I generi letterari e la loro origine 9788874626403


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I generi letterari e la loro origine
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Enzo Melandri

I generi letterari e la loro origine Prefazione di Giorgio Agamben

Q)lod libet

-t

Al di là dei generi letterari di Giorgio Agamben

l generiletterarie la loro origine è stato pubbli cato in «Lingua e stile », xv, 1980, ), pp. 391-43 1. La presente edizione ne riproduce fedelmente il testo. © 2014 Quodlib et srl Macerata, via Santa Maria della Porta, 43 www.quodlibet.it

Questo breve capolavoro, pubblicato dodici anni dopo La linea e il circolo(1968), offre un'occasione privilegiata per comprendere il funzionamento di quella cosa mirabile quanto enigmatica che era ed è se l'int elletto, come suggeriva Averroè, è in sé unico ed eterno - la mente che diciamo di Enzo Melandri. Come nel libro maggiore (usiamo qui il termine in senso esclusivamente quantitativo), anche qui una singolarità mortale ed effimera ha impresso sull'immortalità del pensiero - col quale, secondo il teorema averroista, si è momentaneamente congiunto o ha coabitato durante la sua fugace esistenza - un segno inconfondibile. La mente, in questo senso, non è il tito~ lare del pensiero, ma soltanto una su~.modalità, .essa non ha natura sostantivale, ma pìutt'osto avverbiale, come la lingua ha inteso perfettamente servendosi del termi ne «mente» per formare gli avverbi (dolce-mente; lieta-mente, severa-mente). Il lettore di La linea e il circoloriconoscerà, così, a prima vista quello specialissimo stile melandriano che si presenta come impervio per ragioni opposte a quelle che spingevano Benjamin a definire «spigoloso» lo sti-

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le di Heidegger: mentre questi enfatizza ogni volta le difficoltà come se temesse di urtarsi a degli spigoli, la sprezzatura di Melandri sembra dare per scontato ciò che smentisce ogni aspettativa e per evidente ciò che contraddice tutte le rappresentazioni comuni. Di qui le ambagi in cui rimane impigliato il lettore che deve ogni volta ricostruire per suo conto ciò che l'autore si limita a suggerire; di qui, anche, l'utilità di un viatico che, come questa avvertenza, intenda orientare il lettore nel labirinto in cui Melandri si è divertito .airretirlo. Innanzitutto l'argomento, apparentemente estraneo alla problematica filosofica: i generi letterari. Dopo le prime pagine, in cui Melandri fa sbrigativamente i conti con la famigerata liquid~zione crociana dei generi, l'argomento sembra inspiegabilmente messo da parte per lasciare il posto a questioni di filosofia prima, come quella, in ogni senso cruciale, del rapporto fra linguaggio e mondo. Uno sguardo più attento al titolo fornisce la soluzione del piccolo enigma: «I generi letterari e la loro origine» . È solo la seconda parte che Melandri ha inteso trattare: ·non quanti e che cosa siano i generi letterari e quali relazioni intrattengano fra di loro, ma perché vi sono dei generi letterari; non una questione, pur importante, di storia della letteratura, dunque, ma un problema genuinamente filosofico. Del resto Melandri non ha difficoltà a restituire a ·.Platone (a un Platone presocratico, incline alla medi: cina e alla retorica più che all'etica e alla geometria -

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p. 48) la prima identificazione di «tre generi di poesia e di racconto», uno puramente mimetico (la tragedia e la commedia), un secondo in cui è il poeta stesso a parlare·(il ditirambo e la lirica) e un terzo che è un misto dei primi due (l'epica) (p. 3I). Il carattere determinante re- . sta, però, secondo Melandri, la mimesi.s:malgrado l'ec cezione della lirica (che per Croce era invecè il paradigma dominante), il rapporto fra linguaggio poetico (per un greco dell'età classica, la forma originaria del linguaggio: l'epos omerico)e il mondo è essenzialmente imitativo. Riprendendo e generalizzando la tesi del suo maestro , Aristotele farà della mimesi il carattere definitorio della poesia e delle arti; ma alla mimesi egli sovrappone una «nuova teoria della conoscenza», che Melandri definisce «isomorfismo», fondata sulla corrispondenza f~a le parole, i concetti e le cose. L'allusione è qui, anche se Melandri non lo cita espressamente, al trattato Sull'interpretazione (Peri hermeneias), in cui Aristotele ha fondato la logica e l'ontologia occidentale legando insieme nel linguaggio i vocaboli (ta ente phone), le impressioni nell'anima (ta pathemata en te psyche) e le cose (pragmata ). «Si .,i.ratta» precisa Melandri «di una teoria strutturale, in ,cì/i non conta la differenza qualitativa del campo - psichico, linguistico, cosale - ma è rilevante solo ·1acorrispondenza tra i rispettivi "nodi"» (pp. 36-37). Decisivo è, cioè, che sia assicurato il nesso significante fra le.parole, i concetti e le cose, in modo che sia sempre possibile identificare l'ente che viene così conosciuto e significato attraverso il linguaggio.

