I cavalieri. Testo greco a fronte 8817028886, 9788817028882

Negli anni difficili della guerra del Peloponneso, Atene è governata da un demagogo arrogante e vigliacco, che asseconda

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Italian Pages 169 Year 2009

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I cavalieri. Testo greco a fronte
 8817028886, 9788817028882

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Aristofane

I CAVALIERI Introduzione, traduzione e note di Guido Paduano

Testo greco a fronte

CLASSICI GRECI E LATINI

Proprietà letteraria riservata © 2009 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-64891-9 Titolo originale dell’opera: IJ ppei`" Prima edizione digitale 2013

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DEGRADO E MIRACOLO Guido Paduano

1. La narrazione che Tucidide fa degli avvenimenti del 424 a.C. nella prima parte del quarto libro – narrazione drammatizzata e nella sostanza simpatetica con le posizioni di Aristofane – ci offre la chiave necessaria a capire gli antefatti e il contesto politico-militare dei Cavalieri, rappresentata alle Lenee nello stesso anno: commedia in effetti a chiave perché, a differenza di altre, non affronta direttamente la tematica contemporanea, ma la sposta sotto l’allegoria trasparente che equipara la polis alla casa privata di Popolo (Demos, nome peraltro riscontrabile in Atene). Una flotta ateniese agli ordini degli strateghi Eurimedonte, Sofocle e Demostene, in origine destinata a una spedizione in Sicilia, aveva avuto l’incarico di presidiare Corcira, e sulla sua rotta era stata indotta dalle circostanze meteorologiche a sbarcare a Pilo in Messenia. Contro il parere dei colleghi, Demostene concepì il disegno di fortificare il promontorio e farne un avamposto in grado di minacciare da vicino Sparta, con l’aiuto della popolazione locale, e una volta compiute le fortificazioni restò solo con sei navi a presidiarle. Messi in allarme, gli Spartani accorsero con una flotta di sessanta navi, e fecero sbarcare una guarnigione di circa quattrocento opliti agli ordini di Epitada sull’isola di Sfacteria che è davanti a Pilo, e ne blocca il porto. Quando Demostene ricevette gli attesi rinforzi – una

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flotta ateniese di stanza a Zacinto – ebbe luogo una feroce battaglia in cui gli Ateniesi ebbero la meglio, e l’esito della quale fu quello di intrappolare la guarnigione spartana nell’isola, che per metà era costituta da Spartiati, giovani aristocratici appartenenti alla classe dirigente: la loro sorte diveniva la priorità assoluta della politica spartana. Subito infatti fu stipulata una tregua per permettere agli Spartani di mandare ambasciatori ad Atene a intavolare la trattativa diplomatica: in attesa del loro ritorno gli Ateniesi si impegnavano a lasciar approvvigionare gli assediati di Sfacteria senza attaccarli; a garanzia dell’accordo gli Spartani consegnavano temporaneamente la loro flotta. Le trattative non ebbero esito felice: l’appello accorato degli Spartani a consegnare gli assediati, stipulando «pace e alleanza» e acquisendone il merito storico di fronte alla platea panellenica, urtava contro la consapevolezza ateniese di avere conseguito una posizione di forza: la loro proposta, ispirata dal leader emergente della democrazia radicale, Cleone figlio di Cleeneto, fu di consegnare gli Spartani solo che dopo avessero subito la doppia umiliazione di arrendersi ed essere condotti prigionieri ad Atene, e in cambio di pesanti rivendicazioni territoriali, che sarebbero stati inaccettabili, se non altro, per gli alleati di Sparta. Non fu comunque opposto un rifiuto netto, ma gli ambasciatori tornarono a Pilo con nulla di fatto, e l’assedio riprese. Ma gli Ateniesi incontravano molte difficoltà, a motivo dei rifornimenti clandestini che comunque gli Spartani riuscivano a far pervenire agli assediati, e ad Atene cominciò a serpeggiare l’insoddisfazione, rinfocolata da Cleone – dice Tucidide – anche come operazione difensiva, a prevenire cioè che gli venisse rinfacciato il fallimento di trattative convenienti. In una tumultuosa assemblea, Cleone denunciò l’inerzia e l’incompetenza degli strateghi (avendo in particolare di mira Nicia, po-

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tente uomo politico di parte aristocratica), assicurando che «se fossero stati uomini» avrebbero risolto rapidamente la campagna. Questo che a tutti parve un bluff fu subito «visto» da Nicia, che propose di cedere il comando allo stesso Cleone. Cleone avrebbe voluto rifiutare («preso dalla paura», puntualizza l’implacabile Tucidide), ma «non sapendo più come liberarsi dalle sue stesse affermazioni», e sotto la pressione popolare fu obbligato ad accettare l’impegno, pur essendo del tutto sprovvisto di esperienza militare. Rilanciò anzi la sfida, promettendo che entro venti giorni avrebbe risolto la questione che si trascinava da tanto tempo. Oltre a interpretare in chiave psicologica il comportamento dell’odiato avversario, Tucidide fa altrettanto con quello della propria parte, che approvò l’esito dell’assemblea calcolando che comunque ne sarebbe venuto un vantaggio per Atene: o avrebbe ottenuto una grande vittoria, o nel molto più probabile caso contrario si sarebbe liberata di Cleone. Ma le cose andarono nel senso che i benpensanti giudicavano improbabile. La campagna fu diretta da Cleone assieme a Demostene, da lui scelto come collega per l’atteggiamento fattivo e aggressivo che aveva assunto in tutto la vicenda: già prima dell’arrivo di Cleone, infatti, Demostene aveva deciso di tentare lo sbarco approfittando di un incendio scoppiato a Sfacteria, incendio che riduceva di molto le difficoltà della guerriglia nel bosco. Arrivato Cleone, e dopo che gli Spartani ebbero rifiutato l’ennesimo invito ad arrendersi, lo sbarco fu compiuto e la battaglia vinta: stavolta Tucidide attribuisce insieme a Cleone e Demostene il decisivo merito di aver frenato il massacro dei nemici perché solo vivi e prigionieri gli Spartani sarebbero stati decisivi nelle successive relazioni fra le due potenze nemiche. A una suc-

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cessiva intimazione di resa, il comandante Stilfone, succeduto al morto Epitada, chiese e ottenne a Sparta l’autorizzazione ad accettarla. «Così – dice sempre Tucidide – la promessa di Cleone, per quanto pazza, fu mantenuta», perfino nel dettaglio cronologico: entro la scadenza dei venti giorni, infatti, i prigionieri spartani furono condotti ad Atene. Il fatto che Tucidide sia, come Aristofane, risolutamente avverso a Cleone – posizione risultante con la massima evidenza dal suo racconto – non occulta l’enormità del successo. La situazione di inferiorità in cui la necessità di riavere i prigionieri metteva Sparta è provata da una nuova richiesta di pace, che si concretò in ripetute ambascerie, tutte senza frutto a motivo di una politica ateniese volta a far durare nel tempo e a sfruttare tale inferiorità; inoltre Tucidide evidenzia un enorme danno d’immagine subito da Sparta, che vedeva compromesso non solo il mito della superiorità militare, ma quello dell’eroica abnegazione dei suoi uomini: i rappresentanti del paese dove le madri chiedevano ai figli di tornare o con lo scudo o, da cadaveri, sopra lo scudo, avevano accettato di consegnare invece al nemico le loro armi. Ma il risultato più importante e durevole della vittoria fu la fine delle annuali invasioni peloponnesiache della campagna attica, giacché la decisione dell’assemblea ateniese fu quella che, se si fossero ripetute, tutti i prigionieri sarebbero stati immediatamente messi a morte. Terminava l’incubo della città ridotta alla fame e anche l’inurbamento forzoso dei contadini attici con le sue devastanti conseguenze, l’espropriazione della loro identità e una situazione pesantissima in termini di logistica e di ordine pubblico: situazione che è rappresentata negli Acarnesi, ma della quale tornano echi negli stessi Cavalieri.

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La notizia degli onori straordinari tributati a Cleone, il vitto nel Pritaneo e la proedria, il posto d’onore a teatro, ci è data invece dal solo Aristofane, e con scandalo, come fatto politico inaudito nella vita politica ateniese: ma il suo referente fattuale è indubitabile, e contribuisce a definire in termini di straordinaria arditezza la posizione del poeta che non troppo a torto si vanterà, nelle Vespe e nella Pace, di aver affrontato, da una posizione di debolezza e isolamento, la battaglia contro un avversario invincibile. 2. La polemica di Aristofane con Cleone era previa e già consolidata, e gli Acarnesi recano traccia del suo travalicamento oltre il prezioso dominio della finzione comica: questo per iniziativa di Cleone, che avrebbe intentato al poeta un processo per diffamazione della città davanti agli stranieri – in una commedia cioè recitata alle Dionisie, dove erano ammessi gli ambasciatori delle altre città, con tutta probabilità I Babilonesi. Questa commedia aggrediva la politica dura e vessatoria di Cleone contro le città dell’impero, di cui massima prova era stata la sua posizione a proposito della rivolta di Mitilene nel 426, che è il solo altro momento in cui la narrazione di Tucidide dà spazio al demagogo: fu lui infatti a proporre la pena di morte generalizzata per tutti i maschi adulti di Mitilene e la riduzione in schiavitù di donne e bambini; fu lui soprattutto, quando i rappresentanti di Mitilene e la parte di opinione pubblica più mite ottennero di tenere un’altra assemblea per rivedere la deliberazione già assunta, a pronunciare un violentissimo discorso per chiedere invece la sua conferma. Essa tuttavia fu bocciata per pochi voti, a favore della proposta più mite, e più funzionale a non esacerbare i rapporti tra Atene e le città alleate, avanzata da Diodoto. Nel 424 Aristofane rilancia nei Cavalieri con una radicalizzazione della polemica omogenea e parallela alla

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crescita di potere e prestigio dell’avversario; sacrifica la varietà dei toni, delle vicende e dei personaggi, e l’articolazione e l’evoluzione del rapporto fra il protagonista e il Coro, per ripetere ininterrottamente, in una spirale generata dal cumulo e con effetto di totalizzazione e infinitizzazione, il nucleo discorsivo, gestuale, scenico, dell’odio politico. Neppure la strategia di Aristofane è quella di occultare o sminuire i fatti di Pilo. Paflagone, il personaggio che traveste la figura storica di Cleone, li rimarca ripetutamente, per non dire ossessivamente; ma proprio le sue vanterie sono funzionali a ribaltare il messaggio, attraverso uno di quei lampi geniali che permettono ad Aristofane di scoprire, nella realtà, la realtà del paradosso. La sua tesi è che la gloria di Pilo non è gloria ma infamia, non è un dono alla comunità, ma un furto compiuto ai danni dello stratego autenticamente benemerito, Demostene, che nel precedente svolgimento della campagna aveva creato le condizioni per la vittoria, e con la sua competenza ha guidato e coperto l’incompetenza del presuntuoso dilettante. Dal resoconto del testo di Tucidide che ho dato nelle pagine precedenti il lettore può giudicare quanto la posizione di Aristofane fosse fondata – almeno per chi condivideva i presupposti e forse i pregiudizi politici di Tucidide; ma specifica strategia comico-drammaturgica è quella capace di ricondurre il credito straordinario di Cleone nell’ambito del discredito abituale che la società di Aristofane (e non quella sola) suole addossare agli uomini politici, che è appunto l’accusa di rubare nell’esercizio delle funzioni pubbliche. L’idea che l’immagine sociale – un’astrazione complessa e mediata – si possa rubare come si ruba un oggetto sta nelle risorse prodigiose del linguaggio di Aristofane, nei suoi corti circuiti che immettono nelle entità simboliche vita e carnalità; in questo caso il procedi-

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mento è agevolato dalla trasposizione allegorica, che riporta il politico alla sfera del quotidiano. Demostene è infatti rappresentato come un servo del vecchio Popolo, che, raccontando agli spettatori l’argomento della commedia, si lamenta del sopruso subito (vv. 52-57): E quello che chiunque di noi aveva preparato per il padrone, Paflagone lo arraffava e glielo offriva. L’altro giorno avevo impastato a Pilo una focaccia laconica, e lui, non so come, me l’ha sgraffignata con un blitz e l’ha imbandita – ma impastata l’avevo io.

Che poi la refurtiva si travesta in qualcosa da mangiare, risponde alla centralità che il cibo assume nel mondo di Aristofane – nella sua referenza storica come nella sua autonomia immaginativa – non solo come condizione di sopravvivenza ma come oggetto di investimento emotivo, condizione cioè della felicità individuale e sociale. La demistificazione di Aristofane diventa ossessiva quanto la vanteria cui si contrappone, associando il valore comico della ripetizione alla sua funzione retoricopolitica, dove il cumulo tiene luogo dell’efficacia argomentativa. Così lo stesso Demostene ribadisce più oltre, che Cleone solo «appropriandosi della messe altrui sembrava un uomo: e adesso le spighe rubate le ha legate coi vimini, le ha fatte seccare e le vuole vendere» (vv. 392394). Sembrava un uomo sembra la ritorsione sprezzante all’attacco assembleare di Cleone contro gli strateghi di Pilo – tra i quali lo stesso Demostene – che ho citato prima, come a dire: se noi non eravamo uomini, lui ha solo finto di esserlo. Lo humour è ancora più efficace quando lo scontro frontale delle posizioni politiche tra Cleone e il demagogo destinato a soppiantarlo diventa anche una formidabile antitesi di registri stilistici:

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Per esempio, sono piombato per mare sugli strateghi di Pilo, e ho riportato gli Spartani prigionieri. SALSICCIAIO Già: anch’io, passeggiando davanti a una bottega, ho rubato una pentola che un altro aveva messo a bollire (vv. 742-745).

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Finché si consuma propriamente il contrappasso. Paflagone rischia di avere la meglio nella contesa per il potere offrendo a Popolo una lepre (leccornia straordinaria): un «argomento» – se così si può dire – che il suo avversario non sarebbe in grado di controbattere; ma è invece in grado di appropriarsene, distraendo l’attenzione di Paflagone col miraggio di un mirabolante profitto; così gli ruba la lepre sotto il naso ed è lui che la offre a Popolo. Né l’allegoria manca di venire puntualmente glossata con un fabula docet che, attribuendo l’iniziativa del furto alla dea Atena, eponima e protettrice della città, gli conferisce la solennità di un pronunciamento eticopolitico: Povero me, me l’hai sottratta con la frode. Esattamente come hai fatto tu coi prigionieri di Pilo (vv. 1200-1201).

PAFLAGONE

SALSICCIAIO

3. Tornando all’esposizione, è soprattutto mirabile la tecnica con cui l’episodio di Pilo viene insieme normalizzato e aggravato inserendolo nella routine di cui si lamenta Demostene assieme a un altro servo solidale, nel quale con minore certezza, ma attendibilmente, si è riconosciuto Nicia: entrambi si presentano come vittime quotidiane del loro collega che, pure acquistato di recente, ha preso a spadroneggiare in casa. Fuori dell’allegoria Cleone, emerso nella vita politica ateniese con una rapidità già di per sé fonte di sospetti, la controlla adulando il popolo (con l’iniziale minuscola) e aggredendo gli avversari con metodi terroristici e ricattatori, allo scopo di consolidare il suo dominio, ma anche di riscuo-

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tere da loro il prezzo della sua protezione (v. 66): è la prima di molte volte in cui gli viene imputato il reato di concussione. La calunnia – come dice anche Tucidide – è lo strumento da lui regolarmente usato, insieme al minaccioso esempio di chi non ha voluto piegarsi alla sua volontà, ed è stato punito attraverso condanne pronunciate dai tribunali popolari (così dobbiamo glossare le punizioni corporali che nella commedia sono inflitte dal vecchio Popolo). È interessante notare che la strategia dell’intimidazione nel dibattito politico era stata stigmatizzata da Diodoto nell’assemblea di Mitilene (Tucidide 3. 42): «un cittadino onesto deve dimostrarsi miglior politico non già incutendo paura al suo avversario, ma combattendolo da pari a pari». Più volte, in questa commedia e altrove, Aristofane allude alla facies gestuale dell’intimidazione, le urla in cui si manifesta la politica di Cleone e che vengono alluse nel nome solo pseudo-etnico dello schiavo Paflagone (paflazein significa in effetti «ribollire»). La paura occupa tutto lo spazio tematico dell’incipit dei Cavalieri e si moltiplica nell’immagine gigantesca che gli oppressi hanno dell’oppressore e che determina la sua ubiquità («ha un piede a Pilo e uno in assemblea», v. 76), fonte a sua volta della conoscenza universale in cui Orwell vedeva la dimensione più inquietante del potere e la sua invasività nella vita privata. Il suo aspetto terrificante attiva un contrasto particolarmente sapido con l’accusa di vigliaccheria, che pure rimbalza con insistenza (vv. 368, 390, 443). Ma i compagni di schiavitù non sono le sue sole vittime: il quadro della demonizzazione si allarga nello stesso tempo e nella stessa misura che l’allegoria si rivela trasparente ed esposta ai mille urti della realtà politica, e lo schiavo-padrone assume le vesti anche ufficiali del demagogo.

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Nella esposizione degli oracoli che Nicia sottrae a Paflagone, egli viene equiparato con una similitudine omerica all’aquila perché «ha le mani adunche, e con quelle arraffa e porta via» (v. 205, cfr. anche v. 137). «Abisso e Cariddi di ogni rapina» (v. 248) è la più impetuosa aggressione del Coro dei Cavalieri, dove pure i reati finanziari vengono insistiti e specificati: Cleone «divora il denaro pubblico» (v. 258), il frutto cioè delle imposizioni fiscali di cui egli stesso è il responsabile politico (per questo gli viene dato del «gabelliere»); si insinua che degli introiti pubblici alla collettività rimangono le briciole, mentre il grosso è destinato all’interesse privato. Inoltre è accusato di taglieggiare i cittadini che sono in condizioni di debolezza: i magistrati appena usciti di carica e tenuti al rendiconto (vv. 259-260), i pacifici mercanti (vv. 261-263), gli stranieri (v. 326). La tematica più ricca e insistita è proprio quella della concussione degli alleati: Paflagone-Cleone è accusato di aver avuto denaro da Potidea, una delle città ribelli della lega delio-attica, riconquistata nel 429 (v. 438); da Mileto (vv. 930-932), dalla stessa Mitilene, che tanto aveva perseguitato (vv. 832-835) – genericamente «dalle città» a v. 802; altre imputazioni sono forse nascoste in riferimenti testuali non chiari ad altre popolazioni. La cifra complessiva del demagogo è una scintillante similitudine con l’ape che si posa sui fiori «di bustarelle» (trattate come il nome di una pianta, v. 403). Del resto la disonestà politica si rispecchia nell’originaria disonestà professionale: di mestiere conciapelli, Paflagone usa cuoio pessimo e troppo sottile per farne scarpe che poco dopo essere state indossate si rivelano inutilizzabili (vv. 316-321). In scena Paflagone stesso si incarica col suo comportamento di confermare le accuse: rivendica addirittura come merito quella che da parte di Aristofane è la più

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grave – l’essere irriducibile partigiano della guerra e l’aver rifiutato le proposte di pace avanzate dal nemico – giustificandola con l’aspirazione ateniese all’egemonia e all’imperialismo (vv. 797-800). Su un piano meno legato alla realtà storico-politica, e più alla ridicolizzazione moralistica, si collocano le esibizioni autolesionistiche di Paflagone, a partire dalla sua entrata in scena (vv. 237-238), quando sorprende i suoi colleghi a bere in coppe di Calcide, città nota per le manifatture di ceramiche, e li accusa di cospirare per una secessione della medesima Calcide dalla lega delio-attica! Il nesso è così fragile e pretestuoso, al punto da confondersi con un gioco di significante, da fornire un eccellente esempio di «calunnia», vale a dire di accusa portata in malafede sfruttando la fobia del complotto che Aristofane denuncerà in Vespe 488. Anche la prima accusa rivoltagli da Demostene, quella di adulare Popolo (che sarà poi oggetto del dibattito risolutivo), subisce per intanto un curioso spostamento, indirizzandosi ai Cavalieri, giacché con loro egli vanta il merito di avere «avanzato la proposta di innalzare in città un monumento al vostro valore» (vv. 267-268): si allude alla campagna di Corinto, condotta da Nicia appena dopo i fatti di Pilo, dove l’azione della cavalleria fu determinante per ottenere la vittoria di Soligea. Ma i Cavalieri, a differenza del vecchio Popolo, rappresentano la consapevolezza della collettività, e non hanno incertezze nel respingere il tentativo di subornarli. Tanto per la carota: quanto al bastone, il «gabelliere» minaccerà il suo rivale di farlo iscrivere «nella classe dei ricchi» (vv. 925-926), e di caricarlo di un pesantissimo servizio pubblico, la cura e l’equipaggiamento di una nave dello Stato (vv. 912-918). Si verifica anche il fenomeno – specificamente aristofanesco – del lapsus che arruola nel progetto la soggettività stessa del nemico, come quando Cleone si vanta

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delle proprie calunnie (v. 288) e menzogne (vv. 694-695), o del carattere immeritato dei suoi privilegi (v. 766): o il lapsus-capolavoro per cui in risposta all’accusa già vista di aver accettato dieci talenti di Potidea, l’istinto affaristico porta Paflagone a tentare la transazione fulminea: «E allora? Vuoi tacere e prenderne uno?» (v. 439). 4. L’eliminazione politica di Cleone è il progetto fondante e costitutivo dei Cavalieri, e su di esso Aristofane mobilita l’identificazione del suo pubblico, usando anche e abusando, come sempre, di una consapevole confusione tra il godimento dello spettatore e l’impegno del cittadino. Ma a proposito dei meccanismi che attivano l’identificazione, i Cavalieri esibiscono una peculiarità che risulta evidente dal confronto con la commedia dell’anno precedente, gli Acarnesi, dove il fine-progetto era il raggiungimento della pace. Negli Acarnesi abbiamo subito in scena un personaggio centrale che suscita al grado più alto la simpatia, da un lato per le sofferenze che subisce in guerra e si presume avere in comune con lo spettatore, dall’altro per la determinazione e la capacità, che lui solo possiede, di uscire dall’infelicità con un’idea prodigiosa, quella di stipulare la pace privata con Sparta; allo stesso modo, il protagonista della Pace concepirà l’idea di salire al cielo per accusare della guerra Zeus, e Lisistrata lo sciopero sessuale destinato a convincere gli uomini dei due schieramenti. Nei Cavalieri invece non il personaggio genera l’idea, ma l’idea genera il personaggio: il bisogno comune e universale di liberarsi dall’odioso demagogo si cristallizza in una funzione antagonistica che è appunto una funzione e non una persona: lo prova il suo essere collocata all’ombra di una misteriosa volontà divina («come mandato da dio», v. 147), che più oltre verrà qualificata co-

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me quella di Atena: «Me l’ha ordinato la dea, di sopravanzarti in fanfaronate» (v. 903). La stessa astrazione allegorica che vuole riconoscibili sotto il loro travestimento i suoi alleati vuole che il Salsicciaio – nel quale pure qualche fantasia critica si è sforzata di riconoscere Alcibiade, o altri – sia anonimo, non abbia tratti individuali al di fuori di quelli che sono richiesti per contrastare Cleone, e tanto meno tratti simpatetici, perché il codice istitutivo del personaggio risiede nel principio che Cleone può essere sconfitto solo da qualcuno che sia peggiore di lui. Questo principio si affaccia per la prima volta nello squarcio di storia ateniese compendiato negli oracoli che Paflagone nasconde (vv. 128-140) e che, dopo Pericle – chiamato altrove da Aristofane «Olimpio» con forte irrisione e polemica, ma anche con evidente coscienza della sua statura storica –, prevede in Atene il governo di basso profilo dei commercianti: prima il mercante di stoppa Eucrate, poi il mercante di bestiame Lisicle che «terrà il potere finché non arriverà uno più infame di lui», e costui è appunto il mercante di pelli Cleone. «Da dove potrà spuntare un altro mercante, uno solo?» sospira di conseguenza il servo che nella caduta di Cleone ripone la sola speranza e ragione di vita: e in risposta alla sua richiesta, che esplicita il requisito professionale, ma implicitamente allude al contro-requisito etico-politico, ecco materializzarsi il mercante di salsicce. Dopo il ribaltamento delle benemerenze di Pilo, dunque, Aristofane ci mette di fronte a un altro assunto paradossale, che a me sembra legato e dipendente dal primo: un paese che scambia una ruberia per un’impresa gloriosa è votato a consegnarsi al governo del peggiore. Su questo fondamento, il Salsicciaio percorre il trionfale cammino verso l’assunzione contemporanea del protagonismo comico e del potere politico, avendo co-

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me come solido punto di riferimento la coerenza delle credenziali negative. Quando adduce l’umiltà del proprio mestiere per ricusare l’offerta, gli viene risposto: «proprio per questo diventerai grande, perché sei un miserabile sfrontato e cresciuto in piazza» (vv. 180-181). Una volta escluso che abbia, secondo la logica del monde renversé, «qualche merito sulla coscienza» (v. 184), l’unico ostacolo alla fulminante carriera è che bene o male sappia leggere e scrivere, perché «mettersi alla testa del popolo non è più cosa da uomo colto e perbene, ma da ignoranti e infami» (vv. 191-193). «Tutto il resto che serve per mettersi alla testa del popolo ce l’hai: voce spaventosa, nascita ignobile, modi piazzaioli – tutto quello che serve per la politica» (vv. 217-219). L’accenno alla voce è indicativo in rapporto alla caratterizzazione topica di Cleone, e non a caso il Coro dei Cavalieri rivolgerà tra poco una specifica esortazione al suo campione: «Colpisci, inseguilo, metti tutto sottosopra, detestalo come facciamo noi, stagli addosso e grida» (vv. 251-252). Condizione basilare per competere con Cleone è essere uguale a lui, il suo doppio – condizione che spiega ulteriormente la spersonalizzazione del Salsicciaio. In effetti anche il Salsicciaio è programmato per essere un adulatore («pasticcia e insacca gli affari pubblici addolcendo il popolo con parolette adulatrici», gli raccomanda Demostene ai vv. 215-216 con uno scontato richiamo al suo mestiere, che fa appello all’utilizzabilità pressoché universale delle metafore alimentari) e un calunniatore (v. 711), ed è anche lui basilarmente un vigliacco: la sua prima reazione alla comparsa di Paflagone è quella di scappare e tradire la causa, e deve essere trattenuto (vv. 240-241). Nel dibattito con Paflagone emergeranno dal suo passato altre credenziali incoraggianti per la peculiare

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natura di questo agone: l’abitudine di «imbrogliare i cuochi» distraendo la loro attenzione – con la stessa tecnica imbroglierà Paflagone sottraendogli la lepre preparata dall’avversario per Popolo. «Se poi mi vedevano, nascondevo la roba tra le chiappe e spergiuravo sugli dei. Un uomo politico se ne accorse e disse: “questo ragazzo governerà il popolo”» (vv. 423-426). Come per Cleone, la disonestà nelle relazioni personali è solidale alla disonestà politica, la quale a sua volta è garanzia del successo politico. Sarà l’azione comica a condurre l’agone dei due contendenti, pensato come un rispecchiamento infinito, allo squilibrio che comporta la vittoria del nuovo, soluzione auspicata dal poeta e dai benpensanti, grazie al nucleo di disvalori che abbiamo individuato e che possono riassumersi nell’anaideia, «nume tutelare dei politici» (vv. 324-325) In tal senso, è il Coro a fissare le regole (vv. 276-277): E va bene, se la spunti nel gridare la vittoria è tua; ma se costui ti supera in sfrontatezza, il premio è nostro.

