Franco Fortini e la poesia europea. Riscritture di autorialità 9788822906076, 9788822912022


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Franco Fortini e la poesia europea. Riscritture di autorialità
 9788822906076, 9788822912022

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Quodlibet Studio

Letteratura tradotta in Italia

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Irene Fantappiè Franco Fortini e la poesia europea Riscritture di autorialità

Quodlibet

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Prima edizione: aprile 2021 © 2021 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) isbn 978-88-229-0607-6 | e-isbn 978-88-229-1202-2 Letteratura tradotta in Italia Collana diretta da Anna Baldini, Irene Fantappiè, Michele Sisto Comitato scientifico: F rancesca B illiani ( University o f M anchester), A rno D usini ( Universität Wien), Bernhard Huß (Freie Universität Berlin), Camilla Miglio (Sapienza Università di Roma), Christopher Rundle (Università di Bologna), Massimiliano Tortora (Università degli Studi di Torino), Blaise Wilfert-Portal (École Normale Supérieure Paris)

Volume pubblicato nell’ambito del progetto MIUR Futuro in Ricerca 2012 Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento: editoria, campo letterario, interferenza (www.ltit.it)

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Indice

7 Introduzione 19 Ringraziamenti 21 Elenco delle abbreviazioni Prima parte. Per una teoria della riscrittura 25 1. Riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità Seconda parte. Fortini e le riscritture di poesia europea 65 1. Fortini e la riscrittura 81 2. Riscritture di autorialità. Fortini e i “nuovi” autori della poesia europea 101 3. Riscritture di autorialità. Fortini e i “classici” della poesia europea 129 4. Riscritture (decostruttive) di autorialità. Fortini e le “traduzioni immaginarie” di poesia europea 145 Conclusioni 153 Bibliografia 165 Indice dei nomi

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Introduzione

1. Questo libro è scaturito da un interesse – maturato nel corso di un decennio di occasioni e di riflessioni – per Franco Fortini quale figura centrale della letteratura del Novecento italiano; una figura che, a dispetto del valore universalmente riconosciuto tanto alla sua poesia quanto alla sua prosa, nell’ultimo mezzo secolo (quantomeno fino al 2017, anno delle celebrazioni per il centenario della nascita) è rimasta sostanzialmente nell’ombra1. 1

Il centenario della nascita di Franco Fortini (2017) ha segnato un notevole rilancio negli studi sulla sua opera: si sono tenuti almeno cinque convegni (Milano, Siena, Torino, Padova, Varsavia) e sono uscite numerose pubblicazioni. Tra di esse, in relazione a Fortini e alla traduzione sono rilevanti soprattutto: Davide Dalmas, Tra scrivere e leggere. Fortini e la poesia europea, in D. Dalmas (a cura di), Franco Fortini. Scrivere e leggere poesia, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 73-91; Roberto Gilodi, Fortini traduttore e la cultura tedesca, ivi, pp. 143-156; il volume collettaneo a cura di F. Diaco e E. Nencini “Per voci interposte”. Fortini e la traduzione (numero monografico de «L’ospite ingrato», n.s., 5, 2019), all’interno del quale sono presenti sezioni dal titolo Fortini traduttore (pp. 13-108), Tradurre Fortini (pp. 108-166), Fortini e la traduzione (pp. 167-250); la prima sezione – intitolata Traduzione (pp. 19-48) – del volume a cura di F. Grendene, F. Magro e G. Morbiato Fortini ’17, Quodlibet, Macerata 2020. Tra gli studi critici e le raccolte di saggi su Fortini usciti dopo il 2017 si vedano almeno, oltre ai volumi già citati: Riccardo Bonavita, L’anima e la storia: struttura delle raccolte poetiche e rapporto con la storia in Franco Fortini, a cura di T. Mazzucco, Biblion, Milano 2017; Francesco Diaco, Dialettica e speranza: sulla poesia di Franco Fortini, Quodlibet, Macerata 2017; Gianni Turchetta, Edoardo Esposito (a cura di), Franco Fortini e le istituzioni letterarie, Ledizioni, Milano 2018; la sezione Canone contemporaneo (con saggi di Damiano Frasca, Fabio Magro, Felice Rappazzo), «Allegoria» 77, 2018; Federico Della Corte, Leonardo Masi, Małgorzata Pieczara-Ślarzyńska (a cura di), Il secolo di Franco Fortini: studi nel centenario della nascita, Artemide, Roma 2019. Tra le edizioni o riedizioni di opere di Fortini o di materiali fortiniani uscite dopo il 2017 si segnalano: Luca Daino (a cura di), La gioia di conoscere. I pareri editoriali di Franco Fortini per Mondadori, introduzione di E. Esposito, Fondazione Arnoldo e A. Mondadori, Milano 2017; Franco Fortini, I poeti del Novecento, a cura di D. Santarone, con un saggio di P. V. Mengaldo, Donzelli, Roma 2017; Id., La guerra a Milano. Estate 1943, a cura di A. La Monica, Pacini, Pisa

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introduzione

Al contempo, questo volume nasce da due convinzioni – o per meglio dire, scelte critiche – relative a problemi generali di critica letteraria, le quali, a ben vedere, hanno esse stesse a che fare con la figura di Fortini, tanto che, per chi scrive, risulta difficile ricostruire ex post se nella gestazione di questo libro l’opzione a favore di certi approcci agli studi sulla letteratura abbia presieduto oppure sia conseguita alla scelta di confrontarsi con le opere del suddetto autore (né d’altra parte ha senso tentare di chiarirlo, visto che tra gli intenti di questo lavoro, come si vedrà, c’è anche quello di instaurare una mutua interazione tra testi letterari, storia e teoria della letteratura). La prima convinzione è che la letteratura tradotta verso (o riscritta in) una determinata lingua sia da considerarsi una parte fondamentale – e troppo spesso trascurata – della letteratura in quella determinata lingua, in questo caso quella italiana; ovverosia che non si possa fare la storia di una determinata letteratura senza prendere in esame anche le traduzioni e le riscritture effettuate dalle altre lingue verso 2017; Id., Foglio di via e altri versi, edizione critica e commentata a cura di Bernardo De Luca, Quodlibet, Macerata 2018 (d’ora in avanti FV-III); Franco Fortini, Giovanni Giudici, Carteggio 1959-1993, a cura di R. Corcione, Olschki, Firenze 2018; Franco Fortini, Dieci inverni: 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, a cura di S. Peluso, con un saggio di M. Marchesini, Quodlibet, Macerata 2019; Cesare Cases, Laboratorio Faust. Saggi e commenti, a cura di M. Sisto e R. Venuti, Quodlibet, Macerata 2019. Si noti che delle pubblicazioni di/su Fortini uscite dopo il 2017 non è sempre stato possibile tener conto negli studi che compongono questo libro, la prima redazione dei quali risale a un periodo precedente (cfr. la nota ai testi alla fine della presente Introduzione); si è però provveduto ad indicare in nota, ove opportuno, i riferimenti bibliografici ad essi relativi. Per quel che riguarda gli studi fortiniani pubblicati negli anni precedenti al 2017, un notevole punto di svolta è stata la pubblicazione, presso Mondadori nel 2014, dell’opera poetica fortiniana a cura di Luca Lenzini (Franco Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2014, d’ora in avanti TP), oltre alla pubblicazione di Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, Quodlibet, Macerata 2006 (d’ora in avanti UGA) e delle Lezioni sulla traduzione, a cura di M. V. Tirinato, premessa di L. Lenzini, Quodlibet, Macerata 2011 (d’ora in avanti LT); tra gli studi critici del periodo 2003-2017 si vedano almeno Daniele Balicco, Franco Fortini intellettuale politico, manifestolibri, Roma 2006; Davide Dalmas, La protesta di Fortini, presentazione di G. Bàrberi Squarotti, Stylos, Aosta 2006; Romano Luperini, Il futuro di Fortini, Manni, San Cesario di Lecce 2007; Niccolò Scaffai, Francesco Diaco (a cura di), Dall’altra riva. Fortini e Sereni, Quaderni della Sezione di Italiano dell’Università di Losanna, ETS, Pisa 2011; Luca Daino, Fortini nella città nemica: l’apprendistato intellettuale di Franco Fortini a Firenze, Unicopli, Milano 2013; Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini, Quodlibet, Macerata 2013. Per una bibliografia completa delle opere di Fortini e per le pubblicazioni di studi critici sull’autore precedenti al 2003 si rimanda agli apparati bibliografici di Franco Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003 (d’ora in avanti SE).

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introduzione

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quella letteratura o anche da quella letteratura stessa. Tali traduzioni e riscritture rappresentano un corpus testuale importante in sé e per sé, oltre ad essere uno strumento imprescindibile per la comprensione delle opere letterarie già considerate canoniche. A confortare questa convinzione ci sono numerosi studi degli ultimi decenni2. Questo lavoro si inquadra dunque nel vivace dibattito italiano, europeo e mondiale che punta alla rivalutazione storico-critica della letteratura tradotta, con l’intento di ampliarlo arricchendolo di un aspetto che, in tale quadro, è quasi sempre passato in secondo piano rispetto alle trattazioni teoriche, storico-letterarie e sociologico-letterarie: quello dell’analisi dei testi. Questo volume vorrebbe appunto tentare una concreta verifica sui testi di come, in sostanza, la letteratura italia2 Per quel che riguarda chi scrive, tale convinzione è maturata in primo luogo lavorando al progetto Futuro in Ricerca di Base/FIRB Storia e mappe digitali della letteratura tedesca in Italia nel Novecento (Istituto Italiano di Studi Germanici, Università per Stranieri di Siena, Università di Roma “Sapienza”/Humboldt-Universität zu Berlin) e in dialogo coi suoi componenti Anna Antonello, Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Michele Sisto (coordinatore). Mi permetto di rimandare anche ad alcuni prodotti della ricerca di tale progetto, in particolare: Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920), Quodlibet, Macerata 2018, nonché al portale . Per gli studi teorici sulla traduzione si vedano gli studi citati infra, pp. 25-62, e/o in particolare i seguenti lavori: George Steiner, After Babel. Aspects of Language and Translation, Oxford University Press, London et aliis 1975; tr. it. di R. Bianchi e C. Béguin, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti, Milano 2004; Thomas McLernon Greene, The Light in Troy. Imitation and Discovery in Renaissance Poetry,  New-Haven/London, Yale University Press 1982; Theo Hermans (a cura di), The Manipulation of Literature. Studies in Literary Translation, Croom Helm, London-Sydney 1985; Itamar Even-Zohar, Polystystem Studies, «Poetics Today», 1, 1990; Susan Bassnett, André Lefevere (a cura di), Translation, History and Culture, Cassell, London-New York 1990; André Lefevere, Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame, Routledge, London 1992; Gideon Toury, Descriptive Translation Studies and Beyond, John Benjamins Publishing Co., Amsterdam 1995; Pascale Casanova, La République mondiale des lettres, Seuil, Paris 1999; Graham Allen, Intertextuality, Routledge, London-New York 2000; Pierre Bourdieu, Les conditions sociales de la circulation internationale des idées, «Actes de la recherche en sciences sociales», 145, 2002, pp. 3-8; tr. it. Le condizioni sociali della circolazione internazionale delle idee, «Studi culturali», 1, 2016, pp. 61-81; Francesca Billiani, Culture nazionali e narrazioni straniere: Italia, 1903-1943, Le Lettere, Firenze 2007; Christopher Rundle, Publishing Translations in Fascist Italy, Lang, Oxford 2010; Gian Biagio Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Sellerio, Palermo 2012; R. Brandon Kershner, Intertextuality, in  The Cambridge Companion to Ulysses, Cambridge UP, Cambridge (MA) 2014, pp. 171-183; Michele Sisto, Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia, Quodlibet, Macerata 2019; Andrea Torre, Scritture ferite. Innesti, doppiaggi e correzioni nella letteratura rinascimentale, Marsilio, Venezia 2019, pp. 7-25.

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na vada al di là del canone delle sue opere, se per esso si intendono meramente (come spesso accade) testi scritti nella lingua nazionale all’interno dei confini nazionali. Accogliere e sviluppare questa posizione metodologica implica la necessità di compiere – integrandole le une con le altre – indagini sia delle opere letterarie scritte in italiano (in Italia o fuori d’Italia) sia dei testi letterari “importati” da altre lingue verso l’italiano. Traduzioni, riscritture, testi scritti fuori d’Italia e/o da non-italiani, insomma, possono – anzi devono – essere non soltanto considerati bensì anche analizzati quali opere facenti parte a pieno titolo della nostra letteratura. La seconda convinzione metodologica su cui si basa questo libro è una proposta teorica nuova. Essa si basa sulla constatazione della necessità di favorire una sinergia tra due filoni di ricerca che negli ultimi decenni si sono rivelati ugualmente cruciali per gli studi sulla letteratura contemporanea, ma che, curiosamente, sono stati sviluppati in parallelo l’uno all’altro e sono quindi rimasti reciprocamente impermeabili. Il primo filone è quello che si è concentrato sulla figura dell’autore e in particolare sul concetto di autorialità3, sottolineando come l’autore corrisponda non solo (o non tanto) a un individuo storicamente esistito, quanto anche a un costrutto letterario-culturale, appunto a una autorialità che è un “discorso” prodotto dell’autore stesso e/o delle forze in gioco nel contesto che lo circonda. Il secondo filone è quello, già menzionato, relativo alla traduzione, alla riscrittura e più in generale alle pratiche legate all’intertestualità, che ha messo l’accento sui testi au second degré (traduzioni, riscritture, adattamenti, nonché testi originali riletti appunto come non-originali), rimarcando come il testo letterario non nasca dal nulla né esista da solo, bensì sorga da, e dialoghi con, altri testi, secondo dinamiche di intertestualità. Questo libro mira ad attuare una convergenza tra queste due linee di ricerca muovendo dall’idea rinnovata di autorialità appena menzionata e mettendola in dialogo con quella di intertestualità: ovve3 Cfr. gli studi citati infra, pp. 59-62, e, in particolare: Michel Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur?, Colin, Paris 1969; tr. it. Che cos’è un autore?, in Id., Scritti letterari, a cura e tr. it. di C. Milanesi, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 1-21; Jérôme Meizoz, Postures littéraires: mises en scènes modernes de l’auteur, Slatkine, Genève 2007; Id., Postures littéraires/2: La fabrique des singularités, Slatkine, Genève 2011; Ingo Berensmeyer, Gert Buelens, Marysa Demoor, Authorship as Cultural Performance: New Perspectives in Authorship Studies, «Zeitschrift für Anglistik und Amerikanistik», 60, 1, 2012, pp. 5-29; Jérôme Meizoz, La littérature en personne: scène médiatique et formes d’incarnation, Slatkine, Genève 2016.

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rosia affermando che neppure l’autorialità, intesa appunto come costrutto letterario-culturale, nasca dal nulla, né esista da sola. Proprio come il testo, anche la figura autoriale è soggetta a processi di appropriazione, trasformazione, adattamento: a processi che potremmo chiamare di inter-autorialità. Come i testi, le autorialità circolano, a livello nazionale e trans-nazionale; sussistono in rapporto dialogico le une con le altre, e, lungi dall’essere prodotti “originali”, rivelano la loro natura derivativa, di creazioni au second degré. Come i testi, insomma, le autorialità possono essere costruite imitando (riscrivendo, adattando, traducendo). Per tali motivi ritengo che, nel quadro della ricerca letteraria, si possa parlare non soltanto di riscritture di testi, ma anche di riscritture di autorialità (per una più ampia trattazione di tale concetto si veda infra, pp. 59-62)4. Vale la pena puntualizzare che, proprio come le dinamiche intertestuali, anche le dinamiche inter-autoriali sono da indagare non in astratto, ma a partire da ciò in cui esse trovano concreta espressione: le opere letterarie, intese sia come testi (da esaminare con gli strumenti della filologia e dell’analisi stilistico-formale), sia anche – con attenzione all’aspetto della materialità del testo – come edizioni prodotte da un determinato contesto storico-culturale. 2. Perché queste due convinzioni hanno a che fare con Franco Fortini, e perché, addirittura, esse hanno preso forma anche leggendo e studiando i suoi scritti? In primo luogo perché Fortini, forse più di 4

Mi permetto di rimandare a un altro lavoro sulla letteratura italiana del Novecento in cui, prendendo in esame altri autori e altri testi, giungevo a non troppo dissimili conclusioni: Irene Fantappiè, Traduzione come importazione di figure autoriali. Le riviste fiorentine d’inizio Novecento, in A. Baldini, D. Biagi, S. De Lucia, I. Fantappiè, M. Sisto, La letteratura tedesca in Italia cit., pp. 113-140. Per indagini sui processi inter-autoriali in epoche diverse, soprattutto il Cinquecento, cfr.: Irene Fantappiè, Rewriting, “Re-figuring”. Pietro Aretino’s Transformations of Classical Literature, in H. Pfeiffer, I. Fantappiè, T. Roth (a cura di), Renaissance Rewritings, De Gruyter, Berlin/New York 2017, pp. 46-70; Irene Fantappiè, “Re-figuring” Lucian of Samosata. Authorship and Literary Canon in Early Modern Italy, in E. Morra (a cura di), Building the Canon through the Classics. Imitation and Variation in Renaissance Italy, Brill, Leiden/ Boston 2019, pp. 187-215, dove parlo di pratiche di rewriting ma anche di “re-figuring”, intendendo con quest’ultimo concetto «the act of appropriating and adapting someone else’s authorial figure with the aim of fashioning one’s own» (ivi, p. 209).

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ogni altro autore del Novecento italiano, ha conferito alla traduzione e alla riscrittura una rilevanza quantitativamente e qualitativamente eccezionale; quantitativamente per il numero e la varietà delle versioni e delle rielaborazioni di testi altrui da lui redatte per tutto il corso della sua attività letteraria (da Brecht a Flaubert a Éluard a Döblin, da Gide a Proust a Goethe, da Queneau a Kafka), e qualitativamente per il fatto di esservisi approcciato in una tripla veste: quella di traduttore, quella di poeta, quella di critico e saggista5. Non sto qui soltanto affermando che Fortini è sia il traduttore di Brecht e Milton, sia il poeta che ha scritto Traducendo Brecht o Traducendo Milton, sia infine l’autore di importanti saggi sulla traduzione che vanno da quelli dei primi anni Settanta, Traduzione e rifacimento o Cinque paragrafi sul tradurre, fino a un importante scritto teorico nato come ciclo di lezioni nel 1989 e uscito postumo, Lezioni sulla traduzione (2011). Sto piuttosto sostenendo che, quando traduce, Fortini opera anche in qualità di poeta e di critico; che, quando scrive poesia, mette in atto processi concernenti l’attività di traduttore e di saggista; che, quando scrive saggi, agisce anche nella veste di traduttore e di poeta. Si tratta di un dato di fatto che a mio avviso deve essere messo in primissimo piano quando si decide di trattare un tema come il rapporto tra Fortini e la traduzione o la riscrittura. Altrimenti, parlare di “Fortini traduttore” o di “Fortini e la riscrittura” può addirittura diventare, in sede di analisi critica, una formula foriera di fraintendimenti: ha meno senso istituire una correlazione tra la traduzione del Faust di Goethe e quella delle opere di Brecht che mettere quest’ultima traduzione a confronto con le poesie di Una volta per sempre; così come la versione fortiniana del Lycidas di Milton ha meno a che vedere con quella dei racconti di Kafka che con le pagine su Sereni raccolte in Nuovi saggi italiani, delle quali costituisce un perfetto pendant. In altre parole, il corpus delle traduzioni e riscritture di Fortini è tutt’uno con la sua produzione critica e poetica; tanto quanto, d’altra parte, la sua produzione critica e poetica è inscindibilmente legata alle sue traduzioni e alle sue riscritture. Si potrebbe dire che i testi di Fortini – poesie, saggi, traduzioni e riscritture – sono passeggiate sui crinali che separano queste catego5 Osservazioni importanti sulla compresenza di scrittura e lettura in Fortini si ritrovano in D. Dalmas, Tra scrivere e leggere cit.

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rie. Esemplare in questo senso è il già citato Lezioni sulla traduzione, culmine del tentativo di trovare una sintesi tra le sue posizioni di traduttore, critico e poeta; prima di leggerlo al pubblico, a Napoli nel 1989, Fortini – lo testimoniano le registrazioni – esemplificò così quanto stava per fare: Quando ero ragazzo ho visto una volta una vignetta che rappresentava un pittore che si apprestava a preparare una mostra e che aveva fatto un paesaggio lungo venti metri, una grande veduta, e poi la tagliava a fette – e con ognuna di queste faceva tanti quadri ed una mostra6.

Anche questo libro, che si occupa soprattutto delle traduzioni e delle riscritture di Fortini, è come se – coscientemente – “tagliasse a fette una veduta”: perché è l’unico modo di organizzare una «mostra», ma anche col proposito di evidenziare il fatto che ciascuno dei «quadri» non è altro, appunto, che una fetta dell’intera «veduta». Fuor di metafora, mi sono riproposta di condurre una indagine dettagliata del Fortini che traduce e riscrive in quanto figura inscindibile dal Fortini poeta e critico. E ciò allo scopo di mettere in luce quanto traduzione, poesia e critica siano, in questo autore, intrecciati e in ultimo consustanziali. Tale consustanzialità conferma – e contribuisce a fondare – la convinzione precedentemente espressa che la letteratura tradotta verso (o riscritta in) una determinata lingua sia da considerarsi come una parte fondamentale della letteratura in quella determinata lingua, e che non si possa fare la storia di una determinata letteratura senza prendere in esame anche determinate traduzioni e riscritture effettuate dalle altre lingue verso quella letteratura o a partire da quella letteratura stessa. 3. Veniamo alla seconda delle scelte critiche di cui parlavo. Essa ha a che fare con Fortini nella misura in cui quest’ultimo è protagonista di un caso lampante di riscritture di autorialità: Fortini crea la propria autorialità – quale “discorso” letterario-culturale-politico – non ex 6 Ringrazio Luca Lenzini e Elisabetta Nencini per avermi dato la possibilità di ascoltare tali registrazioni presso AFF.

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nihilo, ma (anche) riprendendone e imitandone un’altra già esistente, quella di Bertolt Brecht. Sul rapporto tra Fortini e Brecht non c’è bisogno di soffermarci troppo: è stato già oggetto di numerosi studi7, che hanno da una parte messo in rilievo come Fortini – almeno a partire dalla pubblicazione delle traduzioni di Poesie e canzoni uscite per Einaudi nel 19598 – costelli numerosi suoi testi poetici di elementi manifestamente brechtiani (un esempio lampante è Traducendo Brecht9); dall’altra parte, non sono mancati rilievi più generali sulla centralità che il poeta tedesco riveste per Fortini, che – ha sottolineato Pier Vincenzo Mengaldo – si qualifica come «il più diretto erede in Italia di Brecht»10, e che – come ha affermato Riccardo Bonavita – attraverso la “consacrazione” di Brecht crea nel campo letterario italiano

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Sul rapporto tra Fortini e Brecht, anche nell’ambito della relazione del primo con la letteratura tedesca, si vedano soprattutto Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 387-401; Id., Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1978, pp. 828-829; Id., “Questo muro” di Franco Fortini, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Le Opere, vol. IV: Il Novecento. II. La ricerca letteraria, Einaudi, Torino 1996, pp. 931-951; Eva Maria Thüne, Dichtung als Widerspruch. Zur Entwicklung poetologischer Positionen bei Franco Fortini, Winter, Heidelberg 1990 (soprattutto le pp. 187-215); Ead., Un traduttore poco ortodosso. Fortini e la cultura tedesca, «Allegoria», 21-22, 1996, pp. 178-195; Giovanni Raboni, Franco Fortini, in G. Grana (a cura di), Letteratura italiana del Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, vol. IX, Marzorati, Milano 1982, pp. 8668-8687; AA.VV., Bertolt Brecht/Franco Fortini. Franco Fortini traduttore di Bertolt Brecht: atti del seminario, Centro Studi Franco Fortini, Siena 1998, online: ; Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, Manni, Lecce, 1999 (su Brecht soprattutto le pp. 125-168); Riccardo Bonavita, Traduire pour créer une nouvelle position: la trajectoire de Franco Fortini d’Éluard à Brecht, in J. Meizoz (a cura di), La circulation internationale des littératures, numero speciale di «Études de lettres», 1-2, 2006, pp. 277-291; Michele Sisto, Mutamenti nel campo letterario italiano 1956-1968: 
Feltrinelli, Einaudi e la letteratura tedesca contemporanea, «Allegoria», 55, 2007, pp. 85-109; Irene Fantappiè, Cinque tesi sulla traduzione in Fortini. Sélection e marquage in “Il ladro di ciliege”, in I. Fantappiè e M. Sisto (a cura di), Letteratura italiana e tedesca (1945-1970). Campi, polisistemi, transfer / Deutsche und italienische Literatur (1945-1970). Felder, Polysysteme, Transfer, IISG, Roma 2012, pp. 147-168; L. Lenzini, Una antica promessa cit., soprattutto pp. 85-109. 8 Bertolt Brecht, Poesie e canzoni, a cura di R. Leiser e F. Fortini, con una bibliografia musicale di G. Manzoni, Einaudi, Torino 1959. 9 Franco Fortini, Traducendo Brecht, in Id., Una volta per sempre, Mondadori, Milano 1963 (d’ora in avanti UVS), p. 89, ora in TP, p. 239. 10 P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento cit., p. 829.

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una nuova presa di posizione per sé stesso11. In altre parole, Fortini presenta Brecht al pubblico italiano come il tipo di autore che Fortini stesso aspira ad incarnare: il «poeta morale del Socialismo»12 (l’espressione è dello stesso Fortini). Ciò che ancora non è stato fatto, però, è tentare di affrontare questo tema tenendo insieme la prospettiva microtestuale e quella più generale relativa all’autore come tale. La nozione di riscritture di autorialità nasce proprio allo scopo di riconcettualizzare casi come quello di Fortini e Brecht in termini che permettano una simile sinergia di approcci: ovverosia in termini che consentano di ripensare le relazioni tra autori da un lato come delle riprese e delle imitazioni di un’altra autorialità (andando quindi al di là della mera constatazione di determinati loci paralleli), ma dall’altro lato anche come “riscritture”, cioè come processi che si danno (e quindi si possono leggere) nei testi. La domanda da cui scaturisce questo libro non riguarda dunque il rapporto Fortini-Brecht bensì la figura di Fortini come autore (come persona, cioè come la maschera autoriale che si evince dai suoi testi)13. Parlare di riscritture di autorialità serve insomma a cercare di capire in che modo l’autorialità di Fortini abbia preso forma (non ex nihilo ma anche a partire da modelli preesistenti), nonché a chiedersi in che modo a tale autorialità si possa ricondurre la produzione del Fortini poeta, saggista, traduttore (soprattutto del Fortini traduttore che si confronta con poeti quanto mai diversi da Brecht, tra i quali spiccano Baudelaire, Heine, Rilke). Il libro è composto da due parti, diverse dal punto di vista metodologico e dotate ciascuna di autonomia, ma strettamente interrelate e pensate l’una come il necessario complemento dell’altra. La prima è uno studio di carattere teorico-comparatistico. Il concetto di riscritture di autorialità nasce difatti non nel vuoto ma quale proposta di integrazione al dibattito critico sulla riscrittura (nonché a quello, per certi aspetti liminare, sulla traduzione): per fornire al concetto una solida base è dunque necessario inquadrarlo nel suddetto dibattito. Quest’ultimo è però notoriamente ampio, complesso e difficile da navigare, mancando quasi del tutto trattazioni che offrano su di 11

Cfr. R. Bonavita, Traduire pour créer une nouvelle position cit. Franco Fortini, Introduzione, in Bertolt Brecht, Poesie e canzoni cit., p. XX. 13 Per il concetto di persona nel quadro delle teorie sull’autore, cfr. infra, p. 60. 12

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introduzione

esso una visione d’insieme. Ho dunque ritenuto necessario soffermarmi in primo luogo sulle teorizzazioni relative alla riscrittura e alla traduzione, offrendone sia una sistematizzazione sia una nuova interpretazione, per poi procedere a esporre la mia proposta di integrazione al dibattito, la quale consiste appunto nell’idea di riscritture di autorialità. Vale la pena precisare che, nel corso della trattazione relativa allo stato dell’arte, le teorie sulla riscrittura vengono non solo discusse ma anche esemplificate per mezzo di casi di studio rilevanti, e che tali casi di studio – com’è necessario qualora si ragioni su nozioni come riscrittura e traduzione, centrali per ogni cultura e per ogni tempo – pertengono a un ampio spettro di letterature (europee e non) e di epoche (dal Medioevo ai giorni nostri). La seconda parte del libro, la più corposa, è invece uno studio monografico – di carattere storico-letterario e filologico-testuale – su Fortini e le riscritture di poesia europea, con particolare riferimento a quelle dal tedesco. Dopo aver tentato di chiarire su quali approcci teorici si fondi il pensiero fortiniano intorno alla riscrittura, ho condotto analisi stilistico-metrico-lessicali nonché tematiche dei testi letterari di (o tradotti da) Fortini, ricostruendone anche i legami col resto della sua opera, e ho indagato i contesti storico-culturali nei quali tali testi nascono, così da gettare luce sulla loro genesi. Al centro di questa parte del libro stanno da una parte le riscritture e le traduzioni di poeti europei sia “nuovi” sia “classici”, che corrispondono a riscritture di autorialità attraverso le quali Fortini costruisce la propria postura, e, dall’altra, le cosiddette “traduzioni immaginarie”, riscritture di autorialità attraverso le quali Fortini tende piuttosto a decostruire la maschera autoriale da lui stesso adottata. Ho fatto in modo che le due parti del libro, qualora il lettore sia interessato solo a uno dei due aspetti trattati, possano anche venir lette ciascuna singolarmente. Eppure, mi preme sottolineare che nessuna delle due sarebbe nata se non ci fosse stata l’altra: pur autonome, esse si rendono reciprocamente possibili, come le Drawing hands della nota litografia di Escher. D’altra parte questo libro, e il concetto sul quale si basa, vorrebbe contribuire proprio a gettare un ponte tra la teoria della letteratura e l’analisi dei testi nei loro contesti; ho difatti operato nella persuasione che si debba lavorare con teoria e testi rispettando la specificità di ciascuno, ma anche tentando di farli entrare in un – rischioso ma fertile – dialogo.

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introduzione

* Come si è detto, il libro nasce sulla base di riflessioni intorno a uno stesso tema nate in occasioni diverse ma poi rielaborate in una monografia unitaria, nonché corredate dall’aggiunta di numerose parti inedite. Per quel che riguarda la prima parte del libro, le pagine sulle riscritture di autorialità (pp. 59-62) sono inedite, mentre il resto del capitolo è una rielaborazione aggiornata e sintetizzata del saggio Riscritture, in Francesco de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Carocci, Roma 2014, pp. 135-165. Il cap. 1 della seconda parte del libro è una rielaborazione aggiornata e una sintesi di: Il “solve et coagula” della storia. Traduzione e tradizione in Fortini e Folena, in I. Paccagnella, E. Gregori (a cura di), Lingue, testi, culture. L’eredità di Folena vent’anni dopo, Esedra, Padova 2014, pp. 209-229. Una prima versione del cap. 2 è stata pubblicata col titolo Cinque tesi sulla traduzione in Fortini. Sélection e marquage in «Il ladro di ciliege», in I. Fantappiè, M. Sisto (a cura di), Letteratura italiana e tedesca 1945-1970: campi, polisistemi, transfer / Deutsche und italienische Literatur 1945-1970: Felder, Polysysteme, Transfer, IISG, Roma 2013, pp. 147-168; il testo è stato rivisto, modificato e ampliato. Il cap. 3 nasce invece da una fusione e rielaborazione di due saggi diversi, rispettivamente: Fortini e Heine attraverso Carducci, Noventa, Petrarca. Traduzioni, riscritture e una “citazione sbagliata”, in F. Diaco, E. Nencini (a cura di), “Per voci interposte”. Fortini e la traduzione cit., numero monografico de «L’ospite ingrato», n. s., 5, 2019, pp. 71-84, e “Contro il disordinato linguaggio dei retori”. Marcature sintattico-metriche e storico-critiche in Fortini traduttore, in F. Grendene, F. Magro, G. Morbiato (a cura di), Fortini ’17, Quodlibet, Macerata 2020, pp. 27-45. Il cap. 4 è in gran parte un testo inedito. Alla base ci sono anche le questioni affrontate e sviluppate in Franco Fortini als Lyrik-Übersetzer und Übersetzungstheoretiker, in C. Fischer, B. Nickel (a cura di), Lyrik-Übersetzung zwischen imitatio und poetischem Transfer: Sprachen, Räume, Medien / La Traduction de la poésie entre imitatio et transfert poétique: langues, espaces, médias, Stauffenburg Verlag, Tübingen 2012, pp. 75-87; nel già citato Il “solve et coagula” della storia. Traduzione e tradizione in Fortini e Folena; infine, in Pseudo-translation as Kippbild. Multistable Authorship and Textuality in Franco Fortini’s “traduzioni im-

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introduzione

maginarie”, in T. Toremans, B. Vanacker (a cura di), Pseudotranslation and cultural identity, numero speciale di «Canadian Review of Comparative Literature», 44, 4, 2017, pp. 680-700. L’Introduzione e le Conclusioni sono anch’esse testi inediti. Ringrazio l’Archivio Franco Fortini di Siena per avermi accordato il permesso di fare riferimento ai materiali ivi consultati.

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Ringraziamenti

Un grazie particolare va alle e ai componenti del progetto Futuro in Ricerca/FIRB Storia e mappe della letteratura tedesca in Italia nel Novecento: Anna Antonello, Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Michele Sisto, e particolarmente a Anna Baldini e Michele Sisto che hanno letto con attenzione e perizia il libro prima che andasse in stampa. Preziosi spunti e indicazioni mi sono giunti da parte di Andrea Afribo, Pietro Cataldi, Davide Dalmas, Carlo Fantappiè, Paola Maria Filippi, Bernhard Huß, Luca Lenzini, Fabio Magro, Florian Mehltretter, Pier Vincenzo Mengaldo, Camilla Miglio, Elisabetta Nencini, Pierluigi Pellini, Luigi Reitani, Donatello Santarone, Niccolò Scaffai, Eva-Maria Thüne, Diana Toccafondi, Emanuele Zinato, che desidero calorosamente ringraziare. Grazie al direttore della casa editrice Quodlibet Stefano Verdicchio e ai suoi collaboratori; grazie inoltre a Maria Lorenzi per il supporto redazionale. E grazie a P. e a L., che mi fanno giocare alla traduzione tutti i giorni.

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Elenco delle abbreviazioni

Opere di Franco Fortini citate in sigla AFF CS FV-I FV-II FV-III LC LT

Archivio Franco Fortini, Università di Siena. Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994. Foglio di via e altri versi, Einaudi, Torino 1946. Foglio di via e altri versi, Einaudi, Torino 1967. Foglio di via e altri versi, a cura di B. De Luca, Quodlibet, Macerata 2018. Il ladro di ciliege, Einaudi, Torino 1982. Lezioni sulla traduzione, a cura di M. V. Tirinato, premessa di L. Lenzini, Quodlibet, Macerata 2011. NSI Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano 1987. OI-I L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici, De Donato, Bari 1966. OI-II L’ospite ingrato. Primo e secondo, Marietti, Casale Monferrato 1985. PCS Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, Einaudi, Torino 1984. PE-I Poesia ed errore, Feltrinelli, Milano 1959. PE-II Poesia e errore, Mondadori, Milano 1969. PI Poesie inedite, a cura di P. V. Mengaldo, Einaudi, Torino 1997. PN I poeti del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1988. PS Poesie scelte (1938-1973), a cura di P. V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1974. SE Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2003. SI-I Saggi italiani, De Donato, Bari 1974. SI-II Saggi italiani, Garzanti, Milano 1987. TP Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Milano 2014. UGA Un giorno o l’altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, Quodlibet, Macerata 2006. UVS Una volta per sempre, Mondadori, Milano 1963. UVS-P Una volta per sempre. Poesie 1938-1973, Einaudi, Torino 1978. VP-I Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, il Saggiatore, Milano 1965. VP-II  Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, il Saggiatore, Milano 1969. VP-III Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Einaudi, Torino 1989. VS Versi scelti 1939-1989, Einaudi, Torino 1990.

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Prima parte Per una teoria della riscrittura

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1. Riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

1.1 La riscrittura, un universo eterogeneo Dopo aver ascoltato il racconto della fuga di Enea da Troia, Didone – così narra Virgilio – «da chiuso fuoco è consunta» («caeco carpitur igni»)1. La passione avvampa nel petto della regina di Cartagine. Se però Didone decide di non soffocare i suoi sentimenti per l’eroe troiano è soprattutto grazie alle parole della sorella Anna, che la conforta e la incoraggia. La vicenda di Didone narrata nel quarto libro dell’Eneide avrà, come tutti sanno, un tragico finale, ma il consiglio di Anna – «unanima soror»2, che ama Didone più della luce – era dato a fin di bene; sono gli dèi a volere altrimenti. Oltre mille e cinquecento anni dopo, a Venezia, si stampa una storia molto simile a quella di Virgilio. L’autore è Pietro Aretino. L’eroe protagonista, fuggito dalla città natale in fiamme, dopo una lunga traversata in mare giunge nella casa di una signora alla quale racconta la sua tragica vicenda. La signora s’innamora di lui e gli si concede, nonostante il voto di fedeltà al marito defunto; dopo la sua partenza si toglierà la vita. Ça va sans dire: a spingerla a seguire il proprio cuore sono state le parole della sorella, che, eppure, troviamo molto cambiata. Alla confessione dell’infausta passione della donna, infatti, la sorella – che «pigliava le cose pel dritto» – reagisce ridendo cinicamente, facendosi «beffe del suo boto e del suo pianto»3. D’altra parte, la figura della sorella non è l’unico elemento a subire una radicale trasformazione in Aretino: gli dèi dell’Eneide sono scomparsi e i personaggi agi1

Eneide IV, v. 3. Per la traduzione, cfr. Publio Virgilio Marone, Eneide, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1970. 2 Eneide IV, v. 31. 3 Pietro Aretino, Ragionamento. Dialogo, a cura di N. Borsellino, Garzanti, Milano 2005, p. 325.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

scono con motivazioni tutt’altro che nobili. Il protagonista abbandona colei che lo ama senza alcuna valida ragione; non di certo per andare a fondare Roma, perché da Roma è appena scappato. Il novello pius Aeneas infatti, divenuto capofila degli ingannatori di donzelle, non è reduce da una strenua battaglia sotto le mura di Troia bensì è scampato alle razzie compiute dai lanzichenecchi durante il sacco di Roma del 1527; ha dunque improvvisato una fuga vigliacca e frettolosa durante la quale ha arraffato quanto poteva (scarpe, tovaglie, ma non certo una statua dei Penati). Per giunta il protagonista infligge alla donna uno smacco gratuito dicendole di doverla lasciare perché destinato a fondare una città, cosa che nel testo di Aretino suona come la più assurda delle scuse. L’elemento che conferiva alla trama dell’Eneide una spiccata tensione ideale è diventato, nel Dialogo aretiniano, che è del 1536, la «destra via da licenziarmi da una signora»4. Un altro esempio, diverso sotto ogni punto di vista e quindi utile per avvicinarsi a un problema così sfaccettato e refrattario alle teorizzazioni monolitiche come quello della riscrittura: il XX secolo si apre a Vienna con la nascita di una rivista dalla copertina rosso fuoco, «Die Fackel», sulla quale è disegnata in primo piano una fiaccola mentre sullo sfondo compare la città che a quel tempo è ancora capitale di un vastissimo impero. Proprio nel momento in cui quell’impero crolla, ovvero durante la Prima guerra mondiale, Karl Kraus, fondatore della rivista, smette di “dar fuoco” a Vienna con le sue tirate di critica politica e sociale per dedicarsi a un progetto apparentemente poco congruo al momento storico. Riprende in mano l’amato Shakespeare – quei drammi che non mancavano in nessuna libreria borghese e in nessun cartellone dei teatri viennesi –, non confrontandosi però con il testo originale, scritto in una lingua che non conosceva, bensì con alcune celeberrime traduzioni allestite nel secolo precedente, vere e proprie pietre miliari della cultura di lingua tedesca: quelle di Schlegel, Tieck, Voss. Kraus le mette a confronto, scegliendo poi per ogni verso o frase la traduzione che gli pare più “shakespeariana”. Monta insieme questi frammenti e costruisce un nuovo Shakespeare, uno Shakespeare tedesco del quale egli non ha scritto una sola parola (ad eccezione di qualche giuntura tra un frammento e l’altro); eppure questo è lo Shakespeare di Kraus. Il contributo di Kraus consiste nell’aver composto 4

Ivi, p. 326.