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Sovrapponendo in questo modo alla lingua come facoltà essenzialmente mimetica (del resto Aristotele definisce i concetti omoiomatà, «similitudini» delle , cose) un paradigma logico-conoscitivo, Aristotele ha reso possibile la scienza, ma, insieme, ha condannato l'uomo parlante a un'aporia irriducibile. È questa aporia che diventa il tema essenziale del saggio. Essa occupa qui la stessa posizione centrale che ne La linea e il circolo spettava a quella frattura del linguaggio in nomi e discorso, semantica nominale e semantica proposizionale che Melandri chiama .«chiasma ontologico». Si tratta, se si vuole, di una nuova formulazione della stessa aporia. Come l'impossibilità di far coincidere o anche soltanto articolare insieme i due piani del linguaggio comprometteva, nel libro maggiore, la stessa relazione ontologica fra le parole è le cose, così l'impossibilità di conciliare mimesi e conoscenza, elemento pragmatico-mimetico e elemento logico-speculativo del linguaggio si traduce qui nella frattura fra esprimere e dire, cioè nell'impossibilità per il linguaggio di dire il proprio rapporto col mondo. «Resta il fatto che il linguaggio, attraverso l'anima, può dire di tutto ciò che esiste al mondo e in questo senso esprimereil mondo, però non può dire il suo rapporto con quel totale che pure , bene o.male, esprime» (p. 38). O, nella formulazione più pregnante del teorema che conclude il saggio: «il linguaggio esprime il mondo, ma non può dire il rapporto che ha col mondo» (p. 78). E come,

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nel chiasma ontologico , Melandri aveva trascritto un assioma centrale del Tractatusdi Wittgenstein («gli oggetti posso solo nominarli ... posso solo dirne, non dirli»), qui egli riformula la fondamentale dicotomia wittgensteiniana fra esprimere e dire: «Ciò che si esprime nel (in der) linguaggio, noi non possiamo esprimerlo attraverso di esso (durch sie)»(4.uI). Ma la radice dell'aporia è nella radicale eterogepeità fra l'elemento mimetico e l'elemento logico-condscitivo del linguaggio. Ciò che il linguaggio non può dire è la natura mimetica del suo rapporto col mondo, che corrisponde del resto, contro il primato del paradig ~ ma gnoseologico nella nostra cultura, al fatto che il rapporto tra uomo e natura è in ultima analisi «mimetico e tecnico» e non «conoscitivo » (p. 53). Abbiamo qui sorvolato sulle folgoranti letture di Platone _e Vico, di Benjamin e Hertz attraverso cui Melandri argomenta la sua tesi. Non può non sorprendere, tuttavia, che, dopo aver enunciato il suo teorema, egli concluda bruscamente il saggio senza tornare al problema del generi. La domanda sull'origine dei generi letterari annunciata dal-titolo sembra così restare inevasa. È probabile, però, che Melandri ritenesse che la risposta fosse implicitamente . contenuta nell'assunto conclusivo e che lasciasse.at'lettore il compito di esplicitarla. Cercheremo, pertanto, a nostro rischio e pericolo, di provarci a enunciare ciò che l'autore ha preferito lasciare non-detto.

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Hlinguaggio -

così recita, abbiamo visto, il teorema melandriano - può dire il mondo, ma non il suo rapporto col mondo. La relazione fra l'uomo e il mondo è, cioè, mediata dal linguaggio, ma in modo tale, che pro prio q1.1ellarelazione resta non dicibile né detta. Di qui il senso e la necessità dei generi letterari: essi esprimono, ciascuno a suo modo, l'impossibilità del linguaggio di venire a capo del suo rapporto col mondo. I generi letterari sono, cioè, il sigillo che l'esperienza dei propri limiti segna sul linguaggio: tragicamente (il pianto sull'impossibilità di dire), comicamente (l'impossibilità di clire come riso), elegiacamente (il lamento sulla parola), innicamente (la celebrazione del nome), liricamente (ilcanto: io non posso dire ciò che, parlando, vorrei dire), epicamente (la memoria delle azioni che si perdono al di là del pianto e del riso). Per questo la filosofia, che vuole venire a capo dei limiti del linguaggio, non può non confrontarsi con i generi letterari che ne segnano la soglia. Essa è la «musica suprema» (Phaed.,61 a) e quasi «la musa stessa» (Resp.,VI, 499 d), il genere dei generi che viene a capo della loro irriduc ibile partizione. E per questo il Simposiosi chiude con l'immagine di Socrate che, seduto fra Agatone e Aristofane, suggerisce a entrambi che la stessa persona deve saper comporre commedie e tragedie e che chi è poeta tragico è, per arte, anche comico.

I generi letterari e la loro origine

Quantunquecategoria del tutto storiC,a , l'origine non ha nulla in comune con la genesi. L'origine non comprendeil divenire di quanto è nato, ma piuttosto sottintende qualcosadi sorgivo nel suo cresceree appassire.L'originesta come un verti~ ce ne1 flusso del divenire e trascinacol ritmo suo proprio il materialegenetico. WalterBenjamin 1925.

o. È nota l'avversione di Croce per i «generi letterari» . La loro utilità pratica è nulla; quella critica, oltre che inutile, è forviante. Essi non sono predicati, né tant o men o categorie del giudizi o estetico. L'interdizione vale anche al di là della letterat ur a: la stessa divisione delle arti in poesia, musica, pittura, & c., concerne solo i materiali dell'espressione, le regole pratich e del loro uso, e quindi non ha che un valore «tecnico», nel senso basso e artigianale del termine. La polemica è motivata con due ragioni. La prima è l'esigenza di un'autonomia -del giudizio estetico, ciò che ne richiede un fond amento intuitivo, sebbene non per questo immediato o direttamente «di ·gusto».

