Enciclopedia bruniana e campanelliana. Vol. 3: Giornate di studi 2009-2012. 886227971X, 9788862279710

Nel terzo volume della Enciclopedia bruniana e campanelliana si pubblicano i testi delle voci presentate a quattro semin

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Sommario
Premessa di Eugenio Canone
Abbreviazioni e sigle
enciclopedia bruniana
Anassagora (Anaxagoras)
atomo (atomus)
demoni (daemones)
infinito (infinitum) — secc. xvii-xviii
minimo (minimum)
mondo (mundus)
Napoli (Neapolis)
panteismo (pantheismus) — secc. xviii-xix
Pitagora (Pythagoras)
Plotino (Plotinus)
privazione (privatio)
Roma (Roma)
Spaventa, Bertrando
Tansillo, Luigi
traduzioni tedesche
enciclopedia campanelliana
animali (animalia)
Ariosto, Ludovico (Ariostus)
avvocato (advocatus)
Calvino, Giovanni (Calvinus)
Ermete Trismegisto (Mercurius Trismegistus)
giustizia (iustitia)
Immacolata Concezione
incarnazione (incarnatio)
Maria Vergine (Maria Virgo)
musica (musica)
Padova (Patavium)
Paracelso (Paracelsus)
Pitagora (Pythagoras)
Scolopi (qui de Scholis Piis attitulantur)
Spagna (Hispania)
traduzioni tedesche — scritti politici
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Enciclopedia bruniana e campanelliana. Vol. 3: Giornate di studi 2009-2012.
 886227971X, 9788862279710

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ENCICLOPEDIA B RU N I A NA E CA MPA NELLI A NA vo l. 1 i i Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee Consiglio Nazionale delle Ricerche

B RU N I A NA & C A M PA N E L L I A NA Ricerche filosofiche e materiali storico-testuali supplementi, xlii · enciclopedie e lessici, 3

ENCICLOPEDIA BRUNIANA E CAMPANELLIANA d i r etta da e ug e nio c anone e germ a na ern st vol . iii g iornate d i stud i 2 0 0 9 - 2 0 12 vo c i e nc i c lo pe di c he d i ba r bar a a m ato · laur a ba l b i a ni · m a nue l b e rto l i n i · te r e s a b onacco r s i · pao lo b ro g g i o eugenio ca none · c a ndi da c a re l la · st e l la c a r e l la · r i cc a r d o c hi a r a d on na jea n-paul d e lucc a · a ntone l la de l pret e · g e r m a na e r n st · g u i d o g i g l i on i delfina giova nno z z i · luc i a g i re l l i · g i use ppe lan d o l f i petron e · d e b o r a h m i g l i etta giacom o m oro · pi et ro da ni e l o m o de o · m a n l i o pe ru g i n i · f r a n c e s c a p ucc i n i ing ri d d. ro w la nd · st e ffe n sc h ne i d e r · m i c he l e v i tto r i c ur a re da z i ona l e de l vo lu m e de l fi na g i ova nno z z i e m a n l i o pe ru g i n i

PIS A · ROMA FABRIZ IO SERRA E DITO RE MMXVI I

Il presente volume è pubblicato con il contributo di: Université Paris 8 (Laboratoire d’Études Romanes) e dell’Institut Universitaire de France (iuf) Progetto cnr - dus.ad005.005.002 / Filosofie del Rinascimento. * A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included offprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2017 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050542332, fax +39 050574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 0670493456, fax +39 0670476605, [email protected] * i s b n 9 78 - 8 8 - 62 2 7 - 9 7 1 - 0 e - i s b n 9 78 - 8 8 - 62 2 7 - 9 72 - 7 i s s n 1 1 2 5 - 38 1 9

Sommario

SOMMARIO Premessa di Eugenio Canone Abbreviazioni e sigle

ix xi

enciclopedia bruniana Anassagora (Delfina Giovannozzi) atomo (Barbara Amato) demoni (Delfina Giovannozzi) infinito – secc. xvii-xviii (Antonella Del Prete) minimo (Barbara Amato) mondo (Pietro Daniel Omodeo) Napoli (Eugenio Canone) panteismo (Francesca Puccini) Pitagora (Delfina Giovannozzi) Plotino (Riccardo Chiaradonna) privazione (Lucia Girelli) Roma (Candida Carella) Spaventa, Bertrando (Giuseppe Landolfi Petrone) Tansillo, Luigi (Ingrid D. Rowland) traduzioni tedesche (Steffen Schneider)

1 13 24 40 56 68 80 106 120 134 149 164 180 195 201

enciclopedia campanelliana animali (Germana Ernst) Ariosto, Ludovico (Teresa Bonaccorsi) avvocato ( Jean-Paul De Lucca) Calvino, Giovanni (Michele Vittori) Ermete Trismegisto (Guido Giglioni) giustizia ( Jean-Paul De Lucca) Immacolata Concezione (Paolo Broggio) incarnazione (Deborah Miglietta) Maria Vergine (Deborah Miglietta) musica (Manuel Bertolini) Padova (Giacomo Moro) Paracelso (Guido Giglioni) Pitagora (Manlio Perugini) Scolopi (Stella Carella) Spagna (Paolo Broggio) traduzioni tedesche – scritti politici (Laura Balbiani)

