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studi di poesia latina studies of latin poetry
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EDITORS IN CHIEF Giorgio Bonamente Presidente Accademia Properziana del Subasio Roberto Cristofoli Università di Perugia Rosalba Dimundo Università di Bari Paolo Fedeli Accademia dei Lincei Giovanni Polara Università di Napoli Federico II Carlo Santini Università di Perugia
EDITORIAL STAFF Chiara Moretti Giulia Marconi SUBMISSIONS SHOULD BE SENT TO Carlo Santini [email protected] Dipartimento di Lettere Università degli Studi di Perugia Piazza Morlacchi, 11 I-06123 Perugia, Italy
studi di poesia latina studies of latin poetry
I GENERI LETTERARI IN PROPERZIO: MODELLI E FORTUNA PROCEEDINGS OF THE TWENTY–SECOND INTERNATIONAL CONFERENCE ON PROPERTIUS Assisi – Spello 24-27 May 2018 Edited by Giorgio Bonamente Roberto Cristofoli Carlo Santini
ACCADEMIA PROPERZIANA DEL SUBASIO - ASSISI
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© 2020, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium.
All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of the publisher.
Cover picture: Assisi, Domus del Lararium. Oecus, parete Nord, pinax con scena degli sposi.
ISBN: 978-2-503-58926-8 e-ISBN: 978-2-503-58927-5 DOI: 10.1484/M.SPL-EB.5.119990 ISSN: 2565-9006 e-ISSN: 2566-011X D/2020/0095/109 Printed in the E.U. on acid-free paper.
SOMMARIO
Premessa 7 Giorgio Bonamente Properzio in Assisi e a Roma 9 Roberto Cristofoli Tra genere letterario e ideologia politica: tradizioni e riletture storiche in Properzio 4, 6 81 Rosalba Dimundo Ad coniugem suum, da Properzio a Ovidio 105 Paolo Fedeli Properzio e l’epos virgiliano. Dall’annuncio al ricordo 127 Luciano Landolfi Varcare i confini? ‘Palinsesti didascalici’ nel terzo libro delle Elegie di Properzio 151 Paolo Mastandrea L’epos latino arcaico e Properzio 199 Maria Pia Pattoni Influssi della tragedia attica sull’elegia di Properzio 231 Arturo R. Álvarez Hernández Propercio y la poesía etiológica: del servitium amoris al servitium patriae 277 Paola Pinotti Scribenda mihi lex in amore novo: il linguaggio del diritto in Properzio 301 5
SOMMARIO
Giovanni Polara Properzio e l’epigrafia 319 Gianpiero Rosati Il ‘tempo della bellezza’ e la legge della forza: l’epos omerico in Properzio 335 Carlo Santini Aristofane e ‘le aristofaniche fantasie’ nel corpus elegiaco di Properzio: porte sbattute, muraglie celesti, morti che rivivono 351 Andrew Wallace-Hadrill L’arte nella poesia di Properzio 375 Gianluigi Baldo Considerazioni conclusive 393
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PREMESSA
Il XXII convegno internazionale su Properzio è stato delineato dal Comitato scientifico del “Centro internazionale di Studi sulla poesia latina in distici elegiaci” (allora costituito da Roberto Cri stofoli, Rosalba Dimundo, Paolo Fedeli, Raffaele Perrelli, Gio vanni Polara, Carlo Santini e dallo scrivente) nella riunione del 13 maggio 2017, tenuta – secondo una tradizione pluridecennale – nella Galleria Esedra in Roma. Il focus del convegno del 2018 è stato puntato su un aspetto di Properzio che è apparso bisognoso di una riconsiderazione: l’originalità delle sue elegie nel contesto dei vari generi letterari e delle varie forme di arte, che costituirono il patrimonio culturale della dotta e raffinata Roma di Augusto, permeata di suggestioni del mondo ellenistico. Il tema proposto ai relatori: I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna mette in campo una precisa considerazione del “prima” e del “dopo” e pertanto è destinato a collocare le elegie del ‘Callimaco romano’ nella loro autentica e articolata dimensione storica. Dopo due convegni rivolti con specifica attenzione alla politica e alla cultura dell’età augustea, come nel 2012 (Properzio e l’età augustea. Cultura, storia, arte) e nel 2016 (Properzio tra repubblica e principato), il Comitato scientifico ha ritenuto opportuno approfondire l’indagine sui punti di riferimento culturali, sui modelli letterari assunti da Properzio e da lui travasati nel contesto elegiaco. Ha ritenuto infatti che un’indagine ad ampio raggio sui modi e sull’intensità della sua appropriazione (che Giovanni Polara ama definire ‘ibridazione’) potesse aprire nuove prospettive di interazione e mutazione dei generi, dimostrando la duttilità dell’elegia e la sua capacità di farsi strumento di comunicazione per molti vari contenuti precedentemente monopolizzati, 7
PREMESSA
o almeno prevalentemente ospitati, in altri metri o addirittura in prosa. È stata individuata un’ampia gamma di generi letterari da riconsiderare, dall’epigramma alla tragedia e al teatro comico, per passare all’epos (di Omero e di Ennio) e all’articolata opera e all’evoluzione stessa di Virgilio dalle Ecloghe all’Eneide. Significativi campi di indagine sono stati colti nella collocazione di Properzio nella storia della epistolografia erotica e della poesia didascalica e nell’affiorare della terminologia giuridica trasposta nel linguaggio e nelle situazioni propri del genere elegiaco. Da ultimo, ma non per rilevanza, si è pensato al suo rapporto con le arti visive, quali la pittura e la scultura, nonché i testi epigrafici, autentici o ficti. L’auspicio degli organizzatori è che in tutti gli ambiti suddetti i Relatori possano cogliere il rapporto fra ciò che Properzio ha avuto davanti a sé – nel senso più ampio del termine – e la traccia da lui segnata per il tempo a venire. Il risultato sperato è quello di un progresso metodologico nella ricerca su Properzio: il variegato mosaico dei temi dell’elegia di Properzio e la ridefinizione del suo ruolo nella storia dei “generi” letterari e culturali possono infatti offrire una prospettiva e un’occasione peculiari per superare lo schema rigido della ‘integrazione difficile’ sul piano etico-politico. Nel solco della tradizione dei Convegni su Properzio, ma anche per sottolineare la prospettiva umbra dell’Accademia, una seduta del Convegno sarà tenuta nella città di Spello, ove i Convegnisti saranno accolti dal Sindaco Moreno Landrini e potranno visitare la “Villa dei Mosaici” con i suoi preziosi reperti valorizzati da un allestimento museale inaugurato il 24 marzo 2018. Anche in questa edizione 2018 il comm. Arnaldo Manini, Accademico del Subasio, titolare della “Manini Prefabbricati” ha offerto 16 borse di studio per giovani Ricercatori. Un ringraziamento al Sindaco di Assisi, prof. ing. Ph. D. Stefania Proietti, Accademica del Subasio, all’on.le prof.ssa Donatella Porzi, Presidente dell’Assemblea Legislativa della Regione Umbria, e a S. Ecc.za Domenico Sorrentino, Arcivescovo di Assisi, Nocera e Gualdo Tadino: il loro saluto è espressione non formale della loro attenzione premurosa per le sorti dell’Accademia e per il successo del presente Convegno. Giorgio Bonamente Presidente dell’Accademia Properziana del Subasio
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GIORGIO BONAMENTE Università degli Studi di Perugia
PROPERZIO IN ASSISI E A ROMA
Nei suoi studi sistematici sui Properzi, editi negli anni 1985 e 1986, Giovanni Forni individuò le presenze più numerose e importanti in Roma e in Assisi, nonché nelle provincie della Numidia e dell’Africa Proconsolare, su un totale di 93 su tutto il territorio dell’impero 1. Pochi anni prima Margherita Guarducci aveva reso noti i documenti iconografici e i graffiti della Domus Musae in occasione del Colloquium Propertianum del 1976, dandone quindi un ampio quadro in due contributi pubblicati nelle Memorie e nei Rendiconti dell’Accademia dei Lincei 2. Tale importante struttura, caratterizzata da un criptoportico e da una serie di pinakes con figure appartenenti al repertorio mitologico della poesia ellenistica, fu da lei identificata con la domus urbana dei Properzi, usata in fasi diverse, dalla fine della Repubblica fino al IV secolo d.C. e più precisamente nel 367 d.C., quando un visitatore sconosciuto ha tracciato un graffito, definendo l’edificio come la Domus Musae 3: 1 Rispettivamente 25 in Roma, 24 nella provincia di Numidia, 20 in Assisi e 8 nell’Africa Proconsolare, sul totale di 93. Cfr. Forni 1985, 119-120; Forni 1986, 186. Dalla presenza dei liberti soltanto a Roma e ad Assisi (10 a Roma e 5 in Assisi, su un totale di 15) lo studioso ha colto la maggiore strutturazione economica e sociale della gens nelle due città rispetto alle pur numerose presenze sul territorio provinciale; cfr. Bonamente 2004, 28; Cairns 2006, 3-34; SupplIt 23, 2007, 250-253; Bonamente 2019. 2 Cfr. Guarducci 1977 e Guarducci 1979. Le risposte a varie obiezioni sollevate sul suo studio in Guarducci 1985 e Guarducci 1986. Sulla datazione della Domus Musae si vedano Coarelli 2004, 105; Boldrighini 2014 (con rassegna bibliografica). 3 «Nell’anno in cui furono consoli Lupicino e Iovino, il 22 febbraio 367 d.C. ho baciato la casa della Musa» (trad. Guarducci); cfr. Forni 1986, 192; Bonamente 2004, 30; Boldrighini 2016, 242.
I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 9-80 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120100
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G. BONAMENTE
[-- Lupicino et Io]vino consulib(us) VIII Kal(endas) Martias domum oscilavi Musae.
L’intervento dei due prestigiosi studiosi è stato il momento centrale della forte ripresa degli studi su Assisi in età classica, culminati nel 1987 con l’edizione di tutte le epigrafi di età romana, curata da Giovanni Forni, e con la pubblicazione della sintesi storicoarcheologica di Maria Josè Strazzulla nel 1987 4. Negli anni immediatamente precedenti Pierre Gros e Dinu Theodoresku avevano condotto, nel quadro della collaborazione tra il Centre national d’architecture ancienne di Parigi e l’Istituto di archeologia del l’Università di Perugia, una ricerca sul Foro di Assisi 5, mentre le urne cinerarie dell’Umbria e di Assisi venivano studiate da Annarena Ambrogi e Silvia Diebner 6. Negli anni ’80 dello scorso secolo è stato pertanto messo a punto il quadro della documentazione necessaria per ridefinire il mondo spaziale di Properzio in due contesti diversi, quello di Assisi, sua città natale e quello di Roma, il suo ‘luogo poetico’ per eccellenza 7. Ma in quel mosaico non furono collocate alcune tessere: gli altri frammenti epigrafici, già rinvenuti nella Domus Musae, di cui aveva dato notizia Fioravante Caldari nel 1955, hanno dovuto attendere cinquant’anni dal loro rinvenimento prima di essere resi accessibili agli studiosi 8. Né si trattava di documenti di poco conto, in quanto essi attestano i nomi di alcuni Properzi, che hanno a che fare direttamente con il Poeta; quelle epigrafi, provenienti dalla Domus Musae, sono state rese note al mondo scientifico soltanto nel 2004 grazie a Luigi Sensi 9. 4 Il volume fu sollecitato dal l’allora Presidente dell’Accademia prof. Salvatore Vivona. 5 Gros – Theodorescu 1985; Gros – Theodorescu 1987. 6 Ambrogi 1984; Diebner 1986. 7 Scivoletto 1981. Una panoramica delle criticità circa la biografia di Properzio, con l’attenzione rivolta agli studi del XIX e del XX secolo, in Hübner 2002, 389-400. I rapporti di Properzio con l’aristocrazia di Roma in Eck 2014. 8 Cfr. Caldari 1955, 20 [68]. Sulle vicende dei frammenti dopo il loro rinvenimento cfr. Strazzulla 1985, 38; Bonamente 2004, 70-74 (Appendice: Le epigrafi ancora da pubblicare (A.D. MMIII) della “Casa di Properzio”); Sensi 2005, 61-64. 9 Che ne ha dato conto al convegno su Epigrafia di confine, confine del l’epigrafia (Bertinoro 10-12 ottobre 2003) e in quello su Properzio nel genere elegiaco. Modelli, motivi, riflessi storici (Assisi 27-29 maggio 2004); cfr. Sensi 2004, 326-332; Sensi 2005, 61-75. Cfr. AE 2004, 525.
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In realtà il fiorire di studi sulla Assisi romana e di quelli su Properzio era il risultato della convergenza di due fattori: da un canto la sollecitazione dell’Accademia Properziana del Subasio e dall’altro i progressi di carattere generale e metodologico relativi all’archeologia e all’epigrafia italiche, come indicano i due importanti congressi internazionali su Hellenismus in Mittelitalien, a Göttingen nell’anno 1976, e su Epigrafia e ordine senatorio a Roma nel 1982. Un ulteriore passo in avanti nel rinnovamento degli studi su Assisi romana è stato compiuto poi grazie alla felice ipotesi di Filippo Coarelli, sulla ‘autoromanizzazione’ della città di Assisi in pieno II secolo a.C. 10, in virtù della quale si è avviata una riconsiderazione della cultura materiale e delle istituzioni di Assisi e di conseguenza si sono potuti datare in modo coerente i documenti archeologici ed epigrafici riguardanti molte gentes tra cui quella di Properzio. Il convegno internazionale del 1991 su Assisi e gli Umbri nell’Antichità ha costituito la messa a punto delle conoscenze sulla Assisi romana sotto vari aspetti, da quello prosopografico a quello archeologico, con risultati che confermavano quelli della critica filologica e letteraria sul poeta. In questo quadro in evoluzione è intervenuto nel 2001 un nuovo rinvenimento, quello della domus urbana detta “del Larario”, con affreschi di terzo stile pompeiano, vari ambienti tra cui un peristilio, mosaici con decorazione geometrica a tessere bianche e nere e colonne alte più di tre metri. Resi noti da Maria Laura Manca 11 e da Francesca Boldrighini 12, le strutture e gli affreschi di tale domus palesano gli stretti legami esistenti in età augustea tra l’aristocrazia municipale assisiate e l’aristocrazia senatoria romana con i propri innovativi modelli 13. Nel 1991 fu pubblicato negli Atti dell’Accademia il primo contributo di Filippo Coarelli (Assisi repubblicana: riflessioni su un caso di autoromanizzazione) e si tenne il Convegno Assisi e gli Umbri nell’Antichità in cui egli intervenne ancora sul tema (Da Assisi a Roma. Architettura pubblica e promozione sociale in una città dell’Umbria), delineando il fenomeno specifico di una ‘autoromanizzazione’ prima dell’ottenimento della cittadinanza romana con la ricezione spon tanea di modelli dell’Urbe; Galsterer 1976, 120 s. 11 Q uale responsabile dello scavo, Maria Laura Manca ne ha dato tempestivamente notizia in due Convegni: a Brescia nel 2003 e ad Assisi nel 2004; cfr. Manca 2005b; Manca 2005c; Manca 2012. 12 Si segnalano in particolare quelli presentati al Convegno properziano del 2012; cfr. Buldrighini 2014a; Manca – Giorgi 2014. 13 Appartiene alla Domus del Larario l’affresco con scena ‘degli sposi’ che è 10
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Q uesto ritrovamento ha prodotto un effetto amplificato dalla concomitante pubblicazione nel 2004 delle epigrafi rinvenute nella Domus Musae, rimaste a lungo inedite, come si è appena detto. La ricostruzione della biografia di Properzio e dei suoi rapporti con Augusto si può basare ora su nuovi e decisivi documenti: se una gens, come quella del poeta, dopo avere militato dalla parte di Lucio Antonio nella Guerra di Perugia ed avere subito rilevanti confische dei propri beni, recuperò la capacità economica di costruire un teatro, questo significa che il miglioramento dei rapporti con il principe ebbe una dimensione che non può essere definita solo come una banale adesione ai modelli culturali e letterari augustei. Da qui l’esigenza di riesaminare gli stretti rapporti che legano una gens appartenente all’aristocrazia municipale di Assisi con i suoi pari nonché con una serie di famiglie di rango senatorio ed equestre attive in Roma e legate ad Augusto. L’Accademia Properziana del Subasio, da sempre profondamente coinvolta nell’evoluzione dell’ermeneutica del testo di Properzio alla luce del suo rapporto con Augusto, ha dato nuovo impulso a questa prospettiva di studio in occasione del Bimillenario della morte di Properzio celebrato a Roma e ad Assisi nei giorni 22-26 maggio 1985. Determinante è stata la promozione, il 19 ottobre 1989, del “Centro internazionale di Studi sulla poesia latina in distici elegiaci”, sotto gli auspici di Francesco Della Corte, Antonino Scivoletto e Paolo Fedeli. Da allora il Centro ha organizzato Convegni internazionali con cadenza biennale, sollecitando un costante dialogo tra filologi, archeologi, storici ed epigrafisti, ampliando così le prospettive di ricerca sulla cultura dell’età di Augusto 14. Nello specifico della biografia del poeta il notevole incremento dei dati epigrafici 15 ed archeologici riguarstato scelto come logo della nuova serie di Atti pubblicata da Brepols, in ragione della pertinenza cronologica e della delicatezza del tema iconografico. 14 Fu costituito un Comitato nazionale presieduto dal Ministro per i Beni Culturali e Ambientali; cfr. Atti Properzio 1986, 13-18. Dal 1977 al 2012 gli Atti sono stati pubblicati direttamente dall’Accademia; a partire dal 2014 vengono editi da Brepols, Turnhout. 15 Al riguardato vanno segnalati il recente catalogo delle epigrafi presenti nel l’Antiquarium di Assisi a cura di Maurizio Matteini Chiari (Matteini Chiari 2005) e il 23° volume dei Supplementa Italica (SupplIt 23, 2007), con ampie revisioni e aggiornamenti del patrimonio epigrafico. Ulteriori e ormai indispensabili strumenti di ricerca e documentazione sono l’Epigraphische Datenbank Clauss – Slaby, l’Epigraphische Datenbank Heidelberg e l’EDR Database.
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danti Assisi ha consentito una rilettura della poetica di Properzio, più attenta alla dimensione cronologica, all’interazione con il contesto storico, alle strategie del consenso. Nel suo insieme la gens dei Properzi è ben rappresentata ad Assisi tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C., con esponenti che non hanno raggiunto il rango senatorio, ma hanno rivestito importanti cariche municipali e in taluni casi hanno conseguito il rango equestre, come Sesto Cesio Properziano, che ha ricoperto importanti cariche pubbliche a Bevagna e ha quindi percorso una prestigiosa carriera a Roma sul finire dell’età giulio-claudia 16, e di Paullo Passenno Properzio Bleso, splendidus eques, che appare aver diviso la sua presenza tra Assisi e Roma a cavallo tra il I e il II secolo d.C. 17. Con un esponente inserito nell’aristocrazia cittadina già nel corso del II secolo a.C., quando Assisi era ancora civitas foederata, i Properzi vantano un ruolo politico risalente almeno alla terza o alla quarta generazione prima del poeta, un dato questo molto importante, che trova riscontro nelle notizie fornite nella prima elegia del quarto libro, col riferimento all’antichità della stirpe e al cospicuo patrimonio familiare gravemente ridimensionato per le confische conseguenti alla Guerra di Perugia. Per l’età augusteo-tiberiana era già noto che la gens dei Properzi vantasse un decurione e ora risulta che abbia anche edificato e mantenuto in auge un teatro, una notizia importante che proietta nuova luce sul poeta; ancora in età traianea un suo parente apparteneva, come si è appena visto, al ceto equestre 18. La cospicua documentazione epigrafica indica in generale che la stragrande maggioranza dei Properzi vissero ad Assisi, mentre essi sono scarsamente attestati nella restante Umbria antica (regio VI), con tre esponenti, di cui due sacerdoti di Mitra, a Sentinum 19 e un’importante personalità a Mevania, il già ricordato Sex(tus) Caesius Sex(ti) [f(ilius)] Propertianus 20. Cfr. infra p. 36 e nota 110. Cfr. infra pp. 37-38. 18 Prop. IV, 1, 128-130 e infra pp. 33-34. Sul decurione cfr. infra nota 108. 19 Sui due Properzi cultores Mithrae: a) C(aius) Propertius Augurinus sacerd(os) prosedens: CIL XI 5736; ILS 4207; EDR 16199; Petraccia 2006, 118-120 (III sec. d.C.); b) C(aius) Propertius Profuturus patronus prosedens CIL XI 5737; ILS 4215; EDR 16200; Petraccia 2006, 124-128 (seconda metà III sec. d.C.). La terza attestazione è costituita da un’epigrafe funeraria posta, con buona probabilità, in memoria di un altro Propertius (AE 2009, 318) e ascrivibile anch’essa al III sec. d.C. 20 Cfr. infra p. 36. 16 17
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Il primo Properzio noto è un Vois(ienus) Propartius Ner. f(ilius), che ha rivestito il maronato probabilmente nel corso del II secolo a.C., come si può dedurre da un termine posto ai confini di un ager, in cui ricorrono i nomi dei componenti dei due collegi magistratuali degli uhtur e dei marones 21. La cronologia assoluta di questa epigrafe rinvenuta a Ospedalicchio di Bastia Umbra, in lingua umbra e in grafia latina, è oggetto di discussione e non meno problematica è la cronologia relativa rispetto all’iscrizione monumentale tutt’ora presente all’inizio della navata sinistra della chiesa di San Rufino in Assisi, all’altezza della cisterna che è alla base del campanile 22. Ambedue le iscrizioni sono da tempo oggetto di numerosi studi, dettati dalla necessità di sciogliere due nodi problematici, il primo dei quali riguarda la cronologia e la funzione del collegio dei sei marones che hanno curato le opere di ‘qualificazione urbanistica’ della parte alta della città. Per lungo tempo gli studiosi si sono affidati al presupposto che, essendo scritta in latino, l’iscrizione dovesse essere stata apposta su un monumento pubblico solo dopo la Guerra Sociale, quando Assisi diventò municipio; ma si tratta di un’ipotesi che ha una contraddizione intrinseca grave: che in occasione dell’integrazione della 21 Termine rinvenuto nel 1742 nei pressi di Ospedalicchio nel comune di Bastia Umbra, agli estremi confini occidentali del territorio di Asisium, con testo in lingua umbra e alfabeto latino. Cfr. CIL XI 5389; Ve 236; IUM 2; ST Um 10: ager emps et / termnas oht(retie) / c. u. uistinie, ner. t. babr(ie), / maronatei / uois. ner. propartie, / t. u. uoisiener / sacre stahu. Cfr. Agostiniani 1982, 262; Forni 1987, n. 25 [G. Forni]; Campanile 1996, 182-185; 191 s.; Rocca 1996, Ass.1; Bradley 2000, 178-181; Matteini Chiari 2005, n. 2, 76-78 [S. Sisani]: “terreno acquistato e delimitato sotto l’autorato di Gaio Vestinio figlio di Vibio e Ner. Babrio figlio di Tito, a cura dei maroni Vois. Properzio figlio di Ner. e Tito Voisieno figlio di Vibio. Q ui per diritto sacro io sto”; Aigner Foresti 2008, 111; Sisani 2009, 199, n. 19; Sisani 2012. Da notare il ricorrere per ben due volte del prenome Vibius di origine osca; cfr. Salomies 1987, 80; 96. Sulla terminologia (terminus oppure cippus) cfr. Comella 2005; Gregori 2018. 22 CIL XI 5390 = I2 2112 = ILS 5346 = ILLRP 550 = EL 26; SupplIt 23, 2007, 278 s.; EDR 25340: Post(umus) Mimesius C(ai) f(ilius), T(itus) Mimesius Sert(oris) f(ilius), Ner(o) Capidas C(ai) f(ilius) Ruf(us), / Ner(o) Babrius T(iti) f(ilius), C(aius) Capidas T(iti) f(ilius) C(ai) n(epos), V(ibius) Voisienus T(iti) f(ilius) marones / murum ab fornice ad circum et fornicem cisternaamq(ue) d(e) s(enatus) s(ententia) faciundum coiravere. Vi compaiono due Mimisii (Postumo Mimesio figlio di Gaio e Tito Mimesio figlio di Sertore), due Capidates, un Babrius e un Volsienus; cfr. Campanile – Letta 1979, 55; Forni 1987, n. 26 [G. Forni]; Coarelli 1996, 246-249; Bradley 2000, 295; Bonamente 2004, 30, nota 38; Sisani 2006, 93; Gregori – Nonnis 2013, 504, nota 70.
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città come municipium (civium Romanorum) fosse stata accolta ufficialmente la lingua di Roma mantenendo però la nomenclatura magistratuale umbra dei marones. La soluzione è quella prospettata da Filippo Coarelli, secondo cui una città come Assisi può avere usato la lingua latina in atti pubblici prima di avere ottenuto lo status di municipium civium Romanorum, in piena coerenza con l’evoluzione culturale delle città italiche nel corso del II secolo a.C., già profondamente romanizzate ed ‘ellenizzate’ dal punto di vista economico e urbanistico 23. La seconda questione è più complessa, perché il termine di Ospedalicchio di Bastia Umbra è redatto in lingua umbra e in grafia latina, ciò che ha indotto a considerarlo più antico rispetto all’iscrizione con i nomi dei marones, che è in latino. Ma sotto il profilo paleografico il termine risulterebbe cronologicamente più recente, fatto questo che troverebbe conferma negli stemmi genealogici, che si possono ricostruire per i magistrati delle medesime gentes presenti in ambedue le epigrafi e che ne suggeriscono parimenti la seriorità 24. Resta aperto il problema della lingua che per l’appunto è quella umbra. La spiegazione potrebbe essere fornita
23 Nel 1986, Giovanni Forni aveva riassunto così lo status della cronologia: l’epigrafe di Bastia, relativa alla dedica di un’area sacra, precede di poco la Guerra Sociale; la grande iscrizione del muro di terrazzamento superiore della città, accanto alla cisterna che è alla base del campanile di S. Rufino, va datata al decennio della dominazione di Silla; le epigrafi relative al collegio dei quinqueviri sono della prima età augustea; cfr. Forni 1986, 188 s.; analogamente Harris 1971, 184 s. Dal canto suo Filippo Coarelli ha corretto la cronologia tradizionale sulla base di confronti tipologici delle strutture edilizie, delle mura e delle decorazioni rispettive: le mura della città vanno datate a cavallo della fine del III secolo a.C., la sistemazione del terrazzamento superiore nei decenni centrali del II secolo. Q uesta tesi costituisce il superamento dell’idolum – per cui una città federata non potrebbe avere adottato il latino nei propri documenti ufficiali prima del l’ottenimento del ius civitatis – al quale sono rimasti ancorati gli studi precedenti, nei quali anzi si è ipotizzato un fenomeno di permanenza dei nomi delle magistrature umbre anche dopo l’ottenimento della cittadinanza romana e la costituzione del municipio. Cfr. Strazzulla 1985, 27; Coarelli 1991, 5-22; Coarelli 1996, 246249; Bonamente 2004, 29 ; Petraccia 2019, 30 s. (entro la metà del II sec. a.C.). 24 Ambedue le iscrizioni presentano un Nero Babrius T(iti filius), come maro nell’epigrafe monumentale e come uthur nel termine, mentre per la gens Voisiena compaiono rispettivamente un V(ibius) Voisienus T(iti) f(ilius) e un T(itus) Voisienus V(ibi filius), con la medesima carica di maro; cfr. SupplIt 23, 2007, 278 (fine del II sec. a.C.); Matteini Chiari 2005, n. 2, 76-78 [S. Sisani]: lastra con i sei marones databile nel terzo quarto del II secolo a.C. e il termine di Bastia a cavallo dello scorcio del secolo.
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dalla tipologia dei due documenti: mentre i nomi dei marones campeggiavano all’interno della città e si riferivano ad una importante opera pubblica, il termine di Bastia, pur avendo anch’esso una funzione pubblica, userebbe un formulario giuridico sacrale – per sua natura conservativo – che culmina nell’espressione sacre stahu (sacre sto). Accettando la cronologia relativa appena delineata per la lastra con i nomi di sei marones e per il termine di Ospedalicchio, con uno scarto di tempo molto contenuto, il documento che attesta la presenza del più antico Properzio di Assisi, Vois(ienus) Propartius Ner. f(ilius), con la carica di maro, andrebbe collocato nella terza fase di una scala cronologica che vede al primo posto le due iscrizioni più antiche contenti nomi di magistrati – databili alla metà del III secolo a.C. – pertinenti a due porte urbiche, in cui ricorre il nome di un Vibius, detentore di una magistratura definita con una nomenclatura osco-umbra, quella del meddix 25, al secondo posto l’iscrizione da San Rufino con i nomi di sei marones e al terzo il termine di Ospedalicchio. Nell’insieme, tra la metà e la fine del II secolo a.C. l’aristocrazia cittadina risulta costituita dai Babrii, i Capidates 26, i Mimisii e i Voisieni (con due attestazioni di magistrati), che presentano i marones sopra menzionati, seguiti a breve distanza di tempo dai Propertii e i Vistinii (con un’attestazione). Un’altra grande opera pubblica, datata fra la Guerra Sociale e il primo triumvirato, la pavimentazione della grande platea (c.a. m 40 × 90) sovrastata dal tempio c.d. di Minerva, non mostra invece alcun Properzio tra i magistrati che fecero apporre i loro nomi con 25 Le due iscrizioni, in umbro e in grafia epicorica, hanno tra di loro analogie significative e menzionano ambedue un magistrato di nome Vipies, designato rispettivamente come mestiça e mest[i-?-]: a) Iscrizione incisa sull’architrave di una porta nella parte Nord della città. ST Um 5; IUM 4; Po 7: Estac vera vaper[ia ?-] / mestiça Vipies Ep[--]. Cfr. Poccetti 1979, 27-29; Forni 1987, n. 48 [G. Forni]; Campanile 1996, 192; Rocca 1996, Ass. 3; 57 s.; Matteini Chiari 2005, 56-60 [A. Calderini]; Sisani 2009, 202, n. 22 (“codesta porta lapidea […] con la sanzione di Vipies Ep[…]”). b) Iscrizione nota da apografi del Settecento. IUM 5: [es]tac m[un]icl[a] – [-?-] / [-?-] / tu tut[c]e [-?-] / [-?-]uça iac ver[a -?-] / [-?-] tit. vipies [-?-] / [-?-]. mest[i-?-]. Cfr. Sisani 2009, 202, n. 23 (“codeste mura […] pubblicamente […] quella porta […] Tit. Vipies […] con la sanzione (?) […]”); Calderini – Giannecchini 2006, 225-227; 242; 246 (edizione critica di b). 26 Il gentilizio Capidas ha pochissimi riscontri, ma un’attestazione da Falerio Picenus rende certa la declinazione nella forma propria degli etnonimi, con un dativo nella forma Capidati (CIL IX, 6078); cfr. al riguardo Petraccia 2019.
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lettere di bronzo lungo la linea della larghezza dell’area lastricata, in asse con la fronte del tempio. L’iscrizione, visibile solo per un tratto, in quanto ricoperta da opere successive, quali il tribunal e l’edicola tetrastila di Castore e Polluce 27, conserva solo quattro gentilizi dei magistrati che hanno curato la pavimentazione del Foro: i Caetronii, gli Attii, gli Olii e i Vallii. L’ipotesi che a questi nomi si possa aggiungere quello di Cn(aeus) Fuficius accresce il numero dei riferimenti tra questa opera di monumentalizzazione del Foro con le altre, strettamente connesse (muro del podio, tempio, altro murus non identificabile con precisione), e in particolare fissa uno stretto rapporto con le due epigrafi gemelle in cui è menzionato quale quattuorvir iure dicundo un Cn. Fuficius Cn. f. Laevinus che potrebbe essere la stessa persona o un suo stretto congiunto 28. In pieno I secolo a.C. e in stretta connessione con la costruzione del tempio che sovrasta il Foro ed è attribuito all’età triumvirale (con una possibile oscillazione tra il 40 e il 20 a.C.), fu apposta l’iscrizione con i nomi di cinque magistrati che hanno fatto costruire (o restaurare) il muro di sostegno che delimita tuttora il lato nord del Foro. I nomi dei quinqueviri sono preceduti dall’indicazione che l’opera fu realizzata sotto la guida dei quattuorviri iure dicundo, dei quali non è conservato il nome. Il collegio risulta costituito da esponenti di quattro gruppi gentilizi: i Veistinii, con due presenze, quindi i Babrii, i Vallii e i Visellii. Segue il nome di C(aius) Attius C(ai) f(ilius) Clarus, il quale, pur 27 A.E. 1981, n. 317; SupplIt 23, 2007, n. 13A, 356-359: C(aius) Caetroniu[s] C(ai) f(ilius). [.]ar(---), C(aius) Attius C(ai) f(ilius) Ruf(---) II[I]I vi[ri] i(ure) d(icundo), T(itus) Ôlius. C(ai) f(ilius) Gargenna, L(ucius) Ca[··]ius C(ai) f(ilius) B[---]. Anche la lettura di questa iscrizione ha avuto un percorso complesso. Nota sin dal 1839, nel corso degli gli scavi curati dall’architetto Charles Victor Famin (Sensi 1996, 531-570), è stata pubblicata per la prima volta nel 1981 da Gianfranco Binazzi, seguito immediatamente da Luigi Sensi e da Umberto Ciotti. Cfr. Binazzi 1981, 29-35; Forni 1981, 37; Sensi 1982, 262; Sensi 1983, 166; 173; Ciotti 1985, XXI-XXII; Forni 1987, n. 31 [G. F. Binazzi]; Matteini Chiari 2005, n. 23, 104 [L. Sensi]. 28 Il suo nomen compare su un blocco di calcare rosa, rinvenuto nel 1969, insieme al cognomen (Pertica ?) di un altro magistrato. Tale blocco potrebbe appartenere, per la disposizione e la forma delle lettere, alla pavimentazione del foro, da cui sarebbe stato rimosso nel momento in cui fu costruito l’edicola dedicata a Castore e Polluce. Cfr. Sensi 2002, 330-332; Matteini Chiari 2005, n. 24, 105; SupplIt 23, 2007, n. 13B 359 s.
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non rivestendo alcuna magistratura, ha provveduto a proprie spese all’opus albarium pictorium 29. Si tratta di una presenza significativa, perché la gens Attia ricorre anche nelle iscrizioni gemelle di cui si dirà fra breve; al C(aius) Attius C(ai) f(ilius) Clarus che ha offerto alla città la stuccatura a colori della parete nord del Foro, fa riscontro un Q (uintus) Attius Q (uinti) f(ilius) Capito che ha curato il restauro di un murus 30. 29 CIL XI 8021; SupplIt 23, 2007, 342; EDR 72176: [---IVvi]r(i) i(ure) dic(undo), C(aius) Babrius C(ai) f(ilius) Chilo, C(aius) Veistinius C(ai) f(ilius) Capito, C(aius) Vallius C(ai) f(ilius), L(ucius) Visellius L(uci) f(ilius), Cn(aeus) Veistinius Cn(aei) f(ilius) Vvir(i) mụ[rum faciundum curarunt probaruntque]. C(aius) Attius T(iti) f(ilius) Clarus opus albarium pictorium sua pecunia s(enatus) c(onsulto) fec[it]. Cfr. Forni 1987, n. 29 [G. Forni]; Gros – Theodorescu 1985, 886; 891 (in particolare per la datazione agli anni 40-20 a.C.). Il collegio dei quinqueviri è attestato ulteriormente ad Assisi per gli interventi di restauro, su cui si veda di seguito e infra nota 31. Si ritiene che possa trattarsi di un collegio straordinario, composto da esponenti dell’aristocrazia della città; cfr. Campanile – Letta 1979, 55. Dopo che Pierre Gros e Dinu Theodorescu hanno interpretato il suggesto che si trova tra il muro Nord del Foro e l’edicola di Castore e Polluce come un thymiaterion, si è aperto un dibattito che coinvolge sia la platea, e quindi la sua definizione come Foro (contra Sisani 2006, 99), sia il podio davanti al tempio, che Filippo Coarelli interpreta come tribunal, ipotizzando, sulla base del numero dei seggi ricostruibili (sette) che il collegio dei quinqueviri fosse un’istituzione stabile ad Assisi, che operava insieme ai quattuorviri i.d.; cfr. Gros – Theodorescu 1987, 699; Coarelli 1991, 20; Coarelli 1996, 250-252. Oggetto di dubbio è anche la titolarità del tempio; cfr. infra nota 55. 30 Il sistema onomastico (praenomen e patronimico) esclude un rapporto diretto di parentela tra i due, sebbene appartenessero allo stesso ramo (Capito) della gens Attia. A fornire un importante elemento di riscontro c’è ora una delle epigrafi rinvenute nella Domus Musae e pubblicate da Luigi Sensi nel 2004, in cui compare un ([---]us T(iti) f(ilius) Clarus[---] / [IIIIvir q]uinq(uennalis), praef(ectus) eq(uitum) [---]) di cui restano il cognomen e il patronimico, e del cursus honorum sono noti il quattuorvirato quinquennale e la praefectura equitum; tale personaggio potrebbe essere messo in rapporto, ma non identificato, con il Caius Attius C(ai) f(ilius) Clarus, che ha fatto adornare la parete nord del Foro. Cfr. Soprint. Beni Archeol. Umbria n. inv. 267257; Sensi 2004 n. 4, 333 s.; SupplIt 23, 2007, n. 14, 360; Boldrighini 2014, n. 165, 179. Allo stato attuale la gens presenta otto attestazioni: oltre ai menzionati C(aius) Attius C(ai) f(ilius) Clarus, C(aius) Attius C(ai) f(ilius) Ruf[---] e Q (uintus) Attius Q (uinti) F(ilius) Capito, ci sono un pretoriano adottato dagli Ottiedi: C(aius) Ottiedius Attianus (CIL XI 5385; Forni 1987, n. 21 [M. L. Manca]); un Attius Comus patrono di un liberto di nome Optatus (CIL XI 5505; Forni 1987, n. 167 [G. F. Binazzi]); una Attia che dedica l’epitafio a un L(ucius) Mimisius L(uci) libertus (CIL XI 5492; Forni 1987, n. 152 [M. P. Segoloni]); quindi tre liberti, due uomini e una donna (CIL XI 5454; 5455; 5456; Forni 1987, nn. 103 [G. Forni]; 104 [M. L. Manca]; 105 [M. P. Segoloni]), prescindendo dall’epigrafe proveniente dalla Domus Musae in cui è conservato solo il cognomen, come si è appena detto. Nella vicina Mevania la gens Attia è attestata cinque volte: sono rilevanti un quattuorvir
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Le due iscrizioni gemelle, che menzionano il restauro di un murus, presumibilmente da identificare con il terrazzamento monumentale del podio del tempio, definito per l’appunto murus nell’epigrafe sopra esaminata e incisa direttamente sulla struttura, forniscono i nomi di due quattuorviri iure dicundo con funzione eponimica, quali T(itus) Allius C(ai) f(ilius) e Cn(aeus) Fuficius Cn(aei) f(ilius) Laevinus seguiti, analogamente a quanto rilevato nell’epigrafe precedente, da un collegio di quinqueviri in cui sono presenti, oltre a un secondo Allio, uno Scefio e un Attio, ben due esponenti dei Volcasi 31. Se, oltre alla costruzione del tempio c.d. di Minerva, si prendono in considerazione in una prospettiva unitaria gli altri tre importanti interventi edilizi, costituiti dalla pavimentazione della platea / Foro, dal completamento e dalla stuccatura del muro Nord che sorreggeva il terrazzamento del tempio e, infine, dal restauro e dal collaudo di un murus non identificabile con sicurezza, si nota l’emergere di un buon numero di gentes dell’aristocrazia municipale, tra le quali non ricorre alcun Properzio. La cronologia di ognuna delle tre opere mantiene un’oscillazione di qualche decennio né mancano incertezze sulla cronologia relativa. È verisimile infatti che il muro di sostruzione del podio sia stato costruito prima del tempio stesso 32, ma l’epigrafe incisa su detto muro, con i nomi dei quinqueviri che hanno curato l’intervento, è priva della parte finale in cui se ne specificava la natura, che potrebbe essere stata sia di edificazione sia di restauro. Ciò non consente di dire con certezza che essi siano i. d. vissuto nella prima età augustea e un ricco liberto che ha costituito un considerevole lascito al collegium centonariorum nel II sec. d.C.; cfr. rispettivamente: a) CIL XI 5045; EDR 157853: [---] Attius L. f. IIIIvir i. d.; cfr. Diebner 1986, BEV 1, 95; Feruglio-Bonomi Ponzi-Manconi 1991, 64 n. 2.56; b) C(aius) Attius C(ai) [l(ibertus)] / Dardanus, / mag(ister) Val(etudinis). 31 CIL XI 5391 e 5392; SupplIt 23, 2007, 279-281; EDR 25341-25342. Datazione: 30-31 a.C.): Cn(aeus) Fufìcius Cn(aei) f(ilius) Laevìnus, T(itus) Allius C(ai) f(ilius) II̅ I̅ Ivir(i) i(ure) d(icundo), C(aius) Allius C(ai) f(ilius), C(aius) Scaefius L(uci) f(ilius)Umbo, C(aius) Volcasius C(ai) f(ilius) Pertica, Q (uintus) Attius Q (uinti) f(ilius) Capito, L(ucius) Volcasius C(ai) f(ilius) Scaeva V̅ vir(i) s(enatus) c(onsulto) murum reficiundum curarun̂ t probaruun̂ tque. Per motivi che non è dato sapere, la prima delle due iscrizioni si trova nella vicina città di Bettona; cfr. Forni 1987, nn. 27 [M. L. Manca]; 28 [M. P. Segoloni]. 32 Come sostenuto in Strazzulla 1983, 158-163 e Gros – Theodorescu 889893; cfr. SupplIt 23 2007, 360, n. 14.
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intervenuti prima che il tempio fosse dedicato dai due fratelli Caesii, Tirone e Prisco. Altrettanto si deve dire del rapporto cronologico esistente tra l’intervento sul muro e la pavimentazione della platea / Foro, perché se è logico pensare che il primo sia coevo alla pavimentazione, non si potrebbe escludere che un restauro, o una monumentalizzazione – quale la decorazione del muro – siano stati invece successivi. Dal canto loro le iscrizioni ‘gemelle’ attestano espressamente un restauro, non una costruzione ex novo. Accertata l’assenza di Properzi sulla base delle epigrafi monumentali rimasteci, databili fra l’età di Silla e il primo triumvirato, si può fornire un quadro d’insieme alle tracce dei gruppi gentilizi attestati, quali i Mimisi, i Vistini, i Volcaci, gli Alli e i Cetroni. La fortuna dei Mimisii risale al II secolo a.C. come suggeriscono i due marones tra i sei sopra indicati, che curarono i lavori della sistemazione urbanistica nella parte alta della città: Postumus Mimesius C(ai) f(ilius) e T(itus) Mimesius Sert(oris) f(ilius) 33. Seguono altre tre attestazioni di ingenui accompagnate da sette attestazioni di liberti (tre uomini e quattro donne), che indicano un elevato grado di ricchezza della gens. Nella vicina città di Spello una Mimisia fu moglie di C(aius) Alfius Rufus, un personaggio di spicco, operante al tempo di Augusto, un IIvir quinquennalis, che ha costruito a proprie spese l’anfiteatro della colonia 34. Costui, dotato di grande ricchezza, assurto alla più alta carica della città e incaricato, in quanto quinquennalis, della revisione delle liste censitarie e della stessa composizione della curia, va messo in parallelo con i due fratelli Caesii, attivi ad Assisi negli stessi anni. Sempre a Spello un altro Mimisio ha edificato un portico 35. Spostando l’attenzione su Roma, si nota che l’esponente Cfr. supra nota 22. AE 1988, n. 517; Sensi 1987, 11-12 n. 7; Gregori 1984, 962-968; Gregori 1996, 304 s.; Gregori 2011, 59 s.; 68-72: [C(aius) Al]fius [C(ai) f(ilius) Lem(onia) Rufus, IIvir quinq(uennalis)?] / coloniae His[pelli et IIvir quinq(ennalis) in municipio Casini?], / pecunia su[a faciundum curavit et dedicavit?]. Properzio non menziona espressamente Spello. La città era stata apertamente dalla parte di Ottaviano e ne trasse un grande vantaggio, divenendo perno della centuriazione e delle assegnazioni ai veterani, assumendo il titolo onorifico di Splendidissima colonia Iulia Hispellum e ricevendo le risorse per una ampia monumentalizzazione. Cfr. Coarelli 2001, 45-49; Sisani 2006, 106; Bonacci – Guiducci 2009, 23; Sisani 2012; Cannucciari 2012, 7-9. 35 CIL XI 5263. 33 34
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di maggior spicco di questa gens è Postumus Mimisius Sardus, il quale ha percorso una brillante carriera militare e ha conseguito il rango senatorio al tempo di Tiberio, ricoprendo l’incarico di legatus Tiberi Caesaris Augusti 36. Dal canto suo la gens Vistinia ha in Gaio Vistinio un esponente dell’aristocrazia cittadina con la carica eponimica di uthur nel l’iscrizione – sul termine esaminato sopra – in cui è menzionato insieme ad un Properzio che riveste la magistratura di maro 37. Vi sono quindi i due Vistinii, che hanno esercitato il quinquevirato 38, ma le attestazioni di questa gens non si limitano a tali documenti; esse sono infatti presenti in numerose altre epigrafi di epoca successiva 39. Un’attenzione particolare meritano le due iscrizioni con un T(itus) Vistinius Vitor, il quale, insieme agli altri membri del collegio dei seviri, ha dedicato un monumento di notevoli dimensioni in cui è messo in evidenza il consolato congiunto del futuro imperatore Tiberio (Tiberius Claudius Nero) e di Gneo Calpurnio Pisone nel 7 a.C. 40. La coppia consolare era particolarmente affiatata in un momento in cui si era con36 CIL XIV 3598; ILS 947; Wiseman 1971, n. 255; Gaggiotti – Sensi 1982, 262; Bonamente 1997, 62. 37 CIL IX 5389; cfr. supra nota 21. 38 Cfr. supra nota 29. 39 CIL XI 5461 : L(ucius) Vistinius); Forni 1987, n. 115 [G. F. Binazzi]; un seviro augustale: CIL XI 5426 : Sex(tus) Vistinius Sex(ti) f(ilius) Chilo / (sex)vir [aug(ustalis)] = Forni 1987, n. 71 [M. P. Segoloni]; Bonamente 2004, 31. Vanno segnalati i dubbi sulla pertinenza dell’epigrafe riguardante Lucius Vistinius alla città di Assisi in SupplIt 23, 2007, 241; un’ipotetica appartenenza a Vettona oppure ad Arna non inciderebbe sulle considerazioni relative ai Vistinii. Infine, se anche le persone registrate con il nomen Veistinius appartengono alla medesima gens, ci troveremmo di fronte ad un gruppo gentilizio cospicuo. Cfr. Forni 1987, indici. 40 AE 1989 n. 290; SupplIt 23, 2007, 364-366. L’iscrizione, conservatasi integra, è stata edita in Forni 1987, n. 10 [G. F. Binazzi]; nelle prime due linee: [Ti(berio) C]laudio Nerone II, Cn(aeo) Calpurnio / Pisone co(n)s(ulibus) la menzione dei due consoli (all’ablativo) va intesa come elemento datante e non come dedica ai medesimi. Essa trova riscontro in un’altra epigrafe frammentaria, murata sulla parete Nord della canonica di S. Rufino, che conserva comunque il nome di Tiberio e i primi due nomi del collegio dei seviri, tra cui quello di T(itus) Visti[nius Vitor …] (CIL XI 5424; ILS 6619; Forni 1987, n. 11 [M. P. Segoloni]). Forse la presenza del nome dell’imperatore Tiberio ha salvato il monumento dall’erasione del nome di Gneo Calpurnio Pisone, inquisito per l’avvelenamento di Germanico e morto suicida (per evitare la condanna capitale), nel 20 d.C.; cfr. Eck 1996, 288 s.; Bonamente 2005, 85; Cairns 2006, 24. Circa l’interesse per Germanico – e gli onori a lui conferiti – nella vicina Perugia cfr. Cipollone 2012.
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solidata la prospettiva della successione per Tiberio. Q uesto legame con Assisi presuppone la mediazione di qualche potente personaggio, capace di rappresentare a Roma le necessità del municipio e di fiutare il vento della capitale. L’operazione diplomatico-mediatica, che ha indotto il collegio di seviri augustali più antico fra quelli noti in Italia a elevare ben due monumenti in quell’anno, mette in evidenza l’esponente della gens Vistinia e al contempo attesta che Assisi seguiva con tempestività l’evoluzione della politica di Augusto in tema di sacralizzazione della figura del principe 41. Anche i Caetronii sono presenti ad Assisi dalla tarda età repubblicana al III sec. d.C., e vantano nella persona di C(aius) Caetronius C(ai) f(ilius), un quattuorvir iure dicundo che, in pieno I secolo a.C., contribuì alla monumentalizzazione della città ed alla pavimentazione del Foro 42. Di loro si tornerà a parlare a proposito del console del 43 a.C. Vibio Pansa Cetroniano 43. La ricchezza della gens è attestata anche da altri tre liberti, tra cui una donna sposata ad un liberto della gens Propertia 44. La gens Volcacia / Volcasia, di cui ci si deve occupare con particolare attenzione in relazione a Properzio, appare ben radicata, con magistrati e liberti. Ai due Volcacii membri del collegio dei quinqueviri che hanno fatto restaurare il murus menzionato Cfr. Duthoy 1976, 161; 192; Duthoy 1978, 1258, nota 30; 1260, nota 44 (tra le varie attestazioni di seviri Augustales, di Augustales e di seviri, quella di Assisi, è comunque la più antica); Abramenko 1993, 266, nota 312; Bonamente 2005, 85; Marcattili 2018; Barrón Ruiz de la Cuesta in c.d.s. (con bibliografia precedente). Per quanto riguarda gli Augustea, il più antico a noi noto è quello di Pisa, che ha come terminus ante quem il 19 settembre del 2 d.C. (CIL XI 1420; cfr. Segenni 2015, 76). Il 17 gennaio del 6 d.C. Tiberio dedicò a Preneste un’ara al Numen Augusti (Inscr. It. XIII.2, 401-402; Marcone 2015, 399-404); Bonamente 2017, 150. Sulla documentazione inerente al culto del principe in Umbria cfr. Gregori 2009. 42 AE 1981, n. 317; SupplIt 23, 2007, 356-359 n. 13; Binazzi 1981; Sensi 1983, 173, n. 5 (con individuazione del cognome: Nar …); Forni 1987, n. 31 [G. F. Binazzi] (con una datazione coeva a quella del tempio); Bonamente 2004, 25. 43 Cfr. infra pp. 41-43. 44 CIL XI 5519; EDR 25467 (datazione al I sec. d.C.): […] / C(aius) Propertius C(ai) l(ibertus) / Epaenus / Caetronia (mulieris) l(iberta) / Aura. cfr. Forni 1987, n. 184 [G. F. Binazzi]; un secondo liberto è attestato da CIL XI 5536; EDR 25484 (datata al III sec. d.C.); cfr. Forni 1987, n. 114 [M. Bonamente]; un terzo da CIL XI 8028; SupplIt 23, 2007, 344; EDR 28664 (con dubbi sulla ricostruzione del nomen e sulla pertinenza ai Cetroni oppure ai Petroni); Forni 1987, 80, n. 174 [M. L. Manca]. 41
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dalle epigrafi gemelle di cui si è già detto, C(aius) Volcasius C(ai) f(ilius) Pertica e L(ucius) Volcasius C(ai) f(ilius) Scaeva, va aggiunto un personaggio noto solo grazie alla tradizione antiquaria 45. È quanto basta per dire che anche i Volcaci rappresentano una componente notevole dell’aristocrazia municipale, con tanto di liberti: è attestata infatti una famiglia costituita dal padre, liberto e seviro augustale di nome T(itus) Volcasius Cinnamus, dalla moglie Vettia Saturnina e dalla figlia Volcasia T(iti) f(ilia) Saturnina 46, cui vanno aggiunti due liberti vissuti nella seconda metà del I secolo d.C., elemento questo che presuppone l’esi stenza almeno di altri due esponenti della gens, un C(aius) Volcasius e un T(itus) Volcasius 47. Anche per la gens Volcasia si registra un nuovo componente reso noto grazie ad una delle iscrizioni rinvenute nell’area della Domus Musae 48. Riguardo agli Allii si deve osservare che due esponenti quali T(itus) Allius C(ai) f(ilius) e C(aius) Allius C(ai) f(ilius), hanno curato il restauro e il collaudo del murus di cui si è già detto, ricoprendo insieme, rispettivamente, le cariche di quattuorvir iure dicundo e di quinquevir 49. La permanenza della famiglia nei 45 Forni 1987, n. 30 [G. Forni]: C(aius) Volcasius C(ai) f(ilius). Il testo, riportato dal Frondini, e menzionato in CIL XI 5571, è di discussa interpretazione; cfr. Annibali – Fatti 1996, 172 n. 40 [Frondini, 105 n. 40]. Giovanni Forni ha ipotizzato che l’epigrafe possa avere riportato due nomi di magistrati: C(aius) Volcasius / C(ai) f(ilius), T(itus) Allius / [T(iti) f(ilius) (quattuo)viri?---]; nel caso Gaio Volcasio potrebbe essere figlio o padre del C(aius) Volcasius Pertica già notato come quinqueviro supra nota 32. Una diversa lettura in SupplIt 23, 2007, 410, n. 80 e in EDR 28740 : C(aius) Volcasius / C(ai) [f(ilius)] Allius), ipotizzando un sistema nominale che segnalava nel cognomen un legame tra la gens dei Volcasi e quella degli Alli. 46 Sono conservati sia l’epitafio dedicato dalla figlia ai genitori, sia quello della figlia: CIL XI 5427 e 5428; SupplIt 23, 2007, 296; Forni 1987, nn. 72 [M. P. Segoloni] e 73 [M. Bonamente]; cfr. Sensi 1983, 165; Abramenko 1993, 93; Bonamente 2004, 45. 47 Q uanto al primo, cfr. CIL XI 5571; EDR 28618: C(aius) Volcasius C(ai) L(ucii) l(ibertus) / Chrestus Naso; datazione: I sec. d.C.; Forni 1987 n. 247 [M. L. Manca]; Matteini Chiari 2005, 155 s., n. 116 [M. C. Spadoni]. In quanto liberto di Gaio e di Lucio, presuppone l’esistenza di un Gaio Volcasio e di un Lucio Volcasio. Per il secondo, cfr. CIL XI 5572; Forni 1987, n. 248 [G. F. Binazzi]: Volcasiae / C(ai) l(ibertae) / Hospitae. Il patronus di nome Gaio Volcasio può coincidere con uno dei precedenti. 48 Sensi 2004, n. 6, 336 s.; SupplIt 23, 2007, 410 s., n. 81; EDR 28741. L’epigrafe è mutila e non si può escludere che si tratti di una donna. 49 Cfr. supra nota 33.
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ranghi dell’aristocrazia municipale è dimostrata dalla presenza di un quattuorvir aedilicia potestate databile al I secolo d.C.: C(aius) Allius C(ai) f(ilius) Crispus 50. La gens è ulteriormente attestata da un C(aius) Allius Calvos, di poco precedente 51, da un C(aius) Allius databile tra I-II secolo d.C. 52, e da un C(aius). Publicius Allius, figlio di un seviro augustale, ascrivibile al II secolo d.C. 53. A Perugia è presente un C(aius) Allius, centurione della legio XIII, che potrebbe essere stato uno degli assegnatari del territorio confiscato a Perugia, posto sotto l’amministrazione (pertica) della vicina Hispellum 54. Il tempio che sovrastava il Foro, ascrivibile all’età triumvirale, manifesta il prestigio e le fortune di due esponenti della gens Caesia, i quali esercitarono insieme la massima magistratura cittadina di quattuorviri iure dicundo quinquennales, furono incaricati della revisione delle liste censuali e costruirono a proprie spese il monumento più importante, al centro della città, il tempio forense, il c.d. tempio di Minerva 55. Sull’epistilio campeggiavano i loro nomi in lettere bronzee dorate 56: Cn(aeus) T(itus) Caesii Cn(aei) f(ilii) Tiro et [P]riscus (quattuor)vir(i) qu(i)nq(uennales) sua pecun(ia) fecer(unt). CIL XI 5396; SupplIt 23, 2007, 282; Forni 1987, n. 36 [M. P. Segoloni]. Di lui è menzionata anche la carriera militare. 51 CIL XI 5446; SupplIt 23, 2007, 302-303; Forni 1987 n. 95 [G. Forni]; Matteini Chiari 2005, n. 58 [M. C. Spadoni]. Datazione: prima metà del I sec. d.C. 52 CIL XI 5447; SupplIt 23, 2007, 303; Forni 1987, n. 96 [G. F. Binazzi]; è menzionato in quanto patronus di una liberta di nome Irene. 53 CIL XI 5411; SupplIt 23, 2007, 289; il dedicante C(aius) Publicius Allius Pr[rimus] onora il padre C(aius) Publicius Verecundus liberto del municipio di Assisi e seviro augustale. Datato al II sec. d.C.; cfr. Spadoni 2014, 184 (ivi menzione delle attestazioni a Mevania: CIL XI 5077; 5078; 5079). 54 CIL XI 1933; SupplIt 30, 2018, 137-138; EDR 142713: C(aio) Allio L(uci) f(ilio), Lem(onia tribu), centurioni leg(ionis) XIII; cfr. Zuddas – Spadoni 2010, 61; Gregori 2012, 118 s.; Spadoni 2014, 183 s. (il rinvenimento del testo in località Agliano indica che le sue proprietà hanno dato la denominazione all’area). 55 Alla datazione del tempio in piena età triumvirale concorrono le caratteristiche architettoniche e l’ornamentazione. Cfr. Gros 1984; Strazzulla 1985, 62; Bradley 2000, 161. Che il tempio fosse dedicato a Minerva o che piuttosto fosse dedicato a Castore e Polluce, come suggerisce la presenza dell’edicola tetrastila in asse con il tempio, resta invece motivo di discussione; la questione è riassunta in Marcattili 2013. 56 CIL XI 5378; SupplIt 23, 2007, 271; EDR 25239; cfr. Forni 1987, n. 9 [G. Forni]; Cenerini 1985, 215; Cenerini 1996, 238; Bonamente 2004, 32; Bonamente 2005, 84. 50
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Con la presenza dei Caesii si entra nel vivo della storia di Assisi in età triumvirale. La gens è molto diffusa in Italia e i rami umbri sono attestati a Forum Flaminii, Mevaniola e Spoletium, oltre che a Mevania ed Asisium 57. La convergenza di due dati, e cioè il raggiungimento delle più alte cariche da parte di una gens che non ha attestazioni precedenti ad Assisi, ma presenta oltre a due quattuorvirii quinquennales ben due liberti cooptati nel collegio dei seviri, uno dei quali può avere avuto come patronus uno dei dedicanti del tempio 58, e, d’altro canto, che questa gente sia quasi scomparsa in epoca successiva, con un solo ulteriore esponente nel II secolo d.C. 59, configura un fenomeno di improvvisa ascesa politica da spiegare solo con un fatto contingente, quale potrebbero essere stati i meriti e la fiducia acquisiti nei confronti di Ottaviano durante e dopo la Guerra di Perugia. I due Caesii avrebbero assunto la leadership della città subito dopo la guerra, procedendo al censimento e quindi alla ricostituzione della curia cittadina con elementi fedeli al vincitore; esaurito il loro compito, avrebbero lasciato l’amministrazione dei beni familiari ai propri liberti. Parecchi decenni dopo i Caesii presenti a Bevagna avrebbero adottato un Properzio, il Sex(tus) Caesius Sex(ti) f(ilius) Propertianus già menzionato 60. Gli anni del triumvirato tra la Guerra di Perugia e la vittoria di Azio furono decisivi anche per Properzio e la sua gens. I nuovi dati prosopografici consentono un confronto più serrato con le altre gentes presenti ad Assisi, delle quali solo l’epigrafia monumentale fornisce un quadro d’insieme delle fortune e del prestigio. Al riguardo, si rivela proficua una considerazione sulle permanenze e sui cambiamenti: se i Caesii sembrano una meteora legata alla Guerra di Perugia, la gens Vistinia presenta una rilevante continuità dalla metà del II secolo a.C., con un maro atte Cenerini 1996, 237-239. Rispettivamente: a) CIL XI 5398; SupplIt 23, 2007, 271; Forni 1987, n. 39 [M. L. Manca]: Cn(aeus) Caesius Tironis l(ibertus), (sex)vir. Potrebbe essere stato manomesso proprio da uno dei quattuorvivi quinquennales, il quale presenta come secondo nome quello di Tiro. b) AE 1994, 587; SupplIt 23, 2007, 366 s., n. 20: L(ucius) Caesius L(uci) l(ibertus) / Sextio / sevir (datazione al I sec. a.C.). 59 CIL XI 8035; SupplIt 23, 2007, 346; EDR 28671; Forni 1987 n. 113 [M. P. Segoloni]. 60 Cfr. supra nota 16 e infra nota 110. 57 58
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stato dal termine di confine in lingua umbra, per passare ai due quinqueviri attivi in pieno I secolo a.C., fino a un seviro dell’anno 7 a.C. Altrettanto si può dire dei Mimisii e dei Caetronii, mentre il fenomeno del ricambio si manifesta in modo singolare nello sviluppo di almeno due gruppi che hanno assunto un ruolo dominante a partire dalla seconda metà del I secolo d.C., legandosi tra di loro per adozioni e per matrimoni: quelli dei Tettii e dei Petronii, dei quali si parlerà successivamente. Accanto a loro vanno segnalati gruppi gentilizi che costitui rono l’aristocrazia cittadina in età augustea, come gli Scaefii, i Vettii, i Rutilii e i Saenii, insieme ai quali, tra le gentes attestate con esponenti di livello sociale inferiore, merita di essere menzionata quella dei Rufii, che ad Assisi ha solo due esponenti, ma che è ben attestata a Perugia 61. Gli Scaefii fecero parte dell’aristocrazia municipale almeno dalla tarda età repubblicana ed ebbero continuità fino al II secolo d.C.; in ordine di tempo il primo è C(aius) Scaefius L(uci) f(ilius) Umbo, uno dei quinqueviri responsabili del restauro di un murus, noto grazie alle epigrafi gemelle 62; al medesimo periodo si può ascrivere il C(aius) Scaefius attestato da un’epigrafe mutila 63; al primo quarto del I secolo d.C. è datato quindi il liberto C(aius) Scaefius Sopro 64, mentre è di difficile datazione l’iscrizione, pervenuta per tradizione manoscritta, di un ulteriore C(aius) Scaefius Priscus 65. Essi presentano infine la personalità di maggiore spicco con Gaio Scefio Sulpiciano, vissuto nel II secolo d.C., il quale, oltre ad avere ricoperto il quat61 In Assisi si segnalano: a) Cn. Rufius Insequens, un liberto che fa una dedica ad un seviro augustale; cfr. CIL XI 5425; SupplIt 23, 2007, 295; Forni 1987, n. 70 [M. L. Manca]; Matteini Chiari 2005, 117, n. 43 [G. Asdrubali Pentiti]; b) una persona di dubbia identificazione; cfr. CIL XI 5598; SupplIt 23, 2007, 338; EDR 28646. Il gentilizio è invece ben attestato a Perugia, ove ricorre nella forma Raufi / Rafi / Rufi; da notare un C. Rufius, scultore di una statua fittile di divinità, databile ai primi decenni del I sec. a.C.; cfr. CIL XI 6709; SupplIt 30, 2018, 299-300, n. 89; Nonnis 2012, 162-164; 182, fig. 5; Maggiani 2002, 276; Spadoni 2014, 130. 62 CIL XI 5391 e 5392; cfr. supra nota 33. 63 CIL XI 5415; SupplIt 23, 2007, 290; EDR 25364; Forni 1987, n. 61 [G. F. Binazzi]; Matteini Chiari 2005, n. 102 [M. C. Spadoni]. 64 CIL 5490; SupplIt 23, 2007, 316; EDR 25439: datazione al primo quarto del I sec. d.C. cfr. Forni 1987 n. 150 [M. Bonamente]; Matteini Chiari 2005 n. 80 [M. C. Spadoni]. 65 SupplIt 23, 2007, 402 n. 68; EDR 28734: I-II sec. d.C.
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tuorvirato giusdicente quinquennale, fu patrono del municipio e advocatus della città 66. Anche i Vettii ebbero un quattuorvir iure dicundo in età augustea 67, cui vanno aggiunti un ingenuus residente ad Assisi come incola 68 e quattro liberti 69. A loro volta i Rutilii ebbero un quattuorviro edile nella persona di Cn(aeus) Rutilius, Cn(aei) f(ilius) 70 e presentano altre tre iscrizioni di liberte 71; infine la gens Saenia presenta un quattuorviro edile di età augustea, Cn(aeus) Saenius C[n(aei) f(ilius)] Rufus e una liberta, ambedue databili nella tarda età augustea 72. Un caso singolare è rappresentato dalla gens Vespria, nota solo ad Assisi, con tredici presenze, ad eccezione di un liberto, Q (uintus) Vesprius Pardus, che dedicò un monumento funerario lungo la via Ostiense alla moglie Tettia Rogata, anche lei liberta, manomessa dalla gens Tettia, di cui si è indicato il radicamento ad Assisi 73. I personaggi di cui è rimasta memoria sono cinque 66 CIL XI 5416; SupplIt 23, 2007, 291; EDR 25365: D(is) M(anibus) / C(aio) Scaefio / C(ai) f(ilio) Sulpiciâno / patrono mu/nicipi et colle[g(iorum)] / I̅I̅I, II̅I̅Ivir(o) i(ure) d(icundo) q̅ (uin)q̅ (uennali) / q̅ (uaestori) I̅I̅ / advoc(ato) reip(ublicae) / Setoria Olympias / coniugi incomparabili b(ene) m(erenti). Datazione al II sec. d.C. cfr. Forni 1987, n. 62 [M. L. Manca]. 67 CIL XI 5422; SupplIt 23, 2007, 294; Forni 1987, n. 69 [M. L. Manca]. La stele mostra le insegne proprie della classe equestre. Datazione alla media età augustea; cfr. Devijver 1992, II, 170-180; 189. 68 AE 1980, n. 402; SupplIt 23, 2007, 407 n. 75; EDR 77823 (datazione al I sec. d.C.). cfr. Forni 1987, n. 236 [G. Forni]. Testo: L. Vettius L(uci) f(ilius) / Clu(stumina tribu) Clemens / [---]. Sugli incolae vedi Poma 1998, pp. 135-147; Gagliardi 2006. 69 Rispettivamente: a) Vettia Saturnina, moglie del seviro augustale Tito Volcacio Cinnamo: CIL 5427; SupplIt 23, 2007, 296 (datazione 1-50 d.C.); EDR 25376; Forni 1987, n. 72 [M. P. Segoloni]; b) una liberta: SupplIt 23, 2007, 379 n. 35; c) una liberta: SupplIt 23, 2007, 407 n. 76; d) un liberto: CIL XI 5423; SupplIt 23, 2007, 294; Forni 1987, n. 237 [G. Bonamente]. 70 CIL XI 5413; SupplIt 23, 2007, 290 (datazione all’età augustea); EDR 25362; Forni 1987, n. 59 [M. L. Manca]. 71 Rispettivamente: a) CIL XI 5528; SupplIt 23, 2007, 324; EDR 25476; Forni 1987, n. 198 [M. Bonamente]; b) CIL 5529; SupplIt 23, 2007, 325; EDR 25477; Forni 1987, n. 199 [M. L. Manca]; c) SupplIt 23, 2007, 401 n. 66; EDR 2732 (I sec. d.C.). 72 Rispettivamente: a) CIL XI 5414; SupplIt 23, 2007, 290; EDR 25363 (datazione al I sec. d.C.); Forni 1987, n. 60 [Binazzi]; b) SupplIt 23, 2007, 402, n. 67; EDR 28733 (datazione 10 a.C. – 10 d.C.); cfr. Forni 1987, 87 n. 200 [G. Forni]; Bonamente 2018, 34 (con riferimento alla dispersione dei reperti della necropoli dell’area del circus); 37 s. 73 CIL XIV 1749; EDR 128840; cfr. Schulze 1904, 254.
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cittadini (per due è segnalata la tribù Sergia), nessuno dei quali risulta avere ricoperto una magistratura 74; ad essi si aggiunge un Vesprianus adottato dai Mimisi (Lucius Mimisius Labeo) in età giulio-claudia 75; la consistenza economica della gens è ulteriormente attestata da ben sei liberti 76. Si può ritenere che i Vesprii, presenti per un arco cronologico ampio, dal I secolo a.C. al II secolo d.C., abbiano avuto una certa rilevanza e in ipotesi potrebbero avere avuto anche esponenti che hanno esercitato magistrature municipali, dei quali però non è rimasta traccia 77. Dalle famiglie di cui si ha notizia dalla tarda età repubblicana, delle quali si è appena detto, si passa a due gruppi gentilizi che presentano attestazioni rilevanti solo a partire dall’età augu stea, dominando la scena in Assisi almeno per tutto il primo secolo d.C., quelli dei Petronii e dei Tettii. Q uella dei Petronii è in assoluto la gens più importante, per le magistrature conseguite dai suoi esponenti, per la continuità nella presenza in Assisi e per l’importanza degli edifici realizzati.
74 Si tratta di: a) Cn(aeus) Vesperius L(uci) f(ilius) Ser(gia tribu); cfr. CIL XI 8034; SupplIt 23, 2007, 346 (I sec. d.C.); Forni 1987, n. 227 [G. Forni]. b) C. Vesprius C. f.; cfr. CIL XI 5561; SupplIt 23, 2007, 332 (età augustea); Forni 1987, n. 225 [M. Bonamente]; Matteini Chiari 2005, n. 110 [M. C. Spadoni] (seconda metà del I sec. a.C.). c) C. Vesprius T. f.; cfr. CIL XI 5556; SupplIt 23, 2007, 331 s.; Forni 1987, n. 226 [M. Bonamente]. d) L. Vesprius C. f. Ser(gia tribu); cfr. CIL XI 5562; SupplIt 23, 2007, 332 s. (inizi I sec. d.C.); Forni 1987, n. 228 [M. L. Manca]; Matteini Chiari 2005, n. 111 [M. C. Spadoni]. e) T. Vesprius [---]; cfr. CIL XI 5557; Forni 1987, n. 229 [G. Forni]. 75 L(ucius) Mimisius Labeonis f(ilius) Vesprianus; cfr. AE 1989, 295; SupplIt 23, 2007, 392 s.; Forni 1987, n. 153 [G. Forni] (datazione all’età giulio-claudia). 76 Essi sono: a) T. Vesprius T. l: Alexa; cfr.CIL XI 5558 e 5559; SupplIt 23, 2007, 332 (fine del I sec. a.C.); Forni 1987 nn. 230 e 231 [G. Forni]. b) T. Vesprius T. l. Antiocus; cfr. CIL XI 5560; SupplIt 23, 2007, 332 (fine I sec. a.C.); Forni 1987, n. 232 [G. Forni]. c) C. Vesprius C. l. Chresimus; cfr. AE 1989, 297; SupplIt 23, 405 s., n. 73 (I sec. d.C.); Forni 1987, n. 233 [G. F. Binazzi]. d) C. Vesprius Eros; cfr. CIL XI 5563; ILS 7993; SupplIt 23, 2007, 333 (II sec. d.C.); Forni 1987, n. 234 [G. F.]; Matteini Chiari 2005, n. 112 [M. C. Spadoni] (datazione: fine I-II sec. d.C.). e) C. Vesprius Felix; cfr. AE 1980, 401; Bonamente 1979, 204; Forni 1987, n. 235 [M. P. Segoloni]; Matteini Chiari 2005, n. 113 [M. C. Spadoni] (I sec. a.C. – I sec. d.C.). f) (Vespria) Prima l.; cfr. AE 1989, 297; SupplIt 23, 405 s., n. 73 (I sec. d.C.); Forni 1987, n. 233 [G. F. Binazzi]. 77 Si può ritenere che i Vespri avessero proprietà nella località San Vincenzo, nei pressi di Castelnuovo di Assisi, da dove provengono due stele funerarie; cfr. Bonamente 2000, 50 s.; SupplIt 23. 2007, 333.
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I Petronii appartengono ad una gens di origine etrusca presente in senato almeno a partire dal II secolo a.C. 78; nell’età augustea un Publius Petronius fu prefetto d’Egitto e organizzò una spedizione in Etiopia intorno al 22 a.C., menzionata da Properzio nella sesta elegia del IV libro ed espressamente ricordata da Augusto stesso nelle Res gestae 79. Altri due esponenti di rilievo furono Publius Petronius Publi filius, console suffetto nel 19 d.C. e Caius Petronius, che rivestì la medesima magistratura nel 25 d.C., presumibilmente ambedue discendenti del prefetto di Egitto 80. Il ramo assisiate presenta tredici attestazioni di esponenti che non hanno superato il grado della carriera municipale, salvo le personalità di rango senatorio di cui si parlerà in seguito in relazione alla matrona Propertia 81. All’età di Augusto è ascrivibile un Petronius che ha ricoperto sia l’edilità sia il quattuorvirato giusdicente 82; a lui si aggiungono un Q uintus Petronius 83 e tre liberti 84. All’età imperiale risalgono altre due attestazioni 85, oltre ai personaggi che risultano legati alla costruzione dell’anfiteatro. Tale grandioso edificio, ben visibile nell’area nord-est, nella zona del circus, fuori dal recinto delle Torelli 1982, 290. Prop. IV, 6, 78 (Cephaeam hic Meroen fuscaque regna canat); Aug. Res gest. 26, 5 (in Aetiopiam usque ad oppidum Nabata perventum est, cui proxima est Meroe); cfr. PIR2 Petronius 270; Torelli 1982, 290; Bonamente 1986, 393, n. 6; Faoro 2015, 18 s. 80 Cfr. PIR2 Petronius 269 e, rispettivamente, PIR2 Petronius 266. A favore di un legame di parentela con il prefetto d’Egitto Publius Petronius concorre la documentazione di beni di un Gaio e di un Lucio Petronio in Egitto; cfr. Faoro 2015, 19 nota 60. 81 Bonamente 1986, 395 nota 14 (all’epoca undici attestazioni). 82 CIL XI 5408; SupplIt 23, 2007, 288 s.; EDR 25358 (età augustea); Forni 1987, n. 53 [G. Bonamente]. 83 CIL XI 5509; SupplIt 23, 2007, 320 (da tradizione manoscritta; fine I sec. a.C.); EDR 25457 (30-31 a.C.); Forni 1987, n. 175 [M. P. Segoloni]. 84 Rispettivamente: a) [… Pe]tronius (mulieris) l(ibertus); cfr. CIL XI 8028; SupplIt 23, 2007, 344 (seconda metà I sec. a.C.); Forni 1987, n. 174 [M. L. Manca]; b) P(ublius) Petronius P(ubli) l(ibertus) Licinius; cfr. CIL XI 5510; SupplIt 23, 2007, 320 (fine I sec. a.C.); EDR 25458 (I sec. a.C.); Forni 1987, n. 176 [G. Bonamente]; c) Petronia P(ubli) l(iberta) Helpis; cfr. AE 1987, n. 349; SupplIt 23, 2007, 396 s., n. 60; EDR 80462 (10 a.C. – 10 d.C.); Bonamente 1986, 392. 85 a) C(aius) Petronius Primitivo[s]: AE 1987, n. 350; Bonamente 1986, 405-406; SupplIt 23, 2007, 387, n. 47; EDR 80463 (I-II sec. d.C.); b) [Pe]tronius [---F]amulus: SupplIt 23, 2007, 396, n. 59 (I sec. d.C.); EDR 28726 (I sec. d.C.). 78 79
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mura urbiche, è attribuito alla gens Petronia e in particolare fu realizzato a spese di una Petronia, che risulta al centro di complesse vicende personali 86 e quale finanziatrice dei lavori in esecuzione di un fedecommesso del fratello Petronio Deciano 87: Petro[nia C(ai) f(ilia) Galeonis (uxor)?] / in fid[eicommisso solvendo?] / Decian[i fratris nomine, amph[itheatri cum ornamentis?] / quod ex [testamento ex (sestertium) - - - fieri iussit,?] / perfic[iendum curavit - - -].
Q uesta importante matrona fu l’anello di congiunzione tra i Petroni ed i Tettieni di Assisi da una parte e l’aristocrazia senatoria dall’altra, cui certamente appartenne il console dell’anno 76 d.C. Galeo Tettienus Petronianus. Verisimilmente Petronia fu l’ava del console, mentre suo marito Galeone Tettieno potrebbe essere stato il patrono dei due potenti e ricchissimi liberti che hanno costruito a proprie spese ed inaugurato solennemente l’edicola di Castore e Polluce al centro del Foro 88. Le due gentes avrebbero pertanto lasciato il segno della loro ricchezza e del loro prestigio sia nella parte alta della città, con l’anfiteatro e con un mausoleo gentilizio 89, sia nel Foro. Non manca invero qualche Val. Max. VII 7, 3. La matrona di cui parla Valerio Massimo sarebbe stata al centro di un vero e proprio scandalo, in quanto il marito (Galeone) aveva escluso dalla successione un figlio, ma la gens della madre aveva ottenuto un intervento diretto di Augusto per reintegrare il figlio sia nella eredità, nell’asse ereditario, sia nel mantenimento del nome paterno. Per le complesse questioni prosopografiche cfr. infra note 90 e 91. 87 Petronia è attestata da quattro epigrafi: a) CIL XI 5406; SupplIt 23, 2007, 286-288; EDR 81048 (prima metà del I sec. d.C.); Forni 1987, n. 49 [M. L. Manca]; b) CIL XI 5406 a; SupplIt 23, 2007, 297 s.; EDR 25356; Forni 1987, n. 51 [G. F. Binazzi]; c) CIL XI 5432; Forni 1987, n. 50 [M. L. Manca]; d) CIL XI 5511; SupplIt 23, 2007, 320 s.; EDR 25459 (27 a.C. – 50 d.C.); Forni 1987, n. 177 [M. P. Segoloni]. La prima epigrafe costituisce il punto di riferimento per la ricostruzione della personalità di Petronia e per la sua funzione nella costruzione dell’anfiteatro. L’integrazione del testo è stata proposta da Gianluca Gregori e ad essa fanno riferimento i vari editori; cfr. Gregori 1984, 969-979, n. 2, fig. 5; Coarelli 1996, 254; Bonamente 1986, 396, nota 15; Gregori 1996, 305 s.; Eck 2002, 202; Bonamente 2018, 40. 88 L’ipotesi che il patronus dei due liberti fosse il Galeo Tettius marito di Petronia mette in evidenza anche la rete di relazioni che collega il municipium di Assisi con Augusto; cfr. Coarelli 1996, 254-258. 89 L’anfiteatro e il mausoleo sono collegati dal punto di vista urbanistico e architettonico; la sepoltura nel mausoleo (in loco publico) potrebbe essere stata concessa sia al fratello Decianus (con cui potrebbe identificarsi il Publius Petro86
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incertezza a proposito della datazione dei due grandi edifici, in quanto Filippo Coarelli propone l’inizio dell’età imperiale (più precisamente l’età augustea), mentre Gian Luca Gregori pensa ai primi decenni dell’impero 90, dubbi che pesano sull’identificazione delle persone e sulla ricostruzione dei loro rapporti di parentela, in particolare per i tre Petronii che rivestirono il consolato suffetto, quali Galeo Tettienus Petronianus nel 76 d.C., Titus Tettienus Serenus nell’81 d.C. e Galeo Tettienus Severus alcuni anni dopo, nel 101/102 d.C. 91. In collegamento con quella dei Petroni si è svolta, con altrettanta continuità la storia dei Tettii; la loro presenza è meno eclatante, ma più diffusa ad Assisi, con dieci attestazioni 92. Anche nius Cai filius che avuto l’onore della sepoltura in loco publico: CIL XI 5407; SupplIt 23, 2007, 288; EDR 25357 (datazione: 50-1 a.C.); Forni 1987, n. 52 [M. P. Segoloni], sia a un altro esponente della gens, anch’egli sepolto in loco publico per decreto dei decurioni, di nome Petronius Umber (CIL XI 5409; SupplIt 23, 2007, 361, n. 15; EDR 28690 (datazione al III sec. d.C.); Forni 1987, n. 54 [G. Forni]. Resta aleatorio un potenziale rapporto con il Caius Petronius Umbrinus che fu consul suffectus nel 25 d.C., con il Q uintus Petronius Umber che fu legato di Nerone in Galazia intorno al 54 d.C. e il M. Petronius Umbrinus che fu consul suffectus nell’81 d.C.; cfr. Coarelli 1996, 254-256. 90 Bonamente 1986, 404-405; Coarelli 1996, 252-258 (con albero genealogico); Gregori 1996, 305 s.; Tufani 1999 (con bibliografia); Eck 2002, 202 (ivi i dubbi sui legami con Assisi per Galeo Tettienus Severus anch’egli consul suffectus alcuni anni dopo, nel 101/102 d.C.); Bonamente 2005, 86 s.; Asdrubali 2005, n. 50, 120 s. 91 Per i dettagli delle relativi alle complesse questioni prosopografiche è utile lo stemma di Filippo Coarelli, che rende adeguatamente le difficoltà di ricostruzione a partire dal Caius Petronius che fu prefetto d’Egitto negli anni 25-21 a.C., si possono individuare il figlio adottivo (Publius.?) Petronius Cai filius Decianus e la figlia Petronia Cai filia sopra menzionata. Dal suo matrimonio con Galeo Tettienus Petronianus nacque il figlio che fu consul suffectus nel 76 d.C., mentre il nipote Galeo Tettienus Severus avrebbe ricoprì la stessa carica nel 101/102 d.C.; cfr. Coarelli 1996, 258. Per la definizione dei legami tra queste personalità e la città di Assisi merita di essere considerata un’epigrafe, nota grazie alla tradizione erudita, che menziona un Petronianus e un/una Petroni[us/a]: CIL XI 5406 a; SupplIt 23, 2007, 288 EDR 25356 (I sec. d.C.); Forni 1987, n. 51 [G. F. Binazzi]. Il primo potrebbe essere stato il padre del console dell’anno 76 d.C. La lettura è compromessa dalle letture tràdite; ma è rilevante che vi compaiano insieme un/una Petroni[us/a], un Petronianus e un Propertius. 92 a) C(aius) Tettius C(ai) f(ilius) Anicianus, che fu quattuorvir aedilis intorno alla metà del I sec. d.C; cfr. CIL XI 5419; Forni 1987, n. 65 [G. F. Binazzi]. b) C(aius) Tettius C(ai) f(ilius) Ouf(entina tribu) Africanus, il quale fu prefetto d’Egitto e ricevette dagli Assisiati un monumento onorario per essere stato piissimus et munificentissimus erga patriam; la sua acmé è databile all’anno 82 d.C.; cfr. CIL XI 5382; SupplIt 23, 2007, 273 s. (nome completo: C(aius). Tettius Afri-
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per quanto riguarda i Tettieni, costituisce una rilevante novità l’epigrafe pubblicata nel 2004, rinvenuta negli scavi della chiesa di S. Maria Maggiore alias la Domus Musae, che reca incisi i nomi di due esponenti della gens che hanno ottenuto la magistratura cittadina più elevata, quella di quattuorviri quinquennales. Si tratta di [---] Tettienus e del figlio T(itus) Tettienus, i quali rivestirono la carica agli inizi del I secolo d.C. 93. Q uesta presenza trova riscontro nella città di Perugia, nella quale uno degli esponenti dell’aristocrazia municipale attivi all’indomani del Bellum Perusinum, il C(aius) Atilius A(uli) f(ilius) Glabrio, che fu IIIIvir quinq(uennalis) negli ultimi anni dell’età augustea, è figlio di una Tettia Minor Auli filia 94. Alla gens è legata la coppia di liberti che hanno innalzato nel cuore della città un monumento di grande rilievo quale l’edicola tetrastila dedicata a Castore e Polluce; disposta in asse con il tempio di Minerva e con il tribunal, al centro ideale del Foro, costituisce un esempio straordinario della volontà, da parte di due liberti, di manifestare il prestigio e la ricchezza raggiunti 95: Gal(eo) Tettienus Pardalas et / Tettiena Galene tetrastylum / sua pecunia fecerunt item simulacra Castoris / et Pollucis municipibus Asisinatibus don(o) deder(unt) / et dedicatione canus Cassianus Priscus); EDR 25333; Forni 1987, 29, n. 17 [M. Bonamente]. c) Tettia C(ai) l(iberta) Forti[s], liberta di un C. Tettius non identificabile con certezza; cfr. CIL XI 5523; SupplIt 2007, 323; Forni n. 191 [M. L. Manca]. d) C(aius) Rasinius C(ai) f(ilius) Tettianus, che fu patrono del municipio dopo avere percorso una carriera militare di rango equestre; cfr. CIL XI 5387; Forni n. 23 [M. Bonamente]. e) Galeo Tettienus, patrono del successivo. f) Galeo Tettienus Pardalas, il liberto che ha donato, insieme alla moglie l’edicola tetrastila di Castore e Polluce al centro del Foro; cfr. CIL XI 5372; Forni 1987, n. 3 [M. P. Segoloni]. g) Tettiena Galene, moglie del precedente, anche lei liberta di Galeo Tettienus. h) Tettiena Successa, moglie di un Tiberius Claudius Iustinus, non noto altrimenti in Assisi; datazione al II-III sec. d.C.; cfr. CIL XI 5547; SupplIt 23, 2007, 329; Forni n. 216 [G. F. Binazzi]. Alla vicina città di Mevania può essere collegato C(aius) Tettius C(ai) F(ilius) Aem(ilia tribu); cfr. CIL I2 780; ILS 5319; Coarelli 1996, 257s. 93 Sensi 2004, 334-336 (con ipotesi che essi possano essere identificati con il console del 76 d.C. e suo figlio); SupplIt 2007, n. 17 363; EDR 28691. 94 Cfr. infra nota 202. La sua carriera equestre indica altresì il suo inserimento nella politica augustea; cfr. Sisani 2011, 278. 95 CIL XI 5372; SupplIt 23, 2007, 268-269; EDR 25323 (datazione all’età giulio-claudia); Forni 1987, n. 3 [M. P. Segoloni]; Matteini Chiari 2005, 90-91, n. 4 [G. Asdrubali Pentiti]; Asdrubali Pentiti 2008, 218, n. 21. Per i rapporti tra i Tettii e i Petronii cfr. anche supra note 87-91.
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epulum decurionibus sing(ulis) d(enarios) (quinos), sexvir(is) (denarios) (ternos), / plebei (denarios) (singulos) s(emis) dederunt. / S(enatus) c(onsulto) l(ocus) d(atus).
Q uesto quadro d’insieme mostra una città ben inserita nella politica augustea e fa emergere i fili che legavano l’aristocrazia municipale di Assisi con l’aristocrazia romana di quel periodo, senatoria ed equestre. Q uanto è attestato con forte evidenza dai dati archeologici, a partire dal Foro e dal tempio ‘di Minerva’ per passare all’anfiteatro e alla Domus Musae, fino alla clamorosa presenza degli affreschi della Domus del Larario di derivazione squisitamente augustea, trova infatti riscontro puntuale nei dati prosopografici offerti dalle epigrafi. Per quanto concerne i Properzi, per l’età triumvirale era nota, prima della pubblicazione delle iscrizioni frammentarie rinvenute nel contesto archeologico della Domus Musae, solo la famiglia del poeta, coinvolta nella Guerra di Perugia e danneggiata dalle confische di beni che colpirono ampiamente il municipio di Assisi, come indicano le vistose tracce di centuriazione triumvirale 96. Naturalmente, accanto al poeta, si profilano il padre e la madre, la cui onomastica non è certa. Del padre sappiamo che morì prima che il figlio diventasse maggiorenne, il che significa, considerata la presumibile data di nascita di Properzio intorno al 50 a.C. 97, in un arco di tempo a cavallo della Guerra di Perugia, sebbene vada esclusa l’identificazione del padre del poeta con il propinquus morto durante quell’evento bellico 98. Q uesto status della documentazione è radicalmente mutato, con l’attestazione di ben tre esponenti della gens, tra cui un Sextus Propertius che ha iniziato, o anche semplicemente disposto, la costruzione di un teatro ad Assisi. Non è certo che costui sia proprio il poeta, sebbene i frammenti epigrafici siano stati rinvenuti nella Domus
96 La confisca di territori e la conseguente centuriazione nella ‘Valle umbra’ (da Spoleto a Perugia) ha una consistente evidenza archeologica, analizzata da Dorica Manconi nell’ampio studio, corredato da sei tavole, Manconi – Camerieri – Cruciani 1996, 375-429. Cfr. altresì Sisani 2012, 431-435 e supra nota 18 nonché p. 24, con nota 54. 97 PIR2 P 1006; Cairns 2006, 25 (58-55 a.C.); Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 364. 98 Cfr. infra p. 52, note 170-172.
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Musae. Si esaminano qui le due epigrafi direttamente pertinenti alla gens Propertia: 1. probabile frammento di architrave in calcare in cui si legge: [---] theatrum [---] 99 2. lastra in calcare locale di cui restano 5 frammenti 100: C(aius) Pr[op]ertius [f(ilius) n(epos)] S[er(gia tribu) ---] mandav[it --- he]redi u[t ---] the[a]t[rum a Se]x(to) Propert[io ---] nom[ine suo e]t ex legat[o HS ---] [--- ex test]amen[to perfic(iendum) cur(avit)]
Le due epigrafi si riferiscono alla costruzione di un teatro iniziato da (o comunque a lui connesso) un Sextus Propertius e al suo successivo completamento grazie a un legato testamentario conferito da un Gaio Properzio a un erede di cui non è noto il nome. Q uesto atto di evergetismo a vantaggio della città di Assisi coinvolge verisimilmente tre generazioni della gens Propertia, fra l’età augustea e la prima metà del I secolo d.C. e si inquadra in un fenomeno proprio di quel periodo, in quanto fra i dodici teatri noti in Umbria ben dieci risalgono a tale epoca. Che il poeta, grazie ai successi conseguiti a Roma, abbia promosso la costruzione di un teatro nella sua città di origine, è ipotesi plausibile; ma anche se si volesse pensare ad un altro esponente della gens, con il prenome Sextius anche lui, resta il fatto che ai Properzi presenti in Assisi in età augustea si devono riconoscere ricchezza e prestigio tali da edificare un theatrum 101. A sua volta il luogo di rinvenimento delle due iscrizioni impone di prendere in considerazione il fatto 99 Sopr. Beni Arch.Umbria inv. nn. 267257; Sensi 2004, 332; SupplIt 2007, 369-371; Boldrighini 2014, 57-58. Q uesto testo è stato messo in relazione con un’iscrizione frammentaria inserita nella parete esterna della Chiesa Nuova, nella quale si potrebbe leggere la parola [sc]aenam; cfr. CIL XI 5601; SupplIt 23, 2007, 338 s.; Sensi 2005, 69 e nota 47. 100 AE 2004, 525; SupplIt 23, 2007, 250; 369-370 n. 24; Sopr. Beni Arch. Umbria inv. nn. 267278-267282; Sensi 2004, n. 2 326-332; Manca 2005, 49; Sensi 2005, 68; Boldrighini 2014, 57-60 e fig. 9. 101 Per Simone Sisani potrebbe essersi trattato anche del padre, omonimo, del poeta; cfr. Sisani 2006, 104. Dal canto suo Francesca Boldrighini suggerisce l’ipotesi che questo impegno evergetico possa significare anche una riconciliazione con Augusto a qualche decennio di distanza dal Bellum Perusinum; cfr. Bol drighini 2014, 60.
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che il teatro si trovasse nelle immediate adiacenze, o addirittura si identificasse con la domus Musae 102. Del rinvenimento delle due nuove epigrafi non fu data notizia a Margherita Guarducci; esse ora propongono un quadro in cui trovano collocazione tutti i dati disponibili sulla Domus Musae: da un canto che le strutture architettoniche presentino due fasi, la prima delle quali è della fine dell’età repubblicana, mentre la seconda viene datata intorno alla metà del I secolo d.C. 103; dall’altro che gli affreschi della Domus Musae e in particolare i pinakes siano di quarto stile pompeiano e siano ascrivibili al terzo venticinquennio del I secolo d.C. (fermo restando che il repertorio è proprio della cultura ellenistica, al pari delle dida scalie in greco graffite), il che esclude una committenza diretta del poeta 104. Le testimonianze di un teatro costruito dalla gens Propertia confermano nella sostanza l’intuizione di Margherita Guarducci, che aveva collegato alla memoria dell’illustre assisiate il graffito del 367 d.C. La domus Musae potrebbe essere stata, nelle facies conservate, non una domus urbana, ma un complesso monumentale, magari annesso al teatro, comunque riferibile ai Properzi. Appaiono dirimenti due ulteriori dati: i reperti rinvenuti all’interno dell’area sono frammenti di elementi architettonici, tra cui rocchi di colonna e capitelli, in posizione tale da far escludere il reimpiego, e sono del tutto assenti in quel contesto frammenti di instrumentum domesticum 105. Se la Domus Musae non può essere identificata come la domus urbana dei Properzi, si apre a sua volta l’adito ad un’ipotesi sedu Una lunga tradizione di studi topografici vuole che esso si trovasse nella parte alta della città, e più precisamente nel cosiddetto ‘terrazzamento superiore’, a nord della ‘cisterna’ su cui insiste il campanile della cattedrale di S. Rufino, ma Maria José Strazzulla ha fatto notare che quella struttura non ha alcun elemento architettonico curvilineo; cfr. Strazzulla 1985, 37-40; Sensi 2004, 330 (contra); Sear 2006, 159 (assenza di elementi curvilinei nelle strutture adiacenti vicolo Bovi); Sisani 2007, 103-104; Boldrighini 2014a, 60 s.; 74, fig. 10. 103 Boldrighini 2014a, 52 s. 104 Margherita Guarducci aveva proposto una datazione all’età augustea, che è stata ripetutamente messa in discussione. Sia i temi dei pinakes, sia i testi dei graffiti possono avere origine da repertori della seconda metà del I secolo d.C.; cfr. Prioux 2008, 81-83; Boldrighini 2016; Salvo 2018, 53. 105 Boldrighini 2014a, 56-61. 102
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cente per la Domus del Larario: stante la contiguità, potrebbe essere proprio tale domus di proprietà dei Properzi, i quali avevano recuperato rango e prestigio in piena età augustea 106; ma è buona regola attenersi al fatto che non ci sono elementi tali da giustificare tale attribuzione. Q uella domus, chiunque ne sia stato il proprietario, per l’eleganza della sua ornamentazione e per le analogie con modelli augustei, dimostra comunque un legame forte e la volontà di imitazione nel confronti di Roma da parte della aristocrazia locale di Asisium. Si è già osservato che i Properzi residenti ad Assisi non raggiunsero il rango senatorio per tutta l’età repubblicana, pur avendo al loro interno numerosi esponenti della nobiltà municipale 107. Intorno alla prima metà del I secolo d.C. è attestato un decu rione: Cn(aeus) Propertius T(iti) f(ilius) Scaeva, la cui presenza ben s’inquadra in un contesto in cui la gens Propertia ha le risorse per costruire un teatro 108. A confermare la solidità delle fortune della gens c’è anche la presenza di un C(aius) Propertius Repentinus liberto e seviro augustale nella prima età imperiale 109. È presumibilmente originario di una famiglia di Assisi anche il Sex(tus) Caesius Sex(ti) f(ilius) Propertianus attestato a Mevania, di rango equestre, con al suo attivo una carriera militare, magistrature a Roma e magistrature municipali a Bevagna, tra cui il patronato della città. Il culmine della sua carriera lo raggiunse quando, in qualità di tribuno angusticlavio, ebbe un ruolo importante nella defezione delle legioni di Galba a favore di Vitellio il 1° gennaio del 69 d.C. Da Vitellio ottenne incarichi importanti, fra cui quello di procuratore del patrimonio; fu anche cooptato nel collegio dei flamines Caeriales. Ma l’avvento al trono di Vespasiano interruppe i successi di Sestio Cesio Properziano. Si tratta, con ogni verisimiglianza, di un Properzio adottato da un esponente della potente famiglia dei Caesii, che gli ha assicurato un cursus honorum di tutto rispetto alla fine dell’età giulio-claudia 110. Boldrigrini 2014a, 62 s. (con cautela). Eck 2014, 2. 108 AE 1978, n. 292; SupplIt 23, 2007, 362 n. 16; EDR 77131; Binazzi 1977; Forni 1987, n. 56 [M. L. Manca]; Bonamente 2005, 85. 109 La sua identificazione è frutto di un’integrazione del testo proposta da Giovanni Forni; cfr. Forni 1986, 192 e fig. 2. 110 CIL XI 5028; ILS 1447; EDR 157689: Sex(to) Caesio Sex(ti) [f(ilio)] / 106 107
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Legami tra i Caesii e i Propertii sono confermati da una iscrizione da Cascia in cui una Properzia figlia di Vibio è attestata insieme a due esponenti dei Cesi 111. Che la gens Propertia mantenne una posizione di prestigio ad Assisi a partire dall’età augustea fino al II secolo d.C., lo indica un altro Properzio, poeta anch’egli, onorato nella sua città e attivo nella vita culturale della Roma traianea: Gaio Passenno Paullo Properzio Bleso, di rango equestre, noto a Plinio il Giovane, il quale ne ha fornito un ritratto particolareggiato, a proposito delle sue performances poetico-liriche a Roma, quale imitatore del poeta omonimo suo antenato 112. Il suo nome, prima di essere adottato da un Caius Passennus Paullus, era Propertius Blaesus 113. L’attestazione epigrafica della sua ascrizione alla tribù Sergia, quella della maggior parte degli abitanti di Assisi, in combinazione con la precisazione di Plinio il Giovane, secondo il quale Gaio Passenno Paullo Properzio Bleso era concittadino del poeta, resta uno dei capisaldi per la ricostruzione della biografia di Properzio. La cronologia di un’iscrizione onoraria a lui dedicata, rinvenuta lungo la via che conduce a San Damiano, consente di ipotizzare che Paolo Passenno sia legato alla ‘seconda fase’ della Domus Musae, in quanto committente dell’ornamento del criptoportico e spePropertiano / flaminì Ceriali / Romae, proc(uratori) imp(eratoris) / a patrim(onio) et heredit(atium) / et a li[b]ell(is), tr(ibuno) mil(itum) leg (ionis) I̅ I̅I̅I̅ / Macedọ nic(ae), praef(ecto) coh(ortis) / I̅ I̅I̅ His ̣[pa]nor(um), hast(a) pura / et coro ̣n(a) aurea don(ato), / I̅ I̅I̅I̅ vir(o) i(ure) d(icundo), I̅ I̅I̅I̅ / vir(o) quìnq(uennali), pon(tifici), / patroṇ(o) mun(icipi). Sulla carriera di Sesto Cesio Properziano e sulla figura dell’adottante Sestio Cesio, cfr. Forni 1986, 195-197; Prosperi Valenti 2003, 23. 111 Cfr. AE 1989, 224; EDR 104806; Cenerini 1985, 225 s.; Cenerini 1996, 236-239; Bonamente 2012, 453 nota 28. 112 Plin. Epist. VI 15, 1: Passennus Paulus, splendidus eques Romanus … scribit elegos. Gentilicium hoc illi: est enim municeps Properti atque etiam inter maiores suos Propertium numerat; IX 22, 1-2: in litteris veteres aemulatur, exprimit, reddit, Propertium in primis, a quo genus ducit. L’epigrafe ne conferma e precisa il nome: C(aio) Passenno / C(ai) f(ilio) Serg(ia tribu) / Paullo / Propertio /Blaeso; cfr. CIL XI 5405; ILS 2925; SupplIt 23, 2007, 286; EDR 25355; Forni 1987, 41, n. 47 [G. F. Binazzi]; Matteini Chiari 2005, 141, n. 87 [M. C. Spadoni]; Vivona 1986, 110-112; Bonamente 2004, 17 s.; Bonamente M. 2012, 453 s. 113 L’adottante Caius Passennus Paulus ha un gentilizio poco diffuso in Italia, ma ad Assisi è attestato un secondo esponente della gens, un Caius Passennus Fortunatus, la cui iscrizione è stata rinvenuta nella stessa area di quella di Passenno Paullo Properzio Bleso (CIL XI 8027; SupplIt 23, 2007, 344; EDR 28663 (III sec. d.C.); Forni 1986, 191; Forni 1987, n. 172 [G. F. Binazzi].
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cificamente del ciclo di pinakes e delle iscrizioni in greco, di cui si è già parlato. Un’ipotesi seducente, porterebbe a pensare che egli si sia esibito ripetutamente anche ad Assisi, nel theatrum allora gestito dalla ‘Propertius Foundation’ 114. Sui Properzi attestati a Roma ha scritto con chiarezza e in modo dettagliato Werner Eck 115, il quale ha segnalato che il più antico di costoro è un Sesto Properzio menzionato da Cicerone nella De domo sua, nel 57 a.C., a proposito del processo intentatogli da un seguace della fazione capeggiata dal tribuno Clodio 116. In età augustea emergono due senatori appartenenti a tale gens, quali Gaio Properzio Postumo e Properzio Celere, il secondo dei quali è menzionato da Tacito a proposito di una singolare vicenda: pur essendo un senatore di rango pretorio, chiese di abbandonare il Senato a causa della esiguità del proprio patrimonio; nel 15 d.C. l’imperatore Tiberio ne reintegrò le sostanze con una donazione di un milione di sesterzi 117. Ma la personalità che percorse la carriera più prestigiosa fu il senatore C(aius) Propertius Postumus, il quale percorse i vari gradi del cursus honorum, fino ad arrivare alla pretura, ottenendo infine una provincia non meglio determinata in qualità di proconsole di rango pretorio 118: C(aius) Propertius Q (uinti) F(iulius) T(iti) N(epos) Fab(ia tribu) Postumus, IIIvir cap(italis) et insequenti anno pro IIIvir(o), q(uaestor), pr(aetor) desig(natus) ex s(senatus) c(onsulto) viar(rum) cur(ator), pr(aetor) ex s(senatus) c(onsulto) pro aed(ilibus) cur(ulibus) ius dixit, proco(n)s(ul).
Q uesto importante uomo politico, il cui cursus honorum è ben descritto da un’unica testimonianza epigrafica, va ascritto all’età di Augusto per le funzioni da lui ricoperte e la terminologia con 114 Guarducci 1985, 168-173; Guarducci 1986, 162 (le iscrizioni in corrispondenza dei pinakes potrebbero essere opera di Passenno); Coarelli 2004, 106; Cairns 2006, 14; SupplIt 23, 2007, 286; Boldrighini 2016, 262. 115 Eck 2014. 116 Cic. De domo sua 49; cfr. Forni 1986, 192. 117 Tac. Ann. I 75, 3: Propertio Celeri praetorio veniam ordinis ob paupertatem petenti decies sestertium largitus est; cfr. PIR2 P nr. 1007, 425; Wiseman 1971, 254; 344; Gaggiotti – Sensi 1982, 263; Forni 1986, 192; Bonamente 2004, 34. 118 CIL VI 1501; ILS 914; cfr. Wiseman 1971, 254 s.; Forni 1985, 214; Forni 1986, 179; 193; Bonamente 2004, 34 s.; Eck 2014, 10 e nota 30 (ivi la discussione sulla cura viarum).
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cui sono designate 119. Dal canto suo Properzio dedica l’elegia 12 del terzo libro ad un Postumo, che dovrebbe identificarsi con il senatore appena descritto; il dedicatario, in procinto di partire per una spedizione in Partia al seguito di Augusto nel 21 a.C., risulta essere marito di una Aelia Galla, che egli avrebbe lasciato sconsolata in Roma (3, 12, 1-3: Postume, plorantem potuisti linquere Gallam, / miles et Augusti fortia signa sequi? tantine ulla fuit spoliati gloria Parthi?). Secondo il topos elegiaco della donna abbandonata, la figura di Galla emerge con tratti fortemente positivi, incentrati sulla sua castità e sulla sua fedeltà, tanto da essere definita superiore a Penelope. L’apostrofe iniziale a Postumo, che corrisponde ad una dedica, e il modo con cui è descritta la moglie, fanno pensare ad un rapporto forte con il poeta 120. Ma si deve tenere conto di una serie di questioni, messe in evidenza da Werner Eck nella sua relazione in occasione del Convegno tenutosi nel 2012, riguardo la tribù Fabia, cui era ascritto Gaio Properzio Postumo, che non ricorre per alcun altro cittadino né di Assisi né dell’Umbria 121; tale dato fa escludere che si tratti di un Properzio residente in Assisi e fa ritenere piuttosto che egli, o un suo ascendente, abbia mutato la tribù originaria, forse per l’appunto la Sergia, con la Fabia, in occasione del suo trasferimento a Roma 122. Di minore importanza può essere invece un indizio desunto dal sistema onomastico, e precisamente dal fatto che l’epigrafe di C(aius) Propertius Postumus attesta i praenomina quali C(aius) per l’interessato, Q (uintus) per il padre e T(itus) per il nonno, ma Eck 2014, 9. Prop. III, 12. L’elegia 3 del IV libro, riguardante Aretusa e Licota, sembra una ripresa, con pseudonimi, della vicenda di Postumo e di Galla; da tenere in considerazione anche l’apostrofe a Postumo in Horat. Od. II.14, 1. cfr. Forni 1986, 193 nota 51; Bonamente 2004, 34; Cairns 2006, 18-21; Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 504; Citroni 2018, 75. 121 Con l’eccezione di due urbaniciani provenienti da Fano e da Bevagna, vissuti tra II e III secolo d.C.; si vedano Forni 1982, 368 s.; Forni 1986, 184; Asdrubali Pentiti – Spadoni – Zuddas 2010. 122 Gaggiotti – Sensi 1982, 252 e 263. L’ipotesi è considerata plausibile da Giovanni Forni, il quale ha rilevato l’esistenza di un altro Properzio attestato in Roma, ascritto alla tribù Fabia, un urbaniciano degli anni 197-218 d.C., di nome C. Propertius Optatus; cfr. Forni 1986, 179; 194, nota 57; Eck 2014, 9. Circa il fatto che il poeta stesso fosse ascritto alla tribù Sergia cfr. Bormann 1895, 737 (la origo di Properzio è definita con certezza dalla convergenza dei dati forniti dal l’epigrafe di Passenno e dall’Epistolario di Plinio il Giovane); Bonamente 2004, 18, nota 2 e supra p. 37. 119 120
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non Sex(tus), che è quello del nostro poeta, un quadro che, stante la tendenza a iterare i prenomi all’interno delle gentes, ha indotto Forni ad invitare gli studiosi alla prudenza 123. In realtà – anche grazie alle nuove epigrafi edite nel 2004 – da uno sguardo d’insieme su tutti i Properzi attestati in Assisi si evince che il prenome Caius è quello prevalente 124. Q uanto all’identificazione della moglie Elia Galla, si deve partire dal presupposto che anche lei possa essere stata una donna di rango senatorio appartenente alla gens Aelia, mettendo in guardia da alcune ipotesi, tra cui quella più accreditata, che la vorrebbe parente (sorella, figlia o nipote) di Aelius Gallus, il quale fu il secondo prefetto dell’Egitto tra il 27 e il 24 a.C., subito dopo Cornelio Gallo 125. Elio Gallo era infatti un equestre e questo rende improbabile che una sorella o una parente prossima fosse moglie di un senatore. Q uesto argomento va tenuto ancor più in considerazione se si volesse ipotizzare un rapporto di parentela con Properzio, il quale appartenne ad una gens non pervenuta al rango senatorio. Elia Galla, in ogni caso apparterrebbe alla gens degli Aelii, per i quali non mancano comunque riscontri ad Assisi 126, tra cui un Q (uintus) Aelius P(ublii) f(ilius) Brulla, vissuto in età augustea, il quale non solo apparteneva all’aristocrazia della città e fu quattuorvir iure dicundo, ma prestò anche servizio militare con il rango di tribunus militum a populo 127. 123 Forni 1986, 195: “è perciò raccomandabile una certa cautela prima di assegnare origini e di avventurare parentele”. 124 Sono attestati, oltre ad un altro Sextus, anche un Caius (ambedue dai frammenti epigrafici rinvenuti nella Domus Musae, che Giovanni Forni dovette registrare come inediti per motivi di cortesia), quindi un decurione con prenome Cnaeus il cui padre era Titus e altre due persone con il prenome Caius: un liberto di nome Repentinus e il suo patronus (CIL XI 5410; Forni 1986, 180; 192; Forni 1987, n. 55 [G. F. Binazzi]; SupplIt 23, 2007, 289). Nell’elenco dei venti Properzi segnalati da Giovanni Forni, risultano, computando anche i patronimici o i nomi dei patroni, diciassette volte Gaio, tre Sesto, una Gneo, una Lucio, due Tito e una Vois(ienus); cfr. Forni 1986, 180 s.; Bonamente M. 2012, 455, nota 43 e supra nota 1. 125 Syme 1986, 308 (figlia o nipote); Cairns 2006, 20 (sorella, figlia o nipote); Cristofoli 2014, 192; Eck 2014, 10 (parentela non definibile); Citroni 2018, 74 (con esame della questione e bibliografia). 126 Oltre al quattuorvir i.d. è noto un secondo esponente, sempre ingenuo, della gens: CIL XI 8024; SupplIt 23, 2007, 343; Forni 1987, n. 82 [M. L. Manca]. Un’ulteriore, presumibile, attestazione della gens in CIL XI 5445; SupplIt 23, 2007, 302; Forni 1987, n. 93 [G. F. Binazzi]; Frondini 178 n. 11. 127 Binazzi 1982, 17-18; Forni 1987, n. 34 [G. F. Binazzi]; Matteini Chiari
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L’identificazione della missione in Oriente del Postumo di Properzio con il proconsolato che ha rappresentato l’apice della carriera di Gaio Properzio Postumo resta verisimile, nonostante alcuni dubbi 128; del tutto aleatoria è invece l’individuazione di una parentela tra i due 129. Ma una volta tenuti nel debito conto i rilievi di carattere protocollare, riguardo al termine miles, e quelli di natura prosopografica relativamente al grado di parentela, restano indiscussi i rapporti del poeta con un esponente dell’aristocrazia senatoria quale Postumo, con cui condivideva il gentilizio, al quale ha dedicato un’elegia che entra nel vivo degli affetti familiari e del prestigio politico del destinatario. Non minore attenzione meritano i rapporti con altre famiglie senatorie legate in vario modo con l’Umbria, come i Volcaci Tulli e i Vibi Pansa. Trasferitesi a Roma e già radicate nel Senato, furono immuni dalla violenta epurazione effettuata a conclusione del Bellum Perusinum ai danni dell’aristocrazia municipale della città 130. Q uesti rami gentilizi dei Vibii Pansae e dei Volcacii, da tempo attivi a Roma, rivelano interessanti legami sia con la città di Perugia, sia con Assisi, sia, in particolare, con i Properzi. Rinviando per il momento l’esame relativo ai Volcaci e ai rapporti diretti che ebbero con il poeta, va detto che per i Vibi sussistono presumibili legami con Assisi e in particolare con i Caetronii, una 2005, n. 15 [G. Asdrubali]; SupplIt, 23, 2007, 355, nr. 12; EDR 028687: Q (uintus) Aelius P(ubli) f(ilius) Brulla, IIIIvir i(ure) d(icundo), [trib(unus)] mil(itum) a populo. 128 Werner Eck ha esaminato attentamente il cursus honorum del personaggio, sia riguardo la cura viarum (con riferimento a Cairns 2006, 16 s.), sia riguardo al fatto che il proconsulatus (di rango pretorio) attestato epigraficamente possa corrispondere alla terminologia usata da Properzio che definisce il suo Postumo come miles che opera sotto i fortia signa Augusti (Prop. III, 12, 2); la definizione di miles è di per sé compatibile solo con l’esercizio di una prefettura equestre o un tribunato angusticlavo sotto il comando di Augusto, non con una carriera senatoria (Eck 2014, 10). 129 Cfr. Fedeli 1985, 397; Forni 1986, 193; Syme 1986, 308 e 359, nota 100; PIR 1010 [1998]; Cairns 2006, 16-20 e 28 e 48 (suo cugino); Bonamente M. 2012, 451 nota 18; Citroni 2018, 73, nota 40 (con bibliografia). 130 Suet. Aug. 15, 2; Appian. V 201; Dio XLVIII 14, 4. Sulla crudeltà di Ottaviano si veda Sen. Clem. I 1, 1. L’annientamento della nobiltà municipale si riflette nell’assenza di documentazione e nella rarità di attestazioni sia del ceto decurionale cittadino, sia di senatori riconducibili alla città, per il periodo del l’età triumvirale ed augustea; in modo specifico si deve pensare anche all’erasione di monumenti con i nomi delle persone condannate; cfr. Sisani 2011, 287. Sulle gentes che hanno gestito il dopo guerra cfr. infra pp. 58-59.
