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Italian Pages 341 Year 2004
Eschilo, Sofocle, Euripide
DRAMMI SATIRESCHI Premessa di Giuseppe Zanetto Introduzione, traduzione e note
di Orietta Pozzoli Testo greco a fronte
BUR CLASSICI
GRECI
E
LATINI
Proprietà letteraria riservata
© 2004 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 88-17-00267-4
Titolo originale delle opere: QEQPOI H ICOMIACTAI AIKTYOYAKOI IXNEYTAI KYKAQP Prima edizione: settembre 2004
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IL DRAMMA SATIRESCO E LA RASSICURAZIONE DEL PUBBLICO
Immaginiamo di essere tra il pubblico stipato sulle gradinate del Teatro di Dioniso, ad Atene, in una tiepida mattina di fine inverno dell’anno 458 a.C. È di scena il grande Eschilo, il padre della tragedia; si sta concludendo il terzo dramma dell’Orestea, la trilogia che il poeta ha composto per il concorso tragico delle Dionisie. Gli spettatori, arrivati al teatro di buon mattino,
hanno assistito alla feroce uccisione di Agamennone, il conquistatore di Troia: hanno sentito Clitennestra raccontare come ha massacrato il marito, colpendolo tre volte con la scure ed esponendosi con voluttà agli spruzzi di sangue («come la terra riarsa accoglie la pioggia ristoratrice di Zeus»).' Il secondo dramma ha loro mostrato l’incontro dei due fratelli Elettra e Oreste presso la tomba del padre, la preparazione della vendetta e l'esecuzione del matricidio: per un attimo Oreste ha esitato, vedendo Clitennestra prostrata ai suoi piedi, ma la voce di Apollo l’ha richiamato alla necessità di un gesto sacro ed esecrabile nello stesso tempo. Ora, le Eumenidi volgono al termine; il tribunale divino ha assolto il matricida, mostrando che nella vi-
cenda degli Atridi l’unica soluzione possibile è quella religiosa: nel mistero imperscrutabile del destino umano solo il dio, con la sua benevolenza arbitraria, può
gettare una luce di salvezza. ! Eschilo, Ag., 1391-2.
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PREMESSA
La lunga sequenza di scene commoventi e terribili, l’alternanza di tesi silenzi e di vibranti discorsi hanno messo a dura prova la resistenza degli spettatori: la saga di Agamennone e di Oreste è ben nota a tutti loro, fin dall'infanzia, ma la sua fruizione — nella scansione
proposta dal poeta - li ha costretti a un aspro sforzo di concentrazione. Un tragediografo infatti non «racconta» il mito, ma lo usa come materia prima, da tagliare e
plasmare a piacimento, per produrre uno spettacolo arduo ed emozionante e suscitare nell’uditorio la voluta reazione «di terrore e di pietà». Svuotati da questa doccia scozzese di sentimenti, nell’ultimo intervallo gli Ateniesi si rilassano e si preparano a uno spettacolo diverso. Le regole del festival stabiliscono infatti che il quarto e ultimo dramma della tetralogia non sia una vera tragedia, ma un dramma satiresco: pur sempre legato, nella trama, alla saga eroica che ha fornito la ma-
teria delle prime tre rappresentazioni, ma infinitamente più leggero nel tono. Il cupo fondale dei palazzi micenei si dissolve, la scena si sposta negli spazi aperti e misteriosi del lontano Egitto, la vicenda non è una storia di colpa e di sangue, ma un’avventura - fiabesca e farsesca insieme — che oppone il meno eroico tra gli eroi e il meno mostruoso tra i mostri. Il Proteo (oggi perduto, e solo sommariamente ricostruibile)? era la giocosa drammatizzazione di un episodio del IV canto dell’Odissea. Siamo nella sezione del poema chiamata «Telemachia»: a Telemaco, venuto a Sparta per avere notizie di suo padre Odisseo, Menelao riferisce ciò che a sua volta ha appreso, anni prima, dal dio marino Proteo. Il racconto dell’ Atride è ricco di elementi folclorici. L'incontro avviene sull’isola di ? Aristotele, Poetica, 1452a 1-4.
5 Cfr. R. Germar - R. Krumeich, Proteus, in R. Krumeich — N. Pechstein — B. Seidensticker (edd.), Das griechische Satyrspiel, Darmstadt 1999, pp. 179-81.
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Faro, a poca distanza dalla costa egiziana, dove Mene-
lao e i compagni sono trattenuti da una misteriosa potenza ostile. Su suggerimento di Idotea, una figlia del «Vecchio del mare»,i Greci decidono di chiedere aiuto a Proteo, che conosce passato, presente e futuro, ed è
quindi in grado di suggerire loro una possibilità di fuga. Sapendo che il vecchio è renitente a dare risposte, gli tendono una sorta di agguato: si mimetizzano indossando pellicce di foca e si appostano in una grotta marina, dove il dio è solito rifugiarsi per cercare ristoro nel calore meridiano. Quando Proteo, accompagnato da un gregge di foche, esce dal mare e arriva alla grotta, Menelao aspetta che si addormenti e poi gli salta addosso e lo lega stretto. L’altro si divincola, tenta di sottrarsi ai nodi assumendo mille forme diverse; alla fine, spossato, è costretto a cedere e a fornire le infor-
mazioni richieste. Menelao apprende come potrà lasciare la terra d’Egitto; poi, in risposta a successive domande, viene informato su ciò che è accaduto agli altri reduci della guerra di Troia: Aiace e Agamennone sono morti (il primo durante il viaggio, l’altro nel giorno stesso del ritorno), Odisseo ancora vaga per il mare. Anche se l’estrema scarsità della documentazione consiglia grande cautela, non è difficile immaginare come questa materia potesse alimentare il Proteo di Eschilo. Sicuramente i Satiri si intrufolavano nel gruppo dei Greci, e la menzione (e forse la presenza scenica) delle foche doveva essere sfruttata a fini comici, come avviene per le pecore e le capre del Ciclope. Le pit4 Si è ipotizzato che nel Proteo Eschilo accogliesse la variante stesicorea del mito, secondo la quale Paride avrebbe rapito non una donna in carne e ossa, ma un simulacro, mentre la vera Elena sareb-
be stata condotta in Egitto; in questo caso, si può pensare che i Satiri si presentassero come pretendenti di Elena: cfr. M. Cunningham, Thoughts on Aeschylus: the satyr play Proteus — the ending of the Oresteia, «Liverpool Classical Monthly» 19, 1994, pp. 67-8.
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PREMESSA
toresche metamorfosi di Proteo non saranno state rappresentate, per la rudimentalitä della tecnica di scena antica, incapace di produrre simili effetti speciali: è più che probabile che fossero narrate, invece, in un «racconto di messaggero», secondo la norma teatrale attica. Ma, quali che fossero le scelte di sceneggiatura e le soluzioni drammaturgiche, è indubbio che il materiale mitico doveva essere trattato con grande semplicità. L’episodio odissiaco di Menelao e Proteo si presta infatti a una drammatizzazione immediata, che traduca direttamente in azione il filo del racconto omerico. Gli studiosi del teatro antico, quando si propongono di isolare gli elementi che distinguono il dramma satiresco dalla tragedia, insistono su due aspetti: l'ambientazione scenica e la «tendenza».° Mentre la tragedia (il genere «politico» per eccellenza) predilige lo spazio cittadino e pone a tema le relazioni tra gli uomini, den-
tro la città o dentro la famiglia, il dramma satiresco è proiettato verso la physis: la scena è uno spazio naturale, definito da boschi, monti, grotte, corsi d’acqua, e i temi sono per lo più connessi con la naturalità dell’uomo, con le sue pulsioni primarie. Ricorrono, per esempio, il desiderio di liberazione dalla prigionia e dalla tirannia, e un vitalismo prorompente, volto alla libido sessuale e agli altri appetiti corporei. Questa dimensione biotica è suggerita — e quasi imposta - dalla presenza dei Satiri, proverbialmente lascivi e dediti ai piaceri; ma la «tendenza» vitalistica si estende anche 81 personaggi eroici. Invece gli stessi studiosi sottolineano come, sul piano della struttura drammatica, il satyrikön non presenti sostanziali differenze rispetto al genere maggiore: la vicenda procede attraverso la medesima 5 Cfr. per esempio L. Paganelli, /! dramma satiresco. Spazio, tematiche e messa in scena, «Dioniso» 59, 1989, pp. 213-82 (in part. pp.21622, 228-74).
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alternanza di episodi e di canti corali, e prevede — come quella tragica — una peripezia e uno scioglimento. Tutto ciò è innegabilmente vero, e viene progressivamente confermato dalla crescente disponibilità di testi. Ma tra i fattori spaianti senza dubbio deve essere annoverato anche il diverso modo di guardare alla tradizione mitica. Se la drammaturgia tragica procede da una lettura selettiva e problematica del mito, il dramma satiresco ne recupera la dimensione primordiale. Nel satyrikòn il mito non è palestra di irte riflessioni, ma torna a essere quel rassicurante repertorio di vicende, personaggi e luoghi al quale i Greci affidavano gran parte del loro orientamento culturale. Gli studiosi spesso insistono sulla valenza comica di un genere che la stessa critica letteraria antica definisce «tragedia scherzosa»:° confrontati, invero, con gli eroi tragici, co-
sì seriosi e alle prese con problemi di vastità cosmica, i personaggi satireschi possono sembrarne le buffe parodie.’ Ma non sarebbe giusto considerare il satyrikón come l'equivalente antico della nostra «comica finale». Se proprio si vuole tracciare un confronto con lo spettacolo moderno, meno inappropriato sarebbe l'accostamento con il teatro delle marionette. Lo sguardo satiresco sul mito é ispirato allo stesso candore; quasi fosse una nonna che intrattiene 1 nipotini con fiabe di orchi e di fate, il poeta si propone di appagare le attese dell'uditorio suscitando in esso lo stupore che ogni storia arcana e misteriosa inevitabilmente suscita. Possiamo averne una riprova se consideriamo un altro dramma satiresco di Eschilo, la Sfinge, destinato a concludere la trilogia tebana Laio, Edipo e Sette a Tebe, $ Questa la definizione che ne dà lo Ps. Demetrio, De elocutione, 169. 7 Cfr. D.F Sutton, 7] dramma satiresco, in La letteratura greca del-
la Cambridge University, ed. it. a cura di E. Savino, vol. I, Milano 1989, pp. 629-47 (in part. pp. 632-3).
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con la quale il poeta concorse alle Dionisie del 467. La saga di Edipo e dei Labdacidi è, tra tutti i grandi miti greci, quello che più attrasse l’interesse dei tragediografi: ogni poeta tragico, si può dire, si sentì in dovere di cimentarvisi. E i motivi sono facilmente intuibili: la densità archetipica della storia, che si presta a infinite suggestioni, l’inestricabile groviglio di colpa e fatalità, specchio di quell’enigma che la coscienza tragica riconosce come nucleo della condizione umana, la complessità e l’ampiezza stessa della saga, che consentono un’inesauribile possibilità di elaborazione e rimaneggiamento.
Della trilogia eschilea abbiamo solo il terzo dramma, i Sette a Tebe: una creazione potente e «piena di Ares», in cui Eschilo — protagonista e cantore delle imprese persiane — celebra l’eroismo di chi è pronto a sacrificare la vita per la città. Tebe è metafora di Atene e di qualsiasi polis minacciata: il poeta rinuncia a una vera azione, per concentrare l’intero dramma nel momento cruciale della scelta eroica. Dopo Eschilo, Sofocle fa del mito dei Labdacidi e della figura di Edipo il nucleo centrale della sua elaborazione artistica. Si comincia con l’ Antigone, del 442, che isola il momento terminale della saga: Edipo non c’è più, la città è sopravvissuta all’assalto di Polinice, i due fratelli si sono uccisi reciprocamente, il potere è passato a Creonte, fratello di Giocasta, la pacifica-
zione sembra compiuta. Ma il conflitto si riapre, la contraddizione torna a lacerare la reggia, nuovo sangue contamina il palazzo e la città. L’Antigone, costruita sullo scontro insanabile tra due personaggi speculari, vuole comunicare l’idea che il male è dentro l’uomo, inestirpabile perché intessuto nella trama stessa della sua natura mortale. La medesima idea ispira l' Edipo Re, composto tra il 431 e il 425 e ammirato già da Aristotele come capolavoro di arte tragica. Vi è narrata — con l’alternanza di azione e di flashback - l’intera parabola di Edipo, un uomo ricco di coraggio, forza e intelligenza, ma
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incapace di riscattare se stesso dalla macchia originale
che ha segnato la sua nascita. A Edipo Sofocle torna nell’ultima sua opera, l’Edipo a Colono, rappresentato postumo nel 401: un dramma arcano, una sorta di «oratorio» dall’impianto esile ma di profondissima ispirazione; alle soglie della morte, Edipo rivede coloro che hanno condiviso la sua vita, Antigone, Ismene, Creonte, Po-
linice, ma il suo spirito è ormai proiettato verso un destino diverso, che riempie di nuovo significato le sofferenze di una esistenza enigmatica e assurda. Anche il «laico» Euripide non rifiuta di affrontare la saga tebana. Le Supplici, composte nella prima decade (431-421) della guerra del Peloponneso, sviluppano il tema sofocleo della sepoltura negata, e quindi il conflitto tragico tra potere politico e pietà naturale; Euripide non vi smentisce la sua propensione a focalizzare il mito secondo prospettive inconsuete, dando rilievo a personaggi marginali o minori. Nelle Fenicie, che appartengono alla fase finale del poeta, la forsennata spinta innovativa dell’ultimo Euripide produce una riscrittura profonda della saga: il dramma sembra volere riassumere in sé tutti i
momenti della vicenda, proponendosi come sintesi e superamento del repertorio tragico coevo. Questa breve panoramica è sufficiente, credo, per
mostrare la profondità e la difficoltà della sfida che il mito impone al tragediografo, e che dal tragediografo rimbalza sul pubblico. Di tutto ciò nella Sfinge, il dramma satiresco rappresentato subito dopo i Sette a Tebe, ben poco doveva restare. Anche in questo caso siamo alle prese con una documentazione ridottissima, che consente solo una ricostruzione sommaria della trama.? La vicenda prendeva forse le mosse dal bando di Creonte, che prometteva il regno e la mano della regi8 Cfr. R. Germar - R. Krumeich, Sphinx, in R. Krumeich - N. Pech-
stein — B. Seidensticker (edd.), op. cit., pp. 189-96.
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na a chi fosse riuscito a liberare Tebe dalla Sfinge, risolvendo l’indovinello. Attratti dalla ricompensa, si fa-
cevano avanti i Satiri (o i Sileni):? è assai probabile che, con il loro consueto linguaggio sboccato, essi già si prefigurassero il godimento di entrambi i premi. Naturalmente il loro tentativo finiva in un totale (e comico) fallimento; compariva allora Edipo, che affrontava il
mostro (orribile nell’aspetto, come l’orco delle fiabe) in una gara di arguzia: la Sfinge proponeva il suo enigma, cui l'eroe dava puntuale soluzione. La Sfinge, scon-
fitta, si suicidava, ed Edipo poteva celebrare il suo trionfo. Ognuno vede come una simile vicenda sia una sorta di «favola bella», fruibile con totale candore: i
ruoli sono assegnati con grande chiarezza, i campi del bene e del male sono divisi in modo netto, all’uditorio
nient'altro è richiesto se non di abbandonarsi alla fascinazione del mythos. La presenza di figure clownesche, quali sono i Satiri, contribuisce a stemperare la tensione, ma catalizza anche la simpatia del pubblico su una delle due parti (quella dei Satiri, appunto), facendo chiaramente intendere chi ha ragione e chi ha torto. Se ora passiamo dalle congetture ai fatti, e — lasciate da parte le ipotesi un poco avventurose sui testi perduti — consideriamo l’unico dramma satiresco che ci sia giunto per intero, il Ciclope, arriviamo a conclusioni non dissimili. Le prime scene servono soprattutto a introdurre il gruppo di Sileno e dei Satiri e a giustificare la loro presenza nella terra dei Ciclopi: in esse, dunque, si concentra il maggior numero di novità rispetto alla ? Su una kalpis attica a figure rosse databile al 470/460 a.C. (Museo Martin von Wagner, Università di Wiirzburg) si vedono cinque Sileni seduti davanti a una Sfinge: se la scena è ispirata alla Sfinge eschilea (come molti studiosi ritengono), se ne può dedurre che in questo dramma il coro fosse eccezionalmente composto da Sileni, anziché da Satiri.
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rapsodia epica da cui è tratta la sceneggiatura, ossia il IX canto dell’Odissea. Scegliendo di fare dei Satiri i servi pastori di Polifemo, Euripide può liberamente sviluppare la sua rivisitazione del mostro: il Ciclope euripideo non è più la bestia subumana di omerica memoria, ma un gentiluomo di campagna, che non si occupa personalmente del gregge e passa le sue giornate cacciando sui monti. Questa rielaborazione «leggera», sospesa tra humour e paradosso, attenua la violenza ancestrale della vicenda, avvicinandola al tono giocoso che il genere satiresco richiede. Le altre correzioni sono suggerite, e quasi imposte, dalle norme teatrali attiche, che escludono la /nszenierung di uno spazio chiuso interno e vietano la rappresentazione scenica dei fatti di sangue. Di conseguenza, l’azione assume il ritmo di un frenetico andirivieni: i personaggi scompaiono all’interno della grotta quando fatti violenti stanno per compiersi, ma subito dopo ne escono per raccontare al coro (e agli spettatori) quanto è successo e promuovere gli sviluppi futuri. Libero di entrare nell’antro e di uscirne, Odisseo non deve legare i compagni e se stesso sotto il ventre delle pecore, dopo l’accecamento. Sempre per esigenze di ritmo scenico, è rimosso anche il motivo della pietra immane che il Polifemo omerico usa come porta della spelonca. Per il resto, il dramma si attiene strettamente alla
rapsodia odissiaca, verso la quale Euripide mostra un’attenzione quasi filologica. Anche elementi secondari, o comunque tali da poter essere omessi nella trascrizione teatrale, sono puntualmente accolti dal poeta, impegnato in un puntiglioso sforzo di fedeltà al venerando modello. Per esempio, il celebre stratagemma del falso nome è un elemento essenziale del racconto omerico, dove serve a eludere l’intervento dei Ciclopi,
richiamati dalle grida di Polifemo (Od. IX, 407-14); nel dramma euripideo questo intervento viene escluso a
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priori, quando Polifemo si lascia convincere da Odisseo e Sileno a bersi tutto il vino, senza dividerlo con i
fratelli (vv. 531-40). Tuttavia l’equivoco sul nome «Nessuno» è conservato: anzi, nel finale alimenta una serie
di battute beffarde dei Satiri (vv. 672-5). La profezia dell’indovino Telemo, che il Ciclope omerico evoca con disperazione dopo avere appreso il vero nome di chi l’ha accecato (Od. IX, 507-12), è citata anche nel finale del dramma: Polifemo ricorda che un antico oracolo da tempo gli preannunciava la venuta, per lui catastrofica, di Odisseo.
Appunto nel finale questo scrupolo di fedeltà è particolarmente avvertibile, quasi Euripide si preoccupasse di non mancare a nessuna delle attese del pubblico. La preghiera del Ciclope al padre Posidone, perché punisca Odisseo negandogli il ritorno o almeno infliggendogli lunghe sofferenze (Od. IX, 528-35), si trasforma in una profezia delle sciagure che attendono l’eroe (vv. 698-700). Il doppio lancio di rocce contro la nave dei Greci (Od. IX, 481, 537-8), impossibile da rappresentare, viene recuperato nella battuta di sortita di Polife-
mo: il gigante si allontana dicendo di voler salire, cieco com'è, sulla rupe vicina per staccarne un pietrone e massacrare i suoi carnefici (vv. 704-7). La marcata «omericità» del Ciclope è un omaggio alla tradizione letteraria, ma è anche intesa a esercita-
re una rassicurazione sul pubblico. Il dramma è assegnabile, con ogni probabilità, all’ultima decade della produzione di Euripide.!° Sono gli anni in cui il poeta produce il suo massimo sforzo innovativo, mettendo a
punto una «tragedia nuova» che scardina le norme basilari del genere tragico.!! In particolare, Euripide de!0 Cfr. Euripides. Cyclops, with Introduction and Commentary by R. Seaford, Oxford 1984, pp. 48-51. 1 Cfr. D. Del Corno, Euripide e la «tragedia nuova», in G. Zanet-
to (ed.), KAIPIA YYITEAAZAI, vol. X, Monza 2000, pp. 5-19.
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cide di sottrarsi alla regola che vieta al tragediografo di «inventare» le sue trame, e compone tragedie che alterano profondamente il mito, proponendone versioni inaudite
e sconcertanti. Nelle Fenicie, per esempio,
Giocasta ed Edipo sono ancora vivi quando Eteocle e Polinice si scontrano. Ancora più clamoroso era il caso dell’Antigone (oggi perduta), in cui la protagonista non moriva per la condanna di Creonte, ma si salvava e generava un figlio al marito Emone. L'ultimo Euripide impegna il suo pubblico in un’attesa non già del «come» la vicenda sarà fatta evolvere verso il suo esito scontato, ma di «che cosa accadrà».
Non sappiamo né l’anno esatto in cui il Ciclope fu rappresentato né 1 titoli delle altre tre pieces composte per la stessa occasione. Senza dubbio la tetralogia non era legata da continuità tematica, poiché a questo vincolo i poeti si erano sottratti da tempo. Se — come è facile immaginare — nei primi tre drammi Euripide dava prova del suo rinnovato e rivoluzionario modo di fare tragedia, possiamo comprendere quale significato forte fosse affidato a una conclusione satiresca improntata alla più assoluta ortodossia epica: essa doveva scendere come un balsamo sugli sbigottiti spettatori e rinfrancarne lo spirito. Certo, rispetto al teatro di Eschilo e Sofocle cambia il segno di tale rassicurazione: non piü il relax che segue alle asprezze dell'ideazione tragica, ma la riaffermazione della «verità» del mito. GIUSEPPE ZANETTO
IL DRAMMA
SATIRESCO
ORIGINE ED EVOLUZIONE
Nella tragedia La figlia di Jorio, Gabriele D'Annunzio rappresenta un Abruzzo antico e favoloso, dominato dalla sensualità, dalle superstizioni e da una violenza selvaggia. Nel I atto i mietitori, infoiati, si introducono in casa di Aligi, figlio di Lazaro, per rapire la bellissima maga Mila, e biblicamente «conoscerla» (v. 556); la loro satiriasi, che si aggiunge a quella di Lazaro, innesca il meccanismo del dramma. L’evocazione di un passato mitico, l'ambientazione in uno scenario campestre e primitivo, la presenza di materiale attinto alla cultura orale trovano inattese corrispondenze in una forma di spettacolo che in Grecia godette di una vitalità intensa, anche se di durata relativamente breve, il dramma
satiresco.! Secondo la definizione antica del grammatico Demetrio, il σατυρικὸν δρᾶμα è una «tragedia giocosa» (τραγῳδία παίζουσα, De elocutione ΠῚ, 169); tale espressione coglie bene la qualità specifica di un curioso ! Cfr. L. Paganelli, // dramma satiresco. Spazio, tematiche e messa in scena, «Dioniso» 59, 1989, pp. 227-8; lo studioso, suggerendo il pa-
ragone con l’opera dannunziana, ricorda che Euripide scrisse un dramma satiresco intitolato Mietitori (Oepictoi). Di questo σατυpixév purtroppo non si sa nulla, tranne che era già scomparso ai tempi del grammatico Aristofane; i mietitori in questione presumibilmente erano i satiri (molti titoli satireschi infatti rimandano alla funzione dei coreuti nella vicenda) e il soggetto, secondo alcuni, era lo stesso del Dafni o Litierse di Sositeo (cfr. pp. 26-7).
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INTRODUZIONE
Mischgattung che si nutre dello stesso cosmo mitologico della tragedia, nel quale si muovono Sileno e i satiri, suoi figli, in un contrasto surreale. Il coro dei drammi satireschi, infatti, è invariabilmente formato da uo-
mini mascherati da satiri: piccoli esseri del bosco e della campagna, per metà ferini (capri o cavalli) e per metà umani, accompagnati dal loro anziano genitore.
Le trame di solito attingono al mito (le testimonianze lasciano trasparire la tendenza a parodiare situazioni presenti nelle tragedie), il linguaggio, la metrica, i congegni scenici sono molto simili a quelli tragici. Il tono complessivo tuttavia è inconfondibile: leggero e brioso, qua e là venato di una comicità ardita, con alcune
indulgenze all’osceno. Almeno fino al V secolo avanzato, ad Atene, duran-
te gli agoni teatrali delle Grandi Dionisie, ogni drammaturgo presentava i σάτυροι dopo la trilogia tragica.” Tale norma dovette gradualmente indebolirsi, dal momento che nel 438 a.C. Euripide poté rappresentare, al posto del quarto spettacolo, l’A/cesti, una «tragicommedia» che, per il contenuto e l'atmosfera, richiama da
vicino il σατυρικόν. È opinione degli antichi che in questo genere letterario Eschilo eccellesse,? eppure anche la sua produzione satiresca è andata incontro a un naufragio quasi totale, insieme a quella degli altri tragici. La nostra conoscenza del σατυρικὸν δρᾶμα si basa perciò soprattutto sul Ciclope di Euripide, unico ? La tendenza a presentare un'opera farsesca dopo quella seria è ricorrente nelle tradizioni drammatiche classiche; la troviamo in Giappone nel Kyogen, che seguiva i drammi del teatro NÉ, nelle atellane di Roma, nelle gighe inglesi messe in scena dopo le tragedie elisabettiane. Per la presenza e la collocazione del dramma satiresco nei concorsi drammatici di età classica ed ellenistica, sulla base della documentazione epigrafica nota, cfr. P. Ghiron-Bistagne, Le drame satyrique dans les concours dramatiques, «Dioniso» 61 (2), 1991, pp. 101-19. 3 Pausania II, 13, 6; Diogene Laerzio II, 133.
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superstite nella tradizione manoscritta, e sui frammenti papiracei venuti alla luce in gran parte nella prima metà del Novecento. Tra questi i più cospicui consentono di ricostruire circa la metà dei Cercatori di tracce di Sofocle, un centinaio di versi dei Pescatori con la re-
te e altrettanti degli Spettatori o atleti ai giochi istmici di Eschilo. In aggiunta abbiamo, oltre a numerosi frammenti minori, le notizie e le citazioni degli autori anti-
chi;* varie sono infine le raffigurazioni vascolari ispirate dalle rappresentazioni satiresche.? Sul «Vaso di Pronomo». di provenienza attica e databile alla fine del V sec. a.C., sono dipinti il coro e gli attori al completo di un dramma satiresco. Al centro si riconoscono
Dioniso
e Arianna; ai lati della
coppia ci sono tre figure — una delle quali è senz'altro Eracle — che recano in mano ognuna una maschera e 4 La rassegna delle fonti che ci danno notizia del dramma satiresco è breve: Cameleonte, filosofo peripatetico di poco posteriore ad Aristotele, scrive un περὶ σατύρων (fr. 37 W.) di solito identificato con il περὶ Θεσπίδος (fr. 38 W.), ma i frammenti sono poverissimi; di
Alessandro Etolo, poeta della Pleiade, sappiamo che ordinò i drammi satireschi per la biblioteca di Alessandria; Orazio ne parla in una sezione dell'Arte Poetica (vv. 220-50), che deriva da una fonte ellenistica, Neottolemo di Pario; vi sono inoltre pochi accenni nelle Anti-
chità romane di Dionigi di Alicarnasso (VII, 72, 10-2) e le informazioni antiquarie dell'Onomastikon di Polluce (IV, 99 sulla danza; IV,
118 sul costume teatrale). Infine, alcuni epigrammi di Dioscoride contengono elementi di critica letteraria (A.P. VII, 411 su Eschilo; A.P. VII, 37 su Sofocle; A.P. VII, 707 su Sositeo). Altre minute testi-
monianze non migliorano sostanzialmente il quadro. 5 Un cratere lucano a figure rosse, decorato dal «Pittore del Ciclope» e databile al 410/400 a.C. (Londra, British Museum
1947.7-
14.18), rappresenta i marinai di Odisseo mentre preparano il tronco per l'accecamento di Polifemo, in presenza dei satiri e di Sileno: la raffigurazione è senza dubbio ispirata da un Ciclope satiresco, benché non possiamo essere certi che si tratti proprio di quello euripideo. Un elenco delle pitture vascolari probabilmente ispirate dai drammi satireschi si trova in D.F. Sutton, Scenes from Greek Satyr Plays Illustrated in Greek Vase-Paintings, «The Ancient World» 9,
1984, pp. 119-26. $ Napoli, Museo Nazionale 3240.
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INTRODUZIONE
indossano i costumi degli attori tragici. Intorno agli attori, il coro: i coreuti sono giovani abbigliati con un perizoma di pelle (presumibilmente di capra) dotato di un fallo di cospicue dimensioni e di una coda equina; un coreuta sembra indossare un perizoma di tessuto e un altro è agghindato con chitone e mantello ricamati; quasi tutti hanno il capo cinto da una ghirlanda e ciascuno sorregge con una mano una maschera da satiro, barbuta e leggermente stempiata, con le orecchie appuntite e il naso camuso. Sileno è vicino a Eracle: più anziano degli altri coreuti, a differenza di loro porta la barba ed è ricoperto di peli bianchi su tutto il corpo; sulle spalle ha una pelle di leopardo,’ in una mano porta un bastone, nell’altra la maschera di un vecchio con barba e capelli canuti. Completano la scena il flautista Pronomo, il suonatore di cetra Carino e il poeta Demetrio. Il confronto con altre pitture vascolari dello stesso tipo conferma le informazioni desumibili dal «Vaso di Pronomo», con qualche variazione per quanto riguarda il costume dei coreuti.? In un discusso passo della Poetica (1449a 9-25), Aristotele, dopo aver detto che la tragedia nacque «da coloro che intonavano il ditirambo»,? approfondisce la ? La παρδαλίς è un attributo di Dioniso. è Nel Ciclope euripideo i satiri indossano il mantello dei pastori (cfr. Ciclope, v. 80 e n. 31); Polluce (II sec. d.C.) cita la pelle di capra insieme a molte altre maschere e costumi satireschi (Onom. IV, 118),
ma la sua testimonianza riflette una situazione in cui questo genere letterario aveva ormai perduto i suoi connotati classici. ? Una delle forme della lirica corale greca, la cui invenzione era fatta risalire dagli antichi ad Arione di Metimna (Erodoto V, 23); in origine strettamente collegato al culto di Dioniso, il ditirambo, dagli ultimi decenni del VI sec. a.C., fu introdotto negli agoni delle Grandi Dionisie ateniesi, ma anche nell’ambito di feste in onore di altre divinità, dando luogo a fastose rappresentazioni durante le quali cori di cinquanta uomini o ragazzi, in costumi sontuosi, accompagnati dall’aulo e addestrati alla danza circolare, cantavano temi dionisiaci
o altre storie mitiche. Nel IV sec. questo genere letterario divenne un vero e proprio oggetto di sperimentazione musicale, in cui anche
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questione, aggiungendo che essa raggiunse la compiutezza «passando attraverso una forma satiresca» (ἐκ σατυρικοῦ). È poco probabile che il σατυρικόν cui allude Aristotele coincida con la «tragedia giocosa»;! nessun altro autore antico, infatti, afferma esplicitamente
che il dramma satiresco precede cronologicamente la tragedia, né che la seconda si evolve dal primo.!! Tuttail testo doveva soprattutto produrre effetti sonori e la poesia era subordinata alla musica. 10 D.F. Sutton, The Greek Satyr Play, Meisenheim am Glan 1980, pp. 2-5, osserva che Aristotele attribuisce a questo σατυρικόν caratteri che difficilmente possono essere ascritti anche al dramma satiresco nella sua forma storicamente attestata. La Poetica (1449a 925) parla infatti di una fase in cui gli spettacoli teatrali portavano in scena «piccoli miti», raccontati attraverso un «linguaggio ridicolo» e una «poesia più adatta alla danza»; in realtà, come si è già accennato, lingua e metro dei drammi satireschi si discostano di poco dallo stile tragico. Permangono però dubbi circa il significato dell’espressione ἐκ μικρῶν μύθων («da piccoli miti»). Si riferisce alla brevità dei drammi in questione? In effetti il Ciclope di Euripide si estende per poco più di settecento versi, i Cercatori di tracce di Sofocle probabilmente non superavano di molto gli ottocento versi, ma non abbiamo elementi certi per stabilire che questa fosse la dimensione canonica dei drammi satireschi. Lo stagirita allude al contenuto («piccolo» sul piano etico, oppure frammentario, poco coerente dal punto di vista strutturale?) dei primi componimenti poetici destinati al teatro? Sulle caratteristiche del dramma satiresco, sulla sua introduzione negli agoni drammatici ateniesi e sui rapporti con la tragedia e il σατυρικόν menzionato da Aristotele cfr. anche L.E. Rossi, I! dramma satiresco, «Dioniso» 61 (2), 1991, pp. 11-24. !! Soltanto un epigramma di Dioscoride (A.P. VII, 37) sembra sostenere questa teoria (potrebbe peró trattarsi di una rielaborazione poetica del passo aristotelico). I lessicografi, d'altro canto, invocano le parole di Aristotele per spiegare l'etimologia del termine τραγῳδία come «canto dei capri», cioè dei seguaci di Dioniso mascherati da τράγοι (ovvero «canto per il capro», inteso come premio del vincitore o, ancora, «in onore del capro», ossia in occasione
del sacrificio di un capro). Di fatto, solo in ambiente peloponnesiaco sono i satiri a costituire il corteggio dionisiaco, laddove in Attica si tratta invece prevalentemente di sileni (uomini con coda e zampe equine), nonostante una certa tendenza delle fonti a confondere e poi ad assimilare gli uni agli altri. Su questo argomento cfr. pp. 41-2.
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via, quanto ci rimane del dramma satiresco e del diti-
rambo mostra tracce piuttosto chiare dell’origine di entrambi i generi dallo stesso rituale dionisiaco, in cui si è individuata, per ragioni indipendenti e con molte riserve, la nascita della tragedia." Il sarupıxöv della Poetica potrebbe allora rappresentare, nello sviluppo della poesia tragica, una fase durante la quale essa era ancora una breve improvvisazione in stile giocoso, difficile da distinguere da altre esibizioni, alcune delle quali forse avevano già come protagonisti i satiri. Il dramma satiresco, nelle forme a noi note, sarebbe sta-
to inserito negli agoni drammatici in un secondo momento, quando la tragedia si era ormai staccata dal primitivo elemento «satiresco», acquistando gravità e ampiezza. E non si può escludere che l’introduzione del nuovo genere letterario fosse dovuta anche alla necessità di riproporre in modo esplicito il legame tra gli spettacoli teatrali e le pratiche religiose del tiaso di Dioniso, il cui altare continuava a dominare l’orche-
stra. A sostegno di questa ipotesi sarebbe la testimonianza del peripatetico Cameleonte (morto nel 280 a.C.); nella sua monografia su Tespi," il filosofo fornisce infatti una curiosa spiegazione dell’espressione proverbiale οὐδὲν πρὸς Διόνυσον («niente a che fare con Dioniso»), intendendola come il grido di protesta degli spettatori ateniesi, che si lamentavano della 12 I satiri che compongono il coro del Ciclope euripideo rimpiangono i tempi in cui erano servi di Dioniso e alle cerimonie in onore del dio fanno riferimento in più punti del dramma. Secondo R. Seaford, Euripides. Cyclops, Oxford 1984, pp. 33 ss., i motivi topici che si individuano nei drammi satireschi a noi noti sono una delle prove più evidenti della nascita di questo genere letterario nell’ambito delle celebrazioni del tiaso dionisiaco. ? Leggendario inventore della tragedia; il Marmum Parium lo indica come primo autore che mise in scena una tragedia e vinse una volta negli agoni tragici appena istituiti da Pisistrato, tra il 540 e il 520 a.C.
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scomparsa dei temi dionisiaci nelle tragedie. Ne riparleremo a proposito della funzione della «farsa», collocata dopo la trilogia.!‘ L'invenzione del σατυρικὸν δρᾶμα è attribuita dagli antichi a Pratina di Fliunte,! vissuto a cavallo tra il VI e
il V sec. a.C. Della sua biografia sappiamo solo che compose cinquanta drammi, trentadue dei quali erano satireschi, che gareggiò ad Atene durante la settantesima Olimpiade (499-496 a.C.) e forse era già morto nel 467 a.C., quando una delle sue opere fu messa in scena
dal figlio Aristea. Nello stesso periodo, sul finire del VI sec. a.C., le prime pitture vascolari che paiono ispirate dalle rappresentazioni dei σάτυροι fanno la loro comparsa in Attica; opere simili erano state prodotte anche precedentemente a Corinto e in altre località del Peloponneso, dove il dramma satiresco potrebbe aver avuto origine. Può darsi che questo si sia sviluppato proprio in tale arco di tempo e che Pratina, emigrando in Attica verso il 520 a.C., abbia dato un contributo notevole alla
regolarizzazione del genere secondo i canoni che conosciamo. Quando egli arrivò ad Atene, la tragedia era ormai diventata l’attrazione principale delle Dionisie, mentre erano stati relegati a un ruolo marginale 1 primitivi cori di satiri che celebravano la storia del loro dio, nei corso di performances ripetitive e per lo più lasciate all’improvvisazione. L'importanza di Pratina deve dunque consistere nel fatto che egli introdusse da Fliunte la pratica di mettere per iscritto i testi destinati al tiaso dionisiaco; il nome dorico dei satiri (σάτυροι) che formano il coro riflette l’influenza peloponnesiaca e lo stesso si può forse dire di alcuni degli argomenti dei drammi satireschi più antichi. Essi dovettero essere 14 Cfr. pp. 33-6. 15 Suda s.v. Hpánvac; A.P. VII, 707.
16 R. Seatord, op. cit., 1984, pp. 10-4.
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composti e rappresentati indipendentemente dalle tragedie, almeno fino alla riorganizzazione delle Dionisie (avvenuta intorno al 502/501 a.C.): solo dopo tale data si affermò lo schema della tetralogia, costituita da tre tragedie e un dramma satiresco tematicamente connessi." L'unico titolo noto di un σατυρικόν di Pratina, / lottatori (Παλαισταί), rappresentato da suo figlio nel 467 a.C., fa pensare a un'opera in cui i satiri indossano il costume atletico e sono impegnati in competizioni sportive, come succede negli Spettatori di Eschilo: è verosimile, dunque, che in questi anni il nuovo genere letterario avesse ormai completato la sua prima evoluzione. La struttura del Ciclope di Euripide è in tutto simile a quella di una tragedia: il dramma é composto da un prologo, una parodo, quattro episodi seguiti ciascuno da un canto corale, un esodo. Il confronto del dramma eu-
ripideo con i frammenti di Eschilo e di Sofocle suggerisce che il Ciclope rappresenti, almeno per quanto riguarda l'aspetto strutturale, una fase in cui il genere satiresco era ormai piuttosto lontano dalla sua forma originaria. Nei Cercatori di Sofocle, per esempio, i canti corali sono piü frequenti (nove su circa quattrocentocinquanta versi) e più movimentati nel ritmo; si ha inoltre l'impressione che gli interventi del coro siano piuttosto indipendenti rispetto a quelli degli attori e che i satiri riU Cosi si splegherebbe il gran numero delle opere satiresche attribuite a Pratina dalla tradizione; tuttavia egli potrebbe anche aver
scritto drammi per conto di altri, che ne curarono solo l'allestimento. Di questo poeta possediamo soltanto un frammento di una certa estensione (PMG, 708); la natura di questo passo è incerta. Un coro, entrando nell'orchestra presso l'altare di Dioniso, si scaglia contro la moda musicale del momento e rivendica la supremazia del suo canto rispetto alla musica del flauto. Potrebbe trattarsi di un dramma satiresco, ma anche di un ditirambo cantato da satiri, o di qualcosa di simile all'«agone» della Commedia Antica (ossia lo scontro, intro-
dotto e chiuso dal coro, tra due personaggi in merito al tema centrale della commedia).
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sultino i veri protagonisti del dramma. A queste discrepanze formali, difficili da indagare più a fondo per l’esiguità dei resti, si aggiunge la diversa temperie culturale che emerge dalle opere di Eschilo e di Sofocle. Il mondo dei loro drammi satireschi è quello delle campagne incontaminate, dove i satiri vivono, ignari delle leggi della polis, un’esistenza libera a contatto con la natura selvaggia; è l’ambiente che Sileno nei Pescatori sofoclei descrive al piccolo Perseo nel tentativo di accattivarsene la simpatia, un territorio in cui i figli degli uomini crescono senza preoccupazioni insieme ai cuccioli degli animali (cfr. vv. 804-20). In Euripide la città è molto più vicina: Polifemo si nutre di carne umana, però la desidera cucinata a puntino, ed esige dai suoi servi che gli puliscano diligentemente la spelonca, mentre lui se ne va per le campagne a caccia insieme ai suoi cani, non per procurarsi il cibo, ma per divertirsi (cfr. Ciclope, vv. 29-35, 130, 214). Come le tragedie euripidee segnano il momento di massimo sviluppo del teatro tragico, oltre il quale si incomincia a intravvedere la decadenza, cosi il Ciclope potrebbe rappresentare la fase estrema nell'evoluzione del genere satiresco dell'età classica. Di li a poco infatti, nel IV sec. a.C., esso dovette per-
dere gradatamente le sue caratteristiche originarie e peculiari: imboccando una strada diversa, assomigliò sempre di più alla commedia, dalla quale trasse l'uso di parodiare e criticare i costumi del tempo, nonché di attaccare direttamente personaggi famosi. Probabilmente la mancanza di originalità rispetto alla letteratura teatrale maggiore contribui a determinare il calo di in18 Alcuni critici, tuttavia, dall'analisi del Ciclope concludono che
il genere satiresco fosse scarsamente congeniale a Euripide e che l’unico σατυρικόν sopravvissuto integralmente poco o nulla aggiunga alla grandezza dell’autore. Sul dramma satiresco dopo Euripide cfr. I. Gallo, I! dramma satiresco posteuripideo: trasformazione e declino, «Dioniso» 61 (2), 1991, pp. 151-68.
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teresse che colpì il dramma satiresco, tanto che Aristotele nella Poetica lo ignora. In un'iscrizione relativa agli spettacoli in gara alle Dionisie e collocabile tra il 341 e il 339 a.C. (1.G. II2, 2320) si legge il titolo di un solo dramma satiresco al primo posto della lista, rappresentato probabilmente all'inizio dell'agone drammatico e senza alcun rapporto con le tragedie. Poco dopo questa data le «avventure» dei σάτυροι assumono una nuova forma, legata all'attualità. Ne abbiamo un esempio nel-
l'Ageno di un certo Pitone di Bisanzio (o di Catania), di cui Ateneo ci ha conservato una ventina di versi: rappresentato in onore di Alessandro Magno nel suo accampamento sulla riva del fiume Idaspe (nel 326 o 324 a.C.), mette alla berlina Arpalo, tesoriere traditore del
re. Il frammento superstite è cosi simile a un passo comico, sia per lo stile che per il contenuto, che sarebbe difficile non riferirlo a una commedia, se non avessimo l’esplicita attribuzione di Ateneo (XIII, 596 A). Lo stesso si può dire dei cinque frammenti satireschi dei Satiri d’Icaria del comico ateniese Timocle (vincitore del primo premio alle Lenee fra il 330 e il 320 a.C.), che contengono riferimenti polemici diretti contro vari personaggi contemporanei. Poco più tardi il Menedemo delPalessandrino Licofrone doveva presentarsi come satira di un filosofo dell’epoca. Probabilmente anche Sositeo (forse nativo di Alessandria nella Troade, vissuto nella prima metà del III sec. a.C.) compose un dramma satiresco basato sulla satira filosofica, ma questo autore è noto soprattutto per aver ridato vita alle trame di argomento mitologico. Nel Dafni o Litierse, infatti, il poeta sembra tornare a uno dei motivi topici tradizionali, la lotta di un eroe
contro un orco. Il dramma tratta la liberazione da parte di Eracle del pastore Dafni, prigioniero presso il crudele re di Frigia Litierse; sia il contenuto che il linguaggio e la metrica rivelano l'intenzione dell'autore
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di reagire all’assimilazione della «tragedia scherzosa» alla commedia, tornando alla maniera degli antichi.'? Tuttavia la presenza di Dafni, leggendario «inventore» del canto bucolico, suggerisce che l’attenzione degli alessandrini per il dramma satiresco classico fosse influenzata dal recente interesse per la natura e per gli abitanti della campagna, più che da un’autentica fronda «purista». Tale interesse, che aveva contrassegnato la nascita della poesia bucolica, poteva senz’altro trovare consonanze nelle atmosfere campestri dei σατυρικά ateniesi del V sec. a.C. Lo stesso Orazio, nell’Arte Poetica, riflettendo le teorie ellenistiche, sottolinea che
lo stile satiresco non deve avvicinarsi troppo a quello comico (vv. 229, 234-8, 244-7), perché 1 satiri vengono
dalla campagna e non hanno niente a che fare con l’ambiente urbano della commedia. La rinascita alessandrina del dramma satiresco mitologico non bastò a ridare vigore a un genere letterario che stava ormai languendo; una volta perse le funzioni e lo spirito originari, esso diventò una forma di spettacolo marginale, che però sopravvisse fino all’età imperiale in aree sempre più periferiche (per esempio in Beozia), come testimoniano iscrizioni e titoli. FUNZIONE
Quando Odisseo approda all’isola dei ciclopi e vi incontra i satiri, pensa con stupore di essere capitato nel 1° Un epigramma di Dioscoride (A.P. VII 707, 3-6) riporta l’epitafio di Sositeo, pronunciato da un satiro che sorveglia la sua tomba: Sositeo — afferma il satiro - tornando all’antico, lo ha indotto a ricordare il suo paese natale (ovvero Fliunte, patria di Pratina, l'einventore» del dramma satiresco). Cfr. S. Fortuna, Sofocle, Sositeo, il dram-
ma satiresco, «Aevum Antiquum» 6, 1993, pp. 237-49 e G. Martino, Sofocle, gli abiti di porpora, il dramma satiresco e la nuova maniera timoclea, «SIFC» 16 (1), 1998, pp. 8-16.
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regno di Bacco (cfr. Ciclope, v. 90). L'atmosfera surreale, che scaturisce dall'incontro di Sileno e dei suoi figli con personaggi provenienti dal mondo eroico della tragedia, costituisce uno dei tratti caratterizzanti dei drammi di argomento mitologico. Lo smarrimento e l'ambiguità, che a tratti sconfinano nel non senso, sono
intimamente legati alla natura stessa delle vicende satiresche, nonché alla loro funzione; quest'ultima si esplica nell'incontro imprevisto, e gravido di conseguenze, di due mondi paralleli. La compresenza e l'interazione dei satiri e degli eroi, oltre a essere ricche di spunti comici, creano tensione e curiosità nello spettatore. Naturalmente ogni autore sfrutta in modo originale questo espediente letterario, tuttavia, il Ciclope e
i frammenti maggiori consentono di individuare alcuni meccanismi comuni alla base della drammaturgia dei satirografi. L'indagine su questi modi di procedere, in buona parte riconducibili alla φύσις «doppia» del dramma satiresco, è inseparabile dalla ricerca della sua funzione. Una delle tecniche più comuni consiste nel creare un clima grave e solenne, in tutto affine a quello tragico, per poi dissolverlo deliberatamente e all’improvviso. Nel Ciclope, per esempio, le prime battute che si scambiano Odisseo e Sileno ricalcano lo schema del dialogo tra un supplice e il signore del paese, una situazione non rara nella tragedia. Odisseo chiede dove può procurarsi acqua e cibo per i suoi marinai, quindi saluta con garbo Sileno, riconoscendo in lui il più anziano dei satiri; Sileno a sua volta si informa sulla patria e la stirpe dell’eroe. Avute le notizie richieste, il vecchio replica inopinatamente con un’osservazione poco gentile: «Lo conosco quello, è un chiacchierone pungente, della razza di Sisifo» (v. 104). Così, dopo la cortesia stereotipata del primo approccio, la sticomitia tra Odisseo e Sileno prende una piega molto meno formale.
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Qualcosa di simile si verifica nei Pescatori eschilei, là dove Danae, palesemente poco entusiasta all’idea di essere «protetta» da Sileno, piange il suo triste destino e si appella alla misericordia degli dei. Il lamento dell’eroina incomincia in tono elevato; la donna invoca le
divinità protettrici della sua famiglia e minaccia di suicidarsi pur di non incorrere in sventure peggiori di quelle che già le sono toccate, ma la sua rhesis si conclude sorprendentemente con un audace richiamo alla responsabilità di Zeus nella vicenda - il dio è il padre del piccolo Perseo — e una perentoria richiesta di aiuto (vv. 773-85): si tratta di un palese abbassamento di stile, inaccettabile in bocca a un personaggio tragico. Un'altra tecnica utilizzata dai satirografi (ma assente nel Ciclope) è il ricorso all'anacronistica inserzione di precisi riferimenti ai dati materiali dell'esistenza quotidiana, che sono accuratamente evitati dalla tragedia, perché non si armonizzano con il suo registro solenne e il suo respiro atemporale e universale. Negli Spettatori di Eschilo, per esempio, Dioniso, che ha sorpreso i satiri mentre si accingono a partecipare alle gare sportive dell'Istmo, osserva su di loro la ligatura praeputii, pratica normalmente in uso presso gli atleti greci durante gli allenamenti, e la considera una prova inequivocabile del tradimento perpetrato dal tiaso nei suoi confronti (cfr. vv. 29-31). L'assurdo, il paradossale, il senso di straniamento
che nasce dalle frequenti contraddizioni, sono i toni prevalenti della drammaturgia satiresca e i poeti vi attingono continuamente perché proprio attraverso questi elementi il σατυρικόν assolve la sua funzione. Varie sono le teorie avanzate per spiegare le ragioni della rappresentazione di un'opera farsesca dopo quelle tragiche. Una delle ipotesi si fonda sui vv. 220-4 dell'Arte Poetica di Orazio:
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Carmine qui vilem tragico certavit ob hircum, mox etiam agrestes satyros nudavit, et asper incolumi gravitate iocum temptavit, eo quod
illecebris erat et grata novitate morandus spectator, functusque sacris et potus et exlex. «Colui che gareggió con la poesia tragica per un capro di scarso valore, subito dopo mise in scena anche i satiri agresti e, pungente, fece dello spirito, pur conservando intenzioni serie, perché lo spettatore doveva essere avvinto dalle lusinghe e da una novità gradita, dopo che aveva partecipato ai riti sacri ed era alticcio e privo di inibizioni.» Secondo il poeta latino - ma dobbiamo tenere presente che la sua e la stessa prospettiva culturale dei letterati alessandrini — lo spettatore, euforico e disinibito in seguito all'esaltazione provocata dal rituale delle feste dionisiache, doveva essere indotto a non abbandonare il
teatro dall'aspettativa di uno spettacolo particolarmente gustoso e apprezzato. Per godersi il divertimento del dramma satiresco, il pubblico sarebbe stato in qualche modo «costretto» ad assistere anche alle tragedie, piü «educative» della farsa finale. Orazio puó aver colto nel segno quando, parlando di «novità gradita» e di «lusinghe», allude al fatto che i tragediografi, nel comporre i loro drammi satireschi, tendevano ad assecondare i gusti di un pubblico eterogeneo. Tuttavia la sua spiegazione suona insufficiente a giustificare non solo l'istituzione di un nuovo tipo di rappresentazione teatrale, ma soprattutto l'ingresso di questo spettacolo in un festival rigidamente regolamentato e politicamente significativo come erano le Grandi Dionisie. Tra l’altro, l Arte Poe-
tica non dice affatto che gli ateniesi avrebbero rinuncia20 Cfr. G. Thompson, Aeschylus and Athens, London 1941, p. 238.
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to alla trilogia «seria» se non fossero stati allettati dall’attesa del dramma satiresco: si limita invece a sottolineare che quest’ultimo aderiva perfettamente al clima eccitato delle celebrazioni dionisiache, incolumi gravitate, ossia «conservando intenzioni serie».
Un'altra ipotesi, largamente condivisa, è che le peripezie dei σάτυροι avessero il compito di alleviare l’angoscia provocata dalle tragedie e che molti dei loro tratti caratteristici siano spiegabili in relazione a questo intento.? La «farsa» cambia la prospettiva della rappresentazione: il mondo eroico, coerente e serio della tragedia diventa il suo opposto, incoerente e comico, riportando gli spettatori a una visione più serena e obiettiva del reale. Le creature mostruose e le vicende orribili, che tanta parte hanno nei drammi satireschi, non suscitano autentico terrore; piuttosto si può dire che esse, come i personaggi e le situazioni delle favole, concretizzano e personificano indistinti timori risalenti all’infanzia e sempre in agguato negli angoli bui della mente. Nel contempo mostrano come siano innocue queste angosce, rassicurando gli spettatori e procurando loro piacere. In effetti Polifemo, in Euripide, è
simile, almeno per certi versi, agli orchi della tradizione folclorica. Perduti i tratti violentemente barbarici del mostro omerico, egli rappresenta un pericolo irreale; l'assurdo corteo di satiri che vivono presso la sua grotta segnala, già all’inizio del dramma, quanto sia inconsistente la minaccia del ciclope.?? Non soltanto i 2! Sutton, op. cit., 1980, pp. 164-71. 2 Secondo Sutton, op. cit., 1980, p. 167,
il «sollievo comico» (co-
mic relief) è soprattutto evidente in quei drammi che costituiscono chiaramente la parodia di una tragedia. Nel caso del Ciclope euripideo, per esempio, la studiosa parla di rapporto parodico con l'Ecuba, la tragedia che rappresenta l'atroce vendetta della protagonista, moglie di Priamo, contro il re della Tracia Polimestore, responsabile dell’uccisione di suo figlio Polidoro. L'accecamento di Polifemo parodierebbe quello di Polimestore (attratto in una tenda con l’ingan-
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mostri, nel dramma satiresco, non sono del tutto «mo-
stri», ma anche gli eroi subiscono un processo di attenuazione. I personaggi della tragedia in ogni loro gesto obbediscono all’imperativo di conservare integra la propria statura spirituale e per questo sono disposti a morire; quando un eroe tragico è invece al centro di un dramma satiresco diventa più terreno e accessibile. Bisogna aggiungere che i σάτυροι si muovono spesso intorno ai più umani tra gli eroi, come Odisseo. Egli incarna l’idea di un uomo eccezionale, ma pur sempre imitabile, proprio in quanto «multiforme» (πολύτροπος); l'intelligenza e l'astuzia che lo contraddistinguono non sono qualità fuori dal comune e vengono proposte come ideali alternativi alla monolitica grandezza spirituale che pervade l’universo tragico.? Dopo aver sperimentato la tensione etica della trilogia, il pubblico si rilassa con la possibilità di rifugiarsi in un mondo esotico, dominato dal magico e dal miracoloso, un mi-
no, il re viene ferito da Ecuba e dalle altre prigioniere troiane), mentre la richiesta di aiuto che Odisseo rivolge al ciclope e il brutale rifiuto di quest'ultimo (vv. 285-346) sono considerati l'equivalente comico del confronto tra Ecuba e Odisseo (invano la regina cerca di persuadere l'eroe greco a risparmiare sua figlia Polissena, che deve essere sacrificata per placare lo spettro di Achille, di lei innamorato). M. Di Marco, L'ambiguo statuto del dramma satiresco, Atti del convegno «Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica», Pisa 2000, pp. 31-49, osserva che il dramma satiresco si col-
loca lontano sia dalla tragedia sia dalla commedia: è parodia del mito nel senso di riscrittura e rielaborazione di un modello messo in crisi dalla presenza dei satiri, che apportano trasgressione nel mondo eroico, senza peraltro dare origine a un «mondo alla rovescia». 2 Cfr. P. Mureddu, 7] multiforme Odisseo: appunti sulla figura e sul ruolo del protagonista del Ciclope, in R. Pretagostini (ed.), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di B. Gentili, II, Roma 1993, pp. 591-600. Un altro personaggio che compare di frequente nei drammi satireschi è Eracle, semidio, invincibile sterminatore di mostri, ma eccessivo nell’ingordigia e nell’esuberanza sessuale; in lui per l’immaginazione popolare si raffigurava la tensione fra mondo umano e mondo divino.
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crocosmo dove tutto può accadere da un momento all’altro e, contemporaneamente, tutto è facilmente de-
cifrabile, perché rientra in una visione stereotipata del reale (cfr. / motivi topici, pp. 53-67), che suppone una speciale complicità tra autore e spettatore. La tragedia pone i protagonisti di fronte a interrogativi laceranti, che li costringono a scegliere a costo di enormi sofferenze e rinunce. La moralità stessa nel dramma satiresco risulta invece semplificata, polarizzata nelle categorie del Bene e del Male, senza troppi margini di dubbio; anche nei momenti di più grave pericolo, è sempre dietro l’angolo la possibilità di un rovesciamento della sorte: il lieto fine si accompagna a una visione ottimistica dell’esistenza, in cui la virtù più importante è quella che consente di adeguarsi alle situazioni, volgendole a proprio vantaggio." La «tragedia giocosa» si presenta dunque per molti versi come genere letterario d’intrattenimento, che mira a presentare al pubblico un volto meno impervio della realtà, attraverso lo
stravolgimento del mondo eroico: un tertium quid, a metà strada tra l’austerità della tragedia e la sfrontatezza della commedia. Ma la teoria del comic relief non esaurisce tutti gli interrogativi posti dalla nascita del dramma satiresco. A liberare gli spettatori dall’angoscia non doveva bastare la tragedia? Secondo la ben nota lezione aristotelica (Poetica, 1449b 25), la poesia tragica si proponeva di su-
scitare «pietà e terrore» per provocare la κάθαρσις, ossia la purificazione, di quelle stesse passioni. Senza contare che la parodia della tragedia non è una prerogativa circoscritta al dramma satiresco; esempi di «paratrage2 Questo e altri aspetti (insistenza su motivi favolistici, interesse per la natura, elemento magico-meraviglioso) hanno suggerito il confronto tra lo sfondo concettuale del dramma satiresco e quello dell’Odissea (cfr. Sutton, op. cit., 1980, pp. 173-7).
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dia» infatti non sono rari nella Commedia Antica. Infine, la spiegazione «psicologica» può essere valida per la fase in cui la «farsa» era presentata al quarto posto della tetralogia, ma non dice nulla sulla funzione che essa rivestiva quando era uno spettacolo indipendente o precedeva le tragedie. È d’obbligo perciò procedere nell’indagine alla ricerca di una spiegazione che integri, e in parte rettifichi, l'ipotesi del «sollievo comico» quale risposta all’interrogativo sulla finalità del σατυρικόν. Non è inutile ritornare a Cameleonte e alla sua spiegazione del proverbio οὐδὲν πρὸς Διόνυσον: quando le primitive performances teatrali, che avevano per argomento gli episodi della saga dionisiaca, furono sostituite da tragedie su altri argomenti, il pubblico incominciò a protestare gridando: «(Questo) non ha niente a che vedere con Dioniso».? Zenobio (V, 40) aggiunge che furono le lamentele degli spettatori a condurre all’istituzione del dramma satiresco, in origine al principio della tetralogia, «perché non si desse l’impressione di dimenticarsi del dio». Questo tipo di spettacolo, dunque, potrebbe essere stato introdotto per ridare ai festival del teatro quello che, con l’evoluzione della tragedia, essi avevano perduto; le concessioni ai gusti del pubblico cui si riferisce Orazio nell’Arte Poetica sarebbero allora indirizzate a soddisfare il conservatori smo degli ateniesi, piuttosto che la loro licenziositä.”* Una conferma indiretta della funzione religiosa, ma anche politico-sociale, del nuovo genere teatrale ci viene da un passo delle Leggi platoniche, dove si afferma 25 Il lessico di Suda riporta però anche un'altra spiegazione, di segno opposto, del medesimo motto; allorché un certo Epigene, considerato da alcuni il primo autore di tragedie, cercò di introdurre a Corinto i cori tragici in onore di Dioniso (al posto dei canti che celebravano le dolorose vicende — τὰ πάθεα — dell'eroe locale), suscitò la
ribellione popolare, che si espresse nel grido: «(Non vogliamo avere) nulla a che fare con Dioniso». 26 E di questo avviso Seaford, op. cit., 1984, p. 28.
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che le danze bacchiche, durante le quali i danzatori imitano le ninfe, Pan, 1 satiri e i sileni, compiendo riti di
purificazione e iniziazione, sono un fenomeno che non appartiene alla polis (οὐ πολιτικόν, 8150). I satiri rappresentavano un tipo di comunità primitiva e antitetica a quella cittadina; essere ammessi al tiaso significava entrare a far parte di un gruppo unito da un forte senso di solidarietà, basata sulla perfetta conoscenza
del rituale, sulla condivisione di un legame di parentela (i satiri mitologici sono fratelli), sulla temporanea adozione di una personalità animalesca e selvaggia. Non a caso però i riti del tiaso dionisiaco assursero a una nuova dignità proprio nel momento in cui Atene si sviluppò decisamente come centro urbano, sotto Pisistrato, e poi come polis democratica, con Clistene. Uomini travestiti da satiri infatti — lo attestano le pitture vascolari — avevano senz'altro un ruolo rilevante nelle antiche Antesterie, le feste dionisiache di primavera, ma dalle loro celebrazioni spontanee si passò al «dramma» soltanto quando Atene raggiunse un elevato grado di organizzazione politica, e solo alla fine del VI secolo 1 drammi satireschi furono inclusi nella tetralogia. In un contesto culturale urbano il tiaso-coro diventó cosi il simbolo della componente pre-politica assorbita dal rito cittadino e saggiamente esorcizzata nei suoi aspetti piü pericolosi (derivanti principalmente dalla natura estatica del culto) per l'ordine della vita civile. Sembra di poter concludere che il dramma satiresco ?' L.E. Rossi, 7] dramma satiresco attico. Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico, «Dialoghi di Archeologia» 6, 1972, p. 279, sottolinea che l'ambientazione campestre del dramma satireSco e la tendenza allo scurrile dovevano essere particolarmente gradite agli abitanti dei demi di campagna, che in età classica costituivano una grossa fetta del pubblico. Gli spettacoli satireschi favorirono cosi in Attica il processo di diffusione di una cultura omogenea e di valori condivisi.
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nacque come risposta a bisogni non sempre facili da distinguere: almeno in principio prevalsero la «nostalgia» per l’universo dionisiaco, nonché la necessità di reintrodurre i satiri, creature campestri, in un teatro ormai divenuto «civile» e «urbano»; a ciò si aggiunse la volontà di riaffermare, consolidandolo, l'insegnamento della tragedia, ma di farlo in tono più lieve e giocoso. Nonostante la bizzarria delle vicende rappresentate, il cavupikóv (perlomeno quello dell’età classica) non rinuncia alla παιδεία e mantiene una sostanza ideologica nettamente riconoscibile. L'ultimo spettacolo della tetralogia infatti, anche quando adotta il registro parodico, non capovolge veramente il senso di quanto è «accaduto» durante la rappresentazione delle tragedie, ma invita a riconsiderare gli stessi problemi con il sorriso sulle labbra, come a dire che, malgrado tutto, la vita reale è altrove.
Proprio in ragione delle sue particolarissime funzioni, il dramma satiresco rimase un genere letterario specificamente greco?? e l’eclissi della sua fortuna (forse già in atto ai tempi di Euripide) coincise con l’affievolirsi delle esigenze che ne avevano determinato la prima apparizione. Nella tragedia del IV sec., infatti, al φόBoc subentra il «patetico» e gli autori sperimentano vie nuove, che si allontanano considerevolmente dagli «orrori» dell'epoca di Pratina e di Eschilo: il pubblico dunque avverte sempre meno il desiderio della liberatoria risata finale. D'altro canto, si affievolisce il sentimento
religioso, perciò decade a poco a poco anche l’originaria preoccupazione di «ricordarsi» di Dioniso.” 281 tentativi di vedere una continuazione del dramma satiresco in altri tipi di rappresentazione burlesca, come l'atellana o la satira romana, hanno trovato scarse adesioni, anche se si può parlare di una certa analogia di funzioni (cfr. Rossi, art. cit., 1972, pp. 299-300). 29 Nell’età ellenistica la rinascita del dramma attico fu probabilmente un fenomeno «dotto», animato dallo spirito alessandrino di ricostruzione filologico-antiquaria.
IL DRAMMA SATIRESCO PRESENZE SATIRESCHE COMMEDIA
NELLA
TRAGEDIA
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E NELLA
Secondo Orazio (Ars δι vv. 220-4) il dramma satiresco aveva una stretta relazione con la trilogia tragica che lo precedeva. Tuttavia l’esame dei titoli e dei frammenti ci consente di affermare che questo legame si allentò progressivamente, così come con il passare del tempo venne meno la coerenza tematica delle tragedie all’interno delle trilogie. Gli unici esempi di tetralogie tematicamente coerenti sono di Eschilo; in esse la vi-
cenda del dramma satiresco non rappresenta necessariamente la prosecuzione cronologica della trilogia (i Pescatori, per esempio, trattano un episodio dell’infanzia di Perseo, mentre le tragedie dovevano riguardare le imprese di Perseo adulto contro la gorgone Medusa, il ritorno a Serifo dell’eroe vittorioso e la successiva sconfitta del re dell’isola Polidette). La scelta del drammaturgo cade piuttosto su un argomento attinente al tema tragico e, nello stesso tempo, compatibile con i caratteri del genere letterario. Nel 438 a.C. Euripide rappresentò l’Alcesti al quarto posto (dopo Cretesi, Alcmeone in Psofis, Telefo), invece della solita «farsa» finale: una tragedia a lieto fine, movimentata da ripetuti colpi di scena e contraddi? Sono note tre tetralogie eschilee con questa caratteristica: Laio, Edipo, Sette a Tebe, Sfinge; Supplici, Egizi, Danaidi, Amimone; Agamennone, Coefore, Eumenidi, Proteo; probabilmente i Pescatori chiudevano la trilogia dedicata alla vicenda di Perseo, costituita dal-
le Forcidi come prima tragedia, dal Polidette quale seconda e da una terza il cui titolo non si lascia individuare tra quelli conosciuti; secondo una delle ipotesi (cfr. R. Cantarella, / nuovi frammenti eschilei di Ossirinco, Napoli 1948, pp. 67-70), questa trilogia era composta da una non attestata Danae al primo posto e dai due drammi sopra citati al secondo e al terzo. Esiste però anche la possibilità che i Pescatori trattino un mito tematicamente estraneo alla trilogia corrispondente (cfr. I. Gallo, Ricerche su Eschilo satiresco, in Studi salernitani
in memoria di R. Cantarella, Salerno 1981, pp. 138-9).
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stinta da elementi fiabeschi, un’opera considerata «sperimentale» da molti studiosi. Nella città tessala di Fere il re Admeto, prossimo alla morte, ha ottenuto da Apollo di poter prolungare la vita qualora trovi una persona disposta a morire in vece sua. Visto che nemmeno i genitori del sovrano, nonostante l’età avanzata,
sono disposti allo scambio, la giovane moglie Alcesti si dichiara pronta al sacrificio. Le prime scene propongono lo straziante congedo della donna dal marito e dai figli e il lutto dell’intera casa. Eracle bussa alla reggia per avere ospitalità e Admeto lo accoglie amichevolmente, nascondendogli la disgrazia che l’ha colpito. Dopo un violento diverbio tra Admeto e il vecchio padre Ferete, riappare Eracle, sazio e alticcio in seguito a un lauto banchetto; appresa da un servo la sventura del re, per ricambiarne la generosità, parte, deciso a strappare Alcesti a Thanatos. Poco dopo l’eroe è di ritorno con una donna silenziosa e velata, dichiara di averla
avuta come premio per una vittoria sportiva e prega Admeto di prendersene cura; sulle prime questi rifiuta, ma alla fine cede alle insistenze dell’amico. Eracle
allora toglie il velo alla donna, che si scopre essere Alcesti, e la riconsegna allo sposo incredulo e felice.
La trama di questa insolita tragedia, per la quale è stata proposta la definizione di «dramma prosatiresco», basta a suggerire certe analogie con il genere satiresco: il banchetto di Fracle, il tema dell’ospitalità, la lotta contro Thanatos, l’enigma della donna velata, la stessa con-
clusione felice rimandano a motivi diffusi nel σατυρικόν. L’Alcesti è inoltre percorsa da un’ambiguità generale, che investe i personaggi e la vicenda, e si presta a più letture; si tratta di un testo complesso, in cui i momenti di dolore più cupo si alternano alle situazioni comiche. Deve essere giudicata soltanto come uno dei numerosi esempi di indagine condotta dal geniale drammaturgo nella doppiezza dell'animo umano? O forse la sua natu-
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ra ibrida si deve a un tentativo dell’autore di superare l'angustia dei moduli satireschi, con una forma nuova di dramma?” Certamente la rappresentazione dell’ Alcesti al posto della consueta avventura dei satiri dimostra che già nel 438 a.C. la presenza del dramma satiresco non era più obbligatoria nella tetralogia.? Cori composti da satiri erano occasionalmente impiegati nella Commedia Antica e in quella di Mezzo; lo si desume dal titolo Σάτυροι attestato per commedie di Ecfantide, Cratino, Callia, Frinico, Timocle e Ofelione. Ma
poco in verità si conosce di queste opere. Non sempre inoltre la presenza dei satiri è annunciata dal titolo della commedia; ne è una prova il Dionisalessandro di Cratino (composto intorno al 431 a.C.), il cui argomento ci è stato conservato da un papiro (P. Oxy. IV, 663). La porzione leggibile è sufficiente per farci capire che il coro è composto da satiri e che il protagonista è Dioniso. Il dio, per qualche misterioso motivo, prende il posto di Paride/Alessandro come giudice nella celebre gara di bellezza tra Era, Atena e Afrodite. Dopo aver assegnato la
vittoria a quest’ultima, si reca a Sparta e rapisce Elena, quindi torna con lei nella Troade e si rifugia sul monte ?! Sutton, op. cit., 1980, pp. 184-90; la studiosa ritiene che anche
l’Elena e l’Ifigenia in Tauride di Euripide si possano definire «prosatyric play». 3 L'indipendenza del dramma satiresco dalla tragedia diventa la norma a partire dal IV sec. a.C., come conferma la citata iscrizione riguardante le Dionisie del 341-339 a.C., che menziona il titolo di un solo dramma satiresco all’inizio dell’elenco degli spettacoli, probabilmente rappresentato fuori concorso (/G 112 2320). Un'altra iscrizione, della seconda metà del II sec. a.C., proveniente da Magnesia sul Meandro (SIG 3 1079), nomina addirittura tre concorsi diversi
per ciascuno dei generi drammatici (commedia, tragedia, dramma satiresco), agoni ai quali ogni poeta partecipa con una sola opera. Questa situazione si ripresenta nella maggior parte delle testimonianze epigrafiche relative a drammi satireschi rappresentati negli anni successivi.
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Ida; ma all’arrivo del vero Alessandro viene fatto prigioniero e condotto insieme alla donna alle navi dei greci. Paride si impietosisce di fronte a Elena e rinuncia ai suoi propositi di vendetta per sposarla, mentre i satiri accompagnano Dioniso, consolandolo e promettendogli che rimarranno con lui. I resti papiracei si concludono dicendo che in questa commedia si metteva in ridicolo la coppia formata da Pericle e dalla sua amante Aspasia, sotto il cui deleterio influsso lo statista era accusato
di aver provocato la guerra tra Atene e Sparta. Il contenuto del Dionisalessandro potrebbe adattarsi facilmente anche a un dramma satiresco. È vero che i personaggi mitologici vi si trovano impiegati quali veicoli di satira politica, secondo l’uso della Commedia Antica. Ma, almeno a un primo livello interpretativo, sono di per se stessi fonte di comicità, poiché la vicenda che li coinvolge è la parodia di un racconto mitologico, come spesso succede nel sarupıxöv: l'idea di un Paride innocente, che minaccia di consegnare agli Achei la traditrice Elena, è uno stravolgimento umoristico del mito; la sua rinuncia alla vendetta richiama ironicamente
il comportamento di Menelao che, dopo la caduta di Troia, si lascia persuadere a non uccidere la moglie fedifraga. Le analogie con il genere satiresco non finiscono qui. Infatti il temporaneo distacco da Dioniso dei satiri, che scherniscono la nuova occupazione del dio, ma alla fine si riconciliano con lui, trova corrispondenza in una situazione simile rappresentata dagli Spettatori di Eschilo, dove il coro è sfuggito a Dioniso per poter partecipare ai giochi atletici sull’Istmo di Corinto. Anche in questo caso la conclusione del dramma vede i satiri uscire di scena insieme al loro padrone. Infine, non è una semplice coincidenza che lo stesso soggetto del Dionisalessandro compaia nella produzione satiresca di Sofocle: è con certezza il tema del Giudizio, molto
probabilmente anche del Matrimonio di Elena.
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I PERSONAGGI
Sileno e i satiri
I satiri della civiltà greco-romana sono demoni delle foreste, dalle sembianze semiferine (per metà uomini, per metà capri), tradizionalmente abbinati alle menadi nel corteo bacchico, sia dalla letteratura che dalle
arti figurative. Li troviamo rappresentati da numerose pitture vascolari come piccoli esseri vivacissimi, di solito provvisti di un fallo smisurato, una lunga coda, un naso camuso, orecchie a punta e, talvolta, piccole cor-
na; possono avere la barba e in alcuni casi sono calvi. Quanto al costume dei coreuti del dramma satiresco,
in genere si adegua a questa immagine consolidata nella fantasia degli antichi: i satiri teatrali indossano un perizoma dotato di un grosso fallo di cuoio e una maschera barbuta con le orecchie pronunciate. Poiché nei σατυρικά i coreuti appaiono di volta in volta come pescatori, pastori, cacciatori, atleti, pedagoghi, araldi e persino taumaturghi, non si può escludere che in certi casi dovessero entrare in scena equipaggiati dell’abbigliamento e degli strumenti richiesti dalla loro specifica funzione. Essendo un prodotto dell’immaginazione popolare, come Pan e le ninfe, la rappresentazione dei satiri tendeva inevitabilmente ad assorbire le tradizioni locali,
ed essi assumevano aspetto e funzioni diverse a seconda delle regioni. Anche la loro associazione con Dioniso non è universale e neppure molto antica: le testimonianze archeologiche suggeriscono che si consolidò soltanto nel VI sec. a.C. Nello stesso periodo, presumibilmente, i sileni, demoni dei boschi appartenenti alla tradizione ionico-attica, dotati di sembianze umane, ma con orecchie, coda e zampe equine, si confusero
con i satiri, di probabile origine peloponnesiaca, e da allora i termini σάτυροι e σιληνοί divennero intercam-
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INTRODUZIONE
biabili.”” Nel
dramma
satiresco
del V sec. a.C., un
membro del tiaso con il nome proprio di Sileno emerse in qualità di padre dei satiri-sileni: ciò probabilmente poté accadere a partire dall’antica credenza nei sileni come figure individuali, attestata da diverse fonti;
Sileno è in genere rappresentato come un vecchio molto brutto, con il naso camuso, grosse labbra, barba
bianca e un grande ventre. La sua origine è oscura: figlio di una ninfa e di Pan (o di Ermes), secondo alcune fonti nacque dal sangue di Urano, quando questi fu mutilato dal figlio Crono; nel mito, per la sua saggezza era stato posto da Zeus come pedagogo accanto a suo figlio Dioniso. I satiri teatrali sono sempre accompagnati dal loro anziano padre, leader e portavoce del coro..Per certi aspetti egli non è che un satiro più anziano; coinvolto nelle stesse vicende dei suoi figli, ne con-
divide i caratteri salienti, come la passione per il vino, il cibo e le donne e la rapida alternanza di spavalderia e viltà, che lo avvicina al tipo del miles gloriosus. Rispetto ai satiri, Sileno pare dotato di una maggiore accortezza; generalmente parte da lui l’idea di avviare trattative di vario genere con gli altri personaggi del dramma, di solito con lo scopo di rovesciare la situa-
zione a proprio vantaggio. Così nei Pescatori è probabile (malgrado i versi in questione siano perduti) che, in cambio dell’aiuto concesso a Ditti nel trascinare a riva una rete pesantissima, egli abbia ottenuto la promessa di avere una parte del misterioso bottino, e que-
sto giustifica le sue pretese quando si scopre che si 3 Come
attestano, per esempio, Platone, Symp. 215b, 216d, 221d,
222d (in cui si parla di «dramma satiresco o silenico») e Senofonte, Symp. IV, 19. * Cfr. p. es. Pindaro, frr. 156, 157: Erodoto VII, 26, VIII, 138; Pausania I, 23, 6; III, 25, 2; VI, 24, 8; Diodoro Siculo III, 72; Apollodoro II, 5, 4; Clemente Alessandrino, Protr. 24. Tra i sileni più celebri è
Marsia, che gareggiò con Apollo nel suono del flauto.
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tratta di una donna. Allo stesso modo nei Cercatori Sileno risponde alla richiesta di soccorso di Apollo, ma prima di incitare i suoi figli a seguire le tracce della mandria del dio, stabilisce con precisione la ricompensa che dovrà essere corrisposta se la ricerca avrà successo (vv. 51-63). Nel Ciclope Sileno è in una situazione di debolezza, prigioniero insieme ai satiri del feroce Polifemo, eppure coglie al volo l'occasione di guadagnare vino e denaro vendendo a Odisseo i formaggi del suo padrone, salvo poi accusare i greci di averlo costretto con la forza, quando il ciclope esige spiegazioni . (vv. 138 ss.). Ne risulta un personaggio grottesco, nel quale non è difficile ravvisare la caricatura dell’uomo guidato dall’unico principio della soddisfazione personale, pronto a tutto per raggiungere il suo scopo, ma altrettanto veloce nel tirarsi indietro non appena all’orizzonte si profila un pericolo reale. Tra gli studiosi si è discusso a lungo se, nella messa in scena dei drammi satireschi, Sileno coincidesse con
il corifeo (ovvero il «portavoce» del coro) o fosse interpretato da un attore, come un personaggio a pieno titolo. Nei Cercatori, nel Ciclope, e probabilmente anche nei Pescatori, egli fa la sua comparsa prima del coro, nel prologo o subito dopo; si ha inoltre l’impressione che goda di una certa libertà di entrare in scena e uscirne indipendentemente dai coreuti. Nel Ciclope sembra che lasci la scena in quattro occasioni: per cercare provviste da vendere a Odisseo (vv. 174-87, nel
frattempo il coro scambia alcune battute con l’eroe, a proposito della guerra di Troia e del trattamento riservato dagli Achei a Elena); per acconciarsi in modo da convincere Polifemo del fatto che ha subito le percosse dei greci (vv. 203-287, cfr. n. 59, pp. 323-4); durante la scena in cui Odisseo descrive il cannibalismo del ciclope e illustra ai satiri il suo piano per sconfiggere il mostro (vv. 355-503); infine, al v. 590, Sileno abbando-
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= INTRODUZIONE
na la scena per non farvi più ritorno. Nei Cercatori Sileno sente il suono della lira e, per paura, si ritira dalla caccia (intorno al v. 209), restando lontano dalla scena durante il colloquio dei satiri con la ninfa Cillene, cioè per almeno duecento dei quattrocento versi che restano del dramma. Questa libertà di movimento avvalora la teoria che nell’allestimento dei drammi satireschi il ruolo di Sileno fosse affidato a un attore e non a un semplice coreuta. La principale obiezione a questa ipotesi viene dal «Vaso di Pronomo». Oltre agli attori, esso raffigura Sileno, dieci coreuti che indossano il perizoma e un undicesimo che porta chitone e mantello. A meno che il pittore abbia dimenticato un satiro, se Sileno in questo dramma fosse interpretato da un attore, si avrebbe un coro di undici elementi. Sappiamo che Sofocle, oltre a introdurre nella tragedia il terzo attore, elevò il numero dei coreuti da dodici a quindici; può darsi che al tempo in cui fu prodotto il vaso (fine del V sec. a.C.) il numero dei coreuti fosse di nuovo ridotto a dodici, ma
un coro di undici elementi non è attestato altrove. Sembra preferibile pensare che Sileno facesse parte del coro, ma avesse la facoltà di agire e parlare indipendentemente da esso. In conclusione, il padre dei satiri potrebbe occupare una posizione intermedia tra coro e attori.?é 35 Seaford, op. cit., 1984, p. 3, è sicuro che questo satiro sia il corifeo. 3° Sutton, op. cit., 1980, p. 140, suppone che Sileno sia il corifeo, ma con la libertà di entrare e uscire di scena anche senza il coro, e
che durante le sue assenze sia sostituito da una sorta di vicecorifeo. Seaford, op. cit., 1984, pp. 4-5, osserva che dai titoli e dai frammenti di Eschilo risulta molto verosimile che la maggior parte dei suoi drammi satireschi richiedessero solo due attori oltre a Sileno. Probabilmente questi erano gli stessi che avevano recitato nella trilogia, mentre Sileno, quantunque indipendente, era un membro del coro. D'altra parte la presenza di tre attori non è dimostrata in modo certo per nessuna scena dei drammi satireschi sopravvissuti, perciò è
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I drammi satireschi ci presentano i satiri come figure grottesche ed elementari; furbi e petulanti, simpaticamente irresponsabili, sempre pronti a divertirsi, ora a spese degli uomini, ora alleandosi con loro. Nei Cercatori sono definiti θῆρες («bestie», vv. 147, 153) e paragonati ad animali come il porcospino (v. 127) e la scimmia (v. 128). Una φύσις selvaggia e una prorompente vitalità spingono i satiri all'immediata gratificazione degli appetiti corporei: i seguaci di Dioniso sono dominati dall’istinto, che li indirizza alla ricerca del ci-
bo, del vino, del sesso. Nel Ciclope sono pronti a derubare Polifemo dei suoi averi per avere qualche sorso della dolce bevanda di Odisseo, nei Pescatori la com-
parsa sorprendente di Danae suscita subito nel vecchio Sileno l’idea di sedurla. Altrettanto entusiasmo mostrano per la loro danza caratteristica, la cikivvig («sicinnide»), un ballo contraddistinto da saltelli e da un
ritmo molto animato e coinvolgente.” La codardia è un altro tratto fondamentale della personalità dei satiri teatrali; essi si lasciano impaurire con estrema facilità, come succede quando Odisseo li incita a parteci-
pare all'accecamento di Polifemo nel Ciclope (vv. 63555) o quando odono le note della lira inventata da Ermes nei Cercatori (vv. 138 ss.). Nondimeno, quando si sentono al sicuro, sfoggiano coraggio e audacia, tanto che il rapido passaggio dalla spavalderia al panico é una fonte ricorrente di comicità. Paradossalmente, se per un verso i satiri sono infepossibile che, quando Sofocle introdusse nella tragedia il terzo attore, questo diventó disponibile per recitare la parte di Sileno nel successivo dramma satiresco. In questo modo il ruolo di corifeo fu chiaramente distinto da quello di Sileno e passó al primo dei coreuti. ” Altri tipi di danza furono inventati appositamente per certi drammi: per esempio nell’Anfiarao di Sofocle, secondo la testimonianza di Ateneo (X, 454 F), la danza prevedeva che i coreuti si di-
sponessero in modo da formare le lettere dell'alfabeto.
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INTRODUZIONE
riori agli uomini, per l’altro manifestano inequivocabili segni di vicinanza al mondo degli dei. Alcuni drammi, infatti, li presentano a stretto contatto con il so-
prannaturale, dotati di facoltà prodigiose, simili alle maghe della tradizione, come Medea e Circe, o al multiforme Proteo; nell' Eneo o Scheneo, attribuibile con
beneficio d’inventario a Sofocle (P Oxy. VIII, 1083, fr. 1), si autopresentano così: «Noi siamo figli delle ninfe, adepti di Bacco, vicini di casa degli dei. Siamo le persone adatte per ogni abilità più bella: duello con le picche, lotta libera, corsa sui cavalli, corsa a piedi, pugilato, morsi, strappo di coglioni; ma in noi c’è anche l'arte di cantar canzoni, d’indovinare profezie veraci, non bugiarde, di mettere alla prova medicine, prender le misure al cielo; poi danzare, chiacchierare d' Aldilà».
Sileno e i satiri non vivono soltanto nel teatro: figure familiari a tutta l’antichità, sotto varie forme sono tra i
personaggi ricorrenti nell'immaginario greco-romano. Le convinzioni che circolavano sui satiri-sileni non mancavano di ambiguità e paradossi. Nell'/nno omerico ad Afrodite (vv. 262-3), alla loro prima comparsa nella letteratura, i sileni sono sorpresi mentre amoreggiano con le ninfe nelle grotte; dei satiri Esiodo (fr. 123 M.-W.) dice che sono «vili e inetti» (οὐτιδανοὶ καὶ ἀμηχανοεργοί). Eppure si raccontava che il re Mida avesse riscontrato in uno di loro una saggezza più che umana? e i pastori di Virgilio ottennero da Sileno un canto di grande profondità e bellezza.” Plutarco narra che, quando Sil-
la era in procinto di salpare dalla Grecia diretto in Italia nell’83 a.C., gli fu condotto un satiro catturato men3$ Varie sono le fonti di questo noto episodio, tra esse Erodoto VIII, 138, Aristotele, fr. 44 Rose (in Plutarco, Mor. 115b), Teopompo, 115 FGC 75b. 39 Virgilio, Ecl. VI.
