Horror italiano 8868431270, 9788868431273

"I vampiri" (1957) di Riccardo Freda e Mario Bava è comunemente ritenuto il primo horror italiano. Lo stupore

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Italian Pages 163 [192] Year 2014

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Horror italiano
 8868431270, 9788868431273

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Virgola / 112 Italiana. Storie di cinema, I, nuova serie

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Comitato scientifico Silvio Alovisio (Università degli Studi di Torino) David Bruni (Università degli Studi di Cagliari) Mariapia Comand (Università degli Studi di Udine) Mariagrazia Fanchi (Università Cattolica del Sacro Cuore) Giacomo Manzoli (Università di Bologna) Emiliano Morreale (Università degli Studi di Torino-Cineteca nazionale) Francesco Pitassio (Università degli Studi di Udine) Veronica Pravadelli (Università degli Studi Roma 3) Federica Villa (Università degli Studi di Pavia)

Il presente volume è stato sottoposto a procedura di valutazione e revisione da parte di un membro del Comitato scientifico della collana e di un valutatore anonimo.

© 2014 Donzelli editore, Roma Via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it E-MAIL [email protected] ISBN 978-88-6843-127-3

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Indice

Parte prima. Orrori italiani: mondi immaginari, funzioni simboliche, contesti industriali p.

Non abbiamo alcuna simpatia per gli orrori 29 II. Del gusto dell’orrido al principio del XX secolo 43 III. La maschera dell’horror 61 IV. Il sangue e la crudeltà 5

I.

Parte seconda. I film 81 91 103 113 123

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1. La diva, la morte e il diavolo. Rapsodia satanica (Nino Oxilia, 1917) 2. Genius loci. Malombra (Mario Soldati, 1942) 3. Les faits divers. I vampiri (Riccardo Freda, 1957) 4. Danze macabre. Contronatura (Antonio Margheriti, 1969) 5. Un tranquillo posto di campagna. Ecologia del delitto - Reazione a catena (Mario Bava, 1971-72) 6. Eterotopie. Suspiria (Dario Argento, 1977) 7. The Waste Land. Zombi 2 (Lucio Fulci, 1979)

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Nota bibliografica

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Elenco delle illustrazioni

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Ringraziamenti Sono grato, per l’opportunità offertami, al Comitato scientifico della collana e al Centro sperimentale di Cinematografia-Cineteca nazionale. Un ringraziamento in particolare va a Mariapia Comand che per prima mi ha invitato a proporre questo volume e senza il cui costante supporto e aiuto non sarebbe mai stato concluso. Un ringraziamento a Francesco Pitassio per avere a lungo vigilato e per avere, assieme a Emiliano Morreale, reso possibile questa pubblicazione. Un ringraziamento particolare a Luca Mazzei e ad Andrea Mariani per i tanti stimoli e aiuti offerti. Per i suggerimenti, gli sferzanti ammonimenti e la sorveglianza la mia gratitudine va inoltre a Giacomo Manzoli e all’anonimo peer reviewer. Infine, a Brigida, che mi sopporta e sostiene ogni giorno, con infinita pazienza.

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Parte prima Orrori italiani: mondi immaginari, funzioni simboliche, contesti industriali

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Non abbiamo alcuna simpatia per gli orrori

«Da buoni mediterranei non abbiamo alcuna simpatia per gli orrori. Spiriti, mostri, fantasime li lasciamo agli uomini del nord»1. Recensendo La moglie di Frankenstein (Bride of Frankenstein, James Whale, 1935) sul settimanale umoristico milanese «Bertoldo», Pietro Bianchi investe il cinema dell’orrore di un «luogo comune» della cultura italiana, già ravvisabile nella polemica classico-romantica e che attraverso Giordani, Manzoni, Leopardi, Carducci, De Sanctis arriva fino a Calvino2; un cliché che la critica cinematografica fa, da subito, proprio. Nel 1913, in una recensione de Il suicida n. 359, dramma a tinte forti della torinese Aquila Films, si legge: «certe follie collettive potranno anche frequentemente maturare tra le nordiche nebbie del Tamigi, non al certo presso le ridenti soleggiate rive del Po»3. Mario Soldati, per ambientare Malombra (1942), partì alla ricerca di un paesaggio «norP. Bianchi, L’occhio di vetro. Il cinema degli anni 1940-1943, Il Formichiere, Milano 1978, p. 26. Bianchi (1909-1976) fu giornalista, saggista e soprattutto critico cinematografico, fondatore del Cineguf di Parma con Attilio Bertolucci e poi esponente de «Il Giorno» fin dalla sua nascita. Proprio attraverso le pagine del quotidiano milanese sarà tra gli «insospettabili» che apprezzeranno un archetipo italiano dello slasher come Ecologia del delitto-Reazione a catena di Mario Bava (1971-72): P. Bianchi, Tra natura e cemento anche Bava ci sta bene, in «Il Giorno», 15 dicembre 1971, citato da A. Pezzotta, Mario Bava, Il Castoro, Milano 2013. Qui Bianchi echeggia Giacomo Leopardi: «ih, la fantasima! […] perché troppo è noto che nessuna delle tre grandi nazioni […] crede agli spiriti meno dell’italiana», in G. Leopardi, Pensieri, IV, in Id., Tutte le opere, con introduzione e cura di W. Binni, e con la collaborazione di E. Ghidetti, I, Sansoni, Firenze 1969. Sempre Bianchi, recensendo Malombra (1942), reitererà l’assunto: «noi italiani non siamo nati per fantasmi, patemi d’animo, messaggi dall’oltretomba. Ci vuol altro. Dal Satyricon in avanti, Signori: molti secoli, neppure un fantasma», in Bianchi, L’occhio di vetro cit., p. 168. Si veda anche R. Caccia, L’horror tra gotico e futuribile, in Scuola nazionale di cinema, Storia del cinema italiano 1965-1969, a cura di G. Canova, XI, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2002, p. 169: «Genere poco praticato nel nostro paese e apparentemente lontano dalle nostre consuetudini culturali». 2 Si vedano, a questo proposito, R. Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, Lindau, Torino 2011; F. Foni, Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932, Tunué, Latina 2007. A. Pezzotta, Tra il Boom e il Marchese De Sade: fonti e contesto del gotico italiano (1957-1966), pubblicato con il titolo Il boom? È gotico (e anche un po’ sadico), in «Bianco e Nero», 2014, 579. 3 L. Corde Fabulari, in «Il maggese cinematografico», a. I, 25 ottobre 1913, 13, p. 16. 1

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dico» e «internazionale»4. Mario Bava, che dell’horror italiano diventerà maestro e icona, ebbe modo di testimoniare la sua estraneità: «prima manco sapevo che esistessero i vampiri. Da piccolo mi ricordo che la tata ci raccontava le favole dei briganti sardi, e io avevo paura, ma il vampiro non l’avevo mai sentito. Da noi c’è il sole che scaccia tutto. Così mi sono spiegato il successo dei miei film in America e nei paesi nordici e non in Italia»5. Non diversamente, Ugo Pirro scrisse che nel «paesaggio italiano» era impossibile «immaginare una truculenta storia di vampiri»6. L’orrore è altrove. Non sorprende quindi che I vampiri (firmato da Riccardo Freda, co-realizzato da Bava e uscito nelle sale italiane nell’aprile del 1957) sia comunemente ritenuto il primo horror italiano7. In effetti lo stupore dei critici all’uscita del film, lo scarso successo di pubblico, l’ambientazione parigina, tutto concorre a palesare un comune intendere l’horror come un corpo estraneo al cinema italiano, un parassita, uno straniero da disconoscere o negare. I film del terrore italiani, a partire dalla prima ondata del 1960 che sancirà l’esistenza di un «gotico italiano», circoleranno in Italia e andranno in giro per il mondo sconfessando i propri natali, camuffandosi sotto etichette e pseudonimi posticci, assumendo l’identità di film «magliari»8. 4 M. Soldati, «Preparando Malombra», brochure pubblicitaria, Lux, 1942, testo redatto a corredo del lancio pubblicitario del film, ora in G. Bàrberi Squarotti, P. Bertetto, M. Guglielminetti (a cura di), Mario Soldati, la scrittura e lo sguardo, Lindau, Torino 1991. 5 M. Bava, La città del cinema, Napoleone, Roma 1979, p. 87. Bava mise anche un ricordo d’infanzia, intimo, familiare, e quindi in contraddizione con la precedente affermazione di estraneità, all’origine del suo cinema horror: «perché si è dedicato al genere del terrore?» «forse per un ricordo da bambino, le favole terribili che le fantesche raccontavano ai bambini», lo racconta a Luciano Rispoli nella trasmissione televisiva Rai L’ospite delle due nel 1975. 6 U. Pirro, Da Caltiki a Un pugno di dollari, in «Ulisse», a. XIII, IX, fasc. LVI, ottobre 1965, pp. 39-44. 7 Si veda T. Mora, Storia del cinema dell’orrore (1895-1956), I, Fanucci, Roma 1977, p. 28, 20: «I vampiri (1957) di Freda, il primo horror italiano, resta un fenomeno isolato e senza seguito immediato». La vulgata si ripresenta in interventi più recenti e derivati quali C. Artemite, Riccardo Freda. Quattro passi nell’horror, a cura di C. Artemite e G. Lanzo, Horror Made in Italy, in «Moviement», 2009, 4. 8 Li definisce così Pirro nell’articolo più sopra citato: «come i magliari napoletani vendevano e vendono nel mondo tappeti fabbricati a Milano, spacciandoli per autentici prodotti dell’artigianato persiano, alcuni cineasti, esasperati dall’influenza crescente del cinema americano sulla nostra produzione e sul nostro pubblico, e consapevoli nello stesso tempo delle loro capacità, applicarono alla produzione cinematografica la stessa tecnica dei magliari e ciò con la connivenza dei distributori europei e americani», Pirro, Da Caltiki a Un pugno di dollari cit., p. 39. Nel pieno del boom del gotico italiano, un altro critico di vecchio stampo (oltre che autore e sceneggiatore) come Giuseppe Marotta deriderà un esempio di tale cinema, senza peraltro riconoscere sotto gli pseudonimi l’italianità del film (Hor-

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L’horror nazionale – in quanto forma industriale – si presenta a partire dalla fine degli anni cinquanta in concomitanza con una più ampia affermazione dell’horror europeo9. Un periodo di forte internazionalizzazione del cinema italiano e di trasformazione dei pubblici occidentali, sostenuta dal proliferare sul suolo nazionale di una coltura di discorsi, figure e narrative del fantastico orrorifico che attraversano il sistema mediale del periodo, in particolare l’editoria tradizionale e quella popolare. L’inaspettata manifestazione di I vampiri avalla una teoria epifanica dell’horror italiano, propria tanto della critica del tempo (si vedano qui le recensioni dei quotidiani all’uscita del film) quanto della riflessione storiografica più recente: «il genere horror italiano sembra essere venuto dal nulla»10 e ha il «carattere di una scoperta tanto tardiva quanto entusiasta. Il pubblico italiano per la prima volta ha accesso a una tradizione da cui è stato tenuto lontano da decenni di estetica crociana, di storicismo marxista e di moralismo cattolico»11. I film del filone gotico (o «gotico all’italiana») del periodo 196066, incluso il film di Freda e Bava che ne è il precursore, non costituirebbero tuttavia un’improvvisa fioritura di inquietudini di origine gotica e tardo-ottocentesca nel cinema italiano, semmai formerebbero una sorta di «addensamento» e di progressiva riemersione di ombre e oscurità che pervadevano produzioni di vario tipo fin dai primi anni quaranta. Progenitori del gotico a venire sarebbero così alcuni tra i film «calligrafici», in particolare Malombra di Mario Soldati (1942), Gelosia (1942), Il cappello da prete (1944), entrambi di Ferdinando Maria Poggioli, a loro volta derivati dalla tradizione della letteratura fantastica e d’appendice italiana di fine Ottocento (Antonio Fogazzaro, Luigi Caror, Alberto De Martino, 1963): «Non illudetevi che io vi induca a vedere film come Horror […] che Martin Herbert ha dedotto qua e là da Poe […] un raccapriccio da cento lire, un raccapriccio da luna-park […]. Se avete il brivido facile accontentatevi di Celentano alla TV, o andate a ricevere vostra suocera alla stazione, o nel cuore della notte, sfogliate il bollettino dei protesti cambiari, altrimenti qua riderete», G. Marotta, Di riffe o di raffe, Bompiani, Milano 1965, pp. 403-4. 9 I. Olney, Euro Horror, Classic European Horror Cinema in Contemporary American Culture, Indiana University Press, Bloomington (In) 2013. 10 S. Baschiera - F. Di Chiara, A Postcard from the Grindhouse Exotic Landscapes and Italian Holidays in Lucio Fulci’s Zombie and Sergio Martino’s Torso, in Cinema Inferno. Celluloid Explosions from the Cultural Margins, a cura di R. G. Weiner e J. Cline, Scarecrow Press, Lanham-London 2010. 11 Pezzotta, Tra il Boom e il Marchese De Sade: fonti e contesto del gotico italiano (19571966) cit., p. 36.

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puana). Le ricognizioni alla ricerca di un gotico prima del gotico tra anni quaranta e cinquanta hanno messo in evidenza temi narrativi e motivi visivi (la colpa, la vendetta, la follia, il ritorno dei perseguitati, i luoghi claustrofobici e labirintici, le architetture gotiche, le morti violente) operanti nell’ampio bacino del melodramma italiano e diffusi in certo cinema popolare italiano del periodo: nei cappa e spada, nei drammi storici, negli adattamenti dei romanzi di Carolina Invernizio, nel cinema dello stesso Freda (Il conte Ugolino, 1949; Beatrice Cenci, 1956). Una serie di elementi destinati a radicarsi nella tradizione orrorifica successiva: «il gotico diventerà la sintesi parossistica eppure necessaria di un addensamento su temi legati alla componente erotica, onirica, violenta, che nel neorealismo non potevano trovare sbocco: punto d’arrivo e valvola di sfogo di una crescente infiltrazione dei codici del melodramma nel cinema italiano»12. Più recentemente, tali posizioni sono state riviste, osservando come sia «forzoso vedere questi film, che elaborano originalmente memorie espressioniste, come serbatoi di temi narrativi, spunti iconografici e soluzioni stilistiche cui avrebbe attinto il filone degli anni sessanta». Anche se risulta difficile non riconoscere analogie, tali assonanze non sarebbero indizio di riserve e repertori preesistenti raccolti dal gotico italiano: «alcune sequenze di film degli anni trenta e quaranta sembrano essersi sedimentate nella memoria dei registi successivi, riaffiorando magari inconsapevolmente. Il corteo che porta la strega al rogo all’inizio di Il trovatore (1949) di Gallone può essere stato uno spunto per analoghe sequenze in La maschera del demonio (1960) di Bava e I lunghi capelli della morte (1964) di Margheriti. Ma questo tipo di archeologia iconografica congetturale si esaurisce presto, e su di esso non si può fondare la ricostruzione non si dice di una tradizione, ma neanche di un tessuto intertestuale»13. Se il giudizio sull’inconsistenza di una prospettiva diacronica appare in parte eccessivo, d’altra parte il tentativo di ricostruire una storia del cinema dell’orrore in Italia prima dell’affermazione del filone gotico non ha finora raggiunto, nonostante le importanti acquisizioni, risultati completamente soddisfacenti nell’esplorazione del territorio pre-1957. Il dubbio è se ciò sia dovuto a un’effettiva Curti, Fantasmi d’amore cit., p. 29, si vedano in particolare pp. 23-31. Per la relazione tra filone gotico, melodramma ed erotismo, si veda qui il capitolo «La maschera dell’horror» e i relativi rimandi bibliografici. 13 Pezzotta, Tra il Boom e il Marchese De Sade: fonti e contesto del gotico italiano (19571966) cit., p. 36. 12

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mancanza di elementi e occorrenze (la conferma dell’esclusione dell’horror dal paesaggio del cinema italiano) o se sia invece da attribuire alla parzialità delle prospettive adottate (l’utilizzo pressoché esclusivo della nozione di genere per la ricerca e l’identificazione di una genealogia). Se la produzione cinematografica orrorifica pre-1957 è scarna se non assente, ardua da rinvenire quando non perduta, ciò non significa che non si possano tracciare delle piccole costellazioni utili a delineare una storia culturale del cinema italiano dell’orrore in tale periodo. Resta tuttavia difficile invalidare l’ipotesi che identifica l’horror nel suo complesso ed entro il regime del fantastico come una «linea minoritaria» e un «fenomeno produttivo marginale» del cinema italiano14. 1. Genere e corpus. All’antipatia per il film del terrore e alla sua marginalità si somma la sua esclusione dalle strategie di autodifesa dell’identità del cinema italiano (che non lo riconosce come un genere «autoctono», a differenza ad esempio della commedia o del cinema di impegno «politico»)15. Inoltre, andrebbe tenuto in considerazione un problema più generale nel rapporto tra la cultura italiana e i generi. In ambito letterario, proprio alla metà degli anni cinquanta, Anceschi riesaminava tale relazione sulla scia della fenomenologia di Banfi, ricercando quel «riscatto dell’empirico» che apriva alla ripresa di interesse nei confronti della teoria del genere, a fronte dell’estetica e dell’idealismo crociano che avevano per lungo tempo negato la valenza conoscitiva del concetto di genere in letteratura16. L’entusiasmo tardivo e la scoperta del fantastico orrorifico in quanto genere (l’horror, nella sua declinazione gotica) può essere 14 Si vedano, rispettivamente, A. Costa, I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato, Bulzoni, Roma 2002, e T. Mora, Il cinema fantastico italiano. Un fenomeno produttivo marginale, in Cinecittà 2. Sull’industria cinematografica italiana, a cura di E. Magrelli, Marsilio, Venezia 1986. 15 L. Quaresima, Generi/Stili, in Territori di confine. Contributi per una cartografia dei generi cinematografici, a cura di R. Eugeni e L. Farinotti, in «Comunicazioni Sociali», a. XXIV, 2002, 2. 16 L. Anceschi, Dei generi letterari, in Id., Progetto di una sistematica dell’arte, Mursia, Milano 1962.

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colta in questa prospettiva, non senza il rischio di chiudere la porta, focalizzandosi esclusivamente sulla nozione di genere, ad altre possibilità interpretative e di esplorazione di un campo più ampio di quello che il genere instaura e delimita. La problematicità dell’applicazione della nozione di genere nel cinema italiano è a sua volta indizio di un cinema che «presenta caratteristiche anomale rispetto a un modello classico di genere […] per la presenza di generi “di profondità”, di filoni di durata spesso limitata, di commistioni tra generi autoctoni e generi di importazione, per le contaminazioni con altre produzioni mediali»17. Il quadro post-1957 risulta così complicato per via di queste anomalie e difficoltà di fondo, ma lo è anche per l’intermittenza di cicli e filoni dal gotico in poi e per il moltiplicarsi degli innesti e delle ibridazioni, forme spurie spesso assunte dall’horror che forzano i confini di un genere precario e non di rado in potenza, arrivando a casi-limite (gli inserimenti dell’orrorifico nell’avventura e nel fantascientifico, nel giallo e nel drammatico, nello storico-mitologico e nel western). Il genere si presenta così come un succedersi discontinuo di occorrenze in divenire, un processo che trova espressione e continua rinegoziazione attraverso il confronto «verticale» con un complesso mediale e un contesto socio-culturale diversificato e in rapida evoluzione e in «orizzontale» con un’industria e un mercato transnazionali che impongono le condizioni del dialogo con altri cicli e generi18. La «generificazione» dell’horror italiano risulterebbe così incompiuta (cicli, filoni, film d’exploitation, ma non un genere)19. L’horror italiano sembra pertanto oscillare tra l’assimilazione nel più ampio regime del fantastico e un’improbabile autonomia di genere, apparendo fin da subito impuro. Si pensi all’etichetta della sua espressione più riconoscibile, il cosiddetto «gotico all’italiana» (che non di rado ha fatto coincidere la «golden age» del genere, il 1957-66, con l’horror italiano tout court), ma si veda anche la capacità di rielaborare le strutture simboliche del melodramma e la sua necessità di sorreggersi e di sussistere intessendo relazioni con altri generi 17 G. Manzoli - G. Pescatore, L’arte del risparmio, in L’arte del risparmio: stile e tecnologia. Il cinema a basso costo in Italia negli anni Sessanta, a cura di G. Manzoli e G. Pescatore, Carocci, Roma 2005, p. 13. 18 Si veda R. Eugeni, Sviluppo, trasformazione e rielaborazione dei generi, in Scuola nazionale di cinema, Storia del cinema italiano 1954-1959, a cura di S. Bernardi, IX, MarsilioEdizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2004. 19 R. Altman, Film/Genere, Vita e Pensiero, Milano 2004.

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(thriller, fantascienza, erotico, storico-mitologico). L’horror si contraddistingue così per la sua natura «parassitaria» e per il suo carattere «frodatorio»20. Tratto che trova applicazione nelle azioni di mascheramento e di «imitazione» nei confronti dell’horror anglo-americano. Anche se sappiamo bene quanto l’horror nazionale non si sia limitato a imitare, a restituire prodotti derivati e sia invece stato capace di rielaborare, di creare propri modelli o di innestarne su generi autoctoni. Abbandonando una prospettiva univoca incentrata sull’horror in quanto genere (stabile, persistente, immediatamente riconoscibile) incontriamo l’orrorifico, una scappatoia dall’horror in quanto assetto esclusivo, ovvero un regime dotato di caratteristiche tematiche, narrative e stilistiche tali da definire una filmografia ristretta, data e immutabile (ad esempio istituita in base alla presenza o meno del soprannaturale come uno dei caratteri di inclusione/esclusione di un titolo dal corpus). L’uscita dal genere ipotizza un risultato sicuramente il più inclusivo possibile, almeno a priori. L’orrorifico comprende l’horror, riscrive, lacera e deforma il perimetro del genere nella sua accezione «sostantivale» (l’horror), ridefinendo l’«horror all’italiana» come un’entità sempre in formazione o in trasformazione, sempre in procinto di subire o di offrire una sponda per essere «aggettivato». L’orrorifico, lo spaventevole si innestano su altri generi; l’horror si espande o contagia altri ambiti espressivi, altri linguaggi, altre forme stilistiche, attraverso dinamiche dialogiche di tipo intertestuale (come nel caso della parodia) o intermediale (come nel caso dell’erotismo). L’orrorifico abita i luoghi più impensati, istituisce una filmografia aperta ed è al contempo pronto per essere etichettato nei sotto-generi (lo slasher, il cannibalico, il rape and revenge), non di rado costruiti a posteriori dalla ricezione critica e dalla cinefilia e che ridefiniscono ulteriormente le presenze, le appartenenze e le disposizioni in campo. Si approda così a una nozione di orrore larga, tanto strettamente calata nel tempo particolare, quanto in potenza pronta a manifestarsi. Nel primo caso l’orrore si definisce su un piano più pragmatico, mentre nel secondo caso viene assunto in quanto «modo» o «effetto» orrorifico21, prossimo a certe dinamiche del fantastico e riconoIbid. N. Carroll, The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart, Routledge, New York-London 1990. 20

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scibile in quanto possibilità espressiva che va oltre le singole attestazioni di genere e le singole epoche. Siamo consapevoli che il «modo» rappresenta una «soluzione per sottrarsi alla definizione del genere come insieme di elementi semantico-sintattici o tematici»22, eppure d’altra parte è proprio nei temi e in chiave simbolica che l’horror ingaggia una lotta di lungo termine (oramai secolare) con la «complessa natura della violenza, della sofferenza e della moralità»23. Mentre in termini pragmatici diviene una disposizione al confronto da parte dei soggetti coinvolti con una serie di «effetti» di segno orrorifico (lo spaventevole e l’eccitante, il disgustoso e l’abietto, il perturbante e lo scioccante) disseminati in differenti luoghi e tempi dell’incontro con l’orrore (produzione, censura, ricezione popolare, ricezione e rielaborazione critica e storiografica). Si tratta di esperienze e sensazioni, non slegate da determinate figure e ricorrenze tematiche, che possono abitare il testo in singoli momenti ed enunciati che lo compongono, nelle sue estensioni intermediali, nei suoi paratesti senza che il film nel suo complesso possa essere definito un horror. A questo livello di ingaggio, lo spettatore esperisce non tanto il genere in sé quanto il paradosso dell’horror, la sua duplice natura attrattiva e repulsiva, fondata sulla paura e sul disgusto ma anche sulla curiosità, sulla scoperta dello sconosciuto, del proibito, del mostruoso e sul timore e la soggezione rispetto a forze e poteri incontrollabili, più grandi di noi24. Il corpus filmografico di riferimento di questo volume risulta così tanto canonico quanto anomalo. Normativo perché generato attraverso un approccio semantico-sintattico al genere, ovvero costituito da titoli che rispondono a determinate articolazioni e interazioni tra un repertorio tematico e un’organizzazione formale (si veda ad esempio il capitolo dedicato al «gotico all’italiana»). Eccentrico perché dilatato, esteso e inclusivo di titoli non necessariamente corrispondenti agli horror in quanto «film che fanno paura» organizzando la messa in scena di «spiriti, mostri e fantasime». Semmai prossimi a modi orrorifici che generano un’esperienza intellettuale (l’epifania dell’orro22 A. Bellavita, Il fantastico come genere della differenza, in Territori di confine cit., a cura di Eugeni e Farinotti, p. 257. 23 T. Fahy (a cura di), The Philosophy of Horror, The University Press of Kentucky, Lexington 2010, p. 2. 24 Carroll, The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart cit; C. Freeland, Horror and Art-Dread, in The Horror Film, a cura di S. Prince, Rutgers University Press, New Brunswick 2004.

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re) e un più ampio sentimento ambivalente di piacere e abiezione. Infine anomalo perché comprensivo di film non «originariamente prodotti o consumati come film horror e che sono stati definiti tali solo retrospettivamente»25.

2. Il gusto dell’orrido. In questa dialettica c’è sicuramente all’opera anche un mutamento dell’oggetto – da un cinema horror «classico» a uno «moderno» (se non quasi postmoderno) – che traspare nelle pagine di questo volume e che si estende poi alla metodologia. In tal senso, è ancora Bianchi a darci la giusta convinzione. Lo ritroviamo impegnato a stroncare Il figlio di Frankenstein (Son of Frankenstein, Rowland V. Lee, 1939), infastidito e caustico nei confronti del terzo capitolo della saga: «troppa carne al fuoco, accidenti, per il nostro gusto, e pochissimo stile. Roba da servire agli storici della cultura, ai Mario Praz di domani. Un bel libro se verrà fuori, con le illustrazioni prestigiose: Del gusto dell’orrido al principio del XX secolo. Ma noi saremo da un pezzo cenere e tenebra»26. Bianchi invoca Praz (storico della cultura, collezionista di scuola warburghiana, mediatore di letterature e lingue) come modello di una genia futura, eredi improbabili destinati a studiare una pratica bassa (il gusto dell’orrido), che in Italia è stata a lungo censurata e rimossa per poi essere celebrata e monumentalizzata. Praz, l’anglista innominabile, ribadendo la sua triste fama di jettatore27, sembra incarnare un «malocchio», uno sguardo traverso, la necessità di incorporare altre possibilità e visioni. Come si fa a riconoscere il sapore dell’orrido? La critica e gli storici della letteratura hanno oramai da tempo istituito una tradizione del fantastico italiano tra Otto e Novecento, dove la componente fanta25 M. Jancovich (a cura di), Horror. The Film Reader, Routledge, London-New York 2002, p. 7. Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975) è un esempio emblematico di «horror a posteriori» in cui gli archetipi di una società totalitaria, accostata alle pulsioni profonde della prima Repubblica prossima alla decadenza, danno sfogo ai loro desideri sado-masochistici più nascosti. 26 Bianchi, L’occhio di vetro cit., p. 42. 27 «La fama che gli avevano fatto, per via del suo piede caprino e per la sua predilezione per l’humor nero – anche quello di marca inglese – di jettatore», I. Montanelli, La cultura senza confini di Mario Praz, in «Corriere della Sera», 31 maggio 2000, p. 41.

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orrorifica è ben rappresentata28. Recentemente alcune incursioni nella paraletteratura, nell’illustrazione e nel teatro popolare italiano del primo Novecento hanno posto in evidenza altre esperienze, facendo emergere manifestazioni dell’orrore per lungo tempo rimaste nell’ombra, attraverso cui «il fantastico nostrano diviene una specifica e organizzata espressione della cultura di massa, e non una curiosa e occasionale presenza»29. Tra i tanti esempi, ne citiamo uno minore, per nulla fantastico, nonché orrorifico e spaventevole solo in senso lato, ma crediamo efficace. La serie culturale dei «drammi dei serragli» percorre tutta la prima parte del Novecento: l’incontro sanguinario tra la bestialità esotica e il corpo civile europeo dai giardini zoologici e dai circhi approda sulle copertine de «La Domenica del Corriere», per poi essere riproposto al cinematografo o condensarsi nel finale del Serafino Gubbio di Pirandello. Il pubblico del tempo non sembra sgradire queste «tranches de mort», nello specifico l’imagerie sensazionale, spaventevole e grandguignolesca offerta dalla «morte filmata»30. Viene da chiedersi se davvero il cinema – nel periodo del muto – fosse escluso da questo o da altri «banchetti oscuri» o se invece vi prendesse parte. Domanda che sta al centro del capitolo successivo, in cui verrà esplorato «il gusto dell’orrido al principio del XX secolo». Per coglierlo non dobbiamo cacciare esclusivamente creature soprannaturali, mostruose oppure limitarci a inseguire una nozione di genere che si costituirà solo in seguito; se poi di genere si tratta occorre tanto guardare al fantastico e allo storico-meraviglioso nostrano quanto porre attenzione al groviglio di racconti «neri». Un campo dell’orrore, se così possiamo definirlo, parte di un più largo bacino di aperture narrative, visuali e culturali in cui il nuovo medium, l’immaginario fantasmatico, violento e «sensazionale», la fisiologia e la psiche dello spettatore di inizio Nove28 Si vedano tra gli altri: G. Contini, Italia magica. Racconti surreali novecenteschi, scelti e presentati da Gianfranco Contini, Einaudi, Torino 1988 (prima edizione, Italie magique: contes surréels modernes, choisis et présentés par Gianfranco Contini, Aux Portes de France, Paris 1946); E. Ghidetti (a cura di), Notturno italiano. Racconti fantastici dell’Ottocento, Editori Riuniti, Roma 1984; Id. - L. Lattarulo (a cura di), Notturno italiano. Racconti fantastici del Novecento, Editori Riuniti, Roma 1984; C. Melani, Fantastico Italiano. Racconti fantastici dell’Ottocento e del primo Novecento italiano, Rizzoli, Milano 2009. 29 Foni, Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932 cit., p. 7; C. Arduini, Teatro sinistro. Storia del Grand Guignol in Italia, Bulzoni, Roma 2011. 30 Si veda L. Mazzei, Non fermate quella manovella!, in Catalogo del 39° Festival dei Popoli, Firenze, 13-19 novembre 1998, pp. 127-50, e in questo volume il capitolo «Del gusto dell’orrido al principio del XX secolo».

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cento sono protagonisti di un inedito e complesso confronto reciproco, per nulla pacifico o privo di conseguenze31. Va inoltre considerato come ai primi del Novecento la proliferazione nel cinematografo di un immaginario violento che la censura andrà a regolamentare dal 1913, già ampiamente presente negli altri media, era «al servizio di due obiettivi opposti: pacificare i costumi dei ragazzi puberi, offrendo loro lo sfogo di brividi mortali senza passaggio all’atto, ma anche preparare l’eventualità di quest’ultimo, testimoniato dalla doppia spaventosa ecatombe mondiale»32. L’orrore nel cinema italiano del periodo muto partecipa così a un processo storico di lungo periodo di interdizione del sangue e della violenza e di negazione della morte in Occidente.

3. Il periodo interbellico. Se si guarda poi all’andamento diacronico della cultura popolare in Italia, si può notare come la discontinuità della «cultura sottile» ben si adatta a un’ipotetica periodizzazione dell’horror italiano: «dovette interrarsi come un fiume carsico dopo la “grande guerra”, per riemergere – per un breve tratto – a metà degli anni Trenta, e poi tornare definitivamente in superficie a partire dagli ultimi anni Cinquanta»33. Negli anni venti il bacino del «sensazionale» in cui maturavano orrori sembrava essersi diluito e stemperato in generi più «leggeri» quali il «grottesco» di Chiarelli34. Alla fine del decennio, il grand guignol che aveva «imperversato sui palcoscenici della Penisola per un trentennio» e che aveva «flirtato» con il cinematografo, aveva esaurito la propria spinta propulsiva, travasando nel giallo ciò che i due generi avevano in comune: il cadavere: «se per il grand guignol la vittima è l’ostentato punto d’arrivo […] nel poliziesco il corpo irrigidito Tra le molte direzioni ci limitiamo qui a segnalare in particolare, all’interno del più ampio contesto degli studi sulle relazioni tra cinema delle origini, la costruzione del soggetto moderno ed esperienza della modernità: S. Alovisio, L’occhio sensibile. Cinema e scienze della mente nell’Italia del primo Novecento, Kaplan, Torino 2013, e S. Natale, Un dispositivo fantasmatico: cinema e spiritismo, in «Bianco e Nero», 2012, 573, pp. 82-91. 32 R. Muchembled, Storia della violenza, Odoya, Bologna 2012, pp. 246-7. 33 F. Colombo, La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’Ottocento agli anni novanta, Bompiani, Milano 1998, p. 98. 34 Costa, I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato cit., in particolare pp. 101-25. 31

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del cadavere è l’innesco del meccanismo della detection»35. Durante gli anni trenta, l’affermazione letteraria e teatrale del giallo comporta l’esclusione «dall’intreccio romanzesco [di] ogni componente cruenta e sanguinaria» e una «pudica reticenza nell’affrontare la messa in scena della morte»36. Nel 1957, la risorgenza del cadavere all’inizio del thriller-horror I vampiri appare metafora del ritorno di quel rimosso che già il neorealismo aveva riportato sugli schermi, divenendo elemento centrale del neonato horror e innesco della detection e del discovery plot37. La reticenza di fronte all’esibizione della fisicità della morte scompare in occasione di due adattamenti di Poe: Il cuore rivelatore (Cesare Civita, Alberto Lattuada, Alberto Mondadori, Mario Monicelli, 1935) e Il caso Valdemar (Ubaldo Magnaghi, Gianni Hoepli, 1936) sono realizzati al di fuori delle maglie della censura e della produzione commerciale del cinema ufficiale (i Cineguf) e condotti da alcune delle più interessanti personalità del mondo intellettuale e artistico milanese. I due cortometraggi costituiscono un’evidente opposizione nei confronti dei modelli corporei del fascismo. In particolare, il finale de Il caso Valdemar presenta la prima «trasformazione a vista» del cinema italiano. Il tentativo di risveglio di Valdemar si risolve nel suo opposto, la decomposizione, la trasformazione del corpo in cadavere, in una massa liquida e putrefatta e in un teschio ghignante che sembra dichiarare vittoria sul governo del vivente. Un’estetica gore opposta all’ideale del corpo sano, forte, giovane propugnato dal fascismo38. Sempre all’interno delle pratiche sperimentali dei Cineguf e ancora in relazione alla raffigurazione del dominio della morte e del caArduini, Teatro sinistro. Storia del Grand Guignol in Italia cit., pp. 90-1. G. Canova, Il giallo italiano negli anni Trenta, in Aa.Vv., Il giallo degli anni Trenta, Lint, Trieste 1988, p. 31. 37 Si intende qui il «complex discovery plot» descritto da Carroll e all’opera nell’«arthorror» (l’orrore finzionale, estetico), struttura narrativa composta da quattro fasi: «onset» (l’insorgenza, la manifestazione dell’orrore, del mostruoso in maniera esplicita o sotto forma di indizio misterioso, come nel caso del cadavere nel film di Freda e Bava), «discovery» (la sua scoperta da parte dei protagonisti), «confirmation» (la conferma della sua esistenza e pericolosità agli occhi di altri, in particolare le autorità), «confrontation» (il confronto e lo scontro con la mostruosità), Carroll, The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart cit., in particolare pp. 99-108. Per la matrice da polar del film di Freda e Bava si veda l’analisi qui contenuta. 38 A. Mariani - S. Venturini, In articulo mortis. Poe e l’esperienza della modernità nel cinema sperimentale dei Cineguf, pubblicato con il titolo Sapessi com’è strano incontrare Poe a Milano, in «Bianco e Nero», 2014, 579. 35 36

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daverico – questa volta in forma di espressione diretta del regime, almeno nella sua componente «mistica» – troviamo Il Covo (1941), realizzato dal Cineguf di Milano e dalla Dolomiti Film in collaborazione con la Scuola di mistica fascista e firmato da Vittorio Carpignano e Luciano Emmer. Il Covo è il momento forse più alto, complesso e inquietante di espressione di un’estetica della morte tra le due guerre. Un film celebrativo – sullo sfondo della risoluzione mistica, religiosa della filosofia fascista nel suo momento di decadenza – e privo di figure umane, come se lo spazio dell’utopia del regime fascista avesse lasciato il posto a una dimensione che assume come orizzonte di aspettativa il superamento della morte e la comprensione degli esiti ultimi di annientamento dell’organico e dell’umano segnati dal procedere del secondo conflitto mondiale. Il Covo è saturo di luoghi bui, cupi e catacombali, di «nature morte» e di «vanitas» che inneggiano all’estensione del dominio dell’inorganico; punteggiato da teschi ghignanti, figure del culto della morte eroica («beffo la morte e ghigno», lo slogan fascista). La trasfigurazione in chiave simbolica ed epica dell’estremo approdo della mitologia di regime passa attraverso una rievocazione della cronaca e storia del fascismo: nel momento di richiamo del primo conflitto mondiale lo schermo si riempie di rumori dissonanti, scomposti, e di volti di cadaveri orribilmente sfigurati39. Esemplare è poi il rovesciamento a fini di propaganda del principio di estraneità del fantastico romantico e gotico operato dal pregevole film d’animazione Il Dottor Churkill (Liberio Pensuti, 1942), parodia che strumentalizza la tanto vituperata retorica dell’immaginario nordico dell’orrore: «Nella grande metropoli di un’isola lontana che si allunga sul mare come un grosso ragno dagli immani tentacoli, c’era un sinistro castello, dimora di ombre e fantasmi, popolato dai più ripugnanti animali notturni». La satira propagandistica attinge in particolare a un immaginario dei mad doctors diffusi nel periodo e oramai fatto proprio anche dalla cultura popolare nazionale (attraverso la letteratura ma anche, come si vedrà, dalla circolazione del cinema horror e fantascientifico americano ed europeo). Senza contare che sul finire Si veda A. Mariani, Nomadi e bellicosi. Il cinema sperimentale italiano dai Cine-club al neorealismo, Università degli Studi di Udine, a.a. 2013-14, pp. 170-85, e in particolare la ricostruzione storico-filologica del film discussa, in A. Mariani, «Fascistically Made». The Politicization of Amateur Cinema in Fascist Italy, paper presentato a Necs Media Politics – Political Media, Necs Conference, Prague 2013. 39

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degli anni trenta il fumetto italiano stava proponendo il dottor Virus ri-animatore di morti e il goethiano dottor Faust di Pedrocchi. Tale radicamento è una delle condizioni di esistenza del film di Pensuti che annota una presenza pregressa nella cultura popolare italiana di una componente che caratterizzerà I vampiri: l’horror fanta-medicale. Nel cinema italiano tra le due guerre la pratica «medicale» abita tanto la dimensione popolare (l’animazione, il fumetto, la letteratura, il cinema), traslata nella figura del mad doctor, quanto una dimensione elitaria legata alla pratiche marginali del cinema medico-scientifico e in particolare chirurgico. Il cinema chirurgico realizzato in chiave disciplinare a fine di documentazione e insegnamento è praticato da nomi di spicco del panorama sperimentale italiano degli anni trenta (si vedano le riprese di operazioni chirurgiche da parte di Pasinetti e Veronesi), nonché ammirato da altri come Magnaghi40. La trasformazione a vista nel Valdemar di Magnaghi e Hoepli fu infatti realizzata con la consulenza di Ferdinando Livini, allora rettore dell’Università di Milano, chiarissimo professore di anatomia41. Altrove, nella produzione industriale, l’andamento carsico della produzione orrorifica italiana, il rigetto culturale e i molti interventi censori non hanno significato necessariamente un’assenza completa del genere dai nostri schermi tra le due guerre. Se si guarda al cinema straniero, si vede bene come quello italiano sia un mercato di forte importazione fin dal primo dopoguerra. Da un lato la produzione italiana ha dovuto tenere conto di margini ridotti di mercato lasciati liberi, dall’altro il pubblico si è confrontato con l’horror di provenienza estera. L’espressionismo tedesco è in parte circolato in Italia, anche se con problemi e vicissitudini legate alla censura, come nel caso di due film di Robert Wiene quali Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr Caligari, 1920, prima approvato con riserva e poi revocato dal nulla osta nel 1924) e Le mani dell’altro (Orlacs Hände, 1924, prima 40 «La prima impressione è di sgomento e di paura […]. Poi, il timore, il panico, che si ha di fronte alla cose nuove e terribili, aumenta. Ci si sente un po’ bimbi, comunque la curiosità, forte, prevale sugli eventi […]. Sembra che quel corpo abbia terrore, sappia ciò che deve subire […]. Piacciono, quelle mani. Fanno paura». Non è un estratto dalla filosofia dell’orrore di Carroll e nemmeno un racconto del terrore, tuttavia l’appassionata descrizione di un’operazione chirurgica edita dal Luce da parte di Magnaghi a tratti vi si apparenta: U. Magnaghi, Le ombre e lo schermo, La Prora, Milano 1933, si veda in particolare il capitolo «Film Chirurgici», pp. 92-6. 41 Si veda U. Magnaghi, Il caso Valdemar, in «Lo Schermo», a. II, agosto 1936, 8.

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vietato e poi approvato con divieto ai minori di quindici anni tra il 1925 e il 1926). Inoltre sappiamo che Bianchi conosceva e apprezzava il cinema espressionista approdato in Italia (Lo studente di Praga, Henrik Galeen, 1925; Faust, Friedrich W. Murnau, 1926) e non rigettava per intero gli horror del ciclo americano di inizio sonoro, accogliendo positivamente Il dottor Jekyll (Dr. Jekyll and Mr. Hyde, Rouben Mamoulian, 1931) – presentato alla prima edizione dell’Esposizione internazionale d’Arte cinematografica nel 1932 e uscito lo stesso anno con un divieto ai minori di sedici anni – e L’uomo invisibile (The Invisible Man, James Whale, 1933), visto a Venezia nel 1934 e uscito con tagli l’anno successivo nelle sale. Mentre Dracula (Id., Tod Browning, 1931) non viene importato, La mummia (The Mummy, Karl Freund, 1932) esce nel 1933, ottenendo positivi riscontri di pubblico e di critica tra Milano e Torino, in concomitanza con la visita di Boris Karloff in Italia42. Frankenstein (Id., Whale, 1931) dopo essere passato a Venezia nel 1932 esce nel 1935, mentre il suo seguito, La moglie di Frankenstein, uscirà nel 1939. Infine, può essere citata la recensione positiva di Il figlio di Frankenstein a firma di Ennio Flaiano43. Queste scarne annotazioni sparse invocano una più completa e dettagliata mappatura, almeno per il periodo tra le due guerre, di figure e motivi orrorifici nella produzione cinematografica italiana, non necessariamente industriale e di genere, nonché una ricostruzione della circolazione, fruizione e ricezione del cinema horror straniero in Italia. 4. Dall’horror «magliaro» alla celebrazione e rifacimento del «made in Italy». Con la ricostruzione dell’industria cinematografica e lo sviluppo di un’industria culturale, alla fine degli anni cinquanta «l’horror italiano fa da anello di congiunzione tra il feuilleton di tradizione ottocentesca e il fumetto violento e moderno (Diabolik, Kriminal) che si afferma nella prima metà degli anni Sessanta»44. L’analisi del gotico 42 Il film ottiene recensioni positive sul «Corriere della Sera» (Filippo Sacchi), «Il Popolo d’Italia» (Dino Falconi), «La Sera» (Enrico Roma), «La Stampa» (Mario Gromo). Anonimo, Boris Karloff a Milano, in «L’Eco del cinema», dicembre 1933, 121, p. 49. 43 E. Flaiano, Il figlio di Frankenstein, in «Cine Illustrato», 25 settembre 1940. 44 A. Pezzotta, Doppi di noi stessi, in Sangue, amore e fantasy, a cura di M. Garofalo, in «Segnocinema», 1997, 85, p. 25.

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italiano non può così prescindere dal «prendere in considerazione anche la letteratura, non solo quella “media” come Carolina Invernizio, Mastriani […] Matilde Serao, ma anche quella “bassa” della Bietti degli Anni Dieci, i fascicoli della Grandi Edizioni Internazionali degli Anni Sessanta e soprattutto i racconti di Dracula e KKK i classici dell’orrore»45. L’orrore circola, si espande, rende difficile se non improduttivo mantenere il cinema separato da una più ampia dimensione mediale e di dialogo intertestuale e conservare distinzioni tra cultura alta e bassa. Dopo l’esperienza del «gotico all’italiana» e dell’horror italiano «mascherato» da straniero, il genere non scomparirà, se non nella sua forma iniziale, maturando sotto altre vesti per tutti gli anni settanta e fino alla metà degli anni ottanta, affermandosi come una delle cinematografie più originali, influenti ed estreme dell’horror moderno46. Questo nonostante abbia scontato per lungo tempo la sufficienza della critica tradizionale e un certo pregiudizio accademico. Nel primo caso l’affermazione di una cinefilia contemporanea particolarmente attenta al cinema di profondità (si pensi ad esempio alla rivista e al gruppo di «Nocturno») ha permesso, giocando sullo stesso «cattivo gusto» denigrato dalla critica tradizionale, di riabilitare il «gusto dell’orrido», portando così dal rifiuto al culto e alla celebrazione di film e sottogeneri e all’istituzione di figure autoriali. Un encomiabile lavoro di scavo e di recupero che darà vita a passioni cinefile al limite della salute mentale (si pensi, seppure fuori dai nostri confini, alla monumentale monografia di Tim Lucas dedicata a Bava)47. Nel secondo caso, all’ostracismo accademico è seguito un periodo di forte interesse che perdura tuttora, segnatamente in ambito anglosassone, in concomitanza con l’affermarsi dei cultural studies e quindi di una rivalutazione dello studio delle pratiche popolari. Inoltre va evidenziata la progressiva disponibilità dei materiali (film) e la riscoperta e divulgazione di altre fonti e documenti essenziali (paratesti, documenti archivistici, testimonianze orali, periodici, letteratura, fumetti, cineromanzi). In particolare, il passaggio prima 45 T. Mora, Viaggio al centro dell’orrore italiano, in Horror Made in Italy, a cura di Artemite e Lanzo, in «Moviement» cit., p. 11. 46 Si pensi ad esempio alla folta presenza (circa un terzo sul totale) di titoli italiani nelle liste dei film perseguiti nel Regno Unito a seguito del Video Recordings Act del 1984 (i cosiddetti «video nasties»). 47 T. Lucas, Mario Bava. All the Colors of the Dark, Video Watchdog, Cincinnati (Oh) 2007.

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al video analogico e poi al digitale ha permesso una circolazione inedita di film fino a non molto tempo addietro introvabili, e ha dato vita a importanti iniziative editoriali, corredate dalla pubblicazione di titoli altrimenti poco circolati, rimasti inediti o incompiuti48. La diffusione internazionale del genere ha consentito di riscoprire e comparare tra loro edizioni e versioni differenti, invocando un approccio storico-filologico. La disponibilità delle copie in video e l’attività della comunità cinefila che ne ha permesso la riemersione non si sono sempre tradotte tuttavia in pratiche archivistiche adeguate; una parte significativa del patrimonio horror italiano non è ancora stata preservata. Tra la fine degli anni settanta e la metà degli ottanta, limite ultimo del periodo che questo volume affronta, l’horror italiano è divenuto parte integrante di quell’immaginario che un intero campo culturale respingeva da decenni. Nel 1982 Robert Bloch pubblica Psycho II, romanzo sequel di Psycho (1959), così definendo idealmente l’intervallo di esistenza dell’horror moderno49. Bloch racconta di un Norman Bates fuggito dal manicomio e diretto a Hollywood dove è in preparazione un film sulle sue gesta. Il regista incaricato della realizzazione del film risponde al nome di Santo Vizzini, «maestro» dello splatter di origini italiane. Vizzini è un maestro dell’art-horror; ha lavorato in Francia, dove ha girato un film sulla licantropia («Loup-garou») giocato sul «mix» sesso e violenza, tale da farlo adorare nei festival e farlo idealmente accostare ad Argento50. Il libro di Bloch e in particolare il personaggio di Vizzini sono segni, tra i tanti che avremmo potuto citare, di un radicamento del cinema italiano dell’orrore nell’immaginario occidentale, oggetto di omaggi e riprese da parte di molto cinema contemporaneo. A citarlo sono autori di primo piano come Ridley Scott, John Carpenter, Tim 48 Si vedano in particolare l’instancabile attività editoriale della rivista «Nocturno», fin dalle edizioni in VHS e più recentemente la collana «Horror Club» per RaroVideo e «Cinekult» per Cecchi Gori Home Video. 49 R. Bloch, Psycho II, Whisper Press, New Jersey 1982. 50 Alcune filmografie online e in volume hanno istituito, inconsapevoli, una filmografia immaginaria di Santo Vizzini, derivata dagli artifici narrativi da letteratura immaginaria messi in atto da Bloch nel romanzo. Per quanto ci è stato possibile, abbiamo provato a ricomporre la sua «pseudo-filmografia», composta allo stato attuale dei seguenti titoli: Tits of Dracula (Santo Vizzini, 1973, Usa, tit. it. Un errore chiamato Dracula), Prod.: American International. Cast: David Peel (Dracula) Madeleine Kahn (Lady de Vet); Rigoni il Vampiro (Santo Vizzini, 1974, Ita/Fra). Prod. Gaumont. Cast: Michel Piccoli (Rigoni); Vampyrus Sapiens (Santo Vizzini, 1979, Usa), Prod. Coronet Films. Cast: Vincent Price.