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gens attestata nel municipio umbro con un esponente di rilievo nella sua aristocrazia come nel caso di Caius Caetronius che fu quattuorvir iure dicundo. Il punto di contatto tra i Caetronii e i Vibii Pansae, attestato dall’adozione del console del 43 a.C., chiama in causa Assisi e Perugia, anche se la cautela è d’obbligo, perché nessuno dei Caetronii di Assisi ha raggiunto il rango senatorio 131, un fatto questo che lascia aperta l’ipotesi che l’adozione abbia riguardato un ramo della gens trasferitosi a Roma 132. Fuori discussione è invece il rapporto dei Vibii con Perugia. Il primo esponente, di nome Vel Vibius Pansa, Ar(untis filius), Tro(mentina tribu), ebbe la cittadinanza romana già nel corso del II secolo a.C. e fu ascritto alla tribù Tromentina, la medesima in cui furono successivamente ascritti i cittadini di Perugia dopo la Guerra Sociale 133. Alla gens appartiene il senatore Caius Vibius Pansa, che fu IIIvir monetalis nel 89/88 a.C. e adottò il figlio di un senatore della gens Caetronia inserito nelle liste di proscrizione da Silla, dandogli naturalmente il proprio nome: Gaio Vibio Pansa Cetroniano. Q uest’ultimo intraprese la carriera senatoria sotto gli auspici di Giulio Cesare, rivestendo anche dei comandi militari ed ottenendo da lui la designazione per il consolato del l’anno 43 a.C. Fu lui a guidare, insieme ad Aulo Irzio e a Ottaviano, la guerra di Modena contro Marco Antonio, trovandovi però la morte 134. Le fortune politiche ed economiche dei Vibii Pansae sono presumibilmente dovute alla produzione di laterizi nota sotto il nome di figulina Pansiana, che ha avuto un importante centro di produzione a Rimini, con filiali nel Veneto, a S. Benedetto del Tronto nelle Marche, fino alle Bocche di Cattaro sulla costa Cfr. supra note 42 e 44 a proposito dei Caetronii. Peraltro in Assisi è attestato anche un Lucio Vibio Sabino che va identificato con un console suffetto dell’anno 97 d.C., il quale fu padre di Vibia Sabina Augusta, moglie dell’imperatore Adriano; cfr. CIL XI 8020; Forni 1987, n. 18; cfr. Gaggiotti – Sensi 1982, 264. 133 CIE 3615; CIL I2 3365; XI 1994. È ipotizzabile un rapporto con la politica di Gaio Mario. La sua appartenenza a Perugia è attestata da un’epigrafe funeraria ora perduta, letta a loro tempo da Ariodante Fabretti e dal Conestabile. Sul personaggio cfr. Broughton 1952, 334-336; Harris 1971, 249; 324 s.; Torelli 1982, 291; Spadoni 2014, 144-147; SupplIt. 30, 2018, 91. 134 L’altro console era Aulo Irzio, mentre Ottaviano cooperava con l’imperium straordinario di pro praetore. Cfr. Crawford 1974, n. 342; Torelli 1969, 303; Eck 2003, 174-175. 131 132
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dalmata 135. Non ci sono indizi per ipotizzare che ve ne fosse una anche nell’area di Perugia, in quanto la produzione è rintracciabile soprattutto nell’Italia settentrionale. I bolli laterizi noti si datano dall’età di Augusto fino al 69 d.C., da quando la produzione è passata sotto il controllo imperiale 136. Non è facile identificare e mettere in relazione con Perugia nemmeno altri esponenti dei Vibii Pansae, come il tribuno nel 51 a.C., il legatus pro praetore in Vindolicis, che fu governatore della provincia di Rezia tra il 15 a.C. ed il 6/9 d.C., oppure il C. Vibius T. f. Clu. Pansa, trib. mil. bis, attestato a Roma in età imperiale 137. Ma è la famiglia dei Volcacii Tullii a costituire un elemento centrale della biografia e dell’opera di Properzio, il quale è vissuto in Roma sotto il ‘patronato’ della potente famiglia senatoria di origine perugina, ben inserita tra gli amici di Augusto. Il senso di tale rapporto va definito considerando che Properzio apparteneva ad una famiglia della aristocrazia cittadina schieratasi con Lucio Antonio durante la guerra di Perugia, subendo sul momento la morte di un familiare e la confisca di parte dei propri beni; dal l’altra parte i Volcaci Tulli non soltanto erano di rango senatorio, ma godevano dell’amicizia di Giulio Cesare prima e di Ottaviano poi. Di origine etrusca, col nome originario di velcha, sono attestati soprattutto in Perugia, ove è presente la loro tomba 138, ma anche in città vicine, come Chiusi 139, Arezzo (Sansepolcro) 140, Cfr. Gregorutti 2, 1886, 1-37. Il gentilizio Caetronius compare nelle città dove risultano più attive e numerose le figlinae Pansianae, come Este, Aquileia e Padova (CIL V 2582, 2679 Este; 1008a, 1140, 8351 Aquileia; 2911, 2998 Patavium; 4254 Brixia). Cfr. Biordi 1980, 256; tavv. LXXIX, 1; LXXXI-LXXXII; Matijašic 1983, 961-995; Spadoni 2014, 145. 137 Si vedano rispettivamente: a) CIL VI 3542 (iscritto alla tribù Clustumina); b) CIL V 4910 = ILS 847 = AE 1987, 789; PIR2, 92; Eck 1987, 203-209; Laffi 1988, 70-71; Eck 2003, col. 176; c) CIL VI 3542. 138 A Perugia, nella zona di Montevile, c’è la tomba gentilizia con ben otto urne cinerarie: ET2 Pe 1, 139, 140, 141, 142144, 145; CIL I2 2772. Cfr. Schulze 1904, 378; Broughton 1952, 132; 151; Broughton 1986, 223; Torelli 1969, 303 s.; Wiseman 1971, 276 s.; Torelli 1982, 278 e 283; Cairns 2006, 44; Eck 2014, 2; Spadoni 2014, 150; SupplIt 30, 2018, 87-98. Merita di essere menzionato il legame di parentela tra un Volcacio (Arnq Velxei: ET2 Pe 1, 142) e i Volumni, in quanto figlio di una Velimna; cfr. Spadoni 2014, 141; SupplIt 30, 2018, 94. 139 CIE 3034; 1440 = CIL XI 2200; CIE 1471 = CIL XI 2336; cfr. Spadoni 2014, 151. 140 CIL XI 1842; EDR 155854: Q . Volcacius Celer; datato alla fine I sec. d.C. 135 136
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Volsinii 141, Gubbio 142 e Spello 143. Del radicamento ad Assisi si è già detto prima 144. La loro presenza in Roma nel corso del I secolo a.C. è ampiamente attestata 145, con almeno due esponenti, ambedue di rango senatorio, politicamente legati a Giulio Cesare: L(ucius) Volcacius Tullus, pretore (entro l’anno 69 a.C.) e quindi console nel 66 a.C., intervenne in Senato nel gennaio del 49 a.C. a favore di Giulio Cesare; nel medesimo periodo un C(aius) Volcacius Tullus fu legatus di Cesare in Gallia durante la guerra civile 146. La figura centrale è naturalmente la prima, il console del 66 a.C. L(ucius) Volcacius Tullus, con il quale sono legati da vincoli di parentela sia il legatus di Cesare sopramenzionato, sia il Tullo amico di Properzio, sia suo zio, che porta anch’egli il nome di L(ucius) Volcacius Tullus, il quale dovrebbe essere il figlio omonimo del console del 66 a.C. Q uesto secondo Lucio Volcacio Tullo era stato pretore sotto Giulio Cesare nel 64 a.C. e sembra avere ottenuto il governatorato della Cilicia nel 45 a.C., mentre il dittatore progettava la spedizione in Oriente, designazione questa che è indizio di estrema fiducia 147. Poi cade un silenzio dagli CIL XI 2717 b; EDR 127841; CIL XI 2735; EDR 128572 (III sec. d.C.); cfr. Spadoni 2014, 151. 142 Delle attestazioni di Gubbio, oltre alle due di piena età imperiale (CIL XI 5915; EDR 138076: ultimo quarto del I sec. d.C.; CIL XI 5916; EDR 138077: prima metà del II sec. d.C.), ha particolare significato la presenza di un Q (uintus) Volcacius Q (uinti) f(ilius) Capito il quale fu quattuorvir iure dicundo in età augustea (CIL XI 5826; EDR 137549). 143 CIL XI 5350; EDR 141643 (I sec. a.C.); cfr. Spadoni 2014, 151. 144 Cfr. supra pp. 22-23. 145 I Volcacii sono ben attestati a Roma (CIL VI 5155, 5529, 6671, 984 = ILS 7656, 12459, 24767, 29450-29453, 29455-29457, 29535, 39566, 10407a 10), ma anche in Africa Proconsolare (CIL VIII 2568 II, 70; 2569 I, 12; 7847; 25004; 8619; 9260). 146 Volcacio Tullo console nel 66 a.C., in coppia con Marco Emilio Lepido, ebbe il compito di escludere Lucio Sergio Catilina dalla candidatura al consolato (Cic. Planc. 51). Nelle sedute drammatiche del 14/15 gennaio del 49 a.C. intervenne in Senato per proporre una ripresa delle trattative con Cesare; rimasto a Roma, prese parte alla seduta fatta convocare da Cesare al suo arrivo in città l’1 aprile del 49 a.C. Sui due personaggi cfr. Gundel 1961, coll. 754-756; Wiseman 1971, 276, n. 506; Bonamente 2004, 45; Eck 2014, 2 s.; Citroni 2018, 62 s. 147 L’identificazione con il governatore della Cilicia nel 45 a.C. è tuttora oggetto di discussione; cfr. Cairns 2006, 46 nota 40 (favorevole all’identificazione); Eck 2014, 4 (il precedente governatorato della Cilicia non può essere considerato, da solo, un motivo per affidargli l’Asia in un momento importante come quello successivo ad Azio). 141
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anni successivi alla morte di Cesare e durante il secondo triumvirato fino alla vigilia della rottura fra Ottaviano e Marco Antonio. In questa fase cruciale Ottaviano ha concesso a Lucio Volcacio Tullo l’onore di condividere il consolato ordinario del 33 a.C., mentre il progetto politico messo in campo per consolidare i legami con le città italiche preludeva alla coniuratio totius Italiae, un’investitura politica e ideale per il confronto decisivo con Marco Antonio nel 31 a.C. Se l’ipotesi principale resta quella che i Volcaci Tulli siano restati sempre legati ad Ottaviano, quella subordinata è quella che, pur avendo essi manifestato solidarietà alla loro città di origine durante il Bellum Perusinum, si siano rapidamente riallineati con la politica di Ottaviano. In ogni caso si trovavano a fianco di quest’ultimo nel momento dello scontro decisivo con Marco Antonio e questo ne rese solida la posizione in Roma anche dopo Azio 148. Q uesto è il Volcacio Tullo che ha offerto a Properzio l’opportunità di seguirlo nella provincia di Asia, quando si accingeva a governarla come proconsole in un anno tra il 30 e il 27 a.C. 149. Q uesto rapporto del poeta con i Volcaci Tulli, oltre a essere stato importante, si mantenne saldo nel tempo e fu di natura complessa, perché per un verso c’era sproporzione di forza e di prestigio politico se si osservano le due gentes nel loro insieme, per un altro si concretizzò nel rapporto amicale – tra coetanei – con il Tullo amico del Poeta, per cui si è preferito parlare di sodalitas 150. Va osservato al riguardo che tra i membri della famiglia, l’unico cui il poeta si rivolge è l’amico Tullo, anche quando parla dell’incarico politico in Oriente dello zio Lucio Volcacio Tullo. Q uesto legame ha un radicamento risalente nel tempo e la sua dimensione non appare semplicemente ‘locale’, nel senso limitativo di rapporto tra gentes che vivono in municipi vicini 151. Riesaminando i riflessi di questo rapporto di 148 Nell’elegia 14 del primo libro Tullo è un simbolo di ricchezza e di lusso: beve vini di Lesbo in coppe di antiquariato nella sua domus sulle rive del Tevere, con tanto di silvae satae (Prop. I, 14, 1-6). Cfr. Bonamente 2004, 46-50; Cairns 2006, 46-48; Heslin 2010, 58; Eck 2014, 4; Citroni 2018, 61; Fedeli 2018, 132. 149 Sulla datazione cfr. infra pp. 47-48. 150 Bonamente 2004, 47; Citroni 2018, 65-66 (rassegna alla nota 27); Fedeli 2018, 130. 151 Mario Torelli ha messo in evidenza la contiguità, lungo la via Statilia a Roma, della tomba di un liberto della gens Volcacia, di nome L(ucius) Volcacius Tulli l(ibertus) Hospes (CIL VI 6671; potrebbe essere addirittura liberto del con-
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amicizia nell’opera poetica si può capire quanto esso sia stato diverso da un ‘patronato letterario’, ma sia stato così resistente nel tempo, da indurre a riconsiderare che lo stesso rapporto del poeta con Mecenate fu meno duraturo e meno forte rispetto a quello con i Volcaci 152. Nel primo libro Mecenate è assente, e Ottaviano è evocato solo in relazione alla Guerra di Perugia 153; tra i quattro dedicatari: Tullo, Gallo, Basso e Pontico 154, a Gallo sono indirizzate ben quattro elegie a dimostrazione dell’esistenza di un legame anche nei suoi confronti 155. Ma l’identificazione con Cornelio Gallo, uomo politico e guida di un circolo letterario, primo prefetto d’Egitto, sebbene resti un’ipotesi plausibile e seducente, sembra contraddetta dalla definizione di uomo nobilis, cioè di rango senatorio, che Properzio stesso ne dà 156. In ogni caso, ben più incombente è la presenza dell’amico Tullo, in cui si rispecchia in modo significativo il rapporto del poeta con l’intera famiglia dei Volcaci Tulli. A Tullo vengono dedicate ben quattro elegie del primo libro 157, e in particolare la prima e l’ultima, il che significa che egli fu il vero e proprio dedicatario del Monobiblos. La cronologia è importante, anche considerando l’ipotesi di una oscillazione tra il 30 e il 28 a.C. Si tratta degli anni immediatamente successivi alla battaglia di Azio, durante i quali sole), con una serie di sepolture di liberti della gens Propertia; cfr. Torelli 1969, 303 s.; Sensi 1983, n. 58; Forni 1985, 218 s.; Bonamente 2004, 47. 152 A prescindere, naturalmente, da quelli con Augusto. Per la definizione dei rapporti fra Properzio e Mecenate si vedano ora Santini 2005, 135-145 e Cristofoli 2014, 195-215. 153 In Prop. I, 21, 7 sono ricordati i Caesaris ensis che hanno provocato strage a Perugia. 154 Cfr. Boucher 1977, 54. Si veda ora l’analisi sistematica in Citroni 2018, 57-68. 155 Prop. I, 5, 31-32 (Properzio sconsiglia Gallo di corteggiare Cinzia, un modo per alludere al fatto che Gallo è un potenziale rivale, e quindi un poeta); I, 10, 5-6 (Properzio condivide le gioie d’amore di Gallo); I, 13 (gli si rivolge ben tre volte, compiacendosi che anch’egli è preso da un amore coinvolgente); I, 20 (invita Gallo a tutelare gelosamente l’amore per un giovane). 156 Definito nobilis e dotato di priscae imagines di antenati in Prop. I, 5, 23 s. cfr. Citroni 2018, 58 s. (sul significato specifico di nobilis). Francis Cairns opta per un’accezione media di ‘notorietà’ e propone di identificare il Gallo in questione proprio con il poeta Cornelio Gallo, amico di Ottaviano, che sarebbe stato pertanto un ‘patrono’ di Properzio; cfr. Cairns 1983 e Cairns 2006, 76. 157 Prop. I, 1; I, 6; I, 14; I, 22.
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Ottaviano sviluppò una politica di riconciliazione con il Senato, che ebbe esito nell’attribuzione del titolo di Augustus nel gennaio del 27 a.C. 158. I Volcaci Tulli, per la loro provenienza da Perugia, finivano per avere un notevole significato simbolico, di cui il Poeta si mostra consapevole, come ha rilevato Mario Citroni: nel rivolgersi a Tullo nella prima elegia, il Poeta ‘non lo coinvolge in alcun modo nel contesto del mondo elegiaco’, un atteggiamento che riceve un risalto ancora maggiore nella dedica dell’ultima elegia, una brevissima composizione dal tono tragico, una sphragís sulla sua figura di vittima della Guerra di Perugia, iniziata con due versi in cui l’amicizia con il destinatario dell’elegia – e del libro – è proposta in modo lapidario 159. Naturalmente è l’elegia 1, 6 a costituire il caposaldo del rapporto fra il Poeta e Tullo. Lo zio dell’amico Tullo, il Lucius Volcacius Tullus di cui si è già detto, fu designato come proconsole della provincia di Asia, una delle provincie più ricche e importanti sotto il profilo politico e strategico perché era stata sotto il controllo di Marco Antonio fino al 31 a.C. La cronologia di questo proconsolato oscilla tra il 29/28 oppure il 28/27 a.C. Lucio Volcacio Tullo si accingeva pertanto a essere uno degli interpreti più autorevoli del dopo-Azio, con il prestigio del recente consolato del 33 a.C., in coppia con Ottaviano. Properzio stesso registra che il compito del neo-proconsole era quello di rimediare ai danni della politica di Marco Antonio verso i provinciali di Asia. Rivolgendosi a Tullo, che a sua volta avrebbe assunto la carica di legatus proconsulis, parla dell’opportunità di restituire ai provinciali i diritti obliterati 160: 158 Aug. Res gestae 34, 1: rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium trastuli. Cfr. Todisco 2007; La Rocca 2011; La Rocca 2015. Che Augusto abbia fatto ogni sforzo per far dimenticare il periodo tremendo della Guerra di Perugia si può evincere anche dalle Res gestae nelle quali per un verso è obliterata la memoria del Bellum Perusinum e per l’altro c’è l’asserzione di avere indennizzato tutti coloro che avevano subito confische; cfr. Aug. Res gestae 16, 1: Pecuniam pro agris, quos … adsignavi militibus, solvi municipis … Id primus et solus omnium, qui deduxerunt colonias militum in Italia aut in provincis, ad memoriam aetatis meae feci. 159 Prop. I, 22, 1-2: Q ualis et unde genus, qui sint mihi, Tulle, Penates, / quaeris pro nostra semper amicitia; cfr. Citroni 208, 60 s. 160 Eck 2014, 4. Va da sé che l’incarico conferito al fedele Volcacio Tullo può essere stato previsto con anticipo rispetto all’inizio effettivo. Sulla cronologia cfr. Eck 2014, 6 s.; Citroni 2018, 63.
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tu patrui meritas conare anteire secures, et vetera oblitis iura refer sociis (I, 6, 19-20)
Q uesto programma politico, che Properzio attribuisce al caso specifico di Tullo e alla provincia di Asia, di una restitutio della legalità, non è generico, ma riflette un preciso indirizzo della politica di Augusto, che proprio in quegli anni si impegnava a ripristinare le regole giuridiche e istituzionali tradizionali, con un’adeguata orchestrazione della pubblicistica, di cui abbiamo un’espressione significativa in un aureo coniato nel 28 a.C. 161. Il ruolo affidato a Lucio Volcacio è testimoniato altresì da un documento proveniente da Smirne da cui risulta che egli si fece promotore, all’interno del koinòn della provincia d’Asia, di numerose iniziative volte a esaltare la figura del princeps, promuovendone il culto 162. In effetti egli dovette gestire il problema del culto della persona di Ottaviano / Augusto, proprio nella provincia in cui era più forte la tradizione della venerazione dei sovrani ellenistici ed era quindi più difficile attenersi alla linea di prudenza e di equilibrio suggerita da Roma 163. Per ciò che riguarda Properzio, la proposta, fattagli dalla gens dei Volcaci Tulli nelle persone dell’amico Tullo e del suo potente zio, era assolutamente in linea con la prassi secondo la quale un 161 In termini generali si rinvia a Cresci Marrone 1983 e a Zanker 1987 ; Eck 2014, 4-10. Per l’aureo del 28 a.C., noto in due esemplari, cfr. British Museum accession number CM 1995.4-1.1: Obv. IMP- CAESAR – DIVI -F-COS-VI; Rev.: LEGES • ET • IVRA P(OPULO) R(OMANO) • RESTITVIT; cfr. Rich – Williams 1999, 182 (ivi discussione sullo scioglimento della legenda); Abdy – Harling 2005, 175 s.; Mantovani 2008, 52 Tav. 1, nn. 1 e 2; Eck 2014, 8. 162 Il documento è dell’anno 9 a.C. e registra l’iniziativa, promossa dal proconsole Paullus Fabius Maximus, di far coincidere l’inizio ufficiale dell’anno della provincia con il genetliaco di Augusto il 23 settembre del 63 a.C. Nel testo del decreto c’è il richiamo ai precedenti, e cioè alla decisione con cui Volcacio Tullo aveva proposto di onorare Augusto in modo straordinario; cfr. Eck 2014, 5. 163 Il precedente costituito dai koiná andava gestito con avvedutezza e in effetti Augusto concesse poche autorizzazioni; ai cittadini romani residenti nella provincia d’Asia concesse di innalzare un tempio al divus Iulius ed a Roma, rispettivamente a Nicea e in Efeso, mentre ai provinciali permise il culto di Roma e della sua stessa persona nelle città di Pergamo e di Nicomedia. Lo stesso onore non fu concesso alla città di Sardi. Rientra in questo quadro il caso rilevante, anch’esso in continuità con l’uso ellenistico, dell’introduzione di una nuova èra per la provincia di Asia, a partire dall’anno 9 a.C. cfr. Eisenhut 1982, 104-107; Price 1984, 252; 266; Hänlein-Schäfer 1985, 13 s.; 164-168; 175; Campanile M. D. 1993, 207-211; Rich – Williams 1999, 173; 180; Gradel 2002, 109-139; Marcone 2015, 112; 115 s.; Bonamente 2017, 150 s.
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proconsole costituiva a proprio arbitrio la sua cohors amicorum, con cui dividere le responsabilità e i vantaggi, presumibilmente lauti, del prestigioso incarico 164. Per un esponente dell’aristocrazia municipale di Assisi, quale era Properzio, questa opportunità avrebbe consentito un ‘salto di qualità’ sia per recuperare le perdite di beni aviti dopo la Guerra di Perugia, sia per acquisire il rango equestre e magari anche quello senatorio, considerando la presenza in Senato anche di due importanti esponenti della gens Propertia, quali Properzio Postumo e Properzio Celere. Ma Properzio preferì continuare per la sua strada e restare a Roma; nella sua recusatio contrappone la propria scelta, di rimanere fedele all’amore per Cinzia, rispetto a quella di Tullo, di servire la res publica, usando un’espressione (ibis et accepti pars eris imperii: I, 6, 34) di cui non è sfuggita l’affinità con il Carmen de bello Actiaco e con un epigramma di Cornelio Gallo 165. Properzio poté declinare l’invito senza che ciò costituisse una rottura del rapporto di amicizia esistente. Che dal canto loro i Volcaci Tulli espletassero la funzione di amici protettori del poeta senza preoccuparsi, e senza ricevere danno, in termini politici, dal fatto che la poesia di Properzio fosse non pienamente ‘integrata’ e mantenesse vivo il ricordo delle efferatezze compiute da Ottaviano durante la Guerra di Perugia, è stato espresso con grande chiarezza da Paolo Fedeli nel contributo presentato nel 2016, in occasione del XXI Convegno internazionale su Properzio 166. La morte del propinquus, designato con il solo cognomen come esigeva il registro di tipo familiare, è un evento importante con cui il poeta ha delineato sia la propria personalità e la propria poesia, sia il proprio legame con i Volcaci Tulli, nel momento in cui si presentava al grande pubblico di Roma. L’interdipendenza tra l’elegia 21 e la successiva, ripetutamente notata dagli studiosi, mette in luce una profonda solidarietà tra la famiglia del poeta e il dedicatario Tullo riguardo alle dolorose vicende dell’Etruria. La situazione può essere ricostruita sulla base dei seguenti dati: scampato alle spade dei soldati di Ottaviano, Gallo era stato ucciso in un momento successivo, che potrebbe essere stato del saccheg Citroni 2018, 64 s. Zecchini 1987, 21; Cresci Marrone 1993, 227; Bonamente 2004, 48. 166 Cfr. Fedeli 2018, 132. 164 165
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gio, del rastrellamento oppure della resistenza opposta al controllo ordinato da Ottaviano 167. È stato rilevato anche che Gallo chiede al commilitone di non lasciare capire alla sorella le circostanze specifiche della propria morte, di omettere cioè il fatto di non essere caduto in combattimento, ma in modo meno onorevole, ad opera di truppe disperse (ignotae manus), una distinzione questa, che rivela un quadro di valori etico-politici in cui una morte avvenuta non in battaglia costituisce un motivo in più di rammarico e di dolore. Nella distinzione fra i Caesaris ensis, con cui si designano le legioni di Ottaviano, e le ignotae manus che hanno ferito a morte Gallo, Paolo Fedeli ha rilevato un’attenuazione delle responsabilità di Ottaviano, un tono che poteva riuscire gradito ai destinatari del I libro di elegie, e cioè i Volcaci Tulli, circa quattro anni dopo il consolato rivestito nel 33 a.C. e due anni dopo Azio. La chiave interpretativa del complesso rapporto Properzio – Volcaci – Ottaviano sarebbe l’aggettivo Etruscus, che ricorre due volte nel monologo di Gallo morente e esprime il legame tra la famiglia del poeta e quella dei suoi potenti patroni 168. Convergente è la lettura dell’elegia 22, con cui si chiude il primo libro, una firma ed una dichiarazione di autenticità, in cui il poeta dichiara la propria origine, la propria famiglia e la propria terra. La stretta interdipendenza delle due ultime elegie del I libro, fondata sulla sorte del propinquus Gallo insepolto e sulla rievocazione della Guerra di Perugia, trova il punto di convergenza nella distinzione tra l’Etruria e l’Umbria, perché da un 167 L’area etrusca è rimasta in fermento per alcuni anni, e ancora nel 36 a.C. un fedele esecutore della politica di Ottaviano, Gaio Calvisio Sabino, ebbe l’incarico di reprimere moti di ribellione in Etruria. Senatore di origine spoletina, legato a Giulio Cesare, aveva avuto il coraggio di affrontare i congiurati nella Curia Giulia in quel terribile giorno delle Idi di Marzo, insieme a Lucio Marcio Censorino. Ottenuto il consolato nel 39 a.C., negli anni successivi intervenne ripetutamente in Etruria fino al 36 a.C.; cfr. CIL XI 4472 = ILS 925; EDR 123464 [M. Ribecco]; Plin. N.h. XI 190; App. B.c. 5, 547; Cass. Dio 49, 15, 1; Syme 1984, 886-891; Gabba 1986, 100-102; Forni 1986, 102; Bonamente 2004, 41, nota 104; Kavanagh 2009. 168 Martin 2005, 148; Fedeli 2018, 133-135: “verisimilmente, di sbandati o di predoni dediti al saccheggio”, con rinvio a Günther 2012, 30 s. Nella figura del commilitone che fugge per sottarsi alla morte, che gli consente di rivedere i familiari e di svolgere la missione affidatagli dal morente, si è visto un ‘rovesciamento della topica della virtus militare; cfr. Fedeli 1980, 495; Giangrande 1986, 243 s.; Bonamente 2004, 53.
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canto Properzio rivendica apertamente il suo essere umbro, proprio nel distico finale (Umbria … me genuit) mentre la iterata menzione dell’Etruria ha una duplice funzione: per un canto di collocare i Volcacii Tullii in Etruria (si Perusina tibi patriae sunt nota sepulcra) e per l’altro di mettere in risalto drammatico la pulvis Etrusca quale termine medio che rende Properzio un etrusco ‘di adozione’, per la condivisione del sangue versato dal propinquus. La sphragís del Monobiblos è un segnale con una cronologia significativa: è stata scritta a conclusione dell’opera e nello stesso periodo in cui il dedicatario si allontanava da Roma per andare in Oriente, nella provincia di Asia. Il nesso tra la chiusura del libro e la dedica a Tullo mette in chiaro che la pulvis Etrusca era il medium comparationis tra il poeta e la gens dei Volcaci Tulli. In questo resta valida l’interpretazione di Hans-Christian Günther, accolta da Paolo Fedeli, che la fedeltà al proprio dolore non si traduce in un’improbabile opposizione ad Augusto 169. Restano invero alcuni dubbi sull’identificazione di tre personaggi: Gallo, il propinquus del poeta, del quale sappiamo solo quanto ci dicono le due elegie; la sorella di cui non è detto il nome; infine un soldato che riesce a tornare, seppure ferito, a casa 170. Q uanto a Gallo e a sua sorella, si tratta forse di due Propertii? In questo caso Gallus sarebbe il cognome, mentre la sua onomastica potrebbe essere ricostruita nella forma Propertius Gallus, lasciando indeterminato il prenome 171. La sorella sarebbe a sua volta una Propertia, la quale potrebbe, sempre per ipotesi, condividere il secondo nome col fratello e chiamarsi Propertia Galla. Ma il termine propinquus non dà la certezza che avessero lo stesso gentilizio, in quanto avrebbe potuto sussistere un legame familiare con una persona appartenente ad una altra gens. 169 Una rievocazione sempre partecipe del mondo etrusco ricorre in Prop. II, 1, 29 (eversosque focos antiquae gentis Etruscae); IV, 10, 27 (heu, Vei veteres!); nonché in IV, 2, 3 (a proposito di Vertumno). Cfr. Fedeli 1980, 479; Garbarino 1983, 124; Giangrande 1986, 247; Bonamente 2004, 51; Massa-Pairault 2014, 150. 170 Il Gallus della prima elegia (I, 21, 7) è certamente il propinquus della seconda (1, 22, 7). Q uanto al soldato ferito che diventa il messaggero, dovrebbe trattarsi di una figura drammatica fittizia; cfr. La Penna 1977, 9; Paratore 1986, 77; Fedeli 1980, 490 s. 171 Il secondo nome (cognomen) Gallus è in generale molto diffuso. Anche ad Assisi è presente una liberta della gens Cominia che aveva come nome da schiava Galla: CIL XI 8026. È altresì attestata una Gallia, moglie di un esponente della gens dei Satreni: CIL XI 5479.
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In questa direzione va l’ipotesi secondo la quale Gallus sarebbe stato uno zio del poeta e la sorella Galla ne sarebbe stata la madre. Totalmente da escludere invece che si tratti del padre di Properzio (che, sempre per ipotesi sarebbe un Propertius Gallus), perché designare il padre con il termine generico di propinquus sarebbe in contrasto con la drammaticità e l’intensità affettiva dei due passi delle elegie 21 e 22. È pertanto opportuno attenersi a quanto afferma espressamente il poeta e riconoscere che non si possono proporre ulteriori specificazioni 172. Dopo la partenza dei due Volcaci Tulli per la provincia di Asia, insieme ad altri amici e clientes, Properzio, sulle ali del successo ottenuto con il suo primo libro, tra il 29 e il 28 a.C., ha fatto il suo ingresso nel circolo di Mecenate 173. Tra i quattro circoli letterari, che facevano capo rispettivamente a Gaio Cornelio Gallo, ad Asinio Pollione, a Marco Valerio Messalla Corvino 174 nonché, per l’appunto, a Mecenate, quest’ultimo era già in auge da tempo e annoverava, negli anni immediatamente successivi alla battaglia di Azio, autori quali Orazio, Virgilio e Vario Rufo 175. Ma non va sottovalutata l’origine etrusca dell’eques Etrusco de sanguine regum nato ad Arezzo, appunto Gaio Cilnio Mecenate, particolarmente sensibile tanto alla sphragís del Monobiblos, quanto al modo in cui la guerra di Perugia è presentata nella prima elegia del secondo libro, a lui dedicato 176. In essa ricorre invero la recusatio e l’opzione per la poesia d’amore, ma non manca un canone delle imprese di Ottaviano, che include la guerra di Modena, 172 Massa-Pairault 2014, 151 s. (un quadro che si allarga anche a persone attestate a Perugia come C. Firmius Gallus; cfr. AE 1993, 650; EDR 100355; SupplIt 30, 2018, 226-229, n. 11). 173 Cfr. Cairns 2006, 41; Cristofoli 2014, 192. 174 Cfr. Santini 2005, 119-134. 175 La Penna 1977, 12 s.; D’Anna 1986, 57 s.; Della Corte 1986, 23; Paratore 1986, 83; Bonamente 2004, 55-57; Cristofoli 2014, 188; Citroni 2018, 55-69; 79. 176 Prop. III, 9, 1. In termini generali cfr. Sordi 1995, 156 [489] (ivi la definizione di Properzio come “umbro-etrusco” in relazione a Prop. II, 15, 41-46); Bonamente 2004, 60; Santini 2005, 135 s.; Sordi 2012, 209. Sulle ipotesi di altri legami indiretti tra Properzio e Mecenate cfr. Cairns 2006, 21; Cristofoli 2014, 192; Citroni 2018, 75 (critico al riguardo). Françoise-Hélène Massa-Peirault ha ipotizzato che la riappacificazione di Augusto con Perugia – e la rioccupazione della tomba dei Volumni – possono essere il contesto storico in cui Properzio passa dalla conclusione del I libro alla dedica a Mecenate della prima elegia del II libro; la deposizione di Publius Volumnius Violens Cafatia natus può infatti essere datata intorno al 30 a.C.; cfr. Massa-Peirault 2014, 154-156 s.
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la battaglia di Filippi, la vittoria su Sesto Pompeo a Nauloco, la guerra di Perugia e la battaglia di Azio, con le considerazioni che a Filippi si era combattuta una guerra civile (II, 1, 27: civilia busta Philippos) e che la guerra di Perugia aveva colpito in modo irreparabile il mondo etrusco (II, 1, 29: eversosque focos antiquae gentis Etruscae). Sono gli anni in cui Mecenate diventa il promotore della politica culturale augustea; Cassio Dione ha proiettato proprio sul l’anno 29 a.C. il dialogo immaginario tra Ottaviano, Agrippa e Mecenate sulla forma ideale di governo, attribuendo a Mecenate il progetto di Principato nella forma della profezia post eventum 177. Per quanto riguarda Properzio il legame instauratosi con Mecenate è evidenziato dalle dediche e dalle apostrofi a lui ripetutamente indirizzate 178; ma si deve distinguere tra la sodalitas con il potente amico di Augusto rispetto alla sua personale e non mediata adesione a temi e a indirizzi della politica del principe 179, secondo un percorso di più ampia prospettiva e durata 180: dopo la ‘pubblicazione’ del secondo e del terzo libro 181 i rapporti con Mecenate sono già affievoliti e nel IV libro, composto tra il 20 e il 16 a.C., l’interlocutore è diventato direttamente Augusto 182. Bonamente 2004, 56; Santini 2005, 134; Cristofoli 2014, 185-187. Prop. II, 1, 17 (apostrofe a Mecenate); cfr. Byrne 2011, 108 s. 179 Augusto è stato fin dall’inizio un riferimento primario, anche nel periodo che si suole definire mecenaziano. Particolare significato hanno l’elegia 16, in cui è evocata la vittoria di Azio come inizio della pace (2, 16, 41-42: Caesaris haec virtus et gloria Caesaris haec est: / illa, qua vicit, condidit arma manu) e la 31, in cui si propone la visione del tempio di Apollo sul Palatino. Cfr. Bonamente 2004, 63 nota 143; Cairns 2006, 320 s.; Cristofoli 2014, 196; Citroni 2018, 82-83; Fedeli 2018, 149. 180 Anche l’ipotesi che la casa sull’Esquilino, non lontano dagli Horti Maece natiani, sia stata messa a disposizione da Mecenate (Cairns 2006, 258 s.), va considerata in modo critico (3, 23, 24: et dominum Esquiliis scribe habitare tuum; 4, 8, 1-2: Disce quid Esquilias hac nocte fugarit aquosas, / cum vicina novis turba cucurrit agris). Cfr. LTUR II, 165, Domus Sex. Propertii; Coarelli 2001a, 235238; Coarelli 2004, 106-110; Citroni 2018, 79-80 e n. 53. 181 Nel terzo libro, oltre allo sviluppo del l’immagine negativa di Marco Antonio nell’elegia 11 (Prop. III, 11, 31: coniugii obsceni pretium), c’è il compianto per la morte di Marcello, avvenuta nell’autunno del 23 a.C., nonché l’ele gia per Postumo e Galla (3, 12), due dedicatari che rivestono un ruolo importante nella poesia properziana. Cfr. Bonamente 2004, 61 s. (sulla divinizzazione di Marcello). 182 Una svolta nei rapporti tra Augusto e Mecenate e, di riflesso, con i vari poeti del circolo, è databile al 20 a.C. e viene fatta risalite alla notizia fornita 177 178
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Che il legame con i Volcaci Tulli sia stato di diversa natura e persistenza, lo dimostra il fatto che esso torna alla ribalta nel l’elegia 22 del III libro, dedicata a Tullo, al quale il poeta si rivolge ben tre volte (vv. 2, 6 e quartultimo), mettendo in risalto la durata della permanenza a Cizico (III, 22, 1-2: tam multos placuit tibi Cyzicus annos, Tulle). Q uest’ultimo dato si presta a varie interpretazioni e se da un lato Werner Eck ha precisato che la mancanza di riscontri con altri tipi di fonti è chiaro indizio che Tullo sia rimasto in Asia anche dopo aver concluso il proprio mandato, Francis Cairns ha ipotizzato una sorta di esilio volontario 183. In realtà, come ha osservato Mario Citroni, il quadro in cui Properzio vede Tullo è del tutto positivo, sia nel notare che la scelta di restare a Cizico era spontanea (placuit), sia, soprattutto, nel prospettargli un futuro a Roma caratterizzato dall’assunzione di ulteriori cariche pubbliche, secondo la tradizione della sua gens, e dalla formazione di una famiglia per assicurarsi una discendenza. Tornare a parlare di lui e della sua digna gens abituata all’honos (nel linguaggio senatorio: alle dignitates) all’interno del III libro, significa confermare il rapporto con i Volcaci Tulli in un libro, e in un momento, in cui Properzio aveva fatto propri i valori del l’Augusto post-aziaco 184. Naturalmente non c’è contraddizione tra la menzione di Tullo e della sua famiglia e la più marcata attenzione alla politica di Augusto. Proprio nell’elegia 22, mentre Roma viene definita come superiore all’Asia, in piena consonanza con le laudes Italiae virgiliane, il poeta di Assisi opera una significativa ‘contaminazione’ con il riferimento ad uno dei luoghi più suggestivi dell’Umbria quale il Clitunno (23-24: Clitumnus ab Umbro tramite), potenziato dall’apostrofe in cui viene ricordato a Tullo che quella è la sua terra (Haec tibi, Tulle, parens, haec est pulcherrima sedes) 185. Che il IV libro sia decisamente filoaugusteo non è stato mai oggetto di discussione e l’interpretazione di alcune elegie partida Tacito, su un incrinarsi della fiducia di Augusto nei confronti di Mecenate; cfr. Bonamente 2004, 63 nota 143; Citroni 2018, 81, nota 54; Fedeli 2018, 149. 183 Cairns 2006, 76 e 354; Eck 2014, 6-8. 184 Prop. III, 29, 39-42; cfr. Citroni 2018, 68 nota 31. 185 Prop. III, 22, 17-28. Va notato che facendo perno sul l’esaltazione del l’Umbria, il poeta attribuisce allo stesso Tullo una sorta di appartenenza all’Umbria; cfr. Citroni 2018, 72; Fedeli 2018, 146 s.
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colarmente segnate da riferimenti alla politica di Augusto contribuisce a esorcizzare la persistente propensione a misurare la ‘integrazione’ sia per l’entità, sia per la modalità 186. Va comunque tenuto nella dovuta considerazione che non si è trattato di un mutamento né netto, né radicale, in quanto Properzio aveva tenuto presente la figura di Augusto, anche nei momenti in cui era stato più evidente e diretto il suo rapporto con i Volcaci o con Mecenate. In questa ottica, di una pluralità di rapporti con varie personalità, l’elegia dedicata a Cornelia resta emblematica della capacità di dominare con la poesia temi e figure della politica di Roma a diretto contatto con la domus Augusta 187, mentre quella sull’uso di dedicare a Giove Feretrio gli spolia opima contiene una serie di riferimenti indiretti ad Augusto 188; ma sono tante le elegie in cui appare in piena evidenza l’interpretazione ‘romana’ dei miti e della tradizione storica di Roma, come nel caso della sesta elegia, nella quale il ricordo della battaglia di Azio offre l’occasione per mettere in risalto la protezione del divus Iulius e per obliterare Marco Antonio in una sorta di abolitio memoriae 189. Ripetuti sono anche i riverberi del processo di divinizza186 Martin 2005, 180-186; Massa-Peirault 2014, 156-170; Fedeli 2018, 129; 149-151. 187 Dal punto di vista della prosopografia va ricordato in primo luogo che Cornelia è la figlia di Publio Cornelio Scipione, console nell’anno 22 a.C., ed è sorella del Publio Cornelio Scipione (omonimo del padre) che era console nel l’anno 16 a.C. in cui morì Cornelia stessa. Lei stessa era figlia di Scribonia, che Augusto aveva sposato in seconde nozze, avendone l’unica figlia Giulia, prima di divorziare e sposare Livia. Dal canto suo il marito di Cornelia, Lucio Emilio Paullo Lepido, era stato console suffetto nel 34 a.C. e aveva ricoperto nell’anno 22 a.C. la censura in coppia con Lucio Munazio Planco (già legato di Marco Antonio durante la guerra di Perugia), un incarico importante, perché era destinato a consolidare la politica di riconciliazione tra Augusto e la classe senatoria. Il padre Lucio Emilio Paolo Lepido (omonimo) era stato console nel 50 a.C. insieme a Claudio Marcello ed aveva iniziato la costruzione della Basilica Aemilia, il cui completamento fu affidato per l’appunto al figlio, il marito di Cornelia. Come se non bastasse, egli era anche nipote del triumviro Marco Emilio Lepido, messo da parte dopo la Guerra di Perugia, ma cui venne lasciato il titolo di Pontefice Massimo, fino alla morte avvenuta nel 12 a.C. cfr. Bonamente 2004, 68 s. Si veda ora Mayer Olivé 2018. Per l’interpretazione dell’elegia come indice della adesione del Poeta al mondo di Augusto cfr. Fedeli 2014. 188 Prop. IV, 10; cfr. Cristofoli 2016. 189 Prop. IV, 6, 59: at pater Idalio miratur Caesar ab astro; cfr. Šniežewski 1993, 74-76 (con riferimento a III, 4, 1 s.); Cristofoli 2005, 188-204; Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 872-876.
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zione della figura di Augusto, soprattutto in elegie dei terzo e del quarto libro 190. Se si riconsiderano alcuni elementi della prima elegia del IV libro, concepita per presentare il poeta maturo, in una specie di testamento e di manifesto della sua ars, si può dire che non è tanto Mecenate a mancare, ma sono assenti i Volcaci Tulli, che in effetti non ricorrono in alcuna elegia del IV libro. E nel quadro che Horos tratteggia sulla vita di Properzio nella prima elegia sono scomparsi i riferimenti all’Etruria e campeggia la caratterizzazione come umbro 191. Vi compare una nuova formulazione della specificità delle sue elegie (135: at tu finge elegos, fallax opus: haec tua castra) e una complessa definizione della propria personalità. In questo dialogo con Horos, in cui ricorrono, scomposti con un effetto caleidoscopico, tutti gli elementi della biografia e della poesia, va notata la rivendicazione iterata della propria origine e del proprio carattere di Umbro nella cornice di un’elegia la cui protagonista è Roma: egli è il Callimaco umbro, che onora la propria terra d’origine 192. All’astrologo è affidata una replica, in cui si assevera che egli ha le radici familiari in Umbria, messe a fuoco attraverso le immagini della nebbia di Mevania e dei vapori estivi del lacus Umber, per puntare decisamente lo sguardo sui terrazzamenti monumentali di Asis 193. E a proposito della città di origine Horos riprende e conferma ciò che il poeta aveva detto di sé poco prima: che lo considerava in ogni senso umbro, e che il 190 Prop. III, 4, 1: arma deus Caesar dites meditatur ad Indos; III, 11, 65: vix timeat salvo Caesare Roma Iovem; IV, 6 (imperniata sul rapporto AugustoApollo); IV, 11, 60: et lacrimas vidimus ire deo. Cfr. Eisenhut 1982. 191 In questo libro, diversamente dal Monobiblos, in cui Properzio aveva affidato la propria caratterizzazione alle ultime due elegie, è la prima elegia, che ha la funzione di proemio e di presentazione del poeta. 192 IV.1, 63-66: ut nostris tumefacta superbiat Vmbria libris, / Vmbria Romani patria Callimachi! / scandentis quisquis cernit de uallibus arces, / ingenio muros aestimet ille meo! Un quadro delle occorrenze, esplicite e implicite, che riguar dano l’Umbria, in Salvatore 1965, 382-387; cfr. Vivona 1986, 104-110; Coli 1996. Sulla funzione di questa autorappresentazione in rapporto alla ‘poetica’ del IV libro, cfr. Álvarez Hernández 1967, pp. 273-290. 193 IV,1, 121-126: Vmbria te notis antiqua Penatibus edit / (mentior? an patriae tangitur ora tuae?) / qua[m] nebulosa cauo rorat Meuania campo, / et lacus aestiuis intepet Vmber aquis, / scandentisque Asis consurgit uertice murus, / murus ab ingenio notior ille tuo. Cfr. Poccetti 1986 (sul nome antico della città); Cairns 2006, 54-57 (identificazione del lacus Umber con il territorio a valle di Assisi, soggetto a inondazioni ricorrenti); Übner 2008, 347 (funzione di Horos).
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murus di Assisi era stato nobilitato dal suo ingenium. Di grande rilevanza le due iterazioni, di Umbria nei versi 63-64 e di murus nei versi 125-126; iterazioni che riguardano rispettivamente l’appartenenza alla regio Umbria e la propria origo in Assisi 194. Esse si richiamano alla conclusione del Monobiblos, quando, facendo proprio il punto di osservazione del dedicatario Tullo, Properzio aveva proclamato di essere originario dell’Umbria che è vicina (all’Etruria) 195, nonché alla elegia 22 del III libro, già esaminata, in cui aveva addirittura attribuito allo stesso Tullo una qualche appartenenza all’Umbria 196. Anche in questa elegia del IV libro le vicende dolorose della Guerra di Perugia sono presenti, ma sono ricordate con minore drammaticità rispetto alle elegie 21 e 22 del I libro; ridefinendo attraverso le parole di Horos la propria vicenda familiare, segnata dalla morte prematura del padre, da una drastica diminuzione dei beni familiari, dalla deposizione della bulla sotto gli occhi della sola madre e dalla opzione per la poesia, Properzio non menziona Perugia né il mondo etrusco 197. Oltre che dal trascorrere del tempo, ciò può dipendere dal cambiamento degli interlocutori: se a Volcacio Tullo e a Mecenate si poteva chiedere una condivisione della tragedia di Perugia e del mondo etrusco, che aveva toccato, attraverso il propinquus, la famiglia di Properzio (ma in qualche modo anche la famiglia dei Volcacii Tulli), nella prima elegia del IV libro la prospettiva fa invece centro soltanto su Properzio e sulla sua famiglia, guardando insistentemente l’Umbria e obliterando l’Etruria. Q ueste considerazioni, centrate sui passi ‘biografici’ dell’elegia, trovano riscontro nel modo in cui, più in generale, il poeta procede ad una ‘romulizzazione’ della tradizione che ha anche l’effetto di sfumare la
194 Cfr. Mazzoli 2010, 192-194; Santini 2010, 234-237; Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 276-280. 195 I.22, 9-10: Proxima supposito contingens Umbria campo / me genuit terris fertilis uberibus. 196 Cfr. supra nota 185. 197 IV, 1, 127-135: ossaque legisti non illa aetate legenda / patris et in tenuis cogeris ipse lares: / nam tua cum multi uersarent rura iuuenci, abstulit excultas pertica tristis opes. / mox ubi bulla rudi dimissa est aurea collo, / matris et ante deos libera sumpta toga, / tum tibi pauca suo de carmine dictat Apollo / et uetat insano uerba tonare Foro.
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componente etrusca presente nella prima elegia del IV libro 198, sebbene essa rimanga presente nel ricordo di Veio 199, nella figura del dio Vertumnus e nella sua evocatio a Roma, ove la sua statua domina il vicus Etruscus 200.
Considerazioni conclusive Le vicende di gruppi gentilizi di Assisi come i Mimisi, i Properzi, i Petroni e, ancor più, i Cesi oppure i Vibi e i Volcaci Tulli di Perugia, offrono una dimostrazione della pervasività e della solidità dei legami con Roma prima e dopo la guerra di Perugia degli anni 41-40 a.C. Nell’insieme il coinvolgimento dell’aristocrazia delle città umbre appare articolato e disponibile a compromessi e a riappacificazioni, sui quali si riflette anche la comune matrice cesariana dei due eserciti che si confrontarono nella guerra. La stessa Perugia, pur avendo subito la dispersione della propria aristocrazia municipale e una drastica confisca del territorio, appare avere mantenuto dei canali politico-diplomatici sia attraverso le gentes di rango senatorio, come i Vibi e i Volcaci, sia per il tramite di altre famiglie i cui esponenti appaiono avere giocato un ruolo di mediazione nel difficile dopoguerra, fino alla restitutio e all’attribuzione del titolo onorifico di Augusta Perusia 201. Tra le gentes che hanno guidato Perugia dopo il collasso istituzionale ed economico, emergono gli Atilii Glabriones, i Volumni e i Proculei. I primi vantano due esponenti che hanno ricoperto le più alte magistrature della città, in quanto Caius Atilius Glabrio, fu quattuorvir quinquennalis mentre Aulus Atilius Glabrio fu quattuorvir 202. La compresenza del quattuorvirato e del duovi198 Coarelli 1997, 146; Martin 2005, 174-180; Massa-Peirault 2014, 157-170. In Prop. IV, 10, 5-16 Romolo è presentato come ispirato da Giove e come divo; cfr. Cristofoli 2016, 210-214. 199 Prop. IV, 10, 27-30; cfr. Massa-Peirault 2014, 160; Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 1234-1241. 200 Prop. IV, 2; cfr. Massa-Peirault 2014, 165; Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 402-403. 201 Q uattro are dedicate ad Augusto, tutte con il medesimo testo (Augusto / sacr(um) Perusia restituta; cfr. CIL XI 1923; 1922) continuano ad essere al centro del dibattito sotto vari aspetti. Cfr. Sensi 1990, 519 ss. (datazione: 13 a.C.); Eck 1995, 83; Spadoni 2010 [2017], 95. Fondamentale, ora, Letta 2012. 202 a) CIL XI 1934; ILS 2685; ILLRP 638; SupplIt 30, 2018, 224-226, n. 10;
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rato per esponenti della gens dei Proculi e dei Volumni ha indotto a ritenere che essi abbiano svolto un ruolo importante proprio nel periodo della reintegrazione di Perugia dal punto di vista amministrativo e politico; tra di essi sembra emergere Publio Volumnio Violente, quattuorvir e duovir, onorato con una statua eretta dai municipes et incolae 203. Una serie di precisazioni nella storiografia recente, quali l’abbassamento della cronologia delle carriere di Publius Volumnius Violens e di Lucius Proculeius alla media età augustea 204, la connessione tra gli interventi su Perugia e i progressi del progetto di successione a favore di Tiberio, delineano un quadro politico del periodo post bellico più concreto e articolato, nel quale trovano migliore collocazione le vicende dei centri limitrofi, da Arna a Spello e, di conseguenza, Assisi. La chiave di una rilettura della biografia di Properzio è in questa cornice di rapporti con l’aristocrazia municipale di Assisi e delle città vicine, con esponenti del Senato quali i Volcaci Tulli e i Vibi Pansa, nonché, naturalmente, i Properzi di rango senatorio operanti in Roma come Q uinto Properzio Postumo e Properzio Celere. Nella complessa identificazione di tali e tanti legami, i documenti epigrafici finalmente pubblicati e messi a disposizione degli studiosi hanno il pregio di far emergere un Sesto Properzio altrimenti ignoto nonché la notizia della costruzione di un teatro in età augustea in Assisi, offrendo un saldo punto di riferimento ben contestualizzato, che getta una luce nuova sulla recuperata ricchezza della gens Propertia in Assisi, e conseguentemente sui rapporti tra il poeta, la sua città di origine e Augusto. Il notevole incremento delle conoscenze sulle relazioni gentilizie e familiari ha fatto abbandonare da tempo l’immagine di un giovane Properzio allontanatosi dalla città natale per tentare la conquista del successo letterario a Roma, carico di rimpianti EDR 79085: C(aius) Atilius A(uli) f(ilius) Glabrio, / (quattuor)vir quinq(uen nalis), praef(ectus) fabr(um) / delat(us ad aerarium) a co(n)s(ule), praef(ectus) [c]ohor(tis) / I Tyriorum sagittar(iorum), Tettia A(uli) f(ilia) Minore natus. b) AE 1979, 246; SupplIt 30, 2018, 223 s., n. 9; EDR 77395: A(ulo) Atilio L(uci) f(ilio) Glabrioni, / (quattuor)vir(o) municipes et incolae. Cfr. Spadoni 2017 [2010], 211; Sisani 2011, 276-279. La nuova lettura della prima epigrafe fa affiorare, nel matronimico Tettia Minor A(uli) f(ilia), la gens Tettia, presente a Perugia, ma anche in Assisi. 203 Bonamente 2004, 43. 204 Rispettivamente CIL XI 1944; ILS 6618 e CIL XI 1943; ILS 6617.
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e di rancori mai sopiti; i nuovi documenti confermano che quel giovane rampollo di un’aristocrazia municipale ben radicata in Assisi (notis Penatibus) aveva le carte in regola per inserirsi da subito nell’alta società di Roma, quella che gravitava intorno ad Augusto. La ricchezza recuperata dalla sua gens, che ha riassunto stabilmente, almeno fino all’età di Traiano, un ruolo importante nella città, attesta la formazione e la cultura aristocratica della famiglia del nostro poeta, ed offre una nuova prospettiva per considerare quella ‘integrazione difficile’ e quel riserbo, che sono comunque caratteri distintivi della sua raffinata poesia.
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Abstracts La pubblicazione, nel 2004, delle epigrafi rinvenute nella Domus Musae e rimaste a lungo inedite, impone una nuova ricostruzione della biografia di Properzio e dei suoi rapporti con Augusto: se la gens Propertia, dopo avere militato dalla parte di Lucio Antonio nella Guerra di Perugia ed avere subito confische rilevanti dei propri beni, recuperò le risorse finanziarie per costruire un teatro in Assisi, questo significa che il miglioramento dei rapporti con il Principe ebbe una dimensione che non può essere definita solo in termini di adesione ai modelli culturali e letterari augustei. Da qui l’esigenza di riesaminare gli stretti rapporti che legano una gens dell’aristocrazia municipale di Assisi, quale quella dei Propertii, con i suoi pari nonché con una serie di famiglie di rango senatorio ed equestre in auge a Roma. 79
G. BONAMENTE
The publication, in 2004, of the epigraphs found in the Domus Musae, which have remained unpublished for a long time, requires a new reconstruction of the Propertius’ biography and his relations with Augustus: if a gens Propertia, after having played on the side of Lucio Antonio in the Perugia War and having undergone significant confiscations of their assets, recovered the financial resources to build a theater at Assisi, this means that the improvement of relations with the Prince had a dimension that cannot be defined only in terms of adhesion to cultural and literary Augustan models. Hence the need to review the close relationships that bind a gens belonging to the municipal aristocracy of Assisi, such as that of the Propertii, with his peers as well as with a number of senatorial and equestrian families in vogue in Rome.
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ROBERTO CRISTOFOLI Università degli Studi di Perugia
TRA GENERE LETTERARIO E IDEOLOGIA POLITICA: TRADIZIONI E RILETTURE STORICHE IN PROPERZIO 4, 6
Properzio dedica l’elegia 4, 6, che efficacemente Fedeli ha definito come poesia patriottico-celebrativa inserita in un programma callimacheo 1, ad un mito eziologico: l’intento ufficiale è quello di commemorare un aition, ossia l’edificazione del tempio di Apollo sul Palatino, che veniva a collegarsi alla domus Augusti: Musa, Palatini referemus Apollinis aedem: / res est, Calliope, digna favore tuo (vv. 11-12); ma il nucleo della composizione si incentra sulla battaglia di Azio, e soprattutto sull’intervento di Apollo, che ne orienta lo svolgimento e ne determina l’esito, conformemente al carattere di inno mitico dell’elegia, che come tale deve far risaltare il ruolo svolto dalla divinità dedicataria in favore dei suoi protetti. Nella relazione che ho tenuto al convegno properziano del 2004, ho aderito alla ricostruzione di Ferrabino 2, secondo cui la versione che dello scontro troviamo nell’epodo 9 di Orazio, quella cronologicamente più vicina alla battaglia di Azio, andrebbe considerata pre-storiografica ed in buona sostanza autonoma, a differenza di quella già encomiastica che lo stesso Orazio avrebbe prodotto poco dopo con gli eleganti versi alcaici dell’ode 1, 37. Ad indurmi alla condivisione del postulato di Ferrabino era stata la circostanza per cui Cleopatra è descritta mentre si ritira dalla battaglia e fugge con le sue navi dal golfo di Ambracia non
2015, 806. 1924, 467 s.
1 2
I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 81-103 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120101
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R. CRISTOFOLI
per una scelta deliberata, bensì per la presa d’atto che l’esito dello scontro era ormai segnato in favore di Ottaviano, che pure non aveva avuto fino ad allora gioco facile. Ad essere squalificati erano l’Egitto e i suoi simboli, ma non c’era alcuna traccia di una squalifica specificamente di Cleopatra al momento della battaglia. In realtà, mi sembra oggi più difficile pensare che possa essere stata autonoma una versione delle vicende aziache prodotta da un poeta, Orazio, che quasi certamente non era stato presente nei luoghi dello scontro, e che aveva appreso i fatti probabilmente da Mecenate (Porfirione, in ad Hor. Epod. 1, 7, attesta che Orazio era a Roma dopo aver ottenuto da Ottaviano una militiae vacatio 3; doveva essere a Roma e non ad Azio anche Mecenate, al quale Ottaviano aveva affidato l’Urbe per il periodo della sua assenza 4); in ogni caso, mi trovo meno propenso a pensare che, indipendentemente dalle fonti sui fatti e dal carattere di quanto appreso, potesse rimontare a un’impostazione autonoma e costituire una versione delle vicende aziache non filtrata dalla propaganda la composizione di un poeta che faceva parte del Circolo letterario patrocinato dal reggente di Roma per conto di Ottaviano, e che andava a comporre su quella battaglia un epodo da divulgare, oltretutto nel ruolo di prima lettura degli eventi stessi 5. In realtà, l’epodo 9 oraziano segna comunque almeno due aspetti. Da un lato inaugura la lettura ideologica dello scontro promossa da colui che da allora in avanti, per gli antichi, fu il suo indubbio vincitore, mentre vari studiosi moderni hanno pensato, al contrario, che ad Azio fosse stato Antonio a centrare l’obiettivo della giornata, di portata ridotta, ma elaborato avendo alle spalle mesi di insuccessi negli scontri preliminari, e i sempre più frequenti contrasti tra la componente egizia e la componente romana delle sue milizie: rompere il blocco e tornare in Egitto Cfr. Tarn 1931, 176. Vd. Vell. Pat. 2, 88, 2 e Cass. Dio 51, 3, 5; Byrne 2016 esclude la presenza di Mecenate ad Azio, e la ipotizza al limite solo a Brindisi, magari insieme ad Orazio. 5 Cfr. Tarn 1931, 74 ss. (176: «… it was written immediately after [scil. the battle]»); Ferrabino 1924 afferma la derivazione di Orazio da Mecenate e dal suo Circolo solo in riferimento all’ode 1, 37 (specificamente per il v. 13, dove viene menzionato l’incendio delle navi antoniane: 465). 3 4
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senza che Ottaviano e Agrippa, che pure erano schierati all’uscita del golfo di Ambracia, riuscissero a impedirglielo (con le loro navi più agili 6, ma forse inferiori di numero 7). Q uesta è l’inter6 Alcune testimonianze, secondo Murray-Petsas 1989, 144 e 150 s. influenzate per questo aspetto dalla versione propagandistica dello stesso Augusto, concordano sulla mole delle navi di Antonio come notevolmente maggiore rispetto a quella delle navi di Ottaviano (Prop. 3, 11, 44; 4, 6, 47; Vell. Pat. 2, 84, 1; Plut., Ant. 66, 1-2; Flor. 2, 21, 5-7; Cass. Dio 50, 29, 1-4), le quali, però, avrebbero potuto contare su una manovrabilità e velocità superiori: a quanto si può desumere dalle fonti, le navi della flotta di Ottaviano – che era alla testa di imbarcazioni comunque più piccole delle polyereis di Agrippa – erano, dal punto di vista numerico, le stesse uscite vincitrici dall’ultimo scontro con Sesto Pompeo (Cass. Dio 50, 19, 3), ma appunto questa volta si doveva trattare di navi meno robuste (Cass. Dio 49, 1, 2; 3, 2) di quanto non lo fossero state quelle che affrontarono Sesto (cfr. App., Civ. 5, 106, 439; 108, 445): in alternativa, se non si vuol pensare a un cambio della tipologia di navi da parte di Ottaviano, si può presupporre allora un loro tonnellaggio che, pur consistente, era tuttavia inferiore rispetto a quello delle navi di Antonio – ciò che sembra indicato da Cass. Dio 50, 23, 2: ἐπειδὴ γὰρ τῷ τε μεγέθει τῶν τοῦ Καίσαρος νεῶν καὶ τῷ πλήθει τῶν ἐπιβατῶν αὐτοῦ ὁ Σέξτος οὐχ ἥκιστα ἥττητο, τά τε σκάφη κατεσκεύασε πολὺ τῶν ἐναντίων ὑπερέχοντα (τριήρεις μὲν γὰρ ὀλίγας, τετρήρεις δὲ καὶ δεκήρεις καὶ τὰ λοιπὰ τὰ διὰμέσου πάντα ἐξεποίησε (cfr. anche 50, 29, 1, dove Ottaviano arringa i soldati dicendo: μὴ γάρ που τὸ μέγεθος τῶν σκαφῶν αὐτῶν ἢ τὸ πάχος τῶν ξύλων ἀντίπαλον ταῖς ἀρεταῖς ἡμῶν εἶναι νομίζετε; cfr. anche 50, 29, 2-4). Q uanto alle navi di Antonio, alcuni hanno inteso ridimensionarne comunque la mole: «Antony’s fleet was less a monstrous collection of ‘sixes’ and ‘nines’ […] than a moderately heavy Ptolemaic fleet of the late Hellenistic Age where vessels like ‘threes’ and ‘fives’ predominated» (Murray 2002, 342, che alla p. 344 definisce le navi di Antonio come «medium-sized polyereis»). 7 Sul problema del numero di navi con le quali Antonio affrontò la battaglia di Azio cfr. tra gli altri Laspe 2007, 510 ss. e Lange 2011, 612 ss. Le testimonianze confliggono: Plutarco, in Ant. 56, 2, afferma che prima della campagna di Grecia le navi di Antonio e Cleopatra nel loro complesso ammontavano ad 800 (la regina ne aveva fornite 200), compresse quelle onerarie; il biografo specifica poi (61, 1) che nel 32, al momento della partenza per la guerra, Antonio poteva contare su non meno di 500 μάχιμοι νῆες (e su 19 legioni), contro le 250 navi di Ottaviano e Agrippa (61, 4); tuttavia, gli equipaggi erano incompleti (62, 1); in vista della battaglia di Azio, infine, Antonio avrebbe fatto bruciare tutte le navi egizie tranne 60 (64, 1), e al termine della battaglia Ottaviano avrebbe catturato 300 navi nemiche (68, 2, e cfr. Aug., R.G. 3, 4: un numero che potrebbe spiegarsi anche secondo Lange 2011 – sulla scia di Kromayer, tra l’altro in 1933, 365 – nel senso che «it represented a total of all the ships that Augustus claimed to have captured over the whole campaign of Actium, including the protracted preliminaries as well as the battle itself»: 615; cfr. anche Murray-Petsas 1989, 138 s.). Cassio Dione conferma l’incendio antoniano di un numero non precisato di navi, ma lo riconnette ai progetti di fuga in Egitto (50, 15, 4); attribuisce poi ad Antonio che parla ai soldati l’espressione della possibilità di un numero di navi più o meno corrispondente per i due schieramenti (18, 5: secondo Lange 2011, 614, n. 31, «so implying that in fact they are not equal in number»), ma ad Otta-
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pretazione che, suggerita da una parte della tradizione di Cassio Dione 8 e promossa da Kromayer più di cento anni fa, dopo essere stata controbattuta si è infine affermata fra la maggior parte degli studiosi 9, pur nell’evidenza di alcuni limiti, costituiti fra le altre cose dalla circostanza per cui Antonio perse comunque la maggior parte della flotta (con i soldati imbarcati) – ne avrebbe fatta bruciare una parte ancor prima della battaglia, composta probabilmente da navi ormai malridotte 10 – e abbandonò al suo destino la componente romana del suo esercito, e in ogni
viano l’espressione della superiorità numerica della flotta di Antonio (50, 28, 6). Floro attribuisce un numero di navi doppio ad Ottaviano rispetto ad Antonio (2, 21, 5: nobis quadrigentae amplius naves, ducentae non minus hostium), mentre Orosio (che anche secondo Lange 2011, 614 attingeva per questi dati a Livio) annovera per Ottaviano 230 navi rostrate e 30 senza rostri, per Antonio 170 navi (6, 19, 8-9: ducentae triginta rostratae fuere Caesaris naves et triginta sine rostris […] Classis Antonii centum septuaginta navium fuit). Se si prescinde dalla divergente ed isolata testimonianza di Floro (cui si attiene invece Laspe 2007, 512), si può dunque presupporre che Ottaviano impiegò ad Azio una flotta di circa 250-260 navi, mentre ben più complicato è stabilire il numero pur approssimativo delle navi schierate da Antonio (divise in squadre di 60 ciascuna: Tarn 1931, 190 s.), che secondo una parte della tradizione potrebbe essersi aggirato intorno a 170230, e secondo un’altra parte intorno al doppio: privilegiare le cifre che per la flotta di Antonio dà Orosio rende miglior ragione delle dinamiche e dell’esito dello scontro (e secondo Laspe 2007, 510 il dato plutarcheo in Ant. 64, 1 di 22000 fanti e 2000 arcieri imbarcati da Antonio si accorda bene con il dato di Orosio di 170 navi; per l’inferiorità numerica delle navi di Antonio cfr. anche 518), e del resto anche Plutarco afferma che τρεῖς γὰρ ἅμα καὶ τέσσαρες περὶ μίαν τῶν Ἀντωνίου συνείχοντο (Ant. 66, 3), ma certamente non è facile scartare a cuor leggero la tradizione prevalente di Plutarco (contra, cfr. Murray-Petsas 1989, 133 s., che però si attengono alle 400 navi attestate da Floro per la flotta di Ottaviano e non attribuiscono ad Antonio più di 230 navi; Lange 2011, 615: «Plutarch’s 500 should be rejected») – puntellata come si è visto anche da Cassio Dione, almeno in 50, 28, 6 –, che Tarn ha cercato di giustificare presupponendo per Antonio ad Azio un numero di navi compreso tra le 400 e le 415 dopo le perdite a Leucade e a Patrasso (1931, 178; 191, anche se l’argomento per cui il numero di 170 navi attestato dalla tradizione liviana sarebbe stato riferito solo a quelle dell’ala destra è debole); cfr. anche il calcolo – che procede per vie diverse – di Ferrabino 1924, 460. 8 50, 14, 4 ss. (15, 3: … ἀλλ’ ὡς ἐπὶ ναυμαχίαν παρασκευαζόμενοι, ἵνα ἅμα, ἄντι ἀνθίστηται, βιάσωνται τὸν ἔκπλουν (vd. anche § 4); 30, 3-4. 9 Cfr. tra gli ultimi Osgood 2006, 374; Laspe 2007; contra, Ferrabino 1924; Tarn 1931; di recente, Lange 2011. 10 Plut., Ant. 64, 1; Cass. Dio 50, 15, 4; non crede a ciò Tarn 1931, 178 s.; 183 s.; 192; 195, che attribuisce piuttosto ad Ottaviano l’incendio di molte delle 300 navi di Antonio di cui si impossessò al termine dello scontro; contra, tra i vari altri Murray 2002, 344.
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caso diciannove legioni e dodicimila cavalieri (Plut., Ant. 68, 3; cfr. 61, 1). Dall’altro lato l’epodo costituisce il primo passaggio dalla propaganda di poco precedente ad Azio del vincitore stesso (anni 33-32), che pure in molti tratti permane (ad esempio nella deplorazione per Antonio resosi schiavo di Cleopatra, con i suoi soldati asserviti agli eunuchi egizi 11), alla tradizione ottavianeoaugustea post-aziaca, che sarebbe stata elaborata da allora in avanti in progresso di tempo con continue ridefinizioni fino al momento della properziana 4, 6, e che già qui cominciava ad affiorare nella salvaguardia del presupposto già accennato, per cui una Cleopatra tutt’altro che logorata dalla licenziosità era stata costretta a una fuga che non avrebbe mai scelto. Già un particolare deve sconsigliare i tentativi di considerare autonoma la lettura degli eventi dell’epodo 9 oraziano: la fuga di Cleopatra non è appunto ricondotta a viltà, e ciò si accordava molto bene col presupposto per cui ad Azio Ottaviano aveva affrontato Cleopatra affiancata da un Antonio a sua volta ancora integro e valoroso; per salvare questo presupposto, come ricordava la tradizione storiografica vicina al primo princeps, a partire da prima della metà degli anni Trenta Ottaviano faceva finta di credere ai messaggi trionfalistici del collega di triumvirato, e spacciava gli insuccessi orientali di Antonio per successi (Cass. Dio 49, 32, 2; Flor. 2, 20, 10, 10); solo a breve distanza dallo scontro finale con Antonio – quando le fiamme degli attacchi polemici reciproci divamparono, e la propaganda ottavianea si incentrò anche sul testamento di Antonio e sui suoi progetti egittocentrici –, Antonio divenne ‘l’incapace’ che αἴσχιστα δὲ ἀπὸ τῶν Πραάσπων ἀποκεχώρηκε (50, 27, 5: tale ritratto del competitore, comunque, Ottaviano dovette utilizzarlo soprattutto presso i propri soldati durante la campagna di Grecia), ma subito all’indomani di Azio la degenerazione dell’ultimo Antonio venne ritrattata come argomento di polemica, e sostituita con la sua inspiegabile scelta di privilegiare usi, costumi e valori orientali per l’assoggettamento a una donna che gli aveva fatto dimenticare la patria. 11 Vv. 11-14: Romanus eheu – posteri negabitis – / emancipatus feminae / fert vallum et arma miles et spadonibus / servire rugosis potest.
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Virgilio aveva ribadito nello scudo di Enea che Antonio arrivava ad Azio victor ab Aurorae populis et litore rubro (v. 686), ma Servio, ad loc. affermava candidamente: Antonium Parthi postea pepulerunt; sed videtur hoc ideo tacuisse, ne Augustus inbellem superasse videatur. Nel momento in cui, con la coniuratio totius Italiae, Ottaviano partiva per il fronte aziaco, oltretutto non sapendo ancora se avrebbe dovuto affrontare una battaglia navale o un rischioso scontro di terra con il comandante dell’ala sinistra di Cesare a Farsalo e il vincitore di Filippi, aveva tutto l’interesse a presentare la guerra come temibile: non tanto per avere una scusante nel caso di una sconfitta che non gli avrebbe più lasciato alcuna parte, ma per esaltare una eventuale vittoria contro un esercito che aveva nelle divisioni interne tra la componente egizia e quella romana il tallone d’Achille. Cassio Dione, che da storico su Roma antica in lingua greca predilige come delle fonti di primario ricorso le opere memorialistiche dei grandi personaggi, probabilmente attingendo per questo aspetto ai Commentarii de vita sua di Augusto attribuisce allo stesso Antonio prima di Azio un discorso, in cui il comandante si descrive all’apice dell’età e dell’esperienza, e di una carriera costellata di successi, e dipinge invece i nemici come inferiori da tutti i punti di vista (50, 16 ss.). Lo stesso Virgilio, in una sezione dell’Eneide composta non oltre il 25 a.C., recepisce appieno il presupposto oraziano di cui sopra, per il quale Cleopatra non fu vile – un presupposto confermato dalla morte coraggiosa cui non si sottrasse una volta tornata in Egitto –, ed Antonio, dal canto suo, era ancora un generale di valore inalterato (8, 685 ss.). L’accusa a Cleopatra di aver ceduto pavidamente al timore e di essersi abbandonata a una fuga vigliacca mentre l’esito della battaglia era ancora impregiudicato dovette nascere nel contesto di una tradizione che non definiremmo come ostile a OttavianoAugusto, ma senz’altro come non allineata alla rilettura della battaglia di Azio che al vincitore delle guerre civili stava a cuore fosse divulgata e recepita: la vittoria si configurava in tal caso, più che come un merito di Ottaviano, piuttosto come un demerito dei suoi avversari. A nostro vedere questa tradizione, che è ben recepita da Plutarco (Ant. 65 ss.), Floro (2, 21, 1 ss.) e Cassio Dione (50, 33, 1 ss.), e di cui permangono tracce nelle Periochae 132-133 86
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liviane, proprio nello storico patavino potrebbe aver avuto la sua prima voce, tanto più che i libri sono di quelli la cui pubblicazione venne rinviata post excessum Divi Augusti 12. Non deve stupire, alla luce della maniera in cui operavano gli storiografi, che nelle opere degli stessi autori possano poi rinvenirsi particolari e affermazioni che vanno invece ricondotti alla tradizione augustea: ciò che conta è notare come in una tradizione troviamo Antonio ridotto all’ombra di se stesso e asservito a una regina egizia vigliacca e responsabile di averlo portato alla sconfitta fuggendo nel bel mezzo di una battaglia ancora impregiudicata, e in un’altra Antonio che, con tutto il suo valore, e nonostante una regina indomita e coraggiosa al suo fianco, ad Azio dovette rassegnarsi a una fuga inevitabile per la superiore forza di Ottaviano e di tutta la civiltà di cui l’erede di Cesare si era fatto antesignano (e a quest’ultima tradizione dovette apportare il proprio contributo in forma di autorevole sanzione proprio Augusto nei Commentarii De vita sua). In questa duplicità di tradizioni di segno molto dissimile, Properzio non attuò scelte sempre univoche nei suoi libri di Elegie: in quelle del secondo (composto negli anni 27-25) e soprattutto del terzo libro (composto negli anni 25-22), il poeta umbro aveva adottato almeno alcuni dei postulati della tradizione sgradita ad Ottaviano-Augusto, quali Azio come estrema propaggine delle guerre civili (2, 16, 37 ss., con il collegamento tra la morte di Pompeo in Egitto e la battaglia di Azio), Antonio vittima della sua passione (2, 16, 39; 3, 11, 31), e la fuga di Cleopatra – presentata qui come una donna voluttuosa (3, 11, 29-30; 3, 11, 39: meretrix) a differenza che in Virgilio, ma anche dell’epodo 9 oraziano – che compromette una battaglia ancora impregiudicata (3, 11, 51); si può pensare che, obliterando il probabile precedente virgiliano, Properzio in questa fase possa aver praticato un trattamento abbastanza autonomo della vicenda aziaca, senza astenersi dal recepire anche elementi della propaganda pre-aziaca di Ottaviano e degli attacchi portati contro l’Antonio che in Egitto distribuiva i possedimenti romani fra Cleopatra e i suoi figli, ma soprattutto rilanciando le recriminazioni probabilmente diffuse fra i Romani del Cfr. Canfora 1993, 189 ss.
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tempo, ben più che conformandosi alle linee ideologiche che dello scontro contro Antonio e Cleopatra la propaganda post-aziaca del vincitore andava elaborando. Nel quarto libro, invece, Properzio rivede l’interpretazione della vicenda in una maniera sostanziale, alla luce di un allineamento con Augusto e con la sua ideologia, che fin dai nostri primi studi su questo autore abbiamo ritenuto essere tanto progressivo quanto effettivo, e che andò perfino oltre quello virgiliano, anche perché frutto della possibilità di recepire la definizione ultima della lettura della storia veicolata dal princeps. Proprio con il quarto libro properziano, infatti, si entra in quella fase del Circolo dei poeti augustei in cui il fondatore, Mecenate, è stato sostituito dallo stesso Augusto nell’opera di orientamento della produzione: se il princeps lasciava libertà ai suoi poeti quanto ai soggetti con cui cimentarsi, le sue attese in merito all’allineamento con precisi e ben individuati nuclei ideologici si fecero in ogni caso più stringenti. Nell’elegia properziana 4, 6 del 16 a.C. Antonio, in Virgilio ancora presente con tutti gli onori (Aen. 8, vv. 685 ss.) e biasimato solo per aver portato al seguito una Aegyptia coniunx peraltro scevra di quella lascivia attribuitale da altre tradizioni, scompare dalla scena insieme alle accuse nei suoi confronti; Properzio, che non si era posto in maniera troppo assillante il problema nemmeno nelle elegie precedenti, non si occupa pertanto della reputazione militare di Antonio nel momento in cui arrivava ad Azio, ed anzi cancella ogni riferimento al triumviro 13. Si è pensato che ciò sia dovuto all’opportunità di non rievocare la triste fine di un grande personaggio della storia romana, ma spiegheremmo la circostanza piuttosto sulla base dell’allinea mento properziano con uno dei più raffinati e complessi nuclei ideologici della propaganda pre-aziaca di Ottaviano: quello, sconfessato da altri autori (vd. la Per. 133 liviana, dove si legge che Ottaviano celebrò i trionfi dell’agosto del 29 imposito fine civilibus bellis altero et vicesimo anno), per cui le guerre civili andavano considerate concluse con la vittoria di Ottaviano stesso su Sesto Pompeo, e proprio per tale merito il figlio adottivo di Cesare
Cfr. tra gli altri Arkins 1989, 251.
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aveva ottenuto quel consensus universorum 14 che autorizzava lui, non più triumviro, a condurre una guerra presentata come rivolta contro un popolo straniero il quale, come i Parti nel caso di Labieno, si poteva malauguratamente avvalere di un transfuga romano, di cui un’elegia eziologica era pertanto legittimata a non occuparsi. Come lo stesso Ottaviano afferma nel discorso che alla vigilia di Azio gli attribuisce Cassio Dione, Cleopatra era la nemica di Roma per le sue azioni e in quanto straniera, mentre Antonio era pur sempre un «concittadino» che si poteva sperare «avrebbe cambiato idea» (50, 26, 4). Resta comunque il fatto che, togliendo Antonio dalla scena ed andando per questo aspetto nel senso di un allineamento con Augusto avanzato ad un livello ulteriore rispetto a Virgilio, Properzio però privava Ottaviano della possibilità di essere presentato nell’elegia esplicitamente come il vincitore di uno dei più grandi condottieri di Roma, e il dato deve essere recuperato a un’impalcatura ideologica evidentemente complessa, e del pari più avanzata rispetto a quella virgiliana. L’elegia 4, 6 si caratterizza altresì per scelte contenutistiche ulteriori, che la connotano peculiarmente oltre e ben più di quanto non facesse già l’assenza di Antonio. Essa in primo luogo lascia fuori dallo svolgimento della battaglia Marco Vipsanio Agrippa 15, obliterato al pari di Antonio. Eppure Agrippa, cui vennero affidate le navi di stazza più grande della flotta di Ottaviano, anche ad Azio era stato lo stratega navale di Ottaviano 16, ed in Virgilio affiancava infatti il futuro princeps: ad Azio, scrive Virgilio, le tempie di Agrippa risplendevano della corona navale coi rostri in una maniera quasi concorrenziale a quella del teorico comandante 17.
14 La coniuratio totius Italiae del 32, per la quale vd. R.G. 25, 2, e 34, 1: postquam bella civilia extinxeram. 15 Cfr. fra gli altri Lucifora 1999, 18 s. 16 Cfr. Servio, ad Aen. 8, 682: apud Actium Antonium et Cleopatram navali certamine prope ipse superavit: ob quod meruit etiam gener esse Augusto. 17 Vd. Aen. 8, vv. 682-684: parte alia ventis et dis Agrippa secundis / arduus agmen agens; cui – belli insigne superbum / tempora navali fulgent rostrata corona, e Aen. 8, vv. 678-681: hinc Augustus agens Italos in proelia Caesar / cum patribus populoque, penatibus et magnis dis, / stans celsa in puppi; geminas cui tempora flammas / laeta vomunt patriumque aperitur vertice sidus.
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È stata notata la generale sfortuna di Agrippa come presenza nella produzione dei poeti del Circolo, nonostante dal 18 detenesse, oltre all’imperium proconsulare, anche la tribunicia potestas, e sembrasse avviato alla successione ad Augusto. Virgilio, che pure – come si è visto – lo presenta ed esalta nel contesto aziaco dell’Eneide, nondimeno in un’altra parte del poema non lo include fra gli eroi della profezia di Anchise; Orazio (Carm. 1, 6) produsse una recusatio di fronte alla prospettiva di cantare le imprese di Agrippa, che lascia piuttosto a un altro poeta, Vario Rufo; non esitiamo a presupporre che, a livello generale, la rivalità sul piano politico tra Agrippa e Mecenate, probabilmente entrambi al vertice di una pars 18 e dedicatari dell’autobiografia di Augusto 19, abbia pregiudicato la possibilità di un ruolo importante dell’ammiraglio all’interno della poesia dei membri del Circolo 20. In questo caso, tuttavia, l’assenza di Agrippa può più facilmente spiegarsi come un tributo all’ideologia stessa della composizione. La battaglia di Azio, intesa come uno scontro tra civiltà, viene infatti rievocata da Properzio nella 4, 6 principalmente nel suo livello di teomachia, sulla scia solo parziale di Virgilio, nel cui trattamento dello scontro uomini e dei erano invece ancora compresenti ad uno stesso livello: nell’elegia properziana, al contrario, la flotta egizia è Teucro damnata Q uirino (v. 21; cfr. 2, 16, 38: Actia damnatis aequora militibus), e la freccia di Apollo deve solo essere seguita da Ottaviano predestinato alla vittoria; lo svolgimento elegiaco era stato ben diverso nella 3, 11, dove gli dei non avevano una parte decisiva nella vittoria romana, agevolata piuttosto dalla fuga di Cleopatra (vd. vv. 51 ss.), e la cui finalità ideologicopoetica può essere individuata ben più nella condanna di Antonio e Cleopatra, del loro amore e dei loro progetti, che non nel l’esaltazione di Ottaviano. Il ruolo riservato al dio Apollo nel contesto aziaco da parte di Properzio 4, 6 è funzionale a sviluppare ed a dare sanzione a un presupposto che in nuce era contenuto già nella prima testimonianza sullo scontro aziaco: Orazio, nell’epodo 9, contrassegnava Sealey 1961, 105-108. Plut., Comp. Dem.-Cic. 3, 1. 20 Cfr. Cristofoli 2014, 202 ss. 18 19
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l’Egitto con il ricorso alle immagini degli eunuchi e della zanzariera (vv. 13-16: … et spadonibus / servire rugosis potest / interque signa turpe militaria / sol aspicit conopium), e Properzio a sua volta introduce qui il dio che patrocina la civiltà, Apollo, nell’atto di guidare alla vittoria i Romani; la sua entrata in scena è enfatizzata dal cum inversum all’inizio del v. 27, e, rispetto alle trattazioni poetiche precedenti, Properzio attribuisce proprio ad Apollo un intervento risolutivo. L’inserimento in sé degli dei a fianco del vincitore romano costituisce un aspetto importante della elaborazione propagandistica post-aziaca da parte della poesia augustea: esso, attuato da Virgilio, non aveva invece trovato spazio nelle composizioni poetiche più vicine nel tempo ai frangenti della battaglia, come il citato epodo 9 oraziano, ma anche, sempre restando al Venosino, l’ode 1, 37, che dovette venire composta non oltre il 30, e probabilmente sulla eco della conquista ottavianea di Alessandria (ed infatti, assecondando la propaganda pre-aziaca di Ottaviano, poneva l’accento sui progetti nefasti per Roma di Cleopatra: vd. vv. 6 ss.); i meriti di Apollo ad Azio non sono ricordati nemmeno dall’ode 1, 31, che Orazio dedica al dio. Ottaviano fece costruire in onore di Apollo un tempio, che appunto è l’aition dell’elegia 4, 6: occorre però notare, da un lato, che il tempio in onore di Apollo era stato votato fin dal 36 (Vell. Pat. 2, 81, 3; Cass. Dio 49, 15, 5) per la vittoria su Sesto Pompeo, anche se non venne dedicato che nell’ottobre del 28 21; e dall’altro lato che, nonostante Ottaviano, subito dopo la battaglia sul mare di Azio, avesse consacrato ad Apollo delle navi, lo avesse onorato con molte dediche ed anche con dei giochi nella nuova città greca, libera e forse foederata, di Nicopoli 22, ed ancora avesse ivi ingrandito il tempio in suo onore 23, tuttavia il luogo 21 Vd., oltre a Properzio 2, 31, l’inno ad Apollo di Hor., Carm. 1, 31, che si riferisce proprio alla consacrazione di quel tempio. 22 Vd. Serv., ad Aen. 3, 501; cfr. Ruscu 2006, 249 (con rilievo dato al duplice carattere della città fondata da Augusto: una città greca «created through a huge synoikismos» e nel contempo una colonia per i veterani di Augusto; cfr. inoltre 254: «… the city founded by Augustus on the promontory of Actium was neither a Greek polis nor a Roman colonia, but both»), e in generale Lange 2009, 99 ss. 23 Vd. le notizie in Strab. 7, 7, 6; Suet., Aug. 18, 2; Cass. Dio 51, 1, 2-3, e cfr. già Verg., Aen. 6, 69-70; notevole analisi ragionata delle testimonianze, tra loro in contraddizione, in Murray-Petsas 1989, 89 s. – i due studiosi hanno sca-
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– il pendio verso sud dell’odierna collina di Mikhalitsi, qualche km. a nord di Nicopoli – dove era sorto il suo accampamento collegato al porto da un percorso protetto da un muro 24, e dove era stato collocato proprio il suo praetorium 25, pur sorgendo all’interno di un’area collinare sacra ad Apollo venne consacrato non già a questo dio, ma a Marte e a Nettuno 26. Conferma a questo riguardo la testimonianza di Suet., Aug. 18, 2 27 (e sembrerebbe smentire quella di Cass. Dio 51, 1, 3 28) l’iscrizione – precedente al gennaio del 27 perché manca il cognomen Augustus (il testo inizia con Imp Caesa]r Div[i Iuli] f ), e probabilmente da collegarsi alla chiusura del tempio di Giano del gennaio del 29 29 – insolitamente solo in latino e posta a Nicopoli sul monumento per la vittoria di Azio innalzato sulla collina dell’accampamento di Ottaviano. Tale monumento consisteva, anche per la pendenza e l’instabilità del terreno, di due terrazze «as a kind of open-air sanctuary» 30: una prima e inferiore, con un muro massiccio di sostegno in opus caementicium 31, era decorata con i rostri delle navi di Antonio e recava, «above the rams on the retaining wall» 32, l’iscrizione latina di cui si è detto poco supra; in cima al muro di sostegno si apriva poi la seconda e più ampia terrazza, che ospitava al cenvato e riesaminato l’area del complesso monumentale dopo Philadelpheus nel 1913 e Rhomaios negli anni Venti, e prima del gruppo coordinato da Zachos, i cui lavori hanno preso il via nel 1995. 24 Cass. Dio 50, 12, 4. 25 Come pensa Gagé 1936, 52. 26 Murray-Petsas 1989, 87 ss.: «As Strabo tells us, the hill on which the monument was built, and which lay behind the temenos of the Aktia, was itself sacred to Apollo. On this hill, a temenos was specifically set aside by Octavian at the former site of his camp, decorated with naval trophies, and dedicated to Neptune and Mars»; ciò, secondo Gagé 1936, 72 ss., a ricordare – come l’iscrizione di cui diciamo subito infra – che Ottaviano aveva sconfitto Antonio con cretamente per terra e per mare; cfr. anche Hor., Epod. 9, v. 27. 27 … locum castrorum, quibus fuerat usus, exornatum navalibus spoliis Neptuno ac Marti consecravit. 28 … ἕδος τι ἐν αὐτῷ τοῦ Ἀπόλλωνος ὑπαίθριον ἱδρυσάμενος; al limite, questa testimonianza potrebbe far ipotizzare la presenza di una statua di Apollo sulla terrazza superiore, se così si dovesse intendere ἕδος sulla scia già di Gagé 1936, 53 ss. 29 Pace parta terra [marique]; cfr. Lange 2009, 110 s. 30 Zachos 2003, 67. 31 Zachos 2003, 70. 32 Murray-Petsas 1989, 74.
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tro un altare rettangolare 33, ed una stoa che circondava tale altare su tre lati. Dunque, ferma restando la sua unitarietà ideologica, il monumento si presenta contemporaneamente come un tropaeum (se si considera la terrazza inferiore) e come un luogo sacro (per l’altare posto sulla terrazza superiore) 34. Nel testo dell’iscrizione posta sulla facciata della terrazza inferiore, ricostruito nei suoi numerosi frammenti da Murray-Petsas 35, si legge fra l’altro: Nep]tuno [et Ma]rt[i c]astra … c[onsacravit. Può appunto sorprendere la presenza di Nettuno, che era poco prima stato prescelto come divinità protettrice dal Neptunius dux Sesto Pompeo 36, non meno della circostanza per cui, in realtà, l’Apollo Aziaco di Properzio 4, 6, 67 non venne definito come tale, anche sulle monete, che dopo l’opera di Virgilio (Aen. 8, v. 704). Sembrano insomma aver ragione quanti, da Gagé 37 a Lange 38, rimarcano come, subito dopo Azio, Ottaviano ritenesse di essere stato aiutato in quella battaglia da tre divinità: Apollo, Marte e Nettuno, e non solo da Apollo. Ciò lasciò una traccia importante: i Fasti Fratrum Arvalium, alla data del 23 settembre ancora di un anno successivo al 12 a.C., menzionano sacrifici presso i templi di Marte e Nettuno oltre che presso l’antico tempio di Apollo, che, dopo il restauro iniziato da C. Sosio nell’ultima parte degli anni Trenta, venne ridedicato in connessione col genetliaco del vincitore di Azio: e(o) d(ie) Imp(erator) Caesar Aug(ustus) pont(ifex) / ma[x(imus)] natus est Marti Neptuno in campo / Apo[l]lini ad theatrum Marcelli (CIL I2, 215); sembra quindi che tutto ciò adombri celebrazioni che si originarono nella fase 33 Secondo Zachos 2003, 82, l’altare doveva essere dedicato ad Apollo «since the hill on which the monument was erected is referred to by Strabo (7, 7, 6) as the hill sacred to Apollo». 34 Pertanto, fra gli altri anche secondo Zachos (2003, 83), si potrebbe come già accennato presupporre (cercando evidentemente di recuperare almeno in parte la testimonianza di Cass. Dio 51, 1, 3) che la terrazza inferiore fosse dedi cata a Marte e a Nettuno, e quella superiore ad Apollo: ma la testimonianza svetoniana non autorizza questa interpretazione. 35 1989, 76; cfr. poi anche Zachos 2003, 76, con la proposta, alla luce della scoperta di un nuovo blocco, di anteporre – nonostante Suet., Aug. 18, 2 – il nome di Marte a quello di Nettuno: [Mar]ti Neptuno[que]; Lange 2009, 95 s.; 106 ss. 36 Hor., Epod. 9, vv. 7-8, e cfr. Gagé 1936, 83 ss. 37 1936, 62 s. 38 2009, 121.
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subito successiva ad Azio, e che Augusto abbia inteso associare al suo giorno natale tutte e tre le divinità cui sentiva di dovere la vittoria decisiva 39. In un libro che ha fatto molto discutere, e che mette in dubbio autorevoli postulati inerenti a molti ambiti, Gurval ha insistito molto sul fatto che Ottaviano, negli anni immediatamente successivi alla battaglia di Azio, addirittura non avrebbe affatto cercato né di promuovere il culto di Apollo a Roma, né di instaurare un collegamento specifico tra Apollo e la sua vittoria del 2 settembre 40: suscita perplessità, ancor più di questa conclusione, già il suo assunto secondo il quale prima della fine del I sec. a.C. Apollo sarebbe stato un dio poco significativo a Roma 41. In realtà non si può non ricordare, tra i molteplici dati, se non altro che: un tempio in onore del dio Apollo, il primo in cui fu impiegato il tufo di Monteverde 42, era stato dedicato già nel 431 nel Campo Marzio 43, e oltretutto da un console che si chiamava Gneo Giulio (si tratta del tempio a proposito del quale si è detto che venne ridedicato a nome di Augusto); i Ludi Apollinares erano stati introdotti già nel III sec. a.C.; nella quarta ecloga virgiliana l’era da tutti attesa è intitolata ad Apollo; quanto ad Ottaviano, la sua stessa nascita veniva ricollegata ad un’unione tra sua madre Azia ed un serpente, avvenuta durante una cerimonia solenne per Apollo all’interno del suo tempio 44: Gurval ritiene che la leggenda si sarebbe originata dopo Azio 45, mentre Weinstock giu stamente la riconduce a Giulio Cesare 46. Q uel che c’è di vero da ribadire non è una presunta affermazione tardiva di Apollo nel pantheon romano o nella considerazione di Ottaviano, ma casomai il ritardo dell’introduzione del ruolo di Apollo come artefice esclusivo della vittoria aziaca; allo stesso modo, nei contesti poetici l’introduzione della presenza Cfr. Gradel 2002, 131. 1995, 89. 41 1995, 90 s.; cfr. contra, tra gli altri, Lange 2009, 104 ss. nello specifico, e in generale 4. 42 Cfr. Vitti 2010, 553 s. 43 Liv. 4, 29, 7: vi era celebrato Apollo medicus. 44 Suet., Aug. 94, 4; Cass. Dio 45, 1, 2-3. 45 1995, 102. 46 1971, 14 s. 39 40
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divina in generale nella battaglia di Azio avviene solo in progresso di tempo: ed all’interno di questo percorso, che lo vedeva inizialmente assente ad Azio al pari delle altre divinità, Apollo finì poi proprio con Properzio per ritagliarsi la parte predominante rispetto a quella di altri dèi come artefice della vittoria di Ottaviano, fino alla consacrazione con l’elegia 4, 6. Ciò si svolgeva, come detto, in un inevitabile parallelo con l’evoluzione della celebrazione ideologico-simbolica promossa dal principato augusteo, e al cui interno la vittoria aziaca si andava definendo come una vittoria da ricollegare esclusivamente ad Apollo: nello stesso anno 16 l’aureus 47 del triumviro monetale C. Antistius Vetus, futuro console del 6 a.C. e proconsole d’Asia, raffigurava sul recto il capo di Augusto, e sul verso una base rettangolare, incastonata dalla legenda C. Antisti(us) vetus IIIvir Apollini Actio, con incise prore ed ancore, e sulla quale poggia una statua di Apollo panneggiato che suona la lira con la mano sinistra, mentre con la destra fa una libagione. Q uell’aureus, tuttavia, dovette ispirarsi a qualcosa che lo aveva preceduto. I risultati degli scavi di Gianfilippo Carettoni, condotti a partire dalla fine degli anni Cinquanta e dedicati al complesso Domus Augusti-tempio di Apollo, ma solo recentemente pubblicati (2014) a quasi venticinque anni di distanza dalla morte del Soprintendente alle Antichità di Roma, danno conferma all’ipotesi di Zanker 48, puntellata poi anche da M. Antonietta Tomei 49 alla luce di frammenti di rilievi con navi presenti nell’area: l’aureus di Antistio riprodurrebbe proprio il monumento, più piccolo di quello di Nicopoli, che Augusto volle fosse innalzato sul Palatino in aggiunta al tempio di Apollo per celebrare la vittoria di Azio, e occorre pensare all’esistenza anche di una statua di Apollo diversa – contrariamente a quanto pensato da Jucker 50 – da quella di Skopas attestata da Plinio il Vecchio (Nat. Hist. 34, 4, 25) e compresente nell’area del tempio di Apollo sul Palatino. RIC I2, 366 = BMCRE I, 95, pl. 3, 15. Si è pensato da parte di alcuni che il monumento per la vittoria aziaca fatto erigere a Nicopoli fosse simile, o uguale (cfr. Jucker 1982, 97 che citiamo anche infra), a quello raffigurato in quest’aureus: contra, cfr. Murray-Petsas 1989, 91. 48 20062, 91. 49 2008, 393-398; cfr. ora anche Tomei 2017. 50 1982, 97. 47
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Q uest’altra statua di Apollo, che poggiava su un basamento decorato con navi, e di cui sono stati reperiti più di centoventi frammenti di marmo pentelico, era alta tre metri ed avrebbe appunto a sua volta occupato l’area della domus Augusti sul Palatino. Essa andrebbe identificata non con quella dei vv. 15-16 della descrizione di Properzio 2, 31 51, ma con quella esterna al tempio, cui fanno riferimento i vv. 5-6: hic equidem Phoebo visus mihi pulchrior ipso / marmoreus tacita carmen hiare lyra: l’Apollo Aziaco. Prima di Properzio e dell’aureus di Antistio, era stato il solo Virgilio – come si è detto – a presentare Apollo nel contesto dello scontro di Azio 52: il suo arco, nel momento in cui lo tendeva, infondeva terrore agli Egizi e ai loro alleati; a differenza che in Properzio, però, in Virgilio, in primo luogo, il dio non faceva alcuna allocuzione ad Ottaviano, ed in secondo luogo erano state dal Mantovano introdotte sulla scena dello scontro, prima di Apollo, altre divinità del pantheon romano (Nettuno, Venere, Minerva), contro le quali vanamente si erano schierate divinità egizie di ogni forma, e soprattutto il latrator Anubis 53. Ci sembra importante notare come Properzio, assecondando apparentemente la necessità contingente di mettere in primo piano nell’elegia eziologica Apollo, che non era stato presentato come l’artefice principale se non esclusivo della vittoria aziaca fino alle monete del 16 a.C. che riproducono il monumento eretto sul Palatino per la vittoria aziaca, si renda autore di questo innalzamento di piano per la divinità funzionalmente all’intento di celebrare Ottaviano spostando i suoi meriti dal piano della vittoria militare – sul quale, nonostante i successi ricordati al v. 24 54, il princeps non si distingueva, tanto più che ad Azio aveva riportato la vittoria mediante una battaglia navale condotta da Agrippa – a quello di patrocinatore della causa più giusta e di difensore di una civiltà: e non rileva il fatto che l’Oriente non sia qui evocato che debolmente coi suoi simboli in contrapposizione all’Occidente (ma al v. 46, ad esempio, troviamo ancora regia vela, che … deinde inter matrem deus ipse interque sororem / Pythius in longa carmina veste sonat. 52 Aen. 8, vv. 704-705. 53 Aen. 8, vv. 698-700. 54 … signaque iam patriae vincere docta suae. 51
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evocano l’avversione romana per una forma di governo aborrita 55), poiché i tempi storici erano cambiati, l’Egitto era stato integrato nel dominio romano, e soprattutto non c’era bisogno di ricordare ai contemporanei la minaccia che la civiltà egizia era stata poco prima. Proprio alla luce di tale intento discende l’inconsueto rilievo conferito nel contesto aziaco alla figura di Apollo, che nella 4, 6 è molto più che il dio saettatore e guerriero di Virgilio: vindex (vv. 27; 41), in primo piano su una scena che occupa in via esclusiva fra gli dei, parla ad Ottaviano assumendo il ruolo contestuale, e dal quale in realtà non è mai disgiunto, del dio patrocinatore di una civiltà ed anzi della civiltà – come lo era stato agli albori del pensiero occidentale, quando all’inizio dell’Iliade vendica l’oltraggio fatto a Crise da Agamennone (e in questo caso il saettatore interviene comunque a salvaguardare le norme morali non scritte 56), o quando alla fine dello stesso poema si sdegna per lo scempio della salma di Ettore 57: come è noto, nell’antica Grecia l’apollineo si affermò infine sul dionisiaco come trionfo prima della stanzialità sul nomadismo, poi dell’ordine civile sulla tribalità e del razionale sulla dimensione inconscia. Entrambe queste ulteriori scelte ideologiche properziane sulle quali ci siamo soffermati, l’obliterazione cioè di Agrippa e il rilievo primario conferito ad Apollo, sono funzionali alla trasposizione molto netta di una battaglia fra umani – descritta in soli quattro versi – che viene osservata e guidata, nel suo svolgersi e nei suoi esiti, dall’alto: e non a caso tra gli spettatori superni c’è lo stesso Cesare, che dalle gesta di Ottaviano deduce l’effettiva divinità di se stesso 58. Se nella 3, 11 Properzio aveva introdotto nella composizione poetica particolari importanti per la comprensione della dinamica dello scontro (come ad esempio la differenza tra le imbarcazioni di Antonio e Cleopatra, le pesanti barides, e quelle di Ottaviano 59), 55 Vv. 45-46: et nimium remis audent prope: turpe Latinis / principe te fluctus regia vela pati! 56 Il. 1, vv. 43 ss. 57 Il. 24, vv. 31 ss. 58 V. 59: tu deus; est nostri sanguinis ista fides. 59 V. 44: … baridos et contis rostra Liburna sequi (le liburniche sono a «class of warship smaller than triremes»: Murray 2002, 354).
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in 4, 6 i ben pochi riferimenti alla battaglia sul mare si spiegano sulla base di questa prospettiva, e peraltro, ormai nel 16 a.C., l’intento informativo-descrittivo passava in secondo piano di fronte a quello celebrativo della valenza di quello scontro e del suo esito (infatti Ottaviano in questa elegia, che pure fa riferimento al 31, è già chiamato Augusto 60): Properzio è per noi il primo autore secondo il quale sarebbe stata la flotta di Ottaviano a portare il primo attacco 61, laddove la tradizione seguita da Plutarco (Ant. 65, 7 ss.) attestava il contrario, riconducendo l’iniziativa all’ala sinistra della flotta di Antonio; la tradizione di Properzio è per questo aspetto ripresa da Cassio Dione (50, 31), ma è ivi altresì contestualizzata all’interno di una divergenza di vedute fra Ottaviano e Agrippa circa la tattica da seguire, con il primo che è presentato convinto del fatto che i nemici avrebbero tentato di lasciare il golfo, e per questo avevano caricato tutti i loro beni sulle navi (il timore di Ottaviano sembra andare nello stesso senso delle ricostruzioni di quei moderni che abbiamo già menzionato supra, e che attribuiscono ad Antonio l’obiettivo di riportarsi in Egitto anziché di ingaggiare un vero e proprio scontro, in quel 2 settembre). Properzio è per noi l’unica fonte, poi, che almeno implicitamente nega la strenua resistenza degli antoniani fino all’alba successiva alla fuga di Antonio e Cleopatra da Azio 62 – celebrata invece, tra gli altri, da Plut., Ant. 68, 1-4 –, ed anzi suggella la lettura per la quale la battaglia di Azio costituiva la pagina decisiva della guerra, mentre in realtà nulla era ancora deciso 63: Antonio e Cleopatra in Egitto avrebbero potuto riorganizzarsi, e la guerra di fatto occupò ancora quasi un anno, per concludersi infine solo con l’ombra di defezioni apparentemente inspiegabili delle milizie di Cleopatra, in una cornice misteriosa di incontri e trattative 64, che non trovano comprensibilmente posto nella versione 60 Vd. vv. 29 (astitit Augusti puppim super), 38 (Auguste), 81 (sive aliquid pharetris Augustus parcet Eois, con molti addentellati con la storia politica coeva alla composizione dell’elegia: cfr. Cristofoli 2008, 195) e cfr. Arkins 1989, 250. 61 Vv. 53-54: tempus adest, committe ratis: ego temporis auctor / ducam laurigera Iulia rostra manu. 62 Vv. 51-52: frangit et attollit vires in milite causa; / quae nisi iusta subest, excutit arma pudor. 63 Cfr. già Ferrabino 1924, 472. 64 Cfr. Cristofoli 2016.
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augustea del conflitto, la quale doveva individuare la fine di esso nella brillante e schiacciante vittoria di Azio, che avrebbe lasciato in vita un Antonio e una Cleopatra cui restava solo un suicidio coraggioso da affrontare. Non per nulla, in Res Gestae 25, 2 Augusto non scriveva di aver vinto ad Azio un semplice proelium, ma proprio una guerra (bellum) 65. Nell’elegia properziana 4, 6 non c’è più posto, ovviamente, nemmeno per la viltà di Cleopatra: la regina, di cui nella 3, 11 si era detto fugisti (v. 51), e che in quel contesto era stata accolta in Egitto da un Nilo definito timidus per ipallage, qui è casomai deplorata solo per aver assunto mansioni che non dovevano competere ad una donna 66, e siamo eventualmente di fronte ad un’accusa di ‘coraggiosità fuori luogo’ in qualche modo assimilabile a quella lanciata contro la regina dall’ode 1, 37 di Orazio 67, ben lungi dal quadro di una donna svigorita dalla licenziosità; Cleo patra dovette infine rassegnarsi alla fuga, senza averla premeditata, ma solo perché costretta dalla realtà schiacciante di una predestinazione alla sconfitta conseguente all’intervento di Apollo. Il coraggio della regina sarebbe stato rivelato anche dalla morte cui non si sottrasse: anche in questo caso, come prova la consonanza con Orazio (Carm. 1, 37, 22: generosius perire quaerens; 26: fortis; 29: deliberata morte ferocior), con Velleio Patercolo 2, 87, 1 (expers muliebris metus) e con una delle tradizioni seguite da Plutarco e da Cassio Dione (Ant. 84, 4 ss. e 51, 13, 2 ss. rispettivamente), la Cleopatra della 4, 6 rivela il suo conformarsi alla Cleopatra quale Augusto voleva fosse tramandata nella sua vicenda. Dunque, anche alla luce di questi ulteriori aspetti sui quali ci siamo soffermati, esce rinsaldato l’assunto che abbiamo portato avanti nei vari anni dell’interesse di ricerca per Properzio, e che ha individuato sulla base di plurimi elementi un evidente allineamento progressivo del poeta con l’ideologia augustea anche ai più programmatici e sofisticati livelli.
65 Come pure nel momumento fatto erigere da Ottaviano a Nicopoli per com memorare la vittoria di Azio: vict[oriam consecutus bell]o quod pro [r]ep[u]blic[a] ges[si]t; cfr. Murray-Petsas 1989, 138. 66 V. 22: pilaque femineae turpiter apta manu. 67 Vv. 10-12: … quidlibet inpotens / sperare fortunaque dulci / ebria.
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Abstracts Properzio, in un’elegia (la 4, 6) in cui l’allineamento con l’ideologia augustea tocca l’apice, toglie dalla scena Antonio per non rievocare l’atmosfera delle guerre civili, e oblitera il ruolo avuto da Agrippa nel felice esito della battaglia navale, per far risaltare l’intervento degli dei in favore di Roma e dell’erede di Cesare, e, fra gli dei, di Apollo, che non aveva invece trovato spazio nelle composizioni poetiche più vicine nel tempo ai momenti della battaglia, come l’epodo 9 e l’ode 1, 37 di Orazio. Proprio da quest’elegia properziana Apollo esce consacrato come l’artefice principale della vittoria: il dio era pertanto richiamato nel suo ruolo di patrocinatore della civiltà – come lo era stato agli albori del pensiero occidentale. Tutto questo avveniva in parallelo con l’evoluzione della celebrazione ideologico-simbolica della battaglia di Azio promossa dal principato augusteo, che nello stesso anno 16 ricordava esclusivamente Apollo – prima onorato insieme a Marte e a Nettuno – anche nell’iconografia dell’aureus del triumviro monetale C. Antistius Vetus, che sul diritto aveva il capo di Augusto, mentre sul rovescio riproduceva il monumento eretto sul Palatino per il dio Apollo con una sua statua, e recava una legenda in suo onore incastonata fra prore ed ancore. Celebrando Apollo, l’intento parallelo di Properzio era quello di celebrare Ottaviano spostando i suoi meriti dal piano militare a quello di antesignano a sua volta di una civiltà destinata a prevalere. Così, in relazione alla battaglia le informazioni sono estremamente ridotte, e il poeta si concentra sul significato della vittoria, considerata con palese esagerazione come decisiva. Properzio, in an Elegy (4, 6) in which the alignment with the Augustan ideology reaches its peak, removes from the scene Antonius not to evoke the atmosphere of the civil wars, and obliterates the role played by Agrippa in the naval battle’s successful outcome in order to point out the intervention of the gods in favour of Rome and Caesar’s heir; among the gods, a pivotal role is given to Apollo, who had not found space in the poetic compositions closer in time to the event, as Horace’s epode 9 and ode 1, 37. Through the Elegy 4, 6 Apollo is indeed consecrated as the main architect of the victory: the god was therefore recalled in his role as patron of civilization – as he had been at the dawn of Western thought. All this happened in parallel with the evolution of the ideological-symbolic celebration of the battle of Actium promoted by the Augustan Principate, that in the same year 16 bc had Apollo remembered exclusively – while being in the first instance honoured together with Mars and Neptune – also in the iconography of the aureus issued by the triumvir monetalis C. Antistius Vetus; the coin depicts on the obverse the head of Augustus, on the reverse the 102
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monument to Apollo erected on the Palatine with a statue, and bears a legend in honour of Apollo set between prows and anchors. Celebrating Apollo, Propertius’ collateral intention was to celebrate Octavian by shifting his merits from the military aspect to that of a forerunner of a civilization destined to prevail. Thus, in relation to the battle, the information is extremely reduced, and the poet focuses on the meaning of the victory, considered with blatant exaggeration as decisive.
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ROSALBA DIMUNDO Università degli Studi di Bari, Aldo Moro
AD CONIUGEM SUUM, DA PROPERZIO A OVIDIO
L’epistolografia poetica latina orienta inevitabilmente il discorso su Ovidio e impone un punto di vista che a Properzio guarda retrospettivamente, con un’inversione di tendenza rispetto alla precedente produzione ovidiana. Al momento della redazione degli Amores, l’alto livello di formalizzazione del genere elegiaco (elaborazione di temi, di topoi e di motivi) è una sorta di rete ‘obbligante’, che virtualmente riduce gli spazi di originalità e di innovazione; Ovidio – che certifica orgogliosamente il senso di continuità con i poeti della prima generazione elegiaca e accetta la sfida 1 – negli Amores procede in base a principi di selezione o di accrescimento di un repertorio corrente, soprattutto properziano, e tende alla sua rappresentazione migliore attraverso l’affinamento stilistico e la valorizzazione delle differenze, che raccontano più e meglio di tante somiglianze; con le sue opere giovanili, però, Ovidio interpreta lo spirito che alimenta la nuova era attraverso non solo la risignificazione di forme già note (l’elegia d’amore), ma anche la sperimentazione di tipologie poetiche diverse come le Heroides, che, caratterizzate dall’incrocio di generi letterari, rivelano una dinamica compositiva di ascendenza alessandrina 2. In Ars 3, 345-346 vel tibi composita cantetur Epistula voce / igno1 Lo fa nel tirare il bilancio della sua vita, che trent’anni più tardi lo mette al riparo dal sospetto di un’entusiastica e giovanile adesione agli ideali poetici dell’elegia: Trist. 4, 10, 51-54 Vergilium vidi tantum: nec avara Tibullo / tempus amicitiae fata dedere meae. / Successor fuit hic tibi, Galle, Propertius illi; / quartus ab his serie temporis ipse fui. 2 L’elemento di maggiore originalità della raccolta epistolare ovidiana va scorto soprattutto nella combinazione dei caratteri distintivi degli altri generi let-
I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 105-126 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120102
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tum hoc aliis ille novavit opus, con l’accenno alla propria originalità poetica 3 è lo stesso Ovidio a definire orgogliosamente il suo ruolo di protos heuretes 4 per aver inventato un nuovo genere letterario 5, perché le scarse testimonianze di lettere d’amore 6, costituiscono tentativi isolati di una forma poetica non ancora codificata 7; l’affermazione ovidiana, dunque, va intesa come rivendicazione del ruolo di inventor di un’intera collezione di lettere d’amore – cioè di un genere nuovo – non di epistole occasionali 8. Le Heroides inaugurano un tipo di sperimentalismo letterario, che diverrà costante in tutta la carriera poetica ovidiana 9 e al tempo stesso prendono spunto dall’elegia properziana, le cui impronte sono visibili nella fedeltà al tema amoroso, sottofondo di tutta la produzione ovidiana 10, e soprattutto nella tendenza a dar voce alle figure femminili 11 che emerge in particolare nel IV libro 12. 1. La centralità riservata al ruolo della moglie nella lettera di Aretusa è tra i segni più manifesti del cambiamento di rotta della poeterari e, come sottolinea Knox 1995, 15, «in this respect they may represent the most interesting example in Roman poetry of innovation in genre». 3 Cfr. Kenney 1982, 422; nel suo commento ad loc., Gibson 2003, 239 spiega l’affermazione ovidiana alla luce delle specifiche finalità didattiche del III libro dell’Ars («Ovid may be emphasizing the novitas of the Heroides for its potential appeal to their lovers») e rinvia a Spoth 1992, 26-28. 4 Come osserva Jacobson 1974, 320 sgg., nel reclamare l’originalità per se, Ovidio si distacca sensibilmente dalle forme di dichiarazione di originalità degli altri poeti latini, che asseriscono di essere i primi a Roma a seguire un modello greco specifico (cfr. e.g. Lucr. 5, 336-337; Verg. Georg. 2, 275-276; 3, 10-11; Hor. Carm. 3, 30, 13-14 e Prop. 3, 1, 1-2). 5 L’impiego di novavit in combinazione con ignotum hoc aliis «perhaps discourages the reader from detecting the sense ‘renew’ in the verb. The claim is meant to provoke and impress»: Gibson 2003, 239. 6 Q ualche traccia presso gli alessandrini, in Catullo (in c. 32 il poeta scrive a Ipsitilla) e in Sulpicia (3, 12, 7 sgg.). 7 Kirfel 1969, che fornisce una bibliografia sul problema, afferma che è possibile solo fare congetture sull’esistenza di lettere d’amore fittizie nella letteratura alessandrina. 8 Cfr. Rosati 1989, 6. 9 Lo sottolinea Kenney 1982, 455. 10 Spunti molto interessanti sulla presenza delle tematiche e delle caratteristiche elegiache nelle Metamorfosi in Baldo 2005, 325-358. 11 Valide riflessioni sull’apporto dell’elegia sulle epistole ovidiane in Rosati 1992, 71-94. 12 Cfr. la lucida analisi di Rosati 1991, 103, n. 1.