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tre dormiva in un boschetto abitato dalle ninfe.* L’abitudine di travestirsi da satiri durante le processioni sacre era così consolidata che, ancora nel 692 d.C., le au-
torità cristiane di Costantinopoli dovettero vietare le maschere satiresche durante le funzioni religiose. I satiri sono più rozzi degli uomini, ma in qualche modo anche più assennati; in loro si combinano malizia e saggezza, animalità e divinità. La duplice natura dei satiri-sileni colpì anche Platone, che a essa fece ri-
ferimento per tratteggiare un folgorante ritratto di Socrate, attraverso le parole di Alcibiade; il discepolo de-
finisce il suo maestro come «la copia vivente di quei sileni esposti nelle botteghe degli scultori. Quelli sbozzati dagli artisti, con zufoli e flauti in mano: sono sta-
tuette che si aprono in due, e si scopre che dentro hanno figurine di dei» (Symp. 215b). Come Socrate, i seguaci di Dioniso seminano inquietudine perché sono portatori di una contraddizione irresolubile. Anche nei suoi riti il tiaso dionisiaco conserva questa ambiguità. È documentata l'usanza di travestirsi da satiri durante la festa primaverile delle Antesterie. Abbiamo infatti numerosi boccali da vino (utilizzati nel secondo giorno delle celebrazioni) che raffigurano le scene dei festeggiamenti: molte di esse presentano uomini e ragazzi recanti maschere di satiri.* I riti dei Xóec? culminavano con una cerimonia durante la quale la moglie dell’arconte
βασιλεύς, insieme
a quattordici
donne,
compiva un sacrificio segreto, godeva del privilegio del4 Sulla, 27. ^! Secondo Seaford, op. cit.,1984, p.7, n. 17, l'immagine dei satiri è
simile a quella degli «uomini selvaggi» (wild men) dell’antico folclore europeo. 4 Seaford, op. cit., 1984, p. 7, ritiene che le credenze riguardo al
carattere dispettoso e giocoso dei satiri derivino dal comportamento degli uomini-satiri in questa e in occasioni simili. 4 Il secondo giorno delle Antesterie, che prendeva nome dai «boccali».
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la visione di misteriosi oggetti, quindi era data in sposa a Dioniso. In questo modo le Antesterie combinavano il festeggiamento organizzato dalla città, quindi «politico», con il rituale misterico di un tiaso di donne-menadi.
È verosimile che il dio fosse accompagnato in corteo al matrimonio da uomini vestiti da satiri. Questi ultimi partecipavano non solo ai momenti pubblici delle feste, ma anche ai misteri. Le Leggi (815c) platoniche parlano di «purificazioni» (καθαρμοί) e «riti iniziatici» (τελεταί) aventi per protagonisti uomini e donne che danzavano mascherati da ninfe, Pan, sileni e satiri. La pittura elleni-
stico-romana conferma questo aspetto delle iniziazioni misteriche. Inoltre, le poche iscrizioni che riportano i nomi dei componenti dei tiasi dionisiaci includono soprannomi inequivocabilmente satireschi, come Σειληνόκοσμος, ΣεΕιληνός, ἄππας Διονύσου."
Trasferiti dalla foresta allo spazio urbano, da una parte i satiri sono uomini che si mascherano per gioco durante i festeggiamenti pubblici, dall’altra sono i ministri di Dioniso e i custodi dei suoi segreti. Soltanto nel teatro la polarità tra festa pubblica e rito iniziatico riservato agli adepti si dissolve: il dramma può essere rappresentato perché gli attori e i coreuti rinunciano alla loro identità per assumerne un’altra. E questa trasformazione, che è anche il cuore dei misteri, viene
proposta dai satiri davanti all’intera città. Gli eroi satireschi Nel dramma satiresco è l’idea stessa di eroismo a subire un attacco corrosivo. 4 Cfr. M.P. Nilsonn, The Dionysiac Mysteries of the Hellenistic and Roman Age, Lund 1957, n. 25, p. 56. 1 satiri erano molto popolari anche nell’arte funeraria, probabilmente proprio per l’associazione del defunto con la figura dell'iniziato (come colui che ha conosciuto i «misteri» dell’Oltretomba ed è rinato a nuova vita): cfr. F. Matz, Die Dionysische Sarkophage, Berlin 1968-1975, passim.
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La crisi dell’eroe è portata al massimo grado nei casi in cui i personaggi della trilogia che precede il dramma riappaiono, grotteschi o comicamente degenerati, nell’ultima rappresentazione. Questo «abbassamento» non colpisce solo personaggi intimamente ambigui (come Odisseo), ma anche figure come Prometeo, Edipo, Perseo, Palamede. Anzi, in molti σατυρικά l'eroe
tragico è sostituito da un individuo di stampo completamente diverso: la sua nota distintiva è l’abilità nel cavarsela in tutte le situazioni, senza troppo preoccuparsi dei metodi con cui raggiunge il suo scopo. Egli ha in comune con i satiri la voglia di libertà, la naturale inclinazione alla gioia e alla festa: in questo mostra una singolare vicinanza ai protagonisti della Commedia Antica. Purtroppo abbiamo perduto i versi dei Pescatori in cui Ditti doveva rivolgersi a Danae offrendole la sua protezione non disinteressata, ma, dai lamenti desolati
di quest'ultima (vv. 773-83), possiamo supporre che gli argomenti del protagonista non fossero molto piü rassicuranti delle ipocrite smancerie con le quali il suo avversario Sileno tenta di sedurre la malcapitata eroina (vv. 786 ss.). L’eroe satiresco, pur conservando una certa superiorità di sentimenti nei confronti dei suoi avversari (anche perché questi di solito sono mostri o personaggi feroci e disumani), incarna il tipo dell'uomo «medio», che non è interamente buono, né interamente malvagio, e
agisce principalmente per salvaguardare l'incolumità della sua persona e dei suoi beni. Attraverso personaggi di questo tipo, il dramma satiresco propone al pubblico ideali più raggiungibili rispetto a quelli tragici e una moralità meno granitica. Del resto, quando l'eroe satiresco raggiunge il suo scopo, anche se la molla dell'azione è stata il puro vantaggio personale, le conseguenze benefiche dell'impresa ricadono sull'intera comunità. La mitologia greca offre una ricca collezione di
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mostri, briganti, streghe, malfattori di ogni sorta che funestano il genere umano; nei σατυρικά 1 protagonisti se ne sbarazzano, senza grandi sacrifici. Non solo. La sconfitta del «nemico dell’umanità» diventa occasione per riaffermare il valore e la forza della vita associata della polis. La città infatti esce vittoriosa sia dal confronto con l’asocialità e la ferinità degli «orchi», sia rispetto a una forma arcaica di comunità, quale è il coro dei satiri,
uniti solo dal legame di sangue. Odisseo, con un uso spregiudicato dell’intelligenza, escogita un piano geniale per sopraffare il ciclope; l'eroe acceca Polifemo con l’aiuto dei suoi compagni, mentre i satiri se ne stanno vilmente in disparte. Dopo che l’attentato è stato coronato dal successo per esclusivo merito dei greci, anche il coro è libero dalla schiavitù e può imbarcarsi sulla nave di Odisseo. Ma il /eader dei satiri, Sileno, uscito di
scena, non partecipa alla festa per la vittoria; ormai è sostituito da Odisseo, al quale si addice l’autorità del capo. Rispetto al tiaso dei satiri l'eroe e i suoi amici rappresentano un modello di comunità fondata sul rispetto della φιλία, l'«amicizia». È un rapporto che implica responsabilità reciproche e solidarietà: ciascuno deve considerare il benessere del φίλος alla stregua del proprio. Il vincolo di amicizia sul quale si basa la comunità umana si oppone all’isolamento egoistico in cui vivono 1 ciclopi, ma supera anche la primitiva relazione parentale che unisce Sileno e i satiri; a differenza degli eroi tragici, di fronte alle sfide della sorte, i protagonisti dei drammi satireschi non sono più soli.? Gli dei
Come gli eroi, anche gli dei nel dramma satiresco sono trattati assai più familiarmente che nella tragedia. Nei ^» Cfr. D. Konstan, An anthropology of Euripides’ Cyclops, «Ra-
mus» 10, 1981, pp. 87-103.
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Cercatori, Apollo, dio profetico, non riesce a scoprire da sé il ladro dei suoi armenti ed è costretto a ricorrere all’aiuto dei satiri e del loro padre Sileno. Quest’ultimo poi discute con il dio da pari a pari, contrattando la ricompensa per la sua partecipazione alla ricerca delle vacche rubate (vv. 1-63). Nello stesso dramma la ninfa Cillene è ritratta come una trepida balia, che descrive con tenerezza materna le cure prestate al piccolo Ermes, si preoccupa che il chiasso dei satiri disturbi il sonno del dio, e difende quest’ultimo con orgogliosa tenacia quando i satiri lo incolpano del furto ai danni di Apollo (vv. 221-2, 272-6, 338 ss.). Nell’episodio già citato dei Pescatori, Danae chiama in causa Zeus senza
troppi riguardi, invitandolo ad assumersi le proprie responsabilità e a toglierla dai guai, visto che all’origine delle sue disavventure c’è il concepimento del divino infante Perseo. Nel σατυρικόν le divinità olimpiche sono costrette a dialogare con i personaggi di un mondo rustico e umile: i pastori dell’ Arcadia, i pescatori di Serifo, gli atleti di Corinto. Il caso degli Spettatori è particolare. Qui infatti il dio protagonista, Dioniso, subisce addirittura l'offesa dei suoi tradizionali ministri, 1 satiri del coro,
che hanno abbandonato il suo servizio per dedicarsi all’atletica. La rhesis (vv. 23-36) con cui il nume esordisce nel dramma è il discorso di un padrone furibondo per la ribellione dei suoi servi, che vengono redarguiti aspramente, in un crescendo di minacce. Se negli Spettatori Dioniso è il personaggio attorno al quale ruota la vicenda, la presenza del dio anima tutti i drammi satireschi; era lo stesso coro dei satiri a in-
durre il pubblico a ricordare il nume estatico, anche quando le vicende rappresentate non erano storie dionisiache. Il Ciclope incomincia con un’apostrofe a Bromio (uno dei vari appellativi di Dioniso) e l’ultimo verso del dramma ne contiene di nuovo il nome. Per i sati-
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ri l’esistenza al fianco di Bacco significa amore, danza e gioia, come cantano nell’epodo della parodo (vv. 6381). La schiavitù imposta dal ciclope è la negazione della vitalità dionisiaca: il coro è costretto a vivere in una «terra senza danze» (ἄχορον χθόνα, v. 124), un luogo desolato (ἐρημίαν, v. 622), che i satiri desiderano abbandonare per tornare al culto del loro dio (v. 709). Oltre che nella memoria e nel cuore dei satiri, Dioniso è pre-
sente nel vino contenuto negli otri dei greci, anzi egli è il vino stesso. Il linguaggio del dramma lascia poche incertezze riguardo al concetto di consustanzialità, sul quale si fonda la comunissima metonimia Bacco = vino. Dopo aver piacevolmente sorseggiato la bevanda, Sileno grida che Bacco lo invita a danzare (v. 156); seguendo a questa affermazione, il commento di Polifemo — «Qui non c’è Dioniso» (v. 204) - ha un fondo di tragica ironia. L'idea stessa di far ubriacare il ciclope balena nella mente di Odisseo come «qualcosa di divino» {τι θεῖον, v. 411); dopo pochi versi anche il liquore bacchico è definito «divino» (v. 415). Il dio riveste un ruolo attivo nel piano dei greci: Polifemo deve addormentarsi «vinto da Bacco» (v. 454). Ma l'equazione Dioniso = vino diventa ancora più esplicita nel dialogo tra Odisseo e Polifemo, quando il ciclope domanda come può un dio stare bene in un otre e l’eroe risponde che «egli si trova a suo agio dovunque lo mettano» (v. 526). Sotto il tono canzonatorio di Odisseo, che si atteggia a maestro di cerimonie nel simposio del suo avversario, l’identità vino = dio è pronta a entrare in azione contro un individuo che si vanta di non riconoscere alcuna divinità. In questo quadro Odisseo diventa complice del dio dei satiri; come si è già osservato, questi ultimi risultano incapaci di collaborare concretamente al piano dei greci; la loro alleanza, basata unicamente sulla parentela, si disintegra di fronte alla crisi rappresentata dal pericolo. Odisseo non si meraviglia della loro viltà, sa
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bene che i satiri sono così «per natura» (v. 649). A] contrario, la collaborazione tra il capo greco e i suoi uomi-
ni risulta vincente: la vittoria di Dioniso è ottenuta tramite il potere irrazionale dell’estasi - il vino che fa ubriacare Polifemo - e la forza dell’«amicizia» (φιλία),
la solidarietà dei marinai uniti contro il ciclope. Sono questi i due poli entro i quali si giocano le sorti della comunità cittadina.
I MOTIVI TOPICI
Diversi argomenti e situazioni ricorrono nei drammi satireschi con tale frequenza da poter essere qualificati con una certa sicurezza come motivi topici di questo
genere letterario.‘ Come si vedrà, alcuni di questi temi possono essere ricondotti alle attività rituali tradizionalmente svolte dai cori di satiri durante le feste di Dioniso, in particolare nel corso delle Antesterie:*
l’autore se ne serve per ricordare al pubblico che l’ultimo spettacolo dell’agone drammatico è un tributo al dio, «dimenticato» dalla tragedia. In altri casi invece,
gli stereotipi hanno lo scopo di rendere più comprensibile il messaggio etico-politico o filosofico-estetico del σατυρικόν, che rivela un’esuberante «tendenza» ideologica. Eschilo negli Spettatori si propone come difensore dei valori dionisiaci contro la passione per lo sport importata dalla Doride; il problema della rordeia torna 4 Uno studio fondamentale su questo tema è ancora quello di P. Guggisberg, Das Satyrspiel, Zurich 1947, pp. 60-74, al quale tutti i
commentatori successivi fanno rifenmento. Un'ampia e interessante analisi delle tematiche satiresche è quella di L. Paganelli, art. cit., pp. 228-74, che sottolinea la portata innovativa di alcuni argomenti del
σατυρικόν e ne esamina le conseguenze a livello drammaturgico. 4 Cfr. Seaford, op. cit., 1984, pp. 33-44; Sutton, op. cit., 1980, pp. 145-59.
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anche nel Giudizio di Sofocle (fr. 361 Radt), che contrappone la severa educazione degli antichi al permissivismo dei moderni. La produzione satiresca sofoclea sembra attestare un interesse specifico dell’autore per la critica letteraria e musicale: il fr. 159 Radt del Dedalo è un abbozzo di teoria estetica della letteratura, con-
siderata come sintesi di tecnica umana e ispirazione divina; una lunga digressione sull’origine, la natura, le potenzialità catartiche della musica si trova nei Cercatori di tracce (fr.314 Radt, vv. 204 ss., 243 ss., 293 ss., 397
ss.). Nello stesso dramma la ninfa Cillene è portavoce della teoria dell’origine sociale del furto, prerogativa del κακός, appartenente ai ceti inferiori e costretto dal bisogno (vv. 333 ss., 362 ss., 385 ss. Radt). L'intento propagandistico è evidente nel Ciclope e nei frammenti satireschi di Euripide, che sfrutta i luoghi comuni del genere letterario per costruire drammi «a tesi», particolarmente congeniali al poeta engagé. Lotta contro un «orco» e ospitalità violata La sconfitta di un malvagio, che spesso assomiglia all'orco della tradizione favolistica e folclorica, è la più comune delle situazioni rappresentate nei drammi satireschi. Di solito il «mostro» agisce indisturbato contro tutti gli sventurati che gli capitano a tiro, finché non commette l'errore di voler esercitare la sua violenza nei confronti
di un eroe capace di batterlo. E il caso del Ciclope, in cui
Polifemo, dopo aver ucciso e mangiato due dei greci approdati in Sicilia, è ingannato e ridotto all'impotenza da Odisseo, che lo acceca. Tra i drammi che rappresentano varianti di questo tema ci sono il Cercione di Eschilo, l'Amico di Sofocle, il Busiride,lo Scirone e il Sileo di Eu-
ripide, il Dafni o Litierse di Sositeo. Creature mostruose sono uccise, o perlomeno rese inoffensive, in numerosi altri drammi di Eschilo (Circe, Proteo e Sfinge), di Sofocle (Dedalo e Inaco), di Euripide (Teseo).
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Questo comune motivo satiresco è di frequente associato ad altre situazioni stereotipiche, come il tema della schiavitù dei satiri (cfr. Schiavitù e liberazione dei satiri, pp. 55-7) e quello dell’ospitalità violata. In particolare, nei drammi che ruotano intorno allo scontro con un «molestatore di viandanti», la sconfitta di quest’ultimo tende a essere presentata come punizione per il mancato rispetto delle regole della &evio. Per i greci il rapporto di ospitalità è reso sacro dalla protezione di Zeus Xenios, sotto la cui tutela si riparano gli ospiti, i supplici, i viandanti in difficoltà, i naufraghi. E in nome di questo dio che Odisseo vorrebbe ricevere da Polifemo doni ospitali (vv. 299-301), ma il ciclope non riconosce le nor-
me dettate dagli dei, perché si ritiene superiore a loro (vv. 316-46). Mostrandosi pari a tanti altri «orchi» della drammaturgia satiresca, egli si delinea quale controfigura comica e parodica dei grandi «peccatori» della tragedia: spregiatore più o meno consapevole delle leggi divine, al momento della resa dei conti non può che essere beffato da chi, al contrario, si è alleato con gli dei. Schiavitù e liberazione dei satiri
La schiavitù dei satiri è un espediente spesso utilizzato per giustificare la loro apparizione in occupazioni, costumi e ambienti insoliti; il tema dei satiri-servi si ac-
compagna inoltre comunemente a quello della lotta contro un malfattore. Questo accade nel Ciclope euripideo, dove Sileno e i suoi figli, approdati ai piedi dell’Etna in seguito a una tempesta, sono stati catturati da Polifemo e costretti a obbedirgli (come pastori delle sue greggi, addetti alla pulizia della grotta e alla preparazione dei pasti, vv. 23-6). Più volte nel corso del dramma il coro paragona le umili occupazioni del presente al piacevoli obblighi imposti da un’altra «schiavitù», quella del tiaso dionisiaco. È ad essa che la condizione subalterna dei satiri rimanda continuamente.
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Nei Cercatori di tracce di Sofocle, Apollo promette la libertà ai satiri se lo aiuteranno a recuperare la sua mandria (vv. 63, 78, 162-4, 457). Quanto ci rimane dei
Pescatori di Eschilo non ci consente di sapere se i satiri siano rappresentati come liberi pescatori di Serifo o servi del re dell’isola, Polidette. Anche quando i satiri non sono costretti con la forza ad assumere funzioni inconsuete, è sottinteso che debbano essere fedeli al
loro ruolo naturale di ministri di Bacco. Gli Spettatori di Eschilo ne sono la riprova. I satiri stanno cercando di sfuggire a Dioniso per dedicarsi ai giochi atletici (v. 92), ma la conclusione del dramma li vede riconciliati con il loro dio e di nuovo al suo servizio.‘ Lo Pseudo-Apollodoro? narra che Dioniso, mentre marciava verso l’India con il suo esercito di satiri e baccanti, chiese a Licurgo, re della Tracia, il permesso di attraversare i suoi territori; il sovrano non lo ac-
cordò, e fece prigioniero il tiaso, che in seguito si liberò miracolosamente dal carcere in cui era rinchiuso. Il tema della prigionia e della successiva prodigiosa liberazione di Dioniso e dei suoi seguaci appartiene alla «storia sacra» di questa divinità, nell’ambito della quale si rappresenta la trasfigurazione mitologica delle re-
48 Ma la questione dell’identità del padrone dei satiri in questo dramma è ancora aperta, cfr. Cercatori di tracce, n. 12, p. 237.
® Talvolta il tema della fuga è trasferito dai satiri ai personaggi mitici, che lottano contro l’orco «mangiaviandanti», come Eracle nel Busiride e nel Sileo, Teseo nello Scirone, tre drammi euripidei di impianto molto simile. Nei Pescatori e nell’Amimone di Eschilo, in-
vece, sono i satiri e Sileno a voler imporre una sorta di schiavitù sessuale alle protagoniste (cfr. Pescatori, vv. 773 ss. e in particolare v. 776). 50 Bibl. III, 5, 1. 3 Eschilo sembra seguire questa versione del mito nella tetralogia dedicata a Licurgo. Nelle Baccanti di Euripide Penteo imprigiona Dioniso e minaccia di rendere schiave le menadi che formano il coro (vv. 509-14).
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sistenze incontrate dall’introduzione del culto estatico in alcune zone della Grecia. Il dionisismo originario, infatti, spaventava perché rivendicava poteri eversivi, nemici di ogni tradizione, non solo nella sfera religiosa; la tematica dell’affrancamento dei satiri ad opera di Bacco o di un eroe sembra adombrare la convinzione che il credo dionisiaco potesse tradursi in ἐλευθερία politica e in rivoluzione sociale. È probabile che gli stessi argomenti in seguito diventarono centrali anche nella celebrazione dei misteri dionisiaci, trasferendosi
così in un ambito più intimo: la liberazione dalla schiavitù poté essere allora simbolo di una ritrovata armonia e indipendenza dello spirito. Ambientazione esotica e bucolica
Mentre la tragedia in genere è ambientata in un contesto urbano, spesso davanti ai palazzi dei re, il σατυ-
pıxöv predilige una scena naturale, rustica ed esotica, come aveva già osservato Vitruvio.” La vicenda del Ciclope si colloca ai piedi dell’Etna, di fronte alla grotta di Polifemo; con i Pescatori siamo sulla spiaggia dell’isola di Serifo; i Cercatori si aprono sugli anfratti del monte Cillene, nella primitiva Arcadia. In questi scenari bucolici e marginali i satiri, per la loro indole «selvatica», si sentono a proprio agio: come il dio che accompagnano, essi sono demoni della vegetazione spontanea, delle foreste rigogliose dove i cuccioli degli animali imparano dai genitori a procurarsi il cibo offerto dalla natura (cfr. Pescatori, vv. 808-20). Da una parte, per gli spettatori, quello del dramma ? De Arch. V, 6,9: satyricae (scaenae)... ornantur arboribus, speluncis, montibus. Il tema dei paesaggi bucolici e, in generale, dell’am-
bientazione del dramma satiresco è ampiamente trattato da L.E. Rossi, art. cit., 1972, pp. 261-2, nn. 42 e 45 e da L. Paganelli, art. cit., pp. 213-22, 274-82.
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satiresco è il luogo dell’evasione in un mondo nel quale le norme del vivere civile sono allentate, se non in-
frante. Lontano dalle poleis della penisola ellenica e dell’ Asia Minore, gli alberi, le grotte, i monti di cui parla l'architetto romano, sono i particolari di un paesaggio fantastico, indefinito e rasserenante, dove si può so-
gnare di condurre una vita senza affanni, un giardino incantato, quasi una prefigurazione dei Campi Elisi, la dimora beata dei defunti favoriti dagli dei: l'evocazione di orizzonti lontani produce un effetto estetico di straniamento. D’altro canto però, la frequenza di precisi riferimenti geografici, che talvolta modificano i dati tradizionali del mito, in certi drammi è il segnale di una più scoperta intenzione politico-ideologica. Nel Glauco Marino Eschilo trasferisce in Magna Grecia una saga beotica e sembra auspicare l’intensificarsi dei rapporti tra le città italiote e la madrepatria. La politica estera di Atene si stava decisamente rivolgendo all'Occidente quando Sofocle compose il Dedalo e trasferì in Sardegna (o in Sicilia) il mito dell’artefice cretese. Il Ciclope di Euripide offre una rete tanto fitta di allusioni all’ambientazione siciliana, che gli studiosi se ne sono serviti per circoscrivere la datazione del dramma e vi hanno scorto la presa di posizione dell’autore a favore dell’espansionismo ateniese. All’ambientazione esotica del σατυρικόν si connette, infine, una messa in scena che sperimenta nuove e
ardite soluzioni drammaturgiche. Il soggetto del Pescatori con la rete di Eschilo è simile a quello del noto threnos del poeta lirico Simonide; l’innovazione eschilea consiste nell’aver trasposto il dramma della sventurata Danae dall'interno buio della λάρναξ dandorea allo spazio aperto del mare e della spiaggia: i lamenti dell'eroina non nascono piü dalla segregazione nell'arca, ma dal rischio dell'asservimento erotico cui vorreb-
be costringerla Sileno. Prima di Eschilo nessuno aveva
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osato mettere in scena la pista di uno stadio, cosa che accade negli Spettatori, in cui i satiri, anziché itifallici,
compaiono infibulati come atleti, con un sicuro risultato umoristico. Nello sfondo selvaggio dei Cercatori la fantasia di Sofocle ottiene effetti di comicità grottesca, trasformando i satiri in «cani da fiuto» e accogliendo in scena una gestualità animalesca che era assolutamente
bandita dalla tragedia: in questo caso, come sottolinea Paganelli, «la sintesi fra spazio e tematiche, l’incarna-
zione dei contenuti in uno scenario prettamente satiresco, è quasi impeccabile». L'ambiente bucolico del Ciclope anticipa i tempi, creando un precedente del dramma pastorale, che influenzerà il Poliziano, il Tasso,
l'Arcadia, persino il D’ Annunzio de La figlia di Jorio. Invenzione e comparsa di oggetti; interesse per le τέχναι Nei Cercatori i satiri manifestano stupore e paura all'udire un suono insolito, che in seguito si scopre essere quello della lira, appena inventata dal piccolo Ermes; la ninfa Cillene, dopo aver raccomandato ai co-
reuti di mantenere il segreto, svela la natura dello strumento attraverso un indovinello (un αἴνιγμα, che sem-
bra un altro motivo ricorrente del σατυρικόν). Negli Spettatori il coro è titubante di fronte all'offerta di Dioniso, che propone ai satiri «nuovi giocattoli», costruiti con l’ascia e l’incudine (vv. 50-1). Odisseo nel Ciclope sconfigge Polifemo utilizzando il vino: la bevanda per il mostro rappresenta una piacevole novità. Secondo Seaford* il motivo dell’invenzione e della comparsa di oggetti misteriosi, che suscitano sbigottimento o gioiosa meraviglia, deriva dal rituale del tiaso dionisiaco; sia pure in forma meno evidente, ne sareb-
bero riscontrabili tracce anche nella tragedia. 53 Sulla natura di questi oggetti, cfr. n. 38, p. 175. * Op. cit., 1984, pp. 42-3.
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Un frammento (fr. 57 Radt) degli Edoni di Eschilo riferisce dello spaventoso muggito di un toro e di un rumore simile a quello di un tuono sotterraneo, che si
udivano nel corso delle cerimonie dionisiache. Anche durante il rito dei misteri eleusini” gli iniziati sperimentavano l’ansia per la scomparsa della dea Persefone e successivamente la gioia e lo stupore per la sua «resurrezione» dall’oltretomba, accompagnata dal suono di strumenti a percussione. È certo inoltre che la celebrazione consisteva, oltre che in λεγόμενα («paro-
le recitate») e in èp@ueva («azioni eseguite»), in deıKvòpeva, cioè nella visione di oggetti «mostrati» dallo ierofante, il sacerdote chiamato a presiedere il rito. Gli oggetti misteriosi, o quantomeno insoliti, presenti in alcuni drammi satireschi, potrebbero dunque richiamare gli oggetti sacri dei riti misterici, la cui vista era rigorosamente riservata agli adepti. Nei Pescatori, la comparsa dell'arca di legno che nasconde Danae dà luogo a una scena che ha addirittura l'aria di parodiare l'evento culminante della liturgia misterica, ossia lo svelamento dei sacra: all'inizio del dramma due personaggi si interrogano sulla natura del peso che trattiene una rete da pesca nel mare e ne rende difficoltoso il recupero. Quando finalmente la rete è trascinata a riva, si scopre che non si tratta di un pesce enorme, come si era ipotizzato, ma di una cassa dalla quale provengono 55 D'Inno omerico a Demetra suggerisce che i misteri si ispirassero alla vicenda di nascita e scomparsa periodica delle messi, adombrata nella storia del rapimento di Persefone da parte di Ade, e del dolore di sua madre Demetra, che fece cessare la riproduzione del grano. Con il tempo, peró, al primitivo contenuto agrario del rito eleusino si sovrappose un significato soteriologico, che gli garanti una fortuna senza pari fino alla tarda antichità. Ai culti misterici si possono in qualche modo collegare anche le iniziazioni dionisiache. Esse risalgono almeno al V sec. a.C. e hanno l’aspetto di riti esoterici privati che consentono di liberarsi da ogni forma di costrizione della vita quotidiana, tramite l’esperienza dell’estasi e del furore bacchico.
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strani lamenti. La successiva apparizione di Danae insieme al figlio Perseo determina il sollievo dei protagonisti e il compiacimento dei satiri, nel frattempo accorsi sulla spiaggia. La presenza di oggetti di vario genere si collega, inoltre, all'interesse che il dramma satiresco riserva al
mondo del lavoro, delle arti e del loro πρῶτος εὑρετής, argomenti ignorati dalla tragedia, che giudicava l’attività manuale prerogativa dei servi. I frammenti dei Pescatori presentano una singolare ricchezza di termini alieutici e possono essere accostati ai frr. 307-308 Radt (di incerta appartenenza), che attestano una conoscenza precisa delle tecniche impiegate nella pesca del tonno. Nel mondo greco anche le arti dello spettacolo erano considerate τέχναι: la terminologia coreografica negli Spettatori dimostra l’attenzione del poeta verso la danza. Non è un caso che nei drammi satireschi eschilei ricorra Prometeo, il Titano patrono dei τεχνίται: lo troviamo nella Sfinge e nel Prometeo accenditore di fuoco. Sofocle tende a sottolineare il ruolo degli dei e degli eroi che hanno donato le arti agli uomini e il suo sguardo aristocratico si fissa più sull’inventore che sulla folla anonima degli artigiani: a questo tema si ispira il soggetto dei Cercatori; nell’ Anfiarao (fr. 121 Radt) era illustrata la scoperta dell’alfabeto per merito dell'omonimo eroe; il Cedalione rappresentava l'invenzione della metallurgia; nella Pandora veniva rievocata la nascita della ceramistica (fr. 482 Radt); il Dedalo celebrava l’inventore per antonomasia. Euripide nel Ciclope dà prova di straordinaria abilità mimetica, adottando, a seconda delle circostanze, i termini specifici di diversi mestieri. Si può dire, in generale, che que-
sti argomenti riflettano l’ascesa economica del ceto artigianale ateniese nel V sec. a.C.: anche se talora — è il caso di Sofocle — i riferimenti indirizzati dal satirografo a tale fenomeno erano di tono conservatore e mirava-
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no a neutralizzarne la potenzialità eversiva, per la prima volta l’importanza delle τέχναι veniva riconosciuta e ampiamente teorizzata. Educazione di fanciulli divini Nei Pescatori Sileno cerca di conquistare la simpatia del piccolo Perseo con la prospettiva di un’educazione satiresca, che sarà impartita al fanciullo nella libertà della foresta, insieme ai cuccioli degli animali selvatici
(vv. 802-11). Un Ermes appena nato e allevato da una ninfa è al centro della vicenda dei Cercatori. Anche nel Ciclope Sileno parla di se stesso nella funzione di pedagogo (v. 142).5 Il tema della παιδοτροφία («educazione dei fanciulli») è collegabile all’immagine tradizionale del padre dei satiri quale educatore di Dioniso, idea legata all’antica credenza popolare secondo la quale Sileno sarebbe stato protettore e maestro dei bambini.” Si è già osservato che questo personaggio era ritenuto dagli antichi custode di una sapienza superiore a quella umana; proprio a causa di tale saggezza, condivisa con i centauri, egli possiede anche una particolare attitudi5 Egli esercita questo ruolo nei confronti di Polifemo, insegnan-
dogli il galateo del simposio (vv. 557-64), ma si tratta di un espediente per trascinare più in fretta il ciclope ubriaco alla rovina. Un trattamento analogo - «educazione» ironicamente volta alla distruzione del discepolo - subisce Penteo ad opera di Dioniso nelle Baccanti euripidee. Il protagonista si lascia indurre dal dio a travestirsi da baccante e a farsi condurre da lui in montagna, per spiare i riti orgiastici delle donne tebane; giunto sul luogo dell’orgia, viene scoperto e fatto a pezzi dalle invasate — tra cui c’è anche sua madre Agave — le quali nel delirio lo scambiano per un leone. 3 La presenza dei bambini è testimoniata durante le feste di Dioniso. Figure di satiri-bambini compaiono sui x6eg utilizzati durante il secondo giorno delle Antesterie, quando una gara di bevute seguiva al matrimonio sacro celebrato tra Dioniso e la moglie dell’arconte re (cfr. G. van Hoorn, Choes and Anthesteria, Leiden 1951, n. 636).
58 Uomini nella parte superiore del corpo e cavalli in quella inferiore; in genere sono caratterizzati come barbari, lussuriosi, amanti
del vino, ma anche industriosi e sapienti. Chirone, per esempio, il più
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ne pedagogica. Si tratta di una qualità intimamente connessa alla φύσις ibrida del padre dei satiri, in equilibrio fra i regni degli animali, degli uomini e degli dei. Crescita miracolosa, trasformazioni, ringiovanimenti e resurrezioni Nei Cercatori la ninfa Cillene spiega ai satiri come:Ermes, a soli sei giorni dalla nascita, sia cresciuto in modo
prodigioso, raggiungendo la statura di un giovanotto (vv. 277-82). Episodi di crescita miracolosa, trasformazioni, ringiovanimenti e resurrezioni sono inscrivibili
nella categoria del «magico» che trova spazio in molti drammi satireschi. La Circe di Eschilo doveva ruotare intorno al potere della maga omerica di trasformare gli uomini (e in questo caso 1 satiri) in animali; nel Glauco dello stesso autore il protagonista diventa immortale e acquista il dono profetico mangiando un’erba magica, mentre il Proteo rappresenta un «vecchio del mare» capace di cambiare sembianze a suo piacimento; nelle Nutrici una maga fa ringiovanire le balie di Dioniso e i loro mariti, bollendoli; Sisifo, in uno dei drammi eschilei di
cui è protagonista, incatena Thanatos così che gli uomini smettono temporaneamente di morire. Sofocle nel Dionisisco mette in scena l’episodio mitico della follia di Dioniso provocata dalla vendetta della dea Era; nell’/naco la giovane Io è trasformata in giovenca. Autolico, protagonista dell’omonimo dramma di Euripide, è capace di cambiare la forma di quello che ruba. Nell’Ageno di Pitone i magi persiani resuscitano l’amante di Arpalo. Questi temi, se da una parte soddisfano il gusto del τέρας, caro alla drammaturgia satiresca, dall’altra trofamoso di loro, si distingueva dagli altri per l’amore della giustizia e la vastità delle conoscenze; esperto guaritore di ferite e malattie, divenne amico e maestro di molti eroi, tra cui Peleo, Giasone e Achil-
le, e insegnò al dio Asclepio l’arte della medicina.
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INTRODUZIONE
vano riscontro in alcuni aspetti del dionisismo. Le trasformazioni, per esempio, rimandano alla virtù di Dioniso di assumere forme animali, come quella del toro, che compare spesso nella sua iconografia, o del leone; anche la morte e la «resurrezione» sono eventi che il dio sperimenta fin dalla sua «doppia nascita»: dal grembo di Semele, che lo ha concepito, e dalla coscia di Zeus, dove il signore dell’Olimpo lo ha ospitato do-
po aver incenerito sua madre. Erotismo
I frammenti dei drammi satireschi sono ricchi di allusioni all’attività sessuale dei satiri, anche se le loro aspirazioni erotiche sono più spesso frustrate che soddisfatte. Questo capita, per esempio, nei Pescatori, dove Sileno e i suoi figli cercano di sedurre Danae, la quale però, con ogni probabilità, finisce per unirsi in matrimonio a Ditti, il protagonista del dramma. Purtroppo la perdita dei versi che accompagnavano l’uscita dell’eroina dall’arca lascia all’immaginazione le battute salaci pronunciate dai satiri per l'occasione. Resta tuttavia il canto nuziale con cui si conclude la parte superstite; il coro si abbandona alle sue audaci inclinazioni e fantastica con protervia sulle nozze imminenti di Danae e Sileno, ritenendosi certo che la donna sarà
condiscendente all’unione, dopo il lungo periodo di forzata astinenza trascorso mentre era in balia delle onde (fr. 47a Radt, vv. 824-31). In genere i satiri sono presentati quali insidiatori, o almeno aspiranti conquistatori, delle eroine che capitano sulla loro strada. Nell’Amimone di Eschilo la protagonista, mentre va in cerca d’acqua per ordine del padre Danao, è assalita da un satiro e soccorsa da Poseidone, che però a sua volta la concupisce.? Nel Ci*? [ frammenti di questo dramma sono esigui, ma abbiamo un'i-
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clope il coro avanza pesanti insinuazioni a sfondo sessuale sul comportamento tenuto dai greci vincitori a Troia nei confronti della fedifraga Elena (vv. 180-6). Più avanti sono di nuovo i satiri a intonare una specie di canto nuziale in onore di Polifemo ubriaco (vv. 511-8). Tuttavia la situazione subisce un clamoroso rovesciamento quando, con la mente annebbiata dal vino, il
mostro scambia i coreuti per le Cariti e Sileno stesso per Ganimede. Quest'ultimo diventa così l'oggetto inaspettato delle attenzioni erotiche di Polifemo: ne risulta una delle scene più gustose del dramma, in cui i satiri, e prima di tutti il loro padre, da «violentatori» si trasformano in vittime (vv. 581-9). In sostanza, vanificando la sfrenatezza erotica, gli autori tendono a riaffermare, per contrasto, il valore dell’etica sessuale della polis. È possibile? che anche il tropo dell'esuberanza sessuale dei satiri debba essere considerato alla luce del rituale, e precisamente ricollegato al «matrimonio sacro», cerimonia che si celebrava la sera del secondo
giorno delle Antesterie tra Dioniso e la moglie dell'arconte re.?! Bisogna comunque tenere presente che la spiccata virilità dei satiri, elemento tradizionale nella caratterizzazione di queste creature, nei drammi satireschi è trattata in tono ironico e parodico, la tensione erotica si esprime a parole, ma è delusa dai fatti, a significare che non deve essere presa troppo sul serio. dea del suo contenuto grazie alle versioni riferite dai mitografi (Pseudo-Apollodoro, Bibi. II, 1, 4; Igino, Fab. 169 A Rose).
60 Seaford, op. cit., 1984, p. 40. 61 È probabile che il carro navale sul quale il dio faceva il suo ingresso in città fosse scortato da uomini mascherati da satiri (cfr. L. Deubner, Attische Feste, Berlin 1969, pp. 100-7). Gli stessi satiri tea-
trali raffigurati sul «Vaso di Pronomo» formano il corteo di un «matrimonio sacro», le nozze di Dioniso e Arianna.
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INTRODUZIONE
Satiri-atleti
Negli Spettatori i satiri si ribellano a Dioniso perché desiderano partecipare alle competizioni dei giochi istmici e per questo hanno trascurato il culto del dio; la comparsa del coro in costume atletico (vv. 29-36) è sorprendente in quanto contrasta con la goffaggine e la lascivia che la tradizione attribuisce ai figli di Sileno, perciò possiamo immaginare che suscitasse grande ilarità negli spettatori. Satiri-atleti si incontrano in vari drammi, tra i quali i Lottatori di Pratina, il Cercione di Eschilo, l' Amico di Sofocle, l'Autolico di Euripide;
l'atletica rientra dunque nella gamma delle attività inusitate in cui vediamo impegnati i satiri del teatro. In questo motivo è stato colto di nuovo un riferimento al rituale: pare che i giochi abbinati alle Antesterie comprendessero gare di corsa con la fiaccola alle quali partecipavano uomini e ragazzi vestiti da satiri.$? Peraltro, la posizione degli autori nei confronti dell’atletismo non è affatto omogenea. Mentre Eschilo ed Euripide, per ragioni diverse, conducono nei loro drammi una critica serrata 8}}᾿ ἀθλετῶν βίος, oggetto di ironia e derisione, Sofocle, riflettendo una passione ari-
stocratica, è un convinto sportiva.
sostenitore della pratica
Lieto fine Quasi tutti i drammi dei quali possiamo ricostruire la trama terminano con una risoluzione positiva delia vicenda; anche l’Alcesti, tragedia «prosatiresca», ha una
conclusione felice; nei pochi casi in cui il mito in questione non consentiva il lieto fine, i risvolti negativi della situazione probabilmente erano minimizzati. L’happy end arriva sempre dopo una serie di eventi $ Cfr. Seaford, op. cit., 1984, p. 40 e n. 114. $9 Per es. Sofocle, /naco, Gli sciocchi, Pandora.
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che creano un’atmosfera di suspence; ciò ha un’ovvia
ragione drammaturgica e spettacolare - si provocano nel pubblico attesa, tensione e infine sollievo — ma anche una motivazione più profonda. Molti finali satireschi paiono infatti convalidare il principio che esiste un ordine naturale delle cose, e chi cerca di opporsi ad esso presto o tardi ne paga amare conseguenze, mentre viene premiato chi si adopera per ristabilire la «normalità». Il Polifemo euripideo, come si è già notato, disprezza consapevolmente le leggi dell’ospitalità nei confronti dei naufraghi greci, respinge ogni appello di Odisseo, in nome della «legge del ventre», l’unica che riconosce (vv. 316 ss.). E non si limita a negare il suo aiuto, promette di divorare chi glielo chiede; i suoi pasti abominevoli sovvertono ogni regola di umanità, sono il più orrendo dei sacrilegi, il tratto aberrante di una condotta che rifiuta in ogni modo la convivenza civile; pertanto l'accecamento, nelle ultime crudeli parole rivolte da Odisseo al ciclope che brancola nel buio, si configura come giusta vendetta (v. 693). Ma il recupero dell'ordine va oltre la punizione del mostro. Il dramma si chiude con due versi pronunciati dal coro: «Quanto a noi, ci imbarchiamo sulla nave di Odisseo, e
d'ora in poi saremo servi di Bacco». I satiri esprimono soddisfazione perché finalmente potranno tornare alla condizione originaria e felice di seguaci del loro dio; il ripristino della normalità vuole che gli uomini sconfiggano le creature disumane, che i satiri accettino una posizione subalterna rispetto agli uomini (partono sulla nave dei greci, affidandosi dunque alla loro protezione), che infine su tutti trionfi il sistema di regole approvato dalla polis e posto sotto la tutela degli dei.
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INTRODUZIONE
STRUTTURA,
Sotto
LINGUA
l’aspetto
E METRICA
strutturale,
linguistico
e metrico,
il
dramma satiresco è stato definito una «tragedia in miniatura». Infatti, in circa settecento-ottocento versi
(tale è la lunghezza del Ciclope e quella presunta dei Cercatori e dei Pescatori, circa la metà di opere come l'Agamennone o V Edipo a Colono), esso ripropone la scansione della tragedia: prologo, parodo, una sequenza di episodi seguiti da canti corali, esodo. Non c'é ragione di dubitare che anche il cast del dramma satiresco, almeno nel periodo in cui era rappresentato dopo la trilogia, fosse lo stesso delle tragedie che lo avevano preceduto. Abbiamo già osservato, tuttavia, che la struttura del Ciclope, sulla quale specialmente si fondano queste ipotesi, potrebbe riflettere una fase in cui ormai il genere satiresco, perlomeno dal punto di vista formale, si stava assimilando alla tragedia, mentre si attenuavano alcuni dei suoi tratti originari: in primo luogo la preminenza del coro nell'azione, e una libertà linguistica e metrica che aderivano alla natura giocosa del caτυρικόν. Nei Cercatori di tracce sofoclei le parti liriche, più numerose e animate che nel dramma euripideo, suscitano l'impressione che i satiri siano sempre pronti a introdursi nella vicenda con canti e danze; i frammenti
satireschi di Eschilo e degli autori minori confermano questa idea. La frequenza e la vivacità dei canti corali potrebbe essere una traccia della nascita del σατυρικόν dalle performances improvvisate del tiaso dionisiaco.9 Di questa origine nell'improvvisazione, che il dramma satiresco verosimilmente condivise con la tragedia, è 9 Cfr. Sutton, op. cit., 1980, p. 141. $5 Cfr. pp. 20-2. # Cfr. Aristotele, Poetica 1449a 9: γενομένη
8' oov an’ ἀρχῆς αὐτοσχεδιαστικῆς.
(scil.
ἡ τραγῳδία)
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rimasto un debole ricordo nelie esclamazioni dei satiri come d à à, ἰοὺ ἰού e à: esse compaiono spesso nelle
parti liriche dei Cercatori e dell’Inaco sofoclei, mentre nel Ciclope ricorrono tre volte nei canti corali (vv. 49, 51, 656) e due volte in parti recitate, extra metrum, probabilmente accompagnate da passi di danza (di Sileno al v. 157, del coro al v. 464). Il Ciclope attesta che l’evoluzione del dramma satiresco comportò una progressiva emarginazione del coro, tuttavia, anche nell’opera euripidea, esso non assu-
me mai la funzione puramente decorativa di alcuni cori tragici: nella parodo i satiri accompagnano la oikıvvig con un canto pastorale e tutti gli altri intermezzi lirici per qualche aspetto sono funzionali all’azione. Il ritmo del canto d’ingresso (vv. 41-81) è prevalentemente coriambico;® vi si possono individuare una stro-
fe (vv. 41-8), un’antistrofe (vv. 55-62) e un epodo (vv. 63-81), ma la sequenza strofica è interrotta da alcuni versi che non sono in responsione con nessuna al7 Nelle tragedie di Eschilo al coro spetta il compito di creare il tessuto connettivo della vicenda; attraverso la memoria e il presentimento esso richiama gli antefatti dello svolgimento scenico e ne anticipa la conclusione, partecipa ai casi degli eroi, individuandone la portata universale e svelando il significato esistenziale del dramma. Dopo Eschilo il ruolo del coro passò gradualmente in secondo piano. In Sofocle l’eroe è solo nell’agire e al coro resta la meditazione sul suo destino; i cori tragici di Euripide spesso sono canti altamente poetici, ma quasi avulsi dalla trama; specialmente nelle ultime opere, essi diventano momenti di evasione malinconica in mondi lontani di incantevole bellezza. E possibile che il σατυρικόν, almeno per un certo periodo, fosse più «conservatore» rispetto alla tragedia, visto che era stato introdotto anche per recuperare quegli elementi che la tragedia aveva «dimenticato» nel corso della sua evoluzione. 68 La tradizione metrica antica suole chiamare coriambo il metron di sei tempi composto da un trocheo e da un giambo (-VW-); secondo il De musica dello Pseudo-Plutarco la sua invenzione era da far risalire al mitico poeta e musico Olimpo, originario della Frigia (o della Misia). Per il suo particolare ethos ritmico fu definito κύκλιος, cioè «rapido», «precipitoso».
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tra sezione del canto, una sorta di interludio (mesodo) o un ritornello, che nel testo originale doveva essere ripetuto anche dopo l’antistrofe, mentre nei manoscritti si legge solo dopo la strofe. Uno schema metrico abbastanza inconsueto, che si ritrova in parte nel breve intermezzo corale dei vv. 356-74, dove il testo, purtroppo tormentato da guasti e lacune, lascia intuire un mesodo (vv. 361-7) intercalato tra una strofe (vv. 356-60) e un’antistrofe (vv. 368-74). Lo stasimo dei vv. 495-518 è preceduto da dimetri anapestici (vv. 483-94)° con la funzione di introdurre il corale vero e proprio, costituito da tre strofette di identica struttura, in cui il verso di
base è l’anacreonteo.” Gli ultimi due brevi intermezzi lirici sono un canto astrofico di ritmo prevalentemente trocaico (vv. 608-23)” e un κέλευσμα, ossia un canto che riproduce quello che si intonava sulle navi per accompagnare la fatica dei rematori. La semplicità di ritmo dei cori euripidei è riproposta dai vv. 802-20 dei Pescatori di Eschilo: una strofe e un’antistrofe composte da due ferecratei, un verso di metro incerto, tre gliconei, tre ferecratei."? Gli altri co$ ['anapesto è un metron di otto tempi (UU-UU-) di origine dorica; in ambito drammatico si distinguono (non sempre agevolmente) 1 cosiddetti anapesti «di marcia», che dovevano probabilmente essere recitati o eseguiti in recitativo (παρακαταλογή), e gli anapesti lirici. I primi, che si presentano di solito come successioni di dimetri, . si trovano frequentemente nella parodo e nell'esodo della tragedia, nella parabasi della commedia. Τὸ E la forma di ionico a minore prediletta da Anacreonte (UU U-U-U). L'uso dei versi ionici non è molto diffuso nella tragedia, che comunque riserva ad essi intere stanze (nei Persiani e nelle Supplici di Eschilo e nelle Baccanti di Euripide), impiegandoli nelle loro varie forme. 7! 1 versi trocaici (la cui unità più piccola è il metron —)-O) sono caratterizzati da una ἀγωγή insieme rapida e precipitosa, come attesta il nome stesso τροχαῖος, dal verbo τρέχειν. Aristotele ricorda una danza orgiastica, il κόρδαξ, eseguita nel ritmo trocaico, che più le si adattava. ? Il gliconeo è uno dei versi più cari alla poesia greca, utilizzato da
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rali satireschi sopravvissuti documentano invece una versificazione più complessa, che attraverso l’uso di ritmi docmiaci, di sequenze di sillabe brevi? e di una rapida alternanza di metri, tende a riprodurre la frenesia dei satiri, che partecipano all’azione nel loro modo sgangherato o se ne ritraggono con la solita codardia. Nei Cercatori sofoclei lo schema metrico della parodo è irrecuperabile, ma sono riconoscibili anapesti, cretici’* e docmi; il canto di caccia dei vv. 176-202 è astrofico, composto da metri prevalentemente anapestici, combinati con cretici; una corrispondenza strofe-
antistrofe si riconosce tra gli intermezzi lirici dei vv. 243-50 e 290-7, caratterizzati da metro giambo-cretico, come tra i corali dei vv. 329-37 e 371-9, nei quali
Alcmane fino ai poeti ellenistici nella grande varietà di forme e di toni consentita dalla libertà delle due sillabe iniziali e delle due sillabe fina(πα). Affine al gliconeo, al quale spesso compare associato, è il ferecrateo, in sostanza un gliconeo catalettico (UL UA). 7 Il docmio è una sequenza metrica che si presenta in una grande varietà di forme, talvolta anche in responsione tra loro, riconducibili
allo schema Dun OU. Nella tragedia si trova spesso usato in serie e anche in unione con metra o cola di tipo giambico o cretico, con reiziani, anapesti, dattili,
per lo più in contesti caratterizzati da forte tensione emotiva. Secondo il grammatico Mario Vittorino (Ars Gramm. II, 11) i cori satireschi erano caratterizzati dal ritmo proceleusmatico; questo nome de-
signava un piede composto da quattro sillabe brevi, che si riscontra nel citato frammento di Pratina (PMG, 708) la cui appartenenza al genere satiresco è peraltro dubbia. ” La tradizione collega il cretico (-U-) alle danze di Creta e al cretese Taleta di Gortina che ne sarebbe l’inventore. Nella tragedia appare associato a cola coriambici, docmi, bacchei e giambi. I tragediografi evitano di usare i cretici puri, poiché il loro ethos non si addice al tono elevato dello stile tragico (l'unica strofe composta interamente da cretici si trova in Eschilo, Supplici, vv. 418-22 = 423-37).
15 Il verso di gran lunga più diffuso formato da metra giambici (U-U-) è il trimetro, attestato già in epoca arcaica e poi divenuto il verso per eccellenza del dialogo drammatico. L'uso dei giambi è frequente anche nella lirica della tragedia, associato a cola di altro tipo.
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ai metri giambo-cretici sono mescolati i bacchei;”° da metri lirici, non ricostruibili, sono costituiti inoltre i
vv. 88-90, 213-6, 446-7. Le parti liriche sembrano ancora più frequenti negli Spettatori di Eschilo: nei frammenti superstiti metri lirici si riconoscono ai vv. 5, 8-
10, 12, 14-7, 43-8. Come nella tragedia, anche nel σατυρικόν il metro d'uso nelle parti dialogate è il trimetro giambico, il cui ritmo era sentito particolarmente vicino al parlato; piü raramente ricorre il tetrametro trocaico.” I Cercatori presentano inoltre una trentina di tetrametri giambici acatalettici (vv. 288-318), metro di uso alquanto raro. Lo stile del trimetro satiresco si distingue da quello tragico per una maggiore libertà, e in particolare per il maggior numero delle soluzioni,” per la presenza di anapesti introdotti con i nomi comuni non solo in prima sede,’
75 Il baccheo {U--) deriva il suo nome dall’uso cultuale bacchico (un dimetro bacchico è l'invocazione rituale Ἰάκχ᾽ ὦ Ἰάκχε, attestata dalle Rane di Aristofane, v. 325); nella lirica è di solito utilizzato co-
me clausola, in serie giambiche. 7 Il tetrametro trocaico catalettico, costituito da quattro metra
trocaici, di cui l'ultimo si presenta in forma catalettica (-u-Ö-U-U -U-U-UU), secondo Aristotele (Poetica 1449a 21) sarebbe stato il verso adoperato in origine nella tragedia prima che prendesse il sopravvento il trimetro giambico. 78 La soluzione è la sostituzione di una sillaba lunga con due brevi. Nel trimetro giambico (composto da tre metra giambici con sillaba ancipite in prima, terza e quinta sede) le soluzioni consentono l'uso del dattilo nelle sedi dispari, del tribraco e dell'anapesto in tutte le sedi tranne l'ultima, dove il verso tende a rimanere puro. La successione dattilo o tribraco e anapesto è sempre evitata. Dalla severità dei giambografi, nei quali l’uso del verso rispetta leggi rigorose, si passa, attraverso la tragedia (in cui il trimetro più rigido è quello eschileo) e il dramma satiresco, al trimetro libero della commedia, dove il verso con le frequenti soluzioni perde ormai la sua primitiva purezza di ritmo. 79 Nel Ciclope ci sono diciassette esempi sicuri di anapesto non in prima sede e con nome comune (vv. 154, 232, 234, 242, 272, 274, 546, 558, 560, 562, 566, 582, 588, 637, 646, 647, 684). Tra i giambografi ci resta
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per la violazione della «legge di Porson».®° È interessante notare che nel Ciclope non compaiono deviazioni sicure rispetto al trimetro tragico nei versi pronuciati da Odisseo e nemmeno nell’«agone» dei vv. 285-346, dove si confrontano Odisseo e Polifemo; invece nella scena farsesca dei vv. 519-89, in cui Odisseo impar-
tisce al ciclope una lezione di «buone maniere» riferite al simposio, si trova una soluzione su diciotto versi e mezzo nelle battute di Odisseo, diciassette su trentaquattro versi e mezzo nelle parole di Polifemo, una soluzione per ogni verso in quelle di Sileno. Si può dunque pensare che nei drammi satireschi anche il ritmo fosse sottoposto a un processo di adattamento mimetico, più o meno rispettoso del modello tragico a seconda che a parlare fossero i satiri e Sileno, gli eroi Ο i loro antagonisti. La lingua del dramma satiresco è nella sostanza la stessa della tragedia, anche se frequentemente contaminata da elementi come colloquialismi, diminutivi,
esclamazioni di vario genere. Su circa cinquanta espressioni colloquiali che compaiono nel Ciclope,#! sono meno della metà quelle che non trovano riscontro nella un unico esempio di anapesto in prima sede, con nome proprio (Ipponatte, fr. 67, 2 D.). Nel trimetro di Eschilo l’anapesto in prima sede compare solo con il nome proprio (qualche anapesto con il nome comune si trova nel Prometeo, la cui autenticità è controversa); eccezionale è l'anapesto in quinta sede (Sette a Tebe, v. 569). Sofocle usa l'anapesto, oltre che in prima sede, in terza, quarta e quinta sede, ma con il
nome proprio. Euripide presenta forme sempre piü libere, soprattutto nelle ultime tragedie, dove aumenta notevolmente il numero delle soluzioni. Bisogna tenerne conto nella valutazione del trimetro del Ciclope che, come per altri aspetti, potrebbe essere rappresentativo piü dello stile del suo autore che di quello del genere letterario in se stesso. 80 Se l'ultimo metron ha inizio con sillaba finale di parola, questa
deve essere breve, a meno che non sia un monosillabo. Nel Ciclope esempi di violazione della «legge di Porson» che non hanno paralleli nella tragedia sono i vv. 210, 681, 682. 8] Individuate e analizzate da PT. Stevens, Colloquial Expressions in Euripides, «Hermes Einzelschrift» 38, 1976; cfr. inoltre R. Ussher,
Euripides Cyclops, Roma 1978, pp. 204-6.
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tragedia.? Ed è significativo che tra esse solo una esca dalla bocca di Odisseo, in una circostanza del tutto particolare: al v. 701 l'eroe, trionfando su Polifemo, riecheg-
gia crudeimente la stessa imprecazione usata dal ciclope al v. 340 (κλαίειν ἄνωγα). Degli altri colloquialismi assenti nella tragedia, due sono pronunciati da Polifemo (al v.316 e al già citato v. 340), i rimanenti da Sileno e dai satiri. Riferimenti sessuali e indecenti non sono inconsueti, manca però il fuoco di fila di oscenità della Commedia Antica; il Ciclope, neppure nei versi in cui le allusioni erotiche sono più esplicite (p. es. vv. 169-72, 498-500), contiene termini volgari, numerosi in Aristo-
fane, come πέος («membro virile»), πρωκτός («ano»), βωμολοχεύματα («buffonate di cattivo gusto»). I frammenti satireschi del V sec. a.C. non si discostano molto dall'esempio euripideo;? l’espressione più «volgare» che possiamo leggere nei versi superstiti è ὡς ποσθοφίλης ὁ νεοσσός (Pescatori, v. 795), che allude all’interesse suscitato nel piccolo Perseo dall’enorme fallo di Sileno; anche in Eschilo e in Sofocle sembra che i personaggi «seri» non si discostino dalla dizione tragica.# A questo tessuto linguistico che, pur rimanendo nell’ambito del lessico tragico, privilegia i termini più aderenti alla realtà concreta, si accompagna uno stile semplice, in genere privo di ambiguità, povero di metafore e di altre figure retoriche;? in genere le scelte sintatti8 Per esempio i diminutivi ἀνθρώπιον (v. 185), Κυκλώπιον (v. 266), δεσποτίσκε (v. 267), ἀνθρωπίσκε (v. 316), esclamazioni come μὰ Δία ai vv. 9, 154, 558, 560 etc., le interiezioni come παπαιάξ (v. 153), βαβαί (v. 156), παπαῖ (v. 572), i pronomi e le congiunzioni della lingua quotidiana come τουτί (v. 169), e ὁτιή (v. 643), le imprecazioni come κλαίειν κελεύων (v. 174), κλαίειν ἄνωγα (vv. 340 e 701). 8 Colloquialismi si trovano, per esempio, nei Cercatori, v.118 pà Aia, v. 120 τουτί, v. 197 μιαρός, v. 381 παμπόνηρε; nei Pescatori, v. 812 πάπας.
8 Cfr. Seaford, op. cit., 1984, pp. 47-8. 5 Uno stile più solenne e immaginifico si riconosce nell'7naco di Sofocle e in pochi altri frammenti.
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che impiegano i modi del parlare quotidiano e si astengono dall'astratto, dalla concentrazione e dalla ellissi,
mirando innanzitutto alla chiarezza. Orazio afferma che la versione giocosa della tragedia è come una matrona costretta a danzare tra i satiri nei giorni di festa, effutire leves indigna... versus (Ars P., v. 231): deve mantenere la dignità che le si addice. Ma il carattere «medio» del dramma satiresco non significa monotonia di espressione. Anzi, è proprio la natura ibrida del σατυpıköv a suscitare interesse, proponendo insolite mescolanze di toni ed esempi di «realismo» assai rari nella letteratura greca classica: basti pensare all’evidenza mimetica del canto di caccia dei Cercatori di tracce, 0
all’arguta cantilena diretta a conquistare il piccolo Perseo nei Pescatori con la rete. Il σατυρικόν tende sempre all’immediatezza, all’efficacia comunicativa e, nei rari
casi in cui sembra rincorrere la σεμνότης della tragedia, intensifica la sensazione di straniamento, di incon-
gruenza, che quasi sempre accompagna le bizzarre storie di Sileno e dei satiri.
ESCHILO
Il primato di Eschilo sugli altri autori di σάτυροι è affermato da due testimonianze antiche. Pausania (II 13, 6), nella descrizione di Fliunte, ricorda che la città peloponnesiaca annoverava tra le glorie locali Pratina, considerato inventore del dramma satiresco,8° e suo figlio Aristia, in onore del quale era stato innalzato un monumento funebre nell’agorà; a giudizio dell’autore i loro drammi satireschi erano inferiori per fama soltanto a quelli di Eschilo. Dalla Vita di Menedemo (II 133) di Diogene Laerzio si ricava che il filosofo di Eretria 86 Cfr. p. 23.
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preferiva come poeta tragico Sofocle, mentre nel dramma satiresco poneva Eschilo al primo posto. Queste affermazioni, come è stato osservato, vanno con-
siderate con una certa cautela alla luce del loro contesto storico; ciò non toglie che i frammenti satireschi del poeta lascino intuire una freschezza d’ispirazione, una varietà e leggerezza di stile tali da far rimpiangere la scomparsa quasi totale di questo Eschilo «minore», talvolta sorprendentemente diverso dall’impervio autore delle tragedie.88 Sono una ventina i drammi satireschi eschilei di cui abbiamo notizia (di alcuni conosciamo soltanto il titolo); i frammenti più cospicui e importanti, attribuiti con un buon margine di sicurezza agli Spettatori o Atleti ai giochi istmici e ai Pescatori con la rete, dopo oltre mezzo secolo di dibattiti e di ricerche, presentano numerosi problemi ancora aperti.
8 Cfr. Gallo, art. cit., pp. 97-109. Lo studioso ritiene che il giudizio di Menedemo (339-265 a.C.) sulla eccellenza di Eschilo satirografo dipenda da una valutazione personale, estranea ai criteri e ai canoni contemporanei (che non distinguevano fra produzione satiresca e tragica, e in linea di massima privilegiavano Sofocle), probabilmente effetto della visione di spettacoli satireschi a quel tempo rappresentati indipendentemente dalle tragedie, piuttosto che della lettura diretta dei drammi; la testimonianza di Pausania, che cita Eschilo undi-
ci volte nella sua opera, due sole volte per ciascuno Sofocle ed Euripide, si spiegherebbe invece pensando al revival letterario del poeta eleusino in atto all’epoca dell’autore, nell’ambito della Seconda Sofistica, una «rinascita» confermata dal fatto che quasi tutti i papiri di
Eschilo finora ritrovati appartengono al Il sec. d.C. 8 Cfr. A. Moreau, Le drame satyrique eschyléen est il «mauvais genre»?, «CGITA» 14, 2001, pp. 39-62 e P. Yziquel, Le drame satirique eschyléen, ibid., pp. 1-22. M. Di Marco, 7] dramma satiresco di
Eschilo, «Dioniso» 61 (2), 1991, pp. 39-61, analizza la produzione satiresca di Eschilo mettendone in evidenza i temi, l’ideazione di solu-
zioni tecniche, la centralità del ruolo dei satiri, la presenza di Dioniso sulla scena, la vivacità orchestico-mimetica, la leggerezza e l'ironia, l'impiego di registri espressivi molto diversi, tra cui lo stile colloquiale.
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SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
Il testo
I frammenti papiracei, pubblicati nel 1941 da E. Lobel nel XVIII vol. degli Oxyrinchus Papyri (n. 2162), restituiscono un centinaio di versi dei Θεωροὶ ἢ ᾿Ισθμιαotai. I dubbi sulla ricostruzione di questo dramma partono dal titolo stesso. Θεωροί è il titolo che compare nelle citazioni di Ateneo (XIV 27) e Fozio (II 269, 12 Nab.).® Il Catalogo Laurenziano ed Esichio (I 46 La.) tramandano il doppio titolo, il lessicografo però cita lo stesso dramma anche con il solo Ἰσθμιασταΐί. I più ritengono che Θεωροί fosse il titolo più antico e che l'altro sia stato aggiunto dai grammatici alessandrini per evitare confusione con drammi omonimi;?? Ἰσθμιασταί
infatti non specifica il primo termine, ma fornisce un’informazione aggiuntiva, alludendo alla partecipazione dei satiri ai giochi istmici in qualità di atleti, come si desume dal contenuto dei frammenti. Lobel supponeva che i frammenti del papiro provenissero da quattro colonne, ognuna di trentasei versi,
appartenenti a due fogli; nell’editio princeps dunque il materiale risultava così ordinato: fr. 1 (a) colonna I e colonna II (= 78a Radt, col. I, vv. 1-36; 78a Radt, col. II,
vv. 61-72), più il fr. 1 (b) (= 78b Radt), così mutilo che sulla sua collocazione precisa non si poteva dire nulla; fr.2 (a) colonna I e colonna II (= fr. 78c Radt, col. I, vv.
9 Θεωροί, termine del linguaggio sacrale, indica i membri della
delegazione ufficiale (θεωρία) che una città invia presso un santuario per partecipare a una cerimonia religiosa. In questo caso esso si riferisce ai satiri del coro, così designati evidentemente per una qualche funzione, difficile però da individuare nella parte superstite del dramma. Non è da escludere il senso caricaturale: la scena dei satiri che recano offerte al tempio di Poseidone (fr. 78a Radt, vv. 1-22) potrebbe essere la conclusione di una θεωρία burlesca. 9 Per esempio i Θεωροί di Eufrone o i Beapoi di Epicarmo.
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1-16; fr. 78c Radt, col. II, vv. 37-62) più il fr. 2 (b), collo-
cato con precisione più tardi, grazie alla scoperta di un nuovo piccolo frammento, alla destra del fr. 2 (a) colonna II, vv. 12-15 (= fr. 78c Radt, vv. 48-51), la cui let-
tura risultava in questo modo assai più chiara. I successivi tentativi di modificare l'ordine dei frammenti?! né
comprovati né smentiti a causa dello stato lacunoso del testo, non hanno portato molto lontano nell'interpretazione complessiva del dramma. L’edizione di Radt si attiene all'ordinamento lobeliano. Quasi nulla ci dice dei Θεωροί la tradizione indiretta. I versi superstiti provengono dalla parte finale del dramma, il cui antefatto é stato cosi ricostruito da A.
Setti: «L'arrivo di Dioniso, col suo corteggio di satiri e di menadi in una città presso l'Istmo (evidentemente Corinto) è il punto di partenza, l'antefatto immediato. Il dio era giunto a chiamare le genti al suo nuovo culto. Ma i suoi satiri, creature di labilità fanciullesca, capricciosi e imprevedibili, non lo servivano a dovere, non gli
davano man forte nell’insinuare in una popolazione greca, dedita a culti severi, un costume già di per sé co-
sì estraneo. Anzi o per insofferenza di qualunque giogo, 0 per amore e curiosità del nuovo, gli erano diventati ostili, avevano preso a dir male di lui, additando di % Tra i contributi più importanti vi sono quelli di B. Snell, Aischylos’ Isthmiastai, «Hermes» 84, 1956, pp. 1-11, che ricuce i frammenti in modo tale da farne risultare tre sole colonne consecutive (la parte finale della seconda colonna del primo foglio di papiro e la parte iniziale della prima colonna del secondo foglio formerebbero un’unica colonna), e di H.J. Mette, Der Verlorene Aischylos, Berlin 1963, fr. 17, che pubblica il testo, ampiamente restaurato, in forma continua per novantotto
versi. Tra i frammenti dello stesso dramma Mette ha riportato il P Oxy. 2250, il P. Oxy. 2255, fr.4 e il P. Oxy. 2262, fr. 3: in tutti e tre i casi si tratta di resti di scarsa rilevanza, oltre che di incerta identificazione. 92 Eschilo satirico II, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» 21, 1952, p. 219.
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lui proprio quel carattere di mollezza che piü di tutti doveva risultare ripugnante a Greci della piü schietta tradizione dorica, a Greci per eccellenza. E infine erano scappati, si erano improvvisati θεωροί per le feste dell’Istmo, si erano messi, ancor timorosi del vecchio,
sotto la guardia di un padrone nuovo, di un dio più potente».
fr. 78a Radt col. I, vv. 1-36 (P. Oxy. 2162) La scena è dinanzi al tempio di Poseidone all'Istmo, dove i satiri del coro sono in attesa di entrare per offrire al dio dei doni votivi. L'inizio del frammento registra le ultime fasi di uno scambio di battute tra il custode del tempio? e Sileno. Il νεωκόρος dà istruzioni sulla modalità di presentazione delle offerte e chiude il suo discorso con una formula di augurio (vv. 1-2); i satiri lo congedano con un'espressione di ringraziamento (v. 3). Sileno” comanda ai suoi figli di osservare il sacrum silentium richiesto dall'atto di dedica dei voti (v. 4). L'ordine viene subito contraddetto da una voce che richiama gli sguardi dei satiri su un εἴδωλον di aspetto straordinariamente simile alle loro figure. Al primo commento ne seguono altri, tutti di grande ammirazione per la stupenda opera d'arte: é degna di Dedalo, le manca soltanto la voce per essere perfetta; 1 satiri si affollano intorno alla statua e ne ammirano tutti i particolari con esclamazioni di meraviglia (vv. 5-10). Finalmente puó cominciare la consacrazione dei voti; Sileno pronuncia la formula rituale: egli porta al dio quelle offerte? perché gli siano di ornamento. Dopo la 9 Sull'identificazione del personaggio che pronuncia i vv. 1-2 cfr. n. 1, pp. 160-1. 94 Cfr. Spettatori, n. 4, pp. 162-3. 55 Dovrebbe trattarsi di maschere che rappresentano il volto grottesco dei satiri, cfr. Spettatori, n. 2, pp. 161-2.
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pronuncia della formula rituale, contravvenendo una seconda volta alla consegna del silenzio, un coreuta (o l'intero coro) interrompe la preghiera propiziatrice: le immagini sono così terrificanti nella loro perfetta riproduzione dei soggetti imitati, che trarrebbero in inganno e spaventerebbero persino la madre dei satiri (vv. 13-7). Sileno, ristabilendo il silenzio, invita i satiri a guar-
darsi attorno e a scegliere il luogo (o la statua) dove affiggere le offerte. Ogni maschera sarà come un messaggero, un araldo senza voce, terrà lontani i viandanti, sbarrerà il passo agli stranieri importuni (vv. 18-21). L’invito a compiere l’atto sacrale si conclude in maniera solenne, con una epiklesis a Poseidone di cui egli invoca la protezione e l’aiuto (v. 22). Nel momento stesso in cui si menzionano le virtù apotropaiche delle offerte, ecco apparire il viandante più temuto: Dioniso. Le prime parole del dio sono di soddisfazione e disprezzo (v. 23): era sicuro di trovare in quel luogo i suoi servi, era chiaro che non erano diretti altrove, la strada stessa gli ha fornito le loro tracce (vv. 24-5). I vv. 26-8 sono oscuri: l’unica certezza è che Dioniso illustra ai satiri il motivo per cui li ha rintracciati con tanta facilità. Con il v. 29 il tono cambia: non è più quello tronfio del cacciatore che è riuscito a catturare la sua preda, ma quello di chi si trova di fronte a una realtà imprevista. Il dio non ha più dinanzi a sé i satiri di un tempo; immemori del loro padrone e incuranti di qualsiasi minaccia, portano sul corpo i contrassegni della nuova arte: hanno rinnegato il tradizionale costume per abbigliarsi da atleti, costringendo i loro falli in una fasciatura che li rende minuti e simili a code di topo (v. 29). Dioniso non crede ai suoi occhi: i suoi servi, sfaccendati e infingardi, si sono trasformati
in sportivi, pronti a lanciarsi nei difficili agoni ginnici; con insolita ridondanza espressiva, egli dà sfogo alla sua amarezza: perché i satiri vogliono affrontare prove
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per le quali non sono adatti? Attenendosi all’antico
proverbio” avrebbero fatto meglio a badare alla danza (vv. 30-3). Non solo i satiri hanno tradito le occupazioni consuete, ma probabilmente, per procurarsi i doni votivi, hanno venduto o barattato oggetti sottratti al loro padrone di prima (vv. 34-6). fr. 78a Radt, col. II, vv. 61-72
Dei vv. 37-60 (ossia i primi ventiquattro della seconda colonna) non resta che un frustulo insignificante (fr. 78b). È probabile che Dioniso continuasse a rimproverare i satiri e che questi rispondessero giustificando la decisione di dedicarsi all’atletica ed esprimendo insofferenza verso le attività bacchiche. Anche dei vv. 61-3 rimangono solo poche lettere. I vv. 64-72 ci restituiscono parte di un discorso che Dioniso” pronuncia, a quanto sembra, per difendersi dalle calunnie che i satiri vanno diffondendo contro di lui: secondo loro il dio sarebbe un vile, una femminuccia indifesa, un buono a
nulla nell’arte della guerra. Si tratta di accuse gravi, lanciate contro la dignità del dio con spavalderia e senza freno, «seminate» (v. 65) come chicchi di grano. Secondo Dioniso sono accuse infondate, nient'altro che vuo-
te chiacchiere per infangarlo; la replica del dio mescola i rimproveri all’autodifesa, senza tuttavia una smentita precisa e puntuale delle ingiurie del coro. fr. 78c Radt, col. I, vv. 1-16
I vv. 1-2 rappresentano la conclusione di un discorso (forse del precedente) di Dioniso: se i satiri hanno cattive intenzioni nei confronti del dio, la maledizione ricada su di loro. 96 «Ciascuno pratichi l’arte che conosce», testimoniato, p. es., da
Aristofane, Vesp. 1431. ?' Sull'identificazione del personaggio cfr. n. 21, p. 168.
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Sileno, in risposta alle accuse di Dioniso, denuncia la durezza della schiavitù imposta a lui e ai satiri dal dio. Accenna a uno scomodo giaciglio, a nottate trascorse all’aria aperta, a una vita di privazioni e di fame, che lo ha reso, con i suoi figli, simile a un polipo. Ha intenzione di fuggire per porre fine a questa miserabile esistenza (vv. 3-10). Di fronte alle contestazioni del vecchio precettore, Dioniso rinnova i suoi rimbrotti, minaccia severi provvedimenti (vv. 11-2), ma ormai si tratta solo di un inutile sfogo, perché 1 satiri sono fermamente decisi a rimanere nel santuario, supplici inviolabili di Poseidone (vv. 13-6). La discussione doveva continuare in toni accesi nei venti versi che mancano alia fine della colonna: nessuno degli interlocutori sembra disposto a recedere dalla propria posizione. fr. 78c Radt, col. II, vv. 37-62
Dioniso è palesemente irritato: mentre la gente dell’Istmo si sta radunando per celebrare il suo culto, i sa-
tiri hanno tradito la sua compagnia e preferiscono il pino” all’edera (vv. 37-40). Ma dovranno pentirsene sul serio (v. 41). Vengono infatti portati in scena degli oggetti (probabilmente il carro di Dioniso e i gioghi destinati ai satiri),!° che suscitano il terrore del coro. Spaventato, quest’ultimo ribadisce, in un breve inter-
mezzo lirico (vv. 43-8), la sua intenzione di non lasciare l’area sacra del tempio di Poseidone. Il dialogo riprende con una nuova battuta di Dioniso,?! che abbandona la violenza dell'invettiva per usare # | 'attribuzione delle battute anche in questo passo non è affatto sicura. ? Di cui erano fatte le corone dei vincitori dei giochi istmici. 100 Cfr. n. 38, pp. 175-6. 1?! Cfr. n. 37, pp. 174-5.
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la sferza dell’ironia: poiché 1 satiri hanno mostrato nuove inclinazioni, egli ha portato loro nuovi giocattoli (vv. 49-52), fatti con l’ascia e con l’incudine, oggetti che ricordano i divertimenti dell'infanzia. Le parole suadenti del dio non hanno successo e i satiri persistono nel loro atteggiamento di rifiuto (vv. 53-4). Soltanto sul finire del frammento, ormai consapevoli dell’inutilità della loro ostinazione, sembrano mitigare il loro atteggiamento oppositivo e chiedono a cosa servono gli strumenti portati in scena (v. 55). Dioniso, dopo aver ribadito che i satiri potranno avvalersene per praticare la loro nuova attività, comunica al coro rassegnato che per il loro conflitto non potrà esserci risoluzione migliore di una comune partecipazione ai giochi (vv. 56-8, nella gara dei carri?). Si profila cosi la conclusione del dramma: qualcuno (Dioniso?) sale sul carro (v. 59), qualcun altro (il coro?) deve andare a piedi (v. 60) e i satiri, allontanandosi dalla scena, tornano a essere i servi di Dioniso. Tra danza e atletica
Gli Spettatori sono un dramma satiresco originale, lontano dalle tematiche ricorrenti, a partire dallo spunto della vicenda, il tradimento dei satiri nei confronti di Dioniso. L'idea, di per sé ricca di risvolti comici, non imponeva a
Eschilo le forzature alle quali talvolta i poeti erano costretti quando si trattava di motivare la presenza del tiaso dionisiaco in luoghi e situazioni inaspettati: il dramma doveva quindi apparire agli spettatori più «credibile» di molti altri, oltre che perfettamente in linea con la natura dionisiaca del genere letterario. L'argomento, che sembra ruotare unicamente intorno al contrasto tra Dioniso e i satiri, lo svolgimento semplice e lineare dell'azione!? 102 «Un dramma quasi senza trama... e senza vicenda mitica vera e propria» è la definizione, ripetutamente citata, di A. Setti, art. cit, 1952, p. 225.
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indurrebbero ad attribuire gli Spettatori alla produzione giovanile di Eschilo, benché nulla di sicuro si possa dire circa la cronologia dell’opera. I tentativi di collegare il dramma a qualcuno dei miti legati alla fondazione dei giochi istmici non sono finora approdati a esiti convincenti.? Gli Isthmia erano gare celebrate ogni due anni verso la fine di aprile presso il santuario di Poseidone, non lontano dal quale era stato edificato lo stadio di Corinto; a istituire gli
agoni sarebbero stati Elios e Poseidone stesso quando si divisero il dominio sulle terre dell’Istmo, oppure Teseo, o ancora Sisifo. Sappiamo che, a partire da una data imprecisata, alle gare ginniche e ippiche si aggiunsero agoni musicali di citarodia, aulodia, auletica: l’ipotesi che la circostanza della loro introduzione abbia suggerito la trovata del contrasto tra danza e atletica, /eitmotiv degli Spettatori, si scontra con le testimonianze epigrafiche, che rendono più probabile un’epoca piuttosto tarda!” per la comparsa delle gare musicali. E altresì probabile che Eschilo abbia scelto i giochi istmici 103 Un debole legame indiretto, p. es., potrebbe essere quello con la saga di Sisifo che, secondo Snell, è un personaggio del dramma. Dopo la seconda nascita dalla coscia, Dioniso lattante venne affidato da Zeus a Ermes; il dio portò il fanciullo a Ino e Atamante, sovra-
ni di Orcomeno, perché lo allevassero. Ma Era, per gelosia, li fece impazzire entrambi: Atamante inseguì e uccise il maggiore dei suoi figli, Learco, scambiandolo per un cervo, mentre Ino gettò il figlio minore Melicerte in un calderone pieno di acqua bollente, quindi si buttò in mare con il cadavere (Pseudo-Apollodoro, Bibi. III, 4, 3). Secondo una ὑπόθεσις alle /stmiche di Pindaro (Pindaro, hyp. Isthm. a III, 192, 13 Dr.) le Nereidi apparvero a Sisifo, re di Corinto, e gli ordinarono di introdurre i giochi istmici in memoria di Melicerte. 14 La prima attestazione (7G II, 1367) risale a data oscillante tra il IV e il III sec. a.C. Se le competizioni musicali fossero state già di regola ai tempi di Eschilo, sarebbe più difficile spiegare negli Spertatori il contrasto tra ἰσθμιάζειν e χορεύειν, a meno che il poeta non abbia voluto rappresentare l’aition dell’introduzione dell’agone poetico e della conciliazione tra le due attività (cfr. I. Gallo, art. cit., 1981,
pp. 121-2 e n. 79).
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come sfondo a questa vicenda perché essi, se non altro per la vicinanza, dovevano essere i più familiari agli ateniesi, che vi godevano dell'onore della proedria;!% inoltre non sarebbe stato plausibile immaginare il conflitto tra sport e musica nelle Pitiche, a Delfi, dove i due tipi di gare convivevano dalle origini. Altri agganci con motivi occasionali e contingenti, se pure vi furono,
non si lasciano cogliere data la relativa brevità dei frammenti conservati. In ogni caso, il tema della rivolta dei satiri contro Dioniso è sufficiente a dare corpo al dramma, singolare sotto più di un aspetto. Mentre non mancano testimonianze letterarie e iconografiche di satiri-atleti,'% non abbiamo altri esempi certi di una precisa scelta dei satiri che, ripudiate le pratiche dionisiache, abbandonano e contestano apertamente il loro dio e padrone. Da creature volubili e capricciose quali sono, essi appaiono insofferenti verso il ruolo consueto (vv. 42 ss.); sognano di diventare atleti e si allenano per partecipare alle gare patrocinate da Poseidone, ponendosi sotto la sua tutela (vv. 22, 79 ss.). Per farli ritornare in sé, deve
intervenire Dioniso stesso, che contrappone all’esercizio sportivo, apprezzato dall’aristocrazia, la musica delle processioni, care al popolo ateniese. Si profila così un contrasto tra divinità, un tema caro a Eschilo tra-
gico,! ma abbastanza sorprendente in un dramma satiresco, anche se trattato nel tono lieve che si addice a
questo genere letterario. Il confronto tra danza e atletismo si inserisce nel quadro di una più generale oppo195 Cfr. Plutarco, Thes. XXV, 5. Con il termine proedria si designava il diritto a sedere nei posti privilegiati negli agoni, a teatro, nelle assemblee, nelle funzioni sacre etc.
106 Cfr. p. 66. 107 Si pensi, p. es., allo scontro tra il mondo ctonio delle Erinni e quello celeste-olimpico di Apollo rappresentato nelle Eumenidi.
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sizione fra due mondi e due concezioni di vita irrimediabilmente distanti: si fronteggiano da una parte gli ideali e le aspirazioni della severa dpetd dorica, che trovavano una manifestazione esaltante negli agoni istmici dedicati a Poseidone, dall’altra i valori di una
diversa cultura e di una spiritualità più ricca di sfumature, concretamente rappresentate dal teatro sacro a Dioniso. Eschilo, per tutto il dramma, conduce una critica serrata 41} ἀθλετῶν βίος, di cui sono esponenti i
campioni dello sport, presi a modello dai giovani delle famiglie nobili. A questo argomento si intreccia il tradizionale motivo dell’opposizione al dionisismo, ricordato da numerosi miti, a cominciare da quello di Penteo,!® che narra l’inutile resistenza del re tebano al culto del giovane dio, a cui hanno aderito la madre Agave, insieme alle
sorelle, figlie di Cadmo. Già nell’/liade si parla della persecuzione di Dioniso ad opera di Licurgo, come esempio ammonitore degli esiti rovinosi della lotta di un mortale contro un dio. Lo stesso Eschilo si ispirò alla vicenda del re tracio nella tetralogia composta dalle tragedie Edoni, Bassaridi, Giovinetti e dal dramma satiresco Licurgo.!!° La collera di Dioniso fa impazzire le 108 Con lo stesso atteggiamento polemico, nei Raccoglitori di ossa, Eschilo affronta il tema del gioco del cottabo; in uso durante i simposi, esso consisteva nel lanciare le ultime gocce di vino della propria coppa in un cratere, o verso un altro bersaglio metallico, senza farne cadere alcuna. Nel fr. 179 Radt (vv. 3-5) il poeta sembra deridere questo passatempo aristocratico; nel fr. *180 Radt un gruppo di nobili convitati Elleni si scontrano a colpi di cottabo, ma la loro arma è un pitale maleodorante. La critica eschilea contro lo sport è condivisa da Frinico ed Euripide, mentre Sofocle è un fautore dell’atletismo (come attestano diversi frammenti di attribuzione incerta e il fr. *361 R. del Giudizio). 109 Cfr. n. 56, p. 62. 110 Nella versione del mito che sembra seguita dal drammaturgo, Dioniso punisce il suo nemico con la pazzia: Licurgo scambia suo figlio Driante per una vite e lo colpisce con un’accetta. Il paese viene
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figlie di Minia, a Orcomeno, e le figlie di Preto, re di Tirinto, che si erano rifiutate di praticare le orge dioni-
siache. L’insieme di tali racconti riflette le preoccupazioni dei greci nei confronti della frenesia bacchica, di cui temevano la pericolosità sociale; fra gli adepti del dio, infatti, vi erano soprattutto donne che abbandona-
vano la casa e i lavori domestici per diventare menadi, e il furore degli invasati culminava con un pasto sacrificale in cui gli animali venivano smembrati e divorati crudi (ὠμοφαγία). Almeno in origine, il culto di Dioniso Si poneva dunque come religione alternativa rispetto a quella olimpica: il poeta di Colono sembra recuperare questo potere eversivo del dionisismo, che ormai la polis aveva esorcizzato attraverso le sue istituzioni. È probabile che le stesse tematiche del dramma satiresco di prima maniera fossero più rivoluzionarie di quanto non risultino da Pratina in poi:!!! a questa componente innovativa delle antiche performances dei satiri potrebbe essersi riavvicinato Eschilo negli Spettatori. Qui il dio, che sta diffondendo tra i greci il suo cul-
to e punisce gli increduli con terribile severità, è arrivato a Corinto, dove la resistenza nasce nel seno stesso
del tiaso. Ciò non è privo di interessanti implicazioni. La «tragedia scherzosa» trasforma in burla uno degli eventi archetipici della religione greca: il conflitto fra divinità antica e divinità recente si sposta nell’umile e buffo litigio tra Dioniso e i suoi seguaci, in un confronto che scende sul piano del battibecco serrato, delle canzonature, delle ingiurie, all’insegna del rovesciamento dei rapporti abituali. I vv. 3-10 del fr.78c sono stati interallora tormentato da una carestia; un oracolo impone l’uccisione di Licurgo, perché la terra torni a dare frutto, e gli Edoni (ossia gli abitanti della Tracia) squartano il loro re sul monte Pangeo. 1! Cfr. Paganelli, art. cit., pp. 270-1.