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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questo singolare mosaico, nell’aver espunto intere scene che riteneva meno riuscite, e nell’aver reso pubblica questa collezione di “perle” presentandola come opera sua: sia quando la dà alle stampe, definendola uno scritto proprio; sia a teatro, dove la recita al suo pubblico come se fosse una delle sue violente invettive contro l’ipocrisia della Vienna del tempo; sia alla radio, dove la usa come arma nella lotta che conduce contro un nemico personale, il regista Max Reinhardt. I nomi Enea o Didone non compaiono mai nel testo di Aretino, eppure esso intrattiene una stretta quanto evidente relazione con il capolavoro di Virgilio. Altrettanto stretto ed evidente è il rapporto tra il testo krausiano e i drammi di Shakespeare. Ogni epoca e ogni letteratura abbondano di opere del genere, che per così dire “prendono le mosse” da una o più opere precedenti5. Si tratta di opere radicalmente diverse l’una dall’altra, non solo per periodo e per genere, ma anche per il modo in cui nascono e per la relazione che instaurano con il testo da cui derivano o con il contesto letterario in cui si situano. Non è un caso che la loro classificazione sia tutt’altro che univoca. Da una parte sono state utilizzate denominazioni diverse (oltre a riscrittura, anche trasformazione, rifacimento, rimaneggiamento, trasposizione e molte altre ancora – per tacer di rewriting, Umschreibung, reprise ecc.); dall’altra, il concetto di riscrittura è diventato un iperonimo tanto ampio quanto vago. Il primo problema legato alla questione della riscrittura è che – se la si analizza in prospettiva diacronica – essa risulta aver subito nei secoli un’evoluzione radicale, in conseguenza non soltanto di fattori intraletterari, ma anche di fattori extraletterari (politici, storici, economici, culturali). Tali fattori possono inoltre essere tanto immateriali, come ad esempio il mutare del concetto di creazione letteraria, quanto materiali, come il trasformarsi del supporto della scrittura: fondamentale ad esempio è il passaggio dal manoscritto alla stampa6. Una precisa definizione trans-storica della riscrittura risulta 5 La lista dei possibili esempi è pressoché infinita. Se ne citano qui soltanto alcuni, appunto a titolo meramente esemplificativo: l’Eneide travestita di Giovanni Battista Lalli (1633), che si rifà a Virgilio; Shamela di Fielding (1741), che si rifà a Pamela di Richardson (1740); Ulysses di Joyce (1922), che si rifà all’Odissea di Omero; Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo (1801), che si rifà a Die Leiden des jungen Werthers di Goethe (1774). 6 Cfr. tra gli altri Elizabeth Eisenstein, The Printing Press as an Agent of Change: Communications and Cultural Transformations in Early Modern Europe, Cambridge University Press, Cambridge 1979; Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, tr. it. di A.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

estremamente difficile, se non si vuole cedere a grossolane semplificazioni. Non meraviglierà quindi che quasi non esistano trattazioni dedicate specificamente a questo problema, né che chi si è occupato di questo concetto abbia evitato di cristallizzarlo in definizioni, proponendo, piuttosto, immagini calzanti: tra le più celebri c’è quella di palinsesto, che Gérard Genette impiega nell’omonimo libro del 1982, accostando la riscrittura all’immagine di una pergamena sulla quale ci sono due testi sovrapposti, il più antico dei quali non risulta essere completamente cancellato, bensì rimane visibile in trasparenza7. Anche quando osservato in dimensione sincronica, il problema della riscrittura dà luogo a definizioni e corollari estremamente disomogenei, a seconda dell’approccio e della metodologia usata. Recentemente lo si è spesso inteso in maniera molto ampia, anche muovendo dalle considerazioni nate dal dibattito sorto alla fine degli anni Sessanta attorno alla questione dell’intertestualità8. Se si pone l’accento – come hanno fatto, tra gli altri, Kristeva e Barthes9 – sul fatto che ogni testo è fatto di altri testi, non c’è opera che non possa e debba essere considerata una riscrittura (secondo Boitani, tutto, dopo l’Iliade è, più o meno direttamente, una riscrittura)10. D’altra parte, il concetto di riscrittura può essere anche inteso in un’accezione più ristretta, il che permette di dar conto della specificità di alcuni testi. È indubbio, ad esempio, che l’Orlando furioso non sia pensabile senza le precedenti narrazioni del ciclo carolingio

Calanchi, il Mulino, Bologna 1986 [1982]; Amedeo Quondam, La letteratura in tipografia, in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, vol. II, Einaudi, Torino 1983, pp. 555-686. 7 Cfr. Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, tr. it. di R. Novità, Einaudi, Torino 1997 [1982]. 8 Per una panoramica su tale dibattito, cfr., tra gli altri, G. Allen, Intertextuality cit.; Andrea Bernardelli, Che cos’è l’intertestualità, Carocci, Roma 2013; R. B. Kershner, Intertextuality cit. 9 «Ogni testo si costruisce come mosaico di citazioni, ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo», sostiene Julia Kristeva (cfr. Julia Kristeva, Semeiotiké. Ricerche per una semanalisi, tr. it. di P. Ricci, Feltrinelli, Milano 1978 [1969], p. 121). L’opera, sostiene Roland Barthes, non deve più essere vista come «prodotto finito, chiuso», bensì come «produzione in corso, connessa ad altri testi, altri codici (è l’intertestualità), collegata alla società, alla Storia, non in modo determinista, ma citazionale» (cfr. Roland Barthes, Analisi testuale di un racconto di Edgar Allan Poe, in Id., L’avventura semiologica, tr. it. di M. C. Cederna, Einaudi, Torino 1991 [1973], p. 181). Per Barthes la lettura consiste di conseguenza nell’individuare lo «sbocco del testo su altri testi, altri codici, altri segni» (ivi, p. 184). 10 Piero Boitani, Ri-Scritture, il Mulino, Bologna 1997, p. 8.

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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e bretone; ma è altrettanto evidente come l’opera ariostesca intrattenga con esse un rapporto diverso da quello che lega – per rimanere nella stessa epoca e sugli stessi temi – Girone il Cortese (1548) di Luigi Alamanni al romanzo bretone in prosa Guiron le Courtois, scritto intorno al 1235. Alamanni rielabora un testo preciso che segue per lo più alla lettera, riprendendone puntualmente sia la trama sia i personaggi sia la maggior parte delle espressioni. Tuttavia, Girone il Cortese non può in alcun modo essere considerato solo una traduzione: non soltanto perché il romanzo in prosa viene vòlto in versi, ma anche perché Alamanni riscrive il romanzo facendo in modo che nel suo poema sia rispettata l’unità d’azione raccomandata da Aristotele. L’accezione ristretta di riscrittura (quella che include solo i testi più direttamente ed esplicitamente legati ad altri testi) permette inoltre di rendere oggetto di analisi critica alcuni testi che, pur generati da processi intertestuali molto simili a quelli che si sono visti nei casi di Aretino o Kraus, sono stati spesso ignorati dalla critica perché afferenti a generi che, nella gerarchia che regola il canone letterario, risultano marginali, o non letterari, o non sono considerati come generi tout court: l’editing, l’antologia, la critica letteraria. Questa è la posizione, tra gli altri, di André Lefevere, che distingue tra writing e rewriting, e include in quest’ultima categoria testi di tutte le epoche che «manipolano»11 opere preesistenti per adattarle a un pubblico o a un diverso «universo discorsivo»12. 1.2 La riscrittura come paradosso Nell’ambito della teoria della letteratura la riscrittura costituisce un problema fondamentale. Occuparsene significa interrogarsi su come la letteratura muti nel corso delle epoche storiche (le riscritture possono contribuire alla trasformazione di forme e generi letterari tanto quanto alla loro persistenza e sedimentazione), oltre che sulla ridefinizione continua dei confini della letteratura rispetto ad altre forme discorsive. 11 12

Th. Hermans, The Manipulation of Literature. Studies in Literary Translation cit. A. Lefevere, Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame cit.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

Ferma restando l’eterogeneità dell’universo della riscrittura, non è però impossibile riconoscere delle costanti. Di seguito si propone di individuare, quale fil rouge della riscrittura nelle sue varie accezioni, la natura paradossale della riscrittura stessa: riscrittura è ripetizione senza replica, e di conseguenza ripetizione che necessariamente comporta variazione, persino in assenza di intenzionali modifiche del testo di partenza. La riscrittura è un testo “secondo” (perché è cronologicamente successivo a un altro testo, ma anche perché è fatta “secondo quel testo”) che intende essere – ed è – anche testo “primo”, dato che ha tutto il diritto di entrare a far parte del canone di una letteratura o di dare a sua volta origine a riscritture. La messa in luce dell’aspetto paradossale può aiutare a pensare in modo nuovo la riscrittura. Finora la riscrittura è quasi sempre stata associata a immagini bidimensionali: la pergamena scritta due volte, la tavoletta ricoperta di cera che viene erasa e incisa di nuovo, il disegno su una tela o un arazzo che viene intrecciato in un modo e poi intrecciato diversamente, e più in generale il foglio scritto e poi “riscritto sopra”. Tenendo a mente il carattere paradossale della riscrittura, però, ci si rende conto che tali figure bidimensionali funzionano solo se le si organizza tridimensionalmente. In altre parole, si può continuare a intendere il testo “primo” e “secondo” come il sopra e il sotto o come il verso e il recto di una superficie testuale bidimensionale, ma solo a patto di prendere questa superficie testuale bidimensionale e organizzarla tridimensionalmente, ottenendo una costruzione in cui tale recto e tale verso compongano un oggetto “terzo” e risultino indistinguibili. La riscrittura può dunque essere pensata come uno dei paradossi matematici più noti, ovvero come un nastro di Möbius. Esso è composto da un recto e un verso, eppure facendo scorrere la punta di un dito sul nastro ci si accorge che tali recto e verso sono indistinguibili: entrambi appartengono alla superficie, la superficie è composta da entrambi. Allo stesso modo, nella riscrittura il testo primo e secondo vengono esperiti entrambi come superficie testuale, come un recto e un verso organizzati in una combinazione “terza” e paradossale. Al fine di compiere una (seppur aperta) sistematizzazione del complesso universo della riscrittura, nella prima parte di questo capitolo sarà opportuno muoversi per “assi”, e non soltanto perché questo è un modo efficace di affrontare l’eterogeneità diacronica e sincronica della riscrittura, ma anche e soprattutto perché questi assi

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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permettono di collegare, di volta in volta, due poli opposti che stanno in relazione dialogica e creano un campo di tensione. Si tratta di poli inconciliabili tra loro, eppure entrambi presenti nella riscrittura, e dunque in questo senso, appunto, elementi di un paradosso. Il carattere paradossale delle riscritture emerge sempre, qualsiasi sia l’aspetto specifico preso in considerazione. L’autore, ad esempio: perché Kraus si arroga il diritto di dirsi tale se il contenuto di quel suo libro è in tutto e per tutto shakespeariano, e la lingua non è la sua, bensì quella di alcuni traduttori tedeschi dell’Ottocento, soprattutto Schlegel? In una riscrittura, inoltre, ci sono spesso autori nascosti, oltre ai due più evidenti: Aretino non ha fatto derivare il suo testo direttamente da Virgilio (da cui pure riprende la trama e molti topoi), bensì ha copiato ampi passi di una traduzione quattrocentesca dell’Eneide ad opera di Tommaso Cambiatore da Reggio. I passi del Dialogo più fedeli a Virgilio, che parevano essere traduzioni di Aretino, sono stati scritti da Cambiatore, al quale dunque si deve buona parte della paternità delle frasi di questo testo; tale testo, per di più, è certamente passato per le mani di Niccolò Franco o di uno degli altri poligrafi stipendiati da Aretino affinché gli fornissero brogliacci della letteratura degli antichi, che egli non sapeva leggere. Alla riscrittura corrisponde dunque una autorialità complessa e ibrida, che può andare da un autore apparentemente al “grado zero”, come Kraus, fino a un ensemble di voci inestricabili e indistinguibili, come nel caso di Aretino. Poche tipologie di testo mettono in crisi il concetto di autore tanto quanto la riscrittura. In realtà, alla domanda su chi sia l’autore di una riscrittura è impossibile rispondere finché non ci si rende conto di uno degli aspetti paradossali della riscrittura stessa: ovvero che tale concetto designa al contempo sia testi letterari sia processi letterari, e che i primi non devono necessariamente essere ascritti allo/agli stesso/i soggetto/i dei secondi. Quello che va dalla riscrittura come testo alla riscrittura come processo letterario sarà dunque il primo asse dell’analisi che segue. Occorre inoltre chiedersi che rapporto ci sia tra le riscritture e il testo da cui originano. In altre parole: come si riscrive? In che modo il testo secondo si relaziona al primo? Vale la pena tornare ai due esempi menzionati in apertura di capitolo. L’operazione krausiana è senza dubbio mossa dall’ammirazione per i drammi del poeta inglese, che lo scrittore austriaco considera non solo una sorta di enci-

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prima parte. per una teoria della riscrittura

clopedia del reale ma anche espressione di determinati principi etici e morali. Riscrivere Shakespeare in un’epoca in cui tutto sembra disfarsi in macerie significa volergli offrire un tributo e produrne un’imitazione seria. Al contrario, Aretino affronta Virgilio con intento dichiaratamente iconoclasta. La gerarchia di valori su cui si regge l’Eneide viene pressoché rovesciata; l’autore del Dialogo restituisce in forme parodiche uno dei più famosi passaggi di quello che nella sua epoca è l’autore par excellence. Le riscritture possono dunque coprire tutto lo spettro che va dall’imitazione seria alla parodia più dissacrante; questo sarà il secondo asse dell’analisi. Infine, che rapporto c’è tra le riscritture e il loro contesto letterario? Perché riscrivere, e quali sono le conseguenze? La riscrittura può mirare sia all’appropriazione sia al recupero, sia all’espulsione dal canone sia al tentativo di strappare all’oblio e ridare al presente. La si può intendere come una nuova messa in scena dello “spazio di memoria” letterario e culturale, una messa in scena fatta sia di pieni – nuovi modi di strutturare questo spazio, negoziati con il proprio contesto culturale – sia di vuoti, originati da processi di omissione, negazione, cancellazione. Le riscritture di Kraus sono un tentativo di rielaborare lo spazio di memoria shakespeariano attraverso atti di – materiale – cancellazione (molte scene dei drammi vengono espunte), ma anche di trascrizione, ovvero di ripetizione e restituzione al presente. Al presente Kraus vuole restituire, tra le altre cose, una determinata lingua: non quella inglese, bensì la sua stessa lingua, il tedesco – che egli considera gravemente minacciato dai rivolgimenti storici e culturali d’inizio Novecento – o, per meglio dire, una determinata lingua tedesca, cioè quella di alcuni autori del XIX secolo che Kraus ritiene fondamentali. Al contempo, con queste riscritture Kraus consolida la propria autorialità, presentandosi come umile epigono, ma anche come legittimo erede, del Bardo. Se invece Aretino pubblica una riscrittura parodica di Virgilio è perché intende esprimersi a favore di un’idea di creazione letteraria basata su un concetto di imitazione come appropriazione e come furto, opponendosi in tal modo ai «pedanti» che hanno erudizione ma non «invenzione». Così come Virgilio «svaligiò Omero»13, ora Aretino intende “svaligiare” Vir13

Pietro Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, vol. I, Salerno, Roma 1997, p. 187.

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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gilio, usandolo – per riprendere una sua espressione – come Michelangelo usa i colori. Ciò ha come conseguenza anche processi di oblio e negazione: dei modelli letterari si deve infatti, secondo Aretino, mantenere non più di «quanto ritengano de la conoscenza de la madre e del padre gli uccelli che volano»14. 1.2.1 Primo asse: testo/processo Con riscrittura, come abbiamo detto, si intendono sia testi sia processi, sia prodotti letterari che modi di produzione letteraria: in altre parole, si parla di riscrittura in riferimento a un’opera che è una trasposizione di uno o più testi condotta in modo estensivo ed evidente, ma anche al processo del generarsi di quella stessa opera. In entrambi i casi la riscrittura presenta un equilibrio paradossale e inscindibile tra ripetizione e (ri)creazione. Oggetto della riscrittura possono essere temi, personaggi, parti della fabula, strutture della narrazione, modelli e qualsiasi altro elemento o forma del testo letterario. Nel 1845 Alexandre Dumas riscrive il racconto di E. T. A. Hoffmann Nussknacker und Mausekönig, pubblicato per la prima volta nel 1816 con il titolo Histoire d’un casse-noisettes. Dumas riprende pressoché in toto lo spettro tematico di Hoffmann, e in particolare l’insistenza sul tema del doppio, ma trasforma la visionarietà perturbante con cui l’autore tedesco racconta la storia dello Schiaccianoci in un’ironia più leggera e compiaciuta. In questa sede non ho modo di prendere in esame anche le riscritture che implicano il passaggio da un medium a un altro, ma è interessante sottolineare quantomeno che è stata la riscrittura di Dumas, e non il testo di Hoffmann, a ispirare Čajkovskij per il suo balletto del 1892, che, anche grazie alla celebre interpretazione di Nureyev, sancirà definitivamente la popolarità della storia (parzialmente adattata poi anche come cartone animato da Walt Disney in Fantasia, 1940). Un caso, dunque, di riscrittura più fortunata dell’originale (di certo non l’unico: spesso le riscritture hanno relegato le loro fonti nell’oblio per secoli, o anche definitivamente). 14

Ibid.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

La riscrittura come processo può inoltre focalizzarsi sui personaggi, come ad esempio Les Aventures de Télémaque, fils d’Ulysse (1699), in cui Fénelon conduce il giovane figlio di Ulisse, Telemaco, e il suo precettore, Mentore, in un viaggio attraverso paesi dell’antichità i cui problemi alludono chiaramente a quelli della Francia del suo tempo. Ancora, il processo di riscrittura può selezionare parti della fabula, che vengono compresse, espanse, modificate, poste in un differente contesto; in Ulysses (1922), Joyce presenta una lunga serie di casi del genere. È invece il modello della Nouvelle Héloïse (1761) di Rousseau che Goethe sviluppa creando opere simili ma anche innovative, come il Werther (1774); da parte sua, Rousseau aveva produttivamente recepito e riadattato il modello di romanzo epistolare di Richardson. La trasposizione da cui si origina la riscrittura può avere come conseguenza mutamenti di molti tipi. Può cambiare l’ambientazione: la storia viene situata in altro spazio o tempo, oppure si racconta il prima e il dopo, come nei sequel e nei prequel (ad esempio, Wide Sargasso Sea di Jean Rhys, 1966, è un prequel di Jane Eyre di Charlotte Brontë, 1847). Inoltre, può mutare la prospettiva (la storia viene raccontata da un altro punto di vista e assume così un altro significato), o ancora il genere letterario. Può anche verificarsi un cambiamento di tipo ontologico: dal reale al fittizio o viceversa (resoconti storiografici diventano fiction o viceversa). Un caso particolarmente interessante è quello del passaggio di genere letterario. Nella riscrittura dell’Orlando furioso pubblicata da Italo Calvino nel 1970 il poema ariostesco viene ri-raccontato in prosa, seppur intercalata da alcune citazioni dei versi del testo originale. Il cambiamento di genere è consustanziale a un più generale mutamento della narrazione, che tenta, seguendo senza interruzione le vicende dei personaggi e lasciando da parte alcune sezioni del poema, di semplificare la fruizione dell’opera ariostesca per il lettore contemporaneo. Ci sono inoltre casi in cui il cambiamento di genere è sufficiente a creare una riscrittura anche se il testo riscritto non cambia, come nel libro di Friedrich Christian Delius e Karl-Heinz Stanzick Wir Unternehmer (1966). Gli autori hanno ripreso lunghi stralci dei verbali dell’assemblea degli imprenditori legati al partito politico tedesco CDU/CSU, tenutasi a Düsseldorf nel 1965, limitandosi a inserire degli accapo in mezzo alle frasi, e adeguando così il testo ai parametri formali del ge-

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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nere poesia. La loro intenzione era fare in modo che questi materiali, condensati grazie ai tagli e sottoposti a una forma di straniamento grazie al mutamento di genere, mettessero in luce con maggior chiarezza la rappresentazione che un preciso gruppo politico ha di sé stesso: attraverso la “ripetizione senza replica” di determinate frasi, Delius, che parte dal presupposto di una stretta correlazione tra linguaggio e realtà, intende condannare chi le ha pronunciate. Riscrivere serve appunto a strappare la maschera a una lingua che è al servizio dell’illusione; ripetere variando si costituisce dunque come un processo non solo letterario ma anche ermeneutico, per mezzo del quale è possibile costringere la lingua a tornare a dire la verità. Riscrivere significa evidentemente anche aver letto. La ricezione di un testo, di un modello, di un contenuto, è il presupposto necessario e ineliminabile della riscrittura, la sua conditio sine qua non. Inoltre, la ricezione condiziona i modi del riscrivere; processo, quest’ultimo, che è fortemente determinato dall’interpretazione del testo primo. Infine, è doveroso accennare anche alla ricezione della riscrittura, che ha aspetti peculiari. Leggiamo la riscrittura come un testo doppio, o addirittura multiplo. Leggere una riscrittura non significa solo leggere un testo, ma anche rileggerne un altro o degli altri, quello/i riscritto/i. La riscrittura presuppone la ricezione e interpretazione di un testo da parte dell’autore, e implica la ricezione e interpretazione di più testi da parte del lettore. La definizione del concetto di riscrittura, e la sua evoluzione nel corso della storia letteraria, non è dunque scindibile dalla definizione del concetto di ricezione, e dalla sua evoluzione nel corso della storia della cultura. Spesso si tende invece a considerare la riscrittura esclusivamente quale testo o insieme di testi (in accordo con un’idea di letteratura intesa quale “insieme di libri”, e di canone letterario inteso quale “insieme di capolavori”), oppure quale processo meramente creativo, come se questo stesso processo creativo non poggiasse le proprie basi su un processo di ricezione e interpretazione. Molti recenti approcci teorici alla letteratura – si pensi, tra gli altri, alla teoria della ricezione di Jauss15, ma anche alla Storia della lettura di Cavallo e Chartier16 – pongono l’accento su ricezione e lettura come operazioni 15 Cfr. Hans Robert Jauss, Die Theorie der Rezeption. Rückschau auf ihre unerkannte Vorgeschichte, Universitätsverlag Konstanz, Konstanz 1987. 16 Cfr. Guglielmo Cavallo, Roger Chartier, Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma-Bari 1995.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

non neutre: contingenti, individualmente e storicamente determinate, e influenzate da fattori sia letterari sia non letterari. La distinzione in riscrittura come testo e come processo sembra poco fruttuosa finché non ci si trova ad affrontare la complessa questione dell’autore. Come si è visto nel caso di Kraus e di Aretino, l’autore della riscrittura intesa come testo e l’autore del processo del riscrivere non sono necessariamente lo stesso/gli stessi. Inoltre, alcuni critici che si sono occupati di riscrittura17 hanno recentemente ribadito – sulla scorta degli studi strutturalisti – che quella della “voce autoriale” è una metafora problematica, un simulacrum certamente utile a preservare la fede in un’identificabile origine del testo, la cui validità è però inficiata, tra le altre cose, dal fatto che nessuno scrittore crea il suo strumento linguistico. Per quel che riguarda l’origine del testo, dunque, la “voce autoriale” deve dividere il suo potere con la “voce del testo”; e questo è particolarmente evidente nel caso delle riscritture, strutturalmente generate da più voci autoriali. Il modo migliore per chiarirlo è forse quello di prendere in esame una riscrittura raccontata: una metariscrittura che racconta la natura ibrida e paradossale dell’autorialità sottesa a questo tipo di testi. Ispirato da «quel frammento filologico di Novalis – numero 2005 dell’edizione di Dresda – che abbozza il tema dell’identificazione totale con un determinato autore»18, Pierre Menard, il protagonista di uno dei racconti di Jorge Luis Borges contenuti nella raccolta Ficciones, decide di tradurre il Don Quijote (1605-15) di Cervantes. Menard però non mira a ottenere un altro Quijote, bensì il Quijote: Non volle comporre un altro Chisciotte – che è cosa facile – ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell’originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – con quelle di Miguel de Cervantes19.

Non si tratta di tradurre il testo da una lingua all’altra, né di renderlo più attuale come accade in quelle opere – abominevoli, secondo 17 Cfr. Claude Maisonnat, Josiane Paccaud-Huguet, Annie Ramel (a cura di), Rewriting/ Reprising in Literature: The Paradoxes of Intertextuality, Cambridge Scholars, Newcastle 2009. 18 Jorge Luis Borges, Finzioni, tr. it. di F. Lucentini, Einaudi, Torino 1961 [1944], p. 67. 19 Ibid.

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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Menard – che collocano Cristo su un boulevard parigino o a Wall Street. Inizialmente Menard ritiene che per creare le condizioni necessarie alla totale identificazione con un determinato autore (ovvero per «essere Miguel de Cervantes») sia necessario imparare lo spagnolo, recuperare la fede cattolica e partire a combattere i mori. Tale procedimento viene presto scartato non perché impossibile ma perché troppo semplice: «Essere in qualche modo Cervantes, e giungere così al Chisciotte, gli parve meno arduo – dunque meno interessante – che restare Pierre Menard e giungere al Chisciotte attraverso le esperienze di Pierre Menard»20. Come, dunque, riscrivere il Quijote? Così scrive Borges: Il raffronto tra la pagina di Cervantes e quella di Menard è senz’altro rivelatore. Il primo, per esempio, scrisse (Don Chisciotte, parte I, capitolo IX): …la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire. Scritta nel secolo XVII, scritta dall’ingenio lego Cervantes, quest’enumerazione è un mero elogio retorico della storia. Menard, per contro, scrive: …la verità, la cui madre è la storia, emula del tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire. La storia, madre della verità; l’idea è meravigliosa. Menard, contemporaneo di William James, non vede nella storia l’indagine della realtà, ma la sua origine. La verità storica, per lui, non è ciò che avvenne, ma ciò che noi giudichiamo che avvenne. Le clausole finali – esempio e notizia del presente, avviso dell’avvenire – sono sfacciatamente pragmatiche. Altrettanto vivido il contrasto degli stili. Lo stile arcaizzante di Menard resta straniero, dopo tutto, e non senza qualche affettazione. Non così quello del precursore, che maneggia con disinvoltura lo spagnolo corrente della propria epoca21.

Pierre Menard non ha fatto altro che citare lettera per lettera le parole di Cervantes. L’arguto racconto di Borges è una serissima riflessione metaletteraria. Lo scrittore argentino dimostra in queste poche righe di essere perfettamente consapevole del carattere paradossale della riscrittura, che, essendo ripetizione ma non replica, provoca un mutamento del testo anche quando quest’ultimo rimane perfettamente uguale a sé stesso. Le medesime parole che in Cervan20 21

Ivi, p. 65. Ivi, p. 70.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

tes risuonavano come «mero elogio della storia» diventano infatti in Menard la prova che la storia non è «l’indagine della realtà, ma la sua origine». E questo perché Menard è «contemporaneo di William James»; ovvero perché il testo, pur non mutando, è stato traslato in un nuovo spazio-tempo, in una prospettiva che, in quanto nuova, necessariamente presuppone un nuovo punto di fuga – un nuovo autore dello stesso testo. Scrive Borges che Menard, con il suo Quijote, ha arricchito l’arte di una tecnica nuova: «la tecnica dell’anacronismo deliberato e delle attribuzioni erronee»22. La riscrittura è un «anacronismo deliberato», una impossibile eppure realizzata coincidenza di due momenti temporali – quello del primo e quello del secondo testo – teoricamente non sovrapponibili. La riscrittura implica sempre una temporalità ibrida e paradossale, originatasi da una relazione di due relazioni. La riscrittura, inoltre, è secondo Borges anche una «attribuzione erronea». Il testo è al contempo di prima e di seconda mano, è proprio ed estraneo a entrambi gli autori. È questa la “doppia ambasciata” della riscrittura, che sottintende un’autorialità complessa, composta non da elementi statici ma da una dialettica di voci autoriali in continua mediazione. Scrive Borges che Menard «legge il Chisciotte – tutto il Chisciotte – come se lo avesse pensato Menard»23. La riscrittura è l’anacronismo deliberato che affianca spazio-tempo a spazio-tempo, ed è l’appropriazione erronea del ruolo dell’autore. Così si spiega il titolo paradossale del racconto borgesiano: Pierre Menard, autor del Quijote. 1.2.2 Secondo asse: trasformazione seria/satirico-parodica In che modo un testo si relaziona al testo da cui deriva? Riprendendo posizioni sviluppate negli anni Venti dal formalismo russo e in particolare da Jurij Tynjanov24, il quale intende la letteratura come un sistema fondato su relazioni in costante evoluzione, Genette ha definito transtestualità, o «trascendenza testuale del testo», tutto 22

Ivi, p. 72. Ibid. 24 Cfr. Jurij Tynjanov, Sull’evoluzione letteraria, in Id., Avanguardia e tradizione, Dedalo, Bari 1968 [1929], pp. 45-60. 23

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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ciò che mette un testo «in relazione, manifesta o segreta, con altri testi»25. Com’è noto, Genette ha riconosciuto cinque principali tipologie di transtestualità, che non vanno intese come categorie ermeticamente divise bensì strettamente in relazione26. Nella sua analisi, Genette si limita a casi in cui la derivazione di un’opera da un’altra è totale (tutta l’opera B deriva dall’opera A) e più o meno ufficialmente dichiarata: ad esempio l’Eneide di Virgilio e Ulysses di Joyce, che sono entrambi ipertesti di uno stesso ipotesto, l’Odissea omerica. Sebbene però siano accomunate dal fatto di derivare dall’Odissea tramite un’operazione trasformativa (e non di commento), queste due opere si differenziano per il tipo di trasformazione. Genette definisce l’operazione che porta dall’Odissea a Ulysses una trasformazione semplice o diretta e quindi, tout court, trasformazione: le avventure di Ulisse vengono trasposte nella Dublino del secolo scorso. La trasformazione che porta dalla stessa Odissea all’Eneide è, nonostante la vicinanza storica, più complessa: Virgilio non racconta la storia di Omero, bensì si ispira al modello formale e tematico per il quale l’Odissea fa da indiscusso punto di riferimento. Siamo di fronte a un’imitazione, processo che presuppone la costituzione preliminare di un modello generico-formale (in questo caso l’epica) ricavato da una o più opere singole, ma in grado di generare un numero potenzialmente infinito di realizzazioni mimetiche. 25

G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado cit., p. 3. Sono l’intertestualità o «presenza effettiva di un testo in un altro» (ivi, p. 4); la paratestualità, la relazione tra il testo e il materiale che lo circonda «nello spazio del volume stesso» (ivi, p. 6), ovvero titolo, prefazione, note e così via; la metatestualità, la relazione «di “commento” che unisce un testo ad un altro testo di cui esso parla» (ibid.); l’architestualità, ovvero la relazione tra il testo e «l’insieme delle categorie generali o trascendenti – tipi di discorso, modi d’enunciazione, generi letterari ecc. – cui appartiene ogni singolo testo» (ivi, p. 3); e l’ipertestualità, vale a dire «ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto), sul quale esso si innesta in un modo che non è quello del commento. Come appare dalla metafora si innesta e dalla determinazione negativa, tale definizione è del tutto provvisoria. Per esprimerla altrimenti, stabiliamo una nozione generale di testo di secondo grado […] o testo derivato da un altro testo preesistente. Questa derivazione può essere d’ordine descrittivo o intellettuale, per cui un metatesto (diciamo tale pagina della Poetica d’Aristotele) “parla” di un testo (Edipo re). Essa può essere anche d’un altro tipo, per cui B non parla affatto di A ma non potrebbe esistere così com’è senza A, dal quale risulta al termine di un’operazione che chiamerò, provvisoriamente ancora, di trasformazione, e che di conseguenza esso evoca più o meno manifestamente, senza necessariamente parlarne e citarlo» (ivi, p. 8). 26

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prima parte. per una teoria della riscrittura

Sia le trasformazioni dirette sia le imitazioni possono assumere carattere diverso e acquisire differenti funzioni, quasi mai però facilmente distinguibili, anche per via della confusione che regna sul piano lessicale. Un esempio è la parola “parodia”, utilizzata in riferimento a testi nati da processi molto diversi. Genette riprende la tradizionale distinzione tra funzione satirica e funzione non satirica del testo, giudicandola però troppo semplificante e proponendo un’ulteriore differenziazione che individua tre regimi. Gli ipertesti appartenenti al regime satirico risultano essere orientati contro il loro ipotesto, in opposizione a esso, animati dunque da un intento distruttivo. Il regime ludico è invece proprio di quei testi che Genette definisce «un puro divertimento, un esercizio di distrazione»27. Del regime serio fanno parte invece quelle opere che non si situano in opposizione al loro ipotesto, rivelandosi piuttosto come trasposizioni e continuazioni di un modello anteriore. Dall’intersezione della distinzione tra modalità di trasformazione e imitazione da una parte, e tra i tre regimi dell’ipertesto dall’altra, Genette ottiene uno schema generale delle pratiche ipertestuali da cui si vede tra l’altro come intenda la nozione di “parodia” in modo più ristretto del consueto. Assai raramente la parodia viene considerata una forma di ripetizione che pone l’accento sulla continuità o addirittura sulla stasi. Ben più spesso alla parodia viene ascritta una funzione distruttiva, destabilizzante; è in questa veste ad esempio che i formalisti russi le hanno attribuito un ruolo centrale nell’evoluzione delle forme letterarie. Anche secondo Deleuze la ripetizione – e quindi anche la parodia – è sempre trasgressione, eccezione, singolarità28. Molte interpretazioni hanno cercato di dimostrare come la parodia sia sempre e comunque orientata a una critica all’ideologia29. Eppure la parodia può essere, oltre che sovversiva, anche conservativa, poiché è per natura una trasgressione autorizzata. Questa è la posizione di Linda Hutcheon, che in A Theory of Parody30 propone una rilettura di questo concetto da una prospettiva postmoderna. Dopo aver chiarito in che modo la 27

Ivi, p. 32. Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, tr. it. di G. Guglielmi, il Mulino, Bologna 1972 [1968], p. 12. 29 Cfr. ad esempio Wolfgang Karrer, Parodie, Travestie, Pastiche, Fink, München 1977. 30 Linda Hutcheon, A Theory of Parody: The Teachings of Twentieth-Century Art Forms, Methuen, New York-London 1985. 28

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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parodia implichi sempre una distanza del testo parodiante da quello parodiato, Hutcheon dimostra come la parodia sia una differentiation che fa emergere l’inconciliabile opposizione tra testi (e/o tra testo e mondo), ma anche un processo di textual doubling che di fatto unifica e riconcilia quanto apparentemente è impossibile da unificare e riconciliare31. La parodia presuppone sia l’autorità che la sua trasgressione, sia la ripetizione che la differenza – e in questo senso, si potrebbe aggiungere, partecipa ed è segno dello status paradossale di ogni riscrittura. È necessario, secondo Hutcheon, definire più chiaramente il confine tra parodia e satira. La loro interazione è complessa, ma non necessariamente confusa: diverso è il loro scopo, diversa la relazione con il tropo retorico che più di ogni altro le accomuna, l’ironia, e diversa è la relazione con il testo riscritto, che spesso non è per nulla sotto attacco, bensì rispettato e usato come un modello. Un esempio di parodia, sostiene Hutcheon, è Rosencrantz and Guildenstern Are Dead di Tom Stoppard (1967), dove il lettore percepisce chiaramente la tensione tra il testo che ha davanti e un classico della letteratura occidentale, Hamlet (1599-1602) di Shakespeare. Se un episodio è tratto dal dramma di Shaespeare, Tom Stoppard usa le parole originali, però aggiunge molte nuove scene assenti nel dramma shakespeariano. Un esempio di uso satirico dell’ironia sono invece le opere di Bertolt Brecht. L’ironia diventa in Brecht lo strumento per far implodere il modello convenzionale di rappresentazione teatrale; essa crea uno straniamento che, impedendo l’identificazione tra spettatore e personaggio, porta alla luce la brutale realtà della corruzione e della violenza, con la quale si è in tal modo costretti a confrontarsi. Un esempio è quello di Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui (1941), dramma che racconta la “resistibile ascesa” di un gangster di Chicago che è un’evidente controfigura di Hitler. La satira, che mette in relazione codici diversi senza necessariamente trovare una composizione, e la parodia, intesa come trasgressione autorizzata, si appropriano del passato in un gesto che va al di là del gioco intraletterario per proporre una nuova collocazione del testo all’interno dello spazio e del tempo. Quello che satira e parodia hanno in comune è infatti il loro essere modi di fare i conti con il passato 31

Ivi, p. 101.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

attraverso una ricodificazione o, come scrive Linda Hutcheon32, una trans-contextualization; sono forme di coscienza storica che interrogano il presente in relazione a modelli significativi preesistenti, appropriandosi della storia per garantirsi un posto nella storia. 1.2.3 Terzo asse: spazi di memoria/vuoti Gli studi della slavista e comparatista tedesca Renate Lachmann – e in particolare Gedächtnis und Literatur (1990)33 – prendono le mosse dal concetto bachtiniano di dialogicità, innestandosi però anche sulle riflessioni di Jan e Aleida Assmann a proposito della memoria culturale34. In Lachmann l’intertestualità si configura in primis come lo spazio di memoria che si dispiega tra e nei testi. Le riscritture sono riconfigurazioni di spazi di memoria, nuove messe in scena di questi spazi. In secondo luogo, Lachmann si concentra sui concetti relativi alla memoria che vengono trattati nei testi. In altre parole, i suoi studi si muovono su un doppio binario: da una parte trattano il testo come memoria, dall’altra la memoria nel testo. Un’altra fondamentale tesi di Lachmann è che il dialogo della cultura con la cultura, ovvero l’inserimento di testi preesistenti in una nuova costellazione che fa parte del presente, implichi non solo processi di memoria bensì anche di omissione, oblio, cancellazione; non solo degli spazi di memoria pieni, dunque, bisogna occuparsi, ma anche dei vuoti, generalmente negletti dalla critica. Le riscritture sono infatti strutture testuali manifeste ma anche latenti, e in quanto tali vanno analizzate. Persino il principale modo in cui una cultura costruisce in positivo la sua identità, ovvero la definizione del concetto di classico, deriva infatti dall’interazione di processi di messa in luce e di messa in ombra, legati dunque al ricordare quanto al dimenticare. Tali processi di inclusione e di esclusione sono regolati 32

L. Hutcheon, A Theory of Parody cit., p. 12. Renate Lachmann, Gedächtnis und Literatur, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1990. 34 In particolare cfr. Aleida Assmann, Erinnerungsräume: Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses, Beck, München 1999; ed. it. Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, tr. di S. Paparelli, il Mulino, Bologna 2002, e Jan Assmann, Das kulturelle Gedächtnis. Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, Beck, München 1992; ed. it. La memoria culturale: scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, tr. di F. De Angelis, Einaudi, Torino 1997. 33

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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da posizioni i cui significanti sono i concetti culturali articolati fino a quel determinato momento storico. Nelle riscritture, dunque, la cultura è presente al contempo come oggetto della riscrittura e come paradigma che orienta la riscrittura stessa. Riscrivere un testo letterario – che secondo Lachmann è simile alla tavoletta ricoperta di cera il cui strato superiore può essere livellato e inciso di nuovo – significa prendere parte al passato. Il rapporto del testo derivato con il testo di partenza è necessariamente agonale: riscrivere un testo significa, al contempo, riportarne in vita e annientarne il senso. Inoltre nella riscrittura le diverse configurazioni formali e semantiche di due testi con diversa funzione, primaria e secondaria, entrano in relazione dialogica. Tale relazione dialogica non si dà sempre nel medesimo modo. Lachmann riconosce una progressione – che esemplifica individuando tre stadi: traduzione, imitatio, intertestualità – alla quale corrisponde una progressione del ruolo del testo primo. Nel caso della traduzione esso è presente come Urtext (testo originale), e procedendo verso l’intertestualità si trasforma gradualmente in Prätext (pretesto). Nella traduzione ha luogo una sostituzione di segni attraverso segni che, per molti secoli della storia della cultura occidentale, si è posta come traguardo utopico il concetto di equivalenza. Ciononostante, le traduzioni non provocano il dissolversi del testo secondo nel testo primo; quest’ultimo infatti domina il paratesto, ed è presente in qualità di Urtext. Nell’imitatio l’originale viene contraffatto e stilizzato in modalità seria o parodica; eppure sussiste ancora una pretesa di equivalenza tra originale e copia, seppure a un livello più generale. L’intertestualità è invece la presenza di un testo in un altro testo, dove il testo primo si dà ormai solo come Prätext. Lachmann utilizza queste categorie non a fini di classificazione bensì come strumenti ermeneutici per illustrare il suo discorso teorico; non è un caso che la sua analisi si concentri sempre su casi liminari tra uno stadio e l’altro. Tra imitatio e intertestualità, ad esempio, si colloca la riscrittura fatta da Puškin nel 1836 di uno dei più celebri Carmina di Orazio, Exegi monumentum aere perennius. La riscrittura si rifà non solo all’originale oraziano ma anche ad altri due testi “derivati” dall’ode: quello di G. Deržavin (Pamjatnik, 1796) e quello, ancora precedente, di Michail V. Lomonosov (Kratkoe rukovodstvo k krasnorečiju, 1747).

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prima parte. per una teoria della riscrittura

Quest’ultimo inserisce in un suo trattato di retorica, scritto in russo ma sulla base di modelli latini, due versioni dell’ode di Orazio: una in prosa, che intende renderne il contenuto, e una in versi, che vuole riprodurne la forma. Nonostante la scissione in res e verba, l’originale oraziano rimane chiaramente riconoscibile come tale, come Urtext. Lomonosov traduce Orazio facendo un uso normativo e convenzionale della propria lingua, il russo, perché considera Orazio un universale: non si pone la questione dell’impossibilità di rendere certi aspetti del testo latino, né tantomeno quella di poter offrire un plus rispetto all’originale. In Lomonosov non sussiste la percezione della tensione tra continuità e discontinuità nella tradizione, tra perdita e guadagno nella ripetizione. Cinquant’anni dopo, Deržavin riscrive il testo percependolo invece come altro, estraneo, e decide di omettere questa stessa estraneità, vale a dire di russificare il testo che si trova davanti. Deržavin scrive come Orazio avrebbe scritto se fosse vissuto hic et nunc; evoca l’originale e lo “sposta”, rileggendo temi antichi da una prospettiva barocca. Quarant’anni dopo Puškin instaura con l’originale oraziano una relazione dialogica molto più complessa. La sua riscrittura, che Lachmann definisce un «anagramma testuale»35, è una successione di intricati grovigli di referenze. Il testo di Orazio che vi si legge in filigrana non è più quello della tradizione, quello tradotto o preso a modello, quello sgualcito e consunto dai mille passaggi. Esso è ora l’oggetto di una mise en scène, di una riconfigurazione dello spazio di memoria negoziata con la propria cultura – nella quale Orazio è sedimentato, sì, ma almeno tanto quanto il romanticismo, il gusto per gli arcaismi, l’elegia cimiteriale e così via. Puškin si serve di tutto ciò. Nell’incipit cita Deržavin che cita Orazio, ma le citazioni doppie diventano fin da subito triple e quadruple: il concetto oraziano di immortalità è ora tutt’uno sia con il tema barocco della vanitas introdotto da Deržavin sia con l’ossianismo e la poesia cimiteriale preromantica (Gray, Young). Il testo è rimasto l’auto-epitaffio di un poeta, ma non più del primo (Orazio) bensì dell’ultimo: il “portatore di memoria”, colui che parla/scrive, ovvero Puškin stesso. Così Puškin scrive “in avanti” Orazio. 35 R. Lachmann, Gedächtnis und Literatur cit., p. 325. Laddove non altrimenti specificato, le traduzioni sono di chi scrive.