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Burton, Martin Scorsese, David Lynch, Quentin Tarantino. Filoni e sottogeneri quali lo slasher e lo splatter sono debitori del thriller e dell’horror italiano (da Bava a Dario Argento a Lucio Fulci). La ripresa del mockumentary nel cinema horror contemporaneo, con The Blair Witch Project (Daniel Myrick e Eduardo Sanchez, 1999), ha tra i suoi film di riferimento Cannibal Holocaust (Ruggero Deodato, 1980). Mentre l’ultimo Eli Roth (The Green Inferno, 2013), regista cresciuto con il mito del cinema italiano, omaggia e plagia non solo Deodato ma l’intero filone del cannibal italiano51. Il giallo è a sua volta oggetto di riprese e ricreazioni più sofisticate, come in Berberian Sound Studio (Peter Strickland, 2012) o nei film di Hélène Cattet e Bruno Forzani (Amer, 2009; L’Étrange couleur des larmes de ton corps, 2013). Alla fine della sua corsa, ciò che non rientrava nelle simpatie della cultura italiana e che nel 1957 si manifestava privo di precedenti diviene un made in Italy di tale influenza da divenire luogo comune dell’immaginario horror e ingrediente essenziale dell’orrore postmoderno. Al termine della modernità e nel momento di tramonto del cinema di genere italiano l’horror non invoca più gli «uomini del Nord». 5. Delimitazioni e prospettive; fuochi e metodologie d’analisi. Il volume propone uno studio d’insieme sull’orrore italiano, dal periodo del muto alle soglie del cinema postmoderno e contemporaneo (la fine degli anni settanta, i primi anni ottanta). Ciò non vuol dire che in Italia non ci sia un cinema horror successivo che attraversa (oltre ad Argento) gli anni ottanta e giunge fino a oggi, alimentando il campo e il genere a differenti livelli di impegno e di ingaggio con l’industria cinematografica. Si pensi tra gli altri a Lamberto Bava, Bruno Mattei, Claudio Fragasso, Michele Soavi, Alex Infascelli, Manetti Bros, Federico Zampaglione e tra gli «indipendenti» a Lorenzo Bianchini, Domiziano Cristopharo, Davide Scovazzo, Edo Tagliavini, Alex Visani, Ivan Zuccon. Anche se andrebbe tenuta di conto la supposta discendenza del «cinema dell’abiezione» – ovvero di certo cinema europeo contemporaneo (Almodóvar, Denis, Du51

Per il cinema cannibalico, si veda qui il capitolo «Il sangue e la crudeltà».

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mont, Haneke, Lanthinos, Noé, von Trier), incentrato su soggetti tabù, gore, violenza, pornografia – dal moderno cinema europeo dell’orrore. In altri termini, non andrebbe escluso uno slittamento di parte dell’eredità dell’horror europeo, anche italiano, dal cinema di genere tradizionale al circuito art house e d’autore che affronta temi e figure dell’orrore52. La periodizzazione resta fissata appena al di qua della soglia del cinema contemporaneo, invitando a una lettura di una serie di esperienze da un lato concluse e storicizzate e dall’altro aperte a rivisitazioni e inclusioni inedite. In altre parole, quando si parla di cinema horror italiano emerge un canone composito (il gotico, film e personalità registiche ricorrenti come Bava, Freda ecc.) a cui corrisponde una letteratura ampia e multiforme. Il volume non mancherà di trattare tali canoni e di fare riferimento a tali studi, e tuttavia non esiterà a proporre e seguire strade e approcci alternativi e meno consueti al genere e al campo dell’orrore. Il saggio introduttivo è così organizzato attorno a tre fuochi. Il primo è concentrato sul «gusto dell’orrido al principio del XX secolo», in altre parole sulla ricerca di tracce, figure e motivi dell’orrore nel cinema muto italiano, seguendo alcune delle direzioni cui abbiamo più sopra accennato. Il secondo si sofferma sulla nascita del genere horror in Italia tra il 1957 e il 1966, intervallo che racchiude principalmente il cosiddetto filone del «gotico all’italiana», qui tanto descritto nella sua organizzazione tematica e stilistica e nelle sue relazioni intertestuali e intermediali con l’industria culturale italiana (fumetto, letteratura, cine-romanzi), quanto esposto alla luce dei suoi modi di produzione e da qui collocato in una sua specifica dimensione di prodotto transazionale, export-oriented. Il terzo è infine dedicato ai «nuovi orrori» che emergeranno tra il 1968 i primi anni ottanta sullo sfondo di più ampie trasformazioni della società italiana, dei confini del visibile e dello statuto del soggetto che attraversano l’intero cinema italiano. Un cinema contraddistinto dalla crudeltà e dal sadismo, fondato su un’umanità assassina, mancante di empatia, capace di ridurre a oggetto le proprie vittime e su un ritorno al primitivo e alla condizione animale, raffigurato da uccisioni brutali, riti arcaici, cannibalismo e carnivorismo. L’horror post-’68 rinnova motivi e figure, procede alla scoperta di nuovi paesaggi dell’orrore. 52 Si veda Olney, Euro Horror, Classic European Horror Cinema in Contemporary American Culture cit.

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Sperimenta l’estremizzazione formale e tematica all’insegna dell’estetica dell’omicidio, della messinscena di una violazione e trasfigurazione del corpo sempre più eccessiva e barocca. Opera attraverso l’ibridazione e la contaminazione con altri generi con la conseguente proliferazione di sottogeneri e di filoni originali (come il cannibalico). La convergenza tra sperimentazione estetica e la volontà di superamento delle soglie di accettabilità di un’imagerie sadica, malvagia e perversa rende incerti i confini tra cinema di genere, cinema di ricerca e cinema d’autore. Non senza abbandonare le consuete operazioni di speculazione (di exploitation) su successi stranieri, oppure offrire originali rivisitazioni del gotico. Nella prima metà degli anni settanta sarà fondamentale il ruolo assunto dal giallo nella creazione di alcune delle più traumatiche e visionarie sequenze del periodo e nella progressiva opera di scomposizione della linearità, verosimiglianza e coerenza della narrazione. Il volume adombra anche uno slittamento delle origini del mostruoso e dell’orrore dal sovra-umano (il diavolo, il vampiro, le streghe) all’umano (la psicopatologia criminale) e infine al pre/post-umano (i cannibali, gli zombie), mutazione che può essere intesa come una metafora di cambiamenti paradigmatici: «la figura mostruosa del vampiro, associata all’Europa feudale, è stata gradualmente rimpiazzata dall’ascesa del serial killer nell’America industriale e capitalista […] a sua volta il serial killer sembra avere recentemente fatto posto alla post-industriale, tardo capitalista, globalizzata orda zombie»53. Una dinamica che può anche essere riportata e riconosciuta nel contesto nazionale tra gli anni cinquanta e ottanta e che può essere colta e interpretata come passaggio dal cinema classico del terrore a quello moderno e da ultimo postmoderno e come deriva dal «mostro come opera d’arte» al «mostro come artista» e infine al «body horror». Le analisi sono dedicate a film che da un lato sono emblematici di sottogeneri, svolte, istituzioni o lasciti, mentre dall’altro risultano poco canonici, inseguono cioè quell’idea di allargamento delle maglie dell’horror e di disseminazione di effetti orrorifici che abbiamo cercato di sintetizzare poco più sopra. La prima analisi – Rapsodia satanica (Nino Oxilia, 1917) – ha voluto innanzitutto evidenziare la natura di film di ricerca del film di A. Ahmad, Gray Is the New Black. Race, Class and Zombies, in Generation Zombie. Essays on the Living Dead in Modern Culture, a cura di S. Boluk e W. Lenz, McFarland & Co, Jefferson (Nc) 2011, p. 131. 53

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Oxilia all’interno dei rapporti tra il cinema e le altre arti nel contesto italiano degli anni dieci. Le rappresentazioni del demoniaco e del mostruoso femminile a cavallo tra Otto e Novecento sono poste a contatto con le prime esperienze della modernità e correlate alla modifica dello statuto antropologico e psichico del soggetto a contatto con il medium cinematografico e con l’immaginario della morte accresciuto dal coevo conflitto bellico. Entro questi margini sono analizzati motivi e figure che segnano il film rifacendosi a strumenti propri della tradizione degli studi iconografici (Praz, ma anche Warburg, seppure attraverso Didi-Huberman), della psicoanalisi (Freud, Fédida) e tenendo in considerazione l’influenza sul film esercitata dallo spiritualismo. Rapsodia satanica è un adattamento al femminile del Faust di Goethe, un esempio di cinema italiano delle dive costruito attorno a un personaggio a suo modo «mostruoso», capace di rigenerare il proprio corpo stringendo un patto con il diavolo e di incarnare pulsioni erotiche e di morte. Una figura che rappresenta da un lato la vertigine e la perversione della femme fatale e dall’altro il simbolo di una donna in mutazione, proiettata verso una modernità che incute soggezione e timore. La seconda si occupa di Malombra (1942), secondo adattamento, a opera di Mario Soldati, dopo il primo a firma di Gallone nel 1917, del romanzo omonimo di Antonio Fogazzaro. Il film è colto su più piani. Un primo esercita l’analisi iconografica e dei motivi spaziali e narrativi del film fino a incontrarne le radici archetipiche in accordo con le proposte dei coevi studi di Kerényi e Jung; un secondo si occupa di quelle aperture visuali del periodo tacciate di calligrafismo e invece prossime tanto al sublime romantico e a certe peculiarità del gotico quanto a una modernità figurale resa attraverso la connessione «esoterica» tra motivi del paesaggio visivo e di quello sonoro; un terzo piano ospita linee e sentimenti di prossimità del film rispetto a coeve esperienze internazionali, alle epifanie «nordiche» dell’orrore e alle forme «spirituali» perseguite e ricercate da Soldati; un quarto intreccia feminist theory, psicoanalisi e teoria del gotico. Malombra è un esempio di gotico prima del gotico all’italiana cui facevamo inizialmente riferimento, un film in cui le tensioni oniriche, violente ed erotiche latenti nel melodramma si coagulano e condensano in una figura femminile, la cui scissione interiore e il prepotente ritorno del passato la conducono al delirio psicotico e soprattutto la tramutano in un’assassina. Due figure femminili «mostruose» (Alba, Marina) che affon25

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dano le radici in archetipi della letteratura e cultura ottocentesca, quasi ad anticipare la centralità della figura femminile nel gotico italiano degli anni sessanta. La terza analisi è così dedicata a I vampiri, altro film costruito attorno alla polarità tra bellezza e mostruosità del femminile. La prospettiva di indagine è qui essenzialmente di ordine storico-filologico, pur non mancando una disamina sulla «modernità» del film. La ricerca si è concentrata sulla descrizione dei modi di produzione e sulla contestualizzazione storico-critica fin dalla ricezione italiana (le critiche dei quotidiani) ed estera (il raffronto con la versione americana del 1960), nonché sulla ricostruzione – in parte inedita, basata sullo studio comparato della versione originale e dei documenti conservati presso l’Archivio centrale di Stato – della stratificazione tra la versione Freda e la versione Bava. I vampiri è incluso per la capacità di addensare al suo interno retaggi differenti e per essere il capostipite e archetipo del cinema horror italiano a venire, capace di travasare il melodramma nell’horror e di costituirsi in particolare come la soglia di ingresso al gotico italiano del periodo 1960-66. A sua volta, Contronatura (Antonio Margheriti, 1969), quarta analisi, rappresenta la soglia di uscita, la danza macabra e di congedo del gotico che si dissolve nel giallo e nell’erotico. L’analisi si concentra sul raffronto tra film e fonti letterarie; delinea le convergenze e le contaminazioni a livello di soluzioni linguistiche, stilistiche e di generi messe in scena da Margheriti; riconduce il film a motivi iconografici e luoghi di lungo periodo quali le danze macabre e le Wunderkammern; ripercorre il film all’insegna del perturbante, del ritorno del primitivo e della liberazione del desiderio, intrecciando l’analisi delle forme, dei motivi narrativi e degli sfondi culturali in cui si colloca. Infine insegue lo straripamento del film in altri luoghi e media, all’insegna della progressiva porosità dei confini tra cronaca e finzione e del superamento dei limiti della rappresentazione. Come ebbe a scrivere Mora, «così come l’horror si sostituisce cronologicamente senza quasi soluzione di continuità al melodramma, lo stesso accade per l’erotico nei confronti dell’horror: il film che esplicitamente segna il passaggio dei due generi è Contronatura»54. La quinta analisi – Ecologia del delitto/Reazione a catena (Mario Bava, 1971-72) – ripercorre un’opera rappresentativa del «new horror 54 Mora, Il cinema fantastico italiano. Un fenomeno produttivo marginale cit., p. 29, nota 21.

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all’italiana» (riprendendo la celebre etichetta attribuita al cinema horror statunitense post-’68). L’analisi è condotta reinserendo il film nel contesto internazionale in cui è stato diffuso, in particolare statunitense, e rilevando fin dalla sua struttura narrativa la sua funzione critica di ordine politico (l’oramai celebre formula del marxismo baviano) e la sua azione disgregante rispetto a modelli tradizionali di racconto del terrore di provenienza borghese, sostenuta da un modello che sarà la forza del giallo e il tratto portante dello slasher. Reazione a catena è inoltre visto come esperimento in vitro di una condizione antropologica e sociologica primigenia in cui si attivano situazioni anomiche proprie dei momenti di transizione delle strutture di potere (Agamben, Schmitt); emergono comportamenti bestiali e privi di empatia (Eisler, Baron-Cohen); operano i dispositivi della violenza mimetica, del sacrificio e della vendetta (Girard). Il film di Bava segna il prepotente ingresso della «banalità del male» nel cinema italiano e la psicotizzazione di un intero microcosmo sociale. Si colloca al crocevia tra slasher e giallo, una sintesi perfetta tra horror e thriller nel momento di esplosione del giallo argentiano, in cui l’arte dell’omicidio si articola e trova nuova sostanza nella ripetitività gore di ciò che in seguito sarà definito film slasher. La sesta esplora la fiaba nera Suspiria (1977) di Dario Argento. La prima incursione del «maestro del brivido» nell’horror soprannaturale è sezionata e osservata lungo più prospettive. Suspiria è un racconto di formazione, una fiaba nera costruita all’incrocio di differenti suggestioni figurative, cinematografiche e letterarie, nonché un luogo di sperimentazione (il colore, il suono) e di riflessione metalinguistica al servizio di un immaginario orrorifico liberato dagli ancoraggi verosimiglianti propri del giallo. Al suo interno opera una dialettica complessa e un passaggio di consegne tra uno stile tardo-manierista e un’opera postmoderna, tra una logica narrativa lineare e un tracciato unicursale e una costruzione scomposta e affastellata, prossima al labirinto manierista. In un’ottica di genere il film di Argento segue alcune precise rotte dell’abiezione e del mostruoso-femminile e procede oltre l’identificazione con il punto di vista dell’assassino (e quindi con un piacere sadico tipico del contemporaneo slasher) per transitare lungo un punto di vista della vittima (e quindi a un piacere di ordine masochistico) e infine pervenire a una ricollocazione dello sguardo e dei suoi meccanismi d’identificazione in una posizione innaturale, post-umana. 27

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L’ultima analisi è consacrata a Zombi 2 (Lucio Fulci, 1979), allineando essenzialmente tre piani di lettura: il primo mira a cogliere il carattere liminare del film, sospeso tra ritorno alle origini del racconto di avventura e di viaggio – attraverso la ripresa della genesi dello zombiemovie e le contaminazioni con il western e il cannibalico italiano – e l’apertura su più livelli alla coeva condizione postmoderna; il secondo ospita la letteratura di rivisitazione del mito dello zombie alla luce del postcolonialismo, all’interno della quale il film di Fulci attrae oramai sempre più interesse; l’ultimo piano di lettura apre alla condizione post-umana, rileggendo il mito degli zombie in considerazione della sua significativa attualità (aspetto comune alle precedenti prospettive) e riconsiderando la metafora del morto vivente in relazione ai concetti e alle categorie di simulacro (Baudrillard), di contagio (Artaud) e di corpo senza organi come risposta evolutiva all’anomia del potere tradizionale (ancora Artaud, Deleuze, Guattari, McCormack). Il film di Fulci arriva al termine del viaggio del cinema del terrore italiano moderno, capace nella sua dissoluzione di offrire squarci di un oltre-vita e intuizioni sulle sue radici e origini orrorifiche, inoltrandosi da un lato verso il post-umano e dall’altro ritrovando paure arcaiche, primitive, proprie dei racconti di avventura e dei primi viaggi di esplorazione, in cui la «civiltà» occidentale procedeva alla ricerca del cuore di tenebra dell’umanità.

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Pareva contorta in tutte le membra, aveva il viso spaventevole, deforme, le guance chiazzate da macchie giallastre, gli occhi spauriti, il contorno delle sopracciglia ridotto a piaga; invece del naso due buchi neri, schifosi, un mostro insomma. Non parlava e mandava un suono stridulo, gutturale, che faceva male a sentirsi1.

Il cinema italiano di inizio Novecento è stato un luogo di incubazione e sperimentazione di violenze e orrori. Tale lato oscuro si è manifestato di rado in forma autonoma e indipendente in un genere, in una formula, più spesso si è innestato su altri generi e filoni. Tratto che condivide con il più ampio territorio del modo fantastico che «non si dà quasi mai allo stato puro, ma all’interno dei caratteri dominanti di altri generi»2. Ci si confronta così nel migliore dei casi con un oggetto di studio parassitario o mascherato, in molti altri con un corpus mutilato, la cui imagerie orrorifica è stata espunta dalla censura o è andata perduta. La componente orrorifica nel cinema muto italiano è così presente, seppure sotterranea e minoritaria. Per farla trasparire è in molti casi necessario fare riferimento a materiali non filmici, quali le filmografie, gli elenchi di censura, gli archivi delle case di produzione, le riviste d’epoca, i cine-romanzi, gli avantesti letterari o teatrali. Tra l’inizio degli anni dieci e la prima metà degli anni venti le tracce di una cultura dell’orrore nel cinema muto italiano possono essere identificate considerando due prospettive, affatto disgiunte tra loro. La prima è offerta dagli studi sul cinema fantastico, la seconda emerge percorrendo l’industria culturale, i generi popolari, la storia sociale dei media. La vendetta di una pazza. Seconda serie – Il bacio di una morta, in «Al Cinemà», 1922, 12, p. 11. 2 Costa, I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato cit., p. 25. 1

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L’esplorazione del fantastico ha individuato nella tradizione dantesca e in quella di derivazione storico-mitologica la «via italiana al cinema fantastico e gotico […] legata ai caratteri originari della tradizione culturale e nazionale»3. Esempi di un’iconografia dell’orrore specificatamente nazionale si ritrovano così nei danteschi Pia de’ Tolomei (Società italiana Cines, 1908) e Il conte Ugolino (Itala Film, 1909), per poi culminare ed esplodere per quantità e qualità nel meraviglioso e straordinario La Divina Commedia. Inferno (Milano Films, 1911). La ripresa dell’iconografia di Doré in uno dei primi esempi di film a lungometraggio mette d’accordo cultura alta e cultura bassa e importa nel cinema muto italiano «tutti gli stilemi dell’imagerie romantica». Il film di Adolfo Padovan, Giuseppe De Liguoro e Francesco Bertolini è fondamentale poiché istituisce un luogo che è al contempo meraviglioso e visionario (basato cioè sul trucco come presupposto del cinema fantastico) e verosimile e documentario (la creazione di un mondo «credibile» e di un luogo esotico in cui avventurarsi). In altre parole, sullo schermo cinematografico viene trasposto il repertorio visionario e mitologico proprio del mostruoso (le metamorfosi, i diavoli, il Lucifero) e il repertorio crudele e antropologico proprio del sadico: i «dannati strisciano […] altri conficcati come cunei nelle loro sepolture, altri ancora procedono decapitati mutilati sventrati»4. Le figure e i poteri del diavolo e del maligno sono al servizio del meraviglioso cinematografico ne Il diavolo zoppo (Società anonima Ambrosio, 1910), mentre il lungometraggio Satana (Luigi Maggi, 1912) è scritto per lo schermo da un erede della scapigliatura torinese come Guido Volante e grazie agli episodi auto-conclusivi modula e sperimenta un immaginario denso di crudeltà e violenza su più registri e generi. La tradizione operistica e melodrammatica alimenta e connota il Faust (Società italiana Cines, 1910) e fra tradizione romantica e lirica si colloca Il demone (Giovanni Vitrotti e F. Kortfus, 1911). Nel solco della tradizione faustiana filtrata dal cinema delle dive (o diva film)5 si collocano Rapsodia satanica (1917) e La giovinezza del diavoIbid. Si veda M. Canosa (a cura di), Cento anni fa. Inferno, Edizioni Cineteca di Bologna, Bologna, 2011. In particolare ci rifacciamo agli interventi di Michele Canosa e Giovanni Lasi. 5 Il cinema delle dive è negli anni dieci il genere di maggior impatto assieme allo storicomitologico. La figura della diva, proveniente dal teatro e dalla letteratura, si incarna nel cinema e nella società del tempo in attrici quali Francesca Bertini, Lyda Borelli, Pina Menichelli, interpreti di nuovi modelli di femminilità e pioniere della legittimazione del cinema come arte e come mezzo di seduzione e coinvolgimento del pubblico popolare. Nel corso del volu3 4

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lo (Roberto Roberti, 1922)6. L’esplorazione del fantastico ha poi messo in evidenza prototipi del cinema gotico come Malombra di Carmine Gallone (1917), in cui il cinema delle dive attinge a una riserva culturale specifica dialogando con la tradizione spiritualista orientata al fantastico soprannaturale e psicologico. Il genere storico-mitologico è anch’esso portatore di visioni mostruose, crudeltà e sadismo. Si vedano in L’Odissea (Adolfo Padovan e Francesco Bertolini, 1911) l’accecamento del Polifemo e la teratologia classica, in Cabiria (Giovanni Pastrone, 1914) i sacrifici umani alla divinità Moloch, i testi delle didascalie e certi passaggi delle sceneggiature che sembrano invocare una lettura e ancora prima una costruzione del piano visivo e formale all’insegna del sanguinario e dell’orripilante7. Infine, con Maciste all’Inferno (Guido Brignone, 1926) assistiamo alla convergenza tra cultura alta e cultura popolare, tra l’iconografia e l’immaginario dantesco e i miti e gli eroi della serialità popolare. Gli esempi citati finora rientrano nella prima prospettiva delineata e nelle categorie del fantastico soprannaturale e del meraviglioso, fanno riferimento a generi e filoni più conosciuti e frequentati (lo storicomitologico, il cinema italiano delle dive, il gotico-romantico, il cinema di ispirazione dantesca). Si aggiunga che la relativa estraneità del cinema nazionale ad alcune forme e figure dell’orrore «nordico» rende pressoché unici casi come Il mostro di Frankenstein (Eugenio Testa, 1920), segnato dall’influenza e dalla fortuna continentale del film sensazionale e del filone atletico-acrobatico. L’anomalia e la precocità di un «Frankenstein» italiano cessa di essere tale se si considera che il film è stato realizzato in Italia ma pensato come un prodotto mimetico per un mercato internazionale, in particolare tedesco, cui Luciano Albertini e la sua casa di produzione guardavano con interesse8. me utilizzeremo anche la dizione diva film, utilizzata da Angela Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema, University of Texas Press, Austin (Tx) 2008. Sul genere e sul divismo nel cinema italiano del periodo, si vedano C. Jandelli, Le dive italiane del cinema muto, L’Epos, Palermo 2006; V. Martinelli, Le dive del silenzio, Cineteca di Bologna, Bologna 2001. 6 Alba d’Oltrevita in Rapsodia satanica è interpretata dalla Borelli, così come Marina di Malombra in Malombra (1917), mentre Francesca Bertini è invece la duchessa Fausta (!) ne La giovinezza del diavolo. Per un approfondimento si veda l’analisi dedicata a Rapsodia satanica qui contenuta. 7 S. Alovisio, Il film che visse due volte. Cabiria tra antichi segreti e nuove ricerche, in Cabiria & Cabiria, a cura di A. Barbera e S. Alovisio, Il Castoro, Milano 2006. 8 Si veda in questa direzione anche Der Traum der Zalavie (1923) di Emilio Ghione, segnalato da Costa come un esempio di gotico di provenienza italiana ed essenzialmente export-oriented. Costa, I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato cit., p. 27.

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Eppure a inizio Novecento il «fantastico nostrano diviene una specifica e organizzata presenza della cultura di massa, e non una curiosa e occasionale presenza»9. Sul versante dell’intrattenimento, in altre parole di una produzione meno preoccupata della nobilitazione o dell’influenza morale del mezzo cinematografico, ritroviamo indizi di un differente terreno di coltura dell’orrore, un’area fertile per la costruzione di un’identità e di un dispositivo di genere nel cinema italiano, un tentativo tuttavia destinato a fallire e a riemergere in forme differenti a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta. In questa dimensione l’«orrore» pertiene alle categorie dello strano e del perturbante, del perverso e del sensazionale. Dialoga con il romanzo d’appendice, il racconto esotico e d’avventura, le fiere, il Grand Guignol e la cronaca dei faits divers. Si presenta nelle differenti manifestazioni del cinema popolare del periodo sotto forma di «tranches de mort»10. La scarsa visibilità di questo territorio va ricondotta alla marginalizzazione del pubblico e del cinema popolare, nonché della paraletteratura del periodo11. Alla base di questo cinema collochiamo la persistenza di tratti propri del «cinema delle attrazioni»12, più attento all’efficacia psico-fisiologica ed emozionale dell’enunciato che alla coerenza complessiva del testo13. È in questa direzione che il cinema italiano degli anni dieci mostra il suo «lato oscuro»: una strana inquietudine pervade la cinematografia italiana del 1912: scorrendo i titoli dei film prodotti in quell’anno si nota che il termine «morte» ricorre per ben dieci volte […] e che i riferimenti diretti all’ora fatale nelle sue svariate 9 Foni, Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932 cit., p. 7. 10 Si veda Arduini, Teatro sinistro. Storia del Grand Guignol in Italia cit. 11 F. Casetti - E. Mosconi, Spettatori italiani. Riti e ambienti del consumo cinematografico, Carocci, Roma 2006; G. Bruno, Rovine con vista. Alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notari, La Tartaruga, Milano 1995 (ed. or. Streetwalking on a Ruined Map, 1993); R. De Berti, Dallo schermo alla carta. Romanzi, fotoromanzi, rotocalchi cinematografici: il film e i suoi paratesti, Vita e Pensiero, Milano 2000. 12 La definizione si deve a Tom Gunning, qui e nel corso del volume la intendiamo tanto per identificare una certa modalità del cinema delle origini e delle pratiche di avanguardia (di ricerca estetica o di intrattenimento del pubblico attraverso l’esibizione in sé delle immagini in movimento anziché attraverso il racconto) quanto in senso trans-storico come un’esplicita volontà di esibizione di immagini ed eventi sensazionali, di creazione di effetti di sorpresa, di induzione di shock e di eccitazione sensoriale nello spettatore. T. Gunning, The Cinema of Attractions. Early Films, Its Spectator, and the Avant-Garde, in Early Cinema. Space, Frame, Narrative, a cura di T. Elsaesser, Bfi, London 1990; A. Gaudreault, Cinema delle origini o della «cinematografia-attrazione», Il Castoro, Milano 2004. 13 M. Dall’Asta, Trame spezzate. Archeologia del film seriale, Le Mani, Recco 2009.

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Del gusto dell’orrido al principio del XX secolo accezioni – dal suicidio all’assassinio alla sepoltura in vita – si trovano almeno in altre dieci occasioni […]. Il cinema italiano scopre la seduzione irresistibile del male […] e rincorre un’estetica del macabro ripresa da un genere teatrale che all’epoca sta riscuotendo grande successo: il grand guignol […]. In film come Più che la morte [Società italiana Cines] non è tanto l’intreccio della trama ad interessare lo spettatore, quanto piuttosto la natura crudele dei personaggi e l’impressionante realismo con cui sono rese le scene più efferate. Lo shock emozionale è certamente la cifra distintiva di questi soggetti «sensazionali» […]. Sono film che ammiccano al voyeurismo del pubblico […] con lo spettacolo esplicito della violenza, appositamente allestito con qualunque espediente in grado di attivare nello spettatore la sensazione di verità, come, ad esempio, nella scena di In pasto ai leoni [Società italiana Cines], in cui un malcapitato tenente viene sbranato da felini in carne e ossa14.

La «strana inquietudine» non si limita all’anno 1912, «l’uso dei titoli sensazionali ormai s’è imposto»15 e la loro frequenza è significativa per tutto il decennio. Che si tratti di uno «spettro», di un «vampiro», di una «belva», di un «castello», un «incubo», una «sepolta» o una «morta» i termini rimandano a una competenza enciclopedica degli spettatori in divenire e in continua mutazione; alla capacità degli stessi di riconoscere sempre più luoghi, ascendenze e intrecci narrativi; e all’aggirarsi con sempre più familiarità nella rete di passaggi che collegano tra loro le figure dell’imagerie popolare dell’industria culturale del periodo, circolanti tra stampa, illustrazione, teatro, cinema. I termini giocano poi in modo esplicito sullo sconfinamento del sensazionale nei paratesti16. Il cinematografo ingaggia con il pubblico una lotta nervosa: «l’attenzione dello spettatore diviene tenace, il cervello si perde in congetture, i nervi sono, in certi punti, in completa tensione», scrive un corrispondente nel 1914 a proposito dei film sensazionali dell’Aquila Films17. Più che la morte (1912) è un «film di sorprendente crudeltà»18 che mette in scena una sadica vendetta su un’intera famiglia. Un’altra cornice ed epilogo a lieto fine non vieta agli spettatori di assistere, attraverso il filtro del cinema a trucchi, alla macellazione di due bambini nella storia «nera» La leggenda di San Nicola (Aquila Films, 1911). G. Lasi, Italia 1912. Il lato oscuro della realtà, in Catalogo «Il Cinema ritrovato», Fondazione Cineteca di Bologna, Bologna 2012, p. 37. 15 P. Da Castello, La spirale della morte, in «La vita cinematografica», a. VIII, 7-15 novembre 1917, 41-42, p. 75. 16 Cfr. De Berti, Dallo schermo alla carta cit., in particolare pp. 123-4. 17 Anonimo, «La Cine-Fono e la Rivista Fono-cinematografica», 12 settembre 1914, 290. 18 I. Blom, Più che la morte, in Catalogo «Le Giornate del Cinema Muto», Le Giornate del Cinema Muto, Pordenone 2011, p. 68. 14

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Le esotiche bestie feroci, figure dell’alterità coloniale, si stagliano minacciose sulle pagine dei periodici illustrati fin da inizio Novecento, giungendo nell’anteguerra alla massima popolarità e impatto sugli schermi cinematografici. Così è nel caso del già citato In pasto ai leoni e l’anno seguente divorano i protagonisti di Fra ruggiti di belve (Film artistica «Gloria», 1913): «sia soppresso l’ultimo quadro raffigurante la tigre mentre dilania un corpo informe dalle parvenze umane», recita la censura che approva con riserva. Le case di produzione scritturano serragli, non senza esiti tragici come nel caso di Il mistero di Jack Hilton (Ubaldo Maria Del Colle, 1913). In quest’ultimo e celebre episodio, la serie dei «drammi dei serragli» si innesta sulla serie delle «morti filmate». Durante le riprese, l’attrice Adriana Costamagna viene aggredita e ferita gravemente al corpo e al volto dal leopardo Brahma del serraglio di Nouma Hawa. Alcuni testimoni la definirono «una vera scena di orrore, di spavento, di spasimo […]. Il volto orribilmente squarciato, il corpo sanguinante», altri ne colsero la componente erotica19, non senza volontà di solleticare la curiosità morbosa degli spettatori che accorsero a vedere il film: «durante la tragica scena l’operatore continuò imperterrito a girare la manovella della macchina, impressionando una film, che non avrà certo l’eguale per evidenza drammatica!»20. La Savoia Film ne trasse beneficio e i periodici dell’epoca riprodussero i fotogrammi che registravano l’attacco, promuovendo il film con immagini di sicuro impatto, nonché esplicitando una predisposizione del cinematografo a tramutare l’accidente in sadismo e desiderio omicida: «c’è anche la possibilità che il cinema partecipi della morte che si sta svolgendo davanti il suo obbiettivo trasformando la sfortuna […] in omicidio. In fondo basta poco: esimersi dallo scoraggiare il malcapitato, non preoccuparsi del pericolo imminente, omettere il soccorso continuando […] a girare la manovella»21. Lo shock dell’interazione con il dispositivo cinematografico sarà così magistralmente descritto nel finale di I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1916) di Luigi Pirandello, memore forse del fatto di cronaca cinematografica più innanzi riportato e con più probabilità della popolarità dei «drammi dei serragli». L’operatore Serafino si trova costretto a impressionare su pellicola l’efferata strage che sul set Mazzei, Non fermate quella manovella! cit., pp. 145-6. E. Geymonat, Corrispondenze, in «Cinema», a. III, 25 ottobre 1913, 62, p. 83. 21 Mazzei, Non fermate quella manovella! cit., p. 137. 19 20

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coinvolge attori e bestie feroci. Serafino non vi assiste solamente, è parte fondamentale della realizzazione di quello che definirà nell’epilogo del romanzo il «film mostruoso». Lo spettatore del cinema sensazionale degli anni dieci genera e vive un’esperienza che ridisegna i confini sensoriali e immaginari dell’abietto, dello spaventevole, del piacere sadico e masochistico. Serafino resta traumatizzato, afflitto da una sorta di «choc da bombardamento» cinematografico, di lui rimane nient’altro che una carcassa vuota, una vestigia silente, privata di ogni volontà dall’invasione sensoriale e psichica della morte in diretta offerta dal cinematografo. A partire da questa «scena primaria», l’orrore nel cinema muto italiano si articola in figure non necessariamente legate a un immaginario soprannaturale, semmai segue le rotte di un’industria culturale in maturazione. L’orrore circolante nell’ampio bacino del genere sensazionale degli anni dieci è un orrore moderno, radicato nella contemporaneità, che si articola e si diffonde lungo più filoni e serie e di cui si potranno trovare analogie e sopravvivenze decenni dopo nel new horror all’italiana. Ad esempio, si esprime rimarcando un’origine esotica e selvaggia, facendo ricorso alla metafora di una primitività bestiale (la scimmia di La bestia umana, 1916, di Leopoldo Carlucci; la regressione del servo a lupo mannaro in ’E scugnizze, 1917, di Elvira Notari; il Mister Hyde di L’altro io, 1917, di Mario Bonnard). Si propaga lungo i tessuti e gli intrecci della narrativa popolare a sfondo esotico migrata nel cinematografo: ecco le azioni brutali condotte da società e sette segrete e criminali e da «bestie umane» (La belva di mezzanotte, Aquila Films, 1913), i luoghi dove si verificano «accidenti» prossimi alla cronaca dei faits divers (Dalle tenebre, Itala Film, 1913), i bassifondi urbani e le taverne popolate di «apaches». Il corpo assolve la funzione di principale attrattore delle evoluzioni in atto, diviene il territorio entro il quale ridefinire i confini tra vita e morte e lo strumento di perversione delle pulsioni libidiche e aggressive. Il cinema italiano tra i primi anni dieci e l’inizio degli anni venti ospita corpi patologici e traumatizzati22. I corpi possono apparire «isterici» o «folli» come nel cinema di «interpretazione» delle dive (Rapsodia satanica, Malombra) o in non pochi drammi a «tinte forti» (La cella n. 13, Itala Film, 1911). In ’E scugnizze «un nudo cadavere femminile» è oggetto di una lezione anatomica, l’attestazione forse più 22

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cruda e consapevole dell’iconografia dell’azione clinica sul corpo femminile durante il periodo muto23. In Chiarina la modista (Elvira Notari, 1919) la censura impone di «abbreviare notevolmente la scena impressionante del manicomio»24. Il corpo femminile continua a essere prigioniero dell’iconografia e della drammaturgia del racconto illustrato delle patologie di ordine neurologico. Così è la paziente al centro della celebre sequenza dell’attacco isterico ne La neuropatologia (Società anonima Ambrosio, 1908), la cui «messinscena» deriva da un repertorio di azioni cliniche già illustrato da Paul Richer. Nel Faust di Guazzoni, Margherita, incatenata e prossima a morire, è una creatura figlia di quel «museo patologico vivente» che fu la Salpêtrière di Charcot e così l’amante precipitata nella follia nel finale del racconto gotico a sfondo spiritico La burla (Giuseppe De Liguoro, 1912). I corpi inscenano le variazioni notturne25 e gli stati psichici: corpi mesmerizzati (Ipnosi, 1912; I misteri della psiche, 1912); affetti da sonnambulismo (Il fantasma della mezzanotte, 1912; Sonnambulismo, 1913; L’agguato della morte, 1919); reincarnati o ringiovaniti (Faust, L’amore d’oltretomba, 1912; La statua di carne, 1912; L’incubo, 1915; Rapsodia satanica, Malombra, La giovinezza del diavolo); sospesi tra il sogno e la realtà, la vita e la morte (La bara di vetro, 1915; Kalida’a La storia di una mummia, 1917; L’incubo, 1917; Il mostro di Frankenstein, Al confine della morte, 1922). Altri sono vittime di aggressioni e vendette o martoriati (Satana, San Sebastiano, 1911; Il veleno delle parole, 1913; La nave, 1921; il filone delle belve e dei serragli, i film sui suicidi, i film sensazionali a sfondo criminale e del genere grand guignol). Ancora, i corpi sono destinati a una sepoltura prematura, all’imbalsamazione o si presentano deformi, sfigurati, cadaverici, scheletrici (il ciclo di film tratti da Carolina Invernizio, Dalle tenebre, 1913; Il cadavere di marmo, 1915; Il cadavere scomparso, 1916)26. A seguito della campagna moralizzatrice dei primi anni dieci27, la censura cinematografica interviene per regolare il visibile e il dicibile Bruno, Rovine con vista. Alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notari cit., p. 276. La citazione è tratta dalla Banca dati della revisione cinematografica della Direzione generale per il Cinema del ministero per i Beni e le Attività culturali, cui rimandiamo anche in tutti gli altri casi. 25 O. Schefer, Variations Nocturnes, Vrin, Paris 2008. 26 Si veda anche G. Placereani, Historia del cine fantástico italiano, in Antología del cine fantástico italiano, a cura di J. G. Romero, «Quatermass», 2008, 7. 27 M. Argentieri, La censura nel cinema italiano, Editori Riuniti, Roma 1974; D. Liggeri, Mani di forbice. La censura cinematografica in Italia, Falsopiano, Alessandria 1997. 23 24

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della sfera dell’intrattenimento. Nel giro di pochi anni, prima la legge n. 785 del 25 giugno 1913 e poi il regolamento esecutivo approvato con il regio decreto n. 532 del 31 maggio 1914, infine il r. d. n. 1953 del 9 ottobre 1919 e il nuovo regolamento approvato con r. d. n. 531 del 1920 (che introduce la revisione preventiva sui soggetti e sugli scenari) normano l’ambito. In particolare l’articolo 3, comma d, del r. d. n. 531 completa la casistica del visibile di cui vietare la riproduzione: «fatti od oggetti truci, ripugnanti o di crudeltà […], delitti o suicidi impressionanti […]; operazioni chirurgiche […] fenomeni ipnotici o medianici; […] scene, fatti o soggetti che possano essere scuola o incentivo al delitto». È attraverso la formulazione giuridica che l’orrore nel cinema muto italiano trova la sua più appropriata e veritiera definizione e articolazione: l’orrore è il truculento, l’abietto, il crudele, il delittuoso, l’impressionante, il corporale e lo psichico. L’opera di rimozione culturale e morale esercitata a monte dall’azione censoria trova corrispondenza a valle in recensioni e articoli delle riviste specializzate che condannano un immaginario violento e orripilante, in linea con atteggiamenti analoghi rinvenibili nella critica letteraria e teatrale. Il già citato La bestia umana è considerato un esempio dell’irresponsabilità delle case di produzione28. Alcuni film alla «Grand Guignol» di produzione danese (Nordisk) e francese (Gaumont) sono paragonati a «insetti che inoculano […] il germe del vizio ed i più volgari e bassi istinti brutali»29. Ancora, le fantasie e la violenza delle passioni sono riconosciute come proprie «delle classi inferiori o delle menti ammalate»30. La censura colpisce film e filoni che più di altri rappresentano la «cultura sottile»31. L’orrore prolifera in una dimensione in cui le narrazioni lavorano «sull’attrazione del malsano, sul fascino del morboso, sulle pulsioni inammissibili che circolano appena sotto la pelle e si manifestano con l’ipocrita copertura della curiosità per l’esotico, del desiderio di conoscenza “scientifica”, dell’esame clinico»32. Non è quindi casuale che in Malombra, di tutta la biblioteca di Marina descritta nel romanzo, venga citato e mostrato il solo Poe, il cui immaginario è a inizio secolo «di Anonimo, La bestia e l’uomo, in «Cinemagraf», 1916, 3, p. 5. Ermes, Un dramma alla Grand Guignol, in «Il Cinema-Teatro». 30 Anonimo, in «La Vita Cinematografica», 7 luglio 1914. 31 Colombo, La cultura sottile cit. 32 V. Frigerio, Il giudizio dei mostri. Il fantastico italiano e i suoi lettori, in «Quaderni d’Altri Tempi», 11-12: http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero11/sommario11.htm. 28 29

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una vitalità estrema, e in particolare si presta a svariate forme di riadattamento da parte dell’industria culturale»33. Del 1911 è La maschera tragica, tratto da «La maschera della morte rossa». La serie dei «racconti straordinari» prodotti dalla Cines tra il 1918 e il 1919, concepita per un mercato internazionale, rimanda tanto a Poe (e Verne) quanto all’omonimo titolo della sezione dedicata da «La Domenica del Corriere» ai racconti fantastici. Si possono poi segnalare altri film pubblicizzati come poeiani: Il tank della morte (1917) e Un demone gli disse (1919). La narrativa poeiana e i suoi tòpoi innervano e si disperdono in una paraletteratura nazionale ancora più estesa e in continuo dialogo e scambio con il cinema. Le case cinematografiche sono ancora prossime per denominazione e modo a quelle editoriali e la Vidali Films (specializzata nella proposta di trasposizioni di romanzi d’appendice e feuilleton) edita una serie di film tratti da Carolina Invernizio: La mano della morta (1916), La sepolta viva (1916), Il bacio di una morta (1917), La vergine dei veleni (1917). Dagli adattamenti sono censurate tutte le immagini di scheletri, cadaveri e bare. La serie prosegue sotto l’Italica Film («Casa per la produzione di Grandi Romanzi Popolari») con una nuova versione a episodi nel 1919 di La mano della morta (sotto il titolo Satanella) e con i serial Il cadavere accusatore (1919) e La vendetta di una pazza (1919). Il cine-romanzo diventa lo spazio di sutura tra la letteratura d’appendice e il racconto cinematografico, un terreno in cui certe pulsioni affiorano e riemergono e dove certe visioni possono dispiegarsi eludendo le maglie della censura del visibile. La rivista «Al cinemà» pubblica tra il 1922 e il 1923 La vendetta di una pazza, cine-romanzo dell’Italica Film, in due parti, riduzione dell’omonimo film in due serie girato da Giovanni Enrico Vidali nel 1919 e tratto dal celebre romanzo della Invernizio, una novellizzazione efficace e cruda anche nelle illustrazioni che la accompagnano. Anche l’orrore del folklore popolare di cui è intriso il verismo è adattato per lo schermo. Malìa di Luigi Capuana (1895), a partire dal libretto e dalla tragedia pastorale, trova spazio nei listini Latium del 1911 e nelle pubblicazioni Cines del 1912. Ancora Capuana e il suo Dottor Cymbalus sono trasposti al cinema, ispirando La fibra del do33 Foni, Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932 cit., pp. 148 e 142-8. Sulla fortuna critica e l’influenza di Poe in Italia, si veda C. Melani, Effetto Poe. Influssi dello scrittore americano sulla letteratura italiana, Firenze University Press, Firenze 2006.

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lore (1919), film «fanta-orrorifico» sul dolore psico-fisico e post-bellico dei reduci. Il romanzo a puntate Il mio cadavere (1851-52) di Francesco Mastriani è ridotto per lo schermo nel 1917, subendo anch’esso la censura di maschere mortuarie, cadaveri, bare e visioni necrofobiche. E di Mastriani non va dimenticato l’adattamento La cieca di Sorrento (1916), romanzo incentrato (anche) sul tema del malocchio e della iettatura. All’appello non manca Matilde Serao, la sua incursione nel feuilleton morboso è tradotta in immagini in La mano tagliata (Alberto Degli Abbati, 1919). Infine un nucleo rilevante di film è costituito dal filone del «Grand Guignol». Il Teatro Grand Guignol, fondato a Parigi nel 1897, fu introdotto in Italia nel 1908 da Alfredo Sainati e dalla sua Drammatica compagnia italiana, un’esperienza che «rappresenta sicuramente l’esito più significativo e riuscito» del Grand Guignol all’estero. Nonostante la pessima reputazione presso la critica teatrale e la rimozione culturale, il teatro del brivido di Sainati e della moglie Bella Starace ebbe successo duraturo e ininterrotto fino ai primi anni trenta, offrendo «spettacoli che facevano leva sul piacere della paura, sull’attrazione […] verso la violenza, il sangue, la crudeltà»34. Il Grand Guignol è un «teatro dell’orrore, ma non dell’orrore sovrannaturale […] è dal mondo contemporaneo che il Grand Guignol succhia la sua linfa perturbante»35. Al cinema approda fin dai primi anni dieci grazie alla sua attitudine a colpire i sensi, a scioccare il pubblico con scene rapide sviluppate in atti unici, per poi esplicitare in pieno la propria presenza qualche anno più tardi. Idealmente vicina al genere è l’Aquila Films di Torino, la «Nordisk italiana», casa di successo popolare specializzata nella «realizzazione di lavori terrorizzanti […] con contorno di delitti di ogni genere»36 che persegue con costanza «un genere di film “a sensazione” con trame a forti tinte»37. L’Aquila Films propaganda un cattivo gusto bersaglio della censura e che si estende ai paratesti, a suo modo indipendente e alternativo al modello dominante del filone storico e dell’adattamento letterario di prestigio. Nel 1912, «coerentemente con il proprio stile e genere preferito», la casa torinese Arduini, Teatro sinistro. Storia del Grand Guignol in Italia cit., p. 13. Ibid., p. 35. 36 Museo nazionale del cinema, Documento archivistico, A348/15. 37 A. Bernardini, Aquila Films: profilo di una casa «editrice», in «Bianco e Nero», Roma, marzo-aprile 1999, 2, p. 115. 34 35

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cento cresca entro un registro stilistico «tipico» del cinema italiano (quello realistico) e che sia al contempo prossimo all’horror moderno. I germi di questa cultura riappariranno brevemente ai margini del cinema italiano, attorno alla metà degli anni trenta, ma per vederli riaffiorare di nuovo in superficie occorrerà attendere almeno fino al 1957, quando nella sequenza iniziale de I vampiri un cadavere dissanguato riemergerà dalle acque.

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Con I vampiri (1957) nasce l’horror italiano1. Il genere si manifesta in una prima forma compiuta e riconoscibile in coincidenza con una fase di trasformazione dell’apparato produttivo in senso industriale e di affermazione di una moderna industria culturale2. Nella seconda metà degli anni cinquanta, mentre l’Italia sta faticosamente portando a compimento la ricostruzione post-bellica, il cinema nazionale cerca di rinnovare i generi popolari per soddisfare i desideri di nuove tipologie di spettatori, in un quadro – socio-culturale, economico e simbolico – in rapida evoluzione3. In questo contesto l’horror da una parte assorbe e rielabora pulsioni inespresse, latenti nei generi autoctoni del cinema italiano, dall’altra ha come riferimento un orizzonte mercantile e produttivo transnazionale4. Nonostante il «primato» del film di Freda e Bava, tra il 1958 e il 1959 in Italia circolano solo prodotti esteri, tra cui film minori che cercano di sfruttare la risonanza e il successo internazionale (Italia inclusa) raggiunto dagli horror della Hammer, in particolare da Dracula (Horror of Dracula, Terence Fisher, 1958). In Italia il Dracula interpretato da Christopher Lee diverrà un icona, nonostante il film riceva un iniziale «parere contrario alla proiezione in pubblico contenendo il film scene, fatti e sequenze truci, ripugnanti e impressionanti», poi tra1 L’affermazione appare come un dato condiviso nella letteratura, si veda a questo proposito il capitolo «Non abbiamo alcuna simpatia per gli orrori» e l’analisi qui contenuta dedicata al film codiretto da Freda e Mario Bava. 2 Si vedano A. Farassino - U. De Berti, Le invenzioni: dalla tecnica allo stile, in Scuola nazionale di cinema, Storia del cinema italiano. 1960-1964, a cura di G. De Vincenti, X, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2002; Manzoli - Pescatore (a cura di), L’arte del risparmio cit. 3 G. Manzoli, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976), Carocci, Roma 2012. 4 L’industria cinematografica del periodo è alla ricerca di modelli e pratiche adatti ai pubblici popolari internazionali. All’interno del «miracolo economico italiano» il comparto cinematografico vede realizzarsi, al pari di altri settori e segmenti, l’incremento delle esportazioni e la suddivisione tra prodotti pensati per un mercato interno e prodotti export-oriented.