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L'intuizione di cui si tratta non è infatti «empirica» ma «pura», tal che per distill.arne l'essenza deve per l'appunto soccorrere l'intero stabilimento dell' estetica, ove con ciò s'intenda la «scienia dell'espressione e linguistica generale». Questa terminologia ci è ormai estranea, più ancora che desueta; ma sì tratta di un far.o/ to lessicaleche di per sé non ha molta importanza. Una volta superato questo inconveniente, non è difficile condividere nel merito la motivazione di Croce; tanto più, ove si tenga in debito conto il contesto tardo-positivistico con cui egli polemizza : come dire, le tappe dell'evoluzione, gli stadi progressivi dell'umanità e in definitiva.la giustificazione funzionalistica di ogni sviluppo modologico, tra cui non per ultimo quello dei generi letterari. E più che giusto pare tuttora consentire al suo ammonimento, per cui cercare di fondare un'estetica «col raccogliere in classi i fatti estetici e indurne le leggi» sarebbe una speranza mal riposta. Non c'è qui difficoltà alcuna a esser d'accordo sul principio. Se c'è un'estetica, il suo criterio dev'essere autonomo sia nei confronti delle generalizzazioni empiriche, sia delle precettistiche, o imposizioni normative. Ora, pur consenténdo in ciò, i nostri investimenti a pro di una siffatta scienza si sono nel frattempo diradati ·per semplice effetto economico di «legge delle rese decreséenti». Di fatto, l'autonomia del giudizio estetico già'con Croce tendeva a restringersi, quasi per dispetto, sul frammento esemplare. Ma noi non sapremmo esser tanto autolesionisti, da salvar l'estetica anche a costo di riserbarle il dominio di una classe vuota.

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La prima ragione quindi va bene, ma sol perché in fondo è tautologica. La seconda è, all'incontro, ben più interessante; e questo perché è in ultima analisi arbitraria, opzionale e perciò discutibi le. A Croce doveva verosimilmente presentarsi come legata a doppio filo con la prima, mentre per noi il nesso·si è abbastanza assottigliato, per non dir proprio liso. E il motivo è che, a parte il suo esser fonte del giudizio estetico, l' «intuizione pura» si manifesta «sostanzialmente» sotto le specie di «espressione lirica». Dunque la seconda ragione privilegia direttamente il momento detto lirico in sede di espressione, ma che vale altresì quale origine dell'iptuizione, anch'essa detta lirica pur in funzione di primum movens; e quindi, al di là dell'intuizione già data come espressa, comunicata e compresa , il momento lirico si fa in terza istanza fondamento della critica estetica. Questa sua triplice stratifica zione (intui zione, espressione, giudizio) indurrebbe da sola a fare di un ' estetica liricizzante una gnoseologia per suo conto, o addirittura una particolare concezione del mondo. La situazione vien complicata piuttosto che chiarita se si parte da un tale postulato. Però Croce non si perita di affrontarla mettendo in corto circuito almeno due dei tre livelli col binomio «intuizione ed espressione », da ultimo collassante in imperscrutabili endiadi anche per parte del critico. Troviamo qui le nostre prime resistenze. Che sia fatica convertire un'intuizione in espressione generalmente intelligibile (s'intende, da parte del pubbli-

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co al quale intend iamo rivolgerci) è un fatto. Si considera ripagata la ·fatica quapdo uno, finalmente, ha l'impressione d'essersi fatto capire. Ma non si è mai compresi perfettamente; forse perché nessuno è così del tutto in chiaro con se stesso, da non lasciar àdito a delle ipotesi circa quel che avrebbe voluto o magMi anche, ben peggio, dovuto dire. Ora tutto questo sarà sì «empirico», ma non per ciò stesso così perentoriamente indegno di una qualche riflessione. Non vogliamo però entrare in merito. Rileveremo piuttosto come neppure in Croce l' a priori lirico sia univocamente dete .rminato, come invece richiesto dall'equivalenza di intuizione ed espressione, da un lato, e di tutto questo e la critica, dall'altro. La nozione stessa di «lirica» si basa su un equivoco, ed è questa equivocazione che ne rende indistinguibili a prima vista i diversi usi, i quali, per dirla in breve, si riassumono in due poli opposti : quello empirico e quello trascendentale. Per un verso, il genere lirico si caratterizza come tale per contrasto con il suo opposto, il genere epico più quello drammatico e varie altre còntaminazioni; e allora la stessa discriminabilità lo fa comprendere empiricamente. Ma per l'altro verso, esso riassume in sé gli altri generi in quanto forme difettive, o commiste a esigenze estranee aWestetica, come l'etica, la politica, o in generale l'intento didascalico; ma in tal caso non li riassume più come genere, giacché la sua stessa assolutezza lo rende senza contrasto in sede empirica, e così diventa un termine «trascendentale»: un attributo che si applica a tutto, anch e se

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non si può mai sapere a che cosa in particolare. Croce parte da quest'ultima accezione, quella generale o trascendentale. «La lirica non è effusione», egli dice; e su .questo understatement siamo tutti d'accordo . Ma poi passa di colpo dalla litote all'iperbole, pretendendo senza scampo alcuno, salvo la resa incondizionata, che la «lirica » sia «essa stessa oggettivazione, per la quale l'io vede se stesso in spettacolo e si narra e si drammatizza» . La conclusione diventa, come prevedibile, un massacro: dato che «questo spirito lirico forma la poesia dell'epos e del dramma », gli altri due generi non si distinguono dal primo, cioè dal lirico, «se non in cose estrinseche» (Croce 1928). In questo non ben controllabile gioco di equivalenze sghembe, a effetto, che fa della lirica il sinonimo obbligato, non però il reciproco, di poesia, si determina uri procedimento riduzionistico a senso unico. L'equivalenza intesa in senso generico, o trascendentale, rende comprensibile I' altrimenti stupefacente giudizio per cui il Macbeth o, ecceterando, l'Antonio e Cleopatra sarebbero «sostanzialmente • nient'altro che «una lirica in cui i personaggi e le scene rappresentano i vari toni e le consecutive strofe» (ibid.). - Ma forse che, diciamo noi, si potrebbe capire Shakespeare senza saper d'inglese, ·almeno quanto basta per seguire sul testo a fronte uno show dell'Old Vie?- No; qui la negazione di Croce sarebbe recisa. E la stessa credo sarebbe nel caso di un italiano che si fosse limitato a leggere il teatro di Pirandello (per citare uno dei teatri più «scritti») e pretendesse di capirlo senza la sia pur minima tradi-

