Filosofia dell'arte contemporanea: installazioni, siti, oggetti 9788822905307, 9788822911353

L’arte contemporanea è caleidoscopica: può catapultarci in ambienti complessi o minimali richiedendo la nostra attiva pa

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Italian Pages [233] Year 2020

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Table of contents :
Indice

Introduzione

I. L’esperienza e la struttura delle opere d’installation art
1. Scultura e installation art a confronto
2. Architettura e installation art a confronto
3. Il carattere interattivo delle opere d’installation art
4. Ancora su installation art e architettura
5. Un’arte post-mediale?
6. Ripensare il medium
7. Il profilo mediale dell’installation art
Conclusioni

II. Installazione espositiva e installation art
1. Somiglianze strutturali
2. Differenze a livello di pratiche di apprezzamento
3. Il Neues Museum di Berlino come opera d’installation art
4. Obiezioni e repliche
5. Un museo partecipativo
Conclusioni

III. Arte e siti: una tassonomia
1. Arte non situata e arte situata
2. Contesto fisico e contesto storico, culturale e sociale
3. Arte che non verte e arte che verte su siti e su contesti storici, culturali e sociali
4. Arte debolmente e fortemente situata
5. Arte situata rispetto a siti generici o particolari

6. La categoria “arte sito-specifica” nella letteratura critico-artistica
7. Il carattere situato delle opere sito-specifiche
8. L’arte sito-specifica come arte che verte sui propri siti
9. L’arte sito-specifica come arte che verte sui propri contesti storici, culturali e sociali
Conclusioni

IV. Oggetti come veicoli di idee nell’arte concettuale
1. Dematerializzazione?
2. Arte concettuale e arte concettualista
3. Opere d’arte concettuale accessibili e criptiche
4. Come le opere d’arte concettuale accessibili veicolano idee: due esempi
5. Come alcune opere d’arte concettuale inaccessibili e accessibili veicolano idee tramite l’esemplificazione
6. Come alcune opere d’arte concettuale inaccessibili veicolano idee tramite il prop oriented make-believe
7. Un confronto con la proposta di James Young
8. Implicature conversazionali nell’arte concettuale
Conclusioni

V. Spazio pubblico, atti sovversivi e carattere artistico nella street art
1. Quale “strada”?
2. Quale uso della “strada”?
3. La “strada” e il contenuto delle opere di street art
4. Street art concettuale: i meri graffiti
Conclusioni

Bibliografia
Indice dei nomi
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Filosofia dell'arte contemporanea: installazioni, siti, oggetti
 9788822905307, 9788822911353

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Quodlibet Studio Estetica e critica

Elisa Caldarola Filosofia dell’arte contemporanea: installazioni, siti, oggetti

Quodlibet

Prima edizione: ottobre 2020 © 2020 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 – 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di nw srl presso lo stabilimento di LegoDigit srl, Lavis (tn) isbn 978-88-229-0530-7 | e-isbn 978-88-229-1135-3 Estetica e critica Collana fondata da Gianni Carchia e Vittorio Stella Comitato scientifico: Daniela Angelucci, Paolo D’Angelo, Miriam Iacomini, Paolo Marolda, Vittorio Stella.

Volume pubblicato con il contributo dell’Università di Padova attraverso l’iniziativa “STARS Grants” (Supporting TAlent in ReSearch@University of Padova), Starting Grant 2018-2020, APAI – “A Philosophy of Art Installation”, Principal Investigator: Elisa Caldarola.

Indice

11 Introduzione 17 I. L’esperienza e la struttura delle opere

d’installation art

18 1. Scultura e installation art a confronto 23 2. Architettura e installation art a confronto 25 3. Il carattere interattivo delle opere d’installation art 33 4. Ancora su installation art e architettura 37 5. Un’arte post-mediale? 40 6. Ripensare il medium 48 7. Il profilo mediale dell’installation art 57 Conclusioni

59 II. Installazione espositiva e installation art

59 1. Somiglianze strutturali 62 2. Differenze a livello di pratiche di apprezzamento 69 3. Il Neues Museum di Berlino come opera d’installation art 80 4. Obiezioni e repliche 83 5. Un museo partecipativo 91 Conclusioni

93 III. Arte e siti: una tassonomia 94 99 101

1. Arte non situata e arte situata 2. Contesto fisico e contesto storico, culturale e sociale 3. Arte che non verte e arte che verte su siti e su contesti storici, culturali e sociali

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indice

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4. Arte debolmente e fortemente situata 5. Arte situata rispetto a siti generici o particolari 6. La categoria “arte sito-specifica” nella letteratura criticoartistica 118 7. Il carattere situato delle opere sito-specifiche 121 8. L’arte sito-specifica come arte che verte sui propri siti 124 9. L’arte sito-specifica come arte che verte sui propri contesti storici, culturali e sociali 128 Conclusioni 131 IV. Oggetti come veicoli di idee nell’arte concettuale

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1. Dematerializzazione? 2. Arte concettuale e arte concettualista 3. Opere d’arte concettuale accessibili e criptiche 4. Come le opere d’arte concettuale accessibili veicolano idee: due esempi 147 5. Come alcune opere d’arte concettuale inaccessibili e accessibili veicolano idee tramite l’esemplificazione 150 6. Come alcune opere d’arte concettuale inaccessibili veicolano idee tramite il prop oriented make-believe 156 7. Un confronto con la proposta di James Young 159 8. Implicature conversazionali nell’arte concettuale 161 Conclusioni 163 V. Spazio pubblico, atti sovversivi e carattere

artistico nella street art 163 1. Quale “strada”? 167 2. Quale uso della “strada”? 173 3. La “strada” e il contenuto delle opere di street art 185 4. Street art concettuale: i meri graffiti 191 Conclusioni 193 Bibliografia 217 Indice dei nomi

Alla memoria di Giacomo Podestà (1980-2018)

Questo libro è il risultato di alcuni studi che ho condotto come titolare di assegni di ricerca all’Università di Padova, fra il 2014 e il 2016 e fra il 2018 e il 2020, e come borsista Fulbright all’Università del Maryland, fra il 2015 e il 2016. Sono grata a Paolo D’Angelo, a Stefano Verdicchio e al comitato scientifico della collana “Quodlibet Studio. Estetica e critica” per averlo accolto nella collana, e a Gabriele Tomasi e Jerrold Levinson per essere stati imprescindibili interlocutori e responsabili, all’Università di Padova e all’Università del Maryland, dei miei progetti di ricerca. Ringrazio inoltre John Hyman, che alcuni anni fa mi ha suggerito che il Neues Museum di Berlino sarebbe stato un buon caso di studio per il mio lavoro. Sono poi riconoscente all’Università di Padova per aver finanziato il mio lavoro tramite uno STARS Grant (Supporting TAlent in ReSearch) nel biennio 2018-2020, e in particolare il mio soggiorno di studio alla biblioteca dello Stedelijk Museum di Amsterdam fra aprile e luglio 2018, i miei viaggi per partecipare a conferenze e seminari nel biennio 20182020, e il ciclo di seminari di estetica dell’Università di Padova (a.a. 20182019), dove i relatori invitati hanno presentato interventi importanti per alcune tesi difese in questo libro. Ringrazio, per i loro commenti a interventi su temi trattati nel volume, alcuni partecipanti alle conferenze annuali della American Society for Aesthetics (2015, 2016 e 2019), della British Society of Aesthetics (2016) e della European Society for Aesthetics (2018 e 2019), al primo workshop della Società italiana per le donne in filosofia (2018) e alla conferenza “Philosophy of Art: New Directions” (Università di Padova, 2019), Francisca Perez Carreño e i partecipanti al seminario di estetica dell’Università di Murcia (2017), Concha Martínez Vidal e il gruppo di ricerca “Episteme” dell’Università di Santiago de Compostela, Enrico Terrone e i partecipanti al seminario di estetica dell’istituto Jean Nicod di Parigi (2018), Elisabeth Schellekens e i partecipanti al seminario di estetica dell’Università di Uppsala (2019), Eleen Deprez e i partecipanti al seminario dell’Aesthetics Research Center della Università del Kent (2019), Adriano Angelucci e i partecipanti al seminario del gruppo di

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ricerca “Synergia” dell’Università di Urbino (2019), Alessandro Bertinetto e i partecipanti al seminario A.R.T. dell’Università di Torino (2019), Adam Andrzejewski e i partecipanti al seminario dell’Istituto di filosofia dell’Università di Varsavia (2019), Fabrizia Bandi, il Politecnico di Milano e i partecipanti a “Mantovarchitettura” (2020). Ringrazio, scusandomi con i tanti che sono certa di dimenticare, tutti coloro che hanno discusso con me alcuni aspetti di questo volume, fra cui Gemma Argüello, Sondra Bacharach, Leopoldo Benacchio, Frida Carazzato, Pietro Conte, Davide Dal Sasso, David Davies, Julian Dodd, John Dyck, Saul Fisher, Jason Gaiger, Ivan Gaskell, Robert Hopkins, Sherri Irvin, Dominic Lopes, Glenn Parsons, Letizia Ragaglia, Vid Simoniti, Sue Spaid, Marteen Steenhagen, Annamaria Ursi e Ken Wilder. Ringrazio per ogni momento della nostra amicizia Giacomo Podestà, la prima persona insieme alla quale ho condiviso l’interesse per l’arte contemporanea e la prima alla quale avrei voluto regalare questo libro, che dedico alla sua memoria. Ringrazio infine i miei genitori e Matteo, per tutto.

Introduzione

Le installazioni, i siti e gli oggetti sono tre punti focali per l’arte contemporanea. Questo studio è dedicato ad affrontare alcune questioni teoriche che li riguardano, con gli strumenti offerti dalla filosofia. Prima d’introdurle, è utile descrivere alcuni aspetti della produzione artistica attuale per i quali le installazioni, i siti e gli oggetti sono importanti. L’arte contemporanea a volte può apparirci familiare e, allo stesso tempo, spiazzante. Questo accade quando nel corso di una mostra siamo invitati a entrare in un candido miniappartamento arredato e ad attaccare ovunque vogliamo coloratissimi pois adesivi – l’opera è The Obliteration Room (2002) di Yayoi Kusama – o quando in un museo sono esposti oggetti come un bicchier d’acqua poggiato sopra una mensola – l’opera è An Oak Tree (1973) di Michael Craig-Martin. Il primo è un caso in cui l’artista include il pubblico nell’ambiente della propria opera, anziché presentargli raffigurazioni di spazi altri, e lo invita a compiere azioni diverse dal solo osservare l’opera, puntando a coinvolgerne tutti i sensi; il secondo è un caso in cui l’artista ha abbandonato la manipolazione, spesso virtuosistica, della materia fisica (i pigmenti dei dipinti, il marmo delle statue) e la creazione di artefatti ricchi di proprietà estetiche e optato invece per la presentazione di oggetti quotidiani esteticamente neutri. A volte, poi, l’arte contemporanea ci sorprende per come si relaziona allo spazio pubblico: non lo occupa per celebrare questo o quell’individuo o evento, come fanno tanti monumenti del passato, ma lo fa in maniera illecita (o che ci

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filosofia dell’arte contemporanea: installazioni, siti, oggetti

sembra tale), nel caso della street art, e in modo da creare le condizioni perché esperiamo tale spazio molto diversamente – per esempio quando l’installazione della statua di un grande gallo blu a Trafalgar Square ci spinge a ironizzare sulle statue celebrative presenti nella piazza (l’opera è Hahn/Cock, 2013, di Katarina Fritsch), o quando dall’interno di quattro cilindri di cemento installati nel deserto possiamo inquadrare il sole ai solstizi e sentirci trasportati nello spazio cosmico (l’opera è Sun Tunnels, 1976, di Nancy Holt). Sintetizzando, le installazioni sono gli ambienti dove il pubblico dell’arte contemporanea è invitato a entrare e compiere certe azioni; i siti sono i luoghi in cui l’arte contemporanea ripensa l’uso dello spazio; gli oggetti sono i meri oggetti quotidiani che alcune opere contemporanee ci presentano. Quelle che ho descritto sono solo alcune delle strade esplorate dagli artisti contemporanei: le più rilevanti per i temi di questo volume, che non ha certo pretesa di esaustività. In quanto segue non mi occuperò di altri aspetti centrali dell’arte contemporanea, come per esempio la diffusione delle performance da parte degli artisti, l’utilizzo di computer per produrre arte, la creazione di ambienti immersivi virtuali, la creazione di archivi e la creazione di progetti partecipativi che coinvolgono intere comunità. Le installazioni, i siti e gli oggetti dell’arte contemporanea sollevano tre questioni centrali per questo studio. Le installazioni sono fatte con i materiali più diversi, includono il pubblico e lo spingono ad agire in certi modi: è possibile che non si tratti di opere d’arte da apprezzare, ma di sistemi che hanno il solo obiettivo di provocare certi comportamenti nel pubblico? Moltissime opere d’arte di tutte le epoche sono tali per cui dobbiamo fare attenzione anche ai siti dove sono collocate per apprezzarle appieno (che cosa sarebbero le piramidi di Giza senza il deserto?), e tuttavia ci sembra che l’uso dei siti in certa arte contemporanea sia rivoluzionario: perché? Quando l’arte non ci presenta più oggetti che si distinguono per le loro proprietà estetiche, ma ci propone oggetti ed eventi indistin-

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guibili da quelli che popolano la nostra vita quotidiana, a che cosa dobbiamo fare attenzione per apprezzarla? Com’è noto, queste domande hanno dato origine a un’ampia letteratura, specialmente nell’ambito degli studi teorici e critici sull’arte, e la letteratura ha articolato alcune risposte che hanno riscosso particolare successo. Per quanto riguarda le installazioni, queste sono spesso considerate paradigmatiche dell’arte “postmediale” – arte che abbandona la strategia di manipolare particolari materiali con certe tecniche per veicolare contenuti e opta invece per immergere il pubblico in scene teatrali (cfr. per es. Fried 1967; Krauss 1999a). Per quanto riguarda il ruolo dei siti nell’arte contemporanea, è stato enfatizzato il fatto che gli artisti hanno rivolto il loro interesse ai siti sia per mettere in questione idee tradizionali su come l’arte va esperita e sul ruolo di certe istituzioni culturali e politiche nella società, sia per evidenziare temi sociopolitici specifici di certi contesti (cfr. per es. Kwon 2002). Per quanto riguarda gli oggetti e gli eventi di carattere quotidiano, si è affermata la teoria che i loro aspetti materiali sono del tutto irrilevanti per l’apprezzamento delle opere proposte dagli artisti, che consisterebbero invece puramente in processi di pensiero (cfr. per es. Lippard e Chandler 1968). Le ricerche che qui presento propongono una parziale revisione di queste teorie. In primo luogo, sostengo che i media artistici non sono morti con l’installation art, ma hanno piuttosto cambiato faccia. Gli oggetti che molti artisti contemporanei manipolano con varie tecniche per veicolare significati non sono più degli specifici materiali fisici, come i pigmenti per la pittura, ma sono risorse le più disparate che, nel caso dell’installation art, includono anche le esperienze del pubblico all’interno dell’ambiente realizzato dall’artista. Tuttavia, a seconda della forma d’arte per la quale fungono da veicoli, queste risorse sono trattate con tecniche particolari e costanti nel corso della tradizione che si va costruendo con il perdurare della pratica artistica in questione (per esempio quella dell’installation art),

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tecniche che si concentrano sugli aspetti che tali risorse hanno in comune. Quello che, allora, ci permette d’individuare il medium di una forma artistica contemporanea, compresa l’installation art, non è l’attenzione a particolari materiali, ma l’attenzione a particolari tecniche di manipolazione delle risorse più disparate, che si concentrano su ciò che queste hanno in comune. Questi temi sono discussi soprattutto nel primo e nel secondo capitolo e, parzialmente, nel quarto. In secondo luogo, riconosco che la messa in questione di idee tradizionali sull’arte e la discussione di temi sociopolitici sono centrali nell’arte situata contemporanea, ma avanzo anche l’ipotesi che vi sia un modo particolare in cui l’arte situata utilizza i propri siti per veicolare significati a proposito di questi temi e che tale modalità la distingua dall’arte del passato e le conferisca una particolare fenomenologia. Questi temi sono discussi nel terzo e nel quinto capitolo. In terzo luogo, sostengo che, per quanto riguarda certe opere d’arte contemporanee, benché gli oggetti che il pubblico si trova di fronte quando incontra le opere non siano lì perché se ne apprezzino le proprietà estetiche, ciò non significa che questi oggetti siano irrilevanti per l’apprezzamento delle opere presentate dagli artisti, dal momento che gli artisti sfruttano certi aspetti di questi oggetti per veicolare idee, attraverso meccanismi come l’esemplificazione (cfr. per es. Goodman 1976) e il prop oriented make-believe – un’espressione traducibile con “gioco di far finta orientato al sostegno [del gioco stesso]” e che indica un particolare tipo di attività immaginativa teorizzata da Kendall Walton (1993). Questi temi sono discussi nel quarto e nel quinto capitolo. Il mio lavoro muove dalla premessa che uno dei compiti della filosofia dell’arte sia prestare attenzione a specifiche pratiche artistiche e a teorie sull’arte avanzate in altri ambiti di ricerca, per poi organizzare in maniera perspicua la molteplicità dei dati raccolti e costruire teorie quanto più generali possibile per cercare di spiegare ciò che emerge da tali dati. Le conclusioni alle quali giungo nascono dall’attenzione rivolta alle

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pratiche artistiche, in primis, e alla letteratura critico-artistica, e dall’analisi filosofica condotta a partire dalle informazioni così raccolte. L’obiettivo è costruire una teoria che sia fedele alle pratiche nell’ambito delle quali creiamo e apprezziamo le opere d’arte, ma che non rinunci alla revisione di idee anche molto diffuse, qualora la loro mancanza di chiarezza o forza esplicativa lo richieda (su questa posizione metodologica cfr. per es. Walton 2007; Lopes 2014; Davies 2017). Le proposte che avanzo presentano, a mio giudizio, alcuni vantaggi. Nel primo capitolo, con l’analisi dell’esperienza e della struttura dell’installation art, fornisco degli strumenti per una migliore comprensione di ciò che conta per l’apprezzamento di queste opere, grazie all’individuazione degli aspetti centrali dei veicoli dei loro contenuti. Nel secondo capitolo, articolando la proposta che l’installazione espositiva del Neues Museum di Berlino sia un’opera d’installation art, offro strumenti per raffinare la comprensione delle analogie e delle differenze fra installazioni espositive e opere d’installation art, e fra le pratiche dei curatori d’arte e quelle degli artisti. Nel terzo capitolo, proponendo una tassonomia dell’arte situata, individuo elementi che caratterizzano la struttura e l’esperienza dell’arte sito-specifica contemporanea e offro alcuni argomenti utili all’approfondimento dei dibattiti sull’apprezzamento, l’esposizione e la conservazione delle opere situate. Nel quarto capitolo, analizzando alcuni modi in cui gli oggetti e gli eventi che ci presenta l’arte concettuale sono sfruttati dagli artisti per veicolare idee, cerco d’individuare dei punti fermi a partire dai quali è possibile comprendere come apprezzare queste opere. Nel quinto capitolo, esaminando il funzionamento delle opere di street art ed evidenziando il loro legame sia con l’arte sito-specifica che con l’arte concettuale, approfondisco la comprensione del carattere sovversivo di queste opere, già evidenziata dalla letteratura. Come emerge da queste considerazioni, molti degli argomenti che affronto sono rilevanti per la comprensione di come funziona l’apprezzamento dell’arte contemporanea.

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filosofia dell’arte contemporanea: installazioni, siti, oggetti

Le mie ricerche, tuttavia, non si sono concentrate sul tema dell’apprezzamento dell’arte. È evidente che molte opere contemporanee possono essere apprezzate esteticamente, facendo attenzione alle qualità che emergono dalle loro proprietà percettive, ma è altrettanto evidente che spesso queste sembrano più che altro preoccupate di indurci a riflettere su certi temi, anche qualora presentino notevoli qualità estetiche. Quanto profondamente la capacità delle opere contemporanee di motivarci alla riflessione sia radicata nella loro struttura fisica e di che genere di esperienza di apprezzamento (puramente intellettuale? anch’esso estetico?) questa possa essere oggetto sono questioni che rimando a ricerche future (per un recente contributo su questi temi cfr. Stecker 2019). Concludo con alcune avvertenze per chi legge. I cinque capitoli del volume si possono leggere anche separatamente, purché si faccia attenzione a eventuali brevi rimandi ai capitoli precedenti. Per favorire una lettura fluida, ho cercato di evitare lunghe digressioni nel corpo principale del testo e ho chiarito nelle note alcuni punti che mi sembravano meritarlo. Laddove non indicato nella bibliografia, le traduzioni dei testi in inglese e francese sono mie. La prima parte del capitolo 1 è parzialmente affine al mio articolo intitolato On Experiencing Installation Art (Caldarola 2020).

I. L’esperienza e la struttura delle opere d’installation art

L’installation art è una pratica affermatasi internazionalmente a partire dalla fine degli anni ’50 fra artisti sin dal principio animati da interessi diversi, come Allan Kaprow negli Stati Uniti e Lucio Fontana in Italia1. Kaprow realizzò ambienti – spazi ricavati in contesti estranei alle gallerie d’arte commerciali e riempiti di oggetti d’uso quotidiano – con l’obiettivo d’immergere il pubblico in situazioni reali, prive di contenuto rappresentativo, a differenza, per esempio, che negli spettacoli teatrali tradizionali (cfr. Hansen 1965, pp. 5968; Bishop 2005, pp. 22-26). Fontana, con i suoi Ambienti spaziali, presentò spazi espositivi prevalentemente vuoti, dove installò luci al neon che, riempiendoli di colore, provocavano nel pubblico intense esperienze percettive (cfr. Pugliese et al. 2018). Nonostante le grandi differenze a livello d’aspetto, di materiali utilizzati e di esperienze prodotte nel pubblico – iper-stimolato e coinvolto direttamente da Kaprow, immerso in quieti spazi luminosi da Fontana – i loro ambienti hanno in comune il fatto di presentare spazi che il pubblico è invitato a esplorare dall’interno. Queste considerazioni valgono per tutta la produzione ascritta alla categoria dell’installation art in ambito critico-artistico: la letteratura da una parte insiste sulla centralità dello spazio che incorpora il pubblico per tutte 1  Fra i precorritori dell’installation art vi sono le installazioni prodotte in collaborazione da Man Ray, Salvador Dalí, Georges Hugnet, Benjamin Peret e Marcel Duchamp per la Esposizione internazionale surrealista del 1938 (cfr. Bishop 2005, pp. 20-22) e, ancora prima, sia Proun Room (1923) e Raum für Konstruktive Kunst (1926) di El Lissitzky che Merzbau (1923-1937) di Kurt Schwitters (cfr. Reiss 1999, pp. xxi-xxiv).

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filosofia dell’arte contemporanea: installazioni, siti, oggetti

queste opere e dall’altra sottolinea la loro eterogeneità (cfr. per es. De Oliveira et al. 1993; 1994; 2004; Kabakov 1995; Reiss 1999; Rebentisch 2003; Rosenthal 2003; Bishop 2005; Ferriani e Pugliese 2009; Scholte e Wharton 2011; Ran 2012; Ring Petersen 2015; Tavani 2019). In questo capitolo metto a fuoco gli elementi comuni alle diverse opere d’installation art e difendo due tesi principali: la prima è che un aspetto comune a tutte queste opere è una certa fenomenologia; la seconda è che l’installation art è una forma d’arte con un particolare medium o, più precisamente, “profilo mediale” – una nozione introdotta nella letteratura filosofica sull’arte da Dominic Lopes (2014), come spiegherò. Nei §§ 1 e 2 metto a confronto la fenomenologia dell’installation art con quelle della scultura e dell’architettura, rispettivamente, sottolineando analogie e differenze. Nel § 3 sostengo la tesi che l’installation art è un tipo di arte interattiva e nel § 4 ritorno sulla distinzione fra architettura e installation art. Nei §§ 5 e 6 mostro i limiti della concezione restrittiva del medium di un’opera d’arte quando applicata all’installation art e ne propongo una concezione più espansiva. Nel § 7, infine, sostengo che il profilo mediale dell’installation art è costituito dallo spazio articolato dagli artisti e dall’esperienza che ne facciamo. 1. Scultura e installation art a confronto Le opere d’installation art hanno evidentemente qualcosa in comune con le sculture: tutti e due i tipi di opere presentano oggetti tridimensionali che possiamo osservare da più punti di vista2. Osservando frontalmente l’Apollo e Dafne di Bernini (1622-1625) notiamo subito la diagonale formata dal braccio destro di Apollo e dal braccio destro di Dafne, ma è muovendo2  Talvolta,

nell’installation art, gli oggetti tridimensionali presentati sono dei semplici spazi vuoti che accolgono il pubblico (come nel caso degli Ambienti spaziali di Fontana e delle installazioni luminose di James Turrell). La scultura a rilievo presenta oggetti osservabili da più punti di vista, per quanto la varietà di punti di vista sia inferiore a quella offerta dalla scultura a tutto tondo, ovviamente.

i. l’esperienza e la struttura delle opere d’installation art

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ci attorno alla statua che possiamo notare anche i dettagli della raffigurazione della metamorfosi in foglie d’alloro dei capelli e delle mani della ninfa. Similmente, è muovendoci attorno all’installazione Horizonmembranenave di Ernesto Neto (fig. 1), parte della mostra personale dell’artista The Edges of the World alla Hayward Gallery di Londra (2010), che possiamo osservare che questa non è solo una sorta di parete arcuata con protuberanze, ma che si tratta invece di un intero padiglione di forma pressappoco circolare, dotato di un’apertura attraverso la quale possiamo entrare al suo interno. Alcuni teorici dell’arte hanno preso in considerazione i legami fra scultura e installation art e cercato d’individuare che cosa distingue una pratica artistica dall’altra (per es. Krauss 1977 e Potts 2001). Una distinzione molto importante per quest’area di ricerca è quella fra opere d’arte anti-teatrali e teatrali tracciata da Michael Fried (1967): le opere anti-teatrali sono fruite opportunamente da spettatori che tengono conto della distanza fisica che li separa da queste e che le esaminano considerandole non come meri oggetti, ma come media manipolati dall’artista con l’obiettivo di veicolare dei contenuti e rendere salienti alcune loro proprietà – nelle sculture antiteatrali, in particolare, la manipolazione dei media è volta, anche laddove non vi siano contenuti figurativi, a rendere saliente l’interazione fra i molteplici elementi che compongono le opere (Fried 1967, pp. 155-161; per un approfondimento sul concetto di medium v. sotto, §§ 5 e 6); le opere teatrali, invece, presentano oggetti in situazioni che includono lo spettatore e lo invitano a considerarli meramente in quanto oggetti3 – Fried (ivi, p. 153) pensa in particolare alle prime 3  Non discuto qui la dura critica che Fried avanza all’arte teatrale e le ragioni su cui questa si fonda; mi limito a sottolineare che secondo Fried ciò che è problematico non è di per sé il fatto che l’arte teatrale costruisca una situazione, una messa in scena, ma il fatto che, così facendo, l’arte teatrale canalizzi l’attenzione del pubblico sulla propria esperienza di attore nella messa in scena e rinunci ad articolare contenuti per il pubblico (cfr. Rebentisch 2003, p. 69; Bishop 2005, p.136). Per una disamina della posizione di Fried e del ruolo di questa per la comprensione dell’installation art cfr. Tavani (2019) e Wilder (2020, cap. 6).

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filosofia dell’arte contemporanea: installazioni, siti, oggetti

opere minimaliste di Donald Judd, Robert Morris e Carl Andre, che sono ora considerate precorritrici della installation art (cfr. Bishop 2005, pp. 50-56)4. Tornando a Neto e Bernini, seguendo Fried dovremmo considerare Horizonmembranenave un’opera costituita meramente da un padiglione che possiamo esplorare, sia esternamente che internamente, e Apollo e Dafne, invece, un’opera che ci presenta un blocco di marmo utilizzato come medium e cioè scolpito, per esempio, per veicolare contenuti attraverso la rappresentazione figurativa di esseri umani. A differenza di Fried, Rosalind Krauss (1977, pp. 262; 270) ha sostenuto che le opere minimaliste, così come opere quali i Corridors di Bruce Nauman, che oggi ascriviamo alla categoria dell’installation art, non vanno considerate come meri oggetti, ma come oggetti usati per veicolare contenuti in modo diverso da, per esempio, le sculture, e cioè spingendo il pubblico a interagire con essi ed esaminare i loro spazi alla luce del loro significato socio-culturale, piuttosto che offrendo rappresentazioni dello spazio. Tornando ancora a Neto e Bernini, seguendo Krauss possiamo affermare che mentre Horizonmembranenave veicola contenuti che possiamo cogliere interrogandoci, per esempio, su che cosa evochi nel pubblico contemporaneo l’esperienza di un ambiente con forme smussate, costruito impiegando tessuti soffici e dai colori intensi (presumibilmente un viaggio all’interno del corpo di qualche organismo)5, Apollo e Dafne veicola contenuti in primo luogo grazie al fatto che rappresenta uno spazio occupato da due individui – uno spazio che è meramente rappresentato, altro rispetto a quello reale che gli osservatori si trovano invece a condividere con il blocco di marmo scolpito. La distinzione tracciata da Krauss acquista profondità se letta alla luce delle osservazioni più elaborate sulla fenomeno4  Sull’arte

minimalista cfr. anche Wollheim (1965). Menezes riferisce che Neto ha descritto la mostra di cui faceva parte l’opera come «un organismo vivente del quale si può sentire anche il battito cardiaco» (Menezes e Neto 2010, online). 5  Caroline

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logia della scultura pubblicate da Susanne Langer (1953), che analizzerò nel resto di questo paragrafo6. Langer sostiene che, quando facciamo esperienza di una scultura, esperiamo lo spazio intorno alla scultura come se fosse organizzato intorno ai possibili movimenti dell’oggetto scolpito – analogamente a come, quando percepiamo lo spazio tridimensionale, lo esperiamo come se fosse organizzato attorno ai nostri possibili movimenti al suo interno (Langer 1953, pp. 86-92; cfr. anche Hopkins 2003, pp. 281-282)7. Secondo Langer, mentre nella percezione standard dello spazio tridimensionale «lo spazio cinetico dei volumi tangibili, ossia delle cose, e lo spazio libero fra queste sono organizzati, nell’esperienza di ciascun soggetto, come il suo ambiente, ossia come uno spazio rispetto al quale il soggetto si trova al centro» (Langer 1953, p. 90), quando percepiamo una scultura in quanto scultura – e non come mero oggetto – immaginiamo che l’oggetto scolpito si possa muovere in particolari modi nello spazio che lo circonda, a seconda di come è stato scolpito: «Una scultura è un centro nello spazio tridimensionale. È un volume cinetico virtuale, che domina lo spazio che lo circonda, il quale deriva dalla scultura tutte le proporzioni e relazioni, come l’ambiente reale fa a partire dal soggetto che lo esperisce» (ivi, p. 91). Secondo la lettura di Langer avanzata da Robert Hopkins, l’esperienza della scultura non è illusoria, ma è un’esperienza in cui la nostra percezione dello spazio tridimensionale è strutturata attraverso pensieri che riguardano il modo in cui immaginiamo che l’oggetto scolpito potrebbe muoversi in tale spazio (Hopkins 2003, p. 282; cfr. anche pp. 275-276)8. Hopkins traccia un’analogia fra la proposta di Langer per la scultura e quanto sostenuto da Richard Wollheim (1980; 1987) per le 6  Langer fu ispirata parzialmente da Problems of the Sculptor (1943) di Bruno Adriani (cfr. Langer 1953, pp. 90-92); il valore esplicativo della proposta di Langer è stato illustrato da Hopkins (2003) e Irvin (2020a). 7  Per una diversa messa a fuoco dello spazio attorno alla scultura cfr. Martin (1978). 8  Langer sostiene che la sua proposta riguarda sia le sculture figurative che quelle astratte (Langer 1953, p. 89; cfr. anche Hopkins 2003, pp. 286-287).

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immagini figurative bidimensionali: secondo Wollheim, quando vediamo un dipinto, per esempio, nonostante di fronte a noi vi siano solo insiemi di colori apposti tramite pennellate su una superficie, ciò che vediamo sono gli oggetti rappresentati tramite tali configurazioni di colori – oggetti che vediamo nella superficie pittorica, consapevoli che quella che abbiamo di fronte è un’immagine. La nostra percezione della superficie pittorica è strutturata attraverso pensieri che riguardano gli oggetti raffigurati, in base a come questi sono raffigurati, ossia all’aspetto che le configurazioni di colori assumono sulla superficie pittorica. Tornando alla distinzione fra scultura e installation art, la mia proposta è che basandoci sulle osservazioni di Krauss e sulla lettura che Hopkins dà di Langer possiamo distinguere l’esperienza della prima da quella della seconda come segue: mentre l’esperienza della scultura ci spinge a immaginare i possibili movimenti dell’oggetto scolpito all’interno dello spazio che la circonda, l’installation art non ci richiede d’immaginare questo genere di cose mentre la esperiamo9. Osservare Apollo e Dafne, dunque, ci spinge a immaginare, per esempio, che il braccio destro di Dafne potrebbe sollevarsi oltre la sua testa, slanciandosi ancora più verso l’alto come il ramo d’alloro in cui è in procinto di trasformarsi, mentre Horizonmembranenave non ci spinge a immaginare come potrebbe muoversi nello spazio il padiglione creato da Neto10.

9  Le opere d’installation art possono incorporare sculture al loro interno – come avviene per esempio in Musée d’Art Moderne, Département des Aigles, Section des Figures (1972) di Marcel Broodthaers, che presenta, insieme a molti altri oggetti raffiguranti aquile, alcune piccole sculture di aquile – ma non sono presentate per essere esperite nella loro interezza come sculture. Per un’analisi dell’opera di Broodthaers cfr. cap. 2, § 2. 10  Per alcune considerazioni sulla distinzione fra installation art e scultura cfr. anche Ring Petersen (2015, pp. 59-66; 106-107 e cap. 5).

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2. Architettura e installation art a confronto La letteratura più recente concorda con Fried e Krauss sul fatto che le opere d’installation art sono strutturate attorno al pubblico, che è invitato a esplorarne gli spazi e a esaminare gli oggetti eventualmente posti al loro interno (cfr. per es. De Oliveira et al. 1993; 1994; 2004; Kabakov 1995; Reiss 1999; Rebentisch 2003; Rosenthal 2003; Bishop 2005; Ferriani e Pugliese 2009; Scholte e Wharton 2011; Ran 2012; Ring Petersen 2015; Tavani 2019). Pensiamo nuovamente a Horizonmembranenave di Neto: l’installazione presenta un padiglione di forma pressappoco circolare, dotato di un’apertura attraverso la quale il pubblico può entrare e percorrere le gallerie al suo interno. Il materiale principale della struttura è un tessuto elastico semitrasparente in colori intensi (verde acido, giallo, rosso), che talvolta si sovrappongono alla vista. Il pavimento della galleria è anch’esso ricoperto di tessuto elastico – al pubblico è richiesto di togliersi le scarpe. All’esterno il padiglione presenta delle protuberanze, simili alle terminazioni degli assoni in una cellula neuronale, in corrispondenza delle quali, all’interno, vi sono dei fori attraverso cui si può guardare fuori. Nell’aria è diffuso profumo di lavanda e camomilla. Consideriamo anche un’altra opera d’installation art: The Obliteration Room di Yayoi Kusama, installata per la prima volta nel 2002 alla Queensland Art Gallery di Brisbane, in Australia11. In questo caso ci troviamo di fronte a un appartamento ammobiliato e, all’inizio della mostra, completamente bianco: questo vale tanto per le pareti, il soffitto e il pavimento delle sue stanze quanto per gli oggetti di arredamento e decorazione al loro interno. L’esperienza dell’opera consiste nel visitare l’appartamento dotati di un certo numero di adesivi coloratissimi, simili a dei pois, che si è liberi di attaccare ovunque al suo interno, obliterando il candido aspetto iniziale delle stanze. Di conseguenza, con il trascorrere del 11  Per un’immagine si veda www.tate.org.uk/art/artists/yayoi-kusama-8094/yayoikusamas-obliteration-room (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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tempo della mostra l’appartamento diventa sempre più colorato, sino a evocare l’aspetto di un dipinto puntinista. Ora, è evidente che non solo le opere d’installation art sono opportunamente esperite dall’interno dei loro spazi, ma che lo sono anche le opere architettoniche. E infatti la letteratura critico-artistica ha discusso il carattere simil-architettonico di opere d’installation art come alcuni mastodontici lavori in COR-TEN di Richard Serra (cfr. Kwon 2009). Vi sono poi opere generalmente catalogate come architettoniche e che sembrano difficilmente distinguibili da opere d’installation art: per esempio il Vietnam Veterans Memorial (1982) di Maya Lin a Washington, o le Folies (1982-1998) di Bernard Tschumi al Parc de la Villette di Parigi12. La prima è costituita da due muri di granito nero lucido, lunghi circa settantacinque metri l’uno, disposti in modo che due delle loro estremità formino un angolo ottuso. I muri sprofondano progressivamente all’interno del suolo, man mano che ci si avvicina al vertice dell’angolo. Sulle pareti interne sono incisi tutti i nomi dei caduti americani durante la guerra del Vietnam (1955-1975), con l’esclusione di quelli omessi su richiesta dei familiari delle vittime (cfr. Hagopian 2011, p. 474). È possibile visitare il monumento camminando lungo le pareti interne: l’intero percorso comporta un’inziale discesa sino al vertice e poi una progressiva risalita. Le Folies di Tschumi sono invece delle strutture metalliche di colore rosso brillante sparse all’interno del Parc de la Villette: queste invitano il pubblico a entrare al loro interno ed esplorarle, di solito salendo delle scale, come avviene per qualsiasi edificio a più piani, ma articolano lo spazio in maniera insolita e non funzionale. Numerose Folies, infatti, non sono legate a nessuna particolare funzione – solo alcune, di recente, sono state trasformate in ristoranti e uffici d’informazione per i visitatori del parco. Possiamo distinguere l’esperienza delle opere d’installation art da quella delle opere architettoniche? L’ipotesi che esplo12  Per

alcune immagini si vedano www.en.wikipedia.org/wiki/Vietnam_Veterans_ Memorial (ultimo accesso 5 giugno 2020) e www.tschumi.com/projects/3/# (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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rerò nei §§ 3 e 4 è che rispondere positivamente a questa domanda è possibile se si comprende correttamente il carattere interattivo delle opere d’installation art, che le opere architettoniche, generalmente, non condividono. 3. Il carattere interattivo delle opere d’installation art Torniamo a Horizonmembranenave e The Obliteration Room. Tutte e due le opere propongono ai visitatori di svolgere delle azioni. Nel primo caso, si tratta semplicemente di camminare all’esterno del padiglione, entrare al suo interno, percepire i suoi colori e odori, toccarne le superfici e infilare la testa o le braccia nelle protuberanze quando si è dentro alle gallerie. Nel secondo caso, non si tratta solo di esplorare gli spazi dell’opera attraverso diverse modalità sensoriali, ma anche di attaccare gli adesivi ovunque vogliamo. La tesi che voglio difendere è che in entrambi i casi ci troviamo di fronte a opere che soddisfano una particolare definizione di interattività, proposta da Berys Gaut (2010), e che lo stesso si può dire di tutte le opere d’installation art. Come l’importanza dello spazio in quanto esplorato dal pubblico nell’installation art e l’eterogeneità dei materiali che questa impiega, così anche il carattere interattivo di questa pratica artistica è stato ampiamento sottolineato nella letteratura (cfr. per es. i contributi storici e teorici di De Oliveira et al. 1993; 1994; 2004; Reiss 1999; Kabakov et al. 1999; Rebentisch 2003; Rosenthal 2003; Bishop 2005; Ferriani e Pugliese 2009; Scholte e Wharton 2011; Ran 2012; Ring Petersen 2015; Tavani 2019; Wilder 2020 – quest’ultimo, in particolare, esplora il tema dell’interattività nell’installation art dal punto di vista dell’estetica della ricezione). Come vedremo, l’originalità della mia proposta sta, primo, nel sostenere che è questo carattere a distinguere l’esperienza dell’installation art da quella dell’architettura, secondo, nel proporre un’ontologia dell’installation art che tiene conto della sua interattività, terzo, nel mostrare che l’esperienza interattiva è parte del profilo me-

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diale dell’installation art (svilupperò quest’ultimo punto nel § 7). Vediamo ora gli argomenti di Gaut sull’interattività. Secondo Gaut, un’opera è interattiva solo nel caso in cui autorizza che le azioni del suo pubblico determinino parzialmente le sue istanziazioni e le proprietà di queste. Le opere musicali tradizionali e altre opere performative, dunque, non sono interattive, perché non autorizzano il pubblico a determinare le loro istanziazioni e le proprietà di queste – il che è invece compito degli esecutori di tali opere (Gaut 2010, p. 143)13.

Un esempio di opera interattiva considerata da Gaut sono i lavori del Teatro dell’Oppresso di Augusto Boal – pièce durante le quali i membri del pubblico sono invitati a salire sul palcoscenico, con la conseguenza che costoro determinano, in parte, le proprietà delle istanziazioni delle opere (le varie messe in scena di ciascuna pièce). Altri buoni esempi di opere interattive sono, come sosterrò, le opere d’installation art. Gaut spiega che le opere interattive, dal punto di vista ontologico, sono dei tipi passibili d’istanziazioni multiple (ivi, p. 141)14. Ora, secondo Sherri Irvin (2013; 2020b) anche le opere d’installation art sono passibili d’istanziazioni multiple. In particolare, Irvin sostiene che le opere d’installation art sono individui non-fisici, con una storia (che dunque nascono, cambiano nel tempo e possono anche estinguersi, a differenza dei tipi astratti eterni e immutabili), i quali possono avere istanziazioni multiple15. Per esempio, ogni volta 13  Per una ricognizione del dibattito filosofico di area analitica sulla nozione d’interattività cfr. Smuts (2009) e per una teoria simile a quella di Gaut cfr. Lopes (2010). Sui vantaggi della posizione difesa da Gaut rispetto alle altre cfr. Kania (2018, pp. 188-189). Per la difesa della tesi che alcune pratiche interattive abbiano carattere artistico (per es. l’arrampicata, il gioco degli scacchi e alcuni rituali legati al cibo) cfr. Nguyen (2020). Per un’ampia teoria sulla rilevanza della dimensione performativa nell’estetica contemporanea cfr. Fischer-Lichte (2004). 14  Sulla relazione d’istanziazione cfr. Wetzel (2006, § 5). 15  Per gli argomenti di questo capitolo la differenza fra la proposta ontologica di Gaut e quella di Irvin non è rilevante. La teoria di Irvin è ispirata da Smith (2008) e Rohrbaugh (2003). Al momento della conclusione del mio lavoro il volume di Irvin (2020b) è ancora in corso di stampa; per questa ragione in quanto segue, rifacendomi al manoscritto del volume, non riporto i numeri di pagina a fianco alle menzioni e alle citazioni.

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che The Obliteration Room è installata in una nuova mostra abbiamo una nuova istanziazione dell’opera, secondo Irvin. Gaut, poi, sostiene che non tutte le azioni del pubblico di un’opera interattiva contribuiscono a produrre istanziazioni dell’opera, ma solo quelle azioni che sono state esplicitamente autorizzate dall’artista (Gaut 2010, p. 141). Se il pubblico di una pièce del Teatro dell’Oppresso abbandona il luogo in cui si tiene la rappresentazione, questo gesto non contribuisce a costituire un’istanziazione dell’opera. Se invece il pubblico accetta di svolgere il tipo di azioni autorizzate dall’artista, interagendo con gli attori, allora contribuisce a costituire un’istanziazione dell’opera. Analogamente, secondo Irvin, varie opere d’arte contemporanea (fra cui anche opere d’installation art) sono governate da delle regole per la partecipazione del pubblico, che autorizzano il pubblico a svolgere determinati tipi di azioni all’interno dello spazio dell’opera (Irvin 2020b; su questo punto tornerò più approfonditamente nel § 6). Nel caso di Horizonmembranenave, per esempio, siamo autorizzati a percorrere le gallerie, ma non a stracciare il leggero tessuto che le forma. L’ultimo punto, cruciale, della proposta di Gaut riguarda il fatto che le opere interattive sono considerate «tipi di cui le loro instanziazioni-tramite-interazione sono token» (Gaut 2010, p. 141): come abbiamo visto, il pubblico contribuisce a produrre le istanziazioni delle opere interattive svolgendo le azioni autorizzate dagli artisti. Sostenere che lo stesso valga per le opere d’installation art, come vedremo, non è immediato, e richiede delle modifiche alla proposta di Irvin, che non si concentra specificamente sul carattere interattivo dell’installation art (cfr. Irvin 2013 e 2020b). Irvin, infatti, considera soprattutto il ruolo svolto dalle istituzioni artistiche nella produzione delle istanziazioni delle opere d’installation art, analizzando attraverso vari esempi l’operato dei team di curatori e installatori (Irvin 2020b; su questo tema cfr. anche Ferriani e Pugliese 2009 e van Saaze 2015). Come ho detto sopra, Irvin sostiene che alcune opere d’arte contemporanea, fra cui opere d’installation art, sono individui storici non-fi-

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sici e, più specificamente, che questi individui dipendono ontologicamente da dei particolari, che rappresentano le regole sancite dagli artisti per la costituzione delle loro istanziazioni (Irvin 2020b)16. Per esempio, The Obliteration Room è un individuo storico (nato nel 2002, con la ideazione e prima esibizione dell’opera), non-fisico (dal momento che continua ad esistere anche quando non vi è alcuna sua installazione in atto) e che dipende da quei particolari che sono i documenti in cui sono iscritte le regole per la sua installazione (documenti solitamente trasmessi dagli artisti ai team di curatori e installatori delle istituzioni artistiche in occasione della realizzazione di mostre delle loro opere). Irvin riconosce che alcune di queste regole riguardano le azioni che il pubblico è invitato o tenuto a svolgere per esperire l’opera (cfr. Irvin 2020b), ma non discute esplicitamente l’ipotesi che il pubblico partecipi alla realizzazione delle istanziazioni dell’opera. Un modo alternativo di vedere le cose è il seguente: mentre i team di curatori e installatori delle istituzioni artistiche producono istanziazioni parziali delle opere d’installation art ogni volta che ciascuna di queste opere è messa in mostra, il pubblico di tali opere ne completa le istanziazioni interagendo con esse nei modi stabiliti dagli artisti. Più precisamente, un’istanziazione è completata ogni volta che un membro del pubblico interagisce con un’istanziazione parziale nella maniera appropriata: di conseguenza, ogni istanziazione parziale può portare alla produzione di molteplici istanziazioni complete. Questa proposta chiarisce alcuni punti tralasciati da Irvin nella sua discussione delle regole per la partecipazione alle 16  Irvin (2020b) aggiunge che questi individui possono dipendere ontologicamente anche da altri tipi di oggetti, come per esempio particolari oggetti materiali, qualora le regole per la costituzione delle loro istanziazioni lo prevedano. Per esempio, le regole potrebbero prevedere che ciascuna istanziazione di una certa opera debba includere una particolare lampada da tavolo appartenuta alla madre dell’artista (e non una sua riproduzione). Di conseguenza, l’esistenza dell’opera (quale individuo non-fisico) dipenderebbe dall’esistenza della lampada: qualora la lampada andasse distrutta, anche l’opera cesserebbe di esistere. Inoltre, poiché la lampada è un oggetto particolare che deve essere presente nelle istanziazioni dell’opera, non vi possono essere più istanziazioni contemporanee di tale opera.

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opere d’arte contemporanee (incluse quelle d’installation art). Irvin (2020b) sostiene che le regole per la partecipazione possono far parte di ciò che apprezziamo quando apprezziamo una di queste opere, ma non esplicita che è in virtù del fatto che il pubblico segue le regole per la partecipazione svolgendo certe azioni che le istanziazioni parziali sono trasformate in istanziazioni complete. Irvin sostiene opportunamente che mentre alcune opere permettono certe forme d’interazione altre opere le richiedono (cfr. Irvin 2020b). La mia proposta consente di ammettere questa distinzione: per quanto riguarda le opere che permettono certe forme d’interazione, per collaborare alla produzione delle loro istanziazioni complete è sufficiente esperire le istanziazioni parziali dall’interno del loro spazio, mentre non è necessario svolgere le azioni più specifiche permesse dall’artista (che le istanziazioni debbano essere esperite dall’interno è una regola di base per l’interazione richiesta da tutte le opere d’installation art, come si evince per esempio dalle descrizioni di opere d’installation art reperibili in tutta la letteratura sul tema); per quanto riguarda le opere che richiedono, invece, certe forme d’interazione, per collaborare alla produzione delle loro istanziazioni complete è necessario e sufficiente compiere le azioni richieste. La mia proposta presenta, a prima vista, un problema. Se è evidente che il pubblico modifica le istanziazioni parziali di un’opera come The Obliteration Room attaccando gli adesivi in vari punti delle stanze inizialmente bianche, lo stesso non si può dire, per esempio, dei visitatori di Horizonmembranenave: questi ultimi non lasciano traccia del loro passaggio all’interno dello spazio dell’opera. Perché allora sostenere che contribuiscono a completarne le istanziazioni? Con le osservazioni che seguono avanzerò una risposta a questa domanda. La letteratura teorico-artistica sottolinea che, per dirla con Julie Reiss, nell’installation art i membri del pubblico sono «in qualche modo considerati integrali al completamento dell’opera» (Reiss 1999, p. xiii). Claire Bishop (2005) ha dedicato grande attenzione a questo tema, sostenendo che tutte le opere

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d’installation art portano avanti degli esperimenti con le esperienze del loro pubblico. Benché sia vero che attraverso tutti i generi di opere d’arte, in un certo senso, gli artisti conducono esperimenti che hanno come oggetto le esperienze del pubblico, la lezione che possiamo apprendere dalla tesi di Bishop è più specifica: nelle opere d’installation art gli artisti usano le esperienze del pubblico come materiale per il proprio lavoro, manipolandole in modo da spingere il pubblico a notarne alcune qualità, analogamente a come uno scultore, per esempio, può sperimentare con un materiale come il marmo per spingere il pubblico a notarne alcune qualità (per esempio, le proprietà espressive che emergono scolpendo in un certo modo un certo pezzo di marmo screziato). Quando esperiamo una scultura di marmo, il fatto che abbiamo una certa esperienza visiva è puramente strumentale al nostro essere in grado di concentrarci su come l’artista ha manipolato il marmo a fini, per esempio, espressivi; quando esperiamo un’opera d’installation art, invece, ci concentriamo, fra le altre cose, sul fatto stesso che proviamo un’esperienza con certe proprietà quando ci troviamo all’interno dello spazio dell’opera e seguiamo le regole per l’interazione prescritte dall’artista. La nostra esperienza di un’istanziazione parziale dell’opera, dunque, non è meramente strumentale all’incontrarla, ma è parte delle cose su cui dobbiamo soffermarci se vogliamo notare gli aspetti rilevanti dell’opera17. È per questa ragione che è opportuno sostenere che le esperienze del pubblico contribuiscono a completare le istanziazioni delle opere d’installation art, anche se non sempre causano effetti permanenti e pubblicamente osservabili. La mia proposta è in linea con quella di Irvin dal punto di vista metafisico. Irvin (2020b) sostiene che le istanziazioni di molte opere d’arte contemporanea (fra cui quelle d’installation art) sono eventi pubblici durante i quali il pubblico fa esperienza di certi oggetti. Io propongo una modifica di questa teoria, per quanto riguarda le opere d’installation art: 17  Per un argomento simile a proposito di altre attività che possono forse qualificarsi come forme d’arte cfr. Nguyen (2020, pp. 19-20).