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mutato in un divieto (con tagli) ai minori di sedici anni5. Le eccezioni italiane sono due. La prima è la parodia Tempi duri per i vampiri (Steno, 1959) con un Renato Rascel che si scopre nipote di un vampiro interpretato da Lee. Con il film di Steno il cinema italiano cerca di filtrare e rielaborare il successo e l’ingresso nell’immaginario popolare della figura del vampiro, trasferendo il mito «nordico» nell’assolata costa mediterranea protagonista del filone «turistico-balneare» e inserendolo nel circuito intermediale con la spassosa canzonetta «Dracula cha cha cha». La seconda è il fanta-horror Caltiki, il mostro immortale (Freda, 1959). Firmato ufficialmente da Freda con lo pseudonimo di Robert Hampton, è in realtà un film di Bava, non accreditato, al novanta per cento. Il film è debitore della sci-fi cinematografica anni cinquanta ed è realizzato sulla scia di Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin Yeaworth, 1958) e in parte anticipato da La morte viene dallo spazio (Paolo Heusch, 1958)6. Occorre attendere il 1960 per vedere un nutrito gruppo di horror di produzione nazionale. Nell’ordine escono nelle sale: L’amante del vampiro (Renato Polselli), La maschera del demonio (Mario Bava), Seddok, l’erede di Satana (Anton Giulio Majano), Il mulino delle donne di pietra (Giorgio Ferroni), L’ultima preda del vampiro (Piero Regnoli). Tuttavia, a differenza di Le fatiche di Ercole (Pietro Francisci, 1958), capostipite dello storico-mitologico, altro genere popolare e transazionale del periodo, «nessuno dei cinque film realizzati nel 1960 riscuote un successo tale da innescare una produzione in serie»7. Il 1961 segnerà un vistoso calo produttivo, in parte compensato dalla produzione di opere spurie, commistioni di peplum e mitologia fantaorrorifica, con lo storico-mitologico, filone di punta del cinema italiano di profondità ed export-oriented del periodo, a fare da «laboratorio dell’orrore» prima dell’accelerazione verso una violenza e una brutalità sempre più esplicite impresse dal western all’italiana8. Il 1962 è ocSi veda il giudizio della Commissione in data 7 novembre 1958, rivista in data 19 novembre 1958, così come riportato nella Banca dati della Revisione cinematografica, ministero per i Beni e le Attività culturali – Cineteca di Bologna, www.italiataglia.it. 6 Di Caltiki, si veda anche l’analisi in Pezzotta, Mario Bava cit., che lo appunta, per il film nel film, come antesignano di Cannibal Holocaust (Ruggero Deodato, 1980). 7 F. Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965), Unife Press, Ferrara 2009, p. 117. 8 Ercole al centro della terra (Bava, 1961); Maciste all’Inferno (Freda, 1961); Maciste contro il vampiro (Giacomo Gentilomo e Sergio Corbucci, 1961); Maciste contro i mostri (Guido Malatesta, 1962); Ercole contro Moloch (Ferroni, 1963); Ursus nella terra di fuoco (Gior5

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cupato da film minori e segnato da un capolavoro dell’horror gotico quale L’orribile segreto del Dr. Hichcock di Freda. Sarà il 1963 l’anno cardine per il cospicuo numero di film prodotti, tra i quali spiccano Danza macabra e La vergine di Norimberga di Antonio Margheriti; Lo spettro di Freda; La frusta e il corpo e I tre volti della paura di Bava. Mentre tra il 1964 e il 1966 – per quanto escano diversi film di rilievo, tra i quali I lunghi capelli della morte (Margheriti, 1964), La cripta e l’incubo (Camillo Mastrocinque, 1965), 5 tombe per un medium (Massimo Pupillo, 1965), Amanti d’oltretomba (Mario Caiano, 1965), Operazione paura (Bava, 1966), Un angelo per Satana (Mastrocinque, 1966) – appare evidente la crisi del modello e la riduzione della domanda sui mercati internazionali. I titoli citati sono i più rappresentativi del periodo 1957-66, che coincide in larga parte con il «gotico all’italiana», «un corpus relativamente omogeneo di pellicole»9 formato da una trentina di titoli10. In superficie, il «filone»11 gotico imita la coeva produzione horror anglo-americana (Hammer, American International Pictures), mutuando le caratteristiche del romanzo gotico ottocentesco: ambientazioni storiche, architetture e luoghi labirintici, soprannaturale, personaggi stereotipati, intrecci macchinosi, sperimentazione delle tecniche di suspense. Nel profondo, il gotico accoglie temi e discorsi – gio Simonelli, 1963); Ursus il terrore dei Kirghisi (Antonio Margheriti, 1963); Roma contro Roma (Giuseppe Vari, 1964). Il peplum ospita d’altra parte sadismi, violenze, brutalità e crudeltà esplicite, ancora prima di costituirsi come un bacino del leggendario e del soprannaturale, prossimo alla teratologia dell’occulto, della mitologia e all’imagerie del fantastico. Si veda Florent Fourcart, Le Péplum: laboratoire de l’horreur, a cura di F. Lafond, Cauchemars italiens, II, Le Cinéma horrifique, L’Harmattan, Parigi 2011, pp. 13-25. 9 R. Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, Lindau, Torino 2011, p. 33. Come scrive S. Della Casa, L’horror, in Storia del cinema italiano. 19601964 cit., p. 319, si trattò di «un piccolo ma significativo boom» che segnò «l’inizio di un’attenzione fino a quel momento inesistente nel cinema e nella cultura italiani». Si veda anche G. Fofi, Terreur en Italie, in «Midi-Minuit Fantastique», 1963, 7, pp. 80-3, e L. Codelli - G. Lippi (a cura di), Fant’Italia, Catalogo del XIV Festival internazionale del Cinema di Fantascienza, Trieste 1976. 10 Se prendiamo in considerazione tutti i film riconducibili per un verso o per l’altro all’horror, il totale sale a una cinquantina; includendo espressioni che esulano in parte o del tutto dal gotico e dal prodotto popolare (per esempio Il demonio, Brunello Rondi, 1963), ibridazioni (con il peplum, con la fantascienza, con il thriller), parodie o film di nazionalità italiana, seppure a tutti gli effetti di produzione estera. Ad esempio la coproduzione francoitaliana Il sangue e la rosa (Et mourir de plaisir, Roger Vadim, 1960), tratto da Carmilla di Le Fanu. Ma si veda anche Gli occhi senza volto (Les Yeux sans visage, Georges Franju, 1960) altra coproduzione franco-italiana. 11 Utilizziamo qui il termine e concetto di «filone», anziché di genere, vale a dire lo sfruttamento in serie di uno o più modelli di successo, autoctoni o importati.

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intorno al potere, alla sessualità e all’identità di genere – tendenzialmente espulsi dal discorso pubblico e dal cinema italiani: «affrontando il terrore, il “gotico” affronta l’inconfessato»12. Il gotico «evoca lo spettro della disgregazione sociale replicata in un microcosmo chiuso; pone in discussione i fondamenti del vivere comune, del potere, della famiglia, della sessualità, e ne ipotizza la rimozione più o meno violenta […] sollecitando l’eccesso e la trasgressione e mostrandone al contempo l’effetto squassante sull’individuo e sulle fondamenta della comunità»13. Le ambientazioni rimandano a una condizione atemporale, sospesa tra il ritorno del passato e la fuga dal presente, rafforzata da un linguaggio sofisticato e antico. I luoghi (castelli, mulini, scale ritorte, corridoi, sotterranei e cripte, sepolcri e tombe) tradiscono un sentimento claustrofobico, di costrizione. L’orribile segreto del Dr. Hichcock, Danza macabra e Operazione paura vanno segnalati in particolare come tre esemplari rappresentazioni della costruzione barocca e anamorfica dello spazio nel cinema gotico. Il film di Freda è un «kammerspiel […] uno spazio chiuso completamente reinventato»14. Danza macabra è un dedalo narrativo, scenografico e illuministico tra il passato e il presente, tra realtà, allucinazione e incubo, punteggiato di momenti altamente visionari e surreali (l’albero degli impiccati, la testa tagliata del serpente, il morto vivente ansimante nel sarcofago). A sua volta, il film di Bava costruisce entro l’estetica delle rovine un racconto sullo spaesamento del soggetto denso di soluzioni figurative perturbanti tra le più memorabili del gotico italiano (il controluce del trasporto della bara in campo lungo nell’incipit, l’arrivo alla locanda, la scala a spirale, l’apparizione della bambina e il rotolare della palla nei corridoi, il protagonista che rincorre se stesso). Il gotico italiano «mostra una propensione al saccheggio testuale e alla contaminazione disinvolta, priva di ogni atteggiamento reverenziale verso le fonti»15. Oltre al gotico anglosassone, le influenze cinematografiche ravvisabili sono molteplici: l’espressionismo tedesco, l’horror americano degli anni trenta e quaranta, l’horror fanta-medicale degli anni cinquanta e molto horror e fantastico europeo (Cocte12 D. Punter, Storia della letteratura e del terrore. Il «gotico» dal Settecento ad oggi, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 22. 13 Curti, Fantasmi d’amore cit., p. 117. 14 Della Casa, L’horror, in Storia del cinema italiano 1960-1964 cit., p. 325. 15 Pezzotta, Tra il Boom e il Marchese De Sade: fonti e contesto del gotico italiano (19571966) cit., p. 39.

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au, Dreyer, Franju, Powell). Il mulino delle donne di pietra esemplifica bene come il genere non sia strettamente imitativo dei modelli Hammer ma si inserisca in una più ampia rete intertestuale. Il film è da un lato un rifacimento di Mystery of the Wax Museum (Michael Curtiz, 1933) e House of Wax (André De Toth, 1953) e dall’altro riprende Gli occhi senza volto e I vampiri, mantenendo «dal punto di vista figurativo e da quello degli espliciti richiami intertestuali […] un più stretto legame con altre esperienze europee» quali Vampyr (Carl T. Dreyer, 1932) e il cinema di Powell e Pressburger16. Nel contempo l’horror italiano cerca legittimazione nella paternità letteraria. I rimandi ad autori noti o misconosciuti della letteratura fantastica sono a volte fittizi o ingannevoli, anche se in alcuni casi (Bava, Freda, Margheriti) non escludono una relazione decisamente più ponderata con la tradizione letteraria17. Il «gotico all’italiana» presenta altresì caratteristiche originali, innanzitutto delle costanti tematiche e figurative: la prevalenza del vampirismo, il doppio, il volto sfigurato, la dimensione medicale dello «scienziato pazzo», il ritorno dei morti e del passato18. Si contraddistingue per le trasgressioni delle norme della rappresentazione e per gli eccessi stilistici: le prime conducono al progressivo superamento dei limiti della morale e del visibile (erotismo, perversioni sessuali, violenze e orrori corporali); i secondi si traducono in atmosfere e sequenze oniriche e allucinatorie, sperimentazioni cromatiche e luministiche, trucchi ed effetti speciali decisamente gore, volti a creare un effetto-choc sullo spettatore. Proseguendo sulla chiave dell’originalità, il fantastico soprannaturale nel gotico nostrano sembra rispondere, più che a entità diaboliche, a conflitti morali e intrecci decisamente più terreni. In La maschera del demonio il fantastico soprannaturale è esplicitato chiaramente attraverso la stregoneria, il vampirismo e la resurrezione dei morti, eppure l’esordio ufficiale di Bava alla regia appare concentrato sul tema del peccato, della punizione e della vendetta. Il filone ha infatti «pesanti debiti nei confronti della tradizione del meDi Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965) cit., p. 117. Si veda Curti, Fantasmi d’amore cit., in particolare pp. 49-54. Si veda anche Pezzotta, Tra il Boom e il Marchese De Sade: fonti e contesto del gotico italiano (1957-1966) cit., p. 39: «Una ricerca sulle fonti libresche evidenzia tre tipologie: 1) Film che dichiarano una fonte letteraria effettivamente usata […] 2) Film che dichiarano fonti in parte o interamente fasulle […] 3) Film che celano le proprie fonti». 18 Per un’attenta ed esaustiva anatomia del genere, si veda Pezzotta, Doppi di noi stessi cit. 16 17

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lodramma»19, genere che travaserà nel gotico una serie di tensioni oniriche, erotiche e morbose: come quello metteva in scena la colpa della donna, l’horror, assumendo come figura centrale la vampira, metafora spesso scoperta della «donna fatale», della prostituta, tratta della colpa dell’uomo nei confronti di un ordine che si fonda sulla famiglia e la condanna in un ferreo discorso morale20.

Il gotico italiano si caratterizza così per la «centralità della figura femminile come elemento perturbante»21 e «si concentra nell’esplorazione del corpo femminile e nella spiccata attenzione alla sessualità e alle parafilie»22. La sua prepotente carica sessuale è sottolineata dai gemiti, spasimi e da altre manifestazioni vocali riconducibili al repertorio sonoro del piacere sessuale che non trovano eguali nell’horror inglese. È stato osservato che è «il personaggio femminile il luogo geometrico che contiene tutte le pulsioni negative»23. I due principali archetipi del filone, la duchessa du Grand (Gianna Maria Canale) ne I vampiri e la strega Asa (Barbara Steele) in La maschera del demonio sono donne di potere, persuasive e manipolatrici, un connotato ricorrente nella produzione del periodo. Il tema del doppio associato alla donna (presente in entrambi i film) esplicita un «sentimento ambivalente associato all’immagine femminile, fatto di seduzione e terrore, desiderio e ribrezzo, tanto più spiccato se inquadrato in relazione alla presenza e al ruolo della donna nella cultura e nella tradizione italiane»24. D’altra parte, l’archetipo e la visione misogina della femminilità Ibid., p. 34. Mora, Viaggio al centro dell’orrore italiano cit., pp. 28-9. In relazione alla ripresa del melodramma, sempre di Mora si veda anche Il cinema fantastico italiano. Un fenomeno produttivo marginale cit., in particolare p. 195. Si vedano invece sul melodramma E. Morreale, Così piangevano. Il cinema melò nell’Italia degli anni cinquanta, Donzelli, Roma 2011; L. Cardone, Il melodramma, Il Castoro, Milano 2012. 21 Curti, Fantasmi d’amore cit., pp. 34-5. 22 Ibid., p. 7. In superficie, si vedano ad esempio le scene di nudo parziale in L’ultima preda del vampiro, I lunghi capelli della morte, Un angelo per Satana e l’esplicita approssimazione dei titoli americani al circuito della sex-exploitation: Lycanthropus (Werewolf in a Girls Dormitory, Paolo Heusch, 1961), L’amante del vampiro (The Vampire and the Ballerina), L’ultima preda del vampiro (The Playgirls and the Vampire). La dimensione femminile costruita attraverso il mondo della moda, della stampa illustrata e dei concorsi di bellezza, tutto quel mondo estetico-espressivo che ha segnato la cultura popolare e l’immaginario erotico italiano fin dal dopoguerra è invocato attraverso Gianna Maria Canale fin da I vampiri ed esplode nel cinema del boom, horror incluso. Si vedano anche le sequenze di ballo e i rimandi espliciti o laterali alla donna come ballerina o «modella» presenti negli horror del periodo. 23 Della Casa, L’horror, in Storia del cinema italiano 1960-1964 cit., p. 320. 24 Curti, Fantasmi d’amore cit., p. 118. 19 20

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perversa e ambigua sostanzia la cultura occidentale moderna ed è alla base del «mostruoso-femminile» che attraversa il cinema dell’orrore e che già caratterizzava il cinema italiano delle dive25. Il filone gotico esprimerà a sua volta un proprio divismo. Barbara Steele in La maschera del demonio «segna l’ingresso prepotente nei sogni italiani di un nuovo fantasma erotico»26 che attraverserà l’horror italiano tra il 1960 e il 1966. La sua filmografia ne copre le tappe, gli autori (Bava, Freda, Margheriti) e le evoluzioni fondamentali27. In La maschera del demonio interpreta la strega Asa e il suo «doppio», la pura Katja. Un duplice ruolo (la vendicatrice mostruosa e l’innocente vergine) che riprenderà anche in Amanti d’oltretomba (Muriel/Jenny) e in Un angelo per Satana (Harriet/Belinda). In L’orribile segreto del Dr. Hichcock è «vittima» delle perversioni del marito mentre ne Lo spettro è «carnefice» del proprio coniuge28. Ne I lunghi capelli della morte è Mary/Helen, figura vendicatrice che condurrà al rogo il giovane Kurt. In Danza macabra incarna l’abbandono alla passione sfrenata dell’eros («io vivo solo quando amo») e l’apertura all’amore saffico, cui aderisce appieno in Un angelo per Satana all’insegna della presa di coscienza del proprio corpo e della liberazione del femminile («siamo molto più belle noi degli uomini»). L’affermazione della Steele è evidenza della trasformazione radicale dei costumi sociali e dei rapporti tra generi che tocca progressivamente gran parte del cinema, della paraletteratura e dei fumetti del periodo29. Attraverso il suo volto magnetico e felino il gotico attraver25 B. Dijkstra, Idols of Perversity. Fantasies of Feminine Evil in Fin-de-siècle Culture, Oxford University Press, Oxford 1986. Sul «mostruoso-femminile», si veda B. Creed, The Monstrous-Feminine, Routledge, New York 1993. 26 Curti, Fantasmi d’amore cit., p. 119. 27 La maschera del demonio, L’orribile segreto del Dr. Hichcock, Lo spettro, Danza macabra, I lunghi capelli della morte, 5 tombe per un medium, Amanti d’oltretomba, Un angelo per Satana. 28 In realtà, come è stato notato, anche nel caso della «vittima» il personaggio interpretato dalla Steele (Cynthia) «non solo innesca il motore narrativo ma sovente si ritaglia il ruolo di osservatore che si avventura nei territori dell’indagine. La donna puo così assumere la funzione di soggetto scopico», tutti indizi di una Final Girl embrionale. Si veda Deborah Toschi, Vittima o carnefice? La rappresentazione della donna nel gotico italiano, in Genere e generi. Figure femminili nell’immaginario cinematografico e culturale italiano, a cura di M. Fanchi e L. Cardone, in «Comunicazioni Sociali», a. XXIX, 2007, 2, p. 257. 29 Nella prima metà degli anni sessanta una tendenza sexy dell’horror copre una vasta area intermediale: si vedano ad esempio le copertine della collana di romanzi horror «KKK» – I classici dell’orrore inaugurata nel 1959, illustrazioni costruite sull’accostamento tra orrore e eros, un connubio che con il passare del tempo denoterà un progressivo slittamento verso l’erotico; si vedano anche le copertine di «Malia – Fotoromanzi del brivido» (dal 1961) e dei

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sa il cinema d’autore (8 ½, Federico Fellini, 1963) e la commedia all’italiana. In L’armata Brancaleone (Mario Monicelli, 1966) la sequenza dell’incontro intimo tra Teodora (Steele) e Brancaleone (Gassman) è giocata sugli stilemi del gotico e culmina nella fustigazione di Brancaleone da parte di Teodora, ribaltando idealmente la relazione sadomasochistica tra Nevenka e Kurt in La frusta e il corpo. I rapporti tra i sessi tendono così al rovesciamento e il filone si presenta in ultima analisi come «un calco in negativo» del peplum, con figure maschili deboli e figure femminili forti30. All’interno della più ampia rivoluzione culturale degli anni sessanta, il gotico «sembra assumere una posizione di retroguardia: man mano che diviene possibile ampliare i limiti della visibilità, il genere passa da una situazione nella quale la conflittualità legata all’immagine del femminile è affidata alla contrapposizione di due opposti modelli – la vergine […] e la donna vampira […] – a un’altra fase in cui quasi ogni personaggio femminile è rappresentato come intimamente corrotto»31. La connotazione negativa del femmineo simbolicamente proietta nell’immaginario collettivo «una vera e propria paura dell’influenza, del potere e della sete di vendetta della donna»32. Il timore del mostruosofemminile determina il suo contenimento e l’esercizio di sadismi e torture (si vedano ad esempio La frusta e il corpo, La vergine di Norimberga, Amanti d’oltretomba), fino a esplicitare il potere seduttivo della necrofilia che permea tutto il genere33. Il connubio tra orrore, melodramma ed erotismo elegge il corpo a luogo di attrazione sensoriale ed emotiva e di esibizione del trasgresfumetti «neri» (dal 1962). Il cambiamento nei costumi legato a un immaginario orrorifico si muove così anche lungo una pubblicistica popolare di carattere erotico che avviata a inizio decennio inizia a espandersi sul finire degli anni sessanta, in particolare grazie all’azione propulsiva di Renzo Barbieri, quando appariranno fumetti porno-horror sempre più spinti. Si vedano ad esempio le serie delle vampire: Jacula (1969-82), Lucifera (1971-80), Zora la vampira (1972-85), Sukia (1977-86). 30 Curti, Fantasmi d’amore cit., p. 121. 31 Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965) cit., p. 211. 32 J. Hawkins, Cutting Edge. Art-Horror and the Horrific Avant-Garde, University of Minnesota Press, Minneapolis (Mn) 2000, pp. 77-8. Si vedano anche D. J. Skal, The Monster Show. Storia e cultura dell’horror, Baldini & Castoldi, Milano 1998, p. 187: «L’equazione tra risveglio sessuale di una donna repressa e orrore predatorio», e Curti, Fantasmi d’amore cit., in particolare pp. 118-30. 33 Si veda Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965) cit., p. 75: «L’esibizione del volto deturpato […] e del suo corpo scarnificato, che associano alla necrofilia il suo potere seduttivo». La necrofilia non è peraltro estranea alla letteratura nera ottocentesca italiana, si veda ad esempio il romanzo di Mastriani La maschera di cera (1879).

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sivo, dell’eccessivo, qualificando l’horror italiano come body genre fin dalla sua prima formulazione34. L’horror del periodo è così contraddistinto da «un’organizzazione testuale incentrata sull’attrazione»35. La sequenza iniziale de La maschera del demonio è ancora una volta esemplare, offrendo al pubblico – con il marchio a fuoco e l’«inchioda mento» della maschera – «una doppia attrazione, un doppio momento di godimento puramente visivo»36. Il genere ricerca la sollecitazione nervosa e il coinvolgimento emotivo dello spettatore fin dai paratesti: «l’attrazione esercitata da quei film iniziava già dai flani sui quotidiani, spesso deliranti ed eccessivi, ma sempre incredibilmente invitanti con le loro frasi a effetto, per poi proseguire nella visione degli accattivanti manifesti […] sì da farci immaginare chissà quali orrori e argomenti proibiti»37. La «logica» delle attrazioni passa attraverso la valorizzazione degli aspetti qualificanti il genere: «mostruosità, sessualità e tecnologia». Un ruolo importante lo gioca il sapere artigianale di truccatori e tecnici degli effetti speciali38. La relazione tra estetica, corporalità e tecnologia è concettualizzata in modo esemplare fin da Il mulino delle donne di pietra, in cui uno studente d’arte si oppone alla progettualità clinica ed estetica di un professore di belle arti che pietrifica, maschera ed esibisce i corpi delle giovani donne da lui uccise. Il carillon con le figure femminili della Storia (le prime a manifestarsi sono Giovanna d’Arco e Cleopatra, la santa e la peccatrice) in cui sono celati i corpi delle vittime esplicita un livello metacinematografico (l’horror come serie di «effetti speciali» incentrati sul corpo) e un registro metadiscorsivo (gli effetti del macabro spettacolo sui personaggi alludono «alle possibili reazioni del pubblico del genere horror»)39. 34 Per la nozione di «body genres», si veda L. Williams, Film Bodies. Gender, Genre, and Excess, in «Film Quarterly», LXIV, 1991, 4. 35 F. Pitassio, L’orribile segreto dell’horror italiano, in L’arte del risparmio cit., p. 34. Sulla «funzione delle attrazioni» nel cinema del periodo, si veda anche Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965) cit., in particolare pp. 88-91. 36 Ibid., p. 90. 37 S. Piselli, R. Morrocchi, A. Bruschini, Bizzarre Sinema! Wildest, Sexiest, Weirdest, Sleaziest Films. Horror all’italiana 1957-1979, Glittering Images-Nerbini, Firenze 1996, p. 9. Per l’analisi della cartellonistica pubblicitaria di alcuni film del periodo, si veda Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965) cit., pp. 223-48. 38 Sulla relazione tra tecnologia, processi produttivi e horror italiano, si veda Pitassio, L’orribile segreto dell’horror italiano cit. L’apporto crescerà nel cinema successivo, giallo e gore in testa, si vedano ad esempio i contributi di Carlo Rambaldi e Giannetto De Rossi. 39 Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965) cit., p. 99.

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Gli shock visivi (volti e corpi deturpati, torture, trasformazioni a vista), che rappresentano la principale malìa del genere, sono stati poi interpretati come un raffreddamento delle pulsioni erotiche: «la catarsi vale anche come richiamo all’ordine, lo shock visivo fa da bromuro. La dissipazione della bellezza assume forme spettacolari e clamorose […]. E a subire il contrappasso del tempo che passa o della nemesi che torna a colpire è il volto: sfregiato, perforato, sfigurato, consumato»40. Il motivo ricorrente del «volto sfigurato»41 è anche da cogliere come attacco simbolico all’identità e quindi come reificazione, riduzione a modello del soggetto. L’horror italiano del boom esprime così una visione anatomica del terrore, una prefigurazione – come nel caso de Il mulino delle donne di pietra – dell’estetizzazione della violenza e del body horror successivo42. Il corpo è oggetto del dominio medico, è un organismo fragile e in decadimento, in lotta per la propria sopravvivenza e rigenerazione. Il timore della mutilazione e mutazione del corpo è espressa appieno dai cosiddetti «gotici italiani». Il corpo ferito e in rovina e la creatività sadica dei mad doctor anticipano da un lato l’horror post-’68 e dall’altro esprimono la riemersione di un passato traumatico. L’horror italiano non è infatti impermeabile agli orrori della Sto43 ria . Film come I vampiri, Seddok, Lycanthropus, La vergine di Norimberga, L’orribile segreto del Dr. Hichcock, 5 tombe per un medium «esprimono una mitologia sociale che deriva dai campi di sterminio, dai mattatoi e da Hiroshima»44. Attraverso il filtro del gotico, il passato che ritorna produce «momenti allegorici», ovvero una «collisione scioccante tra film, spettatore e storia in cui i registri dello spazio corporeo e del tempo storico» si intrecciano tra loro45. Si pensi ad esempio a La vergine di Norimberga e in particolare all’operazione chirurgica di scarnificazione del volto condotta dai medici nazisti e rievocata nel flashback in bianco e nero, oppure a un film minore come Seddok Curti, Schermi d’amore cit., p. 124. Pezzotta, Doppi di noi stessi cit., p. 26: «Se c’è un’immagine che riassume i caratteri originali dell’horror italiano degli anni Sessanta è quella del volto sfigurato». 42 Cfr. il capitolo «Il sangue e la crudeltà». Si veda anche A. Burfoot, Surprising Origins. Florentine 18th-Century Wax Anatomical Models as Inspiration for Italian Horror, in «Kinoeye», II, 2003, 9. 43 Si veda A. Lowenstein, Shocking Representation. Historical Trauma, National Cinema and the Modern Horror Film, Columbia University Press, New York 2005. 44 Hawkins, Cutting Edge. Art-Horror and the Horrific Avant-Garde cit., p. 74. 45 Lowenstein, Shocking Representation. Historical Trauma, National Cinema and the Modern Horror Film cit., p. 2. 40 41

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in cui fa bella mostra un album di fotografie medicali che rimandano direttamente alla tragedia di Hiroshima e all’orrore come opera d’arte sotto forma di souvenir («ricordi di Hiroshima»)46. L’orrore del periodo trae quindi origine tanto dagli archetipi del gotico e da pulsioni profonde quanto dall’inconfessato contemporaneo e dai traumi del passato recente (il nazismo, Hiroshima). Il modo di produzione di questi film si ispira al package-unit system statunitense47, utilizzando una formula «a progetto», l’impiego di compagnie indipendenti non autonome nei mezzi che si fanno carico della produzione esecutiva, coordinando tra loro gli studi, l’indotto tecnologico, il cast artistico internazionale e l’artigianato specializzato locale. Tale sistema coniuga tempi produttivi relativamente rapidi, narrative esili, budget contenuti e delle estetiche «fuori controllo», ovverosia non strettamente imitative dei modelli di partenza, quanto piuttosto esito di una miscela tra risparmio, riciclo e cura artigianale dei dettagli. In poche parole, gli horror italiani si collocano in un segmento produttivo a basso costo (da meno di cento milioni a un massimo di duecento milioni di lire) paragonabile ai b movies statunitensi48. Il genere manca di una «specifica politica produttiva»49 ed è connotato da una bassa redditività interna dei film durante tutti gli anni sessanta e dal mancato reinvestimento degli introiti della vendita all’estero. Non ci sono infatti case italiane specializzate nella produzione di horror che operano in continuità: alcune società di piccole dimensioni e produttori sono coinvolti in modo non occasionale (si pensi a Donati e Carpentieri), più spesso, soprattutto verso la metà degli anni sessanta, subentrano compagnie create appositamente per il singolo film, mentre non compaiono pressoché mai le principali case. L’unica eccezione è costituita dalla Galatea, non a caso la società con più interessi internazionali, capace di annoverare nella propria filmografia, tra finanziamento e produzione diretta, Caltiki, Il mulino delle donne di pietra, La maschera del demonio, La ragazza che sapeva troppo, I tre volti della paura, Roma contro Roma, con Bava (almeno fino al 1963 di I tre volti della paura) a fare da house director tra regie Il titolo internazionale più diffuso del film di Majano è Atom Age Vampire. D. Bordwell, J. Staiger, K. Thompson, The Classical Hollywood Cinema: Film Style and Mode of Production to 1960, Columbia University Press, New York 1985. 48 A titolo di esempio, si pensi a La maschera del demonio concepito e comprato a progetto in quanto secondo elemento di un double feature. 49 Pitassio, L’orribile segreto dell’horror italiano cit., p. 35. 46 47

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(cinque delle sette del periodo, Gli invasori, 1961, incluso) e film salvati o conclusi50. Pur essendoci delle personalità originali che segnano il genere, non si può dire che ci siano registi specializzati. Tra il 1960 e il 1966 Bava gira quattro horror sulla dozzina di film diretti nel periodo, Margheriti tre e Freda due sulla quindicina di titoli firmati da ciascuno nel medesimo intervallo di tempo. Le linee di continuità sono semmai ravvisabili nell’indotto tecnico-artigianale, nei volti dei protagonisti (Barbara Steele) e ancor prima negli sceneggiatori (Ernesto Gastaldi)51. L’horror si mantiene così ai margini e allo stesso tempo non fuoriesce dal più ampio e agitato bacino del modo di produzione dei generi popolari transnazionali del periodo. L’horror italiano è infatti un cinema da esportazione che rinnega le proprie origini, dissimula la sua provenienza, persegue «strategie di mascheramento»52 che si traducono «in un ampio uso di attori stranieri a fianco degli italiani che cercano di mascherare la propria nazionalità; nella scelta di ambientazioni esotiche; nell’adozione dell’inglese nei titoli e di pseudonimi; e nella scelta di intrecci che presentino un crogiolo di identità nazionali». Freda, che firmò con il suo nome I vampiri, attribuì a questa scelta l’insuccesso del film, ed ebbe modo di testimoniare e rivendicare l’origine della pratica di utilizzo di pseudonimi: «commisi però un errore: lo firmai con un nome italiano. Invece, gli italiani, dai loro connazionali, accettano solo le fettuccine. In seguito non ho più ripetuto questo errore, e tutti gli altri mi hanno imitato»53. L’obiettivo è di «imitare un genere straniero e di riprodurre le sue ambientazioni caratteristiche», nonché di «soddisfare le aspettative del pubblico rispetto a dove una particolare storia è ambientata»54. I vampiri è ambientato a Parigi, Caltiki in Messico, 50 Si veda S. Venturini, Galatea spa (1952-1965). Storia di una casa di produzione cinematografica, AIRSC, Roma 2002. 51 Firma le sceneggiature di L’amante del vampiro, Lycanthropus, L’orribile segreto del Dr. Hichcock, La vergine di Norimberga, La frusta e il corpo, I lunghi capelli della morte, Il mostro dell’opera (Polselli, 1964), La cripta e l’incubo, Libido (Gastaldi, 1965), La lama nel corpo (Elio Scardamaglia, 1966). 52 Pitassio, L’orribile segreto dell’horror italiano cit., p. 34. Si veda anche Curti, Fantasmi d’amore cit., pp. 37 sgg., l’autore, a partire dall’esperienza di Freda, intravede nel mascheramento il segno di una sconfitta culturale del cinema di genere italiano a confronto con i modelli e le strutture internazionali. 53 Intervista di Stefano Della Casa, in Riccardo Freda, a cura di E. Martini e S. Della Casa, Bergamo Film Meeting, Bergamo 1993, p. 60. 54 Baschiera - Di Chiara, A Postcard from the Grindhouse Exotic Landscapes and Italian Holidays in Lucio Fulci’s Zombie and Sergio Martino’s Torso cit., p. 105.

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Seddok in Francia, Il mulino delle donne di pietra nell’Olanda di inizio Novecento, La maschera del demonio nella Moldavia del XIX secolo, L’orribile segreto del Dr. Hichcock nell’Inghilterra di fine Ottocento, Lo spettro nella Scozia del 1910; I lunghi capelli della morte nell’Europa del XV secolo. L’horror raggiunge i mercati esteri attraverso le compartecipazioni (italo-americane), le coproduzioni (europee), la vendita all’estero. Un esempio di compartecipazione è Caltiki, prodotto dalla Galatea e da una società di comodo e di appoggio (la Climax Pictures di Los Angeles) della ben più nota Allied Artists, che ne distribuirà l’edizione americana nel 1960. Il mulino delle donne di pietra è una coproduzione (italo-francese) progettata a fine 1959 e girata a cavallo del gennaiofebbraio 1960 tra Italia e Olanda, un film cui il regime coproduttivo concede un budget elevato per il segmento55. La maschera del demonio è invece una produzione italiana al cento per cento espressamente concepita per i mercati esteri, americani in prima battuta (negli Stati Uniti viene acquistato dalla American International Pictures). Il budget stanziato per il film è più alto (144 milioni di lire) rispetto a quello di opere similari56. La versione americana, intitolata Black Sunday (1961), sarà il maggiore successo della stagione per la casa americana. In generale, «dei circa 25 film horror prodotti in Italia tra il 1960 e il 1965, una decina risultava essere prodotta in compartecipazione con compagnie europee o americane e tutti questi film avrebbero trovato, nell’arco al massimo di un paio d’anni, distribuzione sui mercati angloamericani»57. La transnazionalità incide in profondità sull’identità del film del terrore italiano. L’horror nazionale rivela un’instabilità del testo, una molteplicità e pluralità di versioni la cui causa è da ricercare in un sistema fondato più sull’istanza distributiva e pragmatica che su quella produttiva e testuale. La produzione esecutiva cura la post-sincronizzazione del suono e il doppiaggio, non di rado girando in lingua, fornendo versioni doppiate o matrici da adattare ai mercati di destinazione. Le versioni distribuite all’estero spesso presentano varianti signifi55 Circa 180 milioni, il doppio di Caltiki e di circa un quarto superiore a quello de La maschera del demonio e de I vampiri. I dati sui piani di finanziamento sono ricavati nella maggior parte dei casi dai fascicoli conservati presso l’Archivio centrale dello Stato. 56 Sulla ricostruzione delle vicende produttive del film, si vedano Venturini, Galatea spa (1952-1965). Storia di una casa di produzione cinematografica cit., e Pezzotta, Mario Bava cit. 57 Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965) cit., p. 42.

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cative, come nel caso delle edizioni americane de I vampiri e de La maschera del demonio. Sul fronte interno l’insuccesso di pubblico è evidente. I vampiri incassa poco sul mercato nazionale (circa 125 milioni) e così gli altri film. Agli italiani, l’horror non sembra piacere. Il filone stenta e resta periferico, complice una distribuzione fatta principalmente di indipendenti regionali e di case minori. La diffusione del film del terrore è inoltre filtrata e limitata da alcuni caratteri che sono paradossalmente quelli che qualificano il genere, cosicché «la loro programmazione è limitata ai giorni feriali, e il divieto ai minori […] pregiudica la possibilità di fruire del circuito di profondità costituito dalle sale parrocchiali»58. A fianco della cattiva distribuzione (uscite agostane incluse), dei divieti e dei limiti nella programmazione, va inoltre tenuto conto della scarsa considerazione della stampa, della concorrenza straniera e della compresenza di un altro genere popolare quale il peplum59. Eppure, nonostante lo scarso successo al botteghino, la Steele è una diva e l’immaginario orrorifico circola nell’industria culturale. L’horror si ibrida con altri generi e filoni (peplum, fantascienza, thriller), deriva in parodia nel comico – Tempi duri per i vampiri, Psycosissimo (Steno, 1961), Che fine ha fatto Toto Baby? (Ottavio Alessi, 1964)60, oppure approda in forma più meditata nelle commedie, sotto forma di citazione letterale e suggestiva (La maschera del demonio in I motorizzati, Mastrocinque, 1962) o di invasione di campo e rovesciamento umoristico dei rapporti tra i sessi (L’armata Brancaleone). Anche la nuova generazione di critici e cinefili si cimenta in sperimentazioni nel gotico. Nel 1960, negli stessi mesi in cui nelle sale italiane approda la prima ondata di gotici italiani, a testimonianza di una vitalità e circolazione dell’immaginario horror, un giovanissimo Corrado Farina – studente universitario a Torino, destinato qualche anno dopo a ideare e dirigere le rivisitazioni moderne del mito di Dracula con Hanno cambiato faccia (1971) e del mito del Golem con Baba Yaga (1973) – realizza Il figlio di Dracula, cortometraggio in 8mm ispirato a I vampiri e al Dracula di Fisher, costruito con grande attenzione e Della Casa, Riccardo Freda cit., p. 323. Sarà lo storico-mitologico a offrire una risposta «al desiderio di cambiamento che fa da sfondo all’avvento del boom economico» (Manzoli, Da Ercole a Fantozzi cit.) attirando tra il 1957 e i primi anni sessanta pubblici di profondità transnazionali, dalle sale di seconda e terza visione italiane ai circuiti indipendenti statunitensi, dai mercati mediorientali a quelli asiatici, funzione assunta in seguito dal filone western. 60 Della Casa, Riccardo Freda cit., pp. 329-30. 58 59

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cura grazie alla cinefilia e alla passione per il fantastico dell’autore61. I titoli di testa sono un compendio della tradizione fantastica e in particolare vampirica al cinema. Farina li realizza usando come sfondo fotogrammi e foto di scena citati da Laclos nel suo Le Fantastique au cinéma62, esplicitando così dei modelli di riferimento (Murnau, Browning, Epstein) potenzialmente comuni a un’intera generazione di appassionati, per poi costruire un sequel segnato da una marcata ironia, dal gioco leggero dell’amatoriale e dalla perizia imitativa nel ricreare quadri e segmenti narrativi della tradizione horror e melodrammatica. Dalla fine degli anni cinquanta, la progressiva diffusione di narrative e iconografie del terrore coinvolge nel loro complesso il sistema mediale e la cultura popolare. Nel 1959 Feltrinelli inaugura la collana «Il Brivido e l’Avventura» (in cui sono pubblicati alcuni dei soggetti del cinema gotico italiano)63, nel 1960 Einaudi pubblica le Storie di fantasmi curate da Fruttero e Lucentini e nel 1962 Mondadori dà alle stampe la raccolta di racconti di Mario Soldati Storie di spettri64. Ma 61 Corrado Farina, autore per il fumetto (Diabolik, Zakimort, Selene), il cinema (film di finzione, documentari industriali), per la televisione (caroselli in particolare), per lungo tempo pubblicitario per Armando Testa, romanziere, è una delle figure più poliedriche e innovative del periodo. A cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, è tra i fondatori e collaboratori dell’esperienza della rivista «Centrofilm» e del Centro universitario cinematografico di Torino (di cui sarà anche presidente) con Gianni Rondolino e autore di monografie dedicate a Ingmar Bergman («Quaderni di documentazione cinematografica», Istituto del cinema«Centrofilm», 1959, 4) e Frank Capra («Quaderni di documentazione cinematografica», Istituto del cinema-«Centrofilm», 1960, 8). 62 Michel Laclos, Le Fantastique au cinéma, Éditions Pauvert, Parigi 1958. Da Laclos Farina cita in ordine di apparizione: Nosferatu (Friedrich Wilhelm Murnau, 1921), The Mark of the Vampire (Tod Browning, 1935), House of Dracula (Eric C. Kenton, 1945), The Preview Murder Mistery (Robert Florey, 1936), Dracula (Browning, 1931), The Tell-Tale Heart (Charles Klein, 1928), La Chute de la maison Usher (Jean Epstein, 1928). La costituzione di una tradizione indiretta si ripeterà per Farina con Baba Yaga in cui sono citate e mostrate sequenze da Der Golem, wie er in die Welt kam (Carl Boese, Paul Wegener, 1920). 63 Si segnalano in particolare O. Volta - V. Riva (a cura di), I vampiri tra noi, collana «Il brivido e l’avventura», Feltrinelli, Milano 1960, 2 (37 storie di vampirismo con una presentazione di Roger Vadim, tra cui il racconto alla base dell’esordio di Bava: Il Vij di Nikolaj Gogol’) e almeno i primi due volumi antologici pubblicizzati con la formula «Alfred Hitchcock presenta» (che riprendeva l’omonima serie televisiva americana): 25 racconti del terrore, collana «Il brivido e l’avventura», Feltrinelli, Milano 1959, 1; I terrori che preferisco, collana «Il brivido e l’avventura», Feltrinelli, Milano, 1960, 4. Psycho (con il titolo Psyco e un divieto ai minori di anni 16) otterrà il visto di censura per la proiezione in pubblico nell’ottobre del 1960, in concomitanza con l’uscita della seconda antologia citata. 64 C. Fruttero - F. Lucentini (a cura di), Storie di fantasmi. Racconti del soprannaturale, Einaudi, Torino 1960, al cui interno si segnala la presenza di La bella adescatrice (The Beckoning Fair One) di Oliver Onions (pseudonimo di George Olivier), alla base della sceneggiatura di Un tranquillo posto di campagna (Elio Petri, 1968); M. Soldati, Storie di spettri, Mondadori, Milano 1962.

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saranno gli editori più popolari, d’assalto, sulla scia del successo di Dracula, a innervare un segmento «basso» che avrà maggiore fortuna e diffusione. Si pensi alla serie I racconti di Dracula della ERP e alla collana «KKK» – I Classici dell’orrore delle edizioni EPI pubblicate entrambe a partire dal 195965. In particolare la seconda collana, che nei primi numeri pubblica racconti desunti da film circolanti nelle sale, ha una chiara discendenza cinematografica, si deve infatti all’iniziativa editoriale di Marco Vicario, attore, marito di Rossana Podestà e già produttore con l’Atlantica Cinematografica. Vicario produce La vergine di Norimberga di Margheriti a partire da un romanzo dall’omonimo titolo uscito nella collana «KKK». Il film sarà a sua volta trasposto in cineromanzo. Dal 1961 infatti «Malìa – Fotoromanzi del brivido» pubblica adattamenti dei film gotici italiani66. E il pop e fumettistico Il boia scarlatto (Massimo Pupillo, 1965) racconta di un editore di romanzi horror alle prese con un servizio fotografico per le proprie copertine, ambientato in un castello «infestato» da un sadico personaggio ricalcato dai fumetti e foto-fumetti «neri» del periodo. Nonostante l’orientamento transnazionale del genere e la circolazione del suo immaginario sul suolo nazionale, all’apparenza motivi di successo anche sul mercato interno, «il delicato rapporto tra i vantaggi della coproduzione europea e dei rapidi introiti della vendita forfettaria all’estero» e il «mediocre esito commerciale in patria […] scoraggiavano […] una formula dispendiosa come quella attuata da La maschera del demonio e da Il mulino delle donne di pietra»67. La ricerca di formule meno rischiose e costose sembra raggiungere un primo risultato nel 1962 con L’orribile segreto del Dr. Hichcock, che gioca sulla contrazione degli spazi scenografici, dei mezzi tecnici, degli effetti, dei tempi di lavorazione; innescando così una corsa al ribasso e al risparmio. Margheriti lavora a stretto giro La vergine di Norimberga e I lunghi capelli della morte, mentre Danza macabra ricicla il set de Il monaco di Monza (Sergio Corbucci, 1963). Si deve tenere conto anche Si vedano L. Cozzi, Incubi sul Tevere. La storia dei KKK. I classici dell’orrore, Profondo Rosso, Roma 2013; S. Bissoli - L. Cozzi, La storia dei Racconti di Dracula, Profondo Rosso, Roma 2013. Si veda anche Curti, Fantasmi d’amore cit., in particolare pp. 57-62. Sulla relazione tra manifesti e copertine, si veda Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965) cit., pp. 249-57. 66 Tra i film adattati: L’ultima preda del vampiro, Il mostro dell’opera, L’amante del vampiro, Metempsyco (Antonio Boccacci, 1963), La cripta e l’incubo, Il boia scarlatto, La vergine di Norimberga, 5 tombe per un medium, Il mostro di Venezia (Dino Tavella, 1965), Amanti d’oltretomba. 67 Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965) cit., p. 42. 65

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della crisi del sistema produttivo e finanziario del cinema italiano; i costi degli stabilimenti si fanno per molti proibitivi, non pochi horror optano così per una più marcata «fuga» dagli studi, spargendosi per Roma, Lazio e dintorni (L’ultimo uomo della Terra, Sidney Salkow, Ubaldo Ragona, 1964; 5 tombe per il medium, Il boia scarlatto, Operazione paura)68. I tre volti della paura è emblematico. Realizzato in coproduzione con la Francia, è commissionato dalla American International Pictures che sulla scorta del precedente successo americano di La maschera del demonio (Black Sunday) lo intitola Black Sabbath e viene distribuito in Italia attraverso la Warner Bros che aveva stretto un accordo di distribuzione con la casa di produzione del film, la Galatea. Nonostante questo quadro produttivo ed economico apparentemente lusinghiero, il film riutilizza parte dei set di film precedenti firmati dallo stesso Bava. La formula a episodi (Il telefono, I Wurdalak, La goccia d’acqua) – debitrice dei Racconti del terrore (Tales of Terror, Roger Corman, 1962) della stessa AIP – viene incorniciata da Boris Karloff, narratore nei panni di se stesso e protagonista dell’episodio centrale. La presenza di Karloff come narratore-imbonitore che interpella direttamente il pubblico in sala, giocando sull’ironia e la destinazione commerciale, denunciano la volontà di emulazione dell’horror televisivo statunitense coevo69. Una rappresentazione oramai pop più che popolare, un atteggiamento divertito, consapevole del gioco enciclopedico ingaggiato con il pubblico. L’epilogo del film è un cerimoniale di congedo burlesco e demistificatorio affidato all’icona Karloff. Un «disvelamento dei meccanismi del genere» e della «natura artigianale e a bassissimo costo dei trucchi utilizzati»70, che racchiude in modo esemplare l’essenza del modo di produzione del cinema del periodo. Karloff è a cavallo, ancora nei panni del personaggio di Gorka, interpretato ne I Wurdalak. Karloff arresta la cavalcata e, assumendo il ruolo dell’imbonitore, guarda in camera e si rivolge agli spettatori: «Ecco fatto. Non vi pare Il 1964 è l’anno di esplosione del western all’italiana e di dissoluzione del peplum e del primo horror italiano, due filoni nati all’ombra degli stabilimenti romani e della manodopera specializzata. Il filone gotico dei primi anni sessanta scompare poi in concomitanza dello slittamento verso l’erotico e il giallo ed è anche surclassato, in termini di efferatezza, dallo stesso western. 69 «Signore e signori, io sono Boris Karloff», «spero che non siate venuti al cinema da soli […] gli spiriti, i vampiri sono presenti ovunque. Forse ora c’è ne è uno seduto accanto a voi. Eh, già, perché vanno anche al cinema». Si veda la serie televisiva Thriller condotta da Karloff sulla Nbc per due stagioni tra il 1960 e il 1962. 70 Della Casa, Riccardo Freda cit., pp. 326-7. 68

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che doveva andare a finire così? […] Siamo arrivati alla fine delle nostre storie e purtroppo sono costretto a lasciarvi». Un’ultima battuta che invita il pubblico a sognare e la camera si ritira, svelando la finzione del set: il cavallo è un torso di legno inanimato mosso da un macchinista, mentre degli attrezzisti corrono in tondo agitando delle frasche per simulare il movimento relativo degli alberi, lo sfondo è pura cartapesta, animato da fasci di luce proiettati attraverso un apparato arcaico che ci riporta a una sorta di infanzia pre-cinematografica. La retorica del racconto del terrore anglosassone lascia il campo al chiacchiericcio indistinto della manovalanza degli stabilimenti romani. Roberto Nicolosi vi abbina un tema musicale ironico, beffardo e grottesco: è la «danza macabra» dell’horror italiano del periodo. L’orribile segreto dell’horror italiano è svelato, la maschera dell’horror è tolta.

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Dopo aver esaurito i godimenti sessuali, era ovvio che gli individui si rivolgessero verso i ben più ampi godimenti della crudeltà. (Michel Houellebecq, Le particelle elementari). Con il sangue si fanno grandi cose. (Lea, Gran Bollito)

Dissolte le nebbie gotiche che avevano segnato il filone del periodo del boom (1957-66), l’horror sembra scomparire dai radar della produzione per almeno un triennio. Alla fine degli anni sessanta le maglie della censura si allargano, sesso e violenza sono gli ingredienti fondamentali dei generi popolari, tra i quali l’horror si presenta come quello «meglio equipaggiato per esplorare e sfruttare queste nuove soglie»1, fornendo al «paesaggio della catastrofe»2 del cinema italiano post-’68, «un repertorio di simbolismi per quei tempi in cui l’ordine culturale […] è crollato o è percepito come in uno stato di dissoluzione»3. L’abietto e il mostruoso conducono sempre a «un incontro tra l’ordine simbolico e ciò che ne minaccia la stabilità»4, un luogo di confine in cui non di rado è lo stesso potere a esercitare un’azione sadica e predatoria. Negli «stati di eccezione», di anomia del potere, nei momenti di crisi e trasfigurazione della società, è poi lo stesso uomo comune a divenire un predatore primitivo e bestiale5. Dalla fine degli anni sessanta l’horror mette radici, si espande nel sistema mediale delle arti e nell’industria culturale, prospera nei luoghi 1 S. Prince, Violence and Psychophysiology in Horror Cinema, in Horror Film and Psychoanalysis. Freud’s Worst Nightmare, a cura di S. J. Schneider, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2004, p. 244. 2 G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni Novanta. 1960-1993, Editori Riuniti, Roma 1993. 3 Carroll, The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart cit., p. 214. 4 Creed, The Monstrous-Feminine, cit., p. 11, 5 G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003; R. Eisler, Uomo lupo. Saggio sul sadismo, il masochismo e la licantropia, Medusa edizioni, Milano 2011 (ed. or. 1948).

