I Luoghi Delle Muse: La Funzione Dello Spazio Nella Fondazione E Nel Rinnovamento Dei Generi Letterari Greci 9783896659163, 9783896659170, 3896659162

Seit Hesiod und im Lauf der Geschichte der griechischen Literatur stellten idyllische Orte den Hintergrund fur poetische

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Introduzione
La campagna greca e il codice delle Muse. Iniziazioni poetiche e generi letterari
1. La specificità “greca” delle Muse fra memoria e campagna
2. Esiodo e Archiloco: fra panellenismo epico e localismo “lirico”
3. Da Platone a Posidippo: la Musa va in città, e impara a scrivere
4. Conclusioni: le Muse e la via greca alla poesia
Locus amoenus e verità poetica in Esiodo e Archiloco
Il prato degli Iniziati: la poetica della commedia nelle Rane di Aristofane
1. Eschilo ed Euripide sulla scena delle Rane: un agone senza vincitori
2. Il λειμών della parodo degli Iniziati: un luogo per la sacralizzazione della commedia
2.1. L’invocazione a Iacco degli Iniziati alla poesia comica (323–36; 340–53)
2.2. La commedia come rito iniziatico nella prorrhesis anapestica (354–71)
2.3. Gli inni alle divinità del teatro comico (372–413)
2.4. Il gephyrismos nel rito della commedia (416–30)
2.5. Il λειμών per la danza più bella
Paesaggi oltremondani nell’epigramma sepolcrale ellenistico
Dalle cicale sull’Ilisso alla γραφή nel bosco delle Ninfe: la funzione del luogo per la poetica tra il Fedro di Platone e il Dafni e Cloe di Longo Sofista
1. Da Lisia a Stesicoro: Socrate e le voci altrui sull’Ilisso
2. L’investitura di Socrate sull’Ilisso: la nascita del dialogo
3. La γραφή nel bosco delle Ninfe e la nascita del romanzo bucolico
Rewriting Rivers in Ancient Literary Criticism
1. Introduction: Landscapes in Ancient Literary Criticism
2. Rewriting Rivers: from Callimachus to Longinus
3. Demetrius on Thucydides’ Achelous
4. Demetrius on Xenophon’s Teleboas
5. Dionysius on Herodotus’ Halys
6. Hermogenes on Herodotus’ Halys, and Dionysius’ Tiber
7. Conclusion
Oltre le Muse. Lo spazio nella retorica rinnovata di Elio Aristide
1. Elio Aristide, Asclepio e Platone
2. Lo spazio celebrato
3. Lo spazio ‘discusso’: Il caso dell’Egizio
4. Lo spazio sognato
5. Il nuovo spazio celebrato: luoghi per una retorica rinnovata
6. Il platano di Asclepio
7. Conclusioni
The Authors
Abstracts
Indice dei nomi
Indice dei passi citati
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I Luoghi Delle Muse: La Funzione Dello Spazio Nella Fondazione E Nel Rinnovamento Dei Generi Letterari Greci
 9783896659163, 9783896659170, 3896659162

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Diotima. Studies in Greek Philology

Cannavale | Miletti | Regali (edd.)

I luoghi delle Muse La funzione dello spazio nella fondazione e nel rinnovamento dei generi letterari greci

ACADEMIA

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Serena Cannavale | Lorenzo Miletti Mario Regali (edd.)

I luoghi delle Muse La funzione dello spazio nella fondazione e nel rinnovamento dei generi letterari greci

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Diotima. Studies in Greek Philology Edited by Mauro Tulli

Volume 5

Editorial Board Christian Brockmann (Hamburg) | Tiziano Dorandi (Paris) | Michael Erler (Würzburg) | Jürgen Hammerstaedt (Köln) | Philippe Hoffmann (Paris) | Olimpia Imperio (Bari) | Walter Lapini (Genova) | Irmgard Männlein-Robert (Tübingen) | Roberto Nicolai (Roma) | Stefan Schorn (Leuven) | Giuseppe Zanetto (Milano)

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Diotima. Studies in Greek Philology

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Serena Cannavale | Lorenzo Miletti Mario Regali (edd.)

I luoghi delle Muse La funzione dello spazio nella fondazione e nel rinnovamento dei generi letterari greci

ACADEMIA

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Coverpicture: Lucas van Uden, Apollo and the muses on Mount Parnassus (1636)

The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available on the Internet at http://dnb.d-nb.de ISBN

978-3-89665-916-3 (Print) 978-3-89665-917-0 (ePDF)

British Library Cataloguing-in-Publication Data A catalogue record for this book is available from the British Library. ISBN

978-3-89665-916-3 (Print) 978-3-89665-917-0 (ePDF)

Library of Congress Cataloging-in-Publication Data Cannavale, Serena | Miletti, Lorenzo | Regali, Mario I luoghi delle Muse La funzione dello spazio nella fondazione e nel rinnovamento dei generi letterari greci Serena Cannavale | Lorenzo Miletti | Mario Regali (edd.) 224 pp. Includes bibliographic references and index. ISBN

978-3-89665-916-3 (Print) 978-3-89665-917-0 (ePDF)

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1st Edition 2021 © Academia Verlag within Nomos Verlagsgesellschaft, Baden-Baden, Germany 2021. Overall responsibility for manufacturing (printing and production) lies with Nomos Verlagsgesellschaft mbH & Co. KG. This work is subject to copyright. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording, or any information storage or retrieval system, without prior permission in writing from the publishers. Under § 54 of the German Copyright Law where copies are made for other than private use a fee is payable to “Verwertungs­gesellschaft Wort”, Munich. No responsibility for loss caused to any individual or organization acting on or refraining from action as a result of the material in this publication can be accepted by Nomos or the editors. Visit our website www.academia-verlag.de

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La realizzazione di questo volume è stata possibile grazie ai contributi del Fondo di Finanziamento per le Attività Base di Ricerca (FFABR) di cui sono titolari Serena Cannavale, Lorenzo Miletti e Mario Regali, nonché a specifici contributi dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e dei fondi di ricerca dipartimentale 2019 del Dipartimento di Studi Umanistici dello stesso Ateneo. La ricerca che qui si pubblica ha visto un primo momento di dibattito in una giornata di studi tenutasi a Napoli il 28 novembre 2019, nella sede della Società Napoletana di Scienze, Lettere e Arti, presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, e i cui interventi, opportunamente ampliati e rivisti, si rendono disponibili in questa sede. I curatori e gli autori desiderano ringraziare i colleghi che sono lì intervenuti, e in particolare Ferruccio Conti Bizzarro, Giovan Battista D’Alessio, Barbara Graziosi, Massimo Lazzeri, Irmgard Männlein-Robert e Giulio Massimilla, delle preziose osservazioni dei quali si sono giovati. I curatori desiderano ringraziare i due revisori anonimi che hanno dato attenta lettura ai saggi contenuti nel volume, fornendo numerose indicazioni. Un ringraziamento sentito va inoltre a Mauro Tulli per aver accolto questo lavoro nella collana da lui diretta. I curatori desiderano infine esprimere la loro più profonda gratitudine agli autori, che hanno lavorato tra mille difficoltà e restrizioni causate dalla pandemia di COVID-19, ancora in atto al momento dell’uscita del presente volume, affinché, anche in tempi così difficili, la ricerca non si arrestasse.

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Indice

Introduzione

9

Serena Cannavale, Lorenzo Miletti, Mario Regali La campagna greca e il codice delle Muse. Iniziazioni poetiche e generi letterari

19

Andrea Capra Locus amoenus e verità poetica in Esiodo e Archiloco

41

Dino De Sanctis Il prato degli Iniziati: la poetica della commedia nelle Rane di Aristofane

59

Emilia Cucinotta Paesaggi oltremondani nell’epigramma sepolcrale ellenistico

101

Serena Cannavale Dalle cicale sull’Ilisso alla γραφή nel bosco delle Ninfe: la funzione del luogo per la poetica tra il Fedro di Platone e il Dafni e Cloe di Longo Sofista

121

Mario Regali Rewriting Rivers in Ancient Literary Criticism

155

Casper C. de Jonge Oltre le Muse. Lo spazio nella retorica rinnovata di Elio Aristide

177

Lorenzo Miletti

7

Indice

The Authors

199

Abstracts

203

Indice dei nomi

207

Indice dei passi citati

219

8

Introduzione Serena Cannavale, Lorenzo Miletti, Mario Regali

Nei recenti e numerosi contributi sullo spazio nella letteratura antica, a più riprese è stata evocata la svolta spaziale (spatial turn) nell’area degli studi umanistici che a partire dagli anni ‘80 ha fatto seguito alla conferenza tenuta da Michael Foucault Des espaces autres nel 1967,1 un fenomeno parallelo alla svolta linguistica (linguistic turn) che nella filosofia del dopoguerra la ricezione del pensiero di Ludwig Wittgenstein ha provocato.2 Come il campo d’indagine della ricerca speculativa è mutato dall’ontologia al linguaggio, così la critica letteraria dovrà abbandonare le categorie temporali per rivolgersi allo studio delle relazioni spaziali che si riflettono nei testi. Secondo Foucault, il paradigma del tempo che ha dominato la cultura del XIX secolo, con i concetti di progresso, regresso e ciclo, è stato sostituito nel XX dal paradigma dello spazio, con la rete di relazioni osservate attraverso la lente dello strutturalismo: il sistema di opposizioni tra spazio pubblico e privato, spazio urbano e naturale è sempre investito di significato politico perché riflette le relazioni tra gli uomini. A partire da Foucault, in particolare dal suo concetto di hétérotopie, anche per la critica letteraria è divenuto oggetto di studio il valore ideologico di volta in volta attribuito agli spazi rappresentati nel testo. Nell’ultimo decennio, forse in seguito al definitivo affermarsi dei fenomeni globali sui piani economico e sociale, si è intensificato il ritmo con il quale sono apparse monografie e raccolte di studi che hanno scelto di osservare i fenomeni letterari nel mondo antico attraverso la lente dello spazio. Agli studi formali dedicati in particolare al locus amoenus,3 liberi dall’influenza di Foucault, si sono affiancati numerosi tentativi di osservare la rappresentazione dello spazio nelle letterature antiche allo scopo di rivelarne le implicazioni sociali, politiche o religiose.4 Un approccio molto ampio che tenta di contenere molteplici prospettive è stato offerto in particolare da Nancy Worman che con la miscellanea del 2014 curata insieme a Kate Gilhuly dal significativo titolo Space, Place, and

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Foucault (2004). Rorty (1967). Schönbeck (1962), Hass (1998). Seguono le tracce di Foucault i contributi raccolti da Heirman, Klooster (2013).

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Serena Cannavale, Lorenzo Miletti, Mario Regali

Landscape in Ancient Greek Literature and Culture offre una rassegna non a caso orientata sulla distinzione mutuata dall’antropologia tra space come spazio indifferenziato, place come luogo al quale è attribuita una precisa funzione che varia dall’ambientazione all’aspetto simbolico, e landscape quale descrizione articolata di un ampio spazio che prevede sempre il punto di vista di un osservatore. Come emerge dall’introduzione delle curatrici, scopo del volume è mostrare come lo studio dello spazio nella produzione letteraria antica permetta di fare emergere le istanze ideologiche che di volta in volta traspaiono dal testo. Nancy Worman ha poi prodotto nel 2015 una monografia dal titolo Landscape and the Spaces of Metaphor in Ancient Literary Theory and Criticism, dove il campo d’indagine si riduce per concentrarsi sulla funzione degli scenari rurali nella riflessione antica sulla produzione letteraria e sullo stile. Secondo N. Worman, luoghi come Delfi, il Parnaso, la fonte sull’Elicona, l’Ilisso e il Cefiso in quanto mete di pellegrinaggio assumono una funzione simbolica che favorisce la costruzione di immagini per descrivere lo stile. Molti dei nuclei concettuali attorno ai quali si sviluppa la riflessione antica sulla letteratura trovano nei landscapes la loro espressione metaforica in una serie di opposizioni che esprimono le varietà dello stile: il fiume in piena contro il rapido ma esile ruscello, le strade curve contro quelle diritte, i sentieri scoscesi e ripidi contro quelli semplici e piani, la fertile ma semplice campagna contro la sterile ma artificiosa città. Con una diversa prospettiva, nel 2012 Irene de Jong ha curato il terzo volume degli Studies in Ancient Greek Narrative dedicato allo spazio: Space in Ancient Greek Literature.5 Come negli altri volumi della serie, l’obiettivo è osservare lo sviluppo della cultura letteraria greca attraverso le categorie della narratologia, tra le quali però lo spazio non è di semplice collocazione, a differenza del tempo che è invece alle radici dell’atto narrativo. Una difficoltà che la stessa curatrice tenta di superare nell’introduzione dove è offerto uno specimen delle categorie di spazio formulate di volta in volta dalla teoria letteraria applicata alla produzione letteraria antica. Nei singoli contributi, ognuno dedicato ad un singolo autore, tali categorie sono poi applicate, pur con vari gradi di fedeltà, all’interpretazione dei singoli testi. Come è stato messo in luce da J. Grethlein nella recensione al volume, i risultati migliori sono però raggiunti nei contributi che rinunciano ad applicare in modo meccanico ai singoli autori le categorie formalizzate in sede teorica.6

5 De Jong (2012). 6 Grethlein (2012).

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Introduzione

In questo ampio panorama dove l’indagine è volta a ricomporre il quadro ideologico e, in senso lato, culturale che determina la rappresentazione antica dello spazio, crediamo sia rimasto in buona parte inesplorato il ruolo dei luoghi quale mezzo per esprimere la riflessione degli autori sul proprio genere letterario e su loro stessi. Nostro obiettivo è stato infatti mettere a fuoco con gli strumenti della filologia uno specifico caso nel quale allo spazio è attribuito un significato in primo luogo letterario perché diviene un luogo le cui caratteristiche permettono agli autori di rappresentare la fondazione o il rinnovamento di un genere letterario, favorendo così le dichiarazioni di poetica e la conseguente aspirazione all’egemonia ad esse connessa. Dall’epos di Esiodo sino al romanzo di Longo, una categoria di luoghi è scelta per rappresentare le istanze di poetica di volta in volta necessarie tramite l’immagine delle forze divine che agiscono sui personaggi presenti o sugli autori che rappresentano loro stessi in azione nei medesimi luoghi. Dalle Muse a Demetra e Iacco, dalle cicale ad Asclepio, le voci divine del luogo permettono di investire di nuova autorità un genere letterario da fondare o rinnovare tramite le voci degli autori o delle loro maschere. Come negli ultimi anni la critica mette in luce con sempre maggiore lucidità, il sistema letterario appare come una realtà fluida le cui linee di demarcazione hanno bisogno di una continua ridefinizione piuttosto che come un insieme rigido di generi dai confini segnati una volta per sempre.7 E a questo scopo la tradizione dei luoghi per le Muse assolve con sorprendente continuità nella storia letteraria dei Greci. Per il nostro volume sono stati scelti alcuni casi emblematici di tale tradizione rinunciando di necessità ad ogni pretesa di esaurire il campo d’indagine; resta escluso, ad esempio, dalla nostra analisi il genere bucolico che della rappresentazione del luogo fa un elemento cardine della propria poetica ma che è stato oggetto di ripetute indagini da parte della critica anche in tempi recenti.8 L’intero volume si interroga quindi su vari casi, su varie declinazioni della pratica letteraria ellenica di riflettere sulla propria arte attraverso la rappresentazione di una collocazione spaziale, come se ciascun poeta non potesse enunciare il proprio manifesto se non rappresentando ‘visivamente’ una scena in cui, in un luogo specifico e ipso facto simbolico, accade qualcosa che, propiziato dal dio, costituisce una nuova fase per quel genere letterario e un’investitura per il suo nuovo interprete.

7 Di particolare interesse, in questa direzione, la svolta New Formalist, sulla scia di Budelmann, Phillips (2018), di recente proposta da Foster, Kurke, Weiss (2019), 7– 10, sul genere letterario come processo sempre in divenire (generification). 8 Cf. fra gli altri Kania (2012) e Ornaghi (2013).

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Serena Cannavale, Lorenzo Miletti, Mario Regali

E proprio dal carattere schiettamente greco di quest’approccio alla poetica prende avvio il contributo di Andrea Capra che apre il volume: gli studi di Martin West9 e di Walter Burkert10 e, più recentemente, di Johannes Haubold11 hanno costretto la filologia classica a confrontarsi con le tradizioni letterarie egizie, mesopotamiche e anatoliche – ad esempio gli impressionanti cicli epici venuti fuori dalle tavolette di Hattuša. Al di là dei numerosi quanto problematici aspetti di contatto, che mostrano un quadro internazionale e plurisecolare all’interno del quale si collocano le prime manifestazioni poetiche greche, resta al momento priva di paralleli, e dunque presumibilmente ‘greca’, proprio la ‘invenzione’ delle Muse. Attributo fondamentale e originario delle Muse è la loro predisposizione all’epifania terrena, in luoghi extraurbani, a un individuo dotato di virtù straordinarie, prescelto latore della loro arte, e la tradizione poetica greca ha in Esiodo il primo (di una lunga serie) a svolgere questo ruolo. L’investitura poetica esiodea avviene in uno spazio montano dedicato al pascolo, un ambiente che potrebbe forse avere le sue origini nel ricordo del mondo successivo al crollo della civiltà palaziale micenea e nella rifondazione ellenica a partire dai contesti periferico-rurali. Capra prosegue rivisitando le principali tappe di questo cammino di investiture, in cui le Muse sono di volta in vota ripensate, soprattutto in relazione al rapporto tra oralità e scrittura. In Archiloco la prospettiva esiodea è ‘abbassata’ e resa giocosa nell’episodio pario narrato nella sia pur seriore epigrafe di Mnesiepes, e tuttavia mantiene piuttosto intatti i punti cardini della rappresentazione esiodea (un’idea che riappare mutatis mutandis nell’idillio VII teocriteo). Un rovesciamento vero e proprio lo attua Posidippo di Pella, che infrange il modello della ruralità per chiamare le Muse all’interno delle mura cittadine e collocarle in un sistema totalmente dominato dalla scrittura, com’è necessario per l’epigramma, il cui ruolo primario è anzi quello di immortalare tramite la scrittura. In conclusione Capra si sofferma sull’oralità di ritorno della rappresentazione (o evocazione) platonica delle Muse, in particolare quella ‘tradizionale’ del Fedro, con lo spazio idilliaco extraurbano, l’ispirazione a comporre oralmente e la condanna esplicita della scrittura, e quella ‘soloniana’ del Timeo-Crizia. Sull’ambientazione come locus amoenus dell’incontro tra poeta e Muse si sofferma Dino De Sanctis, il quale prova a ricostruirne la genesi, partendo dalla constatazione di come in età classica – l’esempio è lo Ione di Platone

9 West (1997). 10 Burkert (1999). 11 Haubold (2013).

12

Introduzione

(534a7-b5) – giardini, ruscelli soavi e rigoglio della natura costituiscano la ‘vulgata’ della rappresentazione dell’ispirazione poetica. Una rappresentazione che non è tuttavia in Omero, dove il rapporto tra Muse e poeta è incentrato piuttosto sulla polarizzazione tra ‘alto’ e ‘basso’, tra divino e umano, come appare evidente sia dal proemio del Catalogo delle Navi (Il. II 484–487), sia dall’episodio della punizione di Tamiri (Il. II 584–600), peraltro collocato in ambiente marcatamente extraurbano. Significativamente, è alle Sirene che Omero attribuisce la prerogativa di risiedere in ‘un prato fiorito’, come ulteriore seduzione per le vittime dell’incantamento (Od. XII 159). È invece notoriamente con Esiodo che la collocazione montana – con discesa delle dee dalla vetta alle falde dell’Elicone – si radica nella cultura letteraria greca, senza (di fatto) uscirne più. Così come altrettanto radicata è l’idea che l’incontro personale con le Muse sia appannaggio di un individuo ‘solitario’ e straordinario, il quale, in seguito all’investitura, può rientrare nella vita associata con un ruolo diverso, di assoluto privilegio, che lo distingue dai più e che lo vede vittorioso negli agoni (Op. 648–662). Non è diversa la meccanica della sia pur rovesciata scena dell’investitura di Archiloco a Paro descritta nella già citata epigrafe di Mnesiepes: i cambiamenti mirati a sottolineare la ‘diversità’ della poetica archilochea sono concepiti in esatta corresponsione con l’episodio esiodeo. Un segno, questo, della inevitabilità e della funzionalità di uno schema, a cui neanche l’approccio anti-epico di Archiloco intende rinunciare. Alla più metaletteraria delle commedie di Aristofane, le Rane, è dedicato il contributo di Emilia Cucinotta. Benché sia stata generalmente studiata per comprendere la posizione di Aristofane sulla tragedia – in quanto, com’è noto, il cuore del dramma è costituito dall’esilarante agone tra le anime di Eschilo ed Euripide – le Rane offrono ampio materiale ‘autorappresentativo’ sullo statuto e sulle finalità della commedia in quanto genere, e ciò avviene in relazione a un singolare locus amoenus infero. Cucinotta, dopo aver ripercorso i momenti principali dell’opera, si cimenta in un’analisi dettagliata della parodo e del suo immediato contesto (vv. 327–464), nella quale il Coro, assumendo l’identità di un gruppo di iniziati e invocando Iaccos, danza su un idillico λειμών, secondo uno schema che evoca le pratiche rituali dei misteri eleusini, ma che allo stesso tempo non può non rievocare l’ambientazione extraurbana e agreste delle iniziazioni letterarie. Nel delineare i confini di ciò che pertiene a questi iniziati simil-eleusini, Aristofane definisce cosa è ‘dentro’ e cosa è ‘fuori’ dalla sua poetica (e, idealmente, dalla poetica della commedia tout court), in particolare ai vv. 354–371, in cui il comico interdice la partecipazione al coro a tutti coloro che si macchiano di colpe politiche e morali, ma anche (vengono anzi citati per primi) a coloro che non hanno affinità con le Muse. Cucinotta mo13

Serena Cannavale, Lorenzo Miletti, Mario Regali

stra come il passaggio agli attacchi scommatici costituisca la riprova che questo prato iniziatico è immagine stessa della commedia, che assurge così a pratica poetica ideale, pienamente legittimata a ‘valutare’, come in effetti accadrà di lì a poco nella trama, l’operato dei mostri sacri della tragedia, che è giusto coprire dei ‘rituali’ sberleffi. Da spazio metaforico, come in Aristofane, a spazio (quasi) reale, l’aldilà permea molta produzione dell’epigramma funerario greco. Serena Cannavale illustra come negli epitimbi la riflessione sul destino del defunto sia spesso associata alla caratterizzazione del luogo oltremondano che lo accoglie, secondo una pratica che si diffonde progressivamente a partire dal V secolo a.C. e fino all’età romana, alimentata da istanze spirituali che prevedono sempre più, nel corso dei secoli, il ricorso a immagini escatologiche. I riferimenti alla spazialità ultramondana nell’epigramma funerario pagano sono caratterizzati da una spiccata polarità tra l’evocazione di luoghi ‘ctoni’ e quella di luoghi ‘celesti’: l’oscuro spazio ‘ctonio’, contrapposto alla vita terrena, è caratterizzato ‘paesaggisticamente’ dalla topografia infera classica (l’Ade, le Dimore di Persefone), con numerosi richiami ai fiumi Acheronte e Lete e al traghettatore Caronte. L’aldilà ‘celeste’ evoca invece un mondo etereo, che talvolta coincide con le tradizionali Isole dei Beati, altre volte con più generici luoghi di permanenza delle anime dei pii e dei giusti. Interessante notare come Posidippo di Pella, il cui rapporto con i misteri eleusini appare certo, in un epigramma (43 A.-B.) identifichi il mondo dell’aldilà – in un modo che richiama le pagine delle Rane analizzate da Cucinotta – con un ‘dolce approdo’ dei beati, che coincidono con gli iniziati stessi. Dai modi della rappresentazione del luogo ultraterreno emerge infine la progressiva innovazione di un genere che si affranca dalla funzionalità pragmatica verso una sempre crescente ‘letterarietà’. Nella plurisecolare riflessione dei Greci sul locus amoenus come ‘sede’ inevitabile della fondazione o del rinnovamento dei generi, un ruolo fondamentale è giocato dal Fedro di Platone, che conobbe una fortuna straordinaria, ben al di là dello specifico ambito del platonismo. Il contributo di Mario Regali prova a riflettere sulle caratteristiche del Fedro che sono alla radice di una tale fortuna, rileggendo nel dettaglio lo sviluppo del dialogo fino alla sezione ‘cruciale’ del mito delle cicale (258e5–259e1), da considerarsi punto di svolta dell’intera opera e momento fondativo della ‘poetica’ di un nuovo genere, il dialogo stesso: se fino a quel momento il locus amoenus dell’Ilisso e la frescura del platano avevano incoraggiato Socrate a lasciarsi ispirare dalle Muse o dal dio Eros a comporre nuovi discorsi sull’amore per ribattere al discorso di Lisia letto da Fedro, ora le cicale, mediatrici fra gli uomini e le Muse, lo spingono a dirigere su nuovi binari la discussione, abbandonando le rheseis e inclinando, senza più ripensamenti, verso 14

Introduzione

la forma dialogica, che si sviluppa fino alla fine dell’opera. Seguendo una proposta di Andrea Capra, l’episodio delle cicale ha dunque la funzione di vera e propria scena di ‘investitura’, che va a rimpiazzare l’immagine esiodea del rapporto diretto uomo-Muse. Questa immagine, infatti, mal si adatterebbe a un genere così diffidente nei riguardi dell’ispirazione ‘solitaria’ qual è il dialogo, che ha anzi bisogno degli uomini e del loro contributo attivo per potersi realizzare. Il contributo di Regali si concentra poi su un caso specifico di ricezione del Fedro e in generale della teoria poetica platonica, e cioè il romanzo ‘pastorale’ Dafni e Cloe di Longo Sofista, un’opera che si apre con una raffinata riflessione di poetica, che mira a fornire all’opera stessa uno statuto di genere estremamente innovativo, ispirandosi a quella riflessione che parte dal Fedro e passa per il Teocrito dell’idillio VII, con la fondazione del genere bucolico. Come a voler sancire già in apertura la centralità dello spazio, il romanzo si apre infatti con l’ekphrasis di un dipinto che, suggerisce Regali, ha la medesima funzione giocata nel Fedro dal mito delle cicale: le vicende d’amore in ambiente pastorale rappresentate nel dipinto spingono l’autore a narrarle per esteso in forma di romanzo, un romanzo, però, che ipso facto si riveste di una nuova identità, che rinuncia alla peripezia centrifuga tipica del genere per adottare quella ‘centripeta’ – propria del contesto ‘chiuso’ e ‘idillico’ del mondo bucolico – della formazione erotica e sentimentale dei due protagonisti, che nel corso di otto stagioni apprendono le regole dell’eros. L’associazione tra spazi – ameni, o comunque extraurbani e naturali – e dichiarazioni di poetica permea dunque la letteratura greca fin dalle sue origini. In età tardo-ellenistica e imperiale, la ricezione di questo fenomeno è palpabile anche nella trattatistica retorica e critico-letteraria, sulla quale si sofferma il contributo di Casper de Jonge. Il ricorso a metafore tratte dal paesaggio (spesso idilliaco) è ampiamente utilizzato per celebrare l’eccellenza dello stile dei grandi modelli poetici. Da condizione necessaria per la fondazione di generi, dunque, il locus amoenus diviene rappresentazione dello stile. De Jonge si sofferma su un’immagine in particolare, di ampia diffusione, quella del fiume, e sul suo utilizzo come metafora stilistica in Demetrio, in Dionigi di Alicarnasso e in Ermogene. L’immagine della perfetta poesia come idillico flusso del ruscelletto, come acqua cristallina di fonte (πίδαξ) si trova, com’è noto, già in Callimaco (Ap. 105–113), contrapposta al procedere del ‘melmoso’ fiume ‘assiro’ di vasta portata, ed ebbe enorme fortuna, sebbene non fossero mancate espressioni di dissenso, come l’autore del Sublime (35, 4), che ripudia l’armonia idilliaca del limpido rivolo (e dunque anche il locus amoenus implicito in Callimaco?) per esaltare il possente procedere degli autori che, benché imperfetti, risultano grandi e travolgenti: pur con le loro piccole défaillances, Omero è preferibile al15

Serena Cannavale, Lorenzo Miletti, Mario Regali

l’impeccabile Apollonio Rodio, come Platone a Lisia, Demostene a Iperide, ecc. Questa immagine del fiume viene ampiamente sfruttata nella trattatistica retorica – probabilmente anche per la sua forte icasticità ed efficacia didattica: de Jonge si sofferma in particolare su come nel De elocutione Demetrio riscriva un passo di Tucidide (II 102, 2) e uno di Senofonte (An. IV 4, 3) relativi proprio alla descrizione di fiumi (rispettivamente l’Acheloo e il Teleboa) per mostrare come lo stile stesso inceda ‘come un fiume’, adottando cioè come metafora l’immagine del referente che i due storici stanno realmente descrivendo. Nella stessa prospettiva si analizzano un passo del De compositione verborum di Dionigi di Alicarnasso (4, 8–11) e uno del De ideis di Ermogene (I 3, 12), entrambi relativi al fiume Halys descritto da Erodoto (I 6, 1). Nel saggio conclusivo di Lorenzo Miletti si analizza il caso di Elio Aristide. Nella produzione di questo retore sono numerose le celebrazioni di luoghi di varia tipologia (monumenti, templi, città, regioni, isole, nazioni), ma alcune descrizioni di loca amoena fanno significativamente da sfondo a specifiche dichiarazioni di ‘poetica’ e a riflessioni teoriche sul rinnovamento del genere oratorio. Aristide fu del resto un innovatore dell’oratoria, sia pure nel solco della tradizione atticista, e come tale entrò rapidamente nella manualistica retorica greca e poi bizantina, andando incontro a una fortuna duratura. Un ruolo molto importante è giocato da alcuni passi dei Discorsi sacri (orr. 47–52), un gruppo di orazioni in cui Aristide descrive la sua devozione ad Asclepio e il sostegno ricevuto da questo dio nella lotta con una malattia che lo tormentava da tempo. In uno di questi discorsi (50, 14–18) si racconta dettagliatamente di come Asclepio, manifestandosi in sogno all’oratore, lo avesse spinto a riprendere a declamare, dopo un lungo periodo di inattività, e a fare ciò nel celebre asklepieion di Pergamo, dove Aristide soggiornava come pellegrino. La ‘chiamata’ di Asclepio alla pratica oratoria nella serenità irenica del tempio pergameno è leggibile come una vera e propria investitura poetica – anzi retorica – in un nuovo locus amoenus, in quanto nuovo inizio di una produzione di discorsi improntata alla devozione verso il dio salvatore. Questo afflato teorico e ‘poetico’ pervade molti passi della produzione aristidea, non solo dei Discorsi sacri ma anche di molte orazioni polemiche, mirate a difendere lo statuto della propria oratoria. Pur inserendosi nella scia della tradizione esiodea, l’episodio dell’investitura da parte di Asclepio deve molto alla tradizione platonica, sia perché lo scambio di Aristide con i Platonici della sua epoca è strettissimo e i richiami ai dialoghi platonici abbondano nei suoi discorsi, sia perché l’episodio stesso, con la presenza ‘dialettica’ di due interlocutori che lo incoraggiano e lo invitano a declamare, costituisce un richiamo specifico al Fedro, e in particolare a quelle sezioni discusse da Regali e menzio16

Introduzione

nate in precedenza. Il contributo offre infine una nuova lettura di un passo tratto da un’altra e meno nota orazione (or. 39 Per il pozzo di Asclepio, cap. 6), in cui Aristide menziona il platano ombroso posto accanto alla sorgente d’acqua all’interno dell’asklepieion di Pergamo: si tratta di un ulteriore ed esplicito riferimento al Fedro, certo, ma anche e soprattutto al platonismo del suo tempo – molti pellegrini di Asclepio, sodali del retore, sono infatti platonici – e della vicinanza/distanza che questa scuola ha, nella visione di Aristide, con il culto di questo dio. Con la sua rinuncia alle Muse, il rinnovamento del genere oratorio per volere di Asclepio, avvenuto nell’amenità del suo santuario, è dunque immagine di una retorica rinnovata che, benché olimpia in modo ‘ortodosso’, anticipa molte istanze che saranno proprie dei secoli successivi, caratterizzati dalla diffusione dei monoteismi.

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La campagna greca e il codice delle Muse. Iniziazioni poetiche e generi letterari Andrea Capra

Il mio intervento si colloca nel quadro di una riflessione che vado sviluppando da alcuni anni sul ruolo delle Muse nel descrivere e determinare, attraverso scene di iniziazione, i tratti distintivi dei generi letterari: una poetica perlopiù immanente alla produzione stessa, con l’inclusione di generi che noi chiameremmo di prosa come il dialogo platonico o la favola esopica. Da questo punto di vista i “luoghi” hanno un’importanza decisiva nel precisare il genere di poesia che le Muse ispirano al poeta. Una premessa importante per il mio discorso è la specificità greca delle Muse, e da qui comincerò. Tratterò poi di Esiodo e Archiloco, per mostrare come l’iniziazione delle Muse mostri con chiarezza, da un punto di vista greco, la distinzione fra epica e “lirica”. Con Platone e Posidippo vedremo che il codice delle Muse finisce per veicolare anche contenuti apparentemente contraddittori, in particolare la città e l’uso della scrittura, rispetto alle tradizioni arcaiche di iniziazione campestre al canto. Accennerò anche, in testa e in coda al discorso, a un tema molto generale: fino a che punto, da Omero a Posidippo e all’età imperiale, il codice delle Muse distingua la produzione greca da quella del Vicino Oriente prima, e di Roma poi. Le Muse e i loro luoghi, spero di mostrare, offrono un punto di vista privilegiato per la definizione dei generi letterari in ambito greco e permettono di cogliere, su scala maggiore, lo specifico della produzione greca.

1. La specificità “greca” delle Muse fra memoria e campagna Siamo ormai tutti consapevoli che la prima produzione greca – pensiamo all’epica di Omero ed Esiodo – non si muove in un vuoto culturale, ma mostra forti analogie di struttura e dettaglio con l’epica del Vicino Oriente e con altre tradizioni poetiche, coeve o precedenti, sviluppatesi nel bacino del Mediterraneo e in Mesopotamia. Anche se i modi di trasmissione e le implicazioni per la nostra comprensione della letteratura greca sono tuttora oggetto di vivo dibattito, gli studi, fra gli altri, di Walter Burkert, Martin West e Johannes Haubold mostrano con chiarezza che l’epica greca è parte

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Andrea Capra

di un sistema molto più ampio, che con il Vicino Oriente mostra non solo elementi di contatto puntuali e specifici (Burkert), ma anche legami ampi e strutturali: sia perché i paralleli sono numerosissimi (West) sia perché le diverse tradizioni (soprattutto greca, mesopotamica e ittita) vedono nella tripartizione fra dèi, semidei e uomini, corrispondenti ad altrettanti tipi di poesia, l’asse portante di una concezione del mondo transnazionale, che si traduce in forme di epica che quel mondo raccontano (Haubold).1 Martin West è giunto a dire che non è possibile capire i Greci senza lo sfondo dell’epica vicino-orientale così come non è pensabile di intendere la letteratura latina senza lo sfondo di quella greca. Nel suo poderoso e ponderoso libro sul tema, West ha in effetti raccolto una messe straordinaria di paralleli che – a suo dire – «parlano da soli».2 Già: per fortuna anche il più eurocentrico laudator del “miracolo greco” non può più ormai negare l’esistenza – per riprendere il titolo del libro di West – di una «faccia orientale dell’Elicona». Cosa dicano quei paralleli è però molto meno chiaro:3 la proporzione secondo cui Roma sta alla Grecia come la Grecia sta al Vicino Oriente non funziona per molte ragioni, dalla natura stessa dei testi di riferimento – multilingui nel caso del Vicino Oriente di contro all’impermeabile monolinguismo della letteratura greca – fino al fatto ovvio che i Romani ammiravano e conoscevano il greco, mentre i Greci non hanno mai mostrato interesse per lingue diverse dalla loro.4 Il paradosso è dunque questo: per quanto chiaramente inserita in un “sistema”, la produzione greca pensa se stessa come fondamentalmente autonoma e isolata, e come vedremo è in effetti, almeno per un aspetto, radicalmente altra. Che relazione ha tutto questo con le Muse? Proprio West, che più di ogni altro ha mostrato nel dettaglio gli stretti rapporti fra le tradizioni mitologiche greche e quelle vicino-orientali, dice questo: When the early Greek poet is writing in formal mode, he begins by announcing his theme. He does so in one of two ways: either he calls upon the Muse(s) to sing or tell of N, or he says «I will sing» or «Let me sing» of N, using the indicative (present or future) or a volitive sub-

1 West (1997); Burkert (1999); Haubold (2013). Il presente contributo, che tocca temi e autori molto vari e molto studiati, presenta una bibliografia essenziale. 2 «speak for themselves», West (1997), vii. 3 Stephen Halliwell, un grande ammiratore del libro di West, nota però che l’autore «never broaches the question of how, if at all, his material might affect our interpretation of Greek literature, even though he unwisely endorses the misconceived claim that Hellenists need to know about West Asiatic literature in the same way that Latinists need to know Greek (xi)». Cf. Halliwell (1998), 135. 4 Lo ha sottolineato con chiarezza Most (2003).

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junctive (present or aorist). The first alternative has no parallel in the eastern traditions [...] The Muses are, so far as we know, purely Greek creatures, and have no counterpart in the orient.5 Le Muse, dunque, non hanno una controparte vicino-orientale, e del resto l’etimologia stessa della parola “Musa” è un noto enigma che siamo ben lontani dal poter sciogliere, anche se il raffronto con “monte” è certo molto attraente per un libro come questo.6 Perché questa eccezionalità? Il raffronto con tradizioni epiche vicino-orientali mostra in effetti un’altra sostanziale differenza che può con ogni probabilità collegarsi alla presenza unica delle Muse in Grecia. Mi riferisco al fatto che l’epica accadica – ma lo stesso si potrebbe dire del patrimonio ittita o della letteratura egizia – è un’attività saldamente gestita dagli scribi, con tanto di riferimenti espliciti alla testualità scritta dei poemi – famoso è in questo senso il prologo del Gilgamesh, il poema che più di ogni altro è stato accostato all’Iliade: vi troviamo, invece della Musa, un’esaltazione del testo come monumento scritto, contenuto in luccicanti tavolette di lapislazzuli.7 Le Muse figlie di Memoria, invece, ispirano un cantore e, come figlie di Mnemosine, gli infondono un’ispirazione che è in prima istanza memoria-conoscenza visiva di un mondo remoto e inaccessibile ai comuni mortali, vuoi perché nascosto nelle plaghe dell’etere (il mondo degli dèi), vuoi perché ormai perduto in un passato remotissimo che dal presente è separato da uno iato non solo quantitativo ma qualitativo (la stirpe dei semidèi è radicalmente altra rispetto al mondo degli uomini di oggi, o del «ferro» come dice Esiodo). Ne risulta una narrazione in piena luce e profondamente “visuale” – quella che ha ispirato l’Auerbach di Mimesis,8 per intenderci – che proprio nell’evidentia ha una delle sue principali caratteristiche.9

5 West (1997), 170. 6 Su tali incertezze cf. e.g. Assaël (2006), cap. 1. Una ricognizione recente, che guarda con favore all’etimologia ‘montana’ di Wackernagel (derivazione da *mont-ja) si trova in Maslov (2016), 416–17. Ha però goduto nel complesso di maggiore fortuna l’etimologia di Brugmann, che riconnette la musa a una radice *men- connessa con la nozione di memoria, su cui in particolare, di recente, cf. Brillante (2009), 43–45. Rassegna analitica di queste e altre proposte (compresa quella dell’autrice) nonché dei loro fautori in Camilloni (1998). 7 I 18–28, e cf. e.g. Michaowski (1992). Naturalmente, questo non esclude l’esistenza, alle spalle della monumentalizzazione scritta e dell’ovvia importanza delle pratiche scrittorie, di tradizioni orali. Cf. Bachvarova (2016), 54–77. 8 Auerbach (1946). 9 Si tratta anche di una narrazione che, non per caso, sfrutta attraverso gli elementi visuali forme di mnemotecnica ante litteram: cf. Strauss Clay (2011).

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La perdita della scrittura in seguito alla caduta dei regni micenei, insomma, ha una serie di conseguenze cruciali per la poesia greca arcaica, che così si possono schematizzare: 1. mitologizzazione di un passato sopravvissuto solo attraverso nebulosi ricordi orali e ascritto a una stirpe estinta e superiore; 2. concezione della poesia come canto orale ispirato da una divinità capace di memoria; 3. evidentia, che deve ricordare la precisione di un testimone oculare; 4. consapevolezza di vivere in un mondo impoverito, privo di scrittura ma anche privo delle grandi architetture che oscuramente sopravvivevano nella memoria e nelle rovine; 5. statuto semidivino del poeta, che è in contatto con la divinità e, solo, ha accesso al mondo degli dèi e degli eroi. La consapevolezza di un mondo non più capace di scrittura e per il momento incapace di produrre palazzi e città è probabilmente all’origine del carattere fondamentalmente montano o agreste delle Muse.10 L’ispirazione poetica si fissa in una sorta di scena tipica, ossia l’incontro con le Muse che trasforma un pastore in poeta autorevole e divino (e come tale, si può aggiungere, potenzialmente destinatario di culti eroici). Questo è in larga parte lo schema del racconto di Esiodo, che incontra le Muse ai piedi del monte Elicona. Ma non solo, come vedremo.

2. Esiodo e Archiloco: fra panellenismo epico e localismo “lirico” Ripercorriamo la notissima scena dell’iniziazione di Esiodo: αἵ νύ ποθ’ Ἡσίοδον καλὴν ἐδίδαξαν ἀοιδήν, ἄρνας ποιμαίνονθ’ Ἑλικῶνος ὕπο ζαθέοιο. τόνδε δέ με πρώτιστα θεαὶ πρὸς μῦθον ἔειπον, Μοῦσαι Ὀλυμπιάδες, κοῦραι Διὸς αἰγιόχοιο

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«ποιμένες ἄγραυλοι, κάκ’ ἐλέγχεα, γαστέρες οἶον, ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ’ εὖτ’ ἐθέλωμεν ἀληθέα γηρύσασθαι.»

10 Il nesso, anche iconografico, fra Muse e natura è opportunamente richiamato da Murray (2020). In questo recente studio sono naturalmente richiamati gli importanti e ben noti lavori che l’autrice ha dedicato alle Muse e all’ispirazione poetica.

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La campagna greca e il codice delle Muse. Iniziazioni poetiche e generi letterari

ὣς ἔφασαν κοῦραι μεγάλου Διὸς ἀρτιέπειαι, καί μοι σκῆπτρον ἔδον δάφνης ἐριθηλέος ὄζον.

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δρέψασαι, θηητόν· ἐνέπνευσαν δέ μοι αὐδὴν θέσπιν, ἵνα κλείοιμι τά τ’ ἐσσόμενα πρό τ’ ἐόντα, καί μ’ ἐκέλονθ’ ὑμνεῖν μακάρων γένος αἰὲν ἐόντων, σφᾶς δ’ αὐτὰς πρῶτόν τε καὶ ὕστατον αἰὲν ἀείδειν. ἀλλὰ τίη μοι ταῦτα περὶ δρῦν ἢ περὶ πέτρην;

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Esse una volta a Esiodo insegnarono un canto bello, mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicone; questo discorso, per primo, a me rivolsero le dee, le Muse d’Olimpo, figlie dell’egioco Zeus:

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«O pastori, cui la campagna è casa, mala genìa, solo ventre; noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare». Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare, e come scettro mi diedero un ramo d’alloro fiorito,

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dopo averlo staccato, meraviglioso; e m’ispirarono il canto divino, perché cantassi ciò che sarà e ciò che è, e m’ordinarono di cantare la stirpe dei beati, sempre viventi; ma esse per prime, e alla fine, sempre. Ma a che tal discorsi sulla quercia e la roccia?11

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I tratti fondamentali di questa storia – riferimenti alla pastorizia, solitudine campestre del futuro poeta, motteggio da parte delle dee, dono, ispirazione, e così via – non sono esclusivi di Esiodo. Si tratta invece di un mitologema che riaffiora a proposito di figure diverse, come osservò anni fa Cristiano Grottanelli.12 Una storia molto simile circolava in relazione a Epimenide, e l’incontro con le Muse è anche al centro del racconto preservato nell’iscrizione di Mnesiepe, dove si racconta l’iniziazione di Archiloco che giustifica il culto eroico del poeta nell’Archilocheion di Paro. Si tratta natu-

11 Esiodo, Teogonia, 22–35; trad. di G. Arrighetti, in Arrighetti (1984), 66–67. 12 Grottanelli (1992). L’articolo di Grottanelli conteneva significative novità rispetto alla trattazione classica di Kambylis (1965).

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ralmente di una redazione di età ellenistica, ma la vicenda, nei suoi tratti essenziali, era già nota in età classica e forse prima ancora: non solo la si trova raffigurata su una pisside modellata e decorata intorno alla metà del V secolo a.C.,13 come ha mostrato Diskin Clay nel suo libro sul culto dei poeti14, ma Antonio Aloni ha plausibilmente suggerito che in realtà il racconto – come in Esiodo – dovesse essere in tutto o in parte contenuto nella poesia stessa di Archiloco, ossia nel seguito del frammento famoso (1 West) in cui Archiloco si dichiara in possesso del «dono delle Muse».15 Con alcune differenze significative, ritroviamo in questo racconto i medesimi tratti della storia di Esiodo: Λέγουσι γὰρ Ἀρχίλοχον ἔτι νεώτερον ὄντα πεμφθέντα ὑπὸ τοῦ πατρὸς Τελεσικλέους εἰς ἀγρόν, εἰς τὸν δῆμον, ὃς καλεῖται Λειμῶνες, [ὥ]στε βοῦν καταγαγεῖν εἰς πρᾶσιν, ἀναστάντα

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π̣ρώιτερον τῆς νυκτό̣ς, σελήνης λαμπούσης, [ἄ]γ̣ειν τὴμ βοῦν εἰς πόλιν· ὡς δ’ ἐγένετο κατὰ τὸν [τ]όπον, ὃς καλεῖται Λισσίδες, δόξαι γυναῖκας [ἰ]δ̣εῖν ἀθρόας· νομίσαντα δ’ἀπὸ τῶν ἔργων ἀπιέναι αὐ̣τὰς εἰς πόλιν προσελθόντα σκώπτειν, τὰς δὲ

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δ̣έ̣ξασθαι αὐτὸν μετὰ π̣αιδιᾶς̣ καὶ γέλωτος καὶ [ἐ]π̣ερωτῆσαι, εἰ πωλήσων ἄγει τὴμ βοῦν· φήσαντος δέ, [εἰ]πεῖν ὅτι αὐταὶ δώσουσιν αὐτῶι τιμὴν ἀξίαν· [ῥη]θέντων δὲ̣ τούτων αὐτὰς μὲν οὐδὲ τὴμ βοῦν οὐκέτι [φ]α̣νερὰς εἶναι, πρὸ τῶν ποδῶν δὲ λύραν ὁρᾶν αὐτόν

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[κα]ταπλαγέντα δὲ καὶ μετά τινα χρόνον ἔννουν [γ]ε̣νόμενον ὑπολαβεῖν τὰς Μούσας εἶναι τὰς φανείσας [κα]ὶ̣ τὴν λύραν αὐτῶι δωρησαμένας· καὶ ἀνελό[με]ν̣ον αὐτὴν πορεύεσθαι εἰς πόλιν καὶ τῶι πατρὶ [τὰ] γ̣ενόμενα δηλῶσαι[⋮] Τὸν δὲ Τελεσικλῆν ἀκού-

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[σα]ν̣τα καὶ τὴν λύραν ἰδόντα θαυμάσαι. καὶ πρῶτομ

13 Pittore di Esiodo, Pisside raffigurante un pastore con sei Muse, Boston, Museum of Fine Arts (inv. n. 98.887). 14 Clay (2004). 15 Aloni (2011). Ma cf. già Brillante (2009), 21.

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La campagna greca e il codice delle Muse. Iniziazioni poetiche e generi letterari

[μὲ]ν ζήτησιν ποιήσασθαι τ̣ῆ̣ς β̣οὸς κατὰ πᾶσαν [τὴ]ν̣ νῆσον καὶ οὐ δύνασθαι εὑρεῖν[⋮] Ἔπειθ’ ὑπὸ τῶν [πο]λ̣ιτῶν θεοπρόπον εἰς Δελφοὺς εἰρημένον μετὰ [Λυ]κάμβου χρησόμενον ὑπὲρ τῆς πόλεως, προθυμό-

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[τ]ε̣ρον ἀποδημῆσαι βουλόμενον καὶ περὶ τῶν [α]ὐ̣τοῖς συμβεβηκότων πυθέσθαι[⋮]. [ll. 22–27] Dicono infatti che Archiloco, quando ancora era piuttosto giovane, inviato dal padre Telesicle in campagna, in una località chiamata “Leimones” [“Prati”], cosicché portasse indietro una vacca da vendere, essendosi levato molto presto durante la notte, quando ancora splendeva la luna, stava conducendo la vacca in città; [ll. 27–35] quando venne a trovarsi nel posto che è chiamato “Lissides”, gli parve di vedere alcune donne riunite in gruppo; e credendo che esse tornassero in città dai lavori, dopo essersi avvicinato, le motteggiava, e le donne lo accolsero con scherzi e risa e gli domandarono se stesse conducendo la vacca per venderla; dato che Archiloco rispose affermativamente, le donne dissero che loro stesse gli avrebbero dato un giusto compenso; dette tali cose, né loro né la vacca erano più visibili, ma davanti ai suoi piedi Archiloco vedeva una lira; [ll. 36–40] essendo rimasto attonito e dopo un po’ di tempo essendo tornato in sé, capì che le donne che gli erano apparse e che gli avevano donato la lira erano le Muse; e, dopo aver raccolto la lira, la portò in città e rivelò l’accaduto al padre. [ll. 40–47] Telesicle, dopo aver ascoltato e aver visto la lira, rimase stupito; e per prima cosa fece fare una ricerca della vacca su tutta l’isola e non riusciva a trovarla. In seguito, scelto dai cittadini come rappresentante inviato a Delfi, insieme a Licambe, per consultare l’oracolo per il bene della città, compì il viaggio ancor più volentieri, volendo chiedere informazioni anche in merito alle cose che erano accadute a loro.16 Il racconto conosce poi nuove e importanti rivisitazioni, dal Fedro di Platone (il mito delle cicale), all’idillio VII di Teocrito, agli Aitia di Callimaco, al Romanzo di Esopo17. In forma ulteriormente trasfigurata, la scena riappa-

16 Iscrizione di Mnesiepe, E1, Col. II, ll. 22–47. La traduzione è tratta da Ornaghi (2020). 17 Mi permetto qui di rimandare, per dettagli e bibliografia, ai miei contributi sul tema: Capra (2014), cap. 3, e Capra (2019).

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re nell’Elegia della Vecchiaia di Posidippo, che ad Archiloco fa specifico riferimento. Ho suggerito altrove, nel discutere il Fedro, che in questi esempi la scena di iniziazione non si limita a consacrare il futuro poeta per favorirne o sancirne il culto eroico, ma offre indicazioni pregnanti sul genere specifico praticato dal poeta.18 Si tratta insomma di un manifesto poetico immanente, che segnala gli aspetti specifici e le novità del genere poetico attraverso deviazioni significative rispetto allo schema base della storia iniziatica. Non è possibile addentrarsi qui nei dettagli di questi racconti: basterà l’esempio di Esiodo e di Archiloco, che offrono una vicenda di evidente rilevanza per il tema dei “luoghi delle Muse”, con l’aggiunta di qualche sommario richiamo ad altre versioni del mitologema. Uno dei tratti ricorrenti di queste storie è la concessione di un dono. Si tratta naturalmente dell’ispirazione poetica, che trova però qui una sorta di correlato oggettivo in un attributo materiale portentoso. Lo scettro di Esiodo rimanda immediatamente alle performance dei rapsodi, che nello scettro avevano un imprescindibile attributo identitario – proprio lo scettro è il loro segno di riconoscimento nelle pitture vascolari. È anche importante notare come le Muse di Esiodo siano “beote” al principio del racconto (abitano l’Elicona) ma si trasformino poi in “Olimpie”, un cambiamento che Gregory Nagy ha giustamente interpretato come la conquista di una dimensione panellenica – caratteristica della poesia epica – di contro a un’origine locale.19 Questa promozione investe naturalmente anche il pastore «tutto ventre», che dall’ispirazione poetica viene redento, non prima di avere subito – ed è un altro elemento ricorrente nelle storie di iniziazione – i motteggi “catartici” delle Muse: e così Esiodo si lascerà alle spalle il «ventre» e canterà temi universali, dalla nascita degli dèi (Teogonia) alla generazione dei mortali semidivini (Catalogo delle donne), alle leggi perenni della natura (Opere e giorni). Di contro, Archiloco riceve una lira ed è lui stesso a motteggiare, per primo, le Muse. L’incontro avviene in un luogo ben preciso, Lissides (“Pietre Lisce”), che sembra corrispondere a una riconoscibile località di Paro, segnata proprio dalla presenza di pietre lisce e sede di culti antichissimi.20 Le Muse di Archiloco non diventano olimpie, e del resto il poeta, per quanto destinato a immortalità e fama fra gli uomini, verrà definitivamente consacrato da un altro elemento topico, strettamente connesso

18 Capra (2014), cap. 3. Cf. il contributo di Mario Regali nel presente volume, con l’importante inclusione di Longo Sofista. 19 Nagy (2009). 20 Lo ha mostrato di recente M. Ornaghi (2020).

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con l’isola di Paro: una scena in patria, sull’isola, che si consuma non appena poggiati i piedi a terra dopo un viaggio di ritorno in nave21. In altre parole, lo schema del racconto si adatta per esprimere forme e contenuti della poesia di Archiloco. Si tratta anzitutto – diremmo noi moderni – di poesia “lirica”, largamente destinata al simposio: proprio a questo allude la lira, che dell’iconografia di Archiloco diventerà un tratto fisso.22 La fama del poeta non elide un rapporto strettissimo con la comunità di origine: la poesia di Archiloco ha referenti immediati, ben diversa in questo dall’universalismo dell’epica, e tale circostanza spiega perché le sue Muse siano saldamente ancorate alla topografia di Paro, dove del resto la promessa immortalità troverà presto un riscontro di immediata evidenza nell’organizzazione di un culto eroico in onore del poeta caro agli dèi. Infine, ed è questo il punto senz’altro più importante, Archiloco – a differenza di Esiodo o Epimenide – prende l’iniziativa nei confronti delle dee: è lui, per primo, a motteggiare le Muse. Si tratta di un tratto unico, che non trova riscontro in altre versioni del mitologema. Non è difficile concluderne che il dettaglio rimanda, con tutta evidenza, alla poesia giambica, fatta per l’appunto di motteggio e attacco personale.

3. Da Platone a Posidippo: la Musa va in città, e impara a scrivere Osservazioni simili, volte a identificare lo specifico di un genere nelle varianti del mitologema, si potrebbero fare per altre figure destinatarie di iniziazione poetica. Epimenide subisce un motteggio molto simile a quello della Teogonia, ma ne sono protagoniste divinità quali Aletheia, un tratto che rimanda evidentemente al carattere filosofico e sapienziale della sua produzione.23 Come ricorda anche Mario Regali in questo libro, il mitologema viene poi adattato nel Fedro platonico, il cui “mito delle cicale”, ministre delle Muse e pronte a concedere a Socrate e Fedro un “dono” (geras), riproduce la scena iniziatica sotto diversi aspetti, ma con alcune cruciali differenze: prima fra tutte, la circostanza che l’incontro con le divinità ispiratrici (le cicale, ministre delle Muse) non interessa un personaggio solitario, ma due amici, e le stesse cicale, fra i rami del grande platano, dialogano fra loro, il tutto grazie all’ispirazione di due (non una, come in Esiodo)

21 Iscrizione di Mnesiepe, E1, Col. II, ll. 47–57. 22 Cf. la documentazione discussa in Clay (2004), con ricca bibliografia. 23 Cf. e.g. la ricostruzione di C. Brillante (2004), con ricca bibliografia.

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Muse più importanti delle altre.24 La straordinaria enfasi sulla dualità – che si traduce perfino nell’uso di rari pronomi al duale – mostra come Platone volesse attirare l’attenzione sul carattere dialogico del nuovo genere letterario che si rifà a Socrate. Nella Vita di Esopo infine, di stesura imperiale ma ricca di elementi che rimontano all’età classica, il dono materiale è sostituito con una altrettanto materiale rimozione: viene tolto allo schiavo l’impedimento di carne che ne ostruiva la parola, un dettaglio da mettere in stretto rapporto con il carattere più vistoso della favola esopica, che per l’appunto vede protagonisti animali parlanti, come il cavallo di Achille divinamente sottratto, per un attimo, all’impedimento della parola poi subito reimposto dalle Erinni.25 Malgrado le significative differenze, comunque, tutti questi casi sono accomunati da una sostanziale fedeltà allo specifico delle Muse, che, come ricordavo all’inizio, in origine esistono nella campagna per colmare uno iato di memoria, che storicamente fu provocato dalla perdita della scrittura e dalla scomparsa di palazzi e città di età micenea. Poteva questo schema reggere il ritorno della scrittura e la collocazione delle pratiche poetiche nel quadro della città? Una risposta a questo interrogativo viene dal saggio di Mario Regali in questo volume. Il romanzo di Longo riprende il tema dell’iniziazione poetica campestre attraverso un fitto rapporto con il Fedro di Platone, ma con alcune differenze evidenti: l’ispirazione cede il passo alla tecnica, la scrittura sostituisce il canto, le Ninfe (che qui, come spesso nel Fedro, “stanno per” le Muse)26 diventano le dedicatarie, più che le ispiratrici, della produzione letteraria. Si tratta di una trasformazione profonda, che rende il mitologema riconoscibile solo grazie alla mediazione – già significativamente alterata rispetto ai modelli arcaici – del Fedro di Platone, il quale, nella sua ben nota critica alla scrittura, preferì mantenere, almeno nella finzione del dialogo, l’idea di un’ispirazione fondamentalmente orale e campestre: come si sa, la scrittura è meticolosamente dissimulata nel dialogo platonico, e benché proprio nel Fedro Socrate proclami che campi e alberi non hanno nulla da insegnargli al contrario degli «uomini in città»,27 è proprio in una campagna suburbana fitta di antichi culti che Socrate, come Archiloco, trova l’ispirazione. La trasformazione ormai compiuta nel romanzo di Longo

24 Capra (2014), cap. 3. 25 Omero, Iliade XIX 404–418. Cf. Capra (2019). 26 Nell’universo bucolico, le Ninfe «act as rustic counterparts of the Muses» (Larson 2001, 52, nel citare Teocrito 7, 91–92 e in riferimento a 1, 12; 4, 29 e 5, 140). Una ninfa Erato si trova anche nella Teogonia (246) e ci sono altri casi in cui i nomi delle Muse si sovrappongono a quelli delle ninfe. Cf. Kambylis (1965), 38–47. 27 Platone, Fedro, 230d.

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ha però un importante precedente in età ellenistica. L’investitura poetica torna in Teocrito, che però, come Platone, mantiene l’orientamento – o, se si vuole, la finzione – oralista e campestre, come si conviene alla sua ispirazione “bucolica”.28 Non così Posidippo di Pella, che si ricollega direttamente ad Archiloco e certo tiene presente l’iconografia tradizionale del poeta di Paro, caratteristicamente effigiato con la lira: εἴ τι καλόν, Μοῦϲαι πολιήτιδεϲ, ἢ παρὰ Φοίβου χρυϲαλύρεω καθαροῖϲ οὔαϲιν ἐκλ[ύ]ετε Παρνηϲοῦ νιφόεντοϲ ἀνὰ πτύχ[α]ϲ ἢ παρ᾿ Ὀλύμπωι Βακχωι τὰς τριετεῖϲ ἀρχόμεναι θυμέλα[ϲ νῦν δὲ Ποϲε[ι]δίππωι ϲτυγερὸν ϲυναείρατε γῆραϲ γραψάμεναι δέλτων ἐν χρυϲέαιϲ ϲελίϲιν. λιμπάνετε ϲκοπιὰϲ Ἑλικωνίδαϲ, εἰϲ δὲ τὰ θήβηϲ τείχεα Πιπ[λ]ε̣ί̣ηϲ βαίνετε, Καϲταλίδεϲ. καὶ ϲὺ Ποσείδιππόν ποτ᾿ ἐφίλαο; Κύνθιε, Λητοῦϲ υἵ᾿ ἑ̣κ̣ά̣ε[ργ]ε̣, β̣έ̣λο̣ ̣ϲ̣(vacat) [..].[……].. ρ̣α̣ν[̣ .]ν̣ω̣…………. φήμη τιϲ νιφόεντ᾿ οἰκία τοῦ Παρίου· τοίην ἐκχρήϲαιϲ τε καὶ ἐξ ἀδύτων καναχήϲαι[ϲ φωνὴν ἀθανάτην, ὦ ἄνα, καὶ κατ᾿ ἐμοῦ ὄφρα με τιμήϲωϲι Μακηδόνεϲ, οἵ τ᾿ ἐπὶ ν̣[ήϲων οἵ τ᾿ Ἀϲίηϲ πάϲηϲ γείτονεϲ ἠϊόνοϲ. Πελλαῖον γένοϲ ἀμόν· ἔοιμι δὲ βίβλον ἑλίϲϲων

28 Come in Teocrito 7, dove il personaggio che offre il dono della poesia è “travestito” come un capraio, di nome Licida. La reale identità del capraio è un noto enigma. Essendo stata ora rigettata la vecchia ipotesi di una “mascarade bucolique” che indicherebbe dei poeti (cf. Gow [1952], 129–130), alcuni studiosi hanno di recente proposto Pan (e.g. Clauss 2003), Dioniso (e.g. Moscadi 2007), Apollo (e.g. Williams 1971 e Livrea 2004) o magari nessuno in particolare (e.g. Fantuzzi 2008, 581), intendendo Licida come «Musterbukoliker» (Puelma 1960, 161). L’idillio pare influenzato dal Fedro nel paesaggio, nel motivo erotico e nella tecnica narrativa (cf. Pearce 1988, Billault 2008 e Montes Cala 2009). D’altra parte, è stato avanzato che una forma preletteraria di poesia bucolica siciliana potrebbe aver ispirato la composizione del Fedro, come sostenne Murley in un famoso saggio del 1940 (Murley 1940).

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ἄφνω λαοφόρωι κείμενοϲ εἰν ἀγορῆι. ἀλλ᾿ ἐπὶ μὲν Παρίηι δὸϲ ἀηδόνι λυγρὸν ἐφ.[ νῆμα κατὰ γληνέων δάκρυα κε̣ι̣ν̣ὰ̣ χ̣έ̣ω̣[ν καὶ ϲτενάχων, δι᾿ ἐμὸν δὲ φίλον στόμα [ ¯˘˘¯˘ α̣ϲ̣τ̣[…]………….. [..]………..[ μηδέ τιϲ οὖν χεύαι δάκρυον· αὐτὰρ ἐγὼ γήραϊ μυϲτικὸν οἶμον ἐπὶ Ῥαδάμανθυν ἱκοίμην δήμωι καὶ λαῶι παντὶ ποθεινὸϲ ἐών, ἀσκίπτων ἐν ποϲϲὶ καὶ ὀρθοεπὴϲ ἀν᾿ ὅμιλον καὶ λείπων τέκνοιϲ δῶμα καὶ ὄλβον ἐμόν

Se qualcosa di bello, o Muse mie concittadine, udivate con le vostre orecchie pure o da Febo dalla lira d’oro, tra i gioghi del Parnaso innevato, o presso l’Olimpo, quando in onore di Bacco date inizio alle feste triennali, ecco, ora per Posidippo rendete più lieve la vecchiaia, scrivendo nelle colonne d’oro delle vostre tavolette. Lasciate le cime dell’Elicona, e alle mura di Tebe Piplea venite, o Castalidi. E tu un giorno avesti caro Posidippo, o Apollo Cinzio, figlio di Letò, che da lungi saetta ... ... [giunse] un responso oracolare alla bianca casa dell’uomo di Paro. Oh, se tu ti pronunciassi e dai penetrali del tuo tempio emettessi un simile immortale decreto, o signore, anche per me, così che mi diano onori i Macedoni, quelli delle [isole] e i loro vicini sulla costa di tutta l’Asia. Di Pella è la mia stirpe; nell’atto di svolgere un rotolo, possa io subito stare in mezzo alla piazza colma di popolo. E all’usignolo di Paro fa’ che io possa [attaccare] un filo di lutto, giù dagli occhi versando vane lacrime

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e gemendo; ma attraverso la mia cara bocca ... ... ... E che nessuno, dunque, versi lacrime: e io, vecchio, possa compiere il cammino degli iniziati fino a Radamanto, circondato dall’affetto del popolo e di tutti i cittadini, senza l’aiuto del bastone, sulle mie gambe, pronunciando retti discorsi tra la folla, e lasciando ai figli la mia casa e le mie ricchezze29. Posidippo – si tratti di un auspicio per il futuro o di una profezia ex eventu – vede se stesso eroizzato in forma di statua, sull’agorà della sua città, fra i suoi concittadini che gli rendono onore grazie ad Apollo e alle Muse “Piplee”, una variante strettamente locale e cittadina.30 In questo contesto, ricorda agli dèi un oracolo antico: si tratta con evidenza dell’oracolo che promise al padre di Archiloco fama e immortalità per il figlio.31 Quello che qui avviene può essere qui riassunto come segue: non solo Posidippo fa esplicito riferimento ad Archiloco ma, ben consapevole del carattere fortemente topico della sua poesia, lo chiama in effetti “il Pario”. L’aspetto locale caratterizza anche le Muse “Piplee” di Posidippo e il suo fermo ancoraggio nella città di Pella: da questo punto di vista, Posidippo è non meno anti-epico di Archiloco, e il riferimento all’oracolo e all’iniziazione di quest’ultimo gli fanno gioco in questo senso. Dove però Posidippo si distacca apertamente da Archiloco è nella predilezione per uno scenario cittadino dominato da Muse urbane (in senso proprio e figurato) e nel medium poetico, perché – possiamo dire – la lira di Archiloco è sostituita da un rotolo di papiro, e il riferimento alla scrittura non potrebbe essere più enfatico. A

29 Posidippo, Elegia della Vecchiaia (118 Austin-Bastianini); trad. di S. Pozzi, in Pozzi-Rampichini (2008). 30 «Piplea was a place in Macedonia associated with the Muses, so “Piplean Thebes” must surely be a poetic description of Pella itself, the poet’s own birthplace», Austin (2002), 173. 31 «The well-known one to Archilochus’ father, to the effect that his son would be “immortal and renowned in song among men”» (Clay 2004, 30, cf. Klooster 2011, 180). Questo oracolo (Gerber test. 3.18) compare anche nel racconto di Mnesiepes. Secondo Lloyd-Jones (1963, 178–179), l’oracolo cui fa riferimento Posidippo è il medesimo che convinse Mnesiepes a consacrare l’Archilocheion. Questo sembra meno probabile, e ad ogni modo non cambia significativamente la mia interpretazione.

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differenza di Teocrito e Callimaco, il quale pure riecheggia la scena esiodea e si iscrive a modo suo nella tradizione delle iniziazioni poetiche,32 Posidippo non è un poligrafo ma – in sostanza – un purista dell’epigramma, genere che fin dai suoi inizi è strutturalmente legato alla scrittura e alla monumentalità. Piuttosto che farsi olimpie e cantare le vicende panelleniche, le sue Muse, che lui chiama «concittadine», si recano in una ben precisa città, imparano a scrivere e, per dirla con Peter Bing, diventano «wellread»:33 il mitologema dell’iniziazione poetica arriva a ospitare ed esprimere anche questo cambiamento epocale, che pure per certi versi nega la natura stessa della tradizione: le Muse, e i loro luoghi, non sono davvero più gli stessi. Se impara a scrivere, la Musa cittadina disimpara a cantare.

4. Conclusioni: le Muse e la via greca alla poesia Si può concludere che il mitologema dell’incontro con le Muse abbracci per intero la nascita e, in un certo senso, la morte della tradizione poetica greca, se intesa come canto e performance orale.34 Il rapporto dell’epica arcaica con le tradizioni ittite e mesopotamiche si gioca in un quadro comune, rispetto al quale le singole tradizioni sembrano operare precise scelte. Così, nel quadro di una medesima storia del mondo tripartita (dèi, eroi e uomini) l’epica accadica, come ha mostrato Johannes Haubold, opta per una visione creazionista e spiega la fine del mondo eroico attraverso il trauma del diluvio universale, ma in più occasioni allude anche alle possibili

32 Cf. e.g. Tulli (2008). Callimaco, peraltro, sembra tenere presenti anche Platone (cf. Acosta-Hughes, Stephens 2012, 36–39) e lo stesso Posidippo (cf. Di Benedetto 2003). 33 Bing (1988). Come ben sintetizza R. Schmiel (1990), Bing «shows that the (written) book is assumed by the late fourth century: Poseidippus envisioning a statue of himself “unwinding a book-roll” (15), “the Graces as personified scrolls” in Theoc. 16 (20), features of meter and form in Kastorion’s Hymn to Pan that could only be appreciated visually (23 ff.), the talking book in Straton Anth. Pal. 12.208 (30 f.), and even the personified coronis in Anth. Pal. 12.257 (33 f.). The consequences are (1) that “the Muses’ inspiration and the written record become one and the same,” or that the Muses have been replaced by the literary tradition (35– 37), and (2) that “writing fosters a spare and finely etched style” unlike the “fluent, voluble and fulsome oral style” (46)». 34 Pur con tutta la cautela del caso, val la pena di ricordare qui fascinose osservazioni di Svenbro, che nella relazione cicala-formica riconobbe un’allegoria consistente nella morte del canto (cicale) per mano della scrittura (stichoi di formiche nere che rimandano a stichoi di lettere). Cf. Svenbro (1990).

