Erodiano e Commodo: Traduzione e commento storico al primo libro della Storia dell'impero dopo Marco 9783525253038, 3525253036, 9783647253039

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Erodiano e Commodo: Traduzione e commento storico al primo libro della Storia dell'impero dopo Marco
 9783525253038, 3525253036, 9783647253039

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© 2014, Vandenhoeck & Ruprecht GmbH & Co. KG, Göttingen ISBN Print: 9783525253038 — ISBN E-Book: 9783647253039

Hypomnemata Untersuchungen zur Antike und zu ihrem Nachleben

Herausgegeben von Ewen Bowie, Albrecht Dihle, Dorothea Frede, Hans-Joachim Gehrke, Günther Patzig, Karla Pollmann, Christiane Reitz, Christoph Riedweg, Gisela Striker Band 195

Vandenhoeck & Ruprecht

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Alessandro Galimberti

Erodiano e Commodo Traduzione e commento storico al primo libro della Storia dell’Impero dopo Marco

Vandenhoeck & Ruprecht

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Verantwortlicher Herausgeber Christoph Riedweg

Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.d-nb.de abrufbar ISBN 978-3-525-25303-8 ISBN 978-3-647-25303-9 (E-Book) Umschlagabbildung: Commodus, Lucius Aelius Aurelius C., röm. Kaiser (180–92) / Skulptur Wien. akg-images / Erich Lessing

© 2014, Vandenhoeck & Ruprecht GmbH & Co. KG, Göttingen / Vandenhoeck & Ruprecht LLC, Bristol, CT, U. S. A. www.v-r.de Alle Rechte vorbehalten. Das Werk und seine Teile sind urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung in anderen als den gesetzlich zugelassenen Fällen bedarf der vorherigen schriftlichen Einwilligung des Verlages. – Printed in Germany. Gesamtherstellung: L Hubert & Co, Göttingen Gedruckt auf alterungsbeständigem Papier.

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Per Charlotte

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Ringraziamenti

Un sentito ringraziamento ai Proff. Ch. Riedweg e M. Zimmermann e al board editoriale di Hypomnemata per aver accolto il volume nella collana. La responsabilità di quanto scritto e di eventuali errori è ovviamente soltanto mia. A. G.

Milano, Estate 2013

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Sommario

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Traduzione e commento storico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174 Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183

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Introduzione

Secondo l’aurea regola della storiografia classica1 Erodiano nel proemio della sua Storia dell’Impero dopo Marco afferma la necessità per lo storico di avere sempre di mira la verità (aletheia) nel suo lavoro e di »avere raccolto fedelmente nella mia narrazione fatti storici che non ho appreso da altri, e non sono ignoti, né privi di testimoni, ma sono ancora presenti alla memoria dei lettori; poiché ritengo che non debba essere sgradita ai posteri la conoscenza di molti e grandi eventi verificatisi in breve spazio di tempo« (1, 1, 3). Erodiano in effetti tratta nella sua opera un vasto arco cronologico (180– 238 d. C.) di cui si può affermare, con buona approssimazione, sia stato testimone oculare.2 Egli si pone dunque come storico degli eventi a lui contemporanei, per i quali dichiara di essere in grado di fornire una testimonianza attendibile. Al di là dei buoni propositi espressi nel proemio, i giudizi della critica, anche i più recenti, oscillano tra la sua assoluta inaffidabilità e il suo contrario.3 Il problema dell’attendibilità di Erodiano come storico è 1 Erodiano è un tucidideo (Stein, J. F., Dexippus et Herodianus rerum scriptores quatenus Thucydidem secuti sint (Bonn 1957)), sebbene nella sua opera non manchino spunti di origine erodotea. Il testo greco di Erodiano a cui faccio riferimento è Lucarini, C. M. (ed.), Herodianus, Regnum post Marcum (München-Leipzig, 2005). La traduzione italiana dei passi dell’HA è di Soverini, P. (ed.), Scrittori della Storia Augusta, I–II (Torino, 1983); di Cassio Dione di Stroppa A. (trad.), Cassio Dione. Storia Romana, vol. VIII (libri LXVIII–LXXIII) (Milano, 2009). È doveroso ricordare l’elegante traduzione italiana di Erodiano di Cassola, F. (ed.), Erodiano. Storia dell’Impero Romano dopo Marco Aurelio (Firenze, 1967) di cui mi sono servito per i passi diversi dal primo libro che ho invece tradotto integralmente; anche le traduzioni italiane non altrimenti indicate sono mie. 2 Gli estremi cronologici di Erodiano si possono stabilire a partire da quei luoghi della sua opera in cui egli dichiara di essere stato testimone degli eventi che va narrando (1, 1, 5; 1, 2, 5; 2, 15, 7). Le migliori ricostruzioni della biografia erodianea sono in Cassola, F., »Sulla vita e la personalità dello storico Erodiano«, NRS 41 (1957), 213–222; Grosso, F., La lotta politica al tempo di Commodo (Torino, 1964); Whittaker, C. R., Herodian, I, (Cambridge MA / London, 1969), IX–XXXVI; Alföldy, G., »Zeitgeschichte und Krisenempfindung bei Herodian«, Hermes 99 (1971), 429–449; »Herodian’s person«, AncSoc 2 (1971), 204–233, che discutono anche il complesso problema dell’origine del nostro storico (molto probabilmente un greco orientale). Il più recente status quaestionis in Gascó, F., »La Patria di Herodiano«, Habis 13 (1982), 165–170; Zimmermann, M., Kaiser und Ereignis. Studien zum Geschichtswerk Herodians (München, 1999), 302–319. 3 Letta, C., »La dinastia dei Severi«, in Storia di Roma, II. 1 (Torino, 1991), 639–700, 639– 640: »Nonostante i ricorrenti tentativi di salvare la sua buona fede e di considerarlo impor-

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Introduzione

dunque da considerare ancora aperto. Preliminarmente ad ogni giudizio è pertanto necessario affrontare il problema delle fonti di Erodiano. Per far ciò ho scelto di concentrarmi sul primo libro della Storia per almeno due motivi: il primo di carattere storiografico; il secondo, legato al primo, di carattere contenutistico. Erodiano, come s’è detto, visse e scrisse la sua opera in un arco di tempo piuttosto lungo. La sua data di nascita dev’essere collocata, secondo le più recenti indagini, negli ultimi anni del principato di Marco Aurelio (177– 180), mentre la morte apparterebbe agli anni attorno al 250 o poco oltre: la Storia dovette infatti vedere la luce tra il 240 e il 251 (sotto Filippo l’Arabo o sotto Decio).4 I soli altri dati biografici noti ci assicurano che Erodiano svolse una carriera, seppur modesta, nell’amministrazione imperiale rivestendo sia

tante testimone diretto, anche se ingenuo, superficiale e ignorante, bisogna riconoscere che per lo più Erodiano utilizza materiale di seconda mano, rielaborando e manipolandolo senza scrupoli in nome della retorica dei facili effetti teatrali. La sua opera, che dovette vedere la luce intorno alla metà del III secolo, non è dunque il prezioso complemento di quella di Dione, col punto di vista di un non senatore, ma è spesso il romanzo storico popolare di un retore di scarso talento«. Quella qui echeggiata è la posizione dominante nella critica tedesca sin dallo Hohl, E., Kaiser Commodus und Herodian (Berlin, 1954), 3–46, ampiamente ripreso dagli studi di Alföldy (»Zeitgeschichte und Krisenempfindung«; »Herodian’s person«; »Bellum desertorum«, BJ 171 (1971), 367–376 (= Die Krise des römischen Reiches. Geschichte, Geschichtsschreibung und Geschichtsbetrachtung [Stuttgart, 1989], 69–78; add., 79–80); »Herodian über den Tod Mark Aurels«, Latomus 32 (1973), 345–353; »Cleanders Sturz und die antike Überlieferung«, in Id., Die Krise, 81–126) e di Kolb, F., Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der Historia Augusta (Bonn, 1972) e ora, sebbene in modo più cauto, di Zimmermann, Kaiser und Ereignis, il quale ha comunque il merito di sottolineare la forte coerenza interna del testo di Erodiano sotto il profilo letterario nonché la sua tecnica compositiva da abile rielaboartore. Già il Cassola, F., »Sull’attendibilità dello storico Erodiano«, AAP 6 (1957), 191–200, 191, che pur dev’essere arruolato tra i difensori di Erodiano, lo aveva etichettato come »retore da quattro soldi«. Viceversa Spagnuolo Vigorita, T., »Cittadini e sudditi tra II e III secolo«, in Storia di Roma III. 1 (Torino, 1993), 5–50, 6: »La sua storia del sessantennio 180–238, scritta verso la metà del III secolo è oggi considerata attendibile«. Per un’ampia rassegna cfr. Martinelli, G., L’ultimo secolo di studi su Erodiano (Genova, 1987). Come è noto, Rostovtzeff, M., Storia economica e sociale dell’impero romano, trad. it. (Firenze, 1933 e ora Milano, 2003, con testi inediti) utilizzò Erodiano, dandone un giudizio positivo, a sostegno della sua interpretazione della crisi del III secolo d. C., nata dal conflitto tra contadini e soldati da una parte e borghesia urbana dall’altra, che è all’origine della fine della stessa civiltà classica. 4 Isolata la posizione di Sidebottom, H., »The Date of the Composition of Herodian’s History«, AC 66 (1997), 271–276 che pensa ad una pubblicazione sotto Gallieno; cfr. però recentemente contra Polley, A. R., »The date of Herodian’s History«, AC 72 (2003), 203–208. Interessante l’ipotesi di Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 293–302 che pensa ad una pubblicazione nel 247–248 in occasione del millenario di Roma.

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Introduzione

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incarichi imperiali sia municipali.5 Posto che il giovane Erodiano visse gli anni del principato di Commodo, è difficile pensare che il racconto contenuto nel primo libro dedicato a Commodo sia interamente frutto dei ricordi personali dello storico. In primo luogo perché se la giovane età deve essere tenuta in considerazione ai fini di una ricostruzione basata sui ricordi personali, ciò può valere soltanto per gli ultimi anni del regno di Commodo ma non per i primi;6 in secondo luogo perché è lo stesso Erodiano ad anticipare nel proemio di essersi avvalso di testimonianze esterne per la stesura della sua opera; in terzo luogo perché al tempo di Erodiano dovevano già circolare delle opere che parlavano del regno di Commodo: su tutte la Storia romana di Cassio Dione in 80 libri.7 Già a partire dal primo libro si pone dunque il problema delle fonti di Erodiano – e in particolare del suo rapporto con Dione – il quale proprio nel libro 72 dedicato a Commodo rivendica il suo particolare status di testimone oculare degli eventi di quel principato.8 Dal punto di vista della storia evenemenziale il regno di Commodo, grazie alle monografie dello Hekster e del von Saldern,9 è stato recentemente 5 1, 2, 5: ἃ δὲ μετὰ τὴν Μάρκου τελευτὴν παρὰ πάντα τὸν ἐμαυτοῦ βίον εἶδόν τε καὶ ἤκουσα (ἔστι δ᾽ ὧν καὶ πείρᾳ μετέσχον ἐν βασιλικαῖς ἢ δημοσίαις ὑπηρεσίαις γενόμενος) ταῦτα συνέγραψα. Quali siano questi incarichi non sappiamo con certezza: forse, come è stato da più parti ipotizzato (cfr. comm. ad loc.), la sua dovette essere la carriera di un funzionario che non arrivò mai a rivestire magistrature, ma solo uffici minori dell’amministrazione imperiale (procuratele o subprocuratele) o municipale. 6 Cassola, F., »Sulla vita e la personalità«, 217 ritiene che il primo avvenimento di cui Erodiano dà prova di esser stato testimone oculare sia la grande festa circense bandita da Commodo fra il 190 e il 192. La data esatta è l’autunno del 192 (Grosso, La lotta politica, 366– 377). 7 Sulla data di composizione dell’opera di Cassio Dione e sull’ampio dibattitto attorno ad essa cfr. almeno Gabba, E., »Sulla Storia Romana di Cassio Dione«, RSI 67 (1955) 289–333; Millar, F., A Study of Cassius Dio (Oxford, 1964); Letta, C., »La composizione dell’opera di Cassio Dione: cronologia e sfondo storico-politico«, in E. Gabba (ed.), Ricerche di storiografia antica. I. Ricerche di storiografia greca di età romana (Pisa, 1979), 117–189; »L’eruzione del Vesuvio del 202 d. C. e la composizione dell’opera di Cassio Dione«, Athenaeum 95 (2007), 41–47; Barnes, T. D., »The Composition of Cassius Dio’s Roman History«, Phoenix 38 (1984), 240–255; Sordi, M., »La data di composizione dell’opera di Dione Cassio«, in M. Capasso / S. Pernigotti (ed.), Studium atque urbanitas. Miscellanea in onore di Sergio Daris (Galatina, 2000), 393–395; Schettino, M. T., »Cassio Dione e le guerre civili di età severiana«, Gerion 19 (2001), 533–558; Slavich, C., »POLEMOI KAI STASEIS. ›Propaganda severiana‹ nell’opera di Cassio Dione«, SCO 47 (2001), 131–166. 8 72, 18, 3: »Nessuno pensi che macchio la dignità della storia per il fatto che scrivo queste cose. Altrimenti non avrei detto queste cose; ma, dal momento che riguardavano l’imperatore e io fui testimone oculare di ciò che ho ascoltato e ho detto, ho ritenuto che fosse giusto non celare alcunché, ma fornire un resoconto per la memoria dei posteri come eventi della massima grandezza e importanza«. 9 Hekster, O., Commodus. An Emperor at the Crossroads (Amsterdam, 2002); von Saldern, F., Studien zur Politik des Commodus (Rahden, 2003).

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recuperato all’attenzione degli studiosi. Una valutazione adeguata del suo regno non può però prescindere da un’altrettanto adeguata valutazione storiografica. Sotto questo profilo le pagine del libro 72 di Cassio Dione, purtroppo in larghissima misura epitomate, e la biografia dell’HA, caratterizzata da una radicale ostilità a Commodo, presentano un grave limite: ci trasmettono il solo punto di vista senatorio. Erodiano pare invece conservare un punto di vista più articolato che risulta per noi molto prezioso. Di qui l’opportunità di intraprendere una disamina più accurata del primo libro della Storia dell’Impero dopo Marco, anche perché,10 accanto al pioneristico lavoro dello Hohl11 e ai pregevoli contributi di F. Cassola risalenti agli anni ’50 del secolo scorso, a cui si affianca l’eccellente traduzione italiana dell’intera Storia erodianea,12 nonché alla corposa introduzione con sintetico commento del testo dell’edizione Loeb di C. R. Whittaker in due volumi (1969–1970),13 manca ancora a tutt’oggi un sistematico commento storico e storiografico alla Storia di Erodiano. Il primo libro della Storia copre gli eventi che vanno dalla morte di Marco Aurelio (17 marzo 180) alla morte di Commodo (31 dicembre 192). La premessa da cui parto – è bene ripeterlo – è che Erodiano è stato senz’altro testimone oculare degli eventi del principato di Commodo e che al tempo stesso il racconto del primo libro non può essere frutto soltanto dei suoi ricordi personali. Che il primo libro sia sostanziato da testimonianze autoptiche è rivelato, a mio avviso, da almeno due passi: a 1, 12, 7–9 la precisione di alcuni particolari sull’andamento della sommossa contro Cleandro nel 190 induce a credere che Erodiano si sia servito di testimoni oculari ovvero che sia stato egli stesso testimone oculare per la ricostruzione della vicenda; a 1, 15, 2–7 la minuziosa descrizione dello svolgimento dei combattimenti affrontati da Commodo nell’anfiteatro nel 192 è costellata da espressioni che intendono segnalare la presenza di chi scrive a teatro.14 10 Marasco, G., »Erodiano e la crisi dell’impero«, ANRW II 34. 4 (1998), 2837–2927; Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods and Understanding of History«, ANRW II 34. 4 (1998), 2775–2836. 11 Hohl, Kaiser Commodus. 12 Cassola, F. (ed.), Erodiano. Storia dell’Impero Romano dopo Marco Aurelio (Firenze, 1967); »Sull’attendibilità«; »Erodiano e le sue fonti«, RAAN 32 (1957), 165–172; »Sulla vita e la personalità«. 13 A cui vanno ora aggiunte le stringate note di commento alla recente traduzione francese di Roques, D. (trad.), Hérodien. Histoire des Empereurs romains. De Marc Aurèle à Gordien III (180 ap. J.-C.–238 ap. J.-C.) (Paris, 1990). 14 cfr. § 3: »E nessuno vide che egli dovesse ripetere un colpo, e tutti i colpi andati a segno furono mortali«; § 4: »Per il suo spettacolo erano state raccolte fiere di ogni paese: vedemmo allora per la prima volta ciò che avevamo potuto ammirare solo nei dipinti«; § 5: »Tutti rima-

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Tuttavia per quanto riguarda il principato di Commodo, data la sua giovane età, molto probabilmente Erodiano ha integrato i ricordi personali con altre fonti. Quali? Innanzitutto si è avanzato il nome di Cassio Dione, anch’egli testimone oculare degli stessi eventi, che a quell’altezza di tempo (180–192) era già senatore e che, in occasione delle esibizioni di Commodo nell’arena, scrive (72, 18, 3–4): »Nessuno pensi che macchio la dignità della storia per il fatto che scrivo queste cose. Altrimenti non avrei detto queste cose, ma dal momento che riguardavano l’imperatore e io ne fui testimone oculare, di ciò che ho ascoltato e ho detto, ho ritenuto che fosse giusto non celare alcunché, ma fornire un resoconto per la memoria dei posteri come avvenimenti della massima grandezza e importanza. Perciò tutti gli altri eventi che ebbero luogo durante la mia vita li descriverò con precisione e li narrerò con più esattezza degli eventi passati, per il fatto che fui presente ad essi e perché so che nessuno di quanti sono in grado di comporre una degna opera di storia possiede un’accurata conoscenza degli eventi come me«. Le ipotesi relative al rapporto tra Erodiano e Cassio Dione15 sono state tutte esplorate dalla critica per cui si è pensato che: 1. Erodiano non conosce Dione 2. Erodiano e Dione hanno una fonte in comune 3. Erodiano conosce e utilizza Dione: ora come Hauptquelle ora solo come una delle diverse fonti a cui attingeva. Senza ripercorrere per intero l’annosa storia degli studi sulla questione,16 passando al setaccio tutti quei luoghi dell’opera di Erodiano che mostrano un’affinità con quella di Dione per gli anni 180–229 (che è il termine ultimo della storia di Dione), vorrei limitare il mio discorso al solo primo libro onde sgomberare il campo da alcune teorie che, a mio avviso, appaiono difficilmente accettabili. Che Erodiano non conoscesse Dione non è sostenibile. Già di per sé il fatto che un’opera imponente ed importante come quella di Dione doveva sero stupiti della sua bravura […] egli usò frecce munite di una lama falcata, mirando al collo e tagliandolo; dopo che la freccia aveva reciso la testa, essi continuavano a correre come se non fossero stati colpiti«; § 6: »A un certo momento una pantera aveva raggiunto con un balzo rapidissimo uno degli inservienti, e stava per sbranarlo, ma Commodo riuscì a prevenirla con un colpo«. Sembra inoltre che Erodiano si compiaccia nel mettere in risalto particolari esotici quando ricorda la provenienza delle fiere contro cui combatteva Commodo (§ 5: »egli infatti, avendo raccolto tutte le fiere dell’India, dell’Etiopia, delle terre settentrionali e delle meridionali, se mai qualche animale era sconosciuto l’offerse in spettacolo ai Romani nell’atto in cui l’uccideva«), quasi volesse rafforzare la sua posizione di testimone oculare degli spettacoli a cui aveva assistito. 15 Il cui testo relativo al regno di Commodo (libro 72) è tramandato, come è noto, per la maggiorparte dagli epitomatori. 16 Che affonda le radici a metà dell’800 con la dissertatio di Volckmann, E., De Herodiani vita, scriptis fideque (Regimonti Prussorum, 1859).

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essere già stata pubblicata da almeno un ventennio,17 rende difficile che essa potesse essere ignorata da chi faceva professione di storico come Erodiano. Quando poi Erodiano nel proemio afferma di conoscere storici »che si impegnano a rinnovare il ricordo di antichi fatti« e a 1, 2, 5 sostiene di occuparsi dei fatti successivi alla morte di Marco, poiché gli eventi e le gesta del principato di Marco (soprattutto le guerre marcomanniche) »sono stati narrati da molti uomini colti« (πολλοῖς καὶ σοφοῖς ἀνδράσι) o, ancora, quando nel secondo libro polemizza con coloro i quali parlando di Settimio Severo esposero tra l’altro »i frequenti prodigi, spiegati come manifestazione della volontà divina« esagerando la portata delle imprese di Severo per accattivarsi – in quanto contemporanei – le simpatie dell’imperatore stesso (2, 15, 6–7),18 è difficile sottrarsi all’impressione che alluda anche a Cassio Dione. La sua Storia Romana prendeva infatti le mosse dalle origini di Roma per giungere sino al regno di Alessandro Severo, e soprattutto Dione era stato l’autore di un opuscolo sui sogni e gli omina relativi all’ascesa di Settimio Severo al trono e di uno sulla guerra civile del 193; questi opuscoli peraltro, avendo ricevuto una lusinghiera accoglienza da parte di Settimio Severo, erano stati, per esplicita ammissione del suo autore, all’origine della stesura della Storia (72, 23, 1–3) ed erano stati rifusi in essa.19

17 Accettando una data bassa (231/234 circa) per la pubblicazione dell’opera di Dione (Letta, C., »La composizione«; »L’eruzione del Vesuvio«; Schettino, M. T., »Cassio Dione«; Slavich, C., »POLEMOI KAI STASEIS«); almeno trent’anni anni se si accetta la data più alta (218/219 circa; Gabba, E., »Sulla Storia Romana«; Millar, A Study; Sordi, M., »La data di composizione«). 18 »Le tappe della sua marcia; i discorsi da lui pronunciati nelle varie città; i frequenti prodigi, spiegati come manifestazione della volontà divina; il teatro della guerra; gli schieramenti; il numero dei soldati che caddero in battaglia dalle due parti sono stati esposti fin troppo ampiamente da molti storici e poeti, che avevano come specifico argomento della loro opera la vita di Severo. Il mio scopo è invece di esporre in sintesi le gesta di molti imperatori per un tratto di settant’anni, in base alle mie conoscenze. Pertanto esporrò nel prossimo libro solo i fatti essenziali, e le conclusioni che ebbero le varie imprese di Severo, nulla esagerando per accattivarmi le simpatie (come fecero quelli che scrissero ai suoi tempi) e nulla omettendo di ciò che merita ricordo e considerazione«. 19 A 3, 7, 3 Erodiano, a proposito della battaglia di Lione, scrive che »alcuni autori dell’epoca, che scrissero ispirandosi alla verità e non all’adulazione, affermano che i legionari di Albino prevalsero di gran lunga, proprio nel settore in cui combatteva Severo in persona con le truppe da lui direttamente comandate, al punto che egli fu costretto a fuggire e, caduto da cavallo, si salvò gettando via il paludamento imperiale«. Cassola, F., »Erodiano e le sue fonti«, 172, ha rilevato che »anche Dione (75, 6, 6–7), esattamente come Erodiano, non tace i successi di Clodio Albino e i rischi corsi da Settimio Severo«; tuttavia si dichiara scettico sulla possibilità che Dione possa essere stato annoverato da Erodiano tra quanti dissero la verità sulla base del fatto che »non è certo che Dione nel suo opuscolo sui πόλεμοι καὶ στάσεις μέγισται che seguirono alla morte di Commodo giungesse alla battaglia di Lione e che l’opu-

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Erodiano dunque conosceva Dione, anche se è difficile stabilire quale uso ne facesse nel primo libro. L’ipotesi, sostenuta in passato con vigore,20 che intende ricondurre quei passi in cui Erodiano e Dione mostrano una certa affinità all’uso di una fonte comune, mi sembra presenti almeno tre gravi limiti. In primo luogo i riscontri testuali avanzati (mi limito ovviamente solo al primo libro) sono poco probanti;21 in secondo luogo appare quantomeno disinvolto l’uso di questa fonte comune, dal momento che essa viene invocata sia per spiegare le somiglianze tra Cassio Dione ed Erodiano sia le differenze, quando si osserva un modo diverso di riferire le stesse notizie da parte dei due storici.22 Che la fonte comune sia infine una fonte scritta in latino che andava da Commodo alla morte di Macrino23 è ipotesi del tutto arbitraria. Più fortuna ha avuto la teoria, avanzata dal Kolb nel 1972, secondo la quale Cassio Dione è »die wichtigste Quelle für die Historien Herodian’s«.24 Per quanto riguarda il primo libro il Kolb prende in esame due passi mettendoli a confronto con Dione. Il primo è relativo alle esibizioni di Commodo nell’arena nel 192 (Herod. 1, 15, 1–8-Dio 72, 18–21), per il quale lo studioso conclude che Erodiano »erzählt eine ganz phantastische Geschichte« valorizzando aprioristicamente la superiorità del racconto di Dione (»Aus dieser Dio-Stelle geht ganz klar hervor, daß die Darstellung Herodians falsch ist«),25 salvo poi affermare che, laddove i due storici concordano, Erodiano dipende senz’altro da Dione. A non convincere è la completa svalutazione della notizia erodianea, poiché non tiene conto del fatto che anche il nostro storico, al pari di Dione, poteva essere stato testi-

scolo fosse dedicato a Settimio Severo«. Se però ipotizziamo – come credo sia giusto fare – che Erodiano leggesse la Storia di Dione queste difficoltà cadrebbero. 20 Baaz, E., De Herodiani fontibus et auctoritate, Diss. (Berlin, 1909); Smits, J. C. P., De geschiedschrijver Herodianus en zijn bronnen. Een poging tot analyse van zijn werk (Leiden, 1913). 21 Elenco in Baaz, De Herodiani fontibus, 17–24. Per la discussione dei vari luoghi rimando al commento ad loc. 22 Cfr. a questo proposito le puntuali osservazioni di Whittaker, Herodian, LXV–LXVI. 23 Baaz, De Herodiani fontibus, 64: »Dio et Herodianus de rebus inde a Commodi temporibus usque ad Macrini mortem usurpaverunt eundem fontem; quem Latina lingua scriptum fuisse satis probabile est«. Collaterale a questa ipotesi è che Erodiano e la Vita Commodi dell’HA abbiano una fonte in comune da identificare con Mario Massimo: Kreutzer, J., De Herodiano rerum Romanarum scriptore, Diss. (Bonn 1881), 15–31; Cassola, F., »Erodiano e le sue fonti«, 171–172; cfr. ora Molinier Arbo, A., La Vie de Commode dans l’Histoire Auguste. Partie I. La Vie de Commode et la methode de composition de l’auteur de l’Histoire Auguste. Mémoire présenté en vue de l’Habilitation à diriger des recherches à l’Université de Nancy 2, Diss. (Nancy, 2011). Su Erodiano e Mario Massimo cfr. infra, 36. 24 Kolb, Literarische Beziehungen, 47; cfr. 160–161. 25 Kolb, Literarische Beziehungen, 28.

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mone oculare; ma soprattutto non è stata colta, a mio avviso, la diversa impostazione dei due racconti.26 Mentre Dione è interessato a sottolineare 26 Dio 72, 21, 1–3: »Questa paura era condivisa da tutti da noi e dagli altri. C’è poi una’altra cosa che faceva verso noi senatori e che ci spingeva a pensare che saremmo andati incontro alla fine. Avendo ucciso un’ostrica e avendole tagliata la testa si avvicinò ai nostri posti, tenendo nella sinistra la testa e nella destra la spada insanguinata. Nonostante stesse in silenzio, scosse la testa con un ghigno, mostrando che avrebbe fatto lo stesso nei nostri confronti. Molti avrebbero trovato subito la morte con la spada per avergli sorriso (era infatti più il riso che l’indignazione a vincerci), se non avessi rosicchiato alcune foglie di lauro che avevo sulla corona e non avessi convinto i miei vicini a fare lo stesso, in modo da nascondere con il movimento della bocca le risate. Dopo questi cose ci rincuorò, poiché si apprestava a scendere di nuovo nell’arena come gladiatore e ci invitò ad entrare in teatro con la veste equestre e i mantelli, cosa che non avevamo mai fatto per andare a teatro, se non quando un imperatore moriva. L’ultimo giorno il suo elmo fu portato fuori dai cancelli attraverso i quali sono condotti all’esterno i morti. Tutti questi eventi avevano generato la profonda convinzione che ci saremmo presto liberati di lui«. Herod.1, 15, 2–7: »Quando arrivarono i giorni degli spettacoli, l’anfiteatro era pieno: a Commodo era stata riservata una corsia perimetrale in modo tale che non rischiasse, combattendo con le bestie, di affrontarle direttamente e bersagliarle in sicurezza, stando in posizione sopraelevata, dando spettacolo più per la sua abilità che per il suo coraggio. Inseguiva di corsa cervi, caprioli e tutte le bestie con le corna, eccetto i tori, e li colpiva, e anticipando la loro traiettoria, li uccideva con colpi ben assestati; i leoni, le pantere e gli altri nobili animali li colpiva inseguendoli dalla sua posizione sopraelevata. Nessuno lo vide colpire utilizzando un secondo colpo di giavellotto: tutti i singoli colpi furono mortali. Nel momento in cui la bestia avanzava sferrava un colpo in fronte o al cuore e il suo colpo non mirava mai un altro bersaglio né un’altra parte del corpo, sapendo che altrimenti non sarebbero state contemporaneamente ferite e uccise. Per lui furono raccolte bestie da ogni paese. Allora per la prima volta vedemmo ciò che avevamo potuto ammirare solo nei dipinti. Mostrò ai Romani, mentre le uccideva, ogni tipo di bestia proveniente dall’India e dall’Etiopia, se mai qualche animale era sconosciuto prima di allora, dalle regioni meridionali e settentrionali. Tutti rimasero colpiti dalla sua abilità manuale. Una volta, contro gli struzzi della Mauritania che corrono velocissimi, grazie alla velocità delle zampe e alla sinuosità delle ali, usò frecce con punte a forma di mezzaluna e mirando alla sommità del collo riusciva a tagliarlo e, benché senza testa per la violenza del colpo, continuavano a correre come se non fosse accaduto nulla. Un’altra volta una pantera si era precipitata a tutta velocità su uno che la provocava e Commodo, avendole lanciato contro il suo giavellotto mentre tentava di sbranarlo, la uccise e salvò l’uomo e con la punta del giavellotto riuscì a prevenire la punta delle zanne. Un’altra volta ancora furono fatti uscire dai sotterranei cento leoni tutti insieme e li uccise tutti con un pari numero di giavellotti, e poiché i cadaveri rimasero lì stesi per molto tempo tutti ebbero modo di contarli e di vedere che non c’era neppure un solo giavellotto in più. Fin qui dunque le sue azioni che, sebbene fossero indegne di un imperatore, erano accolte con un certo favore dal popolo per il suo valore e la sua abilità. Ma, dopo che, discese nell’anfiteatro nudo armato da gladiatore, allora il popolo assistette ad un triste spettacolo: un imperatore romano di nobile stirpe, dopo tanti trionfi del padre e degli avi, portare armi non da soldato per combattere i barbari e degne dell’impero di Roma, ma oltraggiare la dignità imperiale con un costume scandaloso e degradante«.

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la paura dei senatori (che poi a 21, 2 si muta in un riso beffardo di scherno nei confronti di Commodo) che contagia il popolo, Erodiano accentua il carattere spettacolare della comparsa di Commodo nell’arena. Quello di Dione è il punto di vista del senatore che legittimamente si sente minacciato e prova orrore; quello di Erodiano è il punto di vista di uno spettatore più interessato alla spettacolarità dell’evento, al protagonismo di Commodo e alla sua abilità (15, 5: »tutti rimasero stupiti della sua abilità«) e soprattutto alle sue stravaganze (il suo abbigliamento, la serie di animali uccisi e la loro esoticità) che lo aveva spinto a compiere simili rappresentazioni indegne di un sovrano. Il secondo passo è relativo alla congiura che mise a morte Commodo (Herod. 1, 16, 3–17, 7-Dio 67, 15, 3–4 e 72, 22). Per il Kolb Erodiano ha trasposto il racconto che trovava in Dione relativo alla morte di Domiziano alla morte di Commodo, sulla base del fatto che, attingendo da Dione il racconto della morte di Commodo, Erodiano aveva riscontrato un parallelo con quella di Domiziano. Insomma Erodiano dipenderebbe in tutto e per tutto da Dione sul testo del quale opererebbe le sue trasposizioni e modifiche.27 In tal caso però a non persuadere è il fatto che una simile operazione combinatoria da parte di Erodiano richiede di presupporre una dipendenza tanto stretta dall’intera opera di Dione che non appare in alcun modo dimostrabile. Soprattutto trascura il fatto che la versione che si trova in Dione relativa alla congiura che mise a morte Domiziano non è attestata da alcuna altra fonte contemporanea ed è introdotta nel testo di Dione dall’espressione ἤκουσα ἔγωγε καὶ ἐκεῖνο, che fa pensare che si tratti di un’aggiunta di Dione (o dell’epitomatore secondo alcuni)28 il quale, più di un secolo dopo, sembra essere a conoscenza di una versione »aggiornata« sulla morte di Domiziano simile a quella di Commodo.29 Stando così le cose, il modello di Dione per la morte di Domiziano è la morte di Commodo e non avrebbe dunque senso ipotizzare che Erodiano vi attingesse. Credo insomma non 27 Perentoria la conclusione del Kolb, Literarische Beziehungen, 47: »Herodian greift aus Dios Werk nach seinem Geschmack reizvolle Einzelheiten oder Szenen heraus und fügt sie in einem anderen Zusammenhang seinem Erzählung ein. Dies ist freilich weniger die Methode eines Historikers als eines Romansschrifstellers«. Il limite più grave del lavoro del Kolb risiede, a mio parere, nella sistematica svalutazione di Erodiano rispetto a Dione. Di regola, quando c’è una divergenza tra i due storici Erodiano risulta per il Kolb sempre vago e lacunoso ovvero completa fantasiosamente il racconto di Dione. 28 Cassola, F., »Sull’attendibilità«, 198 e contra Grosso, La lotta politica, 398–403 con cui concordo. Cfr. commento ad loc. 29 C’è un’altra notizia in Dione relativa alle stragi che venivano compiute da malintenzionati con del frecce intinte nel veleno, che si trova pressoché identica a 67, 11, 6, al tempo di Domiziano e a 72, 14, 4 al tempo di Commodo (con esplicito richiamo alla stessa notizia di età domizianea). Ciò lascia supporre che Dione intendesse suggerire precise affinità tra Domiziano e Commodo.

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sia necessario pensare ad una dipendenza così stretta di Erodiano da Dione – che l’analisi dei singoli passi smentisce – e soprattutto che sia fuorviante adottare un criterio tanto rigido come quello della ricerca della Hauptquelle di Erodiano.30 Ritengo infatti che Erodiano conoscesse sì la Storia di Dione,31 ma che la sua dipendenza vada verificata caso per caso. Per quanto riguarda il primo libro bisogna innanzitutto sottolineare il fatto che Erodiano poteva dipendere da una pluralità di fonti. Egli infatti a 1, 2, 3 afferma di conoscere gli scritti e i detti di Marco Aurelio;32 negli excursus antiquari del primo libro introduce le diverse eziologie con formule quali: λέγουσιν; λόγος ἔστι (11, 1 e 2); ὡς λόγος (14, 4); ἐλέγετο (12, 2); εἴτε-εἴτε (9, 5, sull’interpreta30 Sulla stessa linea del Kolb soprattutto Alföldy in una serie di contributi (»Zeitgeschichte und Krisenempfindung«; »Herodian’s person«; »Bellum desertorum«; »Herodian über den Tod Mark Aurels«; »Cleanders Sturz und die antike Überlieferung«) e da ultimo Zimmermann, Kaiser und Ereignis. Il giudizio negativo di Kolb e Alföldy su Erodiano è debitore delle posizioni già espresse a suo tempo da Hohl, E., »Die Ermordung des Commodus. Ein Beitrag zur Beurteilung Herodians«, Philologische Wochenschrift 52 (1932), 191–200 e Kaiser Commodus; lo Zimmermann si sforza di mostrare, per così dire, l’abilità di Erodiano nel costruire il suo ritratto di Commodo, ma continua a ritenere che Erodiano derivi la sua informazione storica da Dione. Hanno efficacemente contrastato questa linea e mostrato l’indipendenza di Erodiano da Dione: Grosso, La lotta politica; Whittaker, Herodian; Cassola, F., »Sull’attendibilità«, 191–200; Bowersock, G. W., »Herodian and Elagabalus«, in D. Kagan (ed.), Studies in the Greek Historians. In memory of Adam Parry (Cambridge Mass. 1975), YCS 24 (1975), 229–236; Barnes, T. D., The Sources of the Historia Augusta (Bruxelles, 1978); Rubin, Z., Civil-War Propaganda and Historiography (Bruxelles, 1980); Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods«. Particolarmente tagliente il giudizio di Barnes, T. D., rec. a Kolb, Literarische Beziehungen, Gnomon 47 (1975), 368–373, 371 sull’ipotesi di lavoro del Kolb: »Extremely grave, however, is the suspicion that a thesis which has been so formulated as to preclude refutation may be beyond rational discussion. Let it be supposed that any passage in Herodian can at will be held to be either copied from the corresponding portion of Dio (when similar) or taken from Dio and radically changed (when dissimilar) or based on what Dio wrote in another context. It then becoms all too easy to prove that every passage in Herodian must derive either from Dio or from his own imagination«. Nello stesso senso Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods«, 2783–2785. Emblematico del modo di procedere del Kolb è il confronto tra Herod. 1, 16, 5 e Dio 72, 22, 2 che rivela una differenza tra i due storici circa la modalità con cui Commodo aveva intenzione di presentarsi nell’arena il 31 dicembre del 192; il Kolb in tal caso conclude (46) che quella di Erodiano »ist eine falsche Interpretation von Dio«. 31 Prova ne è, almeno nel secondo libro, il giudizio su Commodo nel discorso di Settimio Severo alle truppe di Illirico e Pannonia nel 193 (Herod. 2, 10, 3), identico a quello di Dione in apertura del libro 72. 32 »Egli (scil. Marco) praticava la virtù in tutte le sue forme, e aveva tanto bene assimilato l’antica sapienza, da non cedere in questo campo a nessuno dei Greci e dei Romani: lo dimostrano i suoi scritti e i suoi detti a noi pervenuti«. Sulla natura di questi scritti cfr. commento ad loc.

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zione delle parole rivolte a Commodo da un misterioso filosofo in teatro; 14, 2, sulle cause dell’incendio del 192); ὡς ἱστορίᾳ παρειλήφαμεν (11, 1); ὡς δὲ παρ᾽ ἑτέροις εὕρομεν (11, 2); οἳ μέν … οἳ δὲ (11, 2); φασὶν (11, 3; 16, 1); φασκόντων τινῶν (12, 2); πιστευόντων κατ᾽ ἐκεῖνο καιροῦ τῶν τότε ἀνθρῶπων … συνεβάλλοντο δέ τινες (14, 6). Ciò fa pensare che Erodiano si servisse di fonti scritte o orali diverse.33 Tuttavia nel primo libro Erodiano non contrappone mai due versioni diverse dello stesso fatto. Ciò spinge a pensare che l’uso di fonti storiografiche da parte di Erodiano nel primo libro fosse limitato. Dal momento che il panorama della storiografia contemporanea è desolante e si riduce per noi solo a ipotesi, tra le quali prevale il nome di Mario Massimo – autore di biografie da Nerva a Elagabalo34 – senz’altro utilizzato dall’HA ma di cui non c’è prova che anche Erodiano lo utilizzasse nel primo libro,35 non resta che verificare in quali luoghi del primo libro Erodiano potrebbe dipendere da Dione e in quali luoghi abbia fatto uso di materiale non dioneo e quale sia la sua provenienza. A me sembra che si possa stabilire una dipendenza di Erodiano da Dione nei seguenti passi del primo libro: a. 6, 1 ~ Dio 72, 1, 1: indole di Commodo e giudizio sulla sua personalità. Sia per Erodiano sia per Dione Commodo non era malvagio di natura ma la compagnia di cattivi consiglieri mutò la sua indole che divenne crudele e sanguinaria.36 b. 3, 1; 4, 1–4 ~ Dio 72, 1, 2: Marco morendo aveva previsto il cambiamento in peggio del figlio che, dopo averlo affidato ai migliori maestri, ora affidava a diversi tutori, tra i quali spiccavano eminenti senatori.

33 Per Kolb, Literarische Beziehungen, 161 n. 770 (che non condivido) queste formule dimostrano »daß Herodian dadurch seinen Erfindungen Autorität verschaffen wollte«. L’ipotesi di Baaz, De Herodiani fontibus 1909, 9–15 che queste notizie derivino da Verrio Flacco è priva di riscontri. 34 Su cui cfr. almeno Birley, A. R., »Marius Maximus: the consular Biographer«, ANRW II 34. 3 (1997), 2679–2757. 35 Si può legittimamente ipotizzare – come è stato fatto – l’uso di Mario Massimo da parte di Erodiano nel secondo e terzo libro per gli imperatori della dinastia dei Severi, in primis Settimio Severo. Ora però Molinier Arbo, A., »Des crisis à la Curie: les acclamationes senatus de la Vie de Commode dans l’Histoire Auguste«, in M. T. Schettino / S. Pittia (ed.), Les sons du pouvoir dans le mondes anciens. Actes du colloque international de l’Université de la Rochelle, 25–27 novembre 2010 (Besançon, 2012), 167–187 ipotizza – in modo indiziario – che Mario Massimo sia fonte consultata sia da Dione sia da Erodiano per Commodo nonché la fonte principale della Vita Commodi dell’HA. 36 Questo ritratto moderatamente negativo di Commodo è in radicale contrapposizione con quello dell’HA, per cui Commodo è la somma di tutti vizi sin dalla nascita (cfr. e. g. Comm. 1, 6–9; 7, 2).

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c. 12, 3–4 ~ Dio 72, 13, 1 e 5: ascesa di Cleandro e sua grande ricchezza. Sia Erodiano sia Dione insistono sul fatto che Cleandro ascese da umili origini ad un ruolo di grandissima influenza a corte presso Commodo e soprattutto coincidono sul fatto che Cleandro, avendo incamerato grandi somme con le sue speculazioni, non si occupava soltanto dei suoi interessi personali ma aveva anche fatto costruire opere di pubblica utilità. Ci sono poi punti di contatto tra Dione ed Erodiano che potrebbero essere spiegati alla luce del fatto che entrambi erano stati testimoni oculari degli eventi ovvero che avevano avuto fonti di informazioni non dissimili: ciò vale nel caso del fallito attentato a Commodo nel 182 in occasione della congiura di Lucilla, in cui la sequenza che si svolge a teatro appare pressoché uguale sia in Dione (72, 4, 4), sia in Erodiano (1, 8, 6), ma anche nell’HA (Comm. 4, 1–4). Analogie tra Erodiano e Dione sono infine riscontrabili nel racconto della congiura che mise a morte Commodo il 31 dicembre 192 che tuttavia, come s’è accennato, non consentono di affermare che Dione sia fonte di Erodiano.37 Tuttavia, a fronte di queste analogie, mi sembra opportuno sottolineare che ben più numerose e ampie sono le divergenze tra Erodiano e Dione. La pace del 180 stipulata da Commodo con Quadi e Marcomanni e altre popolazioni germaniche minori è presentata da Dione 72, 1, 2–3 (e dalle altre fonti, eccetto quelle più tarde) in modo molto ostile: il neo imperatore si sarebbe affrettato a fuggire dagli inospitali territori germanici per darsi ai piaceri a Roma. In realtà, da Erodiano (1, 6–7), si apprende che Commodo non fece altro che portare a compimento una soluzione, quella della pace, probabilmente già intrapresa da Marco – e osteggiata da una parte dei membri del consilium di Marco presenti in Germania – il quale comunque sul letto di morte raccomandò al figlio di portare a compimento le operazioni di guerra (cosa che Commodo puntualmente fece attraverso validi generali). Il rientro di Commodo a Roma fu tutt’altro che frettoloso: avvenne al più presto all’inizio dell’autunno del 180 (almeno sei mesi dopo la morte di Marco) perché era in atto il tentativo (fallito) di una congiura ai suoi danni organizzata da quanti – alcuni senatori e una parte degli amici Marci lontani dalla Germania – non avevano accettato di buon grado la sua successione.38 Mentre il giudizio di Dione (72, 9–10) sulla scelta del prefetto del pretorio Tigidio Perenne è sostanzialmente positivo, Erodiano (1, 8, 8) individua nella nomina di Perenne, che procede di poco la congiura di Lucilla (con37 Per l’ampio dibattito relativo al racconto della congiura e della morte di Commodo in Dione ed Erodiano cfr. supra, 17–18 e comm. ad loc. 38 Galimberti, A., »Commodo, la pace del 180 e il processo ai Cassiani«, Athenaeum 98 (2010), 487–501.

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trariamente a quanto si è pensato finora),39 una svolta negativa del regno di Commodo. Anche la valutazione di Perenne differisce in Dione ed Erodiano. Per il primo infatti Perenne »fu costretto (ἠναγκάζετο) ad occuparsi non solo degli affari militari ma anche del resto, persino a governare«, mentre »privatamente non mirò mai a procacciarsi alcunché, né per fama né per ricchezza, ma condusse una vita assolutamente incorruttibile e moderata, salvaguardando in ogni modo Commodo e il suo impero« (72, 10, 1); per Erodiano invece »Perenne tolse di mezzo tutti quelli che Commodo rispettava, e che, professando a loro volta per lui una riverenza dovuta al ricordo del padre, si davano cura della sua sicurezza« e »fondandosi sulla potenza raggiunta, mirava ormai al trono« (1, 9, 1). Il resoconto stesso della congiura di Perenne differisce in Erodiano (1, 9) rispetto a quello di Dione. Per Erodiano Perenne complottò contro Commodo con l’aiuto dei suoi figli che stazionavano nell’Illirico. Per Dione e per l’HA40 la testa di Perenne fu chiesta, con la complicità di Cleandro, da un contingente di truppe di stanza in Britannia, che nel 184 aveva dovuto fronteggiare la rivolta delle tribù locali. I soldati britannici infatti mal tolleravano il regime imposto da Perenne, e in seguito ad una sedizione, avevano acclamato Prisco (molto probabilmente il console del 187 T. Caunio Prisco) imperatore, che però rifiutò. Sedata la ribellione per opera di Pertinace, a quel punto οἱ ἐν Βρεττανίᾳ τοίνυν ὑπάρχοντες inviarono a Roma una delegazione di millecinquecento arcieri che rivelarono a Commodo che Perenne stava complottando per far acclamare imperatore suo figlio. Così Cleandro, per ordine di Commodo, consegnò Perenne ai soldati che lo massacrarono insieme alla sua famiglia. Notevole è il fatto che il solo Erodiano (1, 10) dà spazio al cosiddetto bellum desertorum (la dizione deriva da una stringata notizia dell’HA, Comm. 16, 2) guidato dal soldato ribelle Materno tra il 185/186 e al seguente fallito tentativo di uccidere Commodo, eventi che difficilmente poterono passare inosservati. La rivolta capeggiata da Materno si era infatti diffusa nelle province di Gallia e Spagna estendendosi poi in Italia. Ciò peraltro lascia trasparire una delle caratteristiche di Erodiano come storico: la sua attenzione per le dinamiche militari e sociali. Colpisce dunque negativamente l’assenza di qualsiasi cenno a questo episodio in Dione, che pur dedica ampio spazio (76, 10) alle imprese del brigante Bulla Felix sotto Settimio Severo. A proposito della carestia del 190 mentre Dione attribuisce la responsabilità al prefetto dell’annona Papirio Dionisio (72, 13, 1), Erodiano (1, 12, 3) ignora il ruolo del prefetto.

39 Cfr. commento ad loc. 40 Dio 72, 9; HA Comm. 6, 2.

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Per quanto riguarda la sommossa della plebe romana che si concluse con la morte di Cleandro nel 190, Erodiano (1, 12, 3–9) è più preciso di Dione (72, 13) circa il ruolo delle coorti urbane e dei pretoriani a cavallo che fiancheggiarono la rivolta contro il potente prefetto del pretorio, così come sull’incendio del 192 che investì Roma.. Alla luce di ciò, non c’è dunque motivo di svalutare il racconto del principato di Commodo di Erodiano rispetto a quello di Dione. Erodiano conosceva senz’altro la Storia di Dione di cui però, nel primo libro, ha fatto un uso limitato. La dipendenza di Erodiano da altre fonti letterarie nel primo libro non è, a mio avviso, accertabile. Si può invece affermare che egli abbia fatto ricorso a testimonianze contemporanee sia orali sia derivanti dalla sua esperienza in quanto testimone oculare del regno di Commodo nonché in quanto funzionario imperiale e municipale sebbene, non conoscendo esattamente la cronologia di questi incarichi, non siamo autorizzati a spingerci oltre. Va tuttavia ricordato che egli sia nel primo libro (13, 1; 16, 5) sia in altri punti della sua opera (ad es. 3, 11, 6 e 9; 4, 8, 4) lascia intravedere a più riprese la sua familiarità con gli ambienti del palazzo imperiale41 e nel proemio (§ 4) parla di »nostro territorio« in riferimento all’impero romano in opposizione ai »molti barbari«. Erodiano dunque, pur con i suoi limiti (imprecisioni cronologiche, giudizi moraleggianti, drammatizzazione di alcuni episodi), troppo severamente giudicati da una parte della critica,42 è fonte sostanzialmente attendibile per il regno di Commodo. Ciò che però mi preme soprattutto rilevare è che Erodiano conserva un punto di vista originale rispetto a quello delle altre fonti (Dione e l’HA).43 41 Su Erodiano funzionario e la sua frequentazione degli ambienti del palazzo imperiale cfr. da ultimo Cecconi, G. A., »Il funzionario«, in G. Zecchini (ed.), Lo storico antico. Mestieri e figure sociali. Atti del Convegno Internazionale (Roma, 8–10 novembre 2007) (Bari, 2010), 115–152, 130–132. 42 Su tutti, gli studi raccolti in Alföldy, Die Krise. Una valutazione più equilibrata in Grosso, La lotta politica, 30–47; Whittaker, Herodian, XXXIX–LII; Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2904–2914 che ritiene l’indirizzo storiografico di Erodiano accostabile a quello della storiografia »tragica« di epoca ellenistica (Duride di Samo) che ebbe una reviviscenza in età antonina. Sui caratteri della storiografia di età antonina cfr. Zecchini, G., »Modelli e problemi teorici della storiografia nell’età degli Antonini«, CS 20 (1983), 3–31; Hose, M., Erneuerung der Vergangenheit. Die Historiker im Imperium Romanum von Florus bis Cassius Dio (Stuttgart-Leipzig, 1994). 43 Tra le fonti minori Aurelio Vittore, Eutropio e l’Epitome de Caesaribus, salvo qualche notizia isolata (su cui cfr. il commento), sono tutte sostanzialmente ostili a Commodo, così come gli sparsi accenni di Ammiano Marcellino su cui cfr. Brok, M. F. A., »Un malentendu tenace. Les rapports entre Hérodien et Ammien Marcellin«, REA 78–79 (1977), 199–207; Molinier Arbo, La Vie de Commode. Tono encomiastico hanno invece le notizie su Commodo presenti in Giovanni Malala (particolarmente valorizzata da Grosso, La lotta politica,

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Dione infatti, al pari dell’HA, riflette il punto di vista senatorio, molto ostile a Commodo.44 Per Dione (71, 36, 4) la successione di Marco Aurelio a favore di Commodo segna il passaggio dall’età dell’oro all’età del ferro. A Commodo viene addebitata la morte del padre (71, 33, 42) e, pur non essendo malvagio per natura, la sua debolezza di carattere e la sua codardia lo avevano reso succubo di cattivi consiglieri45 e la sua natura si era fatta licenziosa e sanguinaria (72, 1, 1). Agli occhi di Dione il più grave errore di Commodo è quello di aver rotto con gli uomini migliori del senato, senza seguire i loro consigli (72, 1, 2). La sua pretesa di essere adorato come Ercole è ridicola e folle, così come la pletora dei suoi titoli (72, 15, 4), sicché la peste del 192 è un male minore rispetto alla peste rappresentata dal governo di Commodo che allora si era messo »a compiere assassini ed eliminare uomini illustri«.46 Pochissimi e di scarso rilievo sono gli aspetti positivi della sua persona e del suo regno (72, 7, 4): era amante del bello e dell’eleganza e aveva posto fine alle vendette seguite alla vicenda di Avidio Cassio sotto Marco. Per l’HA Commodo è un personaggio radicalmente negativo segnato sin dalla nascita (che sarebbe addirittura frutto dell’adulterio di Faustina con un gladiatore!) dalla perversione e dalla crudeltà47 e qualsiasi sua iniziativa è da considerarsi fallimentare. Non si contano nella Vita Commodi gli atti di ferocitas perpetrati da Commodo sin dalla più tenera età e i suoi vizi.48 Egli appare un personaggio mostruoso e la sua azione è sistematicamente screditata e malevolmente rovesciata in peggio.49 81–88 quella relativa al terremoto di Antiochia del 181) in quanto legate ai benifici – soprattutto dal punto di vista edilizio – di Commodo a favore di Antiochia. 44 Icastica la definizione di Espinosa Ruiz, U., »El reinado de Cómmodo: subjetividad y objetividad en la antigua historiografia«, Gerion 2 (1984), 113–149, 116: »Dion es testigo y parte; el cronista es a la vez un hombre del partito anticommodiano«. 45 Tra cui spicca senz’altro Cleandro. La sua uccisione insieme a quella dei suoi figli da parte di Commodo è vista da Dione come un supremo atto di codardia: καὶ ὁ Κόμμοδος οὕτως ἔδεισεν, ἄλλως τε καὶ δειλότατος ὤν, ὥστε αὐτίκα καὶ τὸν Κλέανδρον καὶ τὸ παιδίον αὐτοῦ, ὃ καὶ ἐν ταῖς τοῦ Κομμόδου χερσὶν ἐτρέφετο, σφαγῆναι κελεῦσαι (72, 13, 6). 46 72, 14, 1: Κόμμοδος δὲ ἀπὸ τῶν εὐθυμιῶν καὶ παιδιῶν ἀνανεύων ἐφόνα καὶ τοὺς ἐπιφανεῖς ἄνδρας διεχειρίζετο. 47 Cfr. M. Ant. 16, 2: scelestus atque impurus; 18, 4: parum sane. 48 Comm. 1, 3–4; 1, 7: nam a prima statim pueritia turpis, improbus, crudelis, libidinosus, ore quoque pollutus et constupratus fuit. 49 Grosso, La lotta politica, 62: »la sua (scil. del biografo) è una faziosità politica incontrollata e delirante; travolto dalla passione più che storia sembra scriva una cronaca di parte, un pamphlet spesso incredibilmente insultante«; Espinosa Ruiz, U., »El reinado de Cómmodo«, 126: »La biografía se construye mediante la alternancia de una triple temática: las corrupciones del favorito de turno, los vicios del emperador y las rondas de crímenes en cadena … El resultado es un panfleto delirante«. Sul valore storico della Vita Commodi cfr.

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Accanto a Dione e all’HA il punto di vista senatorio è ora ulteriormente illustrato da una terza fonte, di eccezionale importanza in quanto contemporanea, che conserva un drastico giudizio sul principato di Commodo. Si tratta di un trattatello filosofico di Galeno dal titolo περὶ ἀλυπίας o ἀλυπησίας (De indolentia) recentemente scoperto, edito nel 2010, di cui si conosceva soltanto il titolo in quanto trasmesso nell’elenco di opere di Galeno che gli stesso fornisce nel De libris propriis (15, 1).50 L’importanza del De indolentia consiste nel fatto che è stato scritto a ridosso della damnatio memoriae di Commodo (molto probabilmente nei primi mesi del 193) e che ci permette di datare con buona approssimazione l’incendio di Roma alla fine dell’inverno 192 (febbraio-marzo); nel fatto che consente di integrare le narrazioni dell’incendio di Dione ed Erodiano con nuove informazioni relative ai luoghi andati a fuoco; soprattutto, sotto il profilo storico-politico, nel fatto che Galeno scrive che Commodo era stato il peggiore dei tiranni mai esistiti,51 assumendo così in toto il punto di vista del senato che, all’indomani della morte del tiranno, ne aveva decretato la damnatio memoriae. A rigore, infine,52 tra le testimonianze contemporanee dovremmo annoverare anche quella contenuta negli Acta Appiani (compresi nella raccolta degli Alexandrinorum)53 relativi agli atti del processo contro il ginnasiarca di AlesHeer, J. M., »Der historische Wert der Vita Commodi in der Sammlung der Scriptores Historiae Augustae«, Philologus Suppllementband 9, 1 (1904), 1–208; Nesselhauf, H., »Die Vita Commodi und die Acta Urbis«, BHAC 1964–1965 (Bonn, 1966), 127–138 e Pflaum, H.-G., »Le valeur de l’information historique de la vita Commodi à la lumière des personnages nommément cités par le biographe«, BHAC 1970 (Bonn, 1972), 199–247. 50 Boudon-Millot, V. / Jouanna, J. / Pietrobelli, A., Galien. Ne pas se chagriner (Paris, 2010). 51 §§ 49–50; 54–55. Su questo giudizio cfr. Galimberti, A., »Il nuovo Galeno e l’ultimo Commodo«, Politica Antica 2 (2012), 23–31. 52 Un cenno merita anche la tradizione cristiana in cui Commodo è giudicato positivamente (cfr. commento a 1, 16, 4–5). Di questa tradizione è traccia anche nel poeta Draconzio che alla fine del V secolo nella sua Satisfactio ricorda Commodus Augustus vir pietate bonus al quale (modico sermone poeta) attribuisce versi che esortano i principi alla bontà (Satisf. 189– 190: nobile praeceptum, rectores, discite post me/sit bonus in vita qui volet esse deus). Nonostante Mazzarino, S., Il pensiero storico classico, (Bari, 1966), II.2, 245–247 ritenesse che il poeta di cui parla Draconzio fosse Lucio Vero e non Commodo, è invece molto probabile che si tratti di Commodo imperatore. Del resto la tradizione cristiana, come s’è detto, è favorevole a Commodo in quanto Marcia era cristiana. Su tutta la questione cfr. Alfonsi, L., »Commodo in Draconzio«, RFIC 39 (1961), 296–300; Grosso, La lotta politica, 377; Clover, F., »Commodus the poet«, Nottingham Medieval Studies 32 (1988), 19–33; Baldwin, B., »Commodus the good poet and good emperor«, Gymnasium 97 (1990), 224–231; Marasco, G., »Commodo e i suoi apologeti«, Emerita 64 (1996), 229–238; Hekster, Commodus. An Emperor, 185. 53 Musurillo, H. A. (ed.), Acta Alexandrinorum. De mortibus Alexandriae nobilium fragmenta papyracea graeca (Lipsiae, 1961), nr. XI B col. II, 5–10, 53–54: ᾽Αππιανός· τοῦτο μὴ λέγε· τῷ γὰρ θεῷ|᾽Αντωνείνῳ [τ]ῷ π[ατ]ρί σου ἔπρεπε|αὐτοκρατορεύειν. Ἄκουε, τὸ

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sandria Appiano. Questi, nel corso del processo davanti all’imperatore – i cui contorni ci sfuggono –, accusa apertamente Commodo di avere tratto vantaggio dalle speculazioni sul grano che erano state fatte al tempo di Cleandro (189–190) oppure, secondo un’altra ipotesi, al tempo dell’istituzione della classis Africana (Commodiana Herculea), che spetta al più tardi al 190 circa.54 La redazione del testo appartiene ai primi decenni del III sec. d. C., è riconducibile all’ambiente alessandrino ed è caratterizzata da una certa rielaborazione letteraria, sebbene non si possa escludere che sia fondata su documenti autentici. Rilevante è il fatto che ad un certo punto Appiano istituisce un confronto tra Marco Aurelio φίλοσοφος e Commodo il cui regno è identificato come una τυραννία. Vale la pena notare che questa contrapposizione appare molto significativa giacché la ritroviamo nella tradizione senatoria su Marco Aurelio che è rappresentata in primis dalle pagine dell’HA; l’incipit della Vita Marci è a questo proposito emblematico, in quanto enfatizza la figura dell’ imperatore-filosofo:55 Marco Antonino, in omni vita philosophanti viro et qui sanctitate vitae omnibus principibus antecellit. Confrontando infine gli Acta Appiani con la testimonianza di Galeno, colpisce il fatto che entrambi – al pari di Erodiano e delle altre fonti eccetto l’HA - collocano negli ultimi due anni di regno (190–192) l’irreversibile peggioramento di Commodo; il fatto poi che il principato di Commodo sia considerato una tirannia sia in Galeno sia negli Acta risente senz’altro della damnatio di Commodo decretata dal senato. È stato autorevolmente affermato che il punto di vista di Erodiano rispecchia quello dei servi o dei liberti di corte che »si rifà ai ›si dice‹ di certe classi borghesi popolari« e che rivela una certa tendenza allo psicologismo (Mazzarino)56 ovvero quello di uno storico più attento ai ceti abbienti in quanto partecipe della »situazione economica dei possidenti« (Cassola).57 A me sembra che la prima di queste definizioni sia da approfondire meglio, la seconda sia suscettibile di almeno qualche osservazione. Altretμὲν|πρῶτον ἦ[ν] φιλόσοφος, τὸ δεύτερον|ἀφιλάργυρος, τ[ὸ] τρίτον φιλάγαθος· σοὶ|τούτων τὰ ἐναντία ἔνκειται, τυραν|νία ἀφιλοκαγαθία ἀπαιδία. A 4, 8 Commodo è chiamato ὁ λῄσταρχος. 54 La prima ipotesi in Grosso, La lotta politica, 307–316, la seconda in Musurillo, H. A. (ed.), The Acts of Pagan Martyrs. Acta Alexandrinorum, edited with Commentary (Oxford, 1954), 210, sebbene lo stesso scriva che »the real historical basis of the Acta Appiani still remains something of a mystery«. Per la data dell’istituzione della classis Africana (186 o 190) cfr. ora von Saldern, Studien zur Politik, 156–159. 55 M. Ant. 1, 1. La connotazione di Marco come philosophus è frequente nella biografia, cfr. 2, 2; 2, 6; 3, 1; 4, 9; 8, 3; 16, 5; 19, 10; 22, 5; 23, 5; 26, 2–3; 27, 7. 56 Mazzarino, Il pensiero storico, II.2, 207. 57 Cassola, F., »Sulla vita e la personalità«, 217. Cfr. ora Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2910.

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tanto discutibile è quanto è stato scritto di recente, secondo cui Erodiano è uno storico non »connotato coerentemente da una spiccata simpatia per specifici gruppi sociali o cariche, e neppure da un attaccamento ideologico a forme costituzionali« (Cecconi).58 Al di là del fatto che non abbiamo alcuna certezza sull’origine servile o libertina di Erodiano59 – piuttosto i dati a nostra disposizione tendono ad escludere questa provenienza sociale e fanno propendere per una sua appartenenza al ceto equestre60 – è indubbio che al centro della Storia ci sono i diversi imperatori con le loro virtù (specie la paideia)61 e i loro difetti dai quali discendono i buoni e i cattivi governi. Ma la dicotomia tra principes boni e principes mali non esaurisce, a mio avviso, la prospettiva in cui si colloca il pensiero storico di Erodiano. Senz’altro il punto di vista di Erodiano è differente da quello senatorio di Cassio Dione, tuttavia credo sia possibile rintracciare, se non un »attaccamento ideologico a forme costituzionali«, una spiccata preferenza di Erodiano per il regime che egli identifica nell’ ἀριστοκρατία (parola che significativamente non compare nel lessico di Cassio Dione),62 fatta salva ovviamente l’autorità dell’imperatore il cui ruolo è fuori discussione. A questo proposito bisogna osservare che i discorsi (alla maniera tucididea) che Erodiano mette in bocca a Pertinace (2, 3, 10), a Settimio Severo (2, 14, 3) e a Macrino (5, 1, 4: qui si tratta della lettera che Macrino scrive al senato nel 218)63 prospettano tutti come miglior forma di governo l’ἀρι-

58 Cecconi, G. A., »Il funzionario«, 130. Ma cfr. diversamente Canfora, L., Erodiano storico della crisi, in Id., La storiografia greca (Milano, 1999), 327–341, 340: »Erodiano ha sue precise vedute in campo politico. Il senato gli appare come l’unica vera fonte dell’autorità imperiale; le masse militari invece aspirano al governo dispotico. Perciò egli classifica gli imperatori – e conseguentemente si esprime su di loro – in base al modo in cui si sono atteggiati nei confronti dell’esercito per un verso e del senato per l’altro … in ogni caso la sua opzione è per il predominio di un’aristocrazia a base censitaria, diretta da un imperatore che sia espressione del senato«. 59 Così Grosso, La lotta politica, 47; Alföldy, G., »Zeitgeschichte und Krisenempfindung«, 431; »Herodian’s person«, 227–233. 60 Cfr. Whittaker, Herodian, XIX–XXIV e il mio commento a 1, 2, 2. Infondata l’ipotesi di un ritiro di Erodiano in Oriente, che Cassola, F., rec. a Kolb, F., Literarische Beziehungen, Athenauem 62 (1974), 374–378, 376 riteneva sicuro: »è certo che in vecchiaia egli (scil. Erodiano) si ritirò in una delle province orientali«. 61 Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2841; Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods«, 2826. 62 Per il lessico politico di Erodiano cfr. Widmer, W., Kaisertum, Rom und Welt in Herodians META MARKON BASILEIA ISTORIA (Zürich, 1967), 34 (solo un cenno al concetto di ἀριστοκρατία); Roques, D., »Le vocabulaire politique d’Hérodien«, Ktema 15 (1990), 35–71. 63 Per Marasco, G., »L’idéologie impériale de Macrin«, REA 98 (1996), 187–195, un’invenzione di Erodiano.