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tica properziana che celebra la donna amata; tuttavia, già prima del IV libro, soprattutto quando Cinzia interviene in prima persona, la figura femminile ha un ethos molto diverso da quello che solitamente Properzio le attribuisce 13; si tratta, in particolare, di contesti che, caratterizzati da tratti pertinenti al codice epistolare (motivi, lessico, contesti narrativi) e presenti già nel Monobiblos, raffigurano un personaggio femminile che condivide più di un aspetto con Aretusa; le rare occasioni properziane in cui la prospettiva elegiaca è delineata dalla donna, inoltre, presentano non pochi spunti che verranno definiti da Ovidio con sistematica coerenza nelle Heroides 14. Immutato, invece, rimane il paradigma della fides (la figura di Penelope), menzionato esplicitamente o inequivocabilmente alluso da Properzio, da Cinzia o dalla moglie che attende il ritorno del marito; infine, se nei versi properziani Penelope – i cui tratti omerici inossidabili confermano «la fissità del cliché attribuita al personaggio» 15 – è una vera e propria eroina del gamos, nell’epistola ovidiana essa subisce una metamorfosi funzionale, da modello codice a protagonista; al tempo stesso la Penelope ovidiana da un lato usurpa il ruolo di ‘grande parlatore’ che nell’Odissea 16 Omero attribuisce a Ulisse, dall’altro recupera, ricontestualizzandole, caratteristiche e atteggiamenti non solo della moglie, ma in generale della donna properziana. La verità ‘elegiaca’ (donna crudele / uomo vittima) si ribalta quando parla Cinzia nei panni di severo censore della moralità del partner, che nella liaison elegiaca per statuto appartengono all’uomo; l’exemplum di Penelope interviene per esaltare l’attesa La diversità del personaggio femminile – che emerge soprattutto nella 4, 7, dove è Cinzia, non Properzio, a rinfacciare all’amante il tradimento, oltre che la trascurata organizzazione del suo funerale – non si inserisce affatto in una dimensione di ‘doppia verità’ (la donna traditrice vs l’uomo miser; la donna fedele vs l’uomo traditore); in relazione al personaggio femminile, inoltre, non esiste un’opposizione fra il gruppo dei primi tre libri e il IV, ma solo voci diverse (maschile e femminile): su tale aspetto della poetica properziana si rinvia alle osservazioni di Rosati 1992, 72-73. 14 Cfr. Rosati 1992, 90. 15 Cfr. Lechi 1979, 87; nei poeti d’amore, Penelope è il modello della moglie ideale sin dall’epitalamio catulliano (61, 219-223, su cui si rinvia a Fedeli 1972, 115 ad loc.); sul topos, oltre a Otto 1890, 272 s.v. Penelopes [1], cfr. Wüst 1937, coll. 483-484 e sull’impiego tradizionale di tale figura presso gli elegiaci, i passi citati da Janka 1997 a Ov. Ars 2, 355. 16 ‘Il romanzo del ritorno’, secondo la felice definizione di Boitani 2017, 39. 13
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devota e paziente della donna, che con voce propria interviene in 1, 3, 35-44. Tandem te nostro referens iniuria lecto alterius clausis expulit e foribus? Namque ubi longa meae consumpsti tempora noctis, languidus exactis, ei mihi, sideribus? O utinam talis producas, improbe, noctes, me miseram qualis semper habere iubes! Nam modo purpureo fallebam stamine somnum, rursus et Orpheae carmine, fessa, lyrae; interdum leviter mecum deserta querebar externo longas saepe in amore moras.
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Cinzia investe con accenti di forte risentimento Properzio, che ritorna ubriaco da un convito; nella pericope di versi, quasi la miniaturizzazione di una Herois, la donna gli rinfaccia di averla costretta a vegliare e, per ingannare il sonno, a tessere come una casta matrona. Anche in assenza del nome mitico, si capisce che qui Cinzia si rappresenta come Penelope 17 e, nel sistema di riferimento proposto dal modello omerico, il dettaglio significativo e pertinente della tessitura costituisce solo il punto di partenza di un processo di esemplarità, che giunge a coinvolgere elementi più sostanziali e connotativi del paradigma omerico, primo tra tutti la fedeltà: il lettore properziano, infatti, associa Cinzia a Penelope non solo perché tesse, ma soprattutto perché come Penelope è fedele al suo uomo 18. Abbandonata dall’amato e costretta a un’attesa lunga e solitaria 19, Cinzia manifesta impe17 A guardar bene, Cinzia interviene sul cliché del personaggio omerico assunto come modello; Penelope, infatti, è il primo esempio letterario femminile a cui viene imposto il silenzio addirittura dal figlio Telemaco, anche se tale divieto riguarda solo le occasioni pubbliche: Od. 1, 356-359 ἀλλ᾽εἰς οἶκον ἰοῦσα τὰσ᾽αὐτῆς ἔργακόμιζε, / ἱστόντ᾽ἠλακάτην τε, καὶ ἀμφιπόλοισι κέλευε / ἔργον ἐποίχεσθαι: μῦθος δ᾽ἄνδρεσσι μελήσει / πᾶσι, μάλιστα δ᾽ἐμοί: τοῦ γὰρ κράτος ἔστ᾽ἐνὶ οἴκῳ. 18 A Properzio Cinzia affibbia il ruolo di Odisseo, perché ai suoi occhi il suo uomo è colpevole di averla costretta a una lunga attesa e di aver indugiato in amori externi (v. 44 externo … in amore), come Odisseo, che durante il suo interminabile nostos fu sensibile al fascino femminile e non esitò a tradire la moglie che l’attendeva; se, però, il personaggio di Penelope nobilita Cinzia, Odisseo è costretto a subire un’indecorosa degradazione, riflesso com’è dal colpevole Properzio, che tornato a casa ubriaco deve sorbirsi i rimproveri della sua donna. 19 Sulle evidenti consonanze con la figura del l’Arianna abbandonata cfr. Curran 1966, 205 sgg. e Wlosok 1967, 350.
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tuosamente la gelosia nei confronti di Properzio: attraverso le incalzanti domande che aprono il suo monologo, l’insinuazione della gravissima colpa di un tradimento (vv. 35-36) sconfina ben presto nella constatazione dell’effettiva veridicità dell’accusa (vv. 37-38). Sin dalla sua prima comparsa da protagonista sulla scena properziana, con un significativo cambio dell’ego elegiaco, Cinzia vuole accreditare 20 un’immagine di sé radicalmente diversa da quella della donna dominatrice (1, 1), frivola (1, 2) o – come costantemente la raffigurerà il poeta – sempre disponibile a concedersi agi e piaceri mondani; qui, invece, Cinzia si descrive nelle vesti di una sposa semplice e fedele «che, fra le lacrime delle sue curae chiusa nel suo modesto universo domestico, si dedica ai lavori femminili», nell’attesa paziente di un marito, assente da casa per le sue consuete avventure notturne 21. L’epico travestimento non impedisce a Cinzia di accusare di improbitas Properzio (v. 39), che le ha imposto una sofferenza tale da renderla misera (v. 40); dal canto suo, nell’apostrofe al marito lontano, in Her. 1 la Penelope ovidiana usa toni più sfumati, anche se non risparmia a Ulisse le accuse di indifferenza e di inflessibilità, che vengono espresse con un lessico elegiacamente connotato (vv. 1, 66 lentus 22; v. 58 ferreus 23). La fitta trama di allusività, che attraverso il mito di Penelope collega Properzio a Ovidio, è intessuta di una topica elegiaca; il motivo del tempo trascorso nell’interminabile attesa dell’amato (Prop. 1, 3, 37-38) – che, strettamente legato all’immagine del letto vuoto e testimone dell’insonnia d’amore, soprattutto di notte procura un dolore insopportabile – viene riproposto in un’elegia che vede ancora una volta Cinzia parlare e comportarsi come un’eroina abbandonata (3, 6, 23 gaudet me vacuo solam tabescere lecto); nella dura apostrofe rivolta a Properzio, come già in 1, 3, Cinzia vanta innocenza e fedeltà e deplora l’infrazione del «O meglio il poeta suppone essa voglia accreditare»: Rosati 1992, 87. La scena properziana che costituisce l’ipotesto dell’epistola ovidiana di Penelope è oggetto dell’acuta analisi di Barchiesi 1992, 15-41. 22 Sulla polisemia del l’aggettivo lentus nell’epistola ovidiana cfr. Barchiesi 1992, 66. 23 Ferreus è a tal punto un termine elegiaco da divenire (Barchiesi 1992, 87) «una delle parole chiave che riconnettono l’epistola al codice dell’elegia romana». 20 21
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patto d’amore e l’abbandono da parte dell’amato 24; al motivo, che comparirà con una forte sottolineatura patetica in 4, 3, 29-32 25, ricorre anche Penelope (Her. 1, 7-8 26), che – come Laodamia nella XIII Eroide 27 – è figura strettamente legata all’epica, la cui prospettiva eroica in parte rinnega nel proporre come alternativa la dimensione privata dell’amore 28. La tessitura usata come espediente per trascorrere il tempo dell’attesa è modulo ricorrente nel lamento della donna abbandonata; ad esso riconduce l’affermazione di Cinzia in 1, 3, 41 Nam modo purpureo fallebam stamine somnum, che suggerisce a Ovidio l’ardita ‘iunctura’ fallere noctem in Her. 1, 9-10 29; con un reciproco scambio di funzioni femminili tra i due contesti, se per ingannare il lentissimo trascorrere del tempo notturno Cinzia, come Penelope, «si rifugia […] nella casta matronale attività del tessere», l’eroina ovidiana «vede se stessa come una Cinzia. La sua tela non è più un epico inganno: è solo il mezzo per ingannare le notti in cui è privata del suo giusto amore […]. L’allusione a Properzio è il segnale di questa nuova codificazione» 30. La 3, 6 è caratterizzata da una singolare tecnica espositiva, dovuta ai differenti piani dell’interlocuzione all’interno del lungo monologo di Properzio: nei primi 8 versi, con toni accorati, il poeta invita Ligdamo a riferirgli la verità sulla sua donna; l’insistenza con cui il poeta sollecita il resoconto dello schiavo emerge dall’impiego della medesima esortazione ai confini della sezione: v. 1 dic mihi; vv. 7-8 nunc mihi … dicere … / incipe. 25 At mihi cum noctes induxit vesper amaras, / si qua relicta iacent, osculor arma tua. / Tum queror in toto non sidere pallia lecto, / lucis et auctores non dare carmen aves. 26 Non ego deserto iacuissem frigida lecto; / non quererer tardos ire relicta dies; come sottolinea Barchiesi nel commento ad loc., nei versi va segnalata la raffinata trasposizione degli aggettivi, o meglio la doppia concordanza di frigidus (qui è riferito per enallage a Penelope) e di desertus (del letto, ma anche della stessa donna). 27 Cfr. vv. 107-108 aucupor in lecto mendaces caelibe somnos; / dum careo veris, gaudia falsa iuvant: Landolfi 2000, 184-185 osserva che dai due contesti epistolari «trapela la somiglianza esistente tra Laodamia e Penelope che, per parte propria, lamenta di giacere al freddo nel letto deserto a causa dell’adulterio di Paride […] innestando su un’eco catulliana (68, 29 frigida deserto … membra cubili) un’eco properziana (4, 7, 6 et quererer lecti frigida regna mei)». 28 Cfr. Jolivet 2001, 234-236. 29 Nec mihi querenti spatiosam fallere noctem / lassaret viduas pendula tela manus; è Barchiesi 1992, 24-25 a sottolineare l’audacia dell’espressione latina fallere noctem, che non riconduce genericamente al tempo, ma inequivocabilmente al tempo notturno, «con evidente plusvalore erotico». 30 Le osservazioni sono di Barchiesi 1992, 25. 24
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Le attività tipiche della matrona romana lanifica e domiseda, esaltate dal modello della Penelope omerica, ispirano nuovamente Properzio quando immagina Cinzia intenta a filare nell’atrio (3, 6, 16 medio nebat et ipsa loco) 31; nell’elegia 3, 6, del resto, il cliché della relicta connota costantemente Cinzia, a partire già dalla serie di incalzanti interrogative rivolte da Properzio a Ligdamo: Sicin eam incomptis vidisti flere capillis? Illius ex oculis multa cadebat aqua? 10 Nec speculum strato vidisti, Lygdame, lecto scriniaque ad lecti clausa iacere pedes ac maestam teneris vestem pendere lacertis? Ornabat niveas nullane gemma manus? Tristis erat domus, et tristes sua pensa ministrae 15 carpebant, medio nebat et ipsa loco, umidaque impressa siccabat lumina lana, rettulit et querulo iurgia nostra sono? (Prop. 3, 6, 9-18).
Nella descrizione fornita dal poeta, infatti, Cinzia è in lacrime, con i capelli in disordine, l’abbigliamento trascurato, le mani disadorne di gioielli e il volto presumibilmente privo di trucco 32. Il particolare dei capelli in disordine, che avvicina Cinzia alla Calipso abbandonata di 1, 15, 11-12 multos illa dies incomptis maesta capillis / sederat, è conforme al topos della ‘bellezza negletta’, che accomuna quasi tutte le eroine o le mogli abbandonate; sia l’Aretusa properziana sia la Laodamia ovidiana 33, infatti, mostrano disinteresse per la propria persona, che induce la prima a esclamare con amara ironia nam mihi quo Poenis nunc purpura fulgeat ostris / crystallusque meas ornet aquosa manus? (vv. 51-52); dal distico dipende Ovidio in Her. 13, 31-32 nec mihi 31 Anche Aretusa si descrive mentre da brava matrona si dedica alla tessitura: 4, 3, 33-34 Noctibus hibernis castrensia pensa laboro / et Tyria in chlamydas vellera secta suo; qui il ruolo di moglie consente alla donna di riformulare il motivo elegiaco dell’insonnia, perché le notti insonni e fredde (noctibus hibernis) non trascorrono invano, ma sono impiegate per confezionare indumenti per il marito in guerra. 32 Su scrinia nel senso di cofanetto di cosmetici (unguentorum scrinium) cfr. il commento di Fedeli 1985, 212. 33 Come sottolinea Roggia 2011, 109, trascurare il proprio aspetto per l’assenza o la partenza dell’amato riconduce alla figura di Arianna, la relicta per antonomasia (cfr. Catull. 64, 63; 68-70) e «la mancanza di cura è indice di sofferenza per la partenza dell’amato […] e, ad un tempo, segno di autenticità in chi si trova impreparato ad un arrivo inaspettato».
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pectendos cura est praebere capillos, / nec libet aurata corpore veste tegi e 37-40 scilicet ipsa geram saturatas murice vestes, / bella sub Iliacis moenibus ille gerat? / Ipsa comas pectar, galea caput ille prematur? / Ipsa novas vestes, dura vir arma ferat?; le osservazioni accorate di Laodamia enfatizzano il motivo del disprezzo del cultus personale ed esasperano il modello fornito da Aretusa, perché «al secco rifiuto dell’una si contrappone la prolissità diaristica dell’altra» 34. La tristezza di Cinzia che pervade anche la casa (3, 6, 15 tristis erat domus) ha un corrispettivo nel silenzio desolante della dimora di Aretusa, interrotto solo dal guaito della cagnetta 35: omnia surda tacent, rarisque assueta kalendis vix aperit clausos una puella Lares. Craugidos et catulae vox est mihi grata querentis: illa tui partem vindicat una toro (Prop. 4, 3, 53-56).
Un analogo senso di opprimente desolazione scaturiva dal lamento di Arianna abbandonata in Catull. 64, 186-187 omnia muta / omnia sunt deserta, ostentant omnia letum, che fornirà più di uno spunto alle Heroides ovidiane, in cui l’assenza dell’amato, oltre a dar luogo a scenari di silente abbandono, assume i tratti esasperati del distacco dalla vita 36; a loro volta, le ancelle che meste si dedicano alla tessitura (3, 6, 15-16 et tristes sua pensa ministrae / carpebant) condividono lo spazio e il tempo della sofferenza di Cinzia, come accade alla sorella e alla nutrice di Aretusa in 4, 3, 41-42 assidet una soror, curis et pallida nutrix / peierat hiberni temporis esse moras. La ‘distractio’ querulo … sono (3, 6, 18) è didascalia introduttiva dell’intervento in prima persona di Cinzia, che costituisce l’elemento di maggiore ‘vicinanza’ al codice epistolare. Cinzia
Sono parole di Landolfi 2000, 173. Non sorprende affatto che Aretusa faccia riferimento al silenzio, che, come sottolinea Rosati 1996 nel commento a Ov. Her. 19, 53-54 auribus incertas voces captamus, et omnem / adventus strepitum credimus esse tui, «è il suono dell’attesa, è la dimensione acustica di un’esistenza condotta nel chiuso dello spazio domestico in attesa dell’evento, l’arrivo del partner, che a quell’esistenza dà senso e pienezza». 36 Cfr. e.g. Her. 8, 75-76 vix equidem memini, memini tamen: omnia luctus / omnia solliciti plena timoris erant. 34 35
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inaugura il suo discorso con una domanda, che, rivolta a Ligdamo, tradisce un profondo risentimento e ha lo scopo reale di stigmatizzare l’infrazione della fides da parte di Properzio, colpevole per di più di averla tradita con una donna indegna finanche di essere nominata 37: Haec te teste mihi promissa est, Lygdame, merces? est poena et servo rumpere teste fidem. Ille potest nullo miseram me linquere facto et qualem nolo dicere habere domi! (Prop. 3, 6, 19-22).
Sebbene il contenuto della domanda non riguardi affatto l’accusa di tradimento, gli accenti accorati e la formulazione retorica del rimprovero di Cinzia ricompaiono nella provocatoria richiesta di Aretusa al marito lontano: 4, 3, 11-12 haecne marita fides … / cum rudis urgenti bracchia victa dedi?; dal punto di vista di Aretusa, le assenze ripetute e prolungate di Licota offendono i doveri imposti dalla fides coniugale, perché gli impediscono di assolvere il primo obbligo coniugale, quello, cioè, della convivenza stabile col proprio partner; dell’amara apostrofe di Aretusa, inoltre, si scorge traccia anche in Her. 6, 41 heu! Ubi pacta fides, ubi conubialia iura? 2. Nella 3, 12 – il «primo carme in cui Properzio sviluppa la tematica dell’amore coniugale e ne tesse l’elogio» 38 – il poeta rimprovera severamente Postumo, colpevole di aver abbandonato la fedelissima moglie: le caratteristiche della relicta sono qui attribuite a Elia Galla, che anticipa per molti aspetti il personaggio elegiaco della fida uxor esemplato da Aretusa. Alle differenze tra la 3, 12 e la 4, 3, evidenti già nella struttura 39 e nei personaggi 40, si affiancano le analogie 41, che rendono innegabile l’interdipendenza tra i due carmi e preparano alle 37 Nel rovesciamento della prospettiva elegiaca, dovuta al mutamento del punto di vista (è Cinzia, non Properzio, a parlare), vengono ridistribuiti torti e ragioni: così Rosati 1992, 88. 38 Sono parole di Fedeli 1985, 397. 39 La 3, 12 non è formalmente una lettera. 40 Diversamente da quelli della 3, 12, nella 4, 3 i protagonisti hanno un carattere fittizio, che determina una ricaduta paradigmatica più incisiva. 41 Sui punti in comune tra i due testi properziani si rinvia a Becker 1971, 470.
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future riprese ovidiane 42. In entrambe le elegie c’è il riferimento alle campagne militari (3, 12, 1-4 Postume, plorantem potuisti linquere Gallam, / miles et Augusti fortia signa sequi? / Tantine ulla fuit spoliati gloria Parthi, / ne faceres Galla multa rogante tua? ~ 4, 3, 7-10 Te modo viderunt intentos Bactra per arcus, / te modo munito Sericus hostis equo, / hibernique Getae, pictoque Britannia curru, / ustus et Eoa decolor Indus aqua), che comparirà spesso nell’epistolografia ovidiana, a cominciare dalla lunga descrizione fornita da Penelope dei pericoli e delle insidie belliche che avrebbero potuto minacciare l’incolumità di Ulisse (Her. 1, 13-22) 43. L’avversione per la guerra – uno dei temi caratterizzati da «una funzione ideologica centrale nell’opera ovidiana» 44, spesso corredato da anatemi e maledizioni (3, 12, 5-6 Si fas est, omnes pariter pereatis avari / et quisquis fido praetulit arma toro! ~ 4, 3, 19-22 Occidat, immerita qui carpsit ab arbore vallum / et struxit querulas rauca per ossa tubas, / dignior obliquo funem qui torqueat Ocno, / aeternusque tuam pascat, aselle, famem!) – ritorna in Her. 1, 5-6 o utinam tum, cum Lacedaemona classe petebat, / obrutus insanis esset adulter aquis, dove l’impiego di adulter esprime il ‘risentimento’ della donna e «prende un suo colore dal contesto e dal l’ethos intensamente matrimoniale della casta Penelope» 45; con un atteggiamento meno esasperato, anche Laodamia criminalizzerà i responsabili della guerra di Troia 46; in particolare, rispetto allo sfogo di Aretusa, l’ampliamento argomentativo che al tema riserva Ovidio nella XIII Eroide ‘diluisce’ il pathos e la drastica riduzione della prospettiva (la condanna di Penelope e di Laoda-
42 A tal proposito osserva Barchiesi 1992, 53 che nell’epistola di Penelope «Ovidio avrà tenuto presenti due modelli specifici: Prop. 3, 12 e 4, 3. Si tratta di due testi con cui Properzio ha fatto di più per aprire la strada alle Heroides». 43 Nella successione dei distici, gli esametri raffigurano gli eventi che si susseguono a Troia sui campi di battaglia, mentre i pentametri rivelano le conseguenze che tali eventi hanno sullo stato d’animo di Penelope: cfr. Jacobson 1974, 252; Spoth 1992, 38 aggiunge che l’esametro, verso dell’epica, espone le vicende mitico-eroiche dell’Odissea, mentre il pentametro riporta la reazione elegiaca della protagonista femminile. 44 Così Rosati 1991, 103. 45 Cfr. Barchiesi 1992, 68. 46 Her. 13, 43-48 Dyspari Priamide, damno formose tuorum, / tam sis hostis iners quam malus hospes eras. / Aut te Taenariae faciem culpasse maritae, / aut illi vellem displicuisse tuam.
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mia colpisce non la guerra in generale, ma quella di Troia) determina una minore incidenza paradigmatica 47. Il timore che lo sprezzo del pericolo e le lusinghe della gloria militare possa da un lato eliminare il desiderio del marito di riabbracciare la moglie, dall’altro indurre il coniuge a sottovalutare i rischi delle insidiose tecniche offensive del nemico, accosta ancora una volta la 3, 12 alla 4, 3 e viene ripreso nell’epistola di Penelope (v. 4 vix Priamus tanti totaque Troia fuit! 48), dove, però, i toni sono più contenuti; solo dopo aver ricordato l’eroica impresa del marito (la Dolonia descritta nei vv. 39-46), con comprensibile orgoglio coniugale e con una rilettura encomiastica assente nella tradizione epica, Penelope «scopre il punto di vista dell’elegia» 49: vv. 47-50 sed mihi quid prodest vestris disiecta lacertis / Ilios et murus quod fuit esse solum, / si maneo, qualis Troia durante manebam, / virque mihi dempto fine carendus abest?; Laodamia, continuamente in bilico fra gli opposti sentimenti di spes e timor, che «scandiscono un’attesa disperata» 50, si spingerà oltre, perché sarà lei a dettare a Protesilao una strategia di sopravvivenza dal carattere marcatamente autoreferenziale (la salvezza del marito è la condizione necessaria della sua stessa esistenza: vv. 63-84; 97-102); allo stesso ambito appartiene la più attenuata richiesta di Ero a Leandro in Her. 19, 87-88 sic tu temerarius esto, / ne miserae virtus sit tua flenda mihi. 3. Già prima delle Heroides, dunque, se la voce elegiaca affidata alla donna proclama l’adesione al sistema etico tradizionale, che si basa sulla fides in amore, sulla pietas familiare, sulla sanctitas del matrimonio 51, il partner si mostra irriguardoso nei confronti di 47 Sulle somiglianze della condanna di Paride nelle lettere di Penelope e Laodamia cfr. Landolfi 2000, 178-181. 48 In riferimento all’uso di tanti, che in contesti analoghi compare in 1, 6, 13; 3, 20, 4; Her. 13, 133 e 7, 45, Barchiesi 1992, 68 sottolinea che i due esempi epistolari properziani (oltre a 4, 3, 63, il riferimento è a 3, 12, ‘quasi’ una eroide) «faranno di questo modulo un topos ‘incipiente’». 49 Molto opportunamente Barchiesi 1992, 83 parla di una «movenza che ricorda certe recusationes di poesia epica in nome dell’amore», con il rinvio a Prop. 1, 9, 9 quid tibi nunc prodest e a Ov. Am. 2, 1, 29 quid mihi profuerit velox cantatus Achilles? 50 Cfr. Roggia 2011, 28. 51 Cfr. Rosati 1992, 85.
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tali valori, che viola sistematicamente; nel percorso che da Properzio conduce all’epistolografia ovidiana, l’elegia di Aretusa occupa uno spazio liminare, in cui coesistono, a volte in modo problematico 52, tratti elegiaci e aspetti originali della coppia di innamorati; la conciliazione dei caratteri – che deriva anche dalla fusione dei generi letterari (epica, tragedia, lirica, elegia) – costituirà la cifra dell’epistolografia ovidiana, anche se il debito contratto dalle Heroides con l’elegia (e con quella properziana in particolare) «non può essere allineato […] alla lunga lista delle influenze e degli incroci» 53. L’epistola di Aretusa e quella di Penelope hanno in comune più di un aspetto, a partire dalla collocazione nell’ambito delle rispettive raccolte poetiche; sebbene non sia possibile «parlare di un preciso disegno architettonico che coinvolge il libro nel suo complesso» 54, è significativo che, nell’ordine in cui ci sono pervenute le elegie, sia proprio l’epistola di Aretusa a inaugurare la sfilata dei personaggi femminili del IV libro properziano; come quella di Aretusa, la collocazione proemiale dell’epistola di Penelope conferisce «rilievo quasi programmatico alle sue parole» 55. Aretusa e Licota sono personaggi fittizi, quasi controfigure letterarie di tante coppie reali, e poiché il lettore ignora la loro storia, l’epistola properziana, priva com’è di un contesto di riferimento, risulta avulsa dalla vicenda umana e sentimentale dei coniugi; nel l’epistola ovidiana, che rielabora una vicenda arcinota dal punto di vista della donna, invece, la ‘prescienza’ del lettore determina l’ironia ai danni della scrivente 56.
52 I due aspetti della figura di Aretusa – ora donna elegiaca, ora legittima sposa – non sempre convivono serenamente, come si capisce dall’andamento a tratti desultorio del carme, che permette di percepire con maggiore intensità l’intimo contrasto della protagonista; analogamente Licota da un lato ha i tratti distintivi del miles, che serve la patria e audacemente va in cerca di gloria, dall’altro agli occhi della moglie non è affatto diverso dall’amante elegiaco, alle cui tenere membra non si addicono gli instrumenta belli. 53 Cfr. Barchiesi 1992, 20. 54 Sono parole di Fedeli 2009, 307. 55 Cfr. Rosati 1989, 39. 56 Molto opportunamente Barchiesi 1992, 17-18 parla di ‘competenza narrativa’ che colloca il lettore su un livello superiore «rispetto alla limitata visuale del personaggio che dice io».
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Entrambe le epistole indicano subito i nomi del mittente e del destinatario e si aprono con un deittico 57 che, in conformità con la topica degli esordi epistolari, segna il congedo delle donne dalla lettera indirizzata ai rispettivi mariti; posto com’è in apertura dell’epistola di Aretusa, haec anticipa, specificandolo, l’oggetto della corrispondenza (mandata), che così acquista un ulteriore rilievo, anche se le indicazioni verranno rese note solo nella conclusione della missiva (v. 69 incorrupta mei conserva foedera lecti!); nell’epistola ovidiana, invece, il mandatum, dalla rigida formulazione bipartita, è perentoriamente indicato da Penelope già nel v. 2: nihil mihi rescribas tu tamen; ipse veni. Nei versi iniziali di entrambe le epistole esiste un giuoco di possessivi, cosicché a suo 58 … Lycotae (4, 3, 1) corrisponde tua Penelope (Her. 1, 1); tuttavia, se con tua la scrivente sancisce il riconoscimento di proprietà da parte dell’uomo, suo, con una direzione inversa, esprime la rivendicazione di Aretusa di un proprio bene, ribadita nel pentametro successivo; in entrambi i casi, inoltre, l’impiego di mittere sostituisce il consueto dicere delle inscriptiones. La diversità di tono tra le due epistole è già nel pentametro successivo: con cum totiens absis si potes esse meus (4, 3, 2) Aretusa tradisce il suo reale stato d’animo e, nel riferire esplicitamente il motivo del suo dolore, mostra come la sua ferma determinazione cominci subito a vacillare. L’accenno alle reiterate assenze, che impediscono l’agognato ricongiungimento con Licota, è in linea con la prospettiva elegiaca in cui la lettera di Aretusa va inserita. Con l’ordine imposto al suo destinatario e nel sottolineare l’inutilità di una risposta (v. 2 nihil attinet … ipse veni), invece, Penelope ostenta sicurezza e ottimismo anche più dell’archetipo omerico 59, ma mostrerà segni di cedimento quando si lamenterà del ritardo immotivato di Ulisse; non a caso nei vv. 57-58 victor abes, nec scire mihi, quae causa morandi, / aut in quo lateas ferreus orbe, licet l’espressività dell’eroina ricorda quella di Aretusa; abesse 60, che Haec in Prop. 4, 3, 1, hanc in Her. 1, 1; Palmer propone haec: cfr. la discussione relativa alla scelta testuale in Barchiesi 1992, 65. 58 L’impiego di suus rafforza i legami della lettera di Aretusa con la formularità epistolare, perché il possessivo compare in contesti dal carattere affettuoso e confidenziale: cfr. Cugusi 1983, 48. 59 Cfr. Barchiesi 1992, 67. 60 Il verbo compare anche al v. 51 e al v. 66. 57
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esprime la lontananza di Ulisse, riecheggia Prop. 4, 3, 2, mentre morari è verbo che indica con ricorsività quasi formulare l’indugio dell’amato, che provoca sofferenza nella moglie; a ribadire il concetto interviene il corradicale mora (v. 74 tam longae causas suspicor esse morae), impiegato da Properzio in 4, 3, 42 peierat hiberni temporis esse moras, oltre che in 3, 12, 24 non illi longae tot nocuere morae. Aretusa scrive nella totale incertezza sulla sorte del marito, che può solo idealmente seguire, pur di stargli accanto: nei vv. 7-10 61 la geografia dei viaggi di Licota è da lei raffigurata con sintetiche informazioni, mentre successivamente la giovane moglie si sforzerà di seguire sulle carte geografiche e cosmografiche gli spostamenti del coniuge e cercherà di individuare il vento più favorevole per un suo rapido ritorno in patria 62. Apparentemente Penelope è in una situazione di vantaggio rispetto ad Aretusa, perché sa che il marito è salvo (Her. 1, 24 versa est in cineres sospite Troia viro); ma l’accenno alla fortunata coniunx che narrantis … pendet ab ore viri (v. 30), mentre i racconti conviviali dei fera proelia vengono illustrati anche da uno schizzo tracciato exiguo … mero sulla mensa 63 (vv. 31-32 atque aliquis posita monstrat fera proelia mensa / pingit et exiguo Pergama tota mero), fa trapelare l’angoscia della regina che ignora la causa del ritardo di Ulisse e interpella incessantemente gli stranieri di passaggio (vv. 59-60 quisquis ad haec vertit peregrinam litora puppim, / ille mihi de te multa rogatus abit) 64; nel silenzio della sua dimora, invece, Aretusa è in compagnia solo di chi, come lei, ignora le sorti di Licota (4, 3, 41-42 Assidet una soror, curis et pallida nutrix / peierat hiberni temporis Te modo viderunt intentos Bactra per arcus, / te modo munito Sericus hostis equo, / hibernique Getae pictoque Britannia curru / ustus et Eoa decolor Indus aqua. 62 Vv. 37-40 cogor et e tabula pictos ediscere mundos, / qualis et haec docti sit positura dei, / et disco, qua parte fluat vincendus Araxes, / quot sine aqua Parthus milia currat equus; / quae tellus sit lenta gelu, quae putris ab aestu, / ventus in Italiam qui bene vela ferat. 63 I vv. 33-36 sintetizzano il resoconto epico del secondo dell’Eneide (cfr. 2, 29-30 e Landolfi 2000, 181); su tale contesto dell’epistola ovidiana, interessante riduzione ovidiana di ben più estesi racconti epici, cfr. Egelhaaf – Gaiser et alii 2011, 309-335. 64 Per l’analogia della situazione, oltre al modello omerico, Barchiesi 1992, 87 rinvia a Prop. 1, 8, 23-24 nec me deficiet nautas rogitare citatos / “Dicite, quo portu clausa puella mea est?”. 61
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esse moras): la sorella, che, silente, sembra avere il ruolo di consolatrice di una vedova 65, e la nutrice, che reca sul volto i segni della sua partecipazione alle pene di Aretusa, sofferta al punto da indurla a spergiurare. Entrambe le nuptae relictae temono che i propri mariti non facciano ritorno, perché trattenuti da un amore straniero: in 4, 3, 25-28 (Haec noceant potius, quam dentibus ulla puella / det mihi plorandas per tua colla notas. / Diceris et macie vultum tenuasse; sed opto / e desiderio sit color iste meo) Aretusa si lascia andare a una vera e propria scenata di gelosia, che da un lato la colloca allo stesso livello dell’innamorato elegiaco, perpetuamente assillato dal sospetto di tradimento 66, dall’altro l’avvicina al personaggio delle Eroidi ovidiane, che soffre spesso di gelosia, perché per statuto letterario colei che scrive si considera abbandonata o tradita 67. I segni lasciati dalla puella sul collo di Licota 68, indizi evidenti dell’oltraggiata fides coniugale, sarebbero per Aretusa fonte di lacrime, anzi – come fa capire plorare, che altrove Properzio impiega per definire il pianto implorante degli amanti 69 – di quel pianto disperato e privo di ritegno 70, che è tipico soprattutto delle donne.
65 Adsidere, in rapporto antinomico rispetto ai verbi che nei versi precedenti indicavano le attività di tessitura e di cucitura (v. 33 laboro; v. 34 suo), è termine largamente usato per esprimere il conforto a persone afflitte (ThlL II 877, 35 sgg.) e definisce talora la presenza costante e prolungata nelle veglie funebri. 66 Numerosissimi sono gli esempi che attestano la topica gelosia del poeta elegiaco verso la donna amata: in Properzio cfr. e.g. 1, 11, 7-8. 13-16; 2, 6, 7-14; 2, 19, 16. 27-28. 32; 2, 29, 23-24; 2, 32, 17; in Tibullo cfr. 1, 6, 5-8; tra le Eroidi ovidiane si rinvia in particolare a 16, 215-228, dove Paride, che interpreta alla perfezione il ruolo dell’amante elegiaco, descrive minuziosamente la sua profonda gelosia nei confronti di Menelao, il quale, sebbene rusticus e beffato, può legittimamente godere delle grazie di Elena; in Her. 20, 135-148 anche Aconzio esprime con accenti fortemente patetici la sua gelosia, che – con un’oratio ficta caratterizzata dalle incalzanti interrogative – lo induce a rivolgersi imperiosamente agli altri uomini per dissuaderli dal corteggiamento della sua Cidippe. 67 Contesti esemplari delle Heroides sono 2, 103-104; 3, 114 (con Barchiesi ad loc.); 5, 3. 59-60; 6, 79-82; 7, 17-18; 9, 47-48; 17, 95-96; 19, 101-104; 115-118 (con Rosati ad loc.). 68 L’espressione per tua colla del v. 26 fa pensare a lividi lasciati su tutto il collo. 69 Cfr. e.g. 2, 14, 14 e 3, 12, 1. 70 Cfr. OLD s.v. ploro [1a] e [2a] e Ernout – Meillet 1985, 516, s.v. ploro.
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Nell’epistola ovidiana il motivo della gelosia (vv. 75-76 Haec ego dum stulte metuo, quae vestra libido est, / esse peregrino captus amore potes) è strettamente connesso con la lettura ‘elegiacamente irriverente’ di quello della tessitura, perché nel distico successivo (Forsitan et narres quam sit tibi rustica coniunx, / quae tantum lanas non sinat esse rudes) Penelope si spinge a denigrare implicitamente l’attività che la contraddistingue: il texere, infatti, indizio di rusticitas 71, potrebbe indurre l’amato a preferire un peregrinus amor; sebbene qui rudis sia riferito alle lanae, all’epiteto forse non è estranea una sfumatura erotica, perché l’aggettivo connota l’inesperto nei giochi d’amore 72; rudis si definisce l’ingenua Aretusa, nel ricordo della passione con cui, nella prima notte di nozze, Licota l’abbraccia (4, 3, 12 cum rudis urgenti bracchia victa dedi); in entrambi i casi, infine, al personaggio della rivale è riservato solo un accenno generico e indistinto: 4, 3, 25 ulla puella; Her. 1, 76 peregrinus amor. Come il più tradizionale degli amanti elegiaci e secondo un paradigma di chiara ascendenza virgiliana, per raggiungere il suo Licota e sia pure con le degradate sembianze di una sarcina fida 73, Aretusa sarebbe disposta ad affrontare le proibitive condizioni climatiche: si tratta di una sorprendente novità, perché la donna innamorata non è più l’amante elegiaca, ma la moglie legittima 74. Tuttavia, sono proprio i doveri tipici di una matrona romana a costituire un ostacolo insormontabile al desiderio di Aretusa di ricongiungersi all’amato e la distanza da Licota rimane Su rusticus si rinvia alle osservazioni di Barchiesi 1992, 25-26. Cfr. Pichon 1902, 255 e OLD s.v. rudis [5b]; con tale accezione rudis ricorre spesso sia in Properzio (1, 9, 8; 2, 6, 30; 2, 34, 82; 3, 15, 5; 3, 17, 7) sia in Ovidio (Am. 2, 1, 6; Her. 4, 23; 17, 141-142, con il commento di Michalopoulos 2006 ad loc.; Ars 3, 559; Met. 9, 720 e 10, 636). 73 Nell’ottica elegiaca in cui va inserita l’epistola non stupisce la presenza della ‘iunctura’ sarcina fida, in cui fidus, termine pregnante nel lessico erotico, riporta in primo piano anche il massimo valore morale per i Romani. 74 Il topos delle avversità atmosferiche che l’amante elegiaca non teme di affrontare, pur di rimanere accanto all’amato, compariva già in 1, 8, 7-8 tu pedibus teneris positas fulcire pruinas, / tu potes insolitas, Cynthia, ferre nives, a proposito di Cinzia, caparbiamente decisa a seguire in terre lontane l’amante di turno. Là il modello era costituito dal celebre contesto virgiliano di Buc. 10, 22-23 “Galle, quid insanis?” inquit, “tua cura Lycoris / perque nives alium perque horrida castra secutast” e 46-49 tu procul a patria, nec sit mihi credere tantum! / Alpinas, a! dura nives et frigora Rheni / me sine sola vides. A! te ne frigora laedant! / a! tibi ne teneras glacies secet aspera plantas. 71 72
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incolmabile, per chi, come lei, è estranea al mondo della guerra. Da tale consapevolezza scaturiscono il makarismós della regina delle Amazzoni – che, invece, poté indossare le armi e combattere – e l’auspicio – espresso, però, con la certezza che mai si potrà realizzare – di un cambiamento radicale del sistema militare romano, che non prevedeva il reclutamento delle donne (vv. 43-48 Felix Hippolyte! Nuda tulit arma papilla / et texit galea barbara molle caput. / Romanis utinam patuissent castra puellis! / Essem militiae sarcina fida tuae, / nec me tardarent Scythiae iuga, cum Pater altas / astricto in glaciem frigore vertit aquas). Con un’impostazione vagamente cronachistica, Penelope riferisce il ritorno degli altri Argolici duces e descrive i rituali votivi allestiti in segno di ringraziamento agli dèi (vv. 25-26 Argolici rediere duces; altaria fumant; / ponitur ad patrios barbara praeda deos); subito dopo, però, la menzione dei grata dona offerti da chi, più fortunata di lei, ha potuto riabbracciare il marito lascia trapelare al contempo un po’ di invidia e una profonda amarezza per l’assenza immotivata di Ulisse: in Her. 1, 27 Grata ferunt nymphae pro salvis dona maritis, l’epiteto gratus, che con raffinata ipallage attribuisce il sentimento di gratitudine per il ritorno dei prodi combattenti non alle donne greche, ma ai doni votivi, ricorda Prop. 4, 3, 72 grata puella. Il fitto gioco intertestuale tra l’eroide ovidiana e l’epistola di Aretusa continua con l’espressione pro salvis … maritis (v. 27), allusivo dell’iperbato properziano salvo … viro (4, 3, 72), che incornicia l’iscrizione dedicatoria: in Properzio – ma forse anche in Ovidio – l’aggettivo ha valore anfibologico, perché va inteso sia con l’accezione di ‘salvo’, che con quella di ‘fedele’ 75. Dal canto suo, nel riprendere lo schema del makarismós properziano delle Amazzoni, in Her. 13, 137‒146 Laodamia esprime senza mezzi termini l’invidia per le donne Troiane, che hanno potuto godere, prima e dopo la guerra, della vicinanza dei rispettivi mariti; la totale abnegazione di Laodamia, che deriva essenzialmente dal suo ruolo di comes fedele, riaffiora nella conclusione dell’epistula (v. 161 m e tibi venturam c o m i t e m , quocumque 75 Non a caso Heyworth 1999, 80 rinvia a 2, 9a, 3-4 Penelope poterat bis denos salva per annos / vivere, tam multis femina digna procis.
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vocaris), in cui le parole cruciali della donna sono connotate da un forte presagio di morte 76. Nella conclusione dell’epistola Penelope prende le distanze da Aretusa – che, nel raffigurarsi come puella (4, 3, 71-72 armaque cum tulero portae votiva Capenae, / subscribam SALVO GRATA PVELLA VIRO), guarda speranzosa e ottimista al futuro – ma non da Properzio; in Her. 1, 115-116 certe ego, quae fueram te discedente puella, / protinus ut venias, facta videbor anus, nel timore di apparire vecchia agli occhi di Ulisse, da un lato il personaggio ovidiano sancisce il divorzio dall’archetipo omerico, che non si preoccupa affatto dell’invecchiamento, dall’altro propone un suo ennesimo travestimento elegiaco; in 2, 9a, 7-8 visura et quamvis numquam speraret Ulixem, / illum exspectando facta remansit anus, infatti, Properzio ripropone la figura di Penelope come paradigma di fedeltà che rimane immutata nel tempo 77, perché pur nella consapevolezza di non poterlo riabbracciare Penelope aspettò paziente il marito e preservò la sua fedeltà fino alla vecchiaia (facta anus) 78. 4. Il debito contratto dall’epistolografia ovidiana con l’elegia di Properzio non si limita alla presenza di rivoli intertestuali con funzione positiva o oppositiva 79 e va oltre il concetto del palinsesto elegiaco 80, su cui si innesta un nuovo genere 81: da Properzio – e non solo dal IV libro – situazioni, modelli e codici espressivi, che costituiscono la sintassi narrativa dei rari momenti in cui 76 Sarà lo stesso ruolo di donna fedele e devota anche al di là della morte che, presente già in Prop. 1, 19, 7-10, caratterizza costantemente il personaggio di Laodamia in Ovidio, dalla prima produzione erotica (Am. 2, 18, 38 e Ars 3, 17-18) sino all’epistolografia dell’esilio (Trist. 1, 6, 20 e Pont. 3, 1, 109-110). 77 Cfr. Barchiesi 1992, 103-104. 78 In 2, 9a, 7 la centralità di numquam, seguito subito dopo da speraret, dà rilievo all’illusione dell’eroina, la cui lunga attesa nel v. 8 è segnalata anche dal ritmo spondaico del primo emistichio e dal polisillabico expectando. 79 Sull’intertestualità nelle Heroides si rinvia almeno a Hinds 1993, 9-47, a Jolivet 2001 e a Fulkerson 2009, 81-82. 80 Mutuo l’espressione da Landolfi 2000, 163. 81 A sua volta, l’elegia stessa, sebbene strutturata in un genere, spesso tradisce l’aspirazione a superare i limiti imposti dal genere stesso «and this often sparks fresh literary experiences. The competing genres represent a sort of ‘escape route’ to an alternative world longed for as consolation for the suffering of unhappy all-consuming love (and of a poem)»: Piazzi 2013, 237.
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è la donna a parlare, confluiscono, codificati in un genere, nelle Heroides, che affidano alla donna il ruolo di effettiva protagonista 82. Sulla scorta di Properzio, l’epistolografia ovidiana elimina l’aspetto più distorsivo e paradossale dell’elegia, che riservava un silenzio quasi assoluto al suo personaggio più importante: la funzione autorale consentirà all’eroina ovidiana di parlare (e di scrivere) in prima persona, con inventiva e originalità sorprendenti, ma con un’altrettanta ben riconoscibile retorica 83, che riconduce a un testo-sorgente inequivocabile.
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82 Cfr. Kenney 1982, 423: «In general in the Heroides Ovid can be seen reverting to a traditional pre-elegiac view of love as a passion felt in its full intensity only by women». 83 Cfr. Rosati 1992, 93.
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AD CONIUGEM SUUM, DA PROPERZIO A OVIDIO
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Abstracts Con le sue opere giovanili Ovidio interpreta lo spirito che alimenta la nuova era anche attraverso la sperimentazione di tipologie poetiche diverse come le Heroides, che rivelano una dinamica compositiva di ascendenza alessandrina. Le Heroides inaugurano un tipo di sperimentalismo letterario, che diverrà costante in tutta la carriera poetica ovidiana e al tempo stesso prendono spunto dall’elegia properziana, come rivela la fedeltà al tema amoroso e la tendenza a dar voce alle figure femminili che emerge in particolare nel IV libro. Già in Properzio la voce elegiaca affidata alla donna proclama l’adesione al sistema etico tradizionale, mentre il partner si mostra irriguardoso nei confronti di tali valori, che viola sistematicamente; nel percorso che da Properzio conduce all’epistolografia ovidiana, l’elegia di Aretusa occupa uno spazio liminare, in cui coesistono, tratti elegiaci e aspetti originali della coppia di innamorati; la conciliazione dei caratteri costituirà la cifra dell’epistolografia ovidiana. With his youthful works, Ovid interprets the spirit that feels the new era through the experimentation of different poetic typologies like the Heroides, which reveal a compositional dynamics of Alexandrian ancestry. The Heroides inaugurate a type of literary experimentalism, which will become constant throughout the Ovidian poetic career and at the same time they take inspiration from the Propertian elegy, as revealed by the fidelity to the love theme and the tendency to give 125
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voice to the female figures emerging in particular in Propertian IV book. Already in Propertius the elegiac voice entrusted to the woman proclaims her adherence to the traditional ethical system, while the partner systematically violates these values, proving himself unresponsive. The path that leads from Propertius to the Ovidian epistolography certifies that the elegy of Arethusa occupies a liminal space, in which elegiac traits and original aspects of the couple of lovers coexist; the reconciliation of the characters will constitute the figure of the Ovidian epistolography.
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PAOLO FEDELI Università degli Studi di Bari, Aldo Moro
PROPERZIO E L’EPOS VIRGILIANO DALL’ANNUNCIO AL RICORDO
1. È di Properzio, nell’ultima elegia del II libro, la più antica testimonianza della nascente Eneide. Il suo atto d’omaggio può apparire ovvio e scontato, perché mira non solo al sommo poeta, ma anche all’illustre patrono e al principe stesso: tuttavia da un poeta d’amore in distici elegiaci, che più volte ha ribadito la propria adesione alla poetica callimachea, ci si attenderebbe anche in questa occasione un garbato ricorso alla recusatio, programmaticamente associata alla enfatizzazione della propria scelta di poesia. Nei vv. 59-64 di 2, 34, però, si assiste a un confronto pacato e rispettoso delle competenze e dei gusti tanto di Properzio, amante dei conviti e delle donne, quanto di Virgilio, intento a cantare la vittoria della flotta di Augusto ad Azio e a far rivivere le armi di Enea e le lontane origini di Roma: me iuvat hesternis positum languere corollis, quem tetigit iactu certus ad ossa deus; Actia Vergilium custodis litora Phoebi, Caesaris et fortes dicere posse rates, qui nunc Aeneae Troiani suscitat arma iactaque Lavinis moenia litoribus.
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Il riferimento alla battaglia aziaca (vv. 61-62) rinvia alla sua raffigurazione sullo scudo di Enea nell’VIII libro del poema epico (vv. 671-728): però la struttura del v. 61 è modellata su Aen. 3, 280 Actiaque Iliacis celebramus litora ludis 1, mentre ai vv. 63-64 è affi Brugnoli – Stok 1991, 135.
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I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 127-149 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120103
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dato il compito di alludere all’incipit dell’Eneide (1, 1-3 arma virumque cano Troiae qui primus ab oris / Italiam fato profugus Laviniaque venit / litora). Gli arma del v. 63 rinviano di per sé stessi all’Eneide con la sola citazione della sua parola iniziale; Aeneae Troiani oltre ad aggiungere il nome dell’eroe epico ne ricorda l’origine, come nel verso iniziale del poema epico, e Lavinis … litoribus ripropone i Lavinia … litora virgiliani (e può avere un qualche peso in favore di Lavinaque di una parte della tradizione virgiliana). Suscitat sta ad indicare che Virgilio è stato capace di ridestare da un lungo sonno una materia da tempo inerte. L’allusione ai temi principali dell’Eneide prelude a uno straordinario elogio del poema che sta vedendo la luce, con l’invito ai latini e ai greci a farsi da parte e a riconoscere la loro inferiorità nei confronti di un’opera destinata a maggiore grandezza della stessa Iliade (2, 34, 65-66): Cedite Romani scriptores, cedite Grai! Nescio quid maius nascitur Iliade.
Elio Donato, la cui biografia virgiliana dipende dal perduto De poetis di Svetonio, cita il distico 2, ma lo fa precedere da una frase che colloca la testimonianza properziana in un’epoca troppo vicina all’inizio della composizione dell’epos virgiliano: Aeneidos vixdum coeptae tanta extitit fama, ut Sextus Propertius non dubitaverit sic praedicare: ‘cedite … Iliade’. L’unico elemento utile a fissare una meno approssimativa cronologia dell’ultima elegia del II libro (l’accenno al recente suicidio di Cornelio Gallo: vv. 91-92 modo … mortuus) non ci consente di allontanarci troppo dal 26-25 a.C.: di contro il vixdum di Elio Donato anticipa l’annuncio di Properzio al 29-28 a.C., quando a malapena era noto il suo I libro di elegie, in cui è costante sin dalla prima la presenza del Virgilio bucolico e si avverte anche quella del Virgilio delle Georgiche. Il poeta umbro non è ancora entrato nell’orbita di Mecenate, e la dedica del I libro a Lucio Volcacio Tullo lega la sua prima fatica poetica a quella parte dell’aristocrazia conterranea che aveva accettato di buon grado, nonostante i Perusina patriae sepulcra (1, 22, 3), il potere di Augusto. Vita Verg. 105 Hardie.
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Una volta accolto, dopo il successo del I libro, nella cerchia dei poeti protetti da Mecenate, il poeta elegiaco d’amore deve confrontarsi con la tendenza a favorire l’epos e, come già Orazio, ricorre alla recusatio, che non esclude, ma anzi prevede, ampi riconoscimenti nei confronti di quanti cantano le gesta gloriose dei grandi condottieri: Properzio lo fa sin dalla I elegia del II libro, rivolgendosi appunto a Mecenate, suo nuovo patrono e dedica tario della nuova raccolta. Virgilio è già divenuto un punto di riferimento anche per chi ha fatto una scelta di poesia del tutto diversa: non solo il Virgilio delle Bucoliche e delle Georgiche, ma anche il Virgilio del l’Eneide che, come ricorda Elio Donato 3, particulatim componere instituit … et nihil in ordinem arripiens. Ampiamente diffusa fra gli studiosi properziani è la tendenza a ritenere che allusioni di Properzio all’epos virgiliano non esistano prima del l’elogio dell’ultima elegia del II libro, e si ammette con una certa riluttanza che Properzio possa avere ascoltato dalla bocca di Virgilio «das bereits vollendete Proömium» 4. Ma un testo antico – vale la pena di ricordarlo – prima di venire fissato dall’autore nella forma definitiva è un testo in movimento, aperto ai ripensamenti dell’autore stesso e all’apporto critico di una cerchia ristretta di sodales: 5 in conversazioni private o, nella maggior parte dei casi, in letture (recitationes) dell’autore stesso di fronte a un esiguo numero di intenditori 6. Il poeta elegiaco, dunque, avrà avuto modo di conoscere contesti più o meno ampi, appunti, brogliacci che Virgilio andava sottoponendo ai poeti vicini a Mecenate. Ora che ha la possibilità di assistere alle recitationes di contesti della nascente Eneide, le allusioni all’epos virgiliano si moltiplicano sin dalle elegie tramandate all’inizio del II libro. Non è il caso, qui, di riprendere un problema talmente complesso, qual è quello della originaria costituzione del II libro 7: mi limito a ribadire la mia convinta adesione alla ipotesi di Lachmann, secondo cui quello che la tradizione manoscritta tra Vita Verg. 85-87 Hardie. Tränkle 1960, 53. 5 Cfr. la testimonianza di Q uintiliano (Inst. 10, 3, 31-33) e Cavallo 1989, 315. 6 Fedeli 1989, 352-353. 7 Ampia discussione in Fedeli 2005, 21-34. 3 4
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manda come II libro è il risultato di un assemblaggio talora caotico di due libri diversi. Mi sembra certo, in ogni caso, che in quello tràdito dai manoscritti come II libro esistano tracce dell’epos virgiliano ben prima dell’enfatico annuncio nell’ultima elegia. Mi limito a un esempio 8: quello di 2, 8, 17-20, in cui è chiara l’allusione alla tragica fine della vicenda d’amore della regina di Cartagine con Enea: sic igitur prima moriere aetate, Properti? Sed morere! Interitu gaudeat illa tuo, exagitet nostros Manes, sectetur et umbras, insultetque rogia, calcet et ossa mea!
Al suicidio progettato da Properzio, sconvolto dal tradimento di Cinzia, corrisponde quello che Didone, abbandonata da Enea, decide di realizzare (Aen. 4, 659-662). dixit, et os impressa toro ‘moriemur inultae, sed moriamur’ ait; ‘Sic, sic iuvat ire sub umbras. Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto Dardanus et nostrae secum ferat omina mortis!
I vv. 17-18 dell’elegia ripropongono non solo il poliptoto del verbo mori col futuro seguito da una forma iussiva (moriemur … moriamur in Virgilio, moriere … morere in Properzio), ma anche, in successione invertita, sia sic sia sed. Un’analoga successione di congiuntivi caratterizza in Virgilio la presa di coscienza, auspicata da Didone, della sua tragica fine da parte dell’amante che l’ha abbandonata (hauriat … ferat), in Properzio la scomposta e becera esultanza di Cinzia alla notizia della morte del poeta (vv. 18-20 gaudeat … exagitet … sectetur … insultet … calcet). Ma c’è di più: nei due esametri che precedono la decisione di darsi la morte, Didone si era chiesta quanto diversa sarebbe stata la sua vita se Enea non fosse approdato a Cartagine, e aveva concepito un singolare makarismós (4, 657-658): felix, heu nimium felix, si litora tantum numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae! Altri casi certi sono rappresentati da 2, 2, 5-7 e Verg., Aen. 1, 46-47 e 4, 62 (Fedeli 2005, 113-114); 2, 11, 3-4 e Verg., Aen. 6, 428-429 (Fedeli 2005, 337); 2, 14, 17-18 e Verg., Aen. 9, 383 (Fedeli 2005. 426). 8
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Dal patetico contesto virgiliano dipende l’altrettanto singolare makarismós di Roma, che per Properzio potrebbe definirsi straordinariamente fortunata, se fosse soltanto Cinzia a violare i sani costumi (2, 32, 43-44): O nimium nostro felicem tempore Romam, si contra mores una puella facit!
Il makarismós di Didone non potrà mai concretizzarsi, perché le navi di Enea sono approdate a Cartagine; irrealizzabile è anche quello formulato da Properzio, perché nella Roma dei tempi suoi non una, ma molte donne contra mores faciunt. Ben si giustifica che la vicenda di Didone abbandonata da Enea abbia esercitato una forte suggestione sull’innamorato elegiaco, che proprio nei tradimenti da parte dell’amata trova un costante alimento per la sua poesia. L’epos gli offre la situazione opposta, dai ruoli invertiti e dunque tutt’altro che paradossale: ma proprio il confronto della condizione del perfidus hospes dell’epos con quella del servus amoris dell’elegia pone ancor più in risalto l’atteggiamento anticonvenzionale della poesia d’amore e dei suoi protagonisti. 2. Nell’ultima elegia del II libro Properzio ha accortamente collocato l’ampia sezione virgiliana (vv. 61-80) fra una rinnovata dichiarazione di fedeltà alla sua vocazione di poeta d’amore (vv. 55-60) e una rassegna dei poeti latini che l’hanno preceduto nel canto della donna amata (dal v. 81 alla conclusione dell’elegia). Il lettore augusteo, che vi ha scorto un impegno del poeta d’amore a proseguire lungo la stessa strada, di fronte al III libro sarà rimasto deluso: diversamente da quanto è avvenuto sia nel I sia nel pur problematico II libro, non solo di Cinzia non si parla affatto nell’elegia incipitaria del III, ma nel corso del libro intero il suo nome compare soltanto in tre occasioni (due delle quali proprio nell’ultima elegia, quella che sancisce il distacco da Cinzia e dai versi d’amore per lei). All’inizio del nuovo libro Properzio si preoccupa di definirne il programma e di mettere in chiaro le proprie scelte; alla fine dà il suo addio a Cinzia e alla poesia d’amore, e ne chiarisce la ragione. Credo, però, che la ‘svolta’ nella produzione poetica di Properzio, destinata a realizzarsi nel III libro, sia già stata anticipata ai lettori augustei proprio dall’ampia sezione virgiliana di 2, 34, in cui 131
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il poema epico destinato addirittura a superare l’Iliade costituisce il coronamento di una carriera poetica che, nella presentazione di Properzio, è stata inaugurata dalla poesia d’amore: è questo, infatti, l’unico aspetto delle Bucoliche che Properzio mette in risalto nella loro ampia presentazione (2, 34, 67-76): Tu canis umbrosi subter pineta Galaesi Thyrsin et attritis Daphnin harundinibus, utque decem possint corrumpere mala puellas missus et impressis haedus ab uberibus. Felix, qui viles pomis mercaris amores! Huic licet ingratae Tityrus ipse canat. Felix intactum Corydon qui temptat Alexin agricolae domini carpere delicias! Q uamvis ille sua lassus requiescat avena, laudatur faciles inter Hamadryadas
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Virgilio, poi, si era dato alla riflessione sul mondo della natura e alla precettistica delle Georgiche, per raggiungere, infine, trionfalmente il traguardo dell’epos (2, 34, 77-80): Tu canis Ascraei veteris praecepta poetae, quo seges in campo, quo viret uva iugo. Tale facis carmen, docta testudine quale Cynthius impositis temperat articulis.
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Con una tale presentazione del cursus poetico di Virgilio, il poeta elegiaco ha voluto far capire ai lettori che la sua poesia d’amore era solo la prima tappa del suo programma poetico e del suo modo di far poesia: lo si avverte nel tono riduttivo e, tutto sommato, difensivo con cui introduce quella che vuol essere l’esaltazione del suo impegno poetico (2, 34, 81-84): Non tamen haec 9 ulli venient ingrata legenti, sive in amore rudis sive peritus erit. Nec minor hic animis, ut sit minor ore, canorus anseris indocto carmine cessit olor.
Nella chiusa del II libro, Properzio ribadisce la vitalità del suo canto d’amore, ma al tempo stesso, paradossalmente, ne decreta Haec, sc. carmina, che si deduce da carmen del v. 79.
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già la fine, in attesa di celebrarne le esequie nell’ultima elegia del III libro. Il lettore se ne rende conto nel catalogo conclusivo dei poeti che hanno legato per sempre il nome della donna amata ai loro versi: Properzio e Cinzia chiudono la serie per quinti, dopo Varrone Atacino e Leucadia, Catullo e Lesbia, Licinio Calvo e Q uintilia, Cornelio Gallo e Licoride (2, 34, 85-94): haec quoque perfecto ludebat Iasone Varro, Varro Leucadiae maxima flamma suae; haec quoque lascivi cantarunt scripta Catulli, Lesbia quis ipsa notior est Helena; haec etiam docti confessa est pagina Calvi, cum caneret miserae funera Q uintiliae; et modo formosa quam multa Lycoride Gallus mortuus inferna vulnera lavit aqua! Cynthia † quin etiam † versu laudata Properti, hos inter si me ponere Fama volet.
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Lo stato in cui ci è giunto il testo delle elegie di Properzio non ci consente di ricostruire con assoluta certezza il v. 93: comunque, sia che si corregga con Barber il tràdito quin etiam in quin vivet, sia che si preferisca – come io stesso ora preferisco – Cynthia iam quinta est proposto da Silvia Ottaviano 10, il distico lascia l’impressione di un traguardo ormai raggiunto, di una storia già scritta, di una vicenda poetica ormai conclusa e, dunque, anticipa al lettore la svolta del III libro: dove, non a caso, sarà il Virgilio delle Georgiche ad occupare un ruolo di preminenza e muterà sensibilmente l’atteggiamento del poeta elegiaco nei confronti della poesia epica. A me sembra, dunque, che la ricostruzione della carriera poetica di Virgilio, che era ben nota ai lettori augustei, acquisti un senso se agli occhi di Properzio essa costituisce un itinerario ideale, che muove dalla giovanile esperienza nel campo della poesia d’amore (le Bucoliche), per passare poi al mondo dei campi e della natura, e per raggiungere infine il traguardo dell’epos, che esalta le origini di Roma e la sua gloria sino al tempo di Augusto. Se il poeta elegiaco d’amore mette a confronto il suo col cursus poetico di Virgilio, può solo dire di aver compiuto il primo stadio, quello che spetta all’età giovane. Ottaviano 2009, 165-174.
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Egli stesso, d’altronde, lo ha già messo in chiaro in 2, 10: una singolare elegia, questa, che ripropone gli interrogativi sul l’origine dell’attuale II libro, perché non ha senso lì dove la tradizione manoscritta ce la tramanda, per di più prima di un frammento di appena 6 versi, che sin dalle prime parole ha tutto l’aspetto di un addio definitivo a Cinzia (2, 11, 1 scribant de te alii vel sis ignota licebit). L’esordio di 2, 10 mette i lettori di fronte a un serio proposito di scrivere poesia epica, perché all’età giovane si addice il canto d’amore, alla maturità il canto di guerra (2, 10, 1-8): Sed tempus lustrare aliis Helicona choreis et campum Haemonio iam dare tempus equo. Iam libet et fortes memorare ad proelia turmas et Romana mei dicere castra ducis. Q uod si deficiant vires, audacia certe laus erit: in magnis et voluisse sat est. Aetas prima canat Veneres, extrema tumultus: bella canam, quando scripta puella mea est.
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Properzio, però, dopo aver esortato le Muse a concedergli un magnum os e dopo aver indicato le imprese di Augusto che intende cantare, confessa di non sentirsi ancora all’altezza di una simile impresa, e nel distico conclusivo ne indica la causa (2, 10, 25-26): nondum etiam Ascraeos norunt mea carmina fontes, sed modo Permessi flumine lavit Amor.
Q uale che sia l’interpretazione degli Ascraei fontes 11, ad Esiodo rinvia l’epiteto, ed è lo stesso che in 2, 34, 77 caratterizza il passaggio di Virgilio dalle Bucoliche alle Georgiche. Se ne può dedurre che già in 2, 10 Properzio ha chiara coscienza che il passaggio dalla poesia d’amore, che è tipica dell’aetas prima, alla poesia epica, che è propria dell’aetas extrema, non può essere immediato, ma prevede una fase intermedia di riflessione, prima che s’imbocchi una nuova via. In tal senso la carriera poetica di Vir gilio diviene un esempio da imitare: ricordarla ai lettori che ben la conoscono non è fatica inutile, ma assume il valore di un impegno per il futuro. Butrica 1996, 121-126 corregge fontes in montes.
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3. Q uesto può spiegare perché mai il III libro vada in più direzioni, senza decidersi a prenderne una: sino alla fine, quando in modo clamoroso, ma non inatteso, verrà sancito il distacco da Cinzia e dalla poesia d’amore. Le 5 elegie iniziali vedono Properzio impegnato a confermare un devoto rispetto alla poetica di Callimaco e di Filita. Ora, però, la convenzionale contrapposizione della poesia d’amore, che è poesia di pace, a quella epica, che canta le guerre apportatrici di lutti, non esclude una possibilità di dialogo e di conciliazione fra due generi sinora ritenuti antitetici: nella prima elegia del III libro a fare da tramite fra epos e poesia d’amore è addirittura Omero, che grazie al canto delle vicende di Troia ha visto crescere costantemente nel corso dei secoli la fama della sua opera (3, 1, 33-34): nec non ille tui casus memorator Homerus posteritate suum crescere sensit opus.
È questo il modo scelto da Properzio, nella chiusa di un’elegia che vorrebbe ribadire l’opposizione stilistica del tenue al grande, per recuperare i motivi di validità del genere sinora program maticamente rifiutato: con l’accortezza, però, di tirare in ballo il suo sommo esponente e di citarlo quale esempio della fama immortale che spetta solo ai poeti sommi. Per il poeta in vena di cambiamenti si trattava, dunque, di trovare un modo elegante di ammettere la validità dell’epos, non solo di quello virgiliano, senza sconfessare la poesia finora coltivata. È quello che egli ha cercato di fare, ricorrendo anche in questo caso a Virgilio, nella IV elegia del III libro, che è aperta da un fiero annuncio di guerra imminente (3, 4, 1): Arma deus Caesar dites meditatur ad Indos.
Properzio vuole tributare un omaggio non solo al principe condottiero (deus Caesar), che è pronto a muovere guerra agli opulenti popoli dell’India, ma anche all’epos virgiliano: gli basta aprire l’elegia con l’accusativo arma, chiaro richiamo allusivo all’incipit dell’Eneide 12. La conferma è fornita sia dall’immediata 12 Alla stessa tattica ricorrerà, ma con scopi ed esiti ben diversi, Ovidio nel verso incipitario degli Amores.
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associazione agli arma del protagonista delle belliche imprese (arma virumque in Virgilio, arma deus Caesar in Properzio), sia dalla presenza di cano nell’identica sede d’esametro (arma virumque cano in Virgilio, omina fausta cano nel v. 9 di Properzio) e del nome di Enea nel v. 20. Q uello delle elegie iniziali del III libro è un compromesso che si regge su un fragile equilibrio. Non è un caso, infatti, che agli arma dell’incipit di 3, 4 si contrapponga la pax che, nell’incipit di 3, 5 caratterizza il dio dell’amore, perché le ‘battaglie’ degli amanti sono quelle che si combattono nel letto (3, 5, 1-2): Pacis Amor deus est, pacem veneramur amantes: stant mihi cum domina proelia dura mea.
Il poeta, però, si preoccupa di mettere in chiaro che il suo non è un impegno definitivo: il canto d’amore appartiene all’età giovane, ma ben altro è il programma per l’età matura. Q uando i suoi capelli cominceranno a tingersi di bianco, allora sarà giunto il tempo di porsi gli interrogativi cruciali: sui fenomeni naturali e sulla loro origine, su una possibile vita al di là della morte e sul l’esistenza dell’oltretomba (vv. 23-46). Una fitta trama allusiva lega l’ampia serie di interrogativi sui fenomeni naturali del contesto properziano ai vv. 475-482 del II libro delle Georgiche, in cui Virgilio manifesta la sua aspirazione a scrivere un poema scientifico che canti la natura e le sue leggi 13. In quanto alle guerre, che costituiscono l’argomento prediletto della poesia epica, ad esse è riservato nell’elegia properziana il distico conclusivo, con l’esortazione rivolta a quanti hanno preferito la vita militare perché riportino in patria le insegne sottratte dai Parti a Crasso (vv. 47-48). Non c’è dubbio che sia soprattutto il Virgilio delle Georgiche a far sentire il peso della sua presenza nel III libro, dalle elegie iniziali – che pur difendendo la scelta della poetica callimachea, hanno quale punto di riferimento il proemio del III libro delle Georgiche (vv. 1-48) – alle laudes Italiae destinate a convincere Lucio Volcacio Tullo a fare ritorno dall’Oriente e dalla Grecia (3, 22), che molto debbono alle laudes Italiae delle Georgiche Courtney, 1969, 70-72, Fedeli 1985, 188-190.
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(II 136-176). Tuttavia, anche in questo caso, Tränkle esagera per amor di tesi quando parla di una totale assenza dell’Eneide nel III libro delle elegie 14. Mi limito a un paio di esempi. Nell’epicedio di Peto, annegato in seguito a una violenta tempesta (3, 7), fra le raffinatezze esotiche e di gran pregio che caratterizzavano il suo stile di vita, Properzio inserisce un preziosissimo letto di terebinto 15 macedone (v. 49): sed thyio thalamo || aut Oricia terebintho.
La stessa chiusa d’esametro s’incontra in Virgilio (Aen. 10, 136): inclusum buxo || aut Oricia terebintho.
Non c’è dubbio che l’esametro sia di chiara fattura ellenistica: lo garantisce la chiusa con un quadrisillabo che è un calco dal greco, e ben si giustifica che Norden abbia pensato per entrambi i poeti latini a dipendenza dalla stessa fonte ellenistica 16. Però se c’è fonte comune deve trattarsi di fonte latina, perché i due esametri presentano lo stesso iato dopo l’incisione semiquinaria 17. La soluzione più probabile, di conseguenza, è quella che vede Virgilio modellare il suo esametro su un esametro di autore ellenistico 18 e Properzio dipendere anche nell’adozione dello iato dal verso di Virgilio. Nella stessa elegia lo sventurato giovane s’immagina la sorte che toccherà al suo cadavere, sbattuto dal mare in tempesta contro gli scogli aguzzi dove nidificano gli alcioni (3, 7, 61-62): a miser, alcyonum scopulis affligar acutis! In me caeruleo fuscina sumpta deo est!
L’analogia con l’omerico Odisseo perseguitato da Nettuno, mentre sta per raggiungere la terra dei Feaci (Hom., Od. 5, 291-292), Tränkle 1960, 53. Sul terebinto cfr. Plin., Nat. 16, 231 e sulla sua provenienza dal porto illirico di Orico, a nord del promontorio dell’Acroceraunia, Fedeli 1985, 264-265. 16 Norden 1916, 438 n. 41. 17 Platnauer 1951, 57-59. 18 Probabile modello di Virgilio è Nicandro (Ther. 516): cfr. Harrison 1991, 97, Heyworth – Morwood 2011, 164. 14 15
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non va al di là della rappresentazione convenzionale del dio del mare che brandisce il tridente, nel caso di Peto per scatenare la tempesta. Nell’esametro, invece, si avverte la presenza di Virgilio (Aen. 1, 44-45): turbine corripuit scopuloque infixit acuto.
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Sono parole di Giunone, sdegnata perché a lei non è concesso di prendere su Enea e i suoi la stessa vendetta di Pallade Atena su Aiace d’Oileo. Properzio ha enfatizzato il motivo del lamento e della solitudine del naufrago in procinto di annegare ricorrendo agli alcioni, uccelli solitari e lamentosi per eccellenza a causa del loro grido struggente: però egli ha adottato la stessa ‘iunctura’ e il verbo affligere, che all’interno di essa si colloca, richiama fonicamente il virgiliano infigere. Ma c’è di più: la Giunone virgiliana non si limita alla protesta, ma riesce a convincere Eolo a scatenare la procella sulle navi di Enea: non solo Properzio ha adattato alla situazione di Peto il lamento di Enea (Aen. 1, 92-106) che s’immagina naufrago e ormai prossimo alla morte, ma la descrizione stessa dell’annegamento (3, 7, 65) dipende dall’identico contesto dell’Eneide, dov’è il nocchiero a precipitare a capofitto nel vortice che lo inghiotte (Aen. 1, 116-117). Nel contesto virgiliano, al dio del mare è assegnato un ruolo inconsueto: non è Nettuno, infatti, a sfogare la sua ira su Enea, allo stesso modo dell’omerico Poseidone su Odisseo; al contrario, il virgiliano dio del mare inveisce contro Eolo e i venti, colpevoli di aver agito di loro iniziativa e a sua insaputa. Properzio ha ricondotto Nettuno al suo ruolo di protagonista in senso negativo nello scatenamento di una tempesta esiziale; invece nell’Eneide il tridente, di cui Nettuno rivendica l’esclusivo possesso nel suo imperioso ‘Diktat’ ai venti (1, 137-139), non infierisce sui naufraghi, ma svolge una funzione salvifica, perché il dio del mare se ne serve per disincagliare e sollevare le navi acuto … scopulo! Di nuovo, quindi, s’incontra la stessa ‘iunctura’ del v. 45 e del pentametro properziano. Ed è proprio alla luce del contesto dell’Eneide che il lamento di Peto acquista il suo giusto valore e il suo senso pieno: quando, infatti, esclama ‘in me caeruleo fuscina sumpta deo est’, egli sottolinea l’ingiustizia subita per l’atteggiamento del dio del mare nei suoi confronti; Nettuno si è servito del 138
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tridente a suo danno (in me), ben diversamente da quanto è avvenuto nel caso di Enea e dei rari nantes in gurgite vasto del naufragio nel I libro dell’epos virgiliano. Nell’XI elegia del III libro la battaglia di Azio è considerata come uno scontro fra Occidente e Oriente che coinvolge non solo le opposte schiere, ma anche le loro divinità: identica è la posizione di Virgilio, nella raffigurazione dello scontro navale sullo scudo di Enea (Aen. 8, 678-713). Properzio non può nascondere il suo stupore di fronte all’audacia di quella meretrix regina che ha osato contrapporre al sovrano degli dèi venerati dai Romani il suo latrante Anubi (3, 11, 41): ausa Iovi nostro latrantem opponere Anubim.
Virgilio nella sua ekphrasis non può fare a meno d’indugiare sugli artistici particolari (Aen. 8, 698-705): omnigenumque deum monstra et latrator Anubis contra Neptunum et Venerem contraque Minervam tela tenent, saevit medio in certamine Mavors caelatus ferro tristesque ex aethere Dirae et scissa gaudens vadit Discordia palla, quam cum sanguineo sequitur Bellona flagello. Actius haec cernens arcum intendebat Apollo desuper.
A Properzio, che non ha il compito di descrivere un’artistica rappresentazione qual è quella dello scudo di Enea, basta citare il sovrano degli dèi e mettere in chiaro col possessivo che Giove è il dio supremo dei Romani (Iovi nostro): Virgilio lascia fan tasticare i lettori sulla presenza nel campo avverso di ogni specie di mostruose divinità; però la sola immagine che cita è quella del latrator Anubis, l’unica che anche Properzio oppone al sommo Giove dei Romani. Q uelle di Virgilio e di Properzio sono le prime attestazioni di latrator e di latrans in riferimento ad Anubi. 4. Il III libro si chiude con l’addio a Cinzia e ai versi d’amore finora scritti per lei. Alla riflessione sui segreti della natura e su quelli esistenziali Properzio aveva previsto di consacrare l’età matura (3, 5, 23-46): restava sempre aperto, però, il colloquio 139
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avviato con la poesia epica, sin da quando l’elegia incipitaria del II libro aveva fissato una netta distinzione fra la materia epica da evitare e quella da privilegiare. Allora Properzio (2, 1, 17-26) aveva escluso dai suoi orizzonti epici non solo gli argomenti mitici (Titanomachia e Gigantomachia, ciclo tebano e guerra di Troia) e la celebrazione di imprese straordinarie (il taglio dell’istmo nel monte Athos), ma addirittura il canto delle origini di Roma e dei successi di Mario contro i Cimbri. Per lui le uniche guerre degne di essere celebrate nella poesia epica sono quelle combattute e vinte da Augusto a Modena, a Filippi, a Perugia, a Nauloco e ad Azio (2, 1, 27-34), oppure quelle che il principe sta progettando contro i popoli d’Oriente fieramente indomiti e che certamente porterà a compimento. C’è da dubitare che un simile programma di epica esaltazione delle imprese di Augusto equivalga alla scelta del poema epico in esametri di tipo virgiliano: Properzio avrà concepito piuttosto un cambiamento dei contenuti e dello stile della poesia in distici elegiaci. D’altronde quando egli confessa la sua inadeguatezza nel Caesaris in Phrygios condere nomen avos (2, 1, 42), il suo diniego di cantare Augusto in esametri (il durus versus dell’epos) risalendo agli antenati troiani non va inteso come una presa di distanza dall’Eneide, che invece si proponeva di realizzare proprio quel programma: il solenne verbo condere unisce all’idea della celebrazione quella della fondazione. Properzio, dunque, proclama che nel caso di Augusto si tratta di ‘fondare’ il suo nomen sulle sue origini frigie: un canto di questo tipo rappresenta, dunque, una rifondazione e ricodificazione del genere epico. Implicito è l’elogio di Virgilio, che a tale impresa si è accinto. Stabilire l’epoca di diffusione del III libro è impresa ardua, perché l’unico elemento cronologico sicuro è fornito dall’epicedio di Marcello (3, 18), che è ragionevole datare a ridosso della morte dello sventurato giovane (nel 23 a.C.). Appare evidente, in ogni caso, che un considerevole intervallo separa il III libro dal IV, il cui terminus post quem ci rinvia al 16 a.C., l’anno delle due ele gie dell’ultimo libro sicuramente databili: la VI, in cui è ricordata la fine delle ostilità da parte dei Sigambri (v. 77) nello stesso anno in cui furono celebrati i ludi quinquennales nel XV anniversario della vittoria aziaca, e l’XI (v. 66) per la coincidenza della morte di Cornelia col consolato di P. Cornelio Scipione. 140
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In quegli anni è mutato il panorama culturale: Virgilio è morto nel 19 a.C. e due anni dopo Augusto ha affidato ad Orazio l’incarico di celebrare l’avvento della nuova età dell’oro nel Carmen saeculare. Tre lustri sono trascorsi da Azio, e in questa atmosfera s’inserisce l’ultimo libro delle elegie di Properzio, col suo tentativo di aprire nuove vie alla poesia elegiaca. È significativo che, in un complesso di 11 elegie, proprio ad Azio egli riservi, in apertura della VI, il ‘proemio al mezzo’, che oltre a celebrare la decisiva vittoria di Augusto vuole esaltare le potenzialità del distico elegiaco. Oltre agli amores il distico elegiaco è in grado di cantare anche gli arma, e può essere degnamente impiegato per celebrare lo scontro navale che ha segnato l’inizio di una nuova era per Roma. A distanza di tre lustri da quell’evento si è completato il percorso che ha condotto Properzio a una convinta adesione al programma di Augusto. L’elegia introduttiva fa capire ai lettori che dell’attività del principe il distico elegiaco di Properzio intende esaltare soprattutto l’aspetto più appariscente: il restauro di edifici sacri ormai fatiscenti, che attesta la pietas di Augusto e il suo rispetto dei valori della tradizione, e la costruzione di nuovi templi e di teatri, che sta mutando la fisionomia di Roma. A mostrargli la via era stato proprio Virgilio, che nella descrizione del triplice trionfo sullo scudo da Enea aveva insistito sul momento religioso, con la consacrazione di un numero infinito di templi agli dèi da parte di Augusto (Aen. 8, 714-716): at Caesar, triplici invectus Romana triumpho moenia, dis Italis, votum immortale, sacrabat maxima tercentum totam delubra per urbem.
Properzio sente l’esigenza di ridefinire il suo ruolo di poeta: quando nell’elegia incipitaria egli proclama (4, 1, 57) moenia namque pio conor disponere versu, mostra chiara consapevolezza che le sue parole accordano al poeta una dignità superiore: il poeta non solo è assimilato a un fondatore di città che è capace di sistemare in ordine perfetto le mura (disponere è verbo tecnico del l’architettura), ma unisce alle doti del perfetto artefice dei moenia la capacità di celebrarli poeticamente pio versu. Poco prima (v. 44), nell’immagine virgiliana di Enea in fuga dalla sua città in fiamme col padre Anchise e col figlioletto Ascanio, pii erano stati definiti gli umeri di Enea, che si era caricato sulle spalle il vecchio padre: 141
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ora l’epiteto non solo assimila Properzio ad Enea nel rispetto della pietas, ma ha lo scopo di ricordare al lettore lo scrupolo religioso che aveva costantemente caratterizzato l’epos virgiliano. Tutto questo è ben chiaro nel grande omaggio a Virgilio e all’Eneide in apertura del nuovo libro di poesia elegiaca: perché Properzio, che a uno straniero (hospes) indica i luoghi dove sta crescendo la Roma di Augusto, svolge l’identico ruolo di Evandro, che nell’VIII dell’Eneide mostra ad Enea i luoghi dove sorgerà Roma (vv. 307-368), dall’Ara Massima al Foro Boario sino al Palatino. La forza del modello è tale che Properzio fa suo non solo il ruolo di guida svolto da Evandro nell’Eneide, ma il suo modo stesso di esprimersi: apostrofandolo come hospes – come ora fa Properzio con l’immaginario visitatore – già Evandro si era rivolto ad Enea nell’indicargli la sede della Roma del futuro, e il suo gesto era identico a quello di Properzio (4, 1, 1 hoc quodcumque vides, hospes, qua maxima Roma est ~ Aen. 8, 362-365 haec … limina … haec … regia; e poi aude, hospes, contemnere opes et te quoque dignum / finge deo). L’Eneide – lo aveva ben capito il poeta elegiaco – apre una prospettiva sul futuro di Roma, che però si fonda sul passato e sulla sua continuità nel presente: in questo consiste, agli occhi di Properzio, la sua validità e la sua funzione di modello. Fondarsi sul passato significa risalire alle più lontane origini di Roma; di conseguenza l’omaggio di Properzio non è rivolto solo al Virgilio dell’VIII libro dell’Eneide: la breve sezione ‘troiana’ (4, 1, 39-54) è una sintesi dei contenuti essenziali del racconto di Enea a Didone nel II libro del poema epico: huc melius profugos misisti, Troia, Penates: heu quali vecta est Dardana puppis ave! Iam bene spondebant tunc omina, quod nihil illos laeserat abiegni venter apertus equi, cum pater in nati trepidus cervice pependit et verita est umeros urere flamma pios. Hinc animi venere Deci Brutique secures, vexit et ipsa sui Caesaris arma Venus, arma resurgentis portans victricia Troiae. Felix terra tuos, cepit, Iule, deos: si modo Avernalis tremulae cortina Sibyllae dixit Aventino rura pianda Remo, aut si Pergameae sero rata carmina vatis 142
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longaevum ad Priami vera fuere caput: ‘ Vertite equum, Danai! Male vincitis! Ilia tellus vivet et huic cineri Iuppiter arma dabit!’
Virgilio e l’Eneide si prestavano ad essere riadattati per manifesti scopi celebrativi: qui il poeta elegiaco non si è limitato a recuperare il motivo del dono delle armi fatto da Venere ad Enea, ma quel dono ha voluto trasferire al principe stesso (v. 46); in tal modo anche Venere assume il ruolo di divinità trionfante, perché è riuscita a garantire la rinascita di Troia (v. 47). Se si considera, poi, che si sono realizzate sia le profezie di Cassandra sia quelle della Sibilla (la cui presenza rinvia al VI dell’Eneide), è ovvio che si avvererà anche il vaticinio di Cassandra all’Anchise virgiliano sulla gloria imperiale dei discendenti di Enea (vv. 49-54) 19. Il trasferimento della materia epica nell’elegia implica in primo luogo un adeguamento dell’epica ampiezza alla brevitas del distico e della sua tendenza ad avere di per sé un senso compiuto. Proprio la sezione ‘troiana’ ci offre un esempio delle conseguenze della sostituzione della voce di Enea con quella del poeta, allorché si tratta di descrivere la fuga disperata. L’eroe virgiliano espone in modo dettagliato, come ci si attende dal protagonista narratore (Aen. 2, 721-729): Haec fatus latos umeros subiectaque colla veste super fulvique insternor pelle leonis succedoque oneri; dextrae se parvus Iulus implicuit sequiturque patrem non passibus aequis. Pone subit coniunx. Ferimur per opaca locorum. Et me, quem dudum non ulla iniecta movebant tela neque adverso glomerati examine Grai, nunc omnes terrent aurae, sonus excitat omnis suspensum et pariter comitique onerique timentem.
Su tutto campeggia la figura di Enea, sulle cui spalle Anchise è un onus (v. 723) al quale egli si sottopone perché è questo che esige il suo senso di pietas filiale. Il piccolo Iulo non può far altro che aggrapparsi alla mano destra di Enea e stringerla forte, mentre 19 Properzio s’incarica addirittura di difendere e di confermare quanto sostiene Virgilio in merito alla tanto discussa profezia di Anchise negli Inferi ad Enea e alla Sibilla, su Augusto (Aen. 6, 792-807), su Bruto (6, 818-823), sulla devotio dei Deci (6, 824): cfr. Fedeli 2015, 244-246.
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cerca di adeguare i suoi passi a quelli del padre. Di Creusa s’in tuisce l’imminente scomparsa in quel suo venir dietro, che dagli altri la separa e la isola: sembra già che stia per essere inghiottita dall’oscurità che tutto avvolge, e che su Creusa incombe nel v. 725, subito dopo la cesura. E sembra che Enea, atterrito da un minimo soffio di vento e da qualsiasi rumore, ammetta implicitamente di averla già persa di vista e dimenticata, perché tutti i suoi motivi di paura si concentrano sul figlio, che procede accanto a lui e sul padre che regge sulle spalle (v. 729 comitique onerique, con l’iterazione dell’enclitica che ancor più li unisce nell’angoscia e nel timore dell’eroe fuggiasco). In Properzio tutto è racchiuso in un solo esametro della sezione ‘troiana’ (4, 1, 43): cum pater in nati trepidus cervice pependit.
Si tratta, però, di un verso dalla straordinaria concentrazione stilistica. Non c’è dubbio che Properzio alluda al contesto virgiliano, ma da esso sa prendere le distanze: a lui interessa soprattutto esaltare la pietas di Enea verso Anchise, e ad essa riesce a conferire un valore paradigmatico ricorrendo al singolare espediente del silenzio sul nome dei protagonisti, a tutto vantaggio del loro rapporto di parentela (v. 43 pater … nati). Non c’è posto, qui, per i timori e per le angosce dell’Enea virgiliano: in Properzio il dinamico progenitore della gens Iulia non può conoscere timori di sorta. Tuttavia il motivo della paura non viene eliminato, ma è accortamente trasferito dall’eroico figlio al vecchio padre, raffigurato mentre tutto tremante (trepidus) gli si aggrappa al collo; sicché, di fronte all’impavido e risoluto comportamento del figlio, è il padre che depone la funzione di saggio consigliere e protettore, per assumere quella di ogni uomo con le sue umane paure. In nati … cervice pependit rende in maniera fortemente espressiva il suo disperato aggrapparsi al collo del figlio, nella consapevolezza che a lui è affidata ogni possibilità di salvezza. Nulla si dice in Properzio di Creusa e non si dice nulla neppure di Ascanio: ma a lui pochi versi dopo il poeta si rivolgerà direttamente, col vocativo Iule (v. 48) che ne mette in risalto il ruolo di capostipite della gens Iulia, e a lui spetterà il compito di fungere da cerniera fra gli avvenimenti legati alla distruzione di Troia e le profezie della Troia renascens e della fondazione di Roma. 144
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5. Anche se Virgilio col suo poema epico resta sempre sullo sfondo, quale punto di riferimento privilegiato, da lui è lecito prendere le distanze. È quello che avviene nel mito di Ercole e Caco nella IX elegia: la dipendenza dall’ampia trattazione virgiliana è palesemente dichiarata da Properzio stesso sin dal verso iniziale (Amphitryoniades qua tempestate iuvencos), grazie al grandioso patronimico di sette sillabe in apertura d’esametro, come in Virgilio (Aen. 8, 214 Amphitryoniades armenta abitumque pararet). Tuttavia il poeta elegiaco ha eliminato una serie di dettagli che nell’Eneide conferiscono a Caco e al suo antro i tratti del favoloso e del soprannaturale (Caco, figlio di Vulcano, è per metà uomo e per metà bestia; vomita fuoco e denso fumo; la sua dimora assomiglia all’oltretomba e il furto dei buoi acquista contorni demoniaci). Fra le versioni del mito quella di Virgilio (Aen. 8, 193-272) si differenzia dalle altre non solo per l’ampiezza della narrazione, ma anche per l’assoluto silenzio sui legami fra Caco e i pastori del luogo. Se ne capisce bene la ragione, perché se Virgilio lo avesse fatto avrebbe distrutto lo scopo che intendeva conseguire nel momento stesso del contatto di Enea con gli abitanti del Lazio. La terra in cui l’eroe è giunto dopo tante peripezie non può essere infestata da predoni sanguinari, ma deve accogliere Enea con lo stesso senso dell’ospitalità con cui ha accolto Saturno ed Evandro: di conseguenza quello di Caco resterà un caso isolato. L’Ercole properziano, invece, ha una duplice personalità, che si riflette nei due momenti dell’elegia (quello della lotta con Caco che gli ha sottratto i buoi e quello della richiesta di acqua alle donne che celebrano i riti della Bona Dea): sicché, in una inesorabile anticlimax, l’Ercole eroico lottatore sarà costretto per placare la sete a implorare le donne indifese e, di fronte al loro rifiuto, finirà per perdere la pazienza e sfonderà la porta del luogo sacro. L’esempio dell’Ercole properziano, che è capace di abbassarsi sino ad una umiliante degradazione, ci consente di capire con quale libertà Properzio intervenga sull’epos virgiliano e bonariamente lo modifichi. È quanto si verifica in modo clamoroso nella VII e nel l’VIII elegia, nelle quali il lettore properziano ritrova Cinzia: nella VII l’ombra di Cinzia si presenta al poeta, che non riesce a prender sonno dopo le esequie; nell’VIII ci si imbatte di nuovo in una Cinzia combattiva e assetata di vendetta ai danni di Properzio, che 145
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stanco della sua assenza ha cercato di consolarsi organizzando un festino domestico allietato dalla presenza di due donnine allegre. È evidente che nella VII elegia Cinzia si appropria del ruolo di Patroclo, che ucciso da Ettore appare in sogno ad Achille (così nel XXIII canto dell’Iliade): in forza del suo ‘travestimento’, CinziaPatroclo assegna a Properzio il ruolo di Achille. Nell’elegia successiva, poi, Cinzia fa suo il furore di vendetta di Odisseo al ritorno ad Itaca (nel XXII dell’Odissea) e, di conseguenza, attribuisce a Properzio il ruolo di una degradata Penelope, che vorrebbe consolarsi della troppo lunga astinenza sessuale, ma non vi riesce. Ma, al di là della degradazione dei personaggi, quello che acquista maggior rilievo è il fatto che nel IV libro di Properzio un’Iliade elegiaca preceda, come appare ovvio, un’elegiaca Odissea. Il lettore si attenderebbe un’ampia presenza di una pur parodica allusività nei confronti dei due poemi omerici: invece è l’Eneide virgiliana a costituire il bersaglio principale, e se ne può individuare la ragione nel desiderio di ristabilire, grazie alla parodia, quella giusta successione dei due poemi omerici che da Virgilio, invece, era stata sovvertita con i primi sei libri di contenuto odissiaco (le vicissitudini di Enea prima di raggiungere la meta del suo peregrinare) e i sei libri successivi di carattere iliadico (le guerre dell’eroe perché possa rinascere una seconda Troia). L’ammirazione, dunque, può manifestarsi anche col ricorso alla parodia, nella consapevolezza che tanto maggiore è la sua efficacia quanto più essa prende di mira personaggi e contesti ben noti ai lettori: è del tutto lecito parodiare i mitici eroi dell’epos virgiliano e si può addirittura stravolgere il loro ruolo. È ciò che avviene, appunto, nell’VIII elegia, quella che era la vera regina elegiarum a giudizio di Wilamowitz, poco propenso a commuoversi per la difesa di Cornelia di fronte ai giudici infernali nell’XI. Cinzia-Odisseo ha inseguito le due meretrici nella vicina taverna, dove hanno cercato di rifugiarsi: compiuta la sua vendetta ora ritorna da Properzio per completare l’opera, e gli si presenta con lo stesso atteggiamento di un condottiero vittorioso che esulta per le spoglie sottratte al nemico vinto (v. 63 Cynthia gaudet in exuviis victrixque recurrit). Il modello è anche in questo caso Virgilio, nella sua descrizione di Ettore che ad Enea appare in sogno così diverso da quello stesso Ettore qui redit exuvias indutus Achilli: allora Ettore tornava vittorioso dopo aver ucciso Patroclo, ed esi146
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biva le armi di Achille che Patroclo indossava 20. Ma la presenza di personaggi dell’Eneide che nel mondo elegiaco rivivono la loro situazione epica pur assumendo sembianze diverse non si esaurisce qui, perché l’esultanza di Cinzia nell’esibire le spoglie del nemico sconfitto è la stessa di Turno sulle spoglie di Pallante (Aen. 10, 500 quo nunc Turnus ovat spolio gaudetque potitus). Q uali siano, poi, le spoglie del parodico successo dell’eroina elegiaca è possibile dedurre dalle direptae comae e dalle tunicae solutae del v. 61: capelli strappati alle rivali e frammenti delle loro vesti; di questo deve accontentarsi un’eroina che dal mondo dell’elegia irrompe in quello dell’epos. Tutto ciò, beninteso, non ha il carattere della derisione del mondo dell’epos di Virgilio: al contrario, è questa la testimonianza della vitalità della sua poesia epica, i cui personaggi e le cui situazioni sanno adattarsi anche ai generi letterari all’apparenza antitetici. Con un omaggio a Virgilio e ai personaggi del suo epos si apre l’ultimo libro delle elegie properziane, e con un omaggio analogo il libro si chiude. Lo stesso paesaggio della catabasi di Enea nell’oltretomba nel VI libro dell’Eneide rappresenta lo scenario del nobile discorso di Cornelia di fronte al tribunale infernale. Ma l’omaggio in forma allusiva recupera anche il IV libro delle Georgiche 21, e da Virgilio dipende la glorificazione degli antenati illustri che costituisce il ‘Leitmotiv’ del discorso di Cornelia, che rivendica il diritto di essere accolta dove si trovano i suoi gloriosi antenati guerrieri: quelli stessi che Anchise aveva indicato ad Enea negli Inferi fra quanti sarebbero divenuti artefici della gloria di Roma (Aen. 6, 835-840 Lucio Emilio Paolo; 6, 842-843 l’Africano Maggiore e l’Africano Minore). In un libro di poesia elegiaca solo apparentemente discontinuo è questo il modo di affermare il senso della continuità. È questo il principio che governa il IV libro delle elegie di Properzio, e proprio Cornelia, nel suo discorso di fronte ai giudici degli Inferi, ne costituisce una realizzazione esemplare. Da un lato Cornelia è tenacemente e orgogliosamente legata al suo passato familiare, che s’identifica negli Scipioni e nei momenti signifi20 Verg., Aen. 2, 275; ma si può pensare anche al ritorno di Camilla vittoriosa: Aen. 11, 764 victrix redit illa. 21 Cfr. Fedeli 2015, 1303-1304. 1316.
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cativi della storia di Roma; dall’altro, però, nel rivolgersi ai figli mostra di concepire la continuità col passato come un fenomeno di crescita. È così, credo, che Properzio intende il rapporto stesso del suo ‘epos in distici elegiaci’ con l’epos in esametri del suo grande modello: l’Evandro virgiliano aveva potuto mostrare a Enea, suo hospes, solo i luoghi di un passato ancora avvolto nella penombra del mito; tuttavia egli aveva proiettato quei luoghi in un futuro che ora Properzio, nell’indicare all’hospes gli aurea tecta della maxima Roma (4, 1, 1 ss.), vede realizzato nella Roma augustea. Allo stesso modo Cornelia può solo esortare i suoi figli, ancora adolescenti, a seguire le orme dei padri e dei gloriosi antenati: ma è certa che essi saranno in grado di realizzare le sue speranze. Così fra passato e presente si stabilisce un solido nesso e ne deriva il senso di un presente che del passato si alimenta, ma si sforza di perfezionarlo e di farne una cosa nuova: non solo nella storia di Roma, ma anche nella vicenda del poeta elegiaco, fra il suo antico modo di far poesia e il nuovo modo di concepire l’impegno poetico, al quale l’epos virgiliano ha dato un contributo decisivo.
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Abstracts Nell’ultima elegia del II libro Properzio esalta l’Eneide virgiliana che sta vedendo la luce e la considera lo splendido coronamento di un cursus poetico che ha avuto inizio con la poesia d’amore delle Bucoliche ed è passato attraverso la riflessione sulla natura delle Georgiche. Il cursus poetico di Virgilio assume in Properzio un valore esemplare, e ad esso cercherà di conformare la sua produzione nel III e nel IV libro, alla ricerca di un modo di cantare in distici elegiaci argomenti di pertinenza della poesia epica. In the last elegy of the second book Propertius praises enthusiastically the rising ‘Aeneid’ and regards it as the culminating point of Virgil’s poetic career, which started off with the erotic themes of the eclogues and continued with man’s relation to nature in the georgic poem. Virgil’s poetic cursus becomes absolutely essential for Propertius’ poetry. He will tend to conform to these paradigms his poems of the third and fourth books, in the effort to find a way of tackling traditional epic themes in elegiac couplets.
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VARCARE I CONFINI? ‘PALINSESTI DIDASCALICI’ NEL TERZO LIBRO DELLE ELEGIE DI PROPERZIO Q uaerebam, sicca si posset piscis harena nec solitus ponto vivere torvus aper, aut ego si possem studiis vigilare severis: differtur, numquam tollitur ullus amor. Prop. 2, 3, 5-8
Arduo, particolarmente arduo affrontare la questione dei rapporti esistenti fra l’elegia di Properzio e il genere didascalico, sia per l’esiguità dei passi in cui, esplicitamente, essa alluda a testi d’intonazione precettistica 1, sia per l’inesistenza di una pur scheletrica bibliografia di riferimento. Peraltro, a dar credito alla dichiarazione d’intenti formulata in 2, 10, 7-8 2, l’interesse per le tematiche scientifico-filosofiche non parrebbe rientrare nei programmi compositivi dell’autore né a breve né a lungo termine 3: aetas prima canat Veneres, extrema tumultus: bella canam, quando scripta puella mea est 1 I cui esponenti più significativi, sia detto subito, per Properzio restano Lucrezio e, soprattutto, Virgilio. 2 Della sequenza di taglio metaletterario di cui fa parte questo distico ho discusso in Landolfi 2014, 102-104. 3 Per Mader 2003, 117, «… the earlier period (aetas prima, iuventa) is aligned with amatory verse, the later age (externa aetas, gravis aetas, alba senecta) is associated first with epic (tumultus), then with the study of cosmology and natural sciences (naturae … perdiscere mores)». Peraltro, nel corso del contributo, lo studioso sostiene che «Natural philosophy ranks with epic among the studia severa antithetical to the elegiac βίος, but Propertius by here replacing epic with s c i e n c e as the appropriate activity for later life signals as unmistakable recantation of the earlier ‘timetable’ in 2, 10. And granted that naturae … perdiscere mores does not announce a l i t e r a r y project comparable to the epic plan ironically mooted in 2, 10, this does not affect the aetas/genus correlation or the inherent notion of πρέπον. If the poet’s generic choice at 3, 5, 19-26 is read as a conscious repudiation of the earlier literary cursus honorum, form and context now give that decision an added ideological nuance» (così a 126-127).
I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 151-197 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120104
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posto che la giovinezza sarà impegnata nella poesia amorosa laddove la vecchiaia sarà riservata a quella epica. Così ripartita, l’intera attività compositiva non accorderebbe spazio ad interessi di altro genere o a letture di non stretta pertinenza con l’elegia e l’epos. Ciononostante, all’interno dei Programmgedichte che inaugurano il terzo libro della raccolta properziana (elegie 1-5) spicca un annuncio inatteso, piuttosto spiazzante per il lettore (3, 5, 23-25): atque ubi iam Venerem gravis interceperit aetas, sparserit et nigras alba senecta comas, tum mihi naturae libeat perdiscere mores …
Negli auspici levati dal poeta, l’età senile, destinata in precedenza alla composizione di tumultus e bella, sembra ora riservata allo studio dei fenomeni naturalistici: uno studio intenso, questo, la cui capacità di penetrazione è resa dal preverbio intensivo perlegato al verbo disco, atto a trasmettere l’idea di un apprendimento dei naturae … mores alla perfezione 4, senza avvertire comunque l’horror e la divina voluptas propri di Lucrezio dinanzi alle rivelazioni di Epicuro 5. Tra i vv. 26-44 dell’elegia qui considerata Properzio delinea uno Studienprogramm 6 che gravita prima intorno alla Welt, poi intorno all’Unterwelt. Q uali, esattamente, gli argomenti da approfondire? Per quanto riguarda la conoscenza fenomenica, il poeta progetta di cimentarsi con lo studio dell’identità del dio che regola la dimora del mondo (v. 26), con l’osservazione delle fasi lunari (vv. 27-28), della forza dei venti e dell’ammassarsi del l’acqua perenne nelle nubi (vv. 29-30). A seguire, egli affronterà il problema della fine dell’universo (v. 31), studierà la conflagra4 Cfr. Fedeli 1985, 190, per il quale il v. 25 andrebbe reso in italiano nel modo seguente: «Allora mi sia gradito apprendere alla perfezione le leggi della natura». Di «detailed investigation» parla, a sua volta, Stahl 1985, 203. Per un inquadramento dei cataloghi poetici di argomento filosofico si veda poi La Penna 1995, 314-328. 5 L’eroismo dimostrato da Epicuro nel portare alla luce tali reperta è stato esaminato in pagine esemplari da Conte 20122, 11-12. 6 D’altra parte, in 3, 21, 25-26 Properzio prefigura di coltivare gli studi filosofici, una volta raggiunta la dotta Atene (doctas … Athenas v. 1), dove potrà animum emendare o alla scuola di Platone (in spatiis … Platonis v. 25), o in quella di Epicuro (aut hortis, docte Epicure, tuis v. 26).
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zione cosmica e l’arcobaleno (v. 32), la sismologia (v. 33), l’eclissi solare (v. 34), l’astronomia (vv. 35-36), il moto delle maree e la suddivisione dell’anno in quattro stagioni (vv. 37-38). Infine analizzerà se nell’Oltretomba vigano o meno una giurisdizione divina e dei tormenti per i colpevoli (v. 39), se l’iconografia delle Furie sia quella che immaginiamo (v. 40), se esistano le furie di Alcmeone, i digiuni di Fineo (v. 41), e, in genere, i supplizi inflitti ai grandi personaggi del mito (v. 42), oltre alle figure di Cerbero dalle triplici fauci (vv. 43-44) e di Tizio dalla mole imponente (v. 44) 7. Dodici versi per la conoscenza della physiologia, sette per la conoscenza dell’Aldilà. Distribuiti in modo sparso, ricompaiono i fondamenti di larga parte della dottrina naturalistica esposta nel De rerum natura, dal moto lunare (1, 128) alla conflagrazione universale (2, 11441145; 5, 94-96; 6, 544-545), dall’iride (6, 524-526) ai terremoti (6, 535-607), dall’eclissi di sole (5, 751-770) al moto delle maree che non deborda dai propri confini (6, 608-638), nondimeno il medium fra Lucrezio e Properzio è rappresentato di frequente da Virgilio 8, capace di riassorbire nelle Georgiche i succhi del l’indagine naturalistica sviluppata dal poeta epicureo 9. Nei commenti properziani s’individuano numerosi loci similes excerpti dal poema rurale virgiliano, le cui consonanze figurative e espressive con il testo della 3, 5 sono state organicamente recensite 10, Q uesta sezione di Prop. 3, 5 palesa numerose convergenze con il canovaccio osservato da Tib. 2, 3, 67-80, entro il quale si susseguono i ritratti di Tisifone (v. 70), Cerbero (vv. 71-72), Issione (vv. 73-74), Tizio (vv. 75-76), Tantalo (vv. 77-78) e, da ultimo, quello delle Danaidi (vv. 79-80). 8 Per dirla con Richardson 20062, 333: «In this part of the poem one is frequently reminded of Lucretius’ De rerum natura, but there seem to be no direct verbal echoes of that poem, and the general tenor cannot even be proved to be Epicurean». Per l’interpretazione dell’intera elegia, si rinvia alle brillanti notazioni di Conte 2000, 307-310. 9 Significativo, per altro verso, l’auspicio pronunciato da Verg. georg. 2, 475482 (Me vero primum dulces ante omnia Musae, / quarum sacra fero ingenti percussus amore, / accipiant caelique vias et sidera monstrent, / defectus solis varios lunaeque labores; / unde tremor terris, qua vi maria alta tumescant / obicibus ruptis rursusque in se ipsa residant, / quid tantum Oceano properent se tingere soles / hiberni, vel quae tardis mora noctibus obstet) che La Penna 1995, 318 non esita a definire «a catalogue of philosophical themes, partly introduced by indirect questions». 10 Si valutino in parallelo i brani di Prop. 3, 5, 25-26 // Verg. georg. 1, 51 e 250; Prop. 3, 5, 29-30 // Verg. georg. 2, 107; Prop. 3, 5, 32 // Verg. georg. 1, 3807
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ragion per cui non varrà la pena di ridiscuterne minuziosamente. Viceversa, per quanto concerne la descrizione dell’Ol tretomba, nella trama dell’elegia riaffiorano echi desunti dalla lettura di Lucr. 3, 978-1013 11, combinati con alcuni lasciti della catabasi agli Inferi disegnata da Virgilio nel sesto canto dell’Eneide 12. Lasciando da parte l’elegia in oggetto, urge sottoporre a riesame quei componimenti in cui emerga il dialogo intavolato da Properzio con testi didascalici ben noti: una vigile synkrisis permetterà di verificare, sui piani contenutistico e formale, se e fino a che punto il poeta Umbro si sia spinto consapevolmente a varcare i margini del genere di provenienza, sconfinando negli àmbiti della poesia precettistica propriamente detta. In ragione del marcato sperimentalismo che contraddistingue il terzo libro della silloge sul versante tematico e su quello espressivo, non può che essere quest’ultimo il terreno privilegiato d’indagine: di fatto, al suo interno sia la tredicesima sia la ventiduesima elegia pongono il lettore a contatto con le sorprendenti ‘incursioni’ effettuate da Properzio in area lucreziano-virgiliana. L’analisi delle filigrane didascaliche su cui questi due componimenti sono stati imbastiti in proporzioni diverse e delle corrispettive riscritture si annuncia stimolante e, almeno a primo acchito, promettente. Lasciamo parlare i testi.
381; Prop. 3, 5, 33-34 // Verg. 2, 479. Nello specifico, il fenomeno delle puntuali riprese virgiliane è posto in risalto, in modo pregnante, da La Penna 1951, 51-53; Fedeli 1985, 192 e, più in esteso, da Heyworth – Morwood 2013, 139-143. 11 In realtà, sulla scorta dei vv. 45-46 dell’elegia (an ficta in miseras descendit fabula gentes / et timor haud ultra quam rogus esse potest), non è mancato chi, come Butler – Barber 19662, 273 abbia ipotizzato l’esistenza di un Properzio epicureo. Motivatamente Shackleton-Bailey 1956, 146-147 rammenta come un’asserzione analoga si segnali in Cic. Tusc. 1, 48, testo redatto da un autore di provata fede antiepicurea, oltre che nella sequenza senecana di Troad. 402 ss. Per dirla con Richardson 20062, 333 e con Fedeli 1985, 201, ci troveremmo al cospetto di un punto di vista condiviso da ogni filosofo ‘naturalista’ del l’antichità, oltre che di un tema ampiamente diffuso fra i Romani di una certa cultura. 12 Si tenga conto, particolarmente, dei passi di Aen. 6, 299-316; 417-423; 555-556; 570-572; 595-607.
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1. ‘Palinsesto lucreziano’? Per una rilettura di Prop. 3, 13 Notoriamente, su di un viluppo di tropi diatribici si regge l’impalcatura di Prop. 3, 13 13. Nell’arco di alcuni distici, all’iniziale biasimo dell’avidità femminile, solita esigere laute ricompense in cambio dei favori concessi (vv. 1-24) 14, tiene dietro il ritratto del l’incontaminato mondo arcaico (vv. 25-46) contrapposto al dilagare del lusso contemporaneo. Di conseguenza, il poeta recrimina sulla gioventù agreste di un tempo, per la quale non era difficile procurarsi intimità in cambio di rustica munera (v. 34). In proposito, lo Scivoletto 15 ritiene che Properzio «senza avvedersene, cada in una contraddizione che … più che la facile contrapposizione delle due rationes vivendi, svela il vero significato dell’elegia. Il poeta, infatti, usa per designare l’approccio amoroso dei giovani campagnoli il verbo emere (vv. 32-34) mettendo così sullo stesso livello l’amore rusticano e quello mercanteggiato della città; solo che la civiltà contadina ‘compra’ con blanditiae, vale a dire fiori, frutta, animali, in una parola con i prodotti della terra, che vengono offerti o barattati, mentre l’altra civiltà raggiunge lo stesso scopo con denaro (pretio)» 16. Pronto a cogliere la crepa interna all’edificio argomentativo costruito dal poeta, lo studioso non effettua comunque una lettura meticolosa dei vv. 25-32, preambolo dei vv. 33-38 in cui, come vedremo, con fluiscono taluni rivoli del dibattito sulle fasi remote dell’esistenza umana sulla terra sviluppato a Roma almeno a partire dalla tarda Repubblica. 13 Presupposto, questo, dell’analisi condotta da Scivoletto 2000, 266-269. Del resto, già per Rothstein 19242, II, 107, «Das Gedicht ist wesentlich eine moralphilosophische Predigt, eingekleidet in die Form einer sittengeschichtlichen Untersuchung der Frage nach dem αἴτιον, auf das sich die Einrichtung der käuflichen Liebe zurückführen lässt». Del resto, la posizione rivestita dall’autore all’interno della 3, 13, soprattutto in virtù degli accenti moralistici da lui impiegati, risulta nodale nell’interpretazione di Putnam 1980, 102-103. 14 Arcellaschi 2006, 335-342 affronta con piglio brillante i termini del rapporto fra amore e danaro nella raccolta properziana. 15 Cfr. Scivoletto 2000, 267. 16 Dal canto suo, Scivoletto 2000, 267 continua asserendo: «La differenza sta tutta qui (nel disprezzo del denaro) e possiamo esser certi, in quanto il poeta ritornato, per così dire, nel suo tempo, ribadisce alla fine dell’elegia la condanna dell’aurum (quindi dell’economia monetaria) con un crescendo martellante».