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alternative rispetto agli snodi fondamentali della vicenda: la nascita del mondo per filiazione e la fine degli eroi per morte violenta.35 A parti rovesciate, lo stesso avviene nell’epica greca. C’è una chiara opzione per la filiazione – si pensi all’inizio della Teogonia e alle stirpi degli dèi e dei semidei – e per la fine violenta – il “piano di Zeus” consiste nella fine degli eroi attraverso la guerra sanguinosa, finché, con la guerra di Troia, cala il sipario sull’era eroica. D’altra parte, le alternative sono chiaramente evocate: il creazionismo, con Pandora plasmata da Zeus, e il diluvio universale, adombrato nell’Iliade dall’inondazione che cancella il muro degli Achei laddove «cadde nella polvere la stirpe dei semidèi» (Il. XII 23) o dal timore che lo Scamandro possa dilagare per la piana di Troia e cancellare l’esistenza di Achille.36 Si tratta di alternative messe, si direbbe non per caso, in una luce estremamente negativa: la creazione di Pandora è l’origine di tutti i mali, e la fine per annegamento rappresenta, nel codice epico, la negazione stessa del kleos eroico. Ora, come proposta finale vorrei avanzare l’idea – molto speculativa, si intende – che anche il “codice delle Muse” rappresenti un’opzione in qualche modo consapevole. Qualunque posizione si voglia assumere rispetto alla questione omerica – chi scrive ha tendenziali simpatie oraliste, ma la cosa non è rilevante qui – i poemi si sono fissati quando la scrittura già esisteva, e del resto parrebbe ora che i controversi “segni luttuosi”, i semata lugra menzionati nella vicenda iliadica di Bellerofonte, corrispondano in effetti a un manufatto miceneo di cui si sono rinvenuti resti consistenti nel carico di una nave affondata nella tarda età del bronzo al largo di Uluburun (oggi Turchia).37 La scrittura doveva essere nota a “Omero” sia perché importata, nella nuova forma alfabetica, dai Fenici nell’VIII secolo, sia perché tramandata nei ricordi veicolati dalla poesia epica, sia ancora, presumibilmente, per la consapevolezza che altre civiltà ne facevano uso. Eppure, Omero non solo opta per la voce delle Muse, ma l’alternativa scrittoria non prende certo la forma seducente dei lapislazzuli, bensì quella ambigua e molto negativa dei segni mortiferi affidati a Bellerofonte – e si può notare, per inciso, che nella conversione alla scrittura di Posidippo è proprio il canto orale di Archiloco ad essere bollato come “mortifero”, lugron.38 Una conferma indiretta è qui offerta dall’epos atlantico di Solone come ci appare nel Timeo-Crizia di Platone. La storia raccontata prima da Timeo 35 Haubold (2013), cap. 1. 36 La storia di Deucalione e Pirra sembra invece essere stata connessa con quella del diluvio solo più tardi. Cf. e.g. Griffin (1992). 37 Iliade VI 168. Cf. e.g. Shear (1998), 187–189. 38 V. 10.

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e poi da Crizia è posta direttamente a confronto con l’epica di Esiodo e Omero, che l’epos di Solone supera per ampiezza. Il racconto cosmogonico del Timeo fa riferimento diretto alla Teogonia di Esiodo, sbrigata come una piccola storia all’interno di una vicenda molto più maestosa, e significativamente presenta una chiara opzione creazionista, che vede nel Demiurgo il protagonista assoluto della vicenda. La storia di Crizia, l’incompiuto logos atlantico, gioca apertamente con le convenzioni dell’epica omerica, ma all’esito della guerra fa seguire una cancellazione del mondo degli eroi per via di sprofondamento e inondazione. Infine, tutto il racconto, di taglio prima esiodeo (la cosmogonia) e poi omerico (lo scontro epocale fra Atlantide e Atene), si dipana enfaticamente nel solco dell’oralità e delle divinità ispiratrici, più volte invocate. Lo scritto però c’è, a monte: la vicenda, in origine, è conservata negli archivi venerandi che il sacerdote egizio dischiude a Solone, ma deve per così dire “fluidificarsi” in un canto orale nel segno dell’ispirazione e delle Muse. Solone reciterà il suo racconto a un parente, che poi lo racconterà a Crizia il vecchio, il quale ne farà rapporto a Crizia il giovane, pronto infine a riferirlo a Socrate. Platone presenta questi successivi racconti come una catena poetica che rimanda costantemente alla performance pubblica della poesia epica e all’ispirazione divina,39 e allo stesso tempo chiarisce fra le righe che questa è una forma buona di mimesi, in linea con le indicazioni della Repubblica e meritevole pertanto di rimpiazzare la grande tradizione epica greca.40 Se nel Fedro accusa la scrittura di uccidere la memoria ed estirparla dall’anima a vantaggio di un rigido papiro, qui Platone a prima vista identifica la scrittura degli archivi egiziani con la civiltà più nobile e antica. E tuttavia, come scrive Carlo Sini: Dobbiamo guardare con più acume questo emblematico e simbolico incontro e confronto tra il sapiente egiziano e il sapiente greco; e per esempio notare che chi parla così positivamente della scrittura non è Solone, è il sacerdote. E poi ancora ricordare che l'Egitto è proprio quella civiltà nella quale la scrittura si associa strettamente alla tomba. Civiltà in cui il tempo e la storia sembrano essersi immobilizzati per sempre in “statue di sale”, perfettamente rappresentate dalla mummia del Faraone sepolta nel più riposto luogo della grande piramide: cadavere avvolto e circondato dai sacri geroglifici, ovvero da splendori inghiottiti e ricoperti dal buio della notte eterna. Tutto il contrario delle “profane” lettere dell’alfabeto greco, che il sole inonda sul frontone dei

39 Ho trattato più ampiamente la questione in Capra (2010), cui rimando per ulteriore bibliografia. 40 Lo mostra nella maniera più chiara e convincente Regali (2012).

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templi. Non sorge allora il sospetto che qui Platone opponga una immobile città di morti, “iscritti” per sempre nella pietra, ma infine incapaci di far fronte alla violenza della natura e del destino se non appunto rinchiudendosi nelle tenebre della terra (...) alla fiorente e dinamica città dei vivi, risvegliati dalla sapienza filosofica?41 L’epos atlantico di Platone riprende le grandi opposizioni che hanno distinto la poesia greca dalle sue sorelle: creazionismo contro filiazione, morte in battaglia contro diluvio universale, tradizione scritta contro la voce delle Muse. Su quest’ultimo punto la posizione è perlomeno ambigua, come ambigua è la posizione di Platone fra oralità e scrittura. Ad ogni modo, il nuovo epos ripercorre le tracce di quello omerico ed esiodeo, e conferma che il codice delle Muse, fin dall’inizio, ha un significato pregnante: dopo una lunga parabola, attraverso l’uso di quello stesso codice, l’opzione orale di Omero cede il passo alle tavolette e al papiro di Posidippo, non prima di un’ambigua riconsacrazione della voce poetica nel Fedro e nel Timeo-Crizia di Platone. Nelle Muse c’è insomma l’Alfa canora e l’Omega scritta della produzione dei Greci, in una parabola che segna lo specifico di una civiltà poetica. Una parabola che, per altri versi, muove dal sacro e approda al profano e al giocoso: Callimaco rappresenta in questo un nuovo inizio.42 Nelle belle parole di Wilamowitz, per lui «la vecchia Ellade … era remota come per un americano di origine tedesca la Wartburg o il Kyffhäuser». Così «farsi impartire la legittimazione dalle Muse patrie sul loro proprio monte» era per lui «una nobile invenzione», un «gioco» condiviso con i suoi lettori, al più soffuso «solo del ricordo di una consacrazione» e dell’«Elicona stesso», che nessuno più visitò veramente «né Callimaco né Ennio né Properzio né tutti gli altri intorno e dopo di loro».43 I Romani e i moderni adottarono sì le Muse, e scene ormai fittizie di iniziazione continuarono a segnare programmaticamente i confini dei generi letterari, come certo accade in Ennio

41 Sini (2004), 66–67. 42 La storia del rapporto fra poeta e Musa si presta poi a essere letta nei termini di un progressivo affrancamento a vantaggio dell’indipendenza del poeta, come a più riprese ha suggerito Graziano Arrighetti – basti qui ricordare l’agile sintesi offerta in Arrighetti (1989). 43 Wilamowitz-Moellendorff (1925, trad. it. 2019), nella preziosa versione di Luigi Lehnus, con ampia Presentazione (che mette fra l’altro a fuoco l’attività di altissima divulgazione promossa da Wilamowitz qui e altrove), ricche note di commento e un’appendice dedicata all’esplorazione moderna dell’Elicona.

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e Properzio;44 ma i luoghi sacri alle Muse – che poeti e artisti di ogni epoca confusero mescolando Elicona e Parnaso – sono altra cosa, propria degli “Elleni” e della loro Glaube, direbbe Wilamowitz, e sono poi legati, come ho cercato di suggerire, alle profonde e perduranti radici orali di quella che noi moderni chiamiamo “letteratura” greca, un termine difficilmente traducibile nella lingua di Omero e Platone. E così la Grecia trovò la sua voce poetica, una voce definitivamente originale nel contesto mediterraneo e mesopotamico di cui pure fa chiaramente parte, e in sostanza irriducibile alla civiltà romana, che pure la prese e ne fu presa.

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44 Per le capacità metamorfiche delle Muse, capaci di assumere anche nell’iconografia i contorni dei generi che di volta in volta rappresentano e proprio per questo, probabilmente, favorite nella ricezione post-classica, cf. Murray (2020).

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Della percezione che la produzione letteraria greca e latina ha avuto riguardo al locus amoenus, sul piano della teoria giungono, a quanto mi consta, testimonianze tarde ma significative.1 Nel commentare una definizione ricorrente che Virgilio attribuisce al mondo degli Inferi, visto in alcune zone per l’appunto come amoenus, Servio attribuisce a questi spazi la piacevolezza offerta dalla natura munifica e irenica (Aen. V 734, VI 638, VII 30). Debitore di Servio, nel XIV libro delle Origines (XIV 18, 33), in margine alla classificazione degli elementi che connotano montagne e in generale zone rupestri, Isidoro di Siviglia per determinare la definizione di locus amoenus riconduce l’etimologia dell’epiteto amoenus al termine amor, all’assenza di fortificazioni protettive o al fatto che questo luogo sarebbe privo di munera, vale a dire esente da pubbliche funzioni e incapace di rendere profitti.2 Queste proposte etimologiche colgono, a prescindere dalla loro correttezza, alcuni tratti del locus amoenus destinati a imporsi nella produzione letteraria di ogni tempo: l’ilarità di uno spazio attraente, avvolto da un’atmosfera di pace e spensieratezza, la bellezza integra della natura che lo caratterizza, il generale benessere che suscita in chi lo frequenta, nonché il carattere appartato, lontano dai più, esclusivo.3 Eppure dalla presentazione del locus

1 Cf. per una analisi del motivo Curtius (1948), 207–223. Offre un approfondimento anche l’utile indagine di Schönbeck (1962), 18–60. 2 A partire dalle pagine che Isidoro dedica al locus amoenus si ha la sensazione che da subito questo spazio si differenzi in maniera netta dal κῆπος/hortus: il locus amoenus è essenzialmente frutto della natura, senza un intervento umano, mentre il κῆπος/ hortus prevede l’artificio della tecnica. Cf. a riguardo Farrar (2016). 3 In questa sede non è possibile ripercorrere le tappe nell’ambito della produzione letteraria successiva a quella classica nelle quali questi elementi hanno avuto diffusione, visti i limiti cronologici della ricerca che mi propongo di condurre. È inevitabile constatare, tuttavia, che l’immaginario letterario legato al locus amoenus, congiunto spesso a quello del giardino, ha uno sviluppo sostanziale dopo la produzione latina, se si pensa alla descrizione del giardino dell’Eden nel XXVIII canto del Purgatorio di Dante (1–21), al giardino descritto nell’incipit della terza giornata nel Decameron da Boccaccio sino al “parco di Micòl” ne Il Giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani, protettivo ed esclusivo ad un tempo. Un’analisi del locus amoenus nella produzione letteraria italiana è ora offerta da Fekete (2008).

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amoenus a partire dalla produzione arcaica greca, a ben vedere, è possibile problematizzare questa visione in parte limitante e attribuire agli spazi idilliaci, per via delle caratteristiche che ho prima richiamato, uno spessore di forza maggiore: non semplici bozzetti di maniera o visioni del paesaggio effettivo ma dimensioni ideologiche dell’autore alle quali è dato ricondurre una funzione cruciale nell’ambito della poetica implicita dell’autore.4 A riguardo vorrei partire da una pagina di Platone che deriva dalla tradizione precedente un’eredità di non poco spessore nella codificazione del locus amoenus.5 Dopo aver introdotto la pietra di magnesia quale esemplificazione del processo di ἐνθουσιασμός e a coronamento del carattere ἔμφρων che accomuna coribanti e μελοποιοί, nello Ione dinanzi al rapsodo, Socrate rivela i luoghi dai quali, per ammissione dei poeti, deriva la poesia (534a7-b5): Λέγουσι γὰρ δήπουθεν πρὸς ἡμᾶς οἱ ποιηταί, ὅτι ἀπὸ κρηνῶν μελιρρύτων ἢ ἐκ Μουσῶν κήπων τινῶν καὶ ναπῶν δρεπόμενοι τὰ μέλη ἡμῖν φέρουσιν ὥσπερ αἱ μέλιτται. καὶ αὐτοὶ οὕτω πετόμενοι, καὶ ἀληθῆ λέγουσι. Κοῦφον γὰρ χρῆμα ποιητής ἐστι καὶ πτηνὸν καὶ ἱερὸν … Per dimostrare che la composizione poetica non dipende da una tecnica ma dall’ispirazione divina che pone il poeta al centro del possesso estatico esercitato dalla Musa, Socrate propone un paragone di notevole fascino tra i coribanti e l’anima dei poeti.6 Come i coribanti traggono miele e acqua dai fiumi nel loro stato di invasamento, così anche i poeti traggono i loro μέλη da fonti dolci di nettare, da prati fioriti e da valli ombrose. Come api portano poi ai mortali il frutto del loro raccolto silvestre in volo, perché cosa leggera, alata e sacra è il poeta.7 Secondo Socrate, sono i poeti stessi a rivelare questa operazione creativa che colloca la poesia in una dimensione di aerea leggerezza durante un passaggio dalla sfera divina a quella umana,

4 Lo spazio in questo senso assume un ruolo decisivo nell’ambito del contesto tematico e va al di là del tradizionale ornatus, come è stato evidenziato da de Jong (2012), 13–17. 5 Un esempio prezioso, come è noto, viene dal Fedro di Platone i cui elementi paesaggistici a partire dal proemio, destinati a influenzare i generi letterari successivi, sono oggetto della perspicace indagine di Capra (2014), 17–23. Si veda anche il contributo di Regali in questo volume per la memoria del locus amoenus del Fedro nel romanzo di età imperiale. 6 Cf. a riguardo Velardi (1989), 73–113. 7 Per questa sezione del dialogo si vedano Capuccino (2005), 211–223, e Ledbetter (2002), 86–95.

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e tramite questa confessione sul loro mestiere non fanno altro che professare la più alta prova della verità che le loro parole veicolano.8 Al di là dell’interpretazione ironica che ha coinvolto la lettura del passo dello Ione, in questa pagina del dialogo per Platone appare ormai programmatica l’associazione tra il locus amoenus e la nascita dei μέλη in merito al rapporto tra Musa e poeta. Del resto, l’immaginario al quale Socrate ricorre per indicare il perturbante invasamento al quale soggiacciono i μελοποιοί non sfugge a elementi inequivocabili del locus amoenus: a) la natura rigogliosa; b) il carattere etereo e solitario del poeta che, equiparato a un’ape, è sensibile alla dolcezza del miele; c) la raccolta dei fiori, indicata tramite il verbo δρέπω.9 Sono queste tessere suggestive del locus amoenus che, nella produzione letteraria dei Greci, si sostanziano a partire da Omero per creare un immaginario paesaggistico che, tramite tratti il più possibile realistici, compete sia agli uomini sia agli dei. Dopo Omero, tuttavia, il locus amoenus, sembra specializzarsi in una vasta gamma di forme e sfumature e, come ho detto, da paesaggio concreto diventa anche uno spazio metaforico, il privilegiato orizzonte della poesia. Nella produzione epica tardo-arcaica, ad esempio, nei Περσικά di Cherilo, il poeta del passato è da subito salutato come μάκαρ per la possibilità di attingere la sua ispirazione da un prato incontaminato, l’ἀκήρατος λειμών della poesia, rispetto al νῦν, l’oggi di Cherilo, nel quale ogni arte appare imbrigliata da regole precise e inalterabili, chiu-

8 Una lucida analisi del problema è presente in Giuliano (2005), 57–80. 9 A partire dalla scena di investitura di Esiodo l’immaginario floreale-botanico è saldamente connesso alla rivelazione della verità nella produzione letteraria greca. Non stupisce, ad esempio, che il fiore la cui presenza si attesta sul piano metaforico già in Omero per indicare la piacevolezza della gioventù nonché la sua freschezza, con l’ἄνθος ἤβης, soprattutto nella lirica corale tenda a coincidere con il riconoscimento della gloria che al poeta giunge dalla sua opera come testimoniano, ad esempio, Pindaro nell’Olimpica VI (105) e Bacchilide nel Ditirambo XVI (8–12 Irigoin). A riguardo, cf. Nünlist (1998), 209–210. All’immaginario dei fiori della gloria ricorre anche Empedocle (31 B 3, 4-8 D.-K): per l’immagine si veda De Sanctis (2007), 24-25. I fiori diventeranno nella produzione latina elementi tanto decisivi nelle rivendicazioni di poetica come emerge dalla sezione del I (926–934) e dall’incipit del IV libro (1–9) del De rerum natura. Qui, nel presentare la dottrina epicurea come qualcosa di ardimentoso da spiegare ma salutare per tutti, Lucrezio ricorda di percorrere gli avia Pieridum mai prima tentati da altri poeti e di abbeverarsi a integres fontes. Sul modello di Empedocle, associato a Callimaco, il poeta si augura di cingere la sua fronte con una insignis corona di gloria che lo consacri all’eternità.

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sa e protetta dai confini codificati dei generi letterari (fr. 1 Radici Colace).10 E certo non stupisce che nel V secolo, anche la scena drammatica ricorra spesso a questa immagine. Nelle Rane, quando nell’Ade, dopo aver ridicolizzato Euripide per il suo ricorrente ληκύθιον ἀπώλεσεν, Eschilo deve rendere conto del suono della cetra nelle Θρῇσσαι, il tragico ammette di aver ben sistemato canzonette da facchino senza dare l’impressione di cogliere fiori dal λειμών sacro alle Muse di Frinico, a differenza dello stesso Frinico che, invece, va prendendo e portando il suo miele dappertutto, οὗτος δ’ ἀπὸ πάντων μὲν φέρει (1298–1301).11 L’associazione tra locus amoenus e poesia, per tutto ciò, risulta ben esplicitata nella produzione poetica del V secolo per arrivare poi, ormai canonizzata, sino a Platone. Il λειμών al quale accenna Cherilo, forse ad apertura del suo poema epico-storico, può essere assunto come una prova inconfutabile dell’ormai vincolante associazione tra natura idilliaca e poesia. Ma perché e quando l’immaginario naturalistico in maniera così vincolante si pone a servizio della Musa e del poeta sino a diventare per Platone lo spazio esclusivo dell’ἐνθουσιαμός in una dimensione nella sostanza tendenzialmente extra-urbana?12 E quale significato questo spazio vuole assumere nelle rivendicazioni dell’autore? Per rispondere a queste domande vorrei indagare nelle pagine seguenti l’archeologia del locus amoenus poetico, per l’appunto l’origine di un motivo letterario a partire da Omero nel quale prati, fiori e paesaggi, associati alle dee del canto e collocati volutamente in uno spazio extracittadino, scevro dal contatto con l’umanità, rappresentano il luogo di nascita della poesia da Esiodo ad Archiloco.

10 Radici Colace (1979), 18–20 propone un nutrito insieme di loci paralleli per l’immagine del’ἀκήρατος λειμών che Cherilo sembra qui inaugurare. Per un’analisi del proemio e delle sue implicazioni poetologiche rimando alla lucida discussione di Cucinotta (2011), 103–108. Una valenza erotica si tende ad attribuire al κῆπος ἀκήρατος delle παρθένοι di Ibico (fr. 286 Davies): a riguardo, cf. Wilkinson (2013), 117–120. 11 L’identificazione del poeta in un’ape non è estranea ad Aristofane. Negli Uccelli, ad esempio, Aristofane tratteggia ancora Frinico come un’ape che trae la dolce melodia dei suoi canti immortali dal pigolio degli uccelli che risuona per valli e cime montane sacre a Pan e alla Musa armoniosa dei cespugli (737–752). Cf. Dunbar (1995), 315. 12 Per la dialettica che si instaura tra lo spazio urbano e quello cittadino nella creazione della poesia si vedano anche le conclusioni proposte da Capra in questo volume.

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Uomini e dei nell’Iliade e nell’Odissea percorrono spesso λειμῶνες fioriti.13 Da subito, nell’Iliade, per dimostrare la grandezza del contingente greco, pronto a muovere contro le mura di Troia, schierato sul πεδίον Σκαμάνδριον, definito anche come Σκαμάνδριος λειμὼν ἀνθεμοείς, in una serie di similitudini ad anello, Omero evoca fitti stormi di uccelli che posano le loro piume sull’Ἄσιος λειμών intorno al Caistro (II 459–469).14 Nella Διὸς ἀπάτη, perché abbia luogo l’unione sacra tra Era e Zeus, la terra splendente fa nascere una coltre di erba novella, la νεοθηλὴς ποίη, sulla quale spuntano il croco, il loto e il giacinto, mentre tutt’intorno una nuvola aurea ricopre la coppia divina pronta a rallegrarsi della dolce brezza che viene da splendenti gocce di rugiada che rinfresca l’amore (XIV 346–351). Sebbene qui, sulle cime del Gargaro, non si faccia allusione a un λειμών, in questa scena di seduzione si trovano condensate tutte le peculiarità che inseriscono questo spazio nel locus amoenus.15 Un λειμών, ancora ἀνθεμοείς, vicino alle sponde di Oceano, si offre quale scenario erotico dell’unione amorosa tra lo Zefiro e l’Arpia Podarce, madre di Xanto e Balio (XVI 150– 151).16 Dinanzi alla natura florida che abbellisce Sparta, nel rigoglio di cipero, trifoglio, frumento e orzo, nel fitto dialogo con Menelao, Telemaco nota che Itaca, pur eccellendo sulle altre isole Ionie, non ha vaste piste né un prato nel quale pascolano capre (IV 605). Scherie, invece, nella presentazione che Nausicaa fa della sua terra a Odisseo, è dotata di uno splendido bosco sacro ad Atena, un ἀγλαὸν ἄλσος, che lambisce la strada ricca di pioppi. Dentro zampilla una κρήνη, tutto intorno si stende un λειμών, lì si trova la vigna fiorente di Alcinoo ma, come subito è ben precisato, la collocazione di questa zona nella geografia di Scherie è distinta dalla città dei Feaci tanto quanto lo è il fragore prodotto da un urlo rispetto al punto dal quale lo si ascolti (VI 291–295). Perenni viti e λειμῶνες connotano la natura spontanea e aurea nella terra dei Ciclopi in una realtà che contrasta con il consorzio umano delle leggi qui obliterato (IX 105–115).17 L’ἀσφοδελὸς λειμών, infine, è un elemento essenziale del locus horridus che caratterizza 13 Heirman (2012), 99–113, avanza una dettagliata analisi relativa al prato come luogo connesso nella lirica alla dimensione erotica. 14 Su questa scena del II libro, nella quale si intreccia una serie di similitudini mutuate dal mondo naturale, rimando alla recente disamina di Scott (2009), 59–65. 15 Gli elementi tipici della scena della Διὸς ἀπάτη sono esaminati da Kriter-Spiro (2018), 163. 16 Per l’associazione tra prato e sfera erotica fondamentali restano le pagine di Calame (1992), 165–174. 17 In questo caso il locus amoenus prevede i tratti di una natura rigogliosa che spontaneamente produce tutto da sé senza intervento umano: questa condizione rappresenta tuttavia per i Ciclopi un tratto disumano e testimonia l’asocialità che distin-

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la dimora di Ade, pascolo nebbioso per i pallidi defunti (XI 539 e XXIV 13). Nella percezione di Omero, dunque, il λειμών, appare in generale come risultato non artefatto della natura, come uno spazio abbellito dalla presenza di fiori campestri, come un elemento geografico cardine del paesaggio per lo più lontano dalla città. Più del κῆπος al quale il poeta accenna in alcune similitudini (Il. VIII 305–306) e per definire il parco che abbellisce la reggia di Alcinoo, frutto di un’arte umana degna di ammirazione (Od. VIII 81–130), il λειμών evoca una zona deputata alla fruizione solitaria, appartata, preclusa ai più.18 Vi è, tuttavia, un caso di particolare rilievo, nell’Odissea, nel quale in rapporto agli dei il poeta esplicitamente ricorda un λειμών a suo modo associato alla poesia o alla conseguenza che il dolce canto, per quanto ingannevole, esercita sul suo fruitore. Si tratta del λειμών ricordato per la vicenda che ha come protagoniste negli Apologoi di Odisseo le Sirene: le figlie di Acheloo siedono sulla loro isola in un prato fiorito, un λειμὼν ἀνθεμοείς dal quale emettono il canto suadente che affascina di una malvagia malia i naviganti (XII 159). A ben vedere è questa l’unica scena in Omero nella quale un λειμών è connesso alla dimensione della melodia, ne diventa lo spazio idoneo, necessario, pur senza una connessione diretta con le Muse, in un’ottica così vincolante che nel Catalogo delle Donne, nella plausibile riflessione di Esiodo sul testo di Omero, l’isola che alle Sirene è destinata come abitazione da Zeus sarà definita non a caso Ἀνθεμόεσσα (fr. 27 M.-W. = fr. 18 H.).19 Le Muse di Omero, invece, non sono mai associate a un locus amoenus né tanto meno a un λειμών. Le dee hanno come personale e ineludibile collocazione l’alto Olimpo, che solo in determinati momenti, peraltro di

gue la comunità atipica nella quale vive Polifemo. Per i tratti del paesaggio che connota la terra dei Ciclopi simile a quello tipico delle descrizioni di età primigenie si veda De Sanctis (2012), 22–25. 18 Il giardino di Alcinoo è descritto da subito da Omero al termine del VII libro con particolari naturalistici elaborati e ricchi (112–132), tanto da destare l’ammirazione dello stupefatto Odisseo che, fermo sulla soglia (132), ne osserva la bellezza. In questo caso lo spazio è definito μέγας ὄρχατος posto fuori del cortile, vicino alle porte del palazzo. In alcuni casi il κῆπος evocato da Omero sembra coincidere con un hortus lavorato dall’uomo, come nel caso della celebre vigna di Laerte a Itaca evocata, ad esempio, sia nel IV (737) sia nel XXIV libro dell’Odissea (247 e 338). 19 È plausibile che il nome che subito richiama un locus amoenus attribuito all’isola delle Sirene da Esiodo dipenda, come anche i nomi parlanti delle Sirene stesse presenti nel Catalogo delle Donne, da una riflessione sull’episodio dell’Odissea: cf. a riguardo De Sanctis (2003), 204–206. Sulla valenza poetologica delle Sirene nel racconto degli Apologoi di Odisseo, cf. anche Doherty (1995), 88.

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intensa tragicità, abbandonano per interagire con gli uomini. Certo, quando Omero per la prima volta presenta le dee al termine del I libro (601– 604), le colloca al centro di un banchetto divino sul monte sacro. Al termine del litigio tra Zeus ed Era per rinsaldare la calma che alberga nella dimora, sino al calar del sole le Muse accompagnano Apollo con un canto soave, che riempie la sala di gioia serena.20 Gli Ὀλύμπια δώματα, però, al di là di questa scena testimoniano soprattutto la netta dialettica, nonché la distanza programmatica tra la sfera divina dove nasce la poesia e la sfera umana dove agisce il poeta. Del resto, la distanza fisica delle Muse dal mondo degli ἄνθρωποι, che è ad un tempo una netta distanza conoscitiva, è teorizzata con consapevolezza da Omero nel proemio che introduce il Catalogo delle Navi (II 484–487): Ἔσπετε νῦν μοι Μοῦσαι Ὀλύμπια δώματ’ ἔχουσαι· ὑμεῖς γὰρ θεαί ἐστε πάρεστέ τε ἴστέ τε πάντα, ἡμεῖς δὲ κλέος οἶον ἀκούομεν οὐδέ τι ἴδμεν· οἵ τινες ἡγεμόνες Δαναῶν καὶ κοίρανοι ἦσαν· L’opposizione che qui Omero esplicita tra il potere onnisciente delle dee e la caducità dell’uomo dal quale si distingue in parte solo il poeta per un favore speciale che riceve dalla Musa può essere tradotta nella ferrea dialettica tra lo ὕψος, dimensione esclusiva delle Muse, e il βάθος, dimensione che pertiene ai mortali.21 Nessun particolare, invece, è suggerito sullo spazio nel quale le Muse dimorano: i generici Ὀλύμπια δώματα sembrano essere un’acquisizione certa per il pubblico di Omero.22 Eppure, subito dopo la rivelazione del potere superiore delle dee, sempre nel Catalogo delle Navi, nell’entrata dedicata a Nestore, il poeta ricorda un episodio che vede le Muse protagoniste sulla terra, per l’appunto nel βάθος degli uomini (584– 600). Si tratta dell’incontro sulla strada verso Dorion con il tracio Tamiri, il sacrilego cantore che di ritorno da Ecalia in atto bellico sfida le Muse, illu-

20 Tramite il motivo del concilio e del banchetto divino che scandisce la fase finale del I libro e quella iniziale del XXIV si crea una palese Ringkomposition che sorregge l’architettura narrativa dell’Iliade. A riguardo cf. Romano Martín (2009), 1–12. 21 Forte e programmatica appare nel proemio del Catalogo delle Navi la dialettica tra conoscenza e ignoranza umana, come ha evidenziato Lenz (1980), 34–41. 22 Strauss Clay (2011), 14–37, ha messo ben in evidenza la visione teatrale che dall’Olimpo per lo scenario della guerra traspare nel racconto dell’Iliade a partire dal proemio del Catalogo delle Navi con l’invocazione alle Muse “sighted”, capaci di vedere, consapevoli. Rimando da ultimo alle osservazioni di Graziosi (2019), 35– 36 in merito alla capacità del poeta di osservare tutto il mondo iliadico dall’alto come rivela la cartina geografico-poetica che suggerisce il Catalogo. Ma si tengano in conto anche le considerazioni di Purves (2010), 24–41.

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dendosi della sua superiorità. Scese all’improvviso dagli Ὀλύμπια δώματα, le Muse si fanno incontro al poeta, si mostrano come un manipolo compatto, lo privano della sua arte, lo lasciano in una condizione di immemore disabilità.23 In un tempo sospeso, lontano rispetto agli eventi che il poeta racconta nell’Iliade, l’incontro tra Tamiri e le Muse, in un agone bellico, assume un valore programmaticamente esemplare. Ma non solo: al di là di questo atto che rinsalda l’equilibrio inderogabile che regola il rapporto tra uomo e dio, le Muse tornano nel racconto di Omero ancora una volta sulla terra al termine dell’Odissea nella II Nekyia nella dettagliata descrizione che Agamennone propone sui funerali di Achille (XXIV 58–62). In questo caso le dee sono nuovamente lontane dalle vette di Olimpo: assieme alle Nereidi sulla piana di Troia intonano il compianto trenodico per celebrare la morte di Achille tanto che la melodia divina induce al pianto corale il destinatario interno del racconto, i Greci, e nel segno delle lacrime suggerisce al destinatario esterno, il pubblico di Omero, la centralità tematica che nel finale del poema assume questa scena. Qui, in primo piano, è ora l’immortalità del ricordo al quale è offerto e consacrato il mondo dell’epos. Ben diverse rispetto a Omero sono la percezione e la presentazione dello spazio riservato alle Muse da Esiodo. E certo, questa diversità sembra essere inevitabilmente destinata a condizionare la lirica arcaica in maniera vincolante e a rendere Omero un unicum in merito allo spazio e alla funzione che affida e attribuisce alle sue Muse.24 Al referente dell’epos, abituato a conoscere le Muse di Omero nel loro aspetto olimpio e a considerare come assodata la vicinanza della dea al poeta che la invoca, ad esempio, ad apertura della Teogonia risulta rivoluzionaria la scoperta delle Muse Eliconie dalle quali si deve iniziare il canto, Μουσάων Ἑλικωνιάδων ἀρχώμεθ’ ἀείδειν (1). Non è, tuttavia, solo il nuovo epiteto Ἑλικωνιάδες, evidente parola pesante nell’esametro, a creare una vistosa innovazione nell’esordio del poema perché questo epiteto da subito è ampliato da una relativa epesegetica che, oltre a chiarire il ruolo centrale e cruciale dell’Elicone nel racconto, tende a focalizzare un paesaggio montano di esclusiva pertinenza delle dee (2–4):

23 Per una discussione su questo episodio nel quale le Muse, per la prima volta in Omero, sono collocate sulla terra in una dimensione umana a contatto con Tamiri rimando a De Sanctis (2018), 35–40. 24 Offre un’attenta lettura del proemio della Teogonia Arrighetti (1998), 307–324. Il nuovo scenario ideato da Esiodo per le sue dee è da mettere in relazione con il cambiamento di prospettiva al quale la voce del poeta finalizza il suo messaggio nel passaggio dall’oggettività che pervade il racconto di Iliade e Odissea alla soggettività che caratterizza Teogonia ed Erga.

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αἵ θ’ Ἑλικῶνος ἔχουσιν ὄρος μέγα τε ζάθεόν τε, καί τε περὶ κρήνην ἰοειδέα πόσσ’ ἁπαλοῖσιν ὀρχεῦνται καὶ βωμὸν ἐρισθενέος Κρονίωνος. La definizione dello spazio eliconio è improntata a tratti di evidente realismo descrittivo, anche se in questa prima parte del proemio manca un indicatore deittico e cronologico che collochi in un contesto preciso e in un tempo stabilito lo scenario e le azioni richiamate per le dee. I particolari paesaggistici sfumano subito in una dimensione rarefatta. Le Muse sono Eliconie perché possiedono ora come sempre il monte alto e divino di Elicone e qui, intorno a una fonte dalla quale sgorga acqua scura, ora come sempre sono solite danzare dinanzi all’altare di Zeus Cronide. La natura orchestica e acquorea delle Muse Eliconie si specifica nei versi successivi nei quali sono richiamati il Permesso, l’Ippocrene e l’Olmeo dove le dee bagnano le delicate membra prima di danzare sul punto più alto del monte, ἀκροτάτῳ Ἑλικῶνι (7). Queste precisazioni spaziali non sono marginali. L’elemento acquoreo, per così dire, sembra essere ufficializzato da Esiodo a partire dalla κρήνη ἰοειδής come una componente scenica in stretto rapporto con le dee.25 Ma non solo. Quale omaggio offerto a Zeus perché ambientata vicino all’altare del potente Cronide, περὶ … βωμὸν ἐρισθενέος Κρονίωνος, la danza delle Muse Eliconie è osservata nella dimensione dello ὕψος. Del resto, anche quando nella seconda parte del proemio della Teogonia (25), Esiodo considera le dee ormai come Olimpie, queste sono ancora concepite quali abitanti di uno spazio superiore e agenti preferenziali all’interno di questo. Le Muse qui continuano a dedicarsi a una ἀμβροσίη μολπή e, tramite il loro canto, rallegrano la mente di Zeus ἐντὸς Ὀλύμπου (37), suscitando gioia e serenità nella dimora divina. Questa condizione di felicità eterna, dovuta alla parola poetica, pervade l’orizzonte olimpio tanto da far risuonare il sacro monte innevato, ἠχεῖ δὲ κάρη νιφόεντος Ὀλύμπου, quanto la casa degli dei, i δώματα ἀθανάτων (42–43). Ma a quale scopo e in quale modo lo scenario eliconio, di pertinenza delle Muse, si combina con l’esperienza umana di Esiodo? Dinanzi a questa domanda si può notare un aspetto portante del racconto: dopo la presentazione delle Muse è essenziale il contatto tra il solo Esiodo e le sole dee in una zona ben definita che non contempla la presenza di altri personaggi e

25 Un esame dettagliato dell’immaginario acquoreo collegato all’investitura di Esiodo è proposto da Kambylis (1965), 21–53. Non a caso, l’acqua è destinata a diventare in Simonide simbolo del canto delle Muse dalle quali scaturisce uno ἁγνὸν ὕδωρ (fr. 264a Poltera) sino ad Antipatro di Tessalonica (AP XI 24) che invoca il Βοιωτός Elicone presso le cui πηγαί Esiodo spesso ha attinto uno ὕδωρ εὐεπές.

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che non è finalizzata ad altro se non alla proclamazione del vero. Non a caso, a rafforzare la dialettica tra spazio delle Muse e spazio degli uomini nel proemio interviene la scena di investitura che prevede, nel paesaggio agreste della Beozia, il poeta pastore quale unico referente della voce delle dee (22–23): αἵ νύ ποθ’ Ἡσίοδον καλὴν ἐδίδαξαν ἀοιδήν, ἄρνας ποιμαίνονθ’ Ἑλικῶνος ὕπο ζαθέοιο. Esiodo concepisce come luogo deputato all’incontro tra le dee e l’uomo un pascolo ai piedi dell’Elicone, una sorta di λειμών, anche se il termine nel proemio non è mai esplicitato. Le Muse, scese dal monte, hanno sospeso il canto immortale che si irradia in cielo per proporre un insegnamento relativo alla ἀοιδή. Soprattutto le Muse sono giunte Ἑλικῶνος ὕπο ζαθέοιο, alle radici del divino Elicone, il βάθος di Esiodo, rispetto alla loro sede abituale, indicata nella prima parte del proemio con ἀκροτάτῳ Ἑλικῶνι, lo ὕψος divino.26 Rispetto alla discesa compiuta per incontrare Tamiri verso Dorion, tuttavia, l’arrivo delle Muse nella Teogonia è ora di altro segno. A Esiodo che pascola il gregge le dee donano, infatti, dopo averlo colto, δρέψασαι, quale segno indiscutibile del cambiamento al quale il loro referente è sottoposto, uno scettro, il rigoglioso ramo di alloro fiorito, il δάφνης ἐριθηλέος ὄζον (30).27 La dimensione nella quale avviene l’incontro è sospesa in un momento imprecisato, come rivela il ποτε che scandisce il racconto: anche se le ripetute indicazioni richiamano geograficamente una Beozia connotata da elementi paesaggistici concreti, riconoscibili, inquadrabili nello spazio, si ha come l’impressione che il poeta tenda a costruire uno scenario simbolico dove l’esperienza dell’investitura, proiettata in un tempo indefinibile e immanente, risulti esemplare, distintiva e irripetibile rispetto alla concezione del rapporto che intercorre tra la Musa e il poeta

26 Anche lo scholium vetus ad Theog. 23 (p. 7 Di Gregorio) sottolinea la diversa ambientazione dell’incontro tra le dee e il poeta rispetto alle vette dell’Elicone, luogo proprio delle Muse, nella misura in cui αἱ Μοῦσαι ἀκροτάτῳ Ἑλικῶνι ὡς θεαί, αὐτὸς δ’ ὑποκάτω τοῦ ὄρους ὡς βροτός R2WLZ. 27 Il ramo di alloro assume, dunque, come lo scettro del quale si adorna il βασιλεύς nell’Iliade, una valenza autoriale di primaria centralità nella scena, sancendo l’avvenuto passaggio di Esiodo da pastore a poeta grazie alla verità concessa dalle Muse: cf. a riguardo Bouvier (2002) 273–275. Si tenga anche conto che una coordinata fondamentale che rende unica e distintiva l’esperienza del poeta descritta nel proemio è garantita dalla presenza del suo nome proprio (22), come ha sottolineato Calabrese de Feo (2011), 59–63.

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in Omero, il rapporto aperto e riproducibile ogni qual volta il poeta invochi la dea.28 La geografia dell’Elicone, in questo modo, non è alternativa all’Olimpo ma diventa, con le minime ma decisive tessere del locus amoenus, nella voluta solitudine richiamata dal narratore, lo scenario necessario della poesia e della verità che pertiene alla sola produzione di Esiodo. Si presenta come una dimensione silvestre e montana, intrisa di ἀοιδή. In questo scenario, tra fonti di acqua pura e vette avvolte dalla notte, si sostanzia a poco a poco un nuovo modello eroico di uomo: il poeta che, non a caso, distinto dal resto dell’umanità negli Erga si propone quale universale πανάριστος, forte del suo distintivo νοεῖν (293–297). L’eccellenza del πανάριστος ha ancora un carattere proprio dell’eroe dell’epos ma la sua ἀρετή si esplicita ora in un altro campo che non corrisponde con quello della battaglia: è l’agone poetico che, non a caso, nell’esperienza biografica di Esiodo ha un luogo e un nome precisi. L’unico viaggio per mare intrapreso da Aulide verso Calcide in Eubea, nuova dimensione eroica rispetto a Troia, è stato affrontato da Esiodo per concorrere durante i giochi indetti in onore di Anfidamante, come il poeta ricorda negli Erga (648–662). Il movimento che emerge da questa scena, se ricondotto e osservato alla luce della scena dell’investitura con la quale Esiodo apre la Teogonia, è chiaro: dopo aver raggiunto la verità durante l’incontro con le Muse che lo pongono in una posizione di netta superiorità rispetto agli altri poeti, Esiodo può competere e vincere in una esperienza agonale nella quale si evidenzia la sua supremazia. Il poeta impone la sua parola, la sua verità che insegna e migliora il fruitore. In questo sta la nuova ἀρετή del πανάριστος. Il percorso dall’Elicone alla realtà cittadina di Calcide negli Erga si chiude, dunque, nuovamente con un ritorno al luogo nel quale il poeta ha conosciuto la verità, l’Elicone, in un movimento circolare. Non a caso, il πανάριστος sa di dover tornare, quale segno di omaggio, al monte, all’origine della sua vita nuova, per consacrare alle dee il tripode vinto a Calcide, nel punto in cui, ἔνθα, le Muse lo hanno posto sulla strada della ἀοιδὴ λιγυρή (656–659).29 A ben vedere, anche Esiodo non evoca un λειμών vero e proprio per l’incontro con le sue Muse nel proemio della Teogonia, sebbene ormai le dee occupino un paesaggio di notevole fascino e ben strutturato rispetto alle indicazioni offerte da Omero: è uno scenario montano, appartato dal resto degli ἄνθρωποι, nel quale, in un pascolo, si incastona l’incontro solitario di un pastore con la verità. Questi elementi extra-urbani codificati da Esiodo

28 Cf. Tsagalis (2009), 132–135. 29 Per la superiorità noetica del πανάριστος rimando a De Sanctis (2011), 47–50.

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per le Muse Eliconie rappresentano un punto di partenza ineludibile per la riflessione del poeta lirico sullo spazio al quale è connessa la poesia.30 Un esempio, sul quale vorrei concentrare la mia attenzione nella lirica, relativo allo spazio simbolico della verità poetica concessa dalle Muse, giunge dall’investitura di Archiloco descritta, come è noto, nella iscrizione di Mnesiepes (E col. II Kontoleon = E col. II Tarditi = XXX Ornaghi).31 Se, come è plausibile, parte di ciò che leggiamo nell’iscrizione deriva dall’opera del lirico, pur tramite un processo di selezione e di elaborazione di carattere erudito-alessandrino, è altrettanto verosimile che nella produzione di Archiloco si ufficializzino la nascita extra-urbana della poesia in un locus amoenus agreste e la sua fruizione nella πόλις all’interno della comunità.32 Osserviamo da vicino i dati che testimoniano in questa direzione. Secondo l’iscrizione il poeta ancora molto giovane, ἔτι νεώτερος, è mandato dal padre Telesicle in una zona di campagna chiamata i Λειμῶνες (col. II 22–24). Dai Λειμῶνες Archiloco riporta in città una vacca, levatosi molto presto quando ancora si riverbera in cielo il chiarore della luna. Lungo la strada che collega i λειμῶνες alla città, in un τόπος definito Λισσίδες, le rocce lisce, incontra un gruppo di donne che si riveleranno essere le Muse, a quanto sembra, di ritorno dai loro ἔργα (25–30). Dopo una fase di comune dileggio, un reciproco σκώπτειν che si risolve nel segno del riso delle dee, al posto della vacca le donne fanno trovare a terra una lira che il giovane Archiloco condurrà in città dal padre. La lira all’inizio desta stupore da parte del padre, come precisa l’iscrizione con τὸν δὲ Τελεσικλῆν ἀκού| σα]ντα καὶ τὴν λύραν ἰδόντα θαυμάσαι (40-41). Il padre di Archiloco non a caso va alla ricerca della vacca per tutta l’isola ma alla fine, accetta ciò che il figlio ha riportato in città dalle Λισσίδες grazie al suggello dell’oracolo delfico secondo il quale colui che per primo tra i παῖδες saluterà il padre di Archiloco tornato a Paro diventerà ἀθάνατος e ἀοίδιμος tra gli uomini (42– 52). Il rapporto di questo racconto con Esiodo è stato da tempo individuato e giustamente la critica ha visto nell’incontro con le Muse un’iniziazio30 Coglie il debito che la lirica arcaica contrae con la produzione di Esiodo Arrighetti (1975). 31 Oltre al fondamentale lavoro di Kontoleon (1952) e Kontoleon (1956), sull’iscrizione si veda anche la recente disamina di Rotstein (2014). 32 In questo senso un’origine del racconto presente nell’iscrizione è stata sostenuta da Breitenstein (1971), 17 e 26. Per la derivazione del materiale biografico dalla produzione letteraria a partire dal cosiddetto “metodo di Cameleonte”, già di matrice aristotelica, cf. Arrighetti (1987), 141–228. A questa tesi, tuttavia, è stata contrapposta l’idea che il racconto di Mnesiepes rifletta tradizioni locali, certo antiche, tipiche della cultura popolare, volte all’eroicizzazione del poeta. A riguardo cf. Clay (2004), 14–15.

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ne del poeta unitamente alla consacrazione del genere giambico del quale Archiloco si sentirebbe fondatore.33 A questa lettura è stata di recente aggiunta una ulteriore suggestione: il forte e verosimile sostrato tesmoforico presente nell’intera scena dell’incontro con le dee da parte del νεώτερος con risvolti ctonii e inferi.34 Ma al di là di questi innegabili aspetti cultuali, credo, restano ancora aperti molti interrogativi. Perché ad esempio Archiloco propone un viaggio extra-urbano per ufficializzare il suo statuto di poeta, indicando di fatto un sottolineato tour incentrato su riconoscibili coordinate geografiche? Quale innovazione, se di innovazione si può parlare, propone Archiloco ἔτι νεώτερος, rispetto all’incontro con le Muse di Esiodo? Infine: quale funzione ha l’oracolo del dio nella vicenda con l’impegnativa rivelazione del poeta ἀθάνατος e ἀοίδιμος dopo l’incontro con le Muse? È forse opportuno riconsiderare nel loro complesso questi problemi. Secondo l’iscrizione Archiloco è mandato dal padre fuori dalla città verso i cosiddetti Λειμῶνες, in una collocazione agreste, che coincide con la campagna, dalla quale deriva una βοῦς che sarà venduta. I Λειμῶνες, dunque, rappresentano pascoli dai quali il giovane prende qualcosa di consueto e utile alla sua esistenza. Dai Λειμῶνες Archiloco affronta un viaggio che dovrebbe culminare nel ritorno a casa, in città. Prima della πόλις, tuttavia, interviene un nuovo τόπος, una zona rocciosa, come indica il toponimo Λισσίδες, nel quale avviene l’investitura del poeta.35 Qui, a differenza di Esiodo, al posto del ramo rigoglioso d’alloro strappato dalle dee ai piedi dell’Elicone ad Archiloco compare una lira, un oggetto musicale che il poeta raccoglie con le sue stesse mani. Dinanzi a questo strumento la paura provata all’inizio dal poeta per l’accaduto, καταπλαγέντα δὲ καὶ μετά τινα χρόνον ἔννουν | [γ]ενόμενον ὑπολαβεῖν τὰς Μούσας εἶναι (36–37), corrisponde allo stupore del padre, non appena viene a sapere della sostituzione. Lo stupore, come il primo smarrimento di Archiloco, è un’informazione di non scarso valore nell’economia generale del racconto: stupore e smarri-

33 Cf. a riguardo Miralles, Pòrtulas (1983), 65–70. Tra l’investitura di Archiloco e quella di Esiodo, oltre alle inevitabili affinità, si evidenziano volute differenze, come hanno sostenuto ad esempio Gentili (1993), 11–13 e Aloni (2009), 72–78. 34 Mi riferisco al meritorio studio di Ornaghi (2009), 115–176. 35 Sul significato che assumono nella scena di investitura le Λισσίδες in relazione alla poetica scoptica si veda l’acuta analisi di Miralles (1981), 32–34, come luogo eccezionale, legato all’iniziazione e al guadagno che il giovane poeta riceve. Sulla geografia che emerge dall’iscrizione si veda ora anche l’attento esame proposto da Ornaghi (2020), 200–208, che ipotizza per le Λισσίδες una collocazione costiera sull’isola di Paro.

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mento possono essere intesi, credo, come la meraviglia che suscita una poesia nuova, mai ascoltata sinora, rispetto al canto tradizionale, dunque un genere che un Archiloco ancora molto giovane, ἔτι νεώτερος, come un παῖς, dai Λειμῶνες ufficializza presso le Λισσίδες.36 Si ha come l’impressione, dunque, che sullo sfondo simbolico assunto dal racconto i prati che Archiloco si lascia alle spalle rappresentino una tradizione consolidata che, invece, assume una dimensione nuova, nello spazio simbolico che il poeta rivendica a sé, le Λισσίδες. In questa ottica non è forse da sottovalutare il fatto che la poesia di Archiloco è destinata ad affrontare un cammino grazie al quale da una zona agreste, appartata e solitaria, a poco a poco arriva all’interno della comunità, in città, dove, dopo il primo stupore, sembra essere apprezzata e posta definitivamente sotto la tutela del dio. Corrobora questa osservazione la conclusione del racconto, con al centro le parole del dio nel χρησμός, che offrono una forza speciale allo statuto del poeta nuovo. Apollo definisce il poeta ἀθάνατος e ἀοίδιμος tra gli uomini. In queste parole è possibile scorgere il ricordo della voce profetica di Elena dinanzi a Ettore nel VI libro dell’Iliade, quando Elena spiega che rispetto alla mala sorte che gli eroi a Troia hanno ricevuto diventeranno oggetto di un canto eterno da parte dei posteri (VI 349–351).37 Anche Archiloco con la sua produzione incentrata sullo σκώπτειν, oltre a essere immortale, sarà degno di un canto futuro tra gli uomini, in quanto ἀοίδιμος, come un nuovo eroe che nel passaggio dai Λειμῶνες alle Λισσίδες realizza tramite le sue Muse agresti una personale Bildung che trova un coronamento nella πόλις.38 Un profilo di Archiloco che ben si concilia con la fiera rivendicazione propo-

36 Il giovane Archiloco, in questi termini, sembra codificare – sul modello del παῖς cantore dotato di una voce sottile nell‘intonare un bel λίνος nella vigna sullo Scudo di Achille nel XVIII libro dell’Iliade (569–571) – l’immagine del poeta fanciullo ereditata da Pindaro che nel VI peana (12) entra come παῖς nel sacro bosco di Apollo sino a Callimaco che, oltre a definirsi nel proemio degli Aetia παῖς (fr. 1, 6 Massimilla = fr. 1, 6 Harder), forse ricordava di incontrare le sue Muse quale ἀρτιγένειος, trasportato in sogno sull’Elicone (fr. 2d Harder = Σ Flor. 15–20 [1, p. 11 Pfeiffer]). A riguardo, si veda anche Massimilla (1996), 121–123. 37 Sottolinea l’importanza dell’oracolo nella tradizione biografica legata ad Archiloco nonché la rilevanza dell’epiteto ἀοίδιμος Kivilo (2010), 92–102, secondo la quale «the word ἀοίδιμος may be used in active sense, as it is attested from Pindar on wards, in which case the phrase in the oracle would mean famous as a singer, which certainly presupposes acquaintance with Archilochus’ biography». Per il valore che l’epiteto assume per la prima volta nel discorso che Elena rivolge a Ettore, cf. anche De Sanctis (2018), 160–171. 38 Sull’elegia si veda l’importante analisi di Lapini (2007), 108–136. Sotto questo punto di vista assume particolare importanza il fatto che nella cosiddetta “elegia della vecchiaia” (118 A.-B = 705 SH) Posidippo intrecci la memoria esiodea con il

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sta dal poeta che si dice, come è noto, sia servitore di Ares sia ad un tempo esperto conoscitore del dono amabile che deriva dalle Muse (fr. 1 W.2).39 Nella parabola che fin qui ho cercato di analizzare all’interno della poetica arcaica da Omero a Esiodo e da Esiodo ad Archiloco abbiamo visto un graduale distaccamento delle Muse dalle vette dell’Olimpo per guadagnare i piedi dell’Elicone e le pietre rocciose di Paro. In ogni modo, dimostrabili o meno i punti di contatto tra questi momenti della riflessione poetica, in queste scene sembra verosimile pensare che l’esigenza di costruire una geografia netta e riconoscibile per esplicitare la nascita della ἀοιδή e la conquista della ἀλήθεια corrisponde nella mentalità del poeta a uno scopo preciso: distinguere se stesso dalla tradizione consolidata tramite la definizione di uno spazio sicuro e inalterabile per le sue Muse. Sotto questo aspetto, il locus amoenus, lo scenario nel quale avviene l’incontro tra la Musa e il poeta, è in chiara funzione con l’antitesi che il poeta suggerisce tra se stesso e i πολλοί. Non stupisce, per tutto ciò, come credo, che l’ambientazione montana o agreste se non addirittura contadina o pastorale nella quale nasce la poesia, al di là del suo effettivo peso, collimi con una sorta di innalzamento dell’esperienza creativa, affidata a un uomo eccezionale e nuovo che nel suo simbolico viaggio intellettuale sa di dover e poter tornare alla sua comunità con un messaggio infallibile di verità.

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riferimento alle vette dell’Olimpo e dell’Elicone (3 e 8) a quella di Archiloco, citando il poeta di Paro (12), in merito al suo rapporto con le Muse invocate da subito come πολιήτιδες (1). Posidippo in questo modo crea un legame dotto e ineludibile tra dimensione extraurbana e dimensione cittadina sullo sfondo della tradizione che ha quale riferimento. Riconsidera i problemi testuali e contenutistici di questo testo tormentato Angiò (2014). 39 Riconsidera le varie interpretazione relative a questo distico Swift (2019), 205– 206.

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1. Eschilo ed Euripide sulla scena delle Rane: un agone senza vincitori Alla fine delle Rane Plutone invita Dioniso, ascoltate le γνῶμαι di Euripide ed Eschilo su come la città possa salvarsi, a prendere una decisione e decretare un vincitore (1467). Il dio del teatro, che dopo la prova della bilancia aveva dichiarato di non voler scegliere (ἄνδρες φίλοι, κἀγὼ μὲν αὐτοὺς οὐ κρινῶ), diviso dall’apprezzamento di entrambi (1411–13), e poi, ascoltate le γνῶμαι su Alcibiade, di non saper scegliere (δυσκρίτως γ’ ἔχω) tra chi si esprime con sapienza e chi con chiarezza (1433–34), dichiara ora che affiderà la scelta alla sua anima: αἱρήσομαι γὰρ ὅνπερ ἡ ψυχὴ θέλει (1468).1 La ψυχή, in netto contrasto con il dichiarato πόθος per l’autore dell’Andromeda – ἵμερος rovinoso che ha spinto Dioniso fino all’Ade (52–70), farà cadere la scelta dell’indeciso dio del teatro su Eschilo, con amaro disappunto di Euripide, che aveva appena cercato di orientare la scelta, invitando Dioniso alla memoria del giuramento fatto agli dei,2 ed esortandolo quindi a scegliere chi gli è caro: μεμνημένος νυν τῶν θεῶν οὓς ὤμοσας ἦ μὴν ἀπάξειν μ’ οἴκαδ’, αἱροῦ τοὺς φίλους (1469–70). In risposta alle accese rimostranze di

1 Dover (1993), 20, ritiene la scelta di Dioniso «an arbitrary, intuitive judgement, divorced from rational assessment of the poets’ answers to the questions he has just put to them». In questa direzione anche anche Riu (1999), 127–128, e Halliwell (2011), 145–147, per il quale «the verdict is a comic enactment, but also a comic overcoming, of the god’s failure to find a coherent tragic poetics […] the choice of Aeschylus is presented as the very reverse of an act of intelligible or rationalizable “criticism”» (p. 128). Pur nell’arbitrarietà della scelta, Dioniso sembrerebe risolversi a rinunciare al desiderio irrazionale che ha colpito il suo cuore (ἐξαίφνης πόθος τὴν καρδίαν ἐπάταξε πῶς οἴει σφόδρα: 53–4) per una scelta, almeno apparentemente, razionale, scelta che affiderebbe quindi non al cuore, affetto da πόθος per Euripide, ma alla sua ψυχή. Cf. Biles (2011), 254–255. 2 Nelle Rane non c’è traccia di un giuramento formale agli dei riguardo al destino di Euripide da parte di Dioniso, e ciò a cui Aristofane qui intende alludere è la predilezione per Euripide dichiarata enfaticamente all’inizio della commedia nel dialogo con Eracle (52–107). Dover (1993), 378, nota che, come nel caso di Filottete nel Filottete di Sofocle (941), Euripide equipara un accordo a un giuramento.

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Euripide, Dioniso, riprendendo il modello di scontro per citazioni avviato da Aristofane nelle scene che seguono l’agone, allontanerà da sé l’accusa di turpe tradimento e noncuranza per il destino dello sconfitto con una difesa fondata in maniera beffarda su riprese infedeli di versi dello stesso Euripide (1471–78):3 «la lingua ha giurato», dall’Ippolito (612),4 ma Dioniso sceglierà Eschilo (ἡ γλῶττ’ ὀμώμοκ’, Αἰσχύλον δ’ αἱρήσομαι); e che non appaia turpe il suo voltafaccia, perché, con l’Eolo (fr. 19 K.), «turpe è solo ciò che tale appare» al pubblico (τί δ’ αἰσχρόν, ἢν μὴ τοῖς θεωμένοις δοκῇ;);5 fino all’iperbole dell’ossimoro «chi sa se vivere non sia morire», dal Poliido (τίς δ οἶδεν εἰ τὸ ζῆν μέν ἐστι κατθανεῖν: fr. 638 K.),6 ossimoro svilito da giustapposti paralleli nonsense, con i quali vengono identificati il respirare con il pranzare e il dormire con un comodo giaciglio (τίς δ’ οἶδεν εἰ τὸ ζῆν μέν ἐστι κατθανεῖν, τὸ πνεῖν δὲ δειπνεῖν, τὸ δὲ καθεύδειν κῴδιον;) – argomenti di sicuro effetto sulla scena della commedia, ma vuoti, perché spogliati della complessità dell’impianto drammatico a cui sono stati sottratti, e che qui, piegati alla forza dell’alterazione parodica, producono per il loro autore l’effetto di una seconda sconfitta, riuscendo in un obiettivo che la gara poetica aveva mancato: tacitare Euripide con la sua stessa voce. Con la scelta di Dioniso giunge a compimento il plot delle Rane ed è quindi tempo di celebrare la gioia dell’epilogo: è di nuovo Plutone a dare avvio all’azione,7 invitando i soli Dioniso ed Eschilo a godere della sua ospitalità nel banchetto per il congedo, invito che condurrà gli attori fuori

3 Una modalità di citazione che compare poco prima al v. 1400, dove, in risposta a Euripide in difficoltà nel trovare versi con parole pesanti da porre sulla bilancia, Dioniso suggerisce: βέβληκ’ Ἀχιλλεὺς δύο κύβω καὶ τέτταρα, trimetro d’avvio solenne e successiva soluzione comica nella scelta delle parole. Dover (1993), 368, nota che l’espressione ‘due uno e un quattro’ ricorre in un frammento di Eupoli (372 K.A.) – per il quale cf. Olson (2014), 99–100, e sottolinea l’anticlimax del secondo emistichio, segno che «Dionysos plays a trick on Euripides». 4 Si noti il riuso da parte di Dioniso del v. 612 dell’Ippolito, nuovamente alterato, come già nel dialogo con Eracle (98–102), dove era stato richiamato per affermare la sua passione per Euripide non per rinnegarla. 5 Sommerstein (1996), 293, nota che, con l’alterazione di una sola sillaba del verso originale (τί δ’ αἰσχρόν, ἢν μὴ τοῖσι χρωμένοις δοκῇ;), «an ethic based on individual opinion is converted into one based on public opinion». Cf. anche Jäkel (1979), 104. 6 Sull’attribuzione del frammento al Poliido cf. Carrara (2014), 326–328. 7 Con l’intervento di Plutone al termine della prova della bilancia le due direttrici del dramma, la catabasi di Dioniso e la parallela disputa per il trono di miglior poeta dell’Aldilà, si fondono nel dialogo tra Plutone e Dioniso, a partire dal quale il plot potrà giungere a compimento, dopo la lunga fase di stallo delle non risolutive prove poetiche: se ora il dio del teatro scioglierà l’incertezza tra i due poeti e giun-

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scena (1479-81). Al Coro rimasto in scena Aristofane affida, dopo il ‘dispositivo di sentenza’ emesso da Dioniso, un secondo verdetto sulla contesa poetica, con il quale il Coro dispenserà lode e biasimo nella cornice formale del makarismos destinato all’ἀνὴρ συνετός (1482–99). Il Coro ritrova ora prima del canto di esodo la sua centralità per la poetica del dramma, offrendo nel suo penultimo intervento riflessioni sulla natura e sulla funzione della poesia quali avevano caratterizzato la parodo prima (323–459) e la parabasi poi (674–737). A differenza delle due maggiori sezioni liriche, le riflessioni sono qui espresse a commento dei fatti accaduti sulla scena – come sembrano suggerire sia il pronome ὅδε nella strofe per Eschilo sia l’implicito riferimento a Euripide alluso nel nome di Socrate,8 ma certo delineano un orizzonte più ampio in cui si inscrive la riflessione del Coro, orizzonte di cui è spia l’anonimo μακάριος ἀνήρ con cui si avvia l’encomio, poeta degno di un makarismos, perché dotato di ξύνεσις compiuta, ἠκριβωμένη (1483),9 una capacità che nel caso di Eschilo, vincitore della contesa, si esprimerebbe nel dimostrato εὖ φρονεῖν (1485) in virtù del quale il poeta farà ritorno ad Atene, a beneficio dei suoi concittadini, di parenti e amici (1486–90).10 Diversamente da quanto accade nelle commedie a noi giunte, dove pur nella duttilità delle realizzazioni e intenzioni di Aristofane,11 il makarismos è destinato al protagonista, il lettore delle Rane nota che il makarismos pronunciato dal Coro non è destinato a Dioniso, il protagonista con il quale si avvia il plot, ma al vincitore della contesa poetica parodiata nell’Aldilà, la

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gerà a un verdetto, ἐὰν δὲ κρίνω; (1415), Plutone assicura che potrà portar via con sé un poeta e il viaggio non sarà stato vano, τὸν ἕτερον λαβὼν ἄπει ὁπότερον ἂν κρίνῃς, ἵν’ ἔλθῃς μὴ μάτην (1415–16). L’impegno di Plutone a ristabilire la pace tra i morti dell’Ade – dando così soluzione alla στάσις πολλή, il πρᾶγμα μέγα che ha agitato i suoi sudditi con l’arrivo di Euripide (759–60), imporrà sulla scelta di Dioniso una prospettiva etico-politica per il giudizio sui due poeti. Così Dover (1993), 20–22, Sommerstein (1996), 294, Silk (2000), 366–367, e Willi (2002), 21–22. Diversa la lettura di Jedrkiewicz (2010), che ritiene destinatario della lode lo spettatore in grado di recepire il messaggio dell’autore: «in the strophe, Aristophanes casts this last message in the form of praise for any citizen who can prove his cleverness as a spectator. In the antistrophe, he will soon blame anybody disproving it». (pp. 346–347) Sulla difficoltà nel ricostruire i contorni di un’influenza diretta di Socrate sulla produzione di Euripide cf. Arrighetti (2006), 168– 180, e Wildberg (2006), 21–35. Sulla matrice aristocratica del termine ξύνεσις per il ritratto di Eschilo cf. Battisti (1990), 9–14. Silk (2000), 365–367, sottolinea la repentina e ingiustificata polarizzazione dei due contendenti nel makarismos pronunciato dal Coro. Cf. Macleod (1981), 142–144.

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cui risoluzione, con il coinvolgimento diretto del dio del teatro, se non ha stravolto la trama certo ha dato nuovo orientamento al plot iniziale, rimodellando i contorni dell’utopia all’origine della catabasi di Dioniso, che dopo l’inconclusiva prova della bilancia, richiamato da Plutone al ruolo di giudice, metterà da parte il πόθος per Euripide, sostituendo per il giudizio sulla poesia il criterio del piacere estetico con quello etico dell’utilità parenetica. Che il makarismos del Coro non celebri il compimento del progetto di Dioniso, ma la vittoria di uno dei poeti in conflitto per il primato nell’Aldilà, e con un esito peraltro estraneo al desiderio del dio di riportare Euripide sulla scena del teatro attico, è spia del progetto letterario immaginato da Aristofane per le Rane, che ha il suo perno narrativo nella rappresentazione comica del genere tragico, ma inquadrata questa nell’orizzonte più ampio della riflessione di Aristofane sulla natura della commedia e sullo spazio del poeta comico nella polis. Da questa prospettiva, l’opposizione in gioco sulla scena fin dal prologo è quella tra genere tragico e genere comico, tensione in cui Aristofane con le Rane sarà vero giudice, alla lente del geloion, della produzione tragica, e insieme implicito vincitore nell’agone di commedia e tragedia per il primato poetico e culturale nella vita della polis.12 Tale primato è affermato nelle Rane lungo due direttrici distinte: da una parte attraverso la desacralizzazione sulla scena delle Lenee della poesia tragica, con la trasfigurazione parodica di Eschilo ed Euripide, sia sul piano della techne sia del contributo etico, dall’altra attraverso la sacralizzazione della poesia comica sul prato del Coro degli Iniziati ai riti delle Muse che intonano il canto della parodo, dove Aristofane assimila la funzione letteraria del coro comico a rituale religioso, radicato nella dimensione culturale e civica della polis. Le due direttrici di poetica implicita ascrivibili al dramma, il processo di sacralizzazione poetica della commedia e desacralizzazione comica della poesia tragica, trovano conferma nella variazione dell’impianto narrativo della catabasi di Dioniso.13 Le Rane possono essere infatti concepite come articolate in due parti, legate l’una all’altra dalla modulazione di un secondo prologo,14 dopo la parabasi, costituito dalla scena di conversazione tra servi, Santia e l’anonimo schiavo di Plutone (738–813), in cui Aristofane introduce la contesa poetica per il trono di miglior poeta tragico nell’Aldilà quale elemento di variazione del plot e stratagemma letterario di defor12 Cf. Biles (2011), 255–256. 13 Per Segal (1961), 207, Aristofane nelle Rane «has combined two types of comic motifs, the journey and the agon, each occupying one half of the play». 14 Cf. Fraenkel (1962), 162–166. Di «vero e proprio prologo, eccezionalmente inserito a metà dell’opera» parla Del Corno (19922), 201.

