Le Figure del Mito in Properzio: Proceedings of the Twentieth International Conference on Propertius, Assisi-Bevagna 30 May - 1 June 2014 (Italian Edition) 9782503569376, 2503569374


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Le Figure del Mito in Properzio: Proceedings of the Twentieth International Conference on Propertius, Assisi-Bevagna 30 May - 1 June 2014 (Italian Edition)
 9782503569376, 2503569374

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studi di poesia latina studies of latin poetry 20

EDITORS IN CHIEF Giorgio Bonamente Presidente Accademia Properziana del Subasio Roberto Cristofoli Università di Perugia Rosa Alba Dimundo Università di Bari Paolo Fedeli Accademia dei Lincei Giovanni Polara Università di Napoli Federico II Carlo Santini Università di Perugia

EDITORIAL STAFF Chiara Moretti SUBMISSIONS SHOULD BE SENT TO Carlo Santini [email protected] Dipartimento di Lettere Università degli Studi di Perugia Piazza Morlacchi, 11 I-06123 Perugia, Italy

studi di poesia latina studies of latin poetry

LE FIGURE DEL MITO IN PROPERZIO PROCEEDINGS OF THE TWENTIETH INTERNATIONAL CONFERENCE ON PROPERTIUS Assisi-Bevagna 30 May - 1 June 2014 Edited by Giorgio Bonamente Roberto Cristofoli Carlo Santini

ACCADEMIA PROPERZIANA DEL SUBASIO - ASSISI

F

© 2016 Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium

All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise, without prior permission of the publisher.

Cover picture: Assisi, Domus del Lararium. Oecus, parete Nord, pinax con scena degli sposi.

Ha dato la sua generosa collaborazione il socio Arnaldo Manini in segno del comune affetto per Roberto

D/2016/0095/241 ISBN 978-2-503-56937-6 Printed on acid-free paper

SOMMARIO

SOMMARIO

Premessa

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Paolo Fedeli Le ambiguità del mito

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Arcangela Cafagna I travestimenti del mito

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Gianpiero Rosati Non solo Omero: il mito troiano in Properzio

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Fabio Stok Il mito di Troia resurgens

73

Paola Pinotti Le eroine perseguitate

93

Luciano Landolfi Dèi d’oriente, miti d’oriente: icone e simboli nella poesia di Properzio 113 Rosa Alba Dimundo Cinzia e le eroine del mito

183

Roberto Cristofoli Giove Feretrio in Properzio: storia e mito

209

Francesca Boldrighini Dei ed eroi della Domus Musae: quadretti a soggetto mitologico e testi graffiti nel criptoportico della “Casa di Properzio” ad Assisi

241

Carmen Codoñer El poema de Tarpeya (4.4). Amor vs Fides

289

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SOMMARIO

Alison Keith Cynthia – Diana

325

Giovanni Polara Esemplarità del mito in Properzio

351

Carlo Santini Miti di acque e acque trasfigurate in mito nelle elegie di Properzio

375

Fausto Zevi Fondazioni troiane nel Lazio tra fonti letterarie e archeologia

397

Raffaele Perrelli Riflessioni conclusive sul convegno

429

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PREMESSA

Il convegno Le figure del mito in Properzio è stato pensato, more solito, in un incontro alla Galleria Esedra di Roma, nell’aprile 2013 (Roberto Cristofoli, Paolo Fedeli, Carlo Santini e lo scrivente), con l’usuale anno di anticipo, come da quaranta anni si è fatto, da quando cioè si riunivano Giuseppe Catanzaro, Francesco della Corte, Paolo Fedeli, Francesco Santucci, Nino Scivoletto, Salvatore Vivona. Nel corso dei decenni il comitato scientifico è mutato nella sua composizione, ma non nella sua modalità amicale e nei suoi intenti rigorosi, a garanzia di un impegno assunto in occasione delle celebrazioni del bimillenario della morte del Poeta dell’anno 1985, consolidato nel 1987 con la costituzione del “Centro Internazionale per lo Studio della Poesia Latina in Distici Elegiaci”. Il tema di quest’anno porta alla ribalta una componente fondamentale della poetica di Properzio, che, pur essendo cantore di un sentimento interiore e personale come l’amore, ha proposto la propria opera in un quadro di allusioni culturali, di scelte formali, di paragoni ideali, che richiedevano linguaggi ed immagini consolidati nella tradizione ellenistica. La sua dichiarazione programmatica di essere il Callimaco romano dell’Umbria si fonda infatti sulla sua profonda elaborazione dei temi della mitologia, patrimonio secolare della civiltà greca tornato in auge presso le raffinate corti ellenistiche, con le quali ormai Roma si confrontava con il piglio del conquistatore-conquistato. Tornare sul problema del mito significa avere consapevolezza della radicale ambiguità con cui il mito si presenta nell’antichità classica e nell’età di Properzio in particolare: da un canto forma Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 7-9 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112112

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PREMESSA

del pensiero religioso, ma anche filosofico, dall’altro temi e immagini della letteratura e delle arti figurative. La presenza delle immagini del mito greco, anche nelle sue trasposizioni e reinterpretazioni romane, in un poeta selettivo e sofisticato come Properzio pone certamente in primo piano la dimensione e la funzione letteraria del mito, anche se queste non esauriscono le potenzialità di un pensiero diverso da quello logico. La consapevolezza del mondo classico, da Omero fino ad un epigono come Secondo Saturnino Salustio, che il mito sia uno dei due pilastri della verità – insieme ai vaticini –, richiama quindi, ancora una volta (dopo il Convegno del 2012: Properzio e l’età augustea: cultura, storia, arte), il problema del rapporto “difficile” di Properzio con la cultura e con l’ideologia augustea, in quanto le assimilazioni dei protagonisti della politica con un Ercole o un Dioniso non si esaurirono sul piano della simbologia, ma furono componente sostanziale della loro immagine e del loro carisma. La partecipazione di eminenti studiosi provenienti da varie Università italiane e da quelle di Salamanca e di Toronto è espressione dell’attenzione di un pubblico mondiale a questi incontri biennali, che vantano quaranta anni di vita, a fare capo dal 1976, quando per la volontà del Presidente Salvatore Vivona e dell’allora titolare della cattedra di Latino nell’Ateneo Perugino, si organizzò il primo convegno, cui venne dato il nome semplice di Colloquium Propertianum, non essendovi certezza di poter dare continuità all’iniziativa. Rivolgendo il benvenuto agli studiosi convenuti, il 26 marzo 1976, Vivona sottolineò comunque come l’Accademia avesse la consapevolezza di dover includere fra i suoi principali compiti quello di studiare e far conoscere il Poeta da cui trae il nome. E infatti l’appellativo di secundum e non di alterum per quello dell’anno 1979 fu scelto come presagio di una lunga vita. Nel rispetto della tradizione, il convegno si svolge ad Assisi, con inoltre una seduta in una città limitrofa, legata alla tradizione del Poeta, quale la città di Bevagna, cui il poeta ha dedicato la suggestiva immagine di nebulosa Mevania. Viene presentato, fresco di stampa, il volume degli atti del convegno precedente, intitolato Properzio e l’Età augustea: cultura, storia, arte, edito da Brepols (Turnhout 2014), con due aspetti 8

PREMESSA

nuovi: la sua proiezione internazionale, e la presenza, nella copertina, dell’immagine degli ‘sposi’ della Domus del Larario, che costituirà d’ora in avanti il simbolo della continuità fra la Assisi dell’età di Properzio e le nostre indagini moderne sul Poeta. Da ultimo ho il piacere di informare che l’Accademia sta mettendo in rete i contributi su Properzio editi dal 1976 al 2012 (www.accademiaproperziana.eu), e che il prossimo Convegno, nel 2016, cadrà nell’anno in cui l’Accademia celebrerà i 500 anni di vita, essendo stata fondata nel lontano 1516.

Giorgio Bonamente Presidente dell’Accademia Properziana del Subasio

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PAOLO FEDELI Bari

LE AMBIGUITÀ DEL MITO

1.  Sembra proprio che per i poeti augustei i ritorni del principe dalle campagne di guerra debbano avvenire sotto il segno di Ercole. Tutto induce a credere che sia stato Augusto stesso a fornire l’ispirazione a un concorde modo di procedere: nel 29 a.C., infatti, reduce da Azio e dall’eliminazione delle residue resistenze nemiche, Ottaviano si presentò sotto le mura di Roma proprio in occasione dell’annuale ricorrenza del culto di Ercole nell’Ara Massima, il 12 agosto, in attesa della celebrazione del suo triplice trionfo, dal 13 al 15 agosto 1. Non è certo un caso che nel poema epico virgiliano l’approdo di Enea nel Lazio coincida col giorno in cui a Ercole vengono resi onori solenni da Evandro 2, che poi a Enea farà da guida nei luoghi in cui sorgerà Roma. È opinione ampiamente diffusa, di recente condivisa anche da Stephen Harrison 3, che Virgilio, in quell’VIII libro che con ogni probabilità è il più antico dell’Eneide, abbia voluto celebrare il ritorno di Ottaviano, vittorioso sui nemici, cantando l’arrivo nel Lazio di Ercole, reduce dalla Spagna con i buoi sottratti a Gerione nel corso della sua decima fatica: in tal modo la sua lotta vittoriosa con Caco finiva per prefigurare quella, ugualmente vittoriosa, di Ottaviano con Antonio 4.

  Cfr. Huttner 1997, p. 369 e n. 3, con la bibliografia ivi citata.   Aen. 8,102‑03 forte die sollemnem illo rex Arcas honorem / Amphitryoniadae magno divisque ferebat. 3  Harrison 2005, p. 121. 4  Sul ruolo di Ercole in Virgilio, oltre a Galinsky 1985, pp. 361‑63, cfr. Huttner 1997, pp. 370‑80. 1 2

Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 11-34 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112113

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P. FEDELI

Cinque anni dopo, nel 24 a.C., fu Orazio a cantare il ritorno dalla Spagna del principe vittorioso, nella XIV ode del III libro, la cui strofa iniziale Herculis ritu modo dictus, o plebs, morte venalem petiisse laurum, Caesar Hispana repetit Penates victor ab ora

vede strettamente associati Ercole e Augusto, i cui nomi aprono significativamente il primo e il terzo endecasillabo saffico. Quando, poi, nel 19 a.C., dopo tre anni di assenza Augusto fece ritorno a Roma dalla Spagna, tutto lascia credere che sia stato Properzio, nella IX elegia del IV libro, ad assumere il compito che in precedenza era stato di Virgilio e di Orazio: portano a questa conclusione sia gli indizi cronologici disseminati nel suo ultimo libro di elegie, sia il tradizionale parallelo col leggendario passaggio nel Lazio di Ercole, anch’egli reduce dalla Spagna dopo il felice esito della decima fatica, sia soprattutto la coincidenza fra i luoghi dell’elegia properziana e il percorso compiuto da Augusto dalla porta Capena sino al Foro e al Campidoglio 5: la celebrazione di Properzio, tuttavia, a confronto con le precedenti di Virgilio e di Orazio si rivela del tutto singolare, come si potrà capire da un rapido sunto dell’elegia. 2.  Dopo un viaggio interminabile, Ercole con i buoi sottratti a Gerione giunge nel Lazio negli stessi luoghi dove sorgerà Roma, e lì, spossato, cede al sonno; non ha fatto i conti con Caco, un predone mostruoso e terribile che approfittando della favorevole situazione gli sottrae la mandria e, per non lasciare tracce del furto, con un ingegnoso stratagemma trascina i buoi per la coda e li nasconde nel suo antro. Ercole al risveglio si mette in cerca della mandria scomparsa e, guidato dai muggiti che sente provenire dall’antro di Caco, ne abbatte la porta, uccide il predone e provvede alla consacrazione di quello che diverrà il Foro Boario. Mentre nel racconto virgiliano il ruolo di Ercole nel Lazio si esaurisce con l’uccisione di Caco e con la creazione dell’Ara   Lo ha messo in piena luce Harrison 2005, pp. 118‑20.

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LE AMBIGUITÀ DEL MITO

Massima, non è così in Properzio, che descrive Ercole in preda a una sete implacabile e in disperata ricerca di una sorgente: finalmente raggiunge un ameno boschetto, che ha tutto l’aspetto di un luogo sacro, e lì sente non solo voci di donne, ma anche l’inconfondibile rumore dell’acqua sorgiva. Ignaro di trovarsi proprio dove si celebrano i riti della Bona Dea, riservati alle donne, prende a supplicarle perché gli sia concesso di dissetarsi. Visto l’insuccesso delle preghiere, decide di cambiar tattica e per convincerle a non farsi impressionare dal suo aspetto rievoca le mansioni ancillari nel periodo di schiavitù presso Onfale, la regina della Lidia: per tutta risposta un’anziana sacerdotessa gli prospetta le terribili punizioni riservate a quanti hanno l’audacia di violare i riti della Bona Dea. Constatata l’inutilità delle suppliche, Ercole furente demolisce la porta del luogo sacro e, recuperata l’eroica dignità dopo essersi dissetato, stabilisce che alle donne sia vietato l’accesso ai riti dell’Ara Massima. L’elegia si chiude con l’elogio di Ercole divinizzato e con l’invito a lui rivolto dal poeta perché accetti il posto che nel libro gli ha riservato. L’elegia, dunque, narra due avventure di Ercole che non solo presentano un contenuto profondamente diverso, ma che vedono agire il loro protagonista in modo eroico, prima, antieroico poi. Orbene, se c’è un’impresa di Ercole che nell’immaginario dei Romani ha goduto di una fama indiscussa, certamente si tratta della lotta feroce e cruenta con Caco; eppure Properzio accorda uno spazio di gran lunga maggiore proprio all’episodio della sete di Ercole, che oltre ad essere ben poco glorioso è anche molto meno noto. È possibile, infatti, che il poeta dipenda da una notizia isolata, di più che probabile origine varroniana, citata da Macrobio nei Saturnalia (1,12,27) 6, e che l’abbia ampliata (e – come vedremo – adattata alla situazione del tempo suo), perché in Macrobio non è una sacerdotessa a opporsi alle suppliche di Ercole, ma una generica mulier, e non c’è alcun accenno né alla violenta reazione di Ercole né al ruscello da lui prosciugato per placare la sete. In Properzio l’Ercole bucolico dell’esordio si vede 6  Spiega Macrobio che mulieres in Italia sacro Herculis non licet interesse, quod Herculi, cum boves Geryonis per agros Italiae duceret, sitienti respondit mulier aquam se non posse praestare quod feminarum deae celebraretur dies, nec ex eo apparatu viris gustare fas esset. Propter quod Hercules facturus sacrum detestatus est praesentiam feminarum et Potitio ac Pinario sacrorum custodibus iussit ne mulierem interesse permitterent.

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subito costretto dal furto di Caco a esibire la sua eroica possanza e, una volta ucciso il mostruoso predone, con accenti bucolici torna a rivolgersi ai suoi buoi (vv. 16‑20). La sete improvvisa che lo assale segna il passaggio all’Ercole degradato, che solo nella chiusa dell’elegia ritroverà la sua dimensione, eroica e divina, e con essa la capacità di ponere iura. Come si spiega questa duplice presentazione del mito di Ercole nel Lazio, in cui l’eroe invitto, degno di essere accolto fra gli dèi, convive con un Ercole degradato, che si umilia di fronte alle donne? Eppure, se si considera l’elegia nel suo insieme, si ha la netta impressione che essa non sia il risultato di un’artificiosa e maldestra sovrapposizione di due storie prive di collegamento, ma che, anzi, Properzio le consideri strettamente correlate; a legarle, infatti, provvede una serie di particolari comuni: la stanchezza di Ercole (sia nel v. 4 sia nei vv. 34 e 66), il motivo dell’ospitalità (violata da Caco nel v. 8 e non concessa dalle donne nei vv. 34 e 53), la furia di Ercole demolitore di porte (sia della dimora di Caco nel v. 8, sia del luogo sacro nei vv. 61‑62); e se, poi, la dimora di Caco è un antrum metuendum (v. 9), il sacro antrum (vv. 33 e 55) è protetto da una lex metuenda (v. 55). Ci si può accontentare, allora, della soluzione ‘soft’ di Harrison, che vede solo una ‘bonaria ironia’ nella presentazione degradata dell’Ercole properziano 7, o ci si può limitare a giustificare la scelta di Properzio alla luce delle ben note stravaganze di comportamento del mitico eroe che la tradizione greca ci presenta ora come l’invitto purificatore del mondo dai mostri, ora in chiave decisamente antieroica? E ancora: ci si può accontentare di una giustificazione ‘letteraria’, quale che essa sia? Chi vuole spiegare la degradazione dell’eroe invitto alla luce di uno schema letterario di grande dignità, rinvia, com’è ovvio, a Callimaco: non c’è alcun dubbio, d’altronde, che a lui s’ispirino programmaticamente le digressioni eziologiche su luoghi, templi, culti che è facile cogliere nel corso dell’elegia. Per includere la IX fra le elegie eziologiche del IV libro basta l’aition principale, quello dell’esclusione delle donne dal culto di Ercole nell’Ara Massima, a cui si giunge nella sezione conclusiva passando per una nutrita serie di artifici che rientrano in ambito eziologico:   Harrison 2005, p. 125.

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LE AMBIGUITÀ DEL MITO

di essi ci si serve talora per creare un raffinato legame fra un termine, o una iunctura, e la sua origine (v. 3 pecorosa Palatia, vv. 5‑6 Velabra ... velificabat, v. 16 Alcides), oppure per suggerire rapporti etimologici talvolta spericolati (emblematico quello fra stabulis del v. 2, statuit del v. 4, stagnabant del v. 5 e il verbo stare; oppure fra maxima e manus nel v. 68 e fra sancte e Sance nei vv. 71‑72) o per realizzare arditi giochi di parole (tra incolumes e incola nei vv. 8‑9, tra furis e fores nel v. 14). Tanto l’ampia ricerca di Pillinger sugli influssi callimachei nel IV libro delle elegie properziane 8 quanto il bilancio di Miller sui rapporti dell’elegia augustea con la poesia di Callimaco 9 sono stati due momenti significativi nel campo degli studi di poesia latina: tuttavia, nel caso specifico della 4,9, essi hanno spinto a sopravvalutare un rapporto di dipendenza che, in realtà, si può ravvisare in modo certo solo nell’accenno al mito di Tiresia (v. 57) e nell’invocazione conclusiva ad Ercole ormai divinizzato, che presenta una indubbia analogia con quelle, parimenti conclusive, degli inni callimachei. Non accorderei, invece, un peso eccessivo al troppo vago influsso dell’ironia di stampo callimacheo, con cui si è preteso di spiegare il rapido e improvviso passaggio dall’epica solennità a un’atmosfera di raffinata comicità. Mentre, dunque, è indiscutibile la presenza di Callimaco negli artifici di natura eziologica, di contro è evidente che nel corso dell’elegia il gusto del narrare prende in modo deciso il sopravvento sulla componente eziologica. Se, però, in un carmen mixti generis qual è l’elegia s’imbocca la strada della ricerca dei modelli, l’intreccio dei rapporti allusivi può esser tale da delineare scenari complessi. Basta solo considerare un momento significativo nello sviluppo dell’elegia, quello in cui Ercole stravolto dalla sete si mette in cerca di una fonte e, all’improvviso, avverte il rumore inconfondibile dell’acqua sorgiva, misto al riso di donne. Siamo nei vv. 23‑26 e l’avversativa che apre il v. 23 è il segnale di una svolta narrativa, com’era già avvenuto nel v. 7; il lettore capisce subito che, dopo la lotta con Caco, per Ercole si profila una nuova avventura, che a prima vista sembra di tutt’altro tipo: le risate femminili, infatti, s’inse  Pillinger 1969, pp. 171‑99.   Miller 1982, pp. 371‑417.

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riscono senza alcun contrasto nello scenario leggiadro di un locus amoenus, caratterizzato dalle ombre degli alberi, dal crepitio di limpide sorgenti, dal canto degli uccelli. Un inatteso elemento negativo, però, traspare dal senso di chiusura offerto da inclusas, perché il participio passato fa pensare a un muro che protegge le donne da sguardi indiscreti, confinandole in uno spazio estraneo a quello dell’eroe, orribile a vedersi perché devastato dall’arsura. Ercole, allo stesso modo del lettore, ignora che all’interno di quello spazio chiuso si stanno celebrando i riti della Bona Dea e interpreta le risate come l’espressione di un gioioso e spensierato divertimento, in aperto contrasto con la sua disperata condizione. È probabile che Properzio alluda alla situazione di Odisseo, che sbattuto dalla tempesta nella terra dei Feaci e sopraffatto dalla stanchezza cede al sonno, ma viene destato all’improvviso dalle voci squillanti delle ancelle di Nausicaa 10. Non a caso, allorché il naufrago Odisseo (come l’Ercole properziano orribile a vedersi col corpo nudo cosparso di salsedine), spinto dal bisogno si rivela a Nausicaa e alle sue ancelle, il suo improvviso e inatteso manifestarsi suscita terrore in tutte, tranne che nella figlia di Alcinoo, ed è a lei che il disperato eroe vagante rivolge una supplica accorata 11. Allo stesso modo l’Ercole properziano troverà, ma in un’anziana sacerdotessa, un’impavida e tutt’altro che arrendevole controparte. È, dunque, a Omero e a un noto contesto dell’Odissea che Properzio vuole rinviare i suoi dotti lettori? Lo pensa Hutchinson nel suo commento, ma c’è da dubitarne, perché per il lettore il nesso inclusae puellae (v. 23) costituisce piuttosto un segnale dell’imminente, grottesca identificazione dell’eroe con l’innamorato, per il quale la puella rinchiusa in casa costituisce l’oggetto del desiderio. In tale schema s’inserisce l’atteggiamento stesso dell’Ercole demolitore di porte, che rinvia al momento topico in cui l’innamorato escluso, ormai stufo delle vane suppliche rivolte alla donna, dà libero sfogo alla propria ira infierendo sulla porta, colpevole d’impedirgli l’accesso. Anderson, prima, e la Pinotti, poi 12, hanno individuato una serie di dettagli   Hom. Od. 6,117‑24: cfr. Hutchinson 2006, p. 210.   Hom. Od. 6,127‑85. 12  Cfr. Anderson 1964, pp. 6‑9, Pinotti 1977, pp. 60‑69. 10 11

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che concorrono a fare dell’Ercole properziano una controfigura dell’exclusus: in particolare, nell’accusa di duritia alle donne insensibili alle suppliche (vv. 43‑44) si vuol vedere una marcata analogia con la tenace resistenza del custos, della porta, dell’amata stessa di fronte alle preghiere e ai rimproveri dell’innamorato e nel notevole sviluppo accordato alla vicenda di fronte al limen del luogo sacro si scorge un preciso intento di evocare alla mente dei lettori il ruolo della soglia nella situazione dell’exclusus; il fatto, poi, che la supplica di Ercole avvenga di fronte alla porta (ante fores) viene inteso come un esplicito invito a leggere l’episodio alla luce dei moduli del paraclausithyron. In tutto ciò c’è senz’altro del vero, ma dubito che basti a farci individuare la chiave di lettura dell’elegia nell’affinità fra la condizione dell’innamorato exclusus e quella di Ercole non ammesso nel luogo sacro alla Bona Dea: quello col paraclausithyron, infatti, è un rapporto solo parziale, che trascura la prima parte dell’elegia e può valere tutt’al più come chiave di lettura della seconda; esso, in ogni caso, si rivela inadeguato a fornire una spiegazione convincente del comportamento complessivo dell’Ercole properziano. 3.  Sarà opportuno muovere dal ruolo eroico di Ercole, in cerca delle sue implicazioni non solo letterarie, ma anche e soprattutto ideologiche, le sole in grado di spiegare la fortuna dell’episodio di Ercole e Caco in ambito augusteo, a cominciare dal suo ampio sviluppo nell’VIII libro dell’Eneide. Con Virgilio il poeta elegiaco mostra di stabilire un rapporto preferenziale sin dall’incipitario Amphitryoniades, che in inizio d’esametro si ricollega non solo a Aen. 8,124 Amphitryoniades armenta abitumque parabat, ma anche al v. 103 dello stesso libro (Amphitryoniadae magno divisque ferebat). Messo in chiaro il rapporto allusivo nei confronti della narrazione virgiliana, da essa Properzio mostra di saper prendere le distanze, non solo nell’ambientazione della lotta sul Palatino anziché sull’Aventino, ma anche nella scarna ed essenziale presentazione degli eventi; invece la versione virgiliana si sofferma su una serie di dettagli funzionali alla drammatizzazione del mito e all’esaltazione del favoloso e del soprannaturale. Ma procediamo con ordine: nel v. 9 metuendo ... ab antro si limita a indicare in modo essenziale la provenienza di Caco da

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una ‘temibile’ caverna: è, dunque, nel solo gerundivo di metuere che Properzio condensa la dettagliata descrizione virgiliana di una spelunca di difficile accesso, dal suolo sempre lordo di sangue, mentre teste umane mozzate e imputridite sono infisse alle porte (Aen. 8,193‑97) 13. Isolata rimane la versione properziana che fa di Caco un mostro con tre teste e con tre bocche per una più che probabile suggestione delle caratteristiche di Gerione, che Virgilio descrive allo stesso modo proprio nel contesto in cui parla di Caco 14. Per Virgilio, invece, Caco è un semihomo dalla dira facies (8,194), è un monstrum che vomita fuoco, figlio di Vulcano (8,198‑99. 252‑55), è semifer (8,267) 15. Singolare, poi, è il modo in cui Properzio allude al mostro tricipite, aggiungendo alla menzione dei tria ora quella dei suoni che essi emettono (v. 10 per tria partitos ... ora sonos) 16. L’essenzialità del contesto properziano concede solo un distico (i  vv. 11‑12) al racconto del furto di Caco: d’altronde la sua natura di raptor incallito fa sì che il lettore non si sorprenda della sua reazione alla vista dei buoi che vagano incustoditi sui prati del Palatino. Ben diverso era stato il comportamento di Virgilio, che aveva individuato una precisa motivazione del furto nella praestantia e nella forma dei buoi e si era preoccupato anche di

  Da Virgilio dipende Ovidio (Fast. 1,155‑58), che lo segue anche nei dettagli truculenti: l’essenzialità properziana, invece, è la stessa di Livio (1,7,5), che parla di una spelunca ma non la descrive, e di Dionigi di Alicarnasso (Ant. 1,39,2) che fissa la dimora di Caco in un generico ántron e non aggiunge ulteriori informazioni. 14  Aen. 8,202. 15  Per Livio è solo ferox viribus (1,7,4), mentre Ovidio chiarisce che dira viro facies, vires pro corpore, corpus / grande (Fast. 1,553‑54) e segue Virgilio nel fare di lui un mostro (Fast. 1,554. 572 con Green ad loc.). 16  Per Heyworth 2007, p. 485 nel v. 10 partitos è superfluo e ridondante, mentre ci si attenderebbe piuttosto diversos; egli finisce, comunque, per accettare il testo tràdito e per confinare in apparato la sua proposta di correzione (per tria qui ‹flammas et› dabat ora sonos), che vorrebbe avvicinare la caratterizzazione properziana di Caco a quella di Virgilio e di Ovidio. È da escludere, tuttavia, che Properzio con partitos abbia voluto assegnare suoni ‘diversi’ alle tre bocche di Caco, perché l’uso di partitus come sinonimo di varius, diversus non solo è rarissimo, ma non è attestato prima di Apuleio (cfr. ThlL X 1,526,65‑67). Si capisce, d’altronde, che a Properzio non interessa specificare il timbro delle voci, quanto piuttosto la pluralità delle bocche di Caco, che amplificano a dismisura la sua voce e concorrono efficacemente a completare la sua terrificante immagine. 13

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quantificare il furto di Caco (quattro tori e quattro giovenche) 17. Le fonti del mito concordano sull’espediente escogitato da Caco, che per nascondere la preda senza suscitare sospetti trascina i buoi nel suo antro tirandoli all’indietro per la coda 18. Il v. 14 dell’elegia properziana presenta in modo altrettanto scarno la prima fase della reazione di Ercole, che sentendo provenire i muggiti dall’antro di Caco si scaglia contro le fores, accecato dall’ira, e le abbatte 19: Properzio adotta i toni forti, sia con l’espressiva personificazione dell’astratto, che concentra sull’ira l’immagine tradizionale dell’Hercules furens, sia col trasferimento del motivo della ferocia da Ercole alle porte su cui egli si accanisce, grazie al loro epiteto (implacidas). L’accumulazione di tali elementi conferisce all’ira di Ercole un’essenziale ma vigorosa efficacia, che compensa il minore indugio sui particolari truculenti. In Virgilio lo scontro dell’eroe col predone vede, in successione, la fuga di Caco, atterrito dall’aspetto bellicoso di Ercole, il suo dissennato sforzo di barricarsi all’interno dell’antro, il triplice tentativo infruttuoso da parte dell’eroe di demolire il masso collocato a puntello della porta, un quarto tentativo dall’esito felice grazie all’ausilio di un’aguzza rupe e, infine, una volta scoperchiata la dimora di Caco, una feroce lotta in cui Ercole ricorre a ogni genere di armi offensive contro il predone, che tenta di contrastarlo vomitando fuoco e fumo dalle sue fauci, finché l’eroe riesce ad avvinghiarsi a lui e a strangolarlo 20. Una tanto dettagliata descrizione della fuga e dell’inseguimento, della lotta e della sua conclusione cruenta, viene condensata da Properzio 17   Verg. Aen. 8,205‑08; allo stesso modo si comporta Livio (1,7,5 captus pulchritudine boum cum avertere eam praedam vellet), mentre Ovidio parla solo di negligenza da parte di Ercole nella custodia della mandria (Fast. 1,559 servata male parte boum): egli riduce a due il numero dei buoi (Fast. 1,548), che le altre fonti lasciano imprecisato (di poche vacche parla, genericamente, Dionigi d’Alicarnasso, Ant. 1,39,2). 18  Ricco di dettagli, come sempre, è Virgilio (Aen. 8,209‑12 atque hos, ne qua forent pedibus vestigia rectis, / cauda in speluncam tractos versisque viarum / indiciis raptos saxo occultabat opaco: / quaerenti nulla ad speluncam signa ferebant). 19  Quello che prima era un antrum (v. 9) assume ora l’aspetto della spelunca virgiliana (Aen. 8,103. 224), che è munita di fores (v. 196), puntellate con un masso come estremo tentativo di difesa (vv. 226‑27 e Ov. Fast. 1,563‑64; di spelunca parla anche Liv. 1,7,5). 20  Aen. 8,219‑61.

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in poche parole, che a stento superano lo spazio di un esametro (vv. 15‑16 Maenalio  ... Cacus): in una tanto esasperata ricerca dell’essenzialità, il poeta elegiaco ha preferito alla morte per strangolamento quella che il lettore si attende dall’Ercole portatore di clava, senza dimenticare, tuttavia, che per lui Caco è un mostro tricipite; a ucciderlo, quindi, saranno i poderosi colpi di clava che Ercole assesterà a ognuna delle sue tre teste 21. Virgilio si distacca dalle altre fonti del mito sia per l’ampio sviluppo della narrazione sia per il silenzio assoluto sui legami di Caco con i pastori del luogo: d’altronde se egli avesse fatto di Caco un pastore solidale con gli abitanti della regione, avrebbe messo in forte crisi lo scopo che si proponeva di conseguire sin dal primo contatto di Enea con gli abitanti del Lazio. La terra per volere del fato finalmente raggiunta da Enea non poteva essere infestata da predoni, ma doveva accogliere l’eroe troiano col medesimo senso dell’ospitalità con cui aveva accolto Saturno ed Evandro: quello di Caco, dunque, era destinato a restare un caso isolato. 4.  A dispetto dell’ampiezza della narrazione, l’Ercole virgiliano è un eroe taciturno, mentre l’Ercole properziano da possente lottatore sa mutarsi in logorroico oratore: è in grado di sfoggiare uno stile essenziale, ma non privo di solenne ufficialità tanto nel rivolgersi ai buoi perché coi loro muggiti consacrino il Foro Boario, quanto nell’imporre alle donne il divieto di accesso al culto dell’Ara Massima, ma è anche pronto a dare libero sfogo al suo eloquio allorché si vede costretto a supplicarle ante fores. È vero che proprio in tale circostanza egli si serve di verba minora deo (v. 32) 22: tuttavia un tale commento ‘stilistico’ del poeta più 21  Sintetica come quella di Properzio è la descrizione di Livio e analoga la sua conclusione cruenta (1,7,7 quem cum vadentem ad speluncam Cacus vi prohibere conatus esset, ictus clava fidem pastorum nequiquam invocans occubuit). Ovidio opera una sintesi dell’ampia narrazione virgiliana, ma da essa prende le distanze nella descrizione dell’uccisione di Caco, che come in Properzio e in Livio è provocata dai tremendi colpi di clava a lui inferti da Ercole (Fast. 1,563‑78); analoga è la fine di Caco in Dionigi d’Alicarnasso (Ant. 1,39,4). 22  Si tratta di un’espressione brachilogica per verba minora quam qualia usurpare decet deum, come spiegano Haupt – Ehwald nel commento a Ov. Met. 6,368 verba minora dea, a proposito di Latona che supplica i pastori della Licia perché facciano dissetare i suoi figli divini con l’acqua dello Xanto.

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che alle scelte lessicali è rivolto al tono dei discorsi di Ercole e registra anche su questo versante il passaggio dalla dimensione eroica a quella degradata. L’invitto eroe si muta rapidamente in un disperato supplice e sin dall’esordio del suo discorso (v. 33) adotta lo stile e il tono dell’orante, col pieno rispetto del ‘Relativstil’ seguito dall’indicazione della sfera di pertinenza della divinità a cui si rivolge. Ciò risulta ancor più grottesco perché proprio Ercole, destinato a divenire un dio, si abbassa a pregare donne mortali, e ad esse si rivolge come se fossero dee. Al ritratto dell’Ercole assetato, di matrice varroniana, Properzio aggiunge il particolare tutt’altro che secondario della barba coperta di polvere: ciò fa pensare che del supplice egli si sia preoccupato di assumere non solo il tono implorante, ma anche lo squallido aspetto, che ritiene il più adatto a suscitare commiserazione. È vero che a congesta pulvere del v. 31 si è soliti accordare il significato di «con la polvere accumulata», evidentemente durante il cammino: però nulla nel contesto parla di un percorso particolarmente polveroso dall’antro di Caco al luogo sacro, anzi lo scenario è quello del locus amoenus; meglio pensare, allora, alla barba dell’eroe coperta di polvere nell’interminabile peregrinazione dalla Spagna al Lazio. Congesta pulvere, tuttavia, può essere un ablativo assoluto con valore temporale, che indica anteriorità nei confronti di ruit e fa di Ercole l’artefice attivo, anziché il protagonista passivo, dell’azione («dopo aver accumulato polvere sull’arida barba», cioè dopo essersi cosparso di polvere la barba). Il verbo congerere, che esprime l’idea del raccogliere e dell’accumulare, rinvia in tal caso a un ben calcolato espediente: per muovere a pietà chi si trova all’interno del luogo sacro, Ercole assume l’aspetto di uno sventurato in balia di un avverso destino, sfruttando la consuetudine di cospargersi il volto di polvere o di cenere, che sin da Omero è più volte attestata come manifestazione di lutto e di funebre compianto. Per limitarci a due esempi iliadici, Achille, ricevuta da Nestore la notizia della morte di Patroclo, «con entrambe le mani prese la cenere arsa e se la sparse sul capo, sfigurando il bellissimo volto; cenere nera copriva la tunica profumata; nella polvere giaceva lui stesso lungo disteso, e con le mani insozzava e strappava i capelli» 23.   Hom. Il. 18,23‑27, nella traduzione di Maria Grazia Ciani.

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In Il. 24,162‑65, poi, Priamo dopo la morte di Ettore se ne sta avvolto nel suo mantello, con la testa insozzata sino al collo dal fango che con le sue mani ha raccolto nel rotolarsi a terra 24. Nel contesto properziano lo slittamento del motivo topico dal lutto alla supplica s’inserisce nel processo di degradazione dell’eroe mitico, che continuerà ormai, inarrestabile, sino al momento della recuperata dignità con la consacrazione dell’Ara Massima. Presentandosi con la barba abbondantemente ricoperta di polvere l’Ercole properziano spera di poter suscitare nelle donne la stessa partecipe compassione delle schiave alla vista di Achille disteso nella polvere (Hom. Il. 18,28‑31): non ha calcolato, però, né il luogo né la particolare circostanza dei riti della Bona Dea; di conseguenza la barba, benché ricoperta di polvere, diviene agli occhi delle donne l’elemento che mette in risalto la sua gagliarda virilità e al tempo stesso rende inutile ogni sua supplica. Costretto a esibire la lista delle benemerenze per convincere il muliebre consesso, Ercole tesse dapprima l’elogio della forza straordinaria di cui ha dato prova nel sostenere sulle spalle il peso del globo terrestre e passa, poi, a illustrare i suoi successi sui più orrendi mostri. Il tono delle sue parole è solenne: il ramus del v. 15 si muta ora nella superba clava Herculea (v. 39), con l’epiteto che segna enfaticamente il passaggio dal patronimico del v. 9 alla chiara proclamazione dell’identità del supplice: Ercole conta proprio sull’effetto sconvolgente che avrà sulle donne indifese la consapevolezza di trovarsi di fronte a cotanto eroe, che con la sua clava si è reso protagonista di fortia facta 25. Oltreché alla 24  E ancora: nell’ultimo canto dell’Odissea, quando Laerte crede che il figlio sia morto, con entrambe le mani raccoglie la polvere e, gemendo, se la sparge sul capo canuto (Od. 24,315‑17 = Il.18,22‑24). Nelle riprese latine del motivo, l’insozzarsi di polvere il volto è costantemente legato al lutto per una morte atroce o per la resa di una città: è così in Catullo (64,223‑24: Egeo alla vista del figlio Teseo che parte come vittima sacrificale del Minotauro), in Virgilio (Aen. 10,844: Mezenzio per la morte del figlio Lauso; 12,611: Latino per il suicidio della moglie e per la rovina della città), in Ovidio (Met. 8,529: il padre di Meleagro per la morte del figlio), in Silio Italico (13,308‑13: i Capuani nell’arrendersi a Roma spazzano in lacrime il suolo con le loro lunghe barbe e insozzano di polvere le loro teste). La chiusa del v. 31 è riproposta da Stat. Theb. 6,32 sparsus ... ferali pulvere barbam, che intende il gesto come segno di lutto. 25  Si tratta di un solenne nesso allitterante che, già attestato in Cicerone (Att. 8,14,2), in Sallustio (Cat. 59,6) e nell’epos virgiliano (Aen. 1,641; 10,369), verrà ripreso più volte da Ovidio.

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clava, è all’arco dalle frecce infallibili che Ercole deve i suoi successi sui mostri: anche in questo caso è allo stile che egli affida un effetto persuasivo, sicuro che le sue parole guadagnino in autorevolezza grazie al loro epico colorito: virgiliana ed epica è la ‘iunctura’ irrita tela (v. 40) 26, e il fatto che i tela siano numquam irrita serve a definire che essi hanno sempre raggiunto il bersaglio. Per Ercole, però, una delle imprese emerge su tutte, e non è in omaggio alla successione cronologica che egli lascia alla fine l’undicesima fatica: che proprio la cattura del tricipite cane infernale sia degna di figurare al culmine della climax è messo in risalto dal mutamento della costruzione, che nel v. 41 abbandona la successione di accusativi dipendenti da quis non audit del distico precedente, per una più complessa proposizione infinitiva. Le donne a cui Ercole rivolge le sue parole capiscono subito che l’evento straordinario non è tanto la discesa negli Inferi, che prima o poi tocca a tutti i mortali, quanto piuttosto la capacità di risalire dall’oscurità dell’oltretomba alla luce del sole: è questo che distingue Ercole dai comuni mortali (più tardi verrà il momento di Teseo, di Ulisse, di Enea) ed è al suo straordinario ritorno dalle tenebre alla luce che fa riferimento la chiusa del v. 40. In tal modo l’Ercole properziano ritiene di aver completato la costruzione della sua immagine di supereroe e di essersi così riscattato dall’umiliante atteggiamento di supplice. Nel complesso e testualmente travagliato contesto successivo, ribadita la condizione di stanchezza per il continuo vagare a cui è condannato dal proprio destino, a partire dal v. 45 Ercole ricorre accortamente a un ampio periodo ipotetico, nella cui protasi insinua che qualcuna delle donne possa essere rimasta terrorizzata dal suo fiero aspetto, e all’apodosi affida il compito di fornire rassicuranti garanzie sulle proprie intenzioni tutt’altro che bellicose (vv. 47‑50). All’inizio del v. 47 idem ego («proprio io») segna il passaggio dall’Ercole eroe all’Ercole ancella e mette subito in chiaro che quanto egli sta per dire corrisponde a verità, benché possa apparire assurdo che quello stesso eroe si sia piegato a umilianti lavori domestici. Dei servilia officia Ercole ricorda nel v. 48 quello emblematico, perché più degli altri connota l’atti-

  Verg. Aen. 2,459; 11,735; Lucan. 3,580. 722.

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vità femminile: la filatura di una quantità quotidiana di lana sulla conocchia. Delle due versioni del mito, l’una narrata da Apollodoro (2,6,3) secondo cui Ercole fu venduto da Mercurio a Onfale che per tre anni lo sottopose ai lavori domestici, l’altra attestata in Diodoro (4,31), che accorda uno spazio maggiore agli sviluppi erotici della vicenda, Properzio nel III libro aveva scelto la seconda, mettendo la servitù di Ercole in rapporto diretto col suo cedimento amoroso di fronte alla bellezza di Onfale (3,11,17‑20). L’Ercole del IV libro, però, capisce bene che accennare a un tale risvolto della vicenda non avrebbe alcun effetto sulla resistenza delle donne; egli crede, invece, che il suo terrificante aspetto possa risultare ingentilito dal ricordo della disponibilità a farsi schiavo di una donna, e per avere successo tiene in serbo un ultimo, decisivo ‘coup de théâtre’: al tempo del suo servitium ancillare si è pure vestito da donna! Quello di Ercole ‘en travesti’ doveva essere un abbigliamento particolarmente vistoso, perché la  Sidonia palla (stravagante presenza a scopo di attualizzazione di una veste femminile romana alla corte della regina di Lidia) rinvia al colore rosso purpureo, specialità dei Fenici, che caratterizzava le vesti lussuose 27. Insomma, questo Ercole ancella che esibisce sgargianti vesti femminili di gran pregio ci fa capire che Properzio segue la tradizione che lo vede indossare le vesti stesse della regina di Lidia: ce lo conferma Quintiliano, quando della schiavitù di Ercole ricorda, oltre agli imperata pensa, il permutatus cum regina habitus (Inst. 3,7,6). Ma c’è di più: nel v. 49 l’Ercole properziano confessa di avere indossato non solo le vesti di Onfale, ma addirittura la sua biancheria intima, e cita la fascia pectoralis, cioè il reggiseno: la stravaganza della situazione è resa ancor più evidente dal contrasto fra la mollis fascia e l’hirsutum pectus 28. Tutto lascia pensare che

27  Del travestimento si ricorderanno sia la Deianira ovidiana, che nella sua epistola amatoria lo sfrutterà per mettere in difficoltà l’eroe (Her. 9,101‑02 haec tu Sidonio potes insignitus amictu / dicere?), sia il tiranno Lico, che nell’Hercules furens di Seneca ne farà un cavallo di battaglia per negare che Ercole possa essere definito forte (465‑67 fortem vocemus cuius ex umeris leo, / donum puellae factus, et clava excidit / fulsitque pictum veste Sidonia latus?). 28  Si farà beffe di Ercole, indossatore di reggiseni, Tertulliano (Nat. 2,14 adicite ... titulis Herculaneis ... fascias Omphales!).

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Properzio abbia voluto aggiungere questo particolare piccante a quanto riceve un’autorevole conferma dalle testimonianze iconografiche di Ercole ancella, che sono numerose e non si limitano a ricordare la storia d’amore con Onfale, ma si soffermano anche sull’eccentrico abbigliamento, suo e della stessa Onfale, nei momenti di erotico furore: così Ercole talora indossa la veste di Onfale e la regina di Lidia, a sua volta, la pelle di leone dell’eroe. È singolare che le testimonianze iconografiche della sola Onfale che indossa la pelle di leone risalgano già al IV sec. a.C. e che, invece, quelle dello scambio delle vesti siano attestate solo a partire dal I sec. a.C.: singolare e significativo, perché costituisce un particolare importante per spiegarne la compiaciuta presenza nell’elegia 29. A degno coronamento della compromettente confidenza, nel v. 50 l’Ercole properziano riconosce di essere divenuto, proprio lui con le sue dure mani, un’abile fanciulla (apta puella). Che le mani dell’eroe siano forti e robuste, stanno ad attestarlo le straordinarie imprese: eppure – ricorda Ercole – quelle sue mani possenti, che or ora hanno stritolato Caco, un tempo si sono adattate a filare la lana, come solo esperte e ben allenate fanciulle sono capaci di fare: aptus indica, appunto, la raggiunta abilità nello svolgere il compito assegnato 30. Una tanto imbarazzante rivelazione fa da sigillo alle parole di Ercole: lo avverte in apertura del v. 51 l’ellittico talibus Alcides, in cui suona fortemente ironico il patronimico, che rinvia al motivo della forza, proprio al termine della ben poco eroica supplica alle donne e della rievocazione del servizio ancillare. In modo parimenti ellittico viene introdotta la risposta di un’alma sacerdos dalle bianche chiome: che fra le anonime donne rinchiuse nel luogo sacro sia lei a spiccare per dignità lo si capisce dal tono severamente ammonitore e addirittura imperioso delle sue parole. Il sitibondo eroe, di fronte alla terribile minaccia di divenire orbo come Tiresia (che almeno aveva visto nuda 29  Per le testimonianze iconografiche si rivela prezioso Boardman 1994, pp. 47‑52. 30  Anche in questo caso non mancherà di rinfacciarglielo, implacabile, l’ovidiana Deianira (Her. 9,75‑78 non fugis, Alcide, victricem mille laborum / rasilibus calathis imposuisse manum / cassaque robusto deducis pollice fila / aequaque formosae pensa rependis erae).

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la divina Pallade), capisce che è tutto fiato sprecato e, messa da parte l’inutile eloquenza, opta per un ben più efficace ritorno all’esercizio della forza: sfondata la porta del luogo sacro, finalmente potrà dissetarsi, e lo farà prosciugando il ruscello. 5.  Lo status dell’Ercole properziano è a dir poco problematico, perché oscilla fra i poli estremi della natura divina (e immortale) e umana (e mortale), tra le esibizioni di una spiccata virilità e lo spirito di adattamento alle più degradanti mansioni ancillari e persino agli umilianti travestimenti, tra la superiore dignità nel consacrare i luoghi o nel fissare le disposizioni relative al suo culto e la cieca collera che lo spinge addirittura a sfondare la porta di un santuario. Solo dopo essersi dissetato prosciugando un ruscello Ercole potrà riappropriarsi della perduta dimensione eroica e lo farà, con le labbra ancora umide, sfruttando la possibilità di ponere iura (vv. 63‑64) 31. Arrivato a questo punto, il poeta che alla lotta di Ercole e Caco ha fatto seguire l’episodio della sete dell’eroe con la sua grottesca conclusione, proprio ora che deve enunciare l’aition dell’esclusione delle donne dal culto dell’Ara Massima si trova nella necessità di rintracciare il filo smarrito del racconto, che nel suo svolgimento tradizionale legava la creazione dell’Ara Massima al ritrovamento dei buoi rubati da Caco: laddove Properzio, invece, aveva messo in rapporto l’esito della lotta col Foro Boario. Si capisce, di conseguenza, perché mai, nell’elegia properziana, la fondazione dell’Ara Massima, proclamata solo ora a ridosso del poco glorioso episodio della fracassata porta del tempio, finisca per passare in secondo piano rispetto alla modalità d’esecuzione del rituale fissato da Ercole, che prevede l’esclusione delle donne quale necessario contraccambio dell’esclusione degli uomini dai riti della Bona Dea.  In tal modo è un’usanza tradizionale della cerimonia di culto ad avere la preminenza sull’istituzione del culto stesso e la motivazione eroica che sottende alla fondazione dell’altare (la vittoria nella lotta con Caco) viene totalmente oscurata a tutto vantaggio della componente misogina che ne caratterizza il rituale: d’altronde, a dispetto dei trascorsi ancillari e del 31  Si tratta di una iunctura solenne, di chiaro sapore giuridico, già impiegata da Properzio (3,9,23) e analoga a foedera ponere di 3,20,15.

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travestimento da puella di cui si vanta per convincere il muliebre uditorio, Ercole resta un eroe profondamente misogino. Si dirà che le stravaganze dell’Ercole properziano non costituiscono una novità e si ricorderà che in Grecia non solo la commedia, ma anche la tragedia, avevano messo in risalto i suoi aspetti buffoneschi e che era stato soprattutto l’ambiente alessandrino a diffondere l’immagine dell’Ercole ubriacone e ghiottone. Però l’ampio spazio accordato nell’elegia alla presentazione dell’Ercole degradato contrasta con l’atteggiamento dei Romani nei confronti dell’eroe invitto, perché a Roma Ercole aveva recuperato in pieno la maestà e la dignità perdute: religione e filosofia avevano validamente contribuito a creare di lui un’immagine all’insegna della gravitas; lo stoicismo, in particolare, ne aveva fornito una rappresentazione idealizzata, facendone l’incarnazione perfetta della saggezza e della virtù 32. La diffusione del suo culto nell’ambiente del vincitore di Azio esigeva, tuttavia, che si superasse un ostacolo non lieve, perché era stato Antonio a fare di Ercole il protettore della propria gens, ricollegandosi a una tradizione antica secondo cui gli Antonii sarebbero discesi da Antone, figlio di Ercole. A darci questa notizia è Plutarco, il quale aggiunge che Antonio non si limitava a ostentare una virilità pari a quella che statue e dipinti attribuivano ad Ercole, ma si sforzava addirittura di assomigliargli anche nel modo di vestire: non esibiva, certo, una pelle di leone, ma indossava sempre un pesante mantello e al posto della nerboruta clava sfoggiava in pubblico un mastodontico spadone 33. Nel Bellum civile di Appiano, poi, è Ottaviano stesso ad ammettere che Antonio appartiene alla schiatta di Ercole 34. Mentre Antonio tentava di costruire un’immagine eroica di sé sfruttando le doti di Ercole, gli avversari politici lo combattevano sul suo stesso terreno e ne accettavano, sì, l’identificazione con Ercole, ma con l’Ercole degradato. Particolarmente significativo, perché si ricollega alle compromettenti rivelazioni dell’Ercole supplice in Properzio, è il parallelo che Plutarco istituisce, nella comparatio di Demetrio e Antonio, fra Ercole schiavo di Onfale 32   Fondamentali sul ruolo di Ercole nel pantheon romano restano le pagine di Galinsky 1972, pp. 126‑51. 33  Plut. Ant. 4,1‑3 e, per la presunta discendenza da Ercole, 36,6‑7. 34  Appian. Bell. civ. 3,72.

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e Antonio schiavo d’amore di Cleopatra, con un rinvio all’arte figurativa da cui si deduce che un tale confronto doveva essere abituale: «come Eracle – scrive Plutarco – che vediamo nei quadri privato della clava e spogliato della pelle di leone da Onfale, Antonio fu spesso disarmato così da Cleopatra, che lo ammaliò e lo indusse a lasciarsi sfuggire dalle mani grandi imprese e spedizioni necessarie» 35. Ma sul contributo fornito dall’arte figurativa a una rappresentazione degradata di Antonio, con particolare riguardo all’analogia fra il suo rapporto di dipendenza da Cleopatra e quello di Ercole da Onfale, ha scritto pagine fondamentali Paul Zanker, a cui è d’obbligo rinviare 36. La propaganda avversa era solita raffigurare Antonio come un volgare ubriacone (emblematici sono gli insulti a lui rivolti da Cicerone nelle Philippicae): da questa accusa Antonio si vide costretto a difendersi nel De sua ebrietate 37, benché egli stesso finisse per alimentare una tale accusa col suo continuo paragonarsi a Dioniso-Bacco 38. Sorge il sospetto che proprio a questa accusa voglia alludere Properzio nella sua rappresentazione di Ercole assetato, e poco importa che a tormentarlo non sia il desiderio del vino, ma quello dell’acqua: ciò che conta è la totale mancanza del senso della misura, che lo indurrà a placare la sete con una colossale bevuta e a comportarsi, così, allo stesso modo di un ubriacone che tracanna vino a più non posso. Il futuro Augusto, però, una volta superato il conflitto con Antonio, non poteva restare insensibile al fascino dell’eroe invitto, se non altro perché anche per lui era stata programmata e prevista dai suoi poeti una divinizzazione post mortem per le straordinarie imprese compiute in vita. La non casuale coincidenza, a cui si è accennato all’inizio, della data del suo triplice trionfo, nel 29 a.C., con quella dell’anniversario della fondazione dell’Ara Massima (il 12 agosto), ci fa capire che già a ridosso di Azio il processo di pieno recupero del culto di Ercole era stato avviato. Come faceva prevedere un simile esordio, il culto di Ercole finì per occupare un ruolo di primaria importanza nella   Plut. Comp. Dem. et Ant. 3,4, qui nella traduzione di G. Marasco.   Zanker 1989, pp. 49‑52. 62‑71. 37  Sul De sua ebrietate cfr. Scott 1929, pp. 133‑41. 38  Cfr. e.g. Vell.Pat. 2,82,4; Plut. Ant. 24,4; Cass.Dio 48,39,2. 35 36

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Roma augustea: nonostante la predilezione del principe per Apollo, da un lato i templi in onore di Ercole si moltiplicarono a Roma 39, dall’altro soprattutto Virgilio e Orazio si adoperarono per mettere in risalto le analogie fra l’eroe divinizzato e Augusto. In Virgilio, Enea stesso è assimilato a Ercole sin dall’inizio del poema epico: è la persecuzione di Giunone ad accomunare le loro vicende e alle fatiche del dio allude la definizione di labores che viene applicata alle peripezie di Enea. Per i poeti augustei Ercole è il maximus ultor (Verg. Aen. 8,201), proprio come Augusto è l’alexíkakos (Hor. Carm. 1,2,43) e, come Enea nella chiusa del poema epico virgiliano, è l’invictus: alla sua philoponía corrisponde nell’ideologia augustea il concetto del labor e del pondus a cui si sottomette il principe per il bene dello stato e dei sudditi. Chi, come l’Ercole eroico, oltre ad essere iustus et tenax propositi alla stessa stregua del saggio, rimane imperturbabile di fronte a ogni avversità e impassibile davanti al vultus tyranni e all’ardor civium, è degno di essere ammesso fra gli dèi: è questa la sorte che toccherà anche ad Augusto, che di Ercole possiede tutte le doti (Hor. Carm. 3,3,1‑12). Ercole, insomma, ha avuto ragione dei mostri perché è stato capace di dominarli ricorrendo alla propria ratio: di conseguenza il cieco furore e la violenza trovano in lui il naturale oppositore; per questo motivo nei poeti augustei la celebrazione della lotta vittoriosa con Caco e della conseguente fondazione dell’Ara Massima assume un senso che va ben al di là del puro e semplice gusto del narrare: ciò invita ancor più a riflettere sulle cause dell’insistenza da parte di Properzio nella rappresentazione dell’Hercules furens. Tutto comincia a divenire più chiaro, e le ambiguità del mito properziano di Ercole nel Lazio prendono a dissiparsi, se ci s’interroga sulle ragioni che possono aver indotto il poeta ad accordare uno spazio insolitamente ampio e un ruolo a tal punto significativo al culto della Bona Dea: si è cercato di spiegarlo mettendo in rapporto tali scelte col travestimento da donna di cui si vanta Ercole nella sua supplica 40 e si è attribuita al poeta elegiaco l’intenzione di ricordare ai lettori l’audace espediente escogitato da Clodio per introdursi, travestito da donna, in casa di Cesare,   La lista completa è in Spencer 2001, p. 265.   Cfr. infatti Galinsky 1972, p. 55.

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proprio quando vi si celebrava una cerimonia in onore della Bona Dea, in modo da poter approfittare indisturbato dei favori della moglie dell’illustre personaggio. Si era, allora, nel 55 a.C., e sembra poco probabile che, quasi quarant’anni dopo, al sentir parlare di Ercole in abbigliamento femminile, il pensiero dei lettori sia corso a quell’avvenimento. L’insistenza sul divieto per gli uomini di partecipare al culto e sulle pene terribili riservate ai trasgressori acquista ben altro significato se la si considera alla luce dell’adesione entusiastica e convinta di Properzio al programma di restauro dei templi e dei luoghi di culto ormai in rovina per il peso del tempo. Mentre il programma edilizio del principe era in pieno sviluppo, la sua augusta consorte decise di affiancarlo in tale attività, e lo fece promuovendo proprio il restauro del tempio della Bona Dea Subsaxana, sulle pendici del fianco orientale dell’Aventino. Ad attestarcelo è Ovidio, il quale dopo aver annunciato che è giunto il momento di cantare la Diva Bona non si limita a parlare del tempio e delle sue origini, ma ricorda l’efficace e decisiva opera di restauro promossa da Livia (Fast. 5,149‑58): Est moles nativa, loco res nomina fecit: appellant Saxum; pars bona montis ea est. Huic Remus institerat frustra, quo tempore fratri prima Palatinae signa dedistis aves; templa patres illic oculos exosa viriles leniter adclivi constituere iugo. Dedicat haec veteris Crassorum nominis heres, virgineo nullum corpore passa virum. Livia restituit, ne non imitata maritum esset et ex omni parte secuta suum.

Si capisce, allora, che l’episodio della sete di Ercole è ben più che un brillante ‘divertissement’ letterario; anzi, rettamente inteso, ci consente di valutare in modo adeguato la grande dignità e la coraggiosa fierezza della sacerdotessa, perché quella nobile figura doveva evocare alla mente dei lettori Livia stessa. Benché sull’epoca del restauro non abbiamo notizie certe e Augusto non ne parli nel cap. 19 delle sue Res gestae in cui elenca i templi da lui restaurati o edificati 41, non è improbabile   Cfr. Chioffi 1993, pp. 200‑01.

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che esso sia stato realizzato nel periodo della sua assenza da Roma, fra il 22 e il 19 a.C 42. 6.  Il mito, si sa, per sua natura si presta in modo particolare ad essere ‘tecnicizzato’, secondo la definizione di Kerényi 43, cioè ad essere evocato intenzionalmente per conseguire determinati scopi e, dunque, manipolato. In tale panorama s’inserisce – per non fare che un esempio – il progressivo recupero (a cui si assiste anche nel corso dell’elegia) del ruolo divino di Giunone, finora considerata ostile ai Romani in quanto discendenti dai Troiani: di Giunone l’Ercole non ancora divinizzato non aveva mancato di mettere in risalto l’avversione nei suoi confronti, e l’aveva definita amara assimilandola a una matrigna (vv. 43‑44). Tuttavia, una volta che egli è stato ammesso fra gli dèi dell’Olimpo, è ovvio che Giunone non solo non possa più perseguitarlo, ma anzi che debba riconciliarsi con lui: lo proclama il secondo emistichio del v. 71, in cui l’esagerata presentazione del mutato atteggiamento della dea (cui iam favet ... Iuno) è bilanciata dall’epiteto (aspera), che riprende amarae del v. 43 e continua a connotarne la ben nota durezza di carattere. Più di tanto, d’altronde, non era lecito concedere alla dea che anche nell’Eneide era stata costantemente avversa ai Troiani, e dunque ai Romani stessi, e che solo alla fine si era decisa a mutare atteggiamento: proprio come era stata costretta a fare con Ercole. Negli anni in cui Properzio scrive il IV libro, il ricordo di Azio è ancora ben vivo nella mente dei lettori, se non altro perché nel 16 a.C. ne viene celebrato il XV anniversario, di cui resta il ricordo nella rievocazione dello scontro aziaco che Properzio fa nella VI elegia. Non sorprende, quindi, che il poeta abbia deciso di sfruttare anche la duplice natura di Ercole, il cui spessore eroico e la cui divinizzazione gli consentivano una facile identificazione con Augusto, mentre la sua rappresentazione degradata gli offriva la possibilità di accostarlo per più d’un motivo ad

42  Sulla cronologia cfr. Welch 1999, p. 94, Harrison 2005, p. 121. Sostengono con buoni argomenti il legame dell’elegia properziana col restauro del tempio della Bona Dea Fox 1996, p. 170, Spencer 2001, p. 273 n. 28, Welch 2004, pp. 68‑72. 43  Kerényi 1964, pp. 153‑68.

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Antonio. La compresenza dei due aspetti antitetici di Ercole nella stessa elegia non può, di conseguenza, essere spiegata solo col ricorso a giustificazioni di natura letteraria, come quelle fornite dal confronto con l’ironia callimachea, ma anche e soprattutto con la necessità di recuperare pienamente, nel pantheon romano, una divinità che rischiava di rimanere legata all’immagine di Antonio, il quale a suo tempo tanto abilmente l’aveva fatta sua. È significativo, a conferma di questa ipotesi, che il vincitore di Azio si sia preoccupato di recuperare anche il culto di Dioniso, in precedenza ampiamente sfruttato dal rivale 44. A suggerire una tale chiave di lettura è la conclusione stessa dell’elegia, nel cui verso finale l’invocazione ad Ercole recupera caratteristiche che in origine non appartenevano al culto del dio a Roma: definendolo Sancus, infatti, Properzio unisce la sua alle testimonianze dell’assimilazione del culto di Ercole a quello di un’antica divinità, Semo Sancus che a Roma venne poi identificata con Dius Fidius. Sabina sarebbe stata l’origine di Sanco secondo le testimonianze più antiche, che risalgono a Catone (ap. Dion. Hal.  Ant. 2,49,2) e a Elio Stilone (ap.  Varr. Ling. 5,66): nella chiusa, quindi, Properzio ha voluto esaltare la piena disponibilità dei Romani ad accogliere culti e divinità di origine italica. Di una tale apertura verso i culti e le divinità dei popoli italici l’etrusco Vertumno, ormai romanizzato e ben felice di esserlo, si compiace nella II elegia del IV libro, che è poi la prima a rispettare il programma eziologico di Properzio. Forse non è un caso che anche Vertumno abbia una natura mutevole, come e ben più di Ercole, e che – fra le molteplici possibilità di trasformazione che gli offre il legame etimologico con vertere – egli includa anche la capacità di trasformarsi in una non dura puella (4,2,24): per riuscirci, basta che indossi una leggiadra e trasparente veste di Cos. Sembra proprio che Vertumno faccia l’occhiolino a Ercole che, indossata la sgargiante veste di Onfale, si muta in un’apta puella, nonostante le sue durae manus.

44  Sul recupero del culto di Dioniso cfr. Du Quesnay 2005, pp. 177‑78, Cairns 2006, p. 366.

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Spencer 2001 = D. Spencer, Propertius, Hercules, and the Dynamics of  Roman Mythic Space in Elegy 4.9, «Arethusa» 34, 2001, pp. 259‑84. Welch 1999 = T. S. Welch, Poetry and Place in Propertius’ Fourth Book, diss. California, Los Angeles 1999. Welch 2004 = T. S. Welch, Masculinity and Monuments in Propertius 4.9, «AJPh» 125, 2004, pp. 61‑90. Zanker 1989 = P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, trad. ital., Torino 1989.

Abstracts La coesistenza nell’elegia IV, 9 dell’Ercole eroico con l’Ercole degradato è funzionale da un lato al recupero nel Pantheon augusteo dell’eroe divinizzato post mortem, dall’altro al ricordo del suo ruolo negativo in quanto divinità protettrice di Antonio. In the elegy IV, 9 the coexistence of  heroic Hercules with degraded Hercules is functional on the one hand to recovery in the Augustan Pantheon the deified hero post mortem, on the other the memory of  his negative role as patron deity of  Antonius. Keywords: Hercules, Augustus, deification.

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ARCANGELA CAFAGNA Bari

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1.  XXIII canto dell’Iliade: Achille ha consumato la sua vendetta per l’uccisione di Patroclo, facendo scempio del cadavere di Ettore. Placata la collera, resta vivo il dolore per la perdita del giovane amico. È notte fonda. Mentre i suoi compagni hanno fatto ritorno alle tende dell’accampamento, Achille si aggira solitario e inquieto lungo la spiaggia deserta. Fiaccato non solo nell’animo, ma anche nel fisico, dopo l’inseguimento di Ettore sotto le mura di Ilio e il duello conclusivo, Achille non è in grado di opporre resistenza alla stanchezza che lo assale. Si addormenta sulla riva, ma il suo non è un sonno ristoratore: all’improvviso gli appare l’ombra di Patroclo, con le stesse sembianze di quando era in vita, e prende a supplicarlo perché si affretti a concedergli una degna sepoltura: alla perentoria formulazione della richiesta, Patroclo associa l’amara coscienza dell’incolmabile distanza che ormai lo divide dal mondo dei vivi; una tale consapevolezza non gli impedisce di cercare un ultimo, patetico contatto fisico con l’amico, ma invano tenta di afferrargli le mani. Lo consola, tuttavia, la certezza che quella distanza incolmabile verrà annullata quando, anche per Achille, si compirà il destino di morte. Il lungo discorso di Patroclo (vv. 69‑92) costituisce

*  La mia gratitudine va, come sempre, a Paolo Fedeli, col quale ho discusso a lungo e in periodi diversi, sin dagli anni della mia tesi di laurea magistrale sull’elegia 4, 8 di Properzio, i problemi qui trattati e per grande parte coincidenti con le fasi di redazione del nuovo commento al IV libro delle elegie di Properzio (Properzio. Elegie. Libro IV. Introduzione di P. Fedeli, commento di P. Fedeli – R. Dimundo – I. Ciccarelli, Nordhausen 2015). Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 35-50 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112114

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un abile esempio di mozione degli affetti, ricco com’è di nostalgiche rievocazioni dell’infanzia e dei ricordi che lo legano ad Achille: è proprio in nome dei tempi vissuti insieme che diviene legittimo il suo desiderio di un’unica urna che possa raccogliere accanto alle sue anche le ossa dell’amico. Alle intense parole di Patroclo fa seguito la concisa ma non meno commossa risposta di Achille, che accoglie subito i mandata del giovane amico e in uno slancio di affetto tenta di abbracciare la sua immagine; ma l’ombra svanisce in un rapido soffio per fare subito ritorno negli Inferi (vv. 99‑101). Ad Achille non resta che tributare degni onori funebri a Patroclo: provvede, dunque, ad allestire a regola d’arte il rogo e a invocare i venti perché soffino impetuosi e alimentino le fiamme (vv. 192‑98). Cambia lo scenario: siamo nella VII elegia del IV libro di Properzio. Dopo le esequie di Cinzia, il poeta stenta a prendere sonno: la perdita della donna amata gli procura inquietudine e tormento. Ed ecco che, all’improvviso, Cinzia gli appare: si presenta come un’umbra evanescente, eppure mantiene inalterate le sembianze di un tempo – stessi capelli, stessi occhi, stessa voce – (vv. 7‑12) e anche l’irruenza e il temperamento deciso che in vita l’hanno contraddistinta (vv. 13 sgg.). L’ombra di Cinzia prende subito a rampognare Properzio: lo rimprovera di aver ceduto al sonno, dimentico dei momenti d’intensa passione, e con nostalgici accenti rievoca i tempi dell’amore felice, quando il sospetto e il timore dei tradimenti erano ben lontani dal concretizzarsi (vv. 15‑20). Non meno aspro è il rimprovero che gli rivolge per i miseri onori funebri a lei tributati e per l’insensibilità di cui ha dato prova nel corso del funerale: non una lacrima, non un segno di commozione sincera sul volto di Properzio (vv. 23‑34). Eppure Cinzia non gli serba rancore, consapevole com’è che proprio ai suoi carmi deve la fama. Della propria condotta di vita tesse un convinto elogio ed esalta il devoto rispetto di quella fides, che invece Properzio – a suo dire – ha ripetutamente violato (vv. 51‑70). Poi, all’improvviso, le nostalgiche rievocazioni e la celebrazione della propria fedeltà cedono il passo a una serie di imperiosi mandata: con piglio deciso Cinzia lo invita a bruciare i versi d’amore a lei dedicati e a rimpiazzarli con un solo distico, un epitaffio breve in onor suo che lei stessa provvederà a dettargli (vv. 71‑86). Sicura che ben presto le ossa 36

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di Properzio si ricongiungeranno alle sue nell’aldilà, Cinzia si riappropria del ruolo di amante dominatrice e dà voce all’orgogliosa certezza che allora sarà lei, e lei sola, a godere dell’amore di Properzio (vv. 93‑96). La sintesi dei due contesti, quello epico e quello elegiaco, consente di mettere in luce l’intelaiatura omerica su cui Properzio ha costruito la VII elegia del IV libro. Che il poeta non si limiti a rinviare i lettori al suo modello, ma intenda instaurare con esso un ideale dialogo, lo confermano i versi incipitari del carme con la loro riflessione sul destino dell’uomo dopo la morte (vv. 1‑2): Sunt aliquid Manes: letum non omnia finit, luridaque evictos effugit umbra rogos.

Una tale riflessione, che ci si attenderebbe piuttosto a suggello e non in incipit dell’elegia, ha tutta l’aria di costituire una replica alla sententia conclusiva formulata da Achille nei vv. 103‑4 del XXIII dell’Iliade: ὢ πόποι ἦ ῥά τίς ἐστι καὶ εἰν Ἀΐδαο δόμοισι ψυχὴ καὶ εἴδωλον, ἀτὰρ φρένες οὐκ ἔνι πάμπαν.

Se lì a dominare era l’amara e disillusa constatazione dell’esistenza nell’Ade di ombre senza più alcuno spirito, Properzio nel distico iniziale fa sua la convinzione che letum non omnia finit e che le anime, invece, sono in grado di sfuggire alla potenza distruttrice del rogo. È chiaro, dunque, che il poeta elegiaco sin dal distico iniziale invita a leggere il carme alla luce del rapporto privilegiato che intende instaurare con il contesto iliadico; al tempo stesso egli induce il lettore a considerare quel rapporto allusivo non già sotto il segno di una pedissequa ripresa, ma alla luce di una nuova e originale formulazione. Non è sfuggita ai commentatori l’evidente affinità dei due contesti: in entrambi a comparire in sogno è l’umbra della persona più cara (Patroclo ad Achille; Cinzia a Properzio); identica è la conclusione dell’incontro fugace, perché sia Achille sia Properzio cercano invano di abbracciare l’ombra che si allontana e svanisce; identico è l’atteggiamento, tra il querulo e il recriminatorio, con cui le umbrae elencano i torti patiti e dettano precisi mandata; per di 37

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più l’auspicio espresso da Patroclo di un ricongiungimento delle sue ossa con quelle di Achille 1, diviene certezza nelle estreme parole di Cinzia 2. Properzio e Cinzia, dunque, vestono gli stessi nobili panni di noti protagonisti dall’epica dimensione; tuttavia, come si è detto, l’evidente rapporto allusivo nei confronti del modello epico non impedisce che da esso il poeta elegiaco sappia prendere le distanze. Piuttosto che le analogie, a fare del contesto properziano ben altro che un pallido riflesso di quello omerico sono le sensibili e significative divergenze, innanzitutto di contenuto. Mentre Achille – sopraffatto dalla stanchezza e dal dolore – cede facilmente al sonno 3, unico rimedio per il suo animo inconsolabile, Properzio, dopo le esequie di Cinzia, non trova né quiete né sonno nel letto, che ormai è divenuto per lui freddo e ostile (vv. 5‑6): cum mihi somnus ab exsequiis penderet amoris, et quererer lecti frigida regna mei.

Mentre, poi, l’ombra di Patroclo appare in sogno ad Achille con l’identico aspetto di quando era in vita (vv. 66‑67) πάντ’ αὐτῷ μέγεθός τε καὶ ὄμματα κάλ’ ἐϊκυῖα καὶ φωνήν, καὶ τοῖα περὶ χροῒ εἵματα ἕστο,

diversa è la condizione dell’ombra di Cinzia, che conserva, sì, gli stessi capelli e gli stessi occhi, ma si presenta con la veste bruciacchiata, col berillo consunto dalle fiamme del rogo e con le labbra logorate dall’acqua del Lete (vv. 7‑12): Eosdem habuit secum quibus est elata capillos, eosdem oculos: lateri vestis adusta fuit, et solitum digito beryllon adederat ignis, summaque Lethaeus triverat ora liquor. Spirantisque animos et vocem misit: at illi pollicibus fragiles increpuere manus.

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1   Hom. Il. 23, 83‑84 μὴ ἐμὰ σῶν ἀπάνευθε τιθήμεναι ὀστέ’ Ἀχιλλεῦ, / ἀλλ’ ὁμοῦ ὡς ἐτράφημεν ἐν ὑμετέροισι δόμοισιν. 2  Prop. 4, 7, 93‑94 nunc te possideant aliae; mox sola tenebo: / mecum eris, et mixtis ossibus ossa teram. 3  Hom. Il. 23, 62 εὖτε τὸν ὕπνος ἔμαρπτε λύων μελεδήματα θυμοῦ.

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L’ombra di Cinzia parla e respira come quando era in vita; tuttavia, le sue fragili mani scricchiolano e sembrano sul punto di rompersi. Mentre l’eroe omerico non ha ricevuto una degna sepoltura, a Cinzia sono stati tributati gli onori funebri – anche se in modo imperfetto – e la sua ombra appartiene ormai all’aldilà. Diverso è anche il tono adottato dalle due umbrae. Ad animare il discorso di Patroclo non sono sentimenti di rabbia o di rancore: nel testo omerico le velate accuse dell’esordio cedono subito il passo a secche prescrizioni sulla sepoltura frammiste a commosse esternazioni. Ben diverso è lo sfogo di Cinzia, il cui lungo monologo sin dall’inizio assume cadenze tipicamente elegiache (vv. 13‑18): Perfide nec cuiquam melior sperande puellae, in te iam vires somnus habere potest? Iamne tibi exciderant vigilacis furta Suburae et mea nocturnis trita fenestra dolis, per quam demisso quotiens tibi fune pependi, alterna veniens in tua colla manu?

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Le due interrogative svelano un atteggiamento apertamente recriminatorio: dal punto di vista di Cinzia, arrendendosi al sonno è come se Properzio abbia ceduto di nuovo a un’amante: non è un caso che Cinzia lo apostrofi con l’epiteto di perfidus, che rinvia alla violazione della fides. E ancora: mentre Patroclo indulge a nostalgiche rievocazioni dell’infanzia che ad Achille lo legano, ma lo fa senza alcun intento di biasimo o di condanna, Cinzia mescola ai ricordi del passato i lamenti di una donna che si considera tradita e abbandonata. È evidente, dunque, che il ben noto contesto omerico subisce qui un totale adattamento alle esigenze dell’elegia d’amore: se da un lato il poeta ha voluto modellare il ritratto di Cinzia su quello di Patroclo e il ritratto di Properzio su quello di Achille, dall’altro si è preoccupato di fissare la distanza degli amanti elegiaci dagli epici eroi che, pure, essi impersonano. Cinzia parla come una donna innamorata, che dà libero sfogo alla delusione perché dal suo uomo è stata dimenticata: si appropria, sì, del ruolo di Patroclo, ma del giovane eroe altro non è se non una pallida controfigura, che tutt’al più può rievocare gli erotici combattimenti; analoga è la sorte del poeta,

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che all’improvviso si trova a vestire i panni del più bellicoso degli Achei, proprio lui, imbelle per natura oltre che per scelta di vita e di poesia. 2.  XXII canto dell’Odissea: finalmente di ritorno a Itaca nei panni di un cencioso mendico, Odisseo si trova – suo malgrado – a dover fare i conti con una situazione nuova e inaspettata: nel palazzo si sono insediati i Proci e lì si comportano da incontrastati padroni. Scaltro com’è, Odisseo medita vendetta e attende il momento propizio per attuarla. Al termine della gara con l’arco, in cui ha avuto la meglio su tutti i Proci, finalmente decide di liberarsi delle vesti del mendicante e di dare corso alla necessaria vendetta. Un presagio della strage imminente lo si poteva scorgere già nel riso folle e irrefrenabile dei Proci e nella predizione sinistra dell’indovino Teoclimeno (20, 351‑57); tuttavia a segnare il decisivo precipitare degli eventi è l’ingresso di Odisseo nello spazio centrale del mégaron, quello stesso spazio destinato in breve tempo a diventare un cruento campo di battaglia. Con piglio eroico e con cieco furore Odisseo colpisce per primo Antinoo che, ignaro, sta sollevando il calice colmo di vino (22, 17‑18). Giunge, poi, il turno degli altri Proci, nonostante le loro suppliche, e la strage prosegue spietata, con un ritmo lento ma implacabile, scandito dalle frecce di Odisseo che ovunque seminano morte. Il sangue si mescola alla polvere e l’artefice della carneficina soddisfatto contempla la scena (22, 383‑84). Ma non è tutto: Odisseo invita Telemaco a chiamare la nutrice Euriclea che, stupefatta, in quell’arciere lordo di sangue riconosce il padrone e vorrebbe manifestare la sua gioia incontenibile; ma l’eroe frena il suo slancio e le intima di tacere (22, 409‑11). Alla vendetta, perché sia completa, non possono sottrarsi le ancelle infedeli: una volta eseguito l’ordine, la strage può dirsi compiuta. La purificazione della sala con fuoco e zolfo costituisce l’atto conclusivo (22, 452. 481), che fa da preludio all’incontro dell’eroe con l’amata Penelope, nel talamo finalmente ritrovato. Torniamo di nuovo a uno scenario properziano, quello dell’ottava elegia del IV libro: la notizia del tumulto notturno che ha sconvolto gli abitanti dell’Esquilino e il desiderio di scoprire le cause dell’imprevisto evento costituiscono l’esordio di 40

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un’elegia in cui, a prima vista, si ha l’impressione che il disegno eziologico della prima parte di 4, 1 trovi la sua piena realizzazione (vv. 1‑2. 19‑20): Disce quid Esquilias hac nocte fugarit aquosas, cum vicina novis turba cucurrit agris, turpis in arcana sonuit cum rixa taberna, si sine me, famae non sine labe meae!

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Ha tutta l’apparenza di confermarlo l’ampia digressione sul rito di Lanuvio, che sembra dettata da un reale interesse antiquario (vv. 3‑14). Si tratta, però, solo di una fugace e illusoria concessione al programma eziologico, perché l’excursus fornisce il pretesto per una narrazione di ben altro tenore: con la scusa di una visita al santuario di Lanuvio, Cinzia si esibisce in una scandalosa scorribanda lungo la via Appia, in compagnia di un danaroso ed eccentrico amante (vv. 17‑26): siede spavaldamente al timone del cocchio e con sfrontatezza regge le briglie, incurante dello stupore e dei commenti salaci al suo veloce passaggio (vv. 21‑22). Esasperato dalle prolungate assenze di Cinzia e dai suoi continui tradimenti, in un sussulto di megalomania Properzio decide finalmente di vendicarsi e organizza un singolare banchetto, allietato da vivaci e pittoreschi personaggi. Nelle vesti di esuberante regista cura l’organizzazione nei minimi dettagli: ecco, dunque, che sulla scena compaiono due donnine allegre, un flautista, una suonatrice di nacchere e un goffo nano ballerino (vv. 39‑42). Ciò nonostante, l’impeccabile organizzazione del simposio non basterà a garantirne la riuscita. Tristi presagi ne anticipano l’esito infausto e un assordante fragore di battenti accompagna l’irruzione di Cinzia in casa dell’amante fedifrago (vv. 43‑46). Dando prova di un’insospettata violenza, Cinzia si scaglia sulle due donne e le mette in fuga; poi percuote il malcapitato poeta, ma non si dimentica dello schiavo complice della tresca amorosa (vv. 61‑70). A Properzio non resta che arrendersi supplicibus palmis: l’immagine della resa fa da preludio alle rigide prescrizioni che con tono solenne e imperioso Cinzia detta al suo amante, prima di sancire la pace nel letto (vv. 70‑81). Molteplici sono le analogie tra la situazione elegiaca e quella epica: esse riguardano, innanzitutto, lo scenario degli eventi. 41

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La distesa atmosfera conviviale che fa da sfondo al singolare festino in casa di Properzio è la stessa che regna nel banchetto dei Proci a Itaca (Od. 1, 139‑42): in entrambi i contesti una cornice elegante e sfarzosa accoglie i banchettanti che, allietati da tavole splendidamente imbandite, dall’impeccabile servizio offerto da schiavi e ancelle e da ben orchestrate esibizioni di canto e di danza, si godono il piacevole momento del simposio, beatamente ignari di ciò che di lì a poco accadrà. Analogo è il brusco e drammatico precipitare degli eventi, che non tarda a giungere sia per i Proci sia per gli allegri convitati properziani. S’incaricano di preannunciarlo presagi infausti: in casa del poeta alla traballante fiamma della lucerna si aggiunge l’improvviso collasso della mensa (vv. 43‑44); non è un caso che, anche nel banchetto odissiaco, la tavola che crolla al suolo, dopo il violento attacco sferrato da Odisseo ad Antinoo, costituisca il preludio delle successive sventure (22, 19‑20): αἵματος ἀνδρομέοιο· θοῶς δ’ ἀπὸ εἷο τράπεζαν ὦσε ποδὶ πλήξας, ἀπὸ δ’ εἴδατα χεῦεν ἔραζε.

E ancora: inattesa e fragorosa è l’irruzione di Cinzia in casa del poeta (vv. 49‑50): cum subito rauci sonuerunt cardine postes et levia ad primos murmura facta Lares.

La situazione ricorda molto da vicino l’improvviso fracasso che accompagna l’arrivo di Odisseo mentre varca la soglia del mégaron (vv. 1‑4): Αὐτὰρ ὁ γυμνώθη ῥακέων πολύμητις Ὀδυσσεύς, ἆλτο δ’ ἐπὶ μέγαν οὐδὸν ἔχων βιὸν ἠδὲ φαρέτρην ἰῶν ἐμπλείην, ταχέας δ’ ἐκχεύατ’ ὀϊστοὺς αὐτοῦ πρόσθε ποδῶν, μετὰ δὲ μνηστῆρσιν ἔειπεν.

La trama omerica che continuamente è sottesa al racconto elegiaco agisce anche nelle reazioni dei banchettanti: il tempestoso arrivo di Cinzia coglie di sorpresa il poeta, che lascia cadere dalle mani la coppa di vino (vv. 53‑54): Pocula mi digitos inter cecidere remissos, palluerantque ipso labra soluta mero.

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Il suo sbigottimento è lo stesso di Antinoo, che tutto poteva attendersi tranne che un’improvvisa apparizione di un Odisseo assetato di vendetta: trafitto da una freccia, anch’egli fa cadere dalle mani il calice d’oro (22, 17‑18): ἐκλίνθη δ’ ἑτέρωσε, δέπας δέ οἱ ἔκπεσε χειρὸς βλημένου, αὐτίκα δ’ αὐλὸς ἀνὰ ῥῖνας παχὺς ἦλθεν.

Il pallore che invade le labbra del poeta avvinazzato (v. 54) è lo stesso del volto dei Proci: ebbri per il troppo vino essi divengono lividi per il terrore nel constatare che Odisseo è intenzionato a procedere a una vera e propria strage (Od. 22, 42 ὣς φάτο, τοὺς δ’ ἄρα πάντας ὑπὸ χλωρὸν δέος εἷλε). La serie di palesi rinvii ad Omero consente di andare ancora più in là nella ricerca di analogie. Non sembra che si sia lontani dal vero se nelle disperate grida di Teia, perché i vicini portino acqua per spegnere quel metaforico incendio provocato dalla furia di Cinzia (v. 58 territa vicinas Teia clamat aquas), si scorge un riflesso del terribile urlo lanciato da Eurimaco, uno dei Proci, quando, con la spada sguainata, si scaglia contro Odisseo (Od. 22, 79‑81) 4: ὣς ἄρα φωνήσας εἰρύσσατο φάσγανον ὀξύ, χάλκεον, ἀμφοτέρωθεν ἀκαχμένον, ἆλτο δ’ ἐπ’ αὐτῷ σμερδαλέα ἰάχων.

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Analoga, poi, alla reazione dell’araldo Medonte, che per sottrarsi alla furia di Odisseo ἔκειτο ὑπὸ θρόνον (22, 362), è quella dello schiavo Ligdamo, che in modo goffo e maldestro tenta invano di mettersi in salvo dall’ira di Cinzia rifugiandosi dietro la spalliera del letto (vv. 68‑69 Lygdamus ad plutei fulcra sinistra latens / eruitur). Ma non è tutto: Medonte, sbucato fuori dal nascondiglio, non supplica Odisseo ma Telemaco, che considera suo padrone, di risparmiargli la vita (vv. 364‑66): αἶψα δ’ ὑπὸ θρόνου ὦρτο, βοὸς δ’ ἀπέδυνε βοείην, Τηλέμαχον δ’ ἄρ’ ἔπειτα προσαΐξας λάβε γούνων καί μιν λισσόμενος ἔπεα πτερόεντα προσηύδα.   Cfr. in proposito Dalzell 1980, 29 sgg.

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Allo stesso modo Ligdamo non si rivolge in atteggiamento da supplice a Cinzia che su di lui sta per accanirsi, ma a Properzio (v. 69 genium ... meum protractus adorat) 5. Densa è la filigrana intertestuale anche negli ultimi versi dell’elegia. La lustratio della casa e del letto è l’atto conclusivo con cui Cinzia mette fine alla vendetta (vv. 83‑84): dein, quemcumque locum externae tetigere puellae, suffiit et pura limina tergit aqua.

Analogamente Odisseo prima ordina a Telemaco e ai suoi di pulire gli scranni e le mense lorde di sangue (22, 437‑39): “ἄρχετε νῦν νέκυας φορέειν καὶ ἄνωχθε γυναῖκας· αὐτὰρ ἔπειτα θρόνους περικαλλέας ἠδὲ τραπέζας ὕδατι καὶ σπόγγοισι πολυτρήτοισι καθαίρειν”.

In seguito invita la nutrice Euriclea a portare lo zolfo e il fuoco per purificare il luogo del massacro (22, 480‑82): αὐτὰρ ὅ γε προσέειπε φίλην τροφὸν Εὐρύκλειαν 480 “οἶσε θέειον, γρηΰ, κακῶν ἄκος, οἶσε δέ μοι πῦρ, ὄφρα θεειώσω μέγαρον· ”.

Cinzia, per parte sua, ingiunge di cambiare le vesti dopo averle adeguatamente purificate (v. 85 imperat et totas iterum mutare lacernas); il suo ordine ricorda molto da vicino quello di Odisseo a Telemaco e ai suoi aiutanti perché lavino le loro tuniche prima di indossarle di nuovo (Od. 23, 130‑32): “τοιγὰρ ἐγὼν ἐρέω, ὥς μοι δοκεῖ εἶναι ἄριστα. πρῶτα μὲν ἂρ λούσασθε καὶ ἀμφιέσασθε χιτῶνας, δμῳὰς δ’ ἐν μεγάροισιν ἀνώγετε εἵμαθ’ ἑλέσθαι”.

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E infine: il cambio dei pallia nel letto, evidente preludio al tanto atteso ricongiungimento di Cinzia con Properzio (v. 87 mutato per singula pallia lecto), richiama il gesto conclusivo di Eurinome e delle ancelle che stendono le morbide coltri sul letto destinato ad accogliere Penelope e Odisseo (23, 289‑90): τόφρα δ’ ἄρ’ Εὐρυνόμη τε ἰδὲ τροφὸς ἔντυον εὐνὴν ἐσθῆτος μαλακῆς δαΐδων ὕπο λαμπομενάων. 5  Per l’analogia del contesto properziano con quello odissiaco cfr. Evans 1971, 51.