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di contaminazione, si insinua lungo gli incerti confini tra cinema di genere e cinema d’autore. La produzione italiana è tra le più varie ed estreme e conferma la capacità di rielaborare in modo originale tematiche e filoni (lo zombie movie), di concepire sotto-generi originali come il giallo e il cannibal, di perseguire poetiche autoriali ambiziose e sovversive (Dario Argento, Lucio Fulci). Ciò non toglie che le mentite spoglie e i mascheramenti restino frequenti, continuando parte dei nostri film a fingersi stranieri, a caratterizzarsi per la molteplicità di versioni ed edizioni, a definire la propria identità in un contesto transnazionale6 e in una struttura industriale e distributiva sempre più in difficoltà7. La filmografia restituisce epigoni e imitazioni che sfruttano il successo di L’esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973), Lo squalo (Jaws, Steven Spielberg, 1975), Il presagio (The Omen, Richard Donner, 1976), Zombi (Dawn of the Dead, George A. Romero, 1978)8. Inoltre occorrerà attendere gli anni ottanta e novanta prima che Freda, Bava, Margheriti, Argento, Fulci siano innalzati al rango di autori, «maestri», «maghi», «padri», «poeti». Alcuni (in particolare Bava) sono già apprezzati da tempo da una nicchia significativa della critica internazionale, mentre Argento è capace entro gli anni settanta di unire il successo di botteghino (con la «trilogia degli animali»9 e Profondo rosso, 1975) al riconoscimento critico (almeno estero, con Suspiria, 1977). La «linea gotica» ha ceduto e il gotico post-’68 presenta degli epigoni di maniera (La notte dei dannati, Filippo Maria Ratti, 1971; La notte che Evelyn uscì dalla tomba, Emilio Paolo Miraglia, 1971) a fianco di attestazioni di qualità, la cui riuscita va però ascritta ai loro autori e alla contaminazione con altri generi più che alla vitalità del gotico in sé: Contronatura (1969) e Nella stretta morsa del ragno (1971) di Margheriti; La notte dei diavoli (1972) di Ferroni, Gli orrori del castel6 Si veda F. Di Chiara, Transeuropa. Transnazionalità e identità europea nelle coproduzioni e nel giallo italiano, in «Bianco e Nero», 2012, 572. 7 G. Manzoli - R. Menarini, Cinema italiano di imitazione. Generi e sottogeneri, in Centro sperimentale di cinematografia, Storia del cinema italiano 1970-1976, a cura di F. De Bernardinis, XII, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2008. 8 Rispettivamente per ogni titolo citato: Chi sei? (Ovidio G. Assonitis, 1974), La casa dell’esorcismo (Bava, 1975), L’anticristo (Alberto De Martino, 1974), L’esorcista n. 2 (Franco Lo Cascio, 1975); Tentacoli (Assonitis, 1977); Holocaust 2000 (De Martino, 1977); Zombi 2 (Fulci, 1979). 9 Formata da L’uccello dalle piume di cristallo (1970), Il gatto a nove code (1971), Quattro mosche di velluto grigio (1971). Profondo rosso era nelle intenzioni (titolo provvisorio: La tigre dai denti a sciabola) il quarto capitolo della serie.

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lo di Norimberga (1972) e Lisa e il diavolo (1973) di Bava. Alcuni film della prima ondata gotica di inizio anni sessanta sono ancora in circolazione nei primi anni settanta sotto forma di cineromanzi su riviste dell’editoria popolare (Suspense, Wampir, Racconti dall’aldilà)10, mentre i film correnti non di rado appaiono, completamente spogliati del lato orrorifico, su riviste quali «Cinesex»11. Privato invece dei suoi stereotipi e colto come categoria «astorica» e «dilatata», il gotico non scompare, anzi nelle sue posture «eretiche» ed «eccentriche» costituisce un terreno ospitale per autori quali Elio Petri (Un tranquillo posto di campagna, 1968) e Dino Risi (Anima persa, 1977); sostiene le incursioni dell’horror italiano nel satirico (Hanno cambiato faccia, Corrado Farina 1971), nel racconto nero e nel grottesco-paranoico polanskiano (La corta notte delle bambole di vetro, Aldo Lado, 1971; Il profumo della signora in nero, Francesco Barilli, 1974; Gran Bollito, Mauro Bolognini, 1977); fornisce i progetti alla base dell’architettura di interi mondi e portali dell’orrore (Suspiria; Inferno, Argento, 1980; E tu vivrai nel terrore! L’aldilà, Fulci, 1981)12. Sgombrato il campo dall’exploitation e dai colpi di coda del gotico, sarà in particolare il giallo, almeno per tutta la prima metà degli anni settanta, il contenitore principale degli orrori del periodo. Il giallo unisce l’efficacia del cinema di genere alla ricerca del cinema d’autore, producendo o influenzando le immagini e le sequenze più innovative, sanguinarie e traumatiche del periodo. Per pescare l’orrore dall’ampio bacino del giallo occorre preliminarmente soffermarci sulla relazione tra estetica e horror. L’horror moderno è connotato dalla presa di coscienza e dalla sperimentazione del proprio potenziale estetico, fin dagli anni sessanta collauda delle pratiche di «rottura» che lo avvicinano al cinema d’autore e d’avanguardia: «storicamente i registi dell’horror si sono basati sullo “shock del nuovo”, associato ai movimenti artistici d’avanguardia per coglierci alla sprovvista ed esporci a nuove sensazioni»13. 10 Ad esempio La strage dei vampiri (Roberto Mauri, 1962); La frusta e il corpo; La vendetta di Lady Morgan (Massimo Pupillo, 1965); Operazione paura. 11 Si vedano gli horror-erotici di Polselli, ma anche Contronatura di Margheriti, alla cui analisi rimandiamo. Su «Cinesex», si veda G. Maina, Cine & Sex. Sessualizzazione dei media e cineromanzo tra gli anni Sessanta e Settanta, in «Bianco e Nero», 2012, 573. 12 R. Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, Lindau, Torino 2011, pp. 7 e 239-93. 13 H. Jenkins, The Wow Climax: Tracing the Emotional Impact of Popular Culture, New York University, New York-London 2007, p. 46.

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In prossimità del 1968, la riflessione sul mostruoso attraversa il cinema underground, filtrata e rielaborata in Il mostro verde e Il vaso etrusco, pellicole d’esordio nel 1967 di Tonino De Bernardi. In altri casi viene posta tra gli elementi centrali di una poetica: in Necropolis (1970) Franco Brocani «assembla figure eteroclite dell’immaginario, dal mostro di Frankenstein a Montezuma, da Attila a Eliogabalo, da Elizabeth Bathory al Minotauro a King Kong, in una sconsolata considerazione della morte»14. Brocani assume la corporalità frankensteiniana come emblema della logica compositiva del proprio cinema15, popolandolo di una teratologia che intreccia la mitologia classica (Il Minotauro, l’Ippogrifo) e quella popolare (i Freaks di Diane Arbus, il King Kong) e lasciando in eredità nel finale di Necropolis un’altra inquietante figura del perturbante incarnato da una bambina16, mentre tiene in mano la testa decapitata di Eliogabalo. La convergenza tra cinema trash, carnevalesco, body horror e avanguardia pop culminerà nella costituzione di «uno spazio liminale tra le categorie convenzionali di bassa e alta cultura»17 con il dittico warholiano firmato da Paul Morrissey in collaborazione con Margheriti Il mostro è in tavola… barone Frankenstein (Flesh for Frankenstein, 1973) e Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!!! (Blood for Dracula, 1974). L’horror e i registri espressivi e linguistici18 del film sperimentale e underground si incontrano nelle sequenze dal sapore psichedelico e dall’incerto statuto enunciativo che popolano il giallo e l’horror: le deformazioni ottiche in Il rosso segno della follia (Bava, 1970); le sequenze oniriche e psichedeliche di Una lucertola con pelle di donna (Fulci, 1971), Lo strano vizio della signora Wardh (Sergio Martino, 1971), Tutti i colori del buio (Martino, 1972); la sequenza onirico-allucinatoria e l’esame neurologico di La notte dei diavoli; le allucinazioni con sovrapposizioni multiple e gli inserti dei fenomeni solari eruttivi nel giallo-horror Macchie solari (Armando Crispino, 1975). Il cinema di Argento è segnato dalla relazione insistita e ossessiva con le altre arti e P. Bertetto, Tutto, tutto nello stesso istante. Il cinema sperimentale, in Scuola nazionale di cinema, Storia del cinema italiano 1965-1969, XI, a cura di G. Canova, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2002, p. 324. 15 P. Marlazzi, Documentari mai visti. Franco Brocani 1967-1984, in «Cinergie», 2011, 21. 16 Dopo Operazione paura, Toby Dammit (1968) e prima di Un gioco per Eveline (1971) e Il profumo della signora in nero (1974). 17 Hawkins, Cutting Edge. Art-Horror and the Horrific Avant-Garde cit., p. 169. 18 Si veda anche l’apporto della musica elettronica e in particolare di Ennio Morricone. 14

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reca puntualmente traccia dell’utilizzo sperimentale e innovativo di apparati e tecnologie (si vedano ad esempio la camera Pentazet ad alta velocità in 4 mosche di velluto grigio, la camera «endoscopica» Snorkel in Profondo rosso, l’uso del Technicolor in Suspiria). La tensione «sperimentale» che connota l’uso degli effetti speciali diviene esemplare nel caso della celebre sequenza dei cani vivisezionati realizzata da Carlo Rambaldi in Una lucertola dalla pelle di donna. La scena è collocata nel film in un non luogo, in una terra di mezzo – tra l’epifania traumatica della moderna sperimentazione medicale e le pratiche dell’arte contemporanea, tra l’esibizione di una tecnica iper-realistica e l’esecuzione bio-meccanica di una violenza seriale (la batteria dei cani) – che l’horror va a occupare unendo in una perfetta miscela il perturbante e il traumatico19. La sedimentazione di un cinema europeo dell’orrore e la pressione esercitata dai capolavori dell’horror moderno sui confini del territorio del cinema d’autore sembrano avere i loro effetti20. Nel 1963 Brunello Rondi porta a Venezia Il demonio (con protagonista la Daliah Lavi de La frusta e il corpo), influenzato dalla ricerca folklorica, memore della lezione verista e antesignano di certo orrore del decennio successivo. Del 1964 è il mediometraggio di esordio Il passo di Giulio Questi, di matrice grand guignol-melodrammatica, all’interno del film a episodi Amori pericolosi. Del 1966 è Strega in amore di Damiano Damiani da Aura di Carlos Fuentes. Nel 1968 Federico Fellini gira l’incubo alcolico di Toby Dammit all’interno del poeiano film a episodi Tre passi nel delirio (Histoires extraordinaires)21. Lo stesso anno Petri presenta a Berlino Un tranquillo posto di campagna. Nel 1970 Pupi Avati esordisce con due film grotteschi e visionari contaminati con il gotico, l’occulto e il fantastico macabro: Balsamus, l’uomo di Satana e Thomas e gli indemoniati, per poi costellare la sua filmografia di frequentazioni del genere tali da formulare nel suo caso l’etichetta di «gotico padano» (La casa dalle finestre che ridono, 1976; Tutti defunti… tranne i morti, 1977; Zeder, 1983). Nel 1971 Corrado Farina vince a Locarno con Hanno cambiato faccia, rivisitazione satirica in chiave marxista del mi19 La sequenza appare come una citazione e un aggiornamento in versione gore della scoperta del laboratorio di vivisezione con i cani nelle gabbie in Gli occhi senza volto. 20 Lowenstein, Shocking Representation. Historical Trauma, National Cinema and the Modern Horror Film cit., p. 6. 21 Per una prima mappatura dei debiti, delle influenze e delle relazioni tra Fellini e l’horror italiano, si veda D. Totaro, Fellinian Horror, in «Offscreen», XVI, 2012, 1, edizione digitale.

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to di Dracula22. Il vampiro (Adolfo Celi) è un capitalista e il giovane Harker è un dipendente di una sua azienda. Corrado Farina cita Marcuse («Il terrore, oggi, si chiama tecnologia») e unisce gotico e terrore del controllo sociale. Nel 1975 esce postumo quello che può essere provocatoriamente considerato il più importante film dell’orrore del cinema italiano: Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, alla cui sceneggiatura collabora Avati. Un esempio emblematico di «horror a posteriori» in cui gli archetipi di una società totalitaria, accostata alle pulsioni profonde di una cultura in decadenza, danno sfogo ai loro desideri sado-masochistici più nascosti. Nel 1977 Mauro Bolognini mette in scena il racconto «nero» Gran Bollito, mentre Mario Monicelli gira Un borghese piccolo piccolo, il più efficace (assieme a L’ultimo treno della notte, Lado, 1975) rape and revenge movie del cinema italiano, sotto-genere colluso con l’horror. Sempre nel 1977 con Anima Persa Dino Risi traspone sullo schermo il romanzo Un’anima persa di Arpino, mentre nel 1981 gira la decadente e melanconica ghost-story Fantasma d’amore dall’omonimo romanzo di Mino Milani. Nello stesso anno Ettore Scola porta in concorso a Cannes Passione d’amore, tratto dal capolavoro della scapigliatura italiana Fosca di Tarchetti. La relazione tra orrore ed estetica va poi ricondotta al processo di ridefinizione dello statuto del soggetto, questione centrale per non poco cinema italiano del periodo e che trova, per ciò che ci preme maggiormente qui, espressione nella poetica di Marco Ferreri e in particolare nel mostruoso e nell’«umore» nero e grottesco di non pochi suoi film (Il seme dell’uomo, 1969; Dillinger è morto, 1969; La grande abbuffata, 1973)23. Un film esemplare del dialogo tra orrore, cinema d’autore e altre arti è Un tranquillo posto di campagna in cui Petri racconta l’alienazione di un artista nella società dei consumi, preda di fantasmi e allucinazioni, «un concentrato di citazioni pittoriche e artistiche [che] attinge alla musica della più recente avanguardia, e nel frattempo manipola categorie dei generi cinematografici tra i meno “nobili”, 22 Come ha testimoniato più volte lo stesso Farina, Hanno cambiato faccia costituisce il primo capitolo di una trilogia di rivisitazione in chiave contemporanea di tre grandi figure mostruose del fantastico: il Vampiro; il Golem – nel successivo Baba Yaga (1973), adattamento da Crepax; infine il Fantasma dell’opera, nel film non realizzato Un posto al buio, ispirato all’omonimo romanzo dello stesso Farina. 23 Si veda almeno V. Pravadelli, Derive del soggetto. Il cinema di Marco Ferreri, in Storia del cinema italiano 1965-1969 cit., pp. 94-107.

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dall’horror-thriller alla pornografia»24. Nel finale, l’improvvisazione e la performance d’artista strutturano un immaginario e brutale atto omicida, sancendo dal punto di vista del cinema d’autore la partecipazione dell’horror al cambiamento di statuto del soggetto nel cinema italiano, in particolare mutando il corpo femminile da vittima della Storia a oggetto e materiale a disposizione dell’artista. Le rovine nel film sono così metafora dell’erosione dell’empatia che riduce le persone a oggetti25. Petri lo descrisse come «il ritratto di un artista, di un intellettuale borghese e della sua scissione […] prigioniero del sistema della produzione in serie [in] fuga verso i fantasmi della cultura romantica»26. Per tramite dell’arte contemporanea ritorniamo al giallo: i fantasmi incontrati dall’artista di Petri sono quelli dell’«estetica dell’omicidio», una delle articolazioni del sublime di derivazione romantica27. L’«omicidio come arte» è l’elemento strutturante del giallo. Sarà Sei donne per l’assassino (1964) di Bava a «codificare il genere»28 e a fare lezione dell’«anti-detective fiction»29 di sapore postmoderno. Una narrativa anti-convenzionale, giocata sulla frustrazione del lettore, sull’attenzione verso dettagli e momenti inessenziali o chiusi rispetto al plot principale, in cui si può innestare l’arte dell’omicidio. Bava «dissemina il film di false esche, costruisce spunti di suspense che cadono nel vuoto […] l’intreccio diviene un mero pretesto: il film è in funzione delle sequenze di terrore e di orrore […] le performance dell’assassino diventano l’equivalente delle scene hard in un porno, e vanno valutate volta a volta per l’ingegnosità della messa in scena»30. A sua volta Argento, che farà lezione di questi archetipi, realizza film 24 M. Corbella, Musica elettroacustica e cinema negli anni Sessanta, tesi di dottorato in Storia e critica dei Beni artistici e ambientali, XXII ciclo, Università degli Studi di Milano, 2007, p. 168. 25 S. Baron-Cohen, La scienza del male. L’empatia e le origini della crudeltà, Raffaello Cortina, Milano 2012. 26 F. Faldini - G. Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Feltrinelli, Milano 1981, p. 404. 27 J. Black, The Aesthetics of Murder. A Study in Romantic Literature and Contemporary Culture, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1991. 28 M. Gomarasca - D. Pulici (a cura di), Genealogia del delitto. Il cinema di Mario e Lamberto Bava, «Dossier Nocturno», suppl. a «Nocturno», 2004, 24. Sempre per la configurazione del genere, si veda l’importanza seminale di un altro e precedente film di Bava, La ragazza che sapeva troppo (1963). 29 Olney, Euro Horror, Classic European Horror Cinema in Contemporary American Culture cit., p. 106. 30 Pezzotta, Mario Bava cit., pp. 67-70.

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che denotano uno «scollamento della struttura narrativa». Il suo è un cinema dalla narrazione debole «che trae linfa e senso solo nel momento dell’assassinio»31. Con il giallo l’omicidio diventa una questione di stile. Ciò che attuano i film di Bava e del primo Argento e che altri film italiani (La maschera del demonio, L’orribile segreto del Dr. Hichcock, Il mulino delle donne di pietra, La vergine di Norimberga) adombravano fin da inizio anni sessanta, in assonanza con i capostipiti dell’horror moderno, è uno «slittamento della metafora estetica dominante del genere»: dal «mostro come opera d’arte» al «mostro come artista». Gli omicidi diventano un «prodotto» o una «performance» di natura artistica32. Argento con L’uccello dalle piume di cristallo inaugurerà il filone del «giallo all’italiana»33 facendo leva sull’uomo comune come motore dell’intreccio e sul cosmopolitismo, sul glamour fotografico e scenografico, sull’estetizzazione ed efferatezza degli omicidi e sull’utilizzo essenziale della musica al pari del maestro Sergio Leone, infine operando all’insegna di uno stretto legame tra arte e omicidio, ambientando il prologo e l’epilogo del film in una galleria d’arte34. Gran parte del giallo italiano «metropolitano» della prima metà degli anni settanta (da Argento a Fulci, da Umberto Lenzi a Lado, da Crispino a Barilli) si propone come un dispositivo di esposizione di «personali d’artista», 31 G. Manzoli, Il trauma e la trama, in L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento, a cura di G. Carluccio, G. Manzoli e R. Menarini, Lindau, Torino 2003, pp. 46-7. 32 S. J. Schneider, Murder as Art/the Art of Murder, Aestheticizing Violence in Modern Cinematic Horror, in Dark Thoughts. Philosophic Reflections on Cinematic Horror, a cura di Id. - D. Shaw, Scarecrow Press, Lanham 2003. 33 Il genere «giallo» nel cinema italiano ha in realtà una tradizione risalente agli anni trenta. E pur riferendoci esclusivamente alle esperienze più prossime al periodo esaminato e non intendendo qui trattare il genere, va osservato che il giallo è già radicato nella produzione bis al momento del successo commerciale dei film di Argento. Ciò che si intende qui per «giallo all’italiana» è il filone thriller, la dinamica seriale che si sviluppa tra il 1970 e il 1976 circa. Un filone contraddistinto da intrecci basati sul whodunit e da narrative tutto sommato deboli, da ambientazioni prevalentemente, ma non esclusivamente, metropolitane e cosmopolite e soprattutto dall’accumulazione e dalla successione di momenti forti costituiti dagli omicidi, particolarmente curati nei dettagli e nell’inventiva, nonché connotati dalle dinamiche slasher con cui si dispiegano (i momenti preparatori di stalking e le soggettive; il clou dell’azione violenta, i colpi inferti e l’uso di armi «bianche»; la stasi sui corpi morenti e sugli effetti grandguignoleschi sul corpo e sui volti delle vittime). Per una prima introduzione, si veda P. M. Bocchi, Dario Argento e i thriller argentiani, in Storia del cinema italiano 19701976 cit. 34 «Nella carriera di Argento l’idea dell’“arte omicida” può essere ribadita anche dalla constatazione che molti assassini danno prova di un talento artistico», V. Villani, Arte «omicida». L’ambiguità tra arte e realtà, in Argento vivo. Il cinema di Dario Argento tra genere e autorialità, a cura di V. Zagarrio, Marsilio, Venezia 2008, p. 172.

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non di rado ambientate in spazi e plot saturi di rimandi al mondo delle arti, al design, alla moda. La trasformazione dell’atto omicida in arte attuata dal «giallo all’italiana» ha rappresentato un «ponte cruciale tra la tradizione hollywoodiana del cinema horror e la tradizione europea del cinema d’autore», trovando in Argento la figura emblematica della convergenza fra «la storia e la tradizione dell’horror italiano e del film d’autore europeo. Fondendo questi due generi, l’opera di Argento può essere qualificata come “art horror”»35. Argento è inoltre la figura chiave dell’intreccio tra giallo e horror. Già la critica del tempo riconobbe la forte componente grandguignolesca dei suoi gialli e Profondo rosso (in particolare per il motivo della casa «infestata» e per gli eccessi gore e macabri) può essere considerato come il film di passaggio fra il thriller e l’horror tout court. Il passaggio al fantastico soprannaturale di Suspiria e Inferno è lo spostamento che libera Argento dalle «costrizioni e convenzioni razionali del giallo»36. Il thriller infatti colloca alla propria base il «dato più suggestivo per lo spettatore, ovvero che sia una psicosi umana a produrre la passione assassina e la sensualità dell’omicidio. L’horror, al contrario, svincola autore e spettatore dal morbo del “mostro” nascosto tra noi e scatena le più immaginifiche associazioni visive»37. Il «giallo all’italiana» ha così un ulteriore merito: costruendo la mostruosità attorno al soggetto umano (seppure psicopatologico) istituzionalizza nel cinema di genere un’origine endogena dell’orrore. Nel secondo capitolo della cosiddetta «trilogia dei manichini»38 di Bava, Il rosso segno della follia, John Harrington, raffigurato davanti allo specchio del bagno nella propria quotidiana intimità, rivela al pubblico nella forma del monologo interiore la propria identità mostruosa: «sono un folle, un pericoloso omicida». Nel corso del film, Bava si au35 D. de Ville, Menopausal Monsters and Sexual Transgression in Argento’s Art Horror, in Cinema Inferno. Celluloid Explosions from the Cultural Margins cit., a cura di Weiner e Cline, p. 63. 36 G. Carluccio - G. Manzoli, Poetica dell’erranza. Flâneries, architetture, percorsi della visione, in L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento cit., a cura di Carluccio, Manzoli e Menarini, p. 58. 37 R. Menarini, Dario Argento dal thriller all’horror tra modernità, postmodernità e manierismo, in L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento cit., a cura di Carluccio e Manzoli, p. 36. Va annotato che l’implicita distinzione tra horror e thriller in base alla presenza di elementi soprannaturali e non attraverso la ridefinizione delle categorie della mostruosità comporterebbe, in particolare dal cinema moderno in poi, l’esclusione dal genere di molti dei suoi capolavori riconosciuti. 38 Pezzotta, Mario Bava cit.

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tocita: Harrington mostra all’ispettore di polizia una sequenza de I tre volti della paura (Karloff nell’episodio vampirico de I Wurdalak) con l’intento di sviarlo, indicando nel televisore e nel film la fonte delle grida provenienti dall’abitazione. Il «gotico all’italiana» è storicizzato e rimediato, diviene repertorio collocato in un altrove storico e mediale. Alla domanda dell’ispettore («Le piacciono i film dell’orrore?»), Harrington risponde: «Penso che la realtà sia molto più terrificante della finzione»39. Il serial killer John Harrington è un «nuovo mostro», «effetto di un sovvertimento profondo dei rapporti tra immaginario e reale»40, un predatore dei propri simili che persegue la distruzione fisica del corpo e la distruzione simbolica del soggetto e del sé. L’origine dell’orrore, la mostruosità non corrispondono più a un’entità soprannaturale ma a un soggetto umano, a suo modo integrato in una società di cui è espressione. Questa tendenza centripeta dell’orrore, questa propensione a mimetizzarsi nel corpo sociale anziché assumere le maschere degli archetipi del gotico, la ritroviamo nella geografia dell’orrore post-’68. Se il gotico all’italiana perseguiva ambientazioni arcaiche e «nordiche», ora l’horror sembra privilegiare la contemporaneità e il territorio nazionale. Con il cinema post-’68 inizia «una molteplice scoperta delle diverse Italie» dell’orrore41. Il genere sembra riscoprire una vocazione «realistica». Fin dalla fuoriuscita del gotico dagli stabilimenti romani (il riferimento è a Operazione paura e al borgo in rovina di Calcata) il paesaggio «dal vero» del cinema fantastico e del terrore – è stato notato – evoca «un incongruo ricordo del neorealismo»42. Parte significativa dell’horror del periodo procede così a un rinnovamento dei tòpoi, alla ricerca di luoghi «dal vero» e di contesti ambientali e culturali specifici: tanto nei centri urbani quanto nei paesaggi rurali, periferici, provinciali. Ciò che sembra essere in atto è un’indagine «etnografica» e una topografia dell’orrore nazionale. Si pensi all’incipit de L’etrusco uccide ancora (Crispino, 1972), in cui l’archeologo è impegnato nella rilevazione fotografica aerea del paesaggio sottostante, oppure al libro immaginario FantaImmediata è la forte analogia con il Karloff di Bersagli (Targets, Peter Bogdanovich, 1970), film manifesto del passaggio dai «vecchi» ai «nuovi» mostri. Si veda anche Macchie solari e in particolare il dialogo che introduce la sequenza del museo criminale: «purtroppo l’arte è sempre inferiore alla realtà, anche nell’orrore e nel sadismo». 40 M. Perniola, La società dei simulacri, Cappelli, Bologna 1980, p. 9 (2011). 41 I. Calvino, Prefazione, in Id., Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 2002 (19641), p. 5. 42 Curti, Fantasmi d’amore cit., p. 94. 39

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smi di oggi e leggende nere dell’età moderna in Profondo rosso, con i suoi capitoli dedicati a vicende inquietanti ambientate, tra gli altri luoghi, a Verona, Pavia, Pordenone, Foggia. Si veda infine il cosiddetto «gotico rurale» degli anni settanta, segnato dall’«influenza della tradizione popolare locale, l’utilizzo del paesaggio rurale come elemento perturbante»43. Il paesaggio dell’horror italiano si estende fino a occupare gran parte del paese geografico, predisponendo un viaggio di attraversamento di una sorta di wilderness e alterità socio-culturale: dalla baia nei pressi di Sabaudia di Reazione a catena (Bava, 1971) all’Umbria de I corpi presentano tracce di violenza carnale (Martino, 1973); dalle Langhe di Hanno cambiato faccia al paese immaginario di Accendura di Non si sevizia un paperino (Fulci, 1972); dalle necropoli dell’alto Lazio de L’etrusco uccide ancora agli Appennini de L’ossessa (Mario Gariazzo, 1974); dai boschi (jugoslavi) de La notte dei diavoli a quelli de La lupa mannara (Rino De Silvestro, 1976); dalla pianura padana di Salò o le 120 giornate di Sodoma a quella di La casa dalle finestre che ridono; dalla campagna veneta de L’ultimo treno della notte a quella laziale di Un borghese piccolo piccolo (Monicelli, 1977); dalla villa di campagna di Shock (Bava, 1977) alla montagna trentina di Buio Omega (Joe D’Amato, 1979). Fino a giungere con il sottogenere cannibal a immaginare un «cuore di tenebra» esotico e primigenio, che funziona da estremo approdo della tensione al realismo documentario di certa parte dell’horror del periodo. Il «mostruoso» non è quasi mai incarnato da rappresentanti di culture «marginali» (come nel caso tutto sommato minoritario de La notte dei diavoli, rifacimento de I Wurdalak di Bava), quanto da esponenti e rappresentanti della società civile, della cultura dominante, delle istituzioni: professori universitari (I corpi presentano tracce di violenza carnale), figure religiose (Non si sevizia un paperino; La casa dalle finestre che ridono), alta borghesia (Contronatura; Hanno cambiato faccia), società segrete e sette esoteriche (Balsamus, La corta notte delle bambole di vetro, Il profumo della signora in nero), duchi, vescovi, banchieri e giudici (Salò), artisti e artigiani (Un tranquillo posto di campagna, Buio Omega), padri e madri (Profondo rosso, L’ultimo treno della notte, Un borghese piccolo piccolo, Gran Bollito) e perfino «innocenti» bambini (Reazione a catena). L’horror italiano traccia una 43

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«topografia dell’orrore del potere» delineata fin da I vampiri (la duchessa du Grand come erede della contessa Bathory) e che ora si estende a tutto il corpo sociale44. Nell’immaginario orrorifico sfila una società che ha perso la propria innocenza, proprio ciò che il parroco assassino di Non si sevizia un paperino vorrebbe tutelare uccidendo i bambini prima che la loro «purezza» venga contaminata. A emergere è un paesaggio socio-culturale per nulla pittoresco o idilliaco45. Il cinema italiano attua nel post-’68 un rovesciamento generale della funzione e del valore degli oggetti simbolo della modernizzazione e del benessere (elettrodomestici, mezzi di trasporto, mezzi di comunicazione)46, un processo in cui anche l’horror è coinvolto. La wasteland dell’orrore italiano non si popola tuttavia di detriti della civiltà industriale quanto di rovine culturali. Le ambientazioni contemporanee e le superfici del paesaggio appena descritte non escludono infatti che il cinema horror del periodo mantenga forti connessioni con il passato, un livello profondo e diacronico con cui l’immaginario orrorifico dialoga e che è visivamente emblematizzato dalle rovine. La ricerca della fonte dell’orrore procede attraverso una metafora storico-artistica e archeologica, un processo di scavo e di esplorazione. Rovine monumentali e luoghi in rovina ricorrono in film profondamente diversi tra loro; si vedano ad esempio Toby Dammit, Un tranquillo posto di campagna, Thomas e gli indemoniati, La notte dei diavoli, L’anticristo. La discesa verso strati profondi della memoria e del passato è preludio all’epifania dell’orrore: i dipinti, le sculture e i siti de L’uccello dalle piume di cristallo, L’etrusco uccide ancora, Lisa e il diavolo, Profondo rosso, La casa dalle finestre che ridono, L’ossessa, Sette note in nero (Fulci, 1977); l’iris blu su sfondo escheriano in Suspiria; i terreni k di Zeder; il muro segnato dalla guerra in Un tranquillo posto di campagna; la casa di Irina in La corta notte delle bambole di vetro; il giardino, il mosaico e le «catacombe» de Il profumo della signora in nero; la cantina di Shock. Disegni infantili, dipinti naives, murales, affreschi, Si pensi al finale de La corta notte delle bambole di vetro («Noi terremo le fila del mondo finché ci sarà gente disposta a farsi uccidere, a versare il proprio sangue […] abbiamo bisogno dei giovani per mantenerci vivi») in cui si reitera la metafora frediana (da I vampiri) di un potere che si riproduce vampirizzando le nuove generazioni. Si veda R. Freda, Divoratori di celluloide. 50 anni di memorie cinematografiche e non, a cura di G. Fofi e P. Pistagnesi, Emme edizioni, Milano 1981, e l’analisi di I vampiri qui contenuta. 45 D. Bell, Anti-Idyll. Rural horror, in Contested Countryside Cultures. Otherness, Marginalisation and Rurality, a cura di P. Cloke e J. Little, Routledge, London-New York 1997. 46 L. Gandini, La meccanica dell’umano. La rappresentazione della tecnologia nel cinema italiano dagli anni Trenta agli anni Settanta, Carocci, Roma 2005. 44

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incisioni, crocifissi lignei, siti archeologici, chiese, case, capanni di campagna, carillon, registratori magnetici, macchine da scrivere, fonografi, fotografie sono luoghi e tracce materiali che conservano la memoria dell’orrore nazionale, stratificato e nascosto e portato alla luce. L’horror, attraverso l’esplorazione del paesaggio e l’indagine «archeologica» e «stratigrafica» delle sue rovine, sembra alludere a un andamento retrospettivo, genealogico e interiore, volto a rinvenire segni di una presenza antica e radicata dell’orrore nella memoria culturale, nella tradizione figurativa, nel folklore nazionale. Se dal paesaggio ci spostiamo in direzione del territorio del corpo, appare evidente come in questi anni l’orrore italiano si contamini sempre più con l’erotico e soprattutto si qualifichi nella rappresentazione spettacolare di un corpo in «rovina». Iniziata nel decennio precedente, la violazione «estetica» della sua sacralità e integrità (si pensi all’ossessione del volto sfigurato) dilaga negli anni settanta. Fin dal giallo, in cui gli effetti speciali e i trucchi assumono sempre più importanza, il corpo lacerato, sanguinante e scomposto è l’attrazione principale. Costituisce la metafora di un soggetto e di un corpo sociale in disintegrazione, il luogo del discorso attorno a cui si struttura una bio-politica del dominio e della sottomissione del vivente o si aprono delle opportunità di liberazione attraverso la sfera del piacere e del desiderio47. Non diversamente dal contesto internazionale, nei nuovi orrori italiani le rappresentazioni degli stati di lesione, sottomissione e morte sono diffusi e virali48. Il corpo lesionato domina il giallo e lo slasher (La bestia uccide a sangue freddo, Fernando Di Leo, 1971; Reazione a catena, L’etrusco uccide ancora, Profondo rosso), il gotico rurale e il rape and revenge (La notte dei diavoli, L’ultimo treno della notte, La casa dalle finestre che ridono), il demoniaco, il cannibal, lo zombie movie (Chi sei?, Cannibal Holocaust, Zombi 2, L’aldilà). Il corpo come vittima si articola sia in una dimensione religiosa (la possessione, il martirio) che in una laica (il suicidio, il sadismo). Riconducibili al primo caso sono La casa dell’esorcismo di Bava (che è a sua volta un caso di «possessione» e trasfigurazione di un suo precedente film, Lisa e il diavolo) e L’anticristo; mentre l’iconografia del martirio appare in Non si sevizia un paperino, La casa dalle finestre che ridono e L’aldilà. Al P. MacCormack, Cinesexuality, Ashgate, Aldershot 2008. Per la tripartizione appena citata, si veda Prince, Violence and Psychophysiology in Horror Cinema cit. 47

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secondo vanno ascritti i suicidi dell’incipit di Macchie solari, le violenze sessuali de L’ultimo treno della notte, fino a giungere al «girone della morte» di Salò. La rappresentazione del cadavere presenta un ampio spettro di manifestazioni e stati, istituendo in particolare attorno alla necrofilia e all’inanimato un regime di dominio autoptico. L’orrore si diffonde per tramite di una visione anatomica e necroscopica: in Spell, dolce mattatoio (Alberto Cavallone, 1977) è citato e mostrato Vesalio; in Gran Bollito la cucina è metafora del teatro di dissezione anatomica, mentre i tavoli autoptici ricorrono nel filone zombi (Zombi 2, L’aldilà, Zombi Holocaust, Marino Girolami, 1980), ne La corta notte delle bambole di vetro e fondano Macchie solari49; abbondano infine le pratiche cosmetiche, di imbalsamazione, mummificazione, sepoltura (Il rosso segno della follia, Lisa e il desiderio, Il profumo della signora in nero, La casa dalle finestre che ridono, L’etrusco uccide ancora, Buio Omega, Macabro, Zombi 2). Non appare quindi casuale che la corporalità frankensteiniana, filtrata da Brocani e radicalizzata da Morissey, si manifesti nell’horror italiano in questo periodo. La sequenza de L’orribile segreto del Dr. Hichcock, in cui l’assistente chiedeva a una composta e misurata Barbara Steele se avesse mai assistito a un’autopsia introducendola al laboratorio e al tavolo autoptico, appare ora fin troppo pudica e rispettosa. La fuga in avanti verso il post-umano è affiancata dalla regressione a uno stato primitivo e bestiale in cui emerge la «passione per il sangue»50. L’orrore corporale mette in scena riti pagani, culti dei morti (La corta notte delle bambole di vetro, La notte del diavolo, Non si sevizia un paperino, Spell) e pratiche cannibaliche (Il profumo della signora in nero, Gran Bollito, Buio Omega) che avranno sul finire degli anni settanta un sotto-genere dedicato quale il cannibal. Il cannibal è un filone di chiara ascendenza italiana che miscela assieme il film d’avventura (il tema del viaggio e le ambientazioni esotico-tropicali), l’horror (il gore) e riprende la tradizione «documentaria» dello shockumentary, del mondo movie degli anni sessanta e settanta. Il ciclo è preannunciato da Il paese del sesso selvaggio (Lenzi, 1972) e si dispiega a cavallo tra anni settanta e ottanta a partire dall’uscita di Ultimo mondo cannibale (Ruggero Deodato, 1977), il cui successo lancia il filone. Il film è immediatamente seguito dall’imitazione Emanuelle e 49 50

Titoli internazionali: Autopsy e The Victim. Si veda poi la sequenza del museo criminale. Eisler, Uomo lupo. Saggio sul sadismo, il masochismo e la licantropia cit.

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gli ultimi cannibali (D’Amato, 1977) che incrocia la serie di Emmanuelle al cannibalico, per poi essere seguito da altri titoli tra i quali La montagna del dio cannibale (Martino, 1978), Mangiati vivi! (Lenzi, 1979), Cannibal Holocaust (Deodato, 1979), Cannibal Ferox (Lenzi, 1980), Antropophagus (D’Amato, 1980). Si tratta di film di exploitation incentrati sul conflitto tra esponenti della «civiltà» occidentale e popolazioni «primitive» e che descrivono l’orrore dell’aggressività umana sulla scorta di immagini altamente scioccanti e sensazionali, inscenando simulazioni più che realistiche di atti cannibalici, torture, violenze corporali e sessuali e mostrando reali uccisioni di animali51. Nello stesso periodo, il sottogenere degli zombie film di produzione italiana, in parte avviato dal successo di Zombi di Romero e in parte derivato dal filone cannibalico, è inaugurato da Zombi 2 di Fulci nell’estate del 1979 e ben presto alimentato da altri titoli tra i quali Zombi Holocaust, Paura nella città dei morti viventi (Fulci, 1980), Incubo sulla città contaminata (Lenzi, 1980), Le notti del terrore (Andrea Bianchi, 1980), Virus (Bruno Mattei, 1980). In relazione al contesto nazionale, la manifestazione del filone zombie è stata ricondotta alla tensione e al nichilismo del clima socio-politico della fine degli anni settanta; ai timori indotti dalle trasformazioni socio-culturali determinate dall’inversione dei flussi migratori tra anni sessanta e settanta; a preoccupazioni di ordine ecologico e di mutazione del corpo legate a disastri ambientali come quello di Seveso nel 197652. Non dissimilmente anche il filone cannibalico si presta a letture di ordine socio-culturale. In questa direzione, Cannibal Holocaust di Deodato, il più celebre film del ciclo, è per molti versi esemplare. Anche se prodotto e distribuito come film di exploitation e non certo come un manifesto politico, nonché considerato da alcuni un film reazionario, oltraggioso e da censurare, è oggi sempre più accolto come un film importante per il genere, «un manifesto del falso cinema verità scatenato contro una cultura dei media ossessionata dal sensazionali51 Per una ricognizione del cannibalico (e del morto vivente) nel cinema italiano tra anni sessanta e settanta, si veda J. Slater (a cura di), Eaten Alive! Italian Cannibal and Zombie Movies, Plexus, Medford (Nj) 2002. Si veda anche G. Galliano - D. Aramu, Bon Appetit. Guida al cinema cannibalico, in «Dossier Nocturno», 2003, 12. 52 B. O’Brien, Vita, amore, e morte, and a Lots of Gore: The Italian Zombie Film, in Zombie Culture. Autopsies of the Living Dead, a cura di S. McIntosh e M. Laverette, Scarecrow Press, Lanham (Md) 2008; S. Brioni, Zombies and the Post-colonial Italian Unconscious: Lucio Fulci’s Zombi 2 (1979), in «Cinergie», 2013, 4; R. Hunter, Eco-zombies. The Italian Horror Film and Political Ecology, in «The Italianist», XXIII, 2013, 2.

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smo a ogni costo»53. In questa direzione, il filone cannibal nel suo insieme delineerebbe un discorso post-colonialista sul ruolo della civiltà bianca occidentale nella costruzione del mito del cannibalismo e sullo sfruttamento distruttivo della natura e delle popolazioni native. Con il suo film-nel-film (i rulli di pellicola ritrovati dalla missione di soccorso che conservano le atrocità commesse e subite dalla troupe), Cannibal Holocaust prefigura il mockumentary postmoderno e si pone come un film che segna il confine ultimo del periodo che abbiamo deciso di affrontare in questo volume. Il film di Deodato apre al cinema contemporaneo, condividendo con altri horror internazionali del periodo la tensione alla riflessività, all’intermedialità e la coscienza di una sorta di fine del cinema (come limite estremo raggiunto dal suo immaginario orrorifico nel momento del tramonto del medium) e di fine della realtà (la simulazione del vero e del reale). Alla fine degli anni settanta, infine, sembra che sia tutto il corpo civile e per esteso del cinema italiano a regredire, non solo nei luoghi esotici ma anche nel paesaggio italiano più prossimo e familiare (fin dai suoi generi tradizionali, la commedia per esempio). In Gran Bollito l’orrore si appropria del genere drammatico: la follia emerge dalle pieghe della vita quotidiana di un palazzo borghese. Il film è ambientato a fine anni trenta, nei mesi a cavallo dello scoppio della guerra ed è ispirato alle vicende criminali di Leonarda Cianciulli. Psicopatologia e riti arcaici, travestitismo da avanspettacolo e messinscene da grand guignol, racconto sentimental-grottesco e cronaca criminale sono le polarità su cui è strutturato uno spaccato dell’orrore quotidiano di un regime politico e sociale in disfacimento (la Repubblica italiana del 1977, lo Stato fascista del 1940). L’orrore contagia anche il genere italiano per eccellenza: Un borghese piccolo piccolo segna l’estremo punto di approdo e il momento di resa della commedia all’italiana. I due film possono essere accostati per più motivi, presentando entrambi dei nuclei familiari preoccupati della propria riproduzione (i figli) e della soddisfazione dei beni primari (il cibo)54. Il terrore di perdere i figli in A. DeVos, The More You Rape Their Senses, the Happier They Are. A History of Cannibal Holocaust, in Cinema Inferno. Celluloid Explosions from the Cultural Margins cit., p. 78. 54 Shelley Winters è protagonista di entrambi i film, rivestendo due ruoli antitetici: nel film di Monicelli è la più defilata, impotente e muta (preda di una paresi) Amalia Vivaldi, moglie del giustiziere Giovanni (Alberto Sordi) e madre di Mario, vittima innocente e a suo modo inevitabile della criminalità comune; nel film di Bolognini è invece Lea, protagonista assoluta del dramma grottesco di una donna determinata a ingaggiare una folle e al contem53

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una guerra catastrofica o la visione del loro sangue versato sulle strade armate da un conflitto intestino innesca la follia dei padri e delle madri. Il corpo familiare si lacera: uno dei genitori diventa inabile, preda di paresi (la madre in Un borghese piccolo piccolo; il padre in Gran Bollito), mentre l’altro attiva reazioni difensive e aggressive spropositate, tramutandosi in una «strega» capace di esorcismi e delitti orribili per preservare la prole (Shelly Winters nel film di Bolognini), oppure in un individuo disperato capace di torturare e uccidere per vendicarne la morte (Alberto Sordi nel film di Monicelli). Il dramma di una nazione rispecchiato nel privato non trova risoluzioni morali nobili, sfociando invece in una morale rovesciata e in una lucida follia, mentre la commedia all’italiana agonizza e muore in uno spoglio e sperduto capanno da pesca della periferia romana per mano di uno dei suoi più grandi interpreti asservito ai nuovi orrori. Un destino di morte e di cesura, di fine di un naturale corso di trasmissione di valori e tradizioni accomuna generi popolari e discorsi sociali. Il corpo sociale e cinematografico dell’Italia di fine anni settanta reagisce a una mutazione in corso e a una minaccia identitaria richiamando in superficie pratiche antiche. Il primitivo e l’arcaico riemergono in un palazzo della borghesia della provincia del Nord, mentre un esponente esemplare della piccola borghesia si tramuta in un tragico e sadico torturatore e in un potenziale omicida seriale. Le soggettività raffigurate nei film di Bolognini e Monicelli, private di speranze, procedono spedite verso l’anomia, trovando nelle figure simboliche del capro espiatorio e della vittima sacrificale una cruda e impietosa risoluzione. La paralisi dell’immaginario non può fare altro che ricercare vie di uscita percorrendo luoghi oscuri. Alla fine degli anni settanta, vent’anni dopo l’esplosione della commedia e il defilato e mascherato debutto dell’horror, il cinema italiano trova in un genere che mai gli era appartenuto un serbatoio da cui attingere figure e motivi in grado di esprimere la propria profonda inquietudine. po lucida lotta contro la dissoluzione dell’identità familiare, sessuale e morale di un intero microcosmo sociale, proiettato verso la morte collettiva incarnata dal secondo conflitto mondiale. Sempre la Winters aveva interpretato l’anno prima la portinaia di L’inquilino del terzo piano (Le Locataire, Roman Polanski, 1976), segnalando la continuità, tanto tematica quanto produttiva, tra il film di Polanski e quello di Bolognini. La continuità è dichiarata fin dalla sceneggiatura di Gran Bollito firmata da Nicola Badalucco (e che darà al film il suo titolo internazionale, Black Journal), scritta con il fine esplicito di proporla per la sua realizzazione al regista di origine polacca.

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1. La diva, la morte e il diavolo Rapsodia satanica (Nino Oxilia, 1917)

Son finiti i giorni lieti (Nino Oxilia, Il commiato) Si vis vitam, para mortem (Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte)

Rapsodia satanica viene proiettato per la prima volta il 5 luglio del 1917 al teatro Augusteo di Roma con accompagnamento sincrono dal vivo della sinfonia omonima composta da Pietro Mascagni, ottenendo l’anno seguente un certo successo e circolando con regolarità. Questo nonostante fosse entrato in produzione nel 1914, quando «la Cines pensò di contribuire all’elevazione intellettuale dell’opera cinematografica con saggi di un’arte cinema-lirica nuovissima, concepita e condotta con intendimenti di seria ricerca»1 e fosse stato dichiarato «programmabile» fin dal settembre del 1915. Rapsodia satanica è uno dei tentativi più espliciti e ambiziosi di legittimazione del nuovo medium attuati in Italia durante gli anni dieci, volto a riunire «le sensazioni di tutte le arti»2. È un adattamento del Faust costruito attorno alla «divina incantatrice»3 Lyda Borelli, la cui messinscena è affidata al poeta e commediografo Nino Oxilia. Le «superfici» (costumi, décor, cromatismi) sono curate da Mariano Fortuny, mentre lo scenario del film è firmato da Fausto Maria Martini. Sarà pubblicato nel 1915 sotto forma di libretto di accompagnamento, un modello nobile e di compromesso per il letterato e per le aspi«Il cinema illustrato», a. I, 7 luglio 1917, 4. A. Fassini (Alfa) - F. M. Martini, Rapsodia satanica. Poema Cinema-Musicale, Cines, Roma 1915. Per approfondire l’esperienza sinestetica ricercata dal film di Oxilia in relazione all’uso del colore (imbibizioni, viraggi, pochoir), si veda F. Pierotti, La seduzione dello spettro. Storia e cultura del colore nel cinema, Le Mani, Recco 2012, in particolare pp. 74-9. 3 K. Paronitti, Lyda Borelli, divina incantatrice, in Le incantatrici, a cura di F. Pagani, «Elephant Castle», luglio 2013, 7. 1 2

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razioni della Cines, nonché un ideale complemento della sinfonia di Mascagni, a conferma di un vivace dialogo e di un’osmosi più profonda in atto tra cinematografo e melodramma4. Mascagni non solo aderì al progetto, ma richiese garanzie tali da mantenerne il controllo, influenzando se non subordinando la struttura del film alla composizione musicale5. Rispetto al film delle dive canonico cui appartiene6, Rapsodia satanica se ne discosta in parte esibendo «una fascinazione dell’ossessione verso l’occultismo di fine Ottocento intrecciata con l’orientalismo» e dimostrando in questo una tensione anti-modernista. Inoltre, trattando il «tema della temporalità, altrimenti detta “quarta dimensione”, un tema chiave nei circoli italiani che studiavano il confine tra i fenomeni scientifici e paranormali», Rapsodia satanica attesta una piena consapevolezza delle relazioni tra spiritualismo e ricerca psichica. Lo spiritualismo di Bergson segna profondamente la struttura lirico-narrativa, figurale e ritmica del film7. Rapsodia satanica è un’opera allegorica, un luogo di intersezione di più domini estetici, un crocevia di rimandi letterari e figurativi (il romanzo borghese e di appendice, la tradizione romantica e D’Annunzio; la scapigliatura e il crepuscolarismo; la pittura romantica, preraffaellita e l’Art Nouveau) e di forti influenze musicali e coreutiche (il balletto moderno, il teatro d’opera, l’euritmia steineriana). È un’opera sintetica che si presenta come «un compendio visivo e poetico della cultura liberty»8. 4 Alfa - Martini, Rapsodia satanica. Poema Cinema-Musicale cit. Si veda V. Bagnoli - G. Manzoli, Era Alba d’Oltrevita nel castello dell’illusione. Intorno a «Rapsodia satanica», poema cinema-musicale, in «Cinegrafie», a. V, 1996, 9; si vedano anche, nello stesso numero, gli interventi di E. De Kuyper. «Rapsodia satanica» o il fremito del colore, e N. Mazzanti, A nuova vita. Note sul restauro di «Rapsodia satanica». 5 G. P. Brunetta, Gli intellettuali italiani e il cinema, Bruno Mondadori, Milano 2004; si veda anche E. Vittadello, Il canto silenzioso. Divismo e opera lirica nel cinema muto italiano, in A nuova luce. Cinema muto italiano I, a cura di M. Canosa, Clueb, Bologna 2000. 6 Per la definizione del cinema italiano delle dive, si veda il capitolo introduttivo Del gusto dell’orrido al principio del XX secolo. Qui ci limitiamo a segnalare ancora che utilizzeremo anche la dizione diva film, utilizzata da A. Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema, University of Texas Press, Austin (Tx) 2008. 7 A. Dalle Vacche, Lyda Borelli’s «Satanic Rhapsody». The Cinema and the Occult, in «Cinemas», XVI, 2005, 1, p. 93. Bergson fu presidente della Society for Psychical Research: si veda H. Bergson, Ipnosi e fantasmi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2012. Si veda in area italiana, in relazione alle ricerche su storia dei media e soprannaturale, il contributo di S. Natale, Un dispositivo fantasmatico: cinema e spiritismo, in «Bianco e Nero», 2012, 573, pp. 82-91. 8 G. P. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 98.