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στοκρατία. Anche il governo di Alessandro Severo (6, 1, 2), per la scelta di Giulia Mesa e di Giulia Mamea di affiancare al giovane Alessandro sedici senatori »eminenti per l’età veneranda e la vita intemerata affinché fossero collaboratori e consiglieri del principe«, »era gradito al popolo e ai soldati, ma soprattutto al senato, in quanto si allontanava dall’assolutismo tirannico, ispirandosi a principi aristocratici«.64 Se da un lato ciò può essere spiegato come volontà di rispettare il senato, atterrito e violentemente esautorato dalle varie crisi in cui intervengono i diversi neo-imperatori, dall’altro, tenendo conto che si tratta per lo più di discorsi la cui rielaborazione è da addebitare al nostro storico, sembra mettere in luce come Erodiano accordi le sue preferenze – come rivela soprattutto la lettera di Macrino – per un regime che preveda non solo il governo del ceto senatorio, ma una collaborazione tra senatori e i cittadini migliori (aristocratici nel senso letterale del termine): »A che vale infatti la nobiltà del sangue, se non si accompagna ad un animo elevato e generoso? In verità i doni della fortuna toccano anche agli indegni; ma la virtù concede a chi la esercita una gloria ben meritata. La nobiltà e la ricchezza e altre siffatte cose suscitano l’invidia, ma non conquistano fama, perché ci vengono da altri; ma la bontà e la generosità procurano ammirazione e lode a chi le pratica. Che giovamento ha portato infatti la nobiltà di Commodo? Oppure, nel caso di Antonino, il fatto che egli succedesse sul trono al padre? Coloro che hanno ottenuto il loro grado per via di successione, senza riguardo ne abusano come di un bene ereditario; ma chi l’ha ricevuto da voi rimane a voi legato da gratitudine imperitura, ed è spinto a contraccambiare il vostro iniziale beneficio. Nei principi di origine patrizia (τῶν μὲν εὐπατριδῶν βασιλέων) la nobiltà si risolve in dispregio per i soggetti, considerati gente inferiore; quelli che sono saliti al potere da una condizione modesta ne hanno cura come di un bene faticosamente conquistato, e conservano la stima e il rispetto che hanno sempre avuto per gli uomini di rango eminente. È mio proposito non far nulla senza il vostro consenso, e farvi partecipare come consiglieri all’amministrazione dello stato (τῆς τῶν πραγμάτων διοκήσεως). Voi vivrete liberi e senza timore; è questo un vantaggio di cui vi avevano privato gli imperatori patrizi (τῶν εὐπατριδῶν βασιλέων), e che avevano tentato di restituirvi Marco Aurelio prima, Pertinace poi: due uomini saliti al trono da modesta condizione.65 È meglio, infatti, dare per primo una dignità alla propria famiglia, e trasmetterla ai discendenti, che ereditare la gloria degli avi e disonorarla con le proprie colpe« (5, 1, 5–8).

64 Τὸ σχῆμα τῆς βασιλείας ἐκ τυραννίδος ἐφυβρίστου ἐς ἀριστοκρατίας τύπον μεταχθείσης. 65 Affermazione tutt’altro che vera per quanto riguarda Marco Aurelio (cfr. commento a 2, 2).

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In questa prospettiva la nobiltà di nascita non è un requisito necessario tale da pregiudicare la partecipazione al governo dell’impero. L’originalità dell’impostazione di Erodiano risiede in effetti proprio qui: nel fatto che la provenienza sociale non può oscurare i meriti e le virtù individuali e dunque, in ultima analisi, anche le personalità dei singoli imperatori, che infatti vengono giudicati non sulla base delle loro origini ma per le loro qualità. A me sembra pertanto che Erodiano sia legato ad un’ »ideologia« che intende promuovere l’ascesa sociale degli individui in base ai meriti personali. Non a caso sia Pertinace sia Macrino – fautori dell’ ἀριστοκρατία – erano ambedue di umili origini, il primo figlio di un liberto, il secondo un liberto egli stesso, e avevano ambedue percorso la carriera equestre.66 Quando poi Macrino afferma che Pertinace e Marco Aurelio erano due uomini saliti al trono da modesta condizione è chiaro che ci troviamo di fronte ad una forzatura (Marco era tutt’altro che di umili origini) che intende avvalorare una tesi precostituita.67 Ciò però non si traduce in opposizione alla nobiltà senatoria o agli imperatori »patrizi« (di Commodo è sottolineata ad es. la sua nobiltà [1, 7, 4]), bensì nella proposizione di un modello fondato, come s’è detto, su un’autentica ἀριστοκρατία, vale a dire sulla partecipazione dei migliori cittadini alla direzione e all’amministrazione dell’impero. Questa impostazione infatti non preclude ad Erodiano l’apprezzamento di nobili senatori come Manio Acilio Glabrione (2, 3, 3–4), né gli impedisce di sottolineare l’ascesa all’impero di nobili come Gordiano I (7, 5, 2), di Pupieno e di Balbino (8, 7, 4) in virtù delle loro carriere benemerite, costruite gradualmente nel tempo. Ciò che Erodiano intende mostrare è che la sola nobiltà non è requisito sufficiente – e questo appare chiaramente proprio nella narrazione del primo libro dove i richiami alla nobiltà di Commodo sono frequenti – a fare un buon principe. Questi, per essere tale, oltre alle sue doti personali, deve sapersi inoltre avvalere della collaborazione di buoni consiglieri: ecco perché Erodiano tanto insiste sul »mutamento in peggio« di Commodo a partire dall’allontanamento da parte del principe degli amici Marci, ma anche dopo la morte di Cleandro (1, 13, 7–8). La proposta politica di Erodiano appare infine ancor più degna di attenzione dal momento che egli sembra individuare l’ἀριστοκρατία come »terza via« tra μοναρχία (come viene senz’altro definito il regime augusteo 66 HA Pert. 1–2; Macr. 2, 1; 4, 3. Viceversa l’ascesa e la rapida e violenta caduta del libertino Cleandro che aveva raggiunto uno dei fastigi della carriera equestre, la prefettura del pretorio, è disapprovata da Erodiano, anche se (1, 13, 6) »si può dire che la natura abbia voluto mostrare nella vita di un sol uomo come una leggera e imprevedibile inclinazione della sorte può sollevare dalla più abbietta miseria alla più grande altezza, e di nuovo abbattere colui che ha sollevato«. 67 A 2, 14, 3 (discorso di Settimio Severo al senato) vengono nuovamente accostati Marco e Pertinace, ma solo per elogiare i loro governi.

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a 1, 1, 4)/ βασιλεία68 e la δημοκρατία evocata nel dibattito costruito da Cassio Dione in età severiana tra Agrippa e Mecenate di fronte ad Augusto69 che Erodiano, in quanto lettore di Dione, doveva conoscere. Ora, tenendo conto di questa prospettiva, per Erodiano il giudizio sul principato di Commodo è nel complesso senz’altro negativo, tuttavia appare più articolato rispetto a Dione (e all’HA) nelle sue scansioni. A mio avviso infatti è possibile individuare alcune cesure significative secondo le quali Erodiano formula un giudizio su Commodo più ponderato. Per Erodiano, come per Dione, Commodo non era malvagio di natura ma, a causa della sua debole indole, si lasciò sopraffare da cattivi consiglieri che lo mutarono in peggio; a nuocere a Commodo è innanzitutto per Erodiano, che ritorna a più riprese sull’argomento, la giovane età e la sua inesperienza.70 In questa ripetuta notazione si può forse pensare che Erodiano risenta degli avvenimenti a lui contemporanei, dal momento che gli imperatori della dinastia dei Severi – Caracalla e Geta, Elagabalo, Alessandro Severo – erano in effetti tutti molto giovani quando giunsero al trono, e al 238 spetta l’elezione al soglio imperiale di Gordiano III che, com’è noto, aveva solo tredici anni. Tuttavia il mutamento in peggio di Commodo non appare repentino né frutto di una misteriosa predestinazione. Erodiano coglie, seppur non sempre espressamente, alcune tappe politiche che determinarono la rovina dell’imperatore. Il Grosso ha individuato nella struttura del primo libro otto nuclei tematici che corrispondono agli eventi principali del regno di Commodo, attorno ai quali è organizzata la narrazione:71 1. Morte di Marco, proclamazione di Commodo, suo rientro a Roma 2. La congiura di Lucilla 3. La congiura di Perenne 4. La congiura di Materno 5. Potenza e fine di Cleandro 6. Incendio del tempio della Pace 7. Follie di Commodo, giochi, infatuazione gladiatoria 8. La congiura. Credo che accanto a questi nuclei sia possibile affiancare un altro tipo di analisi, tesa ad individuare i nuclei politici del principato di Commodo. Questi nuclei corrispondono ad altrettanti snodi che consentono di spiegare lo svolgimento del regno stesso. Quello di Commodo si presenta infatti agli occhi di Erodiano come un principato sempre più autocratico, segnato dalla progressiva perdita di consenso da parte del principe nei confronti di tutte 68 Significativamente Macrino nella sua lettera contrappone (5, 1, 4) ἀριστοκρατία a βασιλεία. 69 Su cui cfr. almeno Espinosa Ruiz, U., Debate Agrippa-Mecenas en Dio Cassio: respuesta senatorial a la crisis del Imperio Romano en época Severiana (Madrid, 1982). 70 1, 3, 1; 1, 3, 5; 1, 4, 3; 1, 5, 1; 1, 6, 2; 1, 6, 4; 1, 6, 7; 1, 7, 1; 1, 8, 1–2; 1, 8, 7; cfr. anche 1, 7, 2 (μετὰ νεανικῆς σπουδῆς); 1, 8, 3 (νεανίσκος). Caracalla e Geta (3, 10, 3–4; 3, 13, 6), Elagabalo (5, 3, 3; 5, 4, 2); Alessandro Severo (5, 7, 1 e 4; 5, 8, 10); Gordiano III (8, 8, 8). 71 Grosso, La lotta politica, 36–37.

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le componenti dell’organismo imperiale. Sembra di capire insomma che la fine di Commodo fu segnata da un graduale declino, determinato dall’atteggiamento del principe che riuscì nella difficile impresa di alienarsi le simpatie prima degli amici Marci, poi del senato e dell’ordine equestre, quindi dei liberti e infine dei pretoriani e del popolo, estromettendoli di volta in volta dalla vita pubblica. La prima rottura significativa avviene con gli amici Marci poco tempo dopo la morte di Marco stesso (17 marzo 180). Commodo infatti non intendeva accettare la tutela degli ἐπίτροποι voluti dal padre ma, soprattutto, decise di rompere con costoro su una precisa questione di politica estera: le guerre marcomanniche, affrontate a più riprese da Marco. La decisione di stipulare la pace con Quadi, Marcomanni e altre tribù germaniche, che le altre fonti presentano come intempestiva e frutto dell’indolenza di Commodo, che intendeva far rientro a Roma per dedicarsi ad una vita di ozi e piaceri, in base ad Erodiano è in realtà da ricondurre a due precise ragioni: da una parte il fatto che Marco aveva già inclinato per questa scelta, di porre fine alle ostilità con una pace vantaggiosa per Roma e di non lasciare nulla di incompiuto (come in effetti avvenne, giacché Commodo lasciò in Germania i suoi più valenti generali che si occuparono di riordinare la situazione); dall’altra si rendeva necessario per Commodo il rientro a Roma onde sventare i pericoli derivanti da una congiura che si stava organizzando contro di lui.72 Ciononostante, al suo rientro in Italia, Commodo ebbe modo di constatare quanto fosse stata popolare la sua successione (1, 7, 1), giacché il popolo e il senato gli riservarono un’accoglienza trionfale.73 Subito a seguire, i già periclitanti rapporti con il senato, vennero definitivamente affossati con la congiura di Lucilla, a cui seguì una consistente epurazione affidata al prefetto del pretorio Tigidio Perenne (182–185), soppiantato di lì a breve dal liberto Cleandro. Con la fine di Perenne è almeno una parte del ceto equestre a prendere le distanze da Commodo, come rivelano i frequenti avvicendamenti alla prefettura del pretorio nonché la prefettura a tre del 190 (Cleandro, Grato, Giuliano). La rovinosa caduta di Cleandro (190) porta poi con sé il crollo della fiducia nei liberti, ma soprattutto segna una prima pericolosa erosione del consenso popolare per Commodo,74 che 72 Galimberti, A., »Commodo, la pace del 180«. 73 »Quando fu deciso il ritorno grande turbamento prese tutto l’esercito, e ciascuno voleva andarsene con lui per liberarsi dai disagi di un paese ostile e godere gli agi di Roma. I Romani, da parte loro, quando giunsero i messaggeri a preannunciare l’arrivo dell’imperatore, e diffusero la notizia, molto si rallegrarono, e riposero grandi speranze nel ritorno del giovane principe, ritenendo che il figlio fosse degno del padre«. 74 Sull’attenzione di Commodo per la plebs urbana cfr. Zimmermann, M., »Herodians Konstruktion der Geschichte und sein Blick auf das stadtrömische Volk«, in Id. (ed.), Geschichtsschreibung und politischer Wandel im 3. Jh. n. Chr.: Colloquium zu Ehren von Karl-

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risulta ancora vivo, insieme a quello non meno importante dei pretoriani, tre anni prima in occasione del bellum desertorum di Materno.75 Nel 190 Cleandro infatti, attraverso le speculazioni sul grano in coincidenza con la carestia del 190 (1, 12, 4), aveva cercato di ingraziarsi »il favore del popolo e dell’esercito (τόν τε δῆμον καὶ τὸ στρατόπεδον)«76 ed Erodiano non nasconde che Commodo, subito dopo l’eliminazione di Cleandro, »temendo la sollevazione popolare e una rivoluzione contro di lui (μή τι καὶ περὶ αὐτὸν νεωτερίσειεν), fece ritorno in città dietro richiesta dei suoi famigliari, accolto da ogni tipo di acclamazioni da parte del popolo, che lo scortò sino al suo ingresso al Palazzo imperiale« (1, 13, 7).77 Nonostante queste manifestazioni di giubilo – che sembrerebbero rivelare che il consenso popolare non era ancora venuto meno del tutto – subito dopo Erodiano torna su un motivo a lui caro, vale a dire il rifiuto da parte di Commodo di buoni consiglieri che lo avrebbe fatto tralignare,78 individuando da questo momento in poi la svolta autocratico-religiosa79 di ComErnst Petzold (Juni 1998) anlässlich seines 80. Geburtstag (Stuttgart, 1999) 120–143; von Saldern, Studien zur Politik, 151–189. 75 1, 10, 4: »Egli (scil. Materno) riteneva di non aver forze sufficienti per affrontare Commodo ad armi pari, in campo aperto; sapeva infatti che la maggioranza dei cittadini romani era ancora favorevole a Commodo, e che i suoi pretoriani gli erano ancora devoti«. 76 1, 12, 4–5: »Egli si procurò del denaro e, acquistata grande quantità di grano, lo nascose. Si proponeva di influire poi con abbondanti largizioni sugli uomini stretti dalla fame, assicurandosi così la benevolenza del popolo e dell’esercito. Inoltre costruì una grande palestra e aprì al popolo un bagno pubblico. In tal modo egli cercava di accattivarsi il popolo: ma i Romani erano maldisposti nei suoi riguardi, e gli addossavano la colpa delle loro difficoltà, rinfacciandogli l’insaziabile sete di ricchezze«. 77 Ο δὲ Κόμοδος δεδιὼς μὲν τὴν τοῦ δήμου κίνησιν, μή τι καὶ περὶ αὐτὸν νεωτερίσειεν, ὅμως δὲ παρορμησάντων αὐτὸν τῶν οἰκείων κατελθὼν εἰς τὸ ἄστυ μετὰ πάσης εὐφημίας τε καὶ παραπομπῆς τοῦ δήμου ὑποδεχθεὶς εἰς τὴν βασίλειον ἐπανῆλθεν αὐλήν. Vale la pena notare che già a proposito dell’eliminazione del cubicularius Saotero nel 182 fu lo scontento popolare nei suoi confronti a indurre i prefetti del pretorio – ovviamente con il consenso di Commodo – a metterlo a morte. HA Comm. 4, 5: Tum praefecti praetorio cum vidissent Commodum in tantum odium incidisse obtentu Saoteri, cuius potentiam populus Romanus ferre non poterat, urbane Saoterum eductum a Palatio sacrorum causa et redeuntem in hortos suos per frumentarios occiderunt. 78 1, 13, 7–8: »Avendo corso tanti rischi, ormai non si fidava più di nessuno: infliggeva senza risparmio condanne a morte, credeva a qualsiasi delazione, non dava più ascolto ai buoni consiglieri, aveva deposto ogni cura di buon governo, e si abbandonava notte e giorno a una sfrenata ininterrotta lussuria […] Tutte le persone degne di stima e quelle anche moderatamente oneste, che si trovavano alla reggia, erano espulse come malfide; i buffoni e i mimi più turpi tenevano Commodo in loro potere«. 79 L’interesse per la religione di Erodiano nel primo libro si limita a quattro brevi excursus di carattere religioso-antiquario (sui Ludi Capitolini, sul Palladio, sul culto della Magna Mater, sui Saturnalia) la cui importanza però risiede nel fatto che da qui si ricava che Erodiano si rivolgeva ad un pubblico greco (orientale?) poco avvezzo ai costumi e alle tradizioni

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Introduzione

modo, attraverso l’assimilazione ad Ercole, la pletora degli epiteti divini, il mutamento del proprio nome nonché di quello dei mesi dell’anno e, infine, la pretesa di scendere nell’arena in veste di gladiatore. Furono queste stravaganze – accanto ai suoi vizi e ai suoi eccidi – a decretare, secondo Erodiano, la definitiva perdita della sua popolarità.80 Se, sotto il profilo evenemenziale, fu il distacco dei pretoriani (la fides praetorianorum è significativamente invocata per ben quattro volte nelle adclamationes del senato dopo la morte di Commodo),81 comandati dal prefetto Emilio Leto, uno dei capi della congiura, a segnare la fine, tuttavia per il nostro storico l’inizio della fine è proprio il venir meno del consenso popolare in seguito alla decisione di Commodo di scendere nell’arena come gladiatore (1, 15, 7): »Fin qui dunque le sue azioni che, sebbene fossero indegne di un imperatore, erano accolte con un certo favore dal popolo per il suo valore e la sua abilità. Ma, dopo che, discese nell’anfiteatro nudo armato da gladiatore, allora il popolo assistette ad un triste spettacolo: un imperatore romano di nobile stirpe, dopo tanti trionfi del padre e degli avi, portare armi non da soldato per combattere i barbari e degne dell’impero di Roma, ma oltraggiare la dignità imperiale con un costume scandaloso e degradante«. Il giudizio finale su Commodo è emblematico del punto di vista di Erodiano ed è quello di un’occasione mancata:82 Commodo sprecò le sue doti e la sua nobiltà. La sua rovina è in ultima analisi imputabile al fatto di avere disatteso le aspettative che si erano create attorno a lui. A sancire la fine fu insomma un cattivo uso del consenso popolare di cui godette (quasi) fino all’ultimo. Non so se tutto ciò significhi che Erodiano assumesse il punto di vista di »certe classi borghesi popolari«; certamente è però un punto di vista originale che non trova riscontro nelle altre fonti, e che mostra capacità di pensiero in proprio e riflette forse sensibilità giudizi di un funzionariato grecoorientale non incline ad accettare senza distinzione i giudizi del senato. In questo sta il valore della testimonianza del nostro storico.

romane (cfr. Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2908–2910; contra Whittaker, Herodian, XXVI–XXXI; LXXVI–LXXXII). Su Erodiano e la religione cfr. Rowan, C., »Rethinking Religion in Herodian«, AH 35 (2005), 163–176. 80 1, 14, 7: »Fra tante sventure che senza tregua colpivano la città (scil. la carestia, l’incendio del 192), il popolo di Roma non vedeva più Commodo di buon occhio; anzi considerava le sue continue uccisioni e la sua vita indecorosa come cause degli ininterrotti disastri«. 81 HA Comm. 18, 8 e 11. 82 1, 17, 12: »Egli era più nobile per sangue di tutti i suoi predecessori, era l’uomo più bello e più proporzionato del suo tempo, e, se dobbiamo ricordare anche il suo valore, non la cedeva a nessuno in destrezza e abilità: ma, come si è detto, sciupò tutti questi pregi coi suoi turpi costumi«.

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1. §§ 1–2

La maggior parte di coloro che si dedicano a comporre opere storiche e che si impegnano a rinnovare il ricordo di antichi fatti, con l’ambizione di gloria immortale per la loro cultura, nel timore, tacendo, di rimanere ignoti ed essere annoverati tra la massa anonima, nelle loro opere hanno mostrato di trascurare la verità storica e di curarsi invece dell’eleganza stilistica, convinti che, scrivendo anche qualcosa di favoloso, avrebbero acquisito vantaggi dal diletto procurato all’uditorio, mentre l’esattezza dell’indagine non sarebbe stata contestata. 2. Vi sono poi alcuni che per malanimo o odio verso i tiranni, o per adulazione o ossequio verso un imperatore, una città o un privato cittadino, per fare sfoggio di abilità letteraria, hanno tramandato fatti banali e insignificanti, conferendo ad essi un’importanza superiore a quella reale. Erodiano nel proemio fa senz’altro riferimento a precisi modelli storiografici. Scoperta è la matrice tucididea relativamente alle dichiarazioni di metodo: in particolare Thuc. 1, 22, 3–4 per il rifiuto di ogni ornamentazione retorica e del μυθῶδες finalizzato alla ricerca del »piacere dell’ascolto« (τὸ μὲν ἡδὺ τῆς ἀκροάσεως) e non all’esattezza dell’indagine (τὸ δ᾽ ἀκριβὲς τῆς ἐξετάσεως; cfr. § 3: μετὰ πάσης ἀκριβείας ἤθροισα ἐς συγγραφήν) che ha come fine il vero (ἀλήθεια). Anche a 3, 7, 3 Erodiano ribadisce la sua avversità per gli storici che scrivono πρὸς χάριν e non πρὸς ἀλήθειαν. Sulle ascendenze tucididee del proemio erodianeo cfr. Stein, J. F., Dexippus et Herodianus rerum scriptores quatenus Thucydidem secuti sint (Bonn 1957), 76–79 e ora Hidber, T., Herodians Darstellung der Kaisergeschichte nach Marc Aurel (Basel, 2006), 72–105. Non escluderei che le prime battute del proemio contengano anche un’eco di Hdt. 1, 1, 1 (ὡς μήτε τὰ γενόμενα ἐξ ἀνθρώπων τῷ χρόνῳ ἐξίτηλα γένηται μήτε ἔργα μεγάλα τε καὶ θωμαστὰ τὰ μὲν Ἕλλησι, τὰ δὲ βαρβάροισι ἀποδεχθέντα ἀκλεᾶ γένηται) volta però in chiave soggettiva, in relazione cioè all’esigenza di Erodiano di non passare sotto silenzio la sua opera, per la necessità di tramandare il ricordo di imprese che altrimenti rimarrebbero oscure. Di matrice erodotea è anche l’uso del

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termine ἱστορία (§ 3) per connotare la propria opera storica nel senso originario di indagine. Per il rifiuto della componente »mitologica« Whittaker, C. R., Herodian, I, (Cambridge MA / London, 1969), 3, chiama in causa anche Dion. Hal. De Thuc. 5–7 e Luc. Hist. conscrib. 42 di cui Erodiano può avere avuto conoscenza. Tuttavia non mi sembra vi siano motivi per escludere che Erodiano leggesse direttamente Tucidide (cfr. contra Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods and Understanding of History«, ANRW II 34. 4 (1998), 2775–2836, 2777 n. 6: »It is quite probable that Herodian only knew Thucydides’ text via excerpts or the schools«); assente mi pare anche l’ironia rilevata dallo stesso Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods«, 2778. Un’analisi funzionale del proemio erodianeo in relazione alla retorica del genere storiografico è condotta da Zimmermann, M., Kaiser und Ereignis. Studien zum Geschichtswerk Herodians (München, 1999), 17–24. Οἱ πλεῖστοι τῶν περὶ συγκομιδὴν ἱστορίας ἀσχοληθέντων ἔργων τε πάλαι γεγονότων μνήμην ἀνανεώσασθαι σπουδασάντων … ἐν ὀλίγῳ χρόνῳ γενομένων – Si tratta probabilmente di un’allusione agli storici universali: in primis Cassio Dione la cui Storia Romana andava dalle origini al 229; si potrebbe poi ricordare l’ »erodoteo« Asinio Quadrato, autore di una Χιλιετηρίς che doveva estendersi dalle origini di Roma al regno di Filippo l’Arabo, di cui Quadrato può essere considerato lo »storico ufficiale«, ma rimasta incompiuta al 235 (Zecchini, G., »Asinio Quadrato storico di Filippo l’Arabo«, ANRW II 34. 4 (1998), 2999–3021). Quadrato scrisse inoltre Παρθικά (sulla guerra persiana del 241?) e Γερμανικά (sull’invasione di Alamanni e Quadi del 244?). Tuttavia non so fino a che punto Erodiano possa aver conosciuto la Χιλιετηρίς. Tra coloro che scrissero »per adulazione o ossequio verso un imperatore« si potrebbero annoverare gli storici della guerra partica di Lucio Vero (su cui Strobel, K., »Zeitgeschichte unter den Antoninen: Die Historiker des Partherkrieges des Lucius Verus«, ANRW II 34. 2 (1994), 1315–1360), presi di mira già da Luciano (Hist. Conscrib. 14–19), o ancora gli storici di Settimio Severo che Erodiano critica apertamente a 2, 15, 6–7, ove ribadisce anche qual è il criterio che ispira la sua opera: »Le tappe della sua marcia; i discorsi da lui pronunciati nelle varie città; i frequenti prodigi, spiegati come manifestazione della volontà divina; il teatro della guerra; gli schieramenti; il numero dei soldati che caddero in battaglia dalle due parti sono stati esposti fin troppo ampiamente da molti storici e poeti, che avevano come specifico argomento della loro opera la vita di Severo. Il mio scopo è invece di esporre in sintesi le gesta di molti imperatori per un tratto di settant’anni, in base alle mie conoscenze. Pertanto esporrò nel prossimo libro solo i fatti essenziali, e le conclusioni che ebbero le varie imprese di Severo, nulla esagerando per accattivarmi le simpatie (come fecero quelli che scris-

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sero ai suoi tempi) e nulla omettendo di ciò che merita ricordo e considerazione«. La polemica coi poeti è nuovamente di matrice tucididea (1, 21, 1). Dubito che sia pertinente il richiamo di Whittaker, Herodian, 247 al poema epico scritto da Gordiano I sugli Antonini e ad un Elogio degli Antonini dello stesso Gordiano (HA Gord. 3, 3; 4, 7). Quanto agli storici di Settimio Severo lo stesso Whittaker, Herodian, 247, avanza i nomi di Mario Massimo (su cui cfr. infra, 36) e di Antipatro di Gerapoli (su cui Rubin, Z., Civil-War Propaganda and Historiography (Bruxelles, 1980), 25–27; 43–44; 133–138; Ritti, T., »Il sofista Antipatro di Hierapolis«, MGR 13 (1988), 71–128), ab epistulis Graecis di Settimio e autore di una »Storia dell’imprese di Settimio Severo« di cui parla Philostr. VS 2, 24, 607. Circa »i frequenti prodigi (scil. relativi a Settimio Severo), spiegati come manifestazione della volontà divina« vale la pena ricordare che Erodiano conosceva senz’altro l’Autobiografia di Settimio Severo (Chausson, F., »L’autobiogrpahie de Septime Sévère«, REL 73 (1995), 183–198): a 2, 9, 4–7 la ricorda espressamente e riferisce uno degli omina imperii relativo a Severo del 193 (che si trova brevemente ricordato anche in un elenco di omina riferiti da Dione 75, 3, 3). C’è chi ha pensato (Cassola, F., »Erodiano e le sue fonti«, RAAN 32 (1957), 165–172, 171) che Erodiano conoscesse Mario Massimo, che è ricordato come fonte per la narrazione di prodigi nell’HA (Alex. 5, 4; Clod. Alb. 9, 2–4). A me sembra però che qui Erodiano – e stupisce come il Whittaker non l’abbia segnalato – critichi apertamente Cassio Dione (cfr. Cassola, F., »Erodiano e le sue fonti«, 171–172, contra Grosso, F., La lotta politica al tempo di Commodo (Torino, 1964), 45 n. 5; Rubin, Civil-War Propaganda, 25), autore di un opuscolo sui sogni e gli omina relativi all’ascesa di Settimio Severo al trono, di cui parla Dione stesso in un celebre passo della Storia Romana (72, 23, 1–3). Anche il riferimento di Erodiano alle guerre di Settimio Severo potrebbe alludere ad un secondo opuscolo dioneo (rifuso nella Storia come afferma Dione stesso a 72, 23, 1) relativo ai πόλεμοι καὶ στάσεις μέγισται che seguirono la morte di Commodo. Tra le fonti dell’opuscolo dioneo potrebbe esserci anche l’Autobiografia di Severo. Sul rapporto tra questo opuscolo e la data di composizione dell’opera di Dione cfr. almeno Gabba, E., »Sulla Storia Romana di Cassio Dione«, RSI 67 (1955) 289–333; Millar, F., A Study of Cassius Dio (Oxford, 1964); Letta, C., »La composizione dell’opera di Cassio Dione: cronologia e sfondo storico-politico«, in E. Gabba (ed.), Ricerche di storiografia antica. I. Ricerche di storiografia greca di età romana (Pisa, 1979), 117–189; »L’eruzione del Vesuvio del 202 d. C. e la composizione dell’opera di Cassio Dione«, Athenaeum 95, 41–47; Barnes, T. D., »The Composition of Cassius Dio’s Roman History«, Phoenix 38 (1984), 240–255; Sordi, M., »La data di composizione dell’opera di Dione Cassio«, in M. Capasso / S. Pernigotti (ed.), Studium atque urbani-

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tas. Miscellanea in onore di Sergio Daris (Galatina, 2000), 393–395; Schettino, M. T., »Cassio Dione e le guerre civili di età severiana«, Gerion 19 (2001), 533–558; Slavich, C., »POLEMOI KAI STASEIS. ›Propaganda severiana‹ nell’opera di Cassio Dione«, SCO 47 (2001), 131–166. Questi dati sono, a mio avviso, fondamentali, poiché attestano la conoscenza da parte di Erodiano dell’opera di Dione e sono di conseguenza il punto di partenza per ogni discussione relativa alle fonti di Erodiano (per l’ampio dibattito cfr. Introduzione, 12–22). Del resto tra i già citati storici universali potrebbe essere legittimamente annoverato anche lo stesso Dione. Nel novero degli storici criticati da Erodiano in questi paragrafi vanno aggiunti anche gli storici locali e i biografi, tra i quali forse lo stesso Filostrato (Bowie, E. L., »Greeks and their Past in the Second Sophistic«, P&P 46 (1970), 3–41, 19) con le sue Vitae Sophistarum. Al tempo di Marco Aurelio appartiene poi Aminziano (FGrHist 150 T1; Zecchini, G., »Modelli e problemi teorici della storiografia nell’età degli Antonini«, CS 20 (1983), 3–31, 11–12) autore di Vite parallele (in due libri quelle dei tiranni Dionisio (I o II?) e Domiziano, sulla presenza dei quali in Erodiano cfr. infra 1, 3, 2). È curioso notare che lo stesso rimprovero che Erodiano muove alla storiografia retorica – di trascurare cioè la verità storica a favore dell’ornamentazione stilistica – si possa facilmente muovere alla sua opera (cfr. Introduzione, 10–11). Tuttavia è opportuno precisare che Erodiano non nega valore alla storiografia a lui precedente giacché a 1, 2, 5 afferma di occuparsi dei fatti successivi alla morte di Marco, poiché gli eventi e le gesta del principato di Marco (soprattutto le guerre marcomanniche) »sono stati narrati da molti uomini colti« (πολλοῖς καὶ σοφοῖς ἀνδράσι). Tra questi, oltre a Cassio Dione, si può ricordare Mario Massimo, autore di Vitae degli imperatori da Nerva ad Elagabalo, citato ripetutamente dall’HA; per la biografia di Marco Aurelio, in due libri cfr. HA M. Ant. 1, 6; 25, 10; Avid. Cass. 9, 5. Su Mario Massimo cfr. almeno Birley, A. R., »Marius Maximus: the consular Biographer«, ANRW II 34. 3 (1997), 2679–2757. Ciò che mi sembra importante notare è la novità della Storia dell’Impero dopo Marco nel panorama della storiografia greca del III secolo (su cui un accenno in Bowie, E. L., »Greeks and their Past«, 18). Erodiano infatti è il solo autore che si occupa esclusivamente di fatti contemporanei ed inoltre il suo punto di vista è diverso da quello della storiografia senatoria (su cui cfr. Introduzione, 22–32 e infra).

§3

Io invece ho raccolto nella mia opera con la maggior esattezza possibile la narrazione di fatti non appresi da altri né privi di testimoni, recenti e presenti nella memoria dei lettori, ritenendo che non dovrebbe essere sgradita ai

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posteri la conoscenza di grandi e numerose imprese accadute in un breve lasso di tempo. ἐγὼ δ᾽ ἱστορίαν οὐ παρ᾽ ἄλλων παραδεξάμενος ἄγνωστόν τε καὶ ἀμάρτυρον – Notevole appare il contrasto stabilito da Erodiano tra gli storici »che si impegnano a rinnovare il ricordo di antichi fatti« e la sua opera, tutta concentrata sul recente passato, ma soprattutto sugli eventi contemporanei. Gli otto libri della Storia erodianea si estendono infatti dalla morte di Marco Aurelio (180 d. C.) all’ascesa di Gordiano III (238 d. C.). La storia contemporanea è valorizzata da Erodiano perché non è storia puramente libresca (»fatti non appresi da altri né privi di testimoni«), ed è »ancora presente alla memoria dei lettori« che vengono invocati dunque come testimoni della fedeltà del racconto dello storico, ma soprattutto perché Erodiano afferma di essere stato testimone diretto degli eventi di cui si occupa. Ciò è ribadito espressamente a 1, 2, 5 laddove il nostro storico scrive: »Io ho scritto degli eventi dopo la morte di Marco dei quali fui per tutta la vita testimone diretto, o di cui ebbi notizia (e ad alcuni di essi partecipai, avendo rivestito uffici imperiali e pubblici)«. Circa la traduzione di questo passo, i dati autobiografici e gli uffici rivestiti da Erodiano cfr. infra 1, 2, 5. Sui lettori di Erodiano cfr. Hidber, Herodians Darstellung, 16–19. §4

Se infatti si volesse paragonare [questo breve lasso di tempo] all’intero periodo storico che va da Augusto, da quando cioè il dominio romano divenne una monarchia, non si troverebbero in circa duecento anni, cioè fino all’epoca di Marco, né così frequenti successioni di imperatori, né così diversi avvicendamenti di fortune in guerre civili e esterne o ribellioni di province o conquiste di città sia nel nostro territorio sia in molti territori barbari, terremoti e pestilenze, senza dimenticare inoltre le straordinarie vite di usurpatori e imperatori, cosa che prima avveniva di rado o per nulla affatto. πάντα τὸν ἀπὸ τοῦ Σεβαστοῦ χρόνον, ἐξ οὗπερ ἡ Ῥωμαίων δυναστεία μετέπεσεν εἰς μοναρχίαν, οὐκ ἂν εὓροι ἐν ἔτεσι περί που διακοσίοις μέχρι τῶν Μάρκου καιρῶν – La data d’inizio del principato (»da quando cioè il dominio romano divenne una monarchia«) oscilla (cfr. SionJenkis, K., Von der Republik zum prinzipat. Ursachen für den Verfassungswechsel in Rom im historischen Denken der Antike (Stuttgart, 2000), 53–64) tra il 44 a. C. (morte di Cesare) o il 31/30 a. C. (battaglia di Azio/provincializzazione dell’Egitto). Tra queste date e il 161 (assunzione dell’impero da parte di Marco) c’è un intervallo rispettivamente di 205 e 191/2 anni. Dal momento che in Erodiano i duecento anni è calcolo per difetto, è preferibile pensare come data di inizio al 31/30 a. C. Si consideri inoltre che Cassio Dione (51, 1, 2), che Erodiano senz’altro conosceva, data precisamente l’ini-

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zio del principato augusteo al 2 settembre del 31 a. C. (data della battaglia di Azio: »infatti fu allora che Ottaviano divenne il signore unico di Roma, tanto che il conto degli anni del suo regno si fa partendo proprio da questo giorno«; cfr. anche 56, 30, 5). Sebbene per Dione si sia autorizzati a fissare anche il 29 a. C. come data di inizio (52, 41, 3: »Questi e quelli che ho menzionato sopra furono gli atti di Cesare [scil. Ottaviano] nell’anno in cui egli aveva rivestito il consolato per la quinta volta e in cui, poi, assunse il prenome di imperator [= 29 a. C.]. Non mi riferisco però a quel titolo che, in base all’antica consuetudine, veniva concesso ad alcuni comandanti che riportavano le vittorie … ma piuttosto a quel titolo che designava il possesso del potere, con la stessa valenza di quello che era stato votato per suo padre Cesare e per i discendenti di lui«) ovvero il 27 a. C. (53, 19, 1: »In questo modo a quell’epoca [scil. il 27 a. C.] la forma di governo venne modificata e per essere resa migliore e per fare in modo che offrisse maggiori garanzie, dal momento che senza alcun dubbio era quasi impossibile che i Romani fossero al sicuro sotto una respublica«), ciò sposta poco o nulla nel calcolo per difetto di Erodiano. Si potrebbe infine pensare – ma mi sembra ipotesi meno probabile – alla data di nascita dei due imperatori (Augusto e Marco Aurelio) giacché Erodiano parla genericamente di »generazione« (63 a. C.–121 d. C. = 184 anni). Il termine μοναρχία per qualificare il regime augusteo ritorna a 2, 11, 5 (ἐξ οὗ δὲ ἐς τὸν Σεβαστὸν περιῆλθεν ἡ μοναρχία) e ricorre anche a 3, 15, 1 (tentativo di Caracalla di emarginare Geta dal potere); 4, 4, 2 (eliminazione di Geta causata dalla ἐπιθυμία τῆς μοναρχίας di Caracalla); 8, 8, 4 e 5 (rivalità per il potere assoluto tra Pupieno e Balbino). In tutti questi passi μοναρχία indica »la volonté d’exercer le pouvoir solitairement« (Roques, D., »Le vocabulaire politique«, 43–44). Non mi sembra che il verbo impiegato da Erodiano (μετέπεσεν) implichi un giudizio negativo (Roques, D., »Le vocabulaire politique«, 43) sul regime instaurato da Augusto. Il tema del principato-μοναρχία trova, come è noto, ampio riflesso nelle pagine di Cassio Dione (cfr. 52, 18 ss.; 53, 11, 5, su cui almeno Millar, A Study, 93–97; Espinosa Ruiz, U., Debate Agrippa-Mecenas en Dio Cassio: respuesta senatorial a la crisis del Imperio Romano en época Severiana (Madrid, 1982); Noè, E., Commento storico a Cassio Dione LIII (Como, 1994), 103–105 e soprattutto da ultimo Sion-Jenkis, Von der Republik, 44– 45; 127–180). Interessante anche l’uso di Σεβαστός come nome proprio per il solo Augusto (2, 11, 5; 3, 13, 3); per gli altri imperatori è invece solo un titolo (2, 2, 9; 2, 3, 3; 2, 8, 6; 6, 8, 4; 6, 9, 6; 7, 5, 7; 7, 7, 2; 7, 10, 5). L’uso di Σεβαστός per Augusto si ritrova più negli scrittori greci di area orientale del primo secolo (Filone, Flavio Giuseppe) che non nei contemporanei di Erodiano (Dione ad es. usa Αὔγουστος. Cfr. Mason, H. J., Greek Terms for Roman

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Insitutions. A lexicon and analysis (Toronto, 1974), 12, 83). Ciò forse potrebbe costituire un indizio rivelatore della provenienza di Erodiano (su cui cfr. Introduzione 9–11). οὐκ ἂν εὕροι … οὔτε βασιλειῶν οὕτως ἐπαλλήλους διαδοχὰς … γῆς τε σεισμοὺς καὶ ἀέρων φθορὰς – In effetti la narrazione di Erodiano è contrassegnata da frequenti crisi dinastiche e guerre civili: con la morte di Commodo alla fine del 192 si conclude la dinastia degli Antonini e si apre un periodo di instabilità e di guerra civile in cui si succedono nel 193 i brevi regni di Pertinace e di Didio Giuliano. A quest’ultimo si contrappone Settimio Severo il quale, dopo essere stato proclamato imperatore nell’aprile del 193 a Carnuntum dalle legioni di Pannonia di cui era governatore, deve affrontare le resistenze di Pescennio Nigro nel 194 e di Clodio Albino tra il 195 e il 197, anno della definitiva vittoria nella battaglia di Lione. Alla morte di Caracalla nell’aprile del 217 si apre un altro anno di crisi dinastica, poiché i soldati acclamano il prefetto del pretorio Macrino (primo cavaliere a divenire imperatore) che però l’anno successivo è rimpiazzato da Elagabalo sino al 222. Nel 235, alla morte di Alessandro, l’ultimo dei Severi (sulle cui vicende dinastiche cfr. almeno Letta, C., »La dinastia dei Severi«, in Storia di Roma, II. 1 (Torino, 1991), 639–700), viene proclamato imperatore Massimino il Trace che regna sino al 238 quando, in una guerra civile su due fronti gli si oppongono prima, in Africa, Gordiano I e Gordiano II, e poi, in Italia, Pupieno e Balbino (due creature del senato). La morte di tutti i contendenti segna l’ascesa di Gordiano III, nipote dei primi due Gordiani, imperatore sino al 244 con la cui proclamazione nel 238 si chiude la Storia di Erodiano (8, 8, 8). Se, come è stato ipotizzato, Erodiano pubblicò la sua opera sotto Filippo l’Arabo (Cassola, F., »Sulla vita e la personalità dello storico Erodiano«, NRS 41 (1957), 213–222; Whittaker, Herodian, XVI–XIX e da ultimo Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 285–302), non si può escludere che egli pensasse anche alle usurpazioni di Uranio, Pacaziano e Iotapiano sotto Filippo l’Arabo. Tuttavia sono state proposte altre datazioni: sotto Decio (Alföldy, G., »Herodian’s person«, AncSoc 2 (1971), 204–233, 209–219; Hidber, Herodians Darstellung, 14–15) o addirittura sotto Gallieno (Sidebottom, H., »The Date of the Composition of Herodian’s History«, AC 66 (1997), 271– 276, ma contra Polley, A. R., »The date of Herodian’s History«, AC 72 (2003), 203–208: tra il 240 e il 250 d. C.). Le più importanti guerre esterne ricordate da Erodiano nella sua opera sono le guerre persiane di Settimio Severo, di Macrino e di Alessandro Severo (lo scoppio della guerra contro Ardashir/Artaserse a 6, 3, 2 è definito κίνησίς τε μεγίστη πάσης τῆς ὑπὸ Ῥωμαίοις ἐγένετο, con significativa consonanza con l’espressione impiegata nel proemio), le campagne di Settimio Severo in Oriente (contro Barsemio re degli Atreni, Armenia, Osroene,

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Mesopotamia, Adiabene, Arabia Felice), le spedizioni germaniche di Caracalla, di Alessandro Severo e di Massimino. Ribellioni di provincie: sotto Commodo le agitazioni in Britannia (su cui cfr. da ultimo von Saldern, F., Studien zur Politik des Commodus (Rahden, 2003), 70–75; 115–117) e la ribellione di Materno in Gallia (per cui Erodiano è la fonte principale); sotto Severo cfr. 3, 7, 7. Tra le capitolazioni di città la più importante è senza dubbio quella di Bisanzio nel 195 o 196 di cui Erodiano parla a 3, 6, 9. Vale la pena notare che Erodiano non parla mai nella sua opera di terremoti: si potrebbe comunque pensare al terremoto di Nicomedia del 181 (Dio 72, 12, 2; Malala 289, 8: cfr. Grosso, La lotta politica, 85–86) o a quello che sconvolse l’Italia, la Grecia e l’Africa settentrionale sotto Gordiano III (HA Gord. 26, 1–2). Per quanto riguarda le pestilenze, l’unica ricordata è sotto Commodo (1, 12, 1; cfr. Dio 72, 14, 3) che fu probabilmente una reviviscenza della grande peste di epoca antonina (su cui da ultimo Marcone, A., »La peste antonina. Testimonianze e interpretazioni«, RSI 114 (2002), 803–819, e i saggi in Lo Cascio, E. (ed.), L’impatto della »peste antonina« (Bari, 2012)) diffusasi a partire dal 167 (Gilliam, G. F., »The plague under Marcus Aurelius«, AJPh 82 (1961), 225–251). Improbabile mi pare il riferimento alla peste che si diffuse per l’impero tra il 252 e il 270. Sulla crisi del III secolo in Erodiano cfr. Alföldy, G., »The Crisis of the Third Century as seen by the Contemporaries«, GRBS 15 (1974), 89–111; de Blois, L., »The Third Century Crisis and the Greek Elite in the Roman Empire«, Historia 33 (1984), 358–377; Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods«, 2792–2803. ἐν τῇ ἡμεδαπῇ καὶ ἐν πολλοῖς βαρβάροις – A me sembra che Erodiano parlando del »nostro territorio« non alluda tanto al suo luogo d’origine, né soltanto all’Italia, che nel nostro passo non è espressamente nominata, ma all’impero in generale contrapposto ai paesi barbari, considerati esterni ai territori dell’impero. A questo passo si può accostare 3, 8, 9 ove si dice che Settimio Severo καὶ θηρίων ἑκατοντάδας ἀνεῖλε πολλάκις τῶν ἀπὸ πάσης γῆς ἡμετέρας τε καὶ βαρβάρου, ove la contrapposizione tra romano e barbaro è sufficientemente chiara. Viceversa a 2, 11, 8 Erodiano parla espressamente delle Alpi quale baluardo dell’Italia: μέγιστα ἐκεῖνα ὄρη καὶ οἷα οὐκ ἄλλα ἐν τῇ καθ᾽ ἡμᾶς γῇ, ἐν τείχους σχήματι περίκειται καὶ προβέβληται ᾽Ιταλίας. Per le Alpi come baluardo dell’Italia cfr. anche 3, 6, 10; 8, 1, 5. Sulle Alpi come baluardo dell’Italia in Erodiano cfr. Carsana, C., »Il punto di vista delle élites provinciali: una Roma senza Italia«, in A. Colombo / S. Pittia / M. T. Schettino (ed.), Mémoires d’Italie. Identités, représentations, enjeux

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(antiquité et classicisme). À l’occasion du 150e anniversiare de l’Unité italienne (1861–2011) (Como, 2010), 116–129, 126–129. τυράννων τε καὶ βασιλέων βίους παραδόξους πρότερον ἢ σπανίως ἢ μηδ᾽ ὅλως μνημονευθέντας – Seguo Cassola, F. (ed.), Erodiano. Storia dell’Impero Romano dopo Marco Aurelio (Firenze, 1967) che qui traduce τύραννοι (tradotto a 1, 1, 2 con »tiranni«) con »usurpatori«, in quanto chiaramente opposto al successivo βασιλεῖς (= imperatori legittimi). Tuttavia bisogna precisare che in Erodiano il termine τύραννος ha innanzitutto il significato di »tiranno, despota« e non quello di usurpatore. Commodo infatti, che non era senz’altro un usurpatore, è definito a più riprese da Erodiano un tiranno (2, 1, 8; 2, 2, 4–5; 2, 4, 2) e il suo regime una tirannide (1, 3, 5; 1, 4, 4; 1, 16, 1; 2, 1, 3; 2, 3, 9; 2, 4, 7; 2, 5, 1; 2, 6, 2 e 5). Tiranni sono per Erodiano anche Elagabalo (6, 1, 2) e Massimino (7, 1, 1; 7, 1, 3; 7, 4, 1; 7, 7, 6; 8, 3, 4; 8, 4, 1), che non possono considerarsi usurpatori. Sorprende la mancata discussione di questi termini nel già citato articolo di Roques, D., »Le vocabulaire politique«. Non escluderei che Erodiano, identificando in Commodo un malus princeps, risenta dell’eco erodotea a proposito della figura del τύραννος (cfr. Hdt. 3, 80). Per la straordinarietà delle biografie di alcuni sovrani si possono ricordare le parole di Erodiano stesso a proposito delle vittorie di Settimio Severo (3, 7, 7): »[…] nulla invero può paragonarsi alle campagne e alle vittorie di Severo, né per l’entità degli eserciti, né per gli sconvolgimenti delle provincie, né per il numero delle battaglie, né per la lunghezza e la rapidità delle marce«. Per l’impostazione biografica dell’opera di Erodiano cfr. infra 1, 2, 6. Per la straordinarietà degli eventi narrati, oltre a Thuc. 1, 1, 1–2; 1, 21, 2, cfr. Pol. 1, 1, 4 (la cui conoscenza da parte di Erodiano è tuttavia incerta): »Il carattere straordinario degli eventi sui quali abbiamo scelto di scrivere, infatti, è sufficiente in sé a stimolare e incitare ognuno, sia giovane sia vecchio, alla lettura dell’opera« (trad. Mari, M. (trad.), Polibio. Storie. 1 (libri I– II). Testo greco a fronte (Milano, 2001)).

§5

Tra questi [imperatori], alcuni governarono per un tempo considerevole, altri ebbero un potere effimero; altri ancora, avendo raggiunto soltanto un titolo e un onore fugace caddero subito. Infatti l’impero romano, che in sessant’anni fu governato da un numero di imperatori maggiore di quel che il tempo richiedesse, subì molte e varie vicissitudini degne di meraviglia.

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ὧν οἳ μὲν ἐπιμηκεστέραν ἔσχον τὴν ἀρχήν, οἳ δὲ πρόσκαιρον τὴν δυναστείαν – I regni più lunghi sono quelli di Commodo (12 anni), Settimio Severo (18 anni), Caracalla (6 anni), Elagabalo (4 anni), Alessandro Severo (13 anni). Massimino restò al potere per tre anni, tutti gli altri pochi mesi o al massimo un anno. Di Gordiano III (7 anni) Erodiano dà solo notizia della sua proclamazione. ἐν ἔτεσιν ἑξήκοντα – Il periodo coperto dalla Storia è di poco meno di sessant’anni (cinquantotto dal 180 al 238). C’è chi (Alföldy, G., »Herodian’s person«, 204–206) ha voluto vedere una contraddizione tra questo dato e quanto Erodiano afferma a 2, 15, 7 secondo cui ἐμοὶ δὲ σκοπὸς ὑπάρχει ἐτῶν ἑβδομήκοντα πράξεις πολλῶν βασιλέων συντάξαντι γράψαι, ἃς αὐτὸς οἶδα. La soluzione di questa contraddizione – solo apparente – mi sembra sia stata proposta già da Whittaker, Herodian, XI, con cui concordo, secondo il quale i 60 anni (180–238) sono il periodo coperto dalla narrazione, i 70 anni sono il periodo in cui Erodiano dice di essere stato testimone oculare (cfr. 1, 1, 3) degli eventi. Quest’ultimo dato potrebbe peraltro risultare utile per fissare con più precisione la data di nascita del nostro storico e la composizione dell’opera. C’è chi ritiene (cfr. da ultimo Lucarini, Herodianus, IX) che 2, 15, 7 sia indizio dell’incompiutezza della Storia. Per la discussione di questi problemi cfr. Introduzione, 9–11. ἐς πλείους δυνάστας ἢ ὁ χρόνος ἀπῄτει – Ben sedici Augusti: Commodo, Pertinace, Didio Giuliano, Settimio Severo, Clodio Albino, Caracalla, Geta, Macrino, Elagabalo, Alessandro Severo, Massimino, Gordiano I, Gordiano II, Pupieno, Balbino, Gordiano III. θαύματος ἄξια – Il calco è senz’altro erodoteo (1, 1, 1): καὶ θωμαστὰ τὰ μὲν Ἕλλησι, τὰ δὲ βαρβάροισι ἀποδεχθέντα ἀκλεᾶ γένηται. Accanto alla matrice tucididea – almeno a livello programmatico – convive in Erodiano anche quella erodotea: il tucidideo rifiuto del μυθῶδες a favore dell’ ἀκρίβεια è accostato al fascino del meraviglioso e alla piacevolezza del racconto (cfr. già supra § 3: μετὰ πάσης ἀκριβείας ἤθροισα ἐς συγγραφήν, οὐκ ἀτερπῆ τὴν γνῶσιν). È innegabile che in queste parole si ravvisi più il profilo retorico dell’opera erodianea che quello storico-critico. Ciò tuttavia non autorizza, come è stato largamente fatto dalla critica tedesca (Hohl, E., Kaiser Commodus und Herodian (Berlin, 1954), 3–46; Kolb, F., Literarische Beziehungen zwischen Cassius Dio, Herodian und der Historia Augusta (Bonn, 1972); Alföldy, G., »Zeitgeschichte und Krisenempfindung bei Herodian«, Hermes 99 (1971), 429–449; »Herodian’s person«; »Herodian über den Tod Mark Aurels«, Latomus 32 (1973), 345–353; 1974), a condannare in blocco il

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valore storico dell’opera erodianea, dal momento che la costruzione retorica (penso soprattutto ai discorsi) è connaturata al genere storico e soprattutto, da Erodoto alla cosiddetta storiografia isocratea, l’ἡδονή non esclude affatto l’ ἀκριβεία. Su ciò cfr. da ultimo Zimmermann, Kaiser und Ereignis, passim. Per altri richiami erodotei cf. 4, 2, 10; 6, 6, 5; 7, 2, 4, con commento ad loc. di Whittaker, Herodian.

§6

Alcuni di questi [imperatori] infatti essendo già avanti con l’età, grazie alla loro esperienza politica, governarono se stessi e i sudditi con maggior saggezza, mentre altri, essendo molto giovani, a causa del loro genere di vita piuttosto indolente, provocarono molti rivolgimenti: pertanto era inevitabile che, per tali differenze di età e di prestigio, sortissero comportamenti diversi. Narrerò come tutti questi avvenimenti si siano svolti in ordine cronologico di regno in regno. τούτων γὰρ οἱ μὲν τὴν ἡλικίαν πρεσβύτεροι … οἱ δὲ κομιδῇ νέοι ῥᾳθυμότερον βιώσαντες πολλὰ ἐκαινοτόμησαν – La contrapposizione tra principi vecchi e saggi e principi giovani e sregolati è evidente a proposito del giudizio su Commodo (su cui cfr. subito infra) contrapposto a Marco in 2, 10, 3 (discorso di Settimio Severo alle truppe della Pannonia e dell’Illirico del 193): τήν τε Ῥωμαίων ἀρχὴν μὴ περιιδεῖν ἐρριμμένην, ἣ πρότερον μὲν μέχρι Μάρκου σεμνοπρεπῶς διοικουμένη σεβάσμιος ἐφαίνετο, ἐς Κόμμοδον δὲ μεταπεσοῦσα, εἰ καί τινα ὑπ᾽ ἐκείνου διὰ νεότητα ἐπλημμελεῖτο, ἀλλ᾽ οὖν τῇ εὐγενείᾳ καὶ τῇ τοῦ πατρὸς μνήμῃ ἐπεσκιάζετο (»Non sopporterò la rovina dello stato romano, che un tempo, fino Marco, era governato con giustizia, ed era oggetto di reverenza. Il potere cadde nelle mani di Commodo, e a causa della sua gioventù molti errori furono commessi; ma furono oscurati dalla sua nobile nascita e dalla reputazione di suo padre«). Importante è qui anche il richiamo alle nobili origini di Commodo che ritorna a più riprese nel primo libro di Erodiano (7, 3–4; 15, 7; 17, 12). Sulla ricorrenza dell’appellativo μειράκιον per Commodo in Erodiano cfr. 1, 3, 1; 1, 3, 5; 1, 4, 3; 1, 5, 1; 1, 6, 2; 1, 6, 4; 1, 6, 7; 1, 7, 1; 1, 8, 1–2; 1, 8, 7; cfr. anche 1, 7, 2 (μετὰ νεανικῆς σπουδῆς); 1, 8, 3 (νεανίσκος). Lo stesso criterio legato alla giovane età è applicato ai regni di Caracalla e Geta (3, 10, 3–4; 3, 13, 6), di Elagabalo (5, 3, 3; 5, 4, 2) e di Alessandro Severo (5, 7, 1 e 4; 5, 8, 10). Anche se di Gordiano III non si dice pressoché nulla l’unica lapidaria notazione offertaci da Erodiano a conclusione dell’opera

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(8, 8, 8) è quella sulla sua giovanissima età (13 anni). Tra i principi saggi ed esperti – oltre a Marco – per Erodiano c’è Pertinace (cfr. ad es. 2, 1, 9; 2, 4, 1; 2, 10, 4). Cfr. Marasco, G., »Erodiano e la crisi dell’impero«, ANRW II 34. 4 (1998), 2837–2927, 2844–2850; Hidber, Herodians Darstellung, 243–257. Vale la pena notare che nel prosieguo del suo discorso Settimio Severo – e dunque Erodiano – sembra riprodurre il giudizio su Commodo che si ritrova in Cassio Dione – e dunque nella tradizione senatoria – in apertura del libro 72, secondo il quale il mutamento in peius di Commodo fu causato dai pessimi amici. Ciò peraltro consente di stabilire che Erodiano leggeva senz’altro l’opera di Dione. Cfr. Herod. 2, 10, 3: »ma per la sua nobiltà (scil. di Commodo) e per il ricordo del padre [i suoi errori] venivano giudicati con indulgenza, e si provava piuttosto commiserazione per le sue colpe, che odio. La responsabilità degli errori, di solito, non l’attribuivano a lui, bensì agli adulatori che lo circondavano, e si facevano insieme consiglieri ed esecutori di male« e Dio 72, 1, 1: »Commodo non fu malvagio di natura, anzi era privo di cattiveria come qualsiasi altro uomo. La sua grande semplicità, accanto alla sua codardia, lo rese schiavo dei suoi compagni, e furono loro che dapprima, per ignoranza delle cose migliori, gli fecero perdere i buoni costumi e gli fecero assumere atteggiamenti crudeli e spietati che presto divennero la sua seconda natura«. Notevole mi sembra anche il fatto che Settimio Severo dica che i numerosi errori di Commodo venivano giudicati con indulgenza e si provava piuttosto commiserazione che odio per il giovane principe, attribuendo i suoi errori alla nefasta presenza di cattivi consiglieri. Una simile affermazione lascia intendere che il giudizio radicalmente negativo su Commodo della storiografia senatoria (basti pensare all’HA) è frutto di un’ostilità preconcetta. Sebbene le parole di Severo in Erodiano debbano essere viste alla luce di quella che era la situazione del 193, quando Severo, non ancora imperatore, doveva cattivarsi il favore delle truppe perché lo seguissero nella guerra civile che si apprestava a combattere, nonché alla luce della riabilitazione di Commodo avvenuta nel 194 (al quale concesse la divinizzazione) e culminata nell’autoadozione da parte di Settimio nella famiglia degli Antonini, non escluderei che Erodiano fosse al corrente di un tradizione non pregiudizialmente ostile a Commodo che imputava i suoi errori alla nefasta presenza di cattivi consiglieri attorno a lui. Per la nobiltà di Commodo – che è tratto ricorrente della rappresentazione di Commodo in Erodiano e la presenza »benefica« del ricordo di Marco soprattutto nei primi tempi del principato di Commodo cfr. infra 1, 7, 4 e soprattutto 1, 8, 3. ὡς δ᾽ ἕκαστα τούτων πέπρακται, κατὰ χρόνους καὶ δυναστείας διηγήσομαι – La distribuzione degli otto libri è scandita in effetti da un andamento cronologico-biografico incentrato sui regni dei diversi imperatori:

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Commodo (libro I); Pertinace e Didio Giuliano (l. II); Settimio Severo (l. III); Caracalla e Geta (l. IV); Macrino e Elagabalo (l. V); Alessandro Severo (l. VI); Massimino e i due Gordiani (l. VII); Pupieno e Balbino e l’ascesa di Gordiano III (l. VIII). Sulla disposizione κατὰ χρόνους καὶ δυναστείας cfr. Hidber, Herodians Darstellung, 131–136. Non so quanto possa valere l’ipotesi di Whittaker, Herodian, XXI n. 4 (ripresa da Alföldy, G., »Herodian’s person«, 230 n. 102), secondo cui l’espressione impiegata qui da Erodiano (ὡς δ᾽ ἕκαστα τούτων πέπρακται, κατὰ χρόνους καὶ δυναστείας διηγήσομαι) suggerirebbe l’accostamento all’opera di Chryseros, liberto di Marco Aurelio, autore di una Storia (?) dalle origini di Roma al 180 d. C., di cui Erodiano sarebbe il continuatore. Cfr. FGrHist. 96 T1: Χρύσερος ὁ νομεγκλάτωρ, ἀπελεύθερος γενόμενος Μ. Αὐρηλίου Οὐήρου, ὃς ἀπὸ Ῥώμης μέχρι τελευτῆς τοῦ ἰδίου πάτρωνος αὐτοκράτορος Οὐήρου σαφῶς πάντα ἀνέγραψεν, καὶ τὰ ὀνόματα καὶ τοὺς χρόνους. A me sembra che dall’espressione finale del testimonium e dall’unico frammento superstite (FGrHist 96 F1) si ricava che l’opera di Chryseros è assimilabile più al genere cronografico (sul modello degli Olympiakà di Flegone di Tralles liberto di Adriano) che a quello storiografico; Erodiano inoltre (cfr. supra) dichiara di allontanarsi deliberatamente da quanti »si impegnano a rinnovare il ricordo di antichi fatti«. Su Chryseros cfr. ora Hose, M., Erneuerung der Vergangenheit. Die Historiker im Imperium Romanum von Florus bis Cassius Dio (StuttgartLeipzig, 1994), 72.

2. §1

Marco, durante il suo regno, ebbe molte figlie e due figli. Dei figli maschi l’uno morì in giovanissima età (si chiamava Verissimo), l’altro sopravvissuto, chiamato Commodo, fu fatto allevare dal padre con ogni cura, chiamando da ogni provincia i migliori intellettuali nelle loro discipline e pagandoli profumatamente perché stessero accanto al figlio per educarlo. τῷ βασιλεύοντι Μάρκῳ … (Βηρίσσιμος δ᾽ ἦν ὄνομα αὐτῷ) – Dal matrimonio con Faustina Minore Marco ebbe quattordici figli: Domizia Faustina, Tito Aurelio Antonino, Tito Elio Aurelio, Annia Aurelia Galeria Lucilla, Annia Galeria Aurelia Faustina, Tito Elio Antonino, (come settimo nato compare un figlio altrimenti sconosciuto), Arria Fadilla, Cornificia, Tito Aurelio Fulvo Antonino, Lucio Aurelio Commodo, M. Annio Vero,

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Adriano, Vibia Aurelia Sabina. Cfr. Birley, A. R., Marco Aurelio, trad. it. (Milano, 1990), 337–339. Se si considerano i soli figli maschi nati durante il regno di Marco, oltre a Commodo e al suo gemello Tito Aurelio Fulvo Antonino (cfr. HA Comm. 1, 1), Marco ebbe altri due figli (M. Annio Vero e Adriano) che però non risultano nel computo di Erodiano. Egli ricorda il solo Commodo e il suo gemello, scomparso prematuramente (a quattro anni, nel 165: HA Comm. 1, 4; cfr. ILS 8911; Front. Ad Anton. Imp. 1, 1, 3 e 2, 8, su cui Pflaum, H.-G., »Le valeur de l’information historique de la vita Commodi à la lumière des personnages nommément cités par le biographe«, BHAC 1970 (Bonn, 1972), 199–247, 199–200), come si evince anche da quel che viene detto poco oltre, giacché Commodo è qualificato come il figlio »superstite« e i fratelli nati precedentemente erano già morti: dunque, rispetto a quelli nati in seguito, a Commodo spettava il diritto di primogenitura per la successione. Verissimo dovrebbe dunque essere il soprannome del gemello di Commodo, ma il soprannome non è attestato. Sappiamo però che l’imperatore Adriano chiamava con lo stesso soprannome il giovane Marco (AE 1940, 62; Dio 69, 21, 2; HA M. Ant. 1, 10; 4, 1; Iust. Apol. 1, 1; Hier. Chron. 203 Helm), per cui Whittaker, Herodian, 7 pensa che qui Erodiano abbia fatto confusione. Tuttavia sappiamo anche che un altro fratello di Commodo, Annio Vero, nato nel 162 e morto nel 169 d. C., ebbe insieme a Commodo il titolo di Cesare nel 166 (HA Comm. 1, 10). A mio parere la confusione di Erodiano potrebbe essere stata generata dal fatto che M. Annio Vero, fratello di Commodo, portava lo stesso nome di Marco Aurelio prima dell’ascesa al trono, e che dunque Erodiano abbia confuso il gemello di Commodo (Tito Aurelio Fulvo Antonino) con un altro fratello (M. Annio Vero) morto anch’egli in giovane età. τὸν δὲ περιόντα Κόμοδόν τε καλούμενον ὁ πατὴρ … ὅπως συνόντες ἀεὶ παιδεύοιεν αὐτῷ τὸν υἱόν – Della particolare cura prestata da Marco per l’educazione di Commodo parlano anche Dio 71, 36, 4 e l’HA (Comm. 1, 4–5) che ricorda i nomi dei maestri di Commodo: Onesicrate per il greco, Antistio Capella per il latino, T. Aio Sancto (Moretti, L., »Due iscrizioni latine inedite di Roma«, RFIC 38 (1960), 68–76, 72 e AE 1961, 280 che corregge l’erroneo Ateio Santo dell’HA) per la retorica. Grosso, La lotta politica, 122–123 ricorda gli eccellenti rapporti tra Commodo e Giulio Polluce (su cui ora Zecchini, G., »Polluce e la politica culturale di Commodo«, CSA 5 (2007), 17–26), autore dell’Onomasticon dedicato proprio a Commodo. Ulteriore conferma di ciò è la nomina all’ufficio ab epistulis Graecis di Claudio Adriano di Tiro, maestro di Polluce, morto però prima di assumere l’incarico.