215 229 239 252 260 270 282 299 313 328 340 352 368 376 384 400

Premessa di Eugenio Canone

PREMESSA

N

el terzo volume della Enciclopedia bruniana e campanelliana si pubblicano i testi delle voci presentate a quattro seminari di studio, tenutisi a Roma negli anni 20092012 e promossi dall’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo del cnr e dal Dipartimento di Filosofia dell’Università di Roma Tre. I programmi completi dei seminari ix-xii della ebc sono pubblicati sul sito : www.iliesi.cnr.it/cicli.php ?id=5. Rispetto a tali programmi, va segnalato che la voce enciclopedica Pitagora, articolata in due sezioni e proposta nel corso del xii Seminario – 24 ottobre 2012, Sessione Tommaso Campanella –, nel presente volume corrisponde a due diverse voci : musica e Pitagora. Inoltre, nel volume non figurano le voci enciclopediche Vesuvio (proposta nel corso del ix Seminario : 5 novembre 2009, Sessione Tommaso Campanella) e furore (proposta nel corso del x Seminario : 20 ottobre 2010, Sessione Giordano Bruno) ; quest’ultima voce sarà pubblicata in uno dei prossimi fascicoli della rivista « Bruniana & Campanelliana ». Va anche segnalato che, per quanto riguarda Bruno, altre tre voci – Aristotele, Origene, Giovan Vincenzo Colle – furono proposte in un seminario tenutosi, sempre a Roma, il 25 ottobre 2013 (anche per gli abstracts, vedi : http ://prin.iliesi.cnr.it/perl/seminari_prinILIESI.pl ?). I primi due volumi della ebc – apparsi rispettivamente nel 2006 e nel 2010 (« Supplementi di Bruniana & Campanelliana », xv e xxviii) – comprendono sessantaquattro voci, trentadue per ogni volume e, complessivamente, trentadue per ognuno dei due autori, voci che spaziano dalla filosofia della natura e dalla metafisica/teologia alla gnoseologia, dall’etica alle arti. Con il presente volume si giunge a novantacinque voci enciclopediche : non sono tante, ma il lettore coglierà lo spirito guida dell’iniziativa. Come viene indicato nelle premesse dei due precedenti volumi, i direttori scientifici hanno sin dall’inizio pensato a uno strumento di ricerca storico e terminologicoconcettuale aperto, più che a una compiuta e preconfezionata impresa enciclopedica. Quindi testi che, nelle loro differenze e anche talune imperfezioni – riflettendo le ricerche dei diversi studiosi, dei loro effettivi interessi –, non sono meramente compilativi. Altre voci enciclopediche saranno pubblicate nella rivista « Bruniana & Campanelliana » : l’ebc vuole essere appunto un’opera aperta. Il volume si pubblica nell’ambito delle attività di ricerca sulla cultura filosofica del Rinascimento dell’iliesi-cnr. Ringrazio Jean-Louis Fournel (Université Paris 8, Laboratoire d’Études Romanes) che ha generosamente patrocinato la stampa dell’ebc iii. Un grazie alle autrici e agli autori delle voci enciclopediche ; un ringraziamento particolare a Delfina Giovannozzi e a Manlio Perugini che si sono assunti il compito della cura redazionale del volume.  



































Avvertenza Nel testo delle voci i nomi di Bruno e di Campanella sono abbreviati, così anche nelle note e nelle bibliografie. I rinvii tra le voci si riferiscono alle rispettive sezioni della Enciclopedia (nei tre volumi della ebc). Nelle note è omessa l’indicazione ‘pp.’, nonché di ‘vol.’, ‘tomo’, ‘Bd.’. Nelle bibliografie si indicano per lo più studi pertinenti alle voci enciclopediche ; inoltre, gli studi citati sono ordinati in ordine cronologico.  

E. C.

Abbreviazioni e sigle

ABBREVIAZIONI E SIGLE Giordano Bruno Animadversiones Ars deform. Ars mem. Ars rem. Articuli adv. math. Articuli adv. Perip. Artificium peror. Asino cill. Cabala Camoer. acrot. Candelaio Cantus Causa Cena De comp. architect. De imag. comp. De immenso De lamp. combin. De magia De magia math. De minimo De monade De Mord. circ. De progressu De rerum princ. De somn. int. De spec. scrutin. De umbris De vinculis Explicatio Figuratio Furori Idiota triumph. Infinito Lampas trig. stat. Libri Phys. expl. Med. Lull. Mordentius Orat. cons. Orat. valed. Praelect. geom. Sig. sigill. Spaccio Summa term. met. Thes. de magia

Animadversiones circa lampadem Lullianam Ars deformationum Ars memoriae Ars reminiscendi Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus Peripateticos Artificium perorandi Asino cillenico Cabala del cavallo pegaseo. Con l’aggiunta dell’Asino cillenico Camoeracensis acrotismus Candelaio Cantus Circaeus De la causa, principio et uno La cena de le Ceneri De compendiosa architectura et complemento artis Lullii De imaginum, signorum et idearum compositione De innumerabilibus, immenso et infigurabili De lampade combinatoria Lulliana De magia De magia mathematica De triplici minimo et mensura De monade, numero et figura De Mordentii circino De progressu et lampade venatoria logicorum De rerum principiis, elementis et causis De somnii interpretatione De specierum scrutinio et lampade combinatoria Raymundi Lullii De umbris idearum De vinculis in genere Explicatio triginta sigillorum Figuratio Aristotelici Physici auditus De gli eroici furori Idiota triumphans De l’infinito, universo e mondi Lampas triginta statuarum Libri Physicorum Aristotelis explanati Medicina Lulliana Mordentius Oratio consolatoria Oratio valedictoria Praelectiones geometricae Sigillus sigillorum Spaccio de la bestia trionfante Summa terminorum metaphysicorum Theses de magia

abbreviazioni e sigle

xii bca bdd bdfi bdi

Centoventi articoli sulla natura e sull’universo contro i Peripatetici / Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus Peripateticos, a cura di E. Canone, Pisa-Roma, 2007. Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti : Idiota triumphans - De somnii interpretatione – Mordentius – De Mordentii circino, a cura di G. Aquilecchia, Roma, 1957. Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, Milano, 2000. Dialoghi italiani. Dialoghi metafisici e Dialoghi morali, nuovamente ristampati con note da G. Gentile, 3a ed. a cura di G. Aquilecchia, Firenze, 1958 ; 2a rist. 1985. De gli eroici furori, a cura di E. Canone, Milano, 2011. Oeuvres complètes de Giordano Bruno, collection dirigée par Y. Hersant, N. Ordine. Oeuvres italiennes, édition critique établie par G. Aquilecchia, Paris : i. Chandelier, introd. philol. de G. Aquilecchia, préf. et notes de G. Bàrberi Squarotti, trad. de Y. Hersant, 1993 (2a éd. revue et corrigée, avec un essai de N. Ordine, Paris, 2003) ; ii. Le souper des Cendres, préf. de A. Ophir, notes de G. Aquilecchia, trad. de Y. Hersant, 1994 ; iii. De la cause, du principe et de l’un, introd. de M. Ciliberto, notes de G. Aquilecchia, trad. de L. Hersant, 1996 ; iv. De l’infini, de l’univers et des mondes, introd. de M. A. Granada, notes de J. Seidengart, trad. de J.-P. Cavaillé, 1995 (2a éd. revue et corrigée par Z. Sorrenti, Paris, 2006) ; v. Expulsion de la bête triomphante, introd. de N. Ordine, notes de M. P. Ellero, trad. de J. Balsamo, 1999, 2 voll. ; vi. Cabale du cheval pégaséen, préf. et notes de N. Badaloni, trad. de T. Dagron, 1994 ; vii. Des fureurs héroïques, introd. et notes de M. A. Granada, trad. de P.-H. Michel revue par Y. Hersant, 1999 (2a éd. revue et corrigée par Z. Sorrenti, Paris, 2008). Oeuvres complètes, iii. Documents, i. Le procès, intr. et texte de L. Firpo, trad. et notes de A.-Ph. Segonds, Paris, 2000. Opere italiane, ristampa anastatica delle cinquecentine, a cura di E. Canone, Firenze, 1999, 4 voll. Opera latine conscripta, publicis sumptibus edita, recensebat F. Fiorentino [V. Imbriani, C. M. Tallarigo, F. Tocco, H. Vitelli], Neapoli [Florentiae], 1879-1891, 3 voll. in 8 parti : i,i (Neapoli, 1879), i,ii (Neapoli, 1884), i,iii (Florentiae, 1889), i,iv (Florentiae, 1889) ; ii,i (Neapoli, 1886), ii,ii (Florentiae, 1890), ii,iii (Florentiae, 1889) ; iii (Florentiae, 1891). Opere lulliane, edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Milano, 2012. Opere magiche, edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, Milano, 2000. Opere mnemotecniche, edizione diretta da M. Ciliberto, tt. i-ii, a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Milano, 2004, 2009. Praelectiones geometricae - Ars deformationum, testi inediti a cura di G. Aquilecchia, Roma, 1964. Spaccio de la bestia trionfante, a cura di E. Canone, 2a ed., Milano, 2001. De umbris idearum, a cura di R. Sturlese, premessa di E. Garin, Firenze, 1991. Giordano Bruno Werke, mit der kritischen Edition von G. Aquilecchia, hrsg. von Th. Leinkauf, Hamburg : i. Der Kerzenzieher, hrsg. von S. Kodera, 2013 ; iii. Über die Ursache, das Prinzip und das Eine, hrsg. von Th. Leinkauf, 2007 ; iv. Über das Unendliche, das Universum und die Welten, hrsg. von A. Bönker-Vallon, 2007 ; v. Austreibung des triumphierenden Tieres, hrsg. von E. und P. R. Blum, 2009 ; vi. Die Kabbala des pegaseischen Pferdes, hrsg. von S. Kodera, 2009. Poemi filosofici latini : De triplici minimo et mensura - De monade, numero et figura - De innumerabilibus, immenso et infigurabili, ristampa anastatica delle cinquecentine, a cura di E. Canone, La Spezia, 2000. Opere italiane di Giordano Bruno, testi critici e nota filologica di G. Aquilecchia, introduzione e coordinamento generale di N. Ordine, Torino, 2002, 2 voll.  



