, la verità in cinque parole.

La lessi. Continuammo a parlare di inezie. Publicity. Quanti tuoni e fulmini scoppiano nella Quarta Vologda a pro­ posito della famigerata publicity del padre di Varlam Tichonovic! Che panegirico per gli stracci ! Tutto cosi. Ma anche non cosi. Erano molto buffe e toccanti le inattese manifestazioni di que­ sta publicity nello stesso Varlam Tichonovic. «Il mio impermeabile, - mi disse una volta serio e convinto, è il piu alla moda». Pronunciava la parola «alla moda» con tono ricercato. Dopo una pausa, gravemente: - E un impermeabile nero. Parlava di un «bologna»6 nero, che allora era, effettivamente, un abito di massa. Ne parlammo piu volte, Varlam Tichonovic an­ dava visibilmente fiero di un oggetto tanto alla moda. Una volta, probabilmente nel ’70, andai da lui: mi venne in­ contro, raggiante e festoso... con certi pantaloni a righe chiare. Al­ lora i ragazzini ne andavano matti, ma persino i miei figli non si erano fatti tentare. Varlam Tichonovic con tono pedagogico e un po’ vanesio mi disse: - Compro sempre le cose pili alla moda. Più alla moda. Vide, però, che quell’acquisto non mi faceva alcuna impres­ sione. Subito si avvili: - Non ti piace? - Io borbotto, - Beh, mi­ ca male -. Mi dispiaceva amareggiarlo. I pantaloni tuttavia furo­ no dimenticati. Una volta Varlam Tichonovic mi raccontò, agitato: - Vado dal parrucchiere, e gli dico come tagliarmi i capelli. Il

6 Tessuto di nylon impermeabilizzato, e analogamente l’impermeabile fatto con quel tessuto. Dal nome della città italiana [N .d.T .].

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parrucchiere risponde: guardi, costa due rubli. Non capisco, pen­ so di avere assolutamente l’aspetto di una persona agiata. Del tut­ to agiata -. Lo tranquillizzai: - Naturalmente, del tutto agiata. Si vestiva sempre cosi: camicia a quadri, giacca di lana ruvida di provenienza polacca о ceca a grossi riquadri scuri о tipo bouclé. Pantaloni scuri, comperati separatamente. Scarpe di fabbricazio­ ne nazionale. D ’estate camicie blu a maniche corte portate fuori dei calzoni. D ’inverno, un soprabito con l’interno di pelliccia (al­ lora non costava caro), un berretto di coniglio con paraorecchie. Ricordo la soddisfazione con cui nidificò quando si trasferì nel­ l’ampia stanza al secondo piano del Chorosëvskoe sosse dal primo piano, dove viveva in una minuscola camera dell’appartamento di Ol'ga Sergeevna Nekljudova, la sua seconda moglie. Ricordo che si consigliò con me e acquistò la tovaglia per il tavolo, le tende per le finestre, il mobilio al negozio d’oggetti d ’occasione, ricordo co­ me sistemò i libri in uno spazio piu ampio... Quando fu decisa la demolizione del numero io, le medesime sollecitudini accompa­ gnarono, nel 1972, il trasferimento nell’ampia e luminosa stanza al numero 6 di via VasiLevskaja che a lui piaceva tanto. La sistemazione era questa: stanza quadrata, una finestra, e una porta finestra che dava su un balcone; sul lato opposto la porta d’ingresso, e a sinistra e a destra, lungo la parete, gli scaffali a gior­ no con i libri, fatti di tavole semplicemente verniciate: a sinistra c’era la collezione «Biblioteca del poeta», in generale la poesia. Piu in là, addossate sempre alla parete di sinistra, alte scaffalatu­ re a vetri con l’archivio, l’una sopra l’altra; l’armadio per i vesti­ ti; il tavolo da pranzo - quasi attaccato alla porta finestra - e, so­ pra, un mobiletto per stoviglie e cibo. Davanti alla finestra, un ta­ volino per scrivere a una sola gamba. Pili in là, contro la parete destra, in una nicchia poco profonda, un letto di legno e, oltre, an­ cora scaffalature a vista per i libri. Varlam Tichonovic amava molto il suo angolo, la sua casa. Un minuscolo territorio indipendente. L ’indipendenza è la cosa prin­ cipale nella vita, diceva sempre. Per questo apprezzava anche il denaro, per l’indipendenza che dà. «Se la gloria arriverà da me senza denaro la caccerò via dalla finestra». Ma la verità è anche un’altra: Amicizia e inimicizia, mendicità e regno, avranno per me lo stesso prezzo, finché sarà con me la poesia.

XXX

IRINA P. SIROTINSKAJA

Cappuccetto rosso.

Una volta, nel 1968, arrivai a casa di Varlam Tichonovic e lui sulla soglia, d’improvviso, quasi avesse fatto una scoperta о trat­ to una conclusione, mi disse: «Tu sei Cappuccetto Rosso. Nella mia vita ci sono stati i lupi, ci sono stati i cacciatori, mentre tu sei Cappuccetto Rosso». Considerava con molta serietà i miti, le favole, ritenendo che rispecchiassero il modello costante di certi rapporti tra le persone. E quel «Cappuccetto Rosso» suonava come una formula appena scoperta per definire il nostro rapporto. Ma io andavo sempre di fretta - i bambini, il lavoro, la casa e mi limitai a chiedergli di sfuggita, quasi distrattamente: «Perché Cappuccetto Rosso?» Non cercai di capire chi fosse lui nella mia favola. E la nonna ? E il lupo ? Chi era il cacciatore ? Piu di una volta mi chiamò Cappuccetto Rosso. Forse per la leggerezza con cui mi avventuravo nella vita-foresta, senza pensare ai lupi ? In questa favola c’era qualcosa che mi si attagliava, sebbene mai avessi portato un cappuccio rosso. C h e p er m e sem p re sia lieve la m ano in cau ta, che suon a al cam panello d el v e rso ...

La mano incauta... Ricordo, ora, che Varlam Tichonovic spes­ so rimproverava la mia mancanza di cautela. «M i meraviglio che tu sia cosi abile, svelta, e al tempo stesso cosi incauta». Ora mi ar­ rampicavo su due sgabelli, a casa, e rovinavo giu con fracasso, ora mi sbucciavo le ginocchia uscendo precipitosamente dall’ascenso­ re. Andavo sempre di fretta. Oppure mi tagliavo un dito, apren­ do una scatoletta di conserva. E con la stessa leggerezza e impru­ denza me la vedevo anche con i problemi seri. Una volta arrivai a casa di Varlam Tichonovic e lui mi mostrò con orgoglio, tutto trionfante, il dito tagliato (stava aprendo una scatoletta): «Come te. Ho pensato che tu avresti fatto cosi». Gaiina Ignat'evna Gudz'.

Raccogliendo l’archivio di Varlam Tichonovic feci conoscenza con Gaiina Ignat'evna Gudz', la sua prima moglie; doveva essere il 1969. Speravo che avesse conservato le lettere di Varlam Ti­ chonovic spedite dalla Kolyma.

RICORDI

XXXI

Era una donna gentile, attraente, non alta, rotonda, con lumi­ nosi occhi neri. A quel tempo, sapevo già molto di lei. Si erano co­ nosciuti all’epoca della prima detenzione di Varlam Tichonovic: Gaiina Ignat'evna era andata a trovare suo marito, che si trovava anche lui a Visera, e qui, come raccontava Varlam Tichonovic, nac­ que un romanzo appassionato. Lei abbandona il marito... «Penso di aver amato Gaiina». Tornato a Mosca nel 1932, andò a vivere da lei. Nel 1934 la loro unione fu formalizzata e nel 1935 nacque la figlia Lena. Varlam Tichonovic ebbe altre passioni. Anche forti. Ma il suo amore per la moglie non vacillò. «N ell’amore mettevo una grande abnegazione. Facevo tutto quello che voleva mia moglie. Tutte le conoscenze che non gradi­ va venivano immediatamente interrotte». La sua immagine lo accompagnò in tutti i terribili anni della Kolyma. A lei sono dedicate poesie dei Quaderni di Kolyma (Ilcam­ meo, Cento volte alla posta..., Donna elegante tu, donna elegante, e altre). Fu lei a mettere in contatto Varlam Tichonovic con Pasternak: la corrispondenza con Boris Leonidovic passò attraverso Gaiina Ignat'evna. Si rividero alla stazione JaroslavT, il 12 novembre 1953... Fu chiaro che solo la memoria, non il loro amore, poteva su­ perare diciassette anni di separazione (e quale separazione!). Sebbene anche Gaiina Ignat'evna fosse stata al confino a Cardzou dal 1937 al 1946, e successivamente avesse vissuto a Mo­ sca illegalmente, senza permesso di soggiorno, tirando avanti con lavori saltuari, simili prove non destarono in lei quell’intolleranza verso la violenza che in Varlam Tichonovic non venne domata nemmeno dalla Kolyma. «Su, dimentichiamo tutto, viviamo per noi stessi», - diceva. Non approvava I racconti di Kolyma, a cui Varlam Tichonovic si dedicò subito dopo il ritorno: per lui era il compito fondamentale dell’esistenza. N o n b a sta la tu a fo rza perché alla fin e io dim en tich i le so rd e fo sse com uni d ei m iei cad a v eri peren ni.

scrisse nella poesia Ritorno. Cosi, toccò loro vivere di nuovo lontani. Dopo un giorno, lui andò prima a Konakovo, poi nel villaggio di Ozerki, regione di Ka­ linin: a Mosca non poteva vivere.

XXXII

IRINA P. SIROTINSKAJA

La figlia aveva dichiarato nei questionari che suo padre era mor­ to, aveva studiato all’università ed era entrata nel Komsomol. Ed ecco improvvisamente apparire il padre, non ancora riabilitato, che riprende a vivere di nuovo come prima. Varlam Tichonovic ricordava con amarezza che a Mosca non aveva trascorso in casa neppure la prima notte. La moglie temeva di ospitarlo nel suo appartamento in violazione delle norme sul passaporto interno. Accompagnandolo a Kalinin lo consolò: - Ti scriverò. Fatti coraggio, c’è la posta. - Scrivere ? Di nuovo scrivere ? Lui si era aspettato qualcosa di diverso perché aveva nobilita­ to con estremo romanticismo la figura di questa tenera donna co­ mune. Il fatto è che lei aveva una figlia cui provvedere, un tetto e un lavoro finalmente conquistati. Doveva lasciare tutto e andare con lui verso l’ignoto piu totale, verso la miseria piu nera? Chi ha il diritto di condannare questa donna ? Chi ha una cosi alta consi­ derazione di sé da chiedere a un altro di salire il Golgota? Le loro strade si divisero, irrimediabilmente. Sebbene ci fossero ancora lettere, incontri... Nel luglio 1956 Varlam Tichonovic fu riabilitato. Il 28 agosto scrisse una lettera a Gaiina Ignat'evna: Gaiina, Penso che non valga la pena di vivere insieme. Gli ultimi tre anni han­ no dimostrato chiaramente a tutti e due che le nostre strade si sono troppo divaricate e non c ’è alcuna speranza che si riaccostino. Non voglio incolpar­ ti di niente; per quanto sta in te, cerchi probabilmente di agire per il meglio. Ma quel meglio per me è male. E questo l’ho sentito dalla prima ora del no­ stro incontro (cancellato). Stai bene e sii felice. Quello che di mio è rimasto da te (una pelliccia, i libri, le lettere), mettilo in un sacco, in qualche modo verrò, avvertendoti prima per telefono, e lo porterò via. Non ho scritto niente a Lena, per tre anni non ho avuto la possibilità di parlare con lei a cuore aperto. Perciò anche adesso non ho niente da dirle.

Nell’ottobre dello stesso armo tornò a Mosca e si sposò con Ol'ga Sergeevna Nekljudova, scrittrice, e andò a vivere a casa sua. Questa rottura non fu cosa lieve per Varlam Tichonovic. Rappre­ sentò il crollo delle sue illusioni pili care, di un sogno. «H o girato talmente per Mosca, allora. Da un capo all’altro. Perché non mi sei venuta incontro in quel momento ? Ti ho chiamato, ti ho tal­ mente chiamato... Avrei smosso le montagne». Gli dicevo di non dimenticarsi che Gaiina Ignat'evna gli ave­ va scritto circa cento lettere all’anno alla Kolyma.

RICORDI

XXXIII

Nel 1979, già malato grave, prima di essere mandato in un isti­ tuto per invalidi, mi chiese: «F a’ venire, fa’ venire Gaiina Ignat'ev­ na. Faremo insieme un libretto. Sarà il ritorno». Telefonai a Gaiina Ignat'evna, ma si stava appena rimettendo da un colpo apoplettico e mi disse che non poteva venire. Telefo­ nai alla figlia Lena, ma mi rispose: «Non conosco quell’uomo ». Non condanno assolutamente Gaiina Ignat'evna e Elena Var­ lamovna. In casi come questo il solo giudice, come si dice, è Dio. Varlam Tichonovic aveva rotto i rapporti con loro duramente e per sempre, e Lena non lo conosceva quasi per niente e non pote­ va nutrire verso di lui sentimenti filiali. Così Varlam Tichonovic non dette neppure l’addio alla donna che aveva amato tanto a lungo e tanto fedelmente. Cosa pensava di sé.

I giudizi che dava di sé erano tanto contraddittori quante era­ no le contraddizioni racchiuse nel suo carattere. Una volta parlai bene di Jurij Osipovic Dombrovskij. Imper­ malito, disse con foga: «Io sono meglio di tutti». Poi ci ripensò e si corresse: «Meglio di me, ci sei solo tu». Quel che più di ogni altra cosa apprezzava di sé era la fedeltà, la fermezza morale (« nel lager non ho tradito nessuno, non ho de­ nunciato nessuno, non mi sono mai approfittato degli altri»). Il ta­ lento. «Sono come quel calzolaio di Mark Twain cui sembrava di essere nato per diventare Napoleone. Mi preparavo a diventare Shakespeare. Il lager ha spezzato tutto». A volte, però, si buttava giu e diceva ben altre cose: che era ir­ riconoscente, capriccioso, che avevo di lui un’opinione molto mi­ gliore di quanto meritasse. Che era un uomo calpestato, fatto di coc­ ci rimessi insieme da lui stesso, irreparabilmente storpiato dal lager. Preparando i suoi manoscritti per la stampa, vedo quanto il suo stile esprima la sua personalità. Anche la scelta degli epiteti pre­ diletti: fermo, migliore, energico, superiore... Uno sforzo verso l’assoluto, verso una necessità espressiva indiscutibile quanto im­ possibile, verso il punto piu alto... E tale sei, anche come poeta. Passione e ponderatezza, forze primordiali della natura, flusso inarrestabile e autolimitazione ininterrotta. Serietà anche nei mi­ nimi particolari. Completa assenza di senso dell’umorismo. Su­ perstizioso. L ’inarticolato balbettio dello sciamano tipico talvolta

XXXIV

IRINA P. SIROTINSKAJA

dei suoi versi - qualcosa che con difficoltà si apre la strada verso il pensiero, verso il linguaggio, qualcosa che è appena traducibile in parole. Spesso ripeteva: «Il destino di quella persona è fallimento, co­ me ogni destino umano». Il suo destino, nonostante la profonda tragicità, lascia un senso di penetrante compiutezza. Era accadu­ to proprio quello che doveva accadere nell’urto di quest’uomo for­ te, fermo, inflessibile con lo Stato, e con la vita, quale essa era. Il Premio della Libertà. Mi dettava i versi che si aprivano un varco attraverso la mute­ vole e sorda oscurità del mondo, attraverso suoni inarticolati e una memoria che si affievoliva: Fruscio e frastuono d’uomini precedono il risveglio, disperdono rammasso dei pensieri, cui nel mio stato non si può sfuggire. E certo il grillo che sopra la stufa stride frusciando come tempo fa. Come sempre, me la caverò senza candela. Come sempre, me la caverò senza martinetto.

Era sordo, cieco, il corpo stava a malapena in equilibrio. La lin­ gua si muoveva a fatica. Anche sdraiato, sentiva il mondo intorno ronzare e vacillare. Congiungersi all’immortalità non è cosa da poco, un ruolo che non facile risulta. Trema la mano, ed è incerto il passo, trema la mano.

