Estetica razionale
 8860303893, 9788860303899

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M.\ R I ZIO l'f.RR\RIS

Eustache le Sueur

La prédication de St. Paul à Ephèse

Maurizio Ferraris

Estetica razionale

Bib

di lì

BIBLIOTECA G Via G. Bruno,

Tel. 06.4

INVENTARIO

_i:.

~ Raffàello Cortina Editore

Copertina FG Confalonieri CReE

ISBN 88-7078-460-6 © 1997 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 1997

INDICE

Introduzione 1. I.: estetica come filosofia prima 1.1. Si può insegnare estetica all'università? 1.2. Che cos'è una estetica razionale? 1.3. Cristo è veramente risorto?

1 4 15 23

Ringraziamenti

37

I. Estetica

39

1. Che cosa ha battezzato Baumgarten 1.1. Rosemary e il cinghiale 1.2. L'invenzione di Baumgarten 1.3. Le aporie della genesi

39 39 44 54

2. I.: estetica come arte dell'analogo della ragione 2.1. Percepire 2.2. Produrre 2.3. Inventare 2.4. Ragionare 2.5. I.: animale 2.6. La macchina

70 70 77 87 95 100 106

3. L'estetica come filosofia dell'arte 3.1. Due rigetti della estetica baumgarteniana: Kant e l'idealismo 3.2. Dal costruzionismo alla filosofia artista 3.3. Il positivismo e il suo doppio 3.4. Apogeo e tramonto della filosofia dell'arte 3.5. Estetica come allegoria 3.6. Estetica come ontologia

120 120 127 13 8 142 145 155

II. Ontologia

159

1. Storia della ontologia 1.1. Sistema dcl mondo

159 159

VII

INDICE

1.2. Metafisica e senso comune 1.3. La metafisica dei moderni 1.4. L'esperimento e il miracolo 1.5. Possibile e reale 1.6. Il dileguarsi del!' ente nell'Essere

2. Il tavolo e la tabula 2.1. "Tutte le sensazioni sono vere" 2.2. Perché non crediamo ai fantasmi 2.3. Che cosa c'è? 2.4. Esistenza matematica 2.5. Fortida 2.6. L'esistenza del mondo esterno: buonafede e sapere 2.7. Il presente è costituito 2.8. Presentazione, rappresentazione, ri-presentazione 2.9. Intuizione, intenzione, ritenzione 2.10. Tabula rasa

3. Lo specchio 3 .1. 3.2. 3.3. 3.4. 3 .5. 3.6. 3.7.

Diottrica e catottrica. Il chiasma La quintessenza dei cinque sensi Iterazione e alterazione Doppio senso Visioni e fantasmi Che cos'è una allucinazione? Niente nessuno in nessun luogo mai

163 174 182 188 200 204 204 206 210

213 215 219 225 227 229 234 240 240 243 254 262 270 276 282

III. Fenomenologia

285

1. Il dito, la mano, il calamo 1.1. Questo 1.2. Lo strumento assoluto 1.3. Gli animali scrivono?

285 285 288 295

2. Esemplarità dell'esempio 2.1. Idea generale, diagramma, monogramma 2.2. L'imitazione delle regole 2.3. Mostrnosità dell'esempio

302 302 308 311

3. Lo speculativo, ossia la verità dello specchio 3 .1. La sintesi originaria 3 .2. Produttivo e riproduttivo 3 .3. La piega 3.4. L'apriori aposteriori 3.5. Empirismo trascendentale 3 .6. Lo schema del cane

318 318 325 330 333 337 344

4.

350 350 356 362

Omografia 4 .1. L'essere scritto 4.2. L'essere del tempo 4.3. I: essere della sintesi

VII I

INDICE

4.4. 4.5. 4.6. 4.7.

Anima e movimento Linea dello spazio e linea del tempo Ora è notte/ora è giorno Tempo e talleri

366 369 372

4.8. Déjà vu

374 378

IV. Ermeneutica

381

1. Storie dell'ermeneutica 1.1. Linguaggio, scrittura, memoria 1.2. Dall'ermeneutica all'ontologia ermeneutica

381 381 388

2. Critica della ontologia ermeneutica 2.1. Retorica e scienza 2.2. L'essere che può venir compreso è linguaggio? 2.3. Logos e verbum 2.4. Antichi e moderni 2.5. L'allegoria e il circolo 3. La scrittura prima dell'ermeneutica 3. I. Essere e benessere 3.2. È possibile una scienza della scrittura? 3.3. Progetto di icnologia

396

396 412 421 432

437 450 450 455 461

V. lcnologia

469

1. Geroglifico e alfabeto 1.1. La voce della coscienza 1.2. La parola dipinta 1.3. La religione dei geroglifici: fede e sapere 1.4. Oralità primaria e alfabetizzazione secondaria? 1.5. Il gesto e l'ideogramma 1.6. Il nome

469 469 476

482 489 500 508

2. Grammatica trascendentale 2.1. Simonide e Theuth 2.2. Reslverba 2.3. Il logo e il luogo 2.4. Storia della associazione di idee 2.5. Genesi e struttura

514

528 533 537

3. Punto, linea, superficie 3.1. Stigmè 3.2. Grammè 3.3. Chora

545 545 550 560

Bibliografia Nota al testo Indice delle nozioni Indice dei nomi

573

514 520

625 627 631

IX

This is too long. lt shall to the barber's, with your beard.

POLONIUS:

HAMLET:

Hamlet, atto Il, scena II

INTRODUZIONE

1. I: estetica come filosofia prima Chi ha incominciato (''ora'', "qui", in realtà: lz~ e non so se e quando) a leggere questo libro (in realtà, quello - o, più esattamente, codesto - un altro e, molto probabilmente, non questo), ha già compiuto varie operazioni sia estetiche sia logiche. Per esempio, l'ha visto e ne ha riconosciuto, con una sorta di inconscio numerare, il colore (qualità, anticipazioni della percezione) e la forma (quantità, assiomi della intuizione); ha assunto (awalendosi dello schema del concetto empirico di libro, che d'altra parte non ha alcuna somiglianza morfologica con la parola libro e - come i pathemata di cui è questione nel Peri' hermeneias - si mantiene costante in biblion, liber, livre, book, Buch ecc.) che non si tratta solo di un solido di cellulosa, né meramente di un supporto su cui c'è dell'inchiostro; ha supposto che, sotto l'apparente molteplicità delle copie, ci fosse una identità logica, di modo che il libro che legge lui è lo stesso che ho scritto io; ancor prima, in libreria, non ha sospettato (mentre a fil di logica avrebbe potuto benissimo farlo) che il libro datogli dal libraio e quello che ha preso lui fossero due (libro dato/libro preso), ma uno; né, a casa, ha dubitato (ciò che di nuovo sarebbe stato del tutto legittimo da un punto di vista logico) che, una volta preso il libro, ne restassero - di principio - in circolazione altre copie (ciò che, per l'appunto, non è owio per il principio della identità degli indiscernibili); infine, come ogni lettore, ha supposto che le lettere, riconoscibili con l'occhio, avessero anche da fare con un significato che rinvia piuttosto ali' ambito discorsivo, cioè alla logica. Ma questo momento appare in fondo l'ultimo di una catena più lunga, e per molti versi più interessante. Anche per questa diversa vicenda è intervenuta una scrittura, e una tabula rasa che ha accolto l' eidos del libro senza la hyle (leggere un libro, e magari, come si dice, "divorarlo", non è mangiare veramente: e vedremo che cosa ne vada in questo veramente, quando dawero si mangia), ne ha silenziosamente

INTRODUZIONE

contato quantità e qualità, lo ha determinato come presente, e ha stabilito che era nel presente, ossia in un qui e in un ora che non è quello in cui sto scrivendo. Queste circostanze, per esempio, possono costituire l'oggetto di un libro di estetica? È una tesi su cui è difficile trovare un consenso. Se pochi pensano che "pneumatico" non indichi solo la ruota di un'auto, ma anche ciò che è attinente allo spirito, per un processo analogo - e, nei suoi termini, inverso-, non molti di più considerano che l'estetica ha di mira, piuttosto che l'arte, l'aisthesis, cioè la sensazione. Questo riferimento permane al più come un fossile etimologico, insomma come una bizzarria di antichi, che non sono veramente tali (se si pensa quanto moderna sia la nascita dell'estetica). Sicché per pochissime scienze, forse per nessuna, succede che si sorvoli sulla stranezza per cui una disciplina nata per un fine (lo studio della conoscenza sensibile perfetta) prosegua verso un'altra destinazione (la filosofia dell'arte), che in prima istanza non le è prioritariamente collegata. Tanto più che la metamorfosi ha la fisionomia di una regressione, quasi che si assistesse a un passaggio dalla astronomia alla astrologia, e dalla chimica ali' alchimia. Suonerà come aggravante la circostanza per cui anche la sua storia è una disciplina con larghi margini di fantastico: chi la fa incominciare con i Greci (ma in forma innominata); chi invece col "moderno" (rinascimentale o barocco o illuministico o romantico). Per questa via, esporre la storia dell'estetica incominciando dai Greci e dai Romani si riduce di necessità al racconto squilibrato (e il cui unico concorrente possibile è il messianesimo) di 2300 anni di "precorrimento", di poco più di mezzo secolo di vita (dalle Meditationes di Baumgarten alla Kritik der Urteilskraft), e di un terreno forse troppo fertile, benché vago e postumo, tra la romantizzazione del mondo, il mondo divenuto favola e, tutto al contrario, Hegel assassino dell'arte. Insomma, si adotta a oltranza il metodo del precorrimento: che è per l'appunto il modo in cui il messianesimo entra nella storiografia. Ma proprio perché nell'antico si può trovare la premessa di qualsiasi cosa, fa specie che si debba considerare nuovo ciò che c'è sempre stato. Se - come è pacifico - si sono sempre scritte delle precettistiche d'arte, perché la decisione di fondare una estetica è così tardiva? E perché incominciare la collezione con i Greci e con i Romani e non, poniamo, con gli Assiri? Qui è evidente che, col pretesto di trovare i germi dell' estetica, si ricalca nulla più che una storia del classicismo, rivelando il predominio dell'impianto poetologico sia nel fatto sia nel diritto. Certo, l'ipotesi della nascita moderna dell'estetica è la scelta prevalente (nel quadro di una tranquilla assunzione della superiorità dei moderni sugli antichi). Ma in questa opzione non si chiariscono né il significato di "moderno" (appunto: rinascimentale? barocco? illuministico? ro-