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Tra i nutritores/τροφεῖς di Commodo conosciamo M. Aurelio Cleandro (su cui cfr. soprattutto infra 1, 12, 3 e De Ranieri, C., »Retroscena politici e lotte dinastiche sullo sfondo della vicenda di Aurelio Cleandro«, RSA 27 (1997), 139–189) e Pitolao (Galen. De praecognitione 10). Secondo HA Comm. 2, 6, Commodo non poteva sopportare i custodes vitae honestiores impostigli dal padre preferendo loro pessimos quosque. Sull’apprezzamento di Erodiano per la παιδεία degli imperatori cfr. infra 1, 2, 3. §2

Quando fu il momento, concesse le figlie in sposa ai senatori più insigni, non aristocratici dal nobile lignaggio, né che si distinguevano per le ingenti ricchezze, ma uomini di costumi decorosi e che conducevano una vita sobria: riteneva infatti che questi soltanto sono i beni eterni e inalienabili. τάς τε θυγατέρας ἐν ὥρᾳ γενομένας … ἴδια καὶ ἀναφαίρετα ἡγεῖτο κτήματα – Lucilla, vedova di Lucio Vero, sposò in seconde nozze Tiberio Claudio Pompeiano, homo novus figlio di un cavaliere, asceso poi al consolato nel 173, tra i più valenti generali di Marco e protagonista anche sotto Commodo (cfr. infra 1, 4, 1; 1, 6, 4–7; 1, 8). Cn. Claudio Severo, di famiglia senatoria, altrettanto eminente uomo d’armi e console anch’egli nel 173, andò in sposa a Faustina; Fadilla sposò M. Peduceo Plauzio Quintillo, figlio di Ceionia Fabia (sorella di Lucio Vero) e console del 177; marito di Cornificia fu M. Petronio Sura Mamertino, di origine equestre (il padre fu prefetto del pretorio sotto Antonino Pio) console del 182; lo sposo di Vibia Sabina (il cui matrimonio però dovette celebrarsi dopo la morte di Marco nel 180) fu Lucio Antistio Burro, console del 181. Più che per l’integrità dei costumi, probabilmente Marco scelse questi generi per le loro capacità militari, stante i numerosi impegni che doveva affrontare in questo senso. Bisogna infine considerare il fatto che l’oculata scelta dei generi da parte di Marco era volta ad impedire una successione diversa da quella da lui prescelta a favore del figlio Commodo. Per i dati prosopografici cfr. Pflaum, H.-G., »Les Gendres de Marc-Aurel«, JS 1961, 28–41; Grosso, La lotta politica, 106–112; Birley, Marco Aurelio, 336–339; von Saldern, Studien zur Politik, 28–32. L’affermazione della superiorità dei costumi decorosi e della vita onesta contrapposti al nobile lignaggio e alla ricchezza è comunque interessante poiché sembra contenere un giudizio personale di Erodiano, che anche altrove mostra di apprezzare queste virtù soprattutto nei riguardi di Pertinace (2, 1, 9; 2, 2, 7). Per restare alla figura di Pertinace vale la pena osservare come Erodiano registri, subito dopo la sua proclamazione da parte dei

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soldati e del popolo, le sue preoccupazioni in relazione »alla nobiltà di alcuni senatori, i quali, secondo i suoi sospetti, non avrebbero tollerato che il potere cadesse dalle mani di un imperatore nobilissimo in quelle di un uomo che era salito così in alto da una condizione privata e oscura. Infatti, anche se la sua vita era lodata per l’austerità, ed egli era famoso per le gesta guerriere, quanto alla nobiltà era molto inferiore ai membri delle famiglie senatorie« (2, 3, 1–2). È molto significativo che lo stesso tema (con un richiamo a Pertinace) si ritrovi nella lettera spedita da Macrino al senato nel 218 (5, 1, 5–8) all’indomani della sua proclamazione ad Antiochia, dove il tema antinobiliare s’intreccia con quello della scelta del migliore (su cui cfr. Introduzione, 26–28). Sull’ideologia imperiale di Macrino cfr. Marasco, G., »L’idéologie impériale de Macrin«, REA 98 (1996), 187–195, il quale tuttavia considera la lettera di Macrino un’invenzione di Erodiano. Per Cecconi, G. A., »Il funzionario«, in G. Zecchini (ed.), Lo storico antico. Mestieri e figure sociali. Atti del Convegno Internazionale (Roma, 8–10 novembre 2007) (Bari, 2010), 115–152, 130: »Erodiano non può essere rappresentato come interprete che lascia trapelare le sue simpatie per quel ceto equestre-burocratico di cui avrebbe fatto parte« e il giudizio su Macrino è »fondamentalmente sfavorevole« (ibid. n. 57). Sia Pertinace sia Macrino erano ambedue di umili origini, il primo figlio di un liberto, il secondo un liberto egli stesso (cfr. HA Pert. 1–2; Macr. 2, 1; 4, 3), e avevano ambedue percorso la carriera equestre. In questo senso appare molto interessante anche la forzatura sulle origini di Marco Aurelio, che non erano affatto umili (cfr. infra 1, 7, 4), e che vengono invece qui affiancate da Macrino a quelle di Pertinace. Infine a 2, 14, 3 (discorso di Settimio Severo al senato) vengono nuovamente accostati Marco e Pertinace, ma solo per elogiare i loro governi. A questo proposito bisogna osservare che sia Pertinace (2, 3, 10), sia Settimio Severo (2, 14, 3), sia Macrino identificano il loro governo come migliore in quanto ἀριστοκρατία. Anche il governo di Alessandro Severo (6, 1, 2), per la scelta di Giulia Mesa e di Giulia Mamea di affiancare al giovane Alessandro sedici senatori (su cui almeno Crook, J., Consilium principis. Imperial Councils and Counsellor from Augustus to Diocletian (Cambridge, 1955), 86–90) »era gradito al popolo e ai soldati, ma soprattutto al senato, in quanto si allontanava dall’assolutismo tirannico, ispirandosi a principi aristocratici« (τὸ σχῆμα τῆς βασιλείας ἐκ τυραννίδος ἐφυβρίστου ἐς ἀριστοκρατίας τύπον μεταχθείσης). Da questi passi sembra dunque di capire che Erodiano accordi le sue preferenze al principato fondato sulla collaborazione tra sovrani »illuminati«, ispirati da saldi principi etici (e dunque nient’affatto desiderosi di spargimenti di sangue) e senato. Tuttavia una simile prospettiva deve essere ulteriormente precisata poiché, come rivela la lettera di Macrino al senato, Ero-

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diano in realtà sembra indirizzare le sue preferenze per una collaborazione più allargata, non limitata esclusivamente al ceto senatorio, ma che includa i cittadini migliori (aristocratici nel senso letterale del termine): Macrino infatti appartiene al ceto equestre. In questa concezione la nobiltà di nascita non è un requisito necessario tale da pregiudicare la partecipazione al governo dell’impero. Per Erodiano la provenienza sociale non riesce ad oscurare i meriti e le virtù individuali e dunque, in ultima analisi, le personalità dei singoli imperatori, che infatti vengono giudicati non sulla base delle loro origini ma per le loro qualità. A me sembra pertanto che Erodiano sia attento non tanto – o non solo – agli interessi del ceto equestre quanto, più indistintamente degli homines novi, secondo un’»ideologia« che intende promuovere l’ascesa sociale degli individui in base ai meriti personali. Ciò però non implica una svalutazione pregiudiziale della nobiltà senatoria o degli imperatori patrizi (di Commodo è sottolineata ad es. la sua nobiltà [1, 7, 4]), bensì nella proposizione di un modello fondato sulla ἀριστοκρατία (termine che – si badi – mai ricorre nell’opera del senatore Cassio Dione), vale a dire sulla partecipazione dei cittadini migliori alla direzione e all’amministrazione dell’impero. Questa impostazione è sorprendente poiché non impedisce ad Erodiano di apprezzare nobili senatori come Manio Acilio Glabrione (2, 3, 3–4, su cui cfr. Champlin, E., »Notes on the Heirs of Commodus«, AJPh 100 (1979), 288– 306, 291–297), oppure di sottolineare l’ascesa all’impero di nobili come Gordiano I (7, 5, 2), Pupieno e Balbino (8, 7, 4) in virtù delle loro brillanti carriere. La proposta politica di Erodiano appare infine ancor più interessante dal momento che egli sembra individuare l’ ἀριστοκρατία come »terza via« tra μοναρχία/βασιλεία e δημοκρατία. Nel far ciò Erodiano sembra richiamare quanto già Dionisio di Alicarnasso (7, 54–56; 55, 2 [discorso di M.’ Massimo] su cui Gabba, E., Dionigi e la ›Storia di Roma arcaica‹, trad. it. (Bari, 1996), 179–181; Sion-Jenkis, Von der Republik, 31), sulla scia di Cicerone (autore che non possiamo escludere Erodiano conoscesse essendo egli stato funzionario di corte), aveva fatto a suo tempo identificando la »buona demokratia« con un regime misto ove gli aristoi (i boni ciceroniani) dovevano avere un ruolo preponderante nella direzione politica. Ecco dunque perché anche la decisione di Marco di far sposare le sue figlie non solo a membri di illustri famiglie senatorie, ma anche con uomini che non vantavano nobili natali, suscita l’approvazione di Erodiano. Il punto di vista senatorio, in stridente contrasto con quello di Erodiano, è sufficientemente illustrato da un passo della biografia di Marco dell’HA (M. Ant. 20, 6–7) relativo alle nozze tra Lucilla e Pompeiano: »diede in sposa sua figlia a Claudio Pompeiano, un uomo ormai vecchio, figlio di un cavaliere romano e originario di Antiochia, non sufficientemente nobile (nec

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satis nobilis) – e appunto Marco successivamente lo creò due volte console – per una Augusta e figlia di Augusta quale era sua figlia. E in effetti né Faustina né la sposa furono soddisfatte di queste nozze«. Vale la pena ricordare che invece Cassio Dione (71, 22, 1) riporta lo sferzante giudizio dei tradizionalisti su Pertinace, ma anche il giudizio su Macrino (78, 15–16; 41), pieno di risentimento per il cavaliere che non rispetta le prerogative del senato (Millar, A Study, 160–168; Schettino, M. T., »Cassio Dione«, 553) che, accanto quello dell’HA (Opil. 5, 8), sono quanto di più distante si possa leggere dalle pagine di Erodiano. L’orgoglio con cui Pertinace e Macrino rivendicano le loro umili origini potrebbe costituire un altro indizio sullo status sociale di Erodiano, il quale molto probabilmente non aveva oltrepassato la carriera delle procuratele (cfr. infra 1, 2, 5 e Introduzione, 11) nonché sulla data di pubblicazione della Storia. L’ipotesi formulata dal Cassola (»Sulla vita e la personalità «, 216– 218), che pensa al regno di Filippo l’Arabo (244–249) – anch’egli cavaliere e prefetto del pretorio come Macrino –, ne uscirebbe rafforzata. L’attenzione di Erodiano per gli equites collima peraltro con il crescente numero di adlectiones in senato di personaggi di rango equestre proprio a partire da Marco e Commodo. Cfr. Chastagnol, A., Le Sénat romain à l’époque impériale (Paris, 1992), 119–120; von Saldern, Studien zur Politik, 217–227. Per la discussione di alcuni di questi temi cfr. con interessanti osservazioni Marasco, G., »L’idéologie impériale«, 187–195; »Erodiano e la crisi«, 2859–2861. Sulla terminologia impiegata nei passi discussi cfr. Roques, D., »Le vocabulaire politique«, 44–45.

§3

Si interessava ad ogni virtù e prediligeva i retori antichi, a tal punto che non era inferiore a nessuno né tra i Greci né tra i Romani, come rivelano i suoi detti e i suoi scritti a noi giunti. ἀρετῆς δὲ†πάσης ἔμελεν αὐτῷ … ἢ λεχθέντα̈ ρὸς αὐτοῦ ἢ γραφέντα – Marco è senz’altro un imperatore modello per Erodiano (cfr. Whittaker, Herodian, LXXII–LXXIII) poiché somma in sé ἀρετή e παιδεία. Tra gli scritti oltre ai Pensieri si può forse aggiungere l’epistolario con Frontone. Tra i detti possono essere compresi i discorsi conservati o di cui danno notizia Dione (71, 23, 3–27, 1; 32, 1), l’HA (M. Ant. 25, 10; Pert. 2, 7–9) e lo stesso Erodiano (cfr. infra). Secondo Whittaker, Herodian, 9 Erodiano potrebbe qui alludere anche ad »appunti« (ὑπομνημάτια) di cui parla lo stesso Marco in Medit. 3, 14 (ma potrebbe trattarsi degli abbozzi dei Pensieri stessi) e all’esposizione dei principi filosofici a cui Marco si ispirava,

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compiuta da Marco stesso quand’era in procinto di partire per la guerra marcomannica e di cui dà notizia l’HA (Av. Cass. 3, 6–7). Non escluderei che tra i detti vadano compresi i Pensieri stessi esposti spesso in forma sentenziosa cfr. almeno Brunt, P. A., »Marcus Aurelius in his Meditations«, JRS 64 (1974), 1–20. Sul nesso ἀρετή-παιδεία come criterio del giudizio di Erodiano sugli imperatori insiste Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods«, 2806–2812. Mazzarino, S., Il pensiero storico classico, (Bari, 1966), II.2, 207, riconduce l’uso del concetto di ἀρετή in Erodiano all’influsso del circolo di Giulia Domna e, più in generale, alla cultura dell’età dei Severi.

§§ 4–5

Da imperatore si comportò verso i sudditi in modo mite e moderato, accogliendo quanti si recavano da lui, e vietando alla sua guardia personale di scacciare quanti lo interpellavano. Fu il solo imperatore a comprendere che la filosofia non consiste nel tenere discorsi o conoscere dottrine, ma nell’avere costumi austeri e nel condurre una vita sobria. La sua età produsse un’eccezionale numero di uomini saggi: i sudditi infatti amano conformare sempre il proprio stile di vita regolandosi sull’esempio di chi li governa. 5. Le imprese valorose e assennate compiute da Marco contro i popoli delle regioni settentrionali e quelli che vivono a oriente, che rivelano la sua abilità militare e politica, sono state narrate da molti uomini colti. Io ho scritto gli eventi dopo la morte di Marco, dei quali fui per tutta la vita testimone diretto, o di cui ebbi notizia (e ad alcuni di essi partecipai, avendo rivestito uffici imperiali e pubblici). Siamo chiaramente di fronte ad un ritratto idealizzato di Marco (su cui da ultimo Hidber, Herodians Darstellung, 188–195, che insiste sulla presenza della componente platonico-stoica) a tal punto che la sua esemplarità diffonde i suoi benefici ovunque (§ 4: »i sudditi infatti amano conformare sempre il proprio stile di vita regolandosi sull’esempio di chi li governa«). Numerosi i riferimenti a Marco in Erodiano, sempre in chiave positiva (1, 5, 3; 1, 6, 6; 1, 7, 4; 1, 8, 1; 2, 1, 4; 2, 4, 2; 2, 10, 3; 2, 14, 3), eccetto in un caso (4, 5, 6), a proposito della morte di Lucio Vero: »nonostante Marco si atteggiasse a filosofica mansuetudine, non tollerò la tracotanza di Lucio, che per di più era anche suo genero, e lo eliminò con un tranello«. In tal caso è probabile che Erodiano abbia accolto rumores che addossavano a Marco la responsabilità della fine di Lucio Vero, poiché identica diceria si ritrova nell’HA (M. Ant. 15, 5–6; Ver. 11, 2). Non capisco in cosa consista l’ironia di cui parla Whittaker, Herodian, 9 e 401 in questo passo di Erodiano. La

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figura di Lucio Vero soffre di una duplice tradizione, ora positiva, ora negativa, come rivela la lettura della biografia dell’HA, su cui cfr. Schwartz, J., »Autour de Lucius Verus«, in Mélanges de philosophie, de littérature et d’histoire ancienne offerts à P. Boyancé (Roma, 1974), 695–702; Rosen, K., »Die angebliche Samtherrschaft von Marc Aurel und Lucius Verus: ein Beitrag der Historia Augusta zum Staatsrecht der römischen Kaiserzeit«, HAC Parisinum, (Paris, 1991), 271–285 e da ultimo Fraschetti, A., Marco Aurelio. La miseria della filosofia (Bari-Roma, 2008), 27–29. Il ritratto idealizzato di Marco è presente anche in Dio 71, 35–36, per il quale il regno di Commodo segna il passaggio dall’età dell’oro a quella del ferro (71, 36, 4: ἀπὸ χρυσῆς τε βασιλείας ἐς σιδηρᾶν καὶ κατιωμένην τῶν τε πραγμάτων τοῖς τότε Ῥωμαίοις). Questo passo peraltro contiene una forte carica polemica diretta contro la decisione di Commodo, menzionata dallo stesso Dione sotto il 192 (72, 15, 6), di proclamare il suo regno l’età dell’oro e di ricordarlo in ogni atto ufficiale: καὶ τὸν αἰῶνα τὸν ἐπ᾽ αὐτοῦ χρουσοῦν τε ὀνομάζεσθαι καὶ ἐς τὰ γράμματα πάντα ὁμοίως ἐσγράφεσθαι. Il rapporto tra studio della filosofia e condotta di vita di Marco è ripetutamente sottolineato nella biografia dell’HA (M. Ant. 2, 6; 3, 1; 4, 10; 8, 3; 16, 5; 22, 5; 26, 2) anch’essa tesa a esaltarne acriticamente la figura (cfr. soprattutto 19, 10–12). πολύ τε πλῆθος ἀνδρῶν σοφῶν ἤνεγκε ἡ τῶν ἐκείνου καιρῶν φορά – Oltre alla proiezione ideale di cui si è accennato a proposito di Marco, mi domando se dietro questa affermazione non si possa leggere un’allusione alle Vitae Sophistarum di Filostrato. κωλύων τε τοὺς περὶ αὐτὸν δορυφόρους ἀποσοβεῖν τοὺς ἐντυγχάνοντας – Secondo HA M. Ant. 15, 1 Marco aveva l’abitudine di leggere, dare udienza e firmare documenti mentre si trovava ad assistere agli spettacoli del circo. ἐν βασιλικαῖς ἢ δημοσίαις ὑπηρεσίαις γενόμενος – Per la traduzione di ἢ come congiunzione coordinativa e non disgiuntiva cfr. Pflaum, H.-G., rec. Hohl, Kaiser Commodus, REL 32 (1954), 450 (il quale ritiene che l’espressione di Erodiano equivalga al latino in Caesareis et publicis officiis); Grosso, La lotta politica, 32; Whittaker, Herodian, 9. Il termine ὑπηρεσίαι suggerisce (Hohl, Kaiser Commodus, 5; Cassola, F., »Sulla vita e la personalità«, 216) che non si tratti di magistrature (indicate con ἀρχαί, cfr. Alföldy, G., »Herodian’s person«, 228 n. 97). Secondo Cassola (»Sulla vita e la personalità«, 221; Erodiano, IX) Erodiano »fu per un certo periodo al servizio dell’imperatore; per un altro a servizio di altre autorità (molto probabilmente a Roma)«. Tuttavia riesce difficile pensare

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che con l’aggettivo δημοσίαι (sul cui significato cfr. qui subito infra) si possa designare soltanto Roma. Nulla vieta di pensare che si tratti di incarichi svolti fuori Roma, stante anche l’interesse di Erodiano per l’Italia (su cui cfr. supra 1, 1, 4) e la sua conoscenza della geografia della penisola o delle province. Whittaker, Herodian, 9 commenta: »H. underwent imperial service as a minor official; the public service may be no more than local government service« e nell’introduzione (XXII) ipotizza che Erodiano fosse stato ora al servizio dell’aerarium (δημοσία ὑπηρεσία) ora un apparitor Caesaris (ὑπηρεσία βασιλική) e avesse dunque accesso a documenti senatori, viaggiasse in provincia e fosse in contatto con senatori e cavalieri; Erodiano stesso sarebbe molto probabilmente un cavaliere. Contra Pflaum, H.-G., rec. Hohl, Kaiser Commodus, 450; Grosso, La lotta politica, 32–35, secondo i quali Erodiano era uno schiavo o un liberto imperiale o, ancora, il figlio di un liberto (Alföldy, G., »Herodian’s person«, 228). L’obiezione di Alföldy, G., »Herodian’s person«, 229 n. 100 a Whittaker relativa al significato di δημόσιος (»So ist mit δημοσία ὑπηρεσία keineswegs notwendigerweise ein Dienst am Volksärar gemeint«) non tiene conto del fatto che in ben due luoghi Erodiano designa l’aerarium con δημόσιον in opposizione al fiscus (2, 4, 7: ἴδια τοῦ βασιλεύοντος; 2, 11, 7: χρήματα τά τε αὑτοῦ [scil. del principe]). Per parte mia faccio osservare che in Erodiano il termine ὑπηρεσία indica sempre un »servizio« alle dipendenze di qualcuno (2, 5, 3; 3, 12, 12; 3, 15, 5; 5, 8, 2; 7, 3, 4; 7, 8, 5), ma non necessariamente quello di un individuo di origine non libera come vorrebbe Alföldy, G., »Herodian’s person«, 229, e l’aggettivo δημόσιος ne qualifica l’aspetto »pubblico« (1, 14, 3; 2, 4, 7; 2, 7, 1; 2, 9, 4; 4, 1, 5; 5, 5, 7; 5, 7, 6; 7, 7, 5; 7, 9, 10; 7, 11, 7). Sulla base di questa precisazione lessicale mi sembra che Erodiano intenda differenziare gli uffici rivestiti a corte da quelli svolti non alle dipendenze della corte. Resta il fatto che la sua dovette essere la carriera di un funzionario che non arrivò mai a rivestire magistrature, ma solo uffici minori dell’amministrazione imperiale (procuratele o subprocuratele) o municipale (su cui cfr. Introduzione, 11). Alla luce di queste considerazioni e di quanto già detto in precedenza (cfr. supra 1, 2, 2) sembra probabile l’appartenenza di Erodiano al ceto equestre.

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3. §1

Mentre Marco, ormai vecchio, non solo per l’età, ma anche prostrato dalle fatiche e dalle preoccupazioni, si trovava in Pannonia, lo colse una grave malattia. Giacché sospettava che le speranze di salvezza fossero scarse, e vedeva il figlio che faceva ora il suo ingresso nell’adolescenza, temeva che così giovane, nel fiore degli anni, senza alcun controllo paterno, assumendo l’assoluto potere imperiale, avrebbe rifiutato i nobili insegnamenti e l’educazione ricevuta e si sarebbe abbandonato all’ebbrezza e alle dissolutezze (le passioni dei giovani infatti molto facilmente li spingono ad abbandonare i beni ricevuti da una buona formazione e a scivolare verso i piaceri). γηραιὸν ὄντα Μᾶρκον, καὶ μὴ μόνον ὑφ᾽ ἡλικίας, ἀλλὰ καμάτοις τε καὶ φροντίσι τετρυχωμένον διατρίβοντά τε ἐν Παίοσι νόσος χαλεπὴ καταλαμβάνει – La scena va ambientata nel marzo del 180 quando Marco il 17 di quel mese morì a 58 anni (Dio 71, 33, 42). Essendo nato il 26 aprile 121 (HA M. Ant. 1, 5) non era dunque poi così vecchio. Marco morì molto probabilmente contagiato dalla peste: HA M. Ant. 28, 8. Dio 71, 33, 42 parla genericamente »di una malattia per cui stava ancora soffrendo« e accusa Commodo in modo inverosimile di aver fatto assassinare il padre. L’inverosimiglianza di questa accusa si ricava dallo stesso Dione il quale subito dopo (71, 34, 1) afferma che Marco poco prima di morire affidò il figlio ai soldati »poiché non voleva che la sua morte apparisse dovuta a Commodo« (οὐ γὰρ ἤθελε δοκεῖν ὑπ᾽ αὐτοῦ θνήσκειν). Il luogo della morte di Marco non è certo: che fosse in Pannonia appare confermato da Tert. Apol. 25, 5 per il quale Marco morì apud Sirmium; ma secondo Aurel. Vict. Caes. 16, 14 ed Epitom. de Caes. 16, 12 Marco morì a Vindobona. Bannert, H., »Der Tod des Kaisers Marcus«, in R. Klein (ed.), Marc Aurel (Darmstadt, 1979), 459–472 (seguito da Birley, Marco Aurelio, 264) nel tentativo di riconciliare le fonti, suppone che Aurelio Vittore e l’Epitome abbiano confuso Vindobona con Bononia (attuale Banoštar), il porto di Sirmio sul Danubio, presso il quale Marco sarebbe morto e da lì poi trasportato in città. Alföldy, G., »Herodian über den Tod«, 345–353, ha criticato aspramente il racconto di Erodiano sulla morte di Marco (riprendendo alcune osservazioni già in Hohl, Kaiser Commodus, 8–9, su cui contra Grosso, La lotta politica, 95 n. 2) asserendo che in questi capitoli »die ganze belletristische Technik Herodians beleuchtet«, in base alla quale Erodiano costruirebbe scene retoricamente abbellite, adattando le informazioni provenienti da fonti decontestualizzate e rifondendole in base alle sue esigenze drammati-

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che nel racconto (350–51: »die historische Wirklichkeit interessierte ihn nur als ganz allgemeiner Rahmen, den er mit spannungsvollen Szenen und häufig mit Rhetorik ausfüllte – und das Material dafür holte er sich oft aus Quellen, die ganz andere Ereignisse schildern«). Il modello utilizzato qui da Erodiano sarebbe un passo della Ciropedia senofontea (8, 7, 5), già richiamato a suo tempo da Norden, E., Die antike Kunstprosa, I (Leipzig, 1898), 397 n. 4. Le inesattezze di Erodiano secondo A. sono le seguenti: 1. Non è nominata Vindobona come luogo dove morì Marco 2. Non è detto chiaramente che erano presenti i suoi generali 3. Non è precisata né l’età di Marco né la durata del suo regno 4. Di Commodo si dice solo genericamente che era giovane 5. Non compare la data di morte di Marco 6. Non è indicata la malattia di Marco 7. Non è nominato alcuno dei parenti e dei membri del consilium principis: soltanto più avanti compare Pompeiano 8. Commodo aveva ricevuto già l’imperium maius nel novembre del 176 e dunque la situazione che presenta Erodiano, con Commodo che succede in quel momento al padre, non è esatta. A me pare però che nessuna di queste inesattezze e omissioni sia così grave da far pensare ad un’invenzione di Erodiano, senza contare che alcune informazioni – come il luogo e il momento della morte o la presenza di Commodo presso il padre sul letto di morte nonché quella di Pompeiano – sono invece presenti ed esatte. Quanto al modello senofonteo non vedo se non una vaga somiglianza, che però non è sostenuta da alcun puntuale riscontro. A questo proposito mi sembra si possa dare il medesimo giudizio circa l’accostamento avanzato da Whittaker, Herodian, LIV tra il discorso di Erodiano e quello di Micipsa sul letto di morte ai figli Aderbale e Iempsale e al nipote Giugurta in Sall. Iug. 10. Su questi presunti modelli cfr. ora Hidber, Herodians Darstellung, 196–201. Anche se non si può non riconoscere un certo grado di elaborazione retorica – soprattutto per quanto riguarda gli exempla ricordati poco infra relativi ai sovrani che raggiunsero il potere in giovane età - non mi spingerei a ritenere il racconto di Erodiano sia un’invenzione, soprattutto perché alcuni particolari ritornano anche nelle altre fonti (Dione e l’HA, su cui subito infra). ἑώρα τε τὸν παῖδα τῆς μειρακίων ἡλικίας … ἀφηνιάσῃ – Commodo era nato il 31 agosto 161 (HA Comm. 1, 1) e aveva dunque diciotto anni. Sulla sua educazione e i suoi maestri cfr. supra 1, 2, 1. L’inesperienza di Commodo dovuta alla sua gioventù è un tratto caratterizzante del profilo di Commodo in Erodiano (cfr. supra 1, 1, 6). Il tema della corruzione dei costumi ritorna nel giudizio finale di Erodiano su Commodo (1, 17, 12) secondo cui egli sciupò i suoi pregi (nobiltà di nascita e bellezza) »coi suoi riprovevoli costumi« (εἰ μὴ τὴν τούτων εὐμορίαν αἰσχροῖς ἐπιτηδεύμασι κατῄσχυνεν). Per HA M. Ant. 27, 9, al momento della morte di Marco labentibus iam filii moribus ab instituto suo.

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Nonostante la ripetuta insistenza della tradizione ostile a Commodo sui presagi negativi di Marco nei confronti del figlio, c’è anche fortunatamente uno dei Pensieri (1, 17) dello stesso Marco in cui egli ringrazia gli dei »per l’essermi nati figli non inetti né storpi« (τὸ παιδία μοι ἀφυῆ μὴ γενέσθαι μηδὲ κατὰ τὸ σωμάτιον διάστροφα) che potrebbe contribuire ad attenuare il giudizio radicalmente negativo su Commodo. La παιδεία come freno alla sregolatezza torna ad es. nel confronto tra Geta e Caracalla, tutto favorevole al primo (4, 3, 3–4; 3, 15, 4). Cfr. Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods«, 2809.

§2

Da quel grande uomo di cultura che era lo tormentava moltissimo il ricordo di quanti erano saliti al trono in giovane età: ad esempio Dionisio, tiranno dei Sicelioti, il quale, per la sua estrema intemperanza, spendeva cifre folli alla ricerca di nuovi piaceri; oppure i soprusi e le violenze dei successori di Alessandro che disonorarono il suo impero: Διονυσίου τοῦ Σικελιωτῶν τυράννου – Dionisio I (430–367 a. C.) salì al trono a venticinque anni, Dionisio II (367/6–345 a. C.) a trent’anni, dunque non così prematuramente. Vale la pena ricordare che Aminziano, che visse al tempo di Marco Aurelio, nelle sue Vite parallele dedicò due libri alla coppia Dionisio (I o II?)-Domiziano (FGrHist 150 T1).

§3

da una parte Tolemeo, che si spinse sino ad amare la propria sorella, contravvenendo alle leggi dei Macedoni e dei Greci; dall’altra Antigono, imitatore in tutto e per tutto di Dionisio, che portava la corona d’edera invece della causia e del diadema dei Macedoni, e il tirso in luogo dello scettro. Πτολεμαῖος – Tolemeo II Filadelfo (283–246 a. C.) che sposò la sorella Arsinoe. ᾽Αντίγονος – Secondo Whittaker, Herodian, 13 si tratta di Antigono Monoftalmo, di cui però non si ha alcuna notizia circa la sua imitatio Dionysii e la sua stravaganza. È molto più probabile una confusione di Erodiano (Hohl, Kaiser Commodus, 35 n. 37) e che dunque il sovrano imitatore di Dioniso sia da identificare in Demetrio Poliorcete (294–288 a. C.), figlio del Monoftalmo, il quale amava presentarsi in abiti dionisiaci e di cui è con-

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servato un itifallo in suo onore in Duride di Samo, su cui Landucci Gattinoni, F., Duride di Samo (Roma, 1997), 126–129. Sulla teatralità di Demetrio cfr. Mastrocinque, A., »Demetrio tragodoumenos (Propaganda e letteratura al tempo di Demetrio Poliorcete)«, Athenaeum 67 (1979), 260–276; Virgilio, B., Lancia, diadema e propora. Il re e la regalità ellenistica (PisaRoma, 1999), 65.

§4

Ancor più era preoccupato dal ricordo che aveva di avvenimenti che non erano così distanti nel tempo, ma anzi recenti: quel che aveva fatto Nerone, che giunse sino a uccidere la madre e offrì al popolo un risibile spettacolo di sé; quel che aveva osato Domiziano, che aveva toccato il fondo della crudeltà. τά τε Νέρωνι πεπραγμένα … τά τε Δομετιανῷ τετολμημένα – Per quanto riguarda Nerone si allude all’uccisione di Agrippina nel 59 d. C. e alle sue esibizioni sulle scene. Suetonio dedica i capitoli 10–11 della Vita di Domiziano ai suoi atti di crudeltà che si ritrovano numerosi nella tradizione ostile (cfr. ad es. Plin. Pan. 48, 3; 52, 7; Dio 67, 1, 1; 3, 42; 14, 4). Nerone e Domiziano fanno naturalmente parte della galleria dei mali principes che ottennero la damnatio memoriae al pari di Commodo. La scelta da parte di Erodiano di questi due »tiranni« non appare però casuale in relazione a Commodo, dal momento che un passo della Vita Commodi dell’HA derivato da Mario Massimo (19, 2) riferisce che le adclamationes del senato dopo la morte di Commodo furono molto aspre (cfr. Sánchez, A. / Rámon, J., »Imprecaciones senatoriales contra Commodo en la Historia Augusta«, Polis 5 (1993), 5–21; Molinier Arbo, A., »Les documents d’archives dans la Vita Commodi: degré zéro de l’histoire ou fiction?«, DHA Suppl. 4. 1 (2010), 87–112; »Des crisis à la Curie: les acclamationes senatus de la Vie de Commode dans l’Histoire Auguste«, in M. T. Schettino / S. Pittia (ed.), Les sons du pouvoir dans le mondes anciens. Actes du colloque international de l’Université de la Rochelle, 25–27 novembre 2010 (Besançon, 2012), 167–187) e, tra queste, una lo paragonava espressamente a Nerone e Domiziano, definendolo saevior Domitiano, impurior Nerone che Molinier Arbo, A., »Les documents d’archives«, 98 ritiene trattarsi di una parodia della formula felicior Augusto, melior Traiano attestata in un frammento degli Acta Fratrum Arvalium (ILS 541) del 213 e da Eutropio 8, 5, 3. Secondo M. Ant. 28, 10, Marco stesso, avrebbe desiderato la morte del figlio e diceva (ut ipse dicebat) di temere che Commodo diventasse simile a Caligola, a Nerone, a Domiziano. Caligola e Domiziano sono accostati a Commodo per la loro immanitas anche da Ammiano Marcellino (21, 16, 8).

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Il rumor (con un fertur è infatti introdotta quest’ultima notizia della Vita Marci) si ritrova in Dio 76, 14, 7, dove si riferisce una battuta di Settimio Severo che rimproverava Marco di non aver eliminato il figlio. Caligola compare nuovamente accanto a Commodo in un aneddoto dell’HA (Comm. 10, 9, su cui Porta, G., »Un Caligola dell’HA, Commodo«, Atene e Roma 20 (1975), 165–170; Hekster, O., Commodus. An Emperor at the Crossroads (Amsterdam, 2002), 197–202), secondo il quale Commodo aveva ordinato di dare in pasto alle bestie un tale che leggeva la Vita di Caligola di Suetonio, perché aveva appreso che Commodo, il figlio di Germanico e Agrippina erano nati lo stesso giorno (31 agosto). Sulla crudeltà del giovane Commodo cfr. anche HA Comm. 1, 9. Questi e i precedenti exempla negativi raccolti da Erodiano intendono rappresentare Commodo sin dall’inizio non solo come un sovrano giovane e inesperto, ma dai tratti tirannici e incline all’istrionismo. Questa prefigurazione riflette senz’altro le accuse della tradizione senatoria circa la crudeltà di Commodo e la sua smodata passione per i giochi gladiatori, a cui Erodiano sembra dunque qui allinearsi.

§5

Rievocando col pensiero queste immagini di tirannide, si sentiva prendere dal timore e dalla disperazione; nondimeno lo angustiavano i Germani alle frontiere, che non aveva ancora completamente sottomesso, ma che in parte era riuscito a convincere a stringere alleanza, mentre di altri si era impadronito con le armi; altri ancora, per il momento, si erano ritirati per timore di un tale imperatore. Ora aveva il sospetto che, disprezzando il giovane per la sua età, lo avrebbero attaccato. I barbari infatti sono soliti ribellarsi facilmente cogliendo ogni occasione. οὐ μετρίως δ᾽ αὐτὸν ἐτάραττον καὶ οἱ Γερμανοὶ γειτνιῶντες – Commodo era partito con il padre per l’expeditio Germanica secunda il 3 agosto 178 (HA Comm. 12, 6), dopo la celebrazione del trionfo a Roma sui Germani e aver ricevuto la tribunicia potestas (HA M. Ant. 27, 4–5; Comm. 2, 4–5). La spedizione si protrasse fino all’autunno del 180 (Commodo rientrò a Roma il 22 ottobre [HA Comm. 12, 7]). Tra le popolazioni sconfitte Cassio Dione (71, 16–19) ricorda gli Iazigi il cui capo Zantico si era presentato supplice da Marco. Tuttavia, a causa della rivolta di Avidio Cassio in Oriente nel 175, Marco fu costretto a concedere condizioni più miti di quanto avrebbe voluto. Da parte loro gli Iazigi – insieme ai Buri – non avevano intenzione di stringere alcuna alleanza coi Romani fin quando non avessero ricevuto complete garanzie da Marco, che

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non sarebbero stati puniti per le guerre. Dunque Marco si decise ad accordare udienza (71, 19, 1–2) »a quelli che venivano come ambasciatori di popoli stranieri, ma non accolse tutti sulle stesse basi. Poiché per ciascuno di loro variava: quelli che erano ritenuti degni di ricevere la cittadinanza o l’esenzione dalle tasse, per sempre oppure temporanea, e perfino di godere di appoggio permanente. E dal momento che gli Iazigi gli si mostrarono molto utili, li liberò da molte restrizioni che aveva imposto in precedenza«. L’utilità degli Iazigi deve’essere spiegata alla luce di quanto stava accadendo sul fronte con i Marcomanni e Quadi. Nel 178 queste popolazioni, dopo aver chiesto invano un alleggerimento dei presidi romani insediati nel 175 nei loro territori (Dio 71, 20), avevano di nuovo preso le armi e, dopo una prima sconfitta ad opera del prefetto del pretorio Tarrutieno Paterno nello stesso 178, erano tornati all’attacco nel 179. Tra le popolazioni che premevano ai confini e che si unirono a Iazigi, Buri, Marcomanni e Quadi, bisogna ricordare anche Vandali (Astingi e Lacringi), Sarmati, Ermunduri, Svevi, Varisti, Vittuali, Sosibi, Sicoboti, Rossolani, Bastarni, Alani, Peucini, Costoboci, Cotini, Naristi (HA M. Ant. 17, 2–3; 22, 1, ma questo così lungo elenco appare sospetto). Per le trattative diplomatiche condotte da Marco con molti di questi popoli a partire dal 171 cfr. Dio 71, 11–12: Marco aveva concesso ad alcune di queste popolazioni di insediarsi nei territori dell’impero (cfr. Wirth, G., »Deditizier, Soldaten und Römer: ›Besatzungpolitik‹ im Vorfeld der Völkerwanderung«, BJ 197 (1997), 57–89). Con i Germani Commodo strinse nuovamente accordi di pace qualche tempo dopo la morte del padre (cfr. infra 1, 6, 8–9). Sulla seconda guerra marcomannica cfr. almeno Birley, Marco Aurelio, 259–263; Strobel, K., Das Imperium Romanum im »3 Jahrhundert«. Modell einer historischen Krise? Zur Frage mentaler Strukturen breiterer Bevölkerungsschichten in der Zeit von Marc Aurel bis zum Ausgang der 3. Jh. n. Chr. (Stuttgart, 1993); »Das Imperium Romanum 180–184/85 n. Chr. Kontinuitäten, langfristiger Wandel und historische Brüche«, in E. Erdmann / U. Uffelmann (ed.), Das Altertum: vom alten Orient zur Spätantike (Idstein, 2001), 239–278; Fündling, J., Marc Aurel (Darmstadt, 2008), 160–168. In due passi molto discussi dell’HA (M. Ant. 24, 5; 27, 10) il biografo riferisce che Marco aveva intenzione di creare due nuove province: Marcomannia e Sarmazia su cui cfr. infra 1, 5, 5. ἐρᾷ δὲ τὸ βάρβαρον καὶ ἐπὶ ταῖς τυχούσαις ἀφορμαῖς ῥᾷστα κινεῖσθαι – Notazioni sul carattere dei barbari sono frequenti in Erodiano: cfr. 1, 5, 8; 1, 6, 5; 1, 6, 9; 1, 15, 7; 2, 2, 8; 2, 4, 3; 2, 8, 10; 2, 10, 6; 4, 11, 2; 4, 14, 6; 4, 15, 2; 6, 2, 4; 6, 3, 7; 6, 5, 3; 6, 7, 9; 7, 9, 3; 8, 1, 3; 8, 5, 6. Questa attenzione molto probabilmente riflette la preoccupazione di Erodiano che gli attacchi dei barbari suscitavano ai suoi tempi, su cui cfr. infra 1, 5, 5. Sulla »Krisenempfindung« in Erodiano cfr. Alföldy, G., »Zeitge-

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schichte und Krisenempfindung«, 429–449 (con addenda in Die Krise des römischen Reiches. Geschichte, Geschichtsschreibung und Geschichtbetrachtung (Stuttgart, 1989), 293–294); Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2910– 2914; Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods«, 2792–2803.

4. §1

Ora, con l’animo agitato da tali preoccupazioni, fece chiamare gli amici e i familiari presenti e, tenendo accanto a sé il figlio, dopo che tutti si riunirono, si sollevò un poco dal letto e cominciò con queste parole: συγκαλέσας τε τοὺς φίλους ὅσοι τε παρῆσαν τῶν συγγενῶν, καὶ τὸν παῖδα παραστησάμενος – Nonostante lo scetticismo di Hohl, Kaiser Commodus, 8 (su cui contra Grosso, La lotta politica, 95) e di Alföldy, G., »Herodian über den Tod«, 348, la presenza di Commodo e degli amici al capezzale di Marco è confermata sia da Dio 71, 34, 1 sia da HA M. Ant. 27, 11; 28, 4 secondo cui Marco riunì gli amici due giorni prima di morire e rimase al cospetto del solo Commodo poche ore prima di spirare, esattamente come afferma Erodiano infra 1, 4, 7: »Marco visse ancora una notte e un giorno; poi spirò«. Tra gli amici e i familiari al seguito c’erano senz’altro Ti. Claudio Pompeiano, che era anche suo genero (cfr. infra 1, 6, 4–7 e 1, 8) al pari di L. Antistio Burro, Bruttio Presente (la cui figlia, Crispina, era andata in sposa a Commodo nel 178), T. Pomponio Proculo Vitrasio Pollione comes di Marco (ILS 1112) e marito di Fundania Faustina, una cugina di Marco; tra i più valenti generali: Elvio Pertinace, Sesto Quintilio Condiano, Tarrutieno Paterno, P. Salvio Giuliano. Sul consilium di Marco Aurelio cfr. Crook, Consilium principis, 69–76. §§ 2–6

»Non mi sorprendo che voi siate tristi vedendomi giacere in questo stato: gli uomini sono per natura portati a provare pietà per le sventure dei familiari e i mali che cadono sotto i nostri occhi accrescono la commiserazione. Ma io penso di ottenere da voi ancora di più: infatti, tenendo conto del modo in cui mi sono comportato con voi, ho fondati motivi di sperare che in cambio voi mi accorderete la vostra benevolenza. 3. Ora è l’occasione giusta per me di constatare che vi ho onorato e stimato così a lungo per voi di ricambiarmi, mostrando che non avete dimenticato quel che avete ricevuto. Osservate mio figlio, che voi stessi avete allevato; ora che si appresta ad entrare nell’adole-

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scenza, ha bisogno di coloro che lo guidino nella tempesta e nella bufera della vita, per non essere spinto a cattivi comportamenti a causa di una cattiva conoscenza dei suoi doveri. 4. Prendete dunque il mio posto presso di lui, per lui siate tutti come dei padri, seguitelo e consigliatelo per il meglio. Infatti non c’è ricchezza, per quanto abbondante, che soddisfi l’intemperanza di una tirannia, né c’è guardia del corpo che possa salvare un sovrano dalla rovina, se questi non sa procurarsi la benevolenza dei sudditi. 5. I sovrani che sono rimasti al potere per lungo tempo, senza correre pericoli, sono quelli che hanno istillato nei cuori dei loro sudditi non la crudeltà, ma il desiderio di sperimentare la bontà dei loro governanti. Infatti non coloro che servono per forza, ma coloro che ubbidiscono per convinzione, si comportano e si lasciano trattare con sincerità e senza ipocrisia, e mai si ribellano, a meno che vengano trattati con prepotenza e arroganza. 6. Ma quando si detiene il potere è difficile essere moderati e porre un limite alle proprie passioni. Consigliando a mio figlio queste cose e rammentandogli quel che ora ascolta, lo renderete un eccellente imperatore per voi e per tutti; tributerete il miglior omaggio alla mia memoria e solo così potrete renderla imperitura«. τοιούτων λόγων ἤρξατο – Il discorso di Marco sul letto di morte ruota intorno ad un unico grande tema: il timore che il figlio desse vita ad un governo tirannico lontano dai principi di umanità e moderazione che avevano ispirato il suo governo e dunque il desiderio di dare validi consiglieri al giovane e inesperto Commodo. A me sembra che i timori di Marco sul fatto che Commodo fosse in procinto di diventare un tiranno siano una costruzione post eventum, alla luce di quello che è il giudizio largamente condiviso dalla storiografia di matrice senatoria (cfr. soprattutto supra Dio 71, 36, 4), che, come s’ è detto (cfr. supra 1, 2, 4–5,), individua nel passaggio tra Marco e Commodo la fine dell’età dell’oro dell’impero e l’inizio di quella del ferro. Marco tuttavia non aveva mai messo in dubbio la successione del figlio, che anzi aveva promosso con largo anticipo sin da quando Commodo aveva dieci anni (HA Comm. 1, 10) nominandolo Cesare. Vero invece è che Marco desiderava che il figlio fosse affiancato da personalità già da lui designate tra i suoi amici che guidassero le scelte politiche del giovane Commodo e che al momento si condensavano nella decisione di proseguire o meno la guerra ancora in atto. Decisivo a questo proposito è un passo dell’HA (M. Ant. 28, 1–2) che riferisce che »quando [Marco] cominciò a sentirsi male, fece chiamare il figlio e in primo luogo gli chiese di non trascurare il compimento delle ultime operazioni di guerra, perché non avesse ad apparire un traditore dello stato. E, avendogli il figlio risposto che più di ogni altra cosa gli stava a cuore la propria salute, non si oppose alla sua volontà«. Anche un passo di Dione peraltro ci assicura che Marco morente affidò la protezione di Commodo ai soldati (71, 34, 1).

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E in effetti Commodo protrasse la guerra ancora per alcuni mesi dopo la morte di Marco (Eutr. 8, 15, 1; Aurel. Vict. 17, 2). Fu invece la decisione di siglare accordi di pace con Quadi e Marcomanni e le altre popolazioni germaniche e di rientrare a Roma (su cui pesarono anche altri motivi: cfr. infra 1, 5, 5) che sancì la rottura tra Commodo e una parte degli amici di Marco, per lo più appartenenti all’aristocrazia senatoria (cfr. supra 1, 4, 1 e infra 1, 6, 6) e che comunque erano divisi sull’opportunità di proseguire la guerra (HA M. Ant. 22, 7, su cui Birley, Marco Aurelio, 212, 235). Lo strappo con il senato fu definitivamente consumato con la congiura di Lucilla nella seconda metà del 181 (su cui cfr. infra 1, 8, 4–8). §§ 7–8

Dopo aver pronunciato queste parole, Marco svenne e tacque; poi, per la debolezza e l’afflizione, cadde di nuovo sul letto. Tutti i presenti provarono pietà, a tal punto che alcuni non riuscirono a trattenersi e si misero a lamentarsi in preda alla disperazione. Marco visse ancora una notte e un giorno; poi spirò, lasciando il rimpianto ai contemporanei, e un eterno ricordo del suo valore alle generazioni future. 8. Dopo la morte di Marco, una volta che la notizia si diffuse, tutti i soldati là presenti e la massa del popolo lo piansero con dolore, né vi fu alcun abitante dell’impero romano che non accogliesse questa notizia senza lacrime. Tutti all’unisono lo celebrarono: chi come ottimo padre, chi come buon imperatore, chi come valoroso condottiero, chi come sovrano moderato e saggio; e nessuno mentiva. πᾶν τε τὸ παρὸν στρατιωτικὸν καὶ τὸ δημῶδες πλῆθος ὁμοίως πένθει κατείχετο – Per il dolore dei soldati cfr. HA M. Ant. 29, 1. Mentre la conclusione di Erodiano intende ribadire la paradigmaticità del regno di Marco, l’HA, che pure non risparmia elogi all’imperatore defunto, riporta anche le critiche mosse a Marco frutto degli umori popolari (M. Ant. 29, 1–6).

5. §1

Trascorsi pochi giorni, durante i quali gli amici lasciarono che il figlio si occupasse del funerale del padre, decisero di condurlo all’accampamento perché rivolgesse un discorso alle truppe e, come è costume per chi succede al trono, distribuisse loro del denaro, accattivandosi l’animo delle truppe con la generosità del donativo.

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ἔδοξε τοῖς φίλοις – Nei capitoli 5–6 si delinea il primo scontro tra gli amici Marci, presenti in Germania alla morte di Marco nella primavera del 180, e Commodo. Il peso politico che gli amici intendevano far valere su Commodo appare qui subito in primo piano, dal momento che a loro viene attribuita l’iniziativa di condurre il giovane imperatore davanti alle truppe, ed è espressamente ricordato da Erodiano poco oltre (§ 2: »circondato dagli amici paterni (numerosi ed esperti)«). Anche Dione, in apertura del libro 72 (1, 2) ricorda che Marco alla sua morte »lasciò molti a sorvegliarlo, e tra di loro si contavano i migliori uomini del senato«. L’insofferenza del figlio di Marco per questa tutela non richiesta contribuirà ad acuire il conflitto con gli amici paterni, che trova il suo culmine nella congiura di Lucilla (su cui cfr. infra 1, 8, 4–8). Per Erodiano il più eminente tra gli amici è Ti. Claudio Pompeiano, marito di Lucilla e valente generale, che si rivolgerà con un accorato discorso a Commodo per dissuaderlo dal ritornare a Roma (cfr. infra 1, 6, 4–6). Tra gli altri (su cui cfr. supra 1, 4, 1) si possono ricordare: L. Antistio Burro, Bruttio Presente, T. Pomponio Proculo Vitrasio Pollione, Elvio Pertinace (anche se la sua ascesa fu interrotta per qualche anno per riprendere però nel 186, cfr. Cassola, F., »Pertinace durante il principato di Commodo«, in Id., Scritti di Storia antica, istituzioni e politica, II (Napoli, 1994), 125–155 [= 1965]), Sesto Quintilio Condiano, Tarrutieno Paterno, P. Salvio Giuliano, M. Valerio Massimo. Come vedremo, all’interno del consilium di Marco, ora di Commodo, non tutti gli amici erano schierati contro Commodo; anzi, va notato come eminenti personaggi già amici di Marco proseguirono la loro brillante carriera sotto Commodo. Tra questi Acilio Glabrione, C. Aufidio Vittorino, Seio Fusciano, M. Servilio Silano, Papirio Dionisio, P. Cornelio Anullino, M. Petronio Sura Mamertino, M. Peduceo Plauzio Quintillo. Cfr. Crook, Consilium principis, 150–178; Grosso, La lotta politica, 106–112; Hekster, Commodus. An Emperor, 58–59; von Saldern, Studien zur Politik, 39–41, 248–260. ὀλίγων δὲ διελθουσῶν ἡμερῶν – Marco era morto il 17 marzo del 180 in Pannonia (cfr. Dio 71, 33, 42 e supra 1, 3, 1 per l’esatta ubicazione del luogo del decesso). καὶ χρήματα δωρησάμενος – In assenza di testimonianze esplicite relative all’ammontare del donativo di Commodo si è ipotizzato (Campbell, A. J., The Emperor and the Roman Army 31 BC-AD 235 (Oxford, 1984), 168–170) che il neoimperatore avesse concesso una somma pari a quella offerta da Marco al momento della sua proclamazione, vale a dire 20.000 sesterzi ai pretoriani e in proporzione alle truppe (HA M. Ant. 7, 9–10).

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§2

Fu ordinato a tutti di recarsi nel luogo nel quale erano soliti riunirsi. Giunse Commodo, compì i sacrifici che spettano all’imperatore e, dopo esser salito sulla tribuna che era stata innalzata in mezzo all’accampamento, circondato dagli amici paterni (numerosi ed esperti) disse queste parole: προελθὼν δὲ ὁ Κόμοδος τάς τε βασιλείους θυσίας ἐπετέλει – Erodiano manifesta particolare attenzione al rispetto da parte di ogni imperatore delle pratiche rituali legate ai sacrifici: cfr. 1, 7, 6; 3, 8, 5; 5, 5, 10; 6, 4, 2; 8, 3, 7; 8, 6, 8; 8, 7, 3. Mi sembra questo un aspetto importante della religiosità di Erodiano che attende ancora un’adeguata valorizzazione, che non trovo né in Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2897–2903, né in Rowan, C., »Rethinking Religion in Herodian«, AH 35 (2005), 163–176.

§§ 3–8

»Sono profondamente convinto che io e voi condividiamo lo stesso dolore per quanto ci ha colpito e che voi siate afflitti quanto lo sono io. Infatti, quando mio padre era vivo, non mi stimava superiore a voi. Egli infatti ci amava come una sola persona. Si compiaceva di chiamarmi commilitone più che figlio: riteneva infatti che questo nome indichi comunanza di natura, quello di valore. Spesso, quando ero ancora infante, portandomi con sé, mi affidava alle vostre fedeli cure. 4. Pertanto spero di beneficiare senza difficoltà di tutto il vostro appoggio: i più anziani di voi per la sollecitudine paterna che mi hanno dedicato, mentre i più giovani potrei ragionevolmente chiamarli miei compagni d’armi; mio padre infatti ci amava tutti come una sola persona e ci insegnava tutte le virtù. 5. La sorte ha affidato a me l’impero dopo di lui ma a differenza dei miei predecessori, che si sono gloriati di un potere ricevuto dall’esterno, io non sono un erede adottato, ma sono l’unico ad essere nato nella dimora di un sovrano; non furono fasce comuni ad avvolgermi appena nato, ma fu la porpora imperiale ad accogliermi e il sole mi vide nello stesso istante uomo e imperatore. 6. Tenendo conto di ciò, sarete disposti ad amarmi come un imperatore che deriva il suo potere non dalla volontà altrui ma dalla sua nascita. Mio padre infatti, essendo salito al cielo, è ormai compagno degli dei e siede tra di loro. Io devo occuparmi degli affari umani e di amministrare le cose terrene. Compito vostro è di offrire sostegno e protezione, e dispiegare tutto il vostro valore per portare a termine le operazioni di guerra ed estendere l’impero

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Romano sino all’Oceano. Così otterrete gloria e ricambierete con un degno omaggio il ricordo del nostro comune padre. State certi che egli ascolta quel che diciamo e vede quel che facciamo. Dovremmo rallegrarci di compiere il nostro dovere sotto gli occhi di un tale testimone. I vostri passati successi contribuiscono a mostrare la saggezza e le qualità militari di questo grande imperatore; le imprese che compirete con ardore sotto un imperatore giovane come me vi procureranno fama di fedeltà, di valore e di coraggio. 8. Con il valore delle vostre imprese conferirete autorità alla mia giovinezza. Se i barbari saranno battuti all’inizio di un nuovo regno, per ora non oseranno sfidare la mia inesperienza e per il futuro, memori dell’esperienza fatta, avranno timore«. Dopo questo discorso, Commodo si assicurò la benevolenza dei soldati con un generoso donativo e ritornò al quartiere imperiale. ἔλεξε τοιάδε – Il discorso di Commodo è animato da due grandi motivi: la pietas verso il padre e la rivendicazione di essere il primo imperatore »porfirogenito« al quale dunque non è legittimo contrapporre alcun altro. φέρων τέ με πολλάκις ἔτι νήπιον ὄντα ταῖς ὑμετέραις ἐνεχείρισε πίστεσι – Marco aveva preparato per tempo la successione di Commodo: nel 166, a soli cinque anni, questi ricevette il titolo di Cesare insieme al fratello M. Annio Vero (morto nel 169) e partecipò al trionfo partico di Marco e Lucio Vero (HA M. Ant. 12, 10; 16, 1; 21, 3; Comm. 1, 10; 11, 13). Nel 172 ebbe il titolo di Germanicus (Dio 71, 3, 5; HA Comm. 11, 13); nel 175 fu ammesso quale sacerdote a far parte di tutti i collegi religiosi, indossò la toga, ottenne il titolo di Sarmaticus e quello di princeps iuventutis e seguì il padre in Germania (HA Comm. 12, 1–2). Tra il 175 e il 176 »accompagnato dal favore dei soldati« (HA Comm. 2, 3), seguì Marco in Siria e in Egitto. Nel 176 fu acclamato imperator insieme al padre con il quale condivise il trionfo (HA Comm. 2, 4; 12, 5; M. Ant. 16, 1–2; 17, 3). Assunse quindi il suo primo consolato, nonostante la giovane età, nel 177 (e un secondo nel 179) nonché i titoli di Augustus e pater patriae, e l’anno seguente partì con Marco ad Germanicum bellum (HA Comm. 2, 4–5; 12, 6). Due giorni prima di morire Marco aveva affidato Commodo ai suoi amici e all’esercito (cfr. supra 1, 4; Dio 71, 34, 1; HA M. Ant. 27, 11–28, 10). La popolarità di Commodo presso gli eserciti è un elemento caratterizzante del suo regno, sottolineata a più riprese da Erodiano (infra 1, 5, 8; 1, 6, 6; 1, 7, 1; 1, 9, 8). Vale la pena notare che la stessa cura della popularitas presso gli eserciti è, in Erodiano, caratteristica anche di Caracalla, un altro malus princeps (cfr. ad es. 4, 7, 6; 4, 14, 4) e di Massimino il Trace (6, 8, 4). L’HA (Comm. 12, 7) riferisce che a Roma Commodo »il 22 ottobre dell’anno del secondo consolato di Presente, fu affidato alla protezione perpetua dell’esercito e del senato nel palazzo Palatino Commodiano« (datus in perpetuum ab exercitu et senatu in domo palatina Commodiana conservan-

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dus XI. Kal. Romanas Praesente iterum consule). La notizia è tratta molto probabilmente dagli Acta Urbis, su cui cfr. Nesselhauf, H., »Die Vita Commodi und die Acta Urbis«, BHAC 1964–1965 (Bonn, 1966), 127–138, 136 e permette tra l’altro di stabilire che il trionfo per la guerra danubiana (su cui cfr. HA Comm. 3, 6) avvenne nell’ottobre del 180. πάντας γὰρ ἡμᾶς ὡς ἕνα ὁ πατὴρ ἐφίλει τε καὶ πᾶσαν ἀρετὴν ἐπαίδευεν – La figura di Marco è anche qui ampiamente idealizzata come già supra 2, 3–5. Cfr. HA M. Ant. 18, 1: cum igitur in amore omnium imperasset atque ab aliis modo frater, modo pater, modo filius, ut cuiusque aetas sinebat, et diceretur et amaretur. Il concetto dell’uguale amore di Marco per il figlio e per gli amici è ribadito per ben due volte in poche righe (cfr. qui supra § 3: ἐκεῖνος γὰρ πάντας ἡμᾶς ὡς ἕνα ἠγάπα). Per l’educazione di Commodo cfr. supra 2, 1 con particolare riferimento a Dio 71, 36, 4 e a HA Comm. 1, 4–5. οὐκ ἐπείσακτον, ὥσπερ οἱ πρὸ ἐμοῦ προσκτήτῳ σεμνυνόμενοι ἀρχῇ – Commodo allude ai cosiddetti »imperatori per adozione« da Traiano ad Antonino Pio, contrapponendo la sua condizione di discendenza di sangue a quella adottiva dei suoi predecessori. Cfr. infra § 6: »Tenendo conto di ciò, sarete disposti ad amarmi come un imperatore che deriva il suo potere non dalla volontà altrui ma dalla sua nascita«. In realtà anche tra quest’ultimi, ad esempio nella successione tra Traiano e Adriano, non mancava un rapporto di parentela diretta (Traiano e Adriano erano cugini) sebbene non così stretta come quella tra Marco e suo figlio. Cfr. Galimberti, A., Adriano e l’ideologia del principato (Roma, 2007), 15–30. ὁ μὲν οὖν πατὴρ εἰς οὐρανὸν ἀναπτὰς ὀπαδὸς ἤδη καὶ σύνεδρός ἐστι θεῶν – Marco fu divinizzato immediatamente dopo la sua morte non soltanto come divus ma anche con il titolo di Pius (ILS 377, 378; HA M. Ant. 18, 3, 5; Eutr. 8, 14). Una statua aurea in suo onore fu posta in senato (Dio 71, 34, 1) e gli fu votato un tempio con sacerdotes, sodales e flamines (HA M. Ant. 18, 8; Aur. Vict. 16, 13; Epitom. de Caes. 16, 14). Erodiano dedica un ampio excursus nel IV libro (4, 2, 1–11) all’apoteosi degli imperatori affermando che »è un costume romano divinizzare (ἐκθειάζειν) gli imperatori morti che lasciano come successori i loro figli«. Tuttavia questa affermazione di Erodiano, se intesa in senso generale, lascia perplessi, mentre trova una spiegazione se riferita alla divinizzazione di Settimio Severo da parte dei figli Caracalla e Geta. A questo proposito Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2898 ha giustamente notato che qui Erodiano »mira a presentare il culto dell’imperatore come un fatto essenzialmente dinastico, legato più ad esigenze politiche che a credenze religiose« e che mentre »Erodiano narra minutamente la consecratio di Settimio Severo, ini-

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ziatore di una dinastia, e dedica brevi accenni alla consecratio di Marco Aurelio da parte del figlio Commodo (I 5, 6) e a quella di Giulia Mesa ad opera del nipote Alessandro Severo (VI 1, 4), non menziona invece minimamente l’iniziativa dello stesso Settimio di divinizzare Commodo e Pertinace, con il fine di presentarsi come loro legittimo successore«. Non so quanto fondamento possa aver l’ipotesi di Whittaker, Herodian, 375 secondo il quale qui Erodiano »was deliberatly writing a parallel« con la descrizione di Dione relativa alla divinizzazione di Pertinace (74, 4, 1–5). La descrizione di Erodiano (che colloca il suo excursus in corrispondenza della divinizzazione di Settimio Severo e non di Pertinace) è molto più ricca di particolari di quella di Dione, conservato nell’estratto di Xifilino; Erodiano infine descrive il rituale dell’apoteosi in generale, Dione facendo espressamente riferimento alla sua testimonianza in qualità di testimone oculare della divinizzazione di Pertinace. Rowan, C., »Rethinking Religion«, 170– 171, oltre ad elencare altre divergenze tra i due resoconti – e a sottolineare come la descrizione erodianea della pira eretta in onore di Settimio Severo collima con le rappresentazioni monetali -, ha osservato come il rituale dell’apoteosi non era statico, identico a se stesso, ma spesso variava in molti particolari a seconda dell’imperatore che riceveva l’apoteosi. εἰ τά τε τοῦ πολέμου λείψανα μετὰ πάσης ἀνδρείας ἀπαλείψαιτε καὶ τὴν Ῥωμαίων ἀρχὴν μέχρις ὠκεανοῦ προαγάγοιτε – La guerra con Quadi e Marcomanni, a cui si erano unite numerose popolazioni germaniche, era ripresa nel 178 (expeditio Germanica secunda) ed era ancora in corso nel 180. Molto discussa è la notizia di HA M. Ant. 24, 5 (cfr. 27, 10), ma già in Dio 71, 33, 42 (»Se Marco fosse vissuto più a lungo avrebbe sottomesso tutti quei territori«) relativa all’intenzione di Marco già nel 175 (all’epoca della rivolta di Avidio Cassio) di risolvere il problema germanico dando vita a due nuove province, di Marcomannia e di Sarmazia (voluit Marcomanniam provinciam, voluit etiam Sarmatia facere, et fecisset, nisi Avidius Cassius rebellaset sub eodem in oriente) a cui mai si approdò, anche perché una parte del consilium di Marco era senz’altro contraria al proseguimento della guerra (cfr. HA M. Ant. 22, 7, su cui soprattutto Birley, Marco Aurelio, 212, 235). Per le differenti valutazioni su questa notizia e, più in generale, sulla politica estera di Marco cfr. Hampl, F., »Kaiser Marc Aurel und die Völker jenseits der Donaugrenze. Eine Quellenkritische Studie«, in W. Fischer (ed.), Festschrift zu Ehren R. Heuberger (Innsbruck, 1960), 33–40; Grosso, La lotta politica, 98–99; Birley, Marco Aurelio, 259– 264; 345–347; Kerler, G., Die Aussenpolitik in der Historia Augusta (Bonn, 1970), 49–81; Alföldy, G., »Der Friedensschluss des Kaisers«, 93–102; Stahl, M., »Zwischen Abgrenzung und Integration: die Verträge der Kaiser Mark Aurel und Commodus mit den Volkern jenseits der Donau«, Chiron 19 (1989), 289–317, 292–300; Schmitt, M. T., Die römische Außenpolitik des

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2. Jahrhunderts n. Chr. Friedenssicherung oder Expansion (Stuttgart, 1997), 176–188; Hekster, Commodus. An Emperor, 40–42; von Saldern, Studien zur Politik, 33–36; Fündling, Marc Aurel, 160–168. Nonostante Marco e Commodo compaiano come propagatores imperii su un medaglione degli ultimi anni del regno di Marco (da Curium, molto probabilmente del 178, cfr. Kaiser-Raiß, M., Die stadtrömische Münzprägung während der Alleinherrschaft des Commodus. Untersuchungen zur Selbstdarstellung eines römischen Kaisers (Frankfurt am Main, 1980), 16, tav. 1, 7), non era senz’altro intenzione di Commodo riprendere i presunti progetti espansivi di Marco e dunque l’affermazione rivolta ai soldati di »portare all’Oceano« i confini dell’impero, se da una parte suona propagandistica, intesa cioè ad enfatizzare le imprese sino allora compiute, dall’altra potrebbe mostrare il desiderio di Commodo di ingraziarsi quella parte dell’ufficialità di Marco che desiderava proseguire la guerra. È significativo infatti che il motivo dell’Oceano sia ripreso poco dopo da Pompeiano nella sua replica a Commodo (cfr. infra 1, 6, 6), portavoce di quella parte degli amici Marci che non intendevano interrompere la guerra. Di fatto Commodo aveva continuato a combattere con i Germani sino all’autunno del 180 (Eutr. 8, 15, 1; Aur. Vict. 17, 2 su cui Alföldy, G., »Der Friedensschluss des Kaisers«, 104; Marasco, G., »Commodo e i suoi apologeti«, Emerita 64 (1996), 229–238) quando fece ritorno a Roma, dopo aver stretto accordi con Quadi e Marcomanni e altre popolazioni germaniche e aver affidato ai suoi generali il compito di respingere altre offensive (cfr. infra 1, 6, 8; Dio 72, 2, 1 e 4–3, 1–3; HA Comm. 13, 5). Sui Germani Commodo celebrò il trionfo e ricevette la sua IV salutatio (ILS 1420; HA Comm. 3.6; Hier. Chron. 208 Helm; Oros. 7, 16, 2; Iordan. Rom. 273). Tuttavia secondo Alföldy, G., »Der Friedensschluss des Kaisers«, 93 in Erodiano il motivo dell’Oceano è »nur ein rhetorischer Ausdruck«. Per Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2883, l’aspirazione a portare i confini dell’impero all’Oceano è da attribuire alle aspirazioni di Erodiano che riflette preoccupazioni della sua epoca, riguardo alla minaccia di un’invasione da nord: per questo Erodiano approverebbe i progetti espansionistici di Massimino il Trace (7, 2, 9): ἠπείλει γάρ (καὶ ποιήσειν ἔμελλεν) ἐκκόψειν τε καὶ ὑποτάξειν τά μέχρις ὠκεανοῦ Γερμανῶν ἔθνη βάρβαρα. Non è affatto improbabile che qui Erodiano risenta di un dibattito a lui contemporaneo, che tuttavia affonda le sue radici già in epoca augustea: infatti il motivo dell’estensione dei limites imperii sino all’Oceano, inteso come le foci dell’Elba, è attestato con chiarezza in Augusto (RG 26) e prosegue ininterrottamente sino al V sec. d. C. (cfr. Zecchini, G., »I confini occidentali dell’impero romano: la Britannia da Cesare a Claudio«, CISA 13 (1987), 250–271; Utopie militari tardoantiche?, in C. Carsana / M. T. Schettino (ed.), Utopia e utopie nel pensiero storico antico (Roma, 2008), 195– 206; »La politica di Roma in Germania da Cesare agli Antonini«, Aevum 84

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(2010), 187–198). Non stupisce dunque che Pompeiano, che era il capofila degli amici Marci favorevoli al proseguimento della guerra caldeggi qui di fronte alle truppe l’estensione dei fines imperii sino all’Oceano. ὅσα δ᾽ ἂν σὺν ἐμοὶ βασιλεῖ νέῳ προθύμως ἐπιδείξησθε,〈ἐκ〉τούτων τὴν δόξαν πίστεώς τε ἀγαθῆς καὶ ἀνδρείας〈αὐτοὶ〉ἀποίσεσθε – Sul motivo della gioventù e dell’inesperienza è giocato in gran parte il ritratto erodianeo di Commodo che, per queste sue caratteristiche, inclina alla tirannide (cfr. supra 1, 1, 6; 1, 3, 1; cfr. anche 2, 10, 3 sulla debolezza di carattere di Commodo). Di fatto però Commodo, nonostante la giovane età, aveva seguito il padre per parecchi anni durante le guerre sul fronte settentrionale (cfr. supra 1, 3, 5). Sugli impulsi tirannici e sanguinari del giovane Commodo insiste il ritratto dell’HA (cfr. ad es. Comm. 1, 9). Per Dione (72, 1, 1) invece »Commodo non era malvagio di natura, anzi era privo di cattiveria come qualsiasi altro uomo. La sua grande semplicità, accanto alla sua codardia, lo rese schiavo dei suoi compagni (ἐδούλευσε τοῖς συνοῦσι), dai quali, inizialmente indotto a cattive consuetudini per ignoranza delle cose migliori, fu in seguito spinto a mutare la sua indole che divenne violenta e sanguinaria«. Tuttavia lo stesso Dione (71, 36, 4) ritiene che la successione di Commodo a Marco segni il passaggio dall’età dell’oro a quella del ferro. Su questo giudizio cfr. Millar, A Study, 122–123 e supra 1, 2, 4. Non c’è motivo di negare che Commodo avesse continuato a combattere con i Germani almeno fino all’autunno del 180 (cfr. supra 1, 3, 5): in Erodiano il motivo del deterrente è invocato da Commodo mentre si rivolge ai soldati ed è ripreso da Pompeiano nella sua replica a Commodo (cfr. infra 1, 6, 5); in Dione (72, 2, 2) suona invece come biasimo nei confronti del rientro a Roma deciso da Commodo proprio nell’autunno del 180: »E tuttavia, nonostante Commodo avesse potuto facilmente distruggerli (scil. Marcomanni e Quadi), tuttavia, poiché aveva in odio la fatica e desiderava la confortevole vita della città, strinse accordi con loro«.