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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Traggo l’espressione da Lachmann, che parla di Weiterschreiben36: un’espressione tedesca che si potrebbe appunto rendere in italiano con “continuare a scrivere” o “scrivere in avanti”37 (dove l’espressione “in avanti” è scevra da connotazioni migliorative). In Puškin – che addensa, stratifica, contamina – la dimensione diacronica della produzione di senso, che procede selezionando, si incrocia con quella sincronica, che procede assommando. La contaminazione di elementi eterogenei porta al sincretismo, all’inclusione di segni e di stili stranieri. L’estraneo non viene qui cancellato, bensì dispiegato e archiviato, “salvato” nella sua arbitrarietà, con il potenziale semantico che da esso deriva. Infine, una nota a margine. Nel testo di Puškin il monumentum è descritto come più alto di una «colonna alessandrina» («aleksandrijskij stolp»38), espressione che designa una colonna precisa: quella eretta a San Pietroburgo nel 1834, due anni prima della scrittura di questo testo, davanti al palazzo d’inverno dello zar Alessandro I. È interessante notare che la testa d’angelo posta in cima a quella colonna di San Pietroburgo sarà il modello dei monumenti eretti a Puškin dopo la sua morte. La metafora del testo diventa così metafora realizzata, concretamente, fuori dal testo, nel tempo di colui che riscrive – grazie al processo di Weiterschreiben. 1.3 Concetti del riscrivere Da differenti approcci critico-metodologici sono nati concetti legati alla riscrittura sui quali occorre soffermarsi. Alcuni sono emersi già nelle pagine precedenti: ipertesto e ipotesto di Genette, Weiterschreiben di Lachmann. Vale la pena di chiarire però anche le nozioni di interferenza (Itamar Even-Zohar), di manipulation (Theo Hermans) e di rewriting (André Lefevere). Grazie a questo percorso attraverso i concetti, inoltre, sarà possibile seguire l’evoluzione che va da un approccio narratologico alla riscrittura, che abbiamo visto con Genette, a quello polisistemico (Even-Zohar), a quello più legato agli studi culturali, che caratterizza Hermans e Lefevere. 36

Ivi, p. 322. Traduco Weiterschreiben come “scrivere in avanti” ispirandomi a Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan, Quodlibet, Macerata 2005, al quale rimando anche per le fondamentali considerazioni sul tema della traduzione e della riscrittura. 38 Cfr. R. Lachmann, Gedächtnis und Literatur cit., p. 325. 37

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prima parte. per una teoria della riscrittura

Il concetto di polisistema viene sviluppato negli anni Sessanta e Settanta a Tel Aviv da Itamar Even-Zohar, che a sua volta aveva ripreso alcune istanze critiche avanzate dai formalisti russi. Secondo Even-Zohar la letteratura, la cultura, la lingua e ogni altro fenomeno comunicativo di ordine semiotico devono essere considerati come «sistemi di sistemi», ovvero appunto «polisistemi»39, invece che come conglomerati di elementi disparati. Il concetto di sistema – l’insieme di relazioni che si ipotizzano sussistere all’interno di un numero di attività chiamate letterarie, ovverosia quelle stesse attività osservate attraverso l’insieme di relazioni che intercorrono tra di esse – permette di analizzare i fenomeni letterari con un approccio dinamico; oggetto dell’analisi non è più il confronto sincronico (o addirittura astorico) tra elementi, bensì il modo stesso in cui un sistema opera e muta nel tempo. In altre parole, abbandonata l’idea di impianto positivista di raccogliere dati per analizzarli nella loro sostanza, l’approccio sistemico alla letteratura si concentra piuttosto sulle relazioni, mirando a scoprire le leggi che regolano il mutare dei diversi fenomeni, invece che tentare di registrarli e classificarli. In questo contesto Even-Zohar crea il concetto di interferenza, una relazione tra sistemi nella quale un sistema-target importa, direttamente o indirettamente, un elemento da un sistema-source. Nonostante lo studioso usi tale nozione in primis per la letteratura tradotta, che considera un sistema dotato di caratteristiche proprie, l’interferenza risulta essere un concetto perfettamente applicabile alla questione della riscrittura, poiché mette a fuoco il modo in cui il sistema letterario (o una parte di esso) muta attraverso l’importazione di elementi da altri sistemi letterari (o da altre parti di quello stesso sistema, diverse per epoca, genere, pubblico e così via). L’interferenza non riguarda solo testi ma anche modelli, generi, forme, e più in generale l’insieme delle attività coinvolte nel sistema letterario. Può essere unilaterale o bilaterale – vale a dire può avere effetti sulla source, sul target o su entrambi – ma tende a essere asimmetrica. Non può essere analizzata di per sé, separatamente dal contesto storico. Per comprenderla è inoltre necessario tener conto della distinzione tra sistema indipendente (che si evolve entro la propria sfera) o dipendente (debole, minoritario, periferico); l’interferenza è influenzata infatti 39

I. Even-Zohar, Polystystem Studies cit.

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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dalle gerarchie che regolano il polisistema letterario. Il sistema-target dell’interferenza tende a scegliere la propria fonte in base al prestigio di cui gode essa stessa o il (poli)sistema a cui appartiene. Sussistono fattori che possono agevolare o ostacolare le interferenze, fattori di natura sia intraletteraria (ad esempio, nella Francia di fine Ottocento, le critiche di Zola contro Strindberg hanno reso meno probabili casi di interferenza che eleggessero come fonte le opere dell’autore svedese), sia extraletteraria, ovvero politica o socioeconomica. Più in generale, un sistema letterario tende a creare interferenze quando necessita di qualcosa che non possiede. Nel descrivere i processi di interferenza Even-Zohar mette l’accento sul fatto che sono le relazioni interne al sistema-target a determinare il modo in cui l’elemento del sistema-source viene rielaborato. L’interferenza inoltre implica processi di semplificazione o schematizzazione della propria source. Ad esempio, solo pochi elementi del complesso affresco costituito dalla Divina Commedia dantesca rimangono nella riscrittura che ne ha fatto Pasolini tra il 1963 e il 1965, pubblicata incompiuta nel 1975: La divina mimesis. Nonostante alcuni passi pasoliniani sembrino seguire quasi alla lettera il modello dantesco – questo l’incipit: «Intorno ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita»40 – Pasolini sceglie soltanto alcuni temi e motivi che sviluppa poi discostandosi dal suo originale in maniera molto netta, quasi provocatoria. L’autore immagina di condurre un viaggio nel mondo ultraterreno assieme a una guida, che come nel caso della Commedia dantesca è un poeta. Non si tratta però di Virgilio, né di altri poeti che Pasolini considera suoi maestri, bensì di Pasolini stesso o, meglio, di un doppio di sé stesso: il “poeta civile” che Pasolini era stato negli anni Cinquanta, caratterizzato da una ben più salda fede in determinate idee politiche e modi d’intendere la letteratura e il suo pubblico, che negli anni Sessanta non gli appaiono invece più sostenibili fino in fondo. Manipulation è una parola chiave di una corrente degli studi sulla traduzione che ha dato origine a importanti riflessioni riconducibili al tema della riscrittura. A tale corrente viene ascritto il cosiddetto cultural turn dei translation studies, che viene generalmente fatto risalire alla pubblicazione di The Manipulation of Literature: Studies 40

Pier Paolo Pasolini, La divina mimesis, Einaudi, Torino 1975, p. 8.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

in Literary Translation uscito a cura di Theo Hermans nel 1985, e di Translation, History and Culture, pubblicato a cura di Susan Bassnett e André Lefevere nel 1990. In questi volumi ci si esprime a favore di una integrazione tra la teoria della traduzione e gli studi culturali: la traduzione è intesa come istanza di negoziazione all’interno del sistema dinamico della cultura. Agli studi sulla traduzione si adatta quindi un approccio descrittivo e non prescrittivo, più target-oriented che source-oriented. Theo Hermans sostiene che ogni traduzione implichi un grado di manipolazione del testo originale per un certo scopo41, rimarcando da una parte l’apporto originale del traduttore, figura spesso fin troppo invisibile, dall’altra l’influenza dei fattori storico-culturali sulla produzione letteraria. Il critico e studioso di teoria della traduzione André Lefevere ha dedicato al concetto di riscrittura il volume Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame (1992). Lefevere prende le mosse sia da Even-Zohar che da Hermans; nel quadro di questo background teorico sviluppa il concetto di rewriting, ovvero l’adattamento di un’opera letteraria per un pubblico diverso con l’intenzione di influenzare il modo in cui quel pubblico legge quell’opera42. Esempi di rewriting sono la traduzione intra- e interlinguistica, i compendi storiografici, la critica letteraria, le antologie, l’editing; tutte queste pratiche implicano una manipolazione del testo. Che producano traduzioni, storie della letteratura o ogni loro derivazione secondaria, repertori bibliografici, antologie, saggi critici o edizioni, i rewriter adattano e manipolano in una determinata misura gli originali, generalmente per renderli compatibili con la corrente ideologica o poetica che risulta dominante nella loro epoca, o con più di una delle correnti dominanti43.

Il rewriting svolge un ruolo cruciale nell’evoluzione del sistema letterario di cui fa parte. L’interazione di writing e rewriting è responsabile infatti non solo della canonizzazione di specifici autori o opere e dell’esclusione di altre, ma anche dell’evoluzione di una data letteratura. I rewriters spingono una data letteratura in una determinata direzione creando immagini di uno scrittore, di un’opera, 41 Th. Hermans, The Manipulation of Literature: Studies in Literary Translation cit., p. 11. 42 43

A. Lefevere, Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame cit., p. 13. Ivi, p. 11.

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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di un periodo storico, le quali spesso hanno un impatto maggiore, e raggiungono un pubblico più esteso, delle opere originali. La critica letteraria, d’altra parte, non ha riconosciuto pienamente l’apporto delle pratiche di rewriting all’evoluzione dei sistemi letterari, concentrandosi quasi esclusivamente sulle opere di chi scrive e non di chi riscrive. Lefevere si esprime a favore di un cambio di paradigma: una critica letteraria che rinunci a essere meramente writing-based diventerebbe capace di cogliere con maggiore acutezza non soltanto le dinamiche intraletterarie ma anche il rapporto tra la letteratura e il contesto politico e storico-culturale. Nel rewriting infatti emergono, con chiarezza fors’anche maggiore che nel writing, i constraints, e cioè i vincoli di natura culturale, ideologica, politica, economica che condizionano la negoziazione del sistema letterario verso l’esterno con gli altri sistemi e verso l’interno con gli elementi che lo compongono. Un esempio di constraint è il cosiddetto patronage, termine che indica i lettori di professione – critici, recensori, professori, traduttori – e più in generale ogni persona o istituzione che detenga il potere (parola che Lefevere usa nell’accezione di Foucault) di indirizzare la scrittura e la riscrittura, attraverso incentivi o disincentivi di natura ideologica o economica. A partire dal quindicesimo secolo, ad esempio, la famiglia Medici a Firenze ha lungamente esercitato un patronage sulla produzione letteraria; così, anche se in modo ovviamente diverso, anche Luigi XIV in Francia tra Sei e Settecento, la casa editrice Einaudi in Italia negli anni Cinquanta del secolo scorso o la libreria City Lights di San Francisco nel periodo in cui è stata un punto di riferimento per la generazione dei poeti beat. Con il mutare del patronage muta il canone letterario: se nell’impero ottomano quest’ultimo coincideva con la letteratura di corte basata su modelli arabi classici e prodotta a Istanbul, ed escludeva la letteratura popolare che circolava nelle altre parti del paese, negli anni Venti la rivoluzione di Kemal Atatürk ha eletto la letteratura popolare a letteratura nazionale. Più il patronage è differenziato, più la comunità dei lettori tende a suddividersi in sottogruppi; più è indifferenziato, più la scrittura letteraria e (ancor più) la riscrittura tenderanno a presupporre un pubblico omogeneo (è il caso delle dittature). Un altro esempio di constraint è ciò che Lefevere chiama poetics: motivi, generi, modelli letterari, ma anche ogni tipo di riflessione

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prima parte. per una teoria della riscrittura

intorno a quale funzione debba avere la letteratura. La differenziazione tra poetics di diverse letterature non coincide con quella tra lingue, nonostante ciò sia implicitamente suggerito dall’impostazione di molte opere di storia della letteratura, basate spesso sul concetto di “letteratura nazionale”. Ad esempio, scrive Lefevere, in età ellenistica lo stesso tipo di poetics era comune a scrittori di lingue diverse; le poetiche sviluppate dalla letteratura provenzale hanno influenzato molti più autori di quelli che producevano testi in quella lingua; i primordi della letteratura giapponese avvengono sotto l’egida di poetics in lingua cinese. Uno dei vantaggi del concetto di rewriting è la capacità di riunire pratiche intertestuali assai diverse sotto la stessa insegna. La traduzione endolinguistica, interlinguistica e intersemiotica, la critica letteraria e ogni altra forma di canonizzazione o storicizzazione, l’antologizzazione e l’editing sono secondo Lefevere tutti basati su uno stesso basilare processo di riscrittura. Un esempio sono le rielaborazioni shakespeariane citate all’inizio, che mettono contemporaneamente in atto processi di traduzione endolinguistica, traduzione interlinguistica, traduzione intersemiotica, critica, antologizzazione, editing. Una possibile definizione del Kraus autore del suo Shakespeare è dunque quella di rewriter, non soltanto perché mette in atto contemporaneamente processi intertestuali diversi che tendono a sovrapporsi e a fondersi, ma anche perché, attraverso questa forma ibrida di autorialità, Kraus intende senza dubbio “manipolare” Shakespeare e Schlegel. 1.4 La riscrittura come limes Le riscritture non sono quasi mai solo riscritture; non si danno, nella storia letteraria, in forma pura. Nessuna riscrittura, intesa come testo, è riducibile a essere incasellata esclusivamente come tale, e ogni processo di riscrittura è sempre classificabile anche in altro modo. Se la si mette a paragone con altri generi, modi, forme letterarie, la riscrittura – paradossalmente, di nuovo – risulta essere al contempo più e meno di tali generi, modi, forme: coincide con essi ma solo in parte, eppure li ricomprende in toto e contiene anche altro. La riscrittura è al contempo più e meno di una traduzione, di un montaggio di cita-

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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zioni, di un’antologia ecc. Quelle di Kraus e di Aretino non possono di certo essere considerate traduzioni, eppure sono anche traduzioni; non solo montaggi di citazioni, eppure la citazione vi svolge un ruolo fondamentale; non sono antologie, ma di fatto antologizzano; e così via. Possiamo dunque provare a pensare alla riscrittura come limes, cioè come “confine abitato”, di altri processi, generi, forme, modi letterari. Anche se nessuno si è ancora espresso in questo senso, a spingerci in questa direzione è la generale evoluzione degli studi letterari. Sottolineare il carattere ibrido di generi, forme, media è infatti una delle caratteristiche principali della critica letteraria di oggi, che intende superare l’idea binaria e statica di letteratura e di cultura in favore di un dinamismo aperto, di relazioni aperte contrassegnate da continuo e mutuo scambio. Questo è valido per i gender studies (si pensi agli studi di Donna Haraway), per i rapporti interculturali (si veda tra gli altri Homi Bhabha), per gli studi sulla traduzione (da Walter Benjamin in poi, fino a Emily Apter e Ottmar Ette). Ci dedicheremo quindi ora ad alcuni casi in cui la riscrittura si dimostra essere il limes, ovverosia il confine abitato, di altre forme della letteratura. In questo senso dunque la riscrittura non esaurisce tali altre forme (è il loro confine, quindi è meno di esse: è solo lo spazio liminare), eppure le ricomprende (è il loro confine, quindi è più di esse: le circonda, è dove esse non arrivano). 1.4.1 Traduzione, antologia, critica, editing, citazione Prima di tutto, la traduzione. La versione tedesca del Diario di Anne Frank esce appena tre anni dopo la prima edizione in olandese, pubblicata nel 1947 (e tra l’altro a sua volta basata su un manoscritto rimaneggiato dal padre, Otto Frank). La traduttrice Anneliese Schütz, d’accordo con la casa editrice Lambert Schneider, riscrive il testo del diario per renderlo meno “indigeribile” a un pubblico tedesco ancora in mezzo alle macerie della Seconda guerra mondiale. Ad esempio, «Er bestaat geen groter vijanschap op de wereld dan tussen Duiters en Joden» viene reso con «eine grössere Feindschaft als zwischen diesen Deutschen und den Juden gibt es nicht auf der Welt», ovvero nella frase «non esiste una più grande inimicizia di quella tra i tedeschi e gli ebrei» la traduttrice aggiunge una parola

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prima parte. per una teoria della riscrittura

significativa, diesen (“questi”): «non esiste una più grande inimicizia di quella tra questi tedeschi e gli ebrei», instaurando una distinzione tra i tedeschi che costituiscono il pubblico del libro e quei tedeschi che hanno perseguitato Anne Frank. Un altro caso. Sono numerosi i generi appartenenti alle letterature non europee che hanno avuto fortuna in Europa. Dalla letteratura giapponese proviene l’haiku, largamente praticato in Occidente. Anche da quello che Lefevere chiama «Islamic system»44 le letterature europee hanno importato diversi generi, come ad esempio la roba’i, giunta qui proprio grazie a una riscrittura: Rubáiyát of Omar Khayyám di Edward Fitzgerald (1859); durante il mezzo secolo successivo non pochi poeti europei si sono misurati con questo tipo di quartine. Eppure, un genere che occupa una posizione ben più importante in quel sistema – la qasida – è del tutto assente nelle letterature europee. Ciò, sostiene Lefevere, non è dipeso da ragioni contingenti, bensì dall’impossibilità di interpretare tale genere usando le categorie europee, ovverosia dall’impossibilità di importarlo a meno di non naturalizzarlo e quindi cambiarlo radicalmente. In altre parole, il problema non è stata l’incompetenza dei rewriters, bensì, da una parte, l’irriducibile alterità di questo genere letterario rispetto alle letterature europee, e, dall’altra, la posizione marginale, in Europa, della letteratura dello «Islamic system», la quale nel vecchio continente non ha avuto l’autorità per imporsi in quanto altra. Le antologie possono accelerare o ritardare il processo del costituirsi della letteratura di una nazione o di un continente. Attraverso lo studio delle antologie di poesia africana pubblicate tra il 1964 e il 1984 è possibile evincere, afferma Lefevere, non solo il modo in cui tale letteratura è stata recepita e canonizzata in Occidente (tutte le antologie prese in considerazione sono state stampate in Gran Bretagna o negli Stati Uniti), ma anche la percezione che tale sistema letterario ha di sé stesso, e dunque è anche possibile ricostruire la sua evoluzione. Tali antologie sono pensate in primis per un pubblico non africano, e dunque non sorprende che raccolgano testi che fanno uso di forme e simboli della letteratura europea e americana. Eppure nelle antologie più recenti la selezione predilige autori che, pur importando poetics dal Vecchio mondo, ne fanno uso per portare 44

Ivi, p. 74.

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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avanti un discorso proprio, che presuppone una sua specificità. Le antologie rivelano dunque come la letteratura africana si costituisca come sistema, e possa così permettersi, ad esempio, persino di raffigurare sé stessa in forme parodiche. La critica letteraria può essere una forma di riscrittura, poiché, pur riprendendo i caratteri fondamentali del testo, ne può modificare radicalmente il senso e quindi manipolarlo. Il caso di Madame de Staël è significativo. Sin dalla pubblicazione della prima raccolta dei suoi scritti (Notice sur le caractère et les écrits de Madame de Staël, apparsa tre anni dopo la morte dell’autrice – avvenuta nel 1817 – grazie alla cugina Albertine Necker de Saussure, che cura il volume e scrive una lunga nota introduttiva) l’opera di Madame de Staël viene sì lodata, ma sempre presentata come incomparabile alla personalità di colei che l’ha scritta, una donna dalla mente brillante e di grande coraggio. Se gli scritti letterari di Madame de Staël sono sostanzialmente caduti nell’oblio è proprio in forza di questa riduzione dell’opera alla biografia, motivata secondo Lefevere anche da stereotipi di genere45. Fu Karl Gutzkow, e non l’autore Georg Büchner, ricorda Lefevere, a curare la prima edizione del dramma Dantons Tod (1835). Per ovviare alle difficoltà create dalla pubblicazione di un’opera letteraria sulla Rivoluzione francese nel clima repressivo della Germania di quegli anni, Gutzkow opera una massiccia revisione del testo che non aggiunge o modifica quasi alcunché, però espunge ogni passaggio che non condanni senza appello i protagonisti degli eventi occorsi cinquant’anni prima. Solo nel 1870 il dramma di Büchner si presenterà al pubblico in versione non mutilata, rivelandosi ben diverso da quello messo in circolazione quattro decenni prima. Allo stesso modo, un altro editing ne condizionerà la ricezione: quello di Rudolf Franz nel 1913, che, aggiungendo determinati personaggi e indicazioni sceniche, avvicinerà il lavoro di Büchner al modello costituito dai drammi storici di Schiller. La citazione non viene inclusa da Lefevere nell’elenco delle possibili forme di rewriting, eppure tale processo intertestuale, specialmente quando è per così dire “al confine di sé stesso”, può essere considerato una forma di riscrittura. Proprio di questo, d’altra parte, 45

Cfr. ivi, pp. 138-149.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

parla Borges nel suo Pierre Menard. Sono in particolare i montaggi di citazioni a dimostrare la possibile natura di rewriting della citazione: il caso di Kraus analizzato a inizio di capitolo ci dimostra come anche un’opera composta esclusivamente o quasi dalle parole di altri autori possa considerarsi una riscrittura. Un caso ancora più evidente è il genere del centone, popolare soprattutto in epoca tardoantica e medievale, nel quale la creazione di componimenti avviene attraverso la combinazione di citazioni tratte da poesie (soprattutto greche o latine) già esistenti; i versi o frammenti di verso coinvolti in questa operazione di composizione assumono nel nuovo contesto un significato diverso da quello originale. Particolarmente amato dagli appassionati di centone è stato Virgilio, il cui verso, costruito con tre cesure, si lascia facilmente suddividere. Nel centone non è consentito introdurre materiali propri se non per appianare le discrepanze tra i frammenti, e le citazioni non vengono delimitate da virgolette o da alcun segno grafico che ne indichi l’inizio e la fine: la loro assimilazione nel testo tende a essere più perfetta possibile. Nel centone la costruzione del mosaico si accompagna alla sua creativa decostruzione: i lettori sono infatti invitati a riconoscere i confini dei frammenti citati e a identificarne la provenienza. La comunicazione intraletteraria costituisce sia il medium che il risultato di questa forma di composizione, che manipola il testo per adattarlo a un nuovo pubblico. 1.4.2 Riscrivere testi che non esistono: le pseudo-traduzioni Di seguito si prenderanno in esame due casi particolari, utili a illustrare come la riscrittura possa essere intesa come limes: le riscritture di testi mai esistiti, che si muovono dunque sul confine tra reale e fittizio; e le riscritture di culture diverse che “abitano il confine” tra di esse, e che dunque esaltano l’importanza dell’ibrido e del meticcio. La pseudo-traduzione consiste nell’immaginare un testo straniero inesistente e produrne una possibile traduzione nella propria lingua. Pur creando un testo originale, dunque, l’autore applica, a vari gradi di coscienza, dei modelli di traduzione, ovvero di letteratura al secondo grado, dando luogo a una riscrittura. La traduzione propriamente detta permette di portare nella lingua e cultura d’arrivo solo determinati elementi della cultura originale cri-

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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stallizzati in un singolo momento della stessa (cioè una determinata opera o una parte di essa). Scegliendo di creare una pseudo-traduzione, invece, l’autore appartenente alla target culture può anche manifestare un interesse per aspetti più ampi della source culture o per quest’ultima in generale. La creazione in potenza di un originale fittizio è per lo più finalizzata al tentativo di riempire un vuoto nella propria lingua o cultura prendendo spunto da una lingua o cultura straniera. D’altra parte, paradossalmente, non si può dimenticare che nella pseudo-traduzione le caratteristiche di un’altra lingua o cultura vengono create operando esclusivamente con la propria lingua o cultura. In questo senso, nelle pseudo-traduzioni la traduzione allaccia un rapporto più stretto che mai con la tradizione. Le pseudo-traduzioni hanno una storia millenaria che comprende tra le altre cose molti testi medievali (come il Parzival, XIII secolo) e vive una grande fioritura nel Settecento prima con le Lettres persanes di Montesquieu (1721) e poi con le celebri poesie di Macpherson, che sostiene di aver tradotto Ossian (1760), e The Castle of Otranto di Horace Walpole (1765), che finge di aver tradotto un manoscritto italiano cinquecentesco. Altri casi meno noti ma interessanti sono La francese in Italia di Pietro Chiari (1753), opera originale presentata come una traduzione di memorie scritte in francese, e la pseudotraduzione dall’inglese stampata in francese ad Amsterdam nel 1767 con il titolo Le Lord Impromptu, a sua volta tradotta in italiano nel 1785 come La magia bianca ovvero la mirabile e curiosa istoria di Ricardo Oberthon. Novella inglese. Non mancano inoltre esempi provenienti da secoli successivi, come il Papa Hamlet di Arno Holz e Johannes Schlaf, uscito a Lipsia nel 1889 e presentato come traduzione di un testo dell’autore norvegese Bjarne Peter Holmsen; oppure anche Gengældelsens Veje di Karen Blixen (1944), che esce come opera di Pierre Andrézel tradotta in danese da una Clara Svendsen mai esistita. Rispetto a questa specifica pratica Genette parla, anche se en passant, di ipertestualità o metatestualità fittizia, soprattutto in relazione a Borges46. Il filone “descrittivo” dei translation studies ha dedicato maggior attenzione alle pseudo-translations: nel 1980 Toury le ha definite testi della letteratura-target considerati nella lettera46

G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado cit., p. 294.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

tura-source come traduzioni nonostante la loro fonte non esista47, l’anno seguente Yahalom le ha analizzate assieme ad altre «literary forgeries»48 che non implicano un cambiamento di lingua (come ad esempio le pseudo-memorie o le biografie fittizie), nel 1984 André Lefevere ha parlato di riflessioni di testi che risultano inesistenti49 ed Emily Apter di traduzioni prive di originale50. È stato inoltre messo in rilievo come questa tipologia di testo, oltre a introdurre elementi di novità all’interno della letteratura d’arrivo51, sia spesso indicativa dei rapporti gerarchici tra diversi canoni letterari o tra culture52. Un ulteriore esempio di pseudo-translations sono le “traduzioni immaginarie” di Franco Fortini, che verranno analizzate nel quarto capitolo della seconda parte di questo volume. 1.4.3 Riscrivere culture: tupy or not tupy Il rapporto tra testo primo e secondo ha subito, come ricordavamo all’inizio, una radicale evoluzione nel corso della storia. L’idea della superiorità dell’originale sulla traduzione, ad esempio, è un concetto abbastanza recente, e – nei termini in cui lo si discute oggi – del tutto estraneo al panorama della letteratura medievale. Il mutare del supporto della scrittura ha avuto e ha ancora una influenza fondamentale sulla relazione tra testo primo e secondo. Con l’invenzione della stampa e con la sua diffusione in tutta Europa tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, e soprattutto nel corso del Cinquecento quando la tipografia prende, almeno in parte, il posto della corte e 47 Gideon Toury, Comunicazione e traduzione. Un approccio semiotico, in S. Nergaard (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, Bompiani, Milano 1995 [1980], p. 31. 48 Shelly Yahalom, Le système littéraire en état de crise. Contact intersystémiques et comportement traductionel, «Poetics Today», 2-4, 1981, p. 153. 49 André Lefevere, On the Refraction of Texts, in M. Spariosu (a cura di), Mimesis in Contemporary Theory: An Interdisciplinary Approach, The Porter Institute for Poetics and Semiotics, Philadelphia 1984, p. 233. 50 Emily Apter, The Translation Zone: A New Comparative Literature, Princeton University Press, Princeton 2006, p. 212. 51 Gideon Toury, Translation, Literary Translation and Pseudo-Translation, «Comparative Criticism», 6, 1984, p. 83; Julio-César Santoyo, La traducción como técnica narrativa, in Actas del IV Congreso de la Asociación Española de Estudios Anglo-Norteamericanos, Universidad de Salamanca, Salamanca 1984, p. 38. 52 G. Toury, Comunicazione e traduzione cit., p. 42.

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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dell’accademia, si assiste a un trionfo del “secondario” sul “primario”. Rifacimenti, Trasformazioni, Vocabolari, Dichiarazioni, Annali, Sommari, Cronologie, Ossevazioni, Sposizioni e quant’altro l’attrezzatura editoriale cinquecentesca possa offrire in servizio alla lettura dei testi canonici: si stampa, accanto ai testi dotati di un proprio autonomo statuto di letterarietà, anche una serie impressionante di lavori ausiliari mai prima dotati di tanta dignità53. Un’ulteriore svolta fondamentale è stata impressa, nel XVIII secolo, dal pensiero illuminista, che ha rivoluzionato l’idea della proprietà intellettuale delle idee. Inoltre, la rivoluzione provocata dall’avvento dei media digitali e di Internet ha già avuto ripercussioni gigantesche: gli ebooks, Facebook o Twitter hanno cambiato non solo il modo in cui si legge ma anche quello in cui si scrive (si pensi ai romanzi twittati e all’instapoetry). È anche interessante notare i cambiamenti che i nuovi media hanno comportato per il libro tradizionale, che continua a esistere ma si trasforma. Ad esempio Jonathan Safran Foer nel 2011 ha creato Tree of Codes, tagliando via con le forbici e quindi eliminando la maggior parte delle parole da uno dei suoi libri preferiti, The Street of Crocodiles di Bruno Schulz (1963), creando in tal modo un testo a più strati, non virtuali ma materiali54. Anche i fattori politici, storici e culturali hanno trasformato il rapporto tra originale e copia che dà origine alla riscrittura. Secondo Susan Bassnett55 non è un caso, ad esempio, che il sorgere dell’idea della superiorità dell’originale sulla copia (sia essa traduzione, riscrittura ecc.) coincida cronologicamente con l’inizio del colonialismo. L’Europa è in questo senso “il Grande Originale”. Con il disfarsi del sistema coloniale la situazione è mutata. Nell’ultimo secolo – per dirla con una citazione da un articolo del 1982 di Salman Rushdie che allude a un celebre film e che è divenuta il titolo di un fortunato libro su questo argomento, uscito nel 1989 – «the empire writes back». Verso la fine degli anni Venti, in Brasile, nasce sulle ceneri del colonialismo un nuovo movimento letterario e artistico, quello dei cosiddetti “cannibali”, che si raccoglie attorno al Manifesto Antropófago di Oswald de Andrade (1928). Il rituale cannibale si basa sull’idea che mangiando il corpo altrui si possa acquisire la forza di questa persona; 53 Cfr. Renzo Bragantini, “Poligrafi” e umanisti volgari, in E. Malato (a cura di), Storia della letteratura italiana, vol. 4, Salerno, Roma 1996, p. 692, e A. Quondam, La letteratura in tipografia cit. 54 Cfr. L. Hutcheon, A Theory of Parody cit., p. 23. 55 Susan Bassnett, Comparative Literature: A Critical Introduction, Blackwell, Oxford 1993, pp. 152-161.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

nel manifesto la metafora diventa un’arma irriverente che intende esaltare l’identità meticcia e multiforme del Brasile e soprattutto rovesciare la natura repressiva del colonialismo. Al receiver viene conferito anche un aspetto di giver, e l’Europa diventa così debitrice delle sue stesse colonie. Oltre che per tentare di superare lo schema unidirezionale ed eurocentrico della storia, l’idea di antropofagia viene applicata anche alla letteratura e alla cultura. Il cannibalismo culturale tenta un superamento della dicotomia tra source e target, tra testo primo e secondo, che diventano entrambi dei poli di produzione e di ricezione di senso. Lungi dall’essere un’attività ancillare, la traduzione (intesa qui in senso molto ampio, ovvero anche come riscrittura) è una trasformazione isomorfica dell’originale funzionale a una «dismemoria parricida»56. È una «reinvention, project of recreation, transtextualisation, transcreation»: Dante subisce così una «translumination e transparadisation», Omero una «transhelenisation», e il Faust goethiano una «transluciferation»57. Neppure Shakespeare sfugge a questo processo di annientamento e al contempo rivitalizzazione del testo: nella terra dei selvaggi, il dubbio amletico della letteratura è se “cannibalizzare” o no: «Tupy or not tupy, that is the question», dove «tupy» è il nome di una tribù cannibale58. Se il cannibale è colui che divora i nemici che considera forti per fortificare e rinnovare le sue energie naturali, lo scrittore-cannibale fagocita i classici dell’Occidente, li assimila e li trasforma, con un processo che non è dissimile, secondo Haroldo de Campos, dal principio dialogico che sta alla base di ogni relazione intertestuale. Il (ri)scrittore e traduttore antropofago è secondo lo studioso brasiliano un polemicist (dal greco polemos, “colui che lotta e combatte”), e un anthologist, qualcuno che entra nella pelle del “creatore” per ricreare tutto di nuovo59. Il suo modo di amare certi autori è tradurli, riscriverli, deglutirli, seguendo la legge antropofagica di Oswald de 56

Haroldo de Campos, Da Tradução como Criação e como Crítica, in Id., Metalinguagem. Ensaios de Teoria e Crítica Literária, Editora Cultrix, São Paulo 1976, p. 7. 57 Cfr. Else Ribeiro Pires Vieira, Liberating Calibans: Readings of Antropofagia and Haroldo de Campos’ Poetics of Transcreation, in S. Bassnett, H. Trivedi (a cura di), PostColonial Translation: Theory and Practice, Routledge, London-New York 1999, pp. 95-113. 58 Oswald de Andrade, Manifesto Antropófago, «Revista de Antropofagia», 1-1, 1928, pp. 3-7. 59 Cfr. H. de Campos, cit. in E. R. P. Vieira, Liberating Calibans: Readings of Antropofagia and Haroldo de Campos’ Poetics of Transcreation cit., p. 103.

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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Andrade: «mi interessa soltanto quello che non è mio»60. Per questo il riscrittore-cannibale sceglie di rendere, nel suo testo secondo, «solo quello che sente. Solo quello che finge. O che finge di sentire»61. Possiamo considerare dunque la traduzione come una «trasfusione. Di sangue. Ironicamente si potrebbe parlare di vampirizzazione», scrive de Campos in Deus e o Diabo no Fausto de Goethe62. È così che – afferma inoltre in Da Tradução como Criação e como Crítica – il selvaggio si libera della sua posizione subordinata e opera un’appropriazione/espropriazione, de-gerarchizzazione, decostruzione; poiché ogni passato che è altro dal proprio merita di essere negato63. 1.4.4 Riscrivere autorialità: un nuovo – ma antico – tipo di riscrittura Parallelamente alla riflessione sulla riscrittura e sull’intertestualità, la critica degli ultimi decenni ha sviluppato anche un ricco dibattito intorno al concetto di “autore”. Non è qui possibile dar conto in modo esaustivo degli esiti di tale discussione, la quale necessiterebbe di una trattazione a sé stante, sia in ragione della sua ampiezza e complessità, sia perché si è svolta in modo sostanzialmente indipendente da quella sulla riscrittura, ragion per cui esula dal perimetro del presente capitolo. In questa sede importa soltanto accennare a un aspetto fondamentale, che accomuna tutte le – pur diversissime – teorie del secondo Novecento sull’autore, e che a ben guardare è, come si vedrà, assai significativo per la questione della riscrittura. I disparati approcci al tema dell’autore insistono tutti, infatti, sulla necessità di una risemantizzazione del concetto, e nello specifico concordano sul fatto che l’autore sia da intendersi non tanto (o soltanto) quale individuo singolo esistente o esistito, bensì in primis quale costrutto a cui corrisponde un più o meno preciso “discorso” letterario, culturale, storico-politico-sociale. A tale costrutto, e al discorso a esso associato, si è soliti riferirsi con il termine di autorialità (sebbene questo ambito di studi impieghi un lessico piuttosto variegato, che 60

O. de Andrade, Manifesto Antropófago cit., p. 33. H. de Campos, Da Tradução como Criação e como Crítica cit., p. 7. 62 Id., Deus e o Diabo no Fausto de Goethe, Perspectiva, São Paulo 1981, p. 208. 63 Id., Da Tradução como Criação e como Crítica cit., p. 44. 61

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prima parte. per una teoria della riscrittura

muta a seconda dell’aspetto sul quale le diverse teorie intendono di volta in volta mettere l’accento). Vale la pena precisare che l’idea dell’autore come costrutto letterario-culturale-sociale ha in realtà radici ben più antiche: è in un senso non troppo diverso, ad esempio, che Cicerone sostiene di essere “autore della propria persona” («neque actor […] alienae personae, sed auctor meae»)64, dove persona è la maschera di legno indossata sul palcoscenico, ovverosia il personaggio, la parte recitata a teatro. E sono molti gli scrittori che – come hanno messo in luce studi più o meno recenti – hanno mostrato di possedere una consapevolezza di questo genere: da Petrarca a Du Bellay (in relazione ai quali si è parlato di (Selbst)-Autorisierung)65, da Ariosto66 a Shakespeare (del quale sono stati messi in luce i processi self-fashioning)67, fino a innumerevoli casi di epoca moderna e contemporanea. In ambito critico, se nelle storie della letteratura scritte tra Ottocento e inizio Novecento si tende a identificare l’autore con un determinato soggetto e con le caratteristiche biografico-individuali che possiede in quanto tale, nel secondo Novecento prende progressivamente il sopravvento l’idea di autore come costrutto letterario-culturale-sociale. Tale idea torna in approcci all’autore anche diversi tra loro: la si ritrova sia nel dibattito intorno all’autore quale istanza che presiede, o non presiede, a un testo e a una poetica (fondamentale in questo senso la messa in campo di nozioni come quella di mort de l’auteur da parte di Roland Barthes68 e quella di fonction-auteur da parte di Michel Foucault69, il quale sostiene – in contrasto con Barthes – l’impossibilità di sopprimere il concetto di autore, ma al contempo lo scin64

De Oratore, II.194. Per il concetto di (Selbst-)Autorisierung si veda soprattutto David Nelting, Frühneuzeitliche Selbstautorisierung zwischen Singularisierung und Sodalisierung (Francesco Petrarca, Pietro Bembo, Joachim Du Bellay), «Romanistisches Jahrbuch» 62, 2011, pp. 188-214. 66 Tra i molti possibili si possono citare gli studi di Robert Durling, The Figure of the Poet in Renaissance Epic, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1965, soprattutto pp. 112-181; Albert Ascoli, Ariosto’s Bitter Harmony: Crisis and Evasion in the Italian Renaissance, Princeton University Press, Princeton 2016. 67 Cfr. Stephen Greenblatt, Renaissance Self-fashioning: from More to Shakespeare, University of Chicago Press, Chicago 1980. 68 Cfr. Roland Barthes, La morte dell’autore, in Id., Il brusio della lingua, tr. it. di Bruno Bellotto, Einaudi, Torino 1988 [1968], pp. 51-56. 69 M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur? cit. 65

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1. riscrittura, riscritture, riscritture di autorialità

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de dall’individuo, risemantizzandolo appunto quale “funzione”), sia anche nelle riflessioni sull’autore quale attore operante all’interno un determinato contesto storico-sociale (attraverso la nozione di habitus, ad esempio, Pierre Bourdieu ha indagato le “pratiche” che caratterizzano l’autore, pratiche che non sono generate dall’autore stesso quale individuo ma vengono determinate dalla sua posizione all’interno del campo letterario-culturale e dalle lotte che in tale campo avvengono70; nell’ambito degli studi culturali si è invece parlato di authorship as cultural performance, mettendo l’accento sull’atto performativo – quale costrutto culturale – invece che sull’individuo che lo compie)71. Degne di nota sono inoltre le nozioni di autore che intendono dar conto di entrambe le suddette dimensioni (quella poetologico-testuale e quella sociologico-culturale); tra di esse spicca il concetto di postura, avanzato da Jérôme Meizoz in Postures (2007) e La Fabrique des singularités (2011). Con postura Meizoz – muovendo anch’egli dall’idea che chi pubblica i propri scritti proponga sulla scena letteraria un’immagine di sé che è un costrutto letterario e culturale e che oltrepassa le coordinate dell’identità individuale – intende l’identità dell’autore all’interno del campo letterario; tale identità, oltre a essere ben distinta dalla biografia, va pensata come un costrutto realizzato sia dall’autore stesso sia dal contesto che lo circonda. Con postura Meizoz persegue dunque l’ambizioso scopo di superare la problematica, eppur longeva, contrapposizione tra due concezioni di autore: quella ancorata alla poetica, che spesso ne esalta la singolarità o addirittura l’unicità, e quella legata alla storia, ovverosia a una dimensione collettiva nonché pubblica. Postura equivale per Meizoz al latino persona – che come si è detto è la maschera teatrale – nella misura in cui essa costituisce contemporaneamente una voce e il suo contesto di intellegibilità. Nonostante le diverse direzioni intraprese, dunque, le riflessioni intorno al concetto di autore sono concordi nell’affermare che esso corrisponda a una autorialità costruita (dall’autore e/o dal contesto in cui opera). Eppure non si è finora mai veramente messo in luce un dato fondamentale: e cioè che l’autorialità, proprio come i testi, può 70

Pierre Bourdieu, Les Règles de l’art. Génèse et structure du champ littéraire, Seuil, Paris 1992; ed. it. Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, tr. it. di A. Boschetti e E. Bottaro, il Saggiatore, Milano 2005. 71 I. Berensmeyer, G. Buelens, M. Demoor, Authorship as Cultural Performance: New Perspectives in Authorship Studies cit.