berf boeuc















boi bol





bolul bom bomne bpa bsp bui bw













mmi oib



abbreviazioni e sigle

xiii

Documenti della vita di Giordano Bruno, a cura di V. Spampanato, Firenze, 1933. ebc Enciclopedia bruniana e campanelliana, diretta da E. Canone e G. Ernst : vol. i, cura redazionale di D. von Wille, Pisa-Roma, 2006 ; vol. ii, cura redazionale di G. Landolfi Petrone, Pisa-Roma, 2010. Firpo, Processo L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Roma, 1993. Salvestrini, Bibliografia V. Salvestrini, Bibliografia di Giordano Bruno (1582-1950), 2a ed. postuma a cura di L. Firpo, Firenze, 1958. Spampanato, Vita V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno, con documenti editi e inediti, Messina, 1921, 2 voll. Documenti





Tommaso Campanella Afor. pol. Antiveneti Apologia Apologia 2001 Apologia 2006 Art. proph. Astrol. Ateismo

Aforismi politici, a cura di L. Firpo, Torino, 1941, pp. 89-142. Antiveneti, a cura di L. Firpo, Firenze, 1944. Apologia pro Galileo, Francofurti, 1622, in Opera latina, i, pp. 475-532. Apologia pro Galileo / Apologie de Galilée, texte, trad. et notes par M.-P. Lerner, Paris, 2001. Apologia pro Galileo / Apologia di Galileo, a cura di M.-P. Lerner, trad. di G. Ernst, Pisa, 2006. Articuli prophetales, a cura di G. Ernst, Firenze, 1977. Astrologicorum libri vii, Francofurti, 1630, in Opera latina, ii, pp. 1081-1346. L’ateismo trionfato, a cura di G. Ernst, Pisa, 2004, 2 voll. (vol. i : edizione critica del testo ; vol. ii : ripr. anast. del ms. autografo). Atheismus triumphatus, in Atheismus triumphatus... De gentilismo non retinendo..., Parisiis, 1636, pp. 1-252. La Città del Sole, a cura di L. Firpo, nuova ed. a cura di G. Ernst e L. Salvetti Firpo, Roma-Bari, 1997 (e ristampe). Discorsi ai prìncipi d’Italia e altri scritti filo-ispanici, a cura di L. Firpo, Torino, 1945, pp. 91-164. Epilogo magno, a cura di C. Ottaviano, Roma, 1939. Ethica. Quaestiones super ethicam, a cura di G. Ernst in collaborazione con O. Catanorchi, Pisa, 2011. De gentilismo non retinendo, in Atheismus triumphatus..., Parisiis, 1636, pp. 1-63. Lettere, a cura di V. Spampanato, Bari, 1927. Lettere, a cura di G. Ernst, su materiali preparatori inediti di L. Firpo, con la collaborazione di L. Salvetti Firpo e M. Salvetti, Firenze, 2010. Medicinalium libri vii, Lugduni, 1635. Metaphysica, Parisiis, 1638 ; rist. anast. a cura di L. Firpo, Torino, 1961. Monarchia di Francia, in Monarchie d’Espagne et Monarchie de France, testo ital. a cura di G. Ernst, trad. fr. di N. Fabry, Paris, 1997, pp. 373-597. Monarchia del Messia, a cura di V. Frajese, Roma, 1995. Monarchia Messiae, Aesii 1633 ; rist. anast. a cura di L. Firpo, Torino, 1960.  



Ath. triumph. Città del Sole Discorsi ai prìncipi Epilogo Ethica 2011 Gent. Lettere Lettere 2010 Medic. Metaphysica Mon. Francia Mon. Messia Mon. Messiae







abbreviazioni e sigle

xiv Mon. Messiae 2002 Mon. Spagna Op. lat. Op. lett. Opusc. astrol. Opuscoli Phil. rat. Phil. Realis Phil. sens. Poesie