6. §§ 1–2

Per un breve lasso di tempo si fece tutto secondo la volontà degli amici paterni, che quotidianamente stavano al suo fianco consigliandolo per il meglio, concedendogli il tempo che ritenevano sufficiente per una corretta cura della sua salute fisica. Ma alcuni servi della corte imperiale tentarono di corrompere surrettiziamente il temperamento giovanile dell’imperatore; i

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parassiti, la cui felicità consiste nel cibo e nei vizi depravati, gli ricordavano le delizie di Roma, evocando tutti i piaceri che si potevano vedere e sentire, enumerando il gran numero di comodità, criticando tutte le stagioni sulle rive dell’Istro, una regione sterile, fredda e sempre coperta di nubi. »Signore, quando smetterai – dicevano – di bere acqua ghiacciata e torbida, mentre altri si godranno le sorgenti calde e fredde, l’aria e il cielo di cui solo l’Italia è ricca?«. Insinuando tali idee nel giovane [Commodo], risvegliavano in lui il suo desiderio di cedere ai piaceri. παρεισδύντες δέ τινες τῶν ἐπὶ τῆς αὐλῆς οἰκετῶν – Tra i cortigiani di Commodo spiccano senz’altro Saotero e Cleandro, su cui cfr. Grosso, La lotta politica, 113–124; 197–209; Alföldy, G., Die Krise, 81–126; De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 139–189; von Saldern, Studien zur Politik, 190– 217. Saotero di Nicomedia era stato cubicularius di Commodo prima di Cleandro e aveva partecipato a fianco dell’imperatore al trionfo da lui celebrato sui Germani (cfr. supra 1, 3, 5) al suo rientro a Roma nel 180 (HA Comm. 3, 6), circostanza che spinge a pensare che egli fosse presente in Germania al fianco di Commodo dopo la morte di Marco. Grazie al suo potere i suoi concittadini di Nicomedia »ottennero dal senato il privilegio di celebrare alcuni giochi e di erigere un tempio a Commodo« (Dio 72, 12, 2). Saotero sarebbe stato fatto assassinare da Cleandro secondo Dio 72, 12, 2; ma, diversamente, HA Comm. 4, 5 imputa la morte di Saotero ai prefetti del pretorio – e in particolare a Tarrutieno Paterno – preoccupati che Commodo fosse venuto in odio al popolo a motivo della potentia di Saotero. Sulla potentia di Saotero insiste la De Ranieri, C., »La gestione politica di età commodiana e la parabola di Tigidio Perenne«, Athenaeum 86 (1998), 397–417, 400–401, per la quale il ruolo rivestito da Saotero prefigurerebbe quello di Cleandro e sarebbe »il primo tentativo attuato da Commodo di affiancarsi un consigliere ed un uomo di fiducia che, pur senza esercitare una carica ufficiale, fungesse da ›filtro‹ fra il sovrano e l’apparato amministrativo«. Su ciò cfr. anche Hekster, Commodus. An Emperor, 75–77; scettico von Saldern, Studien zur Politik, 52–54 che ritiene la morte di Saotero opera di Paterno (cfr. infra 1, 3, 5). Sulla presunta identificazione di Saotero con Aelius Saoterus che compare in CIL VI 2010, a, 28 in un elenco di senatori appartenenti all’ordo sacerdotum Aug(ustae) Palat(inae), proposta a suo tempo dallo Heer, J. M., »Der historische Wert der Vita Commodi in der Sammlung der Scriptores Historiae Augustae«, Philologus Suppllementband 9, 1 (1904), 1–208, 42 (e accolta da Hohl, Kaiser Commodus, 39 e da Pflaum, H.-G., rec. Hohl, E., Kaiser Commodus, 450; »Le valeur de l’information«, 203) cfr. contra Grosso, La lotta politica, 114–115 con il quale concordo (che l’a cubiculo di Commodo fosse un senatore è del tutto inverosimile, ma soprattutto non è attestato). È lecito invece supporre che Saotero facesse

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parte di quella schiera di custodes vitae pessimi di Commodo di cui parla HA Comm. 2, 6. Erodiano sembra dunque qui recepire il motivo già in Dione (su cui cfr. supra 1, 1, 6 e Introduzione, 19, 23, 29) della corruttela del giovane Commodo ad opera di turpi consiglieri e parassiti. In Dione troviamo lo stesso motivo in relazione a Caracalla, a cui Commodo sembra essere implicitamente accostato: infatti, parlando della potenza dei liberti di Caracalla (77, 21, 2–3), Teocrito ed Epagato – che erano arrivati a rivestire comandi militari – Dione ricorda che Teocrito era stato danzatore e amante di Saotero. Al frigio Cleandro, già nutritor di Commodo, Erodiano dedica un’ampia sezione del primo libro per cui si veda infra 1, 12–13. διαβάλλοντές τε πᾶσαν τὴν ἐπὶ ταῖς ὄχθαις τοῦ Ἴστρου ὥραν – L’Istro è l’odierno Danubio. Erodiano pone particolare attenzione alle vicende del limes danubiano nel corso di tutta la sua opera, con particolare riferimento al vigore e all’esperienza degli eserciti stanziati in queste zone e soprattutto in riferimento alle truppe arruolate fra Pannoni e Illiri che, a suo avviso, sono le migliori, in grado di difendere il dominio romano dai barbari: cfr. 2, 8, 10; 2, 9, 11; 2, 10, 5–8; 2, 11, 1; 3, 4, 1 e 5; 4, 7, 3; 4, 15, 2; 6, 2, 2; 6, 4, 3; 6, 6, 2; 6, 7, 6–7 (breve descrizione della rigidità del clima delle regioni danubiane); 6, 8, 3. In effetti il ruolo crescente delle truppe di Pannonia e Illiria nella difesa dell’impero, ma anche nella creazione di nuovi imperatori, è un dato caratterizzante della storia del III secolo. Su alcuni di questi passi cfr. in breve Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2878. Non credo che qui Erodiano intenda parodiare, come vorrebbe Whittaker, Herodian, 29, il Peloplaton di Alessandro, ab epistulis Graecis di Commodo (Philostr. VS 2, 572). Più pertinente mi sembra invece il richiamo dello stesso Whittaker, Herodian, 31 alla contrapposizione tra clima danubiano e quello italico presente in Erodiano (cfr. anche infra 1, 7, 1), ma già in un passo di Eliano (VH 9, 16).

§3

Avendo convocato improvvisamente gli amici disse che voleva tornare in patria: tuttavia, vergognandosi di ammettere i motivi dell’improvvisa partenza, fingeva di temere che qualche ricco nobile occupasse colà il cuore dell’impero, e come da una cittadella fortificata, avendo raccolto truppe e risorse, puntasse ad impadronirsi dell’impero. Ci sarebbe stata gente sufficiente per arruolare una massa di giovani scelti.

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αἰφνιδίωῃ δὲ καλέσας τοὺς φίλους ποθεῖν ἔλεγε τὴν πατρίδα – La decisione di Commodo di abbandonare la Germania e di ritornare a Roma è presentata da Erodiano come repentina (cfr. infra 1, 6, 8; 1, 7, 2) e pretestuosa. In realtà Commodo non si ritirò immediatamente, come lascia intendere lo stesso Erodiano poco oltre (cfr. infra 1, 6, 7), ma, come rivela il confronto con fonti più tarde (Eutropio e Aurelio Vittore), continuò a combattere (cfr. supra 1, 5, 6) e, anche una volta deciso il suo rientro, lasciò ai suoi generali l’incarico di contenere le iniziative dei barbari (cfr. soprattutto HA Comm. 13, 5–6). Nonostante Pompeiano nella sua replica a Commodo cerchi di rassicurare l’imperatore circa l’inesistenza di una congiura ai suoi danni, a me sembra che ci siano indizi che facciano pensare a questa eventualità (così, in un accenno, anche Hekster, Commodus. An Emperor, 46: »It is doubtful whether there was nobody in the capital who could, and wanted to, undermine the new emperor’s position, and Commodus’ haste to establish himself there is not surprising«). In particolare (Galimberti, A., »Commodo, la pace del 180 e il processo ai Cassiani«, Athenaeum 98 (2010), 487– 501) credo debbano essere valorizzate in questo senso le testimonianze della Vita Avidii Cassii dell’HA (13, 6–7) nonché di Tertulliano (Ad Scap. 2, 5), secondo le quali Commodo aveva fatto condannare a morte quanti tra i seguaci della rivolta di Avidio Cassio nel 175 (i cosiddetti cassiani) erano rimasti vivi, »come se fossero stati colti in flagrante complotto (quasi factione deprehensos)« (Avid. Cas. 13, 7). Il processo contro i Cassiani venne celebrato molto probabilmente nel 181 (Grosso, La lotta politica, 135) e dunque il rientro di Commodo nell’autunno del 180 può essere stato vieppiù sollecitato dall’incombere di una congiura a Roma. Ad essa non dovevano essere estranei alcuni senatori, come rivela qui Erodiano nonché Dio 72, 30 e HA Avid. Cas. 8, 7 e 12, 4, i quali assicurano che Marco aveva richiamato dall’esilio alcuni senatori che, in un primo momento, erano stati proscritti. L’ottima accoglienza ricevuta da Commodo al suo rientro a Roma sia dal senato che dal popolo di cui parla Erodiano (cfr. infra 1, 7, 3), lascia intendere che egli, nonostante la rottura con una parte degli amici Marci, non si era affatto alienato le simpatie della maggior parte del senato. Non si può infine escludere che questi Cassiani trovassero appoggio nel prefetto del pretorio Tarrutieno Paterno vicino ai circoli anticommodiani, come rivela il fatto che di lì a poco partecipò alla congiura di Lucilla (su cui cfr. infra 1, 8, 4–7). La nomina di Tigidio Perenne a prefetto del pretorio accanto a Paterno (su cui cfr. infra 1, 8, 1) potrebbe essere interpretata anche alla luce del bisogno di Commodo di contrastare l’opposizione di Paterno: Erodiano infatti (cfr. infra 1, 8, 1) individua nella nomina di Perenne il distacco consumato da Commodo nei riguardi degli amici Marci a cui senz’altro Paterno apparteneva.

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§§ 4–6

Mentre il giovane accampava questi pretesti, i presenti erano profondamente preoccupati e rivolsero gli occhi a terra pieni di tristezza. Ma Pompeiano, che era il più anziano di tutti ed era imparentato con Commodo per via del suo matrimonio (aveva sposato infatti la più grande delle sorelle di Commodo), disse: »È normale, figlio mio e mio signore, che tu desideri ritornare in patria: noi stessi siamo presi dallo stesso desiderio di rivedere quanti abbiamo lasciato a casa. 5. Ma la situazione qui presente è più importante e più urgente dei nostri desideri; godrai delle comodità di Roma più tardi e per tutto il tempo che vorrai: Roma è là dove c’è l’imperatore. Lasciare la guerra incompiuta, oltre che disonorevole, è insicuro. Concederemo ai barbari di riprendere coraggio, e non penseranno che proviamo nostalgia di ritornare a casa, ma che siamo dei fuggiaschi in preda alla paura. 6. Se invece li sottometterai tutti e porterai i confini settentrionali dell’impero all’Oceano, sarà bello per te tornare in patria da trionfatore, trascinando in catene re e principi barbari, tuoi prigionieri. È per imprese come queste che i Romani tuoi predecessori sono diventati grandi e celebri. Non devi temere che qualcuno a Roma cerchi di impadronirsi del potere. I senatori più eminenti sono qui al tuo fianco e l’esercito qui presente è tutto schierato a protezione del tuo potere; qui si trovano tutti i tesori imperiali; la memoria di tuo padre ti assicura la lealtà e il favore perenne dei tuoi sudditi«. Πομπηιανὸς δέ, ὃς πρεσβύτατός τε ἦν ἁπάντων καὶ κατ᾽ ἐπιγαμίαν προσήκων αὐτῷ (συνῴκει γὰρ τῇ πρεσβυτάτῃ τῶν ἀδελφῶν τοῦ Κομόδου) – Tiberio Claudio Pompeiano, cavaliere di Antiochia di Siria, aveva sposato Lucilla, sorella di Commodo, dopo la morte di Lucio Vero nel 169. Era stato legato di Pannonia Inferiore durante le guerre marcomanniche nel 167 e aveva quindi rivestito il consolato nel 173 (cfr. Alföldy, G., Konsulat und Senatorenstand unter den Antoninen (Bonn, 1977), 184 per un presunto consolato prima del 173). Nel discorso di Pompeiano prevale la preoccupazione di non mostrarsi arrendevoli di fronte ai barbari, tema che però già Commodo aveva espresso davanti ai soldati (cfr. supra 1, 5, 8). Anche il tema della propagatio imperii (»se invece li sottometterai tutti e porterai i confini settentrionali dell’impero all’Oceano«) è una ripresa di quanto già espresso da Commodo e mi sembra eccessiva la puntualizzazione di Alföldy, G., »Der Friedensschluss des Kaisers«, 87 n. 14 che ritiene il riferimento di Pompeiano all’Oceano settentrionale e non al solo Oceano (come in Commodo) un indizio della superiore cultura geografica del primo rispetto alla grossolana ignoranza del secondo. Piuttosto il riferimento di Pompeiano all’Oceano setten-

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trionale potrebbe celare (cfr. supra 1, 5, 6) l’indicazione delle foci dell’Elba quale obiettivo dell’espansione romana. Ciò che invece mi sembra caratterizzi il discorso di Pompeiano è il tentativo di rassicurare Commodo circa i timori – a mio avviso più che fondati – di una congiura ai suoi danni, e di far leva sulla memoria di Marco che, come s’è visto (cfr. supra 1, 4, 4 e infra 1, 8, 3), è uno dei temi che caratterizza l’esordio del primo libro di Erodiano attraverso il ritratto ideale di Marco fatto proprio dai suoi amici. L’efficace espressione »Roma è là dove c’è l’imperatore« messa qui in bocca a Pompeiano, è contraddetta dal discorso di Settimio Severo in 2, 10, 9 (cfr. Whittaker, Herodian, 213): φθάσωμεν οὖν την Ῥώμην προκαταλαβόντες, ἔνθα ἡ βασίλειος ἔστιν ἑστία. Erodiano peraltro ricorda l’importanza per il nuovo imperatore di far ritorno a Roma anche a 3, 15, 6; 5, 2, 3; 5, 5, 1.

§7

Queste furono le parole con le quali Pompeiano riuscì a trattenere per un po’ di tempo il giovane dai suoi propositi e a ridurlo a più saggi consigli. Commodo infatti, impressionato da queste parole, incapace di dare una risposta ragionevole, congedò gli amici, dicendo che avrebbe riflettuto da sé più a fondo sul da farsi. διέτρεψε πρὸς ὀλίγον τὸ μειράκιον – Il resoconto di Erodiano, pur non precisando esattamente i termini cronologici entro i quali Commodo rimase ancora sul fronte danubiano (cfr. anche supra 1, 6, 1), lascia intendere che l’imperatore non mosse subito verso Roma. Le altre fonti ci assicurano che tra la morte di Marco (17 marzo) e il rientro di Commodo a Roma (autunno 180) trascorsero poco meno di sette mesi, durante i quali Commodo non aveva affatto interrotto le operazioni belliche avviate da Marco, come del resto lo stesso Marco aveva raccomandato al figlio sul letto di morte (cfr. supra 1, 5, 6 e HA M. Ant. 28, 1: atque ab eo primum petit, ut belli reliquias non contempneret, ne videretur rem publicam prodere) e aveva concluso un accordo di pace coi popoli germanici incaricando i suoi legati di completare le operazioni di pacificazione. Vale la pena rilevare che gli accenni in Erodiano alla permanenza di Commodo in Germania sembrano deliberatamente contrastare con l’estemporaneità della decisione di rientrare a Roma e la celerità con cui fu posta in atto (cfr. supra 1, 6, 3: »Avendo convocato improvvisamente gli amici disse che voleva tornare in patria: tuttavia vergognandosi di ammettere i motivi dell’improvvisa partenza (…)«; infra 1, 6, 8: »Ma i servi lo incalzavano ed egli smise di consultare gli amici

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e annunciò la sua partenza«; 1, 7, 2: »Commodo svolse il suo viaggio animato da un ardore giovanile«), che si ritrova anche in Cassio Dione (72, 1, 2): ἐς τὴν Ῥώμην ἠπείχθη. Non escluderei che qui Erodiano accosti due tradizioni diverse: una favorevole a Commodo, l’altra ostile. Per la discussione sulle fonti di Erodiano cfr. Introduzione, 11–22.

§8

Ma i servi lo incalzavano ed egli smise di consultare gli amici e annunciò la sua partenza, non prima di aver inviato istruzioni per iscritto con le quali incaricava persone di sua fiducia della difesa delle sponde dell’Istro e di respingere le incursioni dei barbari. Costoro dunque eseguirono i compiti che erano stati loro affidati: in breve tempo ebbero ragione con le armi della maggior parte dei barbari, mentre si assicurarono senza difficoltà l’amicizia degli altri attraverso ingenti somme. οἳ μὲν οὖν διῴκουν τὰ ἐγκεχειρισμένα … ἐς φιλίαν ἐπηγάγοντο ῥᾷστα πείσαντες – Un passo della Vita Commodi (13, 5–6) rivela che, presumibilmente tra il 182 e il 188 (Magie, D., Roman Rule in Asia Minor to the end of the third century after Christ (Princeton, 1950), 296 nn. 1–5) furono vinti Mauri e Daci e vennero pacificate la Pannonia e la Britannia (su cui cfr. infra 1, 1, 9). Sono noti i comandanti di Dacia, Pannonia Inferiore e Rezia di questi anni (Alföldy, G., »Der Friedensschluss des Kaisers«, 108; Römische Heeresgeschichte (Amsterdam 1987), 333; Piso, I., Fasti Provinciae Daciae 1. Die senatorische Amtsträger (Bonn, 1993), 131–144): governatore della Dacia tra 179 e 182/3 era C. Vettio Sabiniano e poi fino al 185/6 L. Vespronio Candido Sabiniano, della Pannonia Inferiore tra il 179 e il 182 L. Settimio Flacco, della Rezia tra 178/179 e 181 M. Elvio Clemente Dextriano. Sconosciuti sono i successori di Pertinace in Mesia Inferiore e di Sesto Quintilio Condiano (figlio di Sesto Quintilio Valerio Massimo console del 151) in Pannonia Superiore dopo il 179. Sono conservati per via epigrafica (ILS 1436, AE 1914, 248, ILS 1124, AE 1956, 124) i nomi di alcuni ufficiali che Commodo, prima di rientrare a Roma, aveva premiato per il loro valore: C. Annio Flaviano, M. Rossio Vitulo, L. Ragonio Urinazio Larcio Quinziano, M. Valerio Massimiano (cfr. Grosso, La lotta politica, 467). Commodo ottenne la VI salutatio imperatoria verso la metà del 183 per la vittoria sui Daci (Dio 72, 8, 1; HA Comm. 6, 1). Al 185 circa appartiene il rafforzamento del limes della Pannonia Inferiore per impulso di Tigidio Perenne e di suo figlio (cfr. Bersanetti, G. M., »Perenne e Commodo«, Athenaeum 29 (1951), 151–170, 163–168). Per la costruzione di burgi e praesidia

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in Pannonia cfr. Fitz, J., »Maßnahmen zur militärischen Sicherheit in Pannonia Inferior unter Commodus«, Klio 39 (1961), 199–214. Sulla riorganizzazione dei confini sotto Commodo cfr. ora von Saldern, Studien zur Politik, 98–114. L’HA (Comm. 12, 8) afferma che Commodo aveva intenzione di intraprendere una terza expeditio Germanica poi abbandonata per volere di senato e popolo. Da respingere l’identificazione della expeditio tertia con il bellum desertorum proposta da Heer, J. M., »Der historische Wert«, 111 e accolta da Grosso, La lotta politica, 490–497 e in maniera dubitativa da Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 102: il bellum appartiene al 185/6, mentre la expeditio tertia sarebbe del 188, cfr. Alföldy, G., »Bellum desertorum«, BJ 171 (1971), 367–376 (= Die Krise, 69–78; add., 79–80); von Saldern, Studien zur Politik, 78–80. Sulle guerre di Commodo cfr. da ultimo von Saldern, Studien zur Politik, 68–97.

§9

I barbari infatti sono per natura avidi di ricchezze e, disprezzando i pericoli, si procurano i mezzi di sussistenza necessari con scorrerie e colpi di mano e contrattano la pace in cambio di grandi ricompense. Commodo, comprendendo tutto ciò, diede loro tutto quel che chiedevano, spendendo senza risparmio e usando le ricchezze senza riguardo. φύσει γὰρ τὸ βάρβαρον φιλοχρήματον … ὁ Κόμοδος … ὠνούμενος ἀφειδῶς τε ἔχων χρημάτων, πάντα ἐδίδου τὰ αἰτούμενα – Di compensi offerti da Commodo ai barbari (cfr. supra 1, 6, 8) Erodiano parla anche a 2, 2, 8 contrapponendo Pertinace al suo predecessore, in quanto il primo si era servito di χρήματα per sconfiggerli, il secondo si era valso del timore (φόβῳ) che incuteva con il suo comando. Dione (73, 6, 1) riferisce che poco dopo l’elezione di Pertinace una delegazione di barbari fu sollecitata dal prefetto del pretorio Leto a restituire l’oro che aveva ricevuto da Commodo per la pace, riferendo che ora regnava Pertinace, che i barbari conoscevano bene per aver sofferto pesanti rovesci ad opera sua durante le guerre sotto Marco. Sull’avidità dei barbari in Erodiano cfr. 6, 7, 9: »Questo (scil. la promessa di denaro) è per i Germani un argomento assai persuasivo; poiché sempre sono desiderosi di arricchirsi e mercanteggiano coi Romani la pace a peso d’oro«. Dalla testimonianza di Erodiano sembra dunque che Commodo si limitasse a comprare a peso d’oro la pace con i barbari. In realtà gli accordi di pace stipulati da Commodo con le popolazioni germaniche conservati da Dione (72, 2, 1, 4 e 3, 1–3) mostrano che non si trattò affatto di un pace

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disonorevole. Le condizioni imposte da Commodo prevedevano che, in aggiunta a quelle già imposte da Marco in passato (a cui dunque Commodo si rifaceva espressamente), i Marcomanni avrebbero dovuto restituire i disertori e i prigionieri, fornire un quantitativo annuale di grano, armi e soldati (13.000 dai Quadi e un numero inferiore dai Marcomanni, che però venivano esentati dall’obbligo di fornire un contingente annuale di soldati) e che potessero radunarsi soltanto una volta al mese in un luogo prestabilito alla presenza di un centurione romano e non potessero portar guerra agli Iazigi, ai Buri, ai Vandali. Coi Buri e con altri popoli fu poi stipulata una pace separata (segno che anche con costoro si era molto probabilmente combattuto), che prevedeva la restituzione degli ostaggi (ben 15.000) e la proibizione di praticare la pastorizia a meno di cinque miglia dal confine dacico. Lo stesso governatore della Dacia M. Vettio Sabiniano riuscì a dissuadere un vasto contingente di Daci, pronti a soccorrere i loro vicini, con la promessa di insediarli nei territori romani. Molto ostile è infine la testimonianza del biografo dell’HA (Comm. 3, 5), secondo il quale Commodo si sarebbe addirittura piegato alle condizioni dei barbari (bellum etiam, quod pater paene confecerat, legibus hostium addictus remisit ac Romam reversus est).

7. §1

Quando fu resa nota la partenza, un grandissima agitazione si impadronì dell’esercito e tutti desideravano seguire Commodo, da un parte per sottrarsi al disagio della guerra e dall’altra per godere delle delizie di Roma. Dopo che si sparse la notizia e i messaggeri annunciarono la partenza dell’imperatore, il popolo di Roma gioì: nutriva infatti grandi speranze nel ritorno del giovane principe, ritenendo che il ragazzo fosse degno del padre. ὁ Ῥωμαίων δῆμος καὶ χρηστὰς εἶχεν ἐλπίδας νέου αὐτοκράτορος ἐπιδημίᾳ, πατρῴζειν τὸ μειράκιον ἡγούμενοι – Siamo di fronte ad una tradizione positiva su Commodo, diversa da quella dell’HA che ritiene Commodo prima statim pueritia un erede indegno del padre, corrotto e crudele (cfr. ad es. Comm. 1, 7–9). Questa tradizione favorevole (cfr. soprattutto infra §§ 2–3) s’incentra sul buon rapporto tra Commodo e il popolo: proprio il timore della perdita del favore popolare è infatti in Erodiano all’origine di alcuni importanti episodi del regno di Commodo (soprattutto l’affaire di Cleandro, su cui cfr. infra 1, 12–13) e segna la rovina del principe stesso negli ultimi anni (cfr. Hekster, Commodus. An Emperor, 77–86). Un

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accenno a questa tradizione favorevole nel rapporto tra Commodo e il popolo anche in Dio 72, 7, 4 (ἔστι δέ τι καὶ δημωφελὲς ὑπ᾽ αὐτοῦ πραχθέν). Sull’attenzione di Erodiano per il popolo cfr. Zimmermann, M., »Herodians Konstruktion der Geschichte und sein Blick auf das stadtrömische Volk«, in Id. (ed.), Geschitsschreibung und politischer Wandel im 3. Jh. n. Chr.: Colloquium zu Ehren von Karl-Ernst Petzold (Juni 1998) anlässlich seines 80. Geburtstag (Stuttgart, 1999) 120–143.

§2

Commodo affrontò il viaggio animato da ardore giovanile, attraversando rapidamente le città: ovunque lo accoglievano con il riguardo che si deve all’imperatore e le sue apparizioni furono segnate da feste popolari suscitando in tutti affetto e ammirazione. διαδραμὼν τὰς ἐν μέσῳ πόλεις – Commodo scese lungo il corso meridionale del Danubio ed entrò in Italia transitando per Aquileia: cfr. Calderini, A., Aquileia romana (Milano, 1930), 49, che chiama in causa ILS 3228 in cui compare un’allusione ad Ercole (eroe prediletto da Commodo) e ad una pace (quella del 180?). Anche tenendo conto che l’associazione tra Commodo ed Ercole appare già su una gemma del 176 (Giuliano, A., »Un cammeo con Commodus-Herakles«, MDAIR 102 (1995), 327–329), a me sembra che questi indizi siano un po’ fragili.

§§ 3–4

Quando giunse nei pressi di Roma tutto il senato e tutti gli abitanti di Roma, incapaci di trattenersi e desiderosi ciascuno di essere il primo, portando quanto più potevano corone di alloro e tutti i fiori che fiorivano in quella stagione, gli si facevano incontro quand’era ancora distante dalla città per vedere il loro giovane e nobile principe. 4. Lo amavano infatti con sincero affetto poiché era nato e cresciuto presso di loro e discendeva da tre generazioni di imperatori e di nobili romani. Infatti dal lato paterno apparteneva ad una nobile famiglia senatoria; sua madre Faustina era stata imperatrice ed era figlia di Antonino, detto il Pio; era nipote di Adriano per linea femminile e faceva risalire la sua stirpe a Traiano come bisnonno. θεασόμενοι τὸν νέον καὶ εὐγενῆ βασιλέα … καὶ ᾽Αδριανοῦ ἔκγονος 〈καὶ〉κατὰ θηλυγονίαν – In un’iscrizione di Cirta del 185/6 (ILS 397) Commodo è nobilissimus omnium princeps e la sua ascendenza è fatta risa-

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lire a Nerva (divi Nervae adnepos), dunque a cinque generazioni prima. Per quanto riguarda la discendenza da nobili romani va ricordato che in effetti la famiglia di Marco vantava da almeno tre generazioni personaggi nobili di rango consolare. Lucarini, Herodianus, 9, segue Cassola, F., »Note critiche al testo di Erodiano«, RAAN 38 (1963), 139–143, 139, il quale espunge κατὰ θηλυγονίαν e pensa che Erodiano alluda alla parentela per adozione di Faustina minore (madre di Commodo) con Adriano. Ma così non si rende giustizia né al testo, che non presenta incertezze, né alla realtà dei fatti. Letta, C., »Faustina minore discendente di Adriano ›in linea femminile‹?: nota testuale a Erodiano 1, 7, 4«, RFIC 133 (2005), 202–205, che preferisce mantenere〈καὶ〉κατὰ θηλυγονίαν, ha ricostruito la discendenza di Faustina da Adriano anche per parte femminile, supponendo una parentela a noi ignota tra il nonno materno di Faustina, M. Annio Vero, e Adriano. In questa ricostruzione la parentela tra Faustina e Traiano risulta per via adottiva. Il Letta propone pertanto la seguente traduzione »esplicativa«: »Infatti per parte di padre la sua stirpe discendeva (per sangue) da nobili membri del senato, mentre sua madre Faustina (minore) era stata imperatrice, essendo figlia (naturale) di Antonino Pio e, per parte femminile, discendente (naturale) di Adriano, e faceva poi risalire la propria stirpe a Traiano, come suo bisnonno (adottivo)«. Per parte mia (Galimberti, Adriano e l’ideologia, 41–43) ho proposto di far risalire la linea femminile di parentela (naturale) tra Faustina e Adriano al matrimonio tra Rupilia Faustina e M. Annio Vero, in quanto Rupilia Faustina (nonna materna di Faustina minore) era figlia di Matidia nipote di Traiano e suocera di Adriano. La mia ipotesi mi sembra abbia il vantaggio di spiegare la parentela naturale tra Faustina minore e Traiano nonché l’esattezza del dato di Erodiano (tre generazioni di imperatori) ché altrimenti andrebbe corretto, in base all’iscrizione menzionata, a cinque generazioni: così facendo però il calcolo comprenderebbe le relazioni parentali per adozione di cui Erodiano non parla.

§5

Commodo apparteneva dunque a questa famiglia, era nel fiore dell’età, di piacevole aspetto, fisicamente proporzionato, il volto bello e virile. Gli occhi erano dardi infuocati, i capelli naturalmente ricci e biondi a tal punto che, quando camminava sotto il sole, gettavano riflessi così lucenti che facevano pensare che si cospargesse di polvere d’oro e alcuni lo adoravano come un dio, sostenendo che dal suo capo promanava un bagliore celeste: la barba, che gli ricopriva le guance, era un’efflorescenza.

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καὶ τὴν ὄψιν ἦν ἀξιοθέατος σώματός τε συμμετρίᾳ καὶ κάλλει προσώπου μετ᾽ ἀνδρείας … ἐπήνθουν – Cfr. HA Comm. 17, 3: »Era fisicamente ben proporzionato, ma con il volto ebete tipico degli avvinazzati; il suo parlare era grossolano; i capelli sempre lisciati e lumeggiati di polvere d’oro; per timore del barbiere regolava barba e capelli bruciandoseli«. Tuttavia per HA Comm. 13, 1 Commodo era anche debole e malaticcio e soffriva di un’ernia inguinale. Non escluderei che qui Erodiano offra un ritratto fisico di Commodo in quanto testimone oculare. Per l’iconografia di Commodo e i problemi di autorappresentazione cfr. ora Heskster, Commodus. An Emperor, 87–193.

§6

I Romani, contemplando un tale imperatore, lo accoglievano con ogni sorta di acclamazione e con lanci di corone e di fiori. Come entrò a Roma, salì al tempio di Giove e agli altri templi e subito indirizzò ringraziamenti al senato e ai soldati che erano rimasti in città per la loro fedeltà e poi si ritirò nel Palazzo imperiale. εἰς τε τοῦ Διὸς τὸ τέμενος καὶ τοὺς ἄλλους νεὼς ἀνελθὼν – Il sacrario di Giove è quello del tempio Capitolino. Erodiano registra puntualmente nella Storia il rispetto delle pratiche religiose tradizionali da parte degli imperatori e in particolare dei sacrifici: cfr. 3, 8, 5; 5, 5, 10; 6, 4, 2; 8, 3, 7; 8, 6, 7–8; 8, 7, 3. In ciò non sembra esserci distinzione tra boni e mali principes. Tra gli »altri templi« si possono ricordare quello di Venere e quello di Ercole a cui Commodo, come è noto, era particolarmente legato. καὶ τοῖς ἐν Ῥώμῃ καταλειφθεῖσι στρατιώταις χαριστήρια ὁμολογήσας τῆς φυλαχθείσης πίστεως – L’allusione è al donativo e al congiarium su cfr. supra 1, 5, 1. Sui congiaria di Commodo (annuali tra il 180–182 cfr. von Saldern, Studien zur Politik, 162–166). Per quanto riguarda il senato apprendiamo da Dione (72, 4, 2–3) – sebbene in modo ostile – che Commodo tenne un discorso in senato »pronunciando numerose trivialità« (πρὸς τὴν γερουσίαν διαλεχθεὶς ἄλλα τέ τινα ἀπελήρησε). Di fatto però la versione di Erodiano, che pur omette il discorso a cui fa cenno Dione, rivela la bontà dei primi rapporti tra Commodo e il senato. Mi domando dunque se il disprezzo rivelato qui da Dione per le parole di Commodo non celi piuttosto un attacco sferrato da Commodo contro i senatori a lui ostili o, più in generale, non risenta dell’astio

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verso Commodo da parte della tradizione senatoria (su cui brevemente Gascó, F., »Las fuentes de la Historia de Herodiano«, Emerita 52 (1984), 355–360; più distesamente Espinosa Ruiz, U., »El reinado de Cómmodo: subjetividad y objetividad en la antigua historiografia«, Gerion 2 (1984), 113–149, 115–119). Per quanto riguarda le truppe di Roma (le coorti urbane e quelle pretoriane) non escluderei che Commodo avesse voluto ricompensarle anche per la fedeltà dimostrata nei suoi confronti in occasione della congiura dei Cassiani (su cui cfr. supra 1, 6, 3).

8. §1

Per pochi anni dunque Commodo accordò agli amici paterni ogni sorta di onore e prendeva ogni decisione consigliandosi con loro. Ma, dopo che assunse direttamente il controllo dell’impero, avendo nominato prefetto del pretorio Perenne, uomo di stirpe italica che godeva fama di virtù militari (proprio questo era il motivo fondamentale per cui l’aveva designato prefetto del pretorio), costui, approfittando della giovane età di Commodo, lasciò che si abbandonasse ai piaceri e ai vizi e lo allontanò dall’impegno nelle cure del governo; χρόνου μὲν οὖν τινὸς ὀλίγων ἐτῶν … ἐπιστήσας τοῖς στρατοπέδοις Περέννιον – I »pochi anni« sono quelli che intercorrono tra la morte di Marco (180) e la nomina di Perenne (entro la prima metà del 182, cfr. Grosso, La lotta politica, 141). La cronologia della nomina di Sesto Tigidio Perenne alla prefettura del pretorio è discussa (Dio 72, 9, 1 [dopo Paterno]; 10, 1 [collega di Paterno]; HA Comm. 14, 8 [Paterno e Perenne colleghi]): sotto Marco per alcuni, sotto Commodo per altri; status quaestionis in De Ranieri, C., »La gestione politica«, 402; cfr. ora da ultimo Firpo, G., »La congiura di Lucilla: alle origini dell’opposizione senatoria a Commodo«, CISA 25 (1999), 237–262, 246–249 (sotto Commodo) e contra Hekster, Commodus. An Emperor, 60; von Saldern, Studien zur Politik, 46. A mio avviso non c’è motivo di mettere in dubbio la testimonianza di Erodiano (che De Ranieri, C., »La gestione politica«, 403 n. 18 accusa di »vaghezza e imprecisione«; cfr. anche Hekster, Commodus. An Emperor, 60). In realtà, anche la discussa testimonianza del biografo (Comm. 14, 8: praefectos Paternum et Perennium non diu tulit, ita tamen ut etiam de iis praefectis, quos ipse fecerat, triennium nullus impleret, quorum plurimos interfecit vel veneno vel gladio), secondo cui Paterno e Perenne rimasero in

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carica non più di tre anni sotto Commodo, mi sembra rafforzi quanto dice Erodiano. Infatti Paterno nel 182, subito dopo la congiura di Lucilla, ottenne la dignità consolare e Perenne morì nel 185: ciò significa che Paterno, come già era noto, era stato nominato da Marco e resse la carica fino al 182 (essendo per un certo periodo collega di Perenne, vale a dire, sotto Commodo, nel 182), mentre Perenne era stato nominato da Commodo per non più di tre anni (182–185). Del resto lo stesso Erodiano poco oltre (1, 9, 10) conferma che Perenne rimase in carica come unico prefetto per la durata del suo mandato: »[dopo la morte di Perenne e i suoi figli] Commodo nominò due prefetti del pretorio ritenendo più sicuro non affidare ad una persona sola (ἀσφαλέστερον ᾠήθη μὴ ἑνὶ πιστεύειν τοσαύτην ἐξουσίαν) un così grande potere: sperava che dividendo la carica avrebbe indebolito l’aspirazione a conquistare il potere«. È interessante notare che Caligola, nei primi mesi del 38, sostiuì il prefetto del pretorio Macrone, reo di aver promosso la successione di Tiberio Gemello, sdoppiando la carica di prefetto (PIR2 A 1073). Credo inoltre che proprio la nomina di Perenne, come afferma qui Erodiano, sia all’origine della rottura tra Commodo e una parte degli amici Marci, aggravatasi in modo irreversibile con la congiura di Lucilla e l’urto col senato (cfr. qui subito infra). Si è visto infatti come, già in occasione della pace del 180, Commodo era entrato in contrasto con quella parte degli amici paterni che erano favorevoli al proseguimento delle guerre sul fronte settentrionale. La nomina di Perenne infine rivela che Commodo non era affatto succube di servi e cortigiani come la tradizione ostile (raccolta anche da Erodiano, cfr. supra 1, 6, 1) lascia intendere. Giustamente Firpo, G., »La congiura di Lucilla«, 255 osserva che quando Erodiano afferma che con la nomina di Perenne alla prefettura del pretorio Commodo »assunse nelle proprie mani la cura del governo«, rivela l’esistenza di una situazione anomala, come se prima di allora Commodo non fosse già imperatore nel pieno dei suoi poteri e con la nomina di Perenne »avesse incrinato un equilibrio basato evidentemente sulla pretesa dell’approvazione preventiva, da parte dei ›tutori‹, di qualsiasi iniziativa imperiale afferente alla sfera pubblica«. ἄνδρα τὸ μὲν γένος ᾽Ιταλιώτην, στρατιωτικὸν δ᾽εἶναι δοκοῦντα (διὸ καὶ μάλιστα ἀυτὸν ἔπαρχον ἐποίησε τῶν στρατοπέδων) - L’ascendenza italica di Perenne non è altrimenti nota. La sua carriera militare si era contraddistinta molto probabilmente per la partecipazione alle guerre marcomanniche, anche se purtroppo non disponiamo di informazioni più precise su di ciò. Secondo Bersanetti, G. M., »Perenne e Commodo«, 163–168 a Perenne è da attribuire l’iniziativa del rafforzamento del limes pannonico dopo il 180. Il suo nome appare già nel testo della Tabula Banasitana del 177, anno in cui molto probabilmente rivestiva la prefettura dell’annona, a

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cui seguì la prefettura del pretorio (su cui cfr. qui supra) che mantenne sine collega fino al 185, anno della sua morte. Durante la sua prefettura, tra il 183–185, condannò a morte il martire Apollonio, senatore romano secondo Sordi, M., »Un senatore cristiano dell’età di Commodo«, in Ead., Impero romano e cristianesimo. Scritti scelti (Roma, 2006 [= 1955]), 377–382; contra Gabba, E., »Il processo di Apollonio«, in Mélanges d’archéologie, d’épigraphie et d’histoire offerts à J. Carcopino (Paris, 1966), 397–402. Fa bene la De Ranieri, C., »La gestione politica«, 405–406 (contra Mommsen, T., Römische Staatsrecht (Leipzig, 31887), 1120 n. 5; Passerini, A., Le coorti pretorie (Roma, 1939), 306; Howe, L. L., The praetorian prefect from Commodus to Diocletian (Chicago, 1942), 12; Bersanetti, G. M., »Perenne e Commodo«, 161; Grosso, La lotta politica, 165) ad insistere sul fatto che la prefettura sine collega non era affatto una novità, né la prefettura di Perenne comportò un ampliamento dei poteri e delle competenze de iure o de facto del prefetto stesso, di cui non v’è traccia nelle fonti. Perenne subì la damnatio memoriae. τῇ τοῦ μειρακίου ἀποχρώμενος ἡλικίᾳ ἐκεῖνος εἴασεν αὐτὸν τρυφαῖς σχολάζοντα καὶ κραιπάλαις〈…〉τῆς τε φροντίδος καὶ τῶν βασιλείων καμάτων ἀπῆγεν αὐτόν – La giovane età di Commodo e la sua propensione ai piaceri sfrenati è motivo già ripetuto più volte da Erodiano nei capitoli precedenti (cfr. supra 1, 1, 6), e diventa qui il mezzo di cui Perenne si serve per concentrare il potere nelle proprie mani. A questo severo giudizio di Erodiano, che si ritrova anche in HA Comm. 5, 2–3, si può tuttavia contrapporre quello di Dione (72, 9, 1) il quale scrive che Perenne »fu costretto« (ἠναγκάζετο) ad occuparsi della cura del governo poiché Commodo era intento solo ad una vita di piaceri, e commenta la notizia della morte del prefetto del pretorio in questo modo (73, 10, 1): »Così Perenne fu ucciso, nonostante egli meritasse una sorte diversa, sia in considerazione della sua persona sia in considerazione dell’interesse di tutto l’impero romano, ad eccezione della sua ambizione, che lo rese il primo responsabile della morte del suo collega Paterno. In privato egli non si dava pensiero per la fama e il potere, ma viveva in modo incorruttibile e moderato e garantì a Commodo ogni difesa del suo potere«. Heer, J. M., »Der historische Wert«, 56–57 ipotizza che Dione abbia un giudizio favorevole su Perenne in quanto destinatario di supposti benefici dal prefetto del pretorio; per Millar, A Study, 128 il giudizio su Perenne è destinato a rimanere sospeso a motivo della contraddittorietà delle fonti. Il Grosso, La lotta politica, 210 ritiene che il giudizio positivo di Dione debba essere letto alla luce dell’implicito confronto che lo storico istituisce con Cleandro, giudicato molto negativamente. Passerini, Le coorti, 294, Howe, The praetorian prefect, 12 e Grosso, La lotta politica, 165, 193 ritengono inoltre che Perenne fosse responsabile della creazione di un nuovo assetto dell’amministrazione imperiale (ma cfr.

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qui supra). Di fatto però non vi è traccia di innovazioni amministrative durante il regno di Commodo riconducibili a Perenne. Secondo la De Ranieri, C., »La gestione politica«, 405 con la nomina di Perenne (come in precedenza con quella di Saotero e successivamente con quella di Cleandro) Commodo intendeva avvalersi »di un collaboratore fidato e competente che fungesse da consigliere e ›supervisore‹ dell’apparato amministrativo, svincolato dall’entourage di Marco, e disposto a perseguire – per conto dell’imperatore- una politica di forte centralizzazione«. A me sembra che l’esistenza di un disegno di Perenne di impadronirsi della »macchina dello stato« approfittando della giovane età di Commodo e del suo disinteresse per il potere sia privo di fondamento; piuttosto credo che la figura di Perenne vada giudicata alla luce del particolare rapporto di fiducia stretto con l’imperatore, che è all’origine dell’ostilità senatoria sia nei confronti di Commodo sia di Perenne, nonché dal ruolo assunto da Perenne nella repressione della congiura di Lucilla (su cui cfr. qui subito infra). In realtà l’unica accusa che Dione muove a Perenne, che si trova anche qui in Erodiano (cfr. anche infra § 8), è quella di φιλαρχία, anche se con una differenza: Dione infatti aggancia questa accusa alla morte di Paterno, Erodiano no.

§2

assunse interamente nelle sue mani l’amministrazione del potere, disprezzando sempre quel che aveva ottenuto, per un insaziabile appetito di ricchezza, e rivendicando quel che non aveva ancora ottenuto. Per primo cominciò a screditare gli amici paterni e a suscitare nel giovane timori e sospetti verso ricchi e nobili, per offrirgli un pretesto per toglierli di mezzo, e avere la possibilità di rapinare i loro beni. καὶ ὅσοι πλούσιοί τε ἦσαν καὶ εὐγενεῖς, τούτους εἰς ὑποψίαν ἄγων τὸ μειράκιον ἐφόβει – Anche secondo HA Comm. 5, 6 »Perenne aveva avocato a sé ogni potere; metteva a morte chi voleva, spogliava dei beni moltissime persone, sovvertiva tutte le leggi, si accaparrava tutto ciò che poteva arraffare«. Tuttavia Dione (72, 10, 1) nega che Perenne abbia mai agito a fini di lucro: ἰδίᾳ μὲν γὰρ οὐδὲν πώποτε οὔτε πρὸς δόξαν οὔτε πρὸς πλοῦτον περιεβάλετο, ἀλλὰ καὶ ἀδωρότατα καὶ σωφρονέστατα διήγαγε. Il biografo (HA Comm. 4, 7–8) afferma che instigante Tigidio Commodo destituì dalla carica di prefetto Tarrutieno Paterno in quanto responsabile della morte di Saotero (su cui cfr. supra 1, 6, 1), »reo« di aver interceduto per mitigare le pene nei confronti di quanti avevano partecipato alla con-

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giura di Lucilla, nonché di aver complottato per aver promesso sua figlia al figlio dell’illustre giurista Salvio Giuliano allo scopo di trasferire il potere a Giuliano stesso (su questo episodio cfr. ora von Saldern, Studien zur Politik, 54–59). Per questo fece uccidere oltre allo stesso Paterno anche altri (su cui cfr. infra § 8). Sempre secondo il biografo (HA Comm. 3, 1 e 3) »[Commodo] licenziò i funzionari (ministeria) più anziani di suo padre, allontanò i suoi vecchi amici … Tutte le persone più oneste le allontanò o coprendole direttamente di insulti infamanti o degrandandole ad uffici del tutto indegni di loro«. Tuttavia il biografo qui non dice che ciò avvenne per impulso di Perenne. Non escluderei dunque che Erodiano alluda anche alla repressione della congiura di Lucilla in cui caddero vittime nobili senatori (cfr. infra § 8).

§3

Per qualche tempo ancora la memoria del padre e il rispetto per i suoi amici trattennero il giovane. Ma, come se un destino maligno e funesto si fosse volto a distruggere quel po’ di moderazione e di saggezza che c’era ancora in Commodo, accadde ciò. Lucilla era la maggiore delle sorelle di Commodo e aveva sposato l’imperatore Lucio Vero, il quale aveva condiviso l’impero con Marco che, avendogli dato sua figlia in sposa, aveva fatto di questo matrimonio una garanzia saldissima di fedeltà. Tuttavia, dopo la morte di Lucio, il padre diede Lucilla in sposa a Pompeiano, pur concedendole di mantenere le prerogative del potere imperiale. ἡ πρὸς τοὺς〈ἐκείνου〉φίλους αἰδώς – Seguo Letta, C., rec. a Lucarini, Herodianus, 695 che suggerisce di accogliere nel testo ἐκείνου che è congettura di Lucarini, Herodianus, formulata in apparato. μέχρι μὲν οὖν τινὸς ἐπεῖχε τὸν νεανίσκον ἥ τε τοῦ πατρὸς μνήμη καὶ ἡ πρὸς τοὺς φίλους αἰδώς – Di questa deferenza verso Marco è segno il fatto che Commodo cambiò il praenomen da Lucio a Marco (da Lucio Elio Aurelio Commodo Augusto divenne Marco Aurelio Commodo Antonino Augusto) pietatis causa, tra il suo rientro a Roma dalla Germania (autunno del 180) e il dicembre dello stesso anno (BMC IV, 689, nn. 1–10). Grosso, La lotta politica, 128–129 ritiene che Commodo abbia assunto il praenomen del padre in occasione del trionfo Germanico del 22 ottobre del 180. Riguardo agli amici Marci Commodo era rimasto in buoni rapporti con Pompeiano, marito di Lucilla, nonostante le divergenze in politica estera: Erodiano stesso infatti (cfr. qui subito infra § 4) lo asserisce: [Λουκίλλα] τὸν μὲν ἑαυτῆς ἄνδρα Πομπηιανὸν εἰδυῖα ἀγαπῶντα τὸν Κόμοδον, e

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lo rivela anche il confronto con Dio 72, 4, 1–2: »[Commodo] eliminò quasi tutti i personaggi eminenti che vissero sotto il principato del padre e sotto il suo, ad eccezione di Pompeiano, Pertinace e Vittorino: costoro, infatti, non so per quale ragione, non li tolse di mezzo«. Per quanto riguarda Vittorino Dione a 72, 11, 2 afferma che egli αὐτομάτῳ θανάτῳ ἐχρήσατο (»di morte naturale« secondo Grosso, La lotta politica, 214–215), probabilmente nel 186. Pompeiano invece, marito di Lucilla, si ritirò a vita privata (Dio 72, 20, 1), disgustato dagli atteggiamenti istrionici di Commodo, per fare poi di nuovo la sua comparsa in senato nel 193 con Pertinace, dal quale fu molto onorato (Dio 73, 3, 2–3). Secondo l’HA (Pert. 4, 9–10; Did Iul. 8, 3) Didio Giuliano avrebbe offerto il trono a Pompeiano alla morte di Pertinace quod et gener imperatoris fuisset et diu militibus praefuisset. Anche la carriera di altri autorevoli amici Marci proseguì indisturbata sotto Commodo (cfr. supra 1, 5, 1). ἀλλ᾽ ἐπεὶ συνέβη τὸν Λούκιον τελευτῆσαι, μενόντων τῇ Λουκίλλῇ τῶν τῆς βασιλείας συμβόλων Πομπηιανῷ ὁ πατὴρ ἐξέδοτο αὐτήν - Il matrimonio tra Lucilla e Tiberio Claudio Pompeiano avvenne nel 169 dopo la morte di Lucio Vero, primo marito di Lucilla, contro la volontà di Lucilla stessa e di Faustina secondo il biografo (HA M. Ant. 20, 6); anche Dione (72, 4, 5) afferma che Lucilla detestava suo marito Pompeiano: tuttavia quest’odio è da ricollegare al fatto che molto probabilmente Pompeiano aveva espresso la sua contrarietà all’assassinio di Commodo (la cosiddetta »congiura di Lucilla«, su cui cfr. subito infra) dati i suoi buoni rapporti con l’imperatore. Molinier Arbo, A., »À qui profitait la conjuration de Lucilla? Réflexions sur un passage des ›Caesares‹ de Julien«, AC 76 (2007), 119–132, crede invece, sulla base di Iul. Caes. 312B, alla volontà di Lucilla di rimpiazzare suo fratello Commodo con il marito Pompeiano. Commodo sposò nel 178 Bruttia Crispina (figlia di L. Fulvio Rustico C. Bruttio Presente Laberio Massimo, console del 180) che assunse così il titolo di Augusta (Dio 71, 33, 1; HA M. Ant. 27, 8; ILS 1117). Gli onori che spettavano a Lucilla sono quelli consueti che venivano concessi alle donne della domus imperiale (titolo di Augusta, palco imperiale a teatro, fiaccole, carpentum). Che il movente della congiura di Lucilla fosse la gelosia verso Crispina appare poco credibile a circa quattro anni dal matrimonio di Commodo con la rivale.

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§4

Commodo invero non aveva sottratto alcun onore alla sorella: ella infatti a teatro sedeva sul trono imperiale e in pubblico era preceduta da fiaccole. Dopo che Commodo prese in moglie Crispina, era inevitabile che il posto d’onore spettasse alla moglie dell’imperatore e Lucilla, mal sopportando ciò e ritenendo che l’onore concesso a Crispina fosse un oltraggio alla sua persona, sapendo che suo marito aveva caro Commodo, non gli riferì nulla circa il progetto di attentare al potere, ma decise di sondare le intenzioni di Quadrato, un giovane nobile e ricco, che si diceva fosse in segreto suo amante, con il quale non smetteva di lamentarsi per la perdita del suo privilegio e, in poco tempo, persuase il giovane a prendere una decisione rovinosa per sé e per tutto il senato. οὐδὲν αὐτῷ περὶ ἐπιθέσεως τῆς ἀρχῆς ἀνακοινοῦται … καὶ κατ᾽ ὀλίγον ἀνέπεισε τὸν νεανίσκον ὀλέθρια βουλεύσασθαι ἑαυτῷ τε καὶ πάσῃ τῇ συγκλήτῳ – M. Claudio Ummidio Quadrato, figlio di Cn. Claudio Severo, console per la seconda volta nel 173 e adottato da M. Ummidio Quadrato console del 167 (figlio di Ummidio Quadrato console del 145 e di Annia Cornificia Faustina, sorella di Marco Aurelio): il nostro Quadrato era dunque nipote adottivo di Faustina e cugino di Lucilla e di Commodo. Per Bianchi A., »Lucilla Augusta: una rilettura delle fonti«, MGR 13 (1988), 129–144, 138–144 sia Quadrato che Quinziano (su cui cfr. subito qui infra) erano entrambi presunti amanti di Lucilla, la quale però non pensava certo di proporli come successori di Commodo, stante la loro dubbia moralità. Secondo Dione (72, 4, 6) Marcia (poi concubina di Commodo) era stata concubina di Quadrato. Per Ammiano (29, 1, 17) Quinziano era un senatore inclitae cupidinis (tuttavia von Saldern, Studien zur Politik, 51 ritiene Quinziano »der ideale Kandidat«). Secondo la Bianchi Lucilla era preoccupata dall’attesa nascita di un figlio di Commodo e Crispina e desiderava promuovere alla successione uno dei figli avuti da Claudio Pompeiano (pur se piccolo). Tuttavia a me sembra che questa ipotesi (già peraltro in Aymard, G., »La conjuration de Lucilla«, REA 57 (1955), 85–91, 88–91) non regga: sia perché la coppia imperiale non ebbe alcun figlio – e dal momento che Commodo e Crispina erano sposati dal 178 non si coglie il motivo per cui Lucilla non si fosse mossa prima – sia perché è da escludere che Pompeiano e i senatori vicino a Lucilla avallassero una simile operazione. Non c’era bisogno di un altro Kinderkaiser e dunque, nell’immediato, di un reggente al suo posto (che la Bianchi ipotizza fosse Salvio Giuliano, figlio del famoso giurista). Resta difficile credere anche che la congiura contro Commodo sia, come afferma in questi paragrafi Erodiano, solo un’iniziativa di Lucilla e della sua cerchia (così von Saldern, Studien zur Politik, 50). Qui l’accenno al senato

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lascia intendere che il malumore verso Commodo già serpeggiava in senato e trova conferma nella successiva descrizione della congiura (su cui infra 1, 8, 4-7). Io credo infatti che la prima rottura di Commodo con gli amici Marci e una parte del senato risalga alla conclusione del bellum Germanicum nell’autunno del 180 e alla di poco successiva nomina di Perenne alla prefettura del pretorio (cfr. supra 1, 8, 1). §5

Quadrato aveva associato al complotto alcuni senatori eminenti e aveva persuaso un giovane, anch’egli senatore, di nome Quinziano, audace e risoluto, a tenere un pugnale sotto le vesti e a studiare un’occasione e un luogo favorevoli per assalire Commodo e ucciderlo dicendo che avrebbe fronteggiato egli stesso le conseguenze con un’elargizione in denaro. συνωμότας γὰρ ἐκεῖνος τῆς βουλῆς λαβών τινας τῶν ἐξεχόντων, ἀναπείθει νεανίσκον τινά … ἐπιπεσεῖν τε τῷ Κομόδῳ καὶ φονεῦσαι – Claudio Pompeiano Quinziano, senatore (cfr. Amm. 29, 1, 17), nipote di Ti. Claudio Pompeiano, fidanzato con la figlia che Lucilla ebbe da Lucio Vero (non altrimenti nota). Secondo Dione (72, 4, 5) era stato intimo di Commodo. Alcuni nomi di »cittadini più autorevoli« tra le vittime di Commodo dopo la congiura si possono ricavare dall’elenco fornito da Dione (72, 5, 3– 4): Salvio Giuliano e l’ab epistulis Vitruvio Secondo, amico di Paterno (sulla sua condanna cfr. infra 1, 8, 8). Tra gli altri furono sterminati i membri della famiglia dei Quintili (Dio 72, 5, 3–4; HA Comm. 4, 9): Sesto Quintilio Valerio Massimo, console del 151, e il figlio Sesto Quintilio Condiano, console del 180 (che ebbero la damnatio memoriae: CIL 6, 1991; 14, 2393; sulla rocambolesca sorte di quest’ultimo cfr. Dio 72, 6) nonché Sesto Quintilio Condiano (fratello di Sesto Quintilio Valerio Massimo, anch’egli console del 151) e il figlio Quintilio Massimo, console del 172. Per i Quintili consoli del 151, apprezzati scrittori di γεωργικά, ha parole di lode Ateneo (14, 649e; 15, 677e) che è fonte contemporanea e ostile a Commodo (cfr. Zecchini, G., La cultura storica di Ateneo (Milano, 1989), 13, 16). Cfr. anche Philostr. VS 2, 559; Pflaum, H.-G., »Le valeur de l’information«, 205–207. Tra le vittime della repressione seguita alla congiura il biografo menziona anche i non meglio noti Norbana, Norbano e Paralio (4, 4) e il padre di Quinziano (HA Comm. 5, 12). τὰ λοιπὰ φήσας αὐτὸς κατορθώσεσθαι χρημάτων ἐπιδόσει – Non escluderei che l’elargizione in denaro celi la promessa di un donativo ai pretoriani, forse grazie alla complicità di Paterno che senz’altro aveva fatto parte della congiura (cfr. qui infra § 7).

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§6

Quinziano allora, appostandosi all’ingresso del teatro (che era oscuro e perciò sperava di non essere visto), avendo snudato il pugnale ed essendosi precipitato su Commodo gridando a gran voce che veniva da parte del senato, non fece in tempo a colpirlo ma, mentre si attardava a pronunciare le sue parole e a mostrare il pugnale fu preso dalle guardie imperiali e pagò la sua follia, lui che aveva dichiarato quello avrebbe fatto piuttosto che farlo e si era offerto alla cattura per le sue dichiarazioni premature mentre Commodo, avendo capito le sue intenzioni, aveva avuto il tempo di assicurarsi una protezione. ὃ δ᾽ ὑποστὰς ἐν τῇ τοῦ ἀμφιθεάτρου εἰσόδῳ … καὶ μεγάλῃ φωνῇ προειπὼν ὑπὸ τῆς συγκλήτου αὐτῷ ἐπιπεπέμφθαι … ὃς προεῖπε τὸ βεβουλευμένον μᾶλλον ἢ ἔδρασε – Le circostanze in cui avvenne il fallito attentato sono pressoché identiche in tutte le nostre fonti. La versione di Dione (72, 4, 4) e quella del biografo (HA Comm. 4, 1–4) concordano con quella di Erodiano anche nel particolare dell’espressione rivolta da Quinziano a Commodo. L’unica variante è rappresentata da Ammiano (29, 1, 17) secondo il quale Commodo sarebbe stato ferito da Quinziano. Dione poco prima di descrivere la scena dell’attentato nell’anfiteatro afferma di riferire episodi ai quali aveva assistito personalmente (72, 4, 2). In base a questa considerazione si è affermato da più parti (Kolb, Literarische Beziehungen; Alföldy, G., »Herodian über den Tod«; Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 77–78) che questo passo di Erodiano dipende senz’altro da Cassio Dione. Tuttavia, a mio avviso, non si deve affatto escludere la testimonianza autoptica di Erodiano stesso, dal momento che qui la descrizione del nostro storico non coincide esattamente con quella di Dione: la versione di Erodiano infatti è più articolata e ricca di particolari ed è confrontabile solo parzialmente con quella di Dione (frutto dell’epitome di Xifilino). Peraltro anche il confronto con alcuni particolari non coincide (ad es. il nome della presunta amante di Quadrato è Marcia per Dione, Lucilla per Erodiano). Si aggiunga che Erodiano descrive un altro episodio svoltosi nell’anfiteatro flavio nel 192, riportato anche da Dione, ma in modo differente (cfr. infra 1, 15, 2–7 e Bowersock, G. W., »Cassius Dio and Herodian«, in P. E. Easterling/B. M. W. Knox (ed.), The Cambridge History of Classical Literature I. Greek Literature (Cambridge, 1985), 710–713, 713; contra Kolb, Literarische Beziehungen, 25–34). Io credo insomma che Erodiano conosca l’opera di Dione, ma non l’abbia necessariamente utilizzata come unica fonte. συλληφθεὶς ὑπὸ τῶν σωματοφυλάκων – Gli equites singulares Augusti addetti alla sicurezza dell’imperatore.

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§7

Questa fu per il giovane principe la prima e più grave causa di odio contro il senato: le parole di Quinziano ferirono il suo animo e riteneva che tutti fossero suoi comuni nemici, tenendo sempre a mente il grido del suo aggressore. αὕτη μὲν δὴ πρώτη καὶ μεγίστη αἰτία τῷ μειρακίῳ μίσους ἐγένετο πρὸς τὴν σύγκλητον βουλήν … καὶ κοινοὺς ἐχθροὺς πάντας ἡγεῖτο, μεμνημένος ἀεὶ τῆς τοῦ ἐπιδραμόντος φωνῆς – Le ragioni che portarono alla congiura di Lucilla in Erodiano sono piuttosto generiche e deboli (cfr. supra 1, 8, 4), tuttavia è chiaro che alla congiura parteciparono senatori e che essa segnò una decisiva rottura tra Commodo e il senato. La partecipazione di »alcuni fra i cittadini più autorevoli« lascia intendere infatti che i congiurati avessero un preciso progetto politico alle spalle. Se da una parte l’insofferenza per la nomina di Perenne alla prefettura del pretorio aveva avuto un certo peso, giacché troviamo tra i congiurati Paterno, il quale proprio a seguito di quest’episodio nel 182 era stato allontanato dalla prefettura per volontà di Tigidio Perenne (HA Comm. 4, 7: instigante Tigidio) e fatto entrare in senato, dall’altra non è improbabile che quei senatori che aderirono alla congiura avessero visto nella decisione di Commodo di interrompere le guerre sul fronte danubiano e di liberarsi dalla tutela degli amici Marci la perdita della loro influenza sul giovane principe e avessero pertanto deciso di sostituirlo con un personaggio a loro gradito. A questo proposito la figura di Salvio Giuliano lascia intravvedere qualcosa di più. Egli infatti, nonostante »dopo la morte di Marco, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa avesse voluto contro Commodo dal momento che godeva di grandissimo prestigio, comandava un grande esercito e godeva della devozione dei suoi soldati; ma si era rifiutato di provocare qualsiasi ribellione, sia per la sua moderazione sia per la benevolenza che aveva per Marco anche dopo la sua morte« (Dio 72, 5, 1–2). Molto probabilmente Giuliano era stato legato in Germania nel 180 (PIR S 104); Grosso, La lotta politica, 157 n. 7 non esclude che Salvio Giuliano potesse essere al comando di truppe stanziate in altre »grandi provincie consolari« oltre la Germania (Britannia, Pannonia Superiore o le due Mesie). Secondo il biografo peraltro Salvio Giuliano, prima della congiura di Lucilla, era stato fatto oggetto di insidias da parte di Commodo poiché non aveva accondisceso alle sue impudiche richieste (Comm. 3, 2: filium Salvii Iuliani, qui exercitibus praeerat, ob impudicitiam frustra temptavit atque exinde Iuliano tetendit insidias). Egli dunque poteva ora rappresentare il candidato ideale per il senato: figlio del celebre giurista, ex console, valente generale, uomo integerrimo, aveva tutte le carte in regola per rappresentare l’alternativa a Commodo. Su

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Giuliano cfr. ora Hekster, Commodus. An Emperor, 54; von Saldern, Studien zur Politik, 54–59 (ma già Cassola, F., »Pertinace durante«, 126–127), rileva come quanti a vario titolo parteciparono alla congiura di Lucilla erano stati amici di Marco o imparentati con la domus Augusta e avevano dunque appoggiato la congiura spinti dalla delusione e dalla perdita di potere personale, soprattutto a seguito della fine delle guerre marcomanniche voluta da Commodo. Non va infine dimenticato che il senato non aveva mai abdicato a quello che sentiva come una sua prerogativa, quella cioè di scegliere direttamente dal proprio consesso o per sua decisione l’imperatore.