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È strutturato in un prologo e due parti. Nel prologo Alba d’Oltrevita (Lyda Borelli), anziana rappresentante dell’alta società, stipula un patto con il demone Mefisto (Ugo Bazzini) nelle stanze del suo Castello dell’Illusione, e, rinunciando all’amore, riacquista la sua giovinezza. Nella prima parte Alba trascorre una nuova primavera della vita corteggiata da due fratelli, Sergio (Giovanni Cini) e Tristano (Andrea Habay). Sergio minaccia di uccidersi se Alba non ricambierà il suo amore. Durante una festa in maschera, Alba, travestita da Salomè, seduce, ricambiata, Tristano e si disinteressa di Sergio che si suicida la sera stessa. Tristano, sconvolto dalla morte del fratello, vaga disperato, lasciando Alba colma di rimpianto e dolore. Nella seconda parte Alba conduce un’esistenza malinconica rinchiusa nella sua dimora, riscoprendo dentro sé un sentimento d’amore che indirizza su un cavaliere sconosciuto che crede essere Tristano. Alba decide di abbandonarsi alla passione, infrangendo così il patto con il diavolo. Nel momento del ricongiungimento con l’amato scopre che il cavaliere è in realtà Mefisto, pronto a riprendersi la giovinezza concessa e a restituirle un destino di vecchiaia e morte. In Rapsodia satanica il mostruoso, il traumatico e il fantastico oscillano fra tradizione e modernità, eleggendo la diva, la morte e il diavolo a figure e dimensioni incaricate di rappresentarli. Sono molti i debiti verso il complesso della tradizione folklorica, letteraria e operistica del Faust e delle sue varianti, entro la quale un riferimento importante è rappresentato dal Mefistofele di Arrigo Boito (1868). L’iconografia di Mefisto discende in buona parte dalla tradizione operistica. Poco o per nulla esplorate sono le risonanze con un’altra attestazione della tradizione faustiana quale è Il ritratto di Dorian Gray (1890-91), anche in considerazione della significativa e contemporanea fortuna cinematografica del romanzo, adattato negli stessi anni più volte9. Il «tema satanico» composto da Mascagni viene descritto come dotato di «un carattere obliquo e misterioso che fa pensare a un Fiore del male baudelariano o ad una di quelle apparizioni care a Edgardo Poe»10. L’ironia, il sarcasmo e l’ambiguità sessuale propria del Mefistofele di Goethe si possono riconoscere nella pantomima e nel trucco di Mefisto, codici che conservano l’eco di una dimensione folklorica, preletteraria. Un’ambivalenza di derivazione arcaica che troverà in Dante 9 Si vedano, tra gli altri, Portret Doriana Greya (Vsevolod Mejerchol’d, 1915) e Das Bildnis des Dorian Gray (Richard Oswald, 1917). 10 G. M. Viti, La Rapsodia Satanica di Pietro Mascagni, in «La Vita Cinematografica», numero speciale, dicembre 1917.

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prima e nella commedia dell’arte poi un’esplicitazione drammaturgica: è l’«Arlecchino demònico e l’Arlecchino istrione» derivato dal demone dantesco Alichino (colui che «alletta», che «attrae»)11. Il personaggio di Mefisto presidia come da tradizione i momenti di libero arbitrio coincidenti con gli incroci e le biforcazioni narrative. Governa altresì il tempo e le immagini riflesse ed è emblema del «dilemma modernista tra naturale (i giardini, i boschi, i laghi) e artificiale (il design ornamentale e gli interni Art Nouveau)»12. Il suo mantello conserva la funzione goethiana di mezzo di comunicazione e di accesso al meraviglioso: è uno strumento di trasformazione e liberazione dalla linearità del tempo e dalla fissità monumentale della forma propria delle arti visive pre-cinematografiche. Il demoniaco agisce così su un piano metalinguistico che trova estensione e applicazione nella natura corporea di Alba, la quale «incarna non solo il potere di conservazione della vita proprio dell’immagine cinematografica ma anche il sogno di invertire il flusso mortale del tempo»13. Va annotato infatti come Mefisto appaia per la prima volta all’interno di un dipinto, ritratto a fianco di Faust. Evocato da Alba, si anima e discende dal quadro: non è un demone che emerge da un luogo infernale, è un’icona che irrompe dalla superficie di un dominio estetico. Da un lato quindi Mefisto assume una funzione metalinguistica, in linea con l’assunto iniziale che vede Rapsodia satanica come opera sintetica e innovativa all’interno del sistema delle arti degli anni dieci. D’altro lato, la vicenda di Rapsodia satanica potrebbe essere interpretata come una storia di redenzione, un’esperienza interiore, un rimembrare da parte di Alba anziana. In questa prospettiva Mefisto non sarebbe altro che una proiezione della psiche di Alba, una «fantasia», come recita un’affiche pubblicitaria del film. In altre parole, Mefisto è una delle molte immagini riflesse del «serpente tentatore» dell’immaginazione, della fantasticheria così come indagato e ripreso dall’ultimo Praz sulla scia di Zolla. Il «patto con il serpente» (Mefisto) sancito da Alba non le restituirebbe quindi la giovinezza, la doterebbe invece di immaginazione e desiderio14. 11 S. M. Barillari, Hellequin servitore di due padroni. Dalla figura demoniaca alla maschera teatrale, «Commedia dell’arte. Annuario Internazionale», a. IV, Olschki, Firenze 2011. 12 E. Thacker, Passionate Divas, in «Mute», III, 2011, 1. 13 A. Dalle Vacche, Lyda Borelli’s «Satanic Rhapsody» cit., p. 98. 14 E. Zolla, Storia del fantasticare, Bompiani, Milano 1964, citato in M. Praz, Il patto col serpente. Paralipomeni di «La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica», Mondadori, Milano 1972, p. 537.

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L’accesso a tali piani innesta un processo di mutazione trasformativo della maschera e dell’identità di Alba, dinamica che pertiene alla categoria del divismo, sottolineando implicitamente un legame di quest’ultimo con il soprannaturale. Il cinema delle dive esprime «il cambiamento dal vecchio al nuovo nei modelli di comportamento, nella sfera domestica e tra i sessi», al cui centro troviamo la diva e la sua sofferenza, che «deriva sia dalla scelta dolorosa di rimanere nel passato che dalla decisione solitaria di rompere le regole»15. Le dive del periodo sono archetipi in mutazione, figure femminili centripete, destinate a incarnare allo stesso tempo l’angelico e il demoniaco, il sacro e il profano, il naturale e l’artificiale, il vitalistico e l’agonizzante. La loro eccezionalità e alterità le rende delle figure di confine che attivano sia spinte reazionarie che di emancipazione16. D’altro canto il divismo femminile – che inizia a manifestarsi con Lyda Borelli – «mantiene un forte legame con la letteratura alta e d’appendice»17. Nel film il tòpos della follia femminile rimanda agli archetipi della cultura romantica (le forme psicopatologiche dei «denudamenti dell’anima», dalle melanconie alle nevrosi) e alla letteratura nazionale più recente (la Fosca di Tarchetti, la Lucia Altimare della Serao, l’Adele di Tozzi), mentre la crudeltà e il sadismo di Alba si manifestano nel film attraverso la maschera di Salomè. Le influenze preraffaellite nella prima parte di Rapsodia satanica sostengono con coerenza una raffigurazione di Alba ringiovanita come bellezza che incanta e seduce, destinata a sconfinare nel delirio narcisistico della Salomè, sorretto e articolato dall’orientalismo presente nel film nella sua veste coreutica18. Alba è una creatura medianica19: vive più temporalità dell’esistenza e differenti piani spirituali; oscilla tra uno stato di depressione, lutto e morte e uno stato di eccitazione dei sensi, di passione sadica e di amore; appartiene all’ordine del naturale e del flusso vitale e all’ordine artificiale delle apparenze spettrali; è prigioniera di forme monumentali del passato ed è libera interprete del dinamismo delle forme del futuro; è un «idolo perverDalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema cit., p. 2. L. Renzi, Le dive del muto. Modelli di femminilità e iconografia, in A nuova luce. Cinema muto italiano I cit., pp. 167-80. 17 D. Lotti, Da Icaro a De Pinedo. Il mito del volo nel primo muto italiano, in «Bianco e Nero», 2009, 563, p. 116. 18 E. Uffreduzzi, Orientalismo nel cinema muto italiano. Una seduzione coreografica, in «Cinergie», 2013, 3. 19 R. Eugeni, Le relazioni d’incanto. Studi su cinema e ipnosi, Vita e Pensiero, Milano 2002. 15 16

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so» e un prototipo della donna nuova. Infine si colloca al centro di un dialogo virtuale tra arti, divismo e nuovi media20. In sintesi, Alba è una creatura «mostruosa», liminare, protesa verso il sublime, è impura, ovvero «interstiziale, categoricamente contraddittoria, incompleta o senza forma»21. È in virtù di queste premesse e all’interno delle incerte cornici che delineano che si può accostare la figura di Alba e il «mostruoso femminile»22. Il mostruoso in Rapsodia satanica è inteso innanzitutto in senso etimologico (il portento, ciò che eccede l’ordine naturale), laddove il sublime e il divino rimandano all’orrido e al male23: «l’abietto e bordato di sublime», ci ricorda Julia Kristeva riprendendo Burke24. Tristano, allontanandosi dal cadavere di Sergio (novello Giovanni Battista), non solo rifugge la morte del fratello, ma riconosce in Alba una figura dell’abiezione, la femme fatale Alba-Salomè. Una visione misogina e perversa del femminile che riprende una tendenza ampiamente testimoniata nella cultura a cavallo tra Otto e Novecento25. Il mostruoso è anche nelle performance recitative che «evocano resoconti pre-moderni di possessione demoniaca o il loro esatto inverso, l’estasi mistica»26, manifestazioni psicosomatiche di carattere inumano o sovrumano, divise tra la rovina spirituale e la sua massima ascesi. Il mostruoso è inoltre presente in quanto esito di un processo evolutivo a cui il tessuto visivo del film rimanda di continuo in piena coerenza con il pensiero spiritualista27. Le farfalle in riproduzione che Alba osserva nel giardino e che le permettono di sentire «confusamente» alludono a una mutazione in corso. Il mostruoso femminile si articola poi in una sorta di ginandria obbligata, dovuta a una «società che va lamentando la perdita di maschi adulti responsabili»28. A fronte di ma20 Si veda I. Blom, Lyda Borelli e la nascita del glamour. Dal teatro, via pittura e fotografia, al cinema, in Attraversamenti. L’attore nel Novecento e l’interazione fra le arti, a cura di S. Sinisi, I. Innamorati, M. Pistoia, Bulzoni, Roma 2010, pp. 69-96. 21 N. Carroll, The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart, Routledge, New York 1990, p. 32. 22 B. Creed, The Monstrous-Feminine, Routledge, New York 1993; si veda M. Douglas, Purity and Danger, Routledge and Kegan Paul, London, 1966. 23 R. Kearney, Il male, la mostruosità e il sublime, in «Lo Sguardo», Spazi del mostruoso. Luoghi filosofici della mostruosità, 2012, 9, pp. 171-201. 24 J. Kristeva, Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, Spirali, Milano 2006, p. 14. 25 B. Dijkstra, Idols of Perversity. Fantasies of Feminine Evil in Fin-de-siècle Culture, Oxford University Press, Oxford 1986. 26 Thacker, Passionate Divas cit. 27 G. Scarpelli, Il cranio di cristallo. Evoluzione della specie e spiritualismo, Bollati Boringhieri, Torino 1993. 28 Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema cit., p. 9.

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schi inadatti (suicida Sergio, fuggiasco Tristano, assente Faust), Alba riveste sia il ruolo di Faust che quello di Margherita. Davanti ai vuoti di una modernità che il maschile non riesce a interpretare e a occupare nella loro totalità, il mostruoso emerge nella metamorfosi finale che Alba incarna attraverso la velificatio, un’epifania del divino e un’adesione allusiva alla modernità attraverso la rivisitazione della coreutica del balletto moderno di Loïe Fuller. La Borelli, che era stata una delle più applaudite interpreti della Salomè di Wilde, rimette in scena il personaggio biblico nel primo atto di Rapsodia satanica in chiave orientalista e antimodernista, mentre nel secondo atto si affiderà alla Fuller per entrare in contatto con una sorta di «oltre-vita» e con la modernità29. Nel finale Alba indossa i veli per prepararsi al cerimoniale delle nozze «d’amore e di morte» e performa una spettrale marcia nuziale (ispirata alla Fuller) che la porta all’abbraccio mortale con Mefisto. Alba è una creatura divina e larvale, sospinta ai confini di una primitiva esperienza postumana, alla ricerca di una forma estetica in grado di disancorarsi dal «peso» del proprio corpo e destino30. Mediante la vestizione e la marcia spettrali, la «danza» di Alba rimanda in un’ultima analisi a una più profonda esperienza: la sua è una danza di morte, una danza macabra. Come lo spiritualismo bergsoniano e il suo flusso vitale costituiscono in Rapsodia satanica il superamento della dialettica tra evoluzione naturale e idealismo, la nozione di sintomo, alla base della definizione freudiana di inconscio, è all’opera nel film di Oxilia in quanto manifestazione materiale di un’immagine che dialoga in modo diretto eppure traslato con la dimensione psichica, ovvero si presenta come una pathosformel31. Quest’ultima è intesa qui come evidenza materiale di un dialogo impensato tra luoghi e momenti differenti, non legati da rapporti di causa-effetto o da relazioni dialettiche o genealogiche, ma avvicinabili per una comune propensione al trauma. In questa direzione Rapsodia satanica e il tema della morte, a lungo interdetto ed esploE. Thacker, After Life, University of Chicago Press, Chicago-London 2010; Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema cit., p. 81. 30 R. K. Garelick, Electric Salome: Loie Fuller’s Performance of Modernism, Princeton University Press, Princeton (Nj) 2007; A. Cooper Albright, Traces of Light: Absence and Presence in the Work of Loie Fuller, Wesleyan University Press, Middletown (Ct) 2007; G. Lista, Loïe Fuller, danseuse de la Belle Epoque, Hermann, Paris 2007. 31 G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006. 29

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so nell’Europa al centro del primo conflitto mondiale, si ritrovano a stretto contatto, pur muovendosi su piani differenti. Il tema della morte trova un primo momento di fissazione in un luogo immaginario situato tra la biografia e la produzione letteraria di Nino Oxilia, autore diviso tra il mito romantico e decadente della generazione bohémien e l’invenzione della giovinezza; tra maledettismo e goliardia in fuga verso l’avanguardia. Oxilia pubblica con Sandro Giacosa nel 1911 la commedia Addio giovinezza!, di cui realizzerà anche il primo adattamento cinematografico, mentre nel 1909 aveva composto il testo Il commiato, goliardico e malinconico inno al tempo che fugge. La vena crepuscolare a contatto con un moto centrifugo di adesione al futurismo e all’ideale bellico è ben rappresentata anche da Martini, allievo del maestro del crepuscolarismo romano Sergio Corazzini. La guerra includerà gli autori di Rapsodia satanica nella «generazione perduta». Martini ne uscirà mutilato e traumatizzato, mentre Oxilia sul fronte vi morirà, falcidiato nel novembre del 1917. L’opposizione tra giovinezza e caducità è in definitiva il tema principale di Rapsodia satanica. Nel prologo, la morte si presenta sotto forma di rivisitazione del tema allegorico della vanitas, riproposta nel trittico composto dalla statuetta di Cupido, da Mefisto e dalla clessidra32. Una composizione coerente con il tema dell’incombenza minacciosa degli oggetti e dell’instabilità e caducità delle cose che caratterizza il diva film33. Ancora nel prologo, la morte si manifesta sotto forma di iscrizione funeraria e monumentale (il busto) e come rito di congedo (il congedo da Alba da parte dei giovani invitati). Il destino di morte delle protagoniste è certo un tòpos del genere, qui vogliamo tuttavia metterlo in relazione non alla diva e al suo corpo meduseo, ma a un altro corpo. Il raccoglimento di Alba e Tristano accanto al cadavere di Sergio, riverso su di una scalinata esterna del castello a seguito del suo suicidio, costituisce forse il momento del film meno ricordato. La presenza del cadavere impedisce che la morte, attraverso questa insopportabile evidenza, possa essere negata. Il suo destino biologico, la decomposizione, che Alba percepisce immediatamente ritraendo inorridita la mano sporca del sangue di Sergio, «è una rappresentazione intollerabile che apre le porte alla melanconia»34. Tutta la prima parte del 32 Si veda, ad esempio, la barocca Natura morta con teschio di Philippe de Champaigne (1671). 33 Dalle Vacche, Diva. Defiance and Passion in Early Italian Cinema cit., p. 20. 34 P. Fédida, Il buon uso della depressione, Einaudi, Torino 2002, p. 54.

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secondo atto si svolge all’insegna della depressione. La prima inquadratura coincide con la chiusura dei cancelli del castello, sintomo di uno stato melanconico e «doloroso». Uno stato prettamente moderno di esibizione dell’ego, di «denudamento dell’anima» che genererà una progressiva esaltazione sublime di unione degli opposti, traducendo nelle immagini «una grazia superlativa e un dolore, un lutto immenso, un gesto e una sospensione del gesto, un desiderio e una rinuncia, una quasi consolazione e una perdita inconsolabile»35. A inizio 1915, di fronte alle atrocità e alle morti di massa del conflitto, Freud redige le Considerazioni attuali sulla guerra e la morte affiancato e proseguito dallo scritto Lutto e melanconia: la guerra stravolge il «nostro modo di considerare la morte», abbiamo cercato di scartarla, «eliminarla dalla vita. Abbiamo cercato di mettere a tacere il pensiero della morte», scrive Freud. Con il primo conflitto mondiale l’esperienza della morte fuoriesce dal «campo della finzione» per entrare in quello del reale dove «la morte non può più oggi essere rinnegata. Siamo costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente»36. La dimensione immane del primo conflitto mondiale cambiò radicalmente i modi e l’esperienza della morte e del lutto37. L’impatto fu tale che i sintomi dell’esperienza in corso affiorano in un film segnato dal tema del lutto e della malinconia come Rapsodia satanica. La guerra è dolore e la diva ne diviene l’interprete principale. L’orrore del conflitto bellico irrompe nell’immaginario cinematografico. La lunga genesi e la tarda circolazione di Rapsodia satanica, seppure già pronto e programmabile nella funesta estate del 1915, hanno fatto sì che il film occupasse simbolicamente l’intero arco temporale del primo conflitto mondiale, accumulando un’eredità stratificata, impensata e inesplosa di lutti e traumi38. Nel periodo bellico, osserva Emilio Gentile, entrano in circolo, nel vissuto e nell’immaginario, una serie di termini come «demonizzazione» (del nemico), «santificazione» (della guerra), «martirizzazione» (del milite), «maligno» (come forza e forma del conflitto, come pecca35 G. Didi-Huberman, Gesti d’aria e di pietra. Corpo, parola, soffio, immagine, Diabasis, Reggio Emilia 2006, p. 52. 36 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 139 (corsivo nostro). 37 J. Winter, Lutto e memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, il Mulino, Bologna 1998; S. Audoin-Rouzeau - A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Einaudi, Torino 2002. 38 J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, Feltrinelli, Milano 1993.

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to collettivo da espiare, come purificazione da perseguire), un vasto repertorio circoscrivibile entro i confini dell’orrore nelle sue diverse matrici e declinazioni. Tali termini ben descrivono l’umore apocalittico di quella che si sarebbe in effetti rivelata un’apocalisse: una «danza macabra europea» – prendendo a prestito il titolo della serie di cartoline orrorifiche, grandguignolesche e dissacranti disegnate al tempo da Alberto Martini – che avrebbe portato alla luce «l’orgia festosa del maligno»39. Ritroviamo Oxilia sul fronte balcanico, nel 1916, mentre sta girando delle «raccapriccianti» immagini «dal vero», in un luogo dove «gli uomini muoiono veramente» e nel momento in cui «la breve stagione delle dive era quasi finita, e il sangue e la morte stavano inondando gli schermi italiani»40. L’ambivalenza e i mutamenti nei rapporti con la rappresentazione della morte e della depressione supportano un’idea di scomparsa, di congedo e trapasso in Rapsodia satanica capace di riverberarsi su piani. Nel prologo, non è Alba ad accomiatarsi, semmai è il «convegno della giovinezza» e un’intera generazione a scomparire. La guerra impone anche la fine di quel mondo cosmopolita di inizio Novecento che Rapsodia satanica aveva voluto tradurre in una composizione «cinema-lirica» grazie a collaboratori provenienti da classi sociali, credi religiosi e tradizioni culturali differenti. Lyda Borelli, Alba d’Oltrevita e il diva film approdano nell’oltretomba di Malombra.

P. Klee, Diari 1898-1918, il Saggiatore, Milano 1990, p. 356, citato in E. Gentile, L’apocalisse della modernità. La grande guerra per l’uomo nuovo, Mondadori, Milano 2008. A. Martini, La danza macabra europea. La tragedia della Grande Guerra nelle 54 cartoline litografate, Le Mani, Recco 2008. 40 Dalle Vacche, Lyda Borelli’s «Satanic Rhapsody» cit., p. 95. 39

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2. Genius loci Malombra (Mario Soldati, 1942)

«Gli spettri ci trovano sempre»1. Mario Soldati li trovò tra la Valsolda, la Villa Pliniana di Torno sulla sponda destra del Lago di Como e l’Orrido di Osteno, mentre era alla ricerca degli esterni dove ambientare Malombra. È la seconda volta che il romanzo omonimo di Antonio Fogazzaro (1881) viene adattato per lo schermo, dopo la prima trasposizione a opera di Carmine Gallone nel 1917, con Lyda Borelli nel ruolo di Marina. Il film esce nelle sale il 17 dicembre 1942, prodotto e distribuito dalla Lux. La vicenda è nota: Marina di Malombra (Isa Miranda) rimasta orfana, trova ospitalità presso la villa dello zio Cesare d’Ormengo (Gualtiero Tumiati). Durante il suo soggiorno, Marina scopre l’esistenza di un’antenata (Cecilia) di cui si convince essere la reincarnazione. Destinata in sposa a Nepo Salvador (Nino Crisman), rampollo di una ricca famiglia, ma innamorata dello scrittore Corrado Silla (Andrea Checchi) che crede essere la reincarnazione di Renato, amante di Cecilia, Marina finirà per mettere in atto una terribile vendetta nei confronti dello zio e dell’amato. Il film è considerato «un’immersione nel “fantastico” assolutamente insolita»2, riconducibile a una «linea fantastica del nostro cinema, tanto minoritaria quanto rimossa»3. La stessa genealogia di Marina di Malombra si presta a metafora dell’orrore nel cinema italiano: giunge all’inizio del film orfana, priva di ascendenze influenti, si identifica con un’antenata dimenticata e fantasmatica, e scompare alla fine da nubile, priva di eredi. Sospeso tra melodramma, dramma (para-)psico1 G. Noventa, Il vescovo di Prato. Dialogo fra Mario Soldati ed Emilio Sarpi, il Saggiatore Milano 1958, p. 46, citato da G. Jori, Addio agli spettri, introduzione a M. Soldati, Storie di Spettri, Mondadori, Milano 2010. 2 E. Martini, Alida primo amore. Donne e mélo da «Piccolo mondo antico» agli anni cinquanta, in Mario Soldati e il cinema, a cura di E. Morreale, Donzelli, Roma 2009, pp. 49-50. 3 A. Costa, I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato, Bulzoni, Roma 2002, p. 93.

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logico e gotico, conferma una tendenza del cinema fantastico a mostrarsi in una forma «impura»4, a innestarsi «all’interno dei caratteri dominanti di altri generi»5, a rivelare una natura «parassitaria»6. Uno degli esempi più riusciti del tentativo «formalista» di riforma del cinema italiano del periodo varrà a Soldati e al film l’etichetta di cinema «calligrafico» (ovvero disimpegnato ed estetizzante) da parte della rivista «Cinema» e di altri critici impegnati nel sostenere la coeva tendenza verso il realismo di matrice verghiana. Il connubio tra ricerca formale e il Fogazzaro più «spiritista»7 rese ancora «più severa e di fatto liquidatoria»8 la ricezione critica del film, in particolare Pietro Bianchi condannò la scelta del soggetto in relazione all’estraneità e al rigetto del gotico e del fantastico da parte della cultura nazionale. L’adattamento appare a prima vista frammentato, ma va ricordato che una certa debolezza e incompiutezza può essere fatta risalire allo stesso testo di Fogazzaro9. I tratti negativi evidenziati dalla critica dell’epoca (il «Soldati, ora surrealista, ora medianico» descritto da Calcagno; «la frantumazione, i ritmi disutili, lo stralunato» rinvenuti da Pietrangeli) sono proprio gli elementi che motiveranno una pressoché immediata adesione dei surrealisti rumeni10. Il film deve molto alla pittura italiana della seconda metà dell’Ottocento e in misura minore rimanda ai surrealisti e ai metafisici11. Nel film «c’è probabilmente dell’altro, che rende il film insopportabile per la generazione del futuro neorealismo; qualcosa che ha a N. Carroll, The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart, Routledge, New York-London 1990. 5 Costa, I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato cit., p. 25. 6 D. Punter, Il gotico cerimoniale, in Metamorfosi del fantastico, a cura di R. Runcini, Lithos, Roma 1999. 7 Nella prefazione all’edizione francese di Malombra, Fogazzaro riconobbe la forte influenza delle filosofie spiritiste e mistiche sul romanzo; scrisse dello spiritismo in maniera organica nel 1895 (Per una scienza nuova); partecipò a sedute spiritiche; dal 1905 fino alla sua morte (1911) ricoprì la carica di presidente onorario della Società di Studi psichici. Si veda M. Bringhenti, Antonio Fogazzaro e la ricerca psichica, in «Luce e Ombra», 2012, 1. 8 Costa, I leoni di Schneider. Percorsi intertestuali nel cinema ritrovato cit., p. 93. 9 A riguardo della «testualità debole e incompiuta» del romanzo, si veda M. Lento, Quattro attrici per «Malombra», in «Scintille Umanistiche», Mimesis, Milano-Udine 2010, 3-4, pp. 41-8. 10 L. Gherasim e altri, Eloge de Malombra. Cerne de l’amour absolu, Surréalisme, Bucarest 1947. 11 Si veda E. Morreale, Mario Soldati. Le carriere di un libertino, Le Mani, Recco 2006, p. 286, e A. Martini, Soldati, Poggioli, Chiarini. Una questione di spazio, di simmetrie e di artificio, in Id., La bella forma. Poggioli, i calligrafici e dintorni, Marsilio, Venezia 1992, p. 34. 4

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che fare con il senso storico ed estetico più profondo di Malombra»12. Soldati intuì l’esistenza di una via «spirituale» di riforma estetica e morale del cinema italiano. In Preparando Malombra Soldati rivendica un certo immaginario «nordico» come storicamente e culturalmente proprio: periodicamente, nei secoli, gli dei traslocano: lasciano a volta a volta i luoghi prediletti delle loro epifanie […]. Dal tempo della Riforma gli dei sono fuggiti verso il nord […] nordici, piemontesi sono i suoi ultimi grandi santi […] nordici i suoi ultimi scrittori che abbiano sentito il problema religioso13.

Il rapporto tra le espressioni popolari dell’arte e della religione, tra forma estetica e spiritualità è la chiave del fantastico soprannaturale soldatiano, sensibile a essere «posseduto» dalle divisioni e dai tormenti dello spirito. La ricerca di una geografia «nordica» conferma la collocazione «internazionale» di Malombra: «pensavo che l’internazionalità del film Malombra consiste appunto in questo suo assunto fortemente morale e religioso. Per cui l’azione, anziché svolgersi sul lago di Como, potrebbe di peso venir trasportata in Bretagna, in Norvegia, in Iscozia o nel Maine»14. Soldati colse una corrente sotterranea del cinema internazionale del periodo e Malombra può essere così affiancato a titoli «neri» del periodo. Nel 1940 esce nelle sale Rebecca di Alfred Hitchcock ispirato all’omonimo romanzo (1938) di Daphne de Maurier e del 1943 sono Jane Eyre di Robert Stevenson e I Walked with a Zombie di Jacques Tourneur, il primo trasposizione diretta e il secondo liberamente ispirato a Jane Eyre (1847) di Charlotte Brontë. Malombra racconta il senso di fine e di crisi di un’intera società attraverso la revisione e appropriazione di paesaggi dell’immaginario letterario e cinematografico non usualmente associati alla cultura italiana, confermando la posizione liminare e contagiosa del fantastico-orrorifico, e la tendenza a utilizzarlo come strumento di trasgressione delle norme, come dominio in cui sperimentare una riforma dell’immaginario. Alla ricerca degli «esterni» di Malombra, Soldati riprende un concetto arcaico: la relazione tra gli dei e i «luoghi prediletti delle loro epifanie». È il genius loci, «lo spirito, il nume tutelare del luogo» e che Morreale, Mario Soldati. Le carriere di un libertino cit., p. 286. M. Soldati, «Preparando Malombra», brochure pubblicitaria, Lux, 1942, testo redatto a corredo del lancio pubblicitario del film ora in Mario Soldati, la scrittura e lo sguardo, a cura di G. Bàrberi Squarotti, P. Bertetto e M. Guglielminetti, Lindau, Torino 1991, p. 81. 14 Ibid., p. 82. 12 13

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può essere poi esteso al termine greco correlato daimon. La «malombra» è lo «spirito della casa» (ciò che rimane intrappolato, uno spettro, un fantasma, chi è morto per disgrazia e permane in un luogo). Nel fantastico soprannaturale e gotico soldatiano spirito e luogo si compenetrano tra loro: nullus locus sine genio. Soldati descrive la Villa Pliniana come un luogo dove dèmoni, ninfe, geni e assassini delineano una stratificazione di figure e motivi architettonici e paesaggistici tanto antichi (i luoghi abitati dagli dei dell’antichità) quanto moderni (lo spazio del paesaggio gotico e romantico): luogo aspro e selvaggio, che ancor oggi pare abitato dai demoni del delitto e della follia. Un’enorme costruzione a picco sul lago, tra pareti di roccia ugualmente a picco, in una breve insenatura che la difende dai raggi del sole per gran parte dell’anno. Rami contorti, edera, sempreverdi si arrampicano selvaggiamente su tutte le rocce attigue, e una cascata d’acqua gelidissima costeggia un lato della villa, un’altra cascata penetra per così dire nel suo cuore, attraversandola nel mezzo delle camere stesse, dov’è una lugubre loggia, e riuscendone in basso, a fior del lago, da un buco che è nel centro della facciata15.

La critica dell’epoca riconobbe nel paesaggio di Malombra la «rara capacità spettacolare» e il forte magnetismo estetico ed emozionale: «Il gusto del lago, allucinatorio, dà un brivido di angoscia e di piacere». Le inquadrature iniziali danno forma alla vastità e all’infinità del sublime ricercato da Soldati16: una serie di piani obliqui che fanno da sfondo ai titoli di testa mostrano parte di uno specchio d’acqua, porzioni di onde e increspature scarsamente apprezzabili nelle loro dimensioni reali. Il lago chiama in causa anche la profondità, dimensione dell’interiorità psichica. L’acqua può essere associata tanto all’inconscio quanto a un processo di trasformazione interiore che suscita «un sentimento ambivalente di paura e attrazione»17. L’architettura del sublime e il racconto della psicosi di Marina si ritrovano così evocati e intrecciati tra loro fin dalle prime inquadrature. Ibid. E. Burke, A Philosophical Inquiry into the Origin of Our Ideas of The Sublime and Beautiful, 1757; ed. it. Inchiesta sul bello e il sublime, Aesthetica, Palermo 2006. L’inquadratura iniziale rimanda alla categoria di «sublime matematico» di Kant, mentre il «sublime dinamico» (ancora Kant) trova la sua espressione nei massimi momenti di espressione esplosiva della natura e dei sentimenti quando più prossimi alla dicotomia amore/morte (la tempesta sul lago, la veglia e il pranzo funebre). 17 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 186. Si veda anche G. Bachelard, Psicanalisi delle acque, purificazione, morte e rinascita, Red, Como 1992. 15 16

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A fronte di questa infinità, vastità e profondità iniziale il film va progressivamente chiudendosi: «il dramma del film è proprio quello della chiusura, di una reclusione»18, in cui il paesaggio e le architetture diventano un’estensione del corpo e dei conflitti interiori della protagonista e di un corpo sociale in rovina. Il sublime e il genius loci si articolano in un sinister loci, in procedimenti di «spazializzazione della paura». Il paesaggio «gotico» del film può essere letto come un diagramma dei conflitti psichici e drammatici in atto, come un complesso di estensioni del corpo psichico19. Gli spazi non-gotici sono una componente poco considerata e tuttavia affatto inessenziale. Ritraggono la vita quotidiana, urbana di fine Ottocento, sono associati alla comunicazione (la spedizione e consegna delle lettere, la stazione). Sono degli spazi vitali, «moderni» e sincronici. Di contro gli spazi gotici coincidono con una dimensione diacronica, medianica, monumentale, di trasmissione tra presente e passato, di non-vita e di assenza di eventi che non siano espressione traumatica di profondi moti interiori o di riti e cerimonie. Emerge una dialettica tra uno spazio di superficie e uno spazio di profondità. Il lago, l’orrido, la villa sono parti del luogo mitico in cui Marina viene rinchiusa: l’Inferno, l’Ade. Malombra è anche un woman’s film20 al cui interno, come spesso accade nel genere, si disegna un percorso di trasformazione del femminile: Marina è una figura femminile in crisi, che oppone il delirio psicotico all’ossessione nevrotica di una società in decadenza. Una certa scissione emerge fin dalla genesi del film. Diviso è il Soldati autore (scrittore e regista, indeciso tra letteratura e cinema, sarà proprio con Malombra che giungerà a «credere nel cinema») e lo è la dimensione intertestuale del film (in quanto adattamento e in quanto rifacimento). Lo è infine la scelta sofferta della protagonista. È noto che Soldati (il cui desiderio era di avere ancora con sé Alida Valli) si rifiutò fino all’ultimo di accettare Isa Miranda, una lacerazione che ricorderà e testimonierà a lungo. Inoltre, molti hanno osservato come il personaggio di Marina nel film di Soldati risulti fortemente ambiguo ed eccentrico. Nel momenMorreale, Mario Soldati. Le carriere di un libertino cit., pp. 278-9. J. Morgan, The Biology of Horror. Gothic Literature and Film, Southern Illinois University Press, Carbondale (Il) 2002; G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975. 20 T. Modleski, Woman and the Labyrinth: Rebecca, in The Women Who Knew Too Much: Hitchcock and Feminist Theory, Methuen, New York 1988. 18 19

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to del ritrovamento delle lettere e degli oggetti di Cecilia, il primo piano del volto di Marina esibisce un lato sinistro con i capelli raccolti e un lato destro con i capelli sciolti: «il corpo diviso e sdoppiato si fa insomma metafora d’un soggetto diviso»21. La possessione e la scissione di Marina vanno intese come condizioni alla base di un moto trasformativo, un processo di «conoscenza che non può presentarsi se non in termini erotici»22. La figura della Belle Dame sans Merci è stata ampiamente rievocata dalla riflessione critica sul romanzo di Fogazzaro e sui suoi adattamenti cinematografici. Si potrebbero invocare altre figure femminili di origine letteraria (Catherine Earnshaw, Miss Giddens, Pia de’ Tolomei, oltre le già evocate Jane Eyre e Rebecca). Preferiamo però ricondurre Marina a un archetipo della mitologia greca: il mito di Persefone imprigionata negli Inferi, che trova echi e analogie nel romanzo e ancora più negli adattamenti23. L’arrivo di Marina sul batel, tradotta al palazzo dello zio Cesare d’Ormengo, presenta un’immediata ed evidente analogia con Ade che rapisce e conduce la nipote Persefone nel suo regno. Nel 1941, Károly Kerényi e Carl Gustav Jung danno alle stampe I prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, in cui un intero capitolo è dedicato alla Kore. Il suo mito è «allegoria del destino della donna: il limite dell’Ade allegoria della linea divisoria fra la vita di fanciulla e l’altra vita». Persefone (o Kore), figura centrale dei misteri eleusini di stampo matriarcale «esprime due diverse forme di esistenza, l’una ci appare come vita (la fanciulla nel rapporto con la madre), l’altra ci appare come morte (la fanciulla presso il maschile) rappresentano una unità psichica […] una unica figura archetipica psichicamente doppia»24. Il personaggio di Edith Steinegge è la kore fanciulla, mentre Marina è la kore sposa, Persefone. L’ambiguità di Marina è in parte riconducibile a questa duplicità dell’archetipo femminile che ritroviamo nel melodramma e nel noir. Il tratto decisivo che le differenzia è la trasformazione di Marina attraverso un processo di apprendimento di stampo esoterico. L’iniziazione ha origine con la scoperta del lascito di Cecilia (le lettere, la V. Roda, Studi sul fantastico, Clueb, Bologna 2009, p. 60. R. Calasso, La follia che viene dalle ninfe, Adelphi, Milano 2005, p. 27. 23 Anche in alcune tracce del racconto: i dodici anni di scomparsa della fanciulla Edith, i mesi massimi di permanenza a Palazzo (quattro) di Marina suggeriti dal medico al conte. 24 K. Kerényi - C. G. Jung, Einführung in das Wesen der Mythologie, 1941; trad. it. Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Einaudi, Torino 1948, p. 160. 21 22

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ciocca di capelli, la spilla a forma di salamandra nell’adattamento di Soldati, mentre Gallone ripropone al posto dell’emblema lo specchio come in Fogazzaro). Il momento di apertura della spinetta (in Soldati, mentre in Fogazzaro e Gallone è uno scrittoio) è una sopravvivenza del pinax in cui Persefone è raffigurata mentre apre il Likos Mystikon (il «ventilabro mistico», simbolo di accesso a una conoscenza misterica). Un’analisi figurale approfondita rivelerebbe in Malombra un ampio substrato che spiegherebbe i «turbamenti di stile» del film. Una dimensione abitata da «oggetti epifanici»25 e alchemici, da scritte e parole «spettrali», occupata da cornici della visione (finestre, tendaggi), da rimandi e scambi continui tra suoni acusmatici, figure dell’oralità e della scrittura, nonché da allusioni alla natura spiritica e soprannaturale dei mezzi di comunicazione, in grado (come le lettere di Cecilia, i libri e le partiture musicali) di mettere in comunicazione con «i fantasmi del passato»26. Il processo trasformativo e iniziatico di Marina, il racconto della sua psicosi, ha così sul piano figurale dei corrispettivi continui, trovando nello «scritturale» (la presenza di scritte, che erano già del romanzo) un registro fondamentale. La spilla a forma di salamandra è un simbolo alchemico, generatore di idee, che nella psicoanalisi di Jung (che assimilava i procedimenti alchemici ai processi terapeutici per la loro comune modalità trasformativa) rappresenta il sé manifesto, ovvero ciò che la persona conosce di se stessa. Renato Silla può essere avvicinato alla figura di Hermes che raggiunge Persefone nell’Ade per liberarla. È associato alla comunicazione, ai mezzi di trasporto, allo spostamento tra il mondo di superficie e il mondo profondo. Gli strumenti gnoseologici del femminile sono associati a una dimensione iniziatica (scrittura, musica) e alla simbologia alchemica, mentre quelli maschili rispondono a un modello scientifico e razionale. Si accostano e passano attraverso strumenti e dispositivi di messa in quadro del visibile: la pittura (il ritratto «dell’Hayez» in cui Renato riconosce la madre); la fotografia (lo scatto fotografico durante la passeggiata lungo le sponde del lago); la marca linguistica dell’iris e il cannocchiale utilizzato da Nepo. Nel momento del primo incontro Morreale, Mario Soldati. Le carriere di un libertino cit., in particolare p. 280. Si veda anche R. Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, Lindau, Torino 2011, in particolare pp. 23-6. 25 26

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con la nipote del Conte, Nepo impiglia inavvertitamente il proprio monocolo alla spilla a forma di salamandra che Marina tiene sul petto, un’approssimazione velatamente erotica che non lascia la minima traccia di comprensione reciproca dei rispettivi simboli e desideri, e in cui in termini di generi il registro consapevolmente melodrammatico recitato da Marina entra in contatto con il registro inconsapevolmente comico di Nepo e del suo entourage familiare. Il tema del ritorno del passato, tipico del gotico e del melodramma, segna l’intero film, implicando «una difficile o impossibile elaborazione del lutto, di un legame con il passato che diviene prigionia o malattia»27. Il tentativo soldatiano di sciogliere questo vincolo si realizza in un’ottica di genere: «una fuga in avanti, inevitabilmente, del melò tra le braccia dell’horror»28. Il campo dell’orrore in Malombra si configura come una modalità di fuga e liberazione e al contempo di tragiche risoluzioni. Il parallelo con Ossessione (Luchino Visconti, 1943) è pertinente e centrale. Malombra diventa «l’altra faccia del quasi coevo Ossessione: il passato rimosso che torna a sconvolgere la vita di una casa-prigione, il crollo di tutti i valori convenzionali, l’esplodere di passioni che conducono all’autodistruzione: tutto ciò fa pensare a un’Italia che scompare, a una tabula rasa che si manifesta sontuosamente e baroccamente in un festino funebre, in una danza di morte che la realtà avrebbe di lì a poco tragicamente confermato»29. Malombra è la presa di coscienza delle strutture profonde del presente in cui si manifesta, un suo superamento in negativo, tempo di cui Ossessione rappresenterebbe invece il superamento in positivo. Malombra è così un melodramma che si estende nell’horror, utilizzando temi, costruzioni sintattiche e archetipi del gotico e del «mostruoso femminile». Innanzitutto il piano soprannaturale che si articola nel tema della reincarnazione, della possessione. L’ambientazione, una sorta di casa infestata, la costruzione labirintica degli spazi e il senso di costrizione che ne emana, il tema del doppio, del ritorno del 27 L. Lattarulo, «Antica storia narra così». Considerazioni sul fantastico italiano ottocentesco, in Geografia, storia e poetiche del fantastico, a cura di M. Farnetti, Olschki, Firenze 1995, p. 132, citato da C. Melani (a cura di), Il fantastico italiano, Rcs, Milano 2009, pp. 422-3. 28 Martini, Alida primo amore. Donne e mélo da Piccolo mondo antico agli anni cinquanta cit., p. 50. 29 A. Aprà, Alla riscoperta di Mario Soldati cineasta, in Morreale, Mario Soldati. Le carriere di un libertino cit., p. 26.

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passato, della vendetta, la centralità del femminile sono elementi che ne fanno poi un racconto gotico che anticipa il gotico italiano a venire. Malombra è inoltre la messinscena di una femminilità «mostruosa». Marina, derivata dalla donna «isterica» e «malata» nell’anima tardo ottocentesca, prototipo della duchessa du Grand di I vampiri, è una donna «posseduta», laddove la «possessione diviene una scusa per legittimare l’esibizione di comportamenti femminili aberranti, i quali sono descritti come depravati, mostruosi, abietti e perversamente attraenti»30. Marina è inizialmente vittima e prigioniera, capace, come in un racconto di formazione, come una strega in fieri, di imparare a conoscere e a liberare il proprio potere distruttivo, di trasformarsi in carnefice e vendicatrice, in una fredda assassina capace di uccidere le figure simbolo del potere maschile con premeditazione e assecondando l’identità che va assumendo. Il vento che attraversa, smuove e inquieta il pranzo funebre finale, appare tanto l’espressione della follia quanto di un potere soprannaturale di Marina che denota un legame arcaico e segreto con l’ambiente che le sta attorno e che va manifestandosi con sempre più impeto e forza. L’orrore diviene così la via di liberazione, l’elemento di distruzione e disgregazione di una società che chiude e imprigiona. La liberazione passa in prima istanza attraverso il privato, con Soldati alle prese fin dalla gioventù con un «bisogno tragico di liberarsi – che è fatalmente tradire – dei retaggi ancestrali, delle inerzie dei riti e delle nevrosi sociali, che si trasformano, appunto, in idoli, in destini bloccati, in “spettri”»31. Nel film, tale retaggio è rappresentato da momenti rituali, cerimoniali e monumentali, nonché da richiami alla forma e all’etichetta32. Per Punter, sulla scia di Freud e Derrida, il cerimoniale è carattere intrinseco del gotico, ha a che fare con le rovine e con i resti. È sovrabbondanza di significati o svuotamento di senso: la cerimonia indica sempre il passato […] l’assenza di tutto ciò che ha preceduto il cerimoniale. Allo stesso modo, il cerimoniale ci parla di una ripetizione […] che serve […] a invocare un passato che è sempre già scomparso. CerimoB. Creed, The Monstrous-Feminine, Routledge, New York 1993, p. 31. Jori, Addio agli spettri cit., p. IX. 32 L’arrivo a Palazzo, la processione che accompagna Marina nelle sue stanze, la festa popolare sull’acqua, l’accoglienza di Corrado da parte di Steinegge, la colazione con il conte, le attività nello studio, l’arrivo dei Salvador, le passeggiate, il rapporto del conte, ma anche di Corrado, con Marina, la veglia e il pranzo funebre. 30 31

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Venturini, Horror italiano niale come promemoria, come un gesto verso ciò che è assente, come un luogo che è perennemente infestato da tutto quello che non è33.

Il gotico cerimoniale svela in Malombra – dietro una facile opposizione tra un movimento di liberazione guidato dal femminile (e dal gotico) e una resistenza conservatrice maschile – un moto e un procedere pendolare e intrecciato tra il monumentale e il trasformativo. Così è per il processo di liberazione di Marina, originato e punteggiato da un mistero che presenta forti componenti cerimoniali e ossessive: si veda il senso della ripetizione offerta dalla parola («ricordati… ricordati… ricordati»), ma anche il moto compulsivo e ripetitivo proprio dell’atto di scrittura e dell’esecuzione musicale. Cerimoniale conservatore e cerimoniale iniziatico, naturale e soprannaturale, superficie dei rapporti sociali e profondità delle relazioni intrapsichiche si incontrano e si intersecano continuamente. I cerimoniali «esistono per accogliere o per espellere il fantasma […] essi stessi sono sempre già in rovina»34. La rovina è sentimento di mancanza, di lutto e infine – per Marina, per Soldati, per l’Italia di inizio anni quaranta – di perdita della propria innocenza. Il pranzo funebre finale, ambiguo, inquieto e metafisico (che muta improvviso in assassinio e in fuga) è un brillante esempio del limite ultimo del gotico cerimoniale: l’accoglimento e l’esplosione sono forse la stessa cosa, mantenuta in una forma di stasi […] sappiamo che il revenant sta per arrivare ma non sappiamo che cos’è […] c’è ancora un momento di attesa, in cui forse giocare o solo attendere, congelati in speranza e terrore, prima dell’impossibile apparizione che spezzerà la cerimonia in cui la nostra innocenza sarà infine svuotata35.

Al termine della cerimonia, ecco «l’impossibile apparizione»: Marina spara a Corrado, uccidendolo. Fugge in barca, dirigendosi verso l’orrido. Non ci è dato a vedere o sapere se vi sia effettivamente giunta o quale sia stata la sua fine, potremmo anche immaginarlo, ma ci limitiamo a osservarla mentre si allontana, nel mezzo di acque agitate, che ci restituiscono la vastità sublime del lago. Ciò che sappiamo, ci ricorda Soldati, è che «periodicamente […] gli dei traslocano: lasciano a volta a volta i luoghi prediletti delle loro epifanie». Punter, Il gotico cerimoniale cit, p. 32. Ibid., p. 43. 35 Ibid. 33 34

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Meno di quindici anni dopo, il 5 aprile del 1957, nel prologo di un altro film, un anonimo tratto del fiume Senna restituirà il corpo esanime di una giovane donna. L’esame anatomopatologico del cadavere rivelerà che si tratta di morte per dissanguamento, nessun dubbio, un caso identico ad altri avvenuti in tempi recenti. Le prime pagine dei giornali lo confermeranno da lì a poco: il vampiro ha colpito ancora.