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INTRODUZIONE

mantico?), né i caratteri originali di una riflessione che sfocerebbe nella nascita dell'estetica. È poi abbastanza prevedibile che, se si ignora l'identità di una disciplina, chiunque può averla fondata. Appare perciò perfettamente problematica la versione di una estetica battezzata da Baumgarten, cresimata da Kant su base "trascendentale" (l'abuso del nome segnala talvolta la perplessità sulla cosa), e perfezionata da Hegel tanto bene dariceverne l'estrema unzione. Per Baumgarten, i sensi giudicano, dunque nella bellezza c'è pensiero, ed è su questa base che si giustifica una scienza della conoscenza sensibile. Per Kant, i sensi non giudicano, per l'ottima ragione che non pensano; dunque, una scienza della conoscenza sensibile, cioè appunto una estetica nel senso di Baumgarten, è una pura contraddizione in termini. Per Hegel, la bellezza si salva non perché sia la perfezione del fenomeno, ma in quanto è l'apparire sensibile dell'idea, e si restringe perciò a quell'ambito in cui il giudizio umano può concretarsi in opera. La patologia dell'estetica consiste dunque nel fatto che un tentativo, breve e storicamente da gran tempo esausto, la filosofia dell'arte, sia stato assunto come definizione normale della disciplina, così da procurare una convinzione tanto più dogmatizzata quanto meno indagata. In sede di introduzione cercheremo, in modo del tutto preliminare, di rispondere a tre domande la cui correlazione non pare evidente, ma che, secondo l'ipotesi che regge questo libro, risultano strettamente connesse. La prima, è di tipo puramente pedagogico: ciò che solitamente si chiama estetica, ossia la filoso/i.a del!'arte, può essere insegnato al!'università? Il quesito non verte sulla legittimità di un discorso generale sull'arte bensì sulla liceità di farne loggetto di un corso di studi superiori: il che non è garantito, ove si dimostri che la filosofia dell'arte è soltanto una propedeutica, che si serve della sensibilizzazione delle idee nelle opere (d'accordo con l'argomento hegeliano che normalmente presiede alla giustifìcazione di una tale filosofia) per portare dalla contemplazione di nozioni concrete alla comprensione di princìpi astratti. Si tratta, insomma, di stabilire se l'estetica possa assumere la forma di una scienza (lasciandone per il momento impregiudicati i contenuti). La seconda domanda verte invece sulla possibilità di un'estetica alternativa alla filosofia dell'arte, e suona: che cos'è una estetica razionale? Qualcosa del genere corrisponde forse, lo abbiamo incominciato a vedere, al concetto baumgarteniano di estetica. Da molto tempo essa non costituisce più un tema affrontato nei corsi di estetica (parlando in generale), ed è migrata piuttosto in domini diversi, siano la percettologia, la fenomenologia, la psicologia, o la filosofia della mente. Owiamente, se lestetica come filosofia dell'arte rispondesse dawero alle esigenze di un insegnamento superiore, e non fosse semplicemente una allegoria, non ci sarebbe alcun

INTRODUZIONE

motivo speciale per riesumare vecchi sensi; se tuttavia, come crediamo, la filosofia dell'arte ha molto più passato che non futuro, allora la via di una estetica razionale merita di essere battuta. La terza domanda sembra particolarmente irrelata: Cristo è veramente risorto? Ora, cosa c' entra la resurrezione con lestetica, vuoi come filosofia dell'arte vuoi come estetica razionale? Ma che la domanda appaia eccentrica o impertinente consegue forse da una serie di abitudini sedimentate che conviene rimettere in questione. Intanto, la filosofia dell'arte non è affatto distante dalla teologia e dalla rivelazione; avremo modo di vederlo dettagliatamente nel corso del nostro lavoro, ma basterà intanto richiamarsi ad alcune evidenze. Noi siamo tutti disposti ad ammettere che l'arte sia anzitutto e per lo più manifestazione sensibile dell'idea, ossia rivelazione; e ammettiamo anche che ciò che per lungo tempo fu arte sacra divenga oggi arte senz'altro, giacché saremmo in un mondo secolarizzato. Tradotta in altri termini, questa considerazione significa: ciò di cui si parla sotto il nome di arte è il dio che si è fatto carne. Le stesse considerazioni si possono svolgere (ci ritorneremo estesamente) per l'identificazione, così usuale nella nostra epoca, tra essere e linguaggio. Anche in questo caso, il linguaggio può farsi autonomo deposito dell'essere proprio perché si intende la parola come un verbum che non è solo parola, ma corpo e sangue di Cristo. È abbastanza sorprendente che questa assunzione religiosa - impegnativa per tutti coloro che dicono che l'essere che può venir compreso è il linguaggio - possa andare di pari passo con la tesi, propagata dalla riflessione sul nichilismo, secondo cui Dio è morto. In realtà, come sempre nel mito, i due aspetti possono ben convergere: Dio è morto, la realtà si è fatta evanescente - o, più esattamente, non ci sono più valori-, ma un qualche essere resta nel linguaggio e nella storia; discorrendo, noi dunque non ci misuriamo con una successione di parole, ma con la vera presenza di ciò che ha ormai cessato di reggere l'universo. La domanda se Cristo sia veramente risorto - lasciando da parte il quesito, che non è estetico, bensì scientifico e teologico, che verte sullo stabilire se Cristo sia risorto o meno - mette in questione ciò che di specificamente e di insurrogabilmente estetico sta in questo "veramente risorto", ossia il legame che unisce, secondo la maggiore tradizione filosofica dell'Occidente, la verità, la presenza, la sensazione. 1.1. Si può insegnare estetica all'università? Venendo al primo interrogativo. Fino a che punto è pensabile una progressione continua nell'estetica come filosofia dell'arte, che sia affine a quella della matematica per cui, partiti da proposizioni alla portata di tutti, si giunge ad altre che possono essere intese solo da due o tre persone al mondo? E una scienza che non contempli questa possibilità, può essere considerata altrimenti che come una propedeutica? Ora, se la filosofia si occupa, po4

INTRODUZIONE

niamo, di football, non c'è di principio nulla di male: non solo per l'aneddotica che riferisce dell'ammirazione di Heidegger per Beckenbauer, ma anzitutto per una vocazione enciclopedica che definisce l'identità della filosofia da Aristotele a Hegel. Eppure, quando Hegel, diciassettenne, enuncia il principio secondo cui ogni filosofo dovrebbe avere una preparazione sulla enciclopedia del sapere, non sta probabilmente pensando al calcio, sebbene a quell'altezza coltivi una idea molto più eclettica della enciclopedia, direttamente modellata sull'impianto di Diderot e d'Alembert; ed è per l'appunto significativo che trent'anni più tardi, dopo avere iniziato i corsi heidelberghesi sulla enciclopedia, non dovrà sollevare nessun dubbio preliminare su alcuno dei suoi lemmi, tranne che per l'estetica. Il fatto è che, se di tutto ci può essere una idea, resta ancora il problema di sapere se ci debba essere una idea di tutto, e poi se valga la pena di studiare anche le inezie (la strage delle illusioni, di volta in volta diverse: di Pan, di Amarilli, dei boschi sacri, ma anche dei fumetti e di James Bond e Maradona). È significativa la sproporzione fra le trattazioni scientifiche e le volgarizzazioni in estetica: quasi che esistessero soltanto queste ultime; e sarebbe difficile segnalare un libro di estetica che abbia davvero cambiato qualcosa nella filosofia (la sola eccezione è forse rappresentata dalla Estetica di Croce, che difatti ha incamminato - o cresimato - molta filosofia italiana nel senso della pura retorica). Quando Baumgarten (Aesthetica, § 127), citando Orazio, scrive che argomenti quali il vincitore di pugilato, il cavallo che arriva per primo, gli affanni d'amore, le allegre bevute, offrono molto a un medio ingegno estetico, osserva altresì che non mette conto né vale la pena di esaminarli con esattezza scientifica. E difatti rileva (ivi, § 42) che può esserci un ingegno bello che a torto abbia trascurato la ragione, e inversamente un ingegno filosofico o matematico che abbia trascurato l'analogo sensibile della ragione, ma che, se può ben darsi che un ingegno bello possa risultare inetto al ragionamento, è impossibile che un ingegno nato per le scienze esatte non sia in grado di bellezza. Così (ivi,§ 43 ), Orfeo, Platone, Aristotele, Grozio, Cartesio, Leibniz conciliarono la disposizione a pensare sia bellamente sia solidamente. Ma proprio questo è il punto: Leibniz poté escogitare favolette, ma un ingegno capace solo di favolette non può dimostrare il calcolo infinitesimale (ivi,§ 365). Traducendo l'interrogativo nei nostri termini: è ovvio che di tutto si può determinare un sapere, anche se di ben poco si può comporre un sistema; ma la domanda se ne valga la pena verrebbe a significare che di queste conoscenze diffuse - proprio perché sono alla portata di tutti non si può fare l'oggetto di un corso di studi superiori. È fin ovvio che "la realtà in cui viviamo" non è alcunché di specialmente sofisticato, e che l'argomento contro la cultura bassa e l' estetizzazione potrebbe va'i