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le istanziazioni parziali di tali opere sono eventi pubblici durante i quali il pubblico fa esperienza degli ambienti installati dai team curatoriali, mentre ciascuna istanziazione completa è un evento privato in cui un membro del pubblico percepisce lo spazio dell’installazione dall’interno e, attraverso le sue percezioni e azioni (conformi a quanto prescritto dal creatore dell’opera), realizza un’esperienza con particolari proprietà. È importante notare che tale evento privato non lo è essenzialmente: esso può essere descritto ad altri e confrontato con le esperienze di altri membri del pubblico. In particolare, la somiglianza e comparabilità fra le singole esperienze private è suggerita dall’osservazione che tutte sono il risultato del fatto che i membri del pubblico hanno seguito le stesse regole dettate dall’artista18. Torniamo alle opere di Neto e Kusama. Tanto le affermazioni di entrambi gli artisti quanto la letteratura critica confermano l’ipotesi che ho avanzato sinora: per notare gli aspetti rilevanti di entrambe le opere è necessario che ci soffermiamo non solo sugli ambienti ideati dagli artisti e installati dai team curatoriali, ma anche su alcune qualità delle esperienze che tali ambienti suscitano in noi. Descrivendo il ruolo degli spettatori in opere della serie delle Naves (le sue prime installazioni con materiali come la lycra, create negli anni ’90 e simili a Horizonmembranenave) Neto ha dichiarato: «gli spettatori sono presenti come agenti della situazione, che si muovono all’interno di zone di forza» (Arning e Neto 2000, p. 80) e, riferendosi alla mostra in cui fu installata Horizonmembranenave: «questa mostra vuole occupare lo spazio come se fosse un habitat. È per questo che c’è spazio per sedersi, stendersi, nuotare e, ancor di più, respirare» (Menezes e Neto 2010, online). Il critico Bill Arning, in una conversazione con Neto, 18  In breve, il pubblico che completa l’istanziazione dell’opera non si qualifica come creatore di questa, perché le sue azioni non sono libere, ma regolate dalle prescrizioni dell’artista (cfr. Tavani 2019, p. 140; Nguyen 2020, pp. 13-16; Irvin 2020b). Per i casi genuini di collaborazione fra pubblico e artisti per la creazione di un’opera cfr. Corsa (2020), Bacharach e Tollefsen (2010; 2015) e Hudson Hick (2014).

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ha poi descritto così opere che, come Horizonmembranenave, presentano delle protuberanze verso l’esterno, che il pubblico può esplorare (con la testa, con le braccia o con le dita) quando esperisce l’interno dell’opera: «Molte delle tue singole installazioni scultoree hanno orifizi nei quali il pubblico può inserire un dito o un braccio. Farlo, dà l’impressione di fare sesso» (Arning e Neto 2000, p. 80). Per quanto riguarda Kusama, l’artista ha dichiarato che da quando era molto giovane è stata vittima di allucinazioni, alcune delle quali avevano come oggetto dei pois (cfr. Turner 1999), e nel corso della sua carriera ha prodotto numerose opere attorno al tema dell’auto-obliterazione (per esempio Dots Obsession, 1998), nelle quali talvolta appare come performer, vestita interamente a pois, in ambienti interamente decorati allo stesso modo, all’interno dei quali si mimetizza. The Obliteration Room può allora essere descritta come un’opera che orchestra per il pubblico delle esperienze simili a quelle provate dall’artista durante le sue allucinazioni e le sue performance. Per apprezzare quest’opera è necessario soffermarci, fra le altre cose, sul fatto che stiamo esperendo un ambiente che presenta degli insoliti pois colorati e che le qualità visive della nostra esperienza ricordano quelle delle allucinazioni e delle opere di auto-obliterazione di Kusama. Per concludere, propongo di generalizzare per tutte le opere d’installation art quanto ho sostenuto a proposito delle opere di Neto e Kusama: la fenomenologia e ontologia dell’installation art, che ho proposto basandomi sulla descrizione di queste opere, danno sostegno all’ipotesi, centrale in tutta la letteratura sull’installation art, che l’interattività sia una proprietà di tutti i prodotti di questa pratica artistica19. 19  È

verosimile sostenere che in generale l’arte partecipativa (participatory art) sia contraddistinta dal tipo d’interattività che ho descritto qui. È possibile che l’installation art si qualifichi come un particolare tipo di arte partecipativa, ma qui non approfondirò la questione (per un mio contributo sull’arte partecipativa cfr. Caldarola 2019). Mi limito a sottolineare che l’apprezzamento del modo in cui l’artista ha articolato lo spazio non sembra rilevante per quelle opere d’arte partecipativa che mettono al centro esclusivamente le azioni dei partecipanti e dunque la temporalità

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4. Ancora su installation art e architettura Ora possiamo tornare al confronto fra installation art e architettura. Gli architetti costruiscono strutture che siamo invitati a esplorare dall’interno, muovendoci dentro i loro spazi, proprio come accade con le istanziazioni delle opere d’installation art. Come scrive Jenefer Robinson, «apprezzare un’opera di architettura è esperirla muovendosi attorno ad essa, usando tutti i propri sensi, inclusa la propriocezione – il senso del nostro corpo in quanto corpo in movimento che si orienta nello spazio» (Robinson 2012, p. 343; per considerazioni analoghe cfr. Böhme 2017, cap. 4 e Griffero 2020, cap. 9). Di solito, poi, sia le opere architettoniche che quelle d’installation art, benché non siano rappresentative, hanno un carattere narrativo: come nota Saul Fisher, «l’ideazione di percorsi di circolazione permette agli oggetti architettonici di comunicare sequenze di eventi attraverso il movimento dei visitatori o degli occupanti» (Fisher 2015, online), e simili osservazioni valgono per le opere d’installation art20. L’esplorazione di Horizonmembranenave, per esempio, avviene attraverso una sequenza di eventi di progressivo avvicinamento alla struttura dell’opera: prima si osserva il padiglione dall’esterno, camminando attorno al suo perimetro, poi si entra all’interno delle gallerie e infine ci si può accostare a uno dei fori praticati in corrispondenza delle protuberanze esterne, tornando a guardare verso l’esterno. Un esempio di architetpiù che la spazialità. Suppongo che la centralità dello spazio per l’apprezzamento delle opere distingua l’installation art dalle altre forme di arte partecipativa (sul ruolo dello spazio v. § 7). La letteratura sull’arte partecipativa è molto ampia; mi limito a menzionare i seguenti riferimenti basilari: Debord (1958); Kaprow (1961); Bourriaud (2002); Rancière (2000); Fischer-Lichte (2004); Bishop (2012); Ring Petersen (2015, cap. 3 e 4); Bianchini e Verhagen (2016); Simoniti (2018). Secondo la prospettiva atmosferologica, poi, semplificando molto, l’attenzione alle atmosfere che emergono attraverso l’interazione di un soggetto con l’ambiente è cruciale per la comprensione dell’esperienza estetica in generale (cfr. per es. Griffero 2010; 2020 e Böhme 2017). Per una proposta che collega teorie delle atmosfere e installation art cfr. Tavani (2018). 20  Sul carattere non-rappresentativo dell’architettura cfr. per es. Langer (1953, pp. 92-103) e Scruton (1979, cap. 8).

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tura con carattere narrativo, invece, è quella dello Jüdisches Museum di Berlino (aperto nel 2001), che presenta parti ristrutturate e altre costruite da Daniel Liebskind21. L’area costruita da Liebskind presenta tre lunghi corridoi che simbolizzano tre diverse fasi della vita degli ebrei in Germania: l’esilio, l’Olocausto e la continuità. Percorrendo “l’asse dell’esilio” si giunge a uno spazio all’aperto popolato di pilastri di cemento e alcuni cespugli di ulivo, mentre percorrendo quello dell’Olocausto si giunge a una torre buia; “l’asse della continuità”, invece, sfocia in una scala ripida. Spesso, inoltre, sia le opere architettoniche che quelle d’installation art sono oggetto di esperienze multisensoriali. Un’esperienza dell’architettura dello Jüdisches Museum non è completa se, per esempio, non proviamo freddo all’interno della torre buia, così come un’esperienza di Horizonmembranenave non è completa se non prestiamo attenzione all’odore di lavanda e camomilla che permea l’ambiente. Infine, è anche possibile sostenere che le opere architettoniche e quelle d’installation art sono analoghe dal punto di vista ontologico, perché possono entrambe essere concepite come oggetti immateriali passibili di istanziazioni materiali22. Si può sostenere, ad esempio, che l’Unità d’abitazione di Le Corbusier è un’opera istanziata da edifici a Marsiglia e a Berlino, fra gli altri. Date tutte queste somiglianze, è davvero opportuno tracciare una distinzione fra architettura e installation art? Ritengo che lo sia per questa ragione: mentre l’installation art è interattiva nel senso delineato da Gaut (2010), ossia in quanto istanziata dalle esperienze del pubblico, l’architettura, tipicamente, non lo è. Come sottolinea Robinson (2012, p. 343), attraverso l’esperienza delle opere architettoniche dall’interno apprezziamo le affordance degli edifici (cfr. Gibson 1986), 21  Per alcune immagini si veda www.jmberlin.de/libeskind-bau (ultimo accesso 5 giugno 2020). 22  Per un’introduzione a diverse proposte sull’ontologia dell’architettura cfr. Fisher (2015).

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che sono proprietà relazionali degli oggetti, e non meramente proprietà delle nostre esperienze degli oggetti. Apprezzare un’architettura richiede di percepire dall’interno i suoi spazi e percepire il proprio corpo in quanto impegnato a esplorarne gli ambienti con tutti i sensi – percepirne l’atmosfera, come sostengono Böhme (2017, cap. 4) e Griffero (2020, cap. 9) – ma quest’esperienza è finalizzata a concentrarsi su quelle proprietà di un edificio che permettono a esso di generarla in chi lo esplora dall’interno. Apprezzare un’opera d’installation art, invece, richiede di soffermarsi non solo sulle proprietà dello spazio che possiamo afferrare grazie all’esperienza che ne facciamo dall’interno, ma anche su proprietà delle esperienze che proviamo nell’ambito di tale spazio. Nell’installation art, a differenza che nell’architettura, gli artisti manipolano le esperienze del pubblico attraverso gli spazi che creano e attraverso le azioni che prescrivono al pubblico di compiere al fine di canalizzare l’attenzione del pubblico su aspetti delle proprie esperienze (tornerò più approfonditamente su questo argomento nel § 7). La differenza fra installation art e architettura è facile da notare nel caso di opere come The Obliteration Room: questa presenterebbe un ambiente completamente bianco, se il pubblico non agisse obliterandolo con i pois colorati. Le nostre esperienze di The Obliteration Room come ambiente colorato dipendono dunque dalle nostre azioni sull’ambiente e non solo dalle sue affordance. Nel caso di opere come Horizonmembranenave, però, la differenza non è altrettanto evidente. Tuttavia, che siano le nostre azioni a contare per la realizzazione delle istanziazioni dell’opera, e non solo la realizzazione di un ambiente con certe affordance, si evince dal fatto che Neto dichiara, come abbiamo visto sopra, che il pubblico per lui è un attore in una situazione e che le sue opere lasciano spazio per compiere una serie di azioni: le azioni del pubblico che gli ambienti dell’installazione occasionano sono la ragion d’essere di tali ambienti e apprezzare l’opera richiede, fra le altre cose, di soffermarsi sulle qualità delle espe-

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rienze che proviamo come conseguenza del compiere le azioni prescritte. La distinzione fra installation art e architettura, infine, è confermata dalle teorie tradizionali dell’architettura, secondo le quali un’istanziazione di un’opera architettonica (per chi ritiene quest’ultima un oggetto astratto) o l’opera stessa (per chi la ritiene un oggetto concreto) sono completate al momento in cui si conclude la costruzione di un edificio e non sono invece completate dalle azioni di chi occupa gli edifici (cfr. per es. Langer 1953; Scruton 1979). Per concludere, che dire di casi come il Vietnam Veterans Memorial e le Foliès? A mio parere, queste opere hanno una natura ibrida: sono tali per cui esperirle adeguatamente significa esperirle come intersezioni fra architettura e installation art (sull’arte ibrida cfr. Levinson 1984). Come ha sostenuto Kendall Walton (1970), solitamente un’opera presenta un certo numero di proprietà standard per una categoria artistica e insolite per un’altra e questo fa sì che la percepiamo naturalmente come appartenente alla prima categoria e non alla seconda – per esempio, una composizione suonata da un quartetto è percepita naturalmente come opera musicale e non come opera teatrale. Ciò non toglie, però, che sia possibile creare opere che presentano tanto le proprietà di una categoria quanto quelle di un’altra – come l’opera lirica. Alcune Foliès sono abitabili, in linea di principio, tanto che sono usate come uffici e ristoranti – questo le differenzia dalle tipiche opere d’installation art e le avvicina all’architettura. Tuttavia, le Foliès sono pensate soprattutto per essere vissute dal pubblico come motori per l’azione – proprio come le opere d’installation art. Il Vietnam Veterans Memorial è una struttura che, in quanto architettura, ospita chi vuole commemorare i caduti della guerra del Vietnam, di cui riporta i nomi. Il monumento è però anche uno spazio organizzato in modo da generare un’esperienza di discesa e risalita in chi lo visita, che può evocare una penosa discesa agli inferi e un faticoso recupero. Esperirlo come opera d’installation art, ossia in maniera autoriflessiva, prestando attenzione alla qualità

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dell’esperienza che proviamo camminando nei suoi spazi, più che alle affordance della struttura che ci permettono di avere tale esperienza, permette di celebrare una sorta di rituale. 5. Un’arte post-mediale? Nel § 3 ho sostenuto che le istanziazioni complete delle opere d’installation art sono un particolare tipo di eventi: eventi privati (ma comunicabili) in cui un soggetto esperisce un ambiente creato da un artista, secondo le regole per la partecipazione stabilite dall’artista, e in ragione di ciò prova un’esperienza con particolari proprietà. Possiamo dire qualcosa di più preciso su che cosa ciascun soggetto esperisce durante la durata di un’istanziazione? Le istanziazioni parziali delle opere d’installation art sembrano essere eventi durante i quali possono essere messe in mostra le cose più disparate. Alla categoria installation art, infatti, la letteratura ascrive opere che vanno dagli happening organizzati da Allan Kaprow negli anni ’60 – come Yard (1961), che presenta una stanza con il pavimento ricoperto di gomme d’auto fra le quali il pubblico è invitato a saltellare e giocare come se si trovasse in un cortile (yard, in inglese) dove sono ammassati vecchi oggetti – alle rarefatte installazioni luminose di artisti californiani come Robert Irwin e James Turrell, che solitamente presentano ambienti vuoti, illuminati con luci fluorescenti. Installation art sono anche le complesse e coloratissime installazioni di Ernesto Neto e di Yayoi Kusama descritte sopra, alcune austere strutture in COR-TEN di Richard Serra e installazioni sonore come Down the River (2016) di Andrea Fraser, in cui una registrazione audio effettuata nel carcere di Sing Sing è stata diffusa in una stanza altrimenti vuota del Whitney Museum of American Art di New York. Installation art sono anche le installazioni basate su tecnologie multimediali come Loro (Them) di Krzysztof Wodiczcko (2019), nella quale attorno al pubblico si muovono

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alcuni droni antropomorfizzati tramite schermi che mostrano gli occhi di migranti, rifugiati politici e cittadini emarginati intervistati dall’artista, nonché tramite altoparlanti simili a nasi che diffondono le voci degli intervistati mentre questi raccontano le loro storie (per una ricognizione di opere chiave cfr. per es. Reiss 1999; Bishop 2005). Di primo acchito, allora, sembra avere poco senso chiedersi se gli oggetti messi in mostra nelle istanziazioni parziali delle diverse opere d’installation art abbiano qualcosa in comune. La ragione per cui questa è però una domanda importante è la seguente. Quando ci concentriamo sulle opere che appartengono a una certa forma d’arte (per esempio, la pittura) cercando di cogliere gli aspetti distintivi che esibiscono in quanto opere d’arte, (e non, per esempio, considerandole meramente in quanto beni di scambio con un certo valore economico o in quanto oggetti che rivestono per noi un valore affettivo), ci sono degli aspetti ai quali facciamo attenzione che sono gli stessi per tutte le opere che appartengono a quella forma d’arte (per esempio, nel caso della pittura figurativa, facciamo sempre attenzione alle figure dipinte su una superficie bidimensionale). Questi aspetti costituiscono il medium delle opere in quella particolare forma d’arte (nel caso della pittura figurativa, dunque, il medium sono fondamentalmente le figure dipinte su una superficie bidimensionale). Il medium, in particolare, non è meramente un supporto per l’opera (materiale o immateriale, come vedremo nel § 6), ma è uno strumento che l’artista ha manipolato per veicolare certi contenuti (per esempio raffigurativi) e rendere salienti certe proprietà dell’opera (per esempio proprietà espressive)23. Per esempio, nel caso della pittura, le figure dipinte su superfici bidimensionali sono i veicoli sia dei contenuti raffigurativi delle opere (nella Venere di Botticelli, semplificando, due figure femminili e due figure alate) che delle loro proprietà espressive (nella Venere di Botticelli, per esempio, la grazia delle figure). Se, quindi, 23  Per un’introduzione al concetto di medium cfr. Davies (2005a) e Lopes (2014, cap. 7 e 8).

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gli oggetti e gli eventi che esperiamo nelle istanziazioni delle opere d’installation art non hanno niente in comune, sembra che non possiamo sostenere che vi sia un medium dell’installation art, ossia un certo tipo di aspetti di cose, che veicolano contenuti o rendono salienti certe proprietà, ai quali facciamo attenzione ogni qual volta ci concentriamo su un’opera d’installation art in quanto opera d’arte. Dobbiamo allora concludere che le opere d’installation art non hanno un medium che le contraddistingue e che dunque quella d’installation art è una categoria diversa da quelle quali la scultura, la pittura ecc., che indicano forme d’arte individuate attraverso i loro specifici media? Gran parte della letteratura teorico-artistica sull’installation art risponde positivamente a questa domanda: è infatti diffusa l’abitudine di riferirsi col termine “arte post-mediale” alle opere d’installation art, così come ad opere di altro genere che popolano la produzione delle arti visive contemporanee, come quelle di arte concettuale. Il termine “post-mediale” è stato introdotto da Rosalind Krauss (1999a), che ha sostenuto che non ha più senso parlare di media in riferimento a forme artistiche, come l’installation art, che impiegano gli approcci e i materiali più disparati. Krauss ha più volte criticato questa svolta nei suoi scritti, sostenendo la tesi che «l’abbandono del medium specifico condanna a morte l’arte seria» (Krauss 2010, p. XIII; cfr. anche per es. 1999b). In breve, secondo Krauss la scelta di produrre opere che non aderiscono agli standard dettati dall’adozione di un particolare medium conduce a un caos espressivo in cui il pubblico è lasciato in balìa delle dichiarazioni degli autori sugli intenti delle loro opere e delle proprie reazioni alle opere, senza parametri per comprendere come le opere siano articolate per veicolare dei contenuti e rendere salienti certe proprietà. Il pensiero di Krauss sui media nell’arte contemporanea è però piuttosto articolato e presenta anche degli elementi che permettono di ripensare questo concetto, anziché accantonarlo. Nel § 6 introdurrò brevemente alcune ulteriori considera-

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zioni di Krauss sui media e alcune recenti proposte emerse nel dibattito filosofico, e vicine alle sue idee, che permettono di delineare una concezione dei media alternativa a quella tradizionale. Nel § 7 applicherò la nuova concezione all’installation art. 6. Ripensare il medium Le riflessioni di Krauss sul medium si sono evolute nel tempo. In Perpetual Inventory (2010), infatti, Krauss propone di ripensare, più che accantonare, questo concetto, guidati dall’operato di artisti contemporanei – per esempio Ed Ruscha, William Kentridge e Peter Campus – che, a suo giudizio, sperimentano con i media, anziché disfarsene producendo opere del tutto idiosincratiche24. La tesi di Krauss sul medium è affine a quella di Dominic Lopes (2004, p. 110; 2014, cap. 7), come egli stesso sottolinea (Lopes 2014, pp. 138-139): in quanto segue, esporrò brevemente il nucleo comune alle due proposte. Secondo Krauss e Lopes, la concezione tradizionale di medium come supporto materiale specifico di una certa forma d’arte (come la pietra per la scultura in pietra) andrebbe sostituita dalla concezione di medium come qualsiasi risorsa manipolata in qualche modo, per veicolare dei contenuti e rendere salienti certe proprietà. Una risorsa, dunque, può essere sia materiale (come nel caso della pietra per la scultura in pietra), che un evento (come nel caso delle melodie per la musica) che una risorsa simbolica (come nel caso del linguaggio per la letteratura), dal momento che tutte queste cose si possono manipolare in qualche modo, attraverso qualche specifica tecnica, per veicolare dei contenuti e rendere salienti certe proprietà. Per esempio, si può adoperare la tecnica della percussione per scolpire la pietra, producendo delle figure, il contrappunto per comporre una melodia con certe proprietà espressive, e l’en24  Per altri teorici dell’arte che hanno proposto una rivalutazione del concetto di medium cfr. Mitchell (2005) e Smith (2006).

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decasillabo per strutturare metricamente il linguaggio. Infine, almeno in alcuni casi, è possibile applicare una stessa tecnica a risorse diverse: si può per esempio scolpire percuotendo la pietra, ma anche il legno o la cera. L’idea che una stessa tecnica si possa applicare a risorse di genere anche molto diverso tra loro è cruciale per comprendere che cosa avviene in alcune opere d’arte contemporanea. Per esempio, Krauss sostiene che in dor (1974), un’opera di Peter Campus, la risorsa materiale, costituita da una registrazione video, un muro e un proiettore, è trattata con tecniche tipiche della pittura (Krauss 2010, pp. 14-16)25. La videocamera, il proiettore e il muro (nel quale è installata la porta della stanza) formano un triangolo. Quando l’osservatore è nella stanza, ma al di fuori del triangolo, vede solo il muro illuminato nella stanza altrimenti buia. Quando l’osservatore è all’interno del triangolo, vede la propria immagine ripresa dalla videocamera e proiettata sul muro. È importante notare che la videocamera è posizionata in modo tale che è soltanto quando l’osservatore è molto vicino alla porta della stanza (e quindi al muro di proiezione) che la sua immagine può essere proiettata sul muro. Di conseguenza, quando l’osservatore vede l’immagine può notare sia il fatto che la proiezione della sua figura sul muro costituisce un’immagine figurativa, che rappresenta su due dimensioni lo spazio tridimensionale, sia il fatto che il suo corpo è quasi schiacciato contro il muro, che costituisce il supporto materiale dell’immagine. In questo modo, l’osservatore è spinto a soffermarsi sul fatto che il muro può essere visto tanto come mero supporto materiale dell’immagine quanto come sfondo appartenente alla dimensione figurativa, dimensione nella quale rappresenta lo spazio in cui si muove la figura proiettata. Questa duplice funzione del muro, analizzata da molti teorici della pittura, è centrale per comprendere il fenomeno della rappresentazione figurativa su superfici bidimensionali (cfr. per es. Gombrich 1960; Wollheim 1987). Per questo motivo Krauss conclude 25  Per un’immagine si veda www.sfmoma.org/artwork/93.76 (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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che risorse non tradizionalmente pittoriche sono trattate da Campus con una tecnica che è tipicamente pittorica (quella dell’utilizzo di una superficie bidimensionale per raffigurare uno spazio altro da quello della superficie stessa), il che ci permette di categorizzare dor come opera affine a quelle pittoriche, dal punto di vista mediale. Lopes (2014, p. 194) estende così la proposta di Krauss: molte opere non hanno solo un medium, ma hanno un profilo mediale che è la risultante della combinazione di diversi media, intesi come risorse di qualsiasi tipo manipolate attraverso qualche tecnica per veicolare dei contenuti o rendere salienti delle proprietà. Questo è vero sia per l’arte contemporanea più sperimentale che per l’arte tradizionale, sottolinea Lopes: basti pensare alla molteplicità di media impiegati nell’opera lirica o nei manoscritti miniati. Come nota Gemma Argüello (2020, pp. 336-337), un’altra interessante, e meno recente, tesi di Krauss è che se il concetto tradizionale di medium non si applica a molte opere d’arte contemporanea, ad alcune fra queste si può applicare però il concetto di «struttura ricorsiva» (Krauss 1999a, pp. 6-7), definita come una struttura tale per cui alcuni dei suoi elementi producono le regole che generano la struttura stessa26. Krauss sostiene che i migliori artisti contemporanei hanno saputo riarticolare i media tradizionali producendo opere che funzionano come strutture ricorsive (ivi, p. 56). Per esempio, William Kentridge ha creato numerose opere filmando disegni appesi alla parete che modifica progressivamente, fra una ripresa e l’altra, facendo in modo che le modifiche e le cancellature siano registrate dalla videocamera27. Questa tecnica, come spiega Krauss (2000, pp. 108-113), permette a Kentridge di scoprire analogie contenutistiche e formali fra le diverse immagini che produce a 26  La

proposta di Krauss è ispirata dalle riflessioni di Stanley Cavell sul concetto di “automatismo” nell’arte (cfr. Krauss 1999a, pp. 5-6; Cavell 1971, pp. 101-108). 27  A questo indirizzo è accessibile una videointervista con immagini delle opere di Kentridge: www.sfmoma.org/watch/william-kentridge-transformation-with-animation/ (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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partire dal disegno iniziale – analogie che lo guidano nella costruzione della storia che racconta attraverso le immagini, attuata tramite la realizzazione di nuove modifiche e cancellature. In questo modo, secondo Krauss, Kentridge reinventa il medium del disegno animato28. Ciò che è importante sottolineare è che questa reinvenzione non è il frutto di una riflessione attuata dall’artista prima di mettersi al lavoro con i suoi disegni e la telecamera, ma bensì emerge dalle sperimentazioni stesse di Kentridge con queste risorse: l’artista si accorge dei legami contenutistici e formali esistenti fra alcune delle immagini prodotte e li sfrutta per portare avanti la storia che sta raccontando. Questo, dunque, è un esempio di struttura (il disegno animato che emerge attraverso progressive modifiche a partire da un’unica immagine iniziale), tale per cui alcuni dei suoi elementi (gli aspetti contenutistici e formali di alcune delle immagini prodotte fra i quali Kentridge nota delle analogie strada facendo) producono le regole che generano la struttura stessa (il filo narrativo della storia narrata tramite il disegno animato, che si regge in parte sulle analogie fra le immagini prodotte). L’idea di Krauss, secondo cui nuove regole, che permettono di reinventare i media tradizionali, sono prodotte tramite la sperimentazione con varie risorse e tecniche per la loro manipolazione, acquista ulteriore rilevanza, a mio giudizio, se avvicinata alle tesi recentemente avanzate da Sherri Irvin (2020b) sulla centralità delle regole per molte opere d’arte contemporanee, alle quali ho già accennato precedentemente. In breve, secondo Irvin, molte opere sono costituite (in parte o del tutto) da regole stabilite dagli artisti, o già consolidate all’interno della comunità alla quale appartengono gli artisti (per es. la comunità di chi produce dipinti nell’Europa degli anni ’40, o di chi produce opere d’installation art nel contesto globalizzato dell’arte del XXI secolo) e tali che abbiamo ragione di ritenere siano accettate da un particolare artista, se non vi sono elementi della sua opera che mani28  Reinventare

il medium è il titolo di un altro saggio di Krauss (1999b).

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festano la loro deliberata effrazione (cfr. anche Irvin 2005, pp. 321-322). Queste regole determinano le modalità con cui vanno prodotte le loro istanziazioni, come le opere e le loro istanziazioni vanno conservate e in che modo il pubblico può interagire con le istanziazioni. È solo se cogliamo il contenuto di tali regole che possiamo esperire le istanziazioni delle opere non come meri oggetti ma come opere d’arte, secondo Irvin. Se, dunque, Krauss offre una tesi su come le regole che governano l’arte contemporanea sono generate, Irvin mostra pienamente come queste guidano il nostro apprezzamento delle opere. Per esempio, Untitled (Portrait of Ross in L.A.) (1991) è un’opera di Felix Gonzalez-Torres governata da una regola di produzione dell’istanziazione che prevede che questa consista in una pila di caramelle dure avvolte in carta colorata, sparse sul pavimento in un angolo di una stanza di una struttura espositiva, e che il peso totale delle caramelle debba essere di circa ottanta kilogrammi – un peso verosimile per un uomo adulto (il Ross menzionato nel titolo è Ross Laycock – l’uomo, morto di AIDS, con cui l’artista aveva una relazione)29. Inoltre, una regola per l’interazione con l’installazione stabilisce che il pubblico possa mangiare le caramelle sparse sul pavimento, qualora lo desideri. Infine, una regola per la conservazione dell’istanziazione prevede che il cumulo di caramelle sia di tanto in tanto rimpinguato, a discrezione dell’istituzione che espone l’opera (cfr. Irvin 2020b). È grazie a queste regole, oltre che al titolo dell’opera, che possiamo vedere il cumulo come una rappresentazione metaforica del corpo di Ross Laycock (per questo è importante che il peso totale delle caramelle sia analogo a quello di un uomo e che resti più o meno lo stesso nel corso dell’esposizione) e il nostro gesto di mangiare le caramelle come un atto in cui metaforicamente ci cibiamo del corpo di questa persona – un gesto che non solo ha una connotazione eucaristica, ma contrasta anche con il fatto che probabilmente molti avrebbero trovato difficile persino 29  Per un’immagine si veda www.artic.edu/artworks/152961/untitled-portraitof-ross-in-l-a (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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toccare il corpo di Ross Laycock durante la sua malattia. Per riassumere, finora ho illustrato due tesi sul medium, fra loro compatibili, che mostrano come questo concetto sia ancora valido per comprendere l’arte contemporanea. La prima, avanzata da Lopes e Krauss (e sulla quale concorda anche Irvin 2020b), è che un medium è qualsiasi tipo di risorsa, materiale o immateriale, manipolata attraverso qualche tecnica, per veicolare contenuti o rendere salienti proprietà. La seconda, sostenuta da Krauss, è che i media tradizionali si possono reinventare attraverso l’elaborazione di nuove regole – le tipologie delle quali, a mio giudizio, sono state ben identificate, più recentemente, da Irvin. Come nota Lopes (2014, pp. 145-146), però, intendere i media come risorse materiali o immateriali manipolate attraverso qualche tecnica per veicolare dei contenuti o rendere salienti certe proprietà non è sufficiente a distinguere i media delle opere d’arte da quelli che non lo sono. Immaginiamo, per esempio, che qualche azienda abbia prodotto industrialmente un certo tipo di tazza da tè dotata di proprietà percettive dalle quali emergono proprietà estetiche come la delicatezza e la semplicità, per distribuirla in una catena di hotel. La tazza ha un medium e delle proprietà estetiche (la sua risorsa è la ceramica, la tecnica con cui la ceramica è stata trattata è la produzione industriale, e le proprietà rese salienti attraverso la ceramica così trattata sono quelle che permettono l’emergere di proprietà estetiche quali la delicatezza e la semplicità), tuttavia non la consideriamo un’opera d’arte. Immaginiamo, poi, di voler confrontare la tazza industriale con una tazza da tè in stile Bizen – una tecnica per la produzione di ceramica artistica che ha avuto origine nel Bizen, una regione del Giappone – dotata anch’essa di proprietà percettive dalle quali emergono proprietà estetiche come la delicatezza e la semplicità ma, a differenza della tazza industriale, usualmente considerata un’opera d’arte30. Perché dovremmo accettare che la tazza Bizen sia un’opera d’arte, mentre la taz30  Per alcune immagini si veda www.mcart.jp/exhibition/e3104/ (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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za industriale non lo è, visto che tutte e due sono prodotte grazie a una risorsa (la ceramica) manipolata attraverso certe tecniche (manuale e industriale, rispettivamente) e utilizzate per far emergere delle proprietà estetiche? Lopes sostiene che la soluzione del problema sta nel comprendere che il medium di un’opera d’arte è anche qualcosa che è al centro di una particolare pratica di apprezzamento (Lopes 2014, pp. 146-147). Una pratica di apprezzamento, per sintetizzare il più complesso argomento di Lopes (2014, pp. 129-148), è una pratica, diffusa all’interno di una certa comunità, che consiste nel concentrarsi su certi aspetti di oggetti (materiali o astratti) o eventi e apprezzare tali oggetti per il fatto che esibiscono tali aspetti. Per esempio, molti coltelli sono apprezzati da un’ampia comunità di soggetti per il fatto di essere taglienti. La pratica di apprezzamento dei coltelli come strumenti taglienti si concentra sulla proprietà “essere tagliente” di cui godono le lame di molti coltelli. Secondo Lopes, quello che distingue i media artistici da quelli non artistici è che solo i primi sono al centro di pratiche in cui apprezziamo degli oggetti in quanto trattati come media (Lopes 2014, cap. 8). Quello che un medium fa è veicolare dei contenuti e rendere salienti certe proprietà, come abbiamo visto. Apprezzare un oggetto in quanto trattato come un certo medium, dunque, è apprezzarlo per come veicola certi contenuti e rende salienti certe proprietà, indipendentemente dal fatto che l’oggetto serva anche altri scopi o meno. Apprezzare la tazza Bizen come arte, per esempio, significa apprezzarla in quanto veicola proprietà estetiche quali la delicatezza e la semplicità, indipendentemente dal fatto che la tazza Bizen sia anche utile a bere il tè. Secondo Lopes, quindi, possiamo spiegare così perché la tazza Bizen è arte mentre la tazza industriale non lo è: solo la prima si trova, nella comunità dei conoscitori della ceramica giapponese, al centro di una pratica di apprezzamento nella quale è apprezzata in quanto trattata come un certo medium. Mentre chi ha prodotto la tazza Bizen lo ha fatto all’interno di una comunità che apprezza come da queste tazze possano emergere

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proprietà estetiche quali la delicatezza e la semplicità – indipendentemente dal loro utilizzo – l’azienda che ha prodotto la tazza industrialmente ha progettato un oggetto per la grande distribuzione, per il quale non esiste una comunità che coltiva la pratica di apprezzare tale oggetto solo per il fatto che è trattato come un certo medium (né, per ipotesi, l’azienda che ha prodotto la tazza lo ha fatto con l’intenzione che questa aprisse la strada a una pratica di apprezzamento delle tazze industriali come arte – cosa che, ovviamente, è possibile fare). La tazza industriale costituisce una base da cui emergono proprietà estetiche quali la delicatezza e la semplicità e può essere apprezzata esteticamente, ma non è al centro di una pratica in cui è apprezzata come arte. Il suo medium, dunque, non è un medium artistico31. Per concludere, voglio tornare sulla posizione di Irvin sui media, per sottolinearne una peculiarità, ossia la tesi che anche certi insiemi di regole (per l’installazione dell’opera, l’interazione con essa e la sua conservazione) in alcuni casi possono costituire il medium (parziale o totale) di un’opera d’arte contemporanea (Irvin 2020b). Anche Irvin sostiene che un medium è costituito da un supporto (materiale o immateriale), manipolato attraverso certe pratiche e secondo certe convenzioni, per veicolare dei contenuti e rendere salienti certe proprietà, ma a questa visione dei media aggiunge anche la tesi che alcuni casi in cui il supporto è immateriale, perché linguistico, sono quelli in cui il medium dell’opera è (parzialmente) costituito dalle regole che la governano. Per esempio, le regole di Untitled (Portrait of Ross in L.A.) costituiscono in parte il medium dell’opera, secondo Irvin (2020b, cap. 6 e 7). Le ragioni a sostegno della tesi di Irvin si comprendono bene alla luce delle considerazioni di Lopes sull’apprezzamento delle opere d’arte in quanto opere realizzate in certi media. Le regole sono il risultato della manipolazione di una certa risorsa (il linguaggio), attraverso una certa tecnica (la produzione di 31  Come sottolinea Xhignesse (2016, p. 84), le pratiche di apprezzamento sono il frutto di convenzioni storicamente stratificate e sono soggette a variazioni.

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enunciati che prescrivono certe azioni per certi soggetti). Inoltre, le regole sono strumentali a veicolare certi contenuti intesi dall’artista: non solo le prescrizioni, ma anche i contenuti simbolici che associamo all’opera (il fatto che le caramelle siano una metafora del corpo di Ross Laycock e il fatto che cibarsi delle caramelle sia una metafora dell’entrare in comunione con un malato di AIDS – contenuti per veicolare i quali è fondamentale che siano rispettate la prescrizione di spargere sul pavimento circa 80 kg di caramelle e quella di permettere al pubblico di cibarsi delle caramelle). Apprezzare Untitled come opera d’arte, secondo Irvin, è, in parte, apprezzarla in quanto governata da regole in virtù delle quali l’opera è capace di veicolare questi contenuti. Ciò è possibile, per dirla con Lopes, perché vi è una comunità – il pubblico dell’arte contemporanea – all’interno della quale si sono ormai consolidate pratiche di apprezzamento delle regole in quanto media – un fatto che Irvin illustra con molteplici esempi (Irvin 2020b). 7. Il profilo mediale dell’installation art La proposta che avanzerò in questo paragrafo è che è possibile prendere le distanze dalla tesi di Krauss secondo cui le opere d’installation art non hanno un medium che le distingue e sostenere invece, sulla scorta della più accurata concezione dei media artistici che emerge dalle riflessioni della stessa Krauss, di Lopes e di Irvin, che le opere d’installation art hanno un medium, o meglio, un profilo mediale comune. Dalla discussione condotta nel paragrafo precedente si evince (1) che i media delle opere d’arte sono risorse, materiali o immateriali, manipolate attraverso certe tecniche, secondo certe convenzioni, nell’ambito di certe pratiche consolidate, al fine di veicolare dei contenuti e rendere salienti certe proprietà; (2) che i media artistici sono il fulcro d’interesse di pratiche di apprezzamento, diffuse entro certe comunità; (3) che alcune forme d’arte (per esempio l’opera) sono caratterizzate non da un

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solo medium, ma da più media (e cioè da un profilo mediale). Ne segue che, se le opere d’installation art hanno un medium o un profilo mediale che le contraddistingue, dovrà essere possibile identificare delle pratiche di apprezzamento condivise all’interno di qualche comunità, che hanno come oggetto una o più risorse manipolate attraverso certe tecniche, secondo certe convenzioni, nell’ambito di certe pratiche consolidate, al fine di veicolare dei contenuti e rendere salienti certe proprietà, e dovrà inoltre essere possibile sostenere che la o le risorse al centro di tali pratiche di apprezzamento sono comuni a tutte le opere che solitamente ascriviamo alla categoria installation art. In che circostanze apprezziamo le opere d’installation art? È naturale pensare che ciò avvenga, anzitutto, quando le esperiamo direttamente32. Ora, in base alla descrizione dell’esperienza caratteristica dell’installation art che ho fornito sopra, possiamo evincere che ci sono due tipi di cose alle quali prestiamo attenzione ogni qual volta esperiamo un’opera che ascriviamo a questa forma d’arte: lo spazio entro il quale avviene la istanziazione dell’opera e il fatto stesso che esperiamo tale spazio. Come abbiamo visto sopra, la letteratura concorda sulla tesi che le opere d’installation art sono strutturate attorno al pubblico, che è invitato a esplorarne gli spazi e a esaminare gli oggetti eventualmente posti al loro interno. Lo spazio dove avvengono le istanziazioni di un’opera d’installation art non ha semplicemente la funzione di accogliere oggetti o eventi rilevanti per l’esperienza dell’opera, ma è in primo luogo ciò 32  Come ho sostenuto sopra, è solo attraverso le esperienze del pubblico che le opere d’installation art sono istanziate completamente. Questo non esclude, di per sé, che possiamo apprezzare un’opera d’installation art anche sulla base del ricordo di un’esperienza che ne abbiamo fatto – o forse persino sulla base del racconto di un’esperienza d’istanziazione dell’opera fatta da altri. Non sostengo, dunque, la tesi che l’esperienza di apprezzamento di qualsiasi opera d’installation art possa avvenire solo attraverso il contatto diretto con l’opera e non possa essere comunicata ad altri; mi limito invece a ipotizzare che la validità di questa tesi vada stabilita caso per caso. Per il dibattito sul “principio dell’esperienza diretta” (acquaintance principle), in particolare in relazione alle opere d’arte contemporanea, cfr. per es. Wollheim (1980), Budd (2003), Hanson (2015), Sauchelli (2016), Focosi (2019), Ransom (2019).

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che il pubblico è invitato a notare quando fa esperienza dell’opera, dal momento che questa, come abbiamo visto, annulla la tradizionale impressione di distanza fisica fra opera d’arte visiva e pubblico, portando questo all’interno dei propri ambienti. Lo spazio, dunque, svolge nell’installation art un ruolo simile a quello che colori e forme apposti sulla superficie pittorica giocano nell’esperienza di un dipinto, e diverso da quello che, in tale esperienza, gioca per esempio la cornice del dipinto (che solitamente ha il mero scopo di delimitare la superficie pittorica e che non occorre notare per afferrare gli aspetti salienti di questa). Per quanto riguarda l’affermazione che prestiamo sempre attenzione anche al fatto che esperiamo lo spazio dove avviene l’istanziazione, quando esperiamo un’opera d’installation art, tale affermazione segue dalla tesi che ho difeso nel § 3, secondo cui un’opera d’installation art è completamente istanziata solo nel momento in cui ne facciamo esperienza, nella maniera prescritta dalle regole per la partecipazione all’opera dettate da chi l’ha creata: esperire appropriatamente l’opera richiede seguire le regole per la partecipazione, il che comporta essere consapevoli di trovarsi presenti all’interno dello spazio dove avviene l’istanziazione dell’opera – dato che la forma basilare di partecipazione, comune a tutte le opere d’installation art, consiste nell’entrare nel loro spazio – ossia fare attenzione al fatto di essere presenti all’interno di tale spazio. Il prossimo passo nella mia argomentazione consiste nel sostenere che sia lo spazio dove avvengono le istanziazioni che le nostre stesse esperienze di questo sono risorse, trattate dagli artisti tramite l’utilizzo di certe tecniche, per veicolare certi contenuti e rendere salienti certe proprietà. La tecnica con cui gli artisti trattano lo spazio consiste nell’organizzarlo, in modo che il pubblico sia spinto a notarne certi aspetti, piuttosto che altri, mentre lo esplora. Per esempio, lo spazio di Down the River di Fraser, un’installazione creata specificamente per un ampio ambiente all’interno del Whitney Museum of American Art, è deliberatamente lasciato privo di og-

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getti materiali, con l’unica eccezione della stampa di un testo dell’artista, affissa a una parete, che fornisce alcune indicazioni sul contesto da cui emerge l’opera, in modo che il pubblico possa notare come lo spazio sia riempito esclusivamente dai suoni della registrazione avvenuta all’interno del carcere di Sing Sing33. Al contrario, lo spazio di Horizonmembranenave 33  Il testo recita: «Il Whitney Museum è il monumento architettonico più recente apparso a New York, altamente visibile, grazie alla sua collocazione sulla riva dell’Hudson e alla fine della High Line. Il suo atrio vetrato accoglie il pubblico con una promessa di trasparenza e accessibilità. All’interno, i visitatori trovano spazi ariosi, pieni di luce e terrazze che si aprono su viste che spaziano all’infinito. E tuttavia in nessun luogo il senso di apertura del museo è più tremendamente costruito che in questo spazio di milleseicentonovanta metri quadrati. Trentadue kilometri più a nord, a Ossining, si trova il carcere di Sing Sing, anche questo collocato sulle rive dell’Hudson. Il carcere è circondato da muri spessi e alti, sormontati da filo spinato, e i movimenti d’ingresso, di uscita e all’interno di questo carcere di massima sicurezza sono rigidamente controllati. All’interno, i carcerati scontano sentenze sino all’ergastolo senza libertà condizionale in celle di meno di due metri per tre. Il blocco A di Sing Sing, lungo quasi centottanta metri, con seicento celle, è una delle unità d’abitazione carceraria più grandi al mondo. Dagli anni ’70 gli Stati Uniti hanno visto un boom nell’espansione sia dei musei che delle carceri: il numero di entrambe le istituzioni è triplicato. Alcuni studi hanno calcolato che nello stesso periodo la i frequentatori dei musei sono decuplicati, mentre la popolazione delle carceri è esplosa crescendo del settecento per cento, rendendo gli Stati Uniti lo stato con più carcerati al mondo. A parte questa crescita in parallelo, sembrerebbe che i musei, e in particolare quelli d’arte, non condividano nulla con le prigioni. I musei d’arte celebrano la libertà e mettono in mostra l’ingegno. Le prigioni revocano la libertà e puniscono la trasgressione. I musei d’arte collezionano e mettono in mostra oggetti ai quali attribuiamo valore. Le prigioni confinano persone denigrate. I musei d’arte sono progettati da architetti di fama come punti focali dello sviluppo urbano. Le prigioni sono costruite lontano dalle ricche aree urbane e diventano quasi invisibili per coloro che non sono direttamente toccati dal fenomeno dell’incarcerazione. Eppure, nonostante (o forse grazie a) le estreme differenze fra le due istituzioni, i musei d’arte e le prigioni possono essere visti come le due facce della stessa medaglia, in una società sempre più polarizzata dove le nostre vite pubbliche, e le istituzioni che le definiscono, sono divise rigidamente a seconda della razza, della classe e della geografia. L’abisso che separa i musei d’arte e le prigioni, e le nostre esperienze di queste istituzioni, è un prodotto di questa polarizzazione e potrebbe anche contribuire a perpetuarla. Down the River porta i suoni d’ambiente registrati nel blocco A di Sing Sing al quinto piano del Whitney, per collegare musei e prigioni attraverso questo divario sociale e geografico». Sia il testo che alcune immagini dell’opera di Fraser sono disponibili a quest’indirizzo: www.whitney.org/Exhibitions/OpenPlanAndreaFraser (ultimo accesso 5 giugno 2020). “Down the river”, l’espressione che dà il titolo all’opera, è traducibile con “più avanti sul fiume”; “to sell somebody down the river” (letteralmente, “vendere qualcuno più avanti sul fiume”), indica il mettere qualcuno

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di Neto è costituito da una struttura articolata, organizzata in modo che il pubblico prima cammini lungo il suo perimetro e poi entri nelle gallerie al suo interno, il che offre l’opportunità di notare i numerosi aspetti di somiglianza fra la struttura e l’interno di un organismo (per esempio, le gallerie somigliano ad arterie e le protuberanze esterne del padiglione assomigliano alle terminazioni degli assoni in una cellula neuronale). Lo spazio dove avvengono le istanziazioni, infine, è organizzato per veicolare dei contenuti o rendere salienti certe proprietà. Per esempio, nel caso dell’opera di Fraser, l’artista fa in modo che lo spazio museale rimandi allo spazio carcerario, portando i suoni del secondo all’interno del primo – un legame il cui significato si chiarisce grazie al paragone fra i due spazi esplicitato nel testo che accompagna l’opera. Nell’opera di Neto, invece, lo spazio evoca tramite analogie visive quello all’interno di un organismo ed esprime vitalità tramite le sue colorature intense e naturalezza tramite il profumo di lavanda e camomilla che emana. Per quanto riguarda le esperienze del pubblico, queste sono risorse che gli artisti manipolano attraverso tecniche che consistono nello stimolare il pubblico in maniera degna di nota. Per esempio, è degno di nota il fatto di trovarsi in una stanza immensa, completamente vuota, del Whitney Museum of American Art e ascoltare una registrazione effettuata in un carcere, così come è degno di nota trovarsi in un ambiente che ricorda l’interno di un organismo. Producendo esperienze degne di nota nel pubblico, infine, gli artisti rendono salienti certe proprietà di tali esperienze: nel caso dell’opera di Fraser, per esempio, proprietà dell’esperienza del pubblico quali “essere straniante” in una situazione difficile come conseguenza del non mantenere una promessa fatta, solitamente per agire a proprio vantaggio. L’espressione ha forse origine nella pratica di vendere gli schiavi di North Carolina, Tennessee, Virginia, Kentucky e West Virginia (l’Upper South) ai proprietari di piantagioni di cotone situate negli Stati americani più a sud (il Deep South), dove le condizioni di lavoro erano più gravose (cfr. Ammer 2013, p. 394). “Down the river”, inoltre, rimanda all’espressione “up the river” (“più indietro sul fiume”), utilizzata per indicare chi sta per essere portato in prigione, che ha avuto origine nel XIX secolo fra chi, a New York, si riferiva ai futuri prigionieri di Sing Sing (cfr. Ammer 2013, p. 482).

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(dal momento che l’esperienza del Whitney Museum che facciamo tramite l’installazione è molto diversa da una tradizionale esperienza museale) ed “essere rivelatrice” (dal momento che quest’esperienza ci consente di entrare, con l’udito, in un ambiente precluso al pubblico); nel caso dell’opera di Neto, per esempio, le proprietà salienti dell’esperienza del pubblico sono “essere affascinante” (dal momento che questa evoca l’esplorazione di un organismo dall’interno) e “essere giocosa” (dal momento che questa avviene in un ambiente con colori vivaci, materiali morbidi, profumazione piacevole, simile agli ambienti solitamente dedicati ai giochi dei bimbi). L’ultimo passo del mio argomento consiste nel mostrare che lo spazio dove avvengono le istanziazioni di un’opera d’installation art e le esperienze di tale spazio, in quanto risorse manipolate per veicolare certi contenuti e rendere salienti certe proprietà, sono l’oggetto di una pratica di apprezzamento, diffusa nella comunità del pubblico dell’arte contemporanea. Fraser avrebbe potuto scrivere un saggio sui sistemi carcerari e museali negli Stati Uniti, elaborando le idee proposte nel testo che è parte di Down the River. Creare un’opera sito-specifica al Whitney Museum, però, le ha permesso di affrontare questi temi in un modo diverso, che mira a suscitare l’interesse da parte del pubblico coinvolgendolo direttamente (sul carattere sito-specifico di quest’opera tornerò nel cap. 3). In primo luogo, attraverso la trasformazione dello spazio museale da luogo di contemplazione (delle opere esposte o dello straordinario panorama su New York e il fiume Hudson visibile dalle vetrate) a luogo riempito di suoni che testimoniano l’orrore dell’esperienza carceraria – a Sing Sing le celle hanno sbarre e non muri e quindi alcune zone della prigione sono estremamente rumorose, effetto accentuato dalla presenza di uccelli che entrano dalle finestre34 – Fraser presenta un’allegoria della situazione in cui si trova il tipico membro del pubblico dell’arte contemporanea, che vive in situazioni privilegiate che non 34  Cfr. l’intervista fra Thyrza Nichols Goodeve e Andrea Fraser (Nichols Goodeve e Fraser 2016).