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3. Les faits divers I vampiri (Riccardo Freda, 1957)

Nel novembre del 1956 una piccola casa di produzione – l’Athena Cinematografica di Ermanno Donati e Luigi Carpentieri – avvia la lavorazione di un film destinato a essere considerato il capostipite del genere horror nel cinema italiano: I vampiri. Le riprese durano meno di tre settimane1. La paternità del film è ancora oggi oggetto di discussione: nei titoli di testa Freda risulta il regista unico e Bava viene accreditato in qualità di solo direttore della fotografia. In realtà Bava viene incaricato di portare a termine le riprese nel momento in cui Freda lascia il set; e in buona sostanza va attribuita equamente tra i due, curando Freda la regia, la sceneggiatura e il soggetto (assieme a Piero Regnoli) e Bava la fotografia, gli effetti speciali, la co-regia, oltre alla revisione dello script, assecondando così l’attuale tendenza ad assegnare a Freda e Bava il ruolo di padri fondatori, in una relazione gemellare e dai contorni ambigui, perfetta per il genere e per la mitologia che lo accompagna. Una relazione che nel film traduce gli elementi chiave dell’approccio all’horror di entrambi i registi in una forma sorprendentemente efficace: l’ossessione di Freda per il conflitto tra la cosiddetta normalità fatta di conformismo-progresso-scienza e l’attrazione irresistibile della devianza e della sensualità; la sua visione della natura fugace, della forza, della bellezza e dell’integrità fisica, e il desiderio disperato di preservarle; e, dall’altro lato, la creazione di Bava di universi fantastici, fatti di dettagli e di un’intensità visiva impareggiabili, paesaggi in chiaroscuro che emergono non tanto dalla psicologia dei personaggi quanto dal magnifico controllo dell’inquadratura2. 1 Il fascicolo de I vampiri conservato presso l’Archivio centrale di Stato (Acs) riporta 20 giorni di riprese (Acs, ministero del Turismo e dello Spettacolo, Divisione Cinema – Fascicoli e Copioni: Cf 2548). Freda ne indica 12 (in R. Freda, Divoratori di Celluloide. 50 anni di memorie cinematografiche e non, a cura di G. Fofi e P. Pistagnesi, Emme, Milano 1981, p. 90), infine Bava attesta a due i giorni che gli furono concessi per terminare le riprese. 2 G. Morris, Universi in collisione. Gli horror di Freda, in Riccardo Freda, a cura di E. Martini e S. Della Casa, Bergamo Film Meeting, Bergamo 1993, p. 36.

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I vampiri è una produzione minore, a basso costo, in cui Athena e l’associata Titanus investono, in contanti e alla pari, appena 32 milioni di lire. Il primo preventivo di 97 milioni aumenta fino ad attestarsi a 142 milioni, spese di edizione e «lanciamento» comprese (20 milioni). L’incremento dei costi (pari a 25 milioni) è dovuto al passaggio al formato di ripresa e proiezione in anamorfico (il CinemaScope)3. Film cardine del cinema italiano di genere, si colloca al confine tra classicità e modernità, miscelando al suo interno melodramma e gotico, thriller e fantascienza, precorrendo in alcuni casi e accompagnando in altri le prime affermazioni dell’horror del periodo4. Fin dalla tecnica I vampiri esplicita l’intreccio fra tradizione e innovazione: per il formato si affida al sistema Cinemascope (già utilizzato e apprezzato da Freda in Beatrice Cenci, 1956) e alle costose lenti Bausch & Lomb, fresche vincitrici del premio Oscar, mentre per la fotografia resta vincolato al «classico» bianco e nero della Gevaert. Sarà proprio l’emulsione in bianco e nero a permettere la realizzazione delle note sequenze di invecchiamento e ringiovanimento della duchessa du Grand, ottenute attraverso l’impiego di luci colorate a filtrare o rendere visibile il trucco sul volto di Gianna Maria Canale. Il film è ambientato in una Parigi contemporanea: in preda al terrore, diverse ragazze sono scomparse e i cadaveri sono risultati privi di sangue. Un giornalista, Pierre Lantin, si è dedicato alla soluzione di questo caso. Giselle du Grand è una creatura bellissima e nipote della duchessa Margherita du Grand che in gioventù amò il padre del giornalista. Un’altra ragazza viene rapita, Lorette Robert. Pierre e le sue indagini lo portano al castello dei du Grand. Pierre scopre Joseph Seignoret, esecutore materiale dei crimini e i mandatari. Un celebre medico da tempo creduto morto e sua cugina, Margherita du Grand. Aveva ritrovato in Pierre l’immagine dell’uomo amato ed era riuscita a convincere il cugino a ridonarle la giovinezza mediante un procedimento basato sulla trasfusione di sangue di creature giovanissime: Giselle e Margherita sono un’unica persona e l’improvviso invecchiamento della duchessa davanti agli occhi dei poliziotti costituisce la prova decisiva. I colpevoli vengono puniti e Lorette viene salvata appena in tempo da Pierre5. Acs-Cf 2548. I vampiri anticipa di poco la release di The Curse of Frankenstein (Terence Fisher, 1957) e di Horror of Dracula (Fisher, 1958). Anche se un paragone più appropriato, guardando ai soli costi di produzione e quindi al segmento produttivo di riferimento, è da avanzare con alcuni fanta-horror prodotti dalla Hammer quali The Quatermass Xperiment (Val Guest, 1955) e Quatermass II (Val Guest, 1957), nonché con altre pellicole statunitensi a sfondo fanta-orrorifico. Si veda a questo proposito anche il successivo e ultimo film a firma Freda-Bava, Caltiki, il mostro immortale (1959). Il riferimento va infine a Les yeux sans visage (Georges Franju, 1960). 5 La «descrizione del soggetto» è tratta da il visto di censura del film, n. 23894, del 3 aprile 1957. 3 4

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Il soggetto di I vampiri può essere inquadrato nella concezione frediana dell’«uomo demoniaco […] che riesce sotto una vernice di società a mascherare la sua vera natura», una figura capace di «succhiare» le energie creative e vitali della giovinezza; Freda per farla comprendere agli spettatori modernizza il vampirismo «attraverso l’aspirazione del sangue di una giovane donna da parte di una vecchia»6. La sceneggiatura iniziale firmata da Piero Regnoli e da Freda collocava l’intreccio nel cuore gotico della vicenda prevedendo immagini in anticipo sui tempi, soluzioni impressionanti, macabre e dettagli narrativi di forte impatto. Della struttura narrativa originaria, prevista da quel copione e in parte realizzata da Freda, restano tracce vistose nelle incongruenze presenti nella versione finale uscita nelle sale, così come nel trailer per le sale tedesche7. Nello specifico, il dottore e Julien du Grand dovevano essere due personaggi differenti: il primo un «mad doctor» che sta conducendo degli esperimenti per produrre un «cuore artificiale», costretto dalla duchessa a occuparsi del suo ringiovanimento; il secondo un giovane duca du Grand, «ghigliottinato per aver ucciso e violentato una bambina»8 e riportato in vita per essere utilizzato come esecutore dei rapimenti delle giovani donne9. Pierre, nella sua visita al castello alla ricerca di Ronald, trovava Lorette e impediva che venisse violentata dall’assistente del dottore, riuscendo a fuggire dal castello solo dopo una lunga lotta. Il cadavere di Ronald Fontaine veniva sciolto in una vasca di acido e così intendeva fare l’assistente del dottore con Loretta. Il trailer della versione tedesca riporta parte della sequenza della ghigliottina girata da Freda, la cui traccia permane nella versione itaFreda, Divoratori di Celluloide cit., p. 88. Le informazioni sono tratte dalla lunga e dettagliata «trama», redatta dalla revisione cinematografica preventiva e desunta dalla sceneggiatura, datata 16 novembre 1956 (AcsCf 2548). 8 Acs-Cf 2548. 9 L’impressionante incipit frediano che mostrava la testa prima ghigliottinata e poi sottratta dal mad doctor, al pari della testa che si distacca dal corpo all’interno del commissariato, indicative di una disposizione della violenza e del macabro all’interno del campo dell’inquadratura, un’evidenza visiva inusuale e traumatica, a fronte di una più comune disposizione della stessa nel fuori campo, sono narrate da Freda in più occasioni: «la scena era molto impressionante e la fotografia in bianco e nero di Bava rafforzava il terrore. Si vedeva la testa cadere», E. Poindron (a cura di), Riccardo Freda, un pirate à la camera, Institut Lumière, Lyon 1994, citato da R. Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, Lindau, Torino 2011, p. 190; «di colpo quest’essere, sentendosi perduto, era come preso da una strana forza… si accasciava a terra, privo di ogni energia… e la testa si staccava da sola dal busto…, rotolando via», A. Bruschini, R. Morrocchi, S. Piselli, Bizarre Sinema. Horror all’italiana (1957-1979), Glittering Images, Firenze 1996, p. 16. 6 7

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liana nelle suture «alla Frankenstein» sul collo del vampiro-tossicomane che si notano durante l’interrogatorio nel commissariato di polizia10. A seguito dei dissidi tra Freda e i produttori, Bava rimette mano con Regnoli alla sceneggiatura, sulla base del girato di Freda. Elabora e mette in primo piano l’intreccio giallo e il personaggio del giornalista Pierre Lantin, il personaggio interpretato da Paul Muller, il giovane duca assassino, diviene il «Renfield tossicomane» Joseph Seignoret e il dottore assume il ruolo del cugino della duchessa Julien du Grand. Bava mette in disparte la trama secondaria frankensteiniana, gira nuove sequenze in base alle presenze sul set e dettagli per ripristinare la coerenza narrativa, opta infine per gli inserti dei quotidiani e delle rotative. Nonostante le soppressioni e i cambiamenti, nella versione finale permangono delle eccedenze, delle escrescenze narrative del corpo mutilato e riplasmato del film, dei residui fantasmatici della sua prima originaria vita, cui le «suture» al collo e l’afasia del personaggio del «resuscitato-vampiro-tossicomane» sembrano alludere. Il film è proiettato per la prima volta in pubblico il 5 aprile del 1957 con un divieto di visione ai minori di sedici anni. In Francia esce tra la fine del 1957 e l’inizio del 1958 (Les Vampires) ed è sul mercato tedesco nell’autunno del 1958 (Der Vampir von Notre Dame). La versione americana distribuita nel 1960 (The Devils Commandment) è un’edizione ridotta e riveduta (meno di settanta minuti) rispetto alla versione italiana. Presenta «varianti» aggiuntive e destitutive che denotano l’adattamento ai repentini mutamenti avvenuti nel genere horror nelle sue forme più popolari attorno al 1960, nel pieno dell’esplosione del genere in ambito internazionale, rispetto alla quale la prima versione giungeva con fin troppo anticipo. Sono inserite tre nuove sequenze di aggressione a sfondo erotico. La prima, che funziona da prologo, mostra lo spogliarello di una giovane 10 Acs-Cf 2548. Foto di scena della sequenza iniziale compaiono in Bruschini, Morrocchi, Piselli, Bizarre Sinema. Horror all’italiana (1957-1979) cit. Il trailer conserva parte della scena della tentata violenza a Lorette e della lotta tra Pierre e l’assistente. Tracce del personaggio di Julien du Grand, così come immaginato dal trattamento (marito della duchessa, ghigliottinato, tumulato nella cripta di famiglia e riportato in vita per essere ricomposto su un altro corpo e inviato a rapire giovani donne), si ritrovano nella sequenza in cui la duchessa raggiunge il laboratorio del dottore passando per la cripta: l’inquadratura in dettaglio della tomba reca la scritta «Julien Du Grand 1895-1957», rimandando così all’identità tra Julien e il dottore e quindi a un inserto coincidente con il subentro di Bava, mentre i totali riportano la scritta «Julien du Grand 1920-1956», alludendo quindi a un più giovane Julien, risalente alla sceneggiatura e al girato di Freda.

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donna, il suo ingresso in una vasca da bagno e l’aggressione da parte di un uomo dalle mani guantate. Nella seconda un’altra donna è seguita dall’assassino in un ristorante, dove assistiamo al suo omicidio e dissanguamento nel retro del locale. Nella terza infine l’assistente tenta di violentare Loretta dopo averla cloroformizzata. Le elisioni e riduzioni dei dialoghi in altre sequenze marginalizzano invece l’impianto melodrammatico. Infine la versione americana introduce alcune brevi inquadrature alla ricerca dello shock e del sensazionale (immagini di ratti, un teschio, il dettaglio delle mani ad artiglio e il primissimo piano del volto invecchiato e mummificato della duchessa); in questo modo, adatta il film in funzione dell’intrattenimento proprio dell’exploitation e degli horror show. Nelle settimane seguenti all’uscita nazionale, la critica dei quotidiani lo recepisce come un’epifania tanto evidente quanto inattesa: «se la memoria non ci inganna I vampiri è il primo film nero del cinema italiano sonoro»11. Al film è da allora diffusamente riconosciuto il titolo di primo film «dell’orrore», «nero» del cinema sonoro italiano12. Viene allora spontaneo chiedersi come I vampiri abbia potuto manifestarsi all’interno del cinema italiano del periodo. In prima analisi, va considerato che l’horror all’italiana sarà un genere export-oriented, ovvero pensato per una collocazione sui mercati internazionali, dalla quale sarebbe dipesa la possibilità di recuperare i costi che il mercato interno non garantiva di coprire e conseguentemente di produrre degli utili. Con ogni probabilità I vampiri, esportato a partire dall’autunno del 1957, guarda inizialmente ai segmenti e alle nicchie del cinema «nero» e poliziesco, al «polar» francese, più che a una nuova golden age dell’horror che ancora deve affermarsi e nella quale Donati e Carpentieri non confidano, questione che potrebbe essere alla base dei dissidi tra la produzione e Freda, più che le questioni attorno agli eccessi macabri e truculenti che appaiono subordinate13. Inoltre proAnonimo, I vampiri, in «La Notte», Milano, 16-17 aprile 1957. La recensione, considerato il periodo, potrebbe essere di Morando Morandini. 12 V. Marinucci, I vampiri, in «Momento Sera», Roma, 31 maggio 1957: «È la prima volta che il cinema sonoro italiano si cimenta in un genere che vanta all’estero notevoli esemplari: il film di orrore, il racconto “alla Poe”». 13 T. Mora, Il cinema fantastico italiano. Un fenomeno produttivo marginale, in Cinecittà 2. Sull’industria cinematografica italiana, a cura di E. Magrelli, Marsilio, Venezia 1986, pp. 194-5: «un’opera prematura come I vampiri […] i cui produttori, spaventati dal tema, insolito per il pubblico italiano, preferirono inserire lunghi brani polizieschi (girati da Bava) a spezzare ritmo e tensione dell’opera». 11

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prio l’intreccio «giallo» e i temi del ritorno del passato e dell’amore impossibile riconducibili al melodramma «sono ciò che permette con più facilità di legare il film al contesto italiano degli anni 50: la struttura della detection, ad esempio, è visibile in molte derive del neorealismo […] il melodramma era invece il genere di maggior successo in tutta la prima metà del decennio, ed era il cavallo di battaglia proprio del produttore Titanus»14. Il melodramma farà sì che il gotico diventi il luogo di «addensamento su temi legati alla componente erotica, onirica, violenta, che nel neorealismo non potevano trovare sbocco»15. I vampiri raccoglie l’eredità dei melodrammi degli anni quaranta e cinquanta contaminati con il gotico, il fantastico e l’orrore sensazionale, spesso derivati dalla tradizione letteraria nazionale e realizzati in alcuni casi dallo stesso Freda16. Rispetto all’altro genere dominante nel film (il giallo-thriller), la stampa dell’epoca non esitò a definire I vampiri un «divertissement nero, alla Clouzot», un «giallo combinato col macabro terrificante», un «thriller di fantascienza», ad associarlo alla «bandita dei thrillers»17. Il genere «nero» può d’altra parte «essere storicamente correlato alla fiction gotica» laddove molti film etichettati come «noir» si collocano «in un luogo tra la supernatural fiction e la science fiction»18. Su queste basi, il film ripropone molti degli stereotipi del genere horror così come si era configurato tra gli anni venti e quaranta (il vampirismo, la follia omicida, il doppio, il mad doctor, la creatura artificiale, l’aiutante deforme)19. La già citata recensione su «La Notte» riporta uno spassoso elenco di diciotto punti sui cliché rappresentati (dal castello al cieco misterioso passando per il morto che resuscita e le porte che cigolano). Nell’immediato, molte delle presunte fonti F. Di Chiara, Generi e industria cinematografica in Italia. Il caso Titanus (1949-1964), Lindau, Torino 2013, p. 72. 15 Curti, Fantasmi d’amore cit., p. 29. 16 Dai calligrafici ai drammi storici, ai cappa e spada, ai feuilleton di Matarazzo, Gentilomo, Brignone e dello stesso Freda (Il conte Ugolino, 1949; Beatrice Cenci, 1956), si veda Curti, Fantasmi d’amore cit., in particolare pp. 23-30. 17 In ordine: Anonimo, I vampiri, in «La Stampa», 30 maggio 1957; Anonimo, I vampiri, in «La Notte», Milano, 16-17 aprile 1957; L. P., I vampiri, in «Il Giorno», Milano,15 aprile 1957. 18 J. Hawkins, Cutting Edge. Art-Horror and the Horrific Avant-garde, University of Minnesota Press, Minneapolis (Mn) 2000, p. 73, e soprattutto J. Naremore, More than Night: Film Noir in Its Contexts, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1998. 19 Per un approccio semantico-sintattico al film si rimanda all’ottima analisi contenuta in F. Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965), Unife Press, Ferrara 2009, in particolare pp. 88-93. 14

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del film sono elencate puntigliosamente, dispiegando il bagaglio degli strumenti e delle conoscenze a disposizione della critica dei quotidiani del periodo: dall’espressionismo tedesco all’horror statunitense degli anni trenta, da Poe a Wells, da Dreyer a Cocteau e Clouzot, dal grand guignol al feuilleton. Infine, altri articoli usciti sui quotidiani tra l’aprile e il maggio del 1957 si dimostrano scettici di fronte alle possibilità di successo di un’impresa definita «archeologica». Oggi, tuttavia, risulta chiaro che I vampiri fissa le regole essenziali del gotico e del giallo all’italiana20. Il film presenta molti dei caratteri ed elementi ricorrenti nel corpus di film che tra il 1957 e la metà degli anni sessanta circa andranno a erigere la «linea gotica» del cinema italiano: il tema e le ambientazioni (il ritorno del passato, il doppio, il castello, i luoghi claustrofobici e labirintici); la «rielaborazione creativa» e non esclusivamente imitativo-derivativa di modelli storici e coevi; la rivisitazione degli archetipi del fantastico; la centralità della figura femminile21. Ancora più essenziale è la modernità dell’orrore veicolato da I vampiri. Il primo elemento di modernità è costituito dal sadismo, dallo stato psicotico e dalla perversità dei suoi protagonisti. Il sadismo e la necrofilia li ritroviamo nel cinema di Freda prima e dopo I vampiri (da Il conte Ugolino, 1949 a Beatrice Cenci, 1956; da L’orribile segreto del Dr. Hichcock, 1962 a Murder Obsession, 1981). Non va sottovalutata inoltre la prossimità del soggetto alle vicende della contessa ungherese Erzsébet Báthory, archetipo che unisce in sé la tradizione vampirica di origine non soprannaturale (e correlata alla posizione di dominio socio-economico), il sadismo psicopatologico e la serialità omicida. A ben vedere, la duchessa Marguerite du Grand non è un vampiro: è una sadica, pazza, omicida seriale di giovani donne delle classi popolari e borghesi che agisce sotto la protezione del suo status di classe. Un secondo elemento di modernità è rappresentato dalla convergenza tra cinema e stampa popolare, tra cronaca e attualità, un elemento del film scarsamente considerato, assieme alla matrice da polar, pur essendo alla base dell’intreccio giallo e del percorso di detection. La sua modernità risiede nel suo «anacronismo», nel suo rinvio a un orrore popolare di lungo periodo, legato alla nascita della cronaca, al«Psicologia anormale, sessualità perversa, visualità barocca, scenografie claustrofobiche, violenza grafica», in Morris, Universi in collisione. Gli horror di Freda cit., p. 35. 21 Curti, Fantasmi d’amore cit., pp. 33-6. 20

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le storie tragiche di origine cinque-seicentesca e infine alla paraletteratura. In altre parole, il racconto gotico e il mito del vampiro non sono solamente ambientati e agiti davanti a uno sfondo contemporaneo ma sono consapevolmente rielaborati in funzione di una cronaca dell’orrore. A partire dalla diffusa presenza della stampa e del personaggio di Pierre Lantin, più di un indizio riconduce al dominio degli eventi bizzarri e casuali, i faits divers22. Il ritrovamento del corpo della giovane donna è un fait divers sanglant che sarà disposto sotto tale forma dalle testate dei quotidiani. Il «cineromanzo» de I vampiri pubblicato da «Star Ciné Cosmos» nel gennaio del 1963 lo conferma fin dalla prima didascalia: Il y a quelque temps, les journaux de Paris signalérent dans leurs faits-divers l’étrange mort d’une jeune femme dont on avait retrouvé le cadavre complétement exsangue dans les eaux de la Seine23.

L’ambientazione contemporanea rimanda alle origini delle storie tragiche d’attualità, i fatti di cronaca non verificati, sensazionali e spaventevoli delle «canards sanglants»24. La passione eccessiva di Margherita denuncia origini nobili (gotiche e melodrammatiche) ma si risolve in esiti criminali. E una cronaca sanguinaria è il prologo perduto, scritto e girato da Freda: «Il Duca Julien Du Grand viene ghigliottinato per aver ucciso e violentato una bambina». L’agghiacciante incipit e i pochi secondi sopravvissuti della sequenza ci restituiscono un racconto del patibolo, uno dei modelli (il racconto épouvante e moraleggiante della morte pubblica) che furono all’origine dei faits divers sanglant. E I vampiri, inedita occorrenza di genere comparsa sugli schermi e davanti agli occhi dei critici dei quotidiani italiani (in evidente difficoltà nel collocarlo), è in sé un fait divers. La «Parigi in preda al terrore» e il titolo stesso (I vampiri) evocano poi uno degli approdi delle cronache nere e spaventevoli: il feuilleton, di cui i bassifondi parigini furono la culla. Potremmo così trovarci accerchiati da «apaches» e forse i du Grand non sono altro che una banda di assassini usciti da un serial cinematografico o da un polar. Rinviando alla «cronaca nera», I vampiri dimostra di essere un horror tanto moderno quanto radicato in una tradizione della cultura popolare europea che risale al XVI secolo. R. Barthes, Structure du fait divers, in Id., Essais critiques, Seuil, Paris 1964, pp. 188-96. Les Vampires, in «Star Ciné Cosmos», a. III, 26 gennaio 1963, 35. Il cineromanzo in versione italiana era già stato pubblicato nel 1958: Quella che voleva amare, in «I Vostri Film», a. III, 5 agosto 1958, 31. 24 M. Lever, Canards sanglants. Naissance du fait divers, Fayard, Paris 1993. 22

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Un terzo elemento di modernità riguarda l’ambientazione contemporanea del mito del vampiro e la convergenza tra spazio gotico e modernità spettacolare e tecnologica. Nella sequenza iniziale, «il vampirismo è introdotto spogliato dai suoi attributi gotici, depositato in una città moderna e descritto dalla scienza moderna e dalla stampa». La manipolazione di luci e scenografie fa sì che i «laboratori scientifici siano goticizzati e un castello gotico sia modernizzato». Con un banale spostamento del fascio di luce di una lampada da tavolo, l’ambulatorio del dottor du Grand diviene un antro gotico, pronto a ospitare l’uccisione dell’aiutante incaricato dei rapimenti. È in quel momento che fa la sua comparsa sulla soglia d’ingresso, in controluce, la duchessa du Grand. Sarà lei a «progettare» la falsa morte e la falsa notizia della morte del medico. E saranno le prime pagine dei quotidiani a introdurre il primo spazio gotico del film, il cimitero e la cripta. Come appare evidente, «le barriere che separano il gotico dal moderno sono cadute»25. Un quarto elemento di modernità concerne le trasformazioni a vista di Margherita/Giselle. In questi momenti essenziali per il piacere del pubblico del genere, il cinema diventa strumento moderno del soprannaturale, le inquadrature delle trasformazioni «reinterpretano il potere magico del vampirismo mediante la tecnologia spettrale del medium cinematografico». La loro ripetizione le estrae dal tessuto narrativo e le qualifica come «attrazioni»26. All’insegna della relazione fra tecnica ed estetica, il vampirismo è «reinterpretato come un prodotto della modernità […] si presenta come un processo scientifico di trasfusione […] i magici benefici del vampirismo sono mostrati come il prodotto di spettacolari effetti speciali»27. Infine, il film «segna il momento significativo in cui l’horror europeo ha iniziato a confrontarsi con i terrori della modernizzazione»28. I vampiri prende avvio dal noir (thriller) e dal gotico (melodramma), comprende ed elabora gli orrori legati ai crimini violenti e al fantastico tradizionale e finisce per introiettare timori di ordine sociologico, storiografico e morale (gli esperimenti scientifici post-olocausto e dell’era atomica, le dipendenze, le nevrosi e le psicosi), aderendo così a una seS. Abbott, The Vampire Transformed, in «Kino Eye», II, 2002, 18. Per la relazione fra «trucco» e «attrazione» ne I vampiri, si veda Di Chiara, I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (1957-1965) cit. 27 Abbott, The Vampire Transformed cit. 28 Ibid. 25 26

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rie di moderne mitologie dell’orrore. Gli omicidi de I vampiri sono una routine tecnologico-scientifica, occupano lo spazio della quotidianità (le testate giornalistiche), sono orrori della modernità che ricorreranno in altri film italiani dei primi anni sessanta (Seddok, Il mulino delle donne di pietra, Lycanthropus, La vergine di Norimberga, La lama nel corpo), a dimostrazione dei debiti nei confronti del film di Freda e Bava, capace di indicare una via europea all’horror equamente divisa tra ricerca della popolarità e ricerca della bella forma, tra ritorno del passato e terrore del presente.

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4. Danze macabre Contronatura (Antonio Margheriti, 1969) Non eravamo sicuri della giustezza del nostro itinerario […] lo pregammo di salire in auto e di accompagnarci sino al bivio giusto […]. Accolse con qualche diffidenza la nostra preghiera, come se temesse un’insidia oscura, una trama ordita ai suoi danni. (Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali) Naturale che è contronatura. Come Topolino del resto. (David J. Skal, Monster Show. Storia e cultura dell’horror)

Scritto, prodotto e diretto da Antonio Margheriti, Contronatura segna il passaggio dal filone gotico degli anni sessanta ai nuovi orrori degli anni settanta. È stato definito «il canto del cigno»1 dell’horror gotico italiano, anche se il gotico proseguirà la sua corsa almeno per tutta la prima metà degli anni settanta. È un film di passaggio anche per l’ibridazione tra il giallo, l’erotico e l’horror. Non è comunque privo di lasciti, produrrà da lì a poco un rifacimento non dichiarato quale Qualcosa striscia nel buio (Mario Colucci, 1970) e influenzerà Lisa e il diavolo (Mario Bava, 1972). Nell’Inghilterra della fine degli anni venti, Archibald Barret (Joachim Fuchsberger) è in viaggio di affari. Lo accompagnano il contabile Ben Taylor e sua moglie Vivian (Marianne Koch), il fattore Alfred (Claudio Camaso) e Margareth (Dominique Boschero), sua giovane amante. Nel pieno della notte, un nubifragio obbliga la comitiva a riparare presso uno chalet. All’interno, il proprietario Uriath (Luciano Pigozzi) e la madre sono impegnati in una seduta spiritica che alla presenza dei nuovi arrivati, invitati a prenderne parte, rivelerà gli orribili 1 T. Mora, Viaggio al centro dell’orrore italiano, in C. Artemite - G. Lanzo, Horror Made in Italy, «Moviement», 2009, 4, p. 7.

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segreti e delitti del loro passato. Nel finale si scopre che Uriath e la madre sono i servitori incolpati ingiustamente e condannati a morte anni prima per l’omicidio del cugino di Barret, tornati dall’aldilà per vendicarsi. Messi l’uno contro l’altro, i cinque convenuti si scatenano in una lotta violenta, per poi essere inghiottiti da una fiumana temporalesca che travolge l’abitazione. Margheriti produce il film per tramite della Edo cinematografica in collaborazione con la Super International Pictures e affidandosi a un coproduttore tedesco specializzato nel cinema popolare (la berlinese CCC Filmkunst). La profondità di campo su cui giocano per tutto il film Margheriti e il fidato Pallottini sfrutta a dovere le possibilità offerte dalla combinazione tra le ottiche a focale corta e il materiale di ripresa Techniscope. Le inquadrature dall’alto, in semi-plongée e plongée, anticipano l’arrivo dei momenti delittuosi o ne sanciscono gli esiti soffermandosi sui corpi delle vittime. I flashback sono introdotti attraverso dei primissimi piani sugli occhi che svolgono una funzione di raccordo. Il dettaglio sugli occhi è un tratto riconoscibile della retorica di Margheriti e lo sguardo nel film opera come figura di mediazione e di contatto tra i regimi del desiderio e del ricordo, tra il registro erotico e quello giallo. La combinazione tra giallo ed erotico, sempre più diffusa a fine anni sessanta (lo stesso Margheriti l’aveva sperimentata con il suo precedente Nude si muore del 1968), vira progressivamente verso una dimensione soprannaturale. La storia si svolge nell’arco di una sola notte, scandita da una serie di flashback narrativi che svelano segreti e delitti. Il soggetto del film è liberamente ispirato al racconto di Dino Buzzati Eppure battono alla porta, anche se le radici del film appaiono ben più profonde e vaste2, con La caduta della casa degli Usher (1839) di Edgar Allan Poe (del quale lo stesso racconto di Buzzati è debitore) a svolgere la funzione di archetipo3. Racconto e film sono stati accomunati senza approfondire nel dettaglio la loro relazione4. Per lo più 2 Contronatura «prende avvio da uno spunto che ricalca quasi alla lettera quello de Il castello maledetto di Whale. Ma un altro inaspettato referente è La panne di Dürrenmatt», R. Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, Lindau, Torino 2011, p. 297. Si segnala che nel 1972 Ettore Scola con La più bella serata della mia vita adatterà per lo schermo il racconto dello scrittore svizzero. 3 Margheriti è stato forse il regista più poeiano di tutti, si vedano in particolare Danza macabra (1963) e l’auto-remake Nella stretta morsa del ragno (1971). 4 Fa forse eccezione Tim Lucas che per tramite di Buzzati ha messo in relazione Contronatura a Lisa e il diavolo.

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ci si è limitati a rinvenire una decisa analogia nel finale. L’epilogo del film di Margheriti (le pareti della casa abbattute dalla forza delle acque, il salone e i suoi ospiti travolti e inghiottiti dalla melma) non solo richiama il racconto ma è divenuto uno dei momenti più forti e originali del cinema dell’orrore italiano ed è ritenuto una delle possibili fonti per l’invasione di sangue nel corridoio dell’Overlook Hotel in Shining (Stanley Kubrick, 1980). Se confrontati più attentamente, Contronatura e Eppure battono alla porta restituiscono più di un elemento in comune. Di certo condividono l’atmosfera decadente ereditata da Poe. Presentano entrambi due situazioni in aperto contrasto tra loro: da un lato il crescendo caotico del nubifragio e l’incedere inarrestabile delle forze naturali, dall’altro un interno statico, equilibrato nella sua composizione figurativa e soggetto semmai all’accrescimento della tensione drammatica. Sono costruiti sul rapporto fra un intreccio e un racconto di superficie e una tessitura di situazioni ed eventi che accrescono sempre più il senso di angoscia dei personaggi e del lettore/spettatore. Nel racconto di Buzzati i rimbombi uditi dai personaggi segnalano l’approssimarsi sordo e cupo del cataclisma e danno ritmo al progredire della tensione narrativa. Tale intermittenza trova nel film di Margheriti un analogo visivo nei lampi che saturano di blu le finestre e le ampie vetrate, virando parte delle superfici degli interni della casa infestata. Una punteggiatura narrativa che accresce la sensazione d’incombenza di eventi sinistri e che al contempo esalta la dimensione atemporale, limbica, in cui si svolge il cuore della vicenda. L’effetto rimanda inoltre alle «finestre simili a occhiaie vuote» descritte da Poe e rinforza una certa ossessione per la rappresentazione dello sguardo che attraversa il film. Entrambi sono racconti di una società in crisi, destinata a essere sconvolta da eventi di portata epocale (Buzzati pubblica il racconto nel 1942, Margheriti realizza il film nell’immediato post-’68 ambientandone la storia in prossimità della crisi del 1929). In Contronatura l’ironia di Buzzati è quasi del tutto assente. Anche se il riso folle e beffardo di Uriath nel finale del film e la lotta mortale dei padroni ai piedi della servitù invitano a riconsiderare la presenza nel film di un motivo iconografico e simbolico aperto al grottesco e al satirico: la danza macabra. Il tema (la servitù che si vendica dei padroni; l’edonismo di un gruppo sociale sull’orlo della catastrofe esemplificato nella sequenza del ballo) e il memento mori che gli è proprio possono essere ricolle115

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gati al gioco, ulteriore motivo in comune tra il racconto e il film. Il tavolo da «gioco» (d’azzardo, spiritico) occupa nel film una significativa centralità formale e discorsiva, disponendo le tensioni emotive e dell’intreccio narrativo, invitando a ritrovare nella circolarità la figura chiave del film (la roulette, la ruota dell’automobile che gira a vuoto, il tavolo da seduta spiritica, il movimento rotatorio verticale sullo stesso tavolo, la catena circolare delle mani, il tema del ritorno e del ripiegarsi del passato sul presente). I dialoghi rimandano in più di un’occasione al tema del gioco come motore della vita, delle conquiste sociali e più in generale delle pulsioni di vita e di morte. Il montaggio alternato tra la scena della caccia alla volpe e il corteggiamento erotico tra Elizabeth (Helga Anders) e Vivian può così essere letto come intreccio tra le due pulsioni. I motivi della danza macabra e dell’inganno del tempo non sono peraltro estranei alle precedenti incursioni nel gotico di Margheriti, dal (non così ovvio) rimando a Danza macabra (1963) alle citazioni esplicite di Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, Ingmar Bergman, 1957) e più in generale dell’iconografia della morte di stampo medievale in I lunghi capelli della morte (1964). Oltre a essere un racconto morale e una totentanz fondata sul desiderio di vendetta, Contronatura è un giallo e un gotico soprannaturale5, una ghost-story, il cui twist narrativo (la scoperta della natura spettrale della medium e del figlio) invita a rileggere e rivisitare il film e a interpretare i suoi protagonisti come morti fin dal principio6. Il primo dialogo del film sembra alludere alla rimozione di una tale condizione: «“hai giocato abbastanza Margareth, potremmo anche andarcene”. “Non essere così scontroso, piaceva anche a te il gioco. Non lo ricordi più, Alfred?”». Il tragitto notturno in automobile verso Brighton può essere letto come il tòpos del viaggio verso l’oltretomba in cui l’autista svolge la funzione simbolica di psicopompo, in seguito assunta e portata a compimento dai medium-fantasmi della casa. L’ambientazione della vicenda in Inghilterra risponde a esigenze di mimetismo culturale e commerciale oramai canoniche (la collocazione del film sui mercati internazionali), mentre d’altra parte segna la tappa iniziale obbligata di un percorso di avvicinamento e riconsiderazione dell’origine dell’orrore da un luogo esogeno ed esotico (l’immaginario M. Summers, The Gothic Quest. A History of the Gothic Novel, Fortune, London 1938. Sul tema dei morti costretti a rivivere la propria esistenza, si veda l’analisi di Lisa e il diavolo, in A. Pezzotta, Mario Bava, Il Castoro, Milano 2013. 5 6

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del racconto giallo e gotico anglosassone) a un luogo di origine endogeno, non immediatamente riconoscibile e perciò perturbante: «Lo so che è assurdo. Che tutto dovrebbe essere preso come un gioco. Ma c’è qualcosa che mi spaventa», confessa Alfred. L’orrore non ha un’origine soprannaturale, si cela nella natura umana. Inscenando questo moto centripeto, a partire da ambientazioni e temi del gotico, Contronatura usa il percorso di detection del giallo per tramutare l’orrore gotico in un horror della modernità e ricondurlo al contempo a certi tòpoi narrativi del dramma passionale e morale (il tema della vendetta e della giustizia dei morti apparenti), propri di molti racconti popolari e d’appendice tradotti nel cinema italiano fin dal periodo muto. Il doppio ritorno al passato (l’avvolgimento della struttura a flashback attorno all’ambientazione della vicenda a cavallo degli anni venti e trenta) rispecchia la riflessività e il carattere nostalgico di un certo cinema della modernità prossimo alla crisi. Le sequenze ludiche e di evasione (della festa e del ballo) corrispondono anche al momento delle morti «accidentali» di Diana, di Richard e di Elizabeth. Il senso di colpa di derivazione gotica e la paura del presente di derivazione romantica sono rivisitati in termini di «perdita dell’innocenza» (sociale, morale e sessuale). Margheriti, inserendosi nel binario di Poe e Buzzati, adatta i propri archetipi in funzione di una società e di un’industria dell’immaginario riflesse in un mondo «che suggerisce un senso di sperpero e di fine di un’era, tra balli, giochi d’azzardo, orchestrine e champagne»7. Contronatura è un «gotico nostalgico» che utilizza la riflessione sul passato come uno spazio di rinegoziazione dei limiti e del senso del cinema popolare europeo di genere e dell’identità del suo pubblico a fine anni sessanta, fornendo a quest’ultimo un ambiente familiare, riconoscibile in termini di immaginario. In altre parole, misura e regola le tensioni in atto all’interno del cinema popolare del periodo in un momento di superamento dei limiti della rappresentazione, di ibridazione tra i generi, di liquefazione dell’identità (del cinema) nazionale. E in una certa misura Contronatura è un film sullo spaesamento del cinema italiano del periodo, che stenta a riconoscersi e a orientarsi in una cartografia dei generi e in una geografia dell’immaginario in rapido mutamento, con la «road interrupted» incontrata durante il viaggio verso Brighton che ne diviene indizio. Lo spaesamento è da intendersi inoltre come sintomo e sinonimo del perturbante, come sanzio7

Curti, Fantasmi d’amore cit., p. 297.

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ne della fine di un mondo familiare alla classe designata a comandare, altro tratto comune a Poe, Buzzati e Margheriti, un movimento che mette progressivamente in discussione la purezza, l’ordine e il decoro dello spazio domestico e dei suoi soggetti8. Il perturbante affiora fin dal titolo (si veda il titolo internazionale The Unnaturals) e trova dimora nella haunted house. Il movimento di macchina che introduce in semi-soggettiva l’interno dello chalet materializza al suo termine le figure di Uriath e della madre: la loro immobilità insinua il dubbio sullo statuto della visione nei personaggi e negli spettatori (sono vivi? sono reali?), una messinscena esemplare del perturbante, almeno nella sua accezione più strettamente percettiva9. Il perturbante trova linfa vitale nel motivo gotico della colpa, nonché ospitalità entro l’intreccio giallo della ripetizione e «accidentalità» delle morti (di Richard ed Elizabeth, i cui corpi senza vita convergono casualmente nello stesso luogo, disponendosi uno adagiato sull’altro; di Diana e Vivian, uccise per «legittima difesa»), eventi che introducono l’elemento della «ripetizione involontaria», insinuando l’idea della fatalità e dell’ineluttabilità «laddove normalmente avremmo parlato soltanto di “caso”»10. Lo spettro di manifestazioni del perturbante nel film di Margheriti sembra essere completo: l’animato/inanimato, il ritorno dei morti, l’accidentalità e le coincidenze, il doppio (presente in tutto il film attraverso la disposizione a coppie dei personaggi, dei conflitti e delle relazioni erotiche). La polarità animato/inanimato è anticipata e introdotta dagli animali imbalsamati che accolgono la comitiva e che adornano gli interni dello chalet, al pari di altri oggetti che saturano ogni parete e angolo. Un horror vacui che muta lo spazio gotico in una Wunderkammer, in una collezione di naturalia e artificialia: «Questo vecchio chalet di caccia […] voi dovreste ricordarlo. Quante battute. E quante prede. Come dimostrano tutti quegli orrendi cimeli impagliati». Il dispositi8 E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977. 9 Il riferimento è a Ernst Jentsch, Sulla psicologia del perturbante (1906). Per la funzione del perturbante nel cinema horror si veda S. J. Schneider (a cura di), Horror Film and Psychoanalysis. Freud’s Worst Nighmare, Cambridge University Press, New York 2004; e in area italiana A. Bellavita, Schermi perturbanti. Per un’applicazione del concetto di Unheimliche all’enunciazione filmica, Vita e Pensiero, Milano 2005. Si veda l’analogia con il dottor Paul Esway che, entrando nella locanda in Operazione paura (Mario Bava, 1966), «si trova davanti a una sorta di tableau vivant», Pezzotta, Mario Bava cit., p. 84. 10 S. Freud, Il perturbante, in Id., Opere. L’Io e l’Es e altri scritti. 1917-1923, IX, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 98.

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vo del perturbante agisce a fondo, sviluppa in profondità l’intreccio giallo, trasformando lo chalet in un luogo della memoria, al pari del cinema stesso che termina di essere un luogo ospitale e di intrattenimento per divenire strumento di reminiscenze: «più che un’abitazione, una macchina per ricordare»11. Le tracce iconografiche e le narrative presenti in Contronatura, al pari della Wunderkammer, si situano «sulla convergenza instabile tra due paradigmi culturali»12: da un lato una dimensione arcaica, magica, popolare (il contatto con il soprannaturale e con il primitivo), dall’altro un paradigma indiziario, deduttivo e riflessivo basato sulla vista e sullo sguardo (il giallo). Contronatura è un luogo di attriti, si colloca su una faglia, in attesa dell’apocalisse. Diventa fin troppo facile metafora di un conflitto e di una crisi sociale e morale. I temi dell’immoralità e della perversione sono al centro del film, il procedere «contronatura» è il suo tratto più esplicito, un andamento contraddittorio: innanzitutto negato, riconosciuto in seguito come innato nella condizione umana («lei era più giovane ma ugualmente perverso», dice Uriath ad Archibald), confessato e sancito socialmente negli esiti, legittimando in quest’ultima direzione la lettura marxista della decadenza della classe dominante sottoposta al tribunale del popolo, interpretazione che è stata anche del racconto di Poe. Contronatura mette in scena una progressiva perdita di controllo che si registra nella regressione, nel ritorno al primitivo: si vedano i rimandi alla Caccia Selvaggia, all’ordine dell’animale e alla natura come forza ineluttabile che procede incurante, intrappola e consuma (la strada resa non percorribile, il bosco, i dettagli a-narrativi del ragno e della ragnatela, gli elementi del fuoco e dell’acqua). La regressione è poi narrativa e simbolica (le analessi, il ritorno dei morti). La perdita di controllo può anche essere letta come oltrepassamento dei limiti della rappresentazione. Se mantenuta entro i limiti del testo appare come una deriva e un diluvio entro il sistema dei generi, se estesa al sistema mediale evidenzia un cedimento dei confini tra reale e immaginario13. La liberazione sessuale individua nel corpo femminile il territorio principale da svelare e offrire ai pubblici come elemento di U. Eco, Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano 1988. L. Tinti, Collezionare meraviglia. Sulla «Wunderkammer» cinque-seicentesca, in «Bibliomanie», 2011, 25. http://www.bibliomanie.it/collezionare_meraviglia_wunderkammer_cinque_seicentesca_tinti.htm. 13 G. Manzoli, Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione (1958-1976), Carocci, Roma 2012. Si veda anche l’uso del concetto di oltrepassamento in Ernesto De Martino. 11 12

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incrocio e comunione tra vari generi e lo fa transitare e migrare in qualità di epicentro visivo e discorsivo lungo più media e dispositivi, quali il cine-romanzo e i rotocalchi sensazionalistici. Se già il manifesto del film invitava a procedere «oltre i confini proibiti dell’amore», nel novembre 1970 il periodico «Cinesex» (che ospita novellizzazioni esplicitamente erotiche di film popolari, non di rado horror) pubblica due pagine dedicate a Contronatura corredate di immagini di nudi delle protagoniste14. Nella transizione dallo schermo alla carta, il modello gotico è spogliato interamente delle sue ascendenze più nobili. Se questo non appare un motivo di novità in sé (la contaminazione con l’erotico e il modello attrattivo-esibitivo si presenta fin dalle prime manifestazioni del genere orrorifico in Italia a inizio anni sessanta), in «Cinesex» l’intreccio delittuoso a sfondo erotico è accomunato all’attrazione morbosa, alla scopofilia e alla perversione di certa cronaca nera. Contronatura viene affiancato al popolare e sensazionalistico delitto Casati Stampa, duplice omicidio e suicidio avvenuto il 30 agosto del 1970 al termine di una relazione coniugale decennale basata sul voyeurismo, il sado-masochismo, le annotazioni diaristiche e le riprese foto-cinematografiche. Racconto popolare e cronaca nera sono avvicinati in nome di una comune «perversione» e andamento «contronatura». I confini tra privato e pubblico cedono. I segreti, i desideri sessuali nascosti tracimano nel corto-circuito dell’immaginario e del sistema mediale del periodo; affiorano, traslati, nei luoghi più impensati. Il timore che l’abbandono all’aggressività e alla sessualità, alle pulsioni della libido e ai desideri inconsci possa risultare «contronatura» e così condurre alla distruzione sembrerebbe fare del film un testo ideale per una lettura reazionaria. In realtà, possiamo procedere oltre una visione del film horror come messinscena del rimosso, anche a conferma della funzione di passaggio tra horror tradizionale e nuovi orrori di Contronatura. Come nella cronaca nera del caso Casati Stampa, nel film l’eros è «strumento di dominio, tradimento, scalata sociale»15, lo spazio storico del gotico viene scardinato a contatto con la radice perversa della cronaca nera, aprendo a un orrore maturo (moderno) se non già in odore di postmodernità: il «terrore sessuale è divenuto parte di un’ansia molto più grande rispetto al genere, all’identità, alla 14 «Cinesex», a. II, 1-15 novembre 1970. Sui rapporti tra cinema e paratesti erotici, si veda G. Maina, Cine & Sex. Sessualizzazione dei media e cineromanzo tra gli anni sessanta e settanta, in «Bianco e Nero», 2012, 573. 15 Curti, Fantasmi d’amore cit., p. 299.

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mortalità, al potere e alla perdita di controllo. L’Eros si accoppia con il sadismo, il masochismo e con il Thanatos in modi che il “romanzo familiare” di Freud […] aveva trascurato»16. La fiumana finale travolge la funzione che lo spazio gotico aveva assunto fin dagli anni cinquanta e la possibilità di un rapporto dialettico e controllato tra il manifesto e il latente. È il compimento di un processo di «inflazione psichica», allude a una psicosi in corsa, in cui i confini tra conscio e inconscio, tra reale e finzione vengono progressivamente meno. È metafora della porosità dei confini interni alla società e all’immaginario, nonché dell’arrivo di un horror invasivo (diffuso, interiorizzato, endogeno e indigeno) e scioccante (sensazionale, impuro, sporco, psicotico, primitivo). Anche il tradizionale tessuto mistery di Contronatura deriverà progressivamente (nel giallo e nell’horror del decennio successivo) in partiture narrative proprie di una serialità manierista e tardo-moderna: scarne, ripetitive, impressionanti e stilizzate, tipiche dello slasher. Il di poco posteriore Reazione a catena (1972) e la baia in cui è ambientato sembrerebbero così essere l’ideale luogo di approdo di un’umanità recidiva, per nulla mondata dal diluvio.

16 L. Badley, Film, Horror and the Body Fantastic, Greenwood Press, Wesport (Ct) 1995, p. 14.

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5. Un tranquillo posto di campagna Ecologia del delitto - Reazione a catena (Mario Bava, 1971-72) Così imparano a fare i cattivi. L’antefatto. Ecologia del delitto. Reazione a catena. Sono rispettivamente il titolo del soggetto; della sceneggiatura e di lavorazione; il titolo con cui il film di Mario Bava esce per la prima volta nelle sale nel 1971; il titolo definitivo con cui è distribuito una seconda volta l’anno seguente. La diffusione incontrollata proseguirà sui mercati internazionali: il film esce negli Stati Uniti in più release (Carnage, Twitch of the Death Nerve, Bay of Blood, The Last House on the Left Part II); in Inghilterra prima come A Bay of Blood e poi come Blood Bath; in Francia circola come La Baie Sanglante, mentre in Germania esce come Im Blutrausch des Satans1. Con meno di novanta milioni di lire di incasso si colloca tra le peggiori performance baviane sul mercato nazionale, confermando una sostanziale eccentricità rispetto al «giallo» in cui inizialmente si inscrive. Allo stesso tempo è uno dei suoi film più influenti e uno dei più amati dalla critica, dai cinefili e da Bava stesso. Comunemente riconosciuto come un modello per lo slasher e lo stalker movie americano che si affermerà a partire dalla fine degli anni settanta2, è uno dei film più splatter e violenti del periodo, «denso di scene sanguinose, truculente, terrificanti, orride e macabre»3, una T. Lucas, Mario Bava. All the Colors of the Dark, Video Watchdog, Cincinnati (Oh) 2007. All’interno di una più generale influenza del «giallo» sul primo slasher, del quale si vedano tra gli altri: Black Christmas (Bob Clark, 1974), Halloween (John Carpenter, 1978), The Toolbox Murders (Dennis Donnelly, 1978), The Driller Killer (Abel Ferrara, 1979), Friday the 13th (Sean S. Cunningham, 1980), Maniac (William Lustig, 1980), My Bloody Valentine (George Mihalka, 1981). Friday the 13th, part 2 (Steve Miner, 1981) ripropone due delle uccisioni di Reazione a catena: della giovane coppia durante l’amplesso e del giovane con una roncola conficcata nel volto. Un altro film di Bava, Il rosso segno della follia (Hatchet for the Honeymoon, 1970), è tra le fonti di Maniac. 3 Il film fu vietato in Italia ai minori di anni diciotto, la quarta sezione della Commissione di revisione cinematografica constata nell’agosto del 1971 «che il film è denso di scene sanguinose, truculente, terrificanti, orride e macabre; che vi è la marcata ostentazione di un nudo femminile e non manca l’erotismo in una scena; e che a vederlo i minori degli anni 18 rimarrebbero profondamente sconvolti e feriti nello loro sensibilità». Il film sarà poi inserito nella 1 2

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dimensione ricercata (lo «shock value») e in linea con una crescente nicchia di mercato internazionale (gli «exploitation» film) in cui trova la sua ragione di essere4. Negli Stati Uniti risuona a contatto con il coevo new horror, una re-release lo promuove fin dal titolo (The Last House on the Left Part II) come seguito de L’ultima casa sulla sinistra (The Last House on the Left, 1972, Wes Craven). La prima uscita americana (Carnage) lo presenta come «the 2nd film rated V for Violence», sulla scia del «primato» di un altro horror europeo, il tedesco La tortura delle vergini (The Mark of Satan, Hexen bis aufs Blut gequält, Michael Armstrong, 1972), accompagnandolo con la distribuzione agli spettatori delle «vomit bags». Un’altra release (Twitch of the Death Nerve) obbligava gli spettatori prima dell’ingresso in sala a transitare per una «final warning station». I «nuovi orrori» cui guarda il film di Bava sono connotati dalla violenza corporale estrema, dalla convergenza progressiva verso il cinema pornografico e il «realismo» documentario e dall'indebolimento della coerenza complessiva della struttura narrativa. Gli effetti speciali sono firmati da Carlo Rambaldi e sono premiati nel 1973 al Festival di Avoriaz. Sul piano linguistico, il piano della sperimentazione caro a Bava, si sposta dal colore e dalle deformazioni ottiche allo zoom e al fuoco/fuori fuoco. Il «body count» è uno dei più alti di tutto il periodo: tredici uccisioni attorno alle quali Bava costruisce un film per «quadri»5. Intorno alla baia – di cui è proprietaria la contessa Donati (Isa Miranda) – si scatenano gli appetiti di molti: dell’architetto Ventura (Chris Avram) e della sua segretaria-amante Laura (Anna Maria Rosati) che puntano alla proprietà, del marito della contessa Donati (Giovanni Nuvoletti), del pescatore Simone (Claudio Volonté), figlio naturale della contessa, di quattro giovani turisti capitati casualmente alla baia in cerca di un luogo appartato, di Renata Donati (Claudine Auger), con il marito Alberto (Luigi Pistilli) e i due figli, dell’entomologo Fossati (Leopoldo Trieste) e della moglie Anna (Laura Betti). L’omicidio della contessa – un apparente suicidio – scatena un effetto domino di morti e uccisioni, in cui tutti sono coinvolti e nessuno è risparmiato. Nel finale i lista ristretta dei 39 titoli perseguiti nel Regno Unito in seguito al Video Recordings Act del 1984 (i cosiddetti «video nasties»). 4 J. Zinoman, Shock Value, Penguin Press, New York 2011. 5 Testimonianza di Dardano Sacchetti nell’edizione DVD, Reazione a catena, RaroVideo, 2010.