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Il quadro di fondo, però, è complicato da un’altra, significativa presenza. Si ha l’impressione, infatti, che Properzio inviti a leggere la situazione elegiaca alla luce non solo di Omero, ma anche di Virgilio. La descrizione del panico e del terrore dopo l’irruzione di Cinzia nel bel mezzo del festino sembra rievocare il cupo scenario che nel racconto di Enea a Didone, nel II libro dell’Eneide, fa da cornice alla presa di Troia. Evidenti sono le analogie tra il furore di Cinzia e quello di Neottolemo: la bellicosa Cinzia muove all’assalto di quella singolare roccaforte che è la casa di Properzio, in tutto e per tutto simile a un forsennato guerriero (v. 52 non operosa comis, sed furibunda decens); allo stesso modo Neottolemo percorre in lungo e in largo le vie di Troia furens caede (Aen. 2, 499‑500). Ben si coglie, allora, il senso del parallelo istituito da Properzio nel v. 56 con lo spectaculum di una città conquistata (spectaculum capta nec minus urbe fuit): oltre ad enfatizzare il terribile sconquasso provocato dalla furia vendicatrice di Cinzia, quel pentametro annuncia l’epica caratterizzazione della scena e al tempo stesso la definisce, perché il nesso urbe ... capta non vuole evocare genericamente la presa di una città assediata, ma proprio il funesto scenario della conquista di Troia da parte degli Achei. Se si ammette la ripresa allusiva del contesto virgiliano da parte di quello properziano, allora si caricano di senso, sia pure nell’elegiaca degradazione, alcuni particolari apparentemente legati solo alla vicenda personale di Cinzia e di Properzio: le urla e gli schiamazzi che destano l’intero Esquilino nel cuore della notte (v. 60 omnis et insana semita voce sonat) rinviano al sonno dei Troiani, sconvolto a notte fonda dall’ingresso dei nemici (Aen. 2, 298‑301), mentre la fuga delle due meretrici (vv. 61‑62 illas direptisque comis tunicisque solutis / excipit obscurae prima taberna viae) rinvia a quella di Enea e dei suoi nelle tenebre notturne. Si è già detto che le grida disperate di Teia ai vicini perché portino acqua ricordano sul versante odissiaco l’urlo straziante di Eurimaco: ora, però, si può cogliere nella sua pienezza la complessità del rapporto allusivo, perché Properzio rinvia il lettore non solo a un particolare del contesto odissiaco – che è costantemente sotteso ai versi della 4, 8 – ma anche allo scenario virgiliano della città in fiamme; quella di Teia, infatti, è la tipica formula di chi sollecita a spegnere un incendio. 45

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Ma non è tutto: anche il finale del poema virgiliano viene qui sottoposto a una rilettura in chiave elegiaca: l’umiliante e avvilente gesto di Properzio, che – riconosciuta la sua condizione di vinto – supplicibus palmis si prostra di fronte a Cinzia e tenta di sfiorarle i piedi perché non infierisca su di lui (vv. 71‑72 supplicibus palmis tum demum ad foedera veni, / cum vix tangendos praebuit illa pedes), è lo stesso di Turno che – ammessa la sconfitta – humilis supplex protende verso Enea la destra implorante (Aen. 2, 930 ille humilis supplex oculos dextramque precantem / protendens). Ecco che, di nuovo, i protagonisti dell’amore elegiaco si travestono da epici eroi, ora diversi, però, da quelli della tradizione omerica: Cinzia indossa i panni di Enea vincitore e Properzio quelli di Turno sconfitto. Tuttavia la donna elegiaca potrà pure assumere l’aspetto dell’eroe dell’epos virgiliano, ma non potrà mai riprodurne l’epica complessità: mentre Enea non resta affatto indifferente alle suppliche di Turno (Aen. 12, 940‑41 et iam iamque magis cunctantem flectere sermo / coeperat) ed è intimamente combattuto prima d’infliggere alla vittima il colpo di grazia, Cinzia oltre a ostentare un atteggiamento d’irridente superiorità (v. 82 riserat, imperio facta superba dato), solo con una certa qual riluttanza (v. 72 vix ... praebuit) si degna di accettare il gesto di resa del supplice Properzio. Al cruento finale epico che vede Enea affondare furiosamente il ferro nel petto di Turno si contrappone quello elegiaco, nel quale ben altre sono le armi con cui Cinzia impone definitivamente il suo incontrastato dominio sull’innamorato Cinzia, dunque, non solo come Odisseo, ma anche come Neottolemo e come Enea. Ma c’è di più, perché Cinzia può indossare persino le vesti di Didone e di Camilla. Che il ritratto della donna elegiaca sia esemplato non solo sul modello di impavidi eroi, ma anche su quello delle eroine segnate da un tragico destino è confermato da precise riprese testuali: Cinzia, che irrompe nella stanza del festino furibunda (v. 52), ricorda oltre che il furente Neottolemo, anche la regina cartaginese che, ormai decisa a mettere in atto il suo proposito di suicidio, furibunda si precipita all’interno della reggia (Aen. 4, 646). Quando, poi, dopo aver avuto la meglio sulle rivali in amore, victrix recurrit (v. 63), Cinzia si comporta come Camilla che, al termine del vittorioso scontro con i nemici troiani, victrix redit (Aen. 11, 764 46

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qua victrix redit illa pedemque ex hoste reportat) 6. Ma, ancora una volta, Cinzia, che pure fa suo il coraggio di Didone e di Camilla, non condividerà la sorte infausta che ad entrambe è riservata nel genere letterario in cui si trovano ad agire. E così, mentre Camilla e Didone sono destinate fatalmente a soccombere, l’una sotto i colpi mortali dei nemici troiani, l’altra sotto il giogo crudele della passione, Cinzia si avvia a diventare la dominatrice incontrastata della scena e a costringere di nuovo il suo amante a un duro servitium. 3.  Nei primi tre libri di elegie è rilevante la presenza di Omero e dei suoi personaggi 7. È consuetudine che il personaggio epico, calato nello schema dell’elegia d’amore, finisca per assumere le vesti e gli atteggiamenti tipici dei protagonisti dell’elegia: emblematico è il caso dell’omerica Briseide, che nella nona elegia del II libro è raffigurata dapprima mentre abbraccia il corpo senza vita di Achille ed esterna il suo straziante dolore percuotendosi il volto con le mani e versando lacrime copiose (2, 9, 9‑10); poi, mentre provvede al pietoso officio di lavare il corpo di Achille nelle acque del Simoenta e di raccogliere le sue ceneri (2, 9, 11‑14). È chiaro, allora, che Briseide, nel suo passaggio dall’epos all’elegia d’amore, ha infranto il proprio statuto che nell’Iliade la vincolava al ruolo ancillare, e ad esso ha aggiunto le caratteristiche dell’amante elegiaca che disperatamente piange la perdita del suo uomo: d’altronde il suo ruolo, il suo atteggiamento e il suo rapporto con Achille nel passaggio dall’epos al­l’elegia d’amore non possono che essere il frutto di una riscrittura del mito in chiave eroticopatetica. Anche per questo aspetto le due elegie del IV libro che vedono agire Cinzia come protagonista rappresentano un caso particolare. In entrambe, infatti, non sono gli eroi dell’epos ad assumere atteggiamenti tipici degli amanti elegiaci (come avviene nel caso di Briseide), ma, al contrario, sono gli amanti elegiaci a travestirsi da eroi epici e a riproporre situazioni dell’epos ome6  Sulla rappresentazione di Cinzia nelle vesti di un generale trionfatore, cfr. Komp 1988, 131‑32. 7  Lo ha ben mostrato Fedeli 2005, 3 sgg.

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rico e virgiliano. Tuttavia, qui, come sempre, l’identificazione di un protagonista elegiaco con un eroe dell’epos non può essere totale, né è in grado di colmare il divario che esiste tra il mondo degli epici eroi e quello dei personaggi che popolano lo spazio elegiaco. Si possono ben immaginare le conseguenze che un tale processo può comportare per gli epici modelli: i protagonisti delle due elegie properziane sono solo in grado di riproporli sotto mentite spoglie, ma non riescono ad andare al di là di un epico travestimento, incapace di nascondere i loro umani cedimenti. Non stupisce, allora, che nella settima elegia Cinzia assuma il ruolo di un Patroclo che quella singolare controfigura dell’omerico Achille, sulla scena elegiaca impersonata da Properzio, non ha perso tempo a rimpiazzare nel mondo degli affetti; e, di contro, non sorprende che l’Achille elegiaco meriti di subire le accuse di Cinzia-Patroclo e a ragione si veda scaraventare addosso una valanga di recriminazioni e di mandata. È, però, nell’ottava elegia che le conseguenze si rivelano devastanti, specie se si considera il mutato ruolo che in essa spetta a Penelope in quanto modello epico: nel primo e nel secondo libro (mi riferisco in particolare a 1, 3 e a 2, 29) Properzio presenta al lettore una Cinzia dalla condotta irreprensibile e dal comportamento improntato a una fedeltà a tutta prova, che nei panni di una elegiaca Penelope trascorre la propria giornata in casa, in trepida attesa dell’arrivo del suo uomo; ma la sua fedele devozione non è ricambiata come meriterebbe da Properzio che, invece, a notte fonda si aggira ubriaco per le vie di Roma. Il degradato Odisseo dell’elegia vaga, dunque, come quello omerico, ma lo fa a modo suo, da assiduo frequentatore di simposi che, in preda ai fumi del vino, va continuamente in cerca di avventure galanti. Nella 4, 8 la tecnica del rovesciamento investe proprio il rapporto uomo-donna, i cui termini sono nettamente invertiti: nel rapporto Properzio-Cinzia, infatti, Properzio diviene un’improvvida e inefficiente Penelope, che decide di ripagare di egual moneta il suo Odisseo, ma in tale proposito miseramente fallisce; per parte sua, Cinzia è un Odisseo infedele in amore e, tuttavia, geloso e assetato di vendetta: sicura del 48

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fatto suo e forte del precedente omerico, Cinzia passa all’attacco assumendo a pieno titolo un ruolo che nella vita di tutti i giorni è di esclusiva pertinenza dell’uomo. Il processo di degradazione non risparmia né i Proci, il cui equivalente elegiaco è costituito da due volgari meretrici, né la schiera di aedi e di cantori che rivivono nei pittoreschi suonatori e ballerini dell’improvvisato e sfortunato convito properziano. Ma, come sempre avviene in Properzio, proporre un epos caratterizzato dalla degradazione dei personaggi e delle situazioni non significa disconoscerne la grandezza: se, dunque, nell’episodio omerico Odisseo finisce per riassumere il suo ruolo originario accanto a Penelope che la sua pudicizia ha strenuamente difeso, nella trasposizione elegiaca della vicenda omerica sarà quel singolare Odisseo, che è rappresentato da Cinzia, a imporre le sue leggi a quella singolare Penelope che è impersonata da Properzio: ma avrà tutte le ragioni per farlo, perché si tratterà di una Penelope colpevole di aver progettato erotiche rivalse.

Bibliografia Dalzell 1980 = A. Dalzell, Homeric Themes in Propertius, «Hermathena» 129, 29‑36. Evans 1971 = S. Evans, Odyssean Echoes in Propertius IV.8, «G&R» 18, 51‑53. Fedeli 2005 = P. Fedeli, Properzio e la poesia greca prealessandrina, in Atti del convegno internazionale (27‑29 maggio 2004): “Properzio nel genere elegiaco. Modelli, motivi, riflessi storici”, Assisi 2005, 3‑31. Komp 1988 = M. Komp, Absage an Cynthia. Das Liebesthema beim späten Properz, Frankfurt am Main – Bern – New York – Paris 1988.

Abstracts È consuetudine che il personaggio epico, calato nello schema elegiaco, finisca per assumere gli atteggiamenti tipici dei protagonisti dell’elegia. Un caso particolare è rappresentato dalle elegie 4, 7 e 4, 8 di Properzio, in cui invece sono gli amanti elegiaci a travestirsi da epici eroi e a riproporre situazioni dell’epos omerico e virgiliano, con conseguenze devastanti per i nobili modelli.

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It is customary for the epic hero, who is dropped into an elegiac world, to behave like an elegiac lover. The elegies 4, 7 and 4, 8 of  Propertius represent a particolar case: in these poems, we find the elegiac lovers disguised as epic heroes and aimed at re-proposing situations from homeric and virgilian epos, with paradoxical effects for the epic models. Keywords: Propertius, elegy, epic poetry.

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GIANPIERO ROSATI Pisa

NON SOLO OMERO: IL MITO TROIANO IN PROPERZIO

a) Omero e l’epica arcaica Prima di iniziare, sarà utile chiarire alcuni problemi che si annidano nel tema del mio intervento. Lasciamo anzitutto da parte il concetto culturale di mito, e assumiamolo qui solo come sinonimo di un nucleo tematico attorno a cui si addensano varie storie interconnesse: il ‘mito troiano’ sarà quindi per noi l’insieme delle vicende che precedono, accompagnano e seguono la guerra di Troia, un evento così importante per il mondo antico da segnare addirittura una cesura cronologica decisiva, cioè il confine tra il tempo del mito e quello della storia. Ci interrogheremo quindi sui riferimenti che troviamo in Properzio a personaggi e vicende associati alla guerra di Troia. C’è poi un’altra implicazione importante in questo tipo di analisi, cioè il rapporto che il tema inevitabilmente instaura con il genere letterario a cui quel mito è prevalentemente legato (e talvolta stabilmente identificato), cioè il genere epico, e in modo particolare l’opera di Omero. Ora, ciò su cui non mi soffermerò – se non per quanto è inevitabile – è una ridiscussione del rapporto di Properzio con l’epica; il tema è stato più volte trattato, anche in alcuni contributi presentati in questa sede in occasione di convegni precedenti, e anche di recente un lavoro di Paolo Fedeli torna a definire i suoi termini 1. Oltre a tralasciare quindi il discorso sui rapporti di Properzio con il genere epico, vorrei anche, nei limiti in cui è possibile,   Cfr. Fedeli 2003.

1

Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 51-72 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112115

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non identificare tout court genere epico e Omero, così come vorrei evitare una sovrapposizione piena tra mito troiano e Omero: come infatti il mito troiano, in tutta la sua ampiezza, prevede anche ante-Homerica e post-Homerica, cioè una serie di vicende anche molto importanti che precedono o seguono la breve sezione della guerra ritagliata dall’Iliade, o esulano dal segmento particolare dei vari nostoi tracciato dall’Odissea, così sul piano letterario e artistico il complesso di quel mito trova espressione, oltre che in Omero, sia in un vasto ed eterogeneo repertorio figurativo, sia in un ampio inventario di testi soprattutto tragici e lirici nonché, all’interno del genere propriamente epico, nel frammentato e confuso arcipelago del cosiddetto Ciclo. Insomma, per riassumere: ‘mito troiano’ non vuol dire solo letteratura (ma anche, soprattutto, cultura figurativa), non vuol dire solo epica (ma anche, almeno, poesia drammatica e lirica), e nel campo dell’epica non vuol dire solo Omero (ma anche Ciclo). Per iniziare con alcune considerazioni generali su Omero, è un’ovvietà dire che la sua figura (l’archetipo del poeta-vate, il più antico e il più grande della grecità, il suo maestro, per dirla con Platone), e il ‘mito troiano’ che a Omero è associato, occupano una posizione centrale in tutta la cultura antica, greca e romana, e di conseguenza di tutta la cultura occidentale che lì affonda le sue radici: se ‘odissea’ è termine universalmente comprensibile per indicare un viaggio avventuroso e pieno di peripezie, e se ‘cavallo di Troia’ (Trojan) è un termine oggi comprensibile nel gergo informatico, ma anche nel linguaggio comune, in ogni angolo del pianeta, dipende proprio dall’universalità di quel mito. D’altra parte, proprio il fatto che l’episodio del cavallo sia escluso dalla narrazione omerica (è appena accennato nell’Odis­sea), e ci sia noto attraverso Virgilio e altri poeti e narratori della saga troiana, conferma quanto il mito troiano sia anche indipendente dalle opere di Omero, la cui associazione fissa, e anche paradigmatica, con la vicenda di Troia è in larga parte dovuta all’assunzione di Omero come figura esemplare di poeta epico da parte di Aristotele e della tradizione critica dipendente dalla sua Poetica (come ad es. l’Ars poetica di Orazio). L’affermarsi dell’esemplarità di Omero, come sappiamo, va di pari passo con la rimozione dei suoi concorrenti, cioè i poeti che si accomunano solitamente sotto l’etichetta di Ciclo epico. Quello

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del Ciclo, come si sa, è uno dei capitoli più oscuri e controversi del percorso della letteratura greca arcaica legata al mito troiano, che si snoda dai tempi di Omero, ma anche prima, e passando attraverso la letteratura latina (almeno per noi) arriva fino ai poemi tardo-greci di Quinto Smirneo, Trifiodoro e Colluto. La natura fortemente frammentaria dei pochi testi del Ciclo a noi pervenuti, e il pregiudizio critico (fino alla aperta derisione) largamente sedimentato sulla scia di Aristotele e Orazio, hanno fatto sì che quei testi restassero estranei a un’attenzione non prevenuta degli studiosi. Solo di recente, dopo un seminale articolo di Jasper Griffin di qualche decennio fa 2, si è intrapreso un intenso lavoro di scavo e di analisi sull’identità, la natura e le peculiarità della galassia di testi raggruppati nel Ciclo, e si è anche fatta giustizia di una serie di radicati luoghi comuni sui rapporti intercorrenti tra i poemi ciclici e i poemi omerici, così da farci avere un quadro più articolato e oggettivo dell’epica greca arcaica 3. Per quanto riguarda il mito troiano nella poesia elegiaca latina, si può comunque dire in generale che si verifica anche lì quel forte ridimensionamento della centralità di Omero, a vantaggio di materiale di matrice non-omerica, che caratterizza il mito troiano nella poesia ellenistica: “From a study of  the Trojan myth in Hellenistic poetry it becomes clear that the Homeric muthos is passed over in silence and that mainly the material outside Homer is reworked ... The Trojan myth of  the hellenistic poets is deeply non-Homeric and closely linked what we broadly call the Epic Cycle” 4.

b) Properzio, l’epica greca arcaica, il mito troiano Fatte quindi queste premesse torniamo ora a Properzio. Un bel contributo di Elisa Avezzù al convegno Properziano del 2006 5 fissava alcuni punti fermi nel definire i rapporti del poeta con l’epi­ca greca arcaica. In primo luogo svincolandoli dal solo   Cfr. Griffin 1977.   I frutti più significativi di questa rivisitazione critica del Ciclo, iniziata sul finire del secolo scorso e testimoniata anche dalla recente edizione Loeb di M. L. West (West 2003) e dal suo ancor più recente commento (West 2013), sono ora utilmente recuperabili attraverso il relativo Companion di Fantuzzi-Tsagalis 2015. 4  Così Sistakou 2008, pp. 177 e 183. 5  Cfr. Avezzù 2008. 2 3

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Omero, ma coinvolgendo anche materiale eterogeneo recuperabile attraverso altri testi, letterari e figurativi, e sostanzialmente risalenti al Ciclo; e in secondo luogo mostrando come la scomposizione del testo omerico in ‘segmenti tematici’ permette al poeta un uso libero e disinvolto di quel materiale come una serie di exempla di comprensione immediata da parte del lettore, che condivide il codice culturale chiamato in causa (il mito, appunto). Un universo le cui vicende e i cui personaggi possono essere assolutizzati e assunti a emblema di quel mondo ideale, fuori del tempo storico, che si può definire con una formula dello stesso Properzio, cioè formosi temporis aetas (1, 4, 7), e che non indica soltanto il mondo delle grandi bellezze femminili (quelle raccolte nel Catalogo esiodeo, e non solo), in cui dovrebbe entrare di diritto la stessa Cinzia, ma (per usare la traduzione di Fedeli) ‘il tempo della bellezza’, cioè il tempo del mito. Non stupisce, naturalmente, che i paradigmi omerici siano i più diffusi: proverbiali sono quindi, solo per fare qualche esempio, l’opulenza dei Feaci (1, 14, 24; 3, 2, 13), come lo è Menelao in quanto vittima dell’ospitalità tradita (2, 34, 7), o Nestore come uomo della lunga vecchiaia (e del perenne lutto per la morte di Antiloco: 2, 13, 42‑50), o Ulisse per i suoi interminabili errores (2, 14, 4). Nireo è l’uomo della facies, del bell’aspetto, come Achille lo è della vis, della forza (3, 18, 27), e più esemplari ancora sono Penelope come paradigma della moglie fedele (2, 9, 3‑8; 3, 13, 24; 4, 5, 7‑8), e viceversa Elena della bellezza e leggerezza femminile (2, 1, 50). L’unico paradigma, quest’ultimo, capace di costituire un termine di paragone per la bellezza di Cinzia: post Helenam haec terris forma secunda redit (2, 3, 32). Talvolta la ripresa del testo omerico è più ampia e articolata. A 3, 12, 23‑38, ad es., Properzio tratteggia una sintesi dell’intera Odissea, elencando alcune tra le più note avventure di Ulisse, che viene evocata come exemplum per esaltare attraverso il paradigma della ‘casta Penelope’ la moglie ancor più virtuosa di Postumo, Galla; e Postumo sarà quindi un secondo Ulisse come abbiamo visto che Cinzia era una seconda Elena: Postumus alter erit miranda coniuge Ulixes: non illi longae tot nocuere morae, castra decem annorum, et Ciconum mors, Ismara capta, exustaeque tuae nox, Polypheme, genae,

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et Circae fraudes, lotosque herbaeque tenaces, Scyllaque et alternas scissa Charybdis aquas, Lampeties Ithacis veribus mugisse iuvencos (paverat hos Phoebo filia Lampetie), et thalamum Aeaeae flentis fugisse puellae, totque hiemis noctes totque natasse dies, nigrantisque domos animarum intrasse silentum, Sirenum surdo remige adisse lacus, et veteres arcus leto renovasse procorum, errorisque sui sic statuisse modum. Nec frustra, quia casta domi persederat uxor. Vincit Penelopes Aelia Galla fidem.

Il principio che ispira questa, come generalmente altre riprese o riletture del mito (troiano e non solo), è quello della funzionalità di certi suoi tratti al contesto in cui Properzio le colloca e a cui le adatta. Dove infatti il mito non si presta a un impiego idoneo e conforme al testo che lo accoglie, il poeta non esita a praticare una vera e propria ‘elegiacization’ del modello 6: non gli interessa la fedeltà all’ipotesto, quanto la sua assunzione in un altro universo che lo fa diventare paradigma di un significato funzionale al nuovo contesto. I meccanismi di questa operazione di selezione, assolutizzazione e funzionalizzazione di tratti specifici del mito sono già stati ben illustrati, anche da studiosi italiani 7, e dunque su questo aspetto – che qui sarà peraltro oggetto della relazione di Giovanni Polara – non mi soffermo. Torniamo piuttosto al mito troiano in Properzio. Mito troiano, abbiamo detto, non equivale in sé all’epica, e tanto meno a quella omerica: oltre a Omero mito troiano significa anche il Ciclo, e quanto di quel repertorio tematico poteva arrivare a Properzio indipendentemente da Omero (e perfino contro Omero, in conflitto cioè con la centralità ed esemplarità del suo ruolo). Su questo universo confuso proverò qui a gettare una sguardo. Partirei da quello che è un caso notevole del modo in cui Properzio definisce i confini del mito troiano, quello che leggiamo a 4, 1, 109‑19:   Rinvio, dopo Dalzell 1980, soprattutto a Benediktson 1985.   Anche da studiosi italiani: cfr. La Penna 1977, pp. 196‑208; Fedeli 2004; ma soprattutto Lechi 1979 e, quello che è il lavoro più sistematico sul tema, Gazich 1995. 6 7

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Exemplum grave erit Calchas: namque Aulide solvit ille bene haerentis ad pia saxa ratis; idem Agamemnoniae ferrum cervice puellae tinxit, et Atrides vela cruenta dedit. Nec rediere tamen Danai: tu diruta fletum supprime et Euboicos respice, Troia, sinus! Nauplius ultores sub noctem porrigit ignis et natat exuviis Graecia pressa suis. Victor Oiliade, rape nunc et dilige vatem, quam vetat avelli veste Minerva sua! Hactenus historiae!

Qui l’indovino Horos, per dimostrare la necessità del rispetto della pietas verso gli dei, abbozza una vera sintesi del mito troiano (di quelle che chiama historiae), che si estende dagli anteHomerica ai post-Homerica, cioè dalla sosta forzata della flotta greca in Aulide, con l’uccisione di Ifigenia, all’incendio della città (siamo quindi già oltre Omero, che viene drasticamente eluso e scavalcato) 8, ai luttuosi nostoi degli eroi greci, con il naufragio provocato da Nauplio al Cafereo, e allo stupro di Cassandra da parte di Aiace Oileo, il quale ne pagherà la colpa per mano divina. L’intera vicenda troiana, che viene qui riletta come una storia funesta per i Greci, come una sequenza di lutti che compensa e ridimensiona la stessa sconfitta di Troia (invitata perciò a non piangere la propria fine), sconfina largamente in territorio non-omerico, sia prima che dopo ‘Omero’, confermando la duttilità cui il mito troiano si presta per l’articolazione dei suoi diversi episodi. Per Properzio del mito troiano fanno quindi parte a pieno titolo le vicende trattate nel Ciclo (dai Cypria ai Nostoi), tutte quelle vicende che in Omero sono assenti e la cui conoscenza dobbiamo appunto alla tragedia e/o alle arti figurative. Vi sono dunque inclusi molti degli episodi troiani cui Properzio accenna come a vicende ben note ai suoi lettori: il giudizio di Paride sull’Ida (2, 2, 13‑4; 3, 13, 38), o la storia di Telegono, il figlio 8  Interessante l’analogia di questa selezione non-omerica del mito troiano con l’operazione compiuta da Ovidio nelle Metamorfosi, dove la sezione della cosiddetta Piccola Iliade (12,1‑13, 622) si distingue come una raccolta di Antehomerica e Posthomerica, mentre il materiale propriamente omerico è completamente assente.

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che Ulisse ha da Circe (2, 32, 4), o le complesse vicende di Filottete, o quelle di Telefo (2, 1, 59‑64), o di Polidoro (3, 13, 55‑6), Erifile (3, 13, 57‑8; 2, 15, 29), Cassandra (3, 13, 61‑4), così come la tragica storia d’amore di Protesilao e Laodamia (1, 19, 7‑10), un episodio appena accennato in Omero (Il. 2, 698‑702) ma che era certamente narrato nei Cypria (PEG F 36 = 22 W). Soprattutto però nell’epica del Ciclo doveva avere uno spazio rilevante la figura di Pentesilea, l’amazzone uccisa da Achille che subito dopo averla colpita a morte ne vede il volto e resta abbagliato dalla sua bellezza, innamorandosene (la Pantasilea inclusa da Dante tra gli ‘spiriti magni’ insieme all’altra eroina-guerriera, la virgiliana Camilla; a questo episodio della fase finale della vita dell’eroe allude forse lo stesso Dante quando, nel libro successivo, parla del “grande Achille / che con amore al fine combatteo”). Nell’Etiopide infatti, come ha lucidamente mostrato di recente Marco Fantuzzi 9, troviamo una traccia, la prima, delle critiche rivolte ad Achille per questo cedimento all’eros, cioè all’innamoramento per Pentesilea, nelle parole con cui Tersite censura il suo comportamento come improprio allo standard richiesto a un eroe. La sintesi del poema che noi leggiamo in Proclo parla di un ‘presunto amore’ che viene rinfacciato come una vergogna ad Achille 10, e in uno scolio all’Alessandra (v. 999) di Licofrone si parla di Tersite che accusa l’eroe di essersi unito al cadavere dell’amazzone (un motivo, questo della necrofilia, confermato da Nonno, Dion. 35, 17, su cui torneremo sotto). Di un innamoramento di Achille ‘dopo la morte’ fa menzione anche Apollodoro (“Più tardi [Pentesilea] muore per mano di Achille, il quale, dopo la sua morte, si innamora di lei e uccide Tersite che lo insultava”, epit. 5, 1), e nella versione (non sappiamo fino a che punto fedele alla sua fonte) di Quinto Smirneo (Posthom. 1, 723‑40) Tersite accusa Achille di essere un gunaimanés (v. 735), impiegando cioè allusivamente un termine fortemente connotato, perché era esattamente lo stesso con cui Ettore stigmatizzava il comportamento del fratello Paride in Omero (Il.  3, 39). Poiché, diversamente che nell’Iliade, nell’Etiopide   Cfr. Fantuzzi 2012, pp. 268‑86.   Per un’analisi approfondita del passo, e le sue diverse letture, cfr. Fantuzzi 2012, p. 271. 9

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le critiche di Tersite non risultano screditate per la fonte stessa da cui provengono, ma sembrano condivise dall’esercito dei Greci a cui Tersite si rivolge, sembrerebbe potersi dedurre che risalga a quel poema la critica a questo cedimento affettivo dell’eroe par excellence, del paradigma dell’eroi­smo bellico. Potrebbe insomma risalire addirittura all’epica ciclica la più antica testimonianza di un tema/problema che avrà grande rilevanza, e produttività, per l’elegia latina (per Properzio e più ancora per Ovidio), cioè il ruolo della donna e dell’amore nell’epica, e dunque l’esperienza e compatibilità dell’eros nei comportamenti standard di un eroe (mentre erano notoriamente inconciliabili nell’epica omerica, come mostrano le aspre accuse di Ettore al fratello Paride nel terzo dell’Iliade). Il richiamo di Properzio a Pentesilea e all’amore improvviso di Achille per lei compare a 3, 11, 13‑6: ausa ferox ab equo quondam oppugnare sagittis Maeotis Danaum Penthesilea ratis; aurea cui postquam nudavit cassida frontem, vicit victorem candida forma virum.

Il poliptoto del ‘vincitore vinto’ incapsula il tema cruciale della contaminazione, che è in effetti una vera sovversione, tra le sfere dell’eroismo bellico e quello dell’eros femminile: un conflitto di valori, ma anche di generi sessuali (maschile vs femminile, sia pure nel caso di Pentesilea mediato dal fatto che si tratta di un’amazzone, un’eroina guerriera: di quell’opposizione forte c’è traccia anche nel virgiliano audetque viris concurrere virgo di Aen. 1, 493) così come di generi letterari: all’epica è notoriamente estraneo l’eros, che è tipico viceversa dell’elegia. Quel poliptoto avrà grande fortuna in Ovidio, il quale sfrutterà ampiamente, anche sul piano strettamente linguistico, il paradosso dell’eroe innamorato (come ad es. Ercole, cui Deianira scrive victorem victae succubuisse queror, Her. 9, 2) 11, ma anche oltre: lo ritroveremo ad es. nelle recriminazioni contro Agamennone della Clitennestra di Seneca (Agam. 175 amore captae captus). Quel motivo ossimorico, implicito in nuce già nella giu  Cfr. Casali 1995, ad loc.

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stapposizione captiva vs dominus di un’ode oraziana sugli amori ancillari (2, 4, 5‑6 movit Aiacem Telamone natum / forma captivae dominum Tecmessae) 12, sarà assunto dall’ideologia elegiaca come nucleo tematico del servitium amoris, cioè il fondamento della concezione dell’eros tipica di questo genere letterario. In quell’ossimoro si può vedere la spia-simbolo di un conflitto che doveva aver trovato spazio nell’epica ciclica, ma che l’epica di matrice omerica (la linea vincente) aveva radicalmente estirpato costruendo un’immagine senza incrinature dell’eroe epico, estraneo a ogni debolezza affettiva e a cedimenti verso la sfera dell’eros e del mondo femminile. L’idea-simbolo del vincitore-vinto (vicit victorem) è abbastanza comune in latino, ma in greco è molto rara: la troviamo tuttavia in età tarda, assai sfruttata da Nonno nelle sue Dionisiache in un episodio (35, 17‑78) che è dichiaratamente ispirato al modello di Achille e Pentesilea (“Quegli, preso da desiderio per un cadavere senza vita, come Achille vedendo un’altra Pentesilea a terra distesa ...”, 27‑8), dove un combattente indiano, Morreo, si innamora di una bassaride che ha appena ucciso (22‑5 “e mentre la tunica sale ella si arma di splendore e ferita ferisce l’uccisore innamorato; sua arma diventa la bellezza, e morendo trionfa”; 37‑9 “il tuo uccisore malato d’amore ferita hai ferito, e morta un vivo tu uccidi, con le tue palpebre colpisci chi ti ha colpito ...”) 13. Analogamente, l’immagine dell’elmo che sollevato rivela la bellezza di Pentesilea da cui Achille rimane abbagliato (cfr. Prop. 3, 11, 15 aurea cui postquam nudavit cassida frontem) ricompare in un poema inserito nella tradizione del ciclo troiano, cioè nei Posthomerica di Quinto Smirneo, 1, 657‑61: Ἀμφὶ δέ οἱ κρατὸς κόρυν εἵλετο μαρμαίρουσαν ἠελίου ἀκτῖσιν ἀλίγκιον ἢ Διὸς αἴγλη· τῆς δὲ καὶ ἐν κονίῃσι καὶ ἅιματι πεπτηυίης ἐξεφάνη ἐρατῇσιν ὑπ’ ὀφρύσι καλὰ πρόσωπα καί περ ἀποκταμένης.

12  Che invece dovrebbe essere semmai un accostamento in ben altra prospettiva: cfr. Verg. Aen. 3, 324 nec victoris heri tetigit captiva cubile. 13  Per i dettagli cfr. Agosti 2004, pp. 562‑64, anche sul rapporto con il testo (probabilmente precedente) di Quinto di Smirne.

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Se non si vuole pensare che Quinto conosca e imiti Properzio (e così faccia anche Nonno) 14, l’immagine del fatale effetto prodotto su Achille dalla scoperta della bellezza di Pentesilea, largamente documentata anche in campo figurativo (nella pittura vascolare del VI‑IV sec. a.C.) 15, dovrebbe rimandare a una versione arcaica (la stessa dell’Etiopide?) che narrava appunto l’improvviso innamoramento dell’eroe. L’idea della contaminazione epos/eros è insomma probabile che affondi le sue radici molto lontano, fin nell’epica ciclica, prima che l’affermazione dell’epi­ca omerica, e dei modelli culturali che essa definisce e impone, ne facesse giustizia. Se così fosse, cioè, dovremmo supporre che l’epi­ca greca ciclica, o direttamente o attraverso la mediazione di altri testi (letterari e figurativi), abbia comunque esercitato la sua influenza veicolando quel tema anche sulla poesia elegiaca latina. Il peso esercitato dalla poesia ciclica sulla poesia latina d’età augustea, sia pur difficilmente documentabile, è ormai riconosciuto per alcuni autori (almeno Virgilio e Ovidio) come più che plausibile 16, e lo si può verosimilmente postulare anche per un poeta come Properzio.

c) Troia come mito di guerra, e d’amore Meno certo, per quanto la tesi abbia incontrato largo favore, è che già nei Cypria avesse spazio un’altra vicenda topica nella definizione dell’ethos eroico e della sua ‘contaminazione’ con l’esperienza dell’eros, cioè la storia di Achille a Sciro e della sua liaison con Deidamia. È la vicenda che noi conosciamo in dettaglio dall’Achilleide di Stazio, ma che era notissima a Ovidio (in Ars 1, 681 la dice fabula nota), il quale nel parlarne insiste a lungo sullo ‘scandalo’ di quel degradamento della dignità, della statura eroica del personaggio (Turpe, nisi hoc matris precibus tribuisset, Achilles / veste virum longa dissimulatus erat. / Quid facis, Aeacide? 14   La tesi, se non impossibile, resta comunque improbabile. L’eventuale conoscenza della (grande) poesia latina da parte dei poeti greci tardo-antichi è notoriamente molto dibattuta: in generale si tende a escluderla, anche se in alcuni casi la necessità di postulare una qualche connessione diretta sembra imporsi. 15  La documentazione è segnalata da Fantuzzi 2012, p. 270. 16  La questione semmai è se dei testi ciclici i poeti latini augustei avessero una conoscenza diretta o mediata; per Virgilio cfr. Kopff  1981 e Gärtner 2015; per Ovidio, Rosati 2015.

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non sunt tua munera lanae; / tu titulos alia Palladis arte petas. / Quid tibi cum calathis? clipeo manus apta ferendo est: / pensa quid in dextra, qua cadet Hector, habes? / Reice succinctos operoso stamine fusos! / Quassanda est ista Pelias hasta manu, 1, 689‑96). Anche Properzio menziona la vicenda a 2, 9, 9‑20: nec non exanimem amplectens Briseis Achillem candida vesana verberat ora manu, et dominum lavit maerens captiva cruentum, propositum flavis in Simoente vadis, foedavitque comas, et tanti corpus Achilli maximaque in parva sustulit ossa manu; cum tibi nec Peleus aderat nec caerula mater, Scyria nec viduo Deidamia toro. Tunc igitur veris gaudebat Graecia natis, tunc etiam felix inter et arma pudor. At tu non una potuisti nocte vacare, impia, non unum sola manere diem!

Qui il contesto insiste, in opposizione alla superficiale insensibilità mostrata da Cinzia, sul complesso degli affetti familiari che circonda Achille, e sull’esemplarità dei legami affettivi nel mondo del mito greco. All’appassionata dedizione di Briseide vengono giustapposti i rapporti familiari, quasi ‘istituzionali’ (i genitori e la sposa), in cui viene compresa Deidamia. Anche se è diversa cioè la funzione di quel modello, che anziché l’anomalia mette in risalto l’appropriatezza del legame affettivo dell’eroe, ciò che qui importa è che la vicenda di Sciro viene inclusa tra le componenti costitutive dell’immagine di Achille, concorre cioè a definire la sua figura, sottraendosi alla rimozione ‘censoria’ che il modello epico-omerico aveva operato. Ma la vicenda più nota a questo proposito, cioè di erotizzazione delle figure del mondo eroico di Omero, e più fortunata in ambito elegiaca, è quella anche qui richiamata, cioè quella di Briseide e del suo legame con Achille: un legame non più da padrone schiava, ma di tipo schiettamente affettivo-erotico. In termini generali, come ha mostrato il lavoro di uno studioso francese, J. F. Berthet 17, la selezione operata da Properzio su Omero sembra molto forte e orientata: privilegia nettamente   Cfr. Berthet 1980.

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le figure umane, a scapito di quelle divine, e tra gli umani presceglie personaggi e vicende naturalmente, direi statutariamente, reattivi all’elegia, alla sua ideologia e alla sua poetica (e questo spiega la larga presenza di Elena e Paride, cioè la coppia-simbolo dell’ethos erotico nel mondo iliadico: 3, 8, 29‑32; 2, 15, 13‑4; 3, 14, 19; 2, 3, 32; 2, 34, 88); oppure figure con cui l’elegia ha un rapporto idiosincratico, in quanto appartenenti al mondo della guerra, o, meglio ancora, che dal mondo della guerra virano verso quello dell’eros. Nessuno in questa chiave si prestava meglio di Achille, il simbolo stesso del codice eroico. Com’è noto, prima che Ovidio sfruttasse ampiamente il tema dell’amore tra Briseide e Achille (non solo nella terza eroide), già Properzio presentava a più riprese questa versione ‘romantica’ del rapporto tra l’eroe e la donna-schiava che in Omero sembrerebbe essere essenzialmente un géras, il premio-simbolo della timé, dell’onore guerriero di Achille. In realtà in Omero le cose stanno forse in maniera meno netta di quanto comunemente si creda 18: alcuni dettagli del suo testo (spec. 9, 339‑43) sembrano contemplare la possibilità di un coinvolgimento affettivo dell’eroe per la sua ancella, o quanto meno legittimare l’interpretazione in questa chiave che dalle pieghe del testo iliadico avevano estratto già gli antichi scoliasti (i quali a 1, 346 e 349 colgono l’erotismo implicito nel dettato omerico e parlano letteralmente di un Achille ‘innamorato’: ἐρῶντος, ἐρῶντα) 19. In Properzio Achille (così come Ettore) viene definito gagliardo sia come eroe sia come amante (2, 22, 29‑34): quid? cum e complexu Briseidos iret Achilles, num fugere minus Thessala tela Phryges? quid? ferus Andromachae lecto cum surgeret Hector, bella Mycenaeae non timuere rates? ille vel hic classis poterant vel perdere muros: hic ego Pelides, hic ferus Hector ego.

Ma se qui il ruolo di Briseide nei confronti di Achille può essere semplicemente quello di una concubina, altrove è molto più esplicita l’interpretazione del loro rapporto come un legame   Rinvio all’ampia e attenta analisi di Fantuzzi 2012, pp. 99‑109.   Su questi tratti insiste Fantuzzi 2012, pp. 102‑08 e 116‑23.

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intensamente affettivo. Dal punto di vista di lei l’idea è suggerita dall’immagine di 2, 9, 9‑14 (che abbiamo visto qui sopra), dove si è supposto che Properzio trasferisca ad Achille le manifestazioni di lutto che la stessa Briseide in Omero, Il. 19, 283‑85, riservava a Patroclo 20 (Nec non exanimem amplectens Briseis Achillem / candida vesana verberat ora manu; / et dominum lavit maerens captiva cruentum, / propositum flavis in Simoente vadis, / foedavitque comas, et tanti corpus Achilli / maximaque in parva sustulit ossa manu); mentre in un altro passo dello stesso libro ad Achille viene attribuita una dolorosa sofferenza d’amore per il distacco da Briseide, e l’eroe funge anzi da exemplum mitico dello stesso poeta-amante (2, 8, 29‑40) 21: Ille etiam abrepta desertus coniuge Achilles cessare in Teucris pertulit arma sua. Viderat ille fuga stratos in litore Achivos, fervere et Hectorea Dorica castra face; iderat informem multa Patroclon harena porrectum et sparsas caede iacere comas, omnia formosam propter Briseida passus: tantus in erepto saevit amore dolor. At postquam sera captiva est reddita poena, fortem illum Haemoniis Hectora traxit equis. Inferior multo cum sim vel matre vel armis, mirum, si de me iure triumphat Amor?

Il mito troiano, con i suoi protagonisti, diventa quindi lo schema attraverso il quale Properzio interpreta le proprie esperienze anche erotiche; così come quando instaura un confronto tra un’interpretazione ‘razionale’ della guerra di Troia e delle sue cause, e un’interpretazione ‘emotiva’, che tradizionalmente individua quelle cause nel ratto di Elena (2, 3, 29‑40): 20  Cfr. Fedeli 2005, p. 282, che contempla in subordine (sulla base delle analogie con il comportamento di Briseide in Quinto, Posthom. 3, 551‑54) anche l’ipotesi di una dipendenza da una fonte perduta. Cfr. anche Lechi 1979, p. 90 n. 14. 21  Per questa immagine di Achille innamorato cfr. anche l’accenno di Orazio, epist. 1, 2, 13 hunc (scil. Peliden) amor, ira quidem communiter urit utrumque; per le possibili tracce nella letteratura greca precedente cfr. Fantuzzi 2012, passim; cfr. anche, per quella successiva, Fedeli 2005, p. 263. Osservazioni importanti, anche in relazione a Properzio, in Barchiesi 1992, p. 187; cfr. inoltre Gazich 1995, p. 101.

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Gloria Romanis una es tu nata puellis: Romana accumbes prima puella Iovi, nec semper nobiscum humana cubilia vises; post Helenam haec terris forma secunda redit. Hac ego nunc mirer si flagret nostra iuventus? pulchrius hac fuerat, Troia, perire tibi. Olim mirabar, quod tanti ad Pergama belli Europae atque Asiae causa puella fuit; nunc, Pari, tu sapiens et tu, Menelae, fuisti, tu quia poscebas, tu quia lentus eras. Digna quidem facies pro qua vel obiret Achilles; vel Priamo belli causa probanda fuit. Si quis vult fama tabulas anteire vetustas, hic dominam exemplo ponat in arte meam: sive illam Hesperiis, sive illam ostendet Eois, uret et Eoos, uret et Hesperios.

L’opposizione olim vs nunc sembra mettere a confronto le due opposte logiche dell’epica e dell’elegia: quasi che prima di Cinzia il poeta-amante capisse gli argomenti di chi negava che la causa della Grande Guerra del mondo antico, che aveva visto scontrarsi Asia e Europa, potesse essere una donna (secondo la tesi di Omero, Il. 3, 156‑57, e che lo stesso Properzio accetta a 2, 6, 15‑18, cit. qui sotto), mentre dopo di lei quelle ragioni ‘irrazionali’ si impongono come pienamente credibili 22. L’esperienza dell’amore per Cinzia ha insomma trasformato l’orizzonte intellettuale del poeta e i concetti e valori ad esso propri, ha cambiato il suo ‘ordine del mondo’. Questo diventa quindi Troia per lui: un mito bellico, dunque anti-elegiaco, ma che può essere letto anche come la guerra per Elena, la sua causa scatenante. Il racconto epico-guerresco par excellence, la Grande Guerra del mondo del mito, si presta così a esser riletto in chiave anti-epica, vale a dire elegiaca, come una storia di ‘guerra per amore’. Oltre a suggerire una metafora erotica che fa dell’Iliade una guerra a letto, che l’amante combatte valorosamente (cfr. 2, 1, 13‑14 seu nuda erepto mecum

22  Come confermerà un altro poeta elegiaco, Ovidio in am. 2, 12, 17‑8 (Nec belli est nova causa mei. Nisi rapta fuisset / Tyndaris, Europae pax Asiaeque foret ...), dove inserisce la propria vittoriosa ‘guerra per amore’ in una tradizione che risale fino alla vicenda di Troia.

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luctatur amictu, / tum vero longas condimus Iliadas), questa prospettiva distorta anticipa l’operazione che in maniera più sistematica, e sperimentandone tutte le implicazioni etico-ideologiche e letterarie, condurrà Ovidio nel corso di tutta la sua produzione. L’esempio più nitido, nella sua provocatorietà, di questa operazione è quello che Ovidio fornisce durante la sua autodifesa davanti ad Augusto (trist. 2, 371‑80): perfino Omero, se si vuole, cioè se si applica una lente pregiudizialmente orientata, può esser considerato un poeta erotico: Ilias ipsa quid est aliud nisi adultera, de qua inter amatorem pugna virumque fuit? quid prius est illi flamma Briseidos, utque fecerit iratos rapta puella duces? aut quid Odyssea est nisi femina propter amorem, dum vir abest, multis una petita viris? quis nisi Maeonides Venerem Martemque ligatos narrat, in obsceno corpora prensa toro? unde nisi indicio magni sciremus Homeri hospitis igne duas incaluisse deas?

La forzatura è dichiarata, e strumentale; ma la lettura parziale, tendenziosa di entrambi i poemi di Omero, esemplificata da Ovidio è in fondo la stessa messa in atto da Cinzia, quando si atteggia a casta matrona e condanna dunque l’intera Iliade identificandola con la sua dissoluta protagonista femminile, cioè Elena (2, 1, 49‑50): si memini, solet illa levis culpare puellas, et totam ex Helena non probat Iliada.

Come qui Cinzia identifica l’Iliade con la sua figura femminile, o meglio la causa scatenante della guerra, e dunque nel suo empito moralistico condanna l’intero poema, anche altrove quella di Troia viene vista come una guerra per amore, così come la peste che colpisce i Greci è effetto della passione di Agamennone per Criseide (2, 6, 15‑18): his olim, ut famast, vitiis (scil. la passione d’amore) ad proelia his Troiana vides funera principiis; [ventumst, hinc olim ignaros luctus populavit Achivos, Atridae magno cum stetit alter amor.

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Per il poeta-amante l’eros è quindi la causa scatenante della guerra di Troia. Anche Properzio, prima di Ovidio, ne fa una lettura parziale, tendenziosa, secondo l’ottica distorta dell’ideo­logia elegiaca; una lettura che anzi esemplifica nel modo più evidente la tendenza totalizzante propria dell’elegia, la sua prospettiva monotematica che all’eros tutto riconduce e riduce, perfino la più famosa delle guerre e l’oggetto del poema epico per antonomasia. Quasi l’atto estremo di una sfida che l’elegia lancia al genere ‘maschio’ per eccellenza affermando il primato dei suoi valori soft, ‘femminili’ e alternativi. Una sfida che si inseriva peraltro nel processo di riscrittura revisionistica del genere epico messo in atto dalla letteratura ellenistica e che si può verificare nel modo più chiaro proprio attraverso il mito troiano 23. Al di là, e indipendentemente, dall’eventuale influenza ciclica, la metamorfosi di Achille in eroe (anche) innamorato, cioè coinvolto in varie liaisons di tipo erotico, è chiaramente documentata nell’Alessandra di Licofrone 24 e nell’adespota Fondazione di Lesbo (forse di Apollonio Rodio), dove l’eroe assume i tratti di un tipico amante ellenistico 25. Ma una completa e radicale de-omerizzazione dell’eroe ispirava (come già il titolo stesso dichiara) l’Epitalamio di Achille e Deidamia, l’ope­ra di un poeta bucolico (ca 100 a.C.) imitatore di Bione che sulla scia degli Scirii di Euripide arrivava a fare di Achille un eroe non più solo innamorato ma addirittura effeminato 26. L’elegia latina insomma trovava un terreno già ampiamente preparato ad assorbire il mito troiano e i suoi eroi più significativi nel proprio spazio e a rileggere quel mito in una prospettiva nuova e orientata verso un diverso sistema di valori, un mondo in cui l’eros aveva un ruolo dominante e anzi esclusivo, tale da subordinare a sé l’intera realtà e a darle senso.

d) Roma come Troia resurgens Ma c’è anche un altro impiego in Properzio del mito troiano che ha un ruolo molto rilevante soprattutto nel quarto libro, e cioè   È la prospettiva in cui si muove il pregevole lavoro di Sistakou 2008.   Cfr. Sistakou 2008, pp. 166‑67, che individua in Licofrone “a foretaste of  the elegiac theme of  in amore mori”. 25  Sistakou 2008, pp. 167‑71. 26  Sistakou 2008, pp. 171‑76. 23 24

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il nesso stretto che egli instaura tra Troia e Roma, tra la grande civiltà sconfitta del passato e quella Roma nella quale essa trova la sua rinascita e il suo riscatto, avviandosi a un destino glorioso 27. Troia, e il mito virgiliano delle origini che vi si innesta, sono iscritti nella memoria culturale di Roma, nel suo stesso spazio fisico, come già i versi iniziali del libro dichiarano (1, 1‑4): Hoc quodcumque vides, hospes, qua maxima Romast, ante Phrygem Aenean collis et herba fuit; atque ubi Navali stant sacra Palatia Phoebo, Evandri profugae procubuere boves.

La maxima Roma è tale grazie alla sintesi che, secondo il mito celebrato letterariamente dall’Eneide, essa ha saputo realizzare costruendo la propria storia gloriosa e i monumenti che ne perpetuano la memoria affidandola a un futuro imperiale (39‑58 e 87‑8): huc melius profugos misisti, Troia, Penates; heu quali vectast Dardana puppis ave! Iam bene spondebant tunc omina, quod nihil illam laeserat abiegni venter apertus equi, cum pater in nati trepidus cervice pependit, et veritast umeros urere flamma pios. Tunc animi venere Deci Brutique secures, vexit et ipsa sui Caesaris arma Venus, arma resurgentis portans victricia Troiae. Felix terra tuos cepit, Iule, deos, si modo Avernalis tremulae cortina Sibyllae dixit Aventino rura pianda Remo, aut si Pergameae sero rata carmina vatis longaevum ad Priami vera fuere caput: ‘vertite equum, Danai! male vincitis! Ilia tellus vivet, et huic cineri Iuppiter arma dabit.’ Optima nutricum nostris lupa Martia rebus, qualia creverunt moenia lacte tuo! Moenia namque pio coner disponere versu: ei mihi, quod nostrost parvus in ore sonus! ......... ... ‘Troia cades, et Troica Roma resurges’ et maris et terrae longa †sepulcra† canam. 27  Accennerò solo tangenzialmente a questo aspetto, cui è dedicata qui la relazione di Fabio Stok.

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Anche questo impiego del mito troiano in connessione con la storia di Roma si rivela analogo a una tendenza tipica dell’epica ciclica, quella cioè di rileggere episodi famosi del mito in chiave locale, facendone cioè un segno di distinzione a vantaggio di concrete e circoscritte realtà geografiche e culturali, un marchio di identità culturale 28. La storia gloriosa di Roma è incorniciata nel mito troiano, tra le remote origini del fondatore Romolo, che è un ‘Quirino troiano’ (4, 6, 21 Teucro ... Quirino), e il presente di Augusto, che ad Azio porta quella storia a segnare la sua acmè, come sanciscono le parole di Apollo. Il dio che già a Troia era schierato al fianco degli antenati troiani e aveva punito l’arroganza di Agamennone (33‑4 quali aspexit Pelopeum Agamemnona vultu / egessitque avidis Dorica castra rogis) assicura al nuovo sovrano del mondo la sua divina protezione (4, 6, 37‑40): mox ait: ‘o Longa mundi servator ab Alba, Auguste, Hectoreis cognite maior avis, vince mari: iam terra tua est: tibi militat arcus et favet ex umeris hoc onus omne meis.

Grazie ad Augusto la Troia resurgens realizza il destino imperiale cui il fato la chiama, quell’imperium sine fine che nell’Eneide (1, 279) Giove le assicura e di cui proprio il nascente poema virgiliano viene riconosciuto come il monumento letterario. Senza la poesia di Omero, che l’ha sottratta all’oblio del tempo e le assicura fama universale, di Troia non resterebbe memoria, non ci sarebbe ‘mito’: Omero anzi, secondo Properzio, è l’emblema del poeta eternatore (siamo nel tema dell’oraziano vixere fortes ante Agamemnona multi): cfr. 3, 1, 25‑34 nam quis equo pulsas abiegno nosceret arces, fluminaque Haemonio comminus isse viro, Idaeum Simoenta Iovis cum prole Scamandro, Hectora per campos ter maculasse rotas? Deiphobumque Helenumque et Pulydamanta et in armis qualemcumque Parim vix sua nosset humus. Exiguo sermone fores nunc, Ilion, et tu, Troia, bis Oetaei numine capta dei. Nec non ille tui casus memorator Homerus posteritate suum crescere sensit opus.   Cfr. ad es. Burgess 2001, pp. 162‑66, e Burgess 2004.

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Per durare nel tempo, per diventare ‘mito’, il potere ha bisogno di chi lo sottragga all’usura del tempo (è ben noto l’aneddoto, riferito da Plutarco 29, secondo il quale Alessandro lamentava di non avere al suo fianco un Omero che ne immortalasse le gesta); e come Troia ha avuto Omero così anche Roma sta trovando il suo Omero latino, quel Virgilio di cui, com’è noto, il poeta più giovane, e che intende svolgere quel ruolo civile in uno spazio letterario diverso dal genere epico (è questa l’idea che ispira appunto l’elegia iniziale del terzo libro), annuncia entusiasticamente il nascente capolavoro (2, 34, 61‑6): Actia Vergilium custodis litora Phoebi, Caesaris et fortis dicere posse ratis, qui nunc Aeneae Troiani suscitat arma iactaque Lavinis moenia litoribus. Cedite, Romani scriptores, cedite Grai! Nescio quid maius nascitur Iliade.

Come Augusto supera i suoi antenati troiani (cfr. 4, 6, 38 Hectoreis cognite maior avis, dove la ‘conoscenza’ implica appunto l’azione celebrativa del poeta, la divulgazione del nuovo mito augusteo e il confronto con quello omerico di Troia), così Virgilio supera Omero, e ciò che rende possibile il confronto è il comune terreno del ‘mito troiano’, che traccia la continuità tra passato e presente. Il che conferma, se ce ne fosse bisogno, la centralità nella poesia di Properzio del ‘mito troiano’, che è quasi ‘il mito’ tout court, cioè non solo il repertorio di vicende e personaggi universalmente noto e continuamente evocato al confronto con la realtà vissuta, ma anche l’insieme di testi, letterari e figurativi, che lo hanno divulgato e immortalato. Innestandosi nella storia concreta di Roma, il mito troiano diventa lo sfondo che non solo la nobilita ma che ne legittima il dominio imperiale; e in questo modo quel mito rappresenta anche un tratto di continuità per l’intera produzione di Properzio: è l’orizzonte nel quale si iscrive, ricavandone un forte arricchimento di senso, la vicenda personale legata a Cinzia, ma che dà anche una prospettiva metastorica alla città che dopo averle fatto da scenario in un certo senso la sostituisce diventando il nuovo tema centrale del mondo del poeta.   Plut. Alex. 15, 8.

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Abstracts Il rapporto di Properzio col mito troiano non passa solo attraverso la mediazione di Omero: come già per i poeti ellenistici, un ruolo essenziale, perfino più importante di quello dei poemi omerici, deve

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esser stato svolto dai poemi del Ciclo epico. Ne dà conferma l’importanza di una figura come Pentesilea: il nucleo tematico del suo legame con Achille introduceva già nell’Etiopide l’idea, così cruciale per l’ideo­logia elegiaca, del ‘vincitore vinto’. Rispetto alla rigida caratterizzazione dell’eroe epico che dava Omero, e del sistema di valori ad essa connesso, in alcuni dei poemi ciclici fa la sua comparsa un nuovo e più complesso modello culturale, destinato ad avere grande fortuna nella successiva storia letteraria, non solo antica. L’erotizzazione di personaggi (come ad es. Briseide) ed episodi omerici è un tratto tipico dell’epica ciclica che gli elegiaci, Properzio e Ovidio soprattutto, ereditano e di cui si appropriano per ragioni interne al proprio mondo poetico. Paradossalmente, il mito troiano, cioè un mito epico, anti-elegiaco, viene letto come la storia di una guerra per una donna, Elena; finisce cioè per essere riletto come un mito elegiaco, la storia di una ‘guerra per amore’. Propertius’ relationship with the Trojan myth does not pass only through Homer’s mediation: as already for the Hellenistic poets, an essential role, even more important than by Homer’s poems, must have been played by the texts of  the epic Cycle. The relevance of  a figure as Penthesilea is a confirmation of  that: the thematic core of  her liaison with Achilles introduced since the Aethiopis the idea, so crucial for the elegiac ideology, of  the ‘vanquisher vanquished’. In comparison to Homer’s rigid characterization of  the epic hero, and of  the connected system of  values, in some Cyclic poems a new, and more complex, cultural model appears, destined to have great success in the future (not only ancient) literary history. Eroticization of  the Homeric figures (as e.g. Briseis) and episodes is a typical feature of  the Cyclic epic that the elegists, Propertius and Ovid above all, inherit and take on for their own poetical world. Paradoxically, the Trojan myth, that is an epic, anti-elegiac myth, is now read as a war for a woman, Helen: it is re-read, in other words, as an elegiac myth, as a story of  ‘war for love’. Keywords: ‘Achille a Sciro’, Achille innamorato, Briseide (e Achille), elegiacization del mito, Elena e Cinzia, eros ed epica omerica, eros nel Ciclo, mito come exemplum, mito troiano e ciclo epico, mito troiano e Omero, Pentesilea (e Achille), personaggi del mito troiano, Roma come Troia resurgens, temi del Ciclo in Properzio

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FABIO STOK Roma

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1. Premessa Nell’affrontare il tema di “Troia resurgens” non si può che par‑ tire dal saggio pubblicato da Mario Pani nel 1975 1, che resta a tutt’oggi la più lucida analisi delle implicazioni politiche che il mito di Troia comportava negli anni del principato augusteo. Pani parte dalla considerazione che l’asserita ascendenza troiana di Roma assunse un valore politico nuovo con l’ascesa al potere prima di Giulio Cesare e poi di Ottaviano, in quanto la gens Iulia vantava una discendenza diretta da Enea e da sua madre Venere, e quindi rivendicava una genealogia che si sovrapponeva all’an‑ tica credenza nella discendenza dei Romani dai Troia­ni arrivati in Italia sotto la guida di Enea, potenziandola, amplificandola e trasformandola in una genealogia che era insieme “nazionale” e dinastica. Il mito dell’origine troiana di Roma è connesso alla tradizione relativa ai viaggi occidentali di Enea, documentata da ritrova‑ menti archeologici di area laziale che risalgono al V secolo. Esso si diffuse probabilmente all’epoca del conflitto fra Greci ed Etru‑ schi, in un contesto culturale nel quale Enea costituiva un prece‑ dente eroico non greco 2. La sua ripresa in ambito romano è testi‑ moniata, com’è noto, a partire da Fabio Pittore e da Nevio 3.

  Pani 1975.   Cfr. Schmitzer 2005, p. 23. 3  Cfr. Jahn 2007, p. 66. 1 2

Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 73-91 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112116

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L’idea di Troia resurgens o renascens è un esito di questa ripresa del mito in ambito romano, ed è in qualche misura rilevabile già in Ennio, che in un frammento degli Annales formula un’im‑ magine che prelude a quella di età augustea: quae neque Dardaniis campis potuere perire / nec cum capta capi nec cum combusta cremari (frg. 344‑45 Skutsch ap. Macr. Sat. 6, 1, 60). Macrobio cita il frammento in relazione alla ripresa del versio enniano effettuata da Virgilio ad Aen. 7, 294‑96, nelle parole che pronuncia Giu‑ none dopo che Latino ha deciso di dare Lavinia in sposa ad Enea: num Sigeis occumbere campis, / num capti potuere capi? num incense cremavit / Troia viros? Attribuito in passato al libro XI, e ad un discorso di Tito Quinzio Flaminino, il frammento è collocato dalle edizioni correnti nel libro X, e a partire da Badian 4 si ritiene che esso appartenga alle argomentazioni con cui i rappresentanti di Lampsaco nel 197‑96 perorarono a Roma l’alleanza contro Antioco. Lampsaco vantava un’ascendenza troiana e, come altre città che avevano ripreso tradizioni analoghe, si avvale di questa comune origine nei rapporti diplomatici con i Romani (analoga‑ mente avevano fatto Segesta nel 263 e gli Arcaniani nel 237‑36). L’immagine di Roma come nuova Troia era quindi formulata, nel contesto enniano, da un non Romano, probabilmente Hege‑ sias 5, e non è forse casuale il fatto che anche in un’altra probabile ripresa del passo enniano, quella di Orazio a carm. 4, 4, 53, gens quae cremato fortis ab Ilio, a segnalare l’origine troiana di Roma sia un avversario, e cioè Annibale 6. La rilevanza dell’origine troiana nella cultura romana di età repubblicana è stata ridimensionata da Erskine 7, ma non ci sono ragioni per dubitare della sua centralità nella ricostruzione di Ennio 8. La popolarità del mito non precludeva comunque la presenza di aree di scetticismo, che dovetterero essere ben pre‑ senti nella tarda età repubblicana e di cui resta traccia nella trat‑ tazione di Livio (cfr. in particolare 1, 3), che pure scrisse la sua opera storica in anni in cui il potere di Augusto era ben con‑   Cfr. Badian 1972, p. 178.   Cfr. Skutsch 1985, p. 514. 6  Cfr. Rose 2003. Sulla ripresa dei motivi eneadici nell’ode cfr. Fede‑ li – Ciccarelli 2008, pp. 245‑47. 7  Erskine 2001, pp. 15‑43. 8  Cfr. Fabrizi 2012, p. 39; Elliott 2013, pp. 277‑78. 4 5

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solidato. Anche Dionigi di Alicarnasso, del resto, non mancava in quest’epo­ca di rilevare la pluralità di opinioni elaborate in pas‑ sato sulle origini di Roma (cfr. ant. 1, 72), pur dando ovviamente largo spazio all’origine troiana. Nella ripresa augustea del mito troiano ebbe un ruolo rilevante, come ha segnalato Pani, la genealogia gentilizia da Enea vantata dagli Iulii. Essa fu rivendicata da Giulio Cesare all’epoca della sua questura (70 a.C.), nel discorso tenuto dai rostri: a Venere Iulii, cuius gentis familia est nostra (Svet. Iul. 6, 11) 9. È possibile, come ritiene Schmitzer, che Cesare riesumasse una tradizione familiare «sepolta» 10. La testimonianza svetoniana sembra peraltro sugge‑ rire che l’interesse principale di Cesare fosse quello di rimarcare l’origine divina della famiglia, ponendo quindi l’accento non tanto su Enea e sugli antenati Troiani, bensì su Venere. L’enfasi sulla discendenza da Venere che si intravvede nel discorso di Cesare restò notevole anche nel programma propa‑ gandistico elaborato da Augusto, anche se egli comunque valo‑ rizzò pienamente anche il ruolo di Enea, come evidenziano le testimonianze letterarie e figurative. È forse significativo il fatto che nel più antico riferimento di Virgilio alla vicenda eneadica, quello che si legge nel proemio delle Georgiche, data‑ bile negli anni della battaglia di Azio, Virgilio enfatizza l’origine divina della stirpe di Augusto, senza fare il nome di Enea: Assaraci proles demissaeque ab Iove gentis / nomina Trosque parens et Troiae Cynthius auctor (3, 35‑36). La posizione di Virgilio, come quelle di Orazio, Tibullo ed Ovidio, è stata nel complesso ben esaminata, negli studi citati ed in altri. Meno chiara appare, nell’ambito della poesia augu‑ stea, la posizione di Properzio, soprendentemente omessa non solo nel citato lavoro di Pani, ma anche in quello di Schmitzer. Pani lascia dichiaratamente «da parte il “caso” Properzio», con la motivazione che le sue «adesioni personali paiono essere avve‑ nute a livello più inconscio e furono probabilmente spesso capo‑ volte dalla soggezione alla propaganda augustea» 11. Vedremo fra poco, dopo esserci soffermati brevemente sugli altri poeti augu‑   Cfr. Weinstock 1971, pp. 15‑18.   Cfr. Schmitzer 2005, p. 23. 11  Pani 1975, p. 81. 9

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stei, in quale senso si possa parlare di “capovolgimento” delle posizioni di Properzio sul mito troiano di Roma.

2. L’aporia del mito di Troia Nella propaganda augustea il mito troiano comportava, come ha notato ancora Pani, «una ambiguità di fondo», determinata dall’incongruenza fra l’ascendenza troiana, e quindi asiatica, ed il tradizionale disprezzo della cultura romana nei confronti della tryphé orientale 12. Si tratta di un pregiudizio etnico radicato nella cultura dell’età repubblicana a partire già dall’età di Catone. Per la tarda età repubblicana è da ricordare almeno un noto passo della Pro Flacco di Cicerone, che evidenzia uno stereotipo che doveva essere corrente nei confronti delle popolazioni orientali: equidem mihi iam satis superque dixisse videor de Asiatico genere testium: sed tamen vestrum est, iudices, omnia, quae dici possunt in hominum levitatem, inconstantiam, cupiditatem, etiam si a me minus dicuntur, vestris animis et cogitatione comprehendere. Seguono riferimenti a specifi‑ che popolazioni asiatiche, fra i quali un gioco di parole sul nome dei Frigi: Phrygen plagis fieri solere meliorem (Flacc. 65‑66). I giudizi di Cicerone sono ovviamente correlati al contesto oratorio, e alla strategia difensiva da lui allestita, ma riflettono anche un pregiu‑ dizio di effeminatezza, nei confronti degli abitanti della Frigia, corrente già nella cultura greca. È improbabile che Cicerone, all’epoca della Pro Flacco, met‑ tesse in relazione il pregiudizio che riprendeva con la genealogia troiana e quindi frigia dei Romani. Il problema si pose invece certamente a Virgilio, che lo risolse con la complessa architettura narrativa dell’Eneide, nella quale il pregiudizio è deliberatamente ripreso nel discorso di Remulo Numano (cfr. in particolare 9, 617: O vere Phrygiae, neque enim Phryges). Un intervento che fa da contraltare all’idea di Troia resurgens, esplicitata da Enea all’ini­ zio della narrazione: illic fas regna resurgere Troiae (1, 206). Nel finale del poema prevale una mediazione 13, imposta da Giove, che attua il programma di Enea ma tiene conto anche dell’ap‑ pello di Giunone: sit Romana potens Italia virtute propago: / occidit   Pani 1975, p. 81.   Manzoni 2002, pp. 58‑59.

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occideritque sinas cum nomine Troia (12, 827‑28). La resurrezione di Troia è parziale, nel finale dell’Eneide, in quanto il nome di Troia deve soccombere (con l’ulteriore antidoto “antiorientale” costi‑ tuito dall’ascendenza etrusca di Dardano, introdotta da Virgilio in pressoché totale isolamento rispetto alla versione corrente del mito iliadico). Una notevole consonanza con la conclusione virgiliana è rile‑ vabile nell’oraziano carm. 3, 3, certamente posteriore al 27 a.C. (in quanto al v. 11 è apostrofato Augustus, che in quell’anno assunse questo nome). Orazio fa pronunciare a Giunone preoc‑ cupazioni del tutto analoghe a quelle che si intuiscono nel finale del poema virgiliano: Sed bellicosis fata Quiritibus / hac lege dico, ne nimium pii / rebusque fidentes avitae / tecta velint reparare Troiae. / Troiae renascens alite lugubri / fortuna tristi clade iterabitur, / docente victrices catervas / coniuge me Iovis et sorore (carm. 3, 3, 56‑64). Il carme è stato tradizionalmente messo in relazione con il progetto cesariano di trasferire il centro dell’impero a Troia o ad Alessandria di cui abbiamo notizia da Svetonio Iul. 74, 9 (cfr. anche Nicola Damasceno, Vita Caes. 20), ma non c’è alcun indizio che faccia pensare che un simile progetto (se pure Cesare lo formulò realmente e non si tratti invece dell’eco di qualche polemica anticesariana) sia stato ripreso da Augusto. Non pare neppure necessario, per spiegare i toni antitroiani attribuiti nel carme a Giunone, ipotizzare che Orazio rifletta qui umori pro‑ venienti dall’ambiente dei Claudii, più sensibili alle origini itali‑ che della propria gens 14. La convergenza con Virgilio fa pensare che fosse questa la soluzione prevalsa in questi anni nell’ambiente augusteo e mecenaziano: un’immagine di Roma erede solo in parte dell’eredità troiana, per metterla al riparo dal tradizio‑ nale cliché antiorienale ed anche per non contraddire l’immagine dello scontro Oriente / Occidente che contraddistingue la pole‑ mica augustea negli anni del conflitto con Antonio e della bat‑ taglia di Azio. Nel testo oraziano all’eredità troiana è imputato il rischio di rendere i Romani imbelli: nimium pii rebusque fidentes (vv. 58‑59), dove nimium esprime certamene «l’atteggiamento di condanna nei confronti di ogni eccesso» 15, ma il riferimento   Schmitzler 2005, p. 32.   Romano 1991, p. 739.

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alla pietas resta poco chiaro, e suscito il sospetto che pii presup‑ ponga la conoscenza, da parte del lettore, che Virgilio stava com‑ ponendo un poema sul pius Enea (l’ipotesi sconta ovviamente la difficoltà di datare il carme con precisione, al di là del termine post quem del 27). Qualche eco della posizione desumibile dal confronto fra il carme e l’Eneide è rilevabile anche nel Carmen saeculare (del 17 a.C.), dove l’ascendenza eneadica è segnalata da Orazio nel tono solenne che caratterizza la composizione: Roma si vestrum est opus Iliaeque / litus Etruscum tenuere turmae, / iussa pars mutare lares et urbem / sospite cursu, / cui per ardentem sine fraude Troiam / castus Aeneas patriae superstes / liberum munivit iter, daturus / plura relictis: / di, probos mores docili iuventae, / di, senectuti placidae quietem, / Romulae genti date remque prolemque / et decus omne (vv. 37‑48). Non è sorprendente che Orazio eviti, in questo contesto, formule del tipo resurgens o renascens, che avrebbero implicato la segnala‑ zione dei limiti di questa rinascenza. Sono comunque rilevabili delle soluzioni di continuità fra il punto di partenza del viag‑ gio di Enea e quello d’arrivo, cioè fra Troia e Roma. A seguire Enea nel viaggio provvidenziale è una pars dei Troiani (v. 39), una delimitazione che presuppone probabilmente l’emigrazione di altri Troiani al seguito di Antenore 16: ipotesi rafforzata dal successivo sine fraude (v. 41), un’evidente allusione al tradimento addebitato ad Antenore, ma in parte della tradizione anche ad Enea 17 (un’allusione a questa tradizione è proposta anche da Vir‑ gilio nell’Eneide 12, 15, nell’accusa di Turno ad Enea di essere un desertor Asiae 18). La soluzione, pure solo adombrata, seleziona l’eredità troiana di Roma, delimitata alla pars iussa e depurata da quella fraus che tradizionalmente era indicata come prerogativa delle popolazioni orientali. Di seguito Orazio descrive Enea daturus plura relictis (vv. 43‑44), una notazione che non implica sola‑ mente l’incremento quantitativo dell’imperium romano rispetto a quello di Troia 19, ma suggerisce l’idea di una discontinuità,

  Romano 1991, p. 936.   Thomas 2001, pp. 70‑73. 18  Cfr. Jahn 2007, p. 168. 19  Come suggerirebbe il cfr. con Aen. 3, 158 ss. a cui rinvia Romano 1991, p. 936. 16 17

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a cui forse non è estraneo il seguito del Carmen, che invoca i boni mores dei Romani e denota la gens come romulea: di, probi mores docili iuventae, / di, senectuti placidae quietem, / Romulae genti date remque prolemque / et decus omne (vv. 45‑48). Poco oltre Orazio evoca i nemici orientali di Roma, un tema che dagli anni della battaglia di Azio era corrente nella lette‑ ratura augustea: Iam mari terraque manus potentis / Medus Albanasque timet securis, / iam Scythae responsa petunt, superbi / nuper et Indi (vv. 53‑56). Anche nel carme 3, 3 l’ascendenza troiana era equilibrata dall’ostilità verso i popoli orientali ed in partico‑ lare l’Egit­to, l’avversario della guerra aziaca: horrenda late nomen in ultimas / extendat oras, qua medius liquor / secernit Europen ab Afro, / qua tumidus rigat arva Nilus (vv. 45‑48). La stessa tematica era stata sviluppata anni prima nel proemio al terzo delle Georgiche, in cui il citato riferimento all’ascendenza iliaca è seguito dall’evocazione di Azio e delle campagne orientali di Augusto: faciam victorisque arma Quirini / atque hic undantem bello magnumque fluentem / Nilum ac navali surgentis aere columnas; / addam urbes Asiae domitas pulsumque Niphaten / fidentemque fuga Parthum versisque sagittis (vv. 27‑31). L’insistente richiamo del ruolo antago‑ nista di Roma nei confronti dell’Asia e dell’Oriente costituisce un evidente contrappeso dell’origine troiana di Roma, che si aggiunge alla strategia di neutralizzazione messa in opera da Vir‑ gilio, come abbiamo visto, nella sua Eneide. Anche per questo aspetto Virgilio è un testimone rilevante, nell’immagine che propone della battaglia di Azio raffigurata sullo scudo di Enea, dove Apollo mette in fuga Cleopatra assieme ai suoi (immaginari) alleati orientali (Aen. 8, 705‑06: omnis eo terrore Aegyptos et Indi / omnis Arabs, omnes vertebant terga Sabaei) ed il Nilo corucciato accoglie la regina sconfitta (vv. 711‑13).

3. Properzio e la guerra di Troia Nei primi tre libri delle Elegie Properzio fa riferimento in più occasioni alla vicenda di Troia. Solo fugacemente nel primo libro, per le donne troiane preda dei Greci, quas dedit Argivis Dardana praeda viris (1, 19, 14) 20, alle quali il poeta dice di preferire   Cfr. Fedeli 1980, pp. 447‑48.

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Cinzia. Nel secondo libro troviamo invece un excursus piuttosto ampio nell’elegia 2, 3, indirizzata ad un anonimo interlocutore irretito dall’amore elegiaco. Nell’esporre all’amico la propria esperienza, il poeta propone una serie di paragoni iperbolici nei quali Cinzia è assimilata ad Arianna (vv. 17‑18), è tanto docta da competere con la poetessa Corinna (vv. 19‑21), è paragonata ad una divinità (vv. 22‑28) e si predice la sua unione con Giove (vv. 29‑31). La serie culmina con un accostamento fra Cinzia ed Elena, al quale seguono alcune considerazioni sulla guerra di Troia: post Helenam haec terris forma secunda redit. Hac ego nunc mirer si flagrat nostra iuventus? Pulchrius hac fuerat, Troia, perire tibi. Olim mirabar quod tanti ad Pergama belli Europae atque Asiae causa puella fuit. Nunc, Pari, tu sapiens et tu, Menelae, fuisti. Tu quia poscebas, tu quia lentus eras. Digna quidem facies pro qua vel obiret Achilles; vel Priamo belli causa probanda fuit. Si quis vult fama tabulas anteire vetustas, hic dominam exemplo ponat in arte meam: sive illam Hesperiis sive illam ostendet Eois, uret et Eoos, uret et Hesperios.

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Da “nuovo Omero” (come lo definisce Fedeli 21) Properzio propone un’interpretazione “elegiaca” del conflitto, nella quale ambedue i contendenti, Paride e Menealo (ai quali il poeta assi‑ mila la iuventus romana), sono giustificati per la loro passione per Elena. Assieme a loro è giustificata anche la guerra fra i due continenti, in precedenza oggetto di stupore per l’autore: olim mirabar (v. 35) 22 suggerisce un certo scetticismo sulla versione mitica a cui ponevano rimedio letture storicizzanti o allegoriz‑ zanti. Questo scetticismo è correlato a quello di chi disconosce l’amore elegiaco dei iuvenes, come evidenzia la ripetizione mirer / mirabar. L’interpretazione “elegiaca” dà senso alla narrazione tra‑ dizionale della causa belli e quindi giustifica la morte di Achille e il comportamento di Priamo.   Fedeli 2005, p. 121.   Di probabile ascendenza teocritea: cfr. Berthet 1980, p. 144.

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Ai vv. 41‑44 Properzio si riallaccia alla precedente diviniz‑ zazione del personaggio 23 ed introduce l’idea che il ritratto di Cinzia supererebbe la fama degli antichi dipinti: uno spunto che gli consente di rievocare ancora la guerra di Troia, vista a partire almeno da Erodoto come scontro fra Oriente ed Occidente 24 (tema ripreso da Virgilio nell’incipit del libro III dell’Eneide: Postquam res Asiae Priamique evertere gentem). Il ripetuto uret di v. 44 riecheggia il precedente flagrat della iuventus romana (v. 33) ma evoca forse anche l’evento cruciale evocato dall’elegio, il rogo che ha visto la distruzione di Troia. L’interpretazione “elegiaca” costituisce certo il tratto saliente della sezione citata di 2, 3. Essa è rilevabile peraltro anche in altre elegie: a 2, 6, 15‑16 il tema è coniugato da una prospettiva negativa, quella della gelosia suscitata dall’amore: his olim, ut fama est, vitiis ad proelia ventum est, / his Troiana vides funera principiis. Un rapporto indiretto fra guerra ed amore proposto nella 2, 22, dove il poeta difende la liceità delle fatiche d’amore e cita a riprova gli eroi del conflitto troiano, la cui attività eroica non era di pregiudizio per l’impegno bellico: Quid? Cum e complexu Briseidos iret Achilles, / num fegere minus Thessala tela Phryges? / Quid? Ferus Andromachae lecto cum surgeret Hector, / bella Mycenaeae non timere rates? (vv. 29‑32) 25. Nel confronto fra le due parti il poeta resta rigorosamente neutrale, come evidenzia anche la conclusiva autoidentificazione con i due eroi, con una forza‑ tura che assimila senz’altro l’attività erotica con quella epica: hic ego Pelides, hic ferus Hector ero (v. 34). Nell’intreccio elegiaco fra guerra ad amore si colloca anche l’accenno di 3, 11, 13‑16 alla vicenda di Pentesilea, amata da Achille nel momento in cui ne vede il volto morente (tema già valorizzato in chiave erotica da Orazio a carm. 2.4.5‑6) 26. Quel che è notevole, nei riferimenti citati, è che la guerra di Troia sia risolta sempre nella sua dimensione omerica e greca, senza riferimento alcuno alla discendenza eneadica. Emblematica è l’affermazione di 2, 8, 10: et Thebae steterant altaque Troia fuit,   Sugli echi virgiliani dell’episodio cfr. Schmidt 1972.   Fedeli 2005, p. 144. 25  Cfr. Fedeli 2005, pp. 643‑44. 26  Cfr. Fedeli 1985, p. 364. 23 24

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dove il perfetto sancisce il destino dell’antica città. I soli riferi‑ menti alla vicenda eneadica che si leggono nei libri II e III con‑ fermano questo sostanziale silenzio: quello di 2, 1, 42, Caesaris in Phrygios condere nomen avos, lo si legge infatti nel contesto di una recusatio: Properzio afferma cioè di non voler trattare di que‑ sto tema. Nel caso di 2, 34, 63, qui nunc Aeneae Troiani suscitat arma / iactaque Lavinis moenia litoribus, Properzio riassume il tema del poema che Virgilio sta componendo, cioè l’Eneide (anche 2, 1, 42 è probabilmente allusivo dell’Eneide 27). Della genealogia romana ed augustea Properzio non fa cenno negli altri casi, oltre a 2, 3, in cui è evocata la vicenda di Troia. Nell’elegia 3, 1, a dimostrazione della funzione immortalatrice della poesia, sono citati episodi della guerra di Troia che sareb‑ bero stati dimenticati se non li avesse cantati Omero: nam quis equo pulsas abiegno nosceret arces / fluminaque Haemonio comminus isse viro, / Idaeum Simeonta Iovis cum prole Scamandro, / Hectora per campos ter maculasse rotas? (vv. 25‑28). Anche in questo caso l’accento è posto sulla rovina di Troia, già due volte sconfitta da Ercole ed ora evidenziata dalle tombe dei figli di Priamo: Deiphobumque Helenumque et Polydamanta et in armis / qualemcumque Parim vix sua nosset humus. / Exiguo sermone fores nunc, Ilion, et tu, / Troia, bis Oetaei numine capta dei (vv. 29‑32) 28. Un altro riferimento a Troia lo leggiamo nella recusatio di 3, 9, dove fra i temi epici che il poeta, rivolto a Mecenate, afferma di non poter cantare c’è quello iliadico: nec referam Acaeas et Pergama Apollinis arces / et Danaum decimo vere redisse ratis, / moenia cum Graio Neptunia pressit aratro / victor Palladiae ligneus artis equus (vv. 39‑42). Della vicenda di Troia è evidenziata qui la sconfitta e la caduta della città, con un’insistenza che ritroviamo nella più ampia trattazione della 3, 13, dove Properzio mette in opposi‑ zione le puellae romane avide di ricchezza con la casta Penelope e la gioventù contadina del passato. Assumendo il ruolo di pro‑ feta, il poeta predice (vv. 59‑66) la rovina di Roma, nello stesso modo in cui Cassandra profetizzava la rovina di Troia:

  Cfr. Fedeli 2005, pp. 989‑90.   Cfr. Fedeli 1985, pp. 324‑25.

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proloquar (atque utinam patriae sim falsus 29 haruspex!) frangitur ipsa suis Roma superba bonis. Certa loquor, sed nulla fides: nempe Ilia quondam Verax Pergamei Maenas habenda mali; sola Parim Phrygiae fatum componere, sola fallacem Troiae serpere dixit equum. Ille furor patriae fuit utilis, ille parenti; experta est veros irrita lingua deos.

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Nessun accenno, anche in questa caso, alla sopravvivenza enea‑ dica: Troia è ancora citata per la sua caduta ed è ignorata la sua rinascita in Roma: è anzi Roma ad essere identificata con Troia, ma nella sconfitta, non nella rinascita.

4. Troia resurgens Nel libro IV, come ha osservato Debrohun 30, Properzio propone un’immagine della guerra di Troia del tutto diversa da quella che abbiamo trovato nei libri precedenti. L’elegia introduttiva, nel contrapporre la povertà delle origini di Roma e la ricchezza presente, descrive l’arrivo di Enea nel Lazio, cfr. 4, 1A, 39‑54: Huc melius profugos misisti, Troia, Penates; heu quali vecta est Dardana puppis ave! Iam bene spondebant tunc omina, quod nihil illos laeserat abiegni venter apertus equi, cum pater in nati trepidus cervice pependit et verita est umeros urere flamma pios. Tunc animi venere Deci Brutique secures, venit et ipsa, sui Caesaris arma, Venus, arma resurgentis portans victricia Troiae: felix terra tuos cepit, Iule, deos. Si modo Avernalis tremulae cortina Sibyllae dixit Aventino rura pianda Remo, aut si Pergameae sero rata carmina vatis, longaevum ad Priami vera fuere caput, dicam: “Troia, cades, et Troica Roma, resurges;”

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29  Così già alcuni codici umanistici (a partire forse da Petrarca: cfr. Heyworth 2007b, p. 355), in luogo della lezione tràdita verus, accolta ancora da Fedeli 1984, p. 184 e Fedeli 1985, p. 443. 30  Debrohun 2003, p. 63.

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et maris et terrae candida regna 31 canam. “Vertite equum, Danai: male vincitis. Ilia tellus vivet, et huic cineri Iuppite arma dabit”.