§8

Per Perenne fu un pretesto e una motivazione sufficiente: consigliava infatti a Commodo di colpire senza sosta e di abbattere gli uomini più in vista, dei quali incamerava le ricchezze tanto da diventare facilmente il più ricco fra i suoi contemporanei. Fu istituita una rigorosa inchiesta condotta da Perenne e Commodo fece eliminare sua sorella e indistintamente tutti quelli che avevano partecipato alla congiura o che erano stati colpiti per un motivo o per un altro da un sospetto. γενομένης δ᾽ἐξετάσεως διὰ τοῦ Περεννίου ἀκριβεστέρας … ὁ Κόμοδος διεχρήσατο καὶ πάντας ἀφειδῶς … διαβληθέντας ὑποψίαις – Lucilla, prima di essere giustiziata con l’accusa di maiestas, venne relegata a Capri (HA Comm. 4, 4, insieme alla madre di Paralio; 5, 7). Oltre Quadrato e Quinziano furono condannati a morte anche i già menzionati Salvio Giuliano, Vitruvio Secondo, la famiglia dei Quintili, i non altrimenti noti Norbana, Norbano e Paralio (molto ipotetica l’identificazione di Paralio con l’omonimo citato in un’epistola di Frontone [183, 14 van den Hout]; Pflaum, H.-G., »Le valeur de l’information«, 204), Vitrasia Faustina (HA Comm. 4, 10; con ogni probabilità la »nobile donna« di cui parla Dio 72, 5, 1) e i consolari Velio Rufo ed Egnazio Capitone. I consoli Emilio Iunco e Atilio Severo furono esiliati (HA Comm. 4, 10–11). A Pertinace fu ordinato da Perenne di ritirarsi nella natia Liguria (HA 3, 3) così come a Didio Giuliano (imparentato alla lontana con Salvio Giuliano, cfr. von Saldern, Studien zur Politik, 55–57 con ampia discussione sulla sua carriera) di far ritorno a Milano (HA Did. Iul. 2, 1–2; Dio 73, 11, 2, con le osservazioni di Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 72–73); sappiamo che Settimio Severo soggiornò in questo periodo ad Atene da privato cittadino (HA Sev. 3, 6– 8). Mentre Whittaker, Herodian, 51 ritiene che la morte di Saotero »is not necessarily connected with the Lucilla plot«, Hekster, Commodus. An Empe-

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ror, 53 individua nella morte di Saotero »a second stage of conspiracy«. Credo tuttavia che la morte di Saotero sia piuttosto frutto dell’ambizione e degli intrighi di Cleandro (Dio 72, 12, 2), il quale trovò una sponda in Paterno (cfr. supra 1, 6, 1). Per von Saldern, Studien zur Politik, 54 (ma già Cassola, F., »Pertinace durante«, 128) la morte di Saotero è senz’altro da attribuire a Paterno come dice espressamente il biografo (HA Comm. 4, 7: Paternum autem et huius caedis auctorem): tuttavia la responsabilità di Paterno non esclude, a mio avviso, il coinvolgimento di Cleandro, dal momento che Dione afferma che Cleandro fece uccidere Saotero per prendere il suo posto come cubicularius. Circa il coinvolgimento di Paterno – anch’egli messo a morte – nella congiura, Dione è l’unico ad affermare la sua innocenza (72, 5, 2: »se avesse complottato contro Commodo, come fu accusato di aver fatto, lo avrebbe facilmente ucciso dal momento che era ancora a capo dei pretoriani: tuttavia non agì così«). Tuttavia mentre Erodiano tace di Paterno, il biografo afferma ripetutamente che egli era stato l’ispiratore della congiura (HA Comm. 4, 1: non sine praefecti praetorio Tarrutenii Paterni consilio) o che comunque ne era stato al corrente (4, 7: Paternum, quantum videbatur, paratae necis Commodi conscium et interventorem, ne coniuratio latus puniretur). Ora, a me sembra che sia da preferire la versione del biografo perché la difesa del senatore Cassio Dione del senatore Paterno appare sospetta, dal momento che Dione difende anche Salvio Giuliano – anch’egli condannato da Commodo – che, come s’è visto, era con ogni probabilità il candidato individuato dal senato per sostituire Commodo all’indomani della congiura. Il biografo infatti accusa apertamente (HA Comm. 4, 8; cfr. Did. Iul. 2, 1) Paterno di aver congiurato contro Commodo per transferre imperium in Iulianum e di essersi dato da fare ne coniuratio latus puniretur (4, 7). Il risentimento di Paterno per Commodo si spiega, a mio avviso, con la nomina di Perenne al suo fianco come prefetto del pretorio: ciò spiegherebbe altresì la rimozione di Paterno all’indomani della congiura, i suoi tentativi di attenuare le responsabilità dei colpevoli nonché la sua »promozione« in senato e la successiva condanna a morte insieme a Giuliano, con il quale peraltro Paterno si stava per imparentare dando in sposa sua figlia al figlio di lui (HA Comm. 4, 8). Poco convincente è l’osservazione di Barnes, T. D., The Sources of the Historia Augusta (Bruxelles, 1978), 81 (ma già in Millar, A Study, 127 e ripresa da Firpo, G., »La congiura di Lucilla«, 252) circa la minor credibilità della versione di Dione rispetto a quella del biografo per il fatto che lo storico bitinico in questo momento si trovava lontano da Roma: ciò infatti non basta ad escludere che Dione potesse disporre di buone fonti di informazione a Roma. Piuttosto mi preme ribadire che il testo di Dione, pur essendo qui conservato solo in excerptum e dal riassunto di Xifilino, riflette un preciso orientamento apologetico filosenatorio. Per Grosso, La lotta poli-

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tica, 154, il fatto che Dione affermi che Paterno poteva uccidere Commodo »finché comandava ancora i pretoriani« rivela che l’inchiesta di Perenne intendeva far luce sul comportamento di Paterno durante la sua prefettura (contra Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 74).

9. §1

Perenne, avendo tolto di mezzo tutti coloro che Commodo rispettava e quelli che mostravano la benevolenza paterna nei suoi confronti e si occupavano della sua sicurezza, facendo conto sulla potenza raggiunta, mirava al potere, e persuase Commodo ad affidare ai suoi figli, nonostante fossero ancora giovani, il comando degli eserciti Illirici mentre egli raccoglieva più ricchezze possibili per spingere l’esercito con magnifici donativi alla ribellione. I figli in segreto arruolavano truppe, per essere pronti ad impadronirsi del potere non appena Perenne avesse eliminato Commodo. ὁ δὲ Περέννιος ἀποσκευασάμενος πάντας, οὓς καὶ ὁ Κόμοδος ᾐδεῖτο καὶ ὅσοι πατρῴαν αὐτῷ εὔνοιαν ἐπεδείκνυντο τῆς τε ἐκείνου σωτηρίας προμήθειαν εἶχον – Prosegue il ritratto negativo di Perenne che in questi paragrafi diventa il protagonista assoluto delle vicende politiche di questi anni. Ora, accanto al motivo della sua avidità (cfr. supra 1, 8, 1), si aggiunge quello della minaccia alla sicurezza di Commodo a cui segue il complotto. Le epurazioni operate da Perenne a cui allude Erodiano non sono facili da identificare. Non credo sia da annoverare tra le vittime di Perenne il cubicularius Saotero, per la cui eliminazione (su cui cfr. supra 1, 6, 1 e 1, 8, 8), Commodo »soffrì più profondamente che per quanto era capitato a se stesso« (HA Comm. 2, 6). Saotero infatti è più arruolabile tra i custodes vitae pessimi di Commodo (di cui parla ancora Comm. 2, 6) che tra quanti gli erano devoti per la memoria di Marco. Piuttosto si può pensare alle condanne, senz’altro ascrivibili a Perenne, avvenute all’indomani della congiura di Lucilla (cfr. supra 1, 8, 5): a Perenne infatti Commodo aveva affidato ufficialmente la repressione della congiura. Vale la pena notare come qui Erodiano restringa il campo a quanti si professavano (ἐπεδείκνυντο) fedeli a Commodo in nome della memoria di Marco. Ciò innanzitutto rivela che la rottura tra Commodo e gli amici Marci del 180, a cui si è più volte accennato, non coinvolgeva la totalità del gruppo degli amici, ma solo una parte, vale a dire quella contraria alla politica estera di Commodo e, più in generale, alla volontà del principe di rendersi autonomo dalla tutela degli ἐπίτροποι imposti da Marco al momento

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della sua morte. In secondo luogo il motivo della memoria di Marco si trova già impiegato in Erodiano per mostrare che il governo di Commodo fu positivo fintantoché non abbandonò i consigli di quegli amici Marci che si ritenevano gli autentici custodi della memoria del principe defunto (1, 4, 4; 1, 6, 6; 1, 8, 3). Si può forse dunque pensare che tra le vittime di Perenne a cui qui allude Erodiano vi sia Paterno, suo rivale, tra i più importanti custodi della memoria Marci, della cui morte, secondo Cassio Dione (72, 10, 1) Perenne era stato il principale responsabile (αἰτιώτατος) διὰ τὴν φιλαρχίαν. Secondo lo stesso Dione (72, 9, 1), dal momento che Commodo trascurava i suoi doveri di imperatore dedicandosi alle corse dei cocchi e alle sue turpi libidini, Perenne »fu costretto (ἠναγκάζετο) ad occuparsi non solo degli affari militari ma anche del resto, persino a governare«, mentre »privatamente non mirò mai a procacciarsi alcunché, né per fama né per ricchezza, ma condusse una vita assolutamente incorruttibile e moderata salvaguardando in ogni modo Commodo e il suo impero«. Per la discussione di questi passi dionei cfr. supra 1, 8, 1–2. L’HA, al pari di Erodiano ma diversamente da Dione, insiste in modo generico sul fatto che Perenne, dopo la morte di Paterno, si era insinuato nell’animo perverso del debole Commodo, dedito solo a piaceri e gozzoviglie, e che così (Comm. 5, 6) »aveva avocato a sé ogni potere; metteva a morte chi voleva, spogliava dei beni moltissime persone, sovvertiva tutte le leggi, si accaparrava tutto ciò che poteva arraffare«. Su questa immagine deforme e deformata del rapporto tra Perenne e Commodo che insiste sul τόπος del tiranno, sul modello di Caligola e di Nerone cfr. supra 1, 3, 4 e in particolare De Ranieri, C., »La gestione politica«, 397–417. οἱ δὲ παῖδες αὐτοῦ λανθάνοντες συνεκρότουν δύναμιν, ὡς ἂν τοῦ Περεννίου κατεργασαμένου τὸν Κόμοδον ἐπιθοῖντο τῇ ἀρχῇ – Per quanto riguarda il comando delle truppe illiriche ai figli di Perenne non disponiamo di alcun riscontro certo. Considerato che il nome del legatus della Pannonia Inferiore del 184–185, L. Cornelio Felice Ploziano è eraso da un iscrizione proveniente da Matrica (ILS 395), frutto dunque di damnatio memoriae (Leunissen, P. M. M., Konsuln und Konsulare in der Zeit von Commodus bis Severus Alexander (180–235 n. Chr.). Prosopographische Untersuchungen zur senatorischen Elite im römischen Kaiserreich (Amsterdam, 1989), 277), si è supposto (PIR2 C 1359) che si fosse unito ai figli di Perenne, responsabili del complotto, in Pannonia Superiore. Secondo la De Ranieri, C., »La gestione politica«, 411–412 Ploziano organizzò il complotto in Illiria e poi, processato, trascinò in rovina come suoi complici i figli di Perenne, decretando dunque la fine di Perenne stesso. Tuttavia credo che questa ricostruzione sia destinata a rimanere ipotetica sia perché non c’è traccia dei nomi dei figli di Perenne (è la stessa De Ranieri peraltro ad ammetterlo a 412: »In effetti, è possibile formulare un’ipotesi

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diversa sebbene purtroppo non dimostrabile«) sia perché sarebbe necessario correggere la sequenza cronologica delle fonti che parlano della condanna di Perenne prima di quella dei suoi famigliari. Come è stato notato (Whittaker, Herodian, 52), mentre qui si parla »di figli di Perenne« (cfr. anche 1, 9, 4), a 1, 9, 7 si parla di un solo figlio di Perenne (cfr. anche 1, 9, 8 e 9). Che i figli fossero due è affermato da Dione a proposito della loro morte (72, 9, 4: υἱεῖς δύο προσδιεφθάρησαν; ma HA Comm. 6, 4 parla di un solo figlio di Perenne condannato a morte). Questa oscillazione di Erodiano può forse essere spiegata con il fatto che solo uno dei figli di Perenne assunse un ruolo di primo piano negli eventi descritti. Si è ipotizzato che il figlio minore fosse al seguito del figlio maggiore come tribuno militare: Stein, A., s. v. »Tigidius«, RE VI A1 (1936), 952–956, col. 955; Bersanetti, G. M., »Perenne e Commodo«, 167; Grosso, La lotta politica, 171–172; oppure che uno fosse legatus in Pannonia l’altro in Britannia, cfr. Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 108–110, secondo il quale il racconto di Erodiano relativo alla fine dei figli di Perenne dipende da Dione. Peraltro non è chiaro a quali truppe si riferisca Erodiano con il termine »illiriche« (cfr. anche § 4: τὴν ᾽Ιλλυρικὴν στρατιάν). Dal confronto con un altro passo di Erodiano relativo a Pertinace (2, 9, 9), in cui si dice che egli operava come στρατηγός τε καὶ ἡγεμὼν τῶν ᾽Ιλλυρικῶν, si può arguire che i figli di Perenne si trovassero in Pannonia (Fitz, J., »Maßnahmen zur militärischen«, 165–166), sebbene il confronto con altri passi dello stesso Erodiano non consenta di determinare con sicurezza a quale provincia alludesse, giacché egli mostra di conoscere bene il termine Pannonia/pannonico (1, 3, 1; 2, 9, 1–12; 3, 10, 1; 6, 7, 6; 6, 8, 3; 7, 2, 9; 7, 3, 4; 7, 8, 11; 8, 2, 2; 8, 6, 1) mentre altrove (2, 13, 10) con ᾽Ιλλυρικῶν allude genericamente a soldati delle province danubiane (e dunque, oltre alla Pannonia, Dalmazia, Norico, Rezia, Mesia e Dacia). Non mi pare decisivo neppure il confronto invocato da alcuni (Grosso, La lotta politica, 192; De Ranieri, C., »La gestione politica«, 411) con HA Comm. 13, 5–6 che parla, tra gli altri, di torbidi in Pannonia durante il regno di Commodo sedati dai suoi generali (victi sunt sub eo [scil. Commodo] … per legatos Mauri, victi Daci, Pannoniae quoque compositae, in Britannia, in Germania et in Dacia imperium eius recusantibus provincialibus. quae omnia ista per duces sedata sunt). Più interessante è un’altra notizia del biografo (Comm. 6, 1), secondo la quale eo tempore [scil. durante la prefettura di Perenne] in Sarmatia res bene gestas per alios duces in filium suum Perennis referebat. Queste turbolenze potevano senz’altro alimentare i malumori e i sospetti degli avversari di Perenne sia nei suoi confronti sia in quelli di suo figlio; se inoltre Perenne poteva attribuire al figlio i successi in Sarmatia significa che questi effettivamente, come afferma – anche se in modo generico – Erodiano, doveva operare in una delle province danubiane. Anche in tal caso

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comunque il legame con la caduta in disgrazia di Ploziano, per quanto a livello ipotetico non si possa escludere, non è neppure dimostrabile. Per quanto riguarda »i magnifici donativi« alle truppe di Perenne (su cui Erodiano ritorna anche al § 4) è singolare che durante gli anni della sua prefettura (183–185) non si registri alcun congiario.

§§ 2–9

Ma il complotto fu scoperto in modo inatteso. I Romani celebrano un sacro agone in onore di Giove Capitolino: Roma è allora teatro di spettacoli artistici e gare atletiche di ogni genere, come è normale per una città imperiale in festa. L’imperatore assiste come spettatore e giudice insieme con gli altri sacerdoti, chiamati a vicenda secondo un ordine prestabilito. 3. Commodo si era recato ad ascoltare i celebri partecipanti e aveva preso posto sul trono imperiale; il teatro era colmo in ogni posto, con i dignitari seduti nei posti riservati e il pubblico disposto secondo il posto assegnato; prima che fosse detto o fatto qualcosa sulla scena un uomo vestito da filosofo (stringeva infatti un bastone tra le mani, era seminudo e portava una bisaccia) avanzando di corsa e piazzandosi in mezzo alla scena con un gesto della mano fece zittire il pubblico e disse: 4. »Ora, Commodo, non è il momento di festeggiare né di dedicarti a spettacoli e a feste. Sul tuo collo incombe la spada di Perenne e, se non ti guardi dal pericolo che pende su di te ma che anzi è già attuale, morirai a tua insaputa. Egli infatti raccoglie qui truppe e denaro contro di te e i suoi figli sono a capo dell’esercito dell’Illirico. Se non ti opporrai, morirai«. 5. Pur avendo costui detto queste parole, sia che fosse stato spinto da una sorte divina, sia che avesse voluto conquistarsi notorietà, essendo prima di allora uno sconosciuto senza reputazione, sia che sperasse di ottenere in cambio un generoso compenso dall’imperatore, Commodo non aprì bocca. Ma tutti trovavano conferma in quelle parole ai loro sospetti, anche se fingevano di non crederci. Perenne ordinò di arrestarlo e di gettarlo alle fiamme come un folle mentitore. Costui dunque scontò la colpa per la sua inopportuna franchezza; 6. La cerchia di Commodo, e quelli che fingevano di essergli devoti e che da tempo erano ostili a Perenne (la sua arroganza e la sua superbia lo rendevano infatti molesto e insopportabile), avendo finalmente un’occasione favorevole, tentavano di screditarlo: era destino che Commodo sfuggisse al complotto e che Perenne e i suoi figli andassero in completa rovina. 7. Infatti, non molto tempo dopo, giunsero alcuni soldati, all’insaputa del figlio di Perenne, che recavano con sé monete con la sua effigie. Sempre di nascosto, pur essendo Perenne prefetto del pretorio, essendo riusciti a mostrare le monete a Commodo e a svelargli i segreti della congiura, ottennero grandi ricompense. 8.

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Perenne, essendo rimasto all’oscuro di ciò e non attendendosi alcunché, fu raggiunto di notte da emissari di Commodo e venne decapitato. Immediatamente, per evitare che si sapesse quanto era avvenuto, inviò messaggeri perché battessero sul tempo la diffusione della notizia e raggiungessero il figlio di Perenne, che ancora ignorava quanto era accaduto a Roma, e gli consegnassero una lettera amichevole con gli si ordinava di rientrare facendogli balenare grandi speranze. 9. Il giovane, che non sapeva ancora nulla di quel che lo attendeva né delle misure prese contro suo padre, e poiché i messaggeri gli avevano riferito che il padre, non avendo nulla da aggiungere alla lettera dell’imperatore, aveva confermato a voce quegli ordini, prestò loro fede e, nonostante fosse insoddisfatto e dispiaciuto di aver lasciato incompiuto quel che era stato deciso, tuttavia, confidando nel potere che il padre deteneva ancora saldamente, fece ritorno a Roma. ἐγνώσθη δ᾽ ἡ ἐπιβουλὴ παραδόξῳ τρόπῳ – Il racconto di Erodiano è stato valutato in modo differente dalla critica. Per il Bersanetti, G. M., »Perenne e Commodo«, 170 la tradizione ostile a Perenne ha trasformato un’accusa nei suoi confronti – quella di complotto – in una colpa reale; per il Grosso, La lotta politica, 191–192 Perenne sarebbe stato vittima delle macchinazioni dei senatori e soprattutto di Cleandro; per la De Ranieri, C., »La gestione politica«, 410 la versione di Erodiano »è manifestamente assurda«: lo Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 86–87 rileva alcune contraddizioni nel racconto di Erodiano (cfr. qui infra); secondo lo Hekster, Commodus. An Emperor, 63: »This account looks largely fictional. Aspirations to the throne form a common denominator for all of Commodus’ opponents in Herodian’s history. Neither Perennis, nor his sons, could ever have been a realistic candidate for the purple«. Bisogna innanzitutto tener conto che la versione di Erodiano è diversa da quella di Cassio Dione (72, 9), che collega espressamente la morte di Perenne con i disordini avvenuti in Britannia nel 184–185 di cui Erodiano non parla; l’HA (Comm. 6, 1–3) – in cui si trovano elementi sia delle versione di Erodiano sia di quella di Dione – da un lato lascia intravedere un legame tra un figlio di Perenne e la Pannonia o le regioni danubiane (espressamente attestato in Erodiano), dall’altro individua negli eventi in Britannia la causa della fine di Perenne. Secondo Dione i soldati erano molto scontenti di Perenne. Allora le truppe di stanza in Britannia acclamarono un certo Prisco come imperatore, ma questi rifiutò. A seguito di ciò, dopo che i soldati furono richiamati all’ordine (nonostante i disordini continuassero sino all’arrivo di Pertinace), i legati (οἱ ὑπάρχοντες) di Britannia scelsero millecinquecento arcieri e li inviarono in Italia. Commodo andò incontro a loro non lontano da Roma ed essi gli rivelarono che Perenne stava tramando una congiura contro di lui per acclamare suo figlio. A quel punto Commodo, spinto soprattutto da

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Cleandro, consegnò Perenne ai soldati (cfr. 1, 13, 1) che trucidarono lui, sua moglie, la sorella e i due figli. Secondo il biografo Perenne »all’improvviso, poiché nella guerra contro i Britanni aveva affidato il comando dell’esercito a uomini dell’ordine equestre togliendolo ai senatori, non appena la cosa fu riferita dai legati militari, venne dichiarato nemico pubblico e consegnato ai soldati perché lo facessero a pezzi« (HA Comm. 6, 2). Il testo di Dione è problematico, giacché alla notizia della morte di Perenne per mano dei soldati (§ 22: dall’epitome di Xifilino) sono premessi due excerpta (21 e 2a ed. Boissevain, U. Ph., Cassii Dionis Cocceiani Historiarum Romanarum quae supersunt (Berolini, 1903–1910), III 290): il primo (21) relativo allo scontento dei soldati; il secondo (2a) alla proclamazione di Prisco. La collocazione di quest’ultimo excerptum è però incerta. Secondo alcuni (Kaiser-Raiß, Die stadtrömische Münzprägung, 25, 117; Birley, A. R., The Fasti of Roman Britain (Oxford, 1981), 260–261; Hekster, Commodus. An Emperor, 62) è corretta la collocazione proposta dal Boissevain (prima cioè della morte di Perenne, nella primavera del 185); secondo altri l’excerptum deve essere collocato dopo la morte di Perenne (Grosso, La lotta politica, 445–450; von Saldern, Studien zur Politik, 120–125), al momento in cui Pertinace diventò legato di Britannia, dopo la primavera del 185 (Pert. 3, 5–6: occiso sane Perennis Commodus Pertinaci satisfecit eumque petiit litteris ut ad Britanniam proficisceretur. Profectusque milites ab omni seditione deterruit). A mio avviso (cfr. qui infra) è preferibile la prima datazione. Secondo von Saldern, Studien zur Politik, 125, secondo il quale Ulpio Marcello fu sostituito, al termine del 184, da Anzio Crescente Calpurniano (ILS 1151) iuridicus vice legati pro praetore, in attesa dell’arrivo di Pertinace. Per comprendere la situazione in Britannia è necessario far riferimento proprio ai successi di Ulpio Marcello (che aveva stabilito un buon legame con Perenne), il quale aveva sconfitto i Caledoni nel 184, e »in seguito, a causa del suo straordinario valore rischiò d’essere mandato a morte da Commodo, ma riuscì ugualmente a cavarsela« (Dio 72, 8, 6). La guerra si concluse nel 184 stesso, anno in cui Commodo ricevette la sua settima salutazione imperatoria ed il titolo di Britannicus (nel dicembre: Grosso, La lotta politica, 518–519). La cronologia dell’acclamazione di Prisco può essere stabilita a partire da un passo della Vita Commodi dell’HA (8, 4) secondo il quale appellatus est Commodus etiam Britannicus ab adulatoribus, cum Britanni etiam imperatorem contra eum deligere voluerint. Se, come è lecito ipotizzare, l’allusione è alla proclamazione di Prisco, ciò significa che essa era avvenuta non oltre il dicembre del 184. Il Letta, C., »C. Caunius Priscus imperatore ›malgré lui‹ in Britannia e console nel 187 in un’iscrizione dell’Antiquario del Celio«, in A. M. Corda (ed.), Cultus splendore: studi in onore di Giovanna Sotgiu (Cagliari-Sassari, 2003), 537–550 discutendo l’interpretazione proposta dal Gregori, G. L., »Un nuovo sena-

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tore dell’età di Commodo? «, ZPE 106 (1995), 269–279 di un’iscrizione conservata a Roma nell’Antiquarium del Celio (AE 1995, 231) relativa ad un senatore (T. Caunius Priscus) identificato con il nostro Prisco, ritiene che la proclamazione di questi sia avvenuta prima dell’arrivo di Ulpio Marcello in Britannia, vale a dire nel 182 o 183 d. C. e che Prisco fosse alla testa delle truppe britanniche giunte in Italia per denunciare Perenne, dal momento che nell’iscrizione compare (ll. 6–7) come [praep]ositus vexil(lationum) l [eg(ionum) III?/[Brita]nnicar(um). L’ostilità delle truppe britanniche contro Perenne e la sostituzione dei legati senatori con prefetti equestri ordinata da Perenne (che secondo il Cassola, F., »Sull’attendibilità dello storico Erodiano«, AAP 6 (1957), 191– 200, 194 »non ha nessun fondamento«) si spiega innanzitutto alla luce dell’insubordinazione delle truppe e del loro tentativo di proclamare imperatore un semplice legato legionario (Prisco in Dione è ὑποστρατηγός vale a dire legatus, cfr. Freyburger Galland, M. L., Aspects du vocabulaire politique et institutionnel de Dion Cassius (Paris, 1997), 200–202). Un originale tentativo di interpretazione di Dione 72, 9, 2 (καὶ οἱ ἐν Βρεττανίᾳ τοίνυν ὑπάρχοντες) e di HA Comm. 6, 2 (prodita re per legatos exercitus) è stato proposto dal Brunt, P. A., »The Fall of Perennis: DioXiphilinus 72. 9. 2«, CQ 23 (1973), 172–177 (accolto da Hekster, Commodus. An Emperor, 63) secondo il quale οἱ ὑπάρχοντες di Dione non si riferirebbe ai legati legionari bensì ai soldati, né legatos exercitus dell’HA ai legati bensì alla »ambasceria« dei 1500 soldati (»deputies of the army«) a Commodo di cui parla Dione per chiedere la testa di Perenne. Personalmente trovo questa lettura poco convincente, tuttavia il Brunt stesso (175) non intende smentire il fatto che Perenne diede ordine di sostituire i senatori con i cavalieri al comando delle legioni britanniche. Di questa innovazione il Pflaum, H.-G., Les carrières procuratoriennes équestres sous le Hautempire Romain (Paris, 1960), 535–537 (seguito dal Frere, S. S., Britannia: a History of Roman Britain (London, 1967), 166 e ora dal von Saldern, Studien zur Politik, 124) ha creduto di trovare traccia nel cursus di un’iscrizione funebre in onore di L. Artorio Casto (ILS 2770), ma cfr. contra Grosso, La lotta politica, 176–180. Il contingente di 1500 arcieri sceso in Italia è stato identificato dal Domaszewski in poi (Domaszewski, A., »Der Staatsreich«; Heer, J. M., »Der historische Wert«, 65–70; soprattutto 69 n. 149a) con una vexillatio orientale che aveva combattuto nell’esercito britannico. Resta in ogni caso sorprendente il fatto che questa vexillatio (non necessariamente proveniente dall’oriente) abbia attraversato indisturbata i territori settentrionali dell’impero senza incontrare alcuna opposizione. Si è pertanto ipotizzato (Kienast, D., rec. a Grosso, La lotta politica, Gnomon 38 (1966), 596–606, 603; De Ranieri, C., »La gestione politica«, 415; Letta, C., »C. Caunius Priscus imperatore«, 548) che i 1500 soldati britannici fossero stati richiamati in Italia dallo stesso

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Commodo a difesa della propria incolumità nel momento in cui si preparava alla resa dei conti finale con Perenne. Un’allusione a questi 1500 soldati potrebbe peraltro essere quella di Erodiano al § 7 dove scrive che alcuni soldati incontrarono Commodo, all’insaputa di Perenne e di suo figlio, portando le monete (che purtroppo non possediamo, anche se per Cassola, Erodiano, 30 »ciò non basta per negare la veridicità del racconto di Erodiano«) sulle quali Perenne aveva fatto imprimere la sua effigie e rivelandogli così i segreti della congiura. Il Whittaker, Herodian, 57 non esclude che le monete celebrassero i successi riportati dal figlio di Perenne tra i Sarmati di cui parla HA Comm. 6, 1. Secondo Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 86–87 il racconto di Erodiano è poco lineare laddove afferma prima la decisione dei cortigiani – dietro i quali vi era Cleandro – di sopprimere Perenne e poi riferisce dell’arrivo dei soldati presso Commodo. Ciò sarebbe in contraddizione con l’affermazione secondo la quale i soldati avevano concepito un loro piano per distruggere Perenne ed erano all’oscuro del fatto che il figlio di Perenne si stava recando a Roma. A me sembra tuttavia che non sia necessario postulare una simile contraddizione. Cleandro potrebbe aver sfruttato la situazione a suo vantaggio, come lascia intendere Erodiano, indipendentemente da un preciso accordo preventivo con i soldati. Intendo dire che i soldati non necessariamente erano esattamente informati delle intenzioni di Cleandro quando decisero di sopprimere Perenne e che, molto probabilmente, una volta giunti a Roma e informati della situazione, si accodarono al progetto di Cleandro che andava senz’altro incontro ai loro desideri. Stando così le cose, al di là delle divergenze delle fonti e delle diverse interpretazioni dei moderni, credo si debba valorizzare il tentativo di usurpazione di Perenne presente in tutte le fonti. Mi sembra difficile negare (cfr. Grosso, La lotta politica, 191–192; Hekster, Commodus. An Emperor, 63) che Perenne e i suoi figli stessero organizzando un complotto contro Commodo. Nonostante disponiamo solo di indizi (soprattutto in relazione al ruolo giocato dai suoi figli) l’uccisione di Perenne insieme alla sua famiglia (madre, moglie e figli) induce a credere che l’accusa che colpì Perenne fu effettivamente quella di maiestas (la stessa sorte era capitata nel 31 d. C. a Seiano – che senza dubbio aveva complottato contro Tiberio – e alla sua famiglia). Non si può escludere inoltre che Perenne si sia trovato in difficoltà a causa delle concomitanti pressioni di Cleandro e del senato su Commodo. Dione sembra infatti svelare questa situazione quando afferma che »Perenne morì a causa di una ribellione dei soldati« (72, 9, 3) e che »Commodo credette a loro (scil. ai 1500 arcieri), soprattutto dietro pressione di Cleandro (τοῦ Κλεάνδρου ἐνάγοντος). Questi infatti era stato spesso ostacolato da Perenne nei suoi disegni e, di conseguenza, provava per lui un

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profondo odio« (72, 9, 3). Poco oltre infine Dione afferma espressamente (72, 10, 2) che »i liberti imperiali, capeggiati da Cleandro, dopo aver eliminato Perenne, non si trattenevano più dal compiere nequizie e vendevano ogni cosa, prevaricando e incrudelendo«. Anche Erodiano (1, 9, 6) scrive che »La cerchia di Commodo, e quelli che fingevano di essergli devoti e che da tempo erano ostili a Perenne (la sua arroganza e la sua superbia lo rendevano infatti molesto e insopportabile), avendo finalmente un’occasione favorevole, tentavano di screditarlo: era destino che Commodo sfuggisse al complotto e che Perenne e i suoi figli andassero in completa rovina«. Tra i consiglieri di Commodo e quanti si atteggiavano a suoi fedeli si può forse ravvisare un’allusione a Cleandro. Poco prima (1, 9, 5) Erodiano, commentando le parole di un filosofo che a teatro aveva preannunciato a Commodo le trame di Perenne e dei suoi figli scrive che »tutti trovavano conferma in quelle parole ai loro sospetti, anche se fingevano di non crederci«: tra questi non escluderei che si trovassero alcuni senatori. Della crescente ostilità tra il senato e il prefetto del pretorio c’è poi ampia traccia in tutte le nostre fonti (Dione, l’HA), compreso Erodiano (cfr. ad es. supra 1, 8, 8), ma i malumori dovettero senz’altro crescere a causa all’avvicendamento dei legati senatori con gli equestri ordinato da Perenne. Non va dimenticato infine che secondo l’HA (Comm. 6, 2) Perenne fu dichiarato hostis, cosa che lascia presupporre un provvedimento del senato. Del resto anche Ulpio Marcello, che era stato molto vicino a Perenne, non dovette essere estraneo a queste pressioni, se, come afferma Dione (72, 8, 6), pur avendo egli inflitto pesanti sconfitte ai barbari in Britannia »a causa della sua particolare virtù« rischiò di essere messo a morte da Commodo. Il Grosso, La lotta politica, 184 in relazione a questa notizia parla apertamente di processo contro Marcello imbastito dagli avversari di Perenne. Insistono su una congiura di palazzo ai danni del prefetto Heer, J. M., »Der historische Wert«, 67–70; Cassola, F., »Pertinace durante«, 130– 132; von Saldern, Studien zur Politik, 138. Il Müller, A., »Zur Geschichte des Commodus«, Hermes 18 (1883), 623–626, 624 (seguendo un’intuizione di Mommsen ripresa anche da Heer, J. M., »Der historische Wert«, 73 n. 160) sulla base della traduzione araba di un passo di Galeno relativo a interrogatori di schiavi torturati svolti dopo la morte di Perenne, riteneva che Perenne si fosse circondato di un numero imprecisato di complici e che l’inchiesta su costoro fosse stata affidata da Commodo al senato. Il titolo di Felix assunto da Commodo dopo la morte di Perenne di cui parla l’HA (Comm. 8, 1: cum occidisset Perennem, appellatus est Felix, inter plurimas caedes multorum civium quasi quidam novus Sulla) non è certo che debba essere legato alla morte del prefetto, dal momento che il biografo lo registra maliziosamente accanto a quello di Pius (assunto da Commodo nel 182–183) senatu semet inridente. La Kaiser-Raiß, Die stadtrömische

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Münzprägung, 27–28 (seguita da Hekster, Commodus. An Emperor, 93–94) pensa che il titolo Felix sia stato assunto da Commodo non tanto in connessione con la morte di Perenne quanto in occasione dei decennalia del suo regno. Per il paragone con Silla (per lo Heer, J. M., »Der historische Wert«, 90 n. 204, a mio avviso a torto, nient’altro che »eine rhetorische Figur«) e la documentazione numismatica cfr. van’t Dack, E., »Commode et ses épithètes Pius Felix sous les Sévères«, HAC Parisinum (Macerata, 1991), 311–335; De Ranieri, C., »Salus, Felicitas, Fortuna: le virtutes di un imperatore romano. Analisi di alcune monete commodiane«, RIN 102 (2001), 167–191, 172–176; von Saldern, Studien zur Politik, 139–140. Su Silla Felix cfr. almeno Balsdon, J. P., »Sulla Felix«, JRS 41 (1951), 1–10. Sull’attualità del paradigma di Silla in quest’epoca (e sul richiamo a Silla nel discorso di Settimio Severo in senato nel 197 dopo la vittoria su Clodio Albino in Herod. 3, 7, 7–8) cfr. Zecchini, G. , Ricerche di storiografia latina tardoantica (Roma 1993), 93–102; Schettino, M. T., »Cassio Dione«, 545–546; Urso, G., »Le origini delle proscrizioni sillane nei frammenti di Cassio Dione«, REA 112 (2010), 153–167, 166–167. In ultima analisi le pressioni che furono fatte su Commodo aiutano a chiarire lo scenario che si era delineato contro Perenne e che aveva riguardato anche i destini di Ulpio Marcello e dei prefetti equestri in Britannia, di un figlio di Perenne e, forse, di Ploziano in Illirico. La Britannia e l’Illirico sembrano dunque essere state le province coinvolte nell’azione orchestrata da Perenne in cui egli era riuscito a tirare le fila del complotto, stroncato però sul nascere dalle manovre di Cleandro e di quei senatori fortemente ostili a Perenne. ἱερὸν ἀγῶνα τελοῦσι Ῥωμαῖοι Διὶ Καπετωλίῳ – È vecchia ipotesi del Sievers, R., »Über das Geschichtswerk des Herodianos«, Philologus 26 (1867), 36–80, 38–39 (seguito da Heer, J. M., »Der historische Wert«, 74– 75) che qui Erodiano alluda all’agone in onore di Giove Capitolino, la festa istituita da Domiziano nell’86 (Suet. Domit. 4, 4; Cens. De die Nat. 18, 15; Jones, B. W., The Emperor Domitian, London-New York 1992, 103–105), che si celebrava ogni quattro anni (probabilmente a giugno o a luglio) e che dunque sarebbe stata celebrata nel 182 o nel 186: ma ciò, come è stato giustamente osservato (Stein, A., »Tigidius«, 953; Hohl, Kaiser Commodus, 16– 17 Grosso, La lotta politica, 173), non è possibile perché nel 182 Perenne non era ancora tanto potente, mentre nel 186 era già morto. Si è pensato pertanto che qui Erodiano (Grosso, La lotta politica, 173–174) stia confondendo l’agone con i Ludi Capitolini che si celebravano ogni anno il 15 ottobre (Plut. Rom. 25). Se è così, la data più probabile della scena qui descritta da Erodiano sarebbe il 15 ottobre 184. Cerca di rimediare all’incertezza con una spiegazione confusa il Whittaker, Herodian, 52–53, secondo il quale l’agone domizianeo (con le competizioni musicali, equestri e atletiche) si

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sarebbe affiancato in data incerta ai Ludi e sarebbe stato celebrato con una certa discontinuità: ciò spiegherebbe l’oscurità di Erodiano. A mio avviso è corretto supporre, come fa il Grosso (seguito anche da Cassola, Erodiano, 28), una confusione da parte di Erodiano tra agone e Ludi: il nostro storico parla infatti espressamente di »un sacro agone in onore di Giove Capitolino« celebrato dai Romani (ἱερὸν ἀγῶνα τελοῦσι Ῥωμαῖοι Διὶ Καπετωλίῳ). La Rowan, C., »Rethinking Religion«, 168–169 (che dà per scontato che Erodiano parli dei Ludi Capitolini) ha osservato come le digressioni »religiose« in Erodiano siano spesso in corrispondenza di notizie relative ad attentati contro gli imperatori (cfr. ad es. 1, 10, 5; 8, 8, 3) e come »the placements of Herodian’s digressions on religion perhaps indicates a conscious or inconscious association of religion with a challenge to social norm of the status quo« (169). σὺν τοῖς λοιποῖς ἱερεῦσιν – Il Flamen Dialis e un collegio di sodales, inizialmente i cosiddetti sodales Flaviales secondo Suet. Dom. 4, 4. τῶν τε ἐν ἀξιώσεσιν〈ἐν〉ἐξαιρέτοις ἓδραις καὶ ὡς ἑκάστοις διετέτακτο ἱδρυμένων - Le prime quattordici file a teatro erano riservate ai senatori e ai cavalieri. ἀνὴρ φιλοσόφου φέρων σχῆμα – Il personaggio che appare in Erodiano ha tutta l’aria di essere un filosofo cinico, anche se è da considerare un’impresa disperata proporre una sua identificazione. Per Whittaker, C. R., »The Revolt of Papirius Dionysius«, Historia 13 (1964), 348–369, 365 l’episodio cela un incidente organizzato da settori del senato ostili a Perenne. Secondo Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 111 il personaggio del filosofo è un’invenzione ad effetto di Erodiano: »Wie im falle Marc Aurels, der als Bürge für die Zuverlässigkeit der Darstellung herhalten mußte, versucht Herodian nun mit dem Auftritt des Philosophen erneut einen Gewährsmann für seine Unterstellung zu konstruieren«. Non escluderei tuttavia che qui Erodiano possa aver accolto un rumor che circolava in teatro (dove Erodiano poteva senz’altro essere presente, cfr. supra 1, 8, 6). Il fatto che fosse Perenne, vale a dire il prefetto del pretorio, a far giustiziare immediatamente il filosofo si spiega con quello che il Passerini, Le coorti, 249 ha così definito: »una specie di imperium, da cui derivava questo ovvio potere di coercitio, in base al quale [Perenne] poteva in Roma e fuori procedere contro i cittadini … senza che per questo fosse necessaria una forma qualsiasi di persecuzione giudiziaria o qualche cosa che assomigliasse ad una sentenza«. Come per la congiura di Lucilla, anche qui il teatro è il luogo dove a Commodo viene comunicato che sta per rischiare la vita. Analogamente a

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teatro (ma più probabilmente durante le gare del circo) è ambientata la sommossa popolare che determinò la fine di Cleandro (cfr. infra 1, 12, 5). διαφθείρῃ – Non necessaria la correzione διαφθερεῖς di Lucarini, Herodianus, del trádito διαφθείρῃ come suggerito da Letta, C., rec. a Lucarini, Herodianus, 695 che accolgo.

§ 10

Giunto in Italia, quelli che erano stati incaricati, lo uccisero. Questa fu dunque la fine di costoro: Commodo nominò due prefetti del pretorio ritenendo più sicuro non affidare ad una persona sola un così grande potere: sperava che dividendo la carica avrebbe indebolito l’aspirazione a conquistare il potere. ὁ δὲ Κόμοδος δύο τοὺς ἐπάρχους καταστήσας – Perenne era rimasto in carica per tre anni (182–185) come unico prefetto del pretorio (cfr. supra 1, 8, 1). I nomi dei suoi successori sono poco noti dal momento che le scarse notizie disponibili derivano dall’HA (Comm. 6, 6–8) che concentra la sua attenzione sulla figura di Cleandro (su cui cfr. infra 1, 12, 3–13, 6) e la sua potentia, che aveva preso il posto di quella di Perenne, e dice soltanto che a succedere a Perenne furono i non altrimenti noti Nigro e Marcio Quarto (il primo per sei ore soltanto, il secondo per cinque giorni!). Anche i successori di costoro ad arbitrium Cleandri aut retenti sunt aut occisi (Comm. 6, 8). Per via epigrafica sappiamo che T. Longeo Rufo (ILS 8998; Passerini, Le coorti, 1939, 307; Howe, The praetorian prefect, 66) fu chiamato a Roma dalla prefettura d’Egitto per rivestire quella del pretorio alla fine del 185. Dal repertorio dello Absil, M., Les préfets du prétoire d’Auguste à Commode (Paris, 1997), 186–193 si ricava che tra gli otto personaggi ricordati dall’HA che rivestirono la prefettura del pretorio dopo la scomparsa di Perenne sino alla fine del regno di Commodo (oltre a Nigro, Marcio Quarto e T. Longeo Rufo sono menzionati P. Atilio Ebuziano, L. Giulio Veilio Grato Giuliano, Regillo, Motileno, Q. Emilio Leto) solo quattro sono attestati anche epigraficamente. La critica riconduce la responsabilità di questa situazione turbolenta (il Rostovtzeff, M., Storia economica e sociale dell’impero romano, trad. it. (Firenze, 1933 e ora Milano, 2003, con testi inediti), 452 definì pittorescamente questo interludio »danza della morte«) ora a Cleandro, pressato dall’opposizione dei prefetti stessi (Grosso, La lotta politica, 212) ora a Commodo, desideroso di guadagnarsi l’appoggio del prefetto del pretorio ai danni del senato (Kienast, D., rec. a Grosso, La lotta politica, 603) o, in modo più articolato, allo scontro in atto tra l’imperatore,

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pronto a imporre i suoi favoriti, e i suoi oppositori (Howe, The praetorian prefect, 13–14). Secondo la De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 153–154 la rapida successione dei prefetti del pretorio dopo la morte di Perenne era stata voluta da Commodo al fine di promuovere in senato gli ex-prefetti e di creare così un blocco a lui fedele all’interno del senato stesso. Tuttavia Hekster, Commodus. An Emperor, 70 (il quale ritiene che l’intenzione di Commodo fosse quella di limitare il potere dei prefetti) osserva come »We do not know whether these former praetorians did arrive in the senate or not« poiché »the epigraphic evidence just does not show what happened to the various men after their prefecture« (ibid. n. 170). Ciò, a rigore, è innegabile, tuttavia sappiamo che Commodo aveva effettuato numerosissime adlectiones inter praetorios per infoltire il senato (cfr. Pert. 6, 10: et cum Commodus adlectionibus innumeris praetorias miscuisset, senatus consultum Pertinax fecit iussitque eos, qui praeturas non gessissent sed adlectione accepissent, post eos esse qui vere praetores fuissent). Vero è che ciò non significa che tra i nuovi ammessi in senato bisogna includere senz’altro gli ex-prefetti, tuttavia non lo si può neppure escludere recisamente. Sul testo di questo passo, e in particolare sull’uso di innumeris, si vedano le riserve di Chastagnol, Le Sénat romain, 133–134; l’elenco delle adlectiones di Commodo in von Saldern, Studien zur Politik, 217–227 (anch’egli scettico sull’ipotesi della De Ranieri). Io penso innanzitutto che gli esigui dati a disposizione non consentano conclusioni perentorie in un senso o nell’altro e che, anzi, un’analisi non escluda l’altra. Certo è che i frequenti avvicendamenti (otto prefetti negli ultimi sette anni di regno) fanno pensare che la prefettura del pretorio avesse subito un certo indebolimento a causa di una situazione politica non interamente stabilizzata. Non sembra un caso inoltre che tale instabilità coincida con l’ascesa di Cleandro (sulla cui posizione ufficiale a corte cfr. infra 1, 12, 3) e con la ricerca da parte di Commodo, dopo la morte di Perenne, di nuovi equilibri con il senato che, secondo il biografo dell’HA, lo aveva indotto a dissociare il proprio operato da quello di Perenne (Comm. 6, 4: multa sane post interfectum Perennem eiusque filium quasi a se non gesta rescidit, velut in integrum restituens, su cui De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 147). Ciò spinge a pensare che tali frequenti rotazioni (che coinvolsero anche la prefettura urbana secondo HA Comm. 15, 1) nascessero dall’esigenza da parte di Commodo di garantire una maggiore collegialità e armonia nella prefettura del pretorio dopo l’esperienza di Perenne. Vero è che, pochi anni dopo, nel 188, troviamo un altro prefetto del pretorio sine collega, Atilio Ebuziano, al quale però succedette Cleandro nella seconda metà del 189 (cfr. infra 1, 12, 3) e a cui furono affiancati altri due prefetti (HA Comm. 6, 12), Giuliano e Regillo. Circa la maggior collegialità nella prefettura vale la pena richiamare un passo del celebre discorso di Mecenate in Cassio Dione,

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la cui composizione (su cui cfr. ora Schettino, M. T., »Cassio Dione«; Letta, C., »L’eruzione del Vesuvio«), potrebbe aver risentito delle vicende avvenute sia sotto Commodo sia sotto i Severi quando, in entrambi i casi, si ebbero collegi di tre prefetti del pretorio. Mecenate sostiene che è meglio affidare il comando delle coorti pretorie a due prefetti piuttosto che ad uno solo o a più di due: » […] Che dei cavalieri due dei migliori comandino la tua guardia personale; affidarla a uno solo sarebbe, infatti, malsicuro e affidarla a più potrebbe provocare confusione e tumulti. Due dunque siano questi prefetti, affinché anche il secondo dei due abbia poteri per la tua sicurezza personale e tu non debba trovarti senza alcuno che ti protegga« (52, 24, 1–2). Vale la pena notare infine, quasi a segnalare un cambiamento del clima dopo l’eliminazione di Perenne che, in occasione della rivolta di Materno, che ebbe inizio nel 185 (su cui cfr. subito infra 1, 10), Erodiano (1, 10, 4) scrive che Materno esitava a compiere un’azione contro Commodo perché sapeva che »godeva dell’appoggio dei pretoriani«.

10. §1

Poco tempo dopo, fu ordita un’altra simile congiura contro Commodo. Materno, che era stato in passato soldato, dopo aver compiuto numerosi e gravi delitti, aveva disertato e aveva convinto altri a fare lo stesso, ed essendo riuscito a raccogliere in poco tempo una folta schiera di malfattori incominciò a depredare villaggi e campagne facendo scorrerie. Dopo che ebbe accumulato ingenti ricchezze, riunì attorno a sé un gruppo ancor più numeroso di delinquenti promettendo forti ricompense e dividendo il bottino, sicché si guadagnarono la fama non più di predoni ma di nemici. χρόνου δὲ οὐ πολλοῦ διαγενομένου ἑτέρα τις ἐπιβουλὴ τοιαύτη κατ᾽αὐτοῦ συνεσκευάσθη – La morte di Perenne, con cui si chiude il capitolo precedente, risale alla primavera del 185. Qui si apre la narrazione del cosiddetto bellum desertorum, secondo la dicitura di HA Comm. 16, 2. Il protagonista è Materno, un soldato disertore, e la testimonianza di Erodiano è di straordinario valore giacché è l’unica fonte che ricorda per esteso questo personaggio e la sua rivolta. Altre notizie si ricavano da HA Comm. 13, 5; Pesc. Nig. 3, 3–5 e da alcune iscrizioni: CIL XI 6053; XIII 11757; AE 1956, 90; 1959, 141; 1981, 691. L’indicazione cronologica di Erodiano è troppo generica (χρόνου δὲ οὐ πολλοῦ διαγενομένου), come generica è la datazione dell’HA (Pesc. Nig.

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3, 3–5) da cui si apprende che il bellum ebbe luogo durante il governatorato di Settimio Severo in Gallia Lugdunensis (dalla seconda metà del 185 al 189). La notizia di HA Comm. 16, 2: ante bellum desertorum caelum arsit (considerata attendibile da Alföldy, G., »Bellum desertorum«, 369), secondo alcuni (Stothers, R., »Is it the Supernova of A. D. 185 recorded in Ancient Roman Literature?«, Isis 68 (1977), 443–447; von Saldern, Studien zur Politik, 131) farebbe riferimento alla comparsa di una supernova nel 185, ma c’è anche chi pensa (Mouchová, B., »Omina mortis in der Historia Augusta«, BHAC 1968/9 (Bonn, 1970), 111–149, n. 23) – a mio avviso in modo poco convincente – che si tratti di una trasposizione di una notizia di Cassio Dione (76, 4, 6) relativa ad un prodigio del 196. Linderski, J., »Caelum arsit and obsidione liberare: Latin Idiom and the Exploits of the Eight Augustan Legion at the Time of Commodus«, ZPE 142 (2003), 241–255, 253–254, raccogliendo un’ampia messe di testimonianze relative a questo tipo di prodigio, ha mostrato in modo convincente come esso »it is often connected with the fear of a war or a prediction of an unlucky war«. Vale la pena notare che tra i prodigi del regno di Commodo nell’HA questo è l’unico che è connesso ad una guerra, e rivela dunque che la guerra contro Materno non fu solo una semplice operazione di polizia ma, proprio come afferma Erodiano, fu un conflitto di una certa portata. Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 88–89, 108–112 ritiene che Erodiano nella sua narrazione abbia fatto apparire come due episodi distinti la congiura di Perenne e dei suoi figli e la rivolta di Materno, che invece andrebbero analizzate come parti di un unico complessivo scenario. La rivolta di Materno dovrebbe dunque essere compresa alla luce dei disordini in Britannia: Materno trovò spazio per la sua azione poiché le legioni britanniche erano in fermento e dunque la seditio delle legioni britanniche funse da catalizzatore delle diserzioni sul Reno; entrambi gli episodi andrebbero dunque letti come convergenti: la ribellione a Perenne delle legioni britanniche e la ribellione di Materno ebbero lo stesso fine. Erodiano infine rifletterebbe la versione ufficiale non solo delle congiure di Perenne e di Materno, ma anche di quella di Lucilla e di Cleandro. Per una datazione più precisa è utile far riferimento al fatto che Commodo è ricordato con il titolo di Pius Felix in un’iscrizione onoraria di Urbino (CIL XI 6053, con aggiornamenti ora in Donati 1988, 63–69 e Linderski, J., »Caelum arsit« 241–255) dedicata a C. Vesnio Vindice tribunus militum della VIII legio Augusta, posteriore alla prima metà del 185 (il titolo di Pius fu assunto da Commodo tra la fine del 182 e l’inizio del 183 [CIL VI, 2099; BMCR 4, CLVII; Grosso, La lotta politica, 145–146; Kaiser-Raiß, Die stadtrömische Münzprägung, 17–18], quello di Felix dopo la morte di Perenne nella prima metà del 185 [cfr. supra 1, 9, 2]), relativa ad una obsidio con cui fu liberata l’VIII legio di stanza in Germania Superiore (ad Argentoratum), che ricevette i titoli di Pia Fidelis Constans Commoda. Questi stessi

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titoli si trovano in CIL XIII 11757 dell’8 agosto 187 da Öhringen (Vicus Aurelius) anch’essa relativa alla legio VIII in Germania Superiore. Ambedue le iscrizioni sono state acutamente accostate (Egger, R., »Die Wachstafel von Rottweil«, Germania 36 (1958), 373–385) ad AE 1956, 90 (e poi 1959, 141; 1981, 691), la cosiddetta tavoletta di Rottweil (Arae Flaviae negli Agri Decumates, nei pressi dell’ odierna Neckar) che nell’agosto del 186 (il 14 per Egger, R., »Die Wachstafel von Rottweil«, 375; il 12 per Alföldy, G., »Bellum desertorum«, 371 n. 22; il 4 per Willmanns, J. C., »Die Doppelurkunde von Rottweil und ihr Beitrag zum Städtewesen in Obergermanien«, Epigraphische Studien 12 (1981), 1–180, 69) ricorda la stessa legione coi soli titoli di Pia Fida. La tavoletta è preziosa perché riferisce di un’inchiesta relativa al presidio della legio VIII a Lireno intrapresa dopo la sua liberazione. Si dà conto del fatto che i cittadini romani (nostros) dovevano essere perseguiti secondo la lex de rapina, i peregrini (reliquos), a meno che non fossero implicati in atti di violenza, dovevano essere puniti con ammende pecuniarie. A questo proposito vale la pena notare che il passo dell’HA relativo alle ribellioni che si ebbero in Britannia, Pannonia, Germania e Dacia si chiude (Comm. 13, 5–8) con un cenno generico alle condemnationes che si ebbero dopo i disordini nelle diverse province. Relativamente alla cronologia delle iscrizioni mi sembra si possa eccepire qualcosa circa la ricostruzione del Grosso, La lotta politica, 438 che ritiene che gli epiteti di Pia Fidelis Constans Commoda presenti nell’iscrizione di Urbino siano solamente »deliberati« per la legio VIII e che non furono concessi prima del 187, dal momento che l’iscrizione urbinate (ll. 5–6) recita: legio pia fidelis constans Commoda cognominata est: l’uso di cognominata non lascia spazio per eventuali deliberazioni. Ciò consente invece, a mio avviso, di stabilire che l’iscrizione urbinate è posteriore alla prima metà del 185, e che la concessione dei titoli è avvenuta tra l’agosto 186 (quando cade l’inchiesta – e infatti la legione porta ancora i titoli di Pia Fida -) e l’agosto 187 (quando i nuovi titoli sono senz’altro assunti). Se ne è concluso (Grosso, La lotta politica, 235–239; 435–444), non senza qualche disaccordo (Alföldy, Die Krise, add., 80; Willmanns, J. C., »Die Doppelurkunde«, 73; Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 101–106; Hekster, Commodus. An Emperor, 66), che le iscrizioni e la tavoletta di Rottweil facciano riferimento allo stesso avvenimento, vale a dire il bellum desertorum. Stando così le cose, il bellum sarebbe iniziato nel 185 (o nell’inverno 185/ 186) e terminato, con la liberazione della legio VIII, nel 186, durante il quale si procedette con l’inchiesta. Al 187 infine spetterebbe la discesa di Materno in Italia e il seguente fallito tentativo di mettere a morte Commodo. La morte di Materno, considerato che Erodiano la collega alla celebrazione degli Hilaria che avveniva il 25 marzo, cade nella prima metà del 187 (diversamente Heer, J. M., »Der historische Wert«, 184 che pensa al 188 – ma che non conosceva la tavoletta di Rottweil –, su cui contra già Grosso,

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La lotta politica, 236). Dalla disamina di AE 1965, 240–241 da Mogontiacum il Grosso, F., »La carriera di Q. Aurelio Polo Terenziano«, Athenaeum 45 (1967), 346–355, ha ricostruito la carriera di Q. Aurelio Polo Terenziano, che dovette partecipare al bellum desertorum in quanto legatus della legio XXII Primigenia, consolidando in seguito la pacificazione della Britannia (su cui cfr. supra 1, 9, 2–9); rivestì il consolato nel 189 o nel 190 e il proconsolato d’Asia probabilmente nel 204 o nel 205. Μάτερνος ἦν τις … ὡς μηκέτι λῃστῶν ἀλλὰ πολεμίων ἔχειν ἀξίωμα – Su Materno non possediamo altre informazioni se non quelle che ci fornisce qui Erodiano, che è per noi l’unica fonte su questo episodio: è dunque opportuno sottolineare l’eccezionalità della testimonianza di Erodiano che ha conservato notizia di un avvenimento altrimenti a noi poco noto. Da Erodiano apprendiamo che Materno era un disertore che già si era macchiato di numerosi delitti: la qualifica di bellum desertorum dell’HA (Comm. 16, 2) appare dunque quanto mai appropriata così come la partecipazione al fianco di Materno di altri militari disertori, rivelata dalla tavoletta di Rottweil, in particolare quelli della legio VIII. L’eterogenea composizione (militari ribelli, provinciali, sbandati) di coloro che cinsero d’assedio la legione VIII potrebbe spiegare la dizione nova obsidione che si trova in CIL XI 6053, l. 4; Linderski, J., »Caelum arsit«, 244 (ove status quaestionis con discussione relativa alla lezione alternativa Novia una località non altrimenti nota sebbene sia toponimo attestato in Germania) preferisce attribuire all’aggettivo nova il significato di »recente« e sottolinea anche l’importanza del bellum alla luce del prodigio di cui parla l’HA (Comm. 16, 2). Gli »arruolamenti« di Materno, il cui nome secondo Alföldy, G., »Bellum desertorum«, 374 »war charakteristisch für die germanischen und gallischen Provinzen«, potrebbero essere stati facilitati dai reclutamenti effettuati da Marco al tempo delle guerre marcomanniche tra schiavi, gladiatori e latrones di cui parla l’HA (M. Ant. 21, 6–7: servos, quemadmodum bello Punico factum fuerat, ad militiam paravit … armavit etiam gladiatores, quos obsequentes appellavit. latrones etiam Dalmatiae atque Dardaniae milites fecit). Scettici su questa possibilità Grünewald, T., Räuber, Rebellen, Rivalen, Rächer. Studien zu latrones im römischen Reich (Stuttgart, 1999), 180–181; von Saldern, Studien zur Politik, 136, contra Grosso, La lotta politica, 441; Kienast, D., rec. a Grosso, La lotta politica 603; Bellen, H., Studien zur Sklavenflucht im römischen Kaiserreich (Wiesbaden 1971), 106. Birley, A. R., The African Emperor. Septimius Severus (London, 1988), 74 si limita a segnlare il fatto che »the end of the Marcomannic war had left bands of runaway slaves and deserters roaming through Gaul, Spain and Italy«.

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§2

Ormai infatti, assalivano le più grandi città e, aprendo con la forza le carceri, liberavano quelli che, per un motivo o per un altro erano incarcerati, promettendo l’impunità e li rendevano loro alleati concedendo benefici. Avendo attraversato l’intera regione dei Celti e degli Iberi, dopo aver assalito le città più importanti, in parte dandole fuoco, in parte saccheggiandole, si ritiravano. πᾶσάν τε κατατρέχοντες τὴν Κελτῶν καὶ ᾽Ιβήρων χώραν … – L’espressione impiegata qui da Erodiano per indicare il teatro delle operazioni, oltre alla Spagna, in riferimento al mondo celtico ritengo voglia indicare tanto la Germania quanto la Gallia, dal momento che il nostro storico non ignora il termine Γαλλία (cfr. 3, 7, 1 e 2; 3, 15, 8). La χώρα τῶν Κελτῶν di cui parla Erodiano comprende pertanto sia l’intera Gallia sia la Germania, vale a dire i Κελτοί che abitavano entrambe le sponde del Reno. Alla luce di ciò non mi sembra appropriata la traduzione di Cassola, Erodiano: »teatro delle loro imprese erano la Gallia e la Spagna«; meglio »l’intera regione dei Celti e degli Iberi« (πᾶσάν τε … τὴν Κελτῶν καὶ ᾽Ιβήρων χώραν), né la convinzione espressa da Alföldy, G., »Bellum desertorum«, 372 secondo il quale la rivolta coinvolse le province galliche mentre il bellum toccò solo la Germania superiore. La natura del conflitto di cui parla Erodiano non mi pare infatti consenta di distinguere con tanta rigidità tra rivolta e bellum. L’impressione che si ricava dal resoconto erodianeo è infatti quella di una rivolta che, allargandosi via via, prende la forma di una guerra (§§ 2–3: ὡς μηκέτι λῃστῶν ἀλλὰ πολεμίων ἔχειν ἀξίωμα … πόλεσι γὰρ ἤδη μεγίσταις ἐπετίθεντο …. πᾶσάν τε κατατρέχοντες τὴν Κελτῶν καὶ ᾽Ιβήρων χώραν, πόλεσί τε ταῖς μεγίσταις ἐπιόντες) tanto da richiedere l’intervento di più governatori provinciali – e in particolare proprio quelli delle Gallie – e l’arruolamento di un esercito (su cui cfr. infra § 3). Sulla base di recenti ritrovamenti archeologici ed epigrafici von Saldern, Studien zur Politik, 132–135 ha elencato una serie di centri gallici e germanici, ma anche retici (su cui tuttavia permangono dubbi) che sarebbero stati interessati dalle scorrerie di Materno e dei suoi. Per quanto riguarda la Spagna sappiamo che già nel 170/171 e poi ancora nel 175 o 177 disordini erano stati provocati dai Mauri, che avevano passato lo stretto di Gibilterra (M. Ant. 21, 1; Alföldy, G., »Bellum Mauricum«, Chiron 15 (1985), 91–109, 101–103). Blázquez, J. M., »Hispanien unter den Antoninen und Severern«, ANRW II 3 (1975), 452–522, 508 ha messo in relazione ILS 2293, relativa ad una vexillatio delle Ampurie, con il bellum desertorum, ma cfr. contra Richardson, J. S., The Romans in Spain (Cambridge Mass., 1996), 234.

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Dal momento che HA Comm. 13, 5 afferma che anche in Dacia vi furono dei disordini (et in Dacia imperium eius [sc. Commodi] recusantibus provincialibus), databili al 185/186 (Piso, Fasti Provinciae Daciae, 140), si è voluto individuare un collegamento con il bellum desertorum (Balla, L., »Recusantes provinciales in Dacia«, Oikoumene 1 (1976), 185–195; von Saldern, Studien zur Politik, 133–136). A questo proposito, in mancanza di testimonianze esplicite, sarei più prudente: sappiamo infatti solamente che il governatore di Dacia di quegli anni, Vespronio Candido Sabiniano, era ricordato per la severità della sua condotta nei confronti dei soldati (Did. Iul. 5, 6). Ciò che colpisce è senz’altro la frequenza dei disordini tra gli eserciti (in Pannonia, in Britannia, in Dacia, in Germania) dopo la morte di Tigidio Perenne (su cui cfr. supra 1, 9, 2–9) e dunque il particolare legame che questi era riuscito ad instaurare con i militari che, dopo la sua morte, venne a mancare, provocando una forte instabilità. Ciò forse contribuisce a spiegare la frequente rotazione dei prefetti del pretorio (su cui cfr. supra 1, 9, 10) da parte di Commodo, forse alla ricerca di una figura altrettanto autorevole quanto lo era stato Perenne.

§3

Quando Commodo fu informato, in preda ad una collera incontrollata scrisse ai governatori delle province in tono minaccioso rimproverando la loro incapacità e ordinando di arruolare un esercito contro quei banditi. Questi, avendo saputo che si era radunato un esercito contro di loro, abbandonarono le regioni che devastavano e in piccoli gruppi, lungo impervi e impraticabili sentieri, si infiltrarono segretamente in Italia; e già Materno pensava all’impero e ad imprese più importanti. Poiché quel che aveva compiuto in precedenza gli era riuscito al di là di ogni più rosea aspettativa, pensò che era venuto il momento di ottenere un successo, facendo qualcosa di grandioso o, una volta che aveva di deciso di affrontare il rischio, affrontare una morte onorevole e gloriosa. ὡς δὲ ταῦτα ἐδηλώθη τῷ Κομόδῳ … ἐπιστέλλει τοῖς τῶν ἐθνῶν ἡγουμένοις ῥᾳθυμίαν ἐγκαλῶν καὶ κελεύει στρατὸν ἐπ᾽ αὐτοὺς ἀθροισθῆναι – I governatori interessati alla repressione della rivolta furono Pescennio Nigro, governatore dell’Aquitania, Settimo Severo, governatore della Lugdunense (HA Nigr. 3, 3–4), Clodio Albino governatore della Belgica (HA Albin. 5, 5; 6, 3). Non condivido lo scetticismo di Alföldy, G., »Bellum desertorum«, 372 (già in Hasebroek, J., Die Fälschung der Vita Nigri und Vita Albini in den Scriptores Historiae Augustae, Diss. (Berlin, 1916), 24–25, 43, ma cfr. contra

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Grosso, La lotta politica, 228–234) che nega attendibilità alle notizie dell’HA relative a Nigro, a Severo e ad Albino in quanto imprecise, mentre accetta la storicità di Comm. 16, 2 (ante bellum desertorum caelum arsit), a ben vedere molto più generica. In un iscrizione di Salona (ILS 2770) databile al 185/186 (discussione in von Saldern, Studien zur Politik, 123–125, 130) in onore di L. Artorio Casto, questi risulta a capo di due distaccamenti delle legioni britanniche adversus Arm[oricano]s. Ciò lascia pensare che Artorio fosse intervenuto nel contrastare i ribelli dell’Armorica che avevano partecipato al bellum. Già Birley, The African Emperor, 74 aveva ipotizzato che un contingente britannico fosse stato impiegato per la soppressione del brigantaggio. Al successo ottenuto nel bellum desertorum il Grosso, La lotta politica, 490–497, 519 (sulla scia di von Rohden, P., s. v. »Aurelius« [85], RE II. 2 (1896), 2464–2481, col. 2476 e di Heer, J. M., »Der historische Wert«, 111, 184 n. 414; ma contra Alföldy, G., »Bellum desertorum«, 372) attribuisce l’VIII salutatio di Commodo, identificandola con l’expeditio Germanica III a cui fa cenno l’HA (Comm. 12, 8), affermando che Commodo aveva intenzione di partire alla volta della Germania, ma fu trattenuto dal senato e dal popolo. Al 186, sempre secondo Grosso, La lotta politica, 213 apparterebbero la sesta liberalitas (DEDR s. v. liberalitas, 855) e forse anche la concessione di un donativo (BMC IV, CLX–CLXI). διὰ ταχείας καὶ ἀβάτου ὁδοιπορίας κατ᾽ ὀλίγους εἰς τὴν ᾽Ιταλίαν παρεδύοντο – È stato osservato che l’impervio itinerario da cui era disceso Materno passava molto probabilmente attraverso la Rezia (Grosso, La lotta politica, 237). A mio avviso il riferimento all’impraticabilità può anche alludere al fatto che siamo in inverno (tra il 186 e il 187 oppure i primi mesi del 187).