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due sopravvissuti, Renata e Alberto, certi di potere ereditare la proprietà della contessa, sono uccisi a colpi di fucile dai loro stessi figli che per tutto il tempo sono stati testimoni della vicenda e ora corrono spensierati per la baia. La sceneggiatura e la prima versione del film prevedevano che i bambini rivendicassero l’atto omicida, esplicitando nella scritta «La baia è di tutti» e nella frase «così imparano a fare i cattivi» l’intento politico e morale6. La baia è una finis terrae dell’Italia post-boom e post-’68 in cui si dispiegano la crisi del soggetto e la psicotizzazione del sociale. L’«ecologia del delitto» del titolo voluto dal produttore anziché apparire bizzarra assume tutta la sua pregnanza. L’«estetica dell’omicidio»7 si intreccia con un «discorso sull’ambiente» che delimita un territorio in cui esprimere delle darwiniane «condizioni della lotta per l’esistenza», una «riserva naturale» in cui collocare degli esemplari da osservare, descrivere e infine catturare. La ricerca della «messa a fuoco» è così metafora dell’osservazione scientifica strumentale. I movimenti descrittivi ed esplorativi, le figure dello sguardo (i binocoli, la lente d’ingrandimento, i dettagli degli occhi), lo zoom e le soggettive sono centrali nell’economia del film. L’entomologo, il cui studio è introdotto dal dettaglio degli insetti immersi ancora in vita nelle soluzioni a base di formalina, è un collezionista e l’equivalenza tra esseri umani e insetti è esplicita. L’inquadratura degli esemplari trafitti dagli spilli entomologici ha il suo corrispettivo nell’inquadratura dei giovani trapassati dalla lancia tribale durante l’amplesso, così come nella «posa» finale del corpo senza vita di Simone. La propensione al catalogo e alla collezione «scientifica» è dichiarata fin dal primo dialogo del film, in cui l’architetto cita e descrive lo Squonk, animale immaginario descritto da William T. Cox nel 1910 in Fearsome Creatures of the Lumberwoods e ripreso da Borges nel suo manuale di zoologia fantastica8. Al pari di Cox e Borges, Bava attinge da una tradizione pre-moderna, assemblando un bestiarium delle «spaventevoli creature della baia». L’intero film è una rappresentazione hobbesiana dello «stato di natura» (homo homini lupus) e dello «stato di eccezione» Si veda A. Pezzotta, Mario Bava, Il Castoro, Milano 2013, in particolare pp. 106-8. J. Black, The Aesthetics of Murder. A Study in Romantic Literature and Contemporary Culture, Johns Hopkins University Press, Baltimore (Md) 1991. 8 W. T. Cox, Fearsome Creatures of the Lumberwoods, With a Few Desert and Mountain Beasts, Judd & Detweiler, Washington 1910; J. L. Borges, Manuale di zoologia fantastica, Einaudi, Torino 1962. 6 7

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(l’anomia del potere, la ricerca degli eredi). In un certo senso, Reazione a catena è il Salò di Bava, trattando nel suo profondo della disposizione alla violenza e al sacrificio9. Ecologia del delitto racconta di un esperimento bio-politico, mentre Reazione a catena modella ed esemplifica lo slasher10. Se Contronatura è il canto del cigno del gotico italiano, il film di Bava ne costituisce l’esecuzione sommaria. L’omicidio iniziale che dà il via alla «reazione a catena incontrollata» è un atto di emancipazione dal genere. Nell’incipit la villa della contessa Donati è un concentrato di suggestioni gotico-melodrammatiche (il temporale, i chiaroscuri, i cancelli che sbattono, la malinconia e la decadenza del brano musicale). La contessa interpretata da una Isa Miranda al tramonto della sua carriera altro non potrebbe essere che una Marina di Malombra inaspettatamente ritrovata. Scomparsa alla fine del film di Soldati, la ritroviamo alla fine dei suoi giorni, paralizzata e melanconica. Se l’accostamento può apparire azzardato, si veda la similitudine tra i titoli di testa dei due film, senza dimenticare il rapporto di Bava con Massimo Terzano (direttore della fotografia del film di Soldati) e con il figlio Ubaldo. Al pari dei suoi personaggi, Bava non mostra alcuno scrupolo nello sbarazzarsi di parenti oramai scomodi. La prima grande figura femminile del gotico italiano è sottoposta a una brutale e oscena esecuzione. Fin dal suo incipit, Reazione a catena manifesta intenti «sovversivi» e di abbandono della «bella forma», aprendosi con l’impiccagione di un’anziana signora paraplegica in una monumentale villa e chiudendosi con l’assassinio a colpi di fucile della coppia sopravvissuta per mano dei propri figli in un’anonima radura che ospita una precaria roulotte11. Il film è stato definito «il marxismo secondo Bava», sulla scorta di un’analogia tra assassinio e capitalismo orientata al superamento dell’estetica dell’omicidio: «il gore non è tanto un’esemplificazione dell’omicidio come una delle belle arti, quanto una parodia della 9 R. Girard, La Violence et le sacre, Bernard Grasset, Paris 1972; R. Eisler, Man Into Wolf; An Anthropological Interpretation of Sadism, Masochism and Lycanthropy, Spring Books, London 1948. 10 Si veda anche il coevo La bestia che uccide a sangue freddo (Fernando Di Leo, 1971), un gotico «impazzito» e un proto-slasher/stalker. 11 Secondo Filippo Ottoni e Lamberto Bava entrambi gli omicidi sono stati ideati da Mario Bava, si veda M. Gomarasca - D. Pulici (a cura di), Genealogia del delitto. Guida al cinema di Mario & Lamberto Bava, «Dossier Nocturno», n. 24, supplemento a «Nocturno», 2004, 24, pp. 14-5.

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produzione industriale fondata sull’accumulo»12. Reazione a catena persegue, al pari di altri film del new horror coevo, una critica dell’esistente attraverso la radicalizzazione dei contenuti (la critica della contemporaneità) e la disgregazione della forma (estetica e narrativa). Lo slasher appare come un filone anti-borghese, almeno nel senso di un «testo» che può essere descritto come «un corpo rotto, mancante dell’integrità comunemente attribuita al racconto cinematografico popolare»13, tale da tagliare i ponti con la narratività classica e con i modelli derivati dalla letteratura popolare borghese ottocentesca e riaprire un dialogo con forme di espressione della violenza e dell’orrore a lungo sopite. Reazione a catena è un film anticipatore dello slasher nella sua struttura elementare: il delitto iniziale dà avvio a una serie di omicidi brutali ed efferati perpetrati da uno o più assassini. La ripetitività apre virtualmente il testo a una non-conclusione e a una prosecuzione indefinita, l’intreccio e la sua risoluzione che per un thriller o un giallo dovrebbero essere fondamentali smettono di esserlo. I personaggi non sono sviluppati, quando non sono intercambiabili o inessenziali sono connotati dal grottesco e dal caricaturale (dalla Miranda a Volonté, dalla Betti a Trieste). L’identificazione nei loro confronti è assente o ridotta al minimo, un distacco consolidato dal «livello letterario» di certi dialoghi che «crea una sorta di bizzarro effetto di straniamento»14. Rispetto agli slasher che seguiranno, Reazione a catena se ne discosta mancando la figura centrale del «killer psicopatico che accoltella a morte una serie di vittime per lo più femminili […] fino a che non è sottomesso o ucciso, di solito da una ragazza che è sopravvissuta»15, figura, quella, della final girl, anch’essa mancante nel film16. Se per lo slasher il killer diventerà una creatura archetipica provvista del12 G. A. Nazzaro, Reazione a catena, in Genealogia del delitto. Guida al cinema di Mario & Lamberto Bava cit., a cura di Gomarasca e Pulici, p. 30. 13 T. Modleski, The Terror of Plesasure. The Contemporary Horror Film and the Post-Modern Theory, in Id. (a cura di), Studies in Entertainment: Critical Approaches to Mass Culture, Indiana University Press, Bloomington (In) 1986, p. 159. Si veda anche I. C. Pinedo, Postmodern Elements of the Contemporary Horror Film, in The Horror Film, a cura di S. Prince, Rutgers University Press, New Brunswick (Nj) 2004. 14 Ottoni, in Genealogia del delitto. Guida al cinema di Mario & Lamberto Bava cit., a cura di Gomarasca e Pulici, p. 13. 15 C. J. Clover, Men, Women, and Chain Saws: Gender in the Modern Horror Film, Princeton University Press, Princeton (Nj) 1993, p. 21. 16 Ibid.

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la propria biografia e mitografia (Michael Myers, Jason Voorhees, Freddy Krueger), nel film di Bava tale «funzione» è inscritta nella costruzione formale e nell’intreccio, tanto da farne, appunto, un modello per il genere a venire e da potere essere incarnata da tutte le creature del bestiario umano della baia. Le figure chiave latitano nel film di Bava, mentre la struttura degli omicidi è quella tripartita dello slasher: l’azione di stalking; lo «slash» che produce shock nella vittima e nello spettatore; la sensazione di repulsione e di attrazione che accompagna i secondi «slash» e/o l’insistenza dello sguardo sul corpo martoriato. Bava inscena la morte «con un senso estetico da autentico readymade, ossia un corpo, un oggetto e un gesto»17. La fissazione dello sguardo sul «momento in cui l’uomo cessa di essere un corpo vivente e diventa una cosa» è stata definita una «fenomenologia del morire» e una «metafisica del trapasso»18. Il ricorso alle soggettive nei momenti di stalking e assassinio, che sarà uno dei punti di forza dello stile visivo del giallo, per poi divenire un cliché dello slasher, costituisce una violazione consapevole delle norme classiche di continuità e di protezione dello spettatore, ed esplicita la prossimità e l’intima relazione tra punto di vista dell’omicida e del testimone-spettatore19. Il duplice e simultaneo assassinio dei due giovani durante l’amplesso è guidato dalla soggettiva dell’omicida ed è supportato nel suo climax dalla lancia tribale che diviene prolungamento fisico dello sguardo e del desiderio. Un’estensione che penetra e «dissolve» le soggettività coinvolte (vittime, assassini, spettatori-testimoni) in un’«ininterrotta continuità»: una piena e completa espressione dell’assassinio in quanto performance estetica, pura azione ed esperienza di conoscenza carnale20. Voyeurismo ed esibizionismo, visione e atto dell’omicidio, estetica ed eros convergono tra loro: «l’intimità tra assassino e testimone […] ha un chiaro carattere erotico. Il comune riferimento al climax sessuale come una petite mort, assume un significato più profondo nel caso dell’omicidio»21. Nazzaro, Reazione a catena cit. Pezzotta, Mario Bava cit., p. 110. 19 Si veda, anche in relazione all’influenza del giallo sullo slasher, M. J. Koven, La dolce morte. Vernacular Cinema and the Italian Giallo Film, Scarecrow Press, Lanham (Md) 2006. 20 Si veda Black, The Aesthetics of Murder. A Study in Romantic Literature and Contemporary Culture cit. I forti debiti verso Peeping Tom (Michael Powell, 1960) e Psycho (Alfred Hitchcock, 1960) sono evidenti. 21 Black, The Aesthetics of Murder. A Study in Romantic Literature and Contemporary Culture cit., p. 106. Il primato della messa in relazione del film di Bava con il pensiero di 17 18

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Le armi tradizionali dello slasher (qui corde, coltelli, roncole, lance, forbici, accette, cavi, mani nude) invocano «prossimità e tattilità», sono delle «estensioni del corpo che uniscono attaccante e attaccato in un primitivo, animalesco abbraccio»22. La relazione tra desiderio e violenza, tra caccia e uccisione percorre tutto il film. La baia è innanzitutto un territorio pre- o post-tecnologico, costruito sull’opposizione tra urbano e rurale, tra natura e cultura, tra civiltà terminale e mondo primitivo, in cui luoghi e oggetti simbolo della società del consumo, della comunicazione e dell’intrattenimento hanno smesso di funzionare (il night, la pompa di benzina, il telefono). Dopo la prima sequenza dell’assassinio della contessa e del marito e la seconda del racconto dello Squonk e della partenza dell’architetto per la località marittima, la terza sequenza è la prima ambientata nella baia vera e propria. In aperto contrasto con la precedente, si apre all’insegna di un primitivismo e carnivorismo ancestrale: un primissimo piano di Simone che uccide il polpo con il canonico morso, introducendo sul piano sonoro il brano «tribal shake» di Stelvio Cipriani che diverrà il tema portante del film al pari di un sonoro «esotico» e «primitivo» (i versi notturni degli animali, le percussioni). Sulla riva, Simone sarà raggiunto da Fossati. I due daranno vita a una dialettica tra una visione fondata sul «carnivorismo» e sulla soddisfazione dei bisogni primari dell’omicidio («io almeno il mio polipo me lo mangio») e una prospettiva dell’assassinio legata al piacere e alla civilizzazione («uccidere per hobby»). La dimensione arcaica e primitiva è poi richiamata dallo «stile africano» del «night» abbandonato e dalle decorazioni della casa dell’architetto, introdotte dal gioco tra i giovani con la maschera e la lancia tribale. I quattro giovani, stereotipi della cultura libertaria, incarnano il ruolo di attentatori alla proprietà privata della baia e di vittime sacrificali. La carneficina messa in scena in Reazione a catena è infatti riconducibile a una dimensione archetipica dell’assassinio. L’ultimo duplice delitto è – a differenza degli altri – mediato da un’arma (il fucile) che invoca la distanza, lo zoom all’indietro trova nelle canne dell’arma da Georges Bataille va a Pezzotta, Mario Bava cit., p. 110. La continuità nella discontinuità dei piani nella retorica del fuoco/fuori fuoco potrebbe essere letta come figura della «dissoluzione» delle identità nell’atto erotico e nella morte cara a Bataille, meccanismo tra l’altro coerente con il pensiero di Girard sull’intercambiabilità delle identità dei soggetti coinvolti nella mimesis della violenza e nella costituzione di doppi mostruosi. 22 Clover, Men, Women, and Chain Saws: Gender in the Modern Horror Film cit., p. 32

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fuoco un ancoraggio prospettico e sensoriale analogo alla lancia tribale. I due bambini non sono così mossi da un desiderio erotico, ma nemmeno sono incontaminati, nella loro prossimità e continuità con l’assassino «l’occhio del testimone non è innocente». Dardano Sacchetti ricorda che fin dal soggetto l’accumulo e l’invenzione di «un numero impressionante di omicidi» avveniva «sotto l’occhio dei bambini»23. Detto altrimenti, l’ultimo duplice omicidio avviene per imitazione dei comportamenti degli adulti. Negli stessi mesi in cui il film di Bava circola nelle sale nella sua versione definitiva, René Girard dà alle stampe La Violence et le sacré. Per Girard il «desiderio è essenzialmente mimetico […] due desideri convergenti sullo stesso oggetto si ostacolano reciprocamente. Tutte le mimesis basate sul desiderio sfociano automaticamente nel conflitto»24. Il desiderio diventa rivalità, la rivalità odio, e l’odio si tramuta in violenza. Il principio dell’origine mimetica della violenza, della «rivalità mimetica» per l’appropriazione da parte di più soggetti di un medesimo oggetto, trova una chiara rappresentazione nel film di Bava nella progressione e diffusione di rivalità, odi e violenze all’interno di un precario ordine sociale e culturale. In Girard la fondazione della società avviene nell’ordine del religioso, in prima istanza attraverso un meccanismo di imitazione intersoggettiva che può sfociare nella violenza e in seconda istanza mediante l’istituzione della figura del capro espiatorio o della vittima designata. Dietro l’intreccio giallo (le uccisioni per ottenere l’eredità) e la struttura da proto-slasher, il film rimanda al dispositivo distruttore della vendetta e a quello «normativo» del sacrificio, al potenziale esplosivo degli «stati di eccezione» in cui le disposizioni antropologiche profonde verso la violenza riemergono con forza25. L’accostamento iniziale al coevo esordio di Craven (L’ultima casa sulla sinistra, che è un film basato sul meccanismo della vendetta e non uno slasher) assume ora un significato più specifico: «la vendetta è un processo senza fine, infinito. Ogni volta che emerge […] tende ad espandersi e diffondersi in tutto il corpo sociale. Essa può causare una vera e propria reazione a catena dalle conseguenze rapidamente fatali per una società di piccole dimensioni»26. Sacchetti, in Genealogia del delitto. Guida al cinema di Mario & Lamberto Bava cit., a cura di Gomarasca e Pulici, p. 14. 24 Girard, La Violence et le sacre cit., p. 205. 25 G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 26 Ibid., p. 31, corsivo nostro. 23

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I due bambini, testimoni del diffondersi della «reazione a catena», mettono in atto ciò che hanno appreso per imitazione del comportamento degli adulti, dimostrando, ancora Girard, la grande creatività insita nella mimesi. Il duplice delitto finale, infatti, interrompe un circolo vizioso di distruzione e apre al contempo alla violenza creatrice27: i bambini risolvono pragmaticamente a proprio a favore la «rivalità mimetica» (diventano implicitamente i proprietari della baia, eliminati i genitori) e simbolicamente istituiscono un nuovo ordine sociale attraverso l’inserimento della madre e del padre nel dispositivo vittimario. La spensierata corsa finale nella baia sancisce così il «ruolo cruciale dell’omicidio nella fondazione di ogni società»28.

27 Sulla relazione tra violenza creatrice e conservatrice, si veda W. Benjamin, Per la critica della violenza, Alegre, Roma 2010. 28 R. Girard, Des choses cachees depuis la fondation du monde, Bernard Grasset, Paris 1978, p. 184.

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6. Eterotopie Suspiria (Dario Argento, 1977)

Esse esprimono il loro piacere non con suoni che periscono e con parole che si disperdono, ma con segni in cielo, con mutamenti sulla terra, con palpiti in fiumi segreti: blasoni dipinti sulla tenebra e geroglifici tracciati sulle tavolette del cervello. Suspiria De Profundis (Thomas de Quincey, 1845)

Suspiria è il primo film horror di Dario Argento, anche se «tutto il thriller argentiano è ampiamente fecondato da elementi orrorifici»1. L’apertura al fantastico e al soprannaturale libera «lo sguardo e la narrazione dalle costrizioni e convenzioni razionali del giallo»2 e ne rappresenta contestualmente l’evoluzione logica nel momento della crisi del genere. Suspiria è un film introduttivo al cinema successivo di Argento, sospeso tra la permanenza in un clima tardo moderno, «manierista» e la proposta di un’embrionale esperienza cinematografica postmoderna3. Scritto da Daria Nicolodi e Dario Argento, il film narra dell’arrivo di Susy Bannon (Jessica Harper) a Friburgo per frequentare la Tanz Akademie, diretta da Madame Blanc (Joan Bennet) e Miss Tanner (Alida Valli). Poco dopo il suo arrivo, due studentesse dell’accademia, Pat e Sonia, sono brutalmente assassinate. Susy, a seguito di un malessere, troverà alloggio nei locali della scuola di danza e stringerà amicizia con un’altra allieva, Sara (Stefania Casini). In una piazza cittadina, Daniel (Flavio Bucci), collaboratore dell’accademia, muore sbranato 1 R. Menarini, Dal thriller all’horror. Tra modernità, postmodernità e manierismo, in L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento, a cura di G. Carluccio, G. Manzoli e R. Menarini, Lindau, Torino 2003, p. 36. 2 G. Carluccio, Poetica dell’erranza, Flâneries, architetture, percorsi della visione, in Carluccio, Manzoli, Menarini, L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento cit., p. 58. 3 Per un’introduzione ad Argento cineasta manierista, si veda Menarini, Dal thriller all’horror. Tra modernità, postmodernità e manierismo cit.

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dal suo cane-guida. Sara comprende che le insegnanti nascondono un segreto ed è assassinata nei locali della scuola. Susy, che la crede scomparsa, va alla sua ricerca, scoprendo che la scuola è in realtà un covo di streghe, retto da Helena Markos. Nel finale, Susy uccide la Markos, ponendo fine al dominio occulto della congrega. Il titolo è debitore di Suspiria De Profundis (1845) di Thomas de Quincey, al quale si deve la suggestione che darà vita alla cosiddetta «trilogia delle tre madri» (composta, oltre che da Suspiria, da Inferno, 1980, e La terza madre, 2007)4. Suspiria è stato inoltre accostato a Mine-Haha ovvero Dell’educazione fisica delle fanciulle (1901) di Frank Wedekind, la cui data di prima pubblicazione in Italia (il 1975) per i tipi di Adelphi sembra invitare a una più attenta considerazione di questa fonte5. Da Wedekind il film riprende il microcosmo chiuso di una scuola dedicata all’educazione del corpo, la giovane età delle allieve e la loro progressiva scomparsa, la punizione nei confronti di chi trasgredisce, il malessere della protagonista, la metafora del passaggio da un mondo «materno» e pre-sociale a un mondo adulto. Suspiria è una fiaba nera, in cui i temi del «mostruoso-materno» e dei «luoghi proibiti» invitano a considerare tra le sue fonti di ispirazione fiabe quali Barbablù (il tema della curiosità femminile, le uccisioni di giovani donne) e Biancaneve – in particolare l’adattamento di Walt Disney (Snow White and the Seven Dwarfs, 1937), fin dalla forte rassomiglianza tra la Harper e la Biancaneve disneyana. Suspiria «è una favola. Mi sono ispirato a Biancaneve e i sette nani come stile, impianto narrativo ecc. Biancaneve, pura e vittima della strega cattiva è per adulti, non per bambini». Argento concepì inizialmente delle bambine come protagoniste, per poi piegare la recitazione e le scenografie per mantenere tale idea: «ho fatto comportare le attrici come se fossero delle bambine. Le porte hanno delle maniglie alte. Le stanze delle ragazze sono come quelle dei bambini con i mobili piccoli»6. 4 L’ispirazione proviene dalla sezione del libro intitolata Levana and our Ladies of Sorrow in cui l’io narrante introduce e descrive le tre madri: Mater Lacrimarum, Mater Suspiriorum e Mater Tenebrarum. 5 «Dario Argento dice d’essersi ispirato, per Suspiria, a una fiaba di Wedekind» citato in G. Grazzini, in «Corriere della Sera», 5 febbraio 1977; «Chissà se Dario Argento ha mai letto quel bel racconto di Frank Wedekind intitolato Mine-Haha, dove si descrive una fiabesca e terrificante scuola di ballo per fanciulle? Se è così, in Suspiria ne ha dato una versione alla Hitchcock, ma parossistica e survoltata», T. Kezich, Il nuovissimo Mille film. Cinque anni al cinema 1977-1982, Mondadori, Milano 1983. 6 Il cinema secondo Dario Argento, a cura di G. Lucantonio, in Carluccio, Manzoli, Menarini, L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento cit., p. 17. In questa direzione, più

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Gli esterni sono girati a Monaco di Baviera e gli interni (inclusa la ricostruzione della facciata della Haus zum Walfisch di Friburgo) presso gli studi Incir-De Paolis tra l’estate e l’autunno del 1976. Suspiria esce nelle sale italiane il 1° febbraio del 1977. Pur non raggiungendo i numeri di Profondo rosso, l’incasso in Italia è tra i migliori della stagione, attestando una fedeltà del pubblico dei cinema di prima visione al «marchio» di Argento, «maestro del brivido» e «regista del terrore» in grado di condurre nelle top ten degli incassi generi come il thriller e l’horror, complessivamente poco popolari e amati dal pubblico italiano7. All’estero ha una buona distribuzione, negli Stati Uniti è fatto circuitare dalla Fox con ottimi riscontri di pubblico. In Giappone assume ben presto lo statuto di film di culto, imponendo a Profondo rosso che uscirà solo successivamente nelle sale giapponesi il titolo di Suspiria part 2. A partire da Suspiria, il cinema di Argento sarà «censito regolarmente […] nelle riviste di categoria americane e inglesi, e dalla critica specialistica francese»8. In Italia Suspiria viene «massacrato dalla critica […] per la prima volta si erano uniti il pubblico e la critica, entrambi contro di me, contro un film che certo era bizzarro – era un film sulle streghe, non era un film tanto “normale”»9. Forse l’unico a comprenderne nell’immediato la tensione verso il postmoderno è Giovanni Grazzini, che dalle pagine del «Corriere della Sera» scrisse di «tecnologia degli spaventi» e di «macchina di prodigi», di ritorno alle «radici fantastiche del cinema, facendo leva sul colore e sul sonoro», di «effetti […] immediati» in «un racconto assolutamente inverosimile»10. Grazzini colse come elementi innovativi ciò che altri indicarono come «tare strutturali»11. Nel dicembre del 1976 la Rai dedica una trasmissione al making off di Suspiria. Argento è colto dalle cineprese televisive durante il studiosi e cultori del cinema di Argento hanno evidenziato l’aderenza ai modelli folklorici della fiaba. Si veda, in particolare, M. MacDonagh, Broken Mirrors/Broken Minds. The Dark Dreams of Dario Argento, Sun Tavern Fields, London 1991. 7 «settimo incasso assoluto e quarto italiano nella stagione 1976-77, Suspiria, che, nei soli capi-zona, incassa 1,2 miliardi di lire», F. Montini, La fortuna al box-office, in Argento vivo. Il cinema di Dario Argento tra genere e autorialità, a cura di V. Zagarrio, Marsilio, Venezia 2008. p. 65. 8 G. Lucantonio, La fortuna critica in Italia e all’estero, in Carluccio, Manzoli, Menarini, L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento cit., p. 213. 9 Il cinema secondo Dario Argento cit., a cura di Lucantonio, p. 30. 10 G. Grazzini, in «Corriere della Sera», 5 febbraio 1977. 11 Si veda C. Bisoni, Dal rifiuto alla celebrazione. Dario Argento e la critica, in Argento vivo. Il cinema di Dario Argento tra genere e autorialità cit., a cura di Zagarrio.

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missaggio, la sua figura si staglia davanti allo schermo sul quale è proiettata una sequenza del film, Argento ne recita le battute, ne dirige l’andamento come un direttore d’orchestra, fondendo e immergendo il proprio corpo in un ambiente inondato di immagini e suoni. Suspiria può essere candidato ad avamposto sperimentale e imperfetto di un postmoderno ancora nebuloso (che include ma non si esaurisce o equivale in toto a ciò che in seguito sarà codificato come cinema postmoderno), dimensione di cui costituisce un’esperienza e una forma embrionali. Un primo elemento riguarda l’inserimento dello spettatore in un’esperienza audiovisiva immersiva. In Suspiria il regime narrativo del giallo, posto a contatto con il dominio del soprannaturale, è minato fin dalla sua base comunicativa. Un processo di erosione della narratività e del piano espressivo verbale iniziato con il primo thriller moderno italiano (Bava) ed ereditato da Argento. L’ingresso nel mondo di Suspiria (la lunga ouverture che va dall’arrivo all’aeroporto di Susy al duplice omicidio di Pat e Sonia) si svolge all’insegna di un «sovraccarico sensoriale» che «rivela un cinema che agisce sulla percezione dello spettatore con eccitazione e massima stimolazione»12, al quale fa da contraltare «una sorta di afasia o di sfiducia nella comunicazione verbale» che punteggerà l’intero film13. Salita a bordo di un taxi all’uscita dell’aeroporto, Susy ha difficoltà a far comprendere all’autista l’indirizzo di destinazione («Escherstrasse», «Cosa?», «Escherstrasse», «Cosa?», «Ah! Escherstrasse!»). Giunta alla Tanz Akademie, incrocia sulla soglia del portone d’ingresso Pat, una giovane allieva impaurita e sconvolta, che prima di fuggire pronuncia alcune parole che pioggia e tuoni rendono incomprensibili. Susy cercherà di varcare senza successo il «portale» dell’accademia non ottenendo ascolto dall’interlocutrice che le risponde al citofono. Pat, raggiunta Sonia nel suo appartamento, le confessa che è inutile spiegarle ciò che di incomprensibile e assurdo le è accaduto. Poco dopo Sonia, nel bagno J.-B. Thoret, Il cinema attraverso la pelle, in Carluccio, Manzoli, Menarini, L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento cit., p. 91. 13 L. Jullier, Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino 2006, p. 119. La messa in discussione del linguaggio verbale trova ancoraggi e addensamenti diffusi lungo tutto il tessuto del film: dalla regressione a un linguaggio infantile delle allieve al silenzio della cuoca e del figlio; dal mutismo dell’inserviente alla telefonata interrotta con Frank. La perdita della parola, l’ambiguità della comunicazione verbale e degli strumenti di comunicazione sono un leitmotiv del cinema di Argento. Sono stati interpretati in chiave psicoanalitica (lacaniana) da X. Mendik, Transgressive Drives and Traumatic Flashbacks, Dario Argento’s «Tenebrae» (Unsane, 1982), in «Kinoeye», 2002, 12. 12

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dove sarà aggredita, fraintende le richieste dell’amica, limitandosi a descrivere le immediate sensazioni ed emozioni («ho avuto paura»). Il tentativo di Sonia di forzarla a parlare la induce al silenzio e preannuncia l’ingresso sul piano sonoro di sussurri inquietanti e indecifrabili14. La parola è soggetta a una subordinazione informativa e simbolica rispetto ai cromatismi, alla musica, ai rumori che dominano l’ouverture del film15. Argento definì Suspiria un’«opera rock», ovvero «una nuova forma di cinema, non ancora molto ammessa e che si potrebbe chiamare rock cinema. […] Cinema febbrile e popolare, mette in gioco il perverso e l’irrazionale, l’irrealismo e l’emozione diretta. Ma, naturalmente, tutto questo è prima di tutto e soprattutto un gioco». La dichiarazione appare una sorta di manifesto di un cinema di là a venire e al contempo lascia trasparire un desiderio di ritorno a uno spazio sperimentale, aperto, in cui poter «giocare» con tecnologie, sensazioni e immaginari. La malìa per la tecnica di Argento si estende in Suspiria all’intero tessuto del film, in particolare per opera della sperimentazione sul sonoro (con il gruppo di musica progressive Goblin e con l’ingegnere del suono Federico Savina) e sul colore (con Luciano Tovoli, direttore della fotografia). Per la prima volta Argento sperimenta un suono stereofonico registrato su quattro tracce magnetiche separate, il cui tessuto complesso e stratificato è posto in primo piano, dedicandovi grande attenzione in fase di missaggio. Per il formato di ripresa Argento e Tovoli convergono sul TechnoVision già utilizzato in Profondo rosso, formato anamorfico in grado di accordare le proporzioni dello schermo (1 : 2,35) alla dimensione avvolgente del sonoro stereofonico16. Il sonoro di Suspiria sarà diffuso nella maggior parte delle sale (non ancora adeguate alla 14 Il particolare da ricordare come elemento risolutivo dell’intreccio giallo e il suono acusmatico inquietante e spaventevole sono tipici del cinema di Argento. 15 È interessante notare che tale disposizione è coerente con una condizione infantile, se non pre-linguistica (altro tratto ricorrente del film), in cui la sovrastimolazione si oppone a una sottostimolazione dell’alfabetismo. Si veda M. Jousse, L’antropologia del gesto, Edizioni Paoline, Roma 1979 (ed. or., L’Anthropologie du geste, 1969). 16 L’italo-francese TechnoVision, commercializzato negli anni settanta da Henryk Chroscicki, erede del Totalvision e del TotalScope e originato in prima istanza dall’Hypergonar di Chretien, è un sistema di lenti in grado di garantire alta qualità e alta definizione dell’immagine a base anamorfica. È il sistema preferito da Storaro e dal primo Luc Besson. Il suono magnetico stereofonico impiegato in Suspiria non avrà diffusione anche se scorre parallelamente all’affermazione del sistema Dolby Stereo a seguito del grande successo di Guerre stellari (Star Wars, George Lucas, 1977).

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stereofonia) attraverso una più tradizionale colonna ottica monoaurale, ciò non toglie che la versione «integrale» di Suspiria prevedesse un’esperienza audiovisiva ancorata a un dispositivo tecnologico ben specifico, immersivo e avvolgente (schermo e sala panoramica, impianto stereofonico), «predisposto» alla realizzazione di veri e propri spettacoli performativi, come nel caso della proiezione organizzata in Giappone in collaborazione con la Sony utilizzando degli impianti di diffusione stereofonica. A sua volta, il colore avrebbe dovuto «trasportare gli spettatori nel mondo di Suspiria» attraverso il distacco da princìpi naturalistici17. Come ha ben sintetizzato lo stesso Tovoli, «un film horror porta alla superficie alcune delle paure ancestrali che si nascondono dentro di noi, Suspiria non avrebbe avuto la stessa funzione catartica se avessi utilizzato la pienezza e dolcezza consolatoria dello spettro completo. Per rendere immediatamente Suspiria una totale astrazione da ciò che chiamiamo “realtà quotidiana”, ho usato i colori primari solitamente rassicuranti solo nella loro essenza più pura, rendendoli immediatamente, sorprendentemente violenti e provocatori». L’irrealismo e l’emozione diretta ricercati da Argento inducono Tovoli ad abbandonare il «credo» ereditato da Néstor Almendros in una resa realistica della luce, un allontanamento dal naturalismo fotografico che Tovoli aveva avviato con Professione: reporter (Michelangelo Antonioni, 1975), forzando il negativo verso la sovraesposizione e la conseguente «bruciatura» dei dettagli: «in un certo senso, è quello che ho fatto con Suspiria, ma a un livello molto più alto, “sovraesporre” attraverso l’intensità di un colore specifico in una specifica inquadratura, con il negativo (Eastman 5254) attentamente esposto al centro della curva. Ho utilizzato questa tecnica su ogni inquadratura del film». Le riprese si svolgono nel segno di un’illuminazione intensa ed eccessiva degli spazi e degli attori, orientata alla sovraesposizione e alla saturazione. Regista e direttore della fotografia decidono di riscrivere ancora la gamma cromatica utilizzando il processo di separazione colore del Technicolor in fase di sviluppo dei negativi e stampa dei posiPer una suddivisione degli spazi in base alla resa fotografica, si vedano G. L. Giusti, Expressionist Use of Colour Palette and Set Design in Dario Argento’s «Suspiria» (1977), in «Cinergie», 2013, 4; A. Horrocks, «Suspiria: Magic is Everywhere», in «Necronomicon», Book 4, Noir Publishing, Hereford 2001; L. Schulte-Sasse, The «Mother» of all Horror Movies. Dario Argento’s «Suspiria» (1977), in «Kinoeye», 2002, 11. 17

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tivi, agendo inoltre sulla modifica dei filtri di separazione colore per ottenere invece il contrario, uno spargimento dei colori. Lo scopo è di utilizzare il «leggendario processo di stampa dye-transfer del Technicolor come passo finale di intensificazione e accrescimento del regno stregato di Suspiria»18. Il risultato è un mondo «interamente costruito attorno alla presenza invasiva e divorante del colore […] il colore insorge in immagine, riversandovi tutta la sua forza trasfigurante»19. In definitiva, «il concetto estetico in Suspiria non era mai di sottrarre, ma di aggiungere»20, un’idea di immagine «additiva», di affastellamento e saturazione che trova piena corrispondenza nel missaggio sonoro e nelle architetture e nel décor elaborati dallo scenografo Giuseppe Bassan. Nel mondo di Suspiria, il colore è immagine, in completa antitesi rispetto a un’immagine «sottrattiva», riproduttiva e mimetica della realtà21. Il dominio dell’orrorifico e del traumatico inizia così su un piano pragmatico, un piano della ricezione in termini strettamente percettivi. Il cinema di Argento inizia nei sensi, «un cinema di sinestesie e di sollecitazioni sensoriali»22. Argento dà vita a un’«immagine-seduttiva», immerge «lo spettatore nel cuore stesso del film, delle sue immagini, ma prese nella loro materialità. Come se si trattasse di connetterlo direttamente con il sistema nervoso delle immagini, considerate come organismi viventi. Non davanti ad esse, ma dentro esse». Suspiria diviene così uno «spettacolo totale, inglobante e panottico»23 e in quest’ottica il set design elaborato da Bassan e Argento, ispirato a una commistione predominante di art nouveau e art déco, reitera il progetto estetico di opera d’arte totale alla base del film. Le sequenze del duplice assassinio di Pat e Sonia e dell’omicidio di Sara sono in questo senso emblematiche. In particolare, nella seconda ai colori è affidato il compito di raccontare la suspense e il terrore: «il 18 S. Manders, Terror in Technicolor, Luciano Tovoli, Recalls His Visual Strategies for the 1977 Horror Classic Suspiria, in «American Cinematographer», febbraio 2010, pp. 68-72. 19 L. Venzi, Qualcosa di rosso. Il colore, in Argento vivo. Il cinema di Dario Argento tra genere e autorialità cit., a cura di Zagarrio, p. 224. 20 Manders, Terror in Technicolor, Luciano Tovoli, Recalls His Visual Strategies for the 1977 Horror Classic Suspiria cit., p. 72. 21 Jullier, Il cinema postmoderno cit., in particolare pp. 37-8. 22 G. Manzoli, Il trauma e la trama, in Carluccio, Manzoli, Menarini, L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento cit., p. 40. 23 Thoret, Il cinema attraverso la pelle cit., pp. 89-90. Si veda, inoltre, l’accostamento tra il modo di rappresentazione della fantasmagoria e il cinema di Argento avanzato in Manzoli, Il trauma e la trama cit., in particolare pp. 40-7.

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rosso […] è l’aggressione e pericolo, il sangue che l’inseguitore sconosciuto presto costringerà fuori dal vostro corpo con il suo coltello. Il blu è la terribile condanna a morte già pronunciata e un sinistro mondo di morte. La delicata colorazione arancione della piccola finestra […] è l’illusione momentanea di sicurezza. […] Poi c’è il brillante blu metallico del filo spinato, come una pianta carnivora che ti catturerà e digerirà per sempre»24. Mentre a un livello essenziale, ontologico, «i colori esposti non sono qui lavorati in funzione espressivo-simbolica, vale a dire non rappresentano le forze maligne che infestano le case infernali; più propriamente essi sono quelle stesse forze, ne costituiscono la più pregnante e oscura manifestazione»25. La compenetrazione tra la sovrastimolazione sensoriale e l’imagerie orrorifica trova fondamento nel sublime romantico. Argento con Suspiria rielabora e radicalizza il cinema horror e thriller italiano post-’68 fondato sull’estetica dell’omicidio. L’estetica della violenza e dell’assassinio di derivazione romantica si basa infatti sull’ingresso del piano della percezione e della ricezione nell’orizzonte di elaborazione e significazione dell’opera d’arte26. In altre parole, in Suspiria il sublime, prima ancora di articolarsi sul piano tematico-narrativo e formale (l’imagerie orrorifica gotica e grandguignolesca), si manifesta e investe lo spettatore a partire dalla materialità dell’esperienza audiovisiva. La tematica soprannaturale dà infatti la possibilità ad Argento di smarcarsi dal soggetto psicopatologico al centro del giallo e di ricondurre l’origine dell’orrore a una dimensione sovrumana. La stregoneria tuttavia non è il punto d’arrivo ma è a sua volta strumento di un’inedita collocazione e definizione del mostruoso. Lo scioglimento dell’intreccio passa attraverso l’immagine. Il riconoscimento della decorazione (l’iris blu) come segno cromatico e chiave di accesso all’antro segreto delle streghe27 è preludio all’incontro con Helena Markos, la cui figura, un profilo luminoso, è resa visibile da un lampo. L’epifania della Mater Suspiriorum «dipana la vera trama del film: da dove (e da chi) provengono tutti i suoni (sospiri, gemiti mescolati alla musica) che attraversano ogni sequenza omicida. La sin24 Manders, Terror in Technicolor, Luciano Tovoli, Recalls His Visual Strategies for the 1977 Horror Classic Suspiria cit., pp. 75-6. 25 Venzi, Qualcosa di rosso. Il colore cit., p. 228. 26 Thoret, Il cinema attraverso la pelle cit. 27 Venzi, Qualcosa di rosso. Il colore cit., p. 228.

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golarità di Suspiria risiede nella collocazione dell’assassino nel film: da qualche parte entro le immagini. Susy non è prigioniera di una scuola di danza, ma di un film»28. Detto altrimenti, Suspiria individua nello stesso dispositivo la fonte dell’orrore. Il ritorno alle «radici fantastiche del cinema» e l’accostamento alle attrazioni fieristiche evidenziate dalla critica all’uscita del film coglievano un dato fondamentale che spiega altresì quanto appena delineato. È stato notato che «il cinema di Dario Argento si situa nello stesso tempo vicino alla sperimentazione e al cinema delle origini»29, ovvero abita luoghi in cui è possibile esibire ed esperire tanto il senso di «stupore» (di fronte alla novità e al fascino di una nuova tecnologia) quanto la sensazione «perturbante» (di emersione di credenze primitive di carattere magico e animista soggiacenti quella stessa tecnologia) correlate al dispositivo cinematografico30. La dialettica tra lo stupefacente e il perturbante è alla base dell’intreccio tra sperimentalismo e tematiche soprannaturali che percorre e struttura l’intero film. Un secondo elemento di raccordo con la condizione postmoderna riguarda l’identità topologica dell’universo di Suspiria. Argento costruisce degli spazi mentali, organici, delle meta-architetture e dei «metaspazi contenuti in décor, quadri, opere d’arte, mondi dentro il mondo»31. La geografia e l’architettura di Suspiria rientrano appieno in questo modello. A partire da una matrice gotica, addensa suggestioni e citazioni figurative, architettoniche, cinematografiche dichiarate o riscontrabili (l’art nouveau, in particolare lo Jugendstil tedesco e il Secessionismo austriaco, l’art déco, le sperimentazioni fotografiche di Ernst Haas sul colore, Escher, l’espressionismo cinematografico, dal caligarismo a Il bacio della pantera di Tourneur, Disney, Bava). La tendenza di Argento a rielaborare luoghi reali e spazi ricostruiti che restituiscono un unico, complessivo territorio, trova qui un’applicazione al massimo grado, all’insegna dello spaesamento e del disorientamento del personaggio. Il personaggio principale dei film di ArgenJ.-P. Lancon, Les Toiles du cauchemar. Suspiria de Dario Argento, http://www.objectif-cinema.com/analyses/066.php, ultimo accesso 29 marzo 2014. 29 Ibid., p. 81. 30 T. Gunning, Re-newing Old Technologies: Astonishment, Second Nature and the Uncanny in Technology from the Previous Turn-of-the-Century, in Rethinking Media Change: The Aesthetics of Transition, a cura di D. Thorburn, H. Jenkins e B. Seawell, Mit Press, Cambridge 2003. 31 Carluccio, Poetica dell’erranza, Flâneries, architetture, percorsi della visione cit., p. 58. 28

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to «è spesso uno straniero che proviene da uno spazio altro […] letteralmente un nomade, uno spostato»32. In questo senso il non-luogo dell’aeroporto e ancor prima la voce over che introduce la vicenda sui titoli di testa appaiono come la cifra introduttiva di questo spaesamento del soggetto33. Il momento risolutivo dell’intreccio del film corrisponde alla scoperta della dimora di Helena Markos. Susy, entrata di nascosto nello studio di Madame Blanc per indagare sulla misteriosa scomparsa di Sara, coglie riflesso nello specchio un particolare inserito nella parete decorata alle sue spalle, ispirata a Relatività (1953) di Escher: tre iris colorati che le fanno ricordare le parole pronunciate all’inizio del film da Pat («Il segreto. L’ho visto dietro alla porta. I tre iris. Gira quello blu»), permettendole così di accedere all’antro delle streghe. Nel giallo argentiano il motivo del particolare da ricordare (solitamente un dettaglio visivo o di altro ordine) è un motivo ricorrente. In Suspiria diviene al contempo l’elemento chiave di decifrazione dell’organizzazione dello spazio. La struttura interna della Tanz Akademie è stata ricondotta al «labirinto manierista» descritto da Eco e i rimandi al labirinto sono d’altra parte ricorrenti nel film e suggeriti dallo stesso Argento34. Il labirinto multicursale è un simbolo centrale nel manierismo che nel film di Argento trova una specifica rivisitazione attraverso la citazione della celebre litografia di Escher35. La Relatività di Escher è considerata un’opera di transizione, tanto di rielaborazione anamorfica e manierista di forme e regimi prospettici tradizionali quanto di identificazione di uno spazio complesso, fondato sulla compresenza di molteplici realtà e punti di vista differenti. La parete escheriana è stata colta come evidenza di una «transizione tra il mondo reale e il mondo occulto. L’indebolimento della legge di graviIbid., p. 55. La sovrastimolazione sensoriale e il motivo dello spaesamento rispecchiano in pieno i caratteri che secondo Vattimo, sulla scia di Benjamin e Heidegger, definiscono lo shock come espressione ultima e residuale dell’esperienza estetica tardo-moderna: da un lato lo shock è caratterizzato da una «mobilità e ipersensibilità dei nervi e dell’intelligenza» cui «corrisponde un’arte non più centrata sull’opera ma sull’esperienza», dall'altro si esprime attraverso «la nozione di Stoss: cioè lo spaesamento e l’oscillazione che hanno da fare con l’angoscia e l’esperienza della mortalità». G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, in particolare pp. 80-1. 34 Giusti, Expressionist Use of Colour Palette and Set Design in Dario Argento’s «Suspiria» (1977) cit. 35 G. R. Hocke, Il mondo come labirinto. Maniera e mania nell’arte europea dal 1520 al 1620 e nel mondo di oggi, Teoria, Roma 1989 (ed. or. Die Welt als Labyrinth, 1983). 32 33

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tà nella litografia di Escher descrive un mondo in cui la legge della scienza non ha valore»36. La metafora di un mondo soggiacente, alternativo al mondo reale, permea tutto il film: dalla reiterazione delle citazioni escheriane, alla funzione del colore e del sonoro, alle immagini riflesse. In particolare, subito dopo la scomparsa di Sara, Susy si reca al centro convegni alla ricerca di spiegazioni sull’identità delle vicende e della realtà che sta vivendo. Le risposte che lo psichiatra Mandel e il professor Milius forniscono al riguardo dell’esistenza delle streghe appaiono entrambe valide e sono apertamente in contrasto l’una con l’altra (la credenza nel magico e l’occulto come sintomo di una malattia mentale per lo psichiatra – le «menti infrante»; la stregoneria come forza e potere reale per Milius – «la magia è ovunque»)37. Lo spaesamento, il disorientamento e la difficoltà a comprendere lo statuto della realtà in cui si è immersi sono sintomi della collocazione del personaggio e dello spettatore nello spazio dell’eterotopia. A differenza delle utopie che consolano e delineano uno spazio meraviglioso, lineare, aperto e per nulla complesso o poco decifrabile, «le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa “tenere insieme” le parole e le cose»38. Lo spazio dell’eterotopia in Suspiria delinea in prima istanza un’azione erosiva e distruttiva39. 36 Giusti, Expressionist Use of Colour Palette and Set Design in Dario Argento’s «Suspiria» (1977) cit., p. 162. 37 Tradisce anche un’anfibolia metacinematografica: la spiegazione psichiatrica rimanda al giallo (il soggetto psicopatologico), mentre quella esoterica all’horror (inteso come regime di azione del sovrannaturale). 38 M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1978, pp. 7-8. 39 La topologia di Suspiria appare altresì costruita nel rispetto dei princìpi propri degli spazi eterotopici enucleati dallo stesso Foucault. Il potere delle streghe è colto nella sua universalità e al contempo risponde a una variabilità dell’interpretazione della sua natura, riassunta nelle posizioni di Mandel e Milius: «Psicosi e stregoneria […] emergono come i due lati della stessa moneta: la stregoneria assume la dimensione di un sistematico e diffuso accumulo di capitali e di una volontà di potere (“il loro obiettivo è quello di acquisire grande ricchezza personale”); la psicosi ha un potere distruttivo che assomiglia alla magia per la sua capacità di causare disastri nella vita reale», Schulte-Sasse, The «Mother» of all Horror Movies. Dario Argento’s «Suspiria» (1977) cit. La Tanz Akademie (e l’intero film) è assimilabile a un’istituzione totale retta dalla regolamentazione dell’entrata e dell’uscita e risponde a un principio di ambiguità funzionale (scuola di danza e congrega di streghe). Il film è connotato dalla compresenza di differenti dispositivi (l’accademia come istituzione totale, il centro convegni e l’aeroporto come non luoghi, la Königsplatz neo-classica e la Hofbräuhaus come

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Così connotato lo spazio dell’eterotopia offre un’ulteriore sponda a quella sorta di regressione pre-linguistica che abbiamo inizialmente identificato attraverso la subordinazione del linguaggio verbale. Ne approfondisce e ne alimenta il senso, agendo in concordanza con la specifica articolazione nel mostruoso-femminile che è all’opera in Suspiria. Nel cinema di Argento le madri-mostruose sono ricorrenti, trovando nella trilogia una raffigurazione in particolare del «mostro matriarcale». Miss Tanner e Madame Blanc sono incarnazioni della «donna in menopausa come mostro»40 e tanto in Suspiria quanto nel successivo Inferno ognuna delle madri risiede in un luogo apparentabile al «“grembo malvagio” della madre abietta»41. La costruzione della figura materna come abietta operata dall’horror rende il suo corpo un luogo di desideri conflittuali. Barbara Creed, riferendosi alla Kristeva, identifica in questo luogo un ricettacolo inquietante, occupato da impulsi contrastanti: lo spazio della chora. Tale spazio, come definito dalla Kristeva, è un luogo interstiziale tra l’esistenza e la non-esistenza, uno stato prossimo alla pura materialità dell’esistenza che avvolge i primi mesi di vita del neonato, uno stadio pre-linguistico in cui non vi è distinzione del sé rispetto allo spazio esterno, per primo dallo spazio materno e il cui superamento passa per l’abiezione. Al riguardo della spazio materno della chora (o khora), Kearney ha osservato che «per un essere umano il proprio sé in divenire deve rigettare questa matrice materna. […] L’ego liquida la khora come irrazionale e confusa, fin orripilante. […] Il soggetto umano, e in effetti la società stessa, dipendono per la loro esistenza dalla repressione di questo materno “corpo senza frontiere”. […] In altre parole, affinché emerga un soggetto la khora deve divenire abietta»42. Il dittico composto da Suspiria e Inferno «rinforza l’immagine stereotipata della strega come figura malvagia, distruttiva, mostruosa il cui scopo è la distruzione dell’ordine simbolico»43. La discesa di Susy luoghi simbolici della storia e della memoria) e dalla loro appartenenza a temporalità differenti (il presente diegetico; il 1895, anno della fondazione della scuola di danza; il periodo nazista simbolizzato dalla piazza, dalla birreria e dalle uniformi delle direttrici). 40 D. de Ville, Menopausal Monsters and Sexual Transgression in Argento’s Art Horror, in Cinema Inferno. Celluloid Explosions from the Cultural Margins, a cura di R. G. Weiner e J. Cline, Scarecrow Press, Lanham, Maryland-London 2010, pp. 67-8. 41 B. Creed, The Monstrous-Feminine, Routledge, New York 1993, p. 77. 42 R. Kearney, Strangers, Gods, and Monsters: Interpreting Otherness, Routledge, London 2004, p. 194. 43 Creed, The Monstrous-Feminine cit., p. 77.