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zione rappresentativa. Ma poi forse Croce soggiungerebbe che nemmeno la lirica ·di Salvatore di Giacomo si può intendere completamente senza l'ausi lio dello scenario partenopeo. - Con la regressione nel generico e/ o trascendentale, .che fa nostra adesione di J>rincipio rende legittima, la polem ica tenderebbe di pdr sé a stabilizzarsi in una inconcludente, defatigante guerra di posizione. Tuttavfa crescerebbe in noi l'antitesi, rafforzandone certe motivazioni fino a persuaderci a praticare una diversa strategia d'attacco. Anzitutto, l'esame del disegno di Croce. Se lo scopo era quello, comechessia, d'interdire il duplice nefasto influsso dei generi, sull'ispirazione poetica e sulla sua sistemazione critica, si pongono allora alcune non impertinenti domande . - Non sarebbe stato più semplice, nonché storicamente più comprensibile, pigliar le mosse da quella sorta di genere misto o di commistione, ariche se ben controllata, degli stili, che nelle varie forme del «comico serio» caratterizza, in contrasto con la lirica da Petrarca a Mallarmé, ·l'epos e le sue tante implicazioni drammatiche da Dante a Zola? (Auerbach 1946) -. Oppure, in termini più accessibili da parte di una scienza dell'espressione, o linguistica generale: perché mai l' «unilinguismo» petrarchesco, la musica dall'intonazione uniformata al lirico, dovrebbe di per sé prevalere, poeticamente e metaletterariamente, sul «plurilinguismo » dantesco dalle molte muse, tra cui eminenti la drammatica e l'epica? (Contini 1951). Nel suo saggio sulle origini del teatro tragico tedesco, Benjamin tra l'altro ci avverte (benché non solo

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en passant) che l'argomentazione di Croce - e forse con ciò ha di mira, ma a noi non importa, i suoi solidali d'oltralpe - presenta almeno due fallacie. Una è la mancata storicizzazione dei generi, ovvero il com puto della relativa inefficacia di ciò che si rimprovera loro, nel confronto coi tempi e le situazioni di cultura. Questo per noi italiani appare senz'altro ovvio, salvo doversi accorgere che non ne abbiamo colto fino in fondo certe implicazioni. La seconda invece sta in un penetrante appunto rivolto a chiunque voglia opporsi al genere, quasi questo fosse in rebus, e nel far ciò non s'accorgesse di quanto futile sia, partendo da siffatte premesse, cercar di cogliere l'individuale per mezzo di uno straordinario concorso di differenze specifiche mirate su di esso. È l'obiezione di «cattivo nominalismo». La quale vien rivolta, indipendentemente da Croce, a chi nemmeno sospetta come, per render intelligibile ]'individuale nella sua haecceitas(Scoto) e hoccitas(Leibniz), si richieda tutt'altro procedimento d'individuazione che la «dialettica dei distinti » o delle differenze: anche se tale, forse, da non esser stato fin qui ben definito. E questo mette in luce la radicale divergenza che si dà tra il giudizio classificatorio da un lato, non importa quanto tendent e al particolare .e specifico, piuttosto che all'universale e generico, e il giudizio individuale dall'altro, che invece si.avvale del «tipico» per pervenire all'individuazione del singolare (Benjamin 1928). Croce registra con soddisfazione il fatto che la critica letteraria del XIX secolo (e qui forse egli ha in ·

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mente Sainte-Beuve come esemplare) abbia dimesso del tutto ogni pregiudizio a favore dei generi. Anche qui però egli non sembra a~ertire la differenza tra l'impiego di una commistione di generi, che può celarne un sapiente uso sotto una sprezzatura d'indifferenza, e il definitivo superamento della questione, che ne eleverebbe a norma l'inespedienza estetica. In quest'ultimo caso, ma solo allora, il critico sarebbe in grado di attingere dall'intiJizione una capacità di discernimento più avanzata di quella dello stesso ar'tista di cui si dispone a esaminare le opere. La prevaricazione del critico sull'artista genera in quest'ultimo ,la tendenza a reagire con quel gioco d'anticipo che è la poetica d'avanguardia, creando con ciò delle situazioni indecidibili da parte della critica estetica. Tenendo in debito conto gli esiti aporetici imminenti a tale dinamica, anche senza far ,yaJere l'analogia con altre, già consumate contingenze storiche, sarà forse più agevole accedere alla nota tesi di Hegel circa la «fine dell'arte », che del resto era in qualche modo contenuta nella successione ciclica delle «tre età» di Vico. Alla luce crepuscolare di questa fine incombente non pare aver molto senso un salvataggio dell'estetica ottenuto a spese della distinzione in generi e delle forme stesse dell'arte, quando invece la mancanza d'isocronismo, ossia di vera contemporaneità nelle tappe dei vari decorsi, può suggerire altre ipotesi o diva" gazioni d'idee - per via d'incròcio dei generi, formazione di nuove commistioni, nonché nuove arti - tali da apparire un po' meno fatali e sopra tutto non così