INTRODUZIONE

lere anche per la fenomenologia della percezione; ma non è così, e lo si può facilmente constatare tenendo d'occhio la sproporzione tra i discorsi di politica, di sport - e al limite di cinema e di letteratura - nei bar e nei treni, e i ragionamenti sulla sinestesia o sulla differenza tra realtà e visione in quelle medesime sedi. Ora, accade spesso di leggere che l'estetica - in un misto di filosofia cieli' arte e di residui inanalizzati della teoria della sensibilità (ciò che si raccoglie per l'appunto sotto il nome di estetica diffusa, di estetizzazione ecc.) - costituirebbe la chiave per accedere a ciò che tutti già sappiamo, al cuore del nostro essere, e di quello che, non senza leggerezza, si chiama il "nostro" tempo. Ma quando Kant raccomanda di rivolgersi verso la fertile bassura dei fenomeni, sta raccontando un topos poetico e scientifico, uguale da Ronsard a Galileo a Eliot a Wittgenstein: dallo strame nascono i fiori, per contrapposto alla improduttività così dei diamanti come delle sfere celesti. Suggerisce insomma che la costruzione apriori possa riempirsi di contenuti, che costituiranno il materiale del sapere proprio come l' apriori ne assicura la forma. D'altra parte, dire che la filosofia è il proprio tempo appreso con il concetto è una nobile sentenza, che però vale solo quando si riesca, come in Hegel, a distinguere l'empirico dall'essenziale, e a discriminare, poniamo, tra i francesi che nel 1807 gli devastarono la casa - interferendo nella composizione e stampa della Fenomenologia - e quegli stessi francesi in quanto interpreti del corso del mondo. Una simile conoscenza del conosciuto - secondo la definizione che Boeckh (1886: 52) diede della filologia - non sarebbe nemmeno scienza di ciò che un tempo si sapeva e che si è dimenticato, ma di quel tanto di saperi spiccioli che tutti, forse in ogni epoca, e sicuramente nella "nostra", possediamo. Tutti siamo veri intenditori di cultura bassa, così come crediamo di avere qualche idea sull'arte; diverso è possedere i caratteri dell'erudito d'arte nel senso hegeliano, che abbisogna di una "conoscenza accurata dello smisurato campo delle opere d'arte individuali antiche e moderne", nonché di una "grande quantità di conoscenze storiche". Queste conoscenze, inoltre, sono ben lontane dall'insegnare a fare arte. La situazione è affine alla insegnabilità o meno della filosofia. Chi conosca il sistema di Wolff, scrive Kant (KrV, B 864-5/A 836-7) con atteggiamento cartesiano, dispone ancora soltanto di una conoscenza storica, e non di un sapere filosofico. Dal punto di vista teleologico, però, l'insegnamento del filosofare attraverso la filosofia serve a formare nuovi filosofi., che si esercitano in una attività, essendo il pensiero spontaneo. Da questo medesimo punto di vista, l'apprendimento dell'estetica appare quanto mai problematico perché, se si desse una genialità (cioè qualcosa di tecnologico e di inventivo) nell'estetica, un simile talento risulterebbe filosofico e non elettivamente estetico. Non per questo il cu-

INTRODUZIONE

mtÙo di conoscenze "specificamente" estetiche apparirebbe in quanto tale propedeutico a suscitare doti filosofiche o artistiche; lo sarebbe nella stessa misura di qualunque altra conoscenza empirica, fosse pure tecnico-amministrativa. Il problema non è tanto se convenga insegnare un'arte, e anche un'arte bella, quanto se si possa insegnare la bellezza. E questa promessa appare tanto più problematica qualora si assuma che il sapere adibito a un simile apprendimento non sia tanto una storia del!' arte o un apprendistato tecnico, quanto piuttosto unafilosofia dell'arte. Ciò che in filosofia è storico e iterativo può certo contribuire a esercitare il giudizio e la produzione, allo stesso titolo di ogni altro sapere; ma ciò che definirebbe lo specifico filosofico, ossia l'inventività, è precisamente l'ininsegnabile: di modo che qui si verrebbe a insegnare l'ininsegnabile (la bellezza) attraverso un altro ininsegnabile (la filosofia). Si dirà che un conto è l'invenzione sensibile di un'opera che si appoggia ad altri esemplari per rendersi a sua volta esemplare (caso o regola, secondo la riuscita), e un altro l'invenzione razionale; ma proprio questo punto è ben dubbio, dal momento che le stesse considerazioni vigono per la filosofia. In filosofia (I' altro ambito, insieme ali' arte, della genialità), oltre a mancare la necessità dell'apparenza sensibile, non ci sono classici, la pietra di paragone essendo la comune ragione umana (Ak, VIII: 218-19n.); ma allora bisogna capire quale sia lo statuto dell'ideale del filosofo. Inoltre, la filosofia, come il genio, non si impara né si insegna, se non nella sua parte storica, che ristÙta estrinseca. Come il giudizio, il genio (dell'artista o del filosofo) è un Mutterwitz che può essere solo esercitato, e non insegnato (secondo la distinzione Mutterwitz/Schulwitz reperibile negli Anfangsgriinde di Meier, § 12) con gli esempi, ossia con casi concreti che, a loro volta, possono risultare nocivi, sia perché distraggono l'attenzione dal generale appuntandola sul particolare (KrV, B 173/A 134) - ossia, procedono dalla regola alla figura-, sia perché, in modo perfettamente inverso, "sono contagiosi" - ossia, tendono ad essere generalizzati (KrV, B 740/A 712). È un argomento cartesiano e platonico (tale è appunto, nel Fedro, la condanna di chi pretenda di curare con i libri, o dello scritto, che ripete una cosa soltanto) secondo un atteggiamento ancipite nei confronti del segno che è ancora ali' opera nella filosofia della storia soggiacente alla Krisis husserliana, dove la strumentalizzazione della ragione, il suo farsi metodo e segno, è insieme causa di distruzione del compito della filosofia e costante riapertura della sua vocazione, dunque riattivazione dell'origine. Ora, scrive Kant, chi ha appreso storicamente non sa passare dal caso alla regola; l'argomento antistorico e antiesemplare è un ammonimento antimimetico. Il filosofo non deve imitare - anzitutto perché non può farlo, giacché un filosofo vero e proprio non c'è mai stato: il filosofo, infotti, è un ideale (KrV, JJ 866-7/A 838-9), e la filosofia (come anche il si-

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sterna in cui la morale compensa sé stessa, KrV, B 838/A 809-10) è solo l'idea di una scienza possibile, di cui non ci sono sinora casi in concreto, ma cui si cerca di giungere affinché la copia (Nachbild'J possa conformarsi al modello (Urbild'). Questa filosofia, dunque, non si impara, non apprendendosi che il filosofare, attraverso l'esercizio del talento (Talent, l'imitazione libera), acuito dalla osservazione di tentativi dati, cioè di esempi. Per quanto si possa lavorare sulla nozione di esempio (infra, III, 2), mostrando che esso eccede sempre se stesso (come nell'ideale del filosofo di cui Kant parla in KrV, B 867I A 839) - così da contribuire positivamente alla definizione della filosofia come teleologia della ragione umana e non solo come tecnica della ragione o filodossia-, resta che questi argomenti, per la filosofia come per larte, si traducono nella giustificazione della legittimità dell'insegnamento di una storia dell'arte o di una storia della filosofia, e non già di una filosofia dell'arte o di una filosofia della filosofia. Non si insegna a fare il filosofo né a fare l'artista; la filosofia del!' arte sarebbe l'ircocervo di due adynata. Si potrebbe certo obiettare che la differenza tra un corso di scrittura (per esempio) e un corso di estetica sta proprio nel fatto che, mentre il primo insegna a produrre, il secondo è un avviamento al giudizio. Già questa formulazione, nella sua posizione positiva, si rivela psicologicamente problematica: chi mai, messo nel!' alternativa, preferirebbe essere critico quando, con un semplice tratto di penna, potrebbe diventare artista? Comunque, anche ammesso che una scelta del genere sia plausibile, resta il problema di sapere in che cosa consista la critica. Il giudizio estetico è tipicamente alcunché di confuso: l'artista (il giudizio essendo il corrispettivo del genio dal punto di vista della ricettività) guarda un'opera, e dice se va bene o no; ma se gli si chiedesse di spiegare i motivi del suo giudizio, dovrebbe per l'appunto invocare un nescio quid. Tutte le difficoltà incontrate quanto all'insegnamento dell'arte si ripresentano, raddoppiate dal fatto che se di principio si può e si deve insegnare ad agire, non si può (perché è vano) insegnare a patire. Kant diceva a giusto titolo che si deve richiedere di rispettare Dio e i propri simili, il rispetto nascendo dall'attività morale; ma che nessuno mai potrà chiedere di amare Dio, perché nessuno può costringere a un'attività patologica, ossia a una passività; velie non discitur, ma, ancor più, nessuno diviene volontariamente come Adolphe. Detto in altri termini, non si può essere comandati alla passività, non si può far forza su di sé in quel punto che è più forte di noi, precisamente perché si è passivi. Difatti, chi mai ha appreso il senso o il gusto del bello dalle estetiche? È come sperare di diventare daltonici studiando. Se si vuol dire che appare lecito, attraverso la coltivazione del gusto, insegnare ad apprezzare i piaceri sensibili, e che questo vale anche per l'arte, è palese che una simile educazione non appartiene alle sfere del-