Entrai in quell’edificio7, impregnato di un odore di vecchiaia impotente e indifesa, sotto gli sguardi spenti di vecchiette e di due ragazzi sulla sedia a rotelle, salii al terzo piano, aprii la porta del­ la stanza 244. Era a letto, tutto raggomitolato, scosso da un lieve tremito, gli occhi aperti che non vedevano, i capelli bianchi tagliati a spazzola, senza coperta, il materasso bagnato. I lenzuoli, il co­ priletto li aveva tirati via e nascosti sotto il materasso - perché non li rubassero. L ’asciugamano lo teneva annodato attorno al col­ lo. Erano tornate le abitudini del lager. Si gettava avidamente sul cibo, perché non gli passassero avanti. 7 Nel 1979 il Litfond accolse V. Salamov nell’Istituto per invalidi e anziani [N. d. A .].

RICORDI

XXXV

Il luogo gli piaceva. «Qui si sta molto bene». E poi con gran­ de serietà, in tono persuasivo: «Qui nutrono bene». Una piccola camera singola con un’ampia finestra, silenzio, un impianto igienico singolo («è molto importante»), caldo, cibo - ec­ co lo squallido paradiso dei suoi ultimi versi. Non andrò a passeggio con i cani, al cane dispiace portare la sua immortalità tra i denti come un bastone. Nel paradiso ho scelto l’angolo più chiaro, dove c’è il salice. Ho gettato il cuore - l’ha annusato, l’ha trascinato via il mio cerbero. Un pezzetto di cuore - non è un osso, è più morbido, e ha un altro prezzo. Sono entrato cosi, ultimo ospite celeste, sotto le volte del paradiso.

Ma anche qui, in questo penoso paradiso, dove abitava il suo povero corpo, l’anima del poeta era viva, capace di percepire il grande mondo, e viva era anche la sua inappagata ambizione. Ha sete di gloria, di denaro - «una pioggia d’oro». Il primo giugno 1981 ero andata a felicitarmi: la sezione fran­ cese del Pen Club lo aveva insignito del Premio della Libertà. Mi accosto al suo letto e lo prendo per mano, mi riconosce sem­ pre dalla mano, al tatto. Lentamente e con difficoltà si siede al tavolo, presso il como­ dino. - Che giorno è ? Che giorno ? - Il primo giugno, lunedi, - gli grido nell’orecchio insensibile, esangue. - Che ore, che ore sono? Alé! Che ore sono? Alé! - Le cinque, cinque. Un premio. Hanno dato un premio! Un premio ! - Un premio - sono soldi! Alé! Alé! Un premio, sono soldi! - In Francia! Capisce e perde interesse per il premio. Gli porto il volume dei Racconti di Kolyma edito a Londra. Lo tasta lentamente. «Capisco che lo hanno pubblicato Là, - dice con indifferenza, - però i soldi dovrebbero esserci». Ma della pioggia d’oro delle edizioni estere su di lui non cad­ de neppure la goccia che ne avrebbe alleviato la vecchiaia. Fu in­ vece la pubblicazione su «Junost'» che lo turbò. Avevo raccolto alcune sue vecchie poesie e le avevo date a Natan Zlotnikov.

XXXVI

IRINA P. SIROTINSKAJA

- Numero ? Su quale numero ? Ancora non lo sapevo esattamente, gridai a caso: settimo. Ven­ nero pubblicate nell’ottavo. Fu la sua ultima gioia. Si preoccupò che venissero ordinate in anticipo le copie per l’autore. E l’ultima rivista che egli regalò con orgoglio ai suoi visitatori. Io non la pre­ si, affinché gli restasse una copia in piu da donare. La vita era arrivata alla fine. Una vita terribile, che aveva ri­ dotto in frantumi un uomo magnifico, ricco di talento, appassio­ nato. Aveva visto quello che noi non avevamo visto, che la gente non doveva vedere, quello che non doveva essere. E ciò lo aveva av­ velenato per sempre. L ’ombra dei lager lo aveva raggiunto. E i frammenti della sua personalità, cementati dalla volontà e dal co­ raggio, si erano disgregati. Ed ecco l’estate del 1981, l’ultima estate della sua vita, l’esta­ te che gli aveva portato il Premio della Libertà. Mi dettò una poe­ sia, l’ultima poesia su di me. Con una mela, come il serpente biblico, attiro la mia Èva fuori dal paradiso. Solo posto per lei c’è nel mio destino. Io l’ho scelta per sempre. Purché non mi dimentichi, purché conservi il comune segreto, nei nostri giorni, come sopra un ceppo, non per caso è cifrato.

Gli portavo sempre le cose preferite: mele, biscotti wafer, gli piacevano anche dolci a base di mele, meringhe. Una volta mi chie­ se: «D ov’è il dolce di mele?» Dico: «Non c’è nei negozi». «Beh, scendi a comprarlo». «Non c’è. Non lo vendono». Si avvilisce. Pensa, lo vedo, che non abbia voglia di andarci. Ma per fortuna le mele si trovavano sempre. Tastava le mele con attenzione e da so­ lo, attento e serio, le posava sul comodino. Penso che stimolasse­ ro anche i versi. Sempre una qualche minuzia, un dettaglio inclu­ devano in sé il flusso della poesia. Cosi anche nel caso degli ulti­ mi nuovi versi (spesso dettava anche varianti dei vecchi): A volo radente, giro attorno alla terra, di tutto il vano universo gli affanni adesso non so.

Non amò mai l’inverno. Ogni volta fu arrestato d ’inverno: 19 febbraio 1929, e la notte tra Г11 e il 12 gennaio 1937. D ’inverno spesso si raffreddava, si ammalava.

RICORDI

XXXVII

Lo vidi l’ultima volta andando a fargli gli auguri per l’anno nuo­ vo. Come sempre, mi riconobbe dalla mano, si mise a sedere, si si­ stemò al tavolo, e mi dettò ricordi di Boris Polevoj. Una povera «chioccia»8 si agitava li intorno, senza capire né quello che lui di­ ceva, né quello che io scrivevo (stenografavo). Poi dettò l’ultima variante della poesia II colombo. Fu tutto. Il 15 gennaio 1982 il suo precario povero paradiso fu distrut­ to - lo trasferirono in un altro istituto per invalidi, questa volta psiconeurologico. Un ruolo ben preciso in questo trasferimento lo ebbe anche il clamore che sollevò attorno a lui, dalla seconda metà del 1981, un gruppo di suoi simpatizzanti. Tra costoro c’erano di certo persone effettivamente per bene, pulite, ma c’era anche chi si dava da fare per proprio tornaconto, о per voglia di sensazio­ nalismo. La sua vecchiaia misera, indifesa divenne oggetto di spettaco­ lo. E io non potevo interromperlo. Potevo solo starmene in di­ sparte. Alla direzione del pensionato questo spettacolo non anda­ va affatto. I tempi allora era altri, e i «simpatizzanti» non ebbero riguardo per Varlam Tichonovic nel sollevare questo clamore, or­ ganizzando mostre fotografiche, registrazioni della sua voce, let­ tere in Occidente. Il 17 gennaio 1982 egli mori. Mori nelle mani di estranei e nes­ suno capi le sue ultime parole. Vi furono i funerali. Una cosa meschina. Volti eccitati di estra­ nei capitati in un evento sensazionale. Molto spettacolo. Io gli di­ cevo, tra me: «Non aver paura, sono con te». Avevo la luminosa percezione della sua presenza. La pace era sul suo volto. Misi nel taschino della sua giacca il nostro talismano, quello che mi aveva regalato molto tempo prima («perché sia sempre con te»): un pic­ colo tricheco, intagliato in una zanna di tricheco. Addio, amico mio. i. s. Mosca 1982. Traduzione di Piero Sinatti.

8 In russo nasedka, termine gergale con cui si indica un detenuto introdotto in cella con il compito di far parlare un nuovo arrestato о un altro detenuto e riferirne i discorsi agli inquirenti о alle autorità carcerarie [N .d .T ].

CRONOLOGIA

1907

II (y) 18 giugno Varlam Salamov nasce nella città di Vologda; suo padre, Tichon Nikolaevic, è un prete ortodosso, già missionario, fino al 1905, alle isole Aleutine (Alaska), sposato con Nadezda Aleksandrovna (nata Vorob'ëva).

г 914

Comincia a frequentare la scuola locale Aleksandr Blagoslovennyj (Ales­ sandro I, «il Benedetto»).

1923

Sempre a Vologda, termina gli studi secondari.

1924

Lascia la città natale, lavora come operaio in una conceria nella cittadina di Kuncevo vicino a Mosca.

1926

Viene ammesso al Primo corso della facoltà di Diritto sovietico dell’uni­ versità di Mosca (MGU).

1927

Partecipa alle manifestazioni per il decennale della rivoluzione d’Ottobre nelle file dell’opposizione, sotto gli slogan «Abbasso Stalin! », «Adem­ piamo il testamento di Lenin! ». Riceve da N. Aseev una lettera con una valutazione positiva delle sue poe­ sie.

Г928

Frequenta il circolo di O. Brik «Giovane Lef»

1929

II 19 febbraio viene arrestato per la diffusione del «Testamento di Le­ nin». Viene condannato a tre anni di detenzione in lager. Il 1} aprile raggiunge con un convoglio di prigionieri il lager di Visera (Urali settentrionali).

Г93Г

In ottobre viene liberato dal «campo di lavoro correzionale», reintegra­ to nei suoi diritti, e assunto ai cantieri del complesso chimico di Berezniki.

1932

In gennaio torna a Mosca. Lavora al periodico* Za udarnicestvo» (Per il lavoro d ’assalto) sino al ’33.

1933

И 3 marzo muore il padre, Tichon Nikolaevic. Lavora al periodico «Z a ovladenie technikoj» (Per l’assimilazione della tecnica) sino al ’34.

1934

II 29 giugno sposa Gaiina Ignat'evna Gudz'.

XL

CRONOLOGIA

1934

Lavora al periodico «Z a promyslennye kadry» (Per i quadri industriali) sino al ’37. Il 26 dicembre muore la madre, Nadezda Aleksandrovna.

1935

Nascita della figlia Elena.

1936

La rivista «O ktjabr'», n. i , pubblica il suo primo lavoro, il racconto Le tre morti del dottor Austino.

1937

II 12 gennaio viene arrestato e poi condannato per «attività controrivo­ luzionaria trockista» a cinque anni di reclusione in lager con espressa de­ stinazione ai «lavori fisici pesanti». Il 14 agosto viene portato col piroscafo Kulu alla baia di Nagaevo (Maga­ dan). Da agosto sino al dicembre 1938, lavora sui fronti di cava del giacimento aurifero Partizan.

1938

In dicembre viene arrestato per il «Caso dei giuristi»: prigione di Maga­ dan. Fino a ll’aprile 1939 è al lager di transito di Magadan. Quarantena per il tifo.

1939

Da aprile sino al 1940 (agosto) è a Lago Nero, prospezione geologica. Ad­ detto al bollitore (1-2 mesi), aiutotopografo, lavori di scavo.

1940 Da agosto sino al dicembre 1942 è a Kadykcan e a Arkagala. Lavora in una miniera di carbone. 1942

Dal 22 dicembre sino al maggio 1943 è a Dzelgala. Giacimento di puni­ zione. Ai «lavori generali».

1943

In maggio viene arrestato. Il 22 giugno viene processato a Jagodnyj e subisce una nuova condanna a dieci anni per agitazione antisovietica: ha definito Bunin «un classico del­ la letteratura russa». Ridotto quasi a uno scheletro dopo il carcere di rigore prende parte a una «spedizione vitaminica». Autunno. E ricoverato all’Ospedale Belie'ja nel reparto del dottor P. S. Kalembet. Da dicembre sino all’estate successiva è al giacimento Spokojnyj. Lavora in miniera.

1944

Estate. Jagodnyj. Arresto. Nuovo «caso» basato su delazioni. Non viene condannato (c’è già stata una condanna solo un anno prima). Fino alla primavera del 1945 è a Spokojnyj, lavori generali.

1945

Primavera. Komandirovka forestale dell’Olp di Jagodnoe. Estate-autunno. Viene ricoverato all’Ospedale Belie'ja, nel reparto del dot­ tor A. M. Pantjuchov. Lavora come «organizzatore culturale» dell’ospe­ dale. Autunno. Komandirovka di taglialegna a «Riodiamante». Fuga.

CRONOLOGIA

XU

Jagodnyj. Nuova istruttoria per evasione, senza condanna a un nuovo pe­ riodo di pena; giacimento di punizione. Inverno. Zona di punizione di Dzelgala, lavori generali. 1946

Primavera. Susuman, la «piccola» zona, lavori generali. Incontro con A. M. Panjtuchov. Viene inviato ai corsi per infermiere pres­ so l’Ospedale centrale per detenuti. Dicembre. Termina i corsi.

1947

Lavora al reparto di chirurgia dell’Ospedale centrale per detenuti (Riva sinistra) sino al 1949.

1949

Dalla primavera del ’49 all’estate del ’50 è alla «Sorgente Duskan'ja». In­ fermiere in un accampamento di taglialegna. Scrive poesie: I quaderni di Kolyma.

1950

DalPestate del ’50 sino al ’52 è infermiere all’accettazione dell’Ospedale centrale per detenuti.

1951

II 1} ottobre termina la pena e viene liberato dal lager.

1952

Da agosto sino al ’53 è a Kjubjuma, infermiere in un lagpunkt.

1953

И 30 settembre viene licenziato dal Da'stroj dell’Mvd. Il 12 novembre ritorna a Mosca. Il 13 novembre incontra Boris Pasternak. Dal 29 novembre lavora come caposquadra al trust Centrtorfstroj di Ozerki, nella regione di Kalinin.

r 954

Comincia a lavorare ai Racconti di Kolyma. Dal 23 giugno sino al io ottobre 1956, lavora come agente di approvvi­ gionamento in un altro stabilimento torbiero a Resetnikovo, regione di Kalinin.

г936

II 18 luglio viene riabilitato «per non aver commesso il fatto». Si sposa con OTga Sergeevna Nekljudova e si trasferisce a Mosca.

*9 5 7

Collabora alla rivista «M oskva»; sul n. 5 della rivista «Znamja» vengo­ no pubblicate le prime poesie.

I937-i958 Si ammala gravemente e viene ricoverato in ospedale. Comincia a ricevere la pensione di invalidità: 260 rubli. Successivamente prenderà 42 rubli e 30 copechi e, alla fine, 72 rubli (dal 1964).I I96r

Esce il libro di poesie Ognivo (Acciarino). Continua a lavorare all’epopea kolymiana, con le raccolte di racconti I racconti di Kolyma, La riva sini­ stra, Il virtuoso del badile.

*964

Esce il libro di poesie Selest list'ev (Il fruscio delle foglie).

r966

Divorzia da O. S. Nekljudova. Lavora ai racconti della Resurrezione del larice sino al ’67

19б7

Esce il libro di poesie Deroga i sud'ba (La via e il destino).

ИЛ

CRONOLOGIA

1968

Lavora al libro La quarta Vologda sino al ’71.

1970

Lavora a V isera. Antiromanzo sino al ’71 e alla raccolta di racconti II guan­ to, ovvero KR-2 sino al ’73.

1972

Viene pubblicato il libro di poesie Moskovskie oblaka (Le nuvole di Mo­ sca).

1977

Viene pubblicato il libro di poesie Тоска kìpenija (Punto di ebollizione).

Г978

A Londra vengono pubblicati in russo i Racconti di Kolyma.

1979

A causa delle condizioni di salute il Literaturnyj Fond provvede a farlo ricoverare in un pensionato per anziani e invalidi.

1980

A Parigi esce il primo dei tre volumi dei Racconti di Kolyma in traduzio­ ne francese, con una prefazione di A. Sinjavskij. La pubblicazione si con­ clude nel 1982. Riceve il Premio della Libertà della sezione francese del Pen Club.

1981

A New York esce in traduzione inglese I racconti dì Kolyma, la prima raccolta di S., a cui farà seguito una seconda, Grafite, nel 1982.

1982

II 17 gennaio Varlam Salamov muore.