La prima fase dello scontro si svolge ai vv. 285-296 ed è limitata alla tautologia della reciproca violenza verbale e minaccia; questa equivalenza è peraltro vissuta da Paflagone come la sgradita e inattesa usurpazione dei propri metodi: «sono trucchi che hai preso a prestito», ringhia in faccia all’avversario. La scena si ripete, sempre osservando la scrupolosa isometria delle due parti e l’effetto reciprocamente ecolalico che ne deriva, ai vv. 361-371: dopo che il Coro ha espresso la sua soddisfatta fiducia che sia comparso «uno molto più schifoso» di Paflagone (v. 329), costui ribatte, sia pure a distanza, «non mi batterete mai in sfacciataggine» (v. 409). Dopo altre schermaglie, il conflitto si trasferisce nel

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Consiglio (Bulè) dove Paflagone ha minacciato di denunciare come cospiratori i suoi avversari: con pregevole variazione drammaturgica, il suo esito è raccontato nell’agghelia del vittorioso Salsicciaio, prima che lo sconfitto irrompa a sua volta in scena furibondo. La mossa decisiva del Salsicciaio è stata quella di spargere la voce che c’è stato un clamoroso ribasso del prezzo delle alici; di fronte all’entusiasmo popolare per l’improvvisa – e non verificata – ondata di benessere pubblico, Paflagone non ha potuto far altro che cavalcarlo, ma le sue proposte di festeggiamento sono state rilanciate dall’avversario. La strategia vincente è dunque qualcosa che si può assimilare alla tecnica adulatoria messa in atto da Paflagone, ma il fenomeno più interessante è che Aristofane non rinuncia a enfatizzare la negatività del Salsicciaio neppure in rapporto al problema della pace, che pure il Salsicciaio medesimo (ai vv. 794-796) imputa all’avversario di ostacolare. In Consiglio è proprio Paflagone che, messo alle strette, cerca di neutralizzare il successo dell’avversario proponendo di considerare le proposte di tregua avanzate dagli ambasciatori spartani: ma il Consiglio, nell’ubriacatura ottimistica generata dall’illusione di avere sconfitto la fame, e nella falsa posizione di forza che ne deriva, rigetta la possibilità di pace con una formula che deve essere stato uno stolido e sinistro ritornello «che la guerra continui!» (v. 673). Il Coro dunque avalla questa prima vittoria del suo campione nella sua conformità alla regola fissata («quel furfante ha trovato uno più furfante di lui, più fornito di imbrogli e di astuzie», vv. 683-687), nel mentre lo esorta a completare l’impresa, a guadagnarsi cioè il favore dell’Assemblea dopo quello del Consiglio: ma mentre la designazione del Consiglio era letterale e realistica, quella dell’Assemblea torna ad essere allegorica, a identificarsi cioè col vecchio Popolo, sfruttando anche ogni

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possibilità comica relativa alla confusione di singolo e collettivo, più ancora che a quella di pubblico e privato. Decisivo è dunque lo scontro per accaparrarsi la simpatia di Popolo, cioè una vera e propria gara di adulazione, dove uno humour autentico e vivace nasce da tutta una serie di osservazioni moralistiche di Paflagone, che hanno un doppio valore autolesionistico: da un lato certificano alla lettera che egli considera l’avversario peggiore di sé (e dunque riconosce la sua vittoria), dall’altro sollevano irresistibili repliche sul pulpito dal quale la sua predica è pronunciata. Non è però questa la sola direttrice in cui opera il comico, e Paflagone non ne è il solo oggetto: almeno altrettanto risalta l’imbecillità di Popolo (e dunque del popolo) nel cascare in tutte le trappole. Popolo non è migliore del suo governo (la Bulè): se quelli si lasciavano abbindolare dalla sola diceria delle alici a buon mercato, lui resta fulminato dall’offerta di un cuscino per sedersi che gli fa il Salsicciaio al punto da paragonarlo per questo al tirannicida Armodio, mitico restauratore delle libertà ateniesi (vv. 786-787); segue sulla stessa lunghezza d’onda (vv. 868-874) l’offerta di un paio di scarpe (marcata dalla maliziosa osservazione che il Salsicciaio non commercia in pelli e dunque ha dovuto comprarle); alla terza offerta, quella di una tunica, il personaggio chiamato in causa è Temistocle (vv. 884-886): l’offerta della tunica vale più delle Lunghe Mura che collegarono Atene al Pireo! – si noti come il gioco intermittente dell’allegoria sia in questo caso utilizzato a ingigantire la distanza fra i personaggi e gli eventi che vengono grottescamente omologati. Più oltre, quando fuori dal regime burlesco verranno ricordati gli errori che Popolo ha commesso nella sua supina accettazione del potere demagogico, verrà detto che se si trattava di affrontare una spesa per l’allestimento e la manutenzione della flotta (massima linea po-

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litica di Temistocle) oppure per l’innalzamento di compensi clientelari, era questa seconda proposta a riscuotere il favore dell’Assemblea (vv. 1350-1353). Quando Paflagone constata che le sue critiche subiscono l’irridente rifrazione speculare di cui s’è detto, è portato a strafare in senso opposto: imita a sua volta l’avversario e mette addosso a Popolo un mantello, ma la sua esasperazione sfocia quasi naturalmente in malagrazia e il dono è rifiutato. Anche la successiva gara degli oracoli che dovrebbero coonestare le posizioni dei demagoghi rivali si risolve a favore del Salsicciaio: il suo messaggio infatti, assai diffuso negli anni della guerra – soprattutto in Atene, che l’oracolo delfico non vedeva certo di buon occhio –, è che la divinazione religiosa è tutta strumentalizzata a fini politici, ma il Salsicciaio opera questa strumentalizzazione con violenza irridente e ritorsiva. Contro il famoso Bacide si inventa un presunto fratello di nome Glanide, e modifica uno per uno gli oracoli del suo rivale puntualizzandoli ai suoi danni, e sfruttando appieno il vantaggio di parlare per secondo che Aristofane codificherà in Nuvole 941-944. Così ad esempio l’oracolo che indica in Cleone un fedele «cane del popolo» viene ribaltato nel «cane che lecca i piatti e tutte quante le isole» (mescolando la realtà del piccolo furto domestico con l’allegoria della concussione internazionale); quello che raccomanda di custodirlo con un «muro di legno», metafora per la flotta già adoperata da Temistocle, viene sconvolto vedendo nel muro di legno la gogna cui mettere il demagogo disonesto. E così via. I segnali della prevalenza del Salsicciaio si accumulano dunque gradualmente, prima di arrivare al pronunciamento decisivo che si ha quando si verificano le ceste dei due rivali e quella del Salsicciaio risulta vuota, quella di Paflagone ben piena, testimonianza della sua falsità e malversazione. Già prima, però, il riconoscimento

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di Paflagone («Ahimè, sono vinto in sfacciataggine», v. 1206) aveva anticipato quello che lo stesso Paflagone fa del Salsicciaio, in una scena paratragica, come del vincitore che gli era stato vaticinato. 5. Quando exit lo sconfitto Paflagone, ci si può aspettare che la commedia sia finita: in particolare, ci si può aspettare che scompaia anche il Salsicciaio, avendo compiuto e dunque esaurito la sua funzione: invece, si trasforma, da demagogo peggiore e per questo vincente, in un mago benefico che cuoce il vecchio Popolo come Medea aveva fatto col suocero Esone, e in tal modo lo riporta alla giovinezza, che è anche il regno dell’Atene antica e gloriosa, costantemente idoleggiata da Aristofane. In questo nuovo e magico ambiente Popolo, che assieme alla vecchiaia dismette la sua credulità e la disponibilità a farsi ingannare, condurrà una politica saggia ed equilibrata e una buona amministrazione: si opporrà alla strumentalizzazione della giustizia, porrà il massimo zelo nella cura della flotta e dei marinai, impedirà gli imbrogli attraverso i quali i privilegiati si sottraevano al servizio militare, non compiacerà la cultura parolaia dei giovani; ultimo risultato che non può mancare è quello che per il poeta è il risultato principe del buon governo: la cessazione dello stato di guerra. Questa esplosione di trionfalismo ottimistico non ha mancato di sconcertare la critica, e l’accusa di mancanza di unità è venuta a completare, bilanciandola, quella tradizionale di monotonia. In realtà, se consideriamo la struttura invariante della commedia aristofanesca come la realizzazione di un sogno di felicità, vediamo che un finale con la semplice sconfitta di Paflagone non è congruo a veicolare quest’esito. O meglio lo è da un solo punto di vista, che è la soddisfazione della libido aggressiva – la cui affermazione

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inesausta e sontuosa è già capitato più volte di ricordare ed esemplificare. A questo fine il criterio-guida della prevalenza del peggiore contribuisce accrescendo la frustrazione dell’odiato nemico che, come abbiamo visto, non si capacita di vedersi sconfitto con le sue stesse armi. Del resto il capovolgimento della forza in debolezza, e specificamente il tema dell’imbroglione imbrogliato, è destinato a diventare uno dei capisaldi del comico nella cultura occidentale. Ma la conclusione che il tradizionale trionfo comico debba consistere nel compiacimento di vedere Atene governata non più da Paflagone ma da un demagogo suo simile e peggiore di lui non è sostenibile, non tanto perché il trionfo comico non possa essere immoralistico, ma perché in questo caso avremmo lo svuotamento a posteriori del medesimo odio politico, che abbiamo visto ricco di passione e di indignazione etica, e la sua regressione ad antipatia personale, incompatibile del resto con il grandioso appello alla generalità politica: «Ti aiuteranno i cavalieri, mille uomini valorosi, i cittadini perbene, tutti gli spettatori intelligenti e io assieme a loro: anche il dio ci aiuterà» (vv. 225-229). Peraltro il senso negativo, destruens, della solidarietà prestata al Salsicciaio si avvale sì – l’abbiamo già notato – della natura funzionale e non personale di questa figura, ma non può ovviare al fatto che la funzione richiestagli in extremis, di avviare la restaurazione in Atene del buongoverno, sia contraddittoria rispetto alla precedente, richiedendo nei suoi confronti l’ovvio giudizio positivo dal punto di vista etico-politico. Tanto più positivo, anzi, in quanto la sua attività non si esplica attraverso la meccanica trasposizione da demagogo cattivo in demagogo buono, ma attraverso il mito del ringiovanimento propugna il ritorno di Popolo (e del popolo) alla soggettualità politica che il decadimento della vecchiaia, oltre che gli agenti esterni maligni, gli

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avevano sottratto: non è dunque questione del fatto che il potere venga delegato a persona più o meno capace e degna, ma che non deve più darsi delega totale e cieca (come ha rilevato Landfester). Un messaggio di alta maturità e – mi piace anche aggiungere – attualità. Non ci aiuta a sanare la discontinuità che esplode nel finale della commedia neppure l’osservazione di tratti positivi che compaiono nel Salsicciaio ben prima del colpo di scena finale, ma devono essere considerati smagliature nella rigorosa costruzione del peggio o, più attendibilmente, sovrapposizioni dell’ottica autoriale a quella del personaggio: così la già citata presa di posizione contro il partito della guerra, e più ancora, ai vv. 752-755 il rammarico che Popolo, persona generalmente intelligente, diventi un imbecille facilmente manovrabile quando è sulla Pnice – quando cioè si identifica con l’assemblea popolare: ma se il Salsicciaio si appresta a manovrarlo come e peggio di Paflagone, dovrebbe esserne solo contento! Non iscriverei invece nell’ambito delle stesse frizioni testuali il fatto che in fin dei conti il Salsicciaio prevale su Paflagone non in quanto peggiore di lui, ma in base all’esame delle rispettive ceste, che mostrerebbe la sua fedeltà e il suo lealismo, se non addirittura il suo spirito di sacrificio. Questo è indubbiamente il modo in cui il Salsicciaio desidera apparire, e questa apparenza è stata accuratamente preparata, giacché l’esame delle ceste è stato proposto come criterio decisivo non da una voce terza, ma da lui medesimo: è assai probabile che sia ancora un imbroglio, e anzi un imbroglio particolarmente astuto, se arriva a ingannare, oltre Popolo, una parte qualificata della critica (tra cui D. McDowell). Io credo si debba ammettere, seguendo il suggerimento di un critico americano (R. W. Brock), che i Cavalieri hanno un doppio plot secondo la doppia falsariga di due ipotesi storico-politiche opposte, di cui quella

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peggiorativa – fondata su un’amara coscienza della realtà – è riscattata dalla strumentalizzazione paradossale ai danni del nemico, mentre quella migliorativa ha i tratti luminosi, irrealistici, oltranzistici del miracolo. Il dato essenziale di questa opposizione è peraltro la rigorosa coerenza, e anzi l’identità delle premesse ideologiche che la determinano: sia il degrado che il miracolo sono infatti fondati su un’idea della storia come decadenza, che colloca la summa dei valori nel passato e nella nostalgia. Da questa idea discendono quasi tutte le strutture comiche aristofanesche, nelle quali trionfo e felicità, caratteristiche del genere comico, non si presentano mai, né agli occhi del protagonista demiurgo, portavoce del poeta e, per definizione, delle istanze benpensanti, né agli occhi del pubblico, coi caratteri della novità assoluta: al contrario, hanno il profumo inequivocabile della nostalgia e del ritorno del passato. La riforma anche più profonda, surreale, onirica è sempre in realtà una restaurazione, ed è questo dato, assai più che le incerte notizie di collocazione partitica, che assegna il poeta a un pensiero conservatore, o meglio, alla sua quintessenza ed estremità. Possiamo cominciare, per comodità ed evidenza, dalle tre commedie «pacifiste» (Acarnesi, La pace, Lisistrata), e constatare che le nostre virgolette sono dovute al fatto che di un pacifismo inteso in senso positivo, una concezione cioè non violenta della convivenza tra uomini e tra popolazioni, non è mai il caso di parlare: la pace è agognata come fine dello stato di guerra e delle infinite angosce e privazioni che essa comporta, a partire dai bisogni basilari dell’uomo, il desiderio alimentare e quello sessuale. La pace dunque si identifica con la rimozione di un ostacolo alla felicità che per definizione non esisteva prima dello scoppio delle ostilità: ma questa ovvietà diventa in Aristofane qualcosa di più, una re-

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quisitoria acuta e serrata contro i responsabili della guerra: l’imperialismo pericleo che negli Acarnesi prende futili pretesti per affermare la volontà di dominio, la complicata rete di relazioni politico-sociali, interne e internazionali, che secondo il discorso di Ermes nella Pace portano alla guerra come risultante di una serie di reazioni a catena ad azioni dettate dal profitto privato, la stolida inerzia dei governanti nella Lisistrata (quasi una variante collettiva della coazione a ripetere). Un’altra commedia, l’ultima, il Pluto, investe il passato di una canonizzazione valoriale ancora più forte e vasta: il progetto comico, infatti, consiste nel ridare la vista a Pluto, il dio della ricchezza, che nella temperie quotidiana mostra di essere cieco per il carattere paradossale che assume la distribuzione della ricchezza medesima, in apparenza volta a premiare i disonesti. Una volta restituita la vista a Pluto, ristabilita cioè la condizione fisiologica non sua soltanto, ma di tutto il mondo, la distribuzione della ricchezza sarà etica o piuttosto universale, giacché solo la cupidigia del denaro era nel regime precedente il motore della disonestà. Paradossale è a sua volta la relazione tra la novità e il passato nelle Ecclesiazuse: la scelta di affidare il governo alle donne è non solo inaudita, ma residuale (è l’ultimissima chance che si adopera quando siano state messe in opera, e viste fallire, tutte le altre strategie), ma insieme è motivata dal loro indefettibile conservatorismo: sono le donne che si comportano sempre «come prima» (sia a proposito delle loro attività e abitudini che dei loro piaceri, leciti o illeciti), e danno quindi garanzie contro la facile acquiescenza al nuovo e alle mode corruttrici. Ancora: negli Uccelli la fondazione della nuova città è proclamata a nome di un impero cosmico che gli uccelli tenevano un tempo prima degli Dei, e su questa presunta anteriorità, oltre che sulla posizione di forza conferita alla nuova città dalla sua collocazione inter-

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media fra cielo e terra, fondano il loro diritto contro gli usurpatori. Se reinterpretiamo in termini moderni il messaggio di questa commedia, possiamo dire che il suo assunto iniziale riguarda l’opzione a favore dello stato di natura contro la civilizzazione corrotta simboleggiata dall’amministrazione della giustizia in Atene, e che rappresenta fuor di dubbio un posterius. Ancora: nelle Rane è in questione il ritorno al passato più clamoroso che possa concepirsi in relazione allo statuto della mortalità umana. Si tratta infatti di resuscitare Euripide, appena morto, per il gusto e il piacere personale dello stesso Dioniso, dio del teatro. Ma poi l’obiettivo si modifica sostituendo alla visione edonistica della tragedia quella educativa, e a questo fine il ritorno al passato dovrà avere respiro più ampio e attingere attraverso la persona di Eschilo, che si sostituisce a quella di Euripide, al sacrario delle origini. In tutte queste commedie si svolge un’azione retroversa, organizzata da un tempo drammatico che, in modo continuo, coerente, e nella sua regressività progressivo, va controcorrente rispetto al tempo della storia: ne è buon segnale il fatto che spesso viene accusato di pazzia l’eroe comico che con la forza dell’intelligenza e della volontà pazientemente rimuove gli ostacoli che – come le pietre sotto le quali è sepolta la Pace nella commedia omonima – sono d’impedimento al recupero del buon tempo antico. Questa però non poteva essere la soluzione dei Cavalieri, dove l’azione era già scandita da un tempo drammatico a sua volta coerente che seguiva il corso pessimistico della storia; unica possibilità di restituire la speranza del passato è dunque l’improvvisa torsione nel finale del tempo sia drammatico che storico, per dar luogo a un’utopia che è essenzialmente un’acronia.

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1. STUDI GENERALI SU ARISTOFANE 1. Rassegne bibliografiche Gli studi su Aristofane e sulla commedia antica sono censiti da due repertori principali: per gli anni 1873-1937 sono ancora indispensabili i «Bursian’s Jahresberichte über die Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft» (annate 1877; 1880; 1892; 1903; 1911; 1916-1918; 1926; 1932; 1939); a partire dal 1914 rassegne periodiche, poi annuali in «L’année philologique. Bibliographie critique et analytique de l’antiquité gréco-latine». Le principali rassegne ragionate, tutte relative a periodi più brevi, sono: K.J. Dover, Aristophanes 1938-1955, «Lustrum», 2, 1957, pp. 52-112; Th. Gelzer, Hinweise auf einige neuere Bücher zu Aristophanes, «Museum Helveticum», 21, 1964, pp. 103-106; Ch.T. Murphy, A Survey of Recent Work on Aristophanes and Old Comedy (1957-1967), «Classical World», 65, 1972, pp. 261-273; A.C. Quicke, Aristophanes and Athenian Old Comedy. A Survey and Bibliography of Twentieth-Century Criticism, with an Essay on the Current State of Bibliography in Classical Studies, London 1982; I.C. Storey, Old Comedy 1975-1984, «Echos du monde classique», 31, 1987, pp. 1-46; B. Zimmermann, Griechische Komödie, «Anzeiger für die Altertumswissenschaft», 45, 1992, coll. 161-184. Bibliografie generali

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recenti contengono utili sezioni dedicate ad Aristofane e alla commedia antica: cfr. G. Cambiano – L. Canfora – D. Lanza, Lo spazio letterario della Grecia antica, vol. III, Cronologia e bibliografia della letteratura greca, Roma, Salerno, 1996, in particolare pp. 433-457; G. Whitaker, A bibliographical guide to classical studies, vol. 1, Hildesheim-New York, Olms-Weidmann, 1997. 2. Edizioni complessive La prima edizione a stampa di Aristofane, l’Aldina a cura di M. Musuro (Venezia 1498), conteneva solo nove commedie; le due mancanti, Tesmoforiazuse e Lisistrata, furono pubblicate per la prima volta a Firenze dai Giunti nel 1516. Delle edizioni storiche si possono ancora ricordare: Aristophanis comoediae quae exstant undecim ac deperditarum fragmenta, ed. Ch.G. Schütz, Lipsiae, Schwickert, 1821; Aristophanis comoediae cum scholiis et varietate lectionis, rec. I. Bekker, Londini-Cantabrigiae, Whittaker-Priestley, 1829; Aristophanis comoediae. Accedunt perditarum fabularum fragmenta ex recognitione et cum annotationibus G. Dindorfii, Oxonii, Typographeum Academicum, 1835-1838 (Dindorf aveva già curato l’edizione di singole commedie negli anni precedenti; quella degli Uccelli era uscita a Lipsia nel 1822); Aristophanis comoedias, ed. Th. Bergk, Lipsiae 18672; Aristophanis Comoediae, ed. A. Meineke, Lipsiae, Tauchnitz, 1860; Aristophanis comoediae quae supersunt cum perditarum fragmentis, ed. H. Holden, Cantabrigiae, E Typographeo Academico, 1868-18693. Altre edizioni complessive con commento filologico e interpretativo si devono a L. Küster (Amstelodami, Fritsch, 1710); R.F.Ph. Brunck (Argentorati, Heitz, 1783); F.H. Bothe (Lipsiae, 18452); F.H.M. Blaydes (Halle 1880-93); J. van Leeuwen (Leiden, Sijthoff, 18931906); B.B. Rogers (London, Bell, 1902-16); la più recen-

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te ad A.H. Sommerstein (11 voll., Warminster, Aris & Phillips, 1980-2001; del 2002 è il volume degli indici). Fra le edizioni critiche senza commento esegetico vanno invece ricordate quella oxoniense di F.W. Hall e W.M. Geldart (Oxford, Clarendon Press, 1906-72), sostituita solo nel 2007 dall’edizione ora di riferimento di N.G. Wilson; quella di V. Coulon per la «Collection des Universités de France» (Paris, Les Belles Lettres, 1923-30), molto lodata da un filologo come G. Pasquali sulla base degli apprezzamenti positivi di Wilamowitz, ma ridimensionata nel giudizio critico successivo; e quella con traduzione italiana di R. Cantarella (Milano, IEI, 1949-64). I frammenti di Aristofane sono editi nel vol. III/2 dei Poetae Comici Graeci a cura di R. Kassel e C. Austin, Berlin-New York, de Gruyter, 1984 (nell’ambito dello stesso progetto editoriale, di cui sono ormai apparsi nove dei dieci tomi previsti, è attesa la pubblicazione del vol. III/1, con il testo delle undici commedie conservate). 3. Scolii Dopo la prima pubblicazione parziale degli scolii in margine all’edizione Aldina del 1498, le prime edizioni complessive del materiale presente nei manoscritti medievali si devono a W. Dindorf (nel quarto volume dell’edizione citata al punto 2, Oxford 1838) e F. Dübner (Parisiis, Didot, 1842, più volte ristampato), ma sono ampiamente superate da una nuova edizione in più volumi realizzata per l’editore Bouma di Groningen a partire dal 1960 da un’équipe diretta da W.J.W. Koster e (a partire dal 1975) da D. Holwerda. 4. Strumenti Benché superata dai più recenti strumenti informatici, è ancora di grande utilità la vecchia concordanza ad Ari-

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stofane di H. Dunbar (Oxford, Clarendon Press, 1883), rivista e ampliata da B. Marzullo (Hildesheim-New York, Olms, 1973). L’indice si deve a O.J. Todd (Index Aristophaneus, Cambridge [MA], Harvard University Press, 1932); cfr. anche W.K. Pritchett, Corrigenda to Index Aristophaneus, «Classical Philology», 51, 1956, pp. 102 sgg. Di una certa utilità anche il Lexicon Aristophaneum. Ein handschriftliches Wörterbuch zu den Komödien des Aristophanes, herausgegeben von K. Wüst, Vorwort von G. Pflug, edito in microfiches dalle edizioni Saur di Monaco (1984). Per i nomi propri H.A. Holden, Onomasticon Aristophaneum, Cambridge, Cambridge University Press, 19022. 5. Traduzioni complessive La prima traduzione a stampa del corpus aristofaneo, in latino, risale al 1538 ed è opera di A. Divus; del 1545 è invece la prima traduzione in una lingua moderna, quella in prosa italiana a cura dei fratelli Bartolomeo e P. Rositini. Altre traduzioni complete in italiano sono quelle di E. Romagnoli (2 voll., Torino, Bocca 1909 – ristampato poi a Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1915 e ancora come I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli: Aristofane, Commedie, 5 voll., Bologna, Zanichelli, 1924-1940); di R. Cantarella (Torino, Einaudi, 1972 – profondamente rivista rispetto alla traduzione a fronte del testo curato per l’Istituto Editoriale Italiano, Milano 1949-64); di F. Ballotto (Milano, Rizzoli, 1964); di B. Marzullo (Bari, Laterza, 1968, Roma-Bari, Laterza, 19823); di G. Mastromarco (Torino, Utet, vol. I, 1983; vol. II, 2006) e di G. Paduano: quattro commedie in un volume unico (Acarnesi, Nuvole, Vespe, Uccelli, Milano, Garzanti, 1979 – le ultime due ristampate con modifiche e nuovo apparato di note sempre da Garzanti nel 1990), le altre in volumi separati presso l’editore Rizzoli in