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Non è necessario segnalare qui gli evidenti intertesti utilizzati da Properzio. Basti notare che resurgentis ... Troiae (v. 47) riecheggia l’oraziano Troiae renascens fortuna in una prospettiva fortemente assertiva, nella quale l’arrivo di Enea ha un ruolo centrale nel disegno storico di Roma (ma cfr. anche Verg. Aen. 1, 205: illic fas regna resurgere Troiae 32). Una centralità che distorce in qualche misura la cronologia 33, non solo rispetto alla serie degli avve‑ nimenti romani (Romolo v. 32; Enea vv. 39 sgg., Decio e i Bruti v. 45; Augusto vv. 46 sgg.), ma anche nella retrospettiva sulla guerra di Troia, che prende lo spunto dall’arrivo di Enea in Italia (v. 39‑40) per risalire alla caduta di Troia, le cui fiamme lasciarono immuni Anchise ed Enea. Al salvataggio segue la rina‑ scita, datata da Properzio con la battaglia di Azio: così nell’im‑ magine di Venere che consegna ad Augusto le armi di Troia resurgens (vv. 46‑47), mentre poco oltre Cassandra (rettificando la posizione assunta nella 3, 13) profetizza la rinascita di Troia ad opera di Giove, evidentemente nella futura Roma: vertite equum, Danai, male vincitis. Ilia tellus / vivet et huic cineri Iuppiter arma dabit (vv. 53‑54). Nel testo pubblicato da Heyworth la sfumata profezia dei vv. 53‑54 è preceduta dalla più esplicita predizione della resur‑ rezione di Troia dei vv. 87‑88, che nella tradizione manoscritta sono compresi nel discorso di Horos (4, 1B). Collocazione indub‑ biamente incongrua 34, alla quale hanno cercato di porre rime‑   Candida regna è congettura di Murgia 1989, pp. 264‑65 in luogo della le‑ zione dei codici longa sepulchra. Altre congetture: regna superba Housman; maxima regna vel sceptra secunda Heyworth 2007a, 149 in apparato; longa pericla Giardina 2005, p. 332. 32  Fedeli 1965, p. 87. 33  Come osserva Hutchinson 2006, p. 45: «bald and slight historical summa‑ ry, not properly integrated into the argument about Troy». 34  Fu difesa da Hanslik 1963, p. 185, che nella successiva edizione accolse però la trasposizione post v. 70 adottata già da Scaligero (Hanslik 1979, p. 153). Il testo tràdito è conservato da Fedeli 1984, p. 220, ma Fedeli 2015, pp. 31822 ha ora optato per l’espunzione (ringrazio vivamente Paolo Fedeli per aver‑ mi anticipato il suo orientamento in occasione del convegno da cui ha origine il presente contributo). 31

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dio soluzioni diverse. La trasposizione adottata da Heyworth 35 risale a Müller 36 ed era stata ripresa già da Starr 37 e da Mur‑ gia 38. Hutchinson, nell’edizione pubblicata l’anno precedente all’edizione di Heyworth 39, aveva invece preferito espungere i vv. 87‑88, soluzione adottata già da Passerat 40 (altre trasposi‑ zioni proposte in passato sono segnalate da Murgia 41; Giardina 42 ha conservato la posizione tràdita) 43. A favore della trasposizione di Müller Murgia cita la dipen‑ denza di Properzio da Licofrone Alexandra 1226‑1280, che include la profezia dell’avvento di Roma, e la ripresa properziana di Ovidio fast. 1, 523‑26 (nel contesto della profezia di Car‑ menta): Victa tamen vinces eversaque, Troia, resurges! / obruit hostiles ista ruina domos. / Urite victrices Neptunia Pergama flammae: / num minus hic toto est altior orbe cinis? La ripresa ovidiana appare certo significativa, ma non si può però escludere la dipendenza inversa, e cioè l’utilizzazione di Ovidio da parte di un inter‑ polatore (anche se resta probabile che Ovidio, per la profezia di Carmenta, abbia recuperato quella properziana di Cassandra). Sono diversi, in realtà, i motivi di perplessità suscitati dalla pur intelligente soluzione di Müller. Dubbi solleva già la costruzione sintattica del distico, per l’inusuale ripetizione dicam / canam (che Murgia proponeva peraltro di corregere cano 44). Il distico, nella collocazione proposta da Müller, comporta non solo una ripeti‑ zione, da parte di Cassandra, di quanto già annunciato pochi versi prima (v. 47: resurgentis Troiae; v. 87: Troia resurges), ma anche una duplicazione di quanto è annunciato nei versi successivi: Ilia tellus / vivet et huic cineri Iuppiter arma dabit (vv. 53‑54). Nella versione tràdita la profezia ha una sua logica cronologica: annun‑

  Heyworth 2007b, pp. 420‑21.   Müller 1874, p. 93. 37  Starr 1970, pp. 162‑63. 38  Murgia 1989, pp. 265‑66. 39  Hutchinson 2006, p. 76. 40  Passerat 1608, p. 563. 41  Murgia 1989, pp. 258‑61. 42  Giardina 2005, p. 332. 43  Altri studiosi hanno segnalato l’incongruenza del distico ma senza propor‑ re soluzioni: così per es. Riesenweber 2007, p. 384. 44  Murgia 1989, p. 263. 35 36

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ciata dal riferimento a Priamo del v. 52 45, nel discorso diretto di Cassandra fa seguire all’avvertimento rivolto ai Greci l’annuncio della resurrezione di Troia (nei citati vv. 53‑54) 46. L’inserzione dei vv. 87‑88 appensantisce forse eccessivamente la profezia. Un’ulteriore difficoltà è posta dalla collocazione in cui si trovano i vv. 87‑88 nella tradizione manoscritta: una collocazione che non appare casuale, frutto di una trasposizione meccanica, bensì un’interpolazione intenzionale, volta ad includere nella profezia di Horos l’annuncio del futuro di Roma, anche in considera‑ zione del fatto che Horos predice il disastroso ritorno in patria dei Greci, sottinteso nella profezia di Cassandra: nec rediere tamen Danai: tu diruta fletum / supprime et Euboicos respice, Troia, sinus. / Nauplius ultores sub noctem porrigit ignes, / et natat exuviis Graecia pressa suis (vv. 113‑16). Se si ammette che si tratta di un’inter‑ polazione, e non di una trasposizione, si chiarisce anche il senso del dicam di v. 87, che l’interpolatore avrebbe riferito ai versi precedenti, riservando il canam alla profezia fatta pronunciare ad Horos. Per la profezia stessa l’interpolatore si sarebbe basato sul v. 47 e forse anche sul citato verso dei Fasti di Ovidio. Se que‑ sta ricostruzione è fondata, la soluzione preferibile è ovviamente quella di espungere il distico.

5. Conclusioni L’evoluzione evidenziata da Properzio, dall’enfasi dei primi libri sulla rovinosa caduta di Troia alla plateale ripresa del tema di Troia resurgens nel libro IV, si iscrive in un percorso del poeta assai ben noto. L’iniziale silenzio sugli sviluppi eneadici della vicenda troiana costituirebbe uno dei margini di autonomia dall’ortodos‑ sia augustea consentiti a Properzio dalla protezione mecenaziana: un silenzio connesso in primo luogo alla ricorrente recusatio, che vede il poeta indisposto a celebrare motivi salienti del regime; in secondo luogo, probabilmente, consigliato anche dalla deli‑ catezza del tema, e dai difficili equilibri con cui esso era stato trattato, come abbiamo visto, da Virgilio e da Orazio.

  Cfr. Fedeli 1965, p. 89.   Cfr. Stahl 1985, pp. 257-58.

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Il libro IV, diversamente, venne scritto sotto l’egida diretta di Augusto e riflette un palese adeguamento del poeta ai pro‑ grammi ideologici del principe (la 4, 1, in particolare, è data‑ bile attorno al 16 a.C.). L’adozione del motivo di Troia resugens si iscrive in questo orizzonte, nel quale l’ascendenza troiana di Augusto ha un’ovvia centralità (dopo la 4, 1 ritroviamo un accenno ad essa nell’apostrofe di 4, 6, 38 ad Augusto vincitore di Azio: Hectoreis cognite maior avis). Ci si può chiedere, in questo quadro, se il precedente silenzio risentisse anche di specifiche preoccupazioni di Mecenate, che potrebbero aver influenzato anche la posizione di Orazio. È da segnalare che negli stessi anni, al di fuori dell’ambiente mecenaziano, l’ascendenza eneadica è citata senza remore (e senza preoccupazioni dinastiche) da Tibullo, cfr. 2.5.61‑62: Troia quidem tunc se mirabitur et sibi dicet / vos bene tam longa consuluisse via. In relazione ai precedenti costituiti da Virgilio e da Orazio, e del difficile equilibrio che essi evidenziano fra ascendenza troiana e pregiudizi antiorientali, la posizione properziana di 4, 1 appare anche troppo netta, tale da suscitare qualche interroga‑ tivo sulla sua puntuale aderenza alle preoccupazioni di Augusto. Pani, a questo proposito, riteneva che la posizione che si legge, oltre che in 4, 1, anche in Ovidio, sia formulata «in maniera diversa dalla cultura ufficiale». Oltre che nel citato fast. 1.523 (lasciando in sospeso se in dipendenza del discusso distico di 4, 1, 87‑88 o del resurgentis Troiae di v. 47), Ovidio sviluppa il tema della rinascita di Troia anche a met. 13.623‑24: non tamen eversam Troiae cum moenibus esse / spem quoque fata sinunt (e cfr. anche 15.431: nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romam). Pro‑ perzio, «che pur naturalmente assimila, peraltro passivamente, temi propagandistici propriamente augustei del circolo mecena‑ ziano», mostrerebbe a 4, 1 «di sentire in maniera diversa dalla cultura ufficiale la vitalità e l’attualità della presenza di Troia in Roma» 47. Più netto il giudizio di Pani sulla posizione rile‑ vabile nell’«emarginato Ovidio», che risentirebbe della dialet‑ tica esistente nella casa imperiale, che vedeva contrapporsi da una parte Germanico, che nell’impero romano vedeva «proprio la rivincita e il riscatto della mitica vittoria dell’Occidente sul­   Pani 1975, p. 72.

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l’Oriente», dall’altra la concezione «legalistica di eredità augustea perseguita da Tiberio» 48. La ricostruzione proposta della posizione di Properzio fa pen‑ sare piuttosto ad un’evoluzione della posizione di Augusto, che negli anni vicini ad Azio aveva adottato il tradizionale antio‑ rientalismo romano, funzionale ai motivi propagandistici che accompagnarono il conflitto con Antonio, ma che negli anni suc‑ cessivi perfezionò una visione ecumenica dell’impero romano, capace di riassumere in sé le tradizioni divergenti delle diverse aree geografiche. Un’evoluzione che è riscontrabile nella rap‑ presentazione properziana della battaglia di Azio, che nella fase “augustea” del libro IV appare anch’essa divergere dalla visione che in anni precenti era stata esplicitata da Virgilio 49, ed anche dall’evoluzione che interessa in questi stessi anni l’arte figurativa, nella quale i tratti topicamente orientali vengono valorizzati ed iscritti nella visione dell’universalismo romano 50.

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Abstracts L’idea che in Roma riviva l’antica Troia (Troia resurgens) è un mo‑ tivo evidenziato dai poeti più legati ad Augusto, in primo luogo Virgilio ed Orazio. Nel caso di Properzio è rilevabile un’evoluzione che porta il poeta dapprima ad ignorare il tema, poi a farlo decisa‑ mente proprio, nell’ultimo libro delle Elegie. Al tema è connesso un problema testuale dell’elegia 4.1. The idea of  the revival of  Troy in Rome (Troia resurgens) is develed by the Augustan poets, primarily by Virgil and Horace. The present

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article examines the development of  this image in Propertius, and its relation with the Augustan propaganda. It is also examined a related textual problem of  the elegy 4.1. Keywords: Troy, Troia resurgens, Augustan propaganda.

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È stato già detto e scritto molto sull’utilizzo del mito da parte di Properzio e sulla funzione esemplare che esso in molti casi assu‑ me 1: del resto l’inserzione di figure del mito (statisticamente rile‑ vante rispetto ad un altro elegiaco come Tibullo, per esempio) 2 è un aspetto caratterizzante della produzione properziana, anche se subisce un ridimensionamento nel IV libro, mentre tocca una punta massima di frequenze nel Libro II e, per la categoria degli exempla, nel III 3. Naturalmente bisogna distinguere i vari modi dell’inserzione del mito, e a questo scopo rimandiamo alle categorie elaborate da Cristina Bollo Testa che, muovendo dalle semplici rievocazioni e citazioni (di argomenti di opere letterarie, di luoghi geografici, di proverbi) individua poi le apostrofi ad un personaggio, le allu‑ sioni, i confronti tra realtà e mito in rapporto di somiglianza o di antitesi e soprattutto gli exempla 4. Ora la nostra attenzione intende concentrarsi sulle eroine perseguitate, una categoria di personaggi ben rappresentata nella mitologia, che del resto costituisce un topos anche a livello folk‑   Cfr. Bollo Testa 1981, p. 135 s., n. 1 per una rassegna della bibliografia risalente all’ottocento e alla prima metà del XX secolo, che si rivela di scarsa utilità, viziata come è spesso da giudizi estetizzanti e scarsa aderenza al testo, con la parziale eccezione di La Penna 1951 e di Kölmel 1959. Fra gli studi più recen‑ ti, oltre a Bollo Testa, ricordiamo Lechi 1979, Whitaker 1983, Gazich 1995 e i contributi di Fedeli 1977; 1992; 2004. 2   Cairns 1979, p. 229; Whitaker 1983, pp. 65 ss.; La Penna 1986, pp. 94 ss. 3  Bollo Testa 1981, p. 143 (tabella); p. 153 s. (conclusioni). 4  Bollo Testa 1981, pp. 138‑39. 1

Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 93-112 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112117

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lorico. Basta scorrere le note pagine della Morfologia della fiaba di Vladimir Propp 5 per individuare la tipologia degli “eroivittime” 6: “l’eroe sarà la fanciulla rapita o scacciata” e la favola ne seguirà le vicende e le peregrinazioni; inutile citare Bianca‑ neve o Cenerentola, immortalate anche dal teatro in musica (in ambito lirico o coreografico) e perfino dai cartoni animati di Walt Disney. L’inserzione della storia di un’eroina appare particolarmente funzionale ai fini del poeta elegiaco che, come sappiamo, sono sempre indirizzati al corteggiamento della puella: la “werbende Dichtung” teorizzata da Stroh 7 necessita infatti sempre di otte‑ nere dalla donna amata, che per costituzione è infedele, avida, capricciosa, gelosa, facile alla collera, un comportamento più affi‑ dabile, che corrisponda alla devozione del poeta servus amoris. Ora è evidente che proporre alla puella exempla di eroine miti‑ che soddisfa il protagonismo dell’elemento femminile nella poe‑ sia elegiaca, e presenta il vantaggio pratico, per il poeta, di attin‑ gere ad un repertorio di situazioni e azioni agite al femminile, che sperabilmente potranno indurre la donna amata a cambiare i suoi comportamenti, o almeno la lusingheranno paragonandola a dee e a donne famose. In alcuni casi, infatti, l’evocazione delle protagoniste di miti celebri potrà svolgere la funzione di innal‑ zare la puella in una sfera leggendaria paragonandola ad esse. Tornando alla categoria delle eroine perseguitate, il loro numero nella mitologia greca è talmente grande da permettere al poeta di costruire cataloghi di questa sfortunata tipologia: così per esempio in 2,28,17‑24 Io, Ino e Callisto 8, con la loro tra‑ sformazione in dee o costellazioni dopo tristi vicende, additano a Cinzia malata la speranza in un futuro migliore, e più avanti, ai vv. 51‑52, Antiope, Tiro ed Europa, donne sedotte da Zeus a causa della loro bellezza, discese agli Inferi come tot milia for­ mosarum, giustificano la presenza tra i viventi della sola bellissima Cinzia.   Propp (1928) 1988, citato dall’ed. italiana.   Propp (1928) 1988, p. 42 s., Funzione IX (“La sciagura o mancanza è resa nota”, etc.). 7  Stroh 1971. 8  Cfr. il commento di Fedeli 2005 ad 2,28,17‑24 per l’espunzione dell’exem­ plum di Andromeda (vv. 21‑22). 5 6

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E in 3,22,29‑36 Andromeda, Ifigenia e nuovamente Io (sulla quale torneremo), inserite in un elenco di tragici miti ambien‑ tati in Grecia, servono per contrasto a ricordare all’amico Tullo le  laudes Italiae, i pregi della Romana terra, pulcherrima sedes (v. 39) 9. E ancora Andromeda, con Ipermestra, narra le sue disav‑ venture nell’Elisio delle eroine virtuose e fedeli ai loro uomini, nel quale si autopresenta Cinzia morta, apparendo a Properzio in 4,7,63‑68 10. Si possono catalogare nel numero delle perseguitate anche le relictae, le donne abbandonate dagli amanti secondo il getto‑ nato cliché inaugurato dalla Calipso omerica, sviluppato nella tragedia e nell’epica da Medea e da Ipsipile, ripreso dalla Fillide di Callimaco e, a Roma, da Arianna nel carme 64 di Catullo (e destinato a rivivere in Didone nel IV dell’Eneide e ad essere clonato dalle Heroides ovidiane) 11. Ecco allora Calipso e Ipsipile, paradigmi di fedeltà dopo l’ab‑ bandono in 1,15,9‑20, mentre in 2,24c,44‑46 la sorte di Arian­na, Fillide e Medea ammonisce Cinzia a non contare sulla costanza degli amanti occasionali 12. Ma vorremmo prendere in esame due apparizioni di eroine per‑ seguitate particolarmente significative, la prima, Antiope di 3,15, per l’estensione, l’impegno stilistico e la singolarità della narra‑ zione che caratterizza il suo exemplum, la seconda, Io di 2,33a, per la presentazione anomala della sua vicenda, evocata non come exemplum ma con il Du-Stil del discorso conativo, in un faccia a faccia tra il poeta e l’eroina. All’elegia 3,15 hanno dedicato una trattazione anche opere di carattere generale come La Penna nel volume del 1951 13 e Gazich nei capitoli finali del suo studio 14, senza dimenticare

  Cfr. Fedeli 1985 ad 3,22,625 ss. per struttura e tematica dell’elegia.   Dimundo 1990, pp. 173 ss. 11   Della Corte 1969; Rosati 1989, pp. 12 ss.; Landolfi 2000, pp. 83 ss.; Iera‑ nò 2010, pp. 167 ss.; Fernandelli 2012, pp. 40 ss.; 211 ss. 12  Fedeli 1977, p. 76 s. per 1,15; 2005 ad 2,24c, 44 ss. 13  La Penna 1951, pp. 68 ss.; pp. 152 ss. 14  Gazich 1995, pp. 294 ss.; pp. 303 ss. 9

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articoli specifici come quelli di Alfonsi in “Dioniso” del 1961 e di Yardley in “TAPhA” del 1974 15. La singolarità di questa elegia, che la avvicina alla 1,20 sul mito di Eracle e Ila, consiste nel suo “accostarsi allo schema dell’elegia alessandrina” (per usare le parole di La Penna) 16, e cioè nell’ac‑ cordare lo spazio maggiore alla narrazione oggettiva del mito, narrazione che tuttavia è inserita in una cornice soggettiva 17: in 1,20 il monito all’amico Gallo perché sorvegli il fanciullo amato, in 3,15 l’ammonimento a Cinzia perché per gelosia non maltratti la schiava Licinna. Tuttavia 3,15 sembra da ascrivere ad una fase più matura dell’arte properziana 18, a causa dell’approfondimento psicolo‑ gico del personaggio di Antiope e dello “stile soggettivo” grazie al quale il poeta supera i limiti della narrazione di tipo omerico/ epico, mostrando di aver recepito la lezione dell’epillio romano, che dava spazio ad un nuovo modo di raccontare, privilegiando fra l’altro appunto eroine infelici 19. Ma vediamo prima di tutto la situazione che innesca l’in‑ serzione dell’exemplum nell’elegia: Properzio rievoca le prime “lezioni d’amore” ricevute dalla schiava Licinna, prima che la pas‑ sione per Cinzia seppellisse ogni altro sentimento, avvincendolo con i legami del servitium elegiaco. Cinzia, tuttavia, a causa di una gelosia retrospettiva verso Licinna, ormai da anni ignorata da Properzio, tormenta la schiava: perciò il poeta la ammonisce con l’exemplum di Antiope, perseguitata per gelosia da Dirce, e che infine riuscì a liberarsi dalla prigionia e ad ottenere la punizione della sua persecutrice; Cinzia non presti dunque fede alle maldi‑ cenze su Properzio, che le professa una fedeltà fino alla morte. Il racconto mitico delle vicende di Antiope, ai vv. 11‑42, deve essere analizzato sotto vari aspetti, perché il poeta mostra di avere   Alfonsi 1961, pp. 5 ss.; Yardley 1974, pp. 429 ss.   La Penna 1951, p. 152. 17  Per le categorie soggettivo vs. oggettivo si veda la messa a punto di Rosati 1979, p. 550 (infra, n. 20). 18  Anche se non manca chi fa risalire l’elegia ai primi esperimenti poetici di Properzio: una sintesi della questione è in La Penna 1951, pp. 152 ss., che pensa di essere di fronte ad un abbozzo giovanile, poi completamente rimaneggiato e inserito nel III libro. Di diversa opinione Fedeli 1985, ad loc., p. 471. 19  Io in Calvo, Mirra in Cinna, Scilla nella Ciris. Sullo stile dell’epillio ales‑ sandrino e poi romano cfr. Perutelli 1979, passim; Fernandelli 2012, pp. 133 ss. 15 16

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perfettamente appreso quello stile “soggettivo” 20 che i latini ere‑ ditano dall’epillio catulliano, e che Virgilio nell’Eneide porterà alla perfezione: infatti Properzio, come narratore, si immedesima emotivamente nelle sventure della sua eroina, descrivendole con aggettivi che non sono più esornativi, ma diventano veicoli di “empatheia”. E, come vedremo subito, sfrutta anche la tecnica narrativa ereditata dai poeti alessandrini (Teocrito e Callimaco in particolare), che trattavano con la massima libertà la mate‑ ria, scegliendo di omettere fatti essenziali, di alludere ad antefatti o a sviluppi successivi, di accentuare alcuni particolari a scapito di altri eventi arbitrariamente riassunti 21. Il risultato è che il lettore moderno, non inserito in quel sistema di riferimenti culturali appreso fin dall’infanzia dagli anti‑ chi, si trova disorientato di fronte ad una esposizione non solo sintetica ma desultoria ed asimmetrica di vicende mitiche com‑ plesse. Nel caso della nostra eroina, Antiope, protagonista di una famosa tragedia euripidea e di un’altrettanto nota rielaborazione di Pacuvio (entrambe giunte a noi solo in frammenti) 22, una versione mitografica (cfr. Igino Fab. 7 e 8) 23 la presenta come figlia del re Nitteo (Nycteus), ma nella Nekyia omerica (Od. 11, 260‑64), in altri epici come Apollonio 1,735‑41 e in Pausania 24 la paternità è attribuita al fiume Asopo (che come si vedrà gioca un ruolo diverso nella nostra elegia); uno scolio ad Od. 11,260 precisa che i tragici preferivano fare di Antiope la figlia di Nitteo, e Properzio segue in questo Euripide (v. 12). Un’analoga pluralità di tradizioni attesta le vicende sentimen‑ tali della donna; la trama della tragedia euripidea è annoverata 20  Si rimanda al classico studio di Otis 1963, che muoveva dalle intuizioni di Heinze 1903 su Empfindung e Subjektivität per definire lo “stile soggettivo” virgiliano in termini di “empathy” e “sympathy”: si veda ora Fernandelli 2012, pp. LVII ss.; 133 ss. Per una messa a punto della questione è prezioso il contri‑ buto di Rosati 1979, pp. 539 ss. 21   Cfr. Deubner 1921, pp. 361 ss.; Pinotti 2004, pp. 88 ss.; 109. 22   I frammenti della Antiope di Euripide sono editi da Jouan-Van Looy 1998, vol. VIII, pp. 213 ss.; Kannicht 2004, vol. 5,1, pp. 274 ss. Per Pacuvio si veda Ribbeck3, 1897, pp. 86‑90. 23  Hygin. Fab. 7‑8., ed. Boriaud, 1997, pp. 15 ss. 24  Testimonia In Jouan-Van Looy 1998, pp. 213 ss. e Kannicht 2004, pp. 274 ss.

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dagli editori francesi della collezione Budé, Jouan e Van Looy, tra le “piéces romantiques” con intrighi complessi e happy end 25. Secondo Igino 8, che riporta appunto la versione di Euripide e poi di Pacuvio, Antiope è sedotta da Giove e fugge per timore del padre; viene sposata da Epopeo re di Sicione, ma il padre di lei, morendo, incarica il fratello Lico di punire la nipote; Lico uccide Epopeo e fa prigioniera Antiope; la giovane, durante il viaggio, dà alla luce sul Citerone due gemelli, Anfione e Zeto, che vengono esposti e allevati da un pastore; intanto Lico con‑ segna Antiope alla moglie Dirce che la tortura, finché l’eroina fugge e incontra i figli, ormai adulti: Zeto la respinge ma, grazie al pastore, avviene il riconoscimento; essendo poi venuta Dirce sul Citerone per celebrare riti bacchici, i due gemelli la legano ad un toro che la uccide. Tuttavia i miti si rivelano come storie non cristallizzate 26, ma “elastiche”, flessibili se non addirittura “prismatiche”, dotate di varie facce che si offrono al lettore; analogamente Propp regi‑ strava le varianti di una fiaba. E infatti la fabula 7 di Igino testi‑ monia una variante non priva di interesse per la nostra elegia: Antiope, moglie di Lico, è sedotta da Epopeo e scacciata; a que‑ sto punto la poveretta viene ulteriormente stuprata da Giove 27. Lico sposa in seconde nozze Dirce, cui suspicio incidit virum suum clam cum Antiopa concubuisse (questo è proprio lo sviluppo pro‑ perziano della storia – vv. 11‑12 28 – e viene da sospettare che Igino si basi sull’elegia 3,15, perché le altre fonti non sembrano registrare la gelosia di Dirce); segue la prigionia di Antiope che fugge e partorisce i gemelli sul Citerone; poi, fulminea agnizione e supplizio di Dirce.

  Jouan-Van Looy 1998, p. 236.   Lechi 1979, p. 99. 27  La frase di Hygin. 7, hanc viduam Iuppiter compressit appare frutto di una confusione, forse con l’altra versione, dato che Lico è perfettamente vivo subito dopo, tanto è vero che prende Dirce come seconda moglie. La scena della se‑ duzione di Antiope da parte di Zeus con l’aspetto di un Satiro è un tema predi‑ letto dall’arte musiva: ne possediamo esempi nel Nord Africa (LIMC I 1, 1981, s.v.  Antiope 1, p. 857) come a Zeugma sull’Eufrate (conservati nel museo di Gazyantep). 28  Sulla lezione del v. 11 e la probabile correzione del trádito vero in vano cfr. Shackleton Bailey 1956, p. 186 s., Fedeli 1985, ad loc. (con un ripensamento rispetto alla Teubneriana del 1984 che stampava vero) e Gazich 1995, p. 297. 25 26

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Questa è l’ossatura del mito, in cui Propp riconoscerebbe, oltre all’eroina–vittima delle fiabe, il danneggiamento e le prove a cui la suddetta eroina è sottoposta ad opera di un’antagoni‑ sta (qui Dirce), l’intervento di uno o più aiutanti (i due figli e il pastore), la punizione dell’antagonista, la rimozione finale del danneggiamento, a testimonianza del fatto che, come sottoli­ neava Lévi-Strauss commentando le ricerche dello studioso russo, mito e favola sfruttano una sostanza comune e che “le fiabe sono miti in miniatura” 29. Ma come narra il mito il poeta elegiaco? La tecnica alessan‑ drina e l’“empathy / sympathy” dello stile soggettivo impon‑ gono una selezione del tutto arbitraria della materia: dapprima (vv. 11‑12) vediamo il falso sospetto di Dirce, che funge da cer‑ niera con la situazione iniziale di Cinzia e Licinna. Formalmente la narrazione è introdotta dal formulare testis (erit), espediente al quale Properzio ricorre anche altrove per attribuire all’exemplum l’originaria funzione giuridica di prova testimoniale 30, saldando la tradizione giuridica romana con l’esi‑ genza callimachea dell’ἀμάρτυρον οὐδὲν ἀείδω. Seguono due distici (13‑14 e 15‑16) aperti dall’anaforico a quo­ tiens (un cliché che vedremo anche nel mito di Io in 2,33a,11) 31, che moltiplica in un’iterazione illimitata le vessazioni della regina sulla schiava indifesa; la ripetitività delle azioni persecutorie di Dirce è ribadita ai vv. 17‑18 dall’anadiplosi di saepe. L’indu‑ giare di Properzio sulle condizioni disagiate della prigionia di Antiope (vv. 16 ss., anche 20 e 24) potrebbe derivare da un intento di aemulatio nei confronti della tragedia pacuviana, che, a quanto appare dai frammenti rimasti, indugiava sui particolari dello squallore e della sporcizia, con il compiacimento espres‑ sionistico che è tipico dei tragici latini 32: cfr. i frr. 5 R3. perdita 29   Propp (1928) 1988, pp. 42; 55; 61; 68; Lévi-Strauss 1960 in appendice all’ed. Einaudi 1988, p. 179 s. 30  Gazich 1995, p. 140, con elenco dei loci paralleli; 255 ss.; v. anche Fedeli 1985, ad loc. 31  Fedeli 1985, ad loc. e 1980, ad 1,18,21. 32  Sull’espressionismo e la Pathetisierung della tragedia latina cfr. le belle pa‑ gine di La Penna 1989, pp. 86 ss.; Grilli 1965, pp. 160 ss.; 221 ss. Traina 1970, p. 7 s. Si veda la famosa citazione di Pers. 1,76‑77 sunt quos Pacuviusque et ver­ rucosa moretur / Antiopa, aerumnis cor luctificabile fulta (fr. 14 R3.) e il commento ad loc. di Scivoletto 1968.

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inluvie atque insomnia; 6 R3. frendere noctes, misera quas perpessa sum; 15 R3. illuvie corporis / et coma prolixa impexa conglomerata atque horrida; tuttavia allo stato attuale delle testimonianze non risulta troppo convincente il tentativo di Alfonsi 33, che cerca di mettere in relazione diretta i versi properziani con quelli di Pacuvio. Tornando allo sviluppo narrativo della nostra elegia, rileviamo come il poeta non si dia pensiero di narrare l’antefatto della sto‑ ria, né la violenza subita ad opera di Giove né il matrimonio (o i matrimoni) dell’eroina né il duplice parto. L’apostrofe a Giove del v. 19 fa entrare in gioco, ex abrupto, il protagonista divino, e il distico successivo sembra soltanto un’allusione al rapporto amoroso fra il dio e la donna, mediante il possessivo tuam puellam e l’interrogativa retorica del v. 22, che presuppone in Antiope una speranza di ricevere aiuto dall’amante divino. Peraltro Giove non assume, come potrebbe, la funzione narratologica dell’aiutante, e il poeta lo sottolinea al v. 23, sola tamen. Nei versi da 25 a 28 la fuga di Antiope è inserita in un paesag‑ gio interiorizzato 34, che appare in consonanza con la situazione incerta e rischiosa dell’eroina: il poeta mostra la sua immedesima‑ zione “empatica” con le iuncturae timido pede e triste cubile, in cui gli aggettivi danno corpo ai sentimenti della fuggiasca. Ormai la narrazione si trasforma in descrizione 35. L’incipit nox erat tinge la scena di un colore tenebroso, con una formula frequente negli augustei e in particolare nell’epos virgiliano 36: lo stile del passo si avvicina a quello dell’epillio, dal quale riprenderà più avanti anche lo stilema della similitu‑ dine.

La Penna 1989 si sofferma anche sul “motivo di Telefo”, la preferenza per la descrizione di nobili personaggi decaduti e circondati da squallore e sporcizia (pp. 88 ss.), come è appunto il caso dell’Antiope pacuviana (p. 93). 33   Alfonsi 1961, p. 5 ss.; il confronto più persuasivo riguarda il fr. 12 R.3 ce­ ruicum / floros dispendite crines con 3,15,13 pulchros vulsit regina capillos (cfr. Serv. ad Aen. 12, 605 antiqua lectio floros habuit, i.e. florulentos, pulchros: et est sermo Ennia­ nus: Alfonsi p. 7, n. 3). 34  Cfr. sulla topothesia nelle elegie narrative Pinotti 2004, p. 92 s., e Fedeli 1985, ad 3,15,26. 35  Cupaiuolo 1994, pp. 447 ss. 36  Fedeli 1985, ad loc.

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L’imperfetto credebat unito a saepe, ai vv. 27‑28, segna il pas‑ saggio dalle azioni puntuali espresse dai perfetti rupit e  currit al continuo rinnovarsi dei timori dell’eroina. Al v. 27, la specificazione non necessaria, che battezza con il nome dell’Asopo il fiume attraversato da Antiope nel suo vagare, induce a sospettare, in un poeta doctus come Proper‑ zio, non solo un tratto di erudizione geografica alessandrina, ma un’allusione dotta alla versione epica (di Omero e Apollonio, come si è visto) che faceva di Asopo il padre dell’eroina: una variatio in imitando insomma. L’incontro con i figli, al distico 29‑30, riassume con estrema concentrazione, nell’antinomia durum / mollem, il diverso atteg‑ giamento dei gemelli verso la madre 37, e di nuovo il poeta, come poco prima aveva dato spazio per due distici alla descrizione del paesaggio notturno e al suo riflesso sull’animo della protagoni‑ sta, così qui omette un ordinato racconto dei fatti che prelu‑ dono all’agnizione, e preferisce introdurre, con la formula epica ac veluti del v. 30 38, una delle sue più riuscite similitudini, che, estesa per ben due distici, dipinge con un aprosdoketon narrativo il venir meno di Antiope nel momento in cui cessa la disputa tra i figli, paragonata allo scontro di venti tempestosi. Il primo piano è riservato allo svenimento dell’eroina, descritto in un dimi‑ nuendo di suoni (onde infuriate, venti di tempesta, fruscio delle onde placate sulla spiaggia solitaria); anche al v. 27 le peripezie di Antiope erano presentate con la colonna sonora del sonitus Asopi fluentis: sono le voci della natura che, con pochi tocchi da maestro, il poeta inserisce come sfondo e contesto del racconto. Ai vv. 35‑38 abbiamo dapprima due emistichi che sintetiz‑ zano all’estremo l’ἀναγνώρισις, poi un’inattesa apostrofe: un tratto di “sympathy” che porta in scena, come senex, il pastore che ha allevato i gemelli e che svela loro l’identità della madre; narra‑ tologicamente parlando, un aiutante all’ennesima potenza, senza il quale gli eroi positivi (Antiope e i figli) non sarebbero soprav‑ vissuti. 37  Attestato nella nostra elegia e in Hygin. 8,4, ma non testimoniato nei frammenti dei tragici: cfr. Jouan-Van Looy 1998, p. 233. 38  Fedeli 1985 ad loc. Sulla similitudine, caratteristica dello stile epico, cfr. Pinotti 2004, p. 109 s. e Fernandelli 2012, pp. 133 ss.

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Al v. 37, poi, il poliptoto pueris / pueri lega l’agnizione del­ l’eroina al castigo di Dirce, sorvolando sulla presenza della regina sul Citerone e ignorando il rito dionisiaco testimoniato dalle fonti 39. Il supplizio della donna è presentato poi, nei vv. 39‑40, nei suoi riflessi sull’animo di Antiope, apostrofata in incipit del v. 39 ed invitata a riconoscere la volontà di Giove nella sua vicenda, anche se per la verità il poeta non ha accordato nessuno spazio ad un intervento divino, dando quasi l’impressione di negarlo (cfr. v. 19 ss.); la terribile morte della persecutrice è motivo di gloria per l’eroina, e il modo di quella morte, una volta di più, non viene descritto con particolari realistici o macabri, ma solo alluso con l’immagine dei prata Zethi macchiati di sangue: una scena che sposta l’obbiettivo sul paesaggio circostante, e per‑ mette di introdurre l’immagine finale, Anfione vincitore che canta il suo peana dalla cima dell’Aracinto 40, in una posa statuaria che potrebbe evocare al lettore antico una rappresentazione ico‑ nografica, in pittura o in scultura 41. Invece non è chiaro se il poeta voglia alludere al famosissimo gruppo statuario del cosiddetto “Toro Farnese” di Apollonio e Taurisco di Tralles, giunto a Roma da Rodi e inserito nella collezione di Asinio Pollione, come testimonia Plin. N.H. 36, 33‑34 42: se l’opera era già visibile in quegli anni, Properzio aveva   Burkert interpreta il mito di Antiope e Dirce in chiave dionisiaca: 1981, pp. 141 ss.: cfr. le testimonianze di Pausan. 9, 17, 6; Hygin. 7 e 8: ibidem, n. 238, p. 263. 40  Nella descrizione di Anfione si può leggere l’intenzione di alludere alla caratterizzazione che il personaggio aveva assunto nella letteratura greca, come simbolo della vita contemplativa, contrapposta a quella attiva, rappresentata dal fratello; dal contrasto fra i due nasceva il celebre agon, ricordato anche da Rhet. Her. 2,27,43 (controversia apud Pacuvium), al quale allude Hor. ep. 1, 18, 40‑44. Per i relativi frammenti euripidei cfr. Jouan-Van Looy 1998, fr. 7‑12 e 13‑24, e Kannicht 2004, fr. 183‑88 e 193‑202; cfr. anche Fedeli 1985, ad 29‑30; V. anche infra, n. 48. 41  Come suggerisce Fedeli 1985, ad 39‑42. 42  Museo Archeologico di Napoli. Cfr. LIMC, III 1, 1986, s.v. Dirke (F. Heger) per una bibliografia aggiornata sul gruppo scultoreo, venuto a Roma da Rodi dopo il saccheggio di Cassio Longino del 43 a.C. (p. 644); viene rico‑ nosciuto al gruppo un carattere dionisiaco, e lo si collega alla celebrazione degli Attalidi di Pergamo (pp. 642 ss.). Come esempio dell’iconografia relativa al sup‑ plizio di Dirce in ambiente romano si veda ad es. l’affresco pompeiano dalla casa del Granduca, ibidem, p. 504. 39

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un motivo di più per presentare la storia di Antiope e Dirce ai suoi lettori, certo non meno attenti ai capolavori della scultura ellenistica che a quelli della letteratura coeva. Subito dopo, introdotto da at tu, usuale formula conclusiva nello stile elegiaco 43, il discorso torna esplicitamente conativo nel rivolgersi a Cinzia, e si chiude la cornice personale. Ma questa analisi della tecnica narrativa e dei caratteri stilistici dell’elegia 3,15 può essere ulteriormente approfondita e preci‑ sata con altri elementi. Innanzitutto vediamo come Properzio è riuscito a conferire un’unità concettuale e tematica alle due parti (cornice personale e narrazione mitica): si può ricordare, sulla scorta di Gazich 44, la teoria retorica dei semina probatio­ nis, le tracce nascoste nella narratio e destinate ad essere riprese nell’argomentazione probatoria. Ora 3,15, fin dai primi distici, appare costellata da un “sema” (la terminologia è ancora di Gazich), da un indizio semantico che si ripete e si sviluppa in senso proprio o metaforico: è il sema della schiavitù, del legame, ideologicamente connaturato con il mondo elegiaco dominato dal servitium amoris. Infatti, al v. 4, all’adolescente Properzio è data la libertas di conoscere l’amore ad opera di Licinna esperta ma disinteressata: è quasi un ossimoro concettuale la constatazione che la schiava, pur nella sua condi‑ zione servile, non è capta da nessun dono. Ben altra è la sorte del poeta il quale, innamoratosi di Cinzia, si ritrova i dulcia vincla di lei intorno al collo. Inizia l’exemplum, e la schiavitù si realizza concretamente nella situazione di Antiope, sottolineata al v. 15, famulam, e al v. 21, tuam servire puellam, e precisata dall’immagine dei legami: dura catena al v. 20, vincta al v. 22, manicas al v. 24. Infine il contrap‑ passo impone vincoli ben più terribili alla spietata domina: v. 37 trahendam vinxerunt Dircen, a cui ora tocca di essere ducta (ducitur al v. 40) dalla volontà punitiva dei figli di Antiope e dalla furia selvaggia del toro. Dobbiamo dunque leggere nella condizione servile di Antiope una proiezione del servitium amoris a cui è legato Properzio? Non sarebbe la prima volta che il poeta rivisita una vicenda mitolo‑   Fedeli 1980 ad 1,17,25; 1985 ad 3,7,71.   Gazich 1995, pp. 80 ss.; 99 ss. (semina probationis: Quint. 4, 2, 54).

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gica e la ricontestualizza nel testo elegiaco 45, senza farsi scru‑ polo di trasformarla e di alterare il codice comportamentale dei personaggi; del resto abbiamo già ricordato l’elasticità dei miti e la polivalenza del repertorio mitologico. E il mito di Antiope offriva spunti sui quali Properzio poteva giocare: la condizione di schiavitù, attestata in tutte le fonti, e la presenza di una sposa legittima di Lico innescano l’analogia con il triangolo Proper‑ zio/Cinzia/Licinna; la motivazione della gelosia retrospettiva di Dirce, invece, ignota alle fonti (se si esclude il tardo Igino che potrebbe averla presa da Properzio) 46, può essere un’invenzione del poeta elegiaco per aumentare il tasso di analogia delle due situazioni. Ma il contesto sembra anche determinare la caratterizzazione dei personaggi del mito: in primis, l’incongrua ed irrealistica defi‑ nizione di puella, riservata per due volte (vv. 21 e 34) ad Antiope madre di due figli ormai adulti, la qualifica come eroina elegiaca, alla quale si addice appunto l’elegiaco attributo mollis (mollia in ora, al v. 14, colpiscono le crudeli mani di Dirce); e la donna è perciò destinata a scontrarsi con l’antinomica duritia dei mal‑ trattamenti: v. 16, in dura humo; 20 dura catena, ed è perseguitata da una domina (v. 28). L’antinomia elegiaca mollis /durus 47 si realizza poi persino nei caratteri opposti dei due gemelli: v. 29 durum Zethum et lacrimis Amphiona mollem, un verso in cui il tradizionale contrasto dei due personaggi, sviluppato dai tragici e divenuto persino pro‑ verbiale 48, viene trasferito nel contesto elegiaco: Zeto estimatore della campagna e della vita attiva e Anfione l’intellettuale dedito alla musica e alla filosofia sono in dissenso, nella nostra elegia, sulla decisione di respingere o accogliere l’eroina in lacrime. E anche sul piano temporale e spaziale il poeta costruisce una trama unificante della realtà con il mito: notte e oscurità segnano

45   Cfr. Lechi 1979, pp. 95 ss. per Briseide / Achille; Fedeli 1992, pp. 251 ss. e 2004, 231 ss. per Calipso. 46  Jouan-Van Looy 1998, p. 215, n. 8 riferiscono l’inutile ipotesi di Rose secondo la quale Igino si sarebbe ispirato ad una tragedia post-euripidea. 47  Sull’appartenenza della coppia durus / mollis alla terminologia elegiaca cfr. Fedeli 1985 ad 3,15,29‑30; ad 3,1,19‑20, pp. 69‑70. 48  Supra, n. 40 Cfr. Jouan-Van Looy 1998, pp. 229 ss. e n. 51 per la biblio‑ grafia relativa al contrasto fra vita attiva e contemplativa (per es. Grilli 1953).

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i momenti privilegiati nello svolgimento delle due storie paral‑ lele. Per noctes primas (v. 5) Properzio ha imparato l’amore da Licinna, mentre nel presente si augura di non trascorrere una sola notte senza Cinzia (v. 2); quanto ad Antiope, imprigionata nel tenebroso carcere (v. 17), di notte realizza la sua fuga (v. 26) e nell’oscurità è terrorizzata dai suoni della natura. Ma del resto l’eroina, con quel suo errare fra le rocce del Citerone, con il suo giacere sulla fredda terra, ripete l’esperienza degli amanti mitici elevati ad exempla, di Milanione che in 1,1,11 Partheniis errabat in antris e gemeva Arcadiis rupibus (v. 14), dell’er­ ror di Eracle ignotis ... in oris alla ricerca di Ila in 1,20,15, e dei personaggi elegiaci che a quegli exempla conformano (o dovreb‑ bero conformare) il loro agire: Gallo che in 1,20,13 ss. potrebbe dover cercare tra duros montes et frigida saxa, se si fa sottrarre il fan‑ ciullo amato, Properzio stesso che in 1,18,26 ss. si aggira presso una frigida rupes e si sdraia inculto tramite per sfogare nella natura i suoi lamenti amorosi. E non dimentichiamo che il vagare nella natura solitaria ha come ipotesti Aconzio negli Aitia callimachei, e il Cornelio Gallo presentato da Virgilio nella X ecloga, proto‑ tipi dell’infelice amante elegiaco 49. Benché Antiope non sia soggetto di sentimenti amorosi, ma solo vittima di gelosia (e di violenza maschile nel mito), Pro‑ perzio rimodella dunque le vicende dell’eroina in chiave ele‑ giaca e sembrerebbe perfino identificarsi con lei: l’analogia fra le schiave Antiope e Licinna subisce uno slittamento verso il ser­ vitium amoris ed i maltrattamenti dei quali il poeta stesso è vittima ad opera della gelosa domina Cinzia: non a caso nel finale il poeta, con fabula nulla de nobis ..., si presenta oggetto di maldicenze e calunnie che lo espongono all’ira di Cinzia (vestra ... ira, v. 44). Vorrei poi aggiungere un’ultima serie di considerazioni sul trat‑ tamento dato dal poeta al mito di Antiope, considerandolo que‑ sta volta non con gli occhi di un lettore esperto di mitografia e di tragediografia greca, ma nell’ottica del pubblico romano. In effetti la fabula di Antiope presenta somiglianze singolari con il mito di fondazione delle origini di Roma: una fanciulla di nascita regale, sedotta da un dio, partorisce due gemelli che ven‑   Per i lamenti di Aconzio e Gallo cfr. Pinotti 2010, p. 122.

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gono esposti e salvati da un pastore, e viene punita dal crudele zio paterno: potremmo sostituire ai nomi di Antiope, Anfione, Zeto e Lico quelli di Rea Silvia, Romolo, Remo e Amulio, e aggiungere che al ruolo di Anfione, che innalza le mura di Tebe al suono della lira, corrisponde l’azione di Romolo fonda‑ tore dell’Urbe. Ci troviamo forse in presenza di una nuova prova di polivalenza del materiale mitico, della trasferibilità dei motivi da un racconto all’altro, di cui parlano gli studiosi di letteratura folklorica 50? Non è però dimostrabile che Properzio abbia con‑ sapevolmente giocato su questa analogia, e nulla nel testo porta in questa direzione. La seconda eroina perseguitata sulla quale vorrei, più breve‑ mente, fermare l’attenzione è Io: personaggio di ascendenza tragica (sua una scena di grande impatto emotivo nel Prometeo incatenato, ma la sua storia era narrata anche dal coro delle Supplici di Eschilo), ma anche soggetto dell’ekphrasis nell’epillio alessan‑ drino Europa di Mosco 51 e protagonista dell’epillio neoterico di Licinio Calvo 52. Come si è visto, era una delle donne mortali tra­sformate in dee o costellazioni in 2,28,17 ss., e le sue disgrazie erano parte del catalogo di 3,22,29 ss., ma l’elegia 2,33a la vede protagonista della metamorfosi prima in giovenca, poi in divinità (cioè Iside), narrata in Du-Stil, con uno stravolgimento ironico dei moduli della preghiera 53. Il racconto mitico è incorniciato, in Ring-composition come 3,15, da due distici che rimandano alla situazione personale del poeta, tenuto a distanza da Cin‑ zia a causa dell’astinenza sessuale imposta dai sacra di Io-Iside 50   Bettini 1986, p. 248 s. Si aggiunga, per i risvolti “latini” della storia, che il lettore romano, a conoscenza della parentela di Lico patruus di Antiope, poteva riconoscere nel suo ruolo di punitore la severità tipica e proverbiale dello zio pa‑ terno nei confronti dei nipoti, ben attestata a partire dalla commedia – cfr. Bet‑ tini 1986, pp. 27 ss. – e vedere nella persecuzione dell’eroina da parte di Dirce una motivazione più grave della semplice gelosia: infatti un adulterio tra lo zio e la nipote sarebbe stato considerato un incesto nella mentalità giuridica romana, almeno fino al giorno in cui Claudio, per sposare Agrippina, riuscì a farlo depe‑ nalizzare (Tac. Ann. 12,5): si veda ancora Bettini 1986, p. 35, n. 18. 51  Vv.43 ss.: si veda il commento di Bühler 1960 ad loc. La disavventura di Io piacerà ad Ovidio che ne ricaverà uno dei meglio riusciti episodi delle Metamor­ fosi: 1, 583‑650 e 738‑47 (cfr. il commento di Barchiesi 2005 ad loc.). 52  Fr. 9 Blänsdorf; 9 Courtney; 20 Hollis. 53  Fedeli 2005, ad loc.

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(vv. 1‑2); il distico finale (vv. 21‑22), con la formula at tu che abbiamo appena visto nella conclusione di 3, 15, esorta la puella a recuperare il tempo perduto con un’intensa notte d’amore. Al di là dell’evidente differenza di questa presentazione rispetto alla funzione paradigmatica assunta dal mito di Antiope, le vicende delle due eroine, inserite in un’analoga struttura a cornice, presentano innanzitutto alcuni caratteri formali che le acco‑ munano, come la specificazione del nome del padre (2,33a, il patronimico Inachis vs. 3,15 il genitivo di origine Nycteos), il ricorso al patetizzante a quotiens (2,33a,11 vs. 3,15,13 e 15, già segnalato), poi la chiusa introdotta da at tu, con cambio di apostrofe indirizzato a Cinzia. Ma anche sul piano dell’intreccio i due miti mostrano rile‑ vanti punti di contatto: entrambe le eroine sono perseguitate per motivi di gelosia dalla moglie legittima del presunto amante (nel caso di Io più vero che presunto!), entrambe vagabondano impaurite in fuga, entrambe sono alla fine salvate da un inter‑ vento risolutore (di Giove per Io, mentre nella storia di Antiope Giove sembra più spettatore che altro; in Euripide la funzione del deus ex machina era riservata ad Hermes 54). Del mito di Io, amata da Zeus, trasformata in giovenca o dal dio stesso, per nasconderla a Era, o dalla dea gelosa, per ven‑ detta 55, Properzio dà una trattazione patetica con risvolti iro­ nici e dissacranti: l’eroina, divinizzata come Io/Iside dopo aver assunto di nuovo la forma umana, è apostrofata con uno stravol‑ gimento già notato dello stile sacrale: (quaecumque illa fuit, v. 6; Du-Stil con ripetizione del pronome di seconda persona dal v. 7 ss. tu ... te ... tibi ... per quattro volte in due distici, te al 19). Una prima imprecazione (vv. 3‑4) maledice i riti egizi impor‑ tati a Roma; poi la dea è definita amara verso gli amanti (v. 6) e più avanti superba (v. 14) e saeva (v. 19) e addirittura minacciata di una nuova metamorfosi con corredo di corna, e di essere scac‑ ciata dall’Urbe (vv. 18‑19). 54  L’intervento di Hermes è conservato nel fr. 223 Kannicht, vv. 96 ss.(Pa‑ piro Petrie 1 e 2), e confermato da raffigurazioni come quella del cratere di Berlino: LIMC I 1, 1981, s.v. Antiope, p. 855 (E. Simon). 55  Per le due versioni della metamorfosi di Io cfr. Fedeli 2005, ad 7‑14: autrice della trasformazione è Era in Aesch. Suppl. 291 ss. e in Properzio, Giove in Ov. met. 1, 610 ss.: cfr. Barchiesi 2005, ad 568 ss.

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La sezione più ricca di pathos e di sympatheia (vv. 7‑14), in cui si notano reminiscenze del famoso frammento della Io di Calvo 56, insiste sugli aspetti sgradevoli, penosi, dolorosi della metamor‑ fosi: te iussit habere puellam cornua (v. 9), duro perdere verba sono (v. 10), laesisti ora (v. 11) 57. Qui l’aggettivo durus, che connota il suono cupo del mug‑ gito, ci indirizza sulla strada di una nuova trasposizione in chiave elegiaca della vicenda tragica (come si è visto per Antiope): Io è una puella (v. 9) alle prese con la duritia di una realtà non ele‑ giaca; dopo aver sperimentato il furtivus amor con Giove (v. 7 occultis in amoribus) è costretta ad errare come gli amanti infe‑ lici (Aconzio, Milanione, Properzio stesso in 1,17 e 18, Eracle in 1, 20): sensisti multas quid sit inire vias. Ma, dimentica della sua vocazione di innamorata elegiaca, è venuta a Roma tam longa via (v. 16) 58 per dividere gli amanti (v. 5) e far dormire viduas puellas (v. 17): perciò il poeta, minac‑ ciando di punire il suo tradimento dei comportamenti amorosi, riutilizza in riferimento a lei il lessico negativo dei rapporti ele‑ giaci: la definisce amara (v. 6) come le notti degli amanti lontani dall’amata, superba (v. 14) come l’arroganza di chi impone il ser­ vitium amoris e disprezza i sentimenti altrui, saeva (v. 19) come Atalanta che rifiutava l’amore di Milanione 59. In questo modo il topico errare dell’eroina per metà delle coste del Mediterraneo, consegnato all’immaginario dei lettori e degli spettatori della tragedia greca dall’apparizione drammatica dell’esagitata Io nel Prometeo, viene degradato ad una specie di escursione intrapresa dalla dea per pura perfidia verso gli inna‑ morati: la fanciulla perseguitata si è trasformata in persecutrice di fanciulle. In entrambi i casi, le due eroine mitiche, passate dagli ipote‑ sti tragici alla rielaborazione dell’epillio (Mosco e Calvo almeno   A virgo infelix, herbis pasceris amaris: fr. 9 Blänsdorf; 9 Courtney; 20 Hollis.   Cfr. Fedeli 2005, ad loc., per le correzioni da apportare al testo trádito, su proposta di Palmer, in base a Calvo: mandisti per mansisti, arbuta per abdita. 58  Non come Properzio, che con la stessa iunctura descrive il suo viaggio ad Atene, in 3, 21, 2, per liberarsi dall’amore per Cinzia. 59  Per amara cfr. la iunctura noctes amaras e il commento di Fedeli 1980 ad 1, 1, 33; per superba, 1,18,25 e 3,17,41; per saeva, la saevitia della dura Atalanta in 1,1,10 e quella di Cinzia irata in 1,3,18. 56 57

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per Io), subiscono una metamorfosi elegiaca che le omologa alle puellae, e come tali finiscono per interagire con il mondo del poeta e di Cinzia: in questo mondo della poesia d’amore le incontriamo non come citazioni erudite ma come vere prota‑ goniste di avventure e soggetti di emozioni e sentimenti.

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Abstracts Gli exempla mitologici sono frequenti in Properzio: troviamo elenchi di eroine (in particolare di eroine infelici) in 1,15, 9 ss.; 2, 24c, 44 ss.; 2,28, 17 ss.; 3,22, 29 ss.; 4,7, 63 ss. La storia di Antiope, in 3,15, presenta una sezione narrativa inse‑ rita in una cornice soggettiva: il mito è narrato in ‘stile soggettivo’,

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e il triangolo Dirce/Antiope/Lico è messo in relazione con quello formato da Cinzia/Licinna/Properzio; la narrazione presenta una evi‑ dente asimmetria ellenistica ed elementi di pathos elegiaco. Un ulteriore esempio di eroina perseguitata è Io, il cui mito è nar‑ rato in 2,33a: qui la trama tragica (da Eschilo) è trasferita nell’ambiente e nel lessico elegiaco (come avviene anche per Antiope, ma con tono più leggero e ironico). Mythological examples are frequent in Propertius’elegies: we find lists of  heroines, particularly of  unhappy ones, in 1,15; 2,24; 2,28; 3,22; 4,7. Antiope’story, in 3,15, presents a narrative part inserted in sub‑ jective frame, and the myth is told in subjective style (empathy/ sympathy) relating the triangle Cynthia/Lycinna/Propertius to Dirce/ Antiope/Lycus. A further example is Io’s myth in 2,33a, in which the tragic plot is transferred (like 3,15) in elegiac milieu and language. Keywords: Propertius, Myth, Heroines, Subjective style

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LUCIANO LANDOLFI Palermo

DÈI D’ORIENTE, MITI D’ORIENTE: ICONE E SIMBOLI NELLA POESIA DI PROPERZIO In memoria di Bruno Gentili

Il titolo prescelto per questa relazione potrebbe disorientare l’udi­torio: in effetti, se i presenti si dispongono ad ascoltare una sintesi del ruolo che le divinità orientali con il loro repertorio di miti assumono nel periodo successivo alla battaglia d’Azio, allorché Ottaviano è impegnato nella costruzione del Principato e Properzio è in piena attività, resteranno delusi. In epoche diverse e in maniere diverse a far parte del Pantheon quiritario sbarcano Bacco 1, Cibele 2, Iside 3 (cui andrà aggiunto Anubi), ma, sia detto subito, neppure la loro ‘ricezione’

1  Almeno dal 496 a.C., stando a Bruhl 1953, 13 ss., quando, su indicazione dei Libri Sibillini, il console Postumio introduce la triade agraria ellenistica costituita da Demetra-Dioniso-Kore nel culto romano facendola coincidere con la triade Cerere-Libero-Libera cui fu destinato un tempio per il culto. Quest’ultimo, per quanto popolare, non venne ricostruito da Augusto dopo l’incendio verificatosi nel 31 a.C. e si dovette attendere il 17 d.C. perché Tiberio lo riconsacrasse (Dio Cass. 50, 10; Tac. ann. 2, 49). Per quel che concerne poi l’identificazione di Dioniso con Bacco in suolo italico, così si pronuncia Detschew 1950, col. 1150: «Trotzdem spielte B. wegen seines ekstatisch. – bzw. orgiastisch-mystischen Charakters, denn eine grosse Rolle in der röm. Literatur. So wird in der röm. Poesie von Vergil an mit unbedeutenden Ausnahmen Dionysos in allen Fällen mit B. dem ihm gleichgesetzen Liber wiedergegeben». 2  A partire dal 205‑04 a.C., in piena guerra annibalica, il culto cibelico fa il suo ingresso a Roma con la traslazione della statua della Gran Madre da Pessinunte, cfr. Graillot 1912, 25‑69. 3   Lungi dal­l’essere composta la polemica intorno al­l’introduzione dei riti isiaci in Lazio, sembra plausibile che, in forme private, possa risalire al terzo quarto del II sec. a.C. (cfr. da ultimo Gasparini 2007, 67), ma per la pubblica assunzione di Iside e Serapide nel panorama teologico romano si dovrà attendere il 43 a.C., come testimonia Arnob. adv. Nat. 2, 73.

Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 113-181 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112118

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nel tessuto connettivo della Roma augustea costituisce un tema privilegiato per l’elegia properziana. Durante la fase delle guerre civili cruciale era risultata la ricerca di ‘modelli divini’ da parte di Ottaviano, modelli da contrapporre ad Antonio, il cui vitalismo e il cui edonismo avevano trovato, notoriamente, proiezione diretta nelle figure di Ercole e, soprattutto, di Dioniso/Bacco 4. Se dal terreno della pubblicistica ci si sposta a quello della letteratura, le date di pubblicazione delle singole opere, la fisionomia dei rispettivi generi d’appartenenza, le norme compositive cui si uniformano costituiscono strumenti preziosi per valutare quante e quali di loro possano contenere echi del rapporto intrattenuto dal futuro princeps con il dio del vino e con Iside, figure strettamente legate alla corte tolemaica di Cleopatra 5, o con la Gran Madre proveniente dalla Frigia, alle radici stesse del­l’identità del popolo Romano, oltre che della gens Iulia da cui l’erede di Cesare si vanterà di discendere 6. Alle Bucoliche e alle Georgiche viene demandato il compito di riflettere (e, talora, mediare ulteriormente in sede letteraria) le difficoltà incontrate da Ottaviano nel comporre le caratteristiche distintive di Apollo (sua divinità tutelare) e quelle di Bacco (divinità tutelare di Antonio), l’uno simbolo della luce e del­l’ordine, della razionalità e della pace, l’altro simbolo del mistero e del disordine, del­l’istintività e della bellicosità. Lo ha di recente mostrato con argomentazioni ineccepibili A. Cucchiarelli 7. Così pure alla lirica oraziana spetterà di misurarsi a sua volta con l’immaginario cultuale e teologico di

4   Per un inquadramento del problema sarà opportuno consultare Scott 1929, 133‑41; Bruhl 1953, 153‑73; Mannsperger 1973, 381‑404; Brenk 1995, 65‑82; Zanker 2003, 48‑52. 5  Cfr. Plut. Ant. 54, 9; Dio Cass. 50, 5, 3; Zon. 10, 28. Sulla questione cfr. Brenk 1992, 159‑81. 6  Osserva Labate 2010, 233: «Cibele, era associata nel­ l’ideologia augustea, alla dea Roma e a Livia, sposa del principe e madre del­l’Impero. Sul Palatino, la  Magna Mater era vicina alla casa di Augusto e al­l’annesso tempio di Apollo e, da quando il principe era pontefice massimo, a Vesta, la dea troiana cui una statua e un altare era stato innalzato in un’altra parte, resa pubblica, della casa di Augusto. Cibele apparteneva dunque ad un contesto che associava strettamente ... il principe e i suoi cognata numina, che sono anche le divinità ancestrali della comunità romana, il cuore religioso della città e del­l’Impero». 7  Cucchiarelli 2011, 229‑74.

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Augusto 8, un immaginario costruito con sagacia ed equilibrio, ma anche con frequenti contraddizioni suturate e risolte con il tempo e nel tempo, come chiarito a più riprese soprattutto dalle mirate indagini di A. La Penna 9. Torniamo al­l’elegia di Properzio e agli dèi d’Oriente: silenzio su eventuali interventi edilizi di Augusto nel perimetro sacro del Palatino là dove si concentreranno tempio di Bacco, tempio di Cibele 10 ed aula di Iside 11; silenzio sulla pubblicistica coeva per la quale, come si ricordava poc’anzi, una delle ipostasi divine via via privilegiate da Ottaviano sarà proprio quel Dioniso/ Bacco celebrato dal battage politico di Antonio sino allo scontro aziaco; 12 silenzio, infine, sugli interventi repressivi attuati dal regime (28 a.C.) nei rispetti dei dilaganti culti isiaci, di cui c’informa Dione Cassio 53, 2, 4 13. Pertanto, il terreno su cui 8  Dal 27 a.C. in poi, con il nuovo assetto impresso alle istituzioni, i meriti di Ottaviano e la sua sorte saranno quelli di Ercole, di Bacco, dei Dioscuri, e di Romolo, come conferma Hor. cc. 3, 3, 9 ss.; 14, 1 ss.; 4, 5, 33 ss.; epist. 2, 1, 5 ss. Nel caso di c. 1, 12, 21‑33 si segnalano Libero, Febo, Ercole, i Dioscuri e Romolo, ma a proposito del catasterismo di Augusto, trattato in c. 3, 25, 3 ss., non si dimentichi che l’ode è dedicata a Bacco (vd. Privitera 1984, 452). 9  La Penna 1963, 89‑94; Id. 1988, 275‑87; Id. 1993, 93‑111. 10   Si daterà al 3 d.C. (cfr. Ov. fast. 4, 348; Val. Max. 1, 8, 11) la ricostruzione del tempio della Magna Mater promossa da Ottaviano (vd. Res gest. 19) e che esibiva quale auctor il nome del princeps (Ov. fast. 4, 348). Inutile quasi ricordare che per ovvi limiti cronologici un evento del genere non può trovare eco nei versi properziani, ma neanche altri aspetti del culto cibelico passibili di sviluppo in sede letteraria (articolate descrizioni di liturgie, eziologia circostanziata dei misteri della Gran Madre, riscontro presso le masse) riceveranno accoglienza nella silloge del poeta di Assisi. 11  Basti rimandare De Rachewiltz – Partini 1999, 140‑47, oltre che a Pensabene 2001, 465‑73. 12  Cfr. Brenk 1992, 164‑73 con accurato corredo dossografico. Testi di riferimento: Vell. Pat. 2, 82, 4: Plut. Ant. 24, 4; 26, 5; 60, 5 (ma vd. pure 75, 4‑6). Notoriamente, nella polemica che precedette lo scontro aziaco, Ottaviano ebbe a ridicolizzare l’identificazione di Antonio, in preda al­l’ubriachezza, con Dioniso, senza però contrapporle un’identificazione fra sé ed Apollo (cfr. La Penna 1963, 80), tuttavia, sembra che proprio per ribattere alla pubblicistica di parte avversa Antonio abbia composto il De sua ebrietate, come si ricava da Plin. nat. 24, 247 (sul tema rinvio almeno ai contributi di Scott 1929, 137‑41; Marasco 1992, 538‑48). 13   Καὶ τὰ μὲν ἱερὰ τὰ Αἰγύπτια οὐκ ἐσεδέξατο εἴσω τοῦ πωμερίου, τῶν δὲ δὴ ναῶν πρόνοιαν ἐποιήσατο· τοὺς μὲν γὰρ ὑπ᾿ἰδιωτῶν τινων γεγενημένους τοῖς τε παισὶν αὐτῶν καὶ τοῖς ἐκγόνοις, εἴγε τινές περιῆσαν, ἐπισκευάσαι ἐκελευσε, τοὺς δὲ λοιποὺς αὐτὸς ἀνεκτήσατο. Osserva Zanker 2003, 118 che «Il princeps non degnò ... di alcuna attenzione le divinità orientali ed egizie già allora assai

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si muoverà la mia indagine appare predeterminato dalla specifica funzione che ciascuna delle divinità in oggetto riveste nelle elegie properziane, riassumibile, più o meno, nel modo seguente: a) funzione precipuamente metaletteraria, quella spettante a Bac­ co, rivelatoria di distanze e/o convergenze con le vesti di ispiratore di norma indossate da Apollo; b) funzione esornativo-paradigmatica, quella riservata a Cibele, coprotagonista di liturgie orgiastiche o depositaria di memorie e figure storiche legate al­l’epoca del suo arrivo a Roma; c) funzione paradigmatica e contrario, quella attribuita a Iside, tutrice della castità delle puellae, sgradita al poeta elegiaco, le cui aspettative fisiche vengono mortificate ad onta dei trascorsi ‘ingombranti’ della divinità, un tempo vittima del­ l’esuberanza fisica di Giove; d) funzione complementare, quella prevista per Anubi, divinità indissolubilmente legata al culto isiaco. Come avremo modo di constatare, lo specifico punto di vista da cui Properzio guarda ad ognuna di queste divinità orienterà, di caso in caso, la selezione di taluni segmenti mitici che le pertengono a discapito di altri, un fenomeno soppesabile in tutta la sua entità proprio nel caso di Bacco – da cui prenderemo le mosse –, personaggio che, per il suo alto tasso di ricorrenza nel­l’intera raccolta poetica, presenta un ricco campionario di vicende e gesta ritagliato su un ‘arcipelago’ mitico di straordinaria ampiezza, già patrimonio della letteratura greca arcaica e tardoarcaica. Veniamo ad un esame particolareggiato della questione, tralasciando per lo più quei passi properziani in cui i teonimi Bacco / Iacco / Libero / Lieo vengano impiegati in forma metonimica per indicare il vino (1, 3, 9; 2, 3, 17; 33, 35; 3, 5, 21),

popolari, e in particolare Iside. Esse non vennero accolte nel calendario della religione di Stato, e i loro culti furono anche temporaneamente proibiti ... Le religioni estatiche del­l’Oriente si rivolgevano al singolo individuo, non al cittadino, e questo era incompatibile con i principî della religione di Stato. Il nuovo regime ... vedeva in questi culti un pericolo per la romanità e un possibile focolaio di sovversione. L’unica eccezione riguardava quelle divinità che già da molto tempo si erano insediate a Roma e che erano state accolte per i loro meriti nel culto dello Stato. Ma anche in questo caso mantenendo le dovute distanze».

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DÈI D’ORIENTE, MITI D’ORIENTE: ICONE E SIMBOLI NELLA POESIA DI PROPERZIO

secondo prassi corrente in poesia latina, e privilegiando come preambolo del­l’intera verifica critica l’elegia 3, 17, dedicata a Bacco λυσιμέριμνος. Da lì passeremo al vaglio della presenza delle restanti divinità orientali nei distici di Properzio.

1. Virtutisque tuae, Bacche, poeta ferar (Prop. 3, 17, 20): manifesto di una svolta esistenziale e artistica Implorare l’intervento risolutivo di Bacco (3, 17) o prendere il largo alla volta di Atene (3, 21) rappresentano valide alternative al­l’insostenibilità del giogo amoroso: in tal modo Properzio rivela l’urgenza, improcrastinabile, di affrancarsi dal­l’affanno che l’opprime 14, in un caso presentato come insanae Veneris ... fastus (3, 17, 3), nel­l’altro come gravis ... amor (3, 21, 4). Se unioni e separazioni si compiono nel segno di Dioniso/ Bacco, capace tanto di spianare la via al­l’amore 15 quanto di liberare chi ne soffre (v. 4) 16, nel tessuto della nostra elegia il soccorso richiesto potrà ottenersi grazie al­l’esperienza amorosa che il dio ha vissuto in prima persona, teste il catasterismo di Arianna (vv. 7‑8) 17. Il riferimento alla divinizzazione astrale del­l’eroina, condotta in cielo dal cocchio trainato dalle linci, oltre a rivelarsi quale «typical piece of  Hellenistic “esprit”» 18, svolge il compito di riavvicinare il nume al supplice in nome di quel­l’eros che fa di uomini e dèi vittime indifferenziate. Un tocco simpatetico nel quadro di un’iniziale, sorvegliata aderenza al normativo Du-Stil innico 19, verificabile nel­l’esordio del componimento attraverso

14  Che le due elegie «are to be understood symbollically» è opinione di Solmsen 1968, 286. 15  Corredo di loci similes in Fedeli 1985, 519, sulle tracce di Rothstein 19202 II, 136. 16   Cfr., e. g., Hor. c. 4, 12, 19: (cadus) amara curarum eluere efficax; Ov. ars 1, 238: cura fugit multo diluiturque mero; ps.-Tib. 6, 4: saepe tuo cecidit munere victus amor. 17   Sul catasterismo di Arianna cfr. Rothstein 19202 II, 137; Fedeli 1985, 520; circa i suoi riflessi nella produzione ovidiana vd. Landolfi 2000, 116 ss.; Santini 2004, 167 ss. 18  Adottando la definizione di Littlewood 1975, 666. 19  Sul che fa ancor oggi testo Norden 1913, 143 ss. Per quanto attiene a Prop. 3, 17 vd. ora Miller 1991, 77‑86; Santini 2004 (a), 15.

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il viluppo delle anafore, delle epanafore e dei poliptoti del pronome di seconda persona (tu vv. 3, 6; per te ... per te v. 5; te v. 7), oltre che tramite l’uso ribattuto del­l’aggettivo possessivo (tuis ... aris v. 1; tuo ... mero v. 4; lyncibus ... tuis v. 8). Pur rispettando in larga misura le consuetudini cletiche sancite dal­ l’innografia tradizionale 20, Properzio si concede alcune libertà significative tal che alquanto approssimativa risulta la definizione di ‘inno’ 21 spesso apposta al­l’intero testo in esame. A mio parere, in Prop. 3, 17 lo scarto più rilevante dai prescrittivi νόμοι κλητικοί 22 consiste nella vistosa assenza di un sistematico impiego di teonimi (πολυώνυμος era già Dioniso in Soph. Ant. 1115) 23 e di attributi cultuali 24. Se è vero che, come notava   Utile rassegna in Appel 1909, passim.   In effetti, la definizione, pur risultando comoda e invalsa nel­l’uso, non fa giustizia del­l’architettura del testo: non a caso La Bua 1999, 247 rileva che «l’intero patrimonio innografico greco-latino trova la sua organica e naturale fusione ... con la cornice elegiaca ed amorosa; l’inno assume un significato piuttosto chiaro e preciso, come celebrazione e preghiera per la liberazione dalle pene d’amore e come anticipazione “del­l’addio al­l’amore per Cinzia”», per poi soggiungere, a 252: «Lo schema compositivo racchiude in gran parte elementi tradizionali del codice innico, specialmente nelle due sezioni aretalogiche, la prima contraddistinta dalla lode della vis, la seconda sviluppata sulla presenza di vari elementi celebrativi, secondo la sequenza di genus, gesta, aspetto fisico e ‘corteggio’», trovando proprio nella seconda aretalogia la cifra più evidente del­l’innovazione properziana rispetto alle consuetudini interne degli inni cletici. 22  Il punto in La Bua 1999, 2‑35, il quale insiste sulla persistenza del­ l’archetipica struttura degli inni pseudo-omerici nel­l’innografia successiva tramite il reimpiego di invocatio-propositio-narratio-congedo. 23  Dal canto suo, Diod. 4, 5, 1‑2 offre una quadruplice campionatura di teonimi dionisiaci con relativa etimologia, interrompendosi ad un certo punto della trattazione solo perché παραπλησίως δὲ καὶ τὰς λοιπὰς προσηγορίας ἐπιθετικὰς αὐτῷ γεγενῆσθαι, περὶ ὧν μακρὸν ἂν εἴη λέγειν καὶ τῆς ὑποκειμένης ἱστορίας ἀνοίκειον. Riesame della πολυωνυμία del dio in Bömer 1976, 16‑19; Danielewicz 1990, 74‑76; Galasso in  Paduano – Perutelli – Galasso 2000, 913‑14. Per parte propria Hor. c. 2, 19, 7 (Liber); 3, 25, 19 (Lenaeus); 1, 18, 11 (Bassareus) si mostra alquanto parco nel­l’uso dei teonimi bacchici. Colgo l’occasione per ricordare che a distanza di qualche generazione dagli autori augustei, Bass. de metr. 6, 1 K, dibattendo dei metri lirici con cui inneggiare a Bacco, riporta almeno tre teonimi ed due attributi cultuali al­l’interno di un breve componimento non sappiamo ancor oggi se di sua paternità o meno (sul­l’argomento cfr. Morelli 2012, 53): ‘huc ades, [o] Lyaee / Bassareu, bicornis / maeno‹l›ie bimater, / crine nitidus apto. / luteis corimbis / hedera te coronet / hasta viridis armet, / placidus ades ad aras, / Bacche, Bacche, Bacche.’ 24  Basti il rimando a Norden 1913, 165 ss. Circa le parziali caratteristiche inniche riscontrabili nel­l’architettura di Prop. 3, 17, basilare la messa a punto 20 21

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due decenni or sono Barchiesi, «l’enunciazione degli attributi di un dio è la più tipica fra le convenzioni del­l’inno» 25, apporre al­l’elegia 3, 17 di Properzio una tale etichetta suscita legittime riserve. Il carattere privato del­l’invocazione, ribadito dalla condivisione dello statuto di amante fra il poeta e il nume, e la configurazione del­l’intero testo, imperniato sulla liberazione dagli affanni sentimentali attraverso l’azione del farmaco λαθικάδης 26 onde passare ad altro genere di vita e di poesia, permettono al­l’autore di rimodulare le convenzioni interne ad un κλητικὸς ὕμνος propriamente detto. Del cospicuo numero di epiteti relativi a Bacco apostrofato direttamente per quattro volte (vv. 1; 6; 13; 20), il poeta adopera soltanto il più diffuso, pater (v. 2) 27, sicché tanta esiguità non sembra casuale, rivelando al contrario vigile aderenza al tono intimistico e al particolare contesto del­ l’elegia stessa, al contempo di sapore autobiografico e metaletterario. Un tale tipo di scelta non è peraltro privo di ‘ricadute’ sulla definizione del­l’identità del dio: implicitamente, il poeta elegiaco sta delimitando la porzione del βακχικὸς βίος su cui soffermarsi, posto che il singolo teonimo o il singolo attributo cultuale afferisce già ad una particolare ‘tessera’ del­l’identità «multipla e sfuggente» di Bacco 28, del che si può avere immediato riscontro rileggendo Ov. met. 4, 11‑17, pannello cletico trapunto di Gottesnamen 29 sino al limite estremo del­l’arte della variazione: di Swoboda 1977, 131‑36, specialmente a 135. Viceversa, a parere di Luck 1958, 78‑79 saremmo al cospetto non già di un inno cletico bensì di una semplice aretalogia del dio. A sua volta, per Littlewood 1975, 669 l’elegia in questione costituirebbe un «harmonious composite poem with its series of  passages distinctly hymnic, conventional amatory, pastoral and Dionysiac». Restringe infine la definizione di ‘inno’ ai vv. 21‑38 del­l’elegia Mader 1994, 369. 25  Così in Barchiesi 1994, 181. 26  Dopo la dirimente confutazione di Fedeli 1985, 513‑14 non è neanche il caso di ridiscutere l’evenienza per cui Properzio avrebbe qui sviluppato il nucleo concettuale di Mel. A.P. 9, 48 seguendo le indicazioni di Jacoby 1905, 88‑92. 27   Serv.  ad Verg. georg. 2, 4 insegna che ‘pater’ licet generale sit omnium deorum, tamen proprie Libero semper cohaeret: nam Liber pater vocatur. Per l’impiego del­l’epiteto pater in relazione a varie divinità del Pantheon romano rinvio ad Appel 1909, 103; circa le sue ricorrenze in àmbito poetico si veda Fedeli 1985, 516. 28  Parole di Rosati in Barchiesi–Rosati 2007, 246. 29  Vd. la relativa casistica in Men. Rhet. 3, 445, 25 Sp.

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turaque dant Bacchumque vocant Bromiumque Lyaeumque ignigenamque satumque iterum solumque bimatrem; additur his Nyseus indetonsusque Thyoneus et cum Lenaeo genialis consitor uvae Nycteliusque Eleleusque parens et Iacchus et Euhan, et quae praeterea per Graias plurima gentes nomina, Liber, habes ...

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L’identità del nume affiora proprio dalla pluralità di teonimi ed attributi a lui indirizzati – ciascuno dei quali concernente o il luogo di nascita, o le modalità della stessa, o le virtù e i poteri di cui questi dispone – tuttavia come non cogliere nella loro ininterrotta enumerazione il riflesso della cerimonia circostante, ripetitiva 30 ed ossessiva al contempo? A corroborare tale sensazione coopera anche l’ipermetria del v. 11 che instaura un significativo ponte metrico con l’esametro seguente e potenzia la continuità della rubrica marcata da polisindeti. Ovidio sembra sfruttare l’archetipica successione di teonimi bacchici dispiegata da Enn. Atham. 107‑08 R3, 31 nondimeno, visto il contesto, è tenuto soprattutto a cimentarsi in un pezzo di bravura che compendi sakraler Stil con epischer Stil, ivi compreso il cumulo di epiteti specifici legati al dio 32. Nulla di paragonabile in Prop. 3, 17 33, dove l’invocazione a Bacco muove da un’ansia di liberazione da tempo frenata 34, non già da una liturgia collettiva volta a cattivarsi il favore celeste 35. In fin dei conti direi che il testo contestualmente più 30  Di «incantatory repetition» parla Barkan 1986, 39 citato da Rosati in Barchiesi – Rosati 2007, 246. 31  His erat in ore Bromius, his Bacchus pater, / illis Lyaeus vitis inventor sacrae (sul passo segnalo le note di La Bua 1999, 100‑01; Keith 2002, 259‑60). 32   Cfr. Ov. met. 4, 11: ignigenamque satumque iterum solumque bimatrem; 12: ... indetonsusque; 14: genialis consitor uvae; 15: pater; v. 18: tu puer aeternus, tu formosissimus; 22: tu, venerande; 31: placatus mitisque. 33   Neanche al v. 6 (tu vitium ex animo dilue, Bacche, meo) a rigor di termini si può parlare di variazione cletica, benché l’impiego di diluo (su cui vd. Fedeli 1985, 519) rimandi indiscutibilmente a Lyaeus per la capacità, propria del vino, di stemperare gli affanni amorosi. 34  In sostanza su questa falsariga, quantunque in modo più vario, ps.-Tib. 6, 1 e 19 si limita ad impiegare il teonimo Liber, per variarlo poi con Bacchus ai vv. 17 e 57 e con Lenaeus ... pater al v. 38. 35  Può esser utile ricordare la sequenza di teonimi usata da Col. 10, 425‑32 per inneggiare ai doni di Bacco nello spazio rurale: Claudimus imperioque tuo

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vicino al nostro suona la posteriore elegia sesta di Ligdamo 36, dove non a caso la variazione dei teonimi è ristretta a tre esempi (Liber vv. 1 e 19; Lenaeus v. 38; Bacchus v. 57). Anche in questo caso l’esigenza di sconfiggere il dolore causato dalla passione chiama in causa Libero con il suo farmaco salvifico (v. 3), nondimeno lo scenario dominato dal convito fra amici (v. 9) rientra in uno stereotipo che, nella fattispecie, a Properzio non interessa particolarmente. Il poeta umbro si ritrae solo 37, ansioso di liberarsi dal male incancrenito, individuando nella morte o nel vino gli strumenti per sanarlo (vv. 9‑10). Se per dono di Bacco il sonno potrà giungere alle sue ossa, Properzio si dichiara pronto a piantare viti, rivestendo di filari i colli, tenuti al riparo dalla pastura animale 38, proclamando: virtutisque tuae, Bacche, poeta ferar (v. 20). Il testo segue una direzione diversa da quella che Ligdamo avrà a battere per proclamare – dopo la sezione eulogistica (vv. 3‑8) e la descrizione delle pene d’amore in cui l’autore versa, riproiettata sulla condizione generale degli innamorati solitari (vv. 9‑12) – la consacrazione di Properzio a viticultore 39, ricompensato dal dono del vino. La complessità del quadro richiede particolare attenzione, soprattutto per quanto attiene alle tessere di sapore metaletterario, a partire dalla formula di autoinvestitura poetica (vv. 19‑20): quod superest vitae per te et tua cornua vivam, virtutisque tuae, Bacche, poeta ferar. paremus agrestes / ac metimus laeti tua munera, dulcis Iacche, / inter lascivos Satyros Panasque biformes / brachia iactantes vetulo marcentia vino. / et te Maenalium, te Bacchum teque Lyaeum / Lenaeumque patrem canimus sub tecta vocantes, / ferveat ut lacus et musto completa Falerno / exundent pingui spumantia dolia musto. 36   A tale riguardo basti consultare il commento di Navarro Antolín 1999, 459 ss. Indiscutibile, peraltro, l’analogia tematica con l’esordio di Tib. 1, 2, 1‑4 (Adde merum vinoque novos compesce dolores, / occupet ut fessi lumina victa sopor, / neu quisquam multo percussum tempora baccho / excitet, infelix dum requiescit amor), già registrata da Rothstein 19202 II, 136. Vd. ora von Albrecht 2005, 284‑85. 37   Lo inferiamo dal riferimento, di tono sentenzioso, alla notte trascorsa senza vino, solita tormentare gli amanti privi del­l’oggetto di desiderio: semper enim vacuos nox sobria torquet amantis, / spesque timor animo‹s› versat utroque modo (vv. 11‑12). 38  Hanno sottolineato il timbro tibulliano e, più genericamente, bucolico di questi versi Littlewood 1975, 667, n. 1; Miller 1991, 84‑86. 39  Basti ricordare Tib. 2, 3, 63: et tu, Bacche tener, iucundae consitor uvae.

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Degli effetti del­l’ispirazione proveniente da Bacco il pubblico colto di età augustea era edotto grazie ad almeno due celebri odi oraziane, 2, 19 e 3, 25. La prima, lo sappiamo bene, descrive al suo interno le conseguenze del­l’epifania del dio διδάσκαλος di ninfe e satiri sul poeta (vv. 1‑4), repentinamente ispirato a cantare le Tiadi implacabili e i prodigi naturali, il catasterismo di Arianna, la reggia di Penteo distrutta e la fine del re Licurgo (vv. 9‑16) 40; la seconda sviluppa il tema del­l’invasamento poetico che spinge Orazio a celebrare l’inserimento di Cesare Augusto tra gli astri e nel consesso divino, pronunziando insigne recens adhuc / indictum ore alio (vv. 6‑7) e innalzando la sua musa ad una sublimità inconsueta (vv. 26‑27) 41. A sua volta, in 3, 17, 19‑20 Properzio non proclama i risultati della propria consacrazione letteraria al dio di Tracia, prospettando invece l’assunzione del ruolo di poeta delle sue imprese in cambio dei favori richiesti, il cui apice coincide con la liberazione dalla passione amorosa che, in àmbito poetico, equivale al­l’allontanamento dai consueti temi erotici. Per sottolineare il significato di un tale gesto, questi gli espedienti fonosimbolici e retorici impiegati: a) intensificazione del ricorso intra- ed extrastichico ai fonemi /v/ e /t/; b) collocazione in iperbato della diade vivam/ferar al termine del rispettivo verso d’appartenenza; c) creazione di un omeoptoto verticale fra vitae e  tuae prima delle corrispettive cesure semiquinarie; d) allineamento a contatto del destinatario e del protagonista del voto in modo che risaltino in chiusa di distico (Bacche / poeta). In tal modo il poeta intende elevare programmaticamente lo stile del componimento, in rapporto alla contigua sezione aretalogica dove, di fatto, mostra di subire gli effetti del potenziamento d’ispirazione e del­l’innalzamento di stile manifestati da Orazio

40  Vv. 9‑16: fas pervicacis est mihi Thyiadas / vinique fontem lactis et uberes / cantare rivos atque truncis / lapsa cavis iterare mella, / fas et beatae coniugis additum / stellis honorem tectaque Penthei / disiecta non leni ruina / Thracis et exitium Lycurgi. Efficace l’analisi di Pasquali 1964, 11‑14. 41  Nil parvum aut humili modo, / nil mortale loquar.

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lirico alla presenza di Bacco. E, si badi bene, non sarà questo l’unico genere di Steigerung praticato in Prop. 3, 17. Intanto vorrei sottolineare come i vv. 21‑28 racchiudano un compendio delle imprese divine da celebrare, in linea con il voto appena formulato: 1) vv. 21‑22: annuncio del canto del parto di Semele e del viaggio di Dioniso in India; 2) vv. 23‑24: pazzia di Licurgo e squartamento di Penteo; 3) vv. 25‑26: metamorfosi dei pirati che hanno catturato il dio in delfini; 4) vv. 27‑28: improvviso sgorgare di fiumi di vino profumato a Nasso. Proprio sul canovaccio delle gesta del dio (3, 17, 21‑28) converrà indugiare: in effetti, è questa la sezione in cui Properzio ha modo di operare scelte significative sul canone aretalogico progressivamente formatosi in suolo greco per l’interazione di generi quali l’epos, l’epos didascalico, l’innografia, la tragedia e le narrazioni mitografiche. La selezione dei Διονύσου κλέα soggiace ad un’operazione di stoccaggio di materiali mitici già compiuta nella letteratura arcaica e tardo-arcaica 42, se, ad es., l’episodio della metamorfosi dei pirati in delfini costituiva il perno narrativo dello pseudo-omerico Inno a Dioniso (7, nel­l’ed. di Cassola) coincidendo con la quasi totalità del testo (vv. 6‑53). A Properzio si presenta l’opportunità di selezionare e valorizzare quei segmenti ‘epici’ che meglio evidenzino la potenza invincibile del dio e la straordinarietà delle sue manifestazioni. Dunque, in 3, 17, l’annuncio del canto di ringraziamento muove di necessità dalle origini del dio, figlio di Semele (dicam ego maternos Aetnaeo fulmine partus v. 21) 43, come già in ps.-Hom. Hymn. 7, 1‑2 (Ἀμφὶ Διώνυσον, Σεμέλης ἐρικυδέος υἱόν, / μνήσομαι ...) 44, nonché in 26, 1‑2 (Κισσοκόμην   Secondo la suggestiva ricostruzione di Jeanmaire 1972, 6‑10; 66‑79.   Rubricato da Hes. Theog. 940‑42, che tace del­l’incenerimento di Semele per sottolinearne invece la dimensione terrena e la trasformazione in dea insieme a Dioniso (νῦν δ᾿ἀμφότεροι θεοί εἰσιν v. 942). 44  Il dibattito sulla nascita di Dioniso appare già in ps.-Hom. Hymn. 1, 1‑8, dove Semele è vista pur sempre come colei che, dopo aver portato il dio in grembo, lo generò a Zeus che gioisce del fulmine (v. 4): οἱ μὲν γὰρ Δρακάνῳ 42 43

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Διόνυσον ἐρίβρομον ἄρχομ᾿ ἀείδειν / Ζηνὸς καὶ Σεμέλης ἐρικυδέος ἀγλαὸν υἱόν), ma nel testo latino la cifra stilistica suona oltremodo preziosa perché alla linearità dei dettati innici greci si sostituisce il gusto della perifrasi dotta e allusiva che, innegabilmente, neppure l’Euripide delle Baccanti valorizza sino in fondo allorché apre la tragedia con il rimando alla folgorazione di Semele rievocata dal dio in persona (... ὃν τίκτει ποθ᾿ ἡ Κάδμου κόρη / Σεμέλη λοχευθεῖσ᾿ ἀστραπηφόρῳ πυρί vv. 2‑3) 45. Il testo tragico porge sì lo spunto per ricordarne la fine al­l’apparizione di Giove fra lampi e fulmini, tuttavia con dizione peregrina e oscura, entro la clausola a ponte maternos  ... partus, che delimita i due emistichi del v. 21, Properzio inserisce a sua volta il nesso a contatto Aetnaeo fulmine 46 allusivo tanto al luogo in cui il fulmine inceneritore è stato forgiato quanto alla causa della morte di Semele. Posto che 47 la nascita del dio è indissociabile dal fuoco, ogniqualvolta in poesia si vorrà celebrare Bacco si menzionerà la madre vittima della folgore divina, basti pensare al paradigma di Ov. fast. 3, 715‑16 48. Rispetto al successivo inno del­l’Ovidio didascalico, l’elegia di Properzio non accenna alla duplice nascita del nume 49, ponendo σ᾿, οἱ δ᾿ Ἰκάρῳ ἠνεμοέσσῃ / φάσ᾿, οἱ δ᾿ ἐν Νάξῳ, δῖον γένος εἰραφιῶτα, / οἱ δὲ σ᾿ ἐπ᾿ Ἀλφειῷ ποταμῷ βαθυδινήεντι / κυσαμένην Σεμέλην τεκέειν Διὶ τερπικεραύνῳ, / ἄλλοι δ᾿ἐν Θήβῃσιν, ἅναξ, σε λέγουσι γενέσθαι, / ψευδόμενοι· σὲ δ᾿ ἔτικτε πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε / πολλῶν ἀμ᾿ ἀνθρώπων κρύπτων λευκώλενον Ἥρην. / ἔστι δέ τις Νύση ὕπατον ὅροη ἀνθέον ὕλῃ / τηλοῦ Φοινίκης σχεδὸν Αἰγύπτοιο ῥοάων (sul passo utile il commento di Cassola 1975, 463‑64). Nelle Baccanti, tuttavia, Euripide insisterà a più riprese sulla genitura di Dioniso da parte di Zeus, cfr. vv. 1‑2; 27; 466; 550; 859‑60 con il commento di Dodds 19602, 62. 45  Il motivo viene ulteriormente sviluppato ai vv. 88‑93, lungo la parodo della tragedia. 46  La giusta valenza del nesso è stata restituita da Fedeli 1985, 527. 47   Cfr. Strab. 13, 4: ἀστεϊζόμενοι δέ τινες εἰκότως πυριγενῆ τὸν Διόνυσον λέγεσθαί φασιν: il brano è rubricato cursoriamente da Rothstein 19202 II, 140. 48  Nec referam Semelem, ad quam cum fulmine secum / Iuppiter afferret, partus inermis eras. Il testo risulta controverso al v. 716: per uno status quaestionis vd. Stok 1999, 83‑84 con la nota di Bömer 1958, 193 e, in particolar modo, i rilievi di Santini 2004(a), 9. Accenti analoghi nella poesia contemporanea: cfr. ps.-Verg. cat. 9, 33‑34; Ov. am. 3, 3, 37‑40; fast. 6, 483‑85, per non estenderci a quella di epoca imperiale. Ben lontani dalla controversia in questione giocano a mostrarsi Hor. c. 1, 19, 2: Thebanaeque ... Semelae puer.; ps.-Tib. 4, 45: proles Semeles Bacchus. 49  Presente anche in Ov. am. 3, 3, 39‑40; met. 3, 310‑15; fast. 3, 716.