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Occupiamoci per il momento della pericope compresa fra i vv. 25-32 redatta su falsariga teocriteo-virgiliana. La sua rilettura agevolerà un’equa valutazione della sequenza successiva, stretta fra i vv. 33-38, su cui ci soffermeremo estesamente. Nella prima delle due sezioni si avvicendano le profferte previste dalla Werbung rurale sulla scia dei doni elencati da Coridone, ardente di passione per Alessi, in Verg. buc. 2, 45-53 17. L’evidenza dei rimandi intertestuali non obbliga il filologo a stilare sistematiche tabelle sinottiche. Basterà pertanto sottolineare come anche ad uno sguardo cursorio l’arte della variazione iconica e lessicale riveli le risorse di cui il poeta elegiaco dispone a fronte del modello prescelto: Prop. 3, 13, 25-32: felix agrestum quondam pacata iuventus, 25 divitiae quorum messis et arbor erant. illis munus erat decussa Cydonia 18 ramo, et dare puniceis plena canistra 19 rubis, nunc violas tondere manu, nunc mixta referre lilia 20 vimineos lucida per calathos 21, 30 et portare suis vestitas frondibus uvas aut variam plumae versicoloris avem 22. 17 Dell’intelaiatura e della dislocazione dell’ecloga si è occupato Skutsch 1970, 95-99. 18 Cfr. Ov. ars. 3, 705: Q uaeque suos curvant matura cydonia ramos. 19 Vd. Verg. georg. 2, 480: plenis … canistris; Hor. serm. 2, 6, 105: extructis … canistris; Tib. 1, 10, 27-28: myrtoque canistra / vincta geram; Prop. 4, 8, 12: ipsa canistra; Ov. met. 2, 713: coronatis … canistris; 8, 675: patulis … canistris; Colum. 10, 277: sacris … canistris. 20 Cfr. Prop. 1, 20, 37-38: et circum irriguo surgebant lilia prato / candida purpureis mixta papaveribus; 2, 3, 10: lilia non domina sunt magis alba mea; 4, 4, 25: saepe tulit blandis argentea lilia nymphis; Ps. Tib. 3, 4, 33-34; Et cum contexunt amarantis alba puellae / lilia et autumno candida mala rubent; Verg. georg. 4, 130-132: hic rarum tamen in dumis olus albaque circum / lilia verbenasque premens vescumque papaver / regum aequabat opes animis. A questi passi vanno aggiunti sia il distico di Ov. fast. 4, 435-436 (haec implet lento calathos e vimine nexos, / haec gremium, laxos degravat illa sinus) che ritrae Proserpina e le compagne intente a raccogliere fiori prima del ratto ad opera di Plutone, sia il distico di ps.-Verg. Copa 15-16 (et quae virgineo libata Achelois ab amne / lilia vimineis attulit in calathis), ambedue segnalati da Rothstein 19242, II, 112. 21 Sull’uso di calathus in simili contesti vd. Prop. 2, 15, 52; Verg. buc. 2, 46; 5, 71; georg. 3, 402; Ov. ars 2, 264. 22 Sull’iridescenza di questo genere di piumaggio sollecita l’attenzione del
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Verg. buc. 2, 45-53: huc ades, o formose puer: tibi lilia plenis ecce ferunt Nymphae calathis; tibi candida Nais, Pallentis violas et summa papavera carpens, narcissum et florem iungit bene olentis anethi; tum casia atque aliis intexens suavibus herbis mollia luteola pingit vaccinia calta. Ipse ego cana legam tenera lanugine mala 23 castaneasque nuces, mea quas Amaryllis amabat; addam cerea pruna …
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Properzio ripropone scopertamente il canovaccio dei donativi porti dai pastori all’amato/a di turno esordendo con quello antonomastico nella tradizione erotico-bucolica, le mele 24. Nella fattispecie, ad avergliene suggerito il riuso sembrerebbe la diade di Verg. buc. 3, 70-71 lungo la quale Menalca riferisce a Dameta, suo rivale nella tenzone poetica, di aver mandato quel che poteva al fanciullo per cui si strugge: dieci mele dorate, colte da pianta selvatica. Altrettante ne invierà il giorno dopo. Tramite un echo crossing, che fluttua tra relazioni pederotiche e relazioni eterosessuali, i doni di Menalca erano già quelli annoverati all’inizio del terzo Idillio teocriteo 25: lettore il commento di Heyworth – Morwood 2013, 240 ad loc., con il rinvio a Lucr. 2, 801-807. Per la consuetudine di donare uccelli nelle relazioni amorose, materiali in Jocelyn 1980, 424, n. 13. 23 Cucchiarelli 2012, 195 ad loc. ricorda come Servio identificasse tali mala con i Cydonia mala, le mele cotogne, prive comunque di lanugine, con l’eccezione della varietà del malum strutheum (cfr. Plin. nat. hist. 15, 48; Antiph. AP 6, 252), frutto della stagione autunnale anche inoltrata, in linea con le castaneae nuces del v. 52. 24 Loci pertinenti all’impiego ‘erotico’ dei mala Cydonia sono stati raccolti da Rothstein 19242, II, 112 ad loc. Sull’esame della valenza simbolica delle mele (in specie Cidonie) nelle relazioni d’amore è imperniato peraltro il saggio di Littlewood 1967, 147-181. 25 Debitamente Schöpsdau 1974, 278-279 nota come «Vergil hat die Stelle der Erfordernissen angepasst, indem er die Aussage in die Vergangenheit transponierte (misi statt φέρω), so dass Menalcas die bereitliegenden munera des Damoetas durch die bereits vollzogene Schenkung überbietet; quod potui entspricht dabei, wie die Kommentaredurchweg bemerkt haben, insofern dem aeriae (59), als beide Hirten damit die Schwierigkeinten betonen, die Geschenke zu beschaffen. Die Worte τηνῶθε καθεῖλον / ὧμ’ ἐκέλευ καθελεῖν τύ hat Vergil nicht übernommen … sondern durch silvestri ex arbore lecta erzetzt … Fraglos spielt auch – vielleicht sogar als Hauptgrund – eine gewisse idealisierte Vorstellung vom ländlichen
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Verg. buc. 3, 70-71: quod potui, puero silvestri ex arbore lecta aurea mala decem misi; cras altera mittam
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Theocr. 3, 10-11: ἠνίδε τοι δέκα μᾶλα φέρω· τηνῶθε καθεῖλον ὧμ’ ἐκέλευ καθελεῖν τύ· καὶ αὔριον ἄλλα τοι οἰσῶ
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il cui protagonista brucia d’amore per Amarillide 26, la quale, non sporgendosi più dall’antro, a sua volta non chiama più il proprio amico (vv. 6-7). Per riconquistarne le grazie non si fa attendere l’offerta di sei mele colte là dove la fanciulla ingiungeva abitualmente allo spasimante di spiccarle. L’indomani questi ne porterà altre. Un corteggiamento decisamente alieno dai modi dell’urba nitas, eppure virtualmente produttivo, quello praticato da entrambi i pastori virgiliani, all’oscuro dell’avidità muliebre identificata in Ov. ars 1, 419-420 con il reale incentivo alla relazione amorosa (… invenit artem / femina, qua cupidi carpat amantis opes), bersaglio preferenziale prima della palliata, poi del poema lucreziano 27. D’altronde, proprio nel donativo di dieci mele, utile a sedurre l’oggetto del desiderio, Properzio aveva individuato uno dei temi portanti della musa bucolica di Virgilio, se in 2, 34, 69-74, indirizzandosi a quest’ultimo, aveva dichiarato: tu canis umbrosi subter pineta Galaesi Thyrsin et attritis Daphnin harundinibus, utque decem possint corrumpere mala puellas missus et impressis haedus ab uberibus.
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Leben herein, die, romantisch in die Vergangenheit zurückprojiziert, bereits bei Lukrez erscheint (5, 963 ff.): conciliabat enim vel mutua quamque cupido … vel pretium, glandes atque arbuta vel pira lecta, die gleiche Vorstellung wird auch noch etwa von Properz in Kontrast zur korrupten Gegenwart gesetzt (3, 13, 25 ff.)». 26 Q uanto i rustica munera abbiano perso consistenza e funzione nelle rela zioni galanti avrà a sottolineare miratamente Ovidio in ars 2, 267-268, suggerendo al proprio lettore: Adferat (scil. puer) aut uvas aut, quas Amaryllis amabat, / at nunc castaneas non amat illa nuces (sul passo si tenga conto dei rilievi di Labate 1984, 222). 27 Ne ho trattato in Landolfi 2013, 75-93.
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felix, qui viles pomis mercaris amores; huic licet ingratae Tityrus ipse canat. felix intactum Corydon qui temptat Alexin agricolae domini carpere delicias.
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Dopo un’allusione esplicita al Menalca della terza ecloga e ai doni da lui fatti ad Aminta, l’efebo (vv. 70-71), a partire dal v. 73 del brano tralucono indubbi rinvii 28 ai corteggiamenti promossi dai pastori nell’alveo delle prime due ecloghe. Ad ognuno dei due spasimanti è diretto un μακαρισμός (v. 73; v. 75): quello inau gurale ospita la celebrazione di chi, grazie alle mele, è nelle con dizioni di comprare amori a poco prezzo 29. Rimodulato nelle forme di un nuovo μακαρισμός, il tema suddetto riappare dunque nell’ordito di Prop. 3, 13. Ivi, se ormai sono spariti gli involucri metaletterari che nella 2, 34 rivestono i tropi della Hirtenwerbung, in compenso la conquista di viles amores viene esemplificata con una campionatura di risorse ‘euristiche’ dedotta, quasi integralmente, dalla prima e dalla seconda Ecloga. Può sembrare strano, tuttavia la contiguità fra i due passi properziani è passata per lo più sotto silenzio 30. Nel riproporre il quadro «di un mondo remoto e felicemente primitivo, opposto a quello tormentato della relazione elegiaca» 31 nella tredicesima elegia del terzo libro l’Assisiate ne lascia indefiniti gli estremi cronologici (quondam v. 25), quegli estremi cronologici che, per parte propria, il Tibullo di 2, 5, 33-38 32 collega ad una Roma primeva, quando, in occasione di festività, la fanciulla da corteggiare portava a casa fecundi … munera ruris. 28 Di «conflazione tra vari modelli, e non solo virgiliani», ma anche teocritei, parla giustamente Fantuzzi 2003, 170-171. 29 Analizzano dottamente la sequenza predetta Fantuzzi 2003, 170-174; Fedeli 2005, 994-999. 30 Con l’eccezione di Fantuzzi 2003, 170-174, per il quale nella 3, 13 di Properzio si produrrebbe un compendio tra suggestioni eclogiche e suggestioni elegiache tradotto in «contenuti erotici e ambientazione rurale/pastorale» entro i cui confini «si addita … una realizzazione idealmente positiva dell’eros stesso, anche se praticamente mai in atto (perché … collocata in un irrimediabile passato)», mentre si configura «una poesia erotico-pastorale alternativa alla poesia eroticoelegiaca di ambiente urbano» (vd. a 175). 31 La citazione proviene da Labate 1984, 222. 32 At qua Velabri regio patet, ire solebat / exiguus pulsa per vada linter aqua. / illa saepe gregis diti placitura magistro / ad iuvenem festa est vecta puella die, / cum qua fecundi redierunt munera ruris, / caseus et niveae candidus agnus ovis.
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In Prop. 3, 13 il recupero del paradigma della remota gioventù rurale in grado di sedurre con poco tenta di accreditare un modello comportamentale rivelatosi ormai inefficace sul piano pragmatico 33. Svalutati come sono e non più in grado di agevolare gli approcci amorosi, i donativi campestri non conseguono gli effetti di un tempo. L’apertura stessa dell’elegia rivela un sapore formulare (Q uaeritis unde avidis nox sit pretiosa puellis / et Venere exaustae damna querantur opes vv. 1-2) 34, privo di riferimenti ad un interlocutore capace, come osserva argutamente la Hubbard 35, di porre all’autore un quesito così ozioso: a dire il vero, in modo piuttosto convenzionale l’attacco all’avidità delle donne è condotto a mo’ di interrogativo posto da personaggi imprecisati e difficilmente classificabili, forse amici, forse lettori, forse interlocutori interessati alle dispute diatribiche 36. L’impossibilità di decifrare la tipologia di tali locutori grava sull’interpretazione complessiva del l’elegia, condizionata anche dal l’eterogeneità degli spunti tematici e figurali riscontrabile nel suo connettivo. Spostando ora lo sguardo sull’esade successiva (vv. 33-38) 37, non sfugge il reticolo di echi mutuati da tutt’altro autore e da tutt’altro genere letterario. In modo palese Properzio transita dalla riscrittura in chiave elegiaca di tropi bucolici alla riscrittura in chiave elegiaca di temi didascalici, mosso com’è dal ricordo di Lucr. 5, 962-965, stralcio imperniato sulle consuetudini erotiche degli uomini primitivi. Malgrado nei commenti specifici tale brano figuri censito fra i principali loci similes di 3, 13, 33-38 38, alla registrazione non è seguito un confronto dettagliato tra ‘epitesto’ e presumibile fonte onde saggiarne il grado di contiguità. Indifferibile, a questo punto dell’indagine, una verifica dei loro rapporti. 33 Sulla polemica relativa ai munera amantis nell’elegia augustea ha chiarito non pochi equivoci interpretativi accumulatisi negli anni Labate 1984, 220-226. 34 Si ponga mente al precedente attacco della 2, 1: Q uaeritis unde mihi totiens scribantur amores (v. 1), per quanto l’autore esprima in sede protatica il felice riscontro da parte del pubblico di lettori rivelando tutta la propria eccitazione, come giustamente ritiene Citroni 1995, 425, n. 62. 35 Cfr. Hubbard 1974, 88. 36 Come, ad es., ipotizza Citroni 1995, 404. 37 Preceduti da un makarismós (vv. 25-32) simmetrico a quello racchiuso nei vv. 15-22. 38 Vd. Rothstein 19242 II, 112-113; Fedeli 1985, 432. A sua volta, Butler – Barber 19662, 296 richiamano per una simile descrizione il passo di Lucr. 5, 923.
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Contrapponendo la corsa precipite al lusso, che ormai ha reso venale l’amore delle donne (3-24), alle naïves flatteries (vv. 25-32) con cui in tempi antichissimi ci si procurava i loro favori, il poeta Umbro ricostruisce gli ipotetici scenari dei semplici approcci fra puellae e silvicolae … viri (vv. 33-38) 39: his tum blanditiis furtiva per antra puellae oscula silvicolis empta dedere viris. hinnulei 40 pellis iunctos 41 operibat amantes, altaque nativo creverat herba toro, pinus et incumbens laetas 42 circumdabat umbras; nec fuerat nudas poena videre deas 43.
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A suo dire, le grotte avrebbero ospitato segrete intimità, sempre che, come argomenta in modo convincente Fedeli 44, l’epiteto furtiva vada concordato ad oscula 45, anziché ad antra. In sostanza, 39 Seguo l’edizione oxoniense di Heyworth 2007 dalla quale comunque mi distacco in due punti, non ritenendo che esista una lacuna dopo il v. 37, né che occorra trasporre il v. 38 dopo una seconda lacuna, ipotizzata dopo il v. 40, in considerazione sia del consensus codicum sia della serrata compattezza contenutistica esistente fra questi tre distici. 40 Congettura calzante dello Scaligero cui Fedeli 1985, 433 obietta la necessità di ripristinare la grafia priva dell’aspirata iniziale rifacendosi a I. Kapp in ThlL VII, 240, 16 sgg. 41 Proposta avanzata da Shackleton Bailey 1956, 180 al posto dell’inaccettabile totos trasmesso dalla tradizione manoscritta. Elenco delle congetture affacciate sino agli anni ’80 del Novecento in Fedeli 1985, 433 ad loc., il quale peraltro opta per due cruces, prima e dopo la lezione totos dei codici. 42 Ripristino qui la lezione laetas tràdita da F rispetto alla correzione in lentis proposta da Baehrens e fatta propria da Heyworth 2007. 43 Nel primo distico dell’esade properziana, l’uso ripetuto della cesura semiquinaria cadenza scopertamente il rilievo accordato ai baci elargiti dalle fanciulle dietro donativi rustici. L’enjambement che salda il v. 33 al v. 34 del testo vede in posizioni iconiche le parole-chiave puellae e oscula, perni rispettivamente del desiderio fisico e della sua esplicitazione immediata, precorrimento di altri e più intensi piaceri. L’increspatura stilistica prodotta dal composto in-cola, di conio neviano [fr. 21 Bl. (silvicolae nomine bellique inertes); il composto gode poi di fortuna presso Acc. fr. 237 R3; Verg. Aen. 10, 551; Ov. fast. 4, 746; carm. Einsiedl. 1, 9; Stat. Theb. 5, 582, sul che vd. Mariotti 1988, 856], consolida peraltro l’involucro arcaizzante della scena i cui contorni sfumano artatamente verso un’epoca lontanissima, a giudicare dalla compresenza di pelli animali e di letti naturali utili al godimento del piacere. Infine, la presenza del pino sovrastante che cinge con le sue ombre placide le unioni (v. 37) tramuta gli spazi dell’eros in una sorta di complice locus amoenus. 44 Cfr. Fedeli 1985, 432, precorso da Richardson 20062, 374. 45 Contra, da ultimi, Heyworth – Morwood 2013, 240 ad loc., al cui giudizio
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una sorta di ricompensa pattuita (oscula … empta v. 34) fra i due sessi, pur se di modesta entità, avrebbe regolato il concedere effusioni e il goderne. Nel rievocare sfondi e modalità di approcci in un’imprecisata (quanto imprecisabile) epoca remota, Properzio avrebbe potuto vergare un altro ‘palinsesto’ di ridotte dimensioni, non più teocriteo-virgiliano, bensì lucreziano. Per raggiungere un risultato congruo, egli avrebbe dovuto raschiare un brano sì di dimensioni esigue, ma impegnativo sul versante contenutistico, poderoso sul versante iconico, particolarmente elaborato sul versante stilisticoretorico. Rimaneggiarlo dalle basi avrebbe costituito una scommessa onerosa quanto stimolante, cui non sarebbe stato il caso di sottrarsi, così come in altri casi e per altri stralci non si erano sottratti ad un confronto ravvicinato con il De rerum natura diversi autori di età augustea, checché ne dicano i fautori di una supposta più che dimostrabile “congiura del silenzio” intesa a promuovere «il bando ideologico del poeta epicureo» 46 durante gli anni del regime di Ottaviano. Tuttavia il retroterra teorico su cui insiste il testo precettistico non poteva trovare appropriato riscontro in una riscrittura condotta più sul filo della memoria allusiva che non sulla scorta di una salda padronanza di dottrine filosofiche. In Lucr. 5, 962-965 47: «Both word order and the distribution of epithets between separate nouns suggests the furtive is to be taken with antra rather than oscula». 46 La citazione proviene da Traina 19862, 91, scettico sulla reale esistenza di un’opposizione manifesta e intransigente nei rispetti del poema lucreziano da parte della politica culturale patrocinata da Augusto. 47 Il testo qui adottato è quello di Bailey 19632. A livello stilistico, oltre all’anafora verticale della particella disgiuntiva vel, dislocata dapprima dopo cesura semiquinaria al v. 963, indi in posizione iconica incipitaria ai vv. 964 e 965, en rejet rispetto ai lemmi cupido e libido, per finire quale tempo forte del dattilo di quinta sede sempre al v. 965 (vel pira), risulta di tutta evidenza la triplice allitterazione della sillaba /vi/ precorsa al v. 964 dalla sillaba /ve/ che produce, in rapporto alla terna violenta viri vis, un fenomeno di allitterazione a vocale variabile. Un ulteriore esempio di anafora verticale si coglie nella ripetizione di atque ai vv. 964-965, laddove isometria, in sedi excipitarie, caratterizza la coppia isosillabica e isoprosodica cupido/libido tra i vv. 963-964. Per finire, al v. 965 l’omeoptoto connota naturalmente il nesso bisillabico ed eteroprosodico pira lecta, tuttavia all’interno del verso esso va considerato anche in rapporto al lemma arbita, altro neutro plurale in -a intrastichico. Dal versante metrico, com’è facile osservare, i quattro esametri della pericope risultano omologati da cesura semiquinaria.
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et Venus 48 in silvis iungebat corpora amantum; conciliabat 49 enim vel mutua quamque cupido 50 vel violenta viri vis atque inpensa libido vel pretium, glandes atque arbita vel pira lecta
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la spontanea soddisfazione di un’urgente necessità fisica 51 costi tuisce l’algoritmo dell’intero riquadro, dove etologia umana ed etologia animale sembrano corrispondersi in larga misura come nel quarto libro del poema, un dato, questo, ribadito anche da Schie saro 52 per il quale il nesso mutua cupido di Lucr. 5, 963 andrebbe Tra l’altro, sulla scorta delle molteplici etimologie avanzate in antico sul teonimo Venus, una in particolare insiste sul noto sindesmo con il lemma vis sin dalle prime battute del poema, se ai vv. 12-13 del proemio per prima gli uccelli aerei annunziano la dea e il suo ingresso, colpiti in cuore dalla vis che da lei stessa promana (perculsae corda tua vi v. 13). Maltby 20062, 635, s.v. Venus riporta, tra gli altri, un particolare etimo del nostro teonimo, attestato, in forma variamente modulata, da Varro ling. 5, 61-62: mas ignis, quod ibi semen, aqua femina, quod fetus ab eius humore, et horum vinctionis vis Venus, nonché da Aug. civ. 6, 9 264, 26 D.: Venus ab hoc … dicitur nuncupata, quod sine vi femina virgo esse non desinat (Isid. orig. 8, 11, 76). A riguardo, Hinds 2003, 26 ha ribattuto come nell’apertura del proemio del De rerum natura proprio l’accostamento fra Venus e vis potrebbe consentire di interpretare meglio il passo «as an exploration of different etymological aspects of the goddess (an incipient etymological aretalogy, if you like). Venus who venit ad omnia; but also Venus as goddess of vis (DRN 1, 12-13)». La più tarda etimologia è stata comunque discussa a proposito di Lucr. 4, 113114 da Michalopoulos 2001, 170-171 come un gioco «well-established in Latin Poetry», nondimeno non si può non convenire con Hinds stesso, allorché, asserisce (a 49): «For divine word-plays in general the characteristic ‘grammar’ of etymology may usefully be thought of, I submit, as a kind of religious discourse, more specifically as a kind of catechism: to invoke my totalizing perspective again, it may be thought of as a manifestation of the cover all bases “by whats over name you wish to be called” mind set of Greco-Roman religion – sometimes overtly and explicitly so, more often at a deeper, subliminal level. To negotiate with the divine, to comprehend the divine, to control the divine, one must embrace the divine in its totality. In the case of Venus our “etymological catechism” operates to ask and answer a series of questions». 49 Legittimo il richiamo di Campbell 2003, 224 al fatto che concilio sia spessissimo usato in riferimento al matrimonio e ai rapporti sessuali (ThlL 4, 41, 8 ss.), ma che usualmente in Lucrezio sia collegato agli aggregati atomici, come in 1, 611, 1043; 2, 551, etc., e a combinazioni atomiche nella zoogonia, come in 2, 901 e 919. 50 Del resto, per gli esseri umani mutuus risulta l’ardor di coloro che si accoppiano in 4, 1216 e, addirittura, in 5, 583-584 il poeta ammonisce come sia necessario che feminaque ut maribus coniungi possit, habere, / mutua qui mutent inter se gaudia uterque. 51 Tale il punto di vista di Brown 1987, 94. 52 Cfr. Schiesaro 1990, 129, sulle orme segnate di Ernout – Robin 19622, III, 133; Bailey 19632, III, 1478; Brown 1987, 316. Sugli indistinti confini del48
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ricondotto ai nessi mutua … voluptas (4, 1201) e mutua gaudia (4, 1205) impiegati per descrivere l’eros in àmbito zoologico. In tale grafico, agli albori dell’esistenza umana Venere 53 avrebbe fatto unire i corpi degli amanti nelle selve; peraltro, ogni esponente del sesso femminile avrebbe acconsentito agli amplessi o per reciproca bramosia 54, o per la violenta forza maschile e la sfrenata pulsione dei sensi, o per un compenso consistente in ghiande 55, corbezzoli o pere scelte. Dunque, dietro l’istinto ad accoppiarsi ci sarebbero stati moventi di varia natura, sicché neanche in questo caso Lucrezio sembra allontanarsi dalla consueta prassi delle spie-
l’etologia erotica fra uomo e bestie mi permetto di segnalare quanto argomentato in Landolfi 2013, 135-145. 53 Per Campbell 2003, 224 Venus, usato in funzione metaforica (ma sarebbe più opportuno dire metonimica), rappresenterebbe la «cohesive force bringing together the bodies of the first humans inevitably recalls the function of Empedocles’ Ἀφροδίτη in combining the elements and limbs of the first animal life, cfr. DK31 B71 …; DK 31 B20.5-6 … In DRN 1.4 ff., Venus is the creative force of the Universe, but L. describes natura als fulfilling both her Empedoclean creative and destructive function in 1.56-57». Q uanto poi la Venere del proemio lucreziano sia personificazione allegorica del principio generatore del mondo e non personificazione dell’ἡδονὴ κινητική epicurea mi pare abbia dimostrato definitivamente Giancotti 1978, 159-322. 54 Tra le altre condizioni elencate, in Lucr. 5, 853-854 i mutua gaudia rappresentano infatti quanto reciprocamente devono scambiarsi femmine e maschi in tema di unioni fisiche e di procreazione (feminaque ut maribus coniungi possit, habere, / mutua qui mutent inter se gaudia uterque). 55 Concepita come originario mezzo di nutrimento del genere umano (cfr. Della Corte 1985, 31-36), in poesia latina la ghianda risulta legata al mito della successione delle ère in Lucr. 4, 939 e 1416; Verg. georg. 1, 7-8; Tib. 2, 1, 37-38; 3, 69-70. Per altro verso, in georg. 4, 148-149 Virgilio menziona l’insegnamento di Cerere ai mortali a rivoltare la terra cum iam glandes atque arbuta sacrae / deficerent silvae et victum Dodona negaret. A sua volta, in Ov. am. 3, 10, 9-10 (sed glandem quercus, oracula prima, ferebant; / haec erat et teneri caespitis herba cibus), prima del dono delle messi da parte della dèa in questione, la ghianda costi tuisce il nutrimento più antico insieme all’erba. In met. 1, 106, insieme ad arbutei fetus, a montana … fraga, a cornaque et in duris haerentia mora rubetis essa fa parte delle risorse alimentari dell’aurea aetas in cui la terra non è toccata dai rastrelli né ferita dai vomeri, rimanendo immunis. Successivamente, a Cerere e alla Terra viene fatto risalire il motivo per cui la ghianda sarebbe stata vinta da un cibo più appetibile in Ov. fast. 1, 676. Viceversa in fast. 2, 293 (pro frugibus herbae), lungo l’excursus sugli Arcadi (2, 291-300), essa subentra alla fase in cui le erbe servivano a sfamarsi al posto delle messi. Identica successione si registra in fast. 4, 399-400 (postmodo glans nota est: bene erat iam glande reperta, / duraque magnificas quercus habebat opes) lungo la rievocazione dei Ludi Cereris (vv. 395-396: panis erat primis virides mortalibus herbae, / quas tellus nullo sollicitante dabat).
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gazioni multiple di un dato fenomeno 56 cui ha abituato il proprio lettore. Con una studiata ricontestualizzazione delle tessere disponibili, in Prop. 3, 13, 33-38 alle selve presenti nel brano didascalico si avvicendano gli antri, così come alla cupido e alla libido – rispettivamente la bramosia passionale che investe corpo e anima e la pulsione/tensione dei sensi 57 – subentrano le intimità circospette: la tastiera cromatica elegiaca impone un deciso ridimensionamento della virulenza iconica del testo epicureo inducendo a glissare sia sulla mutua cupido (Lucr. 5, 963), sia sulla violenta viri vis (Lucr. 5, 964) 58, sia sull’impensa libido (ibid.), propulsive ai coiti. A rigor di termini, i due autori sembrano convergere appieno proprio sull’utilizzo di ‘ricompense’ per le intimità tra uomini e donne, le cui declinazioni non variano di molto, trattandosi di convenzionali donativi campestri 59. Di conseguenza, la terza delle alternative enunciate dal poeta epicureo onde motivare i cedimenti femminili 60 nell’elegia properziana assolve il ruolo di motore unico delle effusioni. A voler inquadrare più compiutamente il predetto quadro lucreziano, in primo luogo bisognerà sottolineare come proprio nel quinto libro del De rerum natura (vv. 948-957), procedendo ad una periodizzazione del progresso ‘tecnologico’, l’autore avesse Ampia documentazione specifica in Marcović 2008, 83-144. Stando a Merrill 1907, 704, la coppia isosillabica, isoprosodica ed omeopto tica cupido/libido sarebbe probabilmente preterintenzionale, eppure tra i due lemmi, non accidentalmente posti in chiusa dei rispettivi esametri d’appartenenza, si individua un’alterità semantica ben precisa, se Traina 19912, 20 a proposito del primo può sostenere: «cuppedo è la passione, non naturale (dira!) e non necessaria, desiderio insaziabile (diversamente dalla fame e dalla sete) e quindi sofferenza», mentre Brown 1987, 190 riguardo al secondo è in grado di affermare: «is a broader term than ‘lust’ and can refer to any strong impulse (cfr. 4, 779), but the sexual meaning is common and often derogatory in tone, cfr. 5, 964, vel violenta viri vis atque inpensa libido». 58 In materia Ernout – Robin 19622, III, 133 citano a riscontro Lucr. 3, 296 e 5, 1270. 59 «These simple gifts are inimplied contrast with the costly gifts needed in later times. See IV, 1129-1140»: così ritengono Leonard – Smith 1942, 727 ad loc. 60 In questa fase remota della vita umana sulla terra, non è affatto contemplata l’eventualità di un ruolo coprotagonistico per le donne nel godimento e nella gestione dei piaceri fisici, elemento che viceversa contraddistingue il quadro abbozzato da Lucr. 4, 1192-1196. 56 57
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sostenuto che al tempo della loro comparsa sulla terra i primitivi ignoravano l’uso del fuoco, tanto quanto l’utilizzo delle pelli 61 e delle spoglie degli animali selvatici per ricoprire i corpi (vv. 953954), trovando ricovero nei boschi, nelle cavità montane e nelle selve (sed nemora atque cavos montis silvasque colebant v. 955) e nascondendo le membra tra le macchie per scansare venti sferzanti e piogge (vv. 956-957). Peraltro, a tale epoca venivano fatti risalire sia la mancata aspirazione ad un bene comune sia il non sapersi valere di costumi e leggi nei rapporti interpersonali 62: a dare ascolto al discepolo del Giardino, persino lo sfamarsi sarebbe dipeso dall’occasionalità delle prede e dall’imporsi del singolo, dimostrazione, quest’ultima, di un’egotistica condotta noncurante del proprio simile (vv. 960-961). Sullo sfondo di una natura inospite, nei cui spazi la sopravvivenza restava affidata all’accidentalità del nutrimento e alla sopraffazione dell’altro, anche la sessualità veniva soddisfatta in maniera del tutto casuale. Così le selve, riparo abituale, all’occorrenza potevano ospitare la soddisfazione delle urgenze erotiche. In età augustea, la cartografia di questi amori non ancora viziati dall’incontenibile avidità femminile e consumati in aree fortuite 63 trova fertile riscontro presso i poeti elegiaci, abili nel canonizzarne le variabili figurative in un repertorio al cui interno reimpieghi ed aggiustamenti si susseguono senza soluzione di continuità. Ad esempio, le selve lucreziane, tramutate a distanza di tempo
61 Le pelli impiegate per rivestire i corpi saranno menzionate solo a partire dal v. 1418, allorché Lucrezio accorpa all’abbandono delle ghiande per il nutrimento, l’inizio dell’odio verso la pellis … vestis ferinae, ragione di ferale avversione nei confronti di chi ebbe a portarla per primo. Sulla questione vd. almeno Perelli 1967, 265-268; Sasso 1979, 146-147; Gale 2009, 212-213. 62 Sul tema cfr. Sasso 1979, 14, n. 6; Grilli 1995, 29-30. Per Bellandi et alii 2001, 150, n. 67, in Lucr. 5, 958-961 l’assenza di leggi costituirebbe il segno della brutalità dei primitivi, inani nell’instaurare reciproci rapporti sociali: l’invenzione delle leggi, provenendo dal basso al termine di un lungo processo, rappre senterebbe invece un risultato decisivo (vv. 1143-1151). 63 Gatz 1967, 132 rileva come la licentia amoris, i liberi amori contrapposti alla castità, costituiscano un topos dell’età dell’oro limitato essenzialmente alla poesia elegiaca: questa ‘libertà’ può essere intesa nel senso di pratiche amorose ‘pubblicamente’ consumate, come in Tib. 2, 3, 33-34 e 38 o nel senso dell’innocente libero arbitrio delle puellae, ignare della vergogna, come in Prop. 3, 13, 33-34 o ancora nel senso della semplicità e naturalezza come in Ov. ars 2, 478 ss. in cui la dizione ‘frivola’ sembra straniare abilmente i geäusserte Gedanken.
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negli antri properziani, sono riconfigurate 64 da Tibullo in siti en plein air dove i veteres ebbero ad amarsi in modo scoperto, come si evince dal quadro di 2, 3, 69-73 65: glans 66 aluit veteres, et passim semper amarunt: quid nocuit sulcos non habuisse satos? tum, quibus adspirabat Amor, praebebat aperte mitis in umbrosa gaudia valle Venus. nullus erat custos, nulla exclusura dolentes ianua; si fas est, mos precor ille redi.
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Ambientato agli esordi della presenza umana sul nostro pianeta, tale tracciato racconta di rapporti sessuali consumati qui e là (passim v. 69), ispirati dall’Amore (v. 71), e vissuti palesemente (aperte v. 71) in una valle ombrosa 67 grazie all’offerta di una Venere mite 68. Tanta ‘disinvolta spregiudicatezza’ avrebbe tranquillamente fatto a meno di una grotta per godere dell’eros in una conca ombreggiata. D’altra parte, come nota Maltby 69: «Life was better in primitive, pre-agricultural days when men dressed in skins but love was free (67-76)». Non così nella riconfigurazione del tema ideata dall’Ovidio dell’Ars, il quale, forzandone la lettera, avrebbe inscenato sì tra 64 Motivatamente Maltby 2002, 413 osserva: «T. is not describing here the idealised Hesiodic Golden Age of 1, 3, 35-48, but the primitive pre-agricultural age of the Epicurean tradition e.g. Lucr. 5, 925-987. The only positive feature of this age to be stressed here is the easy access to love». 65 Un influsso tibulliano nella tessitura di Prop. 2, 13 è ammesso da La Penna 1950, 232 dati il «colorito bucolico» dell’elegia in oggetto e le non poche reminiscenze puntuali di Tib. 2, 3 (il cui regesto è tracciato lungo il contributo stesso a 232-233). 66 Cibo primario, come in Lucr. 5, 939, 945-949; Tib. 2, 1, 37-38; Varro de re rust. 2, 1, 4; Hor. serm. 1, 3, 100; Ov. am. 3, 10, 9; met. 1, 106; fast. 4, 399400. Non a caso nel pannello di Lucr. 5, 1412-1418, le ghiande scemano successivamente di importanza nel tenore alimentare sulla scorta del principio per cui: nam quod adest praesto, nisi quid cognovimus ante / suavius, in primis placet et pollere videtur, / posteriorque fere melior res illa reperta / perdit et immutat sensus ad pristina quaeque. / sic odium coepit glandis, sic illa relicta / strata cubilia sunt herbis et frondibus aucta. / pellis item cecidit vestis contempta ferina. 67 Il nesso fa la sua comparsa in Verg. georg. 3, 331 (umbrosam … vallem), per poi essere riutilizzato, oltre che da Tibullo, da Ov. ars 1, 289 (sub umbrosis … vallibus). 68 Analoga iunctura in Tib. 1, 10, 66: miti … Venere. 69 Cfr. Maltby 2002, 394-395.
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boschi e antri i piaceri sessuali d’un tempo, non goduti comun que a cielo aperto, tanto grande era il rispetto del pudore nutrito dal rudis populus di cui favoleggia (2, 621-624) 70. Eppure, soltanto duecento versi prima (vv. 473-480), sulla vita erratica e solitaria dei primitivi 71 la blanda voluptas 72 aveva impresso il sigillo della civilizzazione addolcendo gli animi selvaggi (blanda truces animos fertur mollisse voluptas v. 477) di quanti non conoscevano ancora il proprio simile (v. 476), avvezzi com’erano ad abitare i boschi, a cibarsi d’erba e stendersi su giacigli fatti di fronde (silva domus fuerat, cibus herba, cubilia frondes v. 475) 73. Nondimeno, nella Kulturentstehung ovidiana, dietro cui si percepisce in controluce la prescrittiva lezione di Lucrezio 74, nessun luogo preciso ospita la scoperta dell’eros, capace di ammansire forze brute rivestite da corpi rozzi (idque merae vires et rude corpus erat v. 474): nel diverso fondale disegnato nell’Ars l’uomo e la donna si sarebbero fermati in uno stesso luogo e da soli avrebbero appreso il da farsi. In assenza di un’arte specifica, Venere avrebbe d’altronde compiuto il suo ‘dolce ufficio’ 75. Torniamo a Prop. 3, 13. Rispetto ai primitivi ricordati nel poema epicureo e ai veteres di Tib. 2, 3, le menzioni prima di una agrestum … pacata iuventus (v. 25), poi di silvicolae … viri (v. 34), tradiscono la sommarietà con cui in questa elegia si datano le lontane manifestazioni dell’eros rispetto all’inquadramento degli 70 Tum quoque, cum solem nondum prohibebat et imbrem / tegula, sed quercus tecta cibumque dabat, / in nemore atque antris, non sub Iove, iuncta voluptas; / tanta rudi populo cura pudoris erat. Gli sparsi richiami al De rerum natura profusi in questi versi sono rubricati da Janka 1997, 438-439. 71 Vd. Ov. ars 2, 473-474: Tum genus humanum solis errabat in agris, / idque merae vires et rude corpus erat. 72 Formula sussunta da Lucr. 2, 966; 4, 1085, 1263; 5, 178. 73 I debiti verso Lucrezio, ça va sans dire, si spingono sino alla ripresa letterale e paraletterale dei nessi da lui modellati: tum genus humanum (Lucr. 5, 925// Ov. ars 2, 473); silvasque colebant (Lucr. 5, 955) // silva domus erat (Ov. ars 2, 475); cubilia fronde (Lucr. 5, 987) // cubilia frondes (Ov. ars 2, 475); blanda … voluptas (Lucr. 4, 1085 // Ov. ars 2, 477); mollescere (Lucr. 5, 1014) // mollisse (Ov. ars 2, 477); mulier … viro (Lucr. 5, 1012) // femina virque (Ov. ars 2, 478). 74 Basti rileggere il commento di Janka 1997, 351-357 con esaustiva dosso grafia, divisa fra due fronti: l’ipotesi della diretta imitazione del De rerum natura da un lato, la polemica presa di distanza di Ovidio da Lucrezio dall’altro. 75 Cfr. Ov. ars 2, 479-480: quid facerent, ipsi nullo didicere magistro: / arte Venus nulla dulce peregit opus.
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uni e dell’altra in fasi ben definite della storia del genere umano teorizzata da filosofi e poeti sia in Grecia sia a Roma. Lucretius docet. In particolare, se dalla sequenza appena discussa (vv. 33-38) risaliamo a quella precedente (vv. 25-32), osserveremo come Properzio elogi la pacifica gioventù agreste di una volta in quanto messi ed alberi rappresentavano le uniche ricchezze di cui essa disponesse (divitiae quorum messis et arbor erant v. 26): illis munus erant (v. 27) mele, more, viole, gigli, uva, etc. A voler proprio sottilizzare, la presenza delle messi dovrebbe presupporre l’appartenenza di tali μακάριοι ad un’epoca tecnicizzata, contrassegnata da pratiche agricole, nella quale tuttavia i compensi per circuire le fanciulle corrispondevano a doni assicurati per lo più da una fruttificazione della terra, una fruttificazione sulla cui spontaneità Properzio non fa però alcun cenno. Apriamo un inciso. Com’è risaputo, un’età dell’oro ‘agricola’ aveva concepito Arato nei Phaenomena, insistendo tanto sull’automatismo naturale quanto sul lavoro dei campi con buoi e aratri 76 e rileggendo il mito delle razze come un processo di decadenza lineare, in cui «l’agricoltura si trova al polo positivo, l’età aurea, e si contrappone al degenerare progressivo dell’umanità» 77. A sua volta, nelle lodi della vita rustica contenute nel secondo libro delle Georgiche (vv. 458-540), Virgilio avrebbe operato à rebours: la qualificazione aurea e il cenno a Saturno (aureus hanc vitam in terris Saturnus agebat v. 538) saranno da lui collegati alla vita menata dai contadini, eredi e depositari sì del paradigma dell’aurea aetas, ma anche connotati da nuovi tratti identitari (impegno lavorativo, autarchia, alimentazione parca, senso di giustizia, sentimento religioso). L’età dell’oro, quella realmente ideale, sarebbe apparsa ancora tangibile, ancora esistente, in certo qual modo: sufficiente cercarla nella vita quotidiana del mondo agricolo 78. Del resto, già qualche tempo prima, nel De re rustica, Varrone aveva posto in risalto come l’agricoltura fosse la più perfetta delle arti, benché 76 Vd. Landolfi 1996, 11-15. La più recente e stringata messa a punto sull’ar gomento si deve a Cucchiarelli 2014, 555-565. 77 Così ritiene Barchiesi 1982, 48. 78 Seguo qui le indicazioni di Barchiesi 1982, 54-55.
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precedesse cronologicamente tutte le altre, così concludendo la storia della mitica fondazione di Tebe da lui addebitata ad Ógige, risalente ad oltre mille anni prima, abbozzata all’inizio del terzo libro del trattato (3, 1, 1 ss.): antiquior enim multo rustica (scil. ars), quod fuit tempus, cum rura colerent homines neque urbem haberent … quod tempus si referas ad illud principium, quo agri coli sunt coepti atque in casis et tuguriis habitabant nec murus et porta quid esset sciebant, immani numero annorum urbanos agricolae praestant. nec mirum, quod divina natura dedit agros, ars humana aedificavit urbes … neque solum antiquior cultura agri, sed etiam melior.
In questo passo, agricoltura, capanne e tuguri andrebbero ascritte ad una stessa epoca, quella in cui gli agrestes non sono silvicolae; viceversa, riguardo allo stadio iniziale della vita umana sulla terra, Vitr. 2, 1, 1, sostiene: homines vetere more ut ferae in silvis et speluncis et nemoribus nascebantur ciboque agresti vescendo vitam exigebant …
Dunque, solo in una fase successiva alla scoperta del fuoco i primitivi si sarebbero preoccupati di costruire case mediante le fronde, di scavare caverne sotto i monti, o di utilizzare per le abitazioni un composto di fango e virgulti sull’esempio dei nidi degli uccelli: coeperunt in eo coetu alii de fronde facere tecta, alii speluncas fodere sub montibus, nonnulli hirundinum nidos et aedificationes † earum imitantes de luto et virgultis facere loca, quae subirent.
Non mi spingerò ad un sistematico inventario di passi al cui confronto il sostrato culturale che affiora da Prop. 3, 13, 25-32 e 33-38 tradisce falle e sconnessioni: infatti, procedere alla ricerca di una coerente o, quantomeno, di una plausibile armonizzazione fra teorie disparate e, per tanti versi, antitetiche fra loro non condurrebbe lontano. Nell’elegia in oggetto, il tum presente al v. 33, che ricuce il nuovo spaccato al precedente, identifica nelle lusinghe appena enumerate (his … blanditiis v. 33) gli espedienti grazie ai quali allora i silvicolae … viri ottenero i baci dalle puellae. L’appiattimento cronologico fra pacifica gioventù rurale e abita170
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tori dei boschi che s’intravvede 79, ai limiti della sovrapposizione, risulta in linea con le tendenze prevalenti nel genere elegiaco a far accavallare o a coagulare sbrigativamente elementi provenienti sia dalle teorie relative alla nascita del progresso tecnologico, sia dal mitologema delle età, sia dal paradigma dell’Ideale Dasein. Si può pertanto convenire con Gatz 80 nel riconoscere nelle topiche maledizioni dell’oro, frequenti nella produzione di Tibullo, Properzio e Ovidio, una derivazione dal Themenkreis des einfachen Leben, come avviene in Tib. 1, 10, 7; Prop. 3, 13, 48; Ov. am. 3, 8, 35; fast. 1, 211 e via dicendo, brani in cui la semplicità dei frutti a disposizione e la tenuitas dei possessi d’un tempo rappresentano una caratteristica precipua di un’epoca felice, in cui l’eros non scatenava l’avidità muliebre. Del resto, non necessita più di tanto ribadire il fatto che «Il De rerum natura è dall’inizio alla fine una discussione lunga e appassionata, accuratamente organizzata e perseguita senza sosta. Al lettore non è permesso di sfuggire alla logica spietata del testo» 81 per constatare quanta distanza separi dalla salda strutturazione argomentativa di Lucr. 5, 962-965 82 i polemici stereotipi diatribici che avranno sollecitato Properzio ad un occasionale re-writing lucreziano 83 in 3, 13, 33-38, senza che però egli disponesse di adeguate nozioni filosofiche per affrontarne una consapevole riscrittura sul versante speculativo. Pertanto, il castone ‘primitivistico’ dell’elegia in oggetto ha l’aria di un ammirato tributo letterario a Lucrezio 79 Conio ed impiego del lemma silvicola sono ricostruiti da Tränkle 1960, 43. Non sarà inopportuno rammentare come in Verg. Aen. 6, 314-318, ad abitare i nemora di cui favoleggia il re Evandro fossero stati Fauni Nymphaeque … / gensque virum truncis et duro robore nata, / quis neque mos neque cultus erat, nec iungere tauros / aut componere opes norant aut parcere parto, / sed rami atque asper victu venatus alebat. Poco oltre, essi vengono designati quale genus indocile ac dispersum montibus altis (v. 321) cui Saturno avrebbe dato delle leggi, dopo averli riuniti, imponendo il nome di Lazio alle terre in cui egli stesso, senza rischi, era vissuto nascosto. 80 Cfr. Gatz 1967, 162. 81 Traduco da Dalzell 1996, 56 «The De rerum natura is from start to finish a long and passionate argument, carefully organized and pursues relentlessy. The reader is allowed no escape from the remorseless logic of the text». 82 Sulle cui linee precipue vd. Conte 20122, 11-44. 83 D’altronde, la satira, specialmente se di provenienza diatribica, sostanzia di sé la didassi lucreziana anche sul piano formale, come non tralascia di sottoli neare Dalzell 1996, 56.
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che non presume né di scendere sul terreno della polemica ideo logica né ambisce a imbastire un reale rapporto didascalico con i destinatari, cui si limita a rammentare la simplicité du temps jadis nelle schermaglie della seduzione.
2. ‘Palinsesto virgiliano’? Per una rilettura di Prop. 3, 22 Una nuova opportunità di confronto con un brano didascalico impegnativo si prospetta durante la gestazione della 3, 22, un’ele gia che, a giudizio di Newman 84, «is more official. It represents the first time the poet has addressed his first patron since Book 1, the now famous ‘Cynthia’. There is the opportunity to rehearse laudes Italiae in Virgil’s wake, and to point out the plain duty of an Augustan nobilis: public service, marriage, children. How amusing to find the poet assuming the role of patruus, elder statesman, in this way. What a contrast with 1.1». Stavolta non siamo al cospetto di una riscrittura di un’esigua sequenza di versi proveniente dal De rerum natura; al contrario è un lungo, celeberrimo interludio georgico a venir rimodellato dalle fondamenta. Riepiloghiamo gli estremi relativi al contesto e alla destinazione del componimento. Nel terzo libro della raccolta properziana, all’amico Tullo 85, già dedicatario di ben quattro elegie della Monobiblos (1, 1; 1, 6; 1, 14; 1, 22), è indirizzato un nuovo testo ricco di elementi paesaggistici e odeporici. Del resto, la cartografia ivi disegnata parrebbe ribaltare a tratti quella utilizzata nell’elegia 1, 6, a partire dalla meta prefigurata per il ricevente, sollecitato ora a lasciare la fredda Cizico 86 e i suoi dintorni, dove dimora ormai da Stralcio la citazione da Newman 2006, 349. Ad insistere sulla ricomparsa di Tullo nel tessuto della 3, 22 sono stati, in particolar modo, Williams 1968, 421-427 e Putnam 1977, 241-242; 248-252. Viceversa, gli estremi biografici del personaggio in questione sono stati analizzati da Cairns 1974, 160-173; sui rapporti privati intrattenuti con Properzio si è soffermato qualche anno fa Stok 2008, 213-231. 86 «Associando il nome di Tullo a Cizico, Properzio sapeva bene di caratterizzare la moda, per i giovani romani di buona famiglia, di visitare le rinomate città dell’Asia minore: cfr. Cat. 46, 6: ad claras Asiae volemus urbes; Hor. Carm. 1, 7, 1-3: laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenen / aut Epheson bimarisve Corinthi / moenia; Ov. Trist. 1, 2, 77-78: nec peto, quas quondam petii studiosus, Athenas, / oppida non Asiae, non loca visa prius»: tale il parere di Fedeli 1985, 631. 84 85
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troppo tempo, per rientrare a Roma. L’invito a tornare in patria comporterebbe peraltro un mutamento radicale nell’esistenza del giovane aristocratico sensibile alle lusinghe del φιλότιμος βίος 87 al punto da accompagnare in Asia lo zio Volcacio, designato proconsole all’incirca tra il 30 e il 29 a.C. 88, finendo poi per risiedere stabilmente nella Propontide 89. Q uali che siano stati e la carica ricoperta da Tullo al seguito di Volcacio 90 e il ruolo pubblico rivestito dopo la fine del suo proconsolato – questioni ampiamente dibattute dalla critica 91 – in questa sede preme soffermarsi quantomeno sulla genesi di Prop. 3, 22. Sembra godere maggiori titoli di plausibilità l’ipotesi per cui il testo sarebbe stato composto dietro pressione dei Tulli, preoccupati che il congiunto assolvesse, una buona volta, «his Roman obligations» 92. Impossibile dire se, adempiendo a tali richieste, Properzio ne condividesse realmente motivazioni e obiettivi. Certo è che l’auspicata integrazione di Tullo nel rigido sistema di munera pubblici e personali, racchiusa nei versi finali dell’elegia (vv. 39-42), sembra armonizzarsi più con il profilo di chi, molti anni prima, aveva sistematicamente anteposto all’eros la dedizione alla patria in armi (vd. 1, 6), che non con la condizione di chi per diverso tempo si è tenuto distante dai meccanismi delle relazioni sociali e familiari vigenti a Roma. Esaminiamo il testo. Per tratteggiare l’attuale sede del proprio interlocutore, l’autore ricorre ad una serrata sequela di toponimi, oronimi e teonimi (vv. 1-4) 93 mentre, per descrivere le peculiarità dei siti dell’Est 87 Cfr. Prop. 1, 6, 19-20: tu patrui meritas conare anteire secures, / et vetera oblitis iura refer sociis; v. 22: semper at armatae cura fuit patriae. 88 Vd. Cairns 1974, 158-159. 89 Dal canto suo, Stahl 1985, 206 osserva: «At the time when Propertius asks him to come home, Tullus has been away at least six (at most nine) years, i.e., he overstayed the return of his uncle’s cohors for so many years that no real interest in a further political career on Tullus’ part can any longer be assumed; on the contrary, an appeal to patriotic motives might even contribute to making him stay at Cyzicus». 90 Cfr. Cairns 1974, 162-163. 91 Un diagramma particolareggiato della questione in Fedeli 1985, 625-626, oltre che in Rothstein 19242, II, 376. 92 Vd. Stahl 1985, 206. 93 Rinvio, in tal senso, alle note di commento di Fedeli 1985, 630-634.
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(e del Nord-Africa) che potrebbero ancora suscitare il suo interesse (vv. 7-18), mobilita una dottrina mitografica 94 materiata di letture eterogenee, segnalate minutamente dalla Weinlich 95. Straordinari per quanto siano, i siti indicati tramite referenti mitici non potranno però rivaleggiare con le doti della Romana terra: un versus aureus proclama l’imparagonabilità di quest’ultima (v. 17) rispetto alle attese di un traveler in the lands of the East (and of North Africa): omnia Romanae cedent miracula terrae.
A giudizio di Camps 96, l’elegia qui discussa sarebbe in certo qual modo indebitata con gli esercizi praticati nelle scuole di retorica (si pensi, ad es., alle laudes urbium previste da Q uint. 3, 7, 26-28 o ai procedimenti di comparatio fissati in 2, 4, 21) nonché con il metodo retorico di argomentare tramite enumerazione di esempi 97. Eppure, le indicazioni porte da Q uintiliano nel primo dei passi in questione, oscillanti fra le lodi degli ecisti e dell’antichità delle città, fra l’insistenza sulla posizione geografica e sulle fortificazioni, sui cittadini e sulle opere publiche, per continuare con i luoghi e le loro caratteristiche precipue, trovano un riscontro molto ridotto nel tessuto della 3, 22, nel cui perimetro temi prioritari risulteranno la forza e la clemenza degli abitanti da un lato, le bellezze naturalistiche dall’altro, con un cenno cursorio ad un’imponente opera pubblica, l’acquedotto Marcio 98, non oltre. D’altra parte, anche le lodi previste in àmbito retorico per quelle 94 «Propertius is not describing visible places, but he is envisaging mythological events associated with those places» afferma giustamente Williams 1968, 423. 95 Cfr. Weinlich 2015, 51-56. 96 Vd. Camps 1966, 154. 97 Come in Hor. c. 1, 7, 1-20; Verg. georg. 2, 136-176. 98 Laudantur autem urbes similiter atque homines. Nam pro parente est conditor, et multum auctoritatis adfert vetustas, ut iis qui terra dicuntur orti, et virtutes ac vitia circa res gestas eadem quae in singulis: illa propria quae ex loci positione ac munitione sunt. Cives illis ut hominibus liberi sunt decori. Est laus et operum, in quibus honor utilitas pulchritudo auctor spectari solet: honor ut in templis, utilitas ut in muris, pulchritudo vel auctor utrubique. Est et locorum, qualis Siciliae apud Ciceronem: in quibus similiter speciem et utilitatem intuemur, speciem maritimis planis amoenis, utilitatem salubribus fertilibus. Erit et dictorum honestorum factorumque laus generalis, erit et rerum omnis modi. Nam et somni et mortis scriptae laudes et quorundam a medicis ciborum.
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città da cui ci si allontana, teorizzate molto più tardi da Men. Rhet. 3, 430, 30-431, 15 Speng. 99, non possono tornare utili all’interpretazione dell’esordio della 3, 22, visto che Properzio si prefigge di riportare in patria Tullo, non già di sottolineare, rincarandoli, i pregi del luogo in cui risiede attualmente. Bisognerà spostarsi ai vv. 18 ss. dell’elegia, spesi a elogiare i mira Romae, per aver ben chiaro a quale ipotesto l’autore abbia inteso ancorare la propria ispirazione: lì, infatti, il rapporto con Verg. georg. 2, 136-176 inizia a farsi stringente 100. A dipanare l’entità e la combinazione degli spunti georgici nel testo properziano non basterà comunque il supporto dei riscontri fornito dai commentatori o lo studio comparativo fra i due passi condotto già nel 1951 dal La Penna 101 e ampliato dalla monografia di Kocher apparsa nel 1974 102. Si tratterà piuttosto di analizzare le dinamiche di riuso del testo precettistico nelle oscure volute di un componimento mosaicato di tessere per buona parte derivate sì dalle laudes Italiae virgiliane, il cui reimpiego risponde però ad una strategia comunicativa ben diversa da quella perseguita nel modello. Non dimentichiamo, comunque, che un passo di andamento digressivo quale quello virgiliano appena citato, contiene, come ben evidenziato da Kenney 103, un’altissima concentrazione di elementi didascalici dissimulata tra le pieghe tematicamente ‘eccentriche’ del discorso: Properzio dovrà misurarsi pertanto con un 99 … χάριν ὁμολογήσει τῇ πόλει, ἐξ ἧς ἡ ἐπάνοδος, ἐπαινέσει δὲ αὐτήν, ὁπόθεν ἂν ὁ καιρὸς αὐτῷ διδῷ τὰ ἐγκώμια, οἷον ἀπὸ τῶν ἀρχαίων εἴ τι σεμνὸν ἔχοι, ἀπὸ τῶν ἀέρων, ἀπὸ τοῦ εἴδους τοῦ κάλλους, οἷον ἀπὸ στοῶν καὶ λιμένων καὶ ἀκροπόλεως καὶ ἱερῶν πολυτελῶν καὶ ἀγαλμάτων. ἐπαινέσει δὲ μετὰ ταῦτα καὶ τὰς ἐν αὐτῇ πανηγύρεις καὶ ἱερομηνίας καὶ μουσεῖα καὶ θέατρα καὶ ἀγώνων διαθέσεις, πανταχοῦ παραπλέκων, ἵνα μὴ ἁπλοῦν γένηται ἐγκώμιον, τὸ ὅτι ἀνιᾶται μέλλων τούτων χωρίζεσθαι ἐφ’ ἑκάστῳ σχεδὸν εἰπεῖν τῶν νοημάτων, ἵνα συντακτικὸν εἶδος ὁ λόγος λάβῃ. ἐπαινέσει δὲ καὶ τοὺς ἄνδρας, οἷον ἱερέας, εἰ τύχοι, δᾳδούχους τε καὶ ἱεροφάντας, καὶ τὰ ἤθη τῶν ἀνδρῶν, ὅτι ἥμεροι καὶ φιλόξενοι· καὶ ἑταίροις δὲ ὁμοίως συντάξεται, κἀνταῦθα ἐνδεικνύμενος τὸ ἀλγεῖν καὶ δακρύειν ἐπὶ τῷ χωρισμῷ. Sul tema cfr. Cairns 1972, 38-39. 100 Che poi le Georgiche nella loro interezza rappresentino un ininterrotto elogio dell’Italia è motivata sottolineatura di Harrison 2008, 231. 101 Mi riferisco all’articolo di La Penna 1951, 50. 102 Vd. Kocher 1974, 30-58. 103 Cfr. Kenney 1973, 15. Del carattere accentuatamente precettistico delle digressioni nei poemi didascalici latini, a partire dal De rerum natura, ho trattato in Landolfi 1985, 267-271.
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ipotesto autorevole, studiatamente celebrato nella 2, 34, dove il cenno al canere Ascraei veteris praecepta poetae (v. 77) parafrasa distintamente la chiusa delle laudes Italiae (georg. 2, 176): Ascraeumque cano Romana per oppida carmen.
Dunque, come già riscontrato per la 3, 13, anche la 3, 22 risulta in certo modo prosecutiva rispetto ai giudizi di valore espressi sulla produzione virgiliana nell’elegia excipitaria del secondo libro: infatti, in ambedue i componimenti, allorché Properzio decida di ‘riscrivere’ dichiaratamente passi bucolici e georgici, seleziona quegli stessi brani facenti parte dell’elogio di Virgilio tratteggiato in precedenza. Della qual cosa non sembrano essersi accorti anche i commentatori più avvertiti. Nel richiamare a Roma Tullo, non particolarmente affetto dal desiderium amici (v. 6) e incurante dello straordinario patrimonio etico della terra natia, della ricchezza dei suoi bacini idrografici, dell’assenza di animali pericolosi per la salvaguardia dell’esistenza, il poeta Umbro gli trasmetterà intanto la consapevolezza dei pregi del suolo patrio, sottolineandone la superiorità rispetto alle peculiarità delle terre orientali e nord-africane, capaci più di stupire che di suscitare orgoglioso compiacimento (vv. 17-28). Infatti, una serie di τέρατα contraddistingue quei posti in grado di catturare la curiosità dell’interlocutore, a fronte della rassicurante ricchezza di valori e di bellezze naturalistiche di cui è provvista la Romana … terra, aliena già da mostruose forme di fruttificazione nel poema virgiliano (georg. 2, 140-142): haec loca non tauri spirantes naribus ignem invertere satis immanis dentibus hydri, nec galeis densisque virum seges horruit hastis.
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Le selve dei Medi, terra ricchissima, il Gange maestoso, l’Ermo intorbidato dalle vene aurifere, Battra, l’India e l’intera Panchea non potrebbero contendere con i pregi dell’Italia 104: così Credo vada condivisa l’opinione di Harrison 2008, 231 secondo cui «The superiority of the Italian landscape over the Inferior regions of the East in flora, fauna and natural advantages is a clear symbol of Caesarian Italy’s victory over the Antonian East». In successione (232-233), lo studioso sottopone i versi iniziali delle laudes virgiliane a serrati confronti con quelle odi oraziane legate al 104
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Virgilio inaugura il proprio encomio, nel cui ordito il vicino e il medio Oriente uscirebbero sconfitti da un confronto con l’Ausonia. A suo dire, proverbiali risorse materiali da un lato e portenti inauditi dall’altro non avrebbero nulla da dividere con l’ubertosità, con la produttività cerealicola e vinicola, olearia e pastorale di quella che verrà salutata con l’appellativo di Saturnia tellus (v. 173), oltre che con la duplice denominazione di magna parens frugum … / magna virum (vv. 173-174). L’encomio georgico fa dell’Italia un paese πάγκαρπος da ogni punta di vista, benché, solo pochi versi prima, l’autore non avesse mancato di rilevare come ogni terreno non sia in grado di produrre ogni cosa (Nec vero terrae ferre omnes omnia possunt v. 110) e per configurazione morfologica e per ragioni climatiche, tant’è che ogni specie arborea predilige un tipo di suolo piuttosto che un altro e, di conseguenza, una determinata regione anziché un’altra (vv. 110-135). Come per le ricchezze proverbiali dei paesi dell’Est, come per le prodigiose presenze che lì hanno assicurato frutti abnormi, sarà una formulazione polare a cadenzare l’assenza in Italia degli animali feroci (tigri, leoni), delle piante velenose (aconito), dei rettili letali per gli esseri umani (vv. 151-154) 105. Se la letteratura paradossografica e la trattatistica vertente sui mira discutono di forme di alterità, di fenomeni e creature che trascendono il quotidiano e la norma, contrastando o, addirittura, invertendo le leggi vigenti in natura 106, di necessità Virgilio attinge ai loro repertori per far risaltare, antifrasticamente, l’eccezionalità del suolo patrio. Pertema delle campagne orientali promosse da Augusto e con la restante produzione poetica coeva che assimila le gesta del Caesaris filius a quelle di Alessandro Magno sino alla conquista dell’Eufrate, celebrata in georg. 4, 560-562, per giungere alla seguente conclusione (234): «The young Caesar’s victory thus replays and improves on Alexander’s subjugation of the east; this is mirrored on the literary level in the way that Virgil’s Caesarian poem, the Georgics, overcomes traditionally turgid epic praises of Alexander by adopting a refined Callimachean poetic stance». 105 In contrasto con il brano di georg. 3, 414-449, come non manca di obiettare Harrison 2008, 236 per il quale: «The absence of both poisonous aconite and poisonous snakes is another encomiastic rhetorical exaggeration openly contradicted by the account of snakes at 3, 414-449, a passage which indeed echoes several verbal details from 2, 153-154, but again the point is not just to overemphasise the paradisiacal landscape of Italy». 106 Parafraso qui, per buona parte, espressioni impiegate da Deremetz 2009, 115.
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tanto un’insistita formulazione polare contraddistingue la rubrica di θαυμαστὰ e di τερατώδη 107 delle terre d’Oriente a paragone di un’Italia raffigurata edenicamente contro l’evidenza dei recenti trascorsi bellici 108: pur vantando pregi innegabili, ricchezze smisurate, risorse proverbiali, queste zone dell’ecumène vedono via via contestati tanto l’unicità dei loro primati quanto la straordinarietà dei mezzi di cui dispongono. Sul versante formale, un congruo numero di avverbi negativi (neque v. 136, nec v. 137, non … neque v. 138, non v. 140, nec v. 142, nec v. 152, nec … neque v. 153) scandisce la struttura del passo georgico, fatta salva l’eptade stretta tra i vv. 143-150 da cui emerge in termini assertivi il profilo di un’Italia ricca di messi e di vino, di olivi e di mandrie, di cavalli da guerra e di vittime sacrificali per i trionfi da celebrare. D’altra parte nel testo virgiliano la frattura del criterio della verisimiglianza, frutto di autopsia o di empiria, costituisce il dispositivo che riammoderna le coordinate dell’ἔπαινος τῆς χώρας 109 osservate, ad es., nell’Edipo a Colono di Sofocle a proposito dei pregi incomparabili di Atene (vv. 668-719) 110: distorsioni, alterazioni, disallineamenti dal reale contesto storico-geografico chiariscono le finalità dell’operazione promossa da Virgilio onde conferire credibilità 111 nell’hic et nunc al ritratto di un sito senza paragoni non solo per caratteristiche naturali, bensì anche per eterogeneità di popoli che vi abitino e di casate nobiliari in grado di segnarne la storia.
107 Sul cui uso e sulla cui ripartizione in letteratura, seguendo i canoni della Poetica aristotelica, vd. Deremetz 2009, 115-116. Osservazioni pertinenti sul retroterra paradossografico del passo in Gale 2000, 215-219. 108 A buon titolo, nel commento ad Verg. georg. 1, 136, Servio osserva come, adeguandosi a precise norme retoriche, questo elogio descriva una terra esente malis universis (sul tema cfr. Ross 1987, 99), nondimeno, come evidenziato da Thomas 1988, 180 «this is not a poet accustomed to reproducing rethorical topoi for use in a classroom. V. presents obvious fictions, demonstrably in conflict with the final designation of the country as Saturnia tellus (145-148, 155-157, 161-164, 165-166, 169-172) – itself a falsehood, both here and at the end of the book (458-474, 532-540 nn.)». Sul tema rinvio peraltro alle argomentazioni centrate di Nappa 2005, 78-85. 109 Per parte propria, Castiglioni 1983, 325-344 traccia in modo esaustivo le coordinate degli encomi di città o di regioni nel mondo greco-romano. 110 Richiamati, in proposito, da Thomas 1988, 179-190. 111 Fini notazioni in materia offre Deremetz 2009, 120-121.
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Enumerando le doti di una terra privilegiata oltre ogni dire, baciata da un clima mite, dotata di una duplice figliatura per il bestiame e di un duplice raccolto per gli alberi (v. 150) 112, il poeta didascalico pone in rilievo la straordinarietà del suo suolo, assicurata dalla κρᾶσις τῶν ὡρῶν 113, uno dei punti cardine del determinismo ambientale antico, che aveva consentito già al Varrone trattatista di res rusticae di pubblicizzare l’impareggiabilità della fruttificazione italica se rapportata al resto delle zone abitate per ragioni prioritariamente geo-climatiche 114, trovando un qualche riscontro nell’elogio della medietà climatica e del l’eccellenza delle popolazioni che dimorano in Italia imbastito da in Vitr. 6, 11, 11 115, oltre che piena rispondenza nell’entusiastico tributo di Dion. Hal. 1, 36, 2-3 alla straordinaria feracità per 112 Dal canto suo Castiglioni 1983, 332 individua in Megastene colui che ha celebrato l’India come δίκαρπος καὶ δίφερος (Strab. 15, 1, 20): il motivo della duplice produzione annua, dunque, era ben attestato nella paradossografia elle nistica, ma, a giudicare dal corredo di loci approntato da Richter 1957, 206, in materia sarebbe il caso di risalire molto oltre, addirittura a Hom. Il. 4, 86; Hes. Op. 173, oltre che, successivamente, ad Hecat. FHGr II, 286 M. 113 Per parte propria, Harrison 2008, 236 nota come: «These lines continue the literary symbolism. Italy and the Georgics are the location of a paradisiacal climate: the claim to continual spring and double fertility is an encomiastic topos rather than a serious agricultural observation, a rhetorical exaggeration, but once again the themes are treated metapoetically and pick up elements from the Georgics itself: spring is the subject of a famous description in this same book (2, 319-345), while the care of sheep (pecudes) is dealt with at 3, 295-299 and the cultivation of fruit-trees (arbos) has just been dealt with at 2, 9-108». 114 Cfr. Varro RR 1, 2: Cum consedissemus, Agrasius, Vos, qui multas perambulastis terras, ecquam cultiorem Italia vidistis? inquit. Ego vero, Agrius, nullam arbitror esse quae tam tota sit culta. primum cum orbis terrae divisus sit in duas partes ab Eratosthene maxume secundum naturam, ad meridiem versus et ad septemtriones, et sine dubio quoniam salubrior pars septemtrionalis est quam meridiana, et quae salubriora illa fructuosiora, dicendum utique Italiam magis e‹ti›am fuisse op‹p›ortunam ad colendum quam Asiam, primum quod est ‹in› Europa, secundo quod haec temperatior pars quam interior. Sul retroterra concettuale di questo passo vd. ora gli ineccepibili rilievi di Fedeli 2014, 394-395, oltre alla messa a punto di Giardina 1997, 39. 115 Cfr. Vitr. 6, 1, 11: Namque temperatissimae ad utramque partem et corporum membris animorumque vigoribus pro fortitudine sunt in Italia gentes. Q uemadmodum enim Iovis stella inter Martis ferventissimam et Saturni frigidissimam media currens temperatur, eadem ratione Italia inter septentrionalem meridianamque ab utraque parte mixtionibus temperatas et invictas habet laudes. Itaque consiliis refringit barbarorum virtutes, forti manu meridianorum cogitationes. Ita divina mens civitatem populi Romani egregiam temperatamque regionem conlocavit, uti orbis terrarum imperii potiretur.
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la quale l’Italia medesima sarebbe, a suo vedere, οὐ μόνον τῆς Εὐρώπης, ἀλλὰ καὶ τῆς ἄλλης ἁπάσης κρατίστη 116. In epoca augustea, le descrizioni di questa «terra del giusto mezzo» 117, dotata di una singolare molteplicità di paesaggi, fatta di pianori, alture, radure e boschi, bacini lacustri, mari senza possibilità di confronto con altre parti dell’ecumène, insistono principalmente sull’aspetto paesistico, sulla pluralità di piante, acque, animali eludendo il problema della sua composita congerie etnica, come sottolineava una ventina d’anni fa Giardina 118 a proposito delle testimonianze di Varrone e di Dionigi di Alicarnasso. Aggirando il paradigma georgico di un Ἰταλίας ἔπαινος integrato da un doveroso Ἰταλῶν ἔπαινος, per parte propria anche Properzio evita di affrontare la questione spinosa «dell’identità collettiva delle genti italiche» 119 e della loro effettiva integrazione nel tessuto socio-politico dell’Urbe, una volta spentisi gli echi della coniuratio totius Italiae a fronte dello scontro aziaco del 31 a.C. 120. Se ancora la designazione di Cizico come frigida al v. 1 della 3, 22 gli avrebbe potuto offrire il destro per considerazioni di ordine climatico sulla preferibilità di Roma e dell’Italia a paragone delle temperature della città ellespontiaca 121, ogni valutazione di merito sulle Italicae gentes, già epicentro di georg. 2, 167-168, sarebbe risultata d’antan. Nel prosieguo dell’elegia non ricorrono 116 οὐκ ἂν εὕροι ταύτης τινὰ ἐπιτηδειοτέραν. ὡς γὰρ μία γῆ πρὸς ἑτέραν κρίνεσθαι τοσαύτην τὸ μέγεθος, οὐ μόνον τῆς Εὐρώπης, ἀλλὰ καὶ τῆς ἄλλης ἁπάσης κρατίστη κατ’ ἐμὴν δόξαν ἐστὶν Ἰταλία. καίτοι με οὐ λέληθεν ὅτι πολλοῖς οὐ πιστὰ δόξω λέγειν, ἐνθυμουμένοις Αἴγυπτόν τε καὶ Λιβύην καὶ Βαβυλῶνα καὶ εἰ δή τινες ἄλλοι χῶροί εἰσιν εὐδαίμονες· ἀλλ’ ἐγὼ τὸν ἐκ γῆς πλοῦτον οὐκ ἐν μιᾷ τίθεμαι καρπῶν ἰδέᾳ οὐδ’ εἰσέρχεταί με ζῆλος οἰκήσεως, ἐν ᾗ μόνον εἰσὶν ἄρουραι πίονες, τῶν δ’ ἄλλων οὐδὲν ἢ βραχύ τι χρησίμων, ἀλλ’ ἥτις ἂν εἴη πολυαρκεστάτη τε καὶ τῶν ἐπεισάκτων ἀγαθῶν ἐπὶ τὸ πολὺ ἐλάχιστον δεομένη, ταύτην κρατίστην εἶναι λογίζομαι. 117 Per usare le parole di Barchiesi 1980, 155, il quale rileva, per altro verso, il reimpiego da parte di Virgilio di motivi tradizionali creati dagli scrittori attici del V-IV secolo in funzione del ‘modello ateniese’, oltre che di motivi più recenti, originatisi nell’alveo della storiografia ellenistica. 118 Cfr. Giardina 1997, 40. 119 Mi valgo di un’espressione coniata da Giardina 1997, 41. 120 Cfr. Res gest. 5, 3: iuravit in mea verba tota Italia sponte sua. 121 Il testo properziano glissa già su questo terreno di confronto, limitandosi a caratterizzare Cizico come ‘fredda’: tale sarebbe infatti la valenza semantica del frigida concordato a Cyzicus nel verso iniziale secondo la corretta interpre tazione di Kocher 1974, 15-16 e di Fedeli 1985, 630 ad loc.
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menzioni di Marsi, Sabelli, Liguri, Volsci, abituati a un rigido sistema di vita e a una mostra di fierezza bellica che li accomuna all’immagine canonica dei Romani stessi 122. Del resto, all’assenza di etnonimi fa riscontro l’assenza delle casate più in vista in epoca repubblicana, elencate viceversa in georg. 2, 169-170. Se la centralità di Roma costituisce il tratto dominante dell’elo gio virgiliano dell’Italia 123, a sua volta sull’assialità di Roma nel territorio italico e rispetto al territorio italico Properzio costrui sce le proprie laudes in cui l’idea dell’Urbe «si amplia nell’idea d’Italia» 124 inglobando, dopo la celebrazione sia della forza delle armi sia della clemenza che essa sa usare poi con i vinti (vv. 21-22), prima il territorio laziale, successivamente quello etrusco, per finire con gli interi confini ausonii. Tuttavia gli assi geografici cui il poeta elegiaco fa riferimento coincidono per la maggior parte con le regioni del proprio βεβιωμένον, carica com’è di affettività, ad es., la descrizione idrografica condotta ai vv. 23-25 della nostra elegia, il che rivela, del resto, l’apostrofe all’Aniene, improvvisamente personificato, seguita dalla citazione del Clitumno, giù giù sino all’acquedotto di Marcio, il lago Albano e quello Nemorense alimentati dalle acque attigue 125: hic, Anio Tiburne, fluis, Clitumnus ab Umbro tramite, et aeternum Marcius umor opus, Albanus lacus, et foliis Nemorensis abundans. 25
Ai vv. 23-24 della terna, la sottolineatura ab Umbro / tramite rimpolpa l’unico riscontro virgiliano in essa certificabile (georg. 2, 146) apponendovi una notazione di sapore più autobiografico che geografico in senso stretto, valorizzata dal rejet del lemma trames legato al coronimo immediatamente precedente. Cinto di sacralità, nel testo virgiliano il Clitumno appare come un fiume nelle cui correnti le vittime da immolare si bagnavano spesso Vd. Giardina 1997, 31; Fedeli 2014, 395. Come ribadito da Fedeli 2014, 395. 124 Estrapolo la citazione da Fedeli 2014, 399. 125 Sul loro ruolo specifico nella storia del l’Urbe insiste Weinlich 2015, 64-70. Del carattere autobiografico di queste citazioni lungo la 3, 13 era già persuaso Paratore 1936, 164-166. 122 123
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prima di guidare i cortei trionfali dei Romani 126. Nondimeno, su Properzio non esercita altrettanto richiamo l’angolazione da cui, nelle Georgiche, si osserva il flumen sacrum utile alle abluzioni degli animali votati al sacrificio in vista della celebrazione dei trionfi. Il mantenimento del nesso enniano riutilizzato da Virgilio 127 sarebbe risultato indebito in un reticolo idrografico segnato dalla presenza di più corsi d’acqua ben noti a chi li descrive o perché facenti parte della sua infanzia e adolescenza o perché eventuale teatro di sortite in compagnia di Cinzia 128. D’altronde già in 2, 19, 25-26, il poeta aveva elogiato le funzioni lustrali del fiume etrusco (qua formosa suo Clitumnus flumina luco / integit et niveos abluit unda boves), le cui scaturigini avrebbero ispirato un’intensa lettera di Plinio il Giovane diretta a Tacito (8, 8, 1 ss.) dove spicca l’alone di sacralità che lo avvolge interamente 129. Le cascate dell’Aniene, insieme alle sorgenti del Clitumno, l’acqua Marcia e il suo grandioso acquedotto, i laghi di origine craterica e la fonte Giuturna nel Foro Romano costituiscono i Romanae miracula terrae da contrapporre alla rubrica dei fiumi che, in Oriente, potrebbero ancora destare l’interesse e la curiosità di Tullo, una rubrica articolata nei richiami al Fasi (v. 11), al Caistro (v. 15), al Nilo (v. 16). Corsi d’acqua entrati di diritto nella mitologia, come il Fasi già strettamente legato alla spedizione argonautica in 1, 20, 17-18, antonomasticamente colchico (Colchum … Phasim 3, 22, 10) in poesia dotta almeno a partire dal prologo del c. 64 di Catullo (v. 3) per continuare con Ov. her. 12, 10-11; 16, 347-348; 19, 175-176; met. 7, 6-7; Man. 4, 517; Lucan. 3, 271; Petr. 93, 2; Sen. Phae. 907; Val. Fl. 5, 440, etc., o il Caistro, appartenente alla Lidia e provvisto di un alveo tortuoso, rievocato da Verg. georg. 1, 384; Ov. met. 2, 253; 5, 386; Mart. Vd. Verg. georg. 2, 146-149: hinc albi, Clitumne, greges et maxima taurus / victima, saepe tuo perfusi flumine sacro, / Romanos ad templa deum duxere triumphos. 127 Cfr. Enn. ann. 54 Sk.: Teque pater Tiberine tuo cum flumine sacro. L’imprestito è ora riportato da Thomas 1988, 184; Mynors 1994, 121; Erren 2003, 365. 128 Un cenno, a tal riguardo, in Mazzoli 2010, 190. 129 Cfr. Plin. ep. 8, 8, 5: Adiacet templum priscum et religiosum. Stat Clitumnus ipse amictus ornatusque praetexta; praesens numen atque etiam fatidicum indicant sortes. Sparsa sunt circa sacella complura, totidemque di. Sua cuique veneratio suum nomen, quibusdam vero etiam fontes. 126
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1, 53, 7-8; Sil. It. 14, 189, ma che già Hom. Il. 2, 460-462 aveva associato ai cigni, soliti assieparsi sulle sue rive, o il Nilo egizio, dal delta imponente. Septemgeminus, lo definiva Cat. 11, 7-8, mentre Ovidio, variando l’immagine di base, ricorreva alle perifrasi per septem portus (am. 2, 13, 9) 130; septena per ostia (am. 3, 6, 39); septem … in ostia (met. 5, 324), cui Man. 3, 274 replicava con per septem fauces. La successiva contrapposizione fra fiumi orientali e nord-africani e fiumi italici contiene al suo interno non solo il proclama dell’ineguagliabilità della Romana … terra, bensì anche quello del compendio del patrimonio esistente in natura (v. 18) 131: natura hic posuit, quidquid ubique fuit.
Rispetto all’immagine di un’Italia πάγκαρπος della quale Virgilio enumera i singoli pregi, enfatizzandone la reale entità, Properzio propone l’immagine di una Roma che, per dono della natura, riunisce in sé tutto quel che è stato in ogni luogo. Con una densità sorprendente, l’epitesto elegiaco fa riferimento a tutto l’immaginabile di cui l’Urbe dispone senza margine di confronti, quale che sia il settore di caso in caso considerato. Non serve alludere alle messi (at gravidae fruges georg. 2, 143), al Bacchi Massicus umor (v. 143), ad oleae armentaque laeta (v. 144), al bellator equus (v. 145), agli albi … greges et maxima taurus / victima (vv. 146147) destinati, dopo le abluzioni nel Clitunno, a prender parte ai già ricordati trionfi; non serve neppure celebrare la mitezza climatica locale come nel modello didascalico (hic ver adsiduum et alienis mensibus aestas v. 149) o alla duplice figliatura del bestiame e alla duplice fruttificazione degli alberi (v. 150). Dotato di icastica stringatezza, il pentametro properziano abbatte distinzioni e specifiche. Della sua ricchezza iconica si approprierà, motivatamente, l’Ovidio dell’ars in 1, 56, facendo sostenere al dedicatario ge130 Peraltro, tale nesso viene inciso da Ovidio in her. 14, 10 (per septem … portus). 131 Tratto precipuo delle laudes Italiae, come ribadito da Labate 1984, 52-53 è proprio l’insistenza sulla autárkeia, «che risparmia a Roma la necessità rischiosa di doversi aprire alle importazioni e ai commerci e di mettere così a repentaglio la compattezza dell’austera ideologia contadina».
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nerico del poema che Roma habet … quidquid in orbe fuit: il trapianto del tropo dal contesto disegnato da Prop. 3, 22 al campionario delle bellezze femminili e delle occasioni galanti godibili nell’Urbe manifesta come quelli dei due poeti augustei «siano … due modi, letterariamente e culturalmente diversi, di tradurre lo stesso consenso, la stessa adesione al presente» 132. Tuttavia il fuit usato nel verso da cui ho preso le mosse, vanta un vettore temporale di rara efficacia, che proietta in un passato onnicomprensivo la somma dei pregi attualmente in possesso di Roma. Teleologicamente essa costituisce il punto di intersezione e di cumulo dei mira che hanno contraddistinto i siti più diversi al mondo nelle epoche più diverse: qui la natura creatrix ha riunito qualsiasi meraviglia computabile sia sul piano cronologico, sia su quello geografico. E si trattasse solo di meraviglie naturalistiche … più adatta alle armi che idonea alle insidie, Roma ha reso la propria storia un implicito serbatoio di paradigmi di cui la fama non può sicuramente vergognarsi (vv. 19-20): Armis apta magis tellus quam commoda noxae, Famam, Roma, tuae non pudet historiae.
Grazie ad una calcolata dislocazione, lungo l’esametro il lemma tellus riveste una posizione centrale a ridosso della quale si dispongono specularmente gli avverbi magis … quam, delimitati a loro volta dagli epiteti apta/commoda, per finire con i due dativi armis/ noxae. Di fatto, una terra simile corrisponde all’esatto rovescio di Alessandria d’Egitto, emblema del dolo, come dichiarato in 3, 11, 33: noxia Alexandria, dolis aptissima tellus
ergendosi a depositaria di tutti i valori estranei all’Egitto e ai suoi abitanti. Q uasi insensibilmente il testo sposta il proprio focus dal l’esaltazione dei pregi geo-fisici di Roma e dell’Italia sin qui condotta, alla celebrazione delle doti etico-politiche del popolo che vi abita. Properzio fa mostra di considerarsi parte integrante di questa comunità con una svolta ‘anacolutica’, con un trapasso imprevisto dall’uso della terza persona, normativo nelle laudes urbium, Così si esprime a riguardo Labate 1984, 52.
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all’uso della prima plurale. Romano fra i Romani, l’autore della 3, 22, dichiara orgogliosamente (vv. 21-22): nam quantum ferro tantum pietate potentes stamus: victrices temperat ira manus
insistendo tanto sul potere quanto sulla clemenza 133 usati nei confronti dei vinti. L’ira frena le mani vittoriose in un razionale, equilibrato esercizio del dominio acquisito tramite le vittorie conseguite. Alla struttura radiale dell’esametro del v. 19 subentra la struttura incrociata di parallelismi (quantum ferro tantum pietate) e di antitesi (ferro // pietate), percorsa in explicit dalle anafore in labiale sorda con vocale dissimilata (pietate potentes) del v. 21. In rejet, il lemma verbale stamus in cui si concentra l’idea della stabilità e solidità del popolo 134, cui fa séguito la gnomica dichiarazione della misura nell’esercizio del potere concettualmente affine a Verg. Aen. 6, 853 135 e precorsa, nella raccolta properziana, da 2, 16, 41-42 136. Nella chiusa del componimento il richiamo a Tullo perché si decida ad abbandonare Cizico diviene pressante tramite il ventaglio dei deittici che orizzontalmente e verticalmente attraversano il testo a partire dal v. 23 e che, dopo la serrata formulazione polare dei vv. 27-37 137, concernente l’assenza di serpenti velenosi Sul tema cfr. Boucher 19802, 128-129. Non so sottrarmi all’idea che qui, pur se alla lontana, il verso properziano intenda alludere al moribus antiquis res stat Romana virisque di Enn. ann. 156 Sk., come, dal canto loro, sono propensi a credere Heyworth – Morwood 2013, 320, laddove Camps 1966, 158 v’intravvede l’orma di Verg. Aen. 12, 827: sit Romana potens Itala virtute propago. Sull’esatta caratura semantica di sto si sofferma infine il commento di Fedeli 1985, 645. Ad ogni modo, non si può non essere d’accordo con Gale 2000, 241, allorché sostiene: «Foreign conquest is most often mentioned by writers of the first century in tones of pride: Italy is mother of sturdy warriors, Rome’s world-empire is divinely ordaines, ad her wars ultimately bring peace to her subject nations», rubricando alla n. 38 i passi di Cic. Off. 1, 35, 62, 121; 2, 26 e 45; Tusc. 1, 110; Sest. 96-101; Sall. Cat. 12, 4; Caes. B.G. 2, 14; Verg. buc. 4, 17; Aen. 1, 278-290; 6, 851-853; Prop. 3, 22, 19-22. 135 Un riscontro, questo, segnalato da Rothstein 19242, II, 170; Butler – Barber 19662, 317; Fedeli 1985, 645. 136 Come indicato da Fedeli 1985, 645 e da Richardson 20062, 406. 137 Non v. 27; non v. 29; nec v. 30; nec. v. 31; non v. 33; nec v. 34; nec v. 35; non v. 37. 133 134
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e mostri nel territorio italico, oltre che di misfatti orrorosi entrati di diritto nella sfera del mito, tornano ad investire la sintassi interna dell’elegia (vv. 39-42): haec tibi, Tulle, parens, haec est pulcherrima sedes, hic tibi pro digna gente petendus honos, hic tibi ad eloquium cives, hic ampla nepotum spes et venturae coniugis aptus amor.
L’anafora intrastichica di haec e di hic negli esametri, contrappuntata dall’hic incipitario del primo dei due pentametri segnala ripetutamente al destinatario dell’apostrofe le opportunità che gli si dischiudono alla prospettiva del rientro in patria. L’espediente stilistico, ispirato al paradigma di georg. 2, 140-149 e 165-167 138, incapsula i moniti rivolti al dedicatario dell’elegia sul piano strettamente personale. In questi distici Roma è detta, al contempo, parens e pulcherrima sedes. Tale appariva già l’Italia in Verg. georg. 2, 173 (salve, magna parens frugum, Saturnia tellus), tale appariva l’Urbe in Verg. georg. 2, 534 (pulcherrima Roma). La contaminazione a distanza dei due spunti, coagulata intrastichicamente, consente all’autore di esercitare un doppio ‘condizionamento’ psicologico sul proprio destinatario agendo su fattori tassonomicamente dispari: a) il legame ematico che intercorre fra la terra natia e Tullo; b) l’incomparabile bellezza di questo suolo che inorgoglisce il suo popolo. Va da sé che il primo dei due elementi investa soprattutto la sfera emotiva, laddove il secondo investe soprattutto quella estetica; l’uno fa leva sull’orgoglio identitario, materiato di trascorsi e valori collettivi, l’altro sulla contemplazione della straordinarietà del territorio, motivo di compiacimento e di vanto. In proposito il Kocher 139 ha individuato nella lignée che annovera i passi di Cic. leg. 2, 3; Phil. 12, 24 e di Cat. 68, 34-35 gli archetipi letterari del l’esaltazione del vincolo genetico Heimat/Sohn, ma 138 Cfr. haecv. 140; hinc v. 145; hinc v. 146; hic v. 149; haec eadem v. 165; haec v. 167; haec v. 169. 139 Vd. Kocher 1974, 91.
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vorrei sottolineare come in Prop. 3, 22, 39 l’interposizione del l’idionimo tra deittico e pronome personale da una parte e designazione aggettivale-participiale della terra dall’altra, giochi quasi a riprodurre figurativamente l’idea dell’‘uterinità’ che lega Tullo alla propria patria (Haec tibi, Tulle, parens). D’altra parte, q ui l’anafora verticale del pronome tibi, collocato fissamente dopo il deittico di riferimento negli attacchi dei vv. 39-41, tramutato in epanafora (hic tibi) tra i vv. 40-41, prefigura con enfasi le prospettive derivanti dalle radici stesse di Tullo. Infatti, nel suolo natio Tullo potrà aspirare a cariche confacenti alla sua stirpe (v. 40) e godere del riscontro civico nell’esercizio forense (v. 40). I cenni alla stirpe e alla facondia dell’interlocutore permettono all’autore di disegnarne un profilo ‘pubblico’ parallelo a quello ‘privato’, precisato in rapida successione. A tutti gli effetti il futuro che attende l’amico a Roma sarà conseguenza diretta del suo nobile lignaggio, della sua formazione oratoria, elementi, questi, che lasciano presagire successi certi, una volta abbandonata Cizico. Come non si faranno attendere le affermazioni nel cursus honorum e nei dibattiti processuali, così non tarderanno né la realizzazione di una cospicua discendenza 140 né il sostegno di un adeguato amore coniugale, quantomeno attestandoci alle asserzioni del poeta. In sostanza, il ritorno dall’Oriente per Tullo equivarrà alla completa realizzazione della propria identità civica e delle aspirazioni personali: ogni aspetto della sua esistenza consuonerà allora con la posizione sociale di cui gode, con i doveri nei confronti dello Stato e con i doveri verso se stesso, in quanto membro di un illustre casato. Nell’assunzione di responsabilità pubbliche e di obblighi familiari, il destinatario della 3, 22 parteciperà appieno alla definizione dei suoi ruoli 140 Della filiazione di Prop. 3, 22, 41-42 (hic ampla nepotum / spes) da Verg. Aen. 2, 503 (spes tanta nepotum) non sembra dubitare Rothstein 19242, II, 174, laddove Butler – Barber 19662, 319 e Richardson 20062, 407 citano il testo eneadico solo a mo’ di locus similis. A sua volta, Camps 1966, 162 ipotizza l’esistenza di un modello comune ai due poeti. Tale possibilità è accettata da Fedeli 1985, 656, il quale ricusa l’idea di un influsso diretto del testo epico su quello elegiaco per il fatto che nell’uno si fa riferimento ai cinquanta talami di Priamo, i cui figli sono stati uccisi dagli eroi greci, mentre nell’altro sarebbe espressa una condizione irrinunciabile al propagarsi di una gens. Infine, a giudizio di Heyworth – Morwood 2013, 323 nella tournure properziana affiorerebbe un’eco ironica al predetto emistichio virgiliano, d’accordo con la posizione assunta da Brakman 1926, 77-78.
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socio-politici e gentilizi, integrandosi perfettamente nella compagine d’appartenenza nel rispetto delle linee direttive impartite dal princeps 141, attento all’ossequio formale delle tradizioni quiritarie. Trascorsi i tempi delle affermazioni militari (1, 6) e dei godimenti edonistici (1, 14), Tullo è ormai chiamato ad essere in tutto e per tutto un cittadino romano, oltre che un membro dell’aristocrazia romana. Ma è tempo di guardare alla morfologia biotica del testo properziano specificandone peraltro il piano di destinazione rispetto ai poemi didascalici di Lucrezio e Virgilio. È da tempo acclarato il principio per cui nel De rerum natura il rapporto intrattenuto dall’autore con il destinatario intradiegetico, Memmio, sporadicamente apostrofato 142, non possa prescindere da un secondo e ben più composito destinatario, quello extradiegetico, identificabile con il pubblico colto ed élitario della tarda Repubblica al quale è realmente rivolto il messaggio salvifico teoricamente indirizzato all’intera umanità la quale, aderendo all’Epicuri ratio, potrebbe assicurarsi un’esistenza aliena da false credenze e da passioni distruttive.
Come sinteticamente indicato da Fedeli 1985, 655. Il rarefarsi delle apostrofi a Memmio (sul cui conio rimando a Gale 2001, 22-31) tra la terna costituita dai libri primo, secondo e quinto, e i rimanenti libri ha indotto Townend 1978, 267-283, a ribadire la tesi di un progressivo abbandono da parte dell’autore del progetto di convertire il ‘discepolo’ alla dottrina epicurea (quali che fossero stati gli strumenti psicagogici, più o meno ‘coercitivi’, invocati da Mitsis 1993, 109-128). Al di là dell’attendibilità di una tale presa di posizione, fortemente contestata da Gale 2002, 74-75, sulle tracce di Clay 1983, 216-220, resta il fatto che l’altissimo tasso di allocuzioni alla seconda persona (ben 412 ne computa Keen 1983, 1), rivolte a un tu generico, è indiziaria del l’intenso rapporto instaurato fra Lucrezio e il proprio destinatario generico nel segno di una vigile, sorvegliata didassi che non sembra conoscere rallentamenti o sbalzi di sorta. Si deve peraltro a Dalzell 1996, 51 un’equilibrata interpretazione del rapporto autore-destinatario intradiegetico rilevabile dall’esade lucreziana: secondo lo studioso, il De rerum natura è segnatamente caratterizzato dalla retorica della persuasione. Il lettore implicato nel testo non risulta egli stesso un epicureo, venendo invece ritratto come un principiante, che progredisce gradualmente, un passo alla volta (pedetemptim progredientis 5, 533), suscettibile di arretramenti, incline a discutere ed esprimere dubbi, ma abbastanza intelligente da applicare i principi generali a problemi non affrontati all’interno del poema stesso. In un poema didattico il poeta è tenuto a porsi con rispetto dinanzi al proprio soggetto e al proprio lettore: la sua scelta determinerà infatti il tono generale del l’opera. Il personaggio di Memmio, nel De rerum natura, sarebbe dunque parte della finzione del poema medesimo. Per una messa a punto dell’intera questione si veda Volk 2002, 73-93. 141 142
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A loro volta, le figure del dedicatario esplicito e del destinatario reale saranno definitivamente scisse nelle Georgiche dove l’immediato dedicatario non coincide con chi deve essere ammaestrato, bensì con il committente del testo stesso, Mecenate 143, destinatore primo di un poema che veicola valori etici altissimi fra gli anditi di una narrazione tecnica, concernente coltivazioni ed allevamenti 144. Il reale pubblico del Lehrgedicht virgiliano, lo sappiamo perfettamente, è tanto composito quanto ampio, composto com’è da un ceto raffinato, fatto di politici e intellettuali in larga misura ancora da guadagnare alle linee politiche del nascente Principato 145, non certamente dagli agricoltori che già Sen. ep. 86, 15 riteneva di fatto esclusi dalla possibilità di intendere e usufruire degli insegnamenti trasmessi 146. Dal canto suo, il radicale mutamento della figura del dedicatario del messaggio ‘precettistico’ 147 comporta nella 3, 22 di Properzio l’impiego di toni intimistici e colloquiali: in effetti, legato com’è al poeta da vincoli di perenne amicizia (pro nostra semper amicitia 1, 22, 2), Tullo non riceve una serie di consigli ab alto, sed ex aequo. Indubbiamente dalle sollecitazioni del poeta a mutare il corso della propria esistenza non affiorano tracce della sapienziale autorevolezza caratteristica del poeta didascalico, un’autorevolezza, questa, che marca sempre e comunque distanza per i riceventi dei moniti 148, quale che sia poi la sua variabile entità reale. Pur mantenendo molti dei nodi tematici dell’ipotesto georgico e dei moduli espressivi lì adottati, l’elegia properziana persegue una diversa strategia psicagogica, giocata su una suasività 143 Puntualizza bene la posizione rivestita da Mecenate all’interno del poema virgiliano Volk 2002, 130-139. 144 Cfr. Perutelli 1989, 294. 145 Vd. ancora Perutelli 1989, 294. 146 Ut ait Vergilius noster, qui non quid verissime sed quid decentissime diceretur aspexit, nec agricolas docere voluit sed legentes delectare. 147 Dal canto suo, Richardson 20062, 403 ha supposto che la 3, 22 di Properzio costituisse una lettera scritta in risposta ad una missiva di Tullo nella quale l’amico annunciava varî progetti di viaggio in Misia, sulla costa ionica e, da ultimo, in Egitto. Per quanto suggestiva, l’ipotesi urta con la totale assenza di caratteristiche epistolari nella tramatura dell’elegia properziana in oggetto. 148 Anche nelle Georgiche dove Virgilio mantiene il ruolo autoriale perlomeno allorché si discosti dalla precettistica agricola per investire questioni di natura etica e cosmica, come ben sottolineato da Schiesaro 1993, 133-147, ma vd. già Barchiesi 1982, 63-64.
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discorsiva consona alla natura dei vincoli amicali esistenti fra autore e dedicatario del componimento. Di tale fattore bisogna altresì tener conto per comprendere la rifunzionalizzazione stessa dei temi virgiliani cui Properzio si è ispirato. Infatti, l’elogio della Roma italica, di dimensioni già fortemente ridotte rispetto alle laudes Italiae georgiche [12 vv. (+8 in forma polarmente mitica) vs. 40 vv.], non ottempera alle precipue, per non dire esclusive, funzioni di encomiastica celebrazione in linea con la pubblicistica di regime, a rischio di forzare l’evidenza autoptica. Nell’elegia qui discussa il paragone vincente con i prodigi e le abnormità dei siti orientali gioca soprattutto a parare le eventuali riserve o dilazioni del destinatario a lasciare una buona volta Cizico. Va da sé che, se sul piano statutario alla voce autoriale di Properzio è precluso il credito di norma spettante a quella di un Lehrdichter, sul versante letterario in termini di autorevolezza, per così dire, una sorta di ‘ri-accredito’ le proviene proprio dal l’opportuna riconfigurazione di temi e di espedienti formali ricavati dal nobile modello 149. Al massimo, come osservato da Citroni, «il modo in cui un tema generale è messo in relazione con la situazione privata di un amico del poeta, la naturalezza con cui il poeta, consapevole del suo ruolo pubblico, propone al lettore i propri rapporti privati come quadro di contenuti generali morali e civili, può richiamare la maniera delle odi e delle epistole oraziane. Una maniera che … Properzio non svilupperà ulteriormente: lo sbocco sarà invece verso l’impersonalità di gran parte delle elegie del IV libro» 150. A fronte di un modello decisamente ‘ingombrante’ quale il Virgilio di georg. 2, 136-176 e in considerazione del carattere di 149 Dal che l’inopportunità di giudizi riduttivi sulla 3, 22 quali quelli pronunciati da Paratore 1936, 159 «un’esercitazione sulla base del celebre luogo virgiliano delle lodi dell’Italia»; Id. 1942, 53 «pedissequa imitazione che il poeta umbro ha fatto nell’elegia III, 22 delle lodi dell’Italia celebrate da Virgilio nel lib. II delle Georgiche», o da La Penna 1951, 50 «Properzio è dominato dal suo modello: egli si sforza di allungare le reminiscenze mitologiche, di sovraccaricare l’elegia di raffinata dottrina: ma non c’è altro»; Id. 1977, 82 «specialmente questa elegia ci fa misurare quanto negativamente abbia pesato su Properzio l’ambizione di portare la sua poesia all’altezza della poesia contemporanea o di accogliere nel suo callimachismo gli altri compiti che la poesia contemporanea si poneva». 150 Cito da Citroni 1995, 406.
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Gelegenheitsgedicht distintivo della 3, 22, oltre che dei già menzionati legami personali esistenti fra il poeta e Tullo, non può non sfaldarsi l’eventuale prospettiva di un intenzionale, ambizioso varco biotico progettato nello specifico da Properzio. Anche stavolta lo ‘steccato’ dell’elegia non viene affatto scavalcato dal poeta Umbro, come dimostrano la cornice del testo appena discusso, la tipologia del suo destinatario, il riadeguamento antologico degli spunti virgiliani distribuiti al suo interno, gli specifici obiettivi che ne hanno sorretto e guidato ideazione e stesura.
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‘PALINSESTI DIDASCALICI’ NEL TERZO LIBRO DELLE ELEGIE DI PROPERZIO
Abstracts Dinanzi all’oggettiva difficoltà di imbastire un’indagine sui rapporti fra l’elegia properziana e la poesia didascalica, un varco interpretativo è offerto dall’el. 3, 5 nella quale il poeta umbro formula l’auspicio di coltivare, in età senile, lo studio dei fenomeni naturali estendendoli all’interpretazione del mondo infero. In effetti, nella compagine del III libro, il più sperimentale della raccolta, Properzio non mancherà di misurarsi tramite la tredicesima e la ventiduesima elegia con i poemi didascalici di Lucrezio e Virgilio, non varcando comunque i confini del genere di provenienza, ma riappropriandosi occasionalmente, in modo originale, di esplicite suggestioni attinte al quinto libro del De rerum natura e al secondo delle Georgiche. Although it is objectively difficult to prepare a study on the relationships between Propertius’s elegies and the didactic poetry, a helpful hint for the interpretation is given by the elegy 3, 5, in which the Umbrian poet expresses the desire to study, in his old age, the natural phenomena, extending his study until the interpretation of the underworld. Indeed, in 13th and 22nd elegy of the 3rd book, which is the most experimental of the collection, Propertius will measure against the didactic poems written by Lucretius and Virgil, not crossing the boundaries of the genre of the elegy, but occasionally adopting and re-elaborating in a original and explicit way, some elements from the 5th book of the De rerum natura and from the 2nd book of the Georgics.
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PAOLO MASTANDREA Università Ca’ Foscari, Venezia
L’EPOS LATINO ARCAICO E PROPERZIO
1. Il tema da trattare oggi differisce poco, se si guarda al titolo, da quello svolto da uno dei partecipanti al convegno di studi properziani che ebbe luogo tra Roma, Assisi e altre città umbre nei giorni dal 21 al 26 maggio del 1985, in occasione del bimillenario della morte del poeta. Scorrendo l’indice alla fine del volume con gli Atti 1 – dunque l’elenco ufficiale degli oratori intervenuti nelle varie sedute – è giusto ora, per un trentenne di allora, ricordare le figure autorevoli di alcuni studiosi all’epoca maturi o più che maturi: da Ettore Paratore a Francesco Della Corte, da Emilio Gabba a Margherita Guarducci, da Giuseppe Giangrande a Giovanni D’Anna, da Enzo Cecchini a Eckard Lefèvre, da Hermann Tränkle a Giovanni Forni; e mentre Paolo Fedeli, forte di contributi freschi di stampa quali il testo critico teubneriano (1984) e un commento al terzo libro, concludeva ormai da protagonista la lista dei relatori ufficiali parlando di “Properzio e l’amore elegiaco”, il giovane Fabio Stok seguiva tra gli altri con una comunicazione sul “Morir d’amore”. Gli organizzatori avevano assegnato il compito di indagare i rapporti fra Properzio e i poeti latini arcaici a uno dei migliori ennianisti del tempo, Henry David Jocelyn 2. Il suo lavoro, che Catanzaro, Santucci 1986, 357. Dello studioso australiano (1933-2000), oltre all’edizione canonica dei frammenti delle tragedie (Cambridge 1967), ricordiamo almeno l’accurata sintesi The poems of Q uintus Ennius, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt 1, 2 (1972), 987-1026. Per una biografia di Jocelyn, che insegnò quasi sempre in Inghilterra, si veda l’affettivo ma istruttivo obituario del suo connazionale James N. Adams, in Proceedings of the British Academy 120, Biographical Memoirs of Fellows 2003, 277-299. 1 2
I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 199-229 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120105
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per lo più resta pregevole, tendeva a ridimensionare la polemica degli augustei verso i precedenti autori e i generi alti della produzione autoctona 3: sottraendosi al fascino di teorie suggestive che scambiano il neoterico rifiuto formale del genere serio, praticato da incensurabili maestri, col disprezzo per gli attuali epigoni della estenuata versificazione annalistica 4; intuendo nei toni dell’elegiografo umbro una disposizione d’animo non in linea con certe asprezze di linguaggio riservate al pater Ennius da Orazio e da Ovidio 5; rammentandoci oltretutto che quella figura fu a lungo oggetto di un’universale venerazione: la sola a godere dello statuto di “poeta canonico” – almeno sino alla morte di Virgilio 6. Sul piano dello stile, Ennio permaneva il fondatore del vocabolario epico indigeno, primus inuentor di una gran quantità di asso Tra le cose prossime nel tempo (e meno consentanee) a Jocelyn possono citarsi Martina 2004, 76-79; Miller 1983; Butrica 1983. 4 Properzio non solo si astiene dagli eccessi contro i ueteres, tipici degli altri poeti augustei, ma nutre un genuino rispetto per l’epica: sentimento da cui forse non era alieno Catullo stesso – al di là delle idiosincrasie neoteriche che occorreva ostentare come un vessillo identitario, in faccia agli avversari e in ogni utile circostanza (o almeno, così sembra suggerire la documentazione: Mastandrea 2008). 5 Jocelyn 1986, 110-111. I luoghi da lui richiamati sono ben noti (e già raccolti da Brink 1982, 85; 92-97; però sull’intero dossier conviene vedere ora il lavoro di Goldschmidt 2013, specificamente 28-35): Hor. epist. 2, 1, 50-52 Ennius et sapiens et fortis et alter Homerus, / ut critici dicunt, leuiter curare uidetur / quo promissa cadant et somnia Pythagorea; Ov. am. 1, 15, 19 Ennius arte carens; trist. 2, 423-424 … utque suo Martem cecinit grauis Ennius ore, / Ennius ingenio maximus, arte rudis. 6 Jocelyn 1986, 108: “the only Latin poet of the school syllabus”. Mai più sarebbe stato così; circa un secolo più tardi Marziale, forse per primo, si stupiva che Ennio si leggesse ancora al tempo di Virgilio (5, 10, 7 Ennius est lectus saluo tibi, Roma, Marone eqs.); forse per primo, e certo non per ultimo, trascurava il fatto che – ad eccezione di quanto si poté assaggiare in anticipo da recite private, di cui lo stesso Properzio offre testimonianza – per conoscere l’Eneide nella sua (relativa) compiutezza bisognava attendere la morte dell’autore (accaduta il 21 settembre del 19), lo iussum di Augusto che salvò il manoscritto autografo dalle fiamme, gli interventi editoriali e la pubblicazione finale ad opera di Vario. Nei versi 37-48 del Carmen saeculare (recitato agli inizi di giugno del 17) Orazio sembra comunque riferirsi all’Eneide come già edita. Per tutta questa problematica, si vedano le piane esposizioni di Geymonat 1985, 287-288 e Della Corte 1991, 95-96. Q uando però si fanno intrecciare i fili delle questioni interne alla cronologia properziana e le ipotesi sulla reciproca priorità compositiva con Virgilio, tutto si complica senza vantaggio, per cui gli argomenti di Miller 2012, 457-459 e nt. 46 rischiano di apparire piuttosto circolari che definitivi: “in any case, 2.34’s reference to the Aeneid only makes sense if the poem’s basic outline was already known; it is therefore not unreasonable to assume that by 22 bce the circle of poets gathered around Maecenas had heard some version of the poem’s opening lines”. 3
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ciazioni metrico-verbali (e relative dislocazioni entro gli schemi fissi della poesia dattilica) che nel corso dei secoli avrebbero offerto insieme un modello creativo e un tessuto linguistico: anzi, il tessuto linguistico, sin troppo evidente ai piani superiori e nei generi alti della produzione culturale, ma non meno percepibile ai livelli standard della koinè versificatoria. L’epos storico costituiva il principale deposito di memoria collettiva del popolo di Roma, e ancora per i letterati della prima stagione augustea (Virgilio e Orazio, Tibullo e Properzio, Tito Livio) gli Annales enniani dovevano svolgere la funzione propria di una Sacra scrittura. Ai rampolli delle famiglie nobili, come ai figli dei ceti emergenti, il poema procurava la base comune della paideia, la fonte delle credenze religiose, la garanzia degli exempla eroici, la galleria dei ritratti dei grandi del passato – sia buoni che malvagi; era insomma il prezioso serbatoio cui attingere nozione di eventi storici e pubbliche calamità, di vittorie e sconfitte, di prodigi e cerimonie, riti e ricorrenze, feste e giochi; origine prima di ogni senso di appartenenza civica e di identità culturale, e insomma di rispetto verso le patrie tradizioni. Mantenendoci all’interno di tali coordinate, non sarà allora vano rivisitare un argomento che Jocelyn pure affrontava con fine intelligenza e padronanza della produzione enniana 7. E qui, benché nulla sia cambiato nei metodi dello studio o negli oggetti testuali, l’apertura di nuove vie di ricerca metrico-lessicale comporta sicuri progressi rispetto agli esiti ottenibili nel 1985; non ci limiteremo ai rinvii espliciti, alle presenze dichiarate, ma anche e soprattutto proveremo a cogliere le tracce semiocculte di un vocabolario (e di un frasario) che – al di là delle precise intenzioni di Properzio – mostrano gli influssi della poesia arcaica romana sopra la sua tecnica compositiva ‘alessandrina’. 2. In quel saggio Jocelyn considerava quasi esclusivamente la coppia di elegie (la terza del terzo libro e la prima del quarto) dove il nome del letterato antico è chiamato in causa dal moderno: A proposito di epos (e teatro romano) arcaico, nulla d’importante si è aggiunto – che io sappia – alle “tracce di Nevio in Properzio” raccolte da Alfonsi 1948, o alle poche righe concesse nel 1962 al poeta elegiaco dal Barchiesi del Nevio epico (51-52). Per qualche altro sporadico influsso, come sul composto siluicola di 3, 11, 34 (da Accio?): Tränkle 1960, 43; Butrica 1983, 465 nt. 6. 7
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entrambe le volte nell’ambito di una recusatio intesa a marcare le distanze dall’epos patriottico. All’altezza del pentametro 3, 3, 6 Ennio rappresenta appunto il genere di versificazione (macro)storica da cui Apollo distoglie Properzio: a tutt’altro modello questi avrebbe dovuto guardare; e per ciò annuncia a 4, 1, 69-70 l’intento di comporre Aitia nostrani (sacra diesque 8 canam et cognomina prisca locorum: / has meus ad metas sudet oportet equus), preferendo una ‘molle’ corona di edera a quella hirsuta (cioè ‘dura’, meglio che ‘rozza’) di alloro 9, destinata alle tempie venerande del vate rudino (vv. 61-64: Ennius hirsuta cingat sua dicta corona: / mi folia ex hedera porrige, Bacche, tua, / ut nostris tumefacta superbiat Vmbria libris, / Vmbria Romani patria Callimachi). Nella scena del sogno eliconio del libro III, come nel pezzo programmatico ad apertura del IV, Properzio non palesa segnali di antipatia verso il poeta arcaico. Ma una volta estesa l’indagine al di fuori dei due blocchi di distici, molti relitti enniani sono probabilmente sparsi un po’ ovunque nelle elegie, in misura ben superiore a quanto sospettava Jocelyn a conclusione del suo saggio 10; e ben superiore alle scelte degli editori-commentatori novecenteschi degli Annales, restii ad ammettere – sia pure in via d’ipotesi – la genuina origine di un frammento, eccetto quando arrivi accompagnato dall’esplicita menzione nominativa dell’opera e dell’autore. Non che il compito si presenti facile: occorre censire centinaia di versi (o parti di verso) sradicati dal contesto, perciò enigmatici se non proprio insignificanti; schegge selezionate da grammatici, 8 Presso la critica più recente, in luogo della lezione unanime dei manoscritti sacra diesque si sta imponendo una vecchia congettura del Passerat, sacra deosque: riportata in auge da Sullivan 1976, 138, ma soprattutto sospinta dall’apparato di delucidazioni messo in campo dall’ultimo editore oxoniense, Heyworth 2007, 423-424; (un’ironia di stampo housmaniano anima forse l’ipotesi sulla genesi del presunto guasto: “a scribe has brought Propertius’s programme closer to Ovid’s fasti”). Ampia discussione offre Fedeli 2015, 283-286. Con qualche deroga (Robinson 2006, 206; Robinson 2011, 57 nt. 2), gli ovidianisti fanno resistenza, pur di non smarrire la chiara realtà di un antecedente diretto, dunque in Properzio difendono il difendibilissimo sacra diesque (Pasco-Pranger 2006, 8 e nt. 22: “P. Fedeli’s 1984 Teubner rightly returns to the diesque reading of the manuscripts”; e così Brewer 2012, passim). 9 Jocelyn 1986, 112. 10 Dove lamenta “the fewness of the verbal allusions to the Annales and other Ennian poems which can be detected in the rest of the elegies” (Jocelyn 1986, 135); così calca le orme e condivide le cautele di Vahlen 1903, LIX-LX; Skutsch 1985, 777; al.