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mazione comica.15 Tale modulazione culmina significativamente nel secondo emistichio del verso 758, quando il servo di Plutone pronuncia insieme i nomi di Eschilo e Euripide (Αἰσχύλου κεὐριπίδου) che indica come responsabili della confusione di urla e insulti (θόρυβος καὶ βοὴ χὠ λοιδορησμός) che provengono dal palazzo di Plutone (755–58). Lo schiavo spiegherà a Santia, e al pubblico, della guerra civile per il trono conteso a Eschilo nell’Ade da Euripide col sostegno di malfattori e parricidi (759– 78); dirà della richiesta del demos di un giudizio per stabilire quale dei due sia il miglior poeta, τὴν τέχνην σοφώτερος (779–80); e della scelta di Plutone di indire un agone, raggiungere un verdetto e metter fine alla stasis che turba il regno dell’Ade (784–86). A giudicare i due poeti, informa il servo, sarà Dioniso, a cui Eschilo ed Euripide, d’accordo nel rilevare tra le ombre degli Ateniesi nell’Aldilà l’assenza di una voce all’altezza del compito (σοφῶν γὰρ ἀνδρῶν ἀπορίαν ηὑρισκέτην), si sono rivolti poiché unico esperto di poesia (ὁτιὴ τῆς τέχνης ἔμπειρος ἦν) nell’Aldilà (805–13). Con l’uscita della coppia di schiavi, seguita dal canto del Coro,16 introduzione all’agone e primo ritratto ambiguo dei contendenti e della loro arte (814–29), Aristofane avvia la seconda parte dalla commedia, interamente dedicata alla deformazione parodica del genere tragico. Come preannunciato dal termine λοιδορησμός del servo a commento del vociare scomposto che proveniva dal palazzo di Plutone, al loro ingresso in scena,17 Euripide ed Eschilo si insulteranno come fornaie (856–59) e Dioniso richiamerà entrambi al giusto contegno (835 e 843–44).18 Dal confronto tra i due poeti emergerà, attraverso la lente deformante delle rispet-

15 Per l’importanza di questa scena riguardo al problema del giudizio sulla poesia cf. Halliwell (2011), 106–114. 16 Per le quattro stanze d’andamento dattilico, con un lecizio in clausola che richiamerebbero lo stile di Eschilo, cf. Sommerstein (1996), 227. Cf. anche Dale (19682), 43–44, e Parker (1997), 486. Dover (1993), 291, rileva che «the dactylic hexameters contribute to the portrayal of the contest as a heroic combat». 17 Certo è l’ingresso di Dioniso, Eschilo ed Euripide: all’entrata in scena anche di Plutone pensa Fraenkel (1962), 165–168. Così Dover (1993), 295–296, che immagina il dio sul trono disposto al centro della scena, e Sommerstein (1996), 229, che ipotizza l’impiego dell’ekkyklema per l’ingresso in scena di Eschilo ed Euripide. Per l’uso dell’ekkyklema in Aristofane cf. Dearden (1976), 50–54, e Mastromarco, Totaro (2008), 32–34. Lucarini (2016), 138–156, esclude che fosse usato in commedia. 18 Il commento con il quale Dioniso sottolinea che non è πρέπον che i poeti si abbandonino alla λοιδορία (λοιδορεῖσθαι δ’ οὐ πρέπει ἄνδρας ποητὰς ὥσπερ ἀρτοπώλιδας) segnala per Eschilo ed Euripide il passaggio dalla dimensione storica dei due poeti alla funzione di personaggi della commedia, la cui caratterizzazione comica è fondata sull’uso connotato del termine λοιδορησμός e del verbo

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tive accuse, l’impossibilità di orientarsi per l’uno o per l’altro sul piano della superiorità poetica (δεξιότης), ma anche, con l’estensione delle prove, l’inadeguatezza di entrambi in vista del compito d’esser guida per la polis con validi ammonimenti (νουθεσία) volti a rendere migliori i cittadini – missione propria del poeta sulla quale i due contendenti concordano (1006– 10).19 Non a caso, ormai chiuso formalmente l’agone con le accuse di Eschilo nell’antipnigos (1078–88), il Coro, nello spazio della sphragis, sottolineerà le enormi proporzioni del conflitto (μέγα τὸ πρᾶγμα, πολὺ τὸ νεῖκος, ἁδρὸς ὁ πόλεμος ἔρχεται), da cui dipende l’esito incerto della disputa (χαλεπὸν οὖν ἔργον διαιρεῖν, ὅταν ὁ μὲν τείνῃ βιαίως, ὁ δ’ ἐπαναστρέφειν δύνηται κἀπερείδεσθαι τορῶς), preannunciando così le difficoltà di Dioniso nel prendere una decisione (1099–102). Inviterà dunque i contendenti a nuove prove, sottoponendo al giudizio saggi della loro più elaborata arte, contando sul pubblico di spettatori istruiti (βιβλίον τ’ ἔχων ἕκαστος μανθάνει τὰ δεξιά), e senza timore che non possa apprezzare ogni più raffinata e complessa invenzione poetica (1109–18).20 Dopo l’estensione della contesa ai prologhi (1119–247), resa inutile ai fini del giudizio soprattutto per il venir meno dell’impegno critico di Eschilo,21 sostituito dall’improduttiva iterazione parodica ai danni di Euripide

λοιδορέω. Alla λοιδορία come tratto proprio della commedia in relazione al γελοῖον fa riferimento lo Straniero di Atene nelle Leggi di Platone (935c3-936a2): cf. Rotstein (2010), 319–325. 19 Riguardo ai criteri indicati da Euripide e condivisi da Eschilo alla base dell’ammirazione per i poeti – l’abilità tecnica (δεξιότης), la capacità di offrire validi ammonimenti (νουθεσία) e rendere migliori i cittadini (βελτίους ποιεῖν) – Halliwell (2011), 123, sottolinea che «artistic virtuosity and (ethical) instruction or edification were established bases of poetic value, both of them rooted in older Greek traditions of thought». Difficile vedere, con Ford (2002), 200, nel rapporto tra νουθεσία e δεξιότης l’opposizione tra «“the time-honored, traditional” education bent on inculcating courage and moderation, and the new, based on science and sophistication». 20 Il canto del Coro nella sphragis segna il passaggio alla nuova fase del confronto dedicata alla valutazione di aspetti peculiari della produzione dei due tragici, dopo il profilo dei due poeti stilato nell’agone: cf. Rogers (1902), 169, per il quale «the serious contest dealing with the real merits and defects of the two dramatists is over; the minor conflicts which follows, the Battles of the Prologues, of the Melodies, and of the Weights, are really little more than flashes of comic wit». Per il grado di competenza letteraria nel ritratto del pubblico stilato dal Coro cf. Woodbury (1976), 351–357, e Revermann (2006a), 118–120. 21 Sottolinea questo aspetto Halliwell (2011), 134–136, che rileva come «the prologues episode turns into a rout of Euripides. But it does so only because criticism falls back into nonsensical mockery, divorced from any meaningfully contextuali-

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della sequenza ληκύθιον ἀπώλεσεν (1119–50),22 il successivo scontro sulle parti liriche (1248–364), giocato da Aristofane su giustapposizioni stranianti di versi a sottolineare i difetti di entrambi, avrà il solo effetto di spazientire Dioniso, che chiederà loro di tacere (1364),23 non offrendo al dio elementi decisivi per la scelta. Da questo stallo dovuto al fallimento dei criteri qualitativi per valutare la poesia dei due tragici si potrebbe uscire ricorrendo a un principio quantitativo. Ne è convinto Eschilo, che interpreta in senso concreto, e a suo proprio vantaggio, il criterio metaforico del κατ’ ἔπος βασανιεῖν voluto da Euripide per la contesa (801–2). La pesatura metaforica della μουσική, annunciata dallo schiavo di Plutone a Santia (797), diviene ora, nella proposta di Eschilo, pesatura vera e propria su uno σταθμός24 dei ῥήματα,25 delle parole di cui si compongono i versi (1365– 67) – come si pesa il formaggio per la vendita, commenterà con rassegnato

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zed perception of Euripidean poetry – and also, perhaps, because tragic poetry is intrinsically helpless in the face of a quintessentially comic technique of mechanical iteration» (p. 136). Sulla sezione si vedano le riflessioni di Sommerstein (1996), 263–264. Hubbard (1991), 213, ritiene che il refrain ληκύθιον ἀπώλεσεν «not only reflects the formulaic nature of Euripides’ expository prologues and the banality of Euripidean diction but also makes a metrical point about Euripides’ fondness for resolution, particularly in the fourth foot, at which place is normally avoided», segno, a suo avviso, del «modernist iconoclasm Aeschylus considers responsible for the dissolution of moral values and laws in Athenian society as a whole». La sequenza παύσασθον ἤδη τῶν μελῶν pronunciata da Dioniso è forse un’allusione ai vv. 691-92 dell’Andromaca di Euripide, con i quali il Coro durante l’agone esorta Peleo e Menelao a porre fine alle loro parole sconsiderate (παύσασθον ἤδη […] λόγων ματαίων). Per Dover (1993), 367, la bilancia è portata in scena durante il canto del Coro che precede la pesatura (1370–77) – così già Rogers (1902), 208. All’introduzione solo al momento della pesatura pensa anche Dearden (1976), 174. Sommerstein (1996), 101, immagina l’ingresso della bilancia durante lo stasimo d’introduzione all’agone che segue il dialogo tra i servi (814–29). Per Fraenkel (1962), 166–167, dopo lo stasimo si apre la porta del palazzo di Plutone dalla quale avanza un’imponente processione sino al centro dell’orchestra in cui fanno ingresso al seguito degli attori servi con la bilancia e gli oggetti per la misurazione annunciati nel secondo prologo (797–802). Sul motivo della bilancia cf. Newiger (1957), 53–54. La scena della pesatura davanti a un dio quale giudice doveva richiamare negli spettatori la kerostasia di Achille ed Ettore con la quale Zeus decide il duello nell’Iliade (XXII 208–13), e, almeno in alcuni tra i presenti, la psychostasia di Achille e Memnone rappresentata nell’omonima tragedia di Eschilo, giunta a noi in soli tre frammenti di una sola parola ciascuno (frr. 279–280a Radt), nella quale, ci informa Plutarco (De aud. poet. 17a), Teti e Eos erano presenti al momento della pesatura e sostenevano davanti a Zeus la causa dei loro figli in duello. Cf. Tartaglini (1986), 135–140, Sommerstein (1996), 280, e Farioli (2004), 261–267.

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disappunto Dioniso (ἴτε δεῦρό νυν, εἴπερ γε δεῖ καὶ τοῦτό με, ἀνδρῶν ποητῶν τυροπωλῆσαι τέχνην), dopo averli invitati ad accostarsi per la prova (1368–69).26 Lo strumento di misurazione della bilancia, inappropriato quale metron per la poesia ma certo oggettivo, decreterà la netta superiorità della ‘gravità’ delle parole di Eschilo, senza tuttavia offrire nuovi e decisivi argomenti per orientare la scelta di Dioniso,27 che rifiuta di prendere una decisione tra poeti che gli sono cari entrambi, diviso tra l’apprezzamento delle abilità dell’uno e il piacere provocato dall’altro (ἄνδρες φίλοι, κἀγὼ μὲν αὐτοὺς οὐ κρινῶ. οὐ γὰρ δι’ ἔχθρας οὐδετέρῳ γενήσομαι· τὸν μὲν γὰρ ἡγοῦμαι σοφόν, τῷ δ’ ἥδομαι: 1411–13).28 La prova della bilancia, orientando l’attenzione non più sul verso, misura naturale per la poesia, ma sulle singole parole, cioè sul loro peso semantico – senza più alcun legame con la loro funzione nel contesto drammatico, ha privato i due poeti degli strumenti propri della loro arte, chiudendo definitivamente la possibilità che la scelta di Dioniso possa giungere dalla valutazione del valore poetico dei contendenti quali autori di tragedie.29 Con la sospensione del giudizio di Dioniso si chiude lo scontro sulle abilità poetiche dei due tragici e l’orizzonte per la scelta si apre sulla polis di Atene, su un terreno, almeno nella prospettiva di Aristofane nelle Rane, alieno alla tragedia e naturale per la commedia: il giudizio sugli eventi contemporanei. È in questa direzione che Aristofane piega ancora una volta, dopo la svolta drammatica annunciata nella scena tra i servi (805–13), la direzione del plot, a partire dall’invito di Plutone a Dioniso a prendere una decisione per non render vana la sua discesa all’Ade (1414–16). Abbandonato quindi il metro di giudizio della sophia relativa alla techne richiesto 26 Per Halliwell (2011), 140, la scena della bilancia si configura come «reductio ad absurdum of the whole notion of making an objective assessment of poetic value». 27 Eschilo porrà sulla bilancia versi appesantiti da parole di significato grave, non diversamente dai mercanti che truffano l’acquirente appesantendo la lana con l’acqua: sicuro successo sul braccio della bilancia contro le parole alate e leggere di Euripide. Sommerstein (1996), 280, nota che «the “decisive test” proves to be a farce, the criterion being trivial (though cf. on 1391–6) and the result preordained (since Euripides speaks first each time, so that Aeschylus always knows what he has to beat), and in fact decides nothing». 28 La dichiarazione di Dioniso è il segno per Halliwell (2011), 141, che «the appreciation of poetic expertise or mastery and the experience of poetic pleasure, however each of these might be defined, are both recognizable categories of poetic quality». 29 Fraenkel (1962), 172–175, ritiene che Aristofane avesse concepito la scena della bilancia come punto culminante della struttura della commedia: da ciò dipenderebbe la peculiare successione parabasi-agone e quindi la necessità di un secondo prologo.

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dal demos (779–80), Eschilo ed Euripide dovranno rispondere ora alle istanze della nuova dichiarata spinta per la catabasi di Dioniso: non più il πόθος per Euripide, espresso dal dio con trasporto a Eracle (57–67), ma la necessità di un poeta, grazie al quale Atene, messa in salvo, potrà allestire i suoi cori nei festival teatrali (1417–19).30 La svolta sul piano politico della contesa delinea per la nuova fase di giudizio un chiaro impianto parabatico: come il Coro sacro nell’epirrema della parabasi aveva delineato il proprio impegno sul piano degli ammonimenti alla polis (τὸν ἱερὸν χορὸν δίκαιόν ἐστι χρηστὰ τῇ πόλει ξυμπαραινεῖν καὶ διδάσκειν), dichiarando la propria posizione sugli eventi politici di una città nel mezzo della tempesta (686– 705), così Eschilo ed Euripide sono chiamati ora a dar prova non più di δεξιότης, ma di νουθεσία (1006–9): dovranno dimostrare d’esser capaci non solo di validi ammonimenti tesi a rendere migliori i cittadini,31 ma anche di offrire consigli puntuali sulla situazione politica di Atene. Con l’affermarsi del nuovo impegno per i due poeti, il giudizio sulla tragedia si sposta sul terreno proprio del Coro comico delle Rane e nel suo complesso la scena assume la funzione, sul piano del contenuto, di una seconda parabasi, in cui Aristofane dietro le maschere di Eschilo ed Euripide offre ancora una riflessione sulla politica di Atene, dopo le dichiarazioni affidate al Coro nella parabasi. Da questa prospettiva determinante per la scelta di Dioniso dovrebbe essere – ma non lo sarà – il giudizio dei contendenti sulla figura chiave e controversa di Alcibiade (1420–26),32 su cui la città è ora impegnata in un difficile travaglio (ἡ πόλις γὰρ δυστοκεῖ), informa Dioniso (1423), ma al quale, pur divisa tra sentimenti in contrasto (ποθεῖ μέν, ἐχθαίρει δέ, βούλεται δ’ ἔχειν), finisce per affidarsi (1425). Ascoltate le γνῶμαι di entrambi (1427–32), Dioniso non prenderà una decisione (1433– 34), ma affermerà di trovarsi ancora una volta nella condizione di chi non sa decidere (δυσκρίτως γ’ ἔχω) tra chi ha parlato con chiarezza (σαφῶς), esprimendo come Euripide il suo odio verso i politici abili solo a perseguire il loro interesse (1427–29), e chi come Eschilo si è espresso con destrezza

30 Sul rapporto tra le nuove motivazioni politiche per la discesa all’Ade di Dioniso e l’inconsistenza del suo ruolo di giudice cf. Halliwell (2011), 141–144. 31 Sul poeta come maestro cf. Ford (2002), 197–201. 32 Halliwell (2011), 143, nota che, con la richiesta di esprimersi su «a specific living individual (Alcibiades)», Dioniso «is naively confounding the political aspect of Athenian tragedy, which has no place for that kind of direct authorial comment on the contemporary. Ironically, of course, by doing so he is also bringing tragedy into the realms of comedy itself: it is no accident that Dionysus’ language of giving “good advice” at 1420–1 is very close to that used by the chorus in the parabasis of Frogs itself (686–7)».

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(σοφῶς), ricorrendo a metafore, quale quella del leoncino Alcibiade allevato in città, alla cui natura una volta cresciuto non si può che asservirsi (1431a–32). Le diverse attitudini mostrate dai due poeti con la γνώμη su Alcibiade – la chiusura netta verso chi danneggia la città da una parte e l’accomodamento necessario alla situazione contingente dall’altra – guideranno anche le risposte all’ultima γνώμη richiesta da Dioniso: quale rimedio di salvezza i due tragici immaginano per Atene (1435–36).33 Euripide, dopo un intermezzo di particolare grazia comica (1437–42)34 che dilaterà il tempo d’attesa della γνώμη,35 offrirà un consiglio che sembra richiamare la metafora della moneta antica scelta da Aristofane per il Coro nell’antepirrema della parabasi (718–37).36 Euripide propone infatti di riporre la fiducia su ciò che ora si considera infido e di considerare infido ciò su cui si ripone fiducia: ὅταν τὰ νῦν ἄπιστα πίσθ’ ἡγώμεθα, τὰ δ’ ὄντα πίστ’ ἄπιστα (1443–44). Richiesto di maggior chiarezza da Dioniso (1444–45), declinerà l’antitesi πολῖται-ξένοι (727–33), a cui alludevano le immagini dell’ἀρχαῖον νόμισμα e del καινὸν χρυσίον nella parabasi (720), nei termini più generali di un mutamento della classe dirigente, che esprimerà con un logismos innestato di ottimismo, e non meno di vaghezza, secondo il quale la salvezza di Atene deve essere affidata non più agli infidi su cui è stata riposta fino a quel momento la fiducia, ma a chi, guardato con ingiusto sospetto, onorerebbe al contrario la fiducia dei cittadini: εἰ νῦν γε

33 Per il presente contributo si considera attendibile la successione conservata dalla tradizione manoscritta dei versi 1435–66. La sezione è stata oggetto fin dall’antichità di interventi volti a sanare un testo che presenterebbe sezioni se non spurie, certo spia di erronee giustapposizioni di testo, forse varianti d’autore, responsabili delle successioni ritenute incongrue. Le incongruenze testuali dipenderebbero dalla riscrittura di alcune porzioni del testo da parte di Aristofane in vista della seconda rappresentazione del 404, dopo la messa in scena alle Lenee dell’anno prima: cf. Dover (1993), 373–376, Sommerstein (1996), 286–288, Paduano, Grilli (1996), 190–193, n. 271, Sonnino (1999), 65–97, Sommerstein (2001), 317–318, Mastromarco, Totaro (2006), 96–98, e Sommerstein (2009), 270–271. 34 Dioniso – tradendo l’autocompiacimento di Aristofane, attribuisce all’immagine del Cleocrito alato con Cinesia il segno proprio del comico: γέλοιον ἂν φαίνοιτο (1439). 35 Euripide immagina il corpulento Cleocrito unirsi al gracile ditirambografo Cinesia, guadagnare le ali di cui quest’ultimo è dotato, e poi insieme in volo spruzzare d’aceto gli occhi degli avversari durante una battaglia navale. Sull’identità storica di Cleocrito cf. Dover (1993), 376, Sommerstein (1996), 288, e Mastromarco, Totaro (2006), 211. Alla corporatura di Cleocrito, su cui si fonda l’immagine creata da Aristofane, si fa riferimento negli Uccelli (876), così come alle ali desiderate da Cinesia (1372–1409). 36 Cf. Hubbard (1991), 215–216.

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δυστυχοῦμεν ἐν τούτοισι, πῶς τἀναντί’ ἂν πράξαντες οὐ σῳζοίμεθ’ ἄν; (1449– 50).37 Per la γνώμη di Eschilo Aristofane riproduce lo stesso meccanismo di Retardation realizzato per la risposta di Euripide,38 questa volta facendo precedere la γνώμη dal tentativo di Eschilo prima di esprimersi dopo aver avuto ragguagli sugli orientamenti in Atene – una città che, scopre Eschilo, non ha vantaggio né da mantello né da pelliccia: detesta infatti i buoni politici, non meno i disonesti, ma di questi ultimi si deve servire per forza (1454–59) – e poi di rimandare saggiamente il consiglio al ritorno ad Atene (1461). Incalzato da Dioniso a una risposta pronunciata dall’Ade (1462), la γνώμη di Eschilo si svilupperà per coppie antitetiche, inserite in una struttura per opposizioni giocate sulla ripetizione, che culmina in un oscuro jeu de mots fondato sul termine poros (1463–65): si dovrà considerare la terra dei nemici propria (τὴν γῆν ὅταν νομίσωσι τὴν τῶν πολεμίων εἶναι σφετέραν), la propria dei nemici (τὴν δὲ σφετέραν τῶν πολεμίων), risorsa le navi (πόρον δὲ τὰς ναῦς), una perdita la risorsa (ἀπορίαν δὲ τὸν πόρον).39 Con l’evocazione dei territori occupati dai nemici e l’ambiguo sostegno alla politica navale di Atene si conclude la prova di νουθεσία di Euripide ed Eschilo ed è giunto il momento per il dio del teatro di prendere una decisione: κρίνοις ἄν, rintocca Plutone (1467), dunque la scelta di Dioniso per Eschilo, la scelta dell’anima di Dioniso per Eschilo, che piaccia o no a Euripide. Il protratto rovesciamento comico della statura di entrambi i poeti, la vaghezza oracolare, l’inconsistenza e inapplicabilità delle ultime due γνῶμαι, così come l’assenza di qualsiasi ragione indicata da Dioniso per la scelta – ἔκρινα νικᾶν Αἰσχύλον. τιὴ γὰρ οὔ; (1473) sarà l’unica giustificazione addotta dal dio – gettano sul makarismos pronunciato dal Coro l’ombra dell’ironia, non solo perché espressione di lode a commento di un verdetto vuoto, ma perché alla deformazione caricaturale imposta da Aristofane alla tragedia, che ha reso vano il giudizio sui due poeti sul piano della δεξιότης prima e della νουθεσία poi, Aristofane aveva fatto precedere nella prima parte delle Rane la rappresentazione della commedia quale rituale poetico

37 Le parole di Euripide, il discorso di un Palamede dalla σοφωτάτη φύσις (1451), sono destinate a restare inascoltate, non diversamente da quanto accade al precedente mitico. 38 Per la Retardation nell’epos cf. Reichel (1990), 125–151, Rengakos (1999), 308– 338, de Jong (2001), xvi–xvii, e Grethlein 2006, 269–272. Platone impiega la tecnica del ritardo narrativo per il racconto su Atlantide nel Timeo-Crizia: cf. Regali (2012), 79–98. 39 Per l’interpretazione dell’oscura γνώμη di Eschilo cf. Willi (2002), 20–26.

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e civico sul prato dove il Coro intona il canto della parodo, luogo simbolo dell’ispirazione poetica dove il Coro di Iniziati ai misteri della poesia comica risplende alla luce dell’epifania di Iacco φιλοχορευτής, gode della protezione di Demetra e della guida nella danza di Moire benevole, Muse ultraterrene compagne per la danza più bella: alla rappresentazione della tragedia Aristofane ha destinato lo spazio scenico deformante del geloion, alla rappresentazione della commedia, come ora vedremo, il prato della danza ispirata degli Iniziati ai misteri bacchici della commedia.

2. Il λειμών della parodo degli Iniziati: un luogo per la sacralizzazione della commedia La drammaturgia di viaggio della prima parte delle Rane accompagna Dioniso attraverso la palude infernale – il suo remare incerto e faticoso funestato dal gracidare ripetitivo di rane – fino alle regioni dell’Ade. Sbarcato, pagherà il costo di due oboli, come chi entri a teatro (269–70),40 e ritroverà Santia, la cui condizione di schiavo ha imposto il percorso a piedi tra buio e fango (271–73).41 Insieme riprenderanno il cammino raggiungendo, dopo il luogo dei peccatori, la regione dei mostri,42 dove apparirà loro Empu-

40 Il pagamento di due oboli per l’attraversamento della palude era stato annunciato da Eracle (139–40). Dover (1993), 208, esclude che i due oboli alludano al prezzo per assistere alle rappresentazioni, «a matter to which fifth-century comedy never refers». Ne è convinto invece Whitman (1964), 235, secondo il quale con il pagamento dei due oboli «the Frogs becomes a play within a play». Sulla complessa questione del costo dell’ingresso a teatro e le sue conseguenze sull’orientamento politico dell’archaia cf. Revermann (2006), 168–169, e Olson (2010), 53–56. 41 Il trasporto di uno schiavo attraverso la palude infernale è consentito a patto che questi abbia combattuto in una battaglia navale dove, in cambio dell’impegno, avrebbe guadagnato la condizione di uomo libero (190–93): cf. Dover (1993), 216, e Sommerstein (1996), 174. Il riferimento è con buona probabilità alla battaglia delle Arginuse, per la quale secondo Senofonte furono arruolati tutti gli uomini disponibili, compresi gli schiavi (Hell. I 6, 24), i quali come ricompensa, secondo la testimonianza di Ellanico (FGrHist 4 F 171), furono affrancati. Cf. Hunt (2001), 359–380. 42 Dover (1993), 228, ritiene che l’inversione dell’ordine di apparizione di mostri e peccatori, rispetto alle indicazioni di Eracle (143–50), «is dictated by the need to sacrifice what is less easily exploited for comic purposes and make room for what is more easily exploited».

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sa, visibile al solo Santia, non meno spaventosa per Dioniso (285–308).43 Svanito il mostro, dopo un breve dialogo tra i due – dove si assommano, intrecciati al commento sugli eventi, temi al centro della sezione precedente: la parodia del mondo del teatro con il richiamo all’errore di Egeloco,44 la comicità scatologica sugli effetti della paura su Dioniso e l’ironia verso l’immaginario poetico di Euripide (301–11), Santia richiamerà l’attenzione di Dioniso45 all’ascolto di un soffio di flauti (αὐλῶν πνοή) che il dio riconoscerà come vento misticissimo (αὔρα μυστικωτάτη) di fiaccole (312–15). Il soffio dei flauti introduce l’incontro con i tiasi felici di uomini e di donne, i μεμυημένοι annunciati da Eracle nel prologo (154–58): sono gli Iniziati del Coro delle Rane, che ora fanno il loro ingresso in scena in occasione della parodos. Aristofane segnala il cambio di registro con le battute affidate a Dioniso, che per due volte esorta Santia a stare ad ascoltare in disparte e in silenzio (315; 321–22).46 Il Coro interrompe il silenzio invocando Iacco con il ribattuto refrain Ἴακχ’, ὦ Ἴακχε (316–17):47 il Dioniso Niseo delle Paludi, celebrato dal Coro di rane durante la festa delle Pentole (209–20),

43 Empusa, il θηρίον μέγα di cui Santia descrive a Dioniso le molte trasformazioni (παντοδαπόν) irriproducibili sulla scena, con buona probabilità è invisibile tanto a Dioniso quanto al pubblico: cf. Del Corno (19922), 170, Dover (1993), 229, e Sommerstein (1996), 180. Cf. anche Brown (1991), 41–50, e Santamaría (2015), 128–129, che, seguendo Lloyd-Jones (1967), 218, ritiene Empusa il corrispettivo comico della Gorgone nella catabasi di Eracle. Andrisano (2002), 288, pensa alla possibilità che Empusa sia rappresentata in scena da un «danzatore capace di eseguire le metamorfosi che Santia di volta in volta decodifica per il pubblico». 44 Santia, commentando lo scampato pericolo, cita un verso dell’Oreste di Euripide (ἐκ κυμάτων γὰρ αὖθις αὖ γαλήν’ ὁρῶ: 279) conservando l’errore di pronuncia commesso dall’attore Egeloco (ἐκ κυμάτων γὰρ αὖθις αὖ γαλῆν ὁρῶ: 304), per il quale Egeloco che impersonava Oreste si rallegrava non di rivedere il sereno (γαλήν’) dopo la tempesta, ma una donnola (γαλῆν). Per Rogers (1902), 46, l’errore è dovuto ad una pausa involontaria dopo il termine γαλήν’ «so rounding it off into a complete word, as if the poet had written γαλῆν ὁρῶ, I see a cat». Daitz (1983), 294–295, pensa a un errore nella realizzazione dell’accento tonale, così anche Sommerstein (1996), 181–182. Sull’ironia dei poeti comici verso l’errore di Egeloco cf. Farmer (2017), 30–34. 45 Per questa scelta nell’attribuzione delle battute dei versi 312–15 cf. Dover (1993), 232. 46 Per il motivo della Lauscherszene cf. Fraenkel (1962), 22–26, Taplin (1977), 334– 336, e Cerbo (2012), 24–28. 47 Graf (1974), 51, considera Iacco «die eleusinische Sonderform des Dionysos», e così Clinton (1992), 66 n. 23. L’indentificazione con Dioniso è esclusa da Mylonas (1961), 238, che considera Iacco «the personification of the shouting and enthusiasm which characterized the procession from Athens to Eleusis» – confuso con Dioniso in età romana (318).

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lascia il posto a Iacco, a cui gli Iniziati intonano l’inno, e la scena, prima palude per la danza acquatica del rumoroso gracidio delle rane,48 diviene ora prato di fiori per la danza pura e sacra del Coro degli Iniziati.49 Come segnala agli spettatori l’invito di Dioniso a Santia all’ascolto (ἀλλ’ ἠρεμεὶ πτήξαντες ἀκροασώμεθα) da una posizione non visibile agli Iniziati (315), attenzione necessaria ai personaggi sulla scena (ἡσυχίαν τοίνυν ἄγειν βέλτιστόν ἐστιν) non meno che al pubblico per la comprensione (ὡς ἂν εἰδῶμεν σαφῶς) di ciò di cui saranno spettatori (321–22), l’ἡσυχία richiesta dal dio del teatro sottrae al tempo e allo spazio della rappresentazione la sezione della parodo, che si svolge nell’atmosfera sospesa di un’eternità extra-terrena e gioiosa, senza nessun intervento diretto del Coro sugli eventi del plot.50 Nel suo insieme il canto della parodo svelerà l’identità e la funzione letteraria dei tiasi beati di donne e di uomini, i μεμυημένοι annunciati da Eracle (158), che Santia, ascoltato il refrain, richiama ora per gli spettatori: οἱ μεμυημένοι ἐνταῦθά που παίζουσιν, οὓς ἔφραζε νῷν (318–19). La natura di iniziati del Coro è strettamente legata all’impianto metapoetico del dramma: significativamente esclusa dall’azione scenica, la parodo delle Rane può essere concepita come rappresentazione sulla scena delle Lenee della beatitudine guadagnata nell’Aldilà dalla commedia di Aristofane, il canto del Coro a definirne la natura di poesia ispirata, lo spessore letterario e la funzione civica. Ogni sezione, dall’incipitaria invocazione a Iacco fino all’esortazione finale alla danza guidata dalle Moire, contribuirà a indicare con sempre maggior precisione nel Coro delle Rane la rappresentazione ideale della commedia di Aristofane: di questa saranno offerte definizione e sacralizzazione attraverso la rappresentazione della gioiosa beatitudine del Coro di Iniziati alla poesia comica nell’Aldilà. In questa direzione deve essere interpretata la cornice rituale in cui Aristofane inscrive la parodo, i

48 Solomos (1974), 215, ritiene che il Coro di rane costituisse «a satire on contemporary poetasters»; Henderson (19912), 93, una satira diretta contro «the poetic ranting of inferior poets». Contro la possibilità di individuare un bersaglio per il canto delle rane Campbell (1984), 163–165, per il quale «Aristophanes’ singers are humorous at their own expense». 49 Sottolinea l’opposizione per i due cori tra vera e falsa musica Whitman (1964), 249. Defradas (1969), 31–34, indica per il Coro delle Rane la parodia del nuovo ditirambo: così Wills (1969), 316–317, Silk (1980), 136–137, che sottolinea la commistione di stile elevato e triviale nell’incontro di Dioniso con le rane, Zimmermann (19852), 161, e Rocconi (2007), 137–142. Per una diversa prospettiva attenta a evidenziare per il canto delle rane il richiamo a forme poetiche tradizionali cf. Biles (2011), 228–231. 50 Per la temporanea interazione imposta dalla domanda di Dioniso agli Iniziati su dove si trovi il palazzo di Plutone (431–36) vd. infra 2. 4.

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cui elementi riconducibili a rituali misterici di iniziazione sono di volta in volta piegati, come ora vedremo, alla funzione metaletteraria del personaggio del Coro, che delinea i propri contorni nel luogo scelto da Aristofane per la danza, il λειμών dove la tradizione, come è stato osservato a più riprese in questo volume, delinea i contorni del genere letterario nelle scene d’investitura poetica.

2.1. L’invocazione a Iacco degli Iniziati alla poesia comica (323–36; 340–53) Il riferimento di Santia al παίζειν degli Iniziati che intonano l’inno per Iacco, come farebbero per l’agora (ᾄδουσι γοῦν τὸν Ἴακχον ὅνπερ δι’ ἀγορᾶς: 318–20),51 offre la chiave interpretativa per la funzione letteraria della Stimmung rituale di cui Aristofane informa l’ingresso in scena del Coro.52 Nell’inno intorno al nome del dio invocato dal Coro si assommano elementi che richiamano il ruolo di Iacco nei Misteri Eleusini,53 le celebrazioni di Dioniso54 e l’orfismo,55 con il risultato di un sincretismo rituale56 che

51 La sequenza ‘διαγορας’ consente sia la lettura δι’ ἀγορᾶς, con la quale Santia alluderebbe alla riproduzione nell’Aldilà di rituali a lui noti del mondo dei vivi, sia la lettura Διαγόρας, nome che richiamerebbe Diagora di Melo, autore di componimenti per Dioniso, condannato per empietà – cf. Winiarczyk (2016), 20–21. Sommerstein (1996), 183, accoglie il riferimento a Diagora, e immagina un intento parodico. Dover (1993), 233, esclude l’attacco a Diagora e ritiene l’allusione «a poor joke» inappropriato al contesto; di questa opinione Wilson (2007), 168. Cf. Graf (1974), 49, e Parker (2005), 348. 52 Per Dover (1993a), 176–178: «the immediate reference to παίζειν when the cry Ἴακχ’, ὦ Ἴακχε is heard serves as a reminder – a warning, one might say – that the adoption of initiatory motifs will be selective and appropriate to comedy» (p. 177). Sommerstein (1996), 183, nota che il verbo παίζειν non ricorre mai in connessione con i riti eleusini, segno, a suo giudizio, che «the parodos is to be viewed as entertainment rather than ritual». 53 Cf. Dover (1993), 61–69. Bowie (1993), 228–253, rintraccia ben oltre la parodo richiami ai Misteri eleusini, elemento costante, a suo avviso, nelle Rane. 54 Per Biles (2011), 223-224: «the overwhelming impression created by the parodos is that this celebration of the Mysteries is first and foremost in honor of Dionysos himself, with emphasis on his connection to choral performance […] the Dionysian resonances gain force as the parodos continues, and concentrate on the poetic and even dramatic nature of the chorus’ activity, with the implication that, in this comic Underworld, theater is associated with Dionysos in his Eleusinian identity and is to be experienced within a fancifully modified Eleusinian frame of festive pleasures». 55 Cf. Graf (1974), 40-–50. Cf. anche Bowie (1993), 230–232. 56 Mette in luce questo aspetto Segal (1961), 217–223.

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attraverso richiami ai culti evocati esalta la commedia quale rituale rappresentato sulla scena. Nella strofe, il Coro invoca Iacco quale divinità che ha sua dimora nell’Ade perché prenda parte alla danza degli Iniziati (323–36):57 Ἴακχ’, ὦ πολυτίμητ’ ἐν ἕδραις ἐνθάδε ναίων, Ἴακχ’ ὦ Ἴακχε. ἐλθὲ τόνδ’ ἀνὰ λειμῶνα χορεύσων ὁσίους εἰς θιασώτας, πολύκαρπον μὲν τινάσσων περὶ κρατὶ σῷ βρύοντα στέφανον μύρτων, θρασεῖ δ’ ἐγκατακρούων ποδὶ τὴν ἀκόλαστον φιλοπαίγμονα τιμήν, Χαρίτων πλεῖστον ἔχουσαν μέρος, ἁγνήν ἱερὰν ὁσίοις μύσταις χορείαν. Al dio πολυτίμητος58 dell’Oltretomba il Coro chiede di raggiungere il tiaso dei suoi pii fedeli danzando sul prato (τόνδ’ ἀνὰ λειμῶνα χορεύσων), l’orchestra dove nella finzione scenica il Coro offre il canto della parodo. Iacco è immaginato dal Coro raggiungere i suoi fedeli mentre scuote la corona ricolma di frutti di mirto che adorna il suo capo e batte con piede sicuro il tempo del rito senza freni e amante dello scherzo (τὴν ἀκόλαστον φιλοπαίγμονα τιμήν) che rivela i maggiori doni delle Cariti (Χαρίτων πλεῖστον

57 L’invocazione a Iacco presenta ampio impiego di sequenze di ionici: per la possibile funzione rituale cf. Dale (19682), 125, Zimmermann (19852), 125–128 e 133, Dover (1993), 233–236, Sommerstein (1996), 184, e Parker (1997), 466–469. 58 Πολυτίμητ’ è congettura di Reisig per il tradito ma ametrico – come nota Stanford (19632), 102 – πολυτιμήτοις. Ford (2011), 348, nota che nell’invocazione incipitaria per Iacco «the normal force of poly- would be that he receives many high and costly honors», ma ritiene che nel contesto dell’intera sezione «the litteral sense of poly- is foremost, since the ‘many honors’ of Iakchos consist in his name being pronounced again and again». Che l’epiteto ricompaia nell’inno a Iacco (398–413), in cui il dio φιλοχορευτής del refrain è invocato come inventore del rito rappresentato sulla scena, apre la possibilità che la molteplicità cui allude πολυ- nel composto sia da riferire non ai molti onori a lui tributati né alla ripetizione del nome nell’invocazione, ma ai molti culti che derivano dalle sue molteplici τιμαί, come sembrano indicare le parole del Coro degli anziani di Tebe nell’Antigone di Sofocle (1115–52), dove al dio πολυώνυμος sono attribuite le funzioni di protettore e guaritore, non meno che di χορηγός degli astri e protettore dei canti notturni: sulla scena delle Rane Iacco πολυτίμητος è divinità della danza corale (φιλοχορευτής) e inventore del dolcissimo canto (μέλος ἑορτῆς ἥδιστον εὑρών) del rito della commedia (398–99).

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ἔχουσαν μέρος):59 è la danza pura e sacra dei devoti iniziati (ἁγνήν, ἱερὰν ὁσίοις μύσταις χορείαν) che il Coro delle Rane rappresenta sulla scena delle Lenee. Nell’antistrofe, il Coro invoca il dio perché sia guida per il rito notturno della danza degli Iniziati (340–53): ἔγειρ’ ὦ φλογέας λαμπάδας †ἐν χερσὶ γὰρ ἥκεις τινάσσων† Ἴακχ’ ὦ Ἴακχε, νυκτέρου τελετῆς φωσφόρος ἀστήρ. φλογὶ φέγγεται δὲ λειμών· γόνυ πάλλεται γερόντων· ἀποσείονται δὲ λύπας χρονίους δ’ ἐτῶν παλαιῶν ἐνιαυτοὺς ἱερᾶς ὑπὸ τιμῆς. σὺ δὲ λαμπάδι φέγγων προβάδην ἔξαγ’ ἐπ’ ἀνθηρὸν ἕλειον δάπεδον χοροποιόν, μάκαρ, ἥβαν. Il Coro invoca Iacco come stella luminosa del rito notturno (νυκτέρου τελετῆς φωσφόρος ἀστήρ) e il prato, l’orchestra illuminata dalle fiaccole, con l’epifania del dio risplende di fiamma (φλογὶ φέγγεται δὲ λειμών). Con il canto e la danza dei μύσται le ginocchia dei vecchi ritrovano giovinezza di movimento (γόνυ πάλλεται γερόντων): diversamente dall’effetto provocato delle trovate comiche ormai lise – per le quali, lamenta Dioniso nel prologo, si lascia il teatro più vecchi di un anno (12–8),60 grazie al sacro rito rappresentato sulla scena (ἱερᾶς ὑπὸ τιμῆς) sono sanati i dolori che affliggono gli anni gravati dal tempo. A Iacco beato i μύσται chiedono dunque di condurre sulla superficie fiorita e rorida del prato (ἐπ’ ἀνθηρὸν ἕλειον

59 Stanford (19632), 103, e Dover (1993), 237, notano che l’espressione χαρίτων πλεῖστον ἔχουσαν μέρος ricorda da vicino la successione ἰοπλό]κων τε μέρο[ς ἔχοντ]α Μουσᾶν che leggiamo in Bacchilide (Ep. 3, 71). L’eco del verso di Bacchilide rinforzerebbe l’identificazione con le Cariti, di cui è attestato il contatto con il culto di Dioniso nell’inno cletico delle donne di Elis (PMG 871) – per il quale cf. Brown (1982), 305– 314. La funzione delle Cariti per la poesia comica è centrale nella prima parabasi della Pace, dove, accanto alla Musa portatrice di pace e compagna di canti festosi (775–81), le divinità καλλίκομοι sono celebrate con inni dal σοφὸς ποητής della poesia comica (796–817). La compresenza di Muse e Cariti al fianco del poeta comico ricorre in Aristofane anche nel fr. 348 K.-A., attribuito alle Tesmoforiazuse seconde, dove dietro al διδάσκαλος bisogna vedere l’autore stesso: cf. Biles (2013), 9–10, e Halliwell (2015), 245. 60 Intende come forma di recusatio la vignette di Santia con bagagli che apre il prologo Lauriola (2010), 213–222.

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δάπεδον)61 la gioventù che danza in coro, cioè di condurre il Coro a prendere posizione nell’orchestra, il δάπεδον di fiori dell’immagine. Con l’inno a Iacco che apre la parodo Aristofane definisce l’identità di μεμυημένοι del personaggio del Coro: sono i membri del tiaso di Iacco (θιασῶται) che celebrano nell’Aldilà il rito della commedia (φιλοπαίγμων τιμή) che ha la grazia poetica delle Cariti con la danza pura e sacra destinata ai soli iniziati (μύσται). La Stimmung rituale fa da cornice alla scena di sacralizzazione poetica del Coro delle Rane, con un intreccio indistinguibile di elementi riconducibili al culto di Demetra e al culto di Dioniso, gli uni e gli altri piegati a caratterizzare il canto della parodo come poesia ispirata nel segno di Iacco-Dioniso. In questa direzione, centrale nell’inno è la funzione simbolica dell’immagine del prato dove Iacco è chiamato a raggiungere gli Iniziati per la rappresentazione ultraterrena del rito della commedia che celebrano. Il prato della parodo infatti non solo assolve alla funzione di spazio scenico (il luogo felice destinato agli iniziati nell’Ade), di spazio metateatrale (l’orchestra dove il Coro degli Iniziati delle Rane rappresenta la danza corale) e di spazio allusivo (e.g. l’area antistante la fonte del Callicoro62 nel santuario di Demetra a Eleusi),63 ma anche alla funzione di spazio simbolico, il locus amoenus per l’ispirazione poetica dove la tradizione immagina il contatto del poeta con le Muse.64 Appare chiara la funzione letteraria della trasformazione dello spazio scenico per il canto del Coro degli Iniziati da palude dove le rane intonavano il loro ripetitivo verso naturale65 a prato dove gli Iniziati celebrano la beatitudine ultraterre-

61 L’aggettivo ἕλειος compare negli Uccelli a descrivere valli ‘paludose’, come conferma il riferimento alle zanzare di cui si nutrono gli uccelli che in quei luoghi vivono, non meno che il riferimento alla paludosa Maratona e al francolino che ama i luoghi umidi (244–49). Tuttavia il contesto in cui l’aggettivo compare nelle Rane fa propendere per il significato di ‘rorido’, un’accezione che meglio si adatta all’immagine del prato degli Iniziati quale locus amoenus per l’ispirazione dei versi del Coro. Stanford (19632), 105, nota che «the flowery, marshy ground could refer to the precint of Dionysos ἐν λίμναις, or to the Thriasian Plain near Eleusis, or to the happier part of Hades». 62 Vd. Eur. Ion 1074–89, dove presso le sorgenti del Callicoro il Coro immagina la fiaccolata notturna e le danze per Dioniso-Iacco. Cf. Gunther (2018), 415–420. 63 Faccio qui riferimento alle categorie indicate da Rehm (2002), 20–25, per le funzioni dello spazio nel dramma attico: theatrical space, scenic space, extrascenic space, distanced space, self-referential o metatheatrical space, e reflexive space. 64 Sul locus amoenus quale «privilegiato orizzonte della poesia» si vedano le pagine di De Sanctis in questo stesso volume. 65 Riguardo all’incontro con il coro di rane, Biles (2011), 230, nota che «Dionysos enters a surreal poetic landscape where music and song emanate from the water in a primordial form».

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na che attende i cori ispirati della commedia nell’Aldilà: rievocare per il Coro delle Rane i contorni di una scena di investitura poetica in un locus amoenus, non più idillico ed esterno alla polis, come nella tradizione a partire da Esiodo, ma ultraterreno, luogo attraverso il quale Aristofane rivendica per il coro della sua commedia l’ispirazione divina sul prato eterno della poesia. Aristofane attribuisce voce nuova all’elemento cardine della commedia, trasformando la scena delle Lenee nel luogo di una consacrazione poetica ultraterrena, che realizza attraverso la fusione tra elementi rituali, paesaggio simbolico e rivendicazione poetica fondata sull’epifania di Iacco, divinità del teatro comico dell’Aldilà. È nel segno del sostegno del dio e dell’ispirazione che si avvia la sezione anapestica, a delineare i contorni, come ora vedremo, della poesia comica ispirata e del suo destinatario.

2.2. La commedia come rito iniziatico nella prorrhesis anapestica (354–71) Avviata attraverso la Stimmung rituale dell’inno a Iacco, la sacralizzazione poetica del Coro delle Rane è in piena evidenza nella successiva sezione anapestica, strutturata nella forma del proclama rituale. Con l’epifania del dio, primo mystes e guida della danza sul prato degli Iniziati, il Coro procede ora, con la voce del Corifeo, a escludere dalla performance chi non è degno di compiere né d’assistere al rito della commedia. Da questa prospettiva gli anapesti della parodo si configurano come prorrhesis propria dei misteri delle Muse autentiche (γενναίων ὄργια Μουσῶν: 356), misteri nei quali Aristofane inscrive l’iniziazione ai riti bacchici del teatro comico che si esprime nella lingua dionisiaca di Cratino ταυροφάγος (357), assumendo così la prorrhesis della cerimonia dei Misteri Eleusini a proclama di poetica nel segno di Dioniso (354–58): εὐφημεῖν χρὴ κἀξίστασθαι τοῖς ἡμετέροισι χοροῖσιν, ὅστις ἄπειρος τοιῶνδε λόγων ἢ γνώμην μὴ καθαρεύει, ἢ γενναίων ὄργια Μουσῶν μήτ’ εἶδεν μήτ’ ἐχόρευσεν, μηδὲ Κρατίνου τοῦ ταυροφάγου γλώττης Βακχεῖ’ ἐτελέσθη, ἢ βωμολόχοις ἔπεσιν χαίρει μὴ ’ν καιρῷ τοῦτο ποιοῦσιν Il Corifeo richiama al silenzio ed esorta i non ammessi al rito ad allontanarsi. A essere esclusi dai cori della commedia sono coloro a cui difetta il sapere degli Iniziati (ἄπειρος τοιῶνδε λόγων), e non meno lo spessore etico (γνώμην μὴ καθαρεύει). L’esteso catalogo di esclusi comprende in primo luogo coloro che non hanno fatto esperienza o preso parte ai misteri delle

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Muse autentiche66 (γενναίων ὄργια Μουσῶν μήτ’ εἶδεν μήτ’ ἐχόρευσεν),67 i poeti comici non iniziati ai riti bacchici che la poesia di Cratino rappresenta (μηδὲ Κρατίνου τοῦ ταυροφάγου γλώττης Βακχεῖ’ ἐτελέσθη)68 e gli spettatori che gioiscono di trovate di bomolochia quando queste sono proposte non al momento opportuno (βωμολόχοις ἔπεσιν χαίρει μὴ ’ν καιρῷ τοῦτο ποιοῦσιν). Segue dunque un catalogo di malfattori pronti a qualunque nefandezza (359–66): chi fomenta anziché comporre la guerra civile; politici che si lasciano corrompere quando la città è in grave pericolo, o favoriscono il nemico abbandonando un presidio o una nave;69 malfattori quali è Toricione che nella posizione di esattore della ventesima70 fa giungere illegalmente a città nemiche come Epidauro cuoio, vele e pece, traendo vantaggio dal contrabbando di merci proibite attraverso Egina; chi favorisce il nemico persuadendo un finanziatore a equipaggiarne la flotta; e chi si è macchiato di empietà verso Ecate e tuttavia canta nei cori ditirambici;71 da

66 Il contesto induce a credere con la scelta dell'aggettivo γενναῖος Aristofane faccia riferimento non alla nobiltà delle Muse, indicazione di per sé opaca, ma alluda alla distinzione tra poesia ispirata e poesia non ispirata dalle Muse autentiche. Sulla relazione che Aristofane instaurerebbe nelle Rane tra distanza del poeta dalle Muse e degenerazione del teatro cf. Provenza (2017), 329–345. 67 Secondo Del Corno (19922), 176, i verbi εἶδεν e ἐχόρευσεν «distinguono forse la condizione dello spettatore competente e dell’autore, rispettivamente», qui accomunati, a suo giudizio «in una pari dignità di fronte ai profani». Se il verbo εἶδεν rimanda con buona dose di verosimiglianza alla visione da parte degli spettatori, con ἐχόρευσεν Aristofane potrebbe alludere all’impegno dei coreuti che hanno preso parte attiva ai riti delle Muse, danzando cioè la parte del coro nella rappresentazione delle commedie. 68 Il giusto posto ironicamente immaginato per Cratino dal Coro negli anapesti della parabasi dei Cavalieri è star seduto accanto a Dioniso (536): l’età avanzata del poeta, motivo di invito a ritirarsi dalle scene nei Cavalieri, è rovesciata di segno nelle Rane, dove Cratino, posto all’origine del rito dionisiaco della commedia, è detto ταυροφάγος, epiteto di Dioniso nella Tyro di Sofocle (fr. 668 Radt). Cf. Dover (1993), 240, Riu (1999), 136, e Biles (2011), 231–232. Halliwell (2008), 212, indica per la prorrhesis il segno dell’ironia, che non risparmia, a suo avviso, «the patently ludicrous image of Cratinus». 69 Probabile allusione al reato di tradimento raggiunto dal procedimento dell’eisangelia, secondo Sommerstein (1996), 188. Bowie (1993), 239, nota che molti dei crimini richiamati in questa sezione della parodo ricadono nell’accusa di atimia. Cf. Wankel (1994), 19–23, e Kassel (1994), 43. Per l’abuso del procedimento dell’eisangelia in relazione alle leggi ateniesi cf. Bearzot (1996), 71–92. 70 Tucidide (VII 28, 4) ci informa della sostituzione del phoros (nel 413) con l’eikoste, la tassa del 5% sulle importazioni ed esportazioni dai porti alleati. 71 Per l’identificazione con Cinesia cf. Dover (1993), 241–242. Per il legame di Ecate con Demetra e i Misteri Eleusini cf. Richardson (1974), 155–157, e, in relazione a questo passo, Biles (2011), 226.

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ultimo chi in assemblea propone misure che danneggiano le rappresentazioni teatrali (367–68): ἢ τοὺς μισθοὺς τῶν ποιητῶν ῥήτωρ ὢν εἶτ’ ἀποτρώγει, κωμῳδηθεὶς ἐν ταῖς πατρίοις τελεταῖς ταῖς τοῦ Διονύσου Significativamente al culmine del catalogo di esclusi dal rito72 è il politico che mette a rischio le rappresentazioni teatrali proponendo una riduzione del compenso ai poeti,73 per vendetta d’esser stato oggetto d’attacco durante le celebrazioni che la città dedica a Dioniso, ossia sulla scena della commedia: l’identificazione di Iacco divinità dell’Oltretomba con Dioniso dio del teatro è ora compiuta attraverso la progressiva identificazione dei μύσται di Iacco con il Coro di Iniziati ai Βακχεῖα del teatro comico.74 La successione di anapesti, metro che Aristofane doveva considerare appropriato alla rappresentazione sulla scena di una prorrhesis rituale,75 risponde alla funzione naturale per la parodo di indicare agli spettatori l’identità di iniziati ai riti bacchici della commedia dei coreuti.76 Assente nel-

72 Wilson (2000), 64–65, rileva che «although its position at the end of a list which includes fomenters of civic strife may in part be designed for bathetic effect, it is little surprise to find the comic khoros metatheatrically defending its masters in this way against the depredations of wayward leaders of the demos, men whose politics were deemed inimical to the city’s poetics, and whose position was ever open to the watchful critique of the city’s comic poets». 73 Sull’identificazione del ῥήτωρ con Archino cf. Sommerstein (1996), 189–190. In merito all’esclusione di chi riduce il compenso ai poeti, Rosen (2007), 29–32, ritiene che «the chorus of initiates blurs the line between comedy and religious ritual, treating the orator as if he were sacrilegious and unworthy of participation in a sacred moment» (p. 31). 74 Sottolinea questo aspetto Biles (2011), 226–227: «the rites are explicitly said to belong to the god of the Theater in his capacity as patron of poets» (p. 226). 75 Anapesti sceglie Aristofane per la prorrhesis iniziatica destinata a Strepsiade (εὐφημεῖν χρὴ τὸν πρεσβύτην καὶ τῆς εὐχῆς ἐπακούειν) che precede l’invocazione di Socrate per le πολυτίμητοι Νεφέλαι nella parodo delle Nuvole (263–74). L’impiego di anapesti rituali nel finale dei Cavalieri (1316–34), aperto dal solenne attacco εὐφημεῖν χρή del Salsicciaio, troverebbe conferma nel riferimento al rito di purificazione e ringiovanimento a cui il Salsicciaio, ora Agoracrito, ha sottoposto il vecchio Demo: τὸν Δῆμον ἀφεψήσας ὑμῖν καλὸν ἐξ αἰσχροῦ πεπόηκα (1321). Riguardo al rapporto diretto tra anapesti e prorrhesis rituale è interessante notare che anche la parodo delle Tesmoforiazuse si avvia con l’esortazione al silenzio (εὐφημία ἔστω, εὐφημία ἔστω), ma per un cerimoniale civico, non iniziatico, che richiama la convocazione della riunione dell’assemblea da parte dell’araldo, non a caso qui con una successione in prosa (295–311). 76 Cf. Sells (2012), 85–86.

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la parabasi,77 la sezione anapestica della parodo accoglie, quale esito dell’impegno di auto-definizione del Coro, dichiarazioni di poetica che condensano il punto di vista di Aristofane sulla natura della commedia, dichiarazioni fondate e legittimate dalla natura del luogo dove, come abbiamo osservato, la tradizione colloca la scena dell’investitura poetica, il prato. Che Aristofane renda invisibile il suo punto di vista dietro la maschera del Corifeo, nella sua alta funzione di officiante il rito, non è senza conseguenze. Assegnare infatti alla prorrhesis anapestica funzione metapoetica consente di identificare il canto degli Iniziati con la voce stessa della commedia, di cui i μύσται inscenano il rito: il messaggio del Coro si distanzia così dalla voce individuale del poeta ed è ascritto direttamente al genere letterario, di cui il Coro qui è metafora. La prorrhesis del Corifeo si chiude con il triplice richiamo ai non ammessi al rito affinché si allontanino dai cori degli iniziati (τούτοις αὐδῶ καὖθις ἐπαυδῶ καὖθις τὸ τρίτον μάλ’ ἐπαυδῶ ἐξίστασθαι μύσταισι χοροῖς: 369–70), seguito dall’esortazione al Coro a innalzare il canto e dar così inizio alle παννυχίδες78 proprie della festa che celebrano (ὑμεῖς δ’ ἀνεγείρετε μολπὴν καὶ παννυχίδας τὰς ἡμετέρας αἳ τῇδε πρέπουσιν ἑορτῇ: 370–71).79 Come ora vedremo, nello spazio simbolico del prato per la danza, tra la prorrhesis e la danza guidata dalle Moire che chiuderà la parodo (448–59), il Coro di Iniziati offrirà definizione e prassi della commedia nell’alveo di due distinti momenti, iscritti ancora una volta nella cornice rituale: prima nella successione di tre inni per le divinità celebrate nel rito della commedia, poi nella

77 Dover (1993), 65, nota che gli anapesti della parodo delle Rane «are similar in character to the epirrhema and antepirrhema of a parabasis». Sulla funzione di parabasi della parodo delle Rane cf. Hubbard (1991), 205, e Dobrov (2001), 149–150. Halliwell (2008), 212, considera la prorrhesis rituale degli Iniziati «a version of the conventional comic parabasis, here displaced from its usual position in the play». Cauto nel considerare la sezione anapestica quale «relocated parabasis» Biles (2011), 224–225. 78 Per la pannychis come momento comune a molti festival cf. Parker (2005), 166 e 182–183. 79 Sommerstein (1996), 190, nota la realizzazione di «a mild zeugma» nella reggenza del verbo ἀνεγείρω e naturalizza la traduzione inserendo il verbo ‘begin’: «do you awaken the voice of song and begin the all-night revels»; nella stessa direzione Halliwell (2015), 187, che traduce «you who remain raise your song and prepare to perform the nocturnal revels». Una soluzione che preserva la doppia reggenza del verbo apprezziamo nella traduzione di Mastromarco-Totaro (2006), 601, «Voi invece ravvivate il canto e le nostre veglie notturne», e Tammaro (2017), 39, «E a voi di rinnovare canto e veglie notturne»: il possibile spettro di significati metaforici del verbo ἀνεγείρω, più ampio di quanto sia accessibile alla nostra sensibilità, farebbe escludere la possibilità dello zeugma.

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forma del canto derisorio dove la prassi del geloion troverà piena espressione.

2.3. Gli inni alle divinità del teatro comico (372–413) Con la sezione lirica che segue gli anapesti, nel momento rituale degl’inni alla Salvatrice, Demetra e Iacco, Aristofane delinea i contorni degli ὄργια Μουσῶν, i Βακχεῖα della commedia a cui faceva riferimento il Corifeo nella prorrhesis, offrendo, com’è noto, definizione del genere comico quale intreccio di spoudaion e geloion, per un rituale poetico che le divinità invocate rendono possibile con il loro intervento, ognuna con apporto differente e specifica funzione in rapporto alla città e al suo teatro. In risposta all’esortazione del Corifeo a dare avvio al canto per le celebrazioni del rito (370–71), il Coro esorta ora se stesso ad avanzare sui prati in fiore per la danza ritmata di celia, scherzo e sberleffo propria del coro della commedia (372–382):80 χώρει νυν πᾶς ἀνδρείως εἰς τοὺς εὐανθεῖς κόλπους λειμώνων ἐγκρούων κἀπισκώπτων

80 La sezione lirica compresa tra la prorrhesis anapestica e la nuova esortazione in anapesti del Corifeo a intonare l’inno per Demetra si compone di due unità strofiche in responsione di sei versi ciascuna: la prima ospita l’auto-esortazione del Coro a dare avvio al canto e alla danza (372–76), la seconda la celebrazione di Soteira (377–82). Nella sezione, segnata dalla successione di sillabe lunghe (fatta comprensibile eccezione per il nome proprio Θωρυκίων al v. 382), il Coro sembra richiamare in forma lirica la successione di tetrametri anapestici catalettici della prorrhesis del Corifeo, offrendo sequenze anapestiche di diversa estensione, con l’effetto di prolungare lo stile solenne degli anapesti dal Corifeo, bilanciato dal tono prosastico di ciascuno dei versi che chiude le unità strofiche. Sull’impianto anapestico della sezione cf. Dover (1993), 243. Sommerstein (1996), 190, considera la successione di spondei centrale per l’interpretazione metrica dei versi, anche in considerazione dell’esteso uso della forma catalettica. Così Stanford (19632), 107. Parker (1997), 59, ritiene la sezione «a lyric version of an anapestic processional song» (vd. anche 470–471). Dale (19682), 54–55, indica per la sezione il ritmo di marcia, propone l’accostamento agli ἐμβατήρια spartani (vd. PMG 856) e, con meno vicinanza per la più limitata presenza di spondei, a un frammento dagli Odissei di Cratino (fr. 151 K.-A.), con buona probabilità dalla parodo – per il quale cf. Bakola (2010), 237–238.

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καὶ παίζων καὶ χλευάζων· ἠρίστηται δ’ ἐξαρκούντως. ἀλλ’ ἔμβα χὤπως ἀρεῖς τὴν Σώτειραν γενναίως τῇ φωνῇ μολπάζων, ἣ τὴν χώραν σώσειν φήσ’ εἰς τὰς ὥρας, κἂν Θωρυκίων μὴ βούληται. Nel secondo canto del Coro Aristofane riprende elementi della strofe dell’inno che apre la parodo: l’auto-esortazione risuona infatti dei termini di cui si sostanzia l’invocazione a Iacco, con la quale il Coro di θιασῶται aveva chiesto al dio, nella strofe, di raggiungere il tiaso dei suoi devoti fedeli sul prato per la danza (ἐλθὲ τόνδ’ ἀνὰ λειμῶνα χορεύσων), battendo con piede sicuro (θρασεῖ δ’ ἐγκατακρούων ποδὶ), il tempo del rito sfrenato e amante dello scherzo (τὰν ἀκόλαστον φιλοπαίγμονα τιμήν), e, nell’antistrofe, di condurre il coro sulla superficie rorida del prato in fiore (ἐπ’ ἀνθηρὸν ἕλειον δάπεδον). Non diversamente ora ognuno dei coreuti è chiamato ad avanzare con vigore (ἀνδρείως), verso le valli di prati in fiore (εἰς τοὺς εὐανθεῖς κόλπους λειμώνων), mentre batte il ritmo (ἐγκρούων) della danza di celia, scherzo e sberleffo (κἀπισκώπτων καὶ παίζων καὶ χλευάζων): è questo il rito amante dello scherzo, la τιμὴ φιλοπαίγμων a cui facevano riferimento i μύσται, rito che coincide con la rappresentazione della commedia, e precisamente con la commedia rappresentata sulla scena, a cui allude in chiusa di strofe l’elemento di realtà del pranzo consumato dai coreuti (ἠρίστηται δ’ ἐξαρκούντως), riferimento che sovrappone alla dimensione notturna del rito la scena diurna della rappresentazione sull’orchestra delle Lenee.81 Dai prati in fiore il Coro dà dunque avvio nell’antistrofe agli inni per le divinità tutelari della commedia, piegando nuovamente un elemento rituale a cornice per momenti di poetica implicita. Le divinità invocate, Atena protettrice (Σώτειρα), Demetra regina del raccolto (καρπόφορος βασίλεια) e signora dei misteri (ἁγνῶν ὀργίων ἄνασσα), e Iacco, inventore del dolcissimo canto (μέλος ἑορτῆς ἥδιστον εὑρών) e amante di chi danza nei cori (φιλοχορευτής), richiamano le condi-

81 Dover (1993), 60, nota che l’ἄριστον «is the morning meal (…), and the implied exhortation, “Come on, you can dance without thinking of your next meal”, suits the function of the chorus as daytime performers, not the initiates in the underworld». Stanford (19632), 108, pensa alla possibilità di un riferimento al pranzo offerto dal choregos ai membri del coro prima della rappresentazione, per il quale richiama un passo degli Acarnesi (1153), o al pranzo consumato dagli spettatori, per il quale rinvia agli Uccelli (788–89).

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zioni necessarie all’esistenza della commedia: la salvezza della città, che Atena promette di proteggere in eterno, la prosperità, che da Demetra deriva e che fa della dea la signora dei misteri della commedia, e l’invenzione stessa della danza corale del teatro comico da parte di Iacco. Nell’inno per esaltare Atena Salvatrice,82 con voce di canto (τῇ φωνῇ μολπάζων)83 e in maniera adeguata alla nobiltà della dea (ἀλλ’ ἔμβα χὤπως ἀρεῖς τὴν Σώτειραν γενναίως) che benevola afferma di salvare l’Attica in eterno (ἣ τὴν χώραν σώσειν φήσ’ εἰς τὰς ὥρας), il riferimento in chiusa di antistrofe a Toricione, che traendo vantaggio dalla guerra vorrebbe opporsi alla salvezza della città (κἂν Θωρυκίων μὴ βούληται),84 richiama istanze espresse dal Corifeo negli anapesti della prorrhesis: Atena provvederà alla salvezza della città nonostante l’azione di malfattori che, favorendo i nemici con traffici illeciti di attrezzature navali (362–64), ne indeboliscono la forza e impoveriscono le risorse, necessarie l’una e le altre alle rappresentazioni teatrali. Segue l’inno alla Salvatrice l’esortazione del Corifeo, in tetrametri anapestici,85 perché il Coro intoni ora un’altra forma d’inno per la regina portatrice del raccolto, celebrando la dea Demetra con sacri canti: ἄγε νυν ἑτέραν ὕμνων ἰδέαν τὴν καρποφόρον βασίλειαν, Δήμητρα θεάν, ἐπικοσμοῦντες ζαθέοις

82 Atena dietro l’epiteto di Salvatrice identificano gli scoli (Schol. vet. Ar. Ran. 378: Ἀθηνᾶ Σώτειρα λεγομένη, ᾗ καὶ θύουσιν): di questa opinione Haldane (1964), 207– 209, che nota come la natura marziale del contenuto e dello stile dell’inno si adattino ad Atena, identificazione che peraltro sarebbe confermata, a suo giudizio, dall’inno ad Atena che leggiamo nelle Tesmoforiazuse (1136–47), Graf (1974), 47, n. 37, Dover (1993a), 184, e Sommerstein (1996), 190–191. L’identificazione con Kore è sostenuta da van Leeuwen (1896), 69, Rogers (1902), 58, Murray (1908), 115, Radermacher (19542), 194, Del Corno (19922), 178, che tuttavia riflette sulla «inconsueta successione» per la triade eleusina che l’identificazione realizzerebbe, e Maggi (2020), 329 e 336–338. Tierney (1934/35), 216, ritiene Demetra, a cui sarà dedicato il successivo inno, destinataria anche dell’inno per Soteira. Dover (1993), 244, avanza l’ipotesi che «Demeter “the queen who brings the grain” and “Demeter the Saviour” could be treated as different beings for ritual purposes». Per l’identificazione con Atena propende Jim (2015), 63–74, che inquadra la riflessione sull’epiteto Soteira alla luce della più generale «practice of signifying a god with a bare epiteth», non meno che sull’uso di Soter/Soteira per divinità differenti e con differente funzione. Cf. anche Paul (2016), 126–131. 83 L’espressione τῇ φωνῇ μολπάζων marca il passaggio dal recitativo della prorrhesis alla sezione lirica (vd. il riferimento alla μολπή del Corifeo al v. 370). 84 Parker (1997), 471, nota che «the reference to Thorycion, mentioned as sinner at 363, comes as a comic surprise at the end of an apparently “straight” passage». 85 Il Corifeo prosegue il suo intervento nel metro della prorrhesis: «Like the “parabatic” address 354–71», nota Dover (1993), 244.

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μολπαῖς κελαδεῖτε (383–84).86 L’inno a Demetra, d’andamento giambico – l’ἑτέρα ἰδέα richiesta dal Corifeo,87 offre ad Aristofane l’occasione di legare saldamente la dea καρπόφορος al rito della commedia (385a–93): Δήμητερ, ἁγνῶν ὀργίων ἄνασσα, συμπαραστάτει, καὶ σῷζε τὸν σαυτῆς χορόν· καί μ’ ἀσφαλῶς πανήμερον παῖσαί τε καὶ χορεῦσαι. καὶ πολλὰ μὲν γέλοιά μ’ εἰπεῖν, πολλὰ δὲ σπουδαῖα, καὶ τῆς σῆς ἑορτῆς ἀξίως παίσαντα καὶ σκώψαντα νικήσαντα ταινιοῦσθαι. Il Coro invoca Demetra quale signora dei sacri misteri (ἁγνῶν ὀργίων ἄνασσα) e alla dea chiede concreto supporto (συμπαραστάτει) e protezione

86 Del Corno (19922), 178, rileva una «sfumatura di ambiguità» riguardo al rapporto di dipendenza tra gli oggetti ἰδέαν e βασίλειαν e i due verbi ἐπικοσμοῦντες e κελαδεῖτε: «L’effetto stilistico» – a suo giudizio – «appare voluto, quasi ad identificare Demetra con i canti in suo onore». L’ordine delle parole, con la giustapposizione dei due oggetti nel primo dei due versi pronunciati dal Corifeo (383) e il verbo κελαδεῖτε in chiusa di secondo verso (384), suggerisce piuttosto la scelta di uno stile solenne, che ben si accorda con la rievocazione dell’inno rituale per Demetra e insieme introduce con solennità la sezione corale più eminentemente parabatica della parodo (385a– 93), come testimonia il riferimento che chiude la strofe alla vittoria del Coro, felice compimento del rito sulla scena. 87 Fraenkel (1962), 201–202, considera tali brevi successioni giambiche una ripresa del modello del Kultlied dei canti processionali, la cui semplicità di riproduzione era adatta «für den Gesang der grossen, nicht durchweg musikalisch sehr geschulten Menge der Teilnehmer» – e indica come parallelo dal punto di vista formale un frammento dai Demi di Eupoli (fr. 17 Telò = 99, 1–22 K.-A.): contra Parker (1997), 472–473, che indica per il frammento di Eupoli il rapporto con il canto scommatico della parodo (416–30). Sommerstein (1996), 191, nota che nell’inno per Demetra «the chorus speak almost entirely qua comic performers, and it is appropriately sung in one of the lyric rhythms most typical of comedy», per il quale rimanda alle pagine di Dale (19682), 75–77. Per Parker (1997), 473, «the prayers of Aristophanes’ chorus are in some degree ambiguous: they are in part adaptable to their real persons as comic chorusmen». Riflette sull’architettura dell’inno in relazione al rapporto tra «struttura poetico-sintattica» e «ritmico-musicale» Tessier (20122), 125–130.