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puntuali e sicure circa l'avvenire della tradiz ione culturale. Croce non diede peso alla profezia di Hegèl, né avrebbe accettato il suggerimento di approfondir meglio le possibilità riposte, nella perdurante contingenza della commistione degli stili. Ma ciò significa che, nell'assegnare all'estetica a lui contemporanea il compito di una «restaurazione e difesa della classicità contro il romanticismo»; termine, quest'ultimo, con cui comprendeva tutte le avanguardie a suo tempo datate, senza sospettarne la superfetazione, egli aveva da tempo ripudiato, non importa quanto inconfessatamente, ogni criterio storicistico dell'estetica. C'è poi il rifiuto di ogni distinzione tra le arti. Purtroppo Croce non ha voluto esporre la sua estetica a un 'confronto con opere non letterarie, anche se altri han creduto di poterlo fare ispirandosi ai suoi dettami. Tutto questo alimenta il sospetto di una sottintesa riduzione di tutte le arti a letteratura, data quell'equiparazione della poesia a lirica di cui resta sempre abbastanza improprio estendere l'analogia o le corrispondenze con le altre arti., E se ne scorge qualcosa di più che un indizio nell' infastidita dimissione del Laocoonte di Lessing, nel cui criterio di divisione delle arti secondo la rilevanza ,dell'elemento tempo, per cui poesia epica, dramma e musica stanno da una parte, mentre non solo pittura e arti figurative son dall'altra, ma altresì la poesia statica e descritti" va, Croce non coglie che l'aspetto esteriore senza avvertirne lo sviluppo in profondit à. La conclusione di Lessing, difatti, induce a un esito rovesciato rispetto

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alle premesse apparentemente classificatorie con cui egli aveva esordito: come dire _che, se non ci fosse stato Omero, ·non avremmo avuto· nemmeno una pittura . Dove par chiaro che cosa si debba intendere: che cioè infine neppur e la pittura è fatta d'istantanee, ma piuttosto di racconti pitturati che, per quanto brevi, richiedono al lettore una scansione nel tempo di qtianto in apparenza gli è dato di vedere simultaneamente. Chiaro che accettar questo avrebbe voluto dire compromettere irrimediabilmente la processione dei generi dalla lirica. D 'altra parte il rifiuto della temporalità dimostra come la lirica conservi in Croce un senso ancora manifestamente empirico, molto al di qua di quello trascendentale.

1. L'interdetta ·dei generi letterari e la «atempora lità» dell'estetica sono dunque in Croce due opzioni diverse ma concomitanti in unum, come s'è visto. Certamente egli avrebbe ammesso come più che legittimo il disegno di una storicizzazione dell'estetica, ivi compresa la questione dei generi. Del resto lo ha in parte, o in larga parte anche fatto, replicando con ciò a quei critici che rilevavano l'astoricità per princi pio della sua estetica. Si badi però all'equivocazione che ci siam presi la libertà di adottare e che riproduce consapevolmente quella presente nelle dotte polemiche d'un tempo. Ed è che il termine «estetica» divent a equivoco ove compaia, come spesso succede, in due diverse accezioni o meglio suppositiones:una empi-

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rica, per cui se ne può fare oggetto di studio, storico o d'altro genere, se_nzaminimamente compromettere in ciò il proprio credo estetico; e una trascendentale, propria di ogni soggetto che sia attualmente dedito a un qualche esercizio d'intuizione pura e che non si vede come si potrebbe inserire in una qualsiasi tessitura oggettivabile. Croce avrebbe volentieri storicizzato un qualsivoglia giudizio estetico già profferito, magari anche il suo stesso di soli dµe minuti prima; ma non avrebbe mai potuto concedere alla menoma , storicità l'ineliminabile trascendenza interiore del momento estetico. Dopo tutto, idealismo deve pur voler dire qualcosa. La tempo ralità è l'a priori della storia, e ogni storiografia ne è alla ricerca. Se qualcosa non è intrinse camente temporale, non ha senso volerne fare la storia. Che cosa vuol dire «intrinsecamente temporale»? Vuol dire che può esserci una storia dell'uomo ma non di Dio . (E non si dica, «se c'è»; perché, se non c'è, ciò vale a maggior ragione). Allo stesso modo, e per le medesime ragioni, si può dare una storia della fisica ma non del principio di conservazione dell'energia. Più sottilmente, è impossibil e perfino una storia del «flogisto• in sé o dell'acqua intesa come «origine» di tutte le cose. Diremo pertanto che qualcosa è temporale,e s'intende intrinsecamente, solo se contiene il tempo come vari,abileinterna e vincolata al suo stesso esserci. Viceversa, intenderemo come atemporaletutto ciò che intrattiene col tempo non più che una relazione esterna,nella quale il tempo stesso