Monarchie du Messie, texte original introduit, édité et annoté par P. Ponzio, révision du texte latin par G. Ernst, trad. française par V. Bourdette, rév. par S. Waldbaum, Paris, 2002. Monarchia di Spagna, in Monarchie d’Espagne et Monarchie de France, testo ital. a cura di G. Ernst, trad. fr. di S. Waldbaum, Paris, 1997, pp. 1-371. Opera latina Francofurti impressa annis 1617-1630, rist. anast. a cura di L. Firpo, Torino, 1975, 2 voll. Opere letterarie, a cura di L. Bolzoni, Torino, 1977. Opuscoli astrologici. Come evitare il fato astrale. Apologetico. Disputa sulle Bolle, introduzione, traduzione e note di G. Ernst, Milano, 2003. Opuscoli inediti, a cura di L. Firpo, Firenze, 1951. Philosophia rationalis, Parisiis, 1638. Disputationum in quatuor partes suae philosophiae realis libri quatuor, Parisiis, 1637. Philosophia sensibus demonstrata, a cura di L. De Franco, Napoli, 1992. Poesie (Scelta d’alcune poesie filosofiche e Poesie non comprese nella « Scelta »), in Scritti lett. Poesie, a cura di F. Giancotti, Torino, 1998 ; a cura di F. Giancotti, Milano, 2013. De praedestinatione et reprobatione et auxiliis divinae gratiae cento Thomisticus, in Atheismus triumphatus..., Parisiis, 1636, pp. 64-326. Prodromus philosophiae instauranda, Francofurti, 1617, in Opera latina, i, pp. 28-86. Quaestiones physiologiae, morales, politicae, oeconomicae in Disputationum in quatuor partes suae philosophiae realis libri quatuor, Parisiis 1637. Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines terrae, a cura di R. Amerio, Padova, 1939 (ll. i-ii) ; Firenze, 1955 (l. iii, con il titolo Per la conversione degli Ebrei) ; Firenze, 1960 (l. iv, con il titolo Legazioni ai Maomettani). Tutte le opere di Tommaso Campanella, i : Scritti letterari, a cura di L. Firpo, Milano, 1954. Del senso delle cose e della magia, a cura di A. Bruers, Bari, 1925. Del senso delle cose e della magia, a cura di G. Ernst, Roma-Bari, 2007. De sensu rerum et magia, Francofurti, 1620 (in Opera latina, i, pp. 87-473). De sensu rerum et magia, Parisiis, 1637. De libris propriis et recta ratione studendi syntagma, a cura di V. Spampanato, Milano, 1927. Sintagma dei miei libri e sul corretto modo di apprendere / De libris propriis et recta ratione studendi syntagma, a cura di G. Ernst, PisaRoma, 2007. Theologia, a cura di R. Amerio, Firenze ; poi : Roma, 1949Tommaso Campanella, testi a cura di G. Ernst, introduzione di N. Badaloni, Roma, 1999.  

Poesie 1998 / Poesie 2013 Praedest. Prodromus Quaestiones Reminiscentur









Scritti lett. Senso delle cose Senso delle cose 2007 Sens. rer. 1620 Sens. rer. 1637 Syntagma Syntagma 2007 Theologia Tommaso Campanella







abbreviazioni e sigle Amabile, Castelli

xv

L. Amabile, Fra Tommaso Campanella ne’ castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, Napoli, 1887, 2 voll. ; rist. anast. Paris-Torino, 2006. L. Amabile, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, Napoli, 1882, 3 voll. ; rist. anast. con premessa di N. Badaloni e introduzione di T. Tornitore, con appendice di documenti editi e inediti a cura di L. Spruit e C. Preti, Paris-Torino, 2006. Enciclopedia bruniana e campanelliana, diretta da E. Canone e G. Ernst : vol. i, cura redazionale di D. von Wille, Pisa-Roma, 2006 ; vol. ii, cura redazionale di G. Landolfi Petrone, Pisa-Roma, 2010. L. Firpo, Bibliografia degli scritti di Tommaso Campanella, Torino, 1940. L. Firpo, I processi di Tommaso Campanella, a cura di E. Canone, Roma, 1998. L. Firpo, Ricerche campanelliane, Firenze, 1947.  

Amabile, Congiura



ebc





Firpo, Bibliografia Firpo, Processi Firpo, Ricerche

on-line agb atc

Archivio Giordano Bruno Archivio Tommaso Campanella  



enciclopedia bruniana

ENCICLOPEDIA BRUNIANA

Anassagora (Anaxagoras) Nonostante in età rinascimentale la ripresa di temi anassagorei sia un tratto caratterizzante in diversi autori e discipline (per es. l’alchimia), manca tuttora uno studio specifico dedicato all’influenza del filosofo di Clazomene nel pensiero filosofico del Rinascimento e della prima età moderna [1]. Per quanto concerne l’accessibilità del pensiero di Anassagora, va segnalato che alcune notizie circa le sue dottrine erano disponibili attraverso le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, gli scritti di Aristotele e i relativi commentari, sia di Simplicio sia di Averroè, come pure di Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Non ultimo va ricordato il suggestivo brano del Fedone platonico (97c-98c), in cui Socrate racconta della gioia provata nella lettura dello scritto di Anassagora in cui finalmente l’idea di una mente ordinatrice sembrava superare l’insoddisfacente rappresentazione della natura proposta dai ‘fisici’ ; gioia che presto si mutò in delusione, constatando che dall’intuizione del nous Anassagora non traeva le necessarie conseguenze filosofiche : si rendeva allora necessaria per lui una « seconda navigazione ». La presente voce si articola in tre punti : il primo dedicato all’esame dell’espressione omnia in omnibus ; il secondo al ruolo di Anassagora nella schiera dei sapienti dell’Antichità che meglio di Aristotele avrebbero saputo comprendere la natura delle cose ; il terzo al ruolo della mano nel processo di evoluzione dell’uomo dallo stato naturale a quello civile. Tranne in quest’ultimo caso, mi limiterò a esaminare i soli luoghi in cui il nome del filosofo di Clazomene è apertamente richiamato negli scritti di B. 1. Omnia in omnibus. — Uno dei motivi più indagati del pensiero bruniano è quello genericamente condensato nell’espressione « omnia in omnibus ». La formula, che può essere ricondotta alla sintesi del pensiero anassagoreo presentata da Simplicio nel frammento dk b6 [2], era già divenuta in qualche modo tecnica nel neoplatonismo tardo ; ricorre  



















infatti nella Sentenza 10 di Porfirio, nell’Elementatio Theologica di Proclo (prop. 103), nello pseudo Dionigi (De div. nom. iv, 7) nel De civitate Dei di Agostino (xxii, 30), fino a divenire un motivo costante della patristica e della filosofia medievale, sulla scia della prima lettera di Paolo ai Corinti (15, 28), dove l’espressione ricorre nella chiave escatologica che si ritroverà fino a Scoto Eriugena (Periphyseon v, 997d). L’espressione è variamente presente negli scritti di B., e solo in alcuni casi è accompagnata da un esplicito riferimento ad Anassagora. Già nel De compendiosa architectura, pubblicato da B. a Parigi nel 1582, lo stesso anno in cui a Parigi B. dà alle stampe – oltre al Candelaio – il De umbris idearum e il Cantus Circeus, si incontra un richiamo esplicito ad Anassagora nel corso della spiegazione della quarta figura preposta alla « mediorum multiplicatio et inventio » (produzione e moltiplicazione di termini medi dei sillogismi) al fine di trovare e ricordare tutte le modalità per argomentare correttamente a favore di una tesi. Nel caso specifico la tesi è quella dell’eternità del mondo, dimostrata dal filosofo – dice B. – « per rationes mundi, quae non excludunt aeternitatem, per rationem aeternitatis, quae non abhorret mundi adiacentiam, item ex ratione boni mundi, magnitudinis mundi, item ratione boni aeternitatis, magnitudinis et caeterorum, item per observantiam partium et modum circumstantiarum, quibus omnia multiplicari ostendimus, adeo ut omnia in omnibus cum Anaxagora liceat contemplari » [3]. L’uso corretto della quarta figura consente dunque a chi esercita l’ars di divenire esperto nell’individuazione di argomentazioni, riuscendo a moltiplicarle all’infinito tanto da inverare il detto anassagoreo. Il vantaggio nella sfera conoscitiva non sembrerebbe qui avere particolari legami con l’ontologia, che in questo testo resta al più sullo sfondo, ma che presto diverrà il cardine della filosofia nolana. Nel Sigillus sigillorum, pubblicato a Londra nel 1583, questa ontologia è già pienamente definita e messa a servizio dell’ars. Nella de 