§4

Poiché riteneva di non avere una tale forza da riuscire ad affrontare Commodo alla pari in campo aperto (la maggioranza del popolo romano era ancora ben disposta verso Commodo e godeva dell’appoggio dei pretoriani), sperava di prevalere con un sagace piano. Architettò la seguente azione. τό τε γὰρ πλῆθος τοῦ Ῥωμαίων δήμου ἐλογίζετο εὔνουν ἔτι τῷ Κομόδῳ ὑπάρχον, τήν τε περὶ αὐτὸν τῶν δορυφόρων εὔνοιαν – Questa osservazione non mi pare di poco conto, dal momento che lascia intendere che Commodo godeva di un ampio favore popolare e che, nonostante la morte di Perenne, era riuscito a mantenere il controllo sui pretoriani (cfr.

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supra 1, 9, 10). Diversamente, ma in modo tendenzioso, sia Dione (72, 13, 1) sia il biografo (Comm. 4, 5; 7, 1) insistono sul fatto che popolo e senato erano uniti nel loro odio contro Commodo.

§5

Ogni anno, all’inizio della primavera, in un determinato giorno, i Romani organizzano una processione in onore della Madre degli dei e ciascuno porta ai piedi della statua della Dea tutti gli oggetti simboli di ricchezza e i tesori degli imperatori, prodigi di materiali e di tecnica. È concessa a tutti sfrenata libertà in ogni divertimento e ciascuno si traveste come vuole: non c’è alcuna carica così elevata né considerevole della quale non sia lecito prendersi gioco a chiunque voglia travestirsi nascondendo il proprio vero aspetto, sicché non è facile distinguere l’imitatore dall’imitato. ἦρος ἀρξῇ ἑκάστου ἔτους ὡρισμένης ἡμέρας Μητρὶ θεῶν πομπὴν τελοῦσι Ῥωμαῖοι – La processione è quella in onore della Magna Mater il cui culto a Roma rimonta al periodo della seconda guerra punica (205 a. C.). All’interno di questa festa il 25 marzo si celebravano gli Hilaria a cui allude qui Erodiano, durante i quali era concesso travestirsi. Whittaker, Herodian, XVII lega l’interesse di Erodiano per i miti religiosi, i culti e le feste con la celebrazione dei Ludi Saeculares del 248 che potrebbero essere stati l’occasione per la presentazione della Storia. La breve digressione sugli Hilaria (cfr. infra 1, 11), che serve a spiegare il piano escogitato da Materno per uccidere Commodo, richiama la digressione sui Saturnalia (1, 16) premessa all’uccisione di Commodo nel 192, così come quella sui Giochi Capitolini del 238 (8, 8, 3) che fornisce lo spunto per le uccisioni di Pupieno e Balbino (cfr. Rowan, C., »Rethinking Religion«, 168).

§6

A Materno parve che l’occasione fosse favorevole per mascherare il complotto. Egli infatti sperava, travestendosi da pretoriano insieme con i suoi complici armati, e mischiandosi con la folla dei lancieri facendo credere di prender parte al corteo, di piombare improvvisamente su Commodo ed ucciderlo senza che nessuno se l’aspettasse. ἔδοξε δὴ τῷ Ματέρνῳ καιρὸς ἐπιτήδειος εἶναι εἰς τὸ τὴν ἐπιβουλὴν λαθεῖν – Secondo Alföldy, G., »Bellum desertorum«, 375–376 la cospira-

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zione di Materno di cui parla qui Erodiano non è credibile (così anche Hohl, Kaiser Commodus, 17–19; 40–41; Grünewald, Räuber, Rebellen, 178 che tuttavia curiosamente ritiene che Erodiano abbia attinto a Cassio Dione, in cui però non c’è traccia del bellum; Hekster, Commodus. An Emperor, 67) perché Erodiano organizza la narrazione del regno di Commodo dopo il rientro a Roma nel 180 secondo uno schema retorico che è quello delle congiure. La storicità del racconto di Erodiano della congiura di Materno viene pertanto declassata come romanzesca con un argomento curioso, vale a dire in quanto »tipicamente erodianea« (375: »Andererseits ist aber die ganz herodianische Erzählung über diesen vereitelten Attentatsplan so unwahrscheinlich und so ›echt herodianisch‹, daß ihr kein Glaube geschenkt werden kann«). A mio avviso ciò non basta per inficiare la storicità della narrazione erodianea in quanto l’organizzazione retorica della materia non implica necessariamente il rifiuto della sua storicità (su cui cfr. Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 100–112). Ancor più perplessi lascia l’affermazione dello stesso Alföldy, G., »Bellum desertorum«, 368 circa la generale inaffidabilità della Storia per la narrazione degli eventi dalla morte di Marco Aurelio sino alla morte di Elagabalo (dunque per i tre quarti dell’opera, dal momento che la morte di Elagabalo è collocata alla fine del quinto libro!) in quanto il nostro storico dipenderebbe da Cassio Dione di cui farebbe un uso disinvolto, salvo poi riconoscere alla prima parte del racconto di Erodiano relativo ai disordini provocati da Materno durante il bellum (di cui in Dione non parla) un nucleo storico (»Im ersten Teil des Berichtes ist der Kern der Erzählung echt« [373]). Più condivisibili le parole di Mazza, M., Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d. C. (Roma-Bari, 1973), 288: »Non sarebbe giusto mancare di senso storico, sia nell’esagerare, come nel sottovalutare il significato sociale della vicenda di Materno. Il fenomeno non può essere ricondotto ad un semplice episodio di diserzione e di brigantaggio; esso appare troppo imponente ed esteso perché possa ridursi solamente alla romanzesca vicenda personale di un bandito«. Queste parole sembrano echeggiare quelle di Thompson, E. A., »Peasant Revolts in Late Roman Gaul and Spain«, P&P 2 (1952), 11–23, 13, secondo il quale »The movement was clearly much more than an affair of army deserters, though these no doubt provided the leadership. Quite apart from Herodian’s description of those who took part in it, its very scale indicates that it was a dangerous uprising of the submerged classes of Gaul and Spain: it was the overture to the Bacaudae«. Non so tuttavia fino a che punto la rivolta di Materno rappresenti l’»overture« delle rivolte delle Bagaudae, dal momento che quella di Materno appare ancora un’iniziativa che nasce all’interno dell’esercito romano e che da lì prende le mosse. Materno è infatti innanzitutto un disertore e la guerra da lui guidata è appunto il bellum desertorum. Vero è che il »movimento« di Materno ebbe un’ampia portata, soprattutto in Gallia e

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Spagna (le stesse regioni che saranno poi interessate dalle rivolte delle Bagaudae), ma resta da provare una diretta responsabilità del nostro nel coinvolgere un così vasto seguito delle popolazioni locali nella sua iniziativa. Cfr. ora Grünewald, Räuber, Rebellen, 185–190. Accentua i motivi legati all’indisciplina militare Piso, Fasti Provinciae Daciae, 140; insiste giustamente sulla comprensione della natura militare del conflitto da parte di Erodiano Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 101–102. ἀναλαβὼν τὸ τῶν δορυφόρων σχῆμα … τῶν αἰχμοφόρων – Il travestimento da δορυφόροι (»pretoriani«) avrebbe permesso di confondersi con gli αἰχμοφόροι, gli hastiferi, che facevano parte del corteo della dea. Ampia discussione, con aggiornata bibliografia in Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 95–96.

§7

Ma sopravvenne una delazione da parte di alcuni complici che erano giunti prima di Materno in città e avevano rivelato la congiura (furono spinti dall’invidia al pensiero che avrebbero avuto come capo non più un bandito come loro ma un signore e un sovrano) e prima che giungesse alla processione Materno stesso fu arrestato e decapitato e i congiurati scontarono la pena meritata. Commodo, dopo aver compiuto sacrifici e ringraziamenti in onore della dea, partecipò con gioia alla processione. Il popolo, insieme alla festa, celebrò sacrifici per la salvezza dell’imperatore. ὁ δὲ Κόμοδος θύσας τε τῇ θεῷ – Un’iscrizione ateniese (IG II2 1796 +1800) del 187 in cui si parla di una vittoria militare sotto Commodo, è stata messa in relazione dall’ Oliver, J. H., »Three Attic Inscriptions concerning the Emperor Commodus«, AJPh 71 (1950), 170–179, 173 con il fallito tentativo di Materno contro Commodo. Lo Heer, J. M., »Der historische Wert«, 184 (seguito dallo Stein, A., s. v. »Maternus« [2], RE XIV 2 (1930), 2193) rivolgendo la sua attenzione a HA Comm. 12, 9 (vota pro eo (scil. Commodo) facta sunt nonis Piis Fusciano iterum consule) ritiene che i vota del 5 aprile 188 siano da collegare alla scampata congiura. Tuttavia il Grosso, La lotta politica, 236, 251 ha obiettato che è molto più probabile che la notizia del biografo debba essere collegata con la peste del 188 dalla quale Commodo si mise in salvo (cfr. infra 1, 12, 1–2). Il Mattingly, H., Coins of the Roman Empire in the British Museum, IV (London, 1940), nrr. 210–212; 590–591, prendendo in considerazione le emissioni relative alla XII tribunicia potestas di Commodo (10 dicembre 186–9 dicembre 187) su cui compare la Hilaritas Augusti, collega queste

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emissioni al fallito attentato contro Commodo del 187, che ebbe luogo in coincidenza con la festa degli Hilaria (il 25 marzo) sebbene il Grosso, La lotta politica, 235 non escluda che la legenda Hilaritas »potesse alludere a un motivo di gaudio ufficiale anche di diversa origine«. Per quanto riguarda un medaglione con Salus e Hilaritas dell’inizio del 188 (Mattingly, H., Coins of the Roman, CLXIII, CLXXXI) Hohl, Kaiser Commodus, 41 n. 95 e Alföldy, G., »Bellum desertorum«, 375 ritengono inverosimile che sia da collegare alla congiura di Materno, come vorrebbe il Mattingly (ibid.), considerata la distanza cronologica tra la morte di Materno e la conseguente »salvezza« di Commodo durante gli Hilaria del 187. La Kaiser-Raiß, Die stadtrömische Münzprägung, 35 infine, anche se molto prudentemente, accetta sulla base delle emissioni del 187 la storicità dell’attentato a Commodo. Lo Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 91 fa notare che monete con Hilaritas in riferimento a Commodo e al suo regno compaiono già nel 176 (quando Commodo riceve il titolo di Cesare da suo padre Marco Aurelio) e nel 183 e dunque l’emissioni del 187 non possono essere accostate in modo decisivo alla vicenda di Materno. Per parte mia sono propenso ad associare i medaglioni del 187 con la Hilaritas Augusti, e non, si badi, la generica Hilaritas, alla sventata congiura di Materno. Nel 187 Commodo assunse il titolo di pater senatus, che si ritrova però solo sulle monete (cfr. von Saldern, Studien zur Politik, 243–245), come già fece Claudio nel 48 in occasione della sua censura (lo assunse poi anche Pertinace [Aurel. Vict. 18, 3]). Il significato del titolo nel caso di Commodo non è chiaro: a mio parere potrebbe essere legato ad una lectio senatus di cui è rimasta traccia in HA Comm. 6, 9, a cui Commodo non era insolito (cfr. supra 1, 9, 10 per Pert. 6, 10) che farebbe pensare al disprezzo di Commodo per il senato in quanto ad cuius nutum etiam libertini in senatum atque in patricios lecti sunt. Forse (von Saldern, Studien zur Politik, 244) nell’assunzione del titolo si potrebbe però leggere anche il tentativo di ricucire lo strappo con il senato dopo gli anni di Perenne. Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 92–95, ritiene di rintracciare τόποι letterari alla base del ritratto di Materno e dei suoi complici in Dione e in Erodiano; più efficaci le obiezioni ad Alföldy (100–112) che non dà credito alla storicità del tentativo di Materno (su cui cfr. supra § 6).

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11. §1

Poiché tra i Greci alcuni ignorano il motivo per cui i Romani venerano particolarmente la Dea madre, mi sembra opportuno ricordarlo, come l’ho appreso attraverso la mia ricerca. Dicono che questa statua è di origine celeste ma è sconosciuta la materia e il nome dell’artista, né è opera di mano umana. Si narra che anticamente fosse precipitata dal cielo in una regione della Frigia (il cui nome è Pessinunte, luogo che prese questo nome dal fatto che la statua era caduta dal cielo) e per la prima volta lì apparve. διὰ τὴν παρ᾽ Ἑλλήνων τισὶν ἀγνωσίαν – È il secondo riferimento di Erodiano ai suoi lettori in questo libro: mentre precedentemente, nel proemio (1, 1, 3), si era rivolto genericamente ai lettori invocandoli quali testimoni dei fatti narrati nella Storia, qui per la prima volta si rivolge ai Greci quali destinatari della sua opera (cfr. infra § 5 in conclusione dell’excursus, sebbene più generico: »anche se è stato un racconto troppo dettagliato, non sarà sgradito a quanti non hanno una conoscenza precisa delle cose romane«). Ciò rafforza l’ipotesi (cfr. supra 1, 2, 5 e Introduzione, 9) di un’origine greca, o ancor meglio greco-orientale (della grecità dell’Asia Minore) di Erodiano. Riferimenti a lettori non romani possono essere considerati anche quelli di 1, 9, 2, dove Erodiano illustra brevemente l’agone sacro in onore di Giove Capitolino (cfr. supra 1, 9, 2–9); di 1, 12, 1 e 1, 16, 2, dove il nostro storico offre spiegazioni di natura (para)etimologica di nomi geografici latini (Laurento, Lazio) che presuppongono lettori grecofoni; di 1, 14, 4 dove riferisce del Palladio e di 1, 15, 9 a proposito della statua del Colosso come oggetti di culto da parte dei Romani nonché di 1, 17, 3 ove offre la spiegazione del nome di un giovane favorito di Commodo (Filocommodo). Utili osservazioni sul pubblico di Erodiano in Whittaker, Herodian, XXVIII–XXX; Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2908–2910, con numerose riserve sulle considerazioni del Whittaker. Circa le fonti di questo excursus l’ipotesi del Baaz, E., De Herodiani fontibus et auctoritate, Diss. (Berlin, 1909), 7–14 che Erodiano derivi gli excursus religioso-antiquari da un compendio di Verrio Flacco non ha alcun fondamento (cfr. Cassola, F., »Erodiano e le sue fonti«, 165–166). L’impressione è che qui Erodiano derivi da molteplici fonti. Cfr. anche infra § 2: »Ma, secondo altri … alcuni … altri«. διιπετὲς εἶναι λέγουσιν … Πεσσινοῦς δὲ ὄνομα αὐτῷ, τὴν δὲ προσηγορίαν λαβεῖν τὸν τόπον ἐκ τοῦ πεσόντος ἀγάλματος ἐξ οὐρανοῦ –

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Nonostante la (para)etimologia proposta qui da Erodiano e al § 2 per il toponimo (»e da entrambe le parte caddero in gran numero e questa strage avrebbe dato nome al luogo«) attraverso il collegamento con il verbo πίπτω, il racconto, secondo il quale il simulacro di Cibele-Magna Mater sarebbe sceso dal cielo, corrisponde all’oggetto di culto: una pietra meteoritica. La (para)etimologia erodianea è ripresa quasi alla lettera da Ammiano Marcellino 22, 9, 7.

§2

Ma secondo altri allora c’era una guerra tra il frigio Ilo e il lidio Tantalo che alcuni fanno risalire a questioni di confine, altri al rapimento di Ganimede: la battaglia rimase a lungo incerta e da entrambe le parte caddero in gran numero e questa strage avrebbe dato nome al luogo. Si narra anche che in quel luogo Ganimede, rapito, scomparve e che suo fratello e il suo amante se lo fossero disputati e non trovando più il corpo, la disavventura del giovane ha assunto contorni divini nel mito del suo rapimento da parte di Zeus. A Pessinunte dunque anticamente i Frigi celebravano riti orgiastici sulle rive del fiume Gallo che scorre in quei pressi, da cui prendono nome gli eunuchi consacrati alla dea. Ἴλῳ τῷ Φρυγὶ καὶ Ταντάλῳ τῷ Λυδῷ πόλεμον ἐκεῖ γενέσθαι λέγουσιν, οἳ μὲν περὶ ὅρων, οἳ δὲ περὶ τῆς Γανυμήδους ἁρπαγῆς – Della guerra tra Tantalo e Ilo e del ratto di Ganimede si trova menzione in diverse fonti: Diod. 4, 74–75; Apollod. 3, 12, 2; Ovid. Met. 10, 155–161; Strabo 13, 1, 11; Paus. 2, 22, 3; Luc. Dial. Deor. 4, 5; 20, 6. Non credo che qui Erodiano, come vuole il Whittaker, Herodian, 69 fonda la leggenda relativa al culto della Magna Mater con quella del Palladio, dal momento che al Palladio Erodiano dedica un altro breve excursus nel primo libro (1, 14, 4) e ne parla negli stessi termini a 5, 6, 3, indipendentemente dal culto della Magna Mater. τοῦ ἀδελφοῦ καὶ τοῦ ἐραστοῦ – Ilo e Tantalo. Poiché Tantalo è una divinità anatolica antichissima, è probabile che, come rileva Cassola, Erodiano, 38, siamo di fronte alla versione originaria del mito secondo cui il rapimento di Ganimede avvenne per opera di Tantalo che si era invaghito del giovane. I Greci avrebbero poi sostituito Zeus (o la sua aquila) a Tantalo come rapitore di Ganimede. πάλαι μὲν Φρύγες ὠργίαζον ἐπὶ τῷ ποταμῷ Γάλλῳ παραρρέοντι – La stessa etimologia per Γαλλοί, sacerdoti evirati di Cibele, in Plin. NH 5,

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147; 11, 261; 31, 9 e Ov. Fasti 4, 361–364. Per Varr. Eum. Fr. 120 Bücheler i sacerdoti di Cibele indossavano vesti femminili (cfr. Gallae in Cat. 63, 12; 34).

§3

Quando i Romani accrebbero il loro potere, un oracolo predisse loro che il loro impero sarebbe durato nel tempo e si sarebbe ingrandito se avessero condotto a Roma la dea di Pessinunte. Inviarono allora ambasciatori ai Frigi a chiedere la statua: facilmente la ottennero, facendo appello alla parentela fra i due popoli e vantando la loro discendenza dal frigio Enea. La statua fu condotta per mare, e quando raggiunse la foci del Tevere (i Romani infatti le utilizzavano come porto) si bloccò per effetto di un intervento divino. ἐπεὶ δὲ Ῥωμαίων ηὔξετο τὰ πράγματα, φασὶν αὐτοῖς χρησθῆναι μενεῖν τε τὴν ἀρχὴν καὶ εἰς μέγα προχωρήσειν – Nelle fonti la vicenda è fatta risalire al 205 a. C., durante l’ultimo scorcio della seconda guerra punica, quando effettivamente »i Romani accrebbero il loro potere« ed è legata alla profezia della vittoria su Annibale. Livio (29, 10, 4) racconta di un’improvvisa superstizione (repens religio) che si era diffusa a Roma in quel tempo, poiché con una certa frequenza erano piovute pietre dal cielo e parla di una profezia trovata nei libri sibillini »che diceva che, quando un nemico venuto da terre straniere avesse portato guerra in Italia, si sarebbe potuto cacciarlo e vincerlo se fosse stato recato a Roma da Pessinunte il simulacro della Madre Idea«. πέμψαντες δὴ πρέσβεις ἐς Φρύγας τὸ ἄγαλμα ᾔτουν· ἔτυχον δὲ ῥᾳδίως συγγένειαν προβαλλόμενοι καὶ τὴν ἀπ᾽ Αἰνείου – Secondo Livio (11, 1–8) fu una folta delegazione romana a recarsi a Delfi, dove un oracolo comunicò loro di recarsi da Attalo I di Pergamo il quale li condusse a Pessinunte »e consegnò a loro, perché la portassero a Roma, quella pietra sacra che gli abitanti ritenevano fosse l’immagine della Madre degli dei«. La συγγένεια tra Frigi e Romani vantata da quest’ultimi attraverso la figura di Enea cela molto probabilmente l’impiego del mito troiano come »grande mito di impero« (Sordi, M., Il mito troiano e l’eredità etrusca di Roma (Milano, 1989), 26–27). Ma, secondo Whittaker, Herodian, 71 »The reference to Aeneas here may be due to a misunderstanding of Ovid Fasti 4. 250–255«. Non sappiamo tuttavia se Erodiano leggesse Ovidio.

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§§ 4–5

I Romani in massa a lungo cercarono di trascinare l’imbarcazione, ma il fango opponeva resistenza e la nave non si mosse finché non giunse una sacerdotessa di Vesta. Questa aveva l’obbligo di restare vergine, ma era accusata di aver perso la sua verginità. Poiché stava per essere giudicata, supplicò il popolo di affidare il giudizio alla dea di Pessinunte: sciolta la cintura, la legò alla prua della nave rivolgendo una preghiera alla dea che, se fosse stata vergine e pura, la nave la seguisse. 5. Agganciata bene la cintura la nave la seguì facilmente: i Romani rimasero ammirati dalla manifesta potenza della dea e dall’onorabilità della vergine. Questo andava detto riguardo alla dea di Pessinunte e, anche se è stato un racconto troppo dettagliato, non sarà sgradito a quanti non hanno una conoscenza precisa delle cose romane. Commodo, dopo essere sfuggito al complotto di Materno, incrementò la sua guardia del corpo e si presentava raramente in pubblico, trascorrendo la maggior parte del tempo nelle residenze imperiali nei dintorni della città o lontano da Roma, astenendosi dall’amministrare la giustizia e dagli altri affari imperiali. πρὶν ἢ τὴν ἱέρειαν ἐνεχθῆναι [τῆς θεοῦ ἥτις] τῆς Ἑστίας [ἦν] – Il testo di Erodiano è qui corrotto e il nome di Vesta appare una glossa secondo Whittaker, Herodian, 71 che espunge il riferimento alla dea: πρὶν ἢ τὴν ἱέρειαν ἐνεχθῆναι τῆς θεοῦ [ἥτις τῆς Ἑστίας ἦν]. Lo Stavenhagen, emendato dallo Schwartz, stampava: πρὶν ἢ τὴν ἱέρειαν ἐνεχθῆναι [τῆς] θεοῦ ἥτις [τῆς Ἑστίας] ἦν. Credo però che sia la lezione di Whittaker sia quella dello Stavenhagen siano da respingere, dal momento che il riferimento successivo alla verginità della sacerdotessa (ταύτην ἔδει παρθενεύεσθαι) non mi sembra lasci spazio a dubbi sul fatto che Erodiano alludesse ad una Vestale. Pertanto seguendo il Cassola, Erodiano, 40 (che accoglie la lezione stampata nella seconda edizione del Bekker, accettata ora anche dall’ultimo editore di Erodiano, Lucarini, Herodianus, che è per noi l’edizione di riferimento) accoglierei la seguente lezione: πρὶν ἢ τὴν ἱέρειαν ἐνεχθῆναι [τῆς θεοῦ ἥτις] τῆς Ἑστίας [ἦν]. Vale la pena notare che Giulia Domna era adepta del culto di Vesta Mater: da qui potrebbe essersi generata la sovrapposizione in Erodiano tra la sacerdotessa di Vesta e quella della Magna Mater. Secondo la leggenda fu Claudia Quinta a disincagliare la nave (Ov. Fasti 4, 305–345; Suet. Tib. 2, 3). ὁ δὲ Κόμοδος … τὰ πλεῖστα ἐν προαστείοις καὶ τοῖς ἀπωτέρω τῆς πόλεως βασιλικοῖς κτήμασιν διατρίβων – Cfr. infra 1, 12, 2 sul ritiro di Commodo a Laurento in occasione della peste del 188. Dione (72, 13, 4) riferisce che in occasione dei tumulti che portarono alla morte di Cleandro, l’imperatore si trovava nella Villa suburbana dei Quintili, la cosiddetta Villa

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Quintiliana lungo la Via Appia, che il principe aveva acquisito tra le sue residenze dopo la morte dei due Quintili, Sesto Quintilio Valerio Massimo e Sesto Quintilio Condiano (su cui cfr. supra 1, 6, 8). Credo però che non necessariamente Erodiano e Dione si riferiscano alla stessa circostanza, dal momento che Erodiano parla di »ville imperiali« e, in occasione della sommossa, non parla più di Laurento bensì di »una villa suburbana« (1, 12, 5). Commodo dunque si era ritirato a Laurento (Erodiano) in occasione della peste, mentre si trovava presso la villa dei Quintili (Dione e, più genericamente, Erodiano) quando scoppiò la sommossa per il grano. Braun, R., »Tertullien et les séditions contre l’empereurs (Apologeticum 35, 8–9)«, REAug 26 (1980), 18–28, analizzando un passo di Tertulliano relativo alle congiure contro Commodo (Apol. 35, 9: Unde qui inter duas laurus obsident Caesarem?), pensa che inter duas laurus alluda a Laurento e che esso sia il luogo della sommossa di cui parla anche Erodiano. Ma già Grosso, F., »Equites singulares augusti«, Latomus 25 (1966), 900–909, aveva dimostrato che la località Ad lauros corrisponde al luogo dove sorgeva un acquartieramento degli equites singulares Augusti sulla Via Labicana. καὶ ἑαυτὸν δικαστηρίων ἀπείργων καὶ βασιλικῶν πράξεων – Analogo ritratto ostile si trova in HA Comm. 13, 7: »Commodo era pigro e svogliato anche per sottoscrivere i documenti, tanto che rispondeva a molte petizioni con un’unica medesima formula, e in moltissime lettere scriveva soltanto ›Vale‹. Tutti gli affari erano trattati da altri personaggi, che si dice riuscissero a volgere a vantaggio della loro borsa persino le condanne«. L’allusione ad »altri personaggi« è riferibile senz’altro a Cleandro (su cui cfr. infra 1, 12, 3).

12. §§ 1–2

In quel medesimo periodo un’epidemia di peste si abbatté sull’Italia: il morbo raggiunse il suo culmine nella città di Roma, poiché è molto popolosa e ospita stranieri di ogni provenienza e pertanto vi furono un gran numero di vittime, sia uomini sia animali. 2. Commodo allora, su consiglio dei medici, si ritirò a Laurento: sembrava infatti che fosse un luogo salutare perché era fresco e ombreggiato da grandi alberi di lauro (donde il nome del luogo); e si diceva che resistesse all’aria contagiata grazie all’aroma di lauro e alla dolce ombra degli alberi. Ma anche quanti restavano in città, su consiglio dei medici, riempivano le narici e le orecchie di una dolcissima essenza profumata e ricorrevano continuamente ad essenze e aromi, poiché alcuni sostenevano che il profumo era in grado di ostruire gli organi sensoriali e impediva di subire

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gli effetti contagiosi dell’aria ovvero, se anche il contagio riusciva a penetrare, era respinto da una forza superiore. Nondimeno l’epidemia si diffuse largamente e provocò la perdita di una folla di gente e di animali domestici di ogni specie. συνέβη δὲ κατ᾽ ἐκεῖνο καιροῦ λοιμώδη νόσον κατασχεῖν τὴν ᾽Ιταλίαν … πάντων τε ζῴων〈τῶν〉τοῖς ἀνθρώπων συνοίκων – L’epidemia di peste che Erodiano colloca subito dopo la morte di Materno (187) e prima della carestia del 190 e della conseguente caduta di Cleandro (cfr. infra 1, 12, 3–13, 6), scoppiò molto probabilmente tra la fine del 187 e il 188, ed è da considerarsi una recrudescenza dell’epidemia che già aveva infestato l’impero un ventennio prima (su cui cfr. Marcone, A., »La peste antonina«, 803–819; Lo Cascio, L’impatto della »peste antonina«). Galeno parla della perdita dei suoi οἰκέτας durante la »lunga pestilenza« (De indol. 1 su cui cfr. infra 1, 14, 1–2) ed è concorde con Erodiano nel sottolineare che l’aria aveva favorito la diffusione dell’epidemia (De differentiis febrium 1, 6 [VII 289 Kühn]): κατὰ δὲ τὰς λοιμώδεις καταστάσεις ἡ εἰσπνοὴ μάλιστα αἰτία; Ad Pisonem de theriaca liber 16 (XIV 281 Kühn): καὶ τῶν ἀνθρώπων τῇ τῆς ἀναπνοῆς ἀνάγκῃ τὸ δεινὸν φεύγειν μὴ δυναμένων, ἀλλὰ αὐτὸν εἰς αὑτοὺς ὥσπερ τι δηλητήριον διὰ στόματος ἑλκόντων τὸν ἀέρα. In Dione (72, 14, 3) la notizia relativa alla diffusione del morbo (»Scoppiò inoltre la più grande pestilenza a mia conoscenza: a Roma in un solo giorno morirono più di duemila persone«) è collocata in modo cursorio sotto il 191, subito dopo la notizia relativa alla morte del prefetto dell’annona Papirio Dionisio. Tuttavia si ricava l’impressione che Dione – qui epitomato da Xifilino – non collochi la notizia secondo un preciso ordine cronologico, in quanto sembra più interessato a mettere in luce come la peste fosse un male minore a paragone degli ultimi anni del regno di Commodo, la cui narrazione segue immediatamente dopo (15, 1: »Commodo per i Romani era una sciagura più grande di ogni epidemia e di ogni male«). Al 5 aprile 188 è databile una notizia del biografo, verosimilmente derivata dagli Acta Urbis, in cui si parla di voti per la salute di Commodo (Comm. 12, 9: vota pro eo facta sunt nonis Piis Fusciano iterum consule) su cui cfr. supra 1, 10, 7. Colpisce il ripetuto richiamo in Erodiano alla morte degli animali domestici, ma anche alla numerosissima popolazione residente a Roma che ospitava stranieri di tutte le provenienze: pare di avvertire l’eco del provinciale Erodiano approdato nella grande città multietnica capitale dell’impero.

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§3

Contemporaneamente la città fu colpita da una carestia per questo motivo. Un certo Cleandro, originario della Frigia, uno di quelli che solitamente il banditore vende all’incanto, era diventato uno schiavo imperiale ed aveva visto la sua potenza accrescersi ed era stato innalzato da Commodo ad un tale grado di prestigio e di potere che gli fu affidato il comando della guardia del corpo, la carica di cubiculario ed anche la prefettura del pretorio. La ricchezza e il lusso in cui viveva lo spinsero ad aspirare all’impero. Κλέανδρός τις ἦν, τὸ μὲν γένος Φρύξ … ἀνεπείσθη καὶ πρὸς βασιλείας ἐπιθυμίαν – L’origine frigia di Cleandro è attestata dal solo Erodiano. È ritenuta particolarmente fededegna da Alföldy, G., »Cleanders Sturz und die antike Überlieferung«, in Id., Die Krise, 104 – sempre molto severo circa l’attendibilità di Erodiano – che ritiene lo storico originario dell’Asia Minore (scettica De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 140 n. 3). Marco Aurelio Cleandro (AE 1961, 280), comprato come schiavo e condotto a palazzo (Dio 72, 12, 1; 10, 2) forse già sotto Marco Aurelio, era stato nutritor di Commodo (AE 1956, 6: ὁ τροφεύς μου) divenendo a cubiculo al posto di Saotero (ILS 1737; Dio 72, 12, 1; Comm. 6, 3), molto probabilmente nel 182 (cfr. De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 141; Hekster, Commodus. An Emperor, 67). Dopo aver assunto l’incarico di a pugione (responsabile del corpo di guardia dell’imperatore), divenne prefetto del pretorio nel 189. Tuttavia sia la carica di a pugione sia la prefettura del pretorio di Cleandro sono molto discusse, nonostante i dati a nostra disposizione indichino che il liberto era stato investito delle due cariche in due tempi diversi. Il titolo di a pugione (accanto a quello di a cubiculo) è attestato da AE 1961, 280 (ll. 7–8: M. Aurelius Cleander/a cubicul(o) et a pugione); da un’iscrizione funeraria in onore di T. Aio Sancto, retore del giovane Commodo che nomina suoi eredi Cleandro e Asclepiodoto, anch’egli cortigiano di Commodo, databile tra la metà 185/186 e la metà del 189 (Moretti, L., »Due iscrizioni latine«, 68–76; Grosso, La lotta politica, 222), e da un passo della Vita Commodi (6, 12–13) secondo il quale Cleandro succedette ad Ebuziano nella prefettura del pretorio con altri due con il titolo di a pugione: Aebutianus inter hos est interemptus; in cuius locum ipse Cleander cum aliis duobus, quos ipse delegerat, praefectus est factus. tuncque primum tres praefecti praetorio fuere, inter quos libertinus, qui a pugione appellatus est. La prefettura del pretorio di Cleandro, successiva a quella di P. Atilio Ebuziano (che risulta praefectus praetorio sine collega nel gennaio del 188 in base a CIL VI 31154; cfr. Grosso, La lotta politica, 239) è databile alla seconda metà del 189 (Grosso, La lotta politica, 247; De Ranieri, C., »Retro-

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scena politici«, 168–169; pensano invece al 187–190 Heer, J. M., »Der historische Wert«, 83; Moretti, L., »Due iscrizioni latine«, 73). L’espressione utilizzata da Erodiano (ὡς τήν τε τοῦ σώματος φρουρὰν καὶ τὴν τοῦ θαλάμου ἐξουσίαν τήν τε στρατιωτῶν ἀρχὴν ἐγχειρισθῆναι) è stata impiegata dal Raubitschek, A. E., »Commodus und Athen. Commemorative Studies in Honor of T. L. Shear«, Hesperia Suppl. VIII (1949), 287–288 (su suggerimento del Magie) e accolta dall’ Oliver, J. H., »Three Attic Inscirptions«, 178–179 per integrare un’iscrizione ateniese del 188 relativa al consilium principis di Commodo in cui Cleandro appare come nutritor, a cubiculo e a pugione (AE 1952, 6, ll. 13–15: [Αὐρήλιος Κ]λέανδρος ὁ τροφεύς/μου καὶ ἐπὶ [τὴν τοῦ θαλάμου καὶ τ]οῦ σώματος τοῦ ἐμοῦ/ πίστιν ἐπιτε[ταγμένος). Accettando questa integrazione, senz’altro plausibile, si ricava che il titolo di a pugione era stato assunto da Cleandro distintamente e prima della prefettura del pretorio (Grosso, La lotta politica, 227–228; De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 167). È dunque da respingere l’ipotesi del Mommsen 1887, 867 n. 1 che riteneva il titolo a pugione »ein Spottname« (cfr. Heer, J. M., »Der historische Wert«, 82; Durry, M., Les cohortes prétoriennes (Paris, 1938), 150; Passerini, Le coorti, 308; Ensslin, W., s. v. »Praefectus praetorio«, RE XXII 2 (1954), 2417–2419, col. 2419). Per Hirschfeld, O., Die Kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diocletian, (Berlin, 21905), 222 il solo Cleandro in quanto pugio aveva »das Insigne der Strafgewalt, während die Anderen nur Figuranten waren« (seguito da Howe, The praetorian prefect, 13 n. 15; Moretti, »Due iscrizioni latine«, 74; Pflaum, Les carrières procuratoriennes, 1001 n. 180bis; Alföldy, G., »Cleanders Sturz«, 103). Per Nesselhauf, H., »Patrimonium und res privata des römischen Kaisers«, BHAC 1963 (Bonn, 1964), 52–90, 75–76 il titolo di a pugione indicherebbe semplicemente »eine militärische Funktion (Kommando der Palastwache?)«. Per la Gherardini, M., Studien zur Geschichte des Kaisers Commodus, Diss. Univ. Graz (Wien, 1974), 227–233 il titolo di a pugione indica che Cleandro deteneva un potere superiore ai due prefetti (ma contra l’ipotesi di una superprefettura cfr. già Grosso, La lotta politica, 225–226). Per quanto concerne la prefettura del pretorio di Cleandro non ritengo condivisibile la posizione di Absil, Les préfets du prétoire, 226–231 (già anticipata cursoriamente in Pflaum, H.-G., »Le valeur de l’information«, 210) e di Hekster, Commodus. An Emperor, 70 che negano che Cleandro fosse mai stato prefetto in quanto mancano attestazioni epigrafiche del titolo per l’ex-liberto. A fugare ogni dubbio è sufficiente quanto scrive Ammiano Marcellino (26, 6, 8): invisior [scil. Petronius] Cleandro quem agentem sub imperatore Commodo praefecturam. La nomina di Cleandro alla prefettura del pretorio, come rivela l’HA a più riprese, dovette suscitare scalpore tra i senatori che vedevano con orrore un libertino innalzato all’equestre fastigium. Benché fosse stata »addolcita« con la nomina di altri due prefetti (Regillo e L. Giulio Veilio Grato Giu-

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liano), sebbene l’HA (Comm. 6, 12) non manchi di rilevare che anche costoro erano stati scelti dallo stesso Cleandro, era stata una scelta ben precisa di Commodo, il quale intendeva avvalersi di un uomo fidato, ancor più legato alla sua persona dopo l’esperienza negativa di Perenne. Nonostante i contorni della carriera di Perenne ci sfuggano quasi del tutto (cfr. supra 1, 8, 1), sappiamo tuttavia che egli proveniva senz’altro dal ceto equestre e doveva aver percorso una carriera consona al suo ceto di appartenenza. Cleandro invece era un libertino che aveva vissuto interamente alla corte (forse di Marco e) di Commodo e a lui doveva tutto. La sua nomina alla prefettura del pretorio, »attutita« da quella di altri due prefetti, rivela dunque molto probabilmente il progetto di Commodo: dar vita ad un’amministrazione maggiormente legata alla figura del principe, senza per questo soffocare le legittime aspirazioni di quegli homines novi, ma anche di quei senatori che, come rivelano le carriere di alcuni importanti personaggi che avevano iniziato il loro cursus con Marco (basti ricordare i nomi di Elvio Pertinace, Settimio Severo o Acilio Glabrione), avevano poi proseguito la loro brillante ascesa sino a tutto il regno di Commodo (cfr. De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 161–162). Anche se non credo che Cleandro, come afferma qui Erodiano, »accarezzasse speranze di regno« (cfr. Alföldy, G., »Cleanders Sturz«, 101; Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 113–117), non si può escludere che l’accusa con cui fu messo a morte il prefetto, che si era reso innanzitutto responsabile di non aver difeso la persona dell’imperatore e di aver scatenato una guerra civile (così infra 1, 13, 1: ὄντος δὲ πολέμου ἐμφυλίου; 13, 3: ἐμφυλίου αἵματος), fosse quella di adfectatio regni. In ogni caso Erodiano sembra qui recepire la versione ufficiale propagandata da Commodo.

§4

Ammassando denaro acquistò una grandissima quantità di grano e lo nascose e sperava di accattivarsi il favore del popolo e dell’esercito: se prima fosse riuscito a ridurli in ristrettezze di mezzi di sostentamento, essendo desiderosi del necessario, li avrebbe poi conquistati, ricompensandoli con larghi donativi. Per gli abitanti di Roma fece poi costruire una grandissima palestra e aprì un bagno pubblico. Così egli cercava di conciliarsi il popolo. ἀθροίζων δὲ χρήματα – In merito alla speculazione messa in atto da Cleandro sui rifornimenti di grano a Roma nel 190 Erodiano omette il nome del prefetto dell’annona Papirio Dionisio (sulla cui carriera cfr. soprattutto ILS 1455; IGR I, 135, su cui Pflaum, Les carrières procuratoriennes, 472–476; Grosso, La lotta politica, 274–280; Whittaker, C. R., »The

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Revolt of Papirius«, 355) e ne ignora il ruolo nella carestia. Per Dione (72, 13, 1) invece »ci fu una carestia piuttosto grave, ma la gravità fu accresciuta dal prefetto dell’annona Papirio Dionisio, al fine di incolpare Cleandro, le cui ruberie sarebbero apparse le maggiori responsabili, e di farlo incorrere nell’odio dei Romani e farlo così eliminare«. Da una notizia di Eliano conservata nella Suda (E 916) apprendiamo che Papirio volle vendicarsi di Cleandro, che era stato artefice della sua degradazione dalla carica di prefetto d’Egitto, senza che avesse commesso alcunché: ἐλοιδόρησε· Αἰλιανός· ὁ δὲ Κλέανδρος ἐλοιδόρησε τὸν ὕπατον τῆς ἐν Αἰγύπτῳ ἀρχῆς κωμῳδῶν καὶ παραλύει αὐτὸν τῆς ἀρχῆς οὐδὲν ἀδικοῦντα. Secondo la cronologia proposta da Grosso, La lotta politica, 274–280 – che seguo - Papirio avrebbe rivestito per ben due volte la carica di prefetto dell’annona: prima di diventare prefetto d’Egitto (nell’estate del 188) e dopo la sua degradazione ad opera di Cleandro nell’estate del 189. Papirio sarebbe stato vittima (οὐδὲν ἀδικοῦντα) di Cleandro in quanto non si sarebbe associato alle speculazioni dell’ex-liberto sui rifornimenti annonari provenienti dall’Egitto. Tuttavia Alföldy, G., »Cleanders Sturz«, 119–120 (seguito da De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 184–185; ma contra von Saldern, Studien zur Politik, 197–198) ha negato che Papirio, pur avendo ricevuto la carica di prefetto d’Egitto, l’avesse mai esercitata. Dietro la rivalsa di Papirio contro Cleandro non vi sarebbe tanto la questione dei rifornimenti granari egiziani quanto una più vasta »congiura« che faceva capo a settori dell’aristocrazia senatoria e dei cavalieri, i quali si sarebbero serviti di Papirio e della plebe urbana per fomentare la rivolta contro Cleandro ed eliminarlo. I retroscena di questa congiura (del tutto ipotetici) sono illustrati ampiamente da Whittaker, C. R., »The Revolt of Papirius«, il quale ritiene che Papirio agì soprattutto con l’ausilio dei collegia popolari, di clientes, fazioni del circo e soldati spinto da un »partito africano« in senato (sui cui già Picard, G. C., »Pertinax et les prophètes de Caelestis«, RHR 155 (1959), 41–62). De Ranieri, C., »Retroscena politici« ritiene che al centro della contesa ci fosse una lotta dinastica in vista della successione a Commodo. Un ruolo chiave in questa ricostruzione è giocata dalla notizia della Vita Commodi dell’HA (6, 11–12; 7, 1–2) relativa ai processi contro due illustri senatori di origine africana, L. Antistio Burro e C. Arrio Antonino (su cui Pflaum, H.-G., »Le valeur de l’information«, 212–216): il primo, console del 181 e cognato di Commodo, di cui aveva sposato la sorella Vibia Aurelia Sabina, il secondo, un eminente senatore che aveva raggiunto il proconsolato d’Asia nel 187/8 o nel 188/189. In questi processi, la cui cronologia però è molto discussa (nel 188, nel 189 o nel 190), fu implicato anche il prefetto del pretorio Ebuziano (il quale non era senz’altro più prefetto nella seconda metà del 189). Essi videro in veste di accusatore Pertinace (HA Pert. 3, 7), che va annoverato tra i favoriti di

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Cleandro, ma dal quale poi si allontanerà in occasione della rivolta del 190 (cfr. infra § 6). Non va però trascurato il fatto che l’HA (Comm. 14, 3), che pur tace della rivolta contro Cleandro, ricorda che a Roma c’era stata una crisi granaria, proseguita anche dopo la morte di Cleandro, e Commodo punì quanti si erano resi responsabili di questo evento ed impose un calmiere per fronteggiare la penuria di grano. Ciò che mi sembra importante rilevare è che Erodiano sottolinea il fatto che Cleandro intendesse attraverso i suoi maneggi sul grano, ingraziarsi »il popolo e l’esercito (τόν τε δῆμον καὶ τὸ στρατόπεδον). Non sufficientemente precisa, a mio avviso, la traduzione Cassola, Erodiano, ove δῆμος = cittadini«, vale a dire le basi del consenso di Commodo (su cui cfr. soprattutto infra 1, 13, 7–8, ma già supra 1, 9, 10). De Ranieri, C., »Renovatio temporum e rifondazione di Roma nell’ideologia politica e religiosa di Commodo«, SCO 45 (1995), 329–368, 331–335 lega le emissioni monetarie del 190 con temporum felicitas e con saeculi felicitas (RIC IV 565, 573) al saeculum aureum proclamato da Commodo in quell’anno (Dio 72, 15, 6; HA Comm. 14, 1–3) in coincidenza con il calmiere; sulle monete con saeculi temporum felicitas e il legame con la classis Africana che assicurava i rifornimenti di grano cfr. Hekster, Commodus. An Emperor, 107. Le opere pubbliche volute per iniziativa di Cleandro (palestra e bagno pubblico) sono ricordate anche da Dione 72, 12, 5 che parla di »costruzione di case e di bagni e di opere utili a privati cittadini e a città«. Le terme furono chiamate Commodiane (Hier. Chron. 292 Helm). Secondo HA Comm. 17, 5 (che pur attesta la costruzione da parte di Cleandro di opere di pubblica utilità) opera eius praeter lavacrum, quod Cleander nomine ipsius fecerat, nulla exstant. Storch, R. H., »Cléandre: une autre vue«, AC 47 (1978), 504–515 interpreta questi dati, in base alle testimonianze numismatiche, come indizi di una politica filosenatoria da parte di Cleandro. Tuttavia sulla base di queste notizie rileverei piuttosto gli indizi di una politica favorevole ai ceti inferiori. Per quanto riguarda l’attività edilizia sotto Commodo vale la pena notare che Malala (Chron. 12, 1) definisce Commodo φιλοκτίστης. Giustamente il Grosso, La lotta politica, 82 ha osservato che Malala pensa alla assidua attività costruttiva ad Antiochia dove sotto Commodo furono edificate numerose opere pubbliche: le terme Commodiane, il rifacimento del tempio di Atena, il cosiddetto Sisto con scalini e portici, il tempio di Zeus Olimpio.

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§5

I Romani tuttavia gli erano ostili e attribuivano a lui la responsabilità delle loro difficoltà e detestavano la sua insaziabile avidità: dapprima si riunivano in gran numero nei teatri per manifestare il loro dissenso e infine si diressero presso la villa suburbana di Commodo e, giunti in massa, chiedevano a gran voce che Cleandro fosse messo a morte. τῆς τοῦ πλούτου ἐπιθυμίας – Le fonti sono concordi nel sottolineare l’avidità di Cleandro (Dio 72, 13, 5; Comm. 6, 10). τὰ μὲν πρῶτα ἐν θεάτροις συνιστάμενοι κατὰ πλήθη κακῶς ἠγόρευον – Si è voluta rilevare da più parti (Hohl, Kaiser Commodus, 20; Grosso, La lotta politica, 294; Alföldy, G., »Cleanders Sturz«, 93) l’imprecisione di Erodiano rispetto a Dione (72, 13, 3) il quale afferma che la rivolta ebbe inizio nel Circo e non ἐν τοῖς θεάτροις. Ma qui Erodiano non dice affatto che la rivolta iniziò »in teatro«, bensì che le manifestazioni di dissenso nei confronti di Cleandro erano iniziate ben prima dell’inizio della rivolta e che avevano luogo in occasione di spettacoli (»nei teatri«) e di adunate pubbliche, aggiungendo dunque un particolare importante che Dione non conserva. Proprio l’impopolarità di Cleandro, attestata ancora emblematicamente da Ammiano (26, 6, 8: invisior [scil. Petronius] Cleandro quem agentem sub imperatore Commodo praefecturam sublata vecordia diversas legimus vexasse fortunas), che di riflesso significava impopolarità per Commodo, fu tra i motivi che spinse l’imperatore a sacrificarlo (cfr. infra 1, 13, 5). διάγοντος ἐν προαστείῳ τοῦ Κομόδου – La villa suburbana dove in quel momento risiedeva Commodo era la Villa dei Quintili (Dio 72, 13, 4) sulla Via Appia a circa 6 Km da Roma. cfr. Ricci, A. (ed.), La villa dei Quintili. Fonti scritte e figurate (Roma, 1998); Paris, R. (ed.), Via Appia. La villa dei Quintili (Milano, 2000).

§6

Essendo scoppiato un tumulto all’esterno della villa, mentre Commodo si dedicava ai piaceri nei suoi recessi ed era all’oscuro della situazione, poiché Cleandro impediva che gli desse conto di quel che stava succedendo, all’improvviso, prendendo il popolo alla sprovvista, apparvero, per ordine di Cleandro, i cavalieri imperiali al completo che assalivano e ferivano chi gli veniva a tiro.

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ἐπιφαίνονται ὡπλισμένοι κελεύσαντος τοῦ Κλεάνδρου πάντες οἱ βασίλειοι ἱππεῖς τούς τε ἐντυγχάνοντας ἔβαλλον καὶ ἐτίτρωσκον – Si discute se si tratti degli equites singulares Augusti (Durry, Les cohortes, 381; Hohl, Kaiser Commodus, 21; Cassola, F., »Pertinace durante«, 143–144) oppure dei pretoriani a cavallo (Grosso, La lotta politica, 296) che facevano entrambi capo al prefetto del pretorio. L’interpretazione di questo passo è importante poiché da esso dipende la ricostruzione del prosieguo della sommossa e degli scontri verificatisi presso la villa di Commodo e a Roma. Sfortunatamente l’ampio racconto erodianeo è confrontabile solo con il succinto resoconto di Dione 72, 13, 4–5, secondo il quale Cleandro inviò contro i manifestanti στρατιώτας τινάς – che può indicare sia gli equites che i pretoriani a cavallo – sebbene Dione, diversamente da Erodiano (1, 12, 7–9), non parli mai apertamente di scontri avvenuti tra soldati a cavallo da una parte e popolo e truppe a piedi dall’altra. Tuttavia secondo Dione (72, 13, 5) il popolo, di fronte all’invio di truppe da parte di Cleandro, non si lasciò intimorire »prendendo coraggio dal numero e dalla forza dei pretoriani (τῶν δορυφόρων)«. Da questo passo sembra dunque di capire che i pretoriani combattevano accanto al popolo. Tuttavia, se accettassimo di identificare gli στρατιώτας τινάς con i pretoriani stessi – e non si vede con chi altrimenti, giacché anche Erodiano parla dell’intervento di στρατιῶται –, dovremmo ammettere un’improbabile spaccatura tra i pretoriani, schierati in parte accanto al popolo tumultuante, in parte contro. Questa palese assurdità potrebbe essere aggirata interpretando il passo di Dione in senso »peggiorativo«, intendendo cioè che il popolo prese coraggio di fronte all’esiguità dei pretoriani inviati da Cleandro contro il popolo stesso. Erodiano (1, 12, 9) ci assicura che contro i soldati di Cleandro e dalla parte dei manifestanti si schierarono οἱ τῆς πόλεως πεζοί. Mentre Grosso, La lotta politica, 299; Speidel, M., Die equites singulares Augusti. Begleittruppe der römischen Kaiser des zweiten und dritten Jahrhunderts (Bonn, 1965), 135 e Whittaker, C. R., »The Revolt of Papirius«, 351 e Herodian, 81 identificano questi πεζοί con i soldati delle coorti urbane, Alföldy, G., »Cleanders Sturz«, 108 ritiene con Hohl, Kaiser Commodus, 22 e Cassola, F., »Pertinace durante«, 143 che οἱ τῆς πόλεως πεζοί siano i pretoriani di cui parla Dione a 72, 13, 5. Il Grosso, La lotta politica, 299 ha però obiettato che οἱ τῆς πόλεως πεζοί non può riferirsi alla fanteria pretoriana, perché è assurdo che i pretoriani a piedi nutrissero odio per i pretoriani a cavallo (che erano truppe speciali provenienti dallo stesso corpo). Pertanto l’espressione di Erodiano si riferisce senz’altro alle coorti urbane e lo scontro tra pretoriani e urbaniciani è del tutto ammissibile. Per parte mia, il fatto che Erodiano designi i cavalieri imperiali come οἱ βασίλειοι ἱππεῖς mi induce a credere che essi siano da identificare con i pretoriani a cavallo piuttosto che con gli equites singulares Augusti. Erodiano infatti in riferimento alle truppe inviate da Cleandro non distingue

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nettamente i contingenti a cavallo (1, 12, 8: ἱππεῖς) da quelli a piedi (1, 12, 7: στρατιῶται) come se appartenessero a due corpi diversi; inoltre il nostro storico designa la prefettura del pretorio affidata a Cleandro come τήν τε τῶν στρατιωτῶν ἀρχὴν (1, 12, 3; τήν τε τῶν〈βασιλικῶν〉στρατιωτῶν secondo l’integrazione non necessaria dello Schwartz). Nonostante il Grosso, La lotta politica, 140–150 abbia dimostrato che nel 153 presso la località Ad duas lauros sulla via Labicana c’era un acquartieramento degli equites singulares Augusti e il Braun, R., »Tertullien et les séditions«, 18–28 ritenga che ad duas lauros sia il luogo dove ebbe luogo la sommossa, ciò, a mio avviso, non prova che i βασίλειοι ἱππεῖς di cui parla Erodiano fossero equites singulares Augusti sia perché il luogo della sommossa è la villa di Commodo sulla via Appia – mentre la località Ad lauros si trova sulla via Labicana, lontano dunque dalla residenza di Commodo – sia perché resta ancora da dimostrare che gli equites singulares Augusti acquartierati presso la località di Ad duas lauros siano intervenuti nella sommossa. Per quanto riguarda οἱ τῆς πόλεως πεζοί credo si debba pensare ai soldati delle coorti urbane (πόλεως = urbis). Dione parla di δορυφόροι/pretoriani schierati con il popolo; però, a mio avviso, bisogna tenere in considerazione che Dione sorprendentemente afferma che i pretoriani si schierarono con i dimostranti. Una circostanza del genere tuttavia non è ammissibile (nonostante De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 182, 188; von Saldern, Studien zur Politik, 214 che, come già Cassola, F., »Pertinace durante«, 145 ritiene che i colleghi di Cleandro alla prefettura fossero coinvolti nella congiura e si fossero schierati con il popolo) dal momento che il popolo stava insorgendo contro Cleandro allora prefetto del pretorio. Ciò obbligherebbe a pensare che fosse avvenuta una spaccatura tra i pretoriani, di cui però Dione non parla e neppure Erodiano né le altre fonti. Credo pertanto che siamo di fronte ad una confusione di Dione o meglio, dal momento che il testo dioneo qui è conservato solo dall’epitome di Xifilino, ad una sintesi approssimativa dell’epitomatore, derivante dal fatto che effettivamente i pretoriani (a cavallo) erano presenti sulla scena ma erano schierati contro i dimostranti e non accanto a loro, mentre i soldati delle coorti urbane – come correttamente dice Erodiano – erano con il popolo. Nella sua sinteticità la confusione tra pretoriani e urbaniciani deve essere ascritta al testo di Dione e non come sinora si è fatto (Alföldy, G., »Cleanders Sturz«; De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 180–181) ad una presunta genericità di Erodiano che, al contrario, qui appare molto più preciso di Dione. Alla luce di ciò penso dunque che sia da respingere anche quanto sostiene Alföldy, G., »Cleanders Sturz«, secondo il quale il resoconto di Dione relativo agli scontri del 190 sia preferibile a quello di Erodiano e che Erodiano abbia arricchito la narrazione utilizzando come modello gli scontri tra plebe e pretoriani del 238 di cui era stato testimone (Erodiano a 1, 13, 1 parla di »guerra civile« [ὄντος δὲ πολέμου ἐμφυλίου]).

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Circa il ruolo degli urbaniciani, la cui rivalità con le truppe del pretorio è largamente attestata (cfr. Whittaker, C. R., »The Revolt of Papirius«, 351; Grosso, La lotta politica, 297–299), poiché da Dione risulta che la sommossa popolare non incontrò nessun ostacolo sino alla villa suburbana di Commodo, si è pensato che Pertinace, allora praefectus urbi (nonostante i dinieghi del Cassola, F., »Pertinace durante«, 144–145 e di Whittaker, C. R., »The Revolt of Papirius«, 354 secondo il quale il prafectus urbi era Seio Fusciano; ma cfr. contra Grosso, La lotta politica, 253; Alföldy, G., »Cleanders Sturz«, 181; Hekster, Commodus. An Emperor, 74) e dunque responsabile dell’ordine pubblico, fosse al corrente di quanto stava per succedere e avesse appositamente lasciato correre. Al 190 e 191 appartengono una serie di emissioni monetarie (BMC IV CLXV; Kaiser-Raiß, Die stadtrömische Münzprägung, 40) con Fides che regge spighe di grano e che recano la legenda fides coh(ortium). Secondo il Mattingly sono da collegare alla lealtà dimostrata dalle coorti urbane all’imperatore che non si schierarono con Cleandro e i pretoriani (cfr. contra von Saldern, Studien zur Politik, 200). Che Commodo ignorasse del tutto quel che stava accadendo è difficile da credere (probabilmente qui Erodiano è debitore del topos del princeps clausus su cui cfr. Chastagnol, A., »Autour du thème du princeps clausus«, BHAC 1982–1983 (Bonn, 1985), 149–161), anche se non è impossibile credere che gli arrivassero solo notizie frammentarie, considerando che Cleandro aveva in mano il comando del pretorio nonché la guardia imperiale e dunque poteva avere fatto in modo che Commodo rimanesse il più possibile all’oscuro degli avvenimenti all’esterno della villa.

§§ 7–9

Il popolo, disarmato contro uomini armati e a piedi contro uomini a cavallo, non era in grado di opporsi: cambiò dunque direzione e fuggì verso la città. E morirono non solo sotto i colpi dei soldati e sotto il peso dei cavalli, ma in gran numero, travolti dalla folla e dai cavalli, cadendo gli uni sugli altri. 8. Fino alle porte di Roma i cavalieri inseguirono indisturbati i fuggitivi e massacrarono indistintamente chiunque incontrassero. Ma dopo che quelli che erano rimasti in città, accorgendosi di quel che era accaduto, chiusero gli ingressi delle case, salirono sui tetti e si misero a gettare pietre e tegole sui cavalieri – i quali subirono quel che avevano fatto ad altri –, senza che nessuno provasse a combatterli in campo aperto, mentre la folla li colpiva trovandosi ormai al sicuro, ed essendo feriti e non riuscendo a resistere volsero in fuga e molti di essi furono uccisi. 9. Poiché la sassaiola non si fermava i cavalli, inciampando nelle pietre che rotolavano, cadevano e disarcionavano i

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cavalieri. Da entrambe le parti caddero in gran numero e i soldati delle coorti urbane, per odio contro i cavalieri, vennero in soccorso del popolo. ἄνοπλοι πρὸς ὡπλισμένους καὶ πεζοὶ πρὸς ἱππεῖς … ἐπεβοήθουν τῷ δήμῳ καὶ οἱ τῆς πόλεως πεζοὶ στρατιῶται μίσει τῶν ἱππέων – Lo svolgimento della rivolta in Erodiano si articola in due momenti distinti: la plebe urbana, adirata con Cleandro a cui imputava le difficoltà derivanti dalla carestia, dopo aver manifestato il suo malcontento a più riprese durante gli spettacoli, si reca in massa presso la villa suburbana di Commodo chiedendo la testa di Cleandro. Questi ordina ai pretoriani a cavallo di intervenire contro i manifestanti, che sono così costretti a fare tumultuosamente ritorno verso Roma subendo il cruento attacco dei cavalieri. Una volta in città, la folla reagisce attaccando le forze imperiali con una violenta sassaiola e procurando non poche perdite agli avversari. Nell’infuriare dello scontro il popolo viene soccorso dalle coorti urbane. Dopo che a Commodo viene rivelato quanto era accaduto egli fa decapitare Cleandro e fa mostrare pubblicamente la sua testa. Ciò pone fine alla rivolta, a cui segue la strage della famiglia e degli amici di Cleandro. Il resoconto di Dione (72, 13, 3–6) appare più sommario, in quanto la rivolta contempla un unico scenario: ha inizio nel Circo dove irrompono »un gran numero di fanciulli guidati da una vergine di alta statura e di terribile aspetto, che in seguito si credette essere una divinità«. Di fronte alle grida dei fanciulli la folla, dopo aver strillato ogni possibile insulto, si reca presso la villa suburbana di Commodo e viene attaccata dai soldati per ordine di Cleandro. Nonostante le vittime, i manifestanti continuano a tumultuare ancora di più sino a quando »furono vicino a Commodo« che, informato di quanto stava accadendo, ordina l’uccisione immediata di Cleandro e di suo figlio. Chantraine, H., »Zur Religionspolitik des Commodus im Spiegel seiner Münzen«, RQA 70 (1975), 1–31, 13–20, ha creduto di ravvisare in alcune serie monetali a sfondo religoso della seconda metà del 191 allusioni alla vicenda di Cleandro (ma anche alle congiure di Lucilla, di Perenne e di Materno); cfr. anche Kaiser-Raiß, Die stadtrömische Münzprägung, 42–44 e contra Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 118–124. Alföldy, G., »Cleanders Sturz«, 124, che ritiene che Erodiano dipenda da Dione (117: »Somit dürfte der Schluß berechtigt sein, daß Herodians Quelle nichts anderes als Dios Geschichtswerk war«), ha suggerito che le schiere di bambini che irrompono nel circo a seguito di una divinità sono i fanciulli che aprivano la pompa circensis del simulacro di Cerere e dunque la rivolta ebbe luogo il 19 aprile 190 in occasione della processione dei Ludi Ceriales che si svolgeva nel Circo Massimo. Lo Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 115–124 ritene che nella narrazione erodianea su Cleandro siano rintracciabili alcuni elementi tipici dei

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Verschwörungsepisoden che si ritrovano già nelle vicende di Perenne e di Materno e ritiene che Erodiano derivi da Dione. Tuttavia dalla disamina di questi paragrafi è, a mio avviso, possibile affermare che Erodiano descrive la rivolta in modo più preciso di Dione e che Erodiano non dipende da Dione. L’omissione di alcune circostanze e, di contro, la precisione di alcuni particolari sull’andamento della sommossa mi induce piuttosto a credere che Erodiano si sia servito di testimoni oculari – ovvero che sia stato egli stesso testimone – per la ricostruzione della vicenda.

13. §§ 1–4

Era dunque una guerra civile, ma non c’era nessuno che intendesse riferire a Commodo quel che era accaduto per timore della potenza di Cleandro. Tuttavia la maggiore delle sorelle di Commodo (si chiamava Fadilla) corse dall’imperatore (poiché era la sorella era facile per lei incontrarlo senza ostacoli) e, scioltasi i capelli e gettandosi a terra e mostrando tutta la sua sofferenza, disse: »Tu, o signore, te ne stai tranquillo senza sapere quel che è successo, mentre stai correndo un gravissimo pericolo: tutti noi, tuoi famigliari, andiamo incontro alla morte; il popolo di Roma e la maggior parte dei soldati ti stanno abbandonando. Quei mali che non ci saremmo aspettati di subire dai barbari li stanno compiendo i nostri amici, e considerano nemici quelli che tu hai innalzato più di tutti. 3. Cleandro ha armato contro di te il popolo e i soldati: spinti da differenti e contrastanti opinioni gli uni lo odiano, gli altri lo amano e si combattono distruggendosi tra loro, e hanno riempito la città del sangue di concittadini. Le violenze dei due gruppi ricadranno su di noi se non farai uccidere subito il tuo perfido servo, che ha già provocato tante vittime e presto sarà la nostra rovina«. 4. Avendo detto press’a poco queste cose si lacerò le vesti e alcuni dei presenti (avevano infatti preso coraggio dalle parole della sorella dell’imperatore) sollecitarono Commodo ad agire. Questi, scosso e intimorito dal fatto che si trattava non di un pericolo imminente ma già presente, fece chiamare Cleandro, che nulla sapeva di quanto gli era stato riferito, sebbene lo sospettasse. Al suo arrivo ordinò di arrestarlo e decapitarlo e di infilzare la testa sulla punta di una lunga lancia che poi fu offerta al vista al popolo come spettacolo gradito e sospirato. ἡ δὲ πρεσβυτάτη τῶν Κομόδου ἀδελφῶν (Φαδίλλα ἦν ὄνομα αὐτῇ) – Siamo senz’altro di fronte ad una scena dai colori accesi e ad un discorso i cui toni sono stati volutamente drammatizzati. Che si tratti di un discorso

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rielaborato è detto dallo stesso Erodiano (§ 4: τοιαῦτά τινα εἰποῦσα) che in ciò appare pienamente tucidideo quanto, del resto, Cassio Dione. Ciò però non implica che la scena che vede protagonista la sorella di Commodo sia un’invenzione di Erodiano, dal momento che lo stesso episodio si trova – in modo più succinto – anche in Dione (72, 13, 5), sebbene la protagonista non sia Fadilla (terzultima sorella di Commodo) ma Marcia, moglie di Ummidio Quadrato (su cui cfr. supra 1, 8, 4) e successivamente concubina di Commodo e di Ecletto, che prese il posto di Cleandro come cubiculario e che la sposò. Al di là del fatto che si tratti di Fadilla (Grosso, La lotta politica, 301–302; Cassola, F., »Pertinace durante«, 140 e Whittaker, Herodian, 83) o di Marcia (Hohl, Kaiser Commodus, 21; Alföldy, G., »Cleanders Sturz«, 113–114), ciò che mi sembra importante rilevare è che Commodo, sia in Erodiano sia in Dione, appare scosso dal torpore e dall’inazione solo da chi gli stava vicino, come se fosse incapace di un’iniziativa autonoma e che la sostanza del discorso di Fadilla (o di Marcia) riveli quali erano i sentimenti presso la corte imperiale: Cleandro è considerato »il perfido servo« (τὸν πονηρὸν οἰκέτην) e Commodo stava perdendo la popolarità a causa delle violenze di Cleandro, che aveva schierato i soldati contro la folla e contro altre truppe provocando una guerra civile.