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prima parte. per una teoria della riscrittura

essere costruita imitando, cioè imitandone un’altra. In altre parole: se è vero che l’autorialità è un discorso letterario-culturale-politico, allora è vero anche che tale discorso può essere costruito riscrivendo un certo altro discorso letterario-culturale-politico, vale a dire un’altra autorialità. Tanto quanto un testo, dunque, l’autorialità può essere generata attraverso un processo di scrittura, ma anche – come per lo più accade – attraverso un processo di riscrittura. La storia della letteratura, si può addirittura affermare, è costituita per lo più da figure autoriali non create ex nihilo ma derivative: e cioè è costituita in massima parte da quelle che si propone di chiamare riscritture di autorialità. Con riscrittura di autorialità si intende, dunque, l’atto e il prodotto dell’atto – compiuto dall’autore e/o operato dal contesto – di riprendere e adattare un’autorialità esistente per formarne una propria. Tale concetto intende così creare una sinergia tra due aspetti sui quali hanno insistito gli studi letterari degli ultimi decenni: da una parte, che la figura autoriale corrisponda non alla biografia di un individuo ma a un costrutto culturale e sociale (come affermano gli studi sull’autorialità); dall’altra, che si possa e debba mettere in luce il carattere derivativo dei testi letterari (come affermano gli studi sulla riscrittura e sull’intertestualità, ma anche, più in generale, gli studi sulla ricezione). La nozione di riscritture di autorialità può così rivelarsi utile per comprendere il modo in cui la letteratura muta attraverso le epoche, in consonanza con i cambiamenti culturali e mediatici. Se è ben vero che il testo letterario non nasce dal nulla e non esiste da solo o nel vuoto, lo stesso vale per le figure autoriali, che circolano nel tempo e nello spazio (nazionale e transnazionale), e sono sottoposte, proprio come le opere della letteratura, a processi di riappropriazione e di rielaborazione.

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Seconda parte Fortini e le riscritture di poesia europea

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1. Fortini e la riscrittura

1.1 Fortini e gli approcci teorici alla traduzione e alla riscrittura Negli studi sinora effettuati su Fortini traduttore1 sono stati analizzati numerosi aspetti delle sue versioni da altre lingue. Non ci si è però posti una domanda fondamentale: quali sono i punti di riferi1 Tra gli studi su Fortini traduttore cfr. soprattutto: E.-M. Thüne, Dichtung als Widerspruch cit.; Ead., Un traduttore poco ortodosso. Fortini e la cultura tedesca cit.; AA.VV., Bertolt Brecht/ Franco Fortini. Franco Fortini traduttore di Bertolt Brecht: atti del seminario cit.; L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini cit., specialmente pp. 125-168; Eva-Maria Thüne, Preciso, ordinato e rigorosamente classico. Kafka tradotto da Fortini, «L’ospite ingrato», IV-V, 2001-2002, pp. 225-238; Paola Maria Filippi, La traduzione strumento di modificazione di strutture linguistiche: l’esempio tedesco-italiano. Le traduzioni di Franco Fortini e Furio Jesi fra norma e innovazione, in P. Cordin et al. (a cura di), Lingue di confine, confini di fenomeni linguistici. Grenzsprachen. Grenzen von linguistischen Phänomenen, Bulzoni, Roma 2002, pp. 335-349; Valentina Di Rosa, Verifica di uno stile. Nota su Fortini traduttore di Kafka, in V. Di Rosa, G. La Guardia, C. Miglio (a cura di), Dello scrivere e del tradurre. Per Michele Ranchetti, Il Torcoliere, Napoli 2007, pp. 149-173; M. Sisto, Mutamenti nel campo letterario italiano 1956-1968 cit.; Maria Vittoria Tirinato, “Larvatus prodeo”. Franco Fortini e la traduzione poetica, in LT, pp. 11-43; Irene Fantappiè, Franco Fortini als Lyrik-Übersetzer und Übersetzungstheoretiker, in C. Fischer, B. Nickel (a cura di), Lyrik-Übersetzung zwischen imitatio und poetischem Transfer: Sprachen, Räume, Medien / La Traduction de la poésie entre imitatio et transfert poétique: langues, espaces, médias, Stauffenburg Verlag, Tübingen 2012, pp. 75-87; Ead., Cinque tesi sulla traduzione in Fortini cit.; L. Lenzini, Una antica promessa. Studi su Fortini cit., soprattutto pp. 85-109; le prefazioni di Michele Sisto e Roberto Venuti a C. Cases, Laboratorio Faust cit.; l’intero volume F. Diaco, E. Nencini (a cura di), “Per voci interposte”. Fortini e la traduzione cit. (con saggi di Fabio Scotto, Elisa Donzelli, Gabriele Fichera, Giovanna Tomassucci, Irene Fantappiè, Matilde Manara, Nino Muzzi, Alberto Toscano, Andrea Cavazzini, Julien Bal, Alessandro Niero, Edoardo Esposito, Thomas Peterson, Giovanni La Guardia, Maria Vittoria Tirinato, Francesco Diaco); Felice Rappazzo, Verticalità e riscrittura. Gli ipotesti nella poesia di Fortini, in F. Della Corte, L. Masi, M. Pieczara-Ślarzyńska (a cura di), Il secolo di Franco Fortini cit., 89-102; Andrea Landolfi, «Il traduttore, anche se non voleva…». Franco Fortini e il Faust di Goethe, ivi, pp. 177-186; D. Dalmas, Tra scrivere e leggere cit.; R. Gilodi, Fortini traduttore e la cultura tedesca cit.; Pier Vincenzo Mengaldo, Fortini traduttore del Lycidas di Milton, in F. Grendene, F. Magro, G. Morbiato (a cura di), Fortini ’17 cit., pp. 19-26; Irene Fantappiè, “Contro il disordinato linguaggio dei retori”. Marcature sintatticometriche e storico-critiche in Fortini traduttore, ivi, pp. 27-45.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

mento teorici a partire dai quali Fortini ragiona sui temi legati alla traduzione e alla riscrittura? Da quali studi traduttologici o da quali approcci alla traduzione è stato influenzato?2 Affrontare tale nodo non è facile, poiché significa confrontarsi con il problema – assai più complesso – di quale sia il retroterra culturale di Fortini, che costituisce un universo amplissimo ed estremamente variegato, nonché tutt’altro che fisso nel tempo. D’altra parte, rimane doveroso sollevare la questione; importante è in particolare cercare di comprendere in che modo si possa affrontarla senza finire a speculare in modo arbitrario sulla provenienza e sulla genesi di un determinato punto di vista di Fortini sulla traduzione e sulla riscrittura. Un modo per tentare di offrire delle prime, parziali risposte a questa domanda è, a mio avviso, quello di prendere le mosse non tanto o non solo da Fortini traduttore, bensì anche dal dialogo che Fortini ha intrattenuto a proposito della traduzione e della riscrittura con altre figure che di tali temi si sono occupate – un dialogo che è da interpretare, e ancor prima da ricostruire e storicizzare, a partire dai documenti che ne danno testimonianza (lettere, scritti critici, interventi sui giornali, o qualsiasi altro genere di testi). Nelle pagine che seguono ci si concentrerà sul dialogo avvenuto tra Fortini e una persona che, per quel che riguarda i temi legati a traduzione e riscrittura, nell’Italia del secondo Novecento è stata (ed è tutt’ora) un imprescindibile punto di riferimento: Gianfranco Folena. Si tratta di un dialogo finora mai indagato, che qui si è ricostruito sulla base di documenti inediti trovati in archivio nonché di scritti critici passati sinora inosservati, come ad esempio le recensioni – da quelle pubblicate, e talmente ricche da risultare quasi saggi, a quelle più sintetiche ma sincere inviate privatamente per lettera – che Folena e Fortini hanno dedicato l’uno alle opere dell’altro. Non c’è dubbio che le analisi traduttologiche di Folena e di Fortini divergano spesso in quanto a temi ed epoche storiche prese in oggetto, nonché nel metodo: se il primo si occupa di traduzione con l’habitus dello studioso, nei saggi del secondo risuona in primis la 2

Alcune riflessioni sul tema si trovano in un saggio pubblicato nel 2019, ovverosia dopo la redazione del presente capitolo: Fabio Scotto, Le “Lezioni sulla traduzione” di Franco Fortini nel dibattito contemporaneo: tra “traduzione d’arte” e “traduzione di servizio”, in F. Della Corte, L. Masi, M. Pieczara-Ślarzyńska (a cura di), Il secolo di Franco Fortini cit., pp. 15-43.

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1. fortini e la riscrittura

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voce del critico militante, del poeta, del traduttore. A fronte di tali differenze sussiste però una interessante affinità tra i retroterra teorici di ambito traduttologico e i rispettivi approcci alla teoria e alla storia della traduzione, affinità che, una volta precisata e chiarita, può essere utile a gettare luce su alcuni aspetti dell’opera poetica e critica di Franco Fortini. 1.2 Franco Fortini e Gianfranco Folena: un dialogo intorno al riscrivere, tradurre, volgarizzare L’incontro tra Folena e Fortini avviene in anni giovanili a Firenze, dove Folena, dopo aver frequentato la Normale di Pisa e dopo la pausa della guerra, si era laureato con Bruno Migliorini. In una lettera, Folena definisce l’amico Fortini «testimone parallelo, e spesso scomodo, di tutta la mia esperienza, fin dagli anni di Firenze, del “Dante” e poi di Noventa e del Caffè Torricelli»3. Questa conoscenza durata oltre mezzo secolo ha però lasciato pochissime tracce. Il carteggio Fortini-Folena, conservato nell’archivio del Centro di Studi Franco Fortini di Siena e inedito, pur abbracciando un arco di oltre vent’anni è piuttosto scarno. Inoltre, se non c’è dubbio che il saggio di Fortini Traduzione e rifacimento (redatto nel 1972) instauri un implicito dialogo con Volgarizzare e tradurre (entrambi i saggi sono stati stampati nella miscellanea di studi del 1973 La traduzione. Saggi e studi, che raccoglie gli interventi di un convegno tenuto a Trieste l’anno precedente), va anche detto che il nome di Folena non ricorre quasi mai negli scritti fortiniani4. Per questo sorprende la lunga, 3

La lettera di Gianfranco Folena a Franco Fortini, inviata da Cortina il 1º settembre 1991 e redatta sul retro di tre cartoline stampate in occasione del convegno di Bressanone Palinodia, è inedita e conservata presso AFF. Ringrazio Luca Lenzini e Elisabetta Nencini per il prezioso aiuto e il permesso di consultare i suddetti documenti. 4 Ci sono rare eccezioni; la più famosa è costituita dai pungenti versi di Et à bonnes mœurs dédié del 1957, originariamente pubblicati in Franco Fortini, L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici, De Donato, Bari 1966 (d’ora in avanti OI-I), ora in SE, p. 887. Qui Folena è citato assieme a Cesare Cases e a Lanfranco Caretti «che conoscono i doveri, / ordinari, autori seri / cui si schiudono i libretti / degli esami nei bui chiostri / delle dolci università». È interessante inoltre che Fortini si occupi a più riprese dell’Onegin tradotto da Giudici e uscito in seconda edizione nel 1983 con prefazione di Folena (Aleksandr Sergeevič Puškin, Evgenij Onegin, tr. it. di G. Giudici, a cura di G. Spendel, prefazione di G. Folena, Garzanti, Milano 1983), prima sul «Corriere della Sera» del 6.12.1963 con un

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

ricchissima recensione che Fortini nel luglio del 1991 dedica sulle pagine della «Rivista dei Libri» al volume di Folena Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale, all’epoca ancora in stampa. Così Folena commenta la recensione nella lettera che invia a Fortini il 1º settembre 1991: Carissimo Franco, non so come ho lasciato passare tanti giorni senza farmi vivo con te, da quando ho letto il tuo saggio-recensione al mio libro futuro su «La Rivista dei Libri» (avrai pensato: il linguaggio di Folena è il silenzio). Giunse nel giorno del palinodico convegno, quando purtroppo mi trovavo a Bressanone senza il mio carnet d’indirizzi […]. Però queste non sono scuse valide. Una scusa vera è forse la timidezza e insieme l’emozione che mi ha dato quel tuo scritto così simpatico e generoso che hai voluto dedicare a me e a un libro al quale sto ancora con fatica lavorando. Perché non mi aspettavo davvero, per quanto tu me ne avessi accennato per telefono, “una cosa così”, come si dice al mio paese, cioè in un giudizio così caldo, coi segni di una lettura attentissima e partecipe. Di qui l’emozione: perché questa cosa veniva da te, maior natu, ingenio et nomine […]. E tu poi non fai spesso recensioni di questo genere. Il piacere maggiore non era la lode o la valutazione, probabilmente eccessiva, ma l’essere stato letto con tanta attenzione da un critico poeta come te, dal quale ti confesso mi sarei aspettato piuttosto qualche eccellente variazione sul tema o sui temi diversi del libro. E questa è una recensione, oltretutto, oltre alle osservazioni e spunti originali, onesta come se ne leggono poche, di quelle che rendono veramente conto di un libro letto. […] Ora ho le bozze impaginate che devo restituire per l’inizio di settembre, sicché penso che il libro non potrà uscire prima di ottobre: ma spero che questa amabilissima colomba precorritrice ritroverà l’arca di cui è stata messaggera. E come prefazione, che devo ancora scrivere, ci metterei volentieri la tua prerecensione, se non temessi di essere impudico. Col che ti ripeto gratitudine, emozione e affetto e ti abbraccio sperando di vederti presto. Gianfranco5

Oltre che una recensione, il testo di Fortini è, come giustamente nota Folena, un vero e proprio saggio; non soltanto in ragione articolo intitolato E così Onièghin s’è fatto italiano e poi nelle Lezioni sulla traduzione, dove cita un passo tratto dalle pagine XI-XII della prefazione di Folena (cfr. LT, pp. 168169). A questo proposito segnalo anche Luca Lenzini, Il traduttore e il poeta: l’“Onegin” di Giudici, «Studi Novecenteschi», 8, 22, 1981, p. 209, e Jacob Blakesley, Giovanni Giudici: una lingua strana, «Lettere Italiane», 63, 4, 2011, pp. 204-239. 5 Lettera di Gianfranco Folena a Franco Fortini, 1.9.1991, inedita. AFF.

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1. fortini e la riscrittura

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dell’ampiezza, ma soprattutto perché vi si porta avanti una dettagliata disamina delle tesi dello studioso riconducendole a questioni teoriche più generali e lasciando chiaramente intravedere, checché ne dica Folena, la prospettiva critica di Fortini stesso. Più in generale il saggio allude a una profonda consonanza tra le idee del recensito e quelle del recensore. Tale consonanza si basa proprio sul comune interesse per la teoria e la storia della traduzione. Fortini, infatti, riconduce i saggi contenuti in Il linguaggio del caos – trattino essi di Benedetto Dei o del Giovio, dell’etimo di “monello” o degli scambi lessicali tra Vecchio e Nuovo Mondo – al tema della traduzione. Lo studio dei processi di “traduzione” e “conversione” («il solve et coagula della storia») costituisce a suo parere il nucleo centrale dell’opera di Folena: Einaudi ha recentemente ripubblicato uno dei suoi studi meritatamente famosi, il Volgarizzare e tradurre, del 1973, che, in anni di scarso interesse, in Italia, per i problemi della traduzione, ha fornito una sintesi, e ormai una guida, alla storia della traduzione dalla Grecia classica fino a Coluccio Salutati e Leonardo Bruni aretino, cioè le avanguardie europee delle teorie moderne su di un tema che sappiamo ormai essere centrale per ogni teoria della letteratura. E probabilmente tutto l’amplissimo lavoro di Folena è stato ed è quello di seguire i processi di “conversione” e “traduzione” dei linguaggi, il solve et coagula della storia6.

L’individuazione della traduzione come centro di gravità attorno a cui ruota il lavoro di Folena (nella stessa direzione va anche l’accenno alla ristampa di Volgarizzare e tradurre) è la ragione dell’acuirsi dell’interesse di Fortini per i lavori dell’amico. Proprio in quegli anni, non a caso, Fortini si dedica ad approfondire e sistematizzare le sue riflessioni sulla traduzione. Ne sono prova le Lezioni sulla traduzione scritte nel 1989, vale a dire appena due anni prima della recensione a Il linguaggio del caos. Pubblicato postumo nel 2011, il volume costituisce la più importante riflessione sulla traduzione di Fortini, che, nella triplice veste di critico, poeta e traduttore, mai come in questo testo è riuscito a comporre una sintesi organica delle proprie idee inserendole nel dibattito dell’epoca7; Lezioni sulla traduzione è dunque 6

Franco Fortini, Il linguaggio di Folena, «La Rivista dei Libri», 1991, pp. 15-16. A questo proposito mi permetto di rimandare a Irene Fantappiè, Lezioni sulla traduzione, «Allegoria», 64, 2011, p. 216. 7

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

una controprova lampante della sostanziale consonanza tra gli scritti traduttologici di Fortini e quelli dell’amico linguista e filologo. 1.3 Lezioni sulla traduzione e Volgarizzare e tradurre Le teorie traduttologiche che presiedono alle Lezioni fortiniane coincidono quasi interamente con quelle a cui accenna Folena quando, nella premessa alla riedizione di Volgarizzare e tradurre uscita per Einaudi nel 1991, discute il quadro in cui intende situare il suo saggio. Le metodologie e correnti critiche a cui si rifanno Folena e Fortini sono di varia natura e di epoche diverse, e vanno dal saggio di Benvenuto Terracini fino a Spitzer e Fubini, da Benedetto Croce a Walter Benjamin, dagli studi di semiotica di Jakobson a quelli strutturalisti di Georges Mounin. Sia Folena che Fortini, inoltre, hanno presenti le idee di Henri Mechonnic sul rapporto tra retorica e traduzione; in particolare Fortini deve molto ai lavori dello studioso francese sul sistema accentuale biblico che «neutralizza l’opposizione tra verso e prosa»8, da cui prende le mosse per ragionare sul modo in cui la poesia del Novecento italiano supplisce al decadere delle strutture metriche tradizionali. Riferimento comune è inoltre After Babel di George Steiner, sul quale Fortini e Folena condividono pienamente il giudizio. Folena lo considera il lavoro più congeniale alla propria prospettiva, definendolo «un libro ricco, prodigo di dottrina e di erudizione […] che ha su tutti i precedenti il vantaggio di un’incomparabile esperienza letteraria e di familiarità con le teorie del passato»9, eppure «alquanto “babelico”»10; anche Fortini lo ritiene un «libro straordinario anche se criticabilissimo»11 proprio per la densità e la estrema varietà dei 8

Cfr. Tirinato, “Larvatus prodeo”. Franco Fortini e la traduzione poetica cit., p. 38. In particolare Folena nota che «Steiner ha contribuito a rivalutare la trattatistica “pre-scientifica” sulla traduzione, e mostra di conoscere anche la geniale operetta del Bruni sulla quale si chiudeva il nostro discorso» (Gianfranco Folena, Premessa, in Id., Volgarizzare e tradurre, Einaudi, Torino 1991, p. IX). 10 Ibid. 11 Cfr. M. V. Tirinato, “Larvatus prodeo”. Franco Fortini e la traduzione poetica cit., p. 15. Tirinato ricorda come l’attenzione all’opera di Steiner risalga in realtà al 1972, anno di pubblicazione per Rizzoli di Linguaggio e silenzio, che era nella bibliografia del corso universitario tenuto a Siena tra il ’76 e il ’78. Che Fortini abbia letto After Babel prima della sua pubblicazione in Italia, avvenuta nel 1984, è testimoniato da una lettera a Cesare 9

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1. fortini e la riscrittura

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riferimenti12. Comune inoltre è una certa attenzione al formalismo russo: se Folena si richiama specialmente a Fedorov, nelle Lezioni sulla traduzione Fortini riprende invece da Tynjanov il concetto di forma come unità linguistica dinamica nella quale i fattori sono gerarchicamente distribuiti in presenza di una dominante, per costruire poi una “teoria dei compensi”13 secondo la quale l’atto traduttivo non è altro che l’elezione di una gerarchia di elementi necessariamente diversa da quella implicita nel testo di partenza. La traduzione è dunque un processo di dissoluzione e differente ricostruzione del «legame musaico»14 che presiede al testo originale. Se Folena e Fortini prendono le mosse dalla stessa costellazione teorica è perché ai loro scritti sulla traduzione è sottesa un’affinità più sostanziale. Folena afferma: «Non si può parlare di “teoria della traduzione” se non come parte di teorie generali della letteratura»15. Da parte sua, Franco Fortini nelle Lezioni sulla traduzione scrive: Si potrebbe esser tentati di concludere che una teoria della traduzione, e naturalmente di quella specie di traduzione che chiamiamo traduzione letteraria (o traduzione di testi letterari: ma le due locuzioni non fanno una sola) non sarebbe altro che una teoria della letteratura e presenterebbe una uguale complessità e le medesime contraddizioni16.

Cases del 23 gennaio 1977 – conservata presso AFF –, in cui il poeta interroga l’amico su un eventuale nesso tra Benjamin e Rudolf Borchardt accennando al discorso di Steiner sul traduttore di Dante in tedesco medievale (cfr. ibid.). Con ogni probabilità Fortini ha discusso di Steiner durante i colloqui di Bressanone a cui ha partecipato negli anni Settanta. Si veda anche la lettera di Folena a Fortini del 2.4.1977 – conservata presso AFF –, la quale accompagna la spedizione di un volume «carico di ricordi di uno dei più animati – grazie anche a te – e interessanti colloqui di Bressanone». 12 In un suo intervento sulle Lezioni di Fortini, Luca Lenzini ricorda: «Con la sua torre di Brueghel in copertina, nell’edizione Oxford University Press, quel saggio poteva in effetti costituire una bussola, ma era tuttavia fin troppo denso e fitto di riferimenti, delle più diverse lingue ed epoche» (Luca Lenzini, A margine delle Lezioni sulla traduzione di Fortini; online: ). 13 Cfr. LT, pp. 11-125. 14 L’espressione tratta dal Convivio dantesco è senza dubbio classica negli studi traduttologici, ma non si può fare a meno di notare che, oltre a Fortini, anche Folena costruisce proprio su di essa uno dei passi più famosi del suo Volgarizzare e tradurre. Cfr. Gianfranco Folena, Volgarizzare e tradurre, in La traduzione. Saggi e studi, Lint, Trieste 1973, p. 77. 15 Id., Premessa cit., p. IX. 16 LT, p. 71.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

Intendere la teoria della traduzione come parte della teoria letteraria implica che tutti gli strumenti necessari all’analisi di un testo – dalla stilistica alla linguistica alla storia letteraria – entrino in fecondo dialogo anche per l’analisi delle traduzioni; da qui il pluralismo (seppur misurato) di Folena e Fortini nella scelta degli studi di riferimento. Da qui, soprattutto, lo scetticismo di entrambi nei confronti di quella che Folena chiama l’«alluvione teorica» verificatasi negli ultimi decenni nell’ambito della traduzione, «alla quale – scrive – non hanno corrisposto adeguati approfondimenti storici»17. Questo è un nodo centrale: per Folena «non si dà teoria senza esperienza storica»18; quindi, a fortiori, senza esperienza storica non si dà teoria della traduzione. Più avanti inoltre, nel saggio Volgarizzare e tradurre, Folena afferma che la traduzione è «un aspetto della tradizione diretta delle forme»19. Quest’idea viene sintetizzata in modo fulminante con la rilettura del proverbio paronomastico «traduttore traditore». Scrive Folena: «rifacendomi a quel detto a me piace assumere come motto dialettico il bisticcio traduzione = tradizione: questo è il logos storico delle lingue»20. Anche per Fortini, che tenta una conciliazione di teoria e prassi traduttiva, l’esperienza storica e il rapporto con la tradizione influenzano la riflessione teorica sulla traduzione, nonché, come vedremo, la prassi traduttiva. Essi determinano infatti la percezione della gerarchia degli elementi del testo originale, sia che tali elementi provengano dalla storia-cultura dell’autore di partenza, sia che derivino dalla storia della ricezione e da quanto il traduttore ne conosce, sia, infine, dal confronto con la gerarchia implicita nella propria nozione di letteratura e di “valore” poetico21. Dalla coscienza del nesso tra teoria ed esperienza storica sorge anche la critica che, in parallelo, Folena e Fortini rivolgono agli studi traduttologici d’impianto strutturalista condotti da Georges Mounin. Folena non approva il modo in cui Mounin, introducendo Traduire sans trahir (1979) di Jean-Claude Margot, si compiace di come gli studi teorici sistematici dell’ultimo ventennio compensino le os17

G. Folena, Premessa cit., p. VIII. Ivi, p. IX. 19 G. Folena, Volgarizzare e tradurre cit., p. 75. 20 Ivi, p. 59. 21 Cfr. LT, p. 124. 18

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1. fortini e la riscrittura

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servazioni sparse, i consigli empirici, le riflessioni di tipo artigianale che in tema di traduzione «tutti i tempi passati si sarebbero limitati a produrre»22. Se, dunque, da una parte Folena avverte la strutturale debolezza della “Babele” di riferimenti che caratterizza lo studio di Steiner, dall’altra considera irrinunciabile raffrontare la teoria con testi e momenti della storia della letteratura, anche a costo di non poter giungere ad una organica sistematizzazione dei casi critici esaminati. A suo parere il lavoro di Antoine Berman, L’épreuve de l’étranger23, che sottolinea gli aspetti universalmente validi della stagione traduttiva del romanticismo tedesco senza rinunciare a descriverla in dettaglio, costituisce in questo senso una efficace smentita delle forzature di Mounin. Allo stesso modo, Fortini legge il testo di Mounin24 considerandolo uno studio teorico degno di attenzione che però risulta incapace di fornire strumenti concreti con cui «avvicinare i testi e collocarli entro una cornice storica»25. Questo, infatti, è ai suoi occhi il vero scopo degli studi sulla traduzione. Per tale motivo gli spunti utili in materia di traduzione sembrano venirgli da poeti e scrittori più che da critici, come ricorda Lenzini: «Raboni, per esempio, ma anche Montale, Solmi, Giudici, Bertolucci, Sereni, Valeri, Caproni – autori che affrontavano il tema con molta modestia, per così dire obliquamente, perlopiù in scritti dispersi o marginali, affidati ad appendici, prefazioni o noterelle sparse»26. Inoltre, Fortini e Folena condividono una visione della storia della traduzione intesa come il succedersi di tentativi di conciliazione di istanze antitetiche. Nel ripercorrerne per sommi capi l’evoluzione, Folena ricorda prima san Girolamo, diviso tra il rispetto del testo sacro («in cui tutto è mysterium»27, anche l’ordine delle parole) e la necessità di interpretarlo, di comunicarne il senso; poi l’esperienza 22

Cfr. G. Folena, Premessa cit. p. IX. Antoine Berman, L’épreuve de l’étranger: culture et traduction dans l’Allemagne romantique, Gallimard, Paris 1984; a cura e tr. it. di G. Giometti, La prova dell’estraneo. Cultura e tradizione nella Germania romantica, Quodlibet, Macerata 1998. 24 Si veda la descrizione del corso universitario 1979-1980 tenuto da Fortini presso l’Università di Siena (cfr. AFF, scatola XXXIX, cartella 10, e M. V. Tirinato, “Larvatus prodeo”. Franco Fortini e la traduzione poetica cit., p. 16). Oltre a Mounin, erano in programma Steiner, Nida e Mechonnic. 25 Cfr. L. Lenzini, A margine delle Lezioni sulla traduzione di Fortini cit. 26 Ibid. 27 G. Folena, Premessa cit., p. X. 23

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

cristiana medievale in cui da una parte risuona l’accusa già paolina che la traduzione della parola divina significhi un allontanamento da Dio e quindi una caduta postbabelica, ma dall’altra si nota anche l’emergere dell’istanza evangelica e pentecostale della diffusione del Verbo; infine il secondo Settecento tedesco, quando, nel quadro di un’aumentata consapevolezza del significato politico della traduzione (si pensi a Herder e a Schleiermacher), Wilhelm von Humboldt scrive in una lettera a Schlegel del 1796 che ogni traduttore deve necessariamente incappare in uno di questi due scogli: il tenersi troppo vicino all’originale, contravvenendo ad un uso normativo della propria lingua e ai dettami del gusto, oppure l’adesione allo spirito del proprio popolo, compiuta però a spese della fedeltà al testo da tradurre. In Lezioni sulla traduzione Fortini, nel tracciare la storia della traduzione quale scontro tra istanze antitetiche, riprende proprio da dove si era fermato Folena. Fortini rileva la frattura romantica tra la cosiddetta traduzione “umanistica”, quella che tende ad annettere ed assimilare (nei termini di Antoine Berman) l’autre rendendolo attraverso forme del propre, e il bisogno – nato dalla consapevolezza romantica della dimensione storica e dall’intensificarsi del contatto della tradizione occidentale con tempi e spazi lontani – di restituire anche le diversità e le specificità, portando, per dirlo con Schleiermacher, non più l’autore al lettore ma il lettore alla lingua dell’autore. Anche I’Italia eredita, secondo Fortini, questa frattura romantica: nel corpus delle traduzioni italiane ottocentesche e primo-novecentesche si possono distinguere due poli, che pur contaminandosi rimangono nettamente riconoscibili. Accanto al permanere della «traduzione poetica» (Tommaseo fino a Carducci e Pascoli) sorge infatti anche una «traduzione filologico-storica» (Leopardi, Settembrini, Acri), nella quale l’urgenza di rendere la diversità si esprime attraverso l’utilizzo della filologia, della linguistica e delle scienze storiche28. A fronte di una teoria della traduzione che, per Fortini quanto per Folena, sembra svilupparsi per opposizioni dialettiche, c’è però una storia letteraria nella quale esse non si danno pure. Di conseguenza la teoria della traduzione intesa come parte della teoria della letteratura non sarà altro che il tentativo di comprendere e di rendere, 28

Cfr. LT, pp. 53-65.

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1. fortini e la riscrittura

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attraverso un rigoroso lavoro sul testo, queste interferenze sfumate e storicamente determinate. Esemplare, a tal proposito, è quella che Folena chiama «semantica del tradurre», ovvero la storia dei termini che indicano questa operazione. Attraverso l’analisi dello spettro semantico che va da ermeneus a interpres a dragomanno, da uertere a translatare a traducere, lo studioso delinea alcune distinzioni, nessuna delle quali si identifica mai con uno dei due «scogli» citati da Humboldt; al contrario, la storia della traduzione si evolve all’interno del complesso campo di tensione che questi stessi poli creano. Le stesse dicotomie critiche di Folena (come ad esempio l’opposizione tra tradurre orizzontale e verticale) sono da intendersi come piani che interferiscono largamente. Vedremo più avanti come, parallelamente, tutta la riflessione di Fortini sulla traduzione non sia altro che una ricerca sui modi in cui queste istanze antitetiche hanno interagito nella storia della letteratura, e, contemporaneamente, un tentativo di porre le basi per un approccio “terzo” alla traduzione che risulti in grado di conciliarle. Accanto a queste consonanze relative alla prospettiva generale, emergono alcune divergenze all’atto della definizione dei concreti metodi di analisi delle traduzioni. Nelle Lezioni sulla traduzione Fortini polemizza con la tendenza a giudicare una traduzione confrontandola con l’originale: Quel che mi sembra inammissibile – fuor di una destinazione pratico-comunicativa del testo d’arrivo – è trasformare l’atto della lettura critica [della traduzione] in una sorta di distribuzione di premi e di punizioni, e l’opera del traduttore in una prestazione atletica. Non si tratta, sia chiaro, del tema della “fedeltà”: c’è la fedeltà del perito del Tribunale che deve accertare “fedele” la versione di una testimonianza e c’è la fedeltà interpretante come meccanismo di equivalenze. Se ogni interpretazione dell’atto di traduzione deve concludere (e non può non concludere) ad una interpretazione del testo di arrivo, credo di poter concludere – provvisoriamente! – che l’interpretazione della traduzione di “poesia” in “poesia” nasce (meglio: può nascere) contrastiva o comparativa ma si conclude nella valutazione critico-qualitativa del testo d’arrivo, indipendentemente dalla comparazione col testo di partenza29.

Lenzini, che di Fortini è stato allievo, porta testimonianza dell’utilizzo di un approccio molto empirico alla traduzione, «che di fatto de29

Ivi, p. 85.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

rivava dallo stesso Fortini e consisteva nel raffronto – metrico, lessicale, stilistico – dei vari testi fra loro: fra le diverse versioni, e non, come infatti sostenuto anche nel corso delle Lezioni, con gli originali»30. Al contrario, secondo Folena, per distinguere ad esempio il volgarizzare medievale dal tradurre umanistico, non soltanto il confronto di una traduzione ciceroniana di Brunetto Latini con quella analoga del Bruni vale più di molti discorsi, ma l’analisi contrastiva del nuovo «legame musaico» (quello della traduzione) con quello del testo originale costituisce un reagente estremamente efficace. Tale discrepanza si deve al diverso habitus di Fortini: sottraendo le traduzioni alla comparazione con l’originale e assimilandole ai testi poetici in quanto soggette agli stessi criteri di valore, il critico-poeta-traduttore cerca una composizione fra le tre voci che animano i suoi scritti traduttologici. 1.4 Fortini fra traduzione e rifacimento L’intreccio tra queste voci si fa particolarmente complesso nelle Lezioni sulla traduzione, dove Fortini argomenta la sua idea di traduzione riferendola specialmente al ventesimo secolo. Secondo Fortini, nel Novecento la traduzione – il riferimento è soprattutto a quella di poesia – diventa per lo più appannaggio di poeti e scrittori, i quali sostituiscono i loro idioletti alla lingua-cultura nella quale un tempo trasponevano i testi di partenza. Solo con queste lingue private, secondo Fortini, coincide oggi lo straniero, l’estraneo. E non soltanto perché nel nostro secolo non si pone – o non si pone più con la forza che ebbe nell’Ottocento – la questione di trasferire nelle culture nazionali qualcosa di estraneo, bensì soprattutto perché una cultura nazionale o comunque fortemente coesa alla quale riferire la traduzione non esiste più. Qui Fortini sta proseguendo il percorso iniziato quasi vent’anni prima nel saggio Traduzione e rifacimento, dove aveva sottolineato, ragionando a partire da Benjamin e da Adorno, la scomparsa delle lingue nazionali intese come forma linguistica di una cultura, come espressione di una strutturata connessione di valori e di ethos; lingue progressivamente sostituite da un metalinguaggio dominante nato dal fondersi della lingua dell’alta cultura e del linguaggio 30

L. Lenzini, A margine delle Lezioni sulla traduzione di Fortini cit.

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1. fortini e la riscrittura

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tecnocratico-scientifico. «Non è importante – scrive – se questo metalinguaggio suoni italiano o russo o francese: in confronto ad esso le lingue nazionali sono di fatto, pur con tutto il loro splendore da festa nazionale e museo etnografico, subalterne»31. Nel Novecento, secondo Fortini, l’alternativa per chi traduce si riduce a quella fra traduzione di servizio, ovverosia una versione didascalica effettuata nel migliore dei casi coi mezzi della filologia e della critica, e traduzione d’autore, modellata sull’idioletto di un poeta. Fortini le denomina rispettivamente «parafrasi» e «rifacimento»32; una distinzione che aveva accennato nel già citato saggio del 1972 ma che adesso, in Lezioni sulla traduzione, ridiscute sotto una prospettiva parzialmente nuova. Il rifacimento e le forme di traduzione ad esso simili presentano, secondo Fortini, il problema di non distinguere sufficientemente tra la scrittura di primo e di secondo grado. «Almeno la traduzione didascalica o di servizio (proprio perché spesso commissionata, e, al limite, “voce” merceologica del mercato della cultura) non si pone come maschera della libertà»33. È evidente qui il richiamo all’apologia delle versioni interlineari fatta da Benjamin in Die Aufgabe des Übersetzers. D’altra parte, Fortini non vuole rassegnarsi a relegare la traduzione negli angusti confini della parafrasi, e rimane così alla ricerca di un modo di tradurre che la superi, ma eviti una appropriazione del testo. Questo ideale, che ricorda in parte quello goethiano (e in particolare il terzo tipo di traduzione di cui parla Goethe: quella che sta «nicht anstatt des andern, sondern an der Stelle des andern»34, espressione che Fortini traduce con «non “invece” dell’altro ma “al suo posto”»35), non viene definito in modo dettagliato. Non è un caso: ancora una volta Fortini – critico, poeta, traduttore – si trova stretto tra l’urgenza di portare avanti il proprio ragionamento teorico e la consapevolezza che la propria prassi traduttiva possa non rispondervi in pieno. D’altra parte, la compresenza di attività poeti31

Franco Fortini, Traduzione e rifacimento, pubblicato per la prima volta sulla rivista «Problemi», 33, 1972, pp. 125-141; poi in AA.VV., La traduzione. Saggi e studi, Lint, Trieste 1973 e in Franco Fortini, Saggi italiani, De Donato, Bari 1974 (d’ora in avanti SI-I, pp. 332-350); ora in SE, pp. 818-838, qui p. 836. 32 Cfr. LT, p. 58. 33 LT, p. 61. 34 Johann Wolfgang von Goethe, Übersetzungen, in Id., Poetische Werke. Berliner Ausgabe, Aufbau, Berlin 1960, vol. III, p. 309. 35 Cfr. LT, p. 57.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

che e metapoetiche nell’opera di Fortini, che origina una tensione tra istanze contraddittorie, è, come ha notato giustamente anche Maria Vittoria Tirinato36, uno dei Leitmotive dei suoi scritti; Mengaldo ha parlato a questo proposito di «tecnica del dritto-e-rovescio»37. Proprio per questo motivo credo che il tentativo di dar forma a tale ideale di traduzione debba cercarsi nelle versioni fortiniane in cui si intrecciano con maggior evidenza processi poetici e metapoetici. Non mi riferisco alle traduzioni più famose: al Faust (versione giustamente celeberrima ma condizionata per molti aspetti dal fatto di essere nata da un “laboratorio” a tre voci – Fortini, «traduttore muto»38; Leiser; Cases –, nonché dal fatto di essere stata un lavoro dichiaratamente su commissione)39, e neppure alle Poesie e canzoni di Brecht (nelle quali il processo di traduzione è guidato in primis, come si è detto, dall’intento di creare un nuovo modello di figura autoriale)40. In realtà, in Fortini lo sforzo teorico relativo a questioni di traduzione trova un concreto pendant nelle parti della sua produzione che più chiaramente si possono qualificare come “riscritture”: si tratta di testi e di versioni meno note, opere al contempo di “prima” e di “seconda mano”, nelle quali viene alla luce con maggior chiarezza la ricerca di una consonanza con l’ideale di traduzione del traduttore stesso. Il Fortini traduttore vi ribalta la preoccupazione di essere “traditore” trasformandola in una chance, vale a dire istaurando con la tradizione letteraria un profondo (e in parte anche ludico) dialogo che tenta di creare una corrispondenza al suo approccio critico-poetico ad essa. 36 Cfr. M. V. Tirinato, “Larvatus prodeo”. Franco Fortini e la traduzione poetica cit., p. 17. 37

Pier Vincenzo Mengaldo, Lettera a Franco Fortini sulla sua poesia, in Id., La tradizione del Novecento. Nuova serie, Vallecchi, Firenze 1987, p. 395. 38 Cfr. Franco Fortini, Venture e sventure di un traduttore, «L’ospite ingrato», IV-V, 20012002, p. 295: «[…] faccio parte della numerosa schiera di traduttori muti, come diceva Vittorini, quelli che non sono in condizione di articolare forse nemmeno la più semplice frase nella lingua dalla quale pretendono tradurre, ma che hanno la pretesa o la speranza di conoscere sufficientemente quella che si suol chiamare la lingua d’arrivo, in questo caso l’italiano». 39 Per il Faust cfr. Johann Wolfgang von Goethe, Faust, introduzione, traduzione con testo a fronte e note a cura di F. Fortini, Mondadori, Milano 1970. Sulla genesi della traduzione del Faust e sul “laboratorio” a tre voci (Franco Fortini, Cesare Cases, Ruth Leiser) al quale deve venire ascritta la traduzione, si vedano i materiali recentemente messi a disposizione in C. Cases, Laboratorio Faust. Saggi e commenti cit., nonché già Roberto Venuti, Magister suavissime – Poeta clarissime. Fortini, Cases e la traduzione del Faust, «L’ospite ingrato», IV-V, 2001-2002, pp. 289-292. 40 Cfr. supra, Introduzione.

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1. fortini e la riscrittura

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Sono a mio avviso due i gruppi di testi che, nell’opera di Fortini, si rivelano importanti in tal senso. Il primo sono le cosiddette “traduzioni immaginarie”, che rispondono alla categoria di pseudotraduzioni – di tale genere di riscritture si è già parlato41 – e che verranno trattate più ampiamente in seguito42; si tratta di testi che coprono cronologicamente tutto l’arco della attività di Fortini, ma ai quali egli conferisce una sistematizzazione teorica e una significazione precisa solo nelle Lezioni sulla traduzione, la cui stesura come si è detto risale al 1989. Un secondo gruppo di testi, la cui sistematizzazione è cronologicamente anteriore, è quello raccolto in Il ladro di ciliege (1982), di cui si parlerà nel prossimo capitolo; qui ci si limita a notare che non c’è opera originale né lavoro di traduzione di Fortini per il quale Folena abbia speso parole di elogio così sentite come per Il ladro di ciliege. Folena apprezza molto quei testi, che in una lettera – appena successiva alla pubblicazione del libro – definisce «transpoesia», rivelandosi cosciente della fertile intersezione fra traduzione e poesia che vi si ritrova, e che interpreta addirittura come un chiaro segnale di come una «grande stagione di traduzioni» sia «giunta alla maturità e alla storia»: Carissimo, ricevo il Ladro di ciliege e non puoi credere con quanto piacere mi ritrovi in questi paesaggi di transpoesia e ritrovi cose che avevo dimenticato come la stupenda Spiegazione delle metafore di Queneau. L’uscita del tuo libro come prima del Musicante di Sereni dimostra che una grande stagione di traduzioni è giunta alla maturità e alla storia43.