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questa stessa collana: La festa delle donne (Milano 1983, 20042); Le donne a parlamento (Milano 1984); Lisistrata (Milano 1981); Pluto (Milano 1988); Le rane (Milano 1996); La Pace (Milano 2002). Fra le principali traduzioni in lingue straniere vanno ricordate almeno quelle inglesi di B.B. Rogers (nell’edizione complessiva di cui sopra al punto 2, riprodotta poi nei tre volumi della Loeb Classical Library, London-Cambridge [MA], Heinemann-Harvard University Press, 1924, più volte ristampata); di A.H. Sommerstein (nell’edizione completa di Aristofane citata sopra al punto 2) e di J. Henderson (4 voll., Cambridge [MA]London, Harvard University Press, The Loeb Classical Library, 1998-2002). Infine le traduzioni in francese di H. van Daele (a fronte del testo Coulon nell’edizione Belles Lettres: cfr. sopra il punto 2); di A. Willems (3 voll., Paris-Bruxelles, Hachette-Lebègue, 1919) e di P. Thiercy (Aristophane, Théâtre complet, textes présentés, établis et annotés par P. Thiercy, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1997). 6. Storia del testo C.O. Zuretti, Analecta Aristophanea, Torino, Loescher, 1892; J.W. White, The Manuscripts of Aristophanes, «Classical Philology», 1, 1906, pp. 1-20; 255-78; J. van Leeuwen, Prolegomena ad Aristophanem, Leiden, Sijthoff, 1907; P. Boudreaux, Le texte d’Aristophane et ses commentateurs, Paris, de Boccard, 1919; W. Kraus, Testimonia Aristophanea cum scholiorum lectionibus, Wien, Hölder-Pichler-Tempsky, 1931; V. Coulon, Essai sur la méthode de la critique conjecturale appliquée au texte d’Aristophane, Paris, Les Belles Lettres, 1933; W.J.W. Koster, A propos de quelques manuscrits d’Aristophane de la Bibliothèque nationale, «Revue des Etudes Grecques», 66, 1953, pp. 1-33; W.J.W. Koster, Autour

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d’un manuscrit d’Aristophane écrit par Démétrius Triclinius, Groningen, Wolters, 1957; W.J.W. Koster, Aristophane dans la tradition byzantine, «Revue des Etudes Grecques», 76, 1963, pp. 381-96; J.C.B. Lowe, Manuscript Evidence for Change of Speaker in Aristophanes, «Bulletin of the Institute of Classical Studies, University of London», 9, 1962, pp. 27-42; N.G. Wilson, The Triclinian Edition of Aristophanes, «Classical Quarterly», 12, 1962, pp. 32-47; G. Zuntz, Die Aristophanes-Scholien der Papyri, Berlino, Seitz, 19752; K.J. Dover, Ancient Interpolations in Aristophanes, «Illinois Classical Studies», 2, 1977, pp. 136-162; O.L. Smith, Dindorf’s Poggianus of Aristophanes, «Classica et Mediaevalia», 61, 1990, pp. 58; M.R. Di Blasi, Sulla tradizione manoscritta di Aristofane (II), «Bollettino dei classici», terza serie, 16, 1995, pp. 121-144; M.R. Di Blasi, Studi sulla tradizione manoscritta del Pluto di Aristofane. Parte I: I papiri e i codici poziori, «Maia», nuova serie, 49, 1997, pp. 154-156; M.R. Di Blasi, Studi sulla tradizione manoscritta del Pluto di Aristofane. Parte II: I codici recentiores, «Maia», nuova serie, 49, 1997, pp. 367-380; M.R. Di Blasi, Sulla tradizione manoscritta di Aristofane (III), «Bollettino dei Classici», serie 3ª, 19, 1998, pp. 97-109; S. Trojahn, Die auf Papyri erhaltenen Kommentare zur alten Komödie: ein Beitrag zur Geschichte der antiken Philologie, München, Saur, 2002. 7. Metrica J.W. White, The Verse of Greek Comedy, London, Macmillan, 1912; O. Schröder, Aristophanis Cantica, Leipzig, Teubner, 19302; C. Prato, I canti di Aristofane, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1962; A.M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama, Cambridge, Cambridge University Press, 19682; F. Perusino, Il tetrametro giambico catalettico nella commedia greca, Roma, Edizioni dell’Ateneo,

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1968; W. Trachta, Responsionfreiheit bei Aristophanes, diss. Wien 1968; E. Domingo, La responsion estrófica en Aristófanes, Salamanca, Gráficas Europa, 1975; M. Pintacuda, Interpretazioni musicali sul teatro di Aristofane, Palermo, Palumbo, 1982; B. Zimmermann, Untersuchungen zur Form und dramatischen Technik der aristophanischen Komödien, 3 voll., Königstein/Ts., Hain, 1984, 1985, 1987; C. Prato, I metri lirici di Aristofane, «Dioniso», 57, 1987, pp. 203-244; C. Romano, Responsioni libere nei canti di Aristofane, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1992; L.P.E. Parker, The Songs of Aristophanes, Oxford, Clarendon Press, 1997. 8. Manuali e introduzioni all’autore K.J. Dover, Aristophanic Comedy, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1972; G. Giardini, Aristofane, la vita, il teatro, la fortuna, Milano, Accademia, 1979; R.G. Ussher, Aristophanes, Oxford, 1979; G. Mastromarco, Introduzione a Aristofane, Roma-Bari, Laterza, 1994 (19962); D. MacDowell, Aristophanes, Oxford, Oxford University Press, 1997; U. Albini, Riso alla greca: Aristofane o la fabbrica del comico, Milano, Garzanti, 1997; P. Thiercy, Aristophane et l’ancienne comédie, Paris, Presses Universitaires de France, 1999. Per il lettore italiano è ora disponibile come volumetto autonomo anche un’introduzione classica, la presentazione generale premessa dallo storico J. G. Droysen alla sua traduzione di Aristofane (1834-1838): J.G. Droysen, Aristofane: introduzione alle commedie, a cura di Giovanni Bonacina, Palermo, Sellerio, 1998. 9. Studi generali su Aristofane H. Müller-Strübing, Aristophanes und die historische Kritik, Leipzig, Teubner, 1873; Th. Zielinski, Die Gliede-

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Adotto il testo stabilito da N.G. Wilson per gli Oxford Classical Texts, con le seguenti divergenze: 295 lalhvsei" (codd., tranne B, Parisinus Graecus 2715 che ha lakhvsei"); W. lakhvsei (Blaydes). 311 hJrw'n (codd.); W. hJmi'n (Bentley). 351 Attribuisco la battuta a Demostene (W. al Salsicciaio). 394 ajfauvei (codd. tranne R., Ravennas 429, Suda); W. ajfanei' (R). 414 ejktrafeivhn (codd.); W. ejktrafei;ı h\n (Richards, Rutherford). 415 Attribuisco la battuta a Paflagone (W. a Demostene, ma in apparato chiosa quis loquatur non liquet, ut vidit Blaydes). 480 Attribuisco la battuta al Salsicciaio (W. a Demostene). 481 parastorw' (codd.): W. katastorw' (van Herwerden). 540 movnoı (codd.); W. movliı (van Leeuwen). 602 ajnefruavxanqΔ (Walsh, van Herwerden; ajnebruvaxan codd., Suda); W. a]n ejfruavxanqΔ (Ademollo). 1019 draúı ' (Bothe); W. draú' (codd.). 1062 uJfhvrpasen (P. Oxy. 1373, P. Oxy. 2545, già congettura di Meineke, ajfhvrpasen codd.); W. uJfarpavsei (Bothe). 1254-1256 Attribuisco la battuta al Corifeo (W. a Demostene). 1399 pravgmasin (codd.); W. trwvgmasin (Wilson).

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1 I primi versi introducono all’esposizione della situazione comica che avverrà ai vv. 40-72, e hanno sapida efficacia nel descriverne gli effetti suggerendo nell’ombra, a un pubblico già complice, le cause: vediamo il terrore e le lagnanze di due schiavi, maltrattati per colpa di un loro prepotente collega, e la futilità dei loro sogni di liberazione. 2 Nome schiavile derivato, come spesso, dall’origine etnica. All’interno di un’allegoria che omologa Atene a una casa privata, non c’è di per sé nulla di ingiurioso nel rappresentare in veste di schiavo un potente uomo politico, ma il fatto che gli schiavi fossero per lo più stranieri permette di estendere surrettiziamente a Cleone – cittadino ateniese di Cidatene, lo stesso demo di Aristofane – l’insinuazione spesso rivolta a politici sgraditi, di usurpare una falsa cittadinanza. Inoltre,

(entrano i due servi Demostene e Nicia) DEMOSTENE1 Ahi

ahi ahi! Che gli dei maledicano il nuovo acquisto, il maledetto Paflagone2 e tutte le sue trame! Da quando è entrato in questa casa non ha fatto che procurare batoste a noi servi. NICIA Sì, maledetto costui con tutti i Paflagoni, e le sue calunnie! DEMOSTENE Come stai, disgraziato? NICIA Male quanto te. DEMOSTENE E allora vieni qui, che piangiamo insieme in musica, su un’aria di Olimpo.3

Paflagone richiama il verbo paflavzein, che indica onomatopeicamente il movimento dell’acqua che bolle, e viene usato nei suoi confronti a v. 919 e a Pace 314, dove al morto Cleone, identificato con Cerbero, è attribuita l’intenzione di impedire il disseppellimento della pace. Il termine richiama l’eloquenza turbinosa di Cleone, in Acarnesi 381 e Cavalieri 137 assimilato al Cicloboro, torrente dell’Attica (più genericoVespe 1034, ripetuto in Pace 757); le «urla» di Paflagone sono lo Stichwort caratteristico e ricorrente di questa commedia, ma anche a Vespe 596 Cleone è definito kekraxidavma", «quello che governa a forza di urli». La stessa tradizione si ritrova in Aristotele, La costituzione degli Ateniesi 28. 3 Mitico personaggio di origine frigia, a cui si attribuisce l’invenzione della musica per aulo. La parodia della lamentazione in musica contiene probabilmente un’intenzione culturale, giacché il suo ruolo contestuale, cioè autoconsolatorio, è smentito e irriso appena dopo essere stato enunciato.

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4 Citazione di Ippolito 345, dove Fedra confessa alla nutrice il suo amore per il figliastro. Per quanto nelle scene di lazzi come questa non sia questione dell’identità individuale dei personaggi, che piuttosto si fanno reciprocamente da spalla, è suggestiva l’ipotesi che Nicia, di cui erano proverbiali la cautela e l’esitazione, sia oggetto di satira attra-

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/ NICIA Mu... mu... mu... mu Perché miagoliamo senza costrutto? Non sarebbe meglio smettere di piangere e cercare qualche via di scampo? NICIA E quale mai? DEMOSTENE Di’ tu. NICIA Di’ tu piuttosto: ti assicuro che non mi metto in gara. DEMOSTENE Io? Per carità! Fatti coraggio e parla, poi ti dirò anch’io. NICIA Coraggio non ne ho. Come potrei dirlo alla maniera di Euripide? «Come potresti dire tu quello che devo dire io?»4 DEMOSTENE Per cortesia, non tirar fuori gli ortaggi di Euripide!5 Devi trovare una mossa6 per scappar via dal padrone. NICIA E allora di’ con me tutto d’un fiato: amo. DEMOSTENE Amo. NICIA Adesso mettici insieme te-li. DEMOSTENE Te-li. NICIA Bene. Adesso ritmicamente, come ti stessi facendo una sega. Prima amo, poi teli, poi ripeti di fila. DEMOSTENE Amo-te-li-amo-te-li, teliamo!7 NICIA Non va bene? DEMOSTENE Benissimo – se non fosse che ho un cattivo presentimento per la mia pelle. NICIA Perché mai? DEMOSTENE

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verso la citazione del linguaggio di Fedra, caratterizzato da lunghissima e penosa reticenza. L’impressione è accresciuta dal fatto che subito dopo l’indicibile – cioè l’ipotesi della fuga – è dicibile solo a patto di nascondersi sotto il travolgente gioco dei significanti 5 Brachilogica allusione al pettegolezzo, in Aristofane diffusissimo, che Euripide fosse figlio di un’ortolana. 6 La parola greca, ajpovkino", allude a un’antica danza, di cui Ateneo cita altre testimonianze presso i poeti comici. 7 Nel testo il gioco di parole è fra molei`n («andare») e aujtomolei`n («disertare»).

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8 Solo il ritmo dell’enunciazione verbale della fuga era stato paragonato a una masturbazione: una doppia mediazione separa dunque questa metafora dalla lettera (la paura di essere fustigato come schiavo fuggitivo) e costituisce la molla generativa del comico. 9 La dizione ricorda i Sette a Tebe di Eschilo, vv. 95-96, nonché Euripide, Alcesti 972-974. 10 La balbuzie generata dalla paura dà luogo a un gioco comico che ha provocato inconvenienti nella tramissione del testo. 11 Neanche qui è probabilmente casuale che questa grandiosa battuta sia attribuita a Nicia, di cui era proverbiale la religiosità – ma essa si capovolge nella constatazione che l’esistenza degli dei è garantita dalla sofferenza non dei malvagi, come in Odissea 24. 351-352, ma al contrario di chi per definizione si presenta come buono e pio. Credo peraltro che lo humour non consista tanto nella sovversione delle categorie etiche, ma nella ontologizzazione paranoica della propria sventura, che poi coincide con la demonizzazione dell’avversario politico. La stessa battuta raccontata da Diogene Laerzio 2. 102, 6. 42, è invece utilizzata in senso aggressivo, definendo «in odio agli dei» l’interlocutore. 12 L’appello al pubblico è marcato da un’intonazione religiosa (Andrisano).

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Perché ci si spella a masturbarsi.8 NICIA E allora nella situazione in cui ci troviamo il meglio sarà andare a inginocchiarsi davanti alla statua di qualche dio.9 DEMOSTENE Ma quale sta-statua!10 Tu credi davvero all’esistenza degli dei? NICIA Senza dubbio. DEMOSTENE E che prova ne hai? NICIA Che sono in odio agli dei: non è abbastanza?11 DEMOSTENE Mi hai convinto. Ma consideriamo le cose da un altro punto di vista. Vuoi che spieghi la faccenda agli spettatori? NICIA Buona idea. Però li supplichiamo12 di mostrarci con l’espressione del viso se si divertono alle nostre parole e alle nostre vicende. DEMOSTENE Allora parlo. Noi abbiamo un padrone rustico di carattere, un collerico mangiatore di fave,13 un vecchietto bisbetico e un po’ sordo. Si chiama Popolo, ed è di Pnice.14 Il primo del mese15 scorso ha comprato uno schiavo, il pellaio Paflagone,16 furfante DEMOSTENE

13 La perifrasi indica il contadino che, come sempre in Aristofane, rappresenta la tipologia privilegiata (e idoleggiata) dell’Ateniese. Inusualmente in questa commedia, peraltro, il vecchio contadino non è il protagonista, e questo spiega come oltre ai tratti standardizzati e simpatetici – anche l’essere «collerico» e «bisbetico» rappresenta una capacità di opposizione al sistema socio-politico degradato, che in extremis gli vedremo esercitare – ce ne sia uno come la sordità, che allude invece a una debolezza e a una possibile vulnerabilità. 14 La collina a ovest dell’Acropoli, sede dell’assemblea, è qui nominata come fosse il demo a cui Popolo appartiene – peraltro Demo come nome proprio si ritrova in Atene (cfr. Vespe 98). 15 Quando si teneva il mercato. 16 Il notorio mestiere di Cleone fa scattare nel pubblico il riconoscimento inequivocabile dell’antagonista, ribadito dall’accenno successivo alla frusta «di cuoio» con cui tiene lontane da Popolo non le mosche, ma, con aprosdoketon, i politici suoi colleghi e rivali.

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17 È un privilegio concludere la sessione del tribunale dopo avere concluso una sola causa (cfr.Vespe 594-595): come sarà nelle Vespe, dove il protagonista Filocleone è indotto a tenere in casa un grottesco processo al proprio cane, è comica la riduzione all’individuo della collettività giudicante (in Atene assai numerosa, composta di varie centinaia di giudici); un processo espressivo che assieme ad altri, come la menzione di Pilo e dei politici di cui alla nota precedente, veicola la mescolanza di allegoria e realtà.

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e calunniatore. Costui, avendo subito capito il carattere del padrone, gli si prostrava davanti, lo adulava, lo imbrogliava, lo blandiva a forza di pinzillacchere, dicendo: «Caro Popolo, dopo avere giudicato una causa devi assolutamente prendere un bagno.17 Su, mangia questo, gusta quest’altro, ed eccoti tre oboli.18 Vuoi che ti serva uno spuntino?» E quello che chiunque di noi aveva preparato per il padrone, Paflagone lo arraffava e glielo offriva. L’altro giorno avevo impastato19 a Pilo una focaccia laconica, e lui, non so come, me l’ha sgraffignata con un blitz e l’ha imbandita – ma impastata l’avevo io. Ci tiene lontani dal padrone e non permette che nessun altro si occupi di lui; mentre Popolo mangia gli sta accanto con una frusta di cuoio e scaccia i politici. Inoltre declama oracoli, e il vecchio va pazzo per la sibilla.20 Quando vede che è rincoglionito al punto giusto, mette in opera la sua arte, calunniando con false accuse quelli di casa,21 e noi veniamo frustati. Corre da un servo all’altro a chiedere, minacciare, estorcere bustarelle dicendo: «avete visto che Ila è stato frustato per causa mia. Se non mi obbedite farete una brutta fine oggi stesso». E noi paghiamo: se no il vecchio ci fa a pezzi e ci fa cacare otto volte tanto. Adesso però, amico mio, sbrighiamoci

18 Il salario giornaliero del giudice, che proprio Cleone aveva innalzato dai precedenti due oboli. Ma è anche implicita nell’allusione una delle tesi principali delle Vespe, che cioè il potere politico fa del salario dei giudici (comunque assai magro, si dirà in quella sede) uno strumento per indirizzarli secondo le proprie volontà, e dunque per corromperli. 19 La parola greca memacovto" ha una forte analogia fonica col verbo mavcesqai, «combattere», che costruisce un altro ponte dall’allegoria alla realtà del generale Demostene. 20 Mitica profetessa, successivamente proliferata in più figure. Durante la guerra del Peloponneso spesso gli oracoli venivano usati come arma della lotta politica.

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21 La prassi della calunnia, già anticipata ai vv. 7 e 45, e attribuita a Cleone anche da Tucidide 4. 27 e 5. 16, apparenta in qualche modo il Paflagone alla figura del sicofante o delatore pubblico, odiatissima da Aristofane, e stabilisce un clima di paura, propizio al ricatto. 22 Anche un frammento di Eupoli (316 K.-A.) attribuisce burlescamente a Cleone questa prerogativa tradizionale del Sole, che qui si somma a una statura gigantesca. 23 Il testo ha una serie di giochi verbali con toponimi: i Caoni, popolazione epirota, sono messi in rapporto con cavskein, «essere aper-

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a prendere una decisione, quale via di scampo cercare e a chi rivolgerci. NICIA Per me, amico mio, la migliore è sempre «teliamo». DEMOSTENE Ma a Paflagone non sfugge niente: vede tutto22 e ha un piede a Pilo e un altro all’assemblea. E con questa apertura di gambe, il culo si trova a La Rotta, le mani a Questua, la testa a Ladropoli.23 NICIA E allora per noi la scelta migliore è morire.24 DEMOSTENE Pensiamo almeno ad avere la morte più nobile. NICIA La morte più nobile? Bere sangue di toro, la morte di Temistocle:25 è quella più desiderabile. DEMOSTENE Meglio bere vino puro in onore del Buon Genio:26 in questo modo forse ci verrà qualche buona idea. NICIA Ma che vino! Tu non pensi ad altro che a bere! Ti pare che da ubriachi si possano avere buone idee? DEMOSTENE Ah sì, eh? Tu, fontana27 di chiacchiere, osi negare che il vino sia fonte di idee? Dove potresti trovare qualcosa di più efficace? Non lo vedi che quando gli uomini bevono sono ricchi e felici, si danno da fare, vincono le cause, aiutano i loro cari? E allora portami

ti», spesso usato in senso osceno, gli Etoli con aijtei`n, «chiedere», (cfr. Antologia Palatina 5. 63); i Clopidi, abitanti di un demo attico, con klwvy, «ladro». 24 Riecheggia ancora l’Ippolito, vv. 401-402. 25 Secondo una leggenda, il vincitore di Salamina si uccise per non mantenere la promessa, fatta al re di Persia, di aiutarlo a sottomettere la Grecia: cfr. Tucidide 1. 138 (che dà la notizia con scetticismo), Plutarco, Vita di Temistocle 56, Diodoro Siculo 11. 58. Quanto al genere di morte, Erodoto 3. 15 ne attesta l’istantaneità; il v. 83 ricalca da vicino il fr. 178 R. di Sofocle (dalla Richiesta di Elena). 26 Il termine «bere» è prontamente riportato da Demostene dal suo idiosincratico uso tragico a quello ordinario, lieto ed euforico: la libagione in onore del Buon Genio è rituale dopo il pasto. 27 Il termine suggerisce una sprezzante collocazione dell’interlocutore nel dominio dell’acqua.

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28 Un verso di sapore euripideo, consono cioè alla ridicolizzazione che Aristofane fa abitualmente di Euripide: serve dunque a mettere in dubbio che la progettualità di Demostene approdi a qualche risultato. 29 Burlesca allusione ai vantaggi che Cleone trarrebbe dalla confi-

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subito un boccale di vino, che possa innaffiarmi il cervello e avere qualche buona trovata. NICIA Ma a noi che ce ne viene dalla tua bevuta? DEMOSTENE Cose buone: portamelo che mi metto comodo. (esce Nicia) E quando avrò bevuto cospargerò tutto di idee, progetti e sentenze.28 NICIA (rientrando) Ho avuto fortuna a non farmi beccare mentre rubavo il vino in casa. DEMOSTENE E Paflagone che fa? NICIA Dopo essersi leccato delle focacce confiscate,29 l’infame russa ubriaco, steso sulle pelli.30 DEMOSTENE Tu pensa a farmi gorgogliare in bocca una copiosa libagione di vino puro. NICIA Eccoti: liba al Buon Genio. DEMOSTENE Quello di Pramno,31 magari. Buon Genio, l’idea è tua, non mia. NICIA Ti dispiace dirmi di che si tratta? DEMOSTENE Finché Paflagone dorme, va’ a rubargli gli oracoli che ha in casa e portali qui. NICIA Sì, ma col tuo Buon Genio, ho paura che mi imbatterò in uno cattivo32 (esce). DEMOSTENE E io intanto mi scolerò il boccale, in modo da innaffiare il cervello e avere una buona trovata. NICIA (rientrando) Come scorreggia e russa forte Paflagone! Non si è accorto che gli ho preso l’oracolo sacro, quello che custodiva con più cura. DEMOSTENE Bravissimo: dammelo qua che lo legga, e

sca dei beni dei condannati (che sono elencati tra le entrate ordinarie dello stato in Vespe 659). 30 Anche grazie alle dimensioni gigantesche che gli sono state attribuite, la raffigurazione di Paflagone richiama quella di Polifemo nell’Odissea e nel Ciclope di Euripide. 31 Il vino di Pramno era celebre già in Omero (Iliade 11. 639, Odissea 10. 235). 32 Nel testo la battuta è più facile, giacché il termine daivmwn vale «destino», «sorte», oltre che «divinità».

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Gag scontata ma irresistibile sull’attrattiva del vino. Mitico indovino beota, famoso per gli oracoli sulle guerre persiane e la guerra del Peloponneso: la sua figura proverbiale è peraltro riferita da Eliano a tre diverse persone. Aristofane lo nomina anche nella Pace 1070-1072, 1119, e negli Uccelli 962, 970. 34

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intanto, sbrigati a versarmi da bere. Vediamo. Che razza di vaticini! Dammi, dammi subito la coppa. NICIA Ma che dice l’oracolo? DEMOSTENE Versamene un’altra. NICIA L’oracolo dice «versamene un’altra»?33 DEMOSTENE O Bacide!34 NICIA Che c’è? DEMOSTENE Passami la coppa. NICIA Certo che Bacide non pensava ad altro che alla coppa. DEMOSTENE Maledetto Paflagone, ecco perché stavi tanto in guardia! Avevi paura del tuo oracolo. NICIA Cioè? DEMOSTENE Qui sta scritto quale sarà la sua fine. NICIA Cioè? DEMOSTENE Cioè l’oracolo dice chiaro che il primo ad avere il governo della città sarà un mercante di stoppa. NICIA Un mercante. E poi a chi toccherà? DEMOSTENE Dopo di lui, il secondo sarà un mercante di bestiame. NICIA E fanno due mercanti:35 ma a quest’altro che cosa succederà? DEMOSTENE Terrà il potere finché non arriverà uno più infame di lui.36 A quel punto è finito, perché gli succede il pellaio Paflagone, rapace, schiamazzatore, con una voce che sembra il Cicloboro. NICIA Quindi il mercante di bestiame viene fatto fuori dal pellaio? DEMOSTENE Precisamente.