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hanno nulla in comune con l’esperienza carceraria. Il pubblico si trova in uno spazio solitamente deputato alla contemplazione ed è invitato a esplorarlo, seguendo le tracce della registrazione, non per apprezzare ciò che è messo in mostra nello spazio del museo o visibile dalle sue vetrate, ma per cercare di afferrare una traccia di una realtà che gli è completamente estranea35. Questa è un’allegoria dell’abisso che divide i privilegiati dai carcerati: i primi sono costretti ad uscire dalla loro comfort zone per riconoscere l’esistenza dei secondi e comunque possono appena afferrarne una traccia. Apprezzare l’opera di Fraser è, in parte, apprezzare la semplicità e insieme la potenza dei mezzi attraverso cui l’artista stabilisce questa allegoria della distanza sociale fra visitatori del museo e carcerati. In secondo luogo, Fraser spinge il pubblico ad apprezzare l’intensità dell’esperienza multisensoriale, straniante e rivelatrice che facciamo dell’opera. L’artista ha dichiarato in un’intervista che «la sua intenzione non è di fare dei prigionieri uno spettacolo per i frequentatori del museo (“Dio non voglia”), ma di portare i visitatori del Whitney “nello spazio acustico dell’incarcerazione”» (Burns 2016, online). Come scrive Nichols Goodeve: è l’esperienza, il passaggio viscerale, attraverso i nostri corpi, dei suoni del blocco A, mentre restiamo in piedi nel “piano aperto” del museo, a fare l’opera, non la sola risposta intellettuale al testo sul muro. […] Siamo sbattuti fra l’orrore dell’incarcerazione di massa e del razzismo, nel confinamento rumoroso e violento dei suoni della prigione, da una parte e, dall’altra, la bellezza e il privilegio che emanano dallo spazio museale. Dal momento che si tratta di suoni, è difficile non commuoversi, non esperire le contraddizioni lampanti come un pugno nello stomaco. La distanza critica indotta dalla lettura del testo collassa nella commozione – una 35  Fraser spiega: «Ci sono tre diverse zone sonore nell’installazione, che corrispondono alle tre diverse zone del blocco carcerario dove abbiamo effettuato le registrazioni. La zona centrale subito dopo le scale e gli ascensori corrisponde a un’area vicino al centro di controllo, mentre le zone est e ovest corrispondono alle aree ai due lati di questo. La zona est è dove i prigionieri entrano ed escono dal blocco e perciò tende a essere molto rumorosa e piena di voci. La zona ovest è la più calma e i suoni predominanti sono il fragore degli enormi tubi di riscaldamento e quelli degli uccelli» (Nichols Goodeve e Fraser 2016, online).

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commozione critica, per così dire – e, soprattutto, nella percezione della propria responsabilità, del nostro rapporto con i musei e le prigioni (Fraser e Nichols Goodeve 2016, online).

L’esperienza che facciamo all’interno del museo riesce ad avvicinarci alla situazione carceraria, pur mantenendoci consapevoli della incredibile distanza sociale fra chi è libero e chi è incarcerato. Apprezzare l’opera di Fraser è, in parte, apprezzare la potenza dell’esperienza che proviamo completando le sue istanziazioni. Torniamo ora all’opera di Neto. L’artista ha dichiarato: Per me, mente e corpo sono una cosa sola, sempre insieme [...] Credo nella capacità sensoriale del corpo e nel fatto che è attraverso i movimenti dei nostri corpi-menti che connettiamo le cose che popolano questo mondo e la nostra vita – attraverso le nostre esperienze tattili, il nostro sentire, il nostro pensare e il modo in cui ci comportiamo (Arning e Neto 2000, p. 80).

Quest’affermazione suggerisce che Neto presenta al pubblico opere che propone di apprezzare per il fatto che, attraverso la produzione di esperienze multisensoriali, queste contribuiscono ad attivarne i corpi e le menti. Apprezzare Horizonmembranenave come arte è dunque, almeno in parte, apprezzarla per come attraverso l’articolazione dello spazio e la manipolazione delle esperienze del pubblico l’opera riesce a ottenere questo risultato. Sulla base delle analisi che ho proposto, possiamo dunque concludere che Down the River e Horizonmembranenave sono opere d’installation art che hanno lo stesso profilo mediale, costituito dallo spazio dove avvengono le loro istanziazioni e dalle esperienze tramite le quali i membri del pubblico completano tali istanziazioni. Down the River e Horizonmembranenave sono esempi, piuttosto diversi fra loro, di opere ascritte alla categoria dell’installation art: la mia proposta è che questa conclusione sul loro profilo mediale sia generalizzabile a

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tutte le opere d’installation art36. Lo spazio e l’esperienza del pubblico sono i media basilari dell’installation art. Il profilo mediale di un’opera d’installation art può poi essere arricchito attraverso l’aggiunta di altri media: per esempio, oggetti posizionati nello spazio dove avviene l’istanziazione (come il gran numero di piccole sculture in Field, la serie di opere d’installation art prodotta da Anthony Gormley) o le regole stesse che governano l’opera, come sostiene Irvin (2020b). Qualcosa di simile avviene, per esempio, nell’opera lirica, dove al profilo mediale basilare, costituito da canto, musica e recitazione, possono aggiungersi la danza o anche la videoarte, come nel caso della produzione del Wozzeck di Alban Berg realizzata da William Kentridge nel 2017. In virtù degli argomenti avanzati sin qui è infine possibile tracciare un’ultima distinzione: quella fra opere d’installation art e semplici installazioni. Usiamo espressioni come “installazione fotografica” o “installazione a tecnica mista” per riferirci, rispettivamente, a un certo numero di opere fotografiche che sono presentate congiuntamente, come elementi di un insieme, e a un’opera d’arte composta da oggetti in forme d’arte diverse (per esempio pittura, scultura e video). Non è detto che queste installazioni siano anche opere d’installation art. Per esserlo, secondo quanto ho sostenuto, devono possedere il profilo mediale dell’installation art: non è sufficiente che siano conglomerati di oggetti che circoscrivono uno spazio, ma dobbiamo avere qualche evidenza del fatto che sono insiemi di oggetti presentati perché siano apprezzati nell’ambito della pratica di apprezzamento che si concentra su come questi articolano lo spazio e producono esperienze in chi li esplora dall’interno, al fine di veicolare contenuti attraverso questi e rendere salienti certe proprietà di tale spazio e tali esperienze. Molte semplici installazioni non soddisfano queste condizioni 36  Un tipo particolare di esperienze che sono parte del profilo mediale di alcune opere d’installation art sono le esperienze cosiddette “immersive” prodotte attraverso l’utilizzo di apparecchiature elettroniche, che qui non discuto. Per un’introduzione cfr. Bianchini e Verhagen (2016).

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e questo spiega l’uso generico del termine “installazione” nel linguaggio dell’arte contemporanea, a fianco all’uso non generalizzato del termine “installation art”. Nel prossimo capitolo considererò i rapporti fra l’installation art e un altro tipo d’installazione pervasiva nei contesti artistici: l’installazione espositiva.

Conclusioni In questo capitolo ho sostenuto che le opere d’installation art sono interattive, il che significa che le loro istanziazioni sono completate dal pubblico attraverso le proprie azioni, in conformità con le regole di partecipazione stabilite dai creatori delle opere. Inoltre, ho sostenuto che le opere d’installation art hanno un particolare profilo mediale di base, costituito dallo spazio articolato dagli artisti e dalle esperienze di tale spazio fatte dai diversi membri del pubblico, in conformità con le regole di partecipazione. Vi sono due importanti conseguenze che possiamo trarre da queste tesi, a mio giudizio. In primo luogo, lo scarto fra l’installation art e l’arte tradizionale non sta nel carattere post-mediale della prima, ma nel fatto che in questa le particolari esperienze dei partecipanti entrano a far parte dell’opera. Su questo tema tornerò nel cap. 4, § 2: uno degli aspetti che distinguono parte della produzione artistica contemporanea da quella precedente è la sua insistenza sul carattere partecipativo e processuale dell’arte. In secondo luogo, come abbiamo visto, sostenere che l’esperienza di un membro del pubblico è parte del profilo mediale di un’opera d’installation art significa sostenere che tale esperienza è parte di ciò a cui il pubblico è invitato a fare attenzione quando apprezza l’opera, per poter cogliere i contenuti che questa articola e le proprietà che rende salienti. Di conseguenza, possiamo sostenere che l’installation art ha un aspetto autoriflessivo: apprezzarla ci richiede di prendere in considerazione aspetti della nostra esperienza in quanto tali (e non meramen-

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te in quanto necessari ad accedere agli oggetti della nostra esperienza). L’opera d’installation art, dunque, non si riduce a uno spettacolo che ci cattura all’interno del proprio spazio, ma ci invita ad esaminare il modo in cui è strutturata e, di conseguenza, alcune nostre azioni e comportamenti37. Questo punto merita un ampio approfondimento, che rimando a una futura sede di discussione.

37  Per considerazioni analoghe su altre forme di arte partecipativa cfr. Nguyen (2020, pp. 22-23).

II. Installazione espositiva e installation art

In questo capitolo prendo in esame l’installazione espositiva del Neues Museum di Berlino e sostengo che si tratti di un’opera d’installation art. Nel § 1 evidenzio alcune somiglianze strutturali fra installazioni espositive e opere d’installation art; nel § 2 sottolineo le differenti pratiche di apprezzamento di cui, solitamente, sono oggetto installazioni espositive e opere d’installation art; nel § 3 sostengo che il Neues Museum di Berlino costituisce un’eccezione rispetto alla norma; nel § 4 difendo la mia proposta da alcune obiezioni che le si potrebbero rivolgere; nel § 5, infine, contestualizzo brevemente la mia proposta nel panorama degli studi museologici contemporanei.

1. Somiglianze strutturali Usiamo espressioni come “installazione espositiva”, “installazione curatoriale” o “installazione museale” per riferirci alla messa in mostra di opere d’arte o altri tipi di oggetti in un contesto espositivo. Alcune somiglianze fra questo genere d’installazioni e le opere d’installation art sono state recentemente descritte da Eleen Deprez (2020). Secondo Deprez, entrambe le forme d’installazione godono di due tipi di proprietà che veicolano significato: presentano oggetti disposti in un certo modo (“display”) e si adattano ai siti in cui sono collocate (“site-responsiveness”). Per quanto riguarda le opere d’installation art, le affermazioni di Deprez sul ruolo del display sono consonanti con quan-

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to ho sostenuto nel capitolo precedente: lo spazio in cui hanno luogo le istanziazioni delle opere d’installation art è parte del profilo mediale di tali opere e, qualora vi siano degli oggetti disposti all’interno di tale spazio (o degli eventi che in esso hanno luogo), anche questi, solitamente, saranno da considerarsi parte del profilo mediale dell’opera. Deprez, in particolare, prende in esame quelle opere d’installation art che presentano insiemi di oggetti materiali disposti in uno spazio, sottolineando che «l’opera è più che gli oggetti che la costituiscono; è anche la loro disposizione in uno spazio» (Deprez 2020, p. 348) e illustrando con vari esempi quest’affermazione. Deprez sottolinea poi che le opere d’installation art veicolano significato anche attraverso il modo in cui si rapportano ai siti in cui sono installate: in alcuni casi, i display delle opere sono adattati ai siti, il che determina per esempio variazioni nella loro ampiezza e possibili variazioni nel significato veicolato, e in altri casi i display veicolano certi significati in virtù del fatto che sono installati in siti con certe valenze simboliche, sociali e culturali (sul rapporto fra siti e installation art tornerò nel cap. 3). Deprez considera poi il ruolo di display e carattere site-responsive in una mostra d’arte sostenendo, in primo luogo, che Come il display nelle opere d’installation art, così il display di una mostra non è solo una questione di singoli oggetti esposti. Una mostra è più che una mera collezione di oggetti. Questa ha a che vedere con il fatto che il tutto – gli oggetti messi in relazione gli uni con gli altri in un display all’interno di una stanza o una galleria – può veicolare significato (Deprez 2020, p. 348).

Deprez illustra questa tesi descrivendo il caso della mostra Matisse in the Studio, tenutasi al Museum of Fine Arts di Boston (Aprile – Luglio 2017) e alla Royal Academy di Londra (Agosto – Novembre 2017): Nel corso della sua vita, Henri Matisse ha collezionato un’eclettica gamma di oggetti, che includono porcellane cinesi, sculture africane, oggetti d’arte decorativa medievale e classica e mobili. La mostra esibiva questi

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oggetti insieme a delle opere di Matisse, mostrando come il lavoro dell’artista fosse influenzato e informato dal loro aspetto […] Il tema della mostra erano le influenze artistiche e l’appropriazione culturale. Il tema era comunicato attraverso didascalie murali ma anche attraverso la messa in mostra di oggetti in prossimità dei dipinti o delle opere nei quali questi giocano un ruolo. Per esempio, una maschera Mboom del regno Kuba, del XIX secolo, era posizionata direttamente di fronte a una serie di busti di bronzo realizzati da Matisse. Le sculture, racchiuse in teche di Plexiglas trasparente, erano disposte in modo tale che la maschera si trovasse direttamente di fronte a una delle sculture di Matisse, come se le due si stessero reciprocamente fissando negli occhi. La somiglianza fra gli studi in bronzo di Matisse e la maschera è impressionante e il modo in cui gli oggetti erano disposti incoraggiava l’osservatore a considerarli collegati. Dunque, proprio come nelle opere d’installation art, la disposizione degli elementi di una mostra è un aspetto dell’installazione che veicola significati (Deprez 2020, p. 348).

In secondo luogo, portando ad esempio sempre la mostra su Matisse, Deprez sostiene che Il display di una mostra non è semplicemente posto nello spazio, ma è “installato”: gli oggetti sono disposti in una maniera che tiene conto dello spazio e del carattere della stanza e dell’esperienza che il visitatore può fare al suo interno. Due versioni della stessa mostra possono perciò avere aspetti ben diversi, come nel caso del nostro esempio. Alla Royal Academy il pubblico era condotto da una stanza all’altra, mantenendo una stretta separazione fra i cinque nuclei tematici della mostra, mentre al Museum of Fine Arts la disposizione era molto più aperta e permetteva agli oggetti e alle opere di essere visti in relazione gli uni con gli altri secondo molte più combinazioni e attraverso distanze più ampie (Deprez 2020, pp. 348-349).

Ritengo le osservazioni di Deprez sull’articolazione del display nella mostra su Matisse non solo corrette, ma in larga misura estendibili a un’ampia varietà d’installazioni concepite per mostre itineranti o per esposizioni stabili (per esempio in contesti museali), siano esse installazioni di opere d’arte o meno1. 1  La proposta di Deprez s’inserisce nel solco di numerosi studi sull’utilizzo delle installazioni espositive per veicolare significati attraverso l’articolazione dei loro spazi (cfr. per es. Bal 1996; 2007; Ravelli 2006; Whitehead 2012).

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Nonostante le somiglianze evidenziate da Deprez, ritengo tuttavia che si possa distinguere fra opere d’installation art e installazioni espositive e, in particolare, che le considerazioni avanzate nel capitolo precedente sul profilo mediale dell’installation art ci permettano di tracciare questa distinzione. Questo sarà l’argomento del § 2. Nel § 3, invece, illustrerò un caso in cui la distinzione collassa. 2. Differenze a livello di pratiche di apprezzamento Come abbiamo visto, l’approccio teorizzato da Lopes (2014) per l’individuazione dei media artistici consiste nel mettere a fuoco gli elementi che accomunano le esperienze di apprezzamento di certe opere d’arte basandosi sull’analisi e il confronto fra le migliori teorie che la critica artistica ci offre in proposito e, se necessario, nella revisione di alcune tesi sostenute in ambito critico-artistico, in modo da ottenere un quadro coerente e il più possibile esplicativo. Applicando questo metodo, nel capitolo 1 ho individuato il profilo mediale dell’installation art. Nel paragrafo precedente ho evidenziato, sulla scorta di Deprez, alcune somiglianze fra opere d’installation art e installazioni espositive. Dobbiamo concludere che i due tipi di oggetti hanno lo stesso profilo mediale? Ritengo che dobbiamo rispondere negativamente a questa domanda. In questo paragrafo confronterò le pratiche di apprezzamento dell’installation art con le pratiche di apprezzamento delle installazioni espositive e, sulla base di ciò, distinguerò fra i profili mediali dei due tipi di oggetti. Preliminarmente, però, è necessario distinguere fra installazioni espositive realizzate con l’obiettivo di veicolare dei contenuti o rendere salienti certe proprietà (come la mostra descritta da Deprez) e mere installazioni espositive. Un esempio di queste ultime potrebbe essere la messa in mostra di elettrodomestici in un negozio, realizzata con il solo obiettivo di rendere percettivamente accessibili – entro certi limiti – gli

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elettrodomestici ai potenziali acquirenti. Supponiamo che la disposizione sia delle più semplici e che le reciproche posizioni degli oggetti non intendano suggerire, per esempio, una gerarchia di valore fra loro, o qualche altra specifica relazione. Un’installazione di questo tipo non è utilizzata per veicolare dei contenuti o rendere salienti certe proprietà delle lavatrici attraverso la disposizione degli oggetti messi in mostra. Le installazioni espositive che, all’opposto, veicolano significati o rendono salienti certe proprietà attraverso la disposizione degli oggetti messi in mostra possono essere più o meno complesse – spaziando dalla semplice disposizione per livello di qualità e finezza di design degli elettrodomestici in un negozio alle mostre come Matisse in the Studio. Solo le installazioni espositive così progettate hanno un profilo mediale simile a quello dell’installation art, per le ragioni descritte da Deprez. In quanto segue, perciò, mi concentrerò su queste e userò il termine “installazioni espositive” per riferirmi esclusivamente a queste. Come abbiamo visto, concordo con Deprez sulla tesi che lo spazio delle installazioni espositive e gli oggetti in esso racchiusi sono sempre usati per veicolare significati. Di conseguenza, le pratiche di apprezzamento dell’installation art e delle installazioni espositive hanno almeno un elemento in comune: entrambe si concentrano su come lo spazio e gli oggetti in esso racchiusi sono utilizzati per veicolare significati. Apprezzare Matisse in the Studio come mostra è, in parte, apprezzare come la disposizione degli oggetti nello spazio espositivo illustra il ruolo che le influenze artistiche e l’appropriazione culturale hanno giocato nella produzione artistica di Matisse. Analogamente, come abbiamo visto, apprezzare un’opera come Horizonmembranenave (fig. 1) di Neto in quanto installation art è, in parte, apprezzare come l’articolazione dello spazio dell’opera suggerisce l’esplorazione dell’interno di un organismo. Veniamo ora a elementi ulteriori rispetto a quelli individuati da Deprez che, come sosterrò, distinguono l’apprezzamen-

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to dell’installation art da quello delle installazioni espositive. Anzitutto, le installazioni espositive, a differenza delle opere d’installation art, solitamente non sono interattive, nel senso definito da Gaut (2010) che ho illustrato nel capitolo precedente. In altre parole, il pubblico delle installazioni espositive solitamente non le completa tramite la propria esperienza d’interazione con esse. Per esempio, perché Matisse in the Studio veicoli dei significati attraverso la disposizione degli oggetti nello spazio, è necessario che gli oggetti siano disposti in un certo modo nello spazio, ma non è necessario che gli osservatori interagiscano con lo spazio dell’installazione in nessuna particolare maniera. Certo, esperire l’installazione è strumentale a cogliere adeguatamente i significati veicolati attraverso la disposizione degli oggetti, ma non è un’attività utilizzata essa stessa come veicolo di contenuti e in quanto dotata di proprietà salienti da parte di chi ha progettato la mostra. Insomma, il ruolo dell’esperienza del visitatore in Matisse in the Studio è analogo al ruolo dell’esperienza di un osservatore di un dipinto di Matisse, mentre è distinto dal ruolo dell’esperienza del pubblico in Horizonmembranenave di Ernesto Neto (cfr. cap. 1 § 7). Stando così le cose, mentre per apprezzare le opere d’installation art è necessario, come ho sostenuto, prestare attenzione a come l’esperienza del pubblico è utilizzata in quanto veicolo di significati e proprietà salienti, lo stesso non è vero nel caso dell’apprezzamento delle installazioni espositive. L’esperienza delle installazioni espositive non ha un valore in sé, è meramente strumentale2. Un secondo elemento che permette di distinguere fra i due tipi d’installazione è il seguente: solitamente, le installazioni 2  Questo, in genere, vale anche nel caso dei musei interattivi, come per esempio l’Exploratorium di San Francisco, un museo della scienza che propone numerosi esperimenti che i partecipanti possono svolgere. Le esperienze interattive che si possono fare in questo tipo di musei hanno un ruolo puramente strumentale, non ci è proposto di apprezzarle di per se stesse: queste sono utili all’apprendimento, che rendono più efficace attraverso il coinvolgimento del pubblico e, talvolta, introducendo elementi d’intrattenimento (per un’analisi filosofica dei musei interattivi cfr. Hein 2006).

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espositive illustrano delle tesi che ci sembra naturale poter esprimere anche tramite degli enunciati, senza tralasciare nulla. Non abbiamo le stesse intuizioni, invece, in merito alle opere d’installation art. Vediamo degli esempi. Immaginiamo un’installazione espositiva di lavatrici in una stanza, disposte in modo che quelle di qualità più alta siano al centro della stanza, ben visibili all’osservatore, mentre quelle di qualità inferiore siano disposte ai lati e risultino defilate. Ci sembra naturale poter affermare che l’installazione veicoli un contenuto esprimibile in termini proposizionali per esempio con: “le lavatrici al centro della stanza sono migliori di quelle ai lati” – oltre a cercare di condizionare il comportamento dei potenziali acquirenti, rendendo preminenti le lavatrici migliori (solitamente più costose) e meno evidenti le altre. Così descritta la “pragmatica delle lavatrici”, abbiamo esaurito il contenuto veicolato da questa installazione espositiva. Il caso di Matisse in the Studio non è molto diverso. Come spiega Deprez, nella mostra una maschera Mboom del regno Kuba, del XIX secolo, era posizionata direttamente di fronte a una serie di busti di bronzo realizzati da Matisse. Le sculture, racchiuse in teche di Plexiglas trasparente, erano disposte in modo tale che la maschera stesse direttamente di fronte a una delle sculture di Matisse, come se le due si stessero reciprocamente fissando negli occhi. La somiglianza fra gli studi in bronzo di Matisse e la maschera è impressionante e il modo in cui gli oggetti erano disposti incoraggiava l’osservatore a considerarli collegati (Deprez 2020, p. 348).

Così facendo, l’installazione veicola l’idea che la maschera Mboom è la fonte alla quale Matisse ha attinto per elaborare molti degli aspetti della sua serie di busti in bronzo e, forse, anche l’idea che il debito di Matisse nei confronti della maschera non è stato a lungo riconosciuto e che va invece rivendicato – come può suggerire il posizionamento della maschera “faccia a faccia” con una scultura, che ricorda, appunto, l’atteggiamento rivendicatorio che un individuo può assumere di fronte a un altro. Come nell’esempio delle lavatrici, sembra

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che, una volta esplicitati in termini proposizionali i contenuti veicolati dall’installazione espositiva, non resti altro da chiarire. Apprezzare i contenuti veicolati attraverso l’articolazione di un’installazione espositiva, dunque, significa apprezzare contenuti che possono essere resi in termini proposizionali. Consideriamo ora invece Horizonmembranenave. Come ho sostenuto nel capitolo precedente, Neto offre al pubblico uno spazio che ricorda l’interno di un organismo e che al tempo stesso crea un clima di gioco ed esplorazione. Si può dunque sostenere che l’opera illustri proposizioni come “questa struttura è simile all’interno di un organismo” e “l’atteggiamento appropriato per quest’ambiente è uno di gioco ed esplorazione”, ma aggiungere che i contenuti proposizionali esauriscano i contenuti veicolati dall’opera sembra problematico. Neto ha prodotto nel pubblico un’esperienza insolita, con numerosi aspetti salienti, attraverso il contenuto della quale il pubblico apprende qualche cosa, acquisisce una conoscenza esperienziale, più che proposizionale, relativa a che effetto fa trovarsi in un ambiente come quello costruito dall’artista (su questo tema cfr. Schellekens 2007, pp. 81-84). Horizonmembranenave può essere descritta come uno strumento che ci aiuta a immaginare una situazione che altrimenti non potremmo vivere e ci rende consapevoli della ricchezza dei contenuti che possiamo acquisire tramite esperienze multisensoriali (su questo tema cfr. Goldie 2007, pp. 161-169). Per tornare al confronto con le installazioni espositive, mentre apprezziamo come queste veicolano contenuti che possono essere resi in termini proposizionali, quando apprezziamo le opere d’installation art ci concentriamo, soprattutto, su contenuti esperienziali. Le due pratiche di apprezzamento sono diverse, dunque, perché diversi sono i tipi di contenuto su cui si concentrano. Ricapitolando, ho illustrato due elementi che differenziano l’apprezzamento delle opere d’installation art da quello delle installazioni espositive: le opere d’installation art sono apprezzate per le esperienze che ne facciamo in virtù del loro

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carattere interattivo, non così le installazioni espositive, all’esperienza delle quali non diamo valore di per se stessa; inoltre, le opere d’installation art sono apprezzate per i particolari contenuti esperienziali che veicolano, mentre le installazioni espositive sono apprezzate perché veicolano contenuti che possono anche essere resi in termini proposizionali. Possiamo allora concludere che le pratiche di apprezzamento relative alle opere d’installation art e alle installazioni espositive si concentrano su profili mediali diversi, pur godendo di alcune somiglianze. Vi sono, tuttavia, dei casi di sovrapposizione, per così dire, fra installation art e installazione espositiva. In primo luogo, alcune opere d’installation art presentano al pubblico delle installazioni espositive. Un esempio famoso è menzionato dalla stessa Deprez: si tratta di Musée d’Arts Moderne, Département des Aigles (1968-1972), di Marcel Broodthaers (cfr. Deprez 2020)3. L’artista installò, inizialmente nel suo appartamento di Bruxelles e poi nelle sedi di diverse istituzioni artistiche, una grande varietà di oggetti, fra cui cartoline, piccole sculture, documenti cartacei, gioielli, vasi antichi e dipinti (prestati da vari musei), tutti accomunati dal fatto di presentare immagini di aquile (per una descrizione e una lettura critica articolata cfr. Borgemeister e Cullens 1987). Gli oggetti erano disposti in teche e affissi alle pareti, in un modo che imitava la disposizione di un’installazione espositiva in un museo. In particolare, la messa in mostra degli oggetti aveva un carattere cumulativo: questi erano disposti in modo che nessuno risultasse preminente rispetto agli altri e che l’attenzione del pubblico cadesse sull’uniformità della presenza del simbolo dell’aquila, più che sulle caratteristiche degli specifici oggetti esposti, la cui disposizione non seguiva neppure un ordine cronologico o geografico. L’intento di Broodthaers era quello di parodiare le installazioni dei musei, per tre ragioni. In 3  Per un’altra analisi filosofica del carattere artistico e di esposizione dell’opera di Broodthaers cfr. Tavani (2015, pp. 62-66). Per alcune immagini si veda www. moussemagazine.it/taac5-a/ (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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primo luogo, per la loro vocazione enciclopedica; in secondo luogo, per come queste conferiscono valore ad alcuni oggetti selezionandoli e mettendoli in mostra e, così facendo, illustrano e perpetuano i valori alla base di queste scelte, giocando un ruolo significativo nello stabilire che cosa è rilevante per la cultura e la società di cui sono espressione. In terzo luogo, con specifico riferimento ai musei d’arte, per come questi conferiscono lo status di arte a certi oggetti piuttosto che ad altri, esprimendo una visione su che cosa merita questo status e che cosa no. Ritengo, però, che, benché l’opera di Broodthaers parodii le installazioni museali, si tratti chiaramente di un’opera d’installation art, che siamo invitati ad apprezzare per le esperienze che facciamo in virtù del suo carattere interattivo e per il fatto che veicola dei contenuti esperienziali, fra le altre cose. Quanto al carattere interattivo, questo è un caso in cui, come in Horizonmembranenave, gli effetti della presenza del pubblico nello spazio dell’installazione non sono evidenti e tuttavia il pubblico completa, con le proprie azioni conformi alle regole d’interazione stabilite dall’artista, le istanziazioni dell’opera. La parodia messa in scena da Broodthaers, infatti, non è una beffa che siamo invitati ad apprezzare dalla posizione privilegiata di un osservatore distaccato, ma è una situazione nella quale siamo immersi, in cui giochiamo il ruolo di parodianti del pubblico dei musei (ossia quello di parodie di noi stessi) e che ci conduce a riflettere sul fatto che legittimiamo le scelte delle istituzioni culturali e artistiche oggetto dell’ironia di Broodthaers, frequentandole. Apprezzare Musée d’Arts Moderne, Département des Aigles, perciò, è in parte apprezzare il particolare contenuto esperienziale che acquisiamo attraverso la nostra partecipazione alla situazione parodica e il fatto che tale esperienza ci induce a certe riflessioni su noi stessi. Il caso di Broodthaers è relativamente semplice: l’opera, realizzata da un noto artista, fu presentata come un’opera d’arte ed effettivamente, come abbiamo visto, il suo profilo mediale è quello dell’installation art. Per comprendere l’opera, è im-

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portante capire che si tratta di una parodia di un’installazione museale: il suo carattere di opera d’installation art oscura, per così dire, il suo carattere d’installazione espositiva. Nel prossimo paragrafo illustrerò un caso diverso, in cui, come sosterrò, un’opera d’installation art svolge la funzione d’installazione espositiva, senza parodiare o altrimenti imitare tale genere d’installazione, nonostante non sia realizzata da artisti attivi nell’ambito dell’installation art ed esplicitamente presentata come opera appartenente a questa forma d’arte. 3. Il Neues Museum di Berlino come opera d’installation art Il Neues Museum fu costruito da Friedrich Stüler tra il 1843 e il 1859 nella “isola dei musei” di Berlino, dove si andava creando la risposta prussiana all’apertura, a Parigi, del palazzo del Louvre come museo pubblico, avvenuta nel 1793. Agli edifici costruiti o rimodellati da Karl Friedrich Schinkel pochi decenni prima, fra cui l’Altes Museum, che ospitava parte delle collezioni imperiali di archeologia e arte, si aggiunse l’opera di Stüler, destinata ad accogliere nuove parti di tali collezioni, in rapida espansione. Successivamente, i due musei furono affiancati dalla Nationalgalerie (1866-1876) di Johann Heinrich Strack, dal Kaiser Friedrich Museum (ora Bode Museum, 1898-1904) di Ernst Eberhard von Ihne e dal Pergamon Museum (1909-1930) di Alfred Messel e Ludwig Hoffmann. Tutti questi edifici, in stile classicista, con cortili circondati da lunghi colonnati, assomigliano a templi, e l’isola si presenta come una nuova acropoli o un nuovo foro imperiale. Nel 1939, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, il Neues Museum fu chiuso e le sue collezioni furono trasportate in luoghi sicuri. L’edificio di Stüler, però, fu gravemente danneggiato dai bombardamenti e, a differenza degli altri musei dell’isola, rimase una rovina, sino a diventare una sorta di monumento alla transitorietà e alla decadenza (cfr. Haspel 2009, p. 18). Nel 2003 la situazione cambiò, con l’inizio dei lavori di ri-

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strutturazione e parziale ricostruzione affidati agli architetti David Chipperfield e Julian Harrap – quest’ultimo esperto di restauri architettonici. Il museo riaprì al pubblico nel 2009. L’edificio originale di Stüler non solo celebrava Berlino come “l’Atene sulla Sprea” o una nuova Roma, ma esibiva anche una fastosa decorazione, con iconografie adattate stanza per stanza in base al tipo di oggetti che ciascuna di queste era destinata a ospitare: per esempio, nella corte dove erano esposti reperti dell’antico Egitto, un corridoio colonnato, completo di pitture murarie, ricostruiva il tempio funerario di Ramses II a Tebe in scala 1:3; nella stanza dedicata ai più antichi artefatti ritrovati sul suolo prussiano le pitture murarie raffiguravano luoghi celebri della topografia tedesca e divinità nordiche, mentre nell’ala che ospitava calchi in gesso di opere che spaziavano dall’antichità all’età moderna le pitture murarie raffiguravano vedute idealizzate di edifici dell’antichità greco-romana (fig. 2) (cfr. Maaz 2009, pp. 22-28; von Buttlar 2010, pp. 20-25). Le collezioni del museo erano esibite con approccio scientifico e grande sistematicità e l’edificio appariva come un’opera d’arte totale che illustrava, a fini didattici, una visione delle civiltà del passato e del ruolo di loro erede rivestito dal Regno di Prussia, concezione cara ai monarchi prussiani. Dopo la riunificazione tedesca, un comitato di esperti stabilì che la ricostruzione del Neues Museum non avrebbe dovuto produrre un edificio identico all’originale, ma che invece, seguendo le indicazioni della “Carta di Venezia” (1964), avrebbe dovuto preservare con la massima cura le parti esistenti dell’edificio originale, restaurandole, se necessario, e sempre nel rispetto del loro valore di documenti storici4. Inoltre, fu stabilito che, per garantire la funzionalità dell’edificio, sarebbero state realizzate delle integrazioni di aspetto moderno, ma equilibrate allo stile originario del museo. Come spiega Adrian von Buttlar

4  Il testo della “Carta di Venezia” è disponibile qui: www.charta-von-venedig.de/ carta-internazionale-conservazione-restauro.html (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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L’obiettivo doveva essere quello di generare non il sentimento romantico associato alle rovine, ma un’esperienza dell’aura originaria dell’edificio e dei suoi dettagli di alta qualità. Una “ricostruzione aumentata” doveva mantenere la veridicità storica nei confronti del vecchio edificio del Neues Museum, ma anche rendere visibile il suo invecchiamento e i danni che aveva sofferto, anziché donargli un falso “nuovo splendore” (von Buttlar 2010, p. 28)5.

Questi principi furono messi scrupolosamente in pratica da Chipperfield, Harrap e il loro staff di architetti e specialisti di conservazione e restauro6. In particolare, Chipperfield ritenne che, per promuovere la comprensione storica e architettonica dell’edificio di Stüler, bisognava evitare, da una parte, ricostruzioni arbitrarie di certi ambienti ampiamente danneggiati e, dall’altra, l’inserimento di elementi moderni separati rispetto al resto dell’edificio. Chipperfield concluse che era perciò necessario rendere il più evidente possibile l’interazione fra gli elementi originari e quelli nuovi (cfr. von Buttlar 2010, p. 34)7. Il risultato è un’opera impressionante, dove questo principio è applicato a tutti i livelli, in maniera immediatamente evidente: dalla costruzione di un nuovo, monumentale scalone interno bianco e lineare, che sostituisce il precedente scalone policromo decorato con statue, vasi e rilievi, e interagisce con le colonne ioniche dell’edificio di Stüler, sulle quali si notano i segni del deterioramento, alla conservazione, in quasi ogni 5  Per un’ampia discussione filosofica del valore delle rovine, del loro significato culturale e degli approcci alla loro conservazione e al loro restauro cfr. i saggi raccolti in Bicknell, Judkins e Korsmeyer (2020). 6  Non discuto qui il genere di collaborazione autoriale in cui ricade il lavoro condotto da Chipperfield, Harrap e il loro staff. Per alcuni recenti contributi filosofici sul tema cfr. Corsa (2020); Bacharach e Tollefsen (2010; 2015); Hudson Hick (2014). 7  Una discussione dei fondamenti di questo approccio alla conservazione e al restauro degli edifici e della sua opportunità esula dall’ambito della presente discussione. Il dibattito filosofico su questi temi sta rapidamente crescendo: per un’introduzione cfr. Giombini (2019). A mio giudizio, l’intervento di Chipperfield e Harrap al Neues Museum mostra di fondarsi su un’interpretazione del significato dell’edificio non solo come documento del passato ma anche come architettura per il presente. Per recentissimi contributi che discutono diversi approcci interpretativi alla conservazione cfr. Lamarque e Walter (2019); Fisher (2020); Walter e Lamarque (2020); Giombini (2020).

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parete, di minuscoli frammenti di mattoni e pietra del vecchio edificio, affiancati dai nuovi materiali di costruzione (fig. 3). Un approccio che rende evidente l’interazione fra il nuovo e l’antico è stato adottato anche per la selezione e la disposizione tanto degli oggetti in mostra quanto dei materiali d’ausilio per l’installazione espositiva (teche, immagini didascaliche, testi d’accompagnamento, ecc.). L’attuale collezione del Neues Museum è molto più ampia di quella ottocentesca e, a seguito della ristrutturazione, lo spazio espositivo del museo è aumentato significativamente. Il numero di oggetti esibiti oggi, però, è simile a quello degli oggetti esposti nell’antico museo e i pezzi in mostra coincidono spesso con quelli anticamente esposti (cfr. Wildung 2009, p. 66). Le scelte espositive sono in parte nuove, perché guidate dall’obiettivo di massimizzare la concentrazione degli osservatori, non esponendo un numero eccessivo di oggetti (il che contrasta con la vocazione enciclopedica del museo originario), e in parte in linea con le antiche, perché gli oggetti esposti coincidono spesso con quelli anticamente messi in mostra. Analogamente, da una parte si è deciso di preservare le antiche decorazioni didascaliche, ove possibile, mentre dall’altra si è evitato di enfatizzare l’approccio didascalico, che ora risulterebbe anacronistico, con l’aggiunta di nuovi materiali: né lunghi testi, né ausili digitali – molto diffusi nei musei contemporanei – introducono gli oggetti esposti. Infine, per quanto riguarda la relazione fra oggetti esposti e materiale d’ausilio per l’installazione espositiva, le interazioni fra nuovo e antico sono molteplici. Come ho già detto, ove possibile, le antiche decorazioni didascaliche sono state conservate e restaurate, con lo stesso approccio adottato per il resto dell’edificio. Nel nuovo museo, queste sono affiancate da teche in vetro e metallo, piedistalli e altri elementi dall’estetica decisamente minimalista. Ne risulta una presentazione della collezione che si distanzia significativamente da quella elaborata nel XIX secolo, alla cui ottica non aderisce, pur mantenendo accessibili numerosi aspetti di tale presentazione originaria. Spesso, gli oggetti sono esibiti nelle

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loro collocazioni ottocentesche, specialmente laddove le decorazioni sono strettamente legate a un tema (l’antico Egitto, l’antica Roma, ecc.). Talvolta, nuovi oggetti sono stati messi in mostra in spazi antichi riadattati: per esempio, l’ultimo piano del museo è passato dall’ospitare una collezione di stampe e disegni all’ospitare una collezione di reperti preistorici. La scelta è stata compiuta in ragione della decorazione limitata di queste stanze, ritenuta adatta a interagire con oggetti di aspetto semplice e rudimentale. Tuttavia, una traccia dell’antico approccio all’esposizione è stata conservata attraverso la scelta di esibire i reperti all’interno di antiche teche provenienti dal Kunstgewerbemuseum – un’installazione che esemplifica l’approccio espositivo a questo tipo di oggetti caratteristico del XIX secolo (cfr. von Buttlar 2010, p. 90). È evidente che l’installazione espositiva del Neues Museum non è una mera installazione espositiva, ma una che usa gli spazi architettonici e la disposizione tanto dei materiali d’ausilio per l’esposizione quanto degli oggetti messi in mostra per veicolare contenuti e rendere salienti certe proprietà. Per esempio, attraverso la disposizione degli oggetti della collezione nelle sale che li ospitavano anticamente, dove le decorazioni didascaliche sono state se possibile preservate, integrate con nuovi elementi minimalisti ove necessario, e restaurate in modo che i segni del tempo siano ancora visibili su di esse, l’installazione veicola una particolare idea di approccio alle vestigia del passato – sia quello, antichissimo, degli oggetti esposti, che quello, più recente, dell’edificio ottocentesco. Secondo questa idea, la nostra comprensione delle vestigia del passato può migliorare se accompagnata sia dalla consapevolezza della distanza che ci separa da queste (evidenziata dalla presenza di elementi moderni nell’apparato espositivo e dalla visibilità dei segni del tempo su edificio e oggetti esposti) che dalla consapevolezza dei filtri che gli eventi e i cambiamenti culturali intercorsi frappongono fra noi e queste (evidenziata dalla compresenza dei segni dell’antico approccio espositivo, come le pitture didascaliche, e degli elementi del nuovo ap-

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proccio, come l’assenza di lunghi testi esplicativi). Quanto alle proprietà rese salienti dall’installazione espositiva, queste sono anzitutto la proprietà di essere stato trattato con la massima cura, esibita non solo dagli artefatti esposti ma anche dall’edificio del museo e dagli antichi ausili per l’installazione ancora utilizzati (tutti oggetti restaurati con grande attenzione e nel modo meno invasivo possibile) e la proprietà di avere una storia lunga e complessa – essa pure esibita non solo dagli artefatti esposti, che sono ovviamente reperti di tempi e civiltà lontane, ma anche dall’edificio e dagli antichi ausili per l’installazione, che sono testimonianze sia di un approccio all’esposizione museale proprio di un’altra epoca, che della rovina causata dalla Seconda guerra mondiale. L’ubiquità di queste proprietà contribuisce a renderle salienti: il pubblico del museo si trova in un ambiente degno di nota per il fatto di essere costituito, quasi nella sua interezza, da oggetti visibilmente restaurati o comunque frutto di una laboriosa conservazione. Sinora, ho mostrato come l’installazione espositiva del Neues Museum veicoli contenuti e renda salienti alcune proprietà. Concentrandosi sulle caratteristiche che ho descritto, il pubblico apprezza il Neues Museum come installazione espositiva. Come ho anticipato, però, la tesi che voglio difendere è che il Neues Museum è in realtà un’opera d’installation art. Il prossimo passo del mio argomento, perciò, è sostenere che il Neues Museum è, come le opere d’installation art, un’opera interattiva, ossia che il suo profilo mediale è costituito anche dalle esperienze del suo pubblico, che sono contraddistinte da un particolare contenuto. La mia proposta è che, come nel caso delle opere di Neto e Broodthaers analizzate sopra, l’installazione del Neues Museum abbia carattere interattivo, nonostante che i segni dell’interazione dei membri del pubblico con l’opera non siano visibili dopo il loro passaggio attraverso gli ambienti dell’opera. Visitare il museo significa immergersi in un ambiente espositivo che, come ho detto, ha una storia complessa ed evidentemente è stato trattato con la massima cura per essere disponibile allo

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sguardo del visitatore, proprio come gli oggetti della collezione esposti. Questo fatto ha una conseguenza: a differenza che in musei dall’ambiente espositivo neutro (come le diffusissime gallerie in stile white cube)8 o comunque non reso saliente attraverso l’approccio espositivo adottato (come nel caso di molti musei ospitati in edifici esteticamente rilevanti, ma utilizzati solo come cornici per gli oggetti esposti), in un museo così articolato è molto difficile dirigere la propria attenzione solo sulla collezione esposta, ignorando tutto il resto. Allo stesso tempo, i pezzi della collezione sono installati in ambienti ariosi che favoriscono la contemplazione e ritengo non ci sia ragione di sostenere che il contesto espositivo competa con gli oggetti in mostra per guadagnarsi l’attenzione del visitatore. Il Neues Museum, piuttosto, presenta al visitatore una configurazione che lo invita a prestare attenzione al contesto espositivo, per poi soffermarsi sugli oggetti esposti. Ora, la mia proposta è che se il visitatore raccoglie l’invito di concentrarsi prima globalmente sull’installazione espositiva, allora ciò che fa è seguire le regole di partecipazione sancite dal pool di creatori dell’installazione espositiva del Neues Museum e, tramite le proprie azioni, completare l’istanziazione di tale installazione – proprio come avviene con le opere d’installation art. Quale contenuto è veicolato tramite l’esperienza che risulta dal completamento dell’istanziazione dell’installazione grazie alle azioni del visitatore? La mia ipotesi è che il visitatore che esplora l’installazione espositiva mantenendo l’attenzione globalmente su di essa, più che sui particolari oggetti della collezione esposti, può esperire che effetto fa visitare un museo archeologico che non offre una specifica cornice per contestualizzare la collezione e presenta invece solamente le tracce di un’antica cornice offerta per la contestualizzazione (quella del XIX secolo). Questo mostra che il profilo mediale dell’installazione espositiva del Neues Museum coincide con il profilo mediale delle opere d’installation art: l’installazione espositiva veicola contenuti non solo attraverso l’articolazio8  Per

una discussione delle gallerie white cube cfr. O’Doherty (1986).

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ne dei propri spazi, ma anche tramite l’esperienza dei visitatori. Come abbiamo visto nel capitolo 1 (§ 6), però, non è sufficiente mostrare che un oggetto condivide il proprio profilo mediale con le opere che appartengono a una certa forma d’arte per sostenere che tale oggetto è anch’esso un’opera d’arte. In altre parole, il rapporto fra l’installazione espositiva del Neues Museum e un’opera d’installation art potrebbe essere analogo a quello che intercorre fra una tazza da tè fabbricata industrialmente, senza l’obiettivo di farla apprezzare come arte, per quanto questa sia in possesso di proprietà estetiche, e una tazza di ceramica Bizen, ricca di proprietà estetiche e creata nel contesto della pratica di apprezzamento delle tazze di ceramica come arte. Un ulteriore passo del mio argomento consisterà allora nel mostrare che abbiamo ragione di ritenere che l’installazione espositiva del Neues Museum, proprio come le opere d’installation art, sia stata creata nell’ambito della pratica di apprezzamento di questa forma d’arte. Vediamo innanzitutto come si articola l’apprezzamento del Neues Museum come installazione espositiva che ha la stessa struttura dell’installation art, canalizzando però l’attenzione non sul profilo mediale dell’installazione (come faremmo invece se la apprezzassimo come installation art) bensì sulla finalità di questa, che è quella di mettere in mostra le opere della collezione del Neues Museum. Nel contesto di questa pratica di apprezzamento, i contenuti veicolati e le proprietà rese salienti tanto dallo spazio dell’installazione quanto dall’esperienza che ne fanno i visitatori fungono da cornice per l’apprezzamento (culturale, storico, artistico, ecc.) delle opere della collezione. Le opere appaiono così esposte in un contesto spettacolare, fortemente estetizzato, che ne enfatizza il carattere di vestigia di un passato lontano che non è chiaro come approcciare, al punto che al visitatore non è offerta una cornice esplicativa ma, piuttosto, è mostrata l’assenza di una cornice. Va notato che ciò può essere frustrante: certo, l’apparato dell’installazione è magnifico, ma allo stesso tem-

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po questo sembra presentarci gli oggetti della collezione come impenetrabili. La mia proposta è che apprezzare l’installazione espositiva del Neues Museum nell’ambito della pratica di apprezzamento delle opere d’installation art ci permette invece di notare un ulteriore e importante aspetto dell’installazione. Come ho sostenuto, apprezzare un’opera d’installation art come arte è apprezzarla in quanto veicola contenuti e rende salienti proprietà tramite l’articolazione dello spazio e dell’esperienza del pubblico. Questo, in particolare, comporta che l’apprezzamento dell’installation art abbia carattere autoriflessivo: il pubblico dell’installation art apprezza infatti, fra l’altro, certe qualità della propria esperienza dello spazio dell’installazione. Ora, l’ipotesi che ho avanzato sopra è che il visitatore del Neues Museum che faccia attenzione alla propria esperienza dell’installazione possa esperire che effetto fa visitare un museo archeologico che non offre una specifica cornice per contestualizzare la collezione e presenta invece soltanto le tracce di un’antica cornice offerta per la contestualizzazione (quella del XIX secolo). Questa esperienza non ha solo potenzialmente un effetto frustrante, come ho evidenziato, ma possiede anche la proprietà di offrire al visitatore un’occasione in cui questi può farsi carico della storia che lo separa dagli oggetti esposti, accettandone il peso e non liberandosene tramite il loro incasellamento in una cornice esplicativa. Quest’ultima qualità dell’esperienza del Neues Museum è portata alla nostra attenzione nel momento in cui, apprezzando l’installazione espositiva come installation art, indaghiamo in maniera più approfondita la nostra esperienza dell’installazione e facciamo delle ipotesi sulle ragioni per cui il pool di creatori dell’installazione possa aver creato le condizioni perché noi facessimo una certa esperienza del museo. Grazie all’apprezzamento dell’installazione espositiva del Neues Museum come installation art, dunque, possiamo riflettere sull’idea che i processi laboriosi, complessi che stanno dietro l’esibizione delle vestigia del passato in un museo non

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dovrebbero concludersi con l’opera dei conservatori e dei curatori, ma dovrebbero proseguire durante la visita da parte di ciascun visitatore, invitato a stabilire nessi fra gli oggetti e ad assumere così un atteggiamento indagatore, anziché passivo, nei confronti degli elementi della collezione esposti, restando consapevole che l’obiettivo della loro fruizione in un museo non è la loro comprensione una volta per tutte9. L’osservatore che, apprezzando l’installazione espositiva come installation art, recepisce questo invito, può dunque tornare a concentrare la sua attenzione sugli oggetti della collezione con maggior consapevolezza critica. La mia tesi, dunque, è che l’installazione espositiva del Neues Museum ci inviti a esperirla prima come installation art per poi tornare a utilizzarla come installazione espositiva, forti di una maggiore consapevolezza dei processi in atto nel museo e del nostro ruolo attivo in questi. Come sosterrò nel § 5, è ragionevole ipotizzare che il pool di creatori dell’installazione espositiva del Neues Museum aderisca alla teoria, centrale nella museologia contemporanea, che i musei debbano promuovere la partecipazione critica dei visitatori. Ritengo dunque che per questo motivo il pool di creatori del Neues Museum abbia fatto della sua installazione espositiva un’opera d’installation art. Sottolineo infine che non posso certo escludere che vi siano spiegazioni, alternative a quella che ho offerto qui, di come attraverso l’esperienza del Neues Museum sia offerta al visitatore un’occasione per meditare sulla complessità della dinamica dell’incontro con le vestigia del passato; tuttavia, che l’installazione espositiva del Neues Museum ottenga questo effetto perché è un’opera d’installation art mi appare come la 9  Come scrive Karsten Schubert, «Il Neues Museum di Chipperfield, con le sue stratificazioni del passato e del contemporaneo, rende consapevole il visitatore del fatto che la storia non è statica ma sempre, innanzi tutto, una reinterpretazione attraverso occhi contemporanei, guidati e informati da agende attuali. Le opere d’arte in mostra, il programma espositivo di Stüler e le tracce della distruzione e ricostruzione gli ricordano costantemente questo, portando il passato più vicino e rendendo il visitatore un partecipante attivo della sua costituzione. Qui la storia non è stata congelata ma è rimasta viva in una maniera entusiasmante» (Schubert 2009, p. 83).