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viceversa in risalto le armate indiane messe in fuga dalle danze nisee (v. 22) 50. In tal modo ha inizio la contrapposizione fra un quadro animato dagli avversari di Bacco (vv. 22‑26) e un quadro animato da suoi seguaci (vv. 33‑38). Nel primo dei due, il glutine tematico è costituito dalla metamorfosi intesa come vera e propria trasformazione fisica (dal parto di Semele colpita dal fulmine, per continuare con la trasformazione dei pirati in delfini e il cenno ai fiumi di vino improvvisamente zampillati a Nasso) 51, oltre che dalla metamorfosi intesa come frutto di una trasformazione psichica (si pensi alle vittime della follia, Licurgo invano infuriato per le viti, Penteo smembrato dalle Menadi in stato di eccitazione). Guardiamo ora alla struttura retorica del passo. L’espediente del­l’omeoptoto in chiusa di emistichi, alquanto corrente nella sintassi elegiaca, urta con il preziosistico abbinamento degli attributi prima della cesura semiquinaria, intrecciando la diade divaricata degli accusativi (Indica ... arma) con quella divaricata degli ablativi (Nysaeis  ... choris) nel rispetto di una successione trisillabica per gli epiteti, bisillabica per i semplici lemmi nominali. Un’ulteriore dimostrazione, questa, della sorvegliata caratura retorico-stilistica impressa al passo dal poeta che, si badi bene, non fa ancora professione di pindarismo, mentre sollecita il destinatario dotto riguardo alle molte Nisa che si contendevano l’onore di aver allevato il dio 52, al­l’etimo del teonimo che compendiava la genitura da Zeus e il luogo dove il nume era cresciuto (Διός + Νῦσα, cfr. Diod. 4, 2, 4), e, indirettamente, alla pubblicistica di Alessandro Magno 53 il cui esercito, passando per Nisa, credette di trovarsi esattamente nel göttlicher Landesort, con-

  Il motivo della vittoria di Dioniso sul­l’India riappare, tra gli altri, in Ov. ars 1, 189; met. 15, 413; fast. 3, 720 e in El. Maec. 1, 57. 51  Come opportunamente evidenzia Mader 1994, 371‑72, il quale richial’influsso di Bacco ma (n. 8) per affini, miracolose trasformazioni dovute al­ ps.-Hom. Hymn. 6, 35‑36 (il vino gorgoglia nella nave dei pirati); Eur. Bacch. 142‑43 e 704 ss.; Sen. Oed. 491ss. 52  Cfr. Fedeli 1985, 527 e, prima, Rothstein 19202 II, 140. Che Nisa abbia costituito la sede dello svezzamento e del­l’infanzia di Dioniso è esplicitamente dichiarato da Diod. 4, 2, 3‑4. 53  Sulla Dionysii imitatio da parte di Alessandro Magno basti il lungo excursus di Curt. Ruf. 9, 10. 50

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vinto com’era che le popolazioni locali fossero convertite sin dai tempi antichi al culto di Dioniso 54. La rubrica di imprese condensata in questo e nei versi successivi si conforma ad una sorta di canone aretalogico per noi ricostruibile soprattutto incrociando Omero, Euripide e gli scarni resti della tragedia latina arcaica: leggendo il sesto libro del­l’Iliade spicca infatti la descrizione del­l’empia tracotanza di Licurgo (vv. 128‑40) che avrebbe costituito tanto il nucleo del­l’omonima tetralogia eschilea quanto il perno del Lucurgus di Nevio, mentre l’opposizione di Penteo al­l’ingresso dei culti dionisiaci a Tebe rappresenta, naturalmente, il fulcro delle Bacchae euripidee, il cui culmine coincide con lo squartamento del re per mano della madre Agave insieme ad Autonoe e Ino, sue sorelle, influenzando probabilmente il Pentheus di Pacuvio 55 e certamente le Bacchae di Accio. Ripercorriamo il passo properziano (3, 17, 23‑28): vesanumque nova nequiquam in vite Lycurgum, Pentheos in triplicis funera rapta greges, curvaque Tyrrhenos delphinum corpora nautas in vada pampinea desiluisse rate, et tibi per mediam bene olentia flumina Naxon, unde tuum potant †naxia† turba merum.

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Dicevo poc’anzi come il personaggio di Licurgo avesse attirato l’estro compositivo di Eschilo e Nevio per l’empietà mostrata nei rispetti di Dioniso, eppure già in Hom. Il. 6, 128‑40 56, la sua blasfema temerarietà costituisce un esempio da evitare per Diomede allorché, incontratosi con il lidio Glauco, l’eroe dichiara di non voler combattere con lui se di natura immortale, dato che per aver contrastato un dio Licurgo aveva perso la vita.

  Documentazione in Jeanmaire 1972, 351‑52.   Cfr. Massa-Pairault 1986, 220‑21. Un quadro ragionato delle tragedie latine arcaiche aventi per protagonisti personaggi della saga tebana in rapporto a modelli greci in Keith 2010, 189. 56  D’obbligo il rimando a Jeanmaire 1972, 58‑65, il quale interpreta tra l’altro la più tardiva origine tracia di Licurgo, testimoniata dalla Licurgia eschilea nelle Edonidi, come espressione dei ripetuti contatti con il mondo tracio a partire dalle guerre persiane e dalla probabile diffusione dei culti dionisiaci nella regione del basso Strimone e del Pangeo proprio nella prima metà del V sec. a.C. Sulla figura di Licurgo redige un dossier accurato Dodds 19602, XXV‑XXVII. 54 55

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Ignorando, nel caso specifico, le suggestioni del testo omerico 57, nel passo latino domina l’immagine del re infuriato, vesanum  ... Lycurgum (v. 23) 58, una clausola con massima divaricazione a ponte al cui interno si concentra l’idea della vacuità del­l’accanimento contro la vite simbolo di Bacco, idea resa con una sequenza allitterante intrecciata dei fonemi /v/, /n/, e della labiovelare /qu/. In qualche misura nel­l’immaginario di Properzio deve essersi sedimentata l’eco degli accenti con cui in Nevio il personaggio del re Tracio insisteva sulle viti e i loro tralci nati artificialmente, sì da sguinzagliare le proprie guardie del corpo tra i frondiferi loci, sede dei seguaci dei nuovi culti (Vos, quí regalis córporis custódias /agitátis, ite actútum in frondiferós locos, / ingénio arbusta ubi náta sunt, non óbsita vv. 21‑23 R3): la clausola in iperbato nova  ... in vite di 3, 17, 23 59 batte proprio sulla recente introduzione della vite nel paese su cui regna Licurgo 60, motivata ragione di preoccupazione per quest’ultimo, dato che da essa deriva il vino causa di ebbrezza 61 e di disordine politico. Degli interventi del re contro l’avvento della viticultura informa la versione iginiana del mito (fab. 132) 62, pur in un groviglio di dettagli senza riscontri in Prop. 3, 17, 23 e in Hor. c.  2, 19, 16 il quale, dal canto suo, non andrà oltre la citazione del­l’exitium Lycurgi. Peraltro, la coppia costituita da Licurgo e Penteo, emblematicamente sacrilega 63, autorizza   Rispetto al suddetto brano omerico Properzio tace sia il cenno alla lotta del re con le nutrici del dio, sia l’immagine di Dioniso atterrito al punto da cercare riparo tra le onde, venendo accolto da Teti. 58  Vd. poi Ov. fast. 3, 722: inque tuum furiis acte, Lycurge, genus. 59  Cfr. la nota di commento di Fedeli 1985, 529 ad loc.; Mader 1994, 372, n. 9. 60  Che la versione del mito qui seguita concordi con Apollod. 3, 35 è opinione di Rothstein 19202 II, 140. 61   Soph. Ant. 983‑84 ricorda come Licurgo παύεσκε μὲν γὰρ ἐνθέους / γυναῖκας εὔιόν τε πῦρ. 62  Lycurgus Dr‹y›antis filius Liberum de regno fugavit; quem cum negaret deum esse vinumque bibisset et ebrius matrem suam violare voluisset, tunc vites excidere est conatus, quod diceret illud malum medicamentum esse quod mentes immutaret. Qui insania ab Libero obiecta uxorem suam et filium interfecit, ipsumque Lycurgum Liber pantheris obiecit in Rhodope, qui mons est Thraciae, cuius imperium habuit. Hic traditur unum pedem sibi pro vitibus excidisse. 63  Basti pensare a Diod. 4, 3, 4: κολάσαι δ᾿ αὐτὸν πολλοὺς μὲν καὶ ἄλλους κατὰ πᾶσαν τὴν οἰκουμένην τοῦς δοκοῦντας ἀσεβεῖν, ἐπιφανεστάτους δὲ Πενθέα καὶ Λυκοῦργον. 57

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Properzio a ribadire le conseguenze disastrose del­l’opposizione ai riti dionisiaci: come Licurgo, Penteo combatte risolutamente l’ingresso del nuovo culto in città, tuttavia la sua fine sarà commisurata al­l’entità della blasfemia di cui si è reso colpevole, venendo fatto a pezzi per mano della madre e delle sorelle di lei. Del resto, come si è opportunamente sottolineato alcuni anni fa, a proposito del personaggio di Bacco nelle Metamorfosi ovidiane, «Per l’affermazione piena di un nuovo potere è ... essenziale che essa sia accompagnata da [un] processo di ‘mitizzazione’. Processo che vediamo realizzato in maniera esemplare nel­l’aristia di Bacco ...: la sua dimostrazione di potenza sovrumana procura al nuovo dio il riconoscimento collettivo, il favore del­l’opinione pubblica, che si manifesta nel raccontare le sue gesta, nel fissarle nella memoria della comunità» 64. Nel cantare le imprese del dio, Properzio non apre di certo la via al suo culto; piuttosto egli ribadisce quel che la memoria cultuale collettiva già conosce, facendosene suggestivo interprete in un rapporto di reciproca offerta fra nume e supplice. Peraltro, del fatto che le gesta di Bacco pertengano di diritto alla poesia innodica o epico-tragica il lettore può avere consapevolezza ripensando ad Ov. fast. 3, 719‑24, dove tra i compiti del­l’autore non rientra la rievocazione dei trionfi di Dioniso su Sitoni e Sciti, sui popoli che abitano lungo l’Indo, né la descrizione della fine di Penteo o della follia omicida di Licurgo, né la metamorfosi dei pirati Tirreni in delfini (non est carminis huius opus v. 724), bensì, nella fattispecie, rievocare la genesi dei liba in onore del dio e l’assunzione della toga libera da parte dei giovani romani nella ricorrenza del 17 marzo, festa dei Liberalia. Se ora riprendiamo l’analisi di Prop. 3, 17, dai vv. 680‑82 delle Bacchae euripidee sembra provenire lo spunto iconico dei triplices ... greges presente al v. 24 65, nondimeno il resoconto del re che avvista sulla cima di un pino i tre tiasi di donne, guidati rispettivamente da Autonoe, Agave ed Ino, si raggruma in un solo verso di pregnante icasticità 66:   Così si esprime Rosati 2001, 53.   Più che da Theocr. 26, 2 dove Ino, Autonoe e Agave sono dette τρεῖς θιάσως ἐς ὄρος τρεῖς ἄναγον αὐταὶ ἐοῖσαι (vd. Dodds 19602, 162). 66  Che Virgilio, a sua volta, rielabora in Aen. 4, 469: Eumenidum veluti demens videt agmina Pentheus. 64 65

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Eur. Bacch. 680‑82: ὁρῶ δὲ θιάσους τρεῖς γυναικείων χορῶν ὧν ἦρχ᾿ ἑνὸς μὲν Αυτονόη, τοῦ δευτέρου μήτηρ Ἀγαυὴ σή, τρίτου δ᾿ Ἰνὼ χοροῦ. Prop. 3, 17, 24: Pentheos in triplices funera grata greges.

Ribaltando l’architettura del­l’enunciato rispetto a quanto fatto nel­l’esametro precedente dove il nome di Licurgo chiude espressionisticamente il verso, il pentametro in esame: a) si apre con il nuovo idionimo: b) viene ricinto dal­l’omeoptoto in chiusa ai singoli emistichi; c) enfatizza l’immagine della morte del discendente di Cadmo inserendo il plurale poetico funera ad attacco di secondo hemiepes. Ancora una volta gli omeoptoti si embricano l’uno dentro l’altro, come al v. 21, e un gioco di fonemi dissimila la possibile terna in -es (Pentheos ... triplices  ... greges). Da ultimo il lemma greges – che consentirà ad Ovidio di plasmare la clausola obscenique greges in met. 3, 537 pronunciata dallo stesso Penteo dinanzi al­l’annebbiamento delle truppe causato dai cortei bacchici – entra in ironica frizione con l’appositivo grata che dice la gioia paradossale quanto estemporanea delle squartatrici di Penteo, ὄμαιμοι 67. Una volta di più la rubrica delle imprese di Bacco rivela uno stile studiatissimo, teso sino allo spasmo espressivo, profuso di figure retoriche. Analogamente, l’episodio relativo ai pirati Tirreni, rei di aver catturato il dio 68 e di averlo oltraggiato, subisce una stupefacente condensazione se paragonato con la versione di ps.-Hom. Hymn. 7, 6‑57, inducendo il let67  La sola Agave è ricordata da Ov. fast. 3, 721: Thebanae mala praeda ... matris, invertendo peraltro la canonica successione Licurgo-Penteo. Tutte e tre le discendenti di Cadmo si ripresentano nella versione iginiana del mito di Penteo quali corresponsabili della sua morte, cfr. fab. 184, 1. Dal canto suo Hor. c. 2, 19‑14-16 aveva taciuto l’immagine della morte di Penteo privilegiando la visione del suo palazzo crollato non leni ruina. 68  Gli estremi della vicenda mitica in Hyg. fab. 134; astr. 2, 17, 2; Apollod. 3, 5, 3; Serv. ad Aen. 1, 67: cfr. Jeanmaire 1972, 227‑28. I riflessi in Prop. 3, 17 sono rapidamente esaminati in Newman 1997, 262‑63 e n. 51.

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tore a soffermarsi solo su due elementi della narrazione innica, quelli conclusivi, ossia la metamorfosi della ciurma in delfini e gli ornamenti d’edera che caratterizzano l’imbarcazione (vv. 25‑26). Nel testo greco, il momento in cui l’edera si avviticchia, ricca di fiori, intorno al­l’albero della nave è presentato in dettagli, precorso com’è dal­l’apparizione dei tralci di vite sul bordo superiore della vela (vv. 39‑42), segue l’ittiomorfosi dei marinai (vv. 52‑53) che, a sua volta, Ovidio rielaborerà in un ampio quadro in met. 3, 670‑86, condizionato com’è da una lunga tradizione poetica incentrata sulle immagini dei delfini 69. Per parte propria l’asciuttezza del ritratto properziano non sacrifica la densità del dettato al­l’estrema cura formale: al v. 25 domina la visione degli animali i cui corpi ricurvi ricingono quasi per intero la campata del­l’esametro in un’arcuata clausola a ponte che sembra ritradurne materialmente l’aspetto. Curvaque ... delphinum corpora è certamente circonlocuzione di tono aulico 70, recuperata e glossata dalla memoria poetica di Ov. met. 3, 679‑81, il quale a sua volta fissa, in modo espressionistico, il lancio di uno dei marinai ormai privo di braccia in mezzo ai flutti: alter ad intortos cupiens dare bracchia funes bracchia non habuit truncoque repandus in undas corpore desiluit ...

In Prop. 3, 17 il catalogo delle imprese di Bacco termina con il miracolo dei fiumi olezzanti di vino che scaturiscono a Nasso (vv. 27‑28), là dove il poeta sembra dislocare nel­l’isola legata al­l’incontro fra il dio e Arianna un θαῦμα riferito sulle generali da Euripide prima in Bacch. 142‑43, poi ai vv. 704‑11, a proposito del potere miracoloso di Dioniso trasferito alle menadi invasate, capaci di far erompere uno zampillo di acqua fredda o di far scaturire una fonte di vino, oltre al latte e al miele 71, al solo toccare la terra col nartece. Il distico suona letteralmente così:   Come sottolinea Barchiesi in Barchiesi – Rosati 2007, 232.   Si consideri in Ov. fast. 2, 111 quanto ad Arione capita di fare, destinato com’è a venir accolto dal dorso di un delfino, lanciandosi con un salto fra i flutti: protinus in medias ornatus desilit undas. 71  Θύρσον δέ τις λαβοῦσ᾿ ἔπαισεν ἐς πέτραν, / ὄθεν δροσώδης ὔδατος ἐκπεδᾷ νοτίς· / ἄλλη δὲ νάρθηκ᾿ ἐς πέδον καθῆκε γῆς / καὶ τῇδε κρήνην ἐξανῆκ᾿οἴνου θεός· / ὄσαις δὲ λευκοῦ πώματος πόθος παρῆν, / ἄκροισι δακτύλοισι διαμῶσαι χθῶνα / 69 70

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et tibi per mediam bene olentia flumina Naxon, unde tuum potant †naxia† turba merum 72

suggerendo che possa essere stato sagomato seguendo una versione del mito testimoniata da Steph. Byz. p. 468, 13‑14 Meineke s.v. Νάξος 73, pur sempre legata a Nasso, fondale delle nozze fra il dio e Arianna 74. Al­l’aretalogia si avvicenda il ritratto di Bacco e del suo tiaso (vv. 29‑36), come dire dal mito al rito passando per la riproduzione plastica della divinità e del suo corteo. Properzio non ambisce né al dinamismo della precedente descrizione catulliana (c. 64, 251‑64), né alla giocosità della futura rielaborazione ovidiana (ars 1, 541‑50), rimanendo legato ad un’intenzione programmatica ben precisa, come avrò modo di chiarire discutendo dei vv. 37‑40, esergo metaletterario del­l’intero riquadro. Ecco il passo: candida laxatis onerato colla corymbis cinget Bassaricas Lydia mitra comas, levis odorato cervix manabit olivo et feries nudos veste fluente pedes. mollia Dircaeae pulsabunt tympana Thebae, capripedes calamo Panes hiante canent, vertice turrigero iuxta dea magna Cybebe tundet ad Idaeos cymbala rauca choros.

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Incuriosisce la raffigurazione di Bacco, una statua 75 posta al­l’interno del tempio dinanzi al quale Properzio intende intonare il canto in suo onore, riprodotta attraverso tre tocchi incisivi riguardanti il capo, il panneggio, i piedi del dio. Nel­l’esametro γάλακτος ἑσμοὺς εἶχον· ἐκ δὲ κισσίνων / θύρσων γλυκεῖαι μέλιτος ἔσταζον ῥοαί. Riscontro parziale del­l’icona in Hor. c. 2, 19, 9‑12. 72   Non appone le cruces Butler – Barber nel­l’ed. del 1953 ritenendo il verso integro, laddove Fedeli 1985, 531‑32 ritiene sospetta l’iterazione del­l’epiteto geografico dopo il toponimo stesso, accettabile solo se il lemma avesse un’importanza centrale al­l’interno del­l’enunciato. Ripercorre lo status editoriale del verso Mader 1994, 374. 73   Ἐστὶν ἐκεῖ κρήνη, ἐξ ἧς οἶνος ῥεῖ μάλα ἡδύς. Impossibile verificare l’ipotesi di Rothstein 19202 II, 141, secondo cui Properzio avrebbe seguito verisimilmente un testo poetico che rievocava l’αἴτιον del culto di Dioniso nel­l’isola di Nasso. 74  Documentazione in Jeanmaire 1972, 220‑26. 75  Vd. Rothstein 19202 II, 141.

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iniziale un costrutto del tipo ABAB intreccia i due nessi a distanza candida ... colla // laxatis ... corymbis con giochi fonosimbolici in gutturale sorda e in liquida apicale, parzialmente riproposti nel pentametro seguente. Il candore del collo di Bacco 76, i molli 77 corimbi, la mitra lidia, le chiome, tutto coopera a sottolineare il profilo femmineo del dio 78: candida colla corrisponde infatti alla clausola con la quale Verg. georg. 4, 337 rappresenta la parte del corpo su cui si sparge la chioma delle ninfe intorno a Cirene o con cui (divaricata a ponte) 79 Ov. am. 1, 5, 37 ricorda il collo di Corinna cinto dalla capigliatura durante un infuocato pomeriggio di passione; unicismo assoluto, l’epiteto Bassaricus derivante dal teonimo Bassareus 80, qualifica poi la chioma di Bacco, ricinta da un copricapo orientale, ambiguo, la mitra lidia, anch’essa canonica nel­l’iconografia del dio 81 e delle sue seguaci. Sembra che due tarsie euripidee confluiscano nella memoria del poeta elegiaco sì da orientarne significativamente l’estro iconografico. Si tratta di Bacch. 453‑58, la descrizione del­l’ignoto straniero fatta da Penteo, e di Bacch. 830‑35, il disegno degli abiti e del­l’acconciatura che il re indosserà, per opera di Dioniso, onde recarsi sul Citerone ad osservare le menadi: Eur. Bacch. 453‑59: ἀτὰρ τὸ μὲν σῶμ᾿ οὐκ ἄμορφος εἶ ξένε, ὡς ἐς γυναῖκας, ἐφ᾿ ὅπερ ἐς θήβας πάρει· πλόκαμός τε γάρ σου ταναός, οὐ πάλης ὔπο, 455 γένυν παρ᾿ αὐτὴν κεχύμενος, πόθου πλέως· λευκὴν δὲ χροιὰν εἰς παρασκευὴν ἔχεις, οὐχ ἡλίου βολαῖσιν, ἀλλ᾿ ὑπὸ σκιᾶς τῆν Ἀφροδίτην καλλονῇ θηρώμενος. 76  Candidus, d’altronde, è epiteto diffuso per denotare la bianchezza abbagliante del­l’incarnato di Bacco, cfr. Hor. c.  1, 8, 11; ps.-Tib. 6, 1; Ov. fast. 3, 772. 77  Che qui laxatus abbia valore aggettivale, come ipotizza Camps 1966, 135 e, successivamente, Fedeli 1985, 533, è ipotesi più che plausibile. 78  Lo sottolinea bene, dal canto suo, Mader 1994, 375 e n. 25. 79   Identica incisione della clausola in Ov. ars 1, 215. 80  Adottato da Hor. c. 1, 8, 11; Caes. Bass. fr. 1, 11 Bl. Non va sottovalutata la notizia fornita da Porph. ad Hor. c. 1, 18, 11: A genere vestis Liber Bassareus appellatur, unde et ipsae Bacchae Bassarides appellantur. 81  Al punto che Vertumno in 4, 2, 33 potrà dire: cinge caput mitra, speciem furabor Iacchi.

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Eur. Bacch. 833‑35: {Δι.} πέπλοι ποδήρεις· ἐπὶ κάρᾳ δ᾿ἔσται μίτρα. {Πε.} ᾖ καί τι πρὸς τοῖς δ᾿ ἄλλο προσθήσεις. {Δι.} θύρσον γε χειρὶ καὶ νεβροῦ στικτὸν δέρος.

Un’energica contrazione dei due pannelli, ignoriamo se mediata dalla tragedia latina arcaica, consente al poeta elegiaco di far risaltare alcuni dettagli mirati nel profilo del dio: pelle bianca, chiome (lunghe), mitra sul capo 82, veste lunga sino ai piedi. Se da un lato le suggestioni euripidee vengono rimescolate e sintetizzate, un accurato lavorio retorico-stilistico ne potenzia la combinazione, a partire dal­l’emboîtement di due clausole in cui gli epiteti precedono i sostantivi di riferimento in omeoptoto (cinget Bassaricas Lydia mitra comas v. 30), a seguire l’allitterazione coperta fra levis e cervix, l’omeoarkton e l’omeoptoto nel nesso a ponte odorato ... olivo (v. 31), per concludere con l’allitterazione in /f/ e un nuovo emboîtement fra due clausole secondo lo schema AbaB (et feries nudos veste fluente pedes v. 31) 83. Una lezione di Hochstil che prosegue nei versi contigui, anch’essi in numero di quattro, dedicati al corteo del dio.

Del ricco campionario iconografico di cui può disporre grazie a poeti di poco precedenti o contemporanei (Catullo, Lucrezio, Orazio, Varrone menippeo), Properzio trasceglie un blocco di quattro elementi, ciascuno dei quali campeggia al­l’interno del verso in cui è inserito: timpani, satiri provvisti di zampogne, Cibele turrita, rauchi cembali. Ad eccezione della Magna Mater su cui avrò opportunità di soffermarmi fra qualche tempo, insisterei adesso sulla terna di strumenti musicali legati ai culti orgiastici, strumenti da considerare invarianti delle processioni in onore di Bacco (e di Cibele ...) descritte in poesia latina. In Prop. 3, 17,

82  Sul­ l’impiego della mitra per i seguaci di Dioniso, già χρυσομίτρης in Soph. Oed. Rex 209, materiali in Fedeli 1985, 533‑34. L’intero passo euripideo è stato messo a fuoco dal commento di Dodds 19602, 133‑34. 83  Utile potrebbe risultare uno studio sinottico di questo ritratto con il profilo che di Bacco-Osiride Tibullo abbozza in 1, 7, 43‑48: non tibi sunt tristes curae nec luctus, Osiri, / sed chorus et cantus et levis aptus amor, / sed varii flores et frons redimita corymbis, / fusa sed ad teneros lutea palla pedes / et Tyriae vestes et dulcis tibia cantu / et levis occultis conscia cista sacris.

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volta per volta l’aggettivazione si lega alla tipologia del suono emesso dal singolo strumento o alla modalità della sua produzione: mollia designa la qualità lasciva del suono dei timpani 84, hians pertiene ai fori delle zampogne, raucus precisa l’effetto del suono dei cembali, cupo e sordo al contempo. La singolarità del­l’insieme è data dal fatto che qui la cerimonia descritta non appartiene alla sfera del mito, come in Catullo (c. 64, 251‑64), o del­l’evocazione rituale come in Lucrezio (2, 608‑45) e in Varrone (Eum. frr. 130‑32 Astb.) che ritraggono il lungo corteo di Cibele, o della supplica apotropaica di Orazio (c. 1, 18, 11‑13), bensì guarda alla prospettiva di un cerimoniale in onore del dio liberatore dalla passione, come testimonia la serie dei futuri qui impiegati (pulsabunt v. 33; canent v. 34; tundet v. 36). Rinviando per il momento lo studio sistematico di questi versi, vorrei soffermarmi sulla situazione presupposta alla loro tramatura. Il poeta intende celebrare un tempio simbolico entro le cui pareti si erge la statua di Bacco descritta minuziosamente, in modo non lontano da Verg. georg. 3, 1‑48, il quale immagina in modo affine un tempio simbolico sulle sponde del Mincio, adorno delle gesta di Ottaviano, la cui statua sarà posta al centro. Ci troviamo dinanzi ad una tradizione letteraria di antica data, inaugurata forse da Pind. Ol. 6, 1‑11, l’epinicio in onore di Agesia di Siracusa vincitore della corsa con i carri trainati da muli 85, qui staccato dalle probabili matrici liriche e funzionale alla celebrazione del dio che salverà il poeta dalla passione, un’ennesima prova, questa, della persistente esigenza nutrita da Properzio di mantenere uno stile molto sostenuto entro una struttura perfettamente simmetrica ripartita in due distici per la descrizione della statua di Bacco, in altri due per la descrizione del corteo rituale, contraddistinto dagli strumenti musicali ivi suonati (vv. 33‑34), oltre che dalla figura di Cibele (vv. 34‑35). 84  Se, come postula Fedeli 1985, 535, sulla scorta di Camps 1966, 136 (vd. anche Richardson 2006, 389), essi accompagnano le ‘molli’ danze degli iniziati ai culti misterici, come in 2, 34, 42 (ad molles membra resolve choros), anziché potersi dire ‘lascivi’ perché di norma suonati da donne, come propende a fare il commento di Butler – Barber 1933, 305. 85  Norden 1966, 400 ipotizza che tanto Virgilio quanto Properzio dipendano da una fonte comune, come testimonierebbe il precedente pindarico in questione.

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Analizziamo i vv. 33‑34 del­l’elegia: mollia Dirceae pulsabunt tympana Thebae, capripedes calamo Panes hiante canent.

Tebe Dircea farà risuonare i timpani lascivi, i satiri canteranno soffiando sui fori delle zampogne. Non è dato sapere a quale versione del mito Properzio intenda riferirsi nel concordare l’epiteto Dircaeus al toponimo, ma certo ad un’unica Dirce, regina votata ad un destino efferato, sono connesse le varianti che la vogliono, di caso in caso, legata ad un toro sul monte Citerone, sede delle feste di Dioniso 86; lanciata già cadavere in una fonte vicina a Tebe, che da lei deriverà il nome 87; trasformata in fonte da Dioniso essendo stata una menade 88. Sul piano stilistico, il v. 33 presenta al suo centro il lemma verbale incorniciato, ad onde concentriche intrecciate, da attributi e sostantivi, lemma che trasmette l’idea del battito continuo, rituale dei timpani subentrando al reboant di Cat. c. 63, 21 (ubi tympana reboant) 89, al plangebant di Cat. c. 64, 261 (plangebant aliae proceris tympana palmis), al tonant di Lucr. 2, 616 (tympana tenta tonant palmis) e al tonimus di Varrone, frr. 132‑33 Astb. (tibi tympanon inanis sonitus matris deum / tonimus ...) e anticipando Ov. ars 1, 538 (et adtonita tympana pulsa manu); fast. 4, 213 (cymbala pro galeis, pro scutis tympana pulsant): nel segno degli stessi strumenti musicali, timpani prima, cembali poi, l’associazione del culto di Dioniso con quello di Cibele non stupisce, se già Pind. dith. fr. 70b, 6‑14 ed Eur. Palam. fr. 586, 2‑4 K., Bacch. 72‑82 li conglobavano 90, consapevoli com’erano della loro interazione orgiastica e misterica 91. Nel pentametro seguente (v. 34) compaiono i satiri 92 dai

  Vd. Prop. 3, 15, 38 (su cui cfr. Paduano 2008, 400‑02); Plin. nat. 36, 34, 2; Paus. 9, 17, 6. 87  Apollod. 3, 5, 5. In àmbito latino, e.g., vd. Acc. 602 R3; Ov. met. 2, 239; Sen. H.f., 916; Oed. 42; Plin. nat. 4, 25, 7. 88  Hyg. fab. 7, 5. 89  Ma vd. anche Cat. c. 63, 31: leve tympanum remugit, cava cymbala recrepant. 90   Cfr. la ricca nota al passo di Fedeli 1985, 536. 91  Come puntualizzano, dal canto loro, Dodds 19602,  76; Lavecchia 2000, 143‑44; Di Benedetto 2013, 95‑97; 312‑13. 92  Ho detto satiri, non Pan, in quanto sin dal­ l’epoca ellenistica gli attributi iconografici del Pan di ps.-Hom. Hymn. 19, 2 erano stati applicati ai satiri, sì che 86

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piedi caprini che soffiano sulle zampogne arie musicali sì che il testo sembra arieggiare colori lucreziani. Non lasciano dubbi a riguardo l’attributo capripes – rifatto sul gr. αἰγιπόδης – presente in de rer. nat. 4, 580‑81 (oltre che in Hor. c. 2, 19, 4), il verbo cano collocato al v. 585 e la clausola a ponte calamo  ... hiante (ibid.) inserita nel v. 588. Tuttavia il tributo formale e iconico al passo di Lucrezio si esaurisce rapidamente in vista della presentazione di Cibele sulla quale agirà il flusso centripeto di numerose reminiscenze dotte su cui mi soffermerò più avanti. Urge infatti esaminare la dichiarazione programmatica pronunciata da Properzio nelle battute finali di 3, 17, punto nevralgico del­l’intera elegia e chiave del suo reale significato (vv. 37‑42): ante fores templi crater‹e› antistes et auro 93 libatum fundens in tua sacra merum, haec ego non humili referam memoranda cothurno, qualis Pindarico spiritus ore tonat: tu modo servitio vacuum me siste superbo, atque hoc sollicitum vince sopore caput.

Le vesti assunte dal­l’autore sono quelle del sacerdote officiante innanzi alle porte del tempio di Bacco, mentre versa da un cratere con una coppa d’oro vino puro per il sacrificio rituale. Un’anticipazione iconografica, pur se contratta, del­l’attacco di 4, 6, 1 (sacra facit vates) che ha il merito di imprimere un’alone di sacralità al voto, ridimensionando quegli accenti ironici, pur presenti, che Lyne ha voluto interpretare addirittura quale spirito animatore del testo, forzandone la lettera 94. Sottolineando in modo ridondante la propria postura di poeta-sacerdote (ante ... antistes) Properzio si avvia definitivamente a suggellare l’innalzamento sin qui compiuto della forma poetica. Se è vero che parlare di Bacco comporta, di fatto, elevare la forma di un testo poeVerg. buc. 2, 32‑33 fa del dio stesso l’inventore della zampogna da essi comunemente suonata. 93  Sul restauro del verso rinvio al­ l’organica discussione di Fedeli 1985, 536‑37. 94  Cfr. Lyne 1980, 138, per il quale addirittura «... the aim of  poem 17 is surely to amuse ... It includes a promise than the poet will serve him (scil. the god) as poetical laudatory – and as wine-grower. This seems to me virtually a burlesque, an absurd inflativo, of  the more usual entreaty of  the lover: to wine to drown his soorows (cfr. e.g. Tibull. 1. 2)».

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tico, l’annuncio di un canto in suo onore impone un’ulteriore Steigerung che mobiliti, di necessità, il modello di gesteigerter Stil, Pindaro. Abbiamo già visto come la mirata selezione della gesta del dio (vv. 21‑28) costituisca l’ossatura del futuro canto in suo onore, tale da laureare Properzio virtutis Bacchi poeta (cfr. v. 20). Non solo questi vivrà per Bacco e per le sue corna (v. 19), ma vorrà conquistare la fama di vate delle sue imprese. In che termini può misurarsi il tentativo properziano di ricreare uno stile ‘pindarico’? Il testo sin qui analizzato ha rivelato come Properzio abbia disseminato di segnali ‘eloquenti’ il proprio dettato, quasi un saggio di quello che in futuro sarà per contenuto e forma un canto avente per protagonista e destinatario Bacco: non soltanto numerosi dettagli circa la nascita e le gesta del dio, echi di una produzione poetica di alto rango, bensì anche uno stile pervaso di cumuli di figure retoriche, di espedienti metrico-prosodici, di preziosismi tradiscono l’itinerario in Pindarum che il poeta umbro si prefigge di compiere e che, di fatto, ha già iniziato a percorrere con la stesura della 3, 17. Non si potrà negare che l’immagine di Bromio unito alla Grande Madre 95 tra fremiti di timpani ricorra in Pind. dith. fr. 70b, 6‑14 M. (ῥόμβοι θυπάνων v. 9) 96 o che l’immagine di Semele, ivi citata al v. 32, ritorni in dith. fr. 75, 19 M. cinta di diadema, oggetto di visita da parte del coro 97. Anche negli epinici, però, la madre di Dioniso gode di frequenti menzioni, come in Ol. 2, 25‑31 dove appare promossa al­l’immortalità dopo esser stata disintegrata dalla folgore di Zeus 98, in Pyth. 3, 99, dove si ricorderà che il padre degli dèi la raggiunse nel­l’amabile letto 99 e in 11, 1 dove per prima sarà invocata fra le Cadmeidi in quanto

95  A sua volta Lehnus 1979, 50 ritiene difficile che Properzio abbia potuto conoscere direttamente sia l’inno a Cibele, sia l’inno a Pan di Pindaro dato che in 3, 17, 33‑40 «c’è moltissimo di convenzionale, e anche il Pindaricum os al v. 40 può semplicemente valere come implicita replica alla recusatio oraziana (Carm. 4.2) ...». 96   Vd. il commento ad loc. di Lavecchia 2000, pp, 146‑48. 97   Semele viene destinata ad un ruolo assiale del culto dionisiaco in Eur. Phoen. 1755‑56 e in Bacch. 998; oltre che in hymn. Orph. 44, 3‑9. 98  Ζώει μὲν ἐν᾿ Ολυμπίοις / ἀποθανοῦσα βρόμῳ / κεραυνοῦ τανυέθει- / ρα Σεμέλα, φιλεῖ / δέ νιν Παλλὰς αἰεί / καὶ Ζεὺς πατήρ, μάλα φιλεῖ / δὲ παῖς ὁ κισσοφόρος. 99  ... ἀτὰρ λευκωλένῳ γε Ζεὺς πατήρ / ἤλυθεν ἐς λέχος ἱμερτὸν Θυώνᾳ.

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vicina alle divinità olimpie 100. Osserva Lavecchia: «La tradizione relativa alla morte di Semele e alla susseguente nascita di Dioniso ha un legame strettissimo con l’origine del ditirambo 101; per questo la dea viene affiancata a Dioniso come principale destinataria del canto ditirambico: cfr. Pind. fr. 70b, 32; Bacch. 19, 48‑50; schol. Hor. Sat. II, 1, 1» 102; in ogni caso, non si può contestare il fatto che nella produzione pindarica il ruolo rivestito da Semele sia ovunque di primo piano. Suggestiva, molto suggestiva l’ipotesi di Cairns 103, rielaborata da Hardie 104, secondo cui le intenzioni letterarie di Properzio si orienterebbero verso la redazione di un ditirambo proprio in 3, 17, 29‑40, ciononostante le attuali cognizioni in materia di ditirambi nella Roma augustea sono ancora tutte da verificare e consigliano misure prudenziali nel­l’applicazione di perentorie etichette. Il rischio di forzare l’evidenza documentaria è altissimo già sul piano dei contenuti. Di sicuro, dai testi in nostro possesso, emerge come i ditirambi pindarici celebrassero la nascita del dio, ma nulla ci è rimasto di eventuali sezioni concernenti le sue gesta. Dioniso, peraltro, è divinità ripetutamente presente nella poesia pindarica, cui non sono riservate soltanto menzioni cursorie, come si evince da Ol. 2, 30; 13, 18‑19; Isthm. 7, 3‑5;

  Κάδμου κόραι, Σεμέλα μὲν Ὀλυμπιάδων ἀγυιᾶτι ....   Al punto che, fra le paretimologie connesse al lemma διθύραμβος, si distingue quella di Plat. leg. 3, 700b: Διονύσου γένησις, οἶμαι, διθύραμβος λέγεται (vd. Ieranò 1997, 160). 102  Così Lavecchia 2000, 272, ma vd. già Patzer 1962, 96, per il quale il ditirambo: «enthielt mit dem unmittelbaren Preis des Gottes sicher auch ein erzählendes Stück aus seiner heiligen Geschichte, besonders seines Gebürt». Peraltro, meritevoli di attenzione le considerazioni che Ieranò 1997, 162‑67, dedica al ruolo di Semele nella stesura dei ditirambi, sottolineando come sia più probabile che il mito a lei connesso fosse impiegato dai poeti ditirambici soprattutto nelle sezioni proemiali dei loro canti, come «un segno formulare che marcava (o, meglio, rimarcava di fronte a un pubblico già consapevole di partecipare ad una festa dionisiaca) la natura dionisiaca del canto» (così a 166). 103  In questi termini il parere di Cairns 1972, 97: «... with its reference to Pindar, leaves little doubt that Propertius thought he was writing a dithyramb ... The dithyramb is treated therefore in very much the same way at Rome are the komos and arai». 104  In Hardie 1976, 137, n. 23. La tesi è sottoscritta da Fedeli 1985, 539. Più sfumata e problematica la posizione di Santini 2004 (a), 15‑16. 100 101

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paen. 4, 25‑27 SM; hymn. 1, fr. 29, 5; thren. 3, 3; fr. 153; fr. 248. Tornando al­l’elegia 3, 17, dal punto di vista stilistico, malgrado l’abbondante uso di aggettivi di estrazione toponomastica che comunque non sono esclusivamente properziani né crea­ti per l’occasione, difettano alla pericope qui discussa la prima e la terza delle invarianti che Seaford ha rintracciato nella λέξις ditirambica 105, rigorosamente osservate da Pindaro, ossia: a) elaborati epiteti composti; b) frequenza e aggregazione di epiteti; c) perifrasi, sempre di natura enigmatica, caratteristiche che, per parte propria, già Aristofane nella parabasi degli Acarnesi (vv. 637 ss.) ridicolizzava sbeffeggiando proprio gli elaborati composti aggettivali di Pind. dith. frr. 76 e 77 M. Del­l’assenza di epiteti distintivi di Bacco in Prop. 3, 17 si è già detto. Di epiteti artificiosamente composti, al­l’eccezione di capripes del v. 34 (che comunque sembra un conio lucreziano) e di turrigera del v. 35 106 non saprei segnalare ulteriori presenze; d’altronde, di norma, la lingua latina recalcitra dinanzi ai composti aggettivali. Inutile ricercare nella nostra elegia perifrasi di sapore naturalistico e gli stessi attributi individuabili, ove cooccorrano, sono di matrice toponomastica, se non legati alla sfera semantica sensoria ... Se poi ricordiamo come cifra distintiva della λέξις ditirambica pindarica, a detta di Hor. c.  4, 2, 6‑7, siano i nova ... / verba, non risulta che in 3, 17 Properzio crei dei neologismi. Insomma, pindareggiare non significa di necessità ditirambeggiare. In ultima analisi, non ci è dato sapere a quali specifiche letture pindariche il poeta di Assisi si fosse accostato, né di quali intendesse mettere a frutto motivi e forme. Elevare lo stile gli è possibile soltanto con gli strumenti che la lingua poetica nazionale consente: per dirla con Orazio, i nova  ... / verba degli audaces ... dithyrambi (c. 4, 2, 10‑11) in Prop. 3, 17 non compaiono per limiti contenutistici e metrici, per vincoli espressivi, laddove

  Seaford 1977‑78, 88.   Se non erro, Properzio è il primo ad impiegare tale epiteto, di colorito arcaizzante, in connessione con Cibele, anticipando Ov. fast. 4, 224; 6, 321. 105 106

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vistosa appare la profusione di figure retoriche, di attributi toponomastici, di nessi a ponte, a contatto, ad intreccio. A mio avviso, Properzio progetta la stesura di un testo che sia di contenuto e di stile ‘pindarici’ a suo modo. In varia misura, nel momento in cui lo idea, lo annuncia e gli dà forma prolettica, egli si pone già sulle orme del modello. In particolare, la prefigurazione del canto a venire gioca con voluta ambiguità sul doppio registro cronologico/pragmatico tra composizione in atto e composizione a venire. Il nesso divaricato Pindarico ... ore del v. 40, inciso dal pomposo tonat, di memoria callimachea 107, rimanda alla magniloquenza del periodare del lirico greco, preludendo al­l’oraziano Pindari ore di c. 4, 2, 8 108. Anche Properzio dichiara la propria intenzione di πινδαρίζειν senza però ostentare quella volontà di competizione che miri a superare l’inimitabile paradigma e che, nel­l’ode oraziana, condannerà ad una fine miserabile il temerario di turno (vitreo daturus / nomina ponto vv. 3‑4) 109. Di sicuro l’ispirazione tonante alla maniera pindarica, il non umile coturno richiesti per il nuovo progetto poetico attestano la svolta che l’elegiaco ritiene di dover operare occupandosi delle gesta del dio: ad elevatezza contenutistica occorre replicare con sostenutezza stilistica. Pertanto il non humilis ... cothurnus menzionato al v. 39 è stato posto a contatto con Hor. c. 3, 25, 17‑18 (nil parvum aut humili modo / nil mortale loquar) 110: l’Assisiate, il quale in 3, 17 opererebbe una «elegiac rehandling of  themes in Horace’s two Bacchic poems [i.e. Odes 2.19 and 3.25]» 111, con la clausola non humili ... cothurno 112, contigua al 107  Call. Aet. fr. 1, 19‑20 Pf.: cfr. Fedeli 1985, 539; Mader 1994, 382; Newman 1997, 263. 108  Aggiornatissima messa a punto del pindarismo oraziano da parte di Fe­ deli in Fedeli – Ciccarelli 2008, 120‑22 e 124‑28. 109   Sul­l’accezione di aemulor nel­l’ode oraziana vd. Fedeli in Fedeli – Ciccarelli 2008, 125. Delle ambizioni pindariche contemporanee potrebbe considerarsi un paradigma il Titius di Hor. epist. 1, 3, 9‑14, Pindarici fontis qui non expalluit haustus (v. 10). 110   Basti qui citare Miller 1991, 78‑79; Lefèvre 1991, 1003‑04. 111  Opinione, questa, di Hubbard 1975, 72. 112  A detta di Kambylis 1965, 171 dietro tale nesso si celerebbe il rimando alla Likurgeia di Eschilo. Per Richardson 2006, 390, l’espressione equivarrebbe a «in lofty style», essendo il coturno sinonimo di poesia elevata, senza dimenticare che commedia e tragedia erano in origine «part of  worship of  Dionysus. Cfr. 2.23.41; Vergil, Ecl. 8.10».

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nil ... humili modo oraziano, conferisce programmaticamente al proprio progetto poetico solennità espressiva. Come sostiene Lefèvre 113, l’intento di un innalzamento tematico-formale può trovare un naturale sbocco nel­l’accostamento ai soggetti e alle forme prescelti da Orazio, il poeta augusteo più vicino a Pindaro per genere letterario d’appartenenza, per contenuti e per imponenza stilistica. Dunque, l’intento di congedarsi dalla tenuitas della poesia erotica non potrebbe venir dichiarato in modo più limpido. Properzio però vincola il tutto al compimento della richiesta formulata in precedenza (tu vitium ex animo dilue, Bacche, meo v. 5; quod si, Bacche, tuis per fervida tempora donis / accersitus erit somnus in ossa mea vv. 13‑14) precisando, nel distico excipitario, l’aspi­ razione a liberarsi dal servitium ... superbum 114 e a vincere col torpore del vino l’inquietudine della mente. La professione di una svolta contenutistica resta ancorata al­l’immaginario e al lessico del­l’elegia, segno di un’identità letteraria che non rinuncia alla propria pervasività nel laboratorio compositivo di Properzio: nel sintagma vince sopore caput di 3, 17, 42 traspare infatti la filigrana di Tib. 1, 2, 2: lumina victa sopor, così come nel­l’iniziale tu potes insanae Veneris compescere fastus di 3, 17, 3 affiora l’eco di Tib. 1, 2, 1: novos compesce dolores 115. Al punto di vista di Miller, secondo cui nel­l’attacco properziano l’allusione a Tibullo non servirebbe soltanto da ormeggio alla tradizione elegiaca, bensì anche da specchio riflettente per l’umorismo del­l’imitatore 116, obietterei che l’apertura e la chiusura della 3, 17 nel segno di Tibullo sembrano costituire più che altro i margini e i vincoli 113   «Properz konnte im allgemeinen Horaz zu Recht mit Pindar in Verbindung bringen; und er glaubte gewiss, mit dieser Elegie selbst Pindar nachzugestalten. Man muss sein Bestreben richtig einschätzen: wenn er in diesem ‘Horatian poem’ Pindar sagte, meinte er in Wahreit Horaz»: così Lefèvre 1991, 1004. Sul tema si ponderino altresì i rilievi di Miller 1991, 78‑79. 114  Sul che vd. Álvarez Hernández 1997, 255, il quale precisa come a Properzio non importi semplicemente recuperare il proprio stato di salute: insieme alla liberazione dal servitium amoris egli intravvede la liberazione dalla «escritura del servitium» e la sua trasformazione in ‘poeta dionisiaco’, ossia l’abbandono della poesia del servitium da parte del poeta-sacerdos, caratteristica della sezione finale del terzo libro della raccolta (cfr. 256). 115  Il quadro cronologico delle edizioni dei singoli libri di elegie tibulliane e properziane è stato ben delineato da von Albrecht 2005, 256‑58. 116  Miller 1991, 83.

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del genere dai quali il poeta intenderebbe svoltare e sul versante tematico e su quello stilistico, ma dai quali in atto non si è ancora interamente ‘affrancato’. Insomma, la maniera elegiaca sin qui praticata continua ad affiorare, solo che ben diversi sono i contenuti poetici prospettati, non più prettamente erotici o soltanto erotici come in passato. Stesso dicasi per le forme espressive prefigurate. La promessa di un canto a Bacco solutore degli affanni amorosi in termini pindarici (o, forse, sarà meglio dire, oraziano-pindarici) è legata al superamento del­l’attuale condizione sentimentale e letteraria insieme, basti considerare la serie di futuri di cui essa è punteggiata (vivam / ferar / dicam / referam); ciò non toglie che nel­l’arco di 3, 17 Properzio si consenta, per così dire, un primo saggio di höherer Stil consono al­l’oggetto del canto a venire e, soprattutto, al­l’altezza del suo destinatario, Bacco λυσιμέριμνος. Sotto l’egida di Bacco mutamenti di vita, sotto l’egida di Bacco mutamenti di soggetti letterari, sotto l’egida di Bacco innovazioni di carattere stilistico ...

2. Bacco, corimbi e edere: simboli e ispirazioni poetiche Due elegie, la 2, 30b e la 4, 1 tributano al dio del vino il ruolo specifico di protettore del­l’attività poetica, quantunque non necessariamente di livello sublime se, come vedremo proprio per il caso di 2, 30b, 33‑40, egli compare tra il coro delle Muse alle cui danze sarà ammessa Cinzia, fonte esclusiva del­l’ispirazione di Properzio 117. Si tratta di quel particolare aspetto di Bacco che a Roma ne fa il corrispettivo di Dioniso Melpomeno o Musagete 118, una divinità che in età augustea riscuote favore sia nelle abitudini religiose sia nella produzione letteraria 119. Lasciamo la parola a Properzio: nec tu Virginibus reverentia moveris ora: hic quoque non nescit quid sit amare chorus, si tamen Oeagri quaedam compressa figura Bistoniis olim rupibus accubuit.

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  Sul tema vd. Álvarez Hernández 1997, 160‑61.   Precisazioni in Maass 1896, 375 ss.; De Falco 1936, 371‑73; Nisbet – Hubbard 1978, 316; La Penna 1993(a), 325‑33. 119  Come evidenziato da Boyancé 1953, 205‑06. 117 118

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hic ubi te prima statuent in parte choreae, et medius docta cuspide Bacchus erit, tum capiti sacros patiar pendere corymbos: nam sine te nostrum non valet ingenium.

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L’omaggio galante al­l’amata consiste nel­l’immaginarla accolta dalla cerchia delle nove dèe che proprio per aver conosciuto l’amo­re non saranno turbate dalla sua presenza: infatti, tra le rupi della Tracia Eagro ha sedotto una di loro, forse Calliope come riferiscono in numero più consistente le fonti antiche, forse Polimnia 120. Ad ogni modo, nelle danze Cinzia appare in prima fila mentre Bacco è collocato al centro con il compito di dirigerle. Di quadri orchestici la silloge properziana non può dirsi sprovvista, se si considera 2, 10, 1 dove l’autore dichiara che è ormai tempo di attraversare l’Elicona con danze di altro genere o 3, 5, 19‑20 dove afferma di compiacersi di aver frequentato nella prima giovinezza l’Elicona intrecciando le mani nelle danze delle Muse. Ovviamente si tratta di stralci di taglio metaletterario, di dichiarazioni programmatiche dove viene annunciato il diverso percorso poetico che l’autore intende battere. Nel nuovo contesto svanisce la puntualizzazione orografica, affidata solo ad un tocco paesaggistico di poco precedente (libeat tibi, Cynthia, mecum / rorida muscosis antra tenere iugis vv. 25‑26) 121, a favore di un fondale di soggetto orchestico in cui i posti di rilievo toccano, rispettivamente, a Cinzia e a Bacco (prima ... in parte // medius). Quasi come decima Musa, l’amata completerà l’organico delle danze mentre il dio apparirà insignito del­ l’emblema più caratteristico del suo corredo iconografico, il tirso, metonimicamente fissato da una clausola peregrina, docta cuspide (v. 38), tirso con cui viene abitualmente concessa l’ispirazione poetica. Non occorreva certo a Properzio il monito oraziano di c. 2, 19, 25 per sapere quanto, nel­l’immaginario antico, il nume

  Relativa documentazione in Enk 1962 II, 393; Fedeli 2005, 866.   Si tratta delle grotte del­l’Elicona o del Parnaso abitato dalle Muse, come insegna Pind. Pyth. 6, 49: ἐν μυχοῖσι Πιερίδων: lo sottolinea Fedeli 2005, 862. Nello specifico, quanto lo scenario properziano si allontani dalle convenzionali «ambientazioni in luoghi selvaggi e disabitati delle scene di iniziazione o ispirazione poetica» dimostra Fantuzzi 2003, 190‑91 (così a 190). 120 121

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fosse choreis 122 aptior; nel­l’elegia di cui mi occupo Bacco presiede ai movimenti eseguiti dalle Muse e da Cinzia, controllati e diretti docta cuspide, clausola strumentale 123 che trasforma il ricordo di Cat. c.  64, 256 (tecta quatiebant cuspide thyrsos), riattualizzato da Sen.  H.f. 904 (tectam virente cuspidem thyrso), discostandosi dal precedente di Lucr. 1, 922‑23 (acri / ... thyrso) e dalla successiva scelta di Hor. c. 2, 19, 8 (gravi ... thyrso) e di Ov. am. 3, 1, 23 (thyrso ... graviore) o 3, 15, 18 (thyrso graviore). Il tirso «ist hier zum Symbol der Dichtung, besonders der auf  gelehrten Studien und sorgfältiger formaler Ausbildung beruhenden Dichtung des Properz selbst, geworden und heifst deshalb doctus» 124 e la dottrina di cui è portatore trasmette la necessaria ispirazione poetica, ma Properzio è ben attento al momento della propria consacrazione poetica, vincolato al­l’inserimento di Cinzia nella congrega delle Muse danzanti. Solo allora i corimbi – attributo usuale di Bacco insieme al­l’edera 125 – cingeranno la sua fronte (tum capiti sacros patiar pendere corymbos v. 39). Di corimbi, lo abbiamo appena visto, verrà insignita la statua del dio in 3, 17, 29 (candida laxatis onerato colla corymbis), e non altrimenti incoronata appare la sua immagine (sincresi di Osiride e Bacco) in Tib. 1, 7, 45 (et frons redimita corymbis), in Ov. fast. 1, 393 (festa corymbiferi celebrabas, Graecia, Bacchi) e, più oltre, in Caes. Bass. fr. 1, 5‑7 Bl. (Luteis corymbis / hedera te, coronis / hasta viridis armet) oltre che in Sen. Oed. 403 (effusam redimite comam nutante corymbo), tuttavia in Properzio per antonomasia essi contraddistingueranno anche la poesia di Filita, come si evince dal superbo proclama di 4, 6, 3 (serta Philiteis certet Romana corymbis), uno dei modelli principali della produzione del­l’Assisiate 126 (3, 1, 1‑2).

122  Sul­ l’importanza delle danze in Properzio si veda Wimmel 1960, 216 e n. 1. 123   In quanto più calzante al contesto ritengo che si debba intendere la clausola come ablativo strumentale anziché come generico ablativo di qualità o di unione (sulle possibili valenze cfr. Fedeli 2005, 867). 124   Così a giudizio di Rothstein 19202 I, 331. 125  Topico emblema del­l’ispirazione poetica, cfr. Prop. 2, 2, 25‑26; 4, 1, 62. 126  Cfr. Prop. 3, 1, 1‑2: Callimachi Manes et Coi sacra Philitae, / in vestrum, quaeso, sinite ire nemus. L’immagine dei corimbi suggerirebbe che in Filita stesso e in Callimaco doveva ricorrere «la guirlande de lierre couronnant le poète,

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Il pentametro conclusivo di 2, 30b riasserisce quanto dichiarato in 2, 1, 4: Prop. 2, 30b, 40: nam sine te nostrum non valet ingenium Prop. 2, 1, 4: ingenium nobis ipsa puella facit

ossia la completa dipendenza del­l’ispirazione poetica dal­l’ama­ ta 127, un tropo erotico-letterario che non difetta di paralleli in poesia augustea, da Tib. 2, 5, 111‑12 ad Ov. am. 1, 3, 15‑20; 2, 17, 33‑34; 3, 12, 16; trist. 4, 10, 59‑60. Siamo ben distanti dal­l’intenzione di darsi ad altro genere di poesia, ad altro genere di tematiche professata in 3, 17: qui Cinzia appare incontrastato motore e soggetto del canto elegiaco e l’inserimento nel coro delle Muse consolida agli occhi del poeta la sua funzione ispiratrice, vista come analoga a quella delle Pieridi 128. Non corimbi, bensì edera, una corona d’edera dovrà porgere Bacco a Properzio per incoronarlo in 4, 1, 62, consapevole com’è l’autore del proprio ruolo di cantore delle antichità romane, di Romanus ... Callimachus (vv. 61‑64) 129: Ennius hirsuta cingat sua dicta corona: mi folia ex hedera porrige, Bacche, tua, ut nostris tumefacta superbiat Umbria libris, Umbria Romani patria Callimachi!

Dinanzi al­l’arcaica musa enniana, non tornita, degna di un’irta corona 130, il serto reclamato dal poeta umbro è fatto di foglie et sans doute mise en opposition avec la couronne de laurier de l’épopée»: così, molto discutibilmente, teorizza Boyancé 1953, 202, n. 1. 127   Vd. Álvarez Hernández 1997, 215. 128  Giustamente, muovendo dal sine te del v. 40, Fedeli 2005, 868 insiste sul colorito sacrale del­l’omaggio a Cinzia, studiandolo in rapporto alla topica formula ἄνευ σέθεν del linguaggio religioso greco (su cui vd. Norden 1913, 157 ss.). 129  Che in quest’elegia siano riscontrabili poi numerosi punti di contatto con Hor. c.  3, 30 assicura una serie di studiate coincidenze: Hor. c.  3, 1, 30: exegi monumentum ~ Prop. 4, 1, 67 surgit opus; Hor. v. 9 scandet ~ Prop. v. 65: scandentis; Hor. v. 14: sume superbiam ~ Prop. v. 63: superbiat; Hor. v. 16: cinge ~ Prop. v. 61: cingat. Sul tema si legga la dirimente analisi di Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 61. 130  Sul tema cfr. Debrohun 2003, 98‑99.

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d’ede­ra, la pianta che saluta la nascita del dio in Eur. Phoen. 649‑54. Lungi dal tributo lucreziano della perenni fronde corona di provenienza eliconia al pater Ennius (1, 118), Properzio non deborda dal bacino iconico e concettuale di 3, 1, 19‑20, distico in cui domandava alle Pieridi molli ghirlande non confacendosi alla sua fronte un duro serto (mollia, Pegasides, date vestro serta poetae: / non faciet capiti dura corona meo) 131. Sorprendente la densità metaforica del dettato che in ambedue i brani non si accontenta di tramare il dibattito metaletterario di epiteti e/o sostantivi connessi alla musa epica (hirsuta / dura) e a quella elegiaca (mollia / folia ex hedera): le corone (corona / serta) che qui rappresentano i due generi contrapposti, epos ed elegia, assumono il ruolo di referente simbolico della loro antitesi. Hirsuti, lo sappiamo perfettamente, apparivano gli Annales di Ennio al gusto sofisticato di Ov. trist. 2, 259 132: la concordanza del­l’attributo al­l’epos nazionale anteriore alla pubblicazione del­l’Eneide, in primo luogo trasmette l’idea della primitività, della mancata politezza formale di quei versi che, a mo’ di rovi e arbusti, presentano asprezze appuntite. Non a caso una scorsa al­l’impiego del­l’epiteto hirsutus in epoca augustea rivela un’insistita giuntura con ‘foglie’, ‘frutti’, ‘rami’, ‘rovi’ 133. E a valutare l’architettura del­l’esametro properziano, come non rilevare il mirato omeoptoto che delimita il primo e il secondo emistichio (Ennius hirsuta cingat sua dicta corona) mediante due trisillabi, replicato nel­l’omeoptoto che salda il primo al secondo emistichio del pentametro (mi folia ex hedera, porrige, Bacche, tua) con la variazione di tris.+bis.? Per mano di Bacco, l’edera con la sua flessibilità e morbidezza ben si presta a cingere il capo del poeta elegiaco, doctus come testimonia il suo interesse per l’eziologia e l’erudizione antiquaria, ma soprattutto perché, come programmaticamente sostenuto da Hor. c. 1, 1, 29: hederae doctarum praemia frontium. Nella sua evidenza scultorea, l’espressione oraziana, innestata in un contesto simbolico carico di riferimenti metaletterari (geli  Ragguagli in Boyancé 1953, 202, n. 1.   Vd. Rothstein 19202 II, 204. 133  Cfr., e.g., Verg. buc. 7, 53: castaneae hirsutae; georg. 3, 231: frondibus hirsutis; 3, 444: hirsuti ... vepres; Colum. 6, 17, 2: hirsutis foliis; 10, 1, 1: hirsuto ... rusco; Ov. met. 10, 103: hirsutaque ... pinus: vd. Th.l.L. s.v., col. 2825, 52 ss. 131 132

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dum nemus / nympharumque leves cum Satyris chori vv. 30‑31), riporta direttamente a Bacco. Satiri, ninfe ed edere partecipano di un repertorio simbolico alquanto convenzionale 134, che spesso si associa e si confonde con il parallelo immaginario iconografico di Apollo protettore e ispiratore di poesia, oltre che dei suoi cortei e dei suoi spazi cultuali 135. In Prop. 4, 1 viene apostrofato Bacco in persona per ricevere il serto d’edera confacente alla veste letteraria indossata dal poeta elegiaco, che in lui vede il proprio ispiratore almeno dopo l’esperienza di 2, 30 e 3, 17, eppure in età augustea di edere esondano tanto sceneggiature metaletterarie, quanto rivelazioni divine, quanto investiture poetiche propriamente dette, quale che sia poi la divinità ad incoronare il cantore di turno in una ripetuta commistione di elementi cultuali diversi. Scenari quali quello evocato in Prop. 3, 3, 27‑36, si chiudono nel segno di edere scelte da una delle Muse per ornare i tirsi (haec hederas legit in thyrsos, haec carmina nervis / aptat, at illa manu texit utraque rosam vv. 35‑36) dopo che si è descritta una grotta verdeggiante dalle cui volte pendono strumenti dionisiaci quali i timpani (orgia Musarum et Sileni patris imago v. 29), grotta indicata al poeta, ambizioso di tentare il poema epico, da un Apollo ammonitore alla maniera callimachea di una poesia tenue (vv. 13‑24). Fondali quali quello disegnato da Verg. buc. 7, 25‑26 contengono l’invito di Tirsi ai pastori a premiare con edera lui stesso poeta crescens, lui destinato ad essere vate (vati futuro v. 28), con un gioco allusivo alla suggestione dionisiaca insita nel­l’idionimo Thyrsis / θύρσος 136. D’altra parte, in buc. 5, 29‑31, il protagonista Dafni, da archegeta bacchico, non solo insegna a guidare i tiasi di Bacco, ma anche a intrecciare i tirsi di edera (et foliis lentas intexere mollibus hastas) 137. In buc. 8, 12‑13, viceversa, intrecciata al­l’alloro l’edera cinge Asinio Pollione collegando le sue vittorie militari al componimento in suo

  Come ritiene Ghiselli 1983, 107.   Cfr. De Falco 1936, 371‑73. 136  Vd. Cucchiarelli 2012, 387. A sé stante il caso di buc. 8, 11‑12 dove fra gli allori della vittoria militare s’insinua serpeggiando l’edera, simbolo della poesia (atque hanc sine tempora circum / inter victricis hederam tibi serpere lauros). 137  Cfr. Cucchiarelli 2011, 239. 134 135

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onore offerto da Virgilio stesso 138. In epist. 1, 3, 25, sia che si dedichi ad affilare la lingua in tribunale interpretando problemi giuridici, sia che scriva un amabile carmen, negli auspici di Orazio a Giulio Floro toccherà in premio l’edera dei vincitori (prima feres hederae victricis praemia). In Ov. am. 3, 9, 61, Catullo si farà incontro a Tibullo morto di recente con le tempie di cinte di edera e in compagnia di Calvo (obvius huic venias hedera iuvenalia cinctus / tempora cum Calvo, docte Catulle, tuo). Se, come si legge in fast. 3, 767: hedera est gratissima Baccho, di edera sarà comunque ricinta Calliope in fast. 5, 79‑80 (tunc sic, neglectos hedera redimita capillos, / prima sui coepit Calliopea chori) allorché offrirà la propria interpretazione del­ l’etimo del mese di Maggio, ma di nuovo a Bacco toccherà essere apostrofato con l’edera, emblema distintivo, che gli adorna le chiome in fast. 6, 483: Bacche racemiferos hedera distincte capillos. E ancora, in trist. 1, 7, 1‑4 il destinatario del­l’elegia sarà pregato di togliere dal busto di Ovidio, collocato in una biblioteca, le corone d’edera (Bacchica serta), perché egli è ormai triste: la pianta che si addice a cingere i poeti gioiosi non può attagliarsi a chi felice non è più (ista decent laetos felicia signa poetas v. 3). Infine, in trist. 5, 3, 15‑16 la ricorrenza della festa in onore di Bacco troverà Ovidio prostrato dal­l’esperienza del­l’esilio, lui che e  sacris hederae cultoribus unus avrebbe meritato appoggio e sostegno da parte del nume.

Nella silloge properziana gli stereotipi tradizionali ricevono un tocco di originalità proprio dal­l’antitesi fra le corone che toccheranno agli antesignani dei corrispettivi generi letterari d’appartenenza. Ma non è tutto, al solo pensare come in 2, 5, 25‑26 il poeta contrapponga, nei rapporti di coppia, alla violenza dello zotico l’urbanità 139 di chi pratica la poesia (rusticus haec aliquis tam turpia proelia quaerat, / cuius non hederae circumiere caput), proprio per questo cinto nelle tempie di una ghirlanda d’edera, sacra a Bacco Musagete. Non tutti possono essere incoronati da serti d’edera ...

  Vd. la nota di commento di Cucchiarelli 2012, 414 ad loc.   Sul tema cfr. Pasoli 1973, 583‑84.

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3. Properzio tra Amore e Libero: duplex ardor La cornice del­l’elegia 1, 3 è ben nota: rientrato ebbro da un convito, il poeta trova Cinzia in preda al sonno 140 e non osa dare sfogo al proprio desiderio, turbandone il riposo. Piuttosto si accontenta di cingerla, mentre dorme, dei fiori della propria ghirlanda, di ricomporne le chiome, di porre furtivamente dei pomi nel cavo della mano, destinati spesso a rotolare per terra. Tutto questo ad onta di una duplice pressione esterna (vv. 13‑18): et quamvis duplici correptum ardore iuberent hac Amor hac Liber, durus uterque deus, subiecto leviter positam temptare lacerto osculaque admota sumere et arma manu, non tamen ausus eram dominae turbare quietem, expertae metuens iurgia saevitiae.

Le reiterate prove della saevitia di Cinzia impediscono a Properzio di svegliarla e di iniziare qualunque schermaglia erotica, tuttavia al centro della scena pulsa l’istinto fisico del­l’amante, trascinato da una parte dal­l’ardore dei sensi, dal­l’altro dai fumi del vino, simboleggiati, rispettivamente, da Amore e da Libero. Siamo ad un passo dalla massima ovidiana di ars 1, 237: vina parant animos faciuntque caloribus aptos, ripresa in rem. 805: vina parant animos Veneri. Nozione acquisita da parte della critica specialistica, quella per cui il testo in oggetto presuppone l’imitazione di Call. A.P. 12, 118, epigramma dove sia il vino puro sia Eros condizionano il comportamento chiassoso del protagonista dinanzi alla φλιήv 141, l’uno tirandolo da un lato, l’altro compromettendone l’equilibrio: Εἰ μὲν ἑκὼν, Ἀρχῖν᾿, ἐπεκώμασα, μυρία μέμφου εἰ δ᾿ ἄκων ἥκω, τὴν προπέτειαν ἔα. ἄκρητος καὶ Ἔρως μ᾿ ἠνάγκασαν· ὧν ὁ μὲν αὐτῶν

140  Delle convergenze con Paul. Silent. A.P. 5, 275 compendio in Enk 1946 II, 32; Fedeli 1980, 109‑10. 141  Che qui si tratti dei battenti della porta, anziché della soglia chiarisce Gow – Page 1965 II, 163.

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εἶλκεν, ὁ δ᾿οὐκ εἴα σὡφρονα θυμὸν ἔχειν. ἐλὼν δ᾿ οὐκ ἐβόησα, τίς ἢ τίνος, ἀλλ᾿ ἐφίλησα τὴν φλιήν· εἰ τοῦτ᾿ ἔστ᾿ ἀδίκημ᾿, ἀδικῶ.

ma se in Prop. 1, 3 sono contestualmente rovesciati l’attacco e la chiusa del modello, il duplice intervento dei due ‘agenti esterni’ permane, rincarato dalla sostituzione del­l’ἄκρητος con il dio cui esso è sacro, Bacco. La cooperazione fra vino ed eros nel­l’indurre poeti e personaggi letterari ad imprese amorose costituisce una convenzione cui poesia tragica, comica, liricoelegiaca ed epigrammatica hanno pagato il proprio obolo tra Grecia e Roma 142 con numerose varianti; nella fattispecie lo spaccato che vede le due divinità dettar legge e agguantare il malcapitato Properzio sottende un minuziosa riscrittura del testo ellenistico testé citato meritevole di riesame. Callimaco consocia dapprima vino puro ed Eros nel­l’imma­ gine della costrizione esercitata su di lui (ἄκρητος καὶ Ἔρως μ᾿ ἠνάγκασαν v. 3), per poi separare le rispettive azioni (ὧν ὁ μὲν αὐτῶν / εἷλκεν, ὁ δ᾿ οὐκ εἴα σώφρονα θυμὸν ἔχειν vv. 3‑4); al contrario, Properzio pone in primo piano la coercizione subita rincarandone l’entità con un costrutto ipotattico capace di sommare al­l’immagine del­l’ ‘imporre’ (iuberent) quella del­l’  ‘afferrare’ (correptum) sotto l’effetto di un duplex ardor trasmesso da un lato da Bacco, dal­l’altro da Cupido, durus uterque deus (v. 14). Al­l’opposizione pronominale greca (ὁ μέν ... / ὁ δ᾿ vv. 3‑4) il testo latino replica con l’antitesi avverbiale intrastichica (hac  ... hac v. 14) intrecciata a due teonimi (Amor ... Liber ibid.) dando vita ad una struttura dicolica bilanciata (avv. + teonimo; avv. + teonimo), in un pentametro il cui secondo emistichio è rappresentato da una pointe di sapore ironicamente sentenzioso (durus uterque deus v. 14) 143. Così, se su traccia virgiliana, durus è nella

  Campionatura di passi in Gow – Page 1965 II, 163; Fedeli 1980, 120.   Per interpretare il valore di durus in tale contesto, Fedeli 1980, 121 richiama l’esempio di Ach. Tat. 2, 3, 3: Ἔρως δὲ καὶ Διόνυσος, δύο βίαιοι θεοί registrato soltanto a mo’ di locus similis da Rothstein 19202 I, 24 e SchulzVanheyden 1969, 166, n. 46. Fuori strada l’interpretazione in chiave oscena del­l’epiteto data da Curran 1966, 199. 142 143

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poesia latina Amore (amore) 144, adesso lo sarà anche Libero, non più tener come in Tib. 2, 3, 63 145. Nel­l’epigramma ellenistico il tema del potere afrodisiaco del vino, noto sin dai tempi di Omero, consente umoristiche rivisitazioni, soprattutto allorché, come nel caso di A.P. 12, 118, il  κῶμος sia effettuato dinanzi la casa del­l’amata 146. Per parte propria, alla tradizionale appendice del simposio, la comissatio, Properzio accenna soltanto pochi versi prima del brano in predicato, descrivendo i propri passi malfermi dovuti al molto vino bevuto (ebria cum multo traherem vestigia Baccho v. 9) 147 e la compagnia dei tedofori a notte fonda (et quaterent sera nocte facem pueri v. 10) 148. Fedeli osserva come alla base della descrizione del poeta ubriaco, affiancato da pueri provvisti di torce, stiano probabilmente le simili, diffuse rappresentazioni in poesia e nelle arti figurative di Bacco accompagnato da tedofori 149, un’ipotesi, questa, tesa a valorizzare l’atmosfera ebbra e scomposta dello sfondo in cui la figura del dio, metonimicamente e pragmaticamente 150, risulta dominante, quantomeno nella sezione iniziale del testo. Infatti, la lunga notte di bagordi, almeno nel­ l’immaginario di Cinzia tardivamente destata dai raggi lunari, dovrebbe aver annoverato un’altra fase, quella del tradimento (iniuria) 151, conclusa la quale il poeta sarebbe ritornato da lei (vv. 35‑38):   Mi riferisco a Verg. georg. 3, 259; Aen. 6, 442.   Sia detto per inciso, nel­l’elegia latina Bacco apparirà ancora appaiato ad Amore in Ov. am, 1, 2, 48: tu gravis alitibus, tigribus ille fuit. 146  Trattazione in Giangrande 1968, 127‑35. 147  Raccolta di loci similes in Enk 1946 II, 36. 148  Di segno opposto la sceneggiatura iniziale di 2, 29a in cui il poeta vaga ubriaco, privo della scorta di tedofori: ne ho trattato in Landolfi 2008, 135‑40. 149  Seguo qui Fedeli 1980, 119. 150  Fedeli 1980, 119 sottolinea infatti come l’uso di Bacchus al posto di vinum non costituisca solo una metonimia comune, non trattandosi di una semplice sostituzione, bensì di un modo efficace di rappresentare poeticamente le antiche credenze panteistiche per le quali «il dio abitava nelle cose stesse a cui era preposto». Dello stesso avviso Richardson 2007, 154: «The name of  the god put for his province, as commonly in P.». 151  Opinione di Rothstein 19202 I, 81, quella per cui Properzio tornerebbe tardi da Cinzia perché impegnato in un paraklausithyron in onore di un’altra donna sorda alle sue profferte. Come ha ben dimostrato Fedeli 1980, 131, il ritratto che la domina disegna del poeta ritardatario rinvia invece ad un’impresa erotica andata a segno: languidus al v. 38 allude infatti alla spossatezza fisica, improbe 144 145

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‘ tandem te nostro referens iniuria lecto alterius clausis expulit e foribus? namque ubi longa meae consumpsti tempora noctis, languidus exactis, ei mihi, sideribus? ...’

In successive riprese appare l’immagine della notte inoltrata (sera  ... nocte v. 10; longa  ... tempora noctis v. 37; exactis  ... sideribus v. 38) in cui Properzio finalmente rientra, contempla Cinzia e poi ascolta le sue lagnanze. L’arco temporale precedente è stato occupato da brindisi e dal­l’eros consumato con un’altra: tra ricordi personali e sospetti di un’amante gelosa, al suo risveglio, si delinea una serata fatta di piaceri che però non trova felice conclusione nel­l’amplesso con Cinzia. Quantunque Amore e Bacco abbiano afferrato il poeta imponendogli di portare a termine un’impresa erotica, come svela l’accostamento di due tessere inequivocabili, il verbo temptare impiegato nel­l’accezione di subigitare al v. 15 e il nesso sumere ... arma al v. 16, metafora sessuale variamente attestata nella lingua elegiaca 152, la complicità dei due numi non produce l’effetto previsto: se ancora, non interamente privato del controllo delle proprie facoltà, Properzio prende ad avvicinarsi al letto di Cinzia, via via l’azione del desiderio e del vino svanisce dinanzi alla prospettiva di turbare il riposo di lei addormentata, sicché l’innamorato ripiega su approcci di estrema delicatezza ed eleganza (vv. 21‑26), ma solo allorché avrà distolto il proprio sguardo dalla domina, fisso come quello del mitico Argo su Io (vv. 19‑20). L’apostrofe finale di quest’ultima dai toni prima risentiti, poi languorosi, ribalta l’immagine della saeva Cynthia in quella di un’eroina che inganna il tempo del­l’attesa del proprio uomo tessendo, così come prescrivono i modelli epici omerici 153, e, al contempo, suonando la lira 154 o lamentandosi, così come al v. 39 è un chiaro rimando al­l’infedeltà, come il nesso externo in amore del v. 44 trasmette l’idea di una relazione con una rivale, con la quale gli incontri dovevano essere lunghi e frequenti (longas saepe ... moras v. 44). 152  Vd. ancora Fedeli 1980, 121‑22. 153  Elena in Il. 3, 125‑26; Circe in Od. 10, 221‑23; le Ninfe in Od. 13, 107‑08. 154  Si ricordino altresì le menzioni di Cinzia che suona la lira in 2, 1, 9‑10; 3, 20.

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prevede il canone elegiaco 155. Non sempre le ingiunzioni e la forza di due divinità, fossero anche Amore e Libero, risolvono l’incontro fra due amanti in un amplesso ... Ad ogni modo è singolare che la loro duplice spinta non rifletta una lotta per la supremazia sul cuore del­l’innamorato, come capiterà invece in Ov. ars 1, 231‑36, un ritratto di ambientazione conviviale dove Amore cerca di avere la meglio sul rivale in una giocosa teomachia, subendone poi i tentativi di rivalsa 156: saepe illic positi teneris adducta lacertis purpureus Bacchi cornua pressit Amor: vinaque cum bibulas sparsere Cupidinis alas, permanet et capto stat gravis ille loco. ille quidem pennas velociter excutit udas: sed tamen et spargi pectus amore nocet.

4. Bacco, Febo e l’ispirazione poetica La distinzione abituale tra le sfere d’ispirazione poetica pertinenti a Bacco e a Febo, l’uno preposto principalmente alla poesia concitata e grandiosa, l’altro a quella composta e armoniosa, l’uno sorgiva di canto ditirambico e tragico, l’altro fonte di canto epico e lirico-elegiaco, non sembra preoccupare Properzio allorché in 3, 2, 9 le due divinità vengono mobilitate insieme quali protettrici della vena che induce la turba puellarum a venerare le sue parole. Il passo in cui si dispiega il proclama è popolato da simboli metaletterari, da personaggi emblematici legati alla potenza fascinatrice della poesia, da Orfeo visto trattenere con la lira tracia le fiere ed arrestare la corsa dei fiumi in piena (vv. 4‑5), ad Anfione ricordato per aver radunato con la lira le pietre sì che innalzassero spontaneamente le mura di Tebe (vv. 5‑6), a Polifemo citato per aver indotto Galatea a volgere ai suoi carmi i cavalli marini (vv. 7‑8) 157.

155   Sulle Heroides come poesia del lamento femminile basti il rinvio a Rosati 1989, 5‑46. 156  Rimando al commento al passo di Baldo – Cristante – Pianezzola 1991, 216‑18. 157  I riscontri mitografici dei tre quadri sono raccolti nel commento di Fedeli 1985, 93‑97.

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Nessuno stupore dunque, se con il favore di Apollo e Bacco il poeta elegiaco possa ora ottenere tanto riscontro presso le giovani (vv. 9‑10): miremur, nobis et Baccho et Apolline dextro 158, turba puellarum si mea verba colit?

Il successo ottenuto da Properzio andrà ascritto alla benevolenza delle due divinità e alle tematiche da lui stesso affrontate, tematiche erotiche, diversamente da quanto toccherà in sorte ad Ovidio, pronto a sollecitare l’attenzione delle puellae ai suoi versi che il fulgido Amore va dettando (am. 2, 1, 37‑38): ad mea formosos vultus adhibete puellae carmina, purpureus quae mihi dictat Amor.

Nello spazio elegiaco la protezione congiunta di Bacco e Febo si verifica sporadicamente, e non è neanche detto che ad essi non si accompagnino le Pieridi. Il tentativo di individuare eventuali archetipi della coppia Dioniso-Apollo in poesia greca ha già dato qualche frutto se Kambylis 159 è riuscito ad individuare un precedente nel fr. 477 K del Licimnio euripideo (δέσποτα φιλόδαφνε Βάκχε, παιὰν Ἄπολλον εὔλυρε) dove figurano, insignite di epiteti ornanti, le due divinità che, per Macrobio, restitutore del passo, addirittura coinciderebbero 160, né più né meno che in Aesch. fr. 341 R. (ὁ κισσεὺς Ἀπόλλων, ὁ βακχειόμαντις). Nella propria raccolta Ligdamo amplierà tale bina con l’aggiunta delle Muse in 4, 43‑44 (Casto nam rite poetae / Phoebus et Bacchus Pieridesque favent), facendo pronunciare una solenne apostrofe ad Apollo in persona il quale appare in sogno per ammonire il castus poeta del­l’infedeltà di Neera (vv. 51‑60). Un motivo particolare legittima l’epifania del nume e il suo annunzio: né Bacco né le nove sorelle, privi del dono della preveggenza, potrebbero rivelare il futuro immediato, dato che   Sul­l’uso di dexter in relazione a divinità cfr. Rothstein 19202 II, 16.   Rapido schizzo sulle ascendenze tragiche della giustapposizione DionisoApollo in Kambylis 1965, 167. 160  Idem Euripides in Licymnio Apollinem Liberumque unum eundemque deum esse significans scribit. Di tutt’altro tenore il cenno a Dioniso posto in rapporto con le Ninfe sul monte Elicona in Soph. Oed. Rex 1105‑08 menzionato da Kambylis 1965, 170. 158 159

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Giove ha concesso solo a Febo di conoscere le leggi del fato e gli eventi a venire (vv. 45‑48) 161. Accanto al­l’elenco delle malefatte e delle reali intenzioni del­l’amante fedifraga, un lungo prontuario ‘terapeutico’ dettato dal dio aiuterà poi l’innamorato tradito a riconquistare la fedeltà di Neera coronandola con le nozze (vv. 63‑81). A sua volta, Ov. am. 1, 3, 11‑12 allargherà ulteriormente l’associazione tra Bacco e Apollo nelle proprie profferte amorose, surrogando nobili ascendenze con ben più nobili protettori artistici agli occhi della fanciulla per cui spasima (at Phoebus comitesque novem vitisque repertor / hac faciunt et me qui tibi donat Amor). E ancora, in ars 3, 347‑48 la terna rappresentata da Febo, Bacco e le Pieridi dovrà concedere l’immortalità alle opere create dal poeta, ossia l’Ars, gli Amores e le Heroides, opere che un lettore abituale avrà consigliato di frequentare (O ita, Phoebe, velis, ita vos, pia numina vatum, / insignis cornu Bacche novemque deae!) 162. Per quanto attiene a Prop. 3, 2, il testo appare marcato da un taglio metaletterario percepibile sin dal­l’attacco, dove il programmatico ritorno al cerchio della consueta poesia (carminis interea nostri redeamus in orbem 3, 2, 1), dopo l’esaltazione della figura del poeta sacerdos pronunciata nel­l’elegia proemiale del terzo libro – ribadito dal triplice esempio priamelico di contenuto mitico – garantisce il successo del­l’impresa artistica. La fanciulla, toccata dal canto abituale, abbia a compiacersene (v. 2) e il poeta non si stupisca se, con il favore di Bacco e Apollo, lo stuolo delle fanciulle venera le sue parole (vv. 9‑10). A distanza di tempo, in 4, 6, 75‑76 verranno invitati la Musa a stimolare l’ispirazione dei poeti assopiti e Bacco, ipostasi del vino, ad assecondarne l’attività protetta da Apollo (ingenium potis irritet Musa poetis: / Bacche, soles Phoebo fertilis esse tuo) 163 in un fondale boschivo animato da conviti sontuosi. L’auspicio formulato da Properzio coinvolge per prima la Musa, poi Bacco, 161   Sed proles Semeles Bacchus doctaeque sorores / dicere non norunt, quid ferat hora sequens. / at mihi fatorum leges aevique futuri / eventura pater posse videre dedit. 162  Terna riformulata in tetrade con la menzione di una delle Pieridi in ps.Verg. Cat. 9, 59‑60 (nos ea quae tecum finxerunt carmina divi, / Cynthius et Musae, Bacchus et Aglaie). 163  Dettagliatissimo il commento al passo di Fedeli in Fedeli – Dimundo – Ciccarelli 2015, 888-89.

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da ultimo Febo, la triade di cui si parlava poc’anzi a proposito di Ligdamo, ma il lettore non tarda ad accorgersi del significativo scarto tra i due contesti, non foss’altro che per il differente scenario, non più onirico né profetico, bensì metaletterario, al cui interno si annuncia il canto di temi epici da parte di svariati poeti. E riguardo al distico seguente Fedeli lucidamente annota come «I vv. 75‑76 non costituiscono un distico di transizione, in cui solo formalmente il congiuntivo con valore iussivo è sullo stesso piano dei precedenti: ora si capisce che Properzio immagina un simposio di poeti e che l’invito a mescere vino nel v. 73 serviva a preparare il lettore alla presenza determinante di Bacco accanto ad Apollo, quale divinità ispiratrice di poesia. La constatazione che Bacco suole essere fecondo per Apollo (v. 76) fa capire che i poeti riuniti a banchetto non sono aquae potores alla maniera callimachea, ma vini potores; encomiastici e bellici, d’altronde, sono tutti i loro argomenti di canto che esigono un’ispirazione robusta, quale soltanto il vino può dare. Di ciò i poeti latini erano ben consapevoli, tanto che Orazio poteva affermare che Ennius ipse pater numquam nisi potus ad arma / prosiluit dicenda (Epist. 1,19,7‑8)» 164. Considerata la fisionomia del­l’elegia properziana, secondo me è molto probabile che qui il poeta umbro si sia ispirato a Call. Iamb. 1, 7‑8 Pf. (Διω]νύσου /]τε Μουσέων αἱ [ ]. Ἀπόλλωνος) 165. Senza aver la pretesa di dirimere una questione forse insolubile, direi con Nisbet – Hubbard: «It is clearly relevant that in Augustan age Bacchus was treated by the poets as a source of  inspiration» 166 alla stregua di Apollo sovrapponendo o addirittura ribaltando le consuete, tradizionali sfere d’influenza. Le due divinità godono di ruolo affine nel­l’ispirare i poeti, al di là del genere cui per convenzione inveterata dovrebbero sovrintendere singolarmente. Così avviene anche per gli scenari tipici delle loro epifanie o per la congrega delle Muse, spesso compagna di Bacco anziché di Apollo come, sin dalla produzione greca arcaica, ci si sarebbe aspettato che fosse. Ad ogni modo, la diade divina riapparirà in 4, 2, 31‑32 dove   In tali termini Fedeli 2015, 888-89.   Consuntivo in Fedeli 2015, 889. 166  Nisbet – Hubbard 1978, 315. 164 165

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la straordinaria capacità di assumere forme svariate permette al dio Vertumno di ricoprire ora il ruolo del­l’uno, ora quello del­l’altro con relativi attributi iconografici: cinge caput mitra, speciem furabor Iacchi; furabor Phoebi, si modo plectra dabis

costituendo, secondo la DeBrohun 167, un’ulteriore implicazione programmatica rispetto al­l’elegia iniziale del IV libro, che ribadisce la compresenza della duplice ispirazione divina nel disegno della nuova raccolta. Passiamo ora ad un esempio di inferenza, ossia ad un fondale dionisiaco che indica in ogni suo dove la presenza tutelare del dio di riferimento ...