35 Il riferimento storico è, rispettivamente, a Eucrate e Lisicle, personaggi non notissimi (qui sono citati, rispettivamente, ai vv. 254 e 765) del partito popolare: Lisicle convisse con Aspasia dopo la morte di Pericle (Plutarco, Vita di Pericle 24) e morì in Caria nel 428 (Tucidide 3. 19). 36 Cfr. Introduzione, pp. 16-23.

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37 La convenzionalità del tempo drammatico si allea alla creatività prodigiosa del progetto comico nell’evocare dal nulla la persona che

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Povero me! E da dove potrà spuntare un altro mercante, uno solo? DEMOSTENE Ce n’è uno, che ha un’arte grandissima. NICIA Ti prego, dimmi chi è. DEMOSTENE Te lo devo dire? NICIA Perdio! DEMOSTENE Sarà un salsicciaio l’uomo che ce ne libera. NICIA Un salsicciaio? Che razza di mestiere! E dove lo andiamo a trovare? DEMOSTENE Bisogna cercarlo. Ma eccolo che arriva in piazza, come mandato da dio.37 Carissimo salsicciaio, vieni qui subito, tu che appari come il salvatore della città e di tutti noi! SALSICCIAIO (entrando) Che c’è? Perché mi chiamate? DEMOSTENE Vieni qua: devi sapere quanto sei fortunato e straordinariamente felice. NICIA Sì, fagli deporre il tagliere e spiegagli l’oracolo del dio. Io vado a tenere d’occhio Paflagone (esce). DEMOSTENE Metti pure per terra la tua mercanzia,38 poi venera la terra e gli dei. SALSICCIAIO Ecco fatto. Ma perché? DEMOSTENE Te beato, te ricchissimo, te che adesso sei niente e domani sarai il più grande, te condottiero della fortunata Atene! SALSICCIAIO Amico mio, perché non mi lasci lavare la mia roba e vendere le salsicce? Mi prendi in giro? DEMOSTENE Ma quali salsicce, sciocco! Guarda qua: le vedi le file della gente?39 NICIA

risponde all’indicazione dell’oracolo e dunque costituisce la soluzione del problema politico. 38 Il verso è ripetuto a Pace 886. 39 Il salsicciaio è gradualmente portato dalla sua microrealtà commerciale alla realtà della struttura politica: dapprima attraverso la classica equiparazione metateatrale tra gli spettatori («le file della

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gente») e i cittadini, poi lo sguardo si allarga al paesaggio politico di Atene, poi, guadagnando una posizione più alta e con essa uno sguardo più ampio, alle «isole», i membri cioè della lega delio-attica, e ancora più ampio è lo sguardo che abbraccia la zona d’influenza ateniese, definita dai suoi estremi, quello orientale della Caria (dove gli Ateniesi avevano condotto una spedizione in cui era morto Lisicle) e quello occidentale di Cartagine, oggetto delle ambizioni espansionistiche di Iperbolo (Cavalieri 1300-1315). Da tanta lungimiranza politica si ricade subito dopo a precipizio, con un effetto spettacoloso, nella dimensione commerciale, spostandola dallo spazio rionale alla corruzione universale («Questa è tutta roba per te, da mercanteggiare»).

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Sì. Di tutti questi tu sarai il capo, e anche della piazza, dei porti e della Pnice. Ti metterai sotto i piedi il Consiglio e gli strateghi, sbatterai in galera chi ti pare e andrai affanculo nel pritaneo.40 SALSICCIAIO Io? DEMOSTENE Proprio tu. E ancora non sai tutto. Sali sul tagliere e guarda tutte le isole in giro. SALSICCIAIO Vedo. DEMOSTENE Cosa vedi? I mercati, le navi da carico? SALSICCIAIO Sì. DEMOSTENE E allora non è vero che hai una fortuna immensa? Butta un occhio sulla Caria, il destro, e l’altro su Cartagine. SALSICCIAIO Certo una bella fortuna, storcermi gli occhi!41 DEMOSTENE Questa è tutta roba per te, da mercanteggiare. E come dice l’oracolo, diventerai il più grande di tutti. SALSICCIAIO Ma come faccio a diventarlo, io che sono salsicciaio? DEMOSTENE Proprio per questo diventerai grande, perché sei un miserabile sfrontato e cresciuto in piazza.

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40 Comica variazione del privilegio di prendere i pasti assieme ai pritani (i membri della bulè che a gruppi corrispondenti a ciascuna tribù esercitavano per un mese il potere esecutivo) e agli ambasciatori stranieri, privilegio che era concesso a cittadini illustri per straordinarie benemerenze (infra, n. 66) L’aprosdoketon non denota certo, come ritiene Sommerstein, un’effettiva depravazione del salsicciaio – la cui apparizione avviene dal nulla ignoto – ma stempera la solennità del progetto con un moto linguistico di ridimensionamento, frequente in Aristofane. 41 La replica stizzita del salsicciaio è simile a quella dell’upupa che Pistetero (Uccelli 177) invita a guardarsi intorno per constatare che è possibile costruire una città nell’aria.

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42 Piana, e proprio per questo brillante, attestazione di monde renversé. 43 Incipit tradizionale degli oracoli: cfr. Erodoto 1. 55, 3. 57, 8. 77. 44 L’antitesi tra aquila e serpente è tradizionale: cfr. Iliade 12. 200207, dove l’aquila è pure perdente come nel nostro passo, dove lo Stichwort «cuoio» la identifica subito per Cleone; Aristofane non rinuncia comunque all’identificazione esplicita, col rincaro di aggressività che caratterizza il ritmo della sua polemica politica. Il serpente è

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Ma io non mi considero degno di avere tanto potere. DEMOSTENE E perché mai non ti consideri degno? Parrebbe che avessi qualche merito sulla coscienza.42 Sei forse nato di famiglia perbene? SALSICCIAIO Neanche per idea: di famiglia miserabile. DEMOSTENE Beato te! Per la politica questo è un grande vantaggio. SALSICCIAIO Ma, amico mio, io non ho cultura: so solo leggere e scrivere, e anche male. DEMOSTENE Questo effettivamente ti danneggia, che sai leggere e scrivere, anche se male. Mettersi alla testa del popolo non è più cosa da uomo colto e perbene, ma da ignoranti e infami. Non perdere l’occasione che gli dei ti concedono coi loro vaticini! SALSICCIAIO Ma insomma che dice l’oracolo? DEMOSTENE Dice, in maniera enigmatica e raffinata: Quando43 l’aquila-pellaio ghermirà con gli artigli adunchi il balordo serpente bevitore di sangue,44 allora è perduta l’agliata 45 dei Paflagoni, e il dio darà grande gloria46 ai salumieri se non sceglieranno piuttosto di vendere salsicce. SALSICCIAIO Spiegami come c’entro io con questa roba. DEMOSTENE L’aquila-pellaio è il nostro Paflagone. SALSICCIAIO E perché ha gli artigli adunchi? SALSICCIAIO

«sciocco» (ma la parola greca, Koavlemo", è preziosa e verrà riusata a v. 221) perché e fino a che, come il salsicciaio, non si rende conto della propria potenzialità vittoriosa. Bowie ha argomentato che l’associazione del salsicciaio con il serpente marca la sua relazione con Atena e il suo protetto Erittonio, il mitico uomo-serpente re di Atene; è invece insostenibile la relazione simmetrica che Bowie stabilisce tra Paflagone e Poseidone. 45 L’aglio è spesso nel linguaggio comico metafora di aggressività e durezza. 46 Il secondo emistichio è un centone di formule omeriche.

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47 Con la stessa disinvoltura sommaria vengono identificati a v. 1074, in un altro oracolo, il cane e la trireme. 48 In un contesto culinario, omologato alla professione del nuovo politico, torna l’idea della confusione e del «pescare nel torbido» come attività politica definitoria di Cleone (cfr. in questa stessa commedia i vv. 307-310, 363, 431, 692, 840, e con la stessa metafora della pesca, 864-867; cfr. anche Acarnesi 939, Pace 654, Lisistrata 489-491). Lo scolio al v. 214 lo definisce una parodia degli Eraclidi di Euripide, cosa che dal testo della tragedia a noi noto (ma notoriamente discusso nella sua integrità) non risulta. 49 È possibile un parallelo tra questo verso e il v. 1164 delle Trachi-

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Va da sé: ha le mani adunche, e con quelle arraffa e porta via. SALSICCIAIO E il serpente che c’entra? DEMOSTENE Questa è la cosa più evidente di tutte: il serpente è lungo e anche la salsiccia è lunga,47 e sia l’uno che l’altra sono imbottiti di sangue. Dice dunque che il serpente avrà la meglio sull’aquila, se non si fa commuovere dalle chiacchiere. SALSICCIAIO L’oracolo mi lusinga: però mi chiedo come posso essere capace di governare il popolo. DEMOSTENE Questa è la cosa più banale: continua a fare quello che fai. Pasticcia 48 e insacca gli affari pubblici addolcendo il popolo con parolette adulatrici. Tutto il resto che serve per mettersi alla testa del popolo ce l’hai: voce spaventosa, nascita ignobile, modi piazzaioli – tutto quello che serve per la politica. Del resto combacia con l’oracolo di Apollo:49 perciò incoronati di fiori e fa’ una libagione in onore del Gran Balordo, 50 così da poter sconfiggere quell’uomo. SALSICCIAIO Ma chi saranno i miei alleati? I ricchi lo temono, i poveri si cacano sotto. DEMOSTENE Ti aiuteranno i cavalieri,51 mille uomini DEMOSTENE

nie di Sofocle, dove peraltro è in questione l’accordo tra due realtà, l’oracolo che prevede nel presente la liberazione di Eracle dai suoi ponoi e quello che lo vuole ucciso da un morto (il centauro Nesso), mentre nel nostro caso il parallelismo tra crhsmoiv e Puqikovn è la resa puramente formale (endiadi) di un concetto unico. La citazione dunque, se tale è, smonta burlescamente il meccanismo arbitrario per cui si fa «combaciare» l’autorità divina con l’arbitrio creativo che inventa il salsicciaio medesimo. 50 Parodia di un’invocazione a qualche divinità, come quelle che il salsicciaio farà poi ai vv. 634-635. 51 Milleduecento secondo Tucidide 2. 13, e Aristotele, Costituzione di Atene 24; secondo Neil la divergenza dipende dal fatto che Aristofane non considera gli arcieri a cavallo, che non appartengono alla medesima élite sociale.

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52 È caratteristica di Aristofane la petizione di principio che considera dalla sua parte il pubblico, arruolandolo con una falsa gerarchizzazione (gli «intelligenti») che è in realtà una captatio benevolentiae. 53 Spettacolosa irruzione del metateatro: credo peraltro, con Dover, che sia funzionalizzata all’espressione teatrale, in altri termini a demonizzare in modo esplosivo l’aspetto fisico di Cleone (quale corrispettivo della sua natura morale e politica), e non vi si debba leggere

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valorosi, i cittadini perbene, tutti gli spettatori intelligenti52 e io assieme a loro: anche il dio ci aiuterà. Non temere: non è rappresentato fedelmente; per il terrore nessun pittore di maschere ha voluto raffigurarlo com’è.53 Ma lo riconosceranno lo stesso: il pubblico è intelligente. NICIA (da dentro) Povero me, sta uscendo Paflagone! PAFLAGONE (entrando) No, per i dodici dei, non la passerete liscia, voi due che complottate da un pezzo contro il popolo:54 e che ci fa qui questa coppa di Calcide?55 È evidente che lavoravate per la secessione dei Calcidesi. Siete rovinati, siete morti, canaglie! DEMOSTENE Perché scappi?56 Resta, nobile salsicciaio, non tradire la causa! E voi, cavalieri, accorrete: adesso è il momento. Simone, Panezio,57 attaccate all’ala destra. I nostri sono vicini: combatti, resisti. Stanno arrivando, si capisce dalla polvere. Resisti, mettilo in fuga, inseguilo. Entra il Coro CORO Addosso, addosso al furfante nemico dei cavalieri,58 addosso al gabelliere, abisso e Cariddi di ogni

una reale preoccupazione di non offendere il potente, la si attribuisca ai pittori o, come vuole Sommerstein, al medesimo Aristofane. 54 Accusa ribadita da Paflagone ai vv. 257, 452, 475-479, 862: si commenta al meglio con le parole di Bdelicleone, vittima della stessa accusa per il suo tentativo di guarire il padre dalla mania dei processi: «per voi tutto è tirannia e tutto è complotto» (Vespe 488). Questo carattere topico consiglia di intendere «popolo» inteso come comunità e non come il personaggio che ne porta il nome, per quanto l’ambiguità sia ovviamente attivata. 55 Città dell’Eubea, famosa per il suo artigianato, ma in quei tempi problematica alleata di Atene (cfr. Tucidide 3. 92-93). 56 La reazione del salsicciaio è quella prevedibile in base alla sua abiezione, con la quale contrasta comicamente l’epiteto di «nobile». 57 A detta dello Scoliaste, i due ipparchi dell’anno. Sono nomi non oscuri, Simone autore di un trattato di equitazione, Panezio coinvolto nello scandalo delle Erme del 415. 58 La parola greca taraxippovstrato" richiama il folletto taravxip-

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po", che suscitava il panico nei cavalli alle corse di Olimpia (Pausania 6. 20). 59 Episodio oscuro – forse alluso con una locuzione proverbiale – in cui si trovò coinvolto il demagogo già ricordato in precedenza. 60 Attraverso la quale venivano assegnate in Atene la maggior parte delle cariche politiche. La frase ha carattere paradossale: la carica s’identifica regolarmente con la malversazione; capacità specifica di Cleone è di rubare anche prima di essere investito della carica. 61 Come era obbligo immediatamente successivo alla scadenza (la cosiddetta eu[qj una, su cui cfr. Aristotele, Costituzione di Atene 48).

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rapina, canaglia e poi canaglia: lo ridirò più volte perché lui fa tante canagliate ogni giorno. Colpisci, inseguilo, metti tutto sottosopra, detestalo come facciamo noi, stagli addosso e grida. Ma attento che non ti scappi, perché conosce tutte le vie per le quali Eucrate scampò in mezzo alla crusca.59 PAFLAGONE Voi vecchi giudici, fratelli nei tre oboli, che io nutro urlando a dritto e a torto venitemi in aiuto: i congiurati mi picchiano! CORO E fanno bene, perché tu divori il denaro pubblico prima dell’estrazione a sorte,60 e spremi come fichi i magistrati che rendono conto della carica,61 guardando chi è acerbo e chi è maturo. E guardi tra i cittadini chi è mite come un agnello, ricco, non malvagio, timido negli affari, e se trovi qualcuno che sta in ozio a bocca aperta, lo fai venire dal Chersoneso,62 gli fai una presa a tradimento, gli fai lo sgambetto, gli storci la spalla, ed è tuo.63 PAFLAGONE Anche voi mi date addosso? Ma io proprio a causa vostra vengo percosso, perché ho avanzato la proposta di innalzare in città un monumento al vostro valore.64 CORO Che razza di fanfarone e imbroglione! Hai visto come si insinua e cerca di abbindolarci, come fossimo vecchi rincitrulliti. Ma se attacca in questo modo, in

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Il Chersoneso Tracio, usuale zona di attività per i mercanti ate-

niesi. 63 Il campo metaforico è quello della lotta (infra, nn. 84, 104, vv. 841-842 e 847), ma la parola tecnica dialabwvn, che indica la presa, ha subito una minima modificazione – così piccola che cade spesso sotto i processi di corruzione testuale, anche in questo caso sospettata – per diventare diabalwvn, «con la calunnia», attività specifica di Cleone: lo stesso gioco linguistico al v. 491. Il termine ejnekolhvbasa" è da intendersi in senso osceno. 64 Si allude con tutta probabilità alla spedizione di Corinto (cfr. vv. 595-610).

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65 Secondo lo Scoliaste, la parola zwmeuvmata richiama il termine nautico uJpovzwma. 66 La controdenuncia del salsicciaio è paradossale: ciò di cui viene accusato Cleone è infatti il godimento di un privilegio assegnatogli per le sue benemerenze dopo la vittoria di Pilo (cfr. vv. 709, 766, 14041405), assieme alla proedria, il diritto di assistere agli spettacoli teatrali in prima fila (v. 705); ma si insinua con naturalezza che nel pritaneo il demagogo è un abusivo, che per di più porta via di là il cibo.

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questo modo le prenderà, e se cerca di schivare urterà contro la mia gamba. PAFLAGONE O città, o popolo, quali belve mi assalgono! DEMOSTENE E dagli con gli strilli, come quando metti a soqquadro la città. PAFLAGONE Con queste urla ti metterò subito in fuga. CORO E va bene, se la spunti nel gridare la vittoria è tua; ma se costui ti supera in sfrontatezza, il premio è nostro. PAFLAGONE Sporgo denuncia contro quest’uomo, perché esporta cime di salumi65 per le triremi dei Peloponnesii. SALSICCIAIO E io contro di lui, che entra nel Pritaneo a pancia vuota ed esce a pancia piena.66 DEMOSTENE Sì, sì, e porta fuori roba proibita: pane, carne, pesci che non sono stati serviti neanche a Pericle. PAFLAGONE Vi faccio crepare all’istante. SALSICCIAIO Urlerò tre volte più di te. PAFLAGONE Ti surclasserò con le grida. SALSICCIAIO Ti surclasserò con gli urli. PAFLAGONE Ti diffamerò, se sarai stratego. SALSICCIAIO E io ti scuoierò la schiena. PAFLAGONE Ti accerchierò a forza di fanfaronate.67 SALSICCIAIO E io ti chiuderò le vie di fuga. PAFLAGONE Guardami in faccia se hai coraggio. SALSICCIAIO Figurati: sono stato allevato in piazza anch’io. PAFLAGONE Se apri bocca ti faccio a pezzi. SALSICCIAIO Se ti azzardi a parlare ti copro di merda. PAFLAGONE E va bene: io rubo e tu no. SALSICCIAIO Ma certo che sì, per Ermes!68 E spergiuro davanti agli occhi di tutti. 67 Questa frase, e la risposta del salsicciaio, appartengono al linguaggio tecnico della tattica militare. 68 Ermes ajgorai`o", patrono del commercio e dedicatario di una statua di bronzo ricordata da Pausania 1. 15.

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69 Per la prima volta Paflagone prende con fastidio coscienza del fatto che il suo avversario lo fronteggia e alla fine lo sconfiggerà sul suo stesso terreno e con le stesse armi. L’accusa di mancato pagamento della decima dovuta «agli dei», trova riscontro più preciso nell’orazione di Demostene Contro Timocrate (24. 120), dove si distingue la decima per Atena da un’addizionale del 2% per le altre divinità.

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Sono trucchi che hai preso a prestito.69 Ti denuncio ai pritani:70 sulla tua merce non hai pagato la decima agli dei. CORO Berciatore infame schifoso, la terra è piena della tua impudenza, ne è piena l’assemblea, le cariche, i processi, i tribunali, mescolamerda che metti sottosopra lo Stato. Hai assordato la nostra Atene con le tue urla e fai la posta ai tributi dall’alto come fossero tonni. PAFLAGONE Lo so io da dove nasce questo imbroglio. SALSICCIAIO Già: tu ti intendi di imbrogli come io di salsicce. Come quando facevi a strisce pessimo cuoio di bue e lo vendevi ai contadini facendo in modo che sembrasse spesso, ma prima di averlo indossato un giorno si era allungato di due palmi.71 DEMOSTENE Anche a me ha fatto questo, riempiendomi di ridicolo coi paesani e gli amici: prima di arrivare a Pergase72 ci nuotavo nelle scarpe. CORO Fin dall’inizio hai mostrato la sfacciataggine che è il nume tutelare dei politici:73 grazie a quella spremi gli stranieri facoltosi e sei il primo: ti sta a guardare il figlio di Ippodamo,74 e si strugge. Ma adesso è comparso per la nostra gioia uno molto

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70 Questa ulteriore denuncia è arricchita da un tocco metateatrale, in quanto a teatro i pritani sedevano in prima fila. 71 La disonestà politica di Cleone viene estesa «automaticamente» al campo professionale: su questo punto non manca la testimonianza di Demostene, così faziosa che è fuori luogo notare che l’accenno ai «compaesani» è incompatibile con lo statuto servile. 72 Demo attico. 73 In effetti l’Anaideia è paradossalmente personalizzata e divinizzata nel Simposio di Senofonte 8. 35. 74 Archeptolemo, figlio del famoso architetto Ippodamo di Mileto, aristocratico fautore della pace, menzionato più oltre ai vv. 794-796. Nel 411 fu uno dei capi dei Quattrocento, e in seguito fu condannato per tradimento e giustiziato.

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75 Sarà l’argomento proprio delle Nuvole, che qui viene dimostrato non attraverso l’opposizione tra modelli di vita, ma attraverso l’esclusività del modello negativo nella vita politica.

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più schifoso, che ti supera e ti mette a tacere per furfanteria, impudenza e trucchi. Tu che sei stato allevato dove crescono gli uomini d’oggi, mostraci che un’educazione virtuosa non serve a niente.75 SALSICCIAIO Adesso state a sentire che razza di cittadino è questo qui. PAFLAGONE Vuoi lasciarmi parlare? SALSICCIAIO No, perché sono anch’io un miserabile. DEMOSTENE E se non basta, figlio di miserabili. PAFLAGONE Vuoi lasciarmi parlare? SALSICCIAIO Ma no. PAFLAGONE Ma sì. SALSICCIAIO Perdio, lotterò per essere il primo a parlare. PAFLAGONE Io scoppio. SALSICCIAIO Non ti permetto... CORO Per carità, permettigli di scoppiare. PAFLAGONE Su che cosa conti per metterti contro di me? SALSICCIAIO Sul fatto che anch’io sono bravo a parlare e intrugliare. PAFLAGONE Sì, sì, a parlare: se ti capita un affare nudo e crudo,76 sei capace di prenderlo al volo e manipolarlo per bene. Ma sai cosa? Sei come tutti: ti è andata bene un’arringhetta contro un meteco, che ti sei preparato di notte, parlando da solo per strada, bevendo acqua e scocciando gli amici a furia di recitargliela – e per questo pensi di essere bravo a parlare.77 Imbecille! 76 Continua, per definire l’attività politica, la metafora dell’arte culinaria: Paflagone è disposto a riconoscere al rivale solo il livello più grezzo di intervento. 77 È molto efficace la macchietta dell’avvocato-politico neofita che tutto dedito all’ideale professionale vive una vita austera e ossessivamente incentrata su di esso, coinvolgendo fino alla nausea le persone vicine.

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78 Nella tradizione manoscritta la battuta appartiene al salsicciaio; ma oltre alla risposta di Paflagone, rivolta a chi ha «inventato» il salsicciaio medesimo, parla contro questa attribuzione il carattere maldestro e sostanzialmente autolesionistico – dunque inadatto al personaggio vincente – di queste parole, che consentono a Paflagone una replica trionfale: lungi dal fare sacrifici o restrizioni, la sua attività politica gli permette, e anzi s’identifica con il massimo soddisfacimento del desiderio alimentare (secondo l’equivalenza simbolica che è basilare per tutto Aristofane); e se il suo interlocutore, nella caricatura che ne aveva fatto, doveva accontentarsi di vittime insignificanti (il «meteco»), lui esercita l’aggressione violenta che è l’aspetto relazionale del potere ai massimi livelli, contro «gli strateghi di Pilo». In questa espressione, come nell’attacco nominativo a Nicia condotto per ritorsione dal Salsicciaio, scricchiola l’allegoria costitutiva della commedia. 79 L’osservazione ha certamente carattere burlesco, ma mette l’accento sul fatto che il demagogo scelto a combattere Cleone ne condivide il personalismo tirannico. 80 Il verso è problematico e oscuro: fermo restando che «scombussolare i Milesi» indica probabilmente arricchirsi a loro spese, è pura

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Già, e tu cosa bevi per ridurre la città al silenzio tutto da solo? PAFLAGONE Pensi davvero di potermi contrapporre qualcuno? Ma io mi mangio tranci di tonno ben caldi, ci bevo sopra vino puro e agli strateghi di Pilo gli vado nel culo. SALSICCIAIO E io mi mangio un budello di bue e una trippa di maiale con tutto il brodo, e senza neanche lavarmi le mani strangolo i politici e sconquasso Nicia. DEMOSTENE Tutto bene, tranne un particolare: che il brodo te lo vuoi bere da solo.79 PAFLAGONE Non scombussolerai i Milesi, mangiandoti i pesci.80 SALSICCIAIO E allora mangio carne e affitto le miniere. PAFLAGONE Io irrompo in consiglio e lo metto a soqquadro. SALSICCIAIO E io ti sfondo il culo come una salsiccia. PAFLAGONE E io ti butto fuori a culo ritto. DEMOSTENE Dovrai buttar fuori anche me, allora. PAFLAGONE Ti lego alla gogna. SALSICCIAIO Ti intento una causa per vigliaccheria.81

congettura l’ipotesi o l’insinuazione che si riferisca a una corruzione di Cleone da parte dei Milesi stessi (cfr. vv. 927-940), come quella che i «pesci» in questione siano una designazione criptica degli aristocratici di Mileto. Inoltre la frase è ambigua per la sua disposizione sintattica, cioè la pertinenza della negativa: potrebbe anche significare «non è col mangiar pesce che scombussolerai i Milesi», o anche, «tu che non mangi pesce» (col senso «tu che sei uno sciocco»), «puoi pensare di scombussolare i Milesi?», con la frase trasformata in interrogazione, cioè con senso a sua volta negativo (questa è la proposta di Taillardat). La sola cosa che si può dire con certezza è che prosegue in questo scambio di battute l’alternativa pesce / carne su cui si erano focalizzati i desideri dei due contendenti ai vv. 353-357, e che avrà riscontro anche nelle diverse offerte da loro fatte a Popolo ai vv. 1177-1179. 81 L’aggressione suona evidentemente provocatoria nei confronti dell’eroe di Pilo, ma è confermata a v. 443 e, fuori dal tecnicismo giuridico, a v. 390.