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pretati come una requisitoria di Sileno contro Dioniso, accusato di aver costretto i suoi servi a una vita grama. La rhesis & singolare per almeno tre ragioni. Il rapporto Dioniso-satiri, come si è già osservato, non corrisponde alla rappresentazione abituale che ne dà il dramma satiresco: la fedeltà dei coreuti al loro nume di solito è implicita, quando non è espressa con entusiasmo come accade nel Ciclope; in secondo luogo, tro-
viamo qui una situazione non attestata altrove nel teatro eschileo, dove il rapporto tra servo e padrone è contrassegnato da devozione e affetto.!! Il lamento di Sileno può ricordare per l’argomento il celebre prologo dell’Agamennone, recitato dalla sentinella che rievoca il tempo trascorso sul tetto della reggia degli Atridi, accovacciata «come un cane» (v. 3), e le notti trascorse su un «giaciglio battuto dal vento, bagnato dalla rugiada, non visitato da sogni» (vv. 12-3). Ma il tono è completamente diverso: nel dramma satiresco avvertiamo il rancore covato dai satiri contro Dioniso, men-
tre nella tragedia il sentimento dominante è quello della sofferenza per il destino della famiglia reale e la fedeltà verso i padroni non è mai messa in discussione. Infine, la rivolta dei satiri costringe Dioniso ad assumere un ruolo inedito e a esprimersi con un linguaggio ben diverso da quello solenne e controllato che ci aspetteremmo in bocca a una divinità: tra le sue parole spiccano espressioni apertamente colloquiali (fr.78a Radt: v. 66 ῥηματίζεις, v. 71 πλύνεις; fr. 78c Radt: v. 2
κακῶς ὄλοιο, v. 5 τρίδουλον, v. 41 ταῦτ᾽ οὖν δακρύσεις 112 Nel teatro tragico di Eschilo la fatica del lavoro servile è più volte sottolineata, tuttavia è sempre accettata con umile rassegnazione. «Giusto o non giusto sia, e pur contro il mio animo, devo obbedire a chi comanda», dicono le coefore incaricate da Clitennestra di portare libagioni sulla tomba di Agamennone (Choe., vv. 78-81). Si pensi, inoltre, alla rhesis della vecchia Cilissa, la balia di Oreste
nello stesso dramma (vv. 743-60).
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où καπνῶ), in una concentrazione insolita per un personaggio di rango elevato, anche in un dramma satiresco. 113 La presa di posizione dei satiri contro il loro nume non ha successo; al termine della vicenda sono costretti a
riconoscere che è inutile lottare contro la volontà superiore del dio e, se é verosimile la ricostruzione della
scena finale, si preparano a lasciare l'orchestra aggiogati al carro di Dioniso, che forse ha intenzione di gareggiare egli stesso nella corsa dei carri.!^ Un gesto, quello dei satiri, che indica resa incondizionata e, nello
stesso tempo, è significativo a un livello più profondo. Se il tiaso, guidato dal dio, partecipa ai giochi in onore di Poseidone, la pace tra le due potenze divine viene sancita per sempre: musica e atletica d'ora in avanti avranno pari dignità nella formazione dell'uomo libero. I greci erano abituati a spiegare la realtà esistente come il risultato di un conflitto, secondo lo spirito agonistico inscritto nei loro geni; questo valeva anche, e soprattutto, per la storia sacra. Nella mutila scena finale Eschilo tesse un'ulteriore raffinatezza, con un preciso riferimento metateatrale. Il 113 D'altra parte ai colloquialismi si affiancano e si fondono termini volutamente eletti (come σπείρειν μῦθον, σιδηρῖτις τέχνη, γύννις ἄναλκις) con un effetto di umorismo discreto che sembra la tonalità dominante di questi frammenti. Setti, art. cit, 1952, pp. 225 ss., parla a questo proposito di «idillio realistico»: nella poesia degli Spettatori il mondo primordiale e istintivo dei satiri è guardato con quel distacco sorridente che costituisce l’anima della poesia propriamente idillica e che genera una fine mescolanza linguistica. Lo studioso avverte nel dramma l’influenza del poeta comico siciliano Epicarmo. A questo antecedente comune potrebbe risalire la somiglianza tra la scena iniziale degli Spettatori e il IV mimiambo di Eroda (III sec. a.C.), le Donne al santuario di Asclepio, dove due donne manifestano stupore e ammirazione di fronte alle opere d’arte contenute nell’ Askfepeion di Cos. "4 Cfr. fr. 78c Radt, v. 58.
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carro trainato dai satiri e sul quale compare Dioniso, trionfante di giovinezza ed energia, era un'immagine familiare agli ateniesi, che nel giorno dei Χόες accompagnavano in corteo il simulacro del dio trasportato da una specie di scafo provvisto di ruote.!!5 Nella conclusione degli Spettatori il confine tra finzione teatrale e realtà si annulla: vedendo uscire di scena il carro di Dioniso, gli
spettatori potevano immaginare che, abbandonato lo spazio antistante il tempio di Poseidone, la processione continuasse per le vie di Corinto, come tante volte essi stessi l'avevano vista percorrere le strade di Atene.!!9 Alla luce di questo epilogo, anche gli Spettatori rivelano la partecipazione alla dimensione religiosa a cui rimanda sempre il teatro di Eschilo. I suoi personaggi vivono e agiscono in un mondo metaumano, inseriti in un ordine cosmico il cui equilibrio deve essere mantenuto a ogni costo e che ha negli dei i suoi custodi: la libertà dell’uomo consiste nello scegliere il modo più giusto per uniformarsi a questo criterio di base. La sua colpa più grave è la superbia, come insegnano i Persiani: chi confida esclusivamente nelle sue forze, chi si
esalta per il successo terreno, chi non riconosce limiti al suo volere presto o tardi è costretto a piegarsi al giogo della Necessità. È quello che capita anche ai satiri, per quanto fanciullesca e ingenua appaia la loro rivendicazione di un’autonomia tanto rischiosa da diventare inconcepibile.
115 Del currus navalis abbiamo varie rappresentazioni vascolari (in particolare, tre coppe conservate rispettivamente ad Atene, Bologna, Londra): il «battello», trainato da satiri, poggia su quattro ruote e ha la parte anteriore a forma di testa suina; all’interno sono raffigurati due satiri nudi che suonano l’aulo e Dioniso, circondato da tralci di vite. 156 Cfr, M. Di Marco, Sul finale dei Theoroi di Eschilo, «Eikasmos» 3, 1992, pp. 103-4.
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CON LA RETE
Il testo
I papiri attribuibili con certezza ai Pescatori! sono il P.S.1.1209!!8 e il P. Oxy. 2161;!? quest’ultimo è della stessa mano del papiro fiorentino e molto probabilmente fa parte dello stesso volume; i due frammenti appartengono rispettivamente all’inizio e alla fine del dramma satiresco, del quale ci restituiscono un centinaio di versi.
Nel Catalogo Laurenziano dei drammi di Eschilo si legge il titolo Δικτυουργοί (Costruttori della rete), ma la tradizione indiretta attribuisce ai Δικτυουλκοί (letteralmente «coloro che trascinano la rete») alcuni termini che si leggono anche nei nostri resti papiracei (ὑστρίχων τ᾽ ὀβρίχοισι, v. 809, θῶσθαι, v. 818); inoltre quest’ultimo titolo, riferito da Polluce, Eliano, Esichio
e Fozio, trova corrispondenza nel contenuto dei versi superstiti. L’appartenenza di questi frammenti (e di pochi frustoli) al genere satiresco è stata oggetto di discussione, ma ormai è considerata sicura; la conferma-
no, in particolare, il titolo (che suggerisce l’occupazione dei satiri, come negli Spettatori e nei Cercatori di tracce), la semplicità del linguaggio, privo di ogni ceyvótnc, l'atmosfera ilare e i riferimenti alla vita rustica e ai satiri, evidenti nel fr. 47a. 117 ['attribuzione del P. Oxy. 2256 (= fr. 46c Radt, pubblicato dopo i due frammenti del P.$.7. 1209) a questo dramma è incerta; sembra di potervi leggere una richiesta di soccorso. Il P. Oxy. 2255 (= frr. 47b-c Radt, pubblicati dopo il P. Oxy. 2161) contiene due frammenti di pochi versi assai malridotti, nel primo dei quali si cita il nome dell'isola di Serifo. Citazioni dei Pescatori si trovano in Polluce (Onom. VII, 35), Esichio (Lex., p. 746 Schm.), Eliano (De anim. VII, 47), Fozio (Lex. IL 2, 10).
15 Pubblicato da G. Vitelli-M. Norsa in forma completa nell XI vol. dei Papiri della Società Italiana nel 1935 (= 46a Radt). 19 Pubblicato da E. Lobel nel XVIII vol. degli Oxyrinchus Papyri nel 1941 (= 47a Radt).
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INTRODUZIONE
I Pescatori trattano un episodio dell’infanzia dell’eroe argivo Perseo, figlio di Zeus e di Danae; il nonno
di Perseo, Acrisio, per stornare un oracolo secondo il quale sarebbe morto per mano del nipote, lo rinchiuse
insieme alla madre in un’arca, che fu gettata in mare. Il dramma sviluppa il momento in cui essa finisce in una rete di pescatori, vicino alla costa dell’isoletta di Serifo. Forse in un prologo perduto, che si estendeva per una quarantina di versi, Sileno spiegava agli spettatori il motivo della presenza dei satiri sull’isola! e presentava l’antefatto. fr. 46a Radt, vv. 1-21 (PSI 1209)
Sulla spiaggia di Serifo un pescatore, Ditti, fratello del re dell’isola Polidette, discute con Sileno! a proposito di una rete da pesca che è stata gettata in mare e ora deve essere trascinata a riva. Qualcosa di pesante ostacola il recupero della rete; i due personaggi non riescono a capire di che cosa si tratti, possono solo formulare vaghe ipotesi, immaginando la presenza di un grosso pesce o di un misterioso oggetto trasportato dalle onde (vv. 1-16). Dopo una serie di inutili tentativi, Ditti chiede aiuto a tutti gli abitanti dell’isola (vv. 17-21). Con la richiesta di soccorso di Ditti terminano i resti papiracei sicuramente collocabili nella prima parte del 20 Come nel Ciclope, Sileno può comparire in scena anche senza il coro e motivarne l’ingresso; i satiri potrebbero essere reduci da un naufragio, oppure essere stati catturati durante un viaggio e costretti a servire il re dell’isola, Polidette. 121 E il più probabile interlocutore del protagonista (cfr. Pescatori, n. 12, pp. 193-4), il cui nome compare al v. 2 del fr. 46b e al v. 800 del fr. 47a. L'attribuzione delle battute in questo frammento è molto incerta.
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dramma.'? La lacuna tra essi e il fr. 47a si estende per circa settecento versi.'? La linearità della trama, che si può intuire attraverso le parti superstiti dei Pescatori, consente di ricostruire in modo abbastanza soddisfacente lo sviluppo della vicenda nella sezione perduta. All’appello di Ditti rispondono i satiri, che entrano in scena intonando la parodo, nella quale presumibilmente si mostrano ansiosi di partecipare all'impresa: il loro padre Sileno infatti può aver chiesto a Ditti come ricompensa una parte del contenuto della rete,! suscitando l’entusiasmo del coro. La rete viene faticosamente recuperata; 1 satiri, come è loro solito, alternano
la vanagloria alla pigrizia e alla paura, creando le condizioni per una scena piuttosto elaborata e musicalmente mossa.!? Sulla spiaggia ora c’è un'arca dalla quale provengono strani lamenti; tra lo stupore generale ne emergono Danae e il piccolo figlio Perseo. L’eroina racconta ai presenti il suo infelice destino. Ditti e Sileno manifestano simpatia per la donna e il primo le assicura protezione, però anche Sileno vorrebbe prendersi cura di Danae; quindi ricorda al pescatore il patto stabilito circa la divisione del frutto della pesca. Presto la discus122 A questo punto Radt colloca il P.S.1. 1209b (= fr. 46b) nel quale si leggono soltanto poche parole; il significato complessivo del passo è troppo incerto perché si possa stabilirne l’esatta posizione. Non è escluso che esso appartenga a un successivo monologo di Danae (cfr. n. 17, p. 195). 123 Grazie a una nota sticometrica indicante il v. 800, sappiamo infatti che in questo frammento si leggono i vv. 765-832. 14 Ciò spiegherebbe l’animositä di Sileno nei confronti di Ditti, che trapela nell’ultima parte del dramma, quando i due si scontrano perché entrambi intenzionati a sposare Danae. 15 Dopo la parodo potrebbe inserirsi un altro frammento papiraceo (P. Oxy. 2256 = fr. 46c) attribuito ai Pescatori da alcuni interpreti (Lobel, Snell, van Gröningen); i pochi versi ricostruibili lasciano in-
travvedere una nuova richiesta di soccorso, sulla quale cfr. n. 17, p.195.
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INTRODUZIONE
sione tra i due degenera in un litigio; Ditti si allontana per chiedere rinforzi contro i satiri,'?° i quali festeggiano con canti e danze la loro momentanea vittoria. fr. 47a Radt, vv. 765-832 (P. Oxy. 2161)
Sileno rassicura Danae in merito alle sue buone intenzioni: il vecchio offre protezione alla donna e le garantisce un futuro tranquillo (vv. 765-72). Ma l'eroina non sembra affatto convinta dalle sue parole; forse spaventata dall'euforica accoglienza dei satiri, teme nuove sventure e supplica Zeus, responsabile della situazione in cui si trova, di inviare qualcuno in suo aiuto (vv. 77385). Alla reazione ostile della donna, Sileno risponde tentando di blandire il piccolo Perseo, per arrivare al cuore della madre (vv. 787-801). Anche il coro partecipa alla nuova strategia persuasiva. I satiri descrivono al bambino una vita «naturale» e un'educazione «satiresca»: egli, dormendo accanto alla madre e al padre (ovviamente Sileno), crescerà insieme ai cuccioli degli animali selvatici, apprenderà «le cose che fanno ridere» (v. 813), imparerà a cacciare per procurare il cibo ai suoi familiari. Il frammento si conclude con una marcia trionfale di Sileno (vv. 821-6) e dei satiri (vv. 827-32), che progettano di lasciare la scena per preparare le nozze di Danae
125 Come osserva I. Gallo, art. cit., 1981, p. 146, è «inverosimile im-
maginare una sua presenza muta e passiva durante le reiterate pressanti avances di Sileno nei confronti di Danae, prima dirette e poi,
per aggirare l'ostacolo, tramite le moine e le promesse al piccolo Perseo». 127 La distribuzione dei vv. 786-820 tra Sileno e il coro è dubbia; l'intervento del coro è necessario ai vv. 802-20, dove è evidente la
corrispondenza strofe-antistrofe (vv. 802-11 e vv. 812-20), che tuttavia è stata ipotizzata anche nella prima parte del canto (tra i vv. 78695 e i vv. 796-801, oppure tra i vv. 786-92 e i vv. 796-801, considerando come efimnio i vv. 794-5).
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e del loro padre; sicuri della vittoria, non 51 preoccupa-
no più di mascherare la loro indole salace, dichiarandosi certi che la giovane donna, dopo i lunghi giorni trascorsi prigioniera nell’arca, non può che desiderare uno sposo. E le torce di Afrodite stanno già per essere accese... È assai probabile che a rovinare la festa dei satiri ritorni Ditti. Costui riesce a sbarazzarsi di Sileno con le minacce o, più verosimilmente, con la promessa di un’allettante ricompensa: se i satiri sono servi di Polidette, è plausibile che il fratello del re conceda loro l’affrancamento. Come il Ciclope, i Pescatori potrebbero chiudersi con il gioioso ritorno del coro alla libertà e al culto di Dioniso."? Un dono del mare
La formula cui si è attenuto Eschilo nel comporre i Pescatori è quella più comune e diffusa dell'inserimento dei satiri in una vicenda mitica non dionisiaca; l'assen-
za di Dioniso potrebbe essere un indizio di recenziorità, almeno rispetto agli Spettatori.? La trovata che è alla base del dramma risponde splendidamente alla funzione distensiva del catuvpixév: la comparsa inaspettata di una giovane donna e di un bambino in mezzo ai satiri è una situazione ideale per eccitare questi personaggi primordiali e istintivi, sensibili ai richiami erotici, eppure ancora fanciulli nei subitanei entusia128 Cfr. M. Werre-De Haas, Aeschylus’ Dictyulci, Lugdunum Batavorum 1961, pp. 73-4. 12 Come osserva Gallo, art. cit., 1981, p. 141, n. 138, tale elemento,
da solo, non prova molto; esso peró sembra corroborato da altri: i dorismi lessicali e fonetici, intesi come sicilianismi, presupporrebbero il primo viaggio di Eschilo nell'1sola; l'eventuale presenza di un terzo attore sulla scena (cfr. n. 51, p. 206) farebbe propendere per un'epoca successiva all'introduzione di questa innovazione da parte di Sofocle; infine, la sticomitia nel prologo (se di prologo si tratta) parrebbe anch'essa orientare, secondo alcuni, verso un'opera recente.
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INTRODUZIONE
smi e nella fervida fantasia. I dubbi che inquietano la lettura dei frammenti non attenuano l’impressione di una favola serena, pervasa da uno spontaneo vitalismo e da una grazia incantevole. La leggenda di Perseo, vincitore della gorgone Medusa, salvatore e sposo della bella Andromeda, era sta-
ta inclusa in varie storie locali e si era sviluppata attraverso il tempo con infinite variazioni, che riguardavano però soprattutto le imprese dell’eroe argivo in età adulta, mentre relativamente scarsa è la materia che si rife-
risce alla sua infanzia. Le più importanti rielaborazioni letterarie di questo periodo della vita di Perseo sono quelle di Simonide e di Luciano. Nel Lamento di Danae (fr. 543 PMG) composto dal poeta lirico, l'arca che imprigiona la donna è in balia delle onde; l’eroina manifesta la sua pena al figlio, tranquillamente addormentato e ignaro della sorte che gli è toccata; quindi rivolge una timida preghiera a Zeus, chiedendogli di cambiare
il corso del destino. Nei Dialoghi marini (12) dello scrit-
tore di Samosata, la Nereide Teti dice a Doride di aver visto una bellissima fanciulla gettata in mare dal padre insieme al figlio in un’arca, e Doride suggerisce di salvarla spingendola nelle rete dei pescatori di Serifo. Su quest'isola Danae e Perseo furono raccolti da Ditti, fratello del re dell’isola Polidette. Costui, quando Perseo era ormai adulto, si innamorò di Danae e, per liberarsi dell’eroe, contrario alle nozze, lo allontanò
con l’incarico di sa riuscì grazie molte peripezie. della vicenda,'®
portargli la testa di Medusa. L’impreall’aiuto di Atena e di Ermes, dopo Numerose sono le presenze letterarie alla quale Eschilo dedicò la tetralogia
1? Danae è citata anche nell’ Eneide (VII, 409 ss.): secondo la versione attestata dal poema latino, l'eroina approdò nel Lazio, si sposò con il re Pilumno, fondatore di Ardea, e tramite questo matrimonio divenne antenata di Turno, re dei Rutuli.
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conclusa dai Pescatori. Nel dramma satiresco, il poeta torna al momento in cui l’arca approda sulla spiaggia di Serifo. Uno dei personaggi che traggono in salvo Danae è senz’altro Ditti; Perseo, presumibilmente, è
un bimbo appena nato; l’antefatto della storia doveva essere raccontato dall’eroina stessa nei versi perduti dei Pescatori. La fonte principale dell’episodio messo in scena da Eschilo è Ferecide di Atene (3 Jacoby, Schol. Apollonio Rodio IV, 1901, 1515, fr. 10 e 11 Jacoby).!?! Il mitografo narra che Acrisio, re di Argo, ed Euridice ebbero
una figlia. Questa, secondo l'oracolo, avrebbe dato alla luce un bambino destinato a causare la morte di suo nonno. Perciò Acrisio tenne la donna chiusa in una torre, ma Zeus visitò Danae sotto forma di pioggia d’oro: così fu concepito Perseo. Quando egli aveva tre o quattro anni, il nonno decise di gettarlo in mare insieme alla madre, dentro un’arca.
Sarebbe troppo facile concludere che Eschilo, contemporaneo di Ferecide, si servì dello stesso materiale,
e quindi le lacune del poeta si possono colmare con il racconto del mitografo.!? In realtà è più utile, dopo aver confrontato le notizie sulla giovinezza di Perseo 131 Con Ferecide concorda sostanzialmente la versione dello Pseudo-Apollodoro (Bibl. II, IV, 1-5), che tuttavia considera Proteo padre di Perseo. Brevi accenni si leggono inoltre in uno scolio a Pindaro (Pyth. X, 72a), in Strabone (Geo. X, 487), in Igino (Fab. 63), in uno scolio all’/liade (XIV, 319), in Giovanni Tzetzes (Lycophron 838); informazioni sul rapporto tra Perseo e Polidette si trovano in Pindaro (Pyth. XII, 14 e 15), Igino (Astr. II, 12), Eratostene (Catast. 22), e nell'Antologia Palatina (111, 11). 132 Secondo Eratostene (Catast. 22) nelle Forcidi di Eschilo le Graie erano custodi delle Gorgoni (nel Prometeo, vv. 798-800 vivono vicino alle loro sorelle); per Ferecide invece esse si limitarono a indi-
care a Perseo la strada per raggiungere le ninfe stigie, che custodivano gli strumenti magici necessari a tagliare la testa di Medusa. Ciò basta a dimostrare che il mitografo ateniese da solo non è sufficiente a ricostruire il contenuto delle opere eschilee.
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riportate dalle fonti, cercare di riconoscere i motivi comuni, che certamente fornirono al drammaturgo l’ispirazione per la tetralogia: le Forcidi (così erano anche chiamate le Graie, dal nome del loro padre Forco) probabilmente avevano per argomento l’impresa di Perseo, mandato da Polidette a conquistare la testa di Medusa; il Polidette doveva rappresentare la vendetta dell’eroe contro il re di Serifo, che fu pietrificato dallo sguardo della Gorgone; in un’altra tragedia, di cui non sappiamo nulla, è presumibile che si sviluppasse la storia di Danae. Nei Pescatori Eschilo agisce sul mito correggendone la prospettiva, attraverso una brillante novità che ben armonizza con le caratteristiche satiresche: rende protagonista delia vicenda Ditti, un personaggio al quale la leggenda aveva riservato poco spazio (la maggior parte delle fonti si limita a dire che Danae e Perseo, tratti in salvo dal mare, vissero serenamente nella sua
casa finché Polidette non si invaghì della donna). Ditti non ha qualità eroiche e nella saga di Perseo pare capitato per caso; la sua presenza contribuisce a intensificare il clima di allegra assurdità del dramma e contemporaneamente colora la storia di tinte più terrene. Nella trilogia si assisteva al contrasto tra il re Polidette e Perseo, un eroe concepito da Zeus; la posta in gioco era una donna e la sfida lanciata dal sovrano così ardua da non poter essere condotta a termine senza l’aiuto divino. Nel dramma satiresco l’oggetto del desiderio è di nuovo l’eroina, ma il protagonista è Ditti, un uomo al quale la parentela reale non ha conferito particolari privilegi. A ostacolare il suo piano troviamo Sileno, smargiasso e cialtrone; non manca il vero eroe, però è in fasce, tra le braccia di Danae; il vincito-
re di Medusa è ancora un bambino ingenuo che, sedotto dalle moine del vecchio, ne diventa l’inconsapevole
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aiutante. Se per tagliare la testa della Gorgone è indispensabile l’intervento degli dei, per toccare il cuore di una madre (madre «satiresca», non certo tragica), basta conquistarsi la benevolenza del figlio. Purtroppo la perdita del Polidette ci impedisce di sapere se vi fossero riscontri verbali fra la tragedia e i Pescatori, tuttavia non pare che vi siano difficoltà nel supporre una consapevole ripresa parodica dell’opera seria in quella buffa. Dal momento dell’apertura dell’arca gli spettatori hanno di fronte una donna con il suo bambino, un’immagine di semplice quotidianità: al piccolo si rivolge Sileno (o il coro) in un canto (vv. 786-820) che è una sorta di nenia con allusioni realistiche, un esempio di vezzeggiamento bambinesco, assai raro nella letteratura greca an-
tica? Nei Cercatori di tracce di Sofocle la ninfa Cillene così rimprovera il coro: «...tu sei sempre un bambino...» (v. 357); i satiri, creature di una mobilità incontrollabile,
nelle quali si esprime gioiosamente tutto ciò che l’uomo di alto rango cerca di reprimere o conciliare armoniosamente in sé, sono fanciulleschi e sanno
accostarsi ai
bambini per istinto. Le lusinghe indirizzate a Perseo sono percorse dai richiami della corporeità; il tono fisico € vitalistico giustifica gli accenni salaci che precedono il 133 Ma non inaspettato nel poeta di Cilissa, nutrice di Oreste: «Un bimbo, un bimbo che ancora non capisce, come un agnellino si deve tirarlo su; e come no?; e piegare noi la mente ai suoi bisogni. Perché non dice niente il piccolino che è ancora in fasce, se ha sete, se ha fa-
me, se ha bisogno di orinare. Non ha legge la pancina delle creature. Io indovinavo i suoi bisogni; ma più volte, si sa, restavo ingannata; e allora dovevo lavargli le fasce, e facevo tutto, da nutrice e da lavatrice
insieme» (Choe,, vv. 753-60). La donna che pronuncia questi versi è una schiava: «nelle figure degli umili occasionalmente ritratti si rifugia il realismo dell’arte arcaica; e quindi per eccellenza nei satiri» (A. Setti, Eschilo satirico I, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa» 17, 1948, p. 31, n. 1).
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canto e la sbrigliata fantasia erotica che lo chiude: note licenziose che - lungi dall’essere in contrasto con la destinazione dei versi — risolvono l’ispirazione in una più larga vena di libertà, di incoerenza, di bizzarria.
Il centro germinale del pensiero eschileo è il rapporto tra l’ineluttabilità del destino e la responsabilità dell’uomo. In esso si riflette uno scontro storico che l’epoca del poeta attraversava in tutta la sua drammaticità: da un lato sopravvivevano antiche credenze, in cui prendeva corpo l’idea di una divinità ostile e di un dolore connaturato all’esistenza umana; dall’altro si stava
affermando la fiducia razionalistica nella capacità di dominare gli eventi. Inoltre, si avvertiva sempre più acuta l’esigenza di una religiosità più pura, che risolvesse i conflitti e le difficoltà disseminate nella tradizione mitica. Neppure l’atmosfera fiabesca dei Pescatori resta illesa da tali contrasti. Nei vv. 782-4 Danae si rivolge a Zeus per rilevare l’infinita ingiustizia che, fino a questo momento, il dio ha compiuto su di lei: al dio spetta la colpa più grande, ma lei sola ha scontato tutta la pena. La situazione è simile a quella ritratta in Simonide; nel-
l’uno e nell’altro poeta tutta la passione dell’eroina si addensa nella preghiera a Zeus. Ma le differenze sono più grandi delle somiglianze. Nel poeta ionico Danae innalza il suo voto con trepidazione, accenna solo lieve-
mente all’amore divino, che l’ha resa sventurata eppure ora le consente di sperare. La Danae eschilea invece è schiettamente audace, tanto che le sue parole ricordano i rimproveri dello Ione euripideo alla leggerezza amatoria di Apollo.'* Eschilo, è noto, esaspera i contrasti: ce ne viene una conferma anche da dove meno ce lo aspetteremmo, in un dramma satiresco che sotto altri aspetti è del tutto fedele al carattere scherzoso di que14 Euripide, /on, vv. 425-51.
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sto genere letterario. Certo non siamo qui in uno di quei momenti di dubbio angoscioso nei quali il poeta conduce il suo pubblico: di quei turbamenti nei Pescatori rimane un’eco sommessa, come un accento voluta-
mente dissonante in un’atmosfera globalmente serena. Non è soltanto la rhesis sconsolata di Danae a ricordare che anche il dramma satiresco ha una sua specifica valenza educativa. L'eroina emerge dal mare: non è un mostro marino — come Sileno e Ditti avevano sospettato con apprensione - la creatura finita nella rete, ma una bella straniera con una storia triste da raccontare. Qualcosa di simile accade anche in un’antica leggenda di Lesbo, riferita da Pausania: «Dei pescatori di
Metimna pescarono con le loro reti in mare aperto una maschera di legno d’olivo. Il suo aspetto aveva qualcosa di divino, ma anche di strano e di straniero che non si addiceva, d’altra parte, a nessuno degli dei greci. Gli abitanti di Metimna chiesero dunque alla Pizia qual dio o eroe rappresentasse quell’immagine. Ella ordinò che la adorassero sotto il nome di Dioniso Sphalen. Perciò la popolazione di Metimna conservò presso di sé la maschera di legno tratta dal mare, onorandola con sacrifici
e preghiere, e ne inviò in pari tempo una copia in bronzo a Delfi».!5 Siamo di fronte a una delle tante parusie dionisiache: una maschera, un viso strano e sconosciu-
to, affiora dagli abissi marini, uno spazio che nella fantasia mitopoietica è inconoscibile come l'aldilà. Il simulacro recuperato dai pescatori propone un enigma, dietro il volto misterioso si cela una potenza ignota, da decifrare attraverso la divinazione della sacerdotessa.!5% Nei Pescatori invece il dono del mare è una donna spaventata e bisognosa di protezione: se il dramma satiresco deve completare la παιδεία omeopatica e catartica 135 Pausania X, 19,3.
136 Cfr. Detienne, op. cit., 1987, pp. 15-6.
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della tragedia, è un'attraente ipotesi leggere in questi versi un'allusione parodica a un'altra, e più inquietante epifania.! Per il pubblico è il momento di sorridere, ma anche ridendo i greci non dimenticano i loro dei e continuano a onorarli e a temerli.
SOFOCLE
I titoli, i frammenti, le testimonianze indirette, che si ri-
feriscono a una trentina di drammi satireschi composti da Sofocle, suggeriscono che il poeta cercasse i suoi temi nelle direzioni più varie, privilegiando gli episodi meno conosciuti del ciclo troiano (ad esempio in Momo, Amanti di Achille, Nozze di Elena, Giudizio, Ban-
chettatori), delle gesta di Eracle (Eracle bambino ed Eracle a Tenaro) e degli Argonauti (Amico), del ciclo tebano (Amfiarao) e dionisiaco (Dioniso bambino). Vari drammi traggono ispirazione dalle leggende locali e regionali (Inaco, ambientato in Argolide, Cercatori di tracce in Arcadia, Salmoneo in Elide, Admeto in Tessa-
glia) o insulari (Dedalo, ambientato a Creta, Cedalione a Lemno). È interessante il tono che emerge dai tormentati frammenti dell’Inaco;H8 l'argomento è il mito di Io, sedotta da Zeus e poi trasformata in giovenca.! I problemi sui quali la vicenda induce a riflettere sono estremamente seri: il destino, l’indifferenza e l'egoismo degli dei di fronte alla sofferenza umana, la potenza di Eros. Per la gravità di queste tematiche, la complessità dell'intreccio e l'elevatezza di stile riscontrabile in alcuni passi, l'Inaco si presenta come un'opera singolare, 1? A proposito dei richiami alla liturgia misterica nella scena dell'apertura dell'arca cfr. p. 60. 1381 più estesi sono contenuti in P Tebt. 692 e P Oxy. XXIII, 2369. 159 La versione più comune del mito è riportata dallo PseudoApollodoro, Bibi. II, 1, 3.
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forse di ambizioni superiori rispetto alla media della
produzione satiresca.'® Il brano più esteso in nostro possesso appartiene invece al Cercatori di tracce, che sviluppano la vicenda del furto di buoi subito da Apolio per mano di suo fratello Ermes e la successiva invenzione della lira: un racconto vivace e garbato, vario nel metro, agile e spigliato nel linguaggio. I contenuti e le forme del σατυρικόν classico in questo dramma si trovano rappresentati in modo esemplare, tanto che da alcuni studiosi l’analisi dei Cercatori è ritenuta più significativa di quella del Ciclope stesso per definire i caratteri del genere letterario.
CERCATORI DI TRACCE
Il testo
A parte i pochi termini citati da Ateneo, Eustazio, Fozio e Polluce, il testo dei Cercatori è conservato dal P.
Oxy. 1174, edito nel 1912 da A.S. Hunt con la collaborazione di U. von Wilamowitz, nel IX volume degli Oxyrinchus Papyri. Frammenti minori sono contenuti nel P. Oxy. 2081. Il papiro più importante restituisce i primi quattrocentocinquantotto versi consecutivi del dramma, molti dei quali sono gravemente danneggiati. 14 E Jouan, 21, illustra gli da quelli degli satiri sofoclei,
Sophocle et le drame satyrique, «Pallas» 37, 1991, pp. 8aspetti che distinguono i drammi satireschi di Sofocle altri tragici. In particolare, lo studioso sottolinea che i più rispettosi e moderati rispetto a quelli eschilei, per
la mescolanza di furberia e buone intenzioni che si riscontra in loro,
prefigurano un tipo di personaggio destinato a grande fortuna nella commedia, quello dello schiavo; Sileno tende ad assumere un ruolo
secondario, a vantaggio del coro, che invece ha sempre una parte significativa nello sviluppo della vicenda. Per quanto riguarda invece il linguaggio, Sofocle viene collocato in una posizione intermedia tra la fantasia verbale di Eschilo e la dizione poco distante da quella tragica rappresentata dal Ciclope di Euripide.
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INTRODUZIONE
Essi sviluppano il mito del furto della mandria di Apollo da parte di suo fratello Ermes; la vicenda é ambientata in Arcadia, tra i verdi boschi del monte Cillene e
sulla soglia della caverna dove vive la ninfa omonima. fr. 314 Radt (P. Oxy. 1174) Il dramma si apre con la comparsa di Apollo impegnato nell'inutile ricerca degli armenti smarriti.'^' Dopo una breve introduzione della vicenda (vv. 1-6), il dio pronuncia una specie di bando in cui chiede la collaborazione degli abitanti del luogo (vv. 7-8); quindi racconta in tono concitato l’inspiegabile scomparsa (vv. 9-
19). È probabile che i vv. 11-2, assai malridotti, conte-
nessero la descrizione degli animali rubati, utile per chi si accinge a cercarne le tracce. La narrazione è interrotta da un secondo bando (vv. 19-20). Segue la rievocazione patetica delle peregrinazioni di Apollo dalla Tessaglia alla Doride, fino al monte Cillene, dove egli
si è fermato in cerca di aiuto (vv. 21-41). Con un terzo richiamo al bando e un accenno alla ricompensa pattuita (vv. 42-4) si chiude la rhesis del dio. AI proclama di Apollo risponde Sileno.! Egli tratta il dio da pari a pari, sottolinea la prontezza della sua risposta e chiede garanzie circa la ricompensa; lo scambio di battute tra i due personaggi ci informa che il premio consisterà in una somma di denaro e nell’affrancamento dei satiri (vv. 45-63),14 141 L'ipotesi che il dramma fosse preceduto da un prologo, perduto ancor prima che il testo giungesse alla biblioteca di Alessandria, & definitivamente superata dopo lo studio di E. Siegmann, Stichometrie und Parodos in den sophokleischen Ichneutai, «Rhein. Mus.» 116,
1973, pp. 113-26. 1? Il momento del suo ingresso in scena è difficile da stabilire; puó darsi che abbia ascoltato le ultime parole del dio. 14 Per il problema dell'identità del padrone dei satiri cfr. Cercatori, n. 12, p. 237.
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Incomincia la parodo dei satiri (vv. 64-78), il cui ingresso è preparato da accenni di Apollo (v. 41) e di Sileno (v. 52);!* dei vv. 64-74 sopravvivono soltanto le parole iniziali, attraverso le quali si intuisce l'entusiasmo del coro per l'impresa imminente, e soprattutto per i doni promessi. Apollo si allontana e Sileno, padrone incontrastato della scena, ne imita il comportamento e le parole, ri-
petendo il proclama del dio in tono minore e buffonesco (vv. 79-87): dopo l'esordio solenne con l'invocazione alla Tyche, il vecchio spiega brevemente l'oggetto della ricerca, quindi formula una richiesta d'aiuto generica.'^ A] primo indugio dei suoi figli (vv. 89-90), egli li investe con ordini e direttive precise (vv. 91-9): incomincia la caccia. Nella prima fase della ricerca (vv. 100-23), il coro è probabilmente diviso in tre gruppi, che si esortano a vicenda interrogandosi sul da farsi, finché non individuano le impronte della mandria e, con grande meraviglia, constatano che a un certo punto il ladro ha co-
stretto le vacche a procedere all'indietro. Un κιθαρισμός interrompe la scena (v. 123); i satiri, intimoriti, si accovacciano a terra, da dove sembra provenire il rumore, mentre Sileno, irritato, chiede spiega-
zioni per l'insolita posizione (vv. 124-30). E possibile che il suono si senta di nuovo, poco dopo (vv. 130 ss.), provocando esclamazioni di paura nei satiri (v. 131); il loro padre continua a non udire nulla (v. 139) e sulle prime non capisce neppure che il timore del coro é dovuto a un rumore (v. 132). Quando finalmente i satiri glielo spiegano (vv. 142-4), la sua risposta & furibonda: accusa i figli di viltà e cialtroneria, rievoca le sue glo1^ I satiri conoscono la storia del furto (vv. 68-72) e sono al corrente della ricompensa promessa da Apollo (vv. 75 ss.), quindi possono essere entrati durante la rhesis di Apollo. 145 Ma i destinatari sono senz'altro i satiri.
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riose imprese giovanili, rispetto alle quali il loro comportamento è degenere, ricorda i premi promessi da Apollo, che rischiano di sfumare per una paura infantile, del tutto ingiustificata, conclude con le minacce (vv. 145-68). Ma quando i satiri chiedono a Sileno che li guidi di persona (vv. 169-71), egli si limita a garantire che li incoraggerä con i fischi, come si incitano i segugi (vv. 172-5). I satiri, esortati dal vecchio, si abbandonano alla fre-
nesia della σίκιννις (vv. 176-202): emettono strani versi (vv. 176-7), si lanciano ciascuno in una direzione diversa (vv. 185, 190, 195, 196, 200, 201); durante l'insegui-
mento qualcuno! emana ordini imperiosi (vv. 190, 196, 200-1), elogia un coreuta per la sua diligenza, ne frena altri troppo precipitosi (vv. 185, 197, 200), esorta un altro ancora a non desistere dall'impresa (v. 192), apostrofa ripetutamente i satiri chiamandoli per nome (vv. 183, 184, 185, 189, 192, 194). L'eccitazione della caccia si dissolve bruscamente!” quando all'improvviso si ode un nuovo κιθαρισμός: questa volta anche Sileno lo sente e ammutolisce per la paura (vv. 203-4), quindi, dopo le ultime frettolose raccomandazioni ai figli, abbandona la scena (vv. 2059). I satiri, intanto, giunti presso la grotta della ninfa Cillene, rumoreggiano davanti all'ingresso, decisi a stanare chi vi si nasconde (vv. 210-20). La ninfa compare sulla soglia dell'antro, frastornata
e preoccupata dal baccano del coro, al quale chiede ragione dell'abbandono del culto dionisiaco e dell'attuale «follia»; Cillene, dall'interno della grotta, ha sentito parlare del furto, ha capito che è in corso un'insolita caccia, le è giunta notizia di un proclama (vv. 221-42). 146 Il corifeo, o un coreuta, a turno, o un gruppo di satiri. V? Il passaggio dal verso lirico al trimetro (v. 203) contribuisce a segnalare il cambiamento di atmosfera.
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In seguito a un reciproco accordo, fra il coro e la ninfa, per un comportamento più pacifico e civile (vv. 24356), Cillene acconsente a soddisfare la curiosità dei satiri (vv. 257-61) circa la natura del suono proveniente dalla grotta. Dopo aver raccomandato di non rivelare ad alcuno le sue parole - la storia deve rimanere oscura alla dea Era - la ninfa menziona gli amori furtivi di Zeus; dalla figlia di Atlante!* il re degli dei ha generato un figlio,!® che è stato affidato alle cure di Cillene, nascosto nella
sua dimora per ordine del padre. Ma il piccolo cresce di giorno in giorno ben oltre il normale, tanto da lasciare allibita e spaventata la sua nutrice; è stato lui a inventare, per gioco, lo strumento che produce il suono udito dal coro. I satiri sono increduli (vv. 262-97). Secondo la descrizione della ninfa, il suono proviene da un animale morto; udito ció, i satiri tentano di in-
dovinare di quale si tratti e si lanciano in congetture zoologiche; in un crescendo di comiche assurdità vengono evocate le piü disparate forme di vita animale: dai felini (un gatto o un leopardo) alla mangusta, al granchio e allo scarafaggio cornuto dell'Etna. Quest'ultimo - interviene Cillene - è l’animale che più assomiglia a quello esatto; sollecitata dalle domande piü precise dei satiri, la ninfa spiega nei dettagli la costruzione dello strumento, nato dal guscio di una tartaruga; la lira — cosi la chiama Ermes - è l’unica consolazione del piccolo dio (vv. 298-328). È possibile che la melodia della lira risuoni ancora, ispirando il commento del coro (vv. 329-31), che tuttavia non tarda a passare dall'estasi musicale alla realtà delle indagini: i satiri sono convinti che l'autore del furto sia Ermes (vv. 332-7). Tra loro e Cillene incomincia 148 Maia. 149 Ermes.
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un aspro battibecco (vv. 338-77), in larga misura irrecuperabile. Gli intermezzi lirici del coro mostrano i satiri irremovibili dalle loro accuse (vv. 332-7, 371-7), mentre
la linea difensiva della ninfa punta sulla prestigiosa ascendenza del dio (vv. 360-5), oltre che sul comportamento sciocco e irresponsabile dei satiri (vv. 366-70). Questi sono decisi a non lasciarsi sviare dalle parole di Cillene: sono sicuri che Ermes abbia costruito la lira usando la pelle delle vacche di Apollo (vv. 371-7). La ninfa replica! e la discussione sulla colpevolezza di Ermes si riaccende (vv. 390-450), finché il coro non or-
dina a Cillene di portare fuori la mandria e questa ribatte con un'espressione di estrema insofferenza (vv. 402-3). Ricompare in scena Apollo, e forse accenna all'affrancamento dei satiri (vv. 451-7).!! Subito dopo potrebbe rientrare anche Sileno,!? che insieme al coro
assisterebbe alla riconciliazione tra Apollo ed Ermes, sancita dal dono della lira a Febo.'? I prodigi di un dio bambino La materia mitologica dei Cercatori di tracce coincide con quella dell’Inno omerico a Ermes, tuttavia tra le 150 L'attribuzione delle battute dal v. 379 al v. 389 è molto incerta. 151 Può darsi che il coro, quando Apollo entra in scena, sia già riuscito a recuperare la mandria (cfr. vv. 404 e 450). La perdita di un’intera colonna di versi compromette la perspicuità del finale del dramma. I? ΑἹ margine sinistro del v. 458 una traccia d'inchiostro è stata interpretata come un sigma, che potrebbe essere l’iniziale del nome di Sileno. 153 E l'ipotesi più comune in merito alla conclusione del dramma, sostenuta dal confronto con l'Inno omerico a Ermes (vv. 435 ss.); quanto al problema dell'introduzione sulla scena del piccolo dio, non si può escludere che quest'ultimo resti nell'antro: la riconciliazione tra i due fratelli, avvenuta nella grotta, potrebbe essere riferita agli spettatori dal coro, che lascerebbe la scena festante per la conquista della libertà e per il ritorno della pace tra gli dei.
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due opere ci sono vistose differenze. Nel testo pseudoomerico l’invenzione della lira precede il furto della mandria di Apollo; le due prodigiose imprese vengono compiute da Ermes nel giorno stesso della sua nascita; il dio fanciullo è accudito da sua madre Maia; il na-
scondiglio dei buoi è in una caverna nei pressi di Pilo, sul fiume Alfeo; un vecchio abitante di Onchesto for-
nisce ad Apollo le informazioni necessarie all’individuazione del colpevole e degli armenti rubati. Invece nel σατυρικόν lo strumento musicale viene costruito,
oltre che con un guscio di tartaruga, proprio con la pelle dei buoi di Apollo;* l'abigeato e la creazione della lira avvengono alcuni giorni dopo la nascita di Ermes,'5 che è affidato alle cure di Cillene;! in Arcadia,
dentro la grotta della sua balia, il dio nasconde la refurtiva; nessuno aiuta i satiri nella loro indagine. Alcune di queste variazioni operate sul mito da Sofocle potrebbero essersi rese necessarie nella trasposizione teatrale della vicenda; resta però il fatto che neppure i punti di contatto lessicali riscontrati, piuttosto vaghi, dimostrano una derivazione diretta del dramma satiresco dall’inno omerico. La mancanza di una precisa cronologia delie due opere rende ancora più incerta la questione.” D'altro canto, la Biblioteca dello Pseudo154 Cfr. h. h. ad Merc., vv. 21-60, 68 ss. e Cercatori, vv. 314 ss., 345 ss.,
374 ss. 155 Cfr. ἢ h. ad Merc., vv. 17-8 e Cercatori, v. 279.
156 Cfr. h. h. ad Merc., vv. 154 ss. e Cercatori, vv. 270 ss. 157 Gli argomenti utili a determinare la cronologia del dramma sono riportati e discussi da V. Maltese, Sofocle. Ichneutai, Firenze
1982, pp. 12-7: I) nell'Antiopa di Pacuvio, che seguiva da vicino l’omonimo dramma perduto di Euripide, il citaredo Anfione fornisce,
per enigma, una descrizione simile a quella che dell’animale dà Cillene nei Cercatori; si è supposto perciò che Euripide avesse imitato il passo sofocleo, ricavandone per 1 Cercatori un terminus ante quem del 408 a.C., probabile data dell’ Antiope euripidea; I1) l'analisi metrica (maggior frequenza di soluzioni rispetto ad altre opere sofoclee, presenza, fra i trimetri del dialogo, di monometri e dimetri
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Apollodoro (III, 10, 2) concorda con i Cercatori nel porre l’abigeato prima dell’invenzione della lira, però coincide con l'inno nel situare l'episodio nella Pieria.!58 Il mitografo ha contaminato le due fonti, oppure ha utilizzato altre redazioni della storia? Ermes era uno degli dei più amati e venerati dalla popolazione e questo mito, come tutto ciò che riguarda le imprese del dio, godette di una notevole popolarità nella cultura attica del V sec. a.C.: la pittura vascolare lo conferma. Si deve probabilmente concludere! che la materia mitologica di cui si nutrono i Cercatori riflette un ambito culturale troppo vasto perché si possa stabilire una qualsiasi derivazione diretta da un unico antecedente letterario.!® giambici ai vv. 107, 109, 117, 136, 140, ἀντιλαβαί dei vv. 105 e 205, as-
senza di responsione strofica nella parodos e nel canto della caccia ai vv. 176-202) ha portato a risultati contrastanti, alimentando ipotesi cronologiche opposte; III) a non migliori esiti ha condotto l'esame tecnico-formale dei frammenti che ha messo in luce elementi dai quali non è facile trarre precise indicazioni cronologiche (assenza del terzo attore, confronto tra la richiesta di aiuto pronunciata da Apollo ai vv. 39-44 e quella, analoga, di Ditti nei Pescatori eschilei, punti di contatto con l’ Aiace, preminenza dell’azione corale su quella dei personaggi, somiglianza della rhesis di Apollo con il prologo dell’Alcesti di Euripide...). Benché da nessuno dei fatti citati si possano trarre indicazioni cronologiche sicure, la maggior parte degli studiosi colloca i Cercatori nella produzione giovanile di Sofocle, La datazione dell’inno è generalmente posta tra il VII e il VI sec. a.C. (secondo il commento più recente di G. Zanetto, Inni omerici, Milano 1996, p. 43, è probabile che l’opera sia un prodotto della devozione arcade per Ermes e risalga al VI sec. a.C.) ma alcuni la abbassano fino al V sec. a.C. o addirittura ai tempi della Commedia Antica, così che, senza capovolgere il rapporto cronologico con i Cercatori, non si potrebbe escludere un’approssimativa contemporaneità tra le due opere (cfr. Maltese, op. cit., p. 18). 158 Gli accenni leggibili dei Cercatori (vv. 30 ss.) a questo proposito sono poco significativi. 159 Cfr. Maltese, op. cit., p.20.
160 In epoca arcaica il mito fu trattato — ma non sappiamo come -da Alceo (frr. 2 a-d L.-P.) e marginalmente da Esiodo nelle Grandi Eee (fr. 256 M.-W.); abbiamo poi la versione di Filostrato (/mag. I,
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Nei Cercatori ritroviamo molti motivi topici del dramma satiresco. La condizione servile dei satiri e il loro smanioso desiderio di libertà sono il tratto convenzionale più vistoso; il tema dell'astuzia e dell'inganno si riflette nello stratagemma escogitato da Ermes per sviare la ricerca degli armenti rubati (vv. 15 ss., 118 ss.) e la celebrazione, per quanto indiretta, della destrezza
del furto & del tutto coerente con l'ethos «rilassato» del genere letterario; la costruzione della lira è lo spunto per la duplice presenza dell'enigma e dell'invenzione di un oggetto meraviglioso (vv. 299 ss.); l'elemento magico si ravvisa nella crescita prodigiosa del dio fanciullo (vv. 277-82); l'interesse per le vicende infantili di Er-
mes si ricollega a un filone che abbiamo già visto attivo nei Pescatori di Eschilo; l'ambientazione della vi-
cenda tra le aspre montagne dell'Arcadia soddisfa il gusto «esotico» e campestre; infine, la trama semplice e il probabile lieto fine obbediscono al modello strutturale più comune del σατυρικόν. A dispetto di tale aderenza complessiva agli stereotipi satireschi, quanto dei Cercatori si è potuto ricostruire conserva ragioni di interesse particolare. Un primo effetto spettacolare è dato dal sottofondo musicale e sonoro che si percepisce in tutta la parte sopravvissuta del dramma.!9! La rappresentazione è avviata dal bando squillante di Apollo, che determina l’accorrere di Sileno (vv. 45 ss.). Dopo il proclama del vecchio incomincia la ricerca dei coreuti, le cui voci concitate
(vv. 100 ss.) in un susseguirsi di richiami, esclamazioni e incoraggiamenti reciproci, evocano il potßönua buco26) e sappiamo da Pamfilo (ap. schol. ad Ant. Lib. 23) che anche Nicandro, Didimarco, Antigono e Apollonio Rodio si occuparono della leggenda. La vicenda ispirò inoltre ricerche erudite alla scuola di Callimaco: sappiamo infatti che il geografo Filostefano (FHG III, 28 ss.) scrisse nel III sec. a.C. un περὶ Κυλλήνης. 161 Cfr. Maltese, op. cit., pp. 28-9.
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lico. A questo punto si avverte il primo, misterioso κιθαρισμός (v. 123): i satiri, sbigottiti, si piegano verso il suolo, da dove sembra provenire la melodia, e al primo
rimprovero del loro padre (vv. 124-30) reagiscono con un grido di paura (v. 131). Sileno continua a non udire niente, perciò riprende aspramente i coreuti, alludendo quattro volte all’indefinibile ψόφος (vv. 145, 157, 160, 168); l’ultimo riferimento è un’ironica minaccia:
«... se non rumore lo fronte alla di persona
tornate a seguire le tracce delle vacche... i/ farete voi {(ψοφήσετε), piangendo...». Di titubanza dei satiri, Sileno decide di guidare la caccia, ma chiarisce subito che lo farà sol-
tanto vocalmente, con il fischio usato dal cacciatore
che sguinzaglia i cani dietro la preda (v. 173 κυνορτικὸν copvyuo). La seconda fase della battuta è interrotta da un altro κιθαρισμός (probabilmente tra il v. 202 e il 203), che sorprende e spaventa anche Sileno. Mentre questi si ferma sbigottito, 1 suoi figli procedono con salti e sgambetti che fanno tremare la terra, persino un sordo sarebbe costretto a udirli (vv. 218-20). E infatti, disperata, esce dalla grotta Cillene: ha sentito grida (v. 222), richiami di cacciatori (v. 231), discorsi di furti (v. 234), un proclama (v. 236), rumore di passi (v. 237), una voce (v. 238), una confusione forsennata (v. 240). Il baccano provocato dalla caccia scomposta dei satiri si placa con la descrizione dei prodigi del piccolo Ermes, ma la pausa è di breve durata: la discussione tra la ninfa e i coreuti assume i toni acuti della lite (vv. 338 ss.), forse dopo un terzo κιθαρισμός (tra il v. 328 e il v. 329). Un ulteriore accento originale del dramma consiste nell'atmosfera schiettamente animalesca, che lo pervade andando oltre l'ovvia tendenza al «selvaggio», determinata dalla φύσις dei satiri. Infatti sono anima-
li, i buoi di Apollo, a determinare l'inizio dell'azione. E isatiri entrano in scena in qualità di «segugi»; anche
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se ciò non obbliga a pensare che i coreuti si presentassero travestiti da cani, come è stato supposto,'? è evidente che la loro partecipazione all’insolita «caccia» li costringe ad assumere temporaneamente comporta-
menti canini: chini a terra, intenti a fiutare la pista (vv. 93 ss., 124 ss.), obbedienti ai richiami di Sileno.'® Ma lo stile del dramma punta su una serie di suggestioni più sottili, di richiami indiretti, di particolari evocativi.! La caratterizzazione ferina dei satiri, convenzionale nel genere satiresco, si colora di tratti fantasiosi nei Cercatori, a cominciare dai paragoni suggeriti a Sileno dalla postura dei figli, intenti a fiutare le impronte della mandria scomparsa: i satiri appaiono all'improvviso come un riccio raggomitolato (v. 127) o 12 Da F.R. Walton, A problem in the Ichneutae of Sophocles, «Harv. stud. class. Philol.» 46, 1935, pp. 167 ss., Maltese, op. cit., p. 25,
giustamente rileva che la prestazione dei satiri come segugi è estemporanea, legata all'imprevedibile richiesta di Apollo, quindi risulta improbabile che il coro esibisca aspetti canini prima del contratto con il dio; i termini cinegetici (p. es. v. 94 ῥινηλατῶν dou-, v. 97 ὕπο-
σμος ἐν χρῷ, v. 173 κυνορτικὸν σύριγμα) non costringono a pensare a coreuti travestiti da cani, bensì suggeriscono che essi si comportino momentaneamente come tali e riflettono in senso suggestivo ciò che accade sulla scena; anche l’epiteto dei satiri «animali» (vv. 147, 221,
252) non è una prova che autorizzi a identificarli come cani, ma piuttosto un’apostrofe non inconsueta nel dramma satiresco (cfr. p. es. Euripide, Ciclope, v. 624 θῆρες, Eschilo, Pescatori, v. 775 κνωδάλοις); infine, nessuna raffigurazione vascolare finora ci ha mostrato satiri
in qualche modo assimilabili a cani. I dati desunti dal testo portano a concludere che anche il coro dei Cercatori comparisse nella consueta caratterizzazione dei cori satireschi del V sec. a.C. 165 Nella risposta affermativa alla richiesta di Apollo, al v. 50 Sileno, riferendosi a se stesso, usa il verbo κυνηγέσω, che significa letteralmen-
te «andrò a caccia con i cani»; nella forma κυνηγετεῖν il verbo ritorna al v. 125, ancora in una battuta di Sileno, ma questa volta riferito al coro.
16 Come osserva Maltese, op. cit., p. 26, questa tecnica, basata sulla misurata combinazione di stili e sul tocco leggero dei riferimenti allusivi, percorre l’intera opera. Se ne coglie il valore a partire dalla mutila rhesis iniziale di Apollo: non un semplice grido di aiuto, ma una buffa mescolanza tra la disperazione di un derubato qualsiasi e il bando squillante emesso dall’alto del proprio rango divino.
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una scimmia spudorata (v. 128). La sezione lirica che accompagna i movimenti febbrili dei satiri nella seconda fase della caccia (vv. 176-202) presenta varie analogie con le descrizioni tecniche degli inseguimenti delle prede riportati nei manuali di cinegetica: il quadro venatorio è sapientemente costruito attraverso onomatopee (vv. 176, 197), movimenti orchestrici che raffigurano il procedere frenetico dei segugi in più direzioni, lo slancio della corsa e il brusco arrestarsi
per fiutare una traccia. In questi versi, alcuni dei coreuti sono chiamati per nome e la scelta di nomi propri di satiri che ricordano l’onomastica canina è il colpo di genio che rafforza l'ambivalenza della scena della danza-battuta di caccia.! L'atmosfera animalesca della vicenda si proietta anche sulla seconda parte della storia, quando i satiri cercano di risolvere l’indovinello della tartaruga-lira con una sequela di assurde congetture: di nuovo un elenco di animali, dal gatto al
leopardo, dalla mangusta al granchio, allo scarafaggio (vv. 303 ss.). L'elemento musicale e il clima «ferino» si ritrovano mescolati nella seconda parte del dramma. Infatti, è grazie a un animale che Ermes compie il prodigio piü stupefacente, la costruzione della lira. I satiri stentano a credere che un animale morto possa produrre un suono, ma
l'intelligenza del dio ha compiuto il τέρας. L'invenzione della lira è un atto di μῆτις, il risultato di un ritrova-
165 Cfr. Cercatori, nn. 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, pp. 242-3. Nomi di satiri compaiono sui vasi, ma i coreuti della tragedia non sono mai indicati con il nome proprio, al contrario di quelli della Commedia Antica (cfr., p. es., Aristofane, Vesp. vv. 230-4, Lys. vv. 254-5). Secondo D.F. Sutton, Named
Choreuts in Satyr Plays, «American Journal
of Philology» 106, 1985, pp. 106-9, la presenza di cori di satiri (cfr. p. 39) e di coreuti chiamati per nome nella Commedia Antica potrebbe derivare dal genere satiresco.
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mento casuale e fortunato! e di una geniale trasformazione: il poeta dell’inno racconta la straordinaria intuizione che consentì a Ermes di «vedere» nella tartaruga pascolante la «compagna di banchetto» e l’abile manualità con cui realizzò lo strumento;!9” tracce della
descrizione di questo miracoloso procedimento si leggono pure nei Cercatori. Anche qualora il dio inventore non compaia sulla scena, è inequivocabilmente «ermetica» tutta la vicenda, che ruota intorno alla risoluzione
degli enigmi posti dal nume. La perdita del finale non ci consente di sapere in che modo e con quale ampiezza si sviluppasse il tema del contrasto tra Ermes e Apollo, due divinità che rappresentano gli opposti entro i quali oscilia il sentimento religioso dei greci: il primo è il compagno di viaggio, il «mediatore», il più umano degli olimpi;!® il secondo è lo splendido arciere «al cui arrivo tremano gli dei nella casa di Zeus», il dio del φόβος, folgorante e terribile. Apollo «Splendente» (Φοῖβος) è il dio del cielo, della luce, della bellezza. Ermes, al contra-
rio, sale dagli anfratti del monte Cillene e si muove agilmente nelle tenebre, che richiamano le circostanze del
suo concepimento, è il dio del limite! e della trasgres166 I greci chiamavano ἕρμαιον il guadagno inaspettato o l’oggetto trovato per caso. 167 Cfr. h. h. ad Merc., v. 31 ...Barròg Eroipn. 168 Nell’Iliade è menzionato soprattutto come ladro; a lui gli dei vorrebbero affidare il compito di rubare il corpo di Ettore, straziato da Achille; in realtà poi è Priamo a recarsi nel campo acheo, ma Ermes accompagna il vecchio re e versa il sonno negli occhi delle sentinelle, per consentirgli il passaggio (Il, XXIV). Odisseo, per il suo statuto di viag‘giatore, oltre che per la sua abilità nell’arte dell'inganno, è «figura» di Ermes, che interviene spesso nella trama dell’Odissea: libera l'eroe dalla prigionia di Calipso, per consentire la sua partenza verso Itaca (Od. V, vv. 43-148), gli dona un antidoto contro i filtri della maga Circe (Od. X, vv. 275-307). Anche Autolico, il nonno dell'eroe, è allievo di Ermes,
dal quale ha appreso furti e spergiuri (Od. XIX, vv. 395-8). 19 Il nome stesso del dio si può forse ricondurre alla pila di pietre che fungeva da cippo confinario (ἕρμα), una forma primitiva di demarcazione a cui si assegnavano poteri magici, in seguito sostituita
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sione, patrono di tutte le attività umane che richiedono talento e spregiudicatezza, ma è anche divinità amabile, protettore degli eroi e nello stesso tempo venerato dagli umili pastori.!? Si profila così anche nei Cercatori, come negli Spettatori eschilei, il tema di un contrasto tra dei. Agli argomenti e all’atmosfera del σατυρικόν si addicono perfettamente le qualità «ermetiche», che consistono principalmente in esuberanza, vitalità primordiale, istintualità. Ermes, dio della comunicazione, in-
termediario tra il mondo dei mortali e quello degli immortali, ha tutte le caratteristiche di una divinità «sati-
resca»: superiore agli uomini, ma non troppo lontano da loro. Astuto, energico, «terrestre», egli è, in qualche modo, affine ai satiri e allo stesso Dioniso, a cui lo lega-
no anche certi aspetti del culto.!”! La costruzione della lira gli conferisce inoltre un ruolo fondamentale come «civilizzatore» dell’umanità. Ciò nonostante, Sileno e i
suoi figli sono schierati ai fianco del gelido Apollo e accusano il divino infante di un atto vergognoso come il furto, che Sofocle considera prerogativa delle classi sociali più svantaggiate; i coreuti e il loro padre, che altrove non esitano a vestire i panni dei ladri (si pensi al Ciclope), si presentano così nell’improbabile veste di giudici. L'invenzione del poeta circonda il dramma di un’aura vagamente assurda, coerente però con la natu-
ra del genere letterario: negli Spettatori di Eschilo il tiada un pilastro con fallo apotropaico, di cui Ermes divenne la personificazione. 170 A Ermes si attribuiva la facoltà di favorire la crescita delle mandrie e delle greggi: in questo aspetto il dio rappresenta forse la continuazione del «Signore degli animali» della religione minoica. "! Nel terzo giorno delle Antesterie, consacrato ai defunti, si in-
vocava il favore di Ermes quale guida delle anime (Puxonöunog); il mito assegnava al dio il compito di accompagnatore di Dioniso appena nato nel suo viaggio verso Nisa; infine, secondo una tradizione, Sileno stesso era figlio di Ermes.
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so dionisiaco scappa dal suo patrono per onorare Poseidone, nei Cercatori si profila un’alleanza sorprendente, che affianca le creature più malandrine della mitologia alla divinità più pura dell'Olimpo. Ma nessun rovesciamento delle regole resta fine a se stesso nei drammi satireschi. I satiri collaborano con Apollo esclusivamente per interesse, allettati dall’oro e dalla misteriosa libertà promessa dal dio; quando sentono il suono della lira, per un momento sembrano dimenticare il loro incarico, dopo la rivelazione dell’indovinello della tartaruga tradiscono stupore e ammirazione per il geniale inventore dello strumento. Nella rapidità con cui risolvono l’enigma degli armenti scomparsi e nell'insistenza con cui persuadono Cillene a rispondere alle loro domande, i satiri si confermano «ermetici». Al
termine del dramma la riconciliazione tra 1 fratelli divini riporta la tranquillità sui pendii del Cillene: ad Apollo tocca la lira, a Ermes probabilmente rimangono gli armenti,!”? mentre ai satiri non resta che festeggiare la ritrovata armonia con la musica, che concilia la gioia, l'amore e il dolce sonno.!? EURIPIDE
Poeta del dubbio e del relativismo etico, Euripide trovò nello spirito libero e allegramente paradossale del caτυρικόν lo strumento ideale per trattare in modo audace i temi cari alla sua riflessione; in quanto possiamo leggere della sua produzione satiresca le attività tradizionali dei satiri, ancora molto vive in Eschilo e Sofo17 Lo scambio dei doni, attestato dall’Inno omerico a Ermes, vv. 485 ss., serve a conciliare la narrazione con la realtà religiosa e ri-
tuale: Ermes infatti è il dio bovaro, mentre Apollo è il dio musico e la lira è uno dei suoi attributi fondamentali.
13 Cfr. h. h. ad Merc., vv. 448-9.
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cle, sembrano infatti cedere spazio all’esame delle questioni etiche, sociali e politiche più discusse nell’ Atene contemporanea. Ci sono noti una decina di drammi satireschi euripidei, dai quali si ricava l'impressione che l’autore privilegi nettamente il teatro «a tesi» e tratti con una certa disinvoltura il materiale mitologico, a vantaggio di una forte connotazione ideologica e propagandistica:!” affermazioni programmatiche, senten-
ze, confronti di opinioni su argomenti di alto livello concettuale caratterizzano tutta la produzione satiresca del drammaturgo. Nel motivo topico della liberazione dall’orco «mangiaviandanti» egli innerva sia la polemica antibarbarica, che esalta la funzione civilizzatrice
della cultura greca, sia l'avversione all’autoritarismo e al «superomismo» che contrassegnavano la Weltanschauung di certi Sofisti contemporanei. Già nel XVI sec. Filippo Melantone considerava Polifemo un prototipo del tiranno barbaro, sconfitto dal greco Odisseo; al ciclope assomigliano l’egizio Busiride e il lidio Sileo, protagonisti dei drammi omonimi, nonché il frigio Litierse dei Mietitori. Contro questi nemici dell’umanità combatte vittoriosamente l’eroe dorico Eracle, mentre
l’ateniese Teseo punisce il brigante corinzio Scirone, in un dramma che esprime l'impegno a «colpire l'immoralità suscitando il riso». Tali personaggi offrono a Euripide l’occasione di sviluppare, accanto al tema della libertà riconquistata, il dibattito su questioni di attualità come l’atletismo, l’edonismo, il bellicismo, l’insen-
satezza di alcune pratiche religiose, la crudeltà della schiavitù. Altri σατυρικά svelano complessi risvolti sociali e interesse per il problema della παιδεία. Nell' Euristeo vengono denunciate le discriminazioni subite dai figli illegittimi, contrapponendo la nobiltà dell’anima a quella del sangue; si critica il governo oligarchico; si 1^ Cfr. L. Paganelli, art. cit., 1989, pp. 248-9.
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considera sotto diversi punti di vista il problema della schiavitù; si professa un coraggioso comportamento iconoclasta. Nell’ Autolico,!^ invece, il poeta attacca l’u-
so di concedere onori e privilegi ai vincitori degli agoni sportivi e rappresenta il contrasto fra il bios atletico, che soddisfa le vacue ambizioni dei nobili inetti, e l'e-
ducazione del buon cittadino, messa alla prova dall’impegno politico quotidiano, richiesto dalla democrazia diretta. Polifemo, Odisseo e i satiri Il Ciclope non si sottrae a questa attitudine speculativa e polemica, e la drammatizzazione del famoso episodio narrato nel IX canto dell'Odissea diventa un’opera a molti livelli di significato, nella quale viene convogliata la maggior parte delle tematiche satiresche: l'ambientazione esotica, la schiavitù dei satiri, la lotta contro un individuo crudele, il motivo erotico, l’astuzia
dell’eroe che si oppone alla fatale dabbenaggine del suo avversario, l’elemento dionisiaco rappresentato, oltre che dai coreuti e da Sileno, dalla presenza del vino quale fattore determinante nello scioglimento dell’azione. Nel racconto omerico Odisseo, dopo l’avven-
tura con i mangiatori di loto, potrebbe proseguire indisturbato il suo viaggio, ma dirige la nave verso il paese dei ciclopi, spinto dal desiderio di conoscere di persona il gigante e di fare esperienza diretta del «diverso». Ignorando le suppliche dei compagni, attende nella grotta l’arrivo di Polifemo e, quando il mostro ritorna alla sua tana con il gregge, l’eroe gli chiede doni ospitali, in nome della legge divina che impone di rispettare e accogliere amichevolmente gli stranieri venuti da 75 Alcuni interpreti, basandosi sulla testimonianza di Ateneo, X, 413, che cita questo dramma come Primo Autolico, ritengono che Euripide compose due drammi, entrambi presumibilmente satireschi, aventi Autolico come protagonista (cfr. Sutton, op. cit., 1980, pp. 59-60).
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lontano; ma il ciclope non si cura di Zeus, del quale si
dichiara più forte. Dopo aver divorato due uomini, ingoiandone anche le ossa e le interiora, si sdraia in mezzo alle pecore e si abbandona al sonno. Odisseo deve rinunciare all'idea di trafiggerlo subito con la spada: soltanto Polifemo, infatti, è in grado si spostare l'enor-
me macigno che blocca l’uscita della grotta. Trascorre perciò una notte di terrore. All’alba altri due greci vengono divorati, e il macabro rituale si ripete al tramonto. Ma nel frattempo l’itacese ha escogitato un piano al quale dà puntuale esecuzione: ubriaca Polifemo, lo fa addormentare e lo acceca con un palo rovente. A nulla valgono le urla rabbiose del mostro: quando i suoi fratelli ciclopi sentono che Nessuno (così il Laerziade ha dichiarato di chiamarsi) gli sta facendo del male, tratti in inganno dal nome, tornano nelle loro case. Al mattino il gigante leva dalla porta il macigno e si pianta lui stesso sulla soglia dell’antro, a braccia distese, convinto
di poter afferrare i greci mentre escono tra le capre e le pecore. Ma è di nuovo ingannato dall’astuzia dell’eroe, che nasconde sé e i compagni sotto il ventre degli animali. Ormai al sicuro, Odisseo rivela a Polifemo la
sua vera identità e gli rivolge parole di scherno, alle quali il ciclope risponde con un inutile lancio di pietre. Euripide si attiene fedelmente al racconto omerico, almeno finché glielo consentono le convenzioni teatrali, che impongono l’ambientazione esterna della vicenda e il rispetto dell’unità di tempo, mentre vietano la rappresentazione diretta della violenza fisica." Nella 6 I tre giorni dell'avventura odissiaca sono condensati in poche ore e la vicenda è trasferita nello spazio antistante l’ingresso della grotta. Manca l’enorme macigno che chiudeva l’antro omerico, in
modo che Odisseo possa entrare e uscire liberamente dalla dimora del ciclope: ne consegue che anche i compagni dell’eroe potrebbero scappare, una volta che il mostro è addormentato, senza ricorrere all’accecamento (cfr. Ciclope, n. 105, pp. 333-4). Poiché i greci non entrano nella grotta, Euripide omette il particolare della fuga sotto il
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trasposizione scenica la narrazione epica diventa così una rapidissima sequenza di avvenimenti; l’azione è all’interno mentre Polifemo massacra i marinai greci, come quando egli viene accecato, si trasferisce davanti alla grotta allorché Odisseo riferisce ciò che è succes50.177 L’inevitabile semplificazione rispetto al venerando modello giova alla chiarezza didattica del Ciclope, nel quale gli elementi tradizionali acquistano un rilevante spessore paideutico e il contrasto tra civiltà e barbarie, egoismo e solidarietà, libertà e schiavitù è proposto con l’evidenza di un apologo. AI centro del dramma si staglia il personaggio di Polifemo. Il mostro antropofago del racconto odissiaco aveva enormi valenze simboliche, che Euripide sviluppa al massimo grado; ma l’intento del poeta sembra quello di svelare tutte le ambiguità del ciclope, piuttosto che di arrivare a una precisa definizione della sua natura. Polifemo abita da solo in un antro roccioso dell'Etna,!5 si nutre di latte, di formaggio, di carne e divora orrendamente gli sventurati che capitano nei pressi della sua dimora. Il suo stile di vita è connotato in moventre delle pecore e dell’ariete. Nel finale del racconto epico, Polifemo scaglia due macigni contro la nave dei greci che si allontana: ovviamente un'azione simile non può essere rappresentata in teatro, ma il ciclope, nell'ultima sua battuta, manifesta l'intenzione di stac-
care un masso dalla scogliera alla quale si dirige attraverso una seconda uscita della grotta. Euripide trova cosi il modo di citare quasi tutti i particolari del suo modello, ora con espliciti richiami, ora con allusioni indirette. Cfr. T. Gargiulo, Osservazioni sull'Odisseo della Ciclopea e del Ciclope, «Eikasmos» 7, 1996, pp. 13-20: gli elementi di intertestualità con il libro IX dell’Odissea mirano a marcare la distanza tra il dramma e il poema e tra le diverse immagini di Odisseo. 17 Con questa soluzione drammaturgica Euripide ripropone la funzione di narratore attribuita dall’Odissea all’eroe, che racconta
l'avventura del ciclope durante il banchetto alla corte dei Feaci. 178 In caverne simili vivono anche i suoi fratelli e nella regione non vi sono città, né alcuna forma di organizzazione politica (cfr. vv. 118-20).
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do truce da un egoismo assoluto e brutale, spinto fino alla negazione di qualsiasi principio che non promuova la soddisfazione degli istinti primari. Ammette l'esistenza degli dei, ma non li teme, perché si considera un
dio egli stesso, e più potente di loro; non rispetta nessuna regola, ma in nome di un gretto edonismo si preoccupa solo di placare la fame e la sete, e di ripararsi dalle intemperie; considera le leggi un’inutile complicazione inventata dagli uomini (vv. 316-40). Apparentemente, il ciclope è fratello di quei «primitivi» ai quali fanno riferimento la letteratura e la filosofia del V-IV sec. a.C., quando presentano la storia dell’umanità come passaggio dallo «stato di natura», in cui gli uomini non si distinguono dagli animali, alla civiltà regolata dalla legge e fondata sulla solidarietà. Ma la sauvagerie del gigante euripideo si adorna di particolari palesemente contraddittori. All’arrivo dei greci Polifemo è assente; Sileno informa che è andato a caccia con i suoi cani, lasciandogli l’ordine di pulire per bene la caverna e di preparare il pasto (vv. 30-4, 130): il vecchio svolge i compiti di un fedele «maggiordomo», mentre il suo padrone si dedica a un passatempo aristocratico, più adatto a un gentiluomo di campagna che al rozzo pastore omerico. Chiedendo informazioni a Odisseo a proposito della guerra di Troia, Polifemo, che altrove nega ogni remora etica, mostra di condividere il giudizio moralistico dei greci sulla condotta di Elena (vv. 280-1). Anche nell’espressione della ferocia più crudele, mentre uccide e «cucina» gli amici dell’eroe, egli rivela una singolare attenzione alle regole sacrificali (vv. 345-6, 382 ss.). Persino nelle inclinazioni sessuali il mostro manifesta una sorprendente propensione per l’eros paidico (vv. 583-4), tradizionale retaggio aristocratico, connesso a ideali di raffinatezza ed elevazione morale. Infine, per giustificare il suo disprezzo di ogni norma, adduce argomenti che riecheg-
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giano palesemente il relativismo e l’ateismo dei sofisti più spregiudicati (vv. 316 ss.).!? La schietta ferocia del ciclope omerico è ormai lontana, così come la schematicità di carattere degli «orchi» satireschi; dovrà passare ancora molto prima che la figura di Polifemo si ingentilisca,'® ma in Euripide già troviamo un selvaggio curiosamente attratto dalle raffinatezze della civiltà. Un’evidente conferma di ciò è offerta dalla scena che incomincia al v. 519, costruita secondo il noto modello
della «lezione impartita a uno sciocco».!8! A differenza del ciclope omerico, Polifemo non conosce il vino: Odisseo e Sileno devono perciò istruirlo sulla natura della bevanda dionisiaca e sulle regole delle libagioni.!82 In particolare, è il vecchio a spiegare al ciclope che il vino va diluito con acqua, che bisogna ornare il capo con ghirlande e bere appoggiati al gomito, graziosamente coricati sul fianco.!® L’alunno esegue con stupefacente docilità gli ordini del suoi maestri di cerimonie ed è così entusiasta delle novità apprese che vorrebbe condividere con i suoi fratelli la gioia dell’ebbrezza. Ma i suoi precettori lo distolgono dall’idea della baldoria collettiva:!8 così l'educazione dionisiaca di 1? Cfr. Ciclope, nn. 72, 74, 75, 79, 80, 81, pp. 327-30. 180 In Filosseno di Citera (fr. 822 P.) e negli idilli VI e XI di Teocrito, Polifemo cura con il canto la malattia d'amore, mentre Calli-
maco in un epigramma (XLVI, 2) esclama: vai Täv, οὐκ ἀμαθὴς è Κύκλωψ. 181 Una situazione frequente nella commedia di Aristofane: nelle Vespe (vv. 1208 ss.) Bdelicleone cerca di insegnare al padre le regole di comportamento del simposio; la trama delle Nuvole ruota intorno all’iniziazione sofistica del vecchio Strepsiade. i 182 Fin dall’età arcaica i greci formularono una serie di precetti volti a far conservare il decoro e la χάρις durante il simposio degli aristocratici; regole di questo genere si possono trovare nell’Odissea, in Alceo, Focilide, Senofane, Teognide, Anacreonte, Crizia. 1 Ma, dato l'ambiente in cui si svolge la scena, Polifemo si deve
accomodare per terra, con un sicuro effetto comico per gli spettatori. 1841 vv. 530-41 sono importanti anche sul piano drammaturgico, perché dal «κῶμος mancato», secondo la definizione di L.E. Rossi,
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Polifemo si ferma a metà, escludendo il κῶμος post-
simposiaco, un'usanza ben radicata nel costume ateniese.!8 È ovvio che l'isolamento culturale del ciclope non si manifesta soltanto nell’ignoranza delle regole del bere. Tuttavia egli è fuori dalla vita civile e a questo dettaglio il poeta sembra attribuire la funzione di esemplificare una situazione schizofrenica: Euripide insiste sui pasti bestiali di Polifemo, sulla sua voracità e antropofagia (vv. 30-1, 126-8, 241 ss., 249, 288-9, 334-8, 356 ss.), ma nel contempo ce lo indica sorprendentemente affascinato dalla ritualità del simposio e dalla sua densità di significati. Il simposio, infatti, per 1 greci è ben più di un’allegra bevuta collettiva, è occasione di incontro e di dialogo su argomenti seri -- politica, filosofia, erudizione... —, alimenta il gusto per la musica, la
danza, la poesia, è preludio all’amore; i partecipanti alla riunione simposiale condividono principi e valori, e il vino che si mesce in abbondanza in queste occasioni è simbolo della libera circolazione delle idee. Da tutto ciò Polifemo resta inesorabilmente escluso, per la sua
innata rozzezza, ma soprattutto per volontà di Odisseo, sotto il cui controllo egli assume la bevanda di Bacco, senza però scoprirne fino in fondo tutte le straordinarie proprietà; il ciclope è costretto a bere da solo, così come alla solitudine ha votato l’intera esi-
stenza, e questo isolamento accelera la sua rovina. Attraverso Polifemo, Euripide critica apertamente l'estremismo degli intellettuali del suo tempo, che consideravano lo «stato di natura» un modello al quale ritornare ed esaltavano il ruolo dell’uomo come misura dipende la riuscita del piano di Odisseo, che nel racconto epico era affidata all’inganno del nome Nessuno, comunque conservato nel dramma. 185 Una tradizione ne attribuiva ai Pisistratidi l'invenzione e l’introduzione ad Atene; le Leggi platoniche (I, 637ab) informano che a Sparta esso era proibito anche durante le festività dionisiache.
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di tutte le cose, proclamando l’individualismo sfrenato,
la supremazia assoluta del diritto del più forte, l’agnosticismo religioso.!8 Il valore di questa polemica risulta ancora più chiaro se si accetta di attribuire il Ciclope agli ultimi anni della vita del poeta, dopo la fallimentare spedizione militare degli ateniesi in Sicilia,! in un momento delicato per il destino della democrazia ateniese. A disturbare la solitudine di Polifemo interviene Odisseo, reduce dalla conquista di Troia e approdato alla terra dei ciclopi in seguito a una tempesta. Nel dramma egli sostiene la parte dell’eroe positivo: di fronte alla sanguinaria ἀνομία del ciclope, diventa l'artefice della liberazione dei greci e dei satiri, mostrando ingegnosità e coraggio. Ma nemmeno l’avversario del mostro è immune da contraddizioni. Le qualità dell’Itacese trovano indubbio riscontro nel modello omerico, mentre nelle
tragedie euripidee questa figura è sempre connotata negativamente.! Nel vincitore di Polifemo sembrano con186 Lo stesso argomento si individua in un passo di una quarantina di versi del dramma satiresco Sisifo di Crizia (il principale esponente della rivoluzione oligarchica che alla fine della guerra del Peloponneso rovesciò la democrazia per instaurare il cosiddetto governo dei Trenta): in esso si suppone che un antico saggio, per favorire lo sviluppo della società organizzata, avesse escogitato l’esistenza degli dei onniscienti, ai quali non sfuggono neppure gli atti che rimangono nascosti alla giustizia terrena. 187 Nelle parole pronunciate da Polifemo alla vista dei greci (v. 222) si è vista una ripresa parodica delle prime parole di Perseo nell’Ardromeda euripidea (fr. 125), databile al 412 a.C.; al v. 707 il ciclope descrive la sua caverna con l’aggettivo ἀμφιτρῆτος, che ricorre solo al v. 19 del Filottete, composto nel 409 a.C.; infine, alla spedizione ateniese in Sicilia fanno pensare le insistite allusioni all'ambientazione del dramma sull’isola (cfr. Paganelli, op. cit., passim; Seaford, op. cit., 1984,
pp. 48-51 e in The date of Euripides’ Cyclops, «Journal of Hellenic Studies» 102, 1982, pp. 170-2). 188 Già nel Telefo e nel Filottete Odisseo era considerato il prototipo dell’astuzia malvagia; nell' Ecuba egli è visto come un perfido de-
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vivere incoerentemente due anime: il guerriero eroico dell'epica e lo spregiudicato ingannatore familiare al pubblico del teatro.'% Al suo primo apparire egli si presenta altezzosamente come «signore dei Cefalleni»!? e costringe Sileno ad attenersi a stereotipate formule di cortesia (vv. 103 ss.), ma il suo comportamento diventa piü confidenziale quando intuisce la possibilità di un'alleanza con i satiri. L'eroe è pieno di orgoglio per le gesta magogo (cfr. vv. 130 ss., 141 ss., 225 ss., etc.); nelle Troiane è ritenuto un mostro senza legge, responsabile della morte del piccolo Astianatte (cfr. vv. 277-8, 721 ss., etc.); Ifigenia lancia una terribile maledizione contro Odisseo, subdolo ingannatore (7T, 24 ss., 533 ss.) e il suo sfrenato arrivismo è preso di mira anche nell’/figenia in Aulide, in cui Clitennestra denuncia la complicità del Laerziade nell’uccisione della figlia; nell’Oreste (vv. 1403 ss.) egli è definito dragone sanguinario e macchinatore di inganni; anche nel Reso (l’unico dramma di derivazione omerica dell’intero corpus tragico a noi pervenuto per tradizione diretta, insieme al Ciclope), Odissea conserva i tratti di un sa-
crilego furfante (v. 499). Secondo alcuni studiosi, questa antipatia nei confronti del personaggio omerico avrebbe origini politiche ben precise: Odisseo infatti era uno degli eroi maggiormente venerati a Corinto ed è possibile che nei momenti di maggiore attrito fra Atene e la città dell’Istmo, Euripide non perdesse l’occasione di mostrare sotto una luce negativa una figura cara agli abitanti del Peloponneso (cfr. L. Paganelli, Echi storico-politici nel Ciclope euripideo, Padova 1979, pp. 126-97). D'altra parte, i presupposti per la trasformazione in senso deteriore dell’eroe, che proseguirà inesorabilmente dopo Euripide, erano già contenuti nell’/liade, dove Odisseo è rimproverato per il suo scarso impegno nel combattimento (III, vv. 339-48), fugge davanti al nemico (VIII, vv. 93-8), vince una gara di corsa grazie all’aiuto di Atena, che ostacola il rivale (XXIII, vv. 769-79). 19 Cfr. P. Mureddu, art. cit., pp. 591-600; W.B. Stanford, The Ulys-
ses Theme. A Study in the adaptability of a traditional hero, Oxford 1954, pp. 80-117. 1% Secondo Paganelli, op. cit., 1979, pp. 129-32, il riferimento agli abitanti di Cefallenia è denso di implicazioni politiche, poiché l’isola, situata in posizione strategica all’ingresso del golfo di Corinto, durante la guerra del Peloponneso aveva aderito alla lega attica e si era comportata da fedelissima alleata degli ateniesi, partecipando anche alla spedizione contro Siracusa (Tucidide II, 30, 2; 33, 66, 1; VII, 31, 2; 57, 7). Dunque Euripide potrebbe neutralizzare la carica filocorinzia insita in Odisseo, trasformandolo in una sorta di mitico
progenitore degli alleati di Atene.