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(σῷζε),88 affinché il suo Coro possa, senza imprevisti (ἀσφαλῶς),89 scherzare e danzare (παῖσαί τε καὶ χορεῦσαι) lungo l’intero giorno (πανήμερον). Con la protezione di Demetra il Coro potrà dire molte cose scherzose e molte cose serie (καὶ πολλὰ μὲν γέλοιά μ’ εἰπεῖν, πολλὰ δὲ σπουδαῖα), e dopo avere scherzato e canzonato in modo degno della sua festa (καὶ τῆς σῆς ἑορτῆς ἀξίως παίσαντα καὶ σκώψαντα) ricevere la corona di vincitore (νικήσαντα ταινιοῦσθαι). Nella cornice formale dell’inno per Demetra, attraverso l’allusione alla prassi ‘diurna’ della commedia sulla scena (πανήμερον παῖσαί τε καὶ χορεῦσαι),90 validata dal richiamo finale alla vittoria nella competizione, limpida è l’identificazione del Coro di μύσται con i coreuti sulla scena delle Lenee:91 il Coro delle Rane ha qui descritto per il suo autore l’impegno proprio del genere letterario della commedia quale fusione di geloion e spoudaion: procurare, prendendo in prestito i termini di Aristotele per il genere tragico,92 il piacere proprio della mimesis comica, su cui si fonda il successo nella competizione.93 88 Faraone (1997), 47, riflette sull’uso del verbo σῴζω da parte degli Iniziati negli inni per la Salvatrice e per Demetra, e avanza l’ipotesi che la parodo delle Rane testimoni «a generalized prayer for “salvation” in the eschatological sense». Tuttavia, sia l’inno alla Salvatrice sia l’inno a Demetra inquadrano la salvezza in un ambito eminentemente terreno, il primo con il richiamo ai conflitti bellici in cui i ‘Toricioni’ prosperano, il secondo con l’allusione alle competizioni teatrali. 89 Riguardo al significato di ἀσφαλῶς Dover (1993), 245, nota: «not just “safely”, but in the broadest sense, “without anything going wrong” (e.g. in the performance)». Nella stessa direzione Sommerstein (1996), 191, che richiama il significato letterale di ἀσφαλῶς e suggerisce «without stumbling (sc. in the dance)». 90 Al pari del richiamo al pranzo consumato dai coreuti (376), Sommerstein (1996), 190, ritiene il riferimento temporale alla dimensione diurna il segno che «when he wrote this song, Ar. knew that his play would be performed in the afternoon». 91 Stanford (19632), 108, nota che «here the prayer becomes more apt for the Chorus’s (and author’s) desire to win the comic competition than for any mystical intention». Dover (1993), 58, pensa a un riferimento preciso alla vittoria nelle Lenee. Contra Biles (2011), 228. 92 Arist. Poet. 1453b10–14: οὐ γὰρ πᾶσαν δεῖ ζητεῖν ἡδονὴν ἀπὸ τραγῳδίας ἀλλὰ τὴν οἰκείαν – cioè quanto deriva allo spettatore dalla μίμησις di azioni che suscitano ἔλεος e φόβος: ἐπεὶ δὲ τὴν ἀπὸ ἐλέου καὶ φόβου διὰ μιμήσεως δεῖ ἡδονὴν παρασκευάζειν τὸν ποιητήν, φανερὸν ὡς τοῦτο ἐν τοῖς πράγμασιν ἐμποιητέον. Per la funzione cognitiva del piacere tragico cf. Donini (2012), 109–130. 93 Contro la possibilità di vedere in questo passo «a pronouncement on the supposedly serio-comic nature of Aristophanes’ own work, the playwright’s “view of his function and duty as a comic dramatist”» Halliwell (2008), 212–213, che inquadra le dichiarazioni del Coro nel contesto del rito evocato: «the immediate and primary force of the serio-ludic formulation at Frogs 389–90 is to characterise the compound nature – part playful, part solemn – which made up the long Iacchus procession to Eleusis».

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Il nuovo appello del Corifeo, qui con variazione di metro,94 perché il Coro intoni un inno al dio nel fiore degli anni (ἄγ’ εἶά νυν καὶ τὸν ὡραῖον θεὸν παρακαλεῖτε δεῦρο ᾠδαῖσι), compagno della danza (τὸν ξυνέμπορον τῆσδε τῆς χορείας) degli Iniziati (394–97),95 dà avvio a un nuovo momento di poetica implicita, con la definizione del ruolo di Iacco rispetto alla ἑορτή di Demetra, cioè rispetto alla prassi del rito della commedia definito nell’inno per la dea (389–93). Dall’inno a Iacco emergono, allusi nella cornice formale del canto processionale che condurrà gli Iniziati al sacro recinto della dea (vd. 440–44), riferimenti alla prassi della rappresentazione comica, quali la durata della performance teatrale, i costumi degli attori, il rapporto proprio della commedia con la libertà di parola e un esempio di παίζειν incentrato sulle nudità che rivela l’abito di scena di una fanciulla del Coro (398–413): Ἴακχε πολυτίμητε, μέλος ἑορτῆς ἥδιστον εὑρών, δεῦρο συνακολούθει πρὸς τὴν θεὸν καὶ δεῖξον ὡς ἄνευ πόνου πολλὴν ὁδὸν περαίνεις. Ἴακχε φιλοχορευτά, συμπρόπεμπέ με. σὺ γὰρ κατεσχίσω μὲν ἐπὶ γέλωτι κἀπ’ εὐτελείᾳ τόδε τὸ σανδαλίσκον καὶ τὸ ῥάκος, κἀξηῦρες ὥστ’ ἀζημίους παίζειν τε καὶ χορεύειν. Ἴακχε φιλοχορευτά, συμπρόπεμπέ με. καὶ γὰρ παραβλέψας τι μειρακίσκης νῦν δὴ κατεῖδον καὶ μάλ’ εὐπροσώπου συμπαιστρίας

94 L’esortazione del Corifeo per l’inno a Iacco non è formulata in tetrametri anapestici catalettici, come l’esortazione per l’inno a Demetra: Sommerstein (1996), 191, pensa a un andamento giambico, per il quale richiama la successione di tetrametri giambici sincopati nella parodo delle Vespe (248–72); Dover (1993), 245, (considerando enclitico il νυν al v. 394) interpreta il v. 395 come successione di lecizio e itifallico, e i vv. 396/7 come successione di dimetro giambico e itifallico; per Parker (1997), 472, il v. 395 «begins with temporal νῦν, marking the next stage in the preceedings», determinando la successione di «a pair of recitative verses, this time “euripideans” (ia dim + ith) (see on Lys. 256ff. = 271ff.)». 95 Il termine è impiegato da Dioniso nel prologo delle Baccanti per il tiaso di donne di Lidia, del dio πάρεδροι e ξυνέμποροι (57).

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χιτωνίου παραρραγέντος τιτθίον προκύψαν· Ἴακχε φιλοχορευτά, συμπρόπεμπέ με. Nella prima delle tre stanze in responsione, d’andamento giambico e chiuse ognuna dallo stesso refrain,96 il Coro invoca Iacco πολυτίμητος come inventore del canto dolcissimo della ἑορτή (μέλος ἑορτῆς ἥδιστον εὑρών); esorta il dio a accompagnarlo dalla dea (δεῦρο συνακολούθει πρὸς τὴν θεόν) e a mostrare come si compie senza fatica il lungo cammino (καὶ δεῖξον ὡς ἄνευ πόνου πολλὴν ὁδὸν περαίνεις);97 giunge quindi il refrain, con la richiesta al dio amante di chi danza nei cori di prendere parte alla processione (Ἴακχε φιλοχορευτά, συμπρόπεμπέ με).98 Segue, nella seconda stanza, il riferimento ai sandali e agli abiti laceri del Coro (τόδε τὸ σανδαλίσκον καὶ τὸ ῥάκος), che il dio ha voluto fossero a brandelli per suscitare il riso, e certo per motivi di economia (ἐπὶ γέλωτι κἀπ’ εὐτελείᾳ),99 una trovata con la quale il dio rende possibile scherzare e danzare impunemente (κἀξηῦρες ὥστ’ ἀζημίους παίζειν τε καὶ χορεύειν). La licenza di rappresentare il geloion, offerta per così dire dall’abito letterario del genere comico, è messa dunque in scena nella terza stanza dell’inno, attraverso l’esempio di παίζειν giocato

96 Cf. Dale (19682), 76, Stanford (19632), 109, Sommerstein (1996), 191, e Parker (1997), 473, che nota come «the acatalectic refrain contrasts with the catalectic close of the stanza proper». Dover (1993), 246, interpreta il ritmo dei vv. 398=404=409, 399=405=410, e 401=407ab=412ab come associazione di un baccheo ai metra giambici. Riguardo alla forma dell’inno, Zimmermann (19852), 130, ritiene che «der einfache Bau, vor allem aber der Refrain zeigen, daß Aristophanes sich durch außerliterarische, kultische Lieder zu diesem Iakchos-Anruf inspirieren ließ». 97 Vd. Eur. Bacch. 64–7, dove il percorso compiuto per Bromio è un «dolce impegno» (πόνος ἡδύς), «fatica che non affatica» (κάματος εὐκάματος) – trad. di Di Benedetto (2004). Cf. Sommerstein (1996), 191–192. 98 Sull’espressione συμπρόπεμπέ με Dover (1993), 246, nota: «not μοι, so not “joing with me in escorting…” but “join in escorting me”». Per una ricostruzione della processione verso Eleusi della statua di Iacco cf. il quadro offerto da Parker (2005), 348–350, con bibliografia. 99 Dover (1993), 63, nota che «ragged clothing generates laughter and saucy jokes (409–412b), it is economical for the worshippers of Iakchos in real life, and it is no less economical for the choregos». Stanford (19632), 109, pensa a un riferimento alla «stinginess» del corego in tempi di ristrettezze imposte dall’impoverimento dovuto alle spese militari (prospettiva da cui deriva l’interpretazione «without loss to our pockets» della sequenza ὥστ’ ἀζημίους παίζειν τε καὶ χορεύειν). Cf. PickardCambridge (19682), 86–90. Riguardo al termine εὐτέλεια, Sommerstein (1996), 192, immagina un richiamo a un’etimologia non attestata e interpreta «proper performance of the rituals (tele)».

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sulle vesti di una fanciulla tra i coreuti che da uno strappo del costume di scena (χιτώνιον παραρραγέν) mostra il seno. L’immagine della fanciulla giunge come symbolon identitario per il dio del teatro rompendo l’ἡσυχία di Eracle-Dioniso (vd. 321–22), che ascoltato il terzo refrain con l’invito del Coro a Iacco a prendere parte al rito verrà meno al composto silenzio tenuto fino a quel momento per assumere su di sé, Iacco-Dioniso, la richiesta del Coro.100 Con l’inno a Iacco il meccanismo di trazione degli elementi riconducibili ai riti dei misteri verso la prassi del teatro trova compimento nell’identificazione di Iacco, la divinità dell’Oltretomba evocata nella parodo, con il dio del teatro che risponde all’esortazione del Coro. In questa prospettiva deve essere interpretata la stretta connessione tematica e metrica dell’intervento di Dioniso con la strofe conclusiva dell’inno, a metà tra a parte e risposta diretta all’esortazione nel refrain Ἴακχε φιλοχορευτά, συμπρόπεμπέ με (413): all’ultima richiesta del Coro Dioniso risponde, in continuità con l’impianto metrico degli ultimi versi della strofe (412a–13),101 quale destinatario diretto dell’inno, prima – attraverso il gioco fonico φιλοχορευτής/φιλακόλουθος – con la variazione dell’epiteto con il quale è invocato (ἐγὼ δ’ ἀεί πως φιλακόλουθός εἰμι), poi, colpito dalla grazia della fanciulla del Coro, esprimendo la propria volontà a partecipare al παίζειν e al χορεύειν a cui è chiamato (καὶ μετ’ αὐτῆς παίζων χορεύειν βούλομαι), entrando così nel personaggio di se stesso, ben oltre il travestimento da Eracle. L’inno a Iacco segna il passaggio dall’impegno di definizione della natura della commedia, in piena luce nell’inno a Demetra, quale commistione di γέλοια e σπουδαῖα nelle forme del παίζειν e dello σκώπτειν (389–93), alla rappresentazione della prassi della commedia, offrendo con la vivida vignette della fanciulla del Coro un nitido esempio di παίζειν sulla scena della commedia. L’impegno del Coro verso la rappresentazione della prassi comica, avviato nell’ultima strofe dell’inno a Iacco e amplificato dalle battute di Dioniso e Santia, troverà piena espressione con il successivo intervento del Coro nella forma dello σκώπτειν: nello spazio di cinque ministanze di tre versi ciascuna e d’andamento giambico il Coro di μύσται, co-

100 Per questa attribuzione delle battute ai versi 414a–b cf. Del Corno (19922), 179, Sommerstein (1996), 193, e Parker (1997), 476. Dover (1993), 247, ritiene invece che la battuta sia pronunciata dal Corifeo (sulla base del confronto con il v. 445: ἐγὼ δὲ σὺν ταῖσιν κόραις εἶμι καὶ γυναιξίν). 101 Così Zimmermann (19852), 131, che nota peraltro come il breve intermezzo di Dioniso e Santia occupi il posto dei precedenti interventi d’esortazione del Corifeo.

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me ora vedremo, darà prova di vigore comico, nella forma dell’attacco personale.

2.4. Il gephyrismos nel rito della commedia (416–30) Dal prato dei μύσται, orchestra dell’Aldilà per gli Ιniziati in vita alla poesia comica, Aristofane apre la scena delle Rane, come già in occasione della prorrhesis, sul pubblico riunito per le Lenee, offrendo un canto scommatico in cui si fondono rituale evocato e prassi comica. Anche per questa sezione della parodo con al centro gli σκώμματα Aristofane intreccia la rievocazione di momenti legati alla dimensione cultuale, in cui derisioni comparivano durante le celebrazioni che precedevano i misteri,102 con le forme della poesia comica che coniuga aiscrologia e invettiva personale.103 Il punto di contatto e sovrapposizione tra la prassi dell’insulto legata alle processioni di Dioniso e Demetra104 e la prassi poetica dell’insulto propria della commedia è realizzata da Aristofane attraverso la moltiplicazione dei destinatari dello scherno nel canto dei coreuti, che ora, nella forma dello iambismos,105 evocano figure con un ruolo nel culto, quali i γεφυριταί che le fonti indicano per processione da Atene a Eleusi,106 senza tuttavia sfumare i

102 A un momento di derisione πρὸ τῶν μυστηρίων fa riferimento Aristofane nelle Vespe (1361–63), quando Filocleone, con l’inversione dei ruoli padre-figlio, riserva a Bdelicleone il τωθασμός che il figlio a lui riservò prima dei misteri: cf. Rusten (1977), 157–161, Parker (2005), 349, Halliwell (2008), 166–168 e 208–211, e Biles, Olson (2015), 476–477. Se la scena delle Vespe, al netto del riadattamento comico, è testimonianza attendibile della prassi dell’insulto verso gli iniziati ai misteri, il canto scommatico degli Iniziati configurerebbe un significativo capovolgimento della prassi rituale a vantaggio delle potenzialità espressive del Coro delle Rane: cf. Radermacher (19542), 203 e n. 1, Zimmermann (19852), 131–132, e Chronopoulos (2017), 37–38. 103 Cf. Rosen (2007), 29–32, e Halliwell (2008), 213–214. 104 Cf. Richardson (1974), 213–217, Henderson (19912) 15–17, Rosen (2007), 27–32 e 47–57, e Bremmer (2014), 5–8. 105 Per Dale (19682), 76–77: «this song represents the old rustic ίαμβισμός or γεφυρισμός, the “lampooning at the bridge”, which was probably the most primitive form of the popular metre». Cf. anche Parker (1997), 474–477. Zimmermann (19852), 131, rileva che «typisch für die volkstümliche Form ist der Aufbau in kurze strophen, das Vermeiden von Enjambement sowie das iambische Metrum, das vor allem im Klauselvers seine Nähe zum gesprochenen Vers zeigt». 106 Secondo la testimonianza di Esichio relativa alle voci γεφυρίς (γ 469) e γεφυρισταί (γ 470), durante la processione verso Eleusi, al momento del passag-

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contorni della loro funzione quale coro comico,107 come testimonia, nella produzione di Aristofane, la moltiplicazione dei bersagli dell’insulto nel canto, d’andamento giambico,108 del Coro negli Acarnesi (836–59), non meno che la rassegna di personaggi oggetto di insulto nel canto scommatico che leggiamo in un frammento forse dalla parabasi dei Demi di Eupoli (fr. 17 Telò = 99, 1–22 K.-A.).109 Bersaglio dello iambismos del Coro delle Rane è il modello negativo di cittadino escluso dal rito negli anapesti della prorrhesis per ragioni etiche. I personaggi oggetto di scherno sono fuori dall’orizzonte del regno dei morti di Plutone, non meno appartengono a un mondo in eclissi e senza vita, quale è quello «dei morti di lassù» (416-30):110 βούλεσθε δῆτα κοινῇ σκώψωμεν Ἀρχέδημον, ὃς ἑπτέτης ὢν οὐκ ἔφυσε φράτερας; νυνὶ δὲ δημαγωγεῖ ἐν τοῖς ἄνω νεκροῖσιν, κἄστιν τὰ πρῶτα τῆς ἐκεῖ μοχθηρίας. τὸν Κλεισθένους δ’ ἀκούω ἐν ταῖς ταφαῖσι πρωκτὸν τίλλειν ἑαυτοῦ καὶ σπαράττειν τὰς γνάθους· κἀκόπτετ’ ἐγκεκυφώς, κἄκλαε κἀκεκράγει Σεβῖνον ὅστις ἐστὶν Ἁναφλύστιος.

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gio sul ponte di un fiume – il Cefiso, secondo Strabone (IX 1, 24), schernitori (σκῶπται) indirizzavano verso cittadini illustri battute derisorie (σκώμματα) chiamandoli per nome. Cf. Halliwell (2008), 169–171. Dover (1993), 58, rileva che il Coro delle Rane «simultaltaneously παίζει in its function as a comic chorus and enacts a company of initiates παίζοντες in the underworld. This ambivalence is familiar elsewhere in Aristophanes, and the balance between theatrical function and dramatic enactment shifts from one passage to another». Cf. Dale (19682), 80–81 e 198. Cf. Storey (2010), 183. Dover (1993), 247–248, considera centrale il modello di Eupoli per questa sezione del Coro delle Rane e nota inoltre che «it is hardly to be expected that we should discern a difference between ridiculing eminent passers-by at the procession and ridiculing eminent members of the community (and audience) from the comic stage» (p. 248). Per Halliwell (2008), 214, «this song is probably the most vivid evocation of improvised scurrility, and its embodiment in a dance of irrepressible energy (in which sex and mockery blend together), to be found anywhere in Aristophanes».

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καὶ Καλλίαν γέ φασιν τοῦτον τὸν Ἱπποβίνου κύσθου λεοντῆν ναυμαχεῖν ἐνημμένον. Con i nomi di Archedemo, Clistene e Callia è rappresentata, attraverso lo sguardo impietoso di riusciti giochi di parole dal basso delle regioni dell’Ade verso l’alto delle regioni dei morti-vivi, la degenerazione nella vita pubblica e privata di Atene.111 Sono i tempi in cui uno come Archedemo, che non può nemmeno dirsi ateniese (ὃς ἑπτέτης ὢν οὐκ ἔφυσε φράτερας), esercita il potere politico per il popolo dei morti di lassù (νυνὶ δὲ δημαγωγεῖ ἐν τοῖς ἄνω νεκροῖσιν) e come se non bastasse in questo è un campione di malvagità (κἄστιν τὰ πρῶτα τῆς ἐκεῖ μοχθηρίας).112 Lo scherno raggiunge poi Clistene, di cui sono note anche nell’Ade l’effeminatezza (τὸν Κλεισθένους δ’ ἀκούω ἐν ταῖς ταφαῖσι πρωκτὸν τίλλειν ἑαυτοῦ καὶ σπαράττειν τὰς γνάθους),113 e il comportamento indegno di un uomo (κἀκόπτετ’ ἐγκεκυφώς, κἄκλαε κἀκεκράγει Σεβῖνον ὅστις ἐστὶν Ἁναφλύστιος). Non meno è noto nell’Ade lo scarso contegno di Callia che, figlio di Ippobino,114 accumula, novello Eracle, trofei galanti con la sua dissolutezza (καὶ Καλλίαν γέ φασι τοῦτον τὸν Ἱπποβίνου κύσθου λεοντῆν ναυμαχεῖν ἐνημμένον).115 Dopo le parole su Callia e la sua λεοντῆ, Dioniso, che di Eracle ha il travestimento, interrompe il canto del Coro per avere indicazioni su dove si

111 Sulla sezione si veda Brown (1997), 61–69. 112 Capo della parte democratica nel 406/7, con l’incarico della diobelia, Archedemo citò in tribunale Erasinide, uno degli strateghi delle Arginuse, per appropriazione indebita e per il suo operato durante la strategia (Xen. Hell. I 7, 2). Le sue presunte origini non ateniesi (a cui allude il gioco di parole φράτερας/φραστῆρας) potrebbero essere state motivo di scherno anche nei Baptai di Eupoli (fr. 80 K.A.): cf. Olson (2017), 253–255. 113 Sommerstein (1996), 194, nota che «“Cleisthenes’ arsehole” is here used by synecdoche to denote Cleisthenes with the implication that Cleisthenes’ (allegedly much-penetrated) anus is the most important part of him». Un’allusione alla pratica della fellatio dietro l’espressione σπαράττειν τὰς γνάθους, ‘lacerarsi le guance’, rileva Henderson (19912), 185, con il quale concorda Sonnino (2012), 80-81. 114 Il nome del padre di Callia, Ipponico, è qui deformato sul verbo βινέω a delineare una discendenza che meglio si accorda con la passione di Callia per le donne, un tratto messo in ridicolo da Aristofane anche negli Uccelli (282–86). Cf. Dover (1993), 249, e Sommerstein (1996), 195–196. Per un profilo di Callia cf. Nails (2002), 68–74, e Marginesu (2016). 115 Per Dover (1993), 249, «κύσθος is “cunt”, so we might translate “a pussy-skin” […] Herakles conquered the lion of Nemea, and Kallias wears a suitable trophy of his own “conquests”».

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trovi il palazzo di Plutone (431–32): non devono procedere a lungo né chiedere un’altra volta, risponde il Coro, sono giunti ormai alla porta (434–36). Lo scambio di Dioniso con il Coro per le indicazioni di viaggio e il successivo dialogo con Santia, ripresa ironica del gioco sui bagagli nel prologo (437–39), sono in felice continuità metrica con le mini stanze del canto scommatico,116 e nell’insieme producono l’effetto di assimilare alla parte del Coro l’intervento dei ‘due stranieri giunti da poco’, secondo la auto-definizione di Dioniso (433), senza interrompere la dimensione lirica del canto della parodo, che si avvia ora all’ultima sezione.117

2.5. Il λειμών per la danza più bella Dopo lo iambismos, rispondendo alla nuova esortazione del Corifeo (440– 44), il Coro darà compimento all’impegno richiesto nei versi finali della sezione anapestica (370–71) verso la μολπή e le παννυχίδες proprie della ἑορτή che gli Iniziati ai misteri delle Muse autentiche celebrano sul prato della loro beatitudine ultraterrena. Nella sezione lirica che chiude la parodo Aristofane ripristina l’atmosfera sacrale che aveva caratterizzato l’ingresso in scena del Coro. Con il nuovo richiamo a elementi riconducibili a riti d’iniziazione misterica Aristofane allude all’iniziazione poetica del Coro delle Rane, ora attraverso il nuovo richiamo all’immagine del prato e al sostegno alla danza da parte di Moire benevole, qui assimilate a Muse ultraterrene (440–59): χωρεῖτέ νυν ἱερὸν ἀνὰ κύκλον θεᾶς, ἀνθοφόρον ἀν’ ἄλσος παίζοντες οἷς μετουσία θεοφιλοῦς ἑορτῆς. ἐγὼ δὲ σὺν ταῖσιν κόραις εἶμι καὶ γυναιξίν, οὗ παννυχίζουσιν θεᾷ, φέγγος ἱερὸν οἴσων. χωρῶμεν εἰς πολυρρόδους λειμῶνας ἀνθεμώδεις, τὸν ἡμέτερον τρόπον τὸν καλλιχορώτατον

116 Per Stanford (19632), 111, «a kind of metrical joke». Del Corno (19922), 181, nota come la scelta di conservare per il dialogo il metro del canto scommatico si riveli «un’allegra invenzione ritmica e scenica». 117 Zimmermann (19852), 132, nota che «in den an die σκώμματα anschließenden drei Strophen (431-439) kleidet Dionysos die triviale Frage nach dem Weg in ein musikalisches Gewand».

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παίζοντες, ὃν ὄλβιαι Μοῖραι ξυνάγουσιν. μόνοις γὰρ ἡμῖν ἥλιος καὶ φέγγος ἱερόν ἐστιν, ὅσοι μεμυήμεθ’ εὐσεβῆ τε διήγομεν τρόπον περὶ τοὺς ξένους καὶ τοὺς ἰδιώτας. Il canto scommatico, intermezzo nel mondo degli spettatori, aveva mutato la percezione del luogo dal λειμών destinato ai θιασῶται nell’Ade (326–27) alla scena delle Lenee, dove il coro comico si produce in σκώμματα. Con l’ultima sezione lirica centrale diviene ancora una volta il luogo dove si svolge il rito, con una giustapposizione di immagini che dal sacro recinto della dea (ἱερὸς κύκλος θεᾶς), bosco sacro di fiori (ἀνθοφόρον ἄλσος) destinato a chi partecipa alle celebrazioni (οἷς μετουσία θεοφιλοῦς ἑορτῆς), giunge di nuovo, nel canto del Coro, all’immagine dei prati in fiore (λειμῶνες ἀνθεμώδεις), luogo naturale per la danza pura e sacra dei μύσται (vd. 334– 36).118 Alla luce dell’intreccio tra rievocazione del rito e sacralizzazione poetica del Coro delle Rane deve essere interpretato il rapporto tra i luoghi evocati dal Corifeo e i movimenti del Coro sulla scena. Difficoltà di interpretazione sorgono quando si consideri da una parte l’esortazione del Corifeo agli ammessi al rito ad avanzare nel bosco di fiori del recinto della dea (χωρεῖτέ νυν ἱερὸν ἀνὰ κύκλον θεᾶς, ἀνθοφόρον ἀν’ ἄλσος παίζοντες οἷς μετουσία θεοφιλοῦς ἑορτῆς), e dall’altra la dichiarazione che egli si recherà con le fanciulle e le donne nel luogo dove si svolgono le veglie notturne (ἐγὼ δὲ σὺν ταῖσιν κόραις εἶμι καὶ γυναιξίν, οὗ παννυχίζουσιν θεᾷ, φέγγος ἱερὸν οἴσων).119 La lettera del testo potrebbe suggerire che il Corifeo insieme con la parte del semicoro femminile lasci la scena e che il solo semicoro maschile risponda all’esortazione del Corifeo.120 Ma ben al di là d’essere indi-

118 Sottolinea questo aspetto Zimmermann (19852), 133: «bei seinem letzten Parodos-Lied begibt sich der Chor sprachlich wieder auf das Niveau des Beginns: Man befindet sich im Bereich hoher Lyrik; der Chor singt wieder in seiner Rolle als Mysten». 119 Dover (1993a), 190, ritiene che dietro l’indicazione ἐγὼ δὲ σὺν ταῖσιν κόραις εἶμι καὶ γυναιξίν sia da riconoscere «a sexy joke, because a female all-night festival provides opportunities for the male prowler». 120 Cf. van Leeuewen (1896), 77: «dux chori abit cum mulieribus, quae faces secum auferunt», e Radermacher (19542), 207. Sulla possibile divisione del Coro cf. Zimmermann (19852), 135–136, e Sommerstein (1996), 184.

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zio per la divisione del Coro e i movimenti dei semicori121 le indicazioni di luogo nell’esortazione del Corifeo assolvono alla funzione di delineare l’ultimo momento nella narrazione del rituale rappresentato nella parodo, che ha qui compimento con le παννυχίδες annunciate alla fine della sezione anapestica (370–71). Strettamente legata alla funzione rituale del luogo dove si svolgono le celebrazioni per la dea è la valenza simbolica del prato quale luogo per la danza ispirata, su cui si fonda la sacralità poetica nella quale Aristofane inscrive l’ultimo intervento del Coro. Il canto del Coro costituisce l’ultimo momento di poetica implicita della parodo, offrendo nello spazio di strofe e antistrofe122 compimento alla rielaborazione letteraria del rito evocato, e piegato alla rappresentazione ideale della commedia attraverso il suo coro. Al realismo dei riferimenti del Corifeo ai luoghi del culto di Demetra il Coro risponde nella strofe con la stilizzazione dello spazio per la danza, che da recinto sacro, bosco per il culto, diviene altrove rarefatto di prati fioriti di rose, dove l’allusione a un altro luogo legato al culto, il Callicoro di Demetra,123 perde consistenza di nome referente della realtà per divenire aggettivo (καλλιχορώτατος) che esalta la danza più bella, la danza nel modo proprio della commedia (τὸν ἡμέτερον τρόπον τὸν καλλιχορώτατον παίζοντες), guidata nell’Ade dalle Moire beate (ὃν ὄλβιαι Μοῖραι ξυνάγουσιν),124 qui assimilate a benevole Muse dell’Aldilà.125 Con l’antistrofe, nella commedia dedicata all’eclissi del genere tragico, Aristofane proietta nel destino nell’Aldilà del dramma attico la sua produzione letteraria, rivendicando per la sua commedia il

121 Contro l’ipotesi di una divisione del Coro nella parodo si esprime Dover (1993a), 184–190. 122 Per la peculiare commistione di cola giambici in strutture polimetriche cf. Dale (19682), 80, Zimmermann (19852), 133, e Dover (1993), 251. Sommerstein (1996), 197, vede nella successione di tre telesillei (450–52 = 456–58) chiusi da un reiziano (453 = 459) il segno che «the chorus end the long parodos on a more serious note than they have struck for some time, with a reference to the postmortem bliss they are enjoying as initiates and the virtue by which they earned it in their earthly life». 123 Nota la sovrapposizione tra significato letterale dell’aggettivo e allusione al pozzo Callicoro a Eleusi Sommerstein (1996), 197. 124 Alle Moire Radermacher (19542), 208, attribuisce il ruolo di «Veranstalterinnen» della danza degli Iniziati. 125 Per Rogers (1902), 69, centrale nella rapporto delle Moire con il destino ultraterreno dei μύσται è l’epiteto ὄλβιαι: «to living men, the Μοῖραι appeared as stern and implacable executioners: to the dead mystics who are leading a far happier life after death than ever they led upon earth, they are bountiful and gracious goddesses». Sottolineano questo aspetto anche Dover (1993), 251, e Sommerstein (1996), 197.

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primato sul piano della poesia e dell’impegno etico: nell’oscurità dell’Ade solo per coloro che sono stati iniziati ai misteri della poesia comica e mostrato nelle forme della poesia comica sacro rispetto (εὐσεβῆ τε διήγομεν τρόπον) verso il pubblico di stranieri e cittadini (περὶ τοὺς ξένους καὶ τοὺς ἰδιώτας)126 splende del sole la divina luce (ἥλιος καὶ φέγγος ἱερόν), segno del destino felice e eterno della commedia di Aristofane. L’immagine del prato, luogo per la poesia ispirata del Coro di Iniziati delle Rane, ricorre per la terza volta nella parodo a chiudere una composizione per cerchi concentrici delineata nelle tre sezioni destinate da Aristofane alla definizione della commedia attraverso il suo Coro, e qui nel canto finale degli Iniziati il prato per la danza è richiamato a sigillo della compiuta sacralizzazione della poesia comica, nella sua doppia funzione di spazio simbolico di eterna investitura e insieme orchestra per la più bella delle danze sulla scena, la commedia.

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Paesaggi oltremondani nell’epigramma sepolcrale ellenistico Serena Cannavale

L’etimologia tradizionale, comunemente accolta dai Greci, faceva derivare una delle denominazioni più diffuse del regno dei morti, Ade, da un alfa privativo, seguito dalla radice -ιδ- ‘vedere’:1 Ade è, dunque, l’invisibile per antonomasia, dio/luogo che non si può vedere e pertanto neanche conoscere.2 Eppure, alla sfida della conoscibilità e, conseguentemente, della rappresentabilità dell’Ade, si sono sottratti pochi testi della letteratura greca fin dall’epica omerica. Le molteplici soluzioni proposte configurano un’immaginaria topografia dell’aldilà che, lungi dall’essere del tutto unitaria e coerente,3 è tuttavia contraddistinta da una serie di costanti che si ripropongono nei diversi periodi e generi letterari. Tale quadro è valido anche per la rappresentazione dei luoghi oltremondani presenti nel genere dell’epigramma sepolcrale, che, vale la pena ricordarlo, è intrinsecamente connesso, nella sua versione epigrafica, ad una dimensione spaziale, alla collocazione sul monumento, alla statua, al supporto, a un contesto fisico.4 Nell’ambito di un’indagine sul rapporto tra i luoghi e i generi letterari, quale quella che questo volume intende portare avanti, tanto più degna di interesse pare l’evoluzione che tale raffigurazione sperimenta nell’ambito della ridefinizione che il genere epigrammatico subisce in età ellenistica, quando si afferma con sempre maggiore evidenza la categoria del Buchepigram, che eredita temi e stilemi del repertorio epigrafico e a sua volta ne introduce di nuovi, recepiti nell’epigrafia contemporanea e successiva, in un mutuo e fecondo scambio.5 Assenti nelle più antiche attestazioni epigrafiche, nelle quali prevale, accanto all’invito al pianto e al lamento, l’esigenza di registrare l’identità del

1 L’autrice intende ringraziare per i loro preziosi suggerimenti Francesca Angiò, Valentina Caruso, Salvatore Cerasuolo, Daniela Milo e Giovan Battista D’Alessio. Per le diverse attestazioni platoniche dell’etimologia (Pl. Phd. 80d; 81c; Cra. 403a; 404b; Grg. 493b) cf. Vallini (2010). 2 Cf. Fabiano (2019), 38. 3 Ivi, 87. 4 Nicosia (1992); Day (2019). 5 Bettenworth (2007); Garulli (2012).

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defunto per preservarne la memoria,6 sporadici ed estremamente sintetici riferimenti a scenari oltremondani negli epigrammi sepolcrali appaiono per la prima volta tra la fine del VI e il V secolo a.C. Attestati in sempre maggior numero nel corso del IV secolo, divengono quindi frequenti in età ellenistica e romana, in accordo con il diffondersi di nuove visioni escatologiche.7 I più antichi e poco significativi riferimenti all’aldilà negli epitimbi risalgono al V secolo: nello specifico abbiamo due epigrafi, una da Thera, l’altra dall’Attica (rispettivamente CEG 1638 e 849), menzionanti le dimore dell’Ade (δόματ’... Ἀίδα e δόμον Ἄιδος) di omerica memoria,10 mentre la citazione dell’Erebo11 ricorre in un epigramma egiziano dubbiosamente datato tra il 475 e il 400 (CEG 171)12 e quindi in un testo attico della metà del IV (CEG 548).13 A partire dal IV secolo si assiste al progressivo incremento dei riferimenti all’aldilà, che potremmo dividere in due categorie: da un lato, rappresentazioni che rispondono ad una visione ‘ctonia’ degli Inferi; dall’altro, immagini che riflettono una prospettiva escatologica celeste o che prevedono l’accoglienza del defunto presso esclusivi luoghi di felicità ultraterrena14. 1. Vediamo dunque la prima categoria, quella ‘ctonia’, già presente nei poemi omerici.15 A partire dal IV secolo l’Oltretomba si identifica nei testi epigrafici con sempre maggior frequenza con il talamo o la dimora di Per-

6 Sourvinou-Inwood (1995), 174–180. 7 Per il progressivo emergere di visioni escatologiche nelle epigrafi, a partire dal IV secolo a.C., cf. Wypustek (2013), 5–28. 8 GVI 1529; FH 92; Pfohl (1967), nr. 179. 9 GVI 95; Pfohl (1967), nr. 117; Clairmont (1970), nr. 22; Clairmont (1993), 1, nr. 610. 10 Cf. e.g. Hom. Il. XXII 52, XXIII 19, 103 et al. εἰν Ἀΐδαο δόμοισι(ν). Il nesso è poi fortunato in tragedia (cf. Soph. Ant. 1241 εἰν Ἅιδου δόμοις; Eur. Alc. 25 εἰς Ἅιδου δόμους) e vitale nella tradizione epigrammatica ellenistica sia letteraria che epigrafica: cf. CEG 163 (500 a.C.?) δόματ’... Ἀίδα; CEG 84 (ca. 440–430) δόμον Ἄιδος; CEG 597 (330–320 a.C.) βασίλεια Ἀίαο; AP VII 466 (Leonida, ca. 315–260 a.C.) εἰς Ἄϊδος σκιερὸν δόμον; AP VII 545 (Egesippo, fl. ca. 250 a.C.) δῶμ’ Ἄϊδος κατέβη; GVI 1388 (III a.C.) εἰν Ἀίδαο δόμοισιν; GVI 1537 (III a.C.) δόμον Ἄιδος; GVI 1137 (III-II a.C.) Πλούτωνος οἶκον εἰς βαθύν; GVI 1694 (III-II a.C.) Ἀίδαο δόμοις; GVI 1917 (II-I a.C.) εἰς Ἄϊδος δῶμα. 11 Cf. Od. XI 136, 564. 12 Su cui vedi Tribulato (2009), 43–44. 13 GVI 1963; Clairmont (1970), nr. 42; Clairmont (1993), 2, nr. 389b. 14 Cf. Barrigón (1999), 135 e passim. 15 Cf. Cerri (1995), 437–448; Fabiano (2019), 89–90.

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sefone:16 forse, come suggerisce Tsagalis, a seguito della diffusione di credenze misteriche, che, come noto, assegnavano alla divinità un ruolo di primo piano.17 Tale talamo è definito come a tutti comune (κοινόν, cf. CEG 593, 346/5–338 a.C.) o, con formazione assai rara che ricompare solo in età bizantina, πάνδεκτον,18 ‘che tutti riceve’ (CEG 489, dell’inizio del IV a.C.),19 concetto che sembra risentire della mediazione tragica.20 L’immagine delle camere di Persefone ricorre poi con persistente vitalità negli epigrammi di età ellenistica, sia di tradizione epigrafica che letteraria, con qualificazioni molto varie, tra le quali emerge anche una loro caratterizzazione in senso più marcatamente elitario, come sede destinata solo ad alcuni selezionati defunti, aspetto su cui avremo modo di tornare.21 Il primo elemento, per così dire, ‘paesaggistico’ connesso alla raffigurazione dell’aldilà ‘ctonio’ attestato nelle epigrafi è rappresentato dall’Acheronte. Nell’’unica attestazione omerica a Od. X 51322 il termine Ἀχέρων indica il fiume infernale collocato all’’ingresso dell’’aldilà, dove raccoglie le

16 CEG 489 = GVI 1637 (IV a.C.) ἦλθ᾽ἐπὶ πάνδεκτον Φερσεφόνης θάλαμον; CEG 511 (IV a.C.) Περσεφόνης δέ / δῶμα; CEG 513 (ca. 380–370 a.C.) Φερσεφόνης θάλμος; CEG 575 (post ca. 350?) Φερσεφόνης θαλάμους; CEG 592 (350–325 a.C.?) Φερσεφόνης θάλαμον; CEG 593 (346/5–338) κοινὸν Φερσεφόνης πᾶσιν ἔχεις θάλαμον. 17 Tsagalis (2004), 94–95. 18 LSJ suppl. s.v.; LBG s.v. 19 Nicosia (1992), 121. Secondo Tsagalis (2004), 86–93, l’aggettivo controbilancia l’eccezionalità del morto, prescelto da Ares, rimarcata nella prima parte dell’epitaffio, sottolineando il suo entrare a far parte di una collettività, quella dei morti. 20 Cf. Soph. El. 138 ἐξ Ἅιδα παγκοίνου λίμνας; Ant. 804 τὸν παγκοίτην ὅθ’ ὁρῶ θάλαμον; 811 ὁ παγκοίτας Ἅιδας (si noti che i composti in παν- sono tipici dei contesti innici in tragedia). Cf. Tsagalis (2004), 269. Cf. anche CEG 563 (ca. 350?), κοινοταφὴς θάλαμος. Su Ade come spazio che tutti accoglie cf. Georgoudi (1988). Analoga caratterizzazione riceve Ade anche come divinità, è definito ad es. πολυδέγμων in H.Hom. Dem. 17 e 31 nonché πάνδοκον in Aesch. Sept. 860. Cf. Fabiano (2019), 123. 21 GVI 99 (III a.C.) ἀδύτους Φερσεφόνης θαλάμους; GVI 1128 (III a.C.) ἐσθλὰ δὲ ναίω δώματα Φερσεφόνας χώρωι ἐν εὐσεβέων; GVI 1913 (III a.C.) ἤλυθε δ’ εἰς νυχίους Φερσεφόνης θαλάμους; GVI 1505 (III-II a.C.) σεμνὸς Φερσεφόνης θάλαμος; GVI 945 (II a.C.) Μοῖρά με πρὸς θαλάμους ἅρπασε Φερσεφόνας; GVI 699 (II a.C.) Πλούτωνός τε δόμους καὶ Φερσεφόνης κυαναυγεῖς; GVI 1150 (II a.C.) ναίωι δώματα Φερσεφόνης; GVI 1988 (II-I a.C.) οἰκοῦμεν μέλαθρ[ον Περσεφόνης ζοφερόν]; GVI 1585 (II-I a.C.) Φερσεφόνας δὲ ἀδίαυλον ὑπὸ στυγερὸν δόμον ἦλθον; AP VII 489 (‘Saffo’) Φερσεφόνας κυάνεος θάλαμος; AP VII 507 bis (‘Simonide’) ξανθῆς Φερσεφόνης θάλαμον; AP VII 508 (‘Simonide’) Φερσεφόνης θαλάμων. 22 Ἔνθα μὲν εἰς Ἀχέροντα Πυριφλεγέθων τε ῥέουσι / Κώκυτός θ’, ὃς δὴ Στυγὸς ὕδατός ἐστιν ἀπορρώξ.

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acque del Piriflegetonte e del Cocito. Ora questo fiume è evocato in un epigramma dell’inizio del V sec. a.C., CEG 119 = GVI 942,23 inciso su una base marmorea dalla Tessaglia: νηπία ἐοῦσ’ ἔθανον καὶ οὐ λά[β]ον ἄνθος ἔτ’ ἤβας, ἀλλ’ ἰκόμαν πρόστεν πολυδάκρυον εἰς Ἀχέροντα· μνᾶμα δὲ τεῖδε πατἡρ Ὑπεράνορος παῖς Κλεόδαμος στᾶσέ με Θεσσαλίαι καὶ μάτηρ θυγατρὶ Κορώνα. Morii ancora bambina e non colsi il fiore della gioventù, ma giunsi anzitempo al lacrimevole Acheronte. Qui il padre Cleodamo, figlio di Iperanore, e la madre Corona mi posero come monumento per la figlia Thessalia. I primi due versi sono pronunziati dalla fanciulla defunta,24 che si dichiara giunta anzitempo al lacrimevole25 Acheronte. Nel testo si osserva un uso metonimico del termine Acheronte (= aldilà), che si afferma nel V secolo26 ed è frequente poi nella poesia ellenistica e in diversi epigrammi sepolcrali.27 Interessante ad esempio un epigramma del 300 a.C. da Panticapeo, in cui la morte si trova descritta, stando alle integrazioni unanimemente accolte dagli editori, come una divisione tra il corpo, destinato alla tomba, e

23 Pfohl (1967), nr. 139; Gallavotti (1979), 151–152; Lorenz (1980), 312–315; Casey (2004), 64–67; FH 32. 24 I primi due versi rappresentano una coppia di esametri: cf. Gallavotti (1979), 151. Il terzo e il quarto verso sono pronunciati dalla stele iscritta o dal monumento; si tratta di una successione, in entrambi i casi, di un alcmanio e di un reiziano: cf. ivi, 152. 25 Interessante l’aggettivo impiegato nell’epigramma in riferimento all’Acheronte, πολυδάκρυος, riferito in Omero alla guerra (Il. XVII 192) e, similmente, ad Ares in Tirteo (11, 7) mentre si trova connesso ad Ade in Eur. HF 426–427 πολυδάκρυον / ἔπλευσ’ ἐς Ἅιδαν. Cf. anche CEG 591 (ca. 350–325 a.C.) ὦ πολύκλαυθ’ Ἅιδη, con i paralleli tragici richiamati da Tsagalis (2004), 269. In Theocr. Id. 17, 47 l’Acheronte è πολύστονος. 26 Cf. ad es. Soph. Ant. 812; Eur. fr. 860 Kn.; Pind. Pyth. 11, 21. 27 Cf., per la poesia ellenistica, Call. fr. 191, 35; Theocr. Id. 12, 19; 15, 86, 102; Bion, Ad. 51; Mosch. 14, 1, per gli epigrammi, AP VII 203 (Simia, III sec. a.C.) ᾤχεο γὰρ πυμάταν εἰς Ἀχέροντος ὁδόν; GVI 1506 (III a.C.) εἰς Ἀχέροντα; AP V 85 (Asclepiade, ca. 330–265 a.C.) ἐν δ’ Ἀχέροντι; SEG 42.329 (III a.C.) ἐξ Ἀχέροντος; GVI 1914 (III a.C.); στυγερὴν ὁ[δὸν εἰ]ς Ἀχέροντος; GVI 1254 (III-II a.C.) εἰς Ἀχέροντα; GVI 932 (II a.C.) δόμον εἰς Ἀχέροντος; GVI 1833 (II a.C.) πικρὸν δ᾿εἰς Ἀχέροντ᾿; AP VII 30 (Antipatro di Sidone, II a.C.) ἐν δ’ Ἀχέροντος.

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Paesaggi oltremondani nell’epigramma sepolcrale ellenistico

l’anima, accolta dall’Acheronte.28 Torneremo su questa visione della morte come divisione tra anima e corpo quando parleremo della seconda categoria di testi, quelli che rappresentano una visione ‘celeste’ dell’aldilà. Per restare all’Acheronte, non mancano i casi in cui nell’epigramma sepolcrale ellenistico esso recupera la sua natura peculiare di fiume, con specifici riferimenti alle sue acque (cf. ad es. il famoso epigramma di Leonida per Plattide, AP VII 726, dove si parla di Ἀχερούσιον ... ὕδωρ) o correnti, come in Anite, AP VII 486 χλωρὸν29 ὑπὲρ ποταμοῦ χεῦμ’ Ἀχέροντος.30 È in effetti l’acqua, l’elemento liquido, una delle cifre maggiormente caratterizzanti dell’immaginaria cartografia dell’Aldilà degli Antichi31 e più in particolare di quella restituita dagli epitimbi. Come noto, infatti, già in Omero un fiume rappresenta la frontiera tra l’Ade e il mondo dei viventi: definito semplicemente ποταμός in Il. ΧΧΙΙΙ 71–74, esso è qualificato come Stige in Il. VIII 369. Nel decimo libro dell’Odissea l’idrografia infernale è notevolmente accresciuta, arrivando a comprendere, oltre allo Stige e all’Acheronte già menzionati, anche il Piriflegetonte e il Cocito (che è un ramo dello Stige), le cui acque si mescolano, si è detto, con quelle dell’Acheronte.32 Diversa la situazione descritta in Platone, Fedone 112e, dove l’Acheronte scorre all’interno e in direzione opposta al fiume Oceano che lo circonda, e le sue acque confluiscono nella palude Acherusiade, destinazione delle anime dei morti.33 Negli epigrammi sepolcrali l’immagine dell’acqua associata all’universo infernale è comune: innanzitutto con la metafora della navigazione all’Ade, applicata eminentemente a coloro che in vita avevano svolto il mestiere di mercanti o di pescatori, come in Perse (fine IV-III

28 Cf. CEG 737, v. 3 οὗ ψ]υχὴν [Ἀχ]έρων ὑπεδέξατο, σῶμα δὲ τύμβο[ς]. Cf. sul tema anche gli epigrammi per la morte di Platone AP VII 61 e APlan. 31, il secondo attribuito da Planude a Speusippo. 29 Sul pallore delle acque dell’Acheronte (meno convenzionale della loro oscurità) vd. Geoghegan (1979), 69–70. 30 Sulla morte come passaggio dell’Acheronte cf. AP VII 726 (Leonida, ca. 315–260 a.C.), AP VII 732 (Teodorida, seconda metà III a.C.). Cf. la n. di C. Castelli in Conca, Marzi, Zanetto (2005), 835–836, nonché Díaz De Cerio Díez 1998, 49–73. 31 Braccini, Romani (2017), 27. 32 Cf. Sourvinou -Inwood (1995), 59–61. 33 Τὰ μὲν οὖν δὴ ἄλλα πολλά τε καὶ μεγάλα καὶ παντοδαπὰ ῥεύματά ἐστι· τυγχάνει δ’ ἄρα ὄντα ἐν τούτοις τοῖς πολλοῖς τέτταρ’ ἄττα ῥεύματα, ὧν τὸ μὲν μέγιστον καὶ ἐξωτάτω ῥέον περὶ κύκλῳ ὁ καλούμενος Ὠκεανός ἐστιν, τούτου δὲ καταντικρὺ καὶ ἐναντίως ῥέων Ἀχέρων, ὃς δι’ ἐρήμων τε τόπων ῥεῖ ἄλλων καὶ δὴ καὶ ὑπὸ γῆν ῥέων εἰς τὴν λίμνην ἀφικνεῖται τὴν Ἀχερουσιάδα, οὗ αἱ τῶν τετελευτηκότων ψυχαὶ τῶν πολλῶν ἀφικνοῦνται καί τινας εἱμαρμένους χρόνους μείνασαι, αἱ μὲν μακροτέρους, αἱ δὲ βραχυτέρους, πάλιν ἐκπέμπονται εἰς τὰς τῶν ζῴων γενέσεις. Cf. Fabiano (2019), 109.

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a.C.), AP VII 539, 2–4 κρυερῆς ἥψαο ναυτιλίης, / ἥ σε, δι’ Αἰγαίοιο πολυκλήιδι θέοντα / νηί σὺν οἷς ἑτάροις ἤγαγεν εἰς Ἀίδην.34 Simile è la metafora dell’oltretomba come porto, frequente in Leonida35 ed attestata anche a livello epigrafico, come in GVI 1129 (Eretria, I a.C.), il cui protagonista dichiara ἄνκυραν καὶ πεῖσμα καθήρμοσα καὶ τὸν ἐς Ἀίδην.36 Ancora nell’ambito dell’idrografia infernale, si devono segnalare i riferimenti al Lete,37 che nelle fonti letterarie greche assume una varietà di significati: un πεδίον del regno dei morti, come avviene in Aristofane (Ran. 186), oppure un fiume che scorre nell’omonima piana, al quale l’anima deve abbeverarsi per prepararsi alla rinascita (cf. ad es. Plat. Resp. X 621 a-c). Diversamente, in contesti orfici, esso è un fiume o una fonte che l’iniziato deve evitare per non dimenticare i sacri riti. Anche in questo caso la pluralità di significati è rispecchiata dalle epigrafi funerarie, dove il Lete richiama spesso metonimicamente la morte e l’aldilà;38 ma lo statuto speciale delle sue acque è evidenziato ad esempio in GVI 1585 (II-I a.C.) παυσιπόνῳ Λάθας λουσαμένα 34 Cf. anche AP V 53 (Dioscoride, fine III a.C.), σύμπλουν σύμ με λαβὼν ἀπάγου (in riferimento al periodico ritorno agli Inferi di Adone). 35 Cf. AP VII 264, 2 τοῖς Ἀίδεω προσπελάσῃ λιμέσι; AP VII 452, 2 κοινὸς πᾶσι λιμὴν Ἀίδης; AP VII 472 bis νεῖο δ’ ἐς ὅρμον, / ὡς κἠγὼ Φείδων ὁ Κρίτου, εἰς Ἀίδην. 36 Cf. SEG 55.1995. Cf. anche AP VII 498 (Antipatro di Sidone, II a.C.) τὸν Λήθης αὐτὸς ἔδυ λιμένα e GVI 1816 (= SGO 08/01/33, I a.C.) Λάθας ἤλυθον εἰς λ[ι]μένας. La metafora della navigazione all’Ade e della morte come porto si lega naturalmente anche alla diffusissima immagine della via che conduce all’aldilà, implicita già negli epigrammi arcaici nelle frequentissime formulazioni con verbi che indicano il giungere, l’arrivare alla sede ultraterrena (ἔρχομαι, ἱκνέομαι, βαίνω, καταβαίνω) e poi esplicitamente ricordata nei testi di età ellenistica prevalentemente come ὁδός (ma non solo), di volta in volta odiosa, comune, estrema, silenziosa, senza ritorno. Cf. AP VII 203 (Simia, III a.C.) ᾤχεο γὰρ πυμάταν εἰς Ἀχέροντος ὁδόν; GVI 1694 (III a.C.) τὴν ἀδίαυλον ὁδόν; GVI 1506 (III a.C.) Ἀλλὰ γὰρ εἰς Ἀχέροντα τὸν οὐ φατὸν ἶσα κέλευθα, ὡς αἶνος ἀνδρῶν, πάντοθεν μετρεύμενα; GVI 1914 (III a.C.) στυγερὴν ὁ[δὸν εἰ]ς Ἀχέροντος; GVI 1508 (fine III a.C.) τὴν κοινὴν ἀτραπὸν εἰς Ἀίδεω; AP VII 412 (Alceo di Messene, II a.C.) σιδηρείην οἶμον ἔβης Ἀίδεω; GVI 1179 (II a.C.) Αἰακέ, σημήναις ἧι θέμις ἀτραπιτόν; AP VII 199 e 211 (Timne, fine II a.C.?) σιωπηραὶ νυκτὸς ἔχουσιν ὁδοί; AP VII 467 (Antipatro) ἐς γὰρ ἄκαμπτον, / ἐς τὸν ἀνόστητον χῶρον ἔβης ἐνέρων; AP VII 182 (Meleagro, inizi I a.C.) νέρθεν ... ὁδόν. Su questo tema, vd. Chaniotis (2000), 163– 164. 37 Cf. Sacco (1978). 38 Cf. GVI 1052 (III a.C.) Λάθας δ’οὐ Νέστο[ς] ἤλυθον εἰς θαλάμους; GVI 868 (III-II a.C.) βαθὺν Λάθας ἦλθε πάροιθε δόμον; GVI 1214 (III-II a.C.) ἡ δὲ συνήμων Λά̣θα̣ εἰς ἀφανῆ τόνδε [..................]; GVI 1505 (III-II a.C.) Θέων / ὑπεδέξατο Λήθης λειμὼν καὶ σεμνὸς Φερσεφόνης θάλαμος; GVI 1538 = AP VII 716 (Dionisio di Rodi, età ellenistica) εἰς Λήθης πικρὸν ἔδυς πέλαγος; GVI 1717 (II a.C.) κυάνεον Λήθης ἤλθομεν εἰς ἔρεβος; GVI 688 (II a.C.) Λήθης οἳ ναίετε χῶρον / δαίμονες; GVI 1823

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πόματι, dove la defunta è detta purificata dall’acqua di Lete, che pone fine alle pene, e poi nell’epitafio di Atthis, da Cnido, della tarda età ellenistica (SGO 01/01/07), in cui la donna orgogliosamente rivendica la scelta di non aver bevuto l’acqua estrema del Lete (ἔσχατον ὕδωρ), al fine di conservare, quale consolazione, il ricordo del marito (vv. 11–12 οὐκ ἔπιον Λήθης Ἀϊδωνίδος ἔσχατον ὕδωρ, / ὥς σε παρηγορίην κἀν φθιμένοισιν ἔχω).39 Ancora in relazione all’acqua infernale i più vividi ritratti riguardano la barca del traghettatore dei morti, Caronte,40 che, a parte una controversa menzione in un’epigrafe datata tra VI e V a.C., GVI 1384, 1 Χαῖρε, Χάρον,41 è apostrofato con certezza per la prima volta nei primi 4 versi di un epitimbio dalla Cirenaica, dubbiosamente datato al IV secolo a.C., GVI 1912=CEG 680 per Arata figlia di Kallikrates, di Euesperides: (i) Ἀράτα ⋮ Καλλικράτε[υς] | Ἑσπεριτίς (ii) [Π]ορθμίδος εὐσέλμου μεδέων γέρον, ὃς διὰ πάν[τα] νυκτὸς ὑπὸ σκιερᾶς πείρατα πλεῖς ποταμοῦ, ἆρά τινα Ἀράτας ἄλλαν ἀρετὰν ἴδες, εἴ γε τάνδ’ ὑπὸ λυγαίαν ἄγαγες ἀϊόνα; (iii) [Ο]ὐκέτι τὰν ἁβρόπαιδα πάτραν σὰν Ἑσπερ[ίδ’ ὄψ]ηι, [οὐ]δὲ τὸν ἕστεργες σὸν πόσιν, οὐδὲ τέκνωι στρώσεις νυμφιδίαν εὐνὰν τεῷ. Ἦ μάλα δαίμων, [Ἀ]ράτα, κρυερὰν σοί τιν’ ἔδειξεν ἀράν. Arata, figlia di Kallikrates, di Euesperides. E tu vecchio, signore della barca dal robusto fasciame, che nella notte fosca da una sponda all’altra percorri il fiume, hai mai visto una virtù superiore a quella di Arata, se davvero l’hai condotta alla riva oscura? Né più mai la tua patria vedrai dai delicati fanciulli, l’Hesperis, né il tuo sposo che amavi, né a

(II a.C.), Λάθας ... ἕδος; GVI 844 (fine II a.C.) Λήθης κυαναυ[γέα.........]; GVI 1918 (II-I a.C.) εἰς Λάθας [...] θάλαμον; GVI 1090 (II a.C.?) Λήθης οὐκ ἔπιον λιβάδα; AP VII 498 (Antipatro di Sidone, II a.C.) τὸν Λήθης αὐτὸς ἔδυ λιμένα; AP VII 711 (Antipatro) Λάθας ἄγαγεν ἐς πέλαγος; GVI 923 (I a.C.) ἣ παρὰ Φ[ερσεφόνην κατέβη καὶ χεύματα] Λήθης; GVI 1107 (I a.C.) δακρυχαρὴς Λάθας ὑπεδέξατο κευθμών; GVI 1816 (I a.C.) Λάθας ἤλυθον εἰς λ[ι]μένας; AP VII 25 (‘Simonide’) Λήθης ἐνθάδ’ ἔκυρσε δόμων. Cf. Barrigón (1999), 138–139; Fabiano (2019), p. 199. 39 Affermazioni analoghe ricorrono anche in GVI 1829 (II a.C.) e GVI 1090 (II a.C.), cf. Hanink (2010), 31. 40 Sul traghettatore dei morti cf. Sullivan (1950); Sourvinou-Inwood (1986); Mugione (1995); Torraca (1995); Barrigón (1999), 137–138. 41 Su cui vedi Albiani (1991).

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tua figlia preparerai il letto nuziale. Ah davvero, la divinità, Arata, ti ha destinato una maledizione di ghiaccio!42 Caronte è qui definito Π]ορθμίδος εὐσέλμου μεδέων γέρον, con lieve variazione rispetto alla definizione di πορθμεύς presente nella più antica attestazione letteraria a noi nota sul personaggio, contenuta nel poema epico Miniade (fr. 1 Bernabé),43 e presente anche in Euripide, Alc. 253 νεκύων δὲ πορθμεύς;44 mentre il dato della vecchiaia è anche in Aristofane, Ran. 139– 140 (γέρων / ναύτης). Si notino nell’epigramma sia l’aggettivo di tono epico εὔσελμος, in Omero generalmente attribuito alle navi45 che il sostantivo μεδέων, “guardiano, signore” per lo più riferito alle divinità, in primis Zeus.46 Il testo restituisce quindi l’immagine del vecchio nocchiero delle anime impegnato nella navigazione su un fiume non meglio determinato (ποταμοῦ, v. 2) sullo sfondo di uno scenario contraddistinto dal dato dell’oscurità. È questo un altro degli elementi caratterizzanti l’Ade negli epigrammi di età ellenistica: l’oscurità, il buio e l’assimilazione tra il regno dei morti e la Notte, già presenti in Omero, Od. XI 155 come anche nella descrizione oltremondana delle Rane (σκότος, v. 273).47 Tutti questi elementi

42 Testo e traduzione secondo Dobias-Lalou (2017). Si noti il gioco verbale sul nome della defunta, per il quale vd. ivi il commento. 43 Il frammento è tramandato da Pausania, X 28–31, che sta raccontando dell’affresco perduto raffigurante l’Ade dipinto da Polignoto di Taso nella Lesche degli Cnidi a Delfi: καὶ ναῦς ἐστιν ἐν τῷ ποταμῷ καὶ ὁ πορθμεὺς ἐπὶ ταῖς κώπαις. ἐπηκολούθησε δὲ ὁ Πολύγνωτος ἐμοὶ δοκεῖν ποιήσει Μινυάδι· ἔστι γὰρ δὴ ἐν τῇ Μινυάδι ἐς Θησέα ἔχοντα καὶ Πειρίθουν ἔνθ’ ἤτοι νέα μὲν νεκυάμβατον, ἣν ὁ γεραιός πορθμεὺς ἦγε Χάρων, οὐκ ἔλλαβον ἔνδοθεν ὅρμου. 44 Cf. anche Theoc. Id. 17, 49 πορθμῆα καμόντων. Πορθμεύς è la qualifica convenzionale di Caronte nel dialogo di Luciano a lui intitolato (cf. e.g. 1,50; 2, 7; 5, 7 etc.), mentre πορθμεῖον è la denominazione usata dallo stesso autore per la barca del traghettatore dei morti nel medesimo dialogo (fin dalla prima battuta, cf. 1,1) ma anche nel Menippo (10, 14). 45 Cf. ad es. Il. II 170, Od. II 390; nonché Stes. 91a, 2 Davies-Finglass; Eur. Rh. 97. 46 Cf. LSJ s.v. 47 Cf. GVI 1913 (III a.C.) ἤλυθε δ’ εἰς νυχίους Φερσεφόνης θαλάμους; AP VII 466 (Leonida, ca. 315–260 a.C.) εἰς Ἄϊδος σκιερὸν δόμον; AP VII 317 (Callimaco, ca. 320-post 240 a.C.) τὸ σκότος; AP VII 524 (Callimaco, ca. 320-post 240 a.C.) πολὺ σκότος; Posidippo (ca. 305–250 a.C.), ep. 49 A.-B. ζοφερῶι θαλάμωι; AP VII 241 (Antipatro di Sidone, II a.C.) οὐδέ σε νὺξ ἐκ νυκτὸς ἐδέξατο; GVI 750 (II a.C.) ἦλθεν ὑπὸ ζόφον; AP VII 199 e 211 (Timne, fine II a.C.?) σιωπηραὶ νυκτὸς ἔχουσιν ὁδοί; GVI 760 (II-I a.C.) Ἀίδεω νυχίοιο μέλας ὑπεδέξατο κόλπος; GVI 1122 (I a.C.) τὸν σκοτερὸν δερκόμενος θάλαμον... ἀλλ᾽Ἀίδα σκότιον Τιμέλαν νέφος ἀμφικαλύπτει; AP VII 232 (Antipatro P, Anite Pl) δόμον ... Νυκτός; AP VII 43 (‘Ione’) τὸν ἀεὶ νυκτὸς ἔχων θάλαμον. Cf. Barrigón (1999), 136.

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ritornano nell’epigramma di Leonida per Diogene cinico, aperto da un’analoga apostrofe al nocchiero dei morti, AP VII 67: Ἀίδεω λυπηρὲ διήκονε, τοῦτ’ Ἀχέροντος ὕδωρ ὃς πλώεις πορθμίδι κυανέῃ, δέξαι μ’, εἰ καί σοι μέγα βρίθεται ὀκρυόεσσα βᾶρις ἀποφθιμένων, τὸν κύνα Διογένην. ὄλπη μοι καὶ πήρη ἐφόλκια καὶ τὸ παλαιὸν ἔσθος χὠ φθιμένους ναυστολέων ὀβολός. πάνθ’ ὅσα κἠν ζωοῖς ἐπεπάμεθα, ταῦτα παρ’ Ἅιδαν ἔρχομ’ ἔχων· λείπω δ’ οὐδὲν ὑπ’ ἠελίῳ. Tormentoso servitore di Ade, che navighi con la scura barca su quest’acqua dell’Acheronte, accogli me, Diogene il cane, anche se il tuo agghiacciante battello dei morti è molto carico. Con me (porto) una fiaschetta e in aggiunta una bisaccia, un vecchio vestimento e l’obolo che fa trasportare i morti. Tutte le cose a cui sono stato attaccato tra i vivi porto con me scendendo nell’Ade. Non lascio nulla sotto al sole.48 Il testo si apre con movenza simile all’epigramma cirenaico, ovvero con l’allocuzione a Caronte, anche qui non espressamente nominato ma chiaramente evocato attraverso il riferimento all’imbarcazione, precisato in entrambi i testi tramite una espansione relativa (ὃς … πλεῖς / ὃς πλώεις). Se nel testo epigrafico ad essere fosca era la notte, oltre che la riva del fiume, in Leonida è la barca, anche qui πορθμίς, ad essere κυανέη, aggettivo applicato alla nave (νῆα) di Caronte anche in Teocrito, Id. 17, 48–49 ἐπὶ νῆα κατελθεῖν / κυανέαν. Elemento originale rispetto a quanto enunciato nell’epigrafe è invece il riferimento all’affollamento del vascello (la cui denominazione è variata al v. 4 in βᾶρις), in accordo con l’immagine omerica delle ‘immense schiere dei morti’ (Od. XI 632, μυρία νεκρῶν), cui si ricollega anche l’eufemismo οἱ πλείονες = i morti.49 L’epigramma leonideo è ripreso e variato in AP VII 365, di Zona di Sardi (II/I a.C.): Ἀίδῃ ὃς ταύτης καλαμώδεος ὕδατι λίμνης κωπεύεις νεκύων βᾶριν ἑλὼν ὀλίγην,

48 Testo e traduzione secondo Cerasuolo (2014). 49 L’eufemismo è attestato anche in Aristofane, Eccl. 1073 ἢ γραῦς ἀνεστηκυῖα παρὰ τῶν πλειόνων. Leonida vi ricorre in AP VII 731, 5–6 ὧδ’ εἴπας οὐ κόμπῳ ἀπὸ ζωὴν ὁ παλαιὸς / ὤσατο κἠς πλεόνων ἦλθε μετοικεσίην, mentre Callimaco in ep. 4 Pf. (AP VII 317) ὑμέων γὰρ πλείονες εἰν Ἀίδῃ. Cf. Gow, Page (1965), II, 203; Giangrande (1998), 65.

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τῷ Κινύρου τὴν χεῖρα βατηρίδος ἐμβαίνοντι κλίμακος ἐκτείνας δέξο, κελαινὲ Χάρον· πλάζει γὰρ τὸν παῖδα τὰ σάνδαλα, γυμνὰ δὲ θεῖναι ἴχνια δειμαίνει ψάμμον ἐπ’ᾐονίην. O fosco Caronte, che al servizio di Ade spingi col remo, guidandolo sull’acqua di questa palude piena di canne, il piccolo battello dei morti, tendendo la mano dalla scala al figlio di Cinira che s’imbarca, accoglilo (sopra la barca). I sandali fanno inciampare il bambino ed egli ha paura di poggiare le piante nude dei piedi sulla sabbia della riva.50 Si tratta di due testi paralleli, come reso evidente dalla ripresa del raro sostantivo βᾶρις per indicare il vascello di Caronte51 e per l’identica richiesta di dexiosis al nocchiero infernale: come evidenziato da Cerasuolo, una imitatio cum variatione nel tipico stile ellenistico, che alla sorte di Diogene cinico, morto a novant’anni (cf. D.L. VI 76), contrappone quella del figlio di Cinira, ovvero Adone fanciullo che scende all’Ade ove trascorrerà, secondo il mito, un terzo dell’anno presso Persefone.52 È chiaro come in questi ultimi due testi i luoghi infernali si carichino di valenze differenti rispetto alla descrizione presente nell’epitaffio epigrafico da Cirene: se in quest’ultimo l’appello a Caronte e l’evοcazione dello scenario palustre oltremondano, nutriti di un lessico di tradizione elevata, tale da richiamare contesti epici e tragici, sono funzionali a far risaltare la virtù della defunta, e sono dunque dotati di un’immediata utilità pragmatica, diverso è il discorso per i testi di Leonida e Zona, in cui il paesaggio dell’aldilà non è altro che la convenzionale cornice per un lusus tutto libresco sulla personalità dei due defunti, nell’ambito del gioco dotto della imitatio cum variatione. 2. Veniamo ora alla seconda tipologia di testi, esprimenti una prospettiva escatologica ‘celeste’. La contrapposizione tra corpo e anima che si è riscontrata in CEG 737 (300 a.C., Panticapeo)53 ricorre anche in altri epigrammi, ma mentre uno dei due poli è invariabilmente identificato con la

50 Testo e traduzione secondo Cerasuolo (2014). 51 Sul termine, che è una trasposizione dell’egiziano br (bjr), cf. Guido (1996); Garulli (2012), 254–258; Cerasuolo (2014), 82–83. Da segnalare che il vocabolo è attestato anche in Posidippo, *149 A.-B. (SH 707). 52 Per l’analisi intertestuale dettagliata, vd. Cerasuolo (2014), 76–77, cui si rimanda anche per la discussione dei problemi testuali e l’interpretazione complessiva del testo. 53 Vd. supra.