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INTRODUZIONE

l'insegnamento superiore. La storia e la filologia sono la versione coltivata di una tale educazione, e importano difficoltà tecniche e linguistiche che richiedono un pubblico maturo. Ma l'arte come awiamento ali'assoluto è stata a giusto titolo collocata dall'idealismo - a partire dai programmi scolastici - al livello primario. Anche la moderna religione dell'arte la venera come sovrana e insieme, con sin troppa lungimiranza, la considera il più innocente dei giochi. Che qualcuno dedda (e di rado è solo questione di buona volontà) di fare il romanziere invece che il torturatore, è certo un dato civilmente positivo, ma ancora non assicura che egli abbia "aperto" alcunché. Eppure, per l'appunto, secondo la diffusa dottrina heideggeriana, la scienza si muove nel già aperto: mentre l'arte, la religione, la politica aprono e fondano. Non è però difficile rilevare il dislivello tra larte - in quanto categoria generica -, da una parte, e la religione e la politica, dall'altra. Un sacramento e una legge performano regolarmente ciò che solo una rara eccellenza conferisce ali' arte. Se inoltre si assume che quest'ultima abbia un beneficio secondario, che consisterebbe nell'indebolire le strutture dogmatiche della religione, non si capisce in che modo essa possa aprire e fondare. Nella scienza, si è notato - per certificare il deperimento della nozione di adaequatio -, non esiste più il valore di verità come conformità; i quanta - si dice - sono alterati dall'osservazione: dunque non si può sostenere che la verità della proposizione consista nella sua adeguazione alla cosa. Questo è certo vero, però, così come è vero che ci deve essere qualcosa che si sta osservando; senza questa credenza non si capisce perché mai gli scienziati frequenterebbero i laboratori. In genere, se non si ha di mira la verità, non c'è proprio niente che conta, e si può tornare a casa. E se nel Romanticismo si è potuto parlare della fisica come arte, è proprio perché si vedeva nell'arte il modello di un costruzionismo filosofico, non perché la si concepisse come un ornamento domestico. Il libro di Kuhn sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche, che viene spesso citato per corroborare la tesi della storicità e dunque della relatività della scienza, si presta più verosimilmente a letture alternative, e in particolare richiede che si sottolineino due punti. Il primo è che, se dawero lo sviluppo della scienza non segue un andamento lineare, ma si caratterizza per un susseguirsi di cambi di paradigma più o meno bruschi che alterano la geografia della ricerca, allora la scienza si configura tipicamente come una attività "aprente", non meno (e verosimilmente molto più) che larte. Il fatto che Kuhn si richiami alla nozione di paradigma, cioè di esempio, accosta la scienza ali' arte sotto il profilo della canonicità - quindi della apertura. Ma una tale apertura (che sarebbe difficile definire come buona in sé) esiste solo nella alterazione di canoni pregressi, dunque non è eslege rispetto alla conformità; e nell'arte (si pensi all'esempio consueto delle avanguardie) le cose non vanavi:açEcr~m indica genericamente "apparire" (e, per Aristotele, l'immaginazione è complessivamente la facoltà onde abbiamo una immagine, anche di un oggetto presente; per esempio De anima, 428b20-25), senza che si postuli primariamente una invenzione deliberata (sino ali' età ellenistica il verbo non conta forme attive, ma solo medie e passive: qualcosa appare a qualcuno). Le vicende della traduzione dal greco al latino rivelano la triplice valenza di cui si è detto. La prima versione è visio (assimilata dunque alla percezione), cui segue in un secondo tempo imaginatio (riferita in prevalenza alla ritenzione obiettiva dell'assente); e infine si impone il calco dal greco, phantàsia, caratterizzato più marcatamente come "fantastico" (phantasia somnialis, phantasia diabolica, phantasù:z poetica); così, Cicerone (Academica, 1, 40; 2, 18) per primo mutua il nome greco, esponendo la filosofia di Zenone: "ille phantasia, nos visum". È però chiaro che non si può decidere se l'immaginazione sia vera o falsa in base ai nomi con cui la si chiama. Se l'appello alla visio e l'identificazione della immaginazione con la percezione presente cade presto in disuso, l'alternanza tra immaginazione e fantasia comporta sovente una inversione di polarità, onde la immaginazione può designare l'escogitazione vana o la chimera poetica, e la fantasia la ritenzione obiettiva, assimilabile nei fatti alla memoria. Tipicamente, nel Settecento, nel quadro di una cultura comune e nel giro degli stessi anni, imaginatio è per il Wolff della Psychologia empirica quella potenza riaggregatrice che per il Baumgarten della Metaphysica è la phantasia. Se - di là da queste caratterizzazioni, che si rivelano dipendenti meno da una tipologia delle funzioni psicologiche che non da una dottrina dell'essere e della verità - ci sforziamo di definire il tratto che le accomuna, ci imbattiamo nel momento della registrazione, operante nel presente, e declinabile al passato, come ritenzione, o al futuro, come attesa. Una tale ritenzione sembra sopraordinata alle funzioni intenzio70

ESTETICA

nali. Nel De memoria aristotelico si legge (453a20-31) che la fantasia si esercita in massimo grado negli atrabiliari (i melanconici): simile al moto di un proiettile che prosegue anche quando il motore non sia più in atto, l'umore seguita nella sua agitazione in assenza delle cause originarie, come è pure nel caso delle immagini oniriche o di canti e discorsi che tomino alle labbra involontariamente. La phantasia è dunque ciò per cui sorge in noi una immagine, però un tal sorgere è assicurato da una ritentività primaria su cui Aristotele insiste così nel De anima (ad esempio, 428a7) come nei Parva naturalia e nel De motu animalium, sino alla definizione di stampo humeano della Retorica (1370a28-29), che la qualifica come "sensazione indebolita". In questo senso, l'immaginazione, correlata quando non identificata con la memoria, risulta trasversale rispetto alle partizioni uomo/ animale, così come tra animale e animale (Labarrière, 1984: 24). Si potrebbe certo proseguire l'analogia con il sistema sensol/aint imagelidea; ma la prospettiva aristotelica, benché fenomenologicamente parallela, è meno elementare. Nel De insomniis (459a15ss.), leggiamo che la phantasia è uguale all'aisthesis per numero, ma distinta nell'essere, giacché, diversamente dagli aisthemata, i phantasmata non avrebbero hyle (De an., 432a9-10), e terrebbero il luogo delle sensazioni quanto alle funzioni dell'anima dianoetica (De an., 431al4-15). Per Aristotele, l'appello alla identità numerica (che è anche la norma della relazione tra il senso e il suo organo, per esempio in De anima, 425b27 e altrove) è comunque subordinato alla differenza ontologica, che appare sempre l'elemento discriminante. Il problema è però che, non meno che i phantasmata, gli stessi aisthemata colgono un eidos senza hyle; dunque, sul piano dirimente della ontologia, non sussiste una distinzione cogente tra sensazione e fantasia (ciò che sta per l'appunto alla base della nozione della fantasia come percezione presente). Questo discrimine, benché Aristotele non se ne riveli consapevole, non tiene neanche secondo il tempo, dal momento che la phantasia (in quanto facoltà della sintesi, che si specifica nella KOtVlÌ a'icn'1rimç; infra, II, 1.2) è la: causa della percezione della temporalità, di modo che la stessa funzione che può essere divisa in passato, presente e futuro, è la causa del riconoscimento di quelle tre modalità temporali - con un palese effetto circolare. Se la distinzione secondo il tempo è problematica, non lo è di meno, per quello che si è detto, la discriminazione secondo l'essere della immagine. Sotto il profilo ontologico, non c'è un tasso di essere sensibile maggiore nell' aisthesis di quanto non ce ne sia nella phantasia o nella noesis; al massimo (ma questo già non ha più da fare con la ontologia, se non nella forma dell'essere degli universali) inrontriamo gradi crescenti di astrazione. li problema è un altro: posto che il vero essere sia quello che si vede o ~i tocca, quale tonalità ontologica avrd>hero .le sensazioni, le immagina'Il

ESTETICA RAZIONALE

zioni e i pensieri, che si assimilano ontologicamente tra loro ben più di quanto l'oggetto sentito non assomigli alla sensazione - e di quanto aisthema, phantasma e noema non si richiamino tra loro morfologicamente? Quale statuto d'essere ha questa typosis che d'altra parte è l'unico testimonio dell'essere? La preoccupazione di Baumgarten, di dissimilare i figmenta (ossia le aggregazioni fantastiche) in ortocosmici (possibili nel nostro mondo) ed eterocosmici (possibili in un altro mondo), sorge dalla persuasione, ben chiara nei Nouveaux essais, che la coerenza ontologica non risulti da una genetica della traccia, bensì dalla pragmatica della sua aggregazione, e in particolare dalla sua conformità o meno al principio di ragione. È, in altri termini, una ratio, o un logos, che si fa garante della veridicità della provenienza ontologica della immagine molto più di quanto lo possa fare la sensazione - che è a sua volta presa nel circolo della ritenzione senza poter risultare dirimente. Ma l'aporia della temporalità vale altresì per la razionalità che, configurandosi come una aggregazione di tracce (!'anima non pensa mai senza immagini), appare sovradeterminata dalla immagine, prima di poterla determinare. I problemi platonici nei confronti della mimesis, così come l'alternativa tra iconoclastia e iconodulia, illustrano con chiarezza questa situazione. Nel primo caso, l'imitazione deve essere proscritta attraverso l'istituzione di un ordine ontologico che la pone come terza. Nel secondo, l'uomo è eikòn di Dio (I Cor 11,7: "vir quidem non debet velare caput quoniam imago et gloria [Septuaginta: etJCCÌJV K, l'ape operaia conosce questi fiori in quanto stami, e che, d'altra parte (on the other hand>, conoscendoli come "questi" e come "in quanto", non conosce la pianta in quanto tale, né dunque gli stami in quanto tali. Il tono del ragionamento non si discosta di una virgola dai controsensi di Locke, se si aggiunge inoltre che, nel medesimo giro di frasi, la superiorità dell'uomo risulta definita in termini tecnologici (conoscendo le radici delle cose, per esempio di quella pianta di cui l'ape conosce solo gli stami, l'uomo è formatore di mondo). Che l'uomo muoia e l'animale deceda fa sistema con l'elogio del lin1waggio in quanto proprio dell'uomo e con la concezione della umanità come origine della storicità. Di per sé, si tratta di una assunzione legittima, giacché la pretesa di attribuire agli animali anticipazione della morir, linguaggio e storicità, può suonare antropocentrica - ed è per esempio in questo senso che va vista la sostituzione dell' analogon rationis rnn la teleologia nella Kritzk der Urteilskra/t. L'asserzione suona però dogmatica quando non una riga viene devoluta agli antefatti animali e 1\,·n..:ralmente biologici della traccia. Il punto non è di dettaglio, e semhra illuminare, da solo, l'intero presupposto della filosofia heideggeriallll, che, al tempo stesso, si qualifica come rivendicazione del sensibile e tld finito contro delle presunte astrazioni - e poi si caratterizza in tutto 1• per tutto come una filosofia dello spirito, tanto più insidiosa perché 1·sdude che un tale spirito, in quanto possibilità di astrarre e di afferrai\', sia prerogativa di altri esseri che non siano l'uomo.