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scrizione del secondo dei rectores actuum che guidano l’intelligenza, l’ars appunto, B. conclude che per raggiungere un’arte perfetta e assoluta è necessario congiungersi con l’anima del mondo e operare in unione con essa. Pervasa com’è di principi razionali, essa genera un mondo ugualmente disseminato di principi razionali che – sulla scorta di Plotino [4] – B. sostiene plasmino e formino il tutto « quasi exiguos quosdam mundos » [5]. Ecco allora che, essendo l’anima del mondo presente tutta in tutto e in qualsivoglia parte, in ogni realtà – « etiam exigua et abscissa » – sarà possibile scorgere un vero e proprio mondo e non solo un suo simulacro, tanto da poter concludere con Anassagora che tutto è in tutto. Il riferimento al filosofo greco è quindi funzionale in questo passaggio alla definizione di un nuovo rapporto tra arte e natura, un rapporto che non è più solo mimetico ma si fonda sull’idea di natura animata che esplica dall’interno le forme che di volta in volta si presentano e che sarà a sua volta tema centrale delle successive opere bruniane. Su questo presupposto si costruisce infatti il recupero de « L’opinion d’Anaxagora, che voleva ogni cosa essere in ogni cosa », nel corso dell’argomentazione svolta nel dialogo secondo del De la causa, quando – parlando della capillare diffusione dello spirito o anima universale – si deduce che tutte le cose hanno vita e, con uno scarto ulteriore, che « da tutto si può produr tutto » [6]. In una singolare contaminazione con la dottrina neoplatonica che giustifica teoricamente anche le pratiche magiche e teurgiche, la formula anassagorea è invocata per rendere ragione delle proprietà di « lapilli e gemme, [...] sterpi e radici smorte, [...] ossa de morti » e di ogni piccolo frammento di realtà che, per quanto possa sembrare privo di sensibilità e vita, conserva tuttavia in sé una scintilla dell’anima del mondo. Inutile sottolineare l’importanza che questo tema continuerà ad avere nel dialogo come pure nel De l’infinito, nello Spaccio, nel De immenso [7] e negli scritti bruniani di argomento magico, che insisteranno – questi ultimi – proprio sull’aspetto praticooperativo che si fonda sull’idea dell’animazione universale (↗ magia).  



















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Che il tema anassagoreo qui evocato derivi a B. dalla lettura del secondo libro, cap. 5, del De docta ignorantia di Cusano (↗ Cusano) è stato suggerito da più parti, anche se l’interpretazione cusaniana dell’adagio anassagoreo ha accenti diversi, che insistono sul rapporto di mediazione tra Dio e la pluralità delle cose garantita dall’universo (« Non est ergo aliud dicere ‘quodlibet esse in quolibet’ quam deum per omnia esse in omnibus et omnia per omnia esse in deo » ; in Philosophisch-Theologische Werke, i, Hamburg, 2002, 36). La formula anassagorea proposta in questa pagina cusaniana suona « quodlibet esse in quolibet », e riecheggia la traduzione di Guglielmo di Moerbeke (« quodlibet ex quolibet ») di un passo della Physica aristotelica [8]. In B. si ritrova invece più facilmente la formula omnia in omnibus (presente anche nel testo cusaniano, nella spiegazione dell’Anaxagoricum fundamentum di De docta ignorantia ii, 5 come pure in altre opere) e che leggiamo anche nella Lampas triginta statuarum nella descrizione della superna triade : plenitudo seu mens innominabilis et incircumscriptibilis, Apollon et spiritus seu lux. Del padre, ovvero mente e pienezza, « Dicitur omnia in omnibus : ex hac ratione – quia ipse totus est ubique praesens – dixisse creditur Anaxagoras “omnia in omnibus esse”, quia qui est omnia, est in omnibus » [9]. E in effetti il debito nei confronti di Cusano in queste pagine è evidente anche nelle argomentazioni che precedono e che seguono il richiamo alla formula anassagorea. Ma lungi dall’essere riferito al solo principio supremo o mente ineffabile, l’adagio anassagoreo viene chiamato in causa anche nella descrizione della statua di Teti, intesa come il sostrato o causa materiale, in cui sono latenti e implicate tutte le forme : « in omni physico subiecto virtus omnium formarum pro capacitate in unitate formae, sicut et in unitate materiae fundamentum omnium potentiarum concurrunt. Unde “omnia in omnibus” intellexit Anaxagoras » [10]. La formula si mostra quindi applicabile a diverse situazioni e in effetti B. sembra talvolta stiracchiarne il senso e mettere quasi a riparo sotto l’autorità anassagorea considerazioni di portata diversa. Così per esempio  



























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nell’Argomento dei Furori cercando di definire – anche in relazione al senso allegorico con cui veniva letto il Cantico dei Cantici – il valore delle metafore disseminate nel suo canzoniere filosofico (che non a caso aveva in origine pensato di intitolare Cantica), B. respinge l’ipotesi di lettura che in molti avrebbero potuto dare del dialogo, considerandolo il frutto dell’ispirazione di un amore ordinario, « il quale appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali e dovenuto eroico ; come è possibile di convertir qualsivoglia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e transferirle in virtù di metafora e pretesto d’allegoria a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a stiracchiar gli sentimenti, e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in tutto disse il profondo Anaxagora » [11]. Il nome di Anassagora si incontra ancora nell’ultimo dei dialoghi pubblicati a Londra, nella descrizione della « venazione della verità », dove al filosofo di Clazomene viene affiancato Empedocle, in una visione condivisa della venatio della divinità associata all’immanenza della natura, che altrove – nello Spaccio soprattutto – B. attribuisce agli Egizi [12]. 2. Anassagora tra i sapienti dell’Antichità. — Più volte il nome di Anassagora viene evocato insieme a quello di altri sapienti dell’Antichità, per lo più i ‘fisici’ presocratici, ma non solo, tra quanti hanno in qualche modo compreso gli arcana naturae. In una lettura eclettica dei diversi « modi di filosofare » che in qualche modo conducono al vero, Anassagora è ricordato più volte nel De la causa, a partire dal dialogo secondo, quando si cerca di determinare il rapporto tra forma e materia, fino a definire la prima come « inexistente, associata, assistente » della seconda [13]. Nel rapporto di mutua determinazione tra le due, Dicson intuisce la possibilità di recuperare le opinioni di alcuni filosofi antichi, primo tra tutti il Clazomenio : « Dumque in certo modo approvate il senso di Anaxagora che chiama le forme particolari di natura “latitanti”, alquanto quel di Platone che le deduce da le idee, alquanto quel di Empedocle che le fa provenire da la intelligenza, in certo modo quel di Aristotele che le fa come uscire  





