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terra o la tomba (destinazione del corpo), più diversificato è il destino dell’anima, per la quale sono previste alcune mete che comportano un percorso ascensionale, verso l’etere (come in CEG 10, epitaffio per i caduti di Potidea, del 432 a.C. αἰθήρ μὲν ψυχὰς ὑπεδέξατο, σώμ̣[ατα δὲ χθὼν] /τῶνδε o CEG 535, metà IV sec. a.C., αἰθὴρ ὑγρός) o l’Olimpo (cf. CEG 558, ca. 350? [τηροῦσ’ ἣ διέμ]εινεν ἀείμνηστον τρόπον, αὕτη· / [ἧς μὲν σῶμ’ ἐνὶ] γ[ῆι κ]εῖται, ψυχὴ δ’ ἐν Ὀλύμπ[ωι]).54 A ciò si affianca, a partire dal IV secolo a.C., l’idea che ad alcuni defunti, in ragione della loro virtù o dei loro meriti, sia riservata una condizione privilegiata, l’approdo ad una terra di eterna felicità, identificata fin dal mito esiodeo delle età con le Isole dei Beati. Esse rappresentano, nella tradizione letteraria arcaica, una realtà localizzata geograficamente ad Occidente,55 ai bordi dell’Oceano,56 connotata dall’isolamento e dalla lontananza. Nella descrizione esiodea e pindarica tali isole assumono alcune caratteristiche tipiche del locus amoenus, in quanto dotate di una straordinaria fertilità (Esiodo fa riferimento ad una triplice raccolta annuale nelle Opere, 167–173)57 e dalla presenza di brezze, fiori, acqua (cf. Pindaro, Olimpica 2, 55–80).58 Diversa è la situazione nella tradizione epigrammatica sepolcrale, dove esse, denominate μακάρων νῆσοι59 ma anche più genericamente come talamo o regione dei pii (εὐσεβέων θάλαμον /

54 Cf. poi AP VII 241 (Antipatro di Sidone, II a.C., per Tolomeo VII Filopatore) δὴ γὰρ ἄνακτας / τοίους οὐκ Ἀίδας, Ζεὺς δ’ ἐς Ὄλυμπον ἄγει. Il concetto è già presente in Eur. Suppl. 531–534 ἐάσατ’ ἤδη γῆι καλυφθῆναι νεκρούς, / ὅθεν δ’ ἕκαστον ἐς τὸ φῶς ἀφίκετο / ἐνταῦθ’ ἀπελθεῖν, πνεῦμα μὲν πρὸς αἰθέρα, / τὸ σῶμα δ’ ἐς γῆν; Plat. Grg. 524b ὁ θάνατος τυγχάνει ὤν, ὡς ἐμοὶ δοκεῖ, οὐδὲν ἄλλο ἢ δυοῖν πραγμάτοιν διάλυσις, τῆς ψυχῆς καὶ τοῦ σώματος, ἀπ’ ἀλλήλοιν. 55 Sul tema cf. Manfredi (1993). Tracce di una localizzazione alternativa, ad Oriente, sono esaminate in Cerri (2014), 173–177. 56 Ade raggiungibile percorrendo tutto l’Oceano è già nell’Odissea, cf. Fabiano (2019), 90. 57 Cf. in part. 170–173 καὶ τοὶ μὲν ναίουσιν ἀκηδέα θυμὸν ἔχοντες / ἐν μακάρων νήσοισι παρ’ Ὠκεανὸν βαθυδίνην, / ὄλβιοι ἥρωες, τοῖσιν μελιηδέα καρπὸν / τρὶς ἔτεος θάλλοντα φέρει ζείδωρος ἄρουρα. Cf. Fabiano (2019), 99–100. 58 Ol. 2, 70–77: ἔνθα μακάρων / νᾶσον ὠκεανίδες / αὖραι περιπνέοισιν· ἄνθεμα δὲ χρυσοῦ φλέγει, / τὰ μὲν χερσόθεν ἀπ’ ἀγλαῶν δενδρέων, / ὕδωρ δ’ ἄλλα φέρβει, / ὅρμοισι τῶν χέρας ἀναπλέκοντι καὶ στεφάνους / βουλαῖς ἐν ὀρθαῖσι Ῥαδαμάνθυος. Sempre in Pindaro cf. anche Threnoi, fr. 58 a-b Cannatà – Fera = 129–130 SnellMaehler. 59 Cf. GVI 943 (217 a.C.?) εἰς μακάρων νήσους; GVI 1693 (III-II a.C.) εἰς μακάρων νήσους; GVI 946 (II-I a.C.) ἐς μακάρων [...] χῶρον; GVI 1990 (bassa età ellenistica) πέμψαν δ’ ἀθάνατοί με θεοὶ μακάρων ἐβὶ νήσους / εὐδέν̣[δ]ρ̣ου θ’ ἱερὰς Ἠλυσίοιο γ[ύ]ας. Connesso alla rappresentazione delle isole dei beati è anche l’Elisio, su cui vd. Rohde (2006), 65–82; Waser (1905); Burkert (1960–61); Gelinne (1988); Fabiano (2019), 97. Un riferimento all’Elisio in Posidippo potrebbe cogliersi nell’ep. 52

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χῶρον),60 non sono ulteriormente qualificate da dettagli circa la loro conformazione o ubicazione: forse perché ciò che interessava era sottolineare lo statuto speciale dei defunti che ottenevano tale riconoscimento, non la configurazione fisica dei luoghi. Unica eccezione in tale panorama è rappresentata da Posidippo, un autore la cui adesione ai culti misterici viene oggi comunemente accettata e che offre in merito qualche dettaglio in più:61 nell’ep. 43 A.-B. dedicato, come il precedente, ad una donna adepta ai misteri, si sottolinea il perpetuarsi nell’aldilà, appunto nella regione dei beati,62 di quei riti misterici che la defunta Nicostrate aveva già sperimentato in vita, davanti a Trittolemo e a un puro fuoco, che sarà il puro fuoco

A.-B. se si accoglie la proposta di integrazione di Gronewald (2003), 65, ripresa in Angiò, Puelma (2005), 18–19. 60 In Platone, Grg. 524a Minosse, Radamante ed Eaco dispensano giustizia ad un trivio, dopo il quale i giusti intraprendono la via verso le isole dei beati, i cattivi verso il Tartaro (cf. anche Resp. 614c). In Verg. Aen. VI 540-543 la via di destra conduce all’Elisio, la sinistra al Tartaro. Cf. su questi temi l’importante Wagenvoort (1971), nonché Barrigón (1999), 140 ss. Per la regione/talamo dei pii: CEG 545 (ca. 350 a.C.) εὐσεβέων... θάλαμον; GVI 1128 (III a.C.) χώρωι ἐν εὐσεβέων; GVI 1572 (III a.C.) εὐσεβέων λειμῶνα; GVI 677 (III-II a.C.) [εὐσεβέ]ων αἰεὶ χῶρον ἐπερχόμενος; SEG 34.497 (III a.C.) εὐσεβέων εἰς νᾶσον; AP VII 520 (Callimaco, ca. 320-post 240 a.C.) ἐν εὐσεβέων; Posidippo (ca. 305–250 a.C.), epp. 43, 58 e 60 A.B. ἐπ’ εὐσεβέων; GVI 805 (II a.C.) εὐσεβέων χώρους; GVI 699 (II a.C.) παρ’εὐσεβέσιν; GVI 1154 (II a.C.) εὐσεβέων χώρωι; AP VII 407 (Dioscoride, fine III a.C.) μακάρων ἱερὸν ἄλσος; GVI 760 (II-I a.C.) Ἀίδεω νυχίοιο μέλας ὑπεδέξατο κόλπος / εὐσεβέων θ’ ὁσίην εὔνασεν ἐς κλισίην; GVI 1002 (II-I a.C.) λειμών θ’ἱερὸς εὐσεβέων; GVI 1990 (II-I a.C.) ἠ δ’ἱεροὺς χώρους οἴχεται εὐσεβέων; AP VII 419 (Meleagro, inizi I a.C.) παρ’ εὐσεβέσιν; GVI 764 (I a.C.) εὐσεβέων χῶρον ἔβη; SEG 34.325 (I a.C.) χῶ̣ρον ἐπ̣’εὐσεβέων; GVI 48 (I a.C.) εἰς δόμον εὐσεβέω[ν]; AP VII 260 (Carfillida, età ellenistica) χώρην πέμψαν ἐπ’εὐσεβέων. Sulla ‘sede dei beati’ negli epp. 43, 58 e 60 A.-B. di Posidippo (con confronti con la tradizione letteraria ed epigrafica) vd. Garulli (2004), 28–29, Dickie (2005), 31–47, Santamaría Álvarez (2010) e cf. infra. 61 Essa è stata argomentata piuttosto convincentemente sulla base dell’espressione μυστικὸν οἶμον ἐπὶ Ῥαδάμανθυν ἱκοίμην presente nel cosiddetto testamento o elegia della vecchiaia (SH 705 = 118 A.-B.), cf. il commento di G. Benedetto in Bastianini, Gallazzi (2001), 158, con bibliografia precedente; Gauly (2005); Lapini (2007), 122–127; Kwapisz (2010); Angiò (2014); Belloni (2018). 62 Non tutti gli studiosi concordano con la scelta, adottata nell’editio princeps, di riferire ἐπ’ εὐϲεβέων a un termine sottinteso del genere di χῶρον (o similari: cf. G. Benedetto in Bastianini, Gallazzi [2001], 160); alcuni preferiscono concordare l’aggettivo con μυϲτῶν (così ad es. A. Petrovic in Seidensticker, Stähli, Wessels [2015], 189). La soluzione adottata nell’editio princeps rimane però, a mio avviso, la più probabile, anche alla luce dell’impiego del nesso negli altri luoghi posidippei (così anche Dickie [2005], 28–31).

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rituale che grande importanza aveva nella celebrazione dei misteri di Eleusi:63 ἦλθεν ἐπ’ εὐσεβέων Νικοστράτη ἱερὰ μυστῶν ὄργια καὶ καθαρὸν πῦ̣ρ ἐπὶ Τριπτολέ̣[μου, ἣν ἂψ ἡ φ̣..[.....]... Ῥαδαμάνθυος [ Αἰακὸς ε[......]. δῶ̣μ̣α̣ πύ̣λα̣ς τ̣ [Ἀΐδεω τ̣έκνων̣ [πλῆθος] ἰδο̣ῦ̣σαν· εὶ δ̣’ ἁπα[λώτερο]ς οὕτω ἀνθρώπ̣[οις λυγρ]ο̣ῦ γήραός ἐστι λιμή[ν. È giunta nella sede dei beati Nicostrate, ai sacri riti degli iniziati e al puro fuoco davanti a Trittolemo, lei che ora la [benevolenza] di Radamanto [ed] Eaco [hanno] ri[condotto] alla dimora e alle soglie [di Ade], dopo che ebbe visto [uno stuolo] di figli: sempre così più [dolce] per gli uomini è il porto della [triste] vecchiaia.64 In un altro paio di epigrammi posidippei l’immagine della regione dei pii è invece espressa tramite la formula ἐπ’ εὐσεβέων (epp. 58 e 60 A.-B.), priva di ulteriori determinazioni. Una formula molto simile, ἐν εὐσεβέων, si legge nell’epigramma 10 Pf. di Callimaco, v. 4 (= AP VII 520): Ἢν δίζῃ Τίμαρχον ἐν Ἄϊδος, ὄφρα πύθηαι ἤ τι περὶ ψυχῆς ἢ πάλι, πῶς ἔσεαι, δίζεσθαι φυλῆς Πτολεμαΐδος υἱέα πατρὸς Παυσανίου· δήεις δ’ αὐτὸν ἐν εὐσεβέων. Se cerchi Timarco nell’Ade per sapere dell’anima o come di nuovo vivrai, cerca il figlio di Pausania, della tribù di Tolemaide: lo troverai tra i pii.65 Se il personaggio onorato, come è probabile, è da identificarsi con il filosofo cinico alessandrino, che in quanto cinico non avrà creduto all’esistenza di una vita dopo la morte, il riferimento qui sarà da interpretare, come convincentemente proposto da Fantuzzi, in senso ironico: «Callimaco avrà voluto sia parodizzare antifrasticamente la convenzione dei dialoghi epigrafici con il morto – in particolare le certezze di vita eterna che si trovano in tanti epitafi tipo CEG 545 – sia nel contempo fare bonaria ironia su Ti-

63 G. Benedetto in Bastianini, Gallazzi (2001), 159–160; A. Petrovic in Seidensticker, Stähli, Wessels (2015), 189. 64 Testo e traduzione secondo Austin, Bastianini (2002). 65 Trad. D’Alessio (2007).

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marco (un ateo in Paradiso)».66 In effetti la visione che Callimaco mostra di avere dell’aldilà è, diversamente da Posidippo, fondata su un sostanziale scetticismo circa la possibilità di una vita oltremondana,67 che non sia quella dell’immortalità garantita dalla poesia,68 su cui è chiaro l’ep. 2 Pf. (=AP VII 80): Εἶπέ τις, Ἡράκλειτε, τεὸν μόρον, ἐς δέ με δάκρυ ἤγαγεν· ἐμνήσθην δ’, ὁσσάκις ἀμφότεροι ἥλιον ἐν λέσχῃ κατεδύσαμεν. ἀλλὰ σὺ μέν που, ξεῖν’ Ἁλικαρνησεῦ, τετράπαλαι σποδιή· αἱ δὲ τεαὶ ζώουσιν ἀηδόνες, ᾗσιν ὁ πάντων ἁρπακτὴς Ἀίδης οὐκ ἐπὶ χεῖρα βαλεῖ. Mi hanno detto, Eraclito, della tua morte, e ho pianto; ho ricordato quante volte noi due chiacchierando tramontammo il sole. E tu ora in qualche luogo, amico di Alicarnasso, sei cenere antica. Vivono però i tuoi usignoli, sui quali perfino Ade rapace non spingerà la sua mano.69 L’amico Eraclito, dopo la morte, non è altro che τετράπαλαι σποδιή, in un luogo che non può essere definito, που (v. 3), avverbio dotato di un altissimo grado di indeterminatezza;70 solo alle sue poesie (ἀηδόνες, v. 5) è garantita la sopravvivenza.71 In tale prospettiva significativo appare l’ep. 13 Pf. (=AP VII 524): Ἦ ῥ’ ὑπὸ σοὶ Χαρίδας ἀναπαύεται; ‘εἰ τὸν Ἀρίμμα τοῦ Κυρηναίου παῖδα λέγεις, ὑπ’ ἐμοί.’ ὦ Χαρίδα, τί τὰ νέρθε; ‘πολὺ σκότος.’ αἱ δ’ ἄνοδοι τί; ‘ψεῦδος.’ ὁ δὲ Πλούτων; ‘μῦθος.’ ἀπωλόμεθα. ‘οὗτος ἐμὸς λόγος ὔμμιν ἀληθινός· εἰ δὲ τὸν ἡδύν βούλει, Πελλαίου βοῦς μέγας εἰν Ἀΐδῃ.’

66 Fantuzzi (2002), 434. Per l’identificazione di Timarco con il filosofo cinico, cf. Livrea (1990), 314–318; di diversa opinione Cairns (2016), 33–40, che vede riflessa nell’epigramma una visione ottimistica dell’aldilà, che contempli anche la possibilità di una resurrezione per i pii (concezione che però non parrebbe attestata altrove, in Callimaco). 67 Cf. Lelli (2004), 131. 68 Anche per Posidippo, accanto alla prospettiva di una vita ultraterrena per i giusti, esiste la possibilità di un’immortalità garantita dalla poesia, come si evince dagli epp. 118 e 122 A.-B. Cf. Angiò (2014), in part. 25 per il confronto con Callimaco; Acosta – Hughes (2020), 301. 69 Trad. D’Alessio (2007). 70 Sull’uso di questo avverbio negli epigrammi funerari cf. Hunter (1992), 119–121. 71 Gow, Page (1965), II, 192.

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Dopo un preliminare e piuttosto convenzionale scambio di battute tra un interlocutore imprecisato (un passante? il poeta?), che rivolgendosi al sepolcro chiede: “Forse sotto di te riposa Carida?”, e il sepolcro, che risponde: “Se intendi Carida Cirenaico, figlio di Arimma, sì, sotto di me”, Callimaco mette poi in scena ai vv. 3–4 una più originale ‘intervista’ al morto, che si svolge in questi termini: (Interlocutore): “Carida, cosa c’è lì sotto?” (Carida): “Un grande buio.” (I.): “E le ἄνοδοι (lasciamo in sospeso la traduzione di questo termine, su cui torneremo a breve)?” (C.): “Bugia!” (I.): “Plutone?” (C.): “Favole!” (I.): “Siamo perduti!”. Alla luce di quanto detto finora, le due alternative poste al trapassato Carida (vv. 3–4 αἱ δ’ ἄνοδοι τί; / ‘ψεῦδος.’ ὁ δὲ Πλούτων; ‘μῦθος.’) potranno forse interpretarsi come una contrapposizione tra due possibili visioni dell’aldilà, quella che abbiamo definito ‘celeste’, che dovrebbe leggersi nella menzione delle ἄνοδοι, e quella ctonia, incarnata da Plutone. Le ἄνοδοι andrebbero in questo senso interpretate non come vie per il ritorno dall’aldilà (in riferimento a miti come quelli di Orfeo, Adone, Eracle e così via)72 ma piuttosto come la possibilità di un’ascesa dell’anima, significato che il termine può senz’altro assumere come dimostra il suo impiego proprio in riferimento all’anima in Platone, Resp. 517b ἡ εἰς τὸν νοητὸν τόπον τῆς ψυχῆς ἄνοδος, dove fa riferimento all’ascesa della ψυχή verso il mondo intellegibile.73 Saremmo di fronte dunque, ancora una volta, alla messa in parodia di visioni escatologiche correnti, e forse, anche, ad una presa di posizione polemica nei confronti della visione platonica dell’anima, che Callimaco pare mettere alla berlina nell’ep. 23 Pf. (=AP VII 471).74 Se questa

72 Gow, Page (1965), II, 189. 73 Sulla possibilità di intendere il termine, in generale, in riferimento ad una sfera celeste, olimpia e non necessariamente ctonia cf. anche Bérard (1974), 23 (nel caso specifico dell’epigramma callimacheo l’autore però parla di una “fuga ctonica dal piano infernale, di tipo resurrezionale”). 74 Εἴπας ‘ Ἥλιε χαῖρε’ Κλεόμβροτος ὡμβρακιώτης / ἥλατ’ ἀφ’ ὑψηλοῦ τείχεος εἰς Ἀΐδην, / ἄξιον οὐδὲν ἰδὼν θανάτου κακόν, ἀλλὰ Πλάτωνος / ἓν τὸ περὶ ψυχῆς γράμμ’ ἀναλεξάμενος. Per una lettura in chiave di polemica antiplatonica del testo, che mi pare la più probabile, cf. Spina (2000), 14; Meyer (2005), 164–166; Clayman (2007), 506; Cairns (2016), 66–68; Pelucchi (2016).

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interpretazione coglie nel segno, il provocatorio ed estremo scetticismo dell’epigramma per Carida si concretizza nella negazione di qualsivoglia spazio oltremondano (non rimane altro che il buio, σκότος di v. 3)75 e delle istanze consolatorie che a tali spazi si legavano negli epigrammi epigrafici: un dato che si sposa perfettamente con la ridefinizione del genere nel III secolo a.C., con la sua accresciuta ‘letterarietà’ e indipendenza dall’attualità del messaggio e dalla esigenza di una funzionalità pragmatica.76

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75 Al v. 5 Carida ribadisce che l’immagine pessimistica dell’Ade risultante dalle sue risposte è quella veritiera (οὗτος ἐμὸς λόγος ὔμμιν ἀληθινός); ad essa contrappone una visione dell’aldilà di tipo ‘edulcorato’ (εἰ δὲ τὸν ἡδύν βούλει), che, a prescindere dall’esatto significato del molto dibattuto nesso Πελλαίου βοῦς μέγας εἰν Ἀΐδῃ (per citare solo un paio di ipotesi: riferimento alla proverbiale economicità dell’Ade? o al silenzio eterno che vi regna?; sulla questione, cf. tra gli altri Gow, Page [1965], II, 189; Livrea [1990]; D’Alessio [2007], 228–229; Witczak [2000]; Cairns [2016], 56–60), viene prospettata come non corrispondente alla verità. 76 Fantuzzi (2002), 398 ss.

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Dalle cicale sull’Ilisso alla γραφή nel bosco delle Ninfe: la funzione del luogo per la poetica tra il Fedro di Platone e il Dafni e Cloe di Longo Sofista Mario Regali

Come è noto, la ricezione del Fedro di Platone nella letteratura greca tra I e III secolo è di estrema ricchezza e varietà. Oltre al fervido lavoro di esegesi sviluppato sul dialogo sia in ambito filosofico da Posidonio (frr. 24, 31, 290 Kidd) e Arpocrazione di Argo1 sia in ambito retorico da Dionigi di Alicarnasso (Dem. 7), Ermogene (Id. II 4, 5–7, 46–50, 87–100, 187–192, 213–216) e Demetrio (55), i modi con i quali assimilano il testo di Platone, fra gli altri, Luciano (Dom. 4, Anch. 16, Navig. 35),2 Dione di Prusa (1, 52–58; 36, 1, 39–49), Massimo di Tiro (Dial. 18, 7b; 21, 1a-c, 8b-c),3 Menandro Retore (337, 9–338, 2 Spengel),4 Elio Aristide (2, 52),5 Filostrato (Vit. Ap. 7, 10, 2– 11, 2),6 Plutarco (Amat. 748e-749b), Achille Tazio (I 2, 3; I 4, 4; I 9, 4; V 13, 4) e Longo Sofista compongono un ampio spettro che riflette la varietà dei contesti e dei generi letterari nei quali operano autori così diversi fra loro.7 Secondo R. Hunter, nella “corrente silenziosa” della ricezione di Platone nell’antichità, è in particolare la scena d’apertura del Fedro, l’incontro tra Socrate e Fedro con il successivo cammino verso l’Ilisso fuori dalle mura di Atene, a divenire un locus classicus sia perché oggetto di riflessione teorica

1 Testimonia l’interesse di Arpocrazione per il luogo sull’Ilisso nel Fedro Ermia nel suo commento (32, 1–3 Couvreur). Cf. Dillon (1971), 139. 2 Per un quadro completo delle allusioni al Fedro in Luciano cf. Householder (1941), 34. 3 Cf. Trapp (1990), 162–164. 4 Cf. Russell-Wilson (1981), 236–237. 5 Cf. Miletti in questo stesso volume. 6 Cf. Hunter (2012), 134–137, per la trasposizione a Dicearchia, in occasione dell’incontro tra Apollonio e Demetrio nella villa appartenuta a Cicerone, della scena del Fedro con le cicale sull’Ilisso. 7 Per una rassegna completa delle allusioni al Fedro cf. Trapp (1990), 168–173. Come mette in luce Fowler (2018), 223–225, la varietà della produzione nella Seconda Sofistica determina la varietà di risposte al testo di Platone anche oltre il Fedro: in particolare l’ ὁμοίωσις θεῷ κατὰ τὸ δυνατόν (Theaet. 176b1–2) rappresenta un caso emblematico di come il testo di Platone giunga anche all’apologetica cristiana di Clemente (Strom. 2, 19, 97), del quale M. Trapp segnala le allusioni al Fedro.

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sia perché modello per la prassi letteraria.8 La frequenza delle citazioni o allusioni a questa sezione del Fedro è tale da produrre un fenomeno che Hunter descrive con una suggestiva immagine: «l’incipit del Fedro, come altri momenti iconici nel corpus di Platone, è entrato nel sangue dei Greci colti».9 La presenza del Fedro nel sangue dei πεπαιδευμένοι riaffiora quindi a più riprese nell’età antonina e in questo quadro è necessario porre il tema che intendiamo affrontare: il rapporto tra la scena delle cicale nel Fedro e il prologo del Dafni e Cloe di Longo Sofista. La scena delle cicale è recepita da Longo in modo che appare inconsueto: mentre di norma sottopone i suoi modelli, da Omero a Teocrito, a una rielaborazione radicale che raggiunge la parodia,10 Longo rivela nel prologo una strategia letteraria convergente con quella sviluppata da Platone nella scena delle cicale del Fedro, confermando così il radicamento nella cultura letteraria dei Greci della funzione dei luoghi per l’espressione delle poetiche. Riteniamo che Platone e Longo, di fronte all’analoga esigenza di esprimere la poetica di un genere nuovo come il Σωκρατικὸς λόγος o il romanzo bucolico, mettano in atto la medesima strategia fondata sulla caratterizzazione del luogo, nel solco della tradizione che prende le mosse da Esiodo con il proemio della Teogonia.11 La presenza del Fedro nei Ποιμενικὰ τὰ κατὰ Δάφνιν καὶ Χλόην è da tempo oggetto dell’attenta analisi della critica che riconosce in modo unanime, pur con vari gradi di attenzione, la frequenza con la quale Longo allude al testo di Platone.12 La critica si divide però in merito al valore da attribuire a tale presenza ai fini dell’interpretazione: da una parte M. Trapp attribuisce a Longo un impiego “intermittente” del dialogo che risponde solo all’esigenza di dotare il romanzo di una patina filosofica oppure della γλυκύτης stilistica della quale la descrizione del locus amoenus nel Fedro era emblema;13 dall’altra invece G. Danek, ancora R. Hunter e più di recente I.

8 Hunter (2012). 9 Hunter (2012), 4: «the opening of the Phaedrus, like some other iconic Platonic moments, has entered into the bloodstream of educated Greeks». 10 Cf. Pattoni (2005), 9: «una soluzione prediletta da Longo consiste nell’innesto di forme espressive tipiche dei generi alti […] in un contesto a loro estraneo […] con conseguente attivazione di sofisticati procedimenti parodici». Morgan (2004), 18, attribuisce a Longo un gioco ironico con le convenzioni letterarie che ne governano la scrittura. 11 Cf. Capra e De Sanctis in questo stesso volume. 12 Sono emblematiche le 33 occorrenze del solo Fedro, a fianco delle 22 del Simposio e delle 38 degli altri dialoghi, nell’indice generale di Bowie (2019), 333. 13 Trapp (1990), 155.

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Repath14 attribuiscono un peso maggiore all’influenza di Platone su Longo ma in larga parte riguardo la concezione di eros che emerge sia dal Fedro sia dal Simposio,15 l’eros filosofico sul quale Longo, con arte allusiva, gioca a più riprese nella peculiare vicenda della paideia erotica dei due pastori. Prospettive che, pur dimostratesi fertili, sono vittime sia del pregiudizio sul dialogo quale testo con la funzione esclusiva di veicolo delle dottrine di Platone sia della presunta superficialità della ricezione del Fedro in età antonina; al contrario, numerose pagine dei dialoghi entrarono presto nel canone dei modelli per l’imitatio ben oltre la storia del platonismo, con la sua pur ineludibile influenza sulla cultura ellenistica e imperiale, e tale imitatio non di rado ha coinvolto le dinamiche profonde della poetica dei testi recettori.16 Una prospettiva diversa sulla ricezione del Fedro nel prologo del Dafni e Cloe è ora possibile infatti grazie alle recenti acquisizioni sulla poetica implicita che Platone sviluppa nei dialoghi. A partire dal seminario napoletano di Konrad Gaiser del marzo 1982,17 con forza crescente la critica ha messo in luce nei dialoghi una strategia che risponde al chiaro scopo di rifondare la produzione letteraria del passato tramite un genere letterario nuovo,18 il Σωκρατικὸς λόγος. L’antica discordia tra filosofia e poesia che induce Socrate a escludere Omero e la tragedia dalla Kallipolis della Repubblica (X 607b-d) appare ora un agone nel quale Platone e i poeti combattono sullo stesso terreno e il dialogo socratico compete con la produzione

14 Danek-Wallisch (1993), 45, dichiarano l’intenzione di sviluppare una generale interpretazione del romanzo quale mito platonico sulla natura di Eros. Hunter (1997), 778–784, che corregge la posizione riduttiva espressa in Hunter (1983), accomuna Platone e Longo nel medesimo tentativo di offrire un’eziologia di Eros in termini mitici. Secondo Repath (2011), 99–100, Longo inverte i poli della riflessione di Platone su Eros tramite la figura edonistica di Gnatone «that suggests a non-sublimated but rationally controlled and mutual-fulfilling state» (120). 15 Per la convergenza tra eros e filosofia per la maschera di Socrate nel Liside, cf. Szlezák (1985), 184–189, con una prospettiva che resta valida anche nel Fedro e nel Simposio: la riflessione su Eros ha lo scopo di esortare alla φιλοσοφία. 16 E.g. per gli epigrammi di Callimaco Acosta-Hughes (2016), per l’idillio 18 di Teocrito Regali (2018). Per il Simposio cf. Hunter (2006), che sottolinea come proprio nel genere del romanzo «most of the extant novelists acknowledge Plato as one of their authorizing models, second in importance perhaps only to Homer» (295). 17 Gaiser (1984). 18 In questa direzione offre una sintesi del contributo di Graziano Arrighetti all’esegesi su Platone Cambiano (2020), 72. Sulla novità del Σωκρατικὸς λόγος nel variegato panorama della prosa di quarto secolo cf. Ford (2008), 29–31, e Ford (2010) per la testimonianza di Aristotele in merito. Per un quadro sintetico sulla produzione dei Socratici minori cf. Kahn (1996), 9–42.

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poetica nella costante dialettica tra tradizione e innovazione.19 Il luogo del Fedro e gli “attori” che in quel luogo agiscono come le Ninfe, Pan e in particolare le cicale, compongono una rete di segnali che Platone intreccia per presentare quale superamento della tradizione letteraria il διαλέγεσθαι, lo scambio di domande e risposte attorno alla definizione dei concetti che rappresenta il πρᾶγμα di Socrate, maschera eponima del nuovo genere.20 E all’interno di questa rete, il racconto sulle cicale è stato letto da A. Capra alla luce della scena tipica di investitura poetica che dalla Teogonia di Esiodo (22–35) giunge ad Epimenide (6 T Bernabé) e Archiloco (Iscrizione di Mnesiepes E1 II 22–38): emerge così il profilo del dialogo quale forma rivale delle forme monologiche della retorica e della poesia, i generi che il Σωκρατικὸς λόγος dovrà sostituire nella funzione paideutica interna alla polis.21 Pur impiegando i moduli tradizionali delle scene d’investitura, il racconto sulle cicale rappresenta infatti un punto di svolta radicale nel Fedro perché introduce un elemento del luogo invertendo di segno il modo in cui esso esercita il suo influsso: invece dell’ispirazione che Socrate può solo recepire in modo passivo sviluppando i λόγοι ad una voce, l’ispirazione che giunge dalle Ninfe del luogo, le cicale, rappresenta una πεῖρα da superare con l’impegno autonomo del διαλέγεσθαι che produce la sezione dialogica finale a due voci in cui, non a caso, Socrate offre il profilo della διαλεκτικὴ τέχνη della quale si dichiara ἐραστής (265d-266b). La forma del dialogo, come spesso emerge dalla poetica implicita di Platone, nasce dallo sviluppo di motivi tradizionali, come nel Fedro lo schema dell’investitura, ma ad un tempo segna in modo radicale la propria distanza, non di rado polare, da essi. A partire dalla rinnovata immagine del Fedro sarà quindi possibile osservarne la fortuna presso Longo in una prospettiva mutata. Come vedremo, è infatti plausibile attribuire alla γραφή, il dipinto attorno al quale ruota il prologo del Dafni e Cloe, una funzione analoga: un elemento del luogo, come le cicale del Fedro, annuncia i tratti distintivi del romanzo bu-

19 Erler (2007), 60–98 e Tulli (2011). 20 Nel modo in cui Platone rappresenta lo spazio e il tempo dell’incontro dialogico del Fedro, Ferrari (1987), 2–4, scorge un tratto peculiare anche rispetto ai dialoghi come il Protagora, il Fedone, o il Simposio nei quali l’ambiente è descritto in modo altrettanto vivace: solo nel Fedro, a causa dell’assenza del narratore, il lettore apprende dell’ambiente circostante tramite le reazioni dei personaggi, un’ambiente che per questo diviene «a direct cause of the conversational action» (4). 21 Capra (2014), 106–115.

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colico di Longo, una forma che, allo stato delle nostre conoscenze, ci appare nuova e isolata nel panorama del romanzo antico.22 Prima di rivolgerci al prologo del romanzo di Longo, osserviamo i numerosi segnali che tratteggiano per il lettore del Fedro il profilo di una forma nuova, con una chiarezza sempre crescente che raggiunge il culmine nella scena delle cicale; e in parallelo assisteremo al progressivo affrancarsi da parte di Socrate dall’influenza delle divinità del luogo, verso la conquista della voce autonoma nel dialogo con Fedro che caratterizza la sezione finale. Come vedremo, il personaggio di Socrate, che si presenta con la sua consueta maschera nelle prime battute del dialogo, è sottoposto a una radicale metamorfosi per effetto delle forze stranianti e divine presenti sull’Ilisso, sino alla riconquista della propria identità grazie alle cicale, uniche tra le divinità del luogo a favorire la sua naturale inclinazione al διαλέγεσθαι quale strumento per la ricerca di un sapere ancora da raggiungere. Osservando le reazioni della maschera dell’eroe eponimo del Σωκρατικὸς λόγος nel contesto nuovo del luogo sull’Ilisso, Platone costruisce nel Fedro un percorso mirato a presentare la forma del dialogo in contrasto con le forme rivali di trasmissione del sapere.

1. Da Lisia a Stesicoro: Socrate e le voci altrui sull’Ilisso Il Fedro si apre con l’incontro tra Socrate e Fedro, un incontro che Platone colloca nelle vicinanze del tempio di Zeus Olimpio, nella zona sud-est di Atene, nei pressi del punto in cui il fiume Ilisso scorre non distante dalle Mura cittadine (227a-b),23 forse non a caso agli antipodi rispetto all’Accademia di Platone, collocata oltre il Ceramico nella zona nord-ovest.24 Fedro è diretto fuori dalle Mura per una passeggiata, dopo l’intera mattina

22 Secondo Alvares (2014), 27, Longo elimina del tutto gli elementi dell’intreccio sui quali già Achille Tazio innova volgendoli in tono grottesco. Per Bowie (2019), 1, il romanzo di Longo si distingue perché esclude dall’intreccio i viaggi e le peripezie degli amanti separati, offrendo così una miniatura dello spazio e del tempo romanzesco: Dafni e Cloe restano a Lesbo e il mutamento è indotto solo dall’avvicendarsi delle stagioni nell’ambiente rurale. Un modulo narrativo che secondo Pattoni (2005), 133–134, Longo mutua dalla storiografia «attraverso il filtro bucolico». 23 Scorge qui il modello dell’archaia di Aristofane, con i prologhi che introducono un viaggio nelle Rane e negli Uccelli, De Sanctis (2016), 70–71. 24 Sui luoghi attorno all’Ilisso, dove gli scavi moderni scoprono tracce del cammino di Socrate con Fedro ma anche del percorso di Dioniso nell’Ade nella rappresentazione delle Rane di Aristofane, cf. Greco (2011), 423–424, 480–489. Socrate af-

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trascorsa con Lisia alle prese con un logos in favore del non amante. Attratto dall’occasione di ascoltare il logos, Socrate lo segue verso un luogo dove il discorso, del quale Fedro possiede una copia scritta, potrà essere letto e discusso con agio. Procedendo nel cammino, Fedro individua uno spazio sottostante un platano altissimo, un luogo del quale iniziano a profilarsi i tratti salienti: l’ombra, la piacevole brezza e l’erba che favorisce il giacere (229b1–2).25 Fedro crede che sia questo il luogo da dove si racconta che Borea rapì Orizia, ipotesi che sembra plausibile perché le acque dolci, pure e trasparenti sono adatte ai giochi delle κόραι (229b4–8). Richiesto della sua opinione sulla veridicità del racconto su Orizia, Socrate offre un ritratto di sé che rappresenta per noi il primo passo verso la scena d’investitura con il διαλέγεσθαι delle cicale (229c3–7):26 {ΦΑΙ.} Οὐ πάνυ νενόηκα· ἀλλ’ εἰπὲ πρὸς Διός, ὦ Σώκρατες, σὺ τοῦτο τὸ μυθολόγημα πείθῃ ἀληθὲς εἶναι; {ΣΩ.} Ἀλλ’ εἰ ἀπιστοίην, ὥσπερ οἱ σοφοί, οὐκ ἂν ἄτοπος εἴην, εἶτα σοφιζόμενος φαίην αὐτὴν πνεῦμα Βορέου κατὰ τῶν πλησίον πετρῶν σὺν Φαρμακείᾳ παίζουσαν ὦσαι […] Se Socrate non credesse al racconto su Borea, ma avanzasse un’interpretazione allegorica, non sarebbe ἄτοπος: tale prassi è infatti consueta tra i

ferma nel Fedro che la sua φιλομαθία lo trattiene nell’ἄστυ (230d), ma, come nota Müller (1988), 405, il Parmenide e la Repubblica mostrano che, se occupati dagli ἄνθρωποι, anche i luoghi fuori dalle mura di Atene (ἔξω τείχους) si rivelano favorevoli alla filosofia: non è quindi Atene a garantire la possibilità della ricerca ma la presenza dell’interlocutore. 25 Per la posizione del Fedro nella tradizione del locus amoenus cf. Hass (1998), 31– 33, 142, che a ragione corregge Schönbeck (1962), 105–108: la funzione drammaturgica del luogo non si esaurisce nella sorpresa di Socrate ma innerva lo svolgimento del dialogo sino al termine con la preghiera a Pan (279b-c). Non sembra cogliere però nel segno la derivazione del Fedro dall’episodio delle nozze sacre di Zeus ed Era (Il. XIV 347–353) perché lega in modo esclusivo il locus amoenus alla sfera dell’eros. Come mostra invece lo Ione (534b) è ben presente nel corpus dei dialoghi la tradizione che lega natura amena e poesia, la tradizione di Pindaro (Ol. 9, 26) e Aristofane (R. 1300) con l’immagine del giardino delle Muse o delle Cariti dove il poeta coglie i suoi fiori. Cf. Murray (1996), 117, Ferroni-Macé (2018), 86–87 e Cucinotta in questo stesso volume. A questa tradizione è da ricondurre anche il Fedro che, in particolare a partire dalla scena delle cicale, lega il locus al tema della scrittura e dei generi letterari. 26 Poco prima, approvando l’Ilisso quale luogo adatto alla lettura Fedro aveva indicato un altro tratto consueto del profilo di Socrate, il suo essere scalzo (229a3–4: εἰς καιρόν, ὡς ἔοικεν, ἀνυπόδητος ὢν ἔτυχον· σὺ μὲν γὰρ δὴ ἀεί). Come nota Rowe (1986), 138, è segno della povertà causata dal suo impegno nella ricerca che non lascia spazio ad altre attività come conferma Senofonte nel I libro dei Memorabili (6, 2).

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σοφοί e Socrate non si renderebbe quindi stravagante agli occhi degli Ateniesi nel caso la applicasse anche al racconto tradizionale su Orizia. La ragione che induce Socrate a non intraprendere questa strada non è quindi il timore di essere ritenuto ἄτοπος ma, come vedremo, l’impegno nell’indagare se stesso che esclude ogni altra occupazione. Socrate non si dichiara ἄτοπος, come alcuni tra i traduttori sostengono, ma, come sempre accade nei dialoghi (e.g. Theaet. 149a), è l’opinione altrui, spesso condivisa dalla maggioranza degli Ateniesi, a ritenerlo tale; subito dopo, sarà infatti Fedro, come vedremo, a esprimere tale opinione.27 La sequenza οὐκ ἂν ἄτοπος εἴην è comunque segno della consuetudine di Socrate a ricevere la definizione di ἄτοπος, una caratteristica che Platone non a caso richiama in questa scena dove la maschera di Socrate si ricompone un tratto per volta di fronte agli occhi del lettore. Gli esercizi di razionalismo dei σοφοί, sono graziosi, χαρίεντα, ma Socrate non ha σχολή per le ricerche di questo tipo perché è ancora impegnato nell’indagine su se stesso secondo il motto delfico (229d2–230a3): ἐγὼ δέ, ὦ Φαῖδρε, ἄλλως μὲν τὰ τοιαῦτα χαρίεντα ἡγοῦμαι, [...]. ἐμοὶ δὲ πρὸς τὰ τοιαῦτα οὐδαμῶς ἐστι σχολή· τὸ δὲ αἴτιον, ὦ φίλε, τούτου τόδε. οὐ δύναμαί πω κατὰ τὸ Δελφικὸν γράμμα γνῶναι ἐμαυτόν· γελοῖον δή μοι φαίνεται τοῦτο ἔτι ἀγνοοῦντα τὰ ἀλλότρια σκοπεῖν. ὅθεν δὴ χαίρειν ἐάσας ταῦτα, πειθόμενος δὲ τῷ νομιζομένῳ περὶ αὐτῶν, ὃ νυνδὴ ἔλεγον, σκοπῶ οὐ ταῦτα ἀλλ’ ἐμαυτόν [...]. I due temi che emergono da queste parole di Socrate, la distanza dai σοφοί e il motto delfico, appartengono al nucleo di poetica che fonda il Σωκρατικὸς λόγος quale genere letterario. Come mostra con valore programmatico l’Apologia (22e-23c), il vagare, la πλάνη per interrogare i σοφοί, è di norma descritto come un’indagine di Socrate su se stesso, sul contrasto fra l’ignoranza che riconosce a se stesso e l’indubitabile verità proclamata

27 Robin (1944), 5 n. 4, traduce «Si j’étais, comme les Doctes, un incrédule, je ne serais pas un extravagant» e intende ἄτοπος in senso etimologico: «celui que ne suit pas les sentiers battus et dont l’originalité ingénue (atopia) déconcerte». Sulla stessa linea anche Hackforth (1952), 24: «I should be quite in the fashion», Velardi (2006), 117: «non sarei certo un tipo strano». Non è sostenuta dalla sintassi la traduzione di Reale (1998), 13: «non sarei lo strano uomo che sono», seguito da Bonazzi (2011), «non sarei il tipo spiazzante che sono», che prevede l’irrealtà in luogo della possibilità imposta dall’ottativo. Yunis (2011), 92, costruisce invece in modo impersonale («there would be nothing odd») e interpreta la frase come attacco ai razionalisti che offrirebbero una spiegazione banale del racconto su Orizia; sulla sua scia Heitsch (19972), 13: «so wäre das nicht abwegig» e Pucci in Centrone (1998), 7: «sarebbe del tutto normale».

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da Apollo tramite l’oracolo: Socrate è σοφώτατος tra gli uomini. E di questa indagine i Sokratikoi logoi rappresentano la cronaca. L’incapacità di Socrate nel rispettare il motto delfico è un palese richiamo all’oracolo richiesto da Cherefonte: nel Fedro, Socrate è ancora impegnato nella πλάνη che come mostra l’Apologia (23a) lo condurrà a comprendere la propria σοφία, l’ἀνθρωπίνη σοφία, ossia il suo essere libero dal falso sapere.28 Come vedremo, però, da questo punto di partenza, ossia dalla sua consueta maschera, Socrate sarà trascinato verso il profilo dei σοφοί a causa delle divinità del luogo, sino alla liberazione nella sezione finale.29 In apertura del dialogo, quindi, Platone costruisce una rete di richiami ai tratti distintivi della maschera di Socrate che saranno sconvolti dalle forze stranianti che agiscono nel luogo sull’Ilisso: un processo che giunge a compimento quando, con le cicale, emergeranno invece le forze divine che con il profilo di Socrate si conciliano. Ora, giunto al platano sull’Ilisso che Fedro aveva suggerito quale meta, Socrate prorompe in una celebre descrizione del luogo dove si svolgerà il resto del dialogo, un passo del quale è impossibile seguire nel dettaglio la fortuna e le imitazioni nella produzione successiva e nella riflessione erudita (230b1-c4):30 {ΣΩ.} Νὴ τὴν Ἥραν, καλή γε ἡ καταγωγή. ἥ τε γὰρ πλάτανος αὕτη μάλ’ ἀμφιλαφής τε καὶ ὑψηλή, τοῦ τε ἄγνου τὸ ὕψος καὶ τὸ σύσκιον πάγκαλον, καὶ ὡς ἀκμὴν ἔχει τῆς ἄνθης, ὡς ἂν εὐωδέστατον παρέχοι τὸν τόπον· ἥ τε αὖ πηγὴ χαριεστάτη ὑπὸ τῆς πλατάνου ῥεῖ μάλα ψυχροῦ ὕδατος, ὥς γε τῷ ποδὶ τεκμήρασθαι. Νυμφῶν τέ τινων καὶ Ἀχελῴου ἱερὸν ἀπὸ τῶν κορῶν τε καὶ ἀγαλμάτων ἔοικεν εἶναι. εἰ δ’ αὖ βούλει, τὸ εὔπνουν τοῦ τόπου ὡς ἀγαπητὸν καὶ σφόδρα ἡδύ· θερινόν τε καὶ λιγυρὸν ὑπηχεῖ τῷ τῶν τεττίγων χορῷ. πάντων δὲ κομψότατον τὸ τῆς πόας, ὅτι ἐν ἠρέμα

28 A torto, Kamtekar (2017), 25–28, pone il Fedro, dove Socrate afferma di non conoscere se stesso, in contrasto con l’Apologia (21b4–5), dove Socrate affermerebbe di possedere una conoscenza di sé, in particolare del proprio difetto di sapere: ἐγὼ γὰρ δὴ οὔτε μέγα οὔτε σμικρὸν σύνοιδα ἐμαυτῷ σοφὸς ὤν. Come mostra Rowe (2011), 213–214, la ricerca su se stesso che Socrate descrive nel Fedro non si discosta in alcun modo da quella dell’Apologia perché non riguarda l’individuo Socrate bensì ciò che egli conosce e ciò che non conosce, ossia «our rational self». 29 Capra (2014), 30–31, offre un utile quadro sulle fonti di Socrate, che distingue in due categorie: da una parte i «local numina» come le cicale, le Ninfe e Pan, dall’altra le Muse e i poeti come Saffo, Anacreonte, Ibico e Stesicoro. 30 Per un primo esempio cf. la ricezione del passo del Fedro nell’idillio 7 di Teocrito (135–146) come descritta da Fantuzzi-Hunter (2004), 191–194.

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προσάντει ἱκανὴ πέφυκε κατακλινέντι τὴν κεφαλὴν παγκάλως ἔχειν. ὥστε ἄριστά σοι ἐξενάγηται, ὦ φίλε Φαῖδρε. La critica moderna si divide in merito all’interpretazione del tono e dello stile di Socrate. Mentre H. Thesleff scorge nella paratassi, nei dicola, nei ritmi spondaici e cretici delle clausole, nei neutri astratti, i segni di un’intenzionale ironia rivolta alla lingua artificiosa delle cerchie intellettuali di Atene, forse la scuola di Anassagora,31 H. Yunis attribuisce lo stile inconsueto per Socrate all’influenza delle divinità del luogo, che ora per la prima volta compaiono sulla scena del dialogo e che con forza crescente agiranno su Socrate: le Ninfe e Acheloo insieme al “coro delle cicale” del quale in seguito lo stesso Socrate svelerà la natura divina.32 Ciò che interessa ai fini della nostra ricerca è la reazione immediata di Fedro al quale Socrate appare ἀτοπώτατος perché con il suo stupore dimostra di essere estraneo ad un luogo che invece dovrebbe essergli familiare (230c5-d5): {ΦΑΙ.} Σὺ δέ γε, ὦ θαυμάσιε, ἀτοπώτατός τις φαίνῃ. ἀτεχνῶς γάρ, ὃ λέγεις, ξεναγουμένῳ τινὶ καὶ οὐκ ἐπιχωρίῳ ἔοικας· οὕτως ἐκ τοῦ ἄστεος οὔτ’ εἰς τὴν ὑπερορίαν ἀποδημεῖς, οὔτ’ ἔξω τείχους ἔμοιγε δοκεῖς τὸ παράπαν ἐξιέναι. {ΣΩ.} Συγγίγνωσκέ μοι, ὦ ἄριστε. φιλομαθὴς γάρ εἰμι· τὰ μὲν οὖν χωρία καὶ τὰ δένδρα οὐδέν μ’ ἐθέλει διδάσκειν, οἱ δ’ ἐν τῷ ἄστει ἄνθρωποι. In risposta a Fedro, Socrate offre di nuovo un ritratto di sé che, riteniamo, può essere letto quale dichiarazione di poetica: Socrate è estraneo al locus amoenus appena descritto perché è φιλομαθής e il sapere al quale tende non può giungere dai luoghi e dagli alberi ma solo dai cittadini, οἱ δ’ ἐν τῷ ἄστει ἄνθρωποι. Come abbiamo appena osservato per il motto delfico, il μανθάνειν presso i cittadini di Atene è di nuovo un tratto distintivo della maschera di Socrate e del genere letterario che ne racconta le vicende: il Σωκρατικὸς λόγος che prevede l’appartenenza esclusiva della maschera di Socrate all’ἄστυ e la sua estraneità al mondo esterno alla polis.33 Fedro ha scovato però il φάρμακον per trascinare Socrate per tutta l’Attica: mostrar-

31 Cf. Thesleff (1967), 142–144 (=118–119), che descrive lo stile del passo come «Platonic burlesque». Sulla stessa linea De Vries (1969), 55–57, e in particolare Rowe (1986), 141, ritengono preponderante nel passo l’ironia di Socrate. 32 Yunis (2011), 95. 33 Per i luoghi di Atene nei quali Platone inscena le conversazioni di Socrate, cf. la panoramica offerta da Müller (1988), 405–409, che distingue tra luoghi «philosophie-freundlichen» e «philosophie-feindlichen»: il luogo sull’Ilisso è per Müller in modo indistinto favorevole alla φιλοσοφία, ma, come vedremo, è necessario distinguere tra elementi del luogo favorevoli, come le cicale, e ostili come le Ninfe.

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gli i λόγοι contenuti nel rotolo, σὺ ἐμοὶ λόγους οὕτω προτείνων ἐν βιβλίοις, come si fa con le bestie affamate che inseguono un germoglio o un frutto quando viene loro agitato davanti (230d5-e1). Il desiderio di sapere ha quindi condotto Socrate in un luogo per lui inconsueto, un luogo deserto di uomini ma che può offrire comunque il μανθάνειν grazie al rotolo di Fedro che contiene il λόγος di Lisia. Il mutamento al quale Fedro ha costretto Socrate, ossia passare dall’esame degli ἄνθρωποι, all’esame di un λόγος scritto annuncia il tema che sarà al centro della sezione finale del dialogo, con la celebre critica della scrittura (274c-278e).34 Dopo la sorpresa per la bellezza delle rive dell’Ilisso che ha provocato lo stile inconsueto dell’ekphrasis, l’influsso del luogo su Socrate prosegue con forza crescente: al termine della lettura del discorso di Lisia in favore del non amante,35 Socrate è convinto da Fedro ad esporre un proprio λόγος sullo stesso argomento, ma nel corso dell’esposizione si interrompe per chiedere conferma a Fedro del πάθος divino che avverte (238c5-d3)36: Ἀτάρ, ὦ φίλε Φαῖδρε, δοκῶ τι σοί, ὥσπερ ἐμαυτῷ, θεῖον πάθος πεπονθέναι; {ΦΑΙ.} Πάνυ μὲν οὖν, ὦ Σώκρατες, παρὰ τὸ εἰωθὸς εὔροιά τίς σε εἴληφεν. {ΣΩ.} Σιγῇ τοίνυν μου ἄκουε. τῷ ὄντι γὰρ θεῖος ἔοικεν ὁ τόπος εἶναι, ὥστε ἐὰν ἄρα πολλάκις νυμφόληπτος προϊόντος τοῦ λόγου γένωμαι, μὴ θαυμάσῃς· τὰ νῦν γὰρ οὐκέτι πόρρω διθυράμβων φθέγγομαι. {ΦΑΙ.} Ἀληθέστατα λέγεις. In contrasto con ciò che gli accade di norma, παρὰ τὸ εἰωθός, ora Socrate è preda di una certa εὔροια, la cui causa è prontamente attribuita alla posses-

34 Sull’intenso dibattito sviluppato attorno a queste pagine cf. il bilancio offerto da Erler (2007), 92–95. 35 Il discorso di Lisia si chiude con l’invito al destinatario fittizio, il παῖς, a rivolgere domande nel caso qualcosa sia stato tralasciato (234c4-5): εἰ δέ τι σὺ ποθεῖς, ἡγούμενος παραλελεῖφθαι, ἐρώτα. Oltre al pun etimologico, segno secondo Yunis (2011), 104, di «epideictic wit», tra ἐρώτα ed ἕρωτα che induce all’errore parte della tradizione come mostra il Bodleiano, è possibile scorgere nell’apertura alla voce del destinatario il primo passo verso la forma del dialogo. 36 Oltre all’influenza del luogo, il discorso di Socrate nasce in primo luogo dal ricordo di Saffo e Anacreonte, ai quali si affiancheranno in seguito Ibico (fr. 310 Davies, cf. 242c-d; fr. 286, 6–7 cf. 253c-255a), Stesicoro (243a-b) e ancora Anacreonte (fr. 417, 7 Page, cf. 254a4) per la palinodia. Per una rassegna delle allusioni alla lirica erotica nei tre λόγοι del Fedro cf. Pender (2011), 330–342: in particolare richiamano il repertorio lirico il dominio (ἀρχή, κράτος, τυραννεῖν, δεσπότης) e la forza fisica (ῥώμη) di Eros (237d6–9, 238c2–4, 246b1, 265c2), come le immagini del carro alato (247b1–248b5), della brillantezza della forma del καλόν (250b5–6) e la «bittersweet madness» provocata dalla vista dell’amato (251a3 -252a1).

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sione da parte delle Ninfe del luogo,37 la ninfolessia che sta per trascinare Socrate verso la forma del ditirambo.38 Poco dopo giunto ad uno snodo decisivo dell’argomentazione in favore del non amante, Socrate interrompe invece in modo brusco il discorso (241d2–242a2):39 Τοῦτ’ ἐκεῖνο, ὦ Φαῖδρε. οὐκέτ’ ἂν τὸ πέρα ἀκούσαις ἐμοῦ λέγοντος, ἀλλ’ ἤδη σοι τέλος ἐχέτω ὁ λόγος. […] Οὐκ ᾔσθου, ὦ μακάριε, ὅτι ἤδη ἔπη φθέγγομαι ἀλλ’ οὐκέτι διθυράμβους, καὶ ταῦτα ψέγων; ἐὰν δ’ ἐπαινεῖν τὸν ἕτερον ἄρξωμαι, τί με οἴει ποιήσειν; ἆρ’ οἶσθ’ ὅτι ὑπὸ τῶν Νυμφῶν, αἷς με σὺ προύβαλες ἐκ προνοίας, σαφῶς ἐνθουσιάσω; […] καὶ οὕτω δὴ ὁ μῦθος ὅτι πάσχειν προσήκει αὐτῷ, τοῦτο πείσεται· κἀγὼ τὸν ποταμὸν τοῦτον διαβὰς ἀπέρχομαι πρὶν ὑπὸ σοῦ τι μεῖζον ἀναγκασθῆναι.

37 Per il fenomeno della ninfolessia nelle fonti antiche, tra produzione letteraria ed erudizione, cf. Larson (2001), 11–60. Certo, nel passaggio da Lisia a Socrate, nonostante l’influsso straniante delle divinità del luogo, sono presenti alcuni segnali di progresso verso il mondo concettuale del dialogo socratico come la priorità della definizione (237c1: εἰδέναι δεῖ περὶ οὗ ἂν ᾖ ἡ βουλή) e l’aspirazione all’ἀγαθόν (237d8: ἄλλη δὲ ἐπίκτητος δόξα, ἐφιεμένη τοῦ ἀρίστου), ai quali attribuisce notevole rilievo per l’interpretazione del primo λόγος Rowe (1986), 153–154. 38 La natura elusiva del ditirambo ostacola la comprensione dell’esatto significato del riferimento di Socrate: non convince Yunis (2011), 115, che richiama l’aspetto cultuale, legato a Dioniso, del ditirambo per «the atmosphere of divinely inspired ecstasy» del discorso di Socrate. Come mostra D’Alessio (2013), 132, «the kinds of songs that were called ‘dithyrambs’ […] may have had importantly different features in different places and times»; per Platone emerge invece una maggiore attenzione per i tratti salienti dello stile, per il quale cf. ora la sintesi offerta da LeVen (2014), 150–188. Ad esempio, come mostra il Cratilo (409b-c) il nome Σελαεννεοάεια, che contiene l’etimologia di σελήνη sulla quale cf. D’Alessandro (2009), 217 n. 1, è definito da Ermogene διθυραμβῶδες per il suo carattere composto e non a caso, nel Fedro, Socrate si interrompe subito dopo l’etimologia di ἔρως da ῥώμη (238c1–4), un’etimologia espressa con un periodo esteso nel quale, a causa dell’accumulo di costruzioni participiali, con ogni probabilità risuona lo stile del ditirambo, la cui sintassi è descritta da Csapo (2004), 226–229. In questa direzione a ragione procede l’analisi di Ryan (2012), 141–142, il quale richiama la scelta di Denniston (1952), 68, sulla nostra frase come esempio di violazione del principio di equilibrio tra le parti nella costruzione del periodo. Segno della progressiva liberazione di Socrate sarà lo stile opposto della dimostrazione dell’immortalità dell’anima nella palinodia (245c-246a): lo stile della prosa ionica come nota Yunis (2011), 136, tramite il confronto con la descrizione del νοῦς in Anassagora (59 B 12 D.-K.). Per la tradizione erudita che dal passo del Fedro deriva, cf. Velardi (2006), 155 n. 92. 39 Rappresenta forse un segno di progresso verso la prospettiva sempre più ampia che dalla palinodia condurrà, dopo la svolta delle cicale, al διαλέγεσθαι della sezione finale il fatto che il primo λόγος di Socrate si interrompa subito dopo la menzione della παίδευσις τῆς ψυχῆς (241c4–5). Cf. Bonazzi (2011), 65 n. 72.

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Non intende proseguire perché l’ormai palese ἐνθουσιασμός delle Ninfe sta trasformando i ditirambi in esametri, per di più pronunciati per il biasimo:40 una confusione di forme dalla quale Socrate intende sottrarsi abbandonando gli stranianti influssi del luogo e di Fedro.41 Dalla sequenza πρὶν ὑπὸ σοῦ τι μεῖζον ἀναγκασθῆναι emerge con chiarezza come Socrate avverta di essere costretto da una forza superiore alla quale Fedro lo ha consegnato: il luogo delle Ninfe dove lo ha condotto trascinandolo con il miraggio del λόγος di Lisia. Ma ora, dopo le scene nelle quali sono emersi tratti inusuali, compare il motivo del segno demonico, tratto distintivo della maschera di Socrate. Mentre sta per attraversare di nuovo l’Ilisso dirigendosi verso Atene, interviene infatti τὸ δαιμόνιόν τε καὶ τὸ εἰωθὸς σημεῖον (242b7c5): {ΣΩ.} Ἡνίκ’ ἔμελλον, ὠγαθέ, τὸν ποταμὸν διαβαίνειν, τὸ δαιμόνιόν τε καὶ τὸ εἰωθὸς σημεῖόν μοι γίγνεσθαι ἐγένετο – ἀεὶ δέ με ἐπίσχει ὃ ἂν μέλλω πράττειν – καί τινα φωνὴν ἔδοξα αὐτόθεν ἀκοῦσαι, ἥ με οὐκ ἐᾷ ἀπιέναι πρὶν ἂν ἀφοσιώσωμαι, ὡς δή τι ἡμαρτηκότα εἰς τὸ θεῖον. εἰμὶ δὴ οὖν μάντις μέν, οὐ πάνυ δὲ σπουδαῖος, ἀλλ’ ὥσπερ οἱ τὰ γράμματα φαῦλοι, ὅσον μὲν ἐμαυτῷ μόνον ἱκανός· σαφῶς οὖν ἤδη μανθάνω τὸ ἁμάρτημα. Platone introduce un tratto di Socrate, il segno demonico che lo trattiene dal commettere atti ingiusti, a tal punto consueto da essere ben conosciuto anche dagli Ateniesi che per la prima volta ascoltavano Socrate a processo secondo il racconto dell’Apologia (31c-d). E con ogni probabilità ancora a causa del luogo, il segno demonico si manifesta in modo diverso rispetto alle altre sue occorrenze nel corpus dei dialoghi, ossia come una voce, una φωνή che proviene da un punto non specificato del lungofiume come segnala l’αὐτόθεν con il quale Socrate indica la direzione dalla quale la voce lo raggiunge.42 Tra le divinità del luogo, Socrate introduce il proprio segno demonico: scorgiamo qui la progressiva appropriazione dello spazio estra-

40 Non a caso, il confronto tra il discorso di Socrate e i generi letterari della tradizione, come vedremo, sarà ripreso nel cruciale mito delle cicale che introdurrà il genere letterario nuovo del Σωκρατικὸς λόγος. 41 Mentre sulla scia di Ermia (61, 22–62, 9) Velardi (2006), 167 n. 102, scorge nel passaggio dal ditirambo all’epos «un intensificarsi dello stato di possessione» grazie al quale Socrate «ora che è pienamente posseduto si esprimerebbe con il linguaggio chiaro e di facile comprensione dell’epica», Yunis (2011), 121, attribuisce agli esametri rispetto al ditirambo «a more exalted form». Attenua in modo radicale la possessione di Socrate anche nel primo discorso Rowe (1986), 161–162. 42 Yunis (2011), 122, nota a ragione che nel Fedro, a differenza delle altre occorrenze, il segno demonico è parte integrante dell’azione drammatica perché da esso deriva la seconda parte del dialogo con la palinodia e lo scambio finale con Fedro. Per

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neo del locus amoenus. Come la critica, pur con diverse sfumature, segnala in modo uniforme, il segno demonico impone infatti una svolta nel dialogo,43 una svolta che introduce la celebre palinodia, il secondo discorso che illustra una concezione diversa di Eros, certo più vicina a Socrate rispetto ai primi due λόγοι. La palinodia sarà, come confessa più avanti lo stesso Socrate (262d), ancora frutto dell’influsso degli ἐντόπιοι θεοί, delle divinità del luogo, ma certo, come mostra anche il dettaglio del capo scoperto con il quale pronuncia la difesa di Eros a differenza di quanto era accaduto per il primo λόγος (237a4–5; 243b4–7),44 agiscono ora altre forze esterne, come il timore del dio Eros e il segno demonico, forze che sono per Socrate familiari. Nella stessa direzione conducono le parole seguenti, con le quali Socrate afferma di essere un μάντις di scarso valore perché in grado di vaticinare solo su se stesso: il richiamo alla conoscenza di sé, come il segno demonico, si aggiunge quindi ai segnali che indicano il ritorno della maschera consueta. Terminano così le influenze negative che avevano condotto, sulla scia di Fedro e di Lisia, al ditirambo e all’esametro impiegato per il biasimo, e Socrate, sulla scia di Stesicoro, torna ad un corretto rapporto con Eros che lo salva dalla blasfemia. Oltre all’evidente relazione del racconto sul viaggio della ψυχή nello spazio iperuranio con i libri centrali della Repubblica, in particolare con l’allegoria della caverna dove il νοητὸς τόπος (517a-c) corrisponde nella sua funzione all’ὑπερουράνιος τόπος del Fedro (247c-e),45 sono segni di trasformazione verso il mondo concettuale del dialogo socratico i

un quadro aggiornato delle posizioni della critica sul daimonion, tra le quali spicca la lettura di Partridge (2008) che nega al segno demonico ogni contenuto di conoscenza, cf. Bussanich (2013), 284–293. 43 Cf. in merito l’equilibrata posizione di Bonazzi (2011), 71 n. 80: l’intervento del segno demonico comporta sì una svolta nel dialogo ma l’influenza delle divinità esterne non cessa del tutto. 44 Sull’αίσχύνη di Socrate cf. Ryan (2012), 135. Ferrari (1987), 103–112, scorge nel velo il segno del pericolo che Socrate corre nell’accettare il «manipulative affair» proposto da Fedro, uno scambio interessato di λόγοι in luogo della comune condivisione del διαλέγεσθαι. Per il gesto come appropriazione da parte di Platone dell’immaginario legato all’iniziazione misterica cf. Velardi (2006), 200 n. 151. Nightingale 2004, 86–93, descrive come il profilo del φιλόσοφος, costruito tra il Fedro e la Repubblica, si appropri di «discourse and structure of traditional theoria» ma resti estraneo allo scambio tra liturgia e charis che caratterizza il θεωρός tradizionale: «the philosopher engages in virtuous action for its own sake, categorically refusing any sort of economic or political payback» (p. 91). Il genere letterario nuovo del dialogo socratico rappresenta quindi l’ideale campo d’azione della nuova figura civica. 45 Cf. Erler (2007), 216.

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passaggi nei quali Socrate, nel corso del μῦθος, celebra la filosofia e il profilo del φιλόσοφος. In merito ai cicli di reincarnazione delle anime, Socrate afferma infatti che solo la ψυχή che abbia visto la verità nello spazio iperuranio può incarnarsi nello σχῆμα dell’ἄνθρωπος, perché l’ἄνθρωπος comprende ciò che è detto sempre in funzione di una forma, κατ’εἶδος, procedendo il discorso da molteplici percezioni, ἐκ πολλῶν αἰσθήσεων, verso l’unità colta tramite il λογισμός.46 Tale processo, definito nei termini dell’ἀνάμνησις, è la causa che permette alla sola διάνοια del φιλόσοφος di recuperare le ali (249b5-c1). In estrema sintesi, Socrate anticipa ora sia il ruolo dell’ἰδέα o εἶδος sia il movimento sinottico nella descrizione del processo dialettico offerta nella sezione finale (265d1–266b2). Allo stesso modo la successiva celebrazione del φιλόσοφος, il quale grazie allo strumento della dialettica che permette l’ἀνάμνησις è l’unico a divenire simile al dio e per questo veramente τέλεος (249c4-d3), annuncia la χάρις verso gli dei che guida il dialettico (273e) e la preghiera a Pan per l’oro della sapienza nella battuta conclusiva del dialogo (279b-c). In questa direzione conduce poi la fine della palinodia, con la preghiera ad Eros e l’esortazione a Lisia di rivolgersi, come il fratello Polemarco, alla φιλοσοφία abbandonando il genere di λόγοι ai quali si è dedicato sino ad ora, esortazione che Socrate estende a Fedro perché trascorra la vita μετὰ φιλοσόφων λόγων (257b). Nonostante i segnali di progressiva distanza dai primi λόγοι, Socrate continua però ad attribuire alle forze esterne, in questo caso a Fedro che ha imposto anche nella palinodia gli ὀνόματα ποιητικά, la forma del λόγος, una forma che quindi non gli appartiene. Il passo decisivo verso la liberazione dalle forze stranianti tra le divinità del luogo è compiuto infatti dopo la palinodia, nell’articolazione verso la terza parte del dialogo in cui il coro delle cicale svolgerà un ruolo centrale e la forma monologica si aprirà alla voce dell’interlocutore grazie ai nuovi esseri divini del luogo scelti per favorire la forma del dialogo e costruire il profilo del nuovo scrittore: il φιλόσοφος.47

46 Sulla tradizione del testo in questo punto cf. Hoffmann-Rashed (2008) dei quali però non è necessario accettare la correzione come dimostra Yunis (2011), 146, che mostra come la costruzione della paradosi sia presente nel corpus, dallo stesso Fedro (271e3–4) al Liside (213c2–3) e non «unidiomatic» come sostenuto da Ryan (2012), 200–201. 47 Nightingale (1995), 133–171, mostra come Platone nel Fedro definisce il linguaggio del filosofo attraverso il concetto di autenticità: il φιλόσοφος è colui che possiede i λόγοι perché ne verifica l’autenticità tramite il confronto con i λόγοι altrui che provengono sia dall’esterno sia dal suo interno, come accade a Socrate rispettivamente con Fedro e con la memoria di Saffo e Anacreonte.