I. l. Gli animali scrivono? Aristotele non esita ad attribuire la herme111'ÙI anche agli uccelli (/)I' 1111., ·l?Oh 10°19; Perì zoòn morz'on, 660; infra, IV, l.1 ), e c'è luogo di sos11•111•1 ,. l'ill' proprio perché ha una mano (ossia

ESTETICA RAZIONALE

può afferrare) una scimmia è capace di pensiero e di linguaggio. Seguendo questa inflessione, i wolffiani attribuivano perciò ai bruti non solo la percezione, ma altresì lappercezione: anche un'ostrica capisce se la si vuole aprire; ossia, insieme, sente la percezione, la iscrive sulla tabula, e forma un ragionamento, attribuendo la sensazione a sé. Si tratta di un luogo comune settecentesco. Nel già citato Essai de psychologie di Bonnet, si tratta (1755: 3 37) di un sentimento confuso dell'esistenza che costit.uisce il punto più alto cui possa ascendere lanima di un lamellibranchio. Se questo è vero, però, l'ostrica e i celenterati appaiono meno spirituali non perché siano più sensuali, bensì in quanto, avendo meno memoria, lo sono di meno. Lo si può vedere anche nel già citato Cours abrégé de la philosophie wolfienne en forme de lettres (1743-47) di Jean Deschamps, pastore protestante tedesco, allievo di Wolff e precettore dei fratelli di Federico II. Una epistola (II, 2: 328-344) tratta dell'anima delle bestie. Aggiornando la discussione con testi come De l'Ame des Brutes (1737) di Bouiller, o Amusement philosophique sur le langage des bestes (1739) del gesuita Bougeant (che sono discussi alla voce "Ame des betes" della Encyclopédie di cui si è detto; supra, I, 2.6), Deschamps conviene con i cartesiani sul fatto che i moti volontari degli animali possono essere l'effetto di un semplice meccanismo corporeo, ma non ne trae la conseguenza che i bruti siano senz'anima. L'analogia (che è un argomento probabile) tra la conformazione esterna dell'uomo e dell' animale può anche valere per la costituzione interna. Sulla base della analogia, si può concludere che i bruti abbiano un'anima distinta dal corpo, possedendo degli organi sensitivi, sia pure meno perfetti che negli uomini. Ovviamente, ci sono bestie più difettive, che hanno meno di cinque sensi - ostriche, lumache, mosche, formiche e altri insetti hanno il solo tatto (Perrault ha infatti dimostrato che non hanno occhi). E, nondimeno, anche questi bruti infimi hanno un senso interno (sentiment intérieur de leurs perceptions; ivi: 332). Ecco il punto decisivo, su cui giova fermare lattenzione: l'ostrica si accorge che la si vuole aprire. Da questa autocoscienza grossolana conseguono, in breve, sia la natura sia la storia: la stessa autoevidenza del cogito non è meno dipendente dalla memoria di quanto non lo sia la primitiva appercezione dell'ostrica, che non è probabilmente concetto o coscienza, ma è già comunque scrittura. Deschamps fonda la sua affermazione affidandosi alla testimonianza di Duns Scoto. Ora, già Wolff (Psychologia rationalis, § 769) si richiamava a lui per attestare che le anime dei bruti sono indistruttibili; ma, di là dalla resistenza o meno, è importante rilevare che per Duns Scoto tutto incomincia con la memoria. Con esplicito richiamo aristotelico, la gerarchia - che ascende dalle bestie dotate di memoria sensitiva a quelle dotate di prudenza (instinctum providendi pro futuro: lanalogo della ragione come attesa di casi si-

FENOMENOLOGIA

mili, la pronoia aristotelica e la providentia stoica), e culmina nella disciplinabilità, che consegue dal possesso dell'udito - ha un duplice valore: da una parte, il momento fondamentale sta nel primo stadio (o più esattamente in quella che appare come la possibilità di ogni stadio), per lappunto nella memoria sensibile che si può identificare con la scrittura; d'altra parte, il linguaggio (come competenza passiva) viene da ultimo, e può anche non esserci senza che per questo l'animale risulti imprevidente. Avere un orecchio è solo un modo per farsi disciplinare; possedere una scrittura, che consegue dalla memoria, significa invece aver scienza. Non sembra sorprendente che una dottrina del linguaggio concluda sul moralismo, mentre una dottrina della scrittura conclude sul sapere. L' afferramento come forma della ritenzione precede, definendone la possibilità, così I'aisthesis come la noesis: non solo il pensiero, ma anche la sensazione è come la mano (De an., 432a2ss.), giacché, nell'uomo come nell'ostrica, afferra la forma senza la materia; e in difetto di afferramento è dubbio che si possa parlare di aisthesis, giusta l'argomento che, come si è accennato; Platone sviluppa nel Filebo. Significativo è che una confusione del genere sia possibile: il ritenere viene prima del percepire, rendendolo atruabile. Ora, è vero che la mano afferra le immagini senza essere essa stessa immagine, ma è pur vero che Aristotele parla di rTòoç riòrov, giocando sulla duplicità sensibile-intelligibile dell'eidos, così come è vero che il tatto ha sede nella pelle, dunque anche nella mano, ma non è la mano, e che la visione non è !'occhio. Qui non è solo questione di percettologia e, soprattutto, la percezione è sempre più di ciò che talora se ne crede. Ne va della ontologia: Aristotele continua a far valere, anche per il rapporto tra anima e forme, l'identità numerica e la differenza ontologica che si era stabilita sin dal rapporto del senso col suo organo. La regola della identità, allora, non è nel concet10, ma, anche in questo caso, in un terzo sopraordinato alla distinzione Ira sensibile e intelligibile, ed è resa possibile precisamente da questa ritenzione fondamentale. (Gli animali, infatti, possono non avere con intc>rmcdia deve essere pura (senza elementi empirici) e, tuttavia, per 1111 1•1•1·rn intellettuale e per l'altro sensibile: essa è ~lii

ESTETICA RAZIONALE

lo schema trascendentale" (KrV, B 177/A 138). La sola correzione che suggeriamo consiste, in base ai ragionamenti svolti nella "Fenomenologia", di pensare lo schema prima del concetto. Ma, per chiarire il punto, proprio il rapporto tra geroglifico e alfabeto diviene dirimente. Il capitolo primo del sesto libro dello Advancement of Learning di Bacone discorre, fra l'altro, di geroglifici, in una prospettiva che separa nettamente (e, in realtà, problematicamente) l'ambito geroglifico da quello linguistico. Quest'ultimo è devoluto alla sola trasmissione di cose che sono già state inventate, dividendosi in Grammatica (aristotelicamente, con riferimento ai Topici e al Perì hermeneias: arte della espressione, sia orale sia scritta, delle affezioni presenti nell'anima; per Bacone, conforme all'impianto aristotelico, la grammatica è l'organo del discorso), cui seguono il Metodo (logica, ma anche dispositio retorica) e la Illustrazione (elocutio). Prima dell'arte della trasmissione, ossia nell'ambito che retoricamente si colloca al primo atto, della inventio (ma che, in un impianto aristotelico, rientrerebbe comunque nell'Organon), si trova una dottrina delle notae "which carry a significa tion without the help or intervention of words" (w, IV: 439). Queste notae si costruiscono secondo due vie: ex congruo, per analogia col significato: sono i geroglifici, o i gesti come geroglifici transitori; ad placitum, e sono i real characters, che non hanno alcunché di emblematico, risultando in sé sordi come le lettere, e adoperandosi (come i caratteri cinesi) quale veicolo di comunicazione tra persone che parlano lingue diverse. Come si noterà, il valore di nota appare sopraordinato rispetto alla distinzione tra geroglifico e ideogramma - e in realtà anche rispetto al verbum e all'alfabeto. Su questa scia, John Wilkins, nel suo Essay towards a Real Character and a Philosophical Language, apparso a Londra nel 1668, come pure nel Mercury or the Secret and Swzft Messenger (1641, nuova edizione 1694), ribadisce lo specifico del geroglifico in quanto carattere reale, che esibisce direttamente le cose e le nozioni, e insiste sul linguaggio gestuale, che significa ex congruo, diversamente dal linguaggio il cui senso è convenuto ex placito; e George Dalgarno, nella Ars signorum (1661), osserva che già il muovere il capo o lo scuotere le dita è scrittura (reciprocamente, si può osservare che nelle prime legislazioni greche "la scrittura è una forma d'azione"; Detienne 1988: 14). La distinzione tra geroglifico e ideogramma permane bensì, come distinzione tra natura e cultura, ma è proprio a partire dalla nota che un tal discrimine diviene pensabile. Il fatto che, per la Ars signorum come per la Scienza nuova (capovv. 225-227) e già per ilDe augmentis, la naturalità del geroglifico si illustri, tra l'altro, con l'esempio del gesto in quanto geroglifico passeggero, introduce una perplessità nella distinzione tra natura e cultura. I gesti, infatti, sono davvero solo natura? La prossemica e anche l'esperienza più comune ne indicano la estesa con-

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ICNOLOGIA

venzionalità (non in tutte le culture ci si saluta o ci si esecra con gli stessi gesti: atipicamente, i bulgari muovono la testa dal basso ali' alto per dire "no"). In questo senso, il gesto e il geroglifico non sarebbero la natura nella cultura, bensì, e sin dall'inizio, la cultura nella natura, o meglio ciò che rivela i limiti di questa contrapposizione, e delle discriminazioni che essa coordina, a cominciare da quella tra physis e nomos. Nei Gulliver's· Travels, parlando della lingua equina degli houyhnhm, che pure "non hanno la minima idea di libri e di letteratura" (1726: 221), Swift rileva di aver notato "che la loro lingua dava corpo ed espressione ai loro sentimenti e che dalle parole si sarebbe potuto ricavare un alfabeto più semplice di quello cinese" (ivi: 212). Così pure, Condillac, nello Essai, in un contesto espressamente ricalcato su Warburton, scrive che il geroglifico non è una pittura, ma "pittura e carattere" (§ 129), nel senso che qui si esibisce "una sola figura come segno di parecchie cose". Sulla base del medesimo tropismo, il Diderot della Lettre sur !es sourds et !es muets assume che il gesto non testimoni di un pensiero diminuito (come ritiene Condillac), potendo configurarsi come l'equivalente di una parola in senso pieno. E, nella Psychologia empirica di Wolff, la conoscenza geroglifica non si oppone a una cognizione semiotica di tipo convenzionale, bensì al verbalismo della cognitio symbolica, che è per l'appunto quella "quo verbis tantum enuntiamus" (§ 289). Ma in questa dimensione il geroglifico viene a pareggiarsi con esattezza all'ideogramma (secondo la stessa confusione istitutiva che abbiamo indicato in Leibniz e sin dall' albero delle Meditationes; supra, I, 1.1). Il geroglifico, lo si è visto, non è (né ovviamente mai potrebbe essere) natura, bensì tropismo. Infatti, in Wolff il significato geroglifico è quello per cui una cosa è volta a significarne un'altra(§ 151): è dunque già sempre un significato traslato, composto in forza del principio di ragion sufficiente(§ 152). Ne segue che, orientato dal principio di ragione, il significato geroglifico più perfetto risulta quello che, a parità di condizioni, rappresenta nozioni più generali(§ 153). Del pari, le figure geroglifiche, veicolo dei significati geroglifici, sono segni artificiali (§ 159) che, esattamente come la metafora o il simbolo in Hegel, possono essere sia primitive sia derivate; ed è significativo che la perfezione geroglifica consista per l'appunto nella figura derivata, preposta alla trasmissione delle nozioni distinte, di quelle complete e di quelle adeguate, perché ivi è possibile risolvere (analizzare) le note che le compongono(§§ 164-167), laddove le figure geroglifiche primitive appaiono vicarie. Qui si è descritta la genesi di qualcosa che si oppone al verbalismo perché è intuitiva, ma non è affatto più primitiva del verbalismo o dell'alfabeto. Può certo essere uno strumento secondario di sensibilizzazione per fini mntmonici, 111:1 questa ritenibilità eidetica non segue tanto dal fatto dw il pn111w11101·ia sia più intuitivamente evidente, bensì ~lii