NOTA DEL TRADUTTORE

La traduzione dei 145 racconti, riuniti in sei parti, che costituiscono l’opera Kolymskie rasskazy di V. T. Salamov, è stata condotta sui volumi, V. S., Levyj bereg, Moskva 1989 e V. S., Kolymskie rasskazy, Moskva 1991 riproposti in: Sobranie socinenij (Opere) in 4 volumi, voli. 1 e 2, Moskva 1998. Il criterio al quale la versione italiana si attiene, di una resa quanto piu pos­ sibile aderente all’originale, cerca di salvare anche l’altra esigenza di rendere ac­ cessibile al lettore la massa di concreti e puntuali riferimenti a una realtà (l’uni­ verso concentrazionario staliniano in cui Salamov trascorse due decenni) mul­ tiforme e in continua trasformazione ed espansione. L ’autore stesso si preoccupa talvolta di svolgere per il lettore russo i signifi­ cati di questo о quel termine specifico; per un gran numero di altri casi analoghi, utili esplicazioni possono essere trovate nel Glossario in fondo al libro. Un’altra avvertenza riguarda nomi, cognomi e toponimi. I nomi propri sono spesso presenti nella forma di diminutivo-vezzeggiativo; nell’uso russo possono essere sia realmente affettuosi che indicativi sólo di una certa familiarità, maga­ ri anche venata di condiscendenza. I cognomi sono talvolta molto espressivi (al­ la Gogol'); l’esigènza di non sovraccaricare il testo ha sconsigliato quasi sempre di metterne in chiaro suggestioni о significato; un aspetto curioso del quale si vuole qui dar conto è quello della pratica - riferita da Salamov - di certuni dei «capi» dei lager di cambiare cognome quando cambiano sede di lavoro. I nomi di luogo possono avere desinenze diverse, a seconda che siano riferiti a un cen­ tro abitato, al lager costruito nelle sue vicinanze, a un settore о filiale di questo. Nel traslitterare i nomi russi ci si è attenuti ai criteri della trascrizione scien­ tifica internazionale, salvo che per parole ormai acquisite alla lingua italiana co­ me zar, versta, dacia, ecc. Al termine di ogni racconto si è ritenuto utile indicare, oltre all’anno in cui fu scritto, anche il titolo originale seguito dai dati relativi alla prima pubblica­ zione del testo in Russia.

I racconti di Kolyma Volume primo

Nella neve

Come viene aperta una strada nella neve vergine? Un uomo avanza per primo, sudando e imprecando, muove con difficoltà una gamba poi l’altra, e sprofonda ad ogni passo nello spesso man­ to cedevole. L ’uomo è sempre piu lontano e nere buche irregolari segnano il suo cammino. Stanco, si allunga sulla neve, accende una sigaretta e il fumo della machorka* si espande lentamente in una piccola nuvola azzurrina sopra la bianca neve scintillante. L ’uomo è già andato oltre, ma la nuvoletta resta sospesa là dove si era fer­ mato a riposare: l’aria è quasi immobile. Per aprire una strada si scelgono sempre delle giornate calme, affinché i venti non spazzi­ no via le opere degli uomini. L ’uomo sceglie da sé i punti di rife­ rimento nell’infinità nevosa: una roccia, un albero alto, e come il timoniere che conduce la barca lungo il fiume, da un promontorio all’altro, cosi l’uomo sposta il suo corpo attraverso la neve. Sulla pista stretta e labile che ha segnato avanzano, spalla contro spal­ la, cinque о sei uomini. Tutti posano il piede non nella traccia ma accanto ad essa. Quando raggiungono un punto convenuto in pre­ cedenza, fanno dietro front e ritornano sui propri passi, sempre badando a calpestare la neve intatta, là dove l’uomo non ha anco­ ra posato il suo piede. La via è tracciata. Altre persone, e slitte e trattori possono percorrerla. Se si camminasse, passo dopo passo, nella traccia del primo, si otterrebbe un cammino visibile ma stret­ to e a stento praticabile, un sentiero e non una strada, delle buche nelle quali arrancare ancora piu faticosamente che nella neve ver­ gine. Per il primo la fatica è maggiore che per tutti gli altri e quan­ do non ce la fa piu uno del quintetto di testa passa avanti. Ognu­ no di quelli che seguono la traccia, anche il piu piccolo, il piu deLe note, ove non diversamente segnalato, sono del traduttore. Un glossario ragio­ nato, a cura del traduttore, raccoglie in fondo all’opera i vocaboli particolari piu impor­ tanti, tradotti e non tradotti, di lingua e di gergo, nonché numerose notizie e dati perti­ nenti al testo.

6

I RACCONTI DI KOLYMA

bole, deve posare il piede su di un lembo di neve vergine e non nella traccia di un altro. Quanto ai trattori e ai cavalli, non sono per gli scrittori, ma per i lettori. [1956]. Po snegu, in «Znam ja», 1989, n. 6.

Sulla parola

Da Naumov, il conducente di cavalli, si giocava a carte. I sor­ veglianti di turno non mettevano mai il naso nella baracca dei ca­ vallanti, ritenendo a giusta ragione che il compito principale spet­ tante loro fosse la sorveglianza dei condannati in base all’articolo 58. E di regola i cavalli non venivano affidati ai controrivoluzio­ nari. I capi, piu sensibili al lato pratico, avevano un bel recrimi­ nare a mezza voce che in questo modo li si privava dei lavoratori piu capaci e coscienziosi: al riguardo il regolamento parlava chia­ ro e non ammetteva eccezioni. In una parola, dai cavallanti era il posto piu sicuro e li i blatnye, i malavitosi, si ritrovavano ogni not­ te per i loro duelli a carte. Nell’angolo destro della baracca, sul tavolaccio di sotto, erano state stese variopinte coperte imbottite. Appesa al palo d’angolo con del fil di ferro, ardeva una kolymka, la piccola lampada a va­ pori di benzina di fattura artigianale. Una scatola di conserva, trequattro tubicini di rame infilati nel coperchio ed ecco il marchin­ gegno bell’e pronto. Per accendere la lampada, sul coperchio ve­ nivano messi due-tre pezzetti di brace incandescente, la benzina si riscaldava, il vapore saliva su per i tubicini e il gas, acceso da un fiammifero, cominciava ad ardere. Sulle coperte era stato sistemato un sudicio cuscino di piume ai lati del quale avevano preso posto i due compari, uno di fronte all’altro, le gambe ripiegate al modo dei Buriati1, nella classica po­ sa di questi duelli carcerari. Sul cuscino c’era un mazzo di carte nuovo. Non si trattava di carte ordinarie, ma di un particolare ma­ nufatto che i maestri specializzati sapevano fabbricare con rapi­ dità incredibile. Per la loro fabbricazione occorre della carta (un libro qualsiasi), un pezzo di pane (per masticarlo e farlo filtrare at­ traverso uno straccio, ottenendo l’amido che serve ad incollare tra 1 I Buriati, popolazione di stirpe e lingua mongola, sono tradizionalmente dediti alla pastorizia e alla caccia.

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I RACCONTI DI KOLYMA

loro i fogli), un pezzo di matita copiativa (che funge da inchiostro tipografico) e un coltello (per ritagliare le sagome traforate dei se­ mi e le carte stesse). Le carte in questione erano state appena ri­ tagliate da un volumetto di Victor Hugo che qualcuno aveva di­ menticato il giorno prima nell’ufficio del lager. Pagine resistenti, spesse, non era stato necessario incollare piu fogli insieme, come si faceva quando la carta era sottile. E si era trovato anche il lapis. Non era cosi facile perché in lager, durante le perquisizioni, le ma­ tite copiative venivano inesorabilmente requisite. E anche al con­ trollo dei pacchi da casa. Si cercava in questo modo di impedire la fabbricazione di documenti e timbri falsi (tra i detenuti c’erano parecchi artisti del ramo), ma anche di stroncare alla base qualsia­ si possibile concorrenza al monopolio statale delle carte da gioco. Dalle matite copiative si ricavava una sorta di inchiostro e con es­ so, mediante le sagome traforate, venivano riprodotti sulle carte i piu svariati rabeschi: donne, fanti, dieci d’ogni risma e seme... I semi erano tutti dello stesso colore, ma al giocatore andava benis­ simo cosi. Per contrassegnare il fante di picche, ad esempio, ba­ stava il seme di picche ai due angoli opposti della carta. Disposi­ zione e forma dei segni sono le stesse da secoli e l’acquisizione del­ l’abilità necessaria a fabbricare con le proprie mani un mazzo di carte rientra nel programma di formazione di ogni giovane «cava­ liere» della malavita, di ogni blatnoj degno di questo nome. Il mazzo di carte nuove di zecca era dunque posato sul cuscino e uno dei giocatori ci tamburellava sopra con una mano non par­ ticolarmente pulita, ma dalle dita bianche, sottili, digiune d’ogni lavoro manuale. L ’unghia del mignolo era di lunghezza sproposi­ tata: anche questo era indizio certo di sciccheria malavitosa, al pa­ ri delle capsule d ’oro, in realtà di bronzo, che ricoprivano denti perfettamente sani. Tra i prigionieri si incontravano perfino degli specialisti in materia: s’erano dati da sé la patente di meccanicidentisti, e rimediavano dei bei guadagni fabbricando le capsule, articolo del quale c’era sempre richiesta. Per quanto riguarda le unghie, l’uso di dipingerle si sarebbe senz’altro radicato nel giro dei malavitosi se solo fosse stato possibile trovare dello smalto in ambito carcerario. L ’unghia gialla e levigata scintillava come una pietra preziosa. Il titolare dell’unghia si passava la mano sinistra nei capelli, biondi, unti e appiccicosi, ma dal taglio accuratissimo e molto corto. La fronte bassa, senza una sola ruga, i cespuglietti giallastri delle sopracciglia, la boccuccia dal labbro superiore spor­ gente, erano tutti elementi che conferivano alla sua fisionomia una qualità essenziale per un ladro: la banalità. Aveva una faccia di cui

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non era possibile ricordarsi. Non appena vista, la si dimenticava subito, ogni tratto svaniva, al punto da non poterla riconoscere a un nuovo incontro. Era Sëvocka234,il famoso esperto dei tre giochi di carte classici, terc, stos e bura\ l’ispirato esegeta delle mille re­ gole di gioco che, in una battaglia degna di questo nome, doveva­ no essere assolutamente rispettate senza deroghe. Di Sëvocka di­ cevano che «eseguiva alla perfezione», vale a dire che dimostrava le capacità e la destrezza del baro. E lo era, naturalmente; per i la­ dri un gioco «onesto» è precisamente un gioco basato sull’ingan­ no: sta poi a te sorvegliare il tuo avversario e prenderlo in casta­ gna, è un tuo diritto, anche tu devi sapere imbrogliare, devi saper contendere all’avversario una vincita dubbia. Si giocava sempre in due: uno contro uno. Nessun maestro del­ l’arte si abbassava a partecipare a giochi di gruppo tipo Vocko\ Non si aveva timore di sedersi di fronte a un quotato «esecutore» - come succede anche per gli scacchi, un vero combattente cerca sempre l’avversario piu forte. L ’avversario di Sëvocka era Naumov in persona, il caposqua­ dra dei cavallanti. Questo Naumov era il piu vecchio dei due (ma quanti anni poteva avere Sëvocka? venti, trenta, quaranta?), un tipo basso di statura, capelli neri, occhi scuri profondamente infos­ sati e uno sguardo cosi sofferente che se non avessi saputo che era un ladro del Kuban' specializzato in furti ferroviari, l’avrei preso per un pellegrino, un monaco itinerante о un membro della nota setta «Lo sa Iddio»5, i cui adepti, da decenni, si possono incon­ trare nei nostri lager. Questa impressione veniva rafforzata dalla crocetta di stagno che Naumov portava appesa al collo con un cor­ doncino, e che era visibile sotto la camicia sbottonata. Questa pic­ cola croce non era affatto una beffa sacrilega, un capriccio о un’im­ provvisazione. A quei tempi tutti i malavitosi portavano al collo delle crocette di alluminio: era un segno di riconoscimento del lo­ ro ordine, come i tatuaggi. Negli anni Venti i malavitosi avevano dei berretti a visiera ti­ 2 Sëvocka è il diminutivo-vezzeggiativo di Vsevolod (si veda la N ota del Traduttore, p. хы п). 3 G li equivalenti italiani di terc, stos e bum con buona approssimazione potrebbero es­ sere terziglio, picchetto e sette e mezzo. 4 Ocko è un gioco di carte, altra denominazione del ventuno. 5 In russo «B og znaet». Probabilmente si tratta di una setta di quei «vecchi creden­ ti» (si veda la nota 2 a p. 608) о altri scismatici che, nelle loro frange piu radicali, si sono sempre opposti, in Russia prima e in Urss poi, al potere statale. Quindi «lo sa Iddio» era nel lager l’invariabile risposta, ad esempio, alla richiesta reiterata nei luoghi di detenzio­ ne: «G en eralità!», «Iniziali», ecc.

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po istituto tecnico, e prima ancora berretti da ufficiale di marina. Negli anni Quaranta, in inverno portavano alti colbacchi del Ku­ ban', i gambali degli stivali rivoltati, e una croce al collo. Di soli­ to la croce era liscia, ma se capitava loro tra le mani qualche arti­ sta, lo costringevano a decorarla, incidendovi con un ago uno dei loro soggetti preferiti: un cuore, una carta da gioco, una croce, una donna nuda... La croce di Naumov era liscia. Pendeva sul suo pet­ to nudo e scuro nascondendo in parte un tatuaggio bluastro fatto con punture d’ago: una citazione da Esenin6, l’unico poeta rico­ nosciuto e canonizzato dal mondo criminale: Quanto poco cammino percorso, quanti e quali errori commessi.

- Cosa ti giochi ? - sibilò fra i denti Sëvocka con infinito di­ sprezzo: un atteggiamento considerato consono al galateo per un buon inizio di partita. - Ecco, ’sti stracci. Questa roba... - disse Naumov battendo­ si una spalla. - Vada per cinquecento, - rispose Sëvocka, dando la sua valu­ tazione del vestito. Per tutta risposta echeggiò una bordata di elaborate ingiurie, destinate a convincere l’avversario che l’oggetto aveva un valore di gran lunga superiore. Gli spettatori raccolti attorno ai giocato­ ri attendevano pazientemente la fine di questa tradizionale ou­ verture. Sëvocka non fu da meno e imprecò in modo ancor piu vio­ lento, abbassando il prezzo. Alla fine il vestito fu valutato mille rubli. Da parte sua, Sëvocka mise sul piatto alcuni maglioni usati. Dopo che i maglioni furono a loro volta valutati e subito gettati sulla coperta, Sëvocka mischiò le carte. Io e Garkunov, un ex ingegnere tessile, spaccavamo la legna per la baracca di Naumov. Era il nostro lavoro notturno, dopo una giornata al giacimento, ogni sera dovevamo segare e spaccare le­ gna da ardere per le ventiquattr’ore successive. Ci rifugiavamo nel­ la baracca dei cavallanti subito dopo il pasto serale, perché là fa­ ceva piu caldo che nella nostra. Una volta terminato il lavoro, il dneval'nyj di Naumov, il «piantone» addetto ai servizi, ci versava nelle gamelle della broda fredda - gli avanzi dell’unico piatto, sem­ pre lo stesso, che nel menu della mensa veniva definito galuski, 6 Del poeta Sergej Esenin (1895-1925), cantore della Russia contadina e poi della «M o­ sca delle bettole», sono qui citati due versi della poesia «M ne grustno na tebja smotret» (Mi sento triste a guardarti), del 1923. Salamov dedica un intero racconto alla «fortuna» di Esenin presso i malavitosi del lager (si veda a p. 832).