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2. L’investitura di Socrate sull’Ilisso: la nascita del dialogo Al termine della palinodia, il tema al centro del dialogo sembra mutare con la scrittura dei λόγοι che sostituisce la natura dell’ἔρως.48 Dopo la riparazione nei confronti del dio Eros, infatti, a proposito di una possibile risposta futura di Lisia alla palinodia, Socrate afferma che non è αἰσχρόν lo scrivere in sé ma lo scrivere in modo sconveniente e scorretto (257b7–258d6). Ed è proprio il τρόπος della scrittura, quale sia quello corretto e quale sia quello scorretto, che diviene ora per Socrate l’oggetto della ricerca da sviluppare in comune con Fedro49 (258d4–10): {ΣΩ.} Ἀλλ’ ἐκεῖνο οἶμαι αἰσχρὸν ἤδη, τὸ μὴ καλῶς λέγειν τε καὶ γράφειν ἀλλ’ αἰσχρῶς τε καὶ κακῶς. {ΦΑΙ.} Δῆλον δή.{ΣΩ.} Τίς οὖν ὁ τρόπος τοῦ καλῶς τε καὶ μὴ γράφειν; δεόμεθά τι, ὦ Φαῖδρε, Λυσίαν τε περὶ τούτων ἐξετάσαι καὶ ἄλλον ὅστις πώποτέ τι γέγραφεν ἢ γράψει, εἴτε πολιτικὸν σύγγραμμα εἴτε ἰδιωτικόν, ἐν μέτρῳ ὡς ποιητὴς ἢ ἄνευ μέτρου ὡς ἰδιώτης; Queste parole di Socrate conducono di nuovo il lettore del Fedro nel terreno conosciuto dei dialoghi aporetici, con la domanda canonica del τί ἐστι dalla quale di norma prende le mosse l’elenchos50 e con il termine chiave ἐξετάζειν. Non a caso già nell’Apologia, il verbo è emblematico del πρᾶγμα di Socrate, dell’indagine sul sapere degli uomini che scaturisce dall’oracolo di Apollo: il μέγιστον ἀγαθόν per l’essere umano, sostiene Socrate di fronte agli Ateniesi che non riesce a convincere, è trascorrere ogni giornata nell’e-

48 Yunis (2011), 2–7, individua nel processo di conversione di Fedro dall’epidittica alla filosofia il motivo conduttore del dialogo: un processo dal quale sembra escluso Socrate che cela dietro l’ironia la sua intenzione; allo schema di Yunis però sfugge il gioco che Platone costruisce con le forze esterne che trasformano Socrate. Per il dibattito sull’unità del Fedro, cf. le pagine ancora suggestive di Robin (1944), xxvi-lix, e l’intenso scambio tra Heath (1989) e Rowe (1989) che coinvolge la nozione antica e moderna di unità dell’opera. 49 Per i segnali nel testo (e.g. le parole con cui Fedro cede la parola a Socrate per la palinodia 243e6: oὗτος [scil. ὁ παῖς] παρά σοι μάλα πλησίον ἀεὶ πάρεστιν, ὅταν σὺ βούλῃ) che prospettano un rapporto nel segno dell’eros tra i due personaggi cf. Nussbaum (20012), 389–438, che però forza spesso i dati in direzione di una ipotetica svolta di Platone rispetto a Simposio e Repubblica in relazione al ruolo dei πάθη per la φιλοσοφία. L’eventuale corteggiamento di Socrate è rivolto solo all’intenzione di strappare Fedro alla retorica, piuttosto che a Lisia, per iniziarlo alla filosofia: cf. Szlezák (1985), 73–76. 50 Per il metodo di Socrate cf. Benson (2013) e Politis (2012), 209–213, che, con lo sguardo rivolto al Protagora, offre una utile sintesi della priorità della definizione nei dialoghi.

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same, ἐξετάζειν, di se stesso e degli altri in merito all’ἀρετή perché per l’essere umano una vita priva di esame, ὁ δὲ ἀνεξέταστος βίος, non è degna di essere vissuta, οὐ βιωτὸς ἀνθρώπῳ (38a). A differenza però della forma standard, non sarà il singolo individuo, come Eutifrone o Ippia, ad essere sottoposto ad esame ma i λόγοι, i συγγράμματα scritti di ogni tipo, dalle orazioni politiche alla produzione poetica, con una prospettiva che abbraccia ogni genere letterario che vedremo affiorare anche, non a caso, nel racconto sulle cicale.51 La proposta da parte di Socrate, ossia l’esame dei λόγοι scritti, suscita l’entusiasmo di Fedro e dopo aver constatato di avere tempo a disposizione, la σχολή necessaria,52 Socrate aggiunge, tra i motivi per intraprendere l’esame in comune, l’ἐξετάζειν, lo sguardo delle cicale (258e5–259e1): {ΣΩ.} Σχολὴ μὲν δή, ὡς ἔοικε· καὶ ἅμα μοι δοκοῦσιν ὡς ἐν τῷ πνίγει ὑπὲρ κεφαλῆς ἡμῶν οἱ τέττιγες ᾄδοντες καὶ ἀλλήλοις διαλεγόμενοι καθορᾶν καὶ ἡμᾶς. εἰ οὖν ἴδοιεν καὶ νὼ καθάπερ τοὺς πολλοὺς ἐν μεσημβρίᾳ μὴ διαλεγομένους ἀλλὰ νυστάζοντας καὶ κηλουμένους ὑφ’ αὑτῶν δι’ ἀργίαν τῆς διανοίας, δικαίως ἂν καταγελῷεν, ἡγούμενοι ἀνδράποδ’ ἄττα σφίσιν ἐλθόντα εἰς τὸ καταγώγιον ὥσπερ προβάτια μεσημβριάζοντα περὶ τὴν κρήνην εὕδειν· ἐὰν δὲ ὁρῶσι διαλεγομένους καὶ παραπλέοντάς σφας ὥσπερ Σειρῆνας ἀκηλήτους, ὃ γέρας παρὰ θεῶν ἔχουσιν ἀνθρώποις διδόναι, τάχ’ ἂν δοῖεν ἀγασθέντες. {ΦΑΙ.} Ἔχουσι δὲ δὴ τί τοῦτο; ἀνήκοος γάρ, ὡς ἔοικε, τυγχάνω ὤν. {ΣΩ.} Οὐ μὲν δὴ πρέπει γε φιλόμουσον ἄνδρα τῶν τοιούτων ἀνήκοον εἶναι. λέγεται δ’ ὥς ποτ’ ἦσαν οὗτοι ἄνθρωποι τῶν πρὶν Μούσας γεγονέναι, […]· ἐξ ὧν τὸ τεττίγων γένος μετ’ ἐκεῖνο φύεται, γέρας τοῦτο παρὰ Μουσῶν λαβόν, μηδὲν τροφῆς δεῖσθαι γενόμενον, ἀλλ’ ἄσιτόν τε καὶ ἄποτον εὐθὺς ᾄδειν, ἕως ἂν τελευτήσῃ, καὶ μετὰ ταῦτα ἐλθὸν παρὰ Μούσας ἀπαγγέλλειν τίς τίνα αὐτῶν τιμᾷ τῶν ἐνθάδε. Τερψιχόρᾳ μὲν οὖν τοὺς ἐν τοῖς χοροῖς τετιμηκότας αὐτὴν ἀπαγγέλλοντες ποιοῦσι προσφιλεστέρους, τῇ δὲ Ἐρατοῖ τοὺς ἐν τοῖς ἐρωτικοῖς, καὶ ταῖς ἄλλαις οὕτως, κατὰ τὸ εἶδος ἑκάστης τιμῆς· τῇ δὲ πρεσβυτάτῃ Καλλιόπῃ καὶ τῇ μετ’ αὐτὴν Οὐρανίᾳ τοὺς ἐν φιλοσοφίᾳ διάγοντάς τε καὶ τιμῶντας τὴν ἐκείνων μουσικὴν

51 Yunis (2011), 174, mette in luce l’ampio raggio della ricerca condotta da Socrate con Fedro, richiamato non a caso anche nella fase conclusiva dell’indagine (277d1-e1, 278c1-d6). 52 Il possesso della σχολή richiama per contrasto il rifiuto che Socrate aveva rivolto invece all’interpretazione allegorica (229e3-4): ἐμοὶ δὲ πρὸς αὐτὰ οὐδαμῶς ἐστι σχολή. Cf. Ferrari (1987), 27. Sulla σχολή come tratto distintivo del filosofo, cf. Regali (2012), 58.

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ἀγγέλλουσιν, αἳ δὴ μάλιστα τῶν Μουσῶν περί τε οὐρανὸν καὶ λόγους οὖσαι θείους τε καὶ ἀνθρωπίνους ἱᾶσιν καλλίστην φωνήν. πολλῶν δὴ οὖν ἕνεκα λεκτέον τι καὶ οὐ καθευδητέον ἐν τῇ μεσημβρίᾳ. {ΦΑΙ.} Λεκτέον γὰρ οὖν. In questo momento della giornata, il vertice della calura, lo πνῖγος, mentre cantano e conversano fra loro, ᾄδοντες καὶ ἀλλήλοις διαλεγόμενοι, le cicale stanno osservando Socrate e Fedro: se li cogliessero a dormire invece che a conversare, μὴ διαλεγομένους ἀλλὰ νυστάζοντας, come accade ai più che restano ammaliati, a ragione ne riderebbero scambiandoli per dei servi (ἀνδράποδ’ ἄττα) che si difendono dalla calura del mezzogiorno dormendo presso la fonte, come fanno le pecore. Nel caso invece li vedessero impegnati nel διαλέγεσθαι (ἐὰν δὲ ὁρῶσι διαλεγομένους) restando immuni dall’incantesimo della loro voce come se navigassero di fronte alle Sirene senza subirne l’incanto, ἀκηλήτους, forse potrebbero concedere a Socrate e a Fedro il dono, il γέρας, che per incarico degli dei assegnano agli uomini. Narra infatti Socrate ad un ignaro Fedro ciò che si racconta, λέγεται, sulle cicale: erano uomini del tempo precedente alla nascita delle Muse, che al primo ascolto furono a tal punto colpiti dal piacere della loro ᾠδή da dimenticarsi di mangiare e bere sino a morirne. Da essi nacque il γένος delle cicale che ha ottenuto in sorte dalle Muse la possibilità di cantare sino alla morte senza bisogno di nutrimento e, dopo la morte, ha il compito di riferire alle dee chi fra i mortali le onora e chi no. Denunciano infatti ad ogni Musa chi ne rispetta la τιμή con i canti che a ciascuna competono, come i cori per Tersicore, la poesia erotica per Eratò, rendendo così i poeti più cari alle loro Muse. Di notevole interesse per noi, è il fatto che Socrate affermi come le cicale procedano genere per genere, secondo la competenza di ciascuna Musa, καὶ ταῖς ἄλλαις οὕτως κατὰ τὸ εἶδος ἑκάστης τιμῆς, e il primato sia assegnato a Calliope, la πρεσβυτάτη e Urania, alle quali stanno a cuore coloro che trascorrono la vita nella filosofia e nel genere letterario, la μουσική, che a loro, che fra tutte le Muse hanno la καλλίστη φωνή, compete: i λόγοι sugli dei e sugli uomini.53 Per questo, conclude infatti Socrate, è

53 Palese è il rapporto con il catalogo delle Muse nella Teogonia di Esiodo (75–80) nel quale a Calliope è riservata una posizione privilegiata: non si tratta di una “parziale eccezione” in una struttura priva di “classificazioni e differenziazioni” come sostiene Bonazzi (2011), 157 n. 203, bensì, come mostra Faraone (2013), 313–314, di una forma di catalogo con “superlative cap” in chiusura, attestata anche in altri luoghi della Teogonia (e.g. 132–138: catalogo dei Titani; 226–232: discendenza di Eris; 375–377: discendenza di Eurybie) come, pur in modo peculiare, nel Catalogo delle Navi del II libro dell’Iliade, con l’eccellenza di Achille e dei

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necessario proseguire nella σκέψις, nella ricerca e non cedere al sonno.54 Libero dall’influsso delle divinità del luogo Socrate sceglie in autonomia di seguire le cicale perché armoniche con la propria natura che tende al διαλέγεσθαι. La critica moderna si divide in merito all’interpretazione del ruolo delle cicale tra chi ne mette in luce i tratti negativi, come l’ossessione per il canto delle Muse e il rischio dell’incantamento,55 e chi invece l’aspetto positivo del rapporto privilegiato con Calliope e Urania, le Muse della filosofia.56 Come vedremo, ogni giudizio esclusivamente positivo o negativo sulle cicale non coglie il peculiare modo con il quale s’intrecciano nel racconto gli elementi positivi del διαλέγεσθαι o del γέρας delle Muse con il pericolo rappresentato dalle stesse cicale non a caso paragonate alle Sirene di Omero. Le cicale, infatti, svolgono un ruolo di per sé positivo perché permettono a Socrate l’accesso al dono delle Muse della filosofia e rappresentano una svolta verso la forma dialogica della sezione finale; tale funzione però si realizza in negativo tramite una πεῖρα, una prova che inverte di segno il ruolo che Socrate aveva rivestito nel contatto con le forze divine del luogo nella fase precedente: la passiva ricezione dell’influsso divino che lo aveva trascinato verso forme monologiche che non gli appartengono, dal discorso contro Eros alla palinodia nel segno di di Stesicoro. Emerge infatti da questa scena, non a caso posta in apertura della sezione finale nella quale dopo i due discorsi ad una voce Socrate torna alla forma dialogica con lo scambio di domande e risposte, un segno chiaro del primato che Platone intende attribuire al dialogo socratico sui generi della tradizione: il raccon-

cavalli (769–772). Yunis (2011), 177, scorge anche nella sequenza finale ἱᾶσιν καλλίστην φωνήν (259d5) una reminiscenza della clausola ὂσσαν ἱεῖσαι che nel proemio della Teogonia (43, 65, 67) esprime ripetutamente la dolcezza della voce delle Muse. 54 È forse possibile scorgere nel dettaglio della resistenza di Socrate al sonno indotto dal canto delle cicale il rifiuto da parte di Platone della tradizione che lega al sogno l’incontro tra uomini e dei con il dono decisivo offerto dagli dei, come nella Olimpica 13 di Pindaro tra Atena e Bellerofonte (66–78) o nel proemio della Teogonia di Epimenide (6 T Bernabé), una tradizione che tramite il biografismo giunge a Pausania per le investiture dello stesso Pindaro e di Eschilo (IX 23, 2–3; I 21, 2). Cf. Pearce (1988), 279–287, e Tulli (2012), 868–870. 55 E.g. Ferrari (1987), 27, 57, secondo cui tramite il mito delle cicale Platone ammonisce il lettore dei rischi rappresentati da una indiscriminata fruizione dell’«intellectual discourse» della quale è emblema la figura di Fedro, Männlein-Robert (2012), 92, 100, e Werner (2012), 133–152, secondo i quali, con varie sfumature, il γένος degli uomini che sono poi trasformati in cicale sono un exemplum negativo. 56 Cf. Capra (2014), 106–115, che cita il giudizio di Ermia (p. 213, 14–26; p. 217, 9– 21 Couvreur).

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to sulle cicale, proposto non a caso con un forte carattere di novità come mostra la sorpresa di Fedro che pure è sempre caratterizzato come un φιλόλογος in caccia continua di λόγοι, lega il διαλέγεσθαι alle Muse filosofiche Calliope e Urania e ai loro λόγοι su uomini e dei.57. Il canto delle cicale è infatti un διαλέγεσθαι come l’azione che Socrate e Fedro svolgeranno, una conversazione che per i personaggi sull’Ilisso, come abbiamo visto, coincide con l’ἐξετάζειν e lo σκέψασθαι. Platone recupera così per il dialogo e per il suo personaggio Socrate i tratti distintivi della scena d’investitura.58 Si compie nel genere letterario nuovo del Σωκρατικὸς λόγος il percorso di progressiva liberazione da parte di Socrate delle voci altrui, rappresentate nel corso del dialogo dai “ditirambi” e dagli esametri del primo λόγος, ma anche dalla voce di Stesicoro della palinodia. La scena tipica infatti subisce profonde variazioni che ci appaiono dense di significato: il rapporto con la Musa non è individuale bensì della coppia Socrate-interlocutore e non è diretto bensì avviene tramite il filtro delle cicale, che delle Muse sono dette προφῆται. Non solo: mentre nella prima sezione del dialogo le divinità del luogo hanno provocato i primi λόγοι tramite la possessione di Socrate, per la seconda parte animata dal διαλέγεσθαι Socrate e Fedro mettono in atto un processo di segno opposto. Per sviluppare la ricerca nel dialogo, infatti, al canto delle cicale è necessario resistere, solo liberi dalla possessione ed immuni dal κηληθμός è possibile produrre il proprio διαλέγεσθαι e divenire cari alle Muse della filosofia: rispetto alla prima parte, le cicale offrono con il loro canto una πεῖρα da superare e non un influsso divino al quale è necessario cedere.59 Tramite le cicale, Platone sviluppa una critica severa all’intera tradizione non dialogica che non permette la partecipazione attiva ma solo la fruizione passiva dei λόγοι altrui o dei λόγοι della tradizione della quale l’ispirazione della Musa è emblema. Il luogo sull’Ilisso diviene quindi per Platone un’occasione per rielaborare numerosi elementi della tradizione al fine di introdurre un genere nuovo, il dialogo socratico, con la sua poetica che il racconto sulle cicale riflette in molteplici aspetti: la necessaria presenza dell’interlocutore, l’autonomia della ricerca in comune, la nuova dinamica di trasmissione del sapere, il carattere incessante della ricerca che si riflette nel γέρας che le cicale ricevono

57 Nella frase con cui Socrate non ammette l’ignoranza del racconto sulle cicale da parte di un φιλόμουσος come Fedro, Capra (2014), 106, scorge un’allusione alla sfera della μουσική. 58 Cf. Capra (2014), 91–117. 59 Cf. Görgemanns (1993) e in questa direzione anche Griswold (1986), 165–168, che però limita il valore della scena alla sezione che precede il racconto su Thamus e Theuth.

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dalle Muse, ossia dedicarsi al canto senza interruzione perché libere dalle necessità del corpo.60 La scena delle cicale non rappresenta quindi solo un momento di tregua o interludio ma, come parte della critica ha più volte sottolineato, un atto fondativo del dialogo come genere letterario conciliabile con la ricerca speculativa.61 Per tutto ciò, non stupisce come a più riprese, da Schleiermacher a Usener,62 la data di composizione del Fedro sia stata fatta coincidere con il primo dialogo di Platone, forse composto persino con Socrate ancora in vita. Pur priva di alcuna plausibilità, la notizia sul carattere fanciullesco, μειρακιῶδες, del Fedro conservata da Diogene Laerzio (III 38) è forse il segno che già nell’esegesi antica si avvertiva il carattere fondativo del dialogo. In realtà, l’indagine moderna su base stilometrica giunge a collocare la composizione del Fedro al termine del gruppo di mezzo formato da Repubblica, Parmenide, Teeteto, quando la forma del dialogo è sottoposta a forte trazione da parte di Platone sino alla svolta che, dopo il Socrate giovane del Parmenide, giunge a compimento con la maschera dello Straniero di Elea che sostituisce Socrate nel Sofista.63 E non a caso, proprio al Sofista possiamo accostare il breve profilo della dialettica tratteggiato da Socrate che dichiara con enfasi di essere amante, τούτων δὴ ἔγωγε αὐτός τε ἐραστής, delle divisioni e delle sintesi (266b4-5). Per questo, con una sequenza dattilica che riecheggia Omero (κατόπισθε μετ’ ἴχνιον ὥστε θεοῖο) Socrate afferma di seguire colui che è in grado di osservare εἰς ἓν καὶ ἐπὶ πολλὰ come si seguono le tracce di un dio (266b5–7): non sfugge la parentela tra questa immagine impiegata da Socrate e l’incipit del Sofista che ruota interamente attorno al profilo dello Straniero di Elea accolto da Socrate come un θεὸς ἐλεγκτικός nel segno di Omero (216a-d). Nella seconda parte del Fedro, dopo la scena delle cicale, Platone rovescia il modello passivo dell’ispirazione e torna al consueto modello reattivo secondo il quale Socrate sottopone ad esame i λόγοι nella ricerca in comune con l’interlocutore.64 Emblematico del metodo di Socrate è infatti il modo in cui, dopo il racconto sulle cicale, si apre l’indagine sul καλῶς […] λέγειν τε καὶ γράφειν. Fedro introduce un’opinione che ha ascoltato,

60 Cf. Capra (2019). 61 Cf. Hackforth (1952), 118 e sulla sua scia Bonazzi (2011), 155 n. 220 che pure riconosce che «l’intermezzo» sia «di fatto un’invocazione non tradizionale alle Muse». 62 Cf. Erler (2007), 216. 63 Cf. Heitsch (19972), 233. 64 Per il nuovo insegnamento di Socrate a confronto con il movimento sofistico cf. Erler (1987), 123–149, e per la caratterizzazione di Socrate Regali (2015).

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οὑτωσὶ περὶ τούτου ἀκήκοα, secondo la quale l’ἀλήθεια non giocherebbe alcun ruolo nel processo di persuasione dell’oratoria che sarebbe invece esclusivamente diretto dalla δόξα (259e7–260a4). Nonostante abbia appena espresso una posizione del tutto opposta che prevede il saldo possesso del vero da parte dell’oratore in merito agli argomenti del λόγος, Socrate, ancora con l’enfasi della reminiscenza omerica (οὔ τοι ἀπόβλητον ἔπος),65 afferma che la parola dei σοφοί non deve essere respinta ma è necessario indagare, σκοπεῖν, se essi dicano qualcosa di importante, μὴ τι λέγωσι (260a5–7). La ricerca di Socrate torna a svolgersi nel modo consueto come un esame dei λόγοι altrui, secondo la prassi abituale che era stata invece sconvolta dall’influsso delle divinità del luogo che avevano indotto Socrate a produrre λόγοι in autonomia. E non a caso, con l’invocazione dei λόγοι che dovranno persuadere Fedro, Socrate sostituisce le divinità del luogo con le proprie: quando Fedro lo esorta a condurre al suo cospetto e a sottoporre ad esame, δεῦρο [...] παράγων ἐξέταζε, i λόγοι che sostengono l’impossibilità di una τέχνη della parola priva di legami con l’ἀλήθεια Socrate prontamente invoca la loro epifania come si trattasse di divinità che dovranno convertire Fedro alla φιλοσοφία (πάριτε δή, θρέμματα γενναῖα, καλλίπαιδά τε Φαῖδρον πείθετε: 261a3-4). Infine, emerge in modo definitivo la funzione solo accessoria dei discorsi sviluppati nella prima parte quando essi sono scelti quali παραδείγματα per la verifica della centralità dell’ἀλήθεια nella λόγων τέχνη (262c6-d6):66 {ΦΑΙ.} Πάντων γέ που μάλιστα, ὡς νῦν γε ψιλῶς πως λέγομεν, οὐκ ἔχοντες ἱκανὰ παραδείγματα. {ΣΩ.} Καὶ μὴν κατὰ τύχην γέ τινα, ὡς ἔοικεν, ἐρρηθήτην τὼ λόγω ἔχοντέ τι παράδειγμα, ὡς ἂν ὁ εἰδὼς τὸ ἀληθὲς προσπαίζων ἐν λόγοις παράγοι τοὺς ἀκούοντας. καὶ ἔγωγε, ὦ Φαῖδρε, αἰτιῶμαι τοὺς ἐντοπίους θεούς· ἴσως δὲ καὶ οἱ τῶν Μουσῶν προφῆται οἱ ὑπὲρ κεφαλῆς ᾠδοὶ ἐπιπεπνευκότες ἂν ἡμῖν εἶεν τοῦτο τὸ γέρας· οὐ γάρ που ἔγωγε τέχνης τινὸς τοῦ λέγειν μέτοχος. Come di consueto, Socrate attribuisce agli ἐντόπιοι θεοί, tra i quali poco oltre saranno prominenti le Ninfe figlie di Acheloo (263d5–7), la responsabilità dei discorsi precedenti ma aggiunge ora anche le cicale che avrebbero ispirato come un dono, γέρας, la τέχνη del dire della quale Socrate non partecipa affatto. Alle cicale, quindi, ora Socrate attribuisce anche i primi

65 Sono le parole con cui Nestore introduce il proprio consiglio ad Agamennone nell’assemblea del II libro dell’Iliade (361–362). Per il ruolo di Nestore nella caratterizzazione di Socrate nei dialoghi cf. Regali (2016), 164–169. 66 Cf. Centrone (1998), 160 n. 185.

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λόγοι ma solo perché essi possono essere utili quali παραδείγματα per la ricerca sul καλῶς […] λέγειν τε καὶ γράφειν sviluppata nello scambio dialettico con Fedro. Alle “profetesse delle Muse” è assegnata quindi la regia complessiva del dialogo, con i primi λόγοι su Eros e la successiva sezione dialettica dopo il loro ingresso sulla scena: non sfugge come nel segno delle cicale Platone intenda rappresentare quindi l’intero processo che conduce Socrate e Fedro dall’interesse per il discorso di Lisia alla nuova forma di discorso che appartiene al φιλόσοφος, la παγκάλη παιδιά che Socrate immagina per il filosofo che accumula tesori di ricordi per la propria vecchiaia, ἑαυτῷ τε ὑπομνήματα θησαυριζόμενος, εἰς τὸ λήθης γῆρας ἐὰν ἵκηται (276d2-3). In questa sequenza di tono elevato, ma forse con un sorriso, Platone sembra alludere a se stesso, alla propria vecchiaia, in un momento forse di svolta, prima del Sofista, della propria scrittura dialogica.67 Certo, non abbiamo alcuna certezza che il Fedro sia davvero uno snodo tra le varie fasi della scrittura dialogica di Platone, se mai tali fasi esistettero; allo stato delle nostre conoscenze invece dobbiamo immaginare il Fedro immerso in una stagione di produzione dialogica ad opera sia di Platone sia dei Socratici di prima generazione:68 nel mondo fittizio di Socrate però il dialogo in quanto genere letterario non esiste ancora e il confronto con i generi letterari della tradizione, dal teatro alla retorica, deve di necessità essere una strategia sempre implicita. Come sostiene con una suggestiva immagine D. Clay, il sole è sempre nuovo nel mondo dei dialoghi.69 Tutto ciò favorisce una lettura della scena delle cicale, se non dell’intera struttura del dialogo, come propaganda per un nuovo genere letterario, un genere ancora da venire nel mondo di Socrate e che invece è strumento ormai affinato nelle mani di Platone.

3. La γραφή nel bosco delle Ninfe e la nascita del romanzo bucolico Tra i numerosi echi del Fedro nel Dafni e Cloe che la critica ha registrato con puntualità,70 non ha ricevuto invece attenzione la presenza nel prolo-

67 Yunis (2011), 233. 68 Con molta prudenza, Yunis (2011), 22–25, avanza una data di composizione negli anni ‘60, in particolare sulla base del ruolo giocato da Lisia e da Isocrate nel dialogo. 69 Clay (2000), x, che offre così in sintesi estrema la ragione ultima dello sconcerto del lettore dei dialoghi nel cercare la voce dell’autore. 70 Ne offrono una rassegna pressoché completa Danek-Wallisch (1993), Hunter (1997), 775–776, e Repath (2011).

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go di una strategia che appare analoga a ciò che abbiamo appena osservato per Platone nel Fedro: la rappresentazione tramite un elemento del luogo, come il canto delle cicale, delle caratteristiche di un genere nuovo o quantomeno rifondato in modo radicale.71 Come da tempo la critica riconosce,72 lo status di Platone nell’età antonina, in particolare del Fedro e del Simposio, non sempre permette di distinguere tra fenomeni di intertestualità pura e casi nei quali il confronto con Platone rappresenta uno strumento euristico utile a far emergere tratti della scrittura di Longo che altrimenti resterebbero nell’ombra. L’allusione al Fedro è infatti un riflesso condizionato e quindi del tutto privo di rilievo per autori che guardano a Platone dalla prospettiva delle scuole di retorica dove il dialogo dell’Ilisso è ormai un modello sul quale produrre esercizi di composizione.73 Nel prologo, invece, come tenteremo di mostrare, il contatto che Longo stabilisce tra il suo modo di presentare il romanzo e l’espressione della poetica del dialogo che abbiamo appena visto in atto nella scena delle cicale sembra attingere ad un rapporto di segno diverso, forse reso possibile dall’appartenenza di entrambi alla tradizione, oggetto di studio di questo volume, che nasce dal proemio della Teogonia di Esiodo. L’io narrante74 racconta di una battuta di caccia a Lesbo, nell’ἄλσος sacro alle Ninfe, durante la quale vide ciò che di più bello avesse visto mai, «una descrizione dipinta, una storia d’amore» (Proem. 1–3)75: Ἐν Λέσβῳ θηρῶν ἐν ἄλσει Νυμφῶν θέαμα εἶδον κάλλιστον ὧν εἶδον· εἰκόνος γραφήν, ἱστορίαν ἔρωτος. καλὸν μὲν καὶ τὸ ἄλσος, πολύδενδρον,

71 Per Bowie (2019), 95, l’immediata collocazione del racconto nel bosco delle Ninfe contribuisce a inquadrare il locus amoenus del prologo nell’ambito della tradizione il cui paradigma in prosa è l’Ilisso del Fedro. 72 Cf. Hunter (1997), 775–776. 73 Cf. Trapp (1990). 74 Mentre Pattoni (2005), 125–129, oscilla fra “io narrante” e “autore”, Morgan (2004), 17–20, segue una linea interpretativa fondata sulla separazione tra “author” e “narrator” che permette a Longo molteplici effetti narrativi; in particolare Longo sembra oscillare, senza mai risolversi, tra l’ironia del narratore, caratterizzato come un raffinato cittadino che idealizza la “pastoral innocence” dei personaggi, e l’ironia, rivolta al narratore, dell’autore che lascia trapelare una realtà del mondo bucolico di maggiore complessità rispetto all’ideale rustico della cultura urbana. 75 Trad. M.P. Pattoni. Bowie (2019), 93–94, scorge sullo sfondo del prologo la prassi religiosa che emerge sia da Senofonte Efesio, con la promessa di dedicare una γραφή nell’Artemisio da parte di Abrocome e Anzia, sia dalle parole di Carite nelle Metamorfosi di Apuleio (VI 29) con la promessa di rappresentare la propria salvezza con un dipinto; la funzione narrativa del dipinto, sostiene ancora Bowie, è però certamente quella della mise en abyme.

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ἀνθηρόν, κατάρρυτον· μία πηγὴ πάντα ἔτρεφε, καὶ τὰ ἄνθη καὶ τὰ δένδρα· ἀλλ’ ἡ γραφὴ τερπνοτέρα καὶ τέχνην ἔχουσα περιττὴν καὶ τύχην ἐρωτικήν· [...]. γυναῖκες ἐπ’ αὐτῆς τίκτουσαι καὶ ἄλλαι σπαργάνοις κοσμοῦσαι, παιδία ἐκκείμενα, ποίμνια τρέφοντα, ποιμένες ἀναιρούμενοι, νέοι συντιθέμενοι, λῃστῶν καταδρομή, πολεμίων ἐμβολή, πολλὰ ἄλλα καὶ πάντα ἐρωτικὰ ἰδόντα με καὶ θαυμάσαντα πόθος ἔσχεν ἀντιγράψαι τῇ γραφῇ· καὶ ἀναζητησάμενος ἐξηγητὴν τῆς εἰκόνος τέτταρας βίβλους ἐξεπονησάμην, ἀνάθημα μὲν Ἔρωτι καὶ Νύμφαις καὶ Πανί, κτῆμα δὲ τερπνὸν πᾶσιν ἀνθρώποις, ὃ καὶ νοσοῦντα ἰάσεται, καὶ λυπούμενον παραμυθήσεται, τὸν ἐρασθέντα ἀναμνήσει, τὸν οὐκ ἐρασθέντα προπαιδεύσει. La meraviglia della visione suscita nell’autore il πόθος, il desiderio di raccontare ciò che il dipinto rappresentava e che coincide con le vicende amorose di Dafni e Cloe, la materia del romanzo. E nella rapida rassegna degli eventi raffigurati Longo introduce due elementi estranei alle consuete trame del romanzo erotico, i nessi ποίμνια τρέφοντα, ποιμένες ἀναιρούμενοι (“pecore e capre che li nutrivano, pastori che li raccoglievano”, trad. M.P. Pattoni”), annunciando così la sua scelta di poetica e la trasformazione alla quale sottoporrà il genere.76 Il dipinto, come le cicale nel Fedro, è un elemento del luogo dal quale deriva il tratto distintivo del genere letterario che il Dafni e Cloe inaugura. Come le cicale favoriscono il διαλέγεσθαι, l’intreccio di voci che distingue il Σωκρατικὸς λόγος, il dipinto introduce nella sequenza di eventi canonici per il romanzo antico, tra i neonati esposti e gli assalti di pirati o di eserciti nemici, l’elemento pastorale che distingue i Ποιμενικά di Longo: il nutrimento dei neonati da parte delle greggi, ποίμνια τρέφοντα, i pastori che raccolgono i neonati, ποιμένες ἀναιρούμενοι, e li cresceranno nella campagna di Lesbo. Come nota, pur con rapidità, Ε. Bowie, sia il nutrimento da parte dei ποίμνια sia l’adozione da parte dei pastori inducono il lettore a immaginare una narrazione che esuli dai canoni del romanzo erotico. Tramite la descrizione del dipinto, Longo annuncia il tratto distintivo del proprio romanzo: la fusione dei mondi di per sè estranei dell’eros urbano e dell’ἡσυχία bucolica.77 76 Di Marco (2006), 481 e n. 5, osserva a ragione come il termine chiave ποιμενικός qualifichi in modo costante azioni e oggetti nel corso del romanzo al fine di marcare con forza la peculiarità della vicenda amorosa oggetto del racconto. 77 Bowie (2019), 96. Fantuzzi-Hunter (2004), 170–190, mostra come il motore dello sviluppo al quale Mosco e Bione sottopongono i temi della poesia di Teocrito è proprio il contrasto polare tra poesia bucolica ed eros, un contrasto che in particolare Bione, con il programmatico fr. 10, tenta di superare con la nuova sintesi degli ἐρώτυλα (10). Nella stessa direzione l’Epitalamio di Achille e Deidamia attribui-

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Come la critica ha puntualmente notato, il modo in cui Longo avvia il plot è unico nel panorama dei romanzi superstiti;78 l’unico parallelo possibile appare Achille Tazio, il cui Leucippe e Clitofonte è introdotto con l’ekphrasis di un dipinto e con l’evidente richiamo ai luoghi del Fedro (I 1, 2–2, 3). Pur in assenza di dati certi, la critica è concorde sulla priorità cronologica di Achille Tazio rispetto a Longo, le cui scelte sono spesso illuminate da consonanze e dissonanze rispetto al modello del Leucippe e Clitofonte. Il romanzo di Achille Tazio si apre con la descrizione di Sidone, la città fenicia dove l’io narrante giunge in seguito ad un naufragio79; in un tempio della città, dove aveva reso le offerte per la propria salvezza, ammira un dipinto che riproduce il ratto di Europa, un dipinto che è descritto diffusamente secondo le norme che regolano la ekphrasis. 80 A differenza di quanto abbiamo osservato per il Dafni e Cloe, però, le vicende del romanzo di Achille Tazio non coincidono con il tema del dipinto. La fonte sulle vicende di Leucippe e Clitofonte è un giovane che ammira il quadro accanto all’io narrante (I 2, 2, 4–5). Commentando la forza di Eros che il ratto di Europa mostrava, il giovane svela la propria identità: si tratta dello stesso Clitofonte, che racconterà in prima persona le proprie vicende in un ἄλσος vicino che l’io narrante sceglie perché dolce e adatto ai μῦθοι ἐρωτικοί, un luogo che richiama con maggiori dettagli rispetto al Dafni e Cloe il locus del Fedro, con i platani e l’acqua trasparente che vi scorre (I 2, 3, 1–3, 1, 4). E la vicenda di Clitofonte segue, come noto, lo schema consueto del romanzo erotico: la giovane coppia di sposi promessi costretta a superare numerosi ostacoli che ritardano la felice unione finale tramite peregrinazioni forzate nel Mediterraneo greco e oltre. Siamo di fronte, con ogni probabilità, allo standard di ricezione del Fedro, in particolare del luogo sull’Ilisso quale se-

to a Bione colloca in ambiente bucolico la declinazione erotica dell’eroe epico come mostra Fantuzzi (2012), 43–61. 78 Morgan (2003), 174, fra i numerosi tratti distintivi del romanzo, pone l’accento sul fatto che solo nel Dafni e Cloe tra i romanzi superstiti il narratore è un personaggio che però resta escluso dall’azione. Bowie (2019), 93, segnala che Senofonte Efesio ed Eliodoro non si soffermano in alcun modo sul loro ruolo di narratori e Caritone vi accenna solo con estrema brevità (I 1, 1, 1–2). 79 Per il mancato ritorno, al termine del romanzo, alla Sidone della cornice, cf. Bartsch (1989), 168–170, la quale scorge nella scelta di Achille l’intenzione di presentare l’intera narrazione come una costruzione artificiale al pari del dipinto. 80 Per lo stile ecfrastico di Achille Tazio, cf. de Jong (2015), 901–902. Rispetto alla canonica descrizione dell’opera d’arte nel segno dell’ἐνάργεια sviluppata da Achille, l’ekphrasis di Longo è definita “minimalista” da Webb (2009), 178.

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de per i racconti su Eros, tema consueto per il romanzo, e allo stesso tempo exemplum di γλυκύτης nel canone stilistico dell’età antonina.81 A questo modello, Longo impone variazioni di rilievo: in primo luogo, a differenza di quanto accade in Achille Tazio con il ratto di Europa, il dipinto non introduce il tema erotico ma è la fonte stessa delle vicende narrate nel romanzo, assumendo la medesima funzione che Achille Tazio attribuisce al narratore interno Clitofonte. E, come accade per il διαλέγεσθαι delle cicale, il dipinto di Lesbo annuncia l’elemento centrale dell’innovazione che Longo introduce nella forma del romanzo: l’ambientazione bucolica della vicenda erotica, innovazione che scardina lo schema consueto degli sposi promessi. A ritardare l’unione felice fra Dafni e Cloe, infatti, non saranno le peripezie tra rapimenti dei pirati, naufragi, fughe dai tentativi di seduzione altrui, ma l’ignoranza su Eros che deriva dall’appartenenza di entrambi al mondo pastorale.82 La canonica dislocazione dei personaggi del romanzo in terre lontane e spesso non greche, con le tappe del viaggio che corrispondono alle articolazioni del racconto, sono sostituite nei Ποιμενικά dall’avvicendarsi di otto stagioni e dalle tappe della paideia erotica di Dafni che alla fine del IV libro sarà in grado di istruire Cloe in occasione delle nozze. Osserviamo ora nel dettaglio come Longo sviluppi nel prologo la strategia che abbiamo descritto: nella prima frase, lo sguardo del lettore è condotto dall’ἄλσος delle Ninfe al θέαμα κάλλιστον, al dipinto descritto con l’allusiva sequenza εἰκόνoς γραφήν, ἱστορίαν ἔρωτος. La descrizione del dipinto è lasciata in sospeso da Longo che riconduce invece lo sguardo del lettore al bosco delle Ninfe, oggetto di confronto, pur su un piano inferiore, con la bellezza assoluta della γραφή: se il dipinto è il κάλλιστον θέαμα, afferma Longo, «incantevole era anche il bosco» (καλὸν μὲν καὶ τὸ ἄλσος: trad. M.P. Pattoni). E allo sguardo del lettore che torna sul bosco delle

81 Quale emerge, ad esempio, dal Περὶ ἰδεῶν di Ermogene (II 4, 1–55) che individua nel mito, con l’esempio del racconto sulle cicale, e nell’ἐκφράζειν, con l’esempio della descrizione di Socrate del luogo sull’Ilisso, gli strumenti più adatti per raggiungere la dolcezza di stile. 82 Emblematico del profondo radicamento del racconto di Longo nella tradizione pastorale è l’agone tra Dafni e Dorcone per il bacio di Cloe (I 16), nel quale, come mostra Minuto (2017), la vittoria di Dafni, ben oltre le ovvie ragioni narrative, deriva dall’impiego corretto dei topoi bucolici in una rete di allusioni che presuppone un destinatario esperto del mondo di Teocrito e delle sue convenzioni. Tra queste, Hodkinson (2012), 42–44, segnala in particolare la gerarchia tra pastori, oggetto anche di riflessione nella tradizione erudita: nella caratterizzazione di Dafni all’ignoranza su Eros corrisponde una profonda conoscenza del mondo pastorale.

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Ninfe sono ora offerti i tratti consueti che abbiamo osservato nella scena di iniziazione del Fedro: il luogo è ricco di alberi, di fiori e di acque, con l’unica πηγή che nutre la vegetazione intera. La critica ha notato nella descrizione del bosco delle Ninfe l’assenza di elementi canonici del Fedro come il canto delle cicale83 e il platano, ma, come accade per la ekphrasis del quadro che seguirà, appare chiaro come Longo intenda suggerire i topoi del locus amoenus con il numero minore possibile di dettagli. Per evocare il Fedro è infatti sufficiente il richiamo alle Ninfe che avviene sia tramite l’identità del bosco sacro sia tramite la dedica, con Pan ed Eros, del quadro stesso.84 Come per l’ekphrasis del quadro, Longo sceglie di ridurre gli elementi canonici forse per evitare lo stanco ripetersi di motivi ormai consunti come emerge dalla recusatio del Fedro con la quale si apre l’Amatorius di Plutarco (748e-749b).85 Ora, con una tecnica enfatica che J.R. Morgan ha messo bene in luce,86 lo sguardo del lettore è condotto, con sequenza inversa, dalle acque, attraverso i fiori e gli alberi, di nuovo al dipinto del quale sono infine svelate le caratteristiche che lo rendono il κάλλιστον θέαμα: nonostante la qualità estetica dell’ἄλσος delle Ninfe, la γραφή offre una τέρψις maggiore rispetto al luogo.87 In modo analogo a quanto abbiamo osservato per Socrate, che si libera progressivamente dagli influssi esterni per seguire il γέρας delle cicale, l’io narrante del romanzo di Longo riconosce la bellezza del luogo ma

83 Rispetto al prologo, secondo Hunter (1983), 56–57, Longo alluderebbe alla scena delle cicale secondo la consueta intertestualità nell’episodio della cicala durante il sonno di Cloe nel I libro (25–26), ma la connessione con i miti di metamorfosi legati all’esperienza musicale, per la quale cf. Pattoni (2005), 280 n. 131, emerge con maggiore evidenza solo nella scena successiva sulla φάττα (I 27). Per la dialettica tra cultura urbana e bucolica quale motore della scena tra la cicala e Cloe, cf. Effe (1982), 79–80. 84 Tra i punti di contatto con il Fedro, Repath (2011), 104–105, aggiunge il parallelo tra la preghiera a Pan con la quale si chiude il dialogo (279b8-c5) e la preghiera a Eros con la quale si chiude il proemio (4): πάντως γὰρ οὐδεὶς ἔρωτα ἔφυγεν ἢ φεύξεται, μέχρις ἂν κάλλος ᾖ καὶ ὀφθαλμοὶ βλέπωσιν. ἡμῖν δ’ ὁ θεὸς παράσχοι σωφρονοῦσι τὰ τῶν ἄλλων γράφειν. Pattoni (2005), 126–127, richiama invece le invocazioni alla Musa dei proemi nell’epos. 85 Cf. Hunter (2012), 191–207. 86 Morgan (2012), 539. 87 S’intrecciano qui le possibilità dell’ekphrasis retorica che spazia dai luoghi alle opere d’arte nel segno dell’ἐνάργεια, oltre la troppo angusta definizione moderna che come mostra Webb (2009), 1–9, 56, sembra frutto di un equivoco. Allo stesso modo, anche l’ekphrasis del dipinto su Europa che apre il romanzo di Achille Tazio segue la descrizione di un luogo, la città di Sidone (I 1, 1–13).

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ritiene superiore, τερπνοτέρα, il dipinto dal quale deriverà la sua scrittura. 88 Come le cicale del Fedro, che Socrate sceglie tra le divinità del luogo quale tutela per la propria voce e garanzia del rapporto privilegiato con le Muse dalla καλλίστη φωνή, anche la γραφή è scelta dall’io narrante quale elemento κάλλιστον del luogo perché fonte di una superiore τέρψις, ad un tempo garanzia per il piacere che la sua produzione offrirà ai lettori, i quattro libri del Dafni e Cloe poco oltre definiti κτῆμα δὲ τερπνὸν πᾶσιν ἀνθρώποις.89 Dal quadro, il romanzo di Longo quindi deriva sia la materia narrativa sia la qualità estetica che ne garantisce l’eccellenza. Oltre a garantire l’eccellenza, il dipinto, come le cicale con il διαλέγεσθαι, offre anche in nuce l’elemento di novità attorno al quale Longo sviluppa la rifondazione del genere: la τέρψις giunge infatti ora al lettore tramite le vicende che esso racconta. La sequenza nella quale, come abbiamo visto, sono incastonati gli elementi bucolici, ha sorpreso la critica anche per il fatto che le scene descritte sono tutte comprese nella prima parte del romanzo, ed avranno inoltre uno spazio ridotto come l’incursione dei Metimnesi (II 12–29). Di norma si attribuisce a Longo l’intenzione di, «non rompere la suspense sulla conclusione della vicenda, con il matrimonio dei due protagonisti».90 A ben vedere però, la sequenza ecfrastica sembra rispondere ad una esigenza diversa, che prescinde dallo spazio effettivo dedicato nel racconto che seguirà ai singoli nuclei narrativi dell’elenco; Longo sembra accostare agli elementi canonici del plot romanzesco, come l’esposizione dei neonati, la promessa di unione, le scorrerie dei pirati o dei nemici, i due dicola ποίμνια τρέφοντα e ποιμένες ἀναιρούμενοι che annunciano il tratto distintivo del Dafni e Cloe, ossia la dislocazione straniante della vicenda erotica nel mondo bucolico.

88 Zimmermann (1999), 74 scorge nella contrapposizione tra φύσις e τέχνη, che nel prologo è sviluppata tramite il confronto tra il bosco delle Ninfe e il dipinto a vantaggio di quest’ultimo, un Leitmotiv che attraversa l’intero romanzo, vòlto ad esaltare le capacità della narrazione di offrire la τέρψις al lettore. 89 Le conseguenze della pur palese allusione a Tucidide, segnalata per la prima volta da Turner (1960), sono condotte all’estremo da Luginbill (2002), 235–236, in particolare per l’accezione di ἱστορία nel prologo, per la quale cf. invece Hunter (1983), 43 e Bowie (2019), 96: quest’ultimo ritiene che piuttosto che la storiografia il termine doveva evocare nelle intenzioni di Longo l’impiego che ne fa Callimaco per il racconto su Aconzio e Cidippe negli Aitia (fr. 75, 7 Pfeiffer = 174, 7 Massimilla). Come mostra Pattoni (2005), 223 n. 10, l’intento di Longo nel citare lo κτῆμα ἐς αἰεί non può che essere correttivo, nel segno dell’utile miscere dulci, della netta separazione tra τέρψις e ὠφελία teorizzata da Tucidide (I 22). 90 Pattoni (2005), 222 n. 7.

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Abbiamo osservato come Platone rielabori la tradizione delle scene d’investitura che deriva dalla Teogonia di Esiodo invertendo di segno la ricezione passiva dell’ispirazione tramite il ruolo attivo di Socrate e Fedro che devono resistere al canto delle cicale e al sonno; allo stesso modo Longo riduce ai minimi termini i topoi dell’ekphrasis del dipinto e del luogo mettendo in risalto il tratto innovativo dello scenario bucolico per la vicenda erotica. Come il διαλέγεσθαι delle cicale, quindi, le scene pastorali del dipinto sono la fonte per le scelte di poetica messe in atto da Longo: la rappresentazione del luogo permette all’autore di introdurre un genere letterario nuovo, o quantomeno radicalmente rifondato, come il romanzo bucolico.

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1. Introduction: Landscapes in Ancient Literary Criticism Reading ancient literary criticism can be an adventurous experience. It often feels like travelling through different landscapes, climbing mountains and navigating rivers. Greek and Roman rhetorical treatises abound in visualizations of beautiful landscapes. On the one hand, rhetoricians may cite literary passages from classical texts in which impressive or remarkable landscapes are described. On the other hand, rhetoricians themselves may evoke certain spaces, like mountains, volcanoes, roads or rivers, in order to illustrate metaphorically the character of a certain text, style or genre. Rhetorical treatises on style, like Demetrius’ On Style, Dionysius’ On Composition and Longinus’ On the Sublime, contain many references to inspired spaces, like Mount Helicon, the Ilissus river near Athens, and the Aetna volcano.1 Homer is like a spring or the Ocean; Sappho is charming like the flower gardens of the nymphs; and the disorganized outbursts of Archilochus are like the explosions of a volcano.2 Recent scholarship has drawn attention to the ways in which ancient critics associate different styles with landscapes, in particular springs, gardens, rivers, paths, and mountains. Important publications on the connection between landscape and style in ancient literary criticism include Richard Hunter’s Plato and the Traditions of Ancient Literature. The Silent Stream and Nancy Worman’s Landscape and the Spaces of Metaphor in Ancient Literary Theory and Criticism.3 This article will focus on the remarkable role that rivers and river landscapes play in ancient literary criticism.4 It will be shown that the analogy between river and text is a suggestive didactic tool, which can be employed to bring out the specific qualities of different styles and genres. Various as1 See Worman (2015). On space in ancient Greek literature, see de Jong (2012). 2 See Longinus, On the Sublime 13, 3; 35, 4; Demetrius, On Style 132; Longinus, On the Sublime 33, 5 (cf. 35, 4 on the Etna). 3 Hunter (2012); Worman (2015). 4 On water as a metapoetic metaphor in ancient literary criticism, see Asper (1997), 109–120 and Hunter (2009), 159.

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pects of rivers can be evoked in order to illustrate the stylistic characteristics of a text. A river can be small or broad; it can be quietly flowing or wildly flooding; a river has a source, somewhere up in the mountains, and a mouth, where it discharges itself into the sea; and it flows in one direction only, from its origin to the sea, passing on the way through different towns and landscapes. All these characteristics of a river can be evoked in comparisons between rivers and texts. Thus the style of a literary work can be modest like a small creek, or impressive like a broad river; it can be charming and refreshing or forceful and grand. Like a river, a text has a beginning and an end; it moves in one direction, from the opening of the narrative to its conclusion; and while ‘flowing’ through the narrative world, the text introduces us to many different characters and events. It is not surprising that ancient critics exploited this rich potential of the analogy between rivers and texts or styles.

2. Rewriting Rivers: from Callimachus to Longinus The obvious point of departure for our examination is the concluding passage of Callimachus’ Hymn to Apollo — a programmatic passage that has been widely debated in recent scholarship:5 ὁ Φθόνος Ἀπόλλωνος ἐπ’ οὔατα λάθριος εἶπεν·

(105)

‘οὐκ ἄγαμαι τὸν ἀοιδὸν ὃς οὐδ’ ὅσα πόντος ἀείδει.’ τὸν Φθόνον ὡπόλλων ποδί τ’ ἤλασεν ὧδέ τ’ ἔειπεν· ‘Ἀσσυρίου ποταμοῖο μέγας ῥόος, ἀλλὰ τὰ πολλά λύματα γῆς καὶ πολλὸν ἐφ’ ὕδατι συρφετὸν ἕλκει. Δηοῖ δ’ οὐκ ἀπὸ παντὸς ὕδωρ φορέουσι μέλισσαι,

(110)

ἀλλ’ ἥτις καθαρή τε καὶ ἀχράαντος ἀνέρπει πίδακος ἐξ ἱερῆς ὀλίγη λιβὰς ἄκρον ἄωτον.’ χαῖρε, ἄναξ· ὁ δὲ Μῶμος, ἵν’ ὁ Φθόνος, ἔνθα νέοιτο. Envy spoke privately into Apollo’s ear: ‘I do not admire the poet who does not sing as much as the sea (πόντος).’ Apollo gave Envy a kick and said: ‘Great is the stream (μέγας ῥόος) of the Assyrian river, but it car-

5 Callimachus, Hymn to Apollo 105–113. Translation by Cameron (1995). On the Hymn to Apollo, see Petrovic (2011) and Stephens (2015) with further bibliography.

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ries much filth and refuse in its waters. And the Bees do not bring water from everywhere to Demeter, but only the pure and undefiled stream that trickles from a holy fountain, the best of the best.’ Hail, lord; but let Blame go where Envy dwells. Callimachus’ references to the sea, the muddy river of Assyria, and the pure and undefiled stream from a holy fountain have been interpreted in different ways. Does Callimachus refer to the contrast between two genres, that is, Homeric epic versus small-scale epigrams?6 Or does he rather refer to the opposition between two different styles, an impressive and rich but muddy style on the one hand versus a pure, modest and subtle style on the other hand, as Alan Cameron has argued?7 For our purposes it is important to note that Callimachus’ lines were highly influential in ancient literary criticism.8 The contrast between the muddy river and the subtle stream is evoked also by ancient critics who did not agree with Callimachus’ program of aesthetics. It is clear, for instance, that Longinus, the author of the treatise On the Sublime (probably to be dated to the first century AD), turns Callimachus’ programmatic statement upside down:9 ἔνθεν φυσικῶς πως ἀγόμενοι μὰ Δί’ οὐ τὰ μικρὰ ῥεῖθρα θαυμάζομεν, εἰ καὶ διαυγῆ καὶ χρήσιμα, ἀλλὰ τὸν Νεῖλον καὶ Ἴστρον ἢ Ῥῆνον, πολὺ δ’ ἔτι μᾶλλον τὸν Ὠκεανόν. So it is by some natural instinct that we admire, not the small streams (οὐ τὰ μικρὰ ῥεῖθρα), clear and useful as they are, but the Nile, the Danube, the Rhine, and above all the Ocean. Whereas Apollo (in Callimachus’ hymn) rejects the sea and the Euphrates in favor of a pure stream, Longinus makes the opposite move: he rejects small streams and prefers the Nile, the Danube, the Rhine and the Ocean. Longinus’ reversal of Callimachean aesthetics is not a statement about genre (epic versus epigram), but rather about style and aesthetics. In the context of this passage Longinus argues that sublime writers, even if they

6 Williams (1978), 85–89. Williams claims that πόντος (the sea) stands for Homer. For objections against this interpretation, see Cameron (1995), 403–409. See further Stephens (2015) chapter 2. Callimachus’ interest in rivers is clear from the title of his treatise On Rivers. 7 Cameron (1995), 403–409. 8 For Callimachus’ profound influence, see Hunter (2006). 9 Longinus, On the Sublime 35, 4. Translation by Russell (1995). On the date and authorship of On the Sublime, see Russell (1964); Russell (1995), 145–148; Mazzucchi (2010) xxix-xxxvii; De Jonge (2012). On this passage, see also Porter (2016), 175.

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make mistakes, are to be preferred to faultless mediocre (pure) writers: Plato makes mistakes, but he is more sublime than the faultless Lysias; Demosthenes has bad moments, but he is more sublime than Hyperides. The Hellenistic poet Apollonius of Rhodes is impeccable, but, Longinus asks us, ‘would you not rather be Homer than Apollonius?’10 In other words, the Nile, the Rhine and the Danube seem to represent sublime writers like Plato, Demosthenes and Herodotus, who in their sublimity sometimes make mistakes; and the Ocean without any doubt represents Homer himself.11 Longinus’ response to the Callimachean Apollo could be reformulated as follows: ‘Yes, it is true, the stream of the Assyrian river carries much filth, but I still think a great river (μέγας ῥόος) is much more sublime than your pure (faultless) little stream.’ Longinus is thus rewriting Callimachus by reversing his program of aesthetics, replacing Apollo’s small and pure creek with the most impressive river landscapes of Egypt and Europe.12 Longinus is not the only ancient critic who rewrites rivers in order to illustrate his aesthetic program. In this paper I would like to draw attention to the remarkable role that rivers seem to play in the ancient practice of metathesis. Metathesis is the rewriting of a classical text passage that results in a new formulation: the procedure of rearranging the words of a text allows the teacher and student of rhetoric to compare two different versions of one sentence, or two formulations of the same thought. The rewriting may involve changing the choice of words and the order of words, which will also affect the rhythm and melody of the sentence. Metathesis is an important didactic tool,

10 Longinus, On the Sublime 33, 4: ἆρ᾽ οὖν Ὅμηρος ἂν μᾶλλον ἢ Ἀπολλώνιος ἐθέλοις γενέσθαι; See also 33, 5; 34; 35, 1. 11 For Homer as ‘the great ocean’, see Porter (2016), 360–381. The sea, the Danube and the Nile also occur together in Demetrius’ On Style 121 (discussed below): see Porter (2016), 276. 12 For a different reading, see Porter (2016), 146: Porter emphasizes the continuity between Callimachean refinement (λεπτότης) and the Longinian ‘aesthetics of detail’. It is clear from On the Sublime 33–36, however, that impeccability and attention for detail are of secondary importance to Longinus: ‘perfect precision runs the risk of triviality’ (τὸ γὰρ ἐν παντὶ ἀκριβὲς κίνδυνος μικρότητος, On the Sublime 33, 2). The differences between Callimachus and Longinus are more significant than the similarities. For Callimachus and Longinus, see also Hunter (2009), 159. Innes (1995a) demonstrates that landscapes (rivers, sea, volcano) and natural phenomena (sun, lightning) contribute to the structure and unity of On the Sublime.

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which is widely employed by critics like Demetrius, Dionysius, Longinus and Hermogenes.13 Among the rewritings of classical passages we find a surprising number of sentences that describe the course of a river. Thus, Demetrius rewrites a sentence from Thucydides on the course of the river Achelous and a sentence from Xenophon on the river Teleboas. And Dionysius of Halicarnassus and Hermogenes of Tarsus rewrite a famous sentence from Herodotus that describes the course of the river Halys. In my interpretation of these passages I want to suggest that the ancient critics choose ‘river sentences’ for their rewriting exercises for a particular reason: the analogy between river and text greatly helps their students to think about style and to visualize various aspects of stylistic writing. The mimetic quality of language is a central idea in ancient literary criticism: language should perfectly mirror the world that it describes. Thus, the description of a river in language should mimetically represent the length, the course and the nature of the river that exists in the real world. If however such a verbal representation of a river is then changed through a rewriting exercise, the perfect correspondence between form and subject matter will be ruined. Rewriting a gently flowing sentence that describes a river in Herodotus or Thucydides is thus like forcing a beautiful river to change its course. Changing the literary representation of a river is therefore as destructive as redirecting the natural course of a river in the real world; and by its destructiveness the metathesis proves the quality of the original passage — before it was rewritten. Let us look at some examples of this phenomenon in Demetrius’ On Style, Dionysius’ On Composition, and Hermogenes’ On Types of Style.

3. Demetrius on Thucydides’ Achelous At the end of book 2 of his History of the Peloponnesian War, Thucydides describes the course of the river Achelous, a river in western Greece, 220 km long, which begins at 2,000 meters height in the Pindus mountains and empties into the Ionian Sea. It is the largest river of Greece: Herodotus actually compares the Achelous with the Nile in terms of its enormous size.14 A Greek audience would of course remember that Achelous was

13 See De Jonge (2005) and De Jonge (2008), 367–390 on metathesis in Dionysius’ rhetorical works. 14 Herodotus II 10.

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honored as a god. Thucydides gives the following description of the river:15 ὁ γὰρ Ἀχελῷος ποταμὸς ῥέων ἐκ Πίνδου ὄρους διὰ Δολοπίας καὶ Ἀγραίων καὶ Ἀμφιλόχων καὶ διὰ τοῦ Ἀκαρνανικοῦ πεδίου, ἄνωθεν μὲν παρὰ Στράτον πόλιν, ἐς θάλασσαν δ᾿ ἐξιεὶς παρ᾿ Οἰνιάδας καὶ τὴν πόλιν αὐτοῖς περιλιμνάζων, ἄπορον ποιεῖ ὑπὸ τοῦ ὕδατος ἐν χειμῶνι στρατεύειν. For the river Achelous (ὁ γὰρ Ἀχελῷος ποταμός), flowing (ῥέων) from Mount Pindus through the country of the Dolopians, Agraeans, and Amphilochians and then through the Acarnanian plain, passing by the city of Stratus high up the stream, and by Oeniadae emptying (ἐξιείς) into the sea, surrounding the city with water (περιλιμνάζων), renders military operations there impossible in winter by reason of the water. This is an impressive periodic sentence, which follows the river Achelous from the beginning (Pindus) to the end (Oeniadae at the Ionian Sea); the grammatical subject ὁ γὰρ Ἀχελῷος ποταμός is combined with a series of participles ῥέων, ἐξιείς and περιλιμνάζων, before the predicate ποιεῖ expresses the point that Thucydides wants to make. Demetrius, the author of the treatise On Style (possibly second or first century BC), cites the sentence in his section on the grand style.16 He claims that the grandeur of this sentence is achieved through the periodic structure. I would suggest that Demetrius’ choice to cite this example in his section on the grand style is not only based on the periodic form of the sentence, but also on the impressive size of the river and the divine associations that it evokes: enormous size and the divine are both ‘thematic markers of the sublime’, as Porter has pointed out.17 Here is Demetrius’ analysis of the passage:18 Μεγαλοπρεπὲς δὲ καὶ τὸ ἐκ περιαγωγῆς τῇ συνθέσει λέγειν, οἷον ὡς ὁ Θουκυδίδης· ὁ γὰρ Ἀχελῷος ποταμὸς ῥέων ἐκ Πίνδου ὄρους διὰ Δολοπίας καὶ Ἀγριανῶν καὶ Ἀμφιλόχων, ἄνωθεν παρὰ Στράτον πόλιν ἐς θάλασσαν διεξιεὶς παρ’ Οἰνιάδας καὶ τὴν πόλιν αὐτοῖς περιλιμνάζων ἄπορον ποιεῖ ὑπὸ τοῦ ὕδατος ἐν χειμῶνι στρατεύεσθαι. 15 Thucydides II 102, 2. Translation adapted from Smith (1919). 16 Demetrius, On Style 45–47. The grand style is discussed in On Style 38–127. On Demetrius’ On Style, see Grube (1961); Schenkeveld (1964); Chiron (2001); Marini (2007). 17 Porter (2016), 51–53. 18 Demetrius, On Style 45–47. Translation adapted from Innes (1995b).

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σύμπασα γὰρ ἡ τοιαύτη μεγαλοπρέπεια ἐκ τῆς περιαγωγῆς γέγονεν καὶ ἐκ τοῦ μόγις ἀναπαῦσαι αὐτόν τε καὶ τὸν ἀκούοντα. (46) Εἰ δ’ οὕτω διαλύσας αὐτὸ εἴποι τις· ὁ γὰρ Ἀχελῷος ποταμὸς ῥεῖ μὲν ἐκ Πίνδου ὄρους, ἐκβάλλει δὲ παρ’ Οἰνιάδας ἐς θάλασσαν· πρὸ δὲ τῆς ἐκβολῆς τὸ Οἰνιαδῶν πεδίον λίμνην ποιεῖ, ὥστ’ αὐτοῖς πρὸς τὰς χειμερινὰς ἐφόδους τῶν πολεμίων ἔρυμα καὶ πρόβλημα γίνεσθαι τὸ ὕδωρ. εἰ δή τις οὕτω μεταβαλὼν ἑρμηνεύσειεν αὐτό, πολλὰς μὲν ἀναπαύλας παρέξει τῷ λόγῳ, τὸ μέγεθος δ’ ἀφαιρήσεται. (47) Καθάπερ γὰρ τὰς μακρὰς ὁδοὺς αἱ συνεχεῖς καταγωγαὶ μικρὰς ποιοῦσιν, αἱ δ’ ἐρημίαι κἀν ταῖς μικραῖς ὁδοῖς ἔμφασίν τινα ἔχουσι μήκους, ταὐτὸ δὴ κἀπὶ τῶν κώλων ἂν γίγνοιτο. Elevated is also the periodic form of composition, as in the following passage of Thucydides: ‘For the river Achelous, flowing from Mount Pindus through Dolopia and the land of the Agrianians and Amphilochians, passing inland by the city of Stratus on the way into the sea near Oeniadae, and surrounding that town with a marsh, by its floods makes a winter expedition impossible.’ All this impressiveness has come from the periodic form and from the fact that Thucydides hardly allows any pause to himself and the reader. (46) If you were to break the sentence up to say, ‘For the river Achelous flows from Mount Pindus and makes its way into the sea near Oeniadae (ὁ γὰρ Ἀχελῷος ποταμὸς ῥεῖ μὲν ἐκ Πίνδου ὄρους, ἐκβάλλει δὲ παρ’ Οἰνιάδα); but before reaching its outlet it turns the plain of Oeniadae into a marsh, so that the floods form a defense and protection against enemy attack in the winter.’ If you vary and rephrase it in this way you will give the passage many pauses (ἀναπαύλας) but destroy its grandeur (τὸ μέγεθος). (47) Inns (καταγωγαί) at frequent intervals make long journeys shorter, while desolate roads (ἐρημίαι), even when the distances are short, give the impression of length. The same principle applies to clauses. In her discussion of this passage Nancy Worman draws attention to the fact that ‘Demetrius frames Thucydides’ river of prose with the language of roads’.19 The flow of the river is reinterpreted as the path that a traveler needs to go: in Thucydides’ version this is a long and lonely journey of

19 Worman (2015), 238.

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sublime proportions; in the new version that results from Demetrius’ rewriting, however, the journey becomes a pleasant experience that is interrupted by regular ‘rest-stops’ (ἀναπαῦλαι) along the way. Let us have a closer look at the metathesis: how does Demetrius change the style of Thucydides’ sentence on the Achelous? Thucydides II 102, 2 as cited by Demetrius’ metathesis: Demetrius: ὁ γὰρ Ἀχελῷος ποταμὸς ῥέων ἐκ Πίνδου ὄρους διὰ Δολοπίας καὶ Ἀγριανῶν καὶ Ἀμφιλόχων, ἄνωθεν παρὰ Στράτον πόλιν ἐς θάλασσαν διεξιεὶς παρ’ Οἰνιάδας καὶ τὴν πόλιν αὐτοῖς περιλιμνάζων ἄπορον ποιεῖ ὑπὸ τοῦ ὕδατος ἐν χειμῶνι στρατεύεσθαι.

ὁ γὰρ Ἀχελῷος ποταμὸς ῥεῖ μὲν ἐκ Πίνδου ὄρους, ἐκβάλλει δὲ παρ’ Οἰνιάδας ἐς θάλασσαν· πρὸ δὲ τῆς ἐκβολῆς τὸ Οἰνιαδῶν πεδίον λίμνην ποιεῖ, ὥστ’ αὐτοῖς πρὸς τὰς χειμερινὰς ἐφόδους τῶν πολεμίων ἔρυμα καὶ πρόβλημα γίνεσθαι τὸ ὕδωρ.

Three changes should be mentioned here. First, Demetrius adds the particles μέν and δέ to the two first participles; he changes the first participle ῥέων into the main verb ῥεῖ, and the second one διεξιείς into the main verb ἐκβάλλει; he also postpones the words ἐς θάλασσαν, placing them directly after the name of the town Oeniadae, so that the river ends into the sea (as it does in reality). Finally, he starts a new sentence after θάλασσαν in which he describes much more explicitly and more elaborately than Thucydides how the floods of the river around Oeniadae protect the city against military attacks. The difference between periodic grandeur and simple clarity is thus achieved by adding structuring particles (μέν, δέ), by changing participles into main clauses, and by adding words for the sake of precision. It is important to observe that Demetrius does not present his own version of the sentence as superior to Thucydides’ original version: his rewriting makes the passage perhaps clearer, but also less grand and less impressive. Demetrius’ version also leaves out Dolopia, the lands of the Agrianians and Amphilochians, and the city of Stratus. In fact, Demetrius’ rewriting destroys the sublimity of the river Achelous. Demetrius returns to the same example in his section on the plain style: having pointed out that the plain style makes use of short sentences, he rewrites Thucydides’ sentence on the Achelous once more. Again he adds

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the particles μέν and δέ, which he now calls ‘signposts’ (σημεῖα) and resting places (ἀναπαῦλαι):20 Πειρᾶσθαι δὲ μὴ εἰς μῆκος ἐκτείνειν τὰς περιαγωγάς· ὁ γὰρ Ἀχελῷος ῥέων ἐκ Πίνδου ὄρους ἄνωθεν μὲν παρὰ Στράτον πόλιν ἐπὶ θάλασσαν διέξεισιν· ἀλλ’ αὐτόθεν ἀπολήγειν καὶ ἀναπαύειν τὸν ἀκούοντα οὕτως· ὁ γὰρ Ἀχελῷος ῥεῖ μὲν ἐκ Πίνδου ὄρους, ἔξεισιν δὲ εἰς θάλασσαν· πολὺ γὰρ οὕτως σαφέστερον, ὥσπερ ἂν αἱ πολλὰ σημεῖα ἔχουσαι ὁδοὶ καὶ πολλὰς ἀναπαύλας· ἡγεμόσι γὰρ τὰ σημεῖα ἔοικεν, ἡ δὲ ἀσημείωτος καὶ μονοειδής, κἂν μικρὰ ᾖ, ἄδηλος δοκεῖ. Try not to make your periodic sentences too long. Take this sentence: ‘For the river Achelous, flowing from Mount Pindus, passing inland by the city of Stratus, runs into the sea.’ Make a natural break here and give the listener a rest: ‘For the river Achelous flows (ῥεῖ μὲν) from Mount Pindus, and runs (ἔξεισιν δὲ) into the sea.’ This version is far clearer. Sentences are like roads. Some roads have many signposts and many resting places; and the signposts are like guides. But a monotonous road without signposts seems unclear, even if it is short. It is interesting to note that this rewriting of the Thucydidean passage, just like Demetrius’ first rewriting of the same sentence (discussed above), places the words εἰς θάλασσαν (into the sea) at the very end of the first sentence: this transposition seems to reflect the idea that a clear and straightforward description of a river will mirror the exact course of that river so closely that the sentence ends exactly at the point where the actual river also comes to an end. Demetrius’ version of the sentence thus could be said to correspond more closely to the real world than Thucydides’ version. At the same time, however, Demetrius’ rewritings of Thucydides introduce a certain mismatch between form and content: Thucydides’ impressive period mirrors the sublime river that it portrays, whereas Demetrius’ short sentences with their signposts break the river up into small pieces, thereby diminishing, interrupting and abbreviating what is in reality the largest river of Greece.