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lessicografi, scoliasti tardoantichi, solo in quanto portatrici di singolarità o bizzarrie linguistiche (stilistiche e metriche, foniche e formali), dunque scevre di qualsiasi interesse per gli aspetti estetico-morali come per i contenuti storico-ideologici del documento letterario. In tali sforzi si è sempre impegnata la maggior parte degli ennianisti, pronti a valorizzare ogni indizio utile alla ricostruzione della trama narrativa del poema, nell’intento di dare ai materiali raccolti un ordine congruo alla sequenza cronologica degli eventi descritti 11. Diversi sono invece da parte nostra gli scopi, ma soprattutto diverse le procedure d’indagine, che sfruttando strumenti assai più potenti e affidabili rispetto alle concordanze a stampa, ripercorrono le strade inizialmente aperte dagli studi di Eduard Norden e dei suoi allievi nei primi decenni del secolo scorso 12. Una quantità innumerevole di tessere, tolte dal grandioso mosaico degli Annales, imitate con osservanza per più di un secolo 13 e reimpiegate lungo l’intero arco della latinità antica 14, In alcuni casi favorito da elementi esterni, come l’eventuale indicazione del libro di provenienza del frammento o altri dati utili a disegnare uno sfondo di ‘contestualizzazione’ storica. 12 Si sono tracciate altrove (Mastandrea 2007 e 2007-2008) le linee del problema, con accenni alla fortuna delle idee di Norden e alle reazioni suscitate: per lo più negative, con la preclara eccezione del giovane recensore di Ennius und Vergilius (1915), che dopo la seconda guerra mondiale avrebbe a propria volta assegnato il compito – mai portato a termine – di tradurre quel libro all’allievo Sebastiano Timpanaro (Pasquali 1994, 223-240). 13 Fin da subito, se pensiamo alla ripresa dell’emistichio di ann. 156 moribus antiquis già in CLE 248 (dove Mummius andrà corretto in Munius, ma la datazione rimane ferma alla seconda metà del II secolo a.C.): Courtney 1995, 7; 212214; Goldschmidt 2013, 21-22 e nt. 20; il suo studio appare nel complesso ben equilibrato quando tratta della ricezione di Ennio presso i letterati degli ultimi decenni della libera repubblica (17-28); Varrone, Cicerone, Lucrezio nutrono una specie di culto per l’autore degli Annales, e Vitruvio (arch. Annales, e Vitruvio (arch. 9 praef. 16) sostiene addirittura che quanti litterarum iucunditatibus instinctas habent mentes, non possunt non in suis pectoribus dedicatum habere, sicuti deorum, sic Ennii poetae simulacrum. Il poema è implicitamente messo in parallelo all’Iliade, e chi lo ha scritto è definito alter Homerus sia da Lucilio che da Orazio; sono ben pensate – anche per certa sensibilità verso la figura di Ennio – le pagine di Hutchinson 2013, 35-42. In generale, per il periodo augusteo offrono ottimo inquadramento e copiosi sussidi documentali sia Prinzen 1998, 213-244, che ora Suerbaum 2011, 187-190. 14 Cioè, fino a quando l’opera sopravvisse nelle scuole e nelle biblioteche, pubbliche e private: a Costantinopoli, almeno per l’intero corso del VI secolo (se sono stati interpretati come si doveva i dati in nostro possesso: Mastandrea 11
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andarono a comporre altri insiemi: parliamo delle opere superstiti, talvolta integre, della produzione letteraria degli autori romani. Nella difformità dei generi e dei livelli d’arte, nella seriosità dei contesti epici, lirici, elegiaci come nelle parodie scanzonate della satira e dell’epigramma, tutti i poeti successivi ad Ennio furono in qualche modo suoi emuli; magari silenti, inerti, involontari, eppur benemeriti custodi di una nobile eredità formale, mai cessando di attingere al repertorio della propria memoria ove giaceva il modello ora perduto. Nella sua veste di poeta doctus, sperimentalista quasi per mestiere, chi introdusse l’esametro dattilico in Roma seppe ideare un vocabolario poetico eletto, adeguato ai temi eroici, ma – come si diceva – fu anche fabbro e collaudatore di lingua ordinaria, fraseologie idiomatiche, locuzioni connettive; maestro di una sintassi versificatoria stabilizzatasi già nella prima stagione augustea, indistintamente diffusa lungo l’epoca imperiale, tarda, cristiana, da lì traghettata al millennio medievale e oltre. Su tale terreno possono fissarsi i principi di una ricerca intertestuale pienamente oggettiva, facilmente realizzabile, eventualmente utile a fini storico-filologici, critici ed anche attribuzionistici. Da coincidenze metrico-verbali, da combinazioni e da triangolazioni non ovvie tra autori diversi e lontani nel tempo, emergono gli indizi per congetturare un loro rapporto reciproco diretto, ovvero la comune dipendenza genea logica dagli Annales. I legami sono molteplici e cospicui: c’è da stupirsi che all’esame di ricercatori tanto meticolosi nell’individuare 2007-2008; 2017). Q ui il punto è cruciale ma controverso, poiché secondo l’opinione maggioritaria Virgilio avrebbe occupato e dominato totalmente da subito la scena letteraria romana (idea portata all’estremo e così compendiata da Pollmann 2001, 61: “episizing after Vergil means Vergilizing”; del resto, non una sola volta il nome di Ennio ricorre nelle pagine del suo intervento). Il lodevole tentativo di Elliott 2013, 197, che pensa di poter liquidare il problema in modo definitivo (“With the publication of the Aeneid, interest in the Annales on their own account plummets”, “No longer do the Annales appear to be part of general education” ecc.), non regge dopo l’ammissione che “an unknown reader, probably of the fifth or sixth century ce was still able to quote the Annales for content”. Q uanto alla celebre definizione Vergilius alter Homerus apud nos di Gerolamo (epist. 121, 10), occorre sia interpretata nel giusto contesto in cui la ricolloca ora Ferri 2015, 342 (trattando argomenti di carattere linguistico, il monaco censura un regionalismo del Mantovano, certo in base alla propria memoria risalente alla scuola di Donato): nec hoc miremur in apostolo, si utatur eius linguae consuetudine, in qua natus est et nutritus, cum Vergilius, alter Homerus apud nos, patriae suae sequens consuetudinem sceleratum frigus appellet.
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i particolari minimi, tanto ansiosi di valorizzarli onde interpretare i frammenti già ‘canonizzati’, siano peraltro sfuggite ulteriori e così evidenti analogie. Saranno appunto qui allineate e sommariamente discusse talune presenze di ‘ennianismi’ o epicismi arcaici nei libri di Properzio; ne consegue una fitta lista di riprese, di lessico o di frasario; esplicite o semiesplicite; coscienti, semicoscienti, incoscienti; si tratta di materiali grezzi, imperfetti, talvolta da rielaborare pazientemente, che però già potrebbero essere utili agli specialisti cultori dell’elegiaco augusteo. 3. Per capire se e in che misura la lettura di Jocelyn sia passibile di aggiornamenti, conviene muovere dall’esame di 3, 3. Eccone il testo secondo Fedeli 1984: Visus eram molli recubans Heliconis in umbra, Bellerophontei qua fluit umor equi, reges, Alba, tuos et regum facta tuorum, tantum operis, neruis hiscere posse meis, paruaque tam Magnis admoram fontibus ora, unde pater sitiens Ennius ante bibit, et cecinit Curios fratres et Horatia pila, regiaque Aemilia uecta tropaea rate, uictricesque moras Fabii pugnamque sinistram Cannensem et uersos ad pia uota deos, Hannibalemque Lares Romana sede fugantis, anseris et tutum uoce fuisse Iouem: cum me Castalia speculans ex arbore Phoebus sic ait aurata nixus ad antra lyra: “Q uid tibi cum tali, demens, est flumine? quis te carminis heroi tangere iussit opus? Non hic ulla tibi speranda est fama, Properti: mollia sunt paruis prata terenda rotis; ut tuus in scamno iactetur saepe libellus, quem legat exspectans sola puella uirum. Cur tua praescriptos euecta est pagina gyros? Non est ingenii cumba grauanda tui. Alter remus aquas alter tibi radat harenas, tutus eris: medio maxima turba mari est.” Dixerat, et plectro sedem mihi monstrat eburno, quo noua muscoso semita facta solo est. Hic erat affixis uiridis spelunca lapillis, pendebantque cauis tympana pumicibus, orgia Musarum et Sileni patris imago 205
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fictilis et calami, Pan Tegeaee, tui; et Veneris dominae uolucres, mea turba, columbae tingunt Gorgoneo punica rostra lacu; diuerseque nouem sortitae iura Puellae exercent teneras in sua dona manus: haec hederas legit in thyrsos, haec carmina neruis aptat, at illa manu texit utraque rosam. E quarum numero me contigit una dearum (ut reor a facie, Calliopea fuit): “contentus niueis semper uectabere cycnis, nec te fortis equi ducet ad arma sonus. Nil tibi sit rauco praeconia classica cornu flare, nec Aonium tingere Marte nemus; aut quibus in campis Mariano proelia signo stent et Teutonicas Roma refringat opes, barbarus aut Sueuo perfusus sanguine Rhenus saucia maerenti corpora uectet aqua. Q uippe coronatos alienum ad limen amantis nocturnaeque canes ebria signa fugae, ut per te clausas sciat excantare puellas, qui uolet austeros arte ferire uiros.” Talia Calliope, lymphisque a fonte petitis ora Philitea nostra rigauit aqua.
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Non ci attarderemo a pencolare sopra la vecchia questione della variante cecinit / cecini 15, cui segue un indagatissimo “disorderly account of Ennius’ Annales” 16, laddove invece merita soffermarsi sulla clausola dello stesso v. 7, et cecinit Curios fratres et Horatia pila. Il discorso di Jocelyn è come sempre lucido, ragionevole la sua interpretazione, prezioso il rimando al Merula (1595) che credette di poter individuare nel l’esametro properziano la presenza di frammenti ascrivibili al secondo libro del poema. Nessun editore enniano – se non sbaglio – accolse poi questa proposta: l’ipotesi dovette apparire troppo soggettiva, e forse più temeraria che azzardata; ma chi oggi desideri conoscere la diffusione e la collocazione delle occorrenze di Horatia (aggettivo 15 L’aporia sembra ormai risolta da una netta maggioranza di studiosi a favore di cecinit – cioè di un soggetto Ennius: le vicissitudini critiche del passo sono state narrate molte volte, come si ricava dai commenti ad locum; vedere in ogni caso Skutsch 1985, 15-16; Jocelyn 1986, 115-116; Cairns 2007, 204-209; per una bibliografia ragionata, Suerbaum 2003, 247; Dimundo 2009, 82-83; 107-108. 16 Heyworth, Moorwood 2011, 116.
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denominativo) nel corpus totale della poesia latina antica, ottiene subito questi quattro esiti 17:
VERG. app. culex 361 PROP. eleg. 3, 3, 7 MANIL. astr. 1, 778 MANIL. astr. 5, 107
hic Fabii Deciique, hic est et Horatia uirtus, et cecinit Curios fratres et Horatia pila, Tarquinioque minus reges et Horatia proles, abruptumque pari Torquatum et Horatia facta.
Entro contesti analoghi, caratterizzati dai toni di gravità più adatti per tali rassegne di antiqui uiri e gesta romane, torna nei versi elencati un modulo pentasillabo et Horatia, ripetuto in una forma che non può attribuirsi al caso; senza contare altre minime affinità 18, la priorità cronologica relativa di Properzio – del tutto certa riguardo al poema didascalico maniliano, assai verosimile riguardo alla parodia pseudovirgiliana – suggerisce a mio vedere la preesistenza di un comune prototipo epico. Un raffronto per esteso degli ultimi due testi può offrirci qualche elemento di giudizio in merito 19: Appendix Vergiliana, Culex, vv. 358-371 Hic alii ‹re›sident pariles uirtutis honore heroes mediisque siti sunt sedibus omnes, omnes Roma decus magni quos suscipit orbis. Hic Fabii Deciique, hic est et Horatia uirtus, hic et fama uetus numquam moritura Camilli, Curtius et, mediis quem quondam sedibus urbis deuotum bellis consumpsit gurges in unda; Mucius et prudens ardorem corpore passus, cui cessit Lydi timefacta potentia regis; hic Curius clarae socius uirtutis et ille *Flaminius* deuota dedit qui corpora flammae (iure igitur talis sedes, pietatis honores), Scipiadaeque duces, quorum deuota triumphis moenia *rapidis* Libycae Carthaginis horrent.
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17 L’interrogazione è stata condotta su archivi elettronici all’indirizzo web ‹http://www.mqdq.it›, con chiave di ricerca: ‹horatia›. 18 Mi riferisco alla evidente corrispondenza tra il fratres et Horatia pila di Properzio e il reges et Horatia proles di Manilio. 19 Sono segnalati in grigio gli elementi comuni ai testi incolonnati, per cui sarà utile confrontare Rösch 1911, 44-46; Güntzschel 1972, 131-136; Abry 2011, 222.
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Manilius, Astronomica, 1, 777-792 Romanique uiri, quorum iam maxima turba est, Tarquinioque minus reges et Horatia proles, tota acies partus, nec non et Scaeuola trunco nobilior, maiorque uiris et Cloelia uirgo, et Romana ferens, quae texit, moenia Cocles, et commilitio uolucris Coruinus adeptus et spolia et nomen, qui gestat in alite Phoebum, et Ioue qui meruit caelum Romamque Camillus seruando posuit, Brutusque a rege receptae conditor, et Pyrrhi per bella Papirius ultor, Fabricius Curiusque pares, et tertia palma Marcellus Cossusque prior de rege necato, certantesque Deci uotis similesque triumphis, inuictusque mora Fabius, uictorque necantis Liuius Hasdrubalis socio per bella Nerone, Scipiadaeque duces, fatum Carthaginis unum eqs.
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Aggiungiamo ora gli esiti di una interrogazione che attinge la clausola maxima turba (est), collocata con buona enfasi a pendant di Romanique, nell’esametro in capo al catalogo sulla colonna di destra:
VERG. Aen. 6, 611 nec partem posuere suis (quae maxima turbast), PROP. eleg. 3, 3, 24 tutus eris: medio maxima turba mari est. PROP. eleg. 4, 1, 34 et, qui nunc nulli, maxima turba Gabi, MANIL. astr. 1, 777 Romanique uiri, quorum iam maxima turba est.
L’elenco mette in fila questa volta un adonio che prima di Manilio riveniva significativamente solo in Properzio, all’interno di due pentametri delle due elegie ‘enniane’ (stessa posizione dopo cesura centrale), oltreché in un’altra fine di verso virgiliano. Chi per la Collezione Valla ha commentato questo passo degli Astronomica 20 ne afferma senza incertezze le autorevoli matrici in due opuscoli di Cicerone (Paradoxa Stoicorum, De senectute) e nell’epos di Virgilio (sequela dei grandi Romani futuri nel Riccardo Scarcia, in Feraboli et al. 1996, 265. Sulla successione dei ritratti presenti nell’excursus di Manilio, il lavoro migliore resta quello di Landolfi 1990; possiamo ora aggiungere la bibliografia – aggiornata in rapporto ad ulteriori parallelismi rintracciabili nel contra Symmachum di Prudenzio e interpretabili nella nostra stessa ottica – offerta da Arrigoni 2014, 95. 20
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finale del VI libro, ecphrasis dello scudo istoriato nel libro VIII); è tuttavia abbastanza implausibile l’ipotesi che maxima turba provenga da Aen. 6, 611, ove il nesso si riferisce alle anime prave dell’inferno 21; e ancora arduo da spiegare, questa volta per motivi cronologici, rimane il fatto che dall’Eneide dipendano entrambi i luoghi properziani. Una valida alternativa a mio parere esiste, e si impone, se vogliamo avanzare una spiegazione per l’intera serie di similitudini che interessano i contesti qui trascritti parallelamente: basta l’emistichio iniziale Scipiadaeque duces (Culex 370 ~ Manil. 792) ad offrircene un caso esemplare 22; ma si consideri ad esempio come l’attacco Fabricios Curiosque graues di Lucan. 10, 152 affianchi in silenzio Manil. 787 Fabricius Curiusque pares 23; oppure il Liuius Hasdrubalis di Manil. 791 riap parisca in Silio (15, 593: hos inter gemitus obscuro noctis opacae / succedit castris Nero, quae coniuncta feroci / Liuius Hasdrubali uallo custode tenebat) 24; per converso, le finali di esametro quasi identiche Carthaginis horrent / horror di Culex 371 e di Sil. 15, 340 danno l’idea di risalire all’indietro 25 anche rispetto al celebre passaggio del III libro di Lucrezio che segue; qui infatti l’ascendenza enniana – dispiegata senza risparmio lungo una dozzina di versi 26 – al 1025 è resa esplicita mediante la citazione
21 Designa precisamente una delle schiere dei dannati del Tartaro (6, 608-612): hic … qui diuitiis soli incubuere repertis / nec partem posuere suis – quae maxima turba est – / quique ob adulterium caesi eqs. 22 Scipiadae per Scipiones sarà un’altra invenzione enniana, tesa ad aggirare le costrizioni metriche, per cui Norden 2014, 333 (a Verg. Aen. 6, 842 quis Gracchi genus aut geminos, duo fulmina belli, / Scipiadas, cladem Libyae eqs.), con l’appendice di Courtney 2013, 123 (che commenta a sua volta Iuu. 2, 153: Curius quid sentit et ambo / Scipiadae, quid Fabricius manesque Camilli). 23 Meno completa e consonante, ma pur sempre notevole, la ripresa fatta più tardi da Prudenzio (c. Symm. 2, 558 Fabricios Curios, hinc Drusos inde Camillos; Arrigoni 2014, 196 nt. 16). 24 Visto già da Housman, oltre un secolo fa: Arrigoni 2014, 196 nt. 18. 25 Q ueste le notevoli analogie presenti nel testo di Silio: iacet campis Carthaginis horror / forsan Scipiadae confecti nomina belli / rapturus, si quis paulum deus adderet aeuo. Sul passo del Culex, nulla di utile offre il recente commento di Seelentag 2010: meglio basarsi ancora su Güntzschel 1972, 135; incroci e raffronti, a partire dalla preziosa citazione che ne effettua Seneca nella lettera 86, si trovano in Henderson 2004, 103-104. 26 Comunque generalmente rilevata nei commenti: da ultimo Kenney 2014, 218-220.
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alla lettera di un esametro degli Annales che ne coinvolge ben cinque piedi 27: Hoc etiam tibi tute interdum dicere possis ‘lumina sis oculis etiam bonus Ancus reliquit’, 1025 qui melior multis quam tu fuit, improbe, rebus. Inde alii multi reges rerumque potentes occiderunt, magnis qui gentibus imperitarunt. Ille quoque ipse, uiam qui quondam per mare magnum strauit iterque dedit legionibus ire per altum 1030 ac pedibus salsas docuit super ire lacunas et contempsit equis insultans murmura ponti, lumine adempto animam moribundo corpore fudit. Scipiadas, belli fulmen, Carthaginis horror, ossa dedit terrae proinde ac famul infimus esset. 1035
Un sicuro aggancio fra l’elegia ‘romana’ 3, 3 di Properzio e la parata dei ritratti di Manilio è stato peraltro da tempo individuato anche al v. 9, dove la narrazione evoca le fasi più buie e pericolose della guerra annibalica 28: uictricesque moras Fabii pugnamque sinistram Cannensem et uersos ad pia uota deos, Hannibalemque Lares Romana sede fugantis,
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Alla tattica di Q uinto Fabio Massimo dopo Canne allude in condizioni e termini assai rassomiglianti il catalogo degli Astronomica al v. 790, inuictusque mora Fabius; qui non per primo Jocelyn ha ricondotto il quadro narrativo generale agli Annales enniani 29, ma i legami reciproci fra i testi sono più numerosi di quanto si è finora rilevato. I primi emistichi dei versi properziani 9 e 11 mostrano strutture simili, tra di loro e con quella del successivo pentametro (v. 48): nocturnaeque canes ebria signa fugae.
27 Si tratta del v. 137 Sk., conservato da Festo: postquam lumina sis oculis bonus Ancus reliquit. 28 Fedeli 1985, 126 (comm. a 3, 3, 9) “da Properzio dipende probabilmente Manil. 1, 790”. 29 Jocelyn 1986, 125-127; si vedano ad es. Butler, Barber 1933, 267 (sulla ‘fuga’ di Annibale davanti alle mura di Roma): “the incident must have been dealt with in Enn. Ann. IV”.
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Q uesto modulo d’attacco è a sua volta attestato presso altri autori (Lucr. 2, 206 nocturnasque faces; Prud. c. Symm. 1, 229 nocturnique equites), iterato con notevole pertinenza di contenuti e volontà allusiva da Ovidio in fast. 5, 142, al culmine di un vero crescendo sentimentale: Stant quoque pro nobis et praesunt moenibus Vrbis, et sunt praesentes auxiliumque ferunt. At canis ante pedes saxo fabricatus eodem stabat: quae standi cum Lare causa fuit? Seruat uterque domum, domino quoque fidus uterque: compita grata deo, compita grata cani. Exagitant et Lar et turba Diania fures: peruigilantque Lares, peruigilantque canes.
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Si è discusso (senza giungere ad un accordo) di triangolazioni che possono suggerire o autorizzare congetture più risolute sopra l’eventuale falsariga enniana comune 30; ma esistono almeno un paio di indizi relativi a rapporti diretti, effettivi, pressoché esclusivi, tra Annales ed elegia 3, 3 di Properzio. Il primo si coglie al v. 25, entro un distico del cui ultimo emistichio abbiamo parlato poco sopra: Alter remus aquas alter tibi radat harenas, tutus eris: medio maxima turba mari est.
L’andamento del verso lungo ricalca il pattern di Enn. ann. 238, frammento riferibile ad un episodio di battaglia non facilmente collocabile nel poema 31: Alter nare cupit, alter pugnare paratust.
Occorre dire che questo schema non conosce altri impieghi entro il complesso sistema della poesia latina, se si eccettuano i due casi 30 Fedeli 1985, 126: “Ai Lares praestites, addetti alla sorveglianza della città (cfr. Ovid. Fast. 5, 141-142; Plut. Q uaest. Rom. 51) pensarono Butler – Barber 1933, 267-268”; poco convinto, ma non ostile all’ipotesi, appariva Skutsch 1985, 471; in effetti, se chiamiamo al confronto il tessuto metrico-verbale di Manil. 1, 790, è lecito supporre siano stati i Lares a difendere le mura di Roma contro Annibale – secondo quello che doveva essere il racconto enniano. A questo era peraltro arrivato già Warmington 1979, p. 106. 31 Skutsch 1985, 419-420, e più diffusamente D. Tomasco, in Flores 2002, 240-242.
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presenti nel carmen Paschale di Sedulio, 1, 332 Alter amat fletus, alter crispare cachinnum; 3, 290 Alter adhuc uiuens, alter stans limite uitae 32. Da ultimo, non sarà futile segnalare che il fortis equus properziano di 3, 3, 40 nec te fortis equi ducet ad arma 33 sonus,
riemerge una ventina d’anni dopo, nella stessa sede di verso e nel similare contesto erotico-elegiaco di Ovidio, ars 3, 595: tum bene fortis equus reserato carcere currit 34.
Ma sin dalle origini il nesso si configurava come indubbio epicismo, documentato in un frammento del prototipo del genere (Enn. ann. 522) 35: sicuti fortis equos spatio qui saepe supremo uicit Olympia nunc senio confectus quiescit.
Q uesta marca caratteristica non viene meno nel corso dei secoli, resta inalterata fino alle occorrenze ultime di questa giuntura che designa il bellico cornipes nella Iohannis di Corippo; campeggia, per certa sua energica allusività alla dimensione sensitiva del l’ascolto, il v. 4, 39: ergo per extensos fugiens compellitur agros currere fortis equus (crebro sonat ungula cornu). In entrambi i luoghi del versificatore cristiano si deve forse a una ricerca di patina arcaistica l’accumulo di allitterazioni, assonanze e figure: alter amat, alter adhuc, crispare cachinnum, uiuens – stans, uiuens – uitae. 33 La breve sequenza di tono ‘marziale’, in forma identica alla radice di duc(tor) ad arma, è in Silio (5, 191). 34 Potrebbe intervenire qui un’altra immagine enniana (ann. 463 quom a carcere fusi / currus cum sonitu magno permittere certant) prima che virgiliana (georg. 3, 104 = Aen. 5, 145 certamine campum / corripuere, ruuntque effusi carcere currus); si ricordi il nesso metrico-verbale che collega Properzio (4, 3, 9) ad Ennio (ann. 81 expectant ueluti consul quom mittere signum / uolt, omnes auidi spectant ad carceris oras / quam mox emittat pictos e faucibus currus). A questi intrecci non era estraneo Lucrezio (2, 263-265 nonne uides etiam patefactis tempore puncto / carceribus non posse tamen prorumpere equorum / uim cupidam tam de subito quam mens auet ipsa?), stanti gli echi enniani avvertiti sul fondo da un commentatore di straordinaria sensibilità come Fowler 2002, 350-352. 35 Individuato senza dubbi in Properzio da Martina 2004, 78 nt. 148: “Il richiamo parodico a Enn. vv. 374-375 Vahlen è evidente”. 32
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Come sempre, in questo emistichio conclusivo il poeta africano sembra aver compiuto l’ennesimo prelievo letterale 36 da Virgilio, georg. 3, 88 (eccolo assieme ai versi significativi che precedono): tum, si qua sonum procul arma dedere stare loco nescit, micat auribus et tremit artus, collectumque premens uoluit sub naribus ignem. Densa iuba, et dextro iactata recumbit in armo; at duplex agitur per lumbos spina, cauatque tellurem et solido grauiter sonat ungula cornu.
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E per quanto ci troviamo nel contesto del poema didascalico, mentre l’autore è intento a descrivere l’andatura del puledro di razza, nessuno dubiterà che sullo sfondo di un linguaggio così solenne e formulare possano distinguersi i contorni del monumento enniano 37. 4. Dopo questa veloce incursione sull’elegia 3, 3, potevamo sottoporre a una lettura analoga l’altro pezzo, 4, 1, nel cui v. 61 si fa esplicito riferimento al poeta Rudinus; ma l’esistenza di lavori di esegesi assai aggiornati 38 avrebbe reso l’attività meno profi cua; sarà invece preferibile per i nostri scopi cercare, reperire, isolare, nell’intero corpo della produzione di Properzio, tracce puntuali ma sinora irrilevate di antichi materiali epico-storici. Q ui sotto ci limiteremo a registrare, in file ordinate, un certo numero di luoghi delle elegie variamente riferibili all’opera enniana. Appaiono ripartiti per grado decrescente di ‘oggettività’, quindi la lista I include una serie di corrispondenze dirette e precise: irrefutabili. La lista II contiene numerosi paralleli fra 36 Identico fenomeno in Ioh. 7, 442. In rapporto al segmento crebro sonat di Corippo poteva poi ancora richiamarsi Lucano, 6, 192 fortis crebris sonat ictibus umbo, la cui clausola a sua volta è conforme ad esametri quali Enn. ann. 392 tinnit hastilibus umbo o Sil. 4, 352 teritur iunctis umbonibus umbo. 37 Su questo punto, si vedano i commenti di Flores 2006, 418-420; D. Tomasco in Flores 2009, 517 (per i vv. 83 e 88 di Virgilio a fronte di Enn. ann. 411 sonitum simul insuper arma dederunt e 263 summo sonitu quatit ungula terram); altri materiali formulari in clausola appartengono al repertorio dell’epos didascalico (v. 84 et tremit artus: Lucr. 3, 489; v. 85 naribus ignem: Lucr. 5, 30) e forse preesistevano al poema epicureo; dai moderni commenti sono singolarmente correlati alle rispettive ‘fonti’, ma non adeguatamente valutati nella continuità stilistica dell’insieme virgiliano. 38 Anche molto recenti, e penso a Hutchinson 2006; Fedeli et al. 2015.
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pericopi testuali di Properzio e luoghi di versificatori latini coevi o successivi: possibili ‘ispirazioni’ di poesia previrgiliana, ipotiz zate per coincidenze e somiglianze non ovvie, significative così da rendere ragionevole di volta in volta l’esistenza di altrettanti cliché; la silloge è discrezionale, se non casuale, però i dati messi insieme appaiono ‘spalmati’ in maniera abbastanza uniforme sull’arco dei quattro libri. Come rincalzo (e quasi per effetto di pura curiosità, considerata l’inattesa stravaganza dei risultati), la lista III fornisce alcuni saggi di ripresa ‘passiva’ di Properzio da parte di poeti seriori, di vario genere.
I. Cooccorrenze metrico-verbali uniche (ovvero molto rare) tra Ennio e Properzio a) Prop. 1, 3, 32 (luna) compositos leuibus radiis patefecit ocellos ~ Enn. ann. 572 inde patefecit radiis rota candida caelum. Merita segnalare l’ulteriore rapporto strettamente reciproco fra Ov. met. 9, 795 postera lux radiis latum patefecerat orbem e Ilias Lat. 650 ut nitidum Titan radiis patefecerat orbem. b) Prop. 1, 13, 33 tu uero quoniam semel es periturus amore ~ Enn. ann. 476 quom illud quo iam semel est imbuta ueneno; a livello puramente formale questo segmento ritornava in Lucr. 1, 569 admixtum quoniam semel est in rebus inane; Hor. epist. 1, 2, 69 quo semel est imbuta recens seruabit odorem / testa diu. c) Prop. 2, 1, 45 nos contra angusto uersamus proelia lecto: la tessera iniziale di questo verso può definirsi un (discreto) epicismo, attestato per la prima volta in Enn. ann. 492, e a seguire in Verg. Aen. 2, 651, Sil. 2, 362 e 11, 516. Solo assonante, invece, la clausola proelia leto di Sil. 2, 207 (il cui bisillabo finale subisce una specie di metatesi rispetto ai numerosi proelia telo (o telis) sfoggiati da Lucan. 7, 510; Ilias Lat. 589; Val. Fl. 6, 31; Sil. 12, 644; ecc.). d) Prop. 2, 9, 48: atque utinam, si forte pios eduximus annos, / ille uir in medio fiat amore lapis! ~ Enn. ann. 335 ille uir haud magna cum re sed plenus fidei 39. 39 Non esistono altre occorrenze del nesso dattilico iniziale nella poesia latina antica.
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e) Prop. 2, 30, 30: Illic aspicies scopulis haerere Sorores / et canere antiqui dulcia furta Iouis, / ut Semela est combustus, ut est deperditus Io, / denique ut ad Troiae tecta uolarit auis ~ Enn. ann. 87: Exin candida se radiis dedit icta foras lux / et simul ex alto longe pulcerrima praepes / laeua uolauit auis; cfr. Ov. Ibis 128 dedit ipse mihi modo signa futuri / Phoebus, et a laeua maesta uolauit auis 40. f) Prop. 3, 5, 12 hostem / quaerimus atque armis nectimus arma noua ~ Enn. ann. 584 ‹hic› premitur pede pes atque armis arma teruntur; cfr. Ov. met. 12, 621 bella mouet clipeus deque armis arma feruntur 41. g) Prop. 3, 7, 10 nec pote: l’unica altra occorrenza del segmento dattilico nell’intera poesia latina 42 si trova in Enn. ann. 393. h) Prop. 3, 9, 32 Crede mihi, magnos aequabunt ista Camillos / iudicia, et uenies tu quoque in ora uirum ~ Enn. var. 17-18 Vahlen2 Nemo me lacrimis decoret nec funera fletu / faxit. cur? uolito uiuus per ora uirum; cfr. Auson. epitaph. 11, 4 quae? caelum et tellus et mare et ora uirum. i) Prop. 3, 11, 42 et Tiberim Nili cogere ferre minas; 4, 1, 8 et Tiberis nostris aduena bubus erat; ~ Enn. ann. 453 et Tiberis flumen ‹flauom› uomit in mare salsum. j) Prop. 3, 14, 29 at nostra ingenti uadit circumdata turba ~ Enn. ann. 466 ingenti uadit cursu qua redditus termo est. k) Prop. 4, 3, 9 te modo uiderunt … / hibernique Getae pictoque Britannia curru; ~ Enn. ann. 81: expectant ueluti consul quom mittere signum / uolt, omnes auidi spectant ad carceris oras / quam mox emittat pictos e faucibus currus. l) Prop. 4, 6, 26 armorum et radiis icta tremebat aqua ~ Enn. ann. 85: exin candida se radiis dedit icta foras lux 43.
Q ui, e solo qui, Timpanaro (presso La Penna 1957, 28) intravedeva una reminiscenza di Ennio da parte dell’autore del poemetto. 41 Mastandrea 2007, 503; Mastandrea 2015, 76. 42 Per occorrenze di pote da solo in Catullo e Lucrezio si veda Tränkle 1960, 35 (in una sezione del libro che è specificamente dedicata agli arcaismi in Properzio, ma risulta poco utile ai nostri scopi). 43 La relazione è segnalata da Fedeli 2015, 842. 40
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m) Prop. 4, 9, 67-68 ‘Maxima quae gregibus deuota est Ara repertis, / ara per has’ inquit ‘maxima facta’ manus’ ~ Enn. var. 15-16 Vahlen2: Aspicite o ciues senis Enni imaginis formam. / Hic uestrum panxit maxima facta patrum 44.
II. Coincidenze significative che lasciano supporre ‘archetipi’ previrgiliani a) Prop. 1, 1, 29 ferte per undas; 2, 30, 19 ire per undas. La terminazione d’esametro col trisillabo per undas è attestata quasi al contempo da Cicerone (Arat. 197), Lucrezio (6, 881) e Catullo (64, 2); quest’ultimo la fa precedere da una forma verbale nasse che troviamo anche in Culex 215 (transnare per undas). L’esi stenza di modelli precedenti appare di per sé probabile, ma soprattutto numerosi sono gli indizi che parlano a favore di una clausola epicizzante tuttora leggibile in Tib. 1, 4, 45 uel si caeruleas puppi uolet ire per undas; Paneg. in Mess. 193 pro te uel rapidas ausim maris ire per undas; Val. Fl. 7, 138 seque ait has iussis actum miser ire per undas; eccetera, fino ai composti svariati di Drac. Romul. 9, 139 et nullum pars nostra sinit transire per undas e Coripp. Ioh. 6, 388 puppibus aequoreas uelis transire per undas. b) Prop. 1, 3, 37; 3, 20, 13 tempora noctis. Del metrismo si conoscono trentacinque esempi, ben distribuiti nell’arco cronologico fra Cicerone (Arat. 288) e l’ultimo epos di età imperiale (Drac. Romul. 6, 118; Coripp. Ioh. 6, 374), con l’eccezione ragguardevole di Virgilio. c) Prop. 1, 4, 17-18 non impune feres: sciet haec insana puella / et tibi non tacitis uocibus hostis erit. La fissità formulare del l’incipit d’esametro è garantita da Catull. 78, 9 (oltre che da una serie di casi disseminati tra Ovidio e Lucano), mentre uocibus host(is) è certamente clausola epica (Sil. 9, 334; Coripp. Ioh. 6, 749).
Il rapporto non supera ovviamente il livello della pura apparenza formale, o suggestione aurale: nel passaggio da un testo all’altro i termini prendono tutt’altro senso. 44
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d) Prop. 1, 5, 5 et miser ignotos uestigia ferre per ignis ~ Sil. 9, 101 … ubi nulla sequi propius pone arma uirumque / incomitata uidet uestigia ferre per umbras 45. e) Prop. 1, 6, 3 Non ego nunc Hadriae uereor mare noscere tecum, / Tulle, neque Aegaeo ducere uela salo, / cum quo Rhipaeos possim conscendere montis. A guardare Catull. 64, 126 e 101, 5, l’ipotesi di una origine arcaica del nesso finale viene spontanea e diviene probabile 46; la sequenza del pentametro posta in evidenza tornerà invece quattro secoli dopo, presso Auien. Arat. 1381 seu qui uela salo, seu qui dat semina terrae. f) Prop. 1, 8, 5 murmura ponti è l’ennesima clausola di tono elevato, presente in Lucrezio (3, 1032), evitata da Virgilio, ma non da Ovidio, Lucano e seriori. g) Prop. 1, 13, 25 una dies; il nesso coriambico, ad inizio di verso come qui, o in fine di pentametro, come in Prop. 2, 20, 18 e 3, 11, 70, è diffusissimo lungo l’intero arco della letteratura, ma ancora una volta estraneo a Virgilio. h) Prop. 1, 20, 33 uertice montis è finale di verso eroico, riprodotta una trentina di volte nei principali poemi epici (non esclusa l’Eneide), ma già attestata in Cicerone (Arat. progn. 3, 5) e in Catullo (68, 57). i) Prop. 2, 1, 33 aut regum auratis circumdata colla catenis ~ Sil. 6, 505 non ego Amyclaeum ductorem in proelia misi, / nec nostris tua sunt circumdata colla catenis; cfr. 17, 630 ante Syphax feretro residens captiua premebat / lumina, et auratae seruabant colla catenae 47. j) Prop. 2, 9, 37 nunc, quoniam ista tibi placuit sententia, cedam ~ Ilias Lat. 277 dicta refert Hector: placuit sententia Grais; cfr. Aegr. Perd. 221 multaque quaerenti placuit sententia talis 48. Il nesso uestigia ferre ritornerà, da solo e a fine verso, in Aratore (2, 158). Documentazione raccolta in Mastandrea 2008, 187-188 nt. 38. 47 La sola clausola irrigidita colla caten(is) ricorre con martellante frequenza, nell’arco cronologico dei secoli che vanno da Properzio a Fortunato; offre abbondante casistica la continuazione medievale. Approfitto per segnalare un ennesimo ‘sospettabile’ parallelismo epicizzante (senza altre attestazioni, sempre a fine di esametro) in colla triumph(o): Prop. 2, 10, 15 ~ Coripp. Iust. 3, 387. 48 Anche di questa formula si dà una casistica amplissima nella poesia medievale (talvolta riportabile proprio a quest’ultimo esempio: così Valafrido Strabone nella Vita sancti Galli, 825: omnibus atque modis placuit sententia talis). 45 46
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k) Prop. 2, 10, 3 iam libet et fortis memorare ad proelia turmas ~ Prud. hamart. 416 ecce Zebusiacae feruent ad proelia turmae 49. l) Prop. 2, 32, 43 o nimium nostro felicem tempore Romam ~ Cic. fr. 12 o fortunatam natam me consule Romam ~ Hor. epist. 2, 1, 256 et formidatam Parthis te principe Romam 50. m) Prop. 3, 3, 45 Sueuo perfusus sanguine Rhenus ~ Verg. georg. 2, 510 gaudent perfusi sanguine fratrum ~ Aen. 11, 88 Rutulo perfusos sanguine currus. Dopo queste prime connessioni con Virgilio, esiste una lunga continuità del metrismo epico in Lucano, Petronio, Stazio, Silio, ecc. n) Prop. 3, 4, 7 ite agite, expertae bello date lintea prorae. Esametro di grande solennità, a fattura modulare, il cui incipit ritorna nel frammento di Arbonio Silone (1, 1 Ite agite, ‹o› Danai, magnum paeana canentes), la giuntura che segue a centro verso è rappresentata in Virgilio (Aen. 10, 173 expertos belli iuuenes) 51 e la successiva negli epodi di Orazio (16, 27 neu conuersa domum pigeat dare lintea 52 quando …) – in tempi dunque di certo anteriori all’Eneide (3, 686 ni teneant cursus; certum est dare lintea retro). o) Prop. 3, 5, 2 stant mihi cum domina proelia dura mea. Il nesso iniziale d’emistichio ritorna in altri due soli luoghi, Coripp. Ioh. 1, 528 proelia dura dolis numquam caruere malignis e 7, 283 proelia dura petens eqs. p) Prop. 3, 7, 3 tu uitiis hominum crudelia pabula praebes ~ Stat. Theb. 9, 300 ibitis aequoreis crudelia pabula monstris ~ Lucr. 1, 229 unde alit atque auget generatim pabula praebens 53. 49 La clausola epicizzante proelia turm(ae) da sola risulta ben attestata (2 volte in Silio, 2 in Claudiano, 6 in Corippo), ma è assente in Virgilio – che forse esitava a farla coesistere con un finale di verso di suo proprio conio, proelia Turnus: Aen. 11, 486; 12, 337; 570. 50 Si tratta del fr. XIV dei Vestigia in Skutsch 1985, 784-785. I rapporti reciproci fra i loci (e quello di Orazio soprattutto) possono giudicarsi meno persuasivi di altri: ma essendo la dipendenza da un’origine enniana autorevolmente indicata da Giorgio Pasquali, resta vivo da un secolo il dibattito tra favorevoli e contrari all’ipotesi. Parallelismi parziali inediti offre ora Heyworth 2007, 254. 51 Nel commento ad locum di Harrison 1991, 114, oltre che a Hom. Il. 2, 611, si rinvia a Enn. ann. 407: ‘senex … belli … peritus’. 52 Il commento di Mankin 1995, 257 si limita a rilevare la densità generica di ‘poetismi’ presenti nell’intero periodo. 53 Le connessioni non sono sfuggite ai controlli di Fedeli 1985, 234; vi ag-
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q) Prop. 3, 9, 1 Maecenas, eques Etrusco de sanguine regum ~ Verg. Aen. 10, 203 ipsa caput populis, Tusco de sanguine uires. Proprio all’inizio della retractatio il poeta celebra il sangue reale di Mecenate in termini che rinviano anzitutto ad Orazio 54. Ma la sequenza sillabica messa in evidenza nei passi paralleli discenderà da un pattern epico previsto e già operante, neppure estraneo all’assonanza metrico-verbale di Aen. 7, 706 ecce Sabinorum prisco de sanguine magnum / agmen agens Clausus eqs. r) Prop. 3, 9, 47 te duce uel Iouis arma canam caeloque minantem / Coeum eqs. La locuzione corrispondente al dattilo che apre il verso è formulare, come dice il confronto di Lucr. 6, 95 (riferita a Calliope); Verg. ecl. 4, 13 (a Pollione); Hor. carm. 1, 2, 52 e epist. 1, 18, 62 (a Cesare Augusto); ecc.; rimarrà sempre tipica del repertorio lessicale elevato. s) Prop. 3, 20, 7 est tibi forma potens, sunt castae Palladis artes 55 ~ Ilias Lat. 333 o meus ardor – ait – sed castae Palladis ira. t) Prop. 3, 21, 11 nunc agite, o socii, propellite in aequora nauem ~ Val. Fl. 2, 55 quin agite, o socii; micat immutabile caelum; si tratta di un metrismo arcaico e di evidente origine epica, come mostrano le liste delle numerosissime occorrenze sia del segmento particolare agite, o, sia del semplice vocativo o socii (attestato in Lucilio 56, poi in Hor. carm. 1, 7, 26; Verg. Aen. 3, 560; Ov. met. 13, 226; ecc.; anche la clausola d’impronta formulare aequora nau(em) – isolata in Verg. Aen. 10, 660, poi frequente a partire da Ovidio – e l’assetto complessivo di un giungiamo un solo esempio tratto da Corippo, Anast. 23 hoc mihi da, de fonte bibam, tu pabula praebes eqs. 54 L’elenco dei passi è in Heyworth, Morwood 2011, 183-184. 55 Per questa clausola Pallad(i)s arte(s) i possibili riferimenti sono a Verg. Aen. 2, 15; Ov. ars 1, 692; Val. Fl. 2, 53; ecc. 56 L’impiego obbedisce a chiari intenti parodici, enfatizzati dalla figura etimologica collocata a fine verso (Lucil. 1323 uicimus, o socii, et magnam pugnauimus pugnam; cfr. Sidon. carm. 7, 270 pugnando pugnam quaerens eqs.); che l’even tuale debito verso Ennio riguardi tutto il primo emistichio dell’esametro fino alla cesura, sembra possa dimostrarsi attraverso il confronto di Lucano (6, 164 uicimus, o socii; ueniet qui uindicet arces, / dum morimur); questa ipotesi guadagnò comunque al testo il numero d’ordine VIII entro lo scarno elenco dei Vestigia di Skutsch 1985, 782, per cui non è rifiutata dal guardingo Albrecht 1999, 233-234 e nt. 1; di nostro possiamo aggiungere il rincalzo dell’immancabile Corippo (Ioh. 5, 404 uicistis, socii; faciles nunc rumpite muros / ensibus).
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esametro quale Sil. 1, 568 ite citi, remis uelisque impellite puppim, raccomandano le ipotesi qui avanzate 57. u) Prop. 4, 1, 125 scandentisque Asis consurgit uertice murus ~ Auien. orb. terr. 512 ad zephyro hinc rupes dorsum tumet, inque Bootis / plaustra patens albo consurgit uertice saxa; 800 Icarus aerio consurgit uertice in auras. Il legame potrebbe apparire troppo lento, col rischio di apparire casuale, ma bisogna considerare del pari come anche la clausola epica – dunque difficilmente ascrivibile a conio properziano – ritorni solo in Sil. 4, 408 ipsam turrigeros portantem uertice muros / credite summissas Romam nunc tendere palmas. v) Prop. 4, 1, 139 nam tibi uictrices quascumque labore parasti / … palmas ~ Claud. in Ruf. 2, 263 dextras / quas tibi uictrices totiens Bellona probauit ~ Sil. 12, 78 an uobis gentes, quaecumque labore parastis. Ma l’intero esametro properziano sembra procedere per giustapposizione di tessere, come indica sia la frequenza della clausola negli stessi Punica (3, 582; 8, 572; 14, 583), sia l’antichità del dattilo incipitario (Enn. var. 7 Vahlen2 nam tibi munimenta mei peperere labores; Lucr. 1, 54; 2, 1024; 3, 944; ecc.). w) Prop. 4, 6, 19 huc mundi coiere manus: stetit aequore moles / pinea ~ Val. Fl. 6, 231 Sarmaticae coiere manus fremitusque uirorum / semiferi ~ Stat. silu. 3, 1, 119: innumerae coiere manus: his caedere siluas / et leuare trabes eqs 58. Il segmento stetit aequore gode comunque di una sua fortuna in ambito di scrittura epica: Ov. met. 3, 660; Lucan. 3, 566; Sil. 4, 274. x) Prop. 4, 6, 39 tibi militat arcus ~ Sedul. carm. pasch. 1, 363 omnibus ut rebus totus tibi militet annus; Sidon. carm. 5, 478 post aquilas uenere tuas; tibi militat omnis / Caucasus; Coripp. Ioh. 1, 289 te uenti nubesque pauent, tibi militat aer; Ven. Fort. Mart. 1, 311 ut coepta efficias, per nos tibi militat aether. 57 Q ui, come spesso altrove, gli ultimi commentatori properziani indicano riscontri intertestuali pertinenti, talora convincenti, ma sempre limitati ai modelli epici greci (in questo caso Apollonio Rodio: si vedano ad es. Heyworth, Morwood 2011, 310). 58 Stazio adotta il topos del “taglio del bosco” in un’opera estranea al suo genere prediletto. Discende quasi sicuramente da Properzio il tardo rifacimento del verso ad opera del poeta Victorinus, autore del carmen de Iesu Christo deo et homine, 15 Huc multi coiere uiri, quos iusserat ipse / gestantes manibus uirgas eqs.
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y) Prop. 4, 10, 37 di Latias iuuere manus, desecta Tolumni / ceruix Romanos sanguine lauit equos. Il sostantivo manus accompagnato da aggettivo etnico è un ennianismo certo, come mostra ann. 229: Marsa manus, Paeligna cohors, Vestina uirum uis; il nesso con Latiae è in Sil. 4, 502 en omnes Latiae Daunique nepotum / conuenere manus; ma la precisa ricollocazione metrico-verbale si trova in Coripp. Ioh. 8, 264 et Latias sic posce manus. Ibi sanguine multo / certandum est. z) Prop. 4, 11, 9 sic maestae cecinere tubae ~ Claud. Prob. 198 talem nulla refert antiquis pagina libris / nec Latiae cecinere tubae nec Graeca uetustas / coniuge digna Probo; Prud. c. Symm. 2, 713 inscripta cecinere tubae; cfr. Lucan. 6, 130 tot simul e campis Latiae fulsere uolucres, / tot cecinere tubae 59.
III. Esempi di riprese “inerti” (da Properzio?) Prop. 4, 1, 29 Prima galeritus posuit praetoria Lygmon, magnaque pars Tatio rerum erat inter ouis. Stat. silu. 2, 2, 82 Angitur et domino contra recubante proculque Surrentina tuus spectat praetoria Limon. Mart. 6, 45, 3 Haec est casta Venus? nubit Laetoria Lygdo: turpius uxor erit quam modo moecha fuit.
Q uesti ultimi tre luoghi non possono fare a meno di qualche parola d’accompagnamento. Riguardo a Prima galeritus posuit praetoria Lygmon, è arduo stabilire quanta dizione enniana ci sia dietro a questo esametro, dove si chiama per nome un personaggio importante del secondo libro degli Annales – dunque calato nella storia dei tempi regii 60; egli era l’eponimo della 59 Q uesta giuntura (ad ogni evidenza tipica dell’epos, ma elusa da Virgilio) doveva essere antica, comunque parallela all’altra quasi omofona (e a sua volta non attestata prima dell’età flavia: Val. Fl. 8, 88; Stat. silu. 2, 5, 14; Sil. 4, 451) cecidere iubae. 60 Skutsch 1985, 252-253; Lygmon è forma ellenizzata del nome etrusco Lucumo: Fedeli 2015, 206-209.
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tribù dei Luceres, ma è qui ricordato in veste di fondatore del l’arte bellica romana, di chi per primo “pose le tende”, e dunque organizzò gli accampamenti militari. Il termine praetoria, prima di Properzio (dove ritorna in 4, 4, 31 a proposito delle stesse vicende e personaggi, all’inizio del monologo di Tarpea: ignes castrorum et Tatiae praetoria turmae eqs.), è adottato in poesia dal solo Virgilio, georg. 4, 75 (l’epicismo indica in questo caso il padiglione del comandante dell’esercito delle api, le quali circa regem atque ipsa ad praetoria densae / miscentur magnisque uocant clamoribus hostem), poi più nulla fino a Lucano (3, 535) e Stazio. Appunto in età flavia ci troviamo davanti a corrispondenze tanto palesi quanto strane e inspiegabili: il verso properziano offre quattro piedi e nove vocali sillabiche come un modello (cripto-)mnemonico per riproduzioni di buon valore artistico, ma dove nessun interprete saprebbe indicare precisa volontà allusiva, nessun lettore saprebbe cogliere rapporti di senso fuori da una sfera aurale in cui i suoni prendono netto sopravvento sui significati 61. Nel poemetto di Stazio 62 è personificata (e si chiama “Il Prato”) una delle due ville di Pollio Felice affacciate sulla baia di Napoli: rivolta a settentrione vede da lontano l’altra, sita a Sorrento. Q ui interessa solo l’occasionale sequenza delle parole in clausola praetoria Limon, dove l’analogia col properziano (posuit) praetoria Lygmon stupisce almeno quanto l’indipendente, pressoché coeva imitazione attuata da Marziale col rimodellare il semiverso nubit Laetoria Lygdo. Il contesto epigrammatico di 6, 45, 3 è subito chiaro al lettore: Lusistis, satis est: lasciui nubite cunni: permissa est uobis non nisi casta Venus. Haec est casta Venus? nubit Laetoria Lygdo: turpius uxor erit quam modo moecha fuit.
Abbiamo naturalmente a che fare con meccanismi mentali inconsci, con riprese inerti: Lygdus è un débauché ben noto ai let-
61 Ho tentato più volte la descrizione del fenomeno, variando gli esempi: da ultimo in Mastandrea 2011, 2014-2015, 2015. 62 Van Dam 1984, 244; Newlands 2011, 141.
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tori di Marziale 63, che nulla – fuori dal suono del suo esotico appellativo – lega al lucumone etrusco o al confortevole Limon dell’amico di Stazio; tanto meno c’è rapporto fra i marziali praetoria e la svergognata Laetoria: il cui nome merita tuttavia un accenno per certo qual sentore di gente antica, o meglio per la sua capacità evocativa di una famosa legge di epoca mediorepubblicana, la lex Laetoria de circumscriptione adulescentium (191 a.C.). Tale scelta procede da un calcolo sottile che mostra dimestichezza con la storia patria, analogo a quella per cui la dissoluta matrona della decima satira di Giovenale (vv. 220; 322) è chiamata Oppia: come la legge suntuaria, emanata nel 215 a.C. ed abolita esattamente vent’anni dopo – fra le proteste di Catone. Il racconto dei fatti arriva sino a noi da Tito Livio, ma di sicuro ne preesisteva una narrazione poetica nei libri dei perduti Annales enniani. Q uasi tre secoli dopo Marziale riappare un altro epigrammista di grandi qualità, in possesso di memoria poetica sconfinata e incontrollata; di un suo pentametro (epigr. 80, 4) Ausonio ci lascia così scoprire il rapporto di dipendenza fonico-sintattica rispetto a un omologo properziano (3, 3, 42) di senso e tenore ben diversi 64; eccoli rispettivamente: cum uis Arcadicum fingere, Marce, pecus. flare, nec Aonium tingere 65 Marte nemus.
D’altra parte egli dimostra che l’imitazione dell’epigono – plagiario innocente: talvolta pur accade – poteva prescindere da 63 Si tratta di un omosessuale, che torna più volte nel libro 11; per altri personaggi reali e fittizi di nome Lygdus si veda il commento a 6, 39, 13 di Grewing 1997, 282; cfr. 140-141; sui nomi parlanti in Marziale, sempre utile Grewing 1998, 315-356. 64 All’ambientazione ‘pastorale’ di Ausonio corrisponde quella ‘marziale’ di Properzio, riflessa anche da quanto precede nel contesto e in particolare dal verso lungo del distico 41-42: Contentus niueis semper uectabere cycnis, / nec te fortis equi [per cui vedasi sopra] ducet ad arma sonus. / Nil tibi sit rauco praeconia classica cornu / flare eqs. Q uesto esametro è composto di elementi prestati dal vocabolario del gran genere, come risulta da un paio di paralleli epici posteriori: Lucan. 1, 238 stridor lituum clangorque tubarum / non pia concinuit cum rauco classica cornu; Val. Fl. 6, 92 … nec rauco curant incendere cornu / indigenas. 65 Ovviamente nulla cambia se si preferisce la variante manoscritta – sensatamente adottata da Lachmann e altri editori ottocenteschi – cingere (Fedeli 1985, 149; Flach 2011, 132; nello specifico discussa da Shackleton Bailey 2013, 141).
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una piena coscienza come da una chiara finalità del ‘crimine’ 66. Ma si sa che il testo di Properzio fu oggetto di una specie di (profano) culto delle reliquie, sicché Ovidio già ebbe a reimpiegare i tasselli metrici del predecessore, senza riguardo per i suoi eventuali diritti. Gli esempi disponibili di tale pratica sono numerosissimi, ne scelgo uno abbastanza casualmente, per appurare le modalità con cui un distico come tanti altri 67 quale 3, 3, 31-32 et Veneris dominae uolucres, mea turba, columbae tingunt Gorgoneo Punica rostra lacu,
fu diviso in segmenti modulari, pronti per le più varie combinazioni escogitate dal poeta di Sulmona in circostanze diverse e lontane nel tempo: tu Veneri dominae plaude fauente manu (Ov. ars 1, 148). at si uana ferunt uolucres mea dicta procellae (Ov. am. 2, 11, 33). ut quondam iuuenes, ita nunc, mea turba, puellae (Ov. ars 3, 811) ut fugiunt aquilas, timidissima turba, columbae (Ov. ars 1, 117). tincta gerens rubro Punica rostra croco (Ov. am. 2, 6, 22).
Ed eccone un altro in cui l’elegiaco augusteo più moderno (ma ormai veterano anch’egli) di trist. 4, 2, 19-20 recupera lo schema, gli incastri e le sequenze di Prop. 3, 4, 15-16 (in basso): inque sinu carae nixus spectare puellae incipiam et titulis oppida capta legam. ergo omnis populus poterit spectare triumphos, cumque ducum titulis oppida capta leget 68. 66 Un caso meno evidente e meno probabile (ma forse neppur esso trascurabile) di memoria fonica involontaria ci mostra la parziale ripresa che compie Venanzio Fortunato nell’emistichio iniziale di Vita sancti Martini 3, 484 quam nec flabra mouent neque uertit turbo procellae, rispetto ad Ovidio, fast. 6, 405 qua Velabra solent in Circum ducere pompas eqs. (di sicuro modellato a propria volta su Properzio, 4, 9, 5-6 qua Velabra suo stagnabant flumine quaque / nauta per urbanas uelificabat aquas). 67 Vi scivolano sopra i commenti, attirati solo dalla materia mitologica (ho sotto gli occhi quelli di Flach 2011, 131, e di Heyworth, Moorwood 2011, 121); ma neppure aveva visto alcunché, tra gli altri, Morgan 1977, 18; esclusivamente (ma con buoni risultati) si interessa degli aspetti simbolici e artistici Scioli 2011, 156. 68 Il nesso oppida capta da solo è attestato in Virgilio, Aen. 12, 22 sunt tibi regna patris Dauni, sunt oppida capta / multa manu eqs.
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Erano i primi, felici tentativi di un reimpiego formale destinato a durare nei secoli. Nulla da stupirsi allora se tanti emuli, dai ‘classici’ più autorevoli come Ovidio e Stazio in giù, ravvisarono nell’arte sottile del poeta assisano un campo libero ai loro esercizi di ricreazione letteraria, facendosi talvolta ben degni di quel modello.
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L’EPOS LATINO ARCAICO E PROPERZIO
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Abstracts L’intervento esamina anzitutto le due elegie (3, 3 e 4, 1) in cui da sempre gli studiosi hanno ravvisato cospicui prestiti di epos enniano; quindi cerca di mettere in luce ogni altra traccia degli Annales che si nasconda nell’intera produzione di Properzio. Q uesti rapporti intertestuali possono dividersi in due gruppi: 1) corrispondenze dirette, precise e oggettive; 2) co-occorrenze tra Properzio e altri autori latini: un campionario di passi che sembrano attestare altrettanti “archetipi” pre-virgiliani. Una terza categoria comprende una messe di casi che documentano le pratiche di reimpiego passivo di luoghi properziani da parte dei poeti seriori. Firstly, this essay examines two elegies (3, 3 and 4, 1) in which past scholars identified examples of Ennian epos. It also demonstrates how many other traces of the Annales are hidden in the whole of Propertius’ work. We can divide these intertextual influences into two groups: 1) direct, detailed and objective correspondences; 2) co-occurrences between Propertius and other Latin writers: a lot of passages, where one could also detect as many pre-Vergilian archetypes. A third category includes examples illustrating the practice of Propertius’s passive withdrawals by later versifiers.
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MARIA PIA PATTONI Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
INFLUSSI DELLA TRAGEDIA ATTICA SULL’ELEGIA DI PROPERZIO
Per quanto riguarda l’influsso della tragedia greca in Properzio, l’interesse della critica si è prevalentemente concentrato in due direzioni: gli exempla mitologici che presuppongono specifici modelli teatrali 1 e i diffusi rimandi all’Alcesti euripidea all’interno dell’elegia 4, 11 2. In questi ambiti si è indagato a fondo e mi sembra che non molto di nuovo rimanga da aggiungere. Maggiori spazi di indagine riserva la possibilità che l’influsso della tragedia abbia agito nella strutturazione di un’elegia in forma più sotterranea, come una sorta di pattern o canovaccio sulla base del quale l’autore costruisce, con la consueta tecnica alessandrina della contaminatio, la sua personale situazione. È del resto significativo che il sistema allusivo più imponente messo in atto da Properzio sia all’interno di un’elegia, la 4, 11, nella quale il modello del l’Alcesti euripidea non è mai espressamente menzionato: il gioco intertestuale, che viene scopertamente alla luce nella peroratio di Cornelia al marito e ai figli ai vv. 73-102, è in realtà già operante sotto traccia nella prima parte, costituendo una cifra di lettura fondamentale dell’intero componimento. Tra le elegie con più accentuati elementi di drammatizzazione – e quindi potenzialmente interessate da fenomeni di reminiscenza della letteratura teatrale – vi è la quindicesima elegia del primo libro, alla base della quale credo che vada presupposto un modello tragico, in grado di spiegarne alcune apparenti incoerenze. 1 Gli interventi più rilevanti si devono al riguardo a Paolo Fedeli (in part. Fedeli 1977 e 2005a, oltre alle ricche note sparse nei commenti) e Paduano 2008. 2 Cfr. Paduano 1968 e 2008, 392-397; Fedeli 2005a, 8-13 e 2015, 1275-1277.
I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 231-276 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120106
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1. Cinzia come Elena. Properzio 1, 15 e il modello euripideo 1.1. Nella prima parte di questa elegia alla levitas e perfidia di Cinzia, che si acconcia la chioma e s’agghinda mentre Properzio è in periclo (vv. 5-8), vengono contrapposte quattro nobili eroine del mito, emblema di costanza e fedeltà: Calipso con le chiome in disordine sul lido, afflitta per la partenza di Odisseo 3; Ipsipile che si angoscia nel letto privo del suo uomo; Evadne che dall’alto si precipita nel rogo funebre del marito Capaneo; Alfesibea che vendica lo sposo Alcmeone uccidendo i fratelli: Saepe ego multa tuae levitatis dura timebam, hac tamen excepta, Cynthia, perfidia. aspice me quanto rapiat fortuna periclo! tu tamen in nostro lenta timore venis; et potes hesternos manibus componere crinis et longa faciem quaerere desidia, nec minus Eois pectus variare lapillis, ut formosa novo quae parat ire viro. at non sic Ithaci digressu mota Calypso desertis olim fleverat aequoribus: multos illa dies incomptis maesta capillis sederat, iniusto multa locuta salo, et quamvis numquam post haec visura, dolebat illa tamen, longae conscia laetitiae. nec sic Aesoniden rapientibus anxia ventis Hypsipyle vacuo constitit in thalamo: Hypsipyle nullos post illos sensit amores, ut semel Haemonio tabuit hospitio. coniugis Evadne miseros elata per ignis occidit, Argivae fama pudicitiae. Alphesiboea suos ulta est pro coniuge fratres, sanguinis et cari vincula rupit amor. quarum nulla tuos potuit convertere mores, tu quoque uti fieres nobilis historia 4.
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3 Come è stato rilevato da Dimundo 2016, 185, nella successione di exempla, più che di «intensificazione progressiva» (Gazich 1995, 83), si dovrebbe parlare di «dilatazione graduale dell’exemplum», in quanto viene sviluppato a coppie il motivo della constantia (Calipso/Ipsipile) e della fides (Evadne/Alfesibea), che Cinzia oltraggia con il suo comportamento disinvolto (vd. anche Fedeli 2004, 243). 4 Il testo è riportato nell’edizione di Fedeli (1984, 30-31), che accoglie la trasposizione di Lachmann dei vv. 15-16 dopo il v. 22, soluzione più convincente
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Nella maggior parte di questi exempla sono ipotizzabili influssi della letteratura tragica. Nella citazione relativa ad Evadne è stato da tempo dimostrato il modello delle Supplici euripidee, il che ha consentito di confermare la lezione tràdita elata al v. 21 5. La vicenda di Alfesibea, che rinnega la tradizionale forza dei legame di sangue a favore dell’amore per lo sposo, non è documentata al di fuori di Properzio: potrebbe trattarsi di uno sviluppo mitico attinto a una delle numerose varianti drammatizzate dai tragediografi attici 6. Un Ἀλκμέων scrisse Sofocle (frr. 108110 Radt, in TrGF IV, 149-150); Euripide, oltre a un Alcmeone a Corinto (ὁ διὰ Κορίνθου), compose un Alcmeone in Psofide (ὁ διὰ Ψωφῖδος, frr. 65-73 Kannicht, in TrGF V.1, 205-210), andato in scena nel 438 a.C. nella trilogia tragica a cui faceva seguito l’Alcesti (altro dramma in cui l’amore per lo sposo si dimostra superiore ai vincoli di sangue) 7. La diffusione di questo mito nel teatro tra-
rispetto allo spostamento dopo il v. 20 proposto da Markland. Da respingere l’espunzione del distico proposta da Pescani, considerata con favore da Günther (1997, 123-124) e accolta a testo da Heyworth (2007a, 22-23; 2007b, 67): l’exemplum di Alfesibea è infatti un caso-limite di amore per lo sposo, addirittura superiore ai legami di sangue (vd. Fedeli 1980, 345, 350-351). 5 Cfr. Fedeli 1977, 93-96 e 1980, 348-350; Paduano 2008, 386-389. 6 Così già Rothstein 1898, I, 92: «Properz folgt hier einer sonst unbekannten Form der in der griechischen Tragödie oft behandelten Sage». Difficile pensare (come, tra gli altri, Gaisser 1977, 389 n. 27) che «Propertius himself has invented the detail»; si tratta, infatti, non di un dettaglio, bensì di un aspetto di assoluta rilevanza e atipicità che è improbabile sia stato inserito così di straforo all’interno di un paradigma mitico. È dunque plausibile che si tratti di una variante introdotta in una messa in scena decisamente di rottura, che ribaltava le saghe tradizionali caratterizzate dalla predominanza dei vincoli di sangue (spesso fraterni e sororali) su quelli matrimoniali (come ad es. il mito di Procne e Filomela, drammatizzato nel Tereo sofocleo, molto celebre nell’antichità). Più rispettoso della Empfindung greca è invece il racconto dello pseudo-Apollodoro (3, 7, 5 [90]), in cui Alfesibea, che prende il nome di Arsinoe, si limita a rimproverare i fratelli per l’uccisione del consorte. 7 Secondo le ricostruzioni (peraltro ampiamente congetturali) accolte dalla maggior parte della critica, questo dramma euripideo, ambientato a Psofide durante il secondo soggiorno di Alcmeone, avrebbe contenuto le sequenze mitiche relative all’uccisione di Alcmeone e alla conseguente disperazione di Alfesibea (cfr. Juan – van Looy 1998, VIII.1, 95-97). È lecito aspettarsi che i tragediografi ellenistici, sulla scia di Euripide, abbiano drammatizzato la vicenda di Alfesibea facendola diventare perno dell’azione drammatica e valorizzando le tematiche erotiche già care ad Euripide (basti citare, a puro titolo esemplificativo, il caso del l’Antigone a cui Euripide aggiunge, rispetto alla precedente rielaborazione sofoclea, la componente dell’amore tra Antigone ed Emone, punto di partenza per
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gico del IV secolo è documentata da Aristotele in Poet. 1453a1920: se prima i poeti drammatizzavano vicende mitiche qualsiasi, adesso – osserva lo Stagirita – «le più belle tragedie sono composte intorno a poche famiglie, come Alcmeone, Edipo, Oreste, Meleagro, Tieste, Telefo» 8. L’osservazione di Aristotele è confermata dalle nostre testimonianze sulla tragedia ellenistica, che amava drammatizzare miti rari o introdurre atipiche variazioni: tragedie intitolate Ἀλφεσίβοια composero Acheo (TrGF I 20 F 16) 9, Cheremone (71 F 1), Timoteo (56 F 1) 10; drammi dal titolo Ἀλκμέων scrissero Agatone (39 F 2), Astidamante II (60 F 1b-c), Teodette (72 F 1a-2), Evareto (85 T 2), Nicomaco (127 F 2) 11. La diffusione della saga mitica si conferma nel teatro latino: tragedie su questo soggetto composero Ennio (Alcmeo) e Accio, del quale sono trasmessi i titoli Alcimeo e Alphesiboea 12. È possibile che anche dietro il riferimento a Ipsipile si celi una fonte tragica. Nel primo libro delle Argonautiche Apollonio Rodio non si sofferma sulle reazioni dell’eroina dopo la partenza di Giasone. È però noto che il mito fu affrontato da tutti e tre i tragici maggiori, oltre che dai drammaturghi del IV secolo (dalle Didascalie si ha notizia, ad esempio, di una Ipsipile di Cleeneto, andata in scena nel 363 a.C.) 13. In particolare, nella versione sofoclea intitolata Λήμνιαι (Le donne di Lemno), secondo la ricostruzione
la successiva rielaborazione di Astidamante II: vd. Xanthakis-Karamanos 1980, 49-53 e Juan – van Looy 1998, VIII.1, 191-212). 8 Poet. 1453a19-20: πρῶτον μὲν γὰρ οἱ ποιηταὶ τοὺς τυχόντας μύθους ἀπηρίθμουν, νῦν δὲ περὶ ὀλίγας οἰκίας αἱ κάλλισται τραγῳδίαι συντίθενται, οἷον περὶ Ἀλκμέωνα καὶ Οἰδίπουν καὶ ᾿Ορέστην καὶ Μελέαγρον καὶ Θυέστην καὶ Τήλεφον καὶ ὅσοις ἄλλοις συμβέβηκεν ἢ παθεῖν δεινὰ ἢ ποιῆσαι. Alla diffusione della saga mitica in tragedia corrisponde la sua presenza nella coeva commedia di IV secolo, come nel caso della Poiesis di Antifane (fr. 189, 8-1 K.-A., in PCG II, 418, 1) e delle Dionysiazousai di Timocle (fr. 6 K.-A., in PCG VII, 759). 9 Abbiamo notizia anche di un Alcmeone dramma satiresco, sul quale vd. Juan – van Looy 1998, VIII.1, 88. 10 A Timoteo è inoltre attribuito un Ἀλκμέων, che secondo Kannicht – Snell andrebbe identificato con l’Alfesibea (cfr. TrGF I 56 F 1). 11 Xanthakis-Karamanos 1980, 16 e 65. 12 I modelli delle tragedie latine sono discussi. Per quanto riguarda l’Alcmeo di Ennio, un elenco delle principali attribuzioni è stato riportato da Gesine Manuwaldt in TrRT II, 49; relativamente ad Accio vd. D’Antò 1980, 213-218, 221224. 13 Cfr. TrGF I 84 T 4 (p. 251).
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di Pearson generalmente accolta 14, punto chiave sarebbe stata la partenza di Giasone; è possibile che le accorate reazioni di Ipsipile fossero rievocate da una dramatis persona o dal Coro stesso, analogamente a quanto si verifica nella parodo delle Trachinie a proposito di Deianira, in ansia per lo sposo lontano: Coro Sento dire che la molto contesa Deianira, nel suo animo pieno di desiderio (ποθουμένᾳ … φρενὶ), senza posa (ἀεί), quale dolente uccello (οἷά τιν’ ἄθλιον ὄρνιν), non sopisce mai il desiderio delle palpebre che non hanno più lacrime (οὔποτ’ εὐνάζειν ἀδακρύτων βλεφάρων πόθον), ma nutrendo in cuore un’ansia ben memore dei viaggi lontani dello sposo (εὔμναστον ἀνδρὸς δεῖμα τρέφουσαν ὁδοῦ), si tormenta (τρύχεσθαι) nel letto privo del suo uomo (εὐναῖς ἀνανδρώτοισι), prefigurandosi, l’infelice, un infausto destino (κακὰν δύστανον ἐλπίζουσαν αἶσαν). (Soph. Trach. 103-111).
Il richiamo del Coro sofocleo alle angosce di Deianira (δεῖμα Trach. 108) si pone sulla stessa linea del properziano anxia (v. 17); l’immagine del letto vuoto (εὐναῖς ἀνανδρώτοισι Trach. 109) ha il suo corrispettivo nel nesso vacuo … in thalamo (v. 18), mentre il verbo τρύχεσθαι (Trach. 109) corrisponde a tabuit (v. 20): tutti temi destinati a diventare topici nella poesia ellenistica, ma che già il teatro attico aveva fissato come tratti caratterizzanti della donna fedele in ansia per lo sposo lontano 15, accentuando a sua volta il pathos già implicito nelle descrizioni dei turbamenti notturni della Penelope odissiaca 16. In un suo intervento del 1977, sulla base delle allusioni euripidee contenute nell’exemplum di Evadne, Fedeli aveva scartato 14 Pearson 1917, II, 53: «The climax of the action must surely have been the departure of Jason – less easily effected, we may surmise, than in Apollonius; and the play may have ended with the selling of Hypsipyle into slavery after the discovery that Thoas was still alive (Apollod. 3, 65)». 15 Anche la Clitemestra eschilea, nel recitare allo sposo appena ritornato dalla guerra la parte della moglie fedele, aveva dato rilievo alle sofferenze patite durante la sua assenza, in particolare alle notti trascorse nell’angoscia, nelle quali bastava il leggero ronzio di una zanzara a destarla dal sonno (Aesch. Agam. 891-894). 16 In Od. 18, 199-205 Penelope, in preda al desiderio (ποθέουσα) per lo sposo lontano e sopraffatta dall’angoscia (ὀδυρομένη κατὰ θυμὸν) per la sua sorte, addirittura prega Artemide che la faccia morire: αἴθε μοι ὣς μαλακὸν θάνατον πόροι ῎Αρτεμις ἁγνὴ / αὐτίκα νῦν, ἵνα μηκέτ’ ὀδυρομένη κατὰ θυμὸν / αἰῶνα φθινύθω, πόσιος ποθέουσα φίλοιο / παντοίην ἀρετήν (vv. 202-205).
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la possibilità che alla base dell’elegia vi fosse esclusivamente un modello ellenistico 17. Concordo con questa valutazione: a me pare infatti che il nucleo di ispirazione unificante dell’elegia possa essere individuato nel terzo episodio delle Troiane di Euripide, dominato dal personaggio di Elena, messa sotto accusa da Menelao ed Ecuba 18. Elena, com’è noto, è tra le figure mitiche più presenti nel canzoniere properziano, dove simboleggia l’infedeltà, la bellezza e anche la celebrità che un’opera letteraria conferisce a una donna 19. Per questi stessi motivi a Elena Cinzia è spesso equiparata 20. In particolare, il paragone è estesamente sviluppato – in senso positivo come esaltazione di una divina bellezza che giustifica la guerra di Troia – nell’elegia 2, 3, 34 ss.: qui Properzio, in clamorosa controtendenza rispetto al trattamento moralistico del mito negli altri poeti latini 21, sostiene che quella di Troia fu una guerra degna di essere combattuta (e conseguentemente adottata come materia di canto); devono quindi essere riconosciuti come saggi sia Paride che Menelao, il primo perché indugiò a restituire Elena, il secondo perché fece di tutto per riaverla 22. Il mito viene evocato in prospettiva rovesciata in 2, 1, 49-50, dove è paradossalmente Cinzia a esprimere sulla figura di Elena un atteggiamento malevolo improntato a riserve moralistiche, incolpando le fanciulle volubili e condannando a causa di Elena l’intera Iliade 23. Q uesta prospettiva tradizionale sulla guerra di Troia ricorre, in un contesto di deprecazione della levitas femminile,
17 Fedeli 1977, 98: «Che a monte dell’elegia esista semplicemente un modello ellenistico mi sembra un’ipotesi da scartare decisamente, se non altro a causa delle precise allusioni a Euripide. Ma è, certo, ellenistica la tecnica della contaminazione degli influssi dei generi letterari e degli autori più diversi». 18 Il mito troiano, com’è noto, ha un ruolo importante nell’elegia properziana: cfr., tra i più recenti contributi, Rosati 2016 e Stok 2016. 19 Boucher (1965, 249-250, e cfr. anche Carbonero 1989, 386) ne annoverava otto ricorrenze, ma si tratta solo delle citazioni esplicite all’interno degli exempla mitologici. 20 Per i numerosi passi con relativo commento si rimanda a Dimundo 2016, 183-208. 21 Cfr. in part. Hor. ep. 1, 2 (con le osservazioni di Carbonero 1989, 384). 22 Prop. 2, 3, 37-38: nunc, Pari, tu sapiens et tu, Menelae, fuisti, / tu quia poscebas, tu quia lentus eras. 23 Prop. 2, 1, 49-50: si memini, solet illa levis culpare puellas, / et totam ex Helena non probat Iliada.
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anche in 2, 6, dove l’infedeltà di Cinzia e delle donne romane del suo tempo viene posta a contrasto con gli exempla di Alcesti e di Penelope (2, 6, 23-24) 24. E ancora il mito nella sua interpretazione positiva è ripreso in 2, 32, un’altra elegia che con la 1, 15 presenta più di un punto di contatto, a partire da quella che Lyne definì emotional polarity, l’ambivalenza del poeta elegiaco nei confronti della sua donna, traditrice ma pur sempre amata 25. I numerosi passi che coinvolgono Elena in implicito o esplicito confronto con Cinzia consentono di ricostruire la dominanza di questo paradigma mitico nelle strategie compositive di Properzio: paradigma che, grazie alla sua ambivalenza etica (già manifestamente presente nell’epica greca arcaica), si prestava a essere piegato a differenti contesti e finalità. Ed è ciò che a mio parere si verifica anche nella 1, 15, dove nella ‘costruzione’ del personaggio di Cinzia agisce sottotraccia la suggestione esercitata dall’Elena delle Troiane 26. Il tema iniziale dell’elegia, con la contrapposizione fra il comportamento della donna nobilis (ovvero casta e fedele, v. 24) e la perfidia di Cinzia (nel senso etimologico di in-fedeltà, vv. 2 e 34), è dominante nelle Troiane, dov’è espressamente formulato da Ecuba come rimprovero a Elena: 24 Prop. 2, 6, 15-16 his olim, ut fama est, vitiis ad proelia ventum est, / his Troiana vides funera principiis. 25 Su questa elegia e sulle sue corrispondenze con la 1, 15 cfr. infra § 1.4. 26 Le Troiane di Euripide erano un dramma certamente noto a Roma fin dal l’età arcaica (cfr. Lauriola 2015, 51), invocato insieme all’Ecuba come modello dell’Andromacha Aechmalotis di Ennio e dell’Astyanax di Accio; tra i poeti augustei ne è stato riconosciuto l’influsso in Ov. Met. 13, 404-428 (vd. Stok 19881989; Curley 2013, 102-104); per quanto riguarda specificamente Properzio, una possibile reminiscenza della scena di Andromaca in Tro. 577 ss. è stata individuata da Fedeli (2005a, 14-15) nell’exemplum di Andromacha captiva in 2, 20, 1-2. Inoltre, la scena dell’incontro tra Elena e Menelao fu molto popolare nella produzione artistica greco-romana, dalle due metope Nord 24 e 25 del Partenone alle numerose testimonianze della pittura vascolare e su rilievi (tuttora utile in materia rimane Ghali-Kahil 1955 e, della stessa, la voce Hélène in LIMC IV del 1988, a cui si aggiungono, tra i contributi più completi, Clement 1958, Moret 1975, Hedreen 1996, Dipla 1997, Zisa 2018). La scena è anche raffigurata nella Tabula Iliaca Capitolina (ultimo quarto del I sec. a.C.), rinvenuta sulla via Appia presso Roma (cfr. Scafoglio 2005, 115-116, con riferimenti alla bibliografia anteriore). Interessanti indagini sulle relazioni tra arti figurative e testi letterari su questo soggetto mitico sono state condotte negli ultimi decenni da Ambrosini 2003, Brillante 2009, Masters 2012, Roscino 2013- 2014.
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ποῦ δῆτ’ ἐλήφθης ἢ βρόχοις ἀρτωμένη ἢ φάσγανον θήγουσ’, ἃ γενναία γυνὴ δράσειεν ἂν ποθοῦσα τὸν πάρος πόσιν; (Eur. Tro. 1012-1014) Dove mai sei stata sorpresa ad appendere lacci o ad affilare una spada, cose che una donna nobile dovrebbe fare, se rimpiangesse il precedente marito?
Secondo Ecuba ciò che per rimpianto del marito (ποθοῦσα τὸν πάρος πόσιν) avrebbe dovuto fare una moglie nobile (γενναία γυνὴ: l’aggettivo nobilis è riferito alle eroine mitiche esemplari anche in Prop. 1, 15, 24) è di uccidersi (impiccandosi oppure trafiggendosi con la spada, secondo le due più diffuse varianti tragiche del suicidio) 27. Il motivo compariva già in Aesch. Agam. 874876: Clitemestra, nel recitare di fronte al consorte la parte della sposa fedele allo scopo di ovattare in lui ogni sospetto e attirarlo nella trappola mortale, gli dice che, a causa delle notizie nefaste giunte da Troia che lo davano per morto, «molte volte altri sciolsero a forza i lacci che già le stringevano il collo» 28. Clitemestra finge dunque di avere ripetutamente tentato il suicidio, cosa che Ecuba nelle Troiane rimprovera a Elena di non avere mai pensato di fare 29. E il suicidio è per l’appunto la risoluzione a cui giunge una delle mitiche eroine menzionate da Properzio, Evadne (vv. 21-22). Per contro Elena – le rimprovera Ecuba – non solo non pensò mai di togliersi la vita per il dolore della lon27 Tra l’altro, questa stessa alternativa è espressa dal Coro anche nell’Alcesti dove, per l’inversione di gender che caratterizza il dramma, è riferita ad Admeto (ἄξια καὶ σφαγᾶς τάδε καὶ πλέον ἢ βρόχωι δέραν οὐρανίωι πελάσσαι vv. 228-229): la nobile morte di Alcesti non sarebbe degna di una impiccagione (la forma di suicidio elettivamente femminile in tragedia), bensì richiede che ci si suicidi trafiggendosi (la morte eroica col ferro). 28 Aesch. Agam. 874-876: τοιῶνδ’ ἕκατι κληδόνων παλιγκότων / πολλὰς ἄνωθεν ἀρτάνας ἐμῆς δέρης / ἔλυσαν ἄλλοι πρὸς βίαν λελημμένης. 29 Di Benedetto (1998, 71) ha osservato quanto sia inaudita la pretesa di Ecuba che Elena si dovesse uccidere per la mancanza del marito (ancora in vita): l’esagerazione trova la sua giustificazione nel contesto di un discorso accusatorio che non risparmia nessun artificio retorico. Un simile procedimento di ‘esagerazione’ si coglie pure negli ultimi due paradigmi mitici di Properzio, relativi alle vicende tragiche di Evadne e Alfesibea, che vanno ben oltre la situazione di Cinzia e del poeta, esemplificata in modo più appropriato dalle vicende di Calipso e Ipsipile, non a caso menzionate per prime (lo scarto che si produce con l’introduzione del terzo exemplum, quello di Evadne, è giustamente sottolineato da Fedeli 2004, 243-244).
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tananza da Menelao (e nemmeno fu mai vista da nessuno in atto di calarsi giù dalle mura di Troia per accorrere dal consorte, come, mentendo, sostiene di aver fatto) 30, ma per di più ora, anziché presentarsi a lui con il peplo a brandelli e il capo rasato, si è preoccupata soltanto di farsi bella: Ecuba Te ne vieni qui (ἐξῆλθες) dopo aver abbellito il tuo corpo (σὸν δέμας / … ἀσκήσασα) e guardi lo stesso cielo di tuo marito, o svergognata (κἄβλεψας πόσει / τὸν αὐτὸν αἰθέρ’, ὦ κατάπτυστον κάρα). Bisognava invece che tu venissi umile, in brandelli di pepli, tremante di paura e con il capo rasato, avendo saggezza più che impudenza per le precedenti colpe da te commesse. (Eur. Tro. 1022-1028).
Il Coro di donne troiane nello stasimo successivo recepirà il rimprovero di Ecuba e lo tradurrà icasticamente nell’immagine di Elena che indugia davanti ai suoi specchi dorati, incurante della rovina intorno a lei (e da lei) provocata: χρύσεα δ’ ἔνοπτρα, παρθένων χάριτας, ἔχουσα τυγχάνει Διὸς κόρα. (Eur. Tro. 1107-1109) Intanto la figlia di Zeus se ne sta con i suoi specchi dorati, delizia per le vergini.
Cinzia, oltre che di indifferenza per le difficoltà in cui versa Properzio, è accusata di estenuante lentezza nel maquillage (longa … desidia 1, 15, 6). Nelle Troiane questo dato, oltre che implicito nei rimproveri di Ecuba e del Coro, trova oggettivo riscontro nella stessa azione drammatica: Elena fa la sua comparsa in scena solo a dramma inoltrato, nel terzo e ultimo episodio, con un ‘ritardo’ che rientra nella topica caratterizzazione del falso philos in tragedia 31. Cfr. Eur. Tro. 955-958 e 1010-1011. L’indugio nella preparazione è l’esatto opposto dell’atteggiamento che caratterizza il vero philos, il quale, emotivamente coinvolto, accorre sollecito senza preoccuparsi di completare l’abbigliamento. Nei testi letterari greci questo dato viene per lo più evocato da un epiteto quale ad es. ἄζωστος («senza la cintura», come in Hes. Op. 245 a proposito dei buoni vicini di casa che accorrono a un disastro), ἄπεπλος («senza il peplo», come in Pind. Nem. 1, 50 Alcmena, che balza discinta dal letto per accorrere in difesa del figlioletto assalito dai serpenti), ἀπέδιλος (‘senza i calzari’, come in Aesch. Prom. 135 il Coro di Oceanine che, vivamente simpatetiche nei confronti del Titano sofferente, accorrono dai loro antri su un «veloce carro» e«con rapide gare di ali»). Il modulo è soprattutto diffuso nella 30
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Il motivo, visto in chiave negativa, della cura di Elena per il proprio aspetto, assente nelle fonti epico-liriche, è una novità di Euripide. Anche in Or. 128-129 Elettra osserva che Elena, nel recidersi una ciocca di capelli da deporre sulla tomba di Clitemestra, è stata attenta a tagliare solo la punta, per non sciupare la sua bellezza (σῴζουσα κάλλος): è rimasta, insomma, la donna di prima (ἔστι δ’ ἡ πάλαι γυνή). A conferma della provenienza euripidea del tema depone il fatto che lo stesso spunto è sviluppato, per analogia con Elena, anche a proposito di Clitemestra: in El. 1062-1064 è la stessa Elettra, con il tono polemico che nelle Troiane è proprio di Ecuba, a equiparare Clitemestra a Elena, sorelle entrambe belle (τὸ μὲν γὰρ εἶδος αἶνον ἄξιον φέρειν / ῾Ελένης τε καὶ σοῦ) ed entrambe frivole (δύο δ’ ἔφυτε συγγόνω, / ἄμφω ματαίω). La ματαιότης delle due sorelle, nell’accezione semantica di leggerezza e incostanza, è il compiuto equivalente del termine properziano levitas al v. 1. Anche la cura eccessiva per il proprio aspetto, sulla quale Elettra si sofferma nei versi successivi, è una caratteristica del personaggio di Clitemestra che, assente in Eschilo e in Sofocle come pure nelle fonti più antiche, fa la sua comparsa soltanto con Euripide: νέοντ’ ἀπ’ οἴκων ἀνδρὸς ἐξωρμημένου, ξανθὸν κατόπτρῳ πλόκαμον ἐξήσκεις κόμης. γυνὴ δ’ ἀπόντος ἀνδρὸς ἥτις ἐκδόμων ἐς κάλλος ἀσκεῖ, διάγραφ’ ὡς οὖσαν κακήν. οὐδὲν γὰρ αὐτὴν δεῖ θύρασιν εὐπρεπὲς φαίνειν πρόσωπον, ἤν τιμὴ ζητῇ κακόν. (Eur. El. 1070-1075) tragedia attica, dove la velocità o la lentezza nel sopraggiungere in scena per portare conforto o aiuto al protagonista sofferente costituiscono elemento discriminante di valutazione del suo grado di philia. Il personaggio che fa il suo ingresso in ritardo finisce di norma per smascherare la sostanziale falsità della sua philia (come ad esempio Menelao in Eur. Or. 740, lento ad arrivare, ma velocissimo nel rivelarsi κακός con i suoi cari: χρόνιος ἀλλ’ ὅμως τάχιστα κακὸς ἐφωράθη φίλοις), mentre chi accorre quanto più velocemente possibile dà sempre prova di autentica philia (come in Eur. Or. 725-729 Pilade, che, φίλτατος βροτῶν e πιστὸς ἐν κακοῖς ἀνὴρ, arriva in scena di corsa, δρόμῳ, più rapidamente di quel che avrebbe dovuto, θᾶσσον ἤ μ’ ἐχρῆν). Per un’analisi di questa tipologia di situazioni drammatiche mi permetto di rimandare a Pattoni 2007, 70-73. La formulazione di Prop. 1, 15, 4 tu tamen in nostro timore lenta venis efficacemente condensa questa tipologia di situazione drammatica: il fatto che Cinzia non corrisponda con trasporto all’amore di Properzio (per lenta venis nel senso di lenta es in amore cfr. Fedeli 1980, 340) è dimostrato dal ritardo con cui si è a lui presentata (per lenta venis nel senso letterale di arrivare tardi cfr. Shackleton Bailey 1956, 42).
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Elettra qui rimprovera la madre per il fatto che, subito dopo la partenza del marito per la guerra di Troia, anziché dolersi, si acconciava allo specchio i biondi riccioli della chioma (ξανθὸν κατόπτρῳ πλόκαμον ἐξήσκεις κόμης): «una donna che, quando il marito è lontano da casa (ἀπόντος ἀνδρὸς … ἐκδόμων v. 1072), si preoccupa della sua bellezza (ἐς κάλλος ἀσκεῖ v. 1073) 32, è da considerare una poco di buono (διάγραφ’ ὡς οὖσαν κακήν)». Una moglie, a suo parere, non ha bisogno di mostrare fuori di casa un viso ben truccato (εὐπρεπὲς … πρόσωπον) se non va in cerca di un malaffare (ἤν τιμὴ ζητῇ κακόν v. 1075): l’aggettivo κακόν – in posizione clausolare come κακήν al v. 1073 – indica evidentemente infedeltà, tradimento, adulterio (in allusione alla tresca con Egisto), ponendosi sulla stessa linea della perfidia da Proper zio attribuita a Cinzia in 1, 15, 2 33. È dunque possibile ricostruire un modulo di ascendenza euripidea, quello dell’eroina avvenente, frivola e infedele che, quando il suo uomo è lontano, anziché dolersi si cura del proprio aspetto a scopo seduttivo: modulo applicato a Elena (e anche a Clitemestra, che nel teatro euripideo condivide con la sorella suddette caratteristiche) e da Properzio trasferito a Cinzia, la nuova Elena 34. Altro aspetto che Cinzia condivide con l’Elena delle Troiane è la propensione al lusso. Tra le accuse che Ecuba rivolge a Elena 32 Al v. 1073 ἀσκεῖ riprende ἐξήσκεις di due versi sopra: lo stesso verbo è usato anche a proposito di Elena in Eur. Tro. 1023 σὸν δέμας … ἀσκήσασα, il che evidenzia le analogie tra le due figure mitiche. 33 Per Elettra, dunque, il comportamento della moglie ideale è quello che Properzio attribuisce a Calipso (incomptis … capillis v 11). Similmente, in Ov. her. 13, 41-42 Laodamia, afflitta per la partenza di Protesilao, non si cura di pettinarsi i capelli né di abbigliarsi con le vesti regali di porpora e d’oro che le donne di Fillo vorrebbero farle indossare: il suo desiderio è di seguire nello squallore le fatiche dell’amato e di trascorrere nella mestizia il tempo della guerra (qua possum, squalore tuos imitata labores / dicar, et haec belli tempora tristis agam vv. 41-42). Il motivo potrebbe essere una derivazione dal Protesilao di Euripide: per una situazione analoga si veda, sempre in Euripide, El. 190 ss., dove il Coro di donne argive cerca inutilmente di far indossare manti di broccato e monili d’oro alla protagonista che, tutta compresa nel dolore per la morte del padre, si presenta in scena con la chioma sporca e gli abiti laceri, indegni di una principessa (vv. 184 ss.). 34 La condanna dell’attenzione eccessiva per la capigliatura, già attestata in Semon. fr. 7, 63 ss. W.2, diventerà motivo tradizionale nella letteratura latina: per alcuni esempi, elegiaci e non, vd. Roggia 2011, 109.
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vi è anche l’attrazione per le ricchezze orientali, per la τρυφή, che ella vede anzi come causa principale all’origine del suo tradimento 35. Nell’elegia 1, 15 il motivo è accennato nel dettaglio dei gioielli di Oriente (Eois … lapillis v. 7), con cui Cinzia si adorna il petto. Più ampio è lo sviluppo del tema nella seconda elegia del primo libro, in cui Properzio prende di mira la propensione all’artificiosa bellezza e la misera luxuria (si vedano in particolare i vv. 21 sed facies aderat nullis obnoxia gemmis, 23-24 non illis studium vulgo conquirere amantis: / illis ampla satis forma pudicitia, 31-32 his tu semper eris nostrae gratissima vitae, / taedia dum miserae sint tibi luxuriae); per contro ai vv. 15 ss., nell’elenco contrastivo di eroine mitiche che non si curavano di agghindarsi per conquistare amanti (v. 23), essendo per loro la pudicizia un sufficiente ornamento di bellezza (v. 24), si sottolinea il fatto che Ippodamia non facesse uso di pietre preziose (facies aderat nullis obnoxia gemmis v. 21). 1.2. L’ipotesi di un modello drammatico alla base di Prop. 1, 15 consente di comprendere meglio alcuni aspetti di questa elegia a prima vista problematici. L’analogia non scatta solo tra Elena e Cinzia, ma coinvolge anche le rispettive figure maschili, Menelao e Properzio. Menelao è partito per la guerra, mettendo a repentaglio la propria vita. Anche Properzio parla di un ‘pericolo’ in cui la sorte lo ha cacciato (periclo vv. 3, 27): la critica vi ha colto un riferimento a un viaggio in mare o addirittura a un naufragio (dal Beroaldo in poi) 36, oppure a una grave malattia (Rothstein) 37, o ancora all’incertezza sulla sincerità dell’amore di Cinzia (Bennett) 38.
Cfr. Eur. Tro. 991-997: Ecuba accusa Elena di avere perso la testa alla vista di Paride splendente d’oro (χρυσῷ λαμπρὸν v. 992): recandosi a Troia ella sperava di mandare a picco la città di Frigia che scorreva d’oro (χρυσῷ ῥέουσαν v. 995), dato che la casa di Menelao non era sufficiente al suo sfrenato desiderio di lusso (ταῖς σαῖς … τρυφαῖς v. 997). 36 Così anche, tra i vari, Santen 1780, 145; Kuinoel 1805, I, 45; Ribbeck 1885, 487; Butler-Barber 1933, 174; Enk 1946, II, 127; Fedeli 2004, 243. 37 Cfr. Rothstein 1898, I, 150, seguito da Shackleton Bailey 1956, 42; Camps 1961, 79; Allen 1973, 381-385 (cfr. Prop. 2, 28, dove ci si riferisce alla malattia di Cinzia come a un periculum: vv. 15, 27, 46, 59). 38 Cfr. anche Davis 1972-1973, 134-137 (in part. 135: «The periclum Propertius refers to here is the effects he knows Cynthia’s disdain will have upon him»). Simile è l’interpretazione di Gaisser 1977, che però considera il peri35
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Poco importa a mio parere dettagliarlo: Properzio non ha ritenuto necessario chiarire al lettore la natura del periculum per non indebolire con inutili e anzi impropri autobiografismi l’analogia del paradigma mitico sotteso, e a noi non resta che accettare la reticenza (reticenza – oserei dire – necessaria nelle strategie allusive di Properzio). Negli esempi positivi di nobili eroine citati ai vv. 9-23, i rispettivi uomini non sono semplicemente lontani, ma hanno corso gravi rischi: Odisseo e Giasone sono partiti per mare (l’uno su una zattera, l’altro per una missione perigliosa), Capaneo e Anfiarao sono addirittura morti. Il comportamento delle loro donne – ovvero ciò che a Properzio interessa qui sottolineare – è quello tradizionale delle nobili eroine epico-tragiche, dalle quali Cinzia dovrebbe trarre esempio. E invece il suo paradigma etico è quello di Elena: bella, frivola, infedele e incurante dei pericoli corsi dal suo uomo. 1.3. Le analogie con la scena delle Troiane proseguono nella seconda parte dell’elegia, con la rappresentazione che Properzio fa di Cinzia ai vv. 25 ss.: desine iam revocare tuis periuria verbis, Cynthia, et oblitos parce movere deos; audax a! nimium nostro dolitura periclo, si quid forte tibi durius inciderit! multa prius: vasto labentur flumina ponto, annus et inversas duxerit ante vices, quam tua sub nostro mutetur pectore cura: sis quodcumque voles, non aliena tamen. tam tibi ne viles isti videantur ocelli, per quos saepe mihi credita perfidia est! hos tu iurabas, si quid mentita fuisses, ut tibi suppositis exciderent manibus: et contra magnum potes hos attollere Solem, nec tremis admissae conscia nequitiae? quis te cogebat multos pallere colores et fletum invitis ducere luminibus? quìs ego nunc pereo, similis moniturus amantis ‘O nullis tutum credere blanditiis!’
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clum come già presente (386: «His sickness is the emotional anguish caused by Cynthia’s cruelty»).
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Anziché tremare pensando alla colpa commessa (nec tremis admissae consciae nequitiae v. 38) 39, Cinzia rinnova gli spergiuri con le sue parole (desine iam revocare tuis periuria verbis v. 25). Anche Ecuba deplora il fatto che Elena non si presenti contrita e tremante di fronte a Menelao: «avresti dovuto presentarti in atteggiamento dimesso e tremante di paura» (ἣν χρῆν ταπεινὴν … φρίκῃ τρέμουσαν … ἐλθεῖν Tro. 1026); al contrario, Elena, che naturalmente non può nascondere la sua infedeltà come fa Cinzia, dedica tutte le sue arti retoriche a difendersi scaricando sulle divinità e in particolare su Cipride la responsabilità del suo tradimento (Tro. 925-942). L’iniziativa di scomodare gli dèi per coprire o negare la propria nequitia suscita in entrambi i contesti una reazione di sdegno. Secondo Menelao tirare in ballo a parole Cipride è un κόμπος, un vero e proprio atto di hybris: χἠ Κύπρις κόμπου χάριν / λόγοις ἐνεῖται (Tro. 1038-1039). Per Properzio invocare a testimoni gli dèi è uno spergiuro del quale essi potrebbero irritarsi: oblitos parce movere deos (v. 26). Il poeta è infatti pienamente consapevole dei tradimenti di Cinzia, così come Menelao sa bene che Elena lo tradì volutamente per il letto di un altro: «Tu ed io – egli dice ad Ecuba – siamo giunti alla stessa consapevolezza: costei se ne andò volontariamente da casa mia per unirsi a uno straniero» (ἐμοὶ σὺ συμπέπτωκας ἐς ταὐτὸν λόγου, / ἑκουσίως τήνδ’ ἐκδόμων ἐλθεῖν ἐμῶν / ξένας ἐς εὐνάς vv. 1036-1038). Per questo motivo Menelao, indignato, proclama che la donna verrà punita con la lapidazione 40. Spetta alla saggia Ecuba profetizzare il ben diverso esito della vicenda: Elena sarà in realtà perdonata da Menelao il quale ne è – e sempre ne sarà – innamorato, dal momento che «non c’è amante che non ami per sempre»: οὐκ ἔστ’ ἐραστὴς ὅστις οὐκ ἀεὶ φιλεῖ (v. 1051). Q uesto verso divenne proverbiale: la sua fama è confermata dallo stesso Aristotele, che lo cita in due diverse opere (Rhet. II 21 [1394b16] e Eth. Eudem. 1235b21 οὐθεὶς γὰρ “ἐραστὴς ὅστις οὐκ ἀεὶ φιλεῖ”).
La nequitia è naturalmente la sua infedeltà: cfr. Fedeli 1980, 360-361. Eur. Tro. 1039. Si tratta forse di un’eco della rielaborazione della vicenda da parte di Stesicoro: cfr. infra n. 46. 39 40
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Ebbene, Properzio, che oltre a conoscere il finale della vicenda mitica ha piena consapevolezza del proprio statuto di amante elegiaco, subito dopo avere rievocato la perfidia di Cinzia, proclama, facendo propria la gnome espressa da Ecuba, che il suo amore rimarrà comunque immutato e per dare enfasi alla sua previsione ricorre a un adynaton: «molti prodigi accadranno prima: fluiranno i fiumi al vasto mare e invertirà l’anno la successione delle stagioni prima che nel profondo del cuore muti il mio amore per te» (vv. 29-31) 41. Può essere il caso di ricordare che l’adynaton, modulo stilistico prediletto dai poeti ellenistici e romani, si trova per la prima volta attestato in contesto erotico nello stesso Euripide: nell’incipit del primo stasimo della Medea il tradimento di Giasone, passato a nuovo letto, è per il Coro una violazione inaudita, espressa attraverso l’immagine del risalire dei fiumi alle sorgenti (ἄνω ποταμῶν ἱερῶν χωροῦσι παγαί, / καὶ δίκα καὶ πάντα πάλιν στρέφεται Eur. Med. 410-411). Properzio ricorre alla stessa immagine per negare che da parte sua possa mai verificarsi una simile eventualità 42. Nella scena euripidea, in risposta alla riflessione di Ecuba sul l’amore eterno dell’ ἐραστής, Menelao osserva che in realtà ciò dipende dall’atteggiamento della persona amata (ὅπως ἂν ἐκβῇ τῶν ἐρωμένων ὁ νοῦς Tro. 1052), facendo dunque entrare in gioco il comportamento di Elena come determinante per la reazione di colui che ama (ovvero Menelao). Uno sviluppo simile sembra esserci in Properzio, se nel secondo emistichio del v. 32 si sottintende sis: subito dopo aver proclamato il suo amore eterno, il poeta aggiunge che Cinzia sia pure ciò che vorrà essere; a lui basta solo che non si comporti come un’estranea (non aliena tamen). Se Menelao aveva lasciato nel vago la sua formulazione, Properzio precisa le condizioni del persistere del suo amore: condizioni peraltro minimali, in quanto ciò che chiede a Cinzia è che non si comporti con lui come se non lo conoscesse 43. Sulla scia di Ecuba che aveva espresso approvazione per l’uccisione di Elena (Tro. 890-894), anche il Coro esorta Menelao Traduzione di Fedeli 1988, 29. Per un’analoga formulazione cfr. anche Prop. 2, 15, 33 fluminaque ad caput incipient revocare liquores. 43 Per l’interpretazione del v. 32b cfr. Fedeli 1980, 357-358. 41 42
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a questa soluzione come mezzo per mostrarsi degno della nobiltà della sua stirpe, riscattandosi dal «biasimo di effeminatezza» (ψόγον τὸ θῆλυ) 44. Apparentemente egli fa mostra di seguire i consigli del Coro: alla fine della scena si dichiara infatti intenzionato a infliggere a Elena con la morte una punizione esemplare che possa essere di monito per le donne infedeli, le quali così impareranno – tutte quante – ad essere oneste (γυναιξὶ σωφρονεῖν / πάσαισι θήσει Tro. 1055-1059). Anche Properzio termina con un monito, ma ad essere di ammaestramento, con rovesciamento delle parti, diventa qui il poeta stesso, il cui esempio – drammaticamente presentato come un perire – insegnerà agli amanti infelici che è sempre rischioso fidarsi di blande parole: quis ego nunc pereo, similis moniturus amantes / non ullis tutum credere blanditiis (vv. 41-42). La lezione etica di sophrosyne che Menelao s’illudeva di impartire al genere femminile si trasforma così in una lezione di τέχνη ἐρωτική in pieno stile elegiaco. Tuttavia una spia eloquente del fatto che Menelao si stia autoingannando è nascosta nell’inciso del v. 1057, con cui egli riconosce la difficoltà di realizzazione dei suoi intenti: «certo che non è facile questa cosa» (ῥάιδιον μὲν οὐ τόδε). Che l’inciso sia incastonato proprio nel mezzo della roboante enunciazione della punizione esemplare ne accentua la valenza ironica: ἐλθοῦσα δ’ ῎Αργος ὥσπερ ἀξία κακῶς κακὴ θανεῖται καὶ γυναιξὶ σωφρονεῖν πάσαισι θήσει. ῥᾴδιον μὲν οὐ τόδε· ὅμως δ’ ὁ τῆσδ’ ὄλεθρος ἐς φόβον βαλεῖ τὸ μῶρον αὐτῶν, κἂν ἔτ’ ὦσ’ αἰσχίονες. (Eur. Tro. 1055-1059) Tornata ad Argo, miserabilmente morirà, la miserabile, come merita, e sarà di monito per tutte le donne ad essere sagge. Certo facile non è, questo. Tuttavia la morte di costei metterà un freno alla loro perfidia, anche se ve ne siano di più odiose di lei.
E infatti questi propositi non si realizzeranno e Menelao si consegnerà alla storia dell’Occidente come l’antesignano dell’eroe elegiaco: disposto a perdonare l’infedeltà della sua donna in nome Eur. Tro. 1034-1035: «[Coro] Menelao, in modo degno dei tuoi antenati e della tua casa, punisci tua moglie e in nome della Grecia togli via da te il biasimo di scarso nerbo, mostrando ai nemici la tua nobiltà». 44
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della superiore legge dell’amore, finirà per inverare la gnome di Ecuba. Del resto, «chi ama, ama per sempre» è una perfetta norma elegiaca, non certo tragica (al contrario, il genere tragico ha tematizzato il rovesciamento dell’amore nell’odio mortale: si pensi ai miti di Medea, Fedra o Clitemestra). La metamorfosi di Menelao da eroe epico-omerico a eroe elegiaco, nelle Troiane allo stadio iniziale (e pur tuttavia già percepibile nei risvolti del testo) 45, è descritta da Peleo nell’Andromaca con sferzanti parole: Peleo (a Menelao) Presa Troia, non uccidesti tua moglie quando l’avesti nelle mani, ma alla vista del suo seno gettasti la spada 46 e ti lasciasti baciare, scodinzolando a quella cagna infedele, o disgraziato, schiavo di Cipride (φίλημ’ ἐδέξω, προδότιν αἰκάλλων κύνα, / ἥσσων πεφυκὼς Κύπριδος, ὦ κάκιστε σύ). (Eur. Andr. 627-631)
A ben vedere, tra gli elementi di maggiore originalità del trattamento del mito nelle Troiane vi è il fatto di avere inserito all’in45 A proposito degli interventi di Menelao nelle Troiane, Buttrey (1978, 285287) bene argomenta come non vi sia nulla in grado di indicare che egli intenda veramente uccidere Elena; sulla stessa linea cfr. anche Lloyd 1984, 303-304 e in part. Di Benedetto 1998, 68, 218 n. 243, 221 n. 248, che mette in luce le molte incoerenze e oscillazioni del personaggio. 46 Il particolare del lasciar cadere la spada alla vista del seno nudo di Elena, assente nelle Troiane e menzionato anche in Aristoph. Lys. 155-156 (ὁ γῶν Μενέλαος τᾶς ῾Ελένας τὰ μᾶλά πᾳ / γυμνᾶς παραϊδὼν ἐξέβαλ’, οἰῶ, τὸ ξίφος), viene in alcuni scoli attribuito a Ibico (fr. 296 Davies): cfr. schol. Eur. Andr. 631 (II, 293 Schwartz); schol. Aristoph. Lys. 155 (109 Stein); schol. Aristoph. Vesp. 714 A (II 1, 115 Koster). Secondo Brillante (in Bettini – Brillante 2002, 104), il motivo potrebbe risalire al ciclo epico, se non all’Ilioupersis di Arctino (dell’episodio si sa solo che Menelao incontrò Elena nelle sue stanze e la portò sulle navi: Ilii Exc., 88, 14 sg. Bernabé) quanto meno alla Piccola Iliade di Lesche. Da uno scolio a Eur. Or. 1287 (I, 214 Schwartz) si apprende inoltre che Stesicoro avrebbe riferito una versione ancora differente: gli Achei tutti quanti, sul punto di lapidare Elena, lasciano cadere a terra le pietre al vedere la sua ὄψις (“volto” o “aspetto”): εἰς τὸ τῆς ῾Ελένης κάλλος βλέψαντες οὐκ ἐχρήσαντο τοῖς ξίφεσιν· οἷόντι καὶ Στησίχορος (fr. 201 Davies) ὑπογράφει περὶ τῶν καταλεύειν αὐτὴν μελλόντων. φησὶ γὰρ ἅμα τῷ τὴν ὄψιν αὐτῆς ἰδεῖν αὐτοὺς ἀφεῖναι τοὺς λίθους ἐπὶ τὴν γῆν. La scena delle Troiane (la prima drammatizzazione a noi pervenuta di questo episodio mitico) non può naturalmente prescindere dalla tradizione epico-lirica che vedeva Elena scampare alla vendetta di Menelao, ma rimane pur sempre qualcosa di singolare nel panorama delle rielaborazioni antiche per l’ampio spazio conferito all’approfondimento dell’ethos dei personaggi e delle dinamiche che ne influenzano i comportamenti.
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terno di una tragedia ricca di pathos una scena – mi si consenta il termine – pre-elegiaca: una donna bellissima, traditrice e pronta a rinnegare la sua infedeltà, un amante ferito e offeso, ma pur sempre innamorato, in posizione di subalternità rispetto alla sua donna. Properzio mi pare avere finemente colto la produttività della pervasiva contaminazione di registri che caratterizza la scena euripidea, in bilico tra pathos tragico, spunti elegiaci, tonalità da commedia. 1.4. Vorrei a questo punto inserire una breve riflessione a proposito dell’elegia 2, 32, che pur in una Stimmung profondamente diversa – ironica anziché dolente come nella 1, 15 – presenta in comune con quest’ultima il fatto di far seguire alla denuncia del tradimento di Cinzia l’accettazione da parte di Properzio. Ebbene, nella 2, 32 il primo exemplum mitico citato è proprio quello di Elena perdonata da Menelao: Tyndaris externo patriam mutavit amore, et sine decreto viva reducta domumst. (2, 32, 31-32)
La formulazione di Properzio «fu ricondotta viva a casa» ricalca da vicino le parole di Menelao all’inizio del terzo episodio delle Troiane. Entrando in scena, l’eroe dichiarava che, nel consegnargli la moglie, i capi greci gli avevano prospettato due soluzioni opposte: uccidere subito Elena (κτανεῖν) oppure riportarsela in patria risparmiandole la vita (μὴ κτανὼν): οἵπερ γὰρ αὐτὴν ἐξεμόχθησαν δορὶ κτανεῖν ἐμοί νιν ἔδοσαν, εἴτε μὴ κτανὼν θέλοιμ’ ἄγεσθαι πάλιν ἐς᾿Αργείαν χθόνα. (Eur. Tro. 873-875)
Si noti la sovrapponibilità del nesso properziano viva reducta domumst (v. 32) con i vv. 874b-875 (viva ~ μὴ κτανὼν, reducta ~ ἄγεσθαι πάλιν, domum ~ ἐς᾿Αργείαν χθόνα) 47. Tra le due alternative Menelao decideva tuttavia di non decidere (sine decreto osserva Properzio al v. 32) e di rimandare la sentenza capitale una volta ritornato in patria: l’avrebbe data ad 47 E si confronti inoltre il nesso externo … amore in 2, 23, 31 con Eur. Tro. 1037-1038 ἐκ δόμων ἐλθεῖν ἐμῶν / ξένας ἐς εὐνάς.
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altri da uccidere ad Argo (῾Ελληνίδ’ ἐς γῆν κἆιτ’ ἐκεῖ δοῦναι κτανεῖν Tro. 878). Ecuba, che subito intuisce la pericolosità di una simile soluzione, lo esorta a mettere a morte la moglie immediatamente, senza nemmeno guardarla prima, per evitare di essere catturato dal desiderio: Ecuba Ti elogio, Menelao, se darai la morte a tua moglie. Evita di vederla (ὁρᾶν … τήνδε φεῦγε), che non ti catturi con il desiderio (μήσ’ ἕλῃ πόθῳ). Cattura gli occhi degli uomini (αἱρεῖ … ἀνδρῶν ὄμματα), distrugge gli stati, incendia le case: così è l’incantamento che possiede (ὧδ’ ἔχει κηλήματα). Lo sappiamo bene io, tu e le altre vittime. (Eur. Tro. 890-893)
Si tratta delle prime parole che Ecuba rivolge direttamente a Menelao. Non è forse un caso che lo stesso topos erotico dello sguardo, applicato a Cinzia, sia posto precisamente nell’incipit dell’elegia 2, 32: qui videt, is peccat: qui te non viderit ergo non cupiet: facti lumina crimen habent. (vv. 1-2) Chi ti vede cade in peccato: e allora chi non ti vedrà non proverà desiderio di te; la colpa di ciò che è accaduto è tutta degli occhi. (trad. P. Fedeli)
Si notino le corrispondenze tra l’euripideo ὁρᾶν e i properziani videt, viderit, tra πόθῳ e cupiet, tra ὄμματα e lumina 48. È dunque possibile che anche in 2, 32, dove viene espressamente citato il paradigma di Elena e Menelao, Properzio pensasse alla scena delle Troiane. In effetti in questa elegia Cinzia viene sottoposta a un vero e proprio processo, come avveniva per l’Elena euripidea, con la differenza che, mentre Elena usciva (almeno apparentemente) sconfitta sul piano dialettico e il verdetto conclusivo di Menelao era (apparentemente) di condanna a morte, Properzio, anticipando quello che sarebbe stato il giudizio in ultimo grado di Elena, assolve con formula piena la sua donna: che viva libera
Naturalmente lumina sono gli occhi degli spasimanti (come gli ἀνδρῶν ὄμματα in Tro. 892, o i lumina di Properzio al v. 18): cfr. Fedeli 2005b, 890. Per la tradizionale immagine dell’occhio dell’ἐραστἠς cfr. e.g. Sapph. fr. 31, 11 Voigt ὀππάτεσσι e Cat. 51, 12 lumina, Aesch. Prom. 654 ὡς ἂν τὸ Δῖον ὄμμα λωφήσῃ πόθου (a proposito di Zeus innamorato di Io). 48
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per sempre, avendo ella imitato le donne greche e latine (quod si tu Graias, si tu’s imitata Latinas, / semper vive meo libera iudicio vv. 61-62, con vive che riprende e conferma viva dell’exemplum di Elena all’inizio dell’elenco, v. 32) 49. Sennonché, diversamente dall’elegia 1, 15, della paradigmatica scena delle Troiane viene qui valorizzato il registro ironico o paradossale, nascosto (ma nemmeno tanto) tra le pieghe del testo euripideo. Del resto, fa parte della poetica alessandrina la ricerca di varietas nell’approccio ai modelli letterari, sfruttandone di volta in volta le differenti potenzialità. 1.5. In conclusione, per quanto riguarda l’elegia 1, 15, se si accetta l’ipotesi che Properzio nel rappresentare il rapporto conflittuale con la donna amata abbia tratto ispirazione dal terzo episodio delle Troiane, si possono ricavare ulteriori elementi a favore dell’unità dell’elegia, in aggiunta agli argomenti finora prodotti 50. Le disomogeneità o illogicità spesso rilevate dalla critica 51 sarebbero da ricondurre alla difficoltà di tradurre una situazione dialogica a più voci (ed in fieri) in un monologo fittizio. In particolare, al v. 25 il brusco attacco con desine, che ha indotto non pochi critici a dare inizio a una nuova elegia 52, dà l’impressione che Cinzia abbia nel frattempo preso la parola per protestare la sua innocenza, analogamente a quanto avveniva nella scena tragica in cui Elena interveniva in propria difesa 53. E l’atteggiamento ambi49 L’esito del processo a Cinzia è peraltro già anticipato dal distico incipitario dell’elegia, in cui la colpa è tutta attribuita agli occhi degli amantes (supra n. 48). 50 Sui quali cfr. Fedeli 1980, 335, 351-353. 51 Tra gli esempi delle difficoltà da parte di una certa critica nell’interpre tazione di questa elegia si veda a puro titolo esemplificativo Richardson 1976, 186: «This poem is one of the hardest in all P. to understand at first reading, nor have editors generally done much to help with its elucidation. […] The structure here is not neat. The poet is trying to set his frantic agony with all its lapses of logic […]». 52 Cfr. Ribbeck 1885, 487, seguito, tra gli altri, da Postgate 1894, 13 e Rothstein 1898, I, 93. 53 Cfr. Camps I, 79: «At line 25 there is an abrupt transition; it seems that Cynthia is about to defend herself against the first part of Propertius’ complaint, when he interrupts her and starts again»; Richardson 1976, 187, n. ad v. 25: «Evidently Cynthia has tried to interrupt the poet’s tirade against her with protestationes that she made no such compact with him»; Davis 1972-1973, 136: «We are to imagine her bursting in with a tearful protestation of fidelity». Che Elena per scagionarsi ricorra a una rhesis che ricalca i discorsi di difesa in
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valente del poeta, che passa dalle accuse accorate alla confessione d’amore, andrebbe letto e interpretato con il filtro letterario del modello euripideo, che di Menelao ha messo a nudo incoerenze e debolezze, piuttosto che – come hanno fatto alcuni – con il ricorso alle categorie della critica psicanalitica 54. Naturalmente a Euripide Properzio guarda con la sensibilità di un poeta che ha assimilato a fondo la lezione dell’alessandri nismo, non solo nella fitta ripresa di singoli motivi o moduli espressivi, ma pure nelle stesse modalità con cui l’originaria forma dialogica viene tradotta in voce unica del poeta 55. Di ascendenza ellenistica è ad esempio la tecnica – qui esibita da Properzio – del cambiamento repentino e dell’eliminazione di particolari narrativi ritenuti non indispensabili, così come è alessandrina la modalità del dialogo fittizio che il poeta instaura con la donna amata a partire dal v. 25 56. Ma si tratta di aspetti già ampiamente indagati dalla critica, sui quali non è dunque il caso di soffermarsi in questa sede.
tribunale è certamente un’innovazione di Euripide, in piena sintonia con la sua propensione per i dissoi logoi; peraltro è Ecuba che, inserendosi nel dialogo tra Elena e Menelao, chiede a Menelao, che non intende affatto lasciare parlare la sposa, di consentirle di difendersi, perché lei possa a sua volta confutarla. La vox loquens del poeta in questa elegia è costruita, come si è visto, contaminando spunti tratti dai personaggi di Ecuba e di Menelao, i quali almeno apparentemente condividono la linea accusatoria (si veda la professione di intesa di Menelao ai vv. 1036-1038). Nelle narrazioni epico-liriche precedenti molto probabilmente Elena convinceva in tempi rapidi Menelao folgorandone lo sguardo con la propria bellezza (cfr. supra n. 46), oltre che con l’aiuto di Afrodite, spesso presente al suo fianco nelle testimonianze figurative (cfr. Zisa 2018, 248-250 e n. 25, con ulteriori rimandi bibliografici). 54 Così ad es. Mathews (2002, 27-53), che fa a Properzio la diagnosi di «narcissistic sadomasochism». 55 Evina Sistakou (2016) ha di recente ribadito il determinante influsso esercitato dal teatro sulla poesia ellenistica (e Properzio è naturalmente erede di questa tradizione). Uno degli esempi più articolati è al riguardo fornito dal terzo idillio teocriteo, un dialogo-monologo di un exclusus amator alla sua indifferente e anzi riottosa amata (per un’analisi dei moduli drammatici di questo idillio cfr. Pattoni 1997, 159-199). 56 Si tratta di modalità riscontrabili in vari epigrammisti, in particolare in Meleagro, Asclepiade, Filodemo: si vedano al riguardo le persuasive considerazioni di Fedeli 1977, 76 e 1980, 335-337.