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«gnocchi ucraini», e ci dava un pezzo di pane ciascuno. Ci sede­ vamo per terra da qualche parte, in un angolo, e mangiavamo ra­ pidamente quello che avevamo guadagnato. Mangiavamo nella piu completa oscurità: le lampade a benzina illuminavano solo il cam­ po da gioco, ma, come hanno potuto comprovare senza tema di smentita i veterani della galera, «il cucchiaio difficilmente manca la bocca». Ora seguivamo anche noi il gioco di Sëvocka e Naumov. Naumov aveva già perduto i suoi quattro stracci. La giacca e i pantaloni erano stati spostati sulla coperta accanto a Sëvocka. Si stavano giocando il cuscino. L ’unghia di Sëvocka tracciava nell’a­ ria complicati arabeschi. Le carte gli sparivano tra le mani per riap­ parire subito dopo. Naumov era in maglietta: la sua camicia di sa­ tin era andata a fare compagnia ai calzoni. Mani premurose gli ave­ vano appoggiato sulle spalle un giubbotto imbottito, ma lui l’aveva gettato a terra con un brusco movimento delle spalle. All’improv­ viso si fece silenzio. Sëvocka grattava lentamente il cuscino con l’unghia. - Mi gioco la coperta, - disse Naumov con voce roca. - Duecento, - rispose Sëvocka con tono indifferente. - Mille, puttana che non sei altro! - strillò Naumov. - Per che cosa? Per questa roba! E una porcheria, una merda! - scandi Sëvocka. - Vada per trecento, ma solo perché sei tu. La battaglia continuò. Secondo le regole, il combattimento non poteva terminare finché l’avversario aveva ancora qualcosa da met­ tere sul piatto. - Mi gioco i valenki ! - No, quelli no, non ci sto con la roba dello Stato! - disse Së­ vocka con un tono che non ammetteva repliche. Per pochi rubli Naumov puntò e perse un asciugamano ucrai­ no con dei galletti a punto croce e un portasigarette con sopra in­ ciso il profilo di GogoL. Sulle sue guance scure cominciarono a de­ linearsi vistose chiazze rossastre. - Sulla parola, - disse con tono accattivante. - Ci mancava solo questo! - replicò vivacemente Sëvocka e protese la mano all’indietro: immediatamente tra le sue dita ap­ parve una sigaretta di machorka accesa. Sëvocka aspirò con avidità il fumo e cominciò a tossire. - Cosa vuoi che me ne faccia della tua parola ? Di nuovi con­ vogli in arrivo non ce ne sono: dove pensi di trovare qualcosa ? Dal­ le guardie, forse ? Secondo il zakon, la legge non scritta dei ladri, non si era te­ nuti a giocare «sulla parola», cioè a credito, ma Sëvocka non vo­

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leva offendere Naumov togliendogli l’ultima opportunità di ri­ guadagnare almeno qualcosa. - Cento, - disse lentamente. - E ti dò un’ora di tempo per re­ stituirli. - Dammi una carta -. Naumov si aggiustò la crocetta e tornò a sedersi. Recuperò la coperta, il cuscino, i calzoni, poi perse di nuovo tutto quanto. - Ci vorrebbe del cifir', - disse Sëvocka sistemando le cose che aveva vinto in una grande valigia di compensato. - Aspetto qui. - Ragazzi, preparatelo, - disse Naumov. Si tratta di una straordinaria bevanda del Nord, un tè molto forte preparato dall’infusione di cinquanta о più grammi di tè in un recipiente di piccole dimensioni. E estremamente amaro e si beve a piccoli sorsi mangiando del pesce salato. Toglie compietamente il sonno e per questo è tanto apprezzata dai blatnye, i ma­ lavitosi, e dagli autisti del Nord nei loro lunghi viaggi. Il cifir’ do­ vrebbe avere un effetto catastrofico sul cuore, ma ho conosciuto diversi «cifiristi» di lungo corso che lo sopportavano praticamen­ te senza conseguenze. Sëvocka ne bevve un sorso dal boccale che gli porsero. Lo sguardo nero e pesante di Naumov passava in rassegna gli astanti. I capelli gli si erano tutti arruffati. Lo sguardo arrivò fino a me e si fermò. Un’idea sembrò balenargli nel cervello. - Tu, vieni un po’ avanti. Mi portai sotto la luce. - Togliti il giaccone. Ormai tutti avevano capito cosa aveva in mente e seguivano con interesse il tentativo di Naumov. Sotto il giaccone avevo solo della biancheria passata dallo Sta­ to: la casacca che mi avevano dato due anni prima era fuori uso da un bel po’. Mi rivestii. - Vieni avanti tu, adesso, - disse Naumov indicando Garkunov con il dito. Garkunov si tolse il giaccone. Il viso gli si era fatto livido. Sot­ to una sudicia casacca indossava un maglione di lana, l’ultimo re­ galo della moglie prima di essere avviato alla sua lontana destina­ zione, e io sapevo quanto Garkunov ci tenesse: lo lavava ai bagni, se lo faceva asciugare addosso, non se ne separava un solo istante, per timore che i compagni glielo rubassero. - Su, toglitelo un po’ ! - disse Naumov. Sëvocka faceva cenni di approvazione con il dito: i capi di la­

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na erano molto apprezzati. Se avesse fatto lavare quel bel ma­ glioncino e l’avesse fatto ripulire dai pidocchi con una passata di vapore bollente, avrebbe potuto indossarlo lui stesso: aveva un di­ segno che non gli dispiaceva. - No, non me lo tolgo, - disse Garkunov con voce rauca. - Do­ vrete tirarmi via anche la pelle... Gli si buttarono addosso e lo rovesciarono per terra. - Morde, - gridò qualcuno. Garkunov si rialzò lentamente pulendosi con la manica il viso insanguinato. E in quell’istante Saska, il piantone di Naumov, quello stesso Saska che un’ora prima ci aveva versato «una buona minestrina» per la legna tagliata, si piegò leggermente all’indietro ed estrasse qualcosa dal gambale. Quindi protese il braccio verso Garkunov e Garkunov diede in un singulto e cominciò ad acca­ sciarsi su un fianco. - Non potevate fare in un altro modo, no! ? - gridò Sëvocka. Alla luce vacillante della lampada a benzina si vedeva il viso di Garkunov farsi terreo. Saska allargò le braccia del morto, lacerò la casacca e sfilò il ma­ glione dalla testa. Il maglione era rosso e le macchie di sangue qua­ si non si vedevano. Sëvocka, maneggiandolo con cautela per non sporcarsi le dita, lo ripose nella valigia di compensato. La partita era finita e io potevo andarmene. Óra dovevo cercarmi un altro socio per spaccare la legna. 1956. Na predstavku, in «Ju nost'», 1988, n. io .

Di notte

Il pasto serale era terminato. Glebov leccò senza fretta il fon­ do della scodella, spazzò via scrupolosamente le briciole di pane rimaste suda tavola facendole cadere nella mano sinistra, poi portò la mano alla bocca per leccare con cura le briciole dal palmo. Aspettò a deglutire e senti la bocca riempirsi di saliva e avvolge­ re, abbondante e golosa, il minuscolo grumo di pane. Glebov non sarebbe stato in grado di dire se era gustoso. Il gusto era qualcosa di diverso, di troppo povero rispetto alla sensazione, appassiona­ ta fino allo stordimento, che gli dava il cibo. Glebov non aveva fretta di inghiottire: il pane gli si disfaceva in bocca da solo, e in fretta. Gli occhi infossati e lucenti di Bagrecov non si staccavano dal­ la bocca di Glebov: nessuno aveva abbastanza forza di volontà da riuscire a distogliere lo sguardo da un alimento mentre spariva nel­ la bocca di un altro. Glebov deglutì la saliva e Bagrecov volse im­ mediatamente gli occhi verso l’orizzonte, verso la grande luna aran­ cione che si era lentamente alzata nel cielo. - E ora, - disse Bagrecov. Imboccarono in silenzio il sentiero che portava alle rocce e poi si inerpicarono per la stretta balza che girava attorno all’altura; benché il sole fosse tramontato solo da poco, le pietre che duran­ te il giorno bruciavano la pianta dei piedi nudi dei detenuti attra­ verso le galosce di gomma, ora erano già fredde. Glebov si abbottonò il giaccone. La camminata non lo riscal­ dava. - Manca ancora molto? - chiese sussurrando. - SI, - rispose Bagrecov, anche lui a bassa voce. Si sedettero a riposare. Non avevano niente da dirsi, e neppu­ re c’era niente a cui pensare: era tutto semplice e chiaro. Alla fi­ ne della balza si apriva uno spiazzo ingombro di mucchi di pietre rivoltate, di muschio strappato e secco.

DI NOTTE

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- Potevo farlo anche da solo, - disse Bagrecov ridacchiando, ma in due è piu divertente. E poi, per un vecchio amico... Li avevano portati li l’anno prima, sullo stesso piroscafo. Bagrecov si fermò: - Dobbiamo metterci giu, ci vedranno. Si stesero per terra e cominciarono a spostare le pietre. In quel punto non c’erano pietre cosi grosse da non poter essere sollevate e spostate da due persone, perché quelli che le avevano accatasta­ te И la mattina non erano piu forti di Glebov. Bagrecov imprecò a bassa voce. Si era sbucciato un dito, per­ deva sangue. Mise della sabbia sulla ferita, strappò un pezzetto di ovatta dal giaccone e se lo premette sul dito, ma il sangue non si fermava. - Tasso di coagulazione insufficiente, - disse Glebov con in­ differenza. - Sei un medico, о cosa? - chiese Bagrecov, succhiandosi il dito. Glebov non rispose. L ’epoca in cui era stato un medico gli sem­ brava cosi lontana. Ma era poi esistita ? Il mondo al di là delle mon­ tagne e dei mari gli sembrava troppo spesso un sogno, una specie di invenzione. Di reale c’era il momento presente, e il giorno che andava dalla sveglia alla ritirata: non cercava di guardare piu in là e non ne aveva la forza. Come tutti. Ignorava il passato delle persone che lo circondavano e non se ne interessava. Del resto, se un domani Bagrecov gli avesse detto di essere dottore in filosofia о maresciallo dell’aviazione, Glebov gli avrebbe creduto senza problemi. E lui stesso ? Era mai stato un medico? Ormai aveva perduto non solo l’automatismo della dia­ gnosi, ma anche quello dell’osservazione. Aveva visto Bagrecov succhiarsi il sangue dal dito sporco, ma non gli aveva detto nien­ te. La sua coscienza ne era stata in qualche modo sfiorata, ma non aveva potuto trovare la volontà per reagire, e neppure l’aveva cer­ cata. La coscienza che ancora gli era rimasta - e che forse non era neanche più la coscienza di un essere umano - aveva troppo po­ che sfaccettature e in quel momento era concentrata su di un uni­ co scopo - spostare al piti presto le pietre. - Sarà molto sotto, vero? - chiese Glebov quando si distesero per riposare. - Come fa a essere molto sotto? - disse Bagrecov. E Glebov si rese conto di aver detto una sciocchezza e che in effetti la buca non poteva essere profonda.

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I RACCONTI DI KOLYMA

- Ci siamo, - disse Bagrecov. Aveva sfiorato un dito umano. Dalle pietre era spuntato un al­ luce, perfettamente visibile al chiarore lunare. Questo dito non as­ somigliava per niente a quelli di Glebov о Bagrecov: e non perché fosse irrigidito e senza vita, la cosa non faceva poi una grande dif­ ferenza. Ma aveva l’unghia tagliata ed era più pieno e arrotonda­ to di quelli di Glebov. Essi scostarono rapidamente le ultime pie­ tre con le quali era stato ricoperto il corpo. - Era proprio giovane, - disse Bagrecov. Lo afferrarono per i piedi in due e solo con fatica riuscirono a trascinare fuori il morto dalla buca. - Che pezzo d ’uomo, - disse Glebov, ansimando. - Non fosse stato cosi grande e grosso, - disse Bagrecov, - lo avrebbero seppellito come tutti quanti1, e oggi non saremmo ve­ nuti qui. Distesero le braccia al morto e gli tolsero la maglia. - I mutandoni sono praticamente nuovi, - constatò soddisfat­ to Bagrecov. Gli tolsero anche i mutandoni. Glebov si infilò il mucchietto della biancheria sotto il giaccone. - Faresti meglio a indossarla, - disse Bagrecov. - No, non voglio, - borbottò Glebov. Rimisero il morto nella fossa e lo ricoprirono di sassi. La luna era alta nel cielo e la sua luce turchina si stendeva sul­ le pietre, sul rado bosco della tajga, conferendo a ogni scarpata, ogni albero un aspetto particolare, diverso da quello diurno. Ogni cosa appariva a modo suo reale, ma non come di giorno. Pareva un altro volto, il volto notturno del mondo. Glebov sentiva la biancheria del morto che gli si scaldava in se­ no e già non gli sembrava più quella di un altro. - Ci fosse da fumare, - disse Glebov con aria sognante. - Domani potrai fumare. Bagrecov sorrideva. L ’indomani avrebbero venduto la bian­ cheria, о l’avrebbero barattata con del pane e magari sarebbero perfino riusciti a rimediare un po’ di tabacco... 1954. Noc'ju, in «Ju nost'», 1988, n. IO.

1 Nelle sepolture «d i routine» i detenuti morti venivano portati al cimitero del lager completamente nudi.

I carpentieri

Giorno e notte ristagnava una nebbia bianca cosi fitta che non si poteva distinguere un uomo a due passi. Da soli, comunque, non avevamo occasione di allontanarci molto. Le poche destinazioni la mensa, l’infermeria, il posto di guardia - le trovavamo non si sa come, grazie a una specie di istinto acquisito, affine a quel senso dell’orientamento che, sviluppato in modo completo negli anima­ li, si risveglia in determinate circostanze anche nell’uomo. A noi lavoratori non mostravano mai il termometro; del resto era inutile visto che con qualsiasi temperatura dovevamo comun­ que andare a lavorare. Inoltre i veterani della galera, anche senza termometro, potevano stabilire con precisione quasi assoluta quan­ ti gradi sotto zero ci fossero: se c’è una nebbia gelata, fuori fa me­ no quaranta; se l’aria esce con rumore dal naso, ma non si fa an­ cora fatica a respirare, vuol dire che siamo a meno quarantacin­ que; se la respirazione è rumorosa e si avverte affanno, allora meno cinquanta. Sotto i meno cinquantacinque, lo sputo gela in volo. Ed erano già due settimane che gli sputi gelavano in volo. Ogni mattina, Potasnikov si svegliava con una speranza: si era attenuato il gelo? Dall’esperienza dell’inverno precedente sapeva che, per quanto bassa fosse la temperatura, era sufficiente una sua variazione improvvisa, un contrasto netto per provare una sensa­ zione di calore. Anche se la temperatura fosse risalita solo fino a quaranta-quarantacinque gradi, per un paio di giorni avrebbero sentito caldo; e fare progetti al di là di quei due giorni era del tut­ to insensato. Ma il gelo non si attenuava, e Potasnikov si rendeva conto che non avrebbe potuto resistere ancora molto. La colazione gli ba­ stava per un’ora di lavoro al massimo, poi arrivava la stanchezza, il gelo gli trapassava il corpo fino alle ossa e quel modo di dire po­ polare non era affatto una metafora. Non poteva fare altro che agi­ tare il piu possibile l’attrezzo che stava usando e saltellare da un piede all’altro per non congelare, questo fino all’ora di pranzo. Il

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pasto caldo - la famigerata juska acquosa e due cucchiaiate di pap­ pa, la kasa - non lo rimetteva in forze ma almeno lo riscaldava. E di nuovo aveva forze bastanti per non piu di un’ora di lavoro, do­ po di che Potasnikov desiderava soltanto una cosa: riscaldarsi, op­ pure abbandonarsi lungo disteso sulle aguzze pietre ghiacciate e morire. La giornata in qualche modo finiva e dopo il pasto serale, bevuta l’acqua calda con il pane - nessuno mangiava il pane alla mensa con la minestra, se lo portavano tutti nella baracca - Po­ tasnikov si metteva subito a letto. Naturalmente lui dormiva su uno dei tavolacci di sopra: da bas­ so faceva freddo come in una cantina ghiacciata e quelli che ave­ vano i posti di sotto passavano metà della notte in piedi vicino al­ la stufa, facendo a turno per stringersi contro di essa con entram­ be le braccia: era appena tiepida. Non c’era mai legna sufficiente: bisognava procurarsela, a quattro chilometri di distanza, dopo il lavoro, e tutti cercavano di sottrarsi in qualsiasi modo a questa in­ combenza. Di sopra faceva piu caldo, ma naturalmente anche li tutti dormivano con addosso gli stessi indumenti che indossavano di giorno per andare a lavorare: berretti, giacconi, casacche, pan­ taloni imbottiti. Di sopra faceva piu caldo, ma anche li bastava una notte perché il gelo incollasse i capelli al cuscino. Potasnikov sentiva le sue forze diminuire di giorno in giorno. Lui, un uomo di trent’anni, faceva ormai fatica sia a issarsi sui ta­ volacci superiori, sia a ridiscenderne. Il suo vicino di letto era mor­ to il giorno prima, era morto cosi, non si era piu svegliato, e nes­ suno si era preoccupato di sapere di cosa fosse morto, come se la causa potesse essere una sola, quella che tutti conoscevamo bene. Il «piantone» della baracca era contento che fosse morto di mat­ tina e non di sera: l’approvvigionamento giornaliero del defunto sarebbe andato a lui. Non era un segreto, e Potasnikov aveva pre­ so il coraggio a quattro mani, gli si era avvicinato: «Dammene una crosta», ma l’altro l’aveva accolto con una serie di violente ingiu­ rie, quali poteva profferire solo un uomo debole diventato forte, il quale sa che le sue ingiurie resteranno impunite. Solo in circo­ stanze eccezionali accade che un debole ingiuri un forte, ed è il co­ raggio della disperazione. Potasnikov non aveva replicato e si era fatto da parte. Doveva risolversi a fare qualcosa, spremere una cosa qualsiasi da quel suo cervello indebolito. О altrimenti morire. Potasnikov non temeva la morte. Ma aveva un segreto desiderio, un deside­ rio ardente, una sorta di estrema impuntatura: voleva morire in ospedale, disteso su un giaciglio, in un letto, con qualcuno che lo