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spiegazione più naturale. L’installazione espositiva del Neues Museum è nata in un’epoca in cui la pratica dell’installation art è ubiqua e in cui, come mostrerò nel § 5, si riflette sulle affinità fra pratiche curatoriali e pratiche artistiche. In tale contesto, la creazione di un’installazione espositiva che è un’opera d’installation art appare un’eventualità piuttosto verosimile. Per riassumere schematicamente, quella che ho descritto è un’inferenza alla spiegazione migliore. Ho mostrato che il Neues Museum esibisce certe caratteristiche, ho mostrato che l’ipotesi che il Neues Museum sia un’opera d’installation art spiega queste caratteristiche, ho sostenuto che questa mi sembra la spiegazione più naturale di tali caratteristiche e ne ho concluso che l’ipotesi che il Neues Museum sia un’opera d’installation art è corretta (cfr. Iacona 2005, pp. 68-69). Le caratteristiche del Neues Museum per le quali ho cercato una spiegazione sono le seguenti: primo, il Neues Museum è in grado di ottenere l’effetto che il pubblico rifletta, soffermandosi su alcuni aspetti della propria esperienza dell’installazione, sulla complessità del compito di approcciarsi alle vestigia del passato e sul fatto che esso stesso è invitato a fruire criticamente degli oggetti esposti nel museo archeologico; secondo, abbiamo ragione di pensare (come emergerà nel § 5) che i creatori dell’installazione espositiva del Neues Museum volessero ottenere, in qualche modo, l’effetto che il pubblico riflettesse su queste cose. Come ho argomentato, se il Neues Museum fosse un’opera d’installation art esibirebbe esattamente le caratteristiche elencate, mentre se non lo fosse sarebbe difficile dar conto di tali caratteristiche. Alla luce di questo ritengo che la miglior spiegazione delle caratteristiche sopraelencate sia che i creatori dell’installazione espositiva del Neues Museum abbiano prodotto un’opera d’installation art che funziona nella maniera descritta sopra. La mia proposta è dunque che mentre Stüler, con il suo Neues Museum, progettò un’opera d’arte totale, ibrida, con un profilo mediale che comprendeva architettura, scultura, pittura, ecc., Chipperfield e Harrap, i loro collaboratori e il

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team di curatori del Neues Musem con la loro versione del museo hanno prodotto un’opera d’installation art, un’opera interattiva con un profilo mediale simile all’opera d’arte totale di Stüler, ma caratterizzato inoltre dal fatto d’includere anche le esperienze del pubblico. Quanto ho sostenuto non esclude che si possa visitare il Neues Museum senza esperirlo e apprezzarlo come un’opera d’installation art e, soprattutto, non implica che non si possano apprezzare appieno gli oggetti della collezione del museo se non si fa l’esperienza dell’installazione espositiva come opera d’installation art. Messaggi analoghi a quelli veicolati tramite l’articolazione di un’opera d’installation art con gli elementi dell’installazione espositiva del museo possono essere veicolati anche verbalmente, rinunciando tuttavia ai particolari contenuti esperienziali e all’efficacia comunicativa che distinguono la produzione di una particolare situazione che coinvolge attivamente il visitatore. Un visitatore ben informato sullo stato dell’arte dell’attuale teoria del restauro e della teoria museale può varcare la soglia nel Neues Museum già consapevole del genere di messaggio che il pool di creatori di questa installazione espositiva ha cercato di veicolare producendo un’opera d’arte. La possibilità di esperire e apprezzare il Neues Museum come installation art è solo uno dei modi che ci sono offerti per aumentare la nostra consapevolezza riguardo al funzionamento del museo. Nel prossimo paragrafo considero alcune obiezioni che si possono avanzare contro la tesi che ho difeso e nel § 5, come anticipato, contestualizzo brevemente la mia proposta nell’ambito dell’attuale dibattito museologico. 4. Obiezioni e repliche Una prima obiezione che potrebbe essere avanzata alla mia proposta è la seguente: mentre, nel caso del “museo” di Broodthaers, ci troviamo di fronte a un artefatto che fu presentato come opera d’arte da un artista conscio di aver creato

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la parodia di un museo, nel caso del Neues Museum ci troviamo di fronte a un’installazione museale che non è esplicitamente presentata come opera d’installation art. Questo – a quanto mi risulta – è vero: il pool di creatori dell’installazione espositiva non la ascrive alla categoria dell’installation art. Ritengo però che si possa replicare a questa obiezione. Come sottolinea Michel Xhignesse (2016, pp. 22-33), sulla tesi che l’attività di produrre arte sia un’attività intenzionale c’è ampio accordo, ma che cosa significhi per un’azione essere intenzionale è meno chiaro. Vi sono due modi in cui un’azione può essere intenzionale, spiega Xhignesse. Da un lato, un’azione x dipende direttamente dalle intenzioni dell’agente se l’agente intende fare x. Dall’altro lato, un’azione x dipende indirettamente dalle intenzioni dell’agente se l’agente intende fare y, ma fare y comporta la soddisfazione delle condizioni perché si faccia x (anche se l’agente non ne è consapevole). Come ha scritto Peter Kivy, si può fare in modo che un ponte sia sostenuto da due scafi anche senza possedere il concetto di “catamarano” (Kivy 2012, p. 72). Applicando queste considerazioni alle azioni di produzione dell’installazione espositiva del Neues Museum, ne consegue che è possibile che il team che ha realizzato l’installazione abbia inteso (direttamente) produrre un’installazione museale fatta in un certo modo e che potesse esercitare un certo effetto sui visitatori, ma che, producendo tale installazione, abbia di fatto prodotto un’opera d’installation art – ossia abbia inteso indirettamente produrre un’opera in una certa forma d’arte. Questo è quanto ho cercato di mostrare con la mia analisi. Per dirla con Dominic Lopes, il Neues Museum sarebbe un caso di «arte incidentale» (Lopes 2007, p. 9)10. E non sarebbe certo l’unico. Nell’ambito delle nostre pratiche artistiche e critiche accettiamo regolarmente di considerare arte opere che sono state intese come arte solo 10  «S fa un F incidentalmente solo se S intende fare un G, S non intende fare un F, S fa un G e, nel fare un G, S fa anche un F» (Lopes 2007, p. 9). Lopes distingue le azioni incidentali da quelle accidentali: «S fa un F accidentalmente solo se S intende fare un G, un F non è un G, S non riesce a fare un G e, non riuscendo a fare un G, fa un F.» (Lopes 2007, p. 8).

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indirettamente, come per esempio le cattedrali medievali. A che pro? La ragione è che ascriverle alla categoria delle opere d’arte ha valore esplicativo, perché ci permette di apprezzare a pieno le loro caratteristiche o, in altre parole, che genere di oggetti sono. Questo, a mio giudizio, vale tanto per la cattedrale di Notre-Dame quanto per l’installazione espositiva del Neues Museum. In particolare, in quest’ultimo caso, ascrivere l’installazione alla categoria dell’installation art, piuttosto che a un’altra categoria artistica, permette di mettere a fuoco il modo in cui questa veicola certi contenuti, e di ricavarne una lezione, come ho cercato di mostrare. Una seconda obiezione che vorrei brevemente prendere in considerazione è questa: perché non sostenere che l’installazione espositiva del Neues Museum è un (complesso) oggetto quotidiano fortemente estetizzato (visto che somiglia ampiamente alle opere d’installation art), e non un’opera d’arte? Come ha opportunamente sostenuto Yuriko Saito (2008), non comprendiamo adeguatamente gli oggetti quotidiani estetizzati se li trattiamo come arte, perché così facendo manchiamo di apprezzare la loro bellezza in quanto oggetti quotidiani. A questo replicherei che l’installazione espositiva del Neues Museum non è un buon candidato per l’appartenenza alla categoria degli oggetti quotidiani che possono essere estetizzati. Che sia arte o no, l’installazione espositiva del Neues Museum è un oggetto fuori dall’ordinario, che non condivide nulla con i «fenomeni a lungo marginalizzati, se non addirittura esorcizzati, dal sistema culturale tradizionale» (Matteucci 2015, p. 9) indagati dai teorici dell’estetica del quotidiano, come per esempio la moda, la gastronomia e il wellness. In primo luogo, parte dell’installazione è un oggetto architettonico – l’edificio di Stüler restaurato da Chipperfield e Harrap – che, di per sé, si qualifica come opera che appartiene alla forma d’arte “architettura”. In secondo luogo, un’altra parte dell’installazione è costituita da reperti archeologici, molti dei quali sono considerati opere d’arte (l’esempio più famoso è il busto di Nefertiti, che risale al 1345 a.C.). In terzo luogo, il contesto stesso

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dell’esperienza museale, a mio giudizio, ha poco a che vedere con attività semplici che ripetiamo quotidianamente, come per esempio farci il caffè o disporre la frutta in una ciotola, che sono il tipo di fenomeni dei quali l’estetica del quotidiano può aiutarci a comprendere il valore (cfr. Forsey 2015). Un’ultima obiezione che vorrei prendere in considerazione è la seguente: perché non sostenere che l’installazione espositiva del Neues Museum è frutto di un processo di “artificazione”, anziché insistere sulla sua natura di opera d’installation art? Gli oggetti “artificati”, a differenza di quelli estetizzati, sono oggetti prodotti con la consapevolezza che non si tratta di opere d’arte e insieme con l’intento di renderli simili a opere d’arte (cfr. la discussione delle posizioni di Naukkarinen e Saito in Andrzejewski 2015). Il vantaggio di questa posizione risiederebbe nella sua semplicità: sostenere che il pool di creatori dell’installazione espositiva del Neues Museum ha inteso creare un oggetto simile a opere d’installation art è molto semplice, visto quanto ho argomentato sopra. Ritengo però che sarebbe un errore categoriale considerare l’installazione espositiva del Neues Museum un oggetto “artificato”, perché ciò implicherebbe che l’oggetto non soddisfi le condizioni per essere ascritto alla categoria dell’installation art. Al contrario, come ho cercato d’illustrare, comprendere adeguatamente l’installazione espositiva del Neues Museum e il messaggio che questa veicola ai visitatori richiede di comprendere non solo che questa condivide il proprio profilo mediale con le opere d’installation art, ma anche che è stata presentata con l’intenzione (indiretta) che fosse apprezzata nell’ambito della pratica di apprezzamento dell’installation art. 5. Un museo partecipativo Una contestualizzazione delle tesi che ho avanzato in questo capitolo nell’ambito delle proposte teoriche e critiche sui musei richiederebbe moltissimo spazio. Negli ultimi cinquant’anni il

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numero di musei nel mondo è cresciuto esponenzialmente e con esso le riflessioni attorno al funzionamento, ai compiti e ai limiti di tali istituzioni11. Qui mi limiterò ad accennare alle origini del ripensamento contemporaneo dei musei che espongono opere d’arte, ad alcune discussioni sul carattere interattivo dei musei, ad analisi del Neues Museum che ne sottolineano la natura partecipativa e al dibattito sull’affinità fra lavoro del curatore e lavoro artistico. Il mio obiettivo è mostrare, collocando la mia proposta in questo panorama, la realisticità dell’ipotesi, avanzata nel § 3, che uno degli obiettivi del pool di creatori dell’installazione espositiva del Neues Museum consistesse nell’invitare il pubblico, tramite la creazione di un’opera d’installation art, a riflettere sulla complessità del compito di approcciarsi alle vestigia del passato e sul fatto che i visitatori stessi sono chiamati a contribuire a questo tipo di lavoro intellettuale affrontando la visita del museo con spirito critico. Con la nascita dei musei d’arte nasce anche lo scetticismo nei loro confronti. Già Quatremère de Quincy (1796), riflettendo sullo spostamento di numerose opere d’arte italiane a Parigi – molte delle quali verso il Louvre – in seguito alla prima campagna d’Italia di Napoleone (1796-1797), lamentò che allontanando opere antiche e rinascimentali dal loro contesto storico se ne sarebbe distrutto il significato. L’archeologo francese sollevò un problema che sarebbe divenuto centrale per la museologia contemporanea e che presenta due aspetti: il primo è quello del danneggiamento delle opere situate, ossia ancorate fisicamente a qualche sito (cfr. cap. 3), una volta che queste sono sradicate dai loro siti ed esposte nei musei; il secondo, e più ampio, è quello dei rischi di distorsione interpretativa che sorgono quando s’incontra qualsiasi opera prodotta nell’ambito di una cultura o un’epoca diversa, al di fuori del suo contesto di origine – come avviene in moltissimi musei d’arte. 11  Secondo l’UNESCO il numero dei musei al mondo è passato da circa 22.000 nel 1975 a circa 95.000 oggi (www.en.unesco.org/themes/museums, ultimo accesso 5 giugno 2020).

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Nel secondo ’800 e nel primo ’900, poi, emerse una sensibilità avversa alla presentazione delle opere d’arte nei termini di una storia dell’arte – una storia lineare, progressiva e universale, enciclopedica, di matrice illuminista, spesso piegata alle necessità di legittimazione e auto-celebrazione degli Stati nazionali e caratteristica dei grandi musei fondati nel XIX secolo, fra i quali il Neues Museum, come abbiamo visto. Per esempio, Charles Baudelaire scrisse: C’è un altro errore, molto alla moda, che mi preme evitare come il diavolo. Sto parlando dell’idea di “progresso”. Trasportata nella sfera dell’immaginazione – e ci sono state delle teste calde, dei fanatici della logica, che hanno tentato di farlo – l’idea di progresso entra al centro della scena e, immensamente assurda, il suo livello di grottesco è da incubo. [...] In ambito poetico e artistico i veri profeti sono raramente preceduti da dei precursori. Ogni fioritura è spontanea, individuale (Baudelaire 1855, p. 219).

Un primo modello di museo d’arte alternativo a quelli ottocenteschi si affermò dopo la Seconda guerra mondiale. Un esempio illustre è il Museum of Modern Art a New York – un museo dall’architettura funzionale, che sviluppò la modalità di esposizione paradigmatica della concezione modernista dell’arte che dominò la prima metà del XX secolo – una concezione che, semplificando, insisteva sulla rilevanza dell’innovazione, della sperimentazione formale e dell’astrazione, e in particolare, con i contributi di Clement Greenberg, sulla necessità che le opere facessero emergere l’essenza della forma d’arte in cui erano prodotte (cfr. per es. Greenberg 1961). Le opere moderniste, spesso frutto di laboriose astrazioni, richiedono perciò un’attenzione esclusiva e spazi adatti per esercitarla. Come spiega Michaela Giebelhausen, Il MoMA puntò a creare spazi espositivi allo stesso tempo flessibili e “neutri”. L’estetica del white cube ebbe origine qui. La maggior parte delle forme espositive precedenti aveva situato le opere in interni ricchi, che fossero palazzi principeschi o i maestosi musei del diciannovesimo secolo. Gli interni del white cube, invece, cercavano di dirigere l’attenzione verso gli oggetti: puntavano a realizzare uno spazio che invitasse alla contemplazione estetica e all’immersione senza distrazioni. Le opere erano

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appese a muri bianchi, i pavimenti monocromatici, i soffitti disadorni e funzionali, dotati di sistemi di rilevamento discreti, per avere un sistema d’illuminazione flessibile. Come la tradizionale infilata di gallerie – derivante dall’architettura dei palazzi – era stata la norma per gli spazi museali ottocenteschi, il white cube divenne il paradigma modernista dello spazio espositivo, che avrebbe dominato gli spazi di musei e gallerie d’arte per tutta la seconda metà del ventesimo secolo (Giebelhausen 2006, p. 233)12.

Se la concezione modernista dell’arte secondo la quale sono articolati gli spazi espositivi del MoMA è un criterio che marca una rottura rispetto alla narrazione storica e progressiva dei musei ottocenteschi, questa spinge però in direzione opposta all’interesse per la tutela dell’arte situata, che aveva portato a sollevare perplessità sulle operazioni di musealizzazione delle opere d’arte già all’epoca della nascita dei primi musei alla fine del XVIII secolo, come abbiamo visto. A contestare gli spazi del white cube e la concezione modernista dell’arte pensarono, negli anni ’60 e ’70, i primi sperimentatori dell’installation art, come abbiamo visto, e dell’arte sito-specifica, come vedremo nel prossimo capitolo. Come spiega Douglas Crimp, l’idealismo dell’arte modernista, che vedeva nell’oggetto artistico di per se stesso un significato fisso e trans-storico, determinò lo spaesamento dell’oggetto artistico, il fatto che esso non appartenesse a nessun luogo in particolare, che stesse in un non-luogo che era in realtà il museo – il museo vero e proprio e anche il museo come rappresentazione del sistema istituzionale di circolazione dell’arte che comprende anche lo studio dell’artista, la galleria commerciale, la casa del collezionista, il giardino di sculture, il centro commerciale, gli atri delle sedi delle corporation, le camere di sicurezza delle banche. [...] L’arte sito-specifica si oppose a questo idealismo – e svelò il sistema materiale che questo oscurava, rifiutando la mobilità e la circolazione delle opere e decidendo di appartenere a luoghi specifici (Crimp 1993, p. 17).

Temi analoghi iniziarono a essere esplorati da filosofi e sociologi negli stessi anni e portarono poi a un movimento di discussione e ripensamento della pratica museologica negli anni 12  Sull’estetica

del white cube cfr. O’Doherty (1986).

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’80 e ’90. In particolare, alla critica al sistema commerciale dell’arte si affiancò quella al ruolo sociopolitico delle istituzioni museali. In una conferenza tenuta nel marzo del 1967 Michel Foucault caratterizzò il museo e la biblioteca come casi di spazio eterotopico, un tipo (presente in tutte le culture) di spazi (variabili a seconda della cultura) concepiti per differire da tutti gli altri spazi compresi nella loro cultura d’appartenenza, deputati a ospitare attività non ammesse negli altri spazi interni alla cultura in questione o intesi come spazi artificiali e perfetti, in antitesi ai luoghi imperfetti che abitiamo usualmente. Le eterotopie, secondo Foucault, sono in grado di racchiudere in sé molti spazi e tempi differenti – come si può dire avvenga sui palcoscenici teatrali e sugli schermi cinematografici, ma anche nei musei e nelle biblioteche, nonché nei parchi di divertimento e nei villaggi-vacanza (cfr. Foucault 1984). Carol Duncan e Alan Wallach (1980) sostengono, in sintonia con Foucault, che i grandi musei generalisti come per esempio il Louvre o la National Gallery di Londra sono luoghi designati a ospitare oggetti strappati al loro contesto e alla loro funzione originaria – luoghi, dunque, che racchiudono oggetti provenienti da molti altri luoghi e tempi – e perché in essi possa svolgersi un rito di celebrazione dell’autorità dello Stato, che è anche una transazione in cui al visitatore è permesso di godere del patrimonio spirituale manifestato dalle opere in mostra in cambio della sua adesione a quei valori spirituali come valori stessi dello Stato che li tutela attraverso il museo. Il museo generalista, secondo Duncan e Wallach, ha la funzione di imporre al cittadino l’adesione ai principi dello Stato che amministra il museo e a una narrazione della storia dell’arte che legittima i valori della classe media (sullo stesso tema cfr. anche Bennett 1988). La svolta, nella museologia, fu segnata da un volume curato da Peter Vergo e opportunamente intitolato The New Museology (Vergo 1989). La museologia, che sino ad allora si era principalmente occupata di studiare i metodi di conservazione del patrimonio museale, l’amministrazione delle istituzioni

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museali e le metodologie di esposizione, si riconfigurò come disciplina che avrebbe svolto anche un ruolo critico dei fondamenti concettuali, delle assunzioni e delle finalità dei musei. Come si può dedurre dai contributi raccolti in alcuni autorevoli manuali di studi museali (Macdonald 2006; Marstine 2006; Dewdney et al. 2013), la museologia più recente non solo ha recepito le istanze della “nuova museologia”, ma cerca anche di coniugarle a un’attenzione senza precedenti ad altri aspetti delle attività condotte nei contesti museali, toccando, fra l’altro, questioni legali, etiche ed economiche. Eilean Hooper Greenhill descrisse così il nuovo approccio che i musei andavano sperimentando negli anni ’80 e ’90: Ha preso forma una nuova tecnica espositiva che consente di frammentare il significato del manufatto e di introdurre prospettive d’interpretazione diverse, punti di vista molteplici. In passato, l’oggetto esposto era accompagnato da una didascalia che lo fissava entro un quadro di riferimento monolineare. Una sedia era “fabbricata in legno di quercia nel XVII secolo”; un’arma era identificata dalla portata del fuoco; un copricapo piumato delle isole Salomone era un oggetto esotico proveniente dalle colonie. I contesti umani, sociali e culturali dei manufatti erano resi invisibili da queste strategie: oggi, gli oggetti in mostra sono accompagnati da quadri di riferimento molteplici che consentono di contestualizzarli (Hooper-Greenhill 1992, p. 245).

In estrema sintesi, il funzionamento di numerosi musei negli ultimi quarant’anni si è fondato sull’ipotesi che fornire quadri di riferimento molteplici per gli oggetti esposti permette di contestualizzarli meglio, di evitare di presentarli nell’ambito di una cornice riduttiva come quella incentrata sulla narrazione del “progresso” della storia dell’arte caratteristica dei musei ottocenteschi, e anche di mostrare il modo in cui lavora il museo, presentandolo così come istituzione in dialogo con il pubblico, anziché come dispositivo per l’esercizio del potere. Fra le tecniche adottate dai musei contemporanei per moltiplicare i punti di vista attorno agli oggetti esposti vi sono gli inviti rivoli al pubblico a “guardare dietro le quinte” del museo, con visite ai depositi, ai laboratori per la conservazio-

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ne, agli archivi fotografici e, talvolta, anche con iniziative di collaborazione fra pubblico e curatori nell’allestimento di una mostra; l’implementazione di archivi elettronici accessibili al pubblico (spesso nelle sale stesse del museo) che mettono a disposizione copiose informazioni sulle collezioni e sul funzionamento del museo; il ripensamento dell’architettura museale in chiave non-celebrativa e, meno spesso, non-monumentale; la moltiplicazione degli spazi interattivi, attraverso l’uso di computer o la manipolazione diretta degli oggetti in mostra (cfr. Hooper-Greenhill 1992, pp. 239-255). Non rientra tra gli scopi di questa discussione valutare la robustezza degli assunti teorici alla base delle nuove strategie adottate nei musei, né l’opportunità e l’efficacia di tali strategie (per alcuni contributi filosofici in proposito cfr. Carrier 2006; Gaskell 2012; Harrison et al. 2016). Qui voglio invece brevemente soffermarmi su una delle nuove strade esplorate in ambito museologico, che consiste nella progettazione di spazi che accentuano l’interazione fra pubblico e opere esposte. Falk e Dietring (1992) hanno introdotto l’espressione “modello dell’esperienza interattiva” (Interactive Experience Model) per riferirsi agli approcci ai musei che tengono conto dell’impatto che hanno sulla visita non soltanto i fattori personali (come le esperienze, le conoscenze e gli interessi dei visitatori) e sociali (come l’appartenenza dei visitatori a particolari gruppi sociali e la distinzione fra personale dei musei e visitatori), ma anche la struttura dello spazio fisico dei musei (per un’analisi filosofica affine a questa posizione cfr. per es. Sutton 2007). La comunicazione attraverso la costruzione di esperienze pregnanti per i visitatori che percepiscono lo spazio museale e sono consapevoli della propria presenza al suo interno è oggetto di numerosi studi (per una rassegna cfr. Tzortzi 2015). Barndt (2011), Giebelhausen (2012), e Parker (2013), in particolare, hanno proposto analisi del funzionamento degli spazi del Neues Museum che sottolineano la creazione, all’interno del museo, di un’atmosfera che accentua l’attenzione nei confronti del trascorrere delle epoche stori-

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che e degli eventi, e dei suoi effetti, da parte del visitatore. La descrizione del museo che ho fornito nel § 3 s’inserisce nel solco di questi studi – che tuttavia non si soffermano sull’affinità fra questo e le opere d’installation art. Un passo ulteriore verso l’individuazione di tali affinità mi è stato poi permesso dall’applicazione del modello esplicativo proposto da Valerie Casey (2005), secondo la quale i musei possono sfruttare la dimensione performativa invitando i visitatori all’autoriflessione attraverso la costruzione di esperienze partecipative (per una proposta affine cfr. anche Hegenbart 2016). La mia tesi è poi in linea con quanto ha affermato Joshua Parker, sostenendo che nel Neues Museum «proprio come ciò che resta della struttura originaria richiama l’attenzione sulla mancanza degli elementi architettonici che non ci sono più, l’“assenza” della “storia” originaria del museo sembra richiedere un racconto» (Parker 2013, p. 58). Secondo Parker, il museo affida ai visitatori il compito di elaborare un «racconto» intorno agli oggetti in mostra (in mancanza di quello elaborato nel XIX secolo), non solo cercando di contestualizzare i pezzi della collezione, ma anche riflettendo sui fattori che hanno portato alla mancanza di ciò che è assente, specialmente per quanto riguarda l’edificio del museo, che porta i segni delle distruzioni della Seconda guerra mondiale. Che il museo sia stato concepito per generare l’attiva partecipazione del pubblico è suggerito anche da David Chipperfield: [Il museo] è stato incredibilmente difficile da realizzare. […] C’è stato bisogno che ogni persona coinvolta in questo progetto desse il meglio di sé. Tutti sono stati coinvolti. Tutti quelli che non sono architetti possono portare degli altri a visitare l’edificio e appassionarsi a questo come ho fatto io, perché lo sentono come proprio (de Kort e van Schaik 2011, p. 10).

La mia proposta, infine, s’inserisce nel solco del dibattito condotto nell’ambito della teoria della curatela circa l’eventualità di considerare il frutto del lavoro di alcuni curatori d’arte fortemente affine al lavoro artistico o esso stesso arte. Per quanto mi risulta, la letteratura si è limitata a indicare

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somiglianze fra lavoro del curatore e pratica artistica (cfr. per es. Obrist 2011; 2015; Smith 2012; Voorhies 2017), sottolineando l’affinità fra le due pratiche, in certi casi, e, più raramente, argomentando che alcuni curatori sono dei veri e propri artisti (Ventzislavov 2014; 2016 – questa proposta è criticata da Spaid 2016). Con la tesi difesa in questo capitolo ho suggerito l’applicazione di un diverso metodo per la discussione di questo tema: per sostenere che una certa installazione espositiva realizzata da un curatore è arte bisogna sostenere che questa è presentata per essere apprezzata nell’ambito di una pratica di apprezzamento artistico già consolidata (in altre parole, che appartiene a una certa forma d’arte)13. È poi consueto, nell’ambito di questa letteratura, sottolineare i rischi che l’assimilazione del lavoro del curatore a quello dell’artista porrebbe a un’adeguata presentazione delle opere d’arte oggetto di curatela: l’installazione espositiva come opera d’arte s’imporrebbe all’attenzione del pubblico, lasciando sullo sfondo le opere d’arte che la costituiscono e ostacolandone così un’appropriata fruizione. L’intuitività di questa tesi è indiscutibile, non così l’opportunità di generalizzarla a tutte le installazioni espositive che dovessero risultare essere opere d’arte, a mio giudizio. Come ho accennato sopra, nel caso del Neues Museum, la natura d’installation art dell’installazione espositiva permette invece di veicolare contenuti in grado di potenziare l’attenzione del pubblico sulle opere d’arte che sono parte di tale installazione. Questo tema merita però un più ampio approfondimento, che rimando a una sede futura. Conclusioni In questo capitolo ho sostenuto che l’installazione espositiva del Neues Museum di Berlino si distingue da altre instal13  In alternativa si può sostenere, con un’indagine retrospettiva, che tale installazione ha inaugurato una nuova forma d’arte, la pratica di apprezzamento della quale si è poi consolidata nel corso del tempo (cfr. Lopes 2014, cap. 10).

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lazioni espositive per il fatto che non è semplicemente simile a opere d’installation art, ma merita di essere considerata e apprezzata come opera d’installation art a tutti gli effetti. La mia ipotesi, in particolare, è che apprezzare il Neues Museum come opera d’installation art offra un’occasione al visitatore per meditare sull’importanza dell’assumere un atteggiamento di attiva analisi degli oggetti esposti nel museo. Come ho sostenuto, è comprendendo che l’installazione espositiva del Neues Museum è opportunamente apprezzata come installation art che possiamo cogliere pienamente i contenuti veicolati tramite la sua articolazione: individuare correttamente la categoria di appartenenza di questa installazione offre dunque dei vantaggi esplicativi.

III. Arte e siti: una tassonomia

In questo capitolo metto in luce alcuni tipi di rapporti che le opere d’arte possono istituire con i luoghi in cui sono collocate e con i contesti storici, sociali e culturali in cui sono prodotte, la comprensione dei quali è importante per le nostre teorie sull’apprezzamento, l’esposizione e la conservazione dell’arte. L’espressione “arte sito-specifica” fu introdotta nel vocabolario critico-artistico verso la fine degli anni ’70 – forse la prima pubblicazione di rilievo che la impiega è Being and Circumstance di Robert Irwin (1985). Molti concordano nel descrivere l’arte sito-specifica come un fenomeno contemporaneo, emerso negli anni ’60 (cfr. Crimp 1986; Foster 1996; Meyer 2000; Coles 2000; Kaye 2000; Kwon 2002). Numerose opere d’arte prodotte in epoche precedenti e culture diverse godono però di particolari relazioni che le legano ai loro siti di collocazione, come emergerà dagli esempi che analizzerò nella prima parte di questo capitolo (§§ 1-5). Vi sono particolari relazioni fra opere e siti di cui godono solo le opere che la letteratura contemporanea definisce “sito-specifiche”? A questa domanda cerco di rispondere nella seconda parte del capitolo (§§ 6-9). A quanto mi risulta, la letteratura critica sui rapporti fra opere d’arte e loro siti di collocazione è limitata e si è concentrata quasi esclusivamente sull’arte contemporanea1. In particolare, non mi risulta che sia stata proposta un’analisi complessiva dei rapporti fra opere d’arte e loro siti 1  Per alcuni studi sul carattere situato di alcune opere di Michelangelo e di Federico Barocci, e di molteplici opere di arte barocca cfr. Gillgren (2011; 2017) e Gillgren e Snickare (2012).

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di collocazione. Per questa ragione, in quanto segue mi distanzio spesso dalla letteratura, concentrandomi sull’analisi della struttura delle opere. Non ho la pretesa di offrire una tassonomia completa dei rapporti fra opere e siti, ma mi auguro che le distinzioni qui presentate possano essere d’aiuto per analisi più approfondite. 1. Arte non situata e arte situata Tutte le opere d’arte che sono oggetti fisici o eventi, e tutte le istanziazioni di opere d’arte (nel caso di opere che sono tipi, o individui non fisici con istanziazioni materiali), sono collocate o avvengono in luoghi fisici – per semplicità, d’ora in avanti userò il termine “opere” per riferirmi sia alle opere che alle istanziazioni di opere. La Gioconda è al Louvre, un’improvvisazione jazzistica avviene in un luogo e in un tempo preciso, le istanziazioni di Psychic: All the things I know but of which I am not at the moment thinking – 1:36p.m.; June 15, 1969 (1969) di Robert Barry sono collocate ovunque vi sia un’iscrizione, autorizzata dall’artista, della frase che costituisce anche il titolo dell’opera, e le esecuzioni della Nona di Beethoven avvengono sempre in qualche luogo fisico – di solito, un teatro. La tesi che difenderò in questo paragrafo è che mentre tutte le opere sono collocate in luoghi fisici, solo alcune di queste sono meglio descritte come situate. Un’opera situata, come spiegherò, ha con il sito in cui è collocata un rapporto ulteriore a quello di collocazione. Pensiamo a una natura morta di Giorgio Morandi: per esperire un’opera di questo genere opportunamente abbiamo bisogno di percepire quel lato del suo supporto fisico (una tela) che è stato dipinto da Morandi e nient’altro. Chiaramente, l’ambiente fisico in cui l’opera è collocata ha un impatto sulla percezione di questa: per esempio, se la stanza dove il dipinto è appeso a una parete è al buio non possiamo percepire l’opera. Immaginiamo, però, che l’opera sia stata dipinta

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con pigmenti ugualmente visibili in tutte le condizioni luminose – compreso il buio assoluto. In questo caso, le condizioni luminose dell’ambiente di collocazione non influenzerebbero la percezione dell’opera. Se tuttavia, per esempio, un pannello di legno coprisse la superficie del dipinto, non potremmo percepire l’opera. La morale da trarre da questi scenari immaginari è la seguente: aspetti dell’ambiente fisico in cui è collocata l’opera sono rilevanti per l’esperienza di questa solo nella misura in cui contribuiscono a rendere l’opera percepibile in un modo che rispetta quanto sancito dal suo autore. Le «sanzioni» dell’autore sono definite da Sherri Irvin come «azioni e comunicazioni pubblicamente accessibili» (Irvin 2005, p. 315) quali, per esempio, presentare un’opera in un certo contesto, darle un certo titolo, accompagnare l’opera con certe dichiarazioni, istruire i galleristi su come esporla (ivi, pp. 319-320). Le sanzioni possono riguardare il modo in cui vanno fissati i confini fisici di un’opera, quali aspetti dell’opera sono importanti per interpretarla (non quali interpretazioni dell’opera siano appropriate, attenzione!), a quale genere o quali generi l’opera appartiene, e se una certa caratteristica che l’opera possiede è rilevante per il suo carattere di opera d’arte o meno (ivi, pp. 315-316; per le origini di questa teoria cfr. Walton 1970 e Levinson 1996, pp. 188-189)2. Mo2  Come visto nel cap. 1 (§ 6), Irvin discute anche le regole per la produzione delle istanziazioni delle opere d’installation art, per la partecipazione del pubblico a tali opere e per la conservazione di tali opere. Queste regole sono un particolare tipo di sanzioni effettuate dagli artisti. Quanto sottolineato nel cap. 1 a proposito delle regole vale anche, in generale, per le sanzioni: non necessariamente queste sono il prodotto dell’invenzione dell’artista, ma possono anche essere il frutto della sua adesione (talvolta irriflessa) a convenzioni consolidate nella comunità di artisti della quale questi si riconosce come membro (cfr. Irvin 2005, pp. 221-222). Come spiega Irvin (2005, pp. 320-322), all’origine di una sanzione vi è l’intenzione dell’artista che l’opera abbia certe caratteristiche, ma comprendere le sanzioni non è questione d’interpretare le intenzioni degli artisti: occuparsi di sanzioni è invece occuparsi di azioni che sono state efficacemente svolte dagli artisti e delle quali vediamo le tracce, nonchè di documenti accessibili delle loro intenzioni. In particolare, il tipo d’intenzioni all’origine delle sanzioni sono quelle che Jerrold Levinson (1996, p. 188), sulla scorta di Kendall Walton (1970), chiama “intenzioni categoriali” – che vanno distinte dalle intenzioni che un’opera significhi certe cose (quelle che Levinson chiama “intenzioni semantiche”). Le prime, spiega Levinson, hanno a che vedere con come s’intende

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randi, per esempio, ha sancito che le sue nature morte sono dipinti i cui confini sono quelli delle tele che costituiscono il loro supporto fisico e lo ha fatto presentando questi dipinti in un contesto (quello artistico degli anni ’40 in Europa) in cui una tela dipinta da un artista era solitamente considerata come il veicolo di un’opera pittorica i cui confini coincidevano con quelli della tela stessa. Per questa ragione, tutto quello che ci occorre per esperire una natura morta di Morandi opportunamente è l’accesso percettivo al lato della tela dipinto dall’artista. Queste considerazioni sono generalizzabili a tutte le opere: sono le sanzioni dell’artista a istruirci su quali condizioni deve soddisfare l’ambiente in cui l’opera è collocata perché questa possa essere esperita opportunamente. Consideriamo, ora, la chiesa di Notre-Dame a Parigi: sosterrò che si tratta di un’opera che ha relazioni ulteriori a quella di collocazione con il sito in cui sorge. In primo luogo, questa incorpora stabilmente una porzione del territorio della città di Parigi di oltre seimila metri quadri – lascerò tuttavia momentaneamente da parte la discussione di questo aspetto, su cui tornerò nel § 4. In secondo luogo, Notre-Dame è un’opera la cui identità è indissolubilmente legata alla sua presenza nel contesto del tessuto urbano di Parigi, come suggerisce che una certa opera sia classificata dal pubblico, mentre le seconde hanno a che vedere con l’interpretazione del significato dell’opera. La più basilare delle intenzioni categoriali, sottolinea Levinson, è quella che stabilisce se un’opera appartenga a una certa forma d’arte piuttosto che a un’altra (la letteratura piuttosto che la pittura, il teatro piuttosto che la scultura, ecc.). Mentre, com’è noto, il dibattito sull’interpretazione delle intenzioni semantiche degli artisti è molto ampio e offre spazio a posizioni anti-intenzionaliste (e, nel caso estremo, alla teoria che interpretare un’opera non ha a che vedere con il cogliere le intenzioni semantiche del suo autore), le intenzioni categoriali sembrano dipendere in maniera insindacabile dalle decisioni e dai comportamenti degli artisti (per un’introduzione al dibattito sulle intenzioni semantiche cfr. Hudson Hick 2017, cap. 3). Infine, come abbiamo visto nel cap. 2 al § 4, Lopes (2007) e Xhignesse (2016) sottolineano che si possono avere intenzioni categoriali indirette, ossia che si possa intendere fare y, laddove fare y comporta la soddisfazione delle condizioni perché si faccia x (anche se l’agente non ne è consapevole), e agire in modo da soddisfare le proprie intenzioni (dirette e indirette). Ne segue che possono esserci anche sanzioni indirette (come per esempio quella che l’installazione espositiva del Neues Museum vada considerata come un’opera d’installation art, secondo quanto ho proposto nel cap. 2).

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l’intuizione che se trasportassimo la chiesa pietra per pietra a Las Vegas, ricostruendo l’edificio di Parigi in ogni dettaglio, la danneggeremmo irreparabilmente (cfr. Bacchini 2017, p. 88)3. Analogamente, se immaginiamo che a Parigi vi sia il buio più assoluto e che l’edificio di Notre-Dame sia però stato realizzato con materiali visibili in qualsiasi condizione di luminosità, in modo da essere l’unica parte visibile della città, abbiamo l’intuizione che la nostra esperienza di Notre-Dame in tali condizioni non sarebbe completa. Sembra dunque possibile ipotizzare che il sito dove la chiesa di Notre-Dame è collocata sia parte integrante del veicolo dell’opera. Anche nel caso di Notre-Dame, per comprendere quali sono i confini dell’opera dobbiamo comprendere che cosa è stato sancito in proposito da chi l’ha prodotta. Come spiega Irvin (2005, p. 315), le sanzioni degli artisti – non importa che in questo caso non conosciamo l’identità degli architetti della cattedrale – tipicamente riguardano i confini delle loro opere: nel caso di Notre-Dame è possibile ipotizzare che i confini si estendano all’intera città di Parigi, o per lo meno a tutta l’area della città visibile dagli spazi della chiesa (su questa idea tornerò sotto). Consideriamo ora un’opera con più istanziazioni: il gruppo scultoreo Les Bourgeois de Calais (1884-1889) di Auguste Rodin: questa scultura in bronzo ha dodici istanziazioni autorizzate – una si trova in una piazza a Calais, un’altra è installata a Londra nei Victoria Tower Gardens, al di fuori delle Houses of Parliament, e le altre dieci sono installate in musei in diversi continenti4. Solo le istanziazioni della statua a Calais e a Londra godono di un rapporto ulteriore a quello di collocazione con il sito dove sono installate. A Calais la statua, grazie alla sua collocazione in una piazza pubblica, manifesta l’orgoglio della città per i sei cittadini locali d’alto 3  Per una veduta aerea della chiesa: www.en.wikipedia.org/wiki/Notre-Dame_ de_Paris#/media/File:Notre_dame_view_from_Montparnasse_Tower.jpg (ultimo accesso 5 giugno 2020). 4  Per un’immagine dell’istanziazione della statua a Calais v. www.nn.wikipedia. org/wiki/Borgarane_frå_Calais#/media/Fil:Calais_mairie_bourgeois_de_calais.jpg (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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rango che nel 1346, durante la Guerra dei Cent’anni, si offrirono per essere imprigionati (e probabilmente uccisi), su richiesta di Edoardo III d’Inghilterra, che in cambio avrebbe risparmiato i loro concittadini, arresisi alle sue truppe dopo un assedio; a Londra la statua non solo commemora i sei bourgeois ma, grazie alla sua collocazione nei pressi degli edifici parlamentari, omaggia la Francia. Le dieci istanziazioni installate nei musei, invece, non godono di simili rapporti con i siti in cui sono collocate. Nuovamente, propongo che i siti costituiti dalla città di Calais e da quella di Londra siano parte integrante dei veicoli delle istanziazioni della statua di Rodin a Calais e a Londra, rispettivamente5. Il confronto fra la natura morta di Morandi, da una parte, e la chiesa di Notre-Dame e le due istanziazioni di Les Bourgeois de Calais, dall’altra, mostra allora che possiamo sostenere due tesi distinte, a proposito del rapporto fra ambiente di collocazione e opere o istanziazioni di opere: la prima, come abbiamo visto, è che, per tutte le opere che sono oggetti fisici o eventi e tutte le istanziazioni di opere, l’ambiente fisico in cui queste sono collocate è rilevante per la loro esperienza solo nella misura in cui contribuisce a rendere i loro veicoli percepibili in un modo tale da rispettare quanto sancito dal loro autore; la seconda è che i veicoli di alcune opere e di alcune istanziazioni di opere sono insiemi costituiti da certi oggetti fisici o eventi più gli ambienti fisici in cui questi sono installati o hanno luogo. Propongo di chiamare le opere e le istanziazioni appartenenti al secondo gruppo “opere situate” e “istanziazioni situate”, e quelle appartenenti al primo gruppo “opere non situate” e “istanziazioni non situate”. Le opere situate godono di una relazione con i loro siti che è ulteriore a quella di collocazione, dal momento che includono i loro siti nei propri veicoli. 5  Vi

è un problema di vaghezza nell’individuazione dei siti di molte opere situate, del quale non mi occuperò qui. Per esempio, non è chiaro se il sito dell’istanziazione della statua di Rodin a Calais si estenda alla sola città di Calais o alla sola regione di Calais. Per delle introduzioni alle questioni sulla vaghezza cfr. Paganini (2008) e Moruzzi (2012).

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2. Contesto fisico e contesto storico, culturale e sociale In una discussione delle opere situate è poi opportuno tracciare un’ulteriore distinzione, questa volta fra due sensi in cui possiamo parlare del contesto di un’opera. In senso fisico, il contesto di un’opera è il suo ambiente di collocazione; rispetto a questo, come ho sostenuto, l’opera può essere situata o non situata. In senso più ampio (storico, culturale, sociale), il contesto di un’opera sono l’epoca, la cultura, la società in cui questa è prodotta – indicherò questo con “contesto*”. Fruire di un’opera nel suo contesto* ci aiuta di solito ad apprezzarla meglio, perché grazie alla presenza del contesto* abbiamo facilmente disponibili informazioni per contestualizzare l’opera, appunto, dal punto di vista storico, sociale e culturale. Apprezzare come arte una scultura Yoruba contemporanea nell’ambito della comunità in cui è stata prodotta (per esempio nella città di Osogbo, in Nigeria), in cui la tradizione di realizzazione di sculture in uno stile riconoscibile, nonostante le innovazioni, si tramanda da secoli, può riuscirci meglio che non in un museo di arte contemporanea in Italia6. In numerosi casi, però, la fruizione nel contesto* non è possibile, o perché l’opera è stata trasportata in un luogo che appartiene a una cultura e una società diverse da quelle nell’ambito delle quali è stato prodotto, o perché, com’è ovvio per moltissime opere d’arte, è passato del tempo dall’epoca di creazione dell’opera e possiamo dire che la cultura e la società in cui questa è nata non esistono più. È però errato pensare che, se un’opera è posta al di fuori del suo contesto*, questa perde qualche sua 6  Analogamente, apprezzare una pala d’altare in una chiesa in cui è tuttora venerata è ben diverso che incontrarla in un museo, perché nella chiesa questa svolge anche una funzione rituale, il che ne rivela il valore religioso e simbolico (cfr. Feagin 1995, pp. 265-266). È anche possibile sostenere che, in alcuni casi, opere rivestite di valore simbolico o religioso perdano tale valore se trasportate in un contesto fisico diverso da quello originario – ciò dipenderà dalle credenze vigenti nella cultura dove queste rivestono valore simbolico o religioso. Le mie considerazioni in quanto segue, tuttavia, riguardano esclusivamente il valore artistico delle opere, ossia il valore che attribuiamo loro in quanto opere d’arte, e cioè in quanto oggetti trattati come media artistici, e non in quanto oggetti con valore, per esempio, simbolico o religioso.

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proprietà essenziale in quanto opera d’arte. La Gioconda non ha perso alcuna proprietà essenziale per via del fatto che ora la incontriamo nel museo del Louvre del XXI secolo, anzi che in un palazzo nobiliare del XVI secolo. Questo vale tanto per le opere non situate quanto per le opere situate. La ragione è che il contesto* delle opere d’arte non costituisce parte del loro veicolo, in nessuno dei due casi. A quest’affermazione offre sostegno questa osservazione: nonostante che, per esempio, la cultura e la società della Parigi del XII secolo – epoca in cui è sorta Notre-Dame – non esistano più da tempo, a noi non sembra che Notre-Dame non esista più perché non è più collocata nel suo contesto*. Al contrario, dal momento che il suo contesto fisico è parte del veicolo di Notre-Dame, ci sembra che esperire Notre-Dame a Las Vegas, o esperirla mentre tutto il resto di Parigi è nel buio più completo, non siano esperienze dell’opera nella sua interezza. Una cosa, dunque, è il danno inflitto a un’opera situata dal trasporto in un diverso sito rispetto a quello in cui è situata, mentre un’altra cosa è l’impatto del mutamento di contesto* sulla nostra fruizione dell’opera. Per quanto riguarda le opere situate in qualche sito in Italia, Quatremère de Quincy aveva ragione a sostenere che si sarebbe distrutto il loro significato trasportandole in Francia, come abbiamo visto nel cap. 2 al § 5 (per quanto anche quest’affermazione vada qualificata, come vedremo sotto). Non tutte le opere trasportate a Parigi, però, erano opere situate (o perlomeno non lo erano più già prima del loro trasporto in Francia). Quello che è vero delle Nozze di Cana del Veronese (v. § 4), per esempio, non è vero dell’Ares Borghese, una statua romana del I-II secolo d.C. che Napoleone fece trasportare da Villa Borghese, a Roma, al Louvre. Come ha sottolineato David Carrier, è importante distinguere fra il significato che un’opera d’arte ha in quanto tale, il quale dipende dalle intenzioni espressive di chi l’ha prodotta, e il significato che questa ha per il suo pubblico (Carrier 2006, pp. 80-81). Il primo tipo di significato non muta nel

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tempo, ma il secondo sì, perché dipende dal pubblico. Chi faccia esperienza, oggi, di un’opera d’arte proveniente da un diverso contesto storico e culturale, si trova di fronte a un oggetto il cui significato intrinseco non è mutato, sostiene Carrier. Altra cosa è comprendere se e come il pubblico attuale possa avere accesso a tale significato, nonché al significato che l’opera rivestiva per il pubblico che ne fece esperienza all’epoca in cui fu creata, o per altri pubblici in altre epoche della sua fruizione. Relativamente all’accesso al significato dell’opera in senso proprio, sostiene Carrier, quanto più sapremo analizzare il linguaggio dell’opera, quanto più conosceremo la poetica dell’autore e il suo contesto di produzione, tanto più potremo comprendere il lavoro – e il fatto che l’opera ci giunga in un buono stato di conservazione gioca ovviamente un ruolo significativo per tale fine. In particolare, aggiungo, se si tratta di un’opera situata, il fatto che anche il suo sito si sia conservato è ovviamente importante. Secondo Carrier, poi, anche l’accesso al significato che una determinata opera ha avuto per pubblici diversi da quelli cui noi apparteniamo non ci è proibito in linea di principio. Poter cogliere tali significati, però, richiede il reperimento d’informazioni adeguate a proposito degli altri pubblici dell’opera e uno sforzo immaginativo tramite il quale cerchiamo di metterci nei loro panni (ivi, pp. 40-50). 3. Arte che non verte e arte che verte su siti e su contesti storici, culturali e sociali Torniamo alle relazioni fra opere e contesti fisici. Vi è un altro tipo di relazione di cui un’opera d’arte (o un’istanziazione di un’opera) può godere rispetto a un sito fisico: tanto le opere situate quanto quelle non situate possono vertere su un sito. Un’opera d’arte non situata che non verte su un sito è, per esempio, il Ritratto di Dora Maar (1937) di Pablo Picasso. Non solo il veicolo del dipinto, come le nature morte di Mo-

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randi, non è legato a uno specifico sito fisico, ma anche il suo contenuto figurativo non ha a che vedere con un sito: si tratta, infatti, del ritratto di una donna che emerge da uno sfondo poco caratterizzato, simile a una scatola. Un’opera d’arte non situata che, invece, verte su un sito è, per esempio, Kreidefelsen auf Rügen (1818) di Caspar David Friedrich. Il veicolo del dipinto non è legato a uno specifico sito fisico, ma il contenuto figurativo del dipinto, come indicato dallo stesso titolo, è una raffigurazione di una rupe sull’isola di Rügen. Veniamo ora alle opere situate. La mia proposta è che la chiesa di Notre-Dame è un’opera situata che non verte sul suo sito. Come ho sostenuto sopra, questa è un’opera la cui identità è indissolubilmente legata alla sua presenza nel contesto del tessuto urbano di Parigi – al punto che ci sembra che se potessimo esperire lo stesso edificio (non una sua copia identica) a Las Vegas non avremmo un’esperienza completa dell’opera. La chiesa, però, non verte sulla città di Parigi, dal momento che non risulta progettata per articolare dei contenuti o rendere salienti delle proprietà che vertono su tale città7. Come ho detto sopra, la chiesa incorpora inoltre stabilmente una porzione del territorio della città di Parigi di oltre seimila metri quadri. Lo spazio incorporato dalle mura è plasmato dall’architettura della cattedrale che, in quanto opera architettonica, è opportunamente apprezzata prestando attenzione ad aspetti dell’articolazione di tale spazio che rende salienti (cfr. cap. 1 § 4). La chiesa, tuttavia, non verte su tali aspetti: questi sono invece parte del profilo mediale attraverso cui questa veicola contenuti8. Le istanziazioni di Les Bourgeois de Calais a Calais e a Londra, invece, vertono sui loro siti. Come abbiamo visto, a Calais la statua celebra, in 7  Un’opera

situata a Parigi e che verte sulla città è invece, per esempio, l’edificio Grand Arche de la Fraternité (1989) di Johann Otto von Spreckelsen, che, strutturato come un arco, richiama l’Arc de triomphe de l’Étoile (1836) di Jean Chalgrin, sempre a Parigi, rispetto al quale è approssimativamente allineato. 8  Un caso di edificio che incorpora un sito sul quale verte potrebbe essere, per esempio, quello di un edificio che incorporasse una grotta naturale e le stanze del quale fossero costruite in modo da richiamare la struttura delle grotte.