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nelle profondità di uno spazio materno divenuto abietto si gioca quindi su un confine. L’ostentazione del cuore trafitto dalle coltellate, delle ferite impresse dal filo spinato, della carne lacerata e strappata dai morsi del cane e del cadavere di Sara, così come l’invasione di vermi come simbolo della putrefazione e del disfacimento della materia «non significano la morte […], rifiuti e cadaveri mostrano ciò che ho definitivamente ripudiato per vivere. Questi fluidi corporei, queste violazioni […] sono ciò che della vita resiste, a malapena e con difficoltà, sul versante della morte. Qui, sono al confine della mia condizione in quanto essere vivente»44. Nel finale, Helena Markos aggredisce Susy, ammonendola («tu stai per incontrare la morte, la morte vivente») e scagliandole addosso il corpo resuscitato di Sara armato di coltello. Susy, armata di una piuma del pavone di cristallo, incontra il suo doppio, riconosce attraverso questo confronto la soglia che divide il vivente dal non vivente, l’esistenza dalla non esistenza e uccide la Mater Suspiriorum, fuoriuscendo dallo spazio e stadio della chora. Al pari del confronto con la madremostruosa che conduce al collasso dell’edificio della Tanz Akademie e al suo precipitoso abbandono da parte di Susy, il distacco dallo spazio della chora si esprime attraverso «una violenta e sgraziata fuga»45. In secondo luogo, ancora più pregnante appare il ruolo assunto dall’eterotopia al termine della modernità e nello specifico in un dominio non più topologico o simbolico ma estetico. Sulla scia di Foucault, Vattimo ha assunto l’eterotopia come una dimensione caratteristica della postmodernità, uno scarto dall’unicità dell’utopia moderna alla molteplicità postmoderna, individuando in particolare nel motivo dell’ornamento la modalità espressiva che descrive appieno l’eterotopia e la molteplicità. L’ornamento è inteso come elemento in grado di superare il funzionalismo moderno e di procedere oltre i princìpi di utilità e verità nell’arte46. Colto in questa prospettiva, Suspiria appare ancora una volta istintivamente proiettato verso il postmoderno. L’intuizione di ArJ. Kristeva, Powers of Horror, Columbia University Press, New York 1982, p. 3. È anche ciò che Vattimo assume attraverso il concetto di Stoss, forma dello spaesamento in cui ci si misura con la propria mortalità. 45 Ibid., p. 13. 46 Vattimo, La società trasparente cit., si veda, in particolare, il capitolo «Dall’utopia all’eterotopia». Sulla riabilitazione del decorativo e dell’ornamento e sulla sua centralità nel postmodernismo, si veda C. Buci-Glucksmann, Filosofia dell’ornamento, Sellerio, Palermo 2010. 44

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gento, la ripresa dell’art nouveau come manifestazione più evidente di un’estetica ornamentale, esplicita il desiderio di sperimentare nuove soluzioni formali, seguendo le trasformazioni che l’estetica contemporanea andava attraversando, attratta nuovamente dal fascino delle pratiche d’avanguardia e animata da una certa tensione autoreferenziale. Un’allegoria decisa della diffusione crescente a fine anni settanta di una cultura audiovisiva immersiva in termini di esperienza ed eclettica nei riferimenti estetici e culturali. Un impulso al contempo simbolo di un ritorno alle origini, il decorativismo di inizio Novecento, in cui l’ornamento veniva accostato allo spreco e all’accumulo, alla decadenza intellettuale e alla degenerazione morale, allo sfruttamento e all’ingiustizia47.

A. Loos, Ornamento e delitto (Ornament und Verbrechen), 1908, ed. it. in A. Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 1972. La Königsplatz rivestirebbe, dunque, la funzione di rappresentare un luogo e un’arte non degenerati. Si veda in tal senso la lettura «politica» di Suspiria avanzata da Schulte-Sasse, The «Mother» of all Horror Movies. Dario Argento’s «Suspiria» (1977) cit. 47

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7. The Waste Land Zombi 2 (Lucio Fulci, 1979) Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno, una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta. Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano, e ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. (T. S. Eliot, La terra desolata. I. La sepoltura dei morti, 1922)1 L’uomo è malato perché è mal costruito. Bisogna decidersi a metterlo a nudo per grattargli via questa piattola che lo rode mortalmente, dio, e con dio, i suoi organi. Legatemi se volete, ma non c’è nulla che sia più inutile di un organo. (A. Artaud, Per farla finita con il giudizio di Dio, 1948)2

Zombi 2 di Lucio Fulci esce nelle sale italiane il 25 agosto del 1979. Il titolo è scelto dalla produzione per sfruttare il successo di Dawn of the Dead (George A. Romero, 1978), uscito con il titolo Zombi nell’edizione italiana curata da Dario e Claudio Argento3. Nato come prodotto di exploitation, conseguirà un buon risultato al botteghino e riscuoterà successo sui mercati mondiali. Zombi 2 è oggi un film di culto, un classico del cinema gore, ampiamente citato dal cinema contemporaneo4. La vicenda riconduce la figura dello zombi alle origini afro-caraibiche e alla tradizione coloniale attraverso la deriva da un epicentro riT. S. Eliot, The Waste Land, Liveright, New York 1922. A. Artaud, Per farla finita con il giudizio di Dio, Nuovi Equilibri, Roma 2000 (Pour en finir avec le jugement de dieu, 1948). 3 Per la ricostruzione delle vicende relative alla genesi del progetto e alla querelle con Romero e Argento, si veda P. Albiero - G. Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci, Un mondo a parte, Roma 2003. 4 A titolo esemplificativo: la celebre scena dell’occhio trafitto è stata recentemente ripresa in Grindhouse – Planet Terror (Planet Terror, Robert Rodriguez, 2007). 1 2

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conoscibile della modernità (New York) a un luogo primigenio, periferico e non segnato nelle mappe (l’isola immaginaria di Matul). Il racconto della genesi del contagio e la costruzione di una situazione preapocalittica fanno del film un prequel, più che un sequel apocrifo, del film di Romero. Il comunicato radiofonico finale che annuncia il caos a New York ha come ideale prosecuzione la sequenza iniziale di Dawn of the Dead ambientata nello studio televisivo di Pittsburgh. Il trucco del make up artist Giannetto De Rossi si discosta dal pallore dei morti viventi di Tom Savini5, dando «vita» a delle creature eccessive e barocche, una trasfigurazione dell’umano all’insegna della body art e del body horror. Le sequenze e le performance gore sono sadiche, eccessive e disturbanti, tanto che al film sarà riservato l’«onore» dell’inserimento nella lista ristretta dei film perseguiti nel Regno Unito dal Video Recordings Act del 1984. Fulci «nasce» artisticamente come artigiano eclettico nei generi più disparati, ricevendo nel corso degli anni sempre maggiori consensi6, in particolare proprio grazie all’horror. I registri della violenza e della crudeltà segnano più generi (storico, giallo, avventuroso, western) tra quelli affrontati nella sua ampia filmografia7. I suoi horror8 ricoprono un ruolo fondamentale nell’affermazione del gore e nell’evoluzione dell’horror moderno e della zombie culture, tanto da guadagnarsi una posizione preminente nelle analisi degli horror studies. Zombi 2 ha perciò un peso specifico considerevole nel percorso personale del regista (perché contribuisce a legittimarlo come autore)9 e nel cinema di 5 Si veda S. Thrower, Beyond Terror. The Films of Lucio Fulci, Fab, Guildford 1999, p. 32 («niente più che la pallida versione dei loro vecchi sé») e soprattutto la decisione di De Rossi di optare per un make up più impressionante rispetto agli «zombi pallidi» di Romero: si veda l’intervista al truccatore in Albiero - Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci cit., p. 355. 6 Si vedano le «interviste celibi» a Fulci curate da M. Garofalo, Uno, nessuno, cento Fulci, in «Segnocinema», 1993, 64; Una psicoanalista per compagna, in «Segnocinema», 1994, 65. 7 Fulci nasce come regista di commedie e di film comici tra la fine dei cinquanta e i sessanta; per ciò che ci interessa qui, si vedano altri titoli indicativi della presenza di sequenze crude ed efferate nel suo cinema: ad esempio Beatrice Cenci (1969), Non si sevizia un paperino (1972), Zanna Bianca (1973), I quattro dell’apocalisse (1975). 8 Si vedano tra gli altri i film horror realizzati immediatamente dopo Zombi 2, e in particolare la cosiddetta «trilogia della morte»: Paura nella città dei morti viventi (1980), …E tu vivrai nel terrore! L’aldilà (1981), Quella villa accanto al cimitero (1981). 9 Fulci autore sarà ben presto etichettato «poeta del macabro», «cineasta artaudiano» e «padre del gore». Su Fulci, oltre ai già citati testi di Thrower, Albiero e Cacciatore, si vedano A. Bruschini - A. Tentori, Lucio Fulci. Il poeta della crudeltà, Mondo Ignoto, Roma 2004; A. Chianese - G. Lupi, Filmare la morte. Il cinema horror e thriller di Lucio Fulci, in «Il Foglio Letterario», Piombino 2006.

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genere tout court, essendo ritenuto il primo zombie movie italiano. Il primato ha spinto a ricercare tanto i motivi della latitanza quanto le manifestazioni anteriori dei living dead nel nostro cinema, come il Joseph Seignoret rianimato de I vampiri, personaggio certamente minore, comunque significativo in questa prospettiva10. Il successo internazionale del film – insieme alla fortuna degli zombie di Romero – apre la strada agli zombie movies italiani, come chiaramente dimostra l’immediato riciclo dello stesso film di Fulci da parte di Zombie Holocaust (Marino Girolami, 1979). Zombi 2 è un film di avventura, un horror e un western. Dardano Sacchetti (sceneggiatore con Elisa Briganti) racconta che il produttore Gianfranco Couyoumdjian, incuriosito da una storia di Tex, gli chiese se fosse possibile realizzare un western con gli zombi; gli autori contro-proposero un film avventuroso con gli zombie11. In effetti più che con Tex, la vicenda, e in particolare l’assedio, sembra avere dialogato con un altro fumetto bonelliano, Zagor, e in particolare con la storia in quattro parti Vudu! (Tempesta su Haiti) datata 1973 e ristampata a inizio 197812. Il film ritorna alle origini coloniali ed etnografiche della figura con un occhio alla prima ondata di zombie movies americani, apparsi fra gli anni trenta e quaranta a partire da White Zombie (Victor Halperin, 1932)13; pellicole influenzate da pubblicazioni come il travelogue di William B. Seabrook, The Magic Island14 (1929) e comprensibili in reSi veda D. Totaro, The Italian Zombie Film: From Derivation to Reinvention, in Fear without Frontiers. Horror Cinema across the Globe, a cura di S. J. Schneider, Fab Press, Godalming 2003, e B. O’Brien, Vita, amore, e morte, and a Lots of Gore: the Italian Zombie Film, in Zombie Culture. Autopsies of the Living Dead, a cura di S. McIntosh e M. Laverette, Scarecrow Press, Lanham (Md) 2008. Come testo di riferimento per una ricognizione del morto vivente e del cannibalico nel cinema italiano tra anni sessanta e settanta, si prenda J. Slater (a cura di), Eaten Alive! Italian Cannibal and Zombie Movies, Plexus, Medford (Nj) 2002. 11 Dardano Sacchetti intervista in La notte americana del dottor Lucio Fulci (a cura di Antonietta De Lillo, 1994). 12 Scritta da Guido Nolitta (Sergio Bonelli), fu pubblicata in quattro parti nel 1973 (All’ultimo sangue, n. 92; Vudu!, n. 93; La notte dei maghi, n. 94; Zombi!, n. 95) e ristampata tra il gennaio e l’aprile del 1978. L’analogia tra le tavole che raccontano l’assedio finale (in Zombi!, n. 95) e il medesimo finale nel film di Fulci, al di là della comune discendenza dall’iconografia e la narrativa western, è decisamente forte e suggestiva. 13 Albiero - Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci cit. 14 W. B. Seabrook, The Magic Island, Paragon House, New York 1929. Si veda, tra molti, G. Phillips, White Zombie and the Creole: William Seabrook’s The Magic Island and American Imperialism in Haiti, in Generation Zombie. Essays on the Living Dead in Modern Culture, a cura di S. Boluk e W. Lenz, McFarland & Co, Jefferson (Nc) 2011. 10

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lazione al più ampio contesto dell’occupazione coloniale di Haiti da parte degli Stati Uniti tra il 1915 e il 1934. Il dialogo tra i filoni cannibal e zombie italiani e il cinema (fanta-avventuroso ed etnografico) classico è evidentemente fitto negli anni settanta ed esteso a molto cinema di avventura del periodo. Un altro titolo (oltre a White Zombie) accostabile al film di Fulci è The Island of the Lost Souls (1932), tratto da The Island of Doctor Moreau di H. G. Wells (1896), romanzo che sarà adattato nuovamente proprio durante gli anni settanta in due versioni: The Twilight People (Eddie Romero, 1972) e The Island of Dr. Moreau (Don Taylor, 1977). A partire dalla matrice avventurosa, Fulci mutua aspetti ed elementi da altri filoni horror del periodo. Il più evidente apparentamento è con il cannibal, sotto-genere dal quale lo zombie movie italiano del periodo discende e con cui non di rado si interseca. Con il cannibal condivide l’ambientazione esotica, l’atto di cibarsi di carne umana e le medesime preoccupazioni sociali e simboliche dettate dall’incontro con un’alterità antropologica15. Mentre la componente sadica e voyeuristica tipica dello slasher del periodo si condensa nella sequenza dell’uccisione della moglie del dottor Menard, che culmina nella penetrazione dell’occhio della donna con una scheggia di legno. Esclusa la sequenza appena citata, la dimensione erotica è invece contenuta e la sua marginalità è compensata dal film erotico/pornografico girato in parallelo dalla troupe nel backstage del film di Fulci16. Il crossover che inscena la lotta tra lo squalo e lo zombie (una sequenza subacquea filmata dall’operatore Ramón Bravo, che fu anche collaboratore di Bruno Vailati) è un inserto voluto dalla produzione che «immerge» in un unico ambiente l’orrore «alto» del blockbuster spielberghiano e l’orrore «basso» dell’exploitation17, portando alla luce una certa vocazione postmoderna del film, interessato a mostrare più che a raccontare e in definitiva poco preoccupato della credibilità del racconto. Nella sequenza zombie/squalo si è ravvisata inoltre una connessione con gli inserti documentari dei film cannibal. In questa direzione, l’insistenza «sadica» di Fulci sui momenti gore sarebbe in15 G. Galliano - D. Aramu, Bon Appetit. Guida al cinema cannibalico, «Dossier Nocturno», 2003, 12. 16 Si tratta di Sesso Profondo (Girolami, 1979). Si veda l’intervista a Sergio Salvati in Albiero - Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci cit., p. 349. 17 Realizzato grazie alla collaborazione con il Rene Cardona Jr. di Tintorera (Id. 1977), film di sfruttamento di Lo squalo (Jaws, Steven Spielberg, 1975).

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terpretabile come «una sorta di disposizione documentaria nella rappresentazione dell’omicidio»18. Il lato ludico e di coinvolgimento sensoriale è esplicitato d’altronde fin dalla prima inquadratura, in cui la pistola riempie lo schermo e spara verso il pubblico. Il colpo di pistola in camera – che evoca la celebre inquadratura di The Great Train Robbery (E. S. Porter, 1903) – ricorre più volte nel film ed è un’interpellazione già utilizzata da Fulci nel western I quattro dell’apocalisse (1975). Il western, dello stesso Fulci in particolare (Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro, 1966; I quattro dell’apocalisse), lo ritroviamo in diverse suggestioni (la terra desolata e in rovina del villaggio e della chiesa-ospedale, attraversata da animali, zombie e velata dalla polvere mossa dal vento) e in tutta la sequenza finale dell’assedio. Nel finale di Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro19 l’inquadratura del corpo di Junior riverso a terra con il capo sanguinante, stagliato sul fondo bianco della colombaia, troverà pieno sviluppo in Zombi 2 nei corpi avvolti nei sudari macchiati di sangue e gettati nella fossa comune imbiancata dalla calce. E i protagonisti dei western fulciani oscillano tra i personaggi «erranti» de I quattro dell’apocalisse e Zanna Bianca (1973) e il Corbett «morto vivente» di Le colt cantarono la morte e fu… tempo di massacro. Zombi 2, sospeso tra il recupero di archetipi e racconti letterari e cinematografici risalenti agli anni venti e trenta, il fumetto e il film d’avventura, il western, si presta ad altre considerazioni e letture. Zombi 2 è stato interpretato come «il più importante zombie film europeo a offrire una critica del mito zombie colonialista […] una revisione postcoloniale di Dawn of the Dead»20. È d’altro canto stato lo stesso Fulci a riconoscere che uno dei motivi di fascino di un film su un’isola degli zombie consisteva nel mettere in scena il luogo «dove nasce il potere»21 e due luoghi del film – il cimitero dei con18 S. Baschiera - F. Di Chiara, A Postcard from the Grindhouse: Exotic Landscapes and Italian Holidays in Lucio Fulci’s «Zombie» and Sergio Martino’s «Torso», in J. Cline - R. G. Einer, Cinema Inferno. Celluloid Explosions from the Cultural Margin, Scarecrow Press, London 2010. 19 Primo western di Fulci, nel quale si può «intravedere l’universo decadente, crudele, nichilista e di figure erranti che sarà dell’autore», A. Clerc, Le Temps du Massacre. Prémices d’une esthétique de la Cruauté, http://www.luciofulci.fr/pages/fulciologie_tempsdumassacre.html, ultimo accesso 12 dicembre 2013. 20 I. Olney, Euro Horror. Classic European Horror Cinema in Contemporary American Culture, Indiana University Press, Indiana 2013, pp. 208-9. 21 «Un’isola dove nascono gli zombie. Dove nasce il potere», intervista a Lucio Fulci in La notte americana del dottor Lucio Fulci (Antonietta De Lillo, 1994).

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quistadores spagnoli e l’edificio religioso – sono particolarmente significativi in quest’ottica. In tale prospettiva, «la figura dello zombie emerge non come simbolo dell’ansia postmoderna ma come agente della rabbia postcoloniale, un mostro la cui virulenta contagiosità minaccia la distruzione della cultura occidentale imperialista che lo ha prodotto»22. La figura dello zombie come mostruosità e alterità costruita dal colonialismo è esplicitata attraverso una delle sequenze più cruente e disturbanti del film – e l’unica a carattere strettamente antropofagico: la scena in cui i quattro giovani bianchi entrano nell’abitazione del dottor Menard scoprendovi i quattro zombie intenti a cibarsi del corpo della moglie del medico. L’immagine, colta in soggettiva, alternata al raccordo degli occhi dei giovani, è un equivalente della «scena primaria di “cannibalismo” così come “testimoniata” dagli Occidentali»23. Il cannibalismo e le pratiche sacrificali primitive si presentano quindi come dei prodotti dello sguardo occidentale. Uno stesso sguardo strutturerà l’assedio finale degli zombie ai sopravvissuti rinchiusi nella chiesa-ospedale. Nella lunga sequenza gli zombie andranno (in)consapevolmente incontro a un massacro e al martirio, dimensioni sorrette e articolate seguendo l’iconografia del western (le pratiche dei massacri dei popoli colonizzatori)24 e inscenando le pratiche di immolazione moderna delle popolazioni oppresse (i corpi incendiati degli zombie). Se lo zombi è assunto come mostro postcoloniale in termini di classe e di razza, l’interpretazione della sua funzione nel film di Fulci non è univoca: Olney, ad esempio, vede nelle soggettive degli zombie uno spazio di liberazione dallo sguardo occidentale25; mentre per Brioni il film rappresenta un «barometro delle ansie italiane rispetto al ritorno del passato coloniale»26; il mostro è ancora l’alterità di derivazione gotica e il film «raffigura chiare divisioni razziali» (la subordinazione degli assistenti neri ai dottori bianchi) e di genere (le donne coOlney, Euro Horror. Classic European Horror Cinema in Contemporary American Culture cit., p. 207. 23 P. Hulme, Introduction. The Cannibal Scene, in Cannibalism and the Colonial World, a cura di F. Barker, P. Hulme e M. Iversen, Cambridge University Press, Cambridge 1998, p. 2. 24 T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’«altro», Einaudi, Torino 1984 (ed. or. 1982). 25 Olney, Euro Horror. Classic European Horror Cinema in Contemporary American Culture cit. 26 S. Brioni, Zombies and the Post-Colonial Italian Unconscious: Lucio Fulci’s «Zombi 2» (1979), in «Cinergie», novembre 2013, 4, p. 166. 22

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me oggetto dello sguardo maschile), rappresentando le «paure della classe media occidentale al riguardo dei propri privilegi, minacciati dalle sfide della postcolonialità»27. Le due prospettive, con ogni probabilità, anziché escludersi convivono su tempi e livelli differenti; certo è che, nell’epilogo, i due sopravvissuti in mezzo all’oceano incarnano il rovesciamento simbolico di senso che identifica una delle paure profonde del filone: da bianchi privilegiati, metropolitani si ritrovano ora isolati e relegati in una terra di nessuno. Nondimeno, il film sembra essere ossessionato dalla rappresentazione del «bianco». Le figure della «bianchezza», pur non assolute, sono evidenti: gli zombie «imbiancati» dal trucco, quasi degli albini, i sudari, l’ospedale, le vesti medicali, il lenzuolo ospedaliero sotto cui si agita il primo contagiato, i veli e i tendaggi, le fosse comuni, le strade impolverate, le imbarcazioni. Un terrore del «bianco» alla Melville e alla Poe, debitore del travelogue, del racconto di viaggio etnografico ottocentesco. In poche parole, nel film di Fulci appare esplicita una relazione tra «bianchezza» (whiteness) e morte. Per Dyer l’horror offre uno «spazio culturale che rende sopportabile per i bianchi l’esplorazione dell’associazione della bianchezza con la morte», ovvero l’idea che la cultura bianca sia portatrice di morte28. Film cannibal e zombie come Apocalypse domani (Antonio Margheriti, 1980) e Zombi 2 renderebbero così visibile il «bianco» in termini di razza ed espliciterebbero la visione «mortifera» della «bianchezza»29. Il film di Fulci costituisce così un antesignano, dotato di ampi tratti di originalità, di un genere di grande popolarità e attualità, all’interno del quale tuttavia le dinamiche culturali e simboliche appena discusse non è detto che oggi operino in modo analogo o mantengano simili significati. Sempre Olney ha notato infatti come il proliferare dell’associazione tra whiteness e morte negli esempi più recenti del genere non vada necessariamente interpretato come un punto a favore del postcolonialismo, ma semmai come il suo contrario, come una più ampia Ibid., pp. 172-3. R. Dyer, White, Routledge, London-New York 1997, p. 210. 29 La relazione tra «bianchezza» e «morte» trattata da Dyer nell’ultimo capitolo del suo libro è stata sviluppata per l’horror a cui ci riferiamo, e nello specifico in relazione a Apocalypse domani, da Olney, Euro Horror. Classic European Horror Cinema in Contemporary American Culture cit., in particolare pp. 183-9. Le nostre acquisizioni puntano quindi in direzione opposta, seppure non le escludano, a quelle di Brioni, per il quale nel film di Fulci la «“blackness” è chiaramente associata con la violenza, la morte e la mostruosità», Brioni, Zombies and the Post-Colonial Italian Unconscious: Lucio Fulci’s Zombi 2 (1979) cit., p. 169. 27 28

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colonizzazione di precise zone dell’immaginario, una diffusione capillare degli esiti del tardo-capitalismo: una cannibalizzazione virale, «la fine logica delle relazioni umane sotto il capitalismo»30. Gli zombie fulciani possono infine prestarsi a ulteriori letture. La metafora narrativa di una deriva da un centro (New York) a una periferia (Matul) sembra alludere a una primigenia esperienza della «condizione postmoderna»31. Sotto la superficie giocosa, divertita e intertestuale della sequenza-inserto dedicata alla lotta tra due «nuovi mostri» (lo zombie e lo squalo), altri motivi sembrano rinviare più significativamente alla mutazione epistemologica in corso. Il sangue infetto che il dottor Menard analizza senza esiti al microscopio appare il simbolo di fenomeni divenuti incomprensibili. L’inquadratura è emblematica, divisa in tre parti uguali. Il dottor Menard ne occupa il centro assieme agli strumenti concreti del suo paradigma di conoscenza e interpretazione scientifica del mondo (il microscopio) che utilizzerà per cercare di comprendere in modo oggettivo (l’origine biologica del contagio) una mutata condizione dell’umano. Condizione inconfutabile nella sua manifestazione concreta (i morti risorgono) e inconcepibile nella sua motivazione perché non contemplata e non legittimata dal sapere corrente (la magia nera, il vudù). Alla sua sinistra una libreria, simbolo della tradizione e della conoscenza data e manifesta, essoterica. La parte destra dell’immagine, alle sue spalle, è invece occupata da veli, una realtà opaca e misterica, simbolo di una realtà apparente e di una conoscenza esoterica, velata. Diversamente dai mad doctors che lo hanno preceduto, demiurghi della scienza positivista, capaci di plasmare e ridefinire le categorie della mostruosità, creando, ricreando e distruggendo l’umano, il dottor Menard è incapace di spiegare il cambiamento paradigmatico (l’esercizio di un sapere) e tantomeno di influenzarlo o controllarlo (l’esercizio di un potere). La ridefinizione del discorso scientifico operato dal postmoderno si riflette nell’impotenza di Menard, «mad doctor» oramai «sterile», destinato a osservare una nuova «realtà» e «condizione» antropologica e discorsiva «celibe» incarnata dagli zombie. Un fenomeno che si presenta come frammentato, privo di centralità e gerarchie, capace di invertire, come le 30 R. Wood, Hollywood from Vietnam to Reagan and Beyond, Columbia University Press, New York 2003 (19861), p. 22. 31 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981 (ed. or. La Condition postmoderne, Les Éditions de Minuit, Paris 1979).

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«macchine celibi»32, i rapporti di forza e di dominio sul naturale e soprattutto in grado di generarsi e diffondersi autonomamente, seguendo logiche proprie, nascoste e indecifrabili. Ciò che si cela sotto il velo, dietro le apparenze, e che una volta «svelato» diviene sinonimo di aletheia, cioè di verità, necessita di altri strumenti e credenze, viatici per la rivelazione di un nuovo linguaggio e di una nuova corporalità, sintomo dell’ingresso in una condizione postmoderna e soprattutto in una dimensione simbolica e discorsiva post-umana33. Gli studi incentrati sul body horror e sul post-umano hanno sottolineato come la costruzione storica del soggetto – che già il postcolonialismo cerca di superare – si tramuta in una sostanziale alterità nell’interiorità del corpo, capace di emancipare l’umano dalla sua condizione di prigionia estetica, culturale e ideologica, come sperato e invocato dall’ultimo Artaud: «quando la pelle è aperta il corpo è disorganizzato. Nessuna razza, nessun genere, nessuna sessualità, solo una singola, barocca, carnosa disposizione viscerale»34. Diversamente dai morti viventi romeriani «gli zombie di Fulci non sono diventati consumatori robotici, ma macchine desiranti eccessive», guidate da un «desiderio di lacerazione dei corpi altrui che non conduce alla morte ma alla trasformazione»35. È esemplare in tal senso, nella sequenza di stalking di Paola Menard, l’inquadratura in soggettiva in cui lo zombie osserva la donna seminuda nel bagno: la mano della creatura risale dal basso dell’inquadratura, strisciando sul vetro della finestra fino a occupare l’intera superficie dello schermo, alla ricerca di un contatto e di un superamento della membrana che la divide dall’oggetto del suo desiderio. A ben vedere, gli zombie di Fulci più che «mangiatori di carne» (Zombie Flesh Eaters è il titolo inglese) sono «piaghe»36. La chiesaospedale è un luogo di contenimento del contagio, un lazzaretto. La J.-F. Lyotard, Les transformateurs Duchamp, Galilée, Paris 1977. I sintomi e le allusioni di un passaggio al body horror e le «testimonianze» di una verità di cui il corpo sarebbe portatore non si limitano di certo al solo film di Fulci, attraversando gran parte del cinema orrorifico e fantastico del periodo. Non ne sono poi esclusi altri esempi di cinema estremo del periodo. Nel multiforme, jodorowskiano e di poco antecedente al film di Fulci Spell di Alberto Cavallone (1977), è ben evidente il tema del corpo e della sua verità anatomica, con esplicite citazioni figurative da Vesalio, tanto che il personaggio del comunista commenta così un’antologia di disegni del medico fiammingo: «Certo, la verità non entusiasma mai. Guarda. In queste tavole possiamo scoprire noi stessi. Qualche volta fa bene vedere come siamo fatti dentro. Spariscono le illusioni e resta la realtà». 34 P. MacCormack, Cinesexuality, Ashgate, Aldershot 2008, p. 104. 35 Ibid., p. 110. 36 Ibid., p. 115: «do not have but are plagues». 32 33

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presenza di sudari, velari, fosse comuni, l’uso di corde di contenimento e del colpo di pistola alla testa sono sopravvivenze e adattamenti dell’iconografia e della narrativa della peste e delle sue creature mostruose, al pari del veliero alla deriva nella baia di New York37. Zani e Meux hanno descritto la prossimità della narrativa zombie con la letteratura e i racconti della peste in Europa38, riscontrando in entrambe il timore che le «istituzioni che reggono la nostra cultura, in special modo la legge, la famiglia e la fede nel sacro, collasseranno o si dimostreranno false di fronte alla catastrofe»39. Attraverso la devastazione del corpo passa simbolicamente la disgregazione della società. L’offensività estetica del gore40 investe lo stesso cinema, la sua «visceralità» contrasta e disarticola la dittatura dell’occhio. La penetrazione e distruzione del bulbo oculare della signora Menard può essere così letta in altro modo, ovvero come «critica della veridicità delle immagini», un invito surrealista alla rottura con i principi canonici della visione41 . Da questa prospettiva, le soggettive degli zombie esplorano lo spazio, bramano corpi da disarticolare, sono primitivi analfabetismi del linguaggio, supportate sul piano sonoro da soffi e respiri inarticolati. Gli zombie «vedono probabilmente ciò che i viventi non possono vedere. Il loro è un rapporto esclusivamente sensoriale […] con la realtà, che contagia coloro che si arrendono o che […] hanno a che fare con una visione diretta dell’orrore del potere»42. Il contagio è creativo, al pari dell’opera dei make up artists, gli «atti di violenza sono atti di sperimentazione corporale»; arte del corpo e orrore del corpo si confondono tra loro. Il contagio è portatore di verità. La peste, scrive Artaud, «è benefica, perché, spingendo gli uomini a veNon a caso, ma solo nell’analogia di superficie, ricondotto da molti al Nosferatu di Murnau. Si veda l’appassionata descrizione e analisi della sequenza iniziale in Albiero - Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci cit., p. 189. 38 Ibid., p. 100. 39 S. Zani - K. Meux, Lucio Fulci and the Decaying Definition of Zombie Narratives, in Better Off Dead. The Evolution of the Zombie as Post-human, a cura di D. Christie e S. Juliet Lauro, Fordham University Press, New York 2011, p. 101. 40 M. Brottman, Offensive Films. Toward an Anthropology of Cinéma Vomitif, Vanderbilt University Press, Nashville (Tn) 2005 (Greenwood Press, 19971). 41 Olney, Euro Horror. Classic European Horror Cinema in Contemporary American Culture cit., p. 214; sugli occhi, nel cinema di Fulci, si veda Albiero - Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci cit., p. 192; W. W. Dixon, Cinema at the Margins, Anthem Press, London-New York 2013, in particolare il capitolo «Surrealism and Sudden Death in the Films of Lucio Fulci». Fulci stesso era il primo divulgatore dell’interpretazione surrealista degli occhi nel suo cinema e della sua poetica votata all’iconoclastia, si veda ad esempio Chianese - Lupi, Filmare la morte. Il cinema horror e thriller di Lucio Fulci cit. 42 Albiero - Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci cit., p. 192. 37

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dersi quali sono, fa cadere la maschera […] scuote l’asfissiante inerzia della materia che deforma persino i dati più chiari dei sensi; e velando alle collettività la loro oscura potenza, la loro forza nascosta, le invita ad assumere di fronte al destino un atteggiamento eroico e superiore che altrimenti non avrebbero mai assunto»43. La «piaga» diviene la forza che conduce gli zombie ad assumere un atteggiamento «eroico» (la ribellione e il massacro/martirio finale) e «superiore», a suo modo «missionario» (l’attraversamento all’alba del ponte di Brooklyn, simbolo della modernità e della società che transita in automobile sotto di loro). La ricerca fulciana di un cinema della crudeltà e di un «corpo senza organi»44, ovvero di un corpo libero dalle funzioni prescritte, proseguirà nella «trilogia della morte», in cui il dissesto del corpo (cinematografico) troverà soluzioni sempre più visionarie e barocche. Come i due sopravvissuti nel mezzo dell’oceano in Zombi 2 e come i protagonisti nel finale de L’aldilà, i «corpi che restano organizzati finiscono per vagare per un terra desolata»45. La scelta è tra permanere in una wasteland abitata da simulacri oppure contribuire alla sua disarticolazione, liberare il proprio corpo, divenire piaga e partecipare al contagio. Gloria e vita alla nuova carne.

A. Artaud, Il teatro e la peste, in Id., Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968. La nozione di «Corpo senza Organi» trova origine in Artaud, si veda nota n. 2, per poi essere assunta ed elaborata da Gilles Deleuze e Félix Guattari, su questo punto si rimanda a: G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 1975 (ed. or. Logique du sens, 1969); G. Deleuze - F. Guattari, Millepiani, Castelvecchi, Roma 2006 (ed. or. Mille Plateaux. Capitalisme et schizophrénie, 1980); G. Deleuze, Per farla finita col giudizio, in Id., Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996 (ed. or. Critique et clinique, 1993). 45 MacCormack, Cinesexuality cit., p. 105: «Il messaggio di Fulci è “distruggere la carne organizzata o rimanere relegati in una terra di puro nulla”». Si confronti con il finale di Videodrome (David Cronenberg, 1983) dove il «suicida» Max Renn si immola in nome della «nuova carne». 43 44

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Nota bibliografica

Qui di seguito annotiamo in maniera essenziale e inevitabilmente incompleta una serie di contributi (monografie, saggi) limitati alla sola area italiana che riteniamo utili per un primo approccio al cinema horror italiano. Per approfondimenti puntuali e per estendere la propria rete di riferimenti ai testi internazionali (dai principali testi teorici ai volumi dedicati al cinema horror italiano o contenenti capitoli e contributi incentrati sul contesto italiano) si rimanda all’apparato di note al testo. Segnaliamo innanzitutto un testo pionieristico di Goffredo Fofi, un resoconto «a caldo» e un primo tentativo di messa in prospettiva del fenomeno a favore della critica specializzata d’oltralpe: Terreur en Italie, in «Midi-Minuit Fantastique», 1963, 7). Una pietra miliare è il voluminoso catalogo curato da Lorenzo Codelli e Giuseppe Lippi in occasione di Fant’Italia, rassegna dedicata nel 1976 al cinema fantastico italiano (horror incluso) prodotto tra il 1954 e il 1966 (Fant’Italia, Catalogo del XIV Festival internazionale del Cinema di Fantascienza, Trieste 1976). Altrettanto fondamentali sono state le pubblicazioni di Teo Mora. La Storia del cinema dell’orrore pubblicata per Fanucci in 3 volumi tra il 1977 e il 1978 (rieditata nel 2001) include capitoli dedicati al cinema fantastico e orrorifico italiano (Elegia per una donna vampiro. Il cinema fantastico in Italia 1957-1966 nel secondo volume; Esorcismi made in Italy. Il cinema fantastico italiano 1967-1978 nel terzo volume). Sempre di Mora, si veda Il cinema italiano dell’orrore, in L. Horrakh, Grattanuvole, La Tribuna, Piacenza 1977 e Il cinema fantastico italiano. Un fenomeno produttivo marginale, in Cinecittà 2. Sull’industria cinematografica italiana, a cura di E. Magrelli, Marsilio, Venezia 1986. In tempi più recenti, contributi importanti per un inquadramento riassuntivo dell’horror italiano e per una sua rivalutazione sono quelli di Stefano Della Casa: si vedano La nostra armata delle tenebre, in Sangue, amore e fantasy, a cura di M. Garofalo, «Segnocinema», 1997, 85, e L’horror, in 159

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Scuola nazionale di cinema, Storia del cinema italiano 1960-1964, a cura di G. De Vincenti, X, Marsilio-Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma 2001. Altrettanto decisivi sono i contributi di Alberto Pezzotta, in particolare per l’analisi dell’estetica, dell’anatomia e la critica delle fonti del gotico italiano, si vedano almeno: A. Pezzotta, Doppi di noi stessi, in Sangue, amore e fantasy, a cura di M. Garofalo, in «Segnocinema», 1997, 85, e Tra il Boom e il Marchese De Sade: fonti e contesto del gotico italiano (19571966), in «Bianco e Nero», 2014, 579. Altro testo imprescindibile per la comprensione delle trame strutturali che hanno caratterizzato il genere nella prima metà degli anni sessanta è F. Pitassio, L’orribile segreto dell’horror italiano, in L’arte del risparmio: stile e tecnologia. Il cinema a basso costo in Italia negli anni Sessanta, a cura di G. Manzoli e G. Pescatore, Carocci, Roma 2005. Per inquadrare il genere alla luce del cinema bis e dell’attività della critica militante che ha svolto un ruolo decisivo nella rivalutazione e riemersione del genere, si vedano almeno A. Tentori - M. Colombo, Lo schermo insanguinato. Il cinema italiano del terrore (1957-1989), Solfanelli, Chieti 1990, e S. Piselli, R. Morrocchi, A. Bruschini, Bizzarre Sinema! Wildest, Sexiest, Weirdest, Sleaziest Films. Horror all’italiana 1957-1979, Glittering Images-Nerbini, Firenze 1996. Di sicuro interesse è l’antologia curata da J. G. Romero, Antologia del cine fantastico italiano, «Quatermass», 2008, 7, al cui interno troviamo una folta presenza di saggisti e critici italiani (Tentori, Manlio Gomarasca, Codelli, Davide Pulici), con in particolare testi dedicati ad aspetti storico-estetici del cinema italiano del terrore (Giorgio Placereani, Bruschini, Roberto Curti) o a singoli autori (di Fabio Giovannini su Margheriti). Si segnala inoltre il contributo dato da Deborah Toschi alla rappresentazione del femminile nel gotico italiano a partire dall’impianto teorico della Film Feminist Theory applicato all’horror (L. Williams, B. Creed, C. J. Clover): Vittima o carnefice? La rappresentazione della donna nel gotico italiano, in Genere e generi. Figure femminili nell’immaginario cinematografico e culturale italiano, a cura di M. Fanchi e L. Cardone, «Comunicazioni Sociali», a. XXIX, 2007, 2. A singoli autori sono state dedicate numerose monografie. Per quanto riguarda l’opera di Mario Bava, in area italiana è di riferimento la monografia scritta da Pezzotta (Mario Bava, Il Castoro, Milano, 2013, 19951) e si segnalano per l’eterogeneità e l’originalità dei contributi, interviste e documenti inclusi, M. Gomarasca - D. Pulici (a cura di), Genealogia del delitto. Il cinema di Mario e Lamberto Bava, «Dossier Nocturno», sup160

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plemento a «Nocturno», 2004, 24, e G. Acerbo - R. Pisoni (a cura di), Kill Baby Kill! Il cinema di Mario Bava, Un mondo a parte, Roma 2007. Sul cinema di Riccardo Freda si segnalano tre studi generali sulla sua opera contenenti contributi e capitoli dedicati ai suoi horror: J. A. Gili (a cura di), Riccardo Freda, Ministero del Turismo e dello Spettacolo-Cinecittà international, Roma 1991; E. Martini - S. Della Casa (a cura di), Riccardo Freda, Bergamo Film Meeting, Bergamo 1993; S. Della Casa, Riccardo Freda, Bulzoni, Roma 1999. La bibliografia su Argento è ampia e multiforme, al suo interno sono tre gli studi principali da affrontare. Il primo è l’ottima monografia di Roberto Pugliese (Dario Argento, Il Castoro, Milano 2011, 19961), gli altri sono due ampi volumi che raccolgono interventi di molti dei maggiori studiosi del cinema di Argento e offrono una serie di contributi originali e differenti per metodologie e prospettive adottate: G. Carluccio, G. Manzoli, R. Menarini (a cura di), L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento, Lindau, Torino 2003; V. Zagarrio (a cura di), Argento vivo. Il cinema di Dario Argento tra genere e autorialità, Marsilio, Venezia 2008. Gli studi dedicati invece a Lucio Fulci sono limitati e difformi negli esiti, si segnalano: P. Albiero - G. Cacciatore, Il terrorista dei generi. Tutto il cinema di Lucio Fulci, Un mondo a parte, Roma 2003; A. Bruschini - A. Tentori, Lucio Fulci, il poeta della crudeltà, Mondo Ignoto, Roma 2004: A. Chianese - G. Lupi, Filmare la morte. Il cinema horror e thriller di Lucio Fulci, Il Folio, Piombino 2006. Ancora più esile la bibliografia dedicata ad Antonio Margheriti in area italiana, della quale segnaliamo la monografia di taglio storico-critico di F. Giovannini, Danze macabre. Il cinema di Antonio Margheriti, Profondo Rosso, Roma 2003. A differenza delle monografie dedicate a singoli autori, quelle destinate al genere nel suo complesso in area italiana sono piuttosto esigue: due, entrambe ottime per rigore e metodo, sono state pubblicate recentemente. F. Di Chiara, con I tre volti della paura. Il cinema horror italiano (19571965), Unife Press, Ferrara 2009, ricostruisce il contesto economico-produttivo del gotico, ne analizza mediante un approccio semio-sintattico gli esempi maggiori, per poi estendere la propria area di attenzione alle strategie commerciali e intermediali attraverso l’analisi della cartellonistica pubblicitaria e dei fotoromanzi. R. Curti, con Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e tv, Lindau, Torino 2011, offre uno studio esaustivo e documentato, originale e convincente sul gotico italiano tra gli anni cinquanta e ottanta. L’oggetto, intrecciando teoria del gotico, studio delle forme e delle dinamiche intermediali e intertestuali, è colto lungo le 161

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sue molte attestazioni, dinamiche e stratificazioni (le fonti letterarie e l’influenza del melodramma; i paesaggi e l’immaginario; l’erotismo e la perversione sessuale; l’estetica; la deriva e ibridazione del gotico nel cinema post-’68).

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Elenco delle illustrazioni

1. Il cuore rivelatore (Cesare Civita, Alberto Lattuada, Alberto Mondadori, Mario Monicelli, 1935). Per gentile concessione della Fondazione Cineteca di Bologna. 2. La Divina Commedia. Inferno (Francesco Bertolini, Giuseppe de Liguoro, Adolfo Padovan, 1911). 3. Maciste all’inferno (Guido Brignone, 1926). 4. Inserto promozionale de Il mistero di Jack Hilton (Ubaldo Maria Del Colle, 1913). 5. Illustrazione del cine-romanzo La vendetta di una pazza, in «Al Cinemà», 1922, 12. 6. Pubblicità del film La mano tagliata (Alberto Degli Abbati, 1919). 7. L’orribile segreto del Dr. Hichcock (Riccardo Freda, 1962). 8. Danza macabra (Antonio Margheriti, 1963). 9. La vergine di Norimberga (Antonio Margheriti, 1963). 10. Barbara Steele in La maschera del demonio (Mario Bava, 1960). 11. Necropolis (Franco Brocani, 1970). 12. Il mostro è in tavola… barone Frankenstein (Flesh for Frankenstein, Paul Morrissey e Antonio Margheriti, 1973). 13. Il demonio (Brunello Rondi, 1963). 14. Un tranquillo posto di campagna (Elio Petri, 1968). 15. Profondo rosso (Dario Argento, 1975). 16. Il rosso segno della follia (Mario Bava, 1970). 17. La casa dalle finestre che ridono (Pupi Avati, 1976). 18. Cannibal Holocaust (Ruggero Deodato, 1980). 19. Gran Bollito (Mauro Bolognini, 1977). 20-22. Rapsodia satanica (Nino Oxilia, 1917). 23-24. Malombra (Mario Soldati, 1942). 25. Malombra (Mario Soldati, 1942); Pinax di Persefone che apre il Likon Mystikon; Malombra (Carmine Gallone, 1917). 26-28. I vampiri (Riccardo Freda, 1957). 29-31. Contronatura (Antonio Margheriti, 1969). 32-34. Reazione a catena (Mario Bava, 1972). 35-37. Suspiria (Dario Argento, 1977). 38. Zombi 2 (Lucio Fulci, 1979). 39. Vignetta da Zombi!, «Zagor», albo n. 95. 40-42. Zombi 2 (Lucio Fulci, 1979). 163

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Finito di stampare il 9 ottobre 2014 per conto di Donzelli editore s.r.l. presso Str Press s.r.l. Via Carpi, 19 - 00040 Pomezia (Roma)

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1. Il cuore rivelatore (Cesare Civita, Alberto Lattuada, Alberto Mondadori, Mario Monicelli, 1935). 2. La Divina Commedia. Inferno (Francesco Bertolini, Giuseppe De Liguoro, Adolfo Padovan, 1911).

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3. Maciste all’Inferno (Guido Brignone, 1926). 4. Inserto promozionale de Il mistero di Jack Hilton (Ubaldo Maria Del Colle, 1913).

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5. Illustrazione del cine-romanzo La vendetta di una pazza, in «Al Cinemà», 1922, 12. 6. Pubblicità del film La mano tagliata (Alberto Degli Abbati, 1919).

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7. L’orribile segreto del Dr. Hichcock (Riccardo Freda, 1962). 8. Danza macabra (Antonio Margheriti, 1963).

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9. La vergine di Norimberga (Antonio Margheriti, 1963). 10. Barbara Steele in La maschera del demonio (Mario Bava, 1960).

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11. Necropolis (Franco Brocani, 1970). 12. Il mostro è in tavola… barone Frankenstein (Flesh for Frankenstein, Paul Morrissey e Antonio Margheriti, 1973). 13. Il demonio (Brunello Rondi, 1963).

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14. Un tranquillo posto di campagna (Elio Petri, 1968). 15. Profondo rosso (Dario Argento, 1975). 16. Il rosso segno della follia (Mario Bava, 1970).

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17. La casa dalle finestre che ridono (Pupi Avati, 1976). 18. Cannibal Holocaust (Ruggero Deodato, 1980). 19. Gran Bollito (Mauro Bolognini, 1977).

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20-22. Rapsodia satanica (Nino Oxilia, 1917).

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23-24. Malombra (Mario Soldati, 1942). 25. A sinistra, Malombra (Mario Soldati, 1942); al centro, Pinax di Persefone che apre il Likon Mystikon; a destra, Malombra (Carmine Gallone, 1917).

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26-28. I vampiri (Riccardo Freda, 1957).

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29-31. Contronatura (Antonio Margheriti, 1969).

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32-34. Reazione a catena (Mario Bava, 1972).

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35-37. Suspiria (Dario Argento, 1977).

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38. Zombi 2 (Lucio Fulci, 1979). 39. Vignetta da Zombi!, «Zagor», albo n. 95.

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40-42. Zombi 2 (Lucio Fulci, 1979).

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