I CARPENTIERI

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accudisse almeno un poco, anche solo per dovere professionale, ma non fuori per strada, nel gelo, sotto gli stivali di un soldato della scorta, о nella baracca, in mezzo alle imprecazioni, alla sporcizia, e nella completa indifferenza di tutti. Non faceva una colpa a nes­ suno per tanta indifferenza. Aveva capito per tempo da dove ve­ nisse quell’ottusità spirituale, quel freddo dell’anima. Il gelo, quel­ lo stesso gelo che trasformava in ghiaccio uno sputo prima che toc­ casse terra, era penetrato anche nelle anime degli uomini. Se potevano congelarsi le ossa, se poteva congelarsi e intorpidirsi il cervello, altrettanto poteva accadere anche all’anima. Nella mor­ sa del gelo non si poteva pensare a niente. Ed era tutto molto sem­ plice. Con il freddo e la fame il cervello veniva alimentato in mo­ do insufficiente e le cellule cerebrali deperivano: un evidente pro­ cesso fisico che chissà se era reversibile, come si dice in medicina, al pari di un congelamento, о se provocava un danno definitivo. Cosi l’anima: si era congelata, rattrappita e sarebbe forse rimasta tale per sempre. In passato Potasnikov aveva avuto spesso di que­ sti pensieri, ma ora non gli restava nient’altro che il desiderio di resistere, di vedere la fine di quel gelo restando vivo. Avrebbe dovuto cercarsi una via di scampo già prima di allora. Le alternative non erano molte. Sarebbe potuto diventare capo­ squadra о sorvegliante, qualcosa che lo portasse nelle vicinanze dei capi. О nei paraggi della cucina. Ma per la cucina c’erano centi­ naia di candidati, e quanto al posto di caposquadra, no, l’aveva già rifiutato un anno prima, giurando a se stesso che non avrebbe mai fatto violenza alla volontà di altre persone. Anche a costo della propria vita, Potasnikov non voleva che dei suoi compagni moris­ sero maledicendolo. Aspettava la morte da un giorno all’altro e quel giorno sembrava essere arrivato. Inghiottita una scodella di minestra calda e finendo di masti­ care il pane, Potasnikov raggiunse il suo luogo di lavoro trasci­ nando i piedi con grande fatica. Prima di iniziare, la squadra si era allineata e veniva passata in rassegna da un tizio grasso con la fac­ cia rubiconda sormontata da un berretto di pelle di renna; indos­ sava torbazy jakuti1 e una corta pelliccia bianca. Scrutava i visi, emaciati, sporchi e indifferenti dei detenuti. Gli uomini, appog­ giandosi ora su un piede ora sull’altro, aspettavano in silenzio che finisse quell’imprevista ispezione. C ’era anche il brigadir, il capo­ 1 Gli Jakuti, una popolazione di stirpe uralo-altaica e di lingua turca, sono allevatori e cacciatori nomadi.

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squadra, il quale con fare deferente diceva qualcosa all’uomo dal berretto di renna. - Glielo posso assicurare, Aleksandr Evgen'evic, non ho la gen­ te che fa per lei. Provi ad andare da Sobolev e dai bytoviki, i «co­ muni», qui sono tutti intellettuali, un disastro. L ’uomo con il berretto di renna smise di esaminare gli uomini e si voltò verso il caposquadra. - I capisquadra non conoscono i loro uomini, non vogliono nep­ pure conoscerli, non vogliono aiutarci, - disse con voce roca. - Come vuole, Aleksandr Evgen'evic. - Adesso ti faccio vedere. A proposito, come ti chiami? - Mi chiamo Ivanov, Aleksandr Evgen'evic. - E allora guarda bene. Ehi, ragazzi, attenzione -. L ’uomo con il berretto di renna si piantò davanti alla squadra. - Alla direzio­ ne servono dei carpentieri, per fabbricare le casse del materiale di risulta. Restarono tutti quanti in silenzio. - Ecco, vede, Aleksandr Evgen'evic, - sussurrò il caposqua­ dra. All’improvviso, Potasnikov senti la propria voce che diceva: - Agli ordini. Io sono carpentiere, - e fece un passo in avanti. Sul lato destro della squadra un altro uomo usci dalla fila sen­ za dire una parola. Potasnikov lo conosceva, era Grigor'ev. - E adesso cosa mi dici? - L ’uomo con il berretto di renna si voltò verso il caposquadra, - sei un rimbambito e un pezzo di mer­ da. Si va, ragazzi, seguitemi. Potasnikov e Grigor'ev cominciarono a trascinarsi dietro al­ l’uomo con il berretto. Questi si fermò: - A questa andatura, - disse rauco, - non arriveremo neanche per l’ora di pranzo. Ecco cosa faremo. Io vado avanti e voi pre­ sentatevi direttamente in falegnameria, cercate di Sergeev, è lui il capo. Lo sapete dov’è il laboratorio di falegnameria ? - Certo che lo sappiamo! - gridò Grigor'ev. - Ci dia da fuma­ re, per favore. - Alle solite, - borbottò tra i denti l’uomo con il berretto di renna e, senza estrarre il pacchetto dalla tasca, ne tirò fuori due sigarette. Potasnikov camminava davanti e rifletteva intensamente. Per oggi se ne sarebbe stato al caldo nel laboratorio di falegnameria: ad affilare l’accetta e a preparare il manico. E ad affilare anche la sega. Dovevano prendersela con calma. Intanto che trovavano il caporeparto, si registravano e ricevevano gli attrezzi sarebbe già

I CARPENTIERI

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stata l’ora di pranzo. E prima di sera sarebbe stato chiaro che lui non era in grado di fabbricare un manico d’accetta e neppure di allicciare una sega, l’avrebbero cacciato e se ne sarebbe ritornato alla sua squadra. Ma almeno per quel giorno sarebbe stato al cal­ do. Se poi Grigor'ev era davvero un carpentiere, sarebbe diven­ tato carpentiere anche lui quel giorno, e il giorno dopo, e quello successivo. Gli avrebbe fatto da aiutante. L ’inverno stava già fi­ nendo. E in estate, la breve estate di quei luoghi, ce l’avrebbe fat­ ta a sopravvivere. Potasnikov si fermò ad aspettare Grigor'ev. - Tu... come carpentiere ci sai fare ? - spiccò con voce resa af­ fannosa dall’improvvisa speranza. - Io, vedi, - rispose allegramente Grigor'ev, - stavo preparando il dottorato2 alla facoltà di lettere. Ritengo che ogni persona do­ tata di un’istruzione superiore, tanto piu se di tipo umanistico, debba assolutamente essere in grado di sgrossare un manico d ’ac­ cetta e affilare una sega. Figuriamoci poi se lo si deve fare nei pa­ raggi di una stufa calda. - Allora neanche tu... - Allora niente. Gliela daremo a intendere per un paio di gior­ ni, e poi... ma cosa te ne importa di quello che sarà poi? - La berranno per un giorno, non di piu. Domani ci rispedi­ ranno alla squadra. - No, in un giorno non ce la fanno a registrare il nostro tra­ sferimento alla falegnameria. C ’è tutto un giro di carte: comuni­ cazioni, elenchi. E poi la trafila inversa... Unendo le forze riuscirono a fatica ad aprire la porta bloccata dal gelo. Al centro del laboratorio di falegnameria ardeva una stu­ fa di ferro rovente, e cinque falegnami lavoravano ai loro banchi, senza giaccone né berretto. I nuovi arrivati si misero in ginocchio davanti allo sportello aperto della stufa, davanti al dio fuoco, uno dei primi dèi dell’umanità. Si tolsero le manopole e protesero le mani verso il calore, infilandole quasi nel braciere. Le dita piu vol­ te congelate erano quasi insensibili e tardavano a reagire al calo­ re. Dopo un minuto i due uomini, sempre restando in ginocchio davanti alla stufa, si tolsero i berretti e sbottonarono i giacconi. - Cosa siete venuti a fare? - chiese con ostilità un falegname. - Siamo carpentieri. Lavoreremo qui, - disse Grigor'ev. - Per ordine di Aleksandr Evgen'evic, - si affrettò ad aggiun­ gere Potasnikov. 2 In russo aspirantura.

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- Sicché siete voi quelli a cui il capo ha detto di consegnare del­ le accette? - chiese Arnstrem, l’anziano attrezzista, dall’angolo dove stava rifinendo dei manici di badile. - Siamo noi, siamo noi... - Tenete, - disse Arnstrem guardandoli con una certa aria in­ credula. - Due accette, una sega e una licciaiola. Questa poi me la restituite. Eccovi la mia accetta, fateci un manico. Arnstrem sorrise: - La mia norma giornaliera per i manici è di trenta pezzi, disse. Grigor'ev prese un pezzo di legno dalle mani di Arnstrem e co­ minciò a sgrossarlo. Suonò la sirena del pranzo. Arnstrem non si rivesti, ma continuò a guardare in silenzio il lavoro di Grigor'ev. - Adesso tu, - disse a Potasnikov. Potasnikov, presa l’accetta a Grigor'ev, mise il suo pezzo di le­ gno sul ceppo, e cominciò a digrossarlo. - Può bastare, - disse Arnstrem. I falegnami erano già andati a mangiare e nel laboratorio, oltre a loro tre, non c’era nessuno. - Ecco, prendete questi due manici, sono miei, - e Arnstrem porse due manici pronti a Grigor'ev, - e fissateci le accette. Affi­ late la sega. Oggi e domani potete restarvene al caldo vicino alla stufa. Dopodomani ve ne tornerete là da dove siete venuti. Ecco­ vi un pezzo di pane per il pranzo. Quel giorno e il giorno successivo se ne stettero al caldo vici­ no alla stufa, e il giorno dopo ancora il gelo si attenuò bruscamente fino a meno trenta: l’inverno stava finendo. 1954. Plotniki, in «Znamja», 1989, n. 6.

Misurato a parte

Quella sera, arrotolando il suo metro a nastro, il sorvegliante annunciò a Dugaev che il giorno dopo il suo lavoro sarebbe stato misurato a parte. Il caposquadra, che era li vicino e aveva appena chiesto al sorvegliante di fargli grazia di «una decina di metri cu­ bi fino a dopodomani», tacque bruscamente e fissò lo sguardo sul­ la stella della sera che si vedeva brillare dietro la sommità tondeg­ giante della montagna. Il napamik di Dugaev, che si chiamava Ba­ ranov e aveva appena finito di aiutare il sorvegliante a misurare il lavoro fatto, afferrò la pala e si mise d’impegno a ripulire uno sca­ vo già perfettamente pulito. Dugaev aveva ventitré anni e tutto quello che vedeva e senti­ va qui, piu che spaventarlo non finiva mai di stupirlo. La squadra si riuni per l’appello, restimi gli attrezzi e tornò al­ la baracca. La giornata era stata pesante. Alla mensa, senza nean­ che sedersi, Dugaev sorbi direttamente dalla scodella una porzio­ ne di minestra di grano mondato, acquosa e fredda. Il pane della giornata veniva distribuito al mattino e lui aveva già da tempo mangiato la sua razione. Aveva voglia di fumare. Si guardò attor­ no, valutando attentamente la situazione: a chi avrebbe potuto chiedere un tiro ? In piedi accanto alla finestra, Baranov stava rac­ cogliendo in un pezzetto di carta appoggiato sul davanzale le bri­ ciole di machorka che scuoteva dalla borsa del tabacco rivoltata. Le radunò con cura, arrotolò una sigarettina sottile e la porse a Dugaev: - Fuma, lasciamene un po’, - gli propose. Dugaev si meravigliò: lui e Baranov, anche se lavoravano in coppia, non erano amici. Del resto nessun legame d ’amicizia può nascere con la fame, il freddo e l’insonnia e, malgrado la giovane età, Dugaev comprendeva perfettamente quanto fosse falso il pro­ verbio secondo il quale la vera amicizia si riconosce nella disgra­ zia e nel bisogno. Perché ciò accada, perché l’amicizia si dimostri tale bisogna che il suo saldo fondamento sia stato posto prima che

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la situazione, le condizioni di vita siano arrivate a quel limite estre­ mo al di là del quale nell’uomo non resta più niente di umano e c’è solo diffidenza, rabbia e menzogna. Dugaev ricordava bene il det­ to del Nord, i tre comandamenti del detenuto: non fidarsi di nes­ suno, non temere nessuno e non chiedere niente a nessuno... Dugaev aspirò avidamente il fumo dolciastro della macborka e si senti girare la testa. - Divento sempre piu debole, - disse. Baranov restò in silenzio. Dugaev ritornò alla baracca, si coricò e chiuse gli occhi. Negli ultimi tempi faticava a dormire, glielo impediva la fame. I suoi so­ gni erano particolarmente tormentosi - grosse pagnotte e dense mi­ nestre fumanti... Anche quella sera Dugaev tardò ad assopirsi ma una mezz’ora prima della levata era già lì con gli occhi spalancati. La squadra si avviò al lavoro. Giunti sul posto, tutti si disper­ sero tra i vari scavi. - Tu aspetta, - disse il caposquadra a Dugaev. - Oggi il lavo­ ro te l’assegna il sorvegliante. Dugaev si sedette per terra. Era già a tal punto estenuato che qualsiasi cambiamento nella sua sorte lo lasciava del tutto indiffe­ rente. Sferragliarono le prime carriole sulle passerelle, le pale stridet­ tero contro la roccia. - Vieni qui, - disse il sorvegliante a Dugaev. - Ecco il tuo po­ sto -. Misurò la cubatura da scavare e ci mise per segno una scheg­ gia di quarzo. - Fin qui, - disse. - L ’addetto ti sistemerà un’asse fino alla passerella principale. Scarica dove scaricano gli altri. Ec­ coti la pala, il piccone, la leva e la carriola. Datti da fare. Dugaev si mise docilmente al lavoro. «Tanto meglio», pensava. In questo modo nessuno dei com­ pagni di squadra avrebbe brontolato perché lavorava male. Loro erano contadini da sempre e non erano tenuti a rendersi conto che Dugaev era un novellino, che subito dopo la scuola era andato al­ l’università passando direttamente dai banchi universitari a quel fronte di cava. Ognuno per sé. Non erano tenuti a capire che lui già da molto tempo era esausto e affamato, e che non era capace di rubare: il saper rubare, in tutte le sue forme - era questa la piu importante virtù del Nord, a cominciare dal pane del vicino fino alle migliaia di rubli di premio ai capintesta per risultati mai rag­ giunti e inesistenti. Non importava a nessuno che Dugaev non fosse in grado di sopportare una giornata lavorativa di sedici ore.

MISURATO A PARTE

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Spingere la carriola, vuotarla, picconare, spingere di nuovo, scaricare di nuovo, picconare, picconare ancora e ancora. Dopo la pausa per il pasto, il sorvegliante venne a dare un’oc­ chiata al lavoro fatto da Dugaev e se ne andò senza dir niente... Dugaev riprese a picconare, a caricare e spingere... Era ancora mol­ to lontano dalla scheggia di quarzo. Il sorvegliante ritornò la sera. Srotolò il metro a nastro e mi­ surò il lavoro di Dugaev. - Venticinque per cento, - disse e guardò Dugaev. - Venti­ cinque per cento. Mi hai sentito? - Ho sentito, - rispose Dugaev. Quella cifra l’aveva lasciato di stucco. Il lavoro era cosi faticoso, la pala raccoglieva così poco ma­ teriale, ed era cosi difficile alzare il piccone. Il venticinque per cen­ to della norma, ovvero della quota giornaliera di lavoro, gli sem­ brava molto elevata. Aveva i muscoli intorpiditi, braccia spalle e testa gli dolevano terribilmente per lo sforzo alla carriola. Da lun­ go tempo non sentiva piu la fame. Mangiava solo perché vedeva gli altri mangiare, qualcosa di indefinito glielo suggeriva: «Biso­ gna mangiare», ma lo faceva controvoglia. La sera, Dugaev fu chiamato a presentarsi davanti all’inqui­ rente. Rispose a quattro domande: nome, cognome, articolo del codice, durata della pena. Quattro domande che vengono poste al prigioniero almeno trenta volte al giorno. Poi Dugaev andò a dor­ mire. Il giorno dopo tornò a lavorare con la squadra, sempre in coppia con Baranov, e la notte successiva vennero a prenderlo di nuovo i soldati e lo fecero passare dietro le stalle dei cavalli: lo con­ dussero nella foresta per uno stretto sentiero, fino a un’alta paliz­ zata, sormontata da filo di ferro spinato, che sbarrava quasi com­ pletamente l’imboccatura di una piccola gola, dalla quale nel si­ lenzio della notte i dormienti sentivano talvolta provenire un lontano rombo di trattori. E quando capì di cosa si trattava, Du­ gaev rimpianse di aver lavorato, di aver tanto patito per niente an­ che quel giorno, quel suo ultimo giorno. [1955]. Odinocnyj zamer, in «Junost'», 1988, n. io.