5. Rupi e grotte: l’habitat bacchico delle Muse Che per l’immaginario cultuale greco Dioniso prediligesse aggirarsi fra i monti testimonia Anacr. 14, 5 G. (= 357, 4 P.) con il rincalzo di Soph. Oed. Rex 1105‑06: l’oribasia 168 costituisce infatti uno dei suoi tratti peculiari ed epiteti quali ὀρειφότης o φιλοσκόπελος non lasciano incertezze sui luoghi in cui ama aggirarsi. In poesia latina basterà evocare il caso di Hor. c. 2, 19, 1 (remotis ... rupibus) per avere immediata nozione del fondale in cui si verificano le epifanie di Bacco, tuttavia anche le grotte 169, spazi tradizionalmente deputati a teofanie ed a investiture letterarie, non gli sono affatto estranei, anzi. Istruttivo l’esempio di Prop. 3, 3, l’elegia in cui Febo impone al poeta di abbandonare le velleità epiche e di ridimensionare la propria vena compositiva, considerando come il sentiero tappezzato di muschio rivelato dal plettro eburneo del dio conduca ad una grotta che di apollineo serba ben poco, rivelando invece un aspetto tipicamente dionisiaco (vv. 27‑36): hic erat affixis viridis spelunca lapillis, pendebantque cavis tympana pumicibus,   Vd. DeBrohun 2003, 101‑02.   Su cui segnalo Jeanmaire 1972, 180 ss. 169  Cfr. Luck 1957, 175‑79. 167 168

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orgia 170 Musarum et Sileni patris imago fictilis et calami, Pan Tegeaee, tui; et Veneris dominae volucres, mea turba, columbae tingunt Gorgoneo punica rostra lacu; diversaeque novem sortitae iura Puellae exercent teneras in sua dona manus: haec hederas legit in thyrsos, haec carmina nervis aptat, at illa manu texit utraque rosam.

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Come in 2, 30b, 25‑27 ricorre l’associazione fra antri e Muse, ma adesso la descrizione non investe più i canti della congrega divina 171, bensì le pareti interne della grotta e le attività delle Pieridi stesse sotto il segno di Bacco. Non solo i cembali, strumenti sacri alla divinità, pendono dalle cave pomici: pendono anche le zampogne consacrate a Pan, divinità legata al culto e ai cortei dionisiaci, e fa bella mostra di sé l’immagine di Sileno padre, altra presenza scontata in una Bacchusszenerie 172. Improvvisamente alla cornice eliconia del­l’esordio del­l’elegia subentra una spelonca disseminata di simboli bacchici, sicché con un effetto di dissolvenza, Apollo e i siti a lui legati svaniscono per poi riapparire, obliquamente, mediante il nesso Gorgoneo ... lacu (v. 32) con il quale si allude alle scaturigini dal­l’Ippocrene 173 del­l’acqua in cui le colombe bagnano il becco. D’altronde non si può sottovalutare come in terra greca Dioniso, le Muse e l’Elicona avessero costituito un trinomio non peregrino, del che ci dà conferma Soph. Oed. Rex 1105‑09 174. L’intrusione di tasselli dionisiaci nella topotesia properziana viene doppiata dal ritratto delle Muse colte in una serie di attività la prima delle quali precorsa da una delle menadi nelle Bacchae euripidee (vv. 1054‑57) 175. Un’osmosi iconografica sovrintende alla 170  Sulla correzione di Heinsius del tràdito ergo in orgia vd. la messa a punto di Fedeli 1985, 138‑39. 171  Si ricordi l’invito del poeta a Cinzia a intrattenersi con lui nei rorida muscosis antra ... iugis (v. 26). 172   A riguardo basti rileggere le pagine di Maass 1986, pp. 382‑85; Rothstein 19202, 24‑26; Kambylis 1969, 162‑73; Fedeli 1985, 137‑40; Álvarez Hernández 1997, 225‑28. 173  Cfr. Fedeli 1985, 141‑42. 174  Εἴθ᾿ ὁ Βακχεῖος θεὸς ναί- / ων ἐπ᾿ ἄκρων ὀρέων εὕ- / ρημα δέξατ᾿ ἔκ του / Νυμφᾶν Ἡλικωνίδων, αἷς / πλεῖστα συμπαίζει. 175  Un accenno in Maass 1896, 383, n. 1.

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‘bacchizzazione’ delle Pieridi: rispetto al θυρσοκομεῖν (αἱ μὲν γὰρ αὐτῶν θύρσον ἐκλελοιπότα / κισσῷ κομήτην αὖθις ἐξανέστεφον vv. 1054‑55) del testo greco, Properzio coglie il momento in cui una delle Muse raccoglie l’edera destinata a incoronare i sacri vincastri (haec hederas legit in thyrsos 3, 3, 35). Comunque, già l’annuncio dei vari compiti cui ciascuna delle nove fanciulle attende ricalca moduli euripidei, posto che in Bacch. 1052‑53 leggiamo: ἔνθα μαινάδες / καθῆντ᾿ ἔχουσαι χεῖρας ἐν τερπνοῖς πόνοις e in Prop. 3, 3, 34: exercent teneras in sua dona manus, eppure il testo elegiaco intende acquisire rapidamente una propria autonomia iconica, come rivela il dittico costituito da una Musa che adatta canti alle corde della lira e da un’altra che intreccia rose (vv. 36‑37). Proprio in questo scenario Calliope intimerà al poeta di non oltrepassare i confini del­l’elegia aspirando a temi e metri epici a lui estranei e di rimanere saldamente legato a tropi e sceneggiature erotiche (vv. 39‑50): il gesto del­l’aspersione conclusiva delle labbra Philitea ... aqua (v. 52) 176, consacra Properzio a poeta elegiaco nel segno di Filita di Cos, maestro di Callimaco e, insieme a questi, venerato maestro del­l’Assisiate (3, 1, 1).

6. Cibele: apparizioni fugaci E veniamo adesso a Cibele e alla sua presenza nella raccolta properziana, molto contenuta a dire il vero. In sequenza, la prima comparsa della dea si verifica nella già ricordata 3, 17 a conclusione del corteo che celebrerà Bacco (vv. 35‑36): vertice turrigero iuxta dea magna Cybebe tundet ad Idaeos cymbala rauca choros.

Essenziali i contrassegni che ne significano, per convenzione, la fisionomia e il corteo: la corona turrita, i cembali, le danze sul­ l’Ida, il monte sacro alla Magna Mater, come prevede l’immagina176  Che rinvia a 3, 1, 6, l’interrogativo del poeta ai Mani di Callimaco e Filita: quamve bibistis aquam? E non si dimentichi che in un antrum non identificato i due hanno filato il sottile ordito dei loro versi (dicite, quo pariter carmen tenuastis in antro? v. 5). Ben ponderata l’interpretazione del pannello data da Quadlbauer 1968, 89.

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rio cultuale e poetico fissato, in età repubblicana, soprattutto da Catullo e Lucrezio. L’associazione tra Dioniso e Cibele tradizionale in suolo greco – come si ricordava in precedenza discutendo di Pind. dith. 70, 6 ss. Sn.; Eur. Bacch. 72‑82, destinata a riapparire a breve lasso di tempo in Col. 10, 1, 217‑24 – viene qui riproposta valorizzando in scala ridotta espedienti fonosimbolici già esperiti nel c. 63 177 e nel brano di de rer. nat. 2, 600‑60 dedicato alla Gran Madre. Da rilevare, quantomeno, l’omeoark­ton in verticale (Cybebe / cymbala), gli omeoptoti a contatto e a ponte (dea magna; cymbala rauca; Idaeos ... choros), le allitterazioni endocentriche dissimilate (vertice turrigero) e qualche particolarità linguistica, come il ricorso al­l’epiteto arcaizzante in -ger 178 per designare la corona muraria che orna il capo della dea 179. Ça va sans dire, la lezione stilistica dei due ‘modelli’ suona prescrittiva per Properzio, anche quando, in ben altro contesto, la memoria poetica si presta a opportuni ritocchi condotti sul filo delle assonanze e delle riprese letterali o paraletterali. Dinanzi ad un incipit tormentato, quale quello di 3, 22, 1‑4: Frigida tam multos placuit tibi Cyzicus annos, Tulle, Propontiaca qua fluit isthmos aqua, Dindymus et sacra fabricata in vite Cybebe, raptorisque tulit quae via Ditis equos?

dove gli editori oscillano, al v. 3, fra Dyndimus e Dindymis, pur nella significativa distinzione fra oronimo 180 e epiteto cultuale 181 non può non emergere trasversalmente l’Ohrenerinnerung incrociata di Cat. c. 35, 14 (Dindymi dominam) e c. 63, 91 (dea domina Dindymi), quest’ultima distintamente appaiata al teonimo della Magna Mater (dea, magna dea, Cybebe) nel galliambo immediatamente precedente dove, metri causa, occupa la sede excipitaria del verso mentre nel­l’esametro properziano costituisce la sillaba   Un accenno in Mader 1994, 378‑79 e n. 34.   Turrigera sarà detta Cibele in Ov. fast. 4, 224 (variazione in turrifera al v. 219); 6, 321; Stat. Ach. 2, 61. 179  Cfr. Fedeli 1985, 536 ad loc. 180  Si pensi a Verg. Aen. 10, 252: alma parens Idaea deum cui Dindyma cordi; Ov. fast. 4, 249‑50: Dindymon et Cybelen et amoena fontibus Iden / semper et Iliacas Mater amavit opes. 181  Ricostruisce puntualmente le fasi della querelle Fedeli 1985, 632. 177 178

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finale del­l’arsi del quinto piede e lo spondeo del sesto. Anche altrove, la pur rapida menzione della divinità ricade sotto l’influsso cogente di Catullo e Lucrezio. Così avviene in 4, 7, 61‑64, al cui interno non più di un distico viene riservato a Cibele e agli strumenti canonici del suo rito, mentre traspare il lascito della lezione fonosimbolica del c. 64 e della processione lucreziana della Magna Mater: ecce coronato pars altera rapta phaselo, mulcet ubi Elysias aura beata rosas, qua numerosa fides, quaque aera rotunda Cybebes mitratisque sonant Lydia plectra choris.

Se al v. 61 si accetta la correzione in margine al Paris. Lat. 8233 (μ) aera rotunda, sembra che Properzio non devii dalla consuetudine di riprodurre in poesia dotta il rimbombo degli strumenti cibelici, coniando la clausola (in paracacemphaton) sul­l’esempio di Call. fr. 761 Pf. (παταγεῖται καὶ χάλκεα κρόταλα), già ereditato da Cat. c. 63, 21 (ubi cymbalum sonat vox) e da Lucr. 2, 619‑20 (tonant  ... et cymbala circum / concava). Sebbene Richardson osservi che la cacofonia di Prop. 4, 7, 61 e il ‘senso di confusione’ del­l’intero distico potrebbero essere mirati, in quanto in 3, 17, 36 ricorre già il nesso cymbala rauca 182, direi che il precedente più calzante della clausola in oggetto resta Cat. c. 64, 262 (tereti ... aere), dove spicca la tornita rotondità del metallo con cui gli strumenti vengono realizzati e da cui emettono tenues tinnitus, un’idea che nel passo properziano in oggetto ribadisce la rifinitura del bronzo degli strumenti stessi, senza sacrificare l’allusione alla loro struttura sferica da cui proviene il suono rituale. Un caso a sé stante potrebbe considerarsi invece il cameo di 4, 11, 51‑52 dove al lettore è ricordato per sommi capi l’arrivo del simulacro della Grande Madre a Roma nel 205‑04 a.C. evocando Claudia Quinta, celebre per aver disincagliato dalle secche del Tevere la nave che trasportava a Roma la statua della divinità 183. L’intarsio dotto pertiene alla prosopopea di

182  Cfr. Richardson 2006, 459 ad loc. Sul verso in oggetto vd. la nota di commento di Dimundo 1990, 171‑72. 183  Com’è noto, Liv. 29, 11, 7 parla di un sacer lapis ritenuto dai Frigî l’immagine della dea, mentre nei Fasti Ovidio menzionerà esplicitamente una

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Cornelia defunta, fiera di non aver arrecato detrimento ai trofei della sua stirpe, certa di non aver provocato onta a nessuna donna che si sia seduta al suo fianco, neppure a due eroine di controversa nomea. Di séguito il brano in oggetto (vv. 49‑54): quamlibet austeras de me ferat urna tabellas, turpior assessu non erit ulla meo, vel tu, quae tardam movisti fune Cybeben, Claudia, turritae rara ministra deae, vel cui, sacra suos cum Vesta reposceret ignes, exhibuit vivos carbasus alba focos.

L’apostrofe alla matrona, che tramite un gesto devoto riscatta la propria reputazione da una condotta giudicata troppo disinvolta per condizione e genere d’appartenenza 184, affonda le proprie radici in una tradizione storica documentata da Liv. 29, 14, 142; Ov. fast. 4, 307‑08; Suet. Tib. 2, 3: qui il semplice gesto di Claudia Quinta (tardam movisti fune Cybeben v. 51) precorre Ov.  fast. 4, 325 (dixit et exiguo funem conamine traxit) e 327 (mota dea est) dove alle due immagini si interpone il commento del poeta che ricorda come del fatto si sia serbato riflesso nelle drammatizzazioni teatrali allestite nei Ludi Megalenses (mira, sed et scaena testificata loquar v. 326) 185. Un gesto talmente esemplare da ottenere istantaneamente l’assenso della dea e il reintegro della castità contestata alla matrona 186 per assicurarle, in prospettiva, il ricordo dei posteri. L’ingiusto discredito e il ritrovato credito di Claudia Quinta interessano relativamente a Properzio, non preoccupato più di tanto alle sorti dei modelli etici femminili di Roma repubblicana in rapporto al­l’arrivo di divinità straniere: anche il paradigma contiguo, quello della vestale Emilia

imago divae (4, 317): sul­l’opportunità della variante ovidiana vd. Labate 2010, 230‑31. 184  Sul­l’episodio ovidiano dei Fasti intervengono, da ultimi, Fucecchi 2010, 80‑91; Labate 2010, 230‑42. 185  Cfr. Ov. fast. 4, 187 e il commento ad loc. di Fantham 1998, 128‑29, oltre a Barchiesi 1994, 184. 186  Vd. Ov. fast. 4, 305‑06: casta quidem, sed non et credita: rumor iniquus / laeserat; 327: mota dea est sequiturque ducem laudatque sequendo. Sul­l’articolazione del racconto ovidiano informa bene Fucecchi 2010, 86‑89.

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(4, 11, 53‑54), rea di aver fatto spegnere il fuoco sacro 187, pronta però a riattizzarlo ponendo il proprio lino più prezioso sul­l’altare e dimostrando così la preservazione del­l’integrità fisica impostale dal sacerdozio, serve solo a suffragare l’elogio della specchiata moralità di Cornelia, non altro. Modelli storicamente documentati di irreprensibilità muliebre comprovata da eventi straordinari, la matrona e la vestale, con il loro privilegiato rapporto con la sfera del divino testimoniano una condotta che dicerie correnti o estemporanea trascuratezza del proprio officium non potranno intaccare. Nella fattispecie la figura di Cibele presuppone nel destinatario del­l’elegia consapevolezza degli estremi delle vicende ricordate, oltre che consapevolezza del ruolo di garante ‘etico’ che la dea riveste per i fedeli dopo l’arrivo del suo simulacro a Roma nel 205‑04 a.C.

7. Iside: trascorsi ‘ingombranti’ I riti isiaci inibiscono i rapporti amorosi: il periodo in cui le  dominae elegiache sono impegnate nelle cerimonie sacre alla dea egizia, oggetto di culto a Roma a partire soprattutto dal­ l’età sillana 188, prescrive castità assoluta sino al termine delle stesse. Se in Tib. 1, 3, 23‑26 la preservazione della purezza di Delia non giova al poeta, costretto da una malattia ad una tormentata sosta a Corcìra – anziché venir ricompensato da Iside per la devozione della puella –, se in Ov. am 1, 8, 74 le fanciulle adducono a pretesto i riti isiaci per sottrarsi ai rapporti erotici come in Prop. 4, 5, 33‑34, se in Ov. am. 3, 9, 34 a Delia e a Nemesi, amate da Tibullo, dopo la sua scomparsa non giovano né i riti isiaci, né i sistri egizi, né l’aver dormito da sole nel letto vuoto, addirittura in Prop. 2, 33a i sollemnia che hanno luogo solo una volta l’anno, celebrando la morte e resurrezione di Osiride, vengono designati anfibologicamente con l’epiteto tristia, connesso non solo al­l’occorrenza religiosa e alla sua radice cultuale, bensì, anche al­l’astinenza fisica cui la coppia elegiaca è tenuta per dieci notti (Cynthia iam noctes est operata decem v. 2). Proprio l’anadiplosi verticale di iam sottolinea la rapidità con cui   Vd. Dion. Hal. 2, 68; Val. Max. 1, 1, 7.   Apul. met. 11, 30.

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la ricorrenza si ripresenta insieme al divieto di qualunque genere di intimità. L’ironica allure del distico iniziale diviene sulfurea non appena Properzio lancia la maledizione contro quei riti che Iside/Io, ipostasi di sincresi cultuale, ha inviato dal­l’Egitto a Roma (vv. 3‑4): atque utinam pereant, Nilo quae sacra tepente misit matronis Inachis Ausoniis!

Con una movenza ‘anatematica’ 189, ecco aprirsi lo scacchiere geo­grafico che occupa il resto del secondo distico: Nilo vs. Ausonia, o, più esplicitamente, Egitto vs. Roma. Colpito dalla maledizione del poeta, il lettore quasi non si avvede della sagace collocazione dei membri del periodo, in cui il sostantivato sacra incide il nesso Nilo  ... tepente, mentre il patronimico Inachis 190 incide a sua volta il nesso omeoptotico matronis 191  ... Ausoniis, retto dal­l’allitterante misit, in un costrutto dove gli epiteti preziosi ricoprono l’intera campata del secondo hemiepes del pentametro, a riprodurre provenienza e destinazione dei sacra stessi. Certo, Inachis, con la sua giacitura così rilevata, non lascia trapelare per il momento il prosieguo del testo dove i furta Iovis di cui Io è stata vittima strideranno con la purezza imposta alle seguaci di Iside nel­l’occorrenza delle sue liturgie. Infatti Properzio non tarda ad insistere sulla separazione forzata degli amanti bramosi per i quali la dea risulta sempre crudele (quaecumque illa fuit, semper amara 192 fuit v. 4) e gioca volutamente sul­l’identità e sulle assimilazioni cultuali di Iside, sui suoi numerosi epiteti 193, traducendo il canonico ὅστις ποτ᾿ ἐστίν dal­l’innografia greca 194, dopo aver costretto una clausola di matrice catulliana quale cupidos  ... amantis (c.  70, 3) ad un’inversione semantica dal punto di vista pragmatico, dato che il desiderio fisico degli   Per il cui uso in poesia latina cfr. Navarro Antolín 1996, 450.   Già utilizzato in 1, 3, 20 e di lì a poco reimpiegato da Ov. met. 1, 611; 9, 687. 191   Sul­l’impiego del lemma matronae nel contesto specifico vd. Fedeli 2005, 925 ad loc. 192  In merito alla scelta del­l’epiteto amarus rinvio alle notazioni di Reitzenstein 1936, 53 e n. 58. 193  Riguardo alla πολυωνυμία di Iside vd. Miller 1982, 106 e n. 9. 194  Cfr. Norden 1913, 144‑45. 189 190

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innamorati viene frustrato da una separazione coatta, esterna alle loro reali intenzioni e, per di più, troppe volte ripetuta (totiens v. 5). Ma Iside/Io che impone l’astinenza sessuale a chi non vorrebbe sottoporvisi non ha trascorsi casti: l’umorismo properziano non risparmia espressioni pungenti a colei che ha soddisfatto le intemperanze fisiche di Giove patendo per questo la metamorfosi in vacca pretesa da Giunone come riparazione ai tradimenti subiti 195, metamorfosi dottamente ricordata anche in 3, 22, 35‑36. In soli quattro versi (vv. 7‑10) il poeta elegiaco salda gli estremi di una vicenda rivitalizzata di lì a poco da Ov. met. 1, 568‑670; 728‑47 mantenendo, sulle generali, i medesimi nodi diegetici, rovesciando però lo hysteron-proteron del predecessore e riordinando la successione degli eventi rispetto alla triade ‘vagabondaggio di Io (met. 1, 724‑30), metamorfosi (1, 610‑12), perdita della parola (1, 637‑38)’. Se la ricorsività non costituisce cifra peculiare della poetica properziana, è pur vero che in 2, 33a, 7‑10 assistiamo alla riproposizione di un mito già trattato in 2, 28, 17‑18 dove al lettore vengono ricordate la trasformazione (parziale) 196 di Io in vacca durante la giovinezza, l’emissione di muggiti da parte sua, la divinizzazione dopo i trascorsi nilotici da giovenca (Io viene assimilata a Iside). D’altronde, come c’informa il successivo episodio delle Metamorfosi ovidiane, sulle rive del Nilo Io riacquisterà prima sembianti umani 197, per diventare in successione di tempo dea venerata linigera ... turba (met. 1, 747) 198. Al di là dello humor che impregna di sé l’intera elegia, Properzio mostra di far tesoro della lezione della poe195   Paragonata alla vulgata abbracciata anche da Ov. met. 1, 610‑11, secondo la quale la metamorfosi di Io è operata da Giove, Properzio seleziona la variante meno diffusa della punizione diretta di Giunone, riproposta in 3, 22, 35‑36, proveniente da Aesch. Suppl. 291 (vd. Enk 1962, 423; Fedeli 2005, 927). 196  Per quanto concerne il valore del­ l’espressione versa caput del v. 17, che alluderebbe alla metamorfosi della testa di Io e non a tutta la sua figura, Fedeli 2005, 794 richiama giustamente le testimonianze iconografiche antiche che comprovano l’esistenza di raffigurazioni antropomorfe di Io, dal corpo di donna, ma dal capo bovino insignito di corna. Anche in Ov. met. 1, 611 il sintagma vultus mutaverat può riferirsi alla trasformazione della sola testa del­l’eroina. 197  Da considerare anche il distico di Ov. her. 14, 107‑08. 198  Linigera è Iside in am. 2, 2, 25, in sostanza come in Tib. 1, 3, 30: lino tecta; linigera ... iuvenca è nesso che, in riferimento a Iside, ricorre in ars 1, 77.

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sia neoterica, come svelano i vv. 11‑12 dove l’accenno al volto segnato dalle fronde di quercia nel vagabondare e al nutrimento a base di arbusti (a quotiens 199 quernis laesisti frondibus ora, / mandisti ‹et› stabulis arbuta pasta tuis!) 200 viene riplasmato su di un esametro della Io di Calvo (fr. 9 Bl.): a virgo infelix, herbis pasceris amaris

un verso, questo, tenuto presente anche in met. 1, 632 (frondibus arboreis et amara pascitur herba) a proposito della ninfa ormai tramutata in giovenca che si pasce di fronde ed erbe. Da una cornice patetica, con un brusco mutamento di tono Properzio passa ad apostrofare la dea per chiederle se ormai non sia diventata per caso superba dacché Giove le ha restituito l’antico aspetto (vv. 13‑14). La riconquista del­l’identità perduta ha forse mutato Io, dimentica del­l’agrestis figura assunta a séguito del­l’adulterio con il padre degli dèi: adesso, da perseguitata, è lei a perseguitare gli amanti, in un paradossale avvicendamento di ruoli, divenuti da passivi attivi. Il duplice corredo mitografico relativo alla dea nilotica diviene serbatoio prezioso per l’imprevedibile tirata umoristica del poeta. In successione, gli ironici apprezzamenti di Properzio si estendono al­l’ingiustificata introduzione del culto isiaco a Roma (vv. 15‑16), un culto che non a caso Ottaviano vieterà al­l’interno del pomerium nel 28 a.C., e che nel 21 a.C. Agrippa, in sua assenza, bandirà insieme ad altri culti di provenienza alessandrina a un chilometro e mezzo dalla città. L’anafora verticale della particella an (vv. 13 e 15), variata dal quidve del v. 17, segnala il ritmo incalzante degli interrogativi posti a Iside con un soffocante impiego del pronome tibi (vv. 15, 16, 17, 18) che, nel­l’apparente rispetto del Du-Stil, finisce per stravolgere il senso del­l’apostrofe alla divinità risolvendola in una raffica di rimbrotti sul suo proselitismo,

Liniger è il grex che cinge il sacerdote di Osiride in Iuv. 6, 533, come Acoreo liniger in Luc. 10, 175. 199  Incipit squisitamente ovidiano, come dimostrano am. 2, 19, 11 e 13; 3, 1, 53; her. 5, 49; 9, 79; 16, 241 e 243; 17, 81; ars 1, 313; 2, 125 e 567; 3, 481; trist. 1, 3, 51 e 53; Pont. 1, 1, 7, per limitarsi alla produzione in distici. 200  Aggiornato status quaestionis della trad. manoscritta e degli interventi sul v. 12 in Fedeli 2005, 928.

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sulla sua venuta a Roma, sul­l’inopinata astinenza fisica imposta alle donne 201. L’Egitto e i fusci ... alumni (v. 15) 202 non sembrano soddisfare più Iside, così come le lunghe peregrinazioni di Io non ancora divinizzata sono doppiate dalla longa  ... via (v. 18) percorsa per giungere a Roma 203. Inspiegabile, poi, il gusto provato nel far dormire da sole le donne (v. 19) ... Alle recriminazioni seguono le minacce del poeta stesso che, giocosamente, prospetta alla dea un nuovo imbestiamento o un bando dalla città, adottando un tono falsamente confidenziale (v. 18) 204: sed tibi, crede mihi, cornua rursus erunt, aut nos e nostra te, saeva, fugabimus urbe.

In realtà una serie di duri atti repressivi aveva caratterizzato le vicissitudini dei culti isiaci a Roma a partire dal 58 a.C. quando, come narra Tert. apol. 6, 8, sotto il consolato di Pisone e Gabinio erano stati banditi insieme a quelli di Serapide ed Arpocrate, e, di nuovo nel 53 a.C. e nel 48 a.C., come ricorda Dio Cass. 40, 47, 3 e 42, 26, 2, sino alle già menzionate date del 28 a.C. quando Augusto li esclude dal pomerio (τὰ μὲν ἱερὰ τὰ Αἰγύπτια οὐκ ἐσεδέξατο εἴσω τοῦ πωμηρίου Dio Cass. 53, 2, 4) e del 21 quando Agrippa li confina ad un chilometro e mezzo dalla città, dopo aver scoperto sul nascere e represso i moti sediziosi legati al loro ritorno nel­l’Urbe (Dio Cass. 54, 6, 6). A ribadire il legame che stringe i Romani alla propria città milita la compresenza del pronome personale nos e del possessivo noster nel­l’attacco del v. 19 prima della cesura semiquinaria (aut  nos e nostra te, saeva, fugabimus urbe), dopo la quale si profila l’immagine della dea minacciata dal poeta stesso: da un lato sta il popolo romano solidale nel­l’avversione a Iside e nel bando ai suoi riti, dal­l’altro la dea crudele (te, saeva), messa in fuga e obbligata a tornare nelle sedi di provenienza, compiendo al­l’inverso la longa via

  D’altronde in 4, 5, 33‑34 Acantide, la ruffiana, non si trattiene dal raccomandare nella propria ‘didascalica’ erotica: Denique ubi amplexu Venerem promiseris empto, / fac simules puros Isidis esse dies. 202  Sul nesso, il punto in Enk 1962, 424 ad loc. 203  Vd. ancora Enk 1962, 422 ad loc. 204  Crede mihi, formula già presente in Lucil. 797 M., si ripropone in Prop. 1, 2, 7; 2, 5, 29; 11, 3; 26c, 53; 3, 9, 31; 19, 2; 10, 3. 201

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che l’ha portata a Roma. Se il Nilo aveva costituito il luogo della retrometamorfosi di Io e della sua assunzione al rango di divinità col nome di Iside, ora costituirà la meta prefissa in cui ella dovrà tornare: dopo le multae ... viae espiatorie, una longa ... via verso l’Urbe e, infine, mutato di vettore, l’identico tragitto alla volta del­l’Egitto. Quel­l’Egitto che, a distanza di tempo, costituirà sede di pellegrinaggio da parte delle devote stigmatizzate da Iuv. 6, 526‑29, pronte ad abbandonare il tempio di Iside presso il Campo Marzio per attingere dalla torrida Meroe l’acqua utile alle aspersioni in aede / Isidis (vv. 528‑29), obbedendo ai dettami di Io (si candida iusserit Io v. 526), motore del fanatismo religioso. In Prop. 2, 33a un gioco di specchi contrassegna la storia di Iside/Io, tenuto conto che, come l’autore dichiara con esplicitezza (v. 20): cum Tiberi Nilo gratia nulla fuit.

Migliore giustificazione di ordine ideologico per spiegare l’inimicizia che separa Egitto ed Italia non si sarebbe potuta escogitare: la proverbiale ostilità che contrappone il Tevere e il Nilo 205 si giocherà pure sul filo di slogans politici pre-aziaci, aziaci e post-aziaci 206, ma, nella fattispecie, cortocircuita nel­ l’accostamento studiato dei due idronimi rovesciato figurativamente e idealmente dal secondo emistichio del pentametro: gratia nulla fuit. A raffronto i commenti segnalano il passo di Prop. 3, 11, 42 dove riappare la giuntura a contatto et Tiberim Nili (scil. cogere ferre minas) 207, eteroptotica rispetto a quella appena ricordata, ma pur sempre racchiusa nella prima metà del pentametro d’appartenenza. L’affinità della Wortstellung garantisce la germinazione di un emistichio dal­l’altro, tuttavia in 2, 33a l’inimicizia fra i due fiumi parrebbe siglata dal­l’umiliazione in­flit­ta al ‘Nilo’, simbolo stesso del regno tolemaico, nel corteo trionfale del 29 a.C., evento i cui echi si colgono in Prop. 2,

  Sul tema indugia Lucifora 1999, 29.   Si pensi al ritratto del­l’Egitto, dolis aptissima tellus, in Prop. 3, 11, 35. 207  E.g. cfr. Rothstein 19202,  349; Enk 1962, 426; Fedeli 2005, 931; Richardson 2006, 310. 205 206

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1, 31‑32 (aut canerem Aegyptum et Nilum, cum attractus in urbem / septem captivis debilis ibat aquis) 208. Ad ogni modo, terminata la decade consacrata a Iside, il poeta si augura un ripetuto amplesso con Cinzia che possa ripagarlo adeguatamente (vv. 21‑22) 209: la dea, infatti, è stata troppo placata dal dolore del poeta 210 per poter prorogare i suoi interdetti. Ancora una riflessione. Gli accenti prima ironici, poi sferzanti con cui Properzio si rivolge ad Io/Iside sembrano in certa misura rovesciati dai Realien della Roma mondana e edonista rievocata a breve dal­ l’Ovidio degli Amores. In 2, 2, 25‑26, il poeta intima al­l’eunuco Bagoo 211: nec tu linigeram fieri quid possit ad Isin quaesieris, nec tu curva theatra time.

Per l’affluenza stessa degli spettatori, cerimonie isiache e spettacoli teatrali favoriscono i rapporti amorosi contravvenendo al­l’organigramma della castità, intimato alle seguaci della dèa, contro cui la poesia elegiaca suole vibrare i propri strali. Ma a prolungare il senso del­l’operazione demistificatoria condotta da Properzio nei rispetti di culti e credenze connessi alla dea nilotica sta la constatazione disincantata del­l’Ovidio del­l’Ars, al cui dire (1, 77‑78), il seduttore non dovrà dimenticare tra i luoghi più idonei alla conquista i templi egizi della giovenca dalla veste di lino, capace di rendere le donne facili prede degli uomini, come ella stessa fu per Giove 212: nec fuge linigerae Memphitica templa iuvencae multas illa facit quod fuit ipsa Iovi.

208  Vd. la nota al passo di Fedeli 2005, 69‑70. Scrive Panessa 1987, 729: «In questi casi la rappresentazione del N. aveva non soltanto un significato d’immediata identificazione geografica degli sconfitti, ma anche quello di colpire nel simbolo stesso la dinastia che aveva ‘creato’ il personaggio Nilo». 209   Cfr. Reitzenstein 1936, 54. Si ricordi peraltro come in 2, 28, 61, Cinzia venga invitata a rendere grazie a Iside/Io per esser scampata ad una malattia temibile con un periodo di castità assoluta, dopo il quale dovrà consacrare ‘dieci’ notti alle voglie del­l’amante (v. 62). 210  Sul che vd. Lefèvre 1966, 148. 211  Cfr. il commento di McKeown 1998, 40. 212  Cfr. peraltro Ov. ars 3, 393; 633‑38.

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8. Anubi e Azio Un’ultima divinità orientale popola l’immaginario teologico ‘esotico’ della silloge properziana, Anubi. Si tratta di una presenza estemporanea, ma in linea con la pubblicistica relativa alla battaglia d’Azio 213, come dimostra peraltro l’analoga menzione del dio tanto in Verg. Aen. 8, 698‑700, quanto in Rabir. Carmen de bello Actiaco, fr. 5, v. 8 Garuti. Gemellato ad Iside/Io in Ov.  am. 2, 13, 11 214, il nume κυνοπρόσωπος viene invariabilmente designato dal verbo latro e dai suoi derivati: latrantem ... Anubim in Prop. 3, 11, 41 215, latrator Anubis in Verg. 8, 698 e in Ov. met. 9, 690 216. Le sue funzioni di psychopompos lo assimilano ad Hermes, sotto la maschera sincretica di Hermanubis 217, e, d’altra parte, in Apul. met. 11, 11, egli appare come horrendus  ... superum commeator et inferum, nunc atra, nunc aurea facie, sublimis, attollens canis cervices arduas ... laeva caduceum gerens, dextera palmam virentem quatiens. Se in Aen. 8, 698 Anubi è schierato alle spalle di Cleopatra, colei che nel­l’immaginario romano l’ha introdotto nel­l’Urbe 218, insieme ad omnigenumque deum monstra contro la triade rappresentata da Nettuno-Venere-Mi­ nerva, la scelta non sarà dovuta al caso: un dio funerario egizio accompagna la regina destinata a morire di lì a poco, al­l’oscuro del fatto che alle sue spalle si agitino già due serpi, preannuncio del­l’imminente suicidio (necdum etiam geminos a tergo respicit anguis v. 697). Come nel poema epico, anche in Prop. 3, 11 lo scontro aziaco è rievocato quale scontro in cui si fronteggiano divinità opposte: se nel primo caso, sullo scudo di Enea gli dèi olimpici militano accanto ad Ottaviano (8, 678‑80), a difesa di Antonio e Cleopatra si schierano gli dèi egizi, tra i quali spicca 213  Sul tema cfr. già Paladini 1958, 9. Equilibrato inquadramento del problema in Cristofoli 2005, 204. 214  Come sottolinea il commento di McKeown 1998, 283 ad loc.: «Isis dog(-headed) companion». 215   Latrans, ricorda Fedeli 1985, 379 è epiteto diffuso di Anubi, cfr. Avien. Arat. 283; Querol. 31, 6; Prud. Apoth. 196. 216   Su cui, da ultimo, vd. Kenney 2011, 473 ad loc. Sulla particolare luce con cui il dio è presentato da Ovidio epico si ponderino i giusti rilievi di Rosati 2009, 286. 217  Così Donadoni 1984, 211, ma vd. già Malaise 1972, 209 e n. 3. 218  Cfr. Prud. C. Symmach. 2, 355 su cui Malaise 1972, 211 e n. 4.

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Anubi, tutore dei defunti. Ma, significativamente, nel testo elegiaco è la stessa meretrix regina (v. 39) ad osare opporre al Giove romano il latrante Anubi e a costringere il Tevere a subire le minacce del Nilo (vv. 41‑42) 219: Cleopatra chiude il catalogo di esempi muliebri di dominio sul­l’uomo che annovera Medea, Pentesilea, Onfale e Semiramide 220, riassumendo quei connotati negativi riscontrabili nei paradigmi precedenti (le usanze orientali, il potere che schiavizza, la bellicosità, la bellezza, lo status regale) 221 e incarnando la minaccia del­l’Oriente sul­l’Oc­ cidente con quanto ciò comporta sui piani politico, sociale, etico e religioso. «But the construction of  Cleopatra the woman-monstrum was made easier by the many stereotypes of  Egypt as the land of  marvels and paradoxes, and the very quintessence of  eastern vices», osserva Rosati 222. A mia volta aggiungerei soltanto che in questo pannello la presenza di Anubi, il dio che cumula in sé connotati zoomorfi e antropomorfi, s’inserisce perfettamente: una presenza emblematica, la sua, di quel­l’Egitto terra di mostri e di creature inverosimili alla cui divulgazione la letteratura paradossografica aveva contribuito e avrebbe contribuito non poco. In Properzio Cleopatra/Iside campeggia insignita dello strumento-principe di culto della divinità di cui si professa ipostasi terrena (νέα Ἴσις Plut. Ant. 54, 9), il sistro, laddove in Verg. Aen. 8, 696 (regina in mediis patrio vocat agmina sistro) il medesimo strumento è impiegato da Cleopatra per radunare le proprie truppe. Ma l’emblema isiaco non servirà alla regina a respingere le schiere romane così come la protezione del dio infero non le servirà ad avere la meglio sui nemici: i serpenti che nel­l’epos virgiliano si stagliano alle spalle della sovrana ignara della fine ormai prossima, nel­l’elegia properziana spiccano   L’espressionismo properziano si allinea con i toni con cui Hor. c.  1, 37, 6‑10 descrive il folle progetto politico di Cleopatra ai danni di Roma, ma mobilita tutto il corredo simbolico dei luoghi egizi emblema di degrado morale. 220  Una penetrante lettura del catalogo in oggetto dà Gazich 1995, 226‑34. Ulteriori osservazioni stimolanti in Lucifora 1999, 53‑59. 221  Il punto più recente sul­ l’iconografia e il ruolo di Iside nel mondo ellenistico-romano nel volume curato da Bricault – Versluys 2010 (è annunziato sub prelo un volume ad opera degli stessi curatori, Bricault – Versluys 2013, su potere, politica e culti di Iside). 222  In Rosati 2009, 284. 219

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durante la cerimonia del trionfo di Ottaviano (spectavi v. 53) per la quale, come sappiamo, fu prevista la realizzazione di una statua simile a Cleopatra provvista di un’aspide, a imperitura memoria della sua morte 223. Sulla base del­l’analisi sinora effettuata, emerge con chiarezza come nel­l’immaginario poetico properziano le divinità d’Oriente, con il relativo corredo di culti, simboli e miti, non rappresentino altrettante occasioni per riflettere sul valore politico-religioso del loro arrivo a Roma, in connessione con il cangiante scenario storico in cui, progressivamente, fanno il proprio ingresso. Quasi come se restassero ai margini del Pantheon romano, senza intaccarne sostanzialmente la fisionomia, esse si prestano ad arricchire il serbatoio iconografico del poeta elegiaco, specie laddove una tradizione letteraria li abbia già consacrati al ruolo di divinità ispiratrici del canto (è il caso di Bacco) offrendo l’opportunità di riconfigurare scenari di investiture poetiche, dichiarazioni di intenti compositivi, polemiche letterarie o professioni di μετάβασις εἰς ἄλλο γένος. Nel caso in cui (come per avviene per Cibele), la loro identità e la loro ricezione tra le divinità legate al mito della fondazione di Roma o dello stemma genealogico del princeps ne ispessisca, di necessità, il rilievo e la figura, possono prestarsi a paradigmatiche epifanie, collegate a personaggi di spicco della storia quiritaria, dei quali ratificano la statura morale o la dedizione ai compiti cui sono preposti (Claudia Quinta; la vestale Emilia). Laddove (come occorre a Iside/Io) esse rappresentino un ostacolo specifico alla conduzione del rap­porto amoroso, imponendo divieti e restrizioni alla coppia, l’umorismo properziano non esita a mobilitare certi trascorsi ‘imbarazzanti’ della divinità di turno per svuotare di credito la rete di proibizioni cui i fedeli sono tenuti a sottostare come ad un rigido Diktat. È questo il momento in cui, eccezionalmente, qualche eco delle coeve polemiche politico-religiose faccia la sua comparsa nella silloge properziana, ma pur sempre in modo sottile, schermato dal tono giocoso e ammiccante del­ l’autore. Infine, allorché Properzio intenda descrivere l’evento epocale che ha visto schierati l’uno contro l’altro Oriente ed   Cfr. Plut. Ant. 86; Dio Cass. 51, 21, 8.

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Occidente presso il promontorio aziaco, inevitabilmente le figurazioni delle divinità orientali, con il loro carico ominoso di mostruosità e prodigi (il riferimento va al­l’emblematico Anubi), restano ancorate al­l’immaginario corrente sagacemente co­strui­to ed enfatizzato dalla pubblicistica pre-aziaca, aziaca e post-aziaca. Ma le intenzioni ‘politiche’ e ‘apologetiche’ del Properzio laudator principis si arrestano qui. Ogni deduzione ulteriore suonerebbe come indebita e deviante.

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L. LANDOLFI

Santini 2004 (a) = C. Santini, Bacco nel sistema dei segni del terzo libro dei Fasti e oltre, in L. Landolfi (a cura di), Nunc teritur nostris area maior equis. Riflessioni sul­l’intertestualità ovidiana. I Fasti, Palermo 2004, pp. 9‑24. Schulz-Vanheyden 1969 = E. Schulz-Vanheyden, Properz und das griechische Epigramm, Inaug.-Diss. Münster 1969. Scott 1929 = K. Scott, Octavian’s Propaganda and Anthony’s «De sua ebrietate», «CPh» 24, 1929, pp. 133‑41. Seaford 1977‑78 = R. Seaford, The “Hyporchema” of  Pratinas, «Maia» 29‑30, 1977‑78, pp. 81‑94. Solmsen 1968 = Fr. Solmsen, Three Elegies of  Propertius’ First Book, in Id., Kleine Schriften II, Hildesheim 1968, pp. 283‑98. Stok 1999 = F. Stok, Opere di Publio Ovidio Nasone. IV. I Fasti e i frammenti, Torino 1999. Swoboda 1977 = M. Swoboda, De Propertii elegiis hymnos imitantibus, «Eos» 65, 1977, pp. 131‑38. Wimmel 1960 = W. Wimmel, Kallimachos in Rom. Die Nachfolge seines apologetischen Dichtens in der Augusteerzeit, Wiebaden 1960. Zanker 2003 = P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, tr. it. Torino 2003.

Abstracts Nei riguardi delle divinità orientali l’elegia di Properzio assume un atteggiamento di distacco ideologico piuttosto marcato, tanto più significativo in quanto, ad es., la figura di Bacco/Dioniso aveva trovato sia nella produzione bucolica sia in quella didascalica di Virgilio, oltre che nella lirica oraziana, significativa accoglienza negli anni in cui Ottaviano andava costruendo la propria immagine politica e traeva dal battage antoniano icone e simboli da introdurre al­l’interno della propria pubblicistica. La ripetuta presenza del dio tracio nella raccolta di Properzio diviene pertanto occasione preziosa per imbastire soprattutto sceneggiature metaletterarie o evocare quadri di investiture poetiche. Anche per quanto concerne Cibele, dea destinata a far parte dei cognata numina della gens Iulia, Properzio finisce per accordarle uno spazio ristretto, riservato alla descrizione di cerimonie orgiastiche o, viceversa, di memorie antiquarie connesse a figure emblematiche della storia repubblicana, quali Claudia Quinta o la vestale Emilia. Per quanto attiene ad Iside, la connessione con il personaggio di Cleopatra, νέα Ἶσις, predispone il poeta al­l’impiego di accenti ironici e polemici, in linea con la tradizionale avversione

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DÈI D’ORIENTE, MITI D’ORIENTE: ICONE E SIMBOLI NELLA POESIA DI PROPERZIO

romana nei confronti del­l’Egitto e dei suoi dèi (i cui aspetti teratologici colpiscono in particolar modo l’immaginario dei Romani, specialmente nel caso di Anubi), sfumandone gli estremi tramite il cenno alla castità imposta dai riti isiaci alla puella e risolvendo in un’apparente dissidio personale con la divinità nilotica gli echi di una ben più ampia e profonda presa di distanza del regime nei suoi stessi confronti. In his Elegies Propertius distances himself  ideologically from the eastern gods, mostly because, for instance, the representation of  Bacchus/Dionysus can be easily found in Virgil’s Bucolics as well as in his Georgics and also in Horace’s lyric poetry, while Octavianus was dedicating himself  to build his own political image up, by drawing from the Antony’s battage icons and symbols to be introduced in his propaganda. The repeated presence of  the Thracian god provides the poet with precious chances to create some meta-literary scenes or to evoke some tableau of  poetic investiture. As far as Cybele is concerned, goddess destined to take part in the gens Iulia’s cognata numina, Propertius reserves a limited space for her, dedicated to the description of  orgiastic rites or, vice versa, of  ancient memories linked to emblematic characters of  the Roman Republican history, such as Claudia Quinta or the vestal Aemilia. As for Isis, her connection with the character of  Cleopatra, νέα Ἶσις, leads the poet to give a polemic touch of  irony to his verses, in line with the Roman traditional aversion to Egypt and its gods (whose teratological features strike the Romans, especially when it comes to talking about Anubis), rounding the edges by means of  the hint of  the chastity imposed on the puella by the rites of  Isis and solving in an apparent personal strife with the Nilotic deity the echoes of  a wider and deeper distance of  the regime from her. Keywords: Bacco, Cibele, Anubi

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ROSA ALBA DIMUNDO Bari

CINZIA E LE EROINE DEL MITO

1.  L’impiego degli inserti mitologici e dei richiami esemplari, che costituiscono i termini di riferimento di una ‘realtà’ lette­ raria, in Properzio ha un ruolo che, senza esprimere tendenza al­l’erudizione, risulta preponderante anche in rapporto al­l’uso limitato della digressione mitica in Catullo o in Tibullo; nei versi properziani la mitologia è «una specie di luce dai colori piuttosto vari, attraverso cui viene visto quasi tutto, dal passato al presente, dalla vita quotidiana alla vita politica» 1. In una poetica dedicata in massima parte alla donna amata, inoltre, non sorprende che, sin dalla fase iniziale del­l’innamoramento, nobilitata in 1,1 dal­ l’esempio di Milanione ed Atalanta, gran parte delle vicende mitiche utilizzate da Properzio sia destinata a illustrare le alterne vicende del suo rapporto con Cinzia, attraverso «procedimenti di accostamento o di alternanza, scoperti meccanismi di climax o, al contrario, accorte tendenze al­l’anticlimax» 2. Il ricorso sistematico ai miti celebri di eroine che affollano l’epi­ca, la tragedia e la lirica consente a Properzio di limitarsi a un semplice accenno – un nome o un patronimico – per indurre subito il lettore a ricordare la vicenda mitica complessiva e al tempo stesso a coglierne le immancabili variazioni. Ciò si verifica in particolare quando gli esempi sembrano conformi solo in parte al dato da esemplificare e il poeta affida al suo destinatario il com­ pito di individuare legami più profondi con il modello evocato. 1   L’osservazione è di La Penna 1977, p. 196; ma sul­l’importanza che alla mi­ tologia attribuisce Properzio si erano già espressi Boucher 1965, p. 240 e Lieberg 1969, p. 311; p. 344. 2  Lo afferma Fedeli 2004, p. 233.

Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 183-208 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112119

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In tale prospettiva si colloca il caso di 1,15,1‑24, in cui l’exemplum di Calipso ha lo scopo di chiarire l’importanza del valore imperituro del foedus amoris. Saepe ego multa tuae levitatis dura timebam, hac tamen excepta, Cynthia, perfidia. Aspice me quanto rapiat fortuna periclo! Tu tamen in nostro lenta timore venis; et potes hesternos manibus componere crines et longa faciem quaerere desidia, nec minus Eois pectus variare lapillis, ut formosa novo quae parat ire viro. At non sic Ithaci digressu mota Calypso desertis olim fleverat aequoribus: multos illa dies incomptis maesta capillis sederat, iniusto multa locuta salo, et quamvis numquam post haec visura, dolebat illa tamen, longae conscia laetitiae. Nec sic Aesoniden rapientibus anxia ventis Hypsipyle vacuo constitit in thalamo: Hypsipyle nullos post illos sensit amores, ut semel Haemonio tabuit hospitio. Coniugis Evadne miseros elata per ignes occidit, Argivae fama pudicitiae. Alphesiboea suos ulta est pro coniuge fratres, sanguinis et cari vincula rupit amor. quarum nulla tuos potuit convertere mores, tu quoque uti fieres nobilis historia.

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Per la prima volta nel Monobiblos il poeta dedica ampio spazio al motivo della perfidia della donna amata; mentre Properzio versa in una situazione di estremo pericolo, Cinzia si preoc­ cupa del­l’acconciatura, del trucco e persino degli accessori del­ l’abbigliamento, come se dovesse recarsi dal novus vir (vv. 1‑8). Diverso fu il comportamento di Calipso che si disperò dopo il distacco da Ulisse, di Ipsipile che si angosciò per la par­ tenza di Giasone, di Evadne che si suicidò sul rogo funebre del marito e di Alfesibea che uccise i fratelli per vendicare lo sposo (vv. 9‑16 3). Nel catalogo properziano le quattro vicende mitiche 3   Si accetta qui il testo edito da Fedeli 1984, che colloca il distico 15‑16 dopo il v. 22; sulla trasposizione cfr. Fedeli 1980, p. 345; Heyworth (2007; 2007a, p. 67) espunge il distico.

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non si succedono con «intensificazione progressiva» 4, ma attra­ verso una dilatazione graduale del­l’exemplum 5, perché sviluppano a coppia il motivo della constantia (Calipso / Ipsipile) e della fides (Evadne / Alfesibea), che Cinzia oltraggia con il suo compor­ tamento disinvolto. Negli ultimi due esempi, per di più, la fides coniugale induce le due donne a compiere atti estremi, perché Evadne si getta sul rogo del marito e, nel ricordo del marito, Alfesibea arriva a rinnegare i legami di sangue. Tra le quattro figure femminili Calipso è quella che ha rice­ vuto le cure maggiori da Properzio: lo confermano i sei versi che tratteggiano un ritratto della ninfa ricco di dettagli. Il pro­ tagonista maschile del­l’esempio omerico – almeno apparente­ mente – ha il suo corrispettivo in Properzio, perché al viaggio del mitico eroe, che si allontana dalla più che sicura isola di Ogigia, corrisponde il periclum menzionato da Properzio al v. 3. Cambia, invece, la funzione del­l’esempio in relazione a Cin­ zia, che di Calipso è il perfetto rovesciamento. L’esemplarità antitetica, segnalata sin dal­l’apertura da at non sic, continua con Ithaci digressu m o t a C a l y p s o (v. 9), che rinvia per contrarium al v. 4 tu tamen in nostro l e n t a timore v e n i s . Se poi Cinzia non perde tempo a curare il suo aspetto, a cominciare dai capelli (v. 5 h e s t e r n o s ... c r i n e s ), Calipso si trascura per molti giorni (v. 11 multos ... dies). Il particolare properziano dei capelli in disor­ dine di Calipso – che, in una prospettiva rovesciata, risente forse del modello omerico, in cui la ninfa è costantemente caratteriz­ zata dal­l’epiteto formulare εὐπλόκαμος – è conforme al topos della ‘bellezza negletta’, che accomuna quasi tutte le eroine abbando­ nate o sfortunate – come l’Aretusa properziana o la Laodamia ovidiana 6 – e avvalora il processo di elegizzazione 7, a cui Pro­ perzio sottopone il personaggio omerico «mediante il prelievo,

  Così Gazich 1995, p. 83, secondo cui i primi due esempi sarebbero de­ dicati a «due amicae, preziose, ma abbandonate dopo un più o meno lungo sog­ giorno», mentre gli altri due verterebbero su due coniuges. 5  Cfr. Fedeli 2004, p. 243. 6  Come sottolinea Roggia 2011, p. 109, trascurare il proprio aspetto per l’assenza o la partenza del­l’amato riconduce alla figura di Arianna, la relicta per antonomasia (cfr. Catull. 64,63; 68‑70) e «la mancanza di cura è [...] segno di autenticità in chi si trova impreparato ad un arrivo inaspettato». 7  Il riferimento è al lavoro di Benediktson 1985, pp. 17‑26. 4

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l’assemblaggio e l’esasperazione di possibili tratti ‘elegiaci’» 8. Il segno più evidente del­l’avvenuta riconversione elegiaca di Calipso trapela proprio dal suo ruolo di eroina abbandonata, che rivolge al mare un lungo lamento (v. 12 iniusto multa locuta salo). A Calipso Properzio concede non solo un ampio spazio, ma anche una nuova personalità: la donna che, abbandonata da Odisseo, si dispera sulla spiaggia deserta, infatti, non ha alcun corrispettivo nel racconto omerico (Od. 5,203 sgg.), in cui, dopo l’iniziale resistenza – che contraddistingue l’innamorato costretto dagli dèi a lasciar andare l’amato (esemplare, in tal senso, è la Didone virgiliana) – Calipso obbedisce al­l’ordine impartitole da Hermes e arriva al punto da promettere il suo aiuto a Ulisse (vv. 137‑44). Ma, a guardar bene, i tratti patetizzanti della storia della bella ninfa emergono sin dal racconto omerico e poco importa che lì essi non connotino il personaggio femminile. Con un significa­ tivo scambio di ruoli rispetto al­l’elegia properziana, infatti, nel contesto epico è Odisseo ad indossare i panni di chi, disperato e querulo, sulla riva deserta è intento a guardare «il mare infe­ condo», quasi a prefigurare l’atteggiamento del­l’amante elegiaco, che dialoga afflitto con la natura muta, come in 1,17,2 nunc ego desertas adloquor Alcyonas: οὐδ’ ἄρ’ Ὀδυσσῆα μεγαλήτορα ἔνδον ἔτετμεν, ἀλλ’ ὅ γ’ ἐπ’ ἀκτῆς κλαῖε καθήμενος, ἔνθα πάρος περ, δάκρυσι καὶ στοναχῇσι καὶ ἄλγεσι θυμὸν ἐρέχθων πόντον ἐπ’ ἀτρύγετον δερκέσκετο δάκρυα λείβων. Ἑρμείαν δ’ ἐρέεινε Καλυψώ, δῖα θεάων, 85 ἐν θρόνῳ ἱδρύσασα φαεινῷ σιγαλόεντι (Od. 5,81‑86).

Le caratteristiche antieroiche del personaggio epico – tanto più sorprendenti se si considera che Odisseo qui fa il suo ingresso sulla scena del poema – suggeriscono a Properzio particolari significativi da utilizzare nella rappresentazione di Calipso: così fleverat (v. 10) ricalca δάκρυα λείβων (Od. 5,84), sederat (v. 12) rinvia a ἐπ’ ἀκτῆς ... καθήμενος (Od. 5,82), dolebat (v. 13) ricorda ἄλγεσι θυμὸν ἐρέχθων (Od. 5,83). L’inversione dei ruoli incide anche sulla valenza esemplare attivata dal mito nel contesto ele­   Gazich 1995, p. 84.

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giaco, perché se nel modello epico Odisseo incarna l’esempio migliore di fides coniugale, determinato com’è ad allontanarsi da Calipso per ritornare dalla sua Penelope, nella ‘ricodificazione’ elegiaca – si capisce ex silentio – si mostra insensibile al dolore della sua amata, così come Cinzia nei confronti di Properzio; da parte sua, invece, la Calipso properziana è il migliore esempio di fedeltà, anche contro ogni ragionevole evidenza 9. Nel delineare l’immagine della donna che, abbandonata sulla riva deserta del mare, rivolge il suo lamento alle onde, oltre a Omero e a una probabile fonte alessandrina, Properzio guarda anche a un altro modello, tutt’altro che ininfluente: l’Arianna catulliana, prototipo di tutte le desertae, e non solo di quelle ele­ giache, infatti, è personaggio che risponde perfettamente alle «esigenze di adattamento del mito epico in un genere lettera­ rio diverso, qual è quello della poesia erotica» 10. I tratti comuni ai due personaggi femminili (Arianna / Calipso), oltre al rap­ porto di chiara allusività, consentono di scorgere il meccanismo della variazione properziana, che talora perviene a un distanzia­ mento radicale dal modello. Sin dal­l’inizio della descrizione del mito sulla preziosa col­ tre nuziale, dopo l’iniziale sconvolgimento emotivo, Catullo dà grande rilievo al motivo della desolazione di Arianna (64,55‑56 utpote fallaci quae tum primum excita somno / d e s e r t a m i n   s o l a m i s e r a m s e cernat h a r e n a ), che Properzio concentra nella ‘iunctura’ desertis ... aequoribus (v. 10), in cui l’aggettivo è anche trasposizione metaforica della condizione di Calipso. Al partico­ lare della bellezza trascurata per il dolore devastante Catullo dedica un’ampia sezione 11, compendiata da Properzio nella ‘iunctura’

9   Sul rapporto tra il contesto properziano e quello omerico, inserito nella prospettiva di riconversione elegiaca del­l’ipotesto epico si sofferma Piazzi 2013, pp. 229‑30. 10 Fedeli 1992, pp. 253‑54; anche la Didone virgiliana in Aen. 4,475 costituiva un nobile modello; il motivo verrà accolto, tra gli altri, da Ovidio nella patetica storia di Alcione e Ceice (Met. 11,463 sgg.) – dove probabilmente riprende Nicandro – e in Her. 12,55 sgg. (Ipsipile). 11  Cfr. Catull. 64,63‑70 non flavo retinens subtilem vertice mitram, / non contecta levi velatum pectus amictu, / non tereti strophio lactentes vincta papillas, / omnia quae toto delapsa e corpore passim / ipsius ante pedes fluctus salis alludebant. / Sed neque tum mitrae neque tum fluitantis amictus / illa vicem curans toto ex te pectore, Theseu, / toto animo, tota pendebat perdita mente.

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incomptis  ... capillis (v. 11). Oltre al pianto disperato, il dolore del­l’abbandono induce Arianna a salire angosciata sulle balze dei monti o a correre incontro ai marosi (vv. 124‑29); in questo caso la Calipso elegiaca prende le distanze dal personaggio catulliano, perché il suo dolore è composto e dignitoso, come si capisce da sederat (v. 12), in forte rilievo grazie alla collocazione incipitaria e al­l’‘enjambement’. Arianna rivolge ai flutti un lungo e dolente discorso, in cui si susseguono tumultuosamente ricordi nostal­ gici e forti imprecazioni (vv. 132‑201); ben diverso è il tono della lunga apostrofe di Calipso, dove alla trepidazione provo­ cata dal rischioso viaggio per mare (v. 12 iniusto ... salo), suben­ tra il ricordo dei lunghi anni di felicità trascorsi con Odisseo (v. 14 longae conscia laetitiae), mentre il futuro, che gli accenti di vendetta di Arianna prefigurano a Teseo colmo di sventure, per Calipso si riassume nella certezza dolorosa della propria infelicità (v. 13 et quamvis numquam post haec visura, d o l e b a t ). Nonostante l’identità delle tracce mitologiche di ascendenza omerica (Calipso) e apolloniana (Medea), diversa da quella di 1,15 è la valenza esemplare attivata dal personaggio di Calipso in 2,21,3-18: Sed tibi iam videor Dodona verior augur? Vxorem ille tuus pulcher amator habet! Tot noctes periere: nihil pudet? Aspice, cantat liber: tu, nimium credula, sola iaces. Et nunc inter eos tu sermo es, te ille superbus dicit se invito saepe fuisse domi. Dispeream si quicquam aliud quam gloria de te quaeritur: has laudes ille maritus habet. Colchida sic hospes quondam decepit Iason; eiecta est: tenuit namque Creusa domum. Sic a Dulichio iuvene est elusa Calypso: vidit amatorem pandere vela suum. A nimium faciles aurem praebere puellae, discite desertae non temere esse bonae! †huic quoque qui restat† iam pridem quaeritur alter: experta in primo, stulta, cavere potes!

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Come spesso in Properzio, anche in questo caso l’exemplum delle eroine mira a bollare un difetto di Cinzia: la sua eccessiva creduli188

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tas, infatti, l’ha indotta a fidarsi di chi, come Panto, ora non solo non esita a dileggiarla, ma lo fa anche con la legittima consorte da cui è tornato. La struttura della sezione è perfettamente bilanciata: con energica espressività popolare, nei vv. 9‑10 Properzio censura il pessimo comportamento di Panto, che può celebrare il suo trionfo a spese di Cinzia; seguono i due exempla che – presen­ tati con lo schema consueto della ‘Priamel’ scandita dal­l’anafora di sic – mettono in luce l’ingenuo comportamento delle donne mitiche, che si fidarono eccessivamente dei loro rispettivi amanti (vv. 11‑14); nel distico 15‑16, «in tono pateticamente ammonitore» 12, Properzio esorta tutte le fanciulle troppo credu­ lone a non cedere in modo avventato (temere) alle lusinghe degli spasimanti. Anche qui, come già nel catalogo di 1,15, la presentazione degli exempla mitici segue un’amplificazione progressiva, perché nel primo caso l’inaffidabile amator (Giasone) è in procinto di sposarsi, nel secondo è già sposato (Ulisse) ed è proprio l’esem­ pio di Calipso da lui abbandonata a costituire il paradigma più calzante con la situazione reale (Cinzia abbandonata da Panto); il termine maritus, che nel v. 10 designa chi ha oltraggiato la fides e merita di essere punito agli occhi del poeta elegiaco, definisce coerentemente solo il Dulichius iuvenis del v. 13. La ricorsività di alcuni elementi assicura compattezza alla sezione mitologica ed esalta la connessione con il dato da esem­ plificare: se a Colchida (v. 11) corrisponde l’espressione a Dulichio iuvene (v. 13), la collocazione di decepit e di Iason in explicit del v. 11 è la stessa di est elusa e di Calypso nel v. 13 13; amatorem detto di Odisseo al v. 14 riecheggia amator riferito a Panto nel v. 4, mentre domum, in relazione alla casa di Giasone al v. 12, ricon­ duce a domi, che nel v. 8 definisce la casa di Panto. Anche lo sviluppo delle argomentazioni negli esempi segue la medesima successione, perché se gli esametri (v. 11; v. 13) contengono un sintetico riferimento al­l’inganno perpetrato dagli amatores mitici, i pentametri «come un’appendice piacevole, si   La nota è di Fedeli 1980, p. 621.  Per altre significative corrispondenze si rinvia al dettagliato commento di Fedeli 1980, p. 618. 12 13

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aprono a una timida espansione narrativa» 14. L’esemplificazione si basa sul­l’analogia di uno schema a tre personaggi (Medea – Giasone – Creusa, nel primo exemplum; Calipso – Odisseo – Penelope, nel secondo), che riflette quelli reali (Cinzia – Panto – moglie di Panto); nel primo exemplum, dunque, Cinzia, abban­ donata e derisa da Panto, ha il suo corrispettivo in Medea, nel secondo in Calipso, che, indossati i panni della relicta, anche qui come già in 1,15, prende le distanze dal suo modello omerico. Riflessi come sono da quelli reali, i personaggi del mito subi­ scono un processo di degradazione: Penelope, che in 1,15 com­ pariva solo sullo sfondo, nella inespressa motivazione che spin­ geva Odisseo ad abbandonare Calipso, qui è trasposizione mitica del­l’uxor, che ostacola il legame amoroso extraconiugale (e forse, come la moglie di Panto nei confronti di Cinzia, si farà beffe con Odisseo della povera Calipso); Ulisse subisce la sorte peg­ giore, perché, abbandonata la ninfa dopo averla illusa con la sua lunga permanenza, si comporta in modo spregevole agli occhi del poeta elegiaco, sempre fedele alla donna amata 15. Ancora una volta, dunque, Properzio interviene sul racconto omerico – in cui Calipso non ignorava affatto che Odisseo fosse sposato – fino a modificarne il carattere paradigmatico, con un’inversione di rotta, che va dalla realtà al mito: in 2,21, infatti, Cinzia attribuisce a Calipso il ruolo di donna abbandonata e derisa; Panto assegna ad Odisseo le caratteristiche del­l’amante fedifrago; la moglie di Panto fa di Penelope una donna che, insensibile quanto il marito, dileggia la povera relicta. La poliedricità che connota il personag­ gio properziano di Calipso, dunque, attenua l’inalterabilità della funzione del mito, così che «attivando di volta in volta implica­ zioni diverse di una stessa ‘storia’, l’exemplum scopre la sua intrin­ seca mancanza di valore assoluto» 16; ma ciò si verifica anche con la figura di Odisseo, che se in 1,15,9‑14 con la sua partenza dal­ l’isola di Ogigia serviva a «fondare una proposta nuova di fides 14  Come sottolinea Gazich 1995, p. 135 «nel v. 12 c’è tutta la vicenda di Medea a Corinto e nel v. 14 un indugio lirico-descrittivo sulla partenza di Ulisse», che viene ripreso da precisi segnali linguistici. 15  Cfr. Fedeli 1992, p. 255: «inserito nello schema elegiaco, paradossalmente egli si appropria di quella capacità di tradire, che invece nella poesia d’amore contraddistingue la donna». 16  Lechi 1979, p. 99.

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gratuita e profonda» 17, in 2,21,9‑16 ha il compito di illustrare la fuga del­l’amante infido che, dopo la classica ‘scappatella extra­ coniugale’, non esita a tornare al tetto (e al letto) coniugale. 2.  La figura di Penelope – che attraversa tutta la poesia pro­ perziana e ha lo spessore paradigmatico accumulato nella sto­ ria della sua fortuna letteraria – conferma «la fissità del cliché attribuita al personaggio» 18: moglie devota per antonomasia, essa è esempio illustre di virtutes che non appartengono affatto alla donna elegiaca (l’amore coniugale: 2,6,23; la fedeltà ostinata: 2,9,3‑8; 4,5,7‑8 [esempio per assurdo]; la castitas e la fides: 3,12,38; la pietas: 3,13,24). Solo quando Cinzia parla con voce propria, l’exemplum di Penelope interviene per esaltare l’attesa devota e paziente della donna: o utinam talis producas, improbe, noctes, me miseram qualis semper habere iubes! Nam modo purpureo fallebam stamine somnum, rursus et Orpheae carmine, fessa, lyrae; interdum leviter mecum deserta querebar externo longas saepe in amore moras (1,3,39‑44).

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Nel patetico sfogo indirizzato a Properzio che ritorna ubriaco da un convito, Cinzia gli rinfaccia di averla costretta a vegliare e, per ingannare il sonno, a tessere come una casta matrona. È vero che i poemi omerici raccontano di altre eroine dedite alla tessitura 19, ma – pur in assenza del nome – è chiaro che qui Cinzia indossa i panni di Penelope; nel sistema di riferimento proposto dal modello omerico, però, il dettaglio significativo e pertinente della tessitura costituisce solo il punto di partenza di un processo di esemplarità che giunge a coinvolgere elementi più sostanziali e connotativi del paradigma omerico, primo tra tutti la fedeltà. Il valore totalizzante del­l’esempio mitico, dunque, consente al lettore properziano di associare Cinzia a Penelope

  Così Gazich 1995, p. 95.   Cfr. Lechi 1979, p. 87. 19 Si pensi a Elena (Il. 3,125‑26), a Circe (Od. 10,221) o alle ninfe (Od. 13,107‑08). 17 18

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non solo perché tesse, ma soprattutto perché come Penelope è fedele al suo uomo. Cinzia, tuttavia, non si limita a ‘restaurare’ la sua periclitante moralità grazie a Penelope, perché si prende la rivincita sul lamentoso Properzio, sempre pronto a rinfacciarle i tradimenti e mentre lei si presenta come una novella Penelope, a Properzio affibbia il ruolo di Odisseo. Agli occhi di Cinzia, il suo uomo è colpevole di averla costretta a una lunga attesa e di aver indugiato in amori externi (v. 44 externo ... in amore), come Odisseo, che durante il suo interminabile nostos fu sen­ sibile al fascino femminile e non esitò a tradire la moglie che l’attendeva; se, infine, il personaggio di Penelope nobilita Cinzia, Odisseo – la cui lunga assenza, oltre che dai doveri militari, fu causata anche dalle ben note traversie del viaggio di ritorno – è costretto a subire un’indecorosa degradazione, riflesso com’è dal colpevole Properzio, che tornato a casa ubriaco deve sorbirsi i rimproveri della sua donna. A partire da 2,6 Properzio impiega il personaggio di Penelope come l’esempio più significativo di virtutes coniugali, a cui para­ dossalmente viene assegnato il compito di riflettere un legame esterno al vincolo matrimoniale: Cur exempla petam Graium? Tu criminis auctor, nutritus duro, Romule, lacte lupae: 20 tu rapere intactas docuisti impune Sabinas; per te nunc Romae quidlibet audet Amor. Felix Admeti coniunx et lectus Vlixis, et quaecumque viri femina limen amat! (2,6,19‑24).

La predisposizione di Cinzia al tradimento, che rende il poeta infelice e sospettoso, non è una colpa individuale, ma collettiva e già il mito (la guerra di Troia e la lotta fra Centauri e Pi­ritoo per il possesso di Ippodamia) e la storia di Roma (il ratto delle Sabine) offrono esempi di crimina amoris. A Romolo in par­ ticolare Properzio addossa la responsabilità di aver legalizzato – primo tra tutti (cfr. v. 19 criminis auctor) – un sopruso in materia d’amore e di aver assunto persino il ruolo di praeceptor di vere e proprie nefandezze (v. 21 tu rapere ... d o c u i s t i ): l’esempio del padre della patria si riflette negativamente sul presente, sicché non c’è da meravigliarsi se a Roma il dio Amore si comporta 192

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con arrogante sfrontatezza (v. 22 per te n u n c Romae quidlibet a u d e t Amor). Con una vigorosa sterzata argomentativa, quasi uno squarcio luminoso nelle tenebre della corruzione attuale dei mores, Properzio introduce l’esempio mitico, i cui elementi costitutivi sono in relazione tra loro e l’intera elegia. La straor­ dinaria fedeltà di Alcesti e Penelope (v. 23 felix Admeti coniunx et lectus Vlixis) è messa in risalto dal breve spazio concesso alle eroine, che si contrappone anche concettualmente alla lista pre­ cedente di exempla di violenze (vv. 15‑22) e alla sezione succes­ siva dei maledicta (vv. 27‑32) 20. I paralleli mitici introdotti dal makarismós, oltre a svolgere la funzione principale, esprimono anche una valutazione di ordine etico: non è difficile capire, infatti, che Alcesti e Penelope sono per Properzio vere e proprie eroine del gamos, figure esemplari del­l’inviolabilità del legame coniugale, che nel primo caso indurrà la donna a sacrificare la propria vita per salvare quella del marito, nel secondo verrà ricompensata dal lieto fine. La concentrazione espressiva fa leva sulla disposizione chiastica, con al centro i termini chiave del­ l’exemplum (coniunx – tipico dello stile elevato, come si conviene ai toni enfatici del makarismós – e lectus, che qui ovviamente indica Penelope). Limitato com’è a un solo verso, infine, l’esem­ pio di Alcesti e Penelope, che si contrappone a quanto precede (v. 22 per te nunc Romae quidlibet audet Amor), «vede il suo effetto e trova la sua continuità nel presente di quaecumque viri femina limen amat (v. 24)» 21. Nel­l’ampia sezione introduttiva di 2,9 Penelope ha il ruolo di protagonista: Iste quod est, ego saepe fui: sed fors et in hora hoc ipso eiecto carior alter erit. Penelope poterat bis denos salva per annos vivere, tam multis femina digna procis; coniugium falsa poterat differre Minerva, nocturno solvens texta diurna dolo; visura et quamvis numquam speraret Vlixem, illum exspectando facta remansit anus (vv. 1‑8).

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20 Sul­ l’opposizione ‘retorica’ tra la sezione che si apre con il makarismós (vv. 23‑26) e quella che contiene i maledicta (vv. 27‑32) si rinvia alle lucide osservazioni di Gazich 1995, p. 283. 21  Gazich 1995, p. 285.

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Cinzia rimane fedele al suo statuto elegiaco, perché con estrema leggerezza passa da un amante al­l’altro: in apertura di elegia iste –  connotato dal consueto valore dispregiativo – fa riferimento al rivale, a cui, però ben presto toccherà la stessa sorte di Pro­ perzio 22. Forte della sua superiorità in amore, infatti, Cinzia non esiterà a sbarazzarsi in breve tempo (v. 1 et in hora) del­l’amante di turno (v. 2 hoc ipso eiecto), per concedere i suoi favori a un altro (carior alter erit). L’esempio e contrario di Penelope, collocato ex abrupto subito dopo il distico iniziale, ha il compito d’indi­ care il comportamento a cui la donna amata dovrebbe ispirarsi 23. Nei vv. 1‑2 la contrapposizione del­l’esempio mitico alla situa­ zione reale, che riguarda chi, come già Properzio, ha spe­ rimentato la levitas di Cinzia, è segnalata anche da tracce lin­ guistiche significative; alla serrata successione dei tempi verbali (est, fui, erit) e al­l’altrettanto repentino susseguirsi di amanti (iste, ego, alter), si contrappone, infatti, «l’estraniante solennità del v. 3, rallentato dal­l’iniziale allitterazione Penelope poterat» 24; l’imperfetto esprime la capacità di Penelope di mantenersi fedele a Ulisse (vv. 3‑4 bis denos salva per annos / vivere) e di resistere ai pretendenti anche con l’inganno (v. 4 tam multis femina digna procis / coniugium f a l s a poterat differre M i n e r v a ). Pur nella consapevolezza di non poterlo riabbracciare, Penelope aspettò paziente il marito e preservò la sua fedeltà (v. 8 remansit = ‘rimase fedele’) fino alla vecchiaia (facta anus): nel v. 7 la centralità di numquam, seguito subito dopo da speraret, dà rilievo al­l’illusione del­l’eroina, la cui lunga attesa, nel v. 8, è segnalata anche dal ritmo spondaico del primo emistichio e dal polisillabico expectando. Ma il processo innescato dal­l’esempio di Penelope – a cui segue quello di Briseide, modello di fedeltà che continua oltre la morte – giunge a conclusione solo nei vv. 19‑20, quando viene finalmente menzionata Cinzia, che, manco a dirlo, di Penelope è il perfetto rovesciamento: at tu non una potuisti nocte vacare, impia, non unum sola manere diem! (vv. 19-20). 22  Sulla figura del rivale nella poesia d’amore si rinvia a López Gregoris 2011, pp. 369‑71. 23  Per l’analisi della struttura, del valore del­l’exemplum e delle risorse stilisti­ che cfr. il puntuale commento di Fedeli 2005, pp. 277‑80. 24  L’osservazione è di Gazich 1995, p. 186.

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Anche in questo caso l’opposizione tra i comportamenti fem­ minili fa leva su segnali linguistici, come gli indicatori tempo­ rali (v. 3 Penelope ...  b i s d e n o s   . . .   p e r a n n o s ~ v. 19 at tu n o n u n a   . . .   n o c t e vacare; v. 20 n o n u n u m   . . .   d i e m ) e la ripresa di posse (cfr. poterat in riferimento a Penelope nei vv. 3 e 5, a cui corrisponde non ... potuisti al v. 19, in relazione a Cin­ zia). L’opposta condotta delle due donne, in fondo, deriva dalle loro inconciliabili scelte di vita, perché la ‘pragmatica’ Cinzia tra­ scorre gli anni della sua giovinezza concedendosi a molti uomini, l’idealista Penelope invecchia fedele e casta nel­l’attesa del ritorno di Ulisse. Penelope mantiene inalterate le caratteristiche di moglie fedele fino a quando il suo exemplum è funzionale a bollare il compor­ tamento adultero di Cinzia e a indicare il valore immutabile del foedus, nella prospettiva del poeta d’amore; basta però invertire il senso della precettistica erotica, e anche Penelope subirà una metamorfosi radicale, come avviene nel­l’elegia di Acantide: docta vel Hippolytum Veneri mollire negantem, concordique toro pessima semper avis, Penelopen quoque neglecto rumore mariti nubere lascivo cogeret Antinoo (4,5,5‑8).

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Prima del lungo discorso con cui la ruffiana, attraverso una meticolosa serie di consigli, indica al­l’aspirante meretrix il modo migliore per trarre profitto dalla sua avvenenza, Properzio illu­ stra le grandi potenzialità, che consentono alla lena di esercitare un potere soggiogante sulle giovani e inesperte menti di chi alla sua esperienza di affida. Tra le caratteristiche della ruffiana, Properzio teme soprattutto la doctrina in campo erotico e non a caso è proprio la fedeltà in amore a essere messa in crisi per prima da Acantide, nella presentazione che egli fa dei suoi poteri. A garanzia della veridicità delle sue affermazioni, Properzio ricorre agli exempla canonici della fedeltà ad oltranza, quello di Ippolito nei confronti di Artemide e quello di Penelope verso Ulisse; l’abilità di Acantide, infatti, sarebbe in grado di ‘riscri­ vere’, stravolgendola, la vicenda mitica di entrambi i personaggi. Dopo l’episodio di Ippolito, il passaggio al secondo esem­ pio (la leggendaria fedeltà di Penelope) è preparato, nel v. 6, da 195

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concors, che rinvia al­l’unione coniugale. Con una disposizione chiastica dei nomi, alla menzione della casta Penelope che apre il distico, corrisponde quella del ‘lascivo’ Antinoo in explicit di pentametro. Come già a vel (v. 5), ora spetta a quoque (v. 7), dal chiaro valore intensivo, il compito di mettere in evidenza l’efficacia del potere di Acantide nei confronti di chi si ostina a rifiutare l’amore. La rivisitazione properziana della vicenda omerica è contras­ segnata da passaggi graduali, perché, prima di unirsi in matri­ monio con Antinoo, Penelope decide di ignorare le notizie che vogliono il marito sulla via del ritorno (v. 7 neglecto rumore mariti). Cogeret (v. 8) fa chiaramente intendere che Penelope si è vista ‘costretta’ a risposarsi non per l’odiosa insistenza dei suoi preten­ denti, ma per un nuovo amore, suscitato in lei dal potere invinci­ bile della lena. Antinoo in Omero (Od. 17,499‑504) si distingue per la sua tracotante brutalità e il valore polisemico di lascivus ne riflette qui il leggendario carattere negativo. Oltre a determinare un ampliamento del mito in chiave erotica, che spesso connota l’exemplum nel passaggio da un testo al­l’altro 25, l’accezione licen­ ziosa del­l’aggettivo 26 connota perfettamente il potere della lena properziana. 3.  Rispetto agli altri poeti latini, Properzio mostra una pre­ dilezione particolare per Elena, perché a lei guarda con sim­ patia e ammirazione 27; i contesti dedicati ‘alla donna del fato’ appartengono a elegie programmatiche (2,1; 2,34) o possono essere ricondotti ai motivi principali della poetica properziana (l’elogio della bellezza della donna amata: 2,3; 2,15; 3,14; il tra­ dimento del foedus amoris: 2,32; la pugna erotica: 3,8). È soprattutto il secondo libro a offrirci il numero maggiore delle attestazioni riservate a Elena, la cui importanza agli occhi di Properzio è confermata anche dalla sua presenza nelle elegie di confine della raccolta:

  Cfr. Fedeli 1992, pp. 245‑57.  Su tale accezione si rinvia a OLD s.v. [4] e a Hor. Carm. 2,11,6‑8; Ov. Her. 17,79; Ars 1,523; Mart. 7,91,3‑4 e 9,67,1‑2. 27 Carbonero 1989, p. 386 sottolinea che talvolta Properzio manifesta nei confronti di Elena persino «venerazione o infatuazione letteraria». 25 26

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Laus in amore mori: laus altera, si datur uno posse frui: fruar o solus amore meo! Si memini, solet illa leves culpare puellas, et totam ex Helena non probat Iliada (2,1,47‑50).

Nel ribadire la fedeltà della sua poetica ai contenuti erotici, Pro­ perzio conferma l’analogia tra scelta di vita e scelta di poesia, che con toni più decisi aveva già espresso in 1,7; al­l’inizio del nuovo libro il poeta adotta un atteggiamento più conciliante, perché se da un lato è mosso dal­l’esigenza di giustificare il suo programma poetico, dal­l’altro non disconosce l’importanza del carmen heroum. A partire dal v. 47 è proprio la ripresa del motivo della donna come musa ispiratrice – che compariva già al v. 4 ingenium nobis ipsa puella facit – a garantire la compattezza del componimento. Nei vv. 47‑48 l’importanza delle affermazioni – tra cui spicca la celebrazione del servitium amoris, soprattutto se viene esercitato nei confronti di una sola donna (laus altera si datur uno / posse frui) – è sottolineata dalla coordinazione asindetica e paratattica – che, come una sequela di γνῶμαι, scandisce lo svolgimento delle argomentazioni – dal­l’anafora (laus in amore mori: laus altera), dal poliptoto (si datur uno / posse frui: fruar o solus amore meo!) e dal­l’anastrofe. Con un mutamento repentino del punto di vista, alla totale dedizione di Properzio segue nel distico successivo un non meno nobile atteggiamento di Cinzia: questa volta, infatti, è lei ad accusare aspramente le leves puellae e a puntare il dito contro l’intera (cfr. v. 50 totam, isolato per di più dal­l’iperbato) Iliade, che muove proprio dal comportamento fedifrago di Elena. I panni d’inflessibile fustigatrice dei mores –  che, per di più, Cinzia indossa costantemente (cfr. v. 49 solet) – e d’intransigente critico letterario spiazzano il lettore properziano, che invece è abituato alla volubilità della donna, della quale non ignora neanche l’entusiastico apprezzamento dei carmi properziani, che celebrano proprio l’amore adulterino 28. Ma forse il severo giudizio di Cinzia sul­l’Iliade può essere ricondotto al carattere programmatico di 2,1, perché, se attraverso una pacata recusatio 28 Cfr. e.g. 2,24,17‑22 Hoc erat in primis quod me gaudere iubebas? / Tam te formosam non pudet esse levem? / Vna aut altera nox nondum est in amore peracta, / et dicor lecto iam gravis esse tuo. / Me modo laudabas et carmina nostra legebas: / ille tuus pennas tam cito vertit amor?

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Properzio non attacca in modo eplicito il genere letterario, che per definizione si oppone alla poesia d’amore, è a Cinzia che egli affida il compito di esprimere con severa intransigenza il rifiuto della poesia epica e di ribadire la fede elegiaca. Elena assolve un’analoga funzione ‘programmatica’ nei vv. 85‑ 94 del­l’ultima elegia del II libro: Haec quoque perfecto ludebat Iasone Varro, Varro Leucadiae maxima flamma suae; haec quoque lascivi cantarunt scripta Catulli, Lesbia quis ipsa notior est Helena; haec etiam docti confessa est pagina Calvi, cum caneret miserae funera Quintiliae. Et modo formosa quam multa Lycoride Gallus mortuus inferna vulnera lavit aqua! Cynthia quin vivet versu laudata Properti, hos inter si me ponere Fama volet (2,34,85‑94).

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La sezione, che come una σφραγίς suggella la raccolta poetica, è destinata a illustrare che la poesia erotica – a cui persino Vir­ gilio si è dedicato – non solo costituisce un’arma efficace di conquista, ma ha la ben più nobile funzione di garantire l’im­ mortalità alla donna amata e «ciò equivale a un auspicio di eter­ nità per la poesia stessa e per il poeta che quella donna ha cele­ brato nei suoi versi» 29. Attraverso il catalogo dei poeti d’amore, redatto con il ricorso alla rigorosa architettura della ‘Priamel’, Properzio si inserisce orgogliosamente nella lignée della poesia elegiaco-erotica, che lega i neoterici a Gallo. Il distico riservato a Catullo (vv. 87‑88) – in cui l’accenno a Elena serve a celebrare iperbolicamente la maggiore notorietà della Lesbia catulliana e, per riflesso, la supremazia della poesia d’amore su quella epica – conferma la tendenza seguita da Properzio di adeguare la forma al contenuto con una fitta trama allusiva allo stile dei predeces­ sori menzionati nel catalogo: in tale prospettiva nel v. 88, in cui è significativa la posizione speculare dei nomi, si colloca l’abla­ tivo plurale quis, arcaismo attestato ben cinque volte in Catullo e sempre nei carmina docta (63,46; 64,80 e 145; 66,37 e 68,13).

  La citazione è tratta dal commento di Fedeli 2005, p. 955.

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Non sorprende che la leggendaria venustas di Elena costituisca il parallelo più calzante quando Properzio deve celebrare la bel­ lezza del­l’amata: Non non humani partus sunt talia dona; ista decem menses non peperere bona. Gloria Romanis una es tu nata puellis: Romana accumbes prima puella Iovi, nec semper nobiscum humana cubilia vises: post Helenam haec terris forma secunda redit. Hac ego nunc mirer si flagrat nostra iuventus? Pulchrius hac fuerat, Troia, perire tibi. Olim mirabar, quod tanti ad Pergama belli Europae atque Asiae causa puella fuit; nunc, Pari, tu sapiens et tu, Menelae, fuisti, tu quia poscebas, tu quia lentus eras. Digna quidem facies, pro qua vel obiret Achilles; vel Priamo belli causa probanda fuit (2,3,7‑40).

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Le straordinarie doti che rendono Cinzia simile a una dea (vv. 27‑28) 30 le consentiranno, prima tra le fanciulle Romane, di giacere con Giove, noto seduttore di donne avvenenti (vv. 29‑30) e di rappresentare la bellezza che ritorna sulla terra dopo Elena (vv. 31‑32). Non c’è da sorprendersi, dunque, se la donna amata infiamma i giovani romani, perché Troia stessa avrebbe accet­ tato la propria rovina nel nome di Cinzia (vv. 33‑34). Se poi un tempo Properzio si stupiva che fosse stata una donna a causare un conflitto mondiale (vv. 35‑36), ora capisce che Paride e Menelao si comportarono con saggezza, perché l’uno non intendeva resti­ tuire Elena al­l’altro, che giustamente la reclamava (vv. 37‑38). Elena – la cui avvenenza per Properzio la assolve dalle colpe a lei attribuite dagli altri poeti 31 – nobilita la bellezza di Cinzia e al 30  Sul­ l’esaltazione iperbolica della venustas della donna amata si rinvia alle osservazioni di La Penna 1977, p. 212, secondo cui la divinizzazione di Cinzia è «come un alone che potenzia, esalta le gioie dei sensi, ma non le sostituisce né le reprime». 31  Basti pensare a Hor. Carm. 1,15,5‑8 mala ducis avi domum / quam multo repetet Graecia milite, / coniurata tuas rumpere nuptias / et regnum Priami vetus; 3,3,18‑21 ‘Ilion, Ilion / fatalis incestusque iudex / et mulier peregrina vertit / in pulverem ed Epist. 1,2,6‑11 Fabula qua Paridis propter narratur amorem / Graecia barbariae lento conlisa duello, / stultorum regum et populorum continet aestus. / Antenor censet belli praecidere causam.