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dalla circostanza per cui è un ideogramma creato dall'arte. Era già il principio mnemotecnico illustrato da Quintiliano (infra, V, 2.2): chi non riesce a ricordare note convenzionali, può utilizzarne di analogiche - lancora per la marina ecc.: in altri termini, si possono usare sia segni sia simboli; ma i segni, se sono foggiati da noi stessi, si ricordano meglio, avendo richiesto un lavoro che corrobora la memorizzazione. In altri termini, non è tanto l'analogia a essere evocativa, quanto piuttosto il farsi consapevole della iscrizione (al modo in cui, a quanto pare e con un gesto davvero platonico, Napoleone scriveva su carta ciò che voleva ricordare e poi stracciava il biglietto). Per questo, prima che lanalogia diretta, può servire la contrarietà, la bizzarria, il controsenso. Così in Wolff: se vogliamo ricordarci l'atto della equitazione, gioverà non già immaginare un uomo a cavallo, ma una donna a dorso di cammello: l'immagine peregrina si imprimerà meglio, e soprattutto la mente sarà attirata non dalla immagine, bensì dal concetto astratto del cavalcare (§ 172). Si tratta, anche in questo caso, di vecchie regole mnemotecniche: nella Rhetorica ad Herennium (III, 22, 35-36), si raccomanda di non fissare i luoghi mnemonici pensando al tramonto, che c'è tutti i giorni, ma alla eclissi, e di privilegiare Io strano, il ridicolo, lo straordinario. Il problema di fondo, nei confronti delle immagini e delle notae, come pure dei geroglifici, non sta tanto nella contrapposizione (difficile da argomentare compiutamente) tra geroglifico, ideogramma e alfabeto, quanto piuttosto nel fatto che l'immagine può funzionare sia come sistema di conoscenza primitiva, che illustra concetti a una umanità non ancora alfabetizzata, sia come conoscenza (ulteriore o anteriore all'alfabeto) in cui si depongono processi (poniamo, 2 + 2 =4) inaccessibili alla umanità semplicemente alfabetizzata, e in ogni caso come una comunicazione che trascende il verbalismo. Che i geroglifici si presentino come un "parlare scrivendo" o "parlare con le cose" è opinione dello stesso Vico (SN, capovv. 225-226, 435), ma la nozione del gesto in quanto geroglifico passeggero opera ben oltre le tematizzazioni esplicite. È significativo che le indagini di Freud abbiano preso lavvio dall'isteria, ossia da una forma di scrittura in cui il corpo è la sede dell'ideogramma in una forma crucialmente simbolica (il corpo è sia se stesso, sia segno d'altro): perciò Freud parla di "simbolo isterico", e si diffonde in un'ampia descrizione della simbolizzazione isterica; inversamente (nel caso clinico dell'uomo dei topi, 1909), il linguaggio della nevrosi ossessiva - che è "solo un dialetto del linguaggio isterico" - sarebbe più facile da intendersi perché non si esprime attraverso il corpo (quanto dire che il logos è un dialetto del geroglifico). A sua volta, il sogno riflette le medesime peculiarità del "linguaggio" iste· rico (e alla interpretazione dei sogni Freud perviene attraverso l'isteria; nello Allgemeines iiber den hysterischen Anfall, 1908, Freud ne ragiona

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!CNOLOGIA

come di una "rappresentazione mimica della fantasia"). Questa mimica, o corpo-linguaggio, viene deformata attraverso i medesimi tropismi che governano le inversioni del sogno: condensazione, identificazione multipla, inversione antagonistica delle innervazioni (un abbraccio si rappresenta gettando indietro le braccia ecc.), rovesciamento dell'ordine cronologico. A loro volta, la psicopatologia della vita quotidiana o il motto di spirito condividono la "logica" del sogno. E ancora nella terapia: il rimosso e il sintomo si manifestano appunto come azione che surroga la parola (Erinnern, Wiederholen und Durcharbeiten, 1914), l'amore da transfert è il tentativo di trasformare in azione ciò che non dovrebbe essere che ricordo (Bemerkungen iiber die Ubertragungsliebe, 1915). All'altro capo di questa tendenza topica a ricondurre l'immagine a puro segno differenziale, che si semantizza in forza della disposizione sintattica (come in una scrittura alfabetica, ma anche in una scrittura geroglifica), sta l'ipotesi tipica, che rinvia più direttamente alla interpretazione del sogno come allegoria fissa, e che si dispiega ermeneuticamente nei libri dei sogni (la smorfia per il lotto, ad esempio). In una aggiunta del 1909 (Freud, 1899: 323), si fa altresì riferimento a costanti antropologiche, quanto dire a universali fantastici; e, in ulteriori aggiunte del 1909 e del 1914 (ivi: 324), Freud ipotizza (ma era già il caso del 1899) una compresenza dell'individuale e del tipico. Questo non deve sorprendere. Come la contrapposizione tra immagine e logos è nel suo fondo ingenua e aproblematica, giacché- come si è più volte ricordato - la mente non è una pinacoteca o un museo, ma un libro che contiene tracce articolate, così lalternativa tra idiomatico e tipico non è che la bipartizione di un codice. Non esiste un linguaggio privato, e anche le significazioni individuali devono avere un valore in codice, almeno per il sognatore; ossia, bisogna che costituiscano, almeno per lui, dei tipi, con un processo avviato sin dal primo atto della iscrizione, quando appunto l'immagine si è trasformata in traccia, ossia si è idealizzata rendendosi virtualmente disponibile per una ripetizione infinita. È in questo senso che John Toland sostiene (Valsania, 1997) che nessuna cosa può essere soltanto sé stessa, e che il centro di una cosa può essere soltanto l'infinito. Nel pozzo dell'anima non c'è immagine che non sia già segno. Il seguito non fa che confermare le conseguenze di questa prima forma di registrazione. Tra le difficoltà che si frappongono alla interpretazione dei simboli onirici sta il fatto che sono "plurisignificanti e ambigui, di modo che, come nella scrittura cinese, soltanto il contesto ci consente di volta in volta l'interpretazione esatta" (Freud, 1899: 325). È una circostanza rimarcata da Dcrrida (e capiamo quanto sia cruciale questa sottolineatura): in una pittografia, la rappresentazione di una cosa (per esempio, un blaso1w lo1t•111it·o) p11ìi venire a designare un nome pro-

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prio, e di qui assumere anche un valore fonetico; così pure nel rebus, dove la raffigurazione pittografica vale appunto come un ideogramma di tipo fonetico (per esempio "reali" ottenuto attraverso la figura di un re e di due ali). Come del pari ha osservato Derrida, riferendosi alla ideografia azteca (1967b: 136-137), non si assiste mai a un superamento della figura per opera del suono, ma a una sistematica compresenza delle due dimensioni. Qui dunque non opera una semplice contrapposizione tra visivo e verbale, sebbene il momento vocalico sembri più prossimo alla coscienza (come nel riferimento al tabù del tetragramma, nella nota del 1911 a Ober den Gegensinn der Urworte). Il sogno è "la raffigurazione plastica del concetto astratto" (Freud, 1899: 373 ), e le "enigmatiche iscrizioni" dei Fliegende Bliitter ne procurerebbero la migliore rappresentazione. "Qua e là si forma un'autentica parola latina, in altri punti crediamo di trovarci di fronte ad abbreviazioni di parole latine e in altri punti ancora dell'iscrizione lapparenza di parti disgregate o di lacune ci maschera l'assenza di significato delle lettere isolate. Se non vogliamo cader vittime dello scherzo, dobbiamo rinunciare a considerarla tipicamente un'iscrizione, prendere in considerazione le lettere in quanto tali e, senza curarci dell'ordine che è stato loro dato, comporle in parole della nostra lingua" (Freud, 1899: 458). Si tenga presente che qui non è in gioco un privilegio esclusivo dello scritto rispetto al suono (come si potrebbe inferire da una concezione riduttiva, di fatto solo empirica, del logocentrismo), se si considera, per esempio, che "ai fini della raffigurazione onirica, lortografia cede di gran lunga al suono delle parole" (ivi: 373). Altrove (Eine Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci, 1910), parlando del sogno del nibbio in Leonardo, Freud ricorda che gli egiziani veneravano una divinità materna con volto d'awoltoio, e aggiunge: "Il nome di questa dea si pronunziava Mut; che laffinità fonetica con la nostra parola Mutter sia soltanto casuale?". Ne segue comunque che, anche ermeneuticamente, bisogna guardarsi dal pensare alla contrapposizione tra onirico e cosciente come a una semplice opposizione tra visivo e verbale: "Il sogno è un indovinello a figure di questo tipo, e i nostri predecessori nel campo dell'interpretazione del sogno hanno commesso l'errore di giudicare il rebus come una composizione pittorica" (Freud, 1899: 257-258). Ossia, hanno scambiato per una tavola iconica quella che è una tavola scrittoria; ma ciò vale solo nella misura in cui si concepiscano (come Warburton, e non come Rousseau) la scrittura e la voce come due articolazioni parallele della traccia. Infatti, in una nota aggiunta nel 1909 (ivi: 1O1) Freud osserva che i libri dei sogni orientali facevano valere la maggior parte delle loro interpretazioni attraverso una mediazione tra significato linguistico e valore visivo: per cui, persasi la conoscenza di quelle lingue, anche il valore ermeneutico dei libri si è fatto enigmatico. Del pari, 506