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troiane, alle quali accenna con un’insistenza pedante (vv. 107, 178, 198-202, 277-9, 603-4, 694-5), che fa sospettare, anche in questo caso, un uso ideologico del mito.??! Rispetto al comportamento pavido e codardo dei satiri, l’atteggiamento del Laerziade è quello dell’uomo padrone di sé, sicuro delle proprie azioni, deciso a salvaguardare il suo onore: sorpreso davanti alla grotta dall’arrivo di Polifemo, dopo un attimo di smarrimento, Odisseo decide di affrontare direttamente il mostro, re-
spingendo il suggerimento di Sileno, che lo invita a nascondersi tra le rocce (vv. 194-202). Tuttavia non mancano nella condotta di questo personaggio alcune scalfitture, in parte attribuibili alla natura satiresca della vicenda: l’eroe convince Sileno a rubare i beni del suo padrone (vv. 131-62), mentre nella scena successiva richiama energicamente Polifemo al rispetto delle leggi dell’ospitalità (vv. 299-303); ricorda i meriti acquisiti dai greci nella difesa dei santuari di Poseidone (vv. 290-6) ma, quando si rivolge agli dei, sceglie per due volte una formula ricattatoria (vv. 353-5, 599-607); allorché i satiri
gli chiedono se non voglia approfittare dell’ubriachezza del ciclope per ucciderlo immediatamente, Odisseo risponde che il suo piano si basa sull’inganno (vv. 447-9), confermando un ingegno «multiforme» e spregiudicato.Tali contraddizioni, in parte comuni a tutti 1 personaggi satireschi, si possono altresì giustificare con l’ipotesi di una raffinata intenzione parodica dell’autore. Alla figura sostanzialmente unitaria del disinvolto stage villain, Euripide ha intrecciato ironiche allusioni al modello epico: richiamando il suo «passato» omerico, Odisseo ostenta un’anima eroica, alla quale, a tratti, si oppo191 Il drammaturgo, trasformando il conflitto iliadico in una vera
e propria guerra di liberazione dell’Ellade, sembra farne l’antecedente mitico del contrasto tra greci e persiani, che si era riacceso a partire dal 415 a.C. L'ideale panellenico al quale fa riferimento sarà spesso ripreso dagli oratori del IV sec. a.C.
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ne quella che resta la sua prevalente connotazione in ambito teatrale.! Il risultato è la trasformazione del personaggio in perfetto eroe satiresco: un cittadino della polis, con quelle caratteristiche di «medietà» che sono tipiche dei protagonisti del σατυρικόν e che facilitano la comunicazione del messaggio morale del dramma in un clima giocoso e rasserenante. I satiri, ovviamente assenti nel racconto omerico, ricor-
dano continuamente al pubblico lo spirito giocoso e il nucleo dionisiaco del σατυρικόν. La loro presenza favorisce l’inserimento nel dramma di quella dimensione biotica che è tipica del genere letterario e che nel Ciclope si manifesta con particolare evidenza. Si comincia con la parodo (vv. 41-81): le apostrofi e i richiami diretti al bestiame, l’accenno al povero abbigliamento dei coreuti propongono in forma mimetica 1 riferimenti all'umile mondo pastorale, i cui gesti si contrappongono a quelli del baccanale, descritto nell’epodo con altrettanta abbondanza di dettagli. Subito dopo, la scena della contrattazione intavolata da Odisseo per ottenere da Sileno cibo in cambio di vino riporta all'ambiente cittadino e mercantile dell’ayopa (vv. 133 ss.). La concentrazione di elementi urbani diventa quindi altissima nel canto dei vv. 483-518, di chiara ispirazione simposiaco-comastica; in esso Euripide fonde con grande abilità contaminatoria i diversi momenti della «baldoria»: la canzonetta sguaiata prodotta dall’ebbrezza del simposio, il μακαρισμός dell’allegro simposiasta, il παρακλαυσίθυρον intonato davanti alla porta chiusa dell’amato o dell’amata, l’imeneo nuziale che
prefigura ironicamente il destino di Polifemo.'” Infine, 1? Cfr. Mureddu, art. cit., pp. 599-600. 193 Cfr. Ciclope, nn. 111, 112, 113, 114, pp. 335-6; L.E. Rossi, art. cit., 1971, pp. 21-2.
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nel momento cruciale dell’accecamento, i coreuti, vili e
paurosi come di consueto, l’azione con un κέλευσμα compagnamento musicale matori nello sforzo fisico. Nel conflitto tra νόμος
incoraggiano dall’orchestra (vv. 656-62), ossia con l’acritmico che sosteneva i ree φύσις, rappresentato da
Odisseo e Polifemo, i satiri sono simbolo di una selva-
tichezza positiva, della vitalità dionisiaca, dell’ansia di libertà contro l’asservimento. Secondo un’acuta formulazione di Seaford!* «appartengono al punto in cui la cultura viene creata dalla natura»: come si è cercato di dimostrare, Odisseo è un uomo della polis, Polifemo si autocondanna all’esclusione dalla polis, benché ne
sia attratto, i satiri e Sileno rappresentano quella parte della natura non civilizzata che la città deve incorporare e sfruttare a suo vantaggio. Questo processo di neutralizzazione del potere trasgressivo del tiaso dionisiaco nel Ciclope è rappresentato in modo scoperto. L’inserimento dei satiri nella trama omerica, infatti, avviene senza forzature, dal momento che l’arma della vit-
toria sul ciclope è proprio la bevanda nella quale vive il loro dio Dioniso. I loro lazzi apportano al dramma l'indispensabile nota comica e salace, tuttavia i coreuti sono anche l’emblema di una condizione di emarginati e di sradicati, che vagheggiano con nostalgia la spensierata innocenza del tempo in cui erano gli allegri compagni di Bacco (vv. 63 ss.). Da soli non sono in grado di sottrarsi all'umiliante schiavitù imposta dal ciclope: per farli tornare alle gioie del culto dionisiaco è necessario l’intervento generoso di Odisseo. La conclusione del dramma segna la liberazione di Sileno e dei suoi figli, e la vittoria di Dioniso. Ma si tratta di un trionfo mediato dall’eroe, campione di un’intelligenza che prevale, oltre che sul mostruoso nemico, anche sul1% Il dramma satiresco di Euripide, «Dioniso» 61, 1991, p. 82.
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le fragili velleità di ribellione delle θῆρες: in definitiva,
è ancora la ragione a servirsi dell’irrazionale per assoggettare ciò che è disumano. Così, mentre i satiri lasciavano l’orchestra, il pubblico doveva sentirsi rassicurato in quelle convinzioni di cui le circostanze storiche lo spingevano a dubitare: la polis, e in particolare quella ateniese, è l’unico baluardo contro la barbarie, l'amo-
ralità, l’ingiustizia; onesto e vincitore è il cittadino che ne rispetta le leggi e ne onora gli altari. Chi rifiuta di adeguarsi al sistema, come Polifemo, è costretto a vive-
re nelle tenebre. ORIETTA POZZOLI
NOTA AI TESTI E CRITERI DELLA PRESENTE EDIZIONE
Il testo greco dei frammenti di Eschilo e Sofocle è quello dell’edizione curata da S. Radt, Tragicorum Graecorum fragmenta, vol. III, Göttingen 1985 (Theoroi, pp. 194-205, Dictyoulkoi, pp. 161-174) e vol. IV, Göttingen 1977 (Ichneutai, pp. 275-308). Nel testo italiano l’uso del corsivo segnala la traduzione di parole integrate dagli studiosi, ritenute utili per una più agevole comprensione del passo, anche se spesso il carattere di tali integrazioni è puramente esemplificativo. Nelle note si indicano in greco le parole integrate, gli autori degli interventi e, là dove è possibile, qualche supplemento alternativo. Per un ulteriore approfondimento delle questioni filologiche ed esegetiche si rimanda all’apparato critico di Radt. In corsivo, tra parentesi tonde, sono proposte, oltre alle consuete indicazioni sceniche, le ricostruzioni ipotetiche del contenuto delle sezioni perdute dei drammi, o di singoli versi troppo malridotti per poterne tentare un’integrazione plausibile. Non sono stati stampati pochi frammenti e frustoli il cui senso non è ricostruibile, o la cui appartenenza ai drammi è dubbia; di alcuni di essi si dà co-
munque notizia nelle note. In epoca alessandrina si conoscevano settantotto opere euripidee, di cui tre spurie. In seguito vennero a costituirsi due edizioni: una silloge che comprendeva dieci drammi corredati di scoli (A/cesti, Andromaca, Ecuba, Ippolito, Medea, Oreste, Reso, Troiane, Fenicie;
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NOTA AI TESTI E CRITERI DELLA PRESENTE EDIZIONE
ne facevano parte anche le Baccanti, che tuttavia ci so-
no pervenute prive di commento) e una raccolta più ampia, in cui i drammi erano ordinati secondo il criterio alfabetico. Un primo filone della tradizione a noi giunta dipende dall’edizione commentata: trasmessa con continuità nel corso dei secoli, essa è infatti confluita in una serie di codici in nostro possesso. Della raccolta alfabetica sopravvivono invece solo i drammi il cui titolo iniziava per h, 1, k: questi furono ritrovati
nel XII sec. da Eustazio di Tessalonica, che predispose un’edizione di Euripide nella quale, alle dieci tragedie della silloge commentata, si aggiungevano altri nove drammi. Da questa edizione «combinata» dipende il secondo filone della nostra tradizione, attraverso la
quale ci è pervenuto il Ciclope. Il dramma satiresco è contenuto nei codici Laurenziano 32.2, dell’anno 1315
circa (L) e Palatino gr. 287, copiato negli anni 13151320 (P).I rapporti che intercorrono tra L e P sono stati molto discussi: alcuni studiosi ritengono che P sia copia di L, altri pensano che siano entrambi copie indipendenti di uno stesso modello. Non vi sono papiri. La presente edizione del Ciclope riproduce quella oxoniense curata da 1. Diggle, Euripidis fabulae, vol. I, Oxford 1984, pp. 3-29. I pochi passi in cui la traduzione se ne discosta sono i seguenti (indico prima il testo da me scelto e poi quello di Diggle, preceduto dalla sigla D.): 53 μηλοβότα στασιωρὲ (Wilamowitz; μηλοβότα otaσιωρὸν LP); D. «πρὸς» μηλοβότα στασιωρὸν (Wecklein) 188 ποιμένων (LP); Ὁ. ποιμνίων (Scaligero) 235 κάτα τὸν ὀφθαλμὸν μέσον (LP); D. κατὰ τὸν ὀφθαλμὸν μέσον (Canter) 382 στέγην (Musgrave); D. Ἰχϑόνατ (LP) 398 ῥυθμῷ τινι (LP); ῥυθμῷ θ᾽ ἑνὶ (Wilamowitz) 440 χηρεύομεν, τὸν δ᾽ οὐκ ἔχομεν κατεκφυγεῖν (Scali-
NOTA AI TESTI E CRITERI DELLA PRESENTE EDIZIONE
133
gero); D. +ynpedouev τόνδ᾽ οὐκ ἔκομεν καταφαγεῖντ᾽
(LP) Le ragioni di queste divergenze sono spiegate brevemente nelle note. Per comodità del lettore, ricordo il significato dei principali segni diacritici usati nelle edizioni dei frammenti papiracei e dei testi trasmessi dai codici: aßyö: lettere sulla cui lettura esistono fondati dubbi;
[...] ovvero [-10-] ovvero [4-10]: lettere mancanti di cui si conosce il numero approssimativo; [ovvero [ ] ovvero]: lettere mancanti di cui si ignora il numero; [αβγδ]: lettere integrate dall'editore del testo (nell'edizione del Ciclope le parentesi quadre indicano parole o versi che sono ritenuti interpolati e che pertanto devono essere espunti); o ovvero ***: omissioni dello scriba;
«a pyà»: supplementi introdotti dall'editore allo scopo di ovviare alle omissioni;
(aBy$): soluzione di abbreviazioni; (apy8) ovvero {...} ovvero {aBy$}: interpolazioni, cioè
lettere o parole inserite per errore dallo scriba e cancellate dall’editore; [aByé]: cancellature dello scriba;
t apyó t: due cruces isolano i segmenti di testo che gli editori considerano irrimediabilmente corrotti.
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voll., è stata curata da D. Kovacs (London-Cambridge Mass., 1994-2003). Traduzioni complete. AA. VV., Hl teatro greco. Tutte le tragedie a cura di C. Diano, Firenze 1970 (1a nona edizione dell'opera e apparsa nel 1989 con il titolo Tragici greci, la traduzione del Ciclope ivi contenuta è di C. Sbarbaro); EM. Pontani, 3 voll., Roma
1977.
Edizioni dei frammenti e dei papiri C. Austin, Nova fragmenta Euripidea in papyris reperta, Berlin 1968;
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L. Paganelli, Bologna 1981 (19912); W. Biehl, Leipzig 1983 (Biblioteca Teubneriana). $1 segnalano inoltre l'edizione a cura di R. Seaford, Oxford 1984 (che ristampa il testo dell'edizione oxoniense di J. Diggle, Euripidis fabulae, vol. Y, 1984,
pp. 3-29, corredandolo di un'ampia introduzione e di un commento) e il commento di W. Biehl, Heidelberg 1986. Da ricordare, tra le traduzioni italiane, quelle di U. Al-
bini (Euripide, A/cesti, Ciclope, introduzione e traduzione
di U. Albini, note di F. Barberis, Milano
1994) e di G. Zanetto (Euripide, Ciclope, Reso, a cura di G. Zanetto, Milano 1998). Ciclope: studi e contributi Z.P. Ambrose, Ganymede in Euripides' Cyclops: a study in homosexuality and misogyny, «New England Classical Newsletter» 23, 1995-1996, pp. 91-5.
W. Biehl, Die quantitative Formgestaltung der trimetrischen Stücke in Euripedes' Kyklops, «Hermes» 105, 1977, pp. 159-75. -, Interpretationsprobleme in Euripides! Kyklops 382408, «Hermes» 115, 1987, pp. 29-46. - Die Funktion des Opfermotivs in Euripides! Kyklops, «Hermes» 115, 1987, pp. 283-99.
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of Euripides" Cyclops, «Mnemosyne» ser. 4, 54 (5), 2001, pp. 515-30.
ESCHILO
SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI*
78a** col. I
ὁρῶντες εἰκούὺ[ς] οὐ κατ᾽ àvOponovc[ _ ὅπῃ δ᾽ ἂν ἔ[ρ]δῃς, πάντα cot a8’ εὐςεβῆ.
fi κάρτ᾽ ὀφείλω τῶνδέ cov πρόφρων γὰρ el. ἄκουε δὴ πᾶς ciya δειθελειῷ..1.
ἄθρῃρον εἰ.[....
]
εἴδωλον εἶναι τοῦτ᾽ ἐμῇ μορφῇ πλέον τὸ Δαιδάλου u[i]unua: φῳγῆς δεῖ μόνον. ταδί..7.εἰ..
opa.[.].(.)p.{ ] χώρει μάλα
εὐκταῖα κόομον ταῦτα] τῷ θεῷ φέρω 12
καλλίγραπτον εὐχάν.
τῇ μητρὶ τἠμῇ πράγματ᾽ dv napacx&dor' ἰδοῦσα γάρ vıy ἂν οαφῶς τρέποιτ᾽ ἂν Τἀξιάζοιτότ θ᾽ de 16
δοκοῦς᾽ ἔμ᾽ εἶναι, τὸν ἐξἔθρεψεν᾽ οὕτωο ἐμφερὴς ὅδ᾽ ἐοτίν.
(La scena è a Corinto, davanti al santuario di Poseidone, al quale i satiri stanno offrendo doni votivi.) 78a
(vv. 1-36 colonna I)
(9)! Vedendo dei ritratti che hanno aspetto sovrumano? (...) comunque tu lo faccia, questa sarà un’azione devota da parte tua.? CORO (7) Ti sono davvero molto debitore per questo, perché sei benevolo.* SILENO (?) Ascolti, ognuno, in silenzio (...)? CORO (?) Guarda con attenzione se (...) questa immagine può essere più somigliante alla mia figura.5 È un’opera di Dedalo:? le manca solo la parola. Questo (...) guarda (...) Avanti dunque (...)? SILENO (?) Io porto questi oggetti votivi come ornamento per il dio, un’offerta ben fatta. coRO (?) Turberebbe anche mia madre. Se la vedesse chiaramente fuggirebbe e urlerebbe'? pensando che sia io, il figlio che ha allevato: a tal punto mi somiglia questa figura.
154
ESCHILO
εἶα δὴ οκοπεῖτε δῶμα ποντίου cerciyBofvoc κἀπιπαοςοάλεν᾽ ἕκαοστοο τῆς κ[α]λῆς μορφῆς .[
20
ἄγγελον, κήρυκ᾽ [ἄϊναυδον, ἐμπόρων κῳλύτορ[α, .[.1. ἐπιοχήςει κελεύθου τοὺς Eevolvc] $.[
χαῖρ᾽ ἄναξ, χαῖρ᾽ ὦ Πόσειδον Enırpor.!..)..[ 24
ἔμελλον εὑρήσειν ἄρ᾽ ὑμᾶς, ὠγαθοίί. οὐ τοῦτ᾽ ἐρῶ c^ ‘od δῆλος ἦοθ᾽ ὁδοιπο[ρῶν᾽"
28
αὐ[τὴ] κέλευθος ταῦτά μοι npocev[ ].p&övra tovede rAnc[t]oco[ ].avro καὶ σαφῶς ἡγεῖτό poli ].xa.8cl .Tum.[. 6t πατί
ὁρῷν pvovpa καὶ βραχέα tà φ[αλλί]α ὡς ἐξέτριβες Ἰεθμιαςτικὴν [....]v κοὐκ ἠμέλησας, ἀλλ᾽ ἐγυμνάζ[ου κα͵λῶς.
32 εἰ 6 οὖν ἐοῴζου τὴν πάλαι παρρο[τμία]γ, τοὔρχημα μᾶλλον εἰκὸς ἦν ce.[.....]gvv. οὗ δ᾽ ἰεθμιάζεις καὶ τρόπους καινοὺς μ]ᾳθὼν
36
Bpoxto[v' dlegeic, χρήματα φθείρων ἐμὰ
κτεα[8-9 litt.]e ταῦτ᾽ ἐπιρανῳ πονῶγ *
ol.
[ [
E
J.ovf ]vvo[
s [. ]...978.[
64
core koX ovac[...]evf creipeic δὲ μῦθον τ[ό]νδε.
καὶ ῥηματίζεις εἰς ἔμ᾽ ἐκτρ. ὡς οὐδέν εἰμι τὴν οιδηρῖτι[ν 68 γύννις δ᾽ ἄναλκις οὐδενειμ.} καὶ νῦν τάδ᾽ ἄλλα καὶ ποταιγίι
ἔχθιοτα πάντων vol πλύνεις τ' ἔμ᾽ αὐτὸν [
72
ἐφ᾽ ἣν ἀγείρω πλί
x
SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
155
SILENO (?) Ecco, vedete la casa del signore del mare, colui che scuote la terra. E ciascuno vi inchiodi (...) della bella figura, messaggero, araldo senza voce, che terrà lontani i viandanti, (...) sbarrerà il passo agli stranieri (...) Salve, signore, salve Poseidone protettore (...)!! DIONISO"
Ero sicuro che vi avrei trovati, carissimi.
Non ti diró certo che non sapevo dove andavi: la strada stessa me lo annuncia (...)? Vedendo queste (...) e chiaramente mi guidava (...)'* Notando i vostri falli appuntiti e accorciati (...)? che hai dedicato molto tempo ai giochi istmici (...) e non li hai trascurati, ma
ti sei esercitato bene.!® Però
se tu dessi
ascolto all'antico proverbio," sarebbe più conveniente che pensassi!8 alla danza. Tu invece partecipi ai giochi istmici!? e imparando nuove tecniche eserciti il braccio, sprecando il mio denaro per offrire questi beni al protettore delle (tue) fatiche.
(vv. 64-72 colonna II)
DIONISO?! (...) nascondendo con uno scudo (...),? diffondi queste voci e calunniandomi,? parli a vanvera dicendo che non valgo niente nell'arte della guerra,* ma sono una femminuccia senza forza, non un uo-
mo.” E ora esegui questi esercizi? nuovi e insoliti, più odiosi di tutti (...) e insulti me e la mia danza? per la quale sto radunando la gente dell'Istmo (...*
156
EscHILO
78c** col. T
[ 1évopkóv ἐστι coli] xo[...]ópoyetv Ἰκακῶς óAoto καὶ T.£......€ le...ın cor np...[ca. 6 litt. ]...ve..v [
1.[.Jovovtwen.[
[ ]ovÀov n tptóovA[ [ 105 àwo[..(.)].[.JOgvo[....]-[..].. [ ]o te xolit]or koi κακαῖς δ[υο]αυλίᾳις ]Et παλαιρφ. 7008 £votkte...[...]. [ }.sen[.].[.Jac zoXvn[.]óo[
ca. 8 litt.
]..
$]eoyov[...]..[.]az0v6' [.1. π]ότερα παθῶν τι δεῖ 12
{ 1υ πολλὰ δράξας οἱ [ 1a θαροῶν .et[
[ lot ἱερῷ pevl 16
col. Il
I
1[.Jet.]..[
[
]v.
κοὐδεὶς παλαιῶν οὐδὲ τῶν νεωτέροωϊ[ν ἑκὼν ἄπεστι τῶνδε διοτοίχω[ν οὗ δ᾽ ἰοθμιάζεις καὶ πίτυος ἐοτ[εμμένος κλάδοιοι x1ccod δ᾽ οὐδ[α]μοῦ run ταῦτ᾽ οὖν δακρύσειο οὐ καπνῶ[ι
παρόντα δ᾽ ἐγγὺς οὐχ ὁρᾷιο ταί
44
ἀλλ᾽ οὔποτ᾽ ἔξειμ᾽ e[ τοῦ ἱεροῦ καὶ τι uo.[ ταῦτ᾽ ἀπειλεῖς e.|
Ἴοθμιον αἀντεί
SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
78€
157
(vv. 1-16 colonna I)
DIONISO Ma se è proprio obbligo di giuramento per te disprezzarmi (...) sii maledetto (...)?? (Sileno replica alle accuse di Dioniso con altre accuse, che fanno leva sulla durezza della schiavitù imposta a lui e ai satiri dal dio. Accenna a uno scomodo giaciglio, a nottate trascorse all’aria aperta, a una vita di privazioni e di fame, che lo ha reso, con i suoi figli,
simile al polipo. Ha intenzione di fuggire per porre fine a questa miserabile esistenza. Di fronte alle contestazioni del vecchio precettore, Dioniso rinnova i suoi rimbrotti, minaccia severi provvedimenti; ma è un inutile sfogo, perché i satiri sono fermamente decisi a rimanere nel santuario, supplici inviolabili di Posei-
done.)?® {vv. 37-62 colonna II)
DIONISO? (...) e nessuno, né dei vecchi né dei giovani per sua volontà è assente da questo coro disposto su due file.? Tu invece celebri i giochi istmici, per di più cingendo corone di rami di pino,? e non rispettando in alcun modo l'onore dell’edera.”* Ebbene, piangerai per questo, non solo morso dal fumo. Non vedi che sono qui vicino le (...)? (Mentre Dioniso parla, vengono portati in scena oggetti che spaventano i satiri.) CORO
Ma io non uscirò mai dal tempio, allora perché continui a farmi queste minacce? Entreró nell'istmica
158
ESCHILO
Tloceıdävoco[ .. cd δ᾽ ἄλλοις ταῦτί..]εμπεί ....[.]à καινὰ ταῦτα Lol... ]verv φιλεῖ ἐγὼ [dE]p@ cor νεοχμὰ [....] ἀθύρματᾳ ἀπὸ [οκε]πάρνου κἄκμί[ονος ν]εόκτ[ιτα. 52 _ τουτίὶϊ τὸ] πρῶτόν ἐςτί cot τ[ῶ]ν παιγ[νίω]ν. _ ἐμοὶ μὲν οὐχί’ τῶν φίλων νεῖμόν τινι.
48
- μὴ ἄπειπε μηδ᾽ ὄρνιθος οὕνεκ᾽, ὠγαθέ, _ τί δὴ γανοῦοθαι τοῦτο; καὶ τί χρήσομαι; 56
- ἥνπερ μεθειλ!ί.. τὴϊν τέχνην ταύτῃ[1] πρεπί . τί δ᾽ ἀντιποιεῖν [...] τιπλουν μου[.]ανδαν[
_ ξυνιοθμιάζειν [.....] ἐμμελέοτατρον. - φέρω οδ. 17 1 ἐμβήοςεται. 60
ἐπισί
ca. 17 litt.
ἸἸβάδην ἐλ[ᾶ]ις
..]e« ..]eef
ca. 19 litt.
]ó.gov οφυρά
SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
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dimora di Poseidone. E tu manda ad altri questi doni.* DIONISO”” Poiché ti piace imparare queste novità, io ti porto nuovi (...) giocattoli, fatti con l’ascia e con l’incudine.* Questo è il primo dei tuoi divertimenti.? CORO No, non a me: dallo a uno dei miei compagni. DIONISO Non respingerlo, anche solo per scaramanzia, mio caro. coro Perché dovrei esserne contento? A cosa mi servirà? DIONISO A eccellere nell’arte che hai appreso. CORO Che fare? Non mi piace navigare contro vento.* DIONISO Celebrare insieme i giochi istmici è la cosa più conveniente.? (Continua lo scambio di battute tra Dioniso e i satiri, fino alla resa definitiva di questi ultimi e alla riconciliazione finale.)
NOTE
* Sul doppio titolo del dramma cfr. Introduzione, pp. 77-78. 1. La scena è davanti al santuario di Poseidone (cfr. fr. 78a, ν. 18) a Corinto, dove ogni due anni, verso la fine di aprile, si celebravano i giochi istmici (fr. 78a, v. 30). I resti papiracei non consentono di dire molto sull’allestimento scenografico:
l’edificio della σκηνή poteva funzionare da tempio, è probabile la presenza di una o più statue (cfr. εἴδωλον, v. 6 e n. 6). Non si può stabilire con certezza a che punto del dramma appartenga il fr. 78a, ma è probabile che sia da collocare verso la fine, insieme agli altri frammenti superstiti. Il coro di satiri si accinge a offrire al dio degli oggetti votivi (vv. 11-2), per i quali è grato (v. 3) a un misterioso interlocutore, che esprime il suo consenso e il suo augurio per l’azione di Sileno e dei suoi compagni. L’identificazione del personaggio che pronuncia i vv. 1-2 è controversa. Secondo B. Snell, Aischylos’ Isthmiastai, «Hermes» 84, 1956, pp. 7-8, si tratta di Sisifo, re di Corinto, che una tradizione mitica legava alla fondazione degli /sthmia (cfr. Pind. hyp. Istm. a, HL, 192, 13 Dr., ma un'altra ὑπόθεσις alle /stmiche, b, III, 192, 16 Dr., citava Te-
seo come fondatore dei giochi); questa opinione è seguita, con qualche riserva, da K. Reinhardt, Vorschläge zum neuen Aischylos, «Hermes» 85, 1957, pp. 2-3. Per H. Lloyd-Jones, Aeschylus. I]. Appendix, London 1957, pp. 547 ss., il personaggio in questione é Efesto, ritenuto autore degli oggetti che i satiri stanno per dedicare al tempio. Il legame tra il dio della metallurgia, i satiri e Dioniso, confermato dalla pittura
vascolare, è attestato dal mito degli Ἥρας δεσμοί (cfr. Platone, Res publ. II, 378d): Era, inorridita dalla deformità del fi-
glio Efesto, lo avrebbe scagliato in mare dall’Olimpo (cfr.
NOTE
161
Omero, Il. XVIII, 395-8); per vendetta egli avrebbe regalato
alla madre un trono magico che non consentiva di alzarsi a chi vi si sedeva; soltanto Dioniso, inebriando il dio, sarebbe
riuscito a ricondurlo alla dimora degli dei e a ristabilire la pace. Gli Spettatori potrebbero prendere spunto da questa vicenda, sviluppando un momento del contrasto tra Dioniso ed Efesto. Ma, se non ci sono riserve sulla presenza di Dioniso nel dramma (cfr. n. 12), la comparsa di un’altra divinità svierebbe da quello che risulta il filo conduttore dei nostri frammenti, ossia il dissidio tra attività dionisiache e atletica.
In realtà l’ipotesi più convincente è quella a cui giunsero in modo indipendente A. Setti, Eschilo satirico II, «Ann. Sc. Norm. Sup. Pisa» 21, 1952, p. 214, e J. K.
Kamerbeek,
Adnota-
tiones ad Aeschyli Isthmiastas, «Mnemosyne» 8, 1955, p. 1, seguiti da altri studiosi (tra cui,A. Barigazzi, Sui Θεωροὶ ἢ Ἰσθμιασταί di Eschilo, «Ann. Sc. Norm. Sup. Pisa» 23, 1954, pp. 338 ss., N. Terzaghi, Sui θεωροὶ ἢ Ἰσθμιασταί di Eschilo, «Stu-
di in onore di U.E. Paoli» 1955, pp. 685 ss., M. Di Marco, Studi sul dramma satiresco di Eschilo, «Helikon» 9-10, 1969-70, pp. 379-80, 384, I. Gallo, Ricerche su Eschilo satiresco, in Stu-
di salernitani in memoria di R. Cantarella, Salerno 1981, p. 118): ai vv. 1-2 parla il custode del santuario, un νεωκόρος (come lo Ione dell’omonimo dramma euripideo), dal quale i satiri possono aver acquistato le offerte votive; Eschilo avrebbe così trasferito in epoca mitica l’uso classico di vendere maschere e statuette votive presso i templi, con un anacronismo di sicura efficacia comica per il pubblico ateniese. 2. Probabilmente sono maschere di terracotta che rappresentano il volto dei satiri. Il carattere «sovrumano» dei ritratti ha una funzione apotropaica: con il loro aspetto orripilante essi servono a respingere i viaggiatori importuni e gli stranieri indesiderati. Maschere satiresche in terracotta come dono votivo (da appendersi alle pareti esterne della cella, alle colonne del tempio o a qualche statua) erano in uso fin da età molto antica, sia nella Grecia arcaica che in Etruria; non si
può escludere però che sostenne E. Lobel, The don 1941, p. 14). Si può agli spettatori in quale
qui si tratti di πίνακες dipinte (come Oxyrhynchus Papyri. Part XVII, Lonpensare che Eschilo volesse spiegare occasione si usò per la prima volta
162
SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
questo tipo di decorazione, inserendo nel dramma uno scher-
ZOSO αἴτιον, motivo non inconsueto in questo genere letterario, come testimonia, per esempio, l'episodio dell'invenzione della lira nei Cercatori di tracce di Sofocle (cfr. E. Fraenkel, Aeschylus. New texts and old problems, «Proceedings of the British Academy» 18, 1942, pp. 11 ss.: lo studioso ipotizzò che queste maschere fossero utilizzate come antefisse). Secondo Reinhardt, art. cit., p. 4, e R. Stark, Zu den Diktyulkoi und Isthmiastai des Aischylos, «Rheinisches Museum» 102, 1959,
pp. 6 ss., i statue del maschere spettatori
satiri, obbedendo a Sisifo (?), deporrebbero sulle tempio o su erme antistanti al santuario le loro teatrali, per non spaventare i viaggiatori, eventuali durante le gare e, siccome non è pensabile che per
tutto il resto del dramma i coreuti restino senza maschere,
sotto i πρόσωπα deposti ne apparirebbero di nuovi; la conferina di questa ipotesi si troverebbe in un frammento di Cratino (fr. 205 Edm.: αἷρε δεῦρο τοὺς βρικέλους) che forse imita la scena degli Spettatori. Ma la possibilità che i satiri abbiano acquistato gli oggetti votivi, oltre a non presentare particolari difficoltà, ha il vantaggio di risolvere anche l’interpretazione dei vv. 35-6, dove Dioniso sembra rimproverare ai coreuti di aver dilapidato i suoi beni per partecipare agli agoni atletici (cfr. n.20). 3. Le ultime parole del personaggio lasciano immaginare che egli abbia accompagnato la vendita (7) di maschere votive con istruzioni sul modo ritualmente corretto di appenderle, concludendo il discorso con una formula di augurio che fa
sospettare un rapporto di complicità con i satiri. A questo punto il custode del tempio esce di scena. La paragraphos sotto il v. 2 indica il cambiamento di personaggio (per la somiglianza di questa scena con il IV mimiambo di Eroda, cfr. Introduzione, p. 89, n. 113).
4. La distribuzione delle battute dal v. 3 al v. 23 è molto incerta; le paragraphoi sicure del fr. 78a sono in tutto quattro: una dopo i primi due versi, un'altra dopo il v. 10,1a terza dopo il v. 13, la quarta dopo il v. 22; la terza, posta per errore dallo
scriba un verso più avanti, è stata giustamente trasportata da Lobel dopo il v. 12, poiché sembra che la battuta del v. 13 con-
tinui nei versi successivi; l’editor princeps ne introdusse un’al-
NOTE
163
tra anche dopo il v. 3. Si avverte, in tutto il nostro passo, l'intento di rispettare la solennità imposta dalla circostanza, una consacrazione di doni in uno dei santuari più venerati della Grecia: al v. 4 qualcuno richiama il coro al silenzio, ai vv. 11-2 si pronuncia la formula di rito, i vv. 18-22 accompagnano il gesto della dedica delle offerte con una seconda formula e un'epiklesis a Poseidone. Ma i satiri sono troppo curiosi e impazienti per osservare rigorosamente le norme prescritte dal rituale: si lasciano distrarre facilmente da un εἴδωλον (vv. 5-7), dalle maschere votive (vv. 13-7). L'impressione è che i coreuti durante la cerimonia siano guidati da qualcuno che stenta a tenerli a freno: non ci sono ostacoli a pensare che si tratti di Sileno, abituale accompagnatore e rappresentante dei satiri. Sulla scorta di queste considerazioni la traduzione gli attribuisce il v. 4, e i vv. 11-12, oltre ai vv. 18-22, già riferiti a Sileno
da Snell. 5. A] v. 4 una pausa può essere facilmente ipotizzata dopo πᾶς (la seconda persona dell'imperativo con questo indefinito si trova spesso in Aristofane, cfr. p. es. Pax, 458, 510); si può tuttavia interpungere anche dopo δή, considerando σῖγα come un vero imperativo, parallelo al precedente ἄκουε (Setti,
art. cit., p. 233, Di Marco, art. cit., p. 387). 6. La traduzione cerca di rendere il senso dei vv. 5-6, che
risulta piuttosto chiaro, anche se nessun tentativo di integrazione è apparso finora del tutto convincente: nel v. 5 bisogna supporre un verbo di modo finito (da cui dipenda εἶναι del v. 6) e un aggettivo che significhi «simile». I satiri, nella loro frenetica vivacità, non sono capaci di rispettare il silenzio richiesto al v. 4. εἴδωλον potrebbe essere una statua o un'erma raffigurante un satiro, o qualche demone
simile, come
Pan (cfr. Terzaghi, art. cit., p. 690), divinità agreste raffigurata con zampe e corna di caprone, spesso compagno dei satiri e delle ninfe nel corteggio dionisiaco. Secondo un'altra ipotesi, il riferimento sarebbe alle stesse maschere satiresche di cui subito dopo (vv. 13-6) si commenta la somiglianza con il soggetto rappresentato; queste verrebbero appese a una o piü
statue, che assumerebbero cosi le sembianze dei satiri (cfr. Reinhardt, art. cit., p. 4). 7. La locuzione doveva essere proverbiale, pertanto non è
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SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
il caso di vedervi l'accenno a un personaggio davvero presente sulla scena, come è stato supposto, anche se quello di Dedalo è l'unico nome proprio che compare in questi frammenti. Leggendario artefice ateniese, della stirpe di Eretteo, era considerato il prototipo dell'inventore geniale (cfr. Plinio, Nat. hist. VII, 198); gli si attribuiva ogni sorta di realizzazione (da quella di opere di ingegneria a quella degli arnesi del falegname, dell'architetto, dello scultore); nell'arte, oltre ad aver elaborato tecniche nuove per la lavorazione dei metalli preziosi e del legno, sarebbe stato il primo capace di rendere attraverso la scultura l'espressione dello sguardo e il movimento del corpo umano. Dopo aver ucciso suo nipote, perché geloso della sua superiore abilità, andó in esilio a Creta, dove progettó il famoso labirinto. Compariva nei drammi satireschi Camici e Dedalo di Sofocle e, come personaggio di commedia, nel Dedalo di Platone comico e di Ari-
stofane. Nell’Euristeo di Euripide (fr. 372 N.?), un vecchio, forse Sileno, è spaventato da statue che parlano e si muovono, opera di Dedalo. 8. Al v. 10 è preferibile leggere χώρει (imperativo): i coreuti si rivolgono a κωφὰ πρώσοπα, personaggi muti introdotti con lo scopo di trasportare le offerte votive, oppure l’esortazione a iniziare il rito viene indirizzata dal corifeo ai satiri stessi. 9. È la formula rituale che accompagna l'offerta dei doni. La seconda parte dell’aggettivo composto καλλίγραπτον (v. 12) rimanda chiaramente al verbo γράφειν, attestato sia nel significato di «incidere», che in quello di «dipingere, raffigurare» (Erodoto II, 41, 2; Eschilo, Eum., 50; Platone, Res
publ. II, 377e). Il termine, dunque, allude alla buona fattura dell’oggetto. Per la paragraphos che si vede sul papiro sotto il v. 13 cfr. n. 4. 10. La preghiera propiziatrice é di nuovo interrotta: le immagini sono cosi orribili nella loro somiglianza ai soggetti rappresentati, che trarrebbero in inganno anche la madre dei satiri. Il verbo ἀξιάζοιτο (v. 15), tramandato dal papiro, non è attestato altrove, perciò è sospetto; la traduzione accoglie l'emendamento di Lloyd-Jones (αἰάζοιτολ) che, attraverso una correzione minima, produce un senso plausibile senza com-
NOTE
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portare difficoltà metriche. In questi versi comincia.a profilarsi la funzione apotropaica delle offerte. 11.I vv. 18-22 contengono l’invito a compiere l’atto sacrale della dedicazione e, contemporaneamente, presentano la formula in cui si dichiara lo scopo dei doni; la conclusione
solenne (v. 22), in cui si saluta Poseidone e se ne invoca la protezione, ricalca quella di un inno. Mentre queste parole vengono pronunciate, o subito dopo, i coreuti (oppure dei personaggi muti, cfr. n. 8), si accostano al tempio e attaccano le maschere alle colonne, alle pareti, o alla statua del dio: una scena piuttosto movimentata, sicura fonte di effetti comici,
determinati dalla goffaggine dei satiri. 12. L'ingresso in scena di Dioniso al v. 23 è dato per certo;
l’atteggiamento del personaggio, infatti, è quello del padrone verso i suoi servi e il riferimento alla danza (v. 32) chiarisce che le attività trascurate dai satiri sono quelle tipicamente dionisiache. Il conflitto tra coreutica e atletica innerva in modo esplicito i frammenti degli Spettatori, rendendo necessaria la presenza del dio: è lui il «viandante» indesiderato, lo straniero più temuto di tutti, contro il quale il coro ha formulato il suo voto. I drammi satireschi che seguono lo stesso modello del Ciclope ci presentano i coreuti schiavi di qualche essere mostruoso, di un tiranno o di un brigante crudele.
Negli Spettatori lo schema è rovesciato. I satiri sono volubili e, soprattutto, attratti da tutto ciò che è novità: nulla di stra-
no dunque nel fatto che essi abbiano tradito il loro signore (cfr. Introduzione, pp. 85-9). 13. Le prime parole di Dioniso sono ironiche e trionfanti: egli conosce bene l'indole dei suoi servi e non ha dovuto affaticarsi troppo per scoprire dove fossero. E questo il concetto ribadito con forza nei vv. 24-5, dove il dio ricorre
a un modo
di dire che probabilmente era proverbiale; al verso v. 24 Radt accoglie la suddivisione delle parole e l'interpunzione suggerite da Lloyd-Jones. La traduzione del v. 25 segue l'integrazione προσεν[νέπει (Lobel), ma il verbo potrebbe essere anche un imperfetto (npooév[venev), come è stato da più parti rilevato. 14. Le difficoltà testuali poste dai vv. 26-8 sono insuperabili; quanto trapela dai termini leggibili è che Dioniso spiega
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SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
al coro in che modo lo ha rintracciato così agevolmente, forse facendo riferimento alle impronte lasciate dai satiri durante la loro frettolosa fuga. 15. L'integrazione φαλλία (v. 29) è di P. Maas (apud Snell, art. cit., p. 2). Dioniso sta osservando sui satiri la ligatura praeputii, pratica spesso adottata dagli atleti greci durante gli allenamenti, come testimoniano numerose pitture vascolari
aventi per soggetto scene di agoni (cfr. E.J. Dingwall, Male Infibulation, London 1925). 16. Il verbo da cui dipende la subordinata introdotta da ὡς (v. 30) doveva essere contenuto nel v. 28. Il fiero disappunto di Dioniso, malcelato dall’ironia, è rivelato dalla ridondanza con cui il dio esprime meraviglia di fronte alle insolite occupazioni dei suoi servi. 17.11 proverbio a cui Dioniso si riferisce è citato anche da Aristofane, Vesp., 1431: «Ciascuno pratichi l’arte che conosce». Il fatto che i satiri si dedichino a un’occupazione insolita per loro è un motivo topico del dramma satiresco, e lo stu-
pore di Dioniso è paragonabile a quello espresso da Sileno o dalla ninfa Cillene nei Cercatori sofoclei, davanti ai satiri che sembrano trasformati in segugi (vv. 118, 217-8). 18. Alla lacuna del v. 33 la traduzione segue l'integrazione di Snell £x[vokoz]eiv. Il senso del verso non cambia con gli
altri verbi proposti (p. es. διαπονεῖν, ἐγκαρτερεῖν, ἐκμανθάVELV). 19. Il verbo ἰσθμιάξειν, nel significato di «partecipare ai giochi istmici», era sconosciuto fino alla scoperta di questo frammento. Compariva solo nei lessici come sinonimo di «bere» (Fozio, da ἴσθμιον, «fauci») o di «essere malaticcio» (Esichio e Suida); questa seconda accezione è spiegata dai lessicografi, in modo poco convincente, con il fatto che i giochi istmici si svolgevano in un periodo dell'anno in cui il clima a Corinto non era particolarmente salubre. In un'opera dedicata agli hapax e alle parole rare nei frammenti papirologici dei tre tragici maggiori, I. Kazik-Zawadzka, Les hapax eiremena et les mots rares dans les fragments papyrologiques des trois grands tragiques grecs, Warszawa 1962, p. 44, suppone che proprio l'uso eschileo del verbo (σὺ δ᾽ ἰσθμιάζεις si legge di nuovo al v. 39 del fr. 78c) sia all'origine di un nuovo
NOTE
significato: «tu prendi parte re al tuo lavoro)» sarebbe perdi la ragione, tu non stai 20. Malgrado le difficoltà vo delle parole di Dioniso è
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ai giochi istmici (invece di badadiventato un modo per dire «tu bene». poste dal v. 36, il senso complessisufficientemente chiaro: il padro--
ne, risentito, accusa i suoi servi di avere sprecato il suo denaro
(0, più genericamente, le sue «proprietà») per poter gareggiare. Può darsi che l’allusione sia alle maschere votive acquistate dal custode del tempio con oggetti o denaro rubato al dio (anche nel Ciclope, vv. 162 ss., Sileno, per avere il vino di Odisseo,
ricorre senza alcuno scrupolo ai formaggi e agli agnelli di Polifemo): i satiri all'occorrenza possono trasformarsi in ladri, e sono di nuovo le rappresentazioni vascolari a confermarlo (cfr. F Brommer, Satyrspiele. Bilder griechischer Vasen, Berlin 1959, pp. 34-5, figg. 26, 27, 28: nella decorazione a figure rosse di un’idria del Museo Vaticano la vittima del furto è Eracle). Si può anche pensare che i coreuti abbiano sperperato i beni del loro dio comprando gli attrezzi necessari per gli agoni. Nella prima parte del verso dopo «teal[vo è probabile un participio come τιθείς o ἀναθείς o φέρων (Kamerbeek, Steffen). Per quanto riguarda il termine sconosciuto ἐπήρανος (qui in dativo), seguo Di Marco, art. cit., p. 402, nel ritenere che «in considerazione dell’alto numero di vocaboli sinora ignoti restituitici da questo come da altri papiri eschilei (...) non sarà del tutto azzardato accoglierlo nel testo», con il significato di βοηθός
(«aiutante, protettore»). Il senso di «aiutante» è attribuito dall’ Etimologicum Magnum (436, 28) a pavoc, di cui il nostro vocabolo potrebbe essere un rafforzativo (cfr. Di Marco, art. cit., p. 402, n. 105). A questo punto Snell, art. cit., p. 2, seguito da altri editori tra i quali Lloyd-Jones, pubblica il passo corrispondente al fr. 78c vv. 1-16, attribuendone i primi due versi alla conclusione della rhesis di Dioniso, i successivi otto alla replica di Sileno e
suddividendo 1 restanti tra il coro e Dioniso; questa sistemazione dei frammenti non sembra sufficientemente dimostrata né dall’esame del testo né dall’analisi delle fibre del papiro nei punti di giuntura supposti, anche se offre un'articolazione plausibile dello scontro tra i satiri e la divinità. In ogni caso essa, rispetto all’ordinamento dell’editio princeps seguito da
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SPETTATORI O ATLETI Al GIOCHI ISTMICI
Radt, non comporta sostanziali variazioni per quanto riguarda l’interpretazione complessiva del dramma. Per il contenuto della lacuna, di circa 24 versi, cfr. Introduzione, p. 81.
21. L'attribuzione dei vv. 64-72 a Dioniso è giustificata dal contenuto del frammento, nel quale il dio sembra ribattere a
precise accuse indirizzategli dai satiri. In particolare, i coreuti lo rimproverano di essere una «femminuccia senza forza» (v. 68); Dioniso è definito γύννις in un frammento di un altro dramma satiresco di Eschilo, gli Edoni (fr. 61 Radt), dove a parlare è Licurgo, leggendario nemico del dio. In Omero (Il V, 331) ἄναλκις è attributo di Afrodite, la dea che per eccel-
lenza incarna l’idea della femminilità («... è debole dea, non è una dea di quelle / che dominano fra le battaglie degli uomini», ΠΝ, 331-2). I satiri abbandonano il loro signore perché intendono abbracciare nuove regole di vita, le norme severamente virili dell’atletica contro quelle più raffinate della coreutica: è un gesto che non contraddice la loro bizzarra φύσις, incline a scoprire e sperimentare senza limiti tutti i pia-
ceri dell’esistenza, con una spiccata predilezione per quelli legati alla corporeità. 22. L’interpretazione del v. 64 è incerta; il soggetto del participio καλύψας («nascondendo») potrebbe essere Dioniso (cfr. Setti, art. cit., p.238), accusato dai satiri di viltà in guerra,
ma è difficile immaginare una struttura sintattica in grado di legittimare questa lettura. Non si può escludere che l’espressione σάκει καλύψας si colleghi al contenuto della lacuna che precede il frammento: così suppongono Reinhardt, art. cit., pp. 6-7, e Kamerbeek, art. cit., p.
7, per i quali il v. 64 è l'indi-
zio di un'azione mimica dei satiri (una gara atletica che prevedesse l'uso di un'armatura) rappresentata nei versi perduti. Secondo Di Marco, art. cit., p. 404, invece, il verbo è diret-
tamente collegato a ció che segue e si puó ipotizzare per i vv. 64-6 il seguente significato complessivo: «standotene al sicuro tu sparli tranquillamente di me». 23. Le parole di Dioniso sono in crescendo (cfr. Di Marco, art. cit., p. 404): dallo σπείρειν μύθον (v. 65), che pone l'accento sul carattere fantasioso e irreale delle accuse (μύθος = «racconto
favoloso
o fantastico»), si passa
al ῥηματίζειν
(v. 66, un hapax, tradotto daR. Cantarella, / nuovi frammenti
NOTE
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eschilei di Ossirinco, Napoli 1948, pp. 68-9, come verba tan-
tum facis), per concludere con le «calunnie»: ἐκτρ[έπων wöyovg (al v. 66, secondo l'integrazione proposta exempli gratia da J. Mette, Die Fragmente der Tragódien des Aischylos, Berlin 1959, p. 8). 24. L'integrazione τέχνην alla fine del v. 67 è di Lobel (μάynv, di Kamerbeek, non modifica l'interpretazione del ver-
so). Per il nesso σιδηρῖτιν τέχνην Esichio (s.v.) attesta due significati: «arte bellica» oppure «arte del fabbro»; il primo è il più adatto al contesto, innanzitutto perché γύννις ἄναλκις del verso successivo acquista maggiore spessore di significato se posto in relazione con la guerra, in secondo luogo perché «l’incompatibilità dionisiaca col ferro, e col ferro come strumento e simbolo di guerra, è addirittura un τόπος che arriva, come è naturale, fino
a Nonno» (Setti, art. cit., pp. 238-
9). Lloyd-Jones traduce i vv. 67-8 con «... saying that I'm no good at work in iron» (op. cit., p. 555), ma questa scelta si spiega con il fatto che lo studioso ritiene molto probabile nel dramma la presenza del dio Efesto, protettore della metallurgia, come complice dei satiri. Le accuse alle quali Dioniso si riferisce possono essergli state rivolte in una scena perduta del dramma o appartenere all’antefatto della vicenda (Gallo, art. cit., p. 134). 25. L'integrazione οὔδ' ἔνειμ᾽[ν ἄρσεσιν (Lloyd-Jones, letteralmente «non posso essere considerato un maschio») alla fine del v. 68 ribadisce il concetto formulato da yovvig ἄναλκις ed è coerente con il tono di questi versi, in cui la ri-
dondanza espressiva è un segnale dell’ira di Dioniso. L'unica vera alternativa, οὐδέν, ei μα[χητέον (Kamerbeek, «non val-
go niente, se c'è da combattere»), mi sembra meno efficace. 26. Dioniso rinfaccia ai satiri l’ultima e più grave offesa che ha dovuto subire da loro: le integrazioni e le interpretazioni proposte per i vv. 69-72 sono sostanzialmente di due tipi, in quanto si può ritenere che l’affronto dei satiri consista in parole oppure in azioni contro il dio. Nella traduzione ho seguito l’interpretazione di τάδ᾽ ἄλλα (v. 69) come «questi nuovi esercizi, gare» e la conseguente proposta di integrazione ἐκπονεῖς («esegui») in fine di verso (Di Marco, art. cit., p. 406). La sfida dei satiri contro Dioniso è determinata infatti
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SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
dall'aver preferito la ginnastica alla musica, «quel loro ἰσθμιάζξειν che costituisce la geniale inventio in cui si risolve e si compendia il nucleo drammatico dell'opera» (Di Marco, loc. cit.). Tuttavia non si puó escludere la possibilità che Dioniso stia parlando di altre calunnie (dopo quelle dei vv. 64-8), specialmente se si ritiene il verbo πλύνεις (v. 71) coordinato a un verbo perduto nei versi precedenti. Ne risulterebbe una lettura del genere: «E ora tu mi muovi questi nuovi e inattesi insulti, le più odiose di tutte le accuse, e ne inondi me e il mio danzante tiaso» (Gallo, art. cit., p. 134; secondo lo studioso,
che accetta l'ordinamento dei frammenti stabilito da Snell, Dioniso si riferirebbe al contenuto della requisitoria di Sileno, che si intravvede nel fr. 78c col. I). L'uso metaforico di πλύνειν (da «lavare» a «fare una risciacquata a» nel senso di «oltraggiare, dire vituperi», cfr. il nostro «fare una lavata di capo») ha precisi paralleli nel linguaggio della commedia (p. es. Aristofane, Ach., 381, fr. 207).
27. La traduzione del v. 71 segue l'integrazione [καὶ χορείαν τὴν ἐμήν, proposta exempli gratia da Kamerbeek. Anche le altre ipotesi guardano nella stessa direzione: Dioniso ritiene che i satiri si stiano comportando da nemici del suo culto. 28. L'integrazione πλῆθος Ἰσθμίας χθονός di Lloyd-Jones, accolta nella traduzione del v. 72, muove dall’idea che Dioni-
so aliuda al successo dell’operazione intrapresa per diffondere il suo culto a Corinto. Tuttavia mi sembrano plausibili anche proposte più generiche, come quella di Reinhardt: πλῆθος ἀνθρώπων τόσον («una tale moltitudine di uomini»). Dioniso è il dio «straniero» per eccellenza, le difficoltà che egli incontra nella conversione dei greci al suo culto sono parte costitutiva della sua storia sacra. Gli Spettatori però sviluppano questo motivo in modo del tutto originale; nel mito, a fronteggiare Bacco sono personaggi nobili e illustri, come Licurgo e Penteo, che guardano con diffidenza il giovane dio dai capelli fluenti e paventano gli effetti devastanti dell’opeiBacia e dello σπαραγμός (i seguaci di Dioniso vagano per i monti in preda al furore, fanno a pezzi gli animali selvatici e ne divorano le carni crude). Qui invece a ribellarsi sono 1 satiri, compagni delle menadi nelle orge, eppure decisi a intraprendere ora nuove occupazioni. Il rovesciamento far-
NOTE
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sesco di una situazione archetipica cela la serietà di un dibattito culturale: Eschilo contrappone la tradizionale educazione attica alla moda atletica di provenienza dorica, che trovava negli agoni istmici la massima esaltazione; così anche il
dramma satiresco, con il pretesto della deformazione comica, induce a riflettere su quegli stessi valori che sembrerebbe stravolgere. Il tema del contrasto tra vecchia e nuova παιδεία avvicina singolarmente il dramma satiresco alle commedie di Aristofane -- 51 pensi alle Nuvole o alle Vespe - in cui l’opposizione tra il passato e presente, principi dei padri e desideri dei figli è una fonte d’ispirazione ricorrente. 29. Il significato complessivo dei vv. 1-2 non è difficile da cogliere, se si ritiene che a pronunciarli sia ancora Dioniso, benché nessuna integrazione sia certa: il dio, dopo aver rimproverato i satiri per aver abbandonato la danza, termina la rhesis con una maledizione e forse con una minaccia (alla fine del v. 2). La traduzione del v. 1 accoglie, dubbiosamente, le
integrazioni di Snell (ἀλλ᾽ eiy’]) e di Cantarella (xa[ta]ppoνεῖν, verbo che potrebbe reggere il pronome ἐμοῦ proposto da Lloyd-Jones per l’inizio del verso successivo). 30. È molto probabile che i vv. 3-10 (dei quali rimane solo la parte centrale) siano la risposta di Sileno ai rimproveri di Dioniso (come suppongono, tra gli altri, Snell, Reinhardt, Mette, Di Marco, Gallo); dai pochi termini leggibili si intuisce che il vecchio, piuttosto che difendersi, reagisce al discorso del dio accusandolo a sua volta. Egli si lamenta per la condizione di schiavitù in cui i satiri erano tenuti (v. 5: ἢ δοῦλον ἢ
τρίδουλον, Cantarella; τρίδουλον significa «schiavo da tre generazioni» ed è un termine attestato anche in Sofocle, OT, 1063 e Aristofane, fr. 576 K.), per il «giaciglio» (koitat, v. 7) «scomodo» (all'inizio del v. 7 xax]ò proposto da Cantarella, o σκληρ]ῷ, integrato da Setti) e le brutte notti passate all'aria aperta; al v. 9 cita il polipo, quasi certamente per indicare uno stato di privazioni e di fame, poiché nelle credenze popolari questo mollusco si nutre dei propri tentacoli. Al v. 10 conferma il suo proposito di fuga e Dioniso gli risponde con i vv. 11-2, che probabilmente contengono nuove minacce. Queste non spaventano Sileno e i suoi, ormai decisi a rimanere nel tem-
pio di Poseidone, come si evince piuttosto facilmente dal v.
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SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
14 (probabilmente ἐν τῷ ἱερῷ μενοῦμεν, «resteremo nel tempio», secondo le integrazioni di Kamerbeek). La requisitoria di Sileno è uno dei passi più interessanti del dramma; si trat-
ta di una furiosa filippica contro i metodi vessatori dell’antico padrone, in netto contrasto con la situazione delineata nel
Ciclope euripideo, dove i satiri rimpiangono il tempo in cui facevano parte del tiaso dionisiaco (cfr. vv. 63 ss.) e il dramma si chiude con la gioia di poter tornare al servizio del dio (cfr. v. 709). «Qui, nei Θεωροί, la fertile fantasia del poeta ha capovolto i termini tradizionali dell’azione: i Satiri sono fuggiti da Dioniso, né per essi ci sarà (sembra sicuro) la consueta vittoria finale, ché sarà il dio a trionfare. Ma, in realtà, sarà
proprio la loro sconfitta che permetterà il realizzarsi dello “happy end” richiesto dal genere e atteso dal pubblico, con il ritorno a Dioniso e la riconciliazione generale» (Di Marco, art. cit.,p. 411). 31. L’inizio del frammento 78c col. II ci porta nel mezzo di una nuova rhesis di Dioniso (cfr. n. 20). Il tema dei vv. 37-42 è ancora il contrasto fra le vecchie abitudini dei satiri e le loro nuove occupazioni, ma questa volta il dissidio si manifesta sullo sfondo più vasto del conflitto fra gli agoni atletici di Corinto, gli Isthmia protetti da Poseidone, e gli agoni drammatici di Atene, le Dionisie, che per la polis rivestivano un altissi-
mo valore educativo, in quanto il teatro era veicolo di messaggi etici e portavoce dei valori condivisi dalla comunità (cfr. Di Marco, art. cit., p. 412).
32. La maggiore difficoltà dei vv. 37-8 è data dall'interpretazione dell'espressione di διστοίχω[ν χορῶν (v. 38, l'integra-
zione di Lobel é generalmente accettata); secondo Kamerbeek, art. cit., p. 10, seguito nella traduzione, l'aggettivo δίστοιχος potrebbe indicare che il coro dei satiri entrava nell'orche-
stra disposto su due file (diversamente da quello tragico, che Polluce, IV 108, 9, definisce τρίστοιχος); Cantarella vi coglie
un'amplificazione del v. 37, con un'allusione alle due categorie di persone precedentemente nominate, i giovani e i vecchi. Per Reinhardt, art. cit., p. 142, l'ipotesi meno improbabile è
che δίστοιχος equivalga a δύο e che tale determinazione si riferisca al coro della tragedia e a quello della commedia. Secondo Di Marco, Sul finale dei Theoroi di Eschilo, «Eika-
NOTE
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smos» 3, 1992, p. 102, n. 33, Eschilo si riferisce più generica-
mente al fatto che i fedeli di Dioniso sono uomini e donne. 33. Eschilo segue la tradizione più antica degli /sthmia, che prevedeva per 1 vincitori corone fatte di rami di pino; dal 475 a.C. esso fu sostituito dall’apio secco (per distinguerlo dall’apio fresco delle corone dei giochi nemei), come attesta Plutarco (Quaest. conv., 676£-677b). L'edera, citata al v. 40, è la pianta sacra a Dioniso, sovente chiamato Κισσός, Κισσεύς,
κισσοφόρος, 0 con altri epiteti del genere; nell’Inno omerico a Dioniso (VII, 41-2) tralci di edera scura si avvolgono miracolosamente all’albero della nave dei pirati che hanno rapito il dio. 34. Nella traduzione dei vv. 39-40 ho seguito la ricostruzione di Gallo, art. cit.,p. 135, che inserisce alla fine del v. 40 il
participio σέβων («rispettando»). Lo studioso considera questo verbo coordinato al precedente ἐστίεμμένος («cingendo corone») attraverso il δέ del v. 40, mentre attribuisce a kai del v. 39 valore accrescitivo-intensivo («per di più»). Altre integrazioni, con l’inserzione di verbi diversi, ma in ogni caso
alla seconda persona del presente indicativo (νέμεις, Lobel; σέβεις, Cantarella; τίθης, Kamerbeek etc.; solo Snell propen-
de per un participio ἔχων), non cambiano di molto il significato del passo, senza però risolvere la difficoltà sintattica rappresentata dal δέ del v. 40. Questa difficoltà induce Page, seguito da Lloyd-Jones, a correggere δ᾽ in γ᾽, mentre Barigazzi, art. cit., pp. 341-2, tenta una soluzione completamente di-
versa, integrando al v. 40 il verbo ποθεῖς e traducendo: «tu invece fai festa all’Istmo e, coronato di rami di pino, e non di
quelli di edera, brami onori». 35. L'integrazione di Snell al v. 41 (δηχθεῖς μόνον) è generalmente accettata; Dioniso, irritato perché i satiri lo hanno
tradito, preferendo il pino all'edera bacchica, conclude il suo discorso con una minaccia. Reinhardt, art. cit., pp. 9-10, rico-
struisce il significato dei vv. 41-2 confrontandoli con la celebre scena delle Tesmoforiazuse di Aristofane (vv. 726 ss.), dove Mnesiloco, dopo aver strappato la finta neonata (in realtà è un otre avvolto in fasce) alla presunta madre, si rifugia presso l'altare e minaccia di sgozzare la bambina se le donne che Io tengono prigioniero non lo libereranno. Queste reagi-
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SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
scono dichiarando che incendieranno la zona circostante, un
espediente spesso usato per costringere i supplici a lasciare il loro rifugio; dopo aver ammucchiato rami secchi, stanno per
appiccare il fuoco, quando Mnesiloco «sgozza» l’otre e l’inganno è rivelato (la scena è una parodia del Telefo euripideo, dove il protagonista minaccia di uccidere con la spada il piccolo Oreste perché i greci gli concedano udienza). Reinhardt prosegue ipotizzando che una Ausraucherung potrebbe essere immaginata anche qui e integra nella lacuna del v. 42 qualcosa come δαίδια 0 φρύγανα («fiaccole», «legna da ardere»), ma egli stesso riconosce che difficilmente delle fiaccole possono essere definite «doni» (v. 48). L'analisi mi sembra comunque valida per spiegare il senso dell’allusione al fumo: Dioniso vuole assicurare ai satiri che li punirà sul serio. A questo scopo il dio presenta loro qualcosa che ha portato con sé (o fatto portare da personaggi muti in veste di servi), con ogni probabilità gli stessi oggetti di cui si discute a partire dal v. 49. È improbabile (cfr. M. Di Marco, art. cit., p. 95) che siano regolari attrezzi da competizione, per esempio giavellotti o pesi, come suppongono Snell, art. cit., p. 8, R.G. Ussher, The Other
Aeschylus, «Phoenix» 31, 1977, p. 297, D.F.
Sutton, The Greek Satyr Play, Meisenheim am Glan 1980, p. 31; Aeschylus! Theoroi or Isthmiastae: A Reconsideration, «GRBS» 22, 1981, p. 335. Deve piuttosto trattarsi di qualcosa che spaventa i coreuti, infatti dal v. 48 in poi risulta chiaramente che essi temono questi insoliti doni, tanto che cercano di respingerli: ció non si spiegherebbe se gli oggetti in questione servissero proprio a quelle gare che i satiri sono impazienti di disputare. 36. Il coro resiste sulle sue posizioni, deciso a non uscire
dal tempio e a non accettare le offerte di Dioniso. Le integrazioni accolte nella traduzione sono al v. 43 ἐγώ di Mette, v. 44 uot di Lobel, v. 45 ἔχων di Kamerbeek, v. 46 ἀντεισέρχομαι, v. 47 οἶκον, v. 48 ταῦτα πέμπε δῶρα di Snell. 37. Le integrazioni del v. 49 (ἐπεὶ... μα[νθάνειν) sono di Snell. Da questo verso l'interlocutore dei satiri, secondo alcuni commentatori, non sarebbe più Dioniso, ma lo stesso
personaggio misterioso con il quale 1 satiri appaiono a colloquio dinanzi al tempio di Poseidone nella scena iniziale del
NOTE
175
papiro (fr. 78a, vv. 1-2), un personaggio benevolmente orientato verso il coro e disposto ad aiutarlo nella rivolta contro Dioniso (Sisifo?, Efesto?, Eracle?). Ma la dialettica scenica,
con i satiri fermi su posizioni di ostinato rifiuto (v. 53), dimostra che gli ex compagni del dio avvertono ancora incomben-
te la minaccia. Inoltre, se si accetta che a questo punto intervenga un altro personaggio, bisogna spiegare perché Dioniso esce di scena improvvisamente, proprio dopo aver ritrovato i suoi servi (cfr. Di Marco, art. cit., p.96). 38. Abbandonato il tono del rimprovero diretto, Dioniso «sfodera ora l’arma assai più tagliente e obliqua dell’ironia» (Di Marco, art. cit., p. 94). Il v. 49 richiama esplicitamente la terminologia usata in precedenza dal dio per rinfacciare ai satiri il tradimento consumato nei suoi confronti (cfr. fr. 78a,
v. 34):isatiri hanno mostrato nuove e originali attitudini, perciò egli ha portato loro nuovi e originali «giocattoli» (ἀθύρματα, v. 50). Un frammento di Cratino (veoxuóv [u] παρῆχθαι ἄθυρμα, fr. 152 K.-A.), in cui l'espressione «un nuovo giocattolo» sembra diventata quasi proverbiale (grazie all'ambiguità ad essa legata nel passo eschileo, ripreso dal poeta comico ad verbum), conferma che gli ἀθύρματα non sono affatto dei veri «giocattoli». Non mi sembra sufficientemente dimostrata l'ipotesi che questi oggetti abbiano a che fare con «sexual games» dei satiri (ὟΝ. Slenders, Intentional ambiguity in Aeschylean satyr plays?, «Mnemosyne» 45, 1992, pp. 145 ss.; lo studioso individua allusioni sessuali in diversi punti dei frammenti a noi pervenuti, per provare che le nuove occupazioni a cul i satiri vogliono dedicarsi sono in realtà attività erotiche). Setti, art. cit., pp. 94-5, 119, Barigazzi, art. cit., p. 341, O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus, Oxtord 1977, p. 422, ri-
tengono che si tratti di ceppi di forma particolare, con i quali Dioniso minaccia di imprigionare i coreuti; tale interpretazione spiega la riluttanza dei satiri ad accettare il dono (cfr. vv. 53 e 55), ma non chiarisce come questi arnesi potrebbero essere usati per le gare (cfr. v. 56: «Sono adatti all'arte che hai appreso»), né come potrebbero favorire la partecipazione comune dei satiri e di Dioniso ai giochi istmici («Celebrare insieme i giochi istmici é la cosa piü conveniente», v. 58). Supera il problema la soluzione di Di Marco, art. cit., pp. 97-
176
SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
104: egli ritiene che Dioniso minacci i satiri presentando loro dei gioghi, la cui forma ricorda quella di una gogna (κύφων) di tipo particolare. Accanto al più comune marchingegno fisso, infatti, le fonti ci consentono di intuire l'esistenza di una
gogna mobile, una struttura di legno con dei fori destinati a imprigionare (tramite viti o chiavistelli metallici) il collo e le mani del condannato, congegnata in modo tale da poter essere portata sulle spalle in una sorta di «passeggiata della vergogna» (cfr. p. es. Senofonte, Hell. III, 3, 11: «con le manie il collo imprigionati nella gogna... insieme ai suoi fu portato in giro per la città»). Colui che subiva la tortura era privato della sua dignità: curvo sotto il κύφων, costretto a tenere il capo chino, doveva assomigliare a un animale sotto il giogo (la gogna é paragonata esplicitamente al giogo da uno scolio al v. 476 del Pluto di Aristofane e da altre fonti; il «giogo della schiavitù», inoltre, è un'espressione che trae origine dall'anti-
ca abitudine orientale di far marciare incatenati in lunghe file schiavi o prigionieri di guerra, il cui collo era avvinto in una sorta di giogo rudimentale). Cosi la punizione escogitata dal dio per i satiri sarebbe severa e al tempo stesso comica: i coreuti rimproverano al loro signore di averli trattati come schiavi, e un simbolo di schiavitü si materializza improvvisamente sulla scena. 39. Il passaggio dal plurale al singolare del v. 52 dimostra che si allude a un altro oggetto, strettamente connesso alle gogne-gioghi: potrebbe trattarsi del carro su cui Dioniso è arrivato a Corinto in cerca dei satiri. A tale mezzo di trasporto si addice infatti l'affermazione del v. 52 («Questo è il primo dei tuoi divertimenti»): sui vasi delle Antesterie sono frequenti le scene di bambini che spingono una piccola ruota legata all’estremità di un bastone e di bambini che siedono su un vero e proprio carrettino trainato da loro coetanei; lo stesso Dioniso è rappresentato mentre impara a muoversi su un δίφρος ὑπότροχος (G. van Hoorn, Choes and Anthesteria, Leiden 1951, figg. 212-4, 216, 239, 258-61). Con pungente sarcasmo il dio indica ai satiri un oggetto che per loro in passato è stato il primo dei balocchi, mentre adesso è strumento di
punizione: l’occasione in cui lui e i suoi servi possono «concorrere insieme» ai gioghi istmici (cfr. v. 58 ξυνισθμιάζειν) è
NOTE
177
la gara del carro (l'«arte» di recente appresa, cfr. v. 56 e n. 40), durante la quale ai satiri toccherà l’ingrato compito di sostituire i cavalli. Termini quali ἐμβήσεται (v. 59) e βάδην ἐ-
Mag (v. 60), alla fine della parte leggibile del papiro, sembrano confermare l'interpretazione proposta: qualcuno monterà sul carro (Dioniso?), qualcun altro andrà a piedi (i satiri?; cfr. Di Marco, Sul finale..., art. cit., p. 102). 40. Il v. 54 contiene probabilmente il riferimento a un'espressione proverbiale: «Rifiutare un dono porta male» (cfr. Euripide, Heraclid., 730 ὄρνιθος οὕνεκ᾽ ἀσφαλῶς πορευτέον).
Ma poiché in questo caso non di vero dono si tratta, le parole di Dioniso suonano ironicamente ambigue: i satiri, per scaramanzia, non possono rifiutare nemmeno
(μηδ᾽, v. 54, deve
essere considerato rafforzativo del μή iniziale) i «giocattoli» che il dio sta per usare come strumento di punizione (Setti, art. cit., p. 242). 41. La traduzione del v. 56 accoglie le integrazioni di Lobel μεθεΐλ(ες... πρέίπειν; per il secondo verbo è plausibile anche la
forma πρέπει (supposta da Kamerbeek) che muta sensibilmente il significato del verso: «Si addice (scil. il carro) all'arte che hai appreso». Sul senso ironico della frase, cfr. n. 39. 42. I] v. 57 é difficile da integrare in modo accettabile. La traduzione accoglie la ricostruzione di Kamerbeek ([y' ἀν]τίπλουν μού[χ] ἀνδάνει), che sembra la più coerente rispetto al significato complessivo del passo. Il termine avrinAovv (0 πλοῦν, ἐπίπλουν, ἀντιπλοῦν) ha dato luogo all'ipotesi che Dioniso e 1 satiri stiano per imbarcarsi insieme e salpare da Corinto, ma ció contrasta irrimediabilmente con la lettura
fin qui proposta della vicenda. Probabilmente (cfr. Di Marco art. cit., p. 103) a questo punto del dramma il conflitto tra Dioniso e i satiri si avvia alla ricomposizione; i coreuti si rendono conto che inutile opporsi ancora al loro dio ed esprimono questa loro consapevolezza con una frase di significato affine all'espressione metaforica πρὸς κέντρα λακτίζειν,
«tirare calci contro il pungolo». L'immagine, che deriva dalla stolta reazione dei buoi toccati dal pungolo (come si ricava da uno scolio a Pindaro, Pith. IT, 94-5), indica un'azione pale-
semente sciocca e autolesionista. Eschilo la utilizza nell’Agamennone (v.1624), Euripide in un frammento (604 N. 2) e, so-
178
SPETTATORI O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
prattutto, nelle Baccanti (v. 795), dove si riferisce all'uomo che si mette contro una divinità, nella fattispecie Dioniso. «Equidem nolo in adversum ventum tendere», propone la traduzione di Kamerbeek. Oppure, la «navigazione contro vento» alluderebbe al «viaggio» (la corsa dei carri) che i satiri saranno
costretti ad affrontare, se le minacce
di Dioniso
avranno attuazione. In ogni caso, la metafora potrebbe essere suggerita dalla somiglianza tra il carro sul quale il dio sta per uscire di scena e il currus navalis, oggetto cultuale delle Antesterie, con un richiamo a un'immagine, ben presente
agli occhi degli spettatori, che produce un suggestivo annullamento del confine tra finzione teatrale e realtà. 43. Sul senso di ξυνισθμιάζειν (v. 58) cfr. n. 39.
ESCHILO
PESCATORI CON LA RETE*
46a**
4
A.
ξυνῆκ[ας
B.
ξυνῆκα...
A. B.
τί cot φυλάσοω [ εἴπου θαλάςοης [
A. ἄσημα: λεῖος πόν[τος B. δέρκου vuv éc κευ[θμῶνα A. καὶ δὴ δέδορκα τῷδε. £a
8 τί φῶ τόδ᾽ εἶναι; πότερα .[
12
φάλαιναν ἢ ζύγαιναν ἢ «.[ üya& Πόσειδον Ζεῦ τ᾽ evaldıe [δῷρον θαλάσοῃης πεμπετί ..cot θαλάοσοηο δίκτυον Öl
[π]εφυκί[ωϊται δ᾽ ὥρτε μ᾽ ἀγνο. [ [
16 [
Jevammorn......ev[ ]£.v vncatoc...[
]écu τοὔργον od xoplei npóco
[ B]loùvicmu τοῖοδ᾽ ἰύγίμαοιν [ Ἰπάντες γεωργοὶ δεῦτε | κἀμπελοοκάφοι [ Je ποιμήν τ᾽ εἴ tic ἐστί ἐ]γχώριος
20 [ Joı τε καὶ μα [ρ]{ς }[τλ]ευτῶν ἔθνος [
|] ἐνᾳντιωτάτης
(La scena è sulla spiaggia dell’isola di Serifo. Due personaggi stanno cercando di trascinare a riva una rete da pesca.) 462! vv. 1-21
A Ti sei accorto (...)?? B Mi sono accorto; sta’ attento (....)? A A che cosa devo stare attento, se non vedo niente.*
B A B A
Se per caso in mare mi vedi qualcosa di strano. Non c'è segno. Il mare è liscio come l'olio (...)* Prova a guardare nella grotta (...) Ecco, vedo (...) che dire? È (...) una balena, un pesce martello, o un mostro marino? Signore Poseidone, Zeus del mare? un dono delle acque è mandato (...) B (?P Un dono del mare porta? la rete? A (2) È ricoperta di alghe, così che non riesco a capirel! (...) un essere vivente o (...) vecchio? dell’isola (...) è un’impresa impossibile! Non si muove.'* B (?) Allora io grido e lancio l’allarme:! tutti qui, contadini e piantatori di vite, ogni pastore dell’isola (...) carbonai (...) dalla riva opposta (...)! (Lacuna di circa 700 versi. I due personaggi, aiutati dai satiri, riescono a recuperare la rete e scoprono che con-
tiene un’arca di legno. Ne emerge Danae, con suo figlio
182
ESCHILO 47a
col. I
«CI.» ]..[.].av καὶ θεοὺς μαρτύρομαι
768
[ ].zavti κηρύοοω οτρατῷ [ὁ ἸἹπαντάπαςι...φθαρῆς [ ]ovca πρόξενόν θ᾽ ἅμα [ ]..0ov με καὶ προπράκτορα [ ].e μαῖαν ὧς γεραομίαν
772
[_1...(.].(..]e ἐν χρόνῳ μένει
[ ].nnioic προοφθέγμαοιν
776
«ΔΑ.» ]... καὶ γενέθλιοι θεοί [ ]..ac τάοδε μοι πόνων τιθεῖς [Ἰριςῦξ κνωδάλοις pe δώσετε [ 1...yorcı λυμανθήοομαι αἰχ]μάλωτος o.ca.o κακά
[ ]aryovy ἀγχόνην ἄρ᾽ ἅψομαι [
]ac τεμρῦςα κωλυτήριον
780
[Ἶῳς μὴ ποντίοῃ cc αὖ πάλιγ
784
[me ἢ []reun' []eixec [ ]v δὲ
πᾳτήρ᾽ δέδοικα γὰρ ἀρωγόν, εἰ δοκεῖ, viva αἰτίας τῆο μείζονος näcav ἐξέτεις᾽ ἐγὼ
[] εὖ c' ἔλεξα, πάντ᾽ ἔχει[ς] λόγον. «CI.» 1. γελᾷ μον προσορῶν [1].. ὁ μικκὸς λιπαρὸν 788
μ]ιλτί[ὀϊπρεπτον φαλακρὸν Πειε[.παπας τις ἀρεοNwel.].roıkıAovo-
[ ]. 792 794 796
[.]..λαϊομοι [Ladepen { ]zoc90Qt1Afic ὁ veoccòc [ le.Köuevoc [ ]ctov
[ col. II
Τυται
εἰ μή ce χαίρω .[
PESCATORI CON LA RETE
183
Perseo; l’eroina racconta le sue sventure. Sia Ditti che
Sileno vorrebbero conquistarla e a questo scopo le assicurano entrambi protezione e aiuto. Tra i due nasce un aspro diverbio, finché Ditti non si allontana per cercare aiuto contro i satiri.)!! 47a vv. 765-832 colonne I e II
SILENO'® (...) chiamo a testimoni questa contrada e gli dei, che ascoltino ció che ora annuncio a tutta la gente.? Tu dunque subito saresti stata completamente rovinata, se molto coraggiosamente non avessi accettato? me come prosseno e contemporaneamente benefattore e sostenitore (...)?! come una nutrice degna di onore (...), con parole amorevoli.? (...) durerà per sempre.? DANAE^ (...) dei della stirpe e ZeusP?che imponi questa fine? ai miei tormenti mi darete ora in preda a queste bestiacce”” (...) sarò oltraggiata prigioniera (...) soffrirò (...) sventure (...) No, io mi stringerò la gola in un laccio” (...) opponendo un ostacolo al disonore? (...) perché nessuno ci getti di nuovo in mare con la stessa ira crudele di? mio padre: ho paura. Zeus, manda qualcuno che mi difenda, se ti sembra
opportuno; tu hai condiviso la maggior parte della colpa, ma la pena l'ho scontata tutta io.” (...) bene, ti ho detto; hai sentito tutto quello che avevo da dire.? SILENO (0 coro?) (...) mi sorride il piccolino vedendo la mia testa lustra imbellettata.? (...) il babbo (...) (...) screziato (...)* (...) piace il fallo al bambino. (...) Se non sono felice per te (...)
184 800
ESCHILO
ὄλοιτο Δίκτυς κρί
τῆοδέ μ᾽ ἄγρας ul
804
ὦ φίντων, ἴθι δε[ῦρο θάροει δή᾽ τί κινύρῃ[«»;
[οτρ.
δεῦρ᾽ ἐο παῖδας ἴωμεν wo. ἵξῃ παιδοτρόφουο £uó[c,.
ὦ φίλος, χέρας εὐμενής, 808
τέρψῃ δ᾽ ἵκτιοι calì] veßpolic
ὑςτρίχων v óBpixotelt] κοιμήςῃ δὲ τρίτος ξὺν
_ μητρὶ [καὶ π]ατρὶ τῷδε. 812
816
ὁ πάπαϊίς δ]ὲ παρέξει τῷ μικκῶᾳι] τὰ γελ[οῖ]ᾳ καὶ τροφὰς Avocovc, ὅπως nl ἀλδων αὐτὸς £....[.]...[ χαλᾷ veBipodov.[.]rod[ μάρπτων θῆρας ἄνευ öl θῶοθαι μητρὶ παρέξεις
[ἀντ.
κ͵]ηδεοτῶν τρόπον oic 820
[.]vtporoc πελατεύοειο.
ἀλλ᾽] εἶα, φίλοι, ςτείχωμεν ὅπῳς γ]άμον ὁρμαίνωμεν, ἐπεὶ τέλεος
καιρὸς ἄναυδος τάδ᾽ ἐπαινεῖ. 824
καὶ τήνδ᾽ [ἐϊοορῶ νύμφην ἤ[δ]η
828
πάνυ βουλομένην τῆς ἡμετέρας _ φιλότητος ἅδην κορέοσαοθαι. καὶ θαῦμ᾽ οὐδέν: πολὺς ἦν αὐτῇ χρόνος ὃν χήρα κατὰ ναῦν DhaAoc
τείρετο: νῦν δ᾽ οὖν ἐἸφορῶτ᾽ ἤβην τὴν ἡμετέραν
an
PESCATORI CON LA RETE
185
crepi Ditti (...) che non vuole spartire con me questa preda. Su* caro, vieni qui.” (Schiocco con la lingua)? Coraggio, perché piangi? Vieni, andiamo dai bambini, al più presto” raggiungerai le mie braccia capaci di allevare [bambini, caro, buono, ti divertirai con le faine e i cerbiatti e con i cuccioli delle istrici*! e dormirai come terzo
con la mamma e con questo papà. Il babbo procurerà al piccolino le cose che fanno ridere? e cibi sani, in modo che (...) crescendo tu stesso (...) con l’unghia della zampa cacciatrice di cervi afferrando gli animali senza lancia* darai da mangiare? alla mamma,
come i suoi parenti tra i quali sarai diventato grande.“ CORO"!
Forza, amici, muoviamoci
a pensare alle nozze poiché l'ora è giunta: senza parole ci chiama.*? E vedo che questa ragazza ormai é molto desiderosa di riempirsi a sazietà del nostro amore;? Nessuna meraviglia. E stato lungo per lei il tempo: come una vedova in una nave [sott'acqua lo ha trascorso; ma ora
che ha davanti agli occhi la nostra giovinezza,
186
ESCHILO
...]et γάνυται νυμφ[ί]ον [οἷον ...]ew λαμπραῖς tic ᾿Αἰφ]ροδίτης
PESCATORI CON LA RETE
187
(...) è raggiante, tale lo sposo alle torce” lucenti di Afrodite. (Ditti torna in scena e intavola una nuova discussione con Sileno; attraverso minacce o promesse, magari di libertà, riesce alla fine a dissuaderlo dalle sue pretese su Danae.y!
NOTE
* Sul titolo del dramma cfr. Introduzione, p. 91. 1.Il frammento 46a con ogni probabilità si colloca all’inizio del dramma satiresco, del quale potrebbe rappresentare il prologo in forma di sticomitia, come segnalano le paragraphoi poste sotto i primi sei versi. Oppure (cfr. M. WerreDe Haas, Aeschylus’ Dictyulci. An attempt at Reconstruction ofa satyric drama, Lugdunum Batavorum 1961, p. 31) il dialogo era preceduto da una rhesis di trenta, quaranta versi, che svolgeva la funzione di introdurre al pubblico situazione e personaggi della vicenda (cfr. Sofocle, Cercatori di tracce, 1-63; Euripide, Cycl., 1-40); in tale prologo doveva essere spiegata anche la ragione della presenza di Sileno e dei satiri a Serifo. Sulla spiaggia dell’isola si svolge la vicenda. Due personaggi (A e B) pronunciano, alternandosi, tre battute di un verso ciascuna, poi la distribuzione dei versi successivi è incerta fino al punto in cui termina il frammento. Che uno dei due sia Ditti sembra ormai accertato, visto il posto di rilievo che la tradizione gli assegna in questo episodio
(cfr. p. es. Strabone, Geo. X, 487: Σέριφος δ᾽ ἐστίν Ev ἦ tà περὶ τὸν Δίκτυν μεμύθευται τύοις τὴν περιέχουσαν no, Fabula 63: ...delata quam piscator Dictys
τὸν ἀνελικύσαντα τὴν λάρνακα τοῖς ÖLKτὸν Περσέα καὶ τὴν μητέρα Δανάην; Igiest -- [scil. arca] -- in insulam Seriphum, cum invenisset, effracta ea vidit mulie-
rem cum infante...), ma quale dei due egli sia è difficile da determinare (A = Ditti per: R. Pfeiffer, Die Nerzfischer des Ai-
schylos und der Inachos des Sophocles, «Sitzungsberichte der Philosophisch-historischen Abteilung der Bayerischen Akademie der Wissenschaften zu Munchen», 1938, Heft 2, pp. 122; D.L. Page, Greek Literary Papyri II, London 1950;A. Setti,
NOTE
189
Eschilo satirico I, «Ann. Sc. Norm. Sup. Pisa» 17, 1948, pp. 136; G. e M. Morani, Tragedie e frammenti di Eschilo, Torino 1987; B = Ditti per: A. Olivieri, 7 Diktoulki di Eschilo, «Dioniso» 6, 1938, pp. 314-26; C.E. Fritsch, Neue Fragmente des Ai-
schylos und Sophocles, Hamburg 1936; H. Lloyd-Jones, Appendix of the Aeschylus edition, London 1957, Werre-De Haas, op. cit., pp. 11-34, con i termini dell’intera questione e
un quadro sintetico dei precedenti contributi critici), così come è ancora oggetto di discussione l’identità dell’interlocutore: il coro, Sileno, o il misterioso «vecchio» del v. 15? L'ipotesi
che si ché il ne tra strano
tratti del coro è la meno probabile, prima di tutto pertenore dell'intero dialogo è quello di una conversaziodue singoli individui, in secondo luogo perché sembra che Eschilo, aprendo il dramma con il coro già nell'or-
chestra, abbia perso l'occasione di costruire una scena movi-
mentata, sorprendente e piena di spunti comici quale doveva essere l'ingresso dei coreuti mascherati da satiri. 2. Il tono affermativo del v. 2 induce a credere che il v. 1 sia una domanda; di ξυνῆκας si possono proporre diverse traduzioni: «Ti sei accorto? Hai notato?», «Hai sentito?», «Hai
visto?»; la prima pare meglio adattarsi alla situazione, quale emerge dai versi successivi: due personaggi non riescono a riportare a riva una rete, si rendono conto che qualcosa sta ostacolando la loro azione, ma non hanno ancora capito di
che cosa si tratta (quindi il senso del primo verso potrebbe essere: «Ti sei accorto che qualcosa trattiene la rete?»). Quanti traducono «Hai sentito?» (p. es.V. Steffen, Satyrorum Graecorum Fragmenta, Poznan 1952; Pfeiffer; Olivieri; R. Cantarella, / nuovi frammenti eschilei di Ossirinco, Napoli 1948, pp. 36-59; J.C. Kamerbeek, De Aeschyli Dictyulcis,
«Mnemosyne» ser. IV, 7, 1954, pp. 89-110) suppongono invece che l'incertezza dei parlanti sia causata da un rumore e basano la loro ipotesi sul racconto di Ferecide (Danae supplica di aprire l'arca, cfr. frr. 10 e 11 Jacoby) e sul lamento di Danae in Simonide (fr. 543 PMG): le parole accorate dell'eroina, che piange la triste sorte sua e del figlio, giungerebbero come suoni indefiniti dall'interno della cassa alle orecchie di chi sta sulla spiaggia. 3. Se B è Ditti (cfr. n. 1), in questo verso egli sembra dare
190
PESCATORI CON LA RETE
un ordine (φύλασσέ pot, «sta’ attento», secondo la congettura di Steffen), sul quale l’interlocutore chiede spiegazioni al v.3; il verbo φυλάσσειν può indicare l’attività della vista (nel senso di «attendere guardando», come in Eschilo, Ag., 8, φυ-
λάσσω... σύμβολον) richiesta dal contesto (cfr. l'integrazione di Werre-De Haas al v. 3, n. 5). Il frammento, malgrado le lacune, offre una certa caratte-
rizzazione dei personaggi: tra i due, A è quello che pone domande, aspetta ordini, manifesta incertezza, mentre B è più calmo, probabilmente & fermo vicino al punto di ancoraggio della rete sulla riva, da dove puó fornire indicazioni al suo compagno, che invece dovrebbe trovarsi vicino a uno scoglio (cfr. κευθμῶνα, v. 6). 4. La traduzione al v. 3 accoglie l'integrazione [μηδὲν Ev-
θάδ᾽ εἰσορῶν di Steffen, tra le congetture proposte, che variano minimamente e rispettano l'atmosfera del passo: uno dei due personaggi esorta l'altro a «vedere» l'oggetto che intralcia il recupero della rete, ma l'ordine suscita perplessità perché dal mare non è ancora emerso nulla. 5. La seconda parte del v. 4 é incertissima. La traduzione accoglie l'integrazione [καινὸν ἐννοεῖς τί μοι, proposta exernpli gratia da Werre-De Haas, che rende la sorpresa dei personaggi di fronte alla difficoltà inaspettata; tra le altre soluzioni, [κυμάτων σημετ᾽ ἴδοις di Pfeiffer (onuei’ sarebbe ripreso da ἄσημα al verso successivo), [ἐκ βυθοῦ προσέρχεται di Olivieri non alterano di molto il senso, mentre [κἀσαφῆ ῥόθον κλύεις,
di Untersteiner, presuppone che siano già avvertibili i gemiti di Danae (κλύεις = «senti»). L'espressione που θαλάσσης è,
probabilmente, un’indicazione di luogo affine a ποῦ χθονός (cfr. Eschilo, Sept., 1002, Pers., 231).