Il pacco da casa

La distribuzione dei pacchi da casa veniva fatta al posto di guar­ dia. I capisquadra attestavano l’identità dei destinatari. Il com­ pensato di rinforzo si spaccava e scricchiolava in una maniera tut­ ta sua, particolare. Gli alberi di qui non si spaccavano allo stesso modo, non gridavano con la stessa voce. Al di là di una barriera di panche, uomini dalle mani pulite e dalle uniformi militari fin trop­ po accurate, aprivano i pacchi, li controllavano, li scuotevano e li passavano oltre. Le cassette delle spedizioni, malandate per il viag­ gio di molti mesi, venivano lanciate con destrezza, cadevano per terra e si schiantavano. Pezzi di zucchero, frutta secca, cipolle mar­ ce e pacchetti sgualciti di machorka si sparpagliavano sul pavi­ mento. I proprietari dei pacchi non protestavano e raccoglievano in silenzio: il semplice fatto di aver ricevuto qualcosa da casa era già un miracolo e dei più grandi. Accanto al posto di guardia c’erano i soldati della scorta con i fucili nelle mani; alcune sagome indistinte si muovevano nella lat­ tiginosa nebbia gelata. In piedi vicino al muro, aspettavo che venisse il mio turno. Ec­ co quei pezzi azzurrini, mica sono ghiaccio! Sono zucchero! Zuc­ chero! Àncora un’ora e anch’io li avrò tra le mani, e non si scio­ glieranno. Si scioglieranno solo in bocca. Un pezzo cosi grosso mi basterà per due, tre volte. E la machorka ! Della machorka mia personale ! Machorka del «continente», marca Scoiattolo di JaroslavL о Kremencug n. 2. Potrò fumare, potrò offrire da fumare a tutti, tutti, tutti quanti, a cominciare però da quelli che durante tutto quest’anno mi han­ no passato la loro cicca per l’ultimo tiro. Machorka del continen­ te ! Il fatto è che il tabacco di qui proveniva dai depositi militari ed era scaduto; un’impresa di proporzioni colossali: al sistema dei lager venivano assegnati tutti i prodotti che avevano superato la data di scadenza. Ora però avrei fumato della vera machorka. An­ che se mia moglie per suo conto non poteva sapere che quello di

IL PACCO DA CASA

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cui avevo bisogno qui era la machorka, quella robusta, qualcuno glielo avrà pur suggerito. - Nome ? L ’involto si ruppe e dalla cassetta caddero alcune prugne sec­ che, aspetto e colore del cuoio. Ma dov’era lo zucchero ? E poi an­ che le prugne, ce n’erano due о tre manciate in tutto... - Per te, un paio di burki\ Burki da aviatore! Ha-ha-ha! Con le suole di caucciù! Ha-ha-ha! Come quelle del direttore della mi­ niera! Tieni, prendi! Disorientato, non mi mossi. Cosa me ne facevo di un paio di burkiì Da mettere nei giorni di festa, ma qui di giorni di festa non ce n’erano proprio. Avrei capito degli stivali di pelle di renna, dei torbazy, о dei semplici valenki. Le burki erano troppo lussuose... Non stava bene. Inoltre... - Senti un po’... - Una mano toccò la mia spalla. Mi voltai in modo da non perdere di vista le burki, la cassetta sul fondo della quale restavano alcune prugne, i superiori, e con­ temporaneamente il viso dell’uomo che mi teneva per la spalla. Era Andrej Bojko, il nostro sorvegliante al giacimento. E già Bojko sussurrava concitatamente: - Vendimele. Ti darò dei soldi. Cento rubli. Sai bene che non arriverai neanche alla baracca, te le porteranno via prima, te le strapperanno di mano quelli li fuori -. E Bojko indicò con il dito la nebbia lattiginosa. - Oppure te le ruberanno nella baracca. La prima notte. «E saresti tu il primo a incaricare qualcuno», pensai. - D ’accordo, dammi i soldi. - Vedi, come son fatto! - Bojko contava i soldi. - Non ti im­ broglio, non faccio come gli altri. Ho detto cento e te ne dò cen­ to -. Già pensava che avrebbe potuto offrire anche meno... Ripiegai le piccole sudice banconote in quattro e poi in otto e le feci sparire nella tasca dei pantaloni. Le prugne rimaste nella cassetta le rovesciai direttamente nel giaccone - le tasche le ave­ vo strappate da un pezzo, per farne delle borse da tabacco. Andrò a comprare del burro! Un chilogrammo di burro! E me lo mangerò con il pane, con la kasa, con la minestra. E anche del­ lo zucchero ! E mi procurerò da qualcuno una bella sacca con tan­ to di cordoncino di spago. Un accessorio indispensabile per ogni detenuto che si rispetti, tra noi fraery. I malavitosi certo non se ne vanno in giro con sacche e sacchettine. Ritornai nella baracca. Tutti erano sdraiati sui tavolacci, il so­ lo Efremov se ne stava seduto con le mani appoggiate alla stufa

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quasi fredda e protendeva il viso verso il calore che andava scom­ parendo, timoroso di raddrizzarsi, di staccarsi dalla fonte di ca­ lore. - Cosa aspetti a caricarla ? Si era avvicinato il «piantone». - È il turno tuo, Efremov. Il caposquadra ha detto cosi: «la prenda dove vuole, ma la legna deve esserci. Non ti lascerò dor­ mire comunque». Va’ prima che si faccia tardi. Efremov scivolò fuori dalla baracca. - E il tuo pacco dov’è ? - Si sono sbagliati... Corsi allo spaccio. L ’addetto allo spaccio, Saparenko, non ave­ va ancora chiuso. All’interno non c’era nessuno. - Saparenko, dammi del pane e del burro. - Sarai la mia rovina. - Su, prenditi quello che ti spetta. - Vedi quanti ne ho di soldi? - disse Saparenko. - E vuoi che me ne faccia dare da un fitti', da uno al lumicino come te ? Pren­ diti il tuo pane e il tuo burro e togliti dai piedi. Mi dimenticai di chiedergli lo zucchero. Un chilo di burro. E un chilo di pane. Decisi di andare a trovare Semën Sejnin. Sejnin era un ex assistente di Kirov1, all’epoca non era ancora stato fuci­ lato. Un tempo avevamo lavorato assieme, nella stessa squadra, ma il destino ci aveva separati. Sejnin era nella baracca. - Dài che mangiamo. Ç ’è del burro, del pane. Gli occhi affamati di Sejnin cominciarono a brillare. - Vado a prendere dell’acqua calda... - Ma non ce n’è bisogno! - Ma sf, faccio in un momento -. E spari. Nello stesso istante, qualcuno mi colpi alla testa con qualcosa di pesante e quando ripresi conoscenza e saltai su, la borsa con le provviste era sparita. Tutti erano rimasti al loro posto e mi guar­ davano con gioia maligna. Era un divertimento di prim’ordine. In casi del genere, il piacere era doppio: in primo luogo, perché qual­ cuno era nei guai e, in secondo luogo, perché quello non eri tu. Non era invidia, no... 1 Sergej Kirov (pseud, di Kostrikov, 1886-1934). Dal 1921 ai vertici del partito co­ munista, dal 1926 segretario a Leningrado, venne ucciso in un attentato che, attribuito a «nemici del potere sovietico», forni a Stalin il pretesto per una serie di epurazioni culmi­ nate nei terribili anni ’37 e ’ 38.

IL PACCO DA CASA

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Non ho pianto. Ho creduto di morire. Da allora sono trascor­ si trent’anni, ma ricordo distintamente la baracca immersa nella semioscurità, i visi cattivi e allegri dei miei compagni, il bastone di legno umido sul pavimento, le guance esangui di Sejnin. Andai di nuovo allo spaccio. Non chiesi piu del burro e nean­ che dello zucchero. Riuscii a farmi dare un po’ di pane, ritornai alla baracca, feci sciogliere della neve e cominciai a cuocermi le prugne. La baracca dormiva già: gemeva, ronfava, tossiva. Eravamo in tre attorno alla stufa, a far cuocere ognuno la sua pietanza. Sincov faceva bollire una crosta di pane che aveva tenuto in serbo dal pa­ sto di mezzogiorno, per mangiarsela tutta, collosa e bollente, e poi sorbirsi con avidità la calda acqua di neve che sapeva di pioggia e di pane. Gubarev invece aveva ficcato nella gamella delle foglie di cavolo gelate: furbacchione e fortunato. Il cavolo mandava un buon odore, come il migliore dei borse ucraini ! Quanto a me, mi dedicavo alle prugne secche del pacco. Nessuno di noi poteva fa­ re a meno di guardare nei recipienti degli altri. Qualcuno spalancò con una pedata la porta della baracca. Due uomini in divisa emersero dalla nuvola di vapore gelato. Uno, il più giovane, era Kovalenko, il capo del lager, l’altro, il piu anzia­ no, Rj'abov, il direttore del giacimento. Rjabov aveva delle burki da aviatore, le mie! Faticai a rendermi conto che mi sbagliavo, che le burki erano sue. Kovalenko si precipitò verso la stufa agitando una piccozza che si era portato dietro. - Di nuovo con i pentolini ! Adesso ve li faccio vedere io i pen­ tolini! Vi insegnerò a sporcare in giro! Kovalenko rovesciò le gamelle con le loro minestre di crosta di pane, foglie di cavolo nonché prugne secche e le sfondò con la pic­ cozza. Rjabov restò a scaldarsi le mani al tubo della stufa. - Se ci sono gamelle sul fuoco vuol dire che qualcosa da cuo­ cere c’è, - enunciò con tono sentenzioso il capo del giacimento. E un segno di agiatezza. - E dovresti vedere cosa fanno cuocere, - disse Kovalenko cal­ pestando le gamelle. I capi uscirono e noi ci precipitammo a recuperare le gamelle ammaccate e a raccogliere ciascuno la sua roba: io, le prugne; Sin­ cov, il suo pane zuppo e informe, e Gubarev i suoi resti di foglie di cavolo. Mangiammo tutto immediatamente: era la cosa più si­ cura.

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Inghiottii le poche prugne e mi addormentai. Avevo imparato da un bel pezzo ad addormentarmi prima che mi si riscaldassero i piedi: un tempo non sarebbe stato possibile, ma l’esperienza, l’e­ sperienza... Il mio sonno era simile a un deliquio. La vita ritornò, come un sogno, - la porta si spalancò di nuo­ vo: delle volute di vapore bianco e diaccio rotolarono sul pavi­ mento, vorticarono fino alla parete opposta della baracca, c’erano degli uomini con addosso pellicciotti bianchi da cui emanava un odore di nuovo, di poco usato, e c’era un qualcosa, gettato per ter­ ra come un sacco, immoto ma vivo, che grugniva debolmente. Il piantone della baracca, sconcertato ma deferente, si inchinò davanti agli uomini biancovestiti. - E uno dei vostri ? - E la guardia indicò il mucchietto di strac­ ci sporchi sul pavimento. - È Efremov, - confermò il piantone. - Cosi imparerà a non rubare la legna degli altri. Efremov passò parecchie settimane nel giaciglio vicino al mio finché non lo trasferirono in un centro per invalidi dove mori. Gli avevano «sfondato le budella»: al giacimento non mancavano buo­ ni specialisti del ramo. Non recriminava: se ne stava li disteso e gemeva sommessamente. i960. Posylka, in V. Salamov, Voskresettie listvemicy, Chudozestvennaja literatura, Moskva 1989.

Pioggia

Da tre giorni sondavamo il terreno in una nuova area di pro­ spezione. Ognuno di noi aveva la sua fossa da scavare e in tre gior­ ni non avevamo superato il mezzo metro di profondità. Nessuno aveva ancora raggiunto lo strato di terra gelata, la merzlota, ben­ ché leve e picconi venissero riparati senza ritardi ogni volta che questo si rendeva necessario; fatto abbastanza insolito: i fabbri non potevano tirare per le lunghe perché la nostra squadra era l’u­ nica al lavoro. E tutto dipendeva dalla pioggia. Pioveva senza so­ sta da tre giorni e tre notti. Su di un suolo roccioso non è possibi­ le capire se piove da un’ora о da un mese. Una pioggia fredda e sottile. Le squadre accanto alla nostra avevano interrotto il lavo­ ro di scavo da un bel po’ ed erano rientrate alle baracche, ma era­ no squadre di malavitosi; noi comunque non avevamo neppure la forza per invidiarli. Il desjatnik, il «caporale», infagottato in una grande mantella di tela cerata con un cappuccio a punta, si mostrava di rado. I no­ stri superiori facevano grande assegnamento sulla pioggia, sulle sferzate d’acqua diaccia che ci tempestavano la schiena. Da tem­ po eravamo bagnati fradici, non posso dire fino alla biancheria perché non ne avevamo. Il segreto calcolo dei capi era piuttosto elementare: la pioggia e il freddo ci avrebbero indotti a lavorare. Ma l’odio per il lavoro era piu forte ancora, e ogni sera il capora­ le calava la sua asta graduata di legno nello scavo per poi coprir­ ci di maledizioni. I soldati della scorta ci sorvegliavano tenendo­ si al riparo di un «fungo», noto elemento dell’architettura concentrazionaria. Ci era fatto divieto di uscire dalle nostre buche, saremmo sta­ ti abbattuti a fucilate. Solo il nostro caposquadra poteva spo­ starsi da una buca all’altra. Non potevamo neppure gridarci qual­ cosa l’un l’altro, ci avrebbero sparato addosso. Ce ne stavamo dunque in silenzio, sprofondati fino alla cintola nei nostri poz­ zi, nelle nostre fosse di pietra che si stendevano senza interru­

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I RACCONTI DI KOLYMA

zione, una accanto all’altra, sulla proda di un piccolo corso d ’ac­ qua in secca. Durante la notte i nostri giubbotti non riuscivano ad asciugar­ si; casacche e pantaloni ce li facevamo asciugare addosso e al mat­ tino erano solo leggermente umidi. Affamato e inasprito, sapevo che nessuna cosa al mondo avreb­ be mai potuto indurmi al suicidio. Proprio allora avevo incomin­ ciato a comprendere l’essenza del grande istinto vitale: una qua­ lità di cui l’uomo è dotato in misura superlativa. Vedevo i nostri cavalli sfinirsi e spegnersi - non posso esprimermi altrimenti, né utilizzare altri verbi. I cavalli non differivano in niente dagli uo­ mini. Il Nord, il lavoro troppo gravoso, il nutrimento scadente, le percosse, ecco cosa li faceva morire; e benché tutto ciò toccasse lo­ ro in misura mille volte piu lieve degli uomini, essi morivano pri­ ma. Fu allora che compresi la cosa piu importante, e cioè che l’uo­ mo non è diventato uomo perché creatura di Dio, e neanche per­ ché aveva in ognuna delle due mani quel dito straordinario che è il pollice. Ma anzitutto perché era fisicamente il piu forte e resi­ stente di tutti gli animali, e in secondo luogo perché era riuscito a mettere felicemente al servizio del principio fisico il proprio prin­ cipio spirituale. Nella mia fossa ripensavo a queste cose per la centesima volta. Sapevo che mai l’avrei fatta finita, perché avevo verificato su me stesso quanto fosse forte l’istinto vitale. Un giorno, lavorando in uno scavo dello stesso genere ma molto piu profondo, avevo dis­ sotterrato con il piccone un enorme blocco di pietra. Per molti giorni avevo accuratamente scavato tutt’attorno a quella temibile massa. Da quella massa funesta volevo creare splendide cose - co­ me ebbe a dire il poeta1. Pensavo di salvarmi la vita rompendomi una gamba. Era veramente un progetto magnifico, un atto squisi­ tamente estetico. La roccia sarebbe franata e mi avrebbe fracas­ sato la gamba. E sarei rimasto invalido per sempre! Questa ar­ dente fantasticheria andava accuratamente organizzata: calcolai il posto dove mettere la gamba, mi figurai il leggero colpo di picco­ ne... e la roccia sarebbe caduta. Il giorno, l’ora e il momento era­ no decisi e finalmente arrivarono. Misi la gamba destra sotto il masso in bilico, mi complimentai con me stesso per la mia calma, sollevai il braccio e spinsi il piccone che avevo incuneato tra mas­ so e scavo, facendo leva. Il blocco di pietra cominciò a scivolare 1 L ’A. si richiama a una poesia di Mandel'stam del 1912, Notre Dame, citando parte degli ultimi due versi: «iz tjazesti nedobroj [...] prekrasnoe sozdam».