§5

Così ebbe fine il conflitto e i contendenti cessarono il combattimento: i soldati infatti videro che l’uomo per cui combattevano era stato eliminato e temevano l’ira dell’imperatore (compresero infatti di essere stati ingannati e di aver osato combattere contro il volere dell’imperatore), il popolo perché aveva soddisfatto la sua sete di vendetta nei confronti di chi si era reso responsabile delle sventure. ἔστη γὰρ οὕτως τὸ δεινόν, καὶ ἑκάτεροι πολεμοῦντες ἐπαύσαντο, οἱ μὲν στρατιῶται … ὁ δὲ δῆμος – Il timore dei pretoriani appare coerente con la narrazione precedente: avendo combattuto contro la volontà di Commodo – che era rimasto all’oscuro degli ordini di Cleandro – temevano di essere puniti. In effetti Commodo procedette a numerose epurazioni tra i sostenitori di Cleandro (infra 1, 13, 6; Dio 72, 13, 6): in primis proprio uno dei due prefetti del pretorio collega di Cleandro, Regillo (CIL XIV 4378; HA Comm. 7, 4 su cui Grosso, La lotta politica, 271–273; 306). Secondo Dione (72, 13, 6) »i Romani, impadronendosi del cadavere di Cleandro lo portarono via, ne fecero strazio e portarono la testa su un palo per tutta la città«.

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§6

Furono uccisi anche i figli di Cleandro (aveva due maschi) e furono tolti di mezzo tutti coloro che erano noti per essere stati suoi amici; i corpi furono trascinati e subirono ogni tipo di oltraggio e infine, dopo averli mutilati, li portarono alle fogne e li gettarono. Cleandro e i suoi amici fecero questa fine e si potrebbe dire che la natura abbia voluto mostrare in un solo uomo che un piccolo e imprevedibile spostamento della sorte può innalzare dalla più penosa miseria alla più grande altezza e di nuovo rovesciare chi ha innalzato. προσανεῖλον δὲ καὶ τοὺς παῖδας τοῦ Κλεάνδρου (δύο δὲ ἦσαν ἄρρενες αὐτῷ), πάντας τε ὅσους ᾔδεσαν ἐκείνῳ φίλους διεχρήσαντο – Dione (72, 13, 6) parla della morte di un solo figlio di Cleandro (analoga discrepanza tra Erodiano e Dione sul figlio o i figli di Perenne, cfr. supra 1, 9, 1). L’esistenza di più figli è attestata anche dal biografo (Comm. 7, 2), secondo il quale »Cleandro aveva anche abusato delle concubine di Commodo, dalle quali aveva avuto alcuni figli, che dopo la sua morte furono uccisi assieme alle loro madri«. Tra gli amici di Cleandro sappiamo che furono trucidati Apolausto e altri liberti di corte (Comm. 7, 2). Ciò rivela che una parte della corte era senz’altro al corrente degli intrighi di Cleandro e che dunque Commodo, una volta soppresso Cleandro, si era trovato costretto a sacrificarli per allontanare da sé ogni sospetto di aver avallato la politica dell’ex-liberto. L’HA (Comm. 7, 5–6) fornisce un nutrito elenco delle vittime di Commodo – ben sedici – dopo la fine di Cleandro. Si tratta di personaggi appartenenti ad illustri famiglie o che rivestivano importanti incarichi. Tuttavia non è affatto sicuro, dal momento che la cronologia di queste morti è molto incerta (nonostante gli sforzi dello Heer, J. M., »Der historische Wert«, 185, l’unica »certezza« è che siano da collocare tra il 190 e il 192), che costoro fossero messi a morte in quanto erano legati a Cleandro (von Saldern, Studien zur Politik, 211, ritiene che le uccisioni siano da mettere in relazione con la morte di Giulio Alessandro, su cui cfr. qui infra). Bisogna infatti tener conto che il biografo talvolta procede »per accumulo«, radunando cioè sotto una sola rubrica – in questo caso le vittime di Commodo – avvenimenti simili ma cronologicamente disordinati. Piuttosto vale la pena notare che la versione della Vita Commodi (6, 11–12; 7, 1) dell’affaire Cleandro non è legata alla carestia (nonostante a 14, 3 il biografo ne parli, pur tacendo il nome di Cleandro), ma ai processi contro L. Antistio Burro, accusato di adfectatio regni insieme al prefetto del pretorio Atilio Ebuziano, e contro C. Arrio Antonino, che al tempo del suo proconsolato in Asia aveva inflitto una condanna ad un certo Attalo – altrimenti sconosciuto – protetto di

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Cleandro, ed era stato messo a morte »sotto false accuse« (fictis criminibus). La cronologia di questi processi è discussa, anche se dopo la ricostruzione del Grosso, La lotta politica, 253–262 non è ritenuto più accettabile il 187 (Heer, J. M., »Der historische Wert«, 76; Whittaker, C. R., »The Revolt of Papirius«, 352) e si preferisce pensare al 189 per la condanna di Burro e di Ebuziano, e alla prima metà del 190 per quella di Antonino (cfr. da ultimo Hekster, Commodus. An Emperor 2002, 71; von Saldern, Studien zur Politik, 194). Determinante a questo proposito è la figura di Pertinace, che secondo HA Pert. 3, 7 avrebbe sostenuto l’accusa in entrambi i processi (sulla carriera di Pertinace in questi anni cfr. Cassola, F., »Pertinace durante«, 140). La De Ranieri, C., »Retroscena politici«, 175–177 ritiene che la fine di Cleandro sia l’esito di una contesa all’interno dell’aristocrazia senatoria in vista della successione imperiale e vede in alcune delle vittime del 190–191 (soprattutto lo sterminio dei Petronii Surae) il proseguimento cruento della lotta dinastica già in atto Cleandro vivo. Dione (72, 13, 6 e 14, 1) asserisce che con Cleandro furono uccisi anche uomini che erano diventati potenti grazie alla sua influenza e che subito dopo Commodo »messi da parte divertimenti e giochi, si mise ad uccidere uomini illustri (καὶ τοὺς ἐπιφανεῖς ἄνδρας διεχειρίζετο)«. Tra questi ricorda la fine di Giulio Alessandro, imparentato con la dinastia di Emesa – che di lì a poco salirà al potere –, del prefetto del pretorio Giuliano e di quello dell’annona Papirio Dionisio. Mentre per la condanna di Giulio Alessandro conosciamo l’accusa (adfectatio regni) – che giustamente Letta, C., »Dal leone di Giulio Alessandro«, 289–302, ritiene credibile – non sono noti né i motivi né le circostanze della fine di Giuliano e di Papirio Dionisio. Il Grosso, La lotta politica, 307–316 (ma cfr. ora contra von Saldern, Studien zur Politik, 207–208) ritiene che ambedue fossero coinvolti nell’inchiesta annonaria condotta da Commodo nel 191, in cui cadde vittima anche Appiano, ginnasiarca di Alessandria, la cui testimonianza è conservata nei cosiddetti Acta Alexandrinorum dei martiri pagani (Musurillo, H. A. (ed.), The Acts of Pagan Martyrs. Acta Alexandrinorum, edited with Commentary (Oxford, 1954), 65–69; 205–220; 235–277; Musurillo, H. A. (ed.), Acta Alexandrinorum. De mortibus Alexandriae nobilium fragmenta papyracea graeca (Lipsiae, 1961)) la cui redazione, che risale ai primi decenni del III secolo, appare fondata su documenti autentici. Gli Acta Appiani sono peraltro fonte molto interessante dal momento che potrebbero conservare la più antica testimonianza di un contemporaneo (accanto a quella del De indolentia di Galeno, su cui cfr. infra) sulla tirannia di Commodo. Appiano infatti, istituendo un paragone con Marco Aurelio, non esita ad accusare Commodo di essere un tiranno (Musurillo, Acta Alexandrinorum, nr. XI B col. II, 5–10, 53–54): ᾽Αππιανός· τοῦτο μὴ λέγε· τῷ γὰρ θεῷ|᾽Αντωνείνῳ [τ]ῷ π[ατ]ρί σου ἔπρεπε|αὐτοκρατορεύειν. Ἄκουε, τὸ μὲν|πρῶτον ἦ[ν] φιλόσοφος, τὸ δεύτερον|ἀφιλάργυρος, τ[ὸ] τρίτον φιλάγαθος· σοὶ|-

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τούτων τὰ ἐναντία ἔνκειται, τυραν|νία ἀφιλοκαγαθία ἀπαιδία. Cfr. soprattutto Grosso, La lotta politica, 307–315; Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2913 vede una corrispondenza tra le parole di Appiano e la contrapposizione tra Marco e Commodo in Erodiano (1, 2, 3–4). Nonostante i molteplici tentativi di legare tutte queste esecuzioni alla fine di Cleandro mi sembra di poter concludere che la disamina degli esigui dati a nostra disposizione non consenta di ricondurre soltanto alla fine dell’exliberto di Commodo la morte di molti personaggi illustri. Da un lato bisogna tener conto dell’imprecisione cronologica in cui si collocano questi episodi, dall’altro della tendenziosità della storiografia senatoria, che addossa all’insaziabile desiderio di vendetta di Commodo la responsabilità di queste morti. A me pare che una spiegazione possa essere rintracciata nel clima di instabilità generato e dal governo e dalla fine di Cleandro, in cui si moltiplicavano i tentativi di scalata al potere e in cui Commodo diventava sempre più sospettoso. Di qui la svolta autocratica che Commodo impresse a partire da 191 su cui tutte le fonti concordano. ὡς ἄν τις εἴποι … τύχης ῥοπή – Analoga osservazione in Dione 72, 12, 3 e 13, 1, in cui però si avverte il risentimento del senatore verso il liberto che ha fatto troppa fortuna in troppo poco tempo. Sul ruolo della τύχη in Erodiano cfr. Whittaker, Herodian, 86.

§§ 7–8

Commodo, temendo la sollevazione popolare e una rivoluzione contro di lui, fece ritorno in città dietro richiesta dei suoi famigliari, accolto da ogni tipo di acclamazioni da parte del popolo che lo scortò sino al suo ingresso al Palazzo imperiale. Avendo corso così grandi pericoli non si fidava più di nessuno: infliggeva senza risparmio condanne a morte, prestava fede con leggerezza ad ogni calunnia, rifiutava la compagnia di persone degne di stima e non si preoccupava più del buon governo, ma notte e giorno il suo animo era diventato schiavo di sfrenati e ininterrotti piaceri fisici. 8. A corte, chiunque si mostrasse temperante e fosse un po’ preparato veniva perseguito come malfido, mentre i buffoni e gli attori più ignobili lo tenevano in pugno. Imparava a condurre i carri e a combattere con le bestie feroci e gli adulatori esaltavano queste cose come se contribuissero ad accrescere la fama del suo coraggio ed egli praticava queste attività con meno ritegno di quanto si addiceva ad un imperatore assennato. ὁ δὲ Κόμοδος δεδιὼς μὲν τὴν τοῦ δήμου κίνησιν … εἰς τὴν βασίλειον ἐπανῆλθεν αὐλήν – La scena è analoga a quella del suo ingresso in città da

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neoimperatore nel 180 (supra 1, 7, 2–3). Nonostante gli sforzi della storiografia di matrice senatoria di far apparire Commodo soltanto come un tiranno dissennato e cruento, è indubbio che il suo regno dovette godere di ampia popolarità (cfr. Zimmermann, M., »Herodians Konstruktion«; von Saldern, Studien zur Politik, 151–189). Al suo rientro a Roma Commodo concesse il suo settimo congiarium al popolo (cfr. DEDR s. v. liberalitas, 854–856). Al consenso della plebe urbana e, di conseguenza, alle sue manifestazioni di dissenso, Commodo non era affatto insensibile. In Erodiano ciò appare molto chiaramente (cfr. supra 1, 7, 2–3; 10, 4) ed è un dato da non sottovalutare. Credo che anche alcune delle dimostrazioni pubbliche più »scenografiche« del comportamento di Commodo – che devono innanzitutto essere spiegate attraverso l’adozione da parte di Commodo di un modello di principato fondato sul rapporto più diretto tra il sovrano e il popolo, già tentato da Nerone, ma a cui non fu estraneo per certi versi neppure Adriano – trovino la loro radice nel desiderio di accattivarsi un seguito popolare il più vasto possibile. ἀφειδῶς τε φονεύων καὶ πάσαις διαβολαῖς ῥᾳδίως πιστεύων … τοῦ δὲ ἀπρεπέστερον μετιόντος ἢ βασιλεῖ σώφρονι ἥρμοζεν – Sulle condanne a morte cfr. supra 1, 13, 6. Il motivo dell’abbandono dei buoni consiglieri a favore dei peggiori – e dunque l’abbandono da parte di Commodo degli amici che Marco gli aveva messo intorno – è uno dei motivi polemici del ritratto di Erodiano (cfr. supra 1, 4, 4; 1, 6, 6), che senz’altro recepisce dalla tradizione formatasi molto probabilmente ad opera degli stessi amici di Marco che Commodo aveva allontanato da sé già a partire dal 180.

14. §§ 1–2

In quel periodo avvennero anche alcuni prodigi. Le stelle continuarono ad essere visibili in pieno giorno e alcune, assumendo una forma allungata, parevano essere sospese in mezzo all’aria; spesso vennero alla luce animali di specie diverse, di natura diversa da quella consueta, dall’aspetto profondamente differente e con parti del corpo sproporzionate. 2. Il più grande prodigio, che suscitò afflizione in quel momento e turbò tutti quelli che per conoscere il futuro facevano ricorso al volo degli uccelli e a banali pronostici, fu il seguente: senza che piovesse o si fossero addensate nubi, ma soltanto una piccola scossa di terremoto, andò in fiamme il tempio della Pace, che era il più bello e il più grande edificio di Roma, o perché un fulmine fosse caduto nella notte o da qualche parte il terremoto avesse fatto scoppiare l’incendio.

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ἐγένοντο δέ τινες κατ᾽ ἐκεῖνο καιροῦ καὶ διοσημεῖαι – La morte di Cleandro, con cui si è chiuso il capitolo 13, spetta, come s’è visto, alla primavera del 190. Gli eventi di seguito narrati appartengono quindi agli anni 190–192. La struttura narrativa degli ultimi quattro capitoli (14–17) è modellata sul genere biografico (si pensi soprattutto a Suetonio): a preannunciare la degenerazione e la morte del malus princeps concorrono una serie di prodigi infausti. Erodiano esplicita il suo pensiero in questo senso poco oltre, in riferimento alla distruzione del tempio della Pace (cfr. infra 1, 14, 6). Giustamente Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 135 osserva: »Neben der Gliederung der Entwicklung des Jahres 192 in drei Etappen ist für das Verständnis der herodianischen Erzähltechnik von bensonderem Interesse, daß die Kapitel 14–17 konsequent als Antithese zum Verhalten und zur Erscheinung des Kaisers im ersten Teil gestaltet sind«. Cassio Dione (72, 24) elenca anch’egli una serie di omina che anticipano la morte di Commodo. La Vita Commodi dell’HA dedica ai prodigia del regno di Commodo il capitolo 16, che enumera una serie di presagi – che non si trovano né in Dione né in Erodiano – sulla cui disamina cfr. Mouchová, B., »Omina mortis«, 115–122. Su tutta la serie degli omina del regno di Commodo nelle fonti letterarie cfr. De Ranieri, C., »Gli omina del regno di Commodo come echi di battaglie propagandistiche nelle fonti storiografiche«, SCO 47 (1999), 343–366, che li ritiene organizzati dalla tradizione ostile in funzione del rovesciamento dell’ideologia imperiale commodiana. Mentre Erodiano sembra colorire il prodigio relativo alla comparsa di animali deformi, Dione e l’HA parlano del volo sinistro di aquile e del grido di un gufo sul Campidoglio (analogamente HA Comm. 16, 5 parla di un gufo nella stanza da letto di Commodo tanto a Roma quanto a Lanuvio). Molto sintetica appare in Dione (72, 24) la descrizione dell’incendio del 192: ma qui molto probabilmente la brevità è da imputare a Xifilino. Per la data cfr. Eus. Chron. 173 Schöne: vehementia incendia aedificiorum facta sunt et palatium et domum virginum multaque alia Romae vastarunt; Hier. Chron. 209 Helm: Incendio Romae facto palatium et aedes Vestae, plurimaque urbis pars solo coaequatur, Oros. 7, 16, 3, su cui Grosso, La lotta politica, 248–249; 361–364 contra Heer, J. M., »Der historische Wert«, 185–186 che lo ritiene un duplicato dell’incendio del Campidoglio del 188. L’HA non parla dell’incendio, sebbene a Comm. 16, 2 parli della comparsa di aves incendiariae (uccelli di natura misteriosa secondo Plin. NH 10, 36) che alcuni, sulla base di tenui indizi, hanno voluto connettere con l’incendio (Mouchová, B., »Omina mortis«, 119; Kolb, Literarische Beziehungen, 145 che ritiene che l’HA si sia ispirata a Cassio Dione modificando alcuni particolari). Dione, che non addossa alcuna responsabilità a Commodo, precisa che l’incendio giunse sino al palazzo imperiale dove presero fuoco gli archivi.

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Di ciò si trova conferma in una notizia di Galeno (De compositione medicamentorum 1, 1: ἡνίκα τὸ τῆς Εἰρήνης τέμενος ὅλον ἐκαύθη καὶ κατὰ τὸ Παλάτιον αἱ μεγάλαι βιβλιοθῆκαι) il quale afferma di aver perduto alcuni suoi scritti in seguito alla distruzione delle biblioteche del Palatino, probabilmente le biblioteche annesse al tempio di Apollo Palatino (Grosso, La lotta politica, 362) piuttosto che quella annessa al tempio della Pace (Coarelli, F., s. v. »Pax, templum«, in E. M. Steinby, Lexicon Topographicum Urbis Romae, IV (Roma, 1999), 67–70, 41). Che si trattasse delle biblioteche del tempio di Apollo è ora assicurato da un passo del περὶ ἀλυπίας o ἀλυπησίας (De indolentia) di Galeno, recentemente venuto alla luce (BoudonMillot, V. / Jouanna, J. / Pietrobelli, A., Galien. Ne pas se chagriner (Paris, 2010), XXII–XXVIII, con l’indicazione di altri luoghi delle opere di Galeno in cui si fa riferimento all’incendio del 192: De libriis propriis, 3, 7 e 14; 14, 9; De antidotis 13 in cui si parla del tempio della Pace e di »altri edifici«). Le informazioni contenute nel De indolentia, composto tra il 192 e il 193, completano e aggiornano la testimonianza erodianea, in quanto permettono di precisare: che l’incendio si estese sino ai depositi di libri sulla via Sacra e alle biblioteche del tempio di Apollo; che investì anche la Domus Tiberiana che possedeva anch’essa una biblioteca; che avvenne al più tardi nel febbraio del 192. Galeno, pur essendo contemporaneo di Commodo, non era stato testimone oculare dell’incendio in quanto si trovava in Campania, ma doveva aver constato gli effetti dell’incendio poco dopo. Dal punto di vista storiografico il trattatello galenico è molto importante perché parla del principato di Commodo come di una tirannia – sebbene la parola tiranno non sia impiegata (§§ 54–55: Πέπεισαι δ᾽ οἶμαι καὶ αὐτὸς παρ᾽ ὅλον τὸν χρόνον, ὡς τὰς ἱστορίας ἔγραψαν οἱ τοῦτ᾽ ἔργο 〈ν〉 ἔχοντες, ἥττω γεγονέναι κακὰ τοῖς ἀνθρώποις ὧν νῦν ἔπραξεν Κόμοδος ὀλίγοις ἔτεσιν, ὥστε καθ᾽ ἑκάστην ἡμέραν κἀγὼ θεώμενος ἕκαστον αὐτῶν ἐγύμνασά μου τὰς φαντασίας πρὸς ἀπώλειαν πάντων ὧν ἔχω) – e conferma che la tradizione su Commodo tiranno, che si ricava ampiamente già dalle pagine di Dione e di Erodiano, si era già formata all’indomani della morte di Commodo in seguito alla sua damnatio, che Galeno sembra recepire tenendo conto che il De indolentia appartiene proprio ai mesi successivi alla morte di Commodo. Galeno era inoltre stato medico alla corte di Marco Aurelio ed è probabile dunque che il breve consuntivo del regno di Commodo che si trova nel De indolentia - che al § 54 rivela peraltro come Galeno fosse attento al dibattito storiografico – risenta anche della tradizione elogiativa su Marco che identificava in lui il principe modello, motivo questo che si ritrova abbondantemente nella tradizione senatoria (in primis in Cassio Dione e poi nell’HA) ma anche in Erodiano (cfr. supra 1, 2, 3). Cfr. Galimberti, A., »Il nuovo Galeno e l’ultimo Commodo«, Politica Antica 2 (2012), 23–31.

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Resta da spiegare quanto asserisce Erodiano poco oltre (cfr. infra § 5) circa il fatto che, siccome l’incendio aveva investito anche il tempio di Vesta, le Vestali trasferirono la statua del Palladio dal tempio di Vesta al Palazzo imperiale. A mio avviso bisogna supporre che il Palladio fosse trasferito nel Palatium, in seguito all’incendio che aveva distrutto sì il tempio di Vesta ma non il Palazzo imperiale, che doveva essere stato danneggiato solo parzialmente (certamente gli archivi, come afferma Dione). Contrariamente a quanto pensa De Ranieri, C., »Gli omina del regno«, 366, a me la notizia erodianea non appare affatto »strana« ed è forse superflua l’ipotesi avanzata dalla medesima studiosa che vede in questo episodio »il riecheggiare della propaganda anti-commodiana«. Indubbiamente il trasferimento dei sacra non era un buon auspicio, ma di fatto si era reso necessario semplicemente a causa dell’incendio, cioè di un evento non prevedibile. A seguito dell’incendio Commodo trasferì la sua residenza in Vectilianas aedes, sul Celio. Poco credibile (ma cfr. contra Mouchová, B., »Omina mortis«, 120) è l’affermazione dell’HA Comm. 16, 3 secondo cui Commodo si trasferì lì perché non riusciva a dormire. Vale la pena ricordare che già in occasione della peste nel 187–188 Commodo aveva soggiornato fuori dalla città (cfr. supra 1, 12, 2 e 5) e risiedeva ancora fuori città quando scoppiò l’incendio, come rivela Dio 72, 24, 3: »Né quell’incendio potè essere estinto dalla mano dell’uomo, sebbene sia molti privati cittadini sia molti soldati si adoperassero a portare acqua, e benché Commodo stesso fosse giunto dal suburbio (καὶ αὐτοῦ τοῦ Κομμόδου ἐπελθόντος ἐκ τοῦ προαστείου) e incoraggiasse il loro intervento«. Al di là di alcune coincidenze superficiali, la versione dell’incendio di Erodiano è dunque più ricca di particolari e differisce da quella di Dione. Sulla base di HA Comm. 15, 7 che attribuisce al prefetto del pretorio Leto il merito di aver bloccato l’ordine di Commodo di appiccare il fuoco in vista dei suoi progetti di trasformazione urbanistica di Roma in Colonia Commodiana (su cui cfr. infra § 8), si può forse stabilire un’analogia con Nerone il quale, secondo una tesi già diffusa dagli antichi, aveva dato fuoco appositamente ad una parte della città per poi poter edificare la sua Domus Aurea sui terreni bruciati (Griffin, M. T., Nerone. La fine di una dinastia, trad. it. (Torino, 1994), 150–151; Malitz, J., Nerone, trad. it. (Bologna, 2003), 75–80; Champlin, E., Nerone, trad. it. (Roma-Bari, 2005), 240–247, convinto della colpevolezza di Nerone). Tuttavia è stato opportunamente notato (Grosso, La lotta politica, 364 n. 1; Marasco, G., Ricerche sulla Historia Augusta, Prometheus 12 (1986), 159– 181, 162–164) che potrebbe essere una delle tante dicerie diffuse ad arte da Leto dopo la morte di Commodo, di cui era responsabile, per scagionarsi dalle proprie responsabilità. Ma si può forse più semplicemente pensare che la diceria fosse stata diffusa già vivente Commodo considerato un novello Nerone. La De Ranieri, C., »Renovatio temporum«, 344–345 pensa che la

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notizia sia nata in seno ai circoli dell’opposizione senatoria. Vedono nell’incendio di Roma l’origine della rifondazione della città voluta da Commodo Heer, J. M., »Der historische Wert«, 101–102; Beaujeu, J., La religion romaine à l’apogée de l’empire (Paris, 1955), 398; Kaiser-Raiß, Die stadtrömische Münzprägung, 53; lo ritengono un »incentivo« ad un progetto già delineato Grosso, La lotta politica, 364; Gherardini, Studien zur Geschichte, 320. Personalmente credo, con la De Ranieri, C., »Renovatio temporum«, 347, che si trattò di una – sfortunata per Commodo sul piano propagandistico – coincidenza. La comparsa di stelle in pieno giorno »di forma allungata« di cui parla Erodiano, corrisponde alla comparsa della cometa, databile al 190–191, di cui riferisce l’HA (Comm. 16, 1). Al 190 appartengono le monete con la legenda saeculum aureum (BMC IV CLXXXII) a cui accennano anche Dio 72, 15, 6 e HA Comm. 14, 3 (su cui cfr. Whittaker, Herodian, 89). La comparsa della stella potrebbe alludere alla promessa di renovatio temporum fortemente propagandata da Commodo nel 192 attraverso la rifondazione di Roma (su cui cfr. infra § 8 e De Ranieri, C., »Gli omina del regno «, 350). Non sono convinto che la comparsa della cometa debba essere catalogata tra gli omina mortis, come vorrebbe Mouchová, B., »Omina mortis«, 116. Basti pensare al sidus Iulium, abilmente sfruttato da Ottaviano, per ipotizzare che anche Commodo non si fosse lasciato sfuggire l’occasione per propagandare l’avvento del saeculum aureum commodianum nonché la sua autodivinizzazione attraverso l’assimilazione ad Ercole (su cui cfr. infra §§ 8–9). Marasco, G., »Ricerche sulla Historia«, 164–166 accosta il prodigio riferito dall’HA (Comm. 16, 5) relativo ad una statua di Ercole che si era messa a sudare a quello analogo – riferito da Plutarco (Ant. 60, 3) – relativo ad una delle statue di Antonio ad Alba che stillò sudore prima della battaglia di Azio. Dione 72, 21, 3 parla di due omina mortis che si ritrovano anche nell’HA (Comm. 16, 6–7) secondo cui Commodo aveva ordinato ai senatori di entrare nell’arena con la stola equestre e la lacerna – che i senatori indossano solo quando muore l’imperatore – e aggiunge che l’elmo di Commodo era stato portato via dalla porta attraverso la quale vengono fatti uscire i defunti (la Porta Libitina). Per la De Ranieri, C., »Gli omina del regno«, 362 l’ordine di vestire in abiti equestri impartito ai senatori indica un declassamento che l’ordo senatorius doveva subire al pari di Commodo quando abbandonava i panni imperiali per scendere nell’arena vestendo quelli del gladiatore (su cui cfr. Buonocore, M., »Commodo ›spectator‹ in ›Script. Hist. Aug.‹, Vita Commodi 15, 3«, Latomus 42 (1983), 634–639). Di un’eclisse di sole parla HA Comm. 16, 2 (et repentina caligo ac tenebra in circo kalendis Ianuaris oborta) e vi accennano anche Oracula Sibyllina XII 214–216 (σῆμα δέ τοι ἔσται φοβερὸν τούτου κρατέοντος· / ἔν

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δαπέδῳ Ῥώμης ἔσται νεφέλη ὁμίχλη τε, / ὡς ἕτερον μὴ ορᾶν μερόπων τὸν πλησίον αὐτοῦ), su cui Mouchová, B., »Omina mortis«, 118 e soprattutto De Ranieri, C., »Gli omina del regno« 337. Accettando un’interpretazione in malam partem come quella del biografo, l’eclissi (l’unica nota per il regno di Commodo è quella del dicembre 186, cfr. Schove, D. J. / Fletcher, A., Chronology of Eclipses and Comets A. D. 1–1000 (Woodbridge, 1984), 30) indicherebbe lo spegnersi dell’astro imperiale (cioè Commodo), ma potrebbe anche indicare l’avvento di una nuova regalità carismatica e solare. Improbabile e unicamente fondata su argumenta e silentio l’identificazione della fonte degli Oracula con Cassio Dione proposta da Grosso, La lotta politica, 27–28; Kolb, Literarische Beziehungen, 145 n. 699. Sebbene a 2, 9, 3 Erodiano si mostri scettico sul valore degli omina relativi all’avvento di Settimio Severo al trono, a me pare che qui prevalga il discorso di genere a cui si è accennato in precedenza: l’elenco degli omina relativi a Commodo appare cioè funzionale all’impostazione biografica degli ultimi capitoli del primo libro. Circa l’atteggiamento »religioso« di Erodiano cfr. Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2897–2903; Rowan, C., »Rethinking Religion«, 163–176. πᾶν τὸ τῆς Εἰρήνης τέμενος κατεφλέχθη, μέγιστον καὶ κάλλιστον γενόμενον τῶν ἐν τῇ πόλει ἔργων – Realizzato da Vespasiano a seguito del trionfo giudaico (ex manubiis) tra il 71 e il 75 d. C. (Ios. BI 7, 158–162; Dio 65, 15, 1; Suet. Vesp. 9; Aurel. Vict. De Caes. 9, 7; Epit. de Caes. 9, 7). Era in effetti tra i monumenti più ricchi di opere d’arte (Plin. NH 34, 84; 36, 102; Stat. Sil. 4, 1, 13 e 3, 17) e diede il nome alla regio IV di Roma. Nell’aula centrale era ospitata la biblioteca-archivio ove era conservato, tra gli altri documenti, il catasto urbano. Cfr. Coarelli, F., »Pax, templum«, 67–70. Come altri templi esso fungeva da deposito delle ricchezze dei cittadini (cfr. infra »ciascuno depositava lì i suoi averi«). Altro accenno ai templi come depositi di denaro in Herod. 7, 3, 6.

§3

Era il più ricco di tutti i templi e, poiché si pensava fosse sicuro, era adorno di offerte d’oro e d’argento e ciascuno depositava lì i suoi averi. Ma il fuoco di quella notte rese molti che erano ricchi, poveri: perciò tutti pubblicamente si lamentavano del comune danno, ciascuno in privato per la perdita dei propri beni.

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ὅθεν ὠλοφύροντο κοινῇ μὲν πάντες τὰ δημόσια, ἕκαστος δὲ ἴδια τὰ αὑτοῦ – Il Cassola, F., »Sulla vita e la personalità«, 221–222, accostando questo passo a 7, 3–4 (relativo alla politica fiscale di Massimino a danno dei ceti abbienti per cui parla addirittura di »acceso spirito di casta« di Erodiano) nonché a 7, 12, 6 (relativo all’incendio di Roma del 238 che aveva danneggiato i proprietari di case) ravvisa in queste affermazioni un’attenzione e una simpatia di Erodiano per gli interessi dei possidenti. Erodiano tuttavia in questi passi si limita ad una diagnosi sociale che non credo possa riflettersi sulla condizione sociale di Erodiano stesso o la sua ideologia »economica«. Per altre considerazioni sui »ricchi« cfr. 2, 2, 3 (festeggiamenti alla notizia della morte di Commodo); 5, 2, 2 (reazione alla morte di Caracalla).

§4

L’incendio distrusse il tempio e tutto il recinto e investì anche la maggior parte degli edifici della città e i più belli; allora anche il tempio di Vesta fu divorato dalle fiamme e si vide all’aperto la statua del Palladio che i Romani venerano tenendola nascosta e che, secondo la tradizione, fu portata da Troia: allora per la prima volta, dopo che esso era giunto da Ilio a Roma, la nostra generazione vide il Palladio. ὤφθη τὸ τῆς Παλλάδος ἄγαλμα … ὃ τότε πρῶτον καὶ μετὰ τὴν ἀπ᾽ ᾽Ιλίου εἰς ᾽Ιταλίαν ἄφιξιν εἶδον οἱ καθ᾽ ἡμᾶς ἄνθρωποι – Non escluderei che qui ci troviamo di fronte ad una testimonianza autoptica di Erodiano che potrebbe rafforzare l’ipotesi, a cui sono propenso a credere, che il racconto del nostro storico non dipenda soltanto da Cassio Dione (su cui cfr. Introduzione, 20–22). Diversamente Grosso, La lotta politica, 43 n. 1: »L’espressione εἶδον οἱ καθ᾽ἡμᾶς ἄνθρωποι non ha molta importanza biografica perché è riferimento generico alla gente ›della sua generazione‹«. La tradizione romana affermava che il vero Palladio (statua costruita da Atena a somiglianza dell’amica Pallade che la dea uccise accidentalmente e portata dalla dea stessa sull’Olimpo) era stato portato in Italia da Enea e sistemato poi a Roma nel tempio di Vesta. Nacque così la leggenda che quello rubato da Diomede e da Odisseo non fosse autentico; i Troiani, per ingannare i ladri, avrebbero fatto una copia del Palladio e nascosto l’originale in un santuario. Fuggendo in Italia, Enea avrebbe portato con sé il vero Palladio (Dion. Hal. Ant. Rom. 1, 68). Secondo un’altra versione, che accreditava il possesso del Palladio da parte dei Romani, Diomede, per ordine di Atena apparsagli in sogno, avrebbe restituito il Palladio ad Enea quando questi era già in Italia.

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Secondo Pausania (Per. 2, 23, 5): »Il Palladio, è chiaro, fu portato in Italia da Enea«. Sul Palladio Erodiano ritorna negli stessi termini in riferimento all’incendio a 5, 6, 3.

§5

Le vergini sacerdotesse di Vesta infatti portarono via la statua e la trasportarono attraverso la Via sacra al Palazzo imperiale. Andarono a fuoco ancora moltissime parti della città tra le più belle e l’incendio si prolungò per parecchi giorni e non si fermò se non quando le piogge estinsero il suo ardore. πρὶν ἢ κατενεχθέντες ὄμβροι ἐπέσχον αὐτοῦ τὴν ὁρμήν – Diversamente Cassio Dione 72, 24, 3, ove viene sottolineato l’intervento di Commodo: »L’incendio infatti non poteva essere estinto da mano umana, nonostante fossero molti, civili e soldati, a portare acqua e Commodo stesso venne dal suburbio ad incoraggiarli. Soltanto quando distrusse ogni cosa che aveva investito la sua forza si spense«.

§6

Perciò tutto l’accaduto fu considerato di origine divina: la gente allora credeva che l’incendio fosse iniziato e terminato per volontà e potenza degli dei. Alcuni, in base alle circostanze, ritenevano che la distruzione del tempio della Pace fosse un presagio di guerra. Gli avvenimenti ulteriori, come diremo in seguito, per il loro esito, confermarono la previsione che ne era stata fatta. ὅθεν καὶ τὸ πᾶν ἔργον ἐξεθειάσθη πιστευόντων [κατ᾽ ἐκεῖνο καιροῦ] τῶν τότε ἀνθρώπων ὅτι γνώμῃ θεῶν καὶ δυνάμει ἤρξατό τε τὸ πῦρ καὶ ἐπαύσατο – Vero è che qui Erodiano riporta dei rumores, tuttavia non sembra del tutto condivisibile quanto scrive Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2900 secondo il quale queste parole di Erodiano »non indicano un’adesione dello storico all’opinione popolare, ma ripetono l’osservazione, che già abbiamo visto a proposito degli omina imperii di Severo, della credibilità attribuita ex eventu ai prodigi«. L’affermazione finale rivela invece che Erodiano vedeva nell’incendio del 192 un presagio foriero di guerra: »gli avvenimenti successivi« alludono infatti alla guerra civile del 192–193 dopo la morte di Pertinace. Si veda anche HA Comm. 16, 4 secondo cui il tempio di Giano (le cui porte rimanevano chiuse in tempo di pace) si aprì da solo.

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Anche l’affermazione del § 2 secondo cui a provocare l’incendio potrebbe essere stato un fulmine o un terremoto, invocata come indizio che Erodiano non presterebbe credito agli omina, mi sembra intenda indicare più la fatalità dell’evento (definito infatti poco prima τὸ μέγιστον δὲ δεινόν) che non la sua spiegazione razionalistico-naturalistica.

§7

Per le numerose sventure che senza sosta colpivano la città il popolo romano non provava più simpatia per Commodo anzi, attribuiva i motivi delle continue sventure ai suoi eccidi indiscriminati e agli altri suoi comportamenti indecorosi. A tutti infatti era noto quel che faceva e neppure egli stesso intendeva tenerlo nascosto: egli osava commettere in pubblico gli stessi atti che già in privato suscitavano critiche. ὁ Ῥωμαίων δῆμος μετ᾽ εὐνοίας τὸν Κόμοδον ἐπέβλεπεν – Erodiano individua nella perdita di consenso popolare la svolta che provoca la fine del regno di Commodo. La popolarità – intesa come ricerca del consenso della plebs urbana - in effetti è la cifra del regno di Commodo in Erodiano: sin dal 180, con la decisione di lasciare la Germania, il nostro storico sottolinea l’accorrere entusiasta del popolo durante la sua discesa in Italia e il suo arrivo a Roma (cfr. supra 1, 7, 1–2); oppure la popolarità presso gli eserciti (1, 5, 3 e 8; 1, 6, 6; 1, 7, 1; 1, 9, 8); o ancora l’appoggio popolare ricevuto da Commodo sia nell’affaire Cleandro (1, 13, 4–5 e soprattutto 7) sia in quello di Materno (1, 10, 4). Segno di ricerca della popularitas da parte di Commodo possono essere considerate anche le opere pubbliche da lui fatte erigere nel corso del suo regno, di cui parla Malala (12, 1, 283: φιλοκτίστης, ἱερός. ὅστις ἔκτισεν ἐν ᾽Αντιοχείᾳ τῇ μεγάλῃ δημόσιον λουτρόν, ὅπερ ἐκάλεσε Κομμόδιον) e in particolare dal 190 in poi (cfr. Daguet-Gagey, A., Les opera publica à Rome (180–305 ap. J. C.) (Paris, 1997); Hekster, Commodus. An Emperor, 203–206; von Saldern, Studien zur Politik, 167– 186), nonché l’assidua frequentazione del teatro e soprattutto dell’arena. Sulle opere pubbliche si veda però anche la scettica testimonianza di HA Comm. 17, 5: opera eius praeter lavacrum, quod Cleander nomine ipsius fecerat, nulla extant, che (nonostante Grosso, La lotta politica, 348) deve essere molto probabilmente spiegata alla luce della damnatio memoriae patita da Commodo nel 193 nonché all’incendio del 192. Ciò che Erodiano intende mettere in risalto è la divaricazione tra le sventure che colpivano Roma, mal sopportate dal popolo, e il comportamento di Commodo: la perdita di popularitas è quindi per Erodiano legata all’abbandono da parte di Commodo dei mores, segno questo di indiscutibile

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decadimento; in questa direzione va anche la successiva notazione relativa ai travestimenti di Commodo e alla sua assimilazione ad Ercole (infra §§ 8– 9: »depose anche il costume degli imperatori romani … In tali abiti faceva le sue pubbliche apparizioni« e sopratutto 1, 15, 7). Sulla perdita di consenso di Commodo presso le masse popolari negli ultimi anni cfr. in generale Hekster, Commodus. An Emperor; 2002, 77–86. Di stampo più moralistico appare invece la sottolineatura dell’esibizione pubblica da parte di Commodo dei suoi vizi, fino ad allora rimasti celati. A questo proposito la prospettiva erodianea appare differente da quella di Dione e ancor più da quella dell’Historia Augusta. Significativamente in occasione della morte di Tigidio Perenne sia Dione (72, 13, 1) sia il biografo (Comm. 4, 5; 7, 1) insistono sul fatto che il popolo e il senato erano uniti nel loro odio contro Commodo, mentre in Erodiano questa critica non compare. Dione inoltre, non appare tanto scandalizzato dai vizi di Commodo (e dalla conseguente perdita di popolarità del principe) che tuttavia non tace, ma che non enfatizza neppure. Dione distingue a differenza di Erodiano il comportamento pubblico di Commodo – ancora trattenuto da un certo pudore – da quello privato: a 72, 17, 1–2, diversamente da Erodiano, scrive infatti che »non guidò mai i cocchi in pubblico, tranne qualche volta, durante una notte di novilunio, poiché sebbene desiderasse farlo pubblicamente, si vergognava di farsi vedere in azione; nelle sue proprietà, invece, lo faceva assiduamente, indossando la divisa verde … inoltre combatteva come gladiatore: ma mentre in privato giungeva anche ad uccider qualcuno … in pubblico combatteva senza armi e senza spargere sangue«. Dione appare invece scandalizzato dal trattamento offensivo inflitto ai senatori compreso sé medesimo (72, 16, 3) e soprattutto il traviamento di Commodo – che appare un debole e un codardo – avviene a causa dei cattivi cortigiani (72, 1, 1; cfr. supra 1, 5, 8): »Commodo non era malvagio di natura, anzi era privo di cattiveria come qualsiasi altro uomo. La sua grande semplicità, accanto alla sua codardia, lo rese schiavo dei suoi compagni (ἐδούλευσε τοῖς συνοῦσι), dai quali, inizialmente indotto a cattive consuetudini per ignoranza delle cose migliori, fu in seguito spinto a mutare la sua indole che divenne vilolenta e sanguinaria«. Vero è che lo stesso Dione (71, 36, 4) ritiene che la successione di Commodo a Marco segni il passaggio dall’età dell’oro a quella del ferro (cfr. Millar, A Study, 122–123) – con la significativa inversione del titolo di saeculum aureum che Commodo volle proclamare all’indomani della morte di Cleandro –, ma quest’osservazione deve essere, a mio avviso, inquadrata nel giudizio che Dione dà del principato di Commodo rispetto a quello di Marco: mentre questi gli appare il modello indiscusso del buon imperatore, Commodo è l’esatto contrario (»contramodelo« per Espinosa Ruiz, U., »El reinado de Cómmodo«, 116), per l’impostazione di matrice senatoria presente anche

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nell’HA per cui però Commodo è irrimediabilmente corrotto e sanguinario sin dalla nascita. εἰς τοὺς ἐκείνου ἀκρίτους φόνους – Tra le illustri vittime di Commodo dopo la morte di Cleandro vanno annoverati secondo Dione (72, 14, 1–3) il prefetto del pretorio L. Giulio Veilio Grato Giuliano (già ampiamente irriso da Commodo secondo HA Comm. 11, 3), il prefetto dell’annona Papirio Dionisio (su cui cfr. supra 1, 12, 4) e Giulio Alessandro di Emesa (cfr. anche HA Comm. 2–3), sulla cui rocambolesca fine cfr. Letta, C., »Dal leone di Giulio «, 289–302 (contra Grosso, La lotta politica, 332).

§8

Giunse a tal punto di follia e di furore che per prima cosa rinunciò al nome paterno e decise di farsi chiamare invece di Commodo figlio di Marco, Ercole figlio di Giove, depose anche il costume degli imperatori romani e portava una pelle di leone con una clava tra le mani; indossava inoltre vesti di porpora e oro, sicché veniva deriso perché in un solo costume emulava il lusso femminile e la forza degli eroi. εἰς τοσοῦτόν τε μανίας καὶ παροινίας προὐχώρησεν, ὡς πρῶτον μὲν τὴν πατρῴαν προσηγορίαν παραιτήσασθαι, ἀντὶ δὲ Κομόδου καὶ Μάρκου υἱοῦ Ἡρακλέα τε καὶ Διὸς υἱὸν αὑτὸν κελεύσας καλεῖσθαι – Risale alla prima metà del 191 la seconda mutatio nominis di Commodo (per la prima cfr. supra 1, 8, 3) quando la sua titolatura risulta la seguente: L. Aelius Aurelius Commodus Pius Felix Aug(ustus) Sarm(aticus) Germanicus max(imus) Britt(anicus) Pacator orbis Invictus Hercules Romanus (CIL XVI 133; PSI IX 1036; P. Oxy XXI 2611; SB XVI 12239; XX 14390 su cui Sijpesteijn, P. J., »Commodus’ titulature in Cassius Dio LXXII 15, 5«, Mnemosyne 41 (1988), 123–124). Per la cronologia von Rohden, P., »Aurelius«, 2478; Heer, J. M., »Der historische Wert«, 94; Grosso, La lotta politica, 325; Letta, C., »ILAfr, 265 e il proconsolato d’Africa di C. Cingio Severo«, Latomus 54 (1995), 866–867, 867; De Ranieri, C., »Renovatio temporum«, 336– 339. Il nome assunto ora da Commodo (L. Aurelius Commodus) è quello originario, avendo deposto quello mutuato dal padre (M. Aurelius Commodus Antoninus). Non so quanto fondamento abbia la suggestiva ipotesi del Mattingly, H., Coins of the Roman, CLXVIII (cfr. anche Kaiser-Raiß, Die stadtrömische Münzprägung, 58–59) secondo il quale l’assunzione di L. Ael. richiama L. Elio Cesare e suo figlio Lucio Vero; la deferenza verso quest’ultimo sarebbe poi da cogliere nell’assunzione di Aurelius per cui »it is clear that he turned

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to the iunior branch of the family, which may well enough have been popular with the lower orders« (cfr. contra Grosso, La lotta politica, 325–326). De Ranieri, C., »Renovatio temporum«, 338 ritiene che l’abbandono del nome del padre riveli la volontà di Commodo di rinunciare alla mediazione divina rappresentata dal fatto di essere divi filius, a favore di una diretta autodivinizzazione attraverso l’identificazione del suo nome originario con Ercole. Sul mutamento di nome da parte di Commodo e sulla sua pretesa di farsi chiamare Ercole circolavano versi satirici che Dione (72, 22, 3a) e l’HA (Diadum. 7, 2–4) si compiacciono di riportare. Tra il 191 e il 192 Commodo è Hercules Romanus Augustus o Hercules Commodianus (BMC IV, nn° 711–725, CLXVII, CLXXVIII, CLXXXII; ILS 400; AE 1928, 86 su cui Speidel, M., »Commodus the God-Emperor and the Army«, JRS 83 (1993), 109–114); cfr. Dio 72, 15, 2; HA Comm. 8, 5 e 8. Accanto al titolo di Ercole, Commodo assunse altri epiteti strordinari (Dio 72, 15, 2 e 4): Amazonius (per amore di Marcia, sua concubina, secondo HA 11, 9), Exsupartorius (su cui ILS 400 [omnium virtutum exsuperantissimus]; Gagé, J., »L’Hercule impérial et l’amazonisme de Rome. A propos des extravagances religieuses de Commode«, RHPhR 24 (1954), 342–372; von Saldern, F., »Einige Bemerkungen zur Kalenderreform des Commodus«, ZPE 146 (2004), 189–192, 190) che diedero peraltro il nome a due mesi dell’anno (cfr. infra). Per quanto concerne il titolo di Ercole è stato osservato già da Rostovtzeff, M., »Commodus-Hercules in Britain«, JRS 13 (1923), 91–109, 91–105 e da Mattingly, 106 (in appendice all’articolo di Rostovtzeff) che Commodo procedette gradualmente dall’associazione all’assimilazione e infine all’identificazione della sua persona con Ercole e questo processo ebbe luogo in principio dalle province, come rivelano sia il materiale epigrafico sia quello numismatico. Vale la pena notare che già dal 176, quando Commodo assume il titolo di Caesar sotto Marco Aurelio, compaiono le prime monete con Commodo accostato ad Ercole. Anche la Kaiser-Raiß, Die stadtrömische Münzprägung, 54 ha osservato come il »commodianismo« sia da ricostruire attraverso una serie di graduali iniziative a partire dal 190. Dione (72, 15, 5) ricorda per esteso la titolatura (la medesima di ILS 400) di Commodo in una lettera del 192 inviata dall’imperatore al senato: »E così scrisse al senato: ›Imperatore Cesare Lucio Elio Aurelio Commodo Augusto Pio Felice Sarmatico Germanico Massimo Britannico Pacificatore di tutta la terra Invincibile Ercole Romano Pontefice Massimo detentore della tribunicia potestas per la diciottesima volta, console per la settima, padre della patria, saluta i consoli, i pretori, i tribuni, il senato commodiano fortunato‹«. La scelta di Ercole appare dettata da diversi motivi: dinastici (già con Adriano e Antonino la figura di Ercole aveva ricevuto notevole impulso), biografici (Commodo era nato a Lanuvio sede privilegiata del culto del semi-dio), propagandistici (l’eroe era considerato il trionfatore dei

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nemici del genere umano e apportatore di pace e civiltà), ideologici (la figura di Ercole era parte integrante del patrimonio mitico della fondazione di Roma e Commodo era filelleno). Sui titoli assunti da Commodo e in particolare l’identificazione con Ercole cfr. Aymard, G., »Commode-Hercule fondateur de Rome«, REL 14 (1936), 350–364; Beaujeu, La religion romaine, 404–405; Grosso, La lotta politica, 326–331; Chantraine, H., »Zur Religionspolitik«, 1–31; Jaczynowska, M., »Le culte de l’Hercule romain au temps du Haut-Empire« ANRW II 17.2, 631–661; Gagé, J., »La mystique impériale et l’épreuve des ›jeux‹. Commode-Hercule et l’›anthropologie‹ héracléenne«, ANRW II 17. 2, 662– 683, 671–683; Martin, J.-P., »Providentia deorum«. Recherches sur certains aspects religieux du pouvoir impérial romain (Roma, 1982), 363–365; De Ranieri, C., »Renovatio temporum«, 339–341; Hekster, O., »Commodus Hercules: the People’s Princeps«, SCI 20 (2001), 51–83; Commodus. An Emperor, 103–109, 117–128 (che raccoglie anche le precedenti attestazioni iconografiche che associano Commodo ad Ercole); cfr. da ultimo MeyerZwiffelhoffer 2006, 189–215; Zecchini 2007, 20–21 (filellenismo di Commodo). Commodiana è l’epiteto che il principe nel 192 assegnò alla rifondazione di Roma come colonia (Colonia Antoniniana Commodiana) dopo l’incendio: cfr. Dio 72, 15, 2: »Ordinò che Roma stessa venisse chiamata Commodiana, le legioni Commodiane e Commodiano il giorno stesso in cui queste misure erano state votate. A sé concesse in aggiunta ad altri numerosissimi nomi quello di Ercole. Chiamò Roma immortale, fortunata colonia di tutta l’ecumene: voleva infatti che la città sembrasse una sua fondazione«. HA Comm. 8, 6: fuit praeterea ea dementia, ut urbem Romanam coloniam Commodianam vocari voluerit; 8, 9: et eo quidem tempore quo ad senatum rettulit de Commodiana facienda Roma, non solum senatus hoc libenter accepit per inrisionem, quantum intellegitur, sed etiam se ipsum Commodianum vocavit, Commodum Herculem et deum appellans. La modestia del titolo di colonia per Roma ha indotto la De Ranieri, C., »Renovatio temporum«, 352–352 a considerare le testimonianze di Dione e dell’HA (non confermate da alcun altra fonte secondo la stessa studiosa, contra Grosso, La lotta politica, 370–371, che menziona una fistula acquaria ostiense con inciso Colonia felix Commodiana, che però è un reperto non verificabile in quanto se n’è persa traccia) una distorsione del progetto di Commodo di rifondare Roma, frutto dell’ostilità degli ambienti senatori. Tuttavia non vanno trascurate alcune monete, già richiamate a suo tempo da Aymard, G., »Commode-Hercule«, 352 (RIC III nn. 560, 570), in cui compare la legenda: COL L A N COM. Chi, come la De Ranieri, esclude che tale legenda possa essere riferita a Roma, scioglie l’abbreviazione legandola a Lanuvio: COL(onia) L(anuvina) AN(toniniana) COM(modiana); ma c’è anche chi come Aymard, G., »Commode-Hercule«, 352–354 (Grosso, La

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lotta politica, 369–372; Levi, M. A., »Roma Colonia e Commodo ›conditor‹ «, CRDAC 11 (1980–1981), 315–320) pensa a Roma COL(onia) L(ucia) A(urelia) N(oua) COM(modiana). Secondo l’ingegnosa ipotesi di Aymard, G., »Commode-Hercule« la rifondazione di Roma avvenne nell’ottobre del 192; così, per altra via anche Hannah, R., »The Emperor’s stars: the Conservatori portrait of Commodus«, AJA 90 (1986), 337–342, 340–341. »Commodiane« furono nominate, oltre al senato e alle legioni (cfr. AE 1928, 86; Speidel, M., »Commodus the God-Emperor«, 113), anche il popolo di Roma (HA Comm. 15, 5), numerose città (tra cui Cartagine e Alessandria [HA Comm. 17, 8]), la classis Africana (HA Comm. 17, 8), il palazzo imperiale sul Palatino (HA Comm. 12, 7) e altre istituzioni sia civili sia religiose: cfr. ad es. CIL VI 1577: Flamen Comm(odianus); ILS 400: ordo decurionom commodianor(um); BMC IV 746: Felic(itas) Com(modiana); BMC V 668, 675: Concor(dia) Commodi(ana). Cfr. Grosso, La lotta politica, 341–344; Levi, M. A., »Roma Colonia«, 315–320; De Ranieri, C., »Renovatio temporum«, 344–368; Hekster, Commodus. An Emperor, 105. Per queste iniziative il Beaujeu, La religion romaine, 395 ha coniato il termine di »commodianismo«. Secondo un rumor in HA Comm. 8, 6 (qui furor dicitur ei inter delenimenta Marciae iniectus) la decisione di rifondare Roma fu suggerita a Commodo da Marcia: il sospetto che sia nient’altro che una diceria (dicitur) credo derivi dal fatto che il biografo è animato da sentimenti anticristiani e Marcia era senz’altro cristiana (cfr. infra 1, 15, 3–4) e può forse trovare conferma nel fatto che Commodo aveva associato nel suo furor erculeo Marcia come Amazzone (HA Comm. 11, 9). Le iniziative di Commodo negli ultimi due anni di regno secondo De Ranieri, C., »Renovatio temporum«, 330 sono frutto di un coerente disegno: »l’istituzione, cioè, di un impero universale e teocratico sul modello alessandreo, in cui il sovrano fungesse da polo unificante delle varie realtà sociali, politiche, religiose e culturali dello stato, tutte ugualmente rivalutate e subordinate al monarca divinizzato«. Il modello di Alessandro è evocato anche in Athen. Deipn. 12, 53, 537: τί οὖν θαυμαστὸν εἰ καὶ καθ᾽ ἡμᾶς Κόμμοδος ὁ αὐτοκράτωρ ἐπὶ τῶν ὀχημάτων παρακείμενον εἶχεν τὸ Ἡράκλειον ῥόπαλον ὑπεστρωμένης αὐτῷ λεοντῆς καὶ Ἡρακλῆς καλεῖσθαι ἤθελεν, ᾽Αλεξάνδρου τοῦ ᾽Αριστοτελικοῦ τοσούτοις αὑτὸν ἀφομοιοῦντος θεοῖς, ἀτὰρ καὶ τῇ ᾽Αρτέμιδι; ὡς εἶναι καταγέλαστον αὐτὸν ὑφ᾽ ἑνὶ σχήματι καὶ θηλειῶ πολυτέλειαν καὶ ἡρώων ἰσχὺν μιμούμενον – Sullo stravagante abbigliamento di Commodo insistono anche le altre fonti: cfr. Dio 72, 17, 3–4; HA Comm. 9, 6; 13, 4. Kolb, Literarische Beziehungen, 32–34 ritiene – a mio avviso in modo molto improbabile e complicando inutilmente la matassa – che l’HA in queste notizie dipenda in parte da Dione e in parte da Erodiano, il quale,

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a sua volta, dipenderebbe da Dione. Il Grosso, La lotta politica, 339, pensa che molte notizie – sopratutto quelle dell’HA – relative alle pratiche religiose di Commodo siano distorte dalle fonti ostili. Per quanto concerne ad esempio l’abbigliamento muliebre di Commodo è richiamato un passo di Giovanni Lido (De mens. 4, 67) che attesta che il 3 aprile, festa di Ercole Invitto, era consuetudine che gli uomini vestissero in abiti femminili.

§9

In tali abiti faceva le sue pubbliche apparizioni; modificò inoltre i nomi dei mesi dell’anno, abolendo quelli tradizionali e sostituendoli tutti con dei propri nomi la maggior parte dei quali facevano riferimento appunto ad Ercole come modello indiscusso di coraggio. Fece porre per tutta la città statue con la sua immagine, una delle quali, di fronte al senato, lo raffigurava mentre tendeva un arco: voleva infatti che le sue immagini incutessero timore. ἤλλαξε δὲ καὶ τῶν ἐνιαυσίων μηνῶν τὰ ὀνόματα – L’elenco con i nuovi nomi dati ai mesi da Commodo è in Dio 72, 15, 3 (cfr. Suda III K 2007Adler) e HA Comm. 11, 8 e 13, 12, 1 che divergono sul nome di alcuni mesi: Amazonio (gennaio), Invitto (febbraio; per HA ora febbraio [12, 1] ora ottobre [11, 8]), Fortunato (marzo), Pio (aprile, cfr. AE 1928, 86), Lucio (maggio), Elio (giugno; per HA maggio), Aurelio (luglio), Commodo (agosto), Augusto (settembre), Erculeo (ottobre), Romano (novembre; per HA ottobre), Esuperatorio (dicembre). Eutr. 8, 15; Aurel. Vict. Caes. 17, 2; Hier Chron. 208 Helm ricordano che il mese di settembre fu chiamato Commodo. Secondo Aurelio Vittore ciò avvenne in seguito ad una vittoria sui Quadi (prima del 187). Per Grosso, La lotta politica, 366 e Heer, J. M., »Der historische Wert«, 161–165 la riforma è degli ultimi mesi del 192; ma ora cfr. De Ranieri, C., »Renovatio temporum«, 341–344 che, in base ad un diploma militare del marzo 192 (CIL XVI 133), le assegna una data di poco posteriore. Per von Saldern, F., »Einige Bemerkungen«, 192, durante il regno di Commodo vi furono due mutazioni dei nomi dei mesi: la prima sarebbe quella di cui parlano Eutropio, Aurelio Vittore e Gerolamo, la seconda quella di cui parlano Dione e l’HA, databile alla seconda metà del 192 (»Nach dem 11. August 192 wurden schließlich alle Monate des Jahres nach Elementen der Kaisertitulatur umbenannt«). ἔστησε δὲ καὶ ἀνδριάντας αὑτοῦ κατὰ πᾶσαν τὴν πόλιν – La precisione della descrizione dell’effigie potrebbe essere indizio del fatto che Erodiano era stato testimone autoptico del regno di Commodo e che dunque il

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suo resoconto non dipende solo da fonti letterarie (cfr. ancora infra 1, 15, 1 e Introduzione, 22). Sulle statue di Commodo (come Ercole, Giano, Giove, Mercurio e dio del Sole) e sul suo programma figurativo cfr. Dio 72, 15, 6; 17, 3–4; 19, 4; Hekster, O., »Commodus Hercules«; Commodus. An Emperor, 112–136; su Mercurio in particolare De Ranieri, C., »Commodo-Mercurio. Osservazioni sulla politica religiosa commodiana«, PP 51 (1996), 422–441. Dione (72, 16, 3; 19, 5; 20, 1; 21) dedica ampio spazio agli atteggiamenti di Commodo volti ad intimorire i senatori, ma non ricorda quel che dice Erodiano.

15. §1

Il senato dopo la morte di Commodo fece abbattere la statua e la rimpiazzò con una statua della Libertà. Commodo, non trattenendosi più, si diede ad organizzare spettacoli pubblici con la promessa di uccidere tutte le fiere di sua mano e di combattere da gladiatore con i giovani più valorosi. Quando si diffuse la notizia, accorsero da tutta l’Italia e dalle province vicine per assistere a quel che in precedenza non avevano mai visto né udito. E infatti si era diffusa la voce della sua abilità e che prestava molta attenzione, sia nel giavellotto che nell’arco, a non mancare il bersaglio. τὸν μὲν οὖν ἀνδριάντα μετὰ τὴν ἐκείνου τελευτὴν καθελοῦσα ἡ σύγκλητος ᾽Ελευθερίας εἰκόνα ἵδρυσεν – La morte di Commodo avvenne il 31 dicembre 192 (Dio 72, 22, 4 su cui cfr. infra 1, 17, 8–9). Ricevette immediatamente la damnatio memoriae (Dio 74, 2, 1–3; HA Comm. 20, 5) e pertanto il suo nome e le sue immagini pubbliche scomparvero. Settimio Severo lo riabilitò nel 194 per ragioni »dinastiche« (HA Comm. 17, 11–12) e ripristinò anche il Flamen Herculaneus Commodianus istituito da Commodo stesso. Per l’erasione del nome di Commodo e dei suoi titoli cfr. CIL XIII 11757; 6646; 6582; per la riabilitazione cfr. CIL XIII 2587; AE 1978, 525–526; ILS 402, 403, 404, 2155, 2543 e il discorso di Settimio Severo in senato riportato da Erodiano (2, 3, 7). L’HA Comm. 18, 3–19 riferisce la lunga sequela di adclamationes del senato dopo la morte di Commodo (su cui Sánchez, A., Rámon, J., »Imprecaciones senatoriales«, 5–21; Molinier Arbo, A., »Des crisis à la Curie«; contra Baldwin, B., »Acclamations in the Historia Augusta«, Athenaeum 59

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(1981), 138–149; Talbert, R. J., The Senate of Imperial Rome (Princeton, 1984), 298–301). Il cadavere di Commodo fu consegnato da P. Livio Larense (l’anfitrione dei Deipnosofisti di Ateneo) a Fabio Cilone, che ne curò la sepoltura. Pertinace fece poi seppellire Commodo nel mausoleo di Adriano (Comm. 17, 4). La sostituzione della statua di Commodo con quella della Libertas è notizia preziosa perché si trova nel solo Erodiano. διαδραμούσης δὲ τῆς φήμης συνέθεον ἔκ τε τῆς ᾽Ιταλίας πάσης καὶ τῶν ὁμόρων ἐθνῶν – L’accenno alla gente proveniente dall’Italia e dalle province è un indice significativo della popolarità di Commodo. Se si può parlare di un particolare punto di vista assunto da Erodiano nella sua narrazione, da questo passo mi sembra che emerga un’attenzione più che ai ceti possidenti (come vorrebbe Cassola, F., »Sulla vita e la personalità«, 221– 222) a quelli popolari. Cfr. infra § 7: »Fin qui dunque le sue azioni che, sebbene fossero indegne di un imperatore, erano accolte con un certo favore dal popolo per il suo valore e la sua abilità«. Per l’attenzione di Erodiano al popolo cfr. Zimmermann, M., »Herodians Konstruktion«. Sugli straordinari spettacoli organizzati da Commodo nel 192 si sofferma a lungo Dione 72, 17–21 il quale a differenza di Erodiano si concentra sulle umiliazioni che i senatori dovevano subire in occasione degli spettacoli nell’arena (cfr. soprattutto 72, 20, 1–2). L’HA (Comm. 11, 10–13; 12, 10–12) si limita a registrare la partecipazione di Commodo ai combattimenti gladiatori (ben 735, di cui 365 prima di diventare imperatore ottenendo 1000 vittorie! Cfr. Dio 72, 22, 3) e al fatto che l’imperatore voleva che ogni sua partecipazione agli spettacoli fosse iscritta nei registri ufficiali (quotiens ingrederetur, publicis monumentis indi iussit). In un altro passo (Comm. 15, 4) il biografo riferisce che Commodo »aveva l’abitudine di far registrare negli acta urbis tutti i suoi atti di turpitudine, di dissolutezza, di crudeltà e le sue imprese di gladiatore e ruffiano, come risulta dagli scritti di Mario Massimo«. Sull’uso degli acta urbis nella Vita Commodi cfr. Nesselhauf, H., »Die Vita Commodi«, 127–138 (su questo passo 134); su Mario Massimo cfr. almeno Birley, A. R., »Marius Maximus«; Molinier, A., »Marius Maximus, source latine de la Vie de Commode? «, HAC Argentoratense (Bari, 1998), 223–248.