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82 Forse allusione a un supplizio persiano testimoniato da Erodoto 5. 25, Plutarco, Vita di Artaserse 17.

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Ti faccio stendere sul cavalletto. Ti riduco a un sacco vuoto per ladri. PAFLAGONE Ti faccio squartare e inchiodare a terra.82 SALSICCIAIO Ti faccio a pezzetti. PAFLAGONE Ti spelo le ciglia. SALSICCIAIO Ti strappo via il gozzo. DEMOSTENE Gli metteremo un piolo in bocca come fanno i cuochi, gli tireremo fuori perbene la lingua e lo ispezioneremo per vedere se ha i vermi... al culo.83 CORO C’è roba che scotta più del fuoco, più sfacciata dei discorsi sfacciati che si fanno in città. È una bella impresa: coraggio, dagli addosso e non contentarti di poco. L’hai preso per la vita,84 e se lo ammorbidisci al primo assalto vedrai che è un vigliacco: conosco bene il suo carattere. DEMOSTENE Lo è stato per tutta la vita, è vero: eppure appropriandosi della messe altrui sembrava un uomo: e adesso le spighe rubate le ha legate coi vimini, le ha fatte seccare e le vuole vendere.85 PAFLAGONE Non mi fate paura finché c’è il consiglio, e vi siede quella faccia da scemo di Popolo. CORO Com’è svergognato! Non fa una piega, non cambia colore. Se non ti odio, possa diventare una pelle di capra nel letto di Cratino,86 o addestrarmi a cantare nelle tragedie di Morsimo.87

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83 Variazione introdotta a sorpresa, per imputare a Cleone la solita accusa di perversione sessuale. 84 Torna la metafora della lotta: per l’espressione cfr. Acarnesi 571, Nuvole 1047, Rane 469, Ecclesiazuse 260. 85 L’allusione è ancora alla vicenda di Pilo: le «spighe» del raccolto rubato sono i preziosissimi prigionieri spartani. Borthwick ha avanzato l’idea che anziché ajfauvei «fa seccare», si debba leggere il testo di R ajfanei`, col senso di discernere il grano dalla pula (gli Spartiati dagli altri prigionieri di minor rango). 86 Il poeta comico, grande bevitore e, secondo il collega Aristofane, soggetto a incontinenza senile. 87 Un tragediografo nipote di Eschilo, ma anche altrove disprezzato da Aristofane (Pace 802, Rane 151).

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Citazione di Simonide (fr. 7 Page). La tradizione manoscritta ha ΔIoulivou, che è sicuramente una corruzione indotta dall’onomastica romana; mantenendo il genitivo (Oujlivou di Bothe), il riferimento sarebbe a uno sconosciuto figlio di Ulio, 89

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O tu che sempre e comunque, in ogni circostanza, ti posi sui fiori di bustarelle, ti auguro di risputare fuori quello che hai preso, malamente come l’hai preso. Allora vorrei soltanto cantare «beviamo per il lieto evento»,88 e anche Ulio, il vecchio ispettore all’annona,89 canterebbe per la gioia peani e canzoni bacchiche. PAFLAGONE Giuro su Poseidone che non mi batterete mai in sfacciataggine, o che non possa più accostarmi ai sacrifici di Zeus!90 SALSICCIAIO E io giuro sui pugni e le coltellate che ho preso fin da ragazzo, che ti batterò invece: se no, inutilmente sarei cresciuto a tozzi di pane. PAFLAGONE A tozzi di pane come un cane? E dopo essere stato allevato da cane vorresti combattere con un cinoscefalo?91 SALSICCIAIO E da ragazzo ho appreso molti altri trucchi: per esempio a imbrogliare i cuochi dicendo «Guardate, ragazzi, l’uccellino, è primavera»: loro guardavano e io intanto rubavo la carne. DEMOSTENE Che bella pensata, bravissimo! E così ti mangiavi le ortiche92 rubandole prima dell’arrivo delle rondini. SALSICCIAIO E la facevo franca. Se poi mi vedevano, nascondevo la roba tra le chiappe e spergiuravo sugli dei. Un uomo politico se ne accorse e disse: «questo ragazzo governerà il popolo».

figlio a sua volta di Cimone; ma è più probabile, per ragioni di cronologia, che il riferimento sia allo stesso Ulio e si debba quindi accettare l’emendamento Ou[lion di Raubitschek. 90 Anche Zeus ha qui l’epiteto di Agoraios, avvertito simpateticamente dai politici cresciuti in piazza. 91 Paflagone si paragona a un animale tradizionalmente considerato temibile. 92 L’ortica giovane era un piatto prelibato.

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93 Nel testo il gioco di parole concerne Kaikiva" nome di un vento («grecale»), ma pericolosamente vicino a kakiv a («malvagità»), vicinanza che scatena la connessione burlesca con sukofantiv a " («delazione»). 94 Città ribellatasi ad Atene prima dell’inizio della guerra, e riconquistata nel 429 (cfr. Tucidide 2. 70). 95 L’improvviso passaggio dall’aggressione alla proposta di transazione, che costituisce ammissione della colpa addebitatagli dall’avver-

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L’ha imbroccata, e si capisce perché: avevi rubato e spergiuravi, nascondendo la merce nel sedere. PAFLAGONE Ma ti farò smettere io, anzi vi farò smettere: ti darò addosso con ogni forza e magnificenza, e metterò sottosopra la terra e il mare. SALSICCIAIO E io ammainerò le salsicce e mi affiderò al vento propizio, mandandoti affanculo. DEMOSTENE E io, se si apre una falla, sorveglierò la sentina. PAFLAGONE Non te la caverai, perdio, dopo avere rubato tanti talenti agli Ateniesi. DEMOSTENE Attento, molla la scotta: soffia un vento di levante (e anche di calunniante).93 SALSICCIAIO So perfettamente che hai preso dieci talenti a Potidea.94 PAFLAGONE E allora? Vuoi tacere e prenderne uno?95 DEMOSTENE Lui sì che lo prenderebbe. Molla la cima: il vento cala. PAFLAGONE Ti intento quattro processi per cento talenti ciascuno. SALSICCIAIO E io a te venti per renitenza alla leva, e più di mille per furto. PAFLAGONE Tu discendi dalla famiglia che ha contaminato la dea.96 SALSICCIAIO E tuo nonno era guardia del corpo. PAFLAGONE Di chi?97 DEMOSTENE

sario, è commentata con Demostene ancora col linguaggio marinaro, segnalando l’inattesa quiete dopo la tempesta. 96 Gli Alcmeonidi, colpevoli di aver ucciso nel tempio di Atene i loro avversari politici, sostenitori del tiranno Cilone (Erodoto 5. 71, Tucidide 1. 126). Peraltro gli Alcmeonidi rappresentano l’élite aristocratica di Atene, e la loro messa in relazione con lo spregevole salsicciaio ha un vivace senso antifrastico, il cui senso è comunicare che nessuna menzogna è inattendibile per la propaganda politica. 97 Allusione alle manovre diplomatiche che accompagnarono gli ultimi anni della tregua trentennale tra Argo e Sparta (che sarebbe scaduta nel 421).

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98 Il nome della moglie del tiranno Ippia è storpiato (nell’originale Bursivnh per Murrivnh) per evocare l’attività commerciale di Cleone. 99 Nel testo il gioco di parole è tra kovloi («membra») e kolavzw («punire»). 100 Gli Spartiati catturati a Pilo. 101 Passo abbastanza difficile e faticoso: Demostene ha rimprovera-

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Della moglie di Ippia, Cuoina.98 PAFLAGONE Ma sei un buffone! SALSICCIAIO E tu un furfante. DEMOSTENE Dagli addosso! PAFLAGONE Aiuto! I congiurati mi picchiano. DEMOSTENE Picchialo più forte sulla pancia coi tuoi budelli. Sbudellalo.99 CORO Anima eccelsa fra tutte e nobilissimo corpo, sei apparso a salvare la città e noi cittadini. Come l’hai raggirato sottilmente con le tue parole! Vorrei poterti dare tante lodi quanto è grande la mia gioia. PAFLAGONE Perdio, non mi erano sfuggiti questi intrighi: sapevo perfettamente come erano inchiodati e incollati. SALSICCIAIO E neanche a me quello che hai combinato ad Argo: col pretesto di procurarci l’alleanza degli Argivi ti incontravi privatamente con gli Spartani. DEMOSTENE Ma non usi anche tu il linguaggio dei falegnami? SALSICCIAIO E so anche a che mira tutto questo: all’officina dove si lavora per i prigionieri.100 DEMOSTENE Ora sì che va bene! Tu forgia, altro che incollare!101 SALSICCIAIO Anche altri battono il ferro laggiù, finché è caldo. Ma questo non potrai impedirmi di rivelarlo agli Ateniesi, anche se mi dai oro e argento o mi mandi ambasciate. PAFLAGONE Io? Vado subito in consiglio a denunciare

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to al salsicciaio di non essere all’altezza delle metafore di Paflagone, che ha paragonato il loro complotto a un’opera di falegnameria; ma lo approva entusiasticamente quando il salsicciaio passa dal campo del falegname a quello del fabbro – allude alle catene, e più in generale al duro trattamento inflitto ai prigionieri spartani. Trattamento che potrebbe provocare pericolose rivalse da parte dei nemici (il «laggiù» cui si allude al verso successivo dovrebbe essere Sparta).

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102 L’accusa di «medismo», cioè di intesa col nemico storico sul quale Atene e la Grecia avevano celebrato il trionfo fondante della loro identità, è un altro luogo comune della propaganda politica, sebbene per tutta la guerra del Peloponneso entrambe le parti cercassero costantemente l’appoggio, almeno finanziario, del Gran Re. La com-

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i vostri complotti, gli incontri notturni in città, la cospirazione con il re e i Persiani,102 i pasticci coi Beoti. SALSICCIAIO A quanto va il pasticcio in Beozia?103 PAFLAGONE Ti ammazzerò, per Eracle. (esce) DEMOSTENE Ora ci mostrerai il tuo giudizio e la tua intelligenza, se è vero quello che dicevi, che un tempo nascondevi la carne tra le natiche. Devi precipitarti di corsa al Consiglio, perché lui ci è già andato per calunniarci tutti con le sue urla. SALSICCIAIO Vado, ma prima voglio depositare qui le trippe e i coltelli. DEMOSTENE Tieni, ungiti il collo con questo, in modo da poter scivolare via dalle sue calunnie. SALSICCIAIO Bella pensata, da istruttore ginnico! DEMOSTENE Prendi anche questo capodaglio e inghiottilo. SALSICCIAIO Perché? DEMOSTENE Perché imbottito d’aglio104 combatterai meglio. Sbrigati. SALSICCIAIO Vado. DEMOSTENE E ricordati di mordere, calunniare, mangiargli in testa, e quando gli avrai tosato i bargigli, torna qui. CORO Addio: possa tu avere fortuna secondo la nostra intenzione, e Zeus ti protegga. Torna da noi vincitore e cinto di corone. (escono da parti diverse il Salsicciaio e Demostene). media fatta rappresentare da Aristofane l’anno precedente, gli Acarnesi, metteva in scena il ritorno di un’ambasceria ateniese in Persia, accompagnata da un finto dignitario persiano. 103 Dove, secondo quanto racconta Tucidide 4. 76, gli Ateniesi favorivano il locale partito democratico, nella speranza che l’avvicendamento al potere avrebbe spostato l’intera regione sullo scacchiere internazionale. Nel testo il gioco di parole è tra sunturouvmena (qualcosa come «pastette») e turov" («formaggio»). Il salsicciaio fraintende, o piuttosto finge furbescamente di fraintendere, prendendola alla lettera, la frusta metafora politica. 104 Di cui secondo Senofonte, Simposio 4. 9 venivano nutriti i galli da combattimento (metafora insistentemente usata nei versi successivi).

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105 Perentoria affermazione della propria causa, simile a quelle di Acarnesi 500 e 655. 106 Mostro mitologico dalle cento teste, descritto da Esiodo, Teogo-

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E voi che già per conto vostro siete esperti di poesia, prestate attenzione ai nostri anapesti. Se qualcuno degli antichi poeti comici ci avesse obbligato a sfilare in teatro recitando i suoi versi, non gli sarebbe stato semplice ottenerlo. Ma questo poeta ne è degno, perché odia quelli che odiamo anche noi, e ha il coraggio di parlare secondo giustizia,105 e marcia coraggiosamente contro Tifone106 e la bufera. Quanto a ciò che molti di voi andavano a chiedergli, meravigliandosi perché non chiedeva il coro in prima persona,107 ci ha incaricato di spiegarvelo, dicendo che tergiversava non per incapacità, ma perché riteneva che l’arte di mettere in scena una commedia sia il lavoro più difficile di tutti: molti ci hanno provato, ma a pochi si è concessa. Inoltre vi conosce da tempo, e sa che ogni anno cambiate, e abbandonate i poeti quando sono invecchiati.108 Sapeva come avete trattato Magnete109 quando ha messo i capelli bianchi, lui che tante volte aveva sconfitto i cori rivali ed emesso ogni genere di suoni ballando, svolazzando, ronzando, imitando i Lidi e tingendosi di verde. Ma

nia 821-835, qui equiparato a Cleone (implicitamente anche a Vespe 1033, ripetuto a Pace 756). 107 Aristofane aveva affidato ad altri didaskaloi le sue prime commedie. 108 Segue un’appassionata recriminazione in difesa della vecchiaia trascurata e oltraggiata, simile per certi versi ad Acarnesi 676-718, dove però è in questione uno scontro generazionale in campo politico e giudiziario: qui invece il giovane poeta difende i suoi predecessori, vittime dell’ingratitudine degli Ateniesi e della volubilità dei loro gusti letterari. La costante presa di posizione di Aristofane in difesa degli anziani è un aspetto concreto ed emotivo del suo passatismo ideologico. 109 Contemporaneo di Eschilo, undici volte vincitore alle Dionisie, è considerato da Aristotele, Poetica 1448 a 34 uno dei fondatori della commedia assieme a Chionide. Lo Scoliaste suggerisce che le bizzarre abilità attribuite al poeta riflettano cinque delle sue opere, I suonatori di cetra, Gli Uccelli, I Lidi, I moscerini, Le Rane. Soltanto I Lidi, tuttavia, sono confermati da altre fonti.

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110 Il grande avversario di Aristofane, che contro di lui usa la puntura di spillo consistente nel cambiare secondo il suo notorio etilismo il privilegio di abitare il Pritaneo (abbiamo visto un cambio analogo,

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non gli è bastato per non essere cacciato da vecchio (da giovane no) perché gli era venuto a mancare lo spirito beffardo. E si ricordava anche di Cratino,110 che un tempo precipitava per le pianure con un uragano di applausi, e strappandoli dalle radici, trascinava querce, platani e nemici. Allora nei simposi non si sentiva altro che «Dorò nei panni del delatore» oppure «artefici di inni ben strutturati».111 Tale era la sua fama, e adesso che lo vedete smarrito non avete pietà di lui: gli cadono i bischeri, le corde si allentano, le giunture non tengono. Va in giro a vagabondare come Conno,112 con una corona secca, morto di sete, lui che in considerazione delle vittorie di un tempo avrebbe meritato di bere nel Pritaneo e, senza chiacchiere, di stare accanto al sacerdote di Dioniso.113 E ancora ricordava quante vostre collere e aggressioni dovette subire Cratete,114 lui che con poca spesa vi rimandava a casa ben rimpinzati, ammannendovi i pensieri più delicati. E ancora lui bene o male era il solo a resistere.

ma ben più offensivo, a v. 167). Non credo invece che sia giusto riscontrare un intento aggressivo né nella frase «precipitava per le pianure», da una similitudine iliadica, 11. 492-495 dove il termine «pianure» dovrebbe indicare la piattezza della dizione poetica(!), né nell’accostamento a un poeta già morto, Magnete, e a un altro, Cratete, appartenente alla generazione precedente, come vogliono Sommerstein e Biles (vero è che in Pace 700-703 Aristofane data la morte del collega alla prima invasione spartana, quando almeno otto anni dopo la sua Damigiana vinceva l’agone in cui le Nuvole furono terze). 111 Ambedue le citazioni paiono tratte da una commedia intitolata Gli Eunidi (una famiglia ateniese legata al culto di Dioniso). 112 Allusione a un famoso musicista che fu maestro di Socrate. Alla sua decadenza si allude, con espressione proverbiale, a Vespe 675. 113 Che aveva a teatro il posto d’onore, al centro della prima fila. 114 Poeta che ottenne la prima delle sue tre vittorie attorno al 450, e al quale Aristotele Poetica 1449 b 8-10 attribuisce il merito di avere svincolato la commedia dal regime della pura aggressione.

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È perché temeva queste evenienze che esitava, e inoltre sosteneva che prima di mettersi al timone bisogna remare, poi fare il secondo e saper osservare i venti, e solo dopo fare il capitano per conto proprio. Per tutte queste ragioni, perché è stato saggio e non si è precipitato a dire sciocchezze, fategli un grande applauso e accompagnatelo con undici colpi di remo115 e con il fausto clamore delle feste Lenee perché esca vincitore, secondo i suoi intenti, e radioso nella fronte lucida.116 Poseidone signore dei cavalli,117 tu che ami lo strepito bronzeo, il nitrito, le triremi e la paga dei marinai, le gare dei giovani sui carri, fortunate o sfortunate, vieni nel nostro coro, dio dal tridente dorato, signore dei delfini, dio del Sunio e di Geresto,118 figlio di Crono, caro più degli altri dei a Formione119 e agli Ateniesi. Vogliamo celebrare i nostri padri perché furono uomini degni di questa terra e del peplo di Atena,120 e nelle battaglie, sia terrestri che navali, vinsero sempre e fecero onore alla città. Nessuno di loro contò mai i

115 Metafora oscura: forse indica le dieci dita delle mani (per applaudire), più la lingua. 116 Auto-ironia sulla calvizie di Aristofane. 117 Nell’Edipo a Colono di Sofocle, che chiude il secolo con la più alta lode di Atene, a Poseidone viene attribuita l’invenzione dell’allevamento equino (vv. 707-715) accanto a quella della coltivazione dell’ulivo, opera di Atene. 118 Sedi di celebri santuari, per cui cfr. anche Euripide, Ciclope 292295, dove Odisseo cerca di propiziarsi il figlio di Poseidone, Polifemo. 119 Celebre ammiraglio, vincitore della flotta corinzia a Naupatto nel 429. 120 Allusione all’offerta del peplo nelle Panatenee.

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nemici che aveva di fronte, ma avevano animo pronto a ricacciarli indietro, e se in battaglia qualcuno cadeva di schiena, si toglieva di dosso la polvere, negava di essere caduto e tornava a lottare. Prima di oggi nessuno stratego avrebbe chiesto a Cleeneto121 di essere mantenuto a spese pubbliche; adesso, se non hanno il vitto gratuito e la proedria si rifiutano di combattere. Noi invece pensiamo che per lo Stato e gli dei della città si debba combattere gratis. Non chiediamo niente, tranne una cosa: se arriva la pace e ci liberiamo dalle pene, lasciateci tenere i capelli lunghi122 e i muscoli forbiti. Atena protettrice della città, tu che governi questa terra sacra, superiore a tutte in guerra, in poesia, in forza, vieni qui e porta con te la nostra alleata di tutte le lotte e battaglie, la Vittoria compagna dei nostri cori, nemica dei nostri nemici.123 Appari dunque: più che mai e ad ogni costo, devi darci vittoria. Per quanto li conosciamo, vogliamo lodare i nostri cavalli. Lo meritano: tante cose hanno fatto con noi, tanti assalti e tante battaglie. Ma più delle imprese compiute per terra ci riempie di stupore quando saltarono sulle navi dopo essersi comprati le gavette, e alcuni

121 Padre di Cleone. La sua menzione serve a spostare il discorso alla generazione precedente, oggetto della fervida nostalgia di Aristofane: allora nessun uomo pubblico avrebbe chiesto per servire la città le ricompense ora toccate a Cleone. Che il possibile destinatario di queste non effettuate richieste sia individuato nel padre di lui è uno sberleffo volto a colpirne l’irrilevanza politica, suggerendo che essa dovrebbe riflettersi anche sul figlio. 122 Segno di appartenza aristocratica (cfr. Nuvole 14, Lisistrata 561). 123 La duplice qualificazione della Vittoria sottolinea l’abilità con cui il poeta connette l’uso militare del termine (oggetto del patriottismo universale degli Ateniesi) con l’uso teatrale (oggetto delle sue proprie aspirazioni).

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124 Nome usuale di cavallo (Nuvole 122, 1298), derivato dal marchio del pedigree. 125 Allusione a una spedizione dell’anno precedente contro Corin-

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anche aglio e cipolle. E come se fossero uomini presero i remi e gridarono: «Forza! Diamoci dentro! Che facciamo? Vuoi deciderti a remare, Sanfora?»124 Così sbarcarono a Corinto,125 e i più giovani si scavarono le lettiere con gli zoccoli e andarono in cerca di cibo: invece di erba medica mangiavano granchi,126 dando la caccia a quelli che uscivano dalla tana o dal fondo. Così parlò allora (riferisce Teoro) un granchio di Corinto: «È una tragedia: neanche sul fondo, né in terra né in mare,127 riesco a sfuggire ai cavalieri». Rientra il Salsicciaio Tu che sei il più caro e il più coraggioso degli uomini, quanta preoccupazione ci hai dato con la tua assenza! Ora che sei tornato sano e salvo, raccontaci come è andata la lotta. SALSICCIAIO Io vi dico solo che il Consiglio l’ho vinto.128 CORO Allora tutti leviamo il grido di trionfo.Tu che ci comunichi belle parole, e azioni ancora più belle hai compiuto, raccontaci tutto per bene. Farei una lunga strada per ascoltarti. Coraggio, parla: siamo tutti felici per te. SALSICCIAIO Eh sì, val la pena di stare a sentire. Gli sono subito andato dietro, e lui, appena arrivato, scagliava tuoni e fulmini contro i cavalieri e con un’aria pomposa li chiamava congiurati. Aveva modi persuato, guidata da Nicia e conclusasi con la vittoria riportata a Soligea dalla cavalleria ateniese (Tucidide 4. 44). 126 Che era forse un soprannome ingiurioso dei Corinzi. Ma il passo resta oscuro, come lo è la citazione per una volta neutra e non ingiuriosa di Teoro, personaggio dell’ambiente demagogico, schernito da Aristofane soprattutto nelle Vespe 42-51, 418, 599-600, 1236-1241 (cfr. anche Acarnesi 134-166, Nuvole 400). 127 La dizione ricorda quella dell’embargo di Pericle contro Megara ricordato in Acarnesi 533-534: in entrambi i casi è in gioco una parodia di Timocreonte da Rodi (fr. 5 Page). 128 Nel testo l’idea è espressa attraverso il nome proprio Nicobulo, usuale in Atene.

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129 Personificazioni che corrispondono alle divinità peculiari del salsicciaio, con un procedimento simile a quelle di Euripide in Rane 892-894. 130 Travestimento burlesco del buon augurio tradizionalmente rappresentato dallo starnuto. 131 Di fronte a Paflagone, che ha mantenuto la sua promessa di denunciare al Consiglio i presunti intrighi dei congiurati, il salsicciaio

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sivi, e tutto il Consiglio, ascoltandolo, si riempì di menzogne come erbacce: guardavano con sguardo truce, corrugando la fronte. Quando vidi che bevevano le sue parole e si facevano imbrogliare dai suoi trucchi, dissi a me stesso: «O Imposture, Imbrogli, Astuzie, Stupidità, Furfanterie,129 e Piazza dove fui allevato da ragazzo, datemi coraggio e lingua pronta e voce sfacciata». Mentre così meditavo, un culattone scorreggiò a destra.130 Mi prosternai; poi con una botta di chiappe ruppi i cancelli e urlai a gran voce: «Porto buone notizie, signori del Consiglio, e voglio essere il primo ad annunciarvele: da quando è scoppiata la guerra non ho mai visto le alici più a buon mercato».131 Subito spianano la fronte e mi incoronano per la buona notizia. In breve, ho rivelato loro un segreto: per comprare molte alici con un obolo, dovevano fare incetta di vasi dagli artigiani.132 Applaudono guardandomi a bocca aperta. Ma Paflagone, accortosene, e sapendo bene che cos’è che piace al Consiglio, avanzò una proposta: «Per le buone notizie che sono state annunciate, propongo di sacrificare cento buoi alla Dea».

non applica un’improbabile tattica difensiva, destinata a infrangersi contro la sospettosità che si associa alla credulità degli Ateniesi, ma attua una geniale manovra diversiva. La notizia, o piuttosto la promessa millantata di benessere economico, di cui dobbiamo valutare il peso in riferimento alle difficilissime condizioni di Atene in guerra, crea nei confronti del latore un orientamento entusiastico dell’organo politico, senza che naturalmente si pensi di vagliarne la veridicità. Non questo mira a fare l’avversario politico, che a sua volta ne risulta spiazzato, ma piuttosto ad appropriarsi in qualche modo della novità attraverso la proposta di grandiosi festeggiamenti. 132 Il salsicciaio dunque fa leva sul particolarismo egoistico dei membri della Bulè, mettendoli in condizione di privilegio rispetto alla generalità della popolazione.

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133 Sembra scimmiottare il voto fatto a Maratona, di sacrificare ad Artemide una capra per ogni Persiano ucciso; voto non mantenuto per l’eccesso delle perdite nell’esercito nemico e trasformato in un’offerta annuale di cinquecento capre (Senofonte, Anabasi 3.2.12, Plutarco, Moralia 862 a). 134 Forza di polizia.