PIOGGIA

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lentamente lungo la parete dello scavo verso il punto previsto e calcolato. Io stesso non so dire come sia potuto accadere, fatto sta che tirai precipitosamente indietro la gamba. In quello spazio an­ gusto la gamba restò comunque contusa. Due lividi, tre escoria­ zioni, fu questo tutto il risultato di un’operazione così accurata­ mente predisposta. E compresi che autolesionismo e suicidio non facevano per me. Mi restava un’unica risorsa: attendere che al piccolo guaio quoti­ diano facesse seguito un piccolo momento fortunato e che il gran­ de guaio prima о poi si esaurisse per conto suo. La fortuna piu vi­ cina era la fine della giornata lavorativa, tre sorsate di minestra calda, о anche fredda, l’avrei riscaldata sulla stufa di ferro: avevo la mia gamella, un barattolo da conserva di tre litri. E poi avrei chiesto una sigaretta, о piuttosto un mozzicone, a Stepan, il «pian­ tone» della nostra baracca. In tal modo, rimescolando nel cervello questioni «cosmiche» e piccole inezie, aspettavo, bagnato fino al midollo ma con il cuore in pace. Si può dire che queste considerazioni costituissero una sorta di ginnastica del cervello? Niente affatto. Tutto questo era nell’ordine delle cose, era la vita. Sapevo che il corpo, e quindi le cellule del cervello, ricevevano un nutrimento insufficiente - da parecchio tempo il mio cervello era ridotto a una razione da fame - e che questo si sarebbe immancabilmente tradotto in follia, scle­ rosi precoce о qualcosa del genere... E mi sorrideva l’idea che non sarei vissuto abbastanza da arrivare alla sclerosi. La pioggia veni­ va giu a dirotto. Mi venne in mente quella donna che il giorno prima era passa­ ta vicino a noi, sul sentiero, senza badare alle intimazioni dei sol­ dati. L ’avevamo salutata e ci era sembrata straordinariamente bel­ la: era la prima donna che vedevamo dopo tre anni. Ci aveva fat­ to un cenno con la mano, poi aveva indicato il cielo, un angolo del firmamento, e ci aveva gridato: «Manca poco, ragazzi, manca po­ co! » Le aveva risposto un urlo di gioia. Non l’ho piu rivista ma per tutta la vita non ho dimenticato come seppe capirci e conso­ larci. Indicando il cielo, non pensava affatto all’aldilà. No, indi­ cava soltanto che l’invisibile sole calava verso occidente e che la giornata di lavoro stava per finire. Ci aveva ripetuto a modo suo le parole di Goethe sulle cime dei monti2. E io pensavo alla sag2 In una celebre libera versione (1840) di Lermontov intitolata Iz Gè'te si legge: «Gornye versiny I spjat vo t'me nocnoj, ! [...] podozdi nemnogo, I otdochnës i ty» (Dor­ mono le vette I nel buio della notte ![...] aspetta solo un poco I riposerai anche tu).

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gezza di quella donna semplice, che sicuramente era una prostitu­ ta о un’ex prostituta (a quei tempi, nella regione altre donne non c’erano, oltre alle prostitute), pensavo alla sua saggezza e al suo grande cuore, e il mormorio della pioggia faceva da eccellente sfon­ do sonoro a questi pensieri. La grigia riva di pietra, le grigie mon­ tagne, il cielo grigio, gli uomini vestiti con abiti laceri e grigi - un tutto morbido, consonante in ogni sua parte. Un tutto che si com­ poneva in un’armoniosa unità cromatica - una diabolica armonia. E in quel momento si alzò un debole grido dallo scavo accanto al mio. Il mio vicino era un certo Rozovskij, un agronomo di una certa età, la cui notevole competenza specifica non trovava qui al­ cun campo di applicazione, al pari delle competenze di medici, in­ gegneri, economisti. Mi aveva chiamato per nome e io gli risposi senza curarmi del gesto minaccioso che il soldato mi indirizzò da lontano, da sotto il suo fungo. - Mi ascolti, - gridava, - mi ascolti! Ci ho pensato a lungo! E ho capito che la vita non ha senso... No... Allora saltai fuori dal mio buco e lo raggiunsi prima che potes­ se lanciarsi contro i soldati della scorta. Le due sentinelle si sta­ vano avvicinando. - Si è ammalato, - dissi loro. In quell’istante ci raggiunse, attutito dalla pioggia, il suono lon­ tano della sirena, e cominciammo a formare i ranghi. Con Rozovskij lavorai ancora per qualche tempo, finché non si gettò sotto un carrello carico, lungo la discenderia. Aveva messo una gamba sotto le ruote, ma il carrello l’aveva semplicemente sal­ tato, e lui non aveva rimediato neanche un’ammaccatura. Non per questo rinunciarono ad affibbiargli un nuovo deio, ad avviare una causa giudiziaria per tentato suicidio, venne condannato e ci se­ parammo, perché esiste una regola in base alla quale dopo il giu­ dizio un condannato non viene mai riportato nel luogo di prove­ nienza. Si teme una vendetta a caldo, contro l’inquirente, о i te­ stimoni. È una regola saggia, niente da dire. Ma nei confronti di Rozovskij avrebbero potuto fare a meno di applicarla. 1958. Dozd', in «M oskva», 1988, n. 9.

«K a n t»

Le cime delle sopki, le montagne di questi luoghi, erano bian­ che con un riflesso azzurrino, come dei pani di zucchero. Arro­ tondate e senz’alberi, erano coperte da uno strato di neve sottile, livellato dal vento. Nelle gole la neve era profonda e compatta, il piede non sprofondava, mentre sui pendìi sembrava gonfiarsi in grandi protuberanze. Erano gli arbusti di stlanik, il pino prostra­ to, о pino nano del Nord, che si erano stesi sul terreno, corican­ dosi per l’ibernazione invernale in anticipo rispetto alle prime ne­ vicate. Erano proprio loro che ci servivano. Di tutti gli alberi del Nord lo stlanik sempreverde era il mio preferito. Da molto tempo avevo compreso e amato l’ammirevole pre­ mura con cui la povera natura del Nord s ’affrettava a dividere con l’uomo, anch’egli povero, le proprie modeste ricchezze: fiorire per lui il piu in fretta possibile con tutti i suoi fiori. Talvolta, nel giro di una settimana, fioriva impetuosa, e ad appena un mese dall’i­ nizio dell’estate, sotto i raggi di un sole che non tramontava qua­ si mai, le montagne erano tutte un rutilare e nereggiare di mirtil­ li. Su alberelli e bassi cespugli - non c’era neanche bisogno di al­ zare il braccio - maturava, in grosse bacche gialle e acquose, il sorbo. E la rosa selvatica montana apriva il suo cuore di miele: con i suoi petali rosa è l’unico fiore della regione a odorare veramente di fiore; tutti gli altri odorano di umidità, di palude, ed è questo il motivo del silenzio primaverile degli uccelli, del silenzio della fo­ resta di larici i cui rami si rivestono lentamente di aghi verdi. La rosa selvatica serbava i suoi frutti fino ai primi geli e, da sotto la neve, continuava ad offrirci le sue bacche carnose e grinzose, la cui ruvida pelle violetta racchiudeva una polpa dolciastra giallo­ scura. Conoscevo l’allegria dei salici che cambiano piu volte colo­ re in primavera: ora rosa carico, ora arancione, ora verde pallido, come rivestiti di morbida pelle. I larici tendevano le loro esili di­ ta dalle unghie verdi, l’onnipresente succoso epilobio ricopriva le

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zone incendiate. L ’insieme era magnifico, fidente, tumultuante e vertiginoso ma riguardava solo l’estate, quando l’erba verde e opa­ ca si mescolava al riflesso erboso delle rocce muscose e scintillan­ ti che improvvisamente, al sole, non apparivano piu né grigie né marroni, ma verdi. D ’inverno, tutto questo spariva sotto una coltre di neve fine e dura che i venti ammucchiavano nelle gole e comprimevano anche sui pendii al punto che, per scalare la montagna, bisognava taglia­ re dei gradini con la scure. Nella foresta la natura era cosi spoglia che si poteva vedere un uomo a una versta di distanza. Un solo al­ bero restava sempre verde, sempre vivo: il pino prostrato, il no­ stro cedro del Nord dalle foglie aghiformi persistenti. Esso era in grado di prevedere il tempo. Nei due о tre giorni che precedeva­ no la prima neve, quando la giornata ci offriva un caldo ancora au­ tunnale e un cielo libero da nuvole, e a nessuno poteva venire in mente di pensare al vicino inverno, il pino prostrato allungava al­ l’improvviso per terra le sue grandi zampe, lunghe due sazeni, pie­ gava senza fatica il nero tronco diritto, largo quanto un pugno, e si distendeva bocconi. Passava un giorno, un altro, appariva una nuvoletta, e per sera si alzava la tormenta e nevicava. Se invece, anche già avanti nell’autunno, si accumulavano nuvole basse, fo­ riere di neve, e soffiava un vento freddo, ma lo stlanìk non si co­ ricava, si poteva essere assolutamente certi che non avrebbe nevi­ cato. Alla fine di marzo о in aprile, quando non c’era ancora odore di primavera e l’aria era quella solita, invernale, secca e rarefatta, il pino si rialzava qua e là tutto attorno, scuotendo via la neve dal­ la veste verde e leggermente screziata di rosso. Dopo due о tre giorni cambiava il vento, e calde correnti d’aria portavano la pri­ mavera. Il pino prostrato era uno strumento meteorologico molto pre­ ciso e talmente sensibile da essere talvolta indotto in errore. Ba­ stava un breve disgelo e, per quanto poco durasse, il pino, che fi­ no ad allora era abbracciato alla terra, cominciava a raddrizzarsi. Ma prima che la temperatura scendesse di nuovo, si era già rapi­ damente coricato nella neve. Succedeva anche questo: sin dal mat­ tino si preparava un gran fuoco per avere dove riscaldarsi braccia e gambe durante il pasto; si metteva piu legna che si poteva e si andava a lavorare. Dopo due о tre ore, il pino sollevava i rami se­ polti nella neve e si raddrizzava lentamente, perché credeva che fosse arrivata la primavera, ma prima che il fuoco si spegnesse tor­ nava a coricarsi nella neve. Qui l’inverno è bicolore - un alto eie-

«KANT»

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10 azzurro pallido e una terra bianca. La primavera mette a nudo i brandelli giallo sporco dell’autunno precedente, e la terra resta per molto molto tempo con quest’abito da mendicante, prima che la nuova verzura prenda forza e tutto cominci a fiorire in modo rapido e impetuoso. Ed ecco che nel bel mezzo di questo inizio uggioso di primavera, di questo attardarsi dell’implacabile inver­ no, il pino prorompe abbagliante con il suo colore verde intenso. Ed è inoltre carico di pigne con i loro piccoli pinoli. Una ghiot­ toneria che si dividono uomini, passeri, orsi, tamia e altri scoiat­ toli siberiani. Scelto un posto adatto sul versante della montagna riparato dal vento, trascinammo fin li della legna, rametti e rami piu grossi, strappammo dell’erba secca dai pendìi senza neve, spazzati dal ven­ to. Ci eravamo portati dalla baracca alcuni tizzi fumiganti prele­ vati dalla stufa subito prima di partire per il lavoro, qui non c’e­ rano fiammiferi. Avevamo trasportato i tizzoni in un grande barattolo da con­ serva munito di un manico di filo di ferro, stando bene attenti che non si spegnessero durante il tragitto. Tirai fuori i tizzoni dalla scatola, ci soffiai sopra e ne riunii le estremità ancora ardenti; quan­ do si infiammarono li appoggiai sulla piccola catasta di rametti ed erba secca che avevo preparato per il fuoco da campo. Coprii il tut­ to con i rami piu grossi e presto un filo di fumo azzurrino si al­ lungò esitante nel vento. Prima di allora non avevo mai lavorato in una squadra addet­ ta alla raccolta degli aghi di pino. Il lavoro veniva fatto a mano: si strappavano gli aghi verdi e pungenti, afferrandone con la mano 11piu possibile, come si fa per spennare la selvaggina, e se ne riem­ pivano dei sacchi; a sera la produzione della giornata veniva con­ segnata al «caporale». Successivamente gli aghi di pino venivano trasportati a un misterioso kombinat «vitaminico», e qui ne estrae­ vano, mediante cottura, un preparato di colore giallo scuro, vi­ schioso e spesso, dal sapore oltremodo nauseabondo. Questo estratto ci veniva obbligatoriamente somministrato prima di ogni pasto di mezzogiorno; ognuno era tenuto a berlo о a mangiarlo (co­ me gli riusciva meglio). Il sapore dell’estratto ci rovinava non sol­ tanto il pasto di mezzogiorno ma anche quello della sera, e molti vedevano in questa cura una misura supplementare del regime rieducativo-punitivo del lager1. Ma senza una buona dose di questo 1 Si parla nel testo di lagemoe vozdejstvie, dove vozdejstvie, in lager, è un «sistem a di pressioni» tale da tradursi per i detenuti in torture fisiche e psicologiche.

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medicamento non c’era verso di ricevere il pasto di mezzogiorno - su questo erano rigidi. Lo scorbuto infieriva ovunque e lo stlanik era l’unico rimedio ufficialmente approvato dalla medicina. La fede è piu forte di qualsiasi cosa, e anche se in seguito sarebbe sta­ ta dimostrata la completa inefficacia di quel «medicamento» con­ tro lo scorbuto, arrivando a sospenderne la produzione e a chiu­ dere i kombinat delle vitamine, ai nostri tempi la gente ingurgita­ va quel maleodorante intruglio, sputava per il disgusto e guariva dallo scorbuto. О non guariva. Oppure non ne beveva e guariva. Dove stavamo noi c’era un mare di rose selvatiche, dappertutto, ma nessuno le raccoglieva per utilizzarle contro lo scorbuto: nelle direttive da Mosca non c’era niente riguardo alla rosa selvatica. (Qualche anno piu tardi, si cominciò a far arrivare dal «continen­ te» un certo preparato ottenuto dalla rosa selvatica, ma che io sap­ pia, non si avviò mai una produzione locale). Le direttive attribuivano agli aghi di pino, e solo ad essi, la ti­ tolarità esclusiva della vitamina C. Adesso ero anch’io un prepa­ ratore di questa preziosa materia prima: mi ero troppo indebolito e dal giacimento d’oro ero stato trasferito a brucare il pino pro­ strato. - Fatti due passi tra i pini, - m’aveva detto il caporale quella mattina. - Per qualche giorno ti assegno questo kant. «K ant» è un termine largamente diffuso nei lager. Significa qualcosa tipo un periodo di quasi vacanza, non una vacanza vera e propria (in questo caso si direbbe: oggi il talzprìpuchaet, oppure pripuch, qualcosa come «se ne sta, о se ne è stato in panciolle»), ma comunque un lavoro che non riduce allo stremo delle forze, un lavoro leggero e temporaneo. Piu che leggero, il lavoro con gli aghi di pino era considerato leggerissimo, e inoltre era senza scorta. Dopo parecchi mesi di lavoro nei giacimenti coperti di ghiac­ cio, dove il piu piccolo sassolino è talmente gelato che scintilla e brucia le mani, dopo lo scatto dei fucili ai quali viene tolta la si­ cura, i latrati dei cani e le imprecazioni dei sorveglianti alle tue spalle, il lavoro degli aghi di pino era un piacere enorme, percepi­ to da ogni singolo muscolo affaticato. Si partiva per la raccolta piu tardi che per gli altri lavori, ma comunque prima del sorgere del giorno. Era bello riscaldarsi le mani sul barattolo pieno di tizzoni fu­ manti, salendo senza fretta verso le sommità arrotondate delle montagne che solo poco prima sembravano cosi lontane da essere irraggiungibili. E si saliva sempre piu in alto, assaporando a ogni