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tempo stesso da Cinzia viene superata. Se l’eroina greca, infatti, si è limitata a infiammare il cuore di quanti furono successivamente costretti a uno scontro sanguinoso, con la sua bellezza Cinzia può addirittura cambiare il corso degli avvenimenti e riscrivere le ben note vicende di Troia. Entrata trionfalmente sulla scena del­l’Iliade e appropriatasi del ruolo di Elena, più di lei Cinzia è in grado di fare strage di cuori, perché la sua bellezza può folgorare anche chi nel racconto omerico non fu succube di quella del­l’eroina greca: è questo il caso di Achille, per il quale la facies di Cinzia avrebbe costituito motivo di una morte dignitosa (v. 39 Digna quidem facies pro qua vel obiret Achilles), e di Priamo che avrebbe giustifi­ cato che si riportasse guerra alla sua città, se a causarlo fosse stata la bellissima Cinzia (v. 40 vel Priamo belli causa probanda fuit). Nel­l’elegia che racconta una notte d’amore straordinariamente felice per Properzio, alla vista di Elena nuda Paride è colto da passione struggente: Non iuvat in caeco Venerem corrumpere motu: si nescis, oculi sunt in amore duces. Ipse Paris nuda fertur periisse Lacaena, cum Menelaeo surgeret e thalamo: nudus et Endymion Phoebi cepisse sororem dicitur et nudus concubuisse deae. Quod si pertendens animo vestita cubaris, scissa veste meas experiere manus (2,15,11‑16).

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Il dato da dimostrare è quello scandito dalla gnome (v. 12 oculi sunt in amore duces), che, preceduta dalle espressioni bonariamente ‘ingiuntive’ (v. 11 non iuvat; v. 12 si nescis), deve disciplinare il rapporto erotico con Cinzia. La mitologia serve ad attribuire al  praeceptum l’autorevolezza della tradizione, che viene conva­ lidata retoricamente dal­l’impiego dei verbi impersonali (v. 13 fertur; v. 16 dicitur). Nel pieno rispetto della par condicio, l’insegna­ mento del v. 12 è destinato sia al­l’uomo che alla donna, come confermano gli exempla di Paride – soggiogato dal­l’amore per aver contemplato Elena nuda – e di Selene sedotta dalla nudità di Endimione. La persuasività paradigmatica viene garantita anche dalla successione delle vicende mitiche (se il primo esempio, infatti, ha protagonisti mortali, il secondo dimostra che anche gli dèi non rimangono indifferenti alla vista della nudità) e dalla 200

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ricorsività lessicale (v. 13 nuda; vv. 15‑16 nudus; l’aggettivo viene ripreso e contrario da vestita al v. 17). La scena che narra la fase iniziale del­l’innamoramento di Paride, sconvolgente fino a farlo morire d’amore (v. 13 periisse) e non ha altre attestazioni let­ terarie, costituisce una raffinata creazione properziana, forse su influsso del­l’arte figurativa 32. Fatta eccezione per il particolare della nudità di Elena, la situazione descritta non è eroticamente connotata, ma l’impiego di termini tipici del lessico d’amore, quali perire e surgere, riconduce a situazioni della poesia elegiaca tutt’altro che pudiche 33. Insospettisce, inoltre, l’uso del­l’aggettivo pentasillabico Menelaeo detto del talamo, che occupa quasi tutto il primo emistichio del v. 14: è lecito, infatti, pensare a una scena, in cui Elena nuda si alza dal letto nuziale dopo un amplesso col marito. Se in 2,15 la figura di Elena senza veli, che in posa languida si leva dal giaciglio coniugale, è funzionale alla strategia della seduzione messa in atto dalla donna, ben altro significato essa assume in 3,14,17‑24: Qualis et Eurotae Pollux et Castor harenis, hic victor pugnis, ille futurus equis, inter quos Helene nudis capere arma papillis fertur nec fratres erubuisse deos. Lex igitur Spartana vetat secedere amantes, et licet in triviis ad latus esse suae, nec timor aut ulla est clausae tutela puellae, nec gravis austeri poena cavenda viri.

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L’esempio mitico chiude un’ampia sezione (vv. 1‑20), che elenca gli sports praticati dalle Spartane, elogiate per libertà nei rapporti con l’altro sesso e per la semplicità del­l’abbigliamento (vv. 21‑28); profondamente diversa è la condizione delle donne romane, che Properzio critica nei versi conclusivi (vv. 29‑34).

32  Enk 1962, p. 217 rinvia a un vaso ritrovato a Ruvo (Mus. Jatta 1619 = LIMC IV 1, 516 n. 81), in cui Elena nuda su un letto è raffigurata mentre alcune ancelle e uno schiavo la accudiscono e Paride le si avvicina coperto solo da un mantello, secondo lo stilema della nudità eroica. 33  Sul verbo surgere, in particolare, si rinvia ai numerosi contesti registrati da Fedeli 2005, p. 451.

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L’interpretazione che il poeta fornisce del motivo della nudità delle Spartane distorce le fonti storiche (pur praticando gli stessi esercizi, infatti, le donne si allenavano in ambienti separati da quelli maschili 34) e perviene a una deformazione in senso ero­ tico delle leggi di Sparta 35, che miravano a «preparare ad una valida unione matrimoniale le donne così temprate nel fisico» 36. Nella descrizione del mondo ideale che Properzio identifica con la città greca, invece, non compare alcun accenno al matri­ monio e, se gli amanti godono della massima libertà, i mariti traditi non sono neppure gelosi. È lecito, dunque, dubitare della serietà della ‘proposta’ properziana, che fa leva anche su un’insolita presentazione di donne o di eroine nude e, soprat­ tutto, si conclude con l’invito rivolto a Roma – che mai potrà essere accettato – di imitare la libertà di Sparta. Nei vv. 19‑20 l’attendibilità della testimonianza properziana è garantita appa­ rentemente dalla consuetudine, a cui riconduce fertur; al tempo stesso, però, l’impersonale connota ironicamente l’exemplum, poiché ciò che Properzio fa risalire a una tradizione consoli­ data è probabilmente frutto della sua fantasia. Nel­l’ambito di un lusus elegante e raffinato, dunque, la figura di Elena senza veli, oltre a illustrare il carattere sportivo e innocente della nudità, che, simbolo di purezza interiore, deve rifulgere senza intralci moralistici 37, serve a stabilire un legame con il tema del­l’elegia: dopo l’accenno alle Amazzoni, che n u d a t i s m a m m i s , si lavano Thermodontiacis  ... aquis (vv. 13‑14), il riferimento agli esercizi praticati tra i fratelli da Elena a seno nudo e senza ver­ gogna (vv. 19‑20 i n t e r q u o s Helene n u d i s c a p e r e a r m a p a p i l l i s   / fertur n e c fratres e r u b u i s s e deos), è il migliore suggello della sezione inaugurata dal­l’immagine delle fanciulle spartane, che in palestra si addestravano nude inter luctantes viros (vv. 3‑4 quod non infamis exercet corpore ludos / i n t e r l u c t a n t e s n u d a p u e l l a v i r o s ).

  Cfr. Xen. De rep. Lac. 1,4 e Paus. 5,16,2‑3.  Sulla rivisitazione properziana delle fonti storiche si sofferma Gazich 1995, p. 254, n. 26. 36  L’osservazione è di Fedeli 1985, p. 450. 37  Cfr. Carbonero 1989, p. 388. 34 35

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CINZIA E LE EROINE DEL MITO

Properzio ricorre a Elena anche quando giustifica la colpa di tra­ dimento di Cinzia; è questo il caso di 2,32,27‑40: Non tua deprenso damnata est fama veneno: testis eris puras, Phoebe, videre manus. Sin autem longo nox una aut altera lusu consumpta est, non me crimina parva movent. Tyndaris externo patriam mutavit amore, et sine decreto viva reducta domum est. Ipsa Venus fertur corrupta libidine Martis, nec minus in caelo semper honesta fuit. Quamvis Ida deam pastorem dicat amasse, atque inter pecudes accubuisse deam, hoc et Hamadryadum spectavit turba sororum Silenique senes et pater ipse chori, cum quibus Idaeo legisti poma sub antro, supposita excipiens, Nai, caduca manu.

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Nel­l’elegia il poeta assume il duplice ruolo del­l’innamorato, che da un lato accusa la donna traditrice, dal­l’altro tenta di sop­ portarne i tradimenti e arriva persino a giustificarli 38, perché in fondo si tratta di colpe di poco conto (v. 30 crimina parva). Ancora una volta il mito fornisce a Properzio una rassicurante certezza e svolge anche una funzione ‘consolatrice’; nonostante i tentativi di minimizzarne l’entità, la colpa di Cinzia rende più complessa la strategia difensiva del poeta, che si vede costretto a raddoppiare i suoi sforzi e a ricorrere non solo al­l’esempio di una mortale (Elena), ma anche a quello di una divinità (Venere). Oltre che da un’eccezionale bellezza, entrambe le donne del mito sono accomunate dal­l’aver commesso adulteri (v. 31 Tyndaris externo patriam mutavit amore; v. 33 Ipsa Venus fertur corrupta libidine Martis), per i quali, dopo essere state perdonate e riaccolte dai rispettivi sposi (Menelao, Vulcano), non vennero punite né escluse dal consesso umano o dal Pantheon divino (v. 32 et sine decreto viva reducta domum est; v. 34 nec minus in caelo semper honesta fuit). Tra i due, l’exemplum di Elena è quello che meglio si ricollega al­l’assunto da dimostrare (Cinzia va assolta, se persino a Elena venne condonata la colpa del tradimento); in tale prospet­ 38  Sul­ l’identità del tema dibattuto da opposti punti di vista, che rinvia alla tecnica delle controversie, cfr. Batinski 2003, pp. 616‑26.

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tiva, nel­l’espressione opportunamente sfumata con cui Properzio descrive l’infedeltà di Elena (v. 31 externo patriam mutavit amore), va letto un velato rinvio – in forma degradata, «come è ovvio nel passaggio da una situazione tragica a una elegiaca» 39 – alla situazione di Cinzia, che preferisce ormai altri luoghi a Roma 40. Il riflesso privo di sbavature del personaggio di Cinzia in quello di Elena è confermato anche da significative convergenze lessi­ cali: se per indicare le offese arrecate da Cinzia alla fides Properzio impiega insistentemente il lessico giuridico (cfr. v. 27 damnata; v. 28 testis; v. 30 crimina e il verdetto di assoluzione del­l’accusata formulato nel v. 62 semper vive meo libera iudicio), la condotta fedi­ fraga di Elena è indicata con un ricorso analogo alla terminologia legale (v. 32 et sine decreto viva reducta domum est). L’esempio auto­ revole di Elena, dunque, non solo induce Properzio a dimen­ ticare la colpa più grave ai suoi occhi (il tradimento del foedus amoris), ma legittima anche la sua indulgenza per i tradimenti di Cinzia, perché «l’unicità del­l’amore elegiaco non cura i crimina parva, in nome di una legge superiore» 41. A Properzio non sono affatto consentite le scappatelle eroti­ che, che a Cinzia vengono addirittura perdonate: in 3,8, infatti, il solo sospetto d’infedeltà – complice anche il vino – scatena un furore incontrollato, che spinge Cinzia a rovesciare la mensa, a scagliare coppe di vino contro l’amante, a strappargli i capelli e a graffiargli il volto. Per Properzio, però, la violenta reazione di Cinzia è una dulcis rixa, perché la gelosia è prova evidente della passione (vv. 1‑10). Con un procedimento desultorio delle argomentazioni, il poeta si sofferma poi sulla sua capacità di riconoscere le tracce della sofferenza d’amore sul volto di ogni donna (vv. 11‑18), sulla consapevolezza che la fedeltà in amore non è priva di insulti (vv. 19‑20), sul­l’orgoglio per i segni degli amplessi con la sua donna (vv. 21‑22), sulle lacrime versate dagli amanti (vv. 23‑26) e sulla sua profonda avversione per i sonni tranquilli (vv. 27‑28).   Lo osserva Fedeli 2005, p. 907.  Cfr. vv. 17‑20 Falleris, ista tui furtum via monstrat amoris: / non urbem, demens, lumina nostra fugis! / Nil agis, insidias in me componis inanis, / tendis iners docto retia nota mihi. 41  L’affermazione è di Gazich 1995, p. 165. 39 40

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CINZIA E LE EROINE DEL MITO

A ribadire la preferenza accordata dal poeta alle lotte com­ battute angusto lecto tra le braccia di Cinzia, secondo un motivo topico della poetica elegiaca di ascendenza alessandrina, inter­ viene nei vv. 29‑32 l’esempio di Paride, che con passione più intensa amava Elena, quando attorno a lui si scatenava la guerra: Dulcior ignis erat Paridi, cum Graia per arma Tyndaridis poterat gaudia ferre suae: 30 dum vincunt Danai, dum restat barbarus Hector, ille Helenae in gremio maxima bella gerit (3,8,29-32).

L’esempio svolge una funzione nobilitante nei confronti della situazione reale descritta nei versi iniziali del­l’elegia e consente di superare l’apparente incongruenza della ‘iunctura’ dulcis rixa nel distico iniziale (vv. 1‑2 Dulcis ad hesternas fuerat mihi rixa lucernas, / vocis et insanae tot maledicta tuae): in apertura di esame­ tro, dulcior rinvia a dulcis del v. 1 e segna l’avvio del processo di comparazione tra realtà ed exemplum mitico. La rixa che, per quanto dulcis agli occhi di Properzio, nel v. 1 indicava una vera e propria violenza fisica, nel v. 29 ha un corrispettivo in dulcior ignis, in cui il sostantivo indica metaforicamente il fuoco deva­ stante della passione d’amore, mentre a mihi del v. 1 corrisponde Paridi del v. 29; se poi Paride conferisce dignità a Properzio, Elena nobilita Cinzia: alle grandi battaglie (maxima bella), che il principe troiano combatte molto volentieri Helenae in gremio (v. 32), infatti, corrispondono non solo la rissa furibonda scate­ nata da Cinzia avvinazzata e violenta, ma anche le contese d’a­ more, che costituiscono la prova di una vera passione (vv. 19‑20 non est certa fides, quam non in iurgia vertas: / hostibus eveniat lenta puella meis). I vulnera amoris sul collo di Properzio, infatti, sono segno inequivocabile di un convegno amoroso con la donna amata, che il poeta può orgogliosamente ostentare (vv. 21‑22 in morso aequales videant mea vulnera collo: / me doceat livor mecum habuisse meam). 4.  Calipso, Penelope, Elena, figure esemplari del ciclo ome­ rico, divengono protagoniste della storia personale di Proper­ zio, in cui si ‘innestano’ con funzioni diverse dopo una rilettura poetica più o meno invasiva. Calipso è l’eroina che in misura 205

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maggiore risente della ‘riduzione’ elegiaca, che ‘disaggrega’ le azioni per poi ricomporle «in una serie di gesti interpretati» 42. Per la frequenza delle attestazioni, Penelope ed Elena si con­ tendono il primato nel­l’opera properziana e, a differenza di Calipso, non subiscono trasformazioni radicali nei loro connotati mitici, che vengono impiegati da Properzio come simboli etici 43. Penelope – che, salvo rare eccezioni 44, appare ingessata nel suo stereotipo di fedeltà – ha l’ingrato compito di condannare la perfidia di Cinzia; contro ogni aspettativa, Elena – la donna traditrice per antonomasia, che è difficile ricondurre a una cifra unitaria – riscuote il successo maggiore nei versi properziani (e presso i suoi lettori): a lei il poeta attribuisce il ruolo di illuminare la forma di Cinzia con lo splendore abbagliante del mito. L’eccezionale bellezza e il legame adulterino, che costituiscono i tratti più con­ notativi del suo personaggio e legittimano, dopo «un’opera di salutare rivitalizzazione» 45 l’inserimento della sua vicenda mitica nella poetica properziana, rendono Elena il modello migliore di Cinzia e della sua storia d’amore con Properzio, costantemente in bilico tra sofferenza, inganno ed effusione sentimentale.

Bibliografia Batinski 2003 = E. E. Batinski, In Cynthiam / Pro Cynthia (Prop. 2,32), Latomus 62, 2003, pp. 616‑26. Benediktson 1985 = D. T. Benediktson, Propertius’ Elegiacization of  Homer, Maia 37, 1985, pp. 17‑26. Boucher 1965 = J.-P. Boucher, Études sur Properce. Problèmes d’inspiration et d’art, Paris 1965. Carbonero 1989 = O. Carbonero, La figura di Elena di Troia, da Lucrezio a Ovidio, Orpheus 10, 1989, pp. 378‑91. Enk 1962 = Sex. Propertii elegiarum liber II, ed. P. J. Enk, II, Leyden 1962.

  Cfr. Lechi 1979, p. 87.   Su tale funzione delle due figure mitologiche si rinvia a La Penna 1977, p. 209. 44 L’accenno a Penelope nella 1,3 viene fatto da Cinzia, in 4,5 rientra in un adynaton. 45  Cfr. Fedeli 1992, p. 257. 42 43

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CINZIA E LE EROINE DEL MITO

Fedeli 1980 = P. Fedeli, Sesto Properzio. Il primo libro delle Elegie, Firenze 1980. Fedeli 1984 = P. Fedeli, Sexti Properti Elegiarum libri IV, Stuttgart 1984. Fedeli 1985 = P. Fedeli, Properzio. Il libro terzo delle Elegie. Introdu­ zione, testo critico e commento, Bari 1985. Fedeli 1992 = P. Fedeli, Dal testo ellenistico al testo elegiaco. Ripresa e trasformazione dei codici letterari, Aevum antiquum 5, 1992, pp. 245‑57. Fedeli 2004 = P. Fedeli, La retorica del­l’ ‘exemplum’ in Properzio, in Properzio tra storia arte e mito, Atti del Convegno Internazionale, Assisi, 24‑26 Maggio 2002, Assisi 2004, pp. 231‑57. Fedeli 2005 = P. Fedeli, Properzio. Elegie. Libro II, Cambridge 2005. Gazich 1995 = R. Gazich, ‘Exemplum’ ed esemplarità in Properzio, Milano 1995. Heyworth 2007 = S. J. Heyworth, Sexti Properti Elegi, Oxford 2007. Heyworth 2007a = S. J. Heyworth, Cynthia. A Companion to the Text of   Propertius, Oxford 2007. La Penna 1977 = A. La Penna, L’integrazione difficile. Un profilo di Properzio, Firenze 1977. Lechi 1979 = F. Lechi, Testo mitologico e testo elegiaco, MD 3, 1979, pp. 83‑100. Lieberg 1969 = G. Lieberg, Die Mythologie des Properz in der Forschung und die Idealisierung Cynthias, Rhein.Mus. 112, 1969, pp. 311‑47. López Gregoris 2011 = R. López Gregoris, Rival, in Diccionario de motivos amatorios en la literatura latina (siglos III a.C. – II d.C.), R. Moreno Soldevila (Ed.), Huelva 2011, pp. 369‑71. Piazzi 2013 = L. Piazzi, Latin Love Elegy and Other Genres, in The Cambridge Companion to Latin Love Elegy, Cambridge 2013, pp. 224‑38. Roggia 2011 = A. Roggia, P. Ovidii Nasonis Heroidum epistula XIII. Laodamia Protesilao, Firenze 2011.

Abstracts In una poetica dedicata soprattutto alla donna amata non sorprende che gran parte delle vicende mitiche impiegate da Properzio sia fina­ lizzata a illustrare le alterne vicende del suo rapporto con Cinzia. Tra i personaggi femminili che affollano l’epica omerica, un ruolo di spicco nei versi properziani spetta a Calipso, a Penelope e a Elena.

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Calipso è l’eroina che più risente della riscrittura properziana, men­ tre Penelope ed Elena non subiscono trasformazioni radicali nei loro connotati tradizionali: la prima, infatti, che anche in Properzio com­ pare quasi sempre come stereotipo di fedeltà, ha l’ingrato compito di stigmatizzare la perfidia di Cinzia, la seconda ne riflette e ne esalta la bellezza e la predisposizione al tradimento. In a poetic devoted above all to the beloved woman it doesn’t surprise that big part of  the mythical episodes employed by Propertius is finalized to illustrate the ups and downs of  his relationship with Cynthia. Among the female characters that crowd the Homeric epic, a promi­ nent role in Propertius’ elegies is up to Calypso, Penelope and Helen. Calypso is the heroine who relies most on Propertian rewriting, while Penelope and Helen don’t suffer radical transformations in their traditional connotations: the first one, who also in Propertius appears as a stereotype of  fidelity, in fact, has the unfortunate task to stigmatize the perfidy of  Cynthia, the second reflects and underlines her beauty and predisposition to the betrayal. Keywords: Cynthia, Mythical women, Homeric epic

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ROBERTO CRISTOFOLI Perugia

GIOVE FERETRIO IN PROPERZIO: STORIA E MITO

L’elegia properziana 4,10 è l’ultima delle eziologiche, e si inse‑ risce al­l’interno di un libro volto a celebrare le antichità patrie sulla falsariga del modello callimacheo, e composto a partire da quando, al vertice del cosiddetto Circolo dei poeti augustei, si era posto lo stesso princeps in sostituzione del cavaliere aretino Mecenate. Risalire ad una cronologia pur indicativa per la composizione del­l’elegia non è semplicissimo: si può comunque concordare con la maggior parte degli studiosi, che la  ascrive al­l’ultima fase della produzione poetica properziana 1, la quale certo non va pro‑ tratta, assieme al­l’esistenza del poeta, fino agli anni 12‑8 ipotiz‑ zati dal Boucher 2: siamo ancora del parere che il 16‑15 a.C. sia un t.a.q. valido per entrambe. La struttura del­l’elegia è notevolmente asimmetrica. Al cen‑ tro della narrazione sono gli spolia opima, che danno il la alla ricerca del­l’eziologia (causas = αἴτια aperire) circa la denomina‑ zione di Feretrio attribuita a Giove con il tempio consacrato in suo onore – il tema dovrebbe anzi rappresentare l’unitarietà della composizione –. Tre personaggi romani erano stati ricordati dalla tradizione come i soli ad aver sconfitto, trovandosi a capo di un esercito, in singolar tenzone il comandante nemico e ad averlo privato delle armi, che consacrarono poi appunto a Giove Feretrio; 1  Cfr. tra gli altri Cairns 2006, p. 289 (ulteriore precisazione a p. 290: “by the mid-teens BC”). 2   Boucher 19802, p. 156.

Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 209-239 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112120

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Properzio, il patriottismo della cui ultima elegia eziologica ha molto enfatizzato il Boucher 3, non estende il novero di tali eroi, ed anzi lo ribadisce, significativamente, tanto al­l’inizio quanto alla fine della composizione 4. La materia del­l’elegia costituisce per il poeta l’ascesa lungo un percorso grande (magnum iter ascendo, v. 3), allo stesso modo in cui l’aition del tempio di Apollo Palatino aveva costituito un novum iter (4,6,10). Ad un’introduzione di 4 versi, seguono: 18 versi (5‑22) dedicati alle gesta di Romolo, che uccise Acrone, capo dei Cenini; 16 versi (23‑38) dedicati alle gesta di Corne‑ lio Cosso, che uccise Lars Tolumnio, capo dei Veienti; 6 versi (39‑44) dedicati a Claudio Marcello, che uccise il re gallico Viri‑ domaro; se già si può notare, oltre al fatto che l’elegia è la più breve del IV libro, anche la riduzione progressiva – in genere spiegata chiamando in causa l’asimmetria cara alla tecnica di composizione ellenistica 5 – dei versi dedicati ad ognuno dei per‑ sonaggi a mano a mano che si va dal primo al terzo, è inol‑ tre rimarchevole che al­l’etimologia di Feretrio, che dovrebbe appunto costituire l’aition su cui si incentra tutta l’elegia, Proper‑ zio dedichi solo i 4 versi finali (45‑48), così che il lettore corre il rischio di “dimenticarsi” del problema di fondo 6. Il fatto che arma sia posto al principio del primo pentametro (v. 2) e ricom‑ paia quasi alla fine del­l’ultimo esametro (v. 47) ha indotto talvolta a considerare la parola come la chiave contenutistica del compo‑ nimento, che si incentrerebbe sulle armature sottratte al nemico; in realtà tale chiave contenutistica del componimento va piut‑ tosto ricercata nel rapporto tra questo e l’attualità politica, con gli stessi eroi del passato che acquistano significato nella misura in cui l’ideologia augustea intendeva riutilizzarne il contesto sto‑ rico o mitologico ed il valore paradigmatico.

  Boucher 19802, pp. 150 ss.   V. 2: armaque de ducibus trina recepta tribus; v. 45: nunc spolia in templo tria condita. Cfr. Harrison 1989, p. 411; insisteva sulla “composizione ternaria” che sarebbe alla base di tutta l’elegia Alfonsi 1948‑1949, pp. 186 ss. 5   Cfr. Cairns 2006, p. 290, che però chiama in causa anche la circostanza, condivisibile e su cui torneremo, per cui “the star of  the Claudii Marcelli had set when Augustus’ nephew and heir presumptive, the last male representative of  his family, died in 23 BC during his aedileship”. 6  Così giustamente Garani 2007, p. 104. 3 4

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GIOVE FERETRIO IN PROPERZIO: STORIA E MITO

Romolo è il primo personaggio ad aver riportato gli spolia opima, e nella produzione properziana ben si osserva l’evolu‑ zione del­l’approccio al mitico fondatore di Roma, che ancora in 2,6,19 era individuato come criminis auctor, fratricida e rapitore delle Sabine, e che qui nel IV libro è invece osservato nelle sue gesta di eroe della patria; nel­l’elegia 6, infatti, la corretta osser‑ vazione da parte di Romolo del volo degli uccelli è sancita dal trionfo di Ottaviano ad Azio (vv. 43‑44), e dunque Properzio introduce fin da allora nella sua poesia il legame tra il primo eroe ed il giovane vincitore delle guerre civili. Con questo, Properzio si allineava ai riferimenti tutti elogiativi che al fondatore di Roma avevano fatto Virgilio così come Orazio: se infatti il Mantovano già nelle Georgiche (1,498 ss.) inserisce l’esortazione a Romolo, fra le altre divinità, a portare aiuto ad Ottaviano che cercava di porre fine alle guerre civili, nel­l’Eneide con le parole di Giove guarda sotto una luce positiva il suo svezzamento ad opera della lupa (1,275: nutricis tegmine laetus), in antitesi con il nutritus duro, Romule, lacte lupae che era stato di Properzio 2,6,20, dove durus aveva chiaro valore di ipallage; il poeta umbro, nel­l’ultimo e più augusteo dei suoi libri, avrebbe ancora potuto alludere malevol‑ mente allo svezzamento di Romolo solo per bocca di Tarpea, che tradisce qui non per cupidigia ma per amore di Tazio, e che definisce Romolo sine matris honore (v. 53). Soprattutto, Virgilio è estremamente accorto nel trattare Romolo in maniera con‑ sona al ruolo conferitogli da Ottaviano-Augusto e su cui torne‑ remo ampiamente: il fratricidio non è evocato, ed anzi Romolo e Remo non vengono mai chiamati per nome entrambi nel medesimo contesto, con il secondo inoltre menzionato il meno possibile; Romolo è presentato come assurto al rango di divinità, né si accenna a quanto la tradizione aveva introdotto in uno dei suoi rami, ossia la sua morte ad opera dei patres 7 – con il che Vir‑ gilio andava anche in questo caso nel senso atteso da Augusto, prendendo posizione a favore della leggenda “buona” di Romolo ed obliterando quella negativa, coesistente e che lo voleva mirare alla tirannide.

7  Liv. 1,16,4: Fuisse credo tum quoque aliquos qui discerptum regem patrum manibus taciti arguerent.

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Orazio, dal canto suo, nel­l’ode 1,12 – in cui esorta Augu‑ sto alla conquista orientale tanto cara a Mecenate 8 – annovera Romolo e le sue gesta fra le pagine più gloriose della storia romana (vv. 33 ss.), e nel­l’ode 2,15 pone a modello anche gli ordina‑ menti sociali del primo re, che, come quelli di Catone e in gene‑ rale quelli raccomandati dal mos maiorum, privilegiavano gli inte‑ ressi dello Stato e non le ambizioni dei singoli. Tornando al­l’elegia properziana, il competitore di Romolo è Acrone, re della città sabina di Cenina (presso Tivoli), che nel 752‑51 portava contro Roma un esercito perché preoccupato della sua politica belligerante culminata nel ratto delle Sabine 9; è fatto discendere da Ercole (Herculeus, v. 9), al quale Tivoli era sacra. La sua ambizione, ai limiti del­l’empietà, di riportare le spoglie ex umeris Quirini (v. 11) ha l’effetto di avvicinare il re a Cleopatra, che a sua volta aveva, in un passato molto prossimo, portato una temibile minaccia contro Roma (vd. 3,11,41 ss.): nel caso di Cleopatra il proposito sacrilego era stato punito con la sua messa in fuga e le catene (3,11,51‑52), mentre nel caso di Acrone con la presa dei suoi spolia  ... non sanguine sicca suo (vv. 11‑12). Si potrebbe quasi parlare di una vera e propria legge di nemesi per il troppo aver osato: lo stesso Romolo viene pre‑ sentato come il difensore di Roma da chi la attaccava alle porte (v. 7: tempore quo portas Caeninum Acrona). La strategia poetica è quella – già usata da Virgilio nello scudo di Enea per Marco Antonio e le sue guerre partiche 10 – di esal‑ tare oltremodo l’avversario di Romolo per magnificare ancor più la vittoria di quest’ultimo: Acrone, appunto stirpe di Ercole, in quel tempo era finibus horror (v. 10). Forse c’è anche un’allu‑ sione in senso filoaugusteo ad un episodio della storia recente in questo spiccato rilievo conferito da Properzio al legame tra il competitore di Romolo, Acrone, ed Ercole, tanto più che Cenina era molto vicina a Tivoli, città sede di un tempio del­ l’eroe divinizzato e antesignana del suo culto: alla fine di novem‑ bre del 43, dopo aver vanamente cercato di far dichiarare dal

  Cfr. Cristofoli 2008 e Cristofoli 2014, pp. 204 ss.   Fasti triumph. 752‑51; Liv. 1,10,1 ss.; Dion. Hal. 2,33; Plut., Rom. 16,1‑3; cfr. inoltre Val. Max. 3,2,3; Flor. 1,1,11. 10  Cfr. Cristofoli 2008a, pp. 196 ss. 8 9

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senato Ottaviano hostis publicus, Antonio lasciò Roma, ma prima di portarsi al­l’assedio di Decimo Bruto a Modena si recò proprio a Tivoli, dove ricevette un caloroso consenso dai maggiorenti e dal popolo, e rese omaggio al santuario di Ercole, che riteneva capostipite della propria gens 11. In questo senso, quella narrata nella 4,10 rappresenta la vittoria di Romolo sul protetto di un Ercole del tipo degradato, che nella poesia augustea coesiste con l’Ercole del tipo nobile 12. L’invocazione di Romolo a Giove prima dello scontro con Acrone non è attestata nella tradizione precedente a Proper‑ zio: dopo di lui, la ritroveremo solo nella biografia plutarchea (Rom. 16,3). Interessante notare come la vittoria su Acrone divenga per Romolo viatico per ulteriori successi: Urbis virtutisque parens sic vincere suevit (v. 17). Romolo vincitore di Acrone si eleva poi anche a modello di perfetta incarnazione del mos maiorum in ambiti ulteriori rispetto a quello della guerra: il primo re viene descritto come prototipo del­l’umiltà della vita dei tempi antichi (vv. 17 ss.), con allinea‑ mento properziano alla celebrazione oraziana della povertà utile alla guerra (Carm. 1,12,41 ss.) e ideale da contrapporre alla mol‑ lezza dei tempi (Carm. 2,15). Livio, Dionigi di Alicarnasso e Plutarco sono, soprattutto se combiniamo insieme le loro testimonianze, esaustivi nel descri‑ vere come, al culmine di una processione identificata da Dio‑ nigi di Alicarnasso come la prima trionfale, Romolo, non ignaro anche del­l’efficacia comunicativa e propagandistica di un evento spettacolare, con l’alloro sul capo e con al seguito l’esercito, intonando un canto di vittoria abbia recato a Giove le armi di Acrone (spolia opima: Plutarco 13 dà conto del­l’opinione di Var‑ rone che fa derivare opima da opes = ricchezze, ma preferisce pen‑ sare ad opus = azione di valore; Festo 14 invece chiama in causa Opis, moglie di Saturno) dopo averle appese ad una quercia sacra ai pastori trasformata in trofeo; quindi assegnò a Giove stesso

  Cfr. Cristofoli 2010, pp. 68 ss.   Cfr. Fedeli 2014, pp. 400 ss. 13  Plut., Rom. 16,6. 14  Fest., p. 202 Lindsay: opima spolia dicuntur originem quidem trahentia ab Ope Saturni uxore. 11 12

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la denominazione di Feretrio, e tracciò – forse sul colle Capi‑ tolino – il perimetro di un’area sacra con i lati più lunghi infe‑ riori ai quindici piedi, che avrebbe coinciso poi, nel­l’evoluzione del luogo di culto primitivo costituito da una capanna, con il primo tempio di Roma 15. Al suo interno, come signum di Giove Feretrio, era custodita una pietra dura, che simboleggiava il fulmine e che è stata identificata da Andrea Carandini con il lapis silex 16. L’elegia 4,10 presenta poi l’episodio di Aulo Cornelio Cosso 17, che contiene al suo interno una strana commemora‑ zione – ripresa inopinatamente da Floro (1,6,11) – della città di Veio, scomparsa dopo l’assedio decennale e la sconfitta da parte dei Romani, e di cui si rievoca la potenza di un tempo (v. 24: vincere cum Veios posse laboris erat), con un accentuato contrasto tra passato (richiamato da tum al v. 27) e presente (nunc in posi‑ zione enfatica al principio del­ l’esametro al v. 29); Properzio arriva a contrapporre la triste sorte di abbandono della Veio dei suoi giorni agli antichi fasti regali (vv. 27‑30: heu Vei veteres! Et vos tum regna fuistis / et vestro posita est aurea sella foro: / nunc intra muros pastoris bucina lenti / cantat, et in vestris ossibus arva metunt), e l’ispirazione difficilmente potrebbe essergli derivata da Erodoto 18, poiché lo storico di Alicarnasso, nel celebre passo 1,5,3‑4, teorizzava a mo’ di chiosa l’ineluttabilità della migra‑ zione della felicità umana, ciò che sarebbe stato letto fatalmente 15  Liv. 1,10,5‑7: Inde exercitu victore reducto, ipse cum factis vir magnificus tum factorum ostentator haud minor, spolia ducis hostium caesi suspensa fabricato ad id apte ferculo gerens in Capitolium escendit, ibique ea cum ad quercum pastoribus sacram deposuisset, simul cum dono designavit templo Iovis fines cognomenque addidit deo. «Iuppiter Feretri» inquit, «haec tibi victor Romulus rex regia arma fero templumque his regionibus, quas modo animo metatus sum, dedico, sedem opimis spoliis quae regibus ducibusque hostium caesis me auctorem sequentes posteri ferent». Haec templi est origo quod primum omnium Romae sacratum est. Ita deinde diis visum, nec inritam conditoris templi vocem esse, qua laturos eo spolia posteros nuncupavit nec multitudine compotum eius doni volgari laudem. Bina postea inter tot annos, tot bella, opima parta sunt spolia: adeo rara eius fortuna decoris fuit; Dion. Hal. 2,34,2‑4; Plut., Rom. 4‑6 ed inoltre Marc. 8,1‑10. Cfr. Springer 1954, p. 28. 16  Carandini 2007, p. 79 s. 17  Liv. 4,19‑20; Dion. Hal. 12,5; cfr. inoltre Manil., Astron. 1,788; Val. Max. 3,2,4; Flor. 1,6,8‑10. B. Scardigli ha giustamente notato che “i personaggi della monarchia sono presi in considerazione solo se formano un’unità con un gruppo di figure della Repubblica” (2008, p. 156). 18  Così invece Hutchinson 2006, p. 226 ad loc.

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come un cattivo auspicio per la stessa Roma, che rischiava di essere identificata con una di quelle entità che Erodoto definiva nel presente grandi, ma prima trascurabili. Piuttosto che pensare – come è stato fatto – ad una “tension with the patriotic persona” da spiegarsi sulla base delle origini umbre di Properzio 19, se non addirittura ad una simpatia verso un re di Veio di nome Propertius 20, penseremmo piuttosto, per questa fase della poesia properziana ben poco incline a punte polemiche, alla riconciliazione, e al­l’opportunità di integrazio­ne – sostenuta anche da Virgilio ma soprattutto da Mecenate – tra la componente etrusca e l’ideologia augustea, e che nel caso di Veio, la quale vantava Enea come fondatore anche l’edi­ suo, sarebbe presto stata simbolicamente suggellata dal­ ficazione avvenuta poco dopo di un piccolo insediamento nel luogo della città di un tempo 21; inoltre, è presente nel testo quella deplorazione del tempus edax e della caducità delle sorti umane (“poesia delle rovine”, come la definì La Penna 22) sem‑ pre congeniale ai poeti, e pregevole è il parallelo ricordato da Paola Pinotti 23 tra in vestris ossibus arva metunt di v. 30 e l’agricola virgiliano che in Georg. 1,497 grandiaque effossis mirabitur ossa sepulchris. Del resto lo stesso quarto libro di Properzio si apre con un’elegia, la quale fin dal­l’esordio ricorda che, prima del­l’arrivo di Enea, Roma collis et herba fuit (v. 2), e dove, ai vv. 33 ss., con un procedimento analogo a quello della nostra elegia 4,10, si riafferma l’originaria piccolezza della città di un tempo, e la si mette a confronto con l’inversa sorte di Gabii, qui nunc nulli, ma che era allora maxima turba. Postulare invece

  Garani 2007, p. 109.   Serv. Auct., ad Aen. 7, 697; cfr. Pinotti 2004, p. 201. 21  In età imperiale è attestato il municipium Augustum Veiens: vd. CIL XI, 3797 e cfr. Jones 1963, p. 773 (lo studioso postula l’esistenza di una colonia in‑ sediata da Cesare sul territorio di Veio fin dal 46, e in conseguenza della guerra di Perugia venuta meno come tale e unita a un ipotetico centro urbano di Veio); Bitto 1971, pp. 109‑17 (la quale pensa che Veio venne sì ricostruita in età augustea, ma senza che i suoi organi di governo potessero esercitare in loco le loro funzioni, dovendo a tal fine riunirsi a Roma nel tempio di Venere Geni‑ trice: cfr. soprattutto CIL XI, 3805). 22  1977, p. 190 s. 23  2004, p. 201. 19 20

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– come Zecchini 24 – che il poeta elegiaco abbia visto in Veio “il simbolo del comune sacrificio del­l’Etruria tutta, destinata a confluire, non senza nostalgia, nella grandiosa costruzione poli‑ tica di Roma”, forse amplifica una prospettiva non più temibile per il Properzio del IV libro. Anche in questo caso sono gli dei che favoriscono le forze di Cosso (v. 37: di Latias iuvere manus) facendo vincere lo scontro in singolar tenzone al personaggio romano, dopo un duello sul cui svolgimento Properzio ci lascia del tutto al­l’oscuro, mentre il poeta è l’unico ad attestare il colloquio tra Cosso e Tolumnio prima di esso: tale colloquio viene ricondotto al­l’affacciarsi for­ tuito (forte, v. 31) del re di Veio super portae ... arcem. Da una parte degli studiosi è stata enfatizzata la componente “sangue dei vinti” per inferire una posizione properziana di sde‑ gno verso una gloria di Roma dal carattere cruento: in quest’ot‑ tica, la desecta Tolumni cervix che lava del sangue del re i cavalli romani avrebbe il suo parallelo anche infra nel­l’elegia nel­l’incisa gula di Viridomaro. Anche volendo prescindere dalla nostra inter‑ pretazione globale della poetica properziana, presentata in lavori passati e sulla quale non torniamo a soffermarci nel dettaglio in questa sede, e limitandoci a ribadire l’allineamento di Pro‑ perzio al­l’ideologia augustea che dal IV libro diviene completo, è proprio metodologicamente che tutto il procedimento sarebbe molto rischioso: allora al v. 22 i caesi boves, vittime della necessità di procurare cinture per gli scudi, andrebbero interpretati come una polemica animalista? L’episodio del­l’uccisione di Tolumnio è poi molto proble‑ matico a livello di cronologia dei fatti, sia nella tradizione pre‑ cedente a Properzio, sia nel poeta umbro stesso. Properzio, sia pure in una maniera molto più vaga di quanto non sia sembrato ad altri studiosi, facendo riferimento ad un assedio (vv. 31 ss.) e soprattutto inserendo la succitata commiserazione per la caduta di Veio dalla sella della storia, sembra collocare (come Floro 25, di nuovo) la vittoria di Cosso – di cui non precisa la carica – al­l’interno del terzo ed ultimo conflitto tra Roma e la città etru‑ sca, svoltosi a cavallo tra il V ed il IV secolo, e dunque proiettare   2005, p. 100.   1,6,8.

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il personaggio protagonista del secondo conflitto in un conte‑ sto non suo 26. Cosso, dopo il tribunato militare del 437, rag‑ giunse il consolato nel 428, e fu nel 426 tribunus militum consulari potestate ed inoltre magister equitum. Valerio Massimo e Frontino, parlando rispettivamente in 3,2,4 e in Stratag. 2,8,9 di Cosso vincitore come di un magister equitum, rimandano al 426 27; invece Dionigi di Alicarnasso 12,5,1 presenta Cosso come un χιλίαρχός τις ῾Ρωμαῖος (un tribuno militare romano qualsiasi, quale Cosso era nel 437 28), allo stesso modo di Livio 4,19,1: Servio, ad Aen. 6,841 specifica che Cosso era un tribuno militare sì, ma consulari potestate, il che ha l’aria di essere un tentativo di normalizzazione, e comunque porterebbe ad abbassare la cro‑ nologia di nuovo al 426, l’anno in cui Cosso fu anche magister equitum, come attestato da Valerio Massimo e Frontino sopra ricordati, ed inoltre da Diodoro Siculo 29. Una collocazione cro‑ nologica del­l’impresa di Cosso al 437, stabilita appunto da due autori di peso quali Dionigi di Alicarnasso e Livio, rivestirebbe un particolare significato, perché individuerebbe Cosso come un personaggio che, nel momento in cui sconfisse il re di Veio in singolar tenzone, come semplice tribuno militare non avrebbe potuto detenere auspici suoi propri, e combatteva sotto quelli del dittatore Mamerco Emilio Mamercino. Nella nostra elegia 4,10 incontriamo poi l’episodio del duello del cinque volte console Marco Claudio Marcello, obliterato dalla narrazione del filoscipionico Polibio, e che si colloca nel 222 a Clastidium nel quadro del­l’avanzata di Roma nel territo­ rio dei Galli Insubri 30; come già detto, esso si contraddistingue per la sua breve estensione, specie se rapportata a quella riservata   Cfr. Hutchinson 2006, p. 225 ad loc.   L’anno del comando supremo della cavalleria è per Cosso il 426 (nel 437 ebbe la carica L. Quinzio Cincinnato: cfr. Broughton 1951, p. 59), durante la terza dittatura di Mamerco Emilio Mamercino, mentre Aur. Vict., De vir. ill. 25, attribuendo il grado di magister equitum a Cosso nel­l’anno della seconda ditta‑ tura di Cincinnato, anticipa la sua carica improbabilmente al 439. 28   Cfr. Broughton 1951, p. 59. 29  12,80,7: ... Αὖλον Κορνήλιον ἵππαρχον. 30  Plut., Marc. 6,4‑7, dove si parla del­ l’uccisione da parte di Marcello di Britomarto re dei Galli Gesati; cfr. Manil., Astron. 1,788; Val. Max. 3,2,5; Front., Stratag. 4,5,4; Flor. 1,20,5 (con la stranezza delle armi di Viridomaro prima promesse a Vulcano). 26 27

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alle imprese dei due precedenti personaggi ed anche alla eco che la vittoria di Marcello aveva avuto nella cultura latina, grazie alla praetexta di Nevio: ancora pochi anni prima dell’elegia proper‑ ziana, Varrone aveva intitolato Marcellus un logistorico sulla virtus. Il vincitore, in quel­l’anno al suo primo consolato, del re gallico Viridomaro 31 – descritto virgatis  ... bracis (v. 43) con tocco di un esotismo che avevamo ampiamente osservato anche nella descrizione di Cleopatra – viene introdotto nel­ l’elegia properziana come Claudius e basta (v. 39): l’effetto è quello di andare oltre la celebrazione di Marcello e di quel ramo della gens, e di coinvolgervi la famiglia di Livia – appartenente a un altro ramo della medesima gens Claudia – nel momento in cui i suoi due figli Druso e Tiberio cominciavano a guardare alle conquiste sul fronte settentrionale 32. Sarebbe altresì suggestivo poter interpretare la rievocazione del­l’impresa gallica di Marco Claudio Marcello anche in fun‑ zione di omaggio – e in analogia con Virgilio 33 – del­l’astro nascente figlio del console del 50 e di Ottavia, se Grimal 34 avesse realmente colto nel segno ritenendo l’elegia 4,10 composta nel 23, subito prima della morte a Baia del giovane non ancora ventenne, che nel 25 aveva sposato la figlia di Augusto e già nel trionfo aziaco aveva cavalcato alla destra di Ottaviano, con Tiberio tenuto invece alla sinistra 35. In onore del nipote scom‑ parso, cui nel 24 aveva concesso pontificato, questura, edilità e la prerogativa di sedere in senato con gli ornamenti pretorii, Augusto stesso pronunciò un elogio funebre 36 – che forse sta a monte di molti aspetti tanto della celebrazione virgiliana quanto di Properzio 3,18 –, e ne dispose la tumulazione nel Mausoleo fatto costruire presso il Campo Marzio. Ma l’ipotesi del Grimal – che si inserisce nel filone dei tentativi di retrodatazione di

31  La dedica degli spolia da parte di Marcello è storicamente ancor più si‑ gnificativa dopo l’ormai nota ipotesi della Flower (2000, pp. 41 ss.), secondo la quale sarebbe stato il vincitore di Viridomaro a creare la mistica degli spolia opima con Giove Feretrio come divinità più adatta a ricevere l’offerta. 32  Cairns 2006, p. 290. 33   Aen. 6,855 ss. 34  Grimal 1954, p. 44. 35  Suet., Tib. 6,4. 36  Orat. fr. 11 Malcovati5.

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quest’elegia – contrasta, oltre che con i tanti studi sulla cronolo‑ gia dei libri di Properzio, soprattutto con l’evoluzione generale della sua ideologia poetica, che ha la corda eroica solo come approdo finale; va anzi considerata l’ipotesi opposta, ossia che proprio con la morte di Claudio Marcello ed il relativo conse‑ guente ridimensionamento almeno di quel ramo della famiglia, fosse venuto meno anche per Properzio l’interesse a soffermarsi sul terzo personaggio che dedicò gli spolia opima, quando negli anni del suo IV libro esaltare l’antenato di Marcello avrebbe potuto contrariare sia Augusto che Agrippa (che secondo Velleio Patercolo 37 aveva lasciato Roma per contrasti con Marcello, e vi era tornato solo dopo la morte di quello). Già nel­l’epicedio (elegia 3,18) dedicato da Properzio al gio‑ vane Marcello morto nel settembre del 23 troviamo solo pochi accenni al­l’illustre antenato: dopo il v. 11, in cui si fa riferimento al genus del nipote di Augusto, significativamente il vincitore di Casteggio viene introdotto sulla scena con la rievocazione non di questa, ma di un’altra sua impresa – invece obliterata nel­l’opera virgiliana –, la conquista di Siracusa del 212 (v. 33: Siculae victor telluris Claudius), che gli vale l’accostamento a Giulio Cesare e la via per le stelle. Pare notevole che Properzio, nel terzo libro pubblicato nel 22‑21 circa, propagandasse piuttosto il legame di Marco Claudio Marcello con la Sicilia e non quello con le guerre galliche e gli spolia opima; il poeta contrassegna così la sua poe‑ tica di quel periodo con un apparente sfasamento, per il quale, poco prima della fine degli anni Venti, enfatizza i trionfi dei Claudii Marcelli in Sicilia come aveva fatto in un denario aureo del 38 P. Cornelio Lentulo Marcellino 38: con sul recto la testa del­ l’antenato Claudio Marcello e la trìscele della Trinacria, e solo sul verso la dedica a Giove Feretrio degli spolia opima presi a Viridomaro, la coniazione di Lentulo Marcellino rifletteva l’attualità politica del­l’inizio degli anni Trenta, quando a soli tre anni Marco Claudio Marcello, nipote di Augusto, veniva fidan‑ zato alla figlia di Sesto Pompeo, e si intendeva probabilmente

37  2,93,1‑2; sulla gelosia di Agrippa verso Marcello, o comunque sulla vi‑ cenda del loro rapporto politico, cfr. anche Plin., Nat. Hist. 7,46,149; Suet., Aug. 66,3; Tib. 10,2 ss.; Cass. Dio 53,32,1. 38  Sydenham 1952, p. 187, n. 1147.

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affermare la posizione di forza di una parte dei contraenti il patto esprimendo un auspicio di vittoria. Ma una propaganda in que‑ sto senso alla fine degli anni Venti non sarebbe stata più in linea con l’attualità né con il contesto politico, e la rievocazione properziana delle vittorie sulla Sicilia era funzionale, piuttosto, ad evocare la gloria – in continuità con quella di Marcello – del primo princeps e del suo successore designato, Agrippa, per la vittoria sul mare contro Sesto Pompeo. Anche in questo caso vediamo dunque come Properzio nel quarto libro si allinei, proseguendo un percorso che già nel terzo libro era stato intrapreso in relazione a molti aspetti e personaggi, alle attese di Augusto: nel­l’elegia dedicata a Giove Feretrio non si poteva legare Marcello alla Sicilia, ma lo spazio dato al­l’impresa gallica rendeva perfettamente, con la sua brevità, l’idea di una pagina che meno delle altre conservava significati per il presente. Venendo alla parte finale – prima di ripercorrerne l’insieme in cerca di spunti di riflessione – del­l’elegia per Giove Feretrio, che intendeva appunto spiegare “le origini” (causa) del­l’ap­ pellativo, Properzio fornisce di esso non una derivazione uni‑ voca, ma, come per Vertumno nella seconda elegia del libro IV, più di una possibilità interpretativa: a) omine quod certo dux ferit ense ducem, ossia il fatto di colpire (e quindi ferire) di spada con sicuro auspicio il comandante nemico da parte di un coman‑ dante; b) seu quia victa suis umeris haec arma ferebant, ossia la cir‑ costanza che vedeva le armi degli sconfitti essere portate (fero) in spalla dai vincitori. Negli stessi tempi di Properzio, Dionigi di Alicarnasso (2,34,4) aveva a sua volta propugnato l’etimologia di Feretrio da fero, mentre più avanti Plutarco, nella sua accurata descri‑ zione della processione con dedica finale delle armi a Giove (Marc. 8,1‑10), riporterà sia l’opinione di quanti pensavano al termine greco ϕέρετρον ad indicare la portantina con cui si trasportava il trofeo, sia l’opinione di quanti pensavano invece al­ l’attributo di saettatore di fulmini rivolto a Giove (ferire = scagliare); ma subito dopo Plutarco aggiunge la possibilità di una derivazione da ferire = colpire, che era una proposta di deriva‑ zione anche properziana. Gli studiosi hanno tuttavia fatto notare che, nel caso di una derivazione di Feretrio da ferire, essa non riguarderebbe l’azione concreta del colpire un nemico, bensì 220

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quella astratta di stringere un patto, di affidarsi a qualcuno, anche a una divinità 39. L’elegia si chiude con il riferimento al­l’ara di Giove Fere‑ trio, definita superba (v. 48): la costruzione di un’ara nel sacellum seguiva quella che doveva essere la prima fase del­l’instaurazione di un culto, che prevedeva innanzitutto un’area sacra al numen, e si concludeva con l’erezione del tempio vero e proprio 40. Il rapporto del­l’elegia properziana 4,10 con l’attualità e con l’ideologia politica consisteva in due circostanze, che restano entrambe apparentemente sullo sfondo della composizione, ma che in realtà ne sono a monte: a) la volontà di OttavianoAugusto, corroborata anche dal parere a riguardo di Attico 41, di rilanciare il culto di Giove Feretrio – una volontà infusagli dal­l’intento personale di ricollegarsi a Romolo e di affermare l’eroismo antico, cui può inizialmente non essere stata estra‑ nea certa pressione in tal senso dei Claudii Marcelli, se è vero che proprio loro avevano commissionato allo stesso Attico 42 la stesura di uno stemma genealogico familiare, in cui ovvia‑ mente doveva brillare il vincitore di Casteggio; Ottaviano fin dal 31 fece partire, ancor più che il restauro, la ricostruzione del tempio di Giove Feretrio 43; b) la questione dei presunti spolia opima riportati da Licinio Crasso, nipote del triumviro e figlio del primogenito di quello, Marco Licinio Crasso. I fatti di Crasso avevano già indotto un grande storico ad un’autosconfessione. Tito Livio, infatti, dopo che in 4,19,1 aveva definito Cornelio Cosso, che sarebbe presto stato cele‑ brato anche da Virgilio 44, come un semplice tribuno militare nel momento in cui uccise Lars Tolumnio, ebbene in 4,20,5‑11 prende a sviluppare una discussione sul grado militare di Cosso 45:   Cfr. Springer 1954, p. 28.   Cfr. Springer 1954, p. 29. 41  Corn. Nep., Att. 20,3: ... accidit, cum aedis Iovis Feretrii in Capitolio, ab Romulo constituta, vetustate atque incuria detecta prolaberetur, ut Attici admonitu Caesar eam reficiendam curaret. 42  Corn. Nep., Att. 18,4. 43   Aug., Res Gest. 19,2. 44  Verg., Aen. 6,841: Quis te, magne Cato, tacitum aut te, Cosse, relinquat? 45  Cfr. a riguardo, oltre al commento puntuale di Ogilvie (1965, pp. 563 ss.), Garani 2007, pp. 101 ss. 39 40

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al­l’interno di essa smentisce se stesso. Questa sezione è certa‑ mente un’inserzione successiva 46 (già il Dessau 47 parlava di una falsificazione), apportata probabilmente intorno al 27‑26 a.C. nel IV libro di una pentade ritenuta ormai composta a partire da una data precedente a quel­l’instaurazione del Principato che si era affermata come t.p.q. dopo gli studi del Dessau, e che invece è vista, piuttosto, come un t.a.q. dopo quelli del Luce; a proposito di questa digressione, Sailor ha opportunamente parlato di un procedimento di “religious fabrication” sullo stesso piano delle leggende circa gli incontri notturni di Numa con Egeria 48: solo la religio può avallare la versione che Livio riporta e riconduce ad Ottaviano-Augusto. Livio reca il dato – per la verità contraddetto anche dalle testimonianze presen‑ tate supra – che tutti gli autori precedenti avevano attribui­to a Cosso vincitore appunto il grado di tribunus militum; ma subito prende le distanze: dopo aver precisato che in ogni caso ea rite opima spolia habentur, quae dux duci detrahi, nec ducem novimus nisi cuius auspicio bellum geritur, stabilendo quindi che solo colui sotto i cui auspici la guerra viene condotta è il dux, Livio attesta di aver infine appreso che Ottaviano-Augusto era entrato nel tem‑ pio di Giove Feretrio – che aveva fatto restaurare – e aveva avuto modo di leggere un’iscrizione presente in quegli stessi spolia opima dedicati da Cosso (precisamente, in thorace linteo). L’iscrizione che si leggeva nel corsaletto di lino – l’improbabilità della cui conservazione dopo quattro secoli non viene proble‑ matizzata dallo storico – specificava che Cosso aveva riportato quegli spolia quando deteneva il grado di console (se A. Cornelium Cossum consulem), ciò che smentirebbe sia la precedente ver‑ sione di Livio che quella degli altri autori, i quali avevano repu‑ tato invece che Cosso fosse stato tribuno militare del dittatore Mamerco Emilio Mamercino al momento in cui vinse e uccise Lars Tolumnio – quindi nel 437 –, anziché console insieme con T. Quinzio Peno (4,20,8). La propaganda del vincitore delle guerre civili intendeva quindi affermare che solo chi aveva auspici propri poteva con‑   Cfr. Luce 1965, pp. 209‑40.   Dessau 1906, pp. 142‑51. 48  Sailor 2006, pp. 335 ss. 46 47

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sacrare gli spolia opima nel caso di vittoria in duello sul coman‑ dante nemico: e lo faceva attribuendo a Cornelio Cosso il rango consolare nel momento in cui aveva sconfitto Lars Tolumnio e dedicato i suoi spolia. Poco prima, Varrone Reatino si era invece espresso in senso contrario, confermando la possibilità di offerta degli spolia opima anche se ad uccidere il comandante nemico non fosse stato un comandante in capo romano: come attestato da Festo 49, riteneva infatti che opima spolia esse, etiam si manipularis miles detraxerit, dummodo duci hostium ...; sulla base di Aen. 10,449 s., anche Virgilio doveva condividere questa posi‑ zione, se Pallante può definire spolia opima quelli eventualmente presi a Turno. Ma perché, in quel momento, le vicende del sopra ricordato Marco Licinio Crasso 50 richiedevano di puntualizzare il rango di Cosso vittorioso sul re di Veio, conferendo alla sua tipologia un’importanza tale da indurre Ottaviano-Augusto ad esporsi per‑ sonalmente a sostegno di un’interpretazione che andava in senso opposto a quella di un’autorità come Varrone, e lo stesso Livio a ritrattare quanto scritto poco prima smentendo se stesso? Cassio Dione, in 51,23,2 ss., ci riassume la biografia di Marco Licinio Crasso, nipote del triumviro e figlio del questore del 54; fu dapprima sostenitore di Sesto Pompeo, ma poi passò ad Antonio, ed alla vigilia di Azio da Antonio ad Ottaviano, e venne ricompensato – nonostante non avesse ancora rico‑ perto la pretura – con il consolato del 30 come collega di carica del vincitore delle guerre civili; nel 29‑28, poco più che tren‑ tenne, andò come proconsole in Macedonia (quando ancora i governatori provinciali non erano legati del princeps), e lì ed in Grecia si trovò a combattere contro i Greci e i Bastarni. 49  Fest., p. 204 Lindsay; il passo attinto da Varrone specifica altresì che esi‑ steva una legge di Numa Pompilio, per i cui effetti c’erano tre differenti ti‑ pologie di spolia opima: prima, da offrirsi a Giove Feretrio; secunda, da offrirsi a Marte; tertia, da offrirsi a Giano Quirino. Vd. anche Serv., ad Aen. 6,859 e cfr. Dumézil 1966, pp. 171 ss.; p. 190 s. 50  Vd. inoltre Liv., Per. 134 e 135; ILS 8810 (una base di statua in onore di Marco Licinio Crasso dal­l’Acropoli di Atene, in cui si parla di lui come di un ἀνθύπατος e αὐτοκράτωρ = proconsul e imperator); Hor., Carm. 3,8,16. Cfr. fra i molti altri Groag 1926, coll. 270‑85; Gagé, 1930, pp. 172 ss.; Syme 1962, p. 309 s. (cfr. anche 1993, pp. 402 ss.); Cresci Marrone 1993, pp. 154 ss.; Rohr Vio 2000, pp. 157 ss.; Rocco 2003, pp. 45‑69; Levick 2013, pp. 78 ss.

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Questi ultimi avevano passato il Danubio, preso possesso di parte della Mesia, e compiuto incursioni ai danni dei Triballi e dei Dardani; in più, avevano invaso la Tracia Denteleta, con ciò attirandosi la reazione romana. Dopo aver messo in fuga i Bastarni, Crasso andò ad impelagarsi in un difficoltoso asse‑ dio dei Mesi in Tracia, ciò che indusse i Bastarni ad arrestare la ritirata. In uno degli scontri successivi, Crasso uccise perso‑ nalmente il re dei Bastarni Deldo, e come dice espressamente Cassio Dione, κἂν τὰ σκῦλα αὐτοῦ τῷ Φερετρίῳ Διὶ ὡς καὶ ὀπῖμα ἀνέθηκεν, εἴπερ αὐτοκράτωρ στρατηγὸς ἐγεγόνει (51,24,4). Lo storico severiano si sofferma poi sulle successive operazioni militari di Crasso, dopo aver ricordato che gli fu decretato il trionfo nel luglio del 27 (51,25,2), ma non il titolo di imperator: la testimonianza contrasta con quella del­l’iscrizione sulla base della statua ad Atene, e, dopo aver cercato di accordare le due testimonianze, a partire da un celebre studio del Badian gli studiosi prestano fede alla seconda ritenendo in errore Cassio Dione 51, dal momento che pare difficile che Augusto, il quale dal 19 escluse di fatto dal­l’onore del trionfo quanti non fossero suoi potenziali successori 52 –, pochi anni prima fosse invece stato disposto ad accordarlo a un uomo contestualmente privato del titolo di imperator 53. Il primo princeps, quindi, con la storia ben propagandata della sua “scoperta” del­l’iscrizione sul corsaletto di lino offerto da Cosso che attesterebbe il rango di console del­ l’eroe del V secolo nel momento in cui aveva sconfitto e ucciso di propria mano Lars Tolumnio, sembra essere stato animato dal­l’intento di non fare di Crasso il quarto eroe della storia romana ad aver riportato gli spolia opima, ciò che avrebbe proiettato su di lui un prestigio scomodo nel momento in cui tutta la luce doveva invece dirigersi verso chi aveva estinto le guerre civili ed inten‑

  Badian 1982, pp. 38 ss.; cfr. poi tra gli altri Rich 1996, pp. 93 ss.   Hickson 1991, pp. 124‑38 (secondo il quale i trionfi celebrati nel 27 in onore di Crasso, Messalla e Appuleio “commemorated victories won prior to 27 and thus do not reflect the restrictive policies of  the Principate”, p. 127). 53  Cfr. tra gli altri Mc Pherson 2009‑2010, p. 24 (“these errors all derive from Dio’s view of  the relationship between the princeps and proconsular go‑ vernors, and form a wider pattern of  misconceptions in which Dio retrojects later imperial developments into the early years of  Octavian’s dominance”). 51 52

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deva raccogliere i frutti della pace 54, e oltretutto aveva pensato per primo di avvalersi della mistica degli spolia opima restau‑ rando il tempio di Giove Feretrio 55 (non solo per promuovere i Claudii Marcelli) 56: nel suo recente libro su Augusto, Barbara Levick ha giustamente ricordato che “after 30, Augustus was still afraid of  rivals” 57. Non va dimenticato – per venire anche a quella che avevamo individuato come l’altra circostanza ideologico-politica che sta a monte del­l’elegia 4,10 – che, al­l’interno della sconfinata serie di onori decretati dal senato a Giulio Cesare vincitore dei pom‑ peiani, c’era anche il diritto di offrire al tempio di Giove Feretrio gli spolia opima, proprio come se avesse ucciso di sua mano un comandante nemico 58, e che nel Foro fatto costruire da Augu‑ sto e dedicato nel 2 a.C. sarebbe stata collocata una statua di Romolo nel­l’atto di offrire gli spolia presi al re Acrone 59: ciò che ci dà conto di come a quel­l’epoca il valore simbolico del rituale fosse radicato nel patrimonio tradizionale. Se sono nel giusto quanti 60 intendono vedere una simbolo‑ gia di Giove Feretrio dietro l’erma sovrastante un fascio di ful‑ mini presente sul recto dei denarii d’argento fatti coniare da Otta‑ viano – presente sul verso con in mano Vittoria – proprio alla vigilia della battaglia di Azio, allora Romolo, gli spolia opima, e la divinità destinata ad accoglierli dovettero assumere un rilievo del tutto specifico, specie al­l’indomani del­l’avveramento del suc‑ cesso, ma anche in seguito. Infatti, dopo aver ottenuto la resti‑ tuzione delle insegne sottratte dai Parti ai Crassi (e a Decidio Saxa e a Marco Antonio), Augusto le fece collocare in un pic‑ colo tempio consacrato a Marte Ultore e costruito per l’occa‑ sione, che non a caso sorgeva vicino al tempio di Giove Feretrio,   Cfr. tra gli altri Sailor 2006, p. 359; Levick 2013, p. 79.   Mc Pherson 2009‑2010, p. 29. 56  Ciò che viene invece enfatizzato da Flower 2000, p. 59 et al. 57  2013, p. 79; cfr. anche Mc Pherson 2009‑2010, p. 32: “the episode involving Crassus on one hand indicates the tenuousness of  Octavian’s position in the early years of  his dominance and the need for him to tread carefully while securing his position above other aristocrats ...”. 58   Cass. Dio 44,4,3; cfr. Weinstock 1971, p. 233. 59  Ovid., Fast. 5,565‑66; CIL I2, p. 189. Per Romolo nel Foro di Augusto cfr. tra gli altri Luce 19932, pp. 125 ss. 60  Zanker 1989, p. 72 s. 54 55

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e dunque simboleggiava una pagina di gloria antica che il princeps intendeva perpetuare e rivitalizzare in connessione con le glorie recenti 61. Romolo era un antenato degli Iulii, dunque dello stesso Giulio Cesare, che aveva inteso presentarsi come un nuovo Romolo 62, e di cui Ottaviano-Augusto era figlio adottivo (Divi filius). Le raf‑ figurazioni presenti nel Foro di Augusto attuano, come anche Virgilio nel­l’Eneide, la fusione tra la leggenda di Enea e quella di Romolo per la fondazione di Roma 63, ed aveva probabilmente ragione il Gagé a notare che i due personaggi incarnavano anche il valore di precursori per la futura apoteosi imperiale 64; lo svez‑ zamento di Romolo ad opera della lupa nel Lupercal rappresentò un’iconologia pregnante perfino nel­l’Ara pacis 65, e  non per un caso al funerale di Augusto sarebbe stata una statua di Romolo ad inaugurare la serie di immagini dei Romani illustri 66. Il fondatore di Roma fu un paradigma costante nel processo di affermazione e di autopropaganda del vincitore delle guerre civili, anche oltre quel periodo romuleo che secondo Alföldi 67 avrebbe contraddistinto soprattutto la fase precedente al­l’in­stau­ razione del Principato, e che lo studioso metteva in parallelo con l’analoga fase promossa dal­l’ultimo Cesare; secondo alcune fonti Ottaviano, il quale stabilì la propria residenza sul Palatino, che era per antonomasia il colle legato a Romolo (vi sorgeva in suo onore una aedes, ciò che nemmeno Enea aveva mai avuto in nessuna parte di Roma), avrebbe addirittura dovuto, nel 27, assumere il nome del mitico fondatore 68. Nel nome che invece assunse, oltre al verbo augere nel suo valore passivo ma anche e soprattutto causativo – proprio dei verbi in -eo che non siano altrimenti stativi –, aveva una notevole importanza proprio un

  Zanker 1989, p. 192.   Cfr. Weinstock 1971, pp. 180 ss. 63  Zanker 1989, p. 201. 64  Gagé 1930, p. 148 s. 65  Zanker 1989, p. 209 s. 66   Cass. Dio 56,34,2; cfr. Richard 1966, pp. 67‑78. 67  Alföldi 1978, pp. 36 ss.; cfr. anche Martin 1994, pp. 405 ss., ma soprattutto già Gagé 1930, pp. 138‑81. 68  Suet., Aug. 7,2; Cass. Dio 53,16,7; cfr. Gagé 1930, pp. 138 ss.; Kienast 1982, p. 93; Beard – North – Price 2006, pp. 181 ss. 61 62

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dato che è centrale per interpretare l’elegia properziana 4,10: l’augurium. Romolo, se non diede il proprio nome ad Augu‑ sto 69, vide nondimeno il suo ruolo affermarsi anche nel­l’aspetto di primo augure: già Cicerone, nel De divinatione, affermava chiaramente che Romulus non solum auspicato urbem condidisse, sed ipse etiam optumus augur fuisse traditur 70; proprio sul Palatino, nella Curia Saliorum, era conservato il lituus, il bastone augurale rite‑ nuto di Romolo, e lo strumento divenne non a caso un sim‑ bolo molto frequente, prima di Ottaviano (che, augure dalla fine degli anni Quaranta, lo riadattò dalla propaganda antoniana per farne il contrassegno della divinità del padre adottivo e della sua associazione al nuovo Divus), e poi di Augusto perfino in anni avanzati del Principato: nelle monete 71, ma anche nelle raffi‑ gurazioni sue (come nella gemma di Vienna) e del suo Genius. Il vincitore delle guerre civili, mediante il lituo elevato da con‑ trassegno della figura del­ l’augure a contrassegno della figura del princeps, intendeva configurarsi come colui che deteneva gli auspici superiori e poté così fondare Roma una seconda volta 72; la raffigurazione del lituo dopo Augusto tramontò, non a caso, in questa sua valenza, e solo con i Severi sarebbe tor‑ nata in auge 73. La propaganda del­l’erede di Cesare aveva anche fatto diffondere la storia, riportata da Svetonio e da Appiano, secondo cui, a Ottaviano che nel 43 cominciava il primo conso‑ lato prendendo gli auspici, sarebbero apparsi – esattamente come a Romolo – duodecim vultures 74. Il ruolo di augure come contrassegno del privilegio di avere in sé la forza per condurre alla vittoria, il rango di appartenenza ad una sfera superumana: Augusto era in questo senso augure 69  Augusto sarebbe stato timoroso di attirarsi altrimenti il sospetto di mirare a quella autocrazia che in parte della tradizione era stata individuata come la cau‑ sa della congiura ordita ai danni di Romolo dai patres, ed in cui avrebbe trovato la morte; cfr. Cass. Dio 53,16,7. 70  1,3. 71  A puro titolo d’esempio, cfr. RIC 1,397; 398; 399; 403. 72   Gagé 1930, p. 167; cfr. anche 1931, p. 93. 73  Ghedini 1984, pp. 60 ss. 74  Suet., Aug. 95; App., Civ. 3,94,388; cfr. Cass. Dio 46,46,2, che parla di sei avvoltoi apparsi ad Ottaviano mentre entrava nel Campo Marzio, e poi di altri dodici che gli apparvero mentre arringava i soldati. Per il prodigio occorso a Romolo vd. Liv. 1,7,1.

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allo stesso modo di Romolo, e di Apollo, la divinità cui aveva voluto ricondurre la vittoria aziaca, e che è appunto così defi‑ nito in Verg., Aen. 4,376 e in Hor., Carm. 1,2,32 e Carmen Saeculare, vv. 61‑62. Non per un caso nel­l’elegia properziana 4,10 la vittoria di Romolo, che combatte con armi analoghe a quelle degli eroi di Virgilio nel duello con Acrone, è inedi‑ tamente ricondotta a una divinità, Giove (vv. 14 ss.), che asse‑ conda l’intento di Romolo di poter sconfiggere il nemico allo stesso modo in cui – con parallelo che i Romani del tempo non avranno mancato di cogliere – un’altra divinità, proprio Apollo, ad Azio aveva accolto la preghiera di Ottaviano. Autorevoli studiosi ritengono che augur derivi da augere 75, ma in ogni caso chi è augur ha la competenza per interpretare l’auspicium, e dunque per decriptare i segni mandati dagli dei, generalmente attraverso il volo degli uccelli (ma anche mediante fenomeni atmosferici o il comportamento di alcuni animali), al fine di dedurne il favore o lo sfavore 76. A corollario del­ l’interesse di Ottaviano per la mistica del­l’augur come impor‑ tante piano di assimilazione con Romolo e di avvicinamento ad Apollo, ricorderemo che, tra le onorificenze decretategli dal senato per la vittoria di Azio, una di quelle che apprezzò di più fu proprio la possibilità di celebrare l’augurium salutis, una cerimonia di ringraziamento da tenersi in un momento scevro di guerre, e che non si effettuava a Roma dal 63, al­l’indomani delle vittorie microasiatiche di Pompeo 77. L’erede di Cesare e rifondatore di Roma, che intendeva avva‑ lersi quindi della mistica di Romolo augur, fondatore di Roma e vittorioso su Acrone, dovette affrontare il problema della pro‑ babile rivendicazione degli spolia opima da parte del nipote del grande e celebre Crasso: un problema inopinato, se si considera che non si presentava da quasi due secoli e che, appunto, una vittoria in singolar tenzone contro un comandante nemico si era

  Cfr. tra gli altri Catalano 1960, p. 23.   Timpanaro 1988, pp. xxxvi ss. 77  Cfr. Beard – North – Price 2006, p. 187; Santangelo 2013, p. 262: “The augurium salutis of  29 attained the twofold aim of  conveying the message that peace had come and of  restating the commitment of  Octavian and the new regime to the centrality of  augury in Roma public religion”. 75 76

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verificata solo tre volte fino ad allora in più di settecento anni di storia romana. Come si è visto, la contromisura augustea consisteva in una versione di propaganda con molti punti improbabili, che pre‑ vedeva il ritrovamento di un’iscrizione conservata sul corsaletto linteo di Cornelio Cosso, la quale col suo contenuto avrebbe sancito che solo un console in carica potesse offrire a Giove Fere‑ trio gli spolia opima come frutto di una vittoria in una battaglia cominciata sotto auspici propri. Il problema è che, a meno di ricorrere alla soluzione empi‑ rico-compromissoria avanzata già a fine Ottocento dal Ganter 78 (Crasso formalmente proconsole, ma di fatto subordinato di Augusto), in realtà prima del 27, quando Augusto privò i legati pro praetore delle province imperiali degli auspici propri e dun‑ que della possibilità di celebrare trionfi in caso di vittoria, non sussistevano differenze tangibili tra un console e un proconsole (quale era Crasso) dal punto di vista della qualità del­l’imperium e della possibilità di trarre gli auspici 79. Vero è che Cic., De divin. 2,36,76 afferma che proconsoli e propretori auspicia non habent, ma l’Arpinate riflette in questo ed in qualche altro passo una visione estremamente conservatrice e, nonostante Hurlet 80 si sia espresso in maniera contraria, si fa assertore di uno stato del­l’arte augurale molto arcaico, mentre la prassi era da tempo di segno completamente opposto, come è costretto ad ammet‑ tere lo stesso Cicerone 81, anche perché non sarebbe altrimenti stato possibile in età repubblicana detenere un imperium senza aver ottenuto l’approvazione divina che ne era il fondamento, ossia l’auspicium. Syme 82, proseguendo su una linea già tracciata dal Dessau e da altri ancora prima di lui, ha insistito sul­l’avversione di Augu­

  Ganter 1892, pp. 46 ss.   Hickson 1991, p. 128; Rich 1996, p. 99 s.; Dalla Rosa 2003, pp. 225 ss.; Mc Pherson 2009‑2010, p. 27. 80  Hurlet 2001, p. 173 s. 81  Dalla Rosa 2003, pp. 220 ss. Tarpin, inoltre, potrebbe anche essere riu‑ scito a dirimere la questione inerente ai passi di Cicerone, interpretandoli come la deplorazione della trascuratezza dei generali nel prendere gli auspici confor‑ memente alla norma prima di ogni evento importante (2003, pp. 275‑311). 82  1993, pp. 56; 406. 78 79

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sto – che infatti non lo menziona nelle Res Gestae – per il nipote di Crasso: tuttavia, alla luce del consolato congiunto del 30, bisogna almeno ammettere che questa avversione, se pure real‑ mente vi fu, dovette maturare solo in seguito al­l’uccisione di Deldo attuata da Crasso; l’assunto mi sembra rivestire, dunque, un buon margine di aleatorietà. Lasciando da parte inappurabili simpatie o antipatie, il Rich ha pensato ad una rinuncia volon‑ taria alla dedica degli spolia opima da parte dello stesso Crasso, in nome della ragione politica che dovette fargli comprendere l’inopportunità della dedica stessa (magari confermata anche nel “private meeting” postulato dalla Mc Pherson) 83; il punto debole del­l’ipotesi dei sostenitori del­l’entente cordiale è che in tal caso ci saremmo aspettati di trovare Crasso presto ricom‑ pensato, mentre invece il suo nome, sia pure non nella maniera cruenta toccata a Cornelio Gallo, sparì dalla storia dopo tale vicenda 84. A differenza del Rich noi tuttavia non crederemmo, per tor‑ nare alla storia del­l’iscrizione sul corsaletto di lino di Cosso, ad un errore in buona fede commesso da Ottaviano-Augusto nella let‑ tura di quel testo, con il fraintendimento di cos. inteso come con‑ sole anziché come Cosso – non rimarchiamo qui l’ovvietà per cui l’autenticità del­l’iscrizione sarebbe di per sé da escludersi già ipso facto se cos. fosse stata l’abbreviazione di un magistrato supremo che al­l’epoca di Cosso si chiamava con ogni probabilità praetor. Preferiamo interpretare la versione ufficiale del ritrovamento della corazza di lino e del testo del­l’iscrizione lì incisa come mirata a scoraggiare preventivamente Crasso dal chiedere al collegio dei pontefici (piuttosto che al senato) 85 il diritto di dedicare gli spolia opima di Deldo a Giove Feretrio nel tempio appena fatto restau‑ rare. Se postuliamo che Crasso, senza bisogno di un rifiuto ufficiale del collegio dei pontefici (dei quali faceva parte colui che meno di tutti era disposto ad accogliere la sua eventuale richiesta), pre-

  Mc Pherson 2009‑2010, p. 28.   “Licinio Crasso e Cornelio Gallo risultano così vittime di tale conflitto tra la nobilitas e l’erede di Cesare ed esemplificazione appunto di una realtà in cui si colpiva l’avversario attraverso l’eliminazione dalla scena dei protagonisti dei due ‘schieramenti’ ” (Rohr Vio 2000, p. 164). 85  Flower 2000, pp. 49 ss. 83 84

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ferì non avanzare nemmeno una pretesa sulla quale l’erede di Cesare aveva già avuto modo di eccepire preventivamente, non solo ci possiamo spiegare con minore difficoltà la circostanza per cui Crasso non ricavò dalla sua rinuncia alcuna contropar‑ tita – mancò un patto –, ma anche quella per cui, se da un lato non andò incontro a eventi bruschi, dal­l’altro scomparve per sempre dalla scena politica: la sua presenza sarebbe stata vista, in quei primi anni del Principato, come implicitamente concor‑ renziale e sminuitiva del prestigio del princeps, ed un ritiro nel silenzio fu per Crasso quanto di meglio poteva ritagliarsi ancora nel­l’esistenza, allo stesso modo del triumviro Lepido. Suo figlio adottivo M. Licinio Crasso Frugi 86, peraltro, nel 14 a.C. rivestì il consolato, a riprova del fatto che non c’era alcuna idiosin‑ crasia da parte di Augusto nei confronti del padre o della sua famiglia, ma semplicemente giocò contro il vincitore di Deldo l’impresa attuata in un momento in cui il giovane primattore della politica romana non poteva permettersi scomodi confronti e ingombranti presenze. Properzio, esattamente come aveva fatto Virgilio nella Profe‑ zia di Anchise 87, non fa alcuna menzione nella 4,10 del­l’episodio di Crasso, e del resto la miglior maniera di avallare la linea augu‑ stea (solo Romolo, Cosso e Marcello avevano riportato spolia opima, avendo sconfitto il comandante nemico dopo aver tratto auspici propri) era senza dubbio quella di ignorare la questione sollevatasi con l’uccisione di Deldo; ma al v. 46 notiamo un particolare che chiarisce in buona parte l’allineamento almeno poetico-ideologico di Properzio: il poeta umbro lascia infatti una definizione della causa Feretri che si impernia tanto sul ferire ducem quanto, significativamente, sul­l’omen certum (omine quod certo dux ferit ense ducem). Omen deriva da *augsmen, e dunque si ricollega ad augere e probabilmente ad augur; pur designando, allo stesso modo l’osservazione del volo del­l’auspicium (in origine più legato al­ degli uccelli), teoricamente un terreno di applicazione del­ 86  Probabile figlio naturale del pretore del 44 Calpurnio Pisone Frugi: cfr. Syme 1960, pp. 14 ss. 87  Aen. 6, 855 ss., dove Marcello chiude la serie di coloro che riportarono gli spolia opima.

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l’augurium –  ossia del­l’arte di interpretare i segni mandati dagli dei nel suo complesso –, tuttavia il termine omen assume spesso, nella letteratura latina in realtà non solo in versi 88, un signifi‑ cato meramente sinonimico rispetto a quello di augurium e di auspicium 89. Lo stesso Properzio usa, nel IV libro, il termine omen in riferimento alla scrofa bianca che presagiva la nascita di Alba Longa (1,35), e, ancor più significativamente, in riferimento alla volontà di Giove che sul mare di Azio gonfiava le vele della flotta di Augusto (6,23: hinc Augusta ratis plenis Iovis omine velis). In Verg., Aen. 10,250, in relazione al­l’omen del­l’inusuale rapi‑ dità della sua nave, Enea chiede alla madre di compiere fino in fondo quello che al v. 255 definisce sinonimicamente come un augurium, un “auspicio propizio”; in questo senso, pochi esempi possono essere altrettanto eloquenti, a conferma del­ l’accezione appena esposta, di Verg., Aen. 7,146: alla preghiera di Iulo, Giove dal­l’alto cielo per tre volte risuona luminoso, e di sua mano fa vibrare una nube nel­l’aria; ciò viene interpretato come l’assenso alla fondazione di giuste mura, e il vino e i crateri festeggiano, appunto, l’omen magnum (cioè il segno premonitore è visto come favorevole, ciò che in teoria – una teoria superata nella letteratura prima ancora di affermarsi come tale – andava definito augurium, che è l’interpretazione del­l’omen). Ora, è pur vero, tornando al­l’elegia 4,10, che al richiamato v. 46, in riferimento ad omen, l’aggettivo certum non significa “tratto personalmente”, bensì “individuabile con sicurezza”, e in quest’uso Virgilio – pur in riferimento a signum ed in con‑ testi meteorologici – era stato nelle Georgiche un precursore 90: ma Properzio, insistendo sulla “inequivocabilità” del­l’omen – che ha qui appunto il significato di “segno rivelatore della volontà propizia di un dio” –, in qualche modo prevede che tale volontà divina possa essere appurata realmente e comunque nella maniera 88   Dove certamente se ne ravvisano in ogni caso gli esempi più numerosi ed evidenti: cfr. ad es. Verg., Aen. 7,146 e 10,250‑155 (per i quali vd. anche nel corpo del testo, poco più avanti); 11,589; 12,72; Hor., Carm. 3,11,50‑51; l’esempio più nitido è Val. Flacc., Arg. 5,211. Per la prosa, cfr. tra i molti esempi Cic., De Div. 1,45,103. 89  Timpanaro 1988, p. xlv. 90  Cfr. tra l’altro 1,351; 439.

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migliore solo da chi gli auspici li poteva sia prendere che inter‑ pretare in prima persona 91. Venendo alla conclusione di questa ricerca, la diversa esten‑ sione dei tre episodi di conquista e dedica a Giove Feretrio degli spolia opima può dunque a nostro parere spiegarsi solo alla luce della diversa importanza e funzionalità del protagonista di ognuno di essi in relazione al contesto storico-politico del­ l’elegia 4,10. Anche alla luce della chiosa finale appena esaminata, la strut‑ tura narrativa e i riferimenti del­l’episodio di Cornelio Cosso, il cui rango consolare era stato recentemente ribadito da Livio e soprattutto dalla versione ben propagandata del ritrovamento del corsaletto di lino con relativa iscrizione, in maniera auto‑ matica richiamavano alla memoria una guerra celebre di Roma, ribadivano il numero di tre spoglie opime conquistate, e sot‑ tintendevano pertanto la ragione del­l’esclusione dal novero di Crasso, senza bisogno che Properzio entrasse nel merito di essa. L’azione eroica di Claudio Marcello rappresentava con la sua rie‑ vocazione l’omaggio al nipote e ad una famiglia importante per la casata imperiale, che poteva ancora esprimere con l’altro ramo candidati alla successione, ma nel momento della composizione del­l’elegia properziana, in cui era in auge Agrippa, e da que‑ sti e da Giulia erano oltretutto nati nipoti maschi ad Augusto, il trattamento estremamente rapido e sintetico del­l’impresa del vincitore di Viridomaro – di cui in 3,18 Properzio aveva messo in rilievo, piuttosto, la conquista di Siracusa – è perfettamente in linea con l’intento augusteo di confinarne il ricordo al di qua del riflesso politico-dinastico che poteva avere, esattamente come per le onorificenze che il Marcello nipote di Augusto, e pre‑ maturamente scomparso nel 23, avrebbe continuato a ricevere (tra le quali il celebre teatro). Romolo, la cui vittoria ma perfino la cui impostazione di governo occupano nel­l’elegia properziana la parte più ampia, ha con la sua impresa uno spazio che si apre ad elementi che vanno oltre il contesto del duello, e diviene il cuore del com‑ ponimento proprio per la valenza che il fondatore di Roma aveva nella politica e nella propaganda del Principato di Augu‑   Così anche Harrison 1989, p. 412.

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sto. Il  ruolo di augure, che del personaggio Romolo era stato particolarmente enfatizzato dal­l’erede di Cesare, conferisce la chiave di lettura a tutta la saga degli spolia opima dedicati nel corso della storia romana, in maniera tale da indurci a conside‑ rare l’omen certum del v. 46 un suggello non tanto e comun‑ que non solo alla ragione del divieto opposto a Crasso di offrire a Giove Feretrio gli spolia opima, quanto proprio e ben più ad un indirizzo autocelebrativo che il primo princeps aveva impresso alla propria rappresentazione, e che legava il suo carisma, e per‑ fino una parte non secondaria del­l’etimologia del suo nuovo nome, al contatto del tutto particolare che aveva con la dimen‑ sione divina, e di cui riusciva ad avvalersi a tutto vantaggio della potenza romana.