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una pubblica piazza, cittadini locali che compirono un gesto eroico a Calais, mentre a Londra, in un parco pubblico vicino agli edifici parlamentari, essa celebra non solo i cittadini di Calais, ma anche le attuali relazioni pacifiche fra Gran Bretagna e Francia e manifesta il rispetto della prima per la seconda. La statua di Calais, dunque, verte, in parte, sulla città di Calais, mentre la statua di Londra verte, in parte, sullo Stato britannico e su quello francese – compresi i territori che contribuiscono a costituire tali Stati. Quella di vertere sul proprio luogo di collocazione è un’ulteriore relazione che un’opera può intrattenere con tale luogo, oltre a quelle di esservi collocata, appunto, e di esservi situata. Ora, tornando ai contesti storici, culturali e sociali delle opere (i contesti*), possiamo distinguere anche fra opere che vertono sui propri contesti* e opere che non lo fanno. Tutte le opere sono, in qualche misura, espressione dei propri contesti*, perché costituiscono documenti, per esempio, dello stile e degli interessi di tali contesti*. La Gioconda, per esempio, documenta le tecniche pittoriche padroneggiate da Leonardo all’epoca in cui fu dipinta e lo stile di vestiario femminile proprio di tale epoca. Che l’opera documenti queste cose, tuttavia, è una conseguenza del fatto che questa è stata prodotta in un certo contesto* e non un tema su cui l’opera verte. La Famiglia di Carlo IV (1800-1801) di Goya, invece, è un’opera che verte sul proprio contesto*, dal momento che ritrae con precisione i visi dei reggenti di Spagna, dall’aspetto grottesco, e veicola così un commento sulla miseria e ottusità della corte spagnola dell’epoca – il contesto* in cui fu prodotta. Non tutte le opere situate sono opere che vertono sui propri contesti*. L’architettura della chiesa di Notre-Dame a Parigi, come abbiamo visto, non verte sul proprio sito; inoltre, questa non verte neppure sul proprio contesto*: che io sappia, non veicola dei contenuti a proposito della società e della cultura del XII secolo a Parigi (benché, ovviamente, costituisca un’importantissima testimonianza di tale società e cultura). Un’opera situata che non verte sul proprio sito

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ma verte sul proprio contesto è invece Until (2018), un’opera d’installation art di Nick Cave9. Questa all’apparenza ricorda un’elaborata decorazione natalizia simile a quelle che si vedono nei grandi magazzini di lusso: ci sono più di quindici kilometri di perline di cristallo, milioni di perline di plastica, ventiquattro candelabri e migliaia di statuine in ceramica di animali e frutti distribuiti nell’ambiente della galleria in cui è installata. Avvicinandosi agli elementi dell’installazione, però, si nota che questi comprendono anche proiettili e immagini di armi da fuoco e di lawn jockey (piccole statue di uomini neri, in abito da fantino, che negli Stati Uniti taluni collocano tradizionalmente nei cortili che fronteggiano le proprie abitazioni, il che oggi è riconosciuto come manifestazione di un atteggiamento razzista). L’opera è situata, dal momento che incorpora una sala dello spazio espositivo dove è istanziata nel proprio profilo mediale. L’opera, però, non verte sul proprio sito, dal momento che non articola dei contenuti che vertono sugli spazi espositivi, o sulle particolari città in cui è istanziata ecc. (si noti, in particolare, che Until è stata istanziata tanto negli Stati Uniti quanto in Australia). L’opera, invece, verte sui problemi dei crimini violenti perpetrati con armi da fuoco e della violenza della polizia sui neri negli Stati Uniti contemporanei. È perciò un’opera che verte sul proprio contesto*. L’istanziazione di Les Bourgeois de Calais a Calais, come abbiamo visto, è invece un’opera situata che verte sul proprio sito, ma non vi è ragione di sostenere che verta sul proprio contesto*, dal momento che – a quanto mi risulta – non articola dei contenuti sulla società e la cultura francese del tardo ’800. Diversamente, l’Ara Pacis Augustae (9 a.C.) è sia un’opera situata rispetto al contesto fisico della città di Roma (nello stesso modo in cui Notre-Dame lo è rispetto a Parigi), che un’opera che verte sul proprio sito – dal momento che i rilievi che l’adornano raffigurano, fra l’altro, il lupercale (la grotta, ai piedi del colle Palatino, che, secondo il mito, ospitò la lupa mentre allat9  Per delle immagini dell’opera v. www.massmoca.org/event/nick-cave-until/ (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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tava Romolo, il fondatore della città, e il suo gemello Remo) –, che un’opera che verte sul proprio contesto*, dal momento che raffigura anche episodi della vita dell’imperatore Augusto. 4. Arte debolmente e fortemente situata Torniamo a considerare la sola arte situata. La relazione di “essere situato rispetto a un certo luogo” può assumere due forme: debole e forte. Da una parte vi sono le opere (che sono oggetti fisici o eventi) e le istanziazioni di opere costituite da (a) un artefatto realizzato da un artista in una forma d’arte (per esempio scultura, pittura, performance, architettura) più (b) il sito stesso: il profilo mediale di tali opere e istanziazioni di opere comprende sia il medium (o il profilo mediale) dell’artefatto che il sito. Dall’altra parte vi sono le opere e le istanziazioni di opere costituite da un artefatto realizzato da un artista in una forma d’arte in una maniera tale che un certo sito è incorporato nel medium o nel profilo mediale dell’artefatto: anche qui il profilo mediale dell’opera o dell’istanziazione di opera comprende il sito, ma questo è inestricabilmente legato al medium o al profilo mediale dell’artefatto, a differenza che nel primo caso. Riassumendo, tutte le opere e le istanziazioni di opere situate sono tali per cui un sito entra a far parte del loro profilo mediale, ma questo può avvenire sia lasciando il sito distinto dagli altri media che sono parte del profilo mediale dell’opera (o dell’istanziazione di opera) in questione che incorporando il sito in tali media. Per semplicità d’espressione, propongo di definire le opere e le istanziazioni di opere appartenenti al primo gruppo “debolmente situate” e quelle appartenenti al secondo gruppo “fortemente situate”. La ragione per cui è corretto sostenere che il sito entra a fare parte del profilo mediale delle opere e delle istanziazioni di opere, nell’uno e nell’altro caso, è che in entrambi i casi il sito è utilizzato dall’artista come una risorsa, trattata attraverso certe tecniche, per veicolare certi contenuti e rendere salienti certe

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proprietà, nell’ambito di certe pratiche di apprezzamento – ossia è utilizzato come un medium (cfr. cap. 1 § 6). Quello delle opere situate è un ampio genere d’arte, al quale appartengono opere in diverse forme d’arte (scultura, pittura, installation art, architettura, ecc.). Vediamo ora degli esempi, per chiarire queste affermazioni. Come ho sostenuto, la chiesa di Notre-Dame è un’opera situata rispetto al resto della città di Parigi che però non verte né su di questa né sul proprio contesto*. In particolare, la chiesa è debolmente situata rispetto al resto della città, dal momento che tale sito è incluso nel suo profilo mediale – come suggerito dal fatto che ci sembra che non potremmo apprezzare pienamente la stessa chiesa a Las Vegas – ma non fu incorporato nel medium architettonico manipolato dai costruttori della cattedrale, che si limitarono a operare sulla porzione di suolo sui cui sorge la chiesa – distinta dal resto della città di Parigi. Le nostre intuizioni, tuttavia, non ci aiutano a chiarire quale sia, esattamente, il contributo che la città di Parigi dà al profilo mediale di Notre-Dame: da una parte, sembra naturale pensare che sia stata la particolare configurazione della Parigi del XII secolo a contribuire al profilo mediale della chiesa (si tratta infatti della configurazione che chi la costruì poté prendere in considerazione e rispetto alla quale poté reagire articolando la chiesa in qualche particolare maniera); dall’altra, però, abbiamo anche l’intuizione che nonostante Parigi sia cambiata enormemente rispetto al XII secolo la città nella sua configurazione attuale resti tuttora il sito rispetto al quale Notre-Dame è situata (cfr. Bacchini 2017, pp. 96-99 per considerazioni analoghe). In quanto segue non approfondirò questo problema, la cui discussione rimando a un’altra sede. D’ora in avanti mi limiterò a presupporre che vi sia un senso, che rende ragione delle nostre intuizioni, per cui Notre-Dame è debolmente situata rispetto a Parigi10. 10  Una

strategia promettente per affrontare questo problema potrebbe consistere nel sostenere una posizione quadrimensionalista sulle città, concependole come processi estesi sia spazialmente che temporalmente, anziché come oggetti statici (cfr.

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Torniamo ora all’istanziazione di Les Bourgeois de Calais a Calais. Questa, come ho sostenuto, è un’opera situata che verte, in parte, sulla città di Calais; si tratta, in particolare, di un’opera debolmente situata: Rodin manipolò il medium scultoreo per crearla e non incorporò in tale medium la piazza della città di Calais ove l’opera fu successivamente trasportata, entrando a far parte, solo a quel punto, degli elementi del profilo mediale dell’opera. Il ruolo di Calais nel profilo mediale dell’opera è permettere che la scultura celebri i cittadini nella loro città, ovviamente. La scultura, infine, come ho sottolineato sopra, è un’opera che non verte sul proprio contesto*. Vi sono poi opere debolmente situate che vertono sul proprio sito e vertono anche sul proprio contesto*. Nozze di Cana (1563) di Paolo Veronese, per esempio, è un dipinto debolmente situato rispetto al refettorio del complesso del monastero benedettino di San Giorgio Maggiore a Venezia. Dal momento che sappiamo che il dipinto fu creato per tale refettorio (nonostante oggi si trovi al Louvre) – e cioè che siamo informati su che cosa fu sancito dall’artista circa la collocazione dell’opera – e notiamo che questo presenta un certo contenuto figurativo, possiamo comprendere che la stanza che ospitava il refettorio è parte del profilo mediale dell’opera: il dipinto infatti raffigura una scena ambientata in un edificio dall’architettura classica che sembra estendersi tridimensionalmente all’ambiente del refettorio, opera del Palladio (a Venezia è esposta una copia dell’opera, che permette di fare questa esperienza). Il dipinto, inoltre, verte in parte sul refettorio, perché rappresenta una cena, ossia lo stesso tipo di evento che lì si svolgeva. La raffigurazione di una scenografia architettonica rinascimentale e di numerosi personaggi vestiti alla moda del XVI secolo (alcuni dei quali, secondo la tradizione, ritraggono lo stesso Veronese, Tiziano e altri artisti Varzi 2019) e sostenendo che Notre-Dame è situata rispetto a una parte temporale di Parigi, ossia la Parigi del XII secolo, e che in virtù di ciò gode anche di qualche particolare relazione con la Parigi attuale.

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dell’epoca), contrastante con il fatto che, in senso stretto, il dipinto raffigura un episodio narrato nei vangeli, è poi il segno che quest’opera verte anche sul proprio contesto*. Veniamo ora a casi di arte fortemente situata. Come ho sostenuto sopra, la chiesa di Notre-Dame è situata anche rispetto alla specifica porzione della città di Parigi che racchiude nel perimetro delle proprie mura, ma non verte su tale spazio (né sul proprio contesto*). Ora, la chiesa è fortemente situata in tale spazio: lo spazio è ovviamente fra le risorse manipolate da chi costruì la chiesa per creare un’opera architettonica, ed è perciò parte del suo medium. Non credo di essere a conoscenza di un esempio di opera fortemente situata che verta sul proprio sito ma non sul proprio contesto*; per illustrare questa categoria ricorrerò allora a un esempio immaginario, al quale ho già accennato sopra (v. nota 8): un edificio che incorpori una grotta naturale, le stanze del quale siano costruite in modo da richiamare la struttura delle grotte e che non articoli nessun commento sul proprio contesto* attraverso le proprietà dello spazio che rende salienti. Un esempio di arte fortemente situata che verte sul proprio sito e anche sul proprio contesto* è invece Support (2017) di Lorenzo Quinn (fig. 4), nella sua istanziazione installata a Venezia in occasione della Biennale d’arte. La scultura raffigura un paio di mani gigantesche che emergono dal Canal Grande e sostengono un edificio che, all’apparenza, potrebbe sprofondare nella laguna, se fosse privato di questo sostegno. Il sito costituisce parte del contenuto figurativo della scultura, che rappresenta un paio di mani che, emergendo dall’acqua, sostengono un edificio posto sulla riva del canale. Il sito, dunque, non solo è incorporato nel medium scultoreo – la scultura perderebbe parte del suo contenuto in quanto scultura, se non si trovasse in tale sito – ma è parte di ciò su cui la scultura verte, dal momento che questa raffigura il salvataggio del sito stesso da parte delle gigantesche mani. Infine, Support è anche un’opera che verte sul proprio contesto*, dal momento

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che denuncia il problema dell’innalzamento delle acque nella laguna veneziana, aggravato ancora di più dal riscaldamento globale – un problema distintivo dell’epoca in cui l’opera è stata creata. Bacchini (2017, pp. 91-92) descrive alcuni scenari immaginari che sono utili a comprendere più a fondo il ruolo del sito nelle opere situate. Se immaginiamo che tutta Parigi, esclusa Notre-Dame, sia sostituita dalla città di Las Vegas, abbiamo l’intuizione che Notre-Dame non sia più la stessa, proprio come se pensassimo di spostare Notre-Dame a Las Vegas. Tuttavia, se immaginiamo che non solo la chiesa di Notre-Dame, ma anche tutta la città di Parigi sia trasferita al posto di Las Vegas, in Nevada, abbiamo l’intuizione che Notre-Dame resterebbe la stessa. Questo, spiega Bacchini, significa che quando affermiamo che Notre-Dame è situata rispetto alla città di Parigi non stiamo affermando che spostare Notre-Dame a una diversa latitudine e longitudine (in un mondo in cui le nostre risorse tecniche ci permettessero di farlo senza danneggiarla) comprometterebbe l’identità della chiesa, ma che spostare Notre-Dame dal contesto fisico costituito dalla città di Parigi lo farebbe. Queste considerazioni, a mio giudizio, si estendono a tutte le opere debolmente situate. Il caso delle opere fortemente situate è analogo. Come ho sostenuto, qui il sito è incorporato direttamente nel medium dell’opera. Traslare l’opera a una diversa latitudine e longitudine comporta perciò traslarne anche il sito. 5. Arte situata rispetto a siti generici o particolari Torniamo all’istanziazione di Support. Questa fu realizzata addossando le mani scolpite all’edificio di Ca’ Sagredo, che si trova sul Canal Grande. Se, tuttavia, immaginiamo che l’istanziazione a un certo punto sia stata spostata su un diverso edificio sulle rive del Canal Grande, o di un altro canale

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veneziano, ci sembra che a seguito di tale spostamento l’istanziazione dell’opera non avrebbe cambiato la propria identità: si sarebbe sempre trattato di una scultura raffigurante un paio di mani che evitano a un palazzo veneziano di sprofondare nella laguna. Ciò mostra che l’istanziazione di Support era fortemente situata rispetto a un sito generico, rispetto al quale, come abbiamo visto prima, verteva. Un’opera fortemente situata rispetto a un sito generico sul quale non verte è, invece, la chiesa di Notre-Dame. Come ho sostenuto, la chiesa è fortemente situata rispetto alla porzione di suolo di Parigi che incorpora nel proprio medium (quello architettonico). Tale generica porzione di suolo, però, potrebbe essere sostituita da una analoga senza che si verificassero cambiamenti significativi per l’identità dell’edificio – in un mondo ove tali sostituzioni fossero realizzabili, ovviamente. Consideriamo ora un’opera fortemente situata rispetto a un sito particolare e tale da vertere sul suo sito: un buon esempio è Down the River di Andrea Fraser, di cui ho già parlato nel cap. 1. Come abbiamo visto, questa è un’opera d’installation art, che incorpora il sito del Whitney Museum of American Art di New York all’interno del proprio profilo mediale. L’opera, inoltre, è legata al particolare edificio del Whitney, contraddistinto dall’amplissimo spazio espositivo senza muri o colonne nel quale è installata e dalla vista straordinaria che offre sul fiume Hudson: la possibilità di vedere il fiume dallo spazio d’installazione e di muoversi in uno spazio ampio, senza costrizioni, sono necessarie a Fraser per articolare il contrasto fra l’ambiente chiuso e oppressivo del carcere di Sing Sing, che pure si affaccia sull’Hudson, e quello del museo – contrasto centrale, come abbiamo visto, per il funzionamento dell’opera, che dunque verte, in parte, anche sul sito particolare che la ospita. Quanto a casi di opere fortemente situate in siti particolari e che però non vertono su tali siti, non sono riuscita a trovare un esempio calzante. Non sono sorpresa dal fatto che mi risulti difficile trovare un esempio: perché, infatti, situare for-

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temente un’opera, in un sito particolare (e non generico), se non si intende veicolare nessun contenuto o rendere saliente nessuna proprietà che verte su quel particolare sito? Vediamo ora esempi di opere debolmente situate rispetto a siti generici o particolari. Nelle città italiane sono molto diffuse le statue di Giuseppe Garibaldi, realizzate perlopiù nel XIX secolo. Si tratta di opere d’arte pubblica, pensate per celebrare in spazi pubblici, appunto, l’eroe risorgimentale. Una qualsiasi di queste statue di Garibaldi, trasportata da uno spazio pubblico al cortile di un palazzo privato, perderebbe parte del contenuto che è stata intesa veicolare da chi l’ha creata progettandola come opera d’arte pubblica. Tuttavia, è verosimile pensare che molte di queste statue di Garibaldi, se non tutte, non perderebbero parte del loro contenuto originario se fossero installate in spazi pubblici diversi da quelli in cui si trovano. Le statue di Garibaldi, dunque, sono situate rispetto a siti molto generici, descrivibili, forse, semplicemente come spazi pubblici nel territorio italiano. Le statue, poi, sono debolmente situate rispetto a tali siti, dal momento che questi non sono incorporati nel medium scultoreo. Le statue, infine, vertono, in parte, su tali siti, dal momento che la loro funzione è di celebrare tanto un eroe nazionale quanto la nazione di cui questo è considerato un eroe. Consideriamo ora un caso, immaginario, di opera debolmente situata rispetto a un sito generico sul quale non verte. Immaginiamo che il deserto del Mojave e quello del Chihuahua siano di aspetto identico. Immaginiamo anche che in un certo punto del deserto del Mojave qualcuno costruisca una straordinaria cattedrale neogotica (una cattedrale nel deserto, letteralmente!). Immaginiamo, inoltre, che l’edificio della cattedrale non veicoli contenuti o esemplifichi proprietà che vertono sul deserto in cui è situato. Nonostante ciò, ci sembra che, come nel caso di Notre-Dame illustrato sopra, spostare la cattedrale neogotica, per esempio, in riva al mare, danneggerebbe irreparabilmente l’opera. Non abbiamo la stessa intuizione, però, se immaginiamo di spostare la cattedrale neogotica nel deserto del Chihuahua, e in particolare

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nella parte di questo deserto che corrisponde esattamente alla parte del deserto del Mojave dove l’edificio si trovava originariamente. La ragione di ciò è che l’edificio è debolmente situato rispetto a un sito generico: un deserto con un certo aspetto – tipologia esemplificata tanto dal deserto del Mojave che da quello del Chihuahua, in questo caso immaginario. Vediamo ora casi di opere debolmente situate rispetto a siti particolari, sui quali vertono. Sia l’istanziazione di Les Bourgeois de Calais a Calais che quella di Support alla Biennale di Venezia del 2017 sono dei buoni esempi. La prima è situata a Calais, appunto, che è il particolare sito sul quale verte e che non incorpora nel medium scultoreo. La seconda era non solo fortemente situata rispetto alla porzione di Canal Grande e di Ca’ Sagredo che incorporava nel proprio contenuto figurativo, ma anche debolmente situata rispetto a un particolare sito – la città di Venezia – sul quale verteva, dal momento che vi è ragione di sostenere che sia stata realizzata per denunciare il fatto che Venezia rischia di essere presto sommersa dalle acque a causa non solo della sua particolare posizione nella laguna ma anche del cambiamento climatico in atto. Un caso di opera debolmente situata rispetto a un sito particolare sul quale non verte è invece, nuovamente, la chiesa di Notre-Dame. Come abbiamo visto, la chiesa è debolmente situata rispetto al particolare sito costituito dalla città di Parigi, sul quale, però, come ho sostenuto, non verte. Per concludere questa rassegna, sottolineo che, come emerge dalla descrizione di Support e di Notre-Dame, vi sono casi di opere, per così dire, “doppiamente situate”, sia fra le opere che vertono su siti che fra quelle che non vertono su siti. Come abbiamo visto, Support è sia fortemente situata rispetto alla porzione di Canal Grande occupata da Ca’ Sagredo che debolmente situata rispetto alla città di Venezia e verte su entrambi i siti, mentre Notre-Dame è un’opera fortemente situata rispetto alla porzione di territorio della città di Parigi che racchiude fra le proprie mura e debolmente situata rispetto all’intera città di Parigi, e tuttavia non verte su nessuno dei due siti.

1. Ernesto Neto, Horizonmembranenave, parte della mostra personale dell’artista The Edges of the World alla Hayward Gallery di Londra (19 giugno – 5 settembre 2010), tessuto elastico e materiali misti (foto: Leon Neal/AFP via Getty Images).

2. David Chipperfield Architects e Julian Harrap, Neues Museum (2009), Berlino (foto: Omar Marques/SOPA Images/LightRocket via Getty Images).

3. David Chipperfield Architects e Julian Harrap, Neues Museum (2009), Berlino (foto: Omar Marques/SOPA Images/LightRocket via Getty Images).

4. Lorenzo Quinn, Support (2017), installazione nell’ambito della 57° Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (13 maggio – 26 novembre 2017), materiale plastico espanso e struttura metallica (foto: Adam Berry/Getty Images).

5. Nancy Holt, Sun Tunnels (1976), Great Basin Desert, Utah, cemento (foto: William l/360cities.net via Getty Images). Fotografia a 360 gradi.

6. José Fuster, Fusterlandia (1975 –), Jaimanitas, L’Avana, Cuba, ceramica (foto: Scott Wallace/Getty Images).

7. Sol LeWitt, Wall Drawing #370: Ten Geometric Figures (including right triangle, cross, X, diamond) with three-inch parallel bands of lines in two directions (1982), esecutori al lavoro per l’installazione dell’opera al Metropolitan Museum of Art di New York, 19 giugno 2014 (foto: Stan Honda/AFP via Getty Images).

8. OSGEMEOS, Efêmero (2016), Pirelli HangarBicocca, Milano, pittura spray su parete (foto: Elisa Caldarola).

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Quali lezioni possiamo ricavare dalle numerose distinzioni tracciate in questi paragrafi? L’obiettivo principale di questa discussione è proporre una tassonomia che potrà essere utile per analisi future. Tuttavia, vi sono delle prime considerazioni che si possono avanzare anche in questa fase circa il peso delle distinzioni che ho tracciato per analizzare come funzionano l’apprezzamento, l’esposizione e la conservazione delle opere d’arte. Per apprezzare adeguatamente un’opera d’arte, come abbiamo visto, è necessario in primo luogo comprendere se questa sia situata o meno, ossia se un sito sia parte delle risorse che questa manipola per veicolare contenuti e/o rendere salienti certe proprietà. Inoltre, per esaminare come, effettivamente, un sito sia utilizzato da un’opera è opportuno comprendere se questo sia incorporato dal medium dell’opera o se sia più semplicemente aggiunto al suo profilo mediale, ossia se l’opera sia fortemente o debolmente situata. Infine, è opportuno considerare se l’opera situata sia anche una che verte sul proprio sito e/o una che verte sul proprio contesto* o meno. Per quanto riguarda l’esposizione di un’opera al di fuori del suo contesto fisico di produzione, comprendere se si tratti di un’opera situata o meno è ovviamente cruciale: separare un’opera situata dal suo sito, infatti, significa danneggiarla. Inoltre, come abbiamo visto, è importante distinguere fra opere situate e opere non situate ma che vertono sul proprio contesto*: le seconde, a differenza delle prime, non sono danneggiate se spostate dal proprio contesto fisico di produzione. Per quanto riguarda le opere situate, poi, è molto importante comprendere se queste lo sono rispetto a siti generici o particolari, dal momento che, in caso l’opera sia situata rispetto a un sito generico e fosse tecnicamente possibile trasferirla ed esporla in un sito dello stesso genere, queste operazioni non la danneggerebbero. Infine, le distinzioni che ho tracciato sono rilevanti anche per le questioni che concernono la conservazione delle opere. Comprendere se un’opera è situata o meno ci guida nel comprendere quali oggetti dobbiamo cercare di preservare

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se vogliamo preservare l’opera, ovviamente. Anche in questo caso, poi, comprendere se l’opera sia situata rispetto a un sito generico o rispetto a un sito particolare è cruciale: è verosimile supporre che quanto più l’opera è situata rispetto a un sito particolare tanto più gli eventuali cambiamenti ai quali il sito può andare incontro rischiano di avere un impatto distruttivo sull’opera. Se un’opera è situata rispetto a un sito molto generico, invece, è possibile che nel sito intercorrano dei cambiamenti significativi ma che quegli aspetti generici che sono rilevanti per il significato dell’opera non cambino. È poi importante anche comprendere rispetto a che tipo di sito un’opera è situata: se questa è debolmente situata rispetto a una città, come ho suggerito sopra, sembra che sia situata rispetto a un genere di cosa la cui identità non è intaccata neppure da grandi cambiamenti fisici, i quali di conseguenza non intaccano neppure l’opera del profilo mediale di cui la città è parte (purché questi non abbiano un impatto sulla struttura dell’opera). Se invece un’opera è situata, per esempio, rispetto non a una città ma a una stanza strutturata in una certa maniera, eventuali cambiamenti negli aspetti della struttura della stanza rilevanti per il contenuto dell’opera avranno l’effetto di intaccare l’opera – e questo vale tanto se gli aspetti della struttura della stanza rilevanti per l’opera sono generici quanto se sono particolari. Potrebbero dunque darsi dei casi in cui un’opera situata non sarebbe danneggiata in quanto opera d’arte se fosse installata in un sito diverso da quello originario, ma che presentasse tutti gli aspetti rilevanti per il contenuto dell’opera, mentre sarebbe danneggiata se restasse nel suo sito originario – posto che questo sia mutato al punto da non presentare più gli aspetti rilevanti per il contenuto dell’opera. Sino a qui, ho mostrato che quando diciamo che un’opera ha un rapporto più forte con il suo sito di quello di mera collocazione possiamo voler dire cose diverse e ciò ha conseguenze per le nostre idee su come apprezzare propriamente l’opera, come metterla in mostra, e come conservarla. Nel prossimo paragrafo introdurrò la categoria di “arte sito-specifica” che,

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come vedremo, è generalmente utilizzata in ambito criticoartistico solo per riferirsi ad alcune opere d’arte contemporanee. Basandomi sulle considerazioni avanzate fin qui intendo proporre una caratterizzazione dell’arte sito-specifica più precisa di quelle sinora offerte dalla letteratura. 6. La categoria “arte sito-specifica” nella letteratura critico-artistica La letteratura critico-artistica concorda nel ritenere l’arte sito-specifica un fenomeno contemporaneo. I contributi su questo tema si sono concentrati soprattutto sul descrivere come gli obiettivi dell’arte sito-specifica sono cambiati nel corso degli anni (cfr. per es. Crimp 1986; Foster 1996; Meyer 2000; Coles 2000; Kaye 2000; Kwon 2002). In particolare, c’è un notevole consenso sulla tesi – illustrata nella maniera più esaustiva da Miwon Kwon (2002) – che fra gli anni ’60 e gli anni ’90 sono emersi, progressivamente, tre approcci all’arte sito-specifica, i quali tuttora giocano un ruolo centrale nel descrivere le diverse opere ascritte a questa categoria: l’approccio fenomenologico, quello istituzionale e quello discorsivo. Vediamo più dettagliatamente gli argomenti di Kwon. Secondo Kwon, gli artisti che adottano l’approccio fenomenologico cercano «di stabilire una relazione inestricabile, indivisibile fra l’opera e il suo sito e richiedono la presenza fisica dello spettatore per completare l’opera» (Kwon 2002, pp. 11-12). I primi ad adottare questo approccio lo fecero mossi dal desiderio di liberarsi, attraverso un’estensione dello spazio dell’opera allo spazio ad essa circostante, tanto della visione tradizionale delle forme d’arte come categorie individuate grazie all’identificazione degli specifici materiali che ciascuna di loro adotterebbe, quanto della visione delle opere d’arte come oggetti che rappresentano uno spazio altro rispetto a quello in cui si trova il loro pubblico (cfr. cap. 1 §§ 5 e 6). Sun Tunnels (1976) di Nancy Holt (fig. 5), per esempio, è un’installazione

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composta da quattro cilindri di cemento situati nel deserto del Great Basin, nello Utah, a sessantaquattro kilometri dal centro abitato più vicino. I cilindri, distanti gli uni dagli altri, sono disposti a formare una croce e allineati in modo da incorniciare il sole all’orizzonte durante i solstizi d’estate e d’inverno. Ogni cilindro presenta delle perforazioni che corrispondono alla posizione delle stelle in varie costellazioni: la luce del sole proietta così le configurazioni delle stelle all’interno dei tubi. L’opera si può descrivere come una macchina per esperire la luce del sole e i suoi effetti in particolari modi – una macchina il cui funzionamento dipende da come questa è stata posizionata nel sito dov’è stata installata. La funzione dell’immenso spazio nel deserto in cui l’opera è così inestricabilmente inserita è quella di suscitare nell’osservatore un’esperienza d’immersione in uno spazio spoglio, amplissimo, dal quale è più naturale esperire la nostra presenza sulla Terra come presenza su un pianeta, più che in un luogo specifico del pianeta, il che accentua l’attenzione ai fenomeni naturali di livello “cosmico” che l’opera permette di notare: la luce del sole durante i solstizi e le configurazioni delle costellazioni. L’approccio fenomenologico al sito, dunque, in questo caso consiste nell’usare il luogo in cui è collocata l’opera – il deserto – per suscitare nel pubblico, presente all’interno del luogo, una particolare esperienza percettiva dello spazio (per una descrizione dell’opera cfr. Holt 1977). Il secondo approccio all’arte sito-specifica descritto da Kwon è quello istituzionale, proprio di opere che mirano a contestare certe istituzioni usando i siti fisici in un modo che invita a metterle in questione e ripensarle (Kwon 2002, pp. 13-24). Per esempio, nella performance Hartford Wash: Washing Tracks, Maintenance Inside, tenutasi nel 1973 al Wadsworth Atheneum di Hartford, nel Connecticut, Mierle Laderman Ukeles svolse, all’interno degli spazi del museo, diversi lavori di pulizia, fra cui lavare i pavimenti: l’obiettivo di questa performance era portare all’attenzione degli spettatori il fatto che vi erano poche donne fra gli artisti esposti nel museo – nonostante che questo esibisse anche opere d’arte contemporanea e ospitasse

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performance da parte di artisti di genere maschile che erano tanto distanti nella loro forma dall’arte tradizionale quanto lo era la performance di Laderman Ukeles (per una descrizione dell’opera cfr. Kwon 2002, p. 19). Un’opera più recente che adotta lo stesso approccio è Down the River di Andrea Fraser. Come abbiamo visto, l’installazione sonora di Fraser, collocata negli spazi del Whitney Museum of American Art, mira a far risaltare i contrasti fra due tipi d’istituzioni – quelle museali e quelle carcerarie – che esemplificano la polarizzazione della società contemporanea statunitense. Il terzo tipo di modalità per la creazione di arte sito-specifica descritta da Kwon è quella discorsiva: secondo Kwon, per gli artisti che adottano questo approccio il sito fisico dell’opera non è importante, ma ciò che importa sono i «discorsi» nel contesto dei quali si situa l’opera, come per esempio «campi del sapere, scambi intellettuali o dibattiti culturali» (ivi, p. 205, n. 31) – tutte nozioni, piuttosto generiche, che si possono forse metaforizzare attraverso quella di “sito”. Kwon illustra il caso di Points of Entry, il contributo del collettivo di artisti “Group Material” a una mostra tenutasi nel 1996 al Three Rivers Art Festival di Pittsburgh, che consisteva nella realizzazione del programma cartaceo della mostra, dove erano incluse testimonianze sulla vita a Pittsburgh raccolte attraverso interviste alla popolazione condotte dagli artisti. Secondo Kwon, l’opera, che chiaramente non è ancorata a nessun sito fisico, è tuttavia sito-specifica perché riguarda un certo “sito”, quello costituito dalla comunità dei cittadini di Pittsburgh (ivi, p. 205, n. 31). L’idea, difesa da Kwon e altri (cfr. per es. Meyer 2000), che vi possano essere opere sito-specifiche anche nel senso meramente discorsivo è stata criticata da Jason Gaiger (2009). Questi ha opportunamente osservato che categorizzare delle opere come “sito-specifiche”, meramente perché hanno a che vedere con nozioni in qualche modo avvicinabili a quella di “sito”, non è una buona idea, dal momento che ha la conseguenza di estendere i confini della categoria al punto tale che quasi

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ogni opera d’arte può esservi ascritta, per una ragione o per l’altra. Alla luce delle distinzioni che ho tracciato sopra, possiamo comprendere che le nozioni metaforizzate attraverso quella di sito hanno invece a che vedere con quella di contesto*. In quanto segue, dunque, seguirò Gaiger nel concentrarmi solo sull’analisi di opere «ancorate fisicamente a un luogo» (Gaiger 2009, p. 51), assumendo che questo è un primo, basilare requisito che un’opera deve soddisfare per essere ascritta alla categoria dell’arte sito-specifica. In altre parole, assumo che tutte le opere sito-specifiche sono opere situate. Ora, è possibile chiedersi: sono solo le particolari motivazioni che hanno condotto gli artisti a produrre l’arte che chiamiamo “sito-specifica” – motivazioni come quelle descritte da Kwon e altri nella letteratura – a distinguerla dall’arte situata o vi è qualcosa di unico nella struttura dell’arte sito-specifica? Nei prossimi paragrafi cercherò di rispondere a questa domanda. 7. Il carattere situato delle opere sito-specifiche In questo paragrafo mostrerò che le opere situate contemporanee che la letteratura considera sito-specifiche occupano tutto lo spettro della relazione di “essere situato rispetto a un certo sito” che ho precedentemente descritto, esaminando casi centrali di arte indicata come “sito-specifica” dalla letteratura critico-artistica. Le opere situate contemporanee solitamente considerate sito-specifiche che manifestano forse il rapporto più debole col proprio sito sono quelle debolmente situate in siti generici. Per esempio, DaZiBaos (1982) di Group Material consiste in una serie di manifesti affissi sulle pareti esterne di un grande magazzino dismesso di Union Square a New York11. Le pareti di un diverso esercizio dismesso, in un diverso luogo di passaggio di New York, avrebbero potuto ospitare gli stessi ma11  L’opera

è inclusa fra quelle prese in rassegna da Kwon (2002, p. 28). Per un’immagine v. www.cargocollective.com/orlaithtreacythelittlethings/Group-Material (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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nifesti con effetto equivalente. I manifesti riportano citazioni da interviste condotte dagli artisti a persone incontrate per la strada a New York, che vertevano su temi politici importanti all’epoca. Un caso di arte sito-specifica debolmente situata rispetto a un sito particolare è invece l’installazione della scultura Hahn/Cock di Katharina Fritsch a Londra (2013-2015)12. La scultura, che raffigura un gigantesco galletto di colore blu oltremare, fu collocata sull’unico plinto libero fra i quattro presenti in Trafalgar Square a Londra. Il quarto plinto della piazza fu costruito, nel XIX secolo, con l’intenzione di collocarvi una stata di Guglielmo IV, che poi non fu mai realizzata. Dal 1998 sul plinto sono periodicamente installate opere contemporanee selezionate da appositi comitati. Sugli altri tre plinti, invece, sono collocate le statue di Giorgio IV, del generale Napier e del generale Havelock, mentre sulla sommità della colonna al centro della piazza, com’è noto, è collocata la statua dell’ammiraglio Nelson. Ora, nel momento in cui notiamo il contesto in cui la statua del galletto è installata, la sua collocazione fra statue di figure chiave per l’espansione egemonica dell’impero britannico ci appare come un gesto ironico e critico nei confronti di tali rappresentazioni del potere imperiale13. Il particolare sito d’installazione, dunque, è centrale perché il contenuto della statua sia contestualizzato: Fritsch non ha semplicemente realizzato una vistosa figura di galletto, ma ha prodotto un oggetto funzionale all’esecuzione di un gesto critico nei confronti delle altre statue della piazza. La performance di Laderman Ukeles al Wadsworth Atheneum – che Kwon considera, come abbiamo visto, un caso paradigmatico di arte sito-specifica che adotta un approccio istituzionale – è, invece, un’opera fortemente situata rispetto a un sito generico: l’edificio del museo è parte del profilo mediale dell’opera, dal momento che è cruciale che la performance 12  Per un’immagine dell’opera v. www.en.wikipedia.org/wiki/Hahn/Cock#/media/File:Hahn-Cock.jpg (ultimo accesso 5 giugno 2020). 13  Questa ipotesi è confermata dalla descrizione dell’opera riportata nella pagina web ufficiale dedicata alle opere esposte sul quarto plinto dal Comune di Londra: www. london.gov.uk/what-we-do/arts-and-culture/current-culture-projects/fourth-plinthtrafalgar-square/fourth-plinth-past-commissions (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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riguardi la pulizia degli spazi del museo, ma qualsiasi altro edificio museale che esponesse arte contemporanea avrebbe potuto svolgere lo stesso ruolo. Diversamente, un’opera fortemente situata rispetto a un sito particolare è Fusterlandia (fig. 6) creata da José Fuster a L’Avana a partire dal 1975 e tuttora in espansione14. L’opera è costituita da un complesso di mosaici in ceramica apposti su pavimenti, pareti esterne, tetti, colonne, ecc. della casa dello stesso Fuster e di quelle di diversi vicini, nonché su alcuni elementi di arredo pubblico, come una fermata dell’autobus e delle panche. I mosaici, in colori brillanti, spesso realizzati con la tecnica del trencadís – che consiste nell’applicare ceramiche di piccole dimensioni su superfici curve – si rifanno esplicitamente all’opera di Antoni Gaudí, celebrato in un’iscrizione che è parte dell’opera. Il medium dell’opera incorpora dunque gli edifici di alcuni isolati all’interno del quartiere di Jaimanitas, dove questa è stata realizzata, adattandosi, con creatività e virtuosismo tecnico, alle specifiche conformazioni di tali architetture. Al novero dell’arte sito-specifica sono poi ascritte anche opere “doppiamente situate”. Sun Tunnels, per esempio, è un’opera d’installation art la cui istanziazione parziale è sia fortemente situata rispetto a un sito particolare – come abbiamo visto, perché i tubi di cemento riescano a inquadrare il sole ai solstizi è necessario che questi siano disposti in un particolare modo nella specifica porzione di deserto dove sono installati – che debolmente situata rispetto a un sito generico – il deserto che si estende ben oltre lo spazio dell’opera. Sun Tunnels, infatti, accentua nel pubblico la sensazione di trovarsi sul pianeta Terra, più che in un particolare luogo sul pianeta, grazie alla sua collocazione nel deserto – un luogo ampio, monotono, spoglio (l’artista stessa enfatizza il ruolo del sito di collocazione nell’opera, cfr. Holt 1977). Non c’è però nessun carattere distintivo del deserto del Great Basin che è fondamentale alla creazione di questo effetto: un altro deserto avrebbe potuto svolgere la stessa funzione. Come abbiamo visto, poi, 14  L’opera

è inclusa fra quelle catalogate come sito-specifiche in Renshaw (2013).

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Down the River è un’opera fortemente situata rispetto a un sito particolare (l’edificio del Whitney Museum) e debolmente situata rispetto a un sito particolare (la riva dell’Hudson a New York)15, mentre Support è un’opera fortemente situata rispetto a un sito generico (un palazzo veneziano) e debolmente situata rispetto a un sito particolare (la città di Venezia)16. I casi che ho illustrato mostrano che le opere situate contemporanee che la letteratura considera sito-specifiche occupano tutto lo spettro della relazione di “essere situato rispetto a un certo sito”, proprio come avviene per le opere situate di altre epoche che ho descritto nei paragrafi precedenti. Non sembra dunque che vi sia qualcosa che distingua i legami fisici instaurati con i siti dalle opere sito-specifiche, rispetto a quelli instaurati dalle altre opere situate. 8. L’arte sito-specifica come arte che verte sui propri siti Non tutte le opere d’arte contemporanea che sono situate vertono sui propri siti. Vediamo anzitutto alcuni esempi di opere contemporanee situate che non vertono sui propri siti. Un edificio contemporaneo situato, ma che non verte sul proprio sito è per esempio Marina 101, un grattacielo residenziale di Dubai completato nel 2016, progettato dal National Engineering Bureau degli Emirati Arabi Uniti17. Come nel caso di Notre-Dame, non vi sono aspetti dell’edificio che vertono sul contesto fisico in cui questo è situato e le considerazioni fatte sopra circa la non-sopravvivenza dell’edificio di Notre-Dame a Las Vegas si applicano anche a questo edificio. 15  L’opera è definita “sito-specifica” sulla pagina web a lei dedicata dal Whitney Museum of American Art: www.whitney.org/Exhibitions/OpenPlanAndreaFraser (ultimo accesso 5 giugno 2020). 16  Per informazioni sull’opera cfr. www.halcyongallery.com/exhibitions/lorenzoquinn-at-the-venice-biennale (ultimo accesso 5 giugno 2020). 17  Per un’immagine v. www.it.wikipedia.org/wiki/Marina_101#/media/File:Dubai_ Marina_Aug2014.jpg (l’edificio è quello con la gru sulla sommità; ultimo accesso 5 giugno 2020).

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Un caso famoso di opera d’arte situata che non verte sul proprio sito è poi Double Negative (1969) di Michael Heizer18. L’opera consiste in una profonda e ampia trincea (profonda quindici metri, ampia nove e lunga più di quattrocentocinquanta), scavata nella terra della Moapa Valley, in Nevada – un luogo altrimenti privo di significativa presenza antropica. Si tratta di un’opera d’installation art, che produce nei pochi visitatori in grado di raggiungerla e introdursi nella trincea un’esperienza annichilente. L’opera, ovviamente, incorpora nel proprio profilo mediale la porzione di terreno nel quale è stata scavata la trincea ed è collocata in un paesaggio roccioso e brullo piuttosto spettacolare. È noto, tuttavia, che Heizer ha insistito sul fatto che l’opera non verte sul proprio sito, dichiarando che l’opera «verte sull’arte, non sul paesaggio» (Beardsley 1984 p. 19). In particolare, Heizer invita a leggere l’opera come una scultura in negativo, ottenuta tramite la sottrazione di duecentoquarantaquattromila tonnellate di pietra che occupavano l’attuale trincea, poi scaraventate nel canyon che ne delimita un lato (cfr. D’Angelo 2001 p. 180). Tutte le opere d’installation art sono fortemente situate per definizione, dal momento che i siti sono sempre parte del loro profilo mediale, come ho sostenuto nel secondo capitolo. Molte opere d’installation art, tuttavia, proprio come Double Negative, non vertono sui propri siti. The Obliteration Room, per esempio, incorpora un sito generico (delle stanze adatte a ospitare un appartamento di piccole dimensioni), ma non veicola contenuti o esprime proprietà che vertono su tale sito generico e simili considerazioni valgono per Until. Le opere d’arte situate che la letteratura considera sitospecifiche, tuttavia, sono generalmente opere che vertono sui loro siti: i manifesti di DaZiBaos erano situati in un generico luogo pubblico di New York, a proposito del quale vertevano, in parte, dal momento che riportavano opinioni di persone presenti a New York su temi politici rilevanti negli Stati Uniti 18  Per immagini v. www.moca.org/visit/double-negative (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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al momento dell’installazione dell’opera; Hahn/Cock a Trafalgar Square, come abbiamo visto, verteva in parte su quella piazza simbolo del potere imperiale britannico, sul quale ironizzava; la performance di Laderman Ukeles verteva sul tipo di istituzione – il museo – nella quale ebbe luogo e della quale criticava le politiche espositive che sfavorivano le artiste di genere femminile; alcune delle ceramiche che compongono Fusterlandia celebrano i residenti delle case sulle quali sono installate e le loro professioni (per esempio un medico di medicina generale), vertendo dunque sul quartiere in cui l’opera è installata, in quanto abitato da certe persone; Sun Tunnels verte, in parte, sul deserto in quanto luogo che ci permette di apprezzare la dimensione cosmica della natura; Down the River, come abbiamo visto, verte tanto sul sito nel Whitney Museum, rispetto al quale è fortemente situata, quanto sul sito che comprende la città di New York, il fiume Hudson e il carcere di Sing Sing, che sorge sulle rive del fiume pochi chilometri più a nord della città; Support, infine, verte sul problema dell’innalzamento delle acque nella città di Venezia. Le opere situate che vertono sui propri siti non sembrano tuttavia essere appannaggio esclusivo dell’arte contemporanea: opere situate di altre epoche che vertono sui propri siti sono, per esempio, sia l’istanziazione di Les Bourgeois de Calais a Calais, che l’Ara Pacis, che Nozze di Cana del Veronese, come abbiamo visto sopra. Dobbiamo concludere, allora, che la categoria dell’arte sito-specifica comprende anche queste opere? Un’altra strada che si potrebbe essere tentati di percorrere per distinguere la struttura delle opere sito-specifiche da quelle delle altre opere situate che vertono sui siti è la seguente: si potrebbe ipotizzare che solo le opere sito-specifiche sono sempre opere tali per cui spostarle dai loro siti originari risulta sempre in una compromissione della struttura dell’opera. Tuttavia, anche questa strategia non è produttiva. Come ho sottolineato sopra, la performance di Laderman Ukeles, per esempio, avrebbe potuto avere luogo in un diverso museo d’arte contemporanea senza che vi fossero cambiamenti

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significativi per l’opera. Analogamente, possiamo immaginare che, qualora fosse stato necessario rimuovere i manifesti di DaZiBaos da Union Square, un’equivalente istanziazione dell’opera si sarebbe potuta installare con stampe degli stessi manifesti in un’altra trafficata piazza di New York che presentasse la facciata di un edificio chiuso al pubblico. Infine, come ho sostenuto sopra, spostare Support all’angolo di un palazzo veneziano simile a Ca’ Sagredo non avrebbe comportato cambiamenti significativi per l’opera. Insomma, se un’opera d’arte sito-specifica verte su un sito generico è verosimile che il suo spostamento in un sito dello stesso genere non la danneggi. 9. L’arte sito-specifica come arte che verte sui propri contesti storici, culturali e sociali Un’ultima ipotesi che voglio considerare è che l’arte sitospecifica si distingua dal resto dell’arte situata per il fatto di essere arte che verte non solo sui propri siti ma anche sui propri contesti*. Tutte le opere di arte sito-specifica considerate sin qui sono effettivamente anche opere che vertono sui propri contesti* e – a quanto mi risulta – questa caratteristica è generalmente esibita dalle opere che la letteratura considera sitospecifiche. Torniamo agli esempi visti sin qui. DaZiBaos, come ho spiegato, presentava citazioni da interviste che vertevano su temi politici rilevanti all’epoca della sua produzione; Hahn/ Cock, ironizzando su una piazza simbolo del potere imperiale britannico, tematizzava il disagio che in età contemporanea si può (opportunamente) avvertire rispetto al passato imperiale e coloniale di molti Stati europei; la performance di Laderman Ukeles verteva sulla discriminazione delle donne nel mondo dell’arte contemporanea; Fusterlandia tematizza la rinascita di un piccolo quartiere grazie alla pratica artistica e alla cura delle abitazioni e delle strade (cfr. Marsden 2018); Sun Tunnels, verte, fra le altre cose, sul ritorno allo spazio cosmico in opposizione all’ambiente delle gallerie d’arte commerciali; Down the

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River verte sulla polarizzazione della società americana contemporanea; Support, infine, verte sul problema del riscaldamento globale nel mondo contemporaneo. Anche la combinazione delle proprietà “vertere sul proprio” sito e “vertere sul proprio contesto*”, tuttavia, non è sufficiente a distinguere l’arte contemporanea che la letteratura indica come “sito-specifica” da altri casi di arte situata. Come abbiamo visto sopra, tanto l’Ara Pacis quanto Nozze di Cana del Veronese sono opere situate che vertono sui propri siti e sui propri contesti*. Credo però che sia ragionevole avanzare la tesi che nelle opere contemporanee sopraelencate la presenza dell’opera nel suo sito è indispensabile per il modo in cui l’opera veicola un messaggio che verte sul suo contesto*, mentre non si può dire lo stesso né dell’Ara Pacis né delle Nozze di Cana. Vediamo prima queste ultime e poi torniamo alle opere contemporanee. L’Ara Pacis celebra la Pax Augustea – il maggior risultato sul piano politico, sociale ed economico ottenuto all’epoca della sua creazione – e con essa l’imperatore Augusto, che raffigura (insieme a molti altri). Lo fa nella città di Roma, la capitale dell’impero che celebra. Nella sua collocazione originaria nel Campo Marzio, inoltre, l’altare sorgeva in una zona dedicata alla celebrazione delle vittorie – l’opera è perciò non semplicemente specifica relativamente alla città di Roma, ma più precisamente specifica rispetto a questo particolare sito all’interno della città. Spostare l’Ara dal Campo Marzio (evento avvenuto durante il suo progressivo smembramento in epoca medievale) ha dunque significato danneggiarne, in parte, la struttura. L’opera inoltre, come abbiamo visto, raffigura anche un luogo (forse solo mitologico) della città di Roma, il lupercale, vertendo dunque anche su una particolare area della città (ipoteticamente). Nonostante tutto ciò, però, possiamo immaginare che se l’Ara Pacis fosse spostata a Parigi o a Shanghai, il fatto che quest’opera celebri la Pax Augustea e l’imperatore Augusto – centrale per la sua comprensione – continuerebbe a esserci accessibile attraverso l’incontro con

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l’altare, perché sono sufficienti le informazioni che ricaviamo dal suo contenuto figurativo per comprenderlo (posto che siamo sufficientemente informati su Augusto e la sua epoca, ovviamente). Il carattere situato dell’opera e il fatto che questa verta anche, in parte, sul proprio sito, rafforzano il suo messaggio, ma non sono cruciali per veicolarlo (ciò, lo ribadisco, non significa che l’opera non fosse già stata parzialmente danneggiata quando fu rimossa dal Campo Marzio e che non lo sarebbe ancora di più se fosse rimossa dalla città di Roma). Analogamente, Nozze di Cana è fondamentalmente una raffigurazione dell’episodio narrato nei vangeli, fatto che resta accessibile anche quando esperiamo l’opera al Louvre. Il dipinto, poi, come abbiamo visto, è anche un’opera che verte sul proprio contesto*, ma anche questo fatto resta accessibile nonostante il suo spostamento a Parigi. Consideriamo ora nuovamente le opere sito-specifiche contemporanee descritte sopra. La tesi che voglio difendere è che nessuna di queste opere, a differenza dell’Ara Pacis, riuscirebbe a veicolare il suo contenuto principale, concernente il suo contesto*, se fosse disancorata dal sito (particolare, o più generico) nel quale è situata e sul quale, in parte, verte. I manifesti di DaZiBaos si comprenderebbero come manifesti che parlano di politica statunitense nei primi anni ’80 anche se li trovassimo a Parigi o Shanghai, tuttavia il contesto* su cui verte l’opera non è la politica statunitense nei primi anni ’80, ma è piuttosto l’opinione pubblica statunitense di quegli anni: l’obiettivo centrale dell’opera consisteva nell’invitare a riflettere chi si trovava in un certo luogo e in un certo tempo sul fatto che certi discorsi politici erano rilevanti per quel luogo e per quel tempo e per perseguirlo era necessario che l’opera fosse situata. Hahn/ Cock, senza la sua interazione con le altre statue in Trafalgar Square non potrebbe esprimere il disagio contemporaneo nei confronti dell’età imperiale britannica e della sua eredità politica e culturale, il che è essenziale perché l’opera veicoli il suo contenuto centrale, che ha a che vedere con il suo contesto*. La performance di Laderman Ukeles al museo si sarebbe del tutto

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svuotata di senso se non fosse avvenuta in un museo, perché il suo obiettivo era criticare la politica di quel tipo d’istituzione (parte del contesto* dell’opera). Fusterlandia, trasportata a Parigi o Shanghai, non potrebbe più apparirci come il lavoro dell’abitante di un quartiere moderno di una città, L’Avana, molto disadorna al di fuori dei suoi quartieri storici (che, peraltro, presentano numerosi edifici fatiscenti), né di conseguenza comunicarci un messaggio di rinascita sociale e culturale attraverso la presa in cura del quartiere; Sun Tunnels, al di fuori dei grandi spazi privi di presenza umana del deserto, non potrebbe criticare il sistema delle gallerie artistiche commerciali e la società di cui questo è frutto; Down The River , al di fuori del Whitney Museum non potrebbe veicolare il suo messaggio sulla polarizzazione della società americana e, infine, Support, al di fuori di Venezia (o di un’altra città minacciata dall’innalzamento delle acque, secondo un’interpretazione più ampia del contenuto principale dell’opera), non potrebbe veicolare il suo messaggio ecologista19. Come abbiamo visto, le ragioni che condussero gli artisti a includere i siti nei profili mediali delle loro opere, specialmente fra gli anni ’60 e gli anni ’80 del secolo scorso, avevano a che vedere con il desiderio di reagire contro la visione tradizionale delle forme d’arte e il sistema delle gallerie d’arte: estendendosi ai siti, le loro opere articolarono messaggi sui propri contesti*. Queste considerazioni, tuttavia, non valgono per l’arte sito-specifica prodotta successivamente – in epoche in cui è evidente che i linguaggi dell’arte contemporanea si sono ormai espansi in molteplici direzioni e in cui il sistema delle gallerie ha mostrato di poter esporre e commercializzare anche le opere prodotte nei luoghi più remoti e con i materiali più effimeri. Molta arte sito-specifica più recente sembra piuttosto reclutare i siti per far emergere particolari questioni che riguardano i loro contesti*: Down the River non è solo un’ope19  Sottolineo che non sto sostenendo che le opere si riducono a veicoli per questi contenuti, ma che se non considerassimo il fatto che li veicolano tralasceremmo un loro aspetto centrale e le traviseremmo.