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altre volte Freud tende a screditare l'ipotesi tipica, che peraltro - come abbiamo visto - accoglie, e con ottimi motivi, sia pragmaticamente sia teoricamente. Ancora una volta, l'empirico è il trascendentale. Che cosa rende trascendentale l'empirico? La ritenzione della traccia, che dal sensibile si fa intelligibile; la meraviglia di un passaggio dal sensibile all'intelligibile che avviene attraverso il sensibile, nel sensibile, esattamente come, in Hegel, la memoria meccanica diventa spirito. La passività che, in sola forza della passività, diviene attiva. Ma come? Di là dalla distinzione segno/simbolo, geroglifico/alfabeto ecc., appare dirimente il valore di nota, quell'elemento del discorso e della scrittura che, lo si è visto, nel Perì hermeneias è reso con symbolon. Quando elogia la caratteristica, Leibniz (Couturat: 98-99) osserva che fa ragionare con poco sforzo, giacché mette i caratteri al posto delle cose, e permette di costruire apriori, come nell'algebra o nell' anaJisi (che della caratteristica non è che una forma ridotta). Qui l'intellettualismo è evidente, perché una simile costruzione, applicata al reale, risulterebbe soggetta alle stesse debolezze del verbalismo. Attraverso le parole, non si arriva a delle definizioni reali, e le definizioni nominali non ci fanno conoscere nulla delle cose. È, lo si è visto (supra, II, 1.5), la tesi di Lambert contro la Metafisica di Baumgarten, ed è il principio della critica alla caratteristica e al costruzionismo metafisico condotta da Kant. Questi, però, propone due tipi di trasformazione rispetto alle notae. Per un verso - lo si è ricordato più volte-, nel § 59 della Kritik der Urteilskraft, contrapponendosi all'uso dei leibniziani, non accoglie la distinzione tra intuitivo e discorsivo come partizione tra esempio e schema da una parte e simbolo dal!' altra, osservando che in tutti e tre i casi abbiamo da fare con un intuitivo (nel senso generico di Anschauung, la intuition di Locke). Per altro verso, nella Logzk (§ 8), osserva che è solo attraverso notae che noi conosciamo le cose (perception, Wahrnehmung, conoscenza reale, ossia conoscenza tout court, giacché la pura intuizione matematica per Kant non è ancora un sapere). Come giustamente si è osservato (Ferrarin, 1996), il problema di Kant è esattamente l'opposto di quello dei leibniziani, non consistendo nel mostrare come dal sensibile si pervenga all'intelligibile, ma, proprio al contrario, come sia possibile che l'intelligibile si sensibilizzi in ipotiposi intuitive. E, tuttavia, la stessa indistinzione che regolava la confusione tra geroglifico e ideogramma in Leibniz opera in Kant, che, da una parte, riferisce il dominio della nota alla conoscenza reale di qualcosa (la conoscenza primitiva e soggettiva, diciamo geroglifica) ma poi - collocando l'esempio, lo schema e il simbolo sotto l'intuitivo in quanto sensibilizzazione di un discorsivo (concetti empirici, concetti puri del.l'intelletto, idee ddln rnµionC') - non tanto fa dell'intuitivo un carattere subordinato al disrorsivo, lwnsl lo assume come un operatore sopraor'•Il/

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dinato. In che modo i monogrammi della immaginazione, cioè gli schemi, ci permettono insieme di sensibilizzare i nostri concetti e di sussumere i percetti, se non precisamente perché le notae prelevate dalle cose e quelle utilizzate per la sensibilizzazione seguono uno stesso principio? Il discorsivo non sarebbe che la differenza dell'intuitivo (sensazione e intuizione), ossia un intuitivo o un percettivo differente e differito, che non si dà mai in quanto tale, non più di quanto noi possiamo conoscere noi stessi come noumeni. Se il monogramma, in quanto nota, è sia il geroglliìco sia l'ideogramma, ci si accorgerà che non c'è mai una conoscenza discorsiva come tale, ma nulla più che un intuitivo differito; e che il verbum non è assolutamente il fondamento della nostra anima, bensì una formazione che si può eventualmente ricavare riflessivamente da un logos, inteso quale rapporto che si esibisce vuoi ideogrammaticamente vuoi geroglificamente, sia come nota intellettuale sia come nota reale. 1.6. Il nome. È ciò che si vede proprio là dove, nella Enzyklopiidie -in una grammatologia che è anche una psicologia e una estetica trascendentale, cioè una riproposizione dello schematismo-, Hegel formula la più potente lode della scrittura alfabetica. Il punto è capitale: perché, se si dimostrasse che c'è una reversibilità del geroglifico nell'alfabeto e dell'alfabeto nel geroglifico, allora apparirebbe chiaro che queste due prestazioni non si pongono come la natura e la cultura -1' ologramma e l'immagine illanguidita e infine astratta-, bensì come le due prestazioni (più sensibile l'una, più intelligibile l'altra) di un'unica traccia che ne aveva offerto, e sin dall'inizio, la possibilità. Riassumendo in estrema sintesi gli argomenti hegeliani, che in prima battuta non potrebbero essere più logocentrici: lo spazio si supera e si conserva nel tempo (dunque, c'è un primato della coscienza e della voce), allo stesso modo che il segno si cancella nella comprensione; ne segue il primato della in'tenzione, anche come intonazione (il tono della voce manifesta - e siamo di nuovo a Condillac - l'intenzione della coscienza); leccellenza della lingua consiste nella sua universalità e semplicità, lessicale e morfologica (le lingue moderne sono più semplici delle antiche); il segno è sempre secondario e derivato, è una parte infima e accidentale della lingua, mentre il linguaggio fonetico è quello originario, rafforzando la primazia archeologica con la superiorità teleologica onde la scrittura alfabetica, ombra della voce, è in sé e per sé la più intelligente, allo stesso modo che l'arte greca appare più aperta ed eloquente del simbolismo incosciente di quella egizia, che rappresenta uno spirito non ancora pervenuto alla chiarezza riflessiva della coscienza. Queste pagine hanno suscitato le penetranti analisi di Derrida (1972: 79), indi di Sini (1981: 32 lss.); ma, su questo punto, ci sentiremmo di

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sottoscrivere il rilievo che Kobau (1993: 261ss.) ha mosso a Derrida. La macchia cieca dell'hegelismo non risiede nella professione fonocentrica per cui si elegge la superiorità della scrittura alfabetica (ossia della pretesa trascrizione della voce), giacché il vantaggio, per Hegel, è di tipo puramente economico e storico: una cultura in cui si inventano molte cose, cioè altrettanti nomi, non può permettersi di muoversi incrementando gli ideogrammi, perché accrescerebbe enormemente I'enciclopedia, allungando senza fine gli anni che i mandarini sono costretti a devolvere allo studio della loro scrittura. Dicendo che la scrittura alfabetica è in sé e per sé più intelligente, dunque, Hegel non sta affatto lodando il logos in quanto verbum, e lo si può constatare facilmente se si considera che chi, per esempio, dichiarasse che le cifre arabe sono superiori a quelle romane, e queste a una numerazione in cui ogni numero venisse designato con una immagine diversa, non encomierebbe la parola - dal momento che i numeri funzionano tanto meglio in assenza di verbum, e anzi possono prescinderne interamente - ma semplicemente tesserebbe un elogio della economia: dell'astrazione, nel migliore dei casi. Ma, precisamente, di una astrazione economica, ed è proprio qui che si giunge al problema che, tipicamente, non pare rilevato da Hegel non più di quanto lo fosse presso Leibniz. Che cosa è più astratto di un ideogramma? Non c'è bisogno di lingua, e, se è ben formato, non dà adito ad ambiguità di sorta, al punto che i caratteri della logica simbolica- che in questo è leibniziana e non kantiana - sono parenti molto più prossimi degli ideogrammi di quanto non lo siano dei segni alfabetici, benché ne mutuino talora le forme, con una convenzionalità portata alla seconda potenza. Dunque, il beneficio dell'alfabeto è piuttosto estetico che logico, proprio perché, come si è detto, fa economizzare quella forma della estetica trascendentale che è il tempo (Dio non avrebbe alcun motivo per preferire l'alfabeto). Ma la possibile completezza finale della perfezione logica dell'ideogramma è, al tempo stesso, una eccellenza estetica, ossia corrisponde alla esattezza della cognitio intuitiva. Il difetto dell'ideogramma consegue precisamente dalla circostanza per cui l'idea che espone può non essere evidente e va studiata. Se questo è vero, allora, il miglior ideogramma non sarebbe qualcosa come un geroglifico? Prescindendo dalla considerazione, che abbiamo segnalato, per cui in effetti il geroglifico non è affatto una immagine così diretta come talvolta si crede, potendo benissimo fungere come segno alfabetico, proprio questo punto fa sì che non solo l'alfabeto giunga a maturità logica nell'ideogramma, ma che l'ideogramma conosca la sua eccellenza estetica nel geroglifico. Alla luce di queste coordinate, apriamo il testo hegeliano. Alla fine dello Zusatz al § 459 della Enzyklopiidie, quello che più radicalmente afferma la superiorità (e la eterogeneità) dell'alfabeto rispetto al geroglifi('(), I h•g1•I oss1•rva che tra i limiti dei geroglifici e in ge~o·>

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nerale delle scritture non fonetiche sta il fatto che essi non procedono per analisi dei segni sensibili, come la scrittura alfabetica, bensì per analisi delle rappresentazioni (quanto dire che si riferiscono all'ambito delle notae e non alla lingua). Proprio in rapporto alla progressione sopra descritta, si precisa che la superiorità dell'alfabeto è di carattere strumentale. Insomma, secondo l'argomento cartesiano, come la mano (simbolo della ragione) sopravanza gli arti degli animali (emblemi dell'abitudine e dell'istinto) poiché è prensile e disponibile, sì da erogare molteplici funzioni, laddove gli organi e labitudine sono adibiti a una sola funzione, così l'alfabeto risulta più duttile del geroglifico. Quest'ultimo, rappresentando una cosa soltanto (ma abbiamo visto il limite immanente a una tale analisi) non può flettersi alle esigenze di una società evoluta, e si conviene a una civiltà immobile e povera di invenzioni come l'egiziana e la cinese. Ora, però, nei tempi moderni, persino cose alquanto sensibili come gli acidi muriatici hanno cambiato nome. È dunque sempre necessaria una lingua per piegarsi alle molteplici necessità di una evoluzione spirituale, che non potrebbe essere registrata da una caratteristica; lalfabeto non ha il difetto del geroglifico, essendo progressivo, ma ne ha il pregio, perché labitudine fa sì che noi non leggiamo la scrittura come rappresentante della voce, bensì guardiamo direttamente allo scritto; il che "ne fa per noi una scrittura geroglifica". La ricchezza di questo Zusatz è considerevole, anche nella sua macchia cieca. Da una parte, Hegel, come già Leibniz, è passato - senza renderne ragione e apparentemente senza nemmeno rilevarlo - dal geroglifico all'ideogramma, dall'egizio al cinese, cioè dalla presunta sensualità africana (quella condannata nelle Vorlesungen iiber die Asthetzk come una parziale incapacità di riconoscere lo spirito in quanto differente dalla carne: come si esemplifica nella imbalsamazione) alla intellettualità dell'ideogramma. Si potrà sempre obiettare che, nella geografia hegeliana, l'impero celeste dei cinesi risulta ancora più arretrato, asiatico e sensuale che il regno egiziano; ma a questo punto si tratterebbe di spiegare perché i cinesi, più vicini al sorgere del sole, avrebbero scritto in ideogrammi, cioè, appunto, con quella forma di caratteristica sofisticata che poté sedurre lintellettualismo di Leibniz, cui, pure, Hegel si riferisce esplicitamente in questo contesto. Inciampo topico, giacché i cinesi costituiscono tradizionalmente la pietra dello scandalo nel sistema della Weltgeschichte: Bain (1884: 19) segnala la loro singolarità nel fatto che in loro la sovrabbondanza orientale di immaginazione si accompagna con una singolare iperbole raziocinante, che li induce a sottoporre la religione degli europei a un esame che la considera "not with reverential regard, but with cold analysis". Ora, Leibniz sarebbe una specie di mandarino occidentale. Il giudizio di Kant (KrV, B 326-327 !A 270-271), secondo cui Leibniz intellettualizza 510