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da la potenza de la materia ? » [14]. In un analogo contesto – giudicando ugualmente validi approcci conoscitivi diversi che rivelino poi possibilità di applicazioni pratiche utili a chi se ne serva – B. richiama Anassagora nel iii dialogo, dopo gli epicurei ed Eraclito, individuando nella nozione di un intelletto che opera « non solamente entro a quella , ma fuori, e sopra forse » (e si può scorgere qui un riferimento, forse anche polemico, alla lettura del pensiero anassagoreo riportata nel Fedone platonico alla quale si accennava in apertura), la ragione per cui il filosofo ha potuto trarre vantaggio dalla sua conoscenza, perché, pur nella diversità dei metodi e dei punti di partenza, ogni sistema filosofico è buono quando permetta di cogliere « frutti desiderabili » [15]. Diverso sapore ha il recupero della filosofia presocratica nel Camoeracensis acrotismus, pubblicato a Wittenberg nel 1588 ma originato dalla discussione accademica tenutasi due anni prima a Parigi e di cui i Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus Peripateticos rappresentano la costola iniziale. Se con la disputa parigina l’intento di B. era – come si legge nelle lettere di Jacopo Corbinelli a Giovan Vincenzo Pinelli – « lavato il capo al povero Aristotele », quello di « destruggere tutta la filosophia peripatetica », il recupero della filosofia della natura ispirata ai presocratici diventa funzionale, in questi scritti, alla battaglia antiaristotelica, combattuta sul filo di commentari serrati e puntuali alla Fisica e al De coelo dello Stagirita. Non è un caso che percentualmente il nome di Anassagora si trovi citato in questo gruppo di scritti (al quale si riconducono anche la Figuratio pubblicata a Parigi nel 1586 e i Libri Physicorum Aristotelis explanati, redatti nello stesso scorcio di tempo e pubblicati postumi nel 1891) più che nel resto delle opere bruniane. Nell’Acrotismus l’attacco serrato al concetto di materia sostenuto da Aristotele comincia con una sorta di accerchiamento progressivo che prende le mosse dalla critica dell’approccio logico-matematico alle realtà di natura e si fonda sulla concezione che più rispondente al vero sia l’ipotesi che i semplici e i composti particolari siano il risultato di un processo di  



















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separazione dall’unico caos originale piuttosto che il prodotto dell’unione degli elementi [16] ; in questa fase non si fa cenno esplicito ad Anassagora ma certamente il riferimento al caos originario ricorda il migma anassagoreo, il chaos Anaxagoricum della Lampas [17]. L’avvicinamento alle conclusioni di Anassagora si svela progressivamente ma non è ancora esplicito nell’art vi, in cui si introduce l’idea di una mente ordinatrice e separatrice che insieme allo spirito vivificante è preposta alla generazione e alla vicissitudine degli enti che si originano dal caos. È solo nell’art. viii che il suo nome viene introdotto in modo scoperto, a proposito della concezione della materia, sulla natura della quale, a qualcuno che gli facesse una domanda diretta, Anassagora risponderebbe « compactum, compositum, confusum, mixtum quoddam » [18] ; B. ricava liberamente questa definizione da quanto Aristotele scrive a proposito delle dottrine anassagoree in Physica i, 4, 187a 20- b7 e in Metaphysica i, 8, 989a 30 sgg., concludendo con la coincidenza della posizione anassagorea e quelle di Empedocle, Melisso, Democrito, Pitagora (↗ Pitagora), Platone. Ancora un richiamo esplicito ad Anassagora si legge nell’art. xxiii, in cui si sostiene che a torto Aristotele avrebbe biasimato Anassagora per aver sostenuto che l’infinito tiene fermo se stesso [19]. Un ulteriore richiamo al filosofo di Clazomene è nell’art. xlii, relativamente alla divisibilità all’infinito di una grandezza fisica che, come è noto, B., qui come nel De minimo [20], nega attraverso la teorizzazione di un minimo indivisibile nel quale ha termine il processo di divisione (↗ minimo). Per Aristotele invece la grandezza, pur non infinita in atto, è potenzialmente divisibile all’infinito (Physica iii, 6, 206a 9-18) e pertanto secondo B. è del tutto ingiustificata la sua aspra battaglia contro la posizione di Anassagora che aveva sostenuto che nell’infinito « esse infinita infinities » [21]. Altro riferimento esplicito ad Anassagora si legge nell’art. lix a proposito dell’uso del termine ‘etere’ che Anassagora sbaglierebbe – sempre che non sia Aristotele, aggiunge B., a travisare la sua opinione, come è solito fare con tutti – a considerare assimilabile al  











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fuoco, anziché ricondurre il nome all’etimologia attestata nel Cratilo 410b [22], che designa con esso l’‘astro che corre’ [23]. Nell’art. lxiii infine il nome di Anassagora è collegato alla teoria della vicissitudine che scandisce il ritmo incessante della generazione e della corruzione (↗ vicissitudine) [24]. 3. La mano, organo degli organi. — Un tema cruciale nella riflessione bruniana che può essere ricondotto a un motivo anassagoreo, anche se B. in questo contesto non cita esplicitamente Anassagora, è quello della mano e della sua centrale importanza nella determinazione della natura propria dell’uomo e del suo ruolo nel mondo. La posizione di Anassagora su questo punto ci viene riportata da Aristotele nel De partibus animalium (iv, 10, 687a 7-12) : « Anaxagora igitur hominem prudentissimum omnium animalium esse ait, quoniam unus omnium manus obtinet, sed recta ratio exigit ut quoniam prudentissimum omnium ideo manus receperit » [25]. Le mani sono solo uno strumento – incalza Aristotele – e la natura distribuisce sempre come un uomo di senno a ciascuno ciò di cui egli sa usare. Aristotele confronta quindi esplicitamente la sua posizione con quella anassagorea, rilevandone l’antiteticità : mentre nella visione finalistica di Aristotele l’uomo viene in possesso dello strumento mani perché sa farne uso, essendo il più intelligente degli animali, per Anassagora è piuttosto il possesso delle mani e il suo utilizzo a fare dell’uomo la creatura più intelligente. La posizione anassagorea viola dunque il principio cardine della psicologia aristotelica, in quanto spiega l’intelligenza attraverso la struttura fisica anziché attraverso sé stessa. Ugualmente finalistica è la posizione assunta a questo proposito da Galeno nel De usu partium corporis humani (i, 2 e ii, 1), come pure da Alberto Magno (De animalibus xiv, tr. ii, 2 e viii, tr. vi, 1-2). Per questi autori l’uomo è in un certo senso depositario di una virtus che gli è stata donata e l’esercizio della quale lo porta a essere superiore agli altri viventi ; si tratta quindi di una superiorità concessa e non conquistata attraverso lo sforzo, il lavoro, il progresso, elementi essenziali – si vedrà – nella rilettura bruniana [26].  