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compare come variabilelibera e l'oggetto, non essendone modificato, s'impone quale sostanza. Dunque, riassumendo, non avrebbe molto senso far la storia di una qualsivoglia sostanza. (E infatti, non è che se ne incontrino molte in giro) . Non sembra quindi particolarmente ripugnante ammettere che il mondo sia fatto di ogg&ci storici e di oggetti astorici, sebbene questi ultimi in gran parte non esistano o debbano accontentarsi di una sorta di esistenza putativa e vicaria. Non è un grande inconveniente, se si tien conto del fatto che, altrimenti, dovremmo buttar via quasi tutta la ·cultura. Par molto meglio intendere la distinzione in senso relativo e non classificatorio, vale a dire come funzionalmente dipendente, da ultimo, dall'ordine di grandezza del tempo. Per Hegel le Alpi non erano che dei «grossi sassi»; e lo stesso direbbero «sostanzia lmente» ai giorni nostri uno sciatore, un ecologo o un ammiratore del paesaggio. Ma per un geologo esse sarebbero delle formazioni temporalmente «rece,;ti» e, nella scala, rapidamente transeunti. Ora, se i «generi» siano storicizzabili o no, ciò dipende - nel senso che si è detto - dalla loro intrinseca temporalità . Ed è questa specie di cognizione, anteriormente alla loro genesi, crescita e corruzione, che decide dell'esserci in essi non tanto qualcosa di genericamente storico, o di storicizzabile in un senso più specifico, quanto di un'essenziale rilevanza che, con l'essere, come si è detto, temporale o a «tempo pieno», riguarda da ultimo proprio noi, qui, ora. La questione

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alla quale ci riferiamo non ha carattere verbale o tautologico. Perché mentre il genere lirico, non importa s~ a torto piuttosto che a ragione, può apparire atemporale o meglio in una collocazione «estatica» rispetto al suo stesso divenire, che in tal modo risulta emarginato, tutti gli altri generi sono invece per iUoro stesso senso consustanziaci di tempo, da qualunque punto di vista li si voglia assumere, e ciò secondo una peculiarità degna di meditazione. Il tempo di cui si tratta non è infatti quello contestuale di un lor_o eventuale inserto in una dimensione storica, che potrebbe spiegarne ,_ la genesi, crescita e corruzione, non . però la ragione della loro originarietà; bensì è il tempo o meglio la temporalità che si manifesta alla «percezione interna» del loro esserci in una «durata pura» in cui è simultaneamente presente nella memoria ciò che per il suo stesso senso non può rappresentarsi come contemporaneo (Meinong 1899; Bergson 1889). Nella fattispecie tutto quindi dipende dalla processione dei generi. Se infatti si mette la lirica al primo posto, non solo questo genere ma anche i rimanenti e infine ogni cosa diventa senza distinzione eterna e contemporanea alla guisa dei quadri d'un museo o d'una esposizione. Mentre se si fa l'inverso diventa impossibile resistere ali' opzione contraria e non soccombere alla suggestione di Lessing, per la quale anche i quadri si ascoltano come episodi d'un racconto e· ogni percezione da ultimo è pregna d'un canto e d'un ritmo, com'è della memoria o del ricordo d'una cosa mai vista quale la Grande Porta a Kiev.

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La tenacia della memoria compensa più che a iosa la confusione del ricordo. Benjamin riconduce l'anamnesi dei generi alle idee di Platone, o meglio all'agnizione di essi per loro tramite. Posto che l'origine, I' Ursprungdei generi non coincida nel senso col loro Entstehen,.o genesi, nulla c'è da obiettare all'assunto per cui il significato originario non è <to si colga meglio agl'inizi che alla fine di uno sviluppo storico. Anzi, faparte della suggestione del modo di pensare di Benjamin riuscire a trarre da questi momenti estremi una ricomprensione in obliquo, Èv1tapèpyq,, del senso originario: e ciò pur non cedendo in nulla a quell'e stro patetico che un decadimento sempre inocula, regist rato in sede di consuntivo, a chi ne ricapitoli la stòria; e neppure indulgendo alla tentazione utopistica, propria del nichilismo più disperato e sprovveduto, .di prender da ciò gli auspici per un neo-rinascimento · da ekpyrosis,o per un risorgimento geneti~o e quindi daccapo storico oltre la sua stessa fine. Un momento sensibile nell'origine dei generi è offerto da Platone nella Repubblica, quando per un attimo egli ci appare non più così ossess ivamente dominato da Socrate nella tematica morale e non ancora disposto al compromesso con Aristotele nelle questioni di metodo e di teoria della conoscenza; quando cioè, dimesso ogni intento programmatico - giacché la Repubblica è tutt o fuorché un progetto di un qualche Stato-c ittà - egli compie il tentativo più scoperto di dare un senso definirò alla risorg ente anamnesi mitopoietica, prefifosòfica e orfica della

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dottrina delle idee. La dottrina delle idee sta dunque 1 all'origine dei generi; e la definizi one di questi, la fa- 'ì mosa tripartizione, è interamente platonica . Platone \ stesso poi darà altre divisioni o quanto meno diverse ! riqualificazioni in merito, sopra tutto -in rapporto _alJ mélos. Ma sia per tradizione, sia per certe ragioni in- '. trinseche , cui si è accennato, quel testo e quelle definizion i restano una volta per tutte fondam entali. «Ci sono tre specie di poesia e mitologia», egli dice. · E cioè «una che si dà interamente per imitazione», otà ' .µtµficreroç,ossia «la tragedia e la commedia»; «una se- ;-conda, quando avviene per esposizione del poeta in persona», ot' èmayye1i.i.açaùwu 1ou itotriwu, come , succede «specialmente nei ditirambi »; e _«infine una ' terz a, che è un misto delle altre due, ot' aµq,01Èprov, usata nella poesia epica e in molti altri generi misti» (Resp., III, 393 c sgg.). Dunque i generi puri , o immisti, della poesia sono due : il dramma e il ditirambo. Il terzo genere, l'epica, è misto, cioè parte drammatico J e parte lirico . Genealogicamente però l'epos vien pri- ~ ma degli altri due, e in questo senso esso è più arcaico · e cattolico. Partendo dall'epos, ma senza consumarlo nella divisione, la tripartizione si dà per semplice dicotomia; non per tricotomia . Il terzo genere è il fondamento della distinzione; non il suo Restbegriffo scarto residuale. Anche qui converrà tener presente che Piatone è l'inventore del procedimento dicotomico . La dicotomia divide l'universo di discorso, o ciò di cui si tratta, in due dassi complementari: una determinata in proprio, e l'altra non altrimenti definita che per sottra-