20 Demetrius, On Style 202. Translation adapted from Innes (1995b).

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4. Demetrius on Xenophon’s Teleboas Propriety, the correspondence between form and content, is indeed a central concern in Demetrius’ On Style. Whereas the long Achelous river demands a sublime periodic style, the river Teleboas, which is described in Xenophon’s Anabasis as being ‘not large’, must receive a more modest treatment. Xenophon gives us the following description of the river:21 ἐντεῦθεν δ’ ἐπορεύθησαν σταθμοὺς τρεῖς παρασάγγας πεντεκαίδεκα ἐπὶ τὸν Τηλεβόαν ποταμόν. οὗτος δ’ ἦν καλὸς μέν, μέγας δ’ οὔ· κῶμαι δὲ πολλαὶ περὶ τὸν ποταμὸν ἦσαν. From there they marched three stages, fifteen parasangs, to the Teleboas river. This was a beautiful river, but not a large one (οὗτος δ’ ἦν καλὸς μέν, μέγας δ’ οὔ), and there were many villages about it. We may observe that Xenophon here uses exactly the signposting particles μέν and δέ (καλὸς μέν, μέγας δ’) that Demetrius proposed to add to Thucydides’ sentence on the Achelous river in order to make it clearer (see above). The river Teleboas in eastern Turkey is in reality 450 km — not that small really; it is twice as long as the Achelous in Greece. But Demetrius seems to follow Xenophon’s remark on the modest size of the Teleboas (‘not a large one’), when he argues that the style of Xenophon’s sentence appropriately imitates the smallness and the beauty of the river. Again, he supports his analysis with a rewriting of the river sentence, by which he demonstrates the charming impact of the original Xenophontic version:22 Μακροῦ μὲν δὴ κώλου καιρὸς γίνοιτ’ ἄν ποτε διὰ ταῦτα· γίνοιτο δ’ ἄν ποτε καὶ βραχέος, οἷον ἤτοι μικρόν τι ἡμῶν λεγόντων, ὡς ὁ Ξενοφῶν φησιν, ὅτι ἀφίκοντο οἱ Ἕλληνες ἐπὶ τὸν Τηλεβόαν ποταμόν· οὗτος δὲ ἦν μέγας μὲν οὔ, καλὸς δέ. τῇ γὰρ μικρότητι καὶ ἀποκοπῇ τοῦ ῥυθμοῦ συνανεφάνη καὶ ἡ μικρότης τοῦ ποταμοῦ καὶ χάρις· εἰ δὲ οὕτως ἐκτείνας αὐτὸ εἶπεν· οὗτος δὲ μεγέθει μὲν ἦν ἐλάττων τῶν πολλῶν, κάλλει δὲ ὑπερεβάλλετο πάντας τοῦ πρέποντος ἀπετύγχανεν ἂν καὶ ἐγίγνετο ὁ †λεγόμενος ψυχρός.

21 Xenophon, Anabasis IV 4, 3. Translation Brownson (1998), adapted. 22 Demetrius, On Style 6. Translation Innes (1995b).

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Sometimes, then, a long clause may be appropriate for the reasons given, at other times a short one, for instance when our subject is small, as in Xenophon’s account of the Greeks’ arrival at the river Teleboas, ‘this river was not large, but it was beautiful’ (οὗτος δὲ ἦν μέγας μὲν οὔ, καλὸς δέ — [Demetrius gives a wrong quotation]). The short, broken rhythm brings into relief both the smallness of the river and its charm (ἡ μικρότης τοῦ ποταμοῦ καὶ χάρις). If Xenophon had expanded the idea to say, ‘this river was in size inferior to most rivers, but in beauty it surpassed them all’ he would have failed in propriety (τοῦ πρέποντος); and would have become what is called the frigid writer.23 Xenophon preserves propriety by using the simple style for what is (according to Demetrius) a small river. Not all writers however observe the rule of propriety so well. In his section on frigid style (On Style 114–127), Demetrius mentions some writers who use grand language on slight themes; according to the rhetorician this is only excusable in playful and humoristic texts, where the use of the grand style may provoke laughter.24 Otherwise, the grand style is for grand subjects, the simple style for simple subjects. Again, Demetrius illustrates his point with a reference to Xenophon’s description of the river Teleboas. He contrasts Xenophon’s simple portrayal of the modest river with the description of a similar river by an unknown author, who used the elevated language that one should (according to Demetrius) reserve for immense rivers like the Nile or the Danube:25 παίζειν μὲν δὴ ἐξέστω, ὡς φημί, τὸ δὲ πρέπον ἐν παντὶ πράγματι φυλακτέον, τοῦτ’ ἔστι προσφόρως ἑρμηνευτέον, τὰ μὲν μικρὰ μικρῶς, τὰ μεγάλα δὲ μεγάλως. Καθάπερ Ξενοφῶν ἐπὶ τοῦ Τηλεβόα ποταμοῦ μικροῦ ὄντος καὶ καλοῦ φησιν· οὗτος δὲ ποταμὸς ἦν μέγας μὲν οὔ, καλὸς δέ· τῇ γὰρ βραχύτητι τῆς συνθέσεως καὶ τῇ ἀπολήξει τῇ εἰς τὸ δὲ μόνον οὐκ ἐπέδειξεν ἡμῖν μικρὸν ποταμόν. ἕτερος δέ τις ἑρμηνεύων ὅμοιον τῷ Τηλεβόᾳ ποταμῷ ἔφη, ὡς ἀπὸ τῶν Λαυρικῶν ὀρέων ὁρμώμενος ἐκδιδοῖ ἐς θάλασσαν, καθάπερ τὸν Νεῖλον ἑρμηνεύων κατακρημνιζόμενον ἢ τὸν Ἴστρον ἐκβάλλοντα. πάντα οὖν τὰ τοιαῦτα ψυχρότης καλεῖται.

23 On frigidity, see On Style 114–127 with Marini (2007). Cf. Hunter (2009), 131. 24 Demetrius, On Style 120. 25 Demetrius, On Style 120–121. Translation adapted from Innes (1995b).

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So play, as I say, is legitimate, but otherwise preserve propriety, whatever the subject; or in other words, use the relevant style, slight for slight themes, grand for grand themes, just as Xenophon does when he describes the small and beautiful river Teleboas, ‘this was not a large river; but it was a beautiful one’ (μέγας μὲν οὔ, καλὸς δέ). Through the conciseness of the construction and the final position of δέ he makes us all but see a small river. Contrast another writer who describes a river similar to the Teleboas, saying that it ‘rushed from the hills of Laurium and disgorged itself into the sea’, as though he were writing about the cataracts of the Nile or the mouth of the Danube. All such language is frigid. Demetrius suggests that the words ἀπὸ τῶν Λαυρικῶν ὀρέων ὁρμώμενος ἐκδιδοῖ ἐς θάλασσαν (‘rushing from the hills of Laurium it disgorges itself into the sea’) would be appropriate in a description of the Nile or the Danube, but not in a passage describing a modest river in the southeast of Attica. In this case Demetrius does not rewrite the sentence that he finds ‘frigid’; but we could easily imagine a schoolteacher asking his students to rewrite the frigid sentence by introducing less elevated, more appropriate words to characterize the modest hills of Laurium and its small creek.26 Demetrius evidently associates the Nile and the Danube with the grand or sublime style — like Longinus, who (as we have seen) prefers the Nile, the Danube and the Rhine to Callimachus’ small stream.27

5. Dionysius on Herodotus’ Halys Another famous river in Greek literature is the Halys, which prominently figures in the first book of Herodotus’ Histories. The Halys (now Kızılırmak, the ‘Red River’) is the longest river that is entirely located within present-day Turkey. It has a total length of more than 1.350 km, starting in Eastern Anatolia, from where it flows into the southwest and then to the north, where it discharges itself into the Black Sea. In ancient times the river formed the border between Lydia and Persia, until Croesus, the Lydian king, crossed it when attacking the Persian king Cyrus, thereby

26 Are the words ὄρος (mountain, hill) and ὁρμάομαι (to rush) inappropriate because of their high register? Or is it the sequence of long ō vowels (τῶν Λαυρικῶν ὀρέων ὁρμώμενος), which gives the passage an elevated, almost epic character? 27 Longinus, On the Sublime 35, 4 (see above). Cf. Porter (2016), 276.

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‘destroying a great empire’ (547 BC).28 Here is the well-known beginning of Herodotus’ Croesus narrative:29 Κροῖσος ἦν Λυδὸς μὲν γένος, παῖς δὲ Ἀλυάττεω, τύραννος δὲ ἐθνέων τῶν ἐντὸς Ἅλυος ποταμοῦ, ὃς ῥέων ἀπὸ μεσαμβρίης μεταξὺ Συρίων καὶ Παφλαγόνων ἐξίει πρὸς βορῆν ἄνεμον ἐς τὸν Εὔξεινον καλεόμενον πόντον. Croesus was Lydian by birth. He was the son of Alyattes and ruled over all the various peoples who live west of the river Halys, which flows from the south (between where the Syrians and the Paphlagonians live) and in the north issues into the sea which is known as the Euxine Sea. The main sentence is composed of three short clauses, followed by a relative clause that describes the course of the river Halys (ὃς ῥέων ἀπὸ μεσαμβρίης ... ἐξίει). Dionysius of Halicarnassus cites this famous sentence from Herodotus in his work On Composition (first century BC), in order to demonstrate the importance of σύνθεσις ὀνομάτων, the arrangement of words.30 He first quotes the Herodotean sentence, changing the Ionic into the Attic dialect. Subsequently he experiments with the style of the sentence, by offering two alternative versions, one in the style of Thucydides, and another one in the style of the Hellenistic author Hegesias of Magnesia, who was considered the archetype of bad, Asianic writing.31 Here is Dionysius’ analysis:32 ‘Κροῖσος ἦν Λυδὸς μὲν γένος, παῖς δ’ Ἀλυάττου, τύραννος δ’ ἐθνῶν τῶν ἐντὸς Ἅλυος ποταμοῦ· ὃς ῥέων ἀπὸ μεσημβρίας μεταξὺ Σύρων τε καὶ Παφλαγόνων ἐξίησι πρὸς βορέαν ἄνεμον εἰς τὸν Εὔξεινον καλούμενον πόντον’. μετατίθημι τῆς λέξεως ταύτης τὴν ἁρμονίαν, καὶ γενήσεταί μοι οὐκέτι ὑπαγωγικὸν τὸ πλάσμα οὐδ’ ἱστορικόν, ἀλλ’ ὀρθὸν μᾶλλον καὶ ἐναγώνιον·

28 Herodotus I 75. 29 Herodotus I 6, 1. Translation Waterfield (1998). 30 On this treatise, see Donadi, Marchiori (2013). On Dionysius, see Hunter and De Jonge (2019). 31 On Hegesias’ bad reputation in Greek and Roman literary criticism, see Ooms (2019). 32 Dionysius of Halicarnassus, On Composition 4, 8–11, ed. Aujac (1981). Translation adapted from Usher (1985). See also De Jonge (2005).

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‘Κροῖσος ἦν υἱὸς μὲν Ἀλυάττου, γένος δὲ Λυδός, τύραννος δὲ τῶν ἐντὸς Ἅλυος ποταμοῦ ἐθνῶν· ὃς ἀπὸ μεσημβρίας ῥέων μεταξὺ Σύρων καὶ Παφλαγόνων εἰς τὸν Εὔξεινον καλούμενον πόντον ἐκδίδωσι πρὸς βορέαν ἄνεμον.’ οὗτος ὁ χαρακτὴρ οὐ πολὺ ἀπέχειν ἂν δόξειεν τῶν Θουκυδίδου τούτων (Thuc. I 24, 1)· ‘Ἐπίδαμνός ἐστι πόλις ἐν δεξιᾷ εἰσπλέοντι τὸν Ἰόνιον κόλπον· προσοικοῦσι δ’ αὐτὴν Ταυλάντιοι βάρβαροι, Ἰλλυρικὸν ἔθνος.’ πάλιν δὲ ἀλλάξας τὴν αὐτὴν λέξιν ἑτέραν αὐτῇ μορφὴν ἀποδώσω τὸν τρόπον τοῦτον· ‘Ἀλυάττου μὲν υἱὸς ἦν Κροῖσος, γένος δὲ Λυδός, τῶν δ’ ἐντὸς Ἅλυος ποταμοῦ τύραννος ἐθνῶν· ὃς ἀπὸ μεσημβρίας ῥέων Σύρων τε καὶ Παφλαγόνων μεταξὺ πρὸς βορέαν ἐξίησιν ἄνεμον ἐς τὸν καλούμενον πόντον Εὔξεινον’. Ἡγησιακὸν τὸ σχῆμα τοῦτο τῆς συνθέσεως, μικρόκομψον, ἀγεννές, μαλθακόν· τούτων γὰρ τῶν λήρων ἱερεὺς ἐκεῖνος ἁνὴρ τοιαῦτα γράφων· ‘Ἐξ ἀγαθῆς ἑορτῆς ἀγαθὴν ἄγομεν ἄλλην.’ ‘Ἀπὸ Μαγνησίας εἰμὶ τῆς μεγάλης Σιπυλεύς.’ ‘Οὐ γὰρ μικρὰν εἰς Θηβαίων ὕδωρ ἔπτυσεν ὁ Διόνυσος· ἡδὺ μὲν γάρ ἐστι, ποιεῖ δὲ μαίνεσθαι.’ ‘Croesus was Lydian by birth, and the son of Alyattes, and king of all the peoples who live west of the river Halys, which, flowing from the south, between where the Syrians and the Paphlagonians live, issues to the north into the sea which is called Euxine.’ I alter the arrangement of the words in this passage, and I shall find that the manner of writing is no longer leisurely and historical (ὑπαγωγικόν and ἱστορικόν), but rather direct and fitted for debate (ἀλλ’ ὀρθὸν μᾶλλον καὶ ἐναγώνιον): ‘Croesus was the son of Alyattes, and by birth a Lydian, and king of all the peoples who live west of the river Halys (Κροῖσος ἦν υἱὸς μὲν Ἀλυάττου, γένος δὲ Λυδός, τύραννος δὲ etc.), which from the south flowing, between where the Syrians and the Paphlagonians live, issues into the so-called Euxine sea towards the north.’ This style would not seem to differ greatly from that of Thucydides in the words: ‘Epidamnus is a city on the right as you sail into the Ionian Gulf; its immediate neighbors are barbarians, the Taulantii, an Illyrian race’ (Thuc. I 24, 1). I shall alter the same passage once more and give a new form to it as follows: ‘Alyattes’ son was Croesus, by birth a Lydian, of the peoples who live west of the river Halys he was king (Ἀλυάττου μὲν υἱὸς ἦν Κροῖσος, γένος δὲ Λυδός, τῶν δ’ ἐντὸς Ἅλυος ποταμοῦ τύραννος

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ἐθνῶν); which river from the south flowing (ὃς ἀπὸ μεσημβρίας ῥέων), between where the Syrians and the Paphlagonians live (Σύρων τε καὶ Παφλαγόνων μεταξὺ), discharges itself to the north, into the so-called sea Euxine (ἐς τὸν καλούμενον πόντον Εὔξεινον).’ This precious, degenerate, effeminate (μικρόκομψον, ἀγεννές, μαλθακόν) way of arranging words resembles that of Hegesias. That writer was the high-priest of this kind of humbug, and wrote passages like: ‘After a goodly festival another goodly one we celebrate.’ ‘From Magnesia am I, the mighty land, a Sipylean.’ ‘It was not a small drop that into Theban waters Dionysus spewed: sweet it is indeed, but it makes men mad’ (Hegesias FGH 142, fr. 18–20). Dionysius describes the original sentence from Herodotus as ὑπαγωγικόν and ἱστορικόν, ‘leisurely’ and ‘historical’. The first rewriting (in the style of Thucydides) is called ὀρθὸν μᾶλλον καὶ ἐναγώνιον, ‘more direct’, and ‘involving’. The term ἐναγώνιος is used in ancient literary criticism for language that suits the ἀγών, i.e. forensic and political debate; by extension it can also refer to language that actively engages the audience.33 The second rewriting (in the style of Hegesias) is called μικρόκομψον, ἀγεννές, μαλθακόν: ‘affected’, ‘low-born’ and ‘soft’ or ‘weak’. Is Dionysius here talking about different genres or about different styles? Herodotus, Thucydides and Hegesias are of course all historians. Nevertheless, there are a few pointers that suggest that Dionysius is partly thinking of generic distinctions. Hegesias was not only a historian but also a rhetorician; Dionysius may be suggesting that the second rewriting (in Hegesias’ style) is more rhetorical than Herodotus’ sentence and the Thucydidean version.34 Dionysius uses the word ἱστορικόν for the Herodotean version, whereas he labels the Thucydidean version as ἐναγώνιον. Thucydides was indeed valued for his many (political) speeches; I would argue that the three different versions of the sentence that Dionysius presents, with different descriptions of the Halys river, present three stages in the spectrum from historiography on the one hand to rhetoric on the other: Herodotus is properly historical, the Thucydidean version is more rhetorical, and the Hegesianic version is excessively rhetorical — weak, effeminate and hence completely wrong. Let us compare the three versions that Dionysius presents to us:

33 On the semantics of ἐναγώνιος, see Ooms, De Jonge (2013). 34 On Hegesias, see Prandi (2016).

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Casper C. de Jonge I. Herodotus I 6 as cited by II. Thucydidean style: Dionysius:

III. Hegesias’ style:

Κροῖσος ἦν Λυδὸς μὲν γένος, παῖς δ’ Ἀλυάττου, τύραννος δ’ ἐθνῶν τῶν ἐντὸς Ἅλυος ποταμοῦ· ὃς ῥέων ἀπὸ μεσημβρίας μεταξὺ Σύρων τε καὶ Παφλαγόνων ἐξίησι πρὸς βορέαν ἄνεμον εἰς τὸν Εὔξεινον καλούμενον πόντον.

Ἀλυάττου μὲν υἱὸς ἦν Κροῖσος, γένος δὲ Λυδός, τῶν δ’ ἐντὸς Ἅλυος ποταμοῦ τύραννος ἐθνῶν· ὃς ἀπὸ μεσημβρίας ῥέων Σύρων τε καὶ Παφλαγόνων μεταξὺ πρὸς βορέαν ἐξίησιν ἄνεμον ἐς τὸν καλούμενον πόντον Εὔξεινον.

Κροῖσος ἦν υἱὸς μὲν Ἀλυάττου, γένος δὲ Λυδός, τύραννος δὲ τῶν ἐντὸς Ἅλυος ποταμοῦ ἐθνῶν· ὃς ἀπὸ μεσημβρίας ῥέων μεταξὺ Σύρων καὶ Παφλαγόνων εἰς τὸν Εὔξεινον καλούμενον πόντον ἐκδίδωσι πρὸς βορέαν ἄνεμον.

Herodotus gives a straightforward list of three predicative expressions (Λυδὸς, παῖς, τύραννος: Lydian, son, king). The Thucydidean style (number II) is more systematic (ὀρθόν) in that it starts from Croesus’ family, and then turns to his nation and his rulership (υἱός, Λυδός, τύραννος). But it also changes the word order, reversing Λυδὸς μὲν γένος into γένος δὲ Λυδός. ‘Hegesias’, number III, puts the reader completely on the wrong track, by starting with the genitive Ἀλυάττου μὲν, which deceivingly suggests that Alyattes is going to be the topic of this sentence. The Hegesianic version also places the word τύραννος in the middle of the clause that it governs (τῶν δ’ ἐντὸς Ἅλυος ποταμοῦ τύραννος ἐθνῶν). Things become even more interesting when we get to the relative clause that describes the river Halys. In the Thucydidean style (number II), Dionysius has changed the order of words so that the relative clause now starts with the south (ἀπὸ μεσημβρίας) and ends in the north (πρὸς βορέαν ἄνεμον). This may be one reason why Dionysius calls this version more ‘direct’ or ‘systematic’ (ὀρθόν). The last rewriting (in the style of Hegesias, number III) is rather ridiculous in its excessive use of hyperbaton: the preposition μεταξὺ is placed after the Syrians and Paphlagonians, ‘the north’ comes too early, βορέαν is split off from ἄνεμον, and καλούμενον is separated from the name Εὔξεινον to which it belongs. The dual rewriting of the sentence from Herodotus I 6 has a programmatic function in Dionysius’ On Composition: it gives a powerful illustration of the effects of σύνθεσις, the topic of the treatise, and it involves the student (and other readers) in an instructive and entertaining exercise. While On Composition contains many cases of metathesis, this is the only passage where Dionysius offers two different rewritings of one passage. I want to suggest that Dionysius had a good reason for selecting for this pro-

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grammatic experiment a sentence that describes the course of a famous river. The Thucydidean version of the sentence makes the river Halys more straightforward, running from south to north, but this systematic directness does not fit the course of the actual river, which flows rather zigzag and ‘informally’ through Anatolia, first to the west and then to north, northeast. The version in the style of Hegesias makes things even worse: here the word order is so unorderly and weird, that it becomes actually impossible for the reader to follow the course of the river. In other words, Dionysius demonstrates the importance of word order, not just by drawing attention to stylistic differences between the three versions, but also by suggesting that in the two rewritten versions there is a mismatch between form and content; the actual river landscape in Anatolia is perfectly presented by the ‘historical’ and ‘slowly drawn out’ (ὑπαγωγικόν) style of Herodotus’ sentence.35 The other two versions violate the Herodotean composition, as if one would intervene in a beautiful landscape in order to force a river to change its natural course.

6. Hermogenes on Herodotus’ Halys, and Dionysius’ Tiber Herodotus’ opening sentence on the Lydian king Croesus seems to have been quite popular in ancient rhetorical schools. One can imagine that students were asked to rewrite the sentence in different styles, so that they could learn to master various modes of writing. In his treatise On Types of Style, Hermogenes of Tarsus (second century AD) presents another rewriting of the same sentence. Hermogenes demonstrates the effects of starting a sentence with different grammatical cases. If Herodotus had started his celebrated sentence with a genitive absolute (Κροίσου ὄντος Λυδοῦ μὲν γένος, παιδὸς δὲ Ἀλυάττεω, τυράννου δέ ...), this would have been rather confusing. The reader would assume that the information on Croesus merely presents the setting, after which a more important point will be introduced:36

35 In De Jonge (2005) I argued that Dionysius considers the Herodotean and the Thucydidean versions as stylistic alternatives; if however the Thucydidean version is a kind of intermediate stage between Herodotus and the bad ‘Hegesias’, it is more plausible that Dionysius regards the original sentence in Herodotus as superior to the Thucydidean version that he presents in his first rewriting. 36 Hermogenes, On Types of Style I 3, 12, ed. Patillon (2012). Translation adapted from Wooten (1987).

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τὸ γὰρ «ἦν Κανδαύλης» καὶ τὸ «Κροῖσος ἦν» καὶ τὰ τοιαῦτα οὕτω μὲν εἰσφερόμενα κατ’ ὀρθότητα καὶ καθαρὸν ποιεῖ τὸν λόγον καὶ σαφῆ· εἰ δὲ πλαγιάσαις, οὐ τοιαῦτα ἔσται, οἷον ‘Κροίσου ὄντος’ καὶ ‘Κανδαύλου ὄντος’ εἰ λέγοις· ταραχὴ γάρ τις εὐθὺς ἐγγίνεται διὰ τὸ δεῖν πάντως ἐπακολουθῆσαί τι ἕτερον νόημα καὶ ἡ περιγραφὴ τῆς ὅλης ἐννοίας μακρὰ καὶ οὐ πάνυ σαφής, οἷον ‘Κροίσου ὄντος Λυδοῦ μὲν γένος, παιδὸς δὲ Ἀλυάττεω, τυράννου δὲ ἐθνῶν τῶν ἐντὸς Ἅλυος ποταμοῦ’ ... ὁρᾷς, πῶς ἔτι κρέμαται ἡ διάνοια; If you say ‘Candaules was’ and ‘Croesus was’, using a straightforward sentence with the subject in the nominative case, you make the sentence pure and clear. If you use subordination and say ‘When Croesus was’ or ‘Since Candaules was’ the style is no longer pure and clear. There is at the outset some confusion, since it is necessary that some other thought follow, and the lengthy expression produces a certain lack of clarity. If Herodotus, for example, had said ‘Since Croesus was a Lydian by birth and since he was the son of Alyattes, and since he ruled those nations on this side of the Halys River’ (...) do you see how the point that he really wanted to make would have been kept in suspense? Hermogenes’ rewriting of Herodotus in genitive absolute constructions might appear rather far-fetched in the first instance. But it is not difficult to find parallels in ancient Greek literature. A very similar sentence on the river Tiber in Italy, which starts with a long series of genitive absolute constructions, can be found in Dionysius of Halicarnassus’ Roman Antiquities. It is perhaps not surprising that we find this elaborate sentence, which almost sounds like a rhetorical exercise, in the history of Rome written by a teacher of rhetoric. Dionysius describes how king Ancus Marcius (the fourth king of Rome, ca. 677–617 BC) decided to build a seaport at the mouth of the river Tiber. Dionysius paints the course of the river in a monumental periodic sentence, which seems to echo both Herodotus’ Halys (rewritten by Dionysius in his On Composition, as we have seen above) and Thucydides’ Achelous (discussed above):37

37 Dionysius of Halicarnassus, Roman Antiquities II 44, 1. I have adapted the translation of Cary (1939) in order to bring out the genitive absolute constructions.

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τοῦ γὰρ Τεβέριος ποταμοῦ καταβαίνοντος μὲν ἐκ τῶν Ἀπεννίνων ὀρῶν, παρ’ αὐτὴν δὲ τὴν Ῥώμην ῥέοντος, ἐμβάλλοντος δ’ εἰς αἰγιαλοὺς ἀλιμένους καὶ προσεχεῖς, οὓς τὸ Τυρρηνικὸν ποιεῖ πέλαγος, μικρὰ δὲ καὶ οὐκ ἄξια λόγου τὴν Ῥώμην ὠφελοῦντος διὰ τὸ μηθὲν ἐπὶ ταῖς ἐκβολαῖς ἔχειν φρούριον, ὃ τὰς εἰσκομιζομένας διὰ θαλάττης καὶ καταγομένας ἄνωθεν ἀγορὰς ὑποδέξεταί τε καὶ ἀμείψεται τοῖς ἐμπορευομένοις, ἱκανοῦ δὲ ὄντος ἄχρι μὲν τῶν πηγῶν ποταμηγοῖς σκάφεσιν εὐμεγέθεσιν ἀναπλεῖσθαι, πρὸς αὐτὴν δὲ τὴν Ῥώμην καὶ θαλαττίαις ὁλκάσι μεγάλαις, ἐπίνειον ἔγνω κατασκευάζειν ἐπὶ ταῖς ἐκβολαῖς αὐτοῦ λιμένι χρησάμενος αὐτῷ τῷ στόματι τοῦ ποταμοῦ. As the river Tiber descends (τοῦ γὰρ Τεβέριος ποταμοῦ καταβαίνοντος) from the Apennine mountains, and as it flows (ῥέοντος) close by Rome, and as it discharges itself (ἐμβάλλοντος) upon harborless and exposed shores made by the Tyrrhenian Sea, and as this river was of small and negligible advantage (ὠφελοῦντος) to Rome because of having at its mouth no trading post where the commodities brought in by sea and down by the river from the country above could be received and exchanged with the merchants, but as it is navigable (ἱκανοῦ δὲ ὄντος) quite up to its source for river boats of considerable size and as far as Rome itself for sea-going ships of great burden, he [king Ancus Marcius] resolved to build a seaport (ἔγνω κατασκευάζειν) at its outlet, making use of the river’s mouth itself for a harbor. Dionysius here uses the elaborate description of the course of the river as a monumental setting for an important event in his narrative — King Marcius’ great building project. There is an important difference between this description of the Tiber and the river sentences that we have discussed so far. In Dionysius’ Tiber description we first flow with the stream from the Apennine mountains via Rome to the Tyrrhenian sea, like we navigated from the mountains to sea with the Achelous in Thucydides and with the Halys in Herodotus; but unlike Herodotus and Thucydides, Dionysius makes us travel all the way back upstream to Rome. The long sentence mimetically presents not only the natural course of the river (as we have seen in the river descriptions of Herodotus and Thucydides), but also, and more innovatively, the commercial use of the river by human beings who travel the river upstream. We can imagine that a rhetorician like Dionysius, who was familiar with the didactic exercise of rewriting rivers, enjoyed composing a complex period on the river Tiber, thereby imitating and emulating the great historians of the classical past: in competition with Herodotus’ Halys and Thucydides’ Achelous, Dionysius proudly presents his own Tiber. 173

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7. Conclusion The Euphrates, the Nile, the Danube and the Rhine, the Achelous, the Teleboas, the Halys and the Tiber: ancient literary criticism is flooded with rivers. The rich potential of the analogy between river and text is primarily used to demonstrate aspects of style: big river landscapes are like sublime texts, which impress their audience, whereas small and elegant streams are like clear and straightforward narratives. In some cases, however, as in Dionysius’ remarks on Herodotus, Thucydides and Hegesias, differences between genres (especially historiography and rhetoric) also seem to play a role. We have seen that river sentences figure prominently in rhetorical treatises, in particular as examples that can be rewritten through the method of metathesis. It is the crucial notion of appropriateness (τὸ πρέπον) that connects all the critical discussions that we have seen: a great river deserves a monumental period, whereas a small stream needs to be described in clear and precise language. As ancient critics strongly believe in the mimetic qualities of language, they argue that the style of a sentence should reflect the form of the river itself: changing the language (for example by adding particles or altering the word order) immediately spoils the correspondence, so that a mismatch is created between river and sentence, between content and form. Rewriting a classical text by spoiling its style is similar to redirecting the natural course of a river. Such a rewriting exercise can be an instructive, didactic experiment, as it will demonstrate the unsurpassable quality of the classical text, which is like an unspoiled, natural and beautiful landscape.

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L’oratoria di età imperiale che va sotto il nome ‘filostrateo’ di Seconda Sofistica (VS I praef., p. 481, 16–26) è quanto mai prodiga di descrizioni di città, di santuari, di monumenti. Il suo afflato celebrativo è spesso orientato verso l’elogio dei luoghi, dando voce alla munifica politica di rinnovamento urbano e infrastrutturale messa in atto tra l’età flavia e la fine dell’età antonina, che interessò tanto Roma quanto le maggiori città provinciali dell’ormai vastissimo impero. Questo interesse per la rappresentazione degli spazi e dei luoghi – finanche luoghi di scala minima, se si pensa ad esempio allo scritto Sulla sala di Luciano –, è particolarmente evidente, e anzi si ricopre di significati del tutto peculiari, nel retore microasiatico Elio Aristide. Come vedremo, in Aristide lo spazio fisico non solo è fatto oggetto di descrizione e celebrazione, ma è sottoposto, in specifici casi, a un processo di trasfigurazione simbolica molto dettagliata, soprattutto quando – e ciò ci conduce al cuore di questo volume – l’obiettivo è quello di definire il carattere innovativo della propria oratoria e del proprio ruolo di retore, fervente seguace del dio Asclepio.

1. Elio Aristide, Asclepio e Platone Non sarà inopportuno premettere un breve profilo dell’autore, focalizzato su quegli aspetti che sono più attinenti al nostro discorso.1

1 L’autore intende ringraziare i colleghi che hanno discusso con lui diversi punti di questo studio in varie fasi della sua elaborazione, e in particolare Giovan Battista D’Alessio, Giulio Massimilla, nonché i co-curatori (e attenti lettori) Serena Cannavale e Mario Regali. Un ringraziamento particolarmente sentito a Elisabetta Berardi per i preziosi consigli e le puntuali osservazioni. Per un profilo di Aristide, sia biografico che letterario, si rimanda agli ormai classici Schmid (1889), Schmid (1896), e Boulanger (1923), a cui aggiungere Bowersock (1969), spec. 45–50, 60–62, 78–88, Behr (1968), Nicosia (1979), Pernot (1989), Pernot (1993a), con numerosi riferimenti (per i quali si rinvia agli indici), Moreschini

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La produzione di Elio Aristide si dipana principalmente sotto Antonino Pio e poi Marco Aurelio. La sua vasta produzione superstite – il corpus comprende 53 opere, quasi tutte autentiche – ha ricevuto un interesse crescente negli ultimi anni, ma un gran numero dei suoi discorsi resta decisamente poco esplorato.2 Si può anzi affermare che la maggioranza degli studi continui a confluire sul gruppo di orazioni più celebri e forse più singolari, i Discorsi sacri (orr. 47–52), e in seconda battuta – ma a distanza – sull’orazione A Roma (or. 26), lasciando nell’ombra il resto.3 Ridotto oggi al rango di autore minore, Aristide fu un’autorità per ben oltre un millennio, a partire da poco dopo la sua morte e per tutta la tarda antichità – un suo grande estimatore fu Libanio –, fino alla caduta di Bi-

(1994), Cortés Copete (1995a), Bowie (1996). Si vedano, più recentemente, il sintetico ma aggiornato Oudot (2017) e i saggi raccolti in Harris, Holmes (2008) e Pernot, Abbamonte, Lamagna (2016). 2 Le edizioni di riferimento sono Keil (1898) per le orr. 17–53, e Lenz, Behr (1976– 1980) per le orr. 1–16. A questa numerazione, com’è ormai consuetudine, si fa riferimento nel presente lavoro (la numerazione delle orazioni adottata nel TLG segue invece la precedente edizione Dindorf [1829]). Un’edizione per la collana Les Belles Lettres è in programmazione con il coordinamento di Laurent Pernot. Quanto alle opere non autentiche contenute nel corpus, certamente spuria è solo l’or. 35 Εἰς βασιλέα, databile al III secolo: cf. Pernot (2004), 123–138; il Rhodiacus (or. 25) è stato ritenuto spurio da Keil (1898), 72, ma difeso come aristideo con buoni argomenti da Jones (1990) e Cortés Copete (1995b). Al di fuori del numero delle orazioni, è certamente spuria anche l’ars rhetorica che va sotto il suo nome, per la quale si rinvia all’edizione di Patillon (2002). Il corpus aristideo è stato tradotto integralmente solo da Wilhelm Canter (1566) in latino, da Behr (1981–1986) in inglese e infine da Gascó, Ramirez de Verger, Llera Fueyo, Cortés Copete (1987–1999) in castigliano. Queste ultime due traduzioni (soprattutto quella di Behr) risultano molto utili anche per le sia pur sintetiche note di commento, in particolar modo per quei discorsi che non sono stati oggetto di studi specifici (v. nota successiva). 3 Questo sbilanciamento è molto evidente negli studi di area anglosassone: nell’ultimo decennio sono state prodotte, in inglese, ben quattro monografie sui Discorsi sacri: Petsalis-Diomidis (2010), Downie (2013), Stephens (2013) e Israelowich (2016), senza contare i numerosi studi in merito di Georgia Petridou, come ad es. Petridou (2015). La tendenza è diversa in altre aree europee, dove sono state prodotte varie edizioni e traduzioni commentate di singoli discorsi o gruppi di discorsi; per citare solo i più recenti: Humbel (1994): or. 22; Pernot (2004): orr. 26 e 35; Berardi (2006): orr. 31–32; Fontanella (2007): or. 26; Vix (2010): orr. 31–34; Miletti (2011): or. 28; Goeken (2012): orr. 37–46; Robert (2012): frammenti di orazioni e opere perdute; Russell, Trapp, Nesselrath (2016): orr. 38, 39, 42 e 53. Le declamazioni fittizie (orr. 5–16) hanno ricevuto poca attenzione, con l’eccezione di Pernot (1981), con edizione critica e traduzione delle orr. 5–6. Il recente Pernot, Abbamonte, Lamagna (2016) si è posto l’obiettivo di incentivare lo studio di tutto il corpus, incluse le orazioni meno note.

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sanzio, come mostra il fatto che nei primissimi anni del Quattrocento Leonardo Bruni scrisse la Laudatio Florentinae urbis sul modello del Panatenaico di Aristide, che gli era noto grazie al suo dotto maestro bizantino Emanuele Crisolora.4 Le motivazioni di un tale successo hanno molto a che fare col tema di questo contributo, e vanno individuate nel fatto che le sue orazioni, anche grazie all’atticismo formale che le caratterizza, furono percepite come figlie legittime della migliore tradizione classica, e cioè come perfette emule della stagione aurea della letteratura greca, al punto da venire affiancate a quelle di Demostene e a superare quelle di Isocrate, ma allo stesso tempo anche come espressioni aggiornate dell’eloquenza greca, in grado di venire incontro alla sensibilità di un pubblico vasto ed eterogeneo, attraversato da istanze di rinnovamento religioso e ‘antropologico’, finanche di un pubblico cristiano.5 Ma quali sono questi aspetti innovativi che ne hanno garantito una lunga fortuna, interrottasi bruscamente solo quando, alla fine dell’Età Moderna, si cominciò a privilegiare la produzione letteraria greca classica? Ci limiteremo a esporre i due che hanno maggiore rilievo per il presente discorso. a) Aristide indirizza la propria produzione retorica in una direzione caratterizzata, diremmo, da un ‘monoteismo latente’: pur essendo fedelissimo agli dèi olimpi, com’è evidente dal corpus dei cosiddetti inni in prosa (orr. 37–46),6 egli vive un rapporto del tutto esclusivo con un dio salvifico in particolare, Asclepio, che egli definisce appunto σωτήρ, il quale gli si manifesta tramite i sogni.7 Nella biografia di Aristide l’avvicinamento ad Asclepio costituisce una svolta sia religiosa che terapeutica, imboccata in conseguenza del sofferto viaggio a Roma del 143–144, in seguito al quale il suo stato di salute malfermo lo aveva spinto a frequentare gli asklepieia della sua provincia, soprattutto quello monumentale di Pergamo, ristruttura-

4 Sulla prima penetrazione di Aristide nell’Umanesimo italiano grazie a Emanuele Crisolora e a Demetrio Cidone si rinvia a Caso (2016), con status quaestionis e bibliografia anche sull’episodio della Laudatio di Bruni. 5 Per l’ormai cospicua letteratura sulla fortuna di Aristide, dal tardoantico al Rinascimento, mi permetto di rinviare a Miletti (2017) e Miletti (2018) 59, nota 4, dove reperire ulteriore bibliografia, nonché a vari saggi inclusi nella già citata miscellanea Pernot, Abbamonte, Lamagna (2016). 6 Per questo gruppo di orazioni si dispone dell’ampia analisi di Goeken (2012), con traduzione e commento. 7 Aristide, com’è noto, recepisce e sviluppa la pratica tipica dei santuari di Asclepio che prevedeva che il dio, tramite l’incubazione notturna nel recinto sacro, comunicasse con i fedeli attraverso il sogno, offrendo prescrizioni terapeutiche. Sull’incubazione negli asklepieia cf. Petsalis-Diomidis (2010), 227–228 e soprattutto Renberg (2017), 113–270.

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to in età adrianea, presso il quale egli soggiornerà a lungo a partire dall’estate del 145. La prescrizione, tipica del culto di Asclepio, di narrare i progressi della terapia e i portenti del dio – ne sono testimonianza le sanationes, spesso incise su lapidi ed esposte nei santuari8 – spinge Aristide ad accentuare fortemente il carattere autobiografico della propria produzione. Il suo rapporto personale con Asclepio è citato ovunque, in qualsiasi contesto oratorio, persino nei più solenni, e la malattia da cui egli è afflitto è menzionata a sua volta quasi ovunque. Lungi dall’essere segno di nevrosi, come troppo a lungo si è pensato, la rappresentazione di sé che Aristide fornisce è funzionale al modello rinnovato di oratore, e dunque di oratoria, che egli ha l’ambizione di proporre. Parlare di se stesso è un atto richiesto dalla pratica terapeutica, e, poiché la comunicazione diretta col dio pone il retore in una condizione di assoluto privilegio rispetto a chiunque altro, questo parlare di sé finisce per essere un elogio di sé, che è allo stesso tempo un elogio della propria eloquenza e del dio che la propizia.9 In questa prospettiva, per il retore è necessario circostanziare la propria esperienza autobiografica, indicando tempi e luoghi degli episodi narrati. In particolare, la condizione di infermo è descritta dettagliatamente, proprio per la necessità di precisare dove e quando si sono verificate determinate manifestazioni della benevolenza divina. Del resto, si badi, per Aristide nulla è al di fuori di questa sua esperienza religiosa. Egli è anzi tramite del dio, vivendo una condizione elitaria di privilegio, della quale beneficiano anche le persone che gli sono vicine: tutto recede di fronte all’intervento salvifico di Asclepio, soprattutto recede il senso comune degli uomini.10 L’esperienza di ciò ha dunque elementi di paradossalità che portano il retore finanche a concepire il culto imperiale come subordinato a quello del dio.11

8 I testi epigrafici dei santuari di Asclepio sono raccolti in Edelstein, Edelstein (1945); Girone (1998). 9 Sul tema dell’elogio di sé in Aristide cf. Miletti (2011), dedicato all’or. 28, nella quale la necessità di elogiare se stessi, nel caso delle personalità eccellenti, è teorizzata da Aristide e sostenuta con molti esempi e argomenti. 10 Tra i vari esempi possibili si veda l’episodio in cui Aristide, grazie ad Asclepio, salva la nave su cui viaggiava e l’equipaggio da un sicuro naufragio (50, 32 – 36); o quello in cui, sempre confidando nel dio, ottiene che un gruppo armato che aveva occupato i suoi possedimenti fosse disperso e perseguito penalmente per intervento del governatore (50, 105 – 108). 11 In 47, 23 Aristide racconta di aver sognato di incontrare l’imperatore (verosimilmente Antonino Pio), di essersi rifiutato di baciarlo in quanto fedele del solo Asclepio, ottenendo il plauso dello stesso imperatore, che avrebbe commentato: «È certamente meglio venerare Asclepio più di chiunque altro» (καὶ μὴν θεραπεύειν γε

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b) Un secondo elemento che caratterizza l’oratoria aristidea è lo stretto e singolare dialogo che il retore stabilisce con Platone e con il platonismo della sua epoca.12 Come è evidente dalle orazioni 2–4 e da numerosi passi sparsi qua e là nella sua produzione, Aristide prende le distanze da alcune posizioni tipiche del platonismo – in primis la ‘condanna’ della retorica – pur mantenendo nei confronti di questo una posizione di rispetto e di ‘affinità di spirito’.13 Questa posizione di vicinanza-distanza appare motivata anche dal fatto che molti dei più eminenti interlocutori di Aristide, spesso frequentatori come lui degli asklepieia, sono dei platonici: persone influenti, della cui amicizia Aristide si fregia.14 Ma c’è ovviamente anche una motivazione più profonda, e risiede nel fatto che Aristide trova in molte pagine di Platone quel modello compositivo necessario per integrare il suo auctor principale, l’amato Demostene, che risulta di scarsa o nulla utilità quando si ha la necessità, come accade ad Aristide, di descrivere il rapporto col divino, o con la salute, o con il proprio corpo, o quando si vogliono intavolare garbate e meno garbate polemiche con scuole retoriche e filosofiche rivali.15 La presenza, esplicita o implicita, di Platone è decisamente pervasiva nelle opere di Aristide, il quale assume spesso una ‘posa’ socratica, così

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παντὸς κρείττων ὁ Ἀσκληπιός). Il notevole passo è discusso brevemente in Flinterman (2004), all’interno di un’analisi del rapporto di Aristide con gli imperatori. Mi sono soffermato più nel dettaglio su come il costante e approfondito dialogo con Platone sia stato tra i fattori che hanno garantito ad Aristide una certa fortuna nei secoli successivi in Miletti (2017), 14–19. Forse a causa della loro considerevole estensione e complessità, per i discorsi 2–4 si dispone, di fatto, solo delle traduzioni che figurano all’interno degli opera omnia (citate in nota 2; del tutto priva di valore scientifico la traduzione di Ferrante [1998] dell’or. 2). Non esistono commenti sistematici, che pure sarebbero tra i maggiori desiderata degli studi aristidei, in quanto i discorsi platonici costituiscono una testimonianza fondamentale per comprendere i rapporti tra scuole retoriche e platonismo nella prima età imperiale. A parziale bilanciamento di quanto osservato, non mancano studi specifici: Pernot (1993b); Berardi (2000); Flinterman (2000–2001); Milazzo (2002); Dittadi (2008); Miletti (2011), 53–55 e 206– 208; Dittadi (2016). Cf. il rapporto confidenziale, di cortese, anzi amichevole polemica, con il platonico Piralliano, anch’egli frequentatore del santuario, di cui si parla in 50, 55 – 56. Sui rapporti di Aristide con il platonismo della sua epoca, oltre agli studi citati nella nota precedente, cf. Nicosia (1979); Behr (1968), le introduzioni e i commenti di Behr (1981–1986) alle orr. 2–4; Moreschini (2007); Miletti (2017), 14–19. Quanto alla devozione per Demostene, nonché all’afflato emulativo che si realizza, da parte di Aristide, nel desiderio di voler figurare come un alter Demosthenes, cf. Pernot (2006), 91–92, 100–115, 129–175; Miletti (2011), 179–181; Miletti (2017), 19–21.

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come in vari passi dai toni più ‘mistici’ la presenza del Fedro è ben evidente, come vedremo anche fra breve. Messe dunque in evidenza, come premessa, queste due caratteristiche della produzione aristidea – rapporto con Asclepio e rapporto con Platone/con i Platonici – proseguiamo analizzando in che modo il retore utilizzi la rappresentazione dello spazio per modellare, per plasmare l’immagine della retorica rinnovata di cui egli si proclama interprete.

2. Lo spazio celebrato Non diversamente da altri sofisti della sua generazione, Aristide è spesso chiamato a elogiare l’evergetismo urbano e monumentale di governatori e imperatori. Della sua produzione superstite un cospicuo numero di opere è dedicato alla celebrazione, in occasioni molto diverse, di città. Molto significativo in tal senso è un gruppo di discorsi collegati all’evento drammatico del terremoto di Smirne del 178, discorsi che vanno dal compianto per la distruzione della città alla richiesta d’aiuto all’imperatore, fino alla celebrazione per la ricostruzione (orr. 17–21).16 Molto interessante è poi un lungo passo all’interno dell’or. 23 De concordia ad civitates Asiaticas, nel quale si descrivono e si elogiano le tre città più importanti della provincia d’Asia, e cioè Pergamo, Smirne ed Efeso.17 Non mancano discorsi su città frequentate in modo più episodico dal retore, come Rodi, Eleusi, Cizico o Corinto.18 Ancora, alcune sezioni dell’or. 1, il Panatenaico – una celebrazione di Atene che rivaleggia con l’omonima opera isocratea – contengono

16 Per comprendere l’importanza di questo gruppo di orazioni per la ricostruzione del rapporto tra oratoria e potere imperiale si rinvia ai numerosi riferimenti contenuti in Pernot (1993a), specialmente 295–299. Per la rappresentazione urbana di Smirne che si ricava da questi discorsi cf. Franco (2005). L’interessamento di Aristide per la ricostruzione della città e il suo ruolo di mediatore tra la comunità cittadina e l’imperatore Marco Aurelio per la richiesta di aiuti sono ricordati anche nel profilo biografico del retore offerto da Flavio Filostrato II 9, p. 582, 10–18. 17 Or. 23, capitoli 13–18 (Pergamo); 19–22 (Smirne); 23–25 (Efeso). 18 I discorsi 24 e 25 sono dedicati a Rodi, benché l’autenticità del secondo sia contestata (v. sopra, nota 1); il discorso 22 è una lamentazione per il saccheggio di Eleusi ad opera dei Costoboci nel 170 (cf. Humbel [1994]); il discorso 27 è una celebrazione della riedificazione del tempio di Zeus a Cizico, precedentemente danneggiato da un terremoto; riferimenti a Corinto nell’Istmico per Poseidone, or. 46, per il quale cf. Goeken (2012), 244–251, 583–625; Berardi (2013); Goeken (2017).

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elogi della monumentalità urbana.19 Roma stessa è oggetto di lode nel già citato Εἰς Ῥώμην, benché in un modo non privo di sottili omissioni e reticenze.20 L’elogio dei luoghi può adattarsi a oggetti di scala più ridotta, come nell’orazione dedicata alla celebrazione del nuovo acquedotto di Pergamo, o di scala addirittura minima, come nel caso del breve discorso per il pozzo sacro nel recinto del tempio di Asclepio.21 Aristide assolvette talmente bene a questo compito panegirico di città e luoghi vari da venire rapidamente considerato un modello da imitare per i retori delle generazioni successive. Nella coppia di manuali del cosiddetto Menandro Retore – scritti, verosimilmente da due autori diversi, alle soglie del tardoantico e dedicati alla retorica epidittica – gli autori post-classici indicati come da imitare sono pochi, e Aristide viene menzionato come modello per comporre l’elogio di alcuni soggetti specifici, e cioè – oltre che i defunti e gli dèi – le città, le isole e le penisole.22 Del resto, è lo stesso Aristide a vantare la propria capacità di nuovo ‘cantore’ degli spazi, il primo a celebrare degnamente un determinato soggetto, come nel caso dell’incipit dell’orazione dedicata al Mare Egeo: «Il mare,

19 Or. 1, soprattutto i cc. 351–356. Cf. Oudot (2016) per un’analisi recente, con bibliografia, di questo denso e importante discorso, di cui peraltro sopravvive una gran messe di scolii, per i quali bisogna ancora ricorrere alle edizioni di Frommel (1826) e Dindorf (1829). 20 Cf. Pernot (2004) e, più di recente, Pernot (2018), nei quali si sottolinea come l’elogio contenuto nell’or. 26 A Roma sia a tal punto inusuale da poter essere classificato come logos eschematismenos o oratio figurata, essendo privo di un considerevole numero di aspetti tipici degli elogi di città o di popoli e dando, per inverso, adito a qualche ambiguità, non ultimo il fatto che in tutta la lunga orazione il nome della città non figuri mai. Non sappiamo se il discorso che ci è stato tramandato corrisponda davvero a quello che Aristide pronunciò a Roma in gioventù, ma dal testo conservato si ha in effetti la sensazione che ci si trovi di fronte a un elogio piuttosto ‘tiepido’, limitato all’ammirazione per l’efficienza e la potenza di Roma, animato da una marcata polarizzazione ‘noi Greci / voi Romani’, privo di riferimenti a personalità della storia di Roma, alle sue origini mitiche, a episodi esemplari. Sincera sembra invece, nell’orazione, la gratitudine di Aristide per la pacificazione del Mediterraneo, della quale le élites provinciali a cui apparteneva il retore avevano ampiamente beneficiato: cf. in proposito Miletti (2020b). 21 Si tratta rispettivamente della frammentaria orazione 53, di cui si conserva solo l’incipit, e della or. 39, per entrambe le quali cf. sotto, in questo contributo. 22 Per questo manuale è fondamentale l’edizione, con ricca prefazione, di Russell, Wilson (1981); i passi in cui si menziona Aristide sono elencati e in parte discussi in Miletti (2018), 63–64.

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nessuno mai lo ha celebrato a dovere, né poeta né prosatore» (Πέλαγος δὲ οὐδείς πω διὰ τέλους ᾖσεν οὔτε ποιητὴς οὔτε λογογράφος).23

3. Lo spazio ‘discusso’: Il caso dell’Egizio Oltre all’abilità, riconosciutagli dalla manualistica antica, nel celebrare le città e in generale gli spazi ‘politici’, va segnalata l’attitudine aristidea – tra i lati meno esplorati della sua personalità – a discutere nel dettaglio le caratteristiche morfologiche di un dato territorio in prospettiva periegeticostoriografica. Un’opera in particolare testimonia questo approccio di Aristide alla descrizione dello spazio, e si tratta del corposo Egizio (or. 36), mirato a confutare le teorie all’epoca circolanti sulle cause della piena anomala del Nilo, all’interno del quale la minuziosa descrizione del paesaggio, frutto anche di indagine autoptica, si intreccia con continui riferimenti alla letteratura precedente, in primis all’Erodoto del logos egizio.24

4. Lo spazio sognato La minuziosa descrizione degli spazi che ritroviamo nei Discorsi sacri presenta invece caratteristiche del tutto differenti rispetto ai casi menzionati finora. I sei Discorsi sacri (ma il sesto è solo un piccolo frammento) sono un oggetto di difficile definizione: probabilmente concepiti, almeno in prima battuta, per testimoniare la grandezza di Asclepio davanti a un pubblico di fedeli, essi sono frutto di una raffinata elaborazione, sia narrativa che retorica, tale da renderli un unicum nella letteratura greca superstite.25 In questi discorsi sono registrati numerosi sogni di Aristide, attraverso i quali Asclepio entra in contatto con il suo devoto fedele. Il retore racconta infatti di ricevere in sogno visioni premonitrici di eventi futuri, oppure di sognare che il dio gli fornisce prescrizioni specifiche su come curarsi o su

23 Or. 44, 1. Su questa orazione e la sua fortuna cf. ora Milazzo (2018). 24 Su questa orazione cf. l’ancora inedita tesi di dottorato di Raïos (2011), che offre una nuova edizione e un commento. Sull’uso aristideo di Erodoto nell’Egizio cf. Miletti (2020a). Su alcuni aspetti delle conoscenze geografiche di Aristide desumibili da questo discorso cf. Miletti (2020b). 25 La bibliografia su questo gruppo di discorsi, come detto in precedenza, è ormai copiosissima, e la si può rintracciare grazie agli studi segnalati sopra, in nota 3. Per un primo approccio in lingua italiana si dispone dell’ottima traduzione di Nicosia (1984), con utili note, alla quale si farà spesso riferimento in questo studio.

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qualsiasi altra pratica quotidiana. Ora, molti di questi sogni presentano dettagliate indicazioni spazio-temporali, sia pur subordinate alla logica onirica. Nel primo Discorso sacro si trova un passo che può esemplificare bene quanto si è detto: Ἐνάτῃ δὲ ἐδόκουν ὡς ἐν Σμύρνῃ περὶ ἑσπέραν προσιέναι τῷ ἱερῷ τοῦ Ἀσκληπιοῦ τῷ ἐν τῷ γυμνασίῳ, προσιέναι δὲ μετὰ Ζήνωνος, καὶ εἶναι τὸν νεὼν μείζω τε καὶ ἐπειληφότα τῆς στοᾶς ὅσον ἐστὶ τὸ ἐστρωμένον. ἅμα δὲ καὶ ὡς περὶ προνάου τούτου διενοούμην. [...] περιεσκόπουν δὲ, ὡς ἐν τῷ προνάῳ δὴ τούτῳ, ἀνδριάντα ἐμαυτοῦ· καὶ τότε μέν γε ὡς ἐμαυτοῦ ὄντα ἑώρων, πάλιν δὲ ἐδόκει μοι εἶναι αὐτοῦ τοῦ Ἀσκληπιοῦ μέγας τις καὶ καλός. ταῦτα καὶ ὡς ὄναρ μοι φανθέντα αὖθις διηγεῖσθαι πρὸς αὐτὸν τὸν Ζήνωνα· καὶ ἐδόκει σφόδρα ἔντιμον τὸ τοῦ ἀνδριάντος εἶναι. αὖθις δὲ αὖ τὸν ἀνδριάντα ἑώρων, ὡς ἐν τῇ στοᾷ τῇ προμήκει τοῦ γυμνασίου.26 Com’è facile osservare, elementi concreti e deformazioni oniriche si alternano, benché queste deformazioni siano sempre funzionali alla celebrazione di Asclepio: il tempio è infatti quello che esiste nella realtà, ma è «più grande» e occupa maggiormente lo spazio della zona porticata (καὶ εἶναι τὸν νεὼν μείζω ecc.). Dalla descrizione del contesto si passa poi a quella dell’elemento semanticamente più rilevante: la statua, che rappresenta Aristide stesso (ἀνδριάντα ἐμαυτοῦ), e che però ‘trasfigura’ in una statua «grande e bella» del dio Asclepio, come a indicare una sostanziale identità tra i due – un segno interpretato esplicitamente come fausto (καὶ ἐδόκει σφόδρα ἔντιμον τὸ τοῦ ἀνδριάντος εἶναι). Come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, descrivere questi spazi collegati al culto di Asclepio è senza dubbio un omaggio al dio, nonché, come abbiamo appena visto, a se stesso. La presenza di sogni divini in relazione a specifici luoghi non è una caratteristica propria dei soli Discorsi sacri: anche un discorso dalle ambizioni più ufficiali, sia pure nella ‘declinazione’ non troppo formale dell’epistola pubblica, quale la già menzionata or. 53 per l’acqua di Pergamo, composta per celebrare la realizzazione di un nuovo acquedotto cittadino e purtrop-

26 Or. 47, 17: «Il nono giorno mi sembrava di recarmi a Smirne, di sera, al santuario di Asclepio vicino al ginnasio, in compagnia di Zenone, e il tempio fosse più grande, e occupasse tutta la parte lastricata del portico, e al tempo stesso era come se stessi riflettendo su questo pronao. [...] Poi era come se proprio in quel pronao osservassi una mia statua; ed ora la vedevo come mia, ora invece mi sembrava addirittura di Asclepio, una statua grande e bella. Queste cose mi pareva poi di raccontarle allo stesso Zenone come visioni avute in sogno, e la faccenda della statua ci sembrava un segno di grande onore. Poi era come se vedessi di nuovo la statua, questa volta nel portico lungo del ginnasio» (trad. Nicosia).

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po conservata mutila,27 si apre con una narrazione onirica. Rivolgendosi ai cittadini pergameni, Aristide afferma di aver sognato che la città si era ampliata e che nuovi monumenti si erano aggiunti al suo profilo urbano.28 Un sogno evidentemente fausto e premonitore, aggiunge Aristide, dal momento che due giorni dopo gli era arrivato un messaggio che gli annunciava la creazione del nuovo acquedotto: non resta dunque ai Pergameni che celebrare le Ninfe delle nuove acque, ma assieme a loro anche le Muse, che con le Ninfe sempre si accompagnano, come Apollo si accompagna a Hermes.29 Spazio sognato e spazio da celebrare coincidono, e il garante di ciò, colui che rende possibile questa identità, è naturalmente il dio Asclepio.

5. Il nuovo spazio celebrato: luoghi per una retorica rinnovata Nei resoconti di Aristide, dunque, i sogni inviati da Asclepio restituiscono una realtà ‘più vera del vero’, e ciò è osservabile anche per quanto concerne i luoghi descritti dal retore in relazione al nuovo statuto che la sua retorica, nata sotto il segno di Asclepio, intende darsi. Per comprendere bene questo fenomeno e seguire Aristide nella consapevole ‘localizzazione’ delle sue rinnovate attività retoriche, è possibile prendere avvio dall’episodio che, nel racconto autobiografico di Aristide, costituisce una sorta di investitura poetica, di ‘chiamata’ a una pratica declamatoria rinnovata, che si identifica allo stesso tempo con la prescrizione di una terapia. Come anticipato in precedenza, Aristide si avvicina al culto di Asclepio in seguito a un periodo di difficoltà fisiche e psichiche. Trasferitosi per un lungo soggiorno nel grande santuario di Pergamo, egli comincia man mano a entrare in contatto con Asclepio tramite il sogno. Il dio non si limita a elargire consigli sulle terapie da seguire, ma si spinge a dettare tempi e modalità dell’attività oratoria del suo protetto. Vi è anzi un episodio preciso che, nella rielaborazione a posteriori di Aristide, assume i connotati di un nuovo inizio, di una rinascita come retore. Questa seconda ‘prima volta’, propiziata dal dio, è descritta da Aristide molto dettagliatamente, in un passo che, sebbene sia tutt’altro che ignoto, mostra un intento a mio avviso

27 Il testo superstite coincide con la parte iniziale e occupa due sole pagine (cinque paragrafi) dell’edizione Keil (1898), 468–469. Una recente traduzione con alcune note in Russell, Trapp, Nesselrath (2016), 51–53. 28 53, 2. 29 53, 4. Sulla ‘equivalenza’ Muse=ninfe rinvio al saggio di Capra in questo volume, in particolare alla nota 25.

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programmatico e ‘fondativo’, forse non ancora esplorato in tutti i suoi aspetti: 14. καθημένῳ δέ μοι ἤδη ἐν Περγάμῳ κατὰ τὴν κλῆσίν τε καὶ ἱκετείαν γίγνεται παρὰ τοῦ θεοῦ πρόσταγμα καὶ παράκλησις, μὴ προλιπεῖν τοὺς λόγους. 15. [...] καὶ τό γε σφόδρα πρῶτον ἀπάρξασθαί με ἐκέλευεν ἑαυτῷ προσελθόντα εἰς τὴν στοὰν τοῦ ἱεροῦ τὴν πρὸς τῷ θεάτρῳ τῶν αὐτοσχεδίων δὴ τούτων λόγων καὶ ἀγωνιστικῶν· καὶ συνέβη οὑτωσί. 16. θεωρία τις ἦν ἐν τῇ πόλει πάνυ λαμπρὰ, ἢ ταύρων θήρα μοι δοκεῖν, ἤ τι τοιοῦτον. οἵ τε οὖν ἐκ τοῦ ἱεροῦ καταδεδραμήκεσαν πάντες ἥ τε πόλις περὶ ταῦτα εἶχε. καταλελείμμεθα δὲ ἐν τῷ ἱερῷ τῶν γνωριμωτέρων θεραπευτῶν δύο, ἐγώ τε καὶ Νικαεὺς, ἀνὴρ τῶν ἐστρατηγηκότων Ῥωμαίοις, Σηδᾶτος ὄνομα, τὸ δ’ ἀρχαῖον Θεόφιλος. καθήμεθα οὖν ἐν Ὑγιείας, οὗ ὁ Τελεσφόρος, καὶ διεπυνθανόμεθα ἀλλήλων ὥσπερ εἰώθειμεν εἴ τι καινότερον εἴη παρηγγελκὼς ὁ θεός [...] 17. ἔφην οὖν ἐγὼ μὴ ἔχειν ὅ τι χρήσομαι, προστετάχθαι γάρ μοι ἴσα καὶ πέτεσθαι, μελέτην λόγων ἀναπνεῖν οὐ δυναμένῳ, καὶ ταύτην ἐνταυθοῖ· λέγων αὐτῷ τὴν στοὰν καὶ τὸ ὄναρ διηγοῦμαι. [...] 18. [...] καὶ λαλούντων ἡμῶν καὶ βουλευομένων ἐπεισέρχεται Βίβλος ἐκ τρίτων, θεραπευτὴς τῶν παλαιῶν καί τινα τρόπον πρόθυμος περὶ λόγους. οὗτος καὶ τὸ πρόβλημα ἦν ὁ προβαλών· καὶ ἦν γε τὸ πρόβλημα τοιόνδε· μέμνημαι γὰρ, ἅτε καὶ πρῶτον λαβών· Ἀλεξάνδρου, φησὶν, ἐν Ἰνδοῖς ὄντος συμβουλεύει Δημοσθένης ἐπιθέσθαι τοῖς πράγμασιν. εὐθὺς μὲν οὖν ἐδεξάμην τὴν φήμην τὸν Δημοσθένη τε αὖθις λέγοντα καὶ τοὺς λόγους ὄντας περὶ τῆς ἡγεμονίας.30

30 Or. 50, 14 – 18: «Ma quando ormai mi trovavo a Pergamo, supplice chiamato dal dio, ricevetti da lui l’ordine e la preghiera di non trascurare l’eloquenza. 15 [...] E come primo atto, il dio mi ordinava di recarmi nel portico del santuario, dalla parte vicina al teatro, e di offrire a lui le primizie di queste controversie oratorie improvvisate. 16. E così accadde. Si stava svolgendo in città un qualche imponente spettacolo, una caccia al toro nel circo, mi pare, o qualcosa del genere. Quelli del santuario vi erano accorsi in massa e tutta quanta la città era impegnata in quello spettacolo. Nel santuario eravamo rimasti soltanto due fra i devoti più in vista, io e un tale di Nicea, un ex pretore romano di nome Sedato, originariamente Teofilo. Ce ne stavamo dunque nel tempio di Igiea, dove c’è la statua di Telesforo, chiedendoci reciprocamente, come al solito, se per caso il dio avesse mandato qualche nuovo ordine. [...] Gli dissi dunque che mi trovavo in grande difficoltà, perché era come se mi fosse stato ordinato di volare: una esercitazione retorica, e per giunta qui – cioè nel portico –, a uno come me, incapace persino di respirare! E gli raccontai il sogno. [...] 18. [...] E mentre discutevamo e ci consultavamo, sopraggiunse – e fu il terzo – Bibulo, un cultore degli antichi autori, e piuttosto appassionato di retorica. Fu lui a proporre il tema, che era questo – me lo ricordo ancora perché fu il primo che ricevetti: Mentre Alessandro si trova in India,

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Asclepio ha dunque ordinato ad Aristide di non trascurare oltre la retorica (μὴ προλιπεῖν τοὺς λόγους), ma di recarsi in un luogo preciso del santuario, nel portico prospiciente al teatro, per declamare improvvisando. Le condizioni sono ideali, quel giorno, perché la massa dei fedeli è accorsa in città per assistere «a una tauromachia, o a un qualche spettacolo simile» (ἢ ταύρων θήρα μοι δοκεῖν, ἤ τι τοιοῦτον: la ‘sprezzatura’ di Aristide non gli consente di ricordare con precisione questo dettaglio). Il santuario è dunque insolitamente poco frequentato. Tra i γνώριμοι, ossia tra le persone di rango, sono solo in due: Aristide stesso e Teofilo di Nicea, ufficiale dell’esercito romano, che aveva acquisito il nome latino di Sedato. Quando costui gli chiede cosa gli avesse prescritto il dio, Aristide gli confida le proprie perplessità, ritenendosi incapace di compiere quanto ordinato, e cioè declamare lì, nel portico, come richiesto dal sogno. Via via, anche grazie all’incoraggiamento di Sedato e di un terzo notabile, Bibulo, appassionato di retorica, che gli consiglia anche di declamare un tema demostenico, Aristide prende coraggio e, anzi, accetta come un buon presagio il fatto che, tramite lui, Demostene tornasse a parlare (εὐθὺς μὲν οὖν ἐδεξάμην τὴν φήμην τὸν Δημοσθένη τε αὖθις λέγοντα). Il ‘ritorno’ di Aristide alla retorica, in quanto propiziato da Asclepio, non può che avvenire nel santuario più importante dell’Asia Minore, Pergamo, e per giunta in una condizione eccezionale, in una pace insolita, in grado di innescare quella sospensione temporale tipica delle investiture poetiche, dalla Teogonia di Esiodo alle Talisie di Teocrito; ma tipica anche e soprattutto di quell’opera – la cui influenza sui discorsi di Aristide è stata già anticipata in precedenza – nella quale il locus amoenus diventa luogo di fondazione di una ‘nuova’ eloquenza, e cioè il Fedro platonico. Con la cornice del Fedro, infatti, il passo appena citato di Aristide presenta varie affinità, in relazione sia al contesto idilliaco, sia al carattere elitario e ristretto dei partecipanti al dialogo (all’inizio sono solo in due, come in Platone, poi si aggrega Bibulo), sia, ovviamente, alla centralità della retorica, persino nel dettaglio dello sprone a declamare, che ricorda il fatto che, nel Fedro, i due interlocutori vincono a turno, incoraggiandosi, le reciproche e momentanee reticenze a leggere o a declamare i discorsi.31

Demostene consiglia di prendere in pugno la situazione. Lo accolsi subito come un buon auspicio: Demostene tornava a parlare, e il discorso verteva sull’egemonia» (trad. Nicosia). 31 Alla centralità del Fedro nella ricezione e nella rivisitazione ellenica del mito esiodeo dell’investitura poetica sono dedicate varie pagine dei contributi di Andrea Capra e Mario Regali nel presente volume, alle quali si rinvia, anche per ulteriore bibliografia. Vari episodi di riprese di dialoghi platonici in età imperiale sono ora

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Da quel giorno in poi, benché costretto a convivere con una condizione fisica non sempre ottimale, Aristide non cessa più di coltivare la propria devozione verso l’oratoria, divenuta tutt’uno con la venerazione di Asclepio. Il dio prescrive al retore, ad esempio, di declamare nei contesti e nei luoghi specificamente dedicati all’eloquenza, come nel caso di una kermesse oratoria nella sala del consiglio cittadino di Smirne: ἀλλὰ γὰρ θαυμαστὸν τοῦ θεοῦ τὸ διηνεκὲς, οἷον καὶ τὸ τῆς ὕστερον ἐν Σμύρνῃ γενομένης ἐπιδείξεως τῆς μεγάλης ἐκείνης. ἐκέλευε μὲν γὰρ παρελθεῖν εἰς τὸ βουλευτήριον, παρελθεῖν δὲ φαγόντα· καὶ ἐποίουν οὕτως.32 Lo spazio pubblico viene ‘invaso’ da Asclepio per tramite di Aristide e della sua eloquenza. Ma il dio spinge il retore anche a ‘colonizzare’ spazi di per sé alieni sia alle pratiche della retorica epidittica, sia, ancora di più, al culto di Asclepio, per sottometterli alla sua influenza. Dibattendo, ad esempio, una causa per evitare di sostenere alcune onerose liturgie, Aristide è costretto a parlare in un contesto che, in condizioni normali, lo avrebbe messo in grandi difficoltà, e cioè il tribunale cittadino; incoraggiato dal dio, invece, egli si profonde in un discorso talmente appassionato che la causa si trasforma in una declamazione: [...] καὶ σχῆμα ἐπιδείξεως μᾶλλον ἦν ἢ δίκης· ἥ τε γὰρ εὔνοια θαυμαστὴ καὶ τὸ πρὸς τοὺς λόγους ὡρμηκὸς ἐπεσήμαινον τότε καὶ χειρὶ καὶ φωνῇ, καὶ πάντ’ ἦν ὥσπερ ἐπὶ σχολῆς ἀκροωμένων.33

discussi in Hunter (2012), che dedica al Fedro il capitolo 4, alle pagine 151–184 (di Aristide si menzionano solo le orazioni 2–4, in parallelo agli scritti di Dionigi di Alicarnasso su Platone). Sulla ricezione del Fedro in età antonina cf. Trapp (1990); un brevissimo profilo dell’uso aristideo di Platone, con qualche riferimento al Fedro, all’interno di un saggio dedicato a Platone nella Seconda Sofistica, in Fowler (2018), 232–236, che però ignora del tutto la letteratura non anglosassone e limita il discorso alle sole or. 2–4. Si veda anche Delcomminette, Hoine, Gavray (2020), incentrato sulla ricezione del Fedro nei commentari filosofici. 32 Or. 51, 38: «Ma straordinaria è, veramente, la continuità dell’intervento divino; come quella volta, per esempio, in occasione di quella grande esibizione oratoria che ebbe luogo successivamente, sempre a Smirne. Mi disse dunque di presentarmi a parlare nella sala del Consiglio, e di farlo dopo aver mangiato» (trad. Nicosia). 33 Or. 50, 91: «[...] e il tutto aveva più l’aspetto di una esibizione oratoria che di un processo: straordinarie erano infatti le loro manifestazioni di simpatia, e con applausi e grida sottolineavano il loro entusiasmo per il mio discorso, e si comportavano in tutto come se stessero ascoltando per diletto» (trad. Nicosia).