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Si tratta di un tema che B. affronta più volte nell’arco della sua produzione e che viene svolto secondo prospettive diverse. Alla mano – oltre che alla lingua – B. riconduceva il potere dell’uomo sulla natura, voltosi poi in strumento di sopraffazione e di corruzione dell’ordine dell’universo nel Cantus Circeus ; dopo l’incantesimo di Circe, che ristabilisce la corrispondenza tra la natura spirituale e l’aspetto esteriore dell’uomo, questi si mostra nella sua vera essenza ed esibendo corna, aculei, unghie e denti affilati, suscita in Meri un timore che non era in grado di originare quando il suo aspetto esteriore era tanto diverso dalla sua natura spirituale. In realtà, spiega Circe, nonostante l’aspetto minaccioso, l’uomo è assai meno temibile di prima, avendo perso la sua principale capacità offensiva, che risiede nella lingua e ancor più nelle mani : « Nescis eum, qui manu armatur, magis omnibus armari ? Nescis manum omnibus carere armis, ut omnibus praepotens esse possit armis ? Ignoras ipsam sibi et aculeos, venena, et cornua et dentes adaptantem, a nullis sibi timere bestiarum insultibus et eo tantum instrumento animantibus omnibus quae videntur, imperare consuevisse ? » [27]. L’uomo che aveva trasformato le mani in strumento privilegiato di offesa e di sopraffazione, privato della sua arma principale dall’incantesimo di Circe, si tramuta in bestia ma paradossalmente – proprio attraverso la sua bestialità – l’universo riconquista l’ordine e la pace dissipati dall’uso degenerato di questo strumento supremo. In una prospettiva assai mutata questo tema torna nei dialoghi morali ; nello Spaccio la mano è lo strumento che fa dell’uomo la creatura cui gli dei hanno riservato un destino speciale e superiore a quello di tutti i viventi : « Gli dèi aveano donato a l’uomo l’intelletto e le mani, e l’aveano fatto simile a loro donandogli facultà sopra gli altri animali ; la qual consiste non solo in poter operar secondo la natura et ordinario, ma et oltre fuor le leggi di quella : acciò (formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno, con quella libertade senza la quale non arrebbe detta similitudine) venesse ad serbarsi dio de la terra » [28].  

























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La mano è l’organo che garantisce la divinità dell’uomo, la sua capacità di agire sulla natura creando realtà nuove e percorsi originali, non solo attraverso un uso regolato delle proprie risorse intellettuali, ma attraverso un equilibrio sapiente tra queste e le capacità pratiche, operative : « ha determinato la providenza che vegna occupato ne l’azzione per le mani, e contemplazione per l’intelletto ; de maniera che non contemple senza azzione, e non opre senza contemplazione » [29]. Si è voluta rilevare da più parti in questi passaggi bruniani una polemica aperta contro la pedanteria e l’ozio riformato, che si sarebbe acutizzata sempre di più nelle pagine della Cabala del cavallo pegaseo, dove il tema della mano ritorna e si intreccia fortemente con l’ontologia bruniana definita già nel De la causa, riecheggiando il passaggio aristotelico che commentava Anassagora. L’anima dell’uomo, vi sostiene B., non si distingue in alcun modo da quella degli altri viventi e le capacità che essa mostra in una particolare struttura corporea sono determinate dagli strumenti fisici che in questa si trova a vivificare ; l’anima dell’uomo e quella delle bestie non differiscono « se non in figurazione » [30]. Il discorso di B. va oltre, azzardando che un serpente, se mutasse completamente la sua struttura corporea, guadagnando gambe e braccia, testa, lingua « intenderebbe, apparirebbe, spirarebbe, parlerebbe, oprarebbe e caminarebbe non altrimente che l’uomo ; perché non sarebbe altro che uomo » [31]. Lo stesso accadrebbe all’uomo, cioè l’uomo diverrebbe serpente, « s’incolubrerebbe », se la sua struttura fisica mutasse tanto da far contrarre le sue ossa in un’unica spina, se perdesse braccia e gambe : « All’ora arebbe più o men vivace ingegno, in luogo di parlar sibilarebbe, in luogo di camminare serperebbe, in luogo d’edificarsi palaggio si cavarebbe un pertuggio, e non gli converrebbe la stanza, ma la buca ». È nella complessione organica dunque che risiede la differenza tra i viventi mentre una sola è l’anima che informa le innumerevoli possibili configurazioni corporee. La conseguenza che B. ne trae sul piano dello sviluppo dell’uomo come « trionfatore veramente invitto sopra  































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l’altre specie », si spinge a considerare non l’ingegno, ma la mano – aristotelicamente definita « organo degli organi » [32] – come lo strumento principale e la ragione ultima del costituirsi di rapporti sociali, famiglie, istituzioni che si raccolgono attorno alle strutture architettoniche e gli edifici che distinguono l’uomo dagli altri viventi [33] e ne segnano il « passaggio dalla natura alla cultura ». [34] In questa ripresa della posizione anassagorea B. mostra l’assimilazione della critica lucreziana alla concezione finalistica degli organi corporei [35] e ribadisce che il possesso della mano consente all’uomo comportamenti naturali diversi da quelli degli altri viventi, permette di operare sulla natura in una catena di esperienze che modificano il suo modo di orientarsi nel mondo e relazionarsi alle cose, segnando il progresso dalla dimensione bestiale a quella divina. Come è stato sottolineato da Papi, questo tema si connette sia con la critica bruniana del mito dell’età dell’oro sia con quello – allora nascente – del buon selvaggio. E se è vero che l’elogio della mano nel Cinquecento si avviava a diventare un topos letterario [36], in B. questa ripresa del tema anassagoreo si caratterizza in modo specifico nel momento in cui si innesta su un’ontologia del tutto originale e su una visione del mondo e dello sviluppo della civiltà che sono peculiari del suo pensiero.  