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ra che, nella tradizione dell’approccio “istituzionale” all’arte sito-specifica, solleva delle questioni sulle istituzioni museali, ma è anche un’opera che getta luce sul problema dell’estrema polarizzazione della società americana, di cui l’esistenza, la posizione e il funzionamento di strutture come quelle che ospitano il Whitney Museum, da una parte, e il carcere di Sing Sing, dall’altra, sono indizi evidenti. Support solleva la questione della caducità del proprio sito, minacciato oggi più che mai a causa del riscaldamento globale. E ancora, House (1993) di Rachel Whiteread, installata in un quartiere di Londra nel punto in cui una casa fatiscente, ma abitata, sorgeva sino a poco tempo prima, sollevò la questione dei danni inflitti ai residenti in strutture fatiscenti quando il governo le demolisce per fare spazio ad altri siti – anche di carattere pubblico: la scultura consisteva nel calco in cemento della casa, l’esterno della quale fu poi demolito dalla stessa artista una volta completata la colata di cemento (le autorità cittadine avevano precedentemente stabilito la demolizione della casa per creare un’area verde più ampia per gli altri residenti della zona)20. Conclusioni In questo capitolo ho descritto un macro-genere di opere d’arte: quello delle opere situate. Come abbiamo visto, molte opere d’arte prodotte in forme d’arte diverse (dall’installation art, alla scultura, all’architettura, ai dipinti, solo per fare alcuni esempi) appartengono al genere delle opere situate – proprio come opere d’arte che appartengono a forme d’arte diverse possono appartenere al genere dell’arte barocca (per esempio opere architettoniche, sculture e opere teatrali) e a quello della commedia (per esempio film, opere teatrali e letterarie). Come ho sostenuto, comprendere se un’opera sia situata e, qualora lo sia, se goda di altre e più specifiche relazioni con il proprio sito 20  Per alcune immagini v. www.artsy.net/article/artsy-editorial-rachel-whitereadshouse-unlivable-controversial-unforgettable (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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e il proprio contesto storico, culturale e sociale, è fondamentale per apprezzare, esporre e conservare appropriatamente l’arte. Nella seconda parte del capitolo mi sono concentrata su un sottogenere dell’arte situata, l’arte sito-specifica, e ho sostenuto che a questo appartengono opere tali per cui la loro presenza nei loro siti è indispensabile per il modo in cui queste veicolano dei contenuti che vertono sul loro contesto storico, culturale e sociale. L’arte sito-specifica, così definita, appare come un fenomeno caratteristico dell’arte contemporanea, tuttavia non possiamo escludere a priori che vi siano opere appartenenti ad altre epoche e culture caratterizzabili in maniera analoga21. Evidenziando affinità e differenze fra arte sito-specifica contemporanea e opere situate di altre epoche mi sono distanziata dalla letteratura sull’arte sito-specifica, che insiste soprattutto sull’importanza del legame che queste opere istituiscono con il loro contesto storico, sociale e culturale, al punto da non ritenere fondamentale per l’arte sito-specifica la presenza di un particolare legame fisico con un sito. Con le mie analisi ho voluto mostrare che, invece, se perdiamo di vista il ruolo del sito fisico in certe opere d’arte contemporanea, non comprendiamo che queste sono accomunate dal fatto di veicolare i loro contenuti in un modo particolare, che istituisce un legame fra i loro siti fisici e i loro contesti storici, culturali e sociali, manipolando i primi per veicolare contenuti sui secondi. Per concludere, vorrei brevemente sottolineare un tema che merita un approfondimento futuro: la teoria dell’arte situata e sitospecifica che ho proposto ci permette anche di far risaltare la particolare fenomenologia delle opere situate e sito-specifiche. Come abbiamo visto, il peso del ruolo dei siti fisici per la comprensione dell’arte situata può variare significativamente: si va da un ruolo di sfondo per l’opera, quale quello rivestito dalla città di Calais per la scultura Les Bourgeois de Calais, per 21  Sono incline a concepire i generi d’arte come regioni dello spazio concettuale (cfr. per es. Friend 2012; Abell 2015; Declercq 2018), piuttosto che come particolari storici che cambiano nel tempo (cfr. per es. Evnine 2015), motivo per cui lascio aperta la possibilità che opere sito-specifiche siano state prodotte prima che il concetto di arte sito-specifica sia stato coniato.

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esempio, al ruolo di elemento fondamentale per la costituzione dell’opera, come nel caso dello spazio per l’installation art e l’architettura. In tutti questi casi è però vero che un’esperienza piena dell’opera deve tener conto del suo sito e della nostra presenza all’interno di questo. L’arte situata, quando non è installation art, e dunque interattiva nel senso descritto nel cap. 1 (§ 3), si comporta in maniera simile all’architettura (cfr. cap. 1 § 4): per essere apprezzata pienamente, ci richiede di esplorare, dall’interno, alcune proprietà dei suoi spazi. Quando poi ci troviamo di fronte a casi di arte sito-specifica, il ruolo della nostra esperienza del sito nell’apprezzamento dell’opera si rafforza ulteriormente. Dal momento che sfrutta il proprio sito per veicolare contenuti sul proprio contesto storico, culturale e sociale, l’arte sito-specifica ottiene l’effetto di farci sentire anche fisicamente parte di tale contesto, attraverso la nostra esperienza dei siti delle opere. L’arte sito-specifica, dunque, non veicola soltanto contenuti intellettuali sul suo contesto storico, sociale e culturale, ma anche contenuti esperienziali, e lo fa in virtù del suo essere situata. Per esempio, quando Fraser ci presenta uno spazio museale vuoto, ma abitato dai suoni di un’istituzione carceraria poco distante, ci provoca un’esperienza grazie alla quale possiamo provare che effetto fa stare in un ambiente che mette insieme aspetti di realtà tanto diverse, ossia stare in un contesto sociale complesso come quello statunitense contemporaneo sul quale l’opera verte. Quando, poi, Fritsch installa un gallo blu su un plinto di Trafalgar Square, rivoluziona la nostra esperienza della piazza: quello che prima ci appariva come luogo dominato da un’atmosfera celebrativa e pomposa diventa un luogo che esprime ironia e freschezza. E quando Whiteread presenta il calco in cemento dell’interno di una casa, già destinata alla distruzione per fare spazio a nuovi progetti urbani, installa nello spazio cittadino una massa di materiale che ne modifica significativamente la percezione: la massa di cemento esprime gravità, alludendo così al peso sociale della distruzione dell’abitazione preesistente e dell’allontanamento dal quartiere di chi viveva in quell’abitazione.

IV. Oggetti come veicoli di idee nell’arte concettuale

C’è ampio accordo sulla tesi che nell’arte concettuale le idee rivestano un ruolo centrale e che questo la distingua dall’arte tradizionale, che ci coinvolge invece molto di più sul piano dell’esperienza sensoriale1. La domanda al centro di questo capitolo è: come avviene che alcune opere d’arte concettuale veicolino idee? Per articolare una risposta, chiarisco anzitutto che cosa intendo quando parlo di “idee” nell’arte concettuale, prendendo le distanze dalla tesi della dematerializzazione, che identifica tali opere con idee (§ 1); in secondo luogo (§ 2), distinguo fra l’ampio genere dell’arte concettualista, in cui aspetti delle opere concettuali e delle opere tradizionali convivono, e la particolare forma d’arte che chiamo “arte concettuale”, dove le idee, come vedremo, la fanno da padrone. Dopo questi primi paragrafi introduttivi, intraprendo la mia analisi di come alcune opere d’arte concettuale veicolino idee, tracciando una distinzione fra opere d’arte concettuale accessibili e criptiche (§ 3): le prime, a differenza delle seconde, assomigliano significativamente a opere d’arte non concettuali e questa somiglianza è importante per comprendere come veicolano idee. Nei §§ 4, 5, e 6 sostengo poi che, benché le opere 1  Le opere d’arte tradizionali sono spesso, se non sempre, oggetto di apprezzamento intellettuale. Pensiamo, per esempio, al significato simbolico degli oggetti rappresentati in molte pale d’altare (la colomba che rappresenta lo Spirito Santo, il melograno che rappresenta il sangue di Cristo, ecc.). Le opere d’arte tradizionali, tuttavia, solitamente non sono destinate a essere principalmente (o esclusivamente), oggetto di apprezzamento intellettuale: l’apprezzamento delle loro proprietà estetiche è altrettanto rilevante e non subordinato all’apprezzamento del loro contenuto intellettuale. Pensiamo, per esempio, all’apprezzamento delle proprietà espressive di un dipinto, come la maestosità e la dolcezza.

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d’arte non concettuale, le opere d’arte concettuale accessibili e quelle criptiche veicolino idee in circostanze diverse, talvolta esse impiegano gli stessi meccanismi per farlo. La mia analisi si concentra su due di questi meccanismi: l’esemplificazione e il prop oriented make-believe. Nei §§ 7 e 8 istituisco un confronto fra la mia analisi e le proposte di James Young (2001) e Robert Hopkins (2007), rispettivamente. 1. Dematerializzazione? L’artista Sol LeWitt introdusse il termine “arte concettuale” nel linguaggio artistico per descrivere casi in cui «l’idea o il concetto è l’aspetto più importante dell’opera. Quando un artista usa una forma concettuale nel fare arte significa che tutta la progettazione e le decisioni avvengono prima e l’esecuzione è una questione accessoria» (LeWitt 1967, p. 79)2. LeWitt, in particolare, produsse numerose istruzioni per la esecuzione di disegni e pitture murali di figure geometriche (fig. 7, per esempio), ma per realizzare tali disegni e pitture collaborò con altri o lasciò interamente in mano altrui questo compito. La concezione di un’arte in cui la rilevanza della dimensione materiale si riduce al minimo per lasciar spazio all’idea fu condivisa negli anni ’60 del secolo scorso anche da artisti e teorici come per esempio Henry Flynt (1961), Adrian Piper (1967), Lucy Lippard e John Chandler (1968) e Joseph Kosuth (1969) – per una ricostruzione delle loro posizioni cfr. Dal Sasso (2020, cap. 2, § 2.5.1). Lippard e Chandler, in particolare, coniarono l’espressione “dematerializzazione dell’arte” per riferirsi all’operato di artisti come Sol LeWitt, Robert Barry, Lawrence Weiner, On Kawara, Joseph Kosuth, John Baldessari e il gruppo Art & Language (cfr. anche Lippard 1973). Tuttavia, attraverso la riflessione teorica è successivamente emerso che non solo opere come Fountain (1917) di 2  Kobau (2008, p. 132) sottolinea opportunamente l’affinità tra la visione di LeWitt e le teorie dell’arte difese da Benedetto Croce (1902) e Robert Collingwood (1938).

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Marcel Duchamp – il famoso orinatoio di porcellana, firmato “R. Mutt” e presentato alla mostra della Society of Independent Artists a New York – avevano molto in comune con quelle prodotte dagli artisti sopracitati fra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, ma anche che gli artisti tuttora continuano a produrre opere di questo genere – si pensi, per esempio, a Vo Rosasco Rasmussen (2002 – in corso) di Dahn Vo, che consiste in una serie di matrimoni e immediati divorzi – attestati da documenti cartacei – contratti dall’artista con persone importanti nella sua vita3. Sul fronte della riflessione filosofica, l’ipotesi della dematerializzazione dell’arte attraverso la pratica dell’arte concettuale è stata espressa principalmente da due proposte: quella che, dal punto di vista ontologico, le opere concettuali sono idee (si vedano per es. Carroll 1999, p. 77; Matravers 2007, p. 249; Schellekens 2007)4 e quella che le opere d’arte concettuale sono destinate a essere apprezzate principalmente (se non esclusivamente) per il loro contenuto intellettuale (cfr. per es. Goldie e Schellekens 2010; Cray 2014; Dodd 2016)5. In base a queste tesi possiamo sostenere, per esempio, che le opere di LeWitt non sono altro che idee espresse attraverso le istruzioni per la produzione di disegni e pitture murali che 3  Su Duchamp come antesignano del concettuale cfr. per es. Buchloh et al. (1994) e Rosenthal (2003). 4  Queste proposte sull’ontologia delle opere concettuali presentano delle affinità con la teoria generale dell’arte avanzata da David Davies (2004) – sulla scorta di Gregory Currie (1989) – secondo la quale tutte le opere d’arte sono performance degli artisti, che possiamo apprezzare prestando attenzione ai “fulcri di apprezzamento” realizzati tramite esse (gli oggetti e gli eventi che ci vengono presentati per es. in un museo o in un auditorium). Analogamente, se le opere concettuali sono idee, gli oggetti o gli eventi che ci vengono presentati quando l’arte concettuale è esposta o eseguita non sono le opere stesse, ma sono semplicemente strumenti attraverso i quali le opere (ossia certe idee) ci vengono presentate (su questo punto cfr. l’analisi di Dodd (2016, p. 255). Per alcune critiche alla proposta di Davies cfr. Dodd (2005), Dilworth (2005), Matravers (2005), Stecker (2005), Stock (2005) e per delle repliche cfr. Davies (2005). 5  Una posizione minoritaria è quella secondo cui, nell’arte concettuale, apprezziamo esteticamente le idee – si vedano per es. Shelley (2003) e Carroll (2004). La tesi che le opere d’arte concettuale non sono degne di apprezzamento intellettuale è invece difesa da Young (2001, cap. 5).

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l’artista ha elaborato e che l’obiettivo dell’artista è che apprezziamo, per qualche ragione, queste idee (su quest’ultimo punto tornerò nel § 5). La tesi della dematerializzazione dell’arte attraverso la pratica dell’arte concettuale ha però incontrato numerose critiche, sia in campo teorico-artistico che, più recentemente, in campo filosofico. Come osserva Davide Dal Sasso, sul fronte della riflessione teorico-critica molti hanno sottolineato che, benché l’arte concettuale riduca al minimo la presenza di oggetti, «la riduzione all’essenziale non equivale al completo abbandono delle entità materiali o al loro declassamento, ma a nuovi modi di usarle» (Dal Sasso 2020, p. 132). Dal Sasso cita, fra gli altri, l’artista Hélio Oiticica (1966), che ha insistito sul fatto che le opere concettuali sono utilizzate per far partecipare alla pratica artistica il pubblico – libero di scegliere che cosa fare di oggetti così enigmatici e differenti dalle opere d’arte tradizionali –, il teorico Germano Celant, che ha parlato di «fisicizzazione di un’idea, un’idea tradotta “in materia”» (Celant 1976, p. 65), riportando i materiali al centro della discussione dell’arte concettuale, e il curatore Harald Szeemann (1969), che ha gettato luce sul fatto che attraverso le opere concettuali gli artisti danno preminenza ai processi che portano all’esibizione di certi oggetti o eventi, piuttosto che alla forma di questi (Dal Sasso 2020, pp. 133-134). Fra i filosofi, poi, sul fronte dell’ontologia dell’arte, sono state recentemente avanzate proposte alternative a quella che identifica le opere d’arte concettuale con delle idee (Cray 2014; Dodd 2016). Qui accennerò brevemente alla tesi di Julian Dodd, che sostiene che le opere d’arte concettuale non appartengono a una sola categoria ontologica: queste possono essere particolari oggetti fisici, come per esempio Fountain di Duchamp, ma anche tipi di oggetti fisici, come i murales di LeWitt, che possono avere molteplici istanziazioni, o eventi, come per esempio certe performance di Adrian Piper. Inoltre, Dodd osserva che, per lo meno per quanto concerne alcune opere d’arte concettuali, l’esperienza delle proprietà percetti-

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ve dell’opera è rilevante per il suo apprezzamento. Ciò suggerisce che il medium artistico di tali opere non può consistere puramente in idee (cfr. anche Irvin e Dodd 2017, p. 380). Il medium artistico delle opere di LeWitt, per esempio, sembrano essere proprio i disegni realizzati grazie alle loro istruzioni, che istanziano particolari proprietà geometriche. Per quanto riguarda la tesi filosofica che le opere d’arte concettuale sono destinate a essere apprezzate principalmente (se non esclusivamente) per il loro contenuto intellettuale, questa è compatibile con la teoria che le opere d’arte concettuale sono cose di vario genere (oggetti fisici, tipi di eventi, ecc.). Se, per esempio, sosteniamo che un’opera d’arte concettuale è un oggetto fisico, quest’affermazione è comunque compatibile con quella che, per apprezzare opportunamente l’opera, dobbiamo concentrarci sull’idea che il suo creatore è riuscito a trasmettere tramite la presentazione di tale oggetto al pubblico (cfr. per es. Cray 2014; Dodd 2016), o sul processo che ha portato alla produzione di tale oggetto, o sull’occasione di partecipazione che l’oggetto ci offre – insomma, con la tesi che apprezzare le opere d’arte concettuale è una questione di apprezzamento intellettuale (delle idee che cogliamo, dei processi che ricostruiamo, degli eventi ai quali partecipiamo in virtù dell’incontro con tali opere) e non di apprezzamento delle proprietà sensibili degli oggetti o degli eventi che ci troviamo di fronte quando incontriamo tali opere (per semplicità, d’ora in avanti, per riferirmi all’esperienza di apprezzamento intellettuale di idee, processi ed eventi partecipativi parlerò di “apprezzamento delle idee”, “cogliere idee”, ecc.). Nel caso delle opere di LeWitt, per esempio, come vedremo sotto (§ 5), possiamo sostenere che la presentazione di disegni geometrici è funzionale all’apprezzamento delle proprietà geometriche che questi istanziano6. 6  Questa proposta è compatibile con quella secondo la quale, almeno in alcuni casi, l’apprezzamento estetico di un’opera d’arte concettuale è necessario perché l’idea trasmessa dall’opera sia apprezzata intellettualmente. In particolare, secondo Cray (2014, pp. 242-243), le opere d’arte concettuale non sono mai destinate all’apprezzamento estetico in quanto tale: l’apprezzamento estetico di alcune loro pro-

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Nel caso dei documenti che attestano i matrimoni contratti e i divorzi effettuati da Dahn Vo possiamo sostenere che la presentazione dei documenti è funzionale all’apprezzamento del processo al quale si è sottoposto l’artista decidendo di provare queste esperienze (su quali aspetti di tale processo possiamo apprezzare tornerò nel § 5). Nel caso, poi, di performance come quelle della serie The Mythic being (19721975) di Adrian Piper – in cui l’artista si è applicata dei baffi e una parrucca Afro, ha indossato occhiali metallici rotondi e camminato per la strada assumendo atteggiamenti maschili stereotipati – possiamo sostenere che le azioni dell’artista sono funzionali all’apprezzamento della possibilità che queste ci offrono di partecipare a eventi con certe caratteristiche (anche su questo tornerò nel § 5). La tesi che le opere d’arte concettuale non sono idee, ma oggetti di vario genere utilizzati per portare al centro dell’attenzione dello spettatore idee, potenzialità di certi materiali, processi ed esperienze di partecipazione mi trova concorde, perché concilia fedeltà alle pratiche artistiche (dal momento che rende ragione della rilevanza, non solo delle idee, ma anche dei materiali, dei processi e della partecipazione nella pratica dell’arte concettuale), rigore filosofico (dal momento che s’impernia su una posizione ontologica chiara e intuitiva) e potenziale esplicativo (dal momento che permette comunque di spiegare che cosa significa che le opere concettuali sono apprezzate principalmente, se non esclusivamente, dal punto di vista intellettuale, a differenza delle opere d’arte tradizionali). D’ora in avanti, per semplicità, userò il termine “oggetti” per riferirmi non esclusivamente a particolari materiali, ma tanto a particolari materiali, quanto a eventi, che a tipi astratti con cui possiamo identificare diverse opere d’arte concettuale – e prietà è sempre funzionale all’apprezzamento intellettuale delle idee trasmesse dalle opere. Per esempio, possiamo apprezzare esteticamente il fatto che i disegni eseguiti tramite le istruzioni di LeWitt sono delle composizioni bilanciate, ma quest’esperienza di apprezzamento è rilevante per l’apprezzamento delle opere di LeWitt solo nella misura in cui ci dà accesso a un aspetto delle proprietà geometriche descritte tramite le istruzioni – quello di poter essere istanziate attraverso disegni bilanciati.

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lo stesso vale per l’utilizzo del termine “oggetti” nei titoli del capitolo e del volume7. 2. Arte concettuale e arte concettualista Nel paragrafo precedente con “arte concettuale” mi sono riferita a opere, per così dire, ridotte all’osso, gli aspetti sensibili delle quali sono rilevanti solo nella misura in cui permettono di veicolare certe idee, evidenziare certi processi ed esperire certe forme di partecipazione. Vi sono però anche molte opere d’arte contemporanea che condividono con quelle concettuali l’insistenza sulle idee, sui processi e sulla partecipazione, ma che, a differenza di queste, non sono certo oggetti o eventi ridotti all’osso, ma opere per certi aspetti – come le proprietà estetiche e rappresentazionali che esibiscono – molto simili all’arte tradizionale. Nei capitoli precedenti mi sono occupata di alcuni tipi di queste opere: come abbiamo visto, tenere in conto la partecipazione del pubblico è cruciale per la comprensione della struttura e dell’esperienza delle opere d’installation art, che spesso si distinguono per le loro proprietà estetiche. Analogamente, per l’apprezzamento delle opere sito-specifiche è centrale cogliere le idee che queste articolano sui propri siti e i propri contesti storici, culturali e sociali, come ho sostenuto, oltre alle proprietà estetiche che molte di queste opere esibiscono. Infine, come vedremo nel prossimo capitolo, per apprezzare le opere di street art è necessario tener conto del processo di riappropriazione dei luoghi pubblici di cui queste sono il risultato, benché in moltissimi casi si tratti anche di opere con significative proprietà estetiche. Una disamina del rapporto che lega queste opere imparentate tanto con le opere concettuali “ridotte all’osso” quanto con l’arte tradizionale richiederebbe molto più spazio – ri7  Mi rifaccio così a Peter Van Inwagen, che sostiene: «Un oggetto è qualsiasi cosa che possa essere il valore di una variabile, ossia, qualsiasi cosa di cui possiamo parlare usando pronomi, ossia qualsiasi cosa» (van Inwagen 2002, p. 180).

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mando a Dal Sasso (2020) per un’analisi approfondita. Qui, in sostanziale accordo con Dal Sasso (2020, cap. 2, § 2.5; cap. 3, § 3.2.1), mi limiterò ad articolare brevemente la seguente tassonomia. Tanto le opere concettuali “ridotte all’osso” quanto il secondo tipo di opere appartengono allo stesso genere d’arte – quello che possiamo chiamare il genere dell’“arte concettualista”8. L’arte concettualista si distingue per la massima rilevanza che dà a idee, processi e partecipazione del pubblico. Molte opere d’arte contemporanea prodotte in forme d’arte diverse (dall’installation art, alla scultura, alla performance, per esempio) appartengono al genere dell’arte concettualista). La mia proposta è che fra le forme d’arte che appartengono al genere dell’arte concettualista vi sia anche una nuova, particolare forma d’arte: quella dell’arte concettuale, alla quale non appartengono tutte le opere concettualiste, ma solo le opere “ridotte all’osso”, che hanno pochissimo in comune con l’arte tradizionale, e cioè quelle che già dal primo paragrafo ho chiamato “opere d’arte concettuale”. Se le opere d’arte concettuale appartengono tutte alla stessa forma d’arte, ciò significa che condividono tutte lo stesso medium o lo stesso profilo mediale (cfr. sopra, cap. 1, §6). Come abbiamo visto nel primo capitolo, il medium o il profilo mediale di un’opera può essere costituito da una o più risorse, materiali o immateriali, manipolate attraverso certe tecniche, per veicolare certi contenuti e rendere salienti certe proprietà. Il medium delle opere d’arte concettuali, in particolare, è costituito da oggetti materiali particolari, da istanziazioni materiali di tipi di oggetti, o da particolari eventi che hanno in comune il fatto di essere stati manipolati con la stessa tecnica, per veicolare lo stesso tipo di contenuti: la tecnica consiste nel ridurre al minimo i loro aspetti sensibili rilevanti 8  Come spiega Dal Sasso, su quella che qui indico come la distinzione fra arte concettuale e arte concettualista si sono espressi con acute osservazioni il filosofo Ermanno Migliorini (1972), la teorica dell’arte Roberta Smith (1999) e i curatori Luis Camnitzer, Jane Farver e Rachel Weiss (1999) (si veda Dal Sasso 2020, cap. 2, § 2.5.1; cap. 3, § 3.2.1). Uno studio dell’arte concettualista è anche quello proposto da Irvin (2020b).

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al veicolare idee (i contenuti delle opere concettuali), nel fare di tali aspetti gli unici importanti per la nostra esperienza delle opere e nel presentare questi oggetti come opere d’arte9. In particolare, fra gli oggetti che possono fungere da risorse per l’arte concettuale vi sono oggetti che sono già media di opere in altre forme d’arte e dei quali l’arte concettuale si appropria. Un’opera come L.H.O.O.Q. (1919) di Duchamp – la famosa “Gioconda coi baffi” – per esempio, si appropria (attraverso l’utilizzo di una riproduzione fotografica) della Gioconda di Leonardo da Vinci e fa della barba e dei baffi tracciati da Duchamp sul volto dipinto fotografato l’unico elemento importante per la nostra esperienza dell’opera, il cui obiettivo è realizzare un gesto iconoclasta nei confronti di un’opera tradizionale celeberrima e non offrirci una nuova occasione per apprezzare l’ambiguità del sorriso di Monna Lisa o le squisite sfumature coloristiche che contraddistinguono la pittura leonardesca. Nel resto del capitolo, mi concentrerò esclusivamente sulle opere d’arte concettuale, lasciando da parte le altre opere concettualiste. Nel dibattito filosofico, come abbiamo visto, si discute sul fatto che le opere concettuali siano o meno idee, dal punto di vista ontologico, e sul modo in cui ci è richiesto di apprezzare queste idee; inoltre, si discute su che tipi di idee siano veicolate dalle opere d’arte concettuale (Schellekens 2007) e sul fatto che afferrando le idee veicolate dalle opere concettuali acquisiamo o meno delle conoscenze (per es. Young 2001, cap. 5; Goldie 2007). Inoltre, alcuni hanno anche discusso come avviene che le opere d’arte concettuale veicolino idee (Young 2001, cap. 5; Hopkins 2007 – tornerò su queste proposte nei §§ 7 e 8). Quest’ultima è la questione sulla quale mi concentrerò nel resto del capitolo. L’obiettivo è quello di meglio comprendere il ruolo rivestito dagli oggetti in queste 9  Con questa proposta mi distanzio da Lopes (2014, pp. 197-199) che, influenzato dalla teoria della dematerializzazione dell’opera, sostiene che sono le idee a costituire il medium delle opere concettuali. Sulla possibilità che materiali diversi costituiscano un’unica risorsa per lo stesso medium cfr. Irvin e Dodd (2017, p. 380).

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opere “ridotte all’osso” e di avere degli strumenti per orientarci nell’esperienza e nell’apprezzamento di queste opere. 3. Opere d’arte concettuale accessibili e criptiche Per apprezzare appieno qualsiasi opera d’arte abbiamo bisogno della mediazione di discorsi che la contestualizzino: per esempio, come sostiene Jerrold Levinson, «gli attributi estetici e artistici di un brano musicale sono parzialmente una funzione del, e devono essere valutati in riferimento al, contesto storico-musicale totale in cui il compositore è situato mente compone il brano» (Levinson 1980, pp. 68-69)10. Come fa notare David Davies, tuttavia, molte opere d’arte contemporanee si distinguono per il fatto che apprezzarle pienamente richiede «un discorso che non ha solo la funzione di contestualizzare il veicolo di un’opera d’arte, ma anche quella di identificare quale sia tale veicolo, visto ciò che è presentato al pubblico nel contesto espositivo» (Davies 2007, p. 152). Ciò che Davies chiama “veicolo” corrisponde a quanto, precedentemente, ho chiamato “risorsa” (materiale o immateriale): è dunque ciò che, una volta che è stato manipolato attraverso certe tecniche per veicolare certi contenuti o rendere salienti certe proprietà, diventa il fulcro della pratica di apprezzamento di un’opera in quanto appartenente a una certa forma d’arte. Per esempio, le pennellate sono un veicolo, o una risorsa, per la pittura a olio (cfr. Davies 2005a, p. 181), le configurazioni bidimensionali prodotte attraverso la registrazione di un’immagine luminosa sono il veicolo delle fotografie (cfr. Phillips 2009) e le sequenze di parole sono il veicolo delle opere letterarie. Di solito, quando abbiamo a che fare con opere d’arte tradizionali, sapere che l’opera appartiene a una certa forma d’arte è quanto ci occorre per identificare il suo veicolo: sappiamo che la pittura a olio usa le pennellate come 10  Cfr. per es. anche Wollheim (1980, pp. 185–204); Danto (1981); Currie (1989); Davies (2004, cap. 2 e 3).

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risorsa, che un’opera letteraria usa le sequenze di parole come risorsa, ecc. Al contrario, osserva Davies, molte opere d’arte contemporanea sono tali per cui identificare i loro veicoli non è un’operazione immediata. Per esempio, Viral Landscapes di Helen Chadwick (1989) consiste in cinque fotografie della costa del Pembrokeshire, ma per identificare il veicolo dell’opera è cruciale che comprendiamo che le fotografie sono state imbrattate con della materia cellulare che proviene dal corpo dell’artista, perché è grazie a questa informazione che possiamo comprendere la dichiarazione dell’artista che la sua opera «elabora una teoria del sé che celebra l’invasione e la dissoluzione del sé da parte dell’altro» (Sladen 2004, pp. 20-22, citato in Davies 2007, p. 138)11. La materia cellulare proveniente dal corpo dell’artista, dunque, è parte del veicolo artistico di Viral Landscapes e ciò è qualcosa che non siamo in grado di comprendere senza l’aiuto di un discorso che identifichi il veicolo dell’opera. Certo, un indizio sul fatto che non si tratti esclusivamente di fotografie di paesaggio ci viene dal titolo dell’opera, che qualifica i paesaggi come “virali”, introducendo il tema della materia cellulare, ma non è possibile ricostruire la poetica di Chadwick a partire dal solo titolo12. In linea generale, concordo con quanto sostiene Davies, ma ritengo che la sua proposta vada perfezionata: da una parte vi sono le opere come Viral Landscapes, che richiedono un discorso per identificare parte del loro veicolo, mentre dall’altra vi sono opere come Fountain, che richiedono discorsi per identificare i loro veicoli nella loro interezza13. Viral Landscapes ci presenta, oltre alla materia cellulare dell’artista, delle fotografie, e non abbiamo bisogno di un discorso che ci aiuti a identificare questa parte del veicolo dell’opera; al contrario, quando esperiamo l’opera, grazie alla nostra familiarità con 11  Per un’immagine si veda www.modernartoxford.org.uk/archive-helen-chadwickviral-landscapes-1989-1990 (ultimo accesso 5 giugno 2020). 12  Sull’importanza dei titoli per l’apprezzamento delle opere d’arte cfr. Levinson (2011). 13  Sul tema dei readymade che celano la propria natura di arte si veda D’Angelo (2014, cap. 9).

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le fotografie siamo naturalmente portati a fare attenzione a che cosa queste raffigurano. Lo stesso, invece, non è vero della materia cellulare che è parte dell’opera. E non è vero neppure per Fountain di Duchamp: non vi è alcun aspetto dell’intero veicolo di quest’opera al quale siamo spontaneamente portati a fare attenzione perché ci appare simile al veicolo di opere d’arte tradizionali. Il titolo, “Fountain”, può aiutarci a identificare delle analogie fra l’oggetto che ci troviamo di fronte e una fontana, ma non ci dà indicazioni affidabili su quali aspetti di tale oggetto siano rilevanti per comprendere la sua natura di opera d’arte. Per comprendere che il veicolo dell’opera è costituito tanto da un urinale in quanto presentato a una mostra organizzata dalla Society of Independent Artists a New York (che lo rifiutò) – ossia in quanto manipolato attraverso una certa tecnica – abbiamo bisogno di un discorso attorno al veicolo dell’opera, come quello elaborato da Thierry de Duve, per esempio, nel suo approfondito studio su Duchamp (De Duve 1996, cap. 2)14. A questo si potrebbe obiettare che anche un osservatore ignaro della storia di Fountain e dei readymade, trovandosi di fronte all’opera di Duchamp, conoscendone il titolo, ed essendo stato informato che si tratta di un’opera d’arte, pur sprovvisto di un discorso che gli permetta d’identificare il veicolo dell’opera sarebbe portato (probabilmente dopo averci riflettuto un po’) a considerare l’ipotesi che l’opera dovrebbe essere ritenuta una scultura, probabilmente una insolita fontana – giungendo così a identificare autonomamente il veicolo dell’opera, ossia l’orinatoio. Quanto sostengo, però, non è intaccato da questa osservazione: benché l’osservatore ipotetico abbia identificato il veicolo dell’opera, egli lo ha identificato per le ragioni sbagliate, ritenendo Fountain una scultura. In altre parole, l’osservatore non ha compreso con quali tecniche il veicolo è stato manipolato e dunque non si è messo sulla strada corretta per comprendere quale sia il medium dell’ope14  Per

ulteriori discorsi filosofico-critici su Fountain si veda anche il numero speciale del Nordic Journal of Aesthetics in occasione del centenario dell’opera (n. 57-58, 2019).

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ra. Fountain, infatti, non è una scultura, benché condivida con le sculture il fatto di essere veicolata da un oggetto fisico tridimensionale, perché, come emergerà più chiaramente sotto (§ 7), non è presentato per essere apprezzato per le sue proprietà estetiche e rappresentazionali, a differenza delle sculture. Data questa disanalogia fra opere come Viral Landscapes e Fountain, propongo di distinguere fra opere d’arte contemporanea che si distaccano dalla tradizione pur restando parzialmente accessibili all’osservatore dotato della sola conoscenza di opere tradizionali (come Viral Landscapes) e opere d’arte contemporanea che, come Fountain, si distaccano dalla tradizione in un modo che le rende inaccessibili all’osservatore dotato della sola conoscenza di opere tradizionali. Per semplicità, chiamerò le prime opere accessibili e le seconde opere inaccessibili. Le opere accessibili possono essere sia opere concettualiste (come Viral Landscapes, un ibrido di fotografia e strategie concettualiste) che opere concettuali (come L.H.O.O.Q., che, come ho detto sopra, si appropria della Gioconda meramente per veicolare idee). Le opere inaccessibili, invece, sono tutte opere concettuali. In ciò che segue, mi concentrerò solo sulle opere concettuali, accessibili e inaccessibili15. Come ho detto, un caso di opera concettuale accessibile è L.H.O.O.Q. di Duchamp che, nella sua prima versione, consiste in una riproduzione su cartolina postale della Gioconda di Leonardo sulla quale Duchamp disegnò dei baffi e una barba con una matita: non abbiamo bisogno di un discorso sul veicolo dell’opera per comprendere che il veicolo di L.H.O.O.Q. è costituito da configurazioni bidimensionali prodotte attraverso la registrazione dell’immagine luminosa di un dipinto, modificate attraverso un intervento a matita, perché questo assomiglia a quello di opere tradizionali come le fotografie, i dipinti e i disegni a matita. Tuttavia, per comprendere l’opera appieno, è fondamentale che attraverso un discorso sul suo veicolo (per esempio quello di De Duve 1996, pp. 389-90; 418) compren15  La distinzione fra opere accessibili e inaccessibili è affine a quella tracciata da Ravasio (2018) fra opere d’arte parassitarie e non parassitarie.

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diamo che gli elementi disegnati a matita non sono il risultato di una scelta esteticamente infelice da parte dell’artista, ma di un gesto iconoclasta compiuto da Duchamp: questo, insieme al titolo dal suono volgare, ovviamente, ci permette di comprendere con quali tecniche è stato trattato il veicolo dell’opera, fatto sul quale dobbiamo concentrarci se vogliamo apprezzare l’opera pienamente. Un caso di opera concettuale inaccessibile, invece, è, come abbiamo già visto, Fountain. Nei prossimi paragrafi mostrerò che la distinzione fra opere concettuali accessibili e inaccessibili s’interseca con la questione di come le opere concettuali veicolino idee. In particolare, sosterrò due tesi principali. La prima, alla quale ho già accennato, è che le opere accessibili come L.H.O.O.Q. fanno leva, fra le altre cose, su alcune loro somiglianze salienti con opere d’arte tradizionali per veicolare idee, mentre le opere inaccessibili come Fountain non lo fanno, dal momento che non presentano tali somiglianze. La seconda è che, benché le opere accessibili e quelle inaccessibili veicolino idee in circostanze diverse, per le ragioni appena ricordate, talvolta ambedue i tipi di opere adottano meccanismi simili per farlo. In particolare, mi concentrerò sull’analisi di due meccanismi: l’esemplificazione e il prop oriented make-believe. Nel § 4 considero come alcune opere accessibili veicolano idee, descrivendo due casi. Nel § 5 introduco la nozione di esemplificazione e mostro come sia un’opera concettuale accessibile che una inaccessibile sfruttino il meccanismo dell’esemplificazione per veicolare idee. Nel § 6 introduco la nozione di prop oriented make-believe e mostro come due opere inaccessibili sfruttino questo meccanismo per veicolare idee.

4. Come le opere d’arte concettuale accessibili veicolano idee: due esempi Come abbiamo visto, L.H.O.O.Q., nella sua prima versione, consiste in una cartolina fotografica della Gioconda sulla

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quale sono stati tracciati a matita una barba e dei baffi. Per veicolare una certa idea, quest’opera fa in parte leva sul fatto che presenta al pubblico un’immagine raffigurativa. Il titolo dell’opera – l’acronimo “L.H.O.O.Q.” – pronunciato in francese, suona come “Elle a chaud au cul” – un’espressione volgare per indicare che una donna è sessualmente eccitata; per quanto riguarda il contenuto figurativo dell’opera, poi, essa modifica l’aspetto di un famosissimo dipinto attraverso l’aggiunta di barba e baffi. Attraverso un discorso che contestualizza le azioni di Duchamp sulla cartolina, come già detto, riusciamo a qualificarle come un doppio gesto di scherno: una prima volta attraverso la modifica dell’immagine della Gioconda tramite il disegno di barba e baffi e una seconda attraverso l’accostamento di un titolo volgare all’immagine modificata. Inoltre, provvisti di ulteriori conoscenze sull’uso di oggetti quotidiani nella pratica artistica di Duchamp, possiamo comprendere che le idee che l’opera veicola hanno a che vedere anche con la riduzione dell’oggetto presentato all’etichetta “Questa è un’opera d’arte” (cfr. De Duve 1996, p. 418), oltre che con i gesti di scherno nei confronti della famosa opera di Leonardo. Per afferrare che l’opera veicola queste idee dobbiamo considerare anche il contenuto figurativo dell’immagine e questo è chiaramente un elemento di continuità fra quest’opera e opere pittoriche tradizionali come la stessa Gioconda. Si ritiene che quest’ultima, infatti, veicoli, fra le altre cose, una certa idea di felicità, suggerendola, per esempio, con la raffigurazione di una figura femminile che sorride serenamente e con la piacevole colorazione ottenuta tramite la tecnica dello sfumato, che consiste in un passaggio graduale da un colore a un altro attraverso le più sottili gradazioni tonali – colorazione espressiva di serenità16. Considerazioni simili valgono per un’opera come Wall Drawing #370: Ten Geometric Figures (including right triangle, cross, X, diamond) with three-inch parallel bands of 16  La letteratura critica intorno alla Gioconda è ovviamente sterminata, qui mi limito a menzionare Marani (2003).

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lines in two directions (1982) di Sol LeWitt – d’ora in avanti, per semplicità, Wall Drawing #370 (fig. 7). Quest’opera assomiglia a un tradizionale murale ed è prestando attenzione al contenuto figurativo del murale, oltre che al suo insolito titolo, che possiamo afferrare l’idea che questa veicola e come tale idea è veicolata – sempre che ci avvaliamo anche di un discorso che ci permetta di comprendere come è stato manipolato il veicolo dell’opera. È infatti fondamentale sapere che il murale non è stato realizzato dall’artista, ma da altri che hanno seguito le istruzioni dell’artista, e che questa decisione rispecchia la concezione che LeWitt aveva dell’arte concettuale, già citata all’inizio del capitolo: «nell’arte concettuale l’idea o il concetto è l’aspetto più importante dell’opera. Quando un artista usa una forma concettuale nel fare arte significa che tutta la progettazione e le decisioni avvengono prima e l’esecuzione è una questione accessoria» (LeWitt 1967, p. 79). Inoltre, leggendo il lungo titolo e confrontandolo con quanto vediamo comprendiamo che le istruzioni per la realizzazione dell’opera sono contenute nel titolo stesso (come avviene per molte opere di LeWitt). Grazie alle informazioni combinate che raccogliamo attraverso l’esperienza del murale, che è imponente e ipnotico, e grazie anche alla lettura del titolo e a quella delle dichiarazioni dell’artista, possiamo dunque comprendere che l’opera veicola l’idea che le semplici indicazioni contenute nel titolo esprimono un concetto potente (su come questo avvenga tornerò con più precisione nel § 5). L.H.O.O.Q. e Wall Drawing #370 sono solo due esempi di opere concettuali accessibili. Ci sono molti altri modi in cui le opere d’arte concettuale accessibili sfruttano le loro somiglianze con opere d’arte tradizionali, in parte, per veicolare idee17. Il mio obiettivo qui non è offrire un’analisi completa delle modalità con cui le opere accessibili veicolano idee tramite la descrizione di queste due opere, ma è piuttosto 17  Cfr.

Ravasio (2018) per i casi di 4’33’ (1952) di John Cage, Erased De Kooning Drawing (1953) di Robert Rauschenberg, Invisible Sculpture (1985) di Andy Warhol e Socle du Monde (1961) di Piero Manzoni.

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delineare una cornice concettuale per la comprensione delle opere accessibili. 5. Come alcune opere d’arte concettuale inaccessibili e accessibili veicolano idee tramite l’esemplificazione La nozione di esemplificazione è stata analizzata da Nelson Goodman e Catherine Z. Elgin (cfr. per es. Goodman 1976; 1978; Elgin 2018). Come spiega Elgin L’esemplificazione è la relazione di riferimento tramite cui un campione, un esempio, o un altro esemplare di qualcosa fa riferimento ad alcune delle sue proprietà […] un campione mette in luce, mostra o rende evidenti alcune delle sue proprietà manifestandole e riferendosi a queste allo stesso tempo. Anzi, fa riferimento a queste tramite il fatto che le manifesta. Un quadrato di tweed a spina di pesce si può usare come campione di questo tipo di tessuto. È una manifestazione di quel motivo che fa riferimento al motivo. […] Un campione non esemplifica tutte le sue proprietà. Può metterne in luce alcune solo grazie al fatto che ne marginalizza o oscura altre (Elgin 2018, p. 29)18.

In questo passo, Elgin approfondisce le considerazioni di Goodman (1976, cap. 2 e 6), che per primo ha sottolineato la rilevanza del concetto di esemplificazione per l’estetica, sostenendo che l’esemplificazione è uno dei cinque “sintomi dell’estetico”, insieme alla densità sintattica, alla densità semantica, alla saturazione relativa e al riferimento multiplo e complesso. Successivamente, Goodman ha anche sostenuto che per esempio i dipinti astratti esemplificano alcune delle loro proprietà (Goodman 1978, p. 65) e che l’esemplificazione può aiutarci a comprendere «lo status di arte dell’“objet trouvé” e della cosiddetta “arte concettuale”» (ivi, p. 57)19. 18  Per esempio, un campione quadrato di tweed a spina di pesce fa riferimento alla sua proprietà di essere un tessuto di tweed a spina di pesce e marginalizza la sua proprietà di essere di forma quadrata. 19  Sul ruolo dell’esemplificazione nell’arte contemporanea cfr. anche Young (2001, pp. 138-143) – la proposta di Young è discussa sotto.

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Secondo Goodman, tutte le opere d’arte funzionano come simboli, ossia sono oggetti che stanno al posto di qualcos’altro. Alcune opere d’arte funzionano come simboli grazie all’esemplificazione: tali opere stanno per una (o alcune) delle loro proprietà. È grazie all’esemplificazione, sostiene Goodman, che – in circostanze appropriate – anche gli objet trouvé (ossia i readymade) e le opere concettuali possono valere come arte. Vediamo alcuni esempi. Following Piece (1969) di Vito Acconci è un evento durante il quale Acconci seguì diverse persone a lui sconosciute, scelte a caso per le strade di New York, sino a quando queste non raggiunsero le loro destinazioni. L’evento non mostrava somiglianze salienti con opere d’arte tradizionali: benché, retrospettivamente, si possa dire che si trattò di una sorta di performance, l’evento non avvenne di fronte a un pubblico né in luoghi solitamente deputati all’esibizione di arte. Following Piece, dunque, è – o meglio, è stata – un’opera inaccessibile. Le azioni di Acconci sono documentate da alcune fotografie, accompagnate da alcuni appunti dell’artista. Negli appunti leggiamo frasi come: Performance come impegno: performance come “formare una parte” di qualcosa, “formare una parte” di qualcuno: non comunicazione, ma piuttosto presentazione di discorsi. Un modo per motivare il movimento: movimento determinato da un’altra persona. Performance come “essere agito”. Movimento come “essere mosso”. Sistema elastico – sistema aggiuntivo – sistema partecipativo – sistema complementare. Performance come espressione della direzione di qualcun altro20.

Il titolo dell’opera, poi, – Following Piece – sottolinea che le performance cui fanno riferimento le foto e i testi di Acconci erano atti in cui l’artista ha seguito delle persone. La mia proposta è che Acconci ci proponga di utilizzare la sua performance per fare riferimento a certe particolari proprietà di questa, ossia per esemplificare tali proprietà, così come usiamo 20  Sia le fotografie che il testo si possono vedere qui: www.moma.org/collection/ works/146947 (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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un campione quadrato di tweed a spina di pesce per fare riferimento alla sua proprietà di essere fatto di tweed a spina di pesce. Le particolari proprietà esemplificate dalla performance sono quelle enunciate negli appunti che accompagnano le foto: in particolare, la proprietà di essere atti in cui una persona si è lasciata guidare da un’altra. Possiamo dunque concludere che con Following Piece Acconci non seguì semplicemente delle persone, ma gettò le basi per poter esemplificare azioni in cui un soggetto si lascia guidare da uno sconosciuto, all’insaputa di questi, per poter canalizzare così l’attenzione del pubblico su un aspetto del comportamento umano21. La performance è dunque lo strumento che Acconci ha potuto utilizzare, grazie ad alcune sue specifiche proprietà, per condurre il pubblico a formarsi certe idee sul comportamento umano. L’esemplificazione non è una prerogativa dell’arte concettuale criptica. Anche le opere d’arte concettuale accessibile possono sfruttare l’esemplificazione per veicolare idee: vediamo il caso di Wall Drawing #370 di Sol LeWitt. Come ho sottolineato sopra, si tratta di un murale realizzato da altri, che hanno eseguito le istruzioni impartite dall’artista e riportate nel lungo titolo completo dell’opera. Il murale istanzia numerose proprietà: presenta certe figure geometriche, ha un effetto ipnotico, ha una certa lunghezza, e così via. Fra le proprietà istanziate dal murale, in particolare, vi è anche quella di essere una realizzazione delle istruzioni contenute nel titolo dell’opera. Ora, la mia proposta è che, quando LeWitt sottolinea, come abbiamo visto sopra, che l’esecuzione delle sue istruzioni è un fatto puramente accessorio e che ciò che conta nell’arte sono solo le 21  Anche le opere di Vo e Piper citate nel § 1 fanno leva sull’esemplificazione: i documenti relativi ai matrimoni e divorzi di Dahn Vo sono utilizzati dall’artista per esemplificare una loro proprietà, quella di essere tracce di un processo – contrarre vincolo di matrimonio con persone importanti nella propria vita e poi divorziare – con fortissime valenze simboliche, che l’artista ha attraversato deliberatamente. Mostrare tali documenti significa invitare il pubblico a riflettere sul tipo di esperienza che l’artista ha scelto di fare. Le performance di Piper sono utilizzate dall’artista per esemplificare la loro proprietà di essere scene in cui un soggetto incarna un’identità stereotipata (quella di un uomo nero negli Stati Uniti degli anni ’70) e invitare così il pubblico a riflettere sull’effetto degli stereotipi.