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il fenomeno, ha fatto scuola; ma l'intellettualismo è per Kant e per Hegel (che distinguono sensazione e intelletto) alcunché di molto diverso che per Leibniz, che non li discrimina se non in base ad attributi logici, di minore o maggiore distinzione. Se dunque si può capire in che senso Leibniz identificasse il geroglifico e l'ideogramma, ciò è in prima approssimazione meno comprensibile in Hegel. Nella anacronia che scompiglia il sistema, e nello slittamento non registrato dal percetto al concetto, o più precisamente dalla rappresentazione della cosa alla rappresentazione della idea, Hegel ha dimostrato in re, e apparentemente contro la propria intenzione, che nel geroglifico c'è già - nel concetto sebbene non nel fatto, ossia per una infermità empirica o strumentale e non di principio -1' alfabeto. D'altra parte, come osserva Hegel, la prerogativa multifunzionale dell'alfabeto risulterebbe decurtata qualora (come presso gli antichi e i poco letterati) leggere significasse sillabare, ossia risalire laboriosamente dalle lettere ai suoni e da questi alle immagini mentali. Tuttavia, quella stessa flessibilità che impone l'invenzione di nuove cose, e dunque di nuove parole, suggerisce una lettura silenziosa, dove lo scritto non viene più compitato come una successione di lettere, ma è inteso da una lettura globale che isola nomi; questi ultimi, poi, vengono pensati come nomi e non come immagini mentali. In altri termini, da una parte l'abitudine ci porta a valerci dell'alfabeto come di un geroglifico secondo un processo chiaro nella esperienza più comune: gli errori nella lettura di parole nuove o straniere conseguono dalla forza assimilante dell'abitudine, che è invece la regola e la possibilità positiva di una lettura scorrevole; analogamente, per la scrittura, il ductus, idiomatizzandosi con!' età, importa che molte scritture divengano col tempo delle stenografie. D'altra parte, ciò a cui rinvia !'alfabeto ideografizzato non è- e, lo si è visto, non era neanche nel geroglifico - un eidos individuale né una rappresentazione, ma qualcosa di altamente astratto e intimamente asemantico: il nome. "È in nomi che noi pensiamo" (§ 462, Zusatz; così Proclo, in Crat. XVII: 8: òvOµmu [ ... ] EK')'OVU L.. l '!lllxfiç q>«v'tuçoµÉVTlç): questo significa che la scrittura alfabetica è da ultimo intesa come una scrittura geroglifica che costituirebbe, insieme, la verità del geroglifico e la verità del!' alfabeto: l'ideogramma, infine, o il gramma in generale. L'uomo colto non legge più la scrittura alfabetica come la trascrizione della voce, né come una via per ricreare regolarmente una immagine mentale - dal momento, per l'appunto, che si pensa in nomi e non in immagini. Donde la critica, condotta in questo medesimo Zusatz, delle mnemoniche, le quali, secondo una interpretazione del resto alquanto riduttiva, ricondurrebbero la memorin nnkonica all'iconismo di un teatro della memoria. Il letterato si S{'l'Vl' d1·ll11 srril I nrn come di un perfetto automatismo:

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non ci pensa più; ed è per questo che Wittgenstein osserva che solo nello scolaro che impara a scrivere si vede il lavoro dello spirito. La lettura dell'uomo colto è dunque più vicina alla natura (poniamo, al mito del cacciatore che segue le tracce) di quanto non lo sia il Buchstabieren del principiante; così, Kanisza (1980: 97-98) può a buon diritto sostenere che quando, di fronte alla scritta PS.COL.GIA si legge PSICOLOGIA senza alcuna difficoltà, si tratta di una prestazione percettiva, anche se sembra eminentemente connessa con il mentale. Dire che si pensa in nomi, e non in figure, né in parole come flusso continuo della voce, significa, per Hegel, segnalare quanto lo Essai di Condillac costituisca il palinsesto di questi passaggi della Enzyklopadie: tutto ha inizio con una iterazione; ciò che dapprima era natura riceve, sin dalla sua prima ripetizione, il sigillo della cultura. Il principio hegeliano si chiarisce in sinossi con la considerazione di Condillac (Essai, I, II, 2, § 19) secondo cui l'immaginazione conserva la percezione, laddove la memoria non trattiene che "il nome o le circostanze": la memoria fattasi nome, come i Noms de Pays della Recherche, non è ormai nulla più che un sistema di tracce invisibili, ma rispetto alle quali la distinzione tra geroglifico, alfabeto e ideogramma non ha più corso. Il nome, come unione di visibile e invisibile, sarebbe dunque il fine di un processo che sin dal suo cominciamento è icnologico: non c'è, come pretenderà Rousseau travisando Condillac, un grido originario che sia espressione come tale, prima di ogni intervallo scritturale; se il grido esprime, è perché ripete (e dunque è assolutamente intenibile l'ipotesi di Heidegger, che rilancia iperbolicamente Rousseau, onde ci sarebbe una "parola originaria"; una tal parola è originaria solo perché si inserisce in un discontinuo già incominciato entro cui determina una cesura: è dunque, ed eminente· mente, scrittura). Alfabeto e geroglifico, geroglifico e ideogramma, trovano la loro verità in un terzo, lo schema o il nome, sicché non solo l'alfabeto viene dal geroglifico, ma anche il geroglifico viene dall'alfabeto. Si pensa in nomi, che sono la traccia astratta che si potrà specificare in alfabeto e in geroglifico, allo stesso modo che si percepisce attraverso gli schemi. Nei due casi, si ha da fare con una esemplarità: ecco la riflessione che paradossalmente risulta da questa vicenda sotto più aspetti esemplare. Perché, di fronte all'alfabeto, noi abbiamo due possibilità: la prima, è di farlo valere come uno schematismo patente; dunque, possiamo ricondurre il suono all'alfabeto e l'alfabeto alla immagine. Ma possiamo altresì mantenerci a un livello icnologico anteriore e ulteriore alla distinzione tra parola e immagine: nella traccia di un nome che si fa pensiero e che non vuol dir niente (ossia, non si riconduce alla dimensione fonetica dell'alfabeto). Il paragone tra il nome e la scrittura è dunque pieno. Ne indica, insomma, l'essenza comune di traccia preordinata al·

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la alternativa tra iconico e aniconico. Qui si compie e consacra la convergenza dell'eidocentrismo, che porta Leibniz alla lode del geroglifico e dell'ideogramma, e del logocentrismo (del resto - giova ripeterlo - ben più temperato che in Rousseau e in Heidegger), che induce Hegel all'elogio dell'alfabeto; con questo, però, si spiega retrospettivamente anche lapparente contraddizione di Leibniz, che, alla luce del discorso svolto sin qui, si può chiarire richiamandosi alla circostanza onde la caratteristica è per Leibniz una scienza sopraordinata ali' algebra, ali' analisi, al linguaggio, alla notazione musicale e allo stesso ragionamento, insegnando l'arte di fissare delle "traces visibles sur le papier": la caratteristica, come il nome, è una icnologia che garantisce lo scambio tra sensibile e intelligibile - e lombrello generale di tutti i sistemi di notazione. Estetica e logica, traccia e nome, sono un differire nello stesso. È ben vero che, pensando in nomi, per il nome "leone", giusta lesempio della Enzyklopèidie, noi non abbiamo bisogno né della intuizione dell'animale, né di una sua immagine; ma quando, nelle Vorlesungen iiber die Asthetik, Hegel parla della duplicità - e di fatto della molteplicità - immanente a ogni immagine in quanto può essere simbolo (staccandosi dalla intuizione immediata e, ancora, valendo bensì come icona, ma non come rappresentazione di un individuo o di un genere), fa precisamente lesempio del leone, che non vige solo come immagine di un animale, ma come simbolo della forza e della regalità. Chiunque prenda un leone per raffigurare un sovrano sta già pensando in nomi; e ci penserebbe ancor più se, come negli espedienti mnemotecnici (che non sono mai puramente pittografici, come assume Hegei), si servisse di un leone per ricordare non un sovrano qualunque, ma Leone XII o Leone Isaurico. Ecco perché la forma è traccia dell'informe. A giusto titolo, perciò, Kobau sottolinea come non ci sia ragione di postulare una cesura tra il livello dell' eidos geroglifico e quello del logos alfabetico: sono due specificazioni della stessa traccia. Di questa convergenza tra nome e traccia, al di là dello spettro del "logocentrismo hegeliano", si ha del resto una testimonianza in Derrida. Dopo aver postillato un commento di De Man alla sezione della Enzyklopèidie sulla memoria, Derrida (1988: 67) arriva alla stessa considerazione di Hegel, ossia alla congiunzione di filologia e filosofia nel nome, quando considera che il nome- o ciò che si può considerare come tale, ciò che ne ha la/unzione - è il solo oggetto e la sola possibilità della memoria. "Tra poco sarai cenere; uno scheletro, un nome o neppure un nome. E il nome non è che un rumore o un'eco" (Marco Aurelio, Tà eis heautòn, V, 33 ); reciprocamente, proprio nella cenere del nome si dà la risorsa della memoria. Il nome è il monogramma: parola e cosa insieme, possibilitil I l'HS