§§ 2–7

I migliori arcieri partici e i più abili lanciatori di giavellotto mauri lo seguivano negli allenamenti ed egli li superava tutti in abilità. Quando arrivarono i giorni degli spettacoli, l’anfiteatro era pieno: a Commodo era stata riservata

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una corsia perimetrale in modo tale che non rischiasse combattendo con le bestie di affrontarle direttamente e di bersagliarle in sicurezza, stando in posizione sopraelevata, dando spettacolo più per la sua abilità che per il suo coraggio. 3. Inseguiva di corsa cervi, caprioli e tutte le bestie con le corna, eccetto i tori: li colpiva e, anticipando la loro traiettoria, li uccideva con colpi ben assestati; i leoni, le pantere e gli altri nobili animali li colpiva inseguendoli dalla sua posizione sopraelevata. Nessuno lo vide colpire utilizzando un secondo colpo di giavellotto: tutti i singoli colpi furono mortali. 4. Nel momento in cui la bestia avanzava sferrava un colpo in fronte o al cuore e il suo colpo non mirava mai un altro bersaglio né un’altra parte del corpo, sapendo che altrimenti non sarebbero state contemporaneamente ferite e uccise. Per lui furono raccolte bestie da ogni paese. Allora per la prima volta vedemmo ciò che avevamo potuto ammirare solo nei dipinti. 5. Mostrò ai Romani, mentre le uccideva, ogni tipo di bestie proveniente dall’India e dall’Etiopia, se mai qualche animale era sconosciuto prima di allora, dalle regioni meridionali e settentrionali. Tutti rimasero colpiti dalla sua abilità manuale. Una volta, contro gli struzzi della Mauritania che corrono velocissimi, grazie alla velocità delle zampe e alla sinuosità delle ali, usò frecce con punte a forma di mezzaluna e mirando alla sommità del collo riusciva a tagliarlo e, benché senza testa per la violenza del colpo, [gli struzzi] continuavano a correre come se non fosse accaduto nulla. 6. Un’altra volta una pantera si era precipitata a tutta velocità su uno che la provocava e Commodo, avendole lanciato contro il suo giavellotto mentre tentava di sbranarlo, la uccise e salvò l’uomo e con la punta del giavellotto riuscì a prevenire la punta delle zanne. Un’altra volta ancora furono fatti uscire dai sotterranei cento leoni tutti insieme e li uccise tutti con un pari numero di giavellotti, e poiché i cadaveri rimasero lì stesi per molto tempo tutti ebbero modo di contarli e di vedere che non c’era neppure un solo giavellotto in più. τὸ μὲν ἀμφιθέατρον πεπλήρωτο, τῷ δὲ Κομόδῳ περίδρομος κύκλῳ κατεσκεύαστο – La minuziosa descrizione dello svolgimento dei combattimenti di Commodo rivela, a mio giudizio, la presenza di un testimone oculare. Tutto il racconto appare infatti costellato da espressioni che intendono segnalare la presenza di chi scrive a teatro: cfr. § 3: »Nessuno lo vide colpire utilizzando un secondo colpo di giavellotto: tutti i singoli colpi furono mortali«; § 4: »Per lui furono raccolte bestie da ogni paese. Allora per la prima volta vedemmo ciò che avevamo potuto ammirare solo nei dipinti«; § 5: »Tutti rimasero colpiti dalla sua abilità … usò frecce con punte a forma di mezzaluna e mirando alla sommità del collo riusciva a tagliarlo e, benché senza testa per la violenza del colpo, continuavano a correre come se non fosse accaduto nulla«; § 6: »una pantera si era precipitata a tutta velocità su uno che la provocava e Commodo, avendole lanciato contro il suo giavellotto mentre tentava di sbranarlo, la uccise e salvò l’uomo e con la

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punta del giavellotto riuscì a prevenire la punta delle zanne«. Sembra quasi che Erodiano si compiaccia di rivelare particolari insoliti, così come insolito appare il gusto per l’esotico quando ricorda la provenienza delle fiere contro cui combatteva Commodo (§ 5: »Mostrò ai Romani, mentre le uccideva, ogni tipo di bestie proveniente dall’India e dall’Etiopia, se mai qualche animale era sconosciuto prima di allora, dalle regioni meridionali e settentrionali«), quasi volesse rafforzare la sua posizione di testimone oculare degli spettacoli a cui aveva assistito. Dal racconto di Dione (72, 20, 1) risulta che le venationes e i ludi gladiatorii voluti da Commodo durarono quattordici giorni. È importante richiamare l’attenzione sul fatto che sia il racconto di Erodiano sia quello di Dione (72, 17–21) sono entrambi frutto di testimonianza autoptica. Essi si riferiscono ai medesimi fatti (Heer, J. M., »Der historische Wert«, 98–99; Grosso, La lotta politica, 377; Bowersock, G. W., »Cassius Dio and Herodian«, 712–713) ma selezionano particolari diversi. L’impostazione di Dione diverge da quella di Erodiano in quanto lo storico bitinico arrichisce il suo racconto con aneddoti relativi al comportamento dei senatori a teatro di fronte alle minacce di Commodo, presentandoli come frutto della sua personale testimonianza; Erodiano si limita a registrare gli istrionici comportamenti di Commodo, mentre le presunte minacce contro i senatori di cui parla Dione non destano il suo interesse. Erodiano inoltre, quando parla di se stesso, usa la prima persona plurale, quando si riferisce ai Romani, la terza persona plurale. Tutto ciò, a mio avviso, induce ad escludere che qui Dione sia la fonte di Erodiano, come si vorrebbe da più parti (cfr. soprattutto Kolb, Literarische Beziehungen e i suoi seguaci, su cui utile rassegna in Sidebottom, H., »Herodian’s Historical Methods«, 2780–2789). La passione di Commodo per le venationes è significativamente registrata in un dossier epigrafico databile al 186 discusso da Palmer, R. E. A., »The excusatio magisteri and the Administration of Rome under Commodus«, Athenaeum 52 (1974), 268–288; 53 (1975), 57–87.

§§ 7–8

Fin qui dunque le sue azioni che, sebbene fossero indegne di un imperatore, erano accolte con un certo favore dal popolo per il suo valore e la sua abilità. Ma, dopo che discese nell’anfiteatro nudo, armato da gladiatore, allora il popolo assistette ad un triste spettacolo: vide un imperatore romano di nobile stirpe, dopo tanti trionfi del padre e degli avi, portare armi non da soldato e degne dell’impero di Roma per combattere i barbari, ma oltraggiare la dignità imperiale con un costume scandaloso e degradante. 8. Egli dunque combattendo vinceva facilmente gli avversari e arrivava anche a ferirli e tutti gli

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cedevano giacché sapevano bene che egli era l’imperatore e non un gladiatore. Giunse a tal punto di follia da non volere più risiedere nella dimora imperiale: voleva infatti alloggiare nella caserma dei gladiatori e decise di non farsi chiamare più Ercole ma col nome di un gladiatore famoso che era morto qualche tempo prima. μέχρι μὲν οὖν τούτων, εἰ καὶ βασιλείας τὰ πραττόμενα ἦν ἀλλότρια … ἐπεὶ δὲ καὶ γυμνὸς ἐς τὸ ἀμφιθέατρον εἰσῆλθεν ὅπλα τε ἀναλαβὼν ἐμονομάχει … καθυβρίζοντα δὲ τὸ ἀξίωμα αἰσχίστῳ καὶ μεμιασμένῳ σχήματι – La svolta per Erodiano appare nel momento in cui Commodo, scendendo nell’arena, si allontana definitivamente dal mos romano, come rivela l’accenno all’abbandono delle vesti imperiali a favore di quelle gladiatorie, e perde così anche il consenso del popolo che ora prova ripugnanaza di fronte ai suoi indecorosi travestimenti. La nobiltà di Commodo nonché la grandezza dei trionfi di Marco sono richiami frequenti in Erodiano (cfr. supra 1, 7, 3–4). Più interessante mi sembra il polemico accenno alle armi indossate da Commodo, quelle del gladiatore e non del soldato, in un momento in cui era necessario combattere i barbari e non nell’arena. Sotto questo profilo è importante sottolineare come qui siamo di fronte ad una precisa presa di posizione da parte di Erodiano il quale nella sua opera non manca di sottolineare la necessità da parte di Roma di combattere i barbari per il bene dell’impero (cfr. 1, 3, 5; 1, 5, 6–8; 1, 6, 5–6; 2, 2, 8; 2, 4, 3; 2, 11, 4; 3, 14, 4 e 6–8; 6, 7, 9–10; 7, 2, 9). Giustamente Marasco, G., »Erodiano e la crisi«, 2884–2885 ha richiamato l’attenzione sul diverso atteggiamento di Erodiano tra barbari del nord (soprattutto i Germani) e barbari orientali (Parti e Persiani): mentre ritiene i primi una minaccia per l’impero, nei confronti dei secondi, lontani dall’Italia e meno aggressivi, è favorevole ad una politica di pace in una prospettiva di equilibrio delle forze. ἀλλὰ τῶν μονομαχούντων ἐνδόξου τινὸς προτετελευτηκότος ὀνόματι καλεῖσθαι προσέταξε – Come ha suggerito Grosso, La lotta politica, 68– 70, il gladiatore di cui parla qui Erodiano deve essere identificato con un certo Sceva menzionato in un aneddoto da Aurel. Vict. De Caes. 17, 4–6. L’identificazione – frutto di un malinteso da parte di Erodiano – è molto persuasiva. Cassio Dione (72, 22, 3) riporta infatti in greco il testo dell’iscrizione latina posta sulla base dell’ex statua del Colosso ora di CommodoErcole: πρωτόπαλος σεκουτόρων, ἀριστερὸς μόνος νικήσας δωδεκάκις. La dicitura ἀριστερὸς μόνος νικήσας appare dunque la trasposizione dello scaeva che doveva trovarsi nell’iscrizione latina e che Commodo sapesse combattere anche con la sinistra è affermato ancora da Dione in un altro passo (71, 19, 2). Ipotizzando che davvero in quegli anni fosse esistito un gladiatore, recen-

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temente scomparso, di nome Sceva di cui parla Aurelio Vittore – così chiamato forse per il suo caratteristico modo di combattere o per la sua abilità a combattere in questo modo, vale a dire con la sinistra – Erodiano, leggendo anch’egli l’iscrizione latina della statua, potrebbe aver sovrapposto il nome del gladiatore (Scaeva) allo scaeva dell’iscrizione, che era semplicemente un attributo per Commodo (scaeva = ἀριστερός). Se è così, ci troviamo nuovamente di fronte ad un caso in cui Erodiano rivela di attingere ad una fonte diversa da Dione ovvero di avere avuto a disposizione un testimone oculare del principato di Commodo o, infine, di riferire notizie – in questo caso erronee – derivanti dalla sua stessa testimonianza autoptica.

§9

Fece togliere la testa della statua colossale del Sole venerata dai Romani e vi pose la propria, facendo iscrivere sulla base, come è consuetudine, i titoli imperiali suoi e del padre, ma invece di »vincitore dei Germani« fece iscrivere »vincitore di mille gladiatori«. τοῦ δὲ μεγίστου ἀγάλματος κολοσσιαίου, ὅπερ σέβουσι Ῥωμαῖοι εἰκόνα φέρον Ἡλίου, τὴν κεφαλὴν ἀποτεμὼν ἱδρύσατο〈τὴν〉ἑαυτοῦ – La statua del Colosso era stata voluta da Nerone. Fu Adriano a sostituire la testa di Nerone con quella del Sole (HA Hadr. 19, 12). Gli ornamenta della statua di cui parla HA Comm. 17, 9–10 (su cui Heer, J. M., »Der historische Wert«, 100–101; Aymard, G., »Commode-Hercule«, 359–361) sono la clava e la pelle di leone, le insegne di Ercole, di cui espressamente riferisce Dio 72, 22, 3. La rimozione della testa della statua è ricordata anche da Hier. Chron. 209 Helm (sotto il 189): Commodus imperator colossi capite sublato, suae imagini caput imposuit. Sul numero delle vittorie di Commodo cfr. supra § 1.

16. §§ 1–2

Ma alla fine era destino che la sua follia e la sua tirannia sui Romani si arrestassero. Avvenne il primo giorno del nuovo anno in cui i Romani celebrano una festa in onore di una divinità antichissima originaria dell’Italia. Dicono infatti che Saturno, scacciato dal suo regno da Giove, fosse stato suo ospite quando discese sulla terra e, temendo il potere del figlio, si fosse nascosto

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presso di lui; di qui sarebbe stato dato il nome a quella regione chiamata Lazio per trasposizione del termine greco nella lingua locale. 2. Perciò gli Italici ancora oggi festeggiano i Saturnali in onore del dio che si nascose, e celebrano in onore del dio italico il mese che inaugura il nuovo anno. La statua del loro dio ha due facce perché l’anno comincia e finisce con lui. Essendo giunta questa festa, durante la quale i Romani soprattutto si scambiano visite e auguri, doni in denaro e prodotti della terra o del mare (allora per la prima volta i magistrati eponimi rivestono la prestigiosa porpora annuale), mentre tutti festeggiavano, Commodo intendeva presentarsi in pubblico non, come di consueto, dalla dimora imperiale, ma dalla caserma dei gladiatori e senza indossare la grandiosa veste imperiale di porpora, ma mostrandosi ai Romani con l’armatura scortato dagli altri gladiatori. νέου μὲν γὰρ ἔτους〈πρώτης〉τῆς ἐπιούσης ἔμελλεν ἡμέρας〈ἀρχὴ ἔσεσθαι〉– Accolgo l’integrazione πρώτης di Letta, C., rec. a Lucarini, Herodianus, 695. σέβουσι τε τὴν ἑορτὴν Ῥωμαῖοι εἰς θεὸν ἀρχαιότατον, τῆς ᾽Ιταλίας ἐπιχώριον, ἀναφέροντες – Il riferimento è ai Saturnalia che era una delle più importanti feste romane che veniva celebrata dapprima il 17 dicembre e, successivamente, per sette giorni, dal 17 al 23 dicembre: dunque Erodiano sbaglia quando la fa coincidere con la festa di capo d’anno. È vero che la prolungata durata della festa può far pensare che Erodiano supponesse che essa si protraesse fino al primo dell’anno; tuttavia anche in questo caso saremmo di fronte ad una supposizione sbagliata del nostro storico. La festa dei Saturnali era dedicata a Saturno, antica divinità italica, forse di origine etrusca (Dumézil, A., La religion romaine archaïque (Paris, 1966), 270–271), legata all’agricoltura; il suo nome appariva tra le divinità introdotte a Roma da Tito Tazio. Un’etimologia popolare ricollegava il nome Saturnus a satus »la seminagione«. Per i Romani Saturno non era solo il benevolo dio agrario che aveva insegnato a sfruttare la fertilità della terra, a usare la falce e a potare la vite, ma rappresentava anche il mitico benessere dei tempi primitivi: si diceva infatti che l’età dell’oro fosse stata quella in cui Saturno e Giano avevano regnato insieme. I Saturnali ebbero inizio, secondo quanto riferisce Livio (2, 21), quando i Romani dedicarono il tempio a Saturno alle pendici del Campidoglio, sotto il consolato di Aulo Sempronio e Marco Minucio (497 varr.). La fondazione del tempio si presume antichissima e si fa risalire a Tullo Ostilio. Circa l’origine del nome Lazio, Erodiano non è nuovo a simili paretimologie (cfr. supra 1, 11, 1). Per un utile confronto basti invocare le paretimologie greche presenti in Dionisio d’Alicarnasso. Il Baaz, De Herodiani fontibus, 13 sottolinea l’ascendenza ovidiana (Fast. 1, 115–132), ma non è accettabile la tesi secondo cui il poeta ed Erodiano qui dipendono da Verrio Flacco.

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Il dio indigeno presso cui Saturno si nascose e con la festa del quale si celebra il nuovo anno è Giano, il dio bifronte: »La statua del loro dio ha due facce perché l’anno comincia e finisce con lui«. Si osservi nuovamente l’uso della terza persona plurale quando Erodiano parla dei Romani (in questo caso gli Italici). ἀλλ᾽ ἐκ τοῦ τῶν μονομάχων καταγωγίου, ἀντὶ δὲ τῆς εὐπαρύφου καὶ βασιλικῆς πορφύρας ὅπλα τε αὐτὸς φέρων καὶ συμπροιόντων τῶν λοιπῶν μονομάχων ὀφθῆναι τοῖς Ῥωμαίοις – Commodo aveva manifestato questa intenzione per il primo gennaio del 193. Il Ludus Magnus e il Colosseo sorgevano non lontano dalle aedes Vectilianae sul Celio (HA Comm. 16, 3; Pert. 5, 7). C’è chi ha pensato di identificare la Domus Vectiliana con una scuola di gladiatori (von Rohden, P., »Aurelius«, 2478; Soverini, P. (ed.), Scrittori della Storia Augusta, I–II (Torino, 1983), 354) dove Commodo dimorava (il palazzo imperiale, come è noto, sorgeva invece sul Palatino). Sul Celio peraltro sorgeva la Villa appartenuta a Domizia Lucilla, madre di Marco Aurelio, dove Commodo era vissuto sino all’adolescenza (Valentini, R. / Zucchetti, R., Codice topografico della città di Roma, I (Roma, 1940), 23). Anche Dio 72, 22, 2 riferisce che Commodo intendeva presentarsi il primo giorno del nuovo anno (il 193) come console e secutor partendo dai quartieri dei gladiatori. Mentre il Grosso, La lotta politica, 382 ritiene destituite di fondamento (in quanto frutto di dicerie ostili) le notizie di Dione ed Erodiano, lo Hohl, E., »Die Ermordung des Commodus. Ein Beitrag zur Beurteilung Herodians«, Philologische Wochenschrift 52 (1932), 191–200, 197 ipotizzava che Commodo, come Caligola, intendesse presentarsi al Ludus per distribuire i donativi per il nuovo anno. Sebbene si parli solo dell’intenzione di Commodo di inaugurare il nuovo anno sfilando tra i gladiatori – e dunque il sospetto che questa notizia sia un’esagerazione fortemente ostile a Commodo è legittimo – a mio parere non c’è motivo di respingere la notizia di Erodiano (e di Dione). Che Commodo avesse manifestato un simile desiderio può ben rientrare nei suoi atteggiamenti »scenografici« che contraddistinguono la fine del suo regno. Mi sembra importante richiamare nuovamente l’attenzione sul fatto che Erodiano non manca di sottolineare l’abbandono da parte di Commodo della veste imperiale (il paludamento purpureo) che segna la rottura di Commodo con il mos (su cui supra 1, 14, 7).

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§§ 3–4

Dopo aver rivelato il suo progetto a Marcia, che era la concubina da lui più apprezzata e che in nulla era inferiore ad una moglie legittima e godeva di tutte le prerogative dell’imperatrice eccetto le fiaccole, avendo ella appreso quel suo progetto così assurdo e sconveniente, gettandosi ai suoi piedi in lacrime, immediatamente si mise a supplicarlo scongiurandolo di non disonorare l’impero romano e di evitare di correre pericoli affidandosi a gladiatori e a individui disperati. Ma dal momento che, pur avendolo supplicato a lungo, non ottenne nulla da lui, si allontanò in lacrime e Commodo, avendo mandato a chiamare il prefetto del pretorio Leto e il cubiculario Ecletto, ordinò loro che gli preparassero ogni cosa per trascorrere la notte nella caserma dei gladiatori e di là uscire per recarsi ai solenni sacrifici, dimodoché i Romani lo vedessero armato. Essi lo supplicarono e tentarono di persuaderlo a non disonorare l’impero. ἐπεὶ δὲ τὴν γνώμην αὑτοῦ ταύτην ἀνήνεγκε πρὸς Μαρκίαν, ἣν εἶχε τῶν παλλακίδων τιμιωτάτην – Marcia, ex concubina di M. Ummidio Quadrato (Dio 72, 4, 6), mandato a morte in occasione della congiura di Lucilla (cfr. supra 1, 8, 4–8), dopo la morte di Commodo sposò Ecletto, cubiculario di Commodo. Dione ricorda che Marcia (72, 13, 5, menzionata come moglie di Ummidio) aveva svelato a Commodo la ribellione di Cleandro (ma secondo Erodiano 1, 13, 1 era stata Fadilla, sorella di Commodo). Dione (72, 4, 7) ed Ippolito le attribuiscono sentimenti filocristiani: in particolare Ippolito (Refut. 9, 12, 10) la definisce φιλόθεος παλλακὴ Κομόδου. Sempre secondo Ippolito Marcia sarebbe intervenuta presso Commodo in favore della liberazione dello schiavo Callisto, il futuro Papa, processato e condannato ad metalla durante la prefettura urbana di Seio Fusciano, ai tempi di Cleandro (186–189). Callisto era stato responsabile del fallimento della »banca« del liberto Carpoforo, suo patrono. Sulla vicenda cfr. Mazzarino, S., »Osservazioni sull’età di Commodo e dei Severi«, Annuario Istit. Magist., Catania 1957–1958, 39–56, 40–50, che mette ben in evidenza la crisi economica al tempo di Commodo; Grosso, La lotta politica, 669–678. Non c’è motivo di dubitare di queste notizie dal momento che la tradizione cristiana, specie orientale, è favorevole a Commodo (Marasco, G., »Commodo e suoi«, 229–238). Su Commodo e i Cristiani cfr. almeno Grosso, La lotta politica, 669–678; Sordi, M., Il cristianesimo e Roma (Bologna, 1965), 121–129, 204–206; I Cristiani e l’Impero romano (Milano, 1984), 79–85; Keresztes, P., »A favourable aspect of the emperor Commodus’ rule«, in J. Bibauw (ed.), Hommages à Marcel Renard, II (Bruxelles, 1969),

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368–377. Secondo la Sordi, I Cristiani e l’Impero, 83–84: »certamente sotto Commodo, ebbe fine la clandestinità dell’organizzazione ecclesiastica e i rapporti fra la Chiesa e lo stato cominciarono ad essere impostati in modo aperto, anche se non ufficiale … Alla radice di questo nuovo atteggiamento dello stato … c’è la volontà … di assicurare all’impero la collaborazione della forte minoranza cristiana, di integrare i Cristiani nella vita pubblica«. Il ritratto ora positivo ora negativo di Marcia nell’HA (Pert. 5, 2; Comm. 8, 6–7; 11, 9; 17, 2) si spiega alla luce del fatto che per Mario Massimo (tra le fonti del biografo) Marcia era una figura positiva in quanto aveva liberato il senato da Commodo; per l’autore dell’HA invece che è, come noto, un pagano anticristiano, il cristianesimo di Marcia non poteva essere considerato in modo positivo. È forse possibile identificare Marcia sulla base di ILS 406 (cfr. Pflaum, H.-G., »Le valeur de l’information«, 225) che ricorda la liberta Marcia Aurelia Ceionia Demetriade, forse figlia del potente patrono di Anagni e precettore di Caracalla, Evodo (ILS 1909), su cui cfr. Stein 1907, 1154–1155; meglio però Mommssen che identificò in Sabinianus libertus duorum Augustorum (CIL X 5917) il padre di Marcia. I due Augusti sono Marco Aurelio e Lucio Vero che ben spiegano il Marcia Aurelia Ceionia. L’Epitome de Caesaribus (17, 5: Marcia generis libertini) è l’unica fonte a ricordare l’origine libertina di Marcia. Fu messa a morte da Didio Giuliano nel 193 (HA Did. 6, 2). Le suppliche prima di Marcia e poi di Leto ed Ecletto, sono tutte dirette a distogliere Commodo dall’agire in senso contrario alla dignitas imperiale che, come abbiamo visto, è tema caro al nostro storico. Non escluderei che ci troviamo di fronte ad una scena deliberatamente drammatizzata ad effetto da Erodiano; ma ciò potrebbe anche essere spia del fatto che Erodiano, che aveva avuto modo di frequentare gli uffici imperiali, poteva essere venuto a conoscenza di particolari relativi allo stato di confusione e di agitazione che aveva creato l’iniziativa di Commodo, che le altre fonti trascurano. Dione infatti (72, 22, 1) afferma che Leto ed Ecletto erano intimoriti da Commodo che li minacciava, poiché cercavano di distoglierlo dalle sue stravaganze.

17. §§ 1–2

Commodo, spazientitosi, li congedò e si ritirò nella sua stanza per andare a dormire (infatti era solito farlo a mezzogiorno); avendo preso una di quelle tavolette di scorza di tiglio i cui sottili fogli possono ripiegarsi uno sull’altro

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scrisse i nomi di coloro che bisognava mettere a morte quella notte. 2. La prima della lista era Marcia, seguivano Leto ed Ecletto e, oltre a questi, numerosi altri illustri senatori. Voleva infatti disfarsi dei più anziani e degli amici paterni ancora in vita, poiché si vergognava che giudicassero gravemente le sue scelleratezze: intendeva spartire i beni dei ricchi donandoli ai soldati e ai gladiatori per essere difeso dagli uni e divertito dagli altri. λαβὼν γραμματεῖον τούτων δὴ τῶν ἐκ φιλύρας εἰς λεπτότητα ἠσκημένων ἐπαλλήλῳ – La versione di Erodiano sulla congiura e l’assassinio di Commodo è ricca di particolari, considerati da alcuni frutto della fantasia del nostro storico. Il confronto con le altre fonti, soprattutto Cassio Dione e l’HA, rende però giustizia al racconto di Erodiano. Secondo Dione (72, 22) l’imperatore aveva deciso di mandare a morte i consoli Q. Pompeio Sosio Falcone e C. Giulio Erucio Claro Vibiano che dovevano entrare in carica il 1° gennaio 193, in quanto in quel giorno aveva intenzione di uscire dalla caserma dei gladiatori con il titolo di console e di secutor. Pertanto Leto ed Ecletto misero al corrente del loro piano Marcia, la concubina di Commodo, e il 31 dicembre del 192 gli propinarono del veleno in un piatto di carne. Tuttavia »lo smodato consumo di vino e i bagni, di cui era solito abusare, impedirono che soccombesse; vomitò qualcosa, ed essendogli nato il sospetto si mise a minacciare. Allora inviarono contro di lui Narcisso, un atleta, e lo fecero strangolare mentre prendeva un bagno« Secondo il biografo, che parla della congiura e della morte di Commodo in una serie di notizie (Comm. 17, 1–2; 15, 2; 7, 8; 9, 3), Commodo aveva manifestato l’intenzione di mettere a morte quattordici persone, giacché le rendite dell’impero non bastavano, e questo suo piano era stato rivelato da un fanciullo che aveva gettato dalla sua camera da letto una tavoletta sulla quale erano scritti i nomi delle vittime predestinate. Allora Leto e Marcia, esasperati dalla sua condotta, sebbene in ritardo (licet enim sero), ordirono la congiura per assassinarlo: dopo aver tentato di avvelenarlo lo fecero strangolare da un atleta con il quale era solito allenarsi. Il confronto tra le fonti rivela lievi divergenze su alcuni particolari: per Erodiano l’iniziativa della congiura era stata di Marcia, Leto ed Ecletto; per Dione di Leto e di Ecletto che poi informarono Marcia; per il biografo di Leto e Marcia. L’avvelenamento avvenne attraverso una bevanda per Erodiano (e per Epitom. de Caes. 17, 5: veneni poculum), attraverso la carne per Dione (per cibum anche per Aurelio Vittore De Caes. 17, 8). Per Erodiano e l’HA Commodo intendeva eliminare gli uomini più illustri (l’HA ne conta quattordici), per Dione soltanto i consoli del 193. Credibile appare la presenza di un medico di cui parla Aurelio Vittore 17, 8 (auctore medico, principe factionis, in palaestram perrexit): Commodo potrebbe averlo chiamato mentre era ai bagni sotto l’azione del veleno. Al di là di queste divergenze,

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tratto comune alle nostre fonti è che i congiurati sostanzialmente agirono per legittima difesa e per evitare che si spargesse sangue innocente. Come è stato osservato (Grosso, La lotta politica, 389–391), il momento scelto per mettere a morte Commodo, il 31 dicembre del 192, era molto opportuno perché i congiurati avrebbero trovato le coorti pretorie armate del solo pugnale (Herod. 2, 2, 9: ἄνευ τῶν ὅπλων ὡς ἐν ἱερομηνίᾳ). Non valgono le osservazioni di Hohl, E., »Die Ermordung des Commodus« (cfr. Kaiser Commodus, 30–32) che svaluta la testimonianza di Erodiano ritenendola frutto di fantasia, a favore di quella di Dione. Non si può infatti negare, come fa lo Hohl, che Commodo volesse trascorrere la notte nella caserma dei gladiatori, dal momento che anche Dione afferma espressamente che Commodo intendeva »presentarsi come console e secutor il primo giorno dell’anno dai quartieri dei gladiatori«. Il Kolb, Literarische Beziehungen, 43–46 accetta la tesi dello Hohl e afferma che Erodiano attinse regolarmente a Dione (ma cfr. le critiche di Cassola, F., rec. a Kolb, Literarische Beziehungen, Athenauem 62 (1974), 374–378, 375–376; Barnes, T. D., rec. a Kolb, Literarische Beziehungen, Gnomon 47 (1975), 368–373, 372). Lo Heer, J. M., »Der historische Wert«, 113–114 (seguito da Roos 1915, 192– 195 e Kolb, Literarische Beziehungen, 38–47) ritiene che solo Comm. 9, 3 (multos praeterea paraverat interimere. quod per parvulum quendam proditum est, qui tabulam e cubiculo eiecit, in qua occidendorum erant nomina scripta) coincida con Erodiano. Tuttavia bisogna osservare che Erodiano ricorda anche la condanna di molti senatori, le cui sostanze Commodo avrebbe confiscato per fare donativi a soldati e gladiatori. La Martinelli, G., Tradizione e dipendenza (Cass. Dio LXXIII, 22, 1–4 e Herod. 1, 17, 1–8), Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 45 (1988), 343–356 ha sottolineato, a mio avviso in modo generico, che nel racconto dell’uccisione di Commodo presente nelle diverse fonti convergono la versione ufficiale (di tendenza filosenatoria), diffusa subito dopo la morte dell’imperatore dagli ispiratori del complotto, e gli inquinamenti della stessa tradizione dovuti alla mano degli epitomatori. Ciò su cui vorrei qui attirare l’attenzione, e che mi pare non sia stato ancora notato, è che le motivazioni »ideologiche« che spinsero Leto, Ecletto e Marcia all’assassinio di Commodo appaiono in tutte e tre le fonti di natura morale più che politica (per Marcia si può forse parlare più esattamente di motivazione religosa in quanto era cristiana) lo scandalo che Commodo destava con i suoi atteggiamenti stravaganti e indegni di un imperatore. Interessante, a questo proposito, il giudizio lapidario del biografo che ritiene l’iniziativa dei congiurati tardiva. Erodiano, come s’è ripetutamente visto, appare peraltro l’alfiere di questa tradizione; egli inoltre è l’unico a parlare degli amici di Marco che ancora intendevano tenere »sotto tutela« Commodo: il motivo degli amici Marci è infatti uno dei temi conduttori della narrazione di Erodiano del principato di Commodo e qui non

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manca di fare capolino ancora una volta. Tra gli amici superstiti si possono ricordare almeno Pompeiano, Pertinace, Seio Fusciano. Anche l’affermazione di Erodiano secondo la quale Commodo intendeva fare elargizioni ai soldati e ai gladiatori rivela un altro leitmotiv dell’impostazione di Erodiano: la ricerca da parte di Commodo del consenso popolare e il favore di cui godeva tra i soldati. Di questo favore c’è traccia ancora nell’esitazione e nella riluttanza dei pretoriani ad acclamare Pertinace, nonostante gli sforzi di Leto e la pressione popolare (Herod. 2, 2, 9: μελλόντων καὶ ὀκνούντων ἔτι τῶν στρατιωτῶν; si veda anche 2, 2, 5). Una spia di ciò è anche in Dione-Exc. Valesiana 328, 73, 2, 5 secondo cui Commodo reggeva il potere con tanta fermezza ed era attorniato da uomini così ligi ai suoi voleri che, inizialmente, neppure credettero all’annuncio della sua morte. Ha fatto molto discutere l’accostamento tra la descrizione della congiura in Erodiano e la notizia della congiura che condusse a morte Domiziano in Dione (67, 15, 3–4 epitomato da Xifilino). Ci sono in effetti alcune circostanze analoghe: l’esistenza di una lista di condannati a morte dal principe che passa dalle mani di un fanciullo a quelle della moglie dell’imperatore; la presenza di una donna nella congiura: Domizia moglie di Domiziano, Marcia concubina di Commodo, nonché la partecipazione ad entrambi i complotti del prefetto del pretorio e dei cubicularii. Alcuni (Hohl, E., »Die Ermordung des Commodus« e Kaiser Commodus, 30–32; Zimmermann, Kaiser und Ereignis, 141–142) pensano che Erodiano abbia attribuito alla congiura contro Commodo particolari desunti da Dione relativi alla morte di Domiziano, altri (Heer, J. M., »Der historische Wert«, 113–116; Dopp 1912, 956; Kolb, Literarische Beziehungen, 40–42) che sia stato Xifilino ad aver attribuito particolari della congiura di Commodo alla morte di Domiziano (Xifilino avrebbe operato una trasposizione o addirittura un’aggiunta di suo pugno). Tuttavia le fonti contemporanee a Domiziano (Plinio e Filostrato Vita Apoll. 8, 25–27, su cui Grosso, F., »La vita di Apollonio di Tiana come fonte storica«, Acme 7 (1954), 333–532, 493–509), ma anche Suetonio (Domit. 14), ignorano l’episodio narrato da Dione a proposito della morte di Domiziano. In secondo luogo l’espressione con cui Dione-Xifilino introduce il racconto della morte di Domiziano (ἤκουσα ἔγωγε καὶ ἐκεῖνο), come è stato efficacemente notato (Grosso, La lotta politica, 403), sembra un aggiunta di Dione il quale più di un secolo dopo appare essere a conoscenza di una versione »aggiornata« sulla morte di Domiziano, simile a quella di Commodo. Difficilmente l’aggiunta è attribuibile a Xifilino (come pensava Cassola, F., »Sull’attendibilità«, 198): questi, infatti, non fa altro che recepire quel che trovava in Dione (Grosso, La lotta politica, 398–403). L’analogia tra la fine di Domiziano e quella di Commodo si spiega poi anche con il fatto che ambedue sono condannati dalla tradizione come mali principes: Tertulliano (Apol. 25, 9) affianca le morti di Domiziano e Commodo; sae-

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vior Domitiano impurior Nerone compare tra le maledizioni decretate dal senato dopo la morte di Commodo in HA Comm. 19, 2. C’è infine la testimonianza di Giovanni Antiocheno che segue Dione sino a Marco Aurelio ed Erodiano a partire da Commodo e sa confrontare i due storici. In due ampi frammenti (frg. 190.1 Roberto e frg. 204 Roberto) Giovanni riporta rispettivamente il racconto della morte di Domiziano (e qui la fonte è Dione) e la morte di Commodo (e qui la fonte è Erodiano). Ora, in Giovanni Antiocheno non sono narrati per esteso i particolari per la morte di Domiziano che Erodiano narra per la morte di Commodo a proposito della lista, tuttavia l’espressione καί τινα καί γράμματα περὶ τούτου θεασαμένους nel frg. 190. 1 sembra la sintesi della notizia presente in Dione (Grosso, La lotta politica, 404 n. 4 contra Cassola, F., »Sull’attendibilità «, 198): è dunque probabile che Giovanni riassumesse la notizia dell’episodio che trovava in Dione. Discusso è anche il ruolo di Pertinace. C’è infatti chi pensa che egli fosse estraneo alla congiura e il suo presunto coinvolgimento sia frutto di voci ostili diffuse post eventum (Grosso, La lotta politica, 393). C’è invece chi ritiene che Pertinace fosse al corrente di tutto e si fosse prestato alla messinscena dei congiurati (Birley, A., rec. a Kolb, Literarische Beziehungen, JRS 64 (1974), 266–268, 267; Carini, P., »Considerazioni sull’assassinio di Commodo«, RSA 6/7 (1976/7), 361–368). Di fatto l’unica fonte che afferma che Pertinace fosse al corrente della congiura è HA Pert. 4, 4: Tunc Pertinax interficiendi Commodi conscientiam delatam sibi ab aliis non fugit. Da Dione 73, 1, 2 apprendiamo che Pertinace credette alla notizia della morte di Commodo soltanto quando uno dei suoi emissari gli assicurò che Commodo era cadavere. Erodiano (2, 1, 3–11), il quale è molto favorevole a Pertinace, dedica ampio spazio alla sorpresa e al terrore che colse Pertinace quando i congiurati andarono da lui, temendo che lo volessero uccidere. Pertinace infatti stenta a credere alla notizia, diffusa dai congiurati, della morte di Commodo per apoplessia e si convince della morte di Commodo soltanto quando i congiurati gli rivelano di essere i responsabili dell’assassinio e gli mostrano la lista con i nomi delle vittime vergata da Commodo. Di fronte a ciò Pertinace alla fine si convince e si dichiara pronto a ricevere l’impero. A me risulta difficile pensare che i congiurati abbiano improvvisato un successore dopo la morte del tiranno. Ci sono infatti una serie di circostanze che mi spingono a ritenere che Pertinace fosse al corrente della congiura, sebbene non vi avesse partecipato in prima persona. Innanzitutto la posizione dei congiurati: essi avevano la necessità, ancor prima di agire, di individuare un personaggio che, in cambio del beneficio da loro ricevuto, vale a dire l’impero, si assumesse l’impegno della loro incolumità (cfr. Herod. 2, 1, 3: ὅπως αὐτοί τε σωθεῖεν), cosa che Pertinace fece. Leto – che godeva di scarsa stima da parte di Pertinace cfr. Pert. 10, 9 – e Marcia

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furono infatti messi a morte solo dopo la morte di Pertinace, da Didio Giuliano (Dio 73, 16, 5; HA Did. Iul. 6, 2) che, per parte sua, aveva rivendicato l’eredità di Commodo (Did. Iul. 2, 6). Anche la data particolarmente felice, scelta dai congiurati per il crimine (cfr. qui supra), difficilmente poteva essere frutto di improvvisazione, senza che ci fosse stato un accordo con chi poi doveva essere il successore. Non deve poi essere sottovalutato il prestigio di cui godeva Pertinace (valente uomo d’armi, console per due volte, governatore e prefetto urbano), il quale poteva godere del consenso del senato, nonostante il console Falcone avesse espresso la sua profonda delusione nei suoi confronti già il 1° gennaio 193 (HA Pert. 5, 2–3): Sed cum Laeto gratias egisset Pertinax, Falco consul dixit: »Qualis imperator es futurus, hinc intellegimus, quod Laetum et Marciam, ministros scelerum Commodi, post te videmus.« cui Pertinax respondit: »Iuvenis es consul nec parendi scis necessitates. paruerunt inviti Commodo, sed ubi habuerunt facultatem, quid semper voluerint ostenderunt«. Ma Falcone era senz’altro animato da inimicizia personale nei confronti di Pertinace e probabilmente si aspettava che la scelta ricadesse su di lui giacché, due mesi dopo, fu scelto come candidato dai congiurati che misero a morte Pertinace (Dio 73, 8, 2). Dal discorso di Falcone mi sembra inoltre si possa evincere che la versione della morte di Commodo per un colpo apoplettico non era stata creduta da nessuno, tant’è che fu utilizzata per ammansire i pretoriani, che esitavano a riconoscere Pertinace come nuovo imperatore (Herod. 2, 2, 5 e 9; HA Pert. 4, 7). La risposta di Pertinace lascia intendere che egli fosse al corrente del complotto. Che i congiurati non avevano agito da soli è affermato poi da Erodiano in due passi laddove parla della presenza di altri congiurati attorno a Leto ed Ecletto, sebbene la loro identità ci sfugga: 2, 1, 5: πρὸς δὴ τοῦτον τὸν Περτίνακα νυκτὸς ἀκμαζούσης πάντων τε ὕπνῳ κατειλημμένων ἀφικνοῦνται ὁ Λαῖτος καὶ ὁ Ἔκλεκτος ὀλίγους τῶν συνωμοτῶν ἐπαγόμενοι; 2, 2, 1: διαπέμπουσι δή τινας τῶν πιστῶν τοὺς διαβοήσοντας ὅτι ὁ Κόμοδος μὲν τέθνηκε, Περτίναξ δὲ ἐπὶ τὸ στρατόπεδον βασιλεύσων ἄπεισι. Lo stesso afferma Aurelio Vittore (De Caes. 17, 8), che indica come princeps factionis il medico che raggiunse Commodo ai bagni prima che fosse strangolato da Narcisso (cfr. infra §§ 4 e 11). L’esistenza di un »African party« (Birley, A. R., »The Coups d’Etat of the Year 193«, BJ 169 (1969), 248–252, 250–252; The African Emperor, 82–90) che avrebbe sostenuto la congiura non è suffragata da alcuna testimonianza, nonostante le ulteriori supposizioni di Tomassini, L., »La congiura e l’assassinio di Commodo: i retroscena«, Acme 47 (1994), 79–88, così come la candidatura di Settimio Severo (Domaszewski, A., »Der Staatsreich des Septimius Severus«, RhM 53 (1898), 638–639 contra Grosso, La lotta politica, 392–393, con bibliografia precedente; Letta, C., »La dinastia dei Severi«, 645). Va rilevato inoltre che Pertinace (Herod. 2, 1, 11) rimase sbigottito alla

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lettura dell’elenco delle vittime vergato dall’imperatore, che il prefetto del pretorio Leto gli sottopose dopo la morte di Commodo. Viene da pensare che in quell’elenco ci fosse anche il suo nome. Pertinace infatti aveva detto a Leto, prima ancora che gli venisse mostrato il foglio di Commodo, che da tempo temeva di venire ucciso in quanto ultimo superstite degli amici Marci (Herod. 2, 1, 7). Da ultimo non sottovaluterei quanto afferma Giuliano (che molto probabilmente conosceva Erodiano) in Caes. 312c ove accusa espressamente Pertinace di essere stato a conoscenza della congiura che condusse a morte Commodo: καὶ σὺ δέ, ὦ Πέρτιναξ, ἠδίκεις κοινωνῶν τῆς ἐπιβουλῆς, ὅσον ἐπὶ τοῖς σκέμμασιν, ἣν ὁ Μάρκου παῖς ἐπεβουλεύθη. Se è così, ciò costituisce, a mio avviso, un importante indizio della colpevolezza di Pertinace. Per quanto riguarda la lista di Commodo che i congiurati mostrarono a Pertinace per convincerlo ad accettare l’impero, è da pensare che fosse un espediente architettato dai congiurati stessi per scagionarsi dalla responsabilità di aver messo a morte l’imperatore. Di fatto di questa lista parlano tutte le fonti (anche se discordano sulla sua composizione, cfr. qui supra) e dunque è probabile che essa esistesse davvero, tuttavia è lecito dubitare che essa fosse stata compilata da Commodo. Ciò inoltre è, a mio avviso, un altro indizio del fatto che Erodiano non dipende da Dione, dal momento che mentre il primo racconta che Pertinace si convinse immediatamente ad assumere l’impero quando i congiurati gli mostrarono la lista, Dione tace della lista e Pertinace si convince solo quando i suoi gli riferiscono che Commodo era senz’altro morto (cfr. la discussione di questa divergenza in Carini, P., »Considerazioni sull’assassinio«, 367–368).

§3

Dopo aver scritto quei nomi pose la tavoletta sul letto, pensando che nessuno sarebbe entrato nella stanza. Ma c’era uno schiavo giovanissimo ancora senza veste, adorno d’oro e di pietre preziose, che i Romani amanti del lusso si compiacciono di avere. Commodo lo amava moltissimo al punto da farlo dormire spesso con sé; si chiamava Filocommodo, nome che indica la predilezione dell’imperatore per questo fanciullo. Φιλοκόμοδός τε ἐκαλεῖτο – Grosso, La lotta politica, 397 ha accostato il nome di Filocommodo a quello di Filoserapide che si ritrovano già insieme in un papiro relativo ad un sacerdote del nomo di Arsinoe in Egitto (Pap. Gr. Vindob. 19793 col. I 5): φιλοκόμμοδος καὶ φιλοσάραπις. La presenza di sacerdoti di questo nome a corte, che ha spinto alcuni (Whittaker, Hero-

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dian, 115) ad ipotizzare l’esistenza di un culto di Serapide sul Palatino, rende verosimile la testimonianza di Erodiano, che del resto aveva frequentato la corte.

§4

Dopo che Commodo uscì per i bagni e i consueti vizi, il fanciullo, come era solito fare, entrò nella stanza rimasta aperta, prese la tavoletta che si trovava sul letto per giocare e uscì dall’appartamento. Il caso volle che incontrasse Marcia. Questa (poiché anch’ella amava il fanciullo), dopo averlo abbracciato e baciato, gli tolse la tavoletta temendo che, per l’ignoranza della sua giovane età, causasse mentre si divertiva la perdita di qualche documento importante. Avendo riconosciuto la mano di Commodo, divenne ancor più impaziente di leggere lo scritto. προελθόντος τοῦ Κομόδου ἐπὶ τὰ συνήθη λουτρά τε καὶ κραιπάλας – Cfr. Dio 72, 22, 5; HA Comm. 5, 4: in Palatio per convivia et balneas bacchabatur; 11, 5: lavabat per diem septies atque octies et in ipsis balneis edebat. Credibile, come s’è detto, appare la presenza di un medico presso Commodo mentre era ai bagni sotto l’effetto del veleno (Aurel. Vict. De Caes. 17, 8). Aurelio Vittore lo definisce addirittura princeps factionis (sulla presenza di complici tra i congiurati cfr. supra). Fu infine il liberto Narcisso (cfr. infra § 11) a raggiungere Commodo per strangolarlo nella palestra accanto ai bagni. ἣ δὲ … τὸ γραμματεῖον ἀφαιρεῖται, δεδοκυῖα δὴ μή τι τῶν ἀναγκαίων ὑπὸ νηπιότητος ἀγνοοῦν παῖζον διαφθείρῃ – Gagé, J., »L’assassinat de Commode et les sortes Herculis«, REL 46 (1968), 280–303, suggerisce l’accostamento tra la scena descritta da Erodiano e un bassorilievo di Ostia (Becatti, G., »Il culto di Ercole in Ostia e un basso-rilievo votivo«, BCAR 68 (1939), 37–60 e per l’iscrizione ILS 5084a), dedicato dall’haruspex C. Fulvius Salvis (non altrimenti noto) in cui compare un fanciullo impegnato nell’estrarre dalle mani di Ercole le sortes. Il gesto di Marcia, di sottrarre il foglio al fanciullo, richiamerebbe quello delle sortes Herculis e la sortitio avrebbe riguardato un gruppo di gladiatori con i quali Commodo aveva intenzione di combattere il primo gennaio 193, che Marcia avrebbe confuso con un altro gruppo di presunti condannati a morte. Ma questa suggestione mi pare del tutto ipotetica e poco probabile.

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§5

Dopo che si accorse che conteneva condanne a morte e che lei sarebbe stata la prima a soccombere e che l’avrebbero seguita Leto ed Ecletto e che altri ancora sarebbero periti, scoppiò in lacrime e disse fra sé: »Bene, Commodo: è questa dunque la ricompensa che mi spetta per la mia benevolenza e il mio amore per ringraziarmi di aver sopportato per tanti anni i tuoi eccessi e la tua ubriachezza. Ma l’ubriaco che tu sei non avrà la meglio su una donna sobria come me«. Cfr. infra § 9. L’accusa di ebrietas è chiaramente finalizzata a screditare il tiranno e rientra nel topos della degenerazione del princeps. Tra i precedenti basti richiamare la figura di Alessandro Magno o, in ambito romano, le accuse di ubriachezza di Cicerone o di Ottaviano nei riguardi di Antonio che, come è noto, rispose con un de sua ebrietate (su cui Marasco, G., »Marco Antonio ›Nuovo Dioniso‹ e il De sua ebrietate«, Latomus 51 (1992), 538–548).

§6

Dopo aver detto queste parole, mandò a chiamare Ecletto. Egli era solito incontrarla poiché era il cubiculario ed inoltre lo si accusava di essere il suo amante. Avendogli consegnato la tavoletta disse: »Ecco la festa che ci attende questa notte«. Ecletto avendo letto la tavoletta rimase terrorizzato (era egiziano e per natura era spinto ad agire impulsivamente lasciandosi dominare dalle passioni) e, dopo aver messo il sigillo sulla tavoletta, attraverso un uomo di fiducia la inviò ad Ecletto. ταῦτα εἰποῦσα, τὸν Ἔκλεκτον μεταπέμπεται – Ecletto, alla morte di Lucio Vero nel 169, era passato tra i liberti di Marco, quindi di Ummidio Quadrato e infine di Commodo (Dio 72, 4, 6; 19, 4; Herod. 1, 16, 5; HA Ver. 9, 5–6). Rivestì la carica di cubiculario dalla nomina di Cleandro a prefetto del pretorio (seconda metà del 189) sino alla morte di Pertinace (28 marzo 193). Dione (72, 4, 6; 73, 10, 2) ha parole di ammirazione per Ecletto e ci informa che, dopo la morte di Commodo, aveva sposato Marcia. Cfr. Stein, A., s. v. »Eklektos«, RE V 2 (1905), 2207–2208.

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§7

Questi, sconvolto, raggiunse Marcia, come se dovessero esaminare insieme gli ordini dell’imperatore e le disposizioni per la caserma dei gladiatori: fingendo di esaminare gli interessi di Commodo, decisero di prevenire il pericolo passando all’azione piuttosto che subirlo, e che non era più il momento di esitare e di indugiare. Non necessaria la correzione di Lucarini, Herodianus, del trádito δρᾶσαί τι φθάσαντες in φθάσαι τι δράσαντες, come osserva Letta, C., rec. a Lucarini, Herodianus, 695. συντίθενται φθάσαι τι δράσαντες ἢ παθεῖν – Il pericolo non ammetteva indugi poiché, come s’è detto, i congiurati dovettero scegliere accuratamente il giorno dell’azione, contando sul fatto che i pretoriani e la guardia di Commodo erano pressoché disarmati.

§§ 8–9

Decisero di somministrare un veleno mortale a Commodo e Marcia assicurò che non avrebbe avuto la minima difficoltà a farglielo prendere. Infatti di solito era lei a riempire e a offrirgli la prima coppa perché gli risultasse più gradita essendo offerta dalla sua favorita. Al suo ritorno dal bagno gli versò nella coppa il veleno mescolato a vino profumato e gliela diede. Egli, come suo solito, essendo assetato dopo i bagni e gli esercizi di caccia, bevve quella coppa dell’amicizia senza sospettare di nulla. 9. Lo prese un immediato torpore e si sentì vinto dal sonno e pensando di essere affaticato per la stanchezza, andò a riposarsi. Ecletto e Marcia, dopo aver ordinato a tutti di allontanarsi e di tornare a casa: si sarebbero occupati loro del suo riposo. Commodo, già in altre occasioni, aveva sofferto di tali indisposizioni sotto l’effetto dell’ubriachezza. Dal momento che i suoi bagni erano frequenti e nondimeno i suoi pasti, non aveva un orario fisso per il riposo poiché, essendo dedito ininterrottamente a diversi piaceri dei quali era schiavo, vi si dedicava controvoglia ad orari prestabiliti. ἐμβαλοῦσα εἰς κύλικα τὸ φάρμακον οἴνῳ τε κεράσασα εὐώδει δίδωσι – L’avvelenamento avvenne attraverso una bevanda anche per Epitom. de Caes. 17, 5 (veneni poculum); attraverso la carne per Dione (72, 22, 4), più genericamente per cibum secondo Aurelio Vittore (De Caes. 17, 8).

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§§ 10–11

Si riposò per un poco, ma il veleno raggiungendo lo stomaco e l’intestino gli provocò delle vertigini e un abbondante vomito: o perché il cibo ingerito insieme all’abbondante vino aveva eliminato gli effetti del veleno, o perché aveva preso un contravveleno, cosa che sono soliti fare gli imperatori prima di consumare ogni pasto. 11. Dal momento che malgrado tutto il vomito era molto abbondante, temendo che vomitasse tutto il veleno e si riprendesse, mentre tutti si sentivano finiti convinsero un giovane coraggioso e pieno di vigore di nome Narcisso ad entrare e a strangolare Commodo, promettendo di dargli una forte ricompensa. Questi si precipitò dentro e, trovando l’imperatore indebolito dal veleno e dall’ubriachezza, lo strangolò. νέον τινὰ ὄνομα Νάρκισσον – Narcisso era un atleta, liberto di Commodo, che secondo HA Nig. 1, 5, si schierò poi con Nigro brigando come suffragator per assicurargli il comando delle truppe di Siria. Fu quindi messo a morte da Settimio Severo (Dio 73, 16, 5; Sev. 14, 1). È indicato come lo strangolatore di Commodo anche in Dio 72, 22, 5; compare in forma anonima in Tert. Apol. 35, 9; HA Comm. 17, 2; Aurel. Vict. De Caes. 17, 9; Epitom de Caes. 17, 6. Cfr. Stein, A., s. v. »Narcissus« [3], RE XVI 2 (1935), 1705.

§ 12

Così morì Commodo, avendo regnato tredici anni dopo la morte del padre ed essendo stato il più nobile degli imperatori che l’avevano preceduto, il più bello e il più proporzionato dei suoi contemporanei e, se dovessimo dire qualcosa del suo valore, non era inferiore a nessuno per abilità e coraggio sennonché, come s’è detto, rovinò queste doti con i suoi riprovevoli costumi. τοιούτῳ μὲν〈δὴ〉τέλει τοῦ βίου ὁ Κόμοδος ἐχρήσατο – Il sintetico giudizio finale di Erodiano su Commodo ricapitola i motivi che attraversano il primo libro relativi alla personalità di Commodo: la sua nobiltà (l’imperatore »porfirogenito«), la sua bellezza e la sua prestanza fisica irrimediabilmente rovinate dai suoi costumi. È, come si è visto, un giudizio moralistico che però non degrada Commodo a mostro come fanno le fonti ostili di matrice senatoria (soprattutto l’HA). Per Erodiano Commodo sprecò in modo dissennato le sue doti e il patrimonio »morale« di cui era entrato in possesso grazie a suo padre Marco. Per un’analisi più articolata delle fasi in

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cui si può rilevare la disamina erodianea del principato di Commodo sotto il profilo politico cfr. Introduzione, 29-32. La durata esatta del regno di Commodo è in Dione 72, 22, 6: »Questa fu la fine di Commodo, dopo che ebbe regnato dodici anni, nove mesi e quattordici giorni. Visse trentuno anni e quattro mesi e con lui la vera dinastia degli Aurelii (ἡ οἰκία ἡ τῶν ὡς ἀληθῶς Αὐρηλίων) cessò di regnare«, ove si cela la critica, esplicita in 79, 1, 1, a Elagabalo per l’assunzione del nome di Aurelio Antonino. Tuttavia questa critica appare un po’ tardiva in Dione dal momento che si addice già a Settimio Severo (verso cui Dione, come è noto, è molto favorevole), nonostante avesse riabilitato Commodo, e poi a Caracalla (verso cui Dione è ostilissimo).

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Indice dei nomi1

Ad duas lauros 130 Aderbale 55 Adiabene 40 Adriano (figlio di Marco Aurelio) 46 Adriano 45, 46, 66, 78, 79, 138, 149, 154, 158 Adriano di Tiro 46 Africa 39, 40 Agrippina Maggiore 58 Agrippina Minore 57 Alamanni 34 Alani 59 Alba 142 Alessandria 25, 136, 151 Alessandro Magno 56, 151, 170 Alessandro Severo 14, 27, 29, 39, 40, 42, 43, 45, 48, 67 Alpi 40 Aminziano 36, 56 Ammiano Marcellino 22, 57, 87, 89, 118, 124, 128 Ampurie 110 Annia Aurelia Galeria 45 Annia Cornificia Faustina 87 Annibale 119 Annio Vero Marco (figlio di Marco Aurelio) 45, 46, 65 Annio Vero Marco (nonno materno di Faustina Minore) 79 Antigono Monoftalmo 56 Antiochia 23, 48, 49, 73, 127 Antipatro di Gerapoli 35 Antistio Burro Lucio 47, 60, 63, 126, 135, 136 Antistio Capella 46 Antonini 35, 39, 44 Antonino Pio 47, 66, 78, 79, 149, Antonino Tito Aurelio Fulvo 45, 46 Antonino Tito Elio 45 Antonio 142, 170 Apolausto 135

Apollo 140 Apollo Palatino 140 Apollonio (martire) 83 Appiano 25, 136, 137 Aquileia 78 Aquitania 111 Arabia 40 Arae Flaviae / Neckar 108 Armenia 39 Arrio C. Antonino 126, 135 Arsinoe 56, 168 Artorio Casto L. 99, 112 Asia 109, 123, 126, 135 Asia Minore 117, 123 Asinio Quadrato 34 Atena 127, 144 Atene 91 Atilio Severo 91 Atreni 39 Attalo 135 Attalo I 119 Augusto 29, 37, 38, 68, 85 Aurelio Vittore 22, 54, 72, 152, 158, 163, 167, 169, 171 Avidio Cassio 23, 58, 67, 72, Azio 37, 38 Bagaudae 114, 115 Balbino 28, 38, 39, 42, 45, 49, 113 Barsemio 39 Bastarni 59 Belgica 111 Bisanzio 40 Bononia/Banoštar 54 Britanni 98 Britannia 21, 40, 68, 75, 90, 95, 97–99, 101, 102, 107, 108 109, 111 Bulla Felix 21 Buri 58, 59, 77

1 Sono esclusi: Erodiano, Commodo, Cassio Dione, Historia Augusta, Roma.

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Indice dei nomi

Caledoni 98 Caligola 57, 58, 82, 94, 160 Callsito 161 Campania 140 Campidoglio 139, 159 Capri 91 Caracalla 29, 38–40, 42, 43, 45, 56, 65, 66, 71, 144, 162, 173 Caropoforo 161 Cartagine 151 Ceionia Fabia 47 Celio 99, 141, 160 Celti 110 Cesare (Ottaviano) 38 Cesare Giulio: 38 Chryseros 45 Cibele 118, 119 Cicerone 49, 170 Circo Massimo 128, 132 Cirta 78 Claudia Quinta 120 Cleandro 12, 20, 21–23, 25, 28, 29–31, 47, 70, 71, 77, 83, 84, 92, 97, 98, 100–102, 104, 105, 107, 120, 121, 137–139, 146-148, 161, 170 Clodio Albino 14, 39, 42, 102, 111, 112 Colonia Commodiana 141, 150 Colosso 157, 158 Cornelio Felice Ploziano 94, 96, 102 Cornificia 45, 47 Costoboci 59 Cotini 59 Crispina Bruttia 86 Daci 75, 77 Dacia 75, 77, 95, 108, 111 Dalmazia 95 Decio 10, 39 Delfi 119 Demetrio Poliorcete 56, 57 Didio Giuliano 39, 42, 45, 86, 91, 162, 167 Diomede 144 Dionisio di Alicarnassso 49, 159 Dionisio I 36, 56 Dionisio II 36, 56 Dionisio Papirio 21, 63, 122, 125, 126, 136, 148 Domizia (moglie di Domiziano) 165 Domizia Faustina 45 Domizia Lucilla (madre di Marco Aurelio) 160

Domiziano 17, 36, 56, 57, 102, 165, 166, Domus Augusta 91 Domus Aurea 141 Domus Tiberiana 140 Domus Vectiliana 160 Draconzio 24 Duride 22, 57 Ecletto 134, 161–164, 167, 170, 171 Egitto 37, 65, 104, 126, 168 Egnazio Capitone 91 Elagabalo 19, 29, 36, 39, 41–43, 45, 114, 173 Elba 68, 74 Eliano 71, 126 Elio Cesare Lucio 148 Emilio Iunco 91 Enea 119, 144, 145 Epagato 71 Ercole 23, 32, 78, 80, 142, 147–150, 152, 153, 157, 158, 169 Ermunduri 59 Erucio Claro C. Giulio Vibiano 163 Etiopia 13, 16, 155, 156 Etiopia 13, 16, 155, 156 Eutropio 57, 72, 152 Evodo 162 Fadilla Arria 45, 47, 133, 134, 161 Falcone Q. Pompeio Sosio 167 Faustina Annia Galeria Aurelia (figlia di Marco Aurelio) 45, 47 Faustina Minore 23, 45, 47, 50, 60, 78, 79, 86, 87, 91 Filippo l’Arabo 10, 34, 39, 50 Filoserapide 168 Filostrato 36, 52, 165 Flacco Lucio Settimio 75 Flaviano C. Annio 75 Flegone di Tralles 45 Frigi 118, 119 Frigia 117, 123 Frontone 50, 91, Fundania Faustina (cugina di Marco Aurelio) 60 Fusciano Seio 63, 131, 161, 165 Galeno 24, 25, 101, 122, 136, 140, Gallia 21, 40, 110, 114 Gallieno 10, 39 Ganimede 118

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Indice dei nomi Germani 58 59, 68–70, 76, 157, 158 Germania 20, 30, 63, 65, 68, 70, 72, 74, 85, 90, 107–112, 146, 184 Germanico 58 Gerolamo 152 Geta 29, 38, 42, 43, 45, 56, 66 Giano 145, 153, 159, 160 Giove 96, 102, 103, 117, 148, 153, 158 Giove Capitolino (tempio di) 80, 102, 103, 117 Giugurta 55 Giulia Domna 51, 120 Giulia Mamea 27, 48 Giulia Mesa 27, 48, 67, 136, 148 Giuliano l’Apostata 168 Giuliano Publio Salvio 30, 60, 63, 85, 87, 88, 90–92 Giuliano Salvio 85 Giulio Alessandro 135, 136, 148 Glabrione Manio Acilio 28, 49, 63, 125 Gordiano I 28, 35, 39, 42, 49 Gordiano II 39, 42 Gordiano III 29, 37, 39, 40, 42, 43, 45 Grato Giuliano Lucio Giulio Veilio 30, 104, 105, 124, 136, 148 Greci 18, 50, 56, 117, 118 Grecia 40 Hilaria 108, 113, 116 Iazigi 58, 59, 77 Iberi 110 Iempsale 55 Illiri 71, 93 Illirico 18, 21, 43, 96, 102 Ilo 118 India 13, 16, 155, 156 Iotapiano 39 Ippolito 161 Istro/Danubio 70, 71, 75 Italia 21, 30, 39, 40, 53, 70, 78, 97, 99, 104, 108, 111, 119, 121, 144–146, 153, 154, 157, 158 Lanuvio 139, 149, 150 Larense Publio Livio 154 Laurento 117, 120, 121 Lazio 117, 159 Leto Q. Emilio 32, 76, 104, 141, 161–168, 170

185

Liguria 91 Lione 14, 39 Lireno 108 Livio 119, 159 Longeo Rufo T. 104 Lucilla 20, 29, 30, 45, 47, 49, 62, 63, 72, 73, 82, 84–93, 103, 107, 132, 161 Lucio Vero 24, 34, 47, 51, 52, 65, 73, 85, 86, 88, 148, 162, 170 Ludi Capitolini 31, 102, 103 Ludi Ceriales 132 Ludi Saeculares 113 Ludus Magnus 160 Macedoni 56 Macrino 15, 26–29, 39, 42, 45, 48–50 Macrone Q. Nevio Sutorio 82 Madre Idea 119 Magna Mater 80, 113, 118, 120 Malala 22, 127, 146 Marcia 24, 87, 89, 134, 149, 151, 161–167, 169–171 Marcia Aurelia Ceionia Demetriade 162 Marcio Quarto 104 Marco Aurelio 10, 12, 14, 18–20, 23, 25, 27– 30, 36–38, 43–52, 54–63, 65–70, 72, 74, 76, 77, 79, 81, 82, 84, 85, 87, 90, 91, 93, 94, 109, 114, 116, 123, 125, 136–138, 140, 147–149, 157, 160, 162, 164, 166, 170, 172 Marcomanni 20, 30, 59, 62, 67–69, 77 Marcomannia 59, 67 Mario Massimo 15, 19, 35, 36, 57, 154, 162 Massimino il Trace 39–42, 45, 65, 68, 144 Massimo M’ 49 Materno 21, 29, 31, 40, 106–116, 120, 122, 132, 133, 146 Mauritania 16, 155 Mecenate 29, 105, 106 Mercurio 153 Mesia 75, 95 Mesopotamia 40 Micipsa 55 Milano 91 Minucio Marco 159 Motileno 104 Narcisso 163, 167, 169, 172 Naristi 59 Nerone 57, 94, 138, 141, 158 Nerva 19, 36, 79 Nicomedia 40, 70

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Indice dei nomi

Nigro (prefetto del pretorio) 104 Norbana 88, 91 Norbano 88, 91 Norico 95 Oceano 65, 68, 69, 73 Olimpo144 Onesicrate 46 Osroene 39 Ostia 169 Ottaviano 38, 142, 170 Ovidio 119 Pacaziano 39 Pace (tempio della) 29, 138–140, 145 Palatino 65, 140, 151, 160, 169 Palazzo (imperiale) 141 Pallade 144 Palladio 31, 117, 118, 141, 144, 145 Pannoni 71 Pannonia 18, 39, 43, 54, 63, 71, 73, 75, 76, 90, 94, 95, 97, 108, 111 Paralio 88, 91 Paterno Tarrutieno 59, 60, 63, 70, 72, 81–85, 88, 90, 92–94 Pausania 145 Perenne Tigidio 20, 21, 29, 30, 70, 72, 75, 81–85, 88, 90–107, 111, 112, 116, 125, 132, 133, 135, 147 Pergamo 119 Persiani 157 Pertinace 21, 26–28, 39, 42, 44, 45, 47, 48, 50, 60, 63, 67, 75, 76, 86, 91, 95, 97, 98, 116, 125, 126, 131, 136, 145, 154, 165–168, 170 Pescennio Nigro 39,111, 112, 172 Pessinunte 117–120 Peucini 59 Pitolao 47 Plauzio Quintillo M. Peduceo 47, 63 Plinio il Vecchio 165 Plutarco 142 Pollione Tito Vitrasio Pomponio Proculo 60, 63 Polluce 46 Pompeiano Tiberio Claudio 47, 49, 55, 60, 63, 68, 69, 72, 73, 74, 85, 86, 87, 88, 165 Porta Libitina 142 Presente Bruttio 60, 63, 86 Prisco 21, 97–99 Pupieno 28, 38, 39, 42, 45, 49, 113

Quadi 20, 30, 34, 59, 62, 67–69, 77, 152 Quintili 88, 91, 120, 121, 128 Quintilio Massimo 88 Quintilio Sesto Condiano (figlio di Sesto Quintilio Valerio Massimo) 60, 63, 75 Quintilio Sesto Condiano (fratello di Sesto Quintilio Valerio Massimo) 88, 121 Quintilio Sesto Valerio Massimo 88, 121 Quinziano Claudio Pompeiano 88–91 Quinziano L. Ragonio Urinazio Larcio 75 Regio IV 143 Reno 107, 110 Rezia 75, 95, 112 Romani 13, 16, 18, 30, 31, 38, 50, 58, 73, 76, 80, 96, 103, 113, 117, 119, 120, 122, 126, 128, 134, 144, 155, 156, 158, 159–161, 168 Rossolani 59 Rupilia Faustina 79 Sabina Vibia Aurelia 46, 47, 126 Sabiniano C. Vettio 75, 77 Sabiniano Vespronio L. Candido 75, 111 Salona 112 Saotero 31, 70, 71, 84, 91–93, 123 Sarmati 59, 100 Sarmazia 59, 67 Saturnali/Saturnalia 31, 113, 159 Saturno 158–160 Sceva 157, 158 Seiano 100 Sempronio Aulo 159 Serapide 169 Settimio Severo 14, 15, 18, 19, 21, 26, 28, 34, 35, 39, 40, 42–45, 48, 58, 66, 67, 74, 75, 91, 102, 107, 125, 143, 153, 167, 172, 173 Severi 19, 29, 39, 51, 106 Severo Gneo Claudio 47, 87 Sicoboti 59 Silano Marco Servilio 63 Silla 102 Siria 65, 73, 172 Sirmium 54 Sole 153, 158 Sosibi 59 Spagna 21, 110, 115 Suetonio 57, 58, 139, 165 Sura Mamertino M. Petronio 47, 63 Svevi 59

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Indice dei nomi Tantalo 118 Teocrito 71 Tertulliano 72, 121, 165 Tevere 119 Tiberio 100 Tiberio Gemello 82 Tito Aurelio Antonino 45, 46 Tito Elio Aurelio 45 Tito Tazio 159 Tolemeo II Filadelfo 56 Traiano 57, 66, 78, 79 Troia 144 Troiani 144 Tullo Ostilio 159 Ulpio Marcello 98, 99, 101, 102 Ummidio Quadrato (cos. 145 d.C.) 87 Ummidio Quadrato M. (cos. 167 d.C.) 87 Ummidio Quadrato M. Claudio 87, 134, 161, 170 Uranio 39 Urbino 107, 108

Varisti 59 Vectilianae aedes 141 Velio Rufo 91 Venere 80 Verissimo 45, 46 Verrio Flacco 19, 117, 159 Vespasiano 143 Vesta (tempio di) 141, 144 Vesta 120, 145 Vestali 141 Via Appia 121, 130 Via Labicana 121, 130 Via Sacra 140, 145 Vindice C . Vesnio 107 Vindobona 54, 55 Vitrasia Faustina 91 Vitruvio Secondo 88, 91 Vittorino Gaio Aufidio 63 Vittuali 59 Vitulo M. Rossio 75 Xifilino 67, 89, 92, 98, 122, 130, 139, 165

Valerio Massimo M. 60 Vandali (Astingi e Lacringi) 59, 77

Zeus 118, 127

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