6. La superficie del mare è perfettamente liscia e i due personaggi non hanno ancora individuato l’arca. Il v. 5 e il successivo rafforzano l’ipotesi che finora i riferimenti siano stati a sensazioni visive, piuttosto che auditive. La seconda
parte del verso non dovrebbe far altro che ribadire il concetto (ἥσυχος θ᾽ ἅμα, exempli gratia, Pfeiffer). 7. Κευθμών (al v. 6 in accusativo, integrazione concordemente accettata) generalmente indica un nascondiglio, un recesso, un antro (cfr. Omero, Od. XIII, 367, Pindaro, Pith. IX,
NOTE
191
34); qui si riferisce forse a una cavità nello scoglio presso il quale doveva trovarsi A. La scenografia del dramma avrà previsto l’uso di un pannello dipinto raffigurante il mare, la roccia e l’arca: l’attore che impersonava Danae poteva celarsi dietro questo pannello, per comparire al momento opportuno. 8. Al v.9 le tracce d'inchiostro che precedono la lacuna sono state interpretate ora come n ora come 1. La congettura κῆϊτος, «balena, pesce mostruoso» (Lobel, Page, Setti; un al-
tro nome di animale marino, xwuppáv τινα, è suggerito da Pfeiffer), accolta nella traduzione, è molto incerta, tuttavia
anche l'alternativa κι[βώτιον (G. Vitelli-M. Norsa, Papiri della Società Italiana 1209a, b, Firenze 1935), che può significare «arca», ha suscitato più di una perplessità, in quanto significherebbe che il personaggio sta già formulando l’ipotesi giusta in merito al contenuto della rete (cfr. Werre-De Haas, op. cit., pp. 19-21). I primi editori, tuttavia, hanno basato l'attribuzione del frammento 46a alla trilogia di Perseo anche sulla scorta di questa loro integrazione. A] v. 10 Πόσειδον e Ζεῦ 1 Eevafiıe (l'integrazione è di Vitelli-Norsa) alludono a un solo dio, come attesta Pausania (II, 24, 4: Αἰσχύλος δὲ ὁ Εὐφορίωνος καλεῖ Aia καὶ τὸν ἐν θα-
λάσσῃ), confermato da Proclo (in PI., Crat., 148 [83,24 ss. Pasquali]: ... ὁ δὲ δεύτερος δυαδικῶς καλεῖται Ζεὺς ἐνάλιος καὶ
Ποσειδῶν); τε deve essere quindi considerato come un esempio di uso, non insolito (cfr. p. es. Eschilo, Ag., 10), di una particella congiuntiva dove in realtà si ha una semplice giustapposizione di termini. Secondo la versione del mito esposta nell’/liade dallo stesso Poseidone, Rea generò a Crono tre figli e, nel sorteggio per la spartizione del mondo, a Zeus toccò il cielo, a Poseidone il mare, mentre gli inferi furono dominio di Ade (Ζεὺς καταχθόνιος nel passo di Proclo citato). Il riferimento a Poseidone è naturale nella circostanza in cui si trovano i due personaggi, ma è difficile stabilire se si tratti di una preghiera o di una semplice esclamazione (cfr. n. 9). 9. Al v. 11 è comunemente accettato che [$]@pov sia specificato dal genitivo θαλάσσης; l’espressione «dono del mare»
è generica e non implica necessariamente un significato positivo (Archiloco ricorre ad essa alludendo ai corpi trasportati
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PESCATORI CON LA RETE
a riva dalle onde dopo un naufragio). Assai tormentata è invece la parte finale del verso. Poiché al v. 10 il dio invocato è uno solo (cfr. n. 8), escludendo l'integrazione πέμπετίε, πεμTET- può essere interpretato in due modi: a) πέμπεται (Steffen): «(un dono del mare) è mandato»; in questo caso «Signore Poseidone, Zeus del mare» sarebbe un’esclamazione
con la quale, dopo il tentennamento delle opinioni formulate ai vv. 8-9, ci si appella a un’autorità superiore; Ὁ) πέμπε (Pfeiffer, Cantarella): «(un dono del mare) manda»; come imperativo il verbo rientrerebbe in una preghiera rivolta a Poseidone: Pfeiffer legge i vv. 10-2 come se il parlante stesse chiedendo al dio una buona pesca, in cambio della quale gli consacrerà la rete, ma le sue integrazioni al v. 12 (xoi] σοι... S[0om τόδε, «e io ti darò questa rete») interrompono il filo di un discorso che sembra proseguire anche nel verso successiVO; si può comunque pensare a un’invocazione che occupi soltanto i vv. 10-1 e che significhi all’incirca «Signore... fa che il contenuto della rete sia qualcosa di buono». Dopo πέμπε si è letto, per esempio, οὐκ ἠλπισμένον (Körte) ed ἐλπίδος πέρα (Page), «(un dono) insperato», oppure τλήμοσ᾽ ἀνδράσιν (Pfeiffer) e τοῖς πονουμένοις (Werre-De Haas), «(manda un dono) a due poveri uomini/a chi sta faticando». Dal v. 12 al v. 21 la scansione delle battute e la loro attribuzione è dubbia; la traduzione segue la ricostruzione, abba-
stanza convincente, di Werre-De Haas. La ripetizione di θαλάσσης (ai vv. 11 e 12), insieme al pronome σοι del v. 12 sembrebbero richiedere un cambio di personaggio alla fine del v. 11. I vv. 13-6 sono assegnabili all’interlocutore di Ditti (A), mentre è verosimile che sia quest’ultimo, il più importante dei due, a lanciare l’appello (vv. 17 ss.) cui farà seguito l’ingresso dei satiri. 10. La traduzione al v. 12 accoglie l'integrazione δῶρον φέρει di Olivieri, per la quale non ci sono varianti significative, a parte quella di Pfeiffer citata nella nota precedente. A inizio verso si può scegliere tra ti cor (Kórte) o καί σοι (Pfeiffer). 11. Alla fine del v. 13 si può leggere qualcosa come μ᾽ ayvoliav ἔχειν (Goossens). Se l'integrazione è corretta, questo verso dovrebbe essere attribuito al personaggio che
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per primo ha individuato l’oggetto nella rete (cioè A) e ha tentato di capire di che cosa si trattasse. La presenza della particella δέ non è un ostacolo per considerare il v. 13 una risposta al precedente: il v. 12 è un’interruzione a una serie di osservazioni di A (vv. 8-11), che ora riprendono nella forma di una risposta (su questo uso della particella discute J.D. Denniston, The Greek Particles, Oxford 1954, p. 171).
12.I vv. 14-5 rimangono incertissimi anche dopo vari tentativi di integrazione. Forse A sta dicendo che le alghe impediscono di identificare il contenuto dell’arca come un essere vivente (ἔναιμον) o un altro oggetto (cfr. dp’ ἔστ᾽ ἔναιμον; fi τι χρῆμ᾽ ἐν λάρνακι, Lloyd-Jones). La congettura [y]é[p]ov (Vitelli-Norsa) è l’unica certezza del v. 15, ma l’identità di questo «vecchio dell’isola» resta un mistero. Anche escludendo che possa trattarsi di Ditti (nella tradizione mitografica non ci sono cenni alla sua età avanzata, inoltre egli è l'«eroe» della vicenda ed è strano che sia presentato come vecchio), restano varie possibilità. Il fatto che si tratti di un nominativo non vieta che possa essere riferito da uno dei due personaggi al suo compagno, come se fosse un vocativo (cfr.
p. es. Eschilo, Prom., 88, ὦ δῖος αἰθήρ). Setti e Lloyd-Jones immaginano che qui si accenni a una divinità locale («Or has the Old Man of the Islands sent us something in a chest?» traduce Lloyd-Jones, op. cit., p. 537), che richiama 1 ἅλιος γέρων omerico (Il I, 556 = Nereo, Od. IV, 349 = Proteo); Cantarella
ritiene che il vecchio sia Sileno, anche se il padre dei satiri non è un abitante dell’isola, come l’aggettivo νησαίος indurrebbe a credere; Werre-De Haas e altri ipotizzano che l’interlocutore di Ditti sia un anziano pescatore di Serifo: egli si riferisce a se stesso e il senso dei vv. 15-6 potrebbe essere il seguente: «io che sono invecchiato sull’isola so bene che è un impresa impossibile...». Concordo con I. Gallo, Ricerche su
Eschilo satiresco, in Studi salernitani in onore di R. Cantarella, Salerno 1981, p. 145, nel ritenere alquanto probabile la presenza di Sileno al fianco di Ditti in questa scena e superflua l’introduzione di un altro anonimo attore, al quale non ci sono altri accenni nei versi superstiti; inoltre, un dialogo tra Ditti e Sileno, che precede l'azione dei satiri, trova una
corrispondenza piuttosto precisa nella scena iniziale dei Cer-
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catori di Sofocle. Del resto, lo stato lacunoso dei versi in questione autorizza a immaginare nell'espressione yépov vn-
σαῖος un riferimento marginale per noi ormai impossibile da determinare. 13. Al v. 16 la traduzione accoglie l'integrazione μάταιόν] di Werre-De Haas. 14. Letteralmente «non va avanti»; espressioni simili si trovano in Aristofane, Pax, 472, 509. L'avverbio πρόσω indica
che Ditti e Sileno sono impegnati già da qualche secondo nel tentativo di trascinare a riva la rete e ormai ogni sforzo ulteriore sembra inutile. Si prepara perció la richiesta di aiuto dei versi successivi. 15. Cfr. Eschilo, Choeph., 885, tiva Bonv totnc; Uno dei
due pescatori grida, in cerca di aiutanti. Una situazione simile si trova in una lettera di Alcifrone (Epist. 1, 20, 2): per recuperare una rete troppo pesante, dei pescatori di Lesbo promettono a chi collaborerà con loro una parte del bottino; con grande fatica viene recuperato un cammello, ormai putrefatto e roso dai vermi. 16. Alcuni commentatori hanno supposto un cambiamento di metro per i vv. 18-21 (tetrametri trocaici, Norsa-Vitelli; tetra-
metri giambici, Steffen); quasi tutti sono concordi nel far precedere il v. 18 da un'esclamazione extra metrum (tod ἰού oppure ἰὼ ἰώ e simili). L'isola di Serifo è rappresentata come fertile e ricca di risorse, e perció abitata da diverse categorie di lavoratori, contrariamente a quanto sostiene Strabone, secondo il
quale «l'isola è cosi pietrosa, che si dice che lo sia per colpa della Gorgone» (X, 487). A sostegno di μα[ρ]ειλευτῶν (v. 20) Radt cita Polluce VII, 110, secondo il quale il termine deriva da ua-
piùn («carbone»). Accettando questa integrazione (di B. Snell, The Oxyrhynchus Papyri, Part 20. P. Oxy. 2256, fr. 72, «Gnomon» 25, 1953, p. 440) si ottiene una sequenza in cui sono chia-
mati, ogni gruppo in un verso, prima quanti lavorano nei campi, poi i pastori, infine i carbonai. I satiri appartengono a una di queste categorie: il fatto che non siano nominati esplicitamente non basta a far dubitare della loro presenza, indispensabile nel dramma satiresco. Vari i possibili motivi della loro permanenza sull'isola: scampati a un naufragio, o catturati durante un viaggio, o abbandonati dal loro signore Dioniso, potrebbero essere
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costretti a servire il sovrano di Serifo in qualche particolare mansione. ) 17. Dopo il fr. 46a, Radt colloca due frammenti assai malridotti e una citazione di Polluce, con un riferimento al «tes-
suto ben fatto della rete» (46b = P.S.I. 1209B, 46c = P. Oxy. 2256 fr. 72, fr. 47 = Polluce VII, 35: δικτύου δ᾽ εὐήτρια). Dai resti del fr. 46b non possiamo ricavare che poche parole, tra le quali vi è forse il nome proprio «Ditti» (δικτυνο, v. 2), accenni a una «sofferenza» (60.yooe, v. 1) e a un «nemi-
co» (πολεμιο, v. 4); Steffen non esclude che questi versi appartengano al prologo, precedendo il fr. 1209a, ma Werre-De Haas fa giustamente rilevare che un riferimento alla sventura (di Danae?) all'inizio della vicenda risulterebbe prematurO e si chiede se piuttosto non possa risultare naturale sulla bocca di Danae stessa. Se il frammento 46c appartiene ai Pescatori (non è d'accordo D. Sutton, «RSC» 23, 1975, p. 354; «BASP»
15, 1978,
pp. 277 ss.), forse è collocabile dopo la parodo perduta; i satiri, accorsi alla richiesta di aiuto di Ditti, si saranno accinti al-
l'impresa con il loro solito atteggiamento spavaldo, per poi cedere alle prime difficoltà: i pochi versi ricostruibili infatti lasciano intravvedere una nuova richiesta di soccorso («[o
abitanti] di questo paese di mare / tutti voi campagnoli e... / accorrete in aiuto... / non lasciate le corde...», vv. 4-7). La lacuna che separa il fr. 46a dal fr. 47a si estende per circa settecento versi (cfr. Introduzione, pp. 92-4). 18. Le interpretazioni più convincenti ravvisano Sileno nel personaggio che pronuncia i vv. 765-72 (Radt, Siegmann, Lloyd-Jones, Werre-De Haas); secondo una possibile lettura del v. 770 (cfr. n. 22), egli si propone a Danae come una «nutrice veneranda»: per Sileno questo non è un ruolo nuovo (più improbabile sarebbe sulle labbra di Ditti, o di suo fratello Polidette), poiché la tradizione lo dipinge come altor di Dioniso (Ovidio, Met. XI, 101), inoltre egli è comunemente raffigurato come vecchio, quindi l’aggettivo γεράσμιος gli si addice. Sull’intervento del sovrano di Serifo nel dramma (supposto da Cantarella e Steffen) non ci sono argomenti decisivi, inoltre in tal caso bisognerebbe ammettere che i Pesca-
tori necessitavano di tre attori, oltre a Sileno (cfr. Introduzio-
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ne, p. 44, n. 36; a meno che non si ritenga, con Mette e Kamer-
beek, che un solo attore interpretasse sia la parte di Ditti che quella di Sileno). Anche la reazione sbigottita di Danae alle parole del personaggio induce a pensare che a incalzarla con proposte audaci siano i satiri e il loro padre (cfr. n. 27). Nei vv. 765-6 Sileno invoca gli dei come testimoni di quanto sta per annunciare agli abitanti dell’isola (o al pubblico, cfr. n. 19); non ci sono elementi sufficienti a stabilire se questi siano i versi iniziali della rhesis. Al v. 767 si legge chiaramente il riferimento a una seconda persona, a cui sarebbe
potuta toccare una sventura (#8apng). Che si tratti di Danae sembra ormai accertato per vari motivi: sarà lei a replicare,
pronuciando 1 vv. 773-85; la terminazione -oa del verbo al v. 768 lascia supporre che l'interlocutore di Sileno sia una donna; l’eroina è l'unico personaggio ad avere bisogno, con suo figlio, di un πρόξενος (v. 768). Nei successivi tre versi il vecchio allude a se stesso in tono elevato, con termini che in-
dicano la sua funzione di «protettore», infine chiude il discorso parlando del futuro. 19. L'impressione globale è che Sileno stia pronunciando una sorta di discorso ufficiale, che per sua natura richiede la ratifica divina, oltre alla presenza di testimoni umani. Sull'identità di questi ultimi è difficile pronunciarsi: il vecchio potrebbe reclamare l'attenzione del coro, anche se risulta stra-
no che ai satiri egli si riferisca con il termine στρατός che, quando non è utilizzato in senso militare, di solito indica una moltitudine (cfr. p. es. Eschilo, Eum., 683, 782); si può ipotiz-
zare che, insieme ai satiri, all'appello iniziale di Ditti siano accorsi gli abitanti di Serifo; Werre-De Haas, op. cit., p. 37, prende in considerazione l'idea che queste parole siano rivolte direttamente agli spettatori, in un a parte che infrangerebbe l'illusione scenica, secondo un espediente tipico della commedia, ma la cui esistenza nel dramma satiresco non &
stata ancora provata con argomenti decisivi. 20. Ai vv. 765-9 la traduzione segue la ricostruzione esemplificativa di Gallo (art. cit., p. 148: καὶ τήνδ]ε x[o]pav v. 765; κλύειν à vO]v ἅπαντι, v. 766; σὺ δ᾽ οὖν πάραυτα], v. 767; £i μαλ᾽ εὐθαρ]σοῦσα, v. 768; εὐεργέτην v ἐδέ]χου, v. 769); lo studioso tiene conto dei contributi di Cantarella (v. 766), van Grónin-
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gen (div del v. 767 ed εὐεργέτην del v. 769), Siegmann (ei μὴ del v. 768). Le parole di Sileno contribuiscono a colorire la sua solita caratterizzazione di miles gloriosus: egli sì offre come autorevole «protettore» ma, per convincere Danae ad accettare il suo aiuto, non trova di meglio che prospettarle brutalmente l’amaro destino che le sarebbe toccato se non avesse avuto questo privilegio. 21. Danae e suo figlio, in quanto ospiti in una terra straniera, necessitano di un «prosseno» (v. 768). Eschilo si riferisce a un'istituzione, la npo&evio, diffusa tra le poleis greche forse fin dal VI sec. a.C.: le città, non potendo contare su rappresentanti diplomatici permanenti all’estero, affidavano la tutela dei propri cittadini in un’altra polis a un eminente personaggio di quest’ultima, detto πρόξενος. Egli sostanzialmente, quando ne sorgeva il bisogno, diventava rappresentante degli stranieri presso il governo della sua città; in cambio degli impegni che si assumeva, era insignito di onori e di privilegi. Il temine προπράκτορα (v. 769) è un hapax, probabile sinonimo di πρόξενος; l'abbinamento di εὐεργέτης e πρόξενος
è attestato da Erodoto (VIII, 136). 22. AI v. 770 alcuni leggono un riferimento diretto a Perseo, che non è da escludere, dato il contesto: Sileno ha parla-
to con Danae offrendole la sua protezione, sembra plausibile che non trascuri di rivolgersi al bambino, se non altro per accattivarsi con un nuovo espediente la simpatia della madre. Ma il discorso si complica con l’accenno a una «nutrice (o “mamma”, o *grandmother", come traduce Lloyd-Jones?) degna di onore» e a «parole amorevoli» (o «infantili», secondo la congettura ν]ηπίοις di E. Siegmann, Die neuen Aischylos-Bruchstücke, III Δικτυουλκοί, «Philologus» 97, 1948, pp. 71-124): chi si esprime con ]nníotg προσφθέγμασι e a chi si ri-
volgono queste parole? Varie le soluzioni. a) Sileno comunica a Danae che egli si comporterà verso di lei come se la donna fosse una «nutrice veneranda», perció le parlerà con «parole gentili»; l'aggettivo ἤπιος («mite, dolce, benevolo») implica l'idea della cortesia, di solito manifestata da un superiore a un inferiore (in Omero, Il. VIII, 40 è usato da Zeus
per esprimere la sua benevolenza verso la figlia Atena, in Od. V, 12 è detto dell'atteggiamento paterno dimostrato da
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Odisseo nei confronti del suo popolo): questo significato si adatterebbe al contesto di un discorso in cui il parlante si è già presentato come «prosseno», ma stupisce il paragone di Danae, donna sola e bisognosa d’aiuto, con una balia, figura
che per tradizione è essa stessa protettrice. b) Sileno si riferisce a Perseo dicendo che il bambino a modo suo gli manifesta già simpatia; in questo caso sarebbe efficace la congettura ν]ηπίοις per dare il senso di un balbettio bambinesco al
termine προσφθέγμασι, altrimenti improbabile per definire il cicaleccio di un infante. c) Sileno parla di se stesso: in lui Danae ha trovato un prosseno, un patrono (προπράκτορα, v. 769) per se stessa e «una sorta di» (ws) balia per suo figlio, che sarà allevato con parole amorevoli. 23. Il discorso termina con un riferimento al futuro: presumibilmente Sileno vuole rassicurare Danae del fatto che la svolta positiva impressa al destino dell'eroina dal suo intervento salvifico non é una situazione temporanea e che la ritrovata serenità durerà per sempre (il futuro μενεῖ è suggerito da Lobel). 24.1 vv. 773-85 sono pronunciati da Danae, come risulta chiaramente dai vv. 779 (τεμοῦσα, participio femminile) e 780 (con l'accenno alla sorte dell'eroina gettata in mare). La donna invoca gli dei parlando delle sue sventure (v. 774); parla di κνώδαλα, dice che sarà offesa e prigioniera (vv. 775-7). Vorrebbe suicidarsi, piuttosto che correre il rischio di essere ancora abbandonata al mare con suo figlio (v. 780), ma in seguito l'amaro proposito si stempera in una richiesta di aiuto rivolta a qualcuno (Zeus) che è ritenuto il maggiore responsabile della situazione (vv. 781-5). Apparentemente il discorso di Danae é incongruo rispetto alla rhesis di Sileno che lo precede: l'eroina é in preda a una paura folle, che non sembra giustificata dal contesto. Tut-
tavia, la sua reazione alle parole del vecchio si spiega immaginando un atteggiamento ammiccante e lascivo da parte dei satiri, dal momento dell'apertura dell'arca fino alle promesse, evidentemente interessate, formulate dal loro padre. Il
comportamento protervo dei satiri verso le giovani donne è un luogo comune del σατυρικόν (cfr., p. es., Euripide, Cycl.,
179 ss.); nei Pescatori l'impressione é addirittura che Sileno e
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i suoi figli, di solito schiavi, vogliano imporre una specie di servitù erotica (cfr. v. 777 αἰχμάλωτος) alla malcapitata Danae. In questo modo, Eschilo sviluppa il topos dell’erotismo satiresco con un’invenzione originale (qualcosa di simile doveva essere rappresentato in un altro dramma del poeta, !’Amimone, dove un satiro tenta di usare violenza all’eroina giu-
stificandosi con un discorso che sostiene la subordinazione sessuale della femmina al maschio). 25. Un’invocazione a Zeus è congetturata da Siegmann, Setti e Cantarella al v. 773, mentre
altri, tra cui Steffen e
Lloyd-Jones, collocano il vocativo Ζεῦ al verso successivo; il senso non varia di molto e in ogni caso l’associazione di Zeus agli «dei della stirpe» non sorprende, se si pensa che egli è il padre di Perseo. 26. La traduzione del v. 774 accoglie, a titolo di esempio, la ricostruzione καὶ Ζεῦ τελευτ]ὰς... τιθείς di Lioyd-Jones.
27. Τὶ riferimento ai satiri come animali selvatici non è insolito; è pressoché certo che Danae stia alludendo ad essi (cfr. Sofocle, Ich., 221; Euripide, Cyci., 624), benché si serva
di un termine, κνώδαλα, che è utilizzato più spesso per indicare gli animali marini; la scelta può spiegarsi con la condizione psicologica in cui si trova la donna, appena scampata ai pericoli del mare e di nuovo in balia di altri «mostri»; altrimenti si dovrebbe supporre che Danae tema di essere gettata una seconda volta tra le onde. È probabile che i vv. 773-7 abbiano un’intonazione interrogativa; malgrado la difficoltà delle integrazioni, nessuna delle quali convince del tutto, il senso è abbastanza chiaro: l’eroina si chiede se gli dei permetteranno che patisca sventure ancora più terribili di quelle passate. 28. All'inizio del v. 778 si può supporre un verbo come èxφεύξο]μαι (Siegmann) o ἀναίνο]μαι (Kamerbeek) seguito da γοῦν (Steffen). Il verso segna l’inizio della risposta di Danae alle sue stesse domande, pervase da un terrore che sembra
eccessivo rispetto alla situazione; in realtà, proprio il senso di paura che circola nella prima parte della rhesis contribuisce a renderne più comica la conclusione: dopo il proposito del suicidio, le parole della donna prendono una piega ben diversa e meno «eroica», come d’altra parte ci si può aspettare
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dalla protagonista di un dramma satiresco (cfr. Introduzione, pp. 100-2). 29. A] v. 779 τεμοῦσα κωλυτήριον è un accostamento insolito; si puó spiegare con il ricorso all'espressione simile, e piü consueta, τέμνειν ἄκος, in cui il verbo τέμνειν, che letteralmente significa «tagliare, incidere» (anche nel linguaggio medico-scientifico, come «incidere una ferita», o «amputare»
o «tagliare erbe» per preparare una medicina, cfr. Omero, Il. XI, 844, Galeno XVI, 810, Eschilo, Ag., 849, Senofonte, An.
V
8, 18 etc.) è utilizzato in senso metaforico («trovare un rimedio», nel nostro caso «un ostacolo»). Generalmente questa costruzione di τέμνειν è accompagnata dal genitivo (cfr. p. es. Euripide, Andr., 121 ἄκος τῶν πόνων τεμεῖν): come tale si può
intendere la desinenza -ac, ciò che resta di un probabile ἀτιμίας (Kamerbeek). 30. Il significato dei vv. 780-1 è assai controverso. La traduzione segue la ricostruzione di Werre-De Haas, che acco-
glie le integrazioni di Siegmann e di Kamerbeek: ἡμᾶς δ᾽
ὅπ]ως... / ὠμῆς 6v ὀρ]γῆς ἡ πατήρ... Danae, terrorizzata dalla prospettiva di essere preda dei satiri, non ha via di scampo, poiché davanti a lei si distende solo la superficie del mare, che le ricorda il momento più doloroso della sua triste storia, quando il padre Acrisio la abbandonò alle onde. Altre soluzioni sono comunque possibili. 31. Varie sono le ricostruzioni proposte per i vv. 783-4, ma il significato complessivo è piuttosto chiaro. Danae si sta rivolgendo a Zeus (un vocativo Ζεῦ è presumibile all’inizio del v. 782): egli è il maggior responsabile delle sue disavventure e in forza di ciò la donna gli chiede di intervenire. È un atteggiamento che richiama quello di Io nel Prometeo e delle Danaidi nelle Supplici, ma qui il rimprovero è più esplicito, e il tono deciso di queste parole è in evidente contrasto con lo scoramento espresso poco prima. La traduzione segue la proposta di Gallo, art. cit., pp. 150-2, che al v. 783 accetta l’integrazione μετ]εῖχες e stacca il comparativo τῆς μείζονος da
αἰτίας, per riferirlo a un genitivo μοίρας da inserire all’inizio del v. 784, insieme a 6ixn]v: σὺ γὰρ μετ]εῖχες αἰτίας τῆς ueiCovog / μοίρας, dikn]jv δὲ πᾶσαν ἐξέτεισ᾽ ἐγώ.
32. Le opinioni si sono divise sull’emittente e sul destina-
NOTE
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tario del v. 785; ritengo che la soluzione più efficace sia attri-
buirlo ancora a Danae, che rivolge le ultime parole del suo discorso a Zeus (sono di questo parere, tra gli altri, Kamerbeek, Lloyd-Jones, Werre-De Haas). Il senso probabile di questa conclusione è: «Ti ho detto di risolvere bene l’intera faccenda...». 33. I vv. 786-801 hanno dalle tre alle cinque lettere in meno dei precedenti, rispetto ai quali sul papiro sembrano essere rientranti, dunque deve trattarsi di versi lirici, forse dime-
tri coriambici. Sulla base della somiglianza con un frammento del dramma satiresco Dioniso bambino di Sofocle, in cui
Sileno sta parlando del suo ruolo di pedagogo di Dioniso, questi versi sono generalmente attribuiti allo stesso personaggio: «Quando mi avvicino a lui dandogli il cibo, / subito mi tocca il naso, e allunga / la mano verso la mia testa pelata (τὸ φαλακρόν), sorridendo dolcemente (ἡδὺ διαγελῶν)» (fr. 171 Radt). L'ipotesi è plausibile, anche se non si può escludere l’intervento dell’intero coro; probabilmente nella parte
perduta del dramma si assisteva a una contesa nata tra Ditti e Sileno poiché entrambi vantavano dei diritti su Danae. Possiamo immaginare che Ditti si allontani per cercare rinforzi e che Sileno, insieme ai suoi figli, approfitti dell'assenza del rivale per addolcire il cuore di Danae accattivandosi la simpatia del piccolo Perseo. Il sostantivo μικκός (v. 787) è un dorismo per μικρός (ritorna al v. 813 in dativo); l'aggettivo φαλακρόν (v. 788) indica la calvizie di Sileno anche in Sofocle, /ch., 368, e in Euripide,
Cycl., 227; l'aggettivo μ]ιλτ[ό]πρεπτον (integrazione di Lobel) è utilizzato altrove da Eschilo (fr. 116 Radt, v.2) per indicare il colore rosso scuro delle more: la testa calva di chi sta parlando è così lustra (λιπαρόν) da sembrare «imbellettata»; non si può escludere però un riferimento concreto al «trucco» dei satiri, o meglio alle loro maschere, sulla scorta della testimonianza di Ateneo (V, 197 ΕἾ che parla di satiri imbellettati μίλτῳ καὶ χρώμασιν ἑτέροις. Cantarella e Kamerbeek riferiscono invece i due aggettivi λιπαρόν e μιλτόπρεπτον al fallo, costante attributo del costume dei coreuti e di Sileno, che Perseo avrebbe
iniziato a toccare scambiandolo per un giocattolo. 34. Il sostantivo πάπας (v. 789, altrove πάππας), tipico del
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linguaggio infantile, è l'equivalente del nostro «babbo» o «papà»: se è corretta questa lettura, il parlante ovviamente si sta riferendo a se stesso. AI v. 790 è probabile l'integrazione ποικιλόνωϊτος (non necessariamente in nominativo): l’aggettivo è spesso riferito al serpente, ma anche al daino, animale di cui i satiri talvolta indossavano la pelle, come segno della loro appartenenza al corteo di Dioniso (cfr. Sofocle, /ch., 225, Euripide, Ba., 111,
249); Setti invece pensa a ποικιλονοῦς, aggettivo di significato affine a πολύμπτις («molto accorto»). Ποσθοφιλής («aman-
te del pene», v. 795) allude all’interesse di Perseo per l’appariscente membro virile esibito da Sileno. 35. I vv. 799-800 sono stati spesso paragonati a un’espressione di tono analogo pronunciata dal coro nel Ciclope: «Possa morire mio padre, se dico bugie» (vv. 271-2):i satiri sono talmente codardi che, anche quando si tratta di aggiungere credibilità alle proprie parole mediante un’imprecazione, evitano di associare il loro nome alla possibilità della morte,
e chiamano in causa qualcun altro. Un’imprecazione contro Ditti è assai verosimile sulla bocca del suo rivale Sileno. Nella traduzione del v. 801 ho seguito l’integrazione di van Gròningen (ap. Werre-De Haas): μ[ὴ μεταδούς (che non cambia sostanzialmente il significato del verso rispetto ad ἀ[ποστερῶν di Lloyd-Jones). Davanti al v. 800 sul papiro si legge la nota sticometrica 0 (= 800), mentre dopo il v. 801 (sotto la prima asta della lettera n) si scorge un segno che forse è quanto resta di una paragraphos. 36. Il contenuto dei vv. 802-20 è complessivamente chiaro. . Si tratta di versi lirici nei quali é stata riconosciuta (Siegmann) la seguente corrispondenza strofica: due ferecratei, v. 805 di metro incerto, tre gliconei, tre ferecratei. Nella prima strofa (vv. 802-11) il parlante - molto probabilmente di nuovo Sileno - cerca di incantare il piccolo Perseo con parole gentili e la promessa di una vita da trascorrere serenamente insieme ai satiri, ai cuccioli degli animali del bosco, con i genitori accanto. Simile, benché più descrittivo, il tono della se-
conda strofa (vv. 812-20), il cui protagonista è il «padre» di Perseo che, oltre a provvedere alla sua crescita, gli insegnerà
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a cacciare per procurare il cibo anche alla madre (ma i vv. 815-20 presentano alcuni punti oscuri). 37.1 v. 802 ha posto la questione della lettura di divrwv come nome comune o proprio, di un satiro o di un personaggio muto; l’imperativo che lo segue («vieni») indurrebbe a credere che si tratti di un nome proprio, poiché è difficile che Perseo (forse rappresentato sulla scena da un bambolotto) potesse camminare. Tuttavia il problema si può superare considerando il termine come voce dorica di un aggettivo sostantivato (da φίλος, alla stregua di φίντατος da φίλτατος);
l'imperativo ἴθι si spiega se lo si immagina accompagnato a un gesto del parlante volto a prendere tra le braccia il bambino, al quale perciò non si chiederebbe di spostarsi da solo. 38. Tra il v. 802 e il v. 804, con un rientro di quattro lettere, si legge sul papiro la nota marginale ποππυσμός, termine onomatopeico che indica uno «schiocco con la lingua», prodotto per chiamare animali (Senofonte, Eg. IX, 10), ovvero un segno di paura (Plinio, Nat. Hist. XXVIII, 25) o di approvazione (Plutarco XL, 545c); nel nostro caso può venire da Sileno o dai satiri, con l'intenzione di tranquillizzare Perseo che ha
incominciato a piangere (v. 804); non ci sono esempi che autorizzino a ritenere che ποππυσμός riproduca il suono del pianto stesso. Sul motivo del cambiamento di umore del bambino (al v. 786 rideva) mi sembra ozioso discutere: sono pochi 1 suoni che un infante è in grado di emettere e il pianto è uno dei più frequenti! 39. Il v. 805 rafforza l’idea che il parlante sia Sileno, in
quanto παῖδας non può riferirsi ad altri che ai satiri, suoi figli (come tali egli li definisce ripetutamente nel Ciclope: cfr. vv. 36, 269 e nei Cercatori, v. 47). In fine di verso la traduzione
segue la congettura τάχιστα (E. Fraenkel, New Texts and Old Problems, «Proceedings of the British Academy» 1942, pp. 237-58). 40. L'aggettivo εὐμενής (v. 807) indica di solito uno stato d'animo benevolo nei confronti di qualcuno che si trova in una condizione di inferiorità o di debolezza (p. es. Eschilo, Suppl., 686); Sileno, per conquistare Perseo e lusingarlo, gli si rivolge con un atteggiamento falsamente umile, come se si stesse ponendo al suo servizio.
204
PESCATORI CON LA RETE
41. La forma ößpıa («cuccioli») riportata da Eliano (Nat. an. VII, 47) con riferimento ai Pescatori ha causato il sospetto che in ὀβρίχοισι la y sia un errore; Fozio (Lex. II, 2 10) accanto a ὄβρια presenta la variante ὀβρίκαλα, citando sia que-
sto dramma satiresco, sia l’ Agamennone (v. 143); ὄβριχος può anche essere spiegato come diminutivo («dorico», Lobel), che segue il modello di forme come ὀρτάλιχος da ὀρταλίς
(«piccolo uccello, pulcino», Ag., 54). 42. Alv.811 π]ατρὶ τῶδε è Sileno stesso, sicuro della riuscita
del suo piano di convinzione e del futuro al fianco di Danae. La paragraphos che si vede sul papiro dopo il v. 811 può indicare la fine della strofe, non necessariamente un cambia-
mento di parlante. 43. Quella che attende Perseo è un'educazione «satiresca» in piena regola: forse in questa direzione va cercato il significato dell'aggettivo yeA[oi]a («cose che fanno ridere», v. 813). 44. Uno dei problemi dei vv. 815-6 è il significato transitivo o intransitivo del participio ἄλδων, forma altrove sconosciuta, ma ricollegabile ad ἄλδομαι («crescere»), ἀλδήσκω («crescere» o «far crescere»), dAdaivo («far crescere»). Non minori dubbi suscita χαλᾷ al v. 816; accogliendo l'ipotesi di van Gróningen e Werre-De Haas, la traduzione considera il termine come forma dorica del dativo di χηλή («unghia, zoccolo»): Sileno (o il coro), in questa figurazione fantasiosa dell'avvenire di Perseo, immagina che il piccolo possa imparare a cacciare come fanno i satiri (dotati di zampe di capra), «con l'unghia della zampa di cervi cacciatrice» (χαλᾷ veBpooóvo[v] ποδός), senza lancia (S[opóc, v. 817, Lobel). Un'altra ipotesi (formulata da Lloyd-Jones e altri) considera χαλᾷ come verbo intransitivo costruito con il genitivo (da xoAóo, «diminuire, attenuare») e riferito a Sileno, suggerendo una traduzione del tipo: «(quando un giorno) diverrà debole il passo cacciatore di cervi» (G. e M. Morani, op. cit., p. 641). 45. A] v. 818 il dorismo 0660801 è la terza parola (cfr. n. 41) di questo dramma tramandata anche indirettamente (da Esichio, Lex. 0 1024 Latte).
46. Il significato dei vv. 819-20 è oscuro; κηδεσταί sono generalmente i parenti acquisiti attraverso il matrimonio, dunque in questo caso dovrebbe trattarsi dei satiri, che divente-
NOTE
205
ranno familiari di Perseo, quando Sileno avrà sposato sua madre. Maggiori difficoltà sono suscitate dall’aggettivo #]vtporog (sembra l'unica integrazione possibile) e dal verbo πελατεύεις, sconosciuti altrove: ἔντροπος potrebbe ricollegarsi al verbo ἐντρέπομαι («volgersi, avere rispetto o cura, preoccuparsi») e al sostantivo ἐντροπή («pudore, rispetto, vergogna»); non è escluso però che ἔντροπος sia un errore per ἔντροφος (E. Harrison, Oxyrhynchus Papyri, «Classical Review» 57/58, 1943, I, pp. 19 ss.), «che vive (in), allevato (in)»;
πελατεύω può essere interpretato in relazione a πελάτης, ma il significato di questo aggettivo va da un generico «colui che è vicino, che abita vicino» (Eschilo, Pers., 49; Sofocle, Phil.,
1164) a un più specifico «dipendente, servo salariato» (Platone, Euthyphr., 4c). Di qui la traduzione di Morani (op. cit., p. 641: «tu darai da mangiare alla mamma, come i suoi parenti,
che tu servirai da adulto»); suona tuttavia piuttosto strano che Sileno - non dimentichiamo lo scopo del suo discorso - dopo aver esaltato la vita «naturale» e serena che attende Perseo,
smorzi il suo interesse prospettandogli future responsabilità e doveri. Per questo motivo ho preferito una traduzione piü generica. 47. Gli anapesti trionfali dei vv. 821-32 sono attribuiti al coro (magari diviso in due parti) o al coro e a Sileno (come potrebbe indicare la paragraphos sotto il v. 826); essi rappresentano un concitato invito a disporre i preparativi per nozze imminenti. Il tono dolce e suasivo delle parole indirizzate a Perseo lascia il posto all'espressione di una vitalità esuberante e sicura del proprio fascino; l'attenzione dei satiri è ora rivolta interamente a Danae, ormai dipinta senza troppi riguardi come una «vedova» (v. 828) desiderosa d'amore. 48. L'espressione καιρὸς ἄναυδος (lett. «momento opportuno privo di voce», al v. 823 forma un efficace ossimoro con il verbo ἐπαινεῖ) è cara a Eschilo (cfr. p. es. Suppl., 180, Theoroi, 20).
49. Malgrado Danae non abbia espresso alcun consenso alle proposte di Sileno e dei suoi figli, i satiri interpretano il suo silenzio non solo come accettazione di quanto le è stato prefigurato, ma addirittura come segno di entusiasmo: secondo loro il desiderio di un uomo è naturale per una donna ri-
206
PESCATORI CON LA RETE
masta così a lungo sola e prigioniera di un’arca in balia delle onde. 50. L'integrazione δαισὶν del v. 832 è di Lobel; i satiri si riferiscono alle luci che accompagneranno la cerimonia nuziale. 51. Questa ipotesi per la scena finale del dramma pone di nuovo il problema del numero degli attori; se nella scena ini-
ziale si può fare a meno di ipotizzare la presenza contemporanea di Ditti, Danae e Sileno, pare impossibile escluderla alla conclusione della vicenda, quando Ditti dovrebbe trion-
fare sui satiri, così come è difficile non mento dell’apertura dell’arca, un brano possediamo, ma immaginiamo tra i più spettatori. Una notizia riportata da un
ammetterla al modell’opera che non emozionanti per gli βίος anonimo attri-
buisce a Eschilo l’introduzione del terzo attore, contro la no-
ta testimonianza di Aristotele (Poer., 1449a 16) che l’assegna a Sofocle; d’altro canto il terzo attore non sembra necessario in nessun’altra scena satiresca sopravvissuta. L’incertezza è destinata a rimanere tale, a meno che non si superi questa difficoltà immaginando che, almeno in alcuni drammi, il personaggio di Sileno coincidesse con quello del corifeo.
SOFOCLE
CERCATORI DITRACCE
314 «ΠΟΛΛΩ͂Ν
[
[
Inertaf
[
col. I
12
16
[ [ [
Jef
]ievol £]neccóo[nv
ca.181.
Ἴγ{..1λ{ Jet ἢν ἀγγέλλω [Blporolic
[ ca. 19 ll. Ἰχνοῦμαι τελεῖ[ν [ ca. 191]. à ]nónpoOev: [....]ov[............. Ἰλοφον φρενὶ LLTO[ Blode ἀμολγάδας [...]Àovc[............. Ja πορτίδων [ἅπαϊντα dp[odsa ....... ]v ἰχνοοκοπῷῶ [λαθ]ροῖ᾽ ἰόν[τ.... βου]οτάθμου κάπης
[...]v@c τεχνῃ.[..... ἐ]γὼ οὐκ ἂν φόμην [οὔτ᾽ à]v θεῶν τιν᾽ οὔτ᾽ ἐφημ]έρων βροτῶν [öpäcjoı τόδ᾽ ἔργ[ον ...] πρὸς τόλμαν neceiv. [.....] οὖν ἐπείπερ [..1θον ἐκπλαγεὶς ὄκνῳ [ςκοπ]ῶ, ματεύω, παντελέο κήρυγμ᾽ ἔχων
20
[θεοῖ]ς βροτοῖς τε μηδέν᾽ ἀγνοεῖν τάδε. [.....]v8iq γὰρ ἐμμανὴς κυνηγετῶ" [.....]ov δ᾽ ἐπήλθ[ο]ν 0[0]Aa 1[09] παντὸς οτρατίοῦ
(La scena è nell’Arcadia settentrionale, sul monte Cillene; l’edificio scenico rappresenta prati, rocce e alberi; sullo sfondo si vede una caverna.) 314 APOLLO! (...) Mi sono precipitato? (...) lancio un bando ai mortali (...) prometto che pagherò una ricompensa a chi mi riporterà la mia mandria Vacche da latte (...) vitelli (...) vedo le loro impronte, ma sono spariti tutti, sono usciti senza che me ne accorgessi, con un inganno, (...) dalla mangiatoia della stalla. Non avrei mai creduto che un dio o un mortale potesse compiere questa impresa (...) arrivasse a tanta audacia. (...) sbalordito, nell’incertezza, osservo, ricerco, e intanto emano un proclama in piena regola‘ per gli dei e gli uomini: nessuno deve ignorare il fatto. (...) vado a caccia come un pazzo; (...) ho attraversato tutti i popoli (...)
210
soFocLE
[.....]rtef
ca. 20 Il.
1
desunt versus quattuor 28
[
[ [
[ 32 col. II
36
IM
LI.Jue..{ ]a BeccaAsv
] Βοιωτίας τε γίῆς
[
Iradl.(.).Iv{
deest versus unus
[e hov’evol | fia xo Evp[.]Ja.[ [....... KurlAnvne te dulce [......... 7. χῶρον, £c δ᾽ ὑλί [...«ὐποι]μὴν eic aypwernl ιμαριλοκαυ.τῶν ἐν λόγῳ παρί
[......]etov νυμφογεννή[τ [.....]v tic ἐςτι, πᾶσιν ἀγγέλίλω [....].pa τοῦ Παιῶνοο ὅοτιο af
[....]. τὸ χρῆμα, μιοθός &c0' ὁ Keltuevoc. [....]cov φώνημα τὼς ἐπέκλυον
[βοῶϊντος ὀρθίοιοι οὖν κηρύγμαςίιν, 48
[ο]πουδῇ τάδ᾽, Tj napecrı πρεοβύτη[ι [c]ot, Φοῖβ᾽ Ἄπολλον, προοφιλὴς εὐε[ργέτης θέλων γενέοθαι τῷδ᾽ ἐπεοούθην öp[ölkoft,
ἄν πῶς τὸ χρῆμα τοῦτό cot kuvnylelco.
[6] γὰρ γέϊρα]ο μοι κείμενον yp[v]eo[c]tedèe μά[λι]οτ᾽ erl.....Jorcl..]pöchec.l........ ]v. roidac ó&.[..]c óccoto...]otee [. ]BAL.. 7ῳ [......] [lv εἴπερ ἐκτε[λ]εῖς ἅπείρ] λέγεις C_SATITO [........ luca μοῦνον ἐμπ[ζέδου τ]άδς. 56 _ «CI» tal.......... 7οι΄ cò δ᾽ ἐμπέδουν [δόοσι]ν. «AIT» [............ ]p£v öctıfc] £[c]0 ἑτ[οἴμ]α o[&. _ «CI m[............ Τιουγ[.]ε{.Ἰζητί «ATI.» [..... ]c8oc[ col. III deest versus unus «ATI.» [...]zeof .. «CI» τί τοῦτο; m ó[C................ leıc; _ «AIL.» ἐλεύθεροο cv[................. ]ov. 52
CERCATORI DI TRACCE
211
(...) dei Tessali (...) della Beozia (...) la terra dorica? (...); eccomi ai luoghi impervi di Cillene, (...) alla terra, alla foresta? (...) se c’è un pastore, un contadino, carbonai, figli delle ninfe chiunque siano, a tutti an-
nuncio: chi portera? (...) di Apollo (...) la ricompensa è qui, pronta.’ (Appena Apollo ha pronunciato il bando, entra di corsa Sileno.) SILENO
(...) appena ho sentito la voce che gridava con
un bando solenne, con la velocità di un vecchio, da
te, Febo Apollo, mi sono precipitato di corsa: ti sono amico e voglio farti un favore, se per caso ti risolverò questa caccia. Infatti il premio in palio per me, con un bel gruzzolo d’oro, incita me e incita i figli, (...) se davvero manterrai ciò che dici.!? APOLLO Ti darò la ricompensa. Ma tu devi mantenere il tuo impegno. SILENO Ti riporterò le vacche;!! ma tu devi darmi il dono. APOLLO Per chi le ritroverà, chiunque sia, il premio è qui: è pronto. (Apollo comunica a Sileno che, oltre al dono stabilito,
lui e i suoi figli, i satiri, avranno la libertà.)!° SILENO Che cosa dici? (...) APOLLO Tu sarai libero e insieme a te i tuoi figli.? (In un momento imprecisato, forse mentre Apollo e Sileno stanno ancora conversando, fanno il loro ingresso in scena i satiri, correndo e ballando.)
212
65
SOFOCLE
XO(POC) CATY(PON) πόδα Bol.............. ]v
ἴθ᾽ ἄγε δί non plus 16 11. ]
ἀπαπαπί non plus 151]. 68
ὦ ὦ, c£ tot { ἔπιθι κλωπί ὑπόνομα κί διανύτων ó[
non non non non
plus plus plus plus
14 13 15 14
] ll. ] Il. ] Il. ] Il. ]
πατρικὰν yrip[ov non plus 12 11.] 72
76
| mc πᾷ τὰ λάθρι[α non plus 9 Il.] κλέμματα xocci.[ non plus ὃ Hi. ] εἴ πως, Gv τύχω, ro.[non plus 8 11.]
πατρί τ᾽ ἐλεύθερον DI..]..uef.] ξὺν ἅμα Beoc ὁ φίλος ἀνέτω πόνουο, προφήνας apitndo - χρυοοῦ πα[ρ]αδείγματα.
ΓΙ. θεὸς Τύχη [κ]αὶ δαῖμον ἰθυντήριε, 80
84
col. IV 88
cuy[eTiv με rpdyove οὗ δράμημ᾽ ἐπείγεται, λείαν, ἄγραν, coAnerv ἐκκυνηγέοσαι ΦΙο]ίβου xA[o]ratac βοῦο ἀπεοτερημένοίυ. [τ]ῶν εἴ τις ὀπτήρ ἐςτι[ν] ἢ κατήκοοο, [ἐ]μοί 7 [d]v [ε]ΐη προοφιλὴ[ς] φράσας τόδε [Φοίβῳ 7 ἄνακτι παντελὴς εὐεργ[έ]τηο. [....... laf..]2[..]JercovRol..].. qual μήηννυί «ΧΟ.» ἰὼ ol
ünol δ᾽ οὐδ 92
«CL» dnetv τις; .[ ξοικεν ἤδη κί
ἄγ᾽ εἶα δὴ πᾶς ..[ ῥινηλατῶν ὀοσμί αὔρας ἐάν πῇ πρί non plus 15 Il. ] 96
διπλοῦς ὀκλάζωϊν ............. ]v
ὕποομος ἐν χρῷ .[ non plus 15 Il. ] οὕτως ἔρευναν καὶ q[........... 1.
_ ἅπαντα XPNCTÄ koi .......... ]λειν.
CERCATORI DI TRACCE
213
coro!‘ Via, forza (...) il piede, il passo. (...)!5 ahi, ahi!(...) oh, oh, ehi tu (...)
addosso al ladro (...) sottoterra (...) compiendo (...) la voce di mio padre (...) come, in che modo la nascosta (...) refurtiva con i piedi (...) se mai, qualora riesca (...) insieme al padre mio farò una vita libera (...) e al nostro fianco l’amato dio allevii la fatica, lui che ha mostrato le abbaglianti promesse dell’oro. SILENO Divina Sorte e demone che indichi la retta via!5, fa’ che io abbia successo nell'impresa a cui si lancia la mia corsa, che io rintracci il bottino, la preda, la refurtiva sottratta a Febo, derubato delle sue
vacche. Se qualcuno le ha viste o sentite, dicendomelo mi sarebbe amico e a Febo, signore, rendereb-
be un gran servizio (...) coro ἘΠῚ (...) (I satiri si fanno avanti per partecipare alla caccia.) SILENO
C'é qualcuno che parla? (...) Ormai è il mo-
mento che io dia inizio all’azione! Allora, su, forza
(...) ciascuno (...) annusando, se da qualche parte (...) ’odore (...) piegati in due? (...) guidati dal fiuto, con le narici a terra (...) così la ricerca si conduca a termine e vada tutto bene.? (1 coreuti si dividono e incominciano a cercare le tracce degli armenti in più direzioni, comportandosi come se-
gugi.)
214
100
SOFOCLE
«ΧΟ.»- θεὸς θεὸς θεὸς θεός: ἔα [
1
_ ἔχειν ἔοιγμεν’ ἴοχε, μὴ evp[...]. tet. _- ταῦτ᾽ ἔοτ᾽ ἐκεῖνα“ τῶν βοῶν τ[ὰ] βήματα. _- ciy[a]: θεός τις τὴν ἀποι[κία]ν ἄγει. ? T T x , , 104 --τί δρῶμεν, ὦ τᾶν; n τὸ δέον [..]ήνομεν; .. 7 τί; τοῖς] ταύτῃ πῶς δοκεῖ; - δοκεῖ πάνυ: cadóá[c γ]ὰρ αὖθ᾽ £xacto οημαΐνει τῇς. ἰδοὺ ἰδού’ 108 καὶ τοὐπίοημον αὐτὸ τῶν ὁπλῶν πάλι[ν. - ἄθρει μάλα. _ αὔτ᾽ ἐστι τοῦτο μέτρον [ἐ]κμεῖ...1.[.1.0[.1.
- x{®]per δρόμῳ καὶ ταί........ ...].V ἔχου 112
ol V
[...]oyu[..... [.............. Ἵμενος
ῥοίβδημ᾽ ἐάν τι τῶν [......]. οὖς [ - οὐκ εἰορακούῳ...[...]οτου φθ[ἐγματοο.
ἀλλ᾽ αὐτὰ μὴν ἴχ[νη τε] χὠ ςτίβος τάδε 116
κείνων ἐναργῆ τῶν β[ο]ῶν μαθεῖν πάρα. £a μάλα᾽
παλινοτραφῆ τοι yoi μὰ Ata τὰ βήματα
εἰς τοὔμπαλιν δέδορκεν. αὐτὰ δ᾽ εἴοσιδε. 120 τί ἐςτὶ τουτί; τίς ὁ τρόχος τοῦ τάγματίος; εἰς τοὐπίοω τὰ npócOev ἤλλακται, τὰ δ᾽ αὖ ἐναντί᾽ ἀλλήλοιοι coup[eBAn]péva: _ δεινὸς κυκηομὸς eiy[e τὸν βοη]λάτην.
124 «Cl» τίν᾽ αὖ τέχνην οὐ τήν[δ᾽ ἄρ᾽ ἐξ]ῆνρες, τίν᾽ αὖ, πρόοσπαιον ὧδε κεκλιμ[ένος] κυνηγετεῖν πρὸς γῇ; τίς ὑμῶν ὁ τρόπος; οὐχὶ μανθάνω’ 128
[E]yivoc ὥς τις £v λόχμῃ κεῖσαι πεοών, [ἢ] tie πίθηκος κύβδ᾽ ἀποθυμαίνειο τινί.
[τ|ί ταῦτα; ποῦ γῆς ἐμάθετ᾽; £v nolilw τόπῳ;
CERCATORI DITRACCE
215
CORO - Dio, dio, dio, dio! Oh! (...)??
Sembra che l'abbiamo; fermati, non (...) — Eccole qui: sono le impronte delle vacche. — Silenzio: un dio guida la colonia.” — Che dobbiamo fare, mio caro? Abbiamo compiuto il nostro dovere? — Allora? Che ne pensano quelli di questa zona? — Sembra proprio che ci siamo. Queste impronte parlano chiaro. Non c'é dubbio. Guarda! Guarda! Ecco ancora l'impronta degli zoccoli. — Aguzza la vista. — E proprio questa la misura (...) — Vai di corsa e (...) aprendo le orecchie,? se per caso un fischio (...)? — Non sento (...) rumore. Ma qui ci sono proprio le tracce, queste sono le impronte delle vacche: si vedono chiaramente. Ohibó! Per Zeus, le impronte sono alla rovescia, guardano
in direzioni opposte: osservale bene. Ma che storia è questa? Come correva la mandria? Le impronte anteriori sono rivolte all’indietro, e le altre poi sono confuse tra loro in direzione opposta. Al mandriano doveva girare la testa. (Si sente un κιθαρισμός, che sembra provenire dal sottosuolo. Seguendo una nuova buffa coreografia, i satiri si dispongono con il muso a terra e la coda in aria.) SILENO Che sistema è mai questo? Che modo hai escogitato per cacciare, all’improvviso tutto curvo, steso a terra? Che metodo usate? Non lo capisco. Te ne stai a terra come un riccio in un cespuglio,’ anzi, come una scimmia a testa in giù fai aria contro il primo che passa.?’ Che significa questo? In che parte del mondo l’avete imparato? In che razza di posto?
216
SOFOCLE
ein]unvar οὐ γὰρ ἴδρις εἰμὶ τοῦ τρόπου.
«XO» ὕ [9] ὕ ᾧ. 132
«CI.» fu... ] tiva φοβῇ; τίν᾽ eicopäc; T1........ le; τί note βακχεύεις ἔχων;
a[........]. κέρχν[ο]ς ipeipei[c] μαθεῖν _ Ti... ἰοιγιᾶτ᾽, ὦ πριὸ tod; [......]otou 136
_ «KO» c[non plus 9 1l.] «CI a[.......... ]vanovoc[...]e1c£ xov. .. «XO» Alkove δή.
col. VI
_ «CI» καλῶς ἀκούο[ομ᾽ οὐδεν]ὸς φωνὴν κλύων.
140
. XO. ἐμ[ο]ὶ πιθοῦ. _ «CI» éu[.Jéicl[......... ].&c Ovricete. «ΧΟ.» ἄκουοον αὐτὸς vü[v, πάτερ, χρόνον τινὰ
ιοἵῳ πιλιαγέντεο ἐνιθάδ᾽, ἐξενίςμεθα _ ψόφῳ, τὸν οὐδεῇ]ς n[Gno]c ἤκουσεν βροτῶν. «CIL» τί poi ψζόϊφον; $of[...]. καί.] δειμαΐνετε μάλθης ἄναγνα co[ua]t ἐκμεμαγμένα κάκιοτα θηρῶν ὀνθί..]ν [n]acn crd 148 φόβον βλέποντεο, πάνίτα] δειματούμενοι, 144
ἄνευρα κἀκόμιοτα κἀγε[λε]ύθερα διακονοῦντες, cda eilchöleliy μόνον καὶ y]A@cca καί] φάλητεο. εἰ δέ που δέῃ, 152
156
πιςτοὶ λόγοιοιν ὄντες ἔργα φεύγετε, τοιοῦ[δ]ε πατρός, ὦ κάκιοτα θηρίων, οὗ πόλλ᾽ ἐφ᾽ ἥβης μνήματ᾽ ἀνδρείας ὕπο x[e]Jitar παρ᾽ οἴκοις νυμφικοῖς ἠοκημένα, οὐκ εἰς φυγὴν κλίνοντος, οὐ δειλ[ο]υμένου,
οὐδὲ ψόφοιςι τῶν ὀρειτρόφων βοτῶν [n]triccovtoc, ἀλλ᾽ alıyluaicıv ἐξει[ρ]γαομένου [ἃ] νῦν ὑφ᾽ ὑμῶν λάμ[πρ᾽ ἀϊπορρυπαίνεται 160
[ψ]όφῳ νεώρει κόλακ[ι!] ποιμένων π[ο]θέν. [..].n φοβεῖοθε παῖδες dc πρὶν eicıdeiv, πλοῦτον δὲ χ[ρ]υοόφαντον ἐξαφίξτε,
ὃν Φοῖβος ὑμῖν εἶπε κ[ἀϊνεδέξατο, 164 :ol. VII
καὶ τὴν ἐλευθέρωσιν ἣν kamvecev ὑμῖν TE κἀμοί᾽ ταῦτ᾽ ἀφέντες εὕδετε.
CERCATORI DI TRACCE
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Datemi spiegazioni, perché non ci capisco niente. coro Uh, uh, uh, uh! SILENO (...) Di chi hai paura? Chi stai guardando? (...) Perché continui a fare il pazzo? (...) Vuoi assaggiare il mio bastone? Perché (...) tacete (...)? CORO Zaci! SILENO Da chi stai cercando di scappare??? CORO Ascolta. SILENO Bell'ascolto: non sento la voce di nessuno. CORO Dammi retta! (Sileno continua a non sentire niente e protesta.) CORO Ora ascolta un momento anche tu, padre, quale. rumore ci ha sorpresi e spaventati: nessuno dei mortali lo ha mai udito. SILENO Che mi importa di un rumóre?? (...) avete solo una gran paura, spudorati, pastefrolle, tra le bestie siete i piü vigliacchi: la vostra ombra vi spaventa,’! tremate davanti a tutto, come servi siete smidollati, negligenti, meschini, e a vedervi solo carne,
lingua e fallo.? Se c’è bisogno di voi, a parole siete fidati, ma la fatica la scansate. E siete figli miei, be-
stiacce: sono tanti i trofei di vigore giovanile che vostro padre ha innalzato a casa delle ninfe, io non batto in ritirata, non ho paura, non mi rannicchio al
verso degli animali di montagna, anzi, combatto con le armi in pugno.? Ora queste brillanti imprese voi le infangate, per un canto nuovo di pastori, una ninna nanna” che viene da chissà dove. (...) avete paura prima di vedere, come bambini, e lasciate perdere la ricchezza, tutto l’oro che Febo vi ha detto, per cui si è impegnato, e la libertà? promessa a voi e a me: buttate via tutto questo e dormite.
218
SOFOCLE
ei μὴ νανοοτήοαντεο ἐξιχνεύοσε[τε τὰς βοῦς ὅπῃ βεβᾶοι καὶ τὸν βουκόλοίν, 168
_ κλαΐοντεο αὐτῇ δειλίᾳ ψοφή[ο]ετε. «ΧΟ.» πάτερ, παρὼν αὐτόο με ουμποδηγέτε[ι,
iv εὖ κατείδῃς εἴ τίς gen δειλία: - yvocnlı] γὰρ αὐτός, ἂν παρῇς, οὐδὲν λέγωϊν. 172
«CI.» ἐγὼ πα[ρ]ὼν αὐτός ce προςβιβῶ λόγῳ,
κυγορτικὸν copryua διακαλούμεν[ος.
ἀλλ᾽ Ei [ἐϊφίοτω τριζύγης οἵμου Bácw: 176
ἐγὼ δ᾽ ἐν ᾿ [É]pyotc παρμένων c ἀπευθυνῶ. XO. ὑὐδύ, ψν, da. λέγ᾽ ὅ τι noveic.
τί μάτην ὑπέκλαγεο, ὑπέκριγεο, ὑπό μ᾽ ἴδες; ἔχξται ἐν πρώτῷῳ tic ὅδε τροπί 180
ἔχει. ἐλήλυθεν, ἐλήλζυθεν.
ἐμὸς εἶ, ἀνάγου.
184
188
91. VIII 192
δευτέρῳ τίς ὅδε .[....].tnc ὁ Δράκις, ὁ Γράπιο, [non plus 6 litt.] [O]ópioc, Odpiac, aó[......]ketc tapépne: MeOv[non plus 11 litt.] ὃ τι ποτεφερε! ........ 7 Ἐν ἔποχον ἔχει τι[ποη plus 13 litt.] cti Boc Ödeve.[non plus 12 litt.] Οτράτιος, Crparfioc ........ Τν[..]} δεῦρ᾽ Erov’ τί.]δρί 1 ἔνι BloJüc, ἔνι xovo[ μὴ μεθῇ κρ[.]κὶ.
οὐχὶ καλ[ὸ]ν Erıöl ὅδε γ᾽ ἀγαθὸς ὁ Tpel κατὰ νόμον ἕπετα[ι 196
ἐφέπου, ἐφέπου μ.1 ὀπποποῖ᾽ è μιαρέ, ye[
CERCATORI DITRACCE
219
Ma se non tornate” a seguire le tracce delle vacche, per vedere dove sono finite, loro e il pastore, il
rumore lo farete voi, piangendo proprio per la vostra viltà. CORO Padre, stammi vicino e guida i miei passi, per capire se davvero si tratta di viltà: così vedrai tu stesso, se assisterai di persona, che non c’entra niente quel che dici. SILENO Assisterò di persona e ti rassicurerò con le mie parole, fischiando come si fa per sguinzagliare i cani. Forza, dài? Prendi il tuo posto sui tre sentieri;
10 sarò presente e ti indicherò la strada. coro
Uh, uh, uh, ps, ps, ah, ah. Di’, che sforzo stai facendo! Perché gemi, strilli senza scopo,
mi guardi storto? È preso (...) nel primo chi (...) ce l’ha. È arrivato, è arrivato. Sei mio, arrenditi.
Per secondo chi (...) Drachis,*' Grapis (...)? Urias, Urias (...)* hai sbagliato strada; sei ubriaco?* (Proseguono i reciproci avvertimenti dei satiri.) (...) 'impronta (...) Stratios, Stratios (...)? vieni qua (...) ecco le vacche (...) non mollare Krokias* (...) non hai visto che bellezza (...) questo si che è bravo Trechis (...)" va a caccia come si deve (...) insegui, insegui (...) ohibò! sciagurato (...)
220
SOFOCLE
ἦ τάχ᾽ ὁπόταν ἀπίη[ις 200
ἀπελεύθερος dv oA.[ ἀλλὰ μὴ παραπλακί £n[1]8' [E]rey εἴοσιθ᾽ ἴθι
1[.]6€ πλάγιον ἔχομ|εν πάτερ, τί οιγᾷο; μῶν ἀληθίὲς εἴπομεν;
204 . οὐ[κ ε]ϊσακοζύε]ις; ἦ κεκώφη[οαι _ «(]. £g. «XO»
τὶ ξςτιν; _ οὐμενῶ. «XO» μέν᾽, eli] θέλειο. «CI» οὐκ ἔςτιν. ἀλλ᾽ αὐτὸς οὐ ταῦθι᾽ ὅπῃ θέλεις;
ζήτει τε κἀξίχνευςξ καὶ πλοῦ[τ 208
τὰς βοῦς τε κα[ὶ] τὸν xpucóv [
Jef.]
_ μὴ merer..Jen.[.].{..Jac[]ypovov. «ΧΟ.» ἀλλ᾽ οὔ τι ul... ]ul οὐδ᾽ ἐξυπελθίετ]ν τί 212 . εἰδῶμεν ὅς[τιο].
φῶς
Ἰὼ y.[ φθέγιμ᾽ ἀφύοεις, [......]ov [1ηδΓ il, DX
_ 9o[..]óuotctv ὀλβίοῃο.
ὁ[..]0 dav.{..]ertorcwv. ἀλλ᾽ ἐγὼ τάχα φ[έρ]ῳν xro[1]ov πέδορτον é&avaykáco 220
rlnlönnacıv κραιπνοῖσι καὶ λακτίομαοιν _ ᾧ[ο]τ᾿ zicakoücaı kei λίαν κωφός τις T.
«KYAAHNH > θῆρες, τί [τόϊνδε χλοερὸν ὑλώδη πάγον Éy[0]npov ὡρμήθητε cov πολλῇ βοῇ; τίς ἥδε τέχνη; Tic μετάοταοσιο πόνων, 224
ode npöchev εἴχες δεοπότῃ χάριν φέρων,
CERCATORI DI TRACCE
221
appena te ne andrai (...) libero (...) ma non andare fuori strada (...)'* incalza, tieni duro, avanti, vai (...)
abbiamo di fianco (...)* (Un altro κιθαρισμός interrompe la caccia, questa volta anche Sileno lo avverte e si spaventa.) Padre, perché stai zitto? Non abbiamo detto la verità? Non senti? Sei diventato sordo? SILENO Ahi! CORO Che c’è? SILENO Non resto. coro Resta, se vuoi.
SILENO Impossibile. Ma tu fa’ come vuoi, continua a cercare, fiuta le tracce e diventa ricco (...) prendi le vacche e l’oro (...) (Sileno dichiara che non ha intenzione di rimanere ancora e si ritira dalla caccia mentre il coro rumoreggia davanti alla grotta.)” CORO (...) né uscire (...) in modo che sappiamo chi abita qui.” Ehi! (...) emetterai una voce (...) (...) Ma adesso io farò tremare la terra, a furia di saltare e scalciare” lo costringerò a sentire, anche se è
sordo. (La ninfa Cillene compare intimorita all'ingresso della grotta.) CILLENE”“ Bestiacce, perché vi siete spinte con tanto fracasso su questo colle verde di boschi, pieno di animali? Che cos’è quest'attività, questo cambiamento rispetto alle fatiche che affrontavi prima, per compiacere il tuo padrone?” Sempre ubriaco, ve-
222
SOFOCLE
v..1voc αἰεὶ veßpivn Kaßnunevlolc
δορᾷ xeploliv re θύρο[οἱ]ν εὐπαλῆ φέρων
228
232
236
ὄπιοθεν εὐίαζες ἀμφὶ τὸν θεὸν οὖν ἐγγόνοις νύμφαιοι καϊπόλων ὄχλῳ; νῦν δ᾽ ἀγνοῷ τὸ χρῆμα. ποῖ οτροφαὶ νέᾳι μανιῶν crp&dovcı; θαῦμα yàp xatékxA[v]ov ὁμοῦ πρέπον κέλευμά πῶς κνυγηγετ[ὧ]ν ἐγγὺς μολόντων Onpóc εὐναί[ου] tpol.Inc, ὁμοῦ δ᾽ avavııl..].. Baceopl...].C)L.. ] γλώσοῃο ἐτειν.[..]1ὸ κλοπὴν [.....].évavu
αὖτις δ᾽ α[....7τ[....].. μανῶν [........ Jo enpuxl..]..1[.....]}. enpvyna [ καὶ τα]τ᾽ ἀφεῖοα ... ποδῶν λακί
[κ]Ἰληδὼν ὁμοῦ πάμφυρί[τ]᾿ Eyertvli [...] ταῦτ᾽ ἂν ἄλλως ἢ κλ[.]..μ[ 240
col. X
[....]ov ἀκοζύ]ρας᾽ ὧδε παραπεπαιομέν[ -[.--]0-[.]n[.].... vov ὑμᾶς voceiy > vo[......... Ἰνετιποειτ᾽ ἀναιϊιτίαν. XO. νύμφη βαθύζωνεπ.[
1006" οὔτε γὰρ νεῖκος n[ δά[ο]υ μάχας οὐδ᾽ a&evo[ YAlölccav μάταιόο 1f
μή με μὴ προψαλί 248
ἀλλ᾽ [εὐπετῶς μοι πρί
μ᾽ ἐν [τ]όποις torcl[
οτῶς ἐγήρυςε θέσπιν αὐδάϊν. «KY» ταῦτ᾽ Ect’ ἐκείνων νυμί 252
καὶ toicde θηρῶν £xro[ ἀλκαομάτωον öl....].[ νύμφης“ ἐμοὶ γὰ[ρ..1. ὀρθοψάλακτον δνί[.1...[..«1γ{
256
ἀλλ᾽ ἥουχος πρόφαινε καὶ u[..]..{ _ ὅτου μάλιοτα πράγματος χρείαν ἔχεις. «ΧΟ.» τόπων dvacca τῶν[δ]ε, Κυλλήνης οθένοο,
ὅτου μὲν οὕνεκ᾽ ἤλθ[ο]ν, ὕοτερον φράσω: 260
τὸ φθέγμα δ᾽ "iiy τοῦ[θ0 ὅπερ φωνεῖ φράςον
_ καὶ tic ποτ᾽ αὐτῷ δι[α]χαράοσεται βροτῶν.
[ςτρ.
CERCATORI DI TRACCE
223
stito di pelle di cerbiatto, il tirso leggero tra le mani, gridavi evoè nel corteo del dio, con le ninfe della
stessa stirpe,? e il gruppo dei caprai; ora invece non capisco che succede: dove vi trascina” l'insolito vortice della follia? Ho udito una stranezza, un ri-
chiamo simile a quello dei cacciatori che si avvicinano ai cuccioli di una belva, nella loro tana, e con-
temporaneamente (...) furto (...) e ancora (...) un proclama (...) e lasciando perdere questo (...) calpestio e insieme una voce si avvicinava nella confusione (...) questo (...) avendo sentito che siete così impazziti (...)€ siete malati (...) che cosa farete a una ninfa innocente. CORO Ninfa dalla bella cintura (...)® non ti portiamo ingiuria (...) di ostile contesa né offensivo (...) parole sconsiderate (...) no, non mi aggredire (...) ma spiegami senza resistenza (...) in questi luoghi (...) chi ha emesso quel suono meraviglioso. CILLENE Questo è (...) delle bestie (...) atti di forza (...) di una ninfa; a me infatti (...) altisonante (...) ma spiega tranquillamente (...) di che cosa hai bisogno. CORO Signora di questi luoghi, potente Cillene, a che scopo sono venuto te lo dirò dopo: piuttosto dicci tu che cosa significa questo suono e chi mai dei mortali con esso ci fa rabbrividire.”
224
264
268 col. XI
272
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SOFOCLE
«KY» ὑμᾶς μὲν αὐτοὺς χρὴ τάδ᾽ εἰδέναι οαφῶς ὡς, εἰ φανεῖτε τὸν Alö]yov τὸν ἐξ ἐμοῦ, adroicıv ὑμῖ[ν ζ]ημία πορίζεται" καὶ γὰρ κέκρυπται] τοὔργον ἐν [θ]ε[ὧ]ν ἕδραις, Ἥραν ὅπως μ[ὴ πύ]οτ[ι]ς ἵξεται] λόγου. Ζ[εὺ]ς y[àp] xpvol........ ]-nv ᾿Α[τ]λαντίδος ᾿ Ἰεύοσατο’ [ [ Τυ..[φιλας [.......] λήθῃ «fic βαθυζώνου θεᾶς [.......].c δὲ παῖδ᾽ ἐφίτυςεν μόνον.
[........ ] X£pci ταῖς ἐμαῖς ἐγὼ τρέφω: [...... γ]ὰρ ἰοχὺς ἐν vóco χειμάζεται᾽ [......]a καὶ ποτῆτα καὶ κοιμήματα [πρὸς οπ]αργάνοιο μένουοα λικνῖτιν τροφὴν [ἐξευθ]ετίζω νύκτα καὶ καθ᾽ ἡμέραν.
[παῖς δ᾽ αἸύξεται xac ἦμαρ οὐκ ἐπεικότα [.....]ctoc, ὥςτε θαῦμα καὶ φόβος μ᾽ ἔχει.
[.... γὰρ ἑκτὸν ἦμαρ ἐκπεφαομένιοις 280
[.....]c ἐρείδει παιδὸς eic ἥβης ἀκμήν, ικἀξοριμενίζει κοὐκέτι οχολάζεται — ιβλάοτη". τοιόνδε παῖδα θησαυρὸς οτέγει. [....... Ἰτός![...1 ἐστι τοῦ πατρὸς Bécet.
284
[oc
φθέγμα μηχανῇ Bpéu[
αφί ca.171. 1ς ἡμέρᾳ μιᾷ kam.[..].£80a[ ca. 10 ll. Javricato:
ἐξ ὑπτίας κί 288
292
1. λεγε. ]ee9ovl
φώνημί
]ovt
toc eGedl
ol. XII
].c ἡδονῇ
παιδοί Onpevul zovöodl
296
ca. 11 11.
τοιόνδε On[ ca. 1111. αι κατωδ[ » éuuectov αἱ ca. 101]. 1] παῖς βοῆο. «ΧΟ. ἀἄφραςτί ca. 711. Juateref
]
Jef
povr ἄπαᾳ! __ toc πορίζειν τοιάνδε γῆρυν.
[ἀντ.
CERCATORI DI TRACCE
225
CILLENE Bisogna che voi capiate bene questo: se rivelerete le mie parole, per voi è pronta la punizione; il fatto è tenuto segreto nelle sedi degli dei, perché la notizia della storia non arrivi a Era. Zeus infatti venne di nascosto alla casa? della figlia di Atlante (...) nell'oblio della dea dalla bella cintura (...)? genero un solo figlio; (...) tra queste mie braccia lo cresco io;" la forza di sua madre è minata” dalla malat-
tia; (...) per farlo bere e dormire stando vicina alla culla? gli preparo notte e giorno il cibo dei neonati. Ma il bimbo cresce di giorno in giorno, oltre il normale, è grande e grosso" al punto che sono allibita e spaventata. (...) a sei giorni dalla nascita” (...) marcia verso l’età adulta, cresce in altezza come un germoglio e non si ferma più: questo è il bambino chiuso nel sotterraneo. (...) tenuto nascosto per ordine del padre. (...) il suono che vibra da uno strumento (...) in un solo giorno (...) lo ha escogitato; capovolto (...) per divertimento (...) (Cillene continua a descrivere lo strumento ricavato da un animale, ma il
coro esprime la propria incredulità che un animale morto...) produca un simile suono.
226
SOFOCLE
_ «KY.» un νῦν ἀπίοτει᾽ πιοτὰ γάρ ce προογελᾷ θεᾶς ἔπη. _ XO. καὶ πῶς πίθωμαι τοῦ θανόντος φθέγμα τοιοῦτον βρέμειν;
300
. «KY» πιθοῦ: ϑανὼν γὰρ ἔοχε φωνήν, ζῶν δ᾽ ἄναυδος
ἦν ὁ θήρ. _ «Χο. noióc τις ἦν εἶδος; πρ[οἹμήκης, ἢ πίκυρτος, ἢ
βραχῦο;
«KY.» βραχύο, χυτροίδης, rofı]KiAn δορᾷ κατερρικνωμένος. 304
_ «XO» de aléAovpoc εἰκάσαι πέφυκεν ἢ τὼς πόρδαλιο; _ «KY» πλεῖςτον ue[xlo&ó- γογγύλον γάρ écu καὶ BpaxvckeAéc.
_ «ΧΟ. οὐδ᾽ Qc ἰχνευτῇ tpocdepèc πέφυκεν οὐδ᾽ ὡς καρκίνῳ; _ «KY» οὐδ᾽ αὖ τοιοῦτ[ό]ν ἐστιν’ ἀλλ᾽ ἄλλον τιν᾽ ἐξευροῦ τρόπον. _ XXO» ἀλλ᾽ ὡς κεράοτί[η]ς κάνθαρος δῆτ᾽ ἐςτὶν
Aitvoioc φυήν; | 308 _ «KY» νῦν ἐγγὺς £yv[oc] © μάλιοτα προοφερὲς τὸ κνώδαλον. «XO.» a[......] φῶν[..]ν ἐστιν αὐτοῦ, τοὐντὸς ἢ τοὔξω, $pócov. -— «Y.» [......... ]Ao[..6]opivn coyyovoc τῶν ὀστράκων. «ΧΟ.» [ ca. 1611. ]ve[...]. xópcvvov, εἴ τι πλέον
312
EXEIC. «KY»[ ca.21l.
Τυν δ᾽ αὖ λύραν ὁ παῖο καλεῖ.
«ΧΟ. [ «ΚΥ.
ca. 22 ll. ca. 231].
]. kxéavov ..o[.]to τινι; ] δέρμα κί..7.τοφ[
«ΧΟ. [
ca. 23 Il.
lov ©$[£] κλαγγάνει .[
CERCATORI DI TRACCE
CILLENE parole CORO E da un CILLENE
227
Non essere incredulo: ti sorridono sincere le di una dea. come posso credere che una simile voce vibri animale morto? Credimi: l’animale da morto ha avuto la vo-
ce, da vivo era muto.
CORO Che aspetto aveva? Lungo, curvo, corto?" CILLENE Corto, a forma di pentola, con la pelle variegata, rugoso.” CORO Assomiglia a un gatto, o a un leopardo? CILLENE C'é una bella differenza! E panciuto, e ha le zampe corte.
CORO
Non è neppure simile, più o meno, a una man-
gusta,” o a un granchio?
CILLENE No, non è fatto così: cerca un’altra immagine. coro Vediamo, è come uno scarafaggio cornuto dell'Etna?9 CILLENE Ora ci sei vicino; hai individuato quello più simile al nostro animale. CORO Che parte?! di esso risuona, l'interno o l'esterno? Dicci. CILLENE (...) la pelle, che sembra fatta di coccio.? CORO (...) prosegui, se conosci qualche particolare in piü. CILLENE (...) il bambino lo chiama lira. (Il coro insiste con domande più precise, e la ninfa spiega nei dettagli la costruzione dello strumento.)
228
316
320
324 91. ΧΠῚ
328
SOFOCLE
«KY» τιἐνήλατα ξύλα «ye» τρίγομφα διατιόρως ἐρείδεται [
ca. 24 Il.
[
ca. 25 Il.
Imextagl...]nel
Ἰλάδος x[....]..[
[ [ [
ca. 25 Il. ca. 25 Il. ca. 26 ll.
]Aonec del...]v.[ Jopporto [.(.)..]yel ]ov[....... Ἰαντί
[
1α.
[
]eut
[
Le.[
καὶ τοῦτο λύπη[ς] Ect' dkectpov καὶ παραψυκ[τ]ήρ[πο]γ κείνῳ μόνον, χα[ί]ρει δ᾽ ἀλύων καί τι προσφῶν[ ξύμφωνον᾽ £&o[t]pev γὰρ αὐτὸν αἰόλιομα τῆς λζύ]ρᾳς. > οὕτως ὁ παῖς θανόντι θηρὶ φθέγμ᾽ ἐμηχανήσατίο. XO.
ος
»οψάλακτός τις ὀμφὴ κατοιχνεῖ τόπου,
[ςτρ.
πρεπτὰ δὴ τόνου φάοματ᾽ ἔγxap’ ἐπανθεμίζει.
τὸ πρᾶγμα δ᾽ οὗπερ πορεύω βάδην,
332
ἴοθι τὸν dafi]uov’, dette ποθ᾽ ὃς ταῦτ᾽ ἐτεχνήοατ-οὐκ ἄλλος Ectiv κλίοπεὺς
ἀντ᾽ ἐκείνου, γύναι, cab’ ἴοθι. οὗ δ᾽ ἀντὶ τῶνδε μὴ χαλεφθῆς ἐμοὶ «umde δυοφορηθῆῇς.
336
340
«Y» [........ ^]vnee: τίνα κλοπὴν ὠνείδις[ας; «ΧΟ.» [ ca. 141]. ].eıpa xeipaGetv[ «KY.> [ ο8. 1611. ]vra φιλήτην καί
«ΧΟ. [
ca. 1711.
Jav αὐτῇ τῇ κλο[πῇ.
«KY. [ «O» [
ca.181l. ca.181l.
εΐ ye τἀληθῆ Aelyeıc. Ἰαληθῆ λέγ[ω.
344
[
ca. 19 II.
Ἰφεναιοαφί
348
[ [ [ [
ca. ca. ca. ca.
Jóe Bode πάνυ Ja koenp[u]o[ce Ἰλου τεμὼν Jd0..[.]pa[
dl. XIV
19 19 19 20
1l. Il. Il. Il.
desunt versus tres (pot. qu. duo) [ ca.111l. 1 ἄρτι μανθάνω χρόνῳ [ ca.1211.
Ἰαόκοντα τῇ ufi μωρίᾳ
CERCATORI DI TRACCE
229
CILLENE (...) e questo è un rimedio ai dispiaceri, l'unica consolazione per lui: si diverte come un pazzo? intonando un canto* armonioso; lo esalta il suono
vario della lira. Così il bambino ha inventato una voce per l’animale morto. coro Un suono di corde vibranti discende per questo luogo,® limpide visioni di melodia volano tutto intorno di fiore in fiore. Ma ecco il fatto cui mi avvicino passo dopo passo: sappi che il dio che ha escogitato questo, chiunque sia, è lui il ladro, lui e nessun altro, donna, sappilo bene. Ma tu non ti adirare con me per questo, non irritarti. CILLENE (...) chi incolpi del ἕατίο 788 CORO Ninfa degna di onore, non voglio turbarti. CILLENE È il figlio di Zeus, e lo chiami! ladro? CORO (...) con il furto stesso. CILLENE (...) se dici proprio la verità. CORO (...) dico la verità. (La discussione continua animosamente: i satiri dicono che la pelle adoperata per la fabbricazione della lira non può essere se non quella delle vacche rubate. Cillene insiste tuttavia nella difesa del piccolo dio.)
230
SOFOCLE
[ ca. 111l.
οἸύδέν, ἀλλὰ παιδιᾶς χάριν.
[ ca.121l.
Ἰνεισεμ᾽ εὐδίαν ἔχων
[ ca.121l. [ ca.121l.
]u' ἤ τι κερδαίνειν δοκεῖς Ἰχαζε καὶ τέρπου dpéva:
[ ca. 11 11.