41

Cfr. supra, pp. 54-65. Cfr. infra, pp. 129-143. 43 Lettera inedita di Gianfranco Folena a Franco Fortini, 24.6.1982, AFF. La lettera continua: «L’uscita del tuo libro […] [e] mi conforta anche per quella istituzione di Monselice che va avanti bene, ma in mezzo alla disattenzione totale della nostra cultura e dei suoi organi, che continuano a suonare la macabra liturgia del Campiello-Strega-Viareggio e via e via dicendo. Figurati che a Monselice da tre anni abbiamo istituito anche un concorso di traduzioni poetiche, con crescente successo, e che fra le poesie proposte quest’anno c’era proprio il Ladro di ciliege, Cesare consule (ma gli esiti non sono stati memorabili, come invece quelli della Lullaby della Adams [sic] tradotta anche da Montale) e di brani delle Foglie d’erba di Whitman. Proprio ieri a Parigi, donde son rientrato stanchissimo d’esami in nottata, ho proposto a una fanciulla che mi pare intelligente ed è una tua ammiratrice una thèse de 3^ cycle su Fortini traduttore di poesia francese. Spero che la tesi andrà in porto. A Bressanone terremo dal 10 al 12 luglio il X convegno, su Grammatica e Retorica. Penso che tu abbia ricevuto l’invito. Sai quanto piacere ci farebbe una tua presenza anche breve. Ancora grazie e una stretta di mano dal tuo Gianfranco Folena». 42

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2. Riscritture di autorialità. Fortini e i “nuovi” autori della poesia europea

2.1 Il ladro di ciliege (1982): una “auto-antologia” tra Sereni e Luzi «Questo bellissimo libro si colloca all’inizio di una serie dell’editore Einaudi. La serie vorrebbe accogliere libri che il poeta possa considerare come propri sebbene composti di traduzioni»1. Così Fortini presenta nel 1981 il Musicante di Saint-Merry di Sereni, uscito in una collana che afferma di aver egli stesso ideato e proposto2 e che l’anno successivo accoglie Il ladro di ciliege, una sua “auto-antologia” di traduzioni dal tedesco, francese, inglese e ungherese fatte a partire dagli anni Quaranta (simili sillogi di Giudici e di Luzi appaiono rispettivamente nel 1982 e nel 1983; inizialmente erano previsti anche Zanzotto e Caproni). Il saggio di Fortini sul Musicante di Sereni è forse la migliore introduzione al suo libro “gemello”, che esce di lì a pochi mesi: Qui Sereni sta eseguendo, al suo meglio, Sereni. […] Sarebbe assurdo parlare di poesie di Sereni se al genitivo diamo un senso solo causale, come “dovute a”, “compiute da”. Quel “di” va inteso come partitivo. Sono poesie fatte della materia di cui sono fatte le poesie firmate da Sereni e anche, naturalmente, tante altre poesie, di morti e viventi, di antichi e moderni. Come si dice un piatto d’argento, una nave di abete3.

Nel Ladro di ciliege Fortini esegue Fortini; i testi che ne derivano sono caratterizzati da un’autorialità ibrida, da costruzioni di “auto1 Franco Fortini, “Il musicante di Saint-Merry”, in Id., Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano 1987 (d’ora in avanti NSI), p. 166. 2 In realtà già fin dalla metà degli anni Cinquanta a Einaudi si discute di una collana simile. Cfr. Tommaso Munari (a cura di), I verbali del mercoledì. Riunioni editoriali Einaudi, 1943-1952, Einaudi, Torino 2011. 3 F. Fortini, “Il musicante di Saint-Merry” cit., p. 164.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

re nell’autore” quasi paradossali, à la Escher. Non sono traduzioni stricto sensu, ma neppure semplicemente, come Fortini intende darci a credere, «scritture mie»4. Il carattere peculiare del genere “autoantologia di traduzioni” (un autoritratto e al contempo una collezione di quanto a parere dell’autore si debba «strappare al presente per fondare altro tempo»5) rende questo libro, e gli altri della collana, un terreno particolarmente fertile per lo sviluppo – e l’osservazione – di processi di self-fashioning, di costituzione e messa in scena della propria postura autoriale. Tali processi saranno indagati per mezzo di una analisi bipartita. In un suo celebre saggio sui processi di circolazione internazionale delle idee6, Pierre Bourdieu da una parte afferma che il senso e la funzione delle opere straniere tradotte in una certa lingua dipendono dal campo letterario d’arrivo almeno tanto quanto che da quello d’origine («Le sens et la fonction d’une œuvre étrangère sont déterminés au moins autant par le champ d’accueil que par le champ d’origine»)7, dall’altra descrive la traduzione come una serie di tre operazioni sociali: sélection, marquage e lecture. Di seguito vorrei indagare in che modo avvenga, nel Ladro di ciliege, la prima di queste operazioni, la sélection; seguirà un’analisi del marquage fortiniano (la terza operazione sociale, la lecture, non viene compiuta da Fortini e quindi esula dal contenuto di questo saggio – o per meglio dire coincide con esso). All’analisi vale la pena premettere un dato importante: Il ladro di ciliege è caratterizzato da un’evidente, quasi esibita eterogeneità dei testi, diversissimi per epoca, lingua, stile, temi, e impossibili da pensare come un corpus “consonante” a un unico autore/traduttore. Da questo punto di vista Fortini sembra voler vincere un ipotetico confronto con Sereni, il quale non solo spaziava da Apollinaire a Pound a Williams (Luzi, al contrario, inserirà solo autori francesi)8, ma nella nota introduttiva – che in un libro del genere, il quale è già di per sé un’in4

Franco Fortini, Premessa, in Id., Il ladro di ciliege, Einaudi, Torino 1982 (d’ora in avanti LC), p. VIII. 5 Ibid. 6 Cfr. P. Bourdieu, Les conditions sociales de la circulation internationale des idées cit., pp. 3-8. 7 Ivi, p. 4. 8 Fanno eccezione i versi di Jorge Guillén in appendice, che Luzi d’altra parte intende come separati e definisce «una specie di certame italo-spagnolo» (Mario Luzi, La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Einaudi, Torino 1983, p. IX).

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troduzione all’autore par soi-même, acquisisce un carattere doppiamente metapoetico – prendeva le distanze da una frase di Sergio Solmi secondo cui la traduzione nasce come una propria poesia mancata. Più che recupero di un’occasione perduta che ci sarebbe stata affine, la traduzione è per Sereni un modo di lettura, spesso l’unico possibile. Si traduce infatti non solo per affinità ma anche e soprattutto per confronto: «Si impara di più da chi non ci assomiglia»9. Fortini condivide la tesi che traduzione possa scaturire anche dallo «choc che subiamo dalla lettura di un autore remoto»10 che per reazione sprona ad una presa di posizione; è una tesi che, come vorrei mostrare di seguito, sta alla base del Ladro di ciliege (nonché, come vedremo nell’ultimo capitolo, del peculiarissimo genere delle traduzioni immaginarie)11. La traduzione è per Fortini difatti anche una reazione al pericolo del rigor mortis della figura cristallizzata dell’autore; è, come affermerà poi, «un truccarsi, come un attore, come un guitto»12. Alla base di ciò c’è quello che Fortini aveva definito il «fastidio per una mia qualche identità»13 e il desiderio di pubblicare i propri versi «con altro nome: per godere ancora una volta i vantaggi d’una doppia identità senza rinunciare a quelli d’una sola»14. 2.2 Selezione: una poesia di Enzensberger come critica alla Neoavanguardia Il ladro di ciliege è l’autoritratto di un poeta che dialoga apertamente con la tradizione letteraria, portando a termine “allegri furti” affini a quelli del Kirschendieb di Brecht da cui l’antologia prende il 9

Vittorio Sereni, Il musicante di Saint-Merry, Einaudi, Torino 1981, p. VIII. Cfr. LT, p. 88. Va precisato che Fortini rilegge, ad esempio, le versioni da Brecht come momento di identificazione con un autore, in questo caso finalizzata a sottrarsi all’eredità degli anni Trenta, quella dell’ermetismo, senza «uscirne a colpi di oltranza, sarcasmo e violenza autoironica» come Sanguineti né, come Pasolini, «abbassare tutto il linguaggio della poesia al livello della prosa». Cfr. ivi, p. 163. 11 Cfr. infra, pp. 129-143. Cfr. inoltre I. Fantappiè, Franco Fortini als Lyrik-Übersetzer und Übersetzungstheoretiker cit., pp. 75-86, e Ead., Il “solve et coagula” della storia. Traduzione e tradizione in Fortini e Folena cit., pp. 209-229. 12 Cfr. le già citate registrazioni del seminario che darà origine alle Lezioni sulla traduzione. 13 Si tratta dell’Avviso che introduce OI-I, ora in SE, p. 864. 14 Ivi, pp. 864-865. 10

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nome. Sotto a ogni coppia di testo e testo a fronte Fortini appone un’unica data: non quella dell’originale bensì quella della traduzione. «Sono le stesse date che accompagnano altri libri miei. Vorrebbero ricordare che quelle parole sono state scritte mentre accadeva “altro”, altro che le reggeva o le oppugnava e continua a reggerle»15. Tra le versioni del Ladro di ciliege, di seguito si prenderanno in esame quelle da autori della poesia europea che, all’altezza cronologica delle traduzioni fortiniane, risultano ancora nuovi in Italia o che comunque non godono di una significativa ricezione italiana precedente (il prossimo capitolo tratterà invece dei “classici”). Ci si concentrerà in particolare sui casi di Hans Magnus Enzensberger (anche in relazione a Nelly Sachs) e di Karl Kraus. Quando, all’altezza del 1963, Fortini traduce die verschwundenen, Hans Magnus Enzensberger è un nome noto appena agli addetti ai lavori; farà il suo ingresso sulla scena letteraria italiana a partire dal 1964, quando per Feltrinelli esce Poesie per chi non legge poesia, tradotto dallo stesso Fortini assieme a Ruth Leiser. Lo stesso vale per Karl Kraus. Nel 1960, l’anno della versione di Sonntag ripubblicata nel Ladro di ciliege, di Karl Kraus in Italia esistono solo poche traduzioni in rivista; perché acquisisca una certa notorietà bisognerà attendere i Detti e contraddetti curati da Roberto Calasso per Adelphi nel 1972, e Morale e criminalità uscito nel 1976 per BUR con un saggio di Cesare Cases. La relazione di Fortini con Enzensberger non passa solo attraverso i testi: oltre ad aver tradotto con Ruth Leiser Poesie per chi non legge poesia, Fortini ha intrattenuto con il poeta tedesco rapporti di amicizia, segnati da ammirazione reciproca ma anche da incomprensioni, e testimoniati da un denso carteggio oltre che da traduzioni reciproche16. Di Enzensberger, nella prefazione al Ladro di ciliege Fortini afferma di apprezzare «l’agilità mercuriale e il sarcasmo»17. Ne seleziona poi, per la suddetta antologia, una sola poesia: die verschwundenen, tradotta nel 1963 quand’era ancora inedita (sarà pubblicata in blindenschrift nel 1964, lo stesso anno del volume di Feltrinelli). 15

F. Fortini, Premessa, in LC, p. VII. Sulla relazione tra Fortini ed Enzensberger si veda Matilde Manara, “Io procederò come per Brecht”. Il carteggio Fortini-Enzensberger, in F. Diaco e E. Nencini (a cura di), “Per voci interposte”. Fortini e la traduzione cit., pp. 85-96. 17 F. Fortini, Premessa cit., p. VII. 16

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die verschwundenen für Nelly Sachs nicht die erde hat sie verschluckt. war es die luft? wie der sand sind sie zahlreich, doch nicht zu sand sind sie geworden, sondern zu nichte. in scharen sind sie vergessen. häufig und hand in hand, wie die minuten. mehr als wir, doch ohne andenken. nicht verzeichnet, nicht abzulesen im staub, sondern verschwunden sind ihre namen, löffel und sohlen. sie reuen uns nicht. es kann sich niemand auf sie besinnen: sind sie geboren, geflohen, gestorben? vermißt sind sie nicht worden. lückenlos ist die welt, doch zusammengehalten von dem was sie nicht behaust, von den verschwundenen. sie sind überall. ohne die abwesenden wäre nichts da. ohne die flüchtigen wäre nichts fest. ohne die unermesslichen nichts ermesslich. ohne die vergessenen nichts gewiß. die verschwundenen sind gerecht. so verschallen wir auch. Gli scomparsi per Nelly Sachs Non li ha inghiottiti la terra. Era l’aria? Come le arene del mare innumerevoli; non in arena però conversi ma in nulla. A schiere dimenticati. Spesso e di mano in mano, come i minuti. Più fitti di noi ma senza ricordo. Non registrati, non decifrabili nella polvere ma scomparsi i loro nomi, i cucchiai, le suole. Noi non li compiangiamo. Non può nessuno lamentarsi di loro: sono nati,

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fuggiti, morti? Dissolti no. È senza lacune il mondo ma lo tiene insieme solo quel che non l’abita più, coloro che sono scomparsi. Essi sono ovunque. Senza gli assenti, nulla ci sarebbe. Senza gli esiliati, nulla sarebbe saldo. Senza gli incommensurabili, nulla di commensurabile. Senza i dimenticati, nulla di certo. Gli scomparsi sono giusti. Così anche noi in un’eco. 196318

Se esiste un testo di Enzensberger poco o per nulla mercuriale e sarcastico è proprio die verschwundenen. Perché dunque Fortini ha selezionato e inserito proprio questa poesia, e questa sola? La sua più evidente peculiarità, che la distingue dalle altre dell’autore tedesco e che dunque si potrebbe ipotizzare essere la ragione della scelta, sono i riferimenti a Nelly Sachs. Enzensberger dedica infatti il suo componimento alla poetessa tedesca di origini ebraiche, così come in quegli anni avevano fatto Paul Celan, Ingeborg Bachmann e Hilde Domin (Zürich, Zum Storchen, di Paul Celan, è del 1960; Ihr Worte, di Ingeborg Bachmann, è del 1961; Diese Vögel, di Hilde Domin, del 1962). Si tratta di un picco di attenzione seguito al conferimento del Droste-Preis nel 1960; il premio segna l’ingresso di Sachs nel campo letterario di lingua tedesca (ingresso assai tardo, considerando che è nata nel 1891), confermato poi l’anno dopo dall’uscita per Suhrkamp di Fahrt ins Staublose che raccoglie le sue ultime sei sillogi. Il tributo di Enzensberger alla poetessa berlinese si esplicita anche in una ripresa puntuale dei suoi motivi e del dettato poetico. Il titolo allude chiaramente ai celebri Chor der Geretteten e Chor der Wandernden, e anche i temi sono palesemente sachsiani: il ricordo di coloro che non sono più, scomparsi non nella «terra» ma nell’«aria»; l’assenza e la trascendenza come principi costitutivi del reale. Per di più Enzensberger – che all’inizio degli anni Sessanta, e già con die 18

LC, pp. 114-115.

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verteidigung der wölfe (1957), aveva sviluppato una poetica propria e radicalmente diversa da quella di Sachs – si ingegna a ricreare uno dei caratteri fondamentali della scrittura sachsiana: il ricorrere di parole chiave, incastonate in un tracciato ritmico simile al rito o alla preghiera, che provengono dalla mistica ebraica (come ad esempio Sand o Staub, “citate” da Enzensberger) oppure, o al contempo, dalla vita quotidiana (come i cucchiai o le suole, al verso 15). Che la predilezione di Fortini per questo testo non sia da ricondurre a Nelly Sachs si evince non solo dalla scarsa notorietà di cui nel 1963 quest’ultima gode in Italia (solo dopo il Nobel del 1966 Einaudi pubblicherà Al di là della polvere, tradotto da Ida Porena e con una introduzione dello stesso Enzensberger), ma soprattutto dalla traduzione stessa, nella quale vanno persi tutti gli elementi che rimandano alla poetessa berlinese. Un termine come Sand (“sabbia”) è, sia in Nelly Sachs che in Enzensberger, la chiave di volta del coincidere della dimensione trascendente della mistica con la concretezza del quotidiano. Quest’ultimo aspetto scompare in Fortini, che innalza radicalmente il livello del lessico: «Sand» diventa «arena» (o addirittura «arene», variatio impensabile in Nelly Sachs); «geworden» viene reso con «conversi». La scelta di un testo così poco sarcastico e mercuriale fra le traduzioni di Poesie per chi non legge poesia è legata alla storia editoriale di questo libro e alla struttura del campo letterario di quegli anni. Fortini aveva accettato di tradurre Enzensberger per Feltrinelli, per i cui tipi erano già usciti i saggi di Dieci inverni (1957) e i versi di Poesia ed errore (1959), ma che era anche la casa editrice a cui faceva riferimento la neoavanguardia italiana. La lotta tra Fortini e la neoavanguardia, che minacciava di rendere sorpassate le sue posizioni, avviene anche sul piano delle traduzioni. Poco prima della pubblicazione della raccolta di Enzensberger l’introduzione di Fortini viene sostituita da una nota di Enrico Filippini, redattore di Feltrinelli, che avvicina lo scrittore tedesco al Gruppo 63 (nella stessa direzione va tutto il paratesto). Il risultato è un volume «“brechtiano” nel testo, “avanguardista” nell’editing»19. Ma Fortini – le cui versioni di Brecht escono, non a caso, per Einaudi – non rinuncia a tentare di portare Enzensberger dalla sua par19 M. Sisto, Mutamenti nel campo letterario italiano 1956-1968 cit., p. 104, da cui traggo anche la storia editoriale del volume.

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te nella lotta che in quegli anni segna il campo letterario italiano, e fa in modo che l’uscita del libro (marzo 1964) sia preceduta (gennaio 1964) da un articolo sulla rivista «L’Europa letteraria» in cui presenta il poeta tedesco prendendo esplicitamente le distanze dai suoi tratti più avanguardistici. Al contempo, Fortini cerca di caratterizzarlo come un autore le cui poesie più mature, intessute di riferimenti alla tradizione letteraria, sono lontane dal dannoso «presentismo»20 degli inizi. Per corroborare questa sua interpretazione di Enzensberger, Fortini cita una poesia – e questa poesia è proprio die verschwundenen. In questo testo infatti, al contrario che in altri, non si ritroverebbe a suo parere la «giovinezza che trova tutta la propria gioia, anche espressiva, nel furore contro le forme della società del benessere, ma che proprio per questo rischia di farsene involontaria complice», la quale impediva a «questo poeta colto e cosmopolita» di «assumere coscienza matura della storia sua e nostra». Rispetto a questo scrittore, «la cui terra è il presente», Fortini dice di sentirsi «troppo più vicino – come, d’altronde, il mio paese – al passato. Troppo più “letterato”». Le poesie più recenti di Enzensberger segnano però, a parere di Fortini, una svolta. Vi si ritrovano «ricordi, stratificazioni» provenienti anche da fonti insospettabili: Come non pensare ad un poeta il cui nome – probabilmente – allega i denti ad ogni giovane tedesco come faceva, ai nostri, quello di D’Annunzio, cioè all’autore delle Duinesi, leggendo il bellissimo verso di chiusa di una recente poesia del Nostro, Die Verschwundenen (Gli scomparsi): “So verschallen wir auch”, che, disperando altrimenti, ho tradotto “Così anche noi in un’eco”21.

È evidente che non è il sapore rilkiano del verso in sé a convincere Fortini, quasi vent’anni più tardi, a rappresentare Enzensberger nel Ladro di ciliege con quell’unica poesia; è piuttosto una certa visione del rapporto tra presente e passato, una certa lettura del problema dell’«eredità» che Fortini ritiene vitale inserire nel suo autoritratto 20 Franco Fortini, Fortini presenta e traduce Enzensberger, «L’Europa letteraria», 5, 25, 1964, p. 23. L’articolo, preceduto dalla traduzione (di Italo A. Chiusano) del discorso di Enzensberger per il Premio Büchner e dalla versione fortiniana di Landessprache, è seguito da Traducendo Brecht, tradotta in tedesco da Enzensberger, e da un suo saggetto su Fortini. 21 Ibid.

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per via di traduzioni – e gli sta a cuore esemplificarla proprio con Enzensberger, un autore che le dinamiche politico-culturali attive nel processo di transfer hanno posizionato in una parte del campo che con la tradizione letteraria ha un rapporto opposto al suo. Dalla visione della storia di Fortini deriva la sua avversione per l’utilizzo del passato come “oggetto trovato”, come “falso presente”. Per questo rifiuta ogni lettura del testo che prescinda dalla percezione della distanza che lo separa dall’oggi: Il catastrofismo del secolo, diciamo: la sua necrofilia, inducendo a scorgere nel passato dei monumenti più che dei documenti è sommamente disposto a considerare l’eredità appena una congerie di materiale spoglio, qualcosa di simile a macerie o relitti lasciati in riva all’oceano da inesplicabili bufere22.

Ciò vale, oltre che per poesia e critica, anche per la traduzione. «“Quanta aria dal bel viso mi diparte”: questo è il motto e il lamento di ogni traduttore vero. Aria ossia il colore della distanza, il suo pathos. Quella distanza è il portato massimo della tradizione e del “sistema”»23. Al concetto di distanza come «portato massimo della tradizione» va ascritto lo scetticismo di Fortini verso le traduzioni catulliane di Ceronetti dei primi anni Sessanta, definite «il tentativo di costituire l’autenticità in seno dell’inautentico»24. Per la stessa ragione, più di una perplessità gli suscitano anche le traduzioni “d’autore” (quelle, così in voga nel secondo Novecento, in cui un poeta ne traduce un altro nel proprio idioletto; ad esempio Montale che volge Shakespeare in “montalese”), come ogni altra traduzione che finisca per «somigliare a uno stato di falsa coscienza e di autoinganno» accrescendo «l’illusione di una produzione e di un consumo “pieno” della parola poetica»25. Ma su queste basi poggia anche la sua opinione di critico, diffidente sia verso il «mimetismo onnivoro»26 di Pasolini, sia verso i 22

Id., Un rifacimento dell’Ecclesiaste, in NSI, p. 36. Id., Da una versione di Góngora, in NSI, p. 363. 24 Id., Traduzione e rifacimento cit., p. 824. 25 LT, p. 61. 26 La stessa critica viene rivolta al Pasolini traduttore: «Pasolini […] crea una serie di opere, attraverso le quali, non nelle quali, egli riesce a dare delle concrete rappresentazioni poetiche. Ma si badi bene: non sono mai fonti, ma schermi, pretesti» (cfr. Franco Fortini, Scritti su poeti. 8. Pasolini, originariamente pubblicato in SI-I, ora in SE, pp. 588-601, qui p. 590). 23

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neoavanguardisti che imitano tutto perché non esiste per loro nessun rapporto tra letteratura e realtà e fra poesia e cultura, ma solo dei rapporti tra letteratura e letteratura27. Né le discipline umanistiche che spacciano il commento come uno strumento sufficiente per annullare la distanza tra lettore e testo offrono un miglior servizio. Più in generale Fortini rileva come l’altissima consapevolezza dei piani e livelli storici raggiunta tra fine Ottocento e inizio Novecento sia andata perduta, rimpiazzata da una «proposta di compresenza e indifferenza»28. Fortini opera su tutti e tre i fronti: non solo traduzione e critica, ma anche poesia. Lo stesso concetto di storia e di tradizione si trova infatti ribadito nei suoi versi. Il presente che essi mettono a fuoco è dato, come ha scritto Berardinelli, come «competenza e palinsesto», come «scambio, dialogo con passato e futuro»29. Il presente è un processo, immobilizzato però «come in una stratificazione “sincronica”». La poesia di Fortini è «un incastro di schegge temporali diverse»; un «cristallo in cui sono imprigionate e traspaiono realtà lontanissime» che si straniano a vicenda e permettono la coesistenza di uno sguardo sia «storico-geologico»30 sia, al contempo, utopico. 2.3 Marcatura: la «linea Brecht-Fortini» Fortini non soltanto sceglie la poesia di Enzensberger, ma compie su di essa anche un marquage/marcatura (termine che per Bourdieu indica una operazione sociale, e che si tenta qui invece di “mettere alla prova dei testi” – con conseguenti necessari adattamenti del concetto). Rende infatti il testo ben più lapidario, più assertivo e ritmicamente più irregolare. La chiusa della prima strofa italiana perde l’ausiliare e si regge solo su forme participiali: «Non registrati / non decifrabili nella polvere ma scomparsi / i loro nomi». Lo stesso accade nel secondo e terzo verso, dove «non in arena / però conversi ma in nulla» traduce «doch nicht zu sand / sind sie geworden, sondern zu nichte». Inoltre l’enjambement del terzo verso tedesco («in scharen 27

F. Fortini, Traduzione e rifacimento cit., p. 828. Id., Un rifacimento dell’Ecclesiaste cit., p. 364. 29 Alfonso Berardinelli, Franco Fortini, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 156. 30 Ibid. 28

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/ sind sie vergessen») è ben più fluido di «A schiere / dimenticati». Lo stesso effetto suscita la seconda strofa con quel «vermisst / sind sie nicht worden», asciugato in un conciso «Dissolti / no» che ricorda certi epigrammi fortiniani de L’ospite ingrato (1966). Se in Enzensberger e in Sachs gli enjambements servono a legare verso a verso in un continuum ritmico e sintattico, in Fortini l’ellissi del verbo li trasforma in interruzioni di respiro, in sincopi. Tali scelte metrico-ritmiche e lessicali sono intenzionali. Questo modo di pronunciare, di usare la lingua e il metro è la cifra della poesia di Fortini, specialmente a partire da Una volta per sempre (1963), cioè dal momento del suo lavoro più intenso su Brecht. In uno studio sul Sandalo di Empedocle lo stesso Fortini afferma di aver imparato i ritmi sghembi e l’«enjambement forte»31 dal poeta tedesco, e di aver fatto leva proprio su di essi per sottrarsi a una certa eredità degli anni Trenta. Raboni parla a questo proposito di una «linea BrechtFortini»32 basata su una «pronuncia percussiva», che non sfuma mai ed eppure non assolve all’obbligo di sottolineare l’evento sonoro costituito dalla singola parola; evento sonoro che è però anche evento semantico, comunicazione di senso. Si crea dunque uno scarto tra la materia sonora del significante e il significato, che d’altra parte Fortini stesso aveva riconosciuto come precipua caratteristica brechtiana33. Se die verschwundenen viene antologizzata è anche in ragione del suo possedere, nella versione italiana, quella cifra metrico-stilistica «Brecht-Fortini» che quest’ultimo intende ribadire nel contesto dell’operazione editoriale di Einaudi. La scelta va dunque ascritta non solo al testo originale, ma anche alle caratteristiche del testo a fronte, “marcato” con la posa autoriale che Fortini ritiene più consona a sé stesso: quella costruita attraverso Brecht. Ne è prova il fatto che tali caratteristiche formali accomunino la maggioranza dei testi presenti nel Ladro di ciliege; ne sono, in un certo senso, il vero fil rouge. 31 Franco Fortini, Bertolt Brecht. Il sandalo di Empedocle, in A. Chiarloni e U. Isselstein (a cura di), Poesia tedesca del ’900, Einaudi, Torino 1990, p. 178. 32 Cfr. l’intervento di Giovanni Raboni in AA.VV., Bertolt Brecht/Franco Fortini cit. Su questi aspetti cfr. anche Edoardo Esposito, Sullo stile “da traduzione”, in F. Diaco e E. Nencini (a cura di), “Per voci interposte”. Fortini e la traduzione cit., pp. 167-174. 33 «L’immagine brechtiana è all’opposto di quella che per via analogica tenta l’identificazione della parola e della cosa. Significante e significato debbono rimanere distinti e distinguibili» (Franco Fortini, Introduzione, in B. Brecht, Poesie e canzoni cit., p. XIV).

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Prima di tornare su questo punto per inquadrarlo nell’opera fortiniana e nel campo letterario, è necessario soffermarsi su alcuni ulteriori esempi, come Sonntag di Karl Kraus, tradotta nel 1955 e poi di nuovo nel 1960: Sonntag Die Welt ist neu, wir wollen Anteil nehmen. Aus Blut erblüht. Und immer wieder Rosen. Wir haßten, um zu kosen. Wir wollen uns zum Glück bequemen. Und euch gelingts; und wie es immer sei, ein jeder triffts und jeder führt’s am Arm. Daß Gott erbarm! Der meinige ist frei. Weiß, wie es kam, und daß der Tag vergeht und daß er Platz macht andern Tagen. Und eure Kinder werden einst erschlagen. Wie viel ist’s an der Zeit? Zu spät. Domenica dopo la guerra Il mondo è nuovo. Anche noi ne vogliamo la nostra parte. Fiorito dal sangue. Sempre rose. Abbiamo odiato, per queste carezze. Vogliamo essere pronti alla gioia. E a voi riesce. E comunque, ce n’è un po’ per tutti, tutti prende sottobraccio. Sia ringraziato il cielo. Il mio è libero. So come va. So come il giorno scompare per fare luogo ad altri giorni. E i vostri figli un giorno saranno ammazzati. Che ora è, del tempo? È troppo tardi. 196034 34

LC, pp. 68-69.

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L’inserimento di Sonntag, unico testo krausiano nel Ladro di ciliege, non si deve alla posizione di Kraus nel campo letterario italiano (come si è detto, nel 1960 la ricezione italiana di Kraus deve sostanzialmente ancora avere inizio35); né all’interesse di Fortini per la poesia dell’autore austriaco, che gli era gradito soprattutto come saggista polemico e aforista. Piuttosto, in questo testo così poco rappresentativo del Kraus che piaceva a Cases, oltre che a Piergiorgio Bellocchio e agli altri dei «Quaderni Piacentini», Fortini intravede la possibilità di creare un corto circuito con Brecht, figura legata a quella di Kraus, e ancor di più col suo proprio “marchio” brechtiano (e non è casuale che la traduzione di questa poesia risalga agli stessi anni del lavoro sul Romanzo da tre soldi e sulle Poesie e canzoni). La marcatura è infatti la stessa usata per Enzensberger. In Kraus il metro non è mai di disturbo al senso: al chiudersi di ogni unità ritmica corrisponde il chiudersene di una di senso, come dimostrano le cesure forti a fine verso («Die Welt ist neu, wir wollen Anteil nehmen. / Aus Blut erblüht. Und immer wieder Rosen»); Fortini incrina questa solida struttura ritmica attraverso brusche interruzioni («Il mondo è nuovo. Anche noi ne vogliamo / la nostra parte. Fiorito dal sangue. Sempre / rose»). Lo stesso vale per la cesura a metà verso all’inizio dell’ultima strofa. Nel titolo, inoltre, Fortini opera una macroscopica aggiunta: Sonntag diventa Domenica dopo la guerra (con riferimento all’omonimo componimento di Vittorio Sereni). Kraus allude in effetti alla guerra, ma alla Prima guerra mondiale; in traduzione, però, l’esplicitazione del riferimento sommata ai cambiamenti metricoritmici fa sì che il lettore pensi al secondo conflitto mondiale, tema dell’opera sia brechtiana che fortiniana. L’argomento della poesia di Kraus, dunque, risveglia l’interesse di Fortini in quanto gli permette una “triangolazione” con sé stesso e con Brecht. Tale “triangolazione” emerge con maggiore chiarezza se si getta uno sguardo – a titolo meramente esemplificativo – ad altri due testi, relativi al Fortini traduttore di Brecht e al Fortini poeta. Il primo è Il ritorno, versione italiana della poesia di Brecht Die Heimkehr, pubblicata in Poesie e canzoni; il secondo è l’incipit della poesia 1944-1947, presente in Una volta per sempre. Entrambi i testi hanno caratteristiche che si ritrovano anche nella riscrittura da Kraus: la voce dell’autore parla in 35

Cfr. supra, p. 84.

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prima persona (singolare o plurale) alle generazioni passate e future, occupandosi di eventi storici e con lo scopo di veicolare un messaggio che è al contempo morale e politico, impiegando una sintassi epigrammatica e un metro rotto e sincopato nel quale le unità di senso non coincidono quasi mai coi singoli versi: Il ritorno La mia città, come la troverò? Seguendo gli sciami dei bombardieri io vengo verso casa. E dove è? Dove le sterminate montagne di fumo si levano. [...] La mia città, come mi accoglierà? Innanzi a me vengono i bombardieri. Sciami mortali vi annunciano il mio ritorno. Incendi precedono il figlio36. 1944-1947 Era la guerra, la notte tremavano nelle credenze i cristalli al ronzio dei Liberators da ovest a oriente o a sud, verso l’Italia. Chi ero io e tu chi eri? Cominiciò così. [...]37

2.4. Traduzione come oggettivazione, come verifica, come utopia Le traduzioni di Fortini non si comprendono se non come parte della sua produzione poetica e critica, e per converso le poesie e i saggi di quest’autore sono da considerarsi espressione di un più ampio “gesto traduttivo”. La lente attraverso la quale Fortini legge e trasforma Enzensberger o Kraus in traduzione è infatti la stessa attraverso cui legge e trasforma la realtà nelle sue poesie. In esse, scrive Berardinelli, «il lettore non è chiamato a emozionarsi, a fan36 37

B. Brecht, Poesie e canzoni cit., p. 110. UVS, p. 45, ora in TP, p. 261.

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tasticare o ad associare liberamente. È invece posto all’esterno delle cose che vengono dette»38. Questo lettore, «spettatore rilassato e giudice», «viene invitato a riflettere su un frammento di esperienza […] in modo da arrivare a trarne delle conclusioni più generali e interessanti anche per lui». Tale «sforzo di oggettivazione» è condotto, nelle poesie, attraverso «la dizione oggettiva e rallentata, le scansioni tormentate in un fitto sistema di cesure: dove la cesura è appunto taglio, distinzione, separazione di unità, rifiuto della linearità melodica, corrispettivo metrico-ritmico della lama etico-intellettuale»39. Allo stesso modo, nelle traduzioni del Ladro di ciliege l’uso della cesura come lama etico-intellettuale causa un distanziamento dai testi (sia il “primo” che il “secondo”) che va di pari passo con il tentativo di comprenderli, e serve a oggettivarli. La traduzione, come la poesia, è una messa a distanza; non a caso il Fortini saggista, in Lezioni sulla traduzione, prende le mosse dal discrimine storico in cui i traduttori cominciano a rendere il «pathos» della lontananza, il Romanticismo. La messa a distanza serve da una parte a evitare l’illusione di «falsa coscienza» che Fortini rimproverava a Ceronetti, dall’altra a fuggire la contraddizione evidenziata nei poeti che volgono testi stranieri nel loro idioletto. Fortini non traduce Enzensberger nel proprio idioletto: non è la lingua di Fortini quella che ritroviamo nelle sue versioni krausiane, bensì la “griglia prospettica” che usa per osservare il reale (“griglia” che in poesia è necessariamente struttura metrico-ritmica). La lingua riempie questa “griglia”, questa prospettiva; non la precede o sostituisce (come invece in Montale). Solo in questo senso si può dire che le traduzioni del Ladro di ciliege siano “fortinizzazioni”. Tradurre significa per Fortini sottoporre i testi altrui a una visione oggettivante del mondo. Al contempo, la traduzione è anche verifica di questa stessa visione; è una oggettivazione dei modi dell’oggettivazione. Siamo qui di fronte a un intellettuale che mette all’indice coloro che mettono all’indice40 – incluso sé stesso. Ed ecco che si comprende il senso dell’eterogeneità dei testi nel Ladro di ciliege. Fortini sembra voler sfruttare il fatto che «les textes n’emportent pas

38

A. Berardinelli, Franco Fortini cit., p. 99. Ivi, p. 69. 40 Traggo l’espressione da Pierre Bourdieu, À propos de Karl Kraus et du journalisme, «Actes de la recherche en sciences sociales», 131-132, 2000, p. 123. 39

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leur contexte avec eux»41 (il che si può fare con particolare agio nel caso di una pubblicazione come Il ladro di ciliege, che non necessita di “consacrazioni” esterne al campo letterario italiano: sia per la posizione di rilievo della casa editrice, sia per la collana che la accoglie, presentata come “antologia di antologie” dei migliori poeti italiani) per dimostrare che ogni testo, di qualsiasi epoca o cultura e in qualsiasi lingua (anche ignota, come l’ungherese) può essere riletto sotto la lente che la sua postura autoriale gli mette a disposizione. Raccogliere insieme testi estremamente eterogenei serve dunque a mettere alla prova – in bilico tra falsificazione e verifica, tra critica e autocritica – il proprio modo di leggere e scrivere. È chiaro perché ciò avvenga per mezzo della traduzione, processo al contempo letterario e metaletterario. Da una parte, la “traduzione come verifica” risulta affine alla critica. Secondo Fortini il discorso critico dovrebbe essere «anche verifica – secondo il linguaggio delle assemblee elettive – della provenienza loro, cioè della origine e legittimità del mandato sociale e storico in nome del quale chiedono di testimoniare»42. Non sorprenderà d’altra parte che Fortini consideri la saggistica non un discorso rigorosamente scientifico, bensì un «fatto letterario»43. Anche in questo senso, traduzione, critica e scrittura poetica sono parte di uno stesso gesto. Dall’altra, la “traduzione come verifica” dimostra la possibilità dell’utopia. L’eterogeneità dei testi del Ladro di ciliege serve a verificare un ideale di non-eterogeneità; di ricomposizione, di unità. Frammenti del reale e della tradizione letteraria apparentemente inconciliabili, una volta sottoposti al filtro della traduzione come verifica e come messa a distanza, risultano, pur mantenendosi diversi l’uno dall’altro, “consonanti” – poiché basati, come si è visto, sulla stessa struttura metrico-ritmica, che è segno di una visione del mondo. Testi tutti diversi, dunque; ma tutti leggibili e tutti insieme, tutti sullo stesso scaffale. Ecco l’utopia di Fortini – è una biblioteca immaginaria, ideale, che non significa “tutta uguale”, bensì “tutta leggibile”, o, quantomeno, “tutta interrogabile”. 41

P. Bourdieu, Les conditions sociales de la circulation internationale des idées cit., p. 4. Franco Fortini, Verifica dei poteri, in Id., Verifica dei poteri, il Saggiatore, Milano 1965 (d’ora in avanti VP-I), p. 59. 43 Ivi, p. 66. 42

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È la stessa utopia che anima le poesie di Fortini. Risuona soprattutto in quello che forse potrebbe essere definito il più utopico dei suoi testi, La poesia delle rose, una visione di unità nella molteplicità, dove il passato, liberato dalla sua maschera pietrificata, è reso al presente come «centifolia rosa indivisa»: […] E ora la passione degli alberi alta ritorna. Il desiderio e la separazione non ci saranno più. Chi siamo stati sapremo e senza dolore. Già verso di noi quel che vi parve favola viene e sarà, figli di questo secolo, ironie. Noi dal sogno usciremo per esistere in una sola verità. Tutti i perfetti amori un solo amore. Tutti i giorni più belli un solo giorno. Corpi spariti che avevamo amati, dai miserabili resti ricreati ritornerete di pietà beati stupiti identici spiriti pazzi di risa, centifolia rosa indivisa che già la mente incredula abbagli. […]44

2.5 Cinque tesi sulla traduzione in Fortini In conclusione, si possono formulare cinque tesi sulla traduzione e sulla riscrittura in Fortini, tenendo presente che in quest’autore il processo traduttivo non è altro che una possibile forma della «serie multicolore delle scritture che si chiamano interpretazioni ermeneutico-critiche»45: 1. La traduzione è strumento di costituzione di un’autorialità (e in tal modo è anche strumento di lotta per la supremazia nel campo letterario). Per mezzo delle traduzioni e delle riscritture, nonché della 44 45

Franco Fortini, La poesia delle rose, Il Palmaverde, Bologna 1963, p. 13. LT, p. 183.

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loro fertile interazione coi testi poetici originali, l’autore costituisce un’autorialità che corrisponde a una «linea Brecht-Fortini» e che gli fa in effetti raggiungere, dopo il 1963, un «picco di visibilità»46. 2. La traduzione è gioco di maschere autoriali, è possibile via d’uscita dal «fastidio» per la propria identità metrica o stilistica. Il traduttore-guitto, che si esercita con testi di provenienza disparata o addirittura con traduzioni immaginarie, salva l’autore – cioè sé stesso – dalla pietrificazione della propria figura (tale processo è la necessaria controparte di quello descritto al primo punto: evitare la fissazione definitiva della propria postura significa poter continuare a crearla). 3. La traduzione è sforzo di oggettivazione, è messa a distanza finalizzata a un tentativo di comprensione – del testo altrui e della realtà, in traduzione e in poesia. Il verso composto da interruzioni e frammenti serve a oggettivare il presente e la tradizione letteraria. La traduzione risulta in questo senso affine e consustanziale alla scrittura poetica. 4. La traduzione è verifica di questo stesso tentativo di oggettivazione e messa a distanza. La traduzione risulta così affine e consustanziale alla scrittura critico-saggistica, che a sua volta è «fatto letterario». 5. La traduzione è costruzione di una biblioteca immaginaria, è sforzo di integrazione dei diversi elementi della tradizione letteraria ed è composizione di un mosaico. La traduzione è Babele e antiBabele insieme: è utopia di unità nella diversità. Tutto questo non è altro, in fondo, che una polemica con l’idea di creazione: contro coloro che la intendono come una libertà fantastica e stilistica che inventa ex nihilo; contro il caleidoscopio «presentista» dell’innovazione avanguardistica, che rende il passato mero “oggetto trovato”; contro la poesia pseudopolitica propagandistico-celebrati46

Cfr. Davide Dalmas, La traiettoria di Franco Fortini nel campo letterario italiano (1945-1970), in I. Fantappiè e M. Sisto (a cura di), Letteratura italiana e tedesca 19451970 / Deutsche und italienische Literatur 1945-1970 cit., p. 144.