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Abstracts L’elegia properziana 4,10 si sofferma a rievocare i tre episodi canonici di conquista e dedica a Giove Feretrio degli spolia opima, che la tra‑ dizione storica e mitologica attribuiva a Romolo, Cornelio Cosso e Claudio Marcello. La diversa estensione dei tre episodi al­l’interno del­l’elegia non risponde tanto al modo ellenistico, quanto piuttosto rispecchia la diversa importanza che ognuno dei tre personaggi rivestiva nel­ l’ideologia augustea e nella rilettura della storia che essa intendeva veicolare. Marco Licinio Crasso, nipote del Dives e vincitore del re dei Bastarni nel 28, non è incluso, pur proconsole, nel novero di coloro che avevano riportato spolia opima, col pretesto – corroborato da una storia diffusa artatamente da Ottaviano – che non aveva potuto prendere auspici propri e quindi non gli era lecito dedicare gli spolia presi al comandante nemico; del resto Crasso aveva rinunciato a chie‑ dere di poter fare a Giove Feretrio la sua offerta per delle ragioni di opportunità politica che non mancò di comprendere da solo, nel momento in cui il prestigio del vincitore di Azio doveva restare indi‑ sturbato da scomodi confronti e competitori. Romolo fu un paradigma costante nel­ l’autopropaganda del­ l’erede di Cesare. Nel IV libro properziano, in cui l’allineamento al­l’ideologia augustea è ormai palese, il fondatore di Roma è rivalu‑ tato rispetto ai libri precedenti, e nella 4,10 occupa con la sua impresa lo spazio maggiore, che comprende anche l’elogio del suo governo aderente al mos maiorum: ciò è dovuto al­l’assimilazione che OttavianoAugusto, che restaurò il tempio di Giove Feretrio per valorizzare al massimo la mistica degli spolia opima, si prefiggeva con Romolo, e ciò specialmente dal punto di vista del ruolo di augure, assunto già alla fine degli anni Quaranta; nelle raffigurazioni, il lituo diviene infatti il contrassegno della figura non solo del­l’augure, ma perfino del princeps. In quest’ottica, omen certum del v. 46 non contiene solo la ragione della mancata inclusione, nel novero dei conquistatori di spolia opima, del nome di Marco Licinio Crasso, ma anche la base del­ l’autocelebrazione che Augusto faceva di se stesso come di colui che, in un contatto del tutto particolare con la dimensione divina, se ne avvaleva a vantaggio dello Stato romano. The Propertian elegy 4.10 recalls the three canonical episodes of  the spolia opima conquest and dedication to Jupiter Feretrius, ascribed by the mythological and historical tradition to Romulus, Cornelius Cos‑ sus and Claudius Marcellus. The extension of  the three episodes within the Elegy doesn’t respond

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much to the Hellenistic manner, but rather reflects the importance that each of  them had in the Augustan reinterpretation of  history. Marcus Licinius Crassus, the grandson of  the Dives and the win‑ ner of  the King of  the Bastarnae in 28 BC, is not mentioned among those who carried off  the spolia opima, although he was proconsul, on the pretext – supported by a story propagated on purpose by Octavian – that he hadn’t the power to take the auspices, and wasn’t therefore allowed to dedicate the spolia of  the enemy commander. Besides, Crassus had already realized he had to give up asking to make his offer to Jupiter Feretrius because of  reasons of  political opportunity, in a time when the prestige of  the Actium winner had to remain free from hard comparisons and competitors. Romulus was a constant paradigm in the autopropaganda of  Caesar’s heir. In the fourth Propertian book, in which the poet clearly aligns himself  with the Augustan ideology, the founder of  Rome is revalued, if  compared with previous books, and in the elegy 4.10 he occupies the greatest space, also with the praise of  his government in harmony with the mos maiorum: this is due to the assimilation to Romulus proposed by Octavian-Augustus himself, who restored the Temple of  Jupiter Feretrius to emphasize at the highest level the mystique of  the spolia opima, especially from the point of  view of  the role of  augur, undertaken since the Forties; in the images, indeed, the lituus became the symbol not only of  the augur, but even of  the princeps. So, omen certum at line 46 not only contains the reason for not including Crassus’ spolia opima in the list of  the conquerors, but is also the basis of  the self-celebration that Augustus claimed for himself  as the man who turned to the Roman State advantage his special contact with the divine. Keywords: Properzio – Spolia opima – Cornelio Cosso – Giove Fere‑ trio – Marco Licinio Crasso – Augusto

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DEI ED EROI DELLA DOMUS MUSAE: QUADRETTI A SOGGETTO MITOLOGICO E TESTI GRAFFITI NEL CRIPTOPORTICO DELLA “CASA DI PROPERZIO” AD ASSISI Con il nome di “Casa di Properzio” o Domus Musae è noto agli studiosi del­l’Umbria antica un grande complesso dalla difficile e tuttora incerta interpretazione, situato sotto la chiesa di Santa Maria Maggiore, nella parte meridionale del centro medioevale di Assisi (fig. 1) 1. Del monumento, che fu indagato in due riprese da eruditi locali, dapprima a metà del­l’ottocento, poi circa un secolo dopo, si conserva oggi parte di un grande corridoio (4, fig. 2), largo quasi 5 metri, in fondo al quale è ricavato un ambiente più pic‑ colo (3); in un periodo successivo al corridoio furono aggiunti altri due ambienti che si addossano alle mura della città (1‑2). Le decorazioni parietali e pavimentali permettono di indivi‑ duare nel complesso due principali fasi di vita: alla prima, attri‑ buibile ancora alla fine del­l’età repubblicana, appartiene certa‑ mente la pavimentazione in mosaico e scutulatum del­l’ambiente in fondo al corridoio; in una seconda fase, databile nel terzo venticinquennio del I sec. d.C., fu realizzato invece il pavi‑ mento in sectile di una delle stanze aggiunte, insieme probabil‑ mente alle pitture di quarto stile che si conservano ancora nel corridoio e nel­l’ambiente ricavato in fondo ad esso. Queste ultime risultano particolarmente interessanti per la presenza di motivi ripetitivi a carattere marino e per la decorazione a fiori

1  Il monumento è stato recentemente pubblicato dalla scrivente a comple‑ tamento di una tesi di dottorato discussa nel gennaio 2010 presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Si veda Boldrighini 2014.

Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 241-287 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112121

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ed uccelli che caratterizza una piccola nicchia ricavata al centro del corridoio 4. La lunga vita del monumento è testimoniata dalle numerose tracce di restauri visibili nel pavimento in sectile e dai graffiti latini e greci conservati sul­l’intonaco del corridoio. Furono proprio questi graffiti che, per la loro eccezionalità, attrassero per primi l’attenzione degli studiosi, in particolare di Margherita Guar‑ ducci, che li pubblicò a più riprese tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del successivo decennio 2. Si tratta di tre graffiti in lingua latina e di dieci, metrici, in lingua greca. I graffiti latini, tutti situati nella parte orientale della parete nord del corridoio, sono costituiti da tre nomi pro‑ pri 3 e da un testo più lungo, iscritto in una sola riga, un poco al di sotto dei precedenti (altezza delle lettere cm 1,3‑1,8) (figg. 3‑4): [-- Lupicino et Io]vino consulib(vs) VIII Kal(endas) Martias domum oscilavi Musae “Sotto il consolato di Lupicino e Iovino, il 22 Febbraio, ho baciato la casa della musa”. (trad. Guarducci) 4.

L’autore del testo, datato al 367 d.C. dalla citazione della cop‑ pia dei consoli ordinari di quel­l’anno, sembra affermare di aver “baciato” una “Casa della Musa”. Leggendo nella Musa una metafora ad indicare un poeta 5, la Guarducci identificò il com‑   La divulgazione dei “carmina asisinatia” da parte della studiosa suscitò un certo interesse nel­l’ambiente degli studi classici ed alcune critiche da parte di filologi, riguardanti soprattutto l’integrazione e l’interpretazione dei testi greci (Cfr. Gallavotti 1980; Robert 1980, n. 578; Medaglia 1981). Ad esse la Guarducci rispose apportando alcune correzioni alle sue ipotesi originarie (Guarducci 1986); alle interpretazioni proposte seguirono ulteriori precisazioni da parte del Medaglia (cfr. Medaglia 1987) e, in anni recenti, di A. Bulloch (Bulloch 2006). 3  Veranianvs Dior [ - - - - ] ed Iridis, scritti l’uno al di sotto del­ l’altro, in lettere capitali piuttosto irregolari, alte cm 1,1‑1,8. Ad essi va aggiunto un terzo nome, quasi certamente Honorius, rinvenuto su un frammento di intonaco rosso proveniente dalla Domus Musae ed attualmente conservato al Museo Nazionale di Spoleto. Cfr. Boldrighini 2014, p. 106. 4  Per la trascrizione e la traduzione cfr. Guarducci 1979, pp. 289 ss; ead. 1986, pp. 179 ss. 5  Il graffito menzionante la Domus Musae ha avuto anche interpretazioni differenti: cfr. Giangrande 1991; Scortecci 2001 pp. 381‑82. 2

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plesso con l’abitazione di Properzio, la cui origine assisiate, un tempo dibattuta, appare ormai pienamente confermata su base epigrafica 6. Mentre i graffiti latini, tutti probabilmente risalenti al IV secolo d.C., non mostrano alcuna connessione diretta con la strut‑ tura architettonica e con la decorazione degli ambienti in cui si trovano, i testi greci si collocano invece in corrispondenza di quadretti a soggetto mitologico, oggi purtroppo in gran parte illeggibili, che decoravano i pannelli a fondo giallo dipinti nel grande corridoio (fig. 5). Iscritti immediatamente al di sotto dei essi 7, sembrano avere la funzione di illustrarli e di commentarli. Si tratta di otto distici elegiaci, di un verso dattilico di cinque piedi (incompleto, o forse trascritto in maniera errata dal copista antico) e di un esametro del­l’Iliade (VII, 264). La scrittura, maiu‑ scola, rivela mani diverse, almeno cinque in base al­l’osservazione della Guarducci 8. Senza entrare approfonditamente nel campo specificamente epigrafico e filologico che riguarda la lettura, la precisa inter‑ pretazione e l’attribuzione dei testi graffiti, vorrei qui concen‑ trarmi su alcuni aspetti del rapporto tra i testi greci e le immagini ad essi corrispondenti, per tentare, ove possibile, di ricostruire iconograficamente le rappresentazioni dei quadretti perduti; ed eventualmente valutare se le immagini e la loro interazione con i testi possano fornire informazioni utili per la lettura e l’inter‑ pretazione del monumento antico. Pertanto, dopo aver elencato i graffiti conservati, trascri‑ vendo i testi come riportati da Guarducci 1986, corredati delle principali osservazioni e correzioni proposte dagli altri studiosi, proporrò qualche considerazione che potrà essere forse utile alla lettura delle immagini e dei graffiti, e di conseguenza fornire

  Per le attestazioni epigrafiche della Gens Propertia cfr. Forni 1986.   Solo in un caso il graffito si trova iscritto al di sopra del quadro cui si riferisce. Cfr. infra, graffito n. 5. 8  Guarducci 1985, p. 174. Secondo la studiosa la stessa persona avrebbe inciso i graffiti nn. 3 e 6; un’altra il n. 5, una terza il verso omerico (n. 4), un’altra ancora il distico di Polifemo e Galatea (n. 7); infine un’unica mano, ancora diversa dalle altre, avrebbe iscritto i tre graffiti conservati nella parete meridionale (nn. 8, 9 e 10). 6 7

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elementi nuovi per la ricostruzione delle fasi e della destinazione d’uso del complesso antico. Si dà di seguito la trascrizione dei testi, iniziando dalla parete nord del corridoio e procedendo da est ad ovest. 1) ἀρκῶ(ν) νέβριον ποιμνήν ποτέ κοῦρος “Il giovane che una volta osteggiava il gregge delle cerbiatte” (trad. Guarducci). (fig. 6) Il verso, unico, è compreso nella fascia rossa della cornice inferiore del quadro, completamente svanito. Le lettere, molto corrose, sono alte cm 1‑1,5. Aplografia del ni tra le prime due parole. Il dittongo οι di ποιμνήν (o almeno lo iota) sembra essere stato inizialmente dimenticato ed aggiunto in seguito, come capita anche in alcuni degli altri epigrammi (cfr. infra). Il verso risulta essere di cinque piedi. Il Gallavotti 9 (e con lui Medaglia 10) propone la correzione di ποιμνήν in ποιμνήϊoν, che risolverebbe il problema metrico, trasformando il verso in un rego‑ lare esametro. Medaglia non è d’accordo inoltre sul­l’interpretazione di ἀρκῶ(ν), che la Guarducci traduce con il significato di “osteggiare”, proponendo quello di “allontanare” 11. Prioux 12 propone invece di leggere ἓβριον al posto di νέβριον, risolvendo ipoteticamente con un hapax il problema del­l’aplografia del ni. In alternativa, la stessa studiosa ipotizza la correzione di ἀρκῶ(ν) in ἀρκτῶ(ν) o di νέβριον nel­l’aoristo εὗρεν.

In base al­l’interpretazione della Guarducci il quadretto allude‑ rebbe a Penteo, re di Tebe, che, oppostosi al­l’introduzione del culto di Dioniso, fu inseguito ed ucciso da uno stuolo di Bac‑ canti, di cui faceva parte la stessa madre Agave. L’epiteto νέβριος ποιμνήν farebbe riferimento appunto alle Menadi, vestite di nebridi, ossia di pelli di cerbiatti. Prioux connette invece ipote‑ ticamente l’hapax ἓβριον con ἓβρον (il capro) o con il fiume Ebro in Tracia, ed ipotizza che ad essere rappresentata fosse una scena del mito di Orfeo, analogo nella sua tragica conclusione a quello del re di Tebe 13.   Gallavotti 1980, p. 278.   Medaglia 1981, p. 96, nota 2; id. 1986, p. 49. 11  Medaglia 1986, pp. 48‑49. 12  Prioux 2008, pp. 96‑97. 13  Prioux 2008, p. 97. 9

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Benché collocabili a pieno titolo nel­l’ambito di quelle a sog‑ getto dionisiaco, tra le più amate nella pittura romana, le rap‑ presentazioni di Penteo non sono frequenti in ambito pittorico. La sua morte è raffigurata in un unico, ben noto dipinto nel­ l’oecus giallo della casa dei Vettii, in cui il re, inginocchiato in un paesaggio roccioso, è attorniato da cinque baccanti che lo strat‑ tonano per le braccia e per i capelli (fig. 7) 14. Poco rappresentata nella pittura pompeiana, nonostante la sua enorme fortuna nella cultura antica, è anche la storia di Orfeo: la diffusione figurativa del cantore trace nel­l’arte romana sembra collocarsi infatti soprattutto in epoca più tarda, quando il suo mito fu “adottato” dalle numerose religioni che esaltavano la vita dopo la morte. A Pompei, anche in questo caso, ne abbiamo una sola raffigurazione pittorica, dalla casa detta appunto “di Orfeo”, in cui l’uomo è rappresentato nel­l’atto di suonare la cetra alla presenza di Eracle e delle Muse 15. 2) Βάχχου θυμ [---]   Πάρδαλις εννοσ[---] (fig. 8) Sotto il quadretto, completamente distrutto, restano gli inizi di due versi. L’altezza delle lettere è di circa 1‑1,5 cm. Poco si può dire a proposito del distico, di cui si conservano solo le sillabe iniziali dei versi, se non che doveva riferirsi a Dioniso.

Frequentissime sono, fin da epoca ellenistica, le raffigurazioni in cui Bacco compare associato alla pantera. Dioniso in groppa alla pantera si ritrova già, ad esempio, su mosaici di fine IV sec. a.C. rinvenuti a Pella e su quelli, più recenti, di Delo. L’iconografia è stata ripresa frequentemente nella pittura romana e compare, tra l’altro, anche nella Casa degli Epigrammi a Pom‑ pei 16. Non è escluso tuttavia che, similmente a quanto avviene nel quadretto con raffigurazione del carro di Apollo (cfr. infra), ad essere rappresentata non fosse la figura del Dio ma più sem‑

  P.P.M. V, 1994, fig. 108 p. 530.   De Vos 1982, p. 209. 16  V, 1, 18; P.P.M. III, 1991, pp. 539‑73. Qui, al contrario di quanto avviene nella casa di Assisi, si conserva il quadro, ma è completamente perduto il te‑ sto del­l’epigramma che vi doveva essere associato. Sulla Casa degli Epigrammi cfr. infra. 14 15

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plicemente una serie di attributi a lui riferibili 17. Anche que‑ ste raffigurazioni sono diffuse nella pittura pompeiana: si con‑ fronti ad esempio un riquadro proveniente da un contesto di quarto stile ora esposto al Museo Nazionale di Napoli, in cui, poggiati su una scala marmorea, compaiono il tamburello, la cista, il corno potorio, la pelle di pantera, il tirso ed i cembali. In primo piano sotto di essi la pantera è in atto di combattere un serpente 18. (fig. 9) 3) αὐλούς οὗς ἔρειψε θεὰ Τριτωνίδι λίμνῃ εὔρηκέν ποτε Θρύξ, κῆρα ἔριδος μεγάλης. “Gli aulòi che la dea gettò nel lago Tritonis trovò una volta il frigio, destino di grande contesa” (trad. Guarducci). (fig. 10) Il distico si trova sotto un quadretto di forma quadrata, con deco‑ razione interna completamente scomparsa. Altezza delle lettere cm 1,4‑1,7.

Il Gallavotti propone la correzione di κῆρα in κῆλα (frecce) 19. Tuttavia, come nota la Guarducci, tale correzione non solo non è necessaria a fini metrici, ma sembra rendere il testo meno com‑ prensibile 20. La voce ἔρειψε potrebbe forse essere interpretata come una forma ionica di ερρίπτω. Da notare l’impiego del verbo con il dativo, assai raro in letteratura. È chiaro il riferimento del distico al mito di Atena e Marsia, attestato da numerose fonti letterarie 21: la dea, dopo aver pro‑ vato a suonare i flauti, accortasi che il gesto rovina la bellezza del suo volto, li scaglia a terra irata. I flauti vengono poi raccolti dal frigio Marsia, che con essi sfida Apollo in una gara di abi‑ 17  Prioux 2008, p. 94, immagina invece, per simmetria, una rappresentazio‑ ne del tutto simile a quella conservata con il carro apollineo; ad essere raffigurato sarebbe un carro, che trasporterebbe però attributi dionisiaci e sarebbe trainato da una pantera. Rappresentazioni simili non sono tuttavia, per quanto ne so, diffuse nella pittura del­l’epoca. 18   Sul dipinto, proveniente dai Praedia di Iulia Felix, cfr. da ultimo La pittura Pompeiana 2009, n. 6 p. 107, con bibliografia precedente; cfr. anche PPM III, p. 210 n. 309; Catalogo MANN I, 1, 1989, p. 162 n. 281. 19  Gallavotti 1980, p. 278. 20  Guarducci 1986, p. 167. 21  Le fonti antiche relative ad Atena e Marsia sono elencate da Burckhardt 1930, cc. 1986‑1995.

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lità; il satiro viene però sconfitto e crudelmente ucciso dal dio. La versione del mito riportata nel­l’epigramma di Assisi è tuttavia nuova e mai attestata finora nella letteratura antica: la tradizione più diffusa parlava infatti della Frigia come luogo di origine dei flauti, dove Marsia, che era appunto di origine frigia, li avrebbe raccolti. Il lago Tritonis si trovava invece in Libia. Una tradizione documentata 22 sostiene tuttavia l’origine libica degli auloi; inoltre il lago Tritonis, come anche la fonte Tritonis in Arcadia e alcuni fiumi di nome Triton, era associato alla figura di Atena, che aveva anche l’appellativo di Tritogeneia 23. Il mito di Atena e Marsia conobbe notevole fortuna nel­l’arte antica, e risulta attestato sin da epoca classica nel famoso gruppo scultoreo di Mirone, in cui il satiro Marsia raccoglie i flauti sca‑ gliati a terra da Atena 24. In epoca romana il mito è rappresen‑ tato frequentemente su diversi supporti: rilievi, stucchi, sculture a tutto tondo. Rari ne sono invece gli esempi pittorici, limi‑ tati, sinora, a due raffigurazioni pompeiane e ad una, di epoca più tarda, dalla Casa dei Coiedii di Suasa 25. Nel dipinto pom­ peia­no più noto, proveniente da un contesto di terzo stile della Casa della Regina Margherita, la vicenda assume i caratteri di una narrazione continua, con più episodi del mito narrati nello stesso riquadro, di dimensioni notevoli 26 (fig. 11); interessante la rappresentazione del lago, presso cui Atena suona il flauto, citato anche nel graffito di Assisi. A Suasa, invece, il quadro frammentario sembra essere stato relativo proprio al momento in cui Atena scaglia a terra i flauti 27, scena che, in base al conte‑ nuto del graffito, potrebbe essere stata rappresentata anche nella Domus Musae. 4) ἀλλ ἀναχασσάμενος λίθον εἴλετο χειρί παχείη. “Ma, ritiratosi, afferrò una pietra con forte mano”. (trad. Guarducci). (fig. 12)

  Ath. 14, 618; Nonn. Dion., 24,38.   Guarducci 1979, p. 275 e bibliografia ivi citata. 24   Plin., XXXIV, 57; Paus. I, 24, 1. 25  Sul dipinto di Suasa si veda Lepore 1997. 26  Cm 80  × 100 circa; cfr. La pittura Pompeiana 2009, n. 114 p. 268; PPM III, p. 842 n. 22. 27  Lepore 1997, pp. 229‑30. 22 23

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La scena, contenuta nel quadretto rettangolare sotto cui si trova il verso, è quasi del tutto svanita: al­l’epoca del lavoro di Marghe‑ rita Guarducci erano ancora visibili due capre in corsa verso sinistra. L’epigrafe è stata cancellata per mezzo di altri due tratti orizzontali graffiti al di sopra delle lettere. Altezza delle lettere (in parte rovinate dalla cancellatura) cm 1‑2,2. Al­l’inizio della riga, sovrapposte alle let‑ tere della prima parola, sono visibili altre quattro lettere: ΜΙΡΟΥ, che la studiosa interpreta ‘Ομήρου; si tratterebbe dunque del­l’indicazione del­l’autore del testo.

Il verso del­l’Iliade fa riferimento al duello tra Aiace ed Ettore narrato nel VII libro (VII, 264). I resti del­l’immagine dipinta nel quadretto, con gli animali in fuga, sembrerebbero tutta‑ via riferirsi ad un altro episodio del­l’Iliade, quello in cui Aiace, in preda alla pazzia per l’attribuzione ad Ulisse delle armi del defunto Ettore, fa strage di animali. Per questo forse il verso, non corrispondente al­l’immagine, sarebbe stato in un secondo momento cancellato. Prioux, ipotizzando una connessione tematica con il quadro di Polifemo e Galatea dipinto sulla stessa parete, propone invece una diversa identificazione: soggetto del quadro potrebbe essere Ulisse che scaglia una pietra contro il ciclope Polifemo 28; il verso iscritto sarebbe dunque pertinente al­l’azione raffigurata ma non al­l’episodio epico per il quale è stato composto. Va sottolineato come, nella pittura romana, i soggetti ome‑ rici – a differenza degli altri miti – siano raramente rappresentati isolati ed in piccoli quadri, come sembra avvenire nella Domus Musae, ma facciano quasi sempre parte di cicli di più episodi (come avviene, ad esempio, nella Casa del Poeta Tragico o nel portico del Tempio di Apollo) o di veri e propri fregi narrativi, come nella Casa del Criptoportico, nella Casa di Loreio Tibur‑ tino e nel Sacello Iliaco del­l’omonima casa di Pompei 29. Piuttosto rare anche le rappresentazioni del mito odissiaco, l’esempio più famoso delle quali resta certamente il ciclo di megalografie da Via Graziosa a Roma, conservato in parte nei Musei Vaticani ed in parte al Museo Nazionale Romano di   Prioux 2008, p. 91.   Sulle rappresentazioni a soggetto iliaco conservate a Pompei si confronti Thompson 1960, pp. 67‑83. 28 29

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Palazzo Massimo 30. È interessante notare come entrambi i sog‑ getti, Troianae pugnae ed Ulixis errationes per topia, siano citati da Vitruvio tra i temi specifici delle ambulationes 31: ambienti coperti destinati al passeggio, spesso inteso, in antico, come momento privilegiato di incontro e di riflessione in stretta relazione con la vita intellettuale 32. 5) ῎Ιαμε ἀγαδύσποτμε, τί σοι φίλος ἣ τί σύναιμος; ἄλκαρ ἀπολλυμένῳ, Φοῖβος, ἱδοῦ, πόρε, παῖ. “O Iamos infelicissimo, che ti (giovò) un amico, o che un consanguineo? Difesa a te morente Febo, ecco, dette o fan‑ ciullo” (trad. Guarducci). (fig. 13) Quadretto di forma quadrata, con pittura quasi del tutto scomparsa. Solo in questo caso il graffito è inciso al di sopra del quadro. La correzione di ἀγαδύσποτμε in ἄγαν δύσποτμε, proposta da Gal‑ lavotti 33 e Medaglia 34, ha il vantaggio della correttezza metrica. Corretto metricamente è anche ῎Ιαμ’ ἄγ’ ἆ δύσποτμε, τί σοι ipotiz‑ zato da Bulloch, che inoltre non costringe ad emendare il testo 35. Va aggiunto che l’aggettivo ἀγαδύσποτμος, ipotizzato dalla Guar‑ ducci, non solamente sarebbe un hapax, ma risulterebbe formato da due diversi prefissi, evento alquanto raro in greco, se si escludono le invenzioni lessicali comiche ed i composti con preposizioni 36. Gallavotti e Medaglia 37, e da ultimo anche Bulloch 38, propongono inoltre la concordanza di τί con ἄλκαρ, spostando la fine della propo‑ sizione interrogativa dopo il participio ἀπολλυμένῳ 39 o addirittura alla fine del distico 40, ricostruendo così un unico, lungo, periodo interro‑ gativo in sostituzione dei due ipotizzati dalla Guarducci.

  Sulle pitture di via Graziosa si veda Biering 1995, con bibliografia prece‑ dente. Sul frammento esposto a Palazzo Massimo cfr. da ultimo Palazzo Massimo alle Terme. Le collezioni 2013, pp. 381‑82 (A.M. Rossetti). 31  Vitr. VII, 5, 1‑7. 32   Cfr.  infra. Sulle ambulationes e sulla loro decorazione si veda Scagliarini 1997. 33   Gallavotti 1980, p. 278. 34  Medaglia 1981 pp. 197‑98; id. 1986, pp. 49‑52. 35  Bulloch 2006, p. 136. 36  Medaglia 1981, p. 197. 37   Gallavotti 1980, p. 278; Medaglia 1981, pp. 198‑99. 38  Bulloch 2006, p. 136. 39  Gallavotti 1980; Medaglia 1981. 40  Bulloch 2006, p. 136. 30

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Il distico fa riferimento al raro mito di Iamos, figlio di Apollo ed Euadne, capostipite degli Iamidai, una delle famiglie che gestiva l’oracolo di Olimpia. Nonostante l’importanza del personaggio, poche sono le notizie sulla sua vita, per le quali siamo debitori quasi esclusivamente ad un passo della Sesta Olimpica di Pindaro ed ai relativi scholii 41: in essi leggiamo che Evadne, unitasi ad Apollo, generò Iamo sopra un letto di viole e ve lo abbandonò. Apollo, padre sollecito, fece sì che il bimbo fosse nutrito con del miele da due serpenti, e si preoccupò che fosse allevato e cre‑ sciuto dal padre di Euadne, il re arcade Epito. Non è del tutto chiaro a quale pericoloso evento della vita di Iamo fanciullo il testo faccia riferimento. Gli studiosi sono concordi nel­l’ipotizzare un’allusione al­l’abbandono del bambino, che solo grazie alla protezione di Apollo non fu causa di danni per il piccolo Iamo 42. Non può aiutarci purtroppo la rappresentazione pittorica del quadretto, ormai del tutto illeggibile. Inoltre, va sottoli­nea­to, nessuna raffigurazione di questo mito è attestata sinora nel­ l’ambito del­l’arte romana, né in pittura né altrove 43. Margherita Guarducci, e dopo di lei Prioux, immaginano una scena con i serpenti inviati da Apollo nel­l’atto di avvicinarsi al neonato gia­ cente tra le viole. Iconografie simili a questa sono note nella pittura romana in associazione al ben più conosciuto mito di Eracle, di cui sono attestate rappresentazioni nel­l’atto di strangolare, fanciullo, i serpenti inviati per ucciderlo. Il soggetto, raffigurato già nel V secolo a.C. in un’opera del noto pittore Zeusi, è anzi assai frequente nel­l’ambito della pittura romana 44, dove il dio Ercole resta sempre tra i più amati e diffusamente rappresentati 45. Uno degli esempi più noti, proveniente dalla Casa dei Vet­ tii a Pompei, mostra l’eroe bambino sulla sinistra, un serpente

  Pind., Ol.6.29‑71.   Guarducci 1979, p. 277; Bulloch 2006, p. 137; Prioux 2008, pp. 86‑87. 43  Cfr. Guarducci 1985, p. 176; Prioux 2008, pp. 87‑88. 44  Per le rappresentazioni del­ l’Hercules strangulans in pittura cfr. Coralini 2001A, pp. 73‑74; Coralini 2001B, p. 257. 45  Più in generale sulle rappresentazioni di Eracle nella pittura pompeiana cfr. Coralini 2001A e Coralini 2001B. 41 42

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avvolto ad ogni braccio, al cospetto della spaventatissima madre Alcmena e di Anfitrione 46. (fig. 14) Queste circostanze, unite anche ad alcune discrepanze con‑ tenutistiche rilevate tra i graffiti ed i quadri dipinti (cfr. anche infra) potrebbero far ipotizzare che ad essere rappresentato nel quadretto ora scomparso possa essere stato anche il più comune episodio di Ercole bambino assalito dai serpenti; chi, in un’epoca successiva, aggiunse il distico al di sotto del quadro, potrebbe poi averne fornito una sorta di lectio difficilior riferendolo al mito di Iamo 47. 6) Παιᾶνος κλυτὸν ἅρμα, βιὸς φόρμιγξ τε λίγια γρῦπες καὶ τρίποδες σήματα μαντοσύνης. “Illustre carro di Paian, arco e armoniosa lira, grifi e tripodi, insegne di arte oracolare” (trad. Guarducci). (fig. 15) Il distico si trova al di sotto di uno dei due quadretti ancora leggi‑ bili, quello rappresentante il carro di Apollo. Dimensioni delle lettere cm 0,7‑1,2. L’ypsilon di κλυτὸν fu probabilmente dimenticato ed aggiunto in seguito al di sopra del verso.

I versi elencano – senza ricorrere a verbi – alcuni degli attributi del dio Apollo: il carro, l’arco, la lira, i grifi ed i tripodi. Nel quadretto al di sopra di essi, di forma rettangolare, è rap‑ presenta un carro a due ruote, trainato da due grifi alati volti verso sinistra (fig. 16). Il carro, dipinto in rosso brillante – tutti gli altri oggetti sono invece di un verde opaco, che ricorda il bronzo – trasporta al suo interno alcuni simboli apollinei, la lira e – probabilmente – il betilo e la faretra. L’immagine è com‑ pletamente priva di profondità: manca lo sfondo, costituito dallo stesso giallo ocra del resto della parete, mentre il suolo su cui camminano i grifi è rappresentato da una semplice fascia orizzon‑ tale color verde scuro. Il carro ed i grifi risultano inoltre troppo piccoli rispetto allo spazio del riquadro, che resta vuoto nella parte superiore. Gli oggetti rappresentati nel carro, insieme alla   P.P.M. V, fig. 105 p. 527.   Va ricordato, tuttavia, che, come sottolinea Coralini 2001B (p. 257), è piuttosto raro che due o più rappresentazioni di Eracle si trovino al­l’interno dello stesso insieme pittorico. Sul rapporto cronologico tra pitture e graffiti cfr. infra. 46 47

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presenza dei grifi, rivelano subito il carattere “apollineo” della rappresentazione 48. Degno di nota è il fatto che gli oggetti elen‑ cati nel distico greco non corrispondano perfettamente a quelli illustrati nel quadretto, dove sono presenti sì il carro, i grifi e la lira, ma mancano l’arco, che sembrerebbe sostituito da una fare‑ tra, ed i tripodi, sostituiti dal betilo. In pittura rappresentazioni simili si trovano in abitazioni di Pompei e di Ercolano. In un dipinto della casa di Diomede a Pompei, ora conservato al Louvre, il carro di Apollo trainato da grifi è inserito in un piccolo quadretto rettangolare a fondo nero 49. La rappresentazione è tuttavia più curata e realistica rispetto al­l’esemplare di Assisi, in particolare per quanto riguarda il carro e gli oggetti al suo interno. Altri due esempi simili sono noti ad Ercolano, dove i grifi sono rappresentati accanto al carro, ma non ancora aggiogati 50. 7) Ποιμαίςει Πολύφημος ἀΐδων καὶ Γαλάτεια κυρτ[ὸ]ν ὑπέρ σειμοῦ νῶτον ἀγαλλομένη. “Pascola Polifemo cantando, e Galatea sulla curva schiena del ‘camuso’ fa festa” (trad. Guarducci). (fig. 17) Il distico è inciso al di sotto del secondo quadretto conservato. Lettere alte cm 0,5‑1,3, assai poco leggibili, già al momento della prima pub‑ blicazione, a causa di cadute del­l’intonaco e di corrosioni. Al di sotto del graffito la Guarducci decifrò altre lettere, scritte successivamente da una mano diversa: ΗΟΣΙ, ripetuto due volte, seguito, più lontano, da una A 51. Il Medaglia propone, ipoteticamente, che si potesse trat‑ tare di varianti al testo, il quale, secondo lo studioso, era stato tratto da vari Bilderbuecher leggermente diversi fra loro 52. Si noti l’ellisse del verbo nella proposizione coordinata alla principale: potrebbe trattarsi di una frase nominale, documentata già nel­l’ambito della poesia greca arcaica 53. È forse più probabile, tuttavia, che il distico fosse parte di 48  I grifi furono infatti connessi ad Apollo già in età arcaica: essi abitavano il paese degli Iperborei, dove il dio si recava ogni anno in inverno; secondo Aristeas di Proconneso, poeta epico del VI sec. a.C., i grifi avrebbero custodito i tesori accumulati in quella regione. Guarducci 1979, p. 278. 49  Tran Tam Tinh 1974, pp. 42‑44, fig. 21. 50  Reinach 1922, p. 347, figg. 6 e 9. 51  Guarducci 1979, p. 281, nota 46. 52  Medaglia 1981, p. 209; id. 1986, pp. 56‑59. 53  Medaglia 1981, pp. 200‑01; Guarducci 1985, p. 170, che sottolinea come questo tipo di proposizioni sia attestato anche nella poesia latina.

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una frase originariamente più lunga, di cui il copista della casa di Assisi riportò solo la prima parte. Il notissimo mito di Polifemo e Galatea ci è stato tramandato in versioni differenti, raggruppabili in due filoni: il primo, più antico, che rappresenta la fanciulla come ostile al­l’amore del pastore; per il secondo, invece, Galatea sarebbe stata affascinata dal canto di Polifemo. Tra le fonti che riportano questa versione si trova anche, come sottolinea la Guarducci, Properzio 54.

Il quadretto, di forma quadrata, si presenta assai particolare per la resa iconografica del soggetto (fig. 18). Lo sfondo è azzurro, più chiaro in alto ad indicare il cielo, più intenso nella parte infe‑ riore, per rappresentare il mare. Sulla sinistra in basso, in mezzo ai flutti marini, si distingue un volto femminile di grandi dimen‑ sioni: caratterizzato dai lunghi capelli castani, è raffigurato di profilo, girato verso sinistra. Il resto del corpo della fanciulla non è rappresentato (né del resto sarebbe potuto entrare nel piccolo campo del quadretto). Lo stesso meccanismo è utilizzato dal­ l’autore del quadro poco più in alto: qui è una testa maschile, assai deteriorata e di cui si individua solo la folta e riccia capi‑ gliatura, a rappresentare il secondo personaggio del quadro. La testa è dipinta al­l’interno di un campo marrone, probabil‑ mente una zona di rocce o di scogliere, che occupa gran parte della parte destra del quadro. Sulle rocce sottostanti si trova un animale bianco, quasi certamente una capra, volta verso il mar‑ gine del dipinto; un’altra capretta più piccola è rappresentata poco sopra di essa. Presso l’estremità superiore della scena, sem‑ pre al­l’interno del campo marrone, è un terzo animale, più scuro, molto probabilmente ancora una capra. Subito a destra della testa maschile si notano ancora scarse tracce di un oggetto dipinto in marrone, probabilmente da identificare con uno strumento musicale, forse una lira. Solo grazie ai versi greci graffiti è stato possibile identifi‑ care il soggetto della strana rappresentazione con il mito di Polifemo e Galatea. Il tema conobbe una grande fortuna nella pittura della prima età imperiale, soprattutto in contesti di terzo e di quarto stile, dove appare in un’articolata diversità di

54  Prop., 3, 2, 7 sg.: quin etiam Polypheme, fera Galatea sub Aetna/ ad tua rorantes carmina flexit equos.

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varianti e di schemi 55. Dal punto di vista iconografico e stili‑ stico il dipinto di Assisi si presenta certamente unico; per quanto riguarda lo schema e la struttura del­l’immagine è possibile tut‑ tavia individuare alcune analogie con dipinti pompeiani dello stesso soggetto: in molti di essi, infatti, Polifemo è rappresentato, come ad Assisi, giacente su una scogliera nella parte destra del quadro, mentre Galatea si trova nel mare, che occupa la parte sinistra del­l’immagine 56. Questo schema si ripete in un qua‑ dretto frammentario (ora del tutto perduto) posto a decorazione di un insieme di terzo stile, rinvenuto nel­l’insula IX, 7,12 57: qui la scoscesa rupe della scogliera su cui è seduto Polifemo ricorda quella rappresentata nella casa Assisi; la parte alta del qua‑ dro è scomparsa, ma in basso a sinistra sono rappresentati animali domestici (pecore o capre), che ricordano anche per la posizione quelle visibili nella domus Musae. In numerose rappresentazioni pittoriche del mito di Poli‑ femo e Galatea compare inoltre, generalmente sulla destra del campo figurato, una prua di nave (forse un ricordo della nave di Odisseo, collegato al Ciclope nella più antica versione della leggenda 58); si confrontino ad esempio i quadretti conservati nella Casa degli Epigrammi e nella casa del Sacerdos Amandus

55   La più antica rappresentazione pittorica conservata di questo mito è di secondo stile e si trova nella casa di Livia sul Palatino; dopo una grande diffusio‑ ne nel terzo e nel quarto stile il soggetto sembra conoscere un sensibile declino. Ghiotto 2000, pp. 30‑42, in particolare p. 38. 56  Si tratta dello schema A del tema n. 2 individuato dal Ghiotto 2000, p. 31 ss. Nella classificazione delle rappresentazioni pittoriche di questo mito opera‑ ta dallo studioso, il tema n. 2 è costituito da Polifemo che canta il suo amore per Galatea, ed è il più diffuso nel­l’area campana; cfr. Ghiotto 2000, p. 31. Lo schema A della rappresentazione di queste tematiche, in cui il ciclope si trova sulla destra del quadro e Galatea è in mare presso l’estremità sinistra, si ritrova nel cubicolo 19 della villa di Boscotrecase (Ghiotto 2000, n. 2 p. 44); derivato da questo è il triclinio b della Casa del Sacerdos Amandus (n. 3 p. 44); lo sche‑ ma è attestato in altre 5 pareti, le prime tre di terzo stile, le restanti di quarto: il triclinio E della casa VI, 16, 32.33 (Ghiotto 2000, n. 6, p. 45); l’esedra (z) della casa del Marinaio (VII, 15, 2; Ghiotto 2000, n. 7 p. 45); il cubicolo (l) della casa IX, 2, 18 (n. 8 p. 45); il triclinio 12 della casa dei vasi di vetro (VI, 5, 5; Ghiotto 2000, n. 4 p. 44); il vano d della Caupona della via di Mercurio (VI, 10, 1; Ghiotto 2000, n. 5 p. 45). 57  Ghiotto 2000 p. 33, fig. 4 e n. 11, pp. 45‑46. 58  Ghiotto 2000, p. 29.

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(fig. 19) 59, oltre a quello della villa di Agrippa Postumo a Bosco‑ trecase 60. Anche nel quadro di Assisi, sebbene assai deteriorato, sembra potersi individuare quasi al centro della rappresentazione, al di sopra della scogliera, un campo dipinto in marrone più scuro, dalla sagoma appuntita, che potrebbe ricordare una prua di nave. Ma il modello iconografico più vicino al dipinto di Assisi sono probabilmente alcuni oscilla, e, ancor di più, alcuni pinakes rettangolari 61; tra questi, che rappresentano maschere teatrali poggiate su rocce, desta particolare interesse un esemplare in marmo bianco esposto nel Museo Nazionale Romano, a Palazzo Massimo (fig. 20) 62. Il pezzo, di forma rettangolare, scolpito su un solo lato, proviene da Nemi, dove è stato rinvenuto in una canaletta antistante il piccolo teatro annesso al santuario 63, ed è stato datato in età tardo claudia o neroniana 64. Sulla sinistra, poggiato su una roccia e volto di tre quarti, è rappresentato un personaggio barbato, identificabile come Polifemo in base al terzo occhio inciso al centro della fronte; al di sotto del volto, una syrinx. Sulla destra, sempre poggiato su una roccia, un volto di donna con i capelli divisi in due bande ai lati del viso, trattenuti da una benda legata sulla nuca. Le onde marine ed il delfino al di sotto del volto spingono a riconoscervi Galatea. Simili nel soggetto a quello di Nemi sono un pinax del Museo di Copenhagen ed un secondo, molto frammentario, al Museo

  I,7,7, triclinio b, parete s; P.P.M. I, 1990, Ghiotto 2000, n. 3, p. 44.   Cubicolo 19, parete o. Ghiotto 2000, n. 2 p. 44. 61   Per la distinzione tra oscilla (rilievi sospesi, più spesso di forma tondeg‑ giante) e pinakes (quasi sempre rettangolari, e generalmente poggiati su pila‑ strini) e per loro funzione, si confrontino da ultimo Bacchetta 2006 e Cain 1988. Sul­l’argomento si vedano anche Pailler 1971, Dwyer 1981 pp. 255 ss., Pailler 1982. 62   Cain 1988, p. 135, fig. 28. 63  Inv. SSBAR n. 112157. Dal­ l’area del teatro di Nemi proviene anche un secondo pinax (inv. SSBAR n. 112156); va ricordato, del resto, che, dopo i contesti domestici, sono proprio i teatri ad aver restituito il maggior numero di oscilla e di pinakes (Bacchetta 2006, pp. 373‑75). 64  Cain 1988, p. 135. La datazione, oltre che su considerazioni stilistiche, si basa sul fatto che le maschere rappresentate, qui come in altri esemplari di pinakes databili nella stessa epoca, hanno perso molte delle loro peculiari caratte‑ ristiche ed appaiono come normali volti umani. 59 60

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di Dresda 65. Le analogie, nel soggetto e nella composizione, rendono certa, a mio avviso, la dipendenza del pittore assisiate dagli schemi iconografici dei pinakes 66. Il motivo e gli scopi di questa ripresa iconografica restano però poco chiari: è possibile che il decoratore del corridoio abbia voluto imitare le serie di quadretti in marmo che spesso si allineavano lungo le pareti dei peristili e nei viridaria delle case, o nei corridoi dei teatri; la presenza della nicchia con fiori ed uccelli al centro del corri‑ doio potrebbe in effetti far pensare che il corridoio della “casa di Properzio” sia stato decorato ad imitazione di un viridarium; lo stesso motivo dei grifi si trova, per quanto non di frequente, anche su pinakes 67. È difficile tuttavia che tutti i quadretti del corridoio – i graffiti al di sotto dei quali fanno riferimento ad una grande quantità e varietà di miti – fossero strutturati ad imitazione di pinakes, le cui decorazioni si limitano, general‑ mente, oltre alle maschere ed ai soggetti teatrali, ad un reperto‑ rio mitologico assai ristretto 68. Più probabile, credo, che l’imitazione dei pinakes abbia riguardato uno o pochi quadretti, per i quali il decoratore mancava di cartoni o di fonti di ispirazione alternative. 8) ἇ, δύσερως Τηρεῦ, λέχος εἰ μονόλεκτρον ἴαυες οὔποτ’ἂν ὁ σπείρας τύμβος ἔφυ ᾿Ιτύλου. “Ahimè Tereo dal­l’infelice amore, se tu avessi giaciuto in un solo talamo, giammai tu, il padre, saresti divenuto tomba di Itylos” (trad. Guarducci). (fig. 21) Il distico è inciso sotto un quadretto di forma quadrata, di cui resta solo il margine inferiore. Altezza delle lettere cm 1,1‑3.

Si allude qui al mito di Tereo che tradisce la moglie Procne con sua sorella Filomela e viene per questo punito atrocemente:   Pailler 1971, pp. 133‑35.   Lo stesso pinax è citato a confronto anche da Prioux 2008, pp. 81‑83, il cui volume ho potuto visionare solo recentemente, dopo aver mandato in stampa la mia tesi di dottorato sulla Domus Musae nella quale citavo a confron‑ to lo stesso esemplare. L’essere giunte entrambe indipendentemente alla stessa ipotesi sui modelli del singolare quadro di Assisi, contribuisce, penso, a dare una maggiore credibilità al­l’ipotesi proposta. 67  Pailler 1982, p. 746. 68  Pailler 1982, pp. 745 ss; Cain 1988, pp. 109 ss. 65 66

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Procne uccide il figlio Itys e glielo dà in pasto. Qui il figlio di Tereo è però chiamato Itylos, con una variante derivata probabil‑ mente dalla confusione tra il figlio di Tereo e Procne ed Itylos, figlio di Aedon. La storia è citata assai spesso sia nella letteratura greca sia in quella latina, ma non ne sono sinora note rappresen‑ tazioni nella pittura romana. 9) καινὸν ῎Ερως, καινὸν καρδίας ἄχος εἴκασας ἆρσαι τῆς ἰδίας ὅδ’ἄκων εἰκόνος ὑγρὸν ἐρᾶ. “Un nuovo, o Eros, un nuovo dolore del cuore immaginasti di alimentare: costui, non volendo, ama l’acqua della propria immagine”. (trad. Guarducci). (fig. 22) Anche questo distico era al di sotto di un quadretto di forma qua‑ drata, completamente illeggibile tranne che nel margine inferiore, dove sono incisi i versi. Il pentametro presenta un’irregolarità metrica nel secondo piede: -ας ὅδ’ ἄ (- -) formano infatti un cretico invece ˘ che un dattilo. Gallavotti e Medaglia propongono di sostituire ἄκων con ἄχων, correzione che determinerebbe un esametro regolare. Più semplice e forse più probabile l’ipotesi di Bulloch, che pro‑ pone di dividere diversamente il testo, sostituendo ὅδ’ἄκων con ὁ δακών 69. Nel distico, come interpretato dalla Guarducci, sono pre‑ senti inoltre alcune anomalie sintattiche: in particolare l’associazione con l’accusativo (ὑγρὸν) del verbo ἐράω, che normalmente richiede il genitivo. La studiosa lo spiega come “latinismo” attribuibile ad un poeta di madrelingua latina 70; in questo caso sembra tuttavia più plau‑ sibile l’interpretazione di Medaglia 71 e di Bulloch 72, che risolvono il problema assumendo ὑγρὸν in funzione avverbiale ed ἄκων ed ἐρᾶ in regime di ἀπὸ κοινοῦ con τῆς ἰδίας ... εἰκόνος. Si noti come nel distico, al pari di quanto accade per quello di Iamos e per quello di Tereo, il poeta non narri in terza persona, ma si rivolga direttamente al protagonista.

Si parla qui di Narciso, il giovane che, per vendetta di Eros, si innamora della propria immagine riflessa nel­l’acqua. Anche questo mito ebbe grande fortuna in epoca antica e fu narrato, tra gli altri, da Ovidio nelle Metamorfosi 73; nella pittura romana   Bulloch 2006, pp. 137‑38.   Guarducci 1985, p. 172. 71  Medaglia 1981, p. 211; id. 1986, pp. 59‑63. 72  Bulloch 2006, p. 139. 73  Ov. met., 6, 605 ss. 69 70

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il mito di Narciso è senz’altro uno dei maggiormente rappresen‑ tati, sia per la sua simbolica esemplificazione del­l’amore, deside‑ rio di possesso destinato a rimanere eternamente frustrato, sia per le connessioni con le teorie di immortalità che potevano essere implicate dalla sua trasformazione in fiore 74. A Pompei il mito risulta particolarmente frequente in contesti di quarto stile, soprattutto in quelli dipinti negli ultimi anni di vita della città, quando ad essere rappresentato è quasi esclusivamente il culmine della storia: il giovane che scopre la propria immagine riflessa immediatamente prima della morte precoce. L’iconografia più frequente ce lo mostra nudo, seduto o semisdraiato su di una roc‑ cia, in atto di scostare dal corpo, con la mano destra, il mantello color porpora 75, come appare, ad esempio, in un dipinto dalla casa delle Vestali ora al Museo Nazionale di Napoli 76 (fig. 23). Ai piedi del giovane, un laghetto in cui compare riflessa la sua immagine 77. Un edificio è rappresentato nella parte destra del riquadro, mentre figure di donne e di amorini sono variamente disposte nei diversi esemplari conservati. 10) ῾Ο θρασὺς ῾Ηρακλέης ᾽Ονφάλην ἀ[ν]φιπολίων εἴρια καὶ ταλάρω, δμὼς ἀλόχῳ καταθρῖ. “Il forte Eracle, servendo Onfale, le lane e i due canestri, schiavo alla moglie, sorveglia” (trad. Guarducci). (fig. 24) Anche questo distico è al di sotto di un quadretto di forma quadrata, la cui superficie è conservata, mentre la pittura interna è del tutto svanita. Le lettere (alte da cm 1 a 3,7) si presentavano poco leggi‑ bili anche al momento della prima pubblicazione 78. Al di sotto del pentametro, più precisamente sotto le lettere KATA, la Guarducci decifrò altre lettere incise profondamente: ONEN 79. Anche a causa del deterioramento del graffito il distico dà note‑ voli problemi di lettura e di interpretazione. L’esametro presenta

74  Thompson 1960, p. 151; sulle rappresentazioni del mito di Narciso a Pompei cfr. da ultimo il repertorio raccolto da Colpo 2006. 75  Colpo 2006, pp. 62 ss. 76   Cfr. La Pittura pompeiana 2009, n. 27 p. 138; Catalogo MANN I, 1, n. 140 p. 142. 77  Si confronti ad esempio un quadretto dalla Casa delle Vestali a Pompei, in Pittura Pompeiana 2009, n. 27 p. 138. 78  Guarducci 1979, p. 285. 79  Guarducci 1979, p. 285.

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un’anomalia a causa della presenza di un cretico (῾Ο θρασὺς ῾Ηρακλέης ᾽Ονφάλην ἀ[ν]φιπολίων; - -) per correggere la metrica Gallavotti ˘ e Medaglia leggono ᾽Ονφάλῃ al posto di ᾽Ονφάλην ipotizzando così due pentametri al posto del consueto distico 80. La rarità delle coppie di pentametri – vero e proprio preziosismo limitato a pochi autori ellenistici – nel­ l’ambito della poesia greca, lascia tuttavia qualche dubbio riguardo a questa interpretazione. Nelle lettere incise al di sotto del secondo verso, il Medaglia individua inoltre una seconda variante al testo: al posto di εἴρια καὶ ταλάρω si potrebbe leggere, secondo lo studioso, εἴριον ἐν ταλάρῳ 81. Bisogna osservare anche che – nel­ l’ambito della poesia greca, in particolare elegiaca – il duale risulta praticamente inutilizzato: il testo di Assisi, a meno di non voler ipotizzare altre correzioni, rappresenterebbe un’eccezione a questa regola.

Si tratta ancora una volta di un mito molto noto, sia in letteratura sia nelle arti figurative, in cui il tema, già molto amato, di Era‑ cle, si coniuga con l’esaltazione del potere di Eros e di Dioniso: Eracle diviene sposo e schiavo di Onfale, regina di Lidia; mentre l’eroe si vestiva con abiti femminili, la regina indossava la pelle leonina e la clava. Le raffigurazioni del­l’Hercules conviva sembrano essere tra le più diffuse modalità di rappresentazione del già ama‑ tissimo Eracle, uno degli eroi maggiormente presenti in pittura 82. Nella maggior parte dei casi, però, le figure femminili che accom‑ pagnano l’eroe appaiono molto generiche, e dunque difficil‑ mente identificabili: l’assenza di caratterizzazione era certamente intenzionale, e serviva ad ottenere immagini “aperte”, suscetti‑ bili di diverse letture ed interpretazioni. Nel quadro con rappre‑ sentazione di Eracle ebbro ed amorini, proveniente dalla casa del Principe di Montenegro ed ora al Museo Nazionale di Napoli 83, ad esempio, l’insufficiente connotazione della figura femmi‑ nile non rende possibile identificarvi con sicurezza Onfale 84. Fanno eccezione le rappresentazioni del servitium di Eracle, in cui Onfale è caratterizzata dallo scambio delle vesti e degli   Gallavotti 1980, p. 278; Medaglia 1981, p. 215; id. 1986, p. 63.   Medaglia 1981, p. 214; id. 1986, pp. 63‑68. 82  Per uno studio delle rappresentazioni di Eracle, limitato però al­ l’ambito domestico, cfr. Coralini 2001A; Coralini 2001B, pp. 257‑60. 83  Cfr. La pittura pompeiana 2009, n. 107 p. 258. 84  Coralini 2001B, p. 260. 80 81

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attributi, note tuttavia in pochi esemplari, solo tre nella pit‑ tura pompeiana. Tra essi, il principale e di maggiore qualità è il quadro del­l’oecus della Casa di Marcus Lucretius (IX, 3, 5), in cui Eracle, in vesti femminili, ed Onfale sono rappresentati insieme a Priapo in un thiasos dionisiaco, in cui il tema del­l’ebbrezza è combinato con quello della filatura; quest’ultimo tema, lo stesso evidenziato dal graffito associato al quadro nella domus di Assisi, è rappresentato nel­l’oecus della casa VIII, 4, 34 85. (fig. 25) Non sappiamo purtroppo a quale tipologia appartenesse l’im‑ magine rappresentata ad Assisi, e se l’identificazione di Onfale fosse immediata o – forse più probabilmente, vista la rarità delle rappresentazioni della donna – frutto del­l’interpretazione del­ l’autore dei graffiti. Queste le ipotesi ricostruttive a mio parere più plausibili per i soggetti dei quadri della Domus Musae. Poiché, come già detto sopra, la ricostruzione è possibile solo grazie alla presenza dei graffiti greci in corrispondenza dei quadri, diviene indispensa‑ bile affrontare brevemente il problema del rapporto tra quadretti e testi iscritti e, di conseguenza, della natura degli stessi versi graffiti. I graffiti in metrica posti ad illustrazione dei quadretti mito‑ logici di Assisi, non sembrano trovare, allo stato attuale delle conoscenze, confronti puntuali. Alcuni esempi simili, ma con iscrizioni dipinte e non graffite, si trovano tuttavia a Pompei 86; quello più noto e completo è rappresentato certamente dal­l’esedra di secondo stile della casa detta appunto “degli Epigrammi” 87. Qui i quadri mitologici, dipinti su fondo nero e di dimensioni maggiori rispetto a quelli del corridoio della Domus Musae, sono illustrati da epigrammi greci (alcuni dei quali identificati con testi

  Coralini, 2001A, pp. 96 ss. Cfr. P.P.M., VIII, fig. 6 p. 536.   Sulle iscrizioni greche (anche in prosa) a corredo di immagini e sul loro significato si veda in generale Thomas 1995, che vi legge un indizio della presen‑ za di maestranze di lingua greca attive nella realizzazione delle pitture. L’ipotesi non sembra però essere applicabile alla Domus Musae, dove il pictor imaginarius, non particolarmente abile, era probabilmente di origine locale. Sullo stesso ar‑ gomento si veda anche Corbier 2006, pp. 121‑28; Piazzi 2007, con ricca ed aggiornata bibliografia. 87  V, 1, 18; P.P.M. III, 1991, figg. 51‑63, pp. 564‑73. 85 86

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di Leonida di Taranto già noti dalla tradizione manoscritta), posti al di sotto di essi, certamente dipinti al momento della decora‑ zione della stanza 88. Un testo greco dipinto, ma privo di imma‑ gini di riferimento, si trova invece a Roma, nel­l’auditorium di Mecenate: si tratta di un paraklausithyron di Callimaco sugli effetti del vino e del­l’amore 89, probabilmente connesso con la funzione di triclinio estivo del­l’ambiente in cui fu dipinto. Ancora più rara la presenza di testi greci in ambienti provinciali e di sostrato non ellenico, come quello assisiate; l’unico altro caso a me noto è quello di un frammento di intonaco di secondo stile, rinvenuto recentemente nel foro di Suasa, che conserva parte di un epi‑ gramma, ancora di Leonida di Taranto, dipinto su fondo nero 90. Gli epigrammi assisiati si differenziano dunque dai pochi esempi sopra citati per la tecnica del graffito, che presuppone una esecuzione posteriore e non contestuale alla realizzazione delle pitture del corridoio. Anche il fatto che i graffiti siano scritti senza troppa cura, al di sotto e qualche volta al di sopra dei qua‑ dretti che illustrano, denota uno scarso interesse da parte del­ l’incisore per la decorazione dipinta. Questi indizi depongono a favore di un intervallo di tempo piuttosto lungo intercorso tra la realizzazione delle pitture e l’incisione dei versi. Le pitture di quarto stile sembrano in effetti realizzate, in base al­l’osservazione stilistica, nel­l’epoca giulio-claudia non troppo avanzata, mentre i graffiti, sulla base della paleografia, furono collocati da Mar‑ gherita Guarducci tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C 91. Colui che progettò e realizzò il ciclo pittorico del corridoio di Assisi agì dunque precedentemente e del tutto indipendente‑ mente dal­l’incisore dei graffiti 92. Se quindi si può parlare, per la Domus Musae, di un programma di immagini illustrate da versi, si può farlo solo relativamente alla incisione dei versi, e non alla precedente realizzazione delle pitture, ed anche in questo caso 88  Sugli epigrammi del­ l’omonima casa cfr. Neutsch 1955 e, recentemente, Bergmann 2007. 89   Cfr. Salvetti in Romana Pictura 1998, n. 113 pp. 214 e 306. 90  Sul frammento e sul suo rinvenimento cfr. Lepore 2009. 91  Guarducci 1985, p. 175. 92  Prioux 2008, p. 70, sembra invece attribuire alla fase di fine I – inizi se‑ condo secolo sia la realizzazione dei quadretti che l’incisione dei graffiti, ma non fornisce spiegazioni in proposito.

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solo in maniera molto parziale: il fatto che esistano numerosi quadretti del tutto privi di graffito illustrativo, insieme alla cir‑ costanza che gli stessi graffiti non sembrano corrispondere per‑ fettamente alle immagini dipinte, spingono ad escludere che l’in‑ cisore dei graffiti rispondesse alla volontà di illustrare in maniera precisa ed organica tutto il ciclo pittorico del corridoio 93. Strettamente connesso al problema della relazione tra pitture e graffiti è quello, altrettanto importante, del rapporto tra l’in‑ cisore/gli incisori dei graffiti e l’autore/gli autori dei testi greci. Colpita dal­l’eccezionalità degli epigrammi di Assisi, che “ottimi nella forma, denotano una profonda conoscenza della mitologia ed una sicura padronanza della lingua greca”, la Guarducci ipo‑ tizzò inizialmente la possibilità di una paternità properziana dei versi, che lo stesso poeta latino avrebbe provveduto a far inci‑ dere 94. In seguito, considerando che le epigrafi, graffite senza troppa cura presso i quadretti, dovevano necessariamente essere di qualche tempo posteriori alla decorazione pittorica, giunse ad ipotizzare, quale autore dei versi, quel C. Passenus Paulus Proper­ tius Blaesus, discendente di Properzio vissuto in epoca traianea, erudito e poeta egli stesso, che conosciamo da due epistole pli‑ niane 95 e da un’epigrafe di Assisi 96. Secondo la Guarducci l’ipo‑ tesi sarebbe avvalorata dalla presenza di alcuni latinismi ed errori di prosodia nei testi greci 97. Del­l’identità tra l’incisore dei graffiti e l’autore dei versi sembra essere convinta anche Prioux, che pur non affrontando esplicitamente il problema, parla di un “poeta di Assisi” 98 e vede nei versi, al pari di Margherita Guarducci, rimandi a testi properziani ed ovidiani 99.   Diversamente Medaglia 1981, sulla cui ipotesi si veda infra.   Guarducci 1979, p. 293. 95  Plin. epist. VI 15, 1; IX, 22. PIR 1², VI, 141, pp. 45‑46. 96  C.I.L. XI, 8627. 97   Guarducci 1985, pp. 168‑69; p. 172; p. 173. 98  Prioux 2008, p. 111. 99  Prioux 2008, p. 112. Le analogie, sia testuali e sia relative a diverse versio‑ ni dei miti (come ad esempio la versione del mito di Polifemo e Galatea in cui la ninfa corrisponde al­l’amore del ciclope, di cui si ha la prima testimonianza letteraria in Properzio), potrebbero essere spiegate, al contrario di quanto fanno Guarducci e Prioux, con la ripresa, da parte dei poeti latini, di stilemi e versioni di miti narrati in testi per noi in gran parte perduti, di cui gli epigrammi di Assisi potrebbero costituire piccoli ma significativi frammenti. 93 94

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Il Medaglia ritiene invece che gli epigrammi assisiati siano tratti, come già è stato ipotizzato a proposito della Casa degli Epigrammi, da Bilderbuecher, ossia libri di versi accompagnati da illustrazioni o libri di immagini illustrate da poesie 100. Per spie‑ gare le diverse mani che si notano nella scrittura dei graffiti, lo studioso pensa alla utilizzazione di due o più Bilderbuecher, simili ma non identici fra loro, con possibili integrazioni ed aggiunte in tempi diversi 101. La presenza tra i graffiti di un verso omerico, insieme al fatto che – in uno dei due casi in cui il quadretto dipinto è conser‑ vato – il testo greco non corrisponde perfettamente alla rappre‑ sentazione, spinge ad escludere, con Medaglia, che i versi siano stati composti ad hoc per l’illustrazione dei quadretti. Alcuni epi‑ grammi risultano inoltre ellittici o nominali, mancano cioè del verbo della principale (si tratta del graffito n.  1 e del graffito n. 9), il che porta a pensare che siano stati tratti da poemi di più ampio respiro. Lo stesso utilizzo di stilemi metrici di tipo diverso (distici; esametro singolo; forse pentametri) mi sembra da inter‑ pretare come un indizio contrario ad una composizione ad hoc per l’illustrazione delle immagini del corridoio, per le quali si sarebbe probabilmente tentato di realizzare componimenti omo‑ genei nella tipologia metrica e poetica. L’ipotesi sembra ulteriormente avvalorata dal­l’analisi dei testi. Dal punto di vista linguistico, metrico e grammaticale, gli epi‑ grammi assisiati appaiono, come notava già la Guarducci 102, e come è stato successivamente sottolineato dagli altri studiosi 103, di buona fattura (le anomalie metriche sono infatti limitate e derivano probabilmente da errori di trascrizione) e denotano un’ottima conoscenza della mitologia greca. Il Bulloch, soprat‑ tutto, sottolinea più volte il “bello stile” delle composizioni ed evidenzia la loro consonanza con il migliore stile epigrammatico ellenistico, citando numerosi confronti 104. Nei  testi si notano uno ionismo, alcune nuove giunture ed usi rari (cfr. supra i com‑

  Medaglia 1981, p. 216; id. 1986, pp. 44‑45.   Medaglia 1986, p. 45. 102  Guarducci 1979, p. 286. 103  Bulloch 2006, pp. 139 ss. 104  Bulloch 2006, pp. 139 ss. 100 101

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menti ad ogni singolo epigramma): queste caratteristiche non sembrano, a mio parere, adattarsi a versi composti da un autore latino, che difficilmente avrebbe osato innovazioni linguistiche in un idioma non suo. I latinismi ipotizzati dalla Guarducci, ad esempio a proposito dei versi su Narciso, vengono meno se si accettano diverse letture del testo proposte da altri studiosi. Anche altre caratteristiche dei testi di Assisi, tra cui ad esempio la scelta dei soggetti, spesso costituiti da miti rari, come quello di Iamo (graffito n. 5), o da nuove varianti di miti già noti, come nel caso di Atena e Marzia (graffito n. 3), sembrerebbero rinviare – con l’eccezione del verso omerico già individuato – alla tradi‑ zione epigrammatica ellenistica. Nella “Casa degli Epigrammi” del resto, se alcuni poemi sono adespoti, altri sono stati identifi‑ cati con testi di poeti ellenistici già noti dal­l’Antologia Palatina, tra cui Leonida di Taranto 105 ed Eveno di Ascalona 106. Lo stesso avviene per i testi greci dipinti citati a confronto degli esempi assisiati, costituiti a loro volta da versi di Leonida di Taranto (a Suasa) e di Callimaco (a Roma). L’ipotesi a mio avviso più probabile è quindi che anche gli epi‑ grammi di Assisi siano stati effettivamente ripresi da testi o anto‑ logie di poeti epigrammatici greci, i cui versi sono andati in gran parte perduti nel naufragio della letteratura antica. La distanza cronologica che intercorre tra la pittura dei quadretti e l’inci‑ sione degli epigrammi, unita al fatto che numerosi quadretti non siano stati illustrati da graffiti, porta tuttavia a mio parere ad escludere che testo ed immagini siano stati ripresi, come ipotizza Medaglia, dallo stesso Bilderbuch (cfr. quanto detto sopra a pro‑ posito del programma decorativo e del rapporto pitture – graf‑ fiti). Inoltre in alcuni casi gli epigrammi accennano a due diversi avvenimenti, mentre appare improbabile che in un singolo quadretto potessero essere rappresentate due scene differenti. È difficile dunque che versi di questo tipo siano stati ripresi da un libro di immagini pronte da illustrare, che sarebbe stato più pre‑ ciso nella scelta dei versi da abbinare alle illustrazioni; ritengo più plausibile che gli epigrammi incisi siano stati il frutto di una scelta autonoma del­l’incisore (o, più probabilmente, degli incisori, se,   A.P. VI, 13.   A.P. IX, 75.

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come afferma la Guarducci, i versi vanno ricondotti a diverse mani), che – persona relativamente colta ed amante della cul‑ tura greca – avrà cercato nei versi di sua conoscenza quelli che più si potevano adattare alle illustrazioni presenti nella domus. Questi versi saranno stati tratti, con ogni probabilità, da testi allora noti della letteratura greca, perlopiù – come indica il metro – epigrammatica ed elegiaca. Tornando alla decorazione pittorica: le ricostruzioni ipotiz‑ zate per le pitture di Assisi, affidate ad una serie di graffiti di epoca posteriore e non concepiti dalla stessa persona, sono dun‑ que soggette a notevoli possibilità di errore; non solo i graffiti sono in parte difficilmente leggibili e passibili di diverse inter‑ pretazioni a causa della loro frammentarietà, ma lo stesso autore dei graffiti avrà interpretato in maniera personale ed autonoma le immagini dei quadretti. Nonostante questo, potrà tuttavia forse essere interessante tentare un’analisi dei miti utilizzati e della loro disposizione al­l’interno del corridoio. È stato infatti sottolineato come la scelta dei soggetti dei quadri mitologici al­l’interno di un ambiente, così come il loro ordine e la loro collocazione, risponda spesso, nella pittura romana, ad una precisa scelta dei committenti 107: i sog‑ getti dei dipinti alle pareti, non diversamente da quanto avveniva nelle pinacoteche vere e proprie, che vantavano quadri originali di autori famosi, tendono ad essere disposti in base ad un comune filo conduttore 108. Si fornisce di seguito l’elenco dei soggetti ricostruibili sud‑ divisi per parete, procedendo da ovest verso est su entrambi i lati 109: Parete settentrionale - Penteo inseguito dalle Baccanti 110 - Dioniso su pantera - La sfida di Marsia ad Atena   Sul­l’argomento cfr. Thompson 1960.   Thompson 1960, p. 2 e pp. 34 ss. 109  Per uno schema della precisa distribuzione dei quadretti al­ l’interno del corridoio si veda Prioux 2008, pp. 104‑05. 110  Prioux ipotizza invece in alternativa un riferimento al mito di Orfeo. 107 108

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Ettore che scaglia un sasso contro Aiace 111 Iamo salvato dai serpenti 112 Carro con attributi apollinei Polifemo e Galatea Parete meridionale

- Eracle ed Onfale - Narciso - Tereo ed Itylos I tre soggetti identificabili della parete meridionale possono essere accomunati per il tema amoroso (Eracle ed Onfale, l’amore tragico di Tereo, e Narciso, che ama se stesso), ma una tematica d’amore (Polifemo e Galatea) è presente anche sulla parete nord e, per il resto, non c’è un legame evidente tra Penteo, Bacco, Marsia, Aiace, Iamo (o Ercole?), Apollo, e Polifemo e Galatea. Se le prime due raffigurazioni sono accomunate dalla tematica dionisiaca, la seconda coppia potrebbe (nel caso in cui ad essere rappresentato fosse Aiace accecato da Atena) alludere ad episodi di punizione divina; il quadretto successivo farebbe invece riferimento, al­l’opposto, a gesti di protezione da parte della divinità nei confronti degli uomini, oppure, nel caso in cui ad essere raffigurato fosse stato Eracle, alla miracolosa vittoria del­l’eroe bambino sulle forze divine inviate per punirlo. Anche l’analogia tematica tra i dipinti di una parete e i loro corrispondenti nella parete opposta, individuata in numerosi insiemi pittorici antichi 113, appare nei dipinti di Assisi tutt’altro che immediata: delle due coppie di quadri affrontati di cui si può ancora ricostruire il contenuto, infatti, una presenta Marsia (nella parete nord) affrontato ad Eracle con Onfale (parete sud), e l’altra Iamo (parete nord) di fronte a Narciso (parete sud). 111   Questo il soggetto indicato dal graffito; la Guarducci, in base alle trac‑ ce di pittura conservate ai suoi tempi, ipotizza invece, in contraddizione con il graffito, che nel quadretto fosse rappresentata la strage degli animali da parte di Aiace impazzito. 112  Anche in questo caso è possibile, come accennato sopra, che l’incisore del graffito abbia dato un’interpretazione “personale” di una scena relativa ad un mito più comune, come quello di Eracle bambino. 113  Thompson 1960, pp. 34 ss.

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Bisogna anche considerare che, procedendo verso ovest, dopo la nicchia con fiori della parete nord, i quadri non sono più in perfetta corrispondenza con quelli di fronte, ma un poco sfalsati. Prioux analizza in maniera molto approfondita il contenuto dei quadretti, soffermandosi particolarmente su quelli, mag‑ giormente conservati, della zona centrale e del­l’area orientale del criptoportico 114: qui sottolinea la simmetria dei riquadri con carro di Apollo e pantera di Bacco, che si articolano intorno al quadretto con il testo omerico; ancora, evidenzia la tematica “pastorale” che accomuna i riquadri collocati presso le due estre‑ mità conservate della parete settentrionale (Penteo/Orfeo e Poli‑ femo e Galatea), che richiamerebbero quella presente nel quadro centrale (commentato dal verso del­l’Iliade, nel quale Prioux vede però un accenno al­l’episodio di Ulisse e Polifemo). Le allusioni “pastorali” sono connesse da Prioux alle tematiche apollinee e dionisiache presenti in alcuni quadri e ad alcuni più espliciti riferimenti al­l’arte poetica, che ella vede nel quadro di Apollo e Marsia e in quello del “vate” Iamos, figlio di Apollo cantato da Pindaro. I suggestivi rimandi sottolineati da Prioux non sembrano però tenere sufficientemente conto del­l’importante fattore costituito dalla estrema frammentarietà del­l’insieme pittorico conservato ad Assisi: non solo, infatti, conosciamo solo alcuni dei quadri che decoravano la parte di corridoio sinora messa in luce, mentre altri sono irrimediabilmente perduti per la caduta del­l’intonaco o per la scomparsa della pittura, che non sempre era corredata da graffiti; ma vi è tutta una parte dello stesso corridoio, che cer‑ tamente continuava al di là della facciata della chiesa antica, che non conosciamo affatto e che era, con ogni probabilità, anch’essa decorata da pitture, di cui ignoriamo completamente le tema‑ tiche. Gli stessi rimandi simmetrici e speculari sottolineati dalla Prioux perdono di valore ammettendo una diversa, e più ampia, dimensione architettonica del criptoportico. Va ricordato inol‑ tre che i soggetti evidenziati dalla studiosa, in particolare quelli pastorali, apollinei e dionisiaci, sono tra i più diffusi nel­l’ambito

  Prioux 2008, pp. 74 ss.

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della pittura romana, e sono presenti nella maggior parte degli insiemi pittorici pompeiani. Alla luce di queste considerazioni sarei più cauta nel­l’analisi dei dipinti, sottolineandone sì le analogie, ma ancor di più la varietà dei soggetti, molti dei quali piuttosto comuni e fre‑ quentemente rappresentati nella pittura del tempo; tenendo anche conto che questa varietà aumenterebbe ancora se cono‑ scessimo i soggetti dei quadretti oggi del tutto perduti. Il criterio di scelta, in conclusione, mi sembra basato essenzialmente sulla varietà e sul­l’alternanza dei temi, e sembra mirare a costituire quasi una summa di miti noti e popolari, frequentemente rappre‑ sentati e facilmente riconoscibili. Per quanto riguarda le temati‑ che meno note, identificate solo in base ai graffiti, esse potreb‑ bero forse, come detto sopra, essere dovute a fraintendimenti – o ad interpretazioni colte e volutamente “difficili” – da parte del­l’incisore dei graffiti 115. Un’accurata alternanza di tematiche diverse, disposte in pic‑ coli quadri secondo un’articolazione paratattica, sembra del resto essere il tipo di decorazione più adatto al grande corridoio della Domus Musae, che per struttura architettonica e per modalità di utilizzo aveva tutte le caratteristiche di una ambulatio. Stando a quanto scrive Vitruvio, nelle ambulationes la decorazione doveva disporsi propter spatia longitudinis 116, ed uno dei soggetti adatti ad essere rappresentati era proprio la narrazione in serie di rac‑ conti mitici 117, esemplificata nel corridoio di Assisi dai quadretti descritti più sopra. Nel termine ambulatio ad essere sottolineata 115   Parzialmente differente da quello ipotizzato per le pitture apparirebbe in questo caso il criterio di scelta che ispirò l’autore dei graffiti, se, come ipo‑ tizzato nel testo, a quest’ultimo personaggio può essere attribuito il riferimento a miti rari e poco conosciuti. L’incisore dei testi mostra in ogni caso una note‑ vole cultura accademica, e sembra aver scelto consapevolmente – se non anche i miti cui riferirsi – testi colti e dal linguaggio assai complesso. Cfr. supra. 116  Vitr. VII, 5, 2. 117  Vitruvio parla di fabularum dispositas explicationes (VII, 5, 3). Non sempre in realtà le indicazioni vitruviane sono confermate dai ritrovamenti, in partico‑ lare quando attribuisce alle ambulationes temi narrativi di grande impegno conte‑ nutistico. Ciò che non viene mai meno, però, come sottolinea Scagliarini 1997, è “la tendenza costante degli stili pompeiani ad assecondare la funzione dinamica oppure statica dei vani mediante decorazioni che si prestano ad una percezione rapida oppure ad una osservazione prolungata ... mentre la congruenza tematica, diretta o metaforica, è molto meno costante”.

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non è tanto la funzione pratica e di passaggio che questi vani svolgevano, quanto quella del passeggiare, “un momento impor‑ tante della cultura e del costume antico, connesso con la conver‑ sazione, la lettura, la meditazione, la contemplazione” 118. Portici, corridoi ed altre strutture architettoniche adatte alle ambulationes erano allestite in numerosi edifici pubblici, in parti‑ colare nelle grandi terme, ed erano spesso ornate da veri quadri e da statue di artisti famosi. Oggi conosciamo quasi esclusivamente la decorazione delle loro imitazioni private, di cui si conservano diversi esempi a Pompei e nel­l’area campana. Tra le ambulatio­ nes più note è quella della Casa del Criptoportico, caratteriz‑ zata da una serie di quadretti con scene iliache, che dovevano mostrare agli ospiti la raffinata cultura classica del padrone di casa (va sottolineato che nei quadretti compaiono, scritti in greco, i nomi dei personaggi), e permettere di conversarne con lui ammirando le pitture. A metà percorso si trova un’esedra per la sosta e la meditazione 119. Il motivo del­l’esedra è sviluppato nella Casa del Menandro, dove nel percorso intorno al peristilio se ne dispongono ben quat‑ tro 120, mentre piccoli riquadri, questa volta di soggetto gastrono‑ mico, probabilmente a sottolineare volutamente il percorso che conduceva ad un triclinio, si trovano nella Casa delle Vestali 121. Quadretti di soggetto vario caratterizzavano il criptoportico della Casa dei Cervi ad Ercolano 122. Le piccole dimensioni dei dipinti presenti lungo i percorsi, lungi dallo scoraggiare la contempla‑ zione, favorivano invece l’osservazione analitica ed attenta. Nel corridoio della “domus” di Assisi sembrano dunque essere imitate consapevolmente – nei limiti costituiti dalla struttura architettonica già esistente e dalle capacità delle maestranze locali – le caratteristiche degli ambienti di passaggio note in ambito pompeiano: la vasta casistica di episodi mitici ben si prestava a discussioni colte ed approfondite, mentre la nicchia con rami ed uccelli poteva costituire una sorta di locus amoenus – ad imi‑

  Scagliarini 1997, p. 119.   Scagliarini 1997, p. 120. 120  Scagliarini 1997, pp. 120‑21. 121  Scagliarini 1997, p. 120. 122  Scagliarini 1997, p. 121. 118 119

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tazione di un giardino – per la sosta e la riflessione, con la stessa funzione che, negli edifici pubblici e nelle abitazioni pompeiane sopra citate, svolgevano le esedre. Resta aperto il problema del rapporto tra le pitture, i graffiti ed il monumento antico, la cui destinazione rimane anch’essa ancora da chiarire. Identificato inizialmente con una casa privata, l’edificio, di cui conosciamo solo una piccola parte, presenta in realtà una struttura assai singolare: il grande corridoio che ospita i graffiti, in particolare, largo quasi cinque metri e lungo, solo per la parte conservata, circa 20, sembrerebbe adattarsi mag‑ giormente ad un edificio pubblico che ad un’abitazione privata. Alla luce di questi e di altri elementi, in particolare il rinveni‑ mento, nel corso degli scavi novecenteschi, di numerosissimi frammenti architettonici di notevoli dimensioni e di una serie di iscrizioni di carattere pubblico, tra cui due menzionanti il teatro della città 123, avevo ipotizzato che l’edificio potesse essere sorto come porticus di carattere pubblico connessa proprio con il tea‑ tro, i cui resti non sono stati sinora rinvenuti nel­l’Assisi romana. L’ipotesi, che resta in attesa di conferme o smentite fornite da nuovi dati archeologici, mi sembra rimanga plausibile anche alla luce di questa breve analisi del­l’insieme pitture-graffiti. Ambula­ tiones decorate con quadri dipinti, simili al corridoio assisiate esi‑ stevano infatti, come sopra ricordato, anche in edifici pubblici. Il recente esempio del­l’epigramma di Leonida di Taranto dipinto su un intonaco del foro di Suasa attesta inoltre, per la prima volta, l’uso di iscrivere versi greci anche in edifici di carattere pubblico. Alla luce di queste considerazioni aumenta ancora l’interesse rivestito, e non solo in ambito assisiate, dalla “Casa di Proper‑ zio”, ed insieme ad esso la necessità di nuove indagini, che pos‑ sano fornire ulteriori dati per confermare o smentire le ipotesi formulate.

123  Su questo argomento, e sul problema della localizzazione del teatro di Assisi, si vedano Boldrighini 2008 e, da ultimo, Boldrighini 2014. Sulle iscri‑ zioni rinvenute nel corso degli scavi si vedano invece Sensi 2004 e Asdrubali Pentiti 2007.

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Abstracts L’articolo prende in esame la decorazione pittorica di quarto stile della cosiddetta “Domus Musae”, un imponente edificio romano parzial‑ mente conservato al di sotto della chiesa di S. Maria Maggiore ad Assisi, e si concentra in particolare sui quadretti a soggetto mitolo‑ gico dipinti nel corridoio. Solo due sono oggi ancora leggibili, ma il soggetto di altri otto riquadri può essere ricostruito grazie ai versi greci graffiti in corrispondenza di essi. Dipinti di soggetti analoghi conservati in edifici di Pompei e del­l’area campana possono, in alcuni casi, aiutarci a ricostruire la possibile iconografia delle pitture assisiati. L’autrice riprende inoltre in esame le diverse letture dei testi greci fornite dagli studiosi, insieme al problema delle complesse relazioni tra testi e pitture e tra l’autore e l’incisore dei versi, ponendole in rela‑ zione con il monumento antico e con la sua destinazione originaria, ancora in parte da decifrare. The article deals with the fourth-style painted decoration preserved in the cryptoporticus of  the so-called “Domus Musae”, part of  an imposing Roman building beneath the Church of  Santa Maria Mag‑ giore in Assisi, and focuses mainly on the small square and rectan‑ gular paintings illustrating mythological topics. Only two of  them survive; the subject of  eight more paintings can however be argued thanks to the Greek verses etched beneath them. Paintings of  the same subject, still preserved in Pompeii and in the Campanian area, can help us reconstructing the original iconography. The author also reports the different interpretations of  the Greek texts proposed by the scholars, as well as the problematic relations both between the texts and the paintings and between the authors and the etch‑ ers of  the verses, and tries to put them in connection with the ancient monument and with its original function, still partly to be understood. Keywords: Assisi – Topografia antica / Ancient Topography – Pit‑ tura romana / Roman Painting – Graffiti /Graffiti – Poesia greca / Ancient Greek poetry – Domus Musae

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Fig. 1 Pianta archeologica di Assisi (da M. J. Strazzulla, Assisi Romana, 1985). La Casa di Properzio è indicata dal numero 11

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Fig. 2 Pianta degli ambienti antichi in rapporto alla chiesa soprastante (immagine SBAU)

Fig. 3 Il graffito latino menzionante la Domus Musae (foto SBAU)

Fig. 4 Apografo del graffito latino (da Guarducci 1977)

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Fig. 5 Le pitture del corridoio (foto SBAU)

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Fig. 6 Apografo del graffito n. 1 (da Guarducci 1977)

Fig. 7 Quadro con Penteo e le Baccanti nella Casa dei Vettii (da P.P.M.)

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Fig. 8 Apografo del graffito n. 2 (da Guarducci 1977)

Fig. 9 Rappresentazione di elementi dionisiaci dai Praedia di Iulia Felix (da Pittura Pompeiana 2009)

Fig. 10 Apografo del graffito n. 3 (da Guarducci 1977)

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Fig. 11 Quadro con episodi del mito di Marsia. Pompei, Casa della Regina Margherita (da Pittura Pompeiana 2009)

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Fig. 12 Apografo del graffito n. 4 (da Guarducci 1977)

Fig. 13 Apografo del graffito n. 5 (da Guarducci 1977)

Fig. 14 Quadro con Eracle bambino nella Casa dei Vettii (da P.P.M.)

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Fig. 15 Apografo del graffito n. 6 (da Guarducci 1977)

Fig. 16 Quadro con carro apollineo dal corridoio (foto SBAU)

Fig. 17 Quadro con carro apollineo dalla Casa di Diomede a Pompei (da P.P.M.)

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Fig. 18 Apografo del graffito n. 7 (da Guarducci 1977)

Fig. 19 Quadro con Polifemo e Galatea (foto SBAU)

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Fig. 20 Quadro con Polifemo e Galatea dalla Casa del Sacerdos Amandus a Pompei (da P.P.M.)

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Fig. 21 Pinax con Polifemo e Galatea da Nemi. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo (foto autore)

Fig. 22 Apografo del graffito n. 8 (da Guarducci 1977)

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Fig. 23 Apografo del graffito n. 9 (da Guarducci 1977)

Fig. 24 Immagine di Narciso dalla Casa delle Vestali (da Pittura Pompeiana 2009)

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Fig. 25 Apografo del graffito n. 10 (da Guarducci 1977)

Fig. 26 Quadro con Eracle e Onfale a Pompei, VII, 4, 34 (da P.P.M.)

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CARMEN CODOÑER Salamanca

EL POEMA DE TARPEYA (4.4). AMOR VS FIDES

La distribución de los libros de elegías propercianos ha sido objeto de numerosas controversias (Butrica 1996) 1. Dentro de ellos, la naturaleza compleja del libro IV, escrito en torno al año 15, ha suscitado múltiples estudios que tratan de ver refle‑ jada en los poemas incluidos la unidad que teóricamente le con‑ fiere la elegía supuestamente programática con que se inicia (Fedeli 1965, xix‑xxx) 2. En efecto, los versos finales en boca del poeta dicen así (4.1.69‑70): Sacra diesque canam et cognomina prisca locorum Has meus ad metas sudet oportet equus.

No es mi intención en esta ocasión abordar este problema, pero sí creo indispensable destacar que la elegía dedicada a Tarpeya, dentro del libro IV, es de las más próximas a la declaración de intenciones.

2. El libro IV 2.1. Los poemas de protagonista femenina De los once poemas del libro IV seis tienen como protago‑ nista una mujer: Arethusa (3), Tarpeya (4), Acantis, lena (5),   Una amplia información en J. L. Butrica.   Último acontecimiento localizado en su obra, la sumisión de los Sygrambri (4.6.77) y el consulado de P. Cornelio Escipión (4.11.60). P. Fedeli atribuye distintas fechas de composición a los poemas que integran el libro. 1 2

Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 289-323 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112122

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Cintia (7‑8) y Claudia (11). Intervienen como grupo las Vestales en 9, aunque el protagonismo recae sobre Hércules. El único caso en que la mujer es centro de un mito es Tar‑ peya, puesto que el papel de las vestales en el mito de Hércu‑ les y Caco es anecdótico. En las cinco elegías restantes Pro‑ percio toma como objeto del poema a mujeres pertenecientes a  status sociales diferentes: la esposa de un soldado ausente a causa de la guerra (4.3), Acantis, una alcahueta (4.5), Cin‑ tia, su ex amante y mujer liberada (4.7 y 8) y Claudia, matrona romana (4.11). Con la excepción de la 4.8, elegía que rememora una aventura amorosa en la que participa Cintia, cuyo narrador es el poeta, en el resto el monólogo femenino constituye el núcleo del poema. En 4.3 y 4.11 el poema entero está constituido por el monó‑ logo de la mujer; en ambos casos esposas modélicas que se mani‑ fiestan en un momento concreto de su existencia: Arethusa lamenta la ausencia del marido partícipe en una guerra y la voz de Claudia, ya muerta, analiza su vida desde la distancia que da la muerte. Sus monólogos persiguen transformar su propia individualidad en rasgos definidores de un colectivo femenino sin voz. Las demás elegías dan la voz a las mujeres, pero previamente el poeta sitúa el monólogo y, una vez finalizado, añade un epílogo más o menos breve. En la 4.5 el monólogo ocupa la parte central (21‑62), precedido de diez dísticos (1‑20) y seguido de ocho (63‑78), es decir equivale a poco más de un tercio del poema. La desproporción es mucho mayor en 4.7: monólogo (13‑94), la introducción se limita a seis dísticos (vv.1‑12) y el epílogo a uno (vv. 95‑96); en el resto (13‑94) es Cintia quien habla. Más adelante pasaremos al poema que nos interesa: el 4.4. El personaje femenino de la elegía 4.7, como hemos dicho, es Cintia, sobradamente conocida gracias al retrato que, a tra‑ vés de sus sensaciones y sentimientos en su relación con ella nos ha ido dejando Propercio en los libros anteriores. Objeto de la visión subjetiva que nos proporciona el poeta, en este poema Cintia tiene la palabra. Ya muerta, se dirige al poeta para exponer directamente sus sentimientos: Propercio intenta así ofrecernos una imagen complementaria del personaje, introducir matices; 290

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en una palabra, tras su muerte siente la necesidad de ofrecer una imagen de Cintia ajena a las invectivas que ha lanzado sobre ella en medio de los avatares de la pasión. Introducir el monólogo resulta innecesario, pocos versos son suficientes para evocar la ocasión en que su amada, sombra ya, se presenta ante él para quejarse de la actitud adoptada por Propercio. Con el dístico final, Propercio cierra un pasado de incomprensión mutua: su amor sobrevivirá a la muerte 3 (vv. 93‑96): “Nunc te possideant aliae: mox sola tenebo: mecum eris, et mixtis ossibus ossa teram.” Haec postquam querula mecum sub lite peregit, Inter complexus excidit umbra meos.

Por lo que atañe a 4.5 no se trata de presentar a un individuo, sino al prototipo representativo de un grupo social. El atribuirle un nombre, Acantis, no evita que su monólogo sea impersonal; No se define a sí misma, sino a su oficio y lo hace acumulando consejos encaminados a conseguir un amante rico; las palabras que pronuncia no le dan una personalidad definida frente a las demás celestinas. Si ese fuera el propósito perseguido no sería necesario añadir unos dísticos de presentación y otros de cierre, como así es. En realidad, ambas partes, que encuadran el monó‑ logo, parecen tener una función exculpatoria: la lena, objeto en esas partes del poema de un rechazo total por parte del poeta, no está tratada como personaje concreto que ha intervenido en contra de él, sino como representante de un colectivo que con‑ tribuye a la degradación de las mujeres romanas. Darle un nom‑ bre es un recurso poético que tiene dos funciones, la elección de un nombre parlante 4 y aportar la verosimilitud necesaria en un discurso personal. Acantis no es una lena, es la lena. La naturaleza compleja del libro IV ha sido objeto de múlti‑ ples estudios que tratan de ver reflejada en los poemas incluidos 3  El poema 4.8 vendría a ser, un complemento al 4.7. Propercio comprende ahora que en su relación no ha habido ganadores o perdedores, que ambos han jugado un mismo juego: Cintia traiciona a Propercio y Propercio traiciona a Cintia. Una reciprocidad hasta ahora no admitida por el poeta. De ahí el tono comprensivo con que el poeta narra sus aventuras y el perdón que Cintia le otorga. 4  Cfr. v. 1 Terra tuum spinis obducat, lena, sepulchrum.