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zione della prima dal totale. Nel caso in questione si parte dall'epos e il proprio della dicotomia è il c;arattere determinante della µiµ11mço imitazione. Dunque la poesia si divide anzitutto in mimetica e non-mimetica. Ma la dicotomia non ha Ùn esito simmetrico: non è come tagliare in due una torta; essa somiglia, piuttosto, a un «taglio dedekindiano» molto sbilanciato. Infatti è difficile supporre che la classe complementare abbia a sua volta un proprium il quale consenta di riprodurre esattamente l'operazione inversa, come sarebbe, nel caso, dividere la poesia in lirica e non-lirica, per provare da ultimo la perfetta tenuta dell'equazione per cui non-lirica=mimetica. Per Platone l''i.6tov o carattere determinante è dato dalla mimesis: rispetto a cui quello contrastante della otirYrimç,o narrazione, , non è tuttavia ancora -del tutto complementare ; men~ tre quando l'esposizione, l'ànayyEÀia, si dà attraverso la poesia lirica e ditirambica, e il poeta parla in prima persona, la complementarità risulta sovradeterminata e quindi di nuovo imperfetta. Perciò la mimesis, dopo essersi assicurata in proprio il terreno drammatico, non ha alcun obbligo di rispettarne il limite da parte sua e quindi domina molto naturalmente anche il campo della narrativa epica. E questo spiega perché, secondo Platone, «Omero e gli altri poeti compongono la narrazione per mezzo dell'imitazione», otà µtµ17aEroç TI]V OllfYTJCltV 7tOlOUV~at (ibid.). Aristotele non fa che seguire fedelmente Platone nel confidare interamente alla mimesi le sorti della poietikè téchne, dell'arte poetica o della tecnica pro-

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dutti va in generale. «È un fatto che [le poiéseis, lè produzioni artistiche] siano tutte nel complesso imitazioni », néìam .~tl"fxavoumv oùaat µtj.l17cre1ç ~ò crovoì.:ov(Poet., 1, 1447 a). Se c'è una differenza rispetto a Platone, questa sta nel tono dell'asserzione . Ed è che Aristotele non tenta neppur e di spiegare perché l'arte poetica debba essere imitativa. Il pre5upposto viene assunto come ovvio o fatto passare per tale. Da questo punto di vista la mimesis non è quindi più un : genere .della poesia, bensì il suo stesso efdos o specie intelligibile; e il cui genus proximum sta nell'ac quisizione della téchne da parte dell'uomo, ossia del produrre, dell'agire e quindi del farsi egli stesso per mezzo di regole generali: i principi, per l'appu nto, della mimetikè poiesis. A questo punto, però, par quasi che la poiesis si risolva in téchne, dal punto di vista dell'intelligibilità; cioè che si fondi da ultimo sull'applicazion .e di regole o principi generali (Metaph., A, 1,981 a). Ora questo presuppone che si .dia per scontato, a favore, si capisce, della téchne, quel rapporto tra quest'ultima e l'empeiria che pure rton trova mai, né allora né dopo, un'univoca procedura di decisione o un criterio del tutto ra.zionale. O forse l' andlysis, la divisione che risale induttivamente ai principi, vale solo come tendenza eis dpeiron a trovare una soluzione razionale di tutti i problemi empirici? Questo spiegherebbe l'accanimento, il pundonor riposto nel voler garantire i fatti stessi, i prdgmata, riserbandoli a un 'ulteriorità della scienza: s6zein tà phain6mena . Ma, comunque 0

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sia, che ne è della mimesis? Che cosa è cambiato nel rapporto tra imitazione e poesia, tanto da spostarne il tema sulla questione tecnica? È per davvero così ovvio quel che significhi «imitazione»? Nell'incrocio tra Platone e Aristotele, o nell'intersezione di entrambi, si è dato in realtà un fatto nuovo. È la nascita di un'originale gnoseologia, che noi forse non sappiamo più apprezzare come merita senz'altro di esserlo, sol perché ci appare come lo sviluppo conseguente da certe premesse che per noi valgono quali presupposti di senso comune. Perché per noi, oggi, quella teoria della conoscenza appare da un lato fin troppo commonsensical per potersi considerare poi anche sul serio vera; meritre per altro verso i presupposti della sua generalizzabilità sembrarono gia a suo tempo tanto deboli nel significato, da lasciar che si insinuassero quali ovvi postulati di qualsiasi gnoseologia. Ci si dimentica qui fin troppo ·1 spesso dei fatto che, se le dottrine pre-aristoteliche ci fanno in merito un effetto estraniante, ciò non è dovuto a una qualche loro intrinseca improbabilità o arcaismo irrecuperabil e. Tale desuetudine, e il regresso graduale all'incomprensibile, son piuttosto la misura indiretta del successo della nuova gnoseologia sopra tutto in epoca tardo-antica · e medievale; giacché, a suo tempo, essa non attecchì che a stento e con molta circospezione, contrastata com'era da prestigiose dottrine rivali: in primo luogo, sotto l'aspet to teoretico, da quella del!' antica Stoà.