]vta τοῦ Atòc cadei λόγῳ
360
[ ca.111l. [ ca.111l.
jov ἐν νέῳ νέον λόγον’ 1 πρὸς πατρὸς κλέπτης ἔφυ
364
[ ca. 11 11. [ ca. 1011. [ ca.71l. [...]Jeı γένος
356
368
372
μ]ήτρωοιν ἡ κλοπὴ κρατεῖ. Jvc Ecr, τὸν κλέπτην οκόπει ].apnov τοῦδε δ᾽ foùravat Sönoc πρόσαπτε τὴν πονηρίαν
[...]. ὅντιν᾽ ἥκει" τῷδε δ᾽ οὐχ οὕτω πρέπει. ἀ[λλῚ] αἰὲν εἶ οὐ παῖς: νέος γὰρ ὧν ἀνὴρ π[ώγ]ωνι θάλλων ὡς τράγος κνήκῳ χλιδᾷο' παύου τὸ λεῖον φαλακρὸν ἡδονῇ πιτνάο. [o]ùkK ἐκ θεῷν τὰ μῷρα καὶ γέλοια χρὴ [χ]ανόντα κλαίειν ὕοστερ᾽, ὡς ἐγὼ γελῶ. «ΧΟ.» οτρέφου λυγίζου τε μύθοιο, ὁποίαν θέλεις βάξιν εὕριοκ᾽ ἀπόψηκτον. οὐ γάρ με ταῦτα πείοςειο,
«ὅνπως τὸ χρῆμ᾽ οὗτος εἰργαομένος ῥινοκόλλητον ἄλλων Erapyev βοῶν xov δοράς [γ᾽ ἢ] πὸ τῶν Λοξίου. [μ]ἡ pe τᾶ[οδ᾽ ἐ]ξ ὁδοῦ βίβαζςε_ Snyvvnl μανιὼν .[
ὦ παμπονη[ρ
[1.α τάχ᾽ ὀργαί [τ]Ιἀλῃθὲς εἰ. 384
[ἰοὺς yapl
388
[6] παῖς κλο[π [..]toı πονη [κ]ακῶς &xovf [ell δ᾽ ἔοτ᾽ ἀλη[θ
— [0]d un ad’ [ «XO»
[
[ἀντ.
CERCATORI DI TRACCE
231
CILLENE Costui infatti non è ladro per parte di padre, né d'altro canto? il furto è prerogativa della discendenza materna. (...) osserva il ladro (...) la casa di costui non è povera (...) la stirpe (...) la disonestà attribuiscila a colui che la merita: a costui proprio non si addice. Ma tu sei sempre un bambino: sei un giovanotto grande e grosso, gongoli per la tua barbetta, folta come quella di un capro, e per il tuo pancione;? smettila di far ciondolare di gusto quella testa pelata. Chi spara simili ciance, assurde e ridicole, infine non de-
ve piangere, per la punizione divina, così io riderò. coRO
Rigirati, confonditi con le parole,
inventa una scusa sottile,” quella che ti pare: non mi convincerai che costui, costruendo questo arnese
di cuoio incollato, ha disseccato
le pelli di altre vacche, e non di quelle del Lossia. Non cercare di sviarmi da questa pista. (...) (Cillene replica al coro, la discussione sulla colpevolezza di Ermes riprende in toni accesi.)
232
392
SOFOCLE
- «KY»τί «XO» «KY» [ _XO,[
_ «KT. δῖ 396 XO» ..[...]...[ _ «KY» πολλαὶ βόες venovcı τί
_ «XO» n[A]eiovc δέ γ᾽ ἤδη νῦν [ «KY» τῇς, ὦ πόνηρ᾽, ἔχει; τί πλεῖ «ΧΟ.» ὁ παῖς ὃς ἔνδον ἐςτὶν £ykekAn[ui£voc. «KT» [τὸ]ν παῖδα παῦςαι τοῦ Διὸς [ _ «XO» π[α]ύοιμί᾽ ἀ]ν [, εἰ] τὰς βοῦς τις εἶ «KY» ἤδη pe πνίγειο καὶ cò xa[t póec ςέθεν. 404 «ΧΟ.» [...JAetce..[...]v[. ἐϊξελαυγί deest col. XVI XVII desunt versus tres, ut vid. BRUM 400
436
ἄγ᾽ ela νυ[ν
μυχῷ οκί παγῇ [ 440
[
[
_ αἱ
ἰοὺ ἰοὺ [
444 fiv t ἔφης .[
448
. οὗτοο οὐ dl DA wol ὦ Aoéia, δεῖ
452
» τῶν [β]οῶϊν ΑΠΟΛΛΩΝ: [.]vv.[ Ε[..1εἰ|
καὶ παρηΐ
Bol orto]
np[.1ef 456
μισθον [
_ £ÀevOepo[ s col.
.. τὸν ἐγ
CERCATORI DITRACCE
233
CILLENE Sono molte le vacche che pascolano (..:) CORO Si, ma ora sono ancora di più (...) CILLENE E chi le tiene, sciagurato? Che cosa (...) CORO Il bambino rinchiuso lì dentro. CILLENE Smettila di calunniare il figlio di Zeus. CORO La smetterei, se qualcuno tirasse fuor?! le vacche. CILLENE
Adesso mi state soffocando, tu e le tue vacche.
CORO (...) tirar fuori (...) forza, dai!(...) nella grotta (...) iuh! iuh! (...) questo (...) o Lossia (...) delle vacche
(...)
(Il coro riesce a recuperare la mandria, interviene Apollo, forse accenna all’affrancamento dei satiri e consegna loro la ricompensa stabilita.”
NOTE
1. Il dramma si apre con una rhesis (vv. 1-44) di Apollo; il dio, dopo aver cercato inutilmente i suoi armenti in Tessaglia, in Beozia, nella Doride, giunto alle falde del Cillene,
monte arcade, chiede aiuto, promettendo una ricompensa a chi gli riporterà le sue vacche. Questi versi sono stati interpretati come Hilferuf sulla base delle analogie con la scena iniziale dei Pescatori di Eschilo (fr. 46a Radt, 14 ss.): in entrambi i casi, chi ha bisogno di soccorso elenca 1 possibili aiutanti e, al termine dell’invocazione, compaiono i satiri. V. Maltese, Sofocle, Ichneutae, Firenze 1982, pp. 66-8, analizzan-
do l’articolata struttura del discorso, vi individua piuttosto i caratteri di un Aufruf («bando»): Apollo non si limita a invocare aiuto, ma emana un «proclama in piena regola» (cfr. παντελὲς κήρυγμα, v. 19 e ὄρθια κηρύγματα, v. 46), paragona-
bile a quello formulato da Edipo (Sofocle, OT, 223-32) per avere notizie sull’assassinio del padre Laio. Il racconto dell'antefatto da cui prende avvio il dramma è interrotto tre volte dal richiamo formale al bando, all’inizio, a metà e alla fine (vv. 7-8: «prometto che pagherò una ricompensa», vv. 19-20: «emano un proclama in piena regola per gli dei e gli uomini», vv. 42-4: «la ricompensa è qui, pronta»), secondo uno schema ricorrente nel dramma greco (cfr. Eschilo, Sept., 1005-25; Eum., 681-710; Sofocle, Ant., 192-210; OT, 235-54). La comicità della rhesis nasce dall’alternanza di toni ufficiali e di toni personali e patetici (il concitato racconto dell’inspiegabile sparizione dei buoi, vv. 9-19; la descrizione del frenetico vagabondare di Apollo e l’ansiosa richiesta d’aiuto, vv. 21-41); buffa è anche la contraddizione tra le competenze
profetiche del dio e la sua incapacità di risolvere l'enigma.
CERCATORI DITRACCE
235
Le affinità tra la situazione iniziale dei Cercatori e il prologo dell’Aiace hanno fatto pensare a un’intenzione parodica del dramma satiresco nei confronti della tragedia e all’appartenenza delle due opere alla medesima tetralogia. All’inizio dell’ Aiace compare Odisseo che sta cercando il responsabile della strage delle greggi degli Achei e, come nel dramma satiresco, la ricerca dell’eroe è descritta con termini del linguaggio venatorio (cfr. Ai., 5 ss.). Altre corrispondenze sono individuabili nella struttura a «dittico» delle due opere (cfr. n. 92) e nel coro dei satiri segugi (vv. 100-23), che richiama quello dei marinai in cerca di Aiace (Ai., 866-90). Peraltro i temi della ricerca, dell’enigma, dell’indagine, del ritrovamento sono
così frequenti in Sofocle che non si può escludere la casualità delle somiglianze. Cfr. Sutton, op. cit., 1980, 48; idem, The rela-
tion between tragedies and fourth place in three instances, «Arethusa» 4, 1971, pp. 60-7; Maltese, op. cit., p. 15. 2. Il verbo ἐπισεύω («precipitarsi», «slanciarsi», v. 4) è un termine epico (cfr. I/. IT, 86, Od. V, 428), rintracciabile nella
tragedia solo nelle parti liriche. Il suo utilizzo accentua il tono enfatico del discorso di Apollo, caratterizzato da un lin-
guaggio e una sintassi piuttosto elaborati anche nei versi sucCessiVi. 3. Ai vv.8 e 9 la traduzione accoglie, rispettivamente, le integrazioni δῶρ᾽ (Hunt) e ὅστις γ᾽ ἀπάξει βοῦς ἐμάς (Diehl), che restituiscono in modo accettabile il contenuto del bando di Apollo. 4. L’aggettivo παντελές (v. 19) significa anche «universale»: in questo senso, riferito all'annuncio di Apollo, potrebbe
essere spiegato dal verso successivo («... nessuno deve ignorare il fatto»). Nella traduzione si è preferita una soluzione che sottolinea l’intenzione. del dio di porsi al di sopra dei suoi eventuali interlocutori, con un bando che risponde ai requi-
siti formali dei proclami ufficiali. 5. È difficile ricostruire con precisione l’itinerario di Apollo, che non sembra in contraddizione con quello descritto dall’Inno a Ermes (cfr. L. Previale, Gli Ichneutae di Sofocle e l’Inno omerico a Hermete, «Boll. Filol. class.» 33, 1926-1927,
pp. 174-83); la successione dei luoghi e dei popoli citati lascia supporre un percorso da nord a sud. Nell'inno, prima di esse-
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CERCATORI DI TRACCE
re rubate da Ermes, le vacche pascolano nella Pieria (a nord dell’Olimpo), dopo il furto vengono guidate a Pilo e nascoste in una stalla sulle rive dell' Alfeo. Nei Cercatori, invece, Er-
mes conduce gli armenti in un antro del monte Cillene, in Arcadia, dove si nasconde lui stesso; in questa regione, al centro
del Peloponneso, abitata soprattutto da pastori chiusi nella difesa delle loro severe tradizioni, il dio era particolarmente
venerato. Proprio in cima al Cillene gli era stato edificato un tempio e le grotte che si aprivano nei fianchi del monte servivano per il suo culto. 6. Ai vv. 37-8 la traduzione accoglie, exempli gratia, le integrazioni, δυσβάτους τόπους (Snell, oppure νάπας, πτυχάς e simili) e ὕλην (Siegmann, Steffen, Terzaghi). 7. Allusione ai satiri, indicati come «figli delle ninfe» anche in un altro frammento satiresco, forse sofocleo, conser-
vato da un papiro ossirinchita (P. Oxy. VIII, 1083, 7). Le ninfe sono normalmente associate al culto di Dioniso (cfr. Ciclope, pp. 307-8, nn. 2 e 4). Non si capisce se il dio includa genericamente i satiri tra i suoi possibili aiutanti o se i coreuti stiano già entrando in scena mentre egli pronuncia gli ultimi versi del suo proclama. 8. A] v. 43 la traduzione accoglie l'integrazione G[v φέρῃ (Pearson), tra varie ipotesi che non modificano sostanzial-
mente il senso delle parole di Apollo. 9. L'interpretazione di τὸ χρῆμα (v. 44) è incerta: potrebbe riferirsi sia ai buoi che alla natura della ricompensa. 10. Nelle parole di Sileno si vedono precisi richiami alla rhesis di Apollo («...bando... mi sono precipitato... caccia...») che pertanto egli dovrebbe aver udito per intero, anche se è difficile stabilire esattamente il momento del suo ingresso in scena. Il vecchio arriva in tutta fretta, richiamato dall’entità del premio promesso; l’accenno all’età avanzata (v. 47) lascia immaginare qualche comica goffaggine; egli parla con il dio da pari a pari contrattando, non senza arroganza, i termini della sua partecipazione alla caccia (al v. 51 Sileno accenna all’oro promesso da Apollo e il dio conferma il suo impegno al v. 57). Il composto χρυσοστεφές («coronato d’oro», v. 51), riferito al premio (γέρας, v. 51) è da intendersi in senso generico, in quanto la ricompensa dei satiri non é una corona d'o-
NOTE
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ro; in bocca a Sileno, l'aggettivo ridondante indica la volontà di adeguarsi al tono solenne del contesto (cfr. A.C. Pearson, The fragments of Sophocles I, Cambridge 1917, frr. 314-18,
224-70, ad 45 ss.). 11. Ai vv. 55-6 la traduzione accoglie, rispettivamente, le
integrazioni μισθόν ye (Bucherer) e τὰϊς βοῦς ἀπάξω σοι (Hunt). 12. La schiavitù dei satiri è un motivo convenzionale del dramma satiresco (cfr. Introduzione, pp. 55-7); nei frammenti dei Cercatori si accenna più volte alla liberazione dei coreuti (vv. 63, 75, 164 ss., 457), dalla loro aspirazione alla libertà nasce la volontà di partecipare alla caccia. Ma l’identità del öeσπότης dal quale essi desiderano affrancarsi non è affatto
chiara. Dai vv. 164-5 risulta chiaramente che Sileno si trova nelle stesse condizioni dei figli, pertanto sembra da scartare
l'ipotesi dell'editor princeps del dramma (H. Hunt, The Oxyrhynchus papyri. Part IX, London 1912, n. 1174, p. 79), secondo il quale i coreuti vorrebbero sottrarsi all’obbedienza nei confronti del vecchio. Il padrone dei satiri potrebbe essere Dioniso: nel Ciclope di Euripide (cfr. vv. 435-7, 620-3, 709) il coro desidera essere di nuovo «servo» del dio (il rapporto cultuale è assimilato alla servitù), mentre negli Spettatori di Eschilo (cfr. fr. 78a Radt, vv. 29-36, fr. 78c Radt, vv. 1-16, 39-40)
il motivo è rovesciato e i satiri hanno abbandonato di proposito le attività dionisiache, considerate troppo faticose (cfr. G. Martino, Chi è il δεσπότης dei satiri e di Sileno negli Ichneutae
di Sofocle?, «Annali dell'Istituto italiano per gli studi storici» 10, 1987-1988, pp. 11-26). Ma in questo caso non si capisce come Apollo possa promettere la libertà a schiavi che appartengono a un'altra divinità. E se invece i satiri fossero servi di Apollo stesso, come sostiene A.C. Pearson, op. cit., pp. 232-3,
perché il dio si abbassa a trattare con loro, mentre potrebbe esigerne la collaborazione? Altre spiegazioni sono state avanzate (cfr. Maltese, op. cit., pp. 20-2 e, in particolare, n. 124), ma senza argomenti decisivi, al punto che si è giunti a pensare che Sofocle abbia utilizzato il motivo convenzionale della prigionia dei satiri senza preoccuparsi di rispettare le regole della coerenza, il che sarebbe giustificato dalla natura farsesca del
dramma satiresco (cfr. Sutton, op. cit., 1980, pp. 46-7).
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CERCATORI DI TRACCE
13. Al v. 63 la traduzione accoglie l’integrazione σὺ [πᾶν τα
γένος ἔσται τέκ]νων (Wilamowitz). 14. I satiri intonano un’animata parodos dopo aver ascoltato in silenzio la rhesis di Apollo, come si deduce dal fatto
che essi sono già al corrente della storia del furto (vv. 68, 723) e della doppia ricompensa stabilita dal bando del dio (vv. 75-8). Il momento esatto del loro ingresso nell’orchestra è difficile da stabilire, così come è impossibile ricostruire il metro del canto. 15.I coreuti si incitano con reciproche esortazioni. Al v. 65 la traduzione accoglie l'integrazione βάσιν te (Hunt). 16. Con la personificazione della Τύχη, anche Sileno esordi-
sce in toni simili a quelli dei documenti ufficiali (cfr. p. es. SIG I, 256, n. 183: θεὸς τύχη), proponendo ai suoi figli una sorta di secondo bando, che imita parodicamente quello di Apollo (cfr. n. 11 e Maltese, op. cit., p. 73). Ormai superata è l'ipotesi, più volte avanzata (a partire dall'editio princeps di Hunt), che si rivolga direttamente agli spettatori per chiedere aiuto ai vv. 83 ss.: nel passo manca l'apostrofe diretta all'uditorio, che servirebbe a rompere l'illusione scenica (come, p. es., in Aristofane, Nub., 518, Vesp., 1015, 1071, Av., 752 e in Plauto, Cist., 678: Mei
homines, mei spectatores). Il vecchio, padrone della scena dopo l'uscita di Apollo, ribadisce la richiesta del dio, che già conteneva un generico riferimento ai satiri (v. 41). 17. Al v. 92 la traduzione accoglie, exempli gratia, l'integrazione κ[αὶ πρὸς ἔργ᾽ ὁρμᾶν ue δεῖν (Hunt); nessuna proposta che modifichi sostanzialmente il senso della frase è stata finora avanzata. 18. L'espressione pregnante formata dal verbo ὀκλάζω («piegarsi, accosciarsi») e dall’aggettivo διπλοῦς («piegato in due», qui riferito alla spina dorsale) indica senza dubbio la posizione necessaria per seguire le impronte servendosi anche dell’olfatto. Ma una postura simile si trova anche descritta da Senofonte nell’ Anabasi
(VI, 1, 10), dove rientra tra le
scomposte movenze del Περσικὸν rica: possiamo perciò immaginare della caccia fosse interpretata dai grafia di un balletto indiavolato, esibivano in buffe acrobazie.
ὄρχημα, una danza barbache la movimentata scena coreuti secondo la coreodurante il quale i satiri si
NOTE
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19. Ai vv. 98-9 Sileno potrebbe esprimere la speranza che la caccia abbia successo (cfr. ἔρευναν = «ricerca») e che Apollo conceda la ricompensa pattuita. 20. La ripetizione di θεός al v. 100 presenta la scoperta immediata delle tracce bovine come un fenomeno prodigioso, nel quale si scorge l’aiuto della divinità. Assai meno plausibile è che i coreuti abbiano già capito che l’autore del furto è un dio. Il coro dal v. 100 al v. 124 si divide: il v. 105, con un’a-
postrofe indiretta rivolta a terzi, induce a pensare che I satiri formino tre schiere (cfr. Radt, ad v. 100). 21. Il senso del v. 103 è oscuro, sia per l’identità del dio a
cui ci si riferisce, sia per il significato da attribuire ad ἀποικίαν. Il θεός potrebbe essere Apollo, in qualità di ἀρχηγέτης della
«colonia» dei satiri, oppure Ermes, che ha guidato lontano la «colonia» di buoi. Peraltro l’espressione ἀποικίαν ἄγειν è piuttosto insolita (più frequentemente il sostantivo è retto dai verbi στέλλειν, ἀποστέλλειν, ἐκπέμπειν, ma in Erodoto
IV, 147 leggiamo εἰς ἀποικίαν ἀγειν). L'allusione a un avvenimento politico di attualità, come la reale fondazione di
una colonia, avrebbe garantito la reazione divertita del pubblico ateniese (cfr. Maltese, op. cit., p. 76). 22. ΑἹ ν. 112 le integrazioni, exempli gratia, possono essere ἠσθη]μένος
(scil. ῥοίβδημα, Robert)
oppure
ἀκροώ[ϊμενος
(Pearson). 23. Per il momento nessun suono si avverte sulla scena: sarebbe assurdo che non fosse udito da una delle schiere dei coreuti (cfr. v. 114); ma il segnale della vicinanza dei buoi è già presagito nella sfera delle sensazioni auditive. "Poißönua (spiegato come ῥοίβδος da una glossa inserita tra i vv. 113 e 114), come tutti i sostantivi derivati dalle radici po16-/ ῥοιβδ-,
indica il rumore di un sibilo o di un fischio (cfr. Sofocle, Ant.,
1004... πτερῶν γὰρ poißdog οὐκ ἄσημος ἦν; Aristofane, Nub., 407 ὑπὸ τοῦ ῥοίβδου καὶ τῆς ῥύμης αὐτὸς ἑαυτὸν κατακαίων), specialmente dei pastori (come l’analogo ῥοῖζος in Od. IX, 315). 24. Come si legge nell’Inno omerico a Ermes (vv. 77-8) il ladro costringe le vacche a procedere a ritroso, per confondere le tracce. Il mascheramento delle orme è un segnale della prodigiosa astuzia del dio; nell’inno Ermes completa l’in-
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CERCATORI DI TRACCE
ganno fabbricando per sé speciali calzari fronzuti di vimini, tamerici e mirto intrecciati, che lasciano impronte deformate
(cfr. h. h. ad Merc., 79 ss.). 25. Probabilmente dopo il v. 123, i satiri, acquattati, odono
per la prima volta un suono di lira (κιθαρισμός) che sembra provenire dal sottosuolo e reagiscono distendendosi completamente a terra per sentire meglio; la musica si intensifica, provocando le reazioni impaurite dei coreuti e lo stupore irritato di Sileno il quale, stando in piedi, non ha ancora sentito niente (cfr. vv. 131 ss.). 26.Il poco spazio offerto da un cespuglio costringe il riccio a raggomitolarsi (per i paragoni animaleschi di questi versi cfr. Introduzione, pp. 112-4). Forse le parole di Sileno riecheggiano un proverbio conservato da uno scolio ad Aristofane,
Vesp., 927-8b: «Un solo cespuglio non nutre due pettirossi». 27. Presumibilmente il verbo ἀποθυμαίνειν deve essere in-
teso come sinonimo di ἀποπέρδεσθαι (flatum emittere). Questa interpretazione, proposta per la prima volta da Wilamowitz, Die Spurhunde des Sophokles, «Neue Jahrb. f. d. Klass. Altertum» 29, 1912, p. 458, n. 4, può forse essere con-
fermata da una raffigurazione vascolare a figure rosse (Brommer, op. cit. p. 79, n. 128, Maltese, op. cit., p. 77) in cui un satiro, trasformato in scimmia da una maga, si trova, ri-
spetto alla donna, nella posizione di chi ἀποπέρδεταί τινι. Il motivo è frequente nella Commedia Antica e una situazione simile si trova nelle Nuvole di Aristofane, dove Strepsiade,
osservando gli allievi del grottesco Pensatoio socratico si chiede ti γὰρ οἵδε δρῶσιν οἱ σφόδρ᾽ ἐγκεκυφότες;... τί δῆθ᾽ ὁ πρωκτὸς ἐς τὸν οὐρανὸν βλέπει; (vv. 191 ss.). 28. L’interpretazione più probabile del termine κέρχνος
(«escrescenza, superficie rugosa» oppure, come termine medico, «raucedine») suggerisce di considerarlo un’allusione al «nodoso » bastone di Sileno (cfr. Maltese, op. cit., p. 78). Un riferimento al rumore che sta spaventando i satiri appare infatti improbabile, in quanto Sileno incomincia a capire il motivo del loro comportamento solo dopo la spiegazione, che riceve a partire dal v. 138. 29. Ai vv. 136-7 la traduzione accoglie, rispettivamente, le
integrazioni o[iya μὲν οὖν (Murray) e div ἔστ᾽ Exeide]v üno-
NOTE
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νοσφίζεις ἔχων (Hunt), che rendono bene il senso della discussione tra Sileno e i suoi figli. 30. Sileno indica ripetutamente il «rumore» con lo stesso termine generico usato dal coro al v. 144, ψόφος e, procedendo per tentativi, pensa prima al verso del bestiame (vv. 157-8), poi al richiamo dei pastori (v. 160): questo significa che egli non ha ancora sentito il κιθαρισμός che ha provocato lo sbigottimento dei satiri. 31. È probabile l’allusione a un’espressione proverbiale (cfr. p. es. Aristotele, Meteor., 345b, 7: «tu che hai paura della tua ombra»). 32. L’identificazione di un individuo attraverso una parte del corpo è già presente in Esiodo (77., 26: ποιμένες ἄγραυλοι... γαστέρες oiov), ma si tratta di un procedimento stilistico in seguito adottato specialmente dalla poesia comica (molti esempi sono stati raccolti da W.
Headlam- A.D. Knox,
Heroda. The mimes and fragments, Cambridge 1922). 33. Il furibondo discorso di Sileno fornisce un ulteriore tocco alla caratterizzazione del personaggio, borioso e millantatore a parole, ma pavido nell'azione. La sua rievocazione delle imprese giovanili suggerisce il confronto con il prologo del Ciclope euripideo (in particolare vv. 2-9), dove il vecchio elenca le traversie affrontate a causa di Bacco. Qui però la natura dei «trionfi» è incerta: potrebbe alludere a glorie erotiche (v. 155), belliche (vv. 165, 168), venatorie (vv. 167-8), oppure la sua potrebbe semplicemente essere una generica e vanitosa proclamazione di virtù. 34. Dato il contesto richiamato da Sileno, il termine κόλαξ
(«adulatore», v. 160) può essere utilizzato in riferimento al suono del flauto con il quale il pastore «blandisce» il bestiame, persuadendolo a rientrare nella stalla.
35. Di nuovo (cfr. v. 147) Sileno ricorre a un motivo proverbiale, in questo caso la paura dei bambini (cfr. p. es. Platone, Phaedo, 774: δεδιέναι τὸ τῶν nalöwv).
36. Sia il verbo ἀναδέχομαι (v. 163) che il sostantivo ἐλευθέρωσις sono termini tecnici del linguaggio giuridico: il primo è utilizzato per indicare l’assunzione ufficiale di un impegno, il secondo designa l’affrancamento di uno schiavo (cfr. p. es. Aristotele, Pol., 1315a).
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CERCATORI DI TRACCE
37.11 verbo ἀνανοστέω al v. 166 («ritornare», forse detto da «persona che sta più in alto», cfr. M. Valgimigli, Osservazioni sul dramma satiresco di Sofocle recentemente scoperto,
«Athenaeum» I, 1913, p. 291) potrebbe indicare un percorso verso l'alto (dvo-): i satiri, per individuare la fonte del suono, hanno abbandonato le tracce che risalgono il pendio del Cillene e Sileno li richiama sulla pista. 38. Il coro, ascoltati i rimproveri del padre, passa al contrattacco, chiedendo furbescamente che Sileno guidi di persona la caccia; ma il vecchio non ha nessuna intenzione di
partecipare attivamente all’impresa. 39. Sileno si affretta a precisare che il suo compito non è quello di συμποδηγετεῖν («guidare», v. 169): egli si limiterà a esortare i suoi figli con un κυνορτικὸν σύριγμα (v. 173), ovvero con il segnale al quale i cani da caccia 51 lanciano sulla preda. I satiri, loro malgrado, sono costretti a portare a termine da soli l'impresa. Nel Ciclope invece, dopo aver incitato Odisseo a entrare nella grotta di Polifemo per accecarlo, eludono la sua richiesta d’aiuto proprio nel momento cruciale dell'azione e riducono il proprio intervento ai κελεύσματα («incitamenti», cfr. Cycl., 649-55) verbali, comportandosi come Sileno nei Cercatori. 40. Il v. 174 sembra ribadire la tripartizione dei coreuti nell’orchestra (cfr. n. 22). 41. Il nome Δράκις (v. 183) può essere accostato a Δόρκις (attestato come nome di uomo in Tucidide I, 95,6 e come nome di satiro nella pittura vascolare) di identica radice, e quasi sicuramente connesso al verbo δέρκομαι, che indica lo sguardo di chi osserva intensamente, con odio o desiderio. Il tipo di satiro che porta la mano alla fronte per poter vedere lontano è diffuso nell’arte figurativa (cfr. Ch. Fraenkel, Satyr- und Bakchennamen auf Vasenbildern, Halle a. S. 1912, p. 11) e la Naturalis Historia di Plinio (XXXV, 138) menziona tra le pitture parietali di Antifilo il ritratto di un satiro quem aposcopeuonta appellant. 42. L'etimologia e l'interpretazione di questo nome sono controverse: è possibile, come sostiene Pearson (op. cit., ad
177), che indichi un satiro che indossava una maschera raffigurante un volto «rugoso», «raggrinzito»; di questo tipo di maschere esistono numerose testimonianze antiquarie.
NOTE
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43. Anche in questo caso il significato del nome è discus$0; letto come crasi di ὁ Opiag sarebbe un nome «montano»
(da ὄρος, «monte»), comunemente attestato per i satiri (cfr. Fraenkel, op. cit., pp. 24, 90 ss.); è stata proposta anche la connessione con l’omerico οὖρος («custode», in Od. XV, 88; cfr.
Munscher, op. cit., p. 183); infine, non si può escludere la derivazione da οὐρά, che oltre al significato comune di «coda», ha anche quello di «pene» (come risulta da Sofocle, fr. 1078
Radt, e dai lessici di Fozio ed Esichio). Ai vv. 151-2 Sileno dice che i suoi figli sono soltanto «carne, lingua, fallo»: perciò non stonerebbe, in questo contesto, un nome che contiene un
riferimento osceno alla spiccata corporeità dei satiri. 44. La traduzione, accogliendo
la congettura
ue@U[e1g
(Rossbach), cerca di completare il senso del v. 185, che parrebbe un richiamo a un satiro che sta andando fuori pista. Tuttavia Me@v- è stato integrato anche come un nome proprio MéOv[coc o Μεθ[ύων (Robert), evidentemente derivato dal verbo μεθύειν e affine per il significato ad altri nomi satireschi attestati dalla pittura vascolare come Oivoniwv, 'Hó69oıvog, οἶνος, che alludono tutti chiaramente alla propensione
dei satiri all'ebbrezza. 45. Στράτιος è un nome «guerriero», come aggettivo, infatti, il termine («della guerra, guerresco») è un epiteto di Zeus,
di Ares e di Atena. Nell'onomastica satiresca a noi nota, soltanto Ὀρείμαχος rimanda alla sfera bellica; può darsi che questo tipo di nomi fosse attribuito ai satiri per antifrasi, visto che la loro bellicosità di solito rimane confinata alle intenzioni. 46. Integrando Kp[o]xia[g al v. 192, Robert lo intende come «il Giallo» (da κρόκος = «zafferano»), anche se finora
non sono noti nomi affini di satiri. Un’altra possibile derivazione è quella dal verbo κρέκειν («suonare») utilizzato, p. es., da Aristofane, Av., 682, in riferimento al flauto: satiri flautisti
sono presenze abituali nell’arte figurativa. 47. Τρέ[χις (ancora secondo l’integrazione di Robert al v. 194) richiama il nome satiresco Δρόμις, testimoniato da una coppa attica a figure rosse (J.D. Beazley, Attic Red-Figure Vase-Painters, Oxford 1963, p. 370, n. 13): entrambi risalgo-
no al verbo τρέχειν e designano perciò il «corridore», forse alludendo alla vivace mobilità dei satiri.
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48. Al v. 200 la traduzione accoglie l'integrazione rapaπλάκ[ηθι (Rossbach). Le altre proposte si limitano a variare il modo del verbo. 49. E probabile che in questo vivacissimo «canto di caccia» le battute siano distribuite tra i coreuti, mentre l'assenza di paragraphoi esclude che si tratti di un kommos eseguito a parti alterne dal coro e da Sileno (ipotesi formulata da Robert, «Hermes» 47, 1912, p. 547). Il corale è astrofico, come molti dei canti satireschi (cfr. L.E. Rossi, I! dramma satiresco attico. Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico, «Dialoghi di Archeologia» 6, 1972, p. 257); i metri prevalentemente anapestici, con un ritmo basato sulla rapida sequenza di sillabe brevi, accompagnano i movimenti frenetici dei satiri impegnati nella caccia. Maltese, op. cit., pp. 81-5, prende in esame gli spunti mimetici e suggestivi che caratterizzano l'atmosfera venatoria del passo: i satiri, incitati dalla voce di Sileno, emettono strani versi (v. 176) lanciandosi ciascuno in una direzione diversa (vv. 185, 190, 195, 196, 200,
201); qualcuno (il corifeo, un coreuta, a turno, o un gruppo di satiri) impartisce ordini (vv. 190, 196, 200 ss.), elogia un coreuta per la diligenza nell'inseguimento (vv. 194-5), ne frena alcuni recalcitranti (vv. 185, 197, 200), esorta un altro a non
desistere dall'opera intrapresa. Infine chiama i satiri per nome (vv. 183, 184, 185, 189, 192, 194). Tutto il canto presenta
sorprendenti analogie con quanto descritto nel Cynegeticus di Senofonte: il verbo ὑπέκλαγες (v. 177) trova i suoi paralleli in κλαγγή (Cyn., 4, 5; 5, 19; 6,17) e κλάζω (ibid. 3, 9; 6, 23),
sostantivo e verbo utilizzati per designare il mugolio del cane che fiuta la preda senza abbaiare, per non rivelarsi; in tono molto simile vengono inoltre descritte dal trattato le corse dei cani in piü direzioni, sulle orme della preda (ibid. 3, 5; 6, 16), e l'autore sottolinea i compiti del cacciatore ideale che, quando con la sua muta sta per raggiungere l'animale, deve sguinzagliare i cani, esortando quelli pacifici piü animosamente di quelli vivaci (ibid. 6, 25). Nelle opere dedicate all'arte venatoria é frequente il consiglio di chiamare ogni cane per nome (p. es., ibid. 6, 14). I nomi propri che ricorrono in questi versi sono stati considerati ora nomi di cani (conosciamo circa 183 nomi greci di cani, raccolti e analizzati da E.
NOTE
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Baecker, De canum nominibus Graecis, Regimontii 1884) ora di satiri. Maltese, dopo un’analisi assai documentata, con-
clude che «quelli ora esaminati hanno maggior probabilità di essere nomi di satiri piuttosto che di cani, perché si lasciano tutti ricondurre [...] all'onomastica satiresca; d’altro canto molti di essi mostrano probabili punti di contatto con l’onomastica canina, nonché la caratteristica fondamentale per i nomi greci di cani, di essere tutti “brevi, per essere facili da
pronunciare” (Senofonte, Cyn., 7, 5,) [...]». Operando una scelta raffinata, Sofocle ha introdotto in questi versi nomi di satiri che riecheggiassero nomi di cani: così agli occhi degli spettatori la trasformazione della danza satiresca in caccia e dei satiri in segugi doveva apparire completa. 50. I satiri riprendono maliziosamente Sileno con le stesse
parole con cui egli li aveva rimproverati (cfr. v. 135). Tra breve anche il vecchio sentirà il suono misterioso e assumerà l’atteggiamento codardo che ha appena rinfacciato ai suoi figli, abbandonando in tutta fretta la scena. 51. La movimentata scena della caccia dopo il v. 202 viene interrotta dal suono della lira, che ora si avverte come piü vicino; bruscamente i satiri passano dal metro lirico della danza frenetica al trimetro. Sileno si è allontanato e nei versi superstiti non lo incontreremo più (forse doveva rientrare in scena al v. 458, cfr. n. 92); la sua lunga assenza dall’azione è stata più volte oggetto di discussione tra i commentatori di Sofocle ed è uno degli argomenti che hanno convinto alcuni interpreti a sostenere che nel genere satiresco Sileno è un corifeo con ampia libertà di entrare e uscire dalla scena, come un personaggio vero e proprio, sostituito, se necessario, da un sotto-corifeo (cfr. D.F Sutton, The Greek Satyr Play, Meisenheim am Glan 1980, p. 139 ss.). Nel nostro caso i satiri arriverebbero davanti alla grotta della ninfa Cillene proprio sotto la guida di questo sostituto di Sileno. 52. Al v. 212 si accoglie, exempli gratia, l'integrazione o[ixtav ἐνταῦθ᾽ ἔχει (Siegmann, v. 212). I quattro versi successivi costituiscono un brevissimo intermezzo lirico: i satiri stanno scalpitando di fronte alla grotta, decisi a scoprire chi vi si nasconde. i 53. Movimenti scomposti e rumorosi fanno parte del com-
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portamento abituale dei satiri; Polifemo li considera «indige-
sti» per il suo stomaco proprio 220-1). Anche Virgilio parla di 54. La ninfa Cillene emerge nimo, che nell’/nno omerico a degli amori furtivi tra Maia e
per la loro vivacità (cfr. Cycl., satiri saltantes (Buc. V, 73). da una grotta del monte omoErmes è indicato come luogo Zeus, dai quali nacque il dio
(cfr. h. h. ad Merc., 1-12). Nel dramma egli viene allevato da Cillene, per volontà di Zeus, mentre nell’inno è la madre stes-
sa a prendersene cura. 55. La ninfa sottolinea la φύσις animalesca dei satiri; la definizione dei coreuti come «bestie», un tratto convenzionale
del dramma satiresco, sulla bocca di Cillene preannuncia il tono di superiorità che vena tutte le sue battute nella discussione con il coro: agli occhi della ninfa i satiri sono dei bambinoni dediti alle orge (cfr. vv. 224 ss., 366), rumorosi e confusionari, e la loro presenza è quanto mai inopportuna presso la dimora di un dio. 56. L'ambientazione in paesaggi naturali, tra boschi e montagne è tipica del genere satiresco (cfr. Introduzione, pp. 57-9). Gli accenni descrittivi di Cillene rispondono alle caratteristiche del locus amoenus: un πάγος ammantato di
boschi, dove vivono indisturbati gli animali selvatici, un territorio incontaminato che richiama quello descritto da Sileno al piccolo Perseo nei Pescatori (cfr. vv. 808 ss.). 57. Il «padrone» per il quale i satiri hanno affrontato fatiche diverse rispetto a quelle presenti è certamente Bacco, il θεός del v. 227: tipicamente dionisiache infatti sono le attività elencate da Cillene nei versi successivi (cfr. Cycl., 25, 38-40, 63-70). Il dio però è il loro signore di un tempo (v. 224 npóσθεν = «prima») e la ninfa non dà ulteriori spiegazioni sulla μετάστασις πόνων («cambiamento di fatiche», v. 223) del coro. Tutto quello che sappiamo è che i satiri hanno deciso di collaborare con Apollo per essere liberi, ma neppure questo passo ci illumina sull’identità dell’attuale δεσπότης. Il termine πόνος è comune per indicare le «fatiche» cultuali dovute a Bacco (cfr. Euripide, Ba., 66).
58. L'integrazione ὕποινος (Maltese) al v. 225, accolta nella traduzione, aggiunge un altro particolare al ritratto sprezzante che Cillene offre dei satiri.
NOTE
247
59. Le ninfe sono normalmente associate ai satiri nel corteo dionisiaco (cfr. p. es. Cycl., 430), ma suscita qualche interrogativo l'aggettivo ἐγγόνοις del v. 228, che di solito significa «discendente» e spesso è confuso con ἔκγονος, cioè «figlio». Dioniso, cui si fa riferimento al v. 227, non é mai menzionato
come padre delle ninfe, generalmente ritenute figlie di Zeus (e talvolta anche di Oceano, divinità primigenia del mare, o di Acheloo, demone dell'omonimo fiume dell’Etolia); né tan-
tomeno la paternità delle ninfe puó essere attribuita a Sileno, che è piuttosto il loro amante (il vecchio infatti è abitualmente presentato come padre dei satiri, che in alcuni casi sono detti «figli delle ninfe», cfr. v. 41 e n. 7). La traduzione con-
sidera ἔγγονος come sinonimo di sùyyovoc, che corrisponde al latino cognatus: in questo modo si supera il problema leggendo nel verso un accenno generico alla comune discendenza di Dioniso e delle ninfe, stirpe di Zeus (cfr. Maltese, op. cit., p. 88). Un'altra soluzione è quella che interpreta ἔγγονος in relazione al verbo ἐγκονεῖν («essere sollecito, darsi da fa-
re») e quindi sinonimo dell'aggettivo διάκονος, per cui le ninfe sarebbero «ministre» di Dioniso (cfr. E Ageno, Indicazioni di senso negli Ichneutai di Sofocle, in Raccolta di scritti in onore di Felice Ramorino, Milano 1927, p. 643). 60. In Platone (Res publ. 330d) il verbo στρέφειν indica il turbamento della mente che è preludio della μανία; qui sembra avere il senso, più concreto, di «mutare, deviare, far cam-
biare percorso». L’agitazione dei satiri che si comportano da segugi per la ninfa è una bizzarria incomprensibile. 61. ΑἹ v. 237 e al v. 240 la traduzione segue le integrazioni di Hunt, rispettivamente ποδῶν λακ[τίσμασιν (oppure λακῖτίσματος) e παραπεπαισμένί[ων. 62. Cillene è frastornata dalla confusione provocata dai coreuti: per questo riferisce quanto ha udito restando nella grotta, senza rispettare l’ordine cronologico degli avvenimenti. La traduzione del v. 241 segue l’intuizione che fu di Hunt: «A fair sense, however, is obtainable with ἔτι ποεῖτ᾽,
“What will you do next to an innocent nymph?”». Con l’aggettivo dvartiav, riferito a se stessa, la ninfa assume subito
una posizione di difesa, che nel protrarsi della discussione, viene estesa a Ermes. Questa anticipazione si spiega con la
248
CERCATORI DI TRACCE
condizione psicologica di Cillene, che è spaventata e preoccupata dall’arrivo dei satiri, notoriamente audaci nei confronti delle creature femminili. Ma è lecito scorgervi anche un segno di astuzia: la balia del piccolo dio, senz’altro al corrente delle prodezze del suo protetto, si prepara a coprirlo. 63. Βαθύζονος (v. 243) è un puro epiteto ornamentale, in stile omerico. Il metro dei vv. 243-50 è giambo-cretico: si tratta di un breve intermezzo che serve ad allentare la tensione creatasi tra il coro e la ninfa e a preparare il racconto di que-
st’ultima. 64. I satiri cercano di ottenere la benevolenza della ninfa, rassicurandola sulle loro intenzioni pacifiche. La traduzione si limita ad accogliere le integrazioni che aiutano a capire il senso di questi versi (ἥκω φέρων Diehl, v. 244; xpoovoA[ó&Enc κακοῖς Hunt, v. 247; πρ[όφανον τὸ πρᾶγ- Wilamowitz, v. 248).
65. Θέσπιν ἀοιδήν (v. 250) si trova nell’epica (Od. I, 328; VIII, 498; cfr. anche A. h. ad Merc., 442) e indica, di solito, il
canto accompagnato dalla lira; ma i satiri in realtà non hanno sentito nessuna «voce», quindi l’espressione potrebbe descrivere semplicemente il suono vibrante dello strumento musicale, con una reminiscenza letteraria volutamente buffa in bocca al coro. 66. L’interpretazione dei singoli versi (dal v. 251 al v. 255) è incerta, ma il senso complessivo è piuttosto chiaro: la ninfa accetta il tono più tranquillo del coro, che rinuncia ad atti di forza (v. 253), e lo invita a spiegare meglio il motivo della sua agitazione. 67. Il verbo διαχαράσσω (v. 261) significa letteralmente «grattare»: può essere qui utilizzato in senso traslato, con al-
lusione all’effetto provocato dal suono della lira, anche se non sono note altre testimonianze che lo confermino in quest'accezione. 68. Cillene menziona gli amori illeciti di Zeus. L'onnipotenza del re degli dei si manifestava con un'inesauribile vivacità anche in campo sessuale; il mito gli attribuisce infinite avventure con dee e donne mortali (un catalogo dei suoi amori appare già in Jliade XIV, 317-27), alle quali egli spesso si presentava con straordinarie metamorfosi (sotto forma di pioggia d'oro visitò Danae, che gli rinfaccia la sua colpa nei Pescatori
NOTE
249
eschilei, cfr. vv. 783-4). Fra queste c'era Maia, figlia del Titano
Atlante (cfr. v. 267), considerata la più anziana delle Pleiadi. Naturalmente questa esuberanza suscitava la terribile collera di Era, la consorte legittima, alla quale il marito tentava di te-
nere nascosti, per lo più invano, i suoi incontri amorosi. 69. Al v. 267 la traduzione accoglie l’integrazione κρυφ[αῖος di Radt, che corregge quella di Hunt e Wilamowitz (κρυφ[αίαν ἔς στέγ]ην). 70. Si tratta naturalmente di Era: cfr. h. h. ad Merc., 6 ss.:
«... il figlio di Crono / nel cuore della notte si univa alla ninfa dai bei riccioli, / all’insaputa degli dei immortali e degli uomini mortali, / mentre Era dalle bianche braccia era immersa nel dolce sonno», (trad. di G. Zanetto, Inni omerici, Milano 1996,
p. 128). Come osserva Zanetto, op. cit., p. 258, sono le modalità stesse del concepimento di Ermes a predisporlo al furto, alla frode, ai comportamenti che rientrano nella sfera della μῆτις:
la sua nascita si deve infatti a un'azione furtiva (cfr. il v. 270 λή6n τῆς βαθυζώνου θεᾶς con ἢ. h. ad Merc., v.9 Χήθων ἀθανάτους τε θεοὺς θνετούς τ᾿ ἀνθρώπους), consumata negli oscuri recessi dell’antro cillenio, e il dio è destinato a diventare l’archegeta del ladro, dell’inventore, del mercante, di tutti coloro che si
servono dell’intelligenza con pronta spregiudicatezza. 71. Festo (s.v., 45, 11 Lindsay) dà la seguente spiegazione dell'aggettivo Cyllenius, come epiteto di Ermes: alii quod in monte Arcadiae Cyllene, alii quod a Cyllene sit nympha educatus. Y Cercatori potrebbero essere la fonte di Festo, come di un analogo frammento di un Περὶ Κυλλήνης del geografo alessandrino Filostefano, conservato da uno scolio a Pindaro (schol. ad Pind. OL. VI, 1296), che concorda con Sofocle nel presentare la ninfa Cillene quale nutrice del dio; nell’Inno omerico a Ermes (vv. 154 ss.) è invece Maia stessa a prendersi cura del figlio appena nato. 72.La traduzione del v. 273 segue l’integrazione μητρὸς γ]ὰρ di Hunt; il nesso μητρὸς ἰσχὺς è una perifrasi che ben armonizza con la coloritura epica della rhesis di Cillene, percorsa dal timore reverenziale provocato dalla crescita prodigiosa di Ermes e dal senso di segretezza che avvolge l’intera vicenda. Il verbo χειμάζομαι (lett. «essere battuto dalla tempesta») è spesso usato in riferimento a persone per indicare
250
CERCATORI DI TRACCE
turbamento e sofferenza, sia fisica che morale (cfr. p. es. Eschilo, Pr., 563, Sofocle, Ant., 391); il termine è tecnico in
Ippocrate, detto dei pazienti (Prog., 24), che «soffrono (yeiμάζονται) soprattutto al quinto giorno». 73.La «culla» di Ermes è spesso presente nelle raffigurazioni vascolari che si riferiscono all’infanzia del dio; il termine λίκνον, prima dell’epoca ellenistica, appare solo nell’/nno omerico a Ermes (vv. 21, 63, 150, 254, 290, 358).
74. Al
v. 278
la
traduzione
accoglie
l’integrazione
μέγιϊστος (Hunt). La crescita prodigiosa di un fanciullo divi-
no sembra essere uno dei motivi tipici del dramma satiresco (cfr. Introduzione, p. 63), e forse in particolare di quello sofocleo. In quel che resta del Dioniso bambino Sileno è presentato come pedagogo di Dioniso infante (fr. 171 Radt): si può pensare che, nel seguito del dramma, Sofocle introducesse il particolare della crescita rapidissima del dio per poterlo presentare adulto e farlo agire nella seconda parte della vicenda (che doveva narrare la follia di Dioniso voluta da Era e la scoperta del vino; cfr. Sutton, op. cit., 1980, pp. 39-42). 75. Nell'Inno omerico a Ermes (vv. 17-8) il dio compie le sue straordinarie imprese il giorno stesso della nascita e in ordine inverso (vv. 21-60, 68 ss.) rispetto a quanto accade nei Cercatori, dove l’invenzione della lira segue il furto degli armenti di Apollo e i due fatti sono posti in relazione: infatti dai vv. 345 ss., purtroppo assai malridotti e quindi omessi dalla traduzione, risulta che i satiri
accusino
Ermes
di essersi
servito della pelle degli animali per costruire lo strumento. 76. Ai vv. 283, 284 e 286 la traduzione accoglie le seguenti integrazioni: [κατάσχε]τος (Pearson), Bpéu[ov (Hunt), ἐμηχ]ανήσατο (Hunt). Altre proposte non modificano sostan-
zialmente il senso del passo. 77.11 coro formula curiose ipotesi zoologiche (vv. 301-11) nel tentativo di capire come, dai resti di un animale morto,
Ermes abbia potuto costruire uno strumento musicale; l’accumulo dei nomi di animali contribuisce a intensificare l’atmosfera «ferina» del dramma. 78. Su questa e le altre informazioni fornite da Cillene per suggerire ai satiri la soluzione dell'enigma della tartaruga, uno dei piü diffusi «indovinelli» dell'antichità, cfr. Pacuvio,
NOTE
251
Antiop., fr. IV, TRF 3,86 ss.: quadrupes tardigrada agrestis humilis aspera, / brevi capite, cervice anguina, aspectu truci, / evi-
scerata inanima cum animali sono. 79. L'icneumone o mangusta (Herpestes ichneumon) è un mammifero carnivoro lungo circa 90 cm., che vive in Africa settentrionale e in Asia Minore; molto agile, attacca anche i
serpenti velenosi (cfr. Erodoto II, 67, 1): il coro è decisamente fuori strada! 80. Lo «scarafaggio etneo» è una presenza ricorrente sia nella Commedia Antica che nel dramma satiresco. In un frammento di Epicarmo i Pigmei attaccano Eracle a bordo di carri da guerra trainati da «scarafaggi che, si dice, nascono sull’Etna» (fr. 76 K.); nella Pace di Aristofane il contadino
Trigeo alleva a focacce di sterco questo possente insetto, affinché lo trasporti a volo sull’Olimpo. L’aggettivo Αἰτναῖος può alludere sia alle dimensioni che alla provenienza dell’animale: nel Ciclope (v. 395) «etnei» sono gli enormi vasi sacrificali di Polifemo. Già i commentatori antichi davano infatti tre spiegazioni sull’origine della fantasiosa invenzione: «etneo» significa «di dimensioni paragonabili a quelle dell’Etna», come si desume da un frammento di Platone comico
(«Giudica quanto deve essere grande l’Etna, dove dicono che gli scarafaggi sono grandi come gli uomini», fr. 37, I. 610 K.); in Sicilia vivevano realmente scarafaggi più grandi di quelli comuni e si allevava una rinomata razza di cavalli, per cui «etneo» sarebbe un attributo appropriato a un insetto utilizzato come mezzo di trasporto (cfr. A.C. Pearson, Aitvoioı κάνθαροι, «Classical Review» 28, 1914, pp. 223-4; se-
condo lo studioso al conio dell'espressione potrebbe aver contribuito anche la somiglianza di κάνθαρος e κάνθων, che significa «asino», un esempio di γέλως ἀπὸ τῆς λέξεως, ovvero un gioco di parole).
81. AI v. 309 la traduzione accoglie l'integrazione τίί 8' αὖ τὸ] φων[οὐ]ν (Hunt). 82. Il termine ὄστρακον (v. 310) designa sia il guscio o la conchiglia di animali marini e terrestri, sia, per estensione, il
vaso Ο il frammento di terracotta (usato nel gioco e nella votazione dell’esilio dei personaggi sgraditi). Cillene, incalzata dalle domande del coro, ai vv. 312-24 doveva dare ulteriori
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CERCATORI DI TRACCE
dettagli sulla costruzione della lira, così descritta nell’Inno omerico a Ermes (vv. 47-51): «Tagliò canne di giunco nella giusta misura e le fissò / nel guscio della tartaruga, dopo aver praticato dei fori. / Tutt'attorno distese con arte una pelle di bue, / applicò due bracci e li unì con un ponticello, / e tese sette corde di minugia di pecora, ben intonate» (trad. di G. Zanetto, op. cit., p. 130). In Sofocle il v. 316 («il telaio di legno a tre chiodi perforando è fissato»), citato da Polluce (X, 34), è forse il secondo membro di una similitudine che accosta la fabbricazione della lira a quella di un letto: le corde tese da un lato all’altro dello strumento probabilmente ricordano le cinghie di sostegno inchiodate agli staggi della κλίνη (cfr. Maltese, op. cit., p. 91). L'esistenza di uno strumento che corrisponde a quello di Ermes è documentata dai vasi greci fin dall’VIII sec. a.C.; la diffusione della lira è inoltre conferma-
ta dalle fonti letterarie, in primo luogo, ovviamente, dalla poesia lirica (chiamata così appunto perché eseguita con l'accompagnamento della lira), che nomina più volte uno strumento a corde chiamandolo λύρη, χέλυς (cfr. p. es. Saffo, frr. 103, 9; 118, 1 V.; Archiloco fr. 93a West). Anche gli aedi omerici, Femio a Itaca e Demodoco presso 1 Feaci, si accom-
pagnano con uno strumento a corde ($6puyE, meno spesso κίθαρις) che può essere identificato con la lira di Ermes e dei lirici: in epoca storica la poesia epica era recitata, ma evidentemente nel suo formulario si conservano le tracce di un periodo in cui i brani eroici venivano cantati. 83.I vv. 325-8 descrivono gli effetti taumaturgici della musica. Ἄκεστρον (v. 325) è citato da Esichio (a 2349 Latte) come termine sofocleo sinonimo di φάρμακον; παραψυκτήριον
equivale a παραψυχή (cfr. Euripide, Or., 62 ἀλγέων παραψυχή, «conforto delle pene»). Il verbo ἀλύω («essere fuori di sé», v. 326) è una vox media (ctr. Il. V, 352 «... ella fuggì disperata, perché orrendamente soffriva», Od. XVIII, 333 «O sei fuori
di te, perché hai vinto Iro il girovago?», trad. R. Calzecchi Onesti), qui specificata in senso positivo da χαίρει («si diverte»). Il suono della lira guarisce dagli affanni e contemporaneamente procura una gioia che «esalta» (cfr. ἐξαίρει, v. 327). Il potere terapeutico e magico della musica e del canto è tradizionalmente una prerogativa di Orfeo, ma anche Ermes se
NOTE
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ne serve per addormentare il cane Argo prima di ucciderlo. Questo motivo percorre tutta la letteratura greca: nell’inno omerico Ermes saluta argutamente la tartaruga come «graziosa danzatrice, compagna del banchetto» (v. 31); allo stesso modo Odisseo sa che la cetra è «compagna di una mensa felice» (Od. VIII, 99); ancora in età ellenistica Callimaco si espri-
me giocosamente sul tema del canto come rimedio alle pene d'amore (Ep. 46,3 Pf.). 84. A] v. 326 la traduzione accoglie le integrazioni rpoσφων[ὧν (Hunt) e μέλος (Wilamowitz). Alle parole di Cillene
segue un altro breve intermezzo lirico (vv. 329-37) in cui i satiri espongono alla ninfa il sospetto che il ladro degli armenti sia il dio nascosto nella caverna. 85. La seconda parte dell'aggettivo composto ὀρθοψάλακτος (v. 329) deriva dal verbo ψάλλειν, che significa «suonare» uno strumento a corda (con le dita, non con il plettro); é invece incerta la ricostruzione delle prime lettere: 6p6- (dall’aggettivo ὀρθός = «diritto, teso») è la proposta di Murray, ma sono possibili altre soluzioni, p. es. καλοψάλακτος di Snell. Questo verso é stato variamente interpretato per ricostruire la scenografia del dramma. L'azione si svolge nell'ambiente del monte Cillene (vv. 37-8), in uno dei suoi anfratti vive la ninfa omonima; tra pendii ricoperti di verdi boschi (v. 221) il suono della lira «discende». Al v. 282 Cillene definisce il nascondiglio di Ermes θησαυρός, una sorta di camera sotterra-
nea, che poteva comunicare con l'esterno attraverso l'ingresso della caverna. Quando la caccia incomincia (vv. 100-23), i satiri si trovano nell'orchestra, intenti a fiutare la pista (v. 124): da questa posizione essi sentono il suono proveniente dal sottosuolo, mentre Sileno non si accorge di nulla, tanto che si irrita per lo spavento dei figli, che attribuisce a vigliaccheria (vv. 131-76). La ricerca riprende e il coro si avvicina progressivamente (vv. 232 ss.) alla grotta, presumibilmente diviso in tre schiere e compiendo un percorso dal basso verso l’alto, come suggerisce il v. 166; dopo la spiegazione di Cillene, finalmente i satiri non hanno più motivo di temere: «in una ben diversa situazione scenica e acustica, e naturalmente psicologica (vv. 329-31)... il suono della lira cala armoniosamente lungo il declivio...» (Maltese, op. cit., p. 25). Secondo al-
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CERCATORI DI TRACCE
cuni l’insieme di queste indicazioni suggerisce che l’apertura della grotta sia a un livello più alto rispetto all’orchestra e coincida con la parte superiore dell’ingresso centrale della σκηνή; elementi che riproducono il paesaggio campestre completerebbero la scenografia. Nella Poetica di Aristotele (1449a 15) si legge che Sofocle «aggiunse la σκηνογραφία» alla tragedia: la notizia è troppo sintetica perché si possano stabililire i caratteri e le modalità d’impiego di questa innovazione, tuttavia è lecito pensare che essa coinvolgesse anche gli spettacoli satireschi. Alcuni studiosi, tuttavia, ritengono assai difficile ipotizzare qualsiasi ricostruzione degli allestimenti scenici in base ai soli riferimenti testuali: questi piuttosto sarebbero dei suggerimenti rivolti dal poeta agli spettatori, perché colmassero con la fantasia le lacune materiali della rappresentazione. Nel caso dei Cercatori la porta centrale dell’edificio scenico corrisponderebbe all’ingresso della caverna di Cillene, mentre a destra e a sinistra rocce, alberi e prati potrebbero essere dipinti (T.B.L. Webster, Greek Theatre production, London 1970, p. 17; P. Arnott, Greek scenic conventions in the fifth century B.C., Oxford 1972, p. 99; Sofocle, 7 braccatori, Introduzione, testo critico, traduzione e commento a cura di D.
Ferrante, Napoli 1958, pp. 19-20; H.C. Baldry, / greci a teatro. Spettacolo e forme della tragedia, tr. it. Bari 1975, pp. 15-6; U. Albini, Nel nome di Dioniso: vita teatrale nell' Atene classica,
Milano 1991). 86. Il coro ha individuato in Ermes (vv. 333-7) il colpevole del furto della mandria di Apollo, ma Cillene si mostra incredula; il senso della successiva discussione (vv. 338-70), benché i versi siano alquanto lacunosi, è chiaro: al termine del vivace scambio di battute entrambe le parti rimangono della propria opinione. La strategia difensiva di Cillene punta sull’ascendenza divina del suo protetto: un’azione infamante come il furto non si addice al figlio di Zeus e di una ninfa (cfr. vv. 340, 360-1). Si riflette qui il sostanziale aristocratismo del pensiero sofocleo, che identifica la figura del ladro con quella dell’indi-
viduo di bassa estrazione sociale, come suggeriscono i richiami al δόμος e al γένος (vv. 363-4): quella del dio non è certo una famiglia di poveracci. Non sembra lontana dal cogliere il senso del v. 363 la proposta di Wilamowitz: [ἄπορον à]kaprzov:
NOTE
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τοῦδε δ᾽ οὐ πεινῇ δόμος, «... cerca come ladro (v. 362) un pezzente; la casa di costui non è povera». 87. Ai vv. 339-40 la traduzione accoglie, rispettivamente, le
integrazioni où μὰ Aia σ᾽ ὦ rpéo]feipa, χειμάζειν [θέχω (Wilamowitz) e μῶν τὸν Διὸς παῖδ᾽ ὄϊντα φιλήτην κα[λεῖς (Hunt). Altre proposte sono comunque possibili. 88. Ai vv. 360-1 la traduzione accoglie le integrazioni οὗτος γὰρ οὔτε] (Wilamowitz, Murray) e οὔτ᾽ αὖτις ἐν u] (Wilamowitz). 89. Il richiamo al τράγος («capro», v. 367), con evidenti effetti comici, armonizza con il clima «animalesco» del dramma e forse riprende una descrizione convenzionale della barba dei satiri. La maggiore difficoltà del verso consiste piuttosto nell'interpretazione della penultima parola, le cui lettere centrali mal si distinguono sul papiro; non pare possibile leggere kvıroı (kvnkó, «color zafferano», aggettivo riferito a πώγωνι secondo Wilamowitz). L'unica alternativa ammessa,
se pure con qualche dubbio, dai vestigia papiracei sembra xaok, che può essere spiegato come καὶ ἀσκῷ; in tal caso Cillene si riferirebbe al ventre dei satiri, ricorrendo a un'imma-
gine assai popolare, secondo la quale ἀσκός era metafora di γαστήρ (cfr., p. es., Archiloco fr. 119, 1 West); un accenno ai coreuti «panciuti», come rileva Maltese, sarebbe coerente
con la sprezzante definizione dei satiri «carne, lingua e fallo», data da Sileno ai vv. 150-1. La traduzione considera χλι-
δᾷς verbo reggente di r[@y]vi... κἀσκῷ, e πίώγ]ωνι unito, ἀπὸ κοινοῦ, a θάλλων ὡς τράγος (cfr. Radt; Maltese, op. cit., p. 94). 90. L'aggettivo ἀπόψηκτος («ripulito», sinonimo di ἀπολεAoüöuevog) al v. 372 è usato in senso traslato; in questo nuovo
intermezzo lirico (vv. 371-7) i satiri accusano la ninfa di eccessiva indulgenza verso Ermes, infatti sono convinti che il dio abbia utilizzato la pelle delle vacche di Apollo per completare la costruzione della lira. 91. Ai vv. 401-2 la traduzione accoglie, rispettivamente, le integrazioni [κακῶς λέγων (Hunt) ed ἐ[ξελᾶν θέλοι (Wilamowitz). 92. La nuova sticomitia tra Cillene e il coro è quasi interamente perduta, cosi come è impossibile ricostruire con esattezza la parte finale del dramma, che poteva estendersi per
256
CERCATORI DI TRACCE
altri 300-400 versi. L'unica certezza è il ritorno di Apollo (v. 451), che probabilmente mantiene la promessa di libertà fatta ai satiri (v. 457); in margine al v. 458 un segno c (Hunt lo aveva considerato una macchia accidentale d'inchiostro) potrebbe essere l'iniziale del nome di Sileno, che rientrerebbe in scena (Siegmann); per il resto, l'ipotesi più comune, confortata dal confronto con l’Inno omerico a Ermes (435 ss.), è che avvenisse la riconciliazione tra i due fratelli divini (Ermes, ancora fanciullo, poteva restare nell’antro, non visto
dagli spettatori) con il dono della lira a Febo (cfr. C. Piraino, Per una ricostruzione della parte mancante degli Ichneutai sofoclei, «Helikon» 18-19, 1978-1979, pp. 141-60). In tal caso la struttura dei Pescatori richiamerebbe la composizione «a dittico» di alcune
tragedie
sofoclee
(Aiace,
dramma risulta infatti composto da due delle quali si sviluppa un’azione scenica: menti e la scoperta del ladro nella prima zione tra Apollo ed Ermes nella seconda
Trachinie): il
sezioni, in ognuna la ricerca degli arparte, la riconcilia(cfr. Sutton, op. cit.,
p. 45; T.B.L. Webster, An introduction to Sophocles, Oxford
1936, p. 102 e indice s.v. diptych construction).
EURIPIDE
CICLOPE*
TA TOY APAMATOZ IIPOZOTIA
ZIAHNOZ ΧΟΡΟΣ
ZATYPON
OAYZXEYZ KYKAQYP
PERSONAGGI
SILENO CORO DEI SATIRI ODISSEO CICLOPE
ZIAHNOX "Q Βρόμιε, διὰ σὲ μυρίους ἔχω πόνους νῦν χῶτ᾽ ἐν ἥβῃ τοὐμὸν εὐσθένει δέμας" πρῶτον μὲν ἡνίκ᾽ ἐμμανὴς Ἥρας ὕπο
Νύμφας ὀρείας ἐκλιπὼν ᾧχου τροφούς" ἔπειτά γ᾽ ἀμφὶ γηγενῆ μάχην δορὸς. ἐνδέξιος σῷ ποδὶ παρασπιστὴς βεβὼς Ἐγκέλαδον ἱτέαν ἐς μέσην θενὼν δορὶ
ἔκτεινα ... φέρ᾽ ἴδω, τοῦτ᾽ ἰδὼν ὄναρ λέγω; οὐ μὰ AU, ἐπεὶ καὶ σκῦλ᾽ ἔδειξα Βακχίῳ. καὶ νῦν ἐκείνων μείζον᾽ ἐξαντλῶ πόνον. ἐπεὶ γὰρ Ἥρα σοι γένος Τυρσηνικὸν λῃστῶν ἐπῶρσεν, ὡς ὁδηθείης μακράν, «ἐγὼ» πυθόμενος σὺν τέκνοισι ναυστολῶ
σέθεν κατὰ ζήτησιν. ἐν πρύμνῃ δ᾽ ἄκρᾳ 15
αὐτὸς λαβὼν ηὔθυνον ἀμφῆρες δόρυ,
παῖδες δ᾽ «ἐπ᾽ ἐρετμοῖς ἥμενοι γλαυκὴν ἅλα ῥοθίοισι λευκαίνοντες ἐζήτουν σ᾽, ἄναξ. ἤδη δὲ Μαλέας πλησίον πεπλευκότας
ἀπηλιώτης ἄνεμος ἐμπνεύσας δορὶ 20
ἐξέβαλεν ἡμᾶς τήνδ᾽ ἐς Αἰτναίαν πέτραν, iv’ οἱ μονῶπες ποντίου παῖδες θεοῦ
Κύκλωπες οἰκοῦσ᾽ ἄντρ᾽ ἔρημ᾽ ἀνδροκτόνοι, τούτων ἑνὸς ληφθέντες ἐσμὲν ἐν δόμοις
δοῦλοι: καλοῦσι δ᾽ αὐτὸν ᾧ λατρεύομεν 25
Πολύφημον: ἀντὶ δ᾽ εὐίων βακχευμάτων ποίμνας Κύκλωπος ἀνοσίου ποιμαίνομεν.
παῖδες μὲν οὖν μοι κλειτύων ἐν ἐσχάτοις νέμουσι μῆλα νέα νέοι πεφυκότες,
SILENO! Bromio,’ a causa tua passo infiniti guai;* ora, come quando ero un giovanotto robusto. La prima volta al tempo in cui, impazzito per opera di Era, te ne andasti lasciando le ninfe di montagna, le tue balie;* poi, durante la lotta contro i figli di Gea, allorché mi schierai al tuo fianco destro, come compagno d’armi, e uccisi Encelado, trapassando con l’asta il
suo scudo. Ma... è un sogno la mia storia? No, per Zeus: ho anche mostrato a Bacco i resti del nemico. E adesso sto sopportando una fatica ancora più grande. Era infatti scatenò contro di te 1 pirati tirreni, per farti vendere chissà dove:’ appena lo seppi, con i miei figli mi imbarcai alla tua ricerca. In cima alia poppa c'ero io a reggere il timone, mentre i miei figli, seduti ai banchi, coprivano di bianca spuma il mare azzurro con i colpi dei remi? e venivano a cercarti, signore. Avevamo già doppiato il promontorio Malea,' quando un vento d'Oriente, soffiando contro la nave, ci scaglió contro questa roccia dell'Etna, dove i figli del dio del mare, i Ciclopi, abitano grotte solitarie:!! hanno un occhio solo e uccidono gli uomini.!? Uno di loro ci ha catturato e ora siamo schiavi in casa sua: il nostro padrone lo chiamano Polifemo. Invece di gridare «evoè» alle feste di Bacco, portiamo al pascolo le greggi del Ciclope sacrilego! I miei figli lontano, sui colli, badano agli agnelli, loro che so-
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EURIPIDE
ἐγὼ δὲ πληροῦν πίστρα καὶ σαίρειν στέγας μένων τέταγμαι τάσδε, τῷδε δυσσεβεῖ Κύκλωπι δείπνων ἀνοσίων διάκονος.
καὶ νῦν, τὰ προσταχθέντ', ἀναγκαίως ἔχει σαίρειν σιδηρᾷ τῇδέ μ᾽ ἁρπάγῃ δόμους, ὡς τόν T ἀπόντα δεσπότην Κύκλωπ᾽ ἐμὸν 35
καθαροῖσιν ἄντροις μῆλά τ᾽ ἐσδεχώμεθα. ἤδη δὲ παῖδας προσνέμοντας εἰσορῶ
ποίμνας. τί ταῦτα; μῶν κρότος σικινίδων ὁμοῖος ὑμῖν νῦν τε yore Βακχίῳ 40
κῶμος συνασπίζοντες ᾿Αλθαίας δόμους npoofjt ἀοιδαῖς βαρβίτων σαυλούμενοι;
ΧΟΡΟΣ Tal γενναίων μὲν πατέρων
[στρ.
γενναίων δ᾽ ἐκ τοκάδων,
πᾷ δή μοι νίσῃ σκοπέλους; οὐ τᾷδ᾽ ὑπήνεμος aù45
pa καὶ ποιηρὰ βοτάνα, δινᾶέν θ᾽ ὕδωρ ποταμῶν ἐν πίστραις κεῖται πέλας ἄν-
τρῶν, οὗ σοι βλαχαὶ τεκέων;
50
ψύττ᾽ οὐ τᾷδ᾽, οὔ; οὐ τᾷδε νεμῇ κλειτὺν δροσεράν; ON, ῥίψω πέτρον τάχα oov:
[μεσῳδ.
ὕπαγ᾽ ὦ ὕπαγ᾽ ὦ κεράστα μηλοβότα στασιωρὲ
Κύκλωπος ἀγροβάτα. 55
σπαργῶντας μαστοῦυς χάλασον᾽ δέξαι θηλὰς πορίσασ᾽
[ἀντ.
CICLOPE
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no giovani, invece io, stando qui, sono costretto a
riempire d’acqua gli abbeveratoi, a spazzare questa grotta e a servire pasti sacrileghi a quest’empio Ciclope.!? Anche ora, tali sono gli ordini: devo ripulire la casa! con questo rastrello di ferro, per accogliere al suo ritorno il mio padrone e le sue greggi in una caverna pulita. Ecco che già vedo i miei ragazzi spingere le pecore all’ovile.!* Ma che cos'é questo baccano? Ballate la sicinnide," come quando seguivate Bacco nei corteil? e venivate alla casa di Altea,? ancheggiando al suono della lira? (Entra nell'orchestra il coro dei satiri, che danzano, fingendo di inseguire un ariete.) coro?
Figlio di nobili padri
e di nobili madri?!
perché mi scappi tra le rupi? Non é mite l'aria qui, e verde l'erba? E l'acqua vorticosa dei fiumi si ferma nelle vasche vicino alle grotte. Non senti i belati dei tuoi piccoli? Presto.? Vieni qui o no? Non vuoi brucare l'erba bagnata della collina? Guarda che tra poco ti tiro un sasso. Dài, dài, cornuto, avanti,
sei tu il guardiano nell'ovile del Ciclope, girovago pastore.” (I coreuti apostrofano una pecora.) E tu, svuota le mammelle gonfie;
offri i capezzoli ai tuoi figli
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EURIPIDE
odg λείπεις ἀρνῶν θαλάμοις. ποθοῦσί σ᾽ ἁμερόκοιτοι βλαχαὶ σμικρῶν τεκέων. εἰς αὐλὰν πότ᾽ Τἀμφιβαίνειςΐ ποιηροὺς λιποῦσα νομοὺς Αἰτναίων εἴσω σκοπέλων;
60
οὐ τάδε Βρόμιος, où τάδε χοροὶ Βάκχαι τε θυρσοφόροι, οὐ τυμπάνων ἀλαλαγμοί, οὐκ οἴνου χλωραὶ σταγόνες κρήναις παρ᾽ ὈὉδροχύτοις᾽ οὐδ᾽ ἐν Νύσᾳ μετὰ Nuyφᾶν ἴακχον ἴακχον ᾧδὰν μέλπω πρὸς τὰν ᾿Αφροδί-
65 67 66 68 70
ταν, ἂν θηρεύων πετόμαν
Βάκχαις σὺν λευκόποσιν. TO φίλος ὦ φίλε Βακχεῖε ποῖ οἰοπολεῖς ξανθὰν χαίταν σείεις:
75
ἐγὼ 8 ὁ σὸς πρόπολος Κύκλωπι θητεύω
τῷ μονοδέρκτᾳ δοῦλος ἀλαίνων σὺν τᾷδε τράγου χλαίνᾳ μελέᾳ
80
σᾶς χωρὶς φιλίας. Σι.
σιγήσατ᾽, ὦ τέκν᾽, ἄντρα δ᾽ ἐς πετρηρεφῆ
ποίμνας ἀθροῖσαι προσπόλους κελεύσατε. χωρεῖτ᾽: ἀτὰρ δὴ τίνα, πάτερ, σπουδὴν ἔχεις; 85
2a.
ὁρῶ πρὸς ἀκταῖς ναὸς Ἑλλάδος σκάφος κώπης t ἄνακτας σὺν στρατηλάτῃ τινὶ
στεΐχοντας ἐς τόδ᾽ ἄντρον ἀμφὶ δ᾽ αὐχέσιν τεύχη φέρονται κενά, βορᾶς κεχρημένοι,
κρωσσούς θ᾽ ὑδρηλούς. ὦ ταλαίπωροι ξένοι: 90
τίνες ποτ᾽ εἰσίν; οὐκ ἴσασι δεσπότην
Πολύφημον οἷός ἐστιν, ἄξενον τε γῆν
[ἐπῳδ.
CICLOPE
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che lasci negli ovili." Reclamano te i belati dei tuoi piccoli; loro dormono di giorno. Vuoi entrare nel recinto e lasciare finalmente i pascoli verdi sotto le rupi dell'Etna? Qui Bromio non c’è, non ci sono balli, né Baccanti armate di tirso,
nessun rullo di timpani, vicino alle sorgenti ricche d'acqua non stillano-gocce di vino spumeggianti.? Non canto piü «Iacco, Iacco»,° a Nisa?” con le ninfe, in onore di Afrodite.?8 A caccia di lei volavo con le Baccanti dai bianchi piedi! Bacco mio, caro Bacco, dove vai tutto solo,
scuotendo i tuoi capelli biondi??? Io, il tuo ministro,
sono schiavo del Ciclope, che vede con un occhio solo, e vado in giro con questa misera pelle di caprone;?! lontano dalla tua amicizia. SILENO Tacete, figli, e ordinate ai servi di radunare le pecore dentro la caverna rocciosa.? CORO
Avanti! Ma, padre, che fretta c'e?
SILENO Vedo sulla riva lo scafo di una nave greca e dei marinai con il loro capo, che si dirigono verso questa caverna;? sulle spalle portano ceste vuote, segno che hanno fame, e recipienti per l'acqua. Poveri forestieri! Chi saranno mai? Non sanno che padrone è Polifemo: hanno messo piede su una terra inospitale
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EURIPIDE
τήνδ᾽ ἐμβεβῶτες καὶ Κυκλωπίαν γνάθον τὴν ἀνδροβρῶτα δυστυχῶς ἀφιγμένοι. ἀλλ᾽ ἥσυχοι γίγνεσθ᾽, iv ἐκπυθώμεθα πόθεν πάρεισι Σικελὸν Αἰτναῖον πάγον.
95
ΟΔΥΣΣΕΥ͂Σ ξένοι, φράσαιτ᾽ ἂν νᾶμα ποτάμιον πόθεν
δίψης ἀκος λάβοιμεν εἴ τέ τις θέλει βορὰν ὁδῆσαι ναυτίλοις κεχρημένοις; «&a»
ti χρῆμα; Βρομίου πόλιν Eoıynev ἐσβαλεῖν" 100 Zi. Oò. 105
110
Σατύρων χαίρειν χαῖρ᾽, ὦ Ἴθακος
πρὸς ἄντροις τόνδ᾽ ὅμιλον εἰσορῶ. προσεῖπα πρῶτα τὸν γεραίτατον. ξέν᾽, ὅστις δ᾽ εἶ φράσον πάτραν τε σήν. Ὀδυσσεύς, γῆς Κεφαλλήνων ἀναξ.
Σι.
οἶδ᾽ ἄνδρα, κρόταλον δριμύ, Σισύφου γένος.
OS.
ἐκεῖνος αὐτός εἰμι: λοιδόρει δὲ μή.
Σι. Oò. Σι. O8.
πόθεν Σικελίαν τήνδε ναυστολῶν πάρει; ἐξ Ἰλίου γε κἀπὸ Τρωϊκῶν πόνων. πῶς; πορθμὸν οὐκ ἤδησθα πατρῴας χθονός; ἀνέμων θύελλαι δεῦρό μ᾽ ἥρπασαν Bia.
Zi.
nano‘ τὸν αὐτὸν δαίμον᾽ ἐξαντλεῖς ἐμοί.
Οδ. ἦ καὶ σὺ δεῦρο πρὸς βίαν ἀπεστάλης;
115
Zi.
λῃστὰς διώκων οἱ Βρόμιον ἀνήρπασαν.
Οὗ. Σι.
τίς δ᾽ ἥδε χώρα καὶ τίνες ναϊουσί νιν; Αἰτναῖος ὄχθος Σικελίας ὑπέρτατος.
O8. Zi.
τείχη δὲ ποῦ ᾽στι καὶ πόλεως πυργώματα; οὐκ ἔστ᾽ ἔρημοι πρῶνες ἀνθρώπων, ξένε.
O8.
τίνες δ᾽ ἔχουσι γαῖαν; ἦ θηρῶν γένος;
CICLOPE
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e, per loro sfortuna, sono capitati nelle fauci del Ci-
clope cannibale. Ma state calmi, così sapremo per quale rotta sono approdati in Sicilia, alle pendici dell'Etna. (Entra Odisseo con un gruppo di compagni.) ODISSEO* Stranieri, sapreste dirci dove trovare una sorgente per placare la sete e se c’è qualcuno disposto a vendere cibo a dei marinai affamati? Ma, so-
gno o son desto? Sembra di essere sbarcati in una città di Bromio: davanti alle grotte vedo una frotta di satiri. Per primo saluto il più anziano. SILENO Salute a te, straniero. Dicci chi sei e qual è la tua patria. ODISSEO Odisseo di Itaca, signore dei Cefalleni.?” SILENO Lo conosco quello, è un chiacchierone pungen16,38 della razza di Sisifo.
ODISSEO Sono io in persona, non insultarmi. SILENO Da dove arrivi, per mare, qui in Sicilia? ODISSEO
Da Ilio, dalle battaglie di Troia.
SILENO Come, non conoscevi la rotta per tornare a casa tua? ODISSEO La furia del vento mi ha trascinato qui, contro la mia volontà. SILENO Ohibò, ti tocca un destino uguale al mio. ODISSEO Anche tu sei finito qui senza volerlo? SILENO Sì, mentre davo la caccia ai pirati che avevano rapito Bromio. ODISSEO Che paese è questo? E chi lo abita? SILENO
Il monte Etna, il più alto della Sicilia.
ODISSEO Ma dove sono le mura e le torri della città? SILENO Non ce ne sono. Solo montagne senza uomini, straniero. ODISSEO E allora chi occupa questa terra? Gli animali selvatici?
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120
21.
Κύκλωπες, ἄντρ᾽ ἔχοντες, οὐ στέγας δόμων.
Οὗ.
τίνος κλύοντες; ἢ δεδήμευται κράτος;
Σι.
μονάδες: ἀκούει δ᾽ οὐδὲν οὐδεὶς οὐδενός.
Οὗ.
σπείρουσι δ᾽ -- ἢ τῷ ζῶσι; -- Δήμητρος στάχυν; γάλακτι καὶ τυῤοῖσι καὶ μήλων βορᾷ.
à.
Οὗ. Σι. 125
φιλόξενοι δὲ χώσιοι περὶ ξένους;
dI.
γλυκύτατά φασι τὰ κρέα τοὺς ξένους φορεῖν. τί φής; βορᾷ χαίρουσιν ἀνθρωποκτόνῳ; οὐδεὶς μολὼν δεῦρ᾽ ὅστις οὐ κατεσφάγῃ.
ZI.
O8. Σι.
Οὗ. Σι.
03. A. 135
Οὗ.
αὐτὸς δὲ Κύκλωψ ποῦ ᾽στιν; ἦ δόμων ἔσω; φροῦδος πρὸς Αἴτνῃ θῆρας ἰχνεύων κυσίν.
οἶσθ᾽ οὖν ὃ δρᾶσον, ὡς ἀπαίρωμεν χθονός; οὐκ οἶδ᾽, Ὀδυσσεῦ: πᾶν δέ σοι δρῴημεν ἄν. ὅδησον ἡμῖν oitov, οὗ σπανίζομεν. οὐκ ἔστιν, ὥσπερ εἶπον, ἄλλο πλὴν κρέας. ἀλλ᾽ ἡδὺ λιμοῦ καὶ τόδε σχετήριον.
Σι.
καὶ τυρος óziac ἔστι καὶ βοὸς γάλα.
Οὗ. O6.
EKbEPETE φῶς γὰρ ἐμπολήμασιν πρέπει. σὺ δ᾽ ἀντιδώσεις, εἰπέ μοι, χρυσὸν πόσον; οὐ χρυσόν, ἀλλὰ πῶμα Διονύσου φέρω.
Zu.
ὦ φίλτατ᾽ εἰπών, οὗ σπανίζομεν πάλαι.
Σι. 140
Βρομίου δὲ πῶμ᾽ ἔχουσιν, ἀμπέλου ῥοάς; ἥκιστα᾽ τοιγὰρ ἄχορον οἰκοῦσι χθόνα.
Oo.
O8. 130
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SILENO I Ciclopi, e vivono nelle grotte, non hanno un tetto.
ODISSEO Di chi sono sudditi? O il potere è del popolo? SILENO Vivono solitari, e nessuno obbedisce a nessuno, per niente. ODISSEO Seminano la spiga di Demetra, o di che vivono? SILENO Di latte, di formaggio, di carne di pecora. ODISSEO
E
hanno
la bevanda
di Bromio,
il succo
d’uva? SILENO Assolutamente no: per questo abitano una terra senza danze. ODISSEO Sono ospitali e rispettosi con gli stranieri? SILENO Dicono che le carni degli stranieri sono gustosissime. ODISSEO Cosa? Gli piace ammazzare la gente e poi mangiarsela? SILENO Chiunque sia arrivato qui, è finito al macello. ODISSEO Ma questo Ciclope, dov'é? Dentro la grotta? SILENO E lontano, sull'Etna, a caccia di selvaggina con i cani. ODISSEO Sai che cosa devi fare, allora, per farci levare l'ancora da questo paese? SILENO Non lo so Odisseo, ma per te faremmo qualsiaSi cosa. ODISSEO
Vendici del cibo, non ne abbiamo.
SILENO Non c’è altro che carne, te l'ho già detto. ODISSEO E allora? È un buon rimedio contro la fame. SILENO (ὃ anche formaggio ai fichi, e latte di mucca. ODISSEO Portate fuori la roba. Ci vuole luce per gli affari. SILENO E tu, sentiamo, quanto oro mi darai in cambio? ODISSEO Non ti porto oro, ma il liquore di Dioniso. SILENO Che buona notizia! Non ne abbiamo da tanto tempo.
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Oò. Zt. O8.
καὶ μὴν Μάρων μοι πῶμ᾽ ἔδωκε, παῖς θεοῦ. ὃν ἐξέθρεψα ταῖσδ᾽ ἐγώ not ἀγκάλαις; ὁ Βακχίου παῖς, ὡς σαφέστερον μάθης.
ZI.
ἐν σέλμασιν νεώς ἐστιν ἢ φέρεις σύ νιν; ὅδ᾽ ἁσκὸς ὃς κεύθει νιν, ὡς ὁρᾷς, γέρον.
Οὗ. Σι. «Οὗ. «LI.
οὗτος μὲν οὐδ᾽ ἂν τὴν γνάθον πλήσειέ μου.
Oò. Σι. O8. ZI. Οὗ. Zi. Οὗ, Σι. Οὗ. Σι. Οὗ.
vai: δὶς τόσον πῶμ᾽ ὅσον ἂν ἐξ ἀσκοῦ ῥυῇ. καλήν γε κρήνην εἶπας ἡδεῖάν v ἐμοί. βούλῃ σε γεύσω πρῶτον ἄκρατον μέθυ;
Σι.
Σ >
δίκαιον" ἦ γὰρ γεῦμα τὴν ὠνὴν καλεῖ. καὶ μὴν ἐφέλκω καὶ ποτῆρ᾽ ἀσκοῦ péta. φέρ᾽ ἐγκάναξον, ὡς ἀναμνησθῶ πιών. ἰδού.
παπαιάξ, ὡς καλὴν ὀσμὴν ἔχει.
εἶδες γὰρ αὐτήν; οὐ μὰ AV, ἀλλ᾽ ὀσφραΐνομαι. γεῦσαί νυν, ὡς ἂν μὴ λόγῳ ᾿παινῇς μόνον. Bapai: χορεῦσαι παρακαλεῖ μ᾽ ὁ Βάκχιος.
à à d. Οὗ. 160
165
μῶν τὸν λάρυγγα διεκάναξέ σου καλῶς;
Σι.
ὥστ᾽ εἰς ἄκρους γε τοὺς ὄνυχας ἀφίκετο.
Οὗ. Σι. Οὗ. Σι.
πρὸς τῷδε μέντοι καὶ νόμισμα δώσομεν. χάλα τὸν ἀσκὸν μόνον’ ἔα τὸ χρυσίον. ἐκφέρετέ νυν τυρεύματ᾽ ἢ μήλων τόκον. δράσω τάδ᾽, ὀλίγον φροντίσας γε δεσποτῶν. ὡς ἐκπιών γ᾽ ἂν κύλικα μαινοίμην μίαν, πάντων Κυκλώπων ἀντιδοὺς βοσκήματα
ῥίψας 1 ἐς ἅλμην Λευκάδος πέτρας ἄπο
cicLoPE
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ODISSEO A me lo ha dato proprio Marone, il figlio di un dio.? SILENO Il dio che ho cresciuto io un tempo, tenendolo tra le mie braccia? ODISSEO Apri bene le orecchie: il figlio di Bacco. SILENO È sulla nave il vino, o te lo sei portato qui? ODISSEO
Ecco l’otre che lo racchiude, come vedi, vec-
chio. SILENO Ma questo non basta nemmeno a bagnarmi le labbra! ODISSEO Sì. Mentre esce, il vino dentro l’otre raddoppia. SILENO Parli di una fonte meravigliosa. Mi piace! ODISSEO Vuoi incominciare a gustare del vino puro?^ SILENO Giusto: l'assaggio invita all'acquisto. ODISSEO Per questo mi porto anche una coppa insieme all'otre. SILENO Däi, fallo gorgogliare, cosi mi ricorderò che cosa significa bere. ODISSEO (Versa del vino nella coppa) Ecco. SILENO Oooh! Che bell'aroma che ha!5 ODISSEO
Come, lo hai visto forse?