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2. Gli orientamenti di Properzio in ambito tragico Per quanto riguarda le preferenze di Properzio nei confronti dei tre tragediografi attici, non v’è dubbio che Euripide, portatore di una concezione più moderna dei valori dell’umana esistenza, sensibile in particolare alle tematiche amorose e già proiettato per molti aspetti nella sensibilità ellenistica, sia il poeta tragico la cui presenza è maggiormente ravvisabile nel canzoniere properziano 57. Relativamente a Sofocle, sono individuabili almeno due allusioni, rispettivamente all’Antigone e all’Elettra, quest’ultima in particolare da considerare certa 58. Properzio conferma dunque la popolarità di queste tragedie, congiuntamente menzionate da Dioscoride (tardo III sec. a.C.) nell’epigramma per la tomba di Sofocle, in quanto considerate ‘vetta’ (ἄκρον) della produzione sofoclea 59.
57 Euripide era anche, com’è noto, il tragediografo più popolare a Roma: cfr. Nervegna 2014, 177-178. 58 Prop. 2, 8, 21-24 quid? non Antigonae tumulo Boeotius Haemon / corruit ipse suo saucius ense latus, / et sua cum miserae permiscuit ossa puellae, / qua sine Thebanam noluit ire domum?; 2, 14, 5-6 nec sic Electra, salvum cum aspexit Oresten, / cuius falsa tenens fleverat ossa soror. Nel primo caso (dettagliatamente analizzato in Fedeli 2005a, 5-8 e Paduano 2008, 388-391), che il nesso Antigonae tumulo sia conciliabile con la versione sofoclea è indicato dal fatto che in Sofocle la prigione sotterranea in cui Antigone si impicca e in cui anche Emone si dà la morte è ripetutamente definita τύμβος o τάφος (cfr. Soph. Ant. 848 s. [Αντ.] πρὸς ἕργμα τυμβόχωστον ἔρχομαι τάφου ποταινίου; 885-888 [Κρ.] Οὐκ ἄξεθ’ ὡς τάχιστα, καὶ κατηρεφεῖ / τύμβῳ περιπτύξαντες, ὡς εἴρηκ’ ἐγώ, / ἄφετε μόνην ἔρημον, εἴτε χρῇ θανεῖν, / εἴτ’ ἐν τοιαύτῃ ζῶσα τυμβεύειν στέγῃ; 891 s. [Αντ.] ῏Ω τύμβος, ὦ νυμφεῖον, ὦ κατασκαφὴς / οἴκησις αἰείφρουρος, οἷ πορεύομαι; 1069 [Te.] ψυχήν τ’ ἀτίμως ἐν τάφῳ κατῴκισα; 1215 [Αγ.] παραστάντες τάφῳ / ἀθρήσαθε, 1220 ἐν δὲ λοισθίῳ τυμβεύματι). Q uanto ad Elettra, l’univocità del riferimento è garantita dalla specificità della drammaturgia sofoclea, che vede Elettra vittima e non, come negli altri tragici, complice dell’inganno che prepara la strada alla vendetta di Oreste. Properzio sta qui alludendo alla celeberrima scena dell’urna ricordata anche da Aulo Gellio nelle Notti attiche (6, 5) a proposito della toccante interpretazione dell’attore Polo (sulla quale vd. Holford-Strevens 1999, 238; Easterling 2002, 335-336; Duncan 2005, 63-65; Lloyd 2005, 121). Properzio si dimostra dunque pienamente allineato con gli orientamenti dell’epoca: l’Elettra era infatti uno dei drammi sofoclei più popolari (se non il più popolare in senso assoluto) in età ellenistica e romana (una ricca documentazione è al riguardo raccolta in Finglass 2017, 481-488). 59 Cfr. Dioscor. Anth. Pal. 7, 37, 9-10: Εἴτε σοὶ ᾿Αντιγόνην εἰπεῖν φίλον, οὐκ ἂν ἁμάρτοις, / εἴτε καὶ ᾿Ηλέκτραν· ἀμφότεραι γὰρ ἄκρον con il commento di Gow – Page 1965, II, 253-255 e le osservazioni di Klooster 2011, 151-153.
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Non stupisce per contro la scarsa simpatia di Properzio per Eschilo, la cui poetica è a lui antipodale: non a caso nell’elegia programmatica 2, 34 l’Aeschyleus coturnus è menzionato tra i modelli letterari del poeta epico-tragico Linceo, contestati da Properzio come inefficaci in amore. A questo proposito vorrei soffermarmi con qualche riflessione sulla vexatissima quaestio dei vv. 29-30 di questa elegia e spezzare una lancia in difesa dell’interpretazione (sostenuta, tra gli editori, da Butler-Barber e Hanslink, ma dopo di allora dismessa) 60 che vi coglie un’allusione ‘anticipata’ ad Eschilo, la cui identità sarà poco dopo definitivamente chiarita dal nesso Aeschyleo … coturno (v. 41): Lynceus ipse meus seros insanit amores! Serum te nostros laetor adire deos! quid tua Socraticis tibi nunc sapientia libris proderit aut rerum dicere posse vias? aut quid †erechti† tibi prosunt carmina †lecta† ? nil iuvat in magno vester amore senex. tu †satius memorem musis† imitere Philitan et non inflati Somnia Callimachi. nam cursus licet Aetoli referas Acheloi, fluxerit ut magno f‹r›actus amore liquor, atque etiam ut Phrygio fallax Maeandria campo errat et ipsa suas decipit unda vias, qualis et Adrasti fuerit vocalis Arion, tristis ad Archemori funera victor equus: †non amphiareae† prosint tibi fata quadrigae aut Capanei magno grata ruina Iovi. desine et Aeschyleo componere verba coturno, desine, et ad mollis membra resolve choros! incipe iam angusto versus includere torno, inque tuos ignis, dure poeta, veni! tu non Antimacho, non tutior ibis Homero: despicit et magnos recta puella deos 61.
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29 erechti N : crethei FLPDV : erec(h)th(a)ei Vo V 2 : Tyrtaei Beroaldus : Smyrnaei Heinsius : Dircaei Palmer : Aratei Nairn : Lucreti Turnebus : alii alia lecti ς : plectri Palmer 60 Cfr. Butler-Barber 1933, 257; Hanslink 1979, 99. Un riferimento a Eschilo è stato colto anche da Hertzberg 1845, III, 226; Munro 1875, 32-33; Birt 1877, 411-412; Stroh 1971, 86-87. 61 Il testo, qui e infra, è riportato secondo l’edizione di Fedeli 2005b, 946947.
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Espongo qui di seguito le principali argomentazioni a favore del l’identificazione del senex del v. 30 con Eschilo. 2.1. Non mi pare che sussistano valide ragioni per dubitare al v. 29 di Erecthei, facile correzione della variante erecthi del Neapolitanus, già documentata nella seconda mano dell’Ottobo nense 62. L’epiteto, nel significato di ‘Ateniese’, ha alle spalle una dotta tradizione letteraria, che ne legittima l’uso da parte di Properzio. Già in Omero (Il. 2, 547) Atene è menzionata come ‘la città di Eretteo’ (δῆμον Ἐρεχθῆος) dal nome del suo mitico re (e si veda inoltre l’espressione οἱ Ἐρεχθεῖδαι in riferimento agli Ateniesi in Pind. Isth. 2, 19). L’aggettivo compare per la prima volta in Cat. 64, 211 Erectheum … portum (in riferimento al Pireo), quindi in Ov. met. 8, 548 Erectheas Tritonidos … arces, fast. 5, 204 ausus Erecthea praemia ferre domo, Stat. Theb. 12, 471 omnis Erectheis effusa penatibus aetas; Manil. astr. 1, 884-885 qualis Erectheos pestis populata colonos / extulit antiquas per funera pacis Athenas. Lo stesso Properzio utilizza un nesso simile, Ericthonius populus, in 2, 6, 4 63. Com’è noto, Erittonio ed Eretteo erano tra loro confusi fin dalle fonti greche (l’ipotesi corrente è che in origine si trattasse dello stesso personaggio mitico, il cui nome ricevette 62 Erecthei sembra a sua volta lectio difficilior rispetto al più comune etnico Cretaei (ricostruibile dalla variante crethei dell’altro ramo della tradizione), difeso da Housman (1972, I, 272) e recentemente accolto a testo da Heyworth (2007, 97; 2007b, 268-269). D’altra parte un riferimento al cretese Epimenide sarebbe qui scarsamente convincente. Fedeli 2005b, 967 ha giustamente fatto notare che dopo il riferimento alla filosofia, morale e naturale, ci si aspetta che Properzio passi ad attaccare l’amico sul versante della poesia epico-tragica, come fa poi capire il passaggio ai veri modelli da seguire (Filita e Callimaco). Per di più è assai dubbio che Epimenide godesse di tanta notorietà che potesse bastare il solo etnico Cretaeus ad evocarlo. In realtà, tutto fa pensare che la variante Cretaei sia anagramma banalizzante di Erecthei. Q uanto alla correzione Aratei di Nairn (1899, 393), accolta da Camps (1967, 62, 224-225) e guardata con interesse ma non accolta a testo da Enk (1962, II, 441), assai difficilmente poteva essere impugnato contro Callimaco un poeta apprezzato dallo stesso Callimaco, che in Anth. Pal. 9, 507 ne elogia τὸ μελιχρότατον / τῶν ἐπέων (vv. 2-3) e le λεπταὶ / ῥήσιες (3-4), frutto di un lungo lavoro notturno (in piena sintonia, dunque, con l’estetica del λεπτόν seguita anche da Properzio). Ancora più improbabili le altre congetture, per di più spesso paleograficamente ingiustificabili, quali ad es. Tyrtei (Beroaldus), Smyrnaei (Heinsius), Dircaei (Palmer), Lucreti (Turnebus). 63 Cfr. anche Culex 30 Ericthonias … arces.
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due diverse desinenze, in -onius e in -eus, dando origine a un ambiguo sdoppiamento). 2.2. Non è vero, come sostenne Housman (1972, I, 272), che la scelta di poeti ateniesi sia sterminata. Ciò in cui Atene è stata eccelsa è fuor d’ogni dubbio il dramma, unico genere letterario che si possa definire specificamente attico. Nessun altro poeta ateniese – nemmeno lo stesso Solone, proposto da Soubiran 64 – poteva essere tanto famoso che bastasse la sola espressione senex Erectheus per evocarlo. E l’aggettivo vester al v. 30 lascia intendere che si tratta di un modello seguito non solo da Linceo ma da un gruppo significativo di poeti: un autore noto e influente per quanti a Roma praticavano il genere epico-tragico. Eschilo risponde a questi requisiti: più volte citato e anche tradotto da Cicerone che lo ritiene non solo poeta ma pure filosofo pitagorico 65, menzionato due volte da Orazio nelle sue epistole letterarie, considerato con rispetto anche dall’epigrammatista Antipatro di Tessalonica contemporaneo di Properzio 66 e ritenuto da Dionigi di Alicarnasso quale rappresentante della αὐστηρὰ ἁρμονία, era un poeta ben noto nei circoli letterari augustei 67. 2.3. Che carmina possa essere riferito a versi tragici è confermato, ad es., da Cic. Tusc. 3, 59 Euripideum carmen illud: «Mortalis nemo est quem non attingat dolor […]» (Eur. Hypsip. fr. 757, 921924 Kannicht = TrGF V, 2, p. 776); Curt. 8, 1, 28 Euripidis Soubiran 1982, 266-272. Secondo Boucher (1958, 314), è difficile che possa essere definito ateniese un poeta nato a Eleusi e morto in Sicilia, mentre «c’est plutôt Sophocle qui mériterait d’être appelé l’Athénien». Ma Eschilo era ateniese del demo di Eleusi così come Sofocle era ateniese del demo di Colono (si veda l’incipit del Bίος a lui relativo: Αἰσχύλος ὁ τραγικὸς γένει μὲν ἦν ᾿Αθηναῖος, ᾿Ελευσίνιος τὸν δῆμον, υἱὸς Εὐφορίωνος, Κυναιγείρου ἀδελφὸς καὶ ᾿Αμεινίου, ἐξ εὐπατριδῶν τὴν φύσιν, TrGF T 1, 31, 1-2), e la sua appartenenza ad Atene è sancita dalla partecipazione, insieme all’eroico fratello Cinegiro, alla battaglia di Maratona contro l’invasore spartano. 65 Cic. Tusc. 2, 23 veniat Aeschylus, non poëta solum, sed etiam Pythagoreus; sic enim accepimus. Anche Ateneo, riferendo un episodio raccontato da «Teofrasto o Cameleonte», autori entrambi di un saggio su Eschilo, parla di lui come di un «filosofo trai i più grandi» (φιλόσοφος δὲ ἦν τῶν πάνυ ὁ Αἰσχύλος Athen. 8, 347e = TrGF III T 113a, p. 70, 1-4). E gli interessi di Linceo sono, oltre che letterari, pure filosofici. 66 Cfr. infra § 2.6, pp. 261-262. 67 Su questo aspetto cfr. infra § 2.7, pp. 266-267. 64
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rettulit carmen (Eur. Andr. 693-698); Sen. ad Luc. 115, 14 cum hi novissimi versus in tragoedia Euripidis pronuntiati essent, totus populus ad eiciendum et actorem et carmen / consurrexit uno impetu (Eur. Dan. fr. 324 Kannicht, TrGF V.1, p. 376). In tutti questi casi si tratta di sezioni recitate in trimetri giambici. Eschilo peraltro era celebre fin dall’antichità per la ricchezza e bellezza delle sue parti liriche (in Aristoph. Ran. 1254-1256 il Coro lo elogia per avere egli composto moltissimi canti, «di gran lunga i più belli fino al giorno d’oggi»: ἀνδρὶ τῷ πολὺ πλεῖστα δὴ καὶ κάλλιστα μέλη ποήσαντι τῶν μέχρι νυνί) 68. 2.4. L’epiteto senex al v. 30, se pure s’adatta a qualsiasi autore del tempo antico 69, è tuttavia particolarmente appropriato in riferimento a Eschilo, il più vecchio della triade dei grandi tragediografi ateniesi, colui che portò il genere tragico alla sua forma definitiva. Nella celebre orazione 52 di Dione Crisostomo, dove viene istituito un confronto tra il trattamento del mito di Filottete nei tre tragici, Eschilo è definito γέρων, Sofocle al suo confronto νέος, 68 Q uanto al participio lecta in clausola al v. 29, è stato inteso nel senso di ‘carmi scelti’ da Cecchini 1984, 156, il quale, identificando l’Erectheus con Epi curo, pensa a una raccolta di massime sapienziali, qualcosa di equivalente a κύριαι δόξαι; ma, oltre a quanto già osservato supra alla n. 62 circa l’implausibilità di un riferimento a un filosofo in questo verso, è quanto mai dubbio che i testi in prosa di Epicuro possano essere definiti carmina. Trattandosi di un tragediografo, il nesso ‘carmi scelti’ potrebbe alludere all’uso di leggere le tragedie non in forma integrale, bensì in una selezione di passi. Il significato più ovvio del nesso sarebbe tuttavia quello di ‘poesie recitate’ (ovvero ‘la lettura di versi’), che ai più è sembrato banale in questo contesto (anche se, in riferimento a un poeta tragico la cui fruizione si realizza non solo attraverso la recitazione ma anche con la messa in scena, il participio appare non così superfluo). Si potrebbe anche pensare che il ricorso al participio sia stato influenzato dalla volontà di evidenziare il contrasto tra l’austero Linceo che legge i severi versi di Eschilo, incapaci di fare breccia nei cuori femminili, e Properzio stesso che altrove in questo libro proclama di leggere i suoi versi nel grembo della donna amata (me iuvet in gremio doctae legisse puellae, / auribus et puris scripta probasse mea 2, 13, 11-12). Tra gli emendamenti finora proposti l’unico degno di attenzione è plectri di Palmer (accolto, tra gli ultimi editori, da Viarre e Heyworth), che offre il vantaggio di dare un sostantivo all’aggettivo Erecthei, migliorando la sintassi. L’associazione dei poeti alla lira è notoriamente topica; nel caso di Eschilo, come è stato visto da Chitwood 2004, 49, tale nesso è implicito nel celeberrimo aneddoto della sua morte, avvenuta quando una tartaruga (dal cui guscio era tratta la lira di cui egli si serviva per comporre o eseguire i suoi canti) gli cadde sulla testa (sulla morte di Eschilo in relazione inversa con la sua poesia cfr. anche Lefkowitz 20122, 75). 69 Shackleton Bailey 1956, 132 ne riporta vari esempi.
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ed Euripide, νεώτερος rispetto a Sofocle, era di Eschilo tanto più giovane da non poter nemmeno competere con lui negli stessi agoni tragici per ragioni di età (κατὰ τὴν ἡλικίαν): ἀλλὰ Σοϕοκλέους μὲν πρὸς Αἰσχύλον νέου πρὸς γέροντα, καὶ πρὸς Εὐριπίδην πρεσβυτέρου πρὸς νεώτερον ἀγωνιζομένου μετέσχον τινές· Εὐριπίδης δ’ ἀπελείϕθη κατὰ τὴν ἡλικίαν Αἰσχύλου. (Dio Chrys. 52, 3) 70.
A questa caratteristica anagrafica e temporale corrisponde la patina di ‘arcaicità’ e solennità dei drammi eschilei (ἥ τε γὰρ τοῦ Αἰσχύλου μεγαλοφροσύνη καὶ τὸ ἀρχαῖον 52, 4), del tutto appropriata agli ‘antichi’ costumi (τοῖς παλαιοῖς ἤθεσι) dei suoi eroi. Patina di vetustà confermata da Plinio che lo colloca “tra i più antichi poeti” (Aeschylus e vetustissimis in poetica, Nat. hist. 25, 11). 2.5. Com’è noto, il giudizio critico sull’arte di Eschilo in età ellenistica e romana è in gran parte dipendente dalle Rane di Aristofane 71, dove Eschilo, in disputa con Euripide prima per il trono nell’Ade poi per il ritorno sulla terra, è presentato come il difensore del mos maiorum, dei valori morali e soprattutto delle virtù militari del passato. Ai vv. 1043 ss. egli si vanta di non avere messo in scena prostitute come Fedra e Stenebea e nemmeno di avere mai creato il personaggio della donna innamorata: AI. ἀλλ’ οὐ μὰ Δί’ οὐ Φαίδρας ἐποίουν πόρνας οὐδὲ Σθενεβοίας, οὐδ’ οἶδ’ οὐδεὶς ἥντιν’ ἐρῶσαν πώποτ’ ἐποίησα γυναῖκα. Eschilo Per Zeus, meretrici come le Fedre e le Stenebee io non lo create, e nessuno può sostenere che io abbia mai portato in scena il personaggio della donna in amore. (Aristoph. Ran. 1043-1044)
Euripide non ha difficoltà a concordare su questo punto, dal momento che in Eschilo non è in minima parte presente Afrodite. Eschilo ribatte che tale assenza deriva da una sua precisa volontà 70 Cfr. anche Gell. 13, 19, 4 fuit autem Aeschylus non brevi antiquior (scil. di Euripide). 71 La centralità delle Rane nella tradizione della critica letteraria antica (a partire dalla Vita Aeschyli che cita espressamente Aristofane e ne trae molto materiale: cfr. Lefkowitz 20122, 70-77) è da tutti riconosciuta: per alcune tra le più recenti analisi si rimanda a Porter 2006 e Hunter 2009. Tra le commedie di Aristofane era probabilmente quella più nota a Roma: cfr. Slater 2016, 12-15.
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e passa al contrattacco accusando il rivale di totale asservimento all’eros 72: EΥ. Μὰ Δί’, οὐδὲ γὰρ ἦν τῆς᾿Αφροδίτης οὐδέν σοι. AI. Μηδέ γ’ ἐπείη ἀλλ’ ἐπὶ σοί τοι καὶ τοῖς σοῖσιν πολλὴ πολλοῦ ’πικαθῆτο, ὥστε γε καὐτόν σε κατ’ οὖν ἔβαλεν. Euripide No di certo, per Zeus, dal momento che in te non c’era proprio nulla di Afrodite! Eschilo Né vorrei che ci fosse. Ma su di te e sui tuoi si è stesa con tutto il suo peso, e ti ha schiantato. (Aristoph. Ran. 1044-1047) 73
Alla luce di questo passo acquista maggiore pregnanza la proclamazione di Properzio al v. 30 nil iuvat in magno vester amore senex. Eschilo non è di nessun giovamento in amore perché ha consapevolmente espunto la dimensione erotica dai suoi drammi, a favore dell’educazione del virtuoso cittadino-soldato, proprio ciò che la poetica di Properzio respinge nettamente. L’Eschilo aristofaneo, infatti, ripetutamente si vanta che grazie alla sua poesia gli Ateniesi erano «nobili e grandi quattro cubiti» (γενναίους καὶ τετραπήχεις, Ran. 1014), «respiravano aste, lance, caschi dai bianchi cimieri, elmi, schinieri, e cuori con sette strati di cuoio» (vv. 1016-1017). E alla domanda di Euripide che cosa egli abbia fatto per insegnare agli Ateniesi a essere così valorosi, risponde di avere composto un dramma pieno di Ares (δρᾶμα ποήσας ῎Αρεως μεστόν v. 1021), i Sette a Tebe: chiunque lo abbia visto è stato preso dall’ardore bellico (ἠράσθη δάιος εἶναι v. 1022) 74. È significativo che nell’elenco di argomenti epico72 La predilezione per le tematiche amorose da parte di Euripide è riconosciuta anche da Longino nel Περὶ ὕψους (15, 3), che ne sottolinea il grande impegno e l’eccellenza dei risultati (si veda per contro il giudizio negativo espresso a proposito di Eschilo: infra p. 262 e n. 81). La datazione del trattato in età augustea è stata sostenuta con convincenti argomenti da Mazzucchi 20102, xxix-xxxviii. 73 L’espressione ἐπὶ σοί τοι καὶ τοῖς σοῖσιν (v. 1046) è da intendersi in riferimento non solo ai drammi di Euripide, ma anche alle sue note vicende familiari, come Dioniso chiarisce nella battuta successiva, che allude alle relazioni adulterine della moglie di Euripide con Cefisofonte. Il legame tra scelte poetiche e vissuto personale, entrambi al servizio di amore, è forte anche in Properzio (si vedano, in questa stessa elegia, i vv. 55-60). 74 I Sette, oggetto di ripetute parodie da parte di Aristofane (cfr. Rau 1967, 213), furono sempre ritenuti dalla critica antica uno dei drammi più rappresen-
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tragici citati da Properzio ai vv. 33 ss. al mito dei Sette a Tebe appartengano gli ultimi due personaggi, Anfiarao e Capaneo (vv. 39-40): l’utilità che Eschilo individuava in questa vicenda mitica, capace di instillare l’eros per la guerra, viene negata da Properzio per quanto riguarda un magnus amor, quello nei confronti della puella (v. 30). Ancora Eschilo potrebbe celarsi dietro al riferimento mitologico dei vv. 37-38, la vittoria di Arione, cavallo parlante (vocalis) di Adrasto, ai giochi funebri in onore di Archemoro. In base alla testimonianza del fr. eschileo *149a Radt (ricavato dal l’hypothesis c alle Nemee di Pindaro), mentre secondo Pindaro i giochi di Nemea furono istituiti in onore di Ofelte (la stessa versione è seguita anche da Euripide nell’Ipsipile), secondo Eschilo essi furono invece istituiti in onore di Archemoro figlio di Nemea 75. Properzio cita dunque la variante eschilea, drammatizzata con ogni probabilità nella tragedia intitolata Nemea 76. Che Eschilo fosse stato il primo a trasferire al cavallo di Adrasto la capacità di parlare che nell’Iliade era propria dei cavalli di Achille è ipotesi pienamente plausibile, in considerazione dello stretto rapporto di Eschilo con l’epos omerico, sul quale tutte le fonti antiche concordano. Eustazio, nel riportare la celebre proclamazione dello stesso Eschilo secondo cui le sue tragedie erano briciole dei grandi banchetti di Omero (τεμάχη … τῶν ῾Ομήρου μεγάλων δείπνων), la spiegava con il fatto che esse erano palesemente ispirate ai modelli omerici: λαμπρῶς ἀπομάττεσθαι τὰς ῾Ομηρικὰς μεθόδους 77. tativi dell’arte di Eschilo; alcuni versi della rhesis iniziale del messaggero sono citati anche in Longino (15, 5) come esempio delle «fantasie eroicissime» osate da Eschilo (τοῦ δ’ Αἰσχύλου φαντασίαις ἐπιτολμῶντος ἡρωικωτάταις). 75 Cfr. argum. Pind. Nem. c (3, 3, 1 Drachmann): τὰ Νέμεά ϕασιν ἄγεσθαι ἐπὶ Ὀϕέλτῃ τῷ Εὐϕήτου καὶ Κρεούσης παιδί … ἄλλοι δέ, ὧν ἐστι καὶ Αἰσχύλος, ἐπ’ Ἀρχεμόρωι τῷ Νεμέας παιδί· οἱ δὲ ἐπὶ τῷ Ταλαοῦ παιδί, Ἀδράστου δὲ ἀδελϕῷ. 76 Per l’argomento di questo dramma, compreso nel catalogo del Mediceo (TrGF III T 78, p. 59, 11), cfr. Aesch. fr. *149a Radt (TrGF III, p. 262). Secondo alcuni critici, questa tragedia eschilea potrebbe essere stata il modello dell’omo nimo dramma di Ennio (cfr. TrRF II, p. 226). 77 Eust. Il. 1298, 56 = TrGF III T 112b (da notare il verbo ἀπομάττεσθαι, che è utilizzato dallo stesso Eschilo in Aristoph. Ran. 1041 sempre in riferimento al suo ispirarsi ad Omero: cfr. infra n. 80). La fortuna di questa immagine (per la cui corretta interpretazione cfr. Fitch 1921, 94) è confermata da Athen. 8, 347e ([…] τοῦ καλοῦ καὶ λαμπροῦ Αἰσχύλου, ὃς τὰς αὑτοῦ τραγῳδίας τεμάχη εἶναι ἔλεγεν
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2.6. Un argomento contrario all’identificazione del senex Erectheus con Eschilo sarebbe da individuare, secondo alcuni, nella congiunzione et al v. 41 78. Il fatto che Properzio dica a Linceo «smettila anche (o inoltre) di comporre con il coturno tragico di Eschilo» è stato inteso nel senso che qui Eschilo (e con esso il genere tragico) viene introdotto per la prima volta, e che quindi ai vv. 29-30 si è parlato di un autore (e di un genere letterario) differente. In realtà la congiunzione et segna il passaggio non a un nuovo autore, bensì a un nuovo aspetto della poetica di Eschilo, drammaturgo che per la sua dichiarata predilezione per l’epos omerico viene qui assunto a modello del genere epicotragico in generale. Ai vv. 33-40 bersaglio polemico di Properzio erano i contenuti o soggetti, espressi attraverso un variegato catalogo di personaggi umani o antropomorfizzati (i fiumi Acheloo e Meandro, il cavallo Arione, Anfiarao e Capaneo) 79; ora invece si passa a criticare lo stile: il peculiare nesso componere verba (anziché componere carmina) fa intendere che il bersaglio polemico diventa adesso la forma linguistica. Anche nelle Rane venivano attaccati questi due aspetti distinti (benché inevitabilmente interconnessi) della poetica eschilea: res et verba, contenuti e lexis. Ai contenuti Aristofane si riferiva attraverso la menzione dei soggetti mitici. Eschilo, dopo aver elencato i suoi maestri – tutti poeti epici o didascalici tra cui, in posizione di evidenza, il divino Omero che insegnò cose utili come l’arte dello schierarsi in battaglia, le virtù e l’armamento dei guerrieri – proclama di averne tratto ispirazione per creare molti personaggi valorosi, Patrocli e Teucri cuor di leone, nell’intento di indurre i suoi concittadini
τῶν ῾Ομήρου μεγάλων δείπνων). Schneidewin 1853, 734 e più recentemente Radt (TrGF III TQ , p. 102) ne fanno risalire la fonte alle Ἐπιδημίαι di Ione di Chio (cfr. fr. **135 Leurini). 78 Boucher 1958, 318; Enk 1962, II, 441. 79 Q uesti soggetti sono attinti al repertorio epico-tragico in generale e dunque non dobbiamo aspettarci che siano tutti necessariamente eschilei. Va tuttavia notato che l’antropomorfizzazione è tendenza riscontrabile nel teatro eschileo: Eschilo fu il primo a dare forma antropomorfica alle Erinni, che nella tradizione anteriore erano raffigurate come serpenti, e introdusse in scena Io con sembianza metà umane e metà animalesche (anziché come vera e propria vacca): aspetti, questi, più tipici delle forme narrative dell’epos che del genere teatrale, e più frequenti in Eschilo che nei tragici successivi, il cui interesse si concentrerà maggiormente sulle problematiche dell’essere umano.
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ad emularli 80. Euripide da parte sua attacca i soggetti epico-eroici di Eschilo, motteggiando i suoi «Cicni e Memnoni su puledri bardati di finimenti sonanti» (Κύκνους ποιῶν καὶ Μέμνονας κωδωνοφαλαροπώλους Ran. 963). E critica inoltre il linguaggio eschileo pomposo e altisonante, soprattutto la tendenza ai composti: i suoi ῥήματα «pesanti come buoi, con fiero cipiglio e alti cimieri» (ῥήματ’ ἂν βόεια, ὀφρῦς ἔχοντα καὶ λόφους, δείν’ ἄττα μορμορωπά, ἄγνωτα τοῖς θεωμένοις vv. 924 ss.), parolone scoscese e astruse (ῥήμαθ’ ἱππόκρημνα, / ἃ ξυμβαλεῖν οὐ ῥᾴδι’ ἦν), delle quali fa alcuni esempi a scopo caricaturale (γρυπαιέτους χαλκηλάτους v. 929, ἱππαλεκτρυόνας, τραγελάφους v. 937). Anche il Coro, sia pure con tono di rispetto e volgendo in elogio le denigrazioni di Euripide, lo definisce «altitonante» (ἐριβρεμέτας v. 814), «colui che primo fra gli Elleni innalzò torri solenni di parole» (ὦ πρῶτος τῶν ῾Ελλήνων πυργώσας ῥήματα σεμνὰ v. 1004). Siamo agli inizi della fama di μεγαλοφωνία di Eschilo, di cui è rimasta traccia nell’epigramma di Antipatro Tessalonicense, contemporaneo di Properzio e cliens di Lucio Calpurnio Pisone Il Pontefice: ῾Ο τραγικὸν φώνημα καὶ ὀφρυόεσσαν ἀοιδὴν πυργώσας στιβαρῇ πρῶτος ἐν εὐεπίῃ, Αἰσχύλος Εὐφορίωνος […] (Anth. Pal. 7, 39, 1-3) Colui che la parola tragica e il canto accigliato per primo fortificò con poderoso stile, Eschilo d’Euforione. […]
La formulazione dell’epigramma è palesemente ricalcata sulla terminologia utilizzata da Aristofane: ὀφρυόεσσαν ricorda le parole “con cipigli e cimieri” evocate in Ran. 925 (ῥήματα … ὀφρῦς ἔχοντα καὶ λόφους), mentre πυργώσας … πρῶτος è un’eco di Ran. 1004 80 Aristoph. Ran. 1030-1042: «[Eschilo] Considera come, sin dall’inizio, siano stati utili i nobili poeti. Orfeo ci insegnò i culti misterici e ad astenerci dai delitti di sangue; Museo la cura delle malattie e gli oracoli; Esiodo i lavori dei campi, le stagioni dei frutti, l’aratura. E il divino Omero perché ottenne onore e fama se non per il fatto che insegnò cose utili, come l’arte dello schierarsi in battaglia, le virtù, l’armamento dei guerrieri? […] Avendo tratto da là ispirazione, la mia mente ha creato molte azioni di valore, di Patrocli e Teucri cuor di leone (ὅθεν ἡμὴ φρὴν ἀπομαξαμένη πολλὰς ἀρετὰς ἐπόησεν / Πατρόκλων, Τεύκρων θυμολεόντων), per indurre i cittadini a emulare questi eroi, quando sentono lo squillo della tromba». A proposito del verbo ἀπομάττεσθαι cfr. supra n. 77.
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ὦ πρῶτος … πυργώσας. Il legame di Eschilo con l’epos omerico, molto valorizzato da Aristofane, si coglie nell’epiteto στιβαρός (‘massiccio’, ‘compatto’, ‘pesante’, 22 ricorrenze nell’Iliade, 12 nell’Odissea) in riferimento alla sua ‘eloquenza’ (εὐεπίη, a sua volta derivato dal termine epos). La fama di μεγαλόφωνος si conferma anche in Q uintiliano, secondo cui Eschilo, benché sublimis et gravis, è grandilocus saepe usque ad uitium: Tragoedias primus in lucem Aeschylus protulit, sublimis et grauis et grandilocus saepe usque ad uitium, sed rudis in plerisque et incompositus. (Inst. or. 10, 1, 66)
Sullo stile ampolloso di Eschilo insiste inoltre il giudizio espresso nel Περὶ ὕψους (3, 1-2), che cita un frammento dell’Oreithyia come esempio di ‘gonfiore oltre misura’ (οἰδεῖν ἀσύγγνωστον): giudizio che ritorna in altri scritti retorici antichi e medievali e che risale, in ultima analisi, a una fonte peripatetica o alessandrina 81. Eschilo è dunque l’autore greco che nelle valutazioni critiche degli antichi meglio si prestava ad essere contrapposto al non inflatus Callimaco, evocato come modello da Properzio al v. 32. 2.7. La contrapposizione che in 2, 34, 29 ss. Properzio instaura tra il senex Ateniese e Callimaco ricorda per molti aspetti la contrapposizione che nelle Rane Aristofane istituisce tra il γέρων Eschilo e il νεώτερος Euripide, del quale il commediografo fa inconsapevolmente ma assai acutamente una sorta di precursore della poetica callimachea. Ai vv. 939-942 Euripide sostiene infatti di avere ricevuto da Eschilo l’arte tragica, che era ‘gonfia di ampollosità e di parole pesanti’ (οἰδοῦσαν ὑπὸ κομπασμάτων καὶ ῥημάτων ἐπαχθῶν: il 81 Sulla magniloquenza di Eschilo (στομφάζειν) insiste ancora il retore Giovanni di Sicilia (XI sec.), che rimanda a sua volta al XXI libro delle Φιλολόγων ‹ὁμιλίαι› dell’erudito del III sec. Cassio Longino (a proposito della fama di Eschilo come poeta gonfio e ampolloso presso gli antichi cfr. Luzzatto 1981; Mazzucchi 20102, 138-140; Matelli 2018). Il giudizio sull’enfasi eschilea è fatto risalire a uno scritto peripatetico da Mazzucchi (20102, 138), che pensa al Πρòς Αἰσχύλον di Teofrasto (citato da Diogene Laerzio 5, 50); secondo Matelli (2018, 155) la fonte va individuata nell’ambito critico-letterario di Alessandria d’Egitto, dove esisteva una lunga tradizione di studio dei commediografi greci, in particolare di Aristofane, e dove sembrano essere nati i primi hypomnemata alle tragedie di Eschilo.
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participio οἰδοῦσαν esprime un concetto esattamente antitetico a inflatus, “sgonfio”, attribuito da Properzio a Callimaco) 82 e di averla “assottigliata” (ἴσχνανα), togliendole il peso in eccesso (τὸ βάρος ἀφεῖλον) grazie a una drastica dieta a base di ἐπύλλια (diminutivo di epos: ‘poesie leggere’, ‘versetti’). Poi insegnò (ἔπειτα … ἐδίδαξα) agli Ateniesi a «introdurre regoli sottili e a misurare le parole con la squadra (λεπτῶν τε κανόνων εἰσβολὰς ἐπῶν τε γωνιασμούς, v. 956)». Si tratta di un principio di poetica equivalente all’angusto versus includere torno formulato da Properzio al v. 43: all’immagine aristofanea dell’architetto o carpentiere, cara alla poesia pindarica, si sostituisce qui quella del tornitore, e all’epiteto λεπτός corrisponde puntualmente angustus. Peraltro, la metafora del poeta-tornitore affiorava anche in Aristofane ai vv. 818-821, dove il Coro, nell’introdurre l’agone tra i due tragediografi, contrapponeva «le contese elmochiomate di parole dai cimieri equini» di Eschilo ai «trucioli di acciarini del poeta cesellatore»: ῎Εσται δ’ ἱππολόφων τε λόγων κορυθαίολα νείκη σκινδαλάμων τε παραξόνια σμιλευματοεργοῦ φωτὸς ἀμυνομένου φρενοτέκτονος ἀνδρὸς ῥήμαθ’ ἱπποβάμονα. (Ran. 818-821) Ci saranno contese elmochiomate di parole dai cimieri equini e acciarini di trucioli del cesellatore che si difende dalle parole al galoppo del pensatore-costruttore.
Di contro a Eschilo φρενοτέκτων, che “costruisce con la sua mente” parole di potente afflato epico, di Euripide il Coro coglie il minuto lavoro di cesello (σμίλη, primo membro dell’hapax σμιλευματοεργοῦ v. 819, è in falegnameria il coltellino o temperino per gli interventi di rifinitura). Sulla stessa linea, poco dopo il Coro proclama che «l’affilata lingua esaminatrice di versi (scil. di Euripide) assottiglierà la grande fatica dei polmoni (scil. di Eschilo)», ovvero il suo possente flatus: ἐπῶν βασανίστρια, λίσπη γλῶσσα … καταλεπτολογήσει πλευμόνων πολὺν πόνον (v. 826). Il neologismo καταλεπτολογεῖν, 82 Anche il Coro canta il ‘soffio da gigante’ (γηγενεῖ φυσήματι v. 825) di Eschilo (cfr. infra, p. 265).
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in particolare, sembra evocare ante litteram l’ideale callimacheo della Moῦσα λεπταλέη. E ancora al v. 881 ai ῥήματα (le parole solenni) di Eschilo vengono contrapposti i παραπρίσματ’ ἐπῶν di Euripide (propriamente “segatura di parole”, dal verbo πρίω, “segare”, “limare”): ἔλθετ’ ἐποψόμεναι δύναμιν δεινοτάτοιν στομάτοιν πορίσασθαι ῥήματα καὶ παραπρίσματ’ ἐπῶν. (Ran. 879-881)
Sullo stile polito e levigato di Euripide ritorna il Coro pochi versi dopo, sempre in contesto di contrapposizione con Eschilo: Προσδοκᾶν οὖν εἰκός ἐστι τὸν μὲν ἀστεῖόν τι λέξειν καὶ κατερρινημένον, τὸν δ’ ἀνασπῶντ’ αὐτοπρέμνοις τοῖς λόγοισιν ἐμπεσόντα συσκεδᾶν πολλὰς ἀλινδήθρας ἐπῶν. (Aristoph. Ran. 900-904) È lecito attendersi che l’uno dirà qualcosa di urbano e di limato, mentre l’altro, strappando parole fin dalle radici e con esse abbattendosi sul nemico, solleverà molti polveroni di versi.
Il participio perfetto κατερρινημένον (da ῥίνη, ‘lima’), riferito alla poetica euripidea, è il capostipite diretto del concetto del labor limae elaborato dalla nuova poesia romana sulla scorta degli ideali callimachei, concetto a cui Eschilo è del tutto estraneo, come osserva anche l’epigrammatista Dioscoride: Θέσπιδος εὕρεμα τοῦτο· τὰ δ’ ἀγροιῶτιν ἀν’ ὕλαν παίγνια καὶ κώμους τούσδε τελειοτέρους Αἰσχύλος ἐξύψωσεν, ὁ μὴ σμιλευτὰ χαράξας γράμματα, χειμάρρῳ δ’ οἷα καταρδόμενα, καὶ τὰ κατὰ σκηνὴν μετεκαίνισεν. ὦ στόμα †πάντων δεξιὸν† ἀρχαίων ἦσθά τοι ἡμιθέων. (Anth. Pal. 7, 411) Ecco la scoperta di Tespi; ma i rustici scherzi nella selva e queste baldorie Eschilo innalzò a vette più elevate, egli che incise lettere non cesellate, ma come inondate da un torrente tempestoso, e apportò novità in campo scenico. O bocca † abile in tutto †, eri uno degli antichi semidèi. 264
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Nella definizione dello stile eschileo come ‘non cesellato’ (σμιλευτὰ, con ricorso all’immagine della σμίλη, ‘lima’, ‘cesello’), ma paragonato a tumultuosa corrente si riconferma l’influsso delle metafore ideate da Aristofane. Del resto, fiumi in piena e cavalli al galoppo sono fin dalle Rane immagini ricorrenti per caratterizzare il teatro eschileo 83: fiumi e cavalli sono menzionati anche da Properzio nell’elenco di temi epico-tragici ai vv. 33 ss. (i fiumi Acheloo e Menandro, il cavallo di Adrasto, la quadriga di Anfiarao) 84. Lo stesso dicasi per l’immagine del toro. Al v. 47 Linceo è paragonato a un gravis taurus e al v. 50 a un animale selvaggio (trux) che deve essere domato. Ebbene, l’immagine del toro era riferita a Eschilo in Ran. 804: ἔβλεψε γοῦν ταυρηδὸν ἐγκύψας κάτω («se ne stava a testa china, con lo sguardo fisso, come un toro»). Il paragone con un animale indomito ritorna poco dopo al v. 822, in concomitanza con la consueta metafora del possente flatus eschileo: Φρίξας δ’ αὐτοκόμου λοφιᾶς λασιαύχενα χαίταν, δεινὸν ἐπισκύνιον ξυνάγων, βρυχώμενος ἥσει ῥήματα γομφοπαγῆ, πινακηδὸν ἀποσπῶν γηγενεῖ φυσήματι. (Aristoph. Ran. 822-5) Rizzando l’irsuta chioma sul villoso collo, terribilmente aggrottando il sopracciglio, mugghiando scaglierà parole chiodate, scompaginando le tavole con il suo soffio da gigante.
Sembra dunque plausibile l’ipotesi che Properzio, nel contrapporre la sua poetica a quella epico-tragica (ma anche didascalico83 Nella scena della pesatura in Aristoph. Ran. 1365 ss., rispetto ai versi di Euripide «alati» e «leggeri» (τοὔπος ἐπτερωμένον v. 1388, κοῦφoν v. 1396), vanno molto più giù i versi recitati da Eschilo, che per fare aumentare il peso vi mette dentro, tra le altre cose, un fiume e due carri sovrapposti (vv. 1383-1386, 14031405). Che i fiumi siano tra gli ‘ingredienti’ prediletti da Eschilo è confermato dalla menzione degli ‘Scamandri’ proprio all’inizio della parodica imitazione che Euripide fa dei versi del rivale in Aristoph. Ran. 928, così commentata nello scolio relativo (= Tz. IV 3, 964a12 Koster): χαρακτηριστικῶς καὶ τοῦτο, ὅτι πολὺς Αἰσχύλος ἐν τῷ ποταμοὺς καὶ ὄρη λέγειν (e cfr. anche Tz. IV 3, 964b12 Koster: τοιαῦτα γὰρ ὁ Αἰσχύλος γράφει ταῖς τραγῳδίαις· ὄρη, ποταμούς, λόφους, χαράδρας, ταφρείας). 84 Lo squadrone di cavalleria era immagine già scelta da Saffo per designare le tematiche guerresche della poesia epica in contrapposizione alla sua predilezione per l’eros e per la poesia d’amore nel programmatico fr. 16 Voigt (ἰππήων στρότον v. 1 e τὰ Λύδων ἄρματα v. 19).
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filosofico-morale) di Linceo, abbia tratto spunto dalla contrapposizione tra Eschilo e Euripide nelle Rane, un testo che continuò a esercitare la sua influenza in età augustea. La contrapposizione tra i due tragediografi delineata da Aristofane 85 si conserva infatti nelle teorizzazioni di Dionigi di Alicarnasso, attivo a Roma negli stessi anni di Properzio, il quale inserisce Eschilo tra i seguaci della αὐστηρὰ ἁρμονία, lo ‘stile grave’ o ‘severo’, in cui i singoli elementi del linguaggio sono paragonati a «pietre ammucchiate nei cantieri, con le facce non squadrate né levigate, ma grezze e non rifinite» (22, 2). Tra gli adepti di questa ἁρμονία, «di alto sentire e altera» (μεγαλόφρων, αὐθέκαστος 22, 6), «che tiene per bello l’arcaismo e la patina d’antico» (τὸν ἀρχαϊσμὸν καὶ τὸν πίνον ἔχουσα κάλλος) 86, accanto a Eschilo nel genere tragico sono annoverati, per quanto riguarda la poesia epica, Antimaco di Colofone ed Empedocle: ταύτης τῆς ἁρμονίας πολλοὶ μὲν ἐγένοντο ζηλωταὶ κατά τε ποίησιν καὶ ἱστορίαν καὶ λόγους πολιτικούς, διαφέροντες δὲ τῶν ἄλλων ἐν μὲν ἐπικῇ ποιήσει ὅ τε Κολοφώνιος ᾿Αντίμαχος καὶ ᾿Εμπεδοκλῆς ὁ φυσικός, ἐν δὲ μελοποιίᾳ Πίνδαρος, ἐν τραγῳδίᾳ δ’ Αἰσχύλος, ἐν ἱστορίᾳ δὲ Θουκυδίδης, ἐν δὲ πολιτικοῖς λόγοις ᾿Αντιφῶν. (Dion. Hal. De comp. verb. 22, 7) Q uesta armonia ha trovato molti adepti nella poesia, nella storia, nell’eloquenza pubblica; distinguendosi tra gli altri per la poesia epica Antimaco di Colofone ed Empedocle il fisico, nella poesia lirica Pindaro, nella tragedia Eschilo, nella storia Tucidide, nell’oratoria Antifonte 87. 85 La contrapposizione tra Aeschyli laudatores e Euripidis laudatores è presente anche nelle Nuvole di Aristofane. Strepsiade, cultore della tradizione, chiede al figlio Fidippide, che alla scuola di Socrate è stato educato ai nuovi valori, di recitargli qualche verso dell’amato Eschilo, ma Fidippide si rifiuta sostenendo che per lui Eschilo è «pieno di fracasso, incoerente, ampolloso, artefice di parole scoscese» (ἐγὼ γὰρ Αἰσχύλον νομίζω πρῶτον ἐν ποηταῖς – / ψόφου πλέων, ἀξύστατον, στόμφακα, κρημνοποιόν Nub. 1367), mentre è pronto a recitare una rhesis di Euripide (forse dall’Eolo), «quella del fratello che si sbatte la sorella uterina» (vv. 1371-1372), il che suscita la sdegnata reazione del padre. 86 Simile trattazione ricorre in Dem. 36, 5, dove Dionigi ribadisce che l’αὐστηρὰ ἁρμονία tiene in alta considerazione l’arcaismo e la patina d’antico. La descrizione dell’armonia austera fatta da Dionigi nelle sue opere ricorda da vicino le qualità che nel Περὶ ὕψους sono attribuite alla quarta fonte del sublime, la nobiltà dello stile (cfr. Long. 30, 1). 87 La traduzione è di F. Donadi (in Donadi – Marchiori 2013, 325).
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Non è forse un caso che Antimaco sia menzionato da Properzio poco dopo Eschilo al v. 45 tra i poeti da non imitare 88. E ai φυσικοί del genere di Empedocle, filosofo pluralista i cui interessi spaziarono dalla fisica alla religione, forse pensava Properzio nel variegato elenco di temi cosmogonici ed escatologici ai vv. 51-54 89. Le preferenze di Linceo in campo letterario sembrano dunque orientate ai poeti della cosiddetta αὐστηρὰ ἁρμονία. In antitesi a quest’ultima (τοὐναντίον ἔχει σχῆμα τῆς προτέρας 23, 8) Dionigi colloca la γλαφυρὰ σύνθεσις, la composizione levigata ed elegante, che esige che tutte le parole siano lisce e delicate (πάντα τὰ ὀνόματα καὶ λεῖα καὶ μαλακὰ 23, 4) 90, mentre detesta le sillabe ruvide e che fanno resistenza (τραχείαις δὲ συλλαβαῖς καὶ ἀντιτύποις ἀπέχθεται) e non fa uso di «figure di stili che sappiano di antico, né di quelle a cui si addicano una qualche elevatezza, gravità o patina di vetustà» (σχήμασί τε οὐ τοῖς ἀρχαιοπρεπεστέροις οὐδ’ ὅσοις σεμνότης τις ἢ βάρος ἢ τόνος πρόσεστιν 23, 7). È significativo che rappresentante della γλαφυρὰ ἁρμονία sia, tra i tragediografi, precisamente Euripide (τραγῳδοποιῶν δὲ μόνος Εὐριπίδης 22, 9). La fortuna del confronto tra i due tragici istituito da Aristofane si misura anche nelle tracce che ha lasciato nella trattatistica d’età augustea 91.
88 Già Callimaco aveva giudicato la Lide di Antimaco un παχὺ γράμμα καὶ οὐ τορόν (fr. 398 Pfeiffer); e cfr. anche Cat. 95, 10 at populus tumido gaudeat Antimacho. 89 Se così fosse, c’è da chiedersi se al v. 44 nel l’invito a Linceo a gettarsi nei metaforici fuochi della passione (in … tuos ignis … veni) non si possa celare un ironico e raffinato rimando a Empedocle che secondo una celebre leggenda si sarebbe gettato nei fuochi dell’Etna (cfr. Diog. Laert. 8, 69 ἐπὶ τοὺς κρατῆρας τοῦ πυρὸς ἐναλέσθαι, 8, 70 εἰς τὸ πῦρ ἐναλέσθαι, con il commento di Chitwood 2004, 51-53). 90 L’aggettivo μαλακός è il corrispettivo del latino mollis che nella terminologia letteraria degli augustei può designare la poesia d’amore oppure la musicalità del distico elegiaco, in contrapposizione alla poesia epico-tragica: cfr. Prop. 3, 119120; 3, 3, 1 e 18; 3, 9, 57-58 con le relative note in Fedeli 1985. 91 Dionigi osserva inoltre che la γλαφυρὰ ἁρμονία predilige «l’uso delle forme gentili dell’adulazione, nelle quali c’è molto di ingannevole e di teatrale» (τρυφεροῖς τε καὶ κολακικοῖς ὡς τὰ πολλὰ χρῆσθαι φιλεῖ, ἐν οἷς πολὺ τὸ ἀπατηλόν ἐστι καὶ θεατρικόν 23, 7). È significativo che ad Euripide nelle Rane venga rimproverato di avere corrotto gli ascoltatori con uno stile compiacente e ruffiano: cfr. Aristoph. Ran. 771-778, 1062-1088 e in part. 1327-1328, dove Eschilo accusa Euripide di comporre i suoi canti «imitando le dodici posizioni di Cirene» (ἀνὰ τὸ δωδεκαμήχανον Κυρήνης μελοποιῶν), in riferimento alle abilità professionali della celebre meretrice.
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Alla luce di queste corrispondenze, in Prop. 2, 32, 41-11 l’invito a Liceo, durus poeta, ad abbandonare il coturno eschileo per passare ai mollis … choros, ovvero alla poesia d’amore, va inteso, credo, in senso letterale: nell’ambito dei possibili modelli tragici, Linceo aveva optato proprio per l’‘arcaico’ Eschilo, i cui soggetti, ancora in ampia parte legati all’epica omerica, e il cui stile severo sono i più inadatti in assoluto alla poesia d’amore. 2.8. Un’osservazione conclusiva. Nell’attacco a Linceo si può forse cogliere un’indiretta polemica nei confronti dei precetti proclamati da Orazio nelle epistole poetiche 92, con i quali l’austero Linceo appare invece in sintonia, insieme ai poeti augustei meglio integrati nel circolo di Mecenate (lo stesso Lucio Vario Rufo, con cui Linceo è stato talora identificato e che di Orazio era amico, era autore di poemi epici e di una tragedia, il Tieste) 93. Il poeta venosino, che, com’è noto, invita alla frequentazione costante dei modelli greci, presta indiscusso tributo a Eschilo menzionandolo nell’Ars come colui che insegnò il magnum loqui e il niti coturno (vv. 278-280) e ricordandolo insieme con Tespi e Sofocle nel l’epistola ad Augusto (ep. 2, 1, 161-163 serus enim Graecis admovit acumina chartis / et post Punica bella quietus quaerere coepit, / quid Sophocles et Thespis et Aeschylos utile ferrent). Per contro Orazio tace completamente di Euripide, il tragediografo più presente in Properzio, e per di più nell’Ars indica come principium et fons dello scribere recte lo studio della filosofia morale e precisamente delle Socraticae … chartae (v. 310), nesso riecheggiato da Properzio al v. 27 (Socraticis … libris) in riferimento alle inutili letture che Linceo dovrebbe abbandonare. Tra i requisiti che secondo Orazio il buon poeta deve possedere è quello di conoscere i propri doveri verso la patria e gli amici, l’amore per il padre, il fratello e l’ospite, gli obblighi dei rappresentanti del potere politico e dell’autorità giudiziaria, infine i compiti del generale che intraprende una cam92 Per quanto riguarda la questione, a lungo dibattuta, dei problematici rapporti fra Orazio e Properzio rimando all’eccellente disanima di Dimundo 2002, 295-303 (cfr. in part. 297: «il contesto dell’epistola a Floro […] contiene numerosi elementi che ci indurrebbero ad avvalorare la tesi di una sana antipatia tra i due autori»). 93 Sulla questione si veda l’illuminante messa a punto di Fedeli 2005b, 952954.
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pagna militare: la poesia nascerà dall’imitazione sapiente degli ideali di vita (vv. 312 ss.). Orazio sostiene anzi che un dramma con validi contenuti, anche se formalmente imperfetto (sine pondere et arte v. 320), è in grado di dilettare il pubblico e tenerne avvinta l’attenzione più fortemente che versi poveri di sostanza e nugae canorae. Q ueste raccomandazioni, che si collocano agli antipodi delle concezioni callimachee e neoteriche, mostrano che in fatto di letteratura drammatica Orazio è più vicino ad Eschilo che ad Euripide, condividendo in definitiva gli ideali che l’Eschilo delle Rane considerava requisiti fondamentali del buon poeta e che rimproverava ad Euripide di avere irrimediabilmente corrotto. Ideali che erano in sintonia con gli orientamenti del principato e rispetto ai quali Properzio si pone invece più a distanza. È insomma possibile che il contrasto tra la poetica di Eschilo e quella di Euripide nelle Rane, grazie all’insegnamento dei grammatici e retori greci attivi nella Roma augustea, avesse fornito contenuti e immagini alla contrapposizione fra poesia epico-tragica-didattica, propugnata dai circoli letterari in sintonia con gli ideali augustei, e la nuova poesia elegiaca.
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Abstracts L’articolo esamina l’influsso della tragedia attica sulla produzione elegiaca di Properzio in relazione in particolare ai seguenti aspetti: 1. Prop. I, 15. Sembra qui agire in filigrana il persistente influsso del terzo episodio delle Troiane di Euripide, non solo nella costruzione dei personaggi di Cinzia (= Elena) e Properzio (= Menelao), ma anche nella struttura drammatica dell’insieme e nella presenza di vari spunti tematici e nessi espressivi. 2. Prop. 2, 34. Vengono addotti argomenti a favore dell’identificazione del senex del v. 30 con Eschilo, il quale, nella critica antica a partire da Aristofane fino ai poeti e retori contemporanei di Properzio, è il rappresentante per eccellenza del genere epico-tragico e dei soggetti militari e con forte componente etica e morale, in contrapposizione a Euripide, avvertito come una sorta di precursore ante litteram degli ideali della leptotes ellenistica. Una corretta lettura dell’elegia, anche alla luce dell’interesse manifestato da Properzio in molte sue elegie per il teatro di Euripide, preferito per ragioni non solo stilistiche ma anche tematiche (la predilezione per i temi erotici), fa emergere l’avversione del poeta elegiaco ad Eschilo, da lui ritenuto un modello letterario inadeguato per la poesia d’amore, sia per il lessico ampolloso e altisonante, sia per il fatto di avere escluso “Afrodite” dai soggetti dei suoi drammi (come era già stato evidenziato da Aristofane in Ran. 1043-1047). 275
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The article surveys the influence of Greek tragedy on Propertius, particularly in relation to the following aspects: 1. Prop. I, 15. The main literary model is here the third episode of Euripides’ Trojans, not only in the construction of the characters of Cynthia (= Helen) and Propertius (= Menelaus), but also in the peculiar structure of this elegy (highly dramatized) and in the recurrence of several themes (already present in the Euripidean text). 2. Prop. 2, 34. Arguments are put forward in favor of identifying the senex of v. 30 with Aeschylus. In ancient criticism, starting from Aristophanes to the Augustan poets or rhetoricians and beyond, Aeschylus, with his propensity for military subjects and strong ethical values, is the representative par excellence of the epic-tragic genre, as opposed to Euripides, who was perceived as a precursor of the ideals of the Hellenistic leptotes. A correct reading of this elegy reveals Propertius’ distaste for Aeschylus, regarded as an inadequate model in love poetry, not only for his inflated style, but also for having excluded “Aphrodites” from the subjects of his plays (as already highlighted by Aristophanes in Ran. 1043-1047).
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ARTURO R. ÁLVAREZ HERNÁNDEZ Universidad Nacional de Mar del Plata
PROPERCIO Y LA POESÍA ETIOLÓGICA: DEL SERVITIUM AMORIS AL SERVITIUM PATRIAE 1
Para el tratamiento de mi tema 2 creo conveniente partir de una constatación: antes del L. 4 no encontramos en la obra de Propercio indicios consistentes de interés por la etiología. Es una ausencia llamativa, si tenemos en cuenta que el contacto de nuestro poeta con los Αἴτια de Calímaco se percibe ya en el L. 1 (cfr. e.g. 1, 18) 3 y que en los LL. 2 y 3 el autor de la gran obra etiológica alejandrina es identificado por Propercio como su principal referente literario. Resulta evidente que el Propercio de los primeros tres libros toma a Calímaco (y a los alejandrinos en general) como un modelo exclusivamente estilístico, que él asocia programáticamente al discurso amoroso personal, es decir al servitium amoris. Es un tipo de apropiación que podríamos definir ‘neotérica’, por cuanto prolonga el vínculo entre materia amorosa personal y estética alejandrina inaugurado por Catulo 4. Recién en su cuarta 1 Mi especial agradecimiento a Paolo Fedeli por la paciente lectura y crítica del presente trabajo, que no lo hace en absoluto responsable de los errores que contenga. Agradezco también la generosa colaboración de Irene M. Weiss. 2 Todas mis citas del L. 4 siguen la edición y comentario Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, obra a la que debo gran parte de lo que expongo en este artículo y que cito de manera muy selectiva para no fatigar al lector. Con criterio aún más ahorrativo procedo respecto de Álvarez Hernández 1997, donde expuse por primera vez muchas de las ideas que sostengo en este trabajo. Las citas de las obras propercianas anteriores al L. 4 corresponden a Fedeli 1984. Todas las traducciones del artículo me pertenecen. 3 Me refiero, obviamente, a la conocida relación de Prop. 1, 18 con la historia de amor de Acontio y Cidipa narrada por Calímaco en los Αἴτια (frgs. 67-75 Pf.). 4 Cabe señalar, de todos modos, que Catulo introduce la perspectiva etiológica en la elegía latina al traducir El rizo de Berenice de Calímaco en su carmen 66.
I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 277-300 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120107
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A. R. ÁLVAREZ HERNÁNDEZ
obra Propercio se interesa por ampliar su ‘calimaquismo’, al incorporar a su discurso también el interés etiológico del cirenaico. El objetivo de estas páginas es rastrear en el texto properciano los motivos, los estímulos, los propósitos que llevaron a nuestro poeta a incorporar orgánicamente a su discurso la perspectiva etiológica, lo que nos permitirá, al mismo tiempo, perfilar la manera properciana de asumir esa perspectiva. En la elegía de apertura de su último libro, hacia el final de la sección en que habla en primera persona, Propercio se autoproclama ‘el Calímaco romano’. Se trata del pasaje en el que anuncia, pleno de entusiasmo, el programa etiológico que se dispone a desarrollar en el curso de su obra (4, 1, 69-70): Sacra deosque canam et cognomina prisca locorum: has meus ad metas sudet oportet equus. Cantaré ritos y dioses y nombres antiguos de lugares: en pos de estas metas corresponde que sude mi caballo.
En este preciso momento irrumpe en el texto un personaje desconocido, Horos, astrólogo de prosapia tan ilustre como ficticia que, con su largo y complejo discurso, trata de convencer al poeta de que renuncie al propósito anunciado y de que se mantenga, como en el pasado, en el cultivo de la poesía de amor (vv. 71-72): “Quo ruis imprudens? Cave dicere fata, Properti! Non sunt a dextro condita fila colo. ¿Adónde te precipitas, imprudente? ¡Cuídate de revelar los hados, Propercio! No han sido compuestos los hilos de tu canto por una rueca propicia.
Esta escena admonitoria parece haber sido concebida por el poeta para evocar en la mente de sus lectores una escena análoga, que ocupa un lugar de absoluta relevancia en el ciclo de cinco elegías programáticas que constituye el proemio del libro precedente. Me refiero, obviamente, al sueño heliconio narrado en la elegía 3, 3, un poema que podemos definir como el eje de ese ciclo proemial: en el sueño el poeta elegíaco se veía a sí mismo en el instante de acercar su pequeña boca al chorro de la fuente Hipocrene, emu278
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lando al pater Ennius, quien de ella había extraído la copiosa inspiración necesaria para componer sus Annales (3, 3, 1-14). Pero justamente cuando Propercio está a punto de beber, irrumpe Apolo y se dirige al poeta con un discurso análogo al del astrólogo del cuarto libro (3, 3, 15-16): “Quid tibi cum tali, demens, est flumine? quis te carminis heroi tangere iussit opus?” ¿Qué tienes tú que ver, insensato, con un caudal semejante? ¿Q uién te ordenó meterte con una obra de canto heroico?
En estas palabras de Apolo es importante identificar un punto de vista que no coincide con la ‘ilusión’ del poeta elegíaco soñante. Para este Apolo admonitor la materia a la que el poeta pretende acceder al beber de la fuente Hipocrene se corresponde necesariamente con un carmen heroum, o sea con un poema épicoheroico de tipo enniano. Pero el poeta elegíaco, tal como intentaré demostrar, lo que sueña en realidad es tratar ‘materia enniana’ con un formato elegíaco: [Visus eram] reges, Alba, tuos et regum facta tuorum, tantum operis, nervis hiscere posse meis; [Soñaba yo] que tus reyes, Alba, y las gestas de tus reyes, obra semejante, podía balbucear con mis cuerdas;
La objeción del dios, entonces, se basa en que la ‘materia enniana’ no puede ser tratada por un poeta elegíaco; es una incapacidad del género lo que el dios señala. Un contenido muy semejante tiene la advertencia con la que Horos invita al poeta a abandonar su programa etiológico en el inicio del L. 4. Horos mismo establece un nexo entre las dos intervenciones (la suya y la de Apolo) en el momento en que trae a colación la hostilidad del dios respecto del proyecto etiológico properciano (4, 1, 73): Accersis lacrimas cantans; aversus Apollo Al cantar atraes lágrimas; Apolo te es hostil.
Esta afirmación anticipa el contenido de la intervención del dios, que habrá de ser evocada por Horos, en discurso directo, en los 279
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vv. 135-142. Apolo, citado por Horos, le había dicho a Propercio (vv. 135-136): at tu finge elegos, fallax opus (haec tua castra!), scribat ut exemplo cetera turba tuo Pero tú compón elegías, obra engañosa (¡este es tu ejército!), para que la turba restante escriba según tu ejemplo.
Esta exhortación repite, en sustancia, el punto de vista ya expresado por el dios en 3, 3, 17-18: non hic ulla tibi speranda est fama, Properti: mollia sunt parvis prata terenda rotis; Aquí no hay esperanza alguna de fama para ti, Propercio: suaves praderas deben ser surcadas por ruedas pequeñas.
Pero la analogía conceptual de ambos pasajes contrasta fuertemente con una diferencia neta de situación programática: porque mientras en el sueño de 3, 3 el poeta elegíaco se preocupaba únicamente por la ‘materia’ del canto y ponía como representante de esa materia al Ennio de los Annales, en el inicio del L. 4 lo que el poeta elegíaco anuncia es un ‘programa etiológico’ (o sea una ‘materia calimaquea’), gracias al cual él puede autodefinirse ‘el Calímaco romano’ (v. 64). ¿Cuál es, entonces, la razón de la hostilidad de Horos, que parece hablar justamente en nombre de Apolo, el dios de la admonición calimaquea? Yo creo que esta aparente contradicción conceptual sólo puede entenderse si tomamos en consideración la particular evolución que tuvo el calimaquismo romano en el período augusteo, para ser más precisos, a partir de las Églogas de Virgilio. Es muy sabido que en el proemio de la Égloga 6, que cumple la función de ‘proemio a la mitad’ del libro bucólico 5, Virgilio alude inequívocamente a un pasaje de la Invectiva a los Telquines, que funciona como proemio (o segundo proemio) de los Αἴτια de Calímaco (ecl. 6, 3-5): cum canerem reges et proelia, Cynthius aurem vellit et admonuit: “pastorem, Tityre, pinguis pascere oportet ovis, deductum dicere carmen”. 5 La identificación de este tipo de proemio es mérito de Conte 1980. Volveremos más adelante sobre este concepto.
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como yo cantase reyes y combates, el Cintio me tiró la oreja y dijo admonitorio: «Al pastor, oh Títiro, le corresponde apacentar gordas ovejas, decir un canto atenuado» 6
En este pasaje virgiliano la escena calimaquea del Apolo admonitor, que ordena al poeta rechazar la obra extensa y unitaria de contenido heroico (el poema παχύ) y cultivar la Musa tenue (Μοῦσα λεπταλέη), cambia radicalmente de sentido: el Apolo admonitor virgiliano, ante un poeta-pastor que intenta un canto superior a sus fuerzas (cum canerem reges et proelia), le ordena cultivar un canto adecuado a ellas (pastorem, Tityre, … oportet … deductum dicere carmen). Esta reescritura virgiliana de la escena calimaquea es el momento fundacional de un nuevo concepto programático, no sólo de Virgilio, sino también de Horacio, que diferencia netamente la recepción ‘augustea’ del alejandrinismo respecto de la recepción ‘neotérica’: la λεπτότης calimaquea se asume ahora como autolimitación, prudente pero no inflexible ni definitiva, respecto de argumentos ‘elevados’. El camino hacia temáticas ‘altas’ (= cívico-heroicas) estaba, pues, abierto para otros géneros diversos del epos, a condición de que el poeta mantuviese una alertada conciencia de las ‘fuerzas’ compatibles con su género poético. De aquí las incursiones de Virgilio en temáticas ‘altas’ ya en sus bucólicas (e.g. ecl. 4 y 6); de aquí la evolución de su obra hacia contenidos hesiódicos y homéricos directamente conectados con la actualidad de la Roma augustea; de aquí la presencia de temas civiles en la lírica de Horacio, incluso en los poemas de recusatio; de aquí, finalmente, el proyecto elegíacoetiológico properciano que se realiza en el cuarto libro. La aspiración a asumir ‘materia alta’, especialmente relativa al princeps, se manifestaba ya en la segunda colección properciana. De hecho, a partir de su segundo libro, en la escritura del elegíaco Call. Aet. fr. 1, 21-24 Pf.: καὶ γὰρ ὅτ⎦ε πρ⎣ώ⎦τιϲτον ἐμοῖϲ ἐπὶ δέλτον ἔθηκα γούναϲι⎦ν, Ἀ[πό]λλων εἶπεν ὅ μοι Λύκιοϲ˙ ……]… ἀοιδέ, τὸ μὲν θύοϲ ὅττι πάχιϲτον θρέψαι, τὴ]ν ̣Μοῦϲαν δ’ ὠγαθὲ λεπταλέην˙ Porque cuando al principio apoyé la tablita sobre mis rodillas, así me dijo Apolo Licio: «(…) cantor [amadísimo], lo más gorda posible cría la víctima, pero la Musa, mi amigo, delicada». 6
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se va abriendo paso el intento de competir con la poesía de compromiso cívico producida en el mismo período por Virgilio, en el ámbito de la épica, y por Horacio, en el de la lírica. Mientras su propia experiencia amorosa le provee al poeta elegíaco suficiente materia de escritura, la aspiración a ‘elevarse’ aflora limitadamente en su discurso. Pero en el tercer libro, cuando el poeta toma conciencia del agotamiento del servitium amoris como fuente de inspiración, tanto sus declaraciones metapoéticas cuanto los esfuerzos que dedica a la ampliación del discurso erótico mediante temáticas augusteas preanuncian la decisión de pasar a un nivel de escritura más ‘alto’, lo que habrá de conducirlo al programa etiológico de su cuarta obra. Observemos algunos momentos significativos de este proceso. En la apertura del segundo libro el poeta dialoga idealmente con Mecenas y en ese contexto declara, invocando por primera vez el nombre de Calímaco, su insuficiencia para tratar la temática augustea que aquel le propone (2, 1, 39-42): sed neque Phlegraeos Iovis Enceladique tumultus intonet angusto pectore Callimachus, nec mea conveniunt duro praecordia versu Caesaris in Phrygios condere nomen avos. Pero ni la refriega flegrea de Jove y Encélado vocearía Calímaco, de angosto pecho, ni se adecua a mi sentimiento con verso marcial fundar el nombre del César en sus ancestros frigios.
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Así como el poeta de Cirene, caracterizado aquí por un angustum pectus, no podría ‘hacer resonar’ (intonet) una Gigantomaquia 7, así también Propercio se declara incapaz (nec mea conveniunt … praecordia) de componer un poema sobre los orígenes troyanos de Augusto, un argumento que requeriría un durus versus 8. 7 A través de intonet Propercio está aludiendo a Call. Aet. fr. 1, 20 Pf. (Prólogo o segundo prólogo de los Αἴτια), donde Calímaco afirmaba βροντᾶν οὐκ ἐμόν, ἀλλὰ Διός «tronar no es cosa mía sino de Zeus». La mención de Encélado en el v. 36 del mismo fragmento induce a conjeturar el rechazo de ese tema por parte del cirenaico. 8 Por durus versus yo no entiendo necesariamente, en este contexto, épica heroica, sino un ‘estilo heroico’, que Propercio no cree posible trasladar a la elegía tal como él la cultiva.
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Es indudable que con la fórmula condere Caesaris nomen in Phrygios avos el elegíaco alude a la Eneida, cuya gestación anuncia en el final de este mismo libro (2, 34, 61-66) 9. Pero es particularmente interesante que aquí Propercio identifique el ‘punto de vista etiológico’ como componente fundamental del epos virgiliano 10. La caracterización de la poesía ‘alta’ virgiliana mediante un rasgo típicamente calimaqueo (la perspectiva etiológica) lleva implícita una nueva mirada del poeta elegíaco respecto del epos heroico. Basta compararla con la que nuestro poeta manifestaba en el L. 1 (1, 7 y 1, 9), donde el epos heroico estaba representado por la Tebaida de Póntico, definida como grave carmen (1, 9, 9). La alusión a la Eneida en tales términos (coherente con el elogio que le dedica en el cierre del libro) 11 nos permite conjeturar que el poeta elegíaco, en su diálogo ideal con Mecenas, comienza a imaginar la posibilidad de producir un ‘crecimiento’ de su escritura elegíaca mediante la incorporación de temáticas ‘altas’, de carácter augusteo (una evolución de tipo virgiliano). Justamente, a pesar de que rechaza decididamente determinados argumentos del mito griego y de la historia romana (vv. 19-24), el poeta se aventura incluso a mencionar las temáticas que trataría si tuviera un ingenium adecuado (2, 1, 25-26): bellaque resque tui memorarem Caesaris et tu Caesare sub magno cura secunda fores. las guerras y los hechos de tu César evocaría yo y tú, después del gran César, serías mi siguiente preocupación.
Q ue esta declaración hipotética implica una voluntad real de incorporar a la elegía la materia augustea resulta confirmado por la elegía 2, 10, que es la puesta en escena de un intento elegíacoheroico frustrado por prematuro. En ella el poeta proclama con total convicción (2, 10, 11-12): 9 Dejo de lado aquí el problema de la unidad del L. 2 sobre el cual he opinado en Álvarez Hernández 2008, 20-30; 2010a y 2010b. 10 Acertada la nota al v. 42 de Butler-Barber 1933, 191: «i.e. to give the causae (aitia) of the gens Iulia, of which Iulus was the eponymous hero». 11 La biografía de Virgilio de Suetonio-Donato (Vit. Donat. 31 Hardie) recuerda que Propercio fue el primero en anunciar la Eneida apenas iniciada su composición (vixdum coepta).
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surge, anime, ex humili! iam, carmina, sumite vires! Pierides, magni nunc erit oris opus. ¡Elévate, espíritu mío, del llano! ¡Versos míos, tomad fuerzas ya! Oh Piérides, ahora será necesaria una voz poderosa.
Y un poco más adelante, en los vv. 19-20: haec ego castra sequar; vates tua castra canendo magnus ero: servent hunc mihi fata diem! Estas campañas yo seguiré; cantando tus campañas seré un vate excelente: ¡reserven para mí los hados este día!
En los vv. 13-18 el poeta da un elenco de empresas recientes de Augusto, y se tiene la impresión de que comienza a celebrarlas: sin embargo, pronto debe reconocer que no posee las fuerzas adecuadas para llevar hasta el fin semejante cometido. Es importante observar que, en su ‘ilusión heroica’, Propercio se imagina vates (magnus vates) adjudicándose un término que es clave del ‘augusteismo’ 12 y que en este pasaje queda asociado a la celebración de tua castra, es decir, al tratamiento de las gestas militares de Augusto. En el cuarto libro, como veremos, esta idea volverá a presentarse, pero con otras connotaciones. Muy significativo para nuestro tema es el dístico conclusivo de la elegía (vv. 25-26): nondum etiam Ascraeos norunt mea carmina fontes sed modo Permessi flumine lavit Amor. Ni aún siquiera las fuentes ascreas han conocido mis versos, pero hace poco en la corriente del Permeso Amor las ha bañado.
El dístico alude a un muy conocido contexto de la Égloga 6 (vv. 64-73), que describe la consagración poética de Cornelio Galo. El poeta elegíaco está vagando a orillas del Permeso cuando una de las Musas lo conduce a la cima del Helicón: allí, en presencia y en nombre del coro de las Musas, Lino le entrega las 12 Cfr. e.g. Verg. ecl. 7, 28; 9, 34; Aen. 7, 41; Hor. epod. 16, 66; carm. 1, 1, 35; 31, 2; 2, 20, 3; 4, 3, 13; 6, 44; 8, 27; 9, 28; epist. 2, 1, 133; 249. Pionero en este tema es Newman 1967. Lúcidas observaciones al respecto (que incluyen consideraciones sobre Propercio) en Williams 1985, 47-54.
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flautas de Hesíodo (el anciano de Ascra) para que con ellas celebre ‘el origen del bosque Grineo’ (v. 72 his tibi Grynei nemoris dicatur origo). En este pasaje queda clara la superior jerarquía de la poesía etiológica, ubicada en la cima del Helicón, respecto de la poesía erótica, representada también por Virgilio mediante el río Permeso, que corre a los pies del Helicón. Pero hay algo más, que queda implícito: la idea de ‘apertura de los géneros’. Porque Hesíodo aparece representado como un cantor bucólico (son sus ‘flautas’ las que pasan a manos de Galo) y Galo recibe un ‘man dato hesiódico’ que bien podría corresponderse (a la luz de los Αἴτια de Calímaco) con su condición de poeta elegíaco. No es, entonces, un determinado género poético lo que se representa mediante la ‘cima del Helicón’ evocada por Virgilio, o mediante las ‘fuentes ascreas’ evocadas por Propercio, sino una cierta ‘altura temática’ que el poeta de Cintia lamenta no poder alcanzar ‘todavía’ (nondum etiam) en el final de la elegía 2, 10 13. El ciclo de cinco elegías que funciona como proemio del L. 3 revela, por un lado, el esfuerzo del poeta en justificar la temática erótica, por otro lado, una renovada atención a la materia augustea. Particularmente significativa es la elegía 3, 4, que representa un paso adelante en dirección a las laudes de Augusto. Tanto el inicio, con la palabra arma (v. 1 Arma deus Caesar dites meditatur ad Indos: ‘Guerra medita el divino César para llevar a la opulenta India’), cuanto la referencia al vínculo genealógico de Augusto con Eneas en los vv. 19-20 (ipsa tuam serva prolem, Venus: hoc sit in aevum, / cernis ab Aenea quod superesse caput: ‘tú misma, oh Venus, proteje a tu prole; sea por siglos esta cabeza proveniente de Eneas que ves perdurar’) remiten a las claras al epos de Virgilio que, ya dijimos, se presenta a los ojos de Propercio cada vez más como poesía digna de admiración e imitación. La elegía 3, 9 contiene otro diálogo ideal con Mecenas, en el cual por primera vez Propercio delinea un proyecto de poesía elegíaca que anticipa en buena medida lo que habrá de realizar en Mi lectura se acerca a la de Lyne 1998, 27, que entiende los Ascraei fontes de nuestro dístico como símbolo de poesía etiológica hesiódico-calimaquea. He tratado el tema en Álvarez Hernández 2010, 116-120. También Van Sickle 2004, 105 entiende que se trata de jerarquías temático-estilísticas dentro de un mismo tipo y género de poesía. 13
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el L. 4. En los vv. 47-57 el poeta enumera los argumentos que estaría en condiciones de tratar si pudiera contar con la preciosa guía de Mecenas (v. 47 te duce) 14. El primer dístico del pasaje (vv. 47-48) contiene algo que parece una abjuración del calimaquismo profesado en el L. 2: te duce vel Iovis arma canam caeloque minantem Coeum et Phlegraeis Eurimedonta iugis bajo tu mando cantaré hasta los combates de Júpiter y a Ceo, amenaza para el cielo, y a Eurimedonte en las cumbres flegreas
La Gigantomaquia que el poeta se declara dispuesto a componer es precisamente el argumento que en 2, 1, 39-40 había indicado como inaceptable para Calímaco. La clave para entender este giro la aporta Fedeli 2005, 76 15 cuando indica la importancia de este mito en función laudatoria de las victorias romanas en general y de las del princeps en particular. Cabe entender, entonces, que el poeta elegíaco está dispuesto a transgredir los límites temáticos calimaqueos en función de celebrar las victorias romanas. El anuncio tiene, sin embargo, una parte más ‘realista’ (vv. 49-51), que nos interesa en especial, porque incluye argumentos que habremos de encontrar en el L. 4: celsaque Romanis decerpta Palatia tauris ordiar et caeso moenia firma Remo, eductosque pares silvestri ex ubere reges, crescet et ingenium sub tua iussa meum;
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y el noble Palatino, pradera de romanos toros, comenzaré a cantar y las murallas afirmadas con la muerte de Remo, y los reyes nacidos pares de unas ubres salvajes, y crecerá mi talento bajo tus mandatos. 14 Acerca del significado de te duce en este contexto comparto plenamente los argumentos de Fedeli 1985, 326-328 contra la idea de otorgarle un significado condicional (‘si tú me guías’). 15 «Il mito che cantava la vittoria di Giove sui Giganti ebbe una grande importanza a Roma in particolare nella tarda repubblica, in funzione celebrativa delle vittorie romane, e poi in epoca augustea, in connessione con i succesi militari del principe». Entre los testimonios cita Tib. 2, 5, 9 ss., Hor. carm. 2, 12, 6 ss.; Ov. am. 2, 1, 11 ss.; trist. 2, 333-334.
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Se hace evidente en estos versos que ya estaba instalada en la mente del poeta la idea de evocar el paisaje del Palatino anterior a la llegada de Eneas, y el mito de la fundación de la Vrbs, todo lo cual habrá de concretarse en el inicio de su cuarto libro. No por nada justamente a esos temas se asocia, en la elegía 3, 9, la idea de ‘crecimiento’ del propio talento poético (v. 52 crescet et ingenium sub tua iussa meum). No se trata de un caso aislado. La elegía 3, 11 es un experimento de ‘ampliación cívico-augustea’ del discurso erótico. La difícil relación con Cintia (vv. 1-8) constituye un mero pretexto para desarrollar una serie de exempla de mujeres despóticas y dominantes, que culmina en el exemplum de Cleopatra (vv. 29-56), que es el verdadero tema de la elegía. Propercio se pregunta, asumiendo una clara posición patriótica, cómo puede haberle temido a una mujer justamente la ciudad que gobierna el mundo entero (vv. 57-72), y eso le da ocasión para repasar algunos hitos heroicos que son como raíces de la Roma augustea. No parece casual que en la enumeración de figuras heroicas encuentre ocasión para hacer dos breves referencias de carácter estrictamente etiológico: el poeta nos explica el origen de dos cognomina: el de Tarquinio el Soberbio (v. 48 nomine quem simili vita superba notat ‘a quien su vida soberbia lo marcó con un nombre semejante’) y el de Valerio Corvino (v. 64 est cui cognomen corvus habere dedit ‘existe uno a quien un cuervo le concedió tener su apodo’). Q ueda claro que la perspectiva etiológica se abre paso en el discurso de Propercio en el contexto de la incorporación de temáticas augusteas, lo que denota, sin duda, la decisiva influencia ejercida por Virgilio en la escritura de nuestro elegíaco 16. Se impone concluir que fue el epos virgiliano, con sus continuas referencias a los orígenes (aitia) romanos, la incitación de mayor peso en dirección a un ‘programa etiológico’ de contenido patriótico, que encontrará su completa realización en el L. 4. El contenido ‘patriótico’ de la etiología properciana la diferencia categóricamente de la etiología calimaquea, movida por intereses prioritariamente literarios. La influencia de Horacio es notoria en la obra de Propercio, como se sabe, especialmente a partir del L. 3, pero no en lo que se refiere a la perspectiva etiológica de la última obra properciana. 16
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La intervención de Horos en la elegía proemial 17, de la que hemos partido en este artículo, se explica precisamente porque el ‘programa etiológico’ de Propercio consiste en incorporar materia ‘alta’ patriótica a un género que él mismo entiende y asume como fiel representante del ideario calimaqueo (o calimaqueofiliteo). Si bien la orientación del ‘clasicismo augusteo’ lo conduce en esa dirección, el poeta no puede ni quiere evadir el ‘problema’ que representa para él dicha operación, y por ello dedica el inicio de la obra a exponer, y en cierto modo conjurar, dicho problema. Es elocuente en este sentido el dístico con el que Propercio inicia la declaración de su programa etiológico (4, 1, 57-58): moenia namque pio conor disponere versu: ei mihi, quod nostro est parvus in ore sonus! porque las murallas me empeño en disponer con verso piadoso: ¡Ay de mí! ¡Cuán pequeño es el sonido en nuestra boca!
No cabe duda de que la ‘iunctura’ moenia disponere pio versu está impregnada de resonancias virgilianas, ya sea porque con la imagen de los altae moenia Romae termina el proemio de la Eneida, ya sea porque pius por excelencia es el héroe epónimo (Aen. 1, 1-7); pero sobre todo el uso de disponere, verbo inusual para indicar la composición de poesía, convierte al nuevo programa de Propercio en una ‘refundación poética’ de la Vrbs. Consciente del peso de tales connotaciones, el elegíaco, además de definir su proyecto como un intento (v. 57 conor), de inmediato lamenta la debilidad de su voz, con una evidente alusión al βροντᾶν οὐκ ἐμόν, ἀλλὰ Διός de Call. Aet. fr. 1, 20 Pf. (‘tronar no es cosa mía sino de Zeus’). Sin embargo la decisión ya está tomada y se proyecta solemnemente en el futuro (4, 1, 59-60): Sed tamen exiguo quodcumque e pectore rivi fluxerit, hoc patriae serviet omne meae. Y sin embargo, cualquiera sea el caudal del riacho que de mi exiguo pecho habrá fluido, este estará todo al servicio de mi patria.
17 El análisis de 4, 1 y 4, 6 que desarrollo a continuación reitera en buena medida puntos de vista que expuse en Álvarez Hernández 1997, 270-301.
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Por más que de su exiguum pectus (recuérdese que angustum había sido definido el pectus de Calímaco en 2, 1, 40) no pueda fluir más que un pequeño riacho (la simbología hídrica también remite a Calímaco) 18, este habrá de consagrarse totalmente al servicio de la patria. Nos encontramos, pues, frente al anuncio de un nuevo servitium, ya no el de la domina amada sino el de la patria, y la metáfora del rivus expresa el requisito de tratar callimacheo more una materia que de suyo se resiste a ese tratamiento. La dualidad del programa etiológico se repite en el final de la sección, donde el anuncio se resume en una fórmula (vv. 69-70): sacra deosque canam et cognomina prisca locorum has meus ad metas sudet oportet equus Cantaré ritos y dioses y nombres antiguos de lugares: en pos de estas metas corresponde que sude mi caballo.
La lección del v. 69 que sigo (deosque en lugar del transmitido diesque) tiene su fundamento más sólido en el cotejo con el epos virgiliano 19, cuyo incipit (Arma virumque cano) parece haber sido reescrito por nuestro elegíaco apelando a una fórmula (sacra deosque) dicha por el propio Eneas en Aen. 12, 192 sacra deosque dabo. El v. 70, por su parte, contiene una compleja polisemia: por una parte Propercio retoma el motivo calimaqueo del camino ancho y la senda estrecha (cfr. Call. Aet. 1, 25-28 Pf.); por otro lado introduce la metáfora, muy romana, de la carrera en el circo, que indica la competencia entre los poetas 20. Pero a estos significados se agrega una alusión más definidamente augustea 21, generada por la concurrencia de las palabras metas y sudet: se trata de la Meta Sudans, monumento de época augustea ubicado en un punto estratégico del nuevo trazado urbano, cuyo diseño vinculaba a Apolo y Rómulo con Augusto y evocaba las victorias nava-
Cfr. Call. Hymn. 2, 105-113; Aet. fr. 1, 33-34; 2, 1-5 Pf. Los componentes alusivos a la Eneida han sido lúcidamente identificados por Fedeli en Fedeli-Dimundo-Ciccarelli 2015, 283-286. El texto transmitido del v. 69 es sacra diesque canam … 20 La idea de competencia y de victoria está presente, e.g., en Prop. 3, 1, 9-12; 9, 8. 21 Adopto aquí la propuesta de Fedeli en Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 286-287. 18 19
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les del princeps. Cabe agregar que la metáfora del caballo aparecía ya en la elegía del sueño heliconio en boca de la Musa Calíope (3, 3, 40 nec te fortis equi ducet ad arma sonus ‘y no te llevará a las armas el retumbar de un brioso caballo’) como representación de la ‘materia heroica’, lo que permite inferir que el ‘programa etiológico’ incluye necesariamente ese tipo de materia. Para dar voz a sus escrúpulos y, al mismo tiempo, conjurarlos, Propercio crea un nuevo personaje admonitor: no se trata ya del ‘dios calimaqueo’ (= Apolo) sino de un adivino de profesión, o sea un vates en el sentido usual de la palabra, como Horos pomposamente se define en los vv. 75-76 (aut ego vates / nescius). La ciencia astrológica gozaba entonces de notable prestigio: sin embargo, la voz de Horos no es aquella, plena de autoridad, del dios de la poesía, el único con derecho a impartirle órdenes al poeta, sino la de quien se considera, en virtud de su ‘ciencia astrológica’, capaz de conocer a Propercio mejor que Propercio mismo. Los versos 71-72 con los que el astrólogo irrumpe en el texto no son de fácil interpretación y han sido objeto de controversia crítica. Respecto del v. 71 22, actualmente predomina el criterio de enmendar el vage de los MSS con fuge o con cave y distinguir dos oraciones principales: Quo ruis imprudens? Cave/fuge dicere/ discere fata, Properti. Se interpreta que Horos le censura al poeta su pretensión de conocer (discere) 23 o de anunciar (dicere) ‘su’ 22 La lección del v. 71 que dan los mejores MSS (quo ruis imprudens vage dicere fata Properti) es la que encontramos tanto en Barber 1960 como en Fedeli 1984, por más que ofrezca, como señala Fedeli, al menos dos motivos de duda (Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 289-290): la contiguidad de dos vocativos (inusual en Propercio) y el extraño uso de vagus con significado metapoético (razones que llevan a Hutchinson 2006 a ponerlo entre cruces). Ya en lo MSS recentiores se advierten intentos de corrección: vage se cambia por vaga, como atributo de fata (en algunos casos substituido por facta); dicere se cambia en algunos casos por discere. Livineius propuso una solución distinta (substituir vage por fuge), que abrió el camino al criterio que tiende a prevalecer en las ediciones más recientes: el de establecer dos oraciones, una que se cierra en imprudens, la otra que se cierra en Properti. La primera de estas oraciones tiene amplio consenso; en cuanto a la segunda, hay diferencias, según seadopte la enmienda de Livineius fuge (así ya Hanslik 1979; también Goold 1990 y Heyworth 2007, pero optando pordiscere de los recentiores en lugar de dicere) o la de Schippers cave (así Fedeli en Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 289). Livineius, según el Thesaurus de Smyth, adoptaba facta de los recentiores en lugar de fata (= fuge dicere facta), seguido en esto sólo por Heinsius. 23 Goold 1990 traduce: «Seek not to learn your fate, Propertius!».
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destino (fata [sc. tua]) 24, asumiendo que eso ha hecho en los versos precedentes. ¿Pero pueden interpretarse los vv. 57-70 como una ‘predicción’ del destino personal, antes que como un típico ‘anuncio’ del programa que el poeta está iniciando (obsérvese la variedad de modos y tiempos verbales empleados en el anuncio)? 25 Considero más razonable pensar que Horos le censura a Propercio la excesiva ambición de su programa, más concretamente la ‘altura’ de la materia anunciada. En este sentido no me parece descaminado el comentario de Lachmann a nuestro dístico, cuando glosa: Quo ruis? inquit, quo per loca caeca tibique non adeunda vagaris [obviamente edita vage], non aptus satis antiquis populi nostri fatis revolvendis? Male tu stamina fatalia de colo tua deduces 26. En coincidencia con este criterio, pero aceptando la conjetura cave, he traducido antes: ¿Adónde te precipitas, imprudente? ¡Cuídate de revelar los hados, Propercio! No han sido compuestos los hilos de tu canto por una rueca propicia.
Se puede objetar que la poesía etiológica no se ocupa del futuro (fata) sino del pasado (aitia) 27, pero a mi parecer en nuestro dístico el poeta busca deliberadamente sugerir una estrecha proximidad (por no decir identidad) entre ‘orígenes’ (aitia) y ‘destino’ (fata) de Roma, que son, por igual, aquello que el poeta ha comenzado a ‘revelar’ (dicere) 28. Tal proximidad se expresa nítidamente en el pentámetro, donde la metáfora de la rueca, que evoca sin duda el ‘hilado’ de los destinos (fata), se aplica a la composición Así Fedeli en Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 290. Pres. Ind. (conor; est; surgit; oportet); Fut. Perf. Ind. (fluxerit); Fut. Imperf. Ind. (serviet; cernet; ¿canam?); Pres. Subj. (cingat; superbiat; aestimet; cantet; ¿canam? ; sudet); Pres. Imperat. (porrige; fave; date). He traducido canam como futuro porque no me parece que eso modifique el sentido de ‘anuncio’ que, en mi opinión, tiene todo el pasaje. 26 ‘¿Adónde te precipitas? dice ¿hacia dónde vas errático a través de lugares desconocidos y no transitables para ti, siendo tú no suficientemente apto para evocar los antiguos hados de nuestro pueblo? Mal extraes tú de tu rueca los hilos de los hados’. 27 Así Fedeli en Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 290. 28 Dico es un verbo que se aplica tanto a poesía como a profecía: cfr. en nuestro mismo poema vv. 50, 89 y 101 (dejo de lado el muy discutido dístico 87-88); Prop. 2, 10, 4; 34, 62. OLD s.v. dico 7. 24 25
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iniciada por el poeta 29. Por otra parte, me parece evidente la analogía de procedimiento entre el discurso ‘etiológico’ de Propercio y el discurso ‘adivinatorio’ o ‘profético’ que, a continuación, desarrolla Horos, puesto que también el astrólogo retrocede al pasado más remoto del poeta (cfr. vv. 121-146) para prevenirlo sobre su destino. La palabra ‘vática’, en ambos casos, se ocupa al mismo tiempo de orígenes y destinos. Entiendo, entonces, que la advertencia de Horos cave dicere fata [sc. Romae] alude a la condición de poeta-vate que asume Propercio en su largo parlamento. Tal condición puede ser identificada en el texto mediante las múltiples señales que la denotan 30. De hecho, luego de la sección en la que una voz no identificada 31 le revela a un hospes, tampoco identificado, los remotos y humildes orígenes de la magnífica ciudad que tienen ante los ojos (vv. 1-36), el discurso adopta una tesitura muy diferente, dominada por otro tipo de ‘visión’. Si hasta ese punto el discurso tenía a los monumentos o lugares de la ciudad como referentes necesarios, a partir de allí esa referencia es substituida por la pura evocación del ‘mito enéidico’ – el mito ‘augusteo’ por excelencia – que Propercio hace suyo a partir del epos virgiliano. El tratamiento ‘elegíaco’ del mito troyano-romano obliga al poeta a una rigurosa selección de componentes, y parece claro que él opta en particular por el ‘componente profético’ del relato virgiliano, a través del cual emerge el destino (fata) de la Vrbs: signos léxicos muy claros de esta preferencia son e.g. ave (v. 40); omina (v. 41); cortina Sibyllae (v. 49); vatis (v. 51); omina, avis (v. 68). Muy significativa, sobre todo, la apropiación de la voz de la vates Casandra que ofrecen los vv. 53-54:
29 Abundantes ejemplos de la metáfora del hilado en relación con los fata en ThlL III 1744, 63 ss y VI 761, 3-27. Para el uso de condo en relación con el ‘hilado’ de las Parcas Fedeli remite a Stat. silv. 1, 2, 24-25; mi lectura coincide con su afrmación: «Properzio dunque non è semplicemente un poeta, ma un vero e proprio conditor e i fila sono i suoi carmi» (Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 291-292). 30 Fudamental en este tema es Van Sickle 1975. 31 Van Sickle 1975, 123, n. 34, señala oportunamente que es el único inicio de libro properciano en el que no aparece el pronombre de primera persona que remite al poeta. Clara señal de su nueva condición.
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vertite equum, Danai! Male vincitis! Ilia tellus vivet et huic cineri Iuppiter arma dabit! ¡Llevaos el caballo, Dánaos! ¡No es victoria esta! La tierra de Ilión vivirá y a esta ceniza dará armas Júpiter.
Esta sección culmina con el motivo de los moenia Romae que, como vimos, operan como transición a la última sección (vv. 55-70), de neto carácter metapoético, en la que finalmente el poeta declara su programa etiológico y se identifica, mediante la mención de su tierra natal (vv. 63-66). Ya señalamos antes la peculiaridad de la expresión moenia disponere pio versu (v. 57), que coloca al poeta en el rol de un ‘refundador poético’ de Roma, al modo de Virgilio. En esta instancia Propercio siente la necesidad de reivindicar y destacar su ‘calimaquismo’ (vv. 63-64); pero es muy sugestivo que lo haga retomando la confrontación con Ennio (vv. 61-62), ya planteada, como vimos, en la elegía 3, 3. Este gesto implica diferenciarse netamente del epos arcaico, evitando implícitamente, diferenciarse del epos virgiliano. Lo que el poeta indica una y otra vez a lo largo de su anuncio es su nueva condición de poeta-fundador o poeta-vate que habrá de ejercer un tipo de canto (v. 69 canam; v. 73 cantans, que tiene sin duda esa connotación, como se desprende de v. 68 omina … cantet avis) de igual jerarquía que el de Virgilio (Aen. 1, 1 Arma virumque cano) 32. Esta es la razón por la que sitúa su discurso en el ámbito de la ciudadanía romana, con el carácter de una palabra reveladora (vv. 67-68): Roma, fave, tibi surgit opus 33: date candida, cives, omina et inceptis dextera cantet avis! ¡Roma, sé favorable, para ti surge esta obra: ciudadanos, dadme radiantes augurios y un ave cante auspiciosa para mi empresa!
Las objeciones del astrólogo al ‘canto vático’ de Propercio implican un juicio crítico, pero no hecho por alguien que entiende de poesía, sino por un vates (v. 75) que considera poseer una 32 Es notorio en Propercio el uso de cano cuando se refiere a poesía de tema ‘alto’: cfr. 2, 1, 19; 28; 31; 10, 8; 19; 30, 28; 3, 1, 16; 3, 7; 4, 9; 9, 47: 15, 41; 17, 34; 4, 6, 14; 69; 78. 33 Cabe recordar aquí Verg. Aen. 7, 44 maius opus moveo.
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‘ciencia adivinatoria’ verdadera, basada en el conocimiento de los astros. La decisión de poner en boca de un ‘vate astrólogo’ el cuestionamiento del programa etiológico, es, en mi opinión, otra prueba de que ese programa convierte al poeta elegíaco en vates. En otras palabras, hay una motivación de rivalidad en la intervención del astrólogo, lo que se demuestra por la gran cantidad de versos que dedica a acreditar ‘su ciencia’ y a denunciar la falsedad de ‘otros’ vates (vv. 77-118). Se trata, pues, de una mirada escéptica ante las ‘pretenciones váticas’ del poeta elegíaco. Fundado en su saber, Horos puede afirmar en sus primeras palabras, con toda certeza, que el dios de la poesía y de la profecía no es favorable a un intento de ‘elevación’ como el que Propercio anuncia (v. 73 aversus Apollo). Tal como hemos señalado, también el vate astrólogo retrocede a los ‘orígenes’ del poeta para recuperar datos fundamentales de su vida (vv. 121-146). En este racconto se destaca por su contenido y extensión el discurso que alguna vez Apolo le habría dirigido al joven poeta (vv. 135-146). Parece razonable considerar esos versos como discurso directo del dios, evocado por Horos – incluyendo las enmiendas pararis por parasti de los MSS (v. 139) y eludet por eludit de los MSS (v. 140) 34 –, visto que se trata de un mandato que encuentra su realización no en la poesía de amor del L. 4 sino en la poesía de servitium amoris que el poeta viene cultivando desde sus inicios. Las palabras de Apolo recordadas por Horos aportan una confirmación de que el programa etiológico de Propercio tiene su punto más crítico en la implícita inclusión de gestas heroicas. Porque es muy notoria en ellas la presencia del tópico de la militia amoris (castra; militiam; armis; hostis; victrices; excubiae), lo que sólo se explica como contraparte de una propuesta de poesía heroica. Tal formato de la admonición resulta poco adecuado como ‘mandato inicial’, ya que no se registra en el Propercio de los inicios un momento de ‘tentación heroica’ 35. En realidad, hay que entender el discurso de Horos como el vehículo creado por Propercio para exponer algo de su ‘conflicto artístico’ en el momento de componer el L. 4. En consecuencia, 34 Sólida argumentación a favor de estas enmiendas ofrece Fedeli en Fedeli – Dimundo – Ceccarelli 2015, 376-377. 35 Motivo que sí está presente en Virgilio (cfr. ecl. 6, 3-5). La ‘tentación heroica’ en Propercio aparece, como vimos, en el segundo libro (cfr. 2, 10).
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podemos considerar que el discurso de Apolo evocado por Horos está concebido ex post, o sea que adopta la forma conveniente a su función de objetar la grave y osada decisión que el poeta ha tomado y que acaba de anunciar. En particular es llamativa, ya en el primer verso del pasaje, la referencia a la poesía erótica como castra (haec tua castra!), que parece congruente con el anuncio de un programa etiológico compuesto con ‘materia patriótica’ (v. 60 hoc [sc. rivus] patriae serviet omne meae). Horos, entonces, invocando la autoridad de Apolo y expresando la conciencia íntima del poeta, sale al cruce de un programa heroico que necesariamente habrá de incluir (como de hecho incluye) castra. Pero los escrúpulos del poeta calimaqueo respecto de la materia patriótica ya no constituyen una barrera insuperable. A pesar del críptico final del discurso de Horos (vv. 147-150), creo que hay coincidencia de la crítica en que el mensaje del astrólogo es básicamente el mismo de todo su discurso: el destino de Propercio es el de poeta-amante, servus amoris; si, como anuncia, se ha de convertir en otra cosa (= poeta-fundador; poeta-vate; dicere fata) está expuesto al extremo peligro del fracaso. Suena más a una advertencia que a una prohibición. De hecho, la advertencia de Horos tiene parcialmente su efecto, un efecto de tipo negativo, pues el programa etiológico ocupa sólo una parte del libro y la otra parte (elegías 3, 5, 7, 8 y 11), que no responde en absoluto al ‘mandato’ de los vv. 135-146, desarrolla nuevas posibilidades del discurso amoroso. El carácter ‘vático’ del programa etiológico properciano, implícito en la elegía de apertura, se hace explícito en la elegía 4, 6, con la que Propercio cumple su reiterado anuncio de celebrar los castra Augusti. Por su ubicación en el centro del libro, los versos iniciales de esta elegía (vv. 1-10) pueden considerarse un típico ‘proemio al medio’ de carácter metapoético; no ha de sorprender, entonces, que el término vates, referido al poeta, aparezca en el primero y en el último verso de este proemio: v. 1 Sacra facit vates: sint ora faventia sacris El vate realiza un sacrificio, sean las bocas favorables al sacrificio. v. 10 pura novum vati laurea mollit iter Un laurel puro le suaviza al vate su nuevo camino. 295
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Del mismo modo que Virgilio se autodenomina vates al comenzar la segunda mitad de la Eneida (7, 41), cuando se apresta a cantar los combates librados por Eneas en el Lacio para lograr su definitiva instalación, así Propercio lo hace en el centro de su última obra, cuando se apresta a celebrar la gran victoria naval que puso en manos de Augusto la totalidad del poder romano. Este término clave del ‘augusteísmo’ 36 pone en diálogo el inicio de 4, 6 con la ya comentada elegía 2, 10. En esta el poeta expresaba el deseo de convertirse en vates magnus (v. 19) mediante canere castra Augusti. Ahora, en su último libro, ya como vates efectivo, realiza aquel anhelo con la celebración de la batalla de Accio. La razón de su ‘nueva capacidad’ es que cuenta con una ‘fórmula calimaquea’ para semejante celebración: exponer el aition del templo de Apolo Naval en un contexto de ‘ritual poético’: sacra facit vates. La ‘condición vática’ asumida por el poeta en el inicio de la elegía se funda en la materia ‘alta’, más concretamente ‘bélica’, que se apresta a tratar, materia que, en principio, no parece compatible con la λεπτότης calimaquea; de allí que se apresure a invocar, en los versos sucesivos, la ayuda de sus maestros alejandrinos, Filitas y Calímaco (4, 6, 3-4): Serta Philiteis certet Romana corymbis et Cyrenaeas urna ministret aquas. La guirnalda romana compita con los corimbos filíteos y mi urna suministre aguas cirenaicas.
Estas invocaciones a los maestros alejandrinos son como un salvoconducto para una ‘condición vática’ que en Propercio, así como en Virgilio y en Horacio, se vincula directamente al tratamiento de materia heroica augustea. Con el mismo sentido, el proemio se inscribe en la tipología de la ‘poesía mimética’, a la que pertenecen los Himnos 2 (A Apolo), 5 (El baño de Palas) y 6 (A Demeter) de Calímaco, en los que el poeta asume el rol de ‘celebrante’ 37. 36 Cfr. nota 11. Una indudable evacación de este inicio se encuentra, significativamente, en Ov. fast. 6, 8. 37 Hutchinson 2006, 156 advierte que vates no es sinónimo de sacerdos («prophecy and sacrifice are separate activities»). Pero en este proemio se da la superposición de ambas actividades, la de vates por la materia que trata el poema, la de sacerdos por el discurso mimético que adopta. La tesitura de ‘celebrante’ de
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Es un tipo de discurso, característico del alejandrinismo, en el que se representa el desarrollo de un ritual, de modo tal que el poema ‘es’ en sí mismo ese ritual. Propercio alude incluso a un precedente calimaqueo preciso, el Himno a Apolo: v. 9 ite procul fraudes, alio sint aere noxae; idos lejos, engaños; en otro espacio estén las maldades;
Call. hymn. 2, 2 ἑκάς, ἑκὰς ὅστις ἀλιτρός. Lejos, lejos de aquí todo malvado.
Pero el modelo calimaqueo opera sólo en el proemio: los vv. 11-14 desarrollan una transición en la que el vate le anuncia a Calíope el tema de la elegía: se trata del aition del templo erigido en honor de Apolo en conmemoración de una batalla, Accio, que será celebrada como victoria del dios y al mismo tiempo de Augusto (4, 6, 11-14): Musa, Palatini referemus Apollinis aedem: res est, Calliope, digna favore tuo. Caesaris in nomen ducuntur carmina: Caesar dum canitur, quaeso, Iuppiter ipse vaces! Oh Musa, celebraremos el templo de Apolo Palatino: es materia, Calíope, digna de tu favor. En el nombre del César se ejecutan mis cantos: mientras se canta a César, te ruego, Júpiter, que tú mismo estés atento.
La invocación a Calíope, en un contexto de celebración de Apolo, remite sin duda a la elegía del ‘sueño heliconio’ (3, 3), en el que ambas divinidades se le presentaban al poeta elegíaco para hacerlo desistir de su ambición de tratar ‘materia heroica’ (vv. 13-26; 37-52). Está claro que ahora el poeta confía en la anuencia de ‘la Musa’ por excelencia 38, y por ello se atreve incluso a pedir la atención del mismísimo Júpiter. un ritual es otra clave del ‘augusteísmo’ poético (cfr. especialmente Prop. 3, 1, 3; Verg. georg. 2, 476-482; 3, 8-39; Hor. carm. 1, 1, 35-36; 3, 1-4; Tib. 2, 5) por lo que no me resulta tan seguro que, en el lenguaje metapoético augusteo, debamos distinguir tajantemente entre vates y sacerdos. 38 Ya desde Hesíodo (Theog. 79) Calíope se presenta como la más importante de las Musas, concepto que Propercio parece asumir a partir del L. 3 (cfr. 3, 2, 16; 3, 37-52; en 1, 2, 28 y 2, 1, 3 Calíope más bien representa a las Musas en general). Cfr. Fedeli 1985, 101.
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La elegía 4, 6 contiene, pues, principalmente la celebración de Accio, a través de un extenso relato (vv. 15-68), a cuyo término el vate declara: v. 69 bella satis cecini. En este punto retornamos al discurso mimético, con la simulación de un simposio (vv. 6986) en el que, de todos modos, vuelven a celebrarse los triunfos de las armas romanas. Está muy claro que no todas las elegías que componen el ciclo etiológico son igualmente ‘heroicas’. Lo son sin duda la 4, 9 (aition del ara maxima) y la 4, 10 (aition del templo de Iovis feretrius), ambas evocadoras de combates que jalonaron la historia de la Vrbs, afirmando su poder; en menor medida la 4, 4 (aition del Tarpeium nemus), donde predomina el interés por el personaje enamorado, aunque en un contexto de guerra; la 4, 2, en cambio, (aition de la estatua del dios Vertumnus) no tiene que ver con episodios de guerra; tal vez por ello está ubicada inmediatamente a continuación de la extensa y compleja elegía de apertura, como una forma ambigua, escurridiza (como el mismo dios Vertumno), de responder al dilema planteado por esa elegía. Recapitulando sintéticamente, podemos decir que desde su segunda obra Propercio da señales claras de querer tratar materia ‘alta’ augustea, pero encuentra una barrera en su manera ‘neotérica’ de asumir la herencia alejandrina. El contacto con el círculo de Mecenas lo acerca a la manera ‘augustea’ de asumir dicha herencia y, en ese contexto, el epos virgiliano le revela una ‘solución’ para su dilema: el programa elegíaco etiológico que realiza en su última obra. De allí que la etiología properciana difiera profundamente de la calimaquea, no obstante que se sirve de ella en abundancia en el plano de la realización artística. Me parece poder concluir que la poesía etiológica fue la ‘solución’ encontrada por Propercio, de la mano de Virgilio, para poder, desde la elegía, constituirse en vates, poniéndose a la altura de sus dos grandes coetáneos, el propio Virgilio en la épica y su rival, Horacio, en la lírica 39. Esa ‘solución’, que nutre la mitad de su última obra, permitió que él también rindiera su tributo patriótico a la Roma augustea. 39 La rivalidad entre Horacio y Propercio es un tema muy estudiado; he tratado de fijar mi posición en Álvarez Hernández 1995. Respecto de la influencia del L. 4 de las Odas de Horacio en el L. 4 de Propercio observaciones fundamentales ofrece Fedeli en Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 72-73.
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Newman 1967 = J. K. Newman, The Concept of Vates in Augustan Poetry, Bruxelles 1967 (Coll. Latomus 89). Van Sickle 1975 = J. Van Sickle, Propertius (vates): Augustan Ideology, Topography and Poetics in Eleg. IV, 1, “Darch” 8, 1974-1975, 116-145. Van Sickle 2004 = J. B. Van Sickle, The Design of Virgils’s Bucolics, London 2004. Williams 1985 = G. Williams, Tradition and Originality in Roman Poetry, Oxford 1985.
Abstracts La obra properciana no presenta indicios de interés por la etiología hasta el cuarto libro. Sin embargo, a partir del contacto de Propercio con el círculo mecenático (del segundo libro en adelante), puede detectarse la voluntad del poeta de incorporar ‘materia augustea’ a su discurso elegíaco. En particular las abundantes referencias a la Eneida demuestran que el acercamiento del poeta a la etiología se da en el marco de su búsqueda de ‘elevar’ el discurso elegíaco en sentido augusteo. El programa etiológico de la última obra properciana se presenta, entonces, como una ‘solución’ (sugerida por el epos virgiliano), a través de la cual Propercio alcanza la categoría de vates Romanus sin renegar de su ‘calimaquismo’. A través de esa condición el poeta elegíaco se pone en paridad con sus dos grandes coetáneos: Virgilio y Horacio. The propertian oeuvre does not display interest for the etiology until the fourth book. However, from the second book onwards (and as consequence of Propertius’ frequent contact with the mecenatic circle), we can detect the poet’s will to incorporate ‘augustan material’ into his elegiac discourse. Particularly the abundant references to the Aeneid show that his approach to the aetiology takes place within the framework of his quest to ‘elevate’ the elegiac discourse in the Augustan sense. The etiological program of the last propertian book represents a ‘solution’ (suggested by the Virgilian epos), through which Propertius reaches the category of vates Romanus without renouncing his ‘callimachism’. This new condition puts the elegiac poet in parity with his two great contemporaries: Virgil and Horace.