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2. fortini e i “nuovi” autori della poesia europea

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va, che snatura il presente imponendogli le coordinate di una utopia futura. Quella di Fortini, invece, è una poesia che inventa trasformando, e che oggettivando interroga. Fortini sceglie forme che gli permettono di costruire testi (poesie o traduzioni o saggi o – più spesso – esplorazioni nelle zone di confine che li separano) dove convivono temporalità diverse e diverse autorialità; testi che – in uno sforzo di tenere insieme storia e utopia – mettono in evidenza il possibile dissolversi dei confini tra creazione e ri-creazione, tra scrittura e riscrittura.

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3. Riscritture di autorialità. Fortini e i “classici” della poesia europea

3.1 Per un tentativo di (auto-)verifica Il presente capitolo nasce per così dire da un tentativo – in un certo senso “fortiniano”, quantomeno nelle intenzioni – di verifica, anzi di auto-verifica. Nel capitolo precedente si è presa in considerazione l’antologia di versioni poetiche pubblicata nel 1982 presso Einaudi, Il ladro di ciliege, che fa parte di una collana la quale, come scrive Fortini stesso, «vorrebbe accogliere libri che il poeta possa considerare come propri sebbene composti di traduzioni»1. Analizzando le versioni da Hans Magnus Enzensberger e da Karl Kraus, si è messo in luce come Fortini sia riuscito – nonostante la manifesta eterogeneità degli originali selezionati – a rendere effettivamente propri i testi che traduce, e addirittura a trasformarli nelle tessere di un autoritratto: in strumenti di definizione della propria postura autoriale. Volgendoli in italiano, difatti, vi applica una marcatura sintattico-metrica di matrice brechtiana che, specialmente a partire da Una volta per sempre, costituisce la cifra della figura autoriale dello stesso Fortini. A questo punto, però, mi pare necessario capire se le conclusioni della mia analisi non siano state falsate dal fatto di aver esaminato precipuamente traduzioni da autori stranieri la cui ricezione in Italia, all’altezza delle versioni fortiniane, era ancora agli albori o addirittura inesistente. In altre parole, mi sembra opportuno chiedersi se Fortini abbia impiegato tali processi di appropriazione e marcatura brechtianeggiante solo per le traduzioni da poeti ancora sconosciuti al pubblico italiano; oppure se, al contrario, tali processi caratterizzino anche le versioni da autori che già possedevano una ricchissima tradizione in 1

F. Fortini, “Il musicante di Saint-Merry” cit., p. 166.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

Italia e risultavano quindi già marcati, spesso in modo radicalmente altro. Per rispondere a tale domanda sarà opportuno analizzare le traduzioni di tre poeti cruciali per la letteratura italiana anteriore a Fortini. Il primo è Heinrich Heine, che aveva avuto tra i suoi interpreti in Italia nomi importantissimi, tra i quali Ippolito Nievo e Giosuè Carducci; il secondo è un “classico” conclamato quale Charles Baudelaire; il terzo è Rainer Maria Rilke, che aveva costituito, soprattutto grazie alle versioni di Leone Traverso e di Giaime Pintor, un punto di riferimento imprescindibile per la poesia italiana dagli anni Trenta in poi, specialmente quella d’area fiorentina (basti ricordarne l’influenza sull’opera di Mario Luzi). Risulterà utile, al fine di fare un confronto, anche qualche riferimento a ulteriori versioni inserite nel Ladro di ciliege, ad esempio la traduzione da Max Jacob. 3.2 Marcatura sintattico-metrica. Fortini e Heine Come si è detto, sono numerosi i poeti – specialmente di lingua tedesca – dei quali si è indagata la relazione con Franco Fortini2. Eppure, ancora manca qualsivoglia indagine sul rapporto con Heinrich Heine, un autore che Fortini affronta sia nelle vesti di traduttore sia in quelle di critico; un autore, inoltre, che sin dalla metà del diciannovesimo secolo costituisce un punto di riferimento imprescindibile per la poesia italiana. In realtà, paradossalmente, la storia della ricezione italiana di Heinrich Heine3 ha inizio a Vienna: lì si stampa difatti la «Rivista 2

Cfr. i riferimenti bibliografici riportati supra, p. 65, n. 1. Per approfondimenti sulla storia della ricezione di Heine in Italia, della quale si possono ripercorrere qua solo i momenti cruciali, si rimanda agli studi – ancora fondamentali – di Anne Fiedler Nossing, Heine in Italia nel secolo decimonono, S.F. Vanni, New York 1948, e di Luciano Zagari, Heine in der italienischen Kritik, «Heine-Jahrbuch», 4, 1965, pp. 51-63. Tra gli studi recenti cfr. soprattutto Gerhart Hoffmeister, Heine in der Romania, Erich Schmidt Verlag, Berlin 2002; Gabriella Pelloni, Im Horizontwandel des Verstehens: italienische Rezeption Heinrich Heines im 19. und 20. Jahrhundert, «Heine-Jahrbuch», 46, 2007, pp. 186-198; Arnaldo Di Benedetto, Traduttori italiani di Heine nell’Ottocento: Del Re, Nievo, Zendrini, Carducci, «I Mercoledì dell’Accademia», 17, 2008, pp. 3-27. Tra gli studi italiani recenti su Heine cfr. almeno Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica, Quodlibet, Macerata 2008, e Maria Carolina Foi, Heine e la vecchia Germania: la questione tedesca tra poesia e diritto, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2015 [1990]. Per la ricezione francese si veda invece almeno Élisabeth Décultot, La réception 3

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

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viennese», sulla quale nel 1839 esce, sotto il titolo di Cordoglio, una traduzione di Warum sind die Rosen so blass i cui primi versi suonano: «Perché son mai sì pallide
 / le rose, o mio tesor?
 / Perché le azzurre mammole / non parlan più d’amor?»4. L’autore della versione è Tommaso Gar (1807-1871), trentino d’origine, amico di Niccolò Tommaseo e di Franz Grillparzer, attivo come bibliotecario a Padova, successivamente direttore della Biblioteca Comunale di Trento e poi di quella Universitaria di Napoli, nonché, come ricorderà poi Benedetto Croce, «uomo valente negli studi storici»5: un erudito, dunque, più che un letterato. Sarà però proprio in ambito specificamente letterario che, negli anni immediatamente successivi, la ricezione di Heine conoscerà una vasta fioritura. Nel 1857 Giuseppe del Re, presentando la sua traduzione di Lyrisches Intermezzo, già definisce Heine un poeta «di moda»; nel 1874 Bernardino Zendrini, nel suo saggio su Enrico Heine e i suoi interpreti uscito sulla «Nuova Antologia», scrive che «Enrico Heine è, anche fra noi, uno dei poeti stranieri più noti e più studiati»6. A consolidare la rapida ascesa della fortuna di Heine in Italia contribuiscono sia scritti critici che traduzioni. Tra i primi, si ricordi almeno la nota di De Sanctis del 1855, che mirava a mostrare «quanta intelligenza e ordine e misura è nell’apparente spensieratezza di Heine, e di che sangue gronda il suo riso»7; nonché il saggio di Tullo Massarani su Enrico Heine e il movimento letterario in Germania, uscito a puntate sul «Crepuscolo» nel 1857. Per quel che riguarda le traduzioni, non potendo in questa sede ripercorrere esaustivamente la storia delle versioni italiane di Heine, vale la pena menzionare almeno le tre più utili a comprendere il modo in cui Franco Fortini si relaziona al poeta tedesco. Ippolito Nievo, suggestionato dallo studio di Massarani, trade Heine en France entre 1860 et 1960. Contribution à une histoire croisée des disciplines littéraires, «Revue germanique internationale», 9, 1998, pp. 167-190. 4 Su questo testo e le sue traduzioni italiane cfr. Arnaldo Di Benedetto, Avventure italiane d’un Lied di Heine, «Annali del Centro Pannunzio Torino», 35, 2004-2005, pp. 205-215. 5 Benedetto Croce, Appunti per la storia della cultura in Italia nella seconda metà del secolo XIX. Vita letteraria a Napoli dal 1860 al 1900. Parte prima, «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia», 7, 1909, p. 406. 6 Cfr. A. Di Benedetto, Traduttori italiani di Heine nell’Ottocento cit., pp. 7-8. 7 Francesco De Sanctis, Scritti critici di Francesco De Sanctis, con prefazione e postille di V. Imbriani, Antonio Morano Editore, Napoli 1886, pp. 90-94.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

duce Heine (nel 1859) attingendo alle precedenti versioni francesi di Gérard de Nerval; è degno di nota che Nievo, pur prendendo le mosse da traduzioni in prosa, decida di tradurre in versi e si riallacci esplicitamente sia alle precedenti versioni di Del Re e di Francesco Scremin, sia, più in generale, alla tradizione poetica italiana in toto8. A Bernardino Zendrini si deve invece la prima traduzione di testi di Heine pubblicata in volume: si tratta del Canzoniere, che esce nel 1865, nel 1867, e poi, rifatto, nel 1879. Con queste traduzioni entra in vivace polemica Giosuè Carducci, per il quale Heine svolge un ruolo cruciale: di nessun altro autore straniero Carducci traduce così tante poesie, volgendole sia in prosa (tali versioni saranno raccolte, assieme a scritti saggistici su Heine, nelle Conversazioni e divagazioni heiniane, 1869-1884) che in versi (si tratta dei cinque componimenti che verranno inseriti nelle Rime nuove, 1887). L’operazione che Carducci – in polemica con Zendrini – compie con Heine consiste nella rilettura della figura del poeta tedesco come «ingegno a doppia faccia»9, vale a dire sia letterario che politico. Si tratta però anche, anzi soprattutto, di un’appropriazione. Carducci, oltre a tradurre Heine, verseggia à la Heine, riprendendone motivi e stilemi, e significativamente include le sue traduzioni in una raccolta propria, le già citate Rime nuove, le quali sin dal titolo alludono in modo esplicito ai Neue Gedichte di Heine. Conseguentemente, si tratta di un’assimilazione del poeta tedesco alla tradizione letteraria italiana, ai suoi momenti più caratteristici e/o più alti. Così Heine è per Carducci, nelle menzionate Conversazioni e divagazioni heiniane, «Petrarca moderno»10. E, in margine alla traduzione del capitolo XII della Reise von München nach Genua, Carducci afferma persino l’esistenza di una somiglianza, sia formale sia strutturale, tra il romanticismo tedesco e certa poesia italiana medievale: 8

Cfr. Iginio De Luca, Prefazione, in Ippolito Nievo, Quaderno di traduzioni, a cura di I. De Luca, Einaudi, Torino 1964, pp. 11-34; Luigi Reitani, “Tenebre azzurre”. Nievo traduttore di Heine, in A. Daniele (a cura di), Ippolito Nievo, Esedra, Padova 2006, pp. 15-26. 9 Giosuè Carducci, Opere di Giosuè Carducci. Edizione nazionale, vol. 27 (Ceneri e faville. Parte seconda), Zanichelli, Bologna 1938, p. 148. Carducci sta citando Édouard Schuré, col quale si dichiara d’accordo. Sulle traduzioni di Carducci si vedano almeno i già citati A. Fiedler Nossing, Heine in Italia nel secolo decimonono cit.; G. Hoffmeister, Heine in der Romania cit., pp. 81-98; A. Di Benedetto, Traduttori italiani di Heine nell’Ottocento cit., pp. 20-22. 10 G. Carducci, Opere di Giosuè Carducci. Edizione nazionale, vol. 27, cit., p. 120.

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La rappresentanza, salvo le necessarie differenze della comprensione e della espressione, è la stessa così nella ballata del fiorentino ducentista del dolce stil nuovo come nella prosa del romantico tedesco: è, non dirò la indifferenza, ma la insensibilità naturale, la placidità della bellezza pura dinanzi e in mezzo ai perturbamenti dell’affetto e della passione […]. Il romanticismo tedesco e la poesia fiorentina di parte bianca si rassomigliano – lo affermo a grande scandalo dei puristi e dei modernisti – nell’idea, nelle forme, nel procedimento11.

Infine, per capire quanto sia radicale l’operazione di appropriazione di Heine è utile ricordare che Carducci paragona le poesie dell’autore tedesco alla seguente ballata di un «fiorentino ducentista»: Cantando in voce dolce umile e lieve Vidi una gittar neve – a chi passava. Ell’era giovinetta presta e snella, Cinta in gonnella – e negli atti amorosa. Ed era sua figura tanto bella, Vaga, novella – e tanto graziosa, Ch’i’ dissi in ver’ di lei: In te si posa Ogni beltade. – Ed ella pur cantava. La vista e ’l suo cantar m’entrava al cuore, Sì che ’n dolzore – Ogni senso ridea; E uno spiritel chiamato amore, Che non di furore – ma dentro sedea, Di subito ferito erto surgea Con gran sospiri. – Ed ella pur cantava. Uscivan fuor del petto i miei sospiri Pien di disiri – con voce pianetta, Dicendo: io priego te che alquanto miri, Anzi ch’io spiri, – o gaia giovinetta Come ferito son da tua saetta. Volgiti alquanto. – Ed ella pur cantava12.

Quando Fortini lo traduce, dunque, Heine ha alle spalle, in Italia, una ricchissima tradizione che lo ha, di volta in volta, assimilato 11 12

Ivi, pp. 153-154. Ivi, pp. 152-153.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

e/o marcato, dotandolo di determinate connotazioni. Di seguito si tenterà di capire in che modo, traducendo Heine, Fortini si relazioni anche alle marcature precedentemente impresse in Italia al poeta tedesco. Fortini ha tradotto un solo testo di Heine. Si tratta di Wenn ich an deinem Hause, tratto dal ciclo Die Heimkehr, parte del Buch der Lieder (1827): Heinrich Heine, Wenn ich an deinem Hause 1 2 3 4

Wenn ich an deinem Hause Des Morgens vorübergeh’, So freut’s mich, du liebe Kleine, Wenn ich dich am Fenster seh’.

5 6 7 8

Mit deinen schwarzbraunen Augen Siehst du mich forschend an: Wer bist du, und was fehlt dir, Du fremder, kranker Mann?

9 10 11 12

Ich bin ein deutscher Dichter, Bekannt im deutschen Land; Nennt man die besten Namen, So wird auch der meine genannt.

13 14 15 16

Und was mir fehlt, du Kleine, Fehlt manchem im deutschen Land; Nennt man die schlimmsten Schmerzen, So wird auch der meine genannt.

Come sono contento 1 2 3 4

Come sono contento, mia piccola cara, se alla finestra ti vedo quando passo di mattina sotto casa tua.

5 6 7 8

Quei tuoi occhi bruni, quasi neri, mi guardano e chiedono: chi sei, che vai cercando tu, uomo straniero, ferito?

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

9 10 11 12

Io sono un poeta tedesco. Sanno, in terra tedesca, chi sono. Se si fa il nome dei migliori c’è fra quelli anche il mio.

13 14 15 16

E quello che manca a me, cara, manca, in terra tedesca, a tanti. Se si fa il nome dei mali più amari c’è fra quelli anche il mio.

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198113

Fortini applica a buona parte del Lied una griglia metrico-ritmica che consiste in enjambements forti, in cesure anche iterate all’interno di uno stesso verso, in ritmi sincopati, sghembi. Coincide insomma con quella che, come si è detto, Raboni chiamava «pronuncia percussiva»14, la quale, invece di armonizzarsi al dettato, confligge con esso, facendo sì che la parola si presenti come un evento prima semantico che sonoro. In tal modo si crea uno scarto tra significante e significato, la cui interpretazione chiama in causa il lettore. Fortini stesso, nella sua introduzione a Poesie e canzoni, aveva riconosciuto sia tali caratteristiche metrico-ritmiche che tale scarto tra significante e significato come qualità peculiari dell’opera di Brecht. L’applicazione di tale griglia metrico-ritmica è evidente sin dall’incipit: «Wenn ich an deinem Hause / Des Morgens vorübergeh’» diventa «Come sono contento, mia piccola / cara, se alla finestra», con la cesura a rompere entrambi i versi, il metro irregolare e l’enjambement fortissimo. Traducendo, Fortini spezza pressoché tutti i versi, facendo inoltre in modo che essi non coincidano quasi mai con le unità semantiche (da qui ulteriori enjambements forti, come quello ai vv. 5-6). Il tessuto ritmico del Lied di Heine diventa un dettato tutt’altro che cantabile. La rima va perduta, così come l’anafora che dava alla poesia di Heine una struttura circolare: nell’originale, il verbo fehlen, presente nella domanda della fanciulla che chiede allo 13

Heinrich Heine, Wenn ich an deinem Hause, in LC, pp. 58-59; cfr. TP, pp. 634-635. Per il testo originale tedesco cfr. anche: Heinrich Heine, Buch der Lieder, a cura di P. Grappin, Hoffman und Campe Verlag, Würzburg 1975, p. 223. 14 Cfr. l’intervento di Giovanni Raboni in AA.VV., Bertolt Brecht/Franco Fortini. Franco Fortini traduttore di Bertolt Brecht: atti del seminario cit.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

straniero «Was fehlt dir?» (v. 7), tornava anche nella risposta del protagonista (vv. 13-14: «Und was mir fehlt, du Kleine / Fehlt manchem im deutschen Land»), mentre Fortini rompe questa eco tra domanda e risposta traducendo i fehlen in modi diversi (rispettivamente, «andar cercando» e «mancare»). Il titolo Come sono contento, infine, riprende sì l’incipit, sull’esempio di Heine, ma crea anche una dissonanza stridente – impensabile nel testo originale – tra il titolo stesso e il finale della poesia, che termina con l’accenno agli «schlimmsten Schmerzen» (i «mali amari») del protagonista. Il contrasto tra incipit ed explicit, e più ancora lo scarto tra significante e significato che la nuova struttura ritmico-metrica insinua lungo tutta la traduzione, chiamano il lettore a percepire una «distanza» che – come si è avuto modo di rimarcare – è, secondo Fortini, il «portato massimo della tradizione»15. Chi traduce annullando tale distanza – ricordiamo – costruisce, sostiene in Traduzione e rifacimento, «l’autenticità in seno dell’inautentico»16: crea «uno stato di falsa coscienza e di autoinganno». Si tratta di un tipo di versioni che – Fortini lo afferma nelle Lezioni sulla traduzione – ha il demerito di accrescere «l’illusione di una produzione e di un consumo “pieno” della parola poetica»17. 3.3 Marcatura storico-critica. Fortini e Heine attraverso Noventa e Carducci Oltre a una marcatura sintattico-metrica, Fortini ne applica a Heine anche una (per così dire) “storico-critica”, che non aveva impiegato per gli autori ancora nuovi in Italia, come Enzensberger e Kraus. Nella nota in calce alla traduzione da Heine, difatti, inserisce un rimando bibliografico che, come vedremo, costituisce una precisa presa di posizione18. In tal modo Fortini impiega la traduzione al contempo in veste di poeta e di critico: con la traduzione, difatti, da una parte riscrive il testo straniero, dall’altra esplicita una linea di pensiero, una posizione critica. 15

F. Fortini, Da una versione di Góngora cit., p. 363. Id., Traduzione e rifacimento cit., p. 824. 17 LT, p. 61. 18 Sulla traduzione e sulle edizioni di traduzioni come «presa di posizione» cfr. M. Sisto, Traiettorie cit., soprattutto pp. 61-78. 16

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

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Nella nota, Fortini rimanda a uno scritto intitolato A proposito di un traduttore di Heine, uscito su «Solaria» nel 1934. Si tratta del primo articolo pubblicato da Giacomo Noventa: Giacomo Noventa vide stampato nel 1934, su Solaria, il suo primo articolo (A proposito di un traduttore di Heine), dove riportava e interpretava Wenn ich an deinem Hause. La traduzione che qui pubblico è in memoria sua e della sua interpretazione; che allora passò inosservata o incompresa e che è tornata attuale19.

Nell’articolo Noventa discute i Cinquanta Lieder di Heine ricantati in versi veneti da Mario Andreis, pubblicati a Vicenza nel 1934. La recensione è elogiativa; non, però, perché a Noventa piacciano le traduzioni di Andreis, che anzi spesso considera poco riuscite, ma perché gli sta a cuore ciò che tale operazione potenzialmente schiude. Volgere Heine in dialetto permette difatti, secondo Noventa, di evitare le trappole in cui erano caduti i precedenti traduttori di Heine, e soprattutto Giosuè Carducci, il quale, con le sue traduzioni dal tedesco, aveva contribuito a promuovere l’uso di quello che, come vedremo, Noventa ritiene il peggior vizio della poesia italiana: il «disordinato linguaggio dei retori»20. Dopo aver messo in relazione la storia della ricezione di Heine in Italia con i massimi difetti della poesia italiana, nel suo articolo su «Solaria» Noventa cita «le due heiniane più celebri della nostra letteratura»21. Si tratta delle prime due strofe della versione carducciana di Mit schwarzen Segeln segelt mein Schiff, tratta dai Neue Gedichte (1844) e inclusa in traduzione nelle già citate Rime nuove del poeta toscano: 19

Franco Fortini, nota a Wenn ich an deinem Hause, in LC, pp. XI-XII; cfr. anche TP, p. 742. 20 Giacomo Noventa, A proposito di un traduttore di Heine, «Solaria», 9, 3, 1934, p. 52. In relazione a Noventa, cfr. Id., Opere complete, a cura di F. Manfriani, 5 voll., Marsilio, Venezia 1986-1991; Franco Fortini, Note su Giacomo Noventa, Marsilio, Venezia 1986; i saggi raccolti in Franco Manfriani (a cura di), Giacomo Noventa, Olschki, Firenze 1988 (particolarmente quello di G. Luti su Noventa da «Solaria» alla «Riforma letteraria»); Elena Urgnani, Noventa, Palumbo, Palermo 1998. Su Noventa lettore di Heine cfr. Gabriella Pelloni, Oltre il riso di Heine. Riflessioni su Giacomo Noventa filosofo e poeta, in E. Bovo, A. Braida, A. Brambilla (a cura di), Interprétations de la pensée 
du soupçon au tournant du XIXe siècle. Lectures italiennes de Nietzsche, Freud, Marx, Presses Universitaire de Franche-Comté, Besançon 2013, pp. 87-101. 21 G. Noventa, A proposito di un traduttore di Heine cit., p. 50.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

Passa la nave mia con vele nere, Con vele nere pe ’l selvaggio mare. Ho in petto una ferita di dolore, Tu ti diverti a farla sanguinare. È, come il vento, perfido il tuo core, E sempre qua e là presto a voltare Passa la nave mia con vele nere Con vele nere pe ’l selvaggio mare22.

Noventa commenta: «Con quella nave che non è una nave e quelle vele che non sono vele quella ferita che non è una ferita mentre la nave era bene una nave in Heine e le vele nere un segno di cordoglio ma vele, il calcio alla casina sulla réna l’ha dato Giosuè»23. Quel «calcio alla casina sulla réna» è un riferimento diretto alla polemica tra Carducci e Zendrini: nei Bozzetti, il primo aveva accusato il secondo di distruggere «i castelletti di réna ch’ei s’è fabbricato su ’l breve lido della sua fantasia»24. Sostenendo che «il calcio alla casina sulla réna l’ha dato Giosuè», Noventa formula una critica a Carducci; ma la formula senza motivarla. Per capirla bisogna dunque dare uno sguardo alla traduzione di Carducci, inclusa nelle Rime nuove, ma prima pubblicata su «Cronaca bizantina» del 1º settembre 1882 assieme a una nota nella quale il poeta toscano sosteneva di aver reso le due quartine di Heine con uno «stile popolare vecchio italiano»: Di questa canzoncina di Enrico Heine, come di molte altre sue, tutto lo spirito è nel motivo fantastico e popolare. Il solo merito della mia versione, se merito alcuno può avere, è del metro e dello stile popolare vecchio italiano ripreso a rendere il romantico tedesco del secolo XIX25.

22 Giosuè Carducci, Rime nuove, in E. Torchio (a cura di), Opere, vol. IX-2, Mucchi, Modena 2016, p. 89. 23 G. Noventa, A proposito di un traduttore di Heine cit., p. 50. 24 «Già, il sig. Zendrini, come critico, ha questa lestezza singolare d’ingegno e di stile: egli si imagina e dà ad intendere ai lettori che i suoi avversari pensino e facciano come a lui torna comodo, e poi con una giocondità di chiasso infantile, che del resto vi mette allegria, distrugge i castelletti di réna ch’ei s’è fabbricato su ’l breve lido della sua fantasia» (G. Carducci, Critica e arte, in Opere di Giosuè Carducci. Edizione nazionale, vol. 24-XII (Confessioni e battaglie. Serie prima), Zanichelli, Bologna 1937 [1874], p. 298). 25 Id., Passa la nave mia, «Cronaca bizantina», 1882.

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

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A un occhio attento, però, risulta subito evidente che Carducci ha intessuto le sue traduzioni di rimandi letterari illustri: l’emistichio d’apertura, «Passa la nave mia con vele nere», è petrarchesco (è una ripresa di Passa la nave mia colma d’oblio, ovverosia di Rerum vulgarium fragmenta 189). Inoltre esso ricorda da vicino l’incipit di un componimento di Carducci stesso, incluso in Juvenilia e intitolato Passa la nave mia, sola, tra il pianto. Ciò a cui Noventa obietta è dunque un uso iperletterario della lingua, che la sfrutta come mero aggancio intertestuale o come materiale sonoro, prescindendo dal suo portato semantico. Le «vele» di Heine non sono più «vele»26: le parole smettono di rimandare alle cose, diventano vuote. Non a caso, più avanti Noventa stigmatizza proprio questo “vizio” in una fervida auto-denuncia nazionale: Noi siamo snob. Tiriamo al solenne e al signorile. Romanissimi col Carducci e greculi col D’Annunzio demofili con l’uno aristofili con l’altro tribuni con entrambi noi siamo snob. […] Questo snobismo ha finito col nuocere (vedi ironia della storia!) alla stessa fama dei Carducci e dei D’Annunzio surrogati da Carducciani e Dannunziani prima, e ora da altri in cui la coda di Giosuè e di Gabriele non si vuol neanche vedere. […] E sarà sempre questo il destino di Heine: d’essere assente o male amato se amato nei tempi di snobismo crescente nei tempi d’un Carducci e d’un D’Annunzio e d’un George […], e d’essere amato e capito nei tempi in cui il culmine dello snobismo è già stato raggiunto: non è un caso che la prima poesiola di Heine perfettamente tradotta appaia in Italia proprio oggi in cui gli snob migliori cadono in aporia. […] E non è un caso che Heine sia stato tradotto in dialetto: nella repubblica letteraria infatti avviene spesso qualche cosa di simile a quel che avviene nel regno dell’economia: come in questo può diventare necessario di ritirare le classi privilegiate alle loro origini, di rimescolarle e riconfonderle alle classi degli operai e dei contadini, così in quella è necessario rinunciare al linguaggio disordinato dei retori per rituffarsi in quello in cui le parole amore cuore dio giustizia e simili conservano il loro valore27.

Questo «valore» delle parole, il loro valore semantico, per Noventa è di per sé un valore civile. Proprio in esso va cercato difatti, continua, l’«umano patriottismo» e «la passione civile»28 di Heine, che l’Italia (e non in ultimo Croce, che nel 1921 su «La Critica» 26 Cfr. «con quelle vele che non sono vele […]» (G. Noventa, A proposito di un traduttore di Heine cit., p. 50). 27 Ivi, pp. 52-54. 28 Ibid.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

aveva tacciato Heine di immaturità affermando che «aveva l’animo, come si è detto, alla celia, e questa, non la libertà, non la democrazia, non il panteismo né il teismo, era la sua fondamentale forma di mente»29) gli ha finora negato, relegandolo al rango di autore di canzonette armoniose ma infantili; ma che, secondo Noventa, Heine invece possiede, come dimostrerebbe un componimento che Noventa trascrive subito di seguito, in tedesco, senza tradurlo. Il componimento è Wenn ich an deinem Hause30. Ecco allora che si capisce perché Fortini abbia tradotto proprio questo testo e l’abbia inserito nel Ladro di ciliege: per portare a compimento l’interpretazione di Heine proposta da Noventa cinquant’anni prima. E si capisce allora anche quale sia la posizione storico-critica che Fortini esplicita nel paratesto del Ladro di ciliege. Proprio come Noventa, egli vuole insistere su un «valore» delle parole che è al contempo semantico e civile31. La stessa doppia valenza della parola, non a caso, si ritrova nell’affermazione di Fortini che apre una delle sezioni dello scritto dei Saggi italiani che Fortini dedica a Noventa: «Tutta la poesia di Noventa è un appello al valore»32. Le due marcature (metrico-ritmica e storico-critica) che Fortini opera sul testo di Heine hanno quindi lo stesso scopo. In primo luogo servono a mettere in luce come la parola di Heine, e la parola poetica tout court, possiedano un valore che va ben al di là di quello sonoro. In secondo luogo, le marcature mirano a una messa a distanza della 29 Cfr. Benedetto Croce, Note sulla poesia italiana e straniera del secolo decimonono. XI. Heine, «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia», 19, 1921, pp. 67-68, rist. in Benedetto Croce, Poesia e non poesia, Laterza, Bari 1923, pp. 172-185. 30 «[…] e che si cerchi là quell’umano patriottismo e quella passione civile che Croce gli ha negati e che mi pare invece egli abbia, almeno là, saputo perfettamente esprimere. // Wenn ich an deinem Hause / Des Morgens vorübergeh’ […]» (G. Noventa, A proposito di un traduttore di Heine cit., p. 54). 31 La stessa idea di Heine come poeta civile, e anzi addirittura politico, in realtà non si deve solo a Noventa, ma anche – paradossalmente – a Carducci, come già detto; nonché, più recentemente, a Cesare Cases e a Paolo Chiarini (e si può ben supporre che ciò abbia avuto un’influenza su Fortini). Il numero del «Contemporaneo» del 1956 dedicato a Heine riporta la tesi di Franz Mehring secondo la quale il poeta tedesco sia da inserire nel canone socialista, e si menziona l’amicizia di Heine con Marx; inoltre, contiene un articolo di Chiarini, in cui lo studioso sostiene che la cultura democratica abbia trovato in Heine un momento della sua tradizione, e uno di Cases, il quale afferma che il merito di Heine sia di avere anticipato, grazie al suo radicalismo sociale, l’idea della letteratura come superstruttura. Cfr. «Il Contemporaneo», 3, 13, 1956. 32 Franco Fortini, Noventa e la poesia, in SI-I; cfr. SE, p. 530.

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

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lingua letteraria: quella stessa messa a distanza che Noventa cercava col dialetto. È Fortini stesso a notarlo, quando, nel già citato saggio su Noventa, afferma che il dialetto è per lui «un modo di tenere a distanza l’impossibile lingua della tradizione letteraria e nazionale» e una «protesta contro la lingua aulica»: Per Noventa il dialetto è appena un velo della pronuncia, un modo di tenere a distanza l’impossibile lingua della tradizione letteraria nazionale. La ragione del dialetto di Noventa non è sentimentale ma ironica, guarda cioè la seconda, non la prima faccia del sentimento, è di natura intellettuale; indica più un distacco che una adesione. Il velo dialettale è protesta contro la lingua aulica33.

Fortini replica dunque il gesto che Noventa aveva compiuto con Heine: con altri mezzi, però, e cioè non più con il dialetto, bensì con gli strumenti metrico-ritmici e storico-critici propri della sua postura autoriale di poeta e di critico. 3.4 Riscrivere Heine traducendo Noventa dal dialetto Fortini traduce Noventa una sola volta. Da una poesia di Noventa, inclusa ne L’ospite ingrato secondo (1985), è una versione adattata di No’ angossarte, putel, spera… di Noventa: Giacomo Noventa, No’ angossarte, putel, spera…   No’ angossarte, putèl, spera, e razona el dolor; no’ ghe xé ’na primavera sola pa ’l nostro cuor. Torna a l’età maùra l’avrìl…… un altro avrìl; no’ ’ver paura, ancùo…34

33

Ivi, p. 534. Giacomo Noventa, No’ angossarte, putel, spera…, in Id., Versi e poesie, a cura di F. Manfriani, Marsilio, Venezia 1986, p. 73. 34

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

Franco Fortini, Da una poesia di Noventa   Non credere che tutto sia finito, ragazzo. Spera, fatti una ragione della tua pena. Per il nostro cuore non c’è una primavera sola. Torna agli anni alti l’aprile, un altro aprile. Non disperarti oggi35.

È significativo notare che il testo di Noventa scelto da Fortini è a sua volta una traduzione da Heine36. No’ angossarte, putel, spera… di Noventa, infatti, è una libera versione di Herz, mein Herz di Heine: Heinrich Heine, Herz, mein Herz   Herz, mein Herz, sei nicht beklommen, Und ertrage dein Geschick, Neuer Frühling gibt zurück, Was der Winter dir genommen. Und wie viel ist dir geblieben! Und wie schön ist noch die Welt! Und, mein Herz, was dir gefällt, Alles, alles darfst du lieben!37

Traducendo Noventa, Fortini non si rifà al testo originale tedesco di Heine, dal quale anzi si distanzia ulteriormente. È vero che la riscrittura di Noventa non rispettava in tutto e per tutto la regolarità dei versi heiniani, sempre ottonari, sempre trocaici e sempre tronchi nelle sedi centrali delle due quartine; ma, almeno in parte, la manteneva, ad esempio nei versi 2 e 4, ottonari, trocaici e legati dall’anafora del «no’» iniziale. Fortini sottopone anche Noventa, e con Noventa di nuovo la tradizione della ricezione italiana di Heine, alla griglia metrico-ritmica 35 Franco Fortini, Da una poesia di Noventa, in Id., L’ospite ingrato. Primo e secondo, Marietti, Casale Monferrato 1985 (d’ora in avanti OI-II); cfr. SE, p. 1111. 36 Su questo cfr. Luca Lenzini, Una voce fuori campo. Ancora a proposito di Fortini e Sereni, «L’ospite ingrato», sezione Fortiniana; online: . 37 Heinrich Heine, Herz, mein Herz, in Id., Buch der Lieder cit., 259-260.

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

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di matrice brechtiana. Nella “traduzione al quadrato” di Fortini ritroviamo infatti gli enjambements forti (ai vv. 2-3), le cesure (si vedano il v. 3 e il v. 4) e il metro irregolare. Si notino poi lo stile apodittico e lapidario, che trasforma le frasi di Noventa in sentenze («Per il nostro cuore / non c’è una primavera sola», vv. 3-4), e l’uso dell’imperativo nell’explicit («Non disperarti oggi»), tipicamente fortiniano; basti pensare al celeberrimo finale di Traducendo Brecht «Nulla è sicuro. Ma scrivi»38. 3.5 Una «citazione sbagliata»: Petrarca e l’ermetismo fiorentino Abbiamo visto che l’incipit «Passa la nave mia», impiegato da Carducci “petrarchista” per tradurre Heine, successivamente stigmatizzato da Noventa nel suo saggio, infine citato esplicitamente nel Ladro di ciliege, diventa strumento del Fortini che intende proporre un altro Heine: ovvero del Fortini che, traducendo, mira a mostrare in quale modo, a suo parere, ci si debba rapportare alla tradizione letteraria. È interessante rilevare che in altra sede Fortini usa proprio quello stesso verso, «Passa la nave mia», per compiere l’operazione opposta, ovverosia per mostrare in quale modo, a suo parere, non ci si debba rapportare alla tradizione letteraria. Tale operazione adombra una polemica con la letteratura della Firenze anni Trenta. In un breve saggio dell’Ospite ingrato secondo, intitolato La citazione sbagliata, Fortini racconta un aneddoto autobiografico. Una mattina, appena sveglio, gli viene in mente un verso («Passa la nave mia») che dà luogo a due equivoci. Il primo consiste nel fatto che Fortini pensa si tratti di un verso di Carducci che riprende Petrarca, mentre invece è davvero un verso di Petrarca. Una mattina mi sono svegliato che nella mente mi suonava un verso. Per un attimo ho creduto fosse di Carducci, dove riprende il Petrarca di Passa la nave mia. L’attimo dopo già ridevo di me. Proprio Petrarca era, il famoso 189 (avrei veduto poi) del Canzoniere. Quello di Carducci è invece un inverosimile esito da sbornia di lambrusco («ho in petto una ferita di dolore / tu ti diverti a farla sanguinare…») che, e me ne spiace, confermereb38

F. Fortini, Traducendo Brecht cit.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

be il luogo tanto comune quanto erroneo onde del Carducci meglio sarebbe neanche parlare39.

Subito dopo Fortini racconta di aver richiamato alla mente la quartina di cui è incipit il sonetto petrarchesco («Passa la nave mia colma d’oblio / per aspro mare, a mezza notte il verno. / La vela bagna un vento humido eterno / di sospir, di speranze et di desio») e di essere rimasto colpito dalla modernità di quel “bagnare un vento”, che «sembra già passato attraverso Pascoli»40 (presumibilmente per la componente sinestetica dell’immagine): questa quartina, pur essendo vecchia sette secoli, gli pare modernissima, non distante dal nostro tempo. Ma quel verso del Petrarca! Tale mi sembrava che dentro di me mi stupivo e vergognavo di non averne prima compresa – così ci si esprime nei momenti di diminuita vigilanza mentale – la “inaudita modernità”. Mi ripetevo: “La vela bagna un vento humido eterno”. “La vela bagna” […] Un verso così, mi dicevo, davvero in Dante non c’è. È già passato attraverso Pascoli41.

Eppure – ed ecco il secondo equivoco di cui Fortini subito si rende conto – quella quartina non è neppure un testo di Petrarca: nel richiamarla alla mente coi sensi ancora intorpiditi, infatti, Fortini ha unito, senza accorgersene, i primi versi della prima quartina e gli ultimi della seconda, obliterando inconsciamente i versi che li separano. Questi ultimi suonano tutto meno che post-pascoliani (basti notare l’immagine di Amore personificato che, signore e nemico, guida la nave, ai vv. 3-4). Così infatti scrive il “vero” Petrarca: Francesco Petrarca, RVF 189 1 2 3 4  

Passa la nave mia colma d’oblio per aspro mare, a mezza notte il verno, enfra Scilla et Caribdi; et al governo siede ’l signore, anzi ’l nimico mio.

39

Id., La citazione sbagliata, in OI-II, cfr. SE, p. 1102. Ibid. 41 Ibid. 40

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

5 6 7 8

A ciascun remo un penser pronto et rio che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno; la vela rompe un vento humido eterno di sospir’, di speranze, et di desio.

9 10 11   12 13 14

Pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni bagna et rallenta le già stanche sarte, che son d’error con ignorantia attorto.

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Celansi i duo mei dolci usati segni; morta fra l’onde è la ragion et l’arte, tal ch’incomincio a desperar del porto42.

  Quel «bagna un vento» dalla cui «inaudita modernità» Fortini era rimasto tanto colpito, quindi, Petrarca non l’ha mai scritto: il verso originale suona infatti «la vela rompe il vento» (riferimento virgiliano, e specificamente a Aen. I 103, «velum adversa ferit»)43. Quell’espressione che pochi minuti prima a Fortini pareva modernissima è in realtà un’invenzione di Fortini stesso, mutuata dalla memoria di un autore persino meno moderno di Petrarca: il Dante di Purgatorio III, «Or le bagna la pioggia e move il vento». Fortini si è costruito per sé stesso un Petrarca post-pascoliano, che però non è mai esistito, è falso; mentre l’originale petrarchesco «vero» è distante, e (secondo la definizione di Fortini stesso) «ispido»44. Così si conclude La citazione sbagliata: La mia citazione sbagliata era dunque, come nei sogni dei vecchi, la ricomparsa di un viso amoroso sparito con la letteratura d’adolescenza. Firenze anni Trenta. Quel che avevo voluto era in verità il mio rapimento al risveglio, non la poesia petrarchesca. Avevo voluto il verso di una mia poesia immaginaria45.