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idee, ci propone di utilizzare le sue opere (fra cui Wall Drawing #370) per esemplificare una loro particolare proprietà: quella di essere realizzazioni delle istruzioni contenute nei loro titoli. Canalizzando la nostra attenzione su questa proprietà, infatti, LeWitt ci permette di apprezzare non le proprietà estetiche che pure i suoi murales possiedono, ma l’idea espressa dal titolo, in astratto. La potenza di quest’idea ci è manifestata tramite le proprietà del murales, comprese quelle estetiche, ma l’eventuale apprezzamento estetico di queste proprietà deve essere, secondo LeWitt, meramente funzionale all’apprezzamento intellettuale della potenza dell’idea espressa dal titolo. L’esemplificazione non è neppure una prerogativa dell’arte concettuale accessibile e inaccessibile. I dipinti di bandiere e bersagli di Jasper Johns, che non raffigurano altro che bandiere e bersagli, in linea di principio potrebbero essere considerati semplicemente delle bandiere e dei bersagli – a differenza, per esempio, di dipinti che raffigurano bandiere che sventolano in un paesaggio o fotografie di bersagli appesi alle pareti di pub22. Vista questa insolita scelta di soggetto, possiamo ipotizzare che i dipinti di Johns siano utilizzati dall’autore per esemplificare le proprietà di essere delle bandiere ed essere dei bersagli. Se, a questa ipotesi, affianchiamo un buon discorso critico sulle opere di Johns (cfr. per es. Wallace 2014), possiamo poi notare che, grazie anche al fatto che le pennellate sono molto corpose ed evidenti in questi dipinti, Johns riesce a canalizzare l’attenzione del pubblico sulla dimensione materiale della pittura, piuttosto che su quella raffigurativa. 6. Come alcune opere d’arte concettuale inaccessibili veicolano idee tramite il prop oriented make-believe Un gioco di make-believe (in italiano traducibile con “far finta”) è un gioco in cui si finge o immagina qualcosa (Wal22  Per un’immagine si veda per es. www.moma.org/collection/works/78805 (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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ton 1990). I giochi sono attività governate da regole: Kendall Walton chiama “principi di generazione” le regole che governano i giochi di make-believe. Tramite un principio di generazione, ciò che si dà in un certo gioco di make-believe (il contenuto del gioco) è collegato a ciò che si dà nel mondo reale (il prop o sostegno del gioco)23. Lo schema generale di un principio di generazione si può esprimere così: [Secondo la finzione F] se e solo se G

dove G sta per ciò che si dà realmente ed F sta per ciò che si dà nella finzione. Secondo Walton, un gioco di make-believe può avere due diversi orientamenti. Da un lato, può essere orientato al contenuto: questo avviene quando quello che c’interessa è il contenuto del gioco, ossia il mondo della finzione (cfr. Walton 1990). Dall’altro, può essere orientato al prop: questo avviene quando quello che c’interessa è il mondo reale (cfr. Walton 1993). Nei giochi di make-believe orientati ai prop sfruttiamo il fatto che, basandoci sulla nostra conoscenza dei principi di generazione, possiamo dire che sono vere certe cose nel mondo reale dicendo che sono vere delle cose nell’ambito del mondo finzionale (cfr. Liggins 2014, p. 603). In generale, se un principio di generazione ha la forma G se e solo se secondo la finzione F

allora chi dice che F nella finzione può comunicare che è il caso che G nel mondo reale. Secondo Walton, le metafore, per esempio, ci impegnano in giochi di make-believe orientati al prop24. L’affermazione 23  Si potrebbe tradurre l’espressione “prop oriented make-believe” con “gioco di far finta orientato al sostegno”, ma la traduzione, a mio avviso, introdurrebbe un elemento di complessità, anziché semplificare la comunicazione, dal momento che tale espressione italiana risulta alquanto oscura. Ho perciò deciso di mantenere l’originale inglese. 24  Lo stesso, secondo Walton (1993) è vero per esempio degli aeroplanini di carta e, secondo Caldarola e Plebani (2016) è vero delle immagini caricaturali.

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metaforica “Crotone è sull’arco dello stivale italiano” c’impegna in un gioco di make-believe nel quale fingiamo che la penisola italiana sia uno stivale e, in virtù di ciò, ci permette di veicolare utili informazioni circa la posizione geografica di Crotone (Walton 1993, p. 66). Il principio di generazione che collega ciò che è il caso secondo il gioco di make-believe e ciò che è il caso nel mondo reale è qualcosa del genere: [Secondo la finzione Crotone è sull’arco dello stivale italiano] se e solo se Crotone si trova sulla costa sud-occidentale della penisola italiana, dove il Mar Ionio incontra il Mediterraneo.

Quando giochiamo il gioco introdotto da “Crotone è sull’arco dello stivale italiano” non c’interessa immaginare una situazione in cui fingiamo che la penisola italiana sia uno stivale (come invece avverrebbe in un gioco orientato al contenuto), ma c’interessa comprendere un fatto relativo al mondo reale, ossia dove si trova la città di Crotone: il nostro gioco è orientato al prop e il prop è la posizione di Crotone nella penisola italiana. In quanto segue descriverò un caso di opera d’arte concettuale inaccessibile che veicola idee grazie al fatto che invita l’osservatore a giocare un gioco di make-believe orientato al prop25. An Oak Tree (1973) di Michael Craig-Martin è un’opera che ci presenta un bicchier d’acqua su una mensola di vetro sostenuta da due staffe metalliche a duecentocinquantatré centimetri dal suolo e un testo affisso alla parete sotto 25  Danto (1981), ha sostenuto che le opere d’arte hanno una struttura essenzialmente metaforica. La mia posizione è distinta dalla sua: in primo luogo, come chiarisce Walton (1993), il prop oriented make-believe è un tipo di gioco immaginativo che non contraddistingue solo le metafore, ma anche, per esempio, i nostri giochi con gli aeroplanini di carta – io e Matteo Plebani, inoltre, abbiamo sostenuto che il prop oriented make-believe distingue anche la nostra esperienza delle caricature (cfr. Caldarola e Plebani 2016). Dire che alcune opere d’arte concettuale danno luogo a giochi di prop oriented make-believe, dunque, non significa sostenere che queste hanno una struttura metaforica, ma significa sostenere che ci coinvolgono in attività immaginative simili a quelle nelle quali ci coinvolgono tanto le metafore, quanto i giochi con gli aeroplanini, quanto le caricature. In secondo luogo, sostengo che solo alcune opere d’arte danno luogo a giochi di prop oriented make-believe.

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la mensola, più in basso, sulla sinistra26. Nel testo, CraigMartin sostiene di aver trasformato «un bicchier d’acqua in una quercia ben sviluppata senza alterare le proprietà contingenti del bicchier d’acqua» – un atto di transubstanziazione. È evidente che quest’opera non gode di somiglianze rilevanti a opere d’arte tradizionali. Ora, il titolo dell’opera suggerisce che quello che abbiamo di fronte è un oggetto che ha qualcosa a che vedere con una quercia. E il testo che è parte dell’opera ci spiega perché: l’artista sostiene di aver trasformato un bicchier d’acqua in una quercia. Il testo ci fornisce anche un discorso che ci permette d’identificare correttamente il veicolo dell’opera: per apprezzare l’opera dobbiamo non solo fare attenzione al bicchiere sulla mensola, ma anche al fatto che l’artista sostiene che questi oggetti sono il prodotto di un atto attraverso il quale l’artista ha trasformato «un bicchier d’acqua in una quercia ben sviluppata senza alterare le proprietà contingenti del bicchier d’acqua». La mia ipotesi è che basandoci sulle informazioni veicolate dal testo che è parte dell’opera, che funge da discorso contestualizzante, e dal titolo di questa, dobbiamo concludere che An Oak Tree è un’opera progettata per impegnarci in un gioco di make-believe il cui principio di generazione è qualcosa del genere: [Secondo la finzione c’è una quercia] se e solo se c’è un bicchier d’acqua su una mensola a duecentocinquantatré cm dal suolo e c’è un certo testo, affisso più in basso, che riporta affermazioni dell’artista sulla transubstanziazione del bicchiere e della mensola in una quercia.

Questo gioco richiede all’osservatore d’immaginare che la mensola col bicchiere d’acqua e il testo siano una quercia. Mentre il gioco in cui fingiamo che Crotone sia sull’arco dello stivale italiano è attivato, per così dire, dall’affermazione “Crotone è sull’arco dello stivale italiano”, qui il gioco in cui fingiamo che la mensola con il bicchier d’acqua e il testo siano 26  Per un’immagine si veda www.en.wikipedia.org/wiki/An_Oak_Tree#/media/ File:An_Oak_Tree_(conceptual_art_installation).jpg (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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una quercia è attivato dalla presentazione, in un contesto (di solito una galleria o un museo) deputato all’esibizione di opere d’arte, di un bicchier d’acqua su una mensola posizionata a una certa altezza, accompagnato da un certo testo e da un certo titolo. La presentazione di tali oggetti in tale contesto è equivalente all’affermare “C’è una quercia” indicando questo insieme di oggetti (cfr. sotto § 8). Dal momento che – tramite la conoscenza di un opportuno discorso contestualizzante – possiamo assumere che questa è un’opera d’arte concettuale, e dunque un’opera il cui aspetto percepibile non è presentato per essere apprezzato in quanto tale, e dal momento che, oltretutto, gli aspetti accessibili percettivamente dell’opera sono davvero piuttosto poveri, abbiamo ragione di sostenere che quando l’osservatore è invitato a impegnarsi nel gioco di make-believe appena descritto non è invitato a rivolgere il suo interesse all’immaginare una quercia con un certo aspetto grazie al fatto di prestare attenzione agli aspetti immediatamente percepibili del bicchier d’acqua sulla mensola e del testo che li accompagna, ma piuttosto è invitato a rivolgerlo verso il prop del gioco, ossia la mensola con il bicchier d’acqua e il testo che li accompagna. Il gioco di make-believe in cui veniamo coinvolti da quest’opera, dunque, è orientato al prop. Come abbiamo visto, nei giochi di make-believe orientati al prop sfruttiamo il fatto che, basandoci sulla nostra conoscenza dei principi di generazione, possiamo comunicare che sono vere delle cose nel mondo reale dicendo che sono vere delle cose nel mondo della finzione. Nel caso di An Oak Tree, nel mondo della finzione è vero che c’è una quercia, mentre nel mondo reale è vero che vi è una limitatissima somiglianza fra gli oggetti che ci troviamo di fronte quando esperiamo l’opera e un albero: la mensola col bicchier d’acqua è posizionata ben al di sopra della testa dell’osservatore – come la chioma di un albero “ben sviluppato” – e il testo che riporta la dichiarazione dell’artista è posizionato al di sotto della mensola, sulla sinistra, il che fa risaltare ancora di più l’insolita posizione della mensola. Spingendo l’osservatore a immaginare che la

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mensola e il bicchiere siano una quercia, dunque, l’opera lo conduce a notare gli esigui aspetti di somiglianza che avvicinano mensola, bicchiere e testo affisso alla parete a una quercia, che altrimenti passerebbero inosservati. Walton (1993), sostiene che giochiamo giochi di prop oriented make-believe anche quando facciamo volare gli aeroplanini di carta: in questi casi non c’interessa immaginare che questi siano aeroplani che, per esempio, trasportano certe persone, sono decorati in un modo particolare, o viaggiano verso certe destinazioni (a differenza di quando giochiamo con dettagliati modelli di aeroplanini), ma c’interessa scoprire e saggiare certe proprietà del prop del gioco – la carta – verificando sino a dove può volare una volta che è stata piegata in un certo modo. Analogamente, immaginando che mensola, bicchiere e testo affisso alla parete sono una quercia non c’interessa immaginare una certa quercia, ma c’interessa notare un particolare aspetto del prop del gioco, ossia che gli oggetti sono disposti secondo due poli (alto e basso) e che questo è sufficiente a richiamare alla nostra mente il rapporto fra la chioma di un albero e noi osservatori che lo guardiamo dal basso. La mia proposta è che, riuscendo a canalizzare la nostra attenzione sui modesti aspetti di somiglianza condivisi dagli oggetti esibiti e dalle querce, Craig-Martin ci stimoli a riflettere su come funziona il meccanismo della raffigurazione e sulle potenzialità della nostra immaginazione che questo sfrutta. Queste sono le idee veicolate da An Oak Tree27. Per concludere, sottolineo che l’analisi del modo in cui certe opere concettuali inaccessibili veicolano idee, portata avanti in questo paragrafo e nel precedente, non ha pretesa di esaustività. Non escludo che le opere concettuali inaccessibili possano veicolare idee in altri modi, ma lascio al lettore l’onere della prova. 27  I giochi di make-believe orientati al prop sono utilizzati anche da alcune opere d’arte tradizionali per veicolare idee. Come Matteo Plebani e io abbiamo sostenuto, le immagini caricaturali (incluse quelle che si qualificano come arte), per esempio, invitano il pubblico a giocare giochi di prop oriented make-believe in cui s’immagina che i soggetti caricaturati siano gli individui raffigurati dalle caricature. Così facendo, le caricature veicolano delle idee a proposito dei soggetti caricaturati (cfr. Caldarola e Plebani 2016).

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7. Un confronto con la proposta di James Young L’analisi dell’arte “d’avanguardia” proposta da James Young (2001, cap. 5) è, a quanto mi risulta, la prima disamina approfondita di come le opere d’arte concettuale veicolano idee. Secondo Young, queste opere si dividono in quelle che veicolano idee in virtù del fatto che esemplificano certe proprietà e quelle che veicolano idee meramente in virtù del fatto che alcuni membri della comunità degli artisti, teorici, curatori, esperti e appassionati d’arte (il “mondo dell’arte”, per riprendere la famosa espressione coniata da Danto 1964) le usano per indicare certi discorsi critici sull’arte. Ovviamente sono d’accordo con Young sul primo punto, ma non posso dire lo stesso per il secondo: in quanto segue criticherò gli argomenti da lui addotti per sostenere che tutte le opere d’arte concettuale che non esemplificano alcune delle loro proprietà sono opere accostate a idee meramente in virtù del fatto che alcuni membri del “mondo dell’arte” le collegano a discorsi sull’arte, indipendentemente da come sono state progettate e da che aspetti sensibili esibiscono. Come abbiamo visto, per esempio, L.H.O.O.Q. di Duchamp è un’opera d’arte concettuale accessibile che, per veicolare un messaggio irrispettoso e rivoluzionario rispetto ai canoni artistici tradizionali, sfrutta in parte il fatto che presenta al pubblico un’immagine figurativa con un certo contenuto. L.H.O.O.Q., dunque, costituisce un primo controesempio alla proposta di Young: non è un’opera che veicola idee solo tramite l’esemplificazione (per quanto si possa sostenere che sia usata per esemplificare la sua proprietà di essere un mezzo per un gesto d’irrisione dell’arte tradizionale), dal momento che sfrutta anche il fatto di essere una raffigurazione della Gioconda, e non è neppure un’opera che veicola idee meramente perché qualche membro del “mondo dell’arte” l’ha usata per fare riferimento a certi discorsi sull’arte. L.H.O.O.Q., al contrario, sfrutta, fra le altre cose, le risorse dell’arte figurativa per veicolare il suo messaggio irriverente.

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Quanto alle opere inaccessibili, Young sostiene che Fountain, per esempio, è un’opera che veicola idee meramente perché alcuni membri del “mondo dell’arte” l’hanno utilizzata per indicare una certa visione dell’arte. Al contrario, io ritengo che Fountain costituisca un nuovo controesempio alla proposta di Young. Questi sottolinea che Fountain non è nata come opera d’arte, spiegando che all’inizio si trattò puramente del risultato di un atto denigratorio compiuto da Duchamp per prendersi gioco del pomposo “mondo dell’arte” dell’inizio del XX secolo e del suo attaccamento ai canoni estetici per la valutazione delle opere d’arte. Fountain, tuttavia, sostiene Young, divenne arte successivamente, quando membri del “mondo dell’arte” iniziarono ad associarla ai nuovi discorsi sull’arte che si diffusero nella seconda metà del XX secolo, con l’avvento dell’arte concettuale. Fountain, dunque, conclude Young, è un’opera d’arte concettuale perché a un certo punto è stata collegata alla concezione di arte dove ciò che conta sono solo le idee, emersa attraverso l’operato di artisti attivi a partire dai tardi anni ’50, principalmente. Sin qui, niente di male. Possiamo però chiederci: c’è nulla di particolare nell’orinatoio accompagnato dal titolo “Fountain” che successivamente alla sua selezione da parte di Duchamp lo rese in grado di essere associato a certi discorsi sull’arte, nel contesto appropriato, da parte di un pubblico opportunamente informato? Young ignora completamente la questione. Al contrario, io sostengo che nel 1917 l’orinatoio era già un oggetto usato per veicolare certe idee e che è in virtù di questo suo aspetto di somiglianza con le opere d’arte concettuali prodotte nella seconda metà del XX secolo che, successivamente, lo si è potuto considerare un’opera d’arte. Vediamo ora come Fountain veicola idee. Perché Duchamp scelse un orinatoio, piuttosto che un altro tipo di oggetto, per il suo gesto provocatorio nel 1917 e perché lo intitolò “Fountain”?28 La mia ipotesi è la seguente: 28  Gli storici dell’arte e curatori Glyn Thompson e Julian Spalding, nella mostra A Lady’s Not a Gent’s (2015), nell’ambito dello Edinburgh Fringe Festival, hanno

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vi sono alcune semplici somiglianze fra gli orinatoi e le fontane, dato che ambedue gli oggetti presentano dei bacini e sono collegati a delle tubature. Le somiglianze sono ulteriormente evidenziate se l’orinatoio è collocato orizzontalmente – così come lo si vede nella foto che lo rese famoso, scattata da Alfred Stieglitz nel ripostiglio della galleria d’arte 291 nel 1917. Grazie alla presenza di queste somiglianze e al titolo “Fountain” l’orinatoio selezionato da Duchamp era, già nel 1917, in grado d’innescare nell’osservatore un gioco di makebelieve governato dal seguente principio di generazione: [Secondo la finzione c’è una fontana] se e solo se c’è un orinatoio.

Ora, considerato che l’aspetto visivo dell’opera è effettivamente poco interessante, abbiamo ragione di sostenere che chi avesse afferrato il principio di generazione del gioco di makebelieve appena descritto, anche nel 1917, non avrebbe rivolto il suo interesse a immaginare una fontana con certe caratteristiche visibili grazie al fatto di fare attenzione a certi aspetti visibili dell’orinatoio, ma piuttosto avrebbe rivolto la propria attenzione al prendere in considerazione il prop del gioco, l’orinatoio in quanto tale, il che lo avrebbe portato verosimilmente a interrogarsi sulle ragioni della scelta di quest’oggetto da parte di Duchamp. Il gioco in cui Fountain ci coinvolge, dunque, dal 1917, è un gioco di make-believe orientato al prop. Come ho spiegato sopra, in questi giochi sfruttiamo il fatto che, grazie alla nostra conoscenza dei principi di generazione, possiamo comunicare cose vere sul mondo reale dicendo che sono vere certe cose nel mondo della finzione. Nel caso di Fountain, è vero nel mondo della finzione che vi è presentato alcune evidenze a sostegno dell’ipotesi che ad aver avuto e realizzato l’idea di apporre la firma “R. Mutt” sull’orinatoio, e ad aver inviato l’orinatoio alla mostra della Society of Independent Artists, sia stata in realtà un’amica di Duchamp, Elsa von Freytag-Loringhoven, fatto di cui Duchamp parlerebbe in una lettera indirizzata a sua sorella e riportata nella biografia della donna, Baroness Elsa (2002) – un’opera di Irene Gammel. Se le cose stessero così, Duchamp si sarebbe successivamente appropriato dell’opera della von Freytag-Loringhoven, pubblicandone una foto scattata da Alfred Stieglitz nella rivista The Blind Man (no. 2, 1917).

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una fontana – un tipo di oggetto che, tradizionalmente, può considerarsi artistico – perché è vero che nel mondo reale vi è un oggetto che assomiglia a una fontana, e cioè a un oggetto artistico. Questa idea era accessibile anche all’osservatore ben informato del 1917, che avrebbe saputo che l’opera era stata presentata (e rigettata) per la mostra della Society of Independent Artists. E il pezzo uscito sulla rivista The Blind Man nel 1917, con la foto scattata da Stieglitz, mirava proprio a stabilire questo discorso contestualizzante sull’orinatoio. Che solo successivamente Fountain venne a essere considerata un’opera d’arte a tutti gli effetti, e in particolare un’opera che precorse l’arte concettuale, come sostiene Young, è corretto, ma ciò non toglie che Fountain sia stato un oggetto che veicolava l’idea che l’orinatoio assomiglia a oggetti artistici attraverso il meccanismo del prop oriented make-believe fin dal momento della sua selezione e assegnazione del titolo “Fountain” da parte di Duchamp. Con questo non voglio suggerire, si badi bene, che Duchamp abbia voluto veicolare l’idea che l’orinatoio assomiglia a un certo tipo di oggetti artistici per spingerci a trovare della bellezza nell’orinatoio, a ponderare le sue proprietà estetiche (posto che ve ne siano). Al contrario, ritengo che Duchamp sia stato motivato da una riflessione analoga a quella celebre di Nelson Goodman: «qualsiasi cosa assomiglia in qualche modo a qualsiasi altra cosa» (Goodman 1972, p. 440). Da questa riflessione all’idea che tutto possa essere arte il passo è breve. 8. Implicature conversazionali nell’arte concettuale Robert Hopkins ha osservato che dal momento che le opere d’arte concettuale appartengono a generi di oggetti che possiamo esperire attraverso i sensi, quando ci troviamo di fronte a tali opere nutriamo l’aspettativa che «l’esperienza sensoriale funga da medium per apprezzare gli aspetti interes-

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santi di queste opere» (Hopkins 2007, p. 62), proprio come avviene quando esperiamo altri generi di opere attraverso i sensi. Tuttavia, le nostre aspettative sono frustrate dalle opere d’arte concettuale, prosegue Hopkins, dal momento che le proprietà di queste opere che sono immediatamente accessibili attraverso l’esperienza non sono interessanti dal punto di vista artistico in nessuna delle maniere alle quali la tradizione artistica ci ha abituati. La situazione, spiega Hopkins, assomiglia a quella in cui ci sentiamo invitati a porre una certa domanda, a partire da ciò che il nostro interlocutore ha appena detto ma, una volta che poniamo la domanda, l’interlocutore non ci risponde. Ciò che potrebbe stare avvenendo in una situazione del genere è che l’interlocutore sta in realtà cercando di dirci qualcosa attraverso il fatto che si rifiuta di rispondere alla nostra domanda. Si tratterebbe dunque di un caso d’implicatura conversazionale, dovuto alla violazione della massima della quantità, che prescrive che si contribuisca a una conversazione in un modo che è tanto informativo quanto la conversazione lo richiede (cfr. Grice 1975; 1981). Ciò che importa in tali casi non è quanto si dice ma quanto si omette e il corso di pensieri verso cui ciò tende a spingere il proprio interlocutore. Verso che corso di pensieri, allora, è spinto chi vede frustrate le proprie aspettative di trovare un’opera d’arte concettuale gratificante se apprezzata per motivi simili a quelli per cui apprezziamo le opere tradizionali? Il corso di pensieri verso cui chi produce queste opere cerca di spingere l’osservatore consiste nel domandarsi qualcosa del genere, sostiene Hopkins: come mai l’oggetto che ho di fronte frustra le mie aspettative sull’apprezzarlo come opera d’arte e tuttavia mi viene presentato come un’opera d’arte? A che genere di concezione dell’arte fa capo quest’oggetto? Secondo la proposta di Hopkins, dunque, le opere d’arte concettuale veicolano, attraverso un meccanismo simile a quello dell’implicatura conversazionale, idee a proposito di che cosa fa sì che un oggetto diventi un’opera d’arte. Ritengo che questa proposta sia compatibile con la mia, piuttosto

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che alternativa alla mia. Hopkins considera che cosa accade quando qualsiasi opera d’arte concettuale è presentata in un contesto artistico, mentre io mi sono concentrata su alcuni modi in cui tanto le opere concettuali accessibili quanto quelle inaccessibili veicolano particolari idee. Come abbiamo visto, il mio obiettivo è offrire una spiegazione di come, per esempio, gli atti in cui un individuo segue un altro, a insaputa di questo, possono condurci a intrattenere certi pensieri su come un individuo possa farsi guidare da un altro nelle sue azioni. L’obiettivo di Hopkins, invece, è sostenere che quando, in un contesto artistico, siamo posti di fronte a un oggetto che non sappiamo come apprezzare come opera d’arte, siamo spinti a porci domande come: c’è qualcosa, nell’arte, che non ha a che vedere con ciò che è accessibile ai sensi? Conclusioni In questo capitolo, dopo aver preso le distanze dalla tesi della dematerializzazione delle opere d’arte concettuali e aver distinto fra opere d’arte concettuali e opere d’arte concettualiste, ho analizzato alcuni dei modi in cui le opere d’arte concettuali veicolano idee. Anzitutto, ho tracciato una distinzione fra opere d’arte concettuale accessibili, che sfruttano, fra le altre cose, le loro somiglianze con opere d’arte non concettuali per veicolare idee, e opere d’arte concettuale non accessibili, che non lo fanno, dal momento che non godono di tali somiglianze. Poi, ho sostenuto (1) che, nonostante questa differenza, tanto alcune opere accessibili quanto alcune opere non accessibili sfruttano il meccanismo dell’esemplificazione per veicolare idee e (2) che alcune opere non accessibili sfruttano il meccanismo del make-believe orientato al prop per veicolare idee. Infine, ho criticato la proposta di Young, secondo cui numerose opere d’arte concettuale veicolano idee meramente in virtù del fatto che alcuni membri del “mondo dell’arte” le collegano a certi discorsi sull’arte e ho sostenuto che identi-

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ficare un meccanismo simile all’implicatura conversazionale nell’arte concettuale, come fa Hopkins, non spiega come certe opere d’arte concettuale veicolino anche idee ulteriori rispetto a quelle che riguardano il carattere artistico di oggetti molto diversi dalle opere d’arte tradizionali. Ciò che merita la nostra attenzione quando esperiamo le opere d’arte concettuale non è solo il fatto che queste ci inducono a ponderare che cosa meriti di essere considerato arte e perché, ma è anche il fatto che queste sono state concepite come oggetti che, grazie ad alcune delle loro proprietà sensibili, nei contesti appropriati e con il concorso di certi meccanismi (fra cui l’esemplificazione e il make-believe orientato al prop) sono in grado di veicolare anche altre idee.

V. Spazio pubblico, atti sovversivi e carattere artistico nella street art

La tesi principale che difendo in questo capitolo è che la street art è un genere artistico contraddistinto dal suo particolare carattere sovversivo e collegato sia al genere dell’arte sito-specifica che a quello dell’arte concettualista. Attraverso una discussione della letteratura filosofica sulla street art, nei §§ 1, 2 e 3 avanzo delle proposte su che cosa conti come “strada” (street) nella street art, che uso la street art faccia della “strada” e che contributo la “strada” dia al significato delle opere di street art. Grazie a queste analisi, getto luce sul legame fra street art e arte sito-specifica. Nel § 4, mi concentro su una particolare sottocategoria della street art, i graffiti, e sostengo che alcuni di questi sono opere d’arte concettuale. 1. Quale “strada”? Il dibattito filosofico sulla street art si distingue per l’interesse rivolto a individuarne le caratteristiche centrali1. In questo paragrafo, prendo le mosse dalla proposta di Nick Riggle (2010; 2016) – studioso che con il suo contributo del 2010 ha il merito di aver aperto la discussione su questo tema. In primo luogo, introduco brevemente le sue tesi e i tre problemi che, a mio giudizio, sollevano. Poi, discuto il primo problema: che cosa, esattamente, si intende per “strada” quando si parla 1  Cfr. per es. i contributi di Riggle (2010; 2016), Fimiani (2014), Bacharach (2015; 2018), Baldini (2015; 2016; 2017; 2018), Chackal (2016), Willard (2016), Andrzejewski (2017) e Travaglini (2019).

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di street art? Alla discussione del secondo e terzo problema dedico i §§ 2 e 3. Riggle ha avanzato una definizione di street art: «Un’opera d’arte è street art se, e solo se, l’uso che questa fa della strada come materiale è intrinseco al suo significato» (Riggle 2010, p. 246). Riggle, in particolare, ha sostenuto che «ogni interpretazione ragionevole di un’opera di street art deve fare riferimento al modo in cui l’artista usa la strada per conferire significato all’opera» (ivi, p. 246) e che quando si parla di street art la “strada” denota «qualsiasi spazio pubblico urbano» (ivi, p. 244) che si ritenga giocare «un ruolo nell’organizzazione e nel funzionamento di una società», che sia primariamente un luogo pubblico, che sia «regolarmente utilizzato da un discreto numero di persone» e che si trovi «all’esterno, in un certo senso» (ivi, p. 255). Più recentemente, Riggle ha poi aggiunto che la sua nozione di “strada” non ha carattere spaziale o logistico, ma carattere socioculturale, perché designa uno spazio pubblico che facilita l’autoespressione: «la street art usa uno spazio la cui funzione è di facilitare l’autoespressione in un modo che è essenziale al suo significato artistico» (Riggle 2016, p. 192) – fra gli esempi di autoespressione forniti da Riggle vi sono il vestirsi a proprio piacimento e l’usare il tono di voce che si preferisce (nei limiti della ragionevolezza). Non tutti gli spazi pubblici, spiega Riggle, sono “strada” nel senso socioculturale del termine, perché in alcuni spazi pubblici le azioni che si possono compiere sono severamente limitate da delle regole, al punto che l’autoespressione è impedita, anziché facilitata. Per chiarire che cosa ha in mente Riggle propongo di considerare questo esempio. Pensiamo alla striscia di territorio che era racchiusa fra le due lunghissime mura che costituivano “il muro” di Berlino: questo spazio era “strada” nel senso logistico del termine, così come lo sono altri territori di confine in ambito urbano (per esempio le strade che uniscono Gorizia, in Italia, a Nova Gorica, in Slovenia), ma non lo era nel senso socioculturale, secondo quanto sostiene Riggle, dal momento che

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vi vigevano regole strettissime che certo non facilitavano né permettevano l’autoespressione. La “strada” nel senso socioculturale del termine, tuttavia, iniziava dall’altro lato delle mura rivolte verso Berlino Ovest – note, fra l’altro, per aver ospitato molte opere di street art. Ritengo che la proposta di Riggle presenti tre problemi principali. Il primo è che la nozione di “strada” nel senso socioculturale non è chiara. Il secondo è che Riggle avanza delle tesi insoddisfacenti sull’uso che la street art fa della “strada”, dal momento che sottovaluta la rilevanza del carattere sovversivo della street art, concentrandosi invece sul tema dell’autoespressione attraverso la street art. Il terzo è che Riggle non spiega in maniera soddisfacente come avviene che la “strada” sia intrinseca al significato delle opere di street art. Nel resto del paragrafo discuterò il primo problema, facendo anche riferimento ad altre proposte che sono state avanzate nel dibattito filosofico sulla street art, che sta crescendo rapidamente. Sul secondo e terzo problema, invece, mi concentrerò nei §§ 2 e 3. Vediamo allora il primo problema. Riggle parla della “strada” come di «un luogo dove possiamo esprimerci in pubblico, presentare il nostro stile, dichiarare quali sono le cose sulle quali c’impegniamo, quelle alle quali siamo fedeli e i nostri valori – un luogo dove possiamo essere visti per quello che siamo e per come aspiriamo a essere» e spiega che «la norma che governa questo tipo d’interazione è semplicemente quella che, nei limiti di ciò che è ragionevole, va bene qualsiasi cosa» (Riggle 2016, p. 192). Sicuramente la striscia di territorio fra le due mura che costituivano “il muro” di Berlino non permetteva a nessuno di presentare il proprio stile o dichiarare alcunché: solo i Grepos – le forze della polizia di frontiera della RDT – erano autorizzati a muoversi in quello spazio e soltanto per svolgere compiti specifici. A fianco al lato esterno delle mura che davano su Berlino Ovest, invece, ci si poteva, per esempio, vestire come si voleva, si poteva parlare con chi si voleva e ci si poteva muovere liberamente. Tuttavia, come la maggior parte

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dei luoghi che sono “strada”, le strade a fianco al lato delle mura che davano su Berlino Ovest erano regolate da norme che vietavano, per esempio, di realizzare dei murales senza autorizzazione. Molti artisti che produssero le loro opere su queste mura, quindi, violarono delle regole che stabilivano quello che si poteva fare nella “strada”. Inoltre, possiamo immaginare che se uno street artist fosse riuscito a introdursi nella zona fra le due mura prima della caduta del “muro” nel novembre del 1989, e fosse riuscito a produrre, per esempio, un graffito proprio lì, quella sarebbe stata considerata un’opera di street art e, anzi, sarebbe stata particolarmente apprezzata per la sua audacia (sull’apprezzamento dell’audacia degli street artist attraverso le loro opere cfr. Baldini 2018, p. 19)2. Queste osservazioni mostrano che non è chiaro perché Riggle caratterizzi la “strada”, nel senso socioculturale, come un luogo che facilita il tipo di espressione che avviene quando si produce street art. Innanzitutto, molto spesso la street art è prodotta in luoghi dove vigono regole che ne vietano la produzione: in che senso questi luoghi ne faciliterebbero la produzione, invece? Inoltre, sembra che anche certe opere prodotte in luoghi – come la striscia di terra fra le due pareti del muro di Berlino – che non facilitano alcun tipo di autoespressione (neppure, per esempio, quella alla quale abbiamo accesso camminando per una strada vestiti come vogliamo) dovrebbero contare come street art. Che la “strada” non sia adeguatamente caratterizzata da Riggle emerge anche se consideriamo – come fa Sondra Bacharach (2015, p. 485) – alcune opere comunemente ritenute di street art, come per esempio Banksus Militus Ratus (2004) di Banksy – costituita da un topo imbalsamato che sembra aver appena tracciato su un muro con lo spray la frase “Our time will come” (“Giungerà la nostra ora”) – e Early Man Goes to Market (2005), sempre di Banksy – opera costitui2  In

un pezzo apparso su The Guardian, lo street artist Thierry Noir racconta di essersi introdotto per realizzare per primo delle opere nella zona fra le due mura verso la fine del 1989, quando la distruzione del “muro” era iniziata e tuttavia la zona era ancora presidiata dalla polizia della RDT, che cercò di dissuaderlo ma non era più autorizzata a sparare (Noir 2014).

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ta dal frammento di una pietra sulla quale è stata incisa una raffigurazione, simile nello stile a un graffito preistorico, di un uomo che spinge un carrello del supermercato – ambedue installate illegalmente al British Natural History Museum e al British Museum, rispettivamente3. Non è chiaro se uno spazio museale di cui un artista si è illegalmente appropriato valga come “strada” nel senso descritto da Riggle: che cosa significa che la strada deve essere «all’esterno, in un certo senso» (Riggle 2010, p. 255) e che deve essere «un luogo dove possiamo esprimerci in pubblico» (Riggle 2016, p. 192)? C’è un senso in cui un museo è all’esterno? È, poi, sufficiente notare, per esempio, che possiamo andare al museo vestiti come vogliamo (entro certi limiti) e conversare nei suoi spazi con chi vogliamo per descriverlo come un luogo «dove possiamo esprimerci in pubblico» oppure il fatto che nei musei di solito possiamo, per esempio, mangiare solo in aree designate e non possiamo, per esempio, pattinare, parlare ad alta voce, ed esporre liberamente le nostre creazioni artistiche è un segno che gli spazi di questo tipo d’istituzione non rientrano nella categoria degli spazi «dove possiamo esprimerci in pubblico», ossia della “strada”? Queste osservazioni mostrano che Riggle caratterizza la “strada” della street art in maniera insoddisfacente. Per il momento lascerò aperta la questione di che cosa si debba intendere per “strada”. Formulerò una risposta alla fine del § 3, grazie agli elementi introdotti nel resto della discussione della proposta di Riggle. 2. Quale uso della “strada”? Il secondo problema che incontra la proposta di Riggle, come già sostenuto per esempio da Bacharach (2015) e Bal3  Per immagini delle opere si vedano: www.dazeddigital.com/art-photography/ article/41743/1/banksy-girl-with-balloon-painting-pranks-sotherbys-london (ultimo accesso 5 giugno 2020) e www.news.bbc.co.uk/2/hi/entertainment/4563751.stm (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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dini (2016), è che questa non prende sufficientemente in considerazione il carattere sovversivo che sembra possedere gran parte della street art, se non tutta. Riggle (2016, p. 193) ammette che vi è un nocciolo di verità nell’osservazione di Andrea Baldini secondo cui le opere di street art sono sovversive perché «sfidano norme e convenzioni che regolano l’utilizzo dello spazio pubblico» (Baldini 2016, p. 188), ma propone di mitigarla, sostenendo che alcune opere di street art non sovvertono usi correnti dello spazio pubblico, ma anzi capitalizzano sul fatto che lo spazio pubblico permette l’autoespressione. Riggle considera il caso delle Bus Stop Swings di Bruno Taylor – altalene installate a Londra in alcune fermate dell’autobus nel 2008 – e dei Wallpaper Dumpsters di C. Finley – cestini della spazzatura in città come Roma, Berlino e Los Angeles, ricoperti di splendida carta da parati nel corso di un progetto che dura da anni – e sostiene che queste opere «non sono sovversive, ma piuttosto visionarie» (Riggle 2016, p. 193) perché sfruttano al meglio il potenziale autoespressivo offerto dalla “strada”, anziché criticarla4. La tesi che difenderò, contro Riggle, è che autoespressione e carattere sovversivo sono aspetti complementari della street art: ciò che rende gli interventi di Taylor e Finley street art non è solo il fatto che questi sono manifestazioni dell’autoespressione dei loro autori in un contesto di “strada”, ma è anche il fatto che questi interventi hanno un carattere sovversivo, nonostante che Riggle non lo riconosca. Le ragioni a sostegno di questa tesi emergeranno dalla discussione del carattere sovversivo della street art che mi accingo a intraprendere. Il carattere sovversivo della street art è stato preso in esame, nel contesto della discussione filosofica su questa categoria artistica, per esempio da Sondra Bacharach (2015; 2018), Tony Chackal (2016), Andrea Baldini (2015; 2016; 2017; 4  Per immagini delle opere si vedano: www.treehugger.com/sustainable-productdesign/go-play-outside-bruno-taylor-makes-cities-fun.html (ultimo accesso 5 giugno 2020) e www.laweekly.com/an-artist-who-makes-dumpsters-beautiful/(ultimo accesso 5 giugno 2020).

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2018) e Mary Beth Willard (2016)5. Qui prenderò le mosse dalla proposta articolata da Baldini (2018), a mio avviso la più completa che la letteratura offre su tale questione. Baldini comincia ponendosi la domanda: il carattere sovversivo della street art è sinonimo d’illegalità? Il suo primo passo argomentativo consiste nell’immaginare una situazione in cui un artista che ha appena prodotto un’opera di street art non autorizzata sul vagone di un treno (presumibilmente un graffito o un’opera di spray paint) è colto in flagrante da un poliziotto e viene processato (Baldini 2018, pp. 23-25). Il giudice del processo, per qualche ragione, scagiona l’artista, pur riconoscendolo autore dell’opera, e così facendo legalizza l’opera. Nonostante l’opera sia passata da uno stato d’illegalità a uno di legalità, osserva Baldini, non ci sembra però che abbia cessato di essere un’opera di street art. La ragione è che ci sembra opportuno che la responsabilità di distinguere fra che cosa rientra e che cosa non rientra nell’ambito di una certa categoria artistica non ricada sulle spalle dei giudici, che non sono tenuti a essere esperti d’arte per esercitare il loro mestiere, ma bensì sulle spalle degli esperti d’arte, come artisti, critici, teorici e curatori, per esempio. Se un giudice legalizza un’opera ascritta alla categoria della street art non per questo la espelle da tale categoria, perché la decisione su che cosa conti o non conti come street art spetta agli esperti d’arte. La street art, dunque, conclude Baldini, non è necessariamente illegale. Baldini prosegue poi chiedendosi se l’illegalità non sia almeno una condizione sufficiente perché un’opera possa essere ascritta alla categoria della street art e risponde negativamente anche in questo caso (ivi, pp. 25-29). Il suo argomento si basa sull’analisi di una campagna pubblicitaria, realmente avvenuta, che consistette nella realizzazione, illegale, nelle strade di alcune città canadesi, di alcuni lavori di collage realizzati da un noto street artist e raffiguranti, fra le altre cose,

5  Per la discussione in ambito extra-filosofico cfr. per es. Ferrell (1996), Snyder (2009) e Young (2014).

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parte del prodotto da pubblicizzare – uno scooter6. Baldini precisa che, benché il carattere pubblicitario delle immagini non fosse immediatamente evidente (queste, per esempio, mancavano di uno slogan e non apparivano marchiate dal logo del prodotto), informazioni sulla campagna si potevano ottenere nelle rivendite dello scooter pubblicizzato, e sottolinea che le immagini della campagna non furono accettate come street art dalla comunità degli street artist. La proposta di Baldini è che la ragione di questa “scomunica” delle opere di un noto street artist da parte della sua comunità artistica sta nel carattere commerciale delle immagini prodotte, che è incompatibile con il carattere sovversivo della street art. Da questo esempio emerge dunque il fatto che per un’opera realizzata nella “strada” non è sufficiente essere illegale per essere percepita come sovversiva. L’analisi di Baldini mostra che l’illegalità non è né condizione necessaria né condizione sufficiente perché un’opera realizzata nella “strada” sia considerata street art. Il carattere sovversivo di cui sembrano godere tutte le opere di street art, quindi, non è sinonimo d’illegalità. La conclusione di Baldini mi sembra condivisibile, ma vi sono alcuni aspetti della questione della legalità o meno della street art che la sua discussione, a mio giudizio, manca di mettere in luce pienamente. Immaginiamo una situazione (certo assai improbabile) in cui un artista che si sta accingendo a produrre un graffito sul vagone di un treno viene sorpreso non da un poliziotto, ma da una delegazione della società proprietaria del vagone che, per qualche ragione, si mostra interessata al suo lavoro e ne autorizza la realizzazione immediatamente. Ritengo che, qualora l’artista decidesse di proseguire con la realizzazione dell’opera, vi sarebbero buone ragioni per non ascrivere l’opera alla categoria della street art. Quanto a prima vista sembra emergere da questo caso immaginario è che, perché un’opera si qualifichi come street art, è necessario che questa sia ritenuta illegale 6  Per un’immagine si veda www.globartmag.com/2010/03/02/street-art-fauxreel-banksy-blu-sten-lex-graffiti/ (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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da chi la realizza, perlomeno nel momento in cui la sta realizzando. Sembra che, se un artista s’inganna circa le regole che governano una certa “strada” e, ritenendo di aver prodotto un’opera illegale, produce invece un’opera autorizzata da tali regole, l’opera prodotta conti come street art e che se, invece, come nell’esempio immaginario appena descritto, l’artista è consapevole della legalità del suo gesto, allora la sua opera non possa contare come street art. A queste osservazioni si può però obiettare con la descrizione di un’ulteriore situazione ipotetica: immaginiamo che io sia l’unica proprietaria dello stabile in cui vivo, situato in una via commerciale molto frequentata di una città italiana, e che la legge mi autorizzi a decorarne le pareti esterne come credo; immaginiamo poi che io sia anche una brava street artist e che produca, sul lato del mio stabile che dà sulla via centrale, un’opera di spray paint che raffigura dei migranti sofferenti in un campo di detenzione in Libia – non discuterò l’eticità o meno di questa scelta ipotetica né il suo ruolo nella valutazione dell’opera da me prodotta, perché ciò esula dalla presente discussione7. Ritengo che vi siano buone ragioni per sostenere che l’opera da me prodotta si qualificherebbe come street art, nonostante io, nella situazione immaginaria, sappia di stare agendo nella legalità nel momento in cui la produco. Ciò che fonda questa intuizione è la consapevolezza che l’opera avrebbe un carattere sovversivo non delle leggi che regolano cosa può essere dipinto sulle pareti del mio immobile, ma dell’uso principale che la comunità in cui vivo fa della strada dove si trova il mio immobile: questa, come ho detto, è una via commerciale, ed è dunque frequentata da molte persone per fare compere. La mia scelta di raffigurare dei migranti in un campo di detenzione è sovversiva perché evidenzia un dramma sociale, politico ed economico in un luogo che non è abitualmente utilizzato dalla mia comunità per riflettere su tali questioni. Come scrive Bacharach, la street art deve essere «prodotta senza consenso […] in un modo che costituisce un atto di attivismo ribelle progettato 7  Sulla

valutazione dell’eticità delle opere di street art cfr.Willard (2016).

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per sfidare (e cambiare) l’esperienza che l’osservatore fa del proprio ambiente» (Bacharach 2015, p. 481)8. La sfida che la mia opera ipotetica pone ai passanti della via commerciale è proprio quella di pensare a una situazione scottante sul piano sociale, politico ed economico in un luogo tradizionalmente non deputato a tali riflessioni, modificando così la loro usuale esperienza dell’ambiente in cui si colloca l’opera. A questo punto la mia analisi torna a convergere con quella di Baldini, che scrive: «il carattere sovversivo della street art […] è una funzione della sua capacità di sfidare e mettere in questione usi dominanti degli spazi pubblici nelle metropoli globali contemporanee» (Baldini 2018, p. 29)9. Baldini spiega poi che il conferimento di carattere sovversivo a qualcosa è fortemente dipendente dal contesto (ivi, pp. 31-33) e che l’illegalità è tipicamente una proprietà che fonda l’attribuzione di carattere sovversivo – di qui la sua centralità in molti casi di street art. Nel § 3 raffinerò ulteriormente l’analisi del carattere sovversivo della street art – quanto abbiamo visto sinora è comunque sufficiente a criticare ciò che sostiene Riggle. Torniamo dunque, per concludere, agli esempi addotti da Riggle per sottolineare il carattere autoespressivo, più che sovversivo, di certe opere di street art: come emerge da quanto discusso sinora, al contrario di quanto sostiene Riggle, anche opere come Bus Stop Swings di Taylor e i Wallpaper Dumpsters di C. Finley non sono soltanto forme di autoespressione artistica realizzate nel contesto della “strada”, ma sono attività che sovvertono alcuni usi standard dello spazio urbano – alla fermata dell’autobus di solito non si sale sull’altalena e i cestini della spazzatura di solito non 8  La mia proposta differisce però da quella di Bacharach nella misura in cui costei sostiene che perché vi sia street art deve sempre mancare il consenso di chi ha giurisdizione sull’oggetto che ospita l’opera – nel mio esempio, io stessa, in quanto proprietaria dello stabile (cfr. Bacharach 2015, p. 486). 9  A mio giudizio non occorre che le “strade” della street art siano metropolitane, ma probabilmente è nelle metropoli statunitensi – Philadelphia e poi New York (cfr. Masilamani 2008; Young 2014) – che questa forma d’arte ha avuto origine ed è nelle metropoli globali che tuttora trova alcune delle sue migliori realizzazioni.

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sono oggetti abbelliti da splendide decorazioni. Che le opere sovvertano lo spazio urbano, riqualificandolo, e non si limitino al solo riqualificarlo, emerge dal fatto che queste non sono il risultato di un progetto di riqualificazione urbana portato avanti dalle istituzioni competenti, che mira a mutare, tramite un’azione “dall’alto”, le convenzioni vigenti sull’utilizzo della “strada”, ma sono il risultato della libera iniziativa di due artisti, che propongono, contro le convenzioni vigenti – che non hanno il potere di mutare “dall’alto” – un diverso utilizzo delle fermate dell’autobus e dei cestini della spazzatura nello spazio urbano (indipendentemente dal fatto che le loro opere siano, in senso stretto, illegali o meno)10. Ricapitolando, in questo paragrafo e nel precedente mi sono concentrata su due questioni, prendendo le mosse dalla proposta di Riggle sulla street art. La prima è: che cosa s’intende con “strada” quando si parla di street art? La seconda è: com’è utilizzata la “strada” nella street art? Ho lasciato aperta la prima questione, mentre ho proposto di rispondere alla seconda, rifacendomi soprattutto alle analisi di Baldini, sostenendo che il tipo di autoespressione che avviene quando si produce street art ha sempre carattere sovversivo. Una terza questione che ho sollevato al principio del § 1 sarà al centro del prossimo: qual è il ruolo della “strada” nella costituzione del contenuto delle opere di street art? Ha senso sostenere, come fa Riggle, che la “strada” è intrinseca al significato di tali opere? Come vedremo, attraverso l’articolazione di una risposta alla terza questione introdurrò anche elementi per rispondere alla prima. 3. La “strada” e il contenuto delle opere di street art Come abbiamo visto, Riggle sostiene che «un’opera d’arte è street art se, e solo se, l’uso che questa fa della strada 10  C. Finley iniziò producendo street art illegalmente mentre ora cerca di ottenere l’autorizzazione per le proprie opere – che comunque tenta di produrre anche se non la riceve (Laden 2015).

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come materiale è intrinseco al suo significato» (Riggle 2010, p. 246). Sul ruolo della “strada” per il significato delle opere di street art, in particolare, Riggle avanza quattro tesi. La prima è che un’opera non deve necessariamente essere situata nella “strada” per valere come opera di street art (ivi, pp. 244-245). Riggle descrive per esempio il caso di Muto (2008) un video prodotto dallo street artist Blu: l’artista ha utilizzato diversi luoghi situati sulla “strada” (principalmente muri) come superficie per produrre numerosissime opere di spray paint che poi ha fotografato; successivamente, Blu ha montato le fotografie in un video in modo tale che le opere di spray paint appaiono come un disegno animato11. Contro Riggle, sostengo che Muto non è un’opera di street art: si tratta invece di un’animazione che verte sulla street art, ossia di un’animazione a proposito di un certo tipo di arte situata. Ritenerla un’opera di street art equivarrebbe per esempio a ritenere un’opera situata il video Spiral Jetty (1970) di Robert Smithson, nel quale l’artista riprende da un elicottero l’opera Spiral Jetty, questa sì situata sulle rive del Grande Lago Salato12. Perché, allora, non ritenere un’opera situata qualsiasi fotografia artistica di Spiral Jetty e perché non ritenere un’opera di street art qualsiasi fotografia artistica di opere di street art? La ragione per cui propongo di considerare l’essere situata nella “strada” una caratteristica necessaria della street art, in altre parole, è analoga a quella per cui, nel terzo capitolo, ho proposto di considerare le opere di arte sito-specifica come opere necessariamente situate: l’apertura di categorie come “street art” e “arte sito-specifica” a opere non situate finirebbe per ampliare talmente tanto i confini di queste categorie da rendere il loro potere descrittivo nullo13. In particolare, come ho sottolineato nelle conclusioni del terzo capitolo, non apprezziamo le opere situate solo per i contenuti concettuali che 11  L’opera è visualizzabile a questo indirizzo: www.youtube.com/watch?v=uuGaqLT-

gO4 (ultimo accesso 5 giugno 2020). 12  Per un estratto del video si veda: www.youtube.com/watch?v=Cg_iJp6LAUc (ultimo accesso 5 giugno 2020). 13  Per una critica simile a Riggle cfr. anche Chackal (2016, pp. 360-361).