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Il Consiglio si dichiarò d’accordo con lui, ma io, vedendomi superato nella merda, rilanciai con duecento giovenche, e feci voto per l’indomani di mille capre ad Artemide133 se le sardine arrivavano a cento per un obolo. Di nuovo il Consiglio venne verso di me, e lui, colpito, cominciò a straparlare: i pritani e gli arcieri134 lo portarono fuori mentre gli altri tumultuavano per le alici. Lui li supplicava di aspettare un momento: «State a sentire quello che dice l’araldo di Sparta. È venuto per la tregua».135 Ma tutti a una voce gridarono: «Adesso la tregua? Scemo, è perché hanno sentito che le alici sono a buon prezzo: non sappiamo che farcene della tregua: continui la guerra!»136 E gridavano ai pritani di sciogliere la seduta, e da tutte le parti scavalcavano i cancelli. Io di soppiatto avevo fatto incetta di tutto il coriandolo e le cipolle che c’erano sul mercato, e glieli diedi gratis come condimento per le alici. Non sapevano come fare, e così me li ingraziai. Tutti a lodarmi e ad applaudire: insomma con un obolo di coriandolo mi sono comprato tutto il Consiglio e sono venuto via. CORO Hai fatto tutto come un uomo fortunato, e quel furfante ha trovato uno più furfante di lui, più fornito

135 La difficoltà politica in cui si trova spinge Paflagone sul fronte inusitato della buona causa, a favore cioè della pace. 136 Profonda e amara testimonianza sulla psicologia delle folle: la buona notizia porta gli Ateniesi a un’euforia sconsiderata, e dunque a una persistente volontà di guerra. La possibile trattativa è dunque funzione non tanto del contenzioso in gioco, ma dalla situazione dei belligeranti: viene avanzata dalla parte che in quel momento si trova in difficoltà (assoluta, o come qui relativa rispetto alla presunta floridezza della controparte), ma in concreto può realizzarsi solo quando entrambe si trovano in difficoltà. Si pensi alla situazione dell’Iliade 7. 401-402, quando la proposta di pace dei Troiani viene respinta, per bocca di Diomede, per il solo fatto di essere avanzata, che rende «chiaro anche a un bambino / che ai Troiani incombe l’abisso di morte».

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di imbrogli e di astuzie. Ma bada di concludere al meglio la battaglia: già da un pezzo sai che noi siamo alleati fedeli. SALSICCIAIO Ma ecco che arriva Paflagone precipitandosi come un maroso, e mettendo tutto sottosopra come volesse inghiottirmi: che paura! PAFLAGONE (entrando) Possa crepare se non ti distruggo, purché mi resti qualcuna delle mie menzogne! SALSICCIAIO Le tue minacce mi fanno piacere, le tue vanterie mi fanno ridere: ballo e starnazzo. PAFLAGONE Non voglio più vivere, se non faccio un boccone di te e non ti elimino da questa terra. SALSICCIAIO Ah sì? E io se non ti bevo come un bicchiere d’acqua, anche a costo di scoppiare subito dopo. PAFLAGONE Ti distruggo, in nome della proedria che mi è stata assegnata per Pilo. SALSICCIAIO Ma quale proedria! Ti voglio vedere nell’ultima fila. PAFLAGONE Per il cielo, ti legherò alla gogna. SALSICCIAIO Come sei suscettibile! Via, che ti darò da mangiare. Che cosa preferiresti? Una bustarella? PAFLAGONE Ti strapperò le budella con le unghie. SALSICCIAIO E io i cibi sgraffignati al Pritaneo. PAFLAGONE Ti trascinerò davanti a Popolo, e me la pagherai. SALSICCIAIO Anch’io, e per di più ti calunnierò. PAFLAGONE Miserabile, di te non si fida, e io di lui me la rido quando voglio.137 SALSICCIAIO Già, tu pensi che Popolo ti appartenga. PAFLAGONE Perché io so come nutrirlo. SALSICCIAIO E lo alimenti male, come le nutrici: lo im-

137 Ritorna dopo v. 396 il tema del disprezzo che il demagogo riserva a colui che è solo formalmente il suo «padrone», sia nella finzione allegorica, sia nella concezione ufficiale del regime democratico.

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138 Il calcolo tendenzioso dei profitti dei demagoghi rapportati alle entrate dello stato e al magro stipendio dei giudici popolari si ripresenta più articolato in Vespe 656-663. 139 Alla prima chiamata, neutra, di Paflagone, il salsicciaio ha rincarato chiamando Popolo «padre», con attestazione di rispetto; a questo punto Paflagone rincara a sua volta ostentando intimità affettiva. 140 La cosiddetta iresione, che veniva offerta agli dei nelle feste Pyanopsia, ricoperta di castagne e noci.

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bocchi a bocconcini, mentre per conto tuo mangi il triplo.138 PAFLAGONE Perché con la mia abilità posso allargarlo e restringerlo. SALSICCIAIO Questo è capace di farlo anche il mio culo. PAFLAGONE Non crederai mica di avermi fatto fuori in Consiglio. Andiamo da Popolo. SALSICCIAIO Benissimo. Cammina, non c’è motivo di indugiare. PAFLAGONE Esci fuori, Popolo! SALSICCIAIO Sì, padre, esci! PAFLAGONE Popoluccio, esci! Vieni a vedere come mi offendono!139 POPOLO (entrando) Chi è che grida? Ve ne volete andare dalla mia porta? Mi avete rovinato tutti i rami d’ulivo.140 Chi ti fa del male, Paflagone?141 PAFLAGONE Mi picchiano a causa tua, lui e questi giovinastri!142 POPOLO Perché? PAFLAGONE Perché ti voglio bene e sono innamorato di te.143 POPOLO E tu chi sei? SALSICCIAIO Suo rivale. Da tempo ti amo e voglio farti del bene, assieme a molte altre persone oneste. Ma

141 La domanda è stata messa in relazione con quella rivolta da Afrodite a Saffo (1, 19-20 V.) 142 Paflagone addossa ora a Popolo la corresponsabilità di cui ai vv. 266-268 cercava di caricare gli stessi Cavalieri (ora chiamati sprezzantemente «giovinastri»). 143 La connotazione erotica della passione politica, intesa come devozione alla comunità e al bene pubblico, di cui sono esempi illustri Eschilo, Eumenidi 851-852 e soprattutto l’epitafio di Pericle in Tucidide 2. 43, viene risemantizzata dall’allegoria in forma burlesca, essendo riferita al vecchio e bisbetico Popolo, che come abbiamo visto ha accolto sgarbatamente i suoi «amanti». La medesima metafora, peraltro, è utilizzata dal salsicciaio per rimproverare Popolo di fare scelte sbagliate in amore.

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144 Il lucernaio è Iperbolo; la triplice insistenza sul cuoio serve invece ad amplificare la demonizzazione di Cleone. 145 Nuovo buffo corto circuito fra l’individuo Popolo e la colletti-

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non ci riuscivamo per colpa sua. Tu sei come i ragazzi coi loro innamorati: la gente perbene la rifiuti e ti concedi a lucernai, ciabattini, calzolai e cuoiai.144 PAFLAGONE Perché io gli faccio del bene. SALSICCIAIO In che modo? PAFLAGONE Per esempio, sono piombato per mare sugli strateghi di Pilo, e ho riportato gli Spartani prigionieri. SALSICCIAIO Già: anch’io, passeggiando davanti a una bottega, ho rubato una pentola che un altro aveva messo a bollire. PAFLAGONE Convoca l’assemblea,145 Popolo, se vuoi sapere chi di noi ti ama di più, e ricambiare il suo amore. SALSICCIAIO Sì, sì, decidi tu, purché non sia nella Pnice. POPOLO Non potrei fare una seduta in nessun altro posto. Andiamo nella Pnice. SALSICCIAIO Povero me, sono rovinato! Finché sta a casa, il vecchio è il più intelligente di tutti, ma quando siede su quelle pietre sta a bocca aperta come infilasse collane di fichi.146 CORO Ora per vincerlo devi mollare le scotte, armarti d’impeto e di discorsi invincibili. È un uomo astuto, capace di trarsi d’impaccio anche nelle situazioni più difficili. Va’ all’attacco con tutta la forza e lo splendore. Ma sta’ attento, e prima che ti venga addosso, issa i delfini147 e accosta.

vità che si esprime nell’Assemblea. Il salsicciaio si lamenta di ciò perché proprio sulla Pnice, cioè nella funzione assembleare, Popolo smarrisce la sua intelligenza nativa ed è disponibile a farsi imbrogliare. Questa osservazione può stupire, giacché il salsicciaio – se è destinato a impadronirsi del potere superando Paflagone in malvagità – da una tale disponibilità ha soltanto da guadagnare: la smagliatura che si apre nel discorso drammatico è piuttosto il sintomo di una progettualità politica positiva che trionferà nel finale. 146 Similitudine non chiara: tra le ipotesi è stata avanzata quella che fichi masticati fossero usati come cibo invernale per le api. 147 Masse di piombo adoperate nell’abbordaggio alle navi nemiche.

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Prego la dea Atena, patrona della città,148 che se è vero che per gli Ateniesi sono stato il cittadino più benemerito dopo Lisicle, Cinna e Salabacco,149 possa essere mantenuto nel Pritaneo senza far niente (come ora). Se non ti voglio bene e non combatterò per te da solo in prima fila, possa morire ed essere fatto a pezzetti. SALSICCIAIO E io, Popolo, se non ti amo e ti venero, possa essere fatto a pezzi e bollito; se non ti fidi di me, possa essere grattugiato assieme al formaggio e trascinato per le palle al Ceramico.150 PAFLAGONE Come potrebbe esserci un cittadino che ti ama più di me? Quando ero consigliere, ti ho procurato molte ricchezze, vessando alcuni e strangolando altri, questuando, non badando a nessun privato151 pur di farti cosa gradita. SALSICCIAIO In questo non c’è niente di speciale: sono anch’io capace di rubare il pane agli altri e di offrirtelo. Ma prima ti dimostrerò che costui non ti ama e non ti è fedele, tranne per il solo motivo che si scalda alla tua brace. A te, che hai combattuto per la patria

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148 Cfr. la preghiera all’inizio dell’assemblea in Ecclesiazuse 171172. L’espressione th`" povlew" medeouvsh/ riecheggia quella usata da Temistocle nel decreto del 480 con cui gli Ateniesi abbandonarono provvisoriamente la città al nemico (cfr. lo studio di Anderson). 149 Le ultime nominate sono due cortigiane, la prima paragonata a Cleone in Vespe 1032 (ripetuto a Pace 755), la seconda all’altro demagogo Cleofonte in Tesmoforiazuse 805. Vengono chiamate in causa con una sorta di lapsus o battuta autolesionistica, forma frequente del comico in Aristofane, subito dopo rideterminata dalla confessione che il privilegio del Pritaneo è del tutto immeritato. 150 Il quartiere dei vasai, dove si trovava il cimitero pubblico di Atene. Secondo lo Scoliaste, peraltro aveva lo stesso nome anche il quartiere delle prostitute. 151 Anche qui si tocca con mano il paradosso della finzione allegorica: quello che Paflagone afferma è che nessun interesse «privato» deve prevalere su quello pubblico, come scordando che qui Popolo stesso è un privato: comunque sia l’affermazione gli viene ritorta contro insinuando che l’interesse pubblico viene perseguito dal demagogo solo in quanto consente il suo, privatissimo.

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contro i Persiani a Maratona e con la tua vittoria ci hai permesso di insuperbire, a te non ci pensa, che stai seduto scomodo su queste pietre. Io invece ho cucito un cuscino e te lo porgo. Siediti comodamente, non consumare le chiappe di Salamina. POPOLO Chi sei tu? Forse un discendente di Armodio?152 La tua azione è davvero nobile e democratica. PAFLAGONE Quali meschine lusinghe adoperi per farti credere da lui! SALSICCIAIO Le tue erano anche più meschine. PAFLAGONE Voglio scommettere la testa se c’è qualcuno che ha lottato più di me per il popolo e ti ama più di me. SALSICCIAIO Tu lo ami? Ma se da sette anni lo vedi abitare in queste tane, botti, torrette,153 e non hai compassione di lui, ma continui a tenerlo rinchiuso. Quando Archeptolemo154 portava la pace, l’hai fatta svanire, e butti fuori dalla città a calci in culo le ambascerie che trattano la tregua. PAFLAGONE Perché voglio che domini su tutta la Grecia. Basta che tenga duro, e un giorno farà il giudice in

152 Uno dei tirannicidi, uccisori del figlio di Pisistrato, Ipparco: non credo abbia particolare rilievo il fatto che con la famiglia di Armodio lo stesso Cleone vantava legami di parentela per via femminile. Ciò che invece conta è il tema, che verrà ripreso poco dopo a proposito di Temistocle, della grottesca sproporzione istituita fra l’azione politica e il piccolo benessere quotidiano di Popolo, la cui benevolenza si compra davvero con poco: è l’osservazione che fa Paflagone, ma che rispecchia perfettamente il suo stesso modus operandi. 153 Si allude agli inconvenienti dell’inurbamento forzoso provocato dalle periodiche invasioni del contado ateniese da parte degli Spartani (cfr. Tucidide 2. 17) Il passaggio alla collettività allegorizzata è in questo caso particolarmente brusco ed efficace, giacché il funzionamento «normale» della casa di Popolo è stato in precedenza illustrato dai servi. 154 Per questo personaggio cfr. supra, n. 74. Per l’offerta di pace spartana di cui a detta di Aristofane egli sarebbe stato il mediatore cfr. Pace 665-667, Tucidide 4. 15, 17-22, 41.

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Arcadia155 con una paga di cinque oboli – è scritto nei vaticini. E comunque lo manterrò e mi prenderò cura di lui, e troverò bene o male di che fargli avere i tre oboli. SALSICCIAIO Tu non ti preoccupi affatto che lui governi l’Arcadia, ma di rubare e incassare bustarelle tu stesso dalle città, e che Popolo a causa della guerra e della nebbia dei tuoi imbrogli non ti veda, e per necessità, per bisogno, stia a bocca aperta, a dipendere da te se vuole avere il suo salario. Se mai un giorno potrà tornare in campagna e vivere in pace, e riprendere coraggio mangiando grano tenero e incontrando di nuovo la sansa d’oliva, capirà di quali beni lo hai defraudato in cambio del salario, e ti assalterà rustico e aspro, votando contro di te.156 Tu lo sai bene questo, e lo imbrogli con i tuoi sogni. PAFLAGONE Non è terribile che tu mi calunni in questo modo davanti a Popolo e agli Ateniesi, me che sono benemerito della città, perdio, molto più di Temistocle? SALSICCIAIO «O città d’Argo, senti che cosa dice costui?»157 Tu ti paragoni a Temistocle, che trovò la città scarsa e la rese piena,158 che le aggiunse a pranzo il Pireo e le imbandì nuovi pesci senza toglierle quelli di

155 L’estensione dell’imperialismo ateniese sul Peloponneso è una fantasia del tutto irrealistica. 156 Tucidide 5. 16 dà del comportamento di Cleone una diagnosi assai simile, sostenendo che in tempo di pace le sue «calunnie» sarebbero state meno credibili. Ma tutta aristofanesca è la cordialità antropomorfica con cui è rappresentato il ritorno dei contadini in campagna, con cui si può confrontare Pace 557-559: «voglio salutare le viti, e abbracciare dopo tanto tempo gli alberi di fico che ho piantato quando ero giovane». 157 Citazione dal Telefo di Euripide (fr. 713 Kn.), ripresa a Pluto 601. 158 Sommerstein ha avanzato l’idea, a mio parere riduttiva e improbabile, che l’allusione sia all’opera svolta da Temistocle come magistrato alle acque (Plutarco, Vita di Temistocle 31).

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prima? Tu invece, che ti paragoni a Temistocle, hai cercato di immiserire gli Ateniesi elevando mura159 e recitando oracoli. E lui andò in esilio,160 tu invece ti pulisci le dita sui panini al latte. PAFLAGONE Non è terribile che debba sentirmi dire queste cose perché ti amo? POPOLO Smettila di insolentirlo: è un po’ di tempo che lavoravi nell’ombra.161 SALSICCIAIO È uno scellerato, Popolo, e ne ha fatto di tutti i colori: mentre tu te ne stai a bocca aperta, toglie le parti migliori ai rendiconti e se le mangia, e pesca a due mani nel tesoro pubblico. PAFLAGONE Non la passerai liscio: ti colgo in furto flagrante di trentamila dramme. SALSICCIAIO Perché scopi il mare, tu che sei il più infame verso il popolo ateniese? E io dimostrerò che hai preso da Mitilene una bustarella di più di quaranta mine.162 CORO O tu che sei apparso a tutti come il maggior benefattore degli uomini, ti invidio la tua eloquenza: se attacchi così sarai il più grande dei Greci; governerai da solo lo Stato e dominerai gli alleati col tridente – e mettendo tutto sottosopra guadagnerai molte ricchezze.

159 La frase è oscura: anche se si deve intendere in senso metaforico è bizzarra la contrapposizione implicita al vanto massimo di Temistocle, la costruzione delle Grandi Mura dalla città al porto del Pireo. 160 Attorno al 471, il vincitore di Salamina fu vittima dell’ostracismo (l’istituzione con cui il voto popolare poteva mandare in esilio, senza motivazione, un uomo politico). 161 Primo segnale del mutamento di Popolo che porta Paflagone a cadere in disgrazia: lo spettatore è chiamato a collegarlo con l’accesso impulsivo e sproporzionato di simpatia verso il nuovo arrivato che abbiamo visto ai vv. 786-787. 162 Un’accusa paradossale, in quanto Cleone era stato l’implacabile accusatore e carnefice di Mitilene dopo la rivolta della città, e un’accusa uguale a quella che lo stesso Cleone insinua in Tucidide 3. 38.

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163 Nello spazio favorevole che gli si è aperto, il salsicciaio è maturo per attaccare lo zoccolo duro dei meriti di Cleone – l’impresa di Pilo, ossessivamente rivendicata – non solo con l’altrettanto ossessivo disconoscimento di paternità (il ritornello del merito rubato a Demostene), contestazione che presuppone l’accettazione integrale del mito, ma insinuando conseguenze politiche sgradite e inquietanti del mito stesso: fuor di metafora, l’idea che l’aureola del vincitore consenta a Cleone il consolidamento di un potere personale che, avvalendosi di

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Non mollarlo, dal momento che ti ha concesso la presa: con i fianchi che hai, ne verrai a capo. PAFLAGONE Ma no, brava gente, non è ancora finita. Ho compiuto un’altra impresa da tappare la bocca a tutti i miei nemici, finché restano gli scudi presi a Pilo. SALSICCIAIO Fermo un attimo, sugli scudi: è proprio questa la presa che mi hai dato.163 Se è vero che ami Popolo, non avresti dovuto dedicare gli scudi, a bella posta, con tutte le cinghie. È un espediente, Popolo, perché al momento che tu volessi punirlo non possa farlo. Guarda che drappello ha intorno di cuoiai arroganti, e attorno a questi i mercanti di miele e di formaggio. Tutti d’accordo, e se tu mugugni e mediti l’ostracismo correrebbero di notte a prendere gli scudi e a bloccare i rifornimenti di grano. POPOLO Ahimè, hanno le cinghie! Quanto tempo era che mi imbrogliavi coi tuoi trucchi? PAFLAGONE Benedett’uomo, non dar retta al primo che parla, non pensare di poter trovare un amico migliore di me, che da solo ho sventato le congiure, e non mi sfugge nessuna trama in città: subito do l’allarme. SALSICCIAIO Sì, fai come i pescatori di anguille: quando lo stagno è quieto non prendono niente, ma se rimescolano il fango, allora sì che pescano!164 Anche tu un partito armato, consente di sfuggire al controllo popolare, di cui la garanzia suprema è rappresentatata dall’ostracismo. Come sempre, Aristofane espone la sua idea in forme di nitida eloquenza visiva, che in questo caso coincide con il referente storico: le armi prese agli Spartani, testimonianza e simbolo del trionfo che ancora Pausania (1. 15) poteva ammirare nella Pecile, potrebbero essere usate contro Popolo (cioè contro il popolo), perché, avendo ancora l’imbracciatura, non sono state neutralizzate nella loro funzionalità: una precauzione che invece gli Spartani badavano a prendere per prevenire la rivolta degli Iloti (Crizia, fr. 37 DK). 164 Di quest’immagine, la cui felicità rappresentativa è ben espressa dalla sua utilizzazione proverbiale nella frase «pescare nel torbido», Aristofane si compiaceva al punto da deplorare nelle Nuvole 559 che gli fosse stata plagiata e usata contro Iperbolo.

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165 Personaggio sconosciuto, il cui nome è incerto nella tradizione manoscritta: la variante Gripo è più attendibile dal punto di vista onomastico. Un caso di perdita dei diritti civili in conseguenza del comportamento sessuale è discusso da Eschine nella sua orazione Contro Timarco. Al contrario, l’idea che la depravazione sia il viatico ideale alla vita politica, che viene affacciata subito dopo dal salsicciaio vedendo nei depravati dei possibili rivali di Cleone, che a questo titolo egli ostacola, verrà poi ripresa a proposito del salsicciaio medesimo a v. 1242, e ufficialmente sancita dal Discorso Ingiusto a Nuvole 1093-1094. 166 Così grottescamente si capovolge l’indignazione per la pretesa di Cleone di essere più benemerito di Temistocle (supra, vv. 813-819).

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peschi solo se metti sottosopra la città. Dimmi una cosa: tu che smerci tanto cuoio, a lui che dici di amare tanto gliel’hai mai dato per le scarpe? POPOLO Perdio, no. SALSICCIAIO Capisci che razza di uomo è? Io invece ti ho comprato questo paio di scarpe, e te lo regalo. POPOLO Fra quanti ne conosco, ti giudico l’uomo migliore, il più devoto allo Stato e ai miei piedi. PAFLAGONE Ma non è assurdo che un paio di scarpe abbia il potere di farti scordare il bene che hai ricevuto da me? Sono stato io a tenere a bada i depravati, cancellando Gripo165 dalla lista dei cittadini. SALSICCIAIO Ma non è assurdo che tu ispezioni i culi altrui e «tenga a bada i depravati»? Non sarà che lo fai per invidia, perché non possano mettersi in politica? E Popolo lo vedi senza tunica, alla sua età, e non ti sei curato di fargli avere una tunica con le maniche, in pieno inverno! Ma io gliela regalo. POPOLO Questa poi non l’ha pensata neppure Temistocle. È stata una pensata geniale, il porto del Pireo, ma non vale da meno, a mio parere, questa della tunica.166 PAFLAGONE Povero me, con quali scimmiottature mi surclassi! SALSICCIAIO Faccio come chi ha bevuto e deve andare al cesso: prendo a prestito le tue arti come fossero pantofole. PAFLAGONE Ma non mi supererai in ruffianeria: gli metto sopra questo mantello, e tu vaffanculo.167 167 Splendida gag: Paflagone esasperato cerca di riguadagnare il terreno perduto, con l’effetto di strafare, e di ottenere il risultato che il suo beneficio venga male accolto, alla stregua di un’aggressione. Sommerstein sottolinea che alla puzza di cuoio di Cleone Popolo dovrebbe essere abituato: ma proprio in questo, cioè nella subitanea rivelazione che capovolge i comportamenti passati, sta lo humour del passo e soprattutto la sua valenza drammaturgica. La reazione di Popolo ha qualcosa in comune con quella di Filocleone nelle Vespe 1133-1134, quando il figlio gli vuol fare indossare una veste di lusso, che lo soffoca.

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168 Si noti la finezza con la quale il salsicciaio insinua una generalizzazione del comportamento di Paflagone che Popolo non può non accettare in quanto è stato lui stesso il primo ad avanzarla, e ripetutamente (vv. 822, 859): è dunque un’adulazione con la pura apparenza di un ragionamento. 169 Del quale vengono qui sottolineate le proprietà lassative, ma altrove (Uccelli 534, 1582-1586; Ecclesiazuse 1171) è celebrato come leccornia gastronomica: quest’ultimo dato fa pensare come una favorevole evenienza economica, a differenza del basso prezzo delle sardine, possa essere volta in malam partem senza che Popolo abbia niente da eccepire, con l’effetto di accentuarne ancora una volta volubilità e credulità. 170 Il testo ha il toponimo burlesco di Kovpreio", che peraltro trova riscontro nel nome di un demo presso Eleusi. 171 Traduco con un’espressione popolare italiana, canonizzata in un celebre racconto di Verga, il termine Pyrrhandros, nome parlante o soprannome: se non si riferisce allo stesso Cleone, come è stato congetturato, l’allusione resta oscura.

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Vaffanculo tu! Puzzi orrendamente di cuoio. L’ha fatto apposta a mettertela addosso, per soffocarti; è un po’ che complotta contro di te.168 Hai presente i gambi di silfio,169 quando sono andati a buon mercato? POPOLO Ho presente. SALSICCIAIO L’ha fatto apposta a farli scendere di prezzo, perché i giudici li comprassero e se li mangiassero, e poi in assemblea si asfissiassero l’uno con l’altro con le scorregge. POPOLO Già, me l’aveva detto un tale di Merdonia.170 SALSICCIAIO Non è forse vero che eravate tutti rossi, a forza di scorregge? POPOLO Non poteva essere che una trovata del Rosso Malpelo.171 PAFLAGONE Con quali buffonerie mi travolgi, canaglia! SALSICCIAIO Me l’ha ordinato la dea, di sopravanzarti in fanfaronate. PAFLAGONE Ma non ci riuscirai. Prometto di fornirti, Popolo, un piatto di salario senza che tu debba far niente.172 SALSICCIAIO E io ti offro un unguento per massaggiare le vesciche sugli stinchi. PAFLAGONE E io ti estirperò la canizie e ti farò tornare giovane. POPOLO

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172 Dopo l’innalzamento del salario di giudici popolari, Paflagone gioca ancora al rialzo, azzerando la prestazione corrispettiva al salario stesso, ben oltre la promessa di esigere la discussione di una sola causa per seduta (supra, n. 17). La stravaganza della promessa si coniuga con la sua collocazione in un vago futuro, a confronto del quale è evidentemente vincente – già si è rivelata tale – la strategia dei piccoli benefici immediati messa in atto dal salsicciaio. Ancor più sfuma nel vago, e assume i tratti della sbruffoneria demagogica, la promessa di ringiovanire Popolo: che essa sia destinata a diventare realtà non per opera di Paflagone, ma come conseguenza del suo defenestramento, è un tema che illustra efficacemente la quintessenza dell’odio politico.