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PAOLA PINOTTI Università di Bologna
SCRIBENDA MIHI LEX IN AMORE NOVO: IL LINGUAGGIO DEL DIRITTO IN PROPERZIO
Siamo nel III libro e le vicende altalenanti della relazione fra Properzio e Cinzia hanno portato a un ennesimo tradimento della puella e ad un nuovo discidium, ma la situazione riassunta nei primi versi dell’elegia 20 ha visto la donna a sua volta tradita e abbandonata dal nuovo amante: perciò il poeta cerca di riprendere il rapporto e si propone come innamorato più affidabile: Fortunata domus, modo sit tibi fidus amicus! Fidus ero: in nostros curre, puella, toros! (vv. 9-10)
Ma, prima di riannodare il legame erotico con una nox prima che segni un nuovo inizio, Properzio sente il bisogno di fissare le norme del foedus amoris: Foedera sunt ponenda prius signandaque iura et scribenda mihi lex in amore novo. Haec Amor ipse suo constringet pignora signo: testis sidereae tota corona deae. Namque ubi non certo vincitur foedere lectus non habet ultores nox vigilanda deos, et quibus imposuit, solvit mox vincla libido: contineant nobis omina prima fidem. Ergo, qui pactas in foedera ruperit aras, pollueritque novo sacra marita toro, illi sint quicumque solent in amore dolores, et caput argutae praebeat historiae; nec flenti dominae patefiant nocte fenestrae: semper amet, fructu semper amoris egens. (vv. 15-30)
Evidente è la mutuazione del linguaggio del diritto e il suo adattamento alla situazione erotica: foedera ponenda – iura signanI generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 301-317 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120108
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da – scribenda lex: iuncturae scandite come prescrizioni dalle perifrastiche passive, e poi ancora testis – non certo foedere – imposuit vincla – fidem – pactas in foedera aras 1. Il triplice ricorso a foedus (vv. 15-21-25) rende esplicita quella che si potrebbe definire una ossessione del poeta per il ‘patto d’amore’: nulla di nuovo per i lettori degli elegiaci romani, siamo in presenza della concezione del foedus amicitiae che era stata definita da Catullo in celebri carmi 2, e che comportava il rispetto della fides da parte di entrambi gli amanti o degli amici: Reitzenstein in un celebre studio lo ha messo a fuoco per primo 3. Q uesta concezione dell’amore viene ereditata dagli elegiaci, nell’ideologia dei quali diventa elemento costitutivo, e si associa alla definizione del legame con la puella nei termini del servitium amoris, cioè con una subordinazione dell’uomo alla donna che rovescia la gerarchia del rapporto rispetto al mos di una società romana androcentrica e maschilista; è il ‘mondo alla rovescia’ messo più volte in luce dagli studiosi dell’elegia 4. Cairns ha poi precisato quali fossero le conseguenze estreme del servitium, cioé la capitis deminutio di 2, 23, 23-24 (nullus liber erit, si quis amare volet), la perdita completa dei diritti civili del cittadino romano 5. L’amore tra il poeta e la puella si configura come un rapporto di forze contrapposte, in cui si arriva allo scontro e alla sopraffazione della donna sull’amante, e non fa meraviglia che la descrizione di tale relazione faccia ricorso al linguaggio della schiavitù o addirittura della guerra. Del resto, se leggiamo il passo di Cic. parad. 36 an ille mihi liber cui mulier imperat, cui leges imponit, praescribit iubet vetat quod videtur, qui nihil imperanti negare potest, nihil recusare audit? … ego vero istum non modo servum, sed nequissimum servum … appellandum puto, ci rendiamo conto di come il concetto di servitium Sulla problematica iunctura cfr. Fedeli 1985 ad loc., 601 s. Catull. 30, 3 perfide, 6 fidem, 11 Fides (ad Alfeno); 64, 335, 373 felici foedere; 76, 3 sanctam fidem; 86, 3 nulla fides ullo fuit umquam foedere tanta; 91, 1 fidum (a Gellio); 102, 1-2 fido ab amico – fides animi (a Cornelio); 109, 6 aeternum hoc sanctae foedus amicitiae. 3 Reitzenstein 1912; La Penna 1951, 190 ss.; Hellegouarc’h 1963, 23 ss. 4 Per es. Fedeli 2015, intr. 102. 5 Cairns 1999, 454 ss. (= 2007, 173 ss.). 1 2
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amoris fosse non solo fondamentale nella poesia elegiaca, ma accettato e diffuso anche nella mentalità dei romani contemporanei 6. Si arriva ad una terminologia forte nei passi in cui il poeta auspica o lamenta il regnum di Cinzia su di sé: 3, 10, 18 inque meum semper stent tua regna caput e anche 4, 7, 50 in bocca a Cinzia che riconosce longa mea in libris regna fuere tuis … Là dove si parla di regnum dell’uomo, in 2, 16, 28 barbarus … mea regna tenet e 4, 7, 6 cum quererer lecti frigida regna mei, si tratta solo di un uso metaforico che testimonia più che altro un pio desiderio e un vano tentativo di controllo sul letto della puella; più significative le attestazioni per Cinzia 7. Properzio, facendo ricorso al lessico giuridico, si definisce addirittura addictum sub sua iura (di Cinzia) in 3, 11, 2, come il debitore insolvente fatto schiavo, e si presenta come convocato in giudizio da lei in 3, 16, 2 Tibure me missa iussit adesse mora: espressioni sempre più radicali, quasi una crescente insofferenza del servitium che sembra pesare di più nel libro III, e prelude alla consapevolezza che un definitivo discidium si sta avvicinando. E nella prima elegia del IV libro il poeta lucidamente sintetizzerà quella che è stata la sua condizione per lunghi anni, per mezzo della predizione di Horos: illius arbitrio noctem lucemque videbis (4, 1, 143), in cui all’espressione proverbiale videre noctem / lucem si accompagna l’uso molto forte del termine tecnico legale arbitrium 8, che concede a Cinzia un ruolo di autorità indiscussa, attestato nell’ordinamento giudiziario romano fino dalle XII tavole: 12, 3 praetor arbitros tris dato … eorum arbitrio … decideto; spiega bene Festo 14, 6 Lindsay arbiter dicitur iudex quod totius rei habeat arbitrium et facultatem. Ora è ovvio che, per la mentalità giuridica dei romani, un foedus deve essere regolamentato da leggi precise (si pensi al cerimoniale osservato dai Feziali nella stipulazione dei patti con i popoli stranieri, con le sue formule e la sua complessa gestualità, descritte da Livio 1, 24 e 1, 32 e anche da Polibio e Festo) 9. 6 Sul servitium amoris cfr. Copley 1947, 285 ss.; Lilja 1965, 76 ss.; Lyne 1979, 117 ss. 7 Per regnum cfr. La Penna 1951, 192; Hellegouarc’h 1963, 560 s. 8 Si noti che il termine è un hapax in Properzio. 9 Polyb. 3, 25, 6; Fest. 81; 102 L.; cfr. Pighi 1958, 44 ss.; Piccaluga 1989, I 46 ss.
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Di qui la mutuazione del linguaggio legale, in cui si esprime il vano tentativo di imporre all’ altro contraente del patto un comportamento virtuoso; ne deriva anche la reazione alla rottura del patto, con il vocativo perfidus / perfida (etimologicamente spiegato come qui per fidem decipit; cfr. Plaut. Most. 500 per fidem deceptus sum‘sono stato vittima di un tradimento’) 10. Così ancora una volta, già in Catullo, perfidus era il falso amico Alfeno in 30, 3, e in apertura del lamento di Arianna (64, 133-134; 64, 174 al nom.) ‘Sicine me patriis avectam, perfide, ab aris, perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?
e in patetica anadiplosi, perfidus era l’epiteto rivolto all’eroe traditore che ha abbandonato l’amante, inserendosi nella schiera dei perfidi hospites che abitano i miti ellenistici, capostipite quel Demofoonte che Fillide relicta apostrofa con ἄδικε ξένε in un frammento degli Aitia di Callimaco (556 Pf.) 11. Ma la perfidia caratterizza anche nel linguaggio forense chi viola la legge; Cic, S. Rosc, 109 nullum ius tam sanctum. quod non eius scelus atque perfidia violarit; Cluent. 51 quod est perfidiae aut neglegentiae; p.red.ad Q uir. 21 perfidos amicos (ulciscar) nihil credendo; Phil. 2, 79 quanta fuerit uterque vestrum perfidia in Dolabellam. Ora Properzio riprende l’uso catulliano dell’accusa di perfidia agli amici traditori in 1, 13, 3 a Gallo, e in 2, 34, 9 a Linceo che ha insidiato la puella; ma è quest’ultima il più frequente bersaglio del rimprovero da parte del poeta ingannato: così in 2, 5, 3 il poeta minaccia, dabis mi, perfida, poenas, e ripete l’accusa in 2, 9, 28 e in 2, 18b, 19. E tuttavia il gioco delle parti, nella coppia degli amanti elegiaci, prevede che sia anche la donna a rovesciare il rimprovero, in quella elegia 4, 7 in cui i rapporti uomo/donna tornano a rispecchiare la realtà della società romana, e perciò Cinzia appare sottomessa all’arbitrio e ai tradimenti del suo amante, a cui si rivolge con: perfide nec cuiquam melior sperande puellae … (v. 13) 12. 10 DEL s.v. fides: l’uso passa dal linguaggio politico a quello erotico. cfr. Hellegouarc’h 1963, 23 ss.; Lilja 1965, 69 ss. 11 Cfr. Pichon 1966 (= 1902) s.v.; Opelt 1965, 31 ss.; Della Corte 1969 318 ss.; Pinotti ad Ov. Rem. 597 ss. 12 Fedeli 2015, intr. 102 per l’abbandono del servitium amoris in 4, 7.
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Comunque il foedus resta l’aspirazione, anzi il miraggio, degli innamorati elegiaci, benchè minacciato sia dai capricci della donna (2, 9, 35 quam cito feminea non constat foedus in ira, lamenta il poeta), sia dalle tentazioni di tradimento a cui è esposto l’uomo: incorrupta mei conserva foedera lecti, prega Aretusa rivolta allo sposo legittimo, assimilando il patto nuziale a quello tra amanti (4, 3, 70), e l’ombra di Cinzia morta lamenta foederis heu taciti fallacia verba (4, 7, 21). Altrove i foedera definiscono le regole dettate da una puella che assume il ruolo del generale vittorioso e del legislatore: è la situazione delineata in 4, 8, in cui Properzio tenta invano di ricambiare l’ennesimo tradimento di Cinzia – definito con il termine tecnico legale iniuria al v. 27 13 – ma viene sorpreso in flagrante dal ritorno di lei, che scaccia le potenziali rivali e detta la nuova legge al poeta incapace di reagire: Supplicibus palmis tum demum ad foedera veni, cum vix tangendos praebuit illa pedes, atque ait ‘admissae si vis me ignoscere culpae, accipe, quae nostrae formula legis erit. tu neque Pompeia spatiabere cultus in umbra, nec cum lascivum sternet harena Forum. colla cave inflectas ad summum obliqua theatrum, aut lectica tuae se det aperta morae. Lygdamus in primis, omnis mihi causa querelae, veneat et pedibus vincula bina trahat.’ indixit leges: respondi ego ‘legibus utar.’ riserat imperio facta superba dato. (4, 8, 71 ss.)
Q ui, dalla scena della capta urbs (v. 56) e della conquista militare, l’accento passa all’aspetto giuridico della nuova definizione che il patto tra gli amanti riceve, ad opera di una Cinzia iudex (etimo logicamente da ius dicere: cfr. Varro ling. 6, 61 iudex quod ius dicat accepta potestate). Il discorso di Cinzia è intessuto di termini tecnici e iuncturae giuridiche, e delle leggi assume anche l’andamento conativo e pre13 Cic. leg. 1, 19 ea (lex) est iuris atque iniuriae regula; dom. 81 legem de iniuriis publicis tulisti; Mil. 57 iure an iniuria?; in Properzio abbiamo varie attestazioni del termine per indicare la rottura del patto, fino all’addio di 3, 25 7 fletum iniuria vicit. cfr. Hellegouarc’h 1963, 166 s.
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scrittivo, scandito da imperativi (accipe – cave) e divieti. Al termine, il poliptoto indixit leges … legibus utar (v. 81) concretizza la completa sottomissione di Properzio. Vediamo in questi distici come il gioco delle parti elegiaco presenta una Cinzia operativa in quella funzione di legislatore che Properzio si era illuso di assumere in 3, 20. E per la verità il ruolo dominante di Cinzia è frequente nel corpus delle elegie properziane, in conseguenza di quel rovesciamento del rapporto di forza uomo/donna che definiamo come servitium amoris; e le requisitorie di lei, che colpevolizzano Properzio, fanno da contraltare ai monologhi lamentosi del poeta tradito. Fin dal primo libro infatti la puella rivolge vibranti parole di accusa al poeta che rientra ubriaco in 1, 3, e al v. 39 lo apostrofa con improbe, un epiteto che compariva già nella terminologia legale delle XII tavole: 8, 22 improbus intestabilisque esto (in Gell. 15, 13, 11) 14. In 3, 6 Cinzia, in un nuovo sfogo, riferito al poeta dallo schiavo Ligdamo, che agisce come go-between, ricorre di nuovo alla terminologia legale, questa volta per chiamare a testimone il servo della rottura della fides da parte di Properzio e accusare di improbitas la rivale: 3, 6, 19 s. ‘Haec te teste mihi promissa est, Lygdame, merces? est poena et servo rumpere teste fidem. 25 s. Non me moribus illa, sed herbis improba vicit: staminea rhombi ducitur ille rota. 31 ss. Si non vana canunt mea somnia, Lygdame, testor poena erit ante meos sera sed ampla pedes, putris et in vacuo texetur aranea lecto: noctibus illorum dormiet ipsa Venus.’
finché al v. 31 Ligdamo viene di nuovo chiamato a testimone della poena che colpirà l’amante fedifrago. La situazione iniziale rappresentata nell’elegia, con la descrizione della donna piangente fatta dallo schiavo, è stata giustamente ricondotta ad una scena dell’Heautontimorumenos di Terenzio (285-310, e forse all’origi Thes. VII, 1, 689, 1 ss. “t.t. iur. = infamis”. Sarà poi frequente nelle orazioni di Cicerone: Verr. 3, 219 quod adhuc nemo nisi improbissimus fecit; div.in Caec.70 et accusare improbos et miseros defendere. cfr. Hellegouarc’h 1963, 528 s. 14
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nale menandreo che però è frammentario), ma Properzio amplia la scena mettendo sulle labbra della puella, ben più aggressiva di quella terenziana, non solo lamenti ma un’arringa accusatoria (vv. 19-34) che si chiude perfino con accenti da tabellae defixionum contro il poeta e la rivale. Ricordiamo che l’impiego della terminologia legale è uno degli elementi che Properzio, Tibullo, Ovidio assumono dalla commedia: come è noto fin dagli studi di Friedrich Leo 15, che vedeva nei comici greci della Nea gli ispiratori dell’elegia romana. Il sermo amatorius di Plauto e Terenzio è fondamentale per la nascita del linguaggio elegiaco, e in particolare per l’impiego del lessico legale si può ricordare il contratto amoroso di Plaut. Asin. 746-809 16, in cui per centocinquanta versi vengono puntigliosamente elencate le condizioni in base alle quali Diabolus avrà in esclusiva Filenio, amata dall’adulescens Argirippo: ma si tratta di un esercizio di bravura del commediografo, che applica le norme di legge al rapporto di vendita di una cortigiana ad un cliente. Ben più organico e costante sarà l’impiego della lingua forense negli elegiaci, così come ben più strutturato e complesso sarà il rapporto tra il poeta e la puella a confronto con la coppia amans ephebus / meretrix nelle trame comiche 17. Tornando a Properzio, il carattere imperioso di Cinzia emerge sempre più incisivo nei suoi versi, fino a giungere al grande monologo dell’elegia 4, 7; ma non si deve cadere nella tentazione di ricostruire una cronologia o uno sviluppo nei rapporti dei due amanti in base ai monologhi di lei, e tanto meno si dovrà considerarli come testimonianze di effettive scenate: siamo di fronte a invenzioni letterarie, pretesti del poeta per rendere ancora più visibile il protagonismo della donna, e anche per operare una variatio nelle trame elegiache, altrimenti esposte al rischio di appiattirsi su un racconto sempre uguale di tradimenti e riconciliazioni. Abbiamo citato l’elegia 4, 7, l’apparizione di Cinzia morta, che con il suo atteggiamento e le sue parole, come è stato giustamente osservato 18 «rifonda su nuove basi il legame con Properzio», scon Leo Elegie und Komödie 1900, 604 ss.; 1912, 143 ss.; Kenney 1967, 217 ss. sulla terminologia e i concetti giuridici negli elegiaci. 16 Fedeli 2015, ad 4, 8, 71-74, 1086 ss. 17 Sull’amans ephebus cfr. Traina 2000, 62 ss. 18 Fedeli 2015, Intr., 101 ss.; Dimundo ad 4, 7, 906 ss. 15
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fessa la concezione dell’amore come servitium dell’uomo e «ripristina la condizione effettiva» di subordinazione della donna romana dipendente dall’arbitrio del suo amante. 4, 7, 35-38 Lygdamus uratur, candescat lamina vernae: sensi ego, cum insidiis pallida vina bibi. ut Nomas arcanas tollat versuta salivas, dicet damnatas ignea testa manus. 49-53 Non tamen insector, quamvis mereare, Properti: longa mea in libris regna fuere tuis. Iuro ego Fatorum nulli revolubile carmen, tergeminusque canis sic mihi molle sonet, me servasse fidem … 63-64 Andromedeque et Hypermestre sine fraude marita narrant historiae nota pericla suae. 95-96 Haec postquam querula mecum sub lite peregit, inter complexus excidit umbra meos.
Eppure questa Cinzia vittima di indifferenza e tradimenti pronuncia una volta di più un monologo che è anche un atto di accusa verso il poeta: esordisce con l’ennesimo vocativo perfide al v. 13, ricorre ancora alla terminologia giuridica del foedus (v. 21), e, ben lontana dall’essere una remissiva e lamentosa donna tradita, perfino dall’oltretomba impone, come un giudice inflessibile, le pene corporali (vere e proprie torture) contro gli schiavi traditori: Lygdamus uratur; candescat lamina vernae, e Nomas a cui dicet damnatas ignea testa manus. Più avanti, dopo il quadro delle crudeli punizioni fisiche che colpiscono le schiave a lei fedeli, assicura al poeta: non tamen insector (v. 49), evocando non solo la persecuzione dei morti contro i vivi colpevoli, ma utilizzando anche un verbum iudiciale che definisce tecnicamente il ruolo del l’accusatore 19. Poco dopo, al v. 53, ribadisce il concetto della fides nella coppia, da lei sempre servata, e, autoassolvendosi in questo inedito ruolo di virtuosa amante, si colloca nell’Elisio delle eroine senza colpa come Andromeda e Ipermestra sine fraude marita 20: ma questo 19 Cic. Planc. 48 insto atque urgeo, insector … flagito crimen; Deiot. 30 non ficto crimine insectari. cfr. Dimundo 2015 ad loc.: verbo usato in re forensi. 20 Fedeli – Dimundo 2015 ad loc. per la lezione marita contro il plurale sostenuto da Hutchinson.
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sine fraude riproduce in ambito erotico la formula tecnica che compariva in contesti giudiziari, fin dalla legislazione decemvirale delle XII tavole, nella forma arcaica della preposizione se fraude: III 6 (in Gell. 20, 1, 49); X 9 21. Al v. 70 ritroviamo anche i perfidiae crimina multa rinfacciati al poeta, e la formula dell’esametro nel distico finale, postquam querula mecum sub lite peregit, con i termini tecnici peragere e lis, qualifica ulteriormente il monologo di Cinzia come la requisitoria di un pubblico ministero 22. A volte tuttavia il ruolo di Cinzia giudice non è così minaccioso e punitivo come in 4, 7 e 4, 8: può anche assumere una funzione di garanzia, come nell’orgogliosa affermazione con la quale Properzio in 2, 13a, 13-14 haec ubi contigerint, populi confusa valeto / fabula: nam domina iudice tutus ero sfida la populi confusa fabula, le chiacchiere e i giudizi del volgo sui suoi versi: infatti afferma domina iudice tutus ero, e qui il termine giuridico è usato in accezione letteraria 23. Finora abbiamo visto il riuso del formulario giuridico soprattutto in relazione a Cinzia e Properzio, ma nel IV libro i personaggi più inattesi prendono in prestito iuncturae legali o mettono in pratica azioni di tipo giudiziario. 4, 4, 55 ss. Dic, hospes, † pariamne † tua regina sub aula? dos tibi non humilis prodita Roma venit. Si minus, at raptae ne sint impune Sabinae, me rape et alterna lege repende vices! Commissas acies ego possum solvere nupta: vos medium palla foedus inite mea.
Q ui Tarpea, vestale traditrice, si sostituisce al pater familias nel l’assicurare al re sabino Tazio il pagamento della propria dote in cambio delle nozze; ma la dote è Roma: dos tibi non humilis prodita Roma venit 24. Al v. 58 invita il nemico, con alterna lege Parafrasato da Cic. leg. 2, 24, 60 con sine fraude. Thes. VII 2, 1496, 13 ss. s.v. lis dalle XII tavole in poi: I, 8 (in Gell. 17, 2, 10) litem addicito. Thes. X 1, 1175, 60 ss. s.v. perago; 1180, 20 «-ere causam, litem (fere in iudiciis)». 23 Fedeli 2005, ad loc.: allusione a Verg. buc. 4, 58 Pan … Arcadia mecum si iudice certet / … Arcadia dicat se iudice victum; suggerirei anche un’allusione a Cornelio Gallo, epigr c, 9 … Kato iudice te vereor (purtroppo lacunoso). 24 Fedeli 2015, ad loc., sulla formularità giuridica di dos venit. 21 22
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repende vices, ad uno scambio alla pari fra il ratto delle Sabine e il proprio, e le stesse Sabine sono incoraggiate a stipulare un patto (foedus inite al v. 60), quasi come dei Feziali in abito femminile. Poi la mezzana Acanthis, in 4, 5, 13, osa imponere leges alla luna con le sue arti magiche, e la ben più rispettabile sacerdotessa della Bona Dea, in 4, 9, 55, si permette di minacciare il semidio Ercole con una lex metuenda, salvo poi essere vittima della sua collera quando egli a sua volta al v. 64 ponit … tristia iura che escluderanno le donne dall’Ara Maxima. Ma al di là dell’uso spesso traslato del lessico giudiziario, e del trasferimento in ambito erotico di situazioni legali, accade anche che gli amanti incontrino – o si scontrino con – provvedimenti legislativi minacciosi: è il caso dell’elegia 2, 7, unica testimonianza, e rompicapo per i romanisti, di un provvedimento che sembrava mettere a rischio il loro rapporto 2, 7, 1-4 Gauisa es certe sublatam, Cynthia, legem, qua quondam edicta flemus uterque diu, ni nos divideret: quamvis diducere amantis non queat invitos Iuppiter ipse duos.
Tanto che il pericolo induce Properzio alla professione di fede pacifista del distico 13-14: Unde mihi patriis natos praebere triumphis? Nullus de nostro sanguine miles erit.
Rimandiamo alla documentata discussione di Fedeli ad loc. per il problema di individuare quale legge, presto sublata, sia da riconoscere nell’inizio dell’elegia: certamente, per motivi cronologici, non si tratta della legislazione matrimoniale augustea, che si concretizzerà appena nel 18-17 nella Lex Iulia de maritandis ordinibus e in quella de adulteriis coercendis 25, della prima delle quali troviamo invece traccia nel Carmen saeculare oraziano, nella quinta strofa, 17 ss. diva … / prosperes decreta super iugandis / feminis prolisque novae feraci / lege marita 26.
CAH 1968, X, 1, 512 ss. (Last); Raditsa 1980, 278 ss.; Della Corte 1982,
25
71 ss.
Cfr. Fraenkel 1957, 373 s.
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E tanto meno entra in gioco la lex Papia Poppaea che verrà promulgata appena nel 9 d.C. 27. Ma probabilmente Properzio allude ad un editto triumvirale, poi revocato in seguito alle diffuse proteste (che non mancheranno nemmeno in occasione delle leggi appena citate), e la revoca sarebbe databile al 28-27 28. Le due leggi Iuliae sono dunque posteriori a quasi tutta la produzione properziana, ma ne sono state riconosciute tracce in espressioni e allusioni contenute nel libro IV, sulle labbra delle due figure femminili che da queste leggi sono garantite o addirittura premiate: si tratta di Aretusa, la sposa fedele di 4, 3, e di Cornelia, la nobile matrona di 4, 11. Aretusa parla di un amore che è † aperto in † coniuge maior (v. 49) 29, si conforma con i suoi mores allo stereotipo della moglie romana, e, ricalcando l’esempio di quella Claudia che era celebrata nell’ elogium epigrafico di età graccana di CIL 12, 1211, 8, domum servat e lanam facit; come è logico e anzi doveroso per la sua posizione sociale e la sua condizione di donna sposata, invoca il rispetto di quella fedeltà coniugale (11-12 marita fides) che il princeps sponsorizzava nel tentativo di moralizzare i rapporti matrimoniali, deteriorati nella società della tarda repubblica. L’elegia di Cornelia, la 4, 11, presenta un personaggio ancora più allineato alla legislazione augustea, ma il suo atteggiamento è plausibile in quanto ci troviamo di fronte ad una matrona realmente esistita, e per di più imparentata con il princeps per mezzo della madre Scribonia, che, sposata ad Augusto per breve tempo dopo altri due matrimoni, gli aveva dato la figlia Giulia 30. La poca fortuna di Augusto con l’unica figlia fu almeno compensata dalla vita esemplare della sposa Livia, additata spesso CAH 1968, X, 1, 521 (Last). Suet. Aug. 34, 1; Cass. Dio 56, 10, 1: cfr. CAH 1968, X, 1, 521 (Last); Tränkle 1983, 153 ss. 29 Il passo è corrotto, ma, sia che si legga adempto sia rapto, resta la legittimazione dell’amore coniugale cfr. Dimundo 2015 ad loc. 30 Giulia, sorellastra quindi di Cornelia, ebbe però ben altri mores, specialmente dopo la morte del marito Agrippa nel 12, e finì esiliata per sempre da Roma per la sua condotta scandalosa e il legame con Iullo Antonio, coinvolto in una congiura contro Augusto (Suet. Aug. 65; Tac. ann. 3, 24; Cass. Dio 55, 12 ss.). cfr. CAH 1968, X, 1, 195 ss. (Stuart-Jones). Tuttavia all’epoca della morte di Cornelia Properzio può ancora scrivere il v. 59, sua nata dignam vixisse sororem, che a noi suona fuori posto alla luce dei fatti successivi. 27 28
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a modello per le donne romane 31. Q ui è Cornelia che si autopromuove come esempio al v. 44 magnae pars imitanda domus. 4, 11, 27 s. Ipsa loquor pro me: si fallo, poena sororum infelix umeros urgeat urna meos. 35-37 iungor, Paulle, tuo sic discessura cubili, ut lapide hoc uni nupta fuisse legar. Testor maiorum cineres tibi, Roma, colendos 43-48 Non fuit exuviis tantis Cornelia damnum: quin et erat magnae pars imitanda domus. Nec mea mutata est aetas; sine crimine tota est: viximus insignes inter utramque facem. Mi natura dedit leges a sanguine ductas, nec possis melior iudicis esse metu. 61-62 Et tamen emerui generosos vestis honores, nec mea de sterili facta rapina domo. 67-68 Filia, tu specimen censurae nata paternae, fac teneas unum, nos imitata, virum. 99 Causa perorata est. Flentes me surgite, testes
Ora dunque Cornelia può enumerare tra i suoi meriti la fecondità: emerui generosos vestis honores / nec mea de sterili facta est rapina domo (vv. 61-62) 32: è da vedere qui un riflesso dei provvedimenti contenuti nelle leggi Iuliae e indirizzati a favorire la natalità, combattendo la crisi demografica e il calo delle nascite nelle classi alte di Roma. Così come è stata riconosciuta un’allusione alla lex Iulia de adulteriis nella notazione che Cornelia è stata virtuosa non iudicis metu (v. 48). Ma soprattutto questa figura esemplare viene presentata da Properzio in un contesto giudiziario, in un vero e proprio processo davanti al tribunale infernale, e nel ruolo di avvocato difensore di se stessa. Il tribunale viene caratterizzato dal poeta come un’aula di giustizia romana, con l’urna per il sorteggio dei giudici (vv. 19-20), Eaco e Radamanto come assessores (v. 21), le tabellae per scrivere la sentenza (v. 49), la presenza delle Eumenidi, turba severa (v. 22), connotate da un epiteto che «usurpatur in rebus 31 Cfr. le sue lodi nella Consolatio ad Liviam, 41 s. quid tibi nunc mores prosunt actumque pudice /omne aevum et tanto tam placuisse viro?; 344 principe digna viro. 32 Fedeli 2015 ad loc. sulla natura di questi onori: non si tratta del ius trium liberorum, concesso invece in via straordinaria a Livia nel 9: cfr. CAH 1968, X, 1, 520 (Last).
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iudicialibus de eo qui nihil de poena legibus constituta remittendum censeat» 33. E la sella di Minosse è ovviamente quella del magistrato giudicante: Cic. Verr. 3, 130 in sella sedens praetor; Liv. 41, 20, 1 sella eburnea posita … ius dicebat. Cornelia dunque pronuncia la sua arringa in pubblico, in una situazione inaudita per una donna romana, per di più matrona aristocratica: le sue parole somigliano ad una laudatio funebris in prima persona, che però si sviluppa in una defensio secondo le partizioni del genus iudiciale, contaminando i due tipi di discorso 34. Colpisce la sicurezza di Cornelia che, senza alcuna timidezza, afferma ipsa loquor pro me (v. 27), non esita a convocare come testimoni della difesa i gloriosi antenati della sua gens: testormaiorum cineres (v. 37), proclama la sua vita sine crimine (v. 45, come erano le eroine sine fraude compagne di Cinzia nell’Elisio delle donne fedeli, in 4, 7). Della defunta Claudia dell’epitafio già citato di CIL I 2, 1211, 7 si ricordava il sermo lepidus; ben diverso appare l’atteggiamento e il carattere di questa matrona, per quanto possa in vita essere stata diligentemente domiseda e lanifica 35. Le regole di comportamento da lei seguite sono definite leges a sanguine ductae (ductas v. 47): non potrebbe essere più esplicita l’esaltazione del mos maiorum e la consapevolezza orgogliosa della continuità fra gli antenati gloriosi e i loro virtuosi discendenti: Cornelia univira e madre di tre figli (vv. 35-36 e 61-62) in nome di questa continuità esorta la figlia femmina a seguire il suo esempio (v. 68) fac teneas unum nos imitata virum.
33 Forcellini IV 150. Cic. Caec. 6 severitatem iudicis ac vim; Verr. 30 ex familia … ad iudicandum severissima; div.in Caec. 73 tam severam diligentemque accusationem; Flor. Epit 2, 34 (4, 12, 65) severis legibus coercuit. Le Eumenidi secondo Fedeli 2015, ad loc., assumono il ruolo dei littori. La quasi ossimorica iuncturaturba severa, che non ha paralleli, sembrerebbe generata per reminiscenza properziana da una cellula fonica virgiliana di ambientazione analoga nell’Ade: georg. 3, 37 invidia infelix furias amnemque severum / Cocyti metuet …; Aen. 6, 374 tu Stygias inhumatas aquas amnemque severum / Eumenidum aspicies. 34 Cfr. Cicerale 1978, 28 ss. sulle partizioni oratorie del discorso giudiziario e la struttura dell’apologia di Cornelia: prooemium 27-36; narratio 37-54; probatio 55-72; peroratio 73-102. 35 I commentatori segnalano allusioni all’Alcesti di Euripide per la figura della sposa fedele e virtuosa, ma l’ambientazione giudiziaria è invenzione di Properzio.
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E chiude la peroratio della sua apologia, al v. 99, evocando una volta di più il solenne consesso degli antenati che ha citato a propria difesa: causa perorata est, flentes me surgite, testes, e concludendo così l’elegia e il libro IV con la scena del tribunale infernale, popolato di austere e spettrali ombre di romani illustri. In questo allineamento di Properzio alle tradizioni romane e alla morale augustea, dopo tanti proclami di disimpegno e trasgressione, e ostentazioni di nequitia, forse si deve riconoscere l’influsso di una committenza elevatissima, ma anche la maturazione del poeta, che è giunto a vedere nel passato di Roma un rapporto di continuità con il presente, come suggerisce Fedeli 36. Ma va anche rilevato come questo sviluppo dell’arte properziana si realizza nel IV libro per mezzo dell’approfondimento psicologico di figure femminili che sono spesso fuori dagli schemi: la fedele Aretusa che, oltre a custodire la domus e filare e tessere, osa esprimere il desiderio di essere nei castra col marito, sembra pretendere fedeltà da lui, e si impegna a studiare le carte come un’apprendista geografa; Tarpea vestale traditrice della patria per amore, e non per denaro come nella tradizione precedente; e soprattutto Cornelia, che non si limita ad esprimere desideri auspici speranze rimpianti, ma si appropria di un ruolo maschile e pubblico, come avvocato difensore di se stessa, impiegando con competenza giuridica la terminologia legale riservata agli uomini, educati al genus iudiciale fin da bambini 37. Anche la laudatio funebris di Cornelia non è affidata, come era tradizionale, al rappresentante più illustre della gens: è la defunta stessa che diviene la persona loquens, in una performance inedita per una donna: se alta committenza ci fu, ci si potrebbe chiedere se e quanto gli altolocati e rispettabili parenti in lutto saranno rimasti perplessi di fronte al protagonismo e all’intraprendenza prestati alla nobile matrona da un Properzio ormai giunto alla più completa maturità di poeta.
Fedeli 2015, intr. 118. Cic. leg. 2, 9, sulle XII Tavole imparate a parvis. Cfr. Romano 2005, 455 s. «alla metà del I secolo le XII tavole rientravano ancora nei programmi scolastici»; dal de oratore 1, 193-195 emerge che la conoscenza del ius civile era componente indispensabile nella formazione dell’oratore. 36 37
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IL LINGUAGGIO DEL DIRITTO IN PROPERZIO
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P. PINOTTI
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IL LINGUAGGIO DEL DIRITTO IN PROPERZIO
Abstracts Gli elegiaci romani assumono dalla commedia di Plauto e Terenzio la terminologia legale, e ne ampliano l’uso impiegandola per definire il foedus amoris, che lega gli amanti (concetto mutuato da Catullo). Properzio in particolare fa largo ricorso al termine fides, alla rottura della quale riferisce l’epiteto perfidus/perfida. Termini tecnici e iuncturae forensi si ritrovano nei monologhi sia del poeta che della puella: per quest’ultima si vedano 4, 7 e 4, 8. Altri personaggi femminili ricorrono al formulario giuridico nel IV libro, specialmente Aretusa in 4, 3 e Cornelia che, in 4, 11, pronuncia un’arringa difensiva davanti al tribunale infernale: qui si riconoscono echi della legislazione augustea sul matrimonio, mentre in 2, 7 si allude ad una non meglio testimoniata legge che rischia di dividere gli amanti. Roman elegy makes use of legal vocabulary and concepts coming from latin comedy, and defines so the foedus amoris and its laws (borrowing the idea from Catullus). In Propertius, the poet and the puella as well speak several times with legal iuncturae and behave like a judge or a lawyer, specially Cynthia in 4, 7, charging the poet with perfidia, and in 4, 8, playing the legislator. In book 4 other female characters employ juridical language or try to impose a rule. Arethusa claims the fides of her husband, and Cornelia in 4, 11 utters a plea of self-defense in front of the infernal law-court; in this book we discover hints to augustan marriage laws.
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GIOVANNI POLARA Università degli Studi di Napoli, Federico II
PROPERZIO E L’EPIGRAFIA
L’età augustea è stata troppo lunga, troppo complessa e troppo importante per non suscitare entusiasmi e avversioni, fra i contemporanei e gli studiosi delle età successive. Si tratta di una discussione che dura ormai da due millenni, e che ha investito tutti gli aspetti dell’esistenza, dall’organizzazione dello stato alla letteratura, dalle arti all’economia e così di seguito, e anche il giudizio sull’epigrafia augustea risente di questa molteplicità di opinioni. Per limitarsi all’epoca più recente e alle valutazioni più nette e argomentate, e ricordando che, accanto ai due principali punti di riferimento di cui diremo, ci sono altri due studiosi, e con non meno meriti, che si sono dedicati all’approfondimento del l’epigrafia augustea sottolineandone diverse caratteristiche, cioè Géza Alföldy e Werner Eck 1, si va sostanzialmente dal parere fortemente riduttivo di un grande studioso come Heikki Solin, che nega recisamente la possibilità di distinguere con certezza, in assenza di altri argomenti di carattere non epigrafico, un’iscrizione degli ultimi decenni della repubblica da una di età augustea 2, a quello altrettanto autorevole di Silvio Panciera, che sottolinea invece l’impressionante crescita nel numero delle iscrizioni pervenute, nella lunghezza dei testi, nell’incremento percentuale delle iscrizioni private rispetto a quelle pubbliche, e in particolare Alföldy 1991, 573-600; Alföldy 1992; Eck 1996, 271-298. Solin 1999, 382: «C’è stata nella produzione epigrafica degli anni quaranta e trenta a.C. una svolta tale da giustificare una netta distinzione tra iscrizioni repubblicane e imperiali? … Una rottura nella produzione epigrafica non c’è stata, come si vede dagli innumerevoli documenti epigrafici databili con pari diritto tanto all’età tardo repubblicana quanto al primo periodo imperiale». 1 2
I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 319-334 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120109
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sacre, e soprattutto nella funzione di abbellimento urbano assunta dai marmi su cui sono incise le epigrafi; per Panciera non ci sono dubbi che profondi cambiamenti siano intervenuti, con Augusto, nel ruolo e nelle finalità della comunicazione epigrafica 3. In effetti, questa differenza di posizioni non stupisce, se si pensa ai diversi punti di vista dei due studiosi, più attento al singolo documento e alle sue caratteristiche Solin, e quindi propenso alla sua collocazione in una serie in cui la continuità prevalga sulle rotture, più interessato al sistema di comunicazione proprio delle scritture esposte e al loro significato culturale e ideologico Panciera, che vedeva nella storia dell’epigrafia una non secondaria componente della storia politica e sociale di un’epoca. Q uello che è certo è che gli abitanti di Roma, in età augustea, avevano occasione di vedere e – se alfabetizzati – di leggere più iscrizioni di quante ce ne fossero state nelle epoche precedenti 4, perché non era più solo la Res publica a collocarle per le strade, sui monumenti e dovunque potessero intercettare lo sguardo dei passanti: anche i privati, e sempre in maggior numero, perfino nei ceti subalterni in ascesa come quello dei liberti, avevano accesso a questo canale di informazione, e non solo nelle sue tipologie più economiche come i graffiti o nei più tradizionali generi come gli epitafi, perché restauri di edifici, nuove costruzioni, ma anche altri atti evergetici giustificavano lunghe iscrizioni con l’elogio del benefattore 5. C’è di più: le iscrizioni si presentano anche dal punto di vista materiale con differenze per così dire estetiche che si spiegano solo nel contesto degli altri interventi augustei: si diffonde l’uso del marmo e si riduce quello delle altre pietre; sempre più spesso sono incorniciate o sagomate in maniera ornata, per abbellirle e renderle più monumentali; si diffonde l’uso delle lettere di bronzo o di bronzo dorato inserite nella lastra, che – aggiunto ad altre tecniche impiegate anche per le lettere incise – accresce l’effetto
3 Panciera 2007, 99: «crederei di dover concludere che tra la seconda metà del I sec. a.C. ed i primi decenni del I sec. d.C. non sia nata soltanto una nuova forma di governo destinata a durare a lungo, ma anche una nuova epigrafia in sintonia con il mutato ordine delle cose ed idonea ad esprimerne i rinnovati valori, morali prima ancora che politici e sociali». Per l’aspetto ‘visivo’ della civiltà augu stea si vedano anche le ultime pagine di Mazzarino 1980. 4 Alföldy 1991, 575; 598-600. 5 Panciera 2007, in particolare 92-95 e 97.
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scenografico, attira l’attenzione del passante e lo invita alla lettura del testo 6. Si può dire, insomma, che gli abitanti di Roma, (ma le tendenze dell’epigrafia in uso nella capitale rapidamente si diffusero anche a tutte le principali città d’Italia) erano continuamente esposti, proprio come le scritture!, al messaggio non soltanto verbale che da queste proveniva, e condizionati sul piano delle idee in maniera più o meno consapevole; un poeta doctus era perciò influenzato dall’epigrafia per due vie separate ma convergenti, quella della visione diretta di iscrizioni materialmente presenti nei luoghi da lui frequentati e quella dei testi letterari greci e latini con iscrizioni fittizie che facevano parte del suo bagaglio di conoscenze. Di questi ultimi, come probabili o sicuri precedenti di quelli properziani, si sono ampiamente ed esaustivamente occupati due degli organizzatori del nostro convegno, Paolo Fedeli nel 1989 con il suo Il poeta lapicida dedicato a Tadeusz Zawadzki e più recentemente Carlo Santini nel 2002 con Tabulae Propertianae ovvero dell’epigrafe virtuale in Properzio 7. Grazie al loro lavoro si possono considerare pressoché completati il reperimento del materiale e la sua sistemazione, da Callimaco, Teocrito e Meleagro a Leonida e agli altri autori di epigrammi tramandati dall’Antologia Palatina, ma anche da Plauto ed Ennio ai contemporanei o quasi contemporanei di Properzio come Tibullo, Ligdamo e Ovidio; e sempre grazie a loro disponiamo di un’attenta indagine sui carmina Latina epigraphica e sulle consonanze e coincidenze fra questi e il testo di Properzio. Panciera 2007, 98. Fedeli 1989; Santini 2002. Sulla presenza di Properzio in più tardi carmi latini epigrafici (che però non è oggetto di questo lavoro) si vedano i tre volumi di Cugusi – Sblendorio 2016, che raccolgono Q uaranta anni di ricerche e nelle pagine indicate nell’indice degli auctores e in quello dei loro versi presenti in iscrizioni (1843 e 1845) indagano sugli echi properziani da 1, 1, 5; 1, 10, 19; 1, 22, 8 (la terra che ricopre le ossa); 2, 1, 71-72 (dell’uomo rimane il nome inciso sulla tomba); 2, 5, 9 e 3, 16, 13-14 (trascritti a Pompei); 2, 13b, 35-36 (l’epitafio di Properzio, di cui si farà cenno più avanti); 4, 11, 1 (inutilità delle lacrime sulla tomba), ma anche sulle riprese properziane di temi documentati nella precedente produzione epigrafica, a 1, 21, 1 (nessuno sfugge alla morte); 2, 11, 5-6 (le ceneri e la persona così ridotta dopo la cremazione); 4, 7, 1 (i Mani, con rinvii al volume di R. Dimundo di cui si parlerà più avanti, cfr. nota 28; qualcosa di utile è reperibile anche in Tantimonaco 2016), e 85-86 (l’epitafio di Cinzia); 4, 11, 95 (augurio di Cornelia che gli anni da lei non vissuti si aggiungano alla vita dei suoi cari): su alcuni di questi luoghi si ritornerà nelle prossime pagine. 6 7
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Il corpus dei luoghi presi in esame da Fedeli e Santini comprende complessivamente una quindicina di passi, ma di questi solo sei o al più sette propongono testi che il poeta sicuramente dichiara come davvero epigrafici, perché una volta si tratta della negazione dell’esistenza di un epitafio, ipotizzato dunque come possibile, ma al tempo stesso rifiutato ed esorcizzato 8; in un paio di casi ci vengono date informazioni relative all’esistenza di iscrizioni o graffiti su porte e colonne e al loro contenuto di massima, ma senza che ne sia riportato o immaginato il testo 9; in cinque infine ci troviamo dinanzi a parole probabilmente, o addirittura sicuramente intese non tanto come testo di epitafi ma piuttosto come pronunciate (e in un caso come non pronunciate) da chi passa dinanzi al sepolcro o da un moribondo 10. 8 3, 16, 25-30: Di faciant mea ne terra locet ossa frequenti, / qua facit assiduo tramite vulgus iter! / Post mortem tumuli sic infamantur amantum. / Me tegat arborea devia terra coma, / aut humer ignotae cumulis vallatus harenae: / non iuvat in media nomen habere via. 9 1, 16, 9-10, dove parla la porta, su cui alcuni passanti si divertono a lasciare iscrizioni irriguardose: Nec possum infamis dominae defendere noctes, / nobilis obscenis tradita carminibus, e 3, 23, 23-24: I puer, et citus haec aliqua propone columna, / et dominum Esquiliis scribe habitare tuum!, che concludono l’elegia sulla perdita della tavoletta con l’ordine allo schiavo di appendere su qualche colonna un avviso con la promessa di mancia competente per chi restituisse l’oggetto smarrito al domicilio del legittimo proprietario. Si discute se l’haec faccia riferimento all’intero testo dell’elegia così come è o piuttosto al suo contenuto, verisimilmente sintetizzato in un avviso, ma è evidente che il problema, ai fini dell’interpretazione dell’elegia, è secondario, perché la collocazione nel libro ne dimostra la natura letteraria, da rotolo di papiro, e l’affissione è comunque di fantasia, anche se non deve eccedere troppo il limite del verosimile. 10 1, 7, 23-34: Nec poterunt iuvenes nostro reticere sepulcro / “Ardoris nostri magne poeta iaces”; 2, 1, 77-78: Taliaque illacrimans mutae iace verba favillae: / “Huic misero fatum dura puella fuit”; 2, 11, 5-6: Et tua transibit contemnens ossa viator, / nec dicet: “Cinis hic docta puella fuit”; 3, 7, 27-28: Et quotiens Paeti transibit nauta sepulcrum, / dicat: “Et audaci tu timor esse potes”, quattro casi in cui la presenza di un’iscrizione funeraria presuppone che chi pronuncia queste parole le legga incise da qualche parte, cosa che – soprattutto negli ultimi due luoghi – non sembra sia necessariamente deducibile dal contesto. Il quinto è quello del l’intera elegia 1, 21, Tu, qui consortem properas evadere casum, / miles ab Etruscis saucius aggeribus, / quid nostro gemitu turgentia lumina torques? / Pars ego sum vestrae proxima militiae. / Sic te servato possint gaudere parentes / ne soror acta tuis sentiat e lacrimis / Gallum per medios ereptum Caesaris ensis / effugere ignotas non potuisse manus; / et quaecumque super dispersa invenerit ossa / montibus Etruscis, haec sciat esse mea, ampiamente trattata da Santini 2002, 447-449 e certamente epigrammatica nella sua brevità e con molti tratti che la accostano ad epitafi dell’Antologia Palatina, ma per troppi aspetti distante dalla diffusa tipolo-
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Il caso forse più incerto è quello che si riferisce ad un testo poetico che potrebbe ragionevolmente appartenere alla categoria dei versi incisi su una porta, alla quale, come si è detto, si accenna anche altrove, ma potrebbe anche essere semplicemente un comune verso poetico, da poesia che in quanto tale è destinata ad un’esistenza perfino più lunga di quella che il più solido supporto dovrebbe garantire a iscrizioni e graffiti. Alla fine di 2, 5, dopo aver riferito delle voci su un nuovo, ma più oltraggioso tradimento di Cinzia, e averla avvertita che in questo modo rischia di perdere il suo cantore, il quale dedicherà ad altre la capacità poetica di rendere famosa la donna amata, il poeta aggiunge una nuova e più grave minaccia: non solo lei sarà privata delle lodi, ma le arriveranno anche pesanti biasimi per il suo comportamento, che la segneranno per sempre e di cui non riuscirà mai a liberarsi finché vivrà. Lo scomma con cui Properzio otterrà questo risultato è nel penultimo pentametro dell’elegia, la quale si conclude così: Scribam igitur, quod non umquam tua deleat aetas: “Cynthia, forma potens; Cynthia, verba levis”. Crede mihi, quamvis contemnas murmura famae Hic tibi pallori, Cynthia, versus erit 11.
Cynthia forma potens, Cynthia verba levis è un verso molto bello, e altrettanto tormentato dalla tradizione e dai congetturatori, e sulla prima come sui secondi si potrebbe scrivere un lungo libro: si vedano e si apprezzino quel nome della donna che pure ci si sente costretti a lasciare, ma viene ripetuto e collocato in posizione di estremo rilievo, all’inizio dei due emistichi; il perfetto equilibrio fra le parti, temperato dalla variatio fra il nominativo forma e l’accusativo di relazione verba; la geniale identificazione tra la donna e la sua forma, per cui Cinzia è la bellezza, e non si limita solo a possederla, come nell’analoga ma meno intensa testimonianza di 3, 20, 7 – sempre per Cinzia – est tibi forma potens gia del dialogo fra il defunto e il passante, e caratterizzata piuttosto come ultime parole di un morente che, parlando con uno scampato in fuga, assurge a simbolo di tutti i caduti, con la preghiera di non far mai sapere ai suoi cari che non è morto gloriosamente in battaglia, ma solo dopo lo scontro e in maniera meno onorevole, e con l’invito all’ignara sorella di riconoscerlo in tutti i resti umani che si potranno a lungo trovare in quei campi. 11 2, 5, 27-30.
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e nelle successive riprese da parte di altri poeti 12. Un verso ben riuscito, perciò pure esso potente, tanto da costringere la donna ad impallidire anche se una come lei è così sicura di sé e tanto coraggiosa che non si farà mai condizionare da quello che possono dire gli altri; un verso destinato a sopravviverle, indipendentemente dal materiale su cui può essere stato scritto, cera o papiro, come il redde codicillos del carme 42 di Catullo, a cui pensa Stroh come possibile precedente 13, oppure il legno di una porta o il muro di una facciata di casa (ancora Catullo, ma in questo caso gli scazonti del carme 37, Salax taberna!) secondo l’interpretazione di Paolo Fedeli 14. Q uelle parole saranno indelebili, anche se Cinzia farà piallare la porta o imbiancare il muro, perché, come scriveva più o meno negli stessi anni Orazio, la pioggia, il vento, il tempo possono cancellare mura e bronzo, ma la poesia rimane nel ricordo delle generazioni, almeno fino a quando dura una civiltà. Il Venosino, alla prova dei fatti, è stato pessimista nel prevedere che la sopravvivenza delle sue odi fosse assicurata solo dum Capitolium / scandet cum tacita virgine pontifex 15, o forse troppo ‘ottimista’ nell’augurare alla civiltà dell’antica Roma una durata maggiore rispetto a quella che effettivamente ebbe, ma certamente più sfiduciato, e discreto, è Properzio, che si contenta di essere letto e ricordato almeno finché sarà in vita Cinzia, un termine che evidentemente gli sembrava ragionevole ai tempi della prima parte del secondo libro, quando ancora non aveva avuto la drammatica ma esaltante esperienza che sunt aliquid Manes, che letum non omnia finit, e che Cinzia ‘anagraficamente’ morta può ancora essere più viva che mai, e quindi con lei anche la poesia del poeta che l’ha cantata. Se per il pentametro di 2, 5 è più che legittimamente ipotizzabile uno statuto epigrafico – sia pur fittiziamente epigrafico –, ci sono altri sei casi in cui questo è assolutamente garantito dal 12 Per queste, e non solo, si rinvia a Fedeli 2005, 189-190; fra altre analogie si vedano i più banali 2, 24c, 18, tam te formosam non pudet esse levem; 2, 16, 26, formosis levitas semper amica fuit; 2, 9, 36 sive ea causa gravis, sive ea causa levis, tutti nello stesso libro, e Cynthia prima fuit, Cynthia finis erit di 1, 12, 20, che ovviamente conclude l’elegia. 13 Stroh 1971, 69. 14 Fedeli 2005, 189. 15 Hor. carm. 3, 30, 8-9.
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contesto al di là di ogni possibile dubbio. Sono tre dediche di ex voto, due epitafi e un carme di contenuto religioso 16; in tutti l’ascendenza epigrafica, per lo più prevalente, risente molto della mediazione operata dall’epigramma greco, come risulta chiaro da un fatto tecnico, ma rilevantissimo: tre di questi tituli, cioè la metà, sono costituiti in parte o in tutto da versi incompleti, perché manca il primo dattilo o un piede e mezzo del pentametro 17, oppure, per il testo di maggiore ampiezza, il primo emistichio del l’esametro, con il risultato, ovviamente non casuale, di annullare la separatezza dell’iscrizione rispetto al resto del componimento e di enfatizzare la continuità fra il testo elegiaco e quello che potremmo a questo punto chiamare pseudoepigrafico. Si tratta di una continuità che, come rileva Arcangelo Papi sempre attento ai problemi formali e ai possibili giochi sul significante, nel caso dell’epitafio scritto per se stesso arriva fino al punto di collegare il primo emistichio dell’esametro, che non fa parte dell’iscrizione, col secondo del pentametro, che invece la conclude, attraverso l’anagramma versus-servus. Che quello di inserire un testo epigrafico in un contesto epigrammatico sia un procedimento già ampiamente in uso nel l’epigramma greco, è stato opportunamente sottolineato da Fedeli e Santini, e contribuisce a rendere più complesso il gioco dei trasferimenti di identità a cui fa riferimento Fedeli 18, a proposito del riuso elegiaco del genere dell’epitafio. Q ueste finzioni erano già previste all’interno del modello stesso dell’iscrizione tombale, e perfino – almeno in alcuni casi – dell’ex voto e del l’epigrafe di argomento religioso: per questi ultimi, il caso più semplice e frequente è quello in cui chi lascia un oggetto in dono al dio per grazia ricevuta o chi ha sostenuto le spese per la costruzione di un edificio, oppure per l’arredamento, l’abbellimento o il restauro, comunicano il proprio nome e quello della divinità a cui il manufatto o l’impresa sono stati consacrati, e in questi casi si può porre il problema se l’iscrizione serva a far sapere la cosa 16 Rispettivamente 2, 14, 25-28; 2, 28, 43-44; 4, 3, 71-72 per gli ex voto, 2, 13b, 32 e 35-36; 4, 7, 83-86 per gli epitafi, 3, 13, 41-46 per il carme dal contenuto religioso. 17 Sono, nell’ordine, i casi di 2, 28, 4, 3 e 3, 13. 18 Fedeli 1989, 94-95.
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alla comunità del luogo, perché sia grata al donatore e ne ammiri la devozione, oppure sia indirizzata addirittura alla divinità stessa, perché possa apprezzare la pietas e la riconoscenza del devoto 19; più complesso, invece, si presenta lo statuto dell’epitafio reale e di quello elegiaco. Anche una vera iscrizione tombale, infatti, prevede un gioco di finte identità: quella spesso dell’autore, quando il testo è attribuito al defunto come persona loquens mentre – se questi non ha pensato a comporlo finché era in vita – è in realtà opera di altri; oppure quando a parlare è un familiare sopravvissuto, coniuge, genitore, figlio e così via, mentre il testo è stato composto da un professionista a cui è stato affidato il compito di stenderlo; e almeno altrettanto efficace è l’invenzione del finto destinatario, quando l’iscrizione si rivolge al defunto mentre ovviamente è stata collocata e scritta perché siano altri a leggerla, oppure nel caso della committenza, quando al destinatario finale – il potenziale e più o meno casuale lettore – si aggiunge il sicuro e prevalente primo fruitore, cioè chi dovrà dare all’autore il compenso per il suo lavoro. Se poi avviene che dalla lapide il carme tombale, metricamente completo o decurtato dell’inizio del primo o della conclusione dell’ultimo verso, transiti al papiro o ad analogo supporto scrittorio, ed entri a far parte di un più lungo componimento elegiaco, allora il poeta non scrive o finge di scrivere più per uno sconosciuto passante, per il defunto o per i suoi cari sopravvissuti, perché dietro lo statuto epigrafico campeggia quello dell’elegia, sicché le aspettative e i gusti da tenere presenti diventano quelli di chi è considerato il lettore privilegiato dell’intero componimento, si tratti di uno specifico personaggio letterario o di una persona fisica a cui il testo è formalmente dedicato, ma soprattutto – per un poeta che aspiri alla fama, come era anche per il più riservato degli augustei – di un pubblico di lettori che sanno bene di chi siano quei versi e li giudicano con canoni estetici e componenti 19 CIL I 2, 632 = Degrassi I 149, dove il primo rigo individua il destinatario con un Sancte (Ercole?) a cui un mercante chiede di aiutarlo nelle sue attività commerciali, promettendo in cambio la decima parte dei suoi guadagni e, per non rischiare di commettere un’empietà, chiede anche al dio che lo aiuti nel fare bene il calcolo del 10%; sui problemi che questo computo poteva a volte comportare Degrassi ricorda il precedente di Camillo in Liv. 5, 23, 8-11.
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emotive completamente diversi da quelli che entrano in gioco nella valutazione di un vero epitafio. Il rapporto con epigrafi reali è solamente teorico per quella che invece è presentata come una precisa e autosufficiente iscrizione sacra, la promessa che Pan fa al suo fedele di assisterlo in qualunque tipo di caccia intenda praticare 20. Una premessa: i versi in questione sono per lo più ritenuti properziani, ma non manca chi, fidandosi troppo di Housman, ne condivide l’espunzione; quanto al loro statuto pseudoepigrafico, questo presuppone che nel verso 42 si legga vestri foci, ‘i vostri altari’, soggetto, e non vestris focis, come la maggior parte delle edizioni, e che dique deaeque omnes del verso 41 sia quindi vocativo e non nominativo. Se invece si accetta l’interpretazione più tradizionale, il testo non è inciso nei pressi di un altare, ma pronunciato a voce da un dio, nel caso specifico da Pan, in qualche casa, dinanzi al focolare di contadini dei tempi antichi, quelli di cui si parla prima; ma nel contesto precedente si parla sempre di loro alla terza persona, e di qui varie congetture per eliminare il vestris, peraltro tutte insoddisfacenti. Con questo testo, che è quello di Fedeli nell’edizione di cui ricorre il trentesimo anniversario, vestri si riferisce agli dei e alle dee, e questi foci parlanti si rivolgono ai fedeli così come possono, cioè con una scrittura esposta. Nei carmina epigraphica Pan ricorre una sola volta, nel lungo priapeo di Tivoli in 52 faleci, di età antonina, in cui al principale destinatario, evocato nel ritornello Salve sancte pater Priape rerum, viene affiancato insieme con la natura, anche per l’ambiguità del suo nome che comprende nella divinità l’intero universo 21, insomma un Pan molto diverso da quello rustico e quotidiano a cui fa riferimento Properzio, e spostato in direzione di un panteismo (è il caso di dire!) mistico con complicazioni esistenziali che diverranno sempre più complesse nei secoli immediatamente successivi. Per di più, alla sostanziale assenza di questo Pan nel l’epigrafia poetica si aggiunge che i versi di Properzio sono, come
3, 13, 41-46. CIL XIV, 3565 = CLE Bücheler 1504, 33-35 O Priape potens amice, salve, / seu cupis genitor vocari et auctor / orbis aut physis ipsa Panque, salve. Il testo, che precede di quattro secoli l’inno elegiaco di Massimiano, è stato molto studiato e molte volte pubblicato, per il suo interesse letterario e storico-religioso. 20 21
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notò il Salmasio, la traduzione quasi letterale di un epigramma di Leonida 22, che in quegli anni doveva piacere tanto da essere imitato più volte da epigrammatisti greci 23. Non c’è il verso spezzato, ma non mancano al poeta gli strumenti per ricordare al lettore che sta facendo elegia e non scrive per gli scalpellini, per cui può permettersi di ammiccare ad un lettore che conosce la grande poesia latina contemporanea e i testi esemplari dell’ellenismo, cosa che raramente si permette l’autore di carmi epigrafici che li sa destinati alla lettura da parte di un frettoloso pubblico di passanti, che ne è l’ ‘utilizzatore finale’. Rimangono per ultimi i due distici che più di tutti gli altri rispettano lo statuto epigrafico, e – guarda caso – sono uno per Properzio e uno per Cinzia, uno con un ex voto per grazia ricevuta in amore e l’altro con l’epitafio della donna che non si rassegnò alla morte e tornò al poeta più viva e arrogante che mai. In 2, 14 compare la collocazione di una scritta su una colonna, come a 3, 23, ma stavolta non ci sono dubbi sul testo che deve accompagnare il dono consacrato alla dea dell’amore, perché il distico, con tanto di firma, è riportato nel testo ai versi 27-28: HAS PONO ANTE TVAM TIBI, DIVA, PROPERTIVS AEDEM EXVVIAS, TOTA NOCTE RECEPTVS AMANS. Che poi anche qui, e nel distico che immediatamente precede e introduce l’iscrizione, non manchino i rinvii ai poeti greci del l’Anthologia, in particolare Edilo di Samo e il più recente Melea
22 AP 9, 337: Εὐάγρει, λαγόθηρα, καὶ εἰ πετεεινὰ διώκων / ἰξευτὴς ἥκεις τοῦθ᾽ ὑπὸ δισσὸν ὄρος, / κἀμὲ τὸν ὑληωρὸν ἀπὸ κρημνοῖο βόασον / Πᾶνα: συναγρεύω καὶ κυσὶ καὶ καλάμοις. 23 Fedeli 1989, 83-84; tanto Ericio quanto Satiro, i due seguaci di Leonida, non sono lontani nel tempo da Properzio, il che conferma la fortuna di quell’epigramma greco nella seconda metà del I secolo a.C., e per il primo dei due è molto probabile anche una presenza a Roma: cfr. la voce curata da E. Degani per la Neue Pauly e Bernsdorff 2001, 93-94. Ericio, in AP 6, 96, 2, Ἀρκάδες ἀμφότεροι rielabora Verg. ecl. 7, 4, Arcades ambo, e Properzio, come si è visto, prima di introdurre l’epigrafe virtuale scrive dique deaeque omnes, quibus est tutela per agros, ripreso da geo. 1, 21, dique deaeque omnes, studium quibus arva tueri, che con il testo qui preferito per il successivo v. 42 torna ad essere vocativo come nel testo virgiliano, che si riferisce alle divinità campestri e comprende quindi anche il nome di Pan.
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gro, è cosa giustamente ricordata da tutti i commentatori 24, che si soffermano anche sulla commistione, tutt’altro che rara, di terminologia erotica e militare. L’elegia, del resto, ha inizio con il primo ‘trionfo’ della letteratura classica, la vittoria di Agamennone a Troia, Non ita Dardanio gavisus Atrida triumpho est, con cui viene confrontata la gioia del poeta dopo la notte trascorsa con Cinzia, che lo ha reso quasi immortale, visto che ne basterebbe solo un’altra identica per l’apoteosi 25, e Catullo aveva già anticipato l’acquisizione delle exuviae all’elegia in 66, 13-14, dulcia nocturnae portans vestigia rixae / quam de virgineis gesserat exuviis, un distico per cui ci manca, purtroppo, il confronto con l’originale greco 26, e dobbiamo perciò accontentarci degli σκῦλα di Meleagro 27, insieme col distico catulliano, come possibili intermediari fra il Callimaco greco e quello latino. Chiudiamo con Cinzia e con l’epitafio di 4, 7, un’elegia tanto bella quanto difficile, che ha meritato la monografia di Rosalba Dimundo la quale ci aiuta in maniera magistrale a dipanarne il percorso, soprattutto – in questo caso – attraverso il convincente confronto con 2, 13, 35-36, l’epitafio di Properzio 28, così modesto – e si direbbe stranamente modesto – quanto invece sublime nella sua brevità è quello di Cinzia. Il giustissimo rifiuto della studiosa a ridurre l’aurea, detto per la donna nell’esametro, ad un banale fatto di capelli biondi, come pure qualcuno ha pensato di fare, trova un’interessante conferma di carattere epigrafico nel lavoro di Panciera da cui si sono prese le mosse, lì infatti si sottolinea come aureus sia una parola d’ordine assai presente nel l’epigrafia augustea in riferimento soprattutto a Roma 29 (e destinata in quest’uso alla consacrazione poetica, a partire da Virgilio 24 Santini 2002, 455-456; Fedeli 2005, 431-433, qui seguito al v. 27 per il tuam … aedem dello Scaligero al posto del tràdito tuas … aedes. 25 L’iperbole e il confronto con la divinità sono cari a Properzio: cfr. 2, 15, 39-40 e Fedeli 2005, 422. 26 Marinone 1997, 98; Arnaldi 1950, 127, parla a proposito delle exuviae catulliane di «rapido spunto epico». 27 AP 5, 191, 8. 28 R. Dimundo 1990, 89-90; ma va letto anche il commento, alle 194-196. Su 4, 7 nell’epigrafia si veda Cugusi – Sblendorio 2016, I, 242-243, di P. Cugusi, che di 2, 13b, 35-36 parla alla p. 147. 29 Panciera 2007, 99; a proposito dell’aureus titulus si veda Cugusi – Sblendorio 2016, I, 355-358, di P. Cugusi.
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e Ovidio fino al primo verso dell’ausoniano Ordo urbium nobilium 30), ma anche all’aurea aetas e agli aurea templa che Augusto aveva saputo dare alla città, evocati da Properzio nel quarto libro all’inizio della prima elegia. Accogliendo aureus dalle epigrafi di Roma, o come le epigrafi, il poeta si inserisce nella tradizione risalente ad Omero ed alla sua aurea Afrodite 31, ma la aggiorna anche, nella direzione del forma potens (e soprattutto del potens) di 2, 5, 28, e quindi in senso del tutto opposto rispetto all’uso che Tibullo fa di aureus a proposito della madre di Delia, una suocera d’oro perché tanto buona e paziente che in alternativa poteva essere individuata con l’epiteto di dulcis 32. Kenneth Rothwell ha notato che solo qui, dopo la morte, Cinzia è gratificata del glorioso attributo, così come il trono d’oro dei Veienti, l’aurea sella di 4, 28, è evocato quando della città si ricorda la fine, con l’immagine delle ossa dei suoi abitanti al di sopra delle quali cresce il grano 33. È venuto il momento di tirare le somme di quanto si è detto: Properzio eredita dalla letteratura greca la tecnica del l’inserimento di un testo pseudoepigrafico all’interno di un’opera letteraria, così da dar vita ad una specialissima ecphrasis in cui l’oggetto ‘iscrizione’ viene consegnato al lettore in maniera diversa dalla trasformazione dallo status di realtà fisica – davvero esistente o soltanto immaginata – di paesaggio o manufatto, solitamente colta dai sensi sotto forma di immagine, profumo, suono e così via, a quello di descrizione in forma verbale, con un procedimento di astrazione capace di dimostrare come le parole possano trasmettere le sensazioni di bello, gradevole, orrido, Ov. ars 3, 113, simplicitas rudis ante fuit, nunc aurea Roma est, che estende alla città la caratteristica attribuita al Campidoglio in Verg. Aen. 8, 348; Auson. ordo, 1, prima urbes inter, divum domus, aurea Roma, un solo verso per la città che supera tutte le altre, così come il più alto numero di versi sarà nell’ultimo componimento, per Bordeaux, a conferma dei due primati che queste città hanno nell’animo del poeta (20, 39-40 haec patria est: patrias sed Roma supervenit omnes. / diligo Burdigalam, Romam colo). 31 Dimundo 1990, 195. 32 Tib. 1, 6, 58, richiamato da alcuni lettori di Properzio, ma doverosamente non citato dalla Dimundo: figurarsi che cosa sarebbe potuto avvenire se Cinzia si fosse vista paragonare all’aurea anus, che al v. 63 diventa, in maniera congruente con la descrizione che ne fa Tibullo, una dulcis anus. 33 Rothwell 1995, 852. 30
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terribile in maniera anche più efficace del contatto diretto con le cose, perché ogni lettore le intende secondo i propri sistemi di decifrazione, che nascono dai ricordi e dalle storie personali, sicché le frasi sono capaci di evocare sensibilità sconosciute agli altri, a cominciare dall’autore stesso. Nell’ecphrasis di un’iscrizione si tratta di narrare le parole che la compongono, e che spesso vengono comunicate come tali, senza decodificazioni, ma si caricano sempre di un significato più intenso, che le distingue dalle altre fra cui sono collocate, per il carattere di messaggio importante che l’epigrafe reca con sé, per la particolare solennità o almeno rarità del contesto in cui è inserita e per l’intenzione di darle speciale rilievo che chi la pone rivela con la scelta di farne un messaggio duraturo, non affidato ai venti, come il parlato, né alla fragile carta. Sono ‘parole pesanti’ proprio perché parole divenute oggetto, che nella poesia si sciolgono nuovamente per tornare ad essere operative in una comunicazione di nuovo contemporanea e non affidata a un indefinito futuro. A questa trovata dei Greci Properzio non manca però di aggiungere il portato della nuova epoca e della sua personale sensibilità: si fa poeta praeceptor aprendo la strada all’Ars ovidiana e introduce massime e formule finalizzate alla memorizzazione, fra cui accanto al Cynthia, forma potens; Cynthia, verba levis di 2, 5, 28, si segnala, per contrasto, l’Accessit ripae laus, Aniene, tuae di 4, 7, 86. Ma il poeta amante è anche folle, incostante, combattuto fra il rifiuto di una memoria epigrafica, per affidare alla sola poesia il destino del proprio nome, e la visione di suoi epitafi, che lo rappresentino quale vittima del l’amore, una coincidenza di opposti fra gnome e violazione delle consuetudini che si addiceva ad un elegiaco abituato a vivere in un mondo alla rovescia, secondo la brillante definizione di Fedeli 34, un mondo pieno, come si è visto, di tituli solo pronunciati e non scritti, e in cui succedeva perfino che una donna potesse comporsi da sola l’iscrizione che voleva sulla sua tomba e dettarla imperativamente al poeta. Anche in questo Properzio farà scuola, e troverà in Ovidio un seguace un pronto e abile, ma anche eccessivo e incapace di resistere all’atroce tentazione di introdurre addirit-
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tura un pappagallo che pronuncia il testo della propria iscrizione funeraria 35. Tutta properziana, e augustea, è anche l’estrema attenzione alle coordinate topografiche in cui si inseriscono le epigrafi, urbane (i templi, la porta Capena, le Esquilie) ed extraurbane come era d’obbligo per i campi di battaglia e le sepolture 36, e geniale è l’idea di 1, 21, 9-10 che nei resti umani di ogni morto in battaglia si possano riconoscere tutti quanti sono scomparsi in quegli accessi di follia collettiva che sono le guerre, mai giuste e tanto meno sante, che siano preventive, punitive, di liberazione o per la democrazia o puttosto che fingano di essere tali. Dalla sorella di Gallo, che poteva sentire come ossa del fratello tutte quelle che erano sparse sui colli intorno a Perugia, ai parenti dei caduti nella prima guerra mondiale sono trascorsi poco meno di due millenni, ma l’intuizione del Milite Ignoto, a cui i paesi europei decisero di dedicare monumenti negli anni immediatamente successivi alla fine della cosiddetta grande guerra, era già in Properzio, e se riusciamo a vedere nel conflitto che si concluse cento anni fa, per riprendere anche più crudele dopo soli vent’anni, un episodio delle guerre civili europee che hanno insanguinato il secolo breve, ma che si spera, non senza ragioni, siano definitivamente archiviate nella memoria, capiremo più a fondo, nel bene e nel male, il senso di tanta letteratura augustea, delle celebrazioni, così vistose quanto efficaci, che passavano anche attraverso le iscrizioni e le pseudoiscrizioni, e del conflitto fra impegno pubblico e fuga verso il privato che angosciava gli animi più sensibili.
Bibliografia Alföldy 1991 = G. Alföldy, Augusto e le iscrizioni: tradizione e innovazione. La nascita dell’epigrafia imperiale, “Scienze dell’Antichità” 5, 1991, 573-600 = Augustus und die Inschriften: Tradition und Innovation. Die Geburt der imperialen Epigraphik, “Gymnasium” 98, 1991, 289-324.
35 Ov. Am. 2, 6, 59-62, Ossa tegit tumulus, tumulus pro corpore magnus, / quo lapis exiguus par sibi carmen habet: / “Colligor ex ipso dominae placuisse sepulcro / ora fuere mihi plus ave docta loqui”, cfr. Fedeli 1989, 91. 36 Santini 2002, 447-448.
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Alföldy 1992 = G. Alföldy, Studi sull’epigrafia augustea e tiberiana di Roma, Roma 1992. Arnaldi 1950 = F. Arnaldi, C. Valerius Catullus, Carmina selecta, Milano – Messina 19502 (19491). Bernsdorff 2001 = H. Bernsdorff, Hirten in der nicht-bukolischen Dichtung des Hellenismus, Stuttgart 2001. Cugusi – Sblendorio 2016 = P. Cugusi – M. T. Sblendorio Cugusi (a cura di), Versi su pietra. Studi sui Carmina Latina Epigraphica, Faenza 2016. Dimundo 1990 = R. Dimundo, Properzio 4, 7. Dalla variante di un modello letterario alla costante di una unità tematica, Bari 1990. Eck 1996 = W. Eck, Autorappresentazione senatoria ed epigrafia imperiale, in Id., Tra epigrafia, prosopografia e archeologia, Roma 1996, 271-298, traduzione e aggiornamento di Senatorial Self-Representation: Development in the AugustanPeriod, in F. Millar – E. Segal (a cura di) Caesar Augustus. Seven Aspects, Oxford 1984, 129-167. Fedeli 1989 = P. Fedeli, Il poeta lapicida, in M. Piérart – O. Curty (a cura di), Historiatestis, Mélanges Tadeusz Zawadzki, Fribourg 1989, 79-96. Fedeli 2005 = P. Fedeli, Properzio, Elegie libro II, Cambridge 2005. Marinone 1997 = N. Marinone, Berenice da Callimaco a Catullo, Bologna 19972 (19841). Mazzarino 1980 = S. Mazzarino, Un nuovo epigramma di Gallus e l’antica “lettura epigrafica”. Un problema di datazione, “Q uaderni Catanesi” 2, 1980, 7-50. Panciera 2007 = S. Panciera, L’epigrafia latina nel passaggio dalla repubblica all’impero, in M. Mayer i Olivé – G. Baratta – A. Guzmán Almagro (a cura di) Provinciae imperii Romani inscriptionibus descriptae, Acta XII Congressus internationalis epigraphiae Graecae et Latinae, II, Barcelona 2007, 1093-1106, anche in S. Panciera, Epigrafi, epigrafia, epigrafisti, I, Roma 2006, 83-101, a cui fanno riferimento le citazioni. Rothwell 1995 = K. S. Rothwell Jr., Propertius on the Site of Rome, “Latomus” 55, 1995, 829-854. Santini 2002 = C. Santini, Tabulae Propertianae ovvero dell’epigrafe virtuale in Properzio, in P. Defosse (a cura di), Hommages à Carl Deroux, I, Bruxelles 2002, 447-457. Solin 1999 = H. Solin, Epigrafia repubblicana. Bilancio, novità, prospettive, in Atti dell’XI Congresso internazionale di epigrafia greca e latina, I, Roma 1999, 379-404. 333
G. POLARA
Stroh 1971 = W. Stroh, Die römische Liebeselegie als werbende Dichtung, Amsterdam 1971. Tantimonaco 2016 = S. Tantimonaco, Stant manibus arae. I manes nel l’Eneide di Virgilio, “Anuari de filologia. Antiqua et Mediaevalia” (Anu. Filol. Antiq. Mediaeualia) 6, 2016, 1-21.
Abstracts Properzio prende dalla poesia greca l’uso di inserire nelle sue elegie finti testi epigrafici, che acquistano un significato particolare nella Roma augustea, ricca di iscrizioni pubbliche e private. Della quindicina di casi in cui si sono ipotizzati aspetti epigrafici si prendono in considerazione i sette per i quali è più probabile o addirittura certa questa tipologia. Propertius takes from Greek poetry the use of inserting epigraphic texts into his elegies, which acquire a particular meaning in Augustan Rome, full of public and private inscriptions. Of the fifteen cases in which epigraphic aspects have been hypothesized, the seven in which this typology is more probable or even certain are taken into consideration.
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GIANPIERO ROSATI Scuola Normale Superiore, Pisa
IL ‘TEMPO DELLA BELLEZZA’ E LA LEGGE DELLA FORZA: L’EPOS OMERICO IN PROPERZIO
Se i generi letterari hanno un’età (e in qualche modo ce l’hanno), non si può dubitare che alla poesia epica vada riconosciuta un’età veneranda (il primato di Omero in fatto di antichità, in coppia o no con Esiodo, è riconosciuto almeno fin da Erodoto); certamente hanno una gerarchia di valore, e la supremazia dell’epos – eventualmente contesa solo dalla tragedia – è anche qui un dato indiscusso: sappiamo del resto che l’epica è alla base del sistema formativo e dell’educazione scolastica antica 1, e quando lo stesso Properzio preannuncia la nascita dell’Eneide come opera somma nel panorama letterario greco e latino la dichiara, non a caso, superiore all’Iliade (2, 34, 75-76). L’epos omerico, quello eroico/guerresco soprattutto, è quindi anche per Properzio il paradigma della poesia più prestigiosa, ed è notoriamente presente in molti modi nelle sue elegie 2. Che quella di Omero sia una presenza cospicua nel testo di Properzio, il poeta elegiaco seguace e imitatore di Filita e Cal limaco, e che dall’epica proclamava tutta la sua distanza, non è più oggi motivo di stupore 3: l’idea ingenua che un (grande, grandissimo) poeta da cui si prendono le distanze per definire la Cfr. ad es. Keith 2000, 1-4 e cap. 2 (8-35). Riletto oggi, cioè, il pur utile lavoro di Berthet 1980 ci sembra che sfondi una porta aperta nel voler dimostrare che Properzio conosce, e bene (cioè per lettura diretta e approfondita), il testo di Omero, e che ne ha una concezione molto alta. 3 Come invece accadeva ad es. in Dalzell 1980, 29; cfr. anche Benediktson 1985, 17. 1 2
I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 335-349 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120110
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propria poetica sia per ciò stesso ‘bandito’ e ignorato, come un corpo estraneo e nemico, non ha ovviamente più corso. La presenza di Omero in Properzio è dunque per noi un semplice, direi scontato, dato di fatto, ed è un tema più volte trattato, anche in contributi presentati in questa sede in occasione di convegni precedenti; lavori che ovviamente presuppongo, anche se cercherò di non ricalcare troppo da vicino le loro orme, e tenterò una strada meno battuta 4. Io stesso qualche anno fa mi sono occupato del mito troiano 5, cercando di definire il rapporto di Properzio con il materiale sì omerico ma gettando lo sguardo anche oltre Omero e le sue opere, cioè sull’universo in larga parte sfuggente, e confuso, del Ciclo 6. In questa occasione ovviamente più che sul mito troiano, cioè sui contenuti, il focus è sul genere, sulla forma epica, che va vista anzitutto come reagente al nuovo contenitore elegiaco in cui Properzio la inserisce 7; ma rispetto al genere epico in senso lato, che comprende perciò anche l’epos storico (a Roma quindi il venerato pater Ennius di 3, 3, 6), qui mi limiterò all’epos specificamente omerico, che per gli elegiaci consapevolmente rappresenta un mondo altro e diverso, direi alternativo. Cosa intendiamo anzitutto con Omero? per Properzio (la ‘questione omerica’, per quanto già dibattuta nel mondo antico, è ovviamente fuori dal suo orizzonte) l’autore Omero designa per antonomasia l’epos eroico-guerresco, dunque il capostipite e massimo esponente della lignée che a Roma avrà i suoi principali seguaci in Ennio e Virgilio, e che ha un’identità molto marcata e definita: certamente più di quanto l’epos greco-latino appaia oggi ai nostri occhi, che vediamo in Apollonio o nello stesso Virgilio un ampliamento e un arricchimento – anzitutto grazie alle figure femminili di Medea e Didone rispettivamente – delle coordinate del genere e del suo ethos.
4 Oltre ai già citati Berthet 1980; Dalzell 1980; Benediktson 1985, cfr. ad es. Avezzù 2008, ma soprattutto Fedeli 2003. 5 Cfr. Rosati 2016. 6 Molta luce tuttavia su questo mondo è stata gettata dal recente Companion ad esso dedicato per le cure di Fantuzzi –Tsagalis 2015. 7 Aspetto questo su cui insiste ad es. Fedeli 2003.
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L’EPOS OMERICO IN PROPERZIO
1. Una scelta di campo Q uello di Omero è per Properzio soprattutto il mondo dei bella e degli arma, della guerra e delle sue tristezze (1, 7, 2; 1, 9, 13; 2, 3, 33 e 40; 2, 10, 8; 2, 20, 2; 2, 22, 32; 2, 34, 6, etc.), cioè con una tendenziale identificazione dell’autore con l’Iliade molto più che con l’Odissea, anche se i richiami a quest’ultima sono frequenti e pure molto dettagliati, come ad es. a 3, 12, 23-38, dove sono elencate alcune tra le più note avventure di Ulisse. Il fatto è che l’Iliade molto più dell’Odissea è funzionale alle intenzioni per cui Properzio si richiama a Omero: sappiamo infatti che i poeti elegiaci si servono del sistema dei generi letterari come strumento per definire la propria identità. In virtù di questo ‘statuto fondativo’, l’epos viene assunto come anti-elegia (una scelta ambiziosa: grande nemico, grande onore), come bersaglio polemico e formasimbolo di un ethos contrapposto a quello elegiaco, e in questo senso molto più di altri generi esso è necessario all’elegia per la definizione della propria identità. Q uella elegiaca è insomma una ‘identità-contro’, è lo specchio di cui il genere elegiaco si serve per proiettarvi la propria immagine a contrasto con quella ‘negativa’, rifiutata, del genere epico e dei suoi valori. Fin dal primo libro questo meccanismo si attiva in maniera molto chiara: l’elegia 1, 7 rivolta a Pontico marca una netta opposizione tra le scelte dell’amico, ambizioso poeta epico, e quelle del poeta-amante Properzio, vittima delle pene d’amore (1-10) 8: Dum tibi Cadmeae dicuntur, Pontice, Thebae armaque fraternae tristia militiae, atque, ita sim felix, primo contendis Homero (sint modo fata tuis mollia carminibus), nos, ut consuemus, nostros agitamus amores atque aliquid duram quaerimus in dominam; nec tantum ingenio quantum servire dolori cogor et aetatis tempora dura queri. Hic mihi conteritur vitae modus, haec mea fama est, hinc cupio nomen carminis ire mei.
Nel citare il testo di Properzio adotto per ragioni di uniformità l’edizione teubneriana di Fedeli 1984 (anche nei casi in cui l’autore ha mostrato ripensamenti nei lavori successivi, soprattutto nei commenti ai libri 2 e 4). 8
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Attraverso il confronto tra i due poeti, cioè i rispettivi generi letterari e i connessi stili di vita, Properzio definisce sé stesso. Da un lato c’è Pontico con la sua epica Tebaide, col mito delle origini della città (Cadmeae) e della guerra fratricida (armaque fraternae tristia militiae), che ambisce a sfidare Omero, il sommo poeta (primo); dall’altro l’elegiaco Properzio in preda alle consuete tempeste d’amore (nostros agitamus amores), vittima di una donna spietata (duram … dominam) che lo condanna a una schiavitù penosa (servire dolori) e alla forma poetica del lamento (queri), cioè all’elegia. In questo orizzonte chiuso, direi angusto (delimitato dall’insistenza del deittico hic … haec … hinc), si consuma nel logoramento (conteritur) uno stile di vita da cui il poeta-amante si attende fama e notorietà, sia pure in un ambito ristretto (modus) e meno prestigioso (perché il dolor ha la meglio sull’ingenium, 7). A lui basterà vedersi riconosciuto come amante di una donna raffinata, seppur ingiustamente crudele, e fare da esempio per ogni neglectus amator, la cui sofferenza sarà alleviata dalla lettura delle pene del poeta: me laudent doctae solum placuisse puellae, Pontice, et iniustas saepe tulisse minas; me legat assidue post haec neglectus amator et prosint illi cognita nostra mala. (11-14)
Ove mai toccasse a Pontico di soffrire le pene d’amore, a nulla gli servirà il suo mondo epico, che si rivelerà in tutta la sua remota e futile inattualità (15-20): te quoque si certo puer hic concusserit arcu – † quod nollim nostros eviolasse † deos, longe castra tibi, longe miser agmina septem flebis in aeterno surda iacere situ; et frustra cupies mollem componere versum nec tibi subiciet carmina serus Amor.
Saranno vani allora i tentativi di Pontico di scrivere poesia elegiaca, quasi questa fosse un modo di contrastare, di ammorbidire (grazie al suo mollis … versus) la duritia della sua domina. Ciò che rende quindi, agli occhi di Properzio, la scelta poetica elegiaca preferibile a quella epica è la sua vicinanza alla vita (a fronte del l’astrattezza dell’epica) e la funzionalità alle sue ragioni, in particolare all’eros, che monopolizza l’esistenza del poeta elegiaco. 338
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Il confronto tra le due scelte poetiche e di vita, e la messa in guardia contro l’orgoglio e la pretesa superiorità epica (tu cave nostra tuo contemnas carmina fastu, 1, 7, 25), trova il suo complemento e conferma nell’elegia-gemella 1, 9 (uno sviluppo narrativo di 1, 7: potremmo chiamarla ‘la vendetta’, o ‘la rivincita’), in cui Pontico appare come vittima della nemesi, cioè della passione che l’amico elegiaco gli aveva profetizzato (1-12): Dicebam tibi venturos, irrisor, amores, nec tibi perpetuo libera verba fore: ecce iaces supplexque venis ad iura puellae et tibi nunc quaevis imperat empta modo. Non me Chaoniae vincant in amore columbae dicere, quos iuvenes quaeque puella domet. Me dolor et lacrimae merito fecere peritum: atque utinam posito dicar amore rudis! Q uid tibi nunc misero prodest grave dicere carmen aut Amphioniae moenia flere lyrae? Plus in amore valet Mimnermi versus Homero: carmina mansuetus lenia quaerit Amor.
Il grave carmen epico su Tebe coltivato da Pontico manifesta ora tutta la sua vacuità, e il verso elegiaco di Mimnermo, i carmina lenia utili in amore, si rivela superiore a quello di Omero: abbandoni dunque Pontico, che è appena agli inizi del suo lungo travaglio, i tristes libelli (13, centrati sui tristia arma di 1, 7, 2) e il fittizio pianto epico-tragico (flere, 10), per prepararsi alle lacrime autentiche di cui Properzio ha invece lunga esperienza (peritus, 7). A questa distanza dell’epica mitologica, simboleggiata da Omero, si contrappone la vita attuale e concreta che pulsa nel l’elegia e nei suoi temi. L’opposizione dei due generi letterari profila insomma una più generale opposizione di senso, tra un passato remoto e inattuale, e il presente vitale del poeta (e dei suoi giovani amici, che ne condividono l’orizzonte di valori): quella stessa opposizione che emerge in un altro riferimento alla poesia di Omero (2, 3, 29-36): Gloria Romanis una es tu nata puellis: Romana accumbes prima puella Iovi, nec semper nobiscum humana cubilia vises; post Helenam haec terris forma secunda redit. 339
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Hac ego nunc mirer si flagret nostra iuventus? pulchrius hac fuerat, Troia, perire tibi. Olim mirabar, quod tanti ad Pergama belli Europae atque Asiae causa puella fuit; nunc, Pari, tu sapiens et tu, Menelae, fuisti, tu quia poscebas, tu quia lentus eras. Digna quidem facies pro qua vel obiret Achilles; vel Priamo belli causa probanda fuit.
Q ui l’universo-Omero esemplifica un mondo mitico, lontano. L’opposizione olim vs nunc mette a confronto i due generi epicaelegia e le rispettive logiche (come quella ‘guerra per una donna’ di cui narra l’Iliade, e che al poeta moderno era sempre parsa una finzione non credibile, almeno fino alla comparsa di Cinzia, che la rende meno irreale e fantastica), e li colloca anche nel tempo: nel remoto passato l’una, l’epica omerica con i suoi eroi mitici, il mondo della formosi temporis aetas (1, 4, 7), l’altra come il genere della modernità, della Roma di oggi e del poeta (gli aetatis tempora dura, 1, 7, 8, cioè i «duri anni della sua giovinezza» – come glossa Fedeli 9 – con le connesse sofferenze d’amore). Con l’idea lizzato mondo di Omero, il mondo della bellezza, viene dunque messo a contrasto il mondo presente; ancora una volta cioè Omero è l’altro, in tutti i sensi: l’altro da ‘noi’, dal nostro presente e dai suoi valori. Q uesta funzione distintiva che, abbiamo visto, l’epos omerico assolve per definire l’identità dell’elegia è confermata anche da un altro elemento, e cioè dalla diversa presenza di ‘Omero’ nel corpus properziano. Com’è stato osservato 10, questa presenza è particolarmente marcata nel primo libro, quando anche il tono polemico che vi si associa serve soprattutto a delimitare lo spazio specifico dell’elegia, a disegnarne il profilo e a tracciarne i confini. Già nel secondo libro tuttavia le punte aggressive sono stemperate dal ricorso allo strumento della recusatio (che differenzia gli spazi letterari senza esclusioni preconcette o posizioni pregiudizialmente ostili), mentre nel terzo emerge sempre più – pur nel persistente rifiuto di praticare quel genere letterario – una forma di omaggio rispettoso del grande pater Ennius, quell’atteggia Cfr. Fedeli 1980, ad loc. Cfr. soprattutto Fedeli 2003.
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mento cioè più conciliante che prepara la strada alla nuova elegia ‘romana’ del libro finale, che all’epica certamente non intende contrapporsi radicalmente come in passato.
2. Il mondo della forza Le cose insomma non sono così nettamente segnate per tutta la carriera del poeta, e anche l’opposizione tra elegia e epos omerico affermata drasticamente nel primo libro si attenua. Perché, come abbiamo visto, l’epifania improvvisa di Cinzia nel mondo terreno fa collassare quella distinzione e fa di colpo sentire quel mondo non più lontano, ma quasi come nostro. Perché con Cinzia di fatto Elena, la domina che soggioga i suoi amanti, è di nuovo fra noi, per lei la gioventù di Roma si infiamma, e non ci sembra più incredibile che per lei, Elena, si sia potuta scatenare una guerra come quella narrata da Omero. Tra epica ed elegia in altre parole la polarità si stempera, e l’universo epico-omerico che sembrava così remoto nel mito appare di colpo vicino e viene anzi riconsiderato con uno sguardo tutto moderno ed elegiaco. Nel rileggere la vicenda troiana come una ‘guerra per amore’ Properzio anticipa la lettura tendenziosa e strumentale che, per difendersi dall’accusa di Augusto che gli era valsa la condanna, dell’intera produzione di Omero farà Ovidio in un noto passo della poesia dell’esilio (trist. 2, 371-380): Ilias ipsa quid est aliud nisi adultera, de qua inter amatorem pugna virumque fuit? quid prius est illi flamma Briseidos, utque fecerit iratos rapta puella duces? aut quid Odyssea est nisi femina propter amorem, dum vir abest, multis una petita viris? quis nisi Maeonides Venerem Martemque ligatos narrat, in obsceno corpora prensa toro? unde nisi indicio magni sciremus Homeri hospitis igne duas incaluisse deas?
Sarebbe peraltro sbagliato vedere in questa analogia tra i due poeti elegiaci una coincidenza occasionale, e quasi fortuita, perché in realtà l’erotizzazione del mondo eroico di Omero è un processo che già Properzio avvia e sviluppa in maniera coerente. Il caso più noto è quello di Briseide e del suo rapporto con Achille: prima 341
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che Ovidio riprendesse e sfruttasse il tema (soprattutto nella terza eroide), era stato Properzio a presentare una versione ‘romantica’ della liaison di Achille con la fanciulla che nell’Iliade era solo il géras, il premio-simbolo dell’onore guerriero (timé) dell’eroe, versione peraltro che già gli antichi scoliasti di Omero avevano estratto dalle pieghe del suo testo 11. In un passo come 2, 22, 29-32 Properzio aveva definito Achille (e con lui anche Ettore) gagliardo come amante non meno che sul campo di battaglia, ma non aveva accennato a implicazioni affettive dell’eroe: quid? cum e complexu Briseidos iret Achilles, num fugere minus Thessala tela Phryges? quid? ferus Andromachae lecto cum surgeret Hector, bella Mycenaeae non timuere rates?
Altrove tuttavia, nello stesso libro, quel legame viene visto come un forte coinvolgimento emotivo. Stupisce meno che lo sia dal punto di vista di Briseide nell’immagine dei vv. 2, 9, 9-14, dove si è supposto che Properzio riprenda Omero, trasferendo però su Achille le manifestazioni di lutto e le cure che in Il. 19, 283285 Briseide dedicava al cadavere di Patroclo 12: Nec non exanimem amplectens Briseis Achillem candida vesana verberat ora manu, et dominum lavit maerens captiva cruentum, propositum flavis in Simoente vadis, foedavitque comas, et tanti corpus Achilli maximaque in parva sustulit ossa manu.
Al contrasto dei ruoli sociali (dominum vs captiva) si affianca quello tra la tenerezza della figura femminile (in parva … manu) e la grandezza, anche fisica, del campione della forza (tanti corpus Achilli maximaque … ossa), riflesso da un’opposizione cromatica (candida vs cruentum) che esalta la distanza tra i due mondi. Nella precedente elegia 2, 8 sorprende invece di più che l’accento sia sulla sofferenza di Achille innamorato per il distacco da Bri11 D’obbligo il rinvio all’ampia e accurata trattazione di Fantuzzi 2012, 99-109. 12 Per la discussione e documentazione cfr. Fedeli 2005, ad loc.
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seide, e il suo diventa anzi l’exemplum mitico cui lo stesso poetaamante si appella per giustificare la propria condotta di vittima della passione (2, 8, 29-40) 13: Ille etiam abrepta desertus coniuge Achilles cessare in tectis pertulit arma sua. Viderat ille fuga stratos in litore Achivos, fervere et Hectorea Dorica castra face; viderat informem multa Patroclon harena porrectum et sparsas caede iacere comas, omnia formosam propter Briseida passus: tantus in erepto saevit amore dolor. At postquam sera captiva est reddita poena, fortem illum Haemoniis Hectora traxit equis. Inferior multo cum sim vel matre vel armis, mirum, si de me iure triumphat Amor?
All’interno del mondo eroico, della guerra, viene insomma individuato (quasi rintracciato a forza) un altro conflitto, ma di tipo erotico: quello per Briseide, captiva dolente di un dominus spietato (2, 9, 11), Achille, eppure lei stessa di fatto domina elegiaca, tale cioè da soggiogare il suo padrone Achille 14. Il paradosso che rovescia i termini del rapporto, trasformando Briseide da captiva epica in domina elegiaca, e viceversa il dominus Achille in un innamorato sofferente senza remissione (omnia … passus) perché desertus, quasi segnato da una passività femminile, permette di ritrovare nel mondo-altro dell’epica anche i germi dell’elegia, la presenza attiva di quell’eros che del resto l’ideologia elegiaca afferma come forza senza confini. Al tempo stesso, com’è noto, l’elegia (già quella properziana, dunque) transcodifica i valori del sistema epico-eroico assumendoli nel proprio orizzonte, e creando tra i due mondi solitamente estranei e nemici una rete di analogie che li rende meno distanti, e fa risultare i rispettivi linguaggi intercambiabili. Basti vedere come un distico giusta-
13 Per questa immagine di Achille innamorato cfr. anche l’accenno di Orazio, Epist. 1, 2, 13 hunc (scil. Peliden) amor, ira quidem communiter urit utrumque; per le possibili tracce nella letteratura greca cfr. Fantuzzi 2012, 13-20. 14 Un paradosso ampiamente sfruttato da Ovidio nella rilettura elegiaca del mito che egli realizza nella terza eroide (su cui rinvio anzitutto a Barchiesi 1992).
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mente famoso trasferisce dall’una all’altra sfera l’idea della militia (1, 6, 29-30): non ego sum laudi, non natus idoneus armis: hanc me militiam fata subire volunt;
e come il campo di battaglia militare (una battaglia antonomasticamente omerica) possa, con un calcolato sovvertimento di linguaggio e di senso, diventare il letto delle imprese erotiche di Properzio e Cinzia, che da scripta puella assume lei stessa un ruolo attivo e i due amanti-scriptores compongono così insieme il loro poema epico, la loro Iliade (2, 1, 13-14): seu nuda erepto mecum luctatur amictu, tum vero longas condimus Iliadas.
Oppure si veda come dalla storia dell’innamoramento improvviso di Achille per Pentesilea (anche se qui siamo al di fuori di Omero, nei Posthomerica di Q uinto Smirneo, che rinviano al Ciclo) Properzio estrae il paradosso-poliptoto del ‘vincitore vinto’ che gioca sul tema dell’eroe sconfitto dall’amore, e che diventerà un topos largamente sfruttato dall’elegia (3, 11, 13-16) 15: ausa ferox ab equo quondam oppugnare sagittis Maeotis Danaum Penthesilea ratis; aurea cui postquam nudavit cassida frontem, vicit victorem candida forma virum.
Già in Properzio insomma si rintracciano non solo i germi, ma i primi passi di quel percorso consapevole che porterà a compimento Ovidio, e che avrà il suo ‘manifesto’ teorico nell’elegia 1, 9 degli Amores, la famosa Militat omnis amans et habet sua castra Cupido. La destabilizzazione dell’antitesi canonica ‘epica vs elegia’ ha notoriamente in Ovidio alcuni passaggi molto noti, che insistono ad esempio sulle effusioni erotiche di Ettore e Andromaca (35-36 Hector ab Andromaches conplexibus ibat ad arma, / et, galeam capiti quae daret, uxor erat; Ars 2, 709-710 Fecit in Andromache prius hoc fortissimus Hector, / nec solum bellis utilis ille fuit; 3, 777-778 Parva vehatur equo: quod erat longissima, Cfr. Casali 1995 a Ov. Her. 9, 2.
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numquam / Thebais Hectoreo nupta resedit equo), e che in gene rale amano mettere insieme i fanti con i santi, la guerra e l’amore, la grande epica e l’umile elegia; ma quel che qui mi interessa sottolineare è che questi esiti sono anticipati e preparati da Properzio. Non a caso, secondo me, proprio dal poeta elegiaco che meglio di tutti definisce lo statuto teorico del genere e della sua ideologia, e che individua nel tema fondante di quest’ultima, il servitium amoris, con i temi connessi del conflitto e della forza, il nucleo che accomuna le due sfere tradizionalmente contrapposte. Dove c’è servitium, uno schiavo e un padrone (o una padrona, una domina), c’è un rapporto di forze che si afferma, come ogni cittadino romano ben sa dalla sua esperienza quotidiana segnata dal contatto con la schiavitù; e il poema della forza è per antonomasia l’Iliade. Superfluo qui richiamare il famoso saggio di Simone Weil, L’Iliade o il poema della forza, scritto alla fine dei terribili anni 30 del ’900 (e pubblicato nel 1940) 16, all’approssimarsi della guerra e nel pieno delle tensioni che segnano l’Europa, e che vede proprio in questo tema, nella durezza dei rapporti di forza tra gli umani, il nucleo di senso di tutto il poema. Tra i due mondi (quello remoto di Omero e quello attuale di Properzio, e i rispettivi generi letterari, con i loro universi tematici) c’è quindi un’analogia evidente: un verso come vinceris aut vincis, haec in amore rota est (2, 8, 8) esprime in maniera nitida questa idea del conflitto, e di un rapporto di forza che prevede un dominatore e un dominato, un vincitore e un vinto, come la legge iscritta in ogni rapporto erotico. Omero è insomma per Properzio una grammatica, un linguaggio, è un codice culturale che fissa paradigmi di personaggi, comportamenti, valori (riguardante soprattutto, com’è stato notato, figure umane, molto più di quelle divine, e soprattutto figure ‘statutariamente’ reattive all’elegia e alla sua poetica: il che spiega la larga presenza, ad esempio, della coppia di amanti Elena e Paride), un universo ben noto con il quale continuamente ci si confronta e che può servire anche per parlare del mondo di oggi, del mondo apparentemente così lontano degli amori e del l’elegia. In italiano cfr. ora Weil 2016.
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Q uella che separa i due mondi è una differenza di statuto, potremmo dire di ordine di grandezza tra, come abbiamo visto, l’età della bellezza e del mito (la formosi temporis aetas) e il mondo ordinario (gli aetatis tempora dura). Il comportamento di Cinzia, come il suo amante-poeta recrimina, non è all’altezza di quello di Calipso (1, 15, 9-16), tale da rendere anche lei nobilis historia, cioè l’eroina fedele e devota a Ulisse universalmente nota e diventata tale grazie a Omero: quarum nulla tuos potuit convertere mores, tu quoque uti fieres nobilis historia (1, 15, 23-24).
Eppure anche Cinzia può diventare una maxima historia, cioè soggetto di grande letteratura, grazie al suo amante-poeta, che da ogni dettaglio dell’esistenza di lei, dalla sua vita quotidiana, sa trarre argomento per metterla al centro del suo mondo ‘senza miti’ (2, 1, 5-16): sive illam Cois fulgentem incedere † cogis † , hoc totum e Coa veste volumen erit; seu vidi ad frontem sparsos errare capillos, gaudet laudatis ire superba comis; sive lyrae carmen digitis percussit eburnis, miramur facilis ut premat arte manus; seu compescentis somnum declinat ocellos, invenio causas mille poeta novas; seu nuda erepto mecum luctatur amictu, tum vero longas condimus Iliadas; seu quidquid fecit sive est quodcumque locuta, maxima de nihilo nascitur historia.
Tra quei mondi così separati e distanti ci può essere quindi un’analogia: anche nel piccolo mondo di oggi si possono scrivere Iliadi e una donna come Cinzia può diventare maxima historia, se c’è un poeta all’altezza del suo oggetto 17. Passo a concludere richiamando le linee delle considerazioni che ho cercato di sviluppare. L’elegia erotica romana è noto «Il poeta … fa capire che non ha alcun bisogno di scrivere poesia epica, perché è la donna amata a offrirgli, nell’esperienza quotidiana, la materia per longae Iliades»: Fedeli 2005, 55. 17
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riamente fondata su rigidi presupposti di gerarchie sociali e di genere sessuale – anche se nel rovesciarne i termini potrebbe dar l’impressione di volersene svincolare; e proprio in ciò sta la rottura, lo ‘scandalo’ che essa vuole rappresentare. La polarità schiavo-padrone, in parallelo a quella che oppone un poetaamante maschio a un’amata puella (polarità percepita però in termini contrapposti rispetto all’ordine sociale, con un maschio cioè servus di una puella), fa da fondamento all’intero impianto elegiaco. Tutto il mondo elegiaco è concepito dunque come un sistema sociale e culturale governato (come, ad esempio secondo Foucault, lo sono tutti) da relazioni di potere, e caratterizzato dai disagi psicologici ad esse connessi, in una dialettica che vede il poeta-amante oscillare tra il compiacimento masochistico per il dominio subìto, la vergogna per l’infamia sociale sofferta e una ripetuta quanto velleitaria e frustrata aspirazione alla libertà. Ora, ciò che lega l’epos omerico-guerresco all’elegia è proprio il nesso intrinseco che tra i due generi letterari (e i rispettivi stili di vita) intercorre: il linguaggio della forza, della durezza, la logica del dominio e della schiavitù, che è proprio quella tipica e specifica di ‘Omero’ (il che spiega perché in Properzio, come abbiamo visto, Omero significa Iliade), sono gli stessi che di fatto governano anche il mondo dell’elegia, e rendono quei due generi apparentemente lontani in realtà così intimamente interconnessi. Anziché stupirsi della presenza di Omero in Properzio, dunque, la si può trovare del tutto ovvia e naturale, se è vero che la legge del potere, dei rapporti di forza, regola non solo i conflitti e le guerre, ma tutte le relazioni personali, e quelle di tipo affettivoerotico in modo particolare, come l’elegia latina dimostra. Se al centro del plesso semantico del servitium amoris e dell’ideologia elegiaca c’è il linguaggio della forza, già questo basta a rendere il ruolo di Omero e della sua poesia un elemento naturale per la definizione dello stesso genere elegiaco. E se l’Iliade per un poeta elegiaco è un poema di guerra per una donna, così anche Properzio con le sue elegie scrive davvero anche lui un’Iliade, un ‘poema della forza’ centrato sulla domina di cui il poeta è uno schiavo senza speranza di emancipazione.
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Bibliografia Avezzù 2008 = E. Avezzù, Motivi dell’epica greca arcaica nell’elegia properziana, in C. Santini – F. Santucci (a cura di), I personaggi dell’elegia di Properzio, Assisi 2008, 273-292. Barchiesi 1992 = A. Barchiesi (a cura di), P. Ovidii Nasonis Epistulae Heroidum 1-3, Firenze 1992. Benediktson 1985 = D. Th. Benediktson, Propertius’ ‘Elegiacization’ of Homer, “Maia” 37, 1985, 17-26. Berthet 1980 = J.-F. Berthet, Properce et Homère, in A. Thill (a cura di), L’élégie romaine: enracinement, thèmes, diffusion. Actes du colloque international de Mulhouse, Paris 1980, 141-155. Bonamente et alii 2016 = G. Bonamente – R. Cristofoli – C. Santini (a cura di), Le figure del mito in Properzio, Turnhout 2016. Casali 1995 = S. Casali (a cura di), P. Ovidii Nasonis Heroidum Epistula IX-Deianira Herculi, Firenze 1995. Dalzell 1980 = A. Dalzell, Homeric Themes in Propertius, “Hermathena” 129, 1980, 29-36. Fantuzzi 2012 = M. Fantuzzi, Achilles in love. Intertextual Studies, Oxford 2012. Fantuzzi – Tsagalis 2015 = M. Fantuzzi – Chr. Tsagalis (a cura di), The Greek Epic Cycle and its Ancient Reception. A Companion, Cambridge 2015. Fedeli 1980 = P. Fedeli (a cura di), Properzio. Il primo libro delle elegie, Firenze 1980. Fedeli 1984 = P. Fedeli (a cura di), Sexti Properti Elegiarum libri IV, Stuttgart 1984. Fedeli 2003 = P. Fedeli, Properzio e la poesia epica, Euphrosyne 31, 2003, 293-304. Fedeli 2005 = P. Fedeli (a cura di), Properzio. Elegie libro II, Cambridge 2005. Keith 2000 = A. M. Keith, Engendering Rome: Women in Latin Epic, Cambridge 2000. Rosati 2016 = G. Rosati, Non solo Omero: il mito troiano in Properzio, in Bonamente et alii 2016, 51-72. Weil 2016 = S. Weil, Il libro del potere, trad. it. Milano 2016.
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Abstracts La contrapposizione all’epos guerresco di Omero è lo strumento a cui Properzio ricorre per definire l’identità ‘altra’ dell’elegia: mentre il primo è un genere lontano nel tempo, l’astratta quanto inutile rappresentazione di un mondo fittizio, l’elegia rispecchia la vita del poeta e i suoi valori attuali. Q uesta polarità tra i due generi, e i mondi rispettivi, tuttavia progressivamente si stempera, e anche nell’epos omerico Properzio rintraccia la presenza dominante dell’eros, così come nel l’Iliade, il ‘poema della forza’, nella logica del dominio e della schiavitù che lo ispira, vede lo stesso principio che governa i rapporti fra il poeta-amante e la sua puella. Il tema dei rapporti di potere si rivela dunque il tratto che accomuna questi due generi apparentemente opposti. Through the opposition to Homer’s martial epic Propertius defines the ‘alternative’ identity of the elegy: while the former is a genre far in time, an abstract and futile representation of a fictitious world, elegy reflects the life of the poet-lover and his connected values. The polarity between the two genres and their respective worlds, however, progressively dissolves, and even in the Homeric epic Propertius traces the dominant presence of eros. Conversely, he sees in Homer’s Iliad, the ‘poem of force’, in its logic of domain and slavery, the same principle that rules the relationship between the poet-lover and his puella. Power relations, then, proves to be the common trait which binds these apparently opposite genres.
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CARLO SANTINI Università degli Studi di Perugia
ARISTOFANE E ‘LE ARISTOFANICHE FANTASIE’ * NEL CORPUS ELEGIACO DI PROPERZIO: PORTE SBATTUTE, MURAGLIE CELESTI, MORTI CHE RIVIVONO
1. Nel contrastare il tenuis stile, detto ‘attico’ per antonomasia, Cicerone 1, giocando sul valore polivalente dell’etnico, dice che Pericle tenne a discredito questo genere di retorica; Aristophanes poeta lo fece infatti esprimere con magniloquenza nell’occasione in cui lui, colpito negli interessi dell’etera Aspasia, diede inizio al conflitto del Peloponneso. La sua traduzione fulgere, tonare, permiscere Graeciam corrisponde esattamente a un verso degli Acarnesi (530 ἤστραπτ’ ἐβρόντα, ξυγκύκα τὴν Ἑλλάδα). Nel passo in questione Cicerone non sta parlando di poesia, ma di oratoria – riferisce infatti il modo con cui Eschine aveva condannato le parole di Demostene – eppure il suo pensiero pare come rifluire nell’ambito della lexis poietica, dove si staglia la grandezza artistica di Aristofane, secondo il principio della Poetica di Aristotele, che la poesia non dipende solo dai mezzi formali come il metro, con i quali si esprime l’autore. Che la commedia ‘antica’, e soprattutto Aristofane, avessero esercitato particolare influenza già sull’opera comica di Gneo Nevio è stato ben dimostrato in un recente lavoro di Simone Beta 2 che, pur negando l’esistenza di suoi testi tradotti da parte dello scrittore campano, ha suggerito un’affinità di atteggiamento tra la parrhesia attica e la libertas romana, che emergerebbe dai frustuli delle sue commedie, tra cui l’uso di una stessa metafora. * Q uesta espressione si ritrova nel Dizionario della Lingua Italiana, a cura di N. Tomasseo, B. Bellini, 1916. 1 Orat. 29. 2 Beta 2014. I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 351-374 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120111
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Si tratta del verbo κνίζειν ‘graffiare’ nelle Rane a 1198-1200, di cui si avvale il personaggio di Eschilo nel formulare un giudizio impietoso sulla poesia di Euripide 3. Il fatto poi che compaia l’espressione facete et defricate in un frammento di ignota sede di Nevio fa supporre che sale multo / urbem defricuit di Orazio (1, 10, 3-4) possa discendere direttamente dal greco. Stessa posizione troviamo in Orazio nel rapporto che istituisce tra commedia ‘antica’ e satira. Il nome di Aristofane, unitamente a quelli di Cratino e Eupoli, compare nel canone dei poetae comici citato a Serm. 1, 4, 1 e poi ricorre nelle storie letterarie di Velleio Patercolo (1, 16, 3) e di Q uintiliano (10, 1, 66), con valutazioni elogiative. La loro arte nel notare multa cum libertate i vizi pubblici e privati dei loro concittadini ha costituito un exemplum per Lucilio, al quale tuttavia fece difetto la sorveglianza della lingua e dello stile. Orazio stesso, che si mostrò fautore di una scrittura non aggressiva e non violenta, fra i tre comici preferì prendere le distanze dalla volgarità grossolana (τὸ φορτικόν) di Cratino per la temperata grazia (ἡ χάρις) di Eupoli, attenendosi ad uno stile prossimo alla buona conversazione del sermo, ma con il rischio, cui accenna a v. 45, quando compaiono 4 non meglio identificati quidam, che lasciano intendere che la commedia non sia da considerarsi poesia (comoedia necne poema esset). Non c’è dubbio che l’assenza del ‘sublime’ aveva giocato a sfavore della commedia, come ammette Franca Perusino nel suo commento a Platonio 5, tuttavia Aristofane risulta grandioso nelle fantasie e nelle invenzioni, immagina grottesche scelte rivoluzionarie nelle regole tra gli uomini, nell’attività dello stato, nell’educazione dei figli, nei rapporti tra i sessi, in cielo, agli Inferi, pur di restare ancorato ad un tempo passato ineluttabilmente trascorso. Purtroppo non ci è giunto il secondo libro della Poetica di Aristotele, dove esponeva le leggi della commedia, ma il trattato Sul sublime ricorda alcune soluzioni (40, 2: ἔν τισιν) dagli effetti nobili e segnalati di Aristofane che sono le stesse che ritroviamo nella poesia epica e tragica, al fine di sbigottire chi ascolta (15, 1: ἐν ποιήσει τέλος 3 Il verbo compare già nelle Vespe al v. 128 come un esempio di contrattacco di Cleone contro il poeta: καί με κακίσας ἔκνισε. 4 Gower 2011, 104 ritiene che tale pensiero fosse largamente condiviso nel l’età di Orazio, e particolarmente da Dionigi di Alicarnasso. 5 Perusino 1989, 73.