SILENO No, per Zeus, peró lo sento. ODISSEO Forza, assaggia, non lodarlo
soltanto
in
astratto.
SILENO (Beve) Che delizia: Bacco mi invita a ballare. (Accennando un passo di danza) Aaah! ODISSEO Ti ha gorgogliato bene nella gola? SILENO Altro che! Fino alle unghie dei piedi mi è sceso. ODISSEO E ovviamente in più ti daremo del denaro." SILENO Basta che sciogli il nodo dell’otre, lascia stare l'oro. ODISSEO Portate fuori i formaggi o gli agnelli. SILENO Lo faró, me ne infischio dei padroni. Potrei impazzire per una sola coppa di vino: darei in cambio tutte le greggi dei Ciclopi e poi mi getterei nel mare
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ἅπαξ μεθυσθεὶς καταβαλών τε τὰς ὀφρῦς. ὡς ὅς γε πίνων μὴ γέγηθε μαίνεται᾽ ἵν᾽ ἔστι τουτί τ᾽ ὀρθὸν ἐξανιστάναι 170
μαστοῦ τε δραγμὸς καὶ frapecxevacuevovt ψαῦσαι χεροῖν λειμῶνος ὀρχηστύς θ᾽ ἅμα
κακῶν τε λῆστις. εἶτ᾽ ἐγὼ «ob» κυνήσομαι 175
Χο. Οὗ. Χο. Οδ. Χο,
180
τοιόνδε πῶμα, τὴν Κύκλωπος ἀμαθίαν κλαίειν κελεύων καὶ τὸν ὀφθαλμὸν μέσον; ἄκον᾽, Ὀδυσσεῦ: διαλαλήσωμέν τί σοι. καὶ μὴν φίλοι γε προσφέρεσθς πρὸς φίλον. ἐλάβετε Τροίαν τὴν Ἑλένην τε χειρίαν; καὶ πάντα γ᾽ οἶκον Πριαμιδῶν ἐπέρσαμεν. οὔκουν, ἐπειδὴ τὴν νεᾶνιν ELAETE, ἅπαντες αὐτὴν διεκροτήσατ᾽ ἐν μέρει,
ἐπεί γε πολλοῖς ἥδεται γαμουμένη, τὴν προδότιν, ἢ τοὺς ϑυλάκους τοὺς ποικίλους
περὶ τοῖν σκελοῖν ἰδοῦσα καὶ τὸν χρύσεον κλῳὸν φοροῦντα περὶ μέσον τὸν αὐχένα 185
ἐξεπτοήθη, Μενέλεων ἀνθρώπιον λῷστον λιποῦσα; μηδαμοῦ γένος ποτὲ
φῦναι γυναικῶν WHEN, εἰ μὴ Hol μόνῳ. Zi.
ἰδού" τάδ᾽ ὑμῖν ποιμένων βοσκήματα,
ἄναξ Ὀδυσσεῦ, μηκάδων ἀρνῶν τροφαί, 190
195
πηκτοῦ γάλακτός 7 οὐ σπάνια τυρεύματα.
O8. Σι. Οδ. Zi.
φέρεσθε: χωρεῖθ᾽ ὡς τάχιστ᾽ ἄντρων ἄπο, βότρυος ἐμοὶ πῶμ᾽ ἀντιδόντες εὐίου. οἴμοι: Κύκλωψ ὅδ᾽ ἔρχεται᾽ τί δράσομεν; ἀπολώλαμεν τἄρ᾽, ὦ γέρον: ποῖ χρὴ φυγεῖν; ἔσω πέτρας τῆσδ᾽, οὕπερ ἂν λάθοιτέ γε. δεινὸν τόδ᾽ εἶπας, ἀρκύων μολεῖν ἔσω. οὗ δεινόν: εἰσὶ καταφυγαὶ πολλαὶ πέτρας.
CICLOPE
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dalla rupe di Leucade," ubriaco per una volta ancora, e libero da ogni pensiero. Chi non gode nel bere è pazzo. Allora anche questo qui” si raddrizza e si tengono in pugno le tette, le mani accarezzano il praticello ben curato,? si danza e i mali si dimenticano. E io non bacerò un simile liquore? Vada in malora il Ciclope ignorante, con il suo occhio in mezzo alla fronte! (Entra nella grotta per prendere le merci.) coro
Ascolta Odisseo, ci piacerebbe chiacchierare un
po’ con te. ODISSEO Parlate pure: siamo tra amici. CORO Avete conquistato Troia ed Elena? ODISSEO E abbiamo distrutto l'intera famiglia dei Priamidi. CORO
Racconta, una volta presa la ragazza, non ve la
siete sbattuta tutti a turno? Tanto a lei piace avere molti uomini: è una traditrice. Vedendo un paio di brache colorate su cosce di maschio e una collana d’oro al collo," perse la testa e piantò in asso quel
brav'uomo? di Menelao. Magari non fosse mai nata la razza delle donne!... Tranne che per me, natural-
mente. SILENO (Uscendo dalla grotta) Ecco, principe Odisseo, sono per voi questi agnelli, allevati dai pastori e dalle pecore belanti,’* ed ecco un po’ di formaggio fatto di latte rappreso. Portateli via; allontanatevi al più presto dalla caverna, dopo avermi dato in cambio il succo dell’uva, dono di Bacco. Ahimè! Sta arrivando
il Ciclope: che facciamo? ODISSEO E un bel guaio, vecchio mio. gire? SILENO Dentro la grotta, li passerete ODISSEO Che assurdità dici! Infilarci SILENO Non é un'assurdità. Ci sono grotta.
Dove si può fuginosservati. nella trappola!? molti ripari nella
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O6. 200
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οὐ δῆτ᾽ ἐπεί τἂν μεγάλα γ᾽ Tpota otévot, εἰ φευξόμεσθ᾽ ἕν᾽ ἄνδρα, μυρίον δ᾽ ὄχλον Φρυγῶν ὑπέστην πολλάκις σὺν ἀσπίδι. ἀλλ᾽, εἰ θανεῖν δεῖ, κατθανούμθθ᾽ εὐγενῶς, ἢ ζῶντες αἶνον τὸν πάρος συσσώσομεν.
ΚΥΚΛΩΨ
ÜVEXE πάρεχε. τί τάδε; vic ἡ ῥᾳθυμία; τί βακχιάζετ᾽; οὐχὶ Διόνυσος τάδε, οὐ κρόταλα χαλκοῦ τυμπάνων τ᾽ ἀράγματα.
205
πῶς μοι κατ᾽ ἄντρα veóyova βλαστήματα;
N πρός γε μαστοῖς εἰσι χὐπὸ μητέρων πλευρὰς τρέχουσι, σχοινίνοις τ᾽ ἐν τεύχεσιν 210
Χο.
πλήρωμα τυρῶν ἐστιν ἐξημελγμένον; τί φατε; τί λέγετε; τάχα τις ὑμῶν τῷ ξύλῳ δάκρυα μεθήσει. βλέπετ᾽ ἄνω καὶ μὴ κάτω. i600: πρὸς αὐτὸν τὸν Δί᾽ ἀνακεκύφαμεν
καὶ τἄστρα καὶ τὸν Ὠρίωνα δέρκομαι. Κυ. Χο. Kv. Xo.
220
ἄριστόν ἐστιν εὖ παρεσκευασμένον; πάρεστιν: ὁ φάρυγξ εὐτρεπὴς ἔστω μόνον.
ἦ καὶ γάλακτός εἰσι κρατῆρες πλέῳ;
Kv.
Got ἐκπιεῖν γέ σ᾽, ἣν θέλῃς, ὅλον πίθον. μήλειον ἢ βόειον ἢ μεμειγμένον;
Xo. Kv.
ἥκιστ᾽ ἐπεὶ μ᾽ ἂν ἐν μέσῃ τῇ γαστέρι
ὃν ἂν θέλῃς σύ᾽ μὴ ᾽μὲ καταπίῃς μόνον. πηδῶντες ἀπολέσαιτ᾽ ἂν ὑπὸ τῶν σχημάτων.
ἔα: τίν᾽ ὄχλον τόνδ᾽ ὁρῶ πρὸς αὐλίοις; λῃσταί τινες κατέσχον ἢ κλῶπες χθόνα;
ὁρῶ γέ τοι τούσδ᾽ ἄρνας ἐξ ἄντρων ἐμῶν στρεπταῖς λύγοισι σῶμα συμπεπλεγμένους τεύχη TE τυρῶν συμμιγῇ γέροντά τε
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πληγαῖς πρόσωπον φαλακρὸν ἐξῳδηκότα.
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ZI. Kv. Zi. Kv.
ὦμοι, πυρέσσω συγκεκομμένος τάλας.
ὑπὸ τοῦ; τίς ἐς σὸν κρᾶτ᾽ ἐπύκτευσεν, γέρον; ὑπὸ τῶνδε, Κύκλων, ὅτι τὰ σ᾽ οὐκ εἴων φέρειν.
οὐκ ἧσαν ὄντα θεόν με καὶ θεῶν ἄπο;
cicLoPe
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ODISSEO No, piangerebbe forte Troia, se ora fuggissimo davanti a uno solo, mentre io più di una volta tenni testa a migliaia di Frigi con il mio scudo. Ma, se dobbiamo morire, moriamo con onore, oppure, se vivremo, salviamo l’antica fama.
CICLOPE Fermi, fate largo! Che succede? Perché vi divertite? Perché festeggiate Bacco? Non c’è Dioniso qui, non ci sono nacchere di bronzo e strepito di timpani. Come stanno, là nella grotta, i miei agnellini appena nati? Sono già attaccati alle poppe, corrono sotto le madri? E 1 canestri di vimini sono pieni di formaggi freschi? Non parlate? Che dite? Presto uno di voi lo farò piangere con il mio bastone. Alzate la testa, non abbassate gli occhi. CORO Ecco: li teniamo rivolti proprio a Zeus, vediamo le stelle e Orione. CICLOPE Il mio pranzo è stato preparato bene? CoRO È pronto. Basta che sia pronta la tua gola. CICLOPE E i crateri” sono pieni di latte? coro Eccome! Se vuoi puoi bertene un orcio intero. CICLOPE Latte di pecora, di mucca o mescolato? coro Quello che piace a te. Purché non divori me. CICLOPE Per carità! Ballandomi dentro la pancia mi fareste morire a furia di salti. Ehi! Chi è tutta questa gente che vedo davanti alla caverna? I pirati o 1 ladri hanno invaso il paese? Quel che vedo sono proprio gli agnelli della mia grotta legati con corde di giunco, canestri pieni di formaggi e il vecchio con la testa calva gonfia per le botte.” SILENO Ahi! Povero me, mi hanno picchiato e adesso ho la febbre. CICLOPE Chi è stato? Chi ha preso a pugni la tua testa, vecchio? SILENO Sono stati loro, Ciclope, perché non gli permettevo di portare via la tua roba. CICLOPE Non sapevano che io sono un dio e figlio di dei?
276
EURIPIDE
Zi.
ἔλεγον ἐγὼ τάδ᾽" οἱ δ᾽ ἐφόρουν τὰ χρήματα, καὶ τόν γε τυρὸν οὐκ ἐῶντος ἤσθιον τούς t ἄρνας ἐξεφοροῦντο᾽ δήσαντες δὲ σὲ
κλῳῷ τριπήχει, κάτα τὸν ὀφθαλμὸν μέσον ...
235
τὰ σπλάγχν᾽ ἔφασκον ἐξαμήσεσθαι βίᾳ, μάστιγί t εὖ τὸ νῶτον ἀπολέψειν σέθεν, κἄπειτα συνδήσαντες £c θάδώλια 240 Ku.
245
250
24.
τῆς ναὸς ἐμβαλόντες ἀποδώσειν τινὶ πέτρους μοχλεύειν, ἢ ᾿ς μυλῶνα καταβαλεῖν. ἄληθες; οὔκουν κοπίδας ὡς τάχιστ᾽ ἰὼν θήξεις μαχαίρας καὶ μέγαν φάκελον ξύλων ἐπιθεὶς ἀνάψεις; ὡς σφαγέντες αὐτίκα πλήσουσι νηδὺν τὴν ἐμὴν ἀπ᾿ ἄνθρακος θερμὴν διδόντες δαῖτα τῷ κρεανόμῳ, τὰ δ᾽ ἐκ λέβητος ἐφθὰ καὶ τετηκότα. ὡς ἔκπλεώς γε δαιτός εἰμ᾽ ópgokóov
ἅλις λεόντων ἐστί μοι θοινωμένῳ ἐλάφων τε, χρόνιος δ᾽ εἴμ᾽ ἀπ᾿ ἀνθρώπων βορᾶς. τὰ καινά γ᾽ ἐκ τῶν ἠθάδων, ὦ δέσποτα,
ἡδίον᾽ ἐστίν. οὐ γὰρ οὖν νεωστί γε Οὗ.
ἄλλοι πρὸς ἄντρα σοὐσαφίκοντο ξένοι. Κύκλωψ, ἄκουσον ἐν μέρει καὶ τῶν ξένων. ἡμεῖς βορᾶς χρήζοντες ἐμπολὴν λαβεῖν σῶν ἄσσον ἄντρων ἤλθομεν νεὼς ὄπο.
255
τοὺς δ᾽ ἄρνας ἡμῖν οὗτος ἀντ᾽ οἴνου σκύφου ἀπημπόλα τε κἀδίδου πιεῖν λαβὼν
ἑκὼν ἑκοῦσι, κοὐδὲν ἦν τούτων βίᾳ.
ἀλλ᾽ οὗτος ὑγιὲς οὐδὲν ὧν φησιν λέγει, ἐπεὶ κατελήφθη σοῦ λάθρᾳ πωλῶν τὰ σά.
260 Σι.
Οὗ. Σι.
ἐγώ; κακῶς γ᾽ ἄρ᾽ ἐξόλοι΄. εἰ ψεύδομαι.
μὰ τὸν Ποσειδῶ τὸν τεκόντα σ᾽, ὦ Κύκλωψ, μὰ τὸν μέγαν Τρίτωνα καὶ τὸν Νηρέα,
265
μὰ τὴν Καλυψὼ τάς τε Νηρέως κόρας, μὰ θαϊερὰ κύματ᾽ ἰχθύων τε πᾶν γένος, ἀπώμοσ᾽, ὦ κάλλιστον ᾧ Κυκλώπιον,
ὦ δεσποτίσκε, μὴ τὰ σ᾽ ἐξοδᾶν ἐγὼ
cicLope
SILENO
277
Continuavo a dirglielo, io; ma loro si prende-
vano la tua roba, contro la mia volontà mangiavano il formaggio e trascinavano fuori gli agnelli. E avevano intenzione, così ripetevano, di legarti con una catena di tre cubiti, strapparti l'occhio e le budelle,90 scorticarti la schiena con la frusta. Poi, incatenato, ti
avrebbero gettato sui banchi della nave e venduto a qualcuno per trasportare sassi o per girare la macina di un mulino. CICLOPE
Davvero? E allora corri ad affilare i coltelli,
ammucchia un bel fascio Così, scannati all’istante, offrendo allo scalco* un arrostita alla brace e un bidissima. Ho la nausea
di legna e accendi il fuoco. riempiranno la mia pancia, pasto caldo di carne, un po’ po’ bollita in pentola, mordi selvaggina; ne ho abba-
stanza di leoni e di cervi a colazione, è tanto che non
mi nutro di uomini. SILENO La novità, dopo il solito menù, fa piacere, signore mio. È proprio da un pezzo che non arrivavano stranieri alla tua grotta. ODISSEO
Ciclope, ascoltaci, anche se siamo stranieri: è
il nostro turno. Avendo bisogno di viveri siamo sbarcati e ci siamo diretti alla tua caverna per comprarli. Questo individuo (indicando Sileno) voleva barattare gli agnelli con una tazza di vino e ce li ha conse-
gnati dopo aver bevuto; noi li abbiamo chiesti e lui ce li ha dati: non c’è stata violenza. Sono tutte frottole le sue: dice così adesso, perché lo hai sorpreso a vendere di nascosto la tua roba. SILENO Io? Ma che ti venga un accidente! ODISSEO Se mento. SILENO Per Poseidone, che ti ha generato, Ciclope, per il grande Tritone, per Nereo, per Calipso e le vergini figlie di Nereo, per le sacre onde e per tutte le razze dei pesci, ti giuro, bellissimo Ciclopino, padroncino mio: non stavo vendendo agli stranieri la tua ro-
278
EURIPIDE
ξένοισι χρήματ᾽.
ἢ κακῶς οὗτοι κακοὶ
οἱ παῖδες ἀπόλοινθ᾽, οὺς μάλιστ᾽ ἐγὼ φιλῶ. 270
X0.
Kv.
αὐτὸς Éy. ἔγωγε τοῖς περνάντα σ᾽ εἶδον: εἰ ἀπόλοιθ᾽ ὁ πατήρ μον’ ψεύδεσθ᾽- ἔγωγε τῷδε
ξένοις τὰ χρήματα δ᾽ ἐγὼ ψευδῆ λέγω, τοὺς ξένους δὲ μὴ ἀδίκει. τοῦ Ῥαδαμάνθυος
μᾶλλον πέποιθα καὶ δικαιότερον λέγω. θέλω δ᾽ ἐρέσθαι’ πόθεν ἐπλεύσατ᾽, ὦ ξένοι;
275
ποδαποί; τίς ὑμᾶς ἐξεπαίδευσεν πόλις;
05.
280 Κυ.
Ἰθακήσιοι μὲν τὸ γένος, Ἰλίου δ᾽ ἀπο, πέρσαντες ἄστυ, πνεύμασιν θαλασσίοις σὴν γαῖαν ἐξωσθέντες ἥκομεν, Κύκλωψ.
ἦ τῆς κακίστης οἱ μετήλθεθ᾽ ἁρπαγὰς Ἑλένης Σκαμάνδρου γείτον᾽ Ἰλίου πόλιν;
O6.
Κυ.
οὗτοι, πόνον τὸν δεινὸν ἐξηντληκότες.
αἰσχρὸν στράτευμά γ᾽, οἵτινες μιᾶς χάριν γυναικὸς ἐξεπλεύσατ᾽ ἐς γαῖαν Φρυγῶν.
285
Od.
θεοῦ τὸ πρᾶγμα: μηδέν᾽ αἰτιῶ βροτῶν. ἡμεῖς δέ σ᾽, ὦ θεοῦ ποντίου γενναῖε παῖ,
ἱκετεύομέν τε καὶ λέγομεν ἐλευθέρως: μὴ τλῇς πρὸς ἄντρα σοὐσαφιγμένους φίλους κτανεῖν βοράν τε δυσσεβῆ θέσθαι γνάθοις’
290
οἱ τὸν σόν, ὦναξ, πατέρ᾽ ἔχειν ναῶν ἕδρας Eppvoauecda γῆς ἐν Ἑλλάδος μυχοῖς. ἱερᾶς τ᾽ ἄθραυστος Ταινάρου μένει λιμὴν
Μαλέας T ἄκρας κευθμῶνες fj τε Σουνίου δίας ᾿Αθάνας σῶς ὑπάργυρος πέτρα
295
Γεραίστιοί te καταφυγαί᾽ τά θ᾽ Ἑλλάδος ἐδυσφρον᾽ ὀνείδη Φρυξὶν οὐκ ἐδώκαμεν.
ὧν καὶ σὺ κοινοῖ: γῆς γὰρ Ἑλλάδος μυχοὺς οἰκεῖς ὑπ᾽ Αἴτνῃ, τῇ πυριστάκτῷῳ πέτρᾳ. νόμος δὲ θνητοῖς, εἰ λόγους ἀποστρέφῃ, 300
ἱκέτας δέχεσθαι ποντίους ἐφθαρμένους
ξένιά τε δοῦναι καὶ πέπλοις ἐπαρκέσαι,
cicLope
279
ba. Se non è così, crepino questi miei figli, poveracci, che io amo sopra ogni cosa.
CORO Crepa tu. Ti ho visto io vendere agli stranieri la roba. Possa morire mio padre, se dico bugie. Ma tu non essere ingiusto con gli stranieri. CICLOPE Mentite. Mi fido di lui più che di Radamanto:9 è anche più giusto, ve lo dico io. Ma voglio interrogarli. Da dove venite, stranieri? Di che paese siete? Quale città vi ha allevato?9 ODISSEO
Siamo itacesi di nascita, veniamo da Ilio, do-
po averla distrutta: sospinti dai venti del mare siamo arrivati alla tua terra, Ciclope. CICLOPE Allora siete quelli che per il rapimento di Elena, la traditrice, hanno punito Ilio, la città vicina
allo Scamandro?9 ODISSEO Siamo noi. Ci siamo addossati un’impresa terribile, dall’inizio alla fine.
CICLOPE Bell’impresa: salpare contro la terra dei Frigi per una sola donna! ODISSEO Fu opera di un dio; non incolpare nessuno dei mortali. Ma noi, o nobile figlio del dio del mare, ti
supplichiamo* e ti parliamo francamente: non avere l’audacia di uccidere uomini venuti come amici alla tua casa, di farne empio cibo per la tua bocca. Siamo stati noi, signore, a difendere le sedi dei tem-
pli che tuo padre possiede nei golfi della terra ellenica. Il porto del sacro Tenaro è intatto e lo sono le profonde insenature del capo Malea, sono salvi la roccia argentifera del Sunio, protetta da Atena, e i rifugi di Geresto.9? Non abbiamo consegnato la Grecia ai Frigi: sarebbe stata una vergogna insopportabile. Anche tu ne hai vantaggio, poiché sono di terra greca le grotte che abiti ai piedi dell’Etna, il monte che vomita fuoco. E poi, se non vuoi ascoltare le mie parole, è legge per i mortali accogliere i supplici sfiniti da un naufragio, offrire loro doni ospitali e rifor-
280
EURIPIDE
οὐκ ἀμφὶ Bovrópotoi πηχθέντας μέλη ὀβελοῖσι νηδὺν καὶ γνάθον πλῆσαι σέθεν. ἅλις δὲ Πριάμου γαῖ᾽ ἐχήρωσ᾽ Ἑλλάδα, πολλῶν νεκρῶν πιοῦσα δοριπετῆ φόνον,
305
ἀλόχους t' ἀνάνδρους γραῦς τ᾽ ἄπαιδας ὥλεσεν πολιοῦς τε πατέρας. εἰ δὲ τοὺς λελειμμένους σὺ συμπυρώσας δαῖτ᾽ ἀναλώσεις πικράν,
ποῖ τρέψεταί τις; ἀλλ᾽ ἐμοὶ πιθοῦ, Κύκλοψ' πάρες τὸ μάργον σῆς γνάθου, τὸ δ᾽ εὐσεβὲς
310
τῆς δυσσεβείας ἀνθελοῦ᾽ πολλοῖσι γὰρ ZI. 315 Kv.
κέρδη πονηρὰ ζημίαν ἠμείψατο. παραινέσαι σοι βούλομαι" τῶν γὰρ κρεῶν μηδὲν λίπῃς todd” ἣν δὲ τὴν γλῶσσαν δάκῃς, κομψὸς γενήσῃ καὶ λαλίστατος, Κύκλωψ. ὁ πλοῦτος, ἀνθρωπίσκε, τοῖς σοφοῖς θεύς, τὰ δ᾽ ἄλλα κόμποι καὶ λόγων εὐμορφία.
ἄκρας δ᾽ ἐναλίας αἷς καθίδρυται πατὴρ 320
χαίρειν κελεύω: τί τάδε προὐστήσω λόγῳ; Ζηνὸς δ᾽ ἐγὼ κεραυνὸν οὐ φρίσσω, ξένε, οὐδ᾽ oio ὅτι Ζεύς ἐστ᾽ ἐμοῦ κρείσσων θεός. οὔ μοι μέλει τὸ λοιπόν’ ὡς δ᾽ οὔ μοι μέλει,
GKovcov: ὅταν ἄνωθεν ὄμβρον ἐκχέῃ, ἐν τῇδε πέτρᾳ στέγν᾽ ἔχων σκηνώματα, 325
ἢ μόσχον ὀπτὸν ἤ τι θήρειον δάκος δαινύμενος, εὖ τέγγων τε γαστέρ᾽ ὑπτίαν, ἐπεκπιὼν γάλακτος ἀμφορέα, πέπλον κρούω, Διὸς βρονταῖσιν εἰς ἔριν κτυπῶν.
330
δοραῖσι θηρῶν σῶμα περιβαλὼν ἐμὸν καὶ πῦρ ἀναίθων, χιόνος οὐδέν μοι μέλει. ἡ γῆ δ᾽ ἀνάγκῃ, κἂν θέλῃ κἂν μὴ θέλῃ, τίκτουσα ποίαν τἀμὰ πιαίνει βοτά. ἀγὼ οὔτινι θύω πλὴν ἐμοί, θεοῖσι δ᾽ οὔ, καὶ τῇ μεγίστῃ, γαστρὶ τῇδε, δαιμόνων.
ὅταν δὲ βορέας χιόνα Θρήκιος χέῃ,
335
ὡς τοὐμπιεῖν γε καὶ φαγεῖν todd’ ἡμέραν,
Ζεὺς οὗτος ἀνθρώποισι τοῖσι σώφροσιν, λυπεῖν δὲ μηδὲν αὑτόν. οἱ δὲ τοὺς νόμους
cicLope
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nirli di vesti, non infilzarne le membra su spiedi da arrosto per riempirsi la bocca e la pancia. È bastata la terra di Priamo a rendere vedova la Grecia, be-
vendo il sangue di molti guerrieri caduti in battaglia, ha tolto i mariti alle spose, i figli alle madri vecchie e ai padri canuti. Se ora tu consumerai un pasto disgustoso, cuocendo alla brace i sopravvissuti, dove an-
dremo a finire? Da’ retta a me, Ciclope: frena la golosità della tua bocca e anteponi la pietà all’empietà. Guadagni ingiusti a molti costano cari.” SILENO Voglio darti un consiglio: della carne di quest'uomo non avanzarne neanche un po’; se morderai la sua lingua, diventerai spiritoso e chiacchierone,
Ciclope.”! CICLOPE"
La ricchezza, caro ometto,” è l'unico dio
per le persone sagge:” tutto il resto sono fandonie e belle parole. Tanti saluti ai promontori dove risiede il padre mio! Perché ti difendi con queste chiacchiere? Il fulmine di Zeus non mi spaventa, straniero, e non so in cosa Zeus sia un dio più potente di me.” Del resto non m'importa. Sta a sentire perché: quando lui dal cielo rovescia la pioggia, in questa grotta io sono al riparo, mi mangio un vitello arrosto o qualche animale selvatico, sto con la pancia all’aria e me la bagno per bene bevendomi tutta un’anfora di latte, percuoto il peplo con i peti, e con i miei rumori sfido i tuoni di Zeus." Quando il vento Borea della Tracia porta la neve," mi copro con pelli di animale, accendo il fuoco e della neve non mi curo af-
fatto. La terra, che lo voglia o no, produce erba e ingrassa le mie greggi: è inevitabile. E io le greggi non le sacrifico” a nessuno, tranne che a me - agli dei non ci penso neanche — e a questa pancia, la più grande delle dee. Mangiare e bere tutti i giorni:” questo & Zeus per gli uomini che hanno sale in zucca. E non prendersela per niente.? Quelli che hanno
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EURIPIDE
ἔθεντο ποικίλλοντες ἀνθρώπων βίον, κλαίειν ἄνωγα" τὴν «δ᾽. ἐμὴν ψυχὴν ἐγὼ
340
οὐ παύσομαι δρῶν εὖ, κατεσθίων γε σέ. ξένιά τε λήψῃ τοιάδ᾽, ὡς ἄμεμπτος ὦ, πῦρ καὶ πατρῷον τόνδε χαλκόν, ὃς ζέσας σὴν σάρκα διαφόρητον ἀμφέξει καλῶς. ἀλλ᾽ EpreT εἴσω, τοῦ κατ᾽ αὔλιον θεοῦ ἵν᾽ ἀμφὶ βωμὸν στάντες εὐωχῆτέ με.
345
O6.
αἰαῖ, πόνους μὲν Τρωϊκοὺς ὑπεξέδυν θαλασσίους τε, νῦν δ᾽ ἐς ἀνδρὸς ἀνοσίου ὠμὴν κατέσχον ἀλίμενόν τε καρδίαν.
ὦ Παλλάς, ὦ δέσποινα Διογενὲς θεά,
350
νῦν νῦν ἄρηξον᾽ κρείσσονας γὰρ Ἰλίου πόνους ἀφῖγμαι κἀπὶ κινδύνου βάθρα.
σύ τ᾽, ὦ φαεννὰς ἀστέρων οἰκῶν ἕδρας Ζεῦ ξένι᾽, ὅρα τάδ᾽" εἰ γὰρ αὐτὰ μὴ βλέπεις, ἄλλως νομίζῃ Ζεὺς τὸ μηδὲν ὧν θεός.
355 Xo.
Εὐρείας φάρυγος, ὦ Κύκλωψ,
[στρ.
ἀναστόμου τὸ χεῖλος: ὡς ἕτοιμά σοι ἐφθὰ καὶ ὀπτὰ καὶ ἀνθρακιᾶς ἄπο «θερμὰ» χναύειν βρύκειν κρεοκοπεῖν μέλη ξένων 360
δασυμάλλῳ ἐν αἰγίδι κλινομένῳ. μὴ oi μὴ προσδίδου᾽: μόνος μόνῳ γέμιζε πορθμίδος σκάφος.
χαιρέτω μὲν αὖλις ἅδε, 365
χαιρέτω δὲ θυμάτων ἀποβώμιος Τὰν ἔχει θυσίαντ Κύκλωψ Αἰτναῖος ξενικῶν κρεῶν κεχαρμένος βορᾷ.
ἱμεσῳδ.
CICLOPE
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inventato le leggi, per complicare la vita umana, vadano in malora.? Io non smetterò di trattarmi bene... e mangerò te. Come doni ospitali ti prenderai questi — cosi non potrò essere rimproverato - il fuoco e questo calderone di mio padre, che bollendo avvolgerà splendidamente la tua carne ridotta a pezzettini.? Ma ora entrate: in piedi, attorno all’altare sacro al dio di questa caverna, offrirete... un lauto pasto a me. ODISSEO Ahimè, sono sfuggito ai pericoli di Troia e del mare, ma ora sono approdato davanti a un sacrilego dal cuore crudele e inospitale, O Pallade, signora, figlia di Zeus, aiutami adesso, subito: mi sono imbattuto in un’impresa più difficile di quelle di Ilio e mi trovo a un passo dal precipizio. E tu, Zeus protettore degli ospiti, che abiti le sedi luminose degli astri, guarda questi eventi. Se non li vedi, è inutile che ti chiamino Zeus, un dio: tu non sei nulla.
(Odisseo e i suoi compagni entrano nella caverna, li seguono Polifemo e Sileno.) coro”? O Ciclope, spalanca la bocca e la tua enorme gola: per te sono pronte, bollite, arrosto e alla brace,
le carni degli ospiti, da rosicchiare, da tritare, da fare a pezzi,
disteso sopra un folto vello di capra. A me non dare nulla: da solo per te solo riempi la stiva della nave. Dico addio a questa caverna,
dico addio all'empio Ciclope dell’Etna® e ai suoi sacrifici: a lui piace mangiare la carne degli ospiti.
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EURIPIDE
{νηλὴς ὦ τλᾶμον ὅστις δωμάτων t 371 373 372 374
€
375
[ἀντ.
ἐφεστίους [ξενικοὺς] ἱκτῆρας ἐκθύει δόμων, ἐφθά τε δαινύμενος μυσαροῖσί v ὀδοῦσιν κόπτων βρύκων [ἀνθρώπων] θέρμ᾽ ar’ ἀνθράκων κρέα >».
ὦ Ζεῦ, τί λέξω, δείν᾽ ἰδὼν ἄντρων ἔσω κοὺ πιστά, μύθοις εἰκότ᾽ οὐδ᾽ ἔργοις βροτῶν; τί 6 ἔστ᾽, Ὀδυσσεῦ; μῶν τεθοίναται σέθεν
φίλους ἑταίρους ἀνοσιώτατος Κύκλωψ; δισσούς γ᾽ ἀθρήσας κἀπιβαστάσας χεροῖν, 380
οἵ σαρκὸς εἶχον εὐτραφέστατον πάχος.
πῶς, ὦ ταλαίπωρ᾽, ἦτε πάσχοντες τάδε; ἐπεὶ πετραίαν τήνδ᾽ ἐσήλθομεν στέγην, ἀνέκαυσε μὲν πῦρ πρῶτον, ὑψηλῆς δρυὸς 385 392 386
κορμοὺς πλατείας ἐσχάρας βαλὼν ἔπι, τρισσῶν ἁμαξῶν ὡς ἀγώγιμον βάρος,
καὶ χάλκεον λέβητ᾽ ἐπέζεσεν πυρί. ἔπειτα φύλλων ἐλατίνων χαμαιπετῆ
ἔστρωσεν εὐνὴν πλησίον πυρὸς φλογί. κρατῆρα δ᾽ ἐξέπλησεν ὡς δεκάμφορον, μόσχους ἀμέλξας, λευκὸν ἐσχέας γάλα, 390 393 395
σκῦφος τε κισσοῦ παρέθετ' εἰς εὖρος τριῶν
πήχεων, βάθος δὲ τεσσάρων ἐφαίνετο, ὀβελούς τ᾽, ἄκρους μὲν ἐγκεκασυμένους πυρί, ξεστοὺς δὲ δρεπάνῳ τἄλλα, παλιούρου κλάδων, ΤΑἸϊτναῖά τε σφαγεῖα πελέκεων γνάθοις." ὡς δ᾽ ἦν ἕτοιμα πάντα τῷ θεοστυγεῖ “Αἰδου μαγείρῳ, φῶτε συμμάρψας δύο ἔσφαζ᾽ ἑταίρων τῶν ἐμῶν, ῥυθμῷ τινι’ τὸν μὲν λέβητος ἐς κῦτος χαλκήλατον,
400
τὸν δ᾽ αὖ, τένοντος ἁρπάσας ἄκρου ποδός, παίων πρὸς ὀξὺν στόνυχα πετραίου λίθου ἐγκέφαλον &&éppave: καὶ Tkadaprıdcast λάβρῳ μαχαΐρᾳ σάρκας ἐξώπτα πυρΐ, τὰ δ᾽ ἐς λέβητ᾽ ἐφῆκεν ἕψεσθαι μέλη.
CICLOPE
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Povero te, spietato chi sacrifica” i supplici giunti al suo focolare, maciulla, rode
e dà in pasto ai suoi denti impuri le loro carni lesse, o calde di brace.
ODISSEO (Uscendo dalla caverna) O Zeus, che devo dire? Dentro la grotta ho visto cose orribili, da non credere, simili a storie inventate, non ad azioni di
uomini. CORO Che cosa c’è Odisseo? Il Ciclope sacrilego ha sbranato i tuoi cari compagni? | ODISSEO Sì. Ne ha visti due e li ha soppesati con le mani: erano i più in carne. coro Poveretto! E come è finita? ODISSEO Siamo entrati in questa tana?! di roccia; prima di tutto ha acceso il fuoco, ammucchiando sopra l’ampio focolare tronchi di alte querce, circa il peso che possono trasportare tre carri, e ha messo a bollire un lebete?? di bronzo. Poi ha preparato un giaciglio di aghi di pino vicino alla fiamma. Ha munto le vacche e ha riempito di bianco latte un cratere grosso come dieci anfore. Accanto si è messo una coppa di legno di edera larga circa tre cubiti, profonda quattro? e, come spiedi, rami di paliuro induriti dal fuoco sulla punta e levigati nel resto con il falcetto, infine vasi sacrificali dell'Etna," per la lama della scure. Quando tutto è stato pronto per quel macellaio dell’ Ade,” odiato dal celesti, egli ha preso due miei compagni e li ha scannati con precisione; uno lo ha gettato in fondo al lebete di bronzo,” mentre l’altro, afferratolo
per il tendine del calcagno, lo ha scagliato contro uno spigolo aguzzo della parete rocciosa e gli ha fatto schizzare fuori il cervello. Poi, con il suo vorace coltellaccio, ha fatto a pezzi la carne e l’ha arrostita,
mentre il resto lo ha buttato a bollire nel pentolone.
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EURIPIDE
ἐγὼ δ᾽ ὁ τλήμων δάκρυ᾽ an’ ὀφθαλμῶν χέων ἐχριμπτόμην Κύκλωπι κἀδιακόνουν᾽
405
ἅλλοι δ᾽ ὅπως ὄρνιθες ἐν μυχοῖς πέτρας
πτήξαντες εἶχον, αἷμα δ᾽ οὐκ ἐνῆν χροΐ. ἐπεὶ δ᾽ ἑταίρων τῶν ἐμῶν πλησθεὶς βορᾶς ἀνέπεσε, φάρυγος αἰθέρ᾽ ἐξιεὶς βαρύν,
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ἐσῆλθέ μοί τι θεῖον: ἐμπλήσας σκύφος
Μάρωνος αὐτῷ τοῦδε προσφέρω πιεῖν, λέγων τάδ᾽: Ὦ τοῦ ποντίου θεοῦ Κύκλωψ,
σκέψαι τόδ᾽ οἷον Ἑλλὰς ἀμπέλων ἄπο θεῖον κομίζει πῶμα, Διονύσου γάνος. ὁ δ᾽ ἔκπλεως ὧν τῆς ἀναισχύντου βορᾶς ἐδέξατ᾽ ἔσπασέν «τ» ἄμυστιν ἑλκύσας κἀπήνεσ᾽ ἄρας χεῖρα’ Φίλτατε ξένων, καλὸν τὸ πῶμα δαιτὶ πρὸς καλῇ δίδως. ἡσθέντα δ᾽ αὐτὸν ὡς ἐπῃσθόμην ἐγώ, ἄλλην ἔδωκα κύλικα, γιγνώσκων ὅτι
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τρώσει νιν οἶνος καὶ δίκην δώσει τάχα.
Kal δὴ πρὸς φδὰς εἷρπ᾽- ἐγὼ δ᾽ ἐπεγχέων ἄλλην ἐπ᾽ ἄλλῃ σπλάγχν᾽ ἐθέρμαινον ποτῷ. ἄδει δὲ παρὰ κλαίουσι συνναύταις ἐμοῖς ὄἄμουσ᾽, ἐπηχεῖ δ᾽ ἄντρον. ἐξελθὼν δ᾽ ἐγὼ σιγῇ σὲ σῶσαι κἄμ᾽, ἐὰν βούλῃ, θέλω. ἀλλ᾽ εἴπατ᾽ εἴτε χρήζετ᾽ εἴτ᾽ οὐ χρήζετε φεύγειν ἄμεικτον ἄνδρα καὶ τὰ Βακχίου ναίειν μέλαθρα Ναΐδων νυμφῶν μέτα. ὁ μὲν γὰρ ἔνδον σὸς πατὴρ τάδ᾽ ἤνεσεν. ἀλλ᾽ ἀσθενὴς γὰρ κἀποκερδαίνων ποτοῦ
425
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ὥσπερ πρὸς LEG τῇ κύλικι λελημμένος
πτέρυγας ἀλύει: σὺ δέ (νεανίας γὰρ el) σώθητι μετ᾽ ἐμοῦ καὶ τὸν ἀρχαῖον φίλον Διόνυσον ἀνάλαβ᾽, οὐ Κύκλωπι προσφερῆ.
435 Xo.
ὦ φίλτατ᾽, εἰ γὰρ τήνδ᾽ ἴδοιμεν ἡμέραν, Κύκλωπος ἐκφυγόντες ἀνόσιον κάρα. ὡς διὰ μακροῦ γε TtÓv σίφωνα τὸν φίλοντΤ᾽
440
χηρεύομεν, τὸν δ᾽ οὐκ ἔχομεν κατεκφυγεῖν.
CICLOPE
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Io, disgraziato, non riuscivo a trattenere le lacrime,”
ma stavo vicino al Ciclope e lo servivo; gli altri, come uccelli, se ne stavano acquattati negli angoli della grotta, e non avevano una goccia di sangue nelle vene. Dopo che si è rimpinzato con la carne dei miei compagni, si è disteso pancia all’aria, mentre dalla gola gli usciva un fiato pesante.” A quel punto mi ha ispirato il cielo: riempio una tazza di questo vino di Marone (si riferisce all’otre che ha con sé) e gliela offro da bere, dicendo: «Ciclope, figlio del dio del mare, guarda che liquore divino produce l'Ellade con le sue viti, la delizia di Dioniso». Lui, sazio del pasto abomi-
nevole, ha accettato la coppa e se l’è bevuta scolandola tutta d’un fiato. Quindi ha sollevato una mano e si è messo a farmi complimenti: «Carissimo ospite, tu mi offri un liquore delizioso dopo un pranzo delizioso». Quando ho capito che gli piaceva, gliene ho dato un'altra coppa: sapevo che il vino gli avrebbe fatto male e presto gli sarebbe toccato ció che meritava. Cominciava a cantare. Io, riempiendogli una coppa dopo l'altra, gli scaldavo le viscere con il vino. Adesso sta cantando versi stonati davanti ai miei compagni in lacrime, e la caverna ne risuona. Io sono sgusciato via in silenzio e intendo salvare te e me, se sei d'ac-
cordo. Ma ditemi se volete o non volete scappare da questo essere asociale e abitare nella dimora di Bacco insieme alle ninfe Naiadi.!° Tuo padre, nella caverna, ha approvato il mio piano, ma è debole e gli piace bere; attaccato alla coppa come un uccello nel vischio, sbatte a vuoto le ali.'?' Tu invece sei giovane: salvati con me e torna dal tuo vecchio amico Dioniso, che non assomiglia certo al Ciclope. CORO Caro mio, vorrei proprio vederlo il giorno in cui fuggiremo via dall'empio muso del Ciclope; da tempo la nostra canna è vedova,!? mentre da lui non si puó scappare.
288
O6.
EURIPIDE
ἄκουε δή νυν ἣν ἔχω τιμωρίαν θηρὸς πανούργου σῆς τε δουλείας φυγήν.
Xo.
445 Οὗ.
λέγ᾽, ὡς ᾿Ασιάδος οὐκ ἂν ἥδιον ψόφον κιθάρας κλύοιμεν ἢ Κύκλωπ᾽ ὀλωλότα. ἐπὶ κῶμον ἕρπειν πρὸς κασιγνήτους θέλει
Κύκλωπας ἡσθεὶς τῷδε Βακχίου ποτῷ. Χο,
Οὗ. 450
Χο.
O6.
ξυνῆκ᾽" ἔρημον ξυλλαβὼν δρυμοῖσί νιν
σφάξαι μενοινᾷς ἢ πετρῶν ὦσαι κάτα. οὐδὲν τοιοῦτον δόλιος ἡ 'πιθυμία.. πῶς δαί; σοφόν τοί σ᾽ ὄντ᾽ ἀκούομεν πάλαι. κώμου μὲν αὐτὸν τοῦδ᾽ ἀπαλλάξαι, λέγων ὡς οὐ Κύκλωψι πῶμα χρὴ δοῦναι τόδε, μόνον δ᾽ ἔχοντα βίοτον ἡδέως ἄγειν.
ὅταν δ᾽ ὑπνώσσῃ Βακχίου νικώμενος, ἀκρεμὼν ἐλαίας ἔστιν ἐν δόμοισί τις,
455
ὃν φασγάνῳ τῷδ᾽ ἐξαποξύνας ἄκρον
ἐς πῦρ καθήσω: xà9', ὅταν κεκαυμένον ἴδω νιν, ἄρας θερμὸν ἐς μέσην βαλῶ
Κύκλωπος ὄψιν, ὄμμα τ᾽ ἐκτήξω πυρί. γασυπηγίαν δ᾽ ὡσεί τις ἁρμόζων ἀνὴρ
460
διπλοῖν χαλινοῖν τρύπανον κωπηλατεῖ, οὕτω κυκλώσω δαλὸν ἐν φαεσφόρῳ Xo.
Κύκλωπος ὄψει καὶ συναυανῷ κόρας. ἰοὺ ἰού" γέγηθα, μαινόμεσθα τοῖς εὑρήμασιν.
465
Οὗ.
κἄπειτα καὶ σὲ καὶ φίλους γέροντά TE γεὼς μελαίνης κοῖλον ἐμβήσας σκάφος
Χο.
διπλαῖσι κώπαις τῆσδ᾽ ἀποστελῶ χθονός. ἔστ᾽ οὖν ὅπως ἂν ὡσπερεὶ σπονδῆς θεοῦ κἀγὼ λαβοίμην τοῦ τυφλοῦντος ὄμματα δαλοῦ; φόνου γὰρ τοῦδε κοινωνεῖν θέλω.
470
O8. Xo.
δεῖ γοῦν’ μέγας γὰρ δαλός, οὗ ξυλληπτέον. ὡς κἂν ἁμαξῶν ἑκατὸν ἀραίμην βάρος,
CICLOPE
289
ODISSEO Sta a sentire come ho pensato di punire questa belva malvagia e di liberarti dalla schiavitù. coro Di’ pure. Per le mie orecchie la notizia della morte del Ciclope sarebbe più dolce della cetra asiatica.!® ODISSEO Vuole andare a far baldoria!” con i suoi fratelli Ciclopi, allegro com'é per questa bevanda di Bacco. CORO Ho capito: mediti di sorprenderlo da solo nel bosco e di sgozzarlo, o di spingerlo giù da un burrone. ODISSEO Niente del genere: voglio tendergli una trappola astuta. coro E come? Che sei furbo lo sappiamo da tempo. ODISSEO Gli farò cambiare idea sul festino, dicendogli che non deve dare questo vino ai Ciclopi, ma tenerlo solo per sé e goderselo in pace. Nella caverna c’è un ramo di ulivo: quando lui si sarà addormentato, vinto da Bacco, io poserò il ramo sul fuoco dopo averlo appuntito con la spada. Poi, appena lo vedrò arroventato, lo solleverò ancora caldo, lo ficcherò
nell’occhio del Ciclope e con il calore del fuoco gli brucerò la vista. Come chi costruisce una nave, con
due cinghie fa ruotare il trapano, così io girerò il tizzone nell’occhio lucente del Ciclope e gli seccherò la pupilla.'® coro Urrà! Sono pazzo di gioia per la tua trovata. ODISSEO E poi imbarcherò te, gli amici e il vecchio nella stiva della mia nave nera e salperò da questa terra remando a tutta forza. coro Ma non potrei, come si fa nelle libagioni sacre, tenere anch'io il tizzone che gli toglierà la vista?! Sono ansioso di partecipare a questa impresa. ODISSEO Devi farlo; il tronco infatti è grosso e bisogna alzarlo tutti insieme. coro Solleverei il peso di cento carri," pur di brucia-
290
EURIPIDE
£i τοῦ Κύκλωπος toU κακῶς ὀλουμένου 475
Oo.
ὀφθαλμὸν ὥσπερ σφηκιὰν ἐκθύψομεν. σιγᾶτε vov: δόλον γὰρ ἐξεπίστασαι᾽ χὥῶταν κελεύω, τοῖσιν ἀρχιτέκτοσι πείθεσθ᾽. ἐγὼ γὰρ ἄνδρας ἀπολιπὼν φίλους τοὺς ἔνδον ὄντας οὐ μόνος σωθήσομαι.
[καίτοι φύγοιμ᾽ ἂν κἀκβέβηκ᾽ ἄντρου μυχῶν: ἀλλ᾽ οὐ δίκαιον ἀπολιπόντ᾽ ἐμοὺς φίλους
480
ξὺν οἷσπερ ἦχϑον δεῦρο σωθῆναι μόνον. ὄγε, τίς πρῶτος, τίς δ᾽ ἐπὶ πρώτῳ ταχθεὶς δαλοῦ κώπην ὀχμάσαι Κύκλωπος ἔσω βλεφάρων ὥσας
485
λαμπρὰν ὄψιν διακναίσει; [δὴ ἔνδοθεν)
σίγα σίγα. καὶ δὴ μεθύων ἄχαριν κέλαδον μουσιζόμενος σκαιὸς ἀπῳδὸς καὶ κλαυσόμενος
490
χωρεῖ πετρίνων ἔξω μελάθρων. φέρε viv κώμοις παιδεύσωμεν
τὸν ἀπαίδευτον: πάντως μέλλει τυφλὸς εἶναι. μάκαρ ὅστις εὐιάζει βοτρύων φίλαισι πηγαῖς ἐπὶ κῶμον ἐκπετασθείς,
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[στρ. α
φίλον ἄνδρ᾽ ὑπαγκαλίζων ἐπὶ δεμνίοις τε Τξανθὸντ
χλιδανᾶς ἔχων ἑταίρας μυρόχριστος λιπαρὸν βόστρυχον, αὐδᾷ δέ’ Θύραν τίς οἴξει μοι;
500
Kv. 505
παπαπᾷ᾽ πλέως μὲν οἴνου, γάνυμαι «δὲ» δαιτὸς ἥβᾳ, σκάφος ὁλκὰς ὡς γεμισθεὶς
[otp. B
cicLope
291
re come un vespaio l’occhio del Ciclope: così lui farà una brutta fine. ODISSEO Taci ora. L'inganno lo conosci. Quando lo or-
dinerò, obbedisci a chi ha architettato il piano. Io infatti non mi salverò da solo, abbandonando i miei
amici che stanno là dentro. [Eppure potrei fuggire: ormai sono uscito dal fondo della caverna. Ma non è giusto che mi salvi da solo e abbandoni gli amici con i quali sono arrivato qui. ]!%®
(Rientra nella caverna.) CORO!”
Forza, chi sarà il primo e chi il secondo
a tenere ben stretto il tizzone e a spingerlo dentro le ciglia del Ciclope per spegnergli l’occhio luminoso? [canto dall’interno]!!° Zitti, zitti. È ubriaco
e si sgola con grida sgraziate, rozzo, stonato: presto piangerà,
sta uscendo ora dalla sua tana di pietra. Insegnamogli canti di festa, è un tale zoticone!!!! In ogni caso, tra poco sarà cieco. Beato chi grida «evoè!»!!2 al dolce succo della vite disteso a far bisboccia, con un amico tra le braccia e un’etera sensuale sul letto.
È profumato, ha i riccioli lucenti e canta: «Chi mi aprirà la porta?».1? CICLOPE (Esce dalla caverna seguito da Odisseo e da Sileno) Aaah! Sono pieno di vino, brillo di gioia: la festa è ancora giovane. Come una nave carica
292
EURIPIDE
ποτὶ σέλμα γαστρὸς ἄκρας. ὑπάγει μ᾽ ὁ φόρτος εὔφρων
ἐπὶ κῶμον ἦρος ὥραις ἐπὶ Κύκλωπας ἀδελφούς. φέρε μοι, ξεῖνε, φέρ᾽, ἀσκὸν ἔνδος μοι.
510 Xo.
καλὸν ὄμμασιν δεδορκὼς καλὸς ἐκπερᾷ μελάθρων. « » φιλεῖ τίς ἡμᾶς λύχνα δ᾽ Τάἀμμένει Saia σὸν
χρόα xóct τέρεινα νύμφα δροσερῶν ἔσωθεν ἄντρων. στεφάνων δ᾽ οὐ μία χροιὰ περὶ σὸν κρᾶτα τάχ᾽ ἐξομιλήσει.
515
Οὗ.
Κύκλωψ, ἄκουσον: ὡς ἐγὼ τοῦ Βακχίου
Κυ.
τούτου τρίβων εἶμ᾽, ὃν πιεῖν ἔδωκά σοι. ὁ Βάκχιος δὲ τίς; θεος νομίζεται; μέγιστος ἀνθρώποισιν ἐς τέρψιν βίου.
520
O8. Kv.
Οὗ. 525
Κυ.
O6.
535
θεὸς δ᾽ ἐν ἀσκῷ πῶς γέγηθ᾽ οἴκους ἔχων; ὅπου τιθῇ τις, ἐνθάδ᾽ ἐστὶν εὐπετής.
Kv.
οὐ τοὺς θεοὺς χρὴ σῶμ᾽ ἔχειν ἐν δέρμασιν.
O5. Oò.
τί δ᾽, εἴ σε τέρπει γ᾽; ἢ τὸ δέρμα σοι πικρόν; μισῶ τὸν ἀσκόν. τὸ δὲ ποτὸν φιλῶ τόδε. μένων νυν αὐτοῦ πῖνε κεὐθύμει, Κύκλωψ.
Kv.
οὐ χρή μ᾽ ἀδελφοῖς τοῦδε προσδοῦναι ποτοῦ;
Οὗ,
ἔχων γὰρ αὐτὸς τιμιώτερος φανῇ.
Kv. 530
ἐρυγγάνω γοῦν αὐτὸν ἡδέως ἐγώ. τοιόσδ᾽ ὁ δαΐμων: οὐδένα βλάπτει βροτῶν.
Kv.
διδοὺς δὲ τοῖς φίλοισι χρησιμώτερος.
Οὗ.
πυγμὰς ὁ κῶμος λοίδορόν τ᾽ ἔριν φιλεῖ.
Κυ.
μεθύω μέν, ἔμπας δ᾽ οὔτις ἂν ψαύσειέ μοῦ.
στρ. Y
cicLopE
203
ho la pancia che scoppia. Il buon pranzetto mi spinge alla baldoria, nella stagione della primavera, con i Ciclopi, miei fratelli.
Dài, straniero, passami l’otre. coro
Con fascinoso sguardo, il mio bello esce di casa.
Chi ci ama? Una torcia ostile ti attende come una tenera sposa,
dentro una grotta bagnata di rugiada. Ghirlande di tanti colori presto ti cingeranno la testa.!!4 ODISSEO Ciclope, dammi retta, perché io sono un esperto di quel Bacco che ti ho versato da bere. CICLOPE Ma chi è questo Bacco? È ritenuto un dio? ODISSEO Il dio più grande, per dare gioia agli uomini. CICLOPE In effetti lo rutto proprio di gusto io. opissEo È un dio fatto cosi: non fa male a nessuno. CICLOPE E come mai un dio è felice di abitare in un otre? ODISSEO
Dovunque lo mettano, è contento.
CICLOPE Ma non sta bene che gli dei vivano all’interno di una pelle. ODISSEO Che cosa ti importa, se ti piace? Forse la pelle ti dà fastidio? CICLOPE Odio l’otre; ma adoro questo vino.!!5 ODISSEO Resta qui allora, bevi e divertiti, Ciclope. CICLOPE Non devo offrire il vino ai miei fratelli? ODISSEO Se lo tieni per te, sarai più stimato. CICLOPE Ma se lo do agli amici, sarò più utile. ODISSEO La baldoria ama i pugni, gli insulti e la rissa.!!9 CICLOPE Sono ubriaco, eppure nessuno oserebbe toccarmi.
294
EURIPIDE
ὦ τᾶν, πεπωκότ᾽ ἐν δόμοισι χρὴ μένειν. ἠλίθιος ὅστις μὴ πιὼν κῶμον φιλεῖ.
ὃς δ᾽ ἂν μεθυσθείς γ᾽ ἐν δόμοις μείνῃ, σοφός.
τί δρῶμεν, ὦ Σιληνέ; σοὶ μένειν δοκεῖ; 540
DI.
δοκεῖ" τί γὰρ δεῖ συμποτῶν ἄλλων, Κύκλωψ;
καὶ μὴν λαχνῶδές γ᾽ οὖδας ἀνθηρᾶς χλόης. καὶ πρός γε θάλπος ἡλίου πίνειν καλόν. κλίθητί νύν μοι πλευρὰ θεὶς ἐπὶ χθονός. 545
ἰδού. τί δῆτα τὸν κρατῆρ᾽ ὄπισθ᾽ ἐμοῦ τίθης; ὡς μὴ παριών τις καταβάλῃ.
πίνειν μὲν οὖν κλέπτων σὺ βούλῃ κάτθες αὐτὸν ἐς μέσον.
σὺ δ᾽, ὦ ξέν᾽, εἰπὲ τοὔνομ᾽ ὅτι σε χρὴ καλεῖν.
Οὔτιν: χάριν δὲ τίνα λαβών o' ἐπαινέσω; 550
πάντων σ᾽ ἑταίρων ὕστερον θοινάσομαι. καλόν γε τὸ γέρας τῷ ξένῳ δίδως, Κύκλωψ.
οὗτος, τί δρᾷς; τὸν οἶνον ἐκπίνεις λάθρᾳ; οὔκ, ἀλλ᾽ ἔμ᾽ οὗτος ἔκυσεν, ὅτι καλὸν βλέπω.
κλαύσῃ, φιλῶν τὸν οἶνον οὐ φιλοῦντά σε. 555
οὐ μὰ AL, ἐπεί μού HNO’ ἐρᾶν ὄντος καλοῦ. ἔγχει, πλέων δὲ τὸν σκύφον δίδου μόνον.
πῶς οὖν κέκραται; φέρε διασκεψώμεθα. ἀπολεῖς: δὸς οὕτως. où μὰ Δί᾽, οὐ πρὶν ἄν γέ σε στέφανον ἴδω λαβόντα γεύσωμαί T ἔτι. οἰνοχόος ἄδικος.
CICLOPE
ODISSEO
295
Caro mio, se hai bevuto, devi stare a casa.
CICLOPE È sciocco chi non vuole far baldoria dopo aver bevuto. ODISSEO Ma chi resta a casa, perché ubriaco, ha cervello.!" CICLOPE
Che facciamo, Sileno? Devo restare?
SILENO E come no? Che bisogno c'é di altri compagni di sbornia, Ciclope?
CICLOPE Già. E poi c'é un morbido prato in fiore. SILENO Ed è piacevole bere al calore del sole.!!8
Sdraiati sul fianco vicino a me, qui per terra.!? CICLOPE Eccomi. Ma perché posi il cratere alle mie spalle? ODISSEO Perché nessuno lo rovesci mentre passa.'” CICLOPE No, tu vuoi portartelo via e berlo da solo. Mettilo in mezzo. Piuttosto, straniero, dimmi come
devo chiamarti. ODISSEO Nessuno.!? E io, per quale favore dovrò ringraziarti? CICLOPE Dopo tutti i tuoi compagni, ti mangerò per ultimo. SILENO Che bel regalo fai all'ospite, Ciclope. CICLOPE
Ehi tu, che fai, ti bevi il vino di nascosto?
SILENO No, e stato lui a baciarmi, perché ho gli occhi belli.122 CICLOPE Piangerai, se amerai il vino che non ti ama. SILENO Ma sì, per Zeus: dice di amarmi perché sono bello. CICLOPE Riempi la coppa e dammela, senza tante storie. SILENO Come è stato allungato il vino? Controlliamo. CICLOPE Mi ucciderai: dammelo così. _ SILENO No, no, per Zeus. Non prima di averti visto con
la corona e non prima... di averne assaggiato ancora un goccetto. CICLOPE Coppiere imbroglione.
296
EURIPIDE
560 Li. Κυ.
Zi.
«οὐ» μὰ Δί᾽, ἀλλ᾽ οἶνος γλυκύς. ἀπομυκτέον δέ σοὐστὶν ὡς λήψτ᾽ πιεῖν. ἰδού, καθαρὸν τὸ χεῖλος αἱ τρίχες τέ μου.
θές νυν τὸν ἀγκῶν᾽ εὐρύθμως rar ἔκπιε, ὥσπερ μ᾽ ὁρᾷς πίνοντα ydorep οὐκ ἐμέ.
Kv. 565
Κυ.
570
dé, τί δράσεις;
Σὶ.
ἡδέως ἠμύστισα.
λάβ᾽, ὦ ξέν᾽, αὐτὸς οἰνοχόος τέ μοι γενοῦ.
OG.
γιγνώσκεται γοῦν ἄμπελος ruf χερί.
Κυ. Οὃ.
φέρ᾽ ἔγχεόν νυν.
Κυ.
χαλεπὸν τόδ᾽ εἶπας, ὅστις ἂν πίνῃ πολύν.
Οὗ,
ἐγχέω, σίγα μόνον. ἰδού, λαβὼν ἔκπιθι καὶ μηδὲν Aitne: συνεκθανεῖν δὲ σπῶντα χρὴ τῷ πώματι.
Kv.
παπαῖ, σοφόν γε τὸ ξύλον τῆς ἀμπέλου.
Οὗ.
κἂν μὲν σπάσῃς γε δαιτὶ πρὸς πολλῇ πολύν, τέγξας ἄδιψον νηδύν, εἰς ὕπνον βαλεῖ,
575 Kv.
ἣν δ᾽ ἐλλίπῃς τι, ξηρανεῖ σ᾽ ὁ Βάκχιος. ἰοὺ ἰού: ὡς ἐξένευσα μόγις" ἄκρατος ἡ χάρις.
580
ὁ δ' οὐρανός μοι συμμεμειγμένος δοκεῖ τῇ γῇ φέρεσθαι, τοῦ Διός τε τὸν θρόνον λεύσσω τὸ πᾶν τε δαιμόνων ἁγνὸν σέβας.
585
Zi.
ἅλις: Γανυμήδη τόνδ᾽ ἔχων ἀναπαύσομαι κάλλιον ἢ τὰς Χάριτας. ἥδομαι δέ πῶς τοῖς παιδικοῖσι μᾶλλον T] τοῖς θήλεσιν. ἐγὼ γὰρ ὁ Διός εἰμι Γανυμήδης, Κύκλωψ;
οὐκ ἂν φιλήσαιμ᾽; αἱ Χάριτες πειρῶσί με.
Kv.
ναὶ μὰ AV, ὃν ἁρπάζῳ γ᾽ ἐγὼ “x τῆς Δαρδάνου.
Zi. Κυ.
ἀπόλωλα, ποΐδες" σχέτλια πείσομαι κακά. μέμφῃ τὸν ἐραστὴν κἀντρυφᾷς πεπωκότι;
Zi.
οἴμοι’ πικρότατον οἶνον ὄψομαι τάχα.
cicLOPE
SILENO
297
No, vino dolce. Per iniziare a bere, devi pulirti
la bocca. CICLOPE Ecco, bocca e baffi sono puliti. SILENO Appoggiati sul gomito, composto, e poi bevi, come vedi che bevo io. Anzi, ora non mi vedi più. CICLOPE
SILENO CICLOPE ODISSEO CICLOPE ODISSEO
Ehi, ma che vuoi fare?
L'ho bevuto tutto d'un fiato. Delizioso! Prendi, straniero, e fammi tu da coppiere.'? Naturalmente. La mia mano conosce la vite. E allora versa. Verso, verso, ma tu sta' zitto.
CICLOPE È difficile tacere, per chi ha bevuto molto.!* ODISSEO Tieni, bevi e non lasciarne neanche un goccio. Devi scolarti la bottiglia e morire insieme a lei.!? CICLOPE Ehi, la pianta della vite è geniale! ODISSEO Se bevi molto vino dopo un lauto pasto, e innaffi la pancia fino a toglierle la sete, Bacco ti farà dormire, ma se ne avanzi una sola goccia, Bacco ti lascerà a secco. CICLOPE (Beve fino a vuotare la coppa) Ah! Con fatica mi sono salvato per un pelo. E un piacere puro. Sembra che il cielo mi giri intorno, confuso con la terra,
vedo il trono di Zeus e la sacra maestà degli dei. Non dovrei baciarvi? Le Grazie mi seducono. Basta! Mi consoleró con questo Ganimede meglio che con le Grazie. Mi piacciono di piü i ragazzi che le donne. SILENO E sono io il Ganimede di Zeus, o Ciclope? CICLOPE
Si, per Zeus, e io ti rapisco dalla terra di Dar-
dano.!* SILENO Sono rovinato, figli miei. Che sciagura spaventosa mi tocca sopportare. CICLOPE Ti lamenti del tuo amante? Fai lo sdegnoso perché ha bevuto? SILENO Ahimè! Che vino amarissimo proverò tra poco. (Polifemo trascina Sileno nella caverna.)
298 590
Οὗ.
EURIPIDE
ἄγε δή, Διονύσου παῖδες, εὐγενῆ τέκνα, ἔνδον μὲν ἁνήρ᾽ τῷ δ᾽ ὕπνῳ παρειμένος
τάχ᾽ ἐξ ἀναιδοῦς φάρυγος ὠθήσει κρέα. δαλὸς δ᾽ ἔσωθεν αὐλίων Τώθεϊτ καπνὸν
παρευτρέπισται, κοὐδὲν ἄλλο πλὴν πυροῦν Κύκλωχος ὄψιν. ἀλλ᾽ ὅπως ἀνὴρ ἔσῃ. πέτρας τὸ λῆμα κἀδάμαντος ἕξομεν.
595
χώρει δ᾽ ἐς οἴκους, πρίν τι τὸν πατέρα παθεῖν O6.
ἀπάλαμνον᾽ ὡς σοι τἀνθάδ᾽ ἐστὶν εὐτρεπῆ. Ἥφαιστ᾽, ἄναξ Αἰτναῖε, γείτονος κακοῦ λαμπρὸν πυρώσας ὄμμ᾽ ἀπαλλάχθηθ᾽ ἅπαξ, 60 τ᾽, ὦ μελαίνης Νυκτὸς ἐκπαίΐδευμ᾽, Ὕπνε, ἄκρατος ἐλθὲ θηρὶ τῷ θεοστυγεῖ, καὶ μὴ m καλλίστοισι Τρωϊκοῖς πόνοις αὐτόν TE ναύτας t ἀπολέσητ᾽ Ὀδυσσέα
ὑπ᾽ ἀνδρὸς ᾧ θεῶν οὐδὲν ἢ βροτῶν μέλει.
605
ἢ τὴν τύχην μὲν δαΐμον᾽ ἡγεῖσθαι χρεών, τὰ δαιμόνων δὲ τῆς τύχης ἐλάσσονα. Xo. 610
615
λήψεται τὸν τράχηλον ἐντόνως ὁ καρκίνος τοῦ ξενοδαιτυμόνος: πυρὶ γὰρ τάχα φωσφόρους ὀλεῖ κόρας. ἤδη δαλὸς ἠνθρακωμένος κρύπτεται ἐς σποδιάν, δρυὸς ἄσπετον ἔρνος. ἀλλ᾽ ἴτω Μάρων, πρασσέτω, μαινομένου ᾿ξελέτω βλέφαρον Κύκλωπος, ὡς πίῃ κακῶς.
κἀγὼ τὸν φιλοκισσοφόρον Βρόμιον
620
ποθεινὸν εἰσιδεῖν θέλω, Κύκλωπος λιπὼν ἐρημίαν.
dp ἐς τοσόνδ᾽ ἀφίξομαι; O8. 625
σιγᾶτε πρὸς θεῶν, θῆρες, ἡσυχάζετε,
συνθέντες ἄρθρα στόματος’ οὐδὲ πνεῖν ἐῶ,
CICLOPE
299
ODISSEO Su, figli di Dioniso, nobili creature, il mostro è nella caverna; sprofondato nel sonno, presto vomi-
terà pezzi di carne dalla gola schifosa. Il tizzone nella grotta manda fumo. È pronto. Non resta che bruciare l’occhio del Ciclope. Forza, siate uomini! CORO
Avremo una volontà di roccia, di ferro. Ma en-
tra nella grotta, prima che mio padre sia spacciato.!?” Qua è tutto pronto per te. ODISSEO Efesto,! signore dell’Etna, brucia la pupilla lucente del tuo malvagio vicino, liberati di lui una buona volta. E tu, Sonno, figlio della Notte nera,!?°
con tutta la tua forza piomba su questa belva odiosa agli dei. Dopo la gloriosa impresa di Troia, non lasciate che Odisseo e 1 suoi marinai periscano per mano di un essere che non si cura degli dei e degli uomini. Altrimenti, bisogna credere che il caso è un
dio e che gli dei sono più deboli del caso.!? (Entra nella caverna.) CORO?! Una tenaglia stringerà forte la gola del mangiatore di ospiti; presto con il fuoco distruggerà le pupille portatrici di luce. Già il tizzone rovente è nascosto sotto la cenere, è un tronco smisurato.!*
Avanti Marone, agisci!!* Cava l'occhio del furioso! Ciclope, che beva a suo danno. E io voglio rivedere il mio diletto, Bromio che ama incoronarsi d’edera,
e lasciare la tana solitaria del Ciclope. Avrò successo? ODISSEO (Uscendo dalla caverna) Per gli dei! Tacete, bestiacce!!? State calmi, tappatevi la bocca; non vi permetto di fiatare, e neanche di sbattere le palpe-
630
300
EURIPIDE
Χο.
οὐ σκαρδαμύσσειν οὐδὲ χρέμπτεσθαί τινα, ὡς μὴ ξεγερθῇ τὸ κακόν, ἔστ᾽ ἂν ὄμματος ὄψις Κύκλωπος ἐξαμιλληθῇ πυρί. σιγῶμεν ἐγκάψαντες αἰθέρα γνάθοις.
Οὗ.
ἄγε νυν ὅπως ἅψεσθε τοῦ δαλοῦ χεροῖν
ἔσω μολόντες: διάπυρος δ᾽ ἐστὶν καλῶς. Χο.
635
οὐκοῦν σὺ τάξεις οὕστινας πρώτους χρεὼν
καυτὸν μοχλὸν λαβόντας ἐκκάειν τὸ φῶς Κύκλωπος, ὡς ἂν τῆς τύχης κοινώμεθα; Χο. ἡμεῖς μέν ἐσμεν μακροτέρω πρὸ τῶν θυρῶν ἑστῶτες ὠθεῖν ἐς τὸν ὀφθαλμὸν τὸ πῦρ.
Xo.P ἡμεῖς δὲ χωλοί γ᾽ ἀρτίως γεγενήμεθα.
Xo.* ταὐτὸν πεπόνθατ᾽ dp' ἐμοί’ τοὺς γὰρ πόδας ἑστῶτες ἐσπάσθημεν οὐκ οἶδ᾽ ἐξ ὅτου. 640
05. Xo."
Oò. Χο.
ἑστῶτες ἐσπάσθητε; καὶ τά γ᾽ ὄμματα μέστ᾽ ἐστὶν ἡμῖν κόνεος ἢ τέφρας ποθέν.
ἄνδρες πονηροὶ κοὐδὲν οἵδε σύμμαχοι. ὁτιὴ τὸ νῶτον τὴν ῥάχιν τ᾽ οἰκτίρομεν καὶ τοὺς ὀδόντας ἐκβαλεῖν οὐ βούλομαι τυπτόμενος, αὕτη γίγνεται πονηρία;
645
ἀλλ' οἶδ᾽ ἐπῳδὴν Ὀρφέως ἀγαθὴν πάνυ, ὥστ᾽ αὐτόματον τὸν δαλὸν ἐς τὸ κρανίον
στείχονθ᾽ ὑφάπτειν τὸν μονῶπα παῖδα γῆς. Oò.
650
πάλαι μὲν ἤδη σ᾽ ὄντα τοιοῦτον φύσει,
νῦν δ᾽ οἶδ᾽ ἄμεινον. τοῖσι δ᾽ οἰκείοις φίλοις χρῆσθαί μ᾽ ἀνάγκη. χειρὶ δ᾽ εἰ μηδὲν σθένεις,
ἀλλ᾽ οὖν ἐπεγκέλευνέ γ᾽, ὡς εὐψυχίαν φίλων κελευσμοῖς τοῖσι σοῖς κτησώμεθα.
Χο. 655
δράσω τάδ᾽" ἐν τῷ Καρὶ κινδυνεύσομεν. κελευσμάτων δ᾽ ἕκατι τυφέσθω Κύκλωψ. ἰὼ ἰώ“ γενναιότατ᾽ Qθεῖτε σπεύδετ᾽, ἐκκαίετε τὰν ὀφρὺν θηρὸς τοῦ ξενοδαίτα.
τύφετ᾽ ὦ, καίετ᾽ ὦ 660
τὸν Αἴτνας μηλονόμον.
cicLOPE
301
bre, né di schiarirvi la voce. Non dovete svegliare il mostro, finché la sua vista non sarà stata spenta dal fuoco. CORO Stiamo zitti, tratteniamo il respiro a bocca chiusa. ODISSEO Coraggio! Venite dentro e impugnate il tizzone. E incandescente al punto giusto. CORO Non sei tu a decidere chi deve entrare, impugnare per primo il tizzone e bruciare la pupilla del Ciclope? Così tutti potremo prendere parte all'impresa. SEMICORO A Noi siamo troppo lontani dall'entrata per spingere il tizzone nell'occhio. SEMICORO B. Noi ci siamo azzoppati poco fa. SEMICORO A Lo stesso è capitato a noi; stando fermi ci siamo slogati i piedi, non so come.
ODISSEO Da fermi vi siete slogati i piedi? SEMICORO A E i nostri occhi sono pieni di polvere, o cenere: da dove venga, non lo so. ODISSEO
Codardi, come alleati siete dei buoni a nulla.
CORO La mia spina dorsale mi fa pena e non ho intenzione di sputare i denti a furia di botte: & codardia questa? Però conosco un incantesimo di Orfeo,6 molto efficace: il tizzone entra da solo nel cranio del figlio di Gea, gli incendia l'unico occhio. ODISSEO Da un pezzo avevo capito che la tua natura era questa, ma ora lo so con certezza. Devo ricorrere ai miei amici. Ma se non hai forza fisica, almeno
incita i miei compagni, cosi li incoraggiamo con le tue esortazioni. CORO Farò così: alla mia pelle ci tengo!!? E grazie al mio canto, si bruci il Ciclope. Su, su! A tutta forza, da bravi,
spingete, sbrigatevi, bruciate la pupilla della belva che mangia gli ospiti. Affumicatelo, oh, bruciatelo, oh,
il pastore dell’Etna.
302
EURIPIDE
τόρνεν᾽ ἕλκε, μή σ᾽ ἐξοδυνηθεὶς δράσῃ τι μάταιον.
665
Κυ.
ὦμοι, κατηνθρακώμεθ᾽ ὀφθαλμοῦ σέλας.
Χο.
καλός γ᾽ ὁ παιάν: μέλπε μοι τόνδ᾽ αὖ, Κύκλωψ.
Kv.
ὦμοι μάλ᾽, ὡς ὑβρίσμεθ᾽, ὡς ὀλώλαμεν.
ἀλλ᾽ οὔτι μὴ φύγητε τῆσδ᾽ ἔξω πέτρας χαίροντες, οὐδὲν ὄντες ἐν πύλαισι γὰρ σταθεὶς φάραγγος τάσδ᾽ ἐναρμόσω χέρας.
Χο.
τί χρῆμ᾽ ἀυτεῖς, ὦ Κύκλωψ;
Κυ.
Χο. 670 Kv.
μεθύων κατέπεσες ἐς μέσους τοὺς ἄνθρακας;
Ku. Χο.
Οὐτίς μ᾽ ἀπώλεσ᾽.
Kv. Χο.
Οὗτίς με τυφλοῖ βλέφαρον.
Kv.
Τὼς δὴ ov.
Kv. Χο. Kv. Χο. Κυ.
680
κἀπὶ τοῖσδέ γ᾽ ἀθλιος.
Χο.
Χο.
675
ἀπωλόμην.
αἰσχρός γε φαίνῃ.
Χο.
οὐκ ἄρ᾽ οὐδεὶς «o^» ἠδίκει.
οὐκ ἄρ᾽ εἶ τυφλός. καὶ πῶς o οὔτις ἂν θείη τυφλόν;
σκώπτεις. ὁ δ᾽ Οὗτις ποῦ 'στιν; οὐδαμοῦ, Κύκλωψ. ὁ ξένος, ἵν᾽ ὀρθῶς ἐκμάθῃς, μ᾽ ἀπώλεσεν, ὁ μιαρός, ὅς μοι δοὺς τὸ πῶμα κατέκλυσεν. δεινὸς γὰρ οἶνος καὶ παλαίεσθαι βαρύς. πρὸς θεῶν, πεφεύγασ᾽ ἢ μένουσ᾽ ἔσω δόμων;
οὗτοι σιωπῇ τὴν πέτραν ἐπήλυγα λαβόντες ἑστήκασι.
Κυ. Χο.
ποτέρας τῆς χερός; ἐν δεξιᾷ σου.
CICLOPE
303
Girate, tirate, ma attenti, che pazzo di dolore
non compia un atto di follia. (Dall’interno della caverna si sente il grido di Polifemo.) cICLOPE Ahi! La mia pupilla è bruciata! CORO Che bella questa canzone!! Cantamela ancora, Ciclope. CICLOPE (Uscendo dalla caverna) Ahimè! Sono sfigurato, sono morto. Ma non fuggirete da questa grotta senza essere puniti: non valete niente! Io mi piazzerò alla porta della caverna e ve la sbarrerò con le braccia. CORO
Perché gridi, Ciclope?
CICLOPE Sono morto. CORO Malconcio lo sembri. CICLOPE E disgraziato per giunta. CORO Sei caduto ubriaco tra i carboni? CICLOPE Nessuno mi ha rovinato. CORO E allora nessuno ti ha fatto del male. CICLOPE Nessuno mi ha accecato. CORO Quindi non sei cieco. CICLOPE Ma come!? Cosa dici?!? CORO E in che modo nessuno ti avrebbe reso cieco?!4! CICLOPE Tu mi prendi in giro. Ma Nessuno dov'è? CORO In nessun posto, o Ciclope. CICLOPE Apri le orecchie: lo straniero mi ha rovinato, quel mascalzone, con il vino mi ha annegato.!*
CORO Il vino è pericoloso, difficile resistergli. CICLOPE Per gli dei, sono fuggiti o sono ancora in casa mia? coro Eccoli lì, al riparo dietro quella roccia: stanno fermi e zitti. CICLOPE Da che parte? cORO Alla tua destra.
304
EURIPIDE
Kv.
ποῦ;
Χο. Κυ.
πρὸς αὐτῇ τῇ πέτρᾳ.
ἔχεις;
κακόν γε πρὸς κακῷ" τὸ κρανίον
παίσας κατέαγα.
Χο.
Κυ. 685
kai ce διαφεύγουσί γε.
οὐ τῇδέ πῃ, τῇδ᾽ εἴπας;
Xo.
οὔ’ ταύτῃ λέγω.
Κυ. πῇ γάρ;
Χο.
περιάγου κεῖσε, πρὸς τἀριστερά.
Kv.
οἴμοι γελῶμαι' κερτομεῖτέ μ᾽ ἐν κακοῖς.
Χο. Ku.
ἀλλ᾽ οὐκέτ᾽, ἀλλὰ πρόσθεν οὗτός ἐστί σου. ὦ παγκάκιστε, ποῦ ποτ εἶ;
Οὗ.
τηλοῦ σέθεν φυλακαῖσι φρουρῶ σῶμ᾽ Ὀδυσσέως τόδε.
Κυ. Oò.
πῶς εἶπας; ὄνομα μεταβαλὼν καινὸν λέγεις. ὅπερ γ᾽ ὁ φύσας ὠνόμαζ᾽ Ὀδυσσέα.
690
δώσειν δ᾽ ἔμελλες ἀνοσίου δαιτὸς δίκας"
καλῶς γὰρ ἂν Τροίαν γε διεπυρώσαμεν εἰ μή σ᾽ ἑταίρων φόνον ἐτιμωρησάμην.
695 Kv.
700 O8.
Κυ.
705
αἰαῖ’ παλαιὸς χρησμὸς ἐκπεραίνεται, τυφλὴν γὰρ ὄψιν ἐκ σέθεν σχήσειν μ᾽ ἔφη
Τροίας ἀφορμηθέντος. ἀλλὰ καὶ σέ tot δίκας ὑφέξειν ἀντὶ τῶνδ᾽ ἐθέσπισεν, πολὺν θαλάσσῃ χρόνον ἐναιωρούμενον. κλαίειν σ᾽ ἄνωγα᾽ καὶ δέδραχ᾽ ὅπερ λέγω. ἐγὼ δ᾽ En’ ἀκτὰς εἶμι καὶ νεὼς σκάφος ἥσῳ "ri πόντον Σικελὸν ἔς 1 ἐμὴν πάτραν. οὐ δῆτ᾽, ἐπεί σε τῆσδ᾽ ἀπορρήξας πέτρας
αὐτοῖσι συνναύταισι συντρίψω βαλών.
divo δ᾽ ἐπ᾽ ὄχθον εἶμι, καίπερ ὧν τυφλός, Χο.
δι᾽ ἀμφιτρῆτος τῆσδε TxpooBaivov ποδί, ἡμεῖς δὲ συνναῦταί γε τοῦδ᾽ Ὀδυσσέως
ὄντες τὸ λοιπὸν Βακχίῳ δουλεύσομεν.
CICLOPE
305
CICLOPE Dove? coro Proprio addosso alla roccia. Li hai presi? CICLOPE Un guaio dopo l’altro. Ho sbattuto la testa e me la sono rotta. CORO Attento, se la svignano! CICLOPE Da questa parte? Non hai detto per di qui? CORO No, dall’altra parte. CICLOPE Ma dove? CORO
Girati, lì, a sinistra.