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Prendi una coda di lepre per asciugarti gli

occhi. Soffiati il naso e pulisciti le dita sul mio capo. No, sul mio. PAFLAGONE Sul mio. (al salsicciaio) Ti farò nominare trierarca, a tue spese, di una nave vecchia, che a rattopparla non finirai mai di spendere – e con le vele marce.173 SALSICCIAIO Come bolle e ribolle! Bisogna togliere un po’ di tizzoni e schiumare le sue minacce. PAFLAGONE Me la pagherai: ti farò iscrivere nella classe dei ricchi e sarai oberato di tasse.174 SALSICCIAIO Quanto a me non ti minaccio, ma ti auguro solamente, che mentre la tua padella di calamari sta a bollire, e tu stai per proporre una mozione su Mileto e guadagnarci un talento, se ti va bene – ti precipiti sui calamari per arrivare in tempo all’assemblea. Ma prima di mangiare arriva il tizio, e tu nella furia di prenderti il talento ti strangoli nel mangiare.175 PAFLAGONE

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173 L’allusione è a una «liturgia», termine con cui si indicava l’imposizione ai cittadini facoltosi di un servizio pubblico: in questo caso la responsabilità e il mantenimento di una nave di proprietà dello Stato. La scelta del finanziatore era affidata agli strateghi, ruolo ricoperto da Cleone in quello stesso anno, e non meraviglia che egli lo millanti come strumento di vendetta privata. 174 Imposizioni straordinarie destinate a coprire le spese di guerra, come quella di cui riferisce Tucidide 3. 19. 175 La vivacissima scenetta, simile a quella di Acarnesi 1156-1161, mette in contrasto fra loro gli appetiti di Paflagone: la soddisfazione alimentare immediata e la riscossione del prezzo della corruzione. È stato ipotizzato che ci si riferisca alla discussione sul raddoppio del tributo pagato da Mileto, che fu deciso nel 424.

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176 Il fatto che queste parole siano in prosa le colloca nell’ufficialità politico-religiosa (corrispondono, a quanto dice Polluce 8. 122, al giuramento dei giudici popolari nel tribunale di Ardetto) e conferisce loro una solennità canonica. 177 È indice della posizione perdente di Paflagone il fatto che per scongiurare la sua destituzione prospetti come minaccia a Popolo quella che ci è stata indicata come la norma regolativa dell’avvicendamento al potere. 178 In greco il termine per «grasso», dhmov", si differenzia solo per

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«Ma bene, per Zeus, per Apollo, per Demetra!»176 POPOLO Pare anche a me che in tutto e per tutto si dimostri un buon cittadino, come nessun altro si è avuto da molto tempo, verso i poveracci. E tu, Paflagone, con tutte le tue profferte d’amore mi hai scocciato. Restituiscimi l’anello: non sei più il mio amministratore. PAFLAGONE Eccotelo: ma bada bene che se mi togli l’amministrazione, salterà fuori qualcuno più furfante di me.177 POPOLO Ma questo non è il mio anello. Il sigillo è diverso, o sbaglio? SALSICCIAIO Fammi vedere: qual era il tuo sigillo? POPOLO Un involtino di grasso,178 ben cotto. SALSICCIAIO Non è quello. POPOLO Non è quello? E che cos’è? SALSICCIAIO Un gabbiano a bocca aperta, che arringa la massa da uno scoglio.179 POPOLO Povero me! SALSICCIAIO Che c’è? POPOLO Via di qui: non portava il mio sigillo, ma quello di Cleonimo!180 Tu prendi questo: ti nomino mio amministratore. PAFLAGONE No, no, padrone, ti supplico: prima devi ascoltare i miei oracoli. SALSICCIAIO E anche i miei. CORO

l’accento da dh`mo", «popolo»: un brillante gioco di parole al riguardo è in Vespe 41, dove l’azione di «pesare il grasso», attribuita sempre a Cleone in sogno, viene interpretata come «fare a pezzi il popolo». 179 Il gabbiano è connotato come animale avido, e lo stesso Cleone è designato in questo modo a Nuvole 591, contestualmente a un’accusa di corruzione e di furto. 180 Politico spesso attaccato da Aristofane, soprattutto con l’accusa ingiuriosa di aver abbandonato lo scudo in battaglia (infra, n. 263). Ai vv. 1290-1299 figura come inesauribile ghiottone.

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181 L’ambizioso politicante descritto da Solone a 33 W. 5-7 avrebbe accettato di essere «scuoiato come un otre» dopo essere stato, anche per un giorno solo, signore di Atene.

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Se ascolti lui, diventerai come un otre

sgonfiato.181 Se ascolti lui, ti ridurrai ad essere circonciso fino all’inguine.182 PAFLAGONE I miei dicono che tu regnerai su tutta la terra, incoronato di rose. SALSICCIAIO I miei dicono che tu indosserai porpora e corona, e sopra una quadriga d’oro... perseguirai Smicita183 e il suo patrono. POPOLO Valli a prendere dunque, e faglieli sentire. SALSICCIAIO Vado. POPOLO E anche tu va’ a prendere i tuoi. PAFLAGONE Subito. (esce) SALSICCIAIO Subito: nessuna obiezione. (esce) CORO Sarà il giorno più bello184 per gli indigeni e per i forestieri, se crepa Cleone.185 Eppure ho sentito dire dai vecchi più attaccabrighe, alle bancarelle delle cause, che se lui non avesse preso il potere nella città mancherebbero due arnesi utilissimi, mestolo e pestello.186 C’è qualcosa che mi meraviglia nella sua educazione (si fa per dire):187 i suoi compagni di scuola dicevano

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182 Che a Pluto 267 viene indicato come uno dei fattori che costituiscono un disgustoso degrado fisico. 183 L’immagine trionfale di Demo, l’abbigliamento e l’apparato lussuoso che gli viene promesso, vengono a sorpresa degradati in riferimento alla mania giudiziaria che Aristofane considera endemica negli Ateniesi e tramite l’uso tecnico del verbo diwvkw («inseguire», ma anche «perseguire»: lo stesso gioco è a Vespe 1207). Oggetto dell’aggressione giudiziaria è, a detta dello Scoliaste, un tal Smicito, il cui nome è ingiuriosamente femminilizzato per alludere a un vizio sessuale: per questo si insinua che, come le donne, ha bisogno di un patrono (kyrios). 184 A detta dello Scoliaste, citazione euripidea. 185 Per l’unica volta qui designato col suo vero nome. 186 Il primo per rimestare la politica cittadina, il secondo per tormentare il popolo con la guerra (la metafora sarà assai più insistita nella Pace, dove Cleone e Brasida sono indicati, sui due fronti del conflitto, come i «pestelli» di cui il dio della guerra si serve contro le comunità greche). 187 Il testo ha il conio burlesco uJomousiva dove il termine che si richiama alle Muse è preceduto da u{", «porco».

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188 Nel testo la scuola non è di matematica ma di musica, e l’allievo riesce a imparare solo l’accordo dorico (gli altri erano lo ionico, il frigio, il lidio) perché la parola è connessa a dw`ron («dono», ma specificamente «bustarella»). 189 Questo personaggio è un’invenzione estemporanea. Il nome qui usato per affinità di suono con Bacide, è quello di una specie di pesci.

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che sapeva solo le tangenti, e le altre funzioni non c’era verso di impararle, e il maestro arrabbiato lo buttò fuori dicendo che il ragazzo non riusciva a imparare altro che le tangenti.188 Rientrano Paflagone e il Salsicciaio PAFLAGONE SALSICCIAIO

Eccoli qui, e non sono tutti. Me la faccio sotto dalla fatica, e non sono

tutti. Che roba è? Oracoli. POPOLO Tutti? PAFLAGONE Ti meravigli? Ne ho ancora una cassa piena. SALSICCIAIO E io un solaio e due magazzini. POPOLO Ma insomma, di chi sono questi oracoli? PAFLAGONE I miei di Bacide. POPOLO E i tuoi? SALSICCIAIO I miei di Glanide, il fratello maggiore di Bacide.189 POPOLO E di che parlano? PAFLAGONE Di Atene, di Pilo, di me, di te, di tutto quanto. POPOLO E i tuoi? SALSICCIAIO Di Atene e della purea, di Sparta e degli sgombri freschi, di quelli che frodano sulle misure della farina al mercato, di te, di me.190 E lui si morda le palle. POPOLO

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190 La lista degli argomenti essenziali, con la sua vertiginosa alternativa tra politica internazionale e vita quotidiana, corrisponde alla duplice veste di Popolo come persona individuale ed entità allegorica, ma ancora più mette in luce la drammaticità con cui si presenta il problema della sopravvivenza. Da questo punto di vista, la correzione che il salsicciaio apporta all’analogo panorama descritto dal suo rivale è ancora una volta vincente.

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191 Popolo allude vanitosamente a un oracolo (citato dallo Scoliasta) che suonava: «Felice te, città di Atena predatrice, / che dopo avere tanto visto, tanto sofferto, tanto patito / diventerai per sempre aquila tra le nuvole». L’espressione torna a Uccelli 978 e nel fr. 241 K.-A. (dai Banchettanti). 192 Mitico re ateniese. 193 L’espressione è ripresa dall’inno omerico ad Apollo, v. 443. 194 L’idea che il politico sia il «cane da guardia» del popolo, che ritroviamo in un’orazione spuria di Demostene (25.40), ispirerà la splendida scena delle Vespe in cui si istruisce un processo casalingo contro un cane che ha rubato del formaggio «siciliano» (si adombra il caso del generale Lachete, accusato di malversazioni in Sicilia), e l’accusa è sostenuta da un altro cane, in cui si riconosce Cleone. L’epiteto «dai denti aguzzi» è omerico (Iliade 10. 360, 13. 198), e Aristofane lo utilizzerà nuovamente nella descrizione mostruosa di Cleone a Vespe 1031 (ripetuto a Pace 754).

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Su leggetemeli, soprattutto quello su di me che mi piace tanto, che diventerò «aquila tra le nuvole».191 PAFLAGONE Ascolta dunque e presta attenzione: Discendente di Eretteo,192 bada al percorso dei vaticini che Apollo emise dal santuario attraverso i tripodi illustri:193 ti ordina di salvaguardare il sacro cane dai denti aguzzi,194 che in tua difesa sta a bocca aperta ed abbaia terribilmente e ti procura il salario. Morrà se tu non lo fai,195 perché molti corvi gracchiano odio nei suoi confronti. POPOLO Per Demetra, non capisco mica cosa vuol dire. Che ha a che fare Eretteo col cane e coi corvi? PAFLAGONE Il cane sono io, che abbaio in tua difesa, e Febo ti dice di salvaguardare il cane. SALSICCIAIO L’oracolo non dice questo: questo cane rosicchia oracoli neanche mordesse le porte. Lo so io a proposito del cane come stanno le cose. POPOLO E E allora parla: io intanto prendo una pietra, non vorrei che l’oracolo mordesse.196 POPOLO

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Discendente di Eretteo, bada a Cerbero, cane schiavista, che quando mangi scodinzola, pronto a rubarti

195 Attraverso le entrate garantite dalla politica aggressiva del demagogo in politica internazionale e contro gli avversari interni. dra`/" è correzione di Bothe su dra` dei mss. che taluni editori mantengono, col significato che Paflagone è attendibile perché i suoi interessi vitali coincidono e dunque dipendono da quelli del popolo: ma il testo esprime il presunto altruismo, quasi sacrificale, del politico, e soprattutto la connotazione patetica dell’ultimo verso, dove Paflagone si presenta bisognoso di aiuto contro i nemici che lo insidiano, comporta la richiesta immediata d’aiuto al suo padrone. 196 Gag buffonesca, per cui da oggetto del discorso il cane si materializza a possibile pericolo; ma anche indizio della malevolenza crescente in Popolo verso Paflagone, che nel cane si è esplicitamente riconosciuto.

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197 Il ribaltamento dell’immagine agiografica del cane fedele è abbastanza scontato, e si riprodurrà infatti nella scena sopra citata delle Vespe, ma felicissima è anche qui la sintesi tra politico e quotidiano che si sintetizza nell’espressione «lecca i piatti e le isole» (con questo termine si definiscono, qui e a v. 1319, ma anche a Pace 760, gli alleati vessati dalla politica dei demagoghi, di cui Aristofane prendeva le difese già qualche anno prima nei Babilonesi). Sorprendente è invece la dura espressione «cane schiavista» (ajndrapodisthv") che forse allude alla feroce proposta di Cleone di ridurre in schiavitù donne e bambini della ribelle Mitilene (Tucidide 3. 36). Quanto allo slittamento per cui Cleone viene chiamato Cerbero, il cane infernale, Aristofane ricorrerà alla stessa immagine nella Pace 313, quando l’odiato nemico è effettivamente morto. 198 Oracolo canonico che Erodoto 5. 92 racconta riferito alla nascita di Cipselo, tiranno di Corinto; più vicino e pertinente è forse il riferimento all’analogo sogno della madre di Pericle nell’imminenza della sua nascita (Erodoto 6. 131). 199 S. Desfray ha rintracciato in questo passo echi omerici (Iliade 17. 133, Odissea 20. 15).

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il cibo appena ti volti da un’altra parte, e girando furtivo proprio come un cane, di notte, per la cucina si lecca tutti i piatti e tutte quante le isole.197 POPOLO Questo è molto meglio: bravo Glanide! PAFLAGONE Stammi a sentire, brav’uomo, e giudicherai dopo: Una donna partorirà nella sacra Atene un leone198 che lotterà per Popolo contro molte zanzare a piè fermo, come difendesse i suoi cuccioli.199 Tu custodiscilo edificando mura di legno200 e torri di ferro. Capisci cosa vuol dire? POPOLO Neanche per idea. PAFLAGONE Il dio ti dice chiaramente di salvaguardarmi, giacché sono io che per te sto al posto del leone. POPOLO Anche il posto di Leone occupi senza dirmi niente?201 SALSICCIAIO C’è un particolare che l’oracolo, a bella posta, non spiega: che cosa è il muro di legno e di ferro in cui devi custodirlo. POPOLO E cioè?

200 Allusione all’oracolo di Delfi, riferito da Erodoto 7. 141 che, dopo avere descritto a fosche tinte l’invasione persiana e la distruzione dell’Attica, vaticinava che solo un muro di legno sarebbe stato inviolato: fu Temistocle a far prevalere l’opinione che con quell’espressione ci si riferisse alla flotta come unica possibilità di salvezza e di riscatto, e a organizzare conseguentemente l’evacuazione di Atene. Ancora una volta Paflagone si paragona implicitamente all’eroe nazionale, ma irresistibile è la dissacrazione del salsicciaio che interpreta «muro di legno» come gogna, e conseguentemente «custodire» non come rispettosa protezione, ma come detenzione coatta. 201 Trattando «leone» come possibile nome proprio, e dando al termine «posto» la connotazione di potere indebito cerco di rendere il gioco del testo, dove il nome proprio è quello di Antileone, che Popolo estrae dall’affermazione di Paflagone di «stare al posto» (ajntiv) del leone: questo Antileone era un tiranno calcidese, menzionato da Aristotele in Politica 1316 a 29-32.

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202 Da qui in poi sulla scia degli oracoli i personaggi, anche Popolo, parlano spesso in esametri. 203 All’ennesima vanteria circa l’impresa di Pilo si risponde con l’ennesimo ridimensionamento, che comporta ancora lo spostamento del punto di vista. Da un lato si riprende l’irrisione che secondo Tucidide 4. 28 accompagnò la decisione di Cleone di assumere personalmente il comando delle operazioni a Pilo; il fatto che poi essa sia andata, contro ogni ragionevolezza, a buon fine viene sottratto attraverso l’insinuazione dell’ubriachezza al regime dell’intenzione consapevole e attribuito implicitamente a quello della fortuna, come esplicitamente viene fatto a Vespe 62; dall’altro lato l’impresa stessa viene declassata a sforzo muscolare, citando il passo della Piccola Iliade (fr. 2 Allen) dove la contesa fra Aiace e Odisseo per il possesso delle armi del morto Achille viene risolto a favore di Odisseo con l’osservazione che il trasporto di un carico, anche illustre come il cadavere di Achille – impresa appunto di Aiace – non ha di per sé nulla di eroico. 204 Nel testo il gioco di parole riguarda macevsaito e cevsaito, voci dei verbi che significano rispettivamente «combattere» e «defecare».

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Dice di chiuderlo in una gogna di legno traforato. POPOLO Mi sembra che questo oracolo si realizzerà. SALSICCIAIO

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Non dare retta al gracchiare delle cornacchie invidiose. Tienti caro lo sparviero, ricordati che ti ha portato in catene i corvi spartani. SALSICCIAIO202

Per correre un simile rischio Paflagone doveva aver bevuto.203 Ateniese mal consigliato, questa ti pare una grande impresa? Anche una donna porta un carico, se un uomo glielo mette addosso; ma combattere no: se si facesse sotto, se la farebbe sotto.204 PAFLAGONE

Ma ascolta l’oracolo che viene emesso su Pilo: Pilo dopo Pilo...205 POPOLO

Che cazzo significa? Che vuole occupare le pile da bagno.206 POPOLO Insomma dovrò fare a meno del bagno? SALSICCIAIO Pare di sì, dal momento che si è fregato le pile.207 Ma ascolta piuttosto il prossimo oracolo, che parla della flotta e richiede la massima attenzione.

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205 Allusione proverbiale (testimoniata da Strabone 8. 3. 7) alle tre città, due nell’Elide, la terza in Messenia, che nel mito portano questo nome proponendosi come possibile patria di Nestore: ma naturalmente Cleone allude amcora alla sua vittoria. 206 Nel testo il gioco di parole è con puelov" («tinozza»). 207 Il verso è stato spesso sospettato, sia per il presunto carattere ripetitivo nei confronti del v. 1060, sia per il passaggio dal futuro brusco katalhvyesqΔ all’aoristo uJfhvrpasen, ma al contrario è classica di Aristofane l’insistenza sull’aggressione politica, e di essa è strumento lo slittamento temporale che ha funzione di climax propagandistica: da un’intenzione attribuita all’avversario a un reato che si proclama già commesso.

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Il padre di Teseo, mitico eroe nazionale di Atene. Un proprietario di bordello che aveva appunto questo soprannome (Lisistrata 957). 210 Nello pseudo-oracolo viene di nuovo alluso con tutta evidenza Cleone, ma il salsicciaio mira a un obiettivo più preciso – anticipatore della buona amministrazione che attuerà nel finale della commedia: bloccare la politica vessatoria verso gli alleati che il regime demagogico attua mandando la flotta a «raccogliere soldi». Nella stessa prospettiva i marinai ateniesi vengono paragonati ai cuccioli di volpe che «mangiano l’uva nei poderi» (altrui): ma con essi Popolo si identifica, preoccupandosi, come già a v. 1066, che ricevano regolarmente il soldo, e il salsicciaio si affretta a tranquillizzarlo. 209

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Sono tutt’orecchi per sapere come si farà a pagare il soldo.

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Discendente di Egeo,208 bada al cane volpino, che non ti inganni: è subdolo, veloce imbroglione ed astuto. Sai che cosa vuol dire? POPOLO Bah, il volpino dovrebbe essere Filostrato.209 SALSICCIAIO Non si tratta di questo:210 Apollo ti vieta di concedere a questo qui le navi che ti chiede a ogni momento per andare a raccogliere soldi. POPOLO E che c’entrano le triremi col volpino? SALSICCIAIO Perché sia la trireme che il cane sono veloci. POPOLO Ma perché proprio volpino? SALSICCIAIO Paragona i soldati ai cuccioli di volpe perché anche loro mangiano l’uva nei poderi. POPOLO E questi cuccioli di volpe come faranno a essere pagati? SALSICCIAIO Provvederò io nell’arco di tre giorni. Ma ascolta quest’altro oracolo, dove il figlio di Leto ti intima di badare alla cava, che non t’inganni. POPOLO

Quale cava? SALSICCIAIO

La mano cava di questo intende il dio, quando dice: metti qui i soldi. PAFLAGONE

Non spiega bene: per cava Apollo intende la mano tesa di Diopite.211 Piuttosto

211 Celebre indovino e uomo politico ateniese (su cui cfr. Uccelli 988, Teleclide fr. 7 K.-A.), che a quanto pare aveva un difetto alla mano: la sua menzione consente a Paflagone di sfuggire all’allusione velenosa del salsicciaio a proposito della mano tesa.

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212 Paflagone si appoggia all’investimento emotivo che Popolo ha già manifestato verso questa fantasia, fatta equivalere a un dominio universale, ma il salsicciaio ribatte dando allo stessa tema la forma concreta del sogno orientale, collocato nella capitale dell’impero persiano. 213 Parodia del Peleo di Sofocle (fr. 487 R.), dove si esplicitava la malinconica e proverbiale constatazione che «i vecchi sono due volte bambini», presente anche a Nuvole 1417, dove indica il ribaltamento

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io posseggo su te un altro oracolo, alato, che diventerai aquila212 e regnerai su tutta la terra. SALSICCIAIO

Anch’io ce n’ho uno: sì, sulla terra e sul Mar Rosso, e giudicherai in Ecbatana, leccando focacce. PAFLAGONE

Ho visto un sogno, in cui la dea stessa versava con un innaffiatoio sul suo Popolo ogni ricchezza e salute. SALSICCIAIO

Anch’io ho visto un sogno, in cui la dea stessa scendeva dall’Acropoli con la civetta posata sopra la spalla, e versava da un’anfora sulle vostre teste ambrosia per te, e salamoia per lui. POPOLO Oh, oh, questo Glanide è davvero insuperabile. E io mi affido a te perché tu ti prenda cura della mia vecchiaia e della mia rieducazione.213 PAFLAGONE Aspetta un momento, ti supplico. Ti procurerò ogni giorno l’orzo e il sostentamento. POPOLO Non ne posso più di sentir parlare dell’orzo: troppe volte sono stato ingannato da te e da Teofane. PAFLAGONE Ma ti farò avere anche la farina bell’e pronta.214 SALSICCIAIO E io focaccine ben cotte e involtini arrostiti: devi solo mangiare. POPOLO Quello che dovete fare fatelo presto; io darò le redini della Pnice a quello di voi due che mi tratta meglio. PAFLAGONE Corro subito dentro, sono il primo. (esce) SALSICCIAIO Io sono il primo. (esce)

dell’autorità tradizionale, nonché in Cratino fr. 28 K.-A., Teopompo fr. 70 K.-A. Ben altra, e ben più ottimistica, è la prospettiva di crisi dell’età che viene serbata a Popolo in questa commedia. 214 Segretario di Cleone. Si allude, per noi oscuramente, a promesse disattese in campo annonario.

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215 Il Coro esprime invidia per l’adulazione di cui Popolo è fatto oggetto, indizio del timore che i demagoghi hanno di lui e dunque del potere «tirannico» che gli viene attribuito. È chiaro che in questo contesto non è in questione la tradizionale antipatia o addirittura fobia degli

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Bel potere è il tuo, Popolo, tutti ti temono come un tiranno. Ma tu sei un credulone, godi ad essere adulato e imbrogliato, e stai sempre a bocca aperta davanti a chi parla: hai la testa presente... da un’altra parte.215 POPOLO La testa è quella che non avete sotto i vostri capelli, se pensate che io sia stupido.216 Io faccio lo stupido apposta. Sì, ho piacere a sbevazzare ogni giorno e a tenere un ministro ladro: così quando è pieno lo sollevo e lo butto fuori. CORO Fai bene: in questo comportamento c’è molta astuzia, se è vero che a bella posta li tieni nella Pnice come capri espiatori, e quando non hai altro da mangiare sacrifichi il più grasso. CORO

Ateniesi per il governo dispotico, ma la libido del potere assoluto come quintessenza della felicità, altre volte presente in Aristofane. Contemporaneamente però a Popolo viene rinfacciata l’incapacità di esercitare il potere, a motivo della credulità che abbiamo già vista all’opera nel suo innamoramento del nuovo demagogo, di quello «stare a bocca aperta» così simbolicamente significativo che il poeta ne conierà tra poco (v. 1263) un grottesco toponimo, i «Boccapertani». Lo splendido ossimoro di chiusura, con il quale si rimprovera la svagatezza di Popolo, richiama la scena di Acarnesi 396-400, dove «avere la testa da un’altra parte» si riferisce alla separatezza dell’intellettuale (Euripide). 216 La splendida ritorsione di Popolo mostra all’opera l’intelligenza che gli è stata negata e che egli motiva con una dichiarazione cinica e sorprendente (tanto più sorprendente in quanto, come abbiamo visto, il topos della credulità rispecchia la posizione dell’autore, mentre qui il Coro dei cavalieri si dichiara del tutto convinto dalla replica). Popolo dunque è perfettamente a conoscenza della malversazione dei demagoghi, contro i quali interviene solo quando la misura è colma; vedremo ai vv. 1219-1220 la letteralizzazione di questa metafora: in quella sede vedremo anche, però, che il benessere sul quale fonda la sua temporanea tolleranza della criminalità politica («ho piacere a sbevazzare ogni giorno») è cosa ridicola e illusoria rispetto al profitto dei demagoghi medesimi. Conclusione che diventa evidente e cogente se applicata non alla persona di Popolo, ma, allegoricamente, all’interesse collettivo: quest’argomento sarà sviluppato a fondo nell’agone delle Vespe, vv. 656-678.