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Un tribunale, contesto di per sé lontano dalla sfera d’influenza di Asclepio, diventa un luogo dove celebrare la forza del dio, naturalmente grazie all’eloquenza aristidea. La ‘asclepizzazione’ e dunque la ‘retoricizzazione’ di contesti inusuali prende le forme più diverse. Aristide racconta ad esempio di come egli, pur trovandosi infermo a letto, a casa sua, cominciasse a declamare alla presenza di amici e visitatori stando sdraiato al suo stesso capezzale di infermo: ἔτι δὲ οἷον πανήγυρις ἦν κατὰ τὴν οἰκίαν. οἱ γὰρ φίλοι τὰ πρῶτα τῶν τότε Ἑλλήνων ὄντες ἀπήντων ἀεὶ καὶ συνῆσάν μοι κατὰ τοὺς λόγους αὐτόθεν ἐκ κλίνης τοὺς ἀγῶνας ποιουμένῳ.34 La casa si trasforma in una πανήγυρις, e il retore è capace di sostenere un ἀγών direttamente ἐκ κλίνης. Sfera sacra dei santuari, sfera pubblica della vita civile (assemblee, processi), sfera privata della vita domestica: tutti contesti ‘occupati’ ugualmente dal dio attraverso le attività del suo devoto fedele. Almeno in linea di principio, dunque, non c’è un luogo deputato alla retorica più di altri, se tale è la volontà del dio. Ogni contesto, ogni spazio può diventare teatro di eloquenza. Naturalmente l’attività di Aristide continua a svolgersi nei consueti contesti dell’oratoria epidittica, ma la testimonianza dei Discorsi sacri, che riportano, per l’appunto, episodi fuori dagli schemi perché causati dall’intervento diretto del dio, mostra come la pratica di un’eloquenza coltivata sotto il segno di Asclepio abbia rivoluzionato e ridefinito gli spazi dell’eloquenza stessa. Se l’episodio analizzato in precedenza del ‘nuovo inizio’ di Aristide nel santuario di Pergamo, con la sua ricchezza di dettagli spaziali, ricreava un contesto ‘esiodeo-platonico’, definendo il luogo sacro del santuario come il nuovo ‘Elicona-Ilisso’ dell’eloquenza aristidea, gli esempi successivi hanno mostrato che è possibile anche il processo inverso: spazi ‘psicologicamente’ ostili come un tribunale o una camera da infermo diventano luoghi di un nuovo idillio, risultando trasformati nella loro percezione, fosse solo finché dura la performance. Questa rielaborazione degli spazi ‘classici’ che fanno da cornice simbolica alla nascita di nuovi generi letterari o alla loro profonda trasformazione, è dunque un tema importante per Aristide, al punto tale da intervenire an-

34 Or. 47, 64: «A casa mia era addirittura come se ci fosse una festa, perché gli amici – i primi fra i Greci di quell’epoca – venivano a trovarmi in continuazione e rimanevano con me per ascoltarmi mentre sostenevo gli agoni retorici dal letto direttamente» (trad. Nicosia).

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che in un passo in cui egli si prefigura il proprio destino dopo la morte e la memoria di sé presso i posteri. Anche qui, per definire il proprio anelito all’immortalità ottenuta con la fama, Aristide sceglie la descrizione di uno spazio estremamente dettagliato e al contempo onirico, in quanto suggeritogli da una visione notturna. Egli immagina di venire consacrato ufficialmente come il migliore oratore di sempre, nel tempio di Zeus Olimpio in Misia, nella regione dove egli è nato, e di spostarsi poi nel giardino sacro ad Asclepio di fronte alla casa dei suoi padri, dove può osservare il suo stesso monumento funebre, in prossimità dell’attiguo tempio del dio: 49. κεκηρυγμένου δὲ τούτου διαβῆναι εἰς Ἀσκληπιοῦ κῆπον, ὃς ἔστι μοι πρόσθεν τῆς οἰκίας τῆς πατρῴας. κἀνταῦθα εὑρεῖν ἐκ δεξιᾶς τοῦ νεὼ μνῆμα κοινὸν ἐμοῦ τε καὶ Ἀλεξάνδρου τοῦ Φιλίππου, διαφράγματι μέσῳ διειργόμενον· καὶ τὸν μὲν ἐν τῷ ἑτέρῳ κεῖσθαι, ἐν τῷ ἑτέρῳ δὲ αὐτὸς κείσεσθαι. ἐπιστὰς δὲ καὶ προκύψας ἀπολαύειν εὐωδίας θαυμαστῆς θυωμάτων, καὶ τούτων τὰ μὲν τῆς ἐκείνου θήκης εἶναι, τὰ δὲ ἐμοὶ προσαποκεῖσθαι. χαίρειν τε οὖν καὶ συμβάλλεσθαι ὡς ἄρα ἀμφότεροι τὸ ἄκρον λάχοιμεν, ὁ μὲν τῆς ἐν τοῖς ὅπλοις δυνάμεως, ἐγὼ δὲ τῆς ἐπὶ τοῖς λόγοις. καὶ προσέτι γε κἀκεῖνο εἰσελθεῖν με, ὅτι οὗτός τε ἐν Πέλλῃ γένοιτο, πρᾶγμα τοσοῦτον, ἐπ’ ἐμοί τε οἱ τῇδε φιλοτιμήσοιντο.35 Il sepolcro è affiancato a quello di Alessandro Magno, dal quale è separato solo da un διάφραγμα. Anzi, è un monumento comune, dal quale si sprigionano profumi soavi, nella quiete idilliaca del κῆπος di Asclepio: un vero e proprio locus amoenus, la cui giustificazione ideale risiede nel fatto che tanto Alessandro quanto il retore hanno raggiunto le più alte vette, uno dell’arte militare (ἐν τοῖς ὅπλοις), l’altro di quella retorica (ἐπὶ τοῖς λόγοις).

35 50, 49: «Dopo questa proclamazione passavo nel giardino di Asclepio, di fronte alla casa paterna, e lì, sulla destra del tempio, trovavo un monumento funebre dedicato in comune a me e ad Alessandro, il figlio di Filippo, diviso in due parti da un recinto: in uno giaceva lui, e nell’altra sarei stato sepolto io. Mi fermavo e, chino in avanti, mi deliziavo di un meraviglioso profumo di esalazioni aromatiche che in parte provenivano dalla sua tomba, in parte erano a me riservate. Ne ero perciò felice, e mi spiegavo la cosa nel senso che entrambi avevamo attinto il vertice, lui della potenza militare e io di quella oratoria; e facevo inoltre la considerazione che lui era divenuto la gloria di Pella, mentre di me sarebbero andati fieri gli abitanti di quel luogo» (trad Nicosia).

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6. Il platano di Asclepio La rappresentazione degli asklepieia come loca amoena è ancora più esplicita in una breve orazione ‘minore’ tutta dedicata alla celebrazione di un oggetto in sé ‘piccolo’, ossia il pozzo che si trovava nell’area sacra ad Asclepio a Pergamo. Com’è facile immaginare, il santuario pergameno in questo discorso è descritto come un luogo di bellezza, salute, pace e serenità: quasi ‘figura’ del dio all’interno del cui santuario esso è collocato, l’oggetto-pozzo riflette tutte le proprietà terapeutiche e salvifiche di Asclepio. Procedendo nella lettura, si percepisce chiaramente che l’elogio del manufatto funge ‘per metonimia’ da elogio di Asclepio. Un passo in particolare sembra improntato a una notevole allusività, così ben mascherata da essere finora sfuggita. Nel descrivere la provenienza dell’acqua del pozzo, Aristide scrive quanto segue: Ἐν καλλίστῳ μὲν δὴ τῆς οἰκουμένης οὕτως ἔστιν εἰπεῖν. ἔτι δ’ αὐτοῦ τοῦ ἱεροῦ ὅσος ὑπαίθριος χῶρος καὶ βάσιμος ἐν τῷ καλλίστῳ ἐστί· μέσον γὰρ ἐν μέσῳ ἵδρυται. τὸ δὲ ὕδωρ εἰ μὲν βούλει, ἀπὸ πλατάνου ῥεῖ, ὥσπερ γὰρ ἄλλο τι σύμβολον καὶ τοῦτο παραπέφυκεν, εἰ δὲ βούλει, τὸ ἔτι κάλλιόν τε καὶ ἱερώτερον, ἀπ’ αὐτῶν τῶν βάθρων ἐκρεῖ, ἐφ’ ὧν ὁ νεὼς ἕστηκεν. ὥστε παντί γε ταύτην τὴν δόξαν καὶ πίστιν ὑπεῖναι, ὅτι ἀπὸ ὑγιεινοῦ καὶ ὑγιείας χορηγοῦ χωρίου φέρεται, ἀπό γε τοῦ ἱεροῦ καὶ τῶν ποδῶν τοῦ σωτῆρος ὁρμώμενον· οὐ γὰρ ἄν τι ἐξ ὑγιεινοτέρων ἢ καθαρωτέρων τόπων ὕδωρ ῥυείη ἢ τοῦτο ἐκ τούτων ῥέον.36 Il pozzo è dunque al centro del centro, nel luogo più bello e più sacro: è, questa, una constatazione fisica, certo, ma anche e soprattutto un’affermazione ideale, come a voler significare che esso è la quintessenza della sacralità del dio. Il platano è senza ombra di dubbio un riferimento al Fedro

36 Or. 39, 6: «Si trova per così dire nel luogo più bello della terra abitata; anzi, nella parte più bella di tutta l’area del tempio accessibile all’aperto: si erge al centro del centro. La sua acqua, se vuoi, scorre da un platano, perché, come un ulteriore elemento simbolico, anche quest’albero è cresciuto lì vicino, oppure, se vuoi – e ciò è ancora più bello e più sacro – scaturisce dagli stessi penetrali su cui è fondato il tempio, in modo che chiunque si forma questa opinione e se ne fa persuaso, che l’acqua proviene da un luogo salutare e dispensatore di salute, scaturendo dal tempio e dai piedi del Salvatore: non c’è acqua che possa scorrere da un luogo più salubre e puro come quella che scorre di lì» (trad. a cura di chi scrive).

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platonico (229a; 230a-b),37 com’è stato puntualmente sottolineato,38 solo che la sua menzione non è semplicemente un elegante rinvio intertestuale a un locus amoenus, ma nasconde a mio avviso un preciso riferimento al platonismo e alla contiguità/distanza che ne connota il rapporto con Aristide. Proviamo ad analizzare il passo più da vicino. La sintassi della frase è strutturata in modo fortemente polarizzato: da un lato c’è la possibilità che l’acqua scorra dal platano lì vicino, dall’altra che provenga dalle fondamenta del tempio. Entrambi i membri del periodo sono però affiancati da un sorprendente «se vuoi», come se il dato non fosse oggettivo, ma dipendesse dall’interpretazione di chi osserva. Non solo, a ciascuna delle due opzioni è affiancata una breve parentetica: a proposito del platano – dunque di questa ‘figura’ del platonismo –, si dice che esso è come una sorta di ‘simbolo’ (σύμβολον), cresciuto lì vicino; a proposito dell’altra opzione, si dice senza mezze misure che essa è «la migliore e più sacra». Ciascuno – continua il retore – può a buon diritto credere (non c’è dunque oggettività, ma si parla di δόξα e πίστις) che l’acqua, scorrendo direttamente dal tempio, provenga da quanto di più puro e salubre si possa immaginare. Ora, alla luce di quanto già segnalato in precedenza sulla frequentazione del tempio di Pergamo da parte di notabili ‘platonici’ e del dialogo che Aristide intratteneva con costoro, non mi sembra impossibile leggere nella doppia ipotesi sull’origine dell’acqua una presa di distanza, come al solito rispettosa ma netta, nei confronti del platonismo. L’idea che l’acqua del pozzo, ossia la quintessenza del potere di Asclepio, ‘derivi’ dalla filosofia platonica (simbolicamente rappresentata dal platano) può certo essere gradita ad alcuni, ma per Aristide è assai preferibile pensare che l’acqua provenga direttamente dalle radici del tempio, dai ‘piedi’ del dio salvatore:

37 Sulla funzione simbolica del platano nel Fedro platonico e sulla cornice di questo dialogo cf. Capra (2014), e in particolare le pagine 16–20, con discussione dei passi di Temistio e Timone di Fliunte che testimoniano l’associazione tra platano e Fedro già nell’antichità: come vedremo, il passo in questione di Aristide andrà sommato a questi appena citati. Cf. anche i contributi di Capra e Regali nel presente volume, nonché la letteratura citata sopra, in nota 31. 38 Goeken (2012), 417, nota 19: « L’eau qui coule au pied d’un platane fait de l’emplacement du puits sacré un locus amoenus, qui rappelle le début du Phèdre de Platon ». Osservazioni simili anche in Russell, Trapp, Nesselrath (2016), 59 nota 68. Il riferimento simbolico al platano platonico dell’Ilisso era diventato un tale luogo comune che nell’incipit dell’Amatorius di Plutarco se ne stigmatizza l’abuso (749A-B). Ringrazio Giambattista D’Alessio e Mario Regali per avermi segnalato questo passo. Sul dialogo plutarcheo con Platone nell’Amatorius si veda Hunter (2012), 185–222.

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una prospettiva, questa, che sancisce l’autonomia di Asclepio da ogni scuola. Il passo mi sembra difficilmente comprensibile, in tutte le sue sfumature, al di fuori di questa quasi-allegoria che contrappone un asclepismo ‘puro’, abbracciato da Aristide, a uno ‘platonico’ espressione, forse, di altri frequentatori del tempio. Non si spiegherebbero, altrimenti, la reiterata presenza di εἰ βούλει e la frase con cui si ‘interpreta’ la presenza (in sé oggettiva) del platano come σύμβολον.

7. Conclusioni Consapevole di una tradizione che colloca la descrizione dei luoghi al centro di ogni riflessione metaletteraria in cui si pongono le fondamenta di nuovi generi o si propone un radicale rinnovamento di un genere già esistente, Aristide individua e descrive nuovi spazi, nuovi luoghi per le sue Muse rinnovate. Naturalmente, nella sua produzione c’è spazio anche per la Muse ‘tradizionali’, che vengono talvolta invocate direttamente, come nel caso dell’Inno a Zeus (or. 43), nel quale il fatto che si tratti di un discorso in prosa non impedisce affatto ad Aristide, memore del Fedro platonico, di rivolgersi a loro per aiutarlo e per sostenerlo.39 Ma è evidente che la loro presenza ‘convenzionale’ sia affiancata e sorpassata da un’altra e più profonda fonte di ispirazione e di ‘legittimazione’: Asclepio. La spinta che consente ad Aristide di proporre una retorica eccellente, che si distingue da quella dei più, gli è data infatti dal dio che lo ha indirizzato verso la guarigione o almeno verso il contenimento della sua malattia, salvandogli la vita in molte circostanze. Una retorica la cui investitura promana da Asclepio ha come conseguenza necessaria un ripensamento degli spazi della retorica stessa: i luoghi canonici dell’oratoria epidittica (teatri, sale, assemblee, feste religiose) vengono risemantizzati attraverso un richiamo frequente al dio, che viene menzionato pressoché sempre nei discorsi che compongono il corpus aristideo. Allo stesso tempo, luoghi che nulla avrebbero a che fare con la retorica vengono ‘colonizzati’ da questo nuovo modo di intendere l’eloquenza, che si tratti di luoghi ‘ameni’, come i santuari del dio, o di luoghi ostili, come i tribunali, la cui ‘negatività’ viene disinne-

39 Or. 43, 6. Cf. Goeken (2012) 509, che segnala giustamente il riferimento al Fedro, 237a 8–9. Anche nell’or. 28 (specialmente i capitoli 21 e 52–53) Aristide afferma di aver compiuto su spinta delle Muse la digressione autocelebrativa per la quale era stato criticato: cf Miletti (2011), ad loc.

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scata dall’ispirazione divina che consente ad Aristide di affrontare le difficoltà. In questo contesto spiccano quei passi in cui Aristide utilizza la descrizione dei luoghi in chiave, potremmo dire, simbolica, spesso attraverso il resoconto di esperienze oniriche, per sancire gerarchie di valori tra ciò che è compreso nella sfera del dio e ciò che non lo è, tra ciò che rappresenta una celebrazione del proprio ruolo di retore ispirato dal dio e ciò che resta sullo sfondo. Persino il platano dell’Ilisso, simbolo del locus amoenus platonicamente inteso, che può ben vantarsi di crescere vicino al cuore del santuario di Asclepio, deve recedere, sia pure in modo minimo, di fronte alla più ampia sfera sacrale del dio. La poetica cede il passo alla retorica, dunque, che di fatto la ingloba; l’Elicona cede il passo agli asklepieia, e le Muse ad Asclepio, un dio salvatore e guaritore. Una nuova sensibilità si fa strada, alle soglie del tardoantico.

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The Authors

Andrea Capra is Reader in Greek literature at Durham University. A former fellow of the Scuola Normale Superiore di Pisa, where he completed a four-year residential programme, he holds a PhD from the University of Milan, which resulted in his first monograph on Plato’s Protagoras. After defending his PhD dissertation, he spent a few months as an invited visiting scholar at the Cambridge Faculty of Classics, until he obtained a permanent position as a high school teacher. In 2005 he got an open-ended position at the University of Milan, where he worked until 2017, when he joined Durham University. He is a former residential fellow of the Harvard Center for Hellenic Studies (2011–2012), where he worked at his monograph on Plato’s poetics (Plato’s Four Muses, Cambridge MA 2014), and of the Princeton Seeger Center for Hellenic Studies (2017). Andrea’s area of scholarship is Greek literature and civilization, and his research interests include lyric poetry, Aristophanes, the Greek novel, and, above all, Plato’s dialogues. Based on his monograph on the subject (Donne al Parlamento, Roma 2010), Andrea translated Aristophanes’ Assemblywomen for the theatre festival of Syracuse. Dino De Sanctis is Researcher in Classical Philology at Università degli Studi della Tuscia in Viterbo (DISUCOM). He specialized in Herculaneum papyrology at C.I.S.S.P.E. (Naples) since 2004. From 2014 to 2017 he was a research fellow in the FIR project Per un lessico digitale del comico at the University of Pisa. His research mainly concentrates on Archaic epic, Herculaneum papyrology and Hellenistic production. He published many articles in journals like «Studi Classici e Orientali», «Athenaeum», «Cronache Ercolanesi», «Prometheus», and with Emidio Spinelli, Mauro Tulli, and Francesco Verde he edited the volume Questioni epicuree (Sankt Augustin: Academia Verlag 2015). His monograph Il canto e la tela. Le voci di Elena in Omero (Pisa-Roma: Serra 2018) proposes an analysis about the character as a narrator in Homer. In this period Dino De Sanctis is planning a new edi-

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The Authors

tion – with a commentary – of Philodemus’s Academicorum Historia (PHerc. 1021/ PHerc. 164). Serena Cannavale is Researcher in Classical Philology at the University of Naples Federico II. She got a PhD in Classical, Christian, Medieval-humanistic, Greek and Latin Philology at University of Naples Federico II, with a research project on Callimachus' sepulchral epigrams and then a threeyears Post-doc scholarship in Classical Philology at the Department of Literature and Cultural Heritage at the University of Campania L. Vanvitelli. Since 2007, she is a member of the Editorial Board of the journal «Atene e Roma»; since 2017, she is editor-in-chief of the same journal. She held seminars and lectures in national and international conferences and published several papers and essays in peer-reviewed journals on her research interests: Callimachus’ epigrams, on which she is currently preparing a monograph; history of Callimachean studies; theatrical life of Ancient Capua and related antiquarian studies (on this subject, she published the book Civiltà del teatro e dello spettacolo nell’antica Capua, Naples 2015). Emilia Cucinotta, Ph.D. in Greek and Latin Philology (2013), University of Florence, is an independent researcher based in Pisa. Her main research interests are ancient literary criticism, Plato’s dialogues, and Greek drama. She has published work on Choerilus of Samos in «Studi Classici e Orientali», and on Plato’s Menexenus in an edited collection for «Brill». She is the author of the monograph Produzione poetica e storia nella prassi e nella teoria greca di età classica (Florence University Press 2014) on the use of history as a literary subject from Aeschylus’ Persae to Aristotle’s Poetics. Casper C. de Jonge is Associate Professor of Greek language and literature at Leiden University (The Netherlands). His research concentrates on ancient rhetoric, literary criticism, and Greek literature in the Roman world. He received funding from the Netherlands Organization of Scientific Research (NWO) for research projects on The Sublime in Context (2010–2013) and Greek Literary Criticism and Latin Literature (2014–2019). His monograph Between Grammar and Rhetoric: Dionysius of Halicarnassus on Language, Linguistics and Literature was published in 2008 (Leiden: Brill). He published many articles in journals like «Classical Philology», «American Journal of Philology», «Mnemosyne», «Style», and «Classical Quarterly». With Piet Gerbrandy he published a Dutch translation with introduction and annotations of Aristotle’s Poetics (Groningen: Historische Uitgeverij 2017).

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The Authors

With Richard Hunter he edited the volume Dionysius of Halicarnassus and Augustan Rome: Rhetoric, Criticism and Historiography (Cambridge University Press 2019). Casper de Jonge is a member of the editorial board of «Mnemosyne» (since 2019). Lorenzo Miletti is Associate Professor of Classical Philology and History of Classical Scholarship at the University of Naples Federico II. After obtaining his PhD from the University of Naples Federico II, he has been Research fellow at the CNR and at the University of Strasbourg, within the frame of a Chaire Gutenberg. From 2011 to 2016 he has been Research fellow in the ERC project HistAntArtSI, directed by Bianca de Divitiis. His main research interests are Greek rhetoric and historiography, and the reception of classical authors in the Renaissance. He dedicated several studies to Herodotus, Aristides, Euripides, Aristotle, the Greek rhetoricians, and to Humanism and Antiquarianism in southern Italy. He is author of a monograph on Herodotus’ conception of language (Pisa-Roma 2008) and a translated and commented edition of Aelius Aristides’ or. 28 (Pisa 2011). He published several articles in international journals and recently co-edited a volume on the humanist Ambrogio Leone (Leiden 2018, with B. de Divitiis and F. Lenzo), and a volume on the paratexts in the early modern printed editions of Greek and Latin classics (Pisa 2020, with. G. Abbamonte and M. Laureys). Mario Regali is Researcher in Greek Language and Literature at the University of Naples Federico II. From 2014 to 2016 he has been Research fellow in the FIR (Futuro in Ricerca) project on ancient comedy at the University of Bari. His main research interests are Plato’s reception of poetry and the dialogue form, Socrates’ characterization in Plato and Xenophon, and Epicurean texts. He also dedicated studies to Aeschylus, Euripides, Aristophanes and ancient Greek grammarians. He published several articles in journals like «Studi Classici e Orientali», «Studi Italiani di Filologia Classica», «Paideia». and in edited collections for «Academia Verlag», «De Gruyter», «Oxford University Press» and «Giardini». He is the author of a monograph on Plato’s Timaeus-Critias (Il poeta e il demiurgo: teoria e prassi della produzione letteraria nel Timeo e nel Crizia di Platone) published in 2012 in the International Plato Studies (Academia Verlag).

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Abstracts

Andrea Capra, La campagna greca e il codice delle Muse. Iniziazioni poetiche e generi letterari Muses are unique to Greek culture, something that arguably depends on the loss of writing after the fall of Mycenaean palaces. This drives a wedge between Greek and (otherwise very similar) Near-Eastern traditions of poetry. As ‘friends of the Muses’, Greek poets can grasp a distant past or access the separate world of the gods. Accordingly, they are often depicted as experiencing a metamorphosis set in the countryside, turning them into semi-divine figures. Similar stories of poetic initiation range from archaic epic to Greek lyric, philosophy, Hellenistic poetry and the Aesopic tradition. While a shared pattern is clearly at work, differences are highly significant and amount to an implicit code: on one hand, they signal the poet’s belonging to the tradition of inspired poetry; on the other, they highlight features that situate the poet within a more specific generic tradition. Within this framework, the paper advances a three-step argument: first, it explores the initiation of Hesiod and Archilochus, pointing to the specific features of epic and iambic poetry respectively; second, it shows how Posidippus, a devoted practitioner of such a quintessentially written and urban genre as epigram, came to appropriate and reverse the pattern; third, it compares archaic epic and the Plato’s Atlantic ‘epos’ to tentatively suggest that Greek epic positions itself against the backdrop of Near-Eastern traditions by self-consciously emphasising orality versus writing. Dino De Sanctis, Locus amoenus e verità poetica in Esiodo e Archiloco In my contribution I intend to investigate the locus amoenus that emerges in archaic poetry as a privileged and official space that the poet associates with the meeting with the Muses for the revelation of truth, the aletheia. In this sense, it is possible to observe a gradual departure from Homer who differs from his successors for the almost constant location of the Muses on Olympus. In the production of Hesiod and Archilochus, however, the locus amoenus, where the Muses arrive, is associated with the meeting with the poet who in the countryside identifies a place of distinction from most, the polloi. The return to the urban dimension, in this way, also coincides with

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Abstracts

the revelation of the poet as a new hero recognized and appreciated by his community. Emilia Cucinotta, Il prato degli Iniziati. La poetica della commedia nelle Rane di Aristofane The main purpose of this paper is to shed light on the literary function of the recurring reference to flowery meadows in the parodos of Aristophanes’ Frogs sung by the chorus of blessed souls of the initiated into the mysteries of comedy. Through a close examination of the metaliterary aspects of the poetic rite represented in the parodos-song, this study attempts to show that the meadow the initiated refer to as a setting for their dancing and singing not only alludes to the happier part of Hades destined for the initiated into comic poetry, metatheatrically the orchestra where the chorus perform, but also serves as a symbolic space alluding to the poetic locus amoenus where literary tradition, from Hesiod onwards, places the encounter of the poets with the Muses. Serena Cannavale, Paesaggi oltremondani nell’epigramma sepolcrale ellenistico The paper investigates Hades’ topography in Hellenistic sepulchral epigrams, showing the progressive increase in references to the afterlife. They can be divided into two categories: on the one hand, representations corresponding to a ‘chthonic’ vision of the Underworld; on the other, images reflecting a celestial eschatological perspective or foreseeing the reception of the deceased in exclusive places of afterlife happiness. After tracing a general picture, the paper analyses some selected examples by Callimachus, showing how they are representative of the evolution of the underworld’s representation in the context of the redefinition of the epigrammatic genre in the Hellenistic age. Mario Regali, Dalle cicale sull’Ilisso alla γραφή nel bosco delle Ninfe: la funzione del luogo per la poetica tra il Fedro di Platone e il Dafni e Cloe di Longo Sofista The setting of Plato’s Phaedrus among the river Ilyssus affects Socrates in many ways: in the first section, the Nymphs and Pan are held responsible for the unusual fluency he displays in two monologues; then, the cicadas and their song, another key element of the setting, play the role of the new Muses in the reenactment of the Dichterweihe, the traditional scene of poetic initiation, where Socrates and Phaedrus act as the poet. But the initiation is now into a new literary genre, namely the dialogue which derive its

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Abstracts

main feature from the cicadas’ διαλέγεσθαι; therefore Phaedrus’ locus amoenus becomes the setting for the foundation of the dialogue-form as a new literary genre. Plato’s Phaedrus receives enormous attention by many authors in the Antonine age. In particular, Longus introduces his novel with a brief ekphrasis of a painting from which the author derives the plot of the love between Daphnis and Chloe. The main novelty of Longus’ novel, the bucolic ambientation, and the renversement of many traditional patterns as the long separation of the lovers are introduced by an element of the setting, the painting in the Nymphs’ grove at Lesbus just like the cicadasmyth in Plato’s Phaedrus introduces the dialogue form. Casper C. de Jonge, Rewriting Rivers in Ancient Literary Criticism Rivers and river landscapes are remarkably prominent in ancient literary criticism. Analogies between water and writing (in different styles, registers, or genres) play an important role in the works of poets and critics from Callimachus to Longinus and beyond. Such analogies are also evoked in the rewriting exercises that we find in rhetorical treatises on style. Ancient critics rewrite given text passages from classical literature in order to bring out the quality of the original. In quite a few cases the classical sentence that is rewritten describes the course of a river. Demetrius rewrites a sentence from Thucydides on the course of the river Achelous and a sentence from Xenophon on the river Teleboas. Dionysius of Halicarnassus and Hermogenes of Tarsus rewrite a famous sentence from Herodotus that describes the course of the river Halys. This paper argues that ancient critics choose ‘river sentences’ for their rewriting exercises because the analogy between river and text greatly helps their students to think about style and to visualize various aspects of stylistic writing. The notion of appropriateness (τὸ πρέπον) is crucial. Lorenzo Miletti, Oltre le Muse. Lo spazio nella retorica rinnovata di Elio Aristide As is typical of many rhetoricians involved in public activities, Aelius Aristide (2nd century CE) dedicates several passages of his works to the description and above all the celebration of ‘places’, from the smaller ones like temples, to the larger ones like cities or territories. In several passages, however, the description of places acts in a more symbolic way, i.e. as the spatial contextualization of Aristides’ personal relationship with the healer god of whom he is a fervent devotee, Asclepius, and who is also the inspirer of his eloquence. Aristides thus aims to find new places for his new 205

Abstracts

‘Asclepian’ rhetoric, or to give new meaning to more ‘traditional’ rhetorical contexts. In the Sacred Tales (orr. 47–52) he describes the sanctuaries of Asclepius as the ideal place for performing declamations. In one passage (or. 50, 14–18), the asklepieion of Pergamon functions as the locus amoenus where a new poetical (read: rhetorical) investiture propitiated by Asclepius takes place, in a way which is reminiscent of Plato’s Phaedrus. The relationship with the Platonism of his times – a major theme in Aristides – is probably the key to understanding a quite allegorical passage (or. 39, 6), where the plane tree collocated in the sanctuary of Pergamon is described.

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Indice dei nomi

Abbamonte, G.: 178, 179

Angiò, F.: 55, 101, 112, 114

Acarnania: 166

Antonino Pio: 178

Acheloo: 16, 46, 129, 141, 159-164, 172-174

Apollo: 29-31, 47, 54, 128, 135, 156-158, 186

Acheronte: 14, 103-105, 109

Arata: 107-108

Acherusiade, palude: 105

Ares: 55, 103-105

Achille: 28, 33, 48, 65, 137

Arginuse: 70, 91

Acosta-Hughes, B.: 32, 114, 123

Arrighetti, G.: 23, 35, 48, 52, 61, 123

Ade: 46, 101, 103-104, 109-111, 113-114, 125

Asclepio: 11, 16-17, 177, 179-180, 182-186, 188-195

Adone: 106, 110, 115

Asclepio, tempio di (Pergamo): 16-17, 183, 185, 192-194

Agamennone: 48, 141 Agrianiani: 161-162

Asclepio, tempio e giardino di (Adriani in Misia): 191

Albiani, M.G.: 107

Asper, M.: 155

Alcinoo: 45-46

Assaël, J.: 21

Alessandro Magno: 187, 191

Assiro (fiume): 15, 156, 158

Aliatte: 167-168, 170, 172

Atene: 34, 61, 66-69, 89, 91, 121, 125-126, 129, 132, 155, 182

Alis (fiume): 159, 166-174 Aloni, A.: 24, 53 Alvares, J.: 125 Amfilochii: 160-162 Anatolia: 166, 171 Anco Marzio: 172-173 Andrisano, A.M.: 71 Anfidamante: 51

Ateniesi: 63, 127, 132, 135 Atlantide: 34, 69 Atthis: 107 Attica: 83, 102, 166 Auerbach, E.: 21 Aujac, G.: 167 Aulide: 51

207

Indice dei nomi Austin, C.: 31, 113

Bowie, A.M.: 73, 78

Bacco (v. anche Dioniso): 30

Bowie, E.L.: 122, 125, 143-145, 148, 178

Bachvarova, M.R.: 21 Bakola, E.: 81 Balio: 45 Barrigón, M.C.: 102, 107-108, 112 Bartsch, S.: 145 Bassani, G.: 41 Bastianini, G.: 112-113 Battisti, D.: 61 Bearzot, C.: 78 Behr, C.A.: 177-178, 181 Bellerofonte: 33, 138 Belloni, L.: 112 Benedetto, G.: 112-113 Benson, H.H.: 135 Beozia: 50 Bettenworth, A.: 101 Biles, Z.P.: 59, 62, 72-73, 75-76, 78-80, 85, 89

Braccini, T.: 105 Bremmer, J.N.: 89 Brillante, C.: 21, 24, 27 Brown, C.G.: 71, 75, 91 Brownson, C.L.: 164 Bruni, L.: 179 Budelmann, F.: 11 Burkert, W.: 12, 19-20, 111 Bussanich, J.: 133 Cairns, F.: 114-116 Caistro (fiume): 45 Calabrese de Feo, M.R.: 50 Calame, C.: 45 Calcide: 51 Callicoro, fonte/pozzo (Eleusi): 76, 94 Calliope: 137-139 Cambiano, G.: 123

Billault, A.: 29

Cameron, A.: 156-157

Boccaccio: 41

Campbell, D.A.: 72

Bonazzi, M.: 127, 137, 140

Candaule: 172

Borea: 126

Canter, W.: 178

Boulanger, A.: 177 Bouvier, D.: 50

Capra, A.: 15, 25.26, 28, 34, 42, 44, 122, 124, 128, 138-140, 186, 188, 193

Bowersock, G.W.: 177

Capuccino, C.: 42

208

Indice dei nomi Caronte: 14, 107-110

Cocito: 104-105

Carrara, L.: 60

Conca, F.: 105

Cary, E.: 172

Corinto: 182

Casey, E.: 104

Cortés Copete, J.M.: 178

Caso, D.: 179

Creso: 166-168, 170-172

Castelli, C.: 105

Crisolora, E.: 179

Cefiso: 10, 90

Crizia: 34

Centrone, B.: 127, 141

Cronide (v. anche Zeus): 49

Ceramico: 125

Csapo, E.: 131

Cerasuolo, S.: 109-110

Cucinotta, E.: 44, 126

Cerbo, E.: 71

Curtius, E.R.: 41

Cerri, G.: 102, 111

D’Alessio, G.B.: 113-114, 116, 131, 177, 193

Chaniotis, A.: 106 Cherefonte: 128

Daitz, S.G.: 71

Chiron, P.: 160

Dale, A.M.: 63, 74, 81, 84, 87, 89, 90, 94

Chronopoulos, S.: 89

Danek, G.: 122-123, 142

Ciclopi: 45-46

Dante: 41

Cinira: 110

Danubio: 157-158, 165-166, 174

Cinzio (v. anche Apollo): 30

Davies, M.: 130

Ciro: 166

Day, J.W.: 101

Cizico: 182

De Sanctis, D.: 43, 46, 48, 51, 54, 76, 122, 125

Clairmont, C.W.: 102 Clauss, J.J.: 29 Clay, D.: 24, 27, 31, 52, 142 Clayman, D.L.: 115 Clinton, K.: 71

Dearden, C.W.: 63, 65 Defradas, J.: 72 Del Corno, D.: 62, 71, 78, 83, 84, 88, 92 Delfi: 10, 25, 108

Cnido: 107

209

Indice dei nomi Demetra: 11, 70, 76, 78, 81-86, 88-89, 94, 157 Demetrio Cidone: 179 Denniston, J.D.: 131 Deucalione: 33 Di Benedetto, V.: 32, 87 Di Gregorio, G.: 50 Di Marco, M.: 144 Díaz De Cerio Díez, M.: 105

Eaco: 112-113 Ecalia: 47 Edelstein, E.J.: 180 Edelstein, L.: 180 Egeo (mare): 183 Egina: 78 Egitto: 34, 158 Eleusi: 71, 76, 85, 87, 89, 94, 113, 182

Dicearchia: 121

Elicona: 10, 13, 20, 22-23, 26, 30, 35-36, 48-51, 53-55, 155, 190

Dickie, M.W.: 112

Eliconie (v. anche Muse): 48-49, 52

Dillon, J.: 121

Elisio: 111-112

Dindorf, W.: 178, 183

Epidamno: 168

Dioniso (v. anche Bacco): 29, 59-73, 75-80, 86, 88-89, 91-92, 125, 131, 169

Epidauro: 78

Dittadi, A.: 181

Era: 45. 47, 126

Dobias-Lalou, C.: 108

Eracle: 59-60, 67, 70-72, 88, 91, 115

Dobrov, G.W.: 80

Erasinide: 91

Doherty, L.E.: 46

Erato: 28, 137

Dolopia: 161-162

Erebo: 102

Dolopi: 160

Eris: 137

Donadi, F.: 167

Erler, M.: 124, 140

Donini, P.: 85

Eros: 14, 123, 130, 133-135, 138, 142, 145-147

Dorion: 47, 50 Dover, K.J.: 59-61, 63, 65, 68, 70-71, 73-75, 78, 80-83, 85-88, 90-91, 93-95

Epimenide: 23, 27, 124-138

Etna: 155 Ettore: 54, 65

Downie, J.: 178

Eubea: 51

Dunbar, N.: 44

Euesperide: 107

210

Indice dei nomi Eufrate: 157, 174

Gallavotti, C.: 104

Europa: 145-147

Gallazzi, C.: 112-113

Eurybie: 137

Gargaro: 45

Eusino, mare: v. Ponto Eusino

Garulli, V.: 101, 110, 112

Fabiano, D.: 101-103, 105, 107, 111

Gascó, F.: 178

Fekete, M.: 41

Gauly, B.M.: 112

Fantuzzi, M.: 29, 113-114, 116, 128, 144-145,

Gelinne, M.:111

Faraone, C.A.: 85, 137 Farioli, M.: 65 Farmer, M.C.: 71 Feaci: 45 Febo (v. anche Apollo): 30 Ferrante, D.: 181 Ferrari, G.R.F.: 124, 133, 136, 138 Ferroni, L.: 126 Filippo, re di Macedonia: 191 Flinterman, J.-J.: 181 Fontanella, F.: 178 Ford, A.L.: 64, 67, 74, 123 Foster, M.: 11 Foucault, M.: 9 Fowler, R.C.: 121, 189

Gentili, B.: 53 Geoghegan, D.: 105 Georgoudi, S.: 103 Gerber, D.E.: 31 Giangrande, G.: 109 Gilgamesh: 21 Gilhuly, K.: 9 Girone, M.: 180 Giuliano, F.M.: 43 Goeken, J.: 178-179, 182, 193-194 Görgemanns, H.: 139 Gorgone: 71 Gow, A.S.F.: 29, 109, 114-116 Graf, F.: 71, 73, 83 Graziosi, B.: 47

Fraenkel, E.: 62-63, 65-66, 71, 84

Greci: 11, 14, 20, 35, 43, 48, 101, 122, 165, 183, 190

Franco, C.: 182

Grecia: 20-21, 36

Frommel, W.: 183

Greco, E.: 125

Gaiser, K.: 123

Grethlein, J.: 10, 69

211

Indice dei nomi Griffin, A.: 33

Hunt, P.: 70

Grilli, A.: 68 Griswold, C.L.: 139

Hunter, R.: 114, 121-123, 128, 142-144, 147-148, 155, 157-158, 165, 167, 189, 193

Gronewald, M.: 112

Igiea: 187

Grottanelli, C.: 23

Ilisso: 10, 14, 121, 125-126, 128-130, 132, 139, 143, 145, 146, 190, 193, 195

Grube, G.M.A.: 160 Gunther, M.: 76 Hackforth, R.: 127, 140 Haldane, J. A.: 83 Halliwell, S.: 20, 59, 63-64, 66-67, 75, 78, 80, 85, 89-90 Hanink, J.: 107 Harder, A.: 54 Harris, W.V.: 178 Hass, P.: 9, 126 Hattuša: 12 Haubold, J.: 12, 19-20, 32-33 Heath, M.: 135 Heirman, J.G.M.: 9, 45 Heitsch, E.: 127, 140 Henderson, J.: 72, 89, 91 Hermes: 186 Hoffmann, P.: 134 Holmes, B.: 178 Householder, F.W.: 121 Hubbard, T.K.: 65, 68, 80 Humbel, A.: 178, 182

Inferi: 41, 106 Innes, D.C.: 158, 160, 163-165 Ionico, golfo: 168 Ionio (mare): 159-160 Ippocrene: 49 Irigoin, J.: 43 Isole dei Beati: 14, 111-112 Israelowich, I.: 178 Itaca: 45-46 Jäkel, S.: 60 Jedrkiewicz, S.: 61 Jim, T. Suk Fong: 83 Jones, C.P.: 178 de Jong, I.J.F.: 10, 42, 69, 145, 155 de Jonge, C.C.: 157, 159, 167, 169, 171 Kahn, C.: 123 Kallikrates: 107 Kambylis, A.: 23, 28, 49 Kamtekar, R.: 128 Kania, R.: 11 Kassel, R.: 78

212

Indice dei nomi Keil, B.: 178, 186

Llera Fueyo, L.A.: 178

Kivilo, M.: 54

Lloyd-Jones, H.: 31, 71

Klooster, J.: 9, 31

Lorenz, B.: 104

Kontoleon, N.M.: 52

Lucarini, C.M.: 63

Kriter-Spiro, M.: 45

Luginbill, R.D.: 148

Kurke, L.: 11

Macé, A.: 126

Kwapisz, J.: 112

Macedonia: 31

Lamagna, M.: 178-179

Macleod, C.W.: 61

Lapini, W.: 54, 112

Männlein-Robert, I.: 138

Larson, J.: 28, 131

Maggi, L.: 83

Laurio: 166

Magnesia: 169

Lauriola, R.: 75

Manfredi, V.: 111

LeVen, P.A.: 131

Mar Nero (v. anche Ponto Eusino): 166

Ledbetter, G.M.: 42 van Leeuwen, J.: 83 Leimones (Λειμῶνες): 24-25, 52-54 Lelli, E.: 114 Lenz, A.: 47 Lenz, F.W.: 178 Lesbo: 125, 143-144, 146 Lesche degli Cnidi: 108 Lete: 14, 106-107 Letò: 30 Licambe: 25 Lidia: 86, 166 Lissides (Λισσίδες): 24-26, 52-54 Livrea, E.: 29, 114, 116

Marchiori, A.: 167 Marco Aurelio: 178, 182 Marginesu, G.: 91 Marini, N.: 160, 165 Marzi, M.: 105 Massimilla, G.: 54, 148, 177 Mastromarco, G.: 63, 68, 80 Mazzucchi, C.M.: 157 Mediterraneo: 19, 145, 183 Menelao: 45, 65 Meyer, D.: 115 Michaowski, P.: 21 Milazzo, A.M.: 181, 184

213

Indice dei nomi Miletti, L.: 121, 178-181, 183-184, 194 Minosse: 112 Miralles, C.: 53 Misia: 191 Mnemosine: 21

Nicosia, S.: 101, 103, 177, 181, 184-185, 188-191 Nicostrate: 112-113 Nightingale, A.W.: 133-134 Nilo: 157-159, 165-166, 174, 184

Montes Cala, J.G.: 29

Ninfe: 28, 124, 128-129, 131-132, 141-143, 146-148, 186

Moreschini, C.: 177, 181

Nünlist, R.: 43

Morgan, J.: 122, 143, 145, 147

Nussbaum, M.: 135

Moscadi, A.: 29

Oceano: 45, 105, 111, 155, 157-158

Most, G.: 20

Odisseo: 45-46

Mugione, E.: 107

Olimpie (v. Muse): 26, 49

Müller, D.: 126, 129

Olimpio (v. Zeus): 125, 191

Murley, C.: 29

Olimpo: 30, 46-48, 51, 55, 111

Murray, G.: 83

Olmeo: 49

Murray, P.: 22, 36, 126

Olson, S.D.: 60, 70, 89, 91

Musa / Muse: 11-15, 17, 19-36, 42-55, 62, 70, 75-78, 92, 94, 126, 128, 137-140, 142, 147-148, 186, 194-195

Ooms, S.: 167, 169

Mylonas, G.E.: 71

Orizia: 126-127

Nagy, G.: 26

Ornaghi, M.: 11, 25-26, 53

Nails, D.: 91

Oudot, E.: 178, 183

Nausicaa: 45

Paduano, G.: 68

Nemea: 91

Paflagonii: 167-170

Nereidi: 48

Page, D.L.: 109, 114-116, 130

Nesselrath, H.-G.: 178, 186, 193

Pan: 29, 32, 44, 124, 126, 128, 134, 147

Nestore: 47, 141

Pandora: 33

Newiger, H.-J.: 65

Panticapeo: 104, 110

Orfeo: 115

Parker, L.P.E.: 63, 74, 81, 83-89

214

Indice dei nomi Parker, R.: 73, 80, 87-89

Piplea: 30-31

Parnaso: 10, 30, 36

Pirifligetonte: 104-105

Paro: 13, 23, 26-27, 29-30, 52-53, 55

Pirra: 33

Partridge, J.: 133

Podarce (Arpia): 45

Patillon, M.: 171, 178

Polifemo: 46

Pattoni, M.P.: 122, 125, 143-144, 146-148

Polignoto: 108

Paul, S.: 83 Pausania di Tolemaide: 113

Politis, V.: 135 Poltera, O.: 49

Pearce, T.E.V.: 29, 138

Ponto Eusino (v. anche Mar Nero): 167-169

Pella: 12, 14, 29-31, 191

Porter, J.I.: 157-158, 160, 166

Pelucchi, M.: 115

Pòrtulas, J.: 53

Pender, E.: 130

Potidea: 111

Pergamo: 16-17, 179, 182-183, 185-188, 190, 192-193

Pozzi, S.: 31

Pergamo, acquedotto di: 183, 185-186 Permesso: 49 Pernot, L.: 177-179, 181-183 Persefone: 14, 103, 110 Persia: 166 Petridou, G.: 178 Petrovic, A.: 112-113 Petrovic, I.: 156 Petsalis-Diomidis, A.: 178-179 Pfeiffer, R.: 148 Pfohl, G.: 102, 104 Pickard-Cambridge, A.W.: 87 Pindo: 159-161, 163

Prandi, L.: 169 Provenza, A.: 78 Pucci, P.: 127 Puelma, M.: 29, 112 Purves, A.C.: 47 Radamanto: 31, 113 Radermacher, L.: 83, 89, 93-94 Radici Colace, P.: 44 Raïos, C.: 184 Ramirez de Verger, A.: 178 Rampichini, I.: 31 Rashed, M.: 134 Reale, G.: 127

215

Indice dei nomi Regali, M.: 26-28, 34, 42, 69, 123, 136, 140, 141, 177, 188, 193 Rehm, R.: 76 Reichel, M.: 69 Renberg, G.H.: 179 Rengakos, A.: 69 Reno: 157-158, 166, 174 Repath, I: 123, 142, 147 Revermann, M.: 64, 70 Richardson, N.J.: 78, 89 Riu, X.: 59, 78 Robert, F.: 178 Robin, L.: 127, 135 Rocconi, E.: 72 Rodi: 106, 182 Rogers, B.B.: 83, 94 Rohde, E.: 111 Roma: 19-20, 172-173, 177, 179, 183 Romani: 183 Romani, S.: 105 Romano Martín, S.: 47 Rorty, R.M.: 9 Rosen, R.M.: 79, 89 Rotstein, A.: 52, 64 Rowe, C.: 126, 128-129, 131-132, 135 Russell, D.A.: 121, 157, 178, 183, 186, 193 Rusten, J. S.: 89

216

Ryan, P.: 131, 133-134 Sacco, G.: 106 Santamaría Álvarez, M.A.: 71, 119 Scamandro: 33 Schenkeveld, D.M.: 160 Scherie: 45 Schleiermacher, F.: 140 Schmid, W.: 177 Schönbeck, G.: 9, 41 Scott, W.C.: 45 Segal, C.P.: 62, 73 Seidensticker, B.: 112-113 Sells, D.: 79 Shear, I.M.: 33 Sidone: 145, 147 Silk, M.S.: 61, 72 Sini, C.: 34-35 Sirene: 13, 46, 137-138 Sirii: 167-170 Smirne: 182, 185, 189 Smith, C.F.: 160 Solomos, A.: 72 Sommerstein, A.H.: 60, 61, 63, 65-66, 68, 70-71, 73-74, 78-81, 83-88, 91, 93-95 Sonnino, M.: 68, 91 Sourvinou-Inwood, C.: 102, 105, 107, 119

Indice dei nomi Sparta: 45

Tessaglia: 104

Spina, L.: 115

Tessier, A.: 84

Stahli, A.: 112-113

Thesleff, H.: 129

Stanford, W.B.: 74-76, 81-82, 85, 87, 92

Tierney, M.: 83

Stephens, J.: 178 Stephens, S.A.: 32, 156 Stige: 105 Storey, I.C.: 90

Titani: 137 Tolomeo VII Filopatore: 111 Torraca, L: 107. Totaro, P.: 63, 68, 80

Strato (città): 160-163

Trapp, M.: 121-122, 143, 178, 186, 189, 193

Strauss Clay, J.: 21, 47

Tribulato, O.: 102

Sullivan, F.A.: 107

Trittolemo: 112-113

Svenbro, J.: 32

Troia: 33, 45, 48, 51, 54

Szlezák, T.A.: 123, 135

Tsagalis, C.C.: 51, 103-104

Tamiri: 13, 47-48, 50

Tulli, M.: 32, 124, 138

Tammaro, V.: 80

Turchia: 33, 164, 166

Taplin, O.: 71

Urania: 137-139

Tarditi, G.: 52

Usener, H.K.: 140

Tartaglini, C.: 65

Usher, S.: 167

Tartaro: 112

Velardi, R.: 42, 127, 131-133

Taulanti: 168

Vix, J.-L.: 178

Tebe: 30, 74

de Vries, G.J.: 129

Teleboas (fiume): 159, 164-166, 174

Wagenwoort, H.: 60

Telemaco: 45

Wallisch, R.: 123, 142

Telesforo: 187

Wankel, H.: 78

Telesicle: 25, 52

Waser, O.: 111, 120

Tersicore: 137

Waterfield, R.: 167

217

Indice dei nomi Webb, R.: 145, 147

Wittgenstein, L.: 9

Weiss, N.: 11

Woodbury, L.: 64

Werner, D.S.: 138

Wooten, C.W.: 171

Wessels, A.: 112-113

Worman, N.: 9-10, 155, 161

West, M.: 12, 19-21

Wypustek, A.: 102

Whitman, C.H.: 70, 72

Xanto: 45

Wildberg, C.: 61

Yunis, H.: 127, 129-132, 134-136, 138, 142

Wilkinson, C.L.: 44 Willi, A.: 61, 69 Williams, F.A.: 29, 157 Wills, G.: 72 Wilson, N.G.: 73, 121, 183 Wilson, P.: 79 Winiarczyk, M.: 73 Witczak, K.T.: 116

218

Zanetto, G.: 105 Zefiro: 45 Zeus : 23, 33, 43, 46-49, 65, 108, 126, 182 Zeus Olimpio, tempio di (Atene): 125, 191 Zimmermann, B.: 72, 74, 87-89, 92-94, 148

Indice dei passi citati

Achilles Tatius – I 1, 2 - 2, 3: 145; I 2, 2, 4–5: 145; I 2, 3: 121; I 2, 3, 1–3, 1, 4: 145; I 4, 4: 121; I 9, 4: 121; V 13, 4: 121 Aeschylus – Sept. 860: 103 – Fragm. (Radt) 279-280a: 65 Anacreon – Fragm. (Page) 417, 7: 130 Anaxagoras – Fragm. (Diels-Kranz) 59 B 12: 131 Anthologia Palatina – V 53 (Dioscorides): 106; 85 (Asclepiades): 104; VII 25 (Simonides): 107; 30 (Antipater Sidonius): 104; 43 (Ion): 108; 61: 105; 67 (Leonidas): 109; 80 (Callimachus): 114; 182 (Meleager): 106; 199 (Tymnes): 106, 108; 203 (Simias): 104, 106; 211 (Tymnes): 106, 108; 232 (Antipater, sed Anyte in Anth. Plan.): 108; 241 (Antipater Sidonius): 108, 111, 123; 260 (Carphyllides): 112; 264, 2 (Leonidas): 106; 317 (Callimachus): 108-109; 365 (Zonas Sardianus): 109; 407 (Dioscorides): 112; 412 (Alcaeus Messenius): 106; 419 (Meleager): 112; 452, 2 (Leonidas): 106; 466 (Leonidas): 102, 108; 467 (Antipater Sidonius): 106; 471 (Callimachus): 115; 471, 3: 116; 471, 5: 116; 472bis (Callimachus): 106; 486 (Anyte): 105; 489 (Sappho): 103; 498 (Antipater Sidonius): 106-107; 507bis (Simonides): 103; 508 (Simonides): 103; 520 (Callimachus): 112-113; 520, 4: 113; 524 (Callima-

chus): 108, 114; 539, 2-4 (Perses): 106; 545 (Hegesippus): 102; 711 (Antipater Sidonius): 107; 716 (Dionysius Rhodius): 106; 726 (Leonidas): 105; 731, 5-6 (Leonidas): 109; 732 (Theodoridas): 105; XI 24 (Antipater Thessalonicensis): 49; XII 208 (Strato): 32; XII 257: 32 Anthologia Planudea – 31 (Speusippus): 105 Apuleius – Met. VI 29: 143 Archilochus – Fragm. (West) 1: 24, 55 Aristides, P. Aelius – 1, 351-356 Keil: 183 – 2, 52: 121 – 23, 13-18: 182; 19-22: 182; 23-25: 182 – 39: 17 – 39, 6: 192 – 44, 1: 184 – 47, 17: 185; 64: 190 – 50, 14-18: 16, 187; 49: 191; 91: 189 – 51, 38: 189 – 53, 2: 186; 4: 186 Aristophanes – Ach. 836-859: 90; 1153: 82 – Av. 244-249: 76; 282-286: 91; 737-752: 44; 788-789: 82; 876: 68; 1372-1409: 68 – Eccl. 1073: 109 – Eq. 536: 78; 1316-1334: 79; 1321: 79 – Nu. 263-274: 79 – Pax 775-781: 75; 796-817: 75

219

Indice dei passi citati –

R. 12-18: 75; 52-72: 59; 52-107: 59; 53-54: 59; 57-67: 67; 98-102: 60; 139-140: 70, 108; 143-150: 70; 154-158: 71; 158: 72; 186: 106; 190-193: 70; 209-220: 71; 269-270: 70; 271-273: 70; 273: 108; 285-308: 71; 301-311: 71; 304: 71; 312-315: 71; 315: 71-72; 316-317: 71; 318-319: 72; 318-320: 73; 321-322: 71-72, 88; 323-336: 73-74; 323-459: 61; 326-327: 93; 334-336: 93; 340-353: 73, 75; 354-358: 77; 354-371: 13, 77, 83; 356: 77; 359-366: 78; 362-364: 83; 363: 83; 367-368: 79; 369-370: 80; 370: 83; 370-371: 80-81, 92, 94; 372-382: 81; 372-413: 81; 376: 85; 377-382: 81; 382: 81; 383: 84; 383-384: 84; 385a-393: 84; 389-390: 85; 389-393: 86, 88; 394: 86; 395: 86; 394-397: 86; 398-399: 74; 398-413: 74, 86; 409-412b: 87; 412a-413: 88; 413: 88; 414a-b: 88; 416-430: 84, 90; 431-432: 90; 431-436: 72; 431-439: 92; 433: 92; 434-436: 92; 437-439: 92; 440-444: 86, 92; 440-459: 92; 445: 88; 448-459: 80; 470-471: 81; 674-737: 61; 686-687: 67; 686-705: 67; 718-737: 68; 720: 68; 727-733: 68; 738-813: 62; 755-758: 63; 758: 63; 759-760: 61; 759-778: 63; 779-780: 63, 67; 784-786: 63; 797-802: 65; 801-802: 65; 805-813: 63, 66; 814-829: 63, 65; 835: 63; 843-844: 63; 856-859: 63; 1006-1009: 67; 1006-1010: 64; 1078-1088: 64; 1099-1102: 64; 1109-1118: 64; 1119-1150: 65; 1119-1247: 64; 1248-1364: 65; 1300: 126; 1365-1367: 65; 1368-1369: 66; 1370-1377: 65; 1391-1396: 66; 1400: 60; 1411-1413: 59, 66; 1414-1416: 66; 1415: 61; 1415-1416: 61; 1417-1419: 67; 1420-1421: 67; 1420-1426: 67; 1423: 67; 1425: 67; 1427-1429: 67; 1427-1432: 67;

220

– – –

1431a-1432: 68; 1433-1434: 59, 67; 1435-1436: 68; 1435-1466: 68; 1437-1442: 68; 1439: 68; 1443-1444: 68; 1444-1445: 68; 1449-1450: 69; 1451: 69; 1454-1459: 69; 1461: 69; 1462: 69; 1463-1465: 69; 1467: 59, 69; 1468: 59; 1469-1470: 59; 1471-1478: 60; 1473: 69; 1479-1481: 61; 1482-1499: 61; 1483: 61; 1485: 61; 1486-1490: 61 Th. 295-311: 79; 1136-1147: 83 V. 248-272: 86; 1361-1363: 89 Fragm. (Kassel-Austin) 348: 75

Aristoteles – Po. 1453b10-14: 85 Bacchylides – Dithyr. 16, 8-12: 43 – Ep. 3, 71: 75 Bion Smyrnaeus – Ad. 51: 104 – Fragm. (Gow) 10, 10: 144 Callimachus – Aet. (Massimilla) fr. 1, 6: 54; fr. 174, 7: 148 – Ap. 105-113: 15, 156 – Ep. (Pfeiffer) 2: 114; 2, 3: 114; 2, 5: 114 – 4: 109 – 10: 113 – 13: 114; 13, 3: 116; 13, 5: 116; 13, 6: 116 – 23: 115 – Fragm. (Pfeiffer) 191, 35: 104 Carmina Epigraphica Graeca – 10: 111; 84: 102; 119: 104; 163: 102; 171: 102; 489: 103; 511: 103; 513: 103; 535: 111; 545: 112, 113; 548: 102; 558: 111; 563: 103; 575: 103; 591: 104; ; 592: 103; 593: 103; 597: 102; 680: 107; 737: 110; 737, 3: 105

Indice dei passi citati Castorio – SH 310: 32 Chariton – I 1, 1, 1-2: 145 Clemens Alexandrinus – Strom. 2, 19, 97: 121 Cratinus – Fragm. (Kassel-Austin) 151: 81 Demetrius – de eloc. 6: 164; 38-127: 160; 45-47: 160; 55: 121; 114-127: 165; 120: 165; 120-121: 165; 121: 158; 132: 155; 202: 163 Dio Chrysostomus – 1, 52-58: 121 – 436, 1, 39-49: 121 Diogenes Laertius – III 38: 140; VI 76: 110 Dionysius Halicarnassensis – AR II 44, 1: 172 – Comp. 4, 8-11: 16, 167 – Dem. 7: 121 Epimenides – Fragm. (Bernabé) 6 T: 124, 138 Eupolis – Fragm. (Kassel-Austin) 80: 91; 99, 1-22: 84, 90; 372: 60 Euripides – Alc. 25: 102; 253: 108 – Andr. 691-692: 65 – Ba. 57: 86; 64-67: 87 – HF 426-427: 104 – Hipp. 612: 60 – Ion 1074-1089: 76 – Or. 279: 71 – Rh. 97: 108 – Suppl. 531-534: 111 – Fragm. (Kannicht) 19: 60; 638: 60; 860: 104

Griechische Vers-Inschriften – 48: 112; 95: 102; 99: 103; 677: 112; 688: 106; 699: 103, 112; 750: 108; 760: 108, 112; 764: 112; 805: 112; 844: 107; 868: 106; 923: 107; 932: 104; 942: 104; 943: 103, 111; 945: 103; 946: 111; 1002: 112; 1052: 106; 1090: 107; 1107: 107; 1122: 108; 1128: 103, 112; 1129: 106; 1137: 102; 1150: 103; 1154: 112; 1179: 106; 1214: 106; 1254: 104; 1384, 1: 107; 1388: 102; 1505: 103; 1506: 104, 106; 1508: 106; 1529: 102; 1537: 102; 1538: 106; 1572: 112; 1585: 103, 106; 1637: 103; 1693: 111; 1694: 102, 106; 1717: 106; 1816: 106, 107; 1823: 106; 1829: 107; 1833: 104; 1912: 107; 1913: 103, 108; 1914: 104, 106; 1917: 102; 1918: 107; 1963: 102; 1988: 103; 1990: 111, 112 Hegesias – Fragm. (Jacoby) 142 F 18-20: 169 Hellanicus – Fragm. (Jacoby) 4 F 171: 70 Hermias – P. (Couvreur) 32, 1-3: 121; 61, 22 62, 9: 132; 213, 14-26: 138; 217, 9-21: 138 Hermogenes – Id. I 3, 12: 16, 171; II 4, 1-55: 146; II 4, 5-7: 121; II 4, 46-50: 121; II 4, 87-100: 121; II 4, 187-192: 121; II 4, 213-216: 121 Herodotus – I 6: 170; I 6, 1: 16, 167; I 75: 167; II 10: 159 Hesiodus – Op. 167-173: 111; 170-173: 111; 293-297: 51; 648-662: 13, 51; 656-659: 51 – Th. 1: 48; 2-4: 48-49; 7: 49; 22: 50; 22-23: 50; 22-35: 23, 124; 25: 49;

221

Indice dei passi citati



30: 50; 37: 49; 42-43: 49; 43: 138; 65: 138; 67: 138; 75-80: 137; 132-138: 137; 226-232: 137; 246: 28; 375-377: 137; 769-772: 138 Fragm. (Merkelbach-West) 27: 46

Homerus – Dem. 17: 103; 31: 103 – Il. I 601–604: 47; II 170: 108; II 361-362: 141; II 459-469: 45; II 484–487: 13, 47; II 584-600: 13, 47; VI 168: 33; VI 349-351: 54; VIII 305–306: 46; VIII 369: 105; XII 23: 33; XIV 346-351: 45; XIV 347-353: 126; XVI 150–151: 45; XVIII 192: 104; XVIII 569-571: 54; XIX 404-418: 28; XXII 52: 102; XXII 208-213: 65; XXIII 19: 102; XXIII 71-74: 105; XXIII 103: 102; XXIV 58-62: 48 – Od. II 390: 108; IV 605: 45; IV 737: 46; VI 291–295: 45; VII 112-132: 46; 132: 46; VIII 81–130: 46; IX 105–115: 45; X 513; X 539; XI 136: 102; XI 155: 108; XI 564: 102; XI 632: 109; XII 159: 13, 46; XXIV 13: 46; XXIV 247: 46; XXIV 338: 46 Ibycus – Fragm. (Davies) 286: 44; 286, 6-7: 130; 310: 130 Isidorus Hispalensis – Orig. XIV 18, 33: 41 Longinus – Subl. 13, 3: 155; 33-36: 158; 33, 2: 158; 33, 4: 155, 158; 33, 5: 155, 158; 34: 158; 35, 1: 158; 35, 4: 155, 157, 166 Longus Sophista – proem. 1-3: 143; 4: 147; I 1, 1-13: 147; I 1, 2 - 2, 3: 145; I 2, 2, 4-5: 145; I 2, 3, 1 - 3, 1, 4: 145; I 16: 146; I 25-26: 147; I 27: 147; II 12-29: 148

222

Lucianus – Anch. 16: 121 – Cont. 1, 50: 108; 2, 7: 108; 5, 7: 108 – Dom. 4: 121 – Navig. 35: 121 Lucretius – I 926-934: 43; IV 1-9: 43 Maximus Tyrius – Dial. 18, 7b: 121; – 21, 1a-c: 121; 8b-c: 121 Menander Rhetor – P. (Spengel) 337, 9-338, 2: 121 Mnesiepis inscriptio – E1 col. II (Kontoleon) ll. 22-24: 52; 22-38: 124; 25-30: 52; 36-37: 53; 42-52: 52; 47-57: 27 Moschus – 14, 1: 104 Pausanias – I 21, 2: 138; IX 23, 2-3: 138; X 28-31: 108 Philostratus Sophista – VA 7, 10, 2-11, 2: 121 – VS I praef. p. 481, 16-26: 177; II 9, p. 582, 10-18: 182 Pindarus – Ol. 2, 55-80: 111; 70-77: 111 – 6, 105: 43; – 9, 26: 126 – 13, 66-78: 138 – Paean. 6, 12: 54 – Pyth. 11, 21: 104 – Fragm. (Snell-Maehler) 129-130: 111 Plato – Ap. 21b 4-5: 128; 22e-23c: 127; 23a: 128; 31c-d: 132; 38a: 136 – Crat. 403a: 101; 404b: 101; 409b-c: 131

Indice dei passi citati – – – – – –

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Gorg. 493b: 101; 524a: 112; 524b: 111 Ion 534a7-b5: 13, 42; 534b: 126 Lg. 935c3-936a2: 64 Lys. 213c2-3: 134 Phd. 80d: 101; 81c: 101; 112e: 105 Phdr. 227a-b: 125; 229a: 193; 229a3-4: 126; 229b1-2: 126; 229b4-8: 126; 229c3-7: 126; 229d2-230a3: 127; 229e3-4: 136; 230ab: 193; 230b1-c4: 128; 230c5-d5: 129; 230d: 28, 126; 230d5-e1: 130; 234c4-5: 130; 237a4-5: 133; 237a8-9: 194; 237c1: 131; 237d6-9: 130; 237d8: 131; 238c1-4: 131; 238c2-4: 130; 238c5-d3: 130; 241c4-5: 131; 241d2-242a2: 131; 242b7-c5: 132; 242c-d: 130; 243a-b: 130; 243b4-7: 133; 243e6: 135; 245c-246a: 131; 246b1: 130; 247b1-248b5: 130; 247c-e: 133; 249b5-c1: 134; 249c4-d3: 134; 251a3 -252a1: 130; 253c-255a: 130; 254a4: 130; 257b: 134; 257b7-258d6: 135; 258d4-10: 135; 258e5-259e1: 14, 136; 259d5: 138; 259e7-260a4: 141; 260a5-7: 141; 261a3-4: 141; 262c6-d6: 141; 262d: 133; 263d5-7: 141; 265c2: 130; 265d-266b: 124; 265d1-266b2: 134; 266b4-5: 140; 266b5-7: 140; 271e3-4: 134; 273e: 134; 274c-278e: 130; 276d2-3: 142; 277d1-e1: 136; 278c1-d6: 136; 279b-c: 126; 279b8c5: 147 Resp. 517a-c: 133; 517b: 115; 607bd: 123; 614c: 112; 621a-c: 106 Soph. 216a-d: 140 Theaet. 176b1-2: 121; 149a: 127

Plutarchus – Amat. 748e-749b: 121, 147; 749a-b: 193 – De aud. poet. 17a: 65 Poetae Melici Graeci – 856: 81 – 871: 75

Posidippus – Ep. (Austin-Bastianini) 43: 14, 112 – 49: 108 – 52: 111-112 – 58: 112-113 – 60: 112-113 – 118: 29-32, 54, 112, 114; 118, 1: 54-55; 3: 54-55; 8: 54-55; 12: 54-55 – 122: 114 – 149: 110 Posidonius – Fragm. (Kidd) 24: 121; 31: 121; 290: 121 Scholia in Ar. Ra. – 378: 83 Scholia in Call. Aet. – Schol. Flor. 15-20: 54 Scholia in Hes. Th. – 23: 50 Supplementum Epigraphicum Graecum – 34.325: 112 – 34.497: 112 – 42.329: 104 – 55.1995: 106 Steinepigramme aus dem griechischen Osten – 01/01/07, 11-12: 107 Simonides – Fragm. (Poltera) 264a : 49 Sophocles – Ant. 804: 103; 811: 103; 812: 104; 1115-1152: 74; 1241: 102 – El. 138: 103 – Ph. 941: 59 – Fragm. (Radt) 668: 78 Stesichorus – Fragm. (Davies-Finglass) 91a, 2: 108 Strabo – IX 1, 24: 90

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Indice dei passi citati Theocritus – 1, 12: 28 – 4, 29: 28 – 5, 140: 28 – 7, 91-92: 28; 135-146: 128 – 12, 19: 104 – 15, 86: 104; 102: 104 – 17, 47: 104; 48-49: 109; 49: 108 Thucydides – I 22: 148; I 24, 1: 168; II 102, 2: 16, 160, 162; VII 28, 4: 78

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Vergilius – Aen. V 734: 41; VI 638: 41; 540-543: 112; VII 30: 41 Xenophon – An. IV 4, 3: 16, 164 – Hell. I 6, 24: 70; I 7, 2: 91 – Mem. I 6, 2: 126