CICLOPE Ahimè, sono deriso; vi burlate di me perché sono nei guai. coro Ora non più. Quell’uomo è di fronte a te. CICLOPE Vigliacco! Dove sei? _ ODISSEO
Lontano da te. Sono Odisseo, e sto attento al-
la mia pelle. CICLOPE Come hai detto? Hai cambiato nome e ne dici uno nuovo? ODISSEO
Sì, Odisseo, il nome che mio padre mi ha da-
to. Era ora che scontassi il tuo empio banchetto. Bell’impresa aver bruciato Troia, se non avessi vendicato la morte dei miei compagni!!* CICLOPE Ahimè. Un antico oracolo si compie. Prediceva che avrei perso la vista per opera tua, mentre tornavi da Troia. Ma aggiunse che saresti stato punito per questo, e che avresti vagato in balia del mare per anni e anni.!4 ODISSEO
Io ti mando in malora. Anzi, ciò che dico l'ho
già fatto. Andrò alla spiaggia e spingerò la mia nave nel mare di Sicilia, verso la mia patria. CICLOPE
No di certo, perché io staccherò quel masso,
lo scaglierò e ti schiaccerò con i tuoi compagni. Riuscirò a salire fin lassù, anche se sono cieco, e troverò
l'altra uscita.!^ CORO
Noi ci imbarchiamo sulla nave di Odisseo, e d'o-
ra in poi saremo servi di Bacco.!*
NOTE
* La scena si svolge alle pendici dell’Etna (cfr. v. 20), in Sicilia, l'isola che gli ateniesi del V secolo a.C. credevano essere stata abitata dai ciclopi: Tucidide (VI, 2) fa risalire genericamente ai «più antichi» l’identificazione dell’Etna come sede dei ciclopi, mentre l'Odissea non dice niente al riguardo (cfr. inoltre Strabone I, 2, 9). Nell'allestimento del dramma l'antro di Polifemo poteva essere rappresentato da una costruzione a forma di grotta, innalzata o semplicemente dipinta attorno alla porta centrale dell'edificio scenico (cfr. vv. 82, 87, 195), che pertanto non può essere utilizzata né dal Ciclope né da Odisseo per la loro prima apparizione; a destrae a sinistra della caverna doveva essere raffigurato un ambiente rupestre, con rocce, alberi, prati (cfr. v. 25). A differenza che nell'episodio omerico, l'ingresso della tana di Polifemo non é sbarrato da un grosso macigno, in modo che Odisseo possa entrare e uscire liberamente: la convenzione teatrale impone infatti che la vicenda si svolga all'aperto (cfr. Od. IX, 240-3; un'analisi dettagliata dei rapporti intercorrenti tra Euripide e Omero si trova, in particolare, in W. Wetzel, De Euripidis
fabula satyrica, quae Cyclops inscribitur, cum homerico comparata exemplo, Wiesbaden 1965, D. Ferrante, 1 Ciclope di Euripide e il IX dell'Odissea, «Dioniso» 34, 1960, pp. 165-81,
A.G. Katsouris, Euripides! Cyclops and Homer's Odyssey: an interpretative comparison, «Prometheus» 23 (1), 1997, pp. 124). Dai vv. 47 e 343 apprendiamo che davanti alla grotta si trovano abbeveratoi pieni di acqua e un calderone di bronzo. 1. Dalla caverna emerge un personaggio che il pubblico riconosce come Sileno, l'antico maestro di Dioniso: indossa
la maschera di un vecchio calvo (incominciando il suo discor-
NOTE
307
so egli ricorda gli anni della giovinezza, v. 2; Odisseo e Polifemo si rivolgono a lui chiamandolo γέρων, cfr. p. es. vv. 145, 194, 229; al v. 227 il ciclope accenna alla sua calvizie), con il naso camuso, labbra sporgenti, una folta barba; il suo abbi-
gliamento, costituito da una pelle di leopardo, è corredato da un fallo di cuoio (cfr. v. 169 e Aristofane, Thesm., 157); com-
pletano questa figura grottesca orecchie e coda di cavallo, che gli conferiscono un aspetto ferino. All’inizio del dramma avanza maneggiando un rastrello (v. 33). A Sileno tocca il compito di introdurre la storia attraverso il prologo (vv. 140) che, secondo l’uso euripideo, spiega al pubblico l’antefatto e l'ambientazione della vicenda (sulla possibile identificazione di Sileno con il corifeo cfr. Introduzione, pp. 43-4; sui primi versi del dramma cfr. anche M. Davies, Comic priamel and hyperbole in Euripides, Cyclops 1-10, «Classical Quarterly» n.s. 49, 1999, pp. 428-32). 2. Il Ciclope si apre con uno dei tanti nomi cultuali di Dioniso, il più usato da Euripide; βρόμιος («il mugghiante» v. 1) si collega al verbo βρέμω, che significa «fremere, rumoreggiare, risuonare, gemere», detto del mare (77. IV, 425), delle armi (Eschilo, Prom., 424), di grida infantili (Eschilo, Sept., 350),
della musica (Pindaro, Ner. XI, 7), del tuono (Pindaro, Ol. II, 25). Riferito al dio, l’epiteto può alludere alle circostanze
della sua nascita e al tuono che la accompagnò (cfr. Diodoro Siculo IV, 5, 1). Infatti, secondo la tradizione mitica più consolidata, Semele, madre di Dioniso, morì incenerita dal fulmine del suo amante Zeus, che aveva voluto vedere nell’a-
spetto divino; il figlio che portava in grembo fu salvato dal re degli dei, il quale lo cucì all’interno della sua coscia perché se ne completasse lo sviluppo e dopo il «parto» lo affidò a Ermes; questi a sua volta lo portò nella remota e geograficamente nebulosa Nisa, dove fu allevato dalle ninfe (cfr. v. 4), ed ebbe Sileno come precettore. L'appellativo βρόμιος richiama anche l’antica connessione di Dioniso con i terremoti, oltre che con la sua capacità di trasformarsi in leone (cfr.
n.7) e in toro. 3. Nelle Baccanti (v. 66) Euripide definisce «dolce» la fatica imposta da Dioniso ai suoi fedeli: danze frenetiche, cori,
pasti selvaggi (l’omofagia, pasto nel quale culminava l’orgia
308
CICLOPE
bacchica, consisteva nello smembramento di animali che ve-
nivano divorati crudi), in una totale immersione nella natura. Non sono invece affatto piacevoli i guai sofferti dai satiri a causa di Dioniso, ma Sileno li rievoca trionfante e vanaglorioso, come prove di una devozione incrollabile nei riguardi del suo signore. 4. Soltanto Euripide, Apollodoro (Bib/. III, 5, 1) e Nonno di Panopoli (Dion. XXXII, 38-fine) riportano questa disavventura occorsa a Dioniso, ma essa era senz’altro ben nota al pubblico ateniese; il mito spiega la «follia», intimamente con-
nessa al culto dionisiaco, come vendetta di Era per la relazione adulterina di Zeus e Semele, da cui nacque il dio. È già
Omero a definire Dioniso μαινόμενος (Il. VI, 132); «folli» diventavano i fedeli durante le celebrazioni dionisiache, basate sul furore estatico (cfr. Euripide, Ba., 1094), quando, invasati dal dio, entravano in comunione con lui. La pavia era anche
lo strumento di punizione che Dioniso utilizzava contro quanti si opponevano all’introduzione del suo culto, come testimoniano i miti delle Miniadi (Antonino Liberale X; Ovidio, Met. IV, 1-2, 389 ss.), quello simile delle Pretidi (Apollodoro II, 2, 2), nonché una versione della storia del re tracio
Licurgo. Le ninfe sono tradizionalmente presentate come balie di dei ed eroi. 5. I Giganti, creature mostruosamente
grandi, serpenti
nella parte inferiore del corpo, furono partoriti da Gea, che era stata fecondata dal sangue di Urano, ma, nonostante la loro origine divina, erano mortali. Subito dopo la loro nasci-
ta, avvenuta a Flegra in Tracia, presero a scagliare contro il cielo massi e alberi infuocati, per convincere gli dei olimpici a liberare i loro fratelli Titani dal Tartaro, in cui erano stati relegati da Zeus (nella tradizione post-esiodea Giganti e Titani vennero spesso identificati, benché 1 secondi fossero im-
mortali, e il mito della loro sconfitta ad opera delle divinità dell'Olimpo in epoca tarda fu interpretato simbolicamente come la vittoria dell'intelligenza contro la forza bruta). Numerosi vasi attici, dalla fine del VI sec. a.C., attestano la partecipazione dei satiri alla battaglia. Apollodoro (I 6, 2) riferisce che Dioniso uccise Eurito, non Encelado, morto per mano di Atena, la quale lo vinse lanciandogli addosso la Sicilia
NOTE
309
(Pausania VIII 47, 1). Euripide stesso, nelle tragedie Eracle (v. 908) e Zone (v. 209), dimostra di conoscere questa versione della gigantomachia, che, tra l’altro, era uno dei temi prediletti dell’arte greca (compare sul fregio del Tesoro dei Sifni a Delfi, sulla decorazione dell’Hekatompedon dell’ Acropoli di Atene, sulle metope del Partenone, su numerosi vasi del V
e IV sec. a.C.). Probabilmente il poeta inventò questa variante (o la scelse da una tradizione diversa) per giustificare in qualche modo il tono orgoglioso di Sileno, che è servo sì, ma sulla terra che copre un suo antico nemico; si consideri inol-
tre che autori tardi, tra i quali il poeta latino Claudiano, parlano di Encelado come del più grande dei Giganti. 6. Sileno interrompe bruscamente l’enfasi epica della rievocazione con l’espressione colloquiale φέρ᾽ ἴδω (v. 8, cfr., p. es., Aristofane, Eq., 119, Pax, 361). Il passaggio alla dizione comico-popolaresca nel Ciclope costituisce un ironico contrappunto al tono tragico (cfr., p. es., vv. 9, 99, 124, 626); nel dramma satiresco diminutivi, esclamazioni, forme dialettali,
anacronismi, parolacce mettono in guardia lo spettatore dal prendere troppo sul serio quanto sta succedendo sulla scena e contribuiscono ad accrescere quell’atmosfera di irrealtà e incoerenza che è tipica del genere letterario (cfr. Introduzione, pp. 73-5; un elenco completo delle forme colloquiali, delle esclamazioni, dei diminutivi e delle parole rare nel Ciclope si trova in R. Ussher, Euripides Cyclops, Roma 1978, pp. 204-6; cfr. inoltre PT. Stevens, Colloquial Expressions in Euripides,
«Hermes Einzelschrift» 38, 1976). 7. La vicenda — uno dei numerosi episodi in cui Dioniso,
con un'improvvisa epifania, punisce gli empi che non lo riconoscono — è raccontata dall'autore dell Inno omerico a Dioniso e da Apollodoro (III 5, 3), che differiscono tra loro in alcuni particolari, ma non nella sostanza dell'accaduto. I pirati Tirreni tentano di imprigionare il dio, ma le corde gli scivolano dalle membra, mentre sulla nave incomincia a scorrere un
vino dolcissimo e tralci di vite e d'edera si diffondono attorno all'albero e alle sartie. Il dio si muta in un leone e afferra il capo dei pirati, gli altri si gettano tra le onde diventando delfini; Dioniso salva la vita soltanto al timoniere, che ha intuito la sua natura divina. Il mito è rappresentato da una fa-
310
ciIcLOPE
mosa coppa di Exechias (555-525 a.C.). Il viaggio di Sileno e dei suoi figli alla ricerca del loro signore e il successivo naufragio della nave presumibilmente sono invenzioni di Euripide, escogitate per creare la necessaria connessione tra i satiri, la Sicilia e i greci guidati da Odisseo. 8. Il lessicografo Esichio (a 36) spiega il raro aggettivo ἀμφῆρες (al v. 15 riferito a δόρυ = «nave») in connessione con l'avverbio ἀμφί («da entrambe le parti») e con il verbo épéoc£ («remare»), dai quali deriverebbe il significato «con due file di remi»: imbarcazioni di questo tipo erano utilizzate dai pirati, come testimonia Tucidide (IV, 67, 3). D'altro canto l'intera espressione ἀμφῆρες δόρυ potrebbe anche indicare semplicemente il timone (δόρυ) «ben fatto» (significato che l'aggettivo attinge dal verbo ἀραρίσκειν, «adattare, connettere insieme, costruire», come in Euripide, /on, 1182).
9.I vv. 16-7, con l'immagine del mare bianco di spuma peri colpi dei remi, sono un’evidente reminiscenza di una comunissima formula omerica (cfr. p. es. Od. IX, 472: «e in fila seduti battevano il mare schiumoso coi remi», trad. R. Calzec-
chi Onesti): per il pubblico ateniese sarà stato inevitabile il collegamento fra la nave dei satiri e quella di Odisseo, desti-
nata ad apparire all’orizzonte di lì a poco (al v. 85; si veda an-
che W. Wetzel, op. cit., p. 42). 10. Il capo Malea è l'estrema punta sud-orientale del Peloponneso, di fronte all'isola di Citera. «Doppiare il capo Malea» era un'espressione proverbiale per dire che non si avevano più speranze (Strabone VIII, 6, 20), poiché i venti che soffiavano in quella zona provocavano frequenti naufragi (Erodoto IV, 179, 2; VII 168, 4). Anche Odisseo, mentre solcava le stesse acque, era stato sospinto da Borea (vento che spira da nord, diverso da quello orientale nominato da Sileno al v. 19) verso il paese dei Lotofagi (Od. IX, 81): Sileno, trascinato dalla vanità, si autopresenta come emulo dell'eroe, benché la collocazione dei ciclopi in Sicilia renda la rotta assai poco credibile. 11. In Sicilia i ciclopi abitano nelle caverne dell'Etna (anche l'Odissea IX, 113-4, colloca le loro dimore sulle cime dei
monti, in grotte profonde), alle quali il dramma accenna di frequente (vv. 62, 95, 114, 130, 298), senza che per questo sia
NOTE
311
necessario ipotizzare la presenza di rocce vere (cfr. n. 1) nella scenografia del teatro ateniese. L’antro di Polifemo è lontano da quelli dei suoi fratelli (cfr. vv. 509, 531 e Od. IX, 115, 188-90): le tane isolate di questi individui spaventosi sono uno dei tanti indizi dell’autarchia asociale in cui essi vivono. 12. Già gli antichi conoscevano tre «tipi» di ciclopi. Quelli della tradizione omerica, e poi euripidea, sono presentati dal libro IX dell’Odissea come un'intera stirpe; figli di Poseidone,
giganti con un occhio solo in mezzo alla fronte (Cycl., 78-9, 174, 235, 459, 475, 627, 636, 648), abitano un’isola dell’Occidente, identificata con la Sicilia, dove vivono di pastorizia (cfr.
Od. IX, 183 ss., 217 ss.); la loro esistenza non è regolata da accordi e leggi (Od. IX, 215), disprezzano Zeus e gli altri dei, dei quali si ritengono più forti (Od. IX, 275-6). 1 ciclopi di Esiodo (Th., 139 ss., 501 ss.) sono invece tre figli di Urano e di Gea; caratterizzati come abili artigiani, ma di carattere superbo e violento, vennero incatenati nel Tartaro una prima volta dal loro padre e in seguito da Crono, finché furono liberati da Zeus, che ricevette in cambio il tuono e il fulmine; in seguito
Apollo li uccise, per vendicare la morte di suo figlio Asclepio, folgorato da Zeus con l'arma da loro donata; i ciclopi esiodei
sono stati collegati con i demoni vulcanici della poesia alessandrina e romana, collaboratori di Efesto nella lavorazione dei metalli, con officine situate nelle viscere deli’Etna. Vi so-
no infine i ciclopi costruttori, che avrebbero edificato, con enormi massi di pietra, le mura di Argo, Tirinto, Micene.
13. Sulla schiavitù dei coreuti come motivo topico del caτυρικόν, cfr. Introduzione, pp. $5-7. Sileno confronta nostalgicamente la gioia della vita nel corteo di Dioniso con l’amara condizione di servitù del presente. Il tema è ricorrente in tutto il Ciclope (cfr. vv. 37-40, 63-81, 123, 139-40, 204-5, 428-30, 435-8, 620-1, etc.). I satiri sono creature semiferine e, quando assumono comportamenti umani, di solito tradiscono una ri-
dicola goffaggine; nello stesso tempo però essi nutrono un’aspirazione del tutto umana a un’esistenza libera e in armonia con la natura. In questa prospettiva la figura del satiro può essere considerata come il simbolo dell’uomo nel suo stato ideale, non nevrotico, soddisfatto di sé, pienamente integrato
nell'ambiente che lo circonda: privato della libertà, diventa
312
CICLOPE
un emarginato, uno sradicato che vagheggia il ritorno al mondo dionisiaco a cui appartiene. L’«evoè» è il grido rituale che i fedeli innalzano durante l'estasi dionisiaca (cfr. Euripide, Ba., 141, Sofocle, 7r., 219, Aristofane, Lys., 1294, etc.).
14. L’empietà dei ciclopi consiste innanzitutto nel disprezzo degli dei (cfr. vv. 316 ss., 348, 378, 438: l’aggettivo ἀνόσιος si dice tanto di persone quanto di cose che si oppongano alla legge divina e alla «pietà», cfr. Erodoto II, 114, 2, Platone, Gorg., 505b, Sofocle, Anr., 1071 etc.), e raggiunge il culmine nel terrificante costume di mangiare gli ospiti (cfr. vv. 22, 31,
693: i pasti di Polifemo sono definiti «sacrileghi»). 15. Il termine usato per indicare l’abitazione di Polifemo (στέγας, v. 29) definisce in sé soltanto un riparo provvisto di copertura, pertanto è appropriato per una caverna; tuttavia il fatto che esso, nella dizione tragica, assuma di solito la con-
notazione di «palazzo» (cfr. v. 118, dove equivale a δόμοι; Eschilo, Ag., 3) contribuisce ad alimentare l'atmosfera di sva-
gata incoerenza che pervade il dramma. 16. Sileno introduce l’ingresso del coro (allo stesso modo nelle Baccanti Dioniso, negli ultimi versi del prologo, annuncia l’arrivo delle Menadi); mentre sta compiangendo la sua sorte si interrompe, perché vede arrivare i satiri che sospingono il gregge di Polifemo verso la grotta. La presenza dei satiri, richiesta dal genere letterario, come osserva D. Konstan, An anthropology of Euripides’ Cyclops, «Ramus» 10, 1981, p. 87 ss., nel Ciclope altera l’intera semantica della sto-
ria, allargando a Sileno il confronto omerico tra Odisseo e Polifemo. Dietro i tre personaggi ci sono inoltre tre gruppi -i satiri, i marinai, i ciclopi — che simboleggiano tre possibilità di intendere, oppure di negare, la vita associata. I figli di Sileno stanno riconducendo ali’ovile le pecore del loro padrone (tra le quali spicca un ariete, cfr. vv. 41 ss.); secondo Ussher, op. cit., p. 181, non c’è motivo di dubitare che almeno due o tre animali fossero realmente introdotti nell’orchestra dai πρόσπολοι («servi», personaggi muti la cui funzione è di tenere a bada le pecore mentre i satiri danzano, vv. 82-3) per suscitare nel pubblico una reazione.di divertita sorpresa (la possibilità di portare in scena delle pecore, ammessa da U. Wilamowitz-von Moellendorff, Griechische Tragoedien III,
NOTE
313
Berlin 1922, p. 18, è decisamente negata da P. Arnott, The Overworked Playwright, «Greece and Rome» n.s. 8, 1961, p.
167 e Greek Scenic Conventions, Oxford 1962, p. 179). 17. L’allegria scomposta dei satiri, che avanzano ballando, è in comico contrasto con il malumore di Sileno. La σίκιννις
è la danza veloce tipica del dramma satiresco (come l’éupéλεῖα per la tragedia e la κόρδαξ per la commedia). Il «Vaso di Pronomo» (cfr. Introduzione, pp. 19-20) rappresenta un satiro danzante: è in equilibrio sul piede destro, mentre la gamba sinistra è sollevata e piegata, con il piede curvo verso terra; la mano destra è appoggiata sul fianco e la sinistra è tesa e aperta verso l'esterno (cfr. Ateneo, 630c; un’analisi particolareggiata della sicinnide si trova in V. Festa, Sikinnis: storia di un’antica danza,
«MA AN» 3, 2, 1918, pp. 35-74).
satiri so-
no sempre immaginati come danzatori instancabili (cfr. la battuta scherzosa di Polifemo al v. 221:1a loro vivacità li rende indigesti anche per lo stomaco insaziabile del ciclope). 18. Sileno, con un termine militare (cuvaoniGovtec, v. 39),
suggerito probabilmente dal tono eroico del discorso appena concluso (cfr. v. 6 παρασπιστής), ricorda la presenza dei satiri nel corteo di Bacco. Il sostantivo κῶμος (v. 39) in genere designa l'allegra scorribanda notturna dei banchettanti che, dopo il simposio, si dirigono verso la casa di un'amata, di un amato o di altri amici (cfr. Platone, Symp., 212 cd, 223b). 19. Altea era la moglie del re di Calidone, Eneo, il primo a
piantare la vite ricevuta in dono da Dioniso; secondo alcune versioni del mito, dall'unione tra la donna e il dio nacque Deianira, sorella di Meleagro e in seguito sposa di Eracle (Apollodoro I, 8, 1). La storia di Deianira era l'argomento di un dramma satiresco (P. Oxy. 1083), cui potrebbero alludere questi versi del Ciclope. 20. Dal v. 41 al v. 81 il coro intona la parodo. Il metro é basato sul ritmo coriambico, con l'inserzione di cola anape-
stici (vv. 49-51), giambici (vv. 63, 77) e dattilici (vv. 53, 78); la sequenza strofica è interrotta dai vv. 49-54: potrebbero essere un mesodo (ossia un interludio, come pensa Diggle), o un ritornello, che doveva essere ripetuto anche dopo l'antistrofe nel testo originale (l'ipotesi & di Ussher e Biehl). I coreuti, muovendosi nell'orchestra in modo concitato, fingono di
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cicLoPE
inseguire prima un ariete e poi una pecora, per spingerli nell'ovile. 21. Un altro riferimento parodico all'Odissea: al famoso ariete di Polifemo (Od. IX, 432 «c'era un ariete, fra tutta la greggia il piü bello», trad. R. Calzecchi Onesti), sotto il quale si nascose Odisseo per uscire, non visto, dall’antro, i satiri si rivolgono come se si trattasse di un semidio o di un personaggio dagli illustri natali (cfr. Sofocle, OT, 1469); di fronte all'animale recalcitrante si passa, in una climax di comica efficacia, dalle lusinghe alle esortazioni irritate, fino all'aperta
minaccia (vv. 49-51). 22. Porta (v. richiamo usato 23.1 genitivi ra dorica tipica
49) è spiegato da Esichio (y 20 e dai pastori per accelerare la corsa μηλοβότα e àypoBáxa presentano delle parti liriche. I vv. 52-4 sono
81) come il del gregge. la coloritudi interpre-
tazione controversa, a causa delle incertezze che gravano sul
termine tradito ovaciopóv (v. 53), che compare solo in questo passo e dovrebbe significare «custode dell'ovile» (στάσις, propriamente «posizione», è testimoniato come luogo in cui alloggiano gli animali per il riposo — in un frammento dello stesso Euripide si trova con il senso di «scuderia». Alcuni interpreti, accogliendo l'integrazione npóg all'inizio del verso,
ritengono che il «custode dell’ovile» sia Sileno (cfr. J. Diggle, Euripidis fabulae, Oxford 1984, p. 42, seguito da L. Paganelli, Euripide. Il Ciclope, Bologna 1991, p. 31). Ma l'espressione potrebbe riferirsi anche al masso (πέτρον, v. 51), che in Omero sbarrava la caverna di Polifemo (cfr., tra gli altri, Ussher,
op. cit., pp. 47-8): con la solita ridicola boria i satiri minaccerebbero di scagliarlo contro l'ariete riluttante. La traduzione accoglie la correzione di Wilamowitz στασιωρὲ e riferisce il vocativo all'ariete, il più bello (cfr. n. 21) e perciò il «capo» del gregge. 24. Un’altra espressione magniloquente al v. 57: θάλαμος di solito è la stanza più intima della casa, il luogo riservato alle donne (cfr. p. es. /J. XIV, 188; Od. IV, 121), la camera nu-
ziale (Sofocle, 7r., 913); al plurale può indicare genericamente la casa (Euripide, Jon, 486). Qui designa l'umile ricovero degli agnelli. 25.Torna nel canto dei satiri il tema della nostalgia delle
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cerimonie dionisiache. Il coro cita i particolari di un rito orgiastico; la descrizione delle baccanti, le donne seguaci di Dioniso, è quella tradizionale, testimoniata da numerosi vasi
oltre che dalla letteratura. L'aggettivo θυρσοφόροι («portatrici di tirso»), dopo l’uso che ne fa qui Euripide, non è attestato prima di A.P IX, 524, 9, dove è riferito a Dioniso; il tirso era
una lunga verga adorna di nastri e foglie di edera, una sorta di «bacchetta magica» con la quale le menadi, invasate dal dio, potevano far sgorgare dalla roccia e dalla terra sorgenti di acqua e di vino (cfr. Euripide, Ba., 704-7); da esso a volte stillavano persino gocce di miele (Euripide, Ba., 711); insieme a
questo prodigioso bastone, i timpani (v. 65, cfr. Euripide, Ba., 156) e il vino (v. 67) erano gli elementi indispensabili del baccanale. Il termine onomatopeico ἀλαλαγμός (al v. 65 riferito al rullio dei tamburi), che significa anche «grido di guerra» (cfr. Erodoto, VIII 37, 3), aggiunge un tocco militaresco all’imma-
gine dei devoti di Bacco (cfr. v. 39). Come il latino viridis, l'aggettivo xAwpög («verde-giallo» o «verde-pallido», v. 67) è spesso utilizzato senza riferimento al colore nel senso di «fresco, vivo, vigoroso» (cfr. Pindaro, Nem. VIII, 40 detto delle
gocce di rugiada; Euripide, ZA, 1297, di un prato fiorito; Teocrito XIV, 70, di un ginocchio). Espressioni analoghe a quelle di questi versi sono utilizzate per descrivere il sangue (Sofocle, OT, 1278; Eschilo, Ag., 1122): in questo modo, sul ricordo dei riti gioiosi e liberi dei satiri balenano, fin dall’inizio del dramma, sinistri presagi di morte. 26. In origine Iacco era una divinità minore, forse la personificazione del grido rituale dei Misteri Eleusini; nelle arti
figurative era rappresentato come un giovane che, con una torcia, guidava la processione di Eleusi. Successivamente egli finì per identificarsi con Dioniso e il suo nome diventò un epiteto cultuale del dio. 27.La connessione di Bacco con Nisa è attestata a partire dall’/nno omerico a Dioniso
(XXVI, 5, cfr. Euripide, Ba.,
556), ma l’identificazione geografica del luogo resta misteriosa; secondo la tradizione, a Nisa Zeus avrebbe portato
Dioniso per farlo nascere, dopo averlo cucito nella propria coscia (cfr. n. 2). Erodoto (II, 146, 2) pone questa esotica località in Etiopia, Diodoro Siculo (III, 65-66) oscilla fra Libia
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e Arabia, Plinio (Nat. Hist. V, 74) la colloca in Caria, ritenen-
dola una colonia degli Sciti. La presenza delle ninfe nel tiaso dionisiaco è più volte testimoniata dalla letteratura (cfr., p. es., Anacreonte, PMG
357; Pratina, PMG
708, 3) e dall’ico-
nografia vascolare, in cui è ricorrente il tema dei satiri che insidiano le ninfe o le menadi. 28. Anche la connessione Bacco e Afrodite è tradizionale: vino ed eros sono gli immancabili ingredienti di ogni incontro simposiaco. L’Inno omerico ad Afrodite ci tramanda un’immagine grandiosa della dea di Cipro «... che suscita dolce desiderio negli dei / e soggioga le razze degli uomini mortali, / gli uccelli del cielo e tutte le specie animali...» (V, 2-4, trad. Giuseppe Zanetto, op. cit.). Come personificazione divina della sessualità, anche nelle pratiche religiose Afrodite era spesso associata a Dioniso, nel suo aspetto di dio della natura e dei cicli ricorrenti di vita e morte che vi si perpetuano. 29. È l’immagine più comune di Dioniso: il rapsodo dell’inno omerico (VII, 2-6) lo descrive come un giovane dai capelli fluenti, che cammina solo sulla riva del mare. Nelle Bac-
canti (v. 235), il dio è un efebo dal fascino ambiguo, con 1 riccioli biondi e profumati. 30. L'unico occhio di Polifemo era situato in mezzo alla fronte (cfr. vv. 174, 235): l'attore che interpretava questo personaggio probabilmente indossava una maschera di dimensioni maggiori rispetto a quelle comuni, con un’unica grande apertura per entrambi gli occhi. 31. È piuttosto improbabile che τράγου χλαῖνα (v. 80) si riferisca semplicemente al περίζωμα: questo infatti era il costume abituale dei satiri, perciò il lamento dei coreuti avrebbe scarsa efficacia. L'iconografia vascolare attesta che essi potevano indossare accessori che li caratterizzassero come menadi, pedagoghi, atleti, guerrieri, supplici, a seconda del ruolo svolto nel dramma. Si può quindi pensare che nel Ciclope i satiri entrassero in scena con il corto mantello di pelle di capro tipico dei pastori. 32. Sileno ordina ai figli di far condurre le pecore nell’antro perché la nave approdata potrebbe appartenere a pirati; solo quando i greci si avvicinano si chiarisce che si tratta di
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naufraghi in cerca di cibo. Al v. 83 i πρόσπολοι, servitori muti,
entrano (con gli animali?) nella caverna, dalla quale non usciranno più. 33. Le parole di Sileno hanno il valore di «didascalia scenica», ossia annunciano agli spettatori l’entrata in scena di nuovi personaggi, secondo la convenzione teatrale antica (cfr. anche v. 36). Il fatto che Sileno parli di un «capo», prima di aver interrogato i marinai, significa che Odisseo porta abiti diversi da quelli dei suoi uomini: deve trattarsi di un mantello abbastanza ampio da poter nascondere un otre di vino (v. 145), una coppa (v. 151), una spada (v. 456). La descrizione dei greci come marinai scappati a un naufragio sottolinea la differenza rispetto al racconto omerico, in cui Odisseo e 1 suoi sbarcano sull’isola dei ciclopi spinti dalla curiosità, piuttosto che costretti da una tempesta (cfr. Od. IX, 172-6). 34. Di fronte ai naufraghi i satiri provano un moto di simpatia e sembrano disposti ad aiutarli, ma all'arrivo di Polifemo prevarranno la paura e la vigliaccheria (v. 228 ss.); il loro è il carattere antieroico per eccellenza: agiscono secondo le circostanze, guidati unicamente dall’istinto. 35. L'insistenza con cui Euripide ricorda l'ambientazione siciliana del dramma ha suggerito di datare la prima rappresentazione del Ciclope successivamente alla disastrosa spedizione degli Ateniesi contro Siracusa, durante la guerra del
Peloponneso (i richiami alla cultura e agli eventi contemporanei nel Ciclope sono analizzati da L. Paganelli, Echi stori-
co-politici nel Ciclope euripideo, Padova 1979). 36. Odisseo, per versatilità e spregiudicatezza, è il più «satiresco» degli eroi omerici; l’astuto figlio di Laerte infatti si dimostra capace di rovesciare a suo favore la sfortuna di essere capitato nella terra dei ciclopi 6, con l’accecamento di Polifemo, fornisce al dramma l’indispensabile lieto fine.
37. La presentazione dei Cefalleni come abitanti di Itaca e di Odisseo come il loro capo risale al «catalogo delle navi» del secondo libro dell!'7/iade (Il. II, 631-2; per le implicazioni politiche della citazione di questo popolo, cfr. Introduzione, p. 126, n. 190). 38. Κρόταλοι (v. 104, al singolare) sono i sonagli utilizzati
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per accompagnare riti o danze. La battuta di Sileno riflette il processo denigratorio che la figura di Odisseo subì nel V sec. a.C.; anche la tragedia presenta generalmente l’eroe omerico in una luce negativa (cfr. Introduzione, pp. 125-8). 39. Nell’Iliade (VI, 153 ss.) Sisifo, padre di Glauco e nonno
di Bellerofonte, è ricordato come il più astuto degli uomini. Nell’Oltretomba (cfr. Od. XI, 593 ss.), egli è condannato a spingere lungo il pendio di un colle un masso enorme che, arrivato alla vetta, rotola giù, costringendolo a ripetere all’infinito l’inutile sforzo; l'Odissea tace la causa della punizione, che fonti posteriori mettono in relazione con un tradimento di Sisifo nei confronti di Zeus o con i vari tranelli tesi ai danni di Thanatos e di Ade. Secondo una versione del mito, sconosciuta ai poemi omerici, ma citata dai tragici (cfr. Sofocle, Ai., 190, Phil., 417, 625, 1311), egli sedusse Anticlea, prima che questa sposasse Laerte, rendendola madre di Odisseo; tuttavia la tradizione più
consolidata segue Omero (Od. X, 504) nel ritenere l'eroe figlio di Laerte. Anche così, per l’astuzia dell’itacese rimane un precedente familiare nel nonno materno Autolico: un altro grande ingannatore del mito, eccellente fra i mortali per furto e spergiuro, ricevuti in dono da Ermes (Od. XIX, 395 ss.). 40. La prima parte (fino al v. 128) della sticomitia traccia un quadro preciso della società ciclopica, antitetica rispetto al modello della polis. Polifemo e i suoi fratelli hanno adottato uno stile di vita autarchico che non prevede né leggi né capi; dediti unicamente alla pastorizia, si cibano di latte, di for-
maggio, di carne e divorano orribilmente quanti per caso approdano alle loro rive. Non conoscono il vino e in questo si distinguono dai ciclopi omerici, ai quali la dolce bevanda è fornita da viti che crescono senza bisogno di cure (Od. IX, 108 ss.), come succedeva nella favolosa età dell’oro, nella quale molti testi del V-IV sec. a.C. individuano una tappa della storia umana. Nella semantica del Ciclope il vino è Dioniso, perciò l’ignoranza di Polifemo si carica di significati simbolici, in quanto è non conoscenza dei riti cittadini e spregio degli dei che a essi presiedono. 41. Mentre Sileno e i satiri accudiscono le greggi di Polifemo, gli preparano i pasti e tengono pulita la sua casa (si noti la differenza rispetto alla caverna omerica, ricoperta di leta-
NOTE
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me, Cycl., 29-35 e Od. IX, 330), egli va a caccia con i cani
(v.130), presumibilmente per puro divertimento, dal momento che al suo ritorno pretende che la tavola sia già imbandita (v.214). Una curiosa mescolanza di barbarie e civiltà caratterizza il Polifemo euripideo che, se in apparenza è una creatura primitiva dominata dall’istinto e ignara di ogni regola, d’altro canto rivela sorprendenti affinità con un gentiluomo ateniese del V sec. a.C. (cfr. Seaford, art. cit., pp. 199-200; Introduzione, pp. 122-3). 42. Nell’Odissea (IX, 197-8) Marone, sacerdote di Apollo
a Ismaro in Tracia, è figlio di Evante e dona il vino a Odisseo in segno di riconoscenza, perché l’eroe gli ha salvato la vita; un frammento esiodeo (fr. 203 M.-W.) lo presenta come nipote di Dioniso. Satiro, biografo e grammatico del III sec. a.C., lo considera invece figlio del dio
e Nonno
(Dion. XIV,
99) lo chiama «figlio di Sileno». Euripide potrebbe dipendere da una fonte precedente per questa variante del mito, o esserne l'inventore; in ogni caso, il rapporto tra Marone e Dioniso prepara l'alleanza di Odisseo con i satiri. 43. I] v. 147, se letto come risposta alla battuta di Sileno, presenta difficoltà linguistiche: vai infatti dovrebbe essere accompagnato da γάρ, come di regola accade quando esprime disaccordo verso una negazione dell'interlocutore; l'oscurità del verso è accresciuta dalla mancanza di verbo in δὶς
τόσον rà. Per questi motivi Diggle, seguendo Nauck, postula una lacuna di due versi dopo il v. 146. Un'altra soluzione (proposta da Cerri e seguita nella traduzione da G. Zanetto, op. cit.) è quella di mantenere il testo tràdito, leggendo và (da νάειν = «scorrere, fluire») invece di vai: Odisseo spiegherebbe che la bevanda che scorre «è il doppio di quella che esce dall’otre». In ogni caso è possibile il riferimento a una virtù magica del vino di Marone, capace di raddoppiare nell’otre o nella tazza. | 44. Il vino puro era utilizzato dai greci solo per le libagioni, mentre a tavola veniva mescolato ad acqua in proporzioni variabili. O. Longo, Acqua e vino, in Storie del vino, Milano
1991, pp. 23-4, osserva che per loro l'usanza degli stranieri di bere vino puro «denunciava comportamenti sregolati, se non patologici — si associava spesso alla follia — ed era prerogati-
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và di culture barbariche». Nell'Odissea (TX, 209) si dice che il vino di Marone era tanto inebriante da dover essere diluito in venti parti di acqua. La dissolutezza dei satiri giustifica in questo caso l'offerta di Odisseo. 45. Sileno ha attribuito al profumo del vino una qualità rilevabile dalla vista (v. 153, καλήν) piuttosto che dall’olfatto, e Odisseo argutamente lo corregge. 46. Odisseo parla di moneta, ma questa fu introdotta in Grecia solo intorno al VII sec. a.C. Al v. 139, inoltre, l'eroe di-
ce a Sileno che in cambio di cibo gli darà vino, non oro. Anacronismi e incongruenze ricorrono spessso nei drammi satireschi (Arnott, art. cit., pp. 164-9, nel Ciclope li considera segni di stanchezza dell'autore). 47. Le parole di Sileno riecheggiano un modo di dire assai diffuso e non devono essere intese in senso letterale. Dallo scoglio di Leucade si gettavano in mare gli innamorati infelici; Plutarco, Detti degli Spartani, 236 d, inoltre, attesta che
esprimeva il voto di spiccare il salto chi chiedeva il successo di una sua impresa. 48. Evidente allusione oscena al fallo di cuoio dei coreuti e di Sileno, simile a quello esibito dagli attori comici (cfr. Aristofane, Th., 157-8).
49. Il vino risveglia la proverbiale lascivia dei satiri, provocando un abbassamento comico anche nel linguaggio, che impiega λειμών («prato», v. 171) per designare il sesso femminile (il termine è usato solo qui, mentre più comune è la metafora che impiega nello stesso senso κῆπος, «giardino»,
equivalente del latino hortus). Sileno confonde vino e sesso, come indica l'uso del verbo κυνήσομαι («bacerò», v. 172). La proprietà di eccitare all'amore é costantemente attribuita al vino dalla letteratura. 50. Elena, eroina antonomastica della bellezza femminile, nella tradizione post-omerica fu bersaglio di accuse misogine e diventó la fedifraga per eccellenza. Tutti i principi della Grecia avevano chiesto la sua mano al padre Tindaro, il quale la concesse allo spartano Menelao, dopo aver fatto giurare ai pretendenti che si sarebbero uniti contro chiunque avesse voluto sottrarre la donna allo sposo. Mentre quest'ultimo era lontano, Paride, figlio del re di Troia Priamo, ospite a Sparta
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si innamorò di lei e la rapì (per il matrimonio di Elena e Paride cfr. Cypria, EGF I, 18; per la reazione da lui suscitata in
Elena alla sua prima apparizione cfr. Euripide, 7r., 991-2). AI suo ritorno Menelao impose ai rivali di un tempo il rispetto della promessa, così ebbe inizio la guerra di Troia. Quando Paride morì, suo fratello Deifobo sposò Elena (Ilias Parva,
EGF I, 36) che in seguito, secondo il racconto di Virgilio (Aen. VI, 494 ss.), tradì il marito aprendo a Odisseo e a Menelao le porte del talamo dove dormiva, la notte in cui Troia
fu espugnata. Un aneddoto racconta che Stesicoro, in un carme dedicato all’eroina, l’aveva raffigurata come una donna fatale e perversa, ma essa si vendicò accecandolo; per ammansirla il poeta avrebbe composto poi una o due Palinodie, dicendo che a Troia andò solo un fantasma, mentre la vera
Elena si era rifugiata in Egitto presso il re Proteo versione Euripide attinse la materia per la sua presenza di un culto di Elena a Sparta e in altre racconto mitico della sua nascita divina e umana
(da questa E/ena). La località, il (da Zeus,
sotto forma di cigno, e Leda, moglie di Tindareo), il motivo
del suo rapimento da parte di un «barbaro» e della successiva reintegrazione in Grecia rinviano a un’antica divinità preellenica, legata alla natura e alla fertilità. L'attacco dei coreuti all’eroina è condotto in stile perfettamente «satiresco» e per la fedifraga, piuttosto che la solita condanna a morte (cfr. Euripide, Hec., 265-70; Andr., 628; Tro., 874-9, 1030), si auspi-
ca una pena in sintonia con la colpa da punire. Probabilmente Elena figurava come personaggio di alcuni drammi satireschi, tra cui le Nozze di Elena di Sofocle, nei quali subiva le
proterve avances dei coreuti. Sulla guerra di Troia nel teatro di Euripide cfr. anche L. Paganelli, Osservazioni sulla guerra di Troia nell'Andromaca e nel Ciclope euripideo, «Dioniso» 51, 1980, pp. 157-66. 51. Anche nelle Troiane Ecuba accusa Elena di essersi lasciata incantare dai sontuosi abiti di Paride. Da Erodoto (V, 49, 3-4; VIII, 113, 3), Eschilo (Pers., 836) e Senofonte (An. I, 5, 8) sappiamo che presso i Persiani gli uomini indossavano brache di cuoio e si adornavano con preziosi monili d'oro: i satiri sembrano avere in mente questo modello nella descrizione del principe troiano.
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52. Il diminutivo ἀνθρώπιον (v. 185) è usato in funzione ironica, piuttosto che nel benevolo significato consueto: nel teatro del V sec. a.C. il personaggio di Menelao godeva infatti di scarsa stima. Tra l’altro nel verso è facilmente riconoscibile una citazione di Saffo, fr. 16, vv. 7-8 V.: Ἔλένα τὸν ἄνδρα
τὸν ravdpıorov καλλίποι᾽ ἔβα («Elena abbandonò suo marito — un grande eroe! — e fuggì via»). 53. La misoginia dei satiri, a differenza di quella proclamata da altri personaggi euripidei (cfr. Med., 174), non è da prendere sul serio. 54. A] v. 188 la traduzione (cfr. Zanetto, op. cit., p. 188 e n.
29) segue la lezione tràdita ποιμένων (mentre Diggle accoglie la correzione dello Scaligero ποιμνίων). L'espressione involuta si spiega con la situazione psicologica di Sileno, che sta rubando i beni del suo padrone e per questo è comprensibilmente ansioso. Houtévov βοσκήματα è da intendersi nel senso di à βόσκουσι ποιμένες ossia «(gli animali) che i pastori allevano». 55. Il particolare è un'altra citazione del racconto odissiaco (IX, 236), in cui i greci, che si trovano all'interno della caverna, al sopraggiungere di Polifemo cercano di nascondersi nei recessi dell'antro. Euripide, dovendo rappresentare l'incontro all'aperto, trova ugualmente il modo di accennare a questo elemento. 56. I Frigi erano una delle popolazioni che anticamente abitavano la costa nord-occidentale deli’ Anatolia; qui il nome è sinonimo di troiani. 57.1 vv. 212-4 pongono il problema del momento della giornata in cui si svolge l’azione del Ciclope. I satiri sono appena tornati dal pascolo e accennano alle stelle, ma Polifemo reclama l'ápiotov, che può essere la colazione (Il. XXIV, 124, Od. XVI, 2, Eschilo, Ag., 331) o il pranzo (Erodoto III, 26, 3,
Tucidide IV, 90, 3), più difficilmente la cena (ma Ussher, op. cit., pp. 79-80, sostiene che si tratta di un pasto che poteva essere consumato in orari diversi, a seconda delle circostanze). Sileno, dopo la parodo (v. 85), vede da lontano la nave dei greci mentre approda e ciò lascia supporre che vi sia luce; al v. 542 lo stesso Sileno ubriaco dice che «è bello bere al calore del sole». Queste contraddizioni, per le quali si sono tentate
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varie spiegazioni senza risultati del tutto convincenti, hanno indotto Arnott ad affermare: «The play’s time-scheme is, to
say the least, confusing. We leap from one part of the day to another with a freedom unparalleled in Greek Drama». Probabilmente è vano cercare una rigorosa sequenza temporale in un’opera «buffa» come il dramma satiresco. Comunque la citazione di Orione sembra molto più che una battuta giocata sul nonsenso (cfr. Seaford, art. cit., pp. 196-9). Prima di diventare una costellazione, questo personaggio, figlio di Poseidone, era un cacciatore di statura eccezionale, che inseguiva le fiere sui monti armato di clava (Od. XI, 572-5): «i satiri sono divertenti anche quando sono spaventati, e quando ve-. dono Orione stanno vedendo Polifemo» (Seaford, op. cit.). Ma c’è dell’altro. Secondo una tradizione testimoniata la prima volta da Esiodo (fr. 148 M.-W.), Orione, ospite di Enopione re di Chio, si innamorò di sua figlia Merope e, ubriaco, la violentò; il padre della ragazza lo punì accecandolo. Servio riporta la storia con un’aggiunta, forse tratta da un dramma satiresco: is (scil. Liber) satyros misit qui soporem infunderent Orioni et sic velut vinctum Oenopioni traderent arbitrio eius puniendum. Tum ille Oenopion sopito ei oculos sustulit (Comm. in Verg. Aen. X, 763). Dunque, con ogni probabilità, la comparsa di Polifemo ha indotto sia i satiri che il pubblico a pensare a un altro favoloso cacciatore che, come il ciclope, doveva presentarsi sulla scena con la sua clava; contempora-
neamente, si può intuire nei vv. 212-4 una maliziosa allusione a quello che capiterà al mostro, che condivide con Orione le dimensioni fisiche, la discendenza paterna e la passione per la caccia. 58. I crateri erano grandi vasi, di metallo o di terracotta,
utilizzati specialmente per mescere (il nome deriva infatti dal verbo κεράννυμι = «mescolare») l’acqua e il vino (cfr. ZI. III, 269 e Od. I, 110). Ma Polifemo, che non conosce la bevanda
di Bacco, li utilizza per versarvi il latte (vv. 218, 388-9). 59. Poiché gli attori e i coreuti del teatro greco indossavano la maschera, gli accenni allo stato d’animo o all’espressione dei personaggi sono da intendersi come «didascalie sceniche», che sostituivano la mimica facciale. In questo caso, tut-
tavia, è stato supposto che Sileno approfittasse dell’uscita
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precedente (al v. 174) per indossare un’altra maschera, che riproduceva un’espressione di stralunata ebbrezza. Il ciclope, ignorando i segni dell’ubriachezza, offre al vecchio l’opportunità di inventare la storia dell’aggressione dei greci per giustificare la presenza dei formaggi e degli agnelli fuori dalla grotta. 60. Al v. 235 la lezione tradita κάτα può essere considerata esito di κάτα (= καὶ εἶτα) o di κατά. La traduzione segue la prima ipotesi; in questo modo le parole di Sileno contengono un’anticipazione dell’accecamento di Polifemo (come osserva Zanetto, op. cit.,p. 123): nella sua fantasiosa ricostruzione
delle minacce di Odisseo, il vecchio include inconsapevolmente anche la terribile vendetta tramata dall’eroe. Se invece si preferisce leggere κατὰ, le interpretazioni possibili sono almeno due: i greci minacciano di strappare a Polifemo le budella «sotto il suo occhio», oppure «facendole passare dall'occhio» (un riassunto della questione si trova in T. Gargiulo, Eur. Cycl. 235, «Eikasmos» 5, 1994, pp. 103-8). 61. Girare la macina del mulino era una delle punizioni più comuni per gli schiavi ribelli (cfr. Lisia I, 18). Nella confusione provocata dalla paura Sileno accumula particolari contraddittori: Polifemo non avrebbe certo potuto essere adatto al lavoro dopo che gli erano state cavate le budella. 62. Il termine xpeovöuog («scalco», ossia il servo addetto a trinciare le carni cucinate e a servirle ai convitati, v. 245) è conservato solo da Licofrone (Alex., 203, 481, 762), ma dove-
va essere noto al pubblico di Euripide, vista l'importanza che numerose iscrizioni attribuiscono alla divisione tra i fedeli delle carni cotte per il sacrificio (operazione che si chiamava xpeovonia). Seaford, art. cit., pp. 201-2, lo riferisce a Polifemo, mentre per Ussher, op. cit., p. 85, puó essere considerato sinonimo di kontg («coltello», spesso da cucina). 63. In Omero Polifemo mangia crude e per intero le sue vittime, «come un leone montano» (Od. IX, 291-3): la reminiscenza odissiaca diventa in Euripide il particolare di paradossali banchetti, che abbinano carne di cervo e carne di leone (ignota all'arte culinaria dei greci). Il pasto del ciclope satiresco è tanto più mostruoso in quanto è consumato secondo le regole di un banchetto sacrificale (cfr. II. IX, 201-20).
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Tali norme prevedevano le due operazioni culinarie alle quali si accenna in questi versi: arrostitura allo spiedo delle viscere dell’animale (chiamate σπλάγχνα e considerate le parti vitali, dunque le più preziose dell’offerta) e bollitura nel paiuolo del resto. Il pasto-sacrificio (cfr. anche vv. 356 ss., 395-404) di Polifemo, la cui perversione è ancora una volta in
bilico tra civiltà e barbarie, si compie secondo modalità analoghe a quelle dei riti cannibalici di Licaone e Atreo, anch’essi esperti sacrificatori. Il primo, per mettere alla prova l’onniscienza divina di Zeus, suo ospite, gli imbandì le carni di un
bambino: «Ammorbidì una parte delle membra palpitanti della vittima nell’acqua bollente, e al tempo stesso ne fece arrostire altre sul fuoco» (Ovidio, Mer. I, 228-9); il secondo diede in pasto al fratello Tieste le carni dei suo figli: «egli si serve dello spiedo e insieme della pentola» (Seneca, Tieste, 1060-5). 64. Dal momento che Polifemo è figlio di Poseidone, Sileno spergiura su tutte le divinità marine e sugli abitanti del mare, terminando con una parodia dell’uso liturgico di concludere le invocazioni con un accenno a «tutti gli dei e le
dee». Tritone, per metà uomo e per metà pesce, come figlio di Poseidone e Anfitrite compare per la prima volta nella Teogonia di Esiodo (v. 391) in connessione con gli dei olimpici; abita nel fondo del mare in un meraviglioso palazzo d’oro, possiede virtù profetiche e una personalità oscillante tra la saggezza e la violenza. Nel mito Tritone appare in connessione con la spedizione degli Argonauti: quando all’estremità della Grande Sirte essi sostano sul lago Tritonide, egli trascina la nave Argo fino alle acque del Mediterraneo e dona a Eufemo, uno di loro, una zolla di terra come pegno della fu-
tura sovranità su Cirene (Pindaro, Pith. IV, 19 ss., Erodoto IV, 179, Apollonio Rodio, Arg. IV, 1537-622). Nereo, antichis-
simo dio del mare tranquillo, è figlio di Ponto e Gaia secondo la Teogonia (v.234), che gli attribuisce cinquanta figlie, le Nereidi (vv. 240-64); vive nelle profondità dell’Egeo ed è immaginato come un vecchio bonario, sempre benevolo verso i naviganti; come Tritone, può prevedere il futuro. Il contesto fa pensare che la Calipso evocata da Sileno sia la figlia di Teti e Oceano (cfr. Esiodo, Th., 369) e non la ninfa che si inna-
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mora di Odisseo e lo trattiene nell’isola di Ogigia (Od. V, 14 e passim). Di parere diverso è Ussher, op. cit., p. 89, che la identifica senz’altro con il personaggio omerico: «Her inclusion is a nice touch: Silenos speaks in ignorance of Odysseus’ affair with her». 65. Radamanto era «il giusto» per antonomasia (cfr. Pindaro, Pyth. II, 73): cretese, figlio di Zeus e di Europa, divenne
famoso per la sua rettitudine al punto da essere chiamato negli Inferi per giudicare i morti insieme a Eaco e al fratello Minosse (cfr. Platone, Leg., 6240). L'iperbolico paragone che lo accosta a Sileno sottolinea la sciocca ingenuità di Polifemo. 66. Il ciclope infrange le norme dell'accoglienza nei confronti degli stranieri, ignorando il loro capo e rivolgendosi con tono imperioso all'intero gruppo, senza le consuete formule di cortesia e di saluto, rispettate nelle prime battute scambiate tra Odisseo e Sileno (cfr. vv. 101-2). 67. Un'altra nota comica e paradossale, che segnala l'ambiguità del «mostro»: il selvaggio Polifemo condivide l'opinione moralistica dei satiri a proposito della fedifraga Elena (cfr. vv. 182-5) e della guerra di Troia. 68. Odisseo accenna esplicitamente al suo statuto di «supplice» usando il verbo ἱκετεύειν, con la speranza che ciò gli assicuri inviolabilità e aiuto. Infatti, secondo il diritto religioso, lo straniero che chiedeva ospitalità e soccorso era protetto da Zeus. Polifemo, violando la legge della ξενία, dimostra ancora una volta la sua ribellione alle norme del vivere civile e prepara la sua condanna. 69. Odisseo cita i più importanti templi di Poseidone, che sorgevano sui promontori per proteggere la navigazione; il Tenaro, oggi capo Matapan, è la punta più meridionale del Peloponneso; per capo Malea, cfr. n. 10; il porto di Geresto era situato sulla costa meridionale dell’Eubea, isola che si trova di fronte all’ Attica; capo Sunio, l'estremità orientale
dell’Attica, era sede di uno splendido santuario del dio, ancora oggi in parte visibile. 70. Per stornare i crudeli propositi di Polifemo, Odisseo ricorre alla sua rinomata eloquenza. Nella rhesis dell’eroe si susseguono diversi argomenti, tutti impostati su un principio moralistico di pietà — verso la famiglia, la patria, le leggi divi-
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ne — non condiviso dal ciclope. I greci, in realtà aggressori dei troiani, diventano difensori del mondo ellenico e dei suoi santuari (in particolare quelli di Poseidone, padre di Polifemo); in questi versi si scorge un riflesso del motivo degli ateniesi salvatori della Grecia e garanti della libertà contro il nemico persiano, frequente nella propagandistica storico-politica della fine del V sec. a.C. Con un evidente anacronismo, che fa ri-
ferimento alla colonizzazione greca della Sicilia, Odisseo considera l'isola come terra ellenica e ritiene perciò che anche i suoi abitanti dovrebbero essere riconoscenti agli Achei per la vittoria contro le armate troiane. Il richiamo alla legge dell’ospitalità (cfr. n. 68) si trova pure in Omero, dove Odisseo, che
non conosce ancora le intenzioni di Polifemo, gli chiede perfino un dono ospitale (Od. IX, 266-71). Con le ultime frasi la retorica dell’itacese raggiunge il patetico — già troppi uomini la terra di Priamo ha sottratto alla Grecia — e il moralismo più ovvio: guadagni disonesti costano amari castighi. 71. La cinica esortazione di Sileno riflette una credenza diffusa in tutto il mondo primitivo; anche nel racconto della
Bibbia il Signore ordina al futuro profeta Ezechiele di mangiare il libro contenente le rivelazioni che dovrà in seguito proclamare al suo popolo (Ez. IT, 8-111, 3). 72. Molti interpreti hanno colto la massima originalità del Ciclope in questo discorso di Polifemo, considerato una parodia della Machtpolitik dei sofisti (il primo a proporre tale lettura della rhesis fu W. Schmid, Kritisches und Exegetisches zu Euripides’ Kyklops, «Philologus» 55, 1896, p. 57): il ciclope ricorda personaggi platonici come il Trasimaco della Repubblica (secondo il quale la giustizia è «ciò che giova al più forte») o il Callicle del Gorgia (che propone il ritratto di un individuo eccezionale, libero da ogni convenzione). Già in Omero Poli-
femo si considerava superiore agli dei per la sua smisurata forza fisica (Od. IX, 275 ss.), ma qui egli cerca una giustificazione teorica al suo brutale egoismo. Data la natura dell’opera, il personaggio euripideo ripropone le audaci argomentazioni degli intellettuali in chiave caricaturale: la sua rozza negazione del nomos, infatti, non ha certo la sottigliezza delle posizioni sofistiche, bensì è la ribellione violenta di chi, bastando a se stesso, propone il disprezzo delle ieggi oneste e la soddisfazio-
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ne solitaria dei propri piaceri (scacciare la fame e il freddo, arricchirsi) come unica regola di vita. 73. Il diminutivo ἀνθρωπίσκε (v. 16) è usato sia in senso letterale — considerata la statura gigantesca di Polifemo, gli uomini dovevano apparirgli dei nani — sia in tono di scherno. 74. L’apologia della ricchezza suona strana sulla bocca del ciclope. Polifemo infatti è un pastore (cfr. vv. 53, 660), non un possessore di πλοῦτος. D'altra parte, nell’ Atene della fine del V sec. a.C., l'esaltazione dei πλούσιοι come uniche persone
degne di governare, era un argomento della propaganda oligarchica (cfr. Platone, Res publ. VIII, 550c, Aristotele, Pol. IV, 1290b). Euripide, facendo di un mostro il portavoce di questa posizione, ne mette in rilievo l'assurdità. Anche la divinizzazione di una cosa inanimata, un topos letterario rie-
cheggiato da vari autori, è un procedimento che rimanda al pensiero contemporaneo: in particolare, Prodico aveva affermato che gli dei sono ipostasi delle cose utili all'uomo. 75. Polifemo recupera un altro termine delle teorie sofistiche, in cui la coppia κρείττων / ἥττων era entrata a far parte della formulazione classica della legge del più forte, secondo la definizione di Callicle e di Trasimaco: «... questo è il criterio di giustizia: chi vale di più (τὸν κρείττω) comanda a chi vale di meno (τοῦ ἥττονος) e possiede più cose» (Platone, Gorg., 483d); «Io affermo che la giustizia non è altro che l’interesse del più forte (τοῦ κρείττονος)» (Platone, Res publ. I, 338c). Il ciclope mostra il medesimo atteggiamento di numerosi personaggi di Euripide, che disprezzano le leggi ritenendosi potenti come gli dei: l’araldo Copreo (Heracl., 78-9, 768-
9), Atteone (Ba., 337-9), ma soprattutto Penteo, il protagonista delle Baccanti. Il re di Tebe, come Polifemo, è δυσσεβής e ἀνόσιος (cfr. Ba., 263, 374-5, 502, 613, etc.); allo stesso modo, essendo uomo, osa combattere contro la divinità (Ba., 635-6)
e si macchia di ὕβρις (Ba., 374 ss., 555, 1297). 76. Nel suo superbo spregio degli dei, Polifemo si prende gioco trivialmente di Zeus «tonante» (cfr. l'analoga ironia in Aristofane, Nub., 383-91). 77. Pindaro chiama Borea «re dei venti» (Pith. IV, 181); ri-
cordato a piü riprese nei poemi omerici come suscitatore di tempeste, rapido, potente e violento, era considerato origina-
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rio della fredda Tracia. La Teogonia esiodea (vv. 378-80) lo reputa figlio di Eos e del titano Astreo. 78. L'accostamento pasto cannibalico-sacrificio (cfr. n. 63) diventa esplicito nel verbo 800 («sacrifico», v. 334). Nel mondo classico é rigorosamente vietato ogni sacrificio che non sia rivolto agli dei tradizionali e lo stesso uso di θύειν non riferito ai numi olimpici è molto raro nella letteratura. Polifemo, al culmine della sua ἀσέβεια, diventa la caricatura di pensatori come Protagora, Prodico, Trasimaco, Antifonte So-
fista, Crizia (nonché del poeta Diagora di Melo, processato per empietà), considerati ἄθεοι non solo per le loro sconvolgenti affermazioni in materia teologica, ma anche per il loro disprezzo nei confronti dei riti sacri (cfr. Paganelli, op. cit., pp. 37-8). 79.'Ira il V e il IV sec. a.C. la questione se il mangiare e il bere siano i fini dell'esistenza umana fu variamente discussa. L'orientamento edonistico di una parte dei sofisti venne accolto come proprio modus vivendi da un certo settore della classe dei πλούσιοι, diventando bersaglio della parodia dei poeti comici e dell'aspra polemica di Platone (cfr. Gorg., 494b ss.; Paganelli, op. cit., pp. 40-1). 80. Nel discorso del ciclope non c'é alcun segno di interessi sociali o umani. Anche quest'ultima affermazione trova riscontro in un problema contemporaneo. Infatti, nella seconda
metà del V sec. a.C., la democrazia ateniese aveva elaborato un'ideologia della partecipazione assembleare che imponeva a tutti i cittadini di interessarsi alle questioni pubbliche (cfr., p. es., Tucidide I 70, 8, II 40, 2, Aristofane, Pl., 911-5, 921-3, Platone, Ap. 31c). Alla direttiva del μετέχειν gli oligarchici contrapposero l'esaltazione della vita privata e della σοφρωσύνη, identificata con la virtù del tà ἑαυτοῦ πράττειν (Platone, Res publ. IV, 433a). Euripide polemizza contro questa pericolosa tendenza, «satiricamente raffigurando nell’ameleia e nell’aly-
pia di Polifemo l’astensionistica Weltanschauung di tanti membri della classe abbiente» (Paganelli, op. cit., pp. 45-6). 81. Di nuovo Polifemo si schiera fra i sostenitori del diritto del più forte. Con questa asserzione, egli tocca il problema fondamentale della scienza politica greca, ovvero il contrasto tra νόμος e φύσις. Scegliere il νόμος significava riconoscere
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l'uguaglianza dei cittadini e i sistemi basati sull'isonomia, scegliere la φύσις voleva dire legittimare la diseguaglianza e i regimi che dessero il potere al privilegio. La critica più radicale del νόμος è quella avanzata da Callicle nel Gorgia platonico: il giovane politicante, vicino agli ambienti oligarchici, sostiene che ia natura, quasi sempre opposta alla legge, spinge a seguire il diritto del più forte, ma i deboli (οἱ ἀσθενεῖς), la massa (οἱ πολλοί), fissano le leggi in modo da tutelare se stessi e i loro interessi; per spaventare gli uomini più forti, dicono che essere prepotenti è ingiusto e, non essendo capaci di imporsi, si accontentano di fare le parti uguali per tutti (Platone, Gorg., 483b-c). Tuttavia, secondo Callicle, l’uomo forte riuscirà inevitabilmente ad affermarsi e a diventare δεσπότης de-
gli altri (484a). A queste tendenze illegaliste e reazionarie si opponevano gli assertori della democrazia. Anche Euripide prese posizione nel dibattito, schierandosi a favore del νόμος, che considerava di origine divina (cfr. Hipp., 98, Hec.,798-805, Ion, 442-3, 1312, Ba., 890-6). Molti personaggi, nella sua ope-
ra, assurgono, peraltro, a simbolo dell’anomia; di nuovo paradigmatico è il caso di Penteo (cfr. n. 75): il suo comportamento παράνομος, come quello di Polifemo, va incontro all’inevi-
tabile castigo e la morale che se ne trae è che il disprezzo delle norme conduce alla catastrofe (Ba., 386-8, 995-1000). 82. Nel racconto omerico, Polifemo accorda a Odisseo, co-
me «dono ospitale», il privilegio di essere mangiato per ultimo (cfr. Od. TX, 369-70). Il ciclope di Euripide è più cinico e feroce. 83. La lunga rhesis del ciclope si conclude con un’ulteriore affermazione della propria divinità; Polifemo è il dio della caverna e il suo altare è il focolare sul quale sta per essere preparato il turpe pasto di carne umana. 84. L'eroe si rivolge ad Atena, la dea vergine nata dalla testa di Zeus, di cui Pallade è l’epiteto più comune (in origine forse il nome di una divinità affine, connesso con πάλλαξ, «ra-
gazza»). Nella guerra di Troia si schierò dalla parte dei greci e fu particolarmente solerte nella protezione di Odisseo. 85. Zeus veniva invocato con diversi epiteti, corrispondenti a differenti funzioni e culti; ξένιος (v. 354) lo designa quale protettore degli ospiti. La preghiera che Odisseo rivolge ad Atena e a Zeus in questi versi è stata definita nouthetetic
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prayer (Sutton, op. cit., pp. 125-6), una sorta di sfida in cui
l’uomo chiede agli dei di manifestarsi, se vogliono che si continui a credere nella loro onnipotenza; lo schema di questa
invocazione sembra tipico delle ultime tragedie di Euripide (cfr. A.M. Dale, Note on Euripides: Helena 1441-50, «Collected Papers», Cambridge U.K. 1969, pp. 180-4). Un tono simile si ritrova ai vv. 509-607, nella supplica indirizzata a Efesto e al Sonno prima di procedere all’accecamento di Polifemo. 86. Il canto corale dei satiri è un breve intermezzo: «consente all’azione del dramma di dilatarsi, secondo le comuni
convenzioni del teatro greco, “dietro le quinte”» (Euripide, Alcesti. Ciclope, introduzione e traduzione di U. Albini, Mila-
no 1994, p. 136). Infatti Odisseo, rientrando in scena, racconta la morte di due suoi compagni, «cucinati» da Polifemo. È da notare in questi versi (tormentati da guasti e lacune) l'ambivalenza dei sentimenti dei satiri: incitano Polifemo a mangiarsi gli ospiti, ma, non appena egli entra nella grotta, manifestano chiaramente il loro disgusto per l’empio banchetto del mostro. 87. I continui riferimenti all'elemento fisico della «gola» di Polifemo (cfr. vv. 215, 410, 592) contribuiscono a mettere in risalto la sua smisurata ingordigia. 88. La traduzione del v. 365, che pone problemi metrici e grammaticali, si limita a ricostruire il senso della frase, dal momento che nessuna delle correzioni proposte è convincente.
89. Il primo verso dell’antistrofe è posto tra cruces in quanto ipertrofico. Nel testo si sono probabilmente inserite glosse marginali e interlineari. Dopo il v. 374 è caduto Pultimo verso dell’antistrofe, corrispondente al v. 360 della strofe. 90. La convenzione teatrale greca respinge la violenza fisica direttamente rappresentata: perciò Polifemo commette i suoi omicidi all’interno della grotta e tocca a Odisseo il compito di riferire l'accaduto al coro e agli spettatori. In questo modo Euripide richiama il modello omerico, in cui l’intera avventura è narrata dall’eroe, durante il banchetto alla corte
dei Feaci. 91. La correzione di Musgrave στέγην («tana»), accolta nella traduzione, offre un senso accettabile al v. 382.
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92. Il lebete, di solito appoggiato su un treppiede, era un recipiente di metallo utilizzato per la bollitura dell’acqua e la cottura dei cibi. Serviva anche come premio di gare o come offerta votiva. 93. Naturalmente le stoviglie di Polifemo hanno dimensioni adeguate alla sua mole: il cratere (sul quale cfr. n. 58) ha una capacità di quattrocento litri; la tazza del v. 390 misu-
ra circa un metro di diametro. 94. Il v. 395 probabilmente è guasto. Gli σφαγεῖα erano vasi sacrificali, che servivano a raccogliere il sangue delle vittime; l’aggettivo Αἰτναῖα allude sia alla loro provenienza che alle enormi dimensioni. La metafora πελεκέων γνάθοις («per le mascelle delle scuri») fa riferimento alla scure utilizzata per colpire alla nuca l’animale destinato al sacrificio. Polifemo in realtà non usa né gli σφαγεῖα né la scure, infatti i greci vengono sgozzati con un coltello (cfr. v. 398) e il loro sangue sembra finire direttamente nel lebete. 95. Ade indica l'Oltretomba ed è anche il nome del dio dei morti, fratello di Zeus e Poseidone. L’espressione «macellaio dell’ Ade» (0 «cuoco», poiché il termine μάγειρος possiede
entrambi i significati) oltre a essere un tocco di sinistra comicità, rappresenta una nuova intrusione della semantica del sacrificio nel «banchetto» di Polifemo: testimonianze epigrafiche e letterarie attestano infatti la presenza di cuochi e macellai in contesti rituali. A questo proposito Seaford, art. cit., p. 201, nota che tutti gli strumenti della «cucina» del ciclope (μάχαιραι vv. 242, 403; ἄνθραξ vv. 244, 358, 374, 671; ἐσχάρα v. 384; ὀβελοί v. 393) ricorrono nella letteratura greca nella descrizione di sacrifici. 96. A] v. 398 non ci sono ostacoli insormontabili per conservare il testo tràdito, ῥυθμῷ τινι, seguito nella traduzione, in luogo della correzione di Wilamowitz. 97. Non mi sembra necessario ipotizzare una lacuna dopo il v. 399 (come fa Diggle): lo sbigottimento di Odisseo per l'orrore al quale ha assistito (cfr. Od. IX, 289-90) può bastare a giustificare una certa durezza sintattica dei vv. 399-400 (cfr. Zanetto, op. cit., p. 127). 98. Gli eroi omerici non considerano vergognoso il pianto suscitato dalla paura e in generale da una forte emozione
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(cfr. Od. IX, 294 «E noi piangendo a Zeus tendevamo le braccia»). 99. Cfr. Od. IX, 372-4: «... lo vinse / il sonno che tutto doma: e dalla gola vino gli usciva, / e pezzi di carne umana vomitava ubriaco» (trad. R. Calzecchi Onesti). Poiché nel dramma Polifemo non è ancora ebbro, Euripide omette questi nauseanti particolari, ma sottolinea il disgusto suscitato
dalla situazione con l’accenno al «fiato pesante» del ciclope. 100. Nardg (v. 430) è il nome generico per indicare qualsiasi ninfa delle acque dolci, dei fiumi, delle fonti, dei laghi. Per la connessione delle Naiadi con Bacco cfr. nn. 2 e 4. 101. La tensione drammatica del discorso di Odisseo si tinge di evidenti sfumature grottesche: il mostro Polifemo, una volta ubriaco, si cimenta in canzoni stonate, Sileno ap-
prova il piano di Odisseo, ma non sa staccarsi dalla coppa e rischia di ostacolare l’eroe, Tutto ciò concorre a mettere in guardia gli spettatori dal prendere troppo sul serio quello che sta succedendo. 102. La «canna» (v. 439) è un chiaro riferimento osceno al fallo di cuoio dei satiri. La traduzione del v. 440 accoglie la correzione dello Scaligero κατεκφυγεῖν: i satiri esprimono il loro disappunto per le attenzioni erotiche di Polifemo, le cui inclinazioni omosessuali sono confermate dai vv. 582-4. 103. La battuta del corifeo, nell’accenno alla cetra asiatica, riflette il luogo comune per cui le melodie orientali erano «molli» e lascive, dunque tali da costituire un seducente termine di paragone per i satiri. 104. Sul significato del termine κῶμος (v. 445) cfr. n. 18: Polifemo vuole andare a far «baldoria» con i suoi fratelli (questa relazione di parentela non è citata dall'Odissea, dove si dice che i ciclopi non si curano l’uno dell’altro, cfr. Od. IX,
115), in un inatteso slancio di altruismo provocato dall’ebbrezza. 105. La narrazione euripidea è più sintetica di quella omerica per quanto riguarda la preparazione del tronco necessario all’accecamento
di Polifemo
e, per necessità teatrale,
omette la rappresentazione dell’assalto al mostro, anticipandone tuttavia la descrizione nelle parole con cui Odisseo presenta il suo piano al coro (Od. IX, 318-33 e 375-98). L’eroe,
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nell’esporre le fasi dell’inganno, parla sempre al singolare; sa già di non poter contare sull’aiuto dei satiri e non fa assegnamento neppure sui suoi compagni (a differenza che in Omero, Od. IX, 380 ss.). Nell'Odissea l'accecamento di Polifemo è
reso Indispensabile dal fatto che la caverna è chiusa da un enorme macigno: occorre quindi costringere il ciclope a spostarlo, per chiedere aiuto, impedendogli però di ostacolare la fuga di Odisseo e dei suoi compagni. In Euripide invece 1 greci potrebbero fuggire indisturbati mentre il mostro dorme: così il piano dell’eroe appare più crudele e si delinea come vendetta personale per la morte dei suoi amici. Polifemo, precedentemente presentato come «sacrificatore» (cfr. nn. 66, 76, 84), sta ora diventando «vittima», e il vino, donatogli
da Odisseo, diventa libagione preparatoria del sacrificio per il quale egli stesso fornisce la carne da arrostire. 106.1 satiri fanno riferimento al contatto simbolico che univa i fedeli e l’officiante durante la cerimonia della libagione. 107. Cfr. Od. IX, 241-2: la rupe che chiude la grotta omeri-
ca è tanto pesante che neppure ventidue carri basterebbero a spostarla. Euripide non perde l’occasione di citare il venerando modello, adattandone di volta in volta i particolari alla
trasposizione scenica. 108. I vv. 480-2 sono comunemente espunti dagli editori in quanto costituiscono una dilatazione, inutile e scontata, delle
parole pronunciate da Odisseo subito prima. 109, I vv. 483-94 sono dimetri anapestici che introducono in tono marziale il canto corale vero e proprio: il coro ribadisce l'intenzione di aiutare Odisseo, finché l’attenzione dei sa-
tiri non è attratta dalla voce del ciclope che si avvicina all’uscita della grotta. 110. Queste parole sono una didascalia teatrale erroneamente penetrata nel testo: dall’interno della grotta si ode il canto sguaiato del ciclope. Con il suo ingresso in scena al v.503 incomincia un vivace kommos (un canto in cui si alternano coro — o corifeo — e attore, vv. 495-518): Polifemo esce dall'antro tenendo la sua coppa (σκύφος, vv. 411, 556), intenzionato a dividere il vino con i fratelli (v. 509). Lo seguono Odisseo con il suo otre (v. 510) e Sileno (v. 540) con un cratere (v. 545).
NOTE
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111. Il vino costituisce una novità per Polifemo, perciò i satiri e Sileno — che al contrario sono esperti in materia — devono istruirlo sulle regole del simposio e sulle sue componenti fondamentali, una delle quali è il canto festoso intona-
to dai convitati (il mostro conosce solo canzoni sguaiate, v. 489). L.E. Rossi (I! Ciclope di Euripide come κῶμος «mancato», «Maia» 23, 1971, pp. 12-3) nella sua analisi del secondo
stasimo (un pastiche che accosta e sovrappone diversi momenti di festa collettiva) gli attribuisce «un'importanza compositiva come elemento drammatico chiave» del Ciclope (p. 23). Il canto infatti introduce la «lezione» di buone maniere (vv. 519 ss.), che verrà impartita a Polifemo da Sileno e da Odisseo: i satiri elogiano l'esaltazione bacchica e il suo contorno erotico, suscitando nel ciclope il desiderio di far baldoria insieme ai suoi fratelli (vv. 503-10) ma, subito dopo, egli viene persuaso a non dividere con nessuno il piacere del vino (v. 530 ss.), che tuttavia deve gustare secondo le norme del galateo simposiaco. In questo modo l'educazione del mostro rimane incompleta: egli si ubriaca, non celebra nessun κῶμος, e va incontro alla propria rovina (cfr. Introduzione,
pp. 123-5, e M. Napolitano, Odisseo simposiarca fraudolento e Polifemo simposiasta raggirato nel Ciclope di Euripide, Atti del convegno «Letteratura e riflessione sulla letteratura nelJa cultura classica», Pisa 2000, pp. 51-63).
112. La formula iniziale del kommos (v. 495) ricalca lo schema tipico del μακαρισμός, una predicazione di beatitudine presente sia in poesia che in prosa e applicata a vari contenuti e situazioni: elogio delle ricchezze, del potere, della gloria, dell'amore, della bellezza, della vita felicemente tra-
scorsa, delle nozze, dei misteri. 113. Accenno al παρακλαυσίθυρον, la «serenata» che l'a-
mante intonava davanti alla porta dell’amato o dell’amata; spesso in questo genere di canto l’immagine della porta chiusa assume l’ovvio valore sessuale al quale probabilmente allude anche questo verso. : 114. La traduzione si limita a rendere il senso dei vv. 5145, che contengono guasti insanabili. In questa strofa il coro presenta il ciclope come lo sposo che si prepara per le nozze, descrivendo una scena tipica dell’imeneo (canto per la cele-
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brazione dell’unione nuziale), con evidente intento ironico,
dal momento che le attenzioni erotiche di Polifemo ubriaco finiranno per indirizzarsi al vecchio Sileno (vv. 581-9). Con puntuali riferimenti agli ingredienti delle cerimonie nuziali — le torce che illuminano la festa serale e le ghirlande che incoronano gli invitati — il coro allude malignamente al palo arroventato e al sangue che gronderà dalla fronte di Polifemo. 115. Dopo qualche perplessità (vv. 525 ss.) Polifemo accetta l’identificazione Dioniso-vino, ma si mostra ben poco inte-
ressato alla natura divina della bevanda che determina la sua sconfitta. In questo disprezzo il suo comportamento assomiglia di nuovo a quello arrogante dei vari personaggi del mito puniti per non aver riconosciuto il potere di Bacco. 116. Un clamoroso episodio mitico di violenza seguita a un simposio è la battaglia tra Lapiti e Centauri: «Il vino anche un centauro, il glorioso Euritione, / fece impazzire dentro la sala di Piritoo magnanimo, / tra i Lapiti; e quando la mente sua fu travolta dal vino, / furibondo commise delitti...
Di qui fra i Centauri e gli eroi guerra nacque, / ma a se stesso per primo provocò pene, ubriacandosi» (Od. XXI, 295-304, trad. R. Calzecchi Onesti). 117.1 vv. 518-38 sono una gustosa parodia della sticomitia tragica. Odisseo approfitta del piacere che il ciclope trae dal vino per dissuaderlo dal raggiungere i suoi fratelli; nella discussione egli dà ancora una volta prova delle sue virtù oratorie (cfr. vv. 285-312), facendo appello al sentimento dell'onore di Polifemo (v. 532), ai pericoli connessi alla baldoria (v. 534) e infine alle norme del buon senso (v. 538). Ma il ciclope resta diffidente, perció chiede consiglio a Sileno il quale, ovviamente, conferma la bontà dei suggerimenti di Odisseo. 118. Il particolare puó essere un riferimento al momento della giornata in cui il dramma satiresco veniva rappresentato, oppure un generico accenno alla stagione primaverile, durante la quale (precisamente nel mese di elafebolione, corrispondente al nostro marzo-aprile) si celebravano in Atene le Grandi Dionisie e si disputavano gli agoni drammatici. 119. Si tratta di un evidente e voluto anacronismo, infatti gli eroi omerici durante i banchetti non si coricano, come avviene in età classica, ma rimangono seduti (cfr., p. es., Od. II,
NOTE
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471; IV, 238; VII, 203). La situazione è ridicola perché, dato il
contesto, Polifemo, ubbidiente, deve adagiarsi a terra. 120. La comicità degli interventi di Sileno (cfr. vv. 557-8, 561, 563) consiste nel fatto che il vecchio vuole approfittare della goffaggine del suo «alunno» per sottrargli il vino, di cui egli stesso è ghiotto. La scena stravolge le regole del rapporto servo-padrone, presentando Polifemo docile e ubbidiente nei confronti del suo schiavo; si dissolve così gradualmente il
terrore suscitato dalla presenza del «mostro», che assume sempre più i connotati di un orco delle favole, temibile nel-
l’aspetto, ma poco intelligente. La discussione inoltre disegna gli ultimi tratti della ferinità di Polifemo, che è incivile e asociale anche nell’ignoranza delle più elementari norme del galateo. 121. Nell’Odissea l’inganno del nome Nessuno permette a Odisseo di evitare la vendetta degli altri ciclopi che, accorsi alle grida di Polifemo, si allontanano quando questi afferma che Nessuno l’ha ucciso (IX, 366-7; 408-12). In Euripide la funzione del dato tradizionale è sostituita dal «κῶμος mancato», mentre l’equivoco è sfruttato in senso umoristico nel fi-
nale del dramma, quando sono i satiri a prendersi gioco di Polifemo cieco e brancolante (cfr. vv. 672-5). 122. Sileno personifica il vino (del resto il vino è Dioniso!), rivolgendosi a esso come a un giovinetto (le aspirazioni erotiche dei satiri e del loro padre sembrano indifferentemente eterosessuali — cfr. vv. 498-500 — e omosessuali): così il vecchio insinua anche in Polifemo le fantasie sessuali che esploderanno ai vv. 581 ss. 123. Continuando a bere, il vecchio rischia di vanificare il
piano di Odisseo, ma è il ciclope stesso ad accelerare la propria rovina trasferendo all’eroe la funzione di coppiere. R. Hamilton, Euripides’ Cyclopean symposium, «Phoenix» 33, 1979, pp. 287-92, considera questo passaggio di consegne come un momento essenziale per l’interpretazione del dramma. Sileno è il servo, il coppiere, perfino il consigliere del ciclope: Odisseo gradualmente si sostituisce a lui in tutte queste mansioni, tanto che, nelle ultime scene, i satiri obbediscono ai suoi ordini e, dopo l’accecamento di Polifemo, si imbarcano sulla
sua nave. L’eroe greco non vince soltanto sul ciclope, ma an-
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che su Sileno, del quale non c’è più traccia nel dramma, come
personaggio individuale, a partire dal v. 589. 124. L'associazione vino-loquacità è proverbiale (οἶνος, ὦ φίλε παῖ, καὶ ἀλάθεα, Alceo, fr. 366 V. = in vino veritas). 125. Il v. 571 può significare: «devi bere finché non ci sarà più vino» oppure «quando il vino sarà finito, sarai finito anche tu».
126. Divinità femminili associate ad Afrodite, le Cariti nella letteratura sono per lo più tre (a partire da Esiodo, Th., .907) e personificano la grazia, il fascino, la «piacevolezza»
totale della persona umana. Corrispondono alle Gratiae latine. Ganimede era il fanciullo troiano di stirpe reale amato da Zeus, che lo rapì e lo trasportò sull’Olimpo, dove lo fece di-
ventare coppiere degli dei (/]. XX, 230-5, Pindaro, Ol. I, 43-5, Euripide, 7r., 819-22; cfr. Z.P. Ambrose, Ganymede in Euripi-
des' Cyclops: a study in homosexuality and misogyny, «NECN» 23, 1995-1996, pp. 91-5). Polifemo ubriaco vaneggia, scambia i satiri per le Grazie e il laido Sileno per il gra-
zioso adolescente: giunge al culmine l'esilarante metamorfosi del mostro in grullo beffardamente ingannato. La terra di Dardano, nome di uno dei mitici antenati della stirpe reale troiana, é la Troade.
127. Cioé prima che Polifemo costringa Sileno a soddisfare la sua concupiscenza. Dopo la richiesta dei satiri, anche l'audace intervento di Odisseo si colora di ridicolo: egli agisce per salvare i compagni, ma anche per proteggere la presunta «verginità» di Sileno. 128. Efesto è invocato sia in quanto dio del fuoco, arma dell'accecamento di Polifemo, sia perché la sua fucina era im-
maginata proprio sotto l'Etna. 129. Il Sonno è figlio della Notte e fratello della Morte (Esiodo, Th., 758): Odisseo chiede la sua collaborazione per cogliere Polifemo ignaro e indifeso. 130. Una domanda cruciale per i greci è se gli dei sono arbitri degli eventi o devono anch’essi inchinarsi al potere del caso; le ultime parole di Odisseo riflettono teorie sofistiche. 131. Il canto astrofico dei vv. 608-23 è un breve e animato intermezzo in cui i satiri si prefigurano il successo del piano di Odisseo e la loro liberazione dalla servitù del ciclope.
NOTE
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132. Apvög ἄσπετον ἔρνος (vv. 615-6) è una formula epica e lirica per indicare il ramo che servirà ad accecare Polifemo: nel momento culminante del dramma i satiri aderiscono anche linguisticamente - all'atmosfera tragica, ma solo per poco, perché presto mostrano chiaramente di non avere alcuna intenzione di partecipare in modo diretto all'eroica impresa. 133. Il vino, personificato (come già al v. 412; cfr. Cratino,
fr. 146 K.-A.), assume il nome di colui che lo ha donato a Odisseo. L'identificazione Bacco-vino torna al v. 519. La frequenza con cui ricorre questo artificio retorico serve a chiarire che è Dioniso stesso a incaricarsi di punire l'anomia e l'asebeia di Polifemo, così come è opera sua il castigo di Penteo (cfr. Ba., 847-50), fatto a pezzi dalle menadi nel furore dell'orgia. La morale delle Baccanti (vv. 1325-6: chi disprezza gli dei, contempli la triste sorte del re di Tebe) si addice an-
che all'epilogo del Ciclope. 134. Polifemo ubriaco viene definito μαινομένου, «folle», poiché la pavia è lo stato in cui versano quanti sono posseduti da Dioniso-vino. A. Meriani, «Quaderni urbinati di cul-
tura classica» 53, 1996, pp. 67-72, difende il tràdito μαινόμενος riferendolo al vino con il senso di «puro, non diluito con acqua». 135. Come il ciclope (cfr. v. 602), così i satiri agli occhi di Odisseo sono creature ferine. Con il termine θῆρ (v. 624) si rivolge a loro anche la ninfa Cillene nei Cercatori di tracce di Sofocle (v. 215). Visto che ormai l’eroe dispera di ottenere da essi una partecipazione attiva, chiede almeno che non gli siano d’intralcio: la loro canzone infatti è terminata in crescendo, con il rischio di svegliare Polifemo. I satiri non seguono Odisseo nella caverna per codardia; Euripide abilmente aggiunge verosimiglianza drammatica a una necessità scenica, poiché i coreuti di norma non lasciavano l’orchestra. Nei vv. 635-41 il coro è diviso in due o più gruppi. 136. Del canto di Orfeo, leggendario poeta e musico della Tracia, si diceva che fosse in grado di placare le tempeste e affascinare gli animali selvatici, nonché di incantare gli alberi e le pietre. I satiri sostengono comicamente di conoscere un incantesimo (la canzone dei vv. 656-62) che avrà lo stesso ef-
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fetto sull’arma destinata a colpire Polifemo; formule magiche erano contenute nella letteratura ispirata all’orfismo, un movimento religioso di tipo iniziatico molto diffuso presso i greci. 137. Il v. 654 letteralmente significa: «giurerò sulla testa di un Cario». Gli abitanti della Caria erano spesso arruolati negli eserciti come soldati mercenari, perciò il loro nome diventò proverbiale per indicare chi si sostituiva a un altro in situazioni di pericolo (cfr. Esichio ε 1347). 138. Mentre Odisseo entra nella caverna il coro intona un κέλευσμα, ossia un «canto di lavoro», simile all'accompagnamento musicale ritmico che veniva offerto ai rematori per sostenerli nello sforzo fisico (tuttavia Ussher, op. cit., p. 160, ricordando che, secondo Servio, ad. Verg. Aen. III, 128, i canti
dei marinai erano anapestici, e per trovare anapesti in questi versi sarebbero necessarie improbabili emendazioni, lo considera semplicemente un canto vivace accompagnato da gesti e passi di danza). 139. Il παιάν («peana», v. 664) è un inno di vittoria o di ringraziamento: il coro si prende crudelmente gioco di Polifemo attribuendogli la sua gioia. 140. Il v. 673 è guasto e la traduzione ne rende approssimativamente il senso. La scena dell’accecamento di Polifemo (vv. 655-709) presenta innegabili parallelismi verbali con l’episodio dell'accecamento di Polimestore nell' Ecuba euripidea (vv. 1035-295), che hanno fatto supporre una relazione parodica del Ciclope con la tragedia (un’analisi puntuale dei riecheggiamenti dell’Ecuba nel dramma satiresco si trova in Sutton, op. cit., pp. 108-20). 141. Le domande del corifeo sostituiscono quelle che nell'Odissea (IX, 403-6) sono rivolte a Polifemo dagli altri ciclopi, aggiungendovi il tono di scherno che accompagna l'uscita di scena del mostro. 142. Polifemo riconosce che lo strumento della sua rovina è stato il vino, che lo ha «annegato», togliendogli il controllo della situazione e gettandolo in balia dell'astuto straniero. Ma il vino é Dioniso, trionfante sopra un empio spregiatore di tutti gli dei. 143. Odisseo cita per la terza volta la vittoria su Troia co-
NOTE
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me termine di paragone per l’eroismo attuale (cfr. vv. 198202 e 295-7); su questa pedante insistenza cfr. Introduzione,
n. 191, p. 127. 144. Nel racconto omerico l’oracolo dell’indovino Telemo prevedeva che Polifemo sarebbe stato privato di un occhio da un uomo di nome Odisseo (Od. IX, 507-12) e il ciclope, dopo l’accecamento, prega Poseidone di castigare l’eroe impedendogli di tornare in patria, o almeno ritardando il suo arrivo con molte sventure (Od. IX, 528-35). Nel dramma euripideo invece la profezia include anche le sofferenze che toccheranno a Odisseo; una situazione simile si trova nel finale dell’Ecuba, dove Polimestore si vendica della regina e di Agamennone prevedendo la morte imminente di entrambi. 145. Da questo verso si desume generalmente che l’antro di Polifemo abbia due uscite; alcuni commentatori (cfr. R. Seaford, Euripides Cyclops, Oxford 1984, p. 225) suggeriscono la dipendenza dal Filottete di Sofocle, in cui il rifugio del-
l'eroe ha due aperture ed è definito ἀμφιτρής (v. 19); brancolando nel buio il ciclope si avvia verso quella che finora non è stata utilizzata, con l'intenzione di afferrare un masso e di
scagliarlo contro i greci: nell’Odissea il ciclope scaglia due macigni contro la nave che si allontana (IX, 481 e 537), ovviamente questo in teatro è impossibile, perciò Polifemo non ricompare più. 146. I satiri escono di scena con due trimetri giambici (comunemente l'esodo del coro é in anapesti, ma il tono di questo finale non è insolito in Euripide, cfr. gli ultimi versi delle Troiane). Finalmente possono tornare a servire Bacco: nel nome del dio, come si era aperto, cosi si chiude il dramma sa-
tiresco.
SOMMARIO
Il dramma satiresco e la rassicurazione
del pubblico di Giuseppe Zanetto Il dramma satiresco di Orietta Pozzoli Nota a1 testi
Bibliografia 151
SPETTATORI
O ATLETI AI GIOCHI ISTMICI
ESCHILO
160
Note
179
PESCATORI
CON LA RETE
ESCHILO
188 207
Note
CERCATORI SOFOCLE
234
Note
257
CICLOPE EURIPIDE
306
Note
DI TRACCE