I GENERI LETTERARI E LA LORO ORIGINE 35 La «nuova» teoria della conoscenza sorge sul terreno dell'antica filosofia del linguaggio, a partire cioè dalla tanto dibattuta questione del!' ortoepia: vale a dire se gli épea, le parole, si dovessero considerare significative per natura, avEpciiv tà àq>av~ . mUO'El où yivffiO'Koum.E ciò non riguarda solo la natura, ma l'etica, la civiltà e perfino lo spirito. «Gli uomini stabilirono autonomamente una legge a sé medesimi, ma senza conoscere su che cosa di fatto la stabilissero »: v6µov yàp e0Eativ iiv0pomoi aùwì éroutoimv, où ytvroaKOVtEç1tEpi còve8Eaav. Essi esercitano, e magari con perizia, «tutte le arti, .essendo queste connaturate all'indole umana», téxvm 1téicrmT(ìàv8pW1tivu q>uaEiéitiicoivrovéoumv, ma senza saper · perché: où ytvffiO'KovtEç.Invece, della natura si può dir questo, . che solo gli dèi furon capaci di trarne un ordipe dota.; to di senso: ùmv ÒÈmiv'tEç 8Eoì ÒtEKÒaµ,iaav. Ma allora come sorge nell'uomo sia pur solo l'illu- •; sione dell'é1ticrtacr8m? La risposta, non la;sola possibile ma l'unica veramente inevitabile, è che se la comprensione di . alcunché da parte dell'uomo avviene inizialmente, nell'apprendimento, attraverso l'imita- : zione e cioè il «rinforzo » degli effetti così conseguiti 1 (cosa abbastanza difficile da negare); e se questa mi-' mesi sottintende una metessi o una sorta di partecipa < zione al principio che sia pure illusoriamente la giu- ,'.

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stifica, giacché l'illusione d'una illusione, o illusione di secondo grado, non è detto debba _essere uguale a zero (cosa che sembra impossibile sia affermare sia negare): allora bisogna abbastanza verosimilmente concludere che una sorta di precomprensione animale di questa diak6smesis divina onnipervadente ha ' indotto negli uomini il desiderio di m{mesis.E cioè di imitare: non però le cose di questo mondo, né tanto meno gl'inconoscibili dèi in sé: bensì l'azione divina, la collaborazione al disegno magari mal compreso di riordinamento dell'universo, di un universo che altrimenti andrebbe alla deriva. «La mente degli dèi» (una mentalità paranoica, quasi un morbo sacro, immune per le bestie ma endemico nella condizione umana) insegnò agli uomini a «imitare le cose divine », 0Eciiv yàp v6oç èòiòal;E [se. wùç àv0pcoitouç] µiµÉEa0ài tà Éautciiv, giacché quegli uomini, pur così istruiti dalla divinità, al massimo «conoscono quel che fanno ma non conoscono quel che imit;,no»: yivwaicovtaç ltOlÉoUO'lKaÌ où 'YLVOJO'lCOVtaç µtµéovtm (Kiihn ·; 1825-1827, I, 630-647). \ i La conclusione si dà come identica per convér- i !\ gen7.a da varie premesse . Che gli uomini «non co- ;:i noscono», où yivcoaicouai, vuol dire che al massimo !: capiscono quel che fanno, non solo nel breve ter- \' mine ma - poniamo - anche in quello più remoto; ! ma che però non comprendono quel che imitano così ! facendo. In_altre parole, la mimesi è sempre dell'a- '· zione, mai della cosa. Io posso cercare di copiare un ,( vaso, però quel che in .realtà imito - che io lo sappia

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o no - è l'arte del vasaio. Ma questo ·ragionamento, · ormai non più del tutto strano e nemmeno originale, ·; quindi, è quello stesso -che Vico attribuisce alla «antiquissima sapientia» degl'Italici e che poi costituisce . il nocciolo polemico e «anticartesiano» della sua pro - , fetica «scienza nuova ». Ora questi Italici, che nel po- · stremo Regno delle Due Sicilie comprendono natural- ,: mente i Sicelici oltre che i Megalellenici, fatte le debite i sottrazioni di tempo e di retaggio, si identificano infine coi soli «Eraclitei» giunti sospiti oltremare. Tolti , infatti gli Eleati e i Pitagorici, per il non consenziente ' l6gos di cui s'è detto, di tutto il pensiero pre-socratico •,non resta, fuor d'essi, un'altra tradizione di pensiero · cui possa adattarsi l'appellativo d' «antichissima ».

5. Nella part~ dedicata ai principi della «nuova : : scienza», si insiste con particolàre cura sulla distin < •, zione di natura e cultura. In base a questa,contrappo- , · sizione risulta evidente la ragione ' per cui di «questo ., mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece,: esso solo ne ha scienza»; mentre per converso di «que- -: sto mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale,\ perché l'avevano fatto gli uomini, ne potevano conse•\ guire la scienza gli uomini». Il principio vichiano vien~\ di solito espresso ricorrendo al successivo dualismo d{' scienze naturali e scienze storico-sociali, come per es/ : in Dilthey Natur- e Geisteswissenschaften . Ma a part ' la diversa motivazione dell' «origine» della distinzio ; ne, si noterà la differenza se non altro d'intonazion ·:

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nel parlare di «scienza»: termine che quando Vico ap- \ plica al mondo civile e umano ha una connotazione .i inconfondibilmente «tecnica» e non epistemica, vale ' a dire artistica e per nulla affatto «storica» alla mank- , ra, poniamo, d'un Leopold von Ranke. La «historia » di Vico non è che una delle nove arti; e se la «scienza '. nuova» vi fa spesso ricorso, è per riprenderne le «favole», i