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queste articolano grazie al fatto di essere situate, ma anche per l’esperienza che ci permettono di fare dei siti in cui sono situate. Non è dunque opportuno estendere categorie come “arte situata” e “arte sito-specifica” a opere che non ci danno accesso a una particolare esperienza di certi siti nel momento in cui le esperiamo, benché articolino il loro contenuto concettuale grazie alla presenza di altre opere che stanno in certi siti, come per esempio il video di Smithson o l’animazione di Blu. Questo non toglie nulla al valore di tali opere: l’animazione di Blu, per esempio, è straordinaria, ma lo è come animazione e come documento dell’immensa abilità e creatività di Blu come street artist, e non come opera che, nel momento in cui la esperiamo, ci permette una particolare esperienza dei siti dove l’artista ha realizzato le opere di spray paint filmate. La seconda tesi di Riggle sul ruolo della “strada” per il significato delle opere di street art è che tutta la street art usa la “strada” come risorsa artistica, tanto manipolandola direttamente quanto utilizzandola come contesto materiale per opere non prodotte con materiali offerti dalla “strada” (Riggle 2010, p. 245). Un caso di manipolazione diretta della “strada” per la produzione dell’opera è per esempio quello in cui Taylor installa altalene alle fermate dell’autobus: l’opera consiste in un’alterazione di un elemento dell’arredo urbano. Casi in cui la “strada” è utilizzata come contesto materiale per un’opera di street art sono per esempio le opere di collage incollate alle pareti esterni di edifici. Questa seconda tesi di Riggle mi trova concorde. In particolare, riprendendo la terminologia introdotta nel terzo capitolo, possiamo sostenere che le opere di street art possono essere tanto fortemente situate (come le altalene di Taylor) quanto debolmente situate (come molte opere di collage installate nella “strada”). La terza tesi che Riggle avanza sul ruolo della “strada” per il significato delle opere di street art è quella che costituisce la sua definizione di street art: «un’opera d’arte è street art se, e solo se, l’uso che questa fa della strada come materiale è intrinseco al suo significato» (ivi, p. 246). Secondo la clas-

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sificazione che ho precedentemente introdotto, dunque, Riggle sostiene che tutta la street art è arte situata che verte sul proprio sito, ossia sulla “strada”. Anche questa tesi mi trova d’accordo: Riggle osserva correttamente, descrivendo alcuni esempi, che il significato delle opere di street art cambierebbe se queste fossero rimosse dalla “strada” e trasportate in museo, per esempio (ibidem)14. La quarta e ultima tesi di Riggle è che in nessuna opera di arte pubblica la “strada” gioca un ruolo per il significato dell’opera e che dunque possiamo distinguere l’arte pubblica dalla street art per questo motivo (ivi, pp. 253-255). Concordo anche con quest’ultima tesi di Riggle ma, come vedremo, per ragioni diverse da quelle che lui adduce a suo sostegno. La ragione per cui l’arte pubblica, secondo Riggle è, ovviamente, situata in luoghi pubblici, ma non nella “strada”, è che i luoghi pubblici dove è installata l’arte pubblica sono gestiti dalle istituzioni artistiche ufficiali (musei, gallerie d’arte, biennali, ecc.), e questo intervento istituzionale trasforma ciò che prima era sia luogo pubblico che “strada” in mero luogo pubblico. Il coinvolgimento delle istituzioni artistiche ufficiali, dunque, sottrarrebbe ai luoghi pubblici il carattere di “strada”, secondo Riggle. Il motivo, secondo Riggle, è che, una volta che un luogo pubblico è gestito dalle istituzioni artistiche ufficiali, le opere installate in questo acquisiscono il diritto di essere protette dagli interventi del pubblico – un diritto di cui invece, secondo Riggle, è cruciale che le opere di street art non godano (ivi, p. 254), dal momento che, come abbiamo visto, secondo lui la “strada” è essenzialmente un luogo che permette l’autoespressione e dunque anche l’autoespressione di chi rimuove, o oblitera, un’opera di street art. Se Tilted Arc di Richard Serra fosse stata un’opera di street art, ipotizza Riggle, allora «il pubblico avrebbe potuto fare ciò che voleva con la scultura. Avrebbe potuto smontarla, scriverci sopra, o ritagliarci delle entrate. L’opera non sarebbe stata 14  Sulle conseguenze della musealizzazione della street art cfr. per es. Bengsten (2015), Rivasi e Baldini (2018) e Andrzejewski (2017, p. 170).

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presentata al pubblico solo perché questo riflettesse su di essa e ne esaltasse il valore. L’opera sarebbe stata per il pubblico punto e basta» (ibidem). A questa tesi di Riggle obietto che, se è vero che molte opere di street art permettono che il pubblico ne faccia ciò che vuole, vi sono opere che non soddisfano questo requisito, che anzi sono protette dalle istituzioni artistiche ufficiali, e tuttavia meritano di essere considerate street art. Un buon esempio è il gigantesco murale Efêmero (2016) (fig. 8) realizzato dal duo di street artist OSGEMEOS su due pareti esterne del Pirelli HangarBicocca a Milano e commissionato dalla istituzione artistica che lì ha sede. Il murale raffigura il retro del vagone di un treno, omaggiando così la storia dell’edificio sul quale è situato, che nacque come fabbrica di locomotive. Inoltre, il murale raffigura una persona, vestita con uno stile da street artist (abbigliamento sportivo sgargiante e cappuccio), che fa surfing sul vagone del treno – una pratica, diffusa fra alcuni street artist, che consiste nel viaggiare illegalmente, e rischiosamente, nei tunnel delle metropolitane, afferrandosi al retro dei vagoni dei treni o sdraiandosi sui loro tetti. Questa è un’opera pensata per essere effimera, come suggerisce il titolo, e come di solito è la street art: nonostante si trovi ancora sulle pareti del Pirelli HangarBicocca è ragionevole pensare che in futuro sarà rimossa per lasciar spazio ad altre installazioni15. Efêmero è però, a differenza di molta street art, un’opera ben protetta da interventi di altri writer e street artist, dal momento che si trova in un’area controllata dal Pirelli HangarBicocca. Ritengo, tuttavia, che si tratti di un’opera di street art perché sovverte l’uso dominante dello spazio pubblico in cui è inserita (cfr. Baldini 2018, p. 29), dal momento che mette in evidenza sulla “strada” un’attività illecita, praticata all’interno della comunità degli street artist, 15  Il sito dell’istituzione lo descrive come «il primo intervento del programma “Outside the Cube”» (www.pirellihangarbicocca.org/mostra/efemero/, ultimo accesso 5 giugno 2020). Sul carattere effimero della street art cfr. per es. Chackal (2016, p. 360) e Andrzejewski (2017, pp. 182-183).

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celebrandola tanto quanto celebra la storia dell’edificio del Pirelli HangarBicocca. Nonostante che il duo OSGEMEOS abbia collaborato con un’istituzione artistica ufficiale per la realizzazione di questo murale, il gesto che ha compiuto producendo un’opera di grandissime dimensioni (impossibile da ignorare, dunque) che celebra in un contesto urbano un’attività illecita riconducibile allo stile di vita degli street artist si qualifica come gesto sovversivo, appunto in quanto celebra in pubblico i membri di una comunità marginale e apertamente in conflitto con alcune regole che governano la nostra società16. Efêmero, dunque, non è sovversiva nei confronti delle istituzioni artistiche ufficiali, ma lo è nei confronti delle idee prevalenti nella nostra società sui comportamenti che non è opportuno celebrare nello spazio pubblico – e questo la rende sufficientemente sovversiva per qualificarsi come opera di street art17. La mia proposta, dunque, è che la “strada” resti tale, e che dunque sia in grado di contribuire al significato di un’opera di street art in quanto “strada”, non nella misura in cui nessuna istituzione artistica ufficiale gioca un ruolo nella sua gestione, ma nella misura in cui ospita opere che per qualcuna delle loro caratteristiche abbiamo buona ragione di ritenere sovvertano qualche modalità dominante di utilizzo della “strada” manifestando la presenza di qualche comunità marginalizzata – in questo caso quella dei numerosi street artist anonimi che non godono della fama di OSGEMEOS18. Dobbiamo allora rigettare la tesi che la “strada” nella street art è essenzialmente uno spazio che permette l’autoe16  Sulla

rilevanza del dar voce a comunità marginalizzate attraverso la street art tornerò sotto. 17  Sospetto che vi sia anche ragione d’interpretare l’immagine come una metafora non priva di autoironia: lo street artist si aggrappa al “treno” del circuito delle istituzioni artistiche ufficiali, che sfrutta per un passaggio, ossia per effettuare il proprio gesto sovversivo. 18  Come sottolinea Baldini (2018, pp. 30-34), l’attribuzione di carattere sovversivo alle opere di street art è fortemente contesto-dipendente: per esempio, graffiti e murales prodotti illegalmente in luoghi pubblici in Cina difficilmente sono tali da acquisire carattere sovversivo, dal momento che la pratica di produrli è socialmente accettata per tradizione e non è collegata a pratiche che mirano a dar voce agli inascoltati.

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spressione, notando che se vi è street art negli spazi ufficiali dell’arte contemporanea allora non vi sarà possibilità di autoespressione per chi vorrà intervenire su tale street art rimuovendola o obliterandola con altri interventi? Ritengo che a questa domanda dobbiamo rispondere negativamente. Non voglio proporre di scindere la questione della comprensione della street art dalla questione dell’autoespressione nello spazio pubblico, ma di raggiungere una concezione più raffinata di che cosa sia uno spazio pubblico che permette l’autoespressione, qualificandosi dunque come “strada”, come sostiene Riggle. Come ammette Riggle stesso, infatti, l’autoespressione nella “strada” è ammessa in maniera ragionevole (Riggle 2016, p. 192): le “leggi non scritte”, ma condivise, sulla produzione di street art, non prevedono, per esempio, che sia da ritenersi accettabile l’installazione in luoghi pubblici di altoparlanti che coprano qualsiasi altro suono, rendendo impossibili le conversazioni. Non vedo perché, allora, non si dovrebbe ritenere ragionevole e non lesiva dell’autoespressione nella “strada” la norma di non ledere al murale realizzato da OSGEMEOS. Thierry Noir, uno street artist attivo negli anni ’80 sul lato ovest del “muro” di Berlino, racconta in un’intervista che alcuni dei suoi murales furono coperti quando, nel 1986, il “muro” nell’area di Checkpoint Charlie fu preparato perché vi lavorasse Keith Haring – un altro caso di street art autorizzata. Noir incontrò Haring e gli fece presente quanto era accaduto: Haring si scusò, sottolineando che non era al corrente del fatto che opere di altri artisti erano state appositamente cancellate per far spazio alla sua e – come riporta Noir – disse: «A New York per un affronto del genere ti potrebbero ammazzare» (Noir 2014, online). Sembra dunque che la pratica della street art, nonostante il suo carattere effimero, possa prevedere regole, anche severissime (!), per la creazione di opere nel rispetto della produzione artistica altrui. La conclusione da trarre da questa discussione è che ciò che distingue la street art dall’arte pubblica, a differenza di quanto sostiene Riggle, non è il suo carattere effimero, aper-

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to all’intervento di rimozione o obliterazione dell’opera da parte di chiunque – nonostante questo carattere sia spesso posseduto dalle opere di street art – ma è piuttosto il suo carattere sovversivo. Per esprimersi con uno slogan, se un luogo pubblico può ospitare opere dal carattere sovversivo, allora questo è “strada”. A tutto questo si potrebbe però obiettare che vi sono opere di arte pubblica – fra le quali proprio Tilted Arc di Serra – che hanno un evidente carattere sovversivo, e che dunque puntare sul carattere sovversivo per distinguere la street art dall’arte pubblica è una falsa partenza. Come sottolinea Greg Horowitz (1996, pp. 10-11), l’arco inclinato di Serra fu installato nel 1981 in una piazza di New York – Federal Plaza – circondata da spogli edifici di cemento che ospitano uffici del governo federale statunitense e che all’epoca era quasi interamente cementificata (salvo un paio di modeste aiuole), aveva una fontana che non era mai in funzione, era priva di spazi all’ombra o riparati dal vento e dalla pioggia e anche di panchine – ci si poteva sedere solo sui gradini degli edifici o sul bordo della fontana – e rarissimamente ospitava eventi pubblici. Nonostante che la piazza si trovasse fra edifici che ospitavano un gran numero di uffici, dunque, raramente era utilizzata dagli impiegati in pausa, o frequentata dopo il lavoro, per via del suo carattere inospitale. Chi si fermava nella piazza, osserva Horowitz (ivi, p. 10), poteva meramente immaginare che genere di spazio pubblico questa avrebbe potuto essere. Quando Serra installò il suo arco inclinato non rese inabitabile la piazza, come sostennero alcuni durante il processo che portò alla rimozione dell’opera19 – osserva Horowitz (ivi, p. 13) – ma costrinse chi vi transitava quotidianamente a guardare in faccia la realtà: quello non era uno spazio pensato per fermarsi e riposare, ma era invece uno spazio inospitale, dove ci si poteva solo muovere, ed era inabitabile per 19  Cfr.

per esempio le testimonianze al processo rese da Norman Steinlauf, Joseph I. Liebman e Paul Goldstein (in Weyergraf-Serra e Buskirk 1991, rispettivamente alle pp. 111-112; 113; 128-129).

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via di come era stato progettato e non a causa della presenza di Tilted Arc. Da una parte, infatti, come sottolinea Horowitz (ivi pp. 12-13, cfr. anche Serra 1987, pp. 180-181), prima della realizzazione dell’opera Serra si basò su degli studi sui percorsi di circolazione nella piazza, in modo da evitare che il posizionamento della sua scultura interferisse con questi. Inoltre, come spiega Serra stesso, la scultura valorizzò, nei limiti del possibile, la presenza umana nella piazza: Ho determinato la curva della scultura in modo che facesse eco alla curvatura dei gradini di fronte agli edifici. Questa uniformazione – curva che risponde a curva – definisce uno spazio simile a un anfiteatro, dove i gradini possono facilmente essere visti come posti a sedere. Ho deciso di inclinare il cilindro della curva a dodici piedi, in modo che le persone che escono dagli edifici abbiano lo sguardo al livello della sommità della curva, stabilendo così una consapevolezza della scala umana che altrimenti la piazza impedisce di avere (Serra 1987, p. 186).

Dall’altra, Serra spiega La scultura non può mai essere vista da una singola posizione, ma è percepita come qualcosa che è sempre in cambiamento, sempre in movimento. L’esperienza di Tilted Arc è la somma di successive percezioni rivelate solo a un osservatore in movimento. Mentre l’osservatore si muove, la scultura cambia, e la percezione del contesto cambia attraverso la percezione della scultura. Una molteplicità di nuove configurazioni e immagini è così tracciata, nuovi significati sono stabiliti ma è anche rivelato il significato originario del contesto (ibidem, corsivo mio).

Che Serra scriva che la scultura, mantenendo l’osservatore in movimento, rivela “il significato originario del contesto” conferma la tesi di Horowitz: Tilted Arc rivela che Federal Plaza non è pensata per essere abitata, pur cercando, nei limiti del possibile, di rendere la piazza un po’ più a misura d’uomo. Sulla base di quanto visto sinora ritengo, dunque, che l’opera di Serra si qualificasse come sovversiva, per due ragioni: primo, sovvertiva, per quanto limitatamente, il carattere del tutto inabitabile della piazza, cercando di renderla un po’ più a misura d’uomo; secondo, sovvertiva gli usi dominanti che di

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Federal Plaza facevano quelli che la attraversavano o vi passavano del tempo, non permettendo agli uni di attraversarla sbadatamente, senza neppure accorgersi della sua struttura, e agli altri di abbandonarsi a immaginare una piazza diversa e più accogliente. E, aggiungo, che sia stato istituito un processo che ha portato alla rimozione dell’opera, dove Serra è stato persino accusato di aver favorito atti terroristici con la sua installazione20, è un indizio del fatto che il gesto sovversivo di Serra era effettivamente riuscito21. Se le cose stanno così, però, sembra allora che non sia sufficiente appellarsi al carattere sovversivo della street art per distinguerla da certe opere di arte pubblica, come ho fatto sopra discutendo il caso di Efêmero. A questa osservazione propongo però di replicare precisando che cosa distingue il carattere sovversivo della street art da quello di altre opere sovversive: in primo luogo, come sostiene Bacharach (2015, pp. 492-493), gli atti sovversivi realizzati grazie alla produzione di street art sono sempre manifestazioni di attivismo – che può essere sociale, politico o ambientale – e infatti parte della street art con il passare del tempo ha acquisito toni sempre più politici (Bacharach 2018, pp. 32-33); in secondo luogo, tali gesti di attivismo sono effettuati da membri di una comunità – quella degli street artist – che ha elaborato una tradizione di realizzazione di atti sovversivi nella “strada”, i quali agiscono consapevoli di farsi portavoce tramite i propri gesti delle istanze di tale comunità e talvolta anche di quelle di altre comunità (come nel caso dell’immaginario murale che raffigura i migranti prigionieri in Libia). Che gli street artist spesso restino anonimi è un indizio non solo del fatto che, in molti casi, vogliono proteggersi dalla legge, ma anche del fatto che quello che importa è che 20  Cfr. la testimonianza di Vickie O’Dougherty (in Weyergraf-Serra e Buskirk 1991, pp. 117-118). 21  Non entro qui nella questione della valutazione della qualità o meno di Tilted Arc come opera di arte pubblica e della opportunità o meno della sua rimozione. Per una discussione in ambito filosofico cfr. per es. Danto (1987), Hein (1996), Horowitz (1996), Kelly (1996), Gover (2011; 2012) e Willard (2018).

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siano identificati come street artist, ma non come particolari street artist (specie da chi non appartiene alla loro comunità – gli insider possono più facilmente riconoscerli per via del loro stile, dei soggetti che raffigurano, ecc.). Produrre street art è sempre una forma di attivismo perché è sempre un modo di manifestare la presenza di soggetti che sfidano le autorità e lo status quo, ma affinché la street art assuma questa connotazione è necessario che chi la produce dia segno di concepirsi come appartenente alla comunità degli street artist – una comunità che rivendica la propria presenza sulla “strada”. Come sottolinea Baldini (2018, p. 50), la street art non è riducibile al mero vandalismo di chi, senza dare alcun segno di rifarsi a questa particolare tradizione artistica sovversiva, imbratta i muri dei bagni pubblici, per esempio. Torniamo ora all’atto sovversivo compiuto da Serra tramite l’installazione di Tilted Arc in Federal Square. Questo era l’atto di un artista che non si faceva portavoce di una comunità marginalizzata e che non si identificava come membro di una tale comunità, ma che si faceva portavoce solo del proprio, autorevole, punto di vista, e che non operava nell’ambito di una tradizione di attivismo manifestato attraverso la produzione di arte sovversiva nella “strada”. Non vi sono perciò ragioni di sostenere che Tilted Arc fosse sovversivo nello stesso senso in cui la street art è sovversiva. La mia conclusione, dunque, è che perché vi sia “strada” e, di conseguenza, perché la “strada” possa contribuire al significato di un’opera di street art, è necessario che l’opera sia la manifestazione di un atto sovversivo, compiuto in un luogo pubblicamente accessibile, da parte di un membro o di un portavoce di una comunità marginalizzata (spesso identificata con quella degli stessi street artist) che agisce in quanto tale, consapevole di rappresentare tale comunità. Riepilogando, in questo paragrafo ho sostenuto, condividendo solo parzialmente le tesi di Riggle, che tutte le opere di street art sono situate, che la “strada” è sempre una risorsa artistica della street art, che tutte le opere di street art verto-

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no, almeno in parte, sulla “strada” e che la street art si distingue dall’arte pubblica sovversiva per via del particolare tipo di atti sovversivi di cui è manifestazione. La discussione condotta fin qui rende finalmente possibile avanzare una risposta alla domanda lasciata aperta nel § 1: che cosa dobbiamo intendere, di preciso, per “strada”, quando parliamo di street art? La mia proposta è la seguente: la “strada” della street art è un luogo pubblicamente accessibile (non importa se all’aperto, come una piazza o, più raramente, al chiuso, come un museo) che è utilizzato per atti autoespressivi sovversivi da parte di membri o di soggetti che si fanno portavoce di comunità marginalizzate, che agiscono con l’intento di rappresentare le istanze di tali comunità. Per riprendere le nozioni introdotte nel capitolo 3, allora, possiamo sostenere che la “strada” della street art è un genere di sito fisico impiegato in un particolare contesto socioculturale. Per concludere, possiamo domandarci se la street art non sia arte sito-specifica, ossia se non sia un sottogenere del genere delle opere contraddistinte dal fatto che il loro essere situate rispetto a dei siti è indispensabile per il modo in cui queste veicolano contenuti che vertono sul loro contesto storico, culturale e sociale (cfr. cap. 3 § 9). Ora, da quanto visto sin qui si evince che, secondo la mia proposta, tutta la street art esiste per portare nello spazio pubblico la voce di qualche comunità marginalizzata (prima fra tutte quella degli stessi street artist) nel contesto delle norme d’utilizzo di tale spazio. La ragione d’esistenza della street art, dunque, è la ridefinizione dello spazio pubblico, perché in questo trovino voce gli altrimenti inascoltati. Come sottolinea Bacharach (2015, p. 493), la street art non si limita a farci riflettere su modi alternativi di concepire lo spazio pubblico, ma lo modifica attraverso interventi diretti. La street art, dunque, è arte che veicola dei contenuti sul proprio contesto storico, culturale e sociale sfruttando il proprio posizionamento in particolari siti (gli spazi pubblici). Ne segue che la street art è arte sito-specifica. Il carattere sito-specifico della street art, infine, mostra

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anche la sua appartenenza al genere dell’arte concettualista, come ho accennato nel capitolo 4 al §2, ossia a un genere d’arte che enfatizza l’importanza delle idee e dei processi di produzione delle opere come oggetti di apprezzamento artistico. La street art articola l’idea che lo spazio pubblico meriti di essere riappropriato dagli artisti e canalizza l’attenzione degli osservatori non solo sulle opere prodotte ma sul processo che ha portato alla loro produzione e che ha implicato l’effettuare dei gesti sovversivi. Nel prossimo paragrafo, il legame fra arte concettualista e street art emergerà ancora più chiaramente: sosterrò infatti che alcuni graffiti si qualificano come vere e proprie opere d’arte concettuale. 4. Street art concettuale: i meri graffiti Ci sono molte varietà di street art: per esempio gli stencil, i collage, le opere di spray paint, gli adesivi e le opere di yarn bombing (una pratica che consiste nel ricoprire con colorati tessuti realizzati all’uncinetto alberi, pali, panchine e altri oggetti installati sulla “strada”). È perciò naturale pensare che la street art sia un genere d’arte (e, in particolare, come abbiamo visto sopra, un sottogenere dell’arte sito-specifica, che a sua volta è un sottogenere dell’arte situata e anche dell’arte concettualista) al quale appartengono opere realizzate in forme d’arte diverse e che dunque hanno medium o profili mediali diversi, per rifarci alla terminologia introdotta nel primo capitolo. Apprezzare come arte un’opera di street art, in particolare, spesso non consiste meramente nell’apprezzare il suo carattere sovversivo, ma anche nell’apprezzare i contenuti che questa presenta attraverso l’articolazione del suo profilo mediale. Apprezzare pienamente Efêmero, per esempio, richiede di soffermarsi anche sul soggetto raffigurato e sulle proprietà espressive dell’immagine, che trabocca di esuberanza, mentre apprezzare pienamente un’opera di yarn bombing installata attorno ai rami di un albero di solito richiede di soffermarsi

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su come gli allegri colori del tessuto e quelli dell’albero s’influenzano reciprocamente e sulla delicatezza che l’atto di ricoprire parte di un albero con un tessuto prodotto manualmente esprime. Che dire, però, dei graffiti? Come sostiene, per esempio, Masilamani (2008), la street art cominciò, negli anni ’60, a Philadelphia, con i graffiti di Cornbread and Cool Earl, e negli anni ’70 si diffuse anche a New York, inizialmente con i graffiti di Topcat-12622. Alcuni – per esempio Alison Young (2014) – hanno però sostenuto che graffiti e street art sono due pratiche tradizionalmente distinte e che perciò meritano discorsi critici diversi. Altri, tuttavia, sottolineano che graffiti e street art sono pratiche strutturalmente analoghe, caratterizzate dal loro carattere situato nella “strada” e sovversivo (cfr. per es. Austin 2001; Baldini 2018, pp. 9-10; Rivasi 2018, pp. 11-15). La mia posizione, come vedremo, è affine a quella dei secondi. Per alcuni graffiti è semplice comprendere che cosa significa apprezzarli come street art: i tag graficamente elaborati, spesso coloratissimi, di artisti come KET e DONDI, per esempio, possono essere apprezzati come opere di grafica, oltre che per il loro carattere sovversivo23. Che dire, però, dei molti graffiti che non spiccano per la loro qualità grafica (che d’ora in avanti, per semplicità, chiamerò “meri graffiti”)? Si tratta di street art o di mero vandalismo? Chi, come Bacharach (2015, p. 483), sostiene che neppure i graffiti elaborati siano 22  Naturalmente i graffiti esistono sin dalla preistoria. Qui con il termine “graffiti” mi riferisco però esclusivamente a quelli realizzati, anche grazie alla diffusione delle bombolette di pittura spray, principalmente a partire dai tardi anni ’60 dai writer che iniziarono a scrivere il proprio nome in luoghi pubblici (a New York, in particolare, sui treni della metropolitana) – una pratica che secondo alcuni è, insieme alla cultura punk e alle proteste politiche, fra quelle all’origine dell’attuale street art (cfr. per es. Masilamani 2008; Young 2014). 23  Per la tesi che anche i graffiti elaborati non sono street art cfr. invece Bacharach (2015, p. 483) – in breve, Bacharach afferma che nessun graffito ha significato sociopolitico, e dunque nessuno si qualifica come street art, perché i graffiti sono meramente il risultato di atti d’impossessamento della strada da parte delle gang che li producono. Se vi è forse spazio per difendere questa posizione relativamente agli albori della pratica dei graffiti urbani realizzati nella seconda metà del XX secolo, ritengo che questa tesi non rifletta invece l’attuale situazione.

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street art, a maggior ragione non ritiene street art neppure i meri graffiti. Chi, invece, ammette i meri graffiti nel novero della street art è, da una parte, Riggle (2010, pp. 251-253), che ritiene che solo alcuni meri graffiti siano arte, e dall’altra Baldini (2018, pp. 9-10; 52; 54-55), che ribatte che tutti i meri graffiti sono arte. Vediamo più da vicino i loro argomenti. Riggle sostiene che meritano di essere ritenuti arte anche quei graffiti che, benché non siano significativi dal punto di vista grafico, sono evidentemente manifestazione di un progetto artistico con uno stile e dei contenuti di rilievo. Un esempio da lui citato (Riggle 2010, pp. 252-253) è Manhattan Tag (2006) di MOMO, forse una delle opere d’arte più ampie mai create: producendo una sottile linea di pittura sul suolo mentre camminava per le vie di Manhattan, l’artista riuscì a scrivere “MOMO” – il proprio tag – su un’area che si espande dall’estremità ovest del West Village all’East River Park a sud di Houston Street24. Riggle propone poi una convincente analisi (nella quale non è necessario addentrarsi qui) del ruolo del sentimento del sublime nell’esperienza dell’opera e della sua relazione con la pratica artistica di Barnett Newman, mostrando dunque l’alto valore del tag di MOMO come opera di street art. Baldini, d’altro canto, afferma che i graffiti, in generale, sono la forma non solo originaria, ma anche più essenziale, di street art, per via del loro carattere puramente sovversivo (Baldini 2018, pp. 9-10) e chiarisce: L’obiettivo principale degli street artist non è violare la legge. Nonostante menzionino una certa jouissance carnevalesca come potente incentivo, agli street artist di ogni genere e tipo – persino ai più radicali come i writer – interessano lo stile, la forma, le tecniche e come usarle come strumento per creare dei contenuti e veicolare dei messaggi. La street art è una pratica per la creazione di significato che sfrutta, fra le altre cose, il vandalismo come strumento per dar corpo a una particolare idea (ivi, pp. 54-55, corsivo mio).

24  Per un video che documenta l’opera si veda www.vimeo.com/1999844 (ultimo accesso 5 giugno 2020).

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Baldini, insomma, propone un’estensione della tesi di Riggle anche ai graffiti che spiccano ancora meno di quello di MOMO per le loro qualità sensibili, ma che tuttavia sono prodotti nell’ambito della pratica di apprezzamento della street art – per riprendere la terminologia di Lopes (2014) introdotta nel primo capitolo. Per quanto mi riguarda, concordo con quest’ultima posizione, ma ritengo che necessiti di essere meglio ancorata a una disamina del rapporto fra graffiti e altre opere d’arte che sono similmente strutturate, benché distanti, per tradizione, dalla street art, ossia le opere d’arte concettuale. Nel dibattito filosofico sulla street art alcuni hanno effettivamente notato certe sue affinità con l’arte d’avanguardia, in generale, e con l’arte concettuale, in particolare: Fimiani (2014) si sofferma sulle affinità fra la prima serie di Truisms (1977-1979) di un’artista concettuale come Jenny Holzer e i graffiti, Bacharach (2015, p. 492) nota che la street art, come l’arte d’avanguardia, tende ad essere sovversiva nei confronti delle istituzioni artistiche tradizionali e Baldini (2018, pp. 86-87), commentando Ferraris (2014), rileva che tanto l’arte concettuale che la street art hanno legami costitutivi, benché diversi, con la legge. Fra gli street artist, poi, il duo PERU ANA ANA PERU ha accennato in un’intervista alla possibilità di fare street art attraverso l’arte concettuale (JAK 2012, online). In ciò che segue voglio gettare luce sul fatto che i meri graffiti, in quanto risultato di gesti sovversivi, sono oggetti usati dai writer per veicolare idee e che il meccanismo che utilizzano per farlo è quello dell’esemplificazione. Torniamo all’analisi di Following Piece di Vito Acconci avanzata nel capitolo precedente. Questa performance, come abbiamo visto, fu il risultato di un gesto di rottura con l’arte tradizionale, dal momento che non avvenne in presenza di un pubblico ed ebbe luogo nelle strade di New York, e non in qualche luogo deputato alla presentazione di opere d’arte. Come ho sostenuto, si trattò di un’opera d’arte concettuale inaccessibile, e cioè di un’opera il cui veicolo non presentava somiglianze salienti con opere d’arte tradizionali e che perciò

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si può identificare come arte solo grazie alla presenza di un discorso critico che la contestualizzi. In particolare, come ho mostrato, sulla base del titolo dell’opera e delle foto e dei testi di Acconci che la documentano, è possibile sostenere che le azioni svolte da Acconci durante la performance siano state utilizzate dall’artista per esemplificare proprietà come quella di essere azioni in cui un individuo si fa guidare da un altro, all’insaputa del secondo, e suggerire così certe idee sul comportamento umano. La proposta che voglio avanzare qui è che i meri graffiti funzionino come Following Piece. Questi sono il risultato di un gesto di rottura con le convenzioni che regolano l’uso degli spazi pubblici, nonché con l’arte tradizionale, come abbiamo visto sopra attraverso l’analisi del carattere sovversivo delle opere di street art. Anche i meri graffiti, poi, sono un tipo di opera d’arte inaccessibile: a differenza dei graffiti graficamente elaborati, i meri graffiti non presentano somiglianze rilevanti con forme e pratiche artistiche tradizionali e perciò possono essere identificati come arte solo se affiancati da un discorso critico – come quello che sto offrendo qui, o come quello che offre Baldini (2018) – che li contestualizzi. Infine, proprio come Following Piece, i meri graffiti sfruttano il meccanismo dell’esemplificazione per veicolare dei contenuti. Un mero graffito generalmente è un tag che consiste nell’iscrizione di un nome (di solito il nome d’arte di chi lo produce) o di un logo. Un tag ha molte proprietà: per esempio, è un’iscrizione di un certo nome o di un certo logo, ha certe dimensioni, ha un certo colore, è il risultato di un gesto sovversivo, ed è anche la traccia della presenza nello spazio pubblico di chi l’ha prodotto, effettuando un gesto sovversivo. La mia proposta è che chi produce tag presentandoli nell’ambito della pratica di apprezzamento della street art li usa per esemplificare quest’ultima loro proprietà, quella di essere tracce della presenza nello spazio pubblico di chi li ha prodotti, effettuando dei gesti sovversivi. Proponendo al pubblico di canalizzare la propria attenzione su questa proprietà dei tag, il writer lo invita a riflettere sul fatto che vi è

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qualcuno che ha sentito l’esigenza di esprimersi in tal modo nello spazio pubblico, rompendo convenzioni sociali e artistiche. Sono le sue motivazioni, ossia un certo tipo di idee, che il writer ci propone di apprezzare attraverso la produzione del mero graffito, non il graffito stesso. Tutti i meri graffiti prodotti nell’ambito della pratica della street art, dunque, sono arte. Ne segue che la street art è un genere d’arte che comprende non solo, per esempio, gli stencil, i collage, le opere di spray paint, gli adesivi, le opere di yarn bombing e i graffiti graficamente elaborati, ma anche i meri graffiti, che sono una particolare varietà di arte concettuale25. Da quanto ho sostenuto non segue però che tutti i meri graffiti siano buona street art. Tutti i meri graffiti hanno lo stesso contenuto di base: hanno a che vedere con l’esigenza di riappropriarsi dello spazio pubblico. Un singolo mero graffito, o una serie di meri graffiti realizzati dallo stesso writer, per quanto siano accettati da alcuni nell’ambito della pratica di apprezzamento della street art, non si qualificano come buoni graffiti meramente in virtù del fatto di veicolare questo contenuto, ma lo fanno in virtù delle circostanze e delle modalità 25 Ritengo

che anche lo street artist impegnato nella produzione di opere attraverso media tradizionali (come le immagini nello spray paint, per esempio), usi le proprie opere, fra le altre cose, per esemplificare la loro proprietà di essere tracce nello spazio pubblico di un gesto sovversivo da lui compiuto. Ne segue che tutta la street art è arte concettualista, mentre i meri graffiti sono arte concettuale, ossia una particolare varietà di arte concettualista (cfr. cap. 4 § 2). La tesi che difendo è opposta a quella di Graziella Travaglini (2019, pp. 177-185), che concepisce la street art come fortemente antitetica all’arte concettuale, insistendo sul fatto che la street art ha il merito di riportare l’arte alla sua dimensione sensibile, grazie all’enfasi che pone sulla produzione di oggetti artistici nello spazio pubblico, il che, secondo Travaglini, contrasta con il carattere dematerializzato dell’arte concettuale. Ritengo che questa posizione presenti due problemi: in primo luogo, come ho sostenuto nel capitolo quattro, la tesi della dematerializzazione dell’arte concettuale è criticabile, dal momento che, come ho mostrato, l’uso di oggetti con particolari caratteristiche è centrale anche per questa forma d’arte – da ciò segue che un’antitesi fra arte concettuale dematerializzata e street art “ri-materializzata”, per così dire, è fuorviante; in secondo luogo, anche ammettendo la tesi della dematerializzazione dell’arte concettuale, non seguirebbe certo che è la sola street art a riportare l’arte alla dimensione sensibile, come suggerisce Travaglini: come abbiamo visto nei capitoli precedenti, la dimensione sensibile è centrale sia nell’installation art che nell’arte sito-specifica, per esempio.

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particolari in cui lo veicolano. Per esempio, il valore artistico dell’enorme tag di MOMO risiede nel virtuosismo dei gesti grazie ai quali è stato realizzato e nella sua capacità di suscitare il sentimento del sublime, come spiega Riggle. Il valore artistico di un ipotetico tag prodotto sulle pareti di un edificio ben protetto che ospita il quartier generale di una multinazionale nota per aver causato qualche disastro ambientale sta nell’audacia dell’atto sovversivo di cui il tag è traccia e nel forte valore simbolico che questo assume in virtù del particolare edificio fatto oggetto dell’attacco da parte del writer. Il valore artistico dei semplicissimi tag e adesivi disegnati e incollati dal duo PERU ANA ANA PERU (tutti consistono nell’iscrizione delle parole “PERU ANA ANA PERU” con caratteri disadorni) in un grande numero di città in diversi continenti, e in maniera capillare in alcuni quartieri di New York, sta nell’amplissima scala del progetto ideato dal duo. Dall’altra parte dello spettro, invece, è probabile che, per esempio, un mero graffito realizzato con facilità, e in tempi recenti, sulle pareti esterne di un’abitazione privata abbia scarso valore artistico (il fatto di essere stato realizzato in tempi recenti, in particolare, lo priva della proprietà dell’innovatività).

Conclusioni In questo capitolo ho sostenuto che la street art è un sottogenere dell’arte sito-specifica e dell’arte concettualista, che comprende, fra l’altro, opere di spray paint, opere di yarn bombing, graffiti graficamente elaborati e meri graffiti che sono opere d’arte concettuale. La street art è caratterizzata dal fatto di essere il risultato di un particolare tipo di atti sovversivi compiuti in luoghi pubblicamente accessibili con l’obiettivo di modificare lo spazio pubblico: tali atti sono realizzati da individui che sono membri, o si fanno portavoce, di una comunità marginalizzata e che agiscono in quanto tali, presentando il frutto delle loro azioni perché sia apprezzato

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come arte. Dal quadro che ho tracciato emerge che le condizioni perché sia possibile continuare a produrre street art in contesti dove questo genere d’arte è sempre più spesso accettato socialmente sono difficili da soddisfare. In primo luogo, per essere tale, un’opera di street art deve avere carattere sovversivo – è perciò necessario che la street art non diventi completamente istituzionalizzata, ossia che non sia accettata da parte di tutte le forze dominanti nello spazio pubblico. In secondo luogo, per avere valore come arte, la street art, oltre a essere sovversiva, deve presentare dei contenuti interessanti. Nel caso delle forme di street art tradizionali questa seconda condizione è soddisfatta attraverso la produzione di opere di alta qualità estetica, raffigurativa, espressiva, ecc. Nel caso dei meri graffiti – la forma concettuale di street art – questa condizione è soddisfatta con la realizzazione, tramite il tracciare graffiti, di atti sovversivi che, per qualche ragione, si distinguono per la loro significatività e opportunità.

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Indice dei nomi

Abell, Catharine  129n Acconci, Vito  148-149, 188-189 Adriani, Bruno  21n Ammer, Christine  52n Andre, Carl  20 Andrzejewski, Adam  83, 163n, 176n, 177n Argüello, Gemma  42 Arning, Bill  31-32, 55 Art & Language  132 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano  105, 125-126 Austin, Joe  186 Bacchini, Fabio  97, 106, 109 Bacharach, Sondra  31n, 71n, 163n, 166-168, 171-172, 182, 184, 186, 188 Bal, Mieke  61n Baldessari, John  132 Baldini, Andrea  163n, 166, 168-170, 172-173, 176n, 177, 178n, 183, 186-189 Banksy 166 Barndt, Kerstin  89 Barry, Robert  94, 132 Baudelaire, Charles  85 Beardsley, John  122 Bengsten, Peter  176n Bennett, Tony  87 Berg, Alban  56 Bernini, Gian Lorenzo  18, 20 Berry, Adam  fig. 4 Bianchini, Samuel  33n, 56n Bicknell, Jeannette  71n Bishop, Claire  17-20, 23, 25, 29-30, 33n, 38

Blu 174-175 Boal, Augusto  26 Böhme, Gernot  33, 35 Bonaparte, Napoleone  84, 100 Borgemeister, Rainer  67 Bourriaud, Nicolas  33n Broodthaers, Marcel  22n, 67-68, 74, 80 Buchloh, Benjamin  133n Budd, Malcom  49n Burns, Charlotte  54 Buskirk, Martha  180n, 182n Cage, John  146n Caldarola, Elisa  16, 32n, 151n, 152n, 155n, fig. 8 Camnitzer, Luis  138n Campus, Peter  40-42 Carrier, David  89, 100-101 Carroll, Nöel  133 Casey, Valerie  90 Cave, Nick  104 Cavell, Stanley  42n Celant, Germano  134 Chackal, Tony  163n, 168, 174n, 177n Chadwick, Helen  141 Chalgrin, Jean  102n Chandler, John  13, 132 Chipperfield, David  70-71, 78n, 79, 82, 90, figg. 2 e 3 Coles, Alex  93, 115 Collingwood, Robert  132n Cool Earl  186 Cornbread 186 Corsa, Andrew  31n, 71n Craig-Martin, Michael  11, 152-153, 155

218 Cray, Wesley  133-135 Crimp, Douglas  86, 93, 115 Croce, Benedetto  132n Cullens, Chris  67 Currie, Gregory  133n, 140n Dalì, Salvador  17n Dal Sasso, Davide  132, 134, 138 D’Angelo, Paolo  122, 141n Danto, Arthur  140n, 152n, 156, 182n Davies, David  15, 38n, 133n, 140141 Da Vinci, Leonardo  103, 139, 143, 145 Debord, Guy  33n Declercq, Dieter  129n De Duve, Thierry  142-143, 145 de Kort, Robert-Jan  90 De Oliveira, Nicolas  18, 23, 25 Deprez, Eleen  59-63, 65, 67 Dewdney, Andrew  88 Dilworth, John  133n Dodd, Julian  133-135, 139n Duchamp, Marcel  17n, 133-134, 139, 142-145, 156-159 Duncan, Carol  87

indice dei nomi Fraser, Andrea  37, 50-55, 110, 117, 130 Freytag-Loringhoven (von), Elsa  158n Fried, Michael  13, 19-20, 23 Friedrich, Kaspar David  102 Friend, Stacey  129n Fritsch, Katarina  12, 119, 130 Fuster, José  120, fig. 6

Edoardo III d’Inghilterra  98 Elgin, Catherine Z.  147 Evnine, Simon  129n

Gaiger, Jason  117-118 Gammel, Irene  158n Garibaldi, Giuseppe  111 Gaskell, Ivan  89 Gaudí, Antoni  120 Gaut, Berys  25-27, 34, 64 Giebelhausen, Michaela  85-86, 89 Gillgren, Peter  93n Giombini, Lisa  71n Giorgio IV d’Inghilterra  119 Goldie, Peter  66, 133, 139 Goldstein, Paul  180n Gombrich, Ernst H.  41 Gonzalez-Torres, Felix  44 Goodman, Nelson  14, 147-148, 159 Gover, Karen  182n Goya, Francisco  103 Greenberg, Clement  85 Grice, Paul  160 Griffero, Tonino  33, 35 Group Material  117-118 Guglielmo IV d’Inghilterra  119

Falk, John H.  89 Farver, Jane  138n Feagin, Susan  99n Ferraris, Maurizio  188 Ferrell, Jeff  169n Ferriani, Barbara  18, 23, 25, 27 Fimiani, Filippo  163n, 188 Finley, C.  168, 172, 173n Fischer-Lichte, Erika  26n, 33n Fisher, Saul  33, 34n, 71n Flynt, Henry  132 Focosi, Filippo  49n Fontana, Lucio  17, 18n Forsey, Jane  83 Foster, Hal  93, 115 Foucault, Michel  87

Hagopian, Patrick  24 Hansen, Al  17 Hanson, Louise  49n Haring, Keith  179 Harrap, Julian  70-71, 79, 82, figg. 2e3 Harrison, Victoria S.  89 Haspel, Jörg  69 Havelock, Henry  119 Hegenbart, Sarah  90 Hein, Hilde  64n, 182n Heizer, Michael  122 Hoffmann, Ludwig  69 Holt, Nancy  12, 115-116, 120, fig. 5 Holzer, Jenny  188 Honda, Stan  fig. 7

219

indice dei nomi Hooper-Greenhill, Eilean  88-89 Hopkins, Robert  21-22, 132, 139, 159-162 Horowitz, Greg  180-182 Hudson Hick, Darren  31, 71n, 96n Hugnet, Georges  17n Iacona, Andrea  79 Irvin, Sherri  21n, 26-31, 43-45, 4748, 56, 95, 97, 135, 138n, 139n Irwin, Robert  37, 93 JAK 188 Johns, Jasper  150 Judd, Donald  20 Judkins, Jennifer  71n Kabakov, Ilja  18, 23, 25 Kania, Andrew  26n Kaprow, Allan  17, 33n, 37 Kawara, On  132 Kaye, Nick  93, 115 Kelly, Michael  182n Kentridge, William  40, 42-43, 56 Kivy, Peter  81 Kobau, Pietro  132n Korsmeyer, Carolyn  71n Kosuth, Joseph  132 Krauss, Rosalind  13, 19-20, 22-23, 39-45, 48 Kusama, Yayoi  11, 23, 31-32, 37 Kwon, Miwon  13, 24, 93, 115-119 Laden, Tanja M.  173n Laderman Ukeles, Mierle  116-117, 119, 123-124, 126 Lamarque, Peter  71n Langer, Susanne  21-22, 33n, 36 Laycock, Ross  44-45, 48 Le Corbusier (Charles-Édouard Jeanneret) 34 Levinson, Jerrold  36, 95-96, 140-141 LeWitt, Sol fig. 7,  132-136, 146, 149-150 Liebman, Joseph I.  180n Liebskind, Daniel  34 Liggins, David  151 Lin, Maya  24

Lippard, Lucy  13, 132 Lissitzky, El  17n Lopes, Dominic McIver  15, 18, 26n, 38n, 40, 42, 45-48, 62, 81, 91n, 96n, 139n, 188 Maar, Dora  101 Maaz, Bernhard  70 Macdonald, Sharon  88 Manzoni, Piero  146n Marani, Pietro C.  145n Marques, Omar  figg. 2, 3 Marsden, Harriet  124 Marstine, Janet  88 Martin, F. David  21n Masilamani, Rachel  172n, 186 Matisse, Henri  60-61, 63-65 Matravers, Derek  133 Menezes, Caroline  20n, 31 Messel, Alfred  69 Meyer, James  93, 115, 117 Migliorini, Ermanno  138n Mitchell, William John Thomas  40n MOMO  187-188, 191 Morandi, Giorgio  94, 96, 98 Morris, Robert  20 Moruzzi, Sebastiano  98n Napier, Charles James  119 National Engineering Bureau (EAU) 121 Naukkarinen, Ossi  83 Nauman, Bruce  20 Neal, Leon  fig. 1 Nefertiti 82 Nelson, Horatio  119 Neto, Ernesto  19-20, 23, 31-32, 35, 37, 52-53, 55, 63-64, 66, 74, fig. 1 Newman, Barnett  187 Nguyen, Thi C.  26n, 30n, 31n, 58n Nichols Goodeve, Thyrza  53n, 54-55 Noir, Thierry  166n, 179 Obrist, Hans Ulrich  91 O’Doherty, Brian  75n, 86n O’Dougherty, Vicky  182n Oiticica, Hélio  134 OSGEMEOS  177-179, fig. 8

220 Paganini, Elisabetta  98n Palladio, Andrea  107 Parker, Joshua  89-90 Peret, Benjamin  17n PERU ANA ANA PERU  188, 191 Picasso, Pablo  101 Piper, Adrian  132, 134, 136, 149n Phillips, Dawn  140 Plebani, Matteo 151n, 152n, 155n Potts, Alex  19 Pugliese, Marina  17-18, 23, 25, 27 Quatremère de Quincy, Antoine Ch.  84, 100 Quinn, Lorenzo  108 Ramses II  70 Ran, Faye  18, 23, 25 Rancière, Jacques  33n Ransom, Madeleine  49n Rauschenberg, Robert  146n Ravasio, Matteo  143n, 146n Ravelli, Louise  61n Ray, Man (Emmanuel Radnitzky)  17 Rebentisch, Juliane  18, 19n, 23, 25 Reiss, Julie  17-18, 23, 25, 29, 38 Renshaw, Amanda  120n Riggle, Nick  163-168, 172-177, 179, 183, 187-188, 191 Ring Petersen, Anne  18, 22-23, 25, 33n Rivasi, Pietro  176n, 186 Robinson, Jenefer  33-34 Rodin, Auguste  97-98, 107 Rohrbaugh, Guy  26n Rosenthal, Mark  18, 23, 25, 133n Ruscha, Ed  40 Saito, Yuriko  82-83 Sauchelli, Andrea  49n Schellekens, Elisabeth  66, 133, 139 Schinkel, Karl Friedrich  69 Scholte, Tatja  18, 23, 25 Schubert, Karsten  78n Schwitters, Kurt  17n Scruton, Roger  33n, 36 Serra, Richard  24, 37, 176, 180-183 Shelley, James  133n

indice dei nomi Simoniti, Vid  33n Sladen, Mark  141 Smith, Barry  26n Smith, Murray  40n Smith, Roberta  138n Smith, Terry  91 Smithson, Robert  174-175 Snickare, Mårten  93n Snyder, Gregory J.  169n Spaid, Sue  91 Spalding, Julian  157n Stecker, Robert  16, 133n Steinlauf, Norman  180n Stieglitz, Alfred  158-159 Stock, Kathleen  133n Strack, Johann Heinrich  69 Stüler, Friedrich  69-71, 78-80, 82 Sutton, Tiffany  89 Szeemann, Harald  134 Tavani, Elena  18, 19n, 23, 25, 31n, 33n, 67n Taylor, Bruno  168, 172, 175 Thompson, Glyn  157n Tollefsen, Deborah  31n, 71n Topcat-126 186 Tschumi, Bernard  24 Travaglini, Graziella  163n, 190n Turner, Grady  32 Turrell, James  18n, 37 Tzortzi, Kali  89 van Beethoven, Ludwig  94 van Inwagen, Peter  137n van Saaze, Vivian  27 van Schaik, Sander  90 Varzi, Achille  107n Vecellio, Tiziano  107 Ventzislavov, Rossen  91 Vergo, Peter  87 Verhagen, Erik  33n, 56n Veronese, Paolo  100, 107, 123, 125 Vo, Dahn  133, 136, 149n von Buttlar  70-71, 73 von Ihne, Ernst Eberhard  69 von Spreckelsen, Johann Otto  102n Voorhies, James  91

221

indice dei nomi Wallace, Isabelle Loring  150 Wallace, Scott  fig. 6 Wallach, Alan  87 Walter, Nigel  71n Walton, Kendall  14-15, 36, 95, 151152, 155 Warhol, Andy  146n Weiner, Lawrence  132 Weiss, Rachel  138n Wetzel, Linda  26n Weyergraf-Serra, Clara  180n, 182n Wharton, Glenn  18, 23, 25 Whitehead, Christopher  61n Whiteread, Rachel  128, 130

Wilder, Ken  19n, 25 Wildung, Dietrich  72 Willard, Mary Beth  163n, 169, 171n, 182n William I  fig. 5 Wodiczcko, Krzysztof  37 Wollheim, Richard  20n, 21-22, 41, 49n, 140n Xhignesse, Michel  47n, 81, 96n Young, Alison  169n, 172n, 186 Young, James  132, 133n, 139, 147n, 156-157, 159, 161

Quodlibet Studio



estetica e critica

Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’«amoroso regno» Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma Paolo D’Angelo (a cura di), Le arti nell’estetica analitica Miriam Iacomini, Le parole e le immagini. Saggio su Michel Foucault Giovanni Gurisatti, Costellazioni. Storia, arte e tecnica in Walter Benjamin Clemens-Carl Härle (a cura di), Confini del racconto Paolo D’Angelo, Filosofia del paesaggio Francesca Iannelli, Dissonanze contemporanee. Arte e vita in un tempo inconciliato Aldo Marroni, Estetiche dell’eccesso. Quando il sentire estremo diventa «grande stile» Daniela Angelucci, Deleuze e i concetti del cinema Marco Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente Rita Messori, Poetiche del sensibile. Le parole e i fenomeni tra esperienza estetica e figurazione Dario Cecchi, La costituzione tecnica dell’umano

Francesca Iannelli (a cura di), Vita dell’arte. Risonanze dell’estetica di Hegel Paolo D’Angelo, Il problema Croce Amelia Valtolina, Il sogno della forma Un’idea tedesca nel Novecento di Gottfried Benn Luca Serafini, Etica dell’estetica. Narcisismo dell’io e apertura agli altri nel pensiero postmoderno Mario Farina, La dissoluzione dell’estetico. Adorno e la teoria letteraria dell’arte Alfonso Musci, La ricerca del sé. Indagini su Benedetto Croce Paolo D’Angelo, Attraverso la storia dell’estetica. Vol. I: dal Settecento al Romanticismo Peter Lamarque, Opera e oggetto. Esplorazioni nella metafisica dell’arte Vincenzo Bochicchio, Marco Mazzeo, Giuseppe Squillace (a cura di), A lume di naso. Olfatto, profumi, aromi tra mondo antico e contemporaneo Paolo D’Angelo, Attraverso la storia dell’estetica. Vol. II: da Kant a Hegel Elisa Caldarola, Filosofia dell’arte contemporanea: installazioni, siti, oggetti