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la unidad que teóricamente le confiere la elegía supuestamente programática con que se inicia. En efecto, los versos finales en boca del poeta dicen así: Sacra diesque canam et cognomina prisca locorum Has meus ad metas sudet oportet equus.

Interpretando como una hendíadis el primer hemistiquio, lo que asegura Propercio es que va tomar como motivo de su poesía los días de los festivales sacros y las denominaciones antiguas de los lugares. 2.2. El poema de Tarpeya Dentro del conjunto de poemas que otorga la palabra a las mujeres, el que tiene como protagonista a Tarpeya es singular (Garani 2011) 5. En esta elegía hay quien ve una cierta falta de equilibrio, de cohesión entre las partes. Como en los poemas que acabamos de ver, el monólogo de la protagonista ocupa el centro, aun‑ que, a diferencia de ellos, existe una brevisima alocución directa del antagonista, casi al final, que da al cierre del episodio un ritmo especial. Ahora bien, es la naturaleza de una de las par‑ tes no correspondientes al monólogo lo que da al lector una cierta impresión de incoherencia, de falta de unidad. Por esta razón, conviene comenzar por esos elementos, podríamos lla‑ mar complementarios, que han ayudado a completar el sentido de las otras elegías. Es la única en que la figura femenina es protagonista de un mito y de un mito que sirve a la intención enunciada en  4.1 de hacer poesía etiológica. La joven romana que abre las puer‑ tas de Roma al enemigo sabino acampado a los pies del Capi‑ tolio, la Tarpeya de 4. 4 es una creación de Propercio, no es representativa ni de un grupo social, ni es un personaje real. El  autor está constreñido únicamente por los datos fijados por la leyenda: Tarpeya debe entregar Roma a los sabinos, debe traicionar a su patria y debe morir a manos de los sabinos 5  M. Garani da una peculiar interpretación del poema, relacionando la presencia de Vesta con influencias de la filosofía de Empédocles.

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(Cairns 2011; Sanders 1904, 2‑47) 6. Dentro de estas exigencias puede elegir la versión que considere más adecuada, modificarla, introducir matices. Para empezar, no elige la versión que hace de la codicia el motivo de la traición; por el contrario, Tarpeya en su monólogo se presenta como una puella que sucumbe a la belleza del ene‑ migo, capaz del mayor de los crímenes, la traición a Roma, por esa pasión. Sus deberes cívicos y religiosos – el atribuirle la condición de Vestal quizá persigue hacer la culpa más grave – quedan anu‑ lados ante la pasión que en ella despierta Tacio. Si nos queda‑ mos en los datos escuetos, tendríamos que pensar que el poeta trata de aminorar la culpabilidad de la vestal, puesto que la pasión la ofusca. La muerte, final impuesto por el mito, adquiere un matiz diferente al cambiar la motivación de la traición. No es la codicia provocada por el oro, sino el amor el motivo de la traición. Suelen destacarse las coincidencias por el mismo Pro‑ percio incluidas en el poema: los mitos de Scylla y Ariadne 7. En los tres el núcleo consiste en una traición por amor que, en el caso de Scylla, no de Ariadne, resulta ser la entrega de la patria al enemigo. Difieren las consecuencias: Scylla y Tarpeya mue‑ ren a manos del amado, pero el proceso que lleva a la muerte es bien distinto: Escila no pacta la entrega, Tarpeya sí lo hace;

6  La versión de Calpurnio Pisón, transmitida por Dionisio de Halicarnaso, Ant. Rom. 2.38.4, no hace de Tarpeya una traidora; Tarpeya pacta con Tito Tacio, pero envía un mensajero a Rómulo diciendo que los sabinos van a entrar en el Capitolio para que los espere con sus soldados. Previamente pacta con Tacio para que a cambio de abrirles las puertas le entreguen lo que llevan en sus manos, en la idea de dejarlos desarmados. El emisario traiciona a Tarpeya y se lo comunica a Tacio. Cuando Tarpeya exige su parte de lo convenido, Tacio, conocedor de lo tramado, le lanza su escudo y ordena a los demás que lo hagan. F. Cairns defiende que Propercio conoce esta versión y la recoge en el libro I. Defiende la contradicción con 4. 4 alegando que (182): “there was never an obligation upon an ancient poet to be consistent in his telling of  a myth”. Una exposición de la varias versions del mito en H. A. Sanders. 7  Scylla, hija de Niso rey de Mégara. Enamorada de Minos, que asedia la ciudad, corta el cabello púrpura que dotaba de fuerza a su padre y con ello hace posible la conquista de Mégara. Minos la mata. Ariadne, guardiana del Laberinto, se enamora de Teseo y le ayuda a matar al Minotauro. Después es abandonada por Teseo.

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la muerte de Escila no llega a producirse porque, en su afán de seguir a Minos, se aferra a la nave y cuando está a punto de morir es transformada en ave: Ciris. Mucho menos afín es el mito de Ariadne. La traición al padre no consiste en la entrega de la ciudad, sino en ayudar a Teseo a matar al Minotauro y ayu‑ darle a salir del Laberinto y, en cuanto a su final, no muere, sino que es abandonada por Teseo. En resumen, la mención de los dos mitos parece estar sugerida en todas porque la traición, sea cual sea, es producto del amor, aspecto que es el que interesa des‑ tacar a Propercio, consciente de que la versión que va a ofrecer difiere de la difundida entre los romanos. En los estudios sobre los posibles modelos conocidos por Propercio suele citarse la historia de Peisidike y Aquiles (Light‑ foot 2011, 347‑48; cfr. Cuypers 2005) 8, aunque no suele desta‑ carse (Camps 1965; H. E. Butler.- E. A. Barber 1969; Cfr. Pi­ not­ti 1974, 20) 9. Una sinopsis bastará: Aquiles asedia Metimna; Peisidike, la hija del rey, ve a Aquiles desde la muralla y se enamora de él. Envía a su nodriza para decirle que si le pro‑ mete casarse con ella, le abrirá la ciudad. Y Aquiles lo promete. Después de hacerse con la ciudad, Aquiles no solo no cum‑ ple sino que ordena a sus soldados que lapiden a la traidora. Vemos aquí que las afinidades con Tarpeya son mucho mayores; si excluimos la condición de la protagonista 10: Vestal / hija del rey, el resto muestra paralelos evidentes; tal como le sucede a Tarpeya y Escila, se enamora del jefe enemigo al verlo; al igual que Tarpeya pacta con Aquiles la entrega de la ciudad a cam‑ bio de que se case con ella 11, y muere a manos de los solda‑   Consta de un relato en prosa y 21 hexámetros que desarrollan por extenso la primera y la última parte. Sobre la autoría de los hexámetros suele aceptarse la de Apolonio de Rodas, aunque es discutida. cfr. M. Cuypers. 9  Asimismo se le asocia con la leyenda de Polykrite de Naxos, transmitida también por Partenio, o.c. 9, sobre todo por la coincidencia de la traición con la fiesta de los Targelia. Las afinidades marcadas, excluyendo este motivo, son escasas. Cfr. P. Pinotti. 10  En la versión más conocida de la leyenda Tarpeya es hija de Espurio Tarpeyo, encargado de la vigilancia del Capitolio. Varr. LL 41 hace de ella una Vestal. 11  Dionisio de Halicarnaso (Ant. Rom. 2. 38‑40), atribuye una versión de la leyenda a Fabio (Pictor) y Cincio (Alimento); según estos, Tarpeya, hija de un romano ilustre, decide por codicia entregar Roma a los sabinos y envía a Tacio 8

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dos lapidada, tal como aplastada bajo los escudos de los solda‑ dos muere Tarpeya. Si tenemos en cuenta que Partenio de Nicea llega a Roma acompañando a Galo en la primera mitad del siglo I a.C. (Lyne 1978, 13; Calderón 1984, 45‑49) 12, es lógico que fuera conocido por los poetae noui, de manera que las semejanzas entre una y otra historia no pueden ser casuales. La lectura de 4. 4 desvela numerosas coincidencias con las que tienen como protagonistas a la lena y  a Cintia, pero tam‑ bién hay aspectos en que las soluciones dadas difieren. Así como en los monólogos de esos dos poemas la presentación y cierre tienen la función de dar sentido al personaje femenino central, sea cual sea su identidad, en el de Tarpeya, el narrador actúa no tanto en función de la vestal, sino en función de la historia que la mujer protagoniza. No interesa plasmar la personalidad de un individuo concreto, y tampoco la de un prototipo de un colec‑ tivo existente; la elegía se mueve en el terreno de la narración de un mito, como sucede en la destinada al mito de Hércules. Eso obliga a situar el relato en un escenario espacial y temporal donde lo primordial son los hechos, no la personalidad de quie‑ nes intervienen en ella. Desde ese punto de vista, la versión del mito en Livio contiene todos los elementos necesarios, aunque pueda decirse de ella que “Livy tells Tarpeia’s story briefly and badly” (Wyke 162), opinión emitida sin duda desde una pers‑ pectiva literaria. La intención de transformar el mito en una etiología supone la elección de Tarpeya como núcleo de un relato que explique el topónimo y poner a su servicio el resto de los componentes de la leyenda o, al menos, modificarlos, adaptarlos a su nueva fun‑ ción. Digamos que el topónimo Tarpeium ha sido el germen de la idea por su relación con una leyenda cuya protagonista es una mujer. La opción consciente de centrar el poema en la protago‑ nista femenina tiene consecuencias: dotar a Tarpeya de una per‑

para concertar una cita a una de sus sirvientas (τῶν θεραπαινίδων τινα), variante de la nodriza. 12  R. O. A. M. Lyne habla de la influencia de Parthenius sobre el tema de Scylla en la Ciris, y lo atribuye al manejo de un resumen de Partenio en prosa; Cfr. E. Calderón. En el 66 vuelve Pompeyo a Roma de la Guerra de Mitridates y lleva consigo a Cinna. Fija la llegada de Partenio entre el 65 y el 63.

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sonalidad que justifique su acción y buscar a los demás elementos de la leyenda un sentido adecuado. La presentación, por tanto, es minuciosa y propicia al ena‑ moramiento de Tarpeya. La violencia innata a los preludios de una guerra, es sustituida por un paisaje, que muestra una gran afinidad con el locus amoenus, concesión a la orientación por la que ha optado (Marr 1970, 167‑73; La Penna 1970, xliv y ss.; Hutchinson 2006) 13. A pesar de hacer de Tarpeya el eje central del relato, la pre‑ tensión de dar carácter etiológico induce a pensar que el hecho de presentar el paisaje bajo la apariencia de locus amoenus, no excluye que – a tenor del análisis de 4.1 – estemos ante un intento de reconstrucción de cómo concebía el poeta la zona del Capitolio y del foro en la Roma arcaica. Para ello sobre la realidad cono‑ cida por oyentes o lectores, la Roma de finales del siglo I a.C., reconstruye una realidad imaginaria, pero verosímil, del pasado. Hay que recordar que nuestro poeta no siente inclinación hacia este tipo de descripciones bucólicas; de hecho, la presencia de loci amoeni en su poesía es escasa 14. Su mundo es la ciudad y esta incursión inicial en una especie de lugar paradisíaco, además de perseguir ofrecer un ambiente que pueda favorecer el brote del amor, tuvo que estar basado en la posible existencia al pie del Capitolio de ciertos lugares que permitieran evocar algo semejante. Los versos 1‑2 constituyen una declaración de intenciones de Propercio conectada con los propósitos expresados por él en 4.1: Tarpeium nemus et Tarpeiae turpe sepulcrum Fabor et antiqui limina capta Iouis.

13  Los 10 primeros dísticos son objeto de recolocación por parte algunos autores. Por ejemplo, J. L. Marr. Como dice A. La Penna, la parquedad y el carácter tardío de la tradición manuscrita, unido al estilo de Propercio, que lleva‑ do de la complejidad de “sollecitazioni” hace difícil seguir el hilo de la narración, es la causa de que numerosos pasajes sean trasladados de lugar, por los editores, omitidos versos, etc. Un ejemplo reciente encontramos en G. Hutchinson. 14  En pocas ocasiones, unas como símil al hablar de la belleza natural de su amada (1.2.9‑12), ambientando un mito (1.20 Hylas) o para explicar la naturaleza de un dios (Vertumno, 4.5.13‑18, 41‑46). Una excepción serían los versos 25‑34 de la elegía 3.15 que recrea el escenario que preside la huída de Antiope.

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Atribuir al lugar escogido la condición de nemus (Hutchinson 1992) 15 y utilizar el término sepulcrum para designar el lugar donde estuvo la tumba de Tarpeya (Boyd 1984; Welch 2005, 20 y 56‑58) 16, calificado de turpe; la decisión de cantar el lugar consagrado a Júpiter y vulnerado por el enemigo, todos elemen‑ tos del paisaje desconocidos cuando Propercio escribe y acom‑ pañarlos del verbo fabor, es un recurso solemne, que al mismo tiempo, confiriendo la categoría de nemus a la roca Tarpeya, evoca un mundo legendario y un modo de narrarlo. En su conjunto, Propercio intenta hacer compatible la evocación del pasado que parece exigírsele a un poema etiológico, pero reafirma la idea de la homogeneidad de la poesía properciana; propone aunar la altura exigida por el tema escogido y el tratamiento del epilion que caracteriza los libros anteriores (Miller 1982, 383) 17. El verso 2, con el uso de fabor y la inclusión del espacio reservado y  consagrado a Júpiter, el Capitolio, no rompen la sensación de locus amoenus con que se inicia y prosigue Los dísticos siguientes son, propiamente, el comienzo de la elegía y se corresponden con un relato de tiempos pasados, incluso en la forma con imperfecto de indicativo erat, que recuerda los comienzos de los relatos tradicionales: “Había una vez ..., Érase una vez ...”. Lucus erat felix hederoso conditus antro, multaque natiuis obstrepit arbor aquis, Siluani ramosa domus, quo dulcis ab aestu fistula poturas ire iubebat oues 15   La consideración de la roca o monte Tarpeyo como nemus se da solamente aquí y parece responder a la voluntad del poeta de dar al lugar connotaciones adecuadas al relato que sigue. En L. Richardson, jr. no aparece registrado. 16  Según Plut. Rom. 18.1 Tarquino destruyó el sepulcro para construir el templo de Júpiter Capitolino. Sobre la existencia del sepulcro, existen distintas opiniones. La nota de B. W. Boyd da una interpretación del verso que procu‑ ra contenido múltiple a sepulchrum. T. S. Welch piensa que la tumba era real y venerada por los romanos; según esta autora, la elegía 4.4 trata de “the le‑ gendary traitoress Tarpeia and the tomb named after her”. Dedica a esta elegía el capítulo 3, 56‑78. 17  No me parece acertado establecer una dicotomía entre propósito y rea‑ lización, tal como dice J. F. Miller, “Instead of  the lively scholar of  the ‘Aitia’, we encounter a solemn patriotic persona for the presentation of  the national Roman subjects”. El poeta umbro combina ciertos rasgos léxicos del genus graue con una realización acorde a su concepción de la poesía.

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Estos cuatro versos, en mi opinión, no recrean un paisaje con‑ creto. El locus amoenus preside el relato y lo sitúa, más que en un lugar, en un ambiente idílico que cuenta con todos los compo‑ nentes necesarios: un bosquecillo cuajado de árboles y regado por un manantial (v. 4 natiuis ... aquis), donde en el estío pace el rebaño acompañado del tañido de la flauta de Silvano. La mención del lucus en el verso 1 es recogida dos versos más abajo por Siluani ramosa domus, estableciendo un nexo entre el dios concreto y el lugar 18. Si los versos que acabamos de citar recrean un paisaje ficticio, los que siguen sirven al propósito de trazar las coordenadas espa‑ ciales de la acción que se inicia y sitúan al lector en lugares cuya función inmediata es definir indirectamente el punto de vista que el lector debe adoptar ante los hechos que van a ser narrados, aun cuando se procure enlazar con algún referente que facilite la evocación. Hunc Tatius fontem uallo praecingit acerno Fidaque suggesta castra coronat humo Quid tunc Roma fuit, tubicen uicina Curetis Cum quateret lento murmure saxa Iouis? Atque ubi nunc terris dicuntur iura subactis, Stabant Romano pila Sabina foro. Murus erant montes; ubi nunc est curia saepta, Bellicus ex illo fonte bibebat equus. Hinc Tarpeia deae fontem libauit: at illi urgebat medium fictilis urna caput. Et satis una malae potuit mors esse puellae, quae uoluit flammas fallere, Vesta, tuas? 19 uidit harenosis Tatium proludere campis pictaque per flauas arma leuare iubas: obstipuit regis facie et regalibus armis, interque oblitas excidit urna manus.

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18  Textos sobre Silvano: Cat., agr. 83; Verg., ecl. 2.24ss.; georg. 1.20; aen. 8.597ss.; Ov., met. 14, 639ss.; Liv. 2.7. 19  El dístico formado por los versos 17‑18 interrumpe el discurso, la secuencia de ideas, sin enriquecer el contexto. Por otra parte resulta extraño encontrar el adjetivo mala aplicado a puella, que sería el único en los textos conservados; el adjetivo aplicado a mujeres sólo funciona con mulier.

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El primer dístico rompe con el ambiente creado por los cuatro primeros. Situándose in medias res pasa a ocuparse de las transfor‑ maciones realizadas por Titus Tatius, personaje que en el mito actúa como antagonista (vv. 7‑8 y 11‑12). El manantial existente en el terreno ocupado por el ejército es cercado por una empalizada (v. 9): Hunc Tatius fontem uallo praecingit acerno y el campamento protegido con un terraplén (v. 10); son construcciones independientes, como lo es el sistema utilizado para protegerlas (castra) o reservarlas para uso del ejér‑ cito (fontem). El espacio ocupado por el rey sabino, en virtud del interés properciano por dar un tinte etiológico a la elegía, debe esta‑ blecer imaginarias correspondencias entre pasado y presente de Roma. La imposición derivada del propósito expreso en 4.1 invita a la inserción de un dístico que justifique lo que, Proper‑ cio es consciente, no es más que un pretexto para su poema. Los versos 3‑4 preparan el paralelismo que el poeta establece entre los lugares ocupados por Tacio en los primeros momentos de Roma y la Roma de su tiempo: Quid tum Roma fuit, tubicen uicina Curetis Cum quateret lento murmure saxa Iouis?

La correspondencia entre los antiguos lugares y los que ve todos los días el romano coetáneo de Propercio, sigue a la pregunta retórica y se establece utilizando la composición en anillo: el campamento ocupaba el lugar donde ahora se encuentra el Senado, el manantial estaba donde ahora está la Curia saepta. El manantial, de acuerdo con estos datos debería quedar junto al campamento, pero no formar parte de él 20. Tanto el fons Tullianum, pegado a la parte norte del Capitolio, como el  fons Iuturna al suroeste del foro – entre el templo de Castor y el atrio de Vesta – están próximos al supuesto asentamiento del campa‑ mento sabino.

20  En arquitectura, praecinctio es utilizado en Vitrubio (2.8.11) para hablar del pasillo semicircular que separa las dos caueae. Si pensamos en el fons Iuturna, lo que hace Tacio es levantar una empalizada semicircular que separa el ma‑ nantial del exterior y lo deja incorporado al campamento, cerrando su acceso a esta zona.

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Podemos imaginar que Propercio ha intentado proporcionar al lector indicios comprensibles para un romano habitante de Roma a finales del siglo I a.C. No parece banal el modo de recoger el dato con que se cierra la parte dedicada a Tacio (Hutchinson 2006) 21: Bellicus ex illo fonte bibebat equus. La precisión de que son los caballos aquellos a quien está destinado el manantial y no los hombres, no es el esperable. La fons Iuturna al suroeste del foro es el lugar más ade‑ cuado para ser incorporada al campamento sabino, puesto que el manantial Tullianum está justamente a los pies del Capitolio, demasiado cercano a la ciudadela romana. Esto proyectaría sobre la adjetivación bellicus dada a equus un plus de significación; no hay que olvidar que la fuente mencionada estaba situada en las cercanías del templo de Castor y Pollux y de la relación entre ambos existe una leyenda que transmite Valerio Máximo (1.8.1): finalizada la batalla del lago Regilo, en la que los romanos reci‑ bieron la ayuda de Cástor y Pollux, los gemelos continuaron ocupándose de Roma: ... ad lacum Iuturnae suum equorumque sudorem abluentis uisi sunt, iunctaque fonti aedis eorum nullius hominum manu reserata patuit  22. Con el v. 14 finaliza la presentación de Tacio, cuya figura se tiñe de rasgos derivados del paisaje ocupado. Dos problemas quedan por resolver. En primer lugar cuál es el sustantivo que recoge hunc del v. 7; de ser este el texto properciano tendría que identificarse en fons del verso anterior, al que también habría que referir el illo del v. 14. Es decir, un solo manantial, el del locus amoenus. En segundo lugar, tene‑ mos la difícil interpretación del hinc que precede a Tarpeia en el v. 15.

21  Hutchinson encuentra una dificultad especial en mantener hunc fontem del verso siguiente, argumentando que hasta el momento no se ha mencionado manantial alguno, por lo que el demostrativo carece de sentido y atribuye hunc a lucus y acepta la conjetura de Camps: propter. 22  Varios autores destacan la intervención de los Dióscuros a caballo, entre ellos Cic., nat. deor. 2.6 y en especial 3.11 pasaje donde hace referencia a una creencia popular que veía en una huella que aparece a orillas del lago Regilo la huella del caballo de Cástor: Ergo et illud in silice quod hodie apparet apud Regillum tamquam uestigium ungulae, Castoris equi credis esse?

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Como es natural ambos problemas han recibido diferentes respuestas por parte de los investigadores, tanto editores como comentaristas. Me permito emitir una hipótesis que sumar a las ya existentes. Para comprender la hipótesis que planteo, hay que acep‑ tar un punto de partida: los dísticos segundo y tercero son simplemente un encuadre del suceso que se va a narrar, no pertenecen al relato, sino a la presentación del relato. Si así se acepta, el demostrativo hunc no puede hacer referencia al manantial que forma parte del locus amoenus (natiuis aquis) (Janan 1997, 16) 23 y, por consiguiente, o bien el dístico está descolocado – opción favorecida por algunos estudiosos –, o bien no debe leerse hunc. En cualquiera de los dos casos, la solución dada a hunc lleva aparejada la concerniente a ex illo fonte, puesto que no existe ningún obstáculo a que el demostra‑ tivo illo represente el manantial cercado por Tacio. La hipótesis que planteo está basada en la estructura de los versos 7‑16. El inicial y final están dedicados a la presentación de los protagonistas del mito: el rey sabino y Tarpeya. Hunc Tatius fontem uallo praecingit acerno Fidaque suggesta castra coronat humo Hinc Tarpeia deae fontem libauit: at illi urgebat medium fictilis urna caput.

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El presente praecingit/coronat en los vv. 7‑8, define la actividad de Tacio en términos ambiguos de temporalidad: pasado y pre‑ sente conviven, en tanto que el perfecto libauit, empleado para concretar la acción de Tarpeya, tiene su contrapartida en los dos 23  Es frecuente que los estudiosos encuentren dificultades en la localiza‑ ción de la fuente o fuentes. Uno de los problemas que plantean es el praecingit que se entiende como un cercado. Esta interpretación lleva a considerar el paisaje una invención de Propercio. Está expuesto de modo muy claro en M. Janan: “Book IV reveals truth to be not just irrecoverable but in fact none‑ xistent, unthinkable, inconceivable. Elegy 4. 4, for example, takes shape around a spring claimed by the enemy Sabines from which the Roman Tarpeia draws water – a spring misteriously accessible, and innaccesible, to her; ... Propertius describes dream-landscapes untroubled by the principle of  non-contradiction, thus reinforcing the barrier to the past recuperation announced when he de‑ clared that the present-day roman shared nothing with Tome’s past except his name (4.1.37)”.

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C. CODOÑER

imperfectos entre los que se encuentra: bibebat y urgebat, propios de una acción durativa y que, por tanto, requieren la interpreta‑ ción del perfecto como ingresivo o egresivo: “fue a coger agua” o “acabó de coger agua”. Frente a una actividad, la de Tacio, enunciada en presente que supone indeterminación en cuanto a la duración de las acciones, la actividad de Tarpeya está con‑ centrada en un instante, que se inicia y se enclava en el escenario dibujado hasta el momento 24; basta un dístico y una referen‑ cia relativa a un manantial concretado gracias al genitivo deae. Su personalidad se reviste así de un rasgo esencial, aunque impre‑ ciso: su relación con una diosa que posee un manantial que le es privativo 25. En los dos casos el nombre ocupa el mismo lugar del verso (Tatius 9, Tarpeia 15); asimismo, al nombre sigue la mención de un manantial: fontem y, también en ambos casos, Tatius y Tarpeia van precedidos de un término que, en los manuscritos tienen forma muy similar, hunc e hinc. El valor de hinc repetido para referirse a dos partes que con‑ forman un todo integrado por dos elementos es frecuente: hinc ... hinc. También es posible conceder a un solo adverbio hinc un valor semejante, cuando una de las dos partes constitutivas del todo está marcada de algún modo. Tenemos un caso en 4. 6. 21 ss. El poeta está describiendo la disposición de las flotas de Marco Antonio y Augusto en la batalla de Accio: Altera classis erat Teucro damnata Quirino, pilaque femineae turpiter apta manu: Hinc Augusta ratis plenis Iouis omine uelis, signaque iam patriae uincere docta sua

No hay duda de que hinc es el contrapunto de altera y que, ade‑ más, por su conexión con el demostrativo de primera persona, hace sentir más próximo al destinatario el referente que intro‑ duce: se trata de la flota de Augusto.

24  Los manuscritos, todos, leen hic. Un problema sintáctico plantea el v. 15: la conjunción de hinc y  fontem. Si se mantiene hinc, fontem no tiene sentido, debiera encontrarse algo así como laticem (Shackleton-Bailey). 25  A estos efectos, el mismo Propercio en 4.9, en el mito de Hércules y Caco, nos habla del manantial de Vesta reservado a las vestales.

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EL POEMA DE TARPEYA (4.4). AMOR VS FIDES

Por un lado (hinc), Tacio levanta su campamento, por otro lado (hinc) Tarpeya cumple con las obligaciones que le impone el hecho de ser vestal. Dos personajes, cuya coincidencia en un punto del relato, será el desencadenante del motivo central. Pensar en un hinc  ... hinc resolvería los problemas planteados: desaparecería la necesidad de hacer una sola fuente de la men‑ cionada por tres veces en los versos 3‑14 y daría sentido al hinc con que comienza la presentación de Tarpeya. Para introducir a Tarpeya Propercio ha construido un dístico pleno de alusiones, empezando por un deae definido únicamente por su relación con fons. En la elegía 4. 9, las vestales intervienen en virtud del manan‑ tial sacro que les pertenece. Hércules, tras acabar con Caco, es víctima de una sed atroz y no encuentra agua (21): Dixerat et sicco torquet sitis ora palato terraque non ullas feta ministrat aquas.

Escucha risas en el recinto de las vestales donde hay manantiales a su cargo y de donde los hombres quedan excluidos. La choza que las aloja resplandece gracias a un fuego perfumado (odorato igne). Hércules (35 fontis egens) solicita que le dejen calmar su sed, no entiende que el agua no sea accesible (44 non clausisset aquas ipsa nouerca suas). La vestal madre se niega: el agua de su manantial está reservado a las vestales (59 ... haec lympha puellis/ auia secreti limitis una fluit). El escenario donde habitan las vestales es presentado como una conjunción de contrarios: agua y fuego, tal como aparece en un amplio desarrollo en Ovidio al hablar de los Parilia. Con el perfecto se pone fin a la descripción y cobra impor‑ tancia la acción; el uso de perfectos, que se inicia con la inter‑ vención de Tarpeya, imponen sobre el contexto matices tempo‑ rales que conjugan movimiento y descanso 26. El relato adquiere vida, anticipada por el perfecto libauit y continuada con una serie de perfectos: uidit, obstipuit, causata est, dixit, tulit que dan a la 26  Passerat probablemente observó también este hecho e intentó subsanarlo con la conjetura purus erat fons hic sustituyendo Murus erant montes, pero la repetición de fonte en el verso siguiente y el subsiguiente, hace difícil apoyar la conjetura.

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acción una agilidad y movimiento que contrasta con lo anterior. Un hecho sucede a otro, la acumulación transmite la imagen de premura, de urgencia. Podemos hacer de libauit un perfecto ingresivo o egresivo: “fue a tomar agua” u “o acabó de tomar agua”; en cualquiera de los dos casos, pero especialmente en el segundo, la presencia de la partícula at adquiere un sentido claro al trasladar el foco de una acción a otra: la de llenar de agua el cántaro y el de acomo‑ darlo en su cabeza. Primero vincula a Tarpeya con el manantial y  pasa inmediatamente, utilizando at para indicar la transición, a describir las consecuencias de una acción no expresa: el cántaro le pesa 27. Tarpeya ha tomado el agua sin obstáculo alguno, pero es más, si el retorno se ve interrumpido es exclusivamente por una razón: la carga que le supone la vasija con agua sobre la cabeza le hace detenerse y tomarla en sus manos; estamos ante una frase deci‑ siva, destacada por at. De no ser por ese detalle, la necesidad de detenerse, la virgen romana no hubiera dirigido su mirada al campo enemigo. En este punto el poeta rompe la secuencia narrativa ines‑ peradamente introduciéndose en el relato (Heyworth 2007, 447‑49; Fedeli 2011) 28. La ruptura es tan sensible que algunos editores optan por eliminar el dístico dándole categoría de glosa (vv. 17‑18): Et satis una malae 29 potuit mors esse puellae, quae uoluit flammas fallere, Vesta, tuas?

27   El problema que plantean algunos editores y comentaristas es el paso del perfecto (libauit), al imperfecto (urgebat). Esta secuencia temporal no es ajena al latín (Verg., Aen. 2.1), y contextualmente se explica concediendo a libauit un valor perfectivo (ya tenía el cántaro lleno) que tiene como consecuencia el hecho de que le pese sobre la cabeza. 28  La configuración de la escena es objeto de múltiples controversias, la ma‑ yoría en torno al problema de la identificación de las fuentes. Un resumen de la situación en S. J. Heyworth. La coherencia impuesta por el comentarista al relato obliga a alterar el orden que siguen los dísticos en los manuscritos y a in‑ troducir alguna conjetura. Una alteración del orden, aunque distinta, propone P. Fedeli. 29  Mala es un adjetivo aplicado al género femenino con el substantivo mulier, nunca con puella o femina. Además no encaja en el sentido del pasaje, lo cual favorece la idea sustentada por algunos estudiosos de que se trata de un añadido

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EL POEMA DE TARPEYA (4.4). AMOR VS FIDES

Cierto que la autenticidad del dístico puede ser discutible, en especial por el uso de mala, pero tiene a su favor la deli‑ mitación de la personalidad de Tarpeya, apenas intuida en el verso 15 gracias al sintagma deae fontem libauit. En primer lugar Propercio le concede la condición de puella, término cargado de connotaciones derivadas del uso que le dan los poetas ele‑ gíacos, hace de ella una vestal, al tiempo que anuncia su futura traición a la diosa Vesta 30 incluyendo el segundo factor del ritual de Vesta, el que junto a las purificaciones con agua es deber básico de las vestales: mantener el fuego del altar, que es garantía de la pervivencia de Roma 31. El mismo tipo de intrusión de la opinión del autor sobre el pasado de Roma en los vv. 9‑10, se repite ahora tras la entrada de Tarpeya en escena y la misma es la respuesta dada a la aparente irrelevancia del comentario (Codoñer 2013 y 2013bis, 127‑40) 32. Sin embargo, no parece casual la repetición de un mismo pro‑ cedimiento en lugares paralelos: presentación de Tacio y su acti‑ vidad y presentación de Tarpeya y acción que realiza. En un caso sirve para propiciar una evocación de la antigua Roma, en otro, anticipa el desastre en que va a abocar el hecho que sigue. El lugar escogido es el mismo: Et satis una malae potuit mors esse puellae, quae uoluit flammas fallere, Vesta, tuas? Vidit harenosis Tatium proludere campis Pictaque per flauas arma leuare iubas: posterior. Aunque paleográficamente no es fácil de explicar, un adjetivo de significado próximo a sacer dotaría de cierta congruencia al verso, al tiempo que favorecería el oxímoron derivado de su aplicación a puella, contribuyendo así a agudizar la contradicción entre su condición de Vestal y el comportamiento futuro. 30  La presencia de flammas fallere junto a puella hace inevitable la idea de pasión amorosa traicionada. Solamente la mención de Vesta y tuas, en final de frase, da el significado adecuado al contexto. 31  En Propercio femina es poco frecuente, 18 ocurrencias frente a 110 de puella. Su uso se limita a la designación de la mujer genéricamente o a la mujer considerada como parte de una familia. Por ejemplo 3.11: Quid mirare, meam si uersat femina uitam/et trahit addictum sub iura uirum ... Finalmente mulier es muy raro y siempre con sentido despectivo. De las cinco veces que lo usa, dos está aplicado a Cleopatra; en los otros tres casos está acompañado de irata, rabida y superba. Cfr. C. Codoñer. 32  Cfr. 4.9.

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C. CODOÑER

Después de recrear la plegaria que debe dirigirse a Pales, explica el origen del ritual (Fast. 4. 785 ss.): Omnia purgat edax ignis uitiumque metallis excoquit: idcirco cum duce purgat ouis? An, quia cunctarum contraria semina rerum sunt duo discordes, ignis et unda, dei iunxerunt elementa patres aptumque putarunt ignibus et sparsa tangere corpus aquae?

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El poeta pone su culpa en relación con su condición de Vestal, no con su condición de ciudadana privada y, por tanto, traslada la responsabilidad de la traición a un plano simbólico, donde el hecho concreto solo representa la realización material. A partir de este dístico, que ha contribuido a delimitar total‑ mente la identidad de la protagonista, la narración vuelve a situarse en el plano anterior. Un suceso mínimo, intrascendente – el hecho de detenerse porque le pesa el cántaro – ha sido el desencadenante de la acción que, hasta ahora, se ha limitado a la presentación del escenario y los actores: Tito Tacio y Tarpeya. La vestal, en la pausa provocada por la necesidad de descan‑ sar, contempla a Tacio y la impresión que deja en ella su belleza provoca la caída del cántaro y una serie de consecuencias en el comportamiento de la joven enumeradas a continuación y  que, gracias al adverbio saepe que se repite en aliteración en los vv. 23 y 25 – la reiteración da cuenta del paso de los días – desvelan el impacto que le ha causado el rey sabino. Con fre‑ cuencia Tarpeya invoca inexistentes presagios de la luna 33, para bajar al río, a pesar de lo arduo del camino, y hacer ofrendas a las ninfas para que protejan la belleza de Tacio de las armas de Rómulo 34.

  Cfr. 1.1.10.   El modo de mencionar sus salidas y las excusas que inventa para justificar‑ las, las dificultades del camino que conduce al lugar donde se desplaza (v. 28): rettulit hirsutis bracchia secta rubis, dejan la impresión de que Propercio no está pen‑ sando en el mismo lugar desde el que por primera vez vio a Tacio. El descenso del Capitolio (subit ... Capitolia), no mencionado antes, coloca a Tarpeya próxi‑ ma al campamento. La mención de las ninfas llevan a pensar en el fons Attiades; en resumen, el lugar al que acude Tarpeya cambia. 33 34

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EL POEMA DE TARPEYA (4.4). AMOR VS FIDES

El poeta destaca la aspereza del camino por el que Tarpeya asciende mencionando las heridas que las zarzas causan en Tar‑ peya (28 rettulit hirsutis bracchia secta rubis) y en su monólogo, cuando imaginariamente se dirige a Tacio, ofrece detalles del lugar por donde deben acceder al Capitolio (vv. 48‑50): Tu cape spinosi rorida terga iugi lubrica tota uia est et perfida: quippe tacentes fallaci celat limite semper aquas.

La senda que deben tomar es engañosa (fallaci limite) puesto que bajo ella discurre una corriente de agua oculta que hace que el camino siempre esté empapado (rorida) y resbaladizo (lubrica). No indica si se trata del mismo camino que ella toma para bajar o es otro 35. En los análisis del poema suele insistirse en la reiterada men‑ ción del agua y se pone en relación con la condición femenina y la pureza exigida a las Vestales (Rutledge 1965) 36. La hipótesis, atractiva, desecha la posibilidad de que Propercio proporcione algunas de estas referencias con el fin de reconstruir un espacio ya desaparecido. La zona del foro siempre fue un lugar propicio a las inundaciones atravesado como estaba por riachuelos que desembocaban en el Tíber. Una de las excusas que Tarpeya ofrece para bajar al foro es la necesidad de lavar su cabello en el río (24 et sibi tingendas dixit in amne comas); no hay que pensar en el Tíber sino en algunos de los afluentes que rodean la colina Velia (Richardson jr. 1992; Willesley 1989, 97) 37; el curso de uno de ellos, corría entre el Palatino y el mons Oppius. Solamente en otro punto vuelve a utilizar el paisaje, pero como un simple localizador (vv. 13‑14), e incluye el único dato claramente referido a su época (ubi nunc), seguido de la mención

35   Cfr. Verg., aen. 8.347 Hinc ad Tarpeiam sedem et Capitolia ducit / aurea nunc, olim siluestribus horrida dumis. 36  Uno de los primeros artículos en que se insiste sobre la reiterada mención de este lamento es el de H. C. Rutledge. 37  La colina Velia, entre el Palatino y el Opio. Estaba delimitada por dos cursos de agua, uno que empezaba por donde estaba el Arco de Tito y que corría por la base del Palatino, y otro que empezaba al pie de las Carinae y corría en dirección suroeste. Cfr. L. Richardson, jr. y K. Willesley, que supone que Propercio se está refiriendo a una corriente de agua próxima al Tullianum.

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C. CODOÑER

de un manantial: ubi nunc est curia saepta (Heyworth 2007, 499; Marr 1970, 171) 38. Un dístico introduce el lamento, parte básica del poema, puesto que es en ese amplio pasaje donde radica la singularidad de la versión properciana del mito. Tarpeya llora sus heridas amorosas empleando un término propio de la milicia: vulnera y lo hace desde el lugar que simboliza Roma: ab arce y la máxima divinidad uicino Ioui, el menos indicado para exponer sus inten‑ ciones: la traición a ambos. et sua Tarpeia residens ita fleuit ab arce uulnera, uicino non patienda Ioui

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El lamento así iniciado se cierra en el verso 66 y es seguido por dos dísticos (vv. 67‑70), que hacen avanzar una acción que hasta ese momento se ha desarrollado exclusivamente en la mente de Tarpeya. El cierre del lamento sirve de contrapunto a la presentación. La joven vestal busca en el sueño la calma necesaria para rea‑ firmar o desechar la idea que le inspira la locura amorosa que la domina. Y así como el inicio del lamento está presidido por la mención de Júpiter, protector de la ciudad Roma, es ahora la diosa cuyo fuego simboliza a la urbs y a la que Tarpeya está consagrada la que ocupa la escena. Y, a diferencia de Júpiter, su intervención es decisiva. Dixit, et incerto permisit bracchia somno, nescia se furiis accubuisse nouis. nam Vesta, Iliacae felix tutela fauillae,

38  Se refiere probablemente a la Curia Iulia. Heyworth: “(he) must re‑ fer to some essentially decorative balustrading, and makes for a contrast with murus erant montes when Rome needed walls, it had to rely on its hills, whereas now even the curia is saepta. Marr notes that the verb is applied to the Curia at Cic. Rep.  2.17.31: “However here Propertius is not primarily concerned to stress the pastoral nature of  primitive Rome, but rather the startling fact of  a Sabine encampment at the very heart of  what is now the capital of  the world. Furthermore Camps’s punctuation produces a jerky line 13 and an abrupt line 14. saepta as an adjective is at least not utterly superfluous, cfr. Cic., rep. 2. 17. 31: fecitque idem [Tullius Hostilius] et saepsit de manubiis comitium et curiam. Is it possible that since Octavian’s restoration in 29 B.C. the particular fence around the Curia, like the gas-holders at the Oval, had become a well-known distinguishing feature of  it?”.

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EL POEMA DE TARPEYA (4.4). AMOR VS FIDES

culpam alit et plures condit in ossa faces. illa, qualis celerem prope Thermodonta Strymonis abscisso pectus aperta sinu.

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Vesta lleva a sus últimas consecuencias la actitud de intole‑ rancia pasiva de Júpiter ante las quejas de Tarpeya (30 non patienda); la diosa no le ayuda, antes bien exacerba la pasión por Tacio que le llevará a traicionar a Roma (Warden 1978) 39. Es Vesta quien condena a Tarpeya antes de haber cometido el crimen de lesa patria, haciendo incontrolable su actuación (Wellesley 1979; Warden 1978; Janan 20, 76‑78) 40. El sueño feliz invocado se transforma en una pesadilla; Vesta sustituye a Tacio y, en lugar de consuelo, Tarpeya queda a mer‑ ced de Vesta que fomenta la culpa. Estos versos adquieren un sentido figurado. El sueño sirve a Vesta para transformar su alie‑ nación en locura mientras duerme. El presente ruit que sigue tiene un valor metafórico, puesto que no está hablando de la realidad: Tarpeya no despierta y se lanza como una bacante. Durante el sueño se ve a sí misma como un guerrero feme‑ nino, una amazona, pero revestida de los rasgos de una ménade. Las furiae hacen presa en ella llevando a sus extremos la pro‑ gresiva locura que ha provocado en ella la visión de Tacio: el  furor. Esa mezcla de figuras, amazona y bacante, responde a la voluntad de dar a la escena un carácter onírico, en donde la fusión de imágenes es posible y vincula de manera definitiva a la vestal al mundo de la locura. Corresponde a Vesta, protectora de los descendientes del linaje troyano y protectora de la ciudad, de cuyo culto depende la seguridad de la Vrbs tomar venganza de Tarpeya; el mito obliga al poeta a hacer de Tarpeya una traidora; si no es posible

39  J. Warden pone en relación la actitud de Vesta, con la descripción de Tarpeia en el v. 18: quae uoluit flammas fallere, Vesta, tuas. Dice (186): “Vesta now has her own back. It is she who uses her flame to cheat Tarpeia”. 40  La acumulación de epítetos aparentemente contradictorios, mención de los ríos Thermodon y Strymon, que traen a la mente a bacantes y amazonas con‑ juntamente, ha hecho de este pasaje fuente de numerosos comentarios e inter‑ pretaciones. Puede verse K. Wellesley. Por su parte J. Warden pone en rela‑ ción con este dístico el pasaje virgiliano de la muerte de Dido, y la figura de Amata. La primera especialmente, mezcla de amazona y ménade. Más reciente M. Janan.

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C. CODOÑER

ir contra el mito, es necesario encontrar un motivo que explique el injustificable comportamiento de una virgen vestal: la insania. Puesto que la leyenda ya está fijada, la función de Vesta es llevar a la irracionalidad a quien profesa un amor injustificable. La Vestal queda reducida a un instrumento en manos de los dioses; entregará Roma a los sabinos llevada de la locura. Tarpeya ha dejado de ser Tarpeya; su pérdida de razón, de voluntad, la reducen a la condición de bacante, y su identidad se asimila a la de una amazona. Tras exponer la reacción de Tarpeya al despertar, si seguimos la estructura dada por Propercio a los otros monólogos, se espe‑ raría la conclusión: la traición, la entrega de Roma al rey sabino, puesto que el lector ya conoce todo del mito, incluso el proceso que ha conducido a la vestal a la traición. Sin embargo, el poeta continúa con lo que podría tomarse por un nuevo poema etio‑ lógico (vv. 73‑74): Vrbi festum erat (dixere Parilia patres), que nos retrotrae al lucus erat felix del v. 3, que ralentiza, interrumpe el ritmo de la exposición, para hablar, aunque sea brevemente, de las características y orígenes de los Parilia. Hace de la festividad una celebración predominantemente campesina, adecuada a un pueblo ganadero, tal como parece indicar al citar de modo expreso la costumbre de los pastores de reunirse anualmente: 75 annua pastorum conuiuia. Tal hecho no está en contradicción con el hemistiquio siguiente donde se habla de que es Roma el centro. Las reuniones de los pastores parecen responder a una tradición “gremial” que tiene lugar durante los festejos que se celebran en la capital. De hecho, la insistencia sobre el carácter rural de los Parilia: 76 pagana fercula, 78 raros faeni aceruos /traicit turba, no excluyen su celebración en la Vrbs (Butrica 2000, 474) 41. La celebración de los Parilia da pie a la ausencia de centi‑ nelas (79‑80), momento adecuado para la intervención de Tar‑ peya. A diferencia de las otras versiones de la leyenda, la vestal 41  Puede entenderse raros ... aceruos en el sentido de montones poco com‑ pactos, con poco heno, es decir, modestos. Si se le da la otra posible acepción, no encuentro dificultades para entender, que los montones eran pocos, tres, tal como dice Ovid., fast. 4.727 y, por tanto, separados los unos de los otros. Acerca de las posibles interpretaciones del pasaje completo; J. L. Butrica piensa que los vv. 74‑75 responden a la integración poetizada de glosas en el poema (474).

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EL POEMA DE TARPEYA (4.4). AMOR VS FIDES

no ha llegado a ningún acuerdo con los sabinos, lo ha recreado en su lamento, no ha habido contacto con Tacio. El núcleo de la leyenda se va a resolver en los dos versos siguientes (81‑82), resumen concentrado de los pensamientos expresados en el monólogo: hoc Tarpeia suum tempus rata conuenit hostem: pacta ligat, pactis ipsa futura comes.

Tarpeya baja al campamento sabino, pacta y vuelve acompa‑ ñada de ellos (pactis ipsa futura comes). El dístico que sigue, con‑ cisa referencia al ascenso al Capitolio, está centrado en la figura de Tarpeya, encabezando el ejército sabino, guía segura porque conoce las circunstancias en que se encuentra Roma; el camino es seguro y exento de vigilancia como corresponde a una fes‑ tividad (festoque remissus), únicamente los perros son capa‑ ces de advertir de la llegada del enemigo y la vestal los mata. Los sabinos gracias a Tarpeya están a las puertas de la Vrbs (vv. 83‑84): Mons erat ascensu dubius festoque remissus Nec mora uocales occupat ense canes.

La eliminación de los perros deja a la ciudad entregada al sueño, únicamente Júpiter decide permanecer despierto para aplicar el castigo que la Vestal merece por haber traicionado a su patria abriendo las puertas de la muralla (v. 87): Prodiderat portaeque fidem patriamque iacentem

Si analizamos detenidamente esta última parte del poema, a partir del momento en que Tarpeya pierde la razón, surgen una serie de consideraciones. Hemos visto que el dístico que sigue (vv. 71‑72) recupera formalmente el comienzo de la elegía: Vrbi festus erat (dixere Parilia patres), hic primus coepit moenibus esse dies.

Espacio y motivos cambian respecto al escenario del principio: Vrbi frente a lucus, campamento sabino frente a ciudadela romana, agitación bélica frente a festividad sacra, intención de acabar con 311

C. CODOÑER

Roma frente a celebración de su fundación, la amazona-bacante desaparece y deja en su lugar la realidad: un escenario festivo, sosegado y ajeno al peligro que le amenaza; un contraste esti‑ lísticamente logrado ... si se hubiera limitado al dístico inicial. Pero, Propercio, en este punto, retoma las intenciones expre‑ sas en la elegía programática 4. 1 y se interna en la etiología y, aunque sólo dedica dos dísticos a hablar de las característica y orígenes de los Parilia, la tensión se rompe. Cuando en 81 reaparece Tarpeya nada recuerda en ella a la enloquecida vestal de los sueños. Una sensata Tarpeya: suum tempus rata pacta con el enemigo, lo guía y siguiendo lo acordado le pide que se case con ella, dejando a su arbitrio el momento de hacerlo. Recoge el motivo de suis poenis al tiempo que introduce la segunda parte del pacto. Tarpeya exige a Tacio que fije un día concreto para las nupcias, dejándolo a su elección: nubendique petit, quem uelit ipse, diem.

En su única intervención, que es directa, Tacio en una frase decreta su muerte en palabras que aparentemente contradi‑ cen la acción que sigue: “Nube” ait “et regni scande cubile mei!”, pues no bien acabada la frase, él y sus compañeros la aplastan con las armas. Pero, tras scande cubile mei el lector u oyente percibe elementos afines. Quien no conoce la leyenda aprecia el significado recto: el lecho nupcial del monarca; quien la conoce – cualquier hombre culto de época augustea – percibe que Tacio, al decirlo, está pensando en la ciudadela romana ya en su poder, futuro sepulcro de Tarpeya. Propercio resuelve en dos dísticos el final de la Vestal Tar‑ peya. Nada hay que añadir a no ser una pequeña reflexión sobre la adecuación del castigo al acto y el origen del topónimo que, aunque inmerecido tiene la roca. Un final que enlaza con el comienzo del poema. La reacción de Tacio en una alocución directa y la consi‑ guiente intervención de los soldados se rematan con una conclu‑ sión moralizante escasamente propia del poeta. Las partes del poema comentadas narran el mito de la traición de Tarpeya perfectamente expuesto y el relato tiene la forma de poema (Wyke 1987). Y sin embargo el total de versos, colo312

EL POEMA DE TARPEYA (4.4). AMOR VS FIDES

cados en donde la exposición lo exige, no alcanza los dos ter‑ cios de la elegía: 56 de 91. Los 35 versos restantes están dedica‑ dos al monólogo de Tarpeya, que ocupa el centro del poema: 31‑66, entre los 30 primeros y los últimos 26 (67‑94). 2.2.1. El discurso de Tarpeya

El discurso de Tarpeya ocupa, como hemos dicho, la parte central del poema y, en su comienzo, parece seguir las pautas formales de una plegaria. Ignes castrorum et Tatiae praetoris turma et formosa oculis arma Sabina meis, o utinam ad uestros sedeam captiua Penates, dum captiua mei conspicer ora Tati!

La forma en que se expresa la idea está pensada al milímetro. Para empezar, la mención de ignes en primer término y la con‑ dición de vestal de Tarpeya, que acaba de atribuirle, remiten al lector de modo automático al fuego sagrado de Vesta, equí‑ voco que deshace de inmediato la palabra contigua castrorum. Lo que invoca la vestal es el campamento enemigo y a su ejército y lo hace en virtud de su conexión con Tacio. Propercio busca la contradicción entre forma y objeto invocado y la acentúa adjetivando con formosa las armas del enemigo. El  presente de subjuntivo sedeam expresando el deseo de integrarse en su socie‑ dad aun con pérdida de su libertad, y la repetición del pose‑ sivo de primera persona aplicado del mismo modo a sus ojos (oculis meis) que a Tacio (mei Tati) y haciendo así de los dos su propiedad, son recursos brillantes que dan cuenta del comienzo de la alienación de Tarpeya. Contribuye a reforzar la idea de transferencia la colocación del posesivo uestros, con que designa al enemigo, entre los dos posesivos de primera persona: meis y mei, introduciendo así, desde el principio, la idea de una interlocución imaginaria. La vestal romana se ha trasladado mentalmente al lugar en que desearía encontrarse, incluso como cautiva (v. 33 o utinam), con tal de poder contemplar el rostro de su Tacio con sus ojos. Los presentes de subjuntivo transmiten la ilusión, fruto de su pensamiento, de que sus deseos puedan transformarse en realidad: 313

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lo que está expresando Tarpeya es un deseo que espera ver cumplido, no está dando cuenta de su situación real: “ojalá pueda”, no “ojalá pudiera”, que sugeriría la irrealidad de sus aspiraciones. Está adelantando el futuro tal como lo quiere ver realizado y a ello subordina su propia libertad, que arrastra implí‑ citamente la de su pueblo. La repetición de captiua, situación que acepta con tal de estar próxima al general sabino, debe ser consecuencia de la victoria del enemigo y, por tanto, supone aceptar el mismo destino para sus conciudadanos. Completa la invocación incluyendo Roma y sus colinas seguidos de Vesta en el dístico siguiente, situados en el mismo plano que ocupa el campamento sabino, si bien el pentáme‑ tro ofrece la clave de la asimetría: ualeat. Tarpeya, al hacer del enemigo su futuro, ha dado su adiós a Roma y a su condición de sacerdotisa. Pero la renuncia no implica inconsciencia, como vemos, y como expresivamente subraya al decir: probro pudenda meo. Tarpeya es plenamente consciente de que se trata de una conciliación personal entre contrarios, cuando en el hexámetro siguiente (v. 37) suma el demostrativo ille al posesivo meos, en contraste con meo probro, para referirse a su amor como metáfora de sí misma: ille equus, ille meos in castra reponet amores,

Tarpeya ha dejado de ser ella misma para identificarse con el sen‑ timiento amoroso y ha pasado del subjuntivo al futuro. Desligada de Roma y de sus deberes sagrados, no existe ya impedimento alguno que le impida realizar sus sueños. A partir de este punto sus reacciones no van a ser las pro‑ pias de una mujer romana que además tiene la responsabilidad de proteger Roma por pertenecer al colegio de las vestales. La presencia de casos similares al suyo, Escila y Perséfone no deben causar asombro puesto que su comportamiento es peor (vv. 43‑44): Quantum ego sum Ausoniis crimen factura puellis Improba uirgineo lecta ministra foco!

Si Escila y Perséfone traicionaron a su patria, ella va a superar la traición, ya que la entrega de Roma al enemigo supone el 314

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incumplimiento (improba ministra) del servicio para el que ha sido elegida, un servicio doblemente condicionado y por el que, por tanto, debe sentirse doblemente culpable: mantener vivo el fuego que asegura la existencia de Roma y no perder su condición de virgen. El estado de alienación de Tarpeya no significa pérdida de consciencia, sino idealización del objeto, una circunstancia que le hace sentirse justificada. La pasión ocupa el lugar de la realidad, pero no supone igno‑ rancia: prueba de ello es que pide perdón por su comporta‑ miento, aunque busque una excusa para justificarlo. El abandono, la extinción del fuego por el que debe velar, seguiría irremedia‑ blemente a su deserción, pero se apaga antes, al verter sobre él las lagrimas que le provoca la decisión tomada (vv. 45‑46): Pallados exstinctos si quis mirabitur ignis, ignoscat: lacrimis spargitur ara meis 42.

El enajenamiento se muestra ya de manera inequívoca a partir de este momento. Comienza a trazar el plan que permitirá al ejér‑ cito sabino entrar en la urbs. No es un soliloquio, es un monólogo que hace de Tacio el destinatario de sus palabras (48 tu cape); defi‑ nitivamente Tarpeya se ha integrado en un mundo imaginario cuyo centro es Tacio, todo gira en torno a él. Comparte con él sus pensamientos y sus planes, le indica cuál va a ser la situación en la ciudad y cuál el camino que debe tomar para llegar a ella. Se lamenta de no tener poder para dar una solución mágica a la situación, ser Medea (51 o utinam magicae nossem cantamina Musae) para poder ayudarle, y en su idealización lo nombra con un formoso substantivado, término con el que antes había adjetivado las armas 43. La simple mención del jefe sabino, el recuerdo de su hermosura, centra el discurso que interrumpe la información y entra en una fase distinta.

42  Cfr. Cic., Font. 47 Nolite pati, iudices, aras deorum immortalium Vestaeque matris cotidianis uirginis lamentationibus de uestro iudicio commoneri; prospicite ne ille ignis aeternus nocturnis Fonteiae laboribus uigiliisque seruatus sacerdotis uestrae lacri‑ mis exstinctus esse dicatur. 43  La utilización del adjetivo substantivado hace de Tacio el hombre “her‑ moso” por excelencia.

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La confrontación entre ambos pueblos, encarnados en sus respectivos jefes, adquiere por primera vez para la vestal matices favorables a su decisión. La belleza de Tacio adquiere connota‑ ciones morales, por comparación con Rómulo: Te toga picta decet, non quem sine matris honore Nutrit inhumanae dura papilla lupae.

En el intento de autojustificarse Tarpeya introduce un motivo que lleva aparejada la crítica a los orígenes de Rómulo (v. 53): sine matris honore. No hay que olvidar que es Rhea Silvia, la ves‑ tal violada por Marte, la madre de los gemelos. En un proceso gradual Tarpeya, ha pasado página, ha renunciado a su ciuda‑ danía, ha dejado a un lado su consagración como vestal. De su pasado no queda más que el hecho de ser romana, pero si ese es el inconveniente, el hecho de tener una reina extranjera (hospes), esto no debe inspirar temor puesto que Roma le va a ser entre‑ gada a los sabinos como dote. Sin indicios previos que lo hagan esperable Tarpeya se ha autoproclamado esposa del rey. Progresivamente Tarpeya ha ido adentrándose en la locura; lo que en principio podría haber sido entendido como enaje‑ nación ha quedado superado en esta segunda parte en la que el futuro pasa a convertirse en presente (vv. 55‑56): Sin hospes patria metuar regina sub aula, dos tibi non humilis prodita Roma uenit.

Aparentemente no existe paralelismo entre esta propuesta y la que sigue; da la sensación de que pasa de imaginar su inte‑ gración como reina en el pueblo sabino a admitir el ser rap‑ tada por el rey en compensación al rapto de las sabinas por los romanos (v. 57): me rape, segunda crítica al comportamiento de los romanos que disminuye la culpabilidad antes reconocida. Sin embargo, al indicar a las sabinas en poder de los romanos que podrán servirse de su palla para llegar a un acuerdo, deja ver que ninguna de las opciones significa la renuncia al matrimonio con Tacio. Prueba de ello es su final invocación a Himeneo para que imponga moderación y ponga fin a la guerra, y su final alocución al pueblo sabino en armas asegurando que la paz vendrá con su matrimonio (62): Credite, uestra meus molliet arma torus

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Aquí termina propiamente el discurso de la vestal romana. Lo que a continuación el poeta pone en su boca tiene como finalidad servir de paso a la acción. Tarpeya advierte que comienza a amanecer y, con la inten‑ ción de soñar con Tacio va a intentar dormir. Sus últimas pala‑ bras van dirigidas a él, sombra protectora que prolonga en el sueño su presencia. Propercio concentra en esta frase la situación real de la persona y el fín del discurso (v. 66). Fac uenias oculis umbra benigna meis

El imperativo compuesto, sustituye a los imperativos directos anteriores: tu cape, me rape, repende, dándole un matiz de súplica que los anteriores no tienen, confiriendo a la figura de Tarpeya una falta de seguridad no presente a lo largo de su intervención. La colocación de umbra benigna lleva a ver la dependencia de meis oculis de benigna, pero también la secuencia uenias oculis esta‑ blece un lazo directo de oculis con el verbo; asimismo, benigna es susceptible de ser escuchado como modificador indirecto de uenias. Tarpeya, vencida por el sueño, agotada por la excitación, parece volver a la realidad: está sola, ha renunciado a cualquier ayuda, su única esperanza es la presencia en sueños de la sombra de un desconocido. Imagen de desolación.

3. Amor vs. Roma Suele interpretarse el monólogo de Tarpeya como una lucha interna entre amor y Roma, es decir, el lamento de una mujer enamorada que por amor traiciona a su patria. Al poema, en su interpretación más extrema, subyace la intención de suscitar la simpatía del lector hacia la vestal, cuya ruptura de las normas y su traición, derivan del intento de Tarpeya de hacer valer un modelo de sociedad en la que tenga cabida el amor. Y  yendo un paso más allá se concluye que el personaje de Tarpeya ofrece afinidades con el poeta de las elegías “pressu‑ red (sc.  Propertius) by the state to abandon their love affairs. Both try to reinterpret their own and other social roles within the state” (Welch 2005, 77‑78).

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3.1. El poeta Propercio pertenece a una generación que reivindica una vida no centrada en la política, aspira a una sociedad que dé cabida a diversos modos de concebir el hecho de ser ciudadano romano, algo ajeno a la grauitas romana aceptada como modelo. El ciudadano romano de cierto nivel debe tener actividad política y, en caso de no hacerlo y profesar como poeta, debe cultivar un género graue, ligado a motivos o personajes cuya relevancia social sea evidente. Propercio no entra en ninguna de las dos categorías y con frecuencia intenta justificar su aleja‑ miento del modelo y lo encuadra en un marco amplio: el dere‑ cho a la diversidad. Pero eso no equivale a rechazar el cultivo del modelo tradicional, con tal de que sean otros quienes lo hagan. De hecho su alabanza a Virgilio en 2. 34. 65 encierra una admi‑ ración no velada hacia el género épico: Cedite Romani scriptores, cedite Grai! nescio quid maius nascitur Iliade.

Pero, como dice en el famoso poema 3.9 dirigido a Mecenas (v. 5): omnia non pariter rerum sunt omnibus apta, “no todas las materias son susceptibles de ser cultivadas por todo el mundo”. Y, algo más adelante, en un dístico define su visión personal, cada cual sigue lo que es más afín a su naturaleza (19‑20): hic satus ad pacem; hic castrensibus utilis armis: naturae sequitur semina quisque suae.

Pues bien, del mismo modo que la naturaleza hace que el hom‑ bre nazca predeterminado (semina) para vivir en paz o capacitado para hacer la guerra, quienes en la paz escogen el camino de la poesía tienen ante sí caminos distintos, que cada cual debe cultivar de acuerdo con sus preferencias y capacidad. Muchos cantarán la guerra y haciéndolo aumentarán la gloria de Roma, pero su obra no pretende otra cosa que ser disfrutada sin preocupaciones (pace), una opción que pide sea reconocida socialmente (3.1.15): multi, Roma, tuas laudes annalibus addent, qui finem imperii Bactra futura canent. sed, quod pace legas, opus hoc de monte Sororum detulit intacta pagina nostra uia.

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Esa voluntad de vivir en paz, mejor dicho, de poder disfrutar de la paz a su manera, no es excluyente de otras voluntades, de otras dedicaciones. Y, sobre todo, no significa rechazo a la política seguida por Augusto, el César que en el año 24 a.C. cerró el templo de Jano proclamando así la paz de manera oficial. La primera elegía del libro II, dirigida a Mecenas es una decla‑ ración de principios global; no solo relativos a la poesía, sino a la política. Después de declarar abiertamente cuál es el origen de su inspiración, pasa a hablar en forma negativa de todo lo que no lo es: desde los Titanes a César. El tercer bloque mantiene una ambigüedad evidente (vv. 27‑36): nam quotiens Mutinam aut, ciuilia busta, Philippos ut canerem Siculae classica bella fugae euersosque focos antiquae gentis Etruscae et Ptolemaeei litora capta Phari, [...] te mea Musa illis semper contexeret armis, et sumpta et posita pace fidele caput:

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La partícula inicial quotiens hace esperar un presente de subjun‑ tivo, que remita al futuro y deje abierta la puerta a un posible motivo épico. El imperfecto, encabezando las disyuntivas (aut) que se corresponden con los seu que introduce, cuando habla de las múltiples maneras en que Cintia le sirve de inspiración, niega la viabilidad abierta por quotiens dándole carácter irreal: “en el caso de que yo cantara ... que no lo voy a hacer”. Un recurso hábil para escapar de un compromiso literario al que no se siente afín. 3.2. Amor y libido A lo largo de los cuatro libros de elegías encontramos el tér‑ mino libido solamente cuatro veces. Me interesan dos poemas en especial: 3.19 y 3.20 44. Comienzo por el segundo; el poema está dirigido a la mujer que llora el abandono de un amante y el poeta intenta hacerle ver la realidad: ese amante únicamente buscaba el 44  Los otros dos versos en que aparece libido son 2.16.14 y 2.32.33. El prime‑ ro se da en un pasaje referido al amante ocasional a quien lo único que interesa es el sexo. El segundo entra en la frase siguiente: Ipsa Venus fertur corrupta libidine Martis, / nec minus in caelo semper honesta fuit.

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placer sexual, él no es así. Su concepto del amor es distinto: exige un pacto previo (foedus), de acuerdo con una ley ratificada por Amor. El amor verdadero no se reduce al sexo (vv. 19‑23): Quam multae ante meis cedent sermonibus horae Dulcia quam nobis concitet arma Venus! Namque ubi non certo uincitur foedere lectus, Non habet ultores nox uigilanda deos, Et quibus imposuit, soluit mox uincla libido.

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Pero es el poema 3.19 el que nos sirve de guía para compren‑ der la figura de Tarpeya y su inclusión en el universo femenino de Propercio (vv. 1‑10). Obicitur totiens a te mihi nostra libido: crede mihi, uobis imperat ista magis. vos, ubi contempti rupistis frena pudoris, nescitis captae mentis habere modum. flamma per incensas citius sedetur aristas, 5 fluminaque ad fontis sint reditura caput, et placidum Syrtes portum et bona litora nautis praebeat hospitio saeva Malea suo, quam possit vestros quisquam reprehendere cursus et rabidae stimulos frangere nequitiae. 10

Los adynata que siguen abocan a un expresivo resultado. La palabra amor no entra en la elegía, la pasión que despierta el sexo es designada crudamente por su nombre: libido. Es la libido la que tiene un mayor dominio sobre las mujeres (2 dominat), la que lleva a las mujeres a “perder la cabeza”, a perder el control: (rumpere frena, captae mentis). Aquí, como en 3.19, queda clara la diferencia existente entre amor y libido Nadie es capaz de que las mujeres inflamadas por el deseo sexual recuperen la sensatez y no lleguen a una rabida nequitia. En un pentámetro concentra Propercio dos términos que, uni‑ dos, transmiten una vívida imagen de una maldad refinada a la que conduce un estado emocional extremo, irracional (rabida). Ejemplifica tal estado con mujeres míticas representativas de reacciones monstruosas provocadas por la libido: Pasiphae, Tyro 45, 45  Según la versión transmitida por Hygin. Fab. 60 mató a sus dos hijos gemelos para evitar que Sïsifo se sirviera de ellos para vengarse de su hermano Salmoneo.

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Myrra 46, Medea, Clitemnestra y por último Scylla. Es esta última precisamente a la que dedica mayor número de versos, que se vendió al enemigo y le entregó la ciudad. El uso de libido para designar el motivo que llevó a Escila a la traición es inequívoco. Y es Scylla, representante de la libido que conduce a la rabida nequitia, la que es citada por Tarpeya como representante de un comportamiento que ella va a imitar (4.4. 39‑40): Quid mirum in patrios Scyllam saeuisse capillos, candidaque in saeuos inguina uersa canes?

De las 149 veces que amor aparece en las elegías de Propercio solo seis corresponden al libro IV: de estas seis veces una, y en plural, corresponde a nuestra elegía, para indicar figuradamente al personaje de Tacio (v. 37): ille equus, ille meos in castra reponet amores. El amor que defiende Propercio es propio de la paz que lo hace posible, al tiempo que es compatible, va acompañado del orgullo de ser romano, del amor a Roma. Admite un cierto grado de locura, pero sus consecuencias repercuten sobre la persona del amante y en él quedan 47. Tarpeya no representa el amor properciano. La intervención de Tarpeya escenifica la des‑ mesura, el furor incontrolable que lleva a la amante a cometer actos irreparables instigada por la pasión. En Tarpeya, el poeta umbro ha trazado el proceso que convierte a una mujer, virgen vestal – dedicación que exige extremos de patriotismo y castidad  –, en  su opuesto, un ser enloquecido por una obsesión amorosa, dispuesta a entregar a su patria y abandonar su casti‑ dad, con tal de conseguir al hombre que desea. El poema de Tarpeya ofrece una imagen trágica de la rela‑ ción amorosa, la fides traspasa los límites de lo personal e invade lo público. La infidelidad amorosa en sí misma es dolorosa, no es trágica, sí lo es la la falta de fides a la patria.   Cometió incesto con su padre.   Siempre en el libro II utiliza Propercio el nexo con insanus o demens para referirse al amor. Son estas las ocasiones: Para Propercio existe un amor insanus (2.14.17), frase hecha: “el amor es ciego”, un amor uesanus al que no puede ponerse límites pasionales (2.15.29); dirigiéndose a un “amigo”, Linceo, habla de insanire amores, en una construcción peculiar (2.34.25). Aplica demens al amante en 2.30.1: Quo fugis a demens? Nulla est fuga: tu licet usque/ad Tanian fugias. 46 47

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Abstracts Dentro del libro IV de Propercio, la elegía de Tarpeya supone la fusión del motivo etiológico con el amoroso. Podría decirse que la elegía 4.4. es representativa de las intenciones expresada en los versos finales del poeta en la epistola 4.1. La descripción del lugar y la ocasión encuadran el lamento de Tarpeya. El poema adquiere así un doble perfil: deseo amoroso y ruptura de la fides y traición a Roma. La visión de la Roma arcaica, la recreación del lugar y de los ritos primitivos son el escenario del fallido intento de aniquilación de una ciudad en sus comienzos a consecuencia de un pasión incontrolada. In book IV of  Propertius, the elegy IV.1 involves the fusion of  the etiological motive with the love one. In this sense, it could be said that the poem 4.4 is representative of  the expressed intentions in the final verses of  the poet in the elegy 4.1. Description of  the place and the time frames the lament of  Tarpeia. At this point the poem acquires a double profile: a loving desire and the rupture of the fides and betrayal of  Rome. The vision of  archaic Rome, the recreation of  the place and the primitive Roman rites are the scene of  the failed attempt of  annihilation of  a city at its inception as a consequence of   an uncontrolled passion. Keywords: Propercio, Roma arcaica; Tarpeya, amor, libido

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ALISON KEITH Toronto

CYNTHIA – DIANA 1

Fin dal­l’inizio della sua prima raccolta di elegie, Properzio sta­ bilisce una relazione fra la donna amata, Cinzia, e l’archetipo mitologico della cacciatrice, Diana, patrona dei boschi, divinità lunare e protettrice dei momenti di svolta nella vita delle donne: Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis (Prop. 1.1.1). Il nome imposto da Properzio alla donna amata, che segna l’apertura del primo carme e conferisce il titolo di Cinzia al primo libro delle elegie, deriva dal nome di una protuberanza rocciosa sul­ l’isola di Delo. L’inno omerico ad Apollo indica il Monte Cinto come luogo di nascita del dio, gemello di Artemide/Diana (Hymn. Hom. Apollo 14‑18): χαῖρε μάκαιρ’ ὦ Λητοῖ, ἐπεὶ τέκες ἀγλαὰ τέκνα Ἀπόλλωνά τ’ ἄνακτα καὶ Ἄρτεμιν ἰοχέαιραν, τὴν μὲν ἐν Ὀρτυγίῃ, τὸν δὲ κραναῇ ἐνὶ Δήλῳ, κεκλιμένη πρὸς μακρὸν ὄρος καὶ Κύνθιον ὄχθον, ἀγχοτάτω φοίνικος ὑπ’ Ἰνωποῖο ῥεέθροις.

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Callimaco, seguendo l’autore del­l’inno omerico, identifica Apol­lo attraverso il luogo della sua nascita e attribuisce al dio l’epi­teto di Κύνθιος sia nel­l’Inno a Delo (Call. Hymn. 4.10) che negli Aetia (frr. 67.6, 114.8 Pf.). L’uso del­l’aggettivo Κύνθιος come epiteto del dio è, a quanto pare, innovativo: prima di Callimaco, infatti,

1   Ringrazio i Professori Giorgio Bonamente, Roberto Cristofoli e Carlo Santini per l’invito a contribuire al Convegno e la Dott.ssa Lorenza Bennardo per la traduzione del contributo e i preziosi commenti sul­l’argomento.

Le figure del mito in Properzio, ed. by G. Bonamente, R. Cristofoli, C. Santini, Turnhout, 2016 (SPL, 20), pp. 325-350 © FHG 10.1484/M.SPL-EB.5.112123

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esso è attestato solo in un frammento di Posidippo 2, mentre sem­ bra che, tradizionalmente 3, κύνθιος fosse usato piuttosto in senso geografico per descrivere l’isola di Delo, con particolare riferi­ mento al poggio su cui Latona partorì Apollo 4. Nella letteratura greca a noi pervenuta, inoltre, l’aggettivo non è mai riferito ad Artemide. Già Euripide, comunque, mette in relazione Artemide con il monte Cinto nel secondo stasimo del­l’Ifigenia in Tauride (1089‑ 1105): ὄρνις ἃ παρὰ πετρίνας πόντου δειράδας ἀλκυὼν 1090 ἔλεγον οἶτον ἀείδεις, εὐξύνετον ξυνετοῖς βοάν, ὅτι πόσιν κελαδεῖς ἀεὶ μολπαῖς, ἐγώ σοι παραβάλλομαι θρήνους, ἄπτερος ὄρνις, 1095  ποθοῦσ’ Ἑλλάνων ἀγόρους, ποθοῦσ’ Ἄρτεμιν λοχίαν, ἃ παρὰ Κύνθιον ὄχθον οἰκεῖ φοίνικά θ’ ἁβροκόμαν δάφναν τ’ εὐερνέα καὶ 1100 γλαυκᾶς θαλλὸν ἱερὸν ἐλαίας, Λατοῦς ὠδῖνι φίλον, λίμναν θ’ εἱλίσσουσαν ὕδωρ κύκλιον, ἔνθα κύκνος μελωιδὸς Μούσας θεραπεύει. 1105

Anche Callimaco, nel­l’Inno ad Apollo, sembra estendere ad Arte­ mide l’associazione con il monte Cinto che è già prerogativa del fratello: in Hymn. 2.60‑3, infatti, la dea è rappresentata mentre caccia capre selvatiche per rifornire il suo gemello di corna da impiegare nella costruzione di un altare: Ἄρτεμις ἀγρώσσουσα καρήατα συνεχὲς αἰγῶν Κυνθιάδων φορέεσκεν, ὁ δ’ ἔπλεκε βωμὸν Ἀπόλλων, δείματο μὲν κεράεσσιν ἐδέθλια, πῆξε δὲ βωμόν ἐκ κεράων, κεραοὺς δὲ πέριξ ὑπεβάλλετο τοίχους.   Lloyd-Jones 1963, Clausen 1977.   Pi. Pae. 12.8, Aristoph. Nub. 596. 4  Clausen 1976. 2 3

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Sembra quindi naturale intendere il nome “Cinzia”, attribui­to da Properzio alla donna oggetto del suo amore e del suo canto, come un richiamo alla poetica apollinea e callimachea che carat­ terizza la sua elegia 5; d’altra parte, come abbiamo visto, l’attri­ buzione del­l’appellativo di “Cinzia” ad Artemide/Diana era già in qualche modo anticipata dal legame fra la dea e il monte Cinto di cui rimane traccia nella letteratura greca classica ed elle­ nistica a noi pervenuta. In latino, l’epiteto Cynthius non è attestato prima del periodo del secondo triumvirato. Virgilio lo adopera, sfruttandone le implicazioni apollinee e callimachee, in apertura della sesta egloga, dove il termine assume forte valore programmatico (Buc. 6.3‑5 cum canerem reges et proelia, Cynthius aurem | uellit et admonuit: ‘pastorem, Tityre, pinguis | pascere oportet ouis, deductum dicere carmen’): si tratta di versi che rappresentano l’adattamento di un celebre passaggio dal prologo degli Aitia di Callimaco (Aetia fr. 1.21‑4 Harder) 6: καὶ γᾶρ ὅτ]ε πρώτιστον ἐμοῖς ἐπὶ δέλτον ἔθηκα γούνασι]ν, Ἀπ[ό]λλων εἶπεν ὅ μοι Λύκιος· ......]...ἀοιδέ, τὸ μὲν θύο ὅττι πάχιστον θρέψαι, τῆ]ν Μοῦσαν δ᾽ὠγαθὲ λεπταλέην·

Mentre ne delimita l’uso riferendolo soltanto ad Apollo, Virgi­ lio insiste sul valore programmatico di Cynthius anche al­l’inizio della terza Georgica (Geo. 3.34‑6 stabunt et Parii lapides, spirantia signa, | Assaraci proles demissaeque ab Ioue gentis | nomina, Trosque parens et Troiae Cynthius auctor): entrambe le occorrenze virgi­ liane del­l’epiteto, quindi, sono calate in contesti programmatici in virtù dei quali Cynthius si carica, fin dalla sua introduzione nella letteratura latina, di riferimenti alla poetica callimachea 7. Mentre nel­l’Appendix Virgiliana l’appellativo di “Cinzio” è, come in Virgilio, prerogativa del solo Apollo (Catalepton 9.60 5   Sulle associazioni callimachee del nome Cinzia, si vedano Boyancé 1952, 172‑75; Randall 1979; Habinek 1982, 594‑95; McNamee 1993; Wyke 2002, 27‑9. Su Cinzia si veda anche Wyke 1987a, 1987b e 1989, contributi poi raccolti in Wyke 2002. 6  Clausen 1976 e 1977. 7  Sulle risonanze callimachee del­ l’epiteto che Virgilio seleziona per Apollo in Buc. 6.3‑5 si veda Clausen 1976, 1977 e 1994 ad loc.

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Cynthius et Musae, Bacchus et Aglaie), i contemporanei del manto­ vano estendono l’uso del termine a Diana. Orazio, per esempio, usa “Cinzio” per la prima volta in Odi 1.21, riservando il titolo ad Apollo; il parallelismo nella costru­ zione del periodo, tuttavia, (Dianam ... dicite / dicite Cynthium) pone l’epiteto del dio in stretta relazione con il nome della sorella (C. 1.21.1‑4): Dianam tenerae dicite uirgines, intonsum pueri dicite Cynthium, Latonamque supremo dilectam penitus Ioui.

L’uso di Cynthius in parallelismo con il nome di Diana in Odi 1.21 anticipa l’estensione del termine alla dea gemella di Apollo: nella successiva occorrenza nelle Odi (C. 3.28.9‑12), infatti, Cynthius è riferito direttamente alla dea: nos cantabimus inuicem Neptunum et uiridis Nereidum comas: tu curua recines lyra Latonam et celeris spicula Cynthiae:

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Ovidio, dal canto suo, impiega l’epiteto per entrambi i figli di Latona, prima per Apollo (Ars 2.239; cfr. F. 3.346, 353), in seguito e con maggiore frequenza per Diana (Ars 3.536; Rem. 764; Met. 2.465, 7.755, 15.537; F. 2.91, 159). Sia in Ora­ zio che in Ovidio, comunque, gli usi di “Cinzia” in riferimento a Diana sono da considerarsi posteriori alla pubblicazione delle prime elegie di Properzio: sembra, quindi, molto probabile che sia stato proprio l’uso properziano del termine a suggerire ai due poeti l’applicazione del­l’epiteto alla dea. Le prime elegie properziane, dunque, appaiono come il punto di partenza più adatto per esplorare l’associazione fra la donna amata e Diana sperimentata dal poeta nel corso della sua raccolta elegiaca, a partire proprio da quel componimento di apertura dal quale anche il nostro discorso ha preso le mosse (Prop. 1.1.1): Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis. Il primo verso della prima elegia properziana, infatti, contiene la prima attestazione del nome “Cinzia” nella letteratura latina: proprio la scelta di accostare Cynthia a  prima può essere intesa come un’annotazione che sottolinea l’originalità della scelta pro­ 328

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perziana 8. Il verbo capio, a sua volta, si carica qui di risonanze suggestive, in quanto rimanda non solo alla sfera militare (con riferimento alla cattura di prigionieri) 9 e a quella medica, impli­ cando l’idea del contagio 10, ma si ricollega anche al­l’ambito della caccia 11. Proprio l’immaginario della caccia è al centro del­l’exemplum di Milanione e Atalanta, pochi versi più avanti (Prop. 1.1.9‑16): Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores saeuitiam durae contudit Iasidos. 10 nam modo Partheniis amens errabat in antris, ibat et hirsutas ille uidere feras; ille etiam Hylaei percussus uulnere rami saucius Arcadiis rupibus ingemuit. ergo uelocem potuit domuisse puellam: 15 tantum in amore preces et bene facta ualent.

La uelox puella, indicata allusivamente come la “dura” figlia di Iasio, è la cacciatrice Atalanta. L’aggettivo dura funziona, in que­ sto caso, come glossa del nome proprio, che rimane sottin­ teso: Atalanta deriva, infatti, dal­l’unione del prefisso intensivo ἀ- con *τλάω (in senso assoluto, “sopportare, tenere duro”). Il riferimento è, ovviamente, alla ben nota resistenza atletica della fanciulla 12. Il fascino erotico di Atalanta è un tema ricorrente nella mitologia classica: Apollonio Rodio riferisce, nelle Argonautiche, che Giasone rifiutò di includere la fanciulla nella spedi­ zione degli Argonauti “perché temeva fiere contese tra i com­ pagni per l’amore di lei” (Arg. 1.773), mentre Ovidio indulge nella descrizione del­l’innamoramento a prima vista di Meleagro (Met. 8.317‑26) e riferisce gli esiti disastrosi della partecipazione di Atalanta alla caccia al cinghiale calidonio (Met. 8.317‑525).

  TLL Onomasticon 2.792‑93; si veda anche Habinek 1982, 591.   OLD s.v. capio 6. 10  OLD s.v. 13. 11  OLD s.v. 5, e cfr., ad es., Cael. Fam. 8.93 (pantheras); Cic. Verr. 4.47, ND 2.124; Hor. Sat. 2.2.32; Ov. F. 6.178, Met. 6.518; Mart. 1.145. Sul potere dello sguardo di Cinzia, si veda O’Neill 2005. 12  LSJ s.v. *τλάω 1. Per l’etimologia, si vedano Ross 1975, 62 e n. 2; Cairns 2006, 89‑90. 8 9

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In Properzio, l’allusione erudita alle doti atletiche di Ata­ lanta (Prop. 1.1.15 uelocem puellam) ammicca alla variante beotica del mito, in cui la fanciulla sfida i suoi pretendenti nella corsa; lo scenario Arcadico del­l’exemplum di Melanione, invece, richiama l’abilità del­l’eroina nella caccia e conferma il color venatorio riconoscibile in cepit, nel primo verso del carme. La morale che il poeta trae dalla conclusione del­l’exemplum mitico (Prop. 1.1.16 tantum in amore preces et bene facta ualent), d’altra parte, istituisce chiaramente un parallelismo non solo tra Milanione e il poeta elegiaco nel ruolo degli amanti, ma anche tra Atalanta e la domina elegiaca, Cinzia, in quanto destinatarie di benefacta 13. Cinzia, in particolare, assume i tratti propri del­ l’eroina mitologica: ritrosia di fronte alle lusinghe del­l’amore, prestanza atletica e abilità nella caccia. Cinzia viene così cooptata nella sfera di Diana, divinità protettrice di Atalanta, signora dei boschi e della caccia 14. L’associazione sembra confermata se, come ipotizza Fran­ cis Cairns, il modello ellenistico di Properzio in questa sezione del­l’elegia (mediato da un rifacimento latino, probabilmente di Gallo) 15 è da identificare con un passaggio del­l’Inno ad Artemide di Callimaco (Call. Hymn 3.215-224) 16: ᾔνησας δ᾽ἔτι πάγχυ ποδορρώρην Ἀταλάντην, κούρην Ἰασίοιο συοκτόνον Ἀρκασίδαο, καὶ ἑ κυνηλασίην τε καὶ εὐστοχίην ἐδίδαξας. οὔ μιν ἐπίκλητοι Καλυδωνίου ἀγρευτῆρες μέμφονται κάπροιο· τὰ γὰρ σημήια νίκης Ἀρκαδίην εἰσῆλθεν, ἔχει δ᾽ἔτι θηρὸς ὀδόντας· οὐδὲ μὲν Ὑλαῖόν τε καὶ ἄφρονα Ῥοῖκον ἔολπα οὐδέ περ ἐχθαίροντας ἐν Ἄιδι μωμήσασθαι τοξότιν· οὐ γάρ σφιν λαγόνες συνεπιψεύσονται, τάων Μαιναλίη νᾶεν φόνῳ ἀκρώρεια.

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  Fedeli 1980, 72 ad 1.1.9; cfr. Cairns 2006, 89. La stretta relazione che intercorre fra Atalanta e Diana è in seguito dettagliatamente esplorata da Stazio, Theb. 9.585‑644, 702‑35: si veda Dewar 1991, ad loc. 14  Per alcuni esempi di invocazioni a Diana con riferimento agli ambiti elencati si vedano Cat. 34.9‑10, Hor. C. 3.22.1, Saec. 1; Rostagni 1955, 166. 15  Sulla derivazione da Gallo del­ l’exemplum di Milanione, si vedano Skutsch 1901, 2‑27; 1906, 155‑92; Tränkle 1960, 22; Ross 1975, 62‑8; Zetzel 1977, 249‑60; Cairns 2006, 110‑12. 16  Cairns 1986. 13

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Cairns (2007[1986], 32‑3) riassume con efficacia gli elementi in comune tra l’inno callimacheo e l’episodio di Milanione in Properzio: già Callimaco insiste sulla benevola protezione accordata da Diana al­l’eroina che, anche in Properzio, è oggetto dei tentativi di conquista di Milanione; entrambi i poeti, pur con­ centrandosi su diversi aspetti della variegata tradizione mitologica relativa ad Atalanta, ne ricordano la provenienza dal­l’Arcadia (Call. Hymn 3.216, 220; Prop. 1.1.14), la discendenza da Iasio per via paterna (Call. Hymn 3.216, Prop. 1.1.10) e l’agilità nella corsa (Call. Hymn 3.215, Prop. 1.1.15); infine, in entrambi i testi è presente la menzione del centauro Ileo (Call. Hymn 3.221, Prop. 1.1.14), inserita nel contesto del paesaggio arcadico. Due luoghi del­l’elegia properziana 1.1, inoltre, conten­ gono significativi richiami verbali alla pur divergente narra­ zione callimachea: la “follia” di Melanione (Prop. 1.1.11 amens) rimanda alla presentazione del centauro Reco, che è ἄφρων (“privo della ragione”, “stolto”) in Call. Hymn. 3.221, men­ tre le “bestie” (Prop. 1.1.12 feras) cacciate da Melanione non sono altro che la traslitterazione di una variante dialettale della bestia (Call. Hymn. 3.220 θηρὸς) di cui l’Atalanta callimachea riporta le spoglie, come pegni di vittoria, da Calidone in Arca­ dia (Call. Hymn. 3.219‑20). La “vignetta” di Callimaco istitu­ isce una relazione diretta tra Atalanta nelle vesti di abile cac­ ciatrice e Artemide, che di Atalanta è la divinità protettrice: è dunque verosimile supporre che Properzio, dal canto suo, non abbia sentito l’esigenza di ripercorrere per esteso un paral­ lelo già stabilito e messo in circolazione dal suo “maestro” di età ellenistica. Nella letteratura latina la sfera di Diana si allarga ben oltre il patrocinio della caccia e dei boschi includendo, in particolare, l’associazione (molto sentita) della dea con la luna. Nel De lingua latina, Varrone stabilisce la derivazione del nome Dīāna da Dīuiāna (ling. Lat. 1.68): Sol uel quod ita Sabini, uel ‹quod›solus ita lucet, ut ex eo deo dies sit. Luna, uel quod sola lucet noctu. itaque ea dicta Noctiluca in Palatio: nam ibi nuctu lucet templum. Hanc ut Solem Apollinem quidam Dianam uocant (Apollinis uoca­ bulum Graecum alterum, alterum Latinum), et hinc quod luna in altitudinem et latitudinem simul it, Diuiana appellate.

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L’etimologia varroniana è accolta da Ernout-Meillet 17, i quali mettono in rilievo la quantità lunga delle vocali radicali (Dīāna, quantità preservata da Ovidio nella scansione del nome della dea in Met. 8.353) e citano come confronto la forma Juppiter Diānus, le cui due componenti derivano entrambe da dīus/dies [Ju(p)-piter