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istante l’inattesa meraviglia della solitudine e del profondo silen­ zio montano in inverno: come se tutto ciò che vi era di male sulla terra fosse scomparso e foste rimasti solo voi, tu e il tuo compa­ gno, e la stretta pista nella neve, scura e interminabile, che porta­ va da qualche parte, lassù. Il mio compagno considerava con aria scontenta la lentezza dei miei movimenti. Lui faceva questo lavoro da molto tempo e stava pensando, giustamente, al fatto che gli era toccato un compagno di lavoro debole e maldestro. Si lavorava sempre in coppia: il ri­ sultato era comune e veniva diviso in due. - Taglio io, tu siediti a sbucciare i rami, - disse. - E vedi di muoverti un po’ piu in fretta, altrimenti la norma non la comple­ tiamo di sicuro. E non ho nessuna voglia di tornare a scavare in miniera. Cominciò a tagliare e presto trascinò un grande mucchio di ra­ mi di pino vicino al fuoco. Io spezzavo i rami in pezzi piu piccoli, ne spiccavo i ramoscelli, poi, tirando verso il basso dalla cima, strappavo gli aghi insieme alla scorza. Sembravano delle frange di stoffa. - Bisogna fare piti in fretta, - disse il mio compagno, tornan­ do con un’altra bracciata. - Andiamo male, vecchio mio! Lo vedevo anche da me, che così non andava. Ma non ce la fa­ cevo a lavorare piu in fretta. Mi fischiavano le orecchie e da un pezzo sentivo il vecchio dolore sordo che mi torturava le dita da quando mi si erano gelate all’inizio dell’inverno. Strappavo gli aghi, sminuzzavo interi rami senza strapparne la scorza, e ficcavo il bottino nel sacco. Ma il sacco non ne voleva sapere di riempir­ si. Vicino al fuoco s’era già alzata una vera montagna di rami scor­ ticati, simili a ossa sbiancate, ma il sacco non finiva mai di gon­ fiarsi e di inghiottire sempre nuove bracciate di aghi di pino. Il mio compagno si sedette ad aiutarmi. Il lavoro cominciò a procedere piu rapidamente. - E ora di rientrare, - disse all’improvviso, - altrimenti fare­ mo troppo tardi per la cena. Non è abbastanza per la norma -, E, presa una grossa pietra dalla cenere del falò, la ficcò nel sacco. Non stanno a slegarli, - spiegò rabbuiandosi. - Cosi, ci siamo. Mi rialzai, sparpagliai i rami ancora accesi e con il piede spin­ si della neve sulla brace che continuava a rosseggiare. Il falò co­ minciò a sibilare e si spense, e subito fece freddo e si senti che la sera era vicina. Il mio compagno mi aiutò a caricarmi il sacco sul­ la spalla. Barcollai sotto il peso. - Trascinalo, - disse. - Si va in giu, no?

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Rientrammo appena in tempo per ricevere la minestra e il tè che ci spettavano. Per quel lavoro leggero non era previsto un se­ condo piatto. 1956. Kant, in «Znam ja», 1989, n. 6.

A razione secca

Quando arrivammo, tutti e quattro, al fiume Duskan'ja, era­ vamo cosi contenti che quasi non scambiavamo parola. Il nostro unico timore era che quella trasferta fosse dovuta a un equivoco о allo scherzo malvagio di qualcuno, e che ci avrebbero fatti ritor­ nare nelle sinistre trincee di pietra del giacimento, sommerse dal­ l’acqua ghiacciata del disgelo. Le galosce di gomma in dotazione non potevano certo riparare dal freddo i nostri piedi ripetutamente congelati. Seguivamo le tracce di un trattore simili a quelle di un anima­ le antidiluviano, ma la pista si interruppe presto e fu per un vec­ chio sentiero calpestato, appena visibile, che giungemmo fino a un capanno di tronchi nel quale erano state praticate due aperture co­ me finestre; la porta era appesa a un unico cardine, un pezzo di pneumatico fissato con qualche chiodo. La piccola porta aveva un’enorme maniglia di legno che ricordava quelle di certi ristoranti delle grandi città. All’interno c’erano delle lettiere di tronchi grez­ zi e sul suolo di terra battuta era rovesciato un barattolo da con­ serva annerito dal fumo. Dietro la casetta coperta di muschio c’e­ rano molti altri barattoli tutti gialli e arrugginiti simili al primo. L ’izba apparteneva al servizio di prospezione mineraria; da anni non ci aveva piu abitato nessuno. Noi dovevamo stabilirci H e di­ boscare un’area nella foresta: ci eravamo portati seghe e scuri. Per la prima volta avevamo ricevuto direttamente, nelle nostre mani, le razioni alimentari che ci spettavano. Io avevo un prezio­ so sacchetto pieno di granaglie, zucchero, pesce e grassi vari. Il sacchetto era stato stretto in piu punti con dei pezzetti di corda e sembrava un salsicciotto. Zucchero in polvere e granaglie di due tipi - cruschello d’orzo e magar. Anche Savel'ev aveva un sac­ chetto come il mio; Ivan Ivanovic ne aveva addirittura due, con vistose impunture che tradivano la mano maschile. Il quarto Fedja Scapov - da vero incosciente si era riempito di granaglie di­ rettamente le tasche del giubbotto e aveva fatto su lo zucchero in

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una pezza da piedi. La tasca interna del giubbotto era stata stac­ cata da tempo per farne una borsa da tabacco dove egli riponeva con cura le cicche rimediate in giro. Le razioni per dieci giorni facevano spavento: non osavamo pensare che avremmo dovuto dividere il tutto in trenta parti se volevamo avere colazione, pranzo e cena, e in venti per due pasti al giorno. Di pane ne avevamo portato per due giorni soltanto: poi ci avrebbe pensato il «caporale»; infatti neanche un piccolo grup­ po di lavoratori come il nostro è concepibile senza sorveglianza. Non ci importava niente di sapere chi fosse. Ci era stato detto che' in attesa del suo arrivo avremmo dovuto sistemare l’alloggio. Ne avevamo tutti quanti abbastanza del vitto che distribuiva­ no al campo, dove ogni volta ci veniva quasi da piangere alla vista dei grandi bidoni di zinco pieni di minestra, che venivano tra­ sportati dentro le baracche appesi a dei bastoni. Eravamo pronti a piangere per la paura che la minestra fosse troppo acquosa. E quando accadeva il miracolo e la minestra era densa, non ci pote­ vamo credere e, pieni di gioia, la sorbivamo piano piano. Ma an­ che dopo una minestra densa, nello stomaco cosi riscaldato resta­ va un dolore sordo: facevamo la fame da troppo tempo. Tutti i sen­ timenti umani - l’amore, l’amicizia, l’invidia, l’altruismo, la carità, la sete di gloria, l’onestà - ci avevano abbandonato insieme alla carne perduta durante il prolungato digiuno. In quell’insignificante strato di tessuto muscolare che ci restava ancora attaccato alle os­ sa e che ancora ci dava la forza per mangiare, muoverci, respirare e perfino spaccare la legna, caricare con il badile pietre e sabbia sulle carriole e spingerle, quelle carriole, lungo l’interminabile via di carreggio di un giacimento d ’oro - lungo la stretta passerella di legno che porta all’apparecchiatura di lavaggio - in quello strato di muscoli c’era ormai solo rabbia, il piu persistente dei sentimenti umani. Io e SaveTev avevamo deciso che ci saremmo preparati da man­ giare ognuno per conto proprio. Per un detenuto, cucinarsi il cibo è un piacere tutto particolare: è un incomparabile godimento pre­ pararlo per se stessi, con le proprie mani, e poi mangiarselo, anche se risulta peggiore di quello che avrebbe potuto uscire dalle mani esperte di un cuciniere; le nostre nozioni culinarie erano nulle, ina­ deguate perfino per una semplice minestra о una kasa. Nonostan­ te ciò, io e SaveTev - dopo aver radunato un’intera batteria di ba­ rattoli da conserva e averli ripuliti passandoli sul fuoco del falò ci dedicammo a mettere a mollo e far cuocere questo e quello, im­ parando l’uno dall’altro.

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Ivan Ivanovic e Fedja, invece, avevano messo in comune le lo­ ro provviste. Fedja aveva rovesciato le tasche, controllando accu­ ratamente le cuciture ed estraendone ogni granello con le sue un­ ghie sudice e spezzate. Eravamo tutti e quattro perfettamente pronti a un viaggio nel­ l’avvenire, celeste о terreno che fosse. Sapevamo tutto quello che c’era da sapere sulle norme nutritive stabilite dalla scienza, e sul­ le tabelle di equivalenza dei prodotti alimentari, dalle quali risul­ ta che un secchio d’acqua calda può sostituire per valore calorico cento grammi di burro. Avevamo imparato la rassegnazione, ave­ vamo disimparato a stupirci. Non c’erano rimasti né orgoglio, né egoismo, né amor proprio; e gelosia e passione ci sembravano con­ cetti marziani, futili per giunta. Era molto piu importante impa­ rare a riabbottonarsi i pantaloni in inverno, con il gelo: cosa tutt’altro che facile, ho visto uomini adulti piangere per questo. Capi­ vamo che la morte non era per niente peggiore della vita e non temevamo né l’una né l’altra. Eravamo pervasi da una grande in­ differenza. Sapevamo che dipendeva da noi mettere fine a quella vita, anche il giorno dopo se l’avessimo voluto; e talora eravamo risoluti a farlo, ma ogni volta ci si metteva di mezzo una di quel­ le inezie di cui è fatta la vita. Vuoi perché quel giorno avevano de­ ciso di autorizzare il larëk - e allo spaccio si poteva acquistare un chilo di pane a titolo di gratifica straordinaria - e sarebbe stata semplicemente un’idiozia suicidarsi proprio in un giorno cosi spe­ ciale, vuoi perché il «piantone» della baracca vicina, per disobbli­ garsi di un vecchio debito, aveva promesso di darti da fumare pro­ prio quella sera. Avevamo compreso che la vita, anche la piu sventurata, consi­ ste in un alternarsi di gioie e dolori, di momenti felici e momenti disgraziati, e che non bisogna averne paura anche se ci sono più dolori che gioie. Eravamo disciplinati, obbedivamo alle autorità. Capivamo che verità e menzogna sono sorelle germane e che al mondo esistono migliaia di verità... Ci consideravamo quasi dei santi, pensando di aver espiato, con quegli anni di lager, tutti i nostri peccati. Avevamo imparato a conoscere gli uomini, a prevedere le loro azioni, a intuirle. Avevamo compreso - ed era la cosa piu importante - che la no­ stra conoscenza degli uomini non ci sarebbe stata di nessuna uti­ lità nella vita. A cosa mi serviva capire, indovinare, prevedere le azioni di un altro uomo? Non potevo comunque cambiare il mio

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modo di comportarmi, neanche nei suoi riguardi; non avrei certo denunciato un altro detenuto, qualsiasi cosa avesse fatto. Non mi sarei certo messo a correre dietro al posto di caposquadra che ti dà la possibilità di sopravvivere, perché non c’è niente di peggio nel lager che imporre la propria volontà (o quella di chiunque) a un al­ tro uomo, a un detenuto come te. Non avrei brigato per farmi del­ le conoscenze utili, non mi sarei messo a «ungere». E cosa ci gua­ dagnavo a sapere che Ivanov era un mascalzone, Petrov una spia e Zaslavskij un falso testimone? L ’impossibilità di ricorrere a determinati tipi di «armi» ci ren­ deva deboli nei confronti- di certi nostri vicini di tavolaccio e di baracca. Avevamo imparato ad accontentarci di poco e a gioire per un niente. Avevamo compreso anche un altro fatto stupefacente: agli oc­ chi dello Stato e dei suoi rappresentanti, un uomo fisicamente for­ te è migliore, proprio migliore, piu morale e piu prezioso di un uo­ mo debole, vale a dire di un uomo che non ce la fa a tirar su dallo scavo venti metri cubi di materiale per turno di lavoro. Il primo è piu morale del secondo: egli realizza la sua «percentuale», adem­ pie cioè il suo principale dovere nei confronti dello Stato e della società, e per questo motivo viene rispettato da tutti. Gli si chie­ de consiglio e si tien conto del suo parere, lo si invita a conferen­ ze e riunioni i cui argomenti non hanno molto a che vedere con i problemi di chi deve spalare della terra pesante e scivolosa fuori da fosse bagnate e sdrucciolevoli. Grazie alla sua superiorità fisica, quell’uomo diventa una for­ za morale quando si devono risolvere gli innumerevoli problemi quotidiani della vita del lager. Beninteso, è una forza morale fin­ tanto che è una forza fisica. L ’aforisma di Paolo P: «In Russia è illustre soltanto colui con il quale parlo e fintantoché gli parlo» aveva trovato una sua inat­ tesa nuova espressione sui fronti di scavo dell’Estremo Nord. Nei primi mesi della sua vita in miniera, Ivan Ivanovic era sta­ to uno «sgobbone», un rabotjaga « d ’assalto». E non riusciva a ca­ pire perché, adesso che si era indebolito per la fame, tutti avesse­ ro incominciato a picchiarlo; senza molto impegno, cosi, di pas­ saggio, magari senza fargli troppo male, ma lo picchiavano tutti: il piantone, il barbiere, il ripartitore di manodopera, il caposqua­ dra, il soldato della scorta. E, oltre ai superiori, lo picchiavano an-1 1 Paolo I (1754-1801), imperatore di Russia dal 1796, rafforzò il potere autocratico; mori per mano di congiurati della guardia imperiale.

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che i malavitosi. Ivan Ivanovic era felice di essere stato scelto per questo lavoro nella foresta. Fedja Scapov, un adolescente originario dell’Altaj, era diventa­ to un dochodjaga, un «morituro» prima degli altri perché il suo or­ ganismo quasi infantile non si era ancora fatto forte a sufficienza. Per questo motivo, Fedja aveva resistito forse due settimane meno degli altri e si era indebolito piu rapidamente. Era l’unico figlio di una vedova, condannato per macellazione illegale di bestiame: ave­ va sgozzato la sola pecora che possedevano. Queste macellazioni erano proibite dalla legge. Fedja si era preso dieci anni, e l’affan­ noso lavoro sul fronte di estrazione, cosi diverso da quello della campagna, era per lui particolarmente faticoso. Ammirava la vita libera dei malavitosi al giacimento, ma c’era qualcosa nella sua na­ tura che gli impediva di legarsi a dei ladri. Questo suo sano princi­ pio contadino, l’amore innato, e non l’avversione, per il lavoro, in qualche modo lo aiutavano. Era il piu giovane del gruppo e si era subito attaccato al più anziano, e positivo, Ivan Ivanovic. Savel'ev era uno studente dell’istituto di telecomunicazioni di Mosca, mio «compaesano» alla prigione di Butyrki. Sconvolto per tutto quello che vedeva, dalla sua cella aveva scritto una lettera al­ la Guida del partito2, poiché come membro fedele del komsomol era convinto che Lui fosse tenuto all’oscuro di certi fatti. Il suo caso personale era assolutamente inconsistente: corrispondenza con la propria fidanzata, dove la sola prova dell’«agitazione e pro­ paganda» (articolo 58. io) erano appunto le lettere tra i due; l’«organizzazione» (articolo 58.11) contava due soli componenti, loro. Tutto questo veniva riportato con la massima serietà dai verbali degli interrogatori. Comunque era convinzione comune che, sia pure tenendo conto delle misure in vigore all’epoca, la cosa si sa­ rebbe risolta, per male che andasse, con una condanna alla ssylka, la «relegazione». Poco dopo l’invio della lettera, in una delle «giornate di istan­ ze» previste dal regolamento carcerario, SaveTev fu chiamato in corridoio e gli fecero firmare una ricevuta di notifica. Il procura­ tore generale gli comunicava che si sarebbe personalmente occu­ pato del suo caso. Dopo di che, convocarono SaveTev una sola vol­ ta, per consegnargli il verdetto dell’Oso, la Commissione specia­ le: dieci anni di lager. 2 La G uida del partito è Stalin (Iosif Vissarionovic Dzugasvili, 1879-1953). Grande timoniere, Padre dei popoli, Guida del proletariato mondiale, Sommo condottiero e stra­ tega, Corifeo delle arti e delle scienze, sono alcuni degli appellativi di cui venne gratifica­ to, in Urss e nel mondo, durante i quasi venticinque anni del suo potere assoluto.

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