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ἐστὶν ἔκπληξις). Piuttosto che intermediario tra due tipi di poesia comica, Aristofane sarebbe il vero rappresentante del sublime comico, perché «ciò che ci pare di vedere e di porre sotto gli occhi» è un’invenzione fantastica che dobbiamo preservare dal l’ira e dalla indignazione Properzio non nomina mai Aristofane, ma ciò non vuol dire che non lo conoscesse e non apprezzase la sua vis comica e la potenza delle sue trovate 6. È noto che la Biblioteca di Alessandria possedeva un ingente numero, si dice 365, di commedie attiche ‘antiche’ ed in aggiunta un patrimonio di scolii elaborati dai grammatici e retori nel solco della tradizione filologica, il che attesta che Aristofane in età ellenistica seguitava ad essere letto, studiato e annotato, nonostante non ci sia alcuna traccia del fatto che continuasse ad essere rappresentato sulla scena. Lo stesso può dirsi per l’età romana almeno fino a Plinio il Giovane 7. Orazio compone e pubblica i suoi due libri di satire nel decennio anteriore a quello in cui Properzio comincia a scrivere e dobbiamo immaginare che il poeta umbro si sia formato un giudizio sulla questione del rapporto della commedia ‘antica’ con la satira. Properzio stesso, d’altra parte, ha dimostrato di saper applicare la tecnica teatrale ai testi elegiaci, tanto che fu suggerita, in verità con poca fortuna, agli inizi del secolo scorso, la proposta di articolare i versi di alcune elegie in forma di stanze. Certa invece è, nella prima elegia del quarto libro, la regolazione drammatica della struttura, che viene equamente divisa in due parti a mo’ di con trasto tra i due personaggi (Properzio) hospes e Horos. Le ragioni per le quali nell’elegia latina abbondano situazioni e motivi del teatro della commedia ‘nuova’ sembra dovuto alla versatilità e flessibilità 8 di questo genere letterario, ai cui autori, Tibullo, Properzio, Ovidio erano sembrate affini le strategie di vita e di amore, intorno alle quali avevano scritto i loro plot Menandro, Difilo, Filemone e poi, in ‘versione’ latina, Plauto e Terenzio. I modi dell’argomentare non sono a Roma prodotti solo dalla forma dialogica, ma dal complesso dell’unità omodiegetica in cui Q uint. 6, 2, 29. Si veda l’epistola 6, 21 dove loda una comoediam ad exemplar veteris comoediae scriptam tam bene, ut esse quandoque possit exemplar di un non meglio noto Vergilio Romano. 8 Cfr. la nota 21 di Gentili3. 6 7
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i ruoli dell’Auctor e dell’Actor si mescolano come poi avverrà nel romanzo di Apuleio 9. Q uesta sovrapposizione è un frutto della rivoluzione dell’Io – avvenuta soprattutto con Catullo – e giunta a maturazione nel l’età augustea. Su questo dato di fatto si può inoltre aggiungere che, rispetto alla tragedia che espone la rivisitazione di eventi del passato, generalmente mitici, ma talora storici, la commedia attica, sia ‘antica’ che ‘nuova’, appare invariabilmente collegata a situazioni del mondo attuale che sono quelle della società e della politica dell’Atene del quinto e quarto secolo. 2. Il Pluto, rappresentato in seconda versione nel 388, dopo la prima del 408, è cronologicamente l’ultima commedia di Aristofane che ci è giunta, precedente un paio di anni alla morte; qui, in particolare, con il periodo finale della sua produzione, notiamo spiccati caratteri di alcune novità, quasi un preannuncio di Menandro e della commedia ‘nuova’. Si assiste ad un racconto che ha il sapore dell’utopia e della favola, mettendo in scena l’uni versale deprecazione della sorte umana convinta che il dio della ricchezza, Pluto, reso cieco per volontà di Zeus, distribuisca i suoi beni a caso, favorendo i malvagi e i disonesti, mentre i bravi padri di famiglia vivono nell’indigenza. Evidente è il riflesso sociale del momento attuale con quello della città, impoveritasi in seguito alla perdita del suo ruolo egemone, in conseguenza della sconfitta nella guerra del Peloponneso; ma Aristofane sceglie di collocare il problema delle ristrettezze economiche alle spalle della questione pedagogica sulla migliore educazione per i figli, problema tanto dibattuto dai sofisti. Latente appare inoltre una certa qual parodia mitologica che prenderà corpo nel prosieguo del racconto con l’ingresso in scena del dio Hermes. C’è un vecchio agricoltore, che si definisce davanti al suo servo come un uomo timorato degli dei e giusto, ma che ha sempre vissuto nell’indigenza (vv. 28-29 ἐγὼ θεοσεβὴς καὶ δίκαιος ὢν ἀνὴρ κακῶς ἔπραττον καὶ πένης ἦν). Ora si chiede, se abbia da cambiare registro nella educazione del suo unico figlio, inducendolo a comportarsi in modo disonesto (v. 36 μεταβαλόντα τοὺς τρόπους εἶναι πανοῦργον, ἄδικον) visto l’esempio che viene da quanto succede Winkler 1985.
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in città. Q uindi si reca a Delfi per interrogare il dio che gli impone a chiare lettere (σαφῶς) di seguire la prima persona che incontrerà all’uscita dal tempio e di convincerla ad accompagnarlo a casa sua (v. 43 πείθειν δ’ ἔμ’ αὐτὸν ξυνακολουθεῖν οἴκαδε). Il protagonista assiste il povero cieco Pluto, che risulta guarito dal suo male, dopo aver trascorso la notte nel tempio di Asclepio. Lo porta a casa sua, dalla quale ha dapprima scacciato a male parole in un agone l’Indigenza, che non è riuscita a convincerlo a restarle fedele (vv. 1047-1049 οὐ γὰρ πείσεις, οὐδ ἢν πείσῃς). La dimora trabocca ora di ricchezza, allo stesso modo quelle dei suoi compagni, e, mentre i disonesti arricchiti se la passano male, lo stesso dio Hermes, messo alle strette dalla fame, perché nessuno pensa più ai sacrifici, accetta di fare lo sguattero nella sua casa. L’ingresso in scena di Hermes è accompagnato da un dialogo irreale, che marca l’intervento di questo dio sui generis le cui imprese erano ben note al pubblico: si sente la porta battere dal l’esterno, ma quando lo schiavo si affaccia dall’interno non scorge nessuno perché Hermes ha pensato bene di nascondersi. Τίς ἔσθ’ὁ κόπτων τὴν θύραν; «Chi è che batte alla porta?» chiede lo schiavo e subito Τουτὶ τί ἦν; «Cosa è stato?», secondo il testo oxoniense di N. G. Wilson, ma quando va a vedere non c’è nessuno. La sorpresa per quanto è successo di non trovare nessuno (Οὐδείς, ἔοικεν), prende la forma di una battuta del servus (ἀλλὰ δῆτα τὸ θύριον φθεγγόμενον ἄλλως κλαυσιᾷ), che possiamo rendere in francese «Mais alors cette petite porte, si elle crie sans raison, c’est qu’elle a envie de pleurer» 10, in inglese «This door will have plenty to cry about if it’s making noise for nothing» 11, oppure «Well, if the door must make a noise for no reason, it’s asking for a thump» 12, in italiano «Ma allora questa porticella che fa rumore senza motivo pare abbia voglia di piangere». La presenza dell’ipocorismo nel passaggio dalla forma θύρα a θύριον appare coerente con la battuta un po’ rude in cui la porta viene dallo schiavo umanizzata in nome di una comune co-appartenenza all’universo servile; essa corrisponde ad uno spazio vuoto 10 Edizione ‘Les Belles Lettres’ a cura di V. Coulon e H. Van Daele, V, Paris 1954. 11 Edizione ‘Loeb Classical Librery’ a cura di J. Henderson, IV, Harvard – London 2002. 12 Edizione di A. Sommerstein, 2001.
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in attesa che sia il dio a riempirlo. La scoliastica, con la plurivocità interpretativa suggerita 13 (ἠχοῦν, βοώμενον, φωνὴν ποιοῦν, λαλοῦν, ἠχοῦσα), dimostra l’impaccio, sottraendosi con il silenzio alla soluzione manesca facilmente immaginata dal pubblico, che sta sempre sospesa dietro l’angolo; questa invece sarà tradotta da Benedetto Marzullo con il più corrivo, quasi plautino, «avrà voglia di mazzate» 14. Sommerstein articola la didascalia di scena con lo schiavo che «kicks the door» 15. La battuta sembra tutt’altro che immotivata per il comportamento di Hermes, che è fieramente combattuto tra due contrastanti sentimenti, quello dell’originaria obbedienza, in qualità di latore del volere di Zeus, che oramai è solo un ricordo del passato, e la fame del momento attuale, quando nessuno gli offre più nulla. Il testo prosegue infatti con un dialogo con il servus callidus, in cui il dio si propone per incarichi ogni volta meno importanti fino ad accogliere infine il lavoro più umile. È quindi perfettamente coerente con il profilo etico di questo personaggio che, dopo aver bussato alla porta, si nasconde per riapparire subito dopo giustificandosi con il pretesto di essere stato preceduto da costui (vv. 1100-1102 ΚΑ. Οὗτος, εἰπέ μοι, σὺ τὴν θύραν ἔκοπτες οὑτωσὶ σφόδρα; EΡ. Μὰ Δί’, ἀλλ’ ἔμελλον· εἶτ’ ἀνέῳξάς με φθάσας). Aristofane entra in sordina con questa battuta nel campo degli indirizzi diretti al publico degli spettatori. L’argomento insieme a altri è stato scandagliato negli atti di un congresso editi da Marion Faure-Ribreau nel corso del 2018. Senza voler prender parte al dibattito che riguarda i tanti interventi del confronto di Plauto con Aristofane, emerge che il compositore di palliatae tiene lo sguardo rivolto al pubblico, in ragione del funzionamento proprio dei ludi scaenici dove la performance dipendeva dalla esattezza del rituale, mentre nel commediografo ateniese ci si attendeva anche «un retour concret, la victoire, qui constitue l’enjeu commun des adresses au public présentes dans ses comédies 16». E tuttavia in entrambi gli autori sono presenti formule metateatrali che enunciano un’insopprimibile, seppur diversa, volontà di Edizione degli Scholia recentiora in Plutum a cura di M. Chantry, Groningen 1996. 14 Edizione con testo critico a cura di B. Marzullo, Roma 2003. 15 Così nel testo di Sommerstein. 16 Faure-Ribreau 2018, 70. 13
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libertà nel confonto del pubblico: in Aristofane il processo sembra più complesso di quello di Plauto che risulta invece legato ai rituali dei ludi scaenici 17 e offre accezioni differenti del significato dei verbi proprio nel Pluto 18. L’invenzione predisposta da Aristofane sta proprio nel fatto che la porta, non lasciando scorgere nessuno dietro di sé, offre il destro per una battuta immediata e velocissima consistente nel l’idea che il lamento riveli la sua voglia di piangere. Il motivo della velocità è fondamentale nella trama scenica, perché tale supposizione, destinata a far ridere lo spettatore per la sua incongruenza, ha la durata di un attimo, essendo seguita immediatamente dalla battuta del servus che accusa Hermes, la cui presenza sulla scena non era stata finora notata; alla fine lo spettatore sa che il dio ha battuto la porta, ma egli dalla risposta, in aderenza alla sua indole bugiarda, da vero trickster, dichiara di essere stato prevenuto dal suo interlocutore. Probabilmente, come ha notato A. Sommerstein, la gag di Aristofane traeva origine dalla realtà sociale 19 di Atene, dove era invalso l’uso di questo genere di scherzo da parte di giovani ragazzi sfaccendati o malfattori, alle spese di padroni di casa vecchi o di schiavi. Nota Eduard Fraenkel, avvalendosi di un lavoro di Friederich Leo 20, che, già nella commedia ‘antica’ e «certamente anche nella Commedia Nuova», oggetti inerti sono chiamati dagli attori sulla scena a prendere il posto di personaggi in azione 21; tra questi un caso speciale è rappresentato dalla porta di casa che il portiere sente come associata dalla stessa condizione di schiavitù, come nella Asinaria che consente a Plauto di imbastirvi un passaggio da v. 386 a v. 391. La porta in realtà nel Pluto non assurge a vero personaggio: la personificazione della porta ha lo spessore brevissimo di una battuta che mira a far correre un brivido di ilarità tra il pubblico. 17 Faure-Ribreau 2012, 158, dove dichiara l’assenza della figura del iuvenis, figura frontale nella società romana, rispetto al prevalere di personaggi marginali, come l’adulescens e il senex. 18 Jay-Robert 2018, 52. 19 2001, 209. 20 Leo 1900, 607. L’articolo dal titolo Elegie und Komödie è una ‘risposta’ alla sua recensione del commento del Rothstein, ma riporta materiale non sempre congruente. 21 Fraenkel 1960, 99.
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Si tratta del «piglio fulmineo, beffardo, di strada» che Virginia Woolf dice essere una qualità inevitabile della letteratura dei Greci 22. Tutto ciò è solo il punto di partenza dal quale ha preso origine, per stratificazioni successive, l’elegia 1, 16 di Properzio, generalmente indicata come un paraklausithyron, in realtà per le scuole di retorica questo è un κῶμος, cioè il canto di un amante alticcio che supplica di essere ricevuto in casa della donna amata, sempre senza successo. L’usanza trova una convalida sociale nelle città greche e ellenistiche. Un bell’esempio di κῶμος compare proprio nelle Ecclesiazuse, là dove un giovane accenna alla porta come se fosse un elemento di interposizione con la ragazza di cui si è invaghito, chiedendole che apra per permettere il loro incontro: «vieni qui, vieni qui, amore mio, corri giù, aprimi la porta» (vv. 960-964 δεῦρο δή, δεῦρο δή, φίλον ‹ἐμόν›, καὶ σὺ μοι καταδραμοῦσα τὴν θύραν ἄνοιξον). I versi sono un vero canto dinnanzi alla porta chiusa, quale vedremo nella elegia latina, ma anche un artifizio scenico, perché questa sarà aperta non dalla giovane, come era atteso dal pubblico, ma da una vecchia che vuole fare sesso con lui subito, in base alla nuova legge che le donne si sono date nella ἐκκλεσία. Ad unire i due passi delle Ecclesiazuse e del Pluto c’è il dettaglio della comune accusa di aver battuto con violenza il pestello della porta (Eccl. 977 καὶ τὴν θύραν γ ἤραττες / οὑτωσὶ σφόδρα), che funge rispettivamente da incentivo alla vecchia per esprimere la libido che la pervade, oppure a Hermes per dichiarare la sua fame. Come si vede Aristofane appare come πρῶτος εὑρετής della personificazione della porta, al fine di dar vita a una gag scenica. Non ci restano attestazioni dell’impiego di questo tipo di battute nella Commedia Nuova, ma ciò è dovuto, come è verosimile, alle condizioni frammentarie nelle quali ci sono giunti i testi di Menandro e degli altri comici greci. A Roma, con la palliata di Plauto, il motivo riappare nella Asinaria ai vv. 384-387, in modo più esteso che in Aristofane, tanto da farci supporre che questa parte sia una sua creazione; qui infatti il servus (Libano), dopo aver accusato il mercante venuto da fuori di aver quasi sfasciato la Woolf 2017.
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porta colpendola (Q uis nostras sic fregit foris?), alla risposta di non averla neppure toccata, esprime la sua comunanza di servitù con essa (Nolo ego foris conservas meas a te verberarier), quindi tiene dietro un’altra coppia di battute, dove il mercator si chiede, se con tale indolenza cardines … foribus effringantur e il ianitor replica che la porta lo chiama subito quando vede appressarsi qualcuno che scalcia (procul si quem videt ire ad se calcitronem). Un po’ più complessa è la personificazione della porta, che riaffiora a tutto campo nel Curculio di Plauto, perché lo scherzo rigurgita, non solo in quella che è nota come la ‘serenata ai chiavistelli’ ai vv. 55-62, ma anche in tutta la parte iniziale del primo atto fino all’intervento della vecchia. Si incomincia con un wordplay, che evidenzia il saluto alla porta (ostium oculissimum) che l’adulescens Fedromo le rivolge (salve! valuistin?). Lo schiavo Palinuro – attenti al nome! – si fa beffe delle parole del padrone (ostium occlusissumum, caruitne febris te heri vel nudiustertius et heri cenavistine?), incorrendo nella di lui riprovazione, giacché la considera un vero personaggio sulla scena, ma così discreto e riservato (bellissimum hercle vidi et taciturnissumum), soprattutto quando si apre senza far rumore per lasciar passare la ragazza di cui si è invaghito (quom aperitur tacet quomque illa clanculum ad me exit, tacet). L’immagine si estende quindi con tono prossimo all’elegia. Non la porta, ma i pessuli, cioè i chiavistelli sono invocati dal l’innamorato perché, in cambio dell’affetto che prova per essi, questi lo assecondino, danzando come ballerini forestieri, in modo da permettere alla ragazza, per la quale si strugge, di aprirla e uscire di casa per incontrarsi con lui. Il motivo della porta silenziosa è uno di questi; esso verrà ripetuto poco dopo quando apre una vecchia ubriacona. Fedromo ha portato con sé del vino, che verserà lungo la soglia della porta, perché la vecchia Leaena lo avverta, con il suo olfatto finissimo, e la apra: quindi, accanto al motivo della casa ‘deliziosa’ e dei cardini silenziosi (viden ut aperiuntur aedes festivissumae? num muttit cardo? est lepidus), troviamo in Plauto quello della porta bagnata di vino, cosparso su di essa. Plauto scambia la porta con il vino, dal cui sentore la vecchia era stata indotta ad aprirla: essa dichiara di aver sentito il profumo di vino, che la attira nel buio, con espressioni di tono palesemente erotico, che corrispondono a quelle 359
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usate nel delirio di eccitazione dalla vecchia delle Ecclesiazuse, che ha preso in consegna l’adulescens. A completare il quadro, appariranno sulla scena poi tre vecchie, una più laida dell’altra, che litigano per godere dei suoi amplessi, mentre è definitivamente tramontata l’immagine della ragazza che era stata coinvolta nel convegno d’amore. Dopo la scena del versamento di vino sulla porta (agite, bibite, festivae fores, potate), al quale tiene dietro una più sostanziosa bevuta della vecchia assistita da Fedromo nelle vesti di vini pollens, lepidus Liber, segue la celebre serenata ai chiavistelli che, dopo essere restati immobili e silenziosi per tutti i versi cretici, finalmente, come fosse per magia, lo assecondano e cominciano ad ubbidirgli (sentio sonitum; tandem edepol mihi morigeri pessuli fiunt). Q uello che in Aristofane è destinato a suscitare ilarità tra il pubblico, facendo sospettare qualche inganno di Hermes, è divenuto in Plauto espressione di un canto autentico e disperato, come alcune riprese di testi greci nella poesia latina (quae mihi misero amanti ebibit sanguinem). Fin qui la porta si è prestata a entrare nel gioco comico di Aristofane e di Plauto come attore silenzioso; gli autentici protagonisti sono uomini (e dei), che le hanno attributo movimenti ed azioni, addirittura pensieri, ma essa non ha mai dimostrato di essere cosciente o partecipe di tali loro supposizioni. La porta è un simbolo bipolare del pensiero antropologico, che svolge alternativamente la funzione di aprire e chiudere un luogo o una casa e nello svolgimento di questo compito può indicare ostruzione, chiusura, difesa oppure esaltare l’idea del passaggio che viene permesso, consentito, aperto. Immaginare che essa abbia agito da sola, come lascia supporre per un attimo Aristofane e chiedere ai chiavistelli di muoversi velocemente, come un passo di danza come dice Plauto, sono altrettante occasioni di straniamento, che paiono interpretare ad un livello superiore un gesto realistico. Non c’è da meravigliarsi se questi testi comici per la loro stessa natura propizieranno un’atmosfera di magia, come nel romanzo di Petronio: a 16, 2 prima si ode un violento colpo alla porta, quindi, dopo che i commensali sono stati invitati da una voce ad aprire, per sapere chi sia, la caduta a terra della sera spalanca i battenti, con l’apparizione di una figura femminile velata. 360
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Un gradino ulteriore nel processo di approssimazione all’elegia 1, 16 di Properzio è quanto offertoci dal carme 67 di Catullo, con il quale usciamo dal genere letterario della commedia per passare al distico elegiaco. Si tratta di un processo complesso e che necessita di particolare attenzione, come dimostra il saggio recentemente composto da O. Portuese 23. Due sembrano al lettore gli elementi fondanti del componimento: l’esposizione di una vicenda, che ha fatto parlare alcuni di logica dell’epigramma 24, pur esteso in dimensione spropositata di 48 versi, e la tecnica 25 della diff amatio, con la quale siamo ricondotti al concetto di ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν della commedia ‘antica’. Alle spalle di questa tradizione c’è la ἰαμβικὴ ἴδεα, nata con la lirica di Archiloco in trimetri giambici e distici elegiaci 26, poi sviluppatasi in varie tipologie fino all’età ellenistica con i Giambi di Callimaco. In questo senso si può parlare per il c. 67 di originalità conseguente al carattere realistico e mimetico di questa, che risulta essere pur sempre una elegia 27, magari composta da Catullo che viveva ancora a Verona, quindi frutto di un parto poetico giovanile, oppure forse destinata ad un gruppo ristretto di amici, ma pur sempre testimonianza che, accanto all’elegia d’amore erano fioriti altri generi, come l’elogiativo-parenetico, lo scommatico, il didascalico 28. Si spiegano così alcune somiglianze tematiche, che sono proposte dalla contiguità con il c. 66; entrambi i componimenti sono il narrato esposto da un personaggio inanimato che racconta, costellazione o porta, in bene o in male, molte cose della sua padrona. 23 Il carme 67 di Catullo, nella collana ‘Q uaderni di Paideia’, 2013, in parti colare il capitolo secondo sui caratteri generali del carme. 24 Salvatore 1965, 23. 25 Copley 1949, 245. 26 Gentili 20173, 61 «La funzione pragmatica avvicinava l’elegia alla poesia giambica, ma la distingueva una maggiore sostenutezza della forma che attraverso l’esametro serbava a suo modo il legame con l’epos»; si deve poi aggiungere «il vantaggio di conchiudere nelle misura epodica del distico un qualsiasi messaggio». 27 Carratello 1988, 337-338. 28 Gentili 20173, 60 «La forma elegiaca, parimenti al suo strumento musicale escluso dal mondo dell’epica, si contrappose alla forma esametrica dell’epos perché più idonea ad esprimere contenuti realistici, esperienze nuove esistenziali, individuali e collettive, connesse con le mutate condizioni socio-economiche nelle polis arcaica».
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In dettaglio Catullo sembra essere stato il primo ad immaginare una porta che parla e risponde a chi la interroga nell’ambito descrittivo di un processo di comunicazione 29, che tiene conto della funzione ‘social’ che le spetta. Essa però pare venuta meno ai suoi doveri di onorabilità sanciti dalla società, tanto da ricevere, in forma di ritornello come in un mimo, una serie di accuse per la mancata protezione della domus: qui, quacumque aliquid reperitur non bene factum / ad me omnes clamant: ianua culpa tua est. Le molteplici sconcezze, che hanno avuto luogo nella dimora, inducono a chiedersi iperrazionalisticamente come mai una porta, che sta sempre fissa a un cardine, possa conoscere i segreti che si sono verificati all’interno di un’intera casa, al che il sorprendente personaggio, che ascolta e parla, ma non può staccarsi dal luogo dove è incardinata, risponde evocando le conversazioni intercorse tra la sua scellerata padrona e le ancelle 30. In conclusione, il fatto di essere devota ai suoi compiti istitu zionali, non ha impedito alla porta di sentire e parlare come qualsiasi essere umano. Q uesta è la novità apportata da Catullo nel comporre il suo carmen, verisimilmente assorbita dalla tecnica degli epigrammi ‘parlanti’, con i quali gli autori facevano violenza alla realtà per motivi di commemorazione, convenienza o, in età ellenistica, di vero e proprio lusus letterario per realizzare un παίγνιον, cui si aggiunge la deriva comica della prosopopea dell’oggetto impiegata dal Veronese per rifare il verso ai tragici greci 31. Di questa scelta si può seguire il fall-out nella poesia lirica ed elegiaca dell’età augustea, quindi contemporanea di Properzio, come le odi 1, 25 e 3, 10 di Orazio, dove però si supplica la donna, i vv. 1-24 di Tibullo, dove alla ripetuta invocazione della porta non viene data risposta, e infine all’elegia 1, 6 degli Amores di Ovidio dove troviamo al suo posto il ianitor. Insomma pare che Properzio sia l’unico ad aver seguito integralmente lo schema del c. 67, che è un dialogo e un mimo. In Properzio, tuttavia, Lewis 2009, 34-49. Si tenga presente il finale ai vv. Dixerit hic aliquis: quid? Tu istaec, ianua, nosti, / cui numquam domini limite abesse licet, / nec populum auscultare, sed hic suffixa tigillo / tantum operire soles aut aperire domum? / Saepe illam audivi furtiva voce loquentem / solam cum ancillis haec sua flagitia, / nomine dicentem quos diximus, utpote quae mi / speret nec linguam esse nec auriculam. 31 Portuese 2013, 108-113. 29 30
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ci appare un ulteriore motivo di autonomia, perché, non è la porta ad essere interpellata, ma è la prima a parlare, celebrando i successi dei magni triumphi, prima del sopraggiungere della decadenza del momento attuale. L’elegia risulta quindi solidamente impiantata nell’antitesi tra passato e presente, che la porta ha entrambi sperimentato; ai momenti felici si riferisce con vocaboli altisonanti, che lasciano intendere il passaggio dal fasto all’abiezione, sua attuale condizione abituale – e su essa si innesta ad incastro 32 il canto del l’exclusus. Tutto il componimento pare ricalcare il κῶμος delle Ecclesiazuse, che suona disperato: ἄνοιξον, ἀσπάζου με· διά τοι σὲ πόνους ἔξω, come un refrain ai vv. 971-972 e 974-975. In aggiunta si può notare nel Pluto che, mentre Aristofane aveva impostato il suo gioco scenico sulla divinità che subisce un processo di degradazione, al contrario in Properzio la porta, umanizzata a priori in occasione dell’esordio ex abrupto e poi costretta a subire le accuse di perfidia e di duritia da parte dell’exclusus al posto della domina, diviene sostanzialmente una divinità agli occhi del povero κωμαστής per la presenza dell’anafora, con il pronome della seconda persona singolare che dà luogo al cosiddetto du-Stil. L’elegia 16 del monobiblos presenta non pochi tratti problematici che avvalorano la presenza di un genere a sé stante; il fatto che Properzio, ovvero l’Autore, non abbia mai menzionato Cinzia, che è la domina insensibile della scena, è un elemento significativo, alla stessa stregua dell’indubbio protagonismo della porta che apre (vv. 1-16) all’improvviso il discorso, con la prosopopea di una dignitosa e decaduta matrona, e, ricordando la nobiltà e le glorie militari del passato, si dimostra infastidita per le fiaccole abbandonate e le corollae turpes cui si aggiungono gli obscena carmina, che dobbiamo ritenere incisi su essa e che sono il segnale (signa) della vita licenziosa e dissoluta della padrona. Infine la stessa porta conclude, con i due distici finali (vv. 45-48), per nulla abbattuta dalle critiche rivoltele dall’exclusus, ma consapevole che la colpa è della padrona in un verso finale, riprende la giustificazione che è anche in Catullo (v. 12).
Fedeli 1980, 366.
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Che la porta abbia udito le graves querelae dell’exclusus è accertato dal tenore del testo properziano, dove altrimenti l’incastro non funzionerebbe. Il prodigio si è verificato, amplificato dal desiderio altamente patetico di chi sta fuori che la sua voce passi attraverso una fessura del legno della porta (27-28) o utinam traiecta cava mea vocula rima / percussas dominae vertat in auriculas sino a raggiungere le orecchie della amata. I termini ipocoristici anche qui stanno a avvalorare l’atteso e rituale spalancamento della porta, che tuttavia non avviene. Il motivo dello spalancarsi miracoloso di una porta in un contesto divino è già in Omero (Il. 5, 749 αὐτόμαται δὲ πύλαι μύκον οὐρανοῦ) per accompagnare la discesa in campo di Atena, poi ancora a 8, 393 per la stessa causa; verrà poi imitato da Callimaco nell’inno ad Apollo ai vv. 6-7, dove si invocano l’apertura delle sbarre e dei chiavistelli (αὐτοὶ νῦν κατοχῆες ἀνακλίνασθε πυλάων, αὐταὶ δὲ κληῖδες) in attesa del prossimo arrivo del dio. Pochi sono tuttavia i riscontri specifici nella letteratura ellenistica: un passo dagli Idilli di Teocrito 3, 6-7, dove però siamo in presenza di una grotta sulla quale Amarillide (παρακύπτοισα) è invitata ad affacciarsi, un papiro con un frammento dei Mimiambi di Eroda (παράκυψον, ἱκετῶ) e da ultimo un epigramma di Stratone a 12, 252 dell’Antologia Palatina 33, poeta vissuto nel II secolo d.C., che quindi avrà potenzialmente imitato Properzio e non viceversa, a meno che non si tratti di una tradizione indipendente scaturita da un modello perduto. Aristofane, nel Pluto, ha collocato, con sottile gusto ironico, dietro la porta vuota l’intrigante ipostasi del dio trickster con la sua battuta geniale, che fu probabilmente ripresa dalla Commedia Nuova e poi rifluita e arricchita in Plauto. Così il testo di Aristofane ha costituito un’occasione di riflessione per il giovane poeta del monobiblos che, nella figura dell’exclusus, fa in un tempo supplicare e ingiuriare la porta, come se fosse all’origine della sua sventura e dipendesse da lei e non dalla domina la sua salvezza. L’ipotesi di originalità è avvalorata dal fatto che Properzio qui proclamerà la novità formale di componimenti novo versu «con «Io con la fiaccola, porta, t’incendio e con te l’inquilino. Sono ubriaco. Poi di corsa, via! Per l’Adriatico giro, colore del vino; m’intano in una porta che, la notte, s’apre». La traduzione è di F. M. Pontani. 33
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versi mai uditi prima» al v. 41, dove la metafora del continuo processo del selezionare è espressa con la filatura in vista di un prodotto nuovo (τι καινόν), secondo una formulazione già presente in Bacchilide (19, 2) 34. 3. Altra ripresa del testo di Aristofane appartiene a quel genere di allusioni dotte, che costellano l’opera in funzione di exemplum, da cui il poeta intende ricavare le linee di una didassi che risulta particolarmente pronunciata nel libro terzo. Il lettore si trova qui ai vv. 21-26 della elegia undicesima, dove fa la sua comparsa la figura di Semiramide «che edificò Babilonia, città dei Persiani, sì da innalzare un solido muro di mattoni cotti, sul quale potessero incrociarsi due cocchi senza sfiorarsi e urtarsi con gli assi delle loro ruote; fece passare il corso dell’Eufrate nel mezzo della cittadella da lei fondata e impose a Battra di piegare il capo al suo dominio». La traduzione è di Paolo Fedeli. Il ritratto dell’eroide accadica viene dopo un terzetto di figure, che impersonarono nel mito il dominio femminile sull’uomo: Medea, Pentesilea, Onfale, e precede quello della regina Cleo patra. Properzio, ormai stabilmente organico al circolo di Mecenate, si lascia attrarre da un paragone tra la donna che ha sconvolto il corso della sua vita e l’impresa temeraria di Cleopatra che ha tentato di abbattere il dominio di Roma. Rispetto alle tre eroine, tutte e tre di origine non-greca, la cui fama coincise con un solo gesto, Semiramide 35 ha dimostrato con costanza la sua indole virile, di cui Properzio tesse l’elogio, ricordando con altrettanti perfetti dello stile epigrafico le virtù ‘maschie’ del comportamento e dell’azione: statuit … duxit … iussit. Semiramide, per proteggere la città di Babilonia, che aveva fondato, innalzò una solida muraglia in mattoni cotti (Persarum statuit Babylona Semiramis urbem, / ut solidum cocto tolleret aggere opus), così imponente che su essa potevano transitare due carri opposti senza sfiorarsi (et duo in adversum mitti per moenia currus / nec possent tacto Fedeli 1980, 395. Siamo informati del carattere storico di Sammuramat, regina d’Assiria, moglie di Šamši-Adad V, e della sua controfigura leggendaria da G. Pettinato Semiramide, Milano 1985. 34 35
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stringere ab axe latus). In generale i commentatori di questo passo hanno pensato che Properzio abbia preso spunto da una citazione di Erodoto, a 1, 179, 3, che scrive che la mura di Babilonia erano edificate in mattoni cotti (ἑλκύσαντες δὲ πλίνθους ἱκανὰς ὤπτησαν αὐτὰς ἐν καμίνοισι) per assenza di materiale pietroso in quella zona della Mesopotamia, cui era stato aggiunto asfalto caldo come calcina, tanto che c’era uno spazio sufficiente che consentiva ad una quadriga di girare su se stessa (τὸ μέσον δὲ τῶν οἰκημάτων ἔλιπον τεθρίππῳ περιέλασιν). Non sappiamo se questa notizia sia frutto dell’autopsia dello storico; essa riappare nella Biblioteca storica di Diodoro Siculo a 2, 7, 3 come estratto dallo scritto del medico Ctesia di Cnido, attivo alla fine del quinto secolo alla corte persiana. Che un percorso fosse costruito in modo da assicurare la circolazione in due sensi era un argomento di letteratura da ingegnere, che viene citato da Tucidide a proposito dei μακρὰ τείχη di Atene, quando dice che due carri con le pietre da costruzione potevano transitare l’uno opposto all’altro (1, 93, 5 δύο γὰρ ἄμαξαι ἐναντίαι ἀλλήλαις τοὺς λίθους ἐπῆγον); difficilmente tuttavia il lettore avrebbe trascurato il confronto con le meraviglie e i capolavori dell’Oriente. Sovrapponendo artificialmente al nostro testo il primo libro della Republica, vediamo come per incanto 36 apparire queste Lunghe Mura che dal Pireo salgono in città; intorno ad esse i tre vecchi, Socrate, Cefalo, Sofocle sembrano imbastire una ringhiera illusionista, mentre sulla metafora della scienza del vivere propostaci si frappone in noi in filigrana l’idea della loro prossima distruzione (e successive ricostruzioni) 37. In realtà, come è stato notato già da Fedeli 38, ci sono negli Uccelli di Aristofane due passi che possono far pendere l’indagine sulle fonti in altra direzione; qui infatti riguardo al grandioso progetto di costruire in alternativa ad Atene, la Polis per antonomasia della grecità, Nubicuculia per intercettare il fumo dei sacrifici agli dei, la fondazione comporta la costruzione di una muraglia celeste, 36 Un’operazione analoga è stata tentata nel presente in La Repubblica di Platone di A. Badiou, 2013. 37 Su come leggere Platone è stata, ed è tuttora questione aperta: si veda il libro di Szlezák 1991, che cerca di rispondere all’interrogativo di Ludwig Wittgenstein. 38 Fedeli 1985, 367-368.
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che Pistetero immagina innalzata con grandi mattoni cotti come Babilonia (vv. 551-552 πᾶν τουτὶ τὸ μεταξὺ παριτειχίζειν μεγάλαις πλίνθοις ὀπταῖς ὥσπερ Βαβυλῶνα). Una volta edificata, la muraglia strapperà parole di meraviglia ad uno dei messaggeri che la avvistano: “Un’opera splendida, meravigliosa. Sopra, lo spaccone di Prossenide e Teogene ci potrebbero far incrociare due carri, tirati da cavalli grossi come quello di Troia: non si sfiorerebbero, largo com’è” (ὑπὸ τοῦ πλάτους ἂν παρελασαίτην (v. 1129). Significativo è che il testo latino sembra riprodurre quello di Aristofane con il verbo παρελαύνειν ‘sfiorare, stringere’ piuttosto che quello di Erodoto con περιελαύνειν ‘girare intorno’. È giusto però chiederci se questo riferimento a Semiramide, mediato da Aristofane abbia una sua logica nella trama del discorso di Properzio. Gli Uccelli furono presentati alle Grandi Dionisie del 414, quando vinsero il secondo premio, dopo gli Avvinazzati di Amipsia che aveva trattato un tema di bruciante attualità, dopo che l’anno precedente si era verificato il più sconvolgente evento della storia religiosa di Atene con la mutilazione delle Erme. Anche Aristofane era ben consapevole di quanto era successo e la sua commedia vuol essere un tentativo di fuga dal presente. E di un momento orribile per la storia di Roma si parla anche nella elegia con la battaglia di Azio, che aveva deciso le sorti dell’impero e la sua capitale, se Roma o Alessandria. La nostra elegia (3, 11) si apre con la visione di Cinzia, che non sarà mai nominata nel terzo libro, che sconvolge la vita del poeta e, dopo i quattro esempi di donne terribili passa a dire del tentativo di dominio di Cleopatra, il cui prezzo l’infame marito avrebbe pagato con le mura di Roma e i senatori ridotti in schiavitù (vv. 31-32). Una missione analoga e opposta coinvolge i due protagonisti degli Uccelli, che vanno alla ricerca di un luogo dove fondare una città, le cui mura saranno rese inviolabili dagli uccelli loro alleati, al pari di quelle che Semiramide ha innalzato a difesa di Babilonia. Il confronto passa alle mura di Roma; queste sono infatti divine (v. 50) e non cederanno a nessun inganno femminile (Didone, Cleopatra) rendendo testimonianza del potere di Cesare. Entrambi i testi nascono dall’insoddisfazione dell’autore, gli Uccelli dalla impossibilità di continuare a vivere in Atene dopo quanto è successo alle Erme tanto da dichiarare οὐκ ἐσμὲν ἀνθρώπω (v. 64) e scegliere la comunità con la stirpe degli uccelli, seviziati 367
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dagli uomini e acerrimi nemici dell’umanità; l’elegia 3, 11 dalla situazione esistenziale con una donna che vuole trascinare lui nato libero sub sua iura come se fosse uno schiavo. Come illustreranno gli esempi da manuale di storia romana, Properzio tuttavia gode come tutti i concittadini del ruolo protettore di Cesare Augusto, ma il richiamo a Semiramide contribuisce ad orientare questa elegia su una tonalità minacciosa e misogina, che affiorerà con evidenza nell’ultima elegia del libro. 4. L’opera aristofanica e la commedia ‘antica’ offrono al poeta umbro non solo un esempio di stile teatrale squarci di rievocazioni storico-leggendarie per il presente, ma un’occasione di immaginare il futuro. Si tratta di un più generale modello su come rivivere fantasticamente un fatto avvenuto, che parte dal capo volgimento arbitrario delle leggi che sovraintendono alla vita umana, che prevedono, secondo un topos largamente presente nel pensiero classico, che tutto ciò che nasce sia destinato alla tomba. Pure Aristofane ha immaginato, avvalendosi della sua fantasia inventiva da poeta, che Nevio ricorderà in un verso celebre della Tarentilla (quanto libertatem hanc hic superat servitus), che il rapporto naturale possa essere invertito in letteratura e che il morto possa essere riportato in vita, come se nulla fosse successo, o meglio, nonostante quanto sia successo. L’intera pièce delle Rane avrà dunque come tema il confronto su chi dei due campioni tragici, Euripide oppure Eschilo, merita di tornare a far udire i suoi versi al pubblico di Atene. Non c’è dubbio, data l’indole conservatrice del commediografo, amante dell’arte dei tempi passati, con la sua gravità e solennità, che sarà Eschilo a prevalere a sorpresa sull’isterica frammentarietà del presente, tanto da essere scelto dal dio Dioniso per il suo ritorno glorioso nella città. Al livello di caratterizzazione gestaltica la collocazione in hysteron proteron di due elegie del quarto libro offre occasione di rivedere la situazione letteraria posta in essere da Aristofane. Già Omero aveva invertito le leggi della narrazione facendo scorrere un tempo tutto suo e delimitato che coincide con il racconto di Ulisse nella terra dei Feaci. Di questo racconto una parte, l’avventura nella terra dei morti, valica le possibilità concesse all’uomo e si colloca in posizione differita riguardo al periodo della scansione vitale. L’idea di discese e risalite dall’Ade sulla terra, oltre a essere 368
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un motivo mitico e storico-religioso sin dai tempi della Nekuia odissiaca, era stata un espediente teatrale che nel 412 viene ripreso come l’evocazione di fantasmi (εἰδωλοποιία) messa in atto con la commedia Demi di Eupoli. Di questa opera riusciamo a ricostruire la trama grazie agli ampi frammenti papiracei, che la resero celebre presso l’antichità. Come riferisce Platonio Sulle diverse caratteristiche dei poeti comici 39, il richiamo sulla terra dell’Attica dei quattro illustri rappresentanti della passata vita politica ateniese, Aristide, Solone, Milziade, Pericle, appare mirato all’eliminazione delle leggi attuali e alla riproposizione delle antiche. Si tratta di una questione politica alla quale la commedia di Aristofane del 405 aveva dato una risposta sul piano letterario, anche se era difficile dubitare, vista la natura della commedia ‘antica’, che lo sgomento per la scomparsa dei tre massimi poeti, che avevano costituito la gloria della tragedia, non avesse colpito ogni ordine e grado della società ateniese. Preceduto dal l’avventurosa discesa agli Inferi di Dioniso, travestito da Eracle e accompagnato dallo schiavo Santia, che per ben due volte, in ricordo delle malefatte di quella catabasi, accetterà di scambiare con il padrone il camuffamento dell’eroe, il fulcro del dramma si incentra sul duello verbale tra Eschilo ed Euripide, che, più moderno e nevrotico, gli ha tolto il suo seggio vicino a Plutone. Al momento di essere pesati sulla bilancia i suoi versi risultano superiori in virtù della funzione pedagogica che esercitano sulla gioventù e sarà Eschilo a ritornare vivo nella città per salvarla con i suoi versi (vv. 1501-1503 σῷζε πόλιν τὴν ἡμετέραν γνώμαις ἀγαθαῖς καὶ παίδευσον τοὺς ἀνοήτους). Nel quarto libro di Properzio assistiamo ad un flagrante controsenso di cui il poeta evita di dare una qualsivoglia spiegazione o giustificazione. Le due elegie presentano al lettore prima Cinzia morta e già sepolta nella elegia VII, dove dichiara di essere stata uccisa da una rivale con la complicità dei suoi schiavi e accusa Properzio di indifferenza e di freddezza, e poi ci appare viva e vitale nella VIII, quando accompagnata da un suo amante, nobile decaduto e dissoluto, si reca a Lanuvio per assistere alla cerimonia del serpente, abbandonando Properzio che decide di pren Perusino 1989, 72.
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dersi una rivincita con due scortilla, ‘sgualdrinelle’, delle quali uno suona il flauto e l’altro danza con i crotali. Tuttavia l’atmosfera del festino non decolla, anche a causa di sfortunati tiri con gli astragali, fino all’improvviso e inaspettato ritorno di Cinzia, che penetra all’improvviso in casa, strattona e caccia via le donne, la mette a soqquadro, imponendo a Properzio un trattato di pace che prevede la sua resa incondizionata 40. Sembrerebbe di assistere a due momenti dell’Erlebnis del poeta, ma essi sono trasfigurati dalla sua memoria e rivissuti secondo il registro di due celebri scene di Omero; il genere letterario sottinteso è rappresentato da noti passi della Asinaria quali il contratto d’amore (vv. 746-809) e la moglie tradita che coglie il marito in flagrante adulterio (vv. 880 sgg.), ma si tratta di comicità tipica, di genere che non riesce a raggiungere il coefficiente nostalgico dei versi che l’inventiva di Aristofane attribuisce ai due grandi tragici. Entrambi i testi delle elegie attendono solo di essere scambiati di ordine, come due scene di un film, per apparirci irriconoscibili nella loro origine perchè legati ad altre scene. L’idea del carattere dichiaratamente eziologico della prima elegia del libro quarto ha portato come riflesso che una parte della critica muovesse alla ricerca di cause autentiche e concrete per ogni elegia di questo libro, tra cui ovviamente la coppia di elegie su Cinzia, intendo cioè alludere che l’elegia settima dipendesse dall’iscrizione o graffito della sua tomba a Tivoli, da un lato, e, dall’altro, che l’arrivo imprevisto e turbolento di Cinzia nella ottava fosse la causa del brusco risveglio nel cuore della notte degli abitanti dell’Esquilino. Tali aitia sembrano piuttosto pretestuosi, se analizzati con piglio formale e scolastico, ma le cose cambiano ad una verifica come vere fonti. Credo che non esistano più dubbi, dopo il commento della scuola barese sul carattere più che umano, sovraumano di Cinzia, quindi assolutamente letterario, quasi una divinità, che riesce a sovvertire ab imis le leggi della vita, tale da imporre a Properzio ordini, che se eseguiti alla lettera, gli concilieranno l’amore dopo / prima della morte.
40 Sugli influssi della commedia sulla elegia ottava fanno riferimento Yardley 1972, 143-149 e Currie, 1973.
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L’interrogativo della Janan 41 muove intorno alla tesi di «una precisa strategia testuale» 42 seguita da Properzio, che ha imbastito intorno ai momenti di fides ed alla sua antitesi di perfidia, un processo di accorpamento delle due elegie, che risale verisimilmente al nucleo lirico di Catullo, o meglio di un Catullo vissuto quaranta anni dopo con i condizionamenti di un’altra età e di altri personaggi. La scelta dunque era stata intenzionale nell’abile gioco a trar profitto da due celebri scene dei poemi omerici, il sogno di Achille abbandonato sulla riva del mare nel XXII canto dell’Iliade e la μνηστηροφονία del XXIII dell’Odissea. Ora, a prescindere dal comune retaggio omerico, con il quale vengono esposti, unici nel IV libro, due episodi che concernono la morte e la vita di Cinzia, è evidente che i carmina costituiscono un vero dittico, governato ad un tempo dai criteri della polarità, che ammette l’uno purché ci sia anche l’altro, e della congruenza, che vuole seguano un ritmo determinato. Sono questi criteri che li fanno spiccare come testi gemelli nel firmamento poetico properziano. Precisamente questa linea di estrema visibilità della coppia suggerisce l’ipotesi che la ripresa dei due passi omerici sia stata indicata, in vista dell’inversione del prescelto, come modello nelle Rane di Aristofane, a poco meno di quattrocento anni quando nel 405 furono prescelte come vincitrici. Il resto sarebbe stata iniziativa di Properzio, con l’elaborazione dell’immagine da morta a viva, nel suo relativo vistoso anacronismo. Sappiamo che un secolo prima di Aristofane, Stesicoro trattò, come risulta da un frammento di seconda mano 43, di una celebre resurrezione nell’Eriphyle, dove i defunti Capaneo e Licurgo vengono resuscitati da Asclepio. Q uesta è un’altra prova della grande influenza del poeta di Imera (o Matauro) sui temi della poesia epica dell’Occidente; rispetto alla poesia omerica è tutto, o quasi tutto, cambiato 44. Non c’è ragione di stupore perché il motivo della rinascita compare nella commedia dorica da cui passerà nella 41 Janan 2001, 114 «Why portray Cynthia’s death in some gruesome detail in one and in the next spring her vigorously alive upon the poet’s shocked audience?». 42 Fedeli 2015, 104. 43 Sarebbe la Bibliotheca di Apollodoro 3, 10, 3 (= fr. 92 a Davies-Finglass). 44 Kelly 2015, 34-44.
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commedia attica, anche in virtù della diffusione dell’Orfismo, del Pitagorismo e di altri culti misterici. Da lì il carattere passerà, in età prossime all’ellenismo, a forme miste di poesia e prosa (‘satira Menippea’, ‘mimo’) per arrivare al romanzo, come ha ben visto Bachtin. Ma questa è un’altra pagina, che concerne piuttosto la fortuna di Properzio.
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Abstracts Scopo di questa comunicazione consiste nel valutare dai commenti moderni il contributo di Aristofane come fonte per l’elegia di Properzio. Tra le tante fogge in cui esso si esprime (le citazioni e i riscontri superano la trentina) ho voluto soffermarmi su tre che vanno dalla tecnica scenica surreale in cui si esercita il dio Hermes, al minaccioso frapporsi del nome arcaico di Semiramide sui ruoli di Cinzia e di Cleopatra, e infine al più profondo significato di insegnare al pubblico tramite lo spettacolo, prescindendo dalla naturale sequenza degli eventi. Sorprende che Properzio, nonostante il distante genere letterario e i condizionamenti dello stile e della lingua diversi, appaia propenso in alcune circostanze a seguire il modello in modo da contribuire alla raffinata profondità di pensiero delle sue elegie. This paper aims to appraise Aristophanes’ role as a source for Propertius’ elegies, as illustrated in modern commentaries. Among the several ways Aristophanes’ influence my be detected (there are over thirty references), I selected three instances: the surreal theatrical technique 373
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as applied to the way the god Hermes is made to act, the threatening way Semiramis’ archaic figure interacts with the roles assigned to Cynthia and Cleopatra, and finally the deeper meaning as expressed in the attempt to instruct the audience by dispensing with the natural sequence of events. It is somewhat surprising that Propertius in spite of the differences in genre, stile, and language, should choose to follow the Aristophanic model in order to enhance the depth of the thought sustaining his elegies.
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ANDREW WALLACE-HADRILL University of Cambridge
L’ARTE NELLA POESIA DI PROPERZIO 1
In età augustea scene tratte dalla mitologia greca ricorrono frequentemente all’interno di due generi distinti, quello della poesia latina e quello della decorazione parietale in città romane quali Pompei. In un mio precedente contributo presentato al convegno di Sulmona su Ovidio, ho suggerito che la connessione tra mitologia ovidiana e pittura pompeiana fosse stata sopravvalutata; nonostante si ritrovino in entrambe i medesimi miti, è infatti difficile dimostrare che qualsiasi pittore pompeiano avesse letto il testo di Ovidio con una certa attenzione 2. In questo contesto invece vorrei proporre, nel caso di Properzio, quella che può apparire come la tesi opposta, ossia che il nesso tra le sue elegie e l’arte sia stato sottovalutato; non tanto che Properzio abbia esercitato un’influenza sulla pittura romana, il che è altamente improbabile, ma piuttosto che le pitture cui aveva accesso a Roma abbiano avuto un impatto significativo sulla sua immaginazione. Non sono il primo a notarlo, e Margaret Hubbard, mia docente durante gli anni dell’università, ha dedicato riflessioni sofisticate all’argomento all’interno della sua monografia su Properzio 3. Ritengo tuttavia che ci sia ancora qualcosa da aggiungere in merito a tale questione. 1 Ringrazio tutti i colleghi di Assisi che hanno partecipato al convegno, ma in particolare Paolo Fedeli, il quale mi ha vivamente incoraggiato a parlare di un poeta che lui conosce tanto meglio di me. Per la traduzione in italiano, ringrazio molto la mia collega e amica Tiziana D’Angelo, anche lei più esperta di me in storia dell’arte romana. 2 Wallace-Hadrill 2017. 3 Hubbard 1974, 164-168, 173.
I generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 375-391 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120112
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Iniziamo dalle basi. Ciò che l’amante e l’artista condividono è l’importanza dell’uso degli occhi. Properzio è straordinariamente sensibile al tema della visione e degli occhi: Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis (1, 1, 1).
Sono gli occhi di Cinzia che lo hanno catturato, incontrando i suoi. Si tratta di un tema sul quale si sofferma volentieri: O me felicem! o nox mihi candida! et o tu lectule deliciis facte beate meis! (2, 15)
La notte di piacere di Properzio è caratterizzata non dall’oscurità, bensì dalla luce, nox candida, la notte bianca, dal momento che i due amanti hanno accanto al letto una lucerna dalla fiamma luminosa (quam multa apposita narramus verba lucerna, 3). Cinzia mette in piedi uno spettacolo tutto da ammirare, alle volte scoprendo il seno e rivelandolo al suo sguardo, altre volte coprendolo e rallentandone la visione (5-6). Dunque il suo amante perde le forze, gli occhi che si chiudono dal sonno, e lei che li riapre con un bacio: illa meos somno lapsos patefecit ocellos ore suo et dixit, ‘Sicine, lente, iaces?’ (7-8).
Dall’inizio a occhi spalancati si procede verso la morale della storia, ossia che fare l’amore al buio non dona gioia e che gli occhi (in caso non si sapesse) fanno da guida in amore: non iuvat in caeco Venerem corrumpere motu: si nescis, oculi sunt in amore duces (11-12).
Attraverso exempla mitologici Properzio sviluppa l’idea che la visione, e specificamente quella del corpo nudo, sia ciò che guida il desiderio: Elena era nuda quando Paride le mise gli occhi addosso; e non si tratta solo del desiderio maschile per il corpo femminile, dal momento che Endimione era nudo quando Diana se ne invaghì (13-16). Il delicato corpo di Cinzia, non deturpato dalla gravidanza, merita di essere ammirato, e lo stesso corpo del poeta, anche se solo implicitamente, è degno di uno sguardo. Dunque: che entrambi delizino i propri occhi prima che la notte eterna cali su di loro: dum nos fata sinunt, oculos satiemus amore: nox tibi longa venit, nec reditura dies (23-24). 376
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La nox candida della fiamma della lucerna è dunque un richiamo alla nox longa della morte. Vedere equivale a vivere. Che l’amante debba servirsi sia dei propri occhi sia di quelli della donna è evidente; ma qual è in questo caso lo scopo degli esempi mitologici, di Elena ed Endimione? Inutile dire che rappresentazioni di Elena ed Endimione nudi erano assai comuni nell’arte antica. Ma erano anche estremamente note in poesia, e qui, come nel caso della maggior parte degli exempla mitologici di Properzio, è incredibilmente arduo stabilire se il poeta avesse in mente delle rappresentazioni pittoriche 4. Uno scettico potrebbe rifiutare qualsiasi riferimento all’arte come estraneo, e potremmo perfino essere d’accordo se non fosse per l’enfasi sulla nudità: nuda … Lacaena, nudus et Endymion, nudae … deae. La nudità è infatti un tema centrale all’interno dell’elegia, ma fino a che punto era effettivamente importante nei precedenti racconti poetici delle scene? La rappresentazione del nudo è essenzialmente una specialità dell’artista. Basti pensare all’aneddoto riportato da Cicerone su Zeusi 5, al quale fu commissionato dagli abitanti di Crotone un dipinto di Elena per il tempio di Giunone. L’artista necessitava di un modello e venne pertanto accompagnato al ginnasio ad ammirare gli splendidi giovani di Crotone e gli fu chiesto di immaginare quanto fossero belle le loro sorelle. Tuttavia, egli insisteva di voler vedere le figlie della brava gente di Crotone affinché posassero per lui. I Crotoniati rimasero scioccati dalla richiesta, ma cedettero e la Elena di Zeusi divenne l’esito della fusione delle caratteristiche migliori delle più belle fanciulle di Crotone. Q uella dell’insistenza dell’artista sul corpo femminile nudo è una tematica ricorrente, anche qualora le splendide modelle fossero prostitute, come l’apologeta cristiano Taziano lamenta a Roma, una città piena di immagini delle meravigliose prostitute dell’antichità (Tatian. Oratio ad Graecos 33).
4 Discusso da Rothstein 1966, 309, Richardson 1977, 256, Fedeli 2005, 450 (Elena nell’arte figurativa). 5 Cic. De Inv. 2, 1: tum Crotoniatae publico de consilio virgines unum in locum conduxerunt et pictori quam vellet eligendi potestatem dederunt. ille autem quinque delegit; quarum nomina multi poëtae memoriae prodiderunt, quod eius essent iudicio probatae, qui pulchritudinis habere verissimum iudicium debuisset; cfr. Plin. NH 35, 64.
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Se in quest’elegia le allusioni alla pittura non sono esplicite, altrove Properzio dichiara apertamente il proprio interesse per i dipinti. Q uando immagina un viaggio ad Atene, non sono esclusivamente la filosofia, la retorica e la commedia ad attirare la sua attenzione, ma anche la pittura e le opere in avorio e bronzo: aut certe tabulae capient mea lumina pictae, sive ebore exactae, seu magis aere, manus (3, 21, 29-30).
Si noti l’espressione da lui adottata: le pitture cattureranno i suoi occhi, così come Cinzia aveva fatto in principio. Le pitture che ritraggono ragazze non hanno solo lo scopo di suscitare interesse negli uomini, ma possono anche stimolare un senso di partecipazione nelle donne e Properzio è consapevole che gli incubi e le rappresentazioni pittoriche della sofferenza possono essere ugualmente scioccanti: seu timidam crebro dementia somnia terrent, seu miseram in tabula picta puella movet (3, 8, 15-16).
Le pitture sono in grado di fornire informazioni sugli angoli più remoti del mondo: come Aretusa si lamenta con il proprio amato Licota, lontano a causa di obblighi militari, non può far altro che apprendere di quei mondi distanti dalle pitture: cogor et e tabula pictos ediscere mundos (4, 3, 37).
Si chiede chi fosse il pittore ad aver ritratto per primo Amore nella veste di un fanciullo, chi fosse ad aver avuto un tale colpo di genio? Q uicumque ille fuit, puerum qui pinxit Amorem, nonne putas miras hunc habuisse manus? (2, 12, 1-2)
Il nudo Cupido con il suo arco e le frecce è un cliché non solo nella pittura antica, ma anche un cliché negli epigrammi ellenistici 6. Perché dunque far riferimento alla pittura? Perché Properzio ha un’immagine ben radicata nella propria mente: in me tela manent, manet et puerilis imago (2, 12, 13).
Non si tratta di frecce puramente metaforiche che si sono con ficcate in lui, ma di un dipinto, una puerilis imago. Il poeta ci parla non tanto delle fonti, ma della propria immaginazione. Cfr. Rothstein 1966, 286; Fedeli 2005, 341.
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La pittura rappresenta anche per le giovani un’esplicita fonte di conoscenza sulle pratiche sessuali, e Properzio coglie l’occasione di muovere una protesta tradizionale contro la pornografia: quae manus obscenas depinxit prima tabellas et posuit casta turpia visa domo, illa puellarum ingenuos corrupit ocellos nequitiaeque suae noluit esse rudis. (2, 6, 27-30)
È troppo semplice tracciare una linea di confine netta tra pornografia e pittura mitologica. Secondo Plinio, il grande Parrasio, rivale di Zeusi, si dilettava nel dipingere libidines sulle tavole più piccole 7, e una di esse, che stando a Svetonio attirò l’attenzione di Tiberio, raffigurava Atalanta assieme con Meleagro in una scena di sesso orale 8. Ciò equivale a dire che la mitologia può essere pornografica, così come le prostitute servivano regolarmente da modelle per i pittori. Plinio riferisce che Alessandro aveva commissionato ad Apelle un dipinto della propria amante Pancaspe senza veli, e aveva poi consentito che ella divenisse l’amante del pittore, cosicché in seguito servì poi come modella per la sua Afrodite Anadiomene 9. Come Alessandro, anche Properzio era ben disposto a far divenire la propria amante una modella (2, 3). Cinzia è infatti una seconda Elena (post Helenam haec terris forma secunda redit), e chi puó dire se l’Europa e l’Asia andranno in guerra per una tale bellezza? La bellezza di Elena era stata catturata, come abbiamo visto, da Zeusi attraverso la selezione delle più incantevoli fanciulle di Crotone. Properzio propone una modella ancora migliore: si quis vult fama tabulas anteire vetustas, hic dominam exemplo ponat in arte meam (2, 3, 41-42).
Il poeta vede il suo progetto come parallelo a quello del pittore: proprio come Zeusi aveva ricavato dalle modeste fanciulle di Cro7 Plin. NH 35, 72: (Parrhasius) pinxit et minoribu stabellis libidines, eo genere petulantis ioci se reficiens. 8 Suet. Tib. 44, 2: quare Parrhasi quoque tabellam, in qua Meleagro Atalanta ore morigeratur … in cubiculo dedicavit, cfr. Fedeli 2005, 211. 9 Plin. NH 35, 86-87: … Pancaspen nudam pingi ob admirationem formae ab Apelle iussisset … sunt qui Venerem Anadyomenen ab illo pictam exemplari putent.
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tone l’immagine ultima del fascino femminile, o come Apelle l’aveva scoperta nell’amante cedutagli da Alessandro, così anche Cinzia è il prodotto della sua immaginazione poetica e visiva 10. Il legame tra il piano dell’artista e quello del poeta è già segnalato nella seconda elegia del primo libro. Apparentemente il testo introduce il topos del conflitto tra natura e finzione. Cinzia non ha bisogno di ricorrere ad alcun artificio, né di una pettinatura elegante, né di sete trasparenti di Cos, e non deve bagnare i propri capelli con profumo di mirra (senza dubbio le donne per bene facevano tutte queste cose), in quanto la natura non necessita di cultura, e l’amore nudo non ha bisogno di alcun artificio 11. Il tema generale della superiorità della natura sull’arte è analizzato anche attraverso il tema del colore: la spontaneità dei colori offerti dalla terra, l’arbutus (corbezzolo) in fiore in una grotta remota, i colori naturali dei sassi sulla spiaggia, la dolcezza del canto degli uccelli 12. Plinio avrebbe approvato questo elogio della natura; eppure, come ogni invettiva romana contro la luxuria, ha anch’esso un rovescio della medaglia. L’esplosione di colori dei fiori porta inevitabilmente alla mente del lettore contemporaneo l’arte dei giardini romani, che si serve dell’artificio per ottenere esattamente questo effetto, e che attraverso un ulteriore livello di finzione viene proiettata sulle pareti come nel caso della Villa di Livia a Prima Porta o della Casa del Frutteto a Pompei (Ill. 2). Per quanto concerne le pietre variopinte sulla spiaggia (litora nativis … picta lapillis), esse creano nella nostra mente l’immagine di mosaici con la loro elaborata disposizione di tessere colorate. Solo un moralista rigoroso potrebbe guardare un capolavoro di opus lithostroton e lamentarsi del fatto che la spiaggia sia più bella. E anche il canto degli uccelli potrebbe essere convenien-
Cfr. Rothstein 1966, 235; Fedeli 2005, 148-149. Prop. 1, 2, 1-8: Q uid iuvat ornato procedere, vita, capillo / et tenuis Coa veste movere sinus, / aut quid Orontea crines perfundere murra, / teque peregrinis vendere muneribus, / naturaeque decus mercato perdere cultu, / nec sinere in propriis membra nitere bonis? / crede mihi, non ulla tuaest medicina figurae: / nudus Amor formam non amat artificem. 12 Prop. 1, 2. 9-14: aspice quos summittat humus non fossa colores, / ut veniant hederae sponte sua melius, / surgat et in solis formosior arbutus antris / et sciat indocilis currere lympha vias. / litora nativis persuadent picta lapillis, / et volucres nulla dulcius arte canunt. 10 11
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temente catturato all’interno di una voliera come quella che Varrone aveva costruito per intrattenere i propri ospiti a Casinum 13. Properzio si rivolge ora all’autorità della mitologia: cos’è ad aver spinto Castore e Polluce verso Febe e Telaira, figlie di Leucippo (vittime di violenza), o Apollo verso Marpessa, figlia di Eveno (il quale si suicidò a seguito dell’incidente), o Pelope verso Ippodamia (anche qui il padre farà una fine raccapricciante al termine della corsa dei carri)? 14 Q uesti exempla sono certamente inquietanti e in tutti e tre i casi ci troviamo senza dubbio di fronte a un forte desiderio maschile per il corpo femminile, con i suoi effetti curiosamente distruttivi (anche se di ciò Properzio non fa menzione). Perché, tuttavia, utilizzarli come esempi del potere della bellezza naturale rispetto a quella artificiale? La risposta ci viene offerta in questi termini: sed facies aderat nullis obnoxia gemmis, qualis Apelleis est color in tabulis (21-22).
Non è il colore artificiale delle gemme, bensì quello naturale che troverai in un dipinto di Apelle. Ci troviamo qui di fronte a qualcosa di più complesso rispetto a quanto proposto dai commentatori 15. Vi è un’allusione lampante al fatto che le eroine citate siano soggetti di pitture. Tuttavia, come un mosaico appare quale artificio se messo a confronto con una spiaggia, così ci si può aspettare che un dipinto sia percipito come un artificio quando confrontato con la bellezza naturale di Cinzia in carne e ossa. La scelta è particolarmente inusuale nel contesto dell’enfasi sui colori. Le tinte che i pittori utilizzavano erano tutte in un certo senso artificiali, e strettamente connesse con i pigmenti utilizzati nella cosmesi. A questo proposito è opportuno ricordare che la discussione di Plinio il Vecchio nel trentacinquesimo libro sui pittori più illustri (tra cui Zeusi e Apelle), su cui si fonda gran parte della nostra conoscenza indiretta della pittura greca, segue all’analisi dei pigmenti condotta Varro RR 3, 4, 2-5, 17. Prop. 1, 2, 15-20: non sic Leucippis succendit Castora Phoebe, / Pollucem cultu non Helaira soror; / non, Idae et cupido quondam discordia Phoebo, / Eueni patriis filia litoribus; / nec Phrygium falso traxit candore maritum / avecta externis Hippodamia rotis. 15 Cfr. Rothstein 1966, 68; Fedeli 1980, 103. 13 14
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nei libri trentatré e trentaquattro. La maggior parte di essi sono minerali, prodotti secondari dell’estrazione mineraria dell’ar gento e così via. La discussione di Plinio su tali minerali mostra come venissero utilizzati sia per la pittura sia per la cosmesi e la medicina. L’antimonio, per esempio, svolgeva una funzione importante per gli occhi: il preparato noto come platyophthalmon era utilizzato in lavaggi di bellezza al fine di far apparire gli occhi delle donne più grandi, così come anche in balsami per gli occhi 16. Considerata la sua ossessione per gli occhi di Cinzia, Properzio potrebbe aver perso un passaggio. Nel discutere i pigmenti utilizzati in pittura, Plinio distingue tra colori naturali e artificiali 17. Alcuni, tra cui la terra di Eretria usata da Nicomaco e Parrasio, sono prodotti naturali (anche in questo caso si tratta di una medicina utile per mal di testa e infezioni interne), altri devono invece essere realizzati artificialmente 18. Apelle, per citare un esempio, aveva inventato un metodo per ricavare una tinta nera dall’avorio bruciato, noto come elephantinum 19. Vi sono anche scoperte più recenti, tra cui l’anulare, realizzato con terra bianca mista a pasta vitrea di anelli di poco valore (da cui deriva il nome): questo veniva utilizzato allo scopo di donare lucentezza ai quadri delle donne (quo muliebres picturae illuminantur) 20. Forse è questo ciò che Properzio intende con nullis obnoxia gemmis, non abbellito con gemme autentiche, ma con pietre finte tritate fino a creare una pasta, come un glitter che dona lucentezza. 16 Plin. NH 33, 101-102: in isdem argenti metallis invenitur, ut proprie dicatur, spumae lapis candidae nitentisque, non tamen tralucentis; stimi appellant, alii stibi, alii alabastrum, aliqui larbasim … Vis eius adstringere ac refrigerare, principalis autem circa oculos, namque ideo etiam plerique platyophthalmon id appellavere, quoniam in calliblepharis mulierum dilatet oculos, et fluctiones inhibet oculorum exulcerationesque farina eius ac turis cummi admixto. 17 Ibid. 35, 30: colores alii nascuntur, alii finguntur. 18 Ibid. 35, 38: Eretria terrae suae habet nomen. hac Nicomachus et Parrhasius usi. refrigerat, emollit, explet volnera; si coquatur, ad siccanda praecipitur, utilis et capitis doloribus et ad deprehendenda pura; subesse enim ea intellegunt, si ex aqua inlita continuo arescat. 19 Ibid. 35, 42: Apelles commentus est ex ebore combusto facere, quod elephantinum vocatur. 20 Ibid. 35, 48: Sunt etiamnum novicii duo colores e vilissimis: … anulare quod vocant, candidum est, quo muliebres picturae inluminantur; fit et ipsum e creta admixtis vitreis gemmis e volgi anulis, inde et anulare dictum.
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Le pitture di Apelle non sono l’esempio più scontato di bellezza naturale. Al centro del dibattito antico sulla pittura greca vi è il tema dell’arte che imita la natura. Zeusi dipinse dell’uva in modo talmente realistica che gli uccelli tentarono di cibarsene; il suo rivale Parrasio replicó con il dipinto di un quadro coperto da una tenda col quale ingannó Zeusi che chiese che la tenda fosse rimossa 21. Apelle realizzò ritratti realistici a tal punto che i fisionomisti erano in grado di predire il futuro dei soggetti (ibid. 88). Dipinse un Alessandro con il fulmine tra le mani in modo talmente realistico che il fulmine pareva fuoriuscire dal quadro, e riuscì a farlo con una tavolozza di soli quattro colori (ibid. 92). Inventò anche una vernice nera che sembrava conferire ai colori delle sue pitture maggiore vivacità (ibid. 97). Possiamo dunque davvero collocare Apelle sul piano del conflitto tra natura e arte? Apelle utilizza l’arte al fine di rappresentare la natura così abilmente da farla apparire naturale. Tutto ciò potrebbe complicare la nostra lettura della seconda elegia di Properzio, ma ritengo che al di sotto della superficie, nonché della vernice nera della sua poesia, per così dire, Properzio fosse chiaramente e completamente consapevole del dibattito che si era sviluppato attorno all’arte greca. Inoltre, ritengo che i suoi testi si rivolgessero a un pubblico abbastanza ben informato sull’arte greca. D’altra parte questo è esattamente quel che dobbiamo aspettarci nel contesto della Roma augustea. Q uell’impressione di generale dimestichezza con l’arte greca è fortemente rafforzata da una recusatio rivolta a Mecenate (3, 9). La prima ode di Orazio, Maecenas atavis edite regibus, alla quale questa elegia fa chiaro riferimento, insiste sul fatto che ognuno debba perseguire la propria carriera, sia essa nella gare olimpiche, nella politica romana, nel settore agrario, nel commercio e così via. Properzio introduce una lista completa di vocazioni non menzionate da Orazio (3, 9, 9-16):
21 Ibid. 35, 65: descendisse hic (Parrhasius) in certamen cum Zeuxide traditur et, cum ille detulisset uvas pictas tanto successu, ut in scaenam aves advolarent, ipse detulisse linteum pictum ita veritate repraesentata, ut Zeuxis alitum iudicio tumens flagitaret tandem remoto linteo ostendi picturam atque intellecto errore concederet palmam ingenuo pudore, quoniam ipse volucres fefellisset, Parrhasius autem se artificem.
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gloria Lysippo est animosa effingere signa; exactis Calamis se mihi iactat equis; in Veneris tabula summam sib iposcit Apelles; Parrhasius parva vindicat arte locum; argumenta magis sunt Mentoris addita formae; at Myos exiguum flectit acanthus iter; Phidiacus signo se Iuppiter ornat eburno; Praxitelen propria vendit ab urbe lapis.
Ci offre i nomi dei più illustri maestri d’arte: Lisippo e Calami tra i bronzisti, Apelle e Parrasio per la pittura, Mentore nella toreutica, Mys come miniaturista, Fidia per la scultura in avorio, Prassitele per quella in marmo. La lista ha un carattere decisamente tradizionale (Fedeli 1985, 310): Cicerone propone un elenco simile nel de Oratore (3, 25-26), Dionigi di Alicarnasso nel suo Isocrate (3, 542) e Ovidio fa lo stesso nelle sue epistole ex Ponto (4, 1, 29 ss.). Se Properzio ci appare come uno storico dell’arte assolutamente competente, è solo nel senso in cui un contemporaneo istruito poteva esserlo. Tuttavia, nel contesto dei suoi numerosi riferimenti alla pittura che sono stati discussi poc’anzi, sembrerebbe che l’interazione con le arti visive sia una caratteristica della sua poesia, nonché una reazione che egli si attende dal suo pubblico. Se siamo in grado di comprendere ciò di cui sta parlando, e perfino di riconoscere i nomi che cita, è pressoché interamente merito di Plinio e della sua scelta di allegare una lista estesa di artisti alla sua discussione sui minerali. La nostra conoscenza dell’arte greca, e specialmente della pittura, è ed è sempre stata sostanzialmente dipendente dal testo di Plinio 22. Nel caso della pittura, dal momento che non ci è pervenuto nessuno dei capolavori descritti nella Naturalis Historia, ci si è a lungo affidati a una combinazione tra il testo di Plinio e la decorazione parietale pompeiana. Se possiamo considerare la pittura pompeiana derivativa, come hanno spesso fatto gli studiosi di fine diciannovesimo e inizio ventesimo secolo, ossia riproduzioni, nel bene o nel male, del canone perduto dell’arte greca, allora siamo in grado perlomeno di farci un’idea di quanto sia andato perduto 23. Nonostante sia Cfr. Vout 2018, 45-52. Birt 1985, Keyssner 1938.
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attualmente molto meno in voga 24, un approccio di tal genere ha dei meriti, come dimostrato da Peter Heslin nella sua recente monografia The Museum of Augustus. Q ui Heslin muove da una brillante ricostruzione di un monumento pompeiano ad oggi non più visibile: la decorazione del recinto di Apollo 25. Combinando l’accurata descrizione di Sir William Gell nella seconda decade dell’Ottocento con un dettagliato modello in sughero del sito realizzato da Padiglione verso la metà del diciannovesimo secolo, Heslin ricostruisce il ciclo troiano che decorava le pareti del colonnato. Più speculativa è la sua proposta che una struttura pubblica di età augustea a Pompei imitasse un edificio contemporaneo di importanza decisamente superiore a Roma, che egli identifica con il Portico di Filippo, ossia il colonnato attorno al tempio di Ercole delle Muse. Nonostante la critica sia stata propensa a rigettare tale connessione come puramente speculativa, la base dell’argomentazione di Heslin resta valida. Se l’arte pompeiana riflette quella greca, tale trasmissione deve essere avvenuta attraverso la mediazione di Roma. Per ciascuno dei maestri citati nel suo catalogo Plinio è in grado di offrire svariati esempi delle loro opere visibili a Roma. Un dato significativo della sua relazione consiste nel numero elevato di edifici che a Roma contenevano queste opere d’arte. Pertanto l’Afrodite Anadiomene di Apelle poteva essere ammirata nel Tempio del Divo Giulio, almeno fino a quando non si deteriorò e fu sostituita da Nerone (Plin. NH 35, 91); il suo Castore e Polluce con la Vittoria, e il suo Alessandro con la Guerra in catene si trovavano nel Foro di Augusto (Claudio aveva sostituito la testa di Alessandro con quella di Augusto – una scelta di dubbio gusto, ibid. 93-94), il suo Ercole con il volto girato si trovava nel tempio di Diana (ibid. 94), mentre la sua competizione con Protogene su chi fosse in grado di tracciare la linea più fine rimase nel Palazzo di Augusto fino a quando l’edificio non andó in fiamme (ibid. 82-83). Zeusi era presente a Roma attraverso la sua Elena, originariamente realizzata per la città di Crotone e poi trasferita nel Portico di Filippo (ibid. 66). Plinio ci fornisce tanti altri esempi. Si veda di Stefano 1992-1993. Heslin 2015, 27-193.
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Heslin ha senza dubbio ragione sul fatto che strutture come il Portico di Filippo fossero gallerie d’arte che ispiravano l’immaginazione dei poeti augustei, ma nel trasformare il Portico di Filippo in un collegio dei poeti stringe troppo il campo. Parecchi dei nuovi edifici di età augustea svolgevano la funzione di gallerie d’arte. Properzio stesso è testimone dell’importanza del tempio di Apollo sul Palatino e del portico delle Danaidi, nonché delle vacche di bronzo di Mirone (2, 31). Ugualmente rilevanti erano i Saepta Julia con i relativi portici, quello degli Argonauti e quello di Meleagro. In base ai riferimenti di Plinio ai Saepta e ai gruppi scultorei in essi contenuti, ossia quello di Olimpo e Pan e quello di Achille e Chirone, Mario Torelli ha proposto che il più importante edificio di Ercolano, un tempo noto come Basilica e ribattezzato da lui Augusteum, e che a mio avviso è il Foro stesso, la fonte di alcune delle più spettacolari pitture del Museo di Napoli, evocava nel suo programma decorativo il ben più noto edificio di Roma 26. Non si deve inoltre tralasciare il più famoso tra i portici di Roma, quello di Pompeo, adiacente al teatro e decorato, come suggerito da Filippo Coarelli, con ranghi serrati di donne fra le quali anche poetesse e famose prostitute 27. Non stupisce dunque che Ovidio lo ritenesse un luogo ideale per rimorchiare le ragazze (Ars Am. 1, 67). Invece di considerare un singolo edificio di Roma quale fonte di ispirazione poetica, proporrei di immaginare una Roma augustea colma di luoghi di cultura all’interno dei quali il pubblico romano aveva modo di ammmirare opere d’arte, pitture e sculture realizzate dai migliori artisti sul mercato. Se da un lato Properzio dà spesso l’impressione di avere spesso dei dipinti dinnanzi agli occhi, così doveva essere anche per i suoi lettori. Q uesto, a mio avviso, dovrebbe stimolarci non tanto a cercare di stabilire invano chi fosse l’artista e quale pittura pompeiana ci consenta di ricostruire l’immagine nella mente del poeta, un approccio che è stato spesso adottato in passato, ma piuttosto a riflettere sulla possibilità che gli abitanti di Roma possedessero tutto un mondo di immagini nella propria mente.
Torelli 2004; Pesando 2003; Wallace-Hadrill 2011. Coarelli 1996; LTUR 4, 148-149 (P. Gros).
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In un caso possiamo ragionevolmente identificare il pittore, e in tal merito seguo Heslin 28. Abbiamo già menzionato la sfida rivolta da Properzio agli artisti affinché si servano di Cinzia come modello per superare Elena (2, 3). Heslin propone che il poeta avesse in mente la Elena di Zeusi, un dipinto sul quale l’artista aveva iscritto un distico omerico: tale era la bellezza di Elena che soffrire così a lungo per una donna non costituiva una follia per i Troiani e gli Achei dai begli schinieri (Iliade 1, 156-157). Q uando Properzio afferma che Paride e Menelao non fossero folli (sapiens) a combattere per Elena, non solo evoca Omero, ma anche la pittura nella quale Zeusi cita Omero. Se questo riferimento pare plausibile, ve ne sono molti altri che al nostro stadio di conoscenza (o piuttosto di ignoranza) non siamo in grado di individuare. Come è ben noto, la terza elegia del Monobiblos si apre con tre vignette (1, 3, 1-8): Q ualis Thesea iacuit cedente carina languida desertis Cnosia litoribus; qualis et accubuit primo Cepheia somno libera iam duris cotibus Andromede; nec minus assiduis Edonis fessa choreis 5 qualis in herboso concidit Apidano: talis visa mihi mollem spirare quietem Cynthia consertis nixa caput manibus
Cinzia dormiente evoca Arianna abbandonata sulla spiaggia, Andromeda liberata dalla sua roccia e una Baccante esausta dai riti. La stessa elegia termina con un’immagine di Argo che fissa le corna di Io (19-20). Le pitture paretali del Museo di Napoli, così come quelle di numerose case pompeiane, ci forniscono immediatamente una sorta di immagine che il poeta non solo aveva in mente, ma che poteva ragionevolmente aspettarsi che anche noi avessimo ben presente 29. È stata inoltre avanzata la proposta che le scene raffigurate sul vaso di Portland offrano un confronto 30. La mia maestra, Margaret Hubbard, era convinta che i riferimenti alle pitture fossero intenzionali, e ci indica Heslin 2015, 290-299. Fedeli 1980, 112; Wlosok 1967. 30 Felten 1987. 28 29
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altri passi nei quali possiamo ipotizzare una situazione simile: la scena dell’incubo nel quale il poeta vede la sua amata annegare evoca l’immagine di Elle sul montone in Ellesponto (qualem purpureis agitatam fluctibus Hellen, / aurea quam molli tergore vexit ovis 2, 26, 5-6); Calipso scarmigliata sulla spiaggia (1, 15, 11), forse un richiamo al quadro di Nicia; Ila e le ninfe (1, 20); e Dirce trascinata dal toro (3, 15) 31. Nonostante la soddisfazione data dal l’identificazione (Hubbard visitava con piacere Napoli e Pompei, e io conservo tutt’ora le sue copie delle guide ai siti), nutriva dubbi in merito all’efficacia dell’uso che il poeta faceva dell’arte: it leaves the story of Antiope sometimes puzzlingly detailed, sometimes disconcertingly brusque. For it is a defect sometimes of the imagination fed by a pictorial representation to be content with a rather stenographic cash-out of a scene, just because its pictorial equivalent is vividly present … we may feel that though this is all very well for those who have met the Toro Farnese and Pompeian paintings of Dirce’s punishment, and who can therefore think in the appropriate gestures and emotions, for those who have not it is a fraction curt 32.
Non si giustifica forse una tale critica allo stile allusivo con cui Properzio fa riferimento all’arte, dal momento che si pone come ugualmente allusivo in relazione alla tradizione letteraria: il suo stile ellenistico compresso chiede molto ai suoi lettori. Una caratteristica di tale stile compresso e allusivo è il fatto che Properzio sia lieto di bombardarci con una serie di immagini mitologiche. Pertanto in 2, 28 ci vengono presentate in distici consecutivi Io, Ino, Andromeda e Callisto (19-12); in 3, 19 troviamo una sequenza con Pasife, Tiro, Mirra, Medea, Clitemnestra e Scilla (11-22). In ciascuno di questi casi possiamo collocare il Hubbard 1974, 164-165. Ibid. 165: Talora lascia la storia di Antiope confusamente dettagliata, altre volte sorprendentemente secca. Poiché in alcuni casi è un difetto dell’im maginazione derivata da una rappresentazione pittorica quello di accontentarsi di una resa alquanto stenografica della scena, semplicemente perché il suo equivalente pittorico è presente in maniera vivida … potremmo avere la percezione che nonostante tutto ciò funzioni bene per coloro che si sono trovati faccia a faccia col Toro Farnese e con le pitture pompeiane della punizione di Dirce, e che pertanto sono in grado di pensare attraverso appropriati gesti ed emozioni, mentre per tutti gli altri lo scarto resta un po’ troppo brusco. 31 32
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distico a fianco di una scena pittorica. Suggerirei che questo fosse esattamente l’effetto sortito dal modo in cui le opere d’arte erano mostrate a Roma, attraverso splendidi e indiscriminati accumuli. Come indice di tale effetto possiamo considerare 2, 32, in cui le lamentele per l’assenza di Cinzia da Roma sono messe sullo stesso piano della trascuratezza delle bellezze del Portico di Pompeo 33. Il poeta si consola poi al pensiero che il tradimento possa essere ignorato qualora la ragazza torni a casa, e offre a questo proposito gli esempi di Elena, Venere, Paride sul monte Ida, e Arianna con Sileno e Bacco (31-40). Anche se il Portico di Pompeo non era decorato propriamente con queste scene è chiaro dalle lamentele di Taziano che l’edificio presentasse numerose immagini di amore adultero 34. Q uesto può condurci a una considerazione finale. Uno degli elementi più comuni delle scene mitologiche che decoravano così tante pareti pompeiane è il fatto che raggruppassero in una singola stanza miti apparentemente non connessi tra loro, malgrado gli studiosi dedichino non poco sforzo a tentare di dimostrare che sono effettivamente collegati tematicamente 35. In un certo senso questo è anche il gioco di Properzio, il quale trova, spesso con notevole ingegno, legami tematici tra i vari miti. Francamente ho dei dubbi sul fatto che ci si possa aspettare la medesima ingegnosità da parte dei pittori pompeiani, ma questa è una questione differente. L’uso consistente di scene mitologiche è un tratto caratteristico della decorazione pittorica di età augustea e della prima età imperiale: tipiche del terzo e quarto stile pompeiano, queste scene sono invece fondamentalmente assenti nel primo e secondo stile della tarda Repubblica. Ciò che vorrei proporre è che il passaggio di stili costituisca una risposta diretta all’improvvisa diffusione a Roma di edifici che fungevano da gallerie d’arte: gli abitanti di Pompei non fanno che imitare, anche se a distanza, le pinacoteche di Roma. È la molteplicità caleidoscopica di queste gallerie a creare un effetto profondo sull’immaginazione visiva romana. La decorazione parietale è una risposta a questo fenomeno e Properzio fa lo stesso, nel medesimo modo e tempo. Prop. 2, 32, 11-12: scilicet umbrosis sordet Pompeia columnis/ porticus. Tatian. Oratio contra Graecos 33, v.s. n. 27. 35 Sul tema, v. Lorenz 2008. 33 34
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A. WALLACE-HADRILL
È in questa prospettiva che vorrei spingermi oltre Heslin e proporre che non solo il Portico di Filippo, ma anche la vasta gamma di esposizioni artistiche a Roma contribuirono ad alterare il modo romano di vedere il mito. In tal senso, Properzio non è che l’equivalente del terzo stile pompeiano.
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L’ARTE NELLA POESIA DI PROPERZIO
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Abstracts Q uesto contributo sostiene che l’arte greca presente negli spazi pubblici di Roma augustea impressionò profondamente l’immaginazione di Properzio. Gli occhi sono importanti sia per chi ama l’arte, sia per chi la osserva; infatti, Properzio si riferisce esplicitamente al potere delle opere d’arte in diverse occasioni e il suo uso di exempla mitologici suggerisce l’impatto che hanno avuto le collezioni di dipinti mitologici disponibili nelle gallerie. Inoltre, è consapevole dei dibattiti sulla natura contro l’artificio nell’arte e presume che il suo pubblico possieda la stessa conoscenza. Q uesto, si sostiene, è ciò che dovremmo aspettarci in una Roma in cui molti nuovi spazi pubblici sono stati utilizzati per ospitare collezioni di arte greca, come descritto da Plinio il Vecchio. Vi è perciò una stretta correlazione tra l’uso di Properzio di istantanee mitologiche e i contemporanei sviluppi delle decorazioni parietali romane. This paper argues that the Greek art available in public spaces in Augustan Rome made a deep impression on the imagination of Propertius. The eyes are important to the lover as to the viewer of art. He refers explicitly to the power of artworks on a number of occasions, and his use of mythological exempla suggests the impact of collections of mythological paintings available in galleries. Moreover, he is aware of debates over nature versus artifice in art, and assumes the same knowledge in his audience. This, it is argued, is what we should expect in a Rome in which many new public spaces were used to house collections of Greek art, as described by the Elder Pliny. In his use of mythological snapshots we may see a correlate of contemporary developments in Roman wall decoration.
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GIANLUIGI BALDO Università di Padova
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Se si ripercorre l’itinerario di questo XXII Convegno properziano, risalta ancor meglio l’audace scommessa degli organizzatori, che hanno allestito non un semplice programma ma un vero e proprio progetto scientifico. I relatori hanno colto con grande cordialità e generosità questa sfida non facile, giacché sondare un autore come Properzio secondo la duplice prospettiva dei generi e della fortuna era un’impresa esposta a molti rischi: il rischio di autolimitarsi, incrementando semplicemente e meccanicamente il regesto dei punti di contatto con gli altri generi letterari; il rischio di inseguire fenomeni di permanenza della voce properziana negli autori successivi, con risultati culturalmente affascinanti ma sostanzialmente sterili per l’esegesi. Non è stato così, al punto che ci sente autorizzati a pensare che in questo convegno siano stati creati nuovi spazi alla nostra comprensione della poetica properziana e direi della stessa temperie augustea, sia dal punto di vista ermeneutico che metodologico. Non è stato un caso se questo itinerario è stato aperto da un suggestivo sondaggio sulla presenza dell’arte nella poesia properziana a opera di Andrew Wallace-Hadrill. Il nesso tra Properzio e le arti visive è uno degli aspetti sicuramente più sottovalutati, e l’intervento di Wallace-Hadrill ne ha evidenziato l’importanza e la significativa influenza; ne è una spia la ricorsività tematica degli occhi, che rinvia alla pervasività dello ‘sguardo’: il poeta rinnova la riconosciuta qualità visiva della letteratura, dell’espres sività e del gusto estetico latini. La visività guida anche la spettacolarizzazione della notte d’amore presente nei versi properziani ma spiega anche le connessioni tematiche con cui ProperI generi letterari in Properzio: modelli e fortuna, ed. by Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli, Carlo Santini, Turnhout, 2020 (SPL, 22), pp. 393-402 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.120113
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zio cerca di legare svariati argomenti mitologici: il relatore ha richiamato efficacemente l’abitudine romana di raccogliere nella stessa stanza dipinti con soggetti diversi. Ben oltre gli studi di Peter Heslin, dunque, la permanenza delle arti visive nella memoria properziana e il loro influsso sulla produzione testuale dovranno essere oggetto di attenzione, sia perché in certi casi la soggiacente presenza di un dipinto va presupposta come una sorta di ipotesto, sia perché i lettori augustei costituiscono un pubblico esteticamente esigente e ben informato sull’arte greca, e questo è un elemento indispensabile per mettere a fuoco l’orizzonte di destinazione dei versi elegiaci. Se sulla peculiare visività della poetica properziana si fonda la qualità della rappresentazione, la poesia greca del genus grande costituisce insieme lo sfondo e lo strumento con cui si amplia sul piano discorsivo il mondo angusto della topica elegiaca, con varietà di modi e ricchezza di forme. Un sicuro elemento di novità di questo convegno è stato infatti il superamento di una circoscritta idea di intertestualità lessicalizzata. Il rapporto con l’epos omerico, come ha messo in luce Gianpiero Rosati, si configura, ben al di là dei possibili elenchi di prelievi puntuali, come un rapporto strutturante sul piano tematico e ideologico; Omero non è semplicemente oggetto di recusatio, né il serbatoio di immagini e topoi per sublimare l’engagement erotico o metaforizzarlo ironicamente e parodicamente, ma è l’auctor con cui Properzio crea un nesso costante e intrinseco. A essere implicato è infatti il topos strutturante dell’elegia, il servitium amoris, che nell’elegia properziana è oggetto di una riqualificazione sul piano culturale e letterario. Per il poeta elegiaco, il ricorso all’epopea troiana è irrinunciabile perché il mondo dell’eros è, come quello epico-eroico, fondato sulla forza: il legame tra amante e donna amata viene rappresentato sovente da Properzio mediante l’impiego di sceneggiature, motivi e ‘citazioni’ che, specie nel I e nel II libro, vengono a comporre un’Iliade, un ‘poema della forza’ centrato sulla domina, di cui il poeta è uno schiavo senza speranza di emancipazione. Se è vero che l’elegia transcodifica i valori dell’epos, è vero anche che, specularmente, ne adotta l’assiologia; il genere elegiaco diventa esclusivo ed escludente ma nello stesso tempo adotta il sistema di relazioni dell’epos per strutturare sul piano letterario i rapporti fra i suoi attori. Anche in questo, come in altri casi 394
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lumeggiati in questo convegno da diverse comunicazioni, è notevole il ruolo di anticipatore che Properzio svolge: questo rapporto con il mondo eroico che il poeta attua comporta l’erotizzazione di quel mondo, con la conseguente destabilizzazione dell’antitesi epos-eros. Si tratta di un processo che Ovidio porterà a radicale compimento ma che già il poeta di Assisi avvia e sviluppa con coerenza. Il paradigma della poesia elevata, stilistico tematico dottrinale, con cui l’elegia si confronta, è ovviamente non solo epico, ma anche tragico, e tuttavia il rapporto con la tragedia attende ancora ricognizioni sistematiche. Il lavoro di Maria Pia Pattoni apre prospettive nuove. Anche in questo caso, le analisi che la relatrice ha condotto confermano, su un terreno d’indagine contiguo a quello epico, l’esigenza di superare un’idea limitata di intertestualità, fondata su circoscritti prelievi lessicali. L’influsso della tragedia, come quello dell’epos, agisce come una sorta di pattern, di canovaccio, sulla base del quale vengono costruite – con la consueta tecnica alessandrina della contaminatio – situazioni nuove, anche sul piano morale. Se l’orizzonte omerico contribuisce a configurare i rapporti gerarchici tra domina e amante, l’evocazione della tragedia dilata il discorso elegiaco arricchendolo con sottili ambiguità e introducendo punti di vista conflittuali di cui si fa carico il mito tragico. Di tutto ciò abbiamo visto due esempi illuminanti rappresentati dalle elegie 1, 15 e 2, 34. Nella prima, Properzio riprende e sviluppa in riferimento a Cinzia un modulo di ascendenza euripidea – quello dell’eroina bella, frivola e infedele che si cura del proprio aspetto a scopo seduttivo in assenza del proprio uomo (modulo applicato a Elena nel terzo episodio delle Troiane e a Clitemestra nell’Elena); nella seconda, la 2, 34, Properzio, per contrapporsi a Linceo, poeta epico-tragico, trae spunto dalla contrapposizione tra Eschilo (uno dei modelli di Linceo) e l’Euripide rappresentato da Aristofane nelle Rane – un Euripide precursore della poetica callimachea. Non solo la tragedia del resto, ma anche il teatro comico di Aristofane, benché mai citato esplicitamente da Properzio, è una presenza che merita di essere approfondita, come ha dimostrato Carlo Santini prendendo in esame tre delle circa trenta ricorrenze aristofanee. La memoria di Aristofane ispira diversi tratti dell’ars properziana: il ricorso alla dimensione surreale della per395
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sonificazione della porta (nell’elegia 1, 16), motivo dalla complessa stratificazione di cui Santini rintraccia il punto di partenza nel Pluto e nelle Ecclesiazuse; gli scenari esotici, con la minacciosa evocazione del nome di Semiramide (nell’elegia 3, 11); l’inversione della sequenza temporale degli eventi nelle elegie 7 (Cinzia morta e già sepolta) e 8 (Cinzia viva e vitale) del quarto libro, secondo una tecnica la cui origine va rintracciata nelle Rane di Aristofane. Aspetti dunque tipici delle ‘aristofaniche fantasie’, che arricchiscono in modo inatteso la complessa testualità elegiaca. Naturalmente la poetica di Properzio muta – ed è un’altra delle novità che sono ripetutamente affiorate in questo convegno – con un dinamismo insieme fluido e costante, che non è certo riducibile al passaggio schematico dall’elegia erotica all’elegia etiologica. Riaffrontando il tema, Arturo Álvarez Hernández ha bene messo in luce come questo processo inizi già a partire dal II libro, prosegua nel libro III e si imponga, come a tutti è noto, nel libro IV, per bocca dell’indovino Horos. Giustamente è stato sottolineato come l’istanza callimachea che Properzio adotta è mediata da Virgilio, il Virgilio della sesta ecloga; l’Eneide fa da sfondo o, meglio, è una sorta di limite verso l’alto. Così l’impegno etiologico di Properzio deve sostituire l’impegno del servitium alla domina con l’impegno del servitium patriae, e per questo Virgilio e Callimaco sono compresenti nel background delle elegie etiologiche: perché sia posta nella giusta prospettiva, l’etiologia properziana va intesa come una rivisitazione, certo in chiave callimachea, del passato mitico che l’epos virgiliano ha rifondato. Di questo assunto ci ha offerto una puntuale verifica Roberto Cristofoli nell’interpretazione dell’elegia 4, 6 (dedicata ad Azio). Le diverse rappresentazioni dell’epocale battaglia del 31 a.C. sono un fondamentale terreno d’indagine per valutare l’evoluzione delle poetiche, giacché sono strettamente legate all’evoluzione del discorso augusteo. Poetica e ideologia presuppongono infatti, com’è ovvio, una continua reciproca risistemazione dell’universo assiologico cui fanno riferimento. Se nell’VIII dell’Eneide, quello di Azio era uno scontro assimilato a una gigantomachia, una battaglia cosmica tra oriente e occidente, caos e disordine, cui Apollo partecipava ma non da solo, nell’elegia properziana il medesimo dio non appare più in veste 396
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
di combattente ma come il patrocinatore di un nuovo kosmos ormai consolidato; la rappresentazione della battaglia e di Cleopatra stessa è quella che Augusto voleva fosse tramandata. L’elegia documenta dunque l’allineamento del poeta con l’ideologia augustea, in un’ottica integrativa che questo convegno conferma essere stata meno difficile di quanto si pensasse un tempo. Se ci soffermiamo a considerare le prospettive metodologiche offerte anche solo da questi primi contributi, colpisce la determinazione con cui tutti i relatori evitano un uso troppo rigido del concetto di genere letterario – un concetto che spesso ha impedito di cogliere l’effettiva relazione di ogni testo antico, e properziano in modo particolare, con il macrotesto della tradizione letteraria latina. A tal proposito, una stringente documentazione è stata offerta da Paolo Mastandrea, in un intervento che si pone in ideale prosecuzione diacronica con le precedenti indagini sull’epos e sulla tragedia. A trent’anni dalla relazione che Henry David Jocelyn fece al Convegno per il bimillenario della morte di Properzio (1985), Mastandrea ha sondato con l’ausilio delle banche dati la presenza di Ennio nel testo delle elegie, ottenendo risultati sorprendenti, ben oltre le citazioni esplicite di 3, 3 e 4, 1; si tratta di materiali enniani in buona parte inesplorati, con un impatto variabile sul color stilistico e sul registro del testo ma comunque rilevanti per lo studio della poesia arcaica in Properzio. In senso generale, questi dati confermano l’ipotesi che gli Annales abitino la memoria poetica dei romani per tutta l’età imperiale, in misura notevole e del tutto indipendente dalla cogenza del genere letterario. L’opportunità metodologica di svincolarsi dalla rete costrittiva del genere letterario come principio e criterio di individuazione dei ‘modelli’ guida anche la ricerca di Raffaele Perrelli sull’epi gramma e i suoi rapporti con i versi properziani. La distinzione tra architesto (termine genettiano) e intertestualità risulta quanto mai feconda per un genere come l’epigramma, dallo statuto mobile, inerente alla dimensione privata; Perrelli distingue, in particolare, tra postura epigrammatica e individuazione univoca di un preciso intertesto. In altri termini, l’evocazione di un genere letterario, in questo caso contiguo all’elegia ma non per questo meno problematico, può avvenire in termini tali da lasciar riconoscere un ipotesto definito oppure può consentire la percezione di una sorta di incipitaria ‘impostazione’ epigrammatica del registro 397
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che apre subito la strada, spesso con scarti sorprendenti, a sviluppi discorsivi diversi. Particolarmente avvincente è l’adozione del registro sepolcrale e della sua collocazione ‘parlante’ nell’archi tettura del libro: la sovrapposizione tematica tra la conclusione della vita e la conclusione del libro stesso è marcata alla fine del I e alla fine del IV, dove il registro epigrammatico si intreccia ad altri registri, in un arricchimento della poetica che è, insieme, allontanamento dall’epigrammatica medesima. Contigua all’epigramma, e legata alla tradizione greca, è la tecnica d’incastonare un testo pseudoepigrafico nel dettato di un testo poetico: la finzione epigrafica, con i suoi complessi legami con l’epigrafia augustea, è stata al centro del contributo di Giovanni Polara, che si riallaccia a una ricca tradizione di studi innovata dai lavori di Paolo Fedeli e Carlo Santini. Polara mette innanzitutto in luce il carattere oggettuale del procedimento properziano; il testo che ne risulta è un’ekphrasis sui generis: descrizione e narrazione di parole, dotate, ab origine, di un diverso orizzonte di destinazione, spesso consegnate al lettore senza decodificazione, vengono abilmente innervate e assimilate in un nuovo tessuto versale ma nello stesso tempo sono collocate come in rilievo rispetto al testo ospitante. Una ricca gamma di applicazioni del gioco epigrafico veicola a sua volta le diverse declinazioni dello statuto di amans poeta – dalla vocazione didattica alla volubilità folle dell’amore; e ancora, peculiari del poeta appaiono l’attenzione alle coordinate topografiche e una profetica intuizione del valore simbolico dei sepolcri: del tutto moderna, come efficacemente suggerisce Polara, è l’idea che i resti anonimi dei morti in battaglia posseggano la forza simbolica di una celebrazione collettiva e solidale del lutto (1, 21, 9-10). Ma se in questi esempi Properzio accoglie e rifunzionalizza l’eredità magmatica della tradizione greca e poi repubblicana, v’è un caso in cui anticipa una forma testuale che si ritroverà poi trasformata in genere letterario da Ovidio: è il caso dell’epistolo grafia erotica, oggetto della relazione di Rosalba Dimundo. La storia e la preistoria dell’epistola narrativa ovidiana sono rintracciate nei molti tratti sperimentali che emergono lungo il percorso del l’elegia properziana, ben prima della lettera di Aretusa (4, 3): Cinzia assume una voce che prefigura, con analogie stringenti e, ovviamente, sensibili differenze, la voce delle eroine ovidiane. 398
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
L’attitudine di Ovidio a elaborare la sua narrativa epistolare insinuandosi negli interstizi spazio-temporali del mito epico e tragico trova singolari anticipazioni, quanto a retorica e impostazione della voce, in varie elegie. Properzio non offre al poeta delle Heroides solo tessere testuali ma un complesso di situazioni e moduli espressivi e tematici codificati nell’elegia; molti elementi di novità che contraddistinguono le epistole hanno la loro radice nel predecessore elegiaco. La relazione ne dà prova convincente quando esamina la prima epistola ovidiana in sinossi con la Penelope properziana: la retorica narrativa adottata da Ovidio riconduce a un testo-sorgente inequivocabile; in particolare, il superamento del vincolo del silenzio quasi assoluto imposto alla donna aveva già in Properzio la strada aperta. Il dinamismo della poetica properziana si coglie bene anche seguendo le tracce della persistenza e dello sviluppo del linguaggio giuridico, come ci ha illustrato Paola Pinotti: il linguaggio giuridico che l’elegia applica all’universo erotico sulla scorta della commedia è indispensabile per declinare in senso romano, non solo sul piano discorsivo ma anche antropologico, quella relazione erotica che, sul piano letterario, adotta la visione iliadica della forza. La grammatica e la retorica della pratica forense, mediante le quali il servitium amoris viene dilatato e articolato, permettono talora sorprendenti rovesciamenti dei ruoli (è il caso della 4, 7); altrove, l’adozione del linguaggio giuridico e della sceneggiatura forense consente di approdare a una dimensione nuova, a una più complessa drammatizzazione del ruolo della donna (Cornelia nella 4, 11). Nell’allineamento di Properzio alle tradizioni romane e alla morale augustea, cui egli approda nel IV libro dopo tanti proclami di disimpegno, trasgressioni e ostentazioni di nequitia, si deve cogliere la maturazione del poeta, che ora giunge a vedere nel passato di Roma un rapporto di continuità con il presente. Spesso tutto ciò conduce a esiti meno trasgressivi ma altrettanto innovativi, in particolare quando il linguaggio legale aiuta l’approfondimento psicologico di figure femminili che sono spesso fuori dagli schemi: la fedele Aretusa che, oltre a custodire la domus e filare e tessere, osa esprimere il desiderio di essere nei castra col marito; Tarpea, vestale traditrice della patria per amore, e non per denaro come nella tradizione precedente, che si sostituisce 399
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in modo paradossale al pater familias e, appunto, Cornelia, che, nell’ambito di un vero e proprio contesto giudiziario (il tribunale infernale), assume un ruolo maschile e pubblico, impiegando con competenza la terminologia legale riservata agli uomini per difendere se stessa e in definitiva risulta, ancor più dei casi precedenti, allineata alla legislazione augustea. Via via risalendo nella diacronia letteraria e perlustrando la mappa dei generi – cronistoria e definizione dei codici letterari del resto s’intrecciano e convergono nella temperie augustea – vien fatto di chiedersi come si situa Properzio tra Lucrezio e Virgilio georgico, cioè quale impatto abbiano avuto su di lui le esperienze epocali che hanno consentito l’avvicinamento al nuovo epos augusteo – un nuovo epos post-enniano capace di aspirare allo statuto esemplare di classico normativo. Bene ha fatto Luciano Landolfi quando ha scelto nella sua relazione di non trattare la presenza del genere didascalico in Properzio semplicemente ripercorrendo i passi in cui l’elegiaco si fa didaskalos dell’eros. Le risposte all’interrogativo formulato sopra si annidano in due elegie del III libro, la 13 e la 22, che rivelano rispettivamente un ipotesto lucreziano e un ipotesto virgiliano. Properzio non si lascia tentare da veri e propri sconfinamenti nel genere didascalico, ma si serve dell’allusività lucreziana per tributare un omaggio prezioso al poeta – a un Lucrezio riscritto però attraverso Virgilio. Nell’interpretazione di Landolfi, l’elegia 3, 22 riprende le celebri laudes Italiae in un’ottica nuova e con un destinatario, Tullo, il cui statuto ‘paritetico’ consente al poeta di limitarsi nel gesto insegnativo, compiuto non ab alto ma ex aequo, riconducendo il discorso morale e civile nell’ambito di un’amicizia privata, con un tono intimistico e colloquiale e una maniera che richiama – secondo quanto osservava già Mario Citroni – l’Orazio delle Odi e delle Epistole. Il ricco itinerario di questo convegno è approdato, non solo nella sequenza degli interventi ma anche nei contenuti ermeneutici, alla lettura del Properzio ‘virgiliano’ che ci ha proposto Paolo Fedeli. Se attraverso Omero Properzio perviene a una codificazione ‘alta’ del servitium amoris in quanto rapporto dominato dalla forza, e quindi potenzialmente aperto al registro e ai temi epici, trasposti e ricodificati in chiave erotica, l’ipotesto virgiliano si dispiega lungo i quattro libri elegiaci, dunque ben prima del 400
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l’annuncio dell’Eneide dato alla fine del II libro. Lo studio di Fedeli suggella ciò che più volte è stato posto in evidenza in questo convegno: la poetica properziana è una realtà continua e fluida, in dialogo costante con i suoi modelli. Per l’elegiaco augusteo, l’itinerario di Virgilio potrebbe costituire infatti un modello ideale, perché nella sua prima fase è assai vicina alla carriera di un poeta d’amore. Certo il passaggio dall’eros all’epos non può avvenire in modo repentino ma ha bisogno di un passaggio intermedio, una fase di ricerca che si snoda lungo il III libro, alla ricerca di un registro elevato che accolga l’istanza augustea senza screditare l’originale vocazione. Non a caso è la voce del Virgilio georgico a farsi sentire nel III libro, dopo il quale inizia la lunga gestazione che conduce al IV. L’ultimo libro si apre con la voce di un Properzio che riprende il registro epico ed etiologico dell’Evandro virgiliano. In realtà, quella che vi si dispiega è una voce virgiliana insieme riconoscibile e nuova, una voce che si serve della propria riconoscibilità per avvalorare il sentimento di un mondo diverso. È un tratto tipico della poetica del ‘secondo’ Properzio la stretta contiguità fra una visione rinnovata della poesia e una rinnovata visione del passato. Nel momento stesso in cui evoca il mondo virgiliano, il poeta elegiaco sa prendere le distanze da esso, attingendo al registro della parodia o, conclusivamente, nel l’ultima elegia dedicata a Cornelia, evocando l’oltretomba eneadica per suggerire una visione della storia capace di nutrire il futuro. Dunque tra Omero e Virgilio, passando attraverso la tragedia, l’epos enniano, l’epigramma e il registro epigrafico, la tradizione etiologica e didascalica e la formularità giuridica, la silloge properziana guadagna grazie a questo convegno una nuova primazia nel macrotesto augusteo. La sua poetica, nella sua inconfondibile impronta, appare meno rettilinea, ma più dialogante, alla ricerca di una via per uscire dalla gabbia dello stereotipo erotico. E se non così ‘difficile’ come in passato risulta la sua adesione alle direttive augustee, più ricca appare la strumentazione posta in atto da Properzio per nutrire la propria vocazione, per cercare una strada autonoma: far risuonare nella propria la voce virgiliana ma con un mutato orientamento, una nuova discorsività. Del resto, dobbiamo prepararci a pensare in termini rinnovati o perlomeno più definiti lo stesso personaggio Properzio e 401
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quindi la sua ‘persona’ poetica: Giorgio Bonamente ha portato uno sguardo diverso sull’universo properziano, con una relazione dedicata alla famiglia dei Properzi in Umbria e a Roma. Bonamente ha efficacemente illustrato l’esistenza di significativi legami tra la realtà locale e il poeta, la cui gens è una delle due più rappresentate. I Properzi occupavano cariche importanti ma non raggiunsero il rango senatoriale (anche se resta aperta la questione dell’identità di un Gaio Properzio Postumo, senatore e proconsole di età augustea), e furono protagonisti della guerra di Perugia. I dati più interessanti ci vengono dall’interpretazione delle testimonianze archeologiche di Assisi: un Sesto Properzio finanzia in età augustea o giulio-claudia la costruzione di un teatro probabilmente legato alla Domus Musae, edificio che mostra fasi diverse a partire dall’età repubblicana ed è dotato di un programma decorativo con temi della poesia properziana. Vari indizi, fra cui alcuni frammenti di iscrizioni, portano a credere che non si trattasse solo di una domus, ma di un complesso monumentale connesso al teatro e legato all’evergetismo dei Properzi. Così, la prosopografia properziana si profila strettamente intrecciata alla storia della letteratura di età imperiale, e può gettare luce anche sui possibili consumatori di poesia elegiaca. Forse il Properzio che abbiamo conosciuto in questo convegno, lo sperimentatore che anticipa la declinazione epistolare di un’elegia al femminile e gioca con testi ‘secondi’ fino a sfiorare il pastiche e la parodia, prefigura anche un pubblico altrettanto nuovo, in grado di apprezzare e richiedere questi tratti ‘ovidiani’. Si aprono ai lettori vie moderne, in cui possano brillare di luce nuova il paradigma mitico, la relazionalità erotica e, è il caso di dirlo, le imprevedibilmente ricche conseguenze dell’amore che finisce.
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Manini Prefabbricati
Accademia Properziana del Subasio di Assisi
I GENERI LETTERARI IN PROPERZIO: MODELLI E FORTUNA XXII Convegno Internazionale Assisi – Spello, 24–27 maggio 2018 Vincitori delle borse di studio per giovani studiosi “Roberto Manini 2018”
Bandini Giorgia – Parma Beltramini Luca – Padova Costantini Leonardo – London Econimo Francesca – Pisa Fernandes Da Silva Gabriel Alexandre – Lisboa Furbetta Luciana – Roma Galfré Edoardo – Pisa Giordani Domenico – Oxford-Pisa Grandi Giorgia – Bologna Martínez Zepeda Baruch – Roma Pasetto Cristiana – Trento Pentericci Caterina – Trento Perilli Marta – Pisa Rossetti Matteo – Milano Russo Martina – Warwick Scalera Alessia Maria – Bari
L’ACCADEMIA PROPERZIANA DEL SUBASIO DI ASSISI
Atti dei Convegni internazionali su Properzio tenuti in Assisi 1. Colloquium Propertianum (Atti del I Convegno su Properzio, Assisi, 26-28 marzo 1976), a cura di M. Bigaroni e F. Santucci, Assisi 1977, pp. 132. 2. Colloquium Propertianum secundum (Atti del II Convegno su Properzio, Assisi, 9-11 novembre 1979), a cura di F. Santucci e S. Vivona, Assisi 1981, pp. 216. 3. Colloquium Propertianum tertium (Atti del III Convegno su Properzio, Assisi, 29-31 maggio 1981), a cura di S. Vivona, Assisi 1983, pp. 170. 4. Bimillenario della morte di Properzio (Atti del Convegno internazionale di Studi properziani, Roma - Assisi, 21-26 maggio 1985), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1986, pp. 364. 5. Assisi per il Bimillenario della morte di Properzio, in Atti Acca demia Properziana del Subasio, Serie VI, n. 12, Assisi 1986, pp. 224. 6. Properzio nella letteratura italiana (Atti del Convegno Nazionale, Assisi, 15-17 novembre 1985), a cura di S. Pasquazi, Roma 1987, pp. 236. 7. Tredici secoli di elegia latina (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 21-24 aprile 1988), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1989, pp. 368. 8. La favolistica latina in distici elegiaci (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 26-28 ottobre 1990), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1991, pp. 248.
9. La poesia cristiana latina in distici elegiaci (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 20-22 marzo 1992), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1993, pp. 336. 10. Commentatori e traduttori di Properzio dall’Umanesimo al Lachmann (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 28-30 ottobre 1994), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1996, pp. 406. 11. A confronto con Properzio (da Petrarca a Pound) (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 17-19 maggio 1996), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1998, pp. 188. 12. La poesia umanistica latina in distici elegiaci (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 15-17 maggio 1998), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 1999, pp. 400. 13. Properzio alle soglie del 2000. Un bilancio di fine secolo (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 25-28 maggio 2000), a cura di G. Catanzaro e F. Santucci, Assisi 2002. 14. Properzio tra storia arte mito (Atti del Convegno internazionale, Assisi, 24-26 maggio 2002), a cura di C. Santini e F. Santucci, Assisi 2004, pp. 282. 15. Properzio nel genere elegiaco: modelli, motivi, riflessi storici (Atti del Convegno internazionale, Assisi – Perugia, 27-29 maggio 2004), a cura di C. Santini e F. Santucci, Assisi 2005, pp. 506. 16. I personaggi dell’Elegia di Properzio (Atti del Convegno internazionale, Assisi 26-28 maggio 2006), a cura di C. Santini e F. Santucci, Assisi 2008, pp. 476. 17. Tempo e spazio nella poesia di Properzio (Atti del Convegno internazionale, Assisi 23-25 maggio 2008), a cura di R. Cristofoli, C. Santini e F. Santucci, Assisi 2010, pp. 286. 18. Properzio fra tradizione e innovazione (Atti del Convegno internazionale, Assisi – Spello 21-23 maggio 2010), a cura di R. Cristofoli, C. Santini e F. Santucci, Assisi 2012, pp. 286. 19. Properzio e l’Età augustea. Cultura, storia, arte. Proceedings of the Nineteenth International Conference on Propertius, Assisi – Perugia 25-27 May 2012, edited by G. Bonamente, R. Cristofoli and C. Santini (Studi di poesia latina / Studies of Latin Poetry 19), Brepols, Turnhout 2014, pp. xxxv + 456. 20. Le figure del mito in Properzio. Proceedings of the Twentieth International Conference on Propertius, Assisi – Bevagna 30 May – 1 June 2014, edited by G. Bonamente, R. Cristofoli and
C. Santini (Studi di poesia latina / Studies of Latin Poetry 20), Brepols, Turnhout 2016, pp. 437. 21. Properzio tra repubblica e principato. Proceedings of the TwentyFirst International Conference on Propertius, Assisi – Cannara 30 May – 1 June 2016, edited by G. Bonamente, R. Cristofoli and C. Santini (Studi di poesia latina / Studies of Latin Poetry 21), Brepols, Turnhout 2018, pp. 417.
Volumi monografici P. Fedeli – G. Catanzaro – F. Santucci, Propertius. Codex Guelferbytanus Gudianus 224 olim Neapolitanus, Assisi 1985, pp. XIV, 150. P. Fedeli – P. Pinotti, Bibliografia properziana (1946-1983), in Atti Accademia Properziana del Subasio, Serie VI, n. 9, Assisi 1985, pp. 114. M. Buonocore, Properzio nei codici della Biblioteca Apostolica Vaticana, prefazione di P. Fedeli, ed. a cura di G. Catanzaro, Assisi 1995, pp. 144. A. Álvarez Hernández, La poética latina de Propercio (Autobiografía artística del “Calímaco romano”), prefazione di P. Fedeli, Assisi 1997, pp. 340.
Traduzioni di Properzio Properzio, Libro I e antologia di Elegie, ed. bilingue latino-cinese, traduzione di Wang Huansheng, introd. C. Santini, Pechino 2000, pp. 208. Propercio, Elegias, ed. bilingue latino-portoghese, a cura A. A. Nascimento, Assisi – Lisbona 2002, pp. 476. Properzio, Elegie, traduzione in russo di A. Liubzhin, Mosca 2004, pp. 272. Horatio Caesar Roger Vella, Properzju Eleġiji, traduzione in lingua maltese, Assisi 2012, pp. 107. Gli indici sono consultabili nel sito www.accademiaproperziana.eu. È in corso di completamento la immissione in rete dei contributi full-text degli atti fino all’anno 2010. Per informazioni: [email protected]