Ecco dunque qual è il punto di questo breve ma intricato saggettoparabola: si tratta di una polemica contro la «Firenze anni Trenta», contro quel modo di approcciarsi alla tradizione letteraria – un modo che, de-storicizzando i lacerti testuali dell’uno o dell’altro poeta, li rende attuali d’ufficio; che tratta Petrarca, Góngora, Hölderlin come “nostri contemporanei” annullando quella distanza che Fortini ri42 Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di M. Santagata, Mondadori, Milano 1996, p. 828. 43

Cfr. ivi, p. 830. F. Fortini, La citazione sbagliata cit., p. 1103. 45 Ibid. 44

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

teneva, come già detto, il «portato massimo della tradizione»46. E quindi: ritenere Petrarca un poeta post-pascoliano può accadere, accidentalmente, come momento di nostalgia all’interno di un contesto onirico. A ciò però – sostiene Fortini – deve poi, necessariamente, seguire il risveglio. 3.6 Marcature di altri classici: Fortini e Baudelaire È lo stesso Fortini, in Verifica dei poteri, a definire Baudelaire «un grande classico»47 (specificando poi: «un poeta “del popolo e dell’aldilà”»48). Nel poeta francese Fortini nota – come si legge già in un breve scritto risalente al 1955 – la presenza di un conflitto che con ogni evidenza è proprio anche a lui stesso: quel «conflitto tra la volontà di modificare il mondo, quel mondo, con l’azione o la speranza e il rifiuto superbo e deluso, eroico o compensatorio»49. Nel Ladro di ciliege Fortini inserisce le versioni di tre poesie tratte dal capolavoro di Baudelaire Les Fleurs du mal, ovverosia Je te donne ces vers afin que si mon nom, Le Crépuscule du soir e Le Crépuscule du matin. Per una analisi di Je te donne ces vers afin que si mon nom rimando a un contributo recentemente uscito di Fabio Scotto.50 Ai fini della nostra analisi vale la pena soffermarsi piuttosto su Le Crépuscule du soir. Così suona l’incipit, tradotto nel 1958 col titolo La sera (la versione piacerà a Pier Vincenzo Mengaldo che la inserirà nelle Poesie scelte)51: Voici le soir charmant, ami du criminel; Il vient comme un complice, à pas de loup; le ciel 46

F. Fortini, Da una versione di Góngora cit., p. 363. Id., Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Einaudi, Torino 1989 (d’ora in avanti VP-III), p. 246. 48 Ibid. 49 Il breve scritto senza titolo viene pubblicato in OI-I e si legge ora in SE, p. 875. 50 Fabio Scotto, Fortini traduce Baudelaire e Rimbaud, in F. Diaco e E. Nencini (a cura di), “Per voci interposte”. Fortini e la traduzione cit., pp. 13-25. Su Fortini e Baudelaire cfr. inoltre Francesco Diaco, Tra alienazione e utopia: il Baudelaire (inedito) di Fortini, in F. Della Corte, L. Masi, M. Pieczara-Ślarzyńska (a cura di), Il secolo di Franco Fortini cit., pp. 197-214. 51 Franco Fortini, Poesie scelte (1938-1974), a cura di P. V. Mengaldo, Mondadori, Milano 1974 (d’ora in avanti PS), p. 78. 47

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

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Se ferme lentement comme une grande alcôve, Et l’homme impatient se change en bête fauve. […] È qui la cara sera, cortese all’assassino e complice. A passi di lupo. Si chiude lento come una grande cortina d’alcova il cielo. L’uomo-bestia non regge più. […] 195852

Anche qui, come nelle traduzioni da Enzensberger, da Kraus e da Heine, Fortini asciuga, elimina i nessi logici, spezza l’andamento dell’endecasillabo con cesure forti sparse ovunque nel verso (degni di nota in particolare il v. 2 e il v. 4), inserisce tortuosi enjambements (presenti in tutti i primi tre versi analizzati; si noti in particolare che la sola frase «Si chiude / lento come una grande cortina d’alcova / il cielo» contiene ben due inarcature, la seconda delle quali distanzia dal resto della proposizione addirittura il soggetto); né si fa scrupolo di operare modificazioni di senso, se servono all’ellisse («Et l’homme impatient se change en bête fauve» diventa, con una traduzione che radicalizza ed espande il significato dell’originale, «L’uomo-bestia non regge più»). Ancor più evidenti risultano queste trasformazioni nell’invocazione all’anima della terza strofa: «Recueille-toi, mon âme, en ce grave moment, / Et ferme ton oreille à ce rugissement» diventa «Tu – ritorna in te stessa. L’ora è seria. / Serra l’udito a questi ruggiti, anima». A chi o a cosa si rivolga quel «Tu» così perentorio rimane ignoto fino alla fine del verso successivo, dove Fortini ha spostato «anima». Il lettore è qui chiamato in causa in prima persona, e non solo perché, in mancanza d’altri elementi, tende a riferire quel «Tu» a se stesso, bensì soprattutto perché, non capendo, è spinto a porsi domande sul testo, a prendere parte attiva alla sua comprensione, senza poter avere l’illusione di un «consumo “pieno” della parola poetica»53 di Baudelaire. Vale a questo punto la pena notare che, con questa traduzione, Fortini entra in dialogo non solo o addirittura non tanto con 52 53

LC, pp. 128-129. LT, p. 61.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

Baudelaire, bensì anche e soprattutto con la sua precedente ricezione italiana. Tra le molte traduzioni di cui il poeta francese era già stato oggetto, Fortini a mio avviso si confronta in particolare con quella di un altro poeta italiano contemporaneo, Giovanni Raboni. Le versioni di Raboni da Baudelaire erano già state trattate da Fortini in uno dei suoi più importanti saggi sulla traduzione, il già citato Traduzione e rifacimento: Anzi si può dire che le traduzioni “poetiche” dell’età a noi più vicina sono tornate ad essere né più né meno “infedeli” delle traduzioni preromantiche. Debbono la loro libertà, non troppo paradossalmente, all’accresciuto livello di conoscenza delle lingue, ad una più diffusa sensibilità verso la propria lingua nazionale ed i suoi vari livelli, e quindi al tacito rinvio del lettore, per più certa informazione, alle traduzioni filologico-specialistiche. Per alcune lingue – la francese, l’inglese, la spagnola, in parte la tedesca – la maggiore conoscenza o diciamo una minore estraneità dovuta a molti fattori della esistenza contemporanea può trasformare il “testo a fronte” (che normalmente negli scorsi due decenni ha avuto funzione di appoggio “scientifico”) in autorizzazione ad una indipendenza creativa. Chi oggi (come Giovanni Raboni) traduce Baudelaire o (come Montale) ha tradotto Shakespeare, si affida alla conoscenza vera o presunta dell’originale per quella che Croce chiamò nostalgia o voce risonante dentro la voce del traduttore. Diciamo meglio: per indurre un fenomeno di interferenza tra i due testi, sì che il vero risultato sia nel sovrapporsi d’una memoria e di un presente54.

Il «consumo “pieno”» della parola poetica che Fortini avversa e che cerca di evitare per mezzo dell’uso di una determinata marcatura sintattico-metrica è difatti nient’altro che questo: il «sovrapporsi d’una memoria e di un presente», vale a dire l’illusione che il presente e la memoria (la storia) possano essere davvero sovrapponibili, possano lasciarsi alle spalle la loro reciproca, irriducibile alterità. Anche in questo caso, come in quello della «citazione sbagliata» da Petrarca, siamo di fronte a una polemica contro un certo tipo di traduzione, quella che, a parere di Fortini, annulla arbitrariamente la distanza tra presente e passato.

54

F. Fortini, Traduzione e rifacimento cit., p. 822.

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

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3.7 Altre riscritture: Fortini e Rilke (con una nota su Max Jacob) Ritengo si possa affermare che le marcature messe sinora in evidenza, quella sintattico-metrica e quella storico-critica, costituiscano i procedimenti fondamentali sui quali si basa l’antologia di traduzioniriscritture Il ladro di ciliege, sia per quel che riguarda gli autori nuovi che quelli meno nuovi. È però importante precisare che Fortini non impiega tali marcature in modo costante e meccanico, e che anzi è consapevole del rischio che si trasformino in procedimenti automatici i quali pongono un marchio su un oggetto altrui senza riguardo alle caratteristiche dell’oggetto stesso. In altre parole, se è vero che col Ladro di ciliege Fortini intende comporre un autoritratto, cioè mira a modellare o rimodellare – per via di traduzioni – la propria postura autoriale, la propria persona55, è anche vero che egli sente fortemente l’urgenza di rifuggire il pericolo della fissità della maschera, e vuole mostrare di aprirsi al dialogo con gli autori ai quali si relaziona. Nel Ladro di ciliege, alla traduzione di Heine segue una versione da Rilke (la versione italiana è senza data): Rainer Maria Rilke, Immer wieder, ob wir   Immer wieder, ob wir der Liebe Landschaft auch kennen und den kleinen Kirchhof mit seinen klagenden Namen und die furchtbar verschweigende Schlucht, in welcher die anderen enden: immer wieder gehn wir zu zweien hinaus unter die alten Bäume, lagern uns immer wieder zwischen die Blumen, gegenüber dem Himmel. E ancora, benché si conosca E ancora, benché si conosca il paesaggio d’amore e il breve camposanto con i suoi nomi in gemito e la paurosa voragine taciturna dove gli altri finiscono – ancora e sempre a due a due noi veniamo sotto gli alberi antichi, ancora e sempre posiamo in mezzo ai fiori, di contro al cielo56. 55

Su persona come maschera di legno indossata sul palcoscenico cfr. supra, p. 60. LC, pp. 64-65. Per il testo originale di Rilke si veda anche Rainer Maria Rilke, Sämtliche Werke, a cura del Rilke-Archiv e di R. Sieber-Rilke, vol. 2, Insel-Verlag, Frankfurt a. M. 1957, p. 95. 56

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

Qui Fortini si è astenuto dall’impiegare l’effetto straniante del modello sintattico-metrico di matrice brechtiana, o quantomeno dall’applicarlo radicalmente come aveva fatto con Heine: non ritroviamo difatti né le cesure frequenti né gli enjambements forti. Il motivo di questa scelta è facilmente individuabile se si guarda alla fortuna di Rilke in Italia. Se, nel caso di Heine, Fortini si trovava a rapportarsi a una ricezione soprattutto ottocentesca, con Rilke ha di fronte a uno dei maggiori punti di riferimento per i poeti della sua generazione, soprattutto per quelli legati alla stagione dell’ermetismo fiorentino. Ciò si deve soprattutto alle traduzioni di Leone Traverso (oltre che di Giaime Pintor, sul quale tornerò più avanti). A Rilke, Traverso si interessa già in giovane età, cioè dal 1933, grazie non in ultimo alle indicazioni del filologo classico Giorgio Pasquali, che lo spinge a imparare il tedesco e recarsi a Vienna. La prima delle Elegie duinesi tradotta da Traverso esce su «Letteratura» nel 1937. A quell’altezza, in realtà, Rilke era già stato tradotto – oltre che da Elio Gianturco nella sua Antologia della lirica tedesca contemporanea pubblicata da Piero Gobetti nel 192557 – da Vincenzo Errante, il quale nel 1929 ne aveva raccolto per la prima volta in volume, per Alpes, un’ampia scelta di versioni di sapore palesemente dannunziano58. Esse però non avevano avuto un impatto consistente sulla poesia italiana dell’epoca. Ha scritto Mario Luzi: «la sua [di Errante] traduzione di Rilke aveva falsato Rilke e non aveva inciso nel gusto e nell’attesa di rinnovamento che allora ferveva nella letteratura italiana»59. Se Errante considerava le Elegie duinesi la parte meno riuscita dell’opera rilkiana, tanto da escluderle dall’ampio progetto editoriale della collana «Opere di Rainer Maria Rilke» che dirigeva, Traverso fa perno proprio su di esse – pubblicando nel 1937, oltre alla già citata traduzione su «Letteratura», un volume di sue versioni edito da Parenti – al fine di modificare la ricezione italiana dell’autore e di renderlo noto ai poeti 57

Cfr. Elio Gianturco (a cura di), Antologia della lirica tedesca contemporanea, Piero Gobetti editore / Le Edizioni del Baretti, Torino 1925. 58 Cfr. Rainer Maria Rilke, Liriche, a cura di V. Errante, Alpes, Milano 1929. Si tratta di una parte di un più ampio progetto editoriale che comprende anche I quaderni di Malte Laurids Brigge (1929); Augusto Rodin (1930); Storie del buon Dio (1930), tutti usciti per Alpes e tutti tradotti da Errante. 59 Mario Luzi, Il mio incontro con la poesia tedesca, Polistampa, Firenze 1998, p. 5.

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

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della sua generazione; riuscendoci poi davvero, visto che a parere di Luzi la versione delle Duinesi di Traverso «rimise a posto l’immagine di Rilke», e che negli anni Trenta, più in generale, Traverso «traduceva e faceva entrare per la prima volta nel contesto del linguaggio poetico italiano dell’epoca prima di tutto Stefan George e poi subito dopo Rilke, e poi Hofmannsthal, e poi Trakl, e altri ancora»60. Al di là del giudizio elogiativo di Luzi, certamente non imparziale dato il rapporto di amicizia col traduttore, è fuor di dubbio che le versioni di Traverso – giunte a stampa in anni in cui nell’ambito della poesia si era ormai formato un pubblico pronto ad accogliere una diversa ricezione dell’autore – siano davvero riuscite a rendere Rilke un autore cruciale per la poesia italiana, nonché a caratterizzarne la ricezione in modo duraturo. Traverso continua a dedicarsi a Rilke negli anni successivi: lo traduce e lo inserisce in un’antologia a sua cura affidatagli da Curzio Malaparte, Poesia moderna straniera, pubblicata da Prospettive nel 1942, che comprende sue traduzioni da Hölderlin, Trakl, Rilke, Benn. Seguono nel 1946 le Ultime poesie, uscite per Fussi a Firenze, e l’anno successivo una scelta di lettere, per Rosa e Ballo (1947); infine le Poesie sparse e ultime (1906-1926), pubblicate da Vallecchi nel 1958. Non è questa la sede per addentrarsi ulteriormente nella questione delle traduzioni di Rilke in Italia e della “funzione Rilke” nella poesia italiana, per la quale si rimanda agli studi sul tema61. È però importante sottolineare come questo autore, soprattutto tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento, svolga per la poesia italiana un ruolo cruciale e sia connotato in modo del tutto specifico – tanto che una sua resa in metro brechtiano sarebbe caduta nel vuoto oppure sarebbe stata interpretata al massimo come una goffa parodia. Non meraviglia, quindi, che Fortini rinunci ad applicare al testo di Rilke la marcatura sintattico-metrica che aveva impiegato per Heine. Fortini opera invece una marcatura storico-critica. Lo fa rimandando in nota all’altro grande traduttore di Rilke degli anni Trenta 60

Ibid. Cfr. almeno Giuseppe Bevilacqua, Rilke. Un’inchiesta storica, Bulzoni, Roma 2006; Mario Specchio, Il Rilke di Leone Traverso, in G. De Santi e U. Vogt (a cura di), Oreste Macrì e Leone Traverso. Due protagonisti del Novecento. Critica – traduzione – poesia, Schena Editore, Fasano 2007, pp. 237-245; Marco Menicacci, Mario Luzi e la poesia tedesca. Novalis, Hölderlin, Rilke, Le Lettere, Firenze 2014, pp. 11-22. 61

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

e Quaranta: Giaime Pintor (del quale vale la pena ricordare almeno le versioni uscite su «Letteratura», «Il Frontespizio» e «Campo di Marte» tra il 1938 e il 1939, nonché quelle raccolte in volume nel 1942)62. Nella nota all’interno del Ladro di ciliege, Fortini ricorda la traduzione di Pintor di Immer wieder, ob wir, intitolata Sempre di nuovo, dalla quale gli fu «suggerita» la sua versione63. Sempre di nuovo si può a ben diritto considerare un vero e proprio secondo ipotesto della versione di Fortini inserita nel Ladro di ciliege: Sempre di nuovo, tr. it. di Giaime Pintor Sempre di nuovo, benché sappiamo il paesaggio d’amore e il breve cimitero con i suoi tristi nomi e il pauroso abisso silente, dove per gli altri è la fine: torniamo a coppie tuttavia di nuovo tra gli antichi alberi, ci posiamo sempre, di nuovo, tra i fiori contro il cielo64.

Si notino le somiglianze lessicali con la traduzione fortiniana: quel «breve» attributo del cimitero/camposanto, traduzione certo non convenzionale di «kleinem» (“piccolo”), al secondo verso dell’originale; il «pauroso» al verso successivo; gli alberi «antichi», anche in questo caso una resa peculiare di «alten», letteralmente “vecchi”; il «posiamo» alla fine del penultimo verso, tutti puntualmente ripresi da Fortini. Anche lo schema sintattico-metrico è, con poche differenze, quello che Fortini impiega nella versione inserita nel Ladro di ciliege. Alle versioni rilkiane di Pintor, Fortini aveva scritto una prefazione per l’edizione Einaudi del 1955, la quale riproponeva con qualche 62 Su Pintor cfr. almeno le pagine ancora fondamentali di Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1978, pp. 771-772. Tra i contributi più recenti, cfr. Hermann Dorowin, Un illuminista sulla «via orfica e tumultuosa». Giaime Pintor e la letteratura tedesca, in G. Falaschi (a cura di), Giaime Pintor e la sua generazione, manifestolibri, Roma 2005, pp. 21-57; Maria Cecilia Calabri, Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, UTET, Torino 2007; Monica Biasiolo, Giaime Pintor und die deutsche Kultur: Auf der Suche nach komplementären Stimmen, Winter, Heidelberg 2010; Stefania De Lucia, Giaime Pintor, «Tradurre. Pratiche Teorie Strumenti», 16, 2019, online: ; questi due ultimi incentrati sul rapporto con la letteratura tedesca 63 LC, p. XII. 64 Rainer Maria Rilke, Poesie, tr. it. di G. Pintor, Einaudi, Torino 1955, p. 16.

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

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aggiunta le traduzioni contenute nel volume uscito per lo stesso editore nel 1942. Nella prefazione, Fortini da una parte rileva come le traduzioni di Pintor facciano pienamente parte della temperie culturale degli anni Trenta e Quaranta, una temperie che leggeva gli autori stranieri alla luce della lingua di Petrarca e Leopardi: Così, almeno in larga parte, le traduzioni di Pintor rientrano nel clima letterario di quegli anni. Anni di scoperte. I poeti traducevano, e i critici. Un capitolo, sappiamo, della storia della nostra poesia contemporanea. Si traduceva per affinità, a conferma delle proprie poetiche. È stato detto, ma si può ripetere: il Góngora di Ungaretti, i lirici greci di Quasimodo, il Ronsard di Luzi o di Bigongiari, lo Hölderlin di Contini o Traverso o Vigolo, e anche questo Rilke di Pintor hanno fra loro, e non è strano, un’aria di famiglia: fanno eccezione – ma anche questo non è strano – solo le traduzioni di Montale. Si direbbe che, per esser tradotti, i poeti stranieri dovessero venir sbarcati, allora, nel presunto reame linguistico di Petrarca e Leopardi65.

D’altra parte, rimarca con forza Fortini, le traduzioni di Pintor differiscono da quelle dei suoi contemporanei: «Fra quante valorose versioni di Rilke si conoscono nella nostra lingua (Errante, Traverso, Paoli, Zampa) queste di Giaime Pintor seguitano a sembrarci le più schiette»66. Tale accenno alla “schiettezza” va interpretato come una lode alla trasparenza della relazione tra significante e significato, ovverosia alla solidità del rapporto tra verba e res: le traduzioni di Pintor sono «schiette» perché in esse le parole significano cose. Fortini dà voce qui a una posizione non dissimile da quella già espressa una pagina prima nel Ladro di ciliege, con la traduzione da Heine, la quale implicava un apprezzamento per il tentativo di Noventa di «tenere a distanza l’impossibile lingua della tradizione letteraria e nazionale»67. A mio avviso, inoltre, il rimando di Fortini a Pintor – oltre a costituire un riferimento ex positivo, un omaggio a una figura di traduttore che impiega la lingua in un certo modo e che è stato anche un intellettuale impegnato – adombra anche una critica ex negativo ad altre versioni della stessa poesia meno «schiette», meno disposte a mettere in evidenza che le parole hanno un «valore», semantico e civile. Tra i 65 Si tratta della Prefazione di Fortini a R. M. Rilke, Poesie cit., pp. 13-18, ora in SE, pp. 1318-1323, qui p. 1320. 66 Ivi, p. 1323. 67 F. Fortini, Noventa e la poesia cit., p. 534.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

contro-modelli di Fortini c’è difatti un altro Rilke in italiano: quello celeberrimo di Leone Traverso. Tra le versioni di quest’ultimo se ne ritrova anche una di Immer wieder, ob wir: Sempre ancora, trad. it. di Leone Traverso Sempre ancora, benché conosciamo il paesaggio d’amore e il piccolo cimitero coi suoi lamentevoli nomi e il silenzio sgomento della voragine, dove attende gli altri la fine; ancora sempre vaghiamo a coppie noi sotto gli alberi antichi, di nuovo ancora ci adagiamo tra i fiori, contro il cielo68.

Nella traduzione di Traverso si notano, tra le altre cose, i due casi di anastrofe con iperbato al v. 4 («attende gli altri la fine») e ai vv. 4-5 («vaghiamo / a coppie noi»). Per «il silenzio sgomento della voragine» al v. 3 sono inoltre degne di attenzione – e mi rifaccio qui a un celebre saggio di Pier Vincenzo Mengaldo sul Linguaggio della poesia ermetica69 – alcune caratteristiche tipiche della «grammatica dell’ermetismo»: vale a dire la «predisposizione per gli attanti astratti» (in Rilke il soggetto era concreto: «Schlucht», l’abisso), la «totale inversione di determinante e determinato» («verschweigende Schlucht» tradotto con «silenzio della voragine») e in generale quella che Mengaldo chiama «la vacillazione dei rapporti logici tra i diversi elementi»70. Traverso, insomma, impiega la lingua in un modo che tende – al contrario di quanto accade in Noventa, e soprattutto al contrario di quel che accade in Fortini – a mettere in questione o addirittura a rompere il rapporto tra parole e cose, invece che a rinsaldarlo. La critica implicita a Traverso però – giova rimarcarlo – non giunge a rovesciare il testo originale tedesco dal punto di vista sintattico-metrico, com’era avvenuto nel caso di Heine. Col suo autoritratto per traduzioni Fortini vuole sì formare e ribadire una postura autoriale propria, ma anche sottolineare che il tradurre presuppone un dialogo col testo di partenza, ovverosia implica la 68

Rainer Maria Rilke, Poesie sparse e ultime (1906-1926), tr. it. di L. Traverso, Vallecchi, Firenze 1958, p. 37. 69 Pier Vincenzo Mengaldo, Il linguaggio della poesia ermetica, in Id., La tradizione del Novecento. III serie, Einaudi, Torino 1991, pp. 131-157. 70 Ivi, pp. 140-141.

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3. fortini e i “classici” della poesia europea

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necessità di tener conto delle caratteristiche senza le quali tale testo non sarebbe quello che è. Ciò si evince anche da altre pagine del Ladro di ciliege, ad esempio da una traduzione da Max Jacob. In Avenue du Maine c’è una evidente preminenza della valenza fonica della lingua. Il fatto che essa venga impiegata come materiale sonoro già nel testo originale francese fa sì che Fortini decida di basare la traduzione italiana proprio su questo aspetto: la ragione è che il linguaggio di questo testo poetico è svincolato dal portato semantico per palese intenzione di Jacob. È così che nasce una versione italiana caratterizzata da una sovrabbondanza di giochi fonici, soprattutto allitterazioni e assonanze: Max Jacob, Avenue du Maine Les manèges déménagent. Manèges, ménageries, où?… et pour quels voyages? Moi qui suis en ménage Depuis… ah! Y a bel âge! De vous goûter, manèges, Je n’ai plus… que n’ai-je? L’âge. Les manèges déménagent. Ménager manager De l’avenue du Maine Qui ton manège mène Pour mener ton ménage! Ménage ton manège, Manège ton manège. Manège ton ménage Mets des ménagements Au déménagement. Les manèges déménagent. Ah! Vers quels mirages? Dites pour quels voyages Les manèges déménagent. Avenue du Maine E circolano i circhi. Circhi, cerchi… Che cercano?

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

Io poi, che sono in circolo da… (eh, un bel po’, all’incirca) per godervi, o circhi, non ce l’ho più, chissà, l’età. E circolano i circhi. Almeno, ameni Mani dell’avenue du Maine vi menassero umane mani ai nuovi imèni! Cercalo quel tuo circo, circoli, quel tuo cerchio, cerchialo, quel tuo circolo. Ma fa’ attenzione, bada, ai rischi della strada! E circolano i circhi. Ah, e chi mai saprà per che ricerche? Di che magici cerchi andranno in cerca i circhi? 195871

Se, dunque, possiamo affermare che nel Ladro di ciliege Fortini operi una marcatura dei testi che traduce, e che lo faccia persino qualora questi testi siano già stati oggetto di ricezione nella letteratura italiana, è anche necessario precisare che dalla storia di tale ricezione Fortini non intende prescindere. La traduzione può essere impiegata a suo parere come strumento di costruzione e definizione di una propria identità autoriale riconoscibile e coerente – non, però, a qualsiasi costo: non al costo di pagare tale riconoscibilità e tale coerenza con la fissità di una maschera che astrae dalla storia sé stessa e le proprie parole.

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LC, pp. 154-155.

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4. Riscritture (decostruttive) di autorialità. Fortini e le “traduzioni immaginarie” di poesia europea

4.1 Il «fastidio […] per una mia qualche identità» Vale la pena a questo punto richiamare brevemente le prime due tesi sulla traduzione in Fortini formulate in precedenza1. In primo luogo, si è affermato che in Fortini traduzione e riscrittura sono strumenti di costituzione di una autorialità: per mezzo delle traduzioni e delle riscritture – riscritture non solo di testi ma anche di autorialità, in primis quella brechtiana – prende forma la postura dell’autore. Tale postura può essere pensata come un costrutto letterario-culturale che corrisponde a un certo tipo di “discorso”, ovverosia a un determinato insieme di caratteristiche formali e di prese di posizione in ambito storico-letterario. A partire da tale postura Fortini si confronta con numerosi poeti europei, applicando a questi ultimi le suddette specifiche caratteristiche formali e prese di posizione storico-letterarie. In secondo luogo, si è messo in luce come la traduzione e la riscrittura siano per Fortini – specularmente – anche un tentativo di rifuggire la sua postura o comunque di aprirla ad altro, ovverosia costituiscano una reazione al pericolo del possibile rigor mortis insito in ogni autorialità dai contorni troppo definiti. Traduzione e riscrittura sono in Fortini dunque anche – vale la pena ribadirlo per mezzo delle sue stesse parole – «un truccarsi, come un attore, come un guitto»2, che nasce da quel «fastidio» dell’autore per una sua «qualche identità»3 a causa del quale egli esprime addirittura il 1

Cfr. supra, pp. 97-98. Cfr. le già citate registrazioni del seminario che darà origine alle Lezioni sulla traduzione, conservate presso AFF. 3 Cfr. l’Avviso che introduce OI-I, ora in SE, p. 864. 2

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

desiderio di pubblicare i propri versi «con altro nome: per godere ancora una volta i vantaggi d’una doppia identità senza rinunciare a quelli d’una sola»4. Queste due dinamiche complementari, quella di costruzione e quella di decostruzione della postura, sono entrambe sempre presenti nelle traduzioni e nelle riscritture fortiniane, ma di volta in volta in misura diversa. Come si è cercato di mostrare nel secondo e nel terzo capitolo di questa parte del libro, nella maggioranza dei testi raccolti nell’antologia Il ladro di ciliege si ritrovano le tracce di marcature sintattico-metriche e storico-critiche per mezzo delle quali Fortini costituisce e mette in mostra la propria postura autoriale (che, lo si è dimostrato, è di stampo brechtianeggiante anche quando affronta autori che con Brecht non hanno nulla a che fare, come Heine o Baudelaire). Tale processo autoriale construens è, nel Ladro di ciliege, di gran lunga preminente (nonostante facciano eccezione sporadici casi, tra i quali la versione da Max Jacob). Ciò non vale per i testi che verranno analizzati di seguito, vale a dire quelle che Fortini chiama «traduzioni immaginarie»5; si tratta di riscritture di testi che non esistono, cioè di pseudo-traduzioni (un genere le cui caratteristiche sono già state analizzate nel capitolo iniziale)6. Nelle traduzioni immaginarie di Fortini, come vedremo di seguito, a svolgere un ruolo di primo piano non è tanto il gesto di dar forma alla propria autorialità o di dispiegarla di fronte al lettore, quanto il tentativo di rifuggirla, di metterla a distanza o persino di metterla alla prova. Il tentativo di procedere a una decostruzione – ludica e seria allo stesso tempo – di quella postura brechtianeggiante di «poeta morale del Socialismo»7 che Fortini stesso aveva adottato risponde all’esigenza di sottrarsi al pericolo, al quale egli stesso accenna, di rifuggire una cristallizzazione troppo rigida della sua figura autoriale. 4.2 Traduzioni immaginarie È nelle Lezioni sulla traduzione che Fortini riflette per la prima volta sulle traduzioni immaginarie, un genere da lui frequentato du4

Ivi, pp. 864-865. LT, pp. 175-182. 6 Per una trattazione del genere delle pseudo-traduzioni, cfr. supra, pp. 54-56. 7 Cfr. F. Fortini, Introduzione, in B. Brecht, Poesie e canzoni cit., p. XX. 5

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4. riscritture (decostruttive) di autorialità

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rante tutta la sua attività letteraria. Tale genere consiste nell’immaginare un testo straniero inesistente e produrne una possibile traduzione nella propria lingua; quindi la traduzione immaginaria è un testo originale al quale l’autore conferisce in vario modo determinate caratteristiche di traduzione8. Come tutte le pseudo-traduzioni, anche le traduzioni immaginarie di Fortini presentano, rispetto alla traduzione intesa in senso stretto, una caratteristica peculiare. La traduzione stricto sensu permette di portare nella lingua e cultura d’arrivo solo determinati elementi della cultura originale: quelli che hanno preso forma in una singola espressione letteraria della stessa, e cioè in quello che comunemente viene chiamato il “testo originale” dal quale appunto si traduce. Praticando la traduzione immaginaria, invece, l’autore appartenente alla cultura d’arrivo può anche segnalare – e concretizzare in un nuovo testo – un interesse per aspetti più generali della cultura di partenza o per essa nella sua interezza9. Da parte di Fortini, una prima apertura in questa direzione c’era già stata nel 1972 in Cinque paragrafi sul tradurre, dove Fortini aveva chiosato l’idea crociana della traduzione come «nostalgia dell’originale» e come «voce che risuona in un’altra voce»10, affermando che non necessariamente la nostalgia implicita nel processo di traduzione è per il testo originale; può essere nostalgia per un’intera epoca o per uno dei momenti o dei modi in cui quello stesso testo è riaffiorato in una determinata tradizione culturale, che può essere anche la propria. Lo stretto rapporto con la tradizione è appunto il cuore della pratica fortiniana delle traduzioni immaginarie. Se difatti la creazione in potenza di un originale fittizio prende spunto da una lingua o cultura straniera, non si può dimenticare che nella traduzione immaginaria le caratteristiche di un’altra lingua o cultura vengono create operando esclusivamente con la propria lingua o cultura. In questo senso, nelle traduzioni immaginarie la traduzione allaccia un rapporto più stretto che mai con la tradizione letteraria e culturale. Fortini usa le traduzioni immaginarie proprio per mettere in pratica (e per mettere in mostra) un determinato approccio ad essa; si tratta in particolare 8

Cfr. supra, pp. 55-56. Cfr. ibid. 10 F. Fortini, Cinque paragrafi sul tradurre, in SI-I, pp. 351-356, ora in SE, pp. 839844, qui pp. 839-840. 9

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

di un approccio alla tradizione dissonante rispetto a quello associato alla propria postura. In tal modo Fortini opera una presa di distanza dalla stessa. Due esempi possono chiarire questo punto. Illuso da quest’orbita è un testo che Fortini presenta come traduzione da Rimbaud: Illuso da quest’orbita Illuso da quest’orbita di acqua torva, non so levarne – oh barca immobile e oh voi troppo brevi braccia! – quella né questa ninfea. Non la gialla che là insiste; non la celeste, cenere come l’acqua. Ah, il polline che un’ala agita ai salici! Di canneti remoti le rose divorate… Qui la mia barca, ferma; e la cima, tesa giù, a quest’orbita di acqua senza fine. – A che melma?11

Il titolo e i versi di Illuso da quest’orbita mimano quelli di una poesia realmente esistente di Rimbaud, Jouet de cet oeil. Inoltre, nel testo fortiniano ci sono patenti allusioni a celebri componimenti del poeta francese, tra i quali Le bateau ivre (si veda il motivo della «barca») e Voyelles (si notino i riferimenti insistiti ai colori: «gialla», «celeste»). Pur derivata per certi aspetti da Rimbaud, la poesia, da un altro punto di vista, è un testo originale di Fortini, e ciò a discapito del fatto che nessun lettore italiano assocerebbe questo componimento a Franco Fortini. Difatti, il testo è effettivamente costellato di riferimenti all’idioletto poetico di un determinato autore della poesia italiana contemporanea; non si tratta però di Fortini, bensì di Eugenio Montale. A Montale fanno pensare le frequenti allitterazioni e assonanze («orbita di acqua torva»; «ala agita ai salici»), il tipo di lessico scelto e ricco di termini botanici, oltre all’allusione al topos dello specchio, che compare nelle poesie di Montale più conosciute, tra le quali Cigola la carrucola del pozzo (in Ossi di seppia, 1925). Il sapore montaliano di Illuso da quest’orbita è evidentissimo. In tal modo Fortini imprime a questi versi caratteristiche che li discostano da Rimbaud e, conseguentemente, ne obliterano lo status di traduzione. Il componimento 11

LT, p. 93.

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4. riscritture (decostruttive) di autorialità

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si rivela essere un testo originale presentato come una versione da un altro poeta; una pseudo-traduzione, appunto. Dunque, Fortini finge di tradurre un poeta straniero – Rimbaud – col quale ha, sotto ogni punto di vista, ben poco a che spartire; e, ancor più sorprendentemente, lo fa producendo una imitazione di un poeta italiano a lui contemporaneo – Montale – sul quale non ha mai taciuto le proprie riserve, e che costituisce sotto molti punti di vista un avversario nel campo letterario nel quale Fortini opera. In Illuso da quest’orbita si può vedere come le traduzioni immaginarie permettano a Fortini di praticare poetiche (il che, sul piano concreto del testo, significa: di compiere scelte lessicali, motiviche, ritmico-metriche) lontane dalla propria, o meglio: lontane da quelle associate alla propria postura autoriale. Il «fastidio» per la propria «identità» può esprimersi anche attraverso una presa di distanza dal proprio milieu letterario-culturale, come testimonia un’altra traduzione immaginaria, Via dello Yenan. Nel novembre del 1945, su un numero del «Politecnico» dedicato alla Cina, appare una breve poesia di Isiao Cien, «uno dei 50 membri fondatori della Lega degli scrittori di sinistra, fondata a Sciangai nel 1930»12. Trattasi in realtà di Franco Fortini, che ingannò Vittorini convincendolo che il seguente testo fosse una traduzione dal cinese: Via dello Yenan Quando le gualchiere di Ti Peu si sono fermate Perché il fango ha coperto la pianura, E quando alle chiuse, canne, giberne, gatti E corpi d’annegati si sono ripescati, La luna degli avi guardava le mura della città Come al tempo dei miei colleghi imperiali. Questa è la strada che essi, i poeti di mille anni fa, se le Potenze li esiliavano, percorrevano in pianto; Oggi è la nostra strada, la via della capra, della ruota e del fango, delle tue mani fredde e della mitraglia rossa e del morire sulle vie d’acqua dello Yenan. Ma essi non ritornavano e scrivevano dolci lamenti. Noi torneremo, invece, quando il sole avrà vinto la pioggia13.

12

Franco Fortini (sotto lo pseudonimo di Isiao Cien), Via dello Yenan, «Il Politecnico», 8, 17 novembre 1945, p. 8. 13 Ibid.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

L’intento di Fortini non è esclusivamente ludico. Ingannando Vittorini, Fortini mira a dimostrare da una parte di essere tecnicamente in grado di produrre quel tipo di versi che Vittorini disperatamente cercava e che erano consonanti alla propria postura di «poeta morale del Socialismo»; contemporaneamente, vuole mettere in luce anche il fatto che tale postura non esaurisce ciò che egli è, vuole esibire insomma la propria capacità di essere altro, di sapersi sottrarre a quella figura autoriale – senza d’altra parte però negarla o abiurarla, bensì producendo un gioco di maschere autoriali che si “verificano” reciprocamente all’infinito. Tale gioco di maschere autoriali è addirittura più complesso, come si evince gettando uno sguardo più approfondito a quel numero del «Politecnico». Sulla pagina a fianco del testo del poeta cinese inesistente c’è uno scritto firmato da Franco Fortini. Si chiama La poesia è libertà14, e offre la chiave per interpretare la traduzione immaginaria che gli appare di lato, tanto che la poesia di Isiao Cien Via dello Yenan si rivela essere una doppia traduzione: una traduzione di un testo originale poetico mai esistito, ma anche di un testo originale saggistico che invece esiste realmente, proprio sulla pagina a fronte. In La poesia è libertà Fortini afferma che la letteratura ha un valore estetico ed ermeneutico intrinseco, il quale prescinde dalle presunte verità politico-sociali-morali che riesce a veicolare. Si tratta esattamente del concetto che, di fatto, sta dietro alla traduzione immaginaria Via dello Yenan, con la quale Fortini – ingannando Vittorini – intende appunto mettere in luce che la letteratura può propagandare ideologie (o addirittura verità, se cristallizzate in dogmi) solo al prezzo di diventare essa stessa un inganno. 4.3 Per una sistematizzazione di un genere eterogeneo Sotto la dicitura di traduzioni immaginarie Fortini raccoglie testi nati da procedimenti ipertestuali molto eterogenei. Di seguito se ne tenterà una sistematizzazione e al contempo una analisi.

14

Franco Fortini, La poesia è libertà, «Il Politecnico», 8, 17 novembre 1945, p. 7.

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4. riscritture (decostruttive) di autorialità

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I) Fortini scrive traduzioni immaginarie stricto sensu, vale a dire testi originali presentati come traduzioni. In particolare, si tratta di traduzioni da lingue e letterature “altre” rispetto a quelle più note a Fortini, ovverosia diverse da quelle con le quali ha a che fare abitualmente e nelle quali si sa orientare. A Zurigo, nel 1944, Fortini redige due traduzioni immaginarie dal polacco senza conoscere – per sua stessa ammissione – un verso da quella letteratura e lingua, neppure in traduzione. Ha in mente solo uno schema ritmico, quartine non rimate con versi tra le undici e le quattordici sillabe. L’autore fa dunque leva sul richiamo all’autre innescato da determinate caratteristiche formali e soprattutto metriche, ritenendo che la metrica sia depositaria di significazioni ampie, culturali. Scrive: «Se posso riferire una esperienza personale, dirò che una sequenza di quartine non rimate, con pseudo-versi regolari, fin dai miei vent’anni era segno di “versione da una lingua slava”»15. Così nascono le due traduzioni immaginarie di Fortini dal polacco, Varsavia 1939 e Varsavia 1944, la seconda delle quali è riportata di seguito: Varsavia 1944 E dopo verranno da te ancora una volta A contarti a insegnarti a mentirti E dopo verranno uomini senza cuore A urlare forte libertà e giustizia. Ma tu ricorda popolo ucciso mio Libertà è quella che i santi scolpiscono sempre Per i deserti nelle caverne in se stessi Statua d’Adamo faticosamente. Giustizia è quella che nel poeta sorride Bianca vendetta di grazia sulla morte Le mie parole che non ti danno pane Le mie parole per le pupille dei figli16. 15

LT, p. 117. Originariamente pubblicata in Foglio di via e altri versi, Einaudi, Torino 1946 (d’ora in poi FV-I), ora in TP, p. 17. Per una lettura e interpretazione delle due traduzioni immaginarie dal polacco rimando a: Giovanna Tomassucci, Da Varsavia a Varsavia. Alcune osservazioni sulle due “traduzioni immaginarie” dal polacco (1944), «Rivista di Letterature Moderne e Comparate», 71, 3, 2018, pp. 269-290. 16

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

Varsavia 1939 e Varsavia 1944 vengono pubblicate nel 1944 prive di firma, sul settimanale che Ignazio Silone stampa per gli emigrati socialisti in Svizzera. Pochi mesi dopo un poeta polacco, Stanislav Balinski, li traduce nella sua lingua. Così le due poesie appaiono sui fogli degli emigrati polacchi a Londra, Buenos Aires e New York. Qualche anno dopo Fortini inserisce i testi italiani nella sua raccolta poetica Foglio di via (la versione polacca viene invece in seguito ripubblicata dallo stesso Balinski come suo testo originale). Quella metrica che era segno di lingua slava diventa in tal modo metrica della poesia italiana: in tal modo le pseudo-traduzioni di Fortini contribuiscono ad ampliare il raggio della letteratura italiana. Vale inoltre la pena di notare che tale metrica è molto diversa da quella che Fortini impiega nei suoi versi e che applica anche ai versi altrui quando traduce, come si è visto per la maggioranza dei testi del Ladro di ciliege. In tal modo, le traduzioni immaginarie dal polacco permettono a Fortini di smarcarsi dalla figura auctoris che egli va costruendo. Un altro esempio di traduzioni immaginarie coinvolge ancora una volta la figura di Vittorini. Poco tempo dopo la pubblicazione di Varsavia 1939 e Varsavia 1944, Vittorini esprime la volontà di pubblicare sul «Politecnico» una traduzione di un testo inglese contemporaneo e incarica del compito il traduttore Tommaso Giglio. Fortini butta giù una quarantina di versi lunghi in una tonalità tra Stephen Spender e Archibald MacLeish firmandoli con un nome inglese qualsiasi e li spedisce a Vittorini. Vittorini sceglie il suo testo, e non la traduzione di Giglio17. Così Fortini conferma il proprio interesse per traduzioni che non rielaborano un determinato testo originale, bensì alcuni aspetti di un contesto socio-linguistico-culturale (non necessariamente straniero, come si vedrà più avanti). II) Fortini scrive anche traduzioni immaginarie esplicite, ovvero apertamente presentate come tali. La mancanza di processi di “travestimento” avvicina qui il processo di traduzione a quello di imitatio e fa sì che questi testi risultino essere piuttosto parodie serie. Un esempio è la Traduzione immaginaria da Mallarmé, degli anni Sessanta, che ricorda i versi del poeta francese sia nella sintassi, costituita da una sola proposizione, che nella metrica, basata per lo più su settena17

Cfr. LT, p. 117.

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4. riscritture (decostruttive) di autorialità

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ri e ottonari (e vale la pena sottolineare quanto sia la prima sia la seconda siano lontane dalla sintassi spezzata e dalla metrica costellata da cesure che caratterizzano i testi di Fortini, nonché le sue versioni del Ladro di ciliege): Traduzione immaginaria da Mallarmé Se fra te e me bisettrice una distanza provveda a richiamare allettatrice grazia che il tuo sorriso chieda tornassi destinata preda a delirare felice freccia che non conceda anfratto, tana o radice, quello è celeste piacere né certo più ricco la quercia ne matura al pastore della natura se su sufolo sofferto spirando esile concerto il bosco suo se ne oscura18.

Altri due esempi sono la Traduzione immaginaria redatta nel 1954 e ispirata a Maria di Francia (vi si nominano i protagonisti del più lungo e del più breve dei suoi lais, rispettivamente Eliduc e Tristano di Bretagna) e l’Altra traduzione immaginaria, entrambe raccolte nei Versi primi e distanti. 1937-1957, pubblicato nel 198719. III) Fortini cataloga come traduzioni immaginarie anche alcune sue composizioni poetiche come Traducendo Milton o Traducendo Brecht, che riprendono forme e contenuti di autori effettivamente tradotti da Fortini.