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Guardate se non sono capace di raggirarli, questi che pensano di sapere tutto loro e di imbrogliarmi. Io li sorveglio e fingo di non accorgermi che rubano; poi grazie all’urna del voto li costringo a vomitare tutto quello che hanno rubato.

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Rientrano Paflagone e il Salsicciaio Ma vattene al diavolo! Vacci tu, delinquente. PAFLAGONE Caro Popolo, da lungo tempo sto qui, pronto a farti piacere. SALSICCIAIO E io da dieci, cento, mille volte più a lungo sono qui anch’io. POPOLO E io da un tempo un milione di volte più lungo sto qui ad aspettarvi, e mi avete seccato.217 SALSICCIAIO Sai cosa devi fare? POPOLO No, se non me lo dici. SALSICCIAIO Facci partire dallo stesso punto, in modo che abbiamo le stesse possibilità di esserti utili. POPOLO D’accordo: partite. PAFLAGONE / SALSICCIAIO Pronti! POPOLO Via! SALSICCIAIO Ma mi tagli la strada! POPOLO Oggi se non faccio lo schizzinoso sarò felice, grazie ai miei spasimanti. PAFLAGONE Vedi: ti porto una sedia per primo. SALSICCIAIO Ma non una tavola: in questo sono più primo io. PAFLAGONE Ti porto una focaccia impastata con l’orzo di Pilo.218

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217 Popolo fa deliziosamente il verso alla cerimonalità adulatoria dei suoi «spasimanti», con lo stesso atteggiamento ruvido con cui li aveva accolti all’inizio, ai vv. 728-729. 218 L’ossessione ricorrente: viene in mente il ritornello di Totò «votantonio...».

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219 Non è la lode convenzionale della bellezza della mano femminile, ma un’allusione alla gigantesca statua criselefantina di Atena Parthenos: da ciò l’allusione di Popolo alla grandezza delle dita. 220 Stavolta l’ossessione si appoggia, distorcendone il senso, a un effettivo attributo divino, che designa forse Ares nel fr. 65 Page di Stesicoro, e la stessa Atena in Callimaco, fr. 638 Pf., e che significa «combattente alle porte», «difensore delle porte». 221 Che Atena tenga la sua mano sulla città è in un celebre passo di Solone, 4 W. 4, che qui viene irresistibilmente parodiato sostituendo alla mano protettrice un gradito dono alimentare. 222 Lo stesso epiteto è attribuito all’egida della dea da Esiodo, fr. 343.18 Merkelbach-West. 223 Epiteto di Atena, già omerico. 224 Una lieve comicità investe l’atteggiamento supponente con cui Popolo enuncia il consueto principio della religione come scambio: coi benefici enumerati dai politici (ma si noti che Popolo esprime ac-

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E io queste conchiglie lavorate dalla dea con la sua mano d’avorio.219 POPOLO Che dita grandi, dea veneranda! PAFLAGONE E io un passato di piselli, buono e di bel colore: lo ha cucinato Atena, la combattente di Pilo.220 SALSICCIAIO È chiaro che la dea ti protegge, Popolo, e ti tiene sulla testa una pentola di brodo.221 POPOLO Se non ci tenesse sulla testa la pentola, credi che questa città sarebbe ancora abitata? PAFLAGONE Questi pesci te li dona la dea che mette in fuga i nemici.222 SALSICCIAIO La figlia di padre violento223 ti dà questa carne cotta nel brodo, e il budello e le trippe. POPOLO Grazie: mi fa piacere che non si scordi del peplo.224 PAFLAGONE La dea con l’elmo della Gorgone225 ti prega di assaggiare questo sfilatino226 perché le navi filino bene. SALSICCIAIO E anche questo. POPOLO Che me ne faccio delle interiora? SALSICCIAIO Per l’interno delle triremi:227 è chiaro che si preoccupa della flotta. E beviti anche questo tre e due.228

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cettazione e approvazione solo nei confronti del salsicciaio), la dea ricambia i grandiosi festeggiamenti delle Panatenee, al cui centro stava l’offerta del peplo. 225 Benché il mito della Gorgone Medusa, mostro capace di pietrificare chi la guardava, sia legato ad Atena, che aiutò Perseo a ucciderla, l’epiteto figura solo in Acarnesi 567, applicato in senso laudativo al generale Lamaco. 226 Nel testo il gioco di parole è fra ejlathvr («focaccia») e ejlauvnein («remare»). 227 Ancora un gioco di parole fra e[ntera («interiora») e l’hapax ejnterovneian, parola che indica presumibilmente una parte interna della trireme. 228 Bevanda con tre parti d’acqua e due di vino, che viene messa in collegamento burlesco con il tri- che costituisce la prima parte dell’epiteto di Tritogenia, appellativo che deriva invece dal presunto luogo della nascita di Atena, il lago Tritonide in Libia.

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1210 229 Prelibatezza ingenuamente vantata da Paflagone davanti al salsicciaio, che istantaneamente ordisce e mette in opera un trucco per sottrargliela e attribuirsene il merito con Popolo (è inutile dire che questa manovra verrà giustificata come degno contraccambio di quella che il medesimo Cleone ha messo in atto ai danni di Demostene). Il trucco in questione consiste nello stornare l’attenzione dell’avversario col gioco infantile di «guarda l’uccellino», già ricordato a v. 419: l’oggetto che fa scordare a Paflagone la sua preziosa lepre sono stavolta gli ambasciatori stranieri di cui viene annunciato il presunto arrivo, prede ghiotte per la corruzione sistematicamente da lui operata. 230 Splendida mescolanza degli stili: all’apostrofe epico-tragica al

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Squisito. Perdio, quel tre ci sta benissimo. Per forza, l’ha preparato la dea Tri-toge-

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nia. PAFLAGONE SALSICCIAIO PAFLAGONE

Ricevi da me una fetta di torta. E da me invece tutta la torta. Ma tu non hai carne di lepre da offrigli, e

io sì.229 Ahimè, dove posso trovare la lepre? O mio cuore, inventati qualche buffoneria.230 PAFLAGONE Lo vedi, miserabile? SALSICCIAIO Non me ne frega niente: stanno arrivando due ambasciatori con borse piene di denaro. PAFLAGONE Dove, dove? SALSICCIAIO Che c’entri tu? Lascia stare gli stranieri. Popoluccio, guarda la lepre che ti offro. PAFLAGONE Povero me, me l’hai sottratta con la frode. SALSICCIAIO Esattamente come hai fatto tu coi prigionieri di Pilo. POPOLO Ti prego, dimmi come hai fatto a rubargliela. SALSICCIAIO L’idea è stata della dea, il furto è mio. PAFLAGONE Ma sono stato io a rischiare, io a cuocerla. POPOLO Vattene: la riconoscenza spetta a chi ha fatto l’offerta. PAFLAGONE Ahimè, sono vinto in sfacciataggine!231 SALSICCIAIO Perché non decidi, Popolo, chi di noi è più benemerito verso di te e il tuo stomaco? POPOLO Con quale criterio dovrei giudicarvi perché gli spettatori232 mi approvino? SALSICCIAIO

cuore segue la designazione del progetto comico nel termine farsesco tecnico (bwmolovco"). 231 Il riconoscimento di essere superato nella negatività marca il compimento dell’oracolo che illustrava l’avvicendamento del potere in Atene, appena prima che Paflagone constati il contemporaneo compimento dell’oracolo che riguarda personalmente lui. 232 Improvvisa apertura teatrale, che – nella misura in cui gli spettatori sono intesi identificarsi con la comunità politica benpensante – coincide col ritorno alla dimensione allegorico-politica.

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233 Le ultime parole hanno una patina dialettale dorica: l’osservazione dello Scoliaste, secondo cui si riferiscono a una frase rituale

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Te lo dico io: in silenzio prendi la mia cesta ed esamina cosa c’è dentro, poi quella di Paflagone. Così sarai in grado di decidere. POPOLO Guardiamo: qui cosa c’è? SALSICCIAIO Non vedi che è vuota, nonno? Ti ho dato tutto. POPOLO Questa è proprio una cesta democratica. SALSICCIAIO E adesso guarda quella di Paflagone: vedi? POPOLO Ahimè, è piena di ogni ben di Dio. Quanta torta si era messa da parte, e a me ne aveva data una fettina! SALSICCIAIO Ha sempre fatto così: di quello che prendeva te ne dava una piccola parte, e il più se lo teneva per sé. POPOLO Scellerato, così rubavi e mi ingannavi: e io che ti offrivo beni e corone!233 PAFLAGONE Ma io rubavo per il bene dello Stato!234 POPOLO Posa subito la corona:235 la voglio mettere a lui. SALSICCIAIO Posala subito, farabutto. PAFLAGONE No, no: ho un oracolo di Delfi, che dice che uno soltanto potrà vincermi. SALSICCIAIO Chiarissimo: indica me. PAFLAGONE Voglio metterti alla prova, se è proprio te che indicano i vaticini del dio: per prima cosa ti chiedo chi è stato il tuo maestro da ragazzo. SALSICCIAIO Sono stato allevato nelle macellerie a forza di pugni. PAFLAGONE Che dici? L’oracolo mi tocca il cuore. E in palestra che cosa hai imparato? SALSICCIAIO

pronunciata dagli Iloti, la classe inferiore di Sparta, riporta secondo Sommerstein a una commedia di Eupoli che aveva appunto per titolo Gli Iloti. 234 La giustificazione è platealmente insussistente, perché fa esplodere la contraddizione tra Popolo-individuo e Popolo-allegoria. 235 Simbolo del potere politico, come già prima l’anello.

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236 Citazione dal Telefo di Euripide (fr. 700 Kn.), ma contemporaneamente assai vicino al grande momento di Edipo Re (v. 737) in cui Edipo prende per la prima volta coscienza della possibilità di avere ucciso Laio. I raffronti testuali con la tragedia sofoclea proposti da Knox sono però generici e insignificanti. 237 Il verso è stato considerato paratragico (adespota, fr. 55 R.). 238 Citazione dal Bellerofonte di Euripide (fr. 310 Kn.), nella quale peraltro, al posto di komivzete («portate») è stato inserita la notazione metateatrale kulivndete, che allude alla macchina detta enkyklema. 239 Citazione parodica dell’Alcesti di Euripide, vv. 180-181, dove la protagonista si congeda dal letto nuziale affermando nel modo più solenne i valori della virtù e della fedeltà, ai quali è venuta meno soltanto la fortuna. Nella parodia al termine che definisce la virtù, swvfrwn, si

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A rubare e spergiurare senza abbassare

gli occhi. «Febo Apollo, che cosa vuoi fare di me?»236 E diventato uomo, che mestiere facevi? SALSICCIAIO Vendevo salsicce, e lo pigliavo nel culo. PAFLAGONE Ahimè infelice, sono morto! «Mi resta ancora una lieve speranza»:237 le salsicce le vendevi al mercato, o porta a porta? SALSICCIAIO Porta a porta, nella zona dove si vende la salamoia. PAFLAGONE Ahimè, l’oracolo del dio si è compiuto. «Rotolate dentro questo infelice».238 Addio, corona, ti lascio contro la mia volontà: «un altro ti avrà, non più ladro di me, ma forse più fortunato».239 SALSICCIAIO «Tua è la vittoria, Zeus di tutti i Greci».240 CORO 241 Salve, vincitore, e ricordati che è per opera mia che sei diventato potente. Ti chiedo una cosa da poco: voglio essere il tuo Fano,242 segretario ai processi. POPOLO Ma dimmi come ti chiami. SALSICCIAIO Agoracrito, quello cresciuto in piazza e tra i processi.243 POPOLO Affido dunque me stesso ad Agoracrito e gli consegno Paflagone. PAFLAGONE

sostituisce il termine «ladro», indicativo del monde renversé che definisce la politica, ma il gusto della citazione letteraria innesta una lieve contraddizione con l’accusa e poi con il riconoscimento di essere peggiore di lui che Paflagone ha rivolto al salsicciaio. 240 Ancora verso paratragico (adespota, fr. 56 R.). 241 Una parte della tradizione attribuisce la battuta a Demostene, anche per la corrispondenza coi vv. 177-178, ma è improbabile, anche per la prassi della distribuzione delle parti fra gli attori (Russo), la ricomparsa sporadica di questo personaggio. 242 Personaggio dell’entourage di Cleone, citato anche a Vespe 1220. 243 Pseudoetimologia del nome da ajgorav «piazza» e krivnein, «giudicare».

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244 Due poveracci: Lisistrato è ricordato per la stessa ragione a Acarnesi 855, e come motteggiatore a Vespe 787 e 1308-1310; Tumantide da Ermippo, fr. 36 K.-A. 245 Famoso citaredo nominato assieme ai suoi fratelli in Vespe 12771283.

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Mi occuperò di te con ogni cura, Popolo, e ti farò confessare che non hai mai trovato nessuno più benemerito di me verso i Boccapertani. (escono Popolo, il Salsicciaio e Paflagone) CORO Che cosa c’è di più bello che cantare all’inizio o alla fine i guidatori delle veloci cavalle, senza mettersi di buzzo buono a dar noia a Lisistrato o al profugo Tumantide?244 Costui è sempre affamato, e in mezzo a un fiume di lacrime tocca la tua faretra, Apollo, nella sacra Delfi, chiedendo di uscire dalla povertà. Insolentire i malvagi non è vietato: anzi chi capisce lo considera un onore reso ai buoni. Se l’uomo che devo maltrattare fosse noto per conto suo, non sarei costretto a menzionare il nome di un amico. In effetti non c’è nessuno che non conosca Arignoto,245 tra quanti distinguono il bianco dal nero e una melodia dall’altra, ma ha un fratello che non gli assomiglia per niente nei costumi, quell’infame di Arifrade. Infame, è lui che vuol esserlo: infatti non è soltanto un miserabile (non me ne sarei curato), un arcimiserabile, ma ha fatto un’invenzione: contamina la sua lingua di sozzo piacere, leccando nei bordelli il liquido immondo che gli insudicia la barba ed eccita le vulve.246 Inoltre, se la fa con Oionico e compone roba degna di Polimnesto.247 Chi non ha schifo di un uomo simile non berrà mai alla stessa mia coppa. SALSICCIAIO

246 La stessa accusa è ripetuta a Vespe 1280-1283, Pace 883-885. Tanta aggressività è stata spiegata da Degani con l’odio ideologico per l’appartenenza di Arifrade alla scuola di Anassagora; meno attendibilmente altri, tra cui Sommerstein, hanno pensato invece a rivalità professionale tra commediografi. Secondo lo stesso Sommerstein la pretestuosità dell’attacco al costume sessuale è dimostrata dal fatto che altrove Aristofane approva il cunnilinctus (ma i passi da lui citati, Ecclesiazuse 846-847 e Pace 716, non confermano la tesi). 247 Polimnesto di Colofone, e il meno noto Oionico, erano poeti lirici.

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248 La fraseologia è simile a quella con cui nell’Ippolito di Euripide, v. 374, Fedra introduce – ma in trimetri giambici! – le sue considerazioni sull’origine dell’eros. 249 Uno dei maggiori demagoghi, fabbricante di lampade, destinato ad assumere il ruolo di leader dopo la morte di Cleone in Tracia, ma già citato negli Acarnesi 846-847. L’ambizioso progetto di attacco a

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Molte volte sono stato impegnato, di notte, a pensare248 dove trova da mangiare Cleonimo. Dicono che una volta, divorando i beni dei ricchi, non usciva più dalla greppia, e loro lo imploravano: «ti supplichiamo, signore, ti preghiamo per le tue ginocchia, esci e risparmia la nostra mensa». Si dice che una volta le triremi discorrevano tra loro, e una delle anziane parlò così: «Avete sentito, ragazze, cosa succede in città? Dicono che un tale ha chiesto cento di noi per andare a Cartagine, un pessimo cittadino, Iperbolo l’acido».249 A loro questo discorso sembrò intollerabile, e una, che non aveva conosciuto uomini,250 disse: «Dio protettore, su di me costui non avrà mai potere. Piuttosto voglio invecchiare qui, rosa dai tarli». «E anch’io – disse un altra – io Naufante figlia di Nausone,251 come è vero che anch’io sono fatta di legno di pino. Se gli Ateniesi prenderanno questa decisione, propongo di rifugiarci nel tempio di Teseo,252 o in quello delle Eumenidi. Così non prenderà più in giro la città al comando della nostra flotta: navighi lui alla malora, lui solo, calando in mare le ceste dove teneva le lucerne per venderle».

Cartagine rientrerà fra i progetti di Alcibiade (Tucidide 6. 15) e sempre a detta di Tucidide (6. 34, discorso di Ermocrate), era temuto dai Cartaginesi. 250 La personificazione della nave come una vergine consente l’espressione comica dell’aggressività politica come preferenza di invecchiare zitella piuttosto che essere posseduta dal demagogo. 251 Nomi parlanti, ovviamente connessi al mondo marino. 252 Il santuario sull’Acropoli, nel quale per iniziativa di Cimone erano state collocate le ossa di Teseo, rimpatriate dall’isola di Sciro, dove secondo la leggenda era stato ucciso da Licomede. Come il tempio delle Erinni, legato all’istituzione dell’Areopago, era luogo di asilo inviolabile.

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253 È la frase che introduce i riti religiosi, come in Acarnesi 237, Nuvole 263, Vespe 868. In particolare ciò che è proibito perché considerato di cattivo auspicio è l’attività giudiziaria, che Aristofane investirà della più violenta polemica due anni dopo nelle Vespe. Cfr. anche v. 1332.

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(rientrando) Fate silenzio,253 niente più testimonianze o tribunali: il teatro intoni il peana per la nuova fortuna. CORO Luce della sacra Atene, difensore delle isole,254 quale buona notizia ci porti, da farci illuminare le nostre strade? SALSICCIAIO Ho cotto Popolo,255 trasformandolo da brutto in bello. CORO Meravigliosa idea! Ma adesso dove sta? SALSICCIAIO Nell’Atene antica, coronata di viole.256 CORO Possiamo vederlo? Come è abbigliato? Come è diventato? SALSICCIAIO Com’era quando pranzava con Aristide e Milziade.257 Lo vedrete subito: si sente il rumore dei Propilei che si aprono. Acclamate l’apparizione della Atene antica, meravigliosa e cantata negli inni, dove abita l’illustre Popolo. CORO Atene splendente, cinta di viole, invidiata, mostraci il signore di questa terra e di tutta la Grecia. (entra Popolo) SALSICCIAIO Eccolo qui, con le cicale d’oro nei capelli,258 splendente nel costume antico, profumato di pace e non di processi, unto di mirra. CORO Salute, re degli Elleni, ci rallegriamo con te. La tua sorte è degna della città e della vittoria di Maratona. SALSICCIAIO

254 Cioè degli alleati: Aristofane attribuisce al salsicciaio la funzione che egli stesso vanta di avere svolto nei Babilonesi. 255 Come la maga Medea aveva fatto col suocero Esone, ringiovanendolo, e come aveva promesso di fare col nemico di lui Pelia, facendolo invece morire. 256 Epiteto pindarico (fr. 76) ripreso in Acarnesi 637. Torna appena dopo, assieme all’altro epiteto liparaiv, che il medesimo passo degli Acarnesi bollava come tradizionale e fruttuosa adulazione. 257 I personaggi rispettivamente investiti del più alto valore etico e militare. 258 Ornamento in uso all’epoca delle guerre persiane.

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259 La discontinuità con la precedente rappresentazione del salsiccaio risulta particolarmente evidente dal fatto che quello qui deplorato è anche il suo approccio a Popolo (vv. 733-734).

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Vieni qui, carissimo Agoracrito: quanto bene m’hai fatto cuocendomi! SALSICCIAIO Non sai neppure com’eri prima e che cosa facevi. Mi prenderesti per un dio. POPOLO Com’ero, che cosa facevo? SALSICCIAIO Innanzitutto, bastava che in assemblea uno dicesse: «Popolo, ti amo, ti voglio bene, io solo penso a te e mi prendo cura di te» – bastava che uno cominciasse il discorso con queste parole e tu subito ti ringalluzzivi e alzavi la cresta.259 POPOLO Davvero? SALSICCIAIO E in cambio lui ti imbrogliava e se ne andava. POPOLO Mi facevano questo e io non me ne accorgevo? SALSICCIAIO Il fatto è che le tue orecchie si aprivano e poi si chiudevano come un ombrello. POPOLO Tanto stupido e vecchio ero diventato? SALSICCIAIO Proprio così: e se parlavano due politici, uno proponendo di costruire navi, l’altro di alzare i compensi, quello dei compensi sopravanzava quello delle triremi.260 Ma perché chini la testa? Resta dove sei! POPOLO Mi vergogno degli errori passati. SALSICCIAIO Non preoccupartene: la colpa non era tua, ma di quelli che ti imbrogliavano. Piuttosto dimmi: se qualche buffone di avvocato ti dicesse: «niente farina per voi, se non condannate questo imputato»,261 che gli faresti a questo avvocato? POPOLO

260 Si può confrontare l’episodio raccontato da Erodoto a 7. 144, in cui il solo Temistocle sostenne, peraltro facendola prevalere, la necessità di usare i proventi delle miniere d’argento del Laurio per armare una flotta di duecento triremi. 261 Il ricatto cui sono sottoposti i giudici è espresso qui in forma anche più cruda rispetto all’approfondimento specifico della tematica che si ha nelle Vespe.

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262 Nel quale venivano gettati i condannati a morte. La menzione inaspettata di Iperbolo con la funzione del peso che veniva messo al collo dei condannati ha valore comico esplosivo. 263 Allusione a una pratica di corruzione evidentemente diffusa, attraverso la quale si cercava di sfuggire ai servizi militari più pericolosi. L’allusione allo scudo di Cleonimo, per quanto poco chiara, difficilmente può essere separata dal tormentone che investe nelle commedie successive questo personaggio, accusato appunto di aver abbandonato lo scudo in battaglia, e schernito nella Pace con la citazione della celebre confessione di Archiloco. 264 Due personaggi bollati insieme da Aristofane come depravati

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Lo sollevo per aria e lo butto nel burrone,262 con Iperbolo appeso al collo. SALSICCIAIO Ora sì che ragioni bene; ma per il resto, dicci come governerai. POPOLO Prima di tutto, pagherò salario intero ai rematori delle navi da guerra, appena tornano in porto. SALSICCIAIO Cosa assai gradita ai culi logorati. POPOLO Inoltre, nessuno arruolato come oplita potrà essere trasferito per intrighi: rimarrà dove era iscritto.263 SALSICCIAIO E questo va bene per lo scudo di Cleonimo! POPOLO Inoltre gli sbarbatelli non predicheranno in piazza. SALSICCIAIO E dove parleranno più Clistene e Stratone?264 POPOLO Parlo dei ragazzotti che passano il loro tempo nelle profumerie a chiacchierare in questo modo: «È bravo quel Feace,265 ha trovato il modo di cavarsela, con una first-rate performance, grazie a un brain storming up-to-date just-in-time». SALSICCIAIO E fuck yourself non ce lo vogliamo aggiungere?266 POPOLO Saprò ben io mandare tutti questi a caccia,267 invece di far decreti. SALSICCIAIO A questo patto, prendi lo sgabello, e un ragazzo ben dotato che te lo porti, o magari usa lui come sgabello.268 POPOLO

ad Acarnesi 117-122, cfr. anche fr. 422 K.-A. Clistene è un bersaglio fisso di Aristofane. 265 Uomo politico che ebbe notorietà alcuni anni dopo: guidò una missione diplomatica in Sicilia nel 422 e fu rivale di Alcibiade. 266 Il testo ha una serie di aggettivi uscenti in –ikos, che indicano un linguaggio snob, ammiccante alla nuova cultura scientifica e sofistica. 267 Un esercizio «sano» contrapposto all’intellettualismo sofistico (cfr. Senofonte, Cinegetico 13). 268 Con allusione oscena.

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269 Altra allusione oscena attraverso il conio katatriakontoutivsai, che suggerisce l’idea della manipolazione delle Tregue medesime, senza che ci sia un gioco sul numero dei rapporti sessuali, né altre piacevolezze pseudo-etimologiche suggerite da Sommerstein. La durata della tregua è la stessa che negli Acarnesi 195-198 è definita rassicurante (mentre quelle di durata inferiore rappresentano di fatto una continuazione dello stato di guerra).

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Felice me, che sono tornato nella condizione di un tempo! SALSICCIAIO Questo potrai dirlo quando ti avrò consegnato le Tregue trentennali. Venite, presto (entrano due ragazze che rappresentano le Tregue). POPOLO Per Zeus, come sono belle! In nome degli dei, si può trentennarle?269 Come le hai avute? SALSICCIAIO Paflagone se le teneva in casa perché non le avessi tu.270 Adesso te le consegno perché vengano in campagna271 con te. POPOLO E a Paflagone, che ha fatto quello che ha fatto, quale castigo darai? SALSICCIAIO Non gli toccherà altro che il mio mestiere.272 Andrà da solo a vendere salsicce miste di carne d’asino e carne di cane, a insultare le puttane, ubriaco, a bere l’acqua dei cessi. POPOLO Sì, questo è proprio il mestiere che va bene per lui, schiamazzare con puttane e bagnini. In cambio ti invito al Pritaneo nel posto che occupava quel farabutto. Indossa il vestito verde273 e seguimi, e che lui lo portino al suo posto, sotto gli occhi degli stranieri che usava maltrattare.274 (escono tutti)

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270 Allo stesso modo nella Pace la dea è stata interrata da Polemos, il dio della guerra. 271 La tregua trentennale consente a Popolo il recupero del suo spazio rurale che in precedenza (vv. 805-808) era investito di tanto pathos. 272 In Pluto 926-954, l’uomo onesto, reso ricco dalla riforma che ha ridato la vista al dio della ricchezza, passa al sicofante le sue vesti lacere e il posto degradato che occupava nella società. 273 Un abito da festa, citato da Polluce 7. 55. 274 La commedia si chiude con una significativa rivendicazione di una politica favorevole agli alleati.