18

Pubblicata in OI-II, ora in SE, p. 1066. Franco Fortini, Versi primi e distanti. 1937-1957, Scheiwiller, Milano 1987, pp. 60-61. Sotto Traduzione immaginaria Fortini appone la data del 1954, mentre l’Altra traduzione immaginaria è senza data. 19

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

Traducendo Milton Gli alberi i freddi fitti alberi grandi e anche arbusti ma tutti verdi bianchi con palme e frecce diramate e fili in vetta al bosco visi svelti gli alberi lieti di gelo e rotondi, guaine scuoiate di agro latte e le pasture dilatate di gramini e scintille i rivi accesi di spade vivaci e la ventilazione delle cime…20

Traducendo Brecht Un grande temporale per tutto il pomeriggio si è attorcigliato sui tetti prima di rompere in lampi, acqua. Fissavo versi di cemento e di vetro dov’erano grida e piaghe murate e membra anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando ora i tegoli battagliati ora la pagina secca, ascoltavo morire la parola d’un poeta o mutarsi in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso credo di non sapere più di chi è la colpa.   Scrivi mi dico, odia chi con dolcezza guida al niente gli uomini e le donne che con te si accompagnano e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici scrivi anche il tuo nome. Il temporale è sparito con enfasi. La natura per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi21.

20 Id., Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, Einaudi, Torino 1984 (d’ora in avanti PCS), p. 81. 21 Id., Traducendo Brecht cit. Per una lettura accurata di Traducendo Brecht rimando a L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini cit., pp. 125-168.

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4. riscritture (decostruttive) di autorialità

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Anche questi testi, come le traduzioni immaginarie esplicite, contengono un palese riferimento a un autore, ma sono ancora più vicini alla scrittura originale vera e propria. Quel gerundio del verbo “tradurre” inserito nei titoli indica una contemporaneità tra l’atto di scrittura poetica e l’atto di traduzione di Brecht o Milton, contemporaneità che si rivela essere anche una consustanzialità: traduzione e scrittura si fondono arrivando a coincidere in un unico gesto22. Siamo di fronte a una auto-denuncia del carattere derivativo della propria produzione, il che di fatto consiste nel gesto di dichiarare il “proprio” come “non proprio”. Anche in questo caso, Fortini opera un gesto di messa a distanza della propria figura di autore. IV) Altri testi che Fortini qualifica come traduzioni immaginarie “traducono” originali italiani. In tali casi il passaggio da una lingua a un’altra sparisce per lasciare spazio a un processo ancora più strettamente imitativo; la traduzione qui risulta consistere in una moltiplicazione delle allusioni. La poesia Saba (1994) deriva da un componimento dell’autore triestino, intitolato Carmen, e termina con un distico che in realtà è dello stesso Saba. Siamo di fronte a una traduzione creata, almeno parzialmente, per via di citazione. Nella citazione, procedimento letterario già di per sé contraddistinto dal raddoppiamento e dalla sovrapposizione di figure autoriali e di testi, culmina e diventa tangibile la complessa intertestualità che presiede a questa poesia23. I versi di Saba infatti, pur citati letteralmente, acquisiscono nel testo fortiniano un significato differente da quello originale. Nella Carmen di Saba la figura «amata» ma «stanca» e «ammalata» è Lina la cucitrice, la quale solo in seconda battuta simboleggia la poesia che si sente priva di forze; nel testo fortiniano, frutto di un processo non solo poetico ma anche metapoetico, la figura femminile è invece già in primis simbolo della fragilità della poesia.

22

Su questo cfr. anche D. Dalmas, Tra scrivere e leggere cit., pp. 75-76. Sul rapporto tra traduzione e citazione mi permetto di rimandare alla Introduzione a Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre, Quodlibet, Macerata 2012, pp. 7-12. 23

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

Saba La mattina di luglio e a volo l’acqua della manichetta va su gradini e foglie e là di certo contenta mia moglie allegra agita lo scintillìo…… Va la memoria ad un verso di Saba. Ma ne manca una sillaba. Per quanti anni l’ho male amato infastidito per quel suo delirio biascicato, per quel rigirìo d’esistenza…… E ora che riposano il suo libro e il mio corpo indifferenti come un sasso e una pianta o una invincibile ombra nel bosco (nel vuoto il sole s’avventa e un’iride ne grida) riconosco con lo stupore di chi vede il vero lunga la poesia, lungo l’errore. Parevi stanca, parevi ammalata ma t’ho riconosciuta, io che t’ho amata24.

Anche qua sono da notare il gesto di messa in luce del carattere au second degré della propria produzione poetica e la performance mimica dei modi – e addirittura dei versi – di un altro autore, processi che sono da intendersi come reazione al già citato «fastidio» per la propria «identità». V) Fortini considera traduzioni immaginarie anche testi che assomigliano a falsi, come ad esempio il sonetto Al pensiero della morte e dell’inferno, pubblicato nel 1983 sulla rivista «Paragone», che è una traduzione del sonetto di Góngora A la memoria de la muerte y del infierno (1612). La traduzione di Fortini impiega una 24

Franco Fortini, Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994 (d’ora in avanti CS), p. 34.

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4. riscritture (decostruttive) di autorialità

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lingua italiana “ricostruita” in modo tale da sembrare cinquecentesca («avevo nell’orecchio Della Casa, Tasso, Campanella»25, scrive Fortini), e dunque fa uso di quella che l’autore stesso definisce una «quota di falsità»26. L’interesse di Fortini per Góngora è legato alle traduzioni di Ungaretti e alla rivalutazione da parte dei poeti italiani degli anni Trenta della cosiddetta “poesia metafisica”, alla quale Góngora veniva ascritto insieme a John Donne, Maurice Scève, Juan de la Cruz. Su «Paragone» il testo italiano viene pubblicato a sinistra e quello spagnolo a destra, quasi a implicare che Góngora segue – invece di precedere – il “finto Cinquecento” di Fortini: Al pensiero della morte e dell’inferno Urne plebee, tumuli reali senza paura, mio pensiero, penetra; dove segnò il carnefice dei giorni a passi eguali diseguali l’orme. Scava tra i tanti resti di mortali denudate ossa e fame incenerite mal difese da vane, se non pie, rare odorose resine orientali. Scendi sino in abisso, agli antri dove urlano infamie l’anime e le mura catene odono sempre e pianto eterno se mai vorrai, oh mio pensiero, almeno con morte andare libero da morte e l’inferno schernire con l’inferno. Luis de Góngora 1612 A la memoria de la muerte y del infierno Urnas plebeyas, túmulos reales penetrad sin temor, memorias mías, 25

Si veda la nota introduttiva a Id., Sonetto da Góngora, in «Paragone», 34, 1983, pp. 6-8. La poesia viene successivamente ricompresa in PCS, p. 75. 26 Ibid.

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seconda parte. fortini e le riscritture di poesia europea

por donde ya el verdugo de los días con igual pie dio pasos desiguales. Revolved tantas señas de mortales, desnudos huesos y cenizas frías, a pesar de las vanas, si no pías, caras preservaciones orientales. Bajad luego al abismo, en cuyos senos blasfeman almas, y en su prisión fuerte hierros se escuchan siempre, y llanto eterno, Si queréis, oh memorias, por lo menos con la muerte libraros de la muerte, y el infierno vencer con el infierno27.

Ironia della sorte: il “finto Cinquecento” di Fortini è esistito davvero, anche se Fortini probabilmente non lo sapeva. Ma è esistito, seppur in altra forma, ovverosia come testo originale. Il sonetto di Góngora infatti non è un originale ma a sua volta una traduzione dall’italiano, e specificamente del sonetto di Angelo Grillo Tra le tombe de morti horrende e scure (ca. 1596): Tra le tombe de morti horrende e scure, fra l’ossa ignude, i cadaveri, i vermi, putridi parti e fetide pasture, itene spesso, o pensier vaghi e infermi: quivi deposte l’altre indegne cure sol vostra intenta a contemplar si fermi quali hebber forme già, quali hor figure, quai già vari ripari, hor quali schermi: indi passate, ove nel foco eterno per morir sempre han gli empi immortal vita, fra stridi, urli, bestemmie e stuol nocente: poi l’imagini offrite all’egra mente ch’avrà con morte contra morte aita, e con l’inferno vincerà l’inferno28. 27

Ibid. Cfr. Giulia Poggi, “Un soneto de Góngora y su fuente italiana («Urnas plebeyas, túmulos reales»)”, in M. G. Martín (a cura di), Actas del Segundo Congreso de la Asocia28

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In ogni caso, come si vede, Fortini sembra ritenere lecito e sensato anche accettare una «quota di falsità»29, se l’operazione è consapevole e se serve ad un confronto serrato con la tradizione. La traduzione immaginaria è dunque uno di quegli «spostamenti di registro» che sono per Fortini la grande, la decisiva zona intermedia fra la traduzione (come «aspetto della tradizione diretta delle forme») e la cosiddetta «memoria degli autori»30, ovverosia la tradizione letteraria. Quest’ultima per Fortini non è ripetizione o celebrazione del passato bensì «senso dei passaggi»31, ovvero trasmissione, non senza implicita possibilità di tradimento e trasgressione. E non è certo un caso, potremmo concludere, che proprio dalla tensione tra traduzione e «memoria degli autori» nascano anche la scrittura saggistica e poetica di Fortini: testi in cui, come scrive egli stesso nel già citato saggetto La poesia è libertà, pubblicato sul «Politecnico» accanto alla traduzione immaginaria dal cinese, le parole, che ciascuno poteva comprendere, non sembrano più essere le solite; qualcosa le ha trasformate e fatte come nuove. Non vogliono più dire soltanto una cosa, come quando si domanda un pezzo di pane o si persuade un compagno o si ragiona d’affari o di politica; dicono una cosa, ma insieme ne dicono un’altra, e un’altra ancora, dietro, in penombra, come se risuonassero32.

ción Internacional Siglo de Oro, vol. 2, Universidad de Salamanca, Salamanca 1993, pp. 787-794. 29 PCS, p. 75. 30 LT, p. 179. 31 «Tradizione è coscienza del passaggio dal passato al futuro, atto di quel transito, fondazione del futuro attraverso una selezione dell’eredità. Tradizione è la passione nella quale ogni generazione comprende interamente l’altra e comprende sé stessa [Kierkegaard]. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla [Benjamin]. […] Tradizione culturale è uno specifico senso dei passaggi: da ieri (o secoli or sono) a domani (o secoli a venire), da vita a morte, da malattia a salute, da padri a figli come da figli a padri, da amori a odi o viceversa; senso che tutti possono avere e che a tutti può essere tolto» (Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 279). 32 F. Fortini, La poesia è libertà cit.

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Conclusioni

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Vale la pena adesso ripercorrere le linee principali di quanto detto finora, giungendo contestualmente alle conclusioni. La prima parte del volume ha mirato a fornire una base il più possibile solida alla proposta teorica avanzata nel libro, quella del concetto di riscritture di autorialità. A tale scopo si sono ripresi in mano i principali approcci al tema delle riscritture (compiendo di conseguenza un excursus comparatistico che spazia anche ad altre epoche e altre letterature) per poi procedere a una loro reinterpretazione e nuova sistematizzazione. Le teorie sulla riscrittura sono state per così dire “attraversate” per mezzo di nuovi fils rouges, che sono quelli della riscrittura come paradosso e della riscrittura come limes; seguendo questi fili è stato possibile rileggere il panorama teorico in questione da una prospettiva diversa, per formulare una nuova proposta di concetto, quello appunto di riscritture di autorialità. La seconda parte del volume si è concentrata su Franco Fortini e la poesia europea. Il primo capitolo ha affrontato una questione finora sostanzialmente tralasciata dagli studi su Fortini traduttore, ovvero quali studi teorici facciano da base al modo in cui l’autore ragiona su traduzione e riscrittura. Per tentare di rispondere a tale domanda si è ricostruito, anche attraverso documenti d’archivio inediti, il dialogo che Fortini ha intrattenuto con un amico e collega, Gianfranco Folena, che costituiva e costituisce un punto di riferimento per la riflessione su questi temi. L’analisi ha poi preso in esame gli scritti traduttologici di Fortini. Rilevante è in essi particolarmente l’opposizione tra traduzione letterale e appropriazione – tra «parafrasi» e «rifacimento» – la quale si ritrova, seppur con accenti diversi, dai saggi sulla traduzione dei primi anni Settanta (Traduzione e rifacimento, Cinque paragrafi sul tradurre) fino alle Lezioni sulla tradu-

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conclusioni

zione redatte nel 1989; una dicotomia che quindi risulta centrale per l’intero arco della riflessione traduttologica fortiniana. Significativo è che Fortini sostenga la necessità di giungere a un modo di tradurre che superi l’opposizione tra parafrasi e rifacimento, andando al di là della resa letterale ma evitando al contempo una appropriazione del testo. D’altra parte, Fortini si astiene dal definire chiaramente in cosa tale modo di tradurre “terzo” dovrebbe consistere. Al lettore non rimane che cercarlo nella sua prassi traduttiva. Come si è cercato di mostrare nel corso di questo libro, tale modo di tradurre “terzo” si ritrova in particolare nelle traduzioni e riscritture fortiniane in cui si intrecciano con maggior evidenza processi poetici e metapoetici; non tanto dunque, ad esempio, nella celeberrima traduzione del Faust (condizionata tra l’altro dalla peculiare contingenza di nascere da un laboratorio a tre voci), bensì soprattutto in due corpora di traduzioni e riscritture finora poco indagati dalla critica. Si tratta in primo luogo dell’antologia di traduzioni e riscritture Il ladro di ciliege (pubblicata presso Einaudi nel 1982 ma contenente versioni redatte lungo tutti i decenni precedenti), e in secondo luogo delle cosiddette “traduzioni immaginarie”: riscritture di testi che non esistono, ovverosia componimenti originali presentati come traduzioni (è un genere praticato anch’esso durante tutto l’arco dell’attività letteraria di Fortini, seppur discusso per la prima volta come tale solo nelle Lezioni sulla traduzione). A questi due gruppi di testi sono dedicati rispettivamente il secondo e il terzo capitolo (sul Ladro di ciliege) e il quarto capitolo (sulle traduzioni immaginarie). L’analisi si è basata principalmente sui testi, concentrandosi sugli aspetti ritmico-metrici, lessicali e sintattici delle traduzioni e riscritture fortiniane, approfondendo i legami delle stesse con gli scritti in poesia e in prosa dell’autore, nonché chiarendo la posizione di tali traduzioni e riscritture nel contesto storico-letterario nel quale esse di volta in volta si inseriscono. È così stato possibile rilevare, nelle versioni di Fortini, la presenza di determinate “marcature” sintattico-metriche e storico-critiche: si tratta, in concreto, di enjambements forti, di cesure iterate all’interno dei versi, di ritmi sincopati; di scelte lessicali e sintattiche che si pongono in opposizione alla lingua letteraria aulica di un Carducci o di un Petrarca, quest’ultimo inteso soprattutto quale modello di certa poesia della Firenze anni Trenta; di dichiarazioni di affinità con determinati autori (come Giacomo Noventa), nonché di una implicita quanto serrata critica

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ad altri, come ad esempio Leone Traverso (certe traduzioni di Fortini altro non sono – come si è cercato di mostrare – che un consapevole capovolgimento polemico del linguaggio dell’ermetismo e di alcune sue caratteristiche precipue, vale a dire le anastrofi, gli iperbati, la predisposizione per i concetti astratti, lo scardinamento dei rapporti logici interni alla frase). Il secondo e il terzo capitolo hanno inoltre tentato di dimostrare come, attraverso tali marcature, Fortini riesca a trasformare le sue traduzioni e riscritture in strumenti di definizione della propria postura autoriale: gli enjambements, le cesure, i ritmi sincopati, le scelte sintattico-lessicali e le prese di posizione storico-critiche presenti nei testi del Ladro di ciliege corrispondono difatti a una cifra metrico-stilistico-critica che costituisce il cuore della figura auctoris fortiniana, ovverosia dell’autorialità che Fortini aveva iniziato a costruire negli anni Cinquanta traducendo Poesie e canzoni di Brecht e che rinforza nel corso dei decenni successivi. Tale autorialità ha una dimensione sociale e politica (quella, già citata, di «poeta morale del Socialismo»), ma anche una dimensione stilistico-letteraria, che Fortini impiega per marcare i testi di altri autori che traduce e poi inserisce nella sua auto-antologia. Volgendo Baudelaire, Heine, Kraus e Enzensberger in italiano, Fortini vi applica le marcature di matrice brechtiana che, specialmente a partire da Una volta per sempre, hanno costituito le caratteristiche di Fortini come autore, o per meglio dire di Fortini come “autore di sé stesso in quanto autore”. Le versioni del Ladro di ciliege sono dunque sì riscritture di testi, ma anche riscritture di autorialità: ad esempio, la prima quartina della versione fortiniana di Le Crépuscule du soir (da Les Fleurs du mal) è sia una riscrittura del testo di Baudelaire sia, al contempo, una riscrittura dell’autorialità di Brecht (quale postura autoriale che Fortini sceglie per sé stesso). Con una formula, potremmo dire che Fortini adotta un’autorialità brechtiana mentre adatta Baudelaire. Le traduzioni di Fortini dunque non si capiscono fino in fondo se non si tiene conto, oltre che dei processi intertestuali, anche di tali dinamiche inter-autoriali. È interessante notare che Fortini applica tali marcature non soltanto ai poeti stranieri la cui ricezione italiana, all’altezza delle versioni fortiniane, è ancora agli albori o addirittura inesistente (come Enzensberger o Kraus), ma anche ai poeti che già possiedono una

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ricchissima tradizione in Italia e risultano quindi già marcati, spesso in modo radicalmente altro (ad esempio Heine, già tradotto da Nievo e da Carducci, che lo avevano ciascuno dotato di specifiche connotazioni, o Rilke, che le versioni di Traverso avevano avvicinato alla poesia ermetica e in particolare a quella di Luzi). Nel caso delle traduzioni e delle riscritture fortiniane di “classici” – quali appunto Heine, Rilke, Baudelaire – si è proceduto a una ricostruzione della precedente ricezione italiana di tali poeti, così da poter esaminare con maggior precisione il posizionamento critico di Fortini rispetto alla “preistoria italiana” degli autori con cui si confronta. Vale la pena accennare anche al fatto che spesso le traduzioni fortiniane nascondono costellazioni complesse, come nel caso della poesia di Kraus Sonntag – la quale in italiano diventa Domenica dopo la guerra, creando un corto circuito non solo con Brecht ma anche con Sereni – o come nel già citato caso delle traduzioni di Rilke, per le quali Fortini traduce non tanto da Rilke quanto da Giaime Pintor, al contempo operando un capovolgimento delle versioni di Traverso. A partire da queste e da altre considerazioni è stato quindi possibile formulare cinque tesi sulla traduzione in Fortini. Sintetizzando1, si è affermato che in Fortini la traduzione è strumento di costituzione della propria postura autoriale (anche e soprattutto a partire dalla riscrittura di autorialità altrui); che la traduzione è decostruzione della propria postura, e in tal modo possibile via d’uscita dal «fastidio» per la propria «identità»2, nonché strumento di un gioco di maschere autoriali; che la traduzione è sforzo di oggettivazione, è messa a distanza finalizzata a un tentativo di comprensione del testo altrui e della realtà; che la traduzione è verifica di questo stesso tentativo di oggettivazione; che la traduzione, infine, è sforzo di integrazione dei diversi elementi della tradizione letteraria, è Babele e anti-Babele, è insomma utopia di unità nella diversità. Tali tesi si riferiscono alla traduzione in Fortini in quanto pratica consustanziale a quella della scrittura poetica e saggistica3, e quindi – quantomeno così si auspica – forniscono spunti anche per l’interpretazione della sua opera “originale”. 1

Per approfondimenti, cfr. supra, pp. 97-98. Cfr. l’Avviso che introduce OI-I, ora in SE, p. 864. 3 Sulla consustanzialità di traduzione, scrittura poetica e scrittura saggistica in Fortini, cfr. supra, Introduzione. 2

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conclusioni

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Le prime due tesi potranno sembrare reciprocamente contraddittorie. E lo sono: quella di costruzione e quella di decostruzione della postura sono due dinamiche speculari, entrambe presenti nelle riscritture fortiniane – di volta in volta, però, in misura diversa. Se nel Ladro di ciliege la dinamica construens è di gran lunga preminente (fatte salve alcune eccezioni, come la versione da Max Jacob), il contrario vale per i testi analizzati nel quarto capitolo, le cosiddette “traduzioni immaginarie”. In tali pseudo-traduzioni, che sono poesie originali fortiniane presentate come versioni da altri autori, a svolgere un ruolo di primo piano è il tentativo di procedere a una decostruzione – ludica e seria allo stesso tempo – di quella postura brechtianeggiante che Fortini stesso aveva adottato. In tal modo, Fortini intende sottrarsi al pericolo di una fissazione definitiva della sua figura auctoris che di fatto ne avrebbe annullato la vitalità e l’efficacia. A tale conclusione si è giunti analizzando le quanto mai eterogenee tipologie di testi che Fortini qualifica come traduzioni immaginarie, e al contempo tentandone una sistematizzazione, ovverosia distinguendo tra loro le traduzioni immaginarie implicite (come quelle dal polacco); le traduzioni immaginarie esplicite (ad esempio Mallarmé); le traduzioni immaginarie che sono imitazioni di poeti stranieri (tra i quali Brecht, Milton); le imitazioni di poeti italiani (ad esempio Saba); i “falsi” (come il sonetto da Góngora scritto in un italiano cinquecentesco à la Tasso). Sulla base dell’analisi del vasto spettro delle riscritture e delle traduzioni fortiniane, che come si è visto va dalle traduzioni stricto sensu a quelle immaginarie fino alle imitazioni e ai falsi, si può affermare che Fortini impieghi la sinergia di traduzione, poesia e critica – sinergia che, come si è detto4, è strutturale alla sua attività letteraria – seguendo strategie diverse ma complementari: da una parte per costruire una sua postura e per applicarla agli autori che traduce e riscrive, dall’altra per metterla a distanza e addirittura decostruirla. In tal modo Fortini crea un gioco di maschere autoriali che si sottopongono reciprocamente a verifica. Questo, in fondo, fa parte del tentativo di costruire una utopica “unità nella diversità”. La dialettica tra queste due strategie opposte, e le verifiche incrociate che tali strategie generano, coincidono difatti 4

Cfr. supra, Introduzione.

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conclusioni

con quella ricerca del superamento dell’opposizione tra «parafrasi» e «rifacimento» intorno alla quale Fortini si interroga per tutta la sua esistenza; di quella opposizione, anzi, tale dialettica e tali verifiche incrociate costituiscono, in fin dei conti, in sé e per sé il superamento stesso.

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Bibliografia

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Indice dei nomi

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Acri, Francesco 74 Adorno, Theodor W. 76 Afribo, Andrea 19 Alamanni, Luigi 29 Alighieri, Dante 47, 58, 67, 71, 116, 117 Allen, Graham 9, 28, 156 Andrade, Oswald de 57-59, 155 Andreis, Mario 109 Andrézel, Pierre 56 Antonello, Anna 9, 19 Apel, Friedmar 156 Apollinaire, Guillaume 82 Apter, Emily 51, 56, 156 Aretino, Pietro 11, 25-27, 29, 31-32, 36, 155 Ariosto, Ludovico 29, 34, 60, 156 Aristotele 29, 111 Arntzen, Helmut 156 Ascoli, Albert 60, 154 Asor Rosa, Alberto 14, 28, 162-163 Assmann, Aleida 42, 157 Assmann, Jan 42, 157 Ataturk, Kemal 49 Bachmann, Ingeborg 86 Bachtin, Michail 42, 157 Bal, Julien 65 Baldini, Anna 4, 9, 11, 19, 157, 160 Balicco, Daniele 8, 157 Balinski, Stanislav 136 Baron de Montesquieu, Charles de Secondat 55

Barthes, Roland 28, 60, 157 Bassnett, Susan 9, 48, 57-58, 157, 163 Baudelaire, Charles-Pierre 15, 102, 118120, 130, 149-150, 159, 163 Béguin, Claude 9, 163 Bellocchio, Piergiorgio 93 Bembo, Pietro 60, 162 Benjamin, Walter 9, 51, 70-71, 76-77, 143, 157 Benn, Gottfried 123 Benvenuti, Giuliana 157 Berardinelli, Alfonso 90, 94-95, 157 Berensmeyer, Ingo 10, 61, 157 Berman, Antoine 73-74, 157 Bernardelli, Andrea 28, 157 Bertolucci, Attilio 73 Bhabha, Homi 51 Biagi, Daria 9, 11, 19, 157, 160 Bianchi, Ruggero 9, 163 Biasiolo, Monica 124, 157 Bigongiari, Dino 125 Billiani, Francesca 4, 9, 157 Blakesley, Jacob 68, 157 Blixen, Karen 55 Boitani, Piero 28, 157 Bonavita, Riccardo 7, 14-15, 157 Borchardt, Rudolf 71 Borges, Jorge Luis 36-38, 54-55, 155 Borsellino, Nino 25, 155 Boschetti, Anna 61, 158 Bottaro, Emanuele 61, 158 Bourdieu, Pierre 9, 61, 82, 90, 96, 158

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168 Bovo, Elena 109, 162 Braida, Antonella 109, 162 Brambilla, Alberto, 109, 162 Brecht, Bertolt 12, 14-15, 41, 65, 78, 8384, 87-88, 90-91, 93-94, 98, 101, 107, 115, 122-123, 130, 137-139, 149-151, 155-158, 162 Brontë, Charlotte 34 Bruni, Leonardo 69, 70, 76 Büchner, Georg 53, 88 Buelens, Gert 10, 61, 157 Buonarroti, Michelangelo 33 Čajkovskij, Pëtr Il’ič 33 Calabri, Maria Cecilia 124, 156 Calanchi, Alessandra, 28, 162 Calasso, Roberto 84 Calvino, Italo 34, 155 Calzecchi Onesti, Rosa 25, 156 Cambiatore da Reggio, Tommaso 31 Campanella, Tommaso 141 Campos, Haroldo de 58-59, 158, 163 Caproni, Giorgio 73, 81 Carducci, Giosuè 17, 75, 102, 104-105, 108-112, 115-116, 148, 150, 155, 159-160 Caretti, Lanfranco 67 Casanova, Pascale 9, 158 Cases, Cesare 8, 65, 67, 71, 78, 84, 93, 112, 158, 164 Cataldi, Pietro 19 Cavallo, Guglielmo 35, 158 Cavazzini, Andrea 65 Celan, Paul 45, 86, 162 Ceronetti, Guido 89, 95 Cervantes, Miguel de 36-37 Ceserani, Remo 155, 158 Chartier, Roger 35, 158 Chiari, Pietro 54 Chiarini, Paolo 112 Chiarloni, Anna 92, 155 Chiusano, Italo A. 88 Cicerone, Marco Tullio 60, 76 Cien, Isiao (pseudonimo di Franco Fortini) 133-134, 155 Classen, Ludger 158 Compagnon, Antoine 158 Conte, Gian Biagio 9, 158

indice dei nomi Contini, Gianfranco 125 Corcione, Riccardo 8, 156 Cordin, Patrizia 65, 160 Croce, Benedetto 70, 103, 111-112, 120, 158 Cruz, Juan de la 141 Daino, Luca 156 Dalmas, Davide 7-8, 12, 19, 65, 139, 158, 160 Daniele, Antonio 104, 163 D’Annunzio, Gabriele 14, 88, 111, 122, 162 De Angelis, Francesco 42, 157 de Cristofaro, Francesco 17, 159-160 Décultot, Élisabeth 102, 158 Dei, Benedetto 69 Deleuze, Gilles 40, 159 Delius, Friedrich Christian 34, 35, 158 Del Re, Giuseppe 102-104, 159 De Luca, Bernardo 8, 21 De Luca, Iginio 104, 159 De Lucia, Stefania 9, 11, 19, 124, 157, 159-160 Demoor, Marysa 10, 61, 157 Deržavin, Gravila 43, 44 De Sanctis, Francesco 103, 158 De Santi, Gualtiero 123, 163 Della Casa, Giovanni 141 Della Corte, Federico 7, 56, 65-66, 118, 159, 161, 163 Diaco, Francesco 7, 8, 17, 65, 84, 91, 118, 159-160, 162-163 Di Benedetto, Arnaldo 69, 102-104, 159 Di Rosa, Valentina 65, 159 Disney, Walt 33 Döblin, Alfred 12 Domin, Hilde 86 Don Quijote 36 Donne, John 141 Donzelli, Elisa 66, 156 Dorowin, Hermann 124, 159 Dostojewski, Fjodor Michailowitsch 157 Du Bellay, Joachim 60, 162 Dumas, Alexandre 33 Durling, Robert 60, 159 Eco, Umberto 159 Eisenstein, Elizabeth 27, 159

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indice dei nomi Éluard, Paul 12 Empedocle 91, 155 Enzensberger, Hans Magnus 83-84, 86-91, 93-95, 101, 108, 119, 149, 155, 162 Errante, Vincenzo 122, 125, 156 Escher, Maurits Cornelis 16, 82 Esposito, Edoardo 7, 65, 91, 158-159, 164 Ette, Ottmar 51, 159 Even-Zohar, Itamar 9, 45-48, 159 Eyre, Jane 34 Falaschi, Giovanni 124, 159 Fantappiè, Carlo 19 Fantappiè, Irene 3-4, 9, 11, 14, 17, 65, 69, 83, 98, 139, 157-160 Faust, Heinrich 8, 12, 58, 65, 78, 148, 156, 158, 161, 164 Fedorov, Andrei Venediktovich 71 Fénelon, Francois 34 Fichera, Gabriele 65 Fiedler Nossing, Anne 102, 104, 160 Fielding, Henry 27 Filippini, Enrico 87 Finazzi-Agrò, Ettore 160 Fischer, Carolin 14, 65, 159 Fitzgerald, Edward 52 Flacco, Quinto Orazio 43-44 Flaubert, Gustave 12 Foi, Maria Carolina 102, 160 Folena, Gianfranco 14, 66-76, 79, 83, 147, 155-156, 160 Fortini, Franco 3, 5, 7-8, 11-18, 21, 26, 28, 30, 32, 34, 36, 38, 40, 42, 44, 46, 48, 50, 52, 54, 56, 58, 60, 62-63, 65-79, 81-99, 101-143, 147-164 Foscolo, Ugo 27 Foucault, Michel 10, 49, 60, 160 Franco, Niccolò 31 Frank, Anne 51, 52 Frank, Otto 51 Franz, Rudolf 53 Frasca, Damiano 7 Freud, Sigmund 109, 162 Fubini, Mario 70 Ganni, Enrico 157 Gar, Tommaso 103 Genette, Gérard 28, 38, 39, 40, 45, 55, 160

George, Stefan 123 Gianturco, Elio 122, 160 Gide, André 12 Giglio, Tommaso 136 Giometti, Gino 73, 157 Giovio, Paolo 69 Giudici, Giovanni 73, 81, 156-157, 160 Gobetti, Piero 122, 160 Goethe, Johann Wolfgang von 12, 27, 34, 58-59, 65, 77-78, 156, 158, 161 Góngora, Luis de 89, 108, 117-118, 125, 140-142, 153, 155 Grana, Gianni 14, 163 Grappin, Pierre 107, 156 Gray, Thomas 44 Greenblatt, Stephen 60, 161 Greene, Thomas M. 9, 161 Gregori, Elisa 14, 160 Greimas, Julien Algirdas 162 Grendene, Filippo 7, 17, 65, 160-161 Grillo, Angelo 142 Grillparzer, Franz 103 Guglielmi, Giuseppe 40, 159 Guillén, Jorge 82 Gutzkow, Karl 53 Hage, Volker 161 Haraway, Donna 51 Heine, Heinrich 102-115, 119, 121-123, 125-126, 130, 149-150, 156, 158-164 Herder, Johann Gottfried 74 Hermans, Theo 9, 29, 45, 48, 161 Hitler, Adolf 41 Hoffmann, E.T.A. 33 Hoffmeister, Gerhart 102, 104, 161 Hofmannsthal, Hugo von 123 Hölderlin, Friedrich 117, 123, 125, 162 Holmsen, Bjarne Peter 55 Holz, Arno 55 Humboldt, Wilhelm von 9, 74-75 Huß, Bernhard 4, 19 Hutcheon, Linda 40-42, 57, 161 Imbriani, Vittorio 103, 158 Isselstein, Ursula 91, 155 Jachia, Paolo 143, 155 Jacob, Max 102, 121, 127, 130, 151

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170 Jakobson, Roman 70 James, William 37-38 Jauss, Hans Robert 35, 161 Jesi, Furio 65, 160 Joyce, James 27, 34, 39, 156 Juvan, Marco 161 Kafka, Franz 12, 65, 157, 163 Karrer, Wolfgang 40, 161 Kershner, Brandon R. 9, 28, 161 Kierkegaard, Søren 143 Kraus, Karl 26-27, 29, 31-32, 36, 50-51, 54, 84, 92-95, 101, 108, 119, 139, 149-150, 156, 158, 160 Kristeva, Julia 28, 161 Lachmann, Renate 42-45, 161 La Guardia, Giovanni 65, 159 Lalli, Giovanni Battista 27 La Monica, Alessandro 7, 156 Landolfi, Andrea 65, 161 Latini, Brunetto 76 Lefevere, André 9, 29, 45, 48-50, 52-53, 56, 157, 161 Leiser, Ruth 17, 78, 84, 155 Lenzini, Luca 8, 13-14, 19, 21, 65, 67-68, 71, 73, 75-76, 114, 138, 161 Leopardi, Giacomo 74, 125 Lomonosov, Mikhail Vasileyvich 44 Lorenzi, Maria 19 Lucentini, Franco 36, 155 Luigi XIV 49 Luperini, Romano 8, 161 Luti, Giorgio 109 Luzi, Mario 81-82, 102, 122-123, 125, 150, 161-162 MacLeish, Archibald 136 Macrì, Oreste 123, 163 Magro, Fabio 7, 17, 19, 65, 160-162 Maisonnat, Claude 36, 161 Malaparte, Curzio 123 Mallarmé, Stéphane 136-137, 151 Manara, Matilde 65, 84, 162 Manfriani, Franco 109, 113, 156, 162 Mann, Heinrich 106, 158 Manzoni, Giacomo 14, 155 Marchesini, Matteo 8, 156

indice dei nomi Margot, Jean-Claude 72 Maria di Francia 137 Marrucci, Marianna 8, 21 Martín, Manuel García 142 Marx, Karl 109, 112, 162 Masi, Leonardo 7, 65-66, 118, 159, 161, 163 Massarani, Tullo 103 Mazzucco, Thomas 7, 157 Mechonnic, Henri 70, 73 Mehltretter, Florian 19 Mehring, Franz 112 Meizoz, Jérôme 10, 14, 61, 157, 162 Menard, Pierre 36-38, 54 Mengaldo, Pier Vincenzo 7, 14, 19, 21, 65, 78, 118, 124, 126, 162 Menicacci, Marco 123, 162 Miglio, Camilla 7, 19, 45, 65, 159, 162 Migliorini, Bruno 67 Milanese, Cesare 160 Milton, John 12, 65, 137-139, 151, 162 Möbius, August Ferdinand 30 Möbius, Hanno 162 Montale, Eugenio 14, 73, 79, 89, 95, 120, 125, 132-133, 162 Morawski, Stefan 162 Morbiato, Giacomo 7, 17, 65, 160-162 Morra, Eloisa 11, 160 Mounin, Georges 70, 72-73 Munari, Tommaso 81, 162 Muzzi, Nino 7 Necker de Saussure, Albertine 53, 162 Nelting, David 60, 162 Nencini, Elisabetta 7, 13, 17, 19, 65, 84, 91, 118, 159-160, 162-163 Nergaard, Siri 56, 160, 163 Nerval, Gérard de 104 Nickel, Beatrice 17, 65, 159 Nida, Eugene 73 Niero, Alessandro 65 Nietzsche, Friedrich 109, 162 Nievo, Ippolito 102-104, 150, 159, 163 Novalis (Georg Philipp Friedrich von Hardenberg) 36, 123, 162 Noventa, Giacomo 17, 67, 108-115, 125126, 148, 155-156, 160, 162-163 Novità, Raffaella 28, 160 Nureyev, Rudolf 33

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indice dei nomi Oberthon, Ricardo 55 Omero 27-28, 32, 39, 156 Onegin, Evgenij 67-68, 156, 161 Ong, Walter J. 27, 162 Orr, Mary 162 Ortis, Jacopo 27 Ossian 55 Paccagnella, Ivano 17, 160 Paccaud-Huguet, Josiane 36, 161 Paoli, Rodolfo 125 Paparelli, Simona 42, 157 Pascoli, Giovanni 74, 116-118 Pasolini, Pier Paolo 47, 83, 89, 156 Pasquali, Giorgio 122 Pellini, Pierluigi 19 Pelloni, Gabriella 102, 109, 162 Peluso, Sabatino 8, 156 Petersen, Jürgen H. 162 Peterson, Thomas 65 Petrarca, Francesco 17, 60, 104, 115-118, 120, 125, 148, 156, 160, 162 Pfeiffer, Helmut 11, 158 Pieczara-Ślarzyńska, Małgorzata 7, 65-66, 118, 159, 161, 163 Ronsard, Pierre de 125 Pincherle, Maria Caterina 160 Pintor, Giaime 102, 122, 124-125, 150, 157-159 Plett, Heinrich F. 162 Poe, Edgar Allan 28, 157 Poggi, Giulia 142 Porena, Ida 87 Pound, Ezra 82 Procaccioli, Paolo 32, 155 Proust, Marcel 12 Publio Virgilio Marone 25, 27, 31-32, 39, 47, 54, 117, 156 Puškin, Aleksandr Sergeevič 43-45, 67, 156 Quasimodo, Salvatore 125 Queneau, Raymond 12, 79 Quondam, Amedeo 28, 57, 163 Raboni, Giovanni 14, 73, 91, 107, 120, 163 Ramel, Annie 36, 161 Ranchetti, Michele 65, 159 Rappazzo, Felice 7, 65, 163

171 Reinhardt, Max 27 Reitani, Luigi 19, 104, 163 Rhys, Jean 34 Ribeiro Pires Vieira, Else 58, 163 Ricci, Piero 28, 161 Richardson, Samuel 27, 34 Riffaterre, Michael 163 Rilke, Rainer Maria 15, 88, 102, 121-126, 150, 156-157, 162-163 Rimbaud, Arthur 118, 132-133, 163 Rispoli, Marco 102, 163 Rodin, Augusto 122, 156 Roth, Tobias 11, 160 Rousseau, Jean Jacques 34 Rundle, Christopher 4, 9, 163 Rushdie, Salman 57 Saba, Umberto 139-140, 151 Sachs, Nelly 84-87, 91 Safran Foer, Jonathan 57 Salutati, Coluccio 69 San Girolamo 73 Sanguineti, Edoardo 83 Santagata, Marco 119, 156 Santarone, Donatello 7, 19, 156 Santoyo, Julio-César 56, 163 Scaffai, Niccolò 8, 19, 163 Scève, Maurice 141 Schlaf, Johannes 55 Schlegel, August Wilhelm 26, 31, 50, 74 Schleiermacher, Friedrich 74 Schneider, Lambert 51 Schulz, Bruno 57 Schuré, Eduardo 104 Schütz, Anneliese 51 Schweppenhäuser, Hermann 155 Schwind, Klaus 161 Scotto, Fabio 65-66, 118, 163 Scremin, Francesco 104 Sereni, Vittorio 8, 12, 73, 79, 81-83, 93, 114, 150, 161, 163 Settembrini, Luigi 74 Shakespeare, William 26-27, 31-32, 41, 50, 58, 60, 89, 120, 139, 156, 160-161 Sieber-Rilke, Ruth 121, 156 Silone, Ignazio 136 Sisto, Michele 4, 8-9, 11, 14, 17, 19, 65, 87, 98, 108, 157-160, 163

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172 Solmi, Sergio 73, 83 Spariosu, Mihai 56, 161 Specchio, Mario 123, 132, 163 Spendel, Joanna 67, 156 Spender, Stephen 67, 156 Spitzer, Leo 70 Madame de Staël 53, 162 Stanzick, Karl-Heinz 34 Steiner, George 9, 70-71, 73, 163 Still, Judith 164 Stoppard, Tom 41 Strindberg, Johan August 47 Svendsen, Clara 55 Tasso, Torquato 141, 149 Terracini, Benvenuto 70 Thune, Eva Maria 14, 19, 65, 161 Tieck, Ludwig 26 Tiedemann, Rolf 155 Tinacci, Valentina 8, 21 Tirinato, Maria Vittoria 8, 21, 65, 70, 73, 78 Toccafondi, Diana 19 Tomassucci, Giovanna 65, 135, 163 Tommaseo, Niccolò 74, 103 Torchio, Emilio 110, 155 Toremans, Tom 18, 160 Torre, Andrea 9, 71, 164 Toscano, Alberto 65, 109, 110 Toury, Gideon 9, 55-56, 164 Trakl, Georg 123

indice dei nomi Traverso, Leone 102, 122-123, 125-126, 149-150, 156, 163 Trivedi, Harish 58, 163 Turchetta, Gianni 7, 164 Tynjanov, Juri Nikolajevič 38, 71, 164 Urgnani, Elena 109, 164 Valeri, Diego 73 Vanacker, Beatrijs 18, 160 Venuti, Roberto 8, 65, 78, 158, 164 Vigolo, Giorgio 125 Vittorini, Elio 78, 133-134, 136 Vogt, Ursula 123, 163 Voss, Johann Heinrich 26 Walpole, Horace 55 Walser, Martin 158 Whitman, Walt 79 Williams, John Edward 82 Worton, Michael 162 Yahalom, Sally 56, 164 Young, Edward 44 Zagari, Luciano 102, 164 Zampa, Giorgio 125 Zanzotto, Andrea 81 Zendrini, Berdardino 102-104, 110, 159 Zinato, Emanuele 19 Zola, Émile 47

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Quodlibet Studio



letteratura tradotta in italia

Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione (1900-1920) Michele Sisto, Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia Alessandro Niero, Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi Martina Mengoni, I sommersi e i salvati di Primo Levi. Storia di un libro (Francoforte 1959-Torino 1986) Irene Fantappiè, Franco Fortini e la poesia europea. Riscritture di autorialità

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