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662. – [7] Cfr. in part. v, 9. – [8] Cfr. iii, 4, 203a 24. Quodlibet est in quolibet con riferimento ad Anassagora si legge anche in Alberto Magno, In Phys., iii, 2, c. 1, e in Tommaso d’Aquino, In Phys., i, 4 l. 9 e iii, 4 l. 6. – [9] bom 1020. – [10] Ivi, 1136. – [11] oib ii 496-497. – [12] Cfr. oib ii 693. – [13] oib i 668. – [14] Ibidem. L’aggettivo ‘latitanti’ riferito alle forme riecheggia in modo esplicito quanto si legge nel i libro del De rerum natura (vv. 875-879) di Lucrezio, autore – come noto – particolarmente caro a B. – [15] oib i 690-691 ; cfr. Camoer. acrot., art. vi, spiegazione. – [16] Cfr. art. vii. – [17] Cfr. bom 1132 : « Facultas generalis, qua in omnes formas deteriores facile mutatur, per Chaos Anaxagoricum, in quo est inchoatio omnium formarum, veluti in confuso et mixto, quod forte est Thetidis speculum, in quo non se uniformem et explicitam, sed in quadam confusione et implicatione omniformem contemplatur ». cfr. Causa, oib i 719 : « la natura de la sua materia fa tutto per modo di separazione, di parto, di effusione, come intesero i Pitagorici, comprese Anassagora e Democrito, confirmorno i Sapienti di Babilonia, a i quali sottoscrisse anco Mosè ». – [18] bol i,i 102. – [19] Cfr. Physica, iii, 5, 205b 1-24 e il suo riecheggiamento in Figuratio, bol i,iv 170. – [20] Cfr. bol i,iii 149168. – [21] bol i,i 154. – [22] Cfr. De coelo, i, 3, 270b 17-25. – [23] Su questo tema cfr. Articuli, bca n. 67, 23 ; Cena oib i 437 e 547 ; De immenso, bol i,i 377 e i,ii 4 e 78-80. – [24] bol i,i 175. – [25] La traduzione del passaggio aristotelico è di Teodoro di Gaza, cit. in S. Toussaint, Sul mito della mano in B. e in Ficino, in Vie Solitaire, Vie Civile. L’Humanisme de Pétrarque à Alberti, éd. par F. Labrasca et alii, Paris, 2011, 587-599 : 589 nota 9. – [26] Su questi temi cfr. J. Brun, La main et l’esprit, Paris, 1963, in part. cap. i e l’ancora attuale F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di G. B., Firenze, 1968, in part. cap. vi.1. – [27] bomne i 622. – [28] oib ii 323-324. – [29] Ivi, 324. – [30] oib ii 452 : « Quella de l’uomo è medesima in essenza specifica e generica con quella de le mosche, ostreche marine e piante, e di qualsivoglia cosa che si trove animata o abbia anima ». – [31] Ivi, 453. – [32] De anima, iii, 8, 432a 1. – [33] Cfr. oib ii 454. – [34]. L’espressione si legge in Papi, Antropologia e civiltà, 240. – [35] Cfr. De rerum natura, iv, v. 820 sgg. ; Papi, Antropologia e civiltà, 243. – [36] Si deve ancora a Papi l’aver messo in evidenza la presenza di questo tema in Pierre de Ronsard – Paradoxe, 1571 – rilevandone l’affinità con le posizioni bruniane, poi discusse in M. Ciliberto, La ruota del tempo. Interpretazione di G. B., Roma, 1986, 79-83 e N. Ordine, La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in G. B., Napoli,  

















Note. [1] I riferimenti nella letteratura secondaria al rapporto tra la filosofia di Anassagora e i suoi interpreti rinascimentali – da Cusano a B. – si rivelano spesso piuttosto generici ; un contributo puntuale sul tema è invece quello di Andrzej Nowicki, Alchemiczna tresc mitów a filozoficzna antropologia Giordana Bruna (« Euhemer », lxxiii, 1969, 3, 57-67), segnalato da Giovanni Aquilecchia nelle note al De la causa (cfr. oib i 661, nota 57) : si tratta in effetti di un saggio in cui la presenza di Anassagora nel pensiero di B. viene circoscritta al tema dell’omnia in omnibus e inserita sullo sfondo delle dottrine alchemiche che da questo presupposto ricavavano conseguenze nella pratica dell’‘opera’ ; in esso si ipotizza un’influenza diretta del Lignum vitae di Giovanni Bracesco nella ripresa del tema anassagoreo da parte di B. – [2] Cfr. anche dk b11 e b12. – [3] bol ii,ii 53. – [4] Cfr. Enneadi, iv, 3, 10. – [5] bomne ii 258. – [6] oib i 661 



















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1987, 45-50 ; tuttavia già Palingenio, Zodiacus vitae, Leo, vv. 235 sgg., aveva proposto conclusioni in qualche modo affini a quelle cui approderà B. nello Spaccio e nella Cabala ; su questo argomento si vedano le pagine efficaci di A. Ingegno, Cosmologia e filosofia nel pensiero di G. B., Firenze, 1974, 231 sgg. e F. Bacchelli, Filosofia naturale e simpatia universale. Schede sul dibattito attorno alla razionalità dei bruti tra Quattro e Cinquecento, in La magia nell’Europa moderna. Tra antica sapienza e filosofia naturale, Atti del Convegno (Firenze, 2-4 ottobre 2003) a cura di F. Meroi, con la collaborazione di E. Scapparone, Firenze, 2007, 247-281 : 276-278. In un contesto completamente diverso, in cui si accoglie la visione finalistica aristotelica, il tema della mano era presente in M. Ficino, Theologia platonica, x, 2 e xiii, 2 e 4, e in T. Campanella, Senso delle cose 2007, 93 sgg., ed Epilogo, 337-338. Un’interessante raccolta di studi sul tema della mano, da prospettive e contesti assai eterogenei, si può leggere nel volume All’incrocio dei saperi : la mano, Atti del Convegno di studi (Padova, 29-30 settembre 2000), a cura di A. Olivieri, Padova, 2004.  







Bibliografia. F. Papi, Antropologia e civiltà nel pensiero di G. B., Firenze, 1968 ; A. Nowicki, Alchemiczna tresc mitów a filozoficzna antropologia Giordana Bruna, « Euhemer », lxxiii, 1969, 3, 57-67 ; M.L. Silvestre, Anassagora nella storiografia filosofica. Dal v sec. a.C. al vi sec. d.C., Roma, 1989 ; A. Montano, La mente e la mano. Aspetti della storicità del sapere e del primato del fare in G. B., Napoli, 2006 ; S. Toussaint, Sul mito della mano in B. e in Ficino, in Vie Solitaire, Vie Civile. L’Humanisme de Pétrarque à Alberti, éd. par F. Labrasca et alii, Paris, 2011 ; E. Fantechi, Anassagora, in G. B. Parole, concetti, immagini, dir. scientifica di M. Ciliberto, 3 voll., Pisa, 2014, i, 83-86.  













Delfina Giovannozzi atomo (atomus)

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to (12). Nonostante la nozione di atomo trovi un ampio e rilevante spazio nella filosofia di B., potrebbe apparire improprio classificare la fisica bruniana come ‘atomismo’, per le seguenti ragioni : a) B. non ci ha lasciato alcuna opera dedicata specificamente all’atomo, ma piuttosto al minimo e alla monade ; b) l’atomismo bruniano non è semplicemente una teoria sulla costituzione della materia fisica, bensì una spiegazione delle grandezze fisiche e geometriche, a partire ex indivisibilibus o ex minimis, con un chiaro riferimento alla discussione aristotelica tardo medievale sulla composizione del continuum ; c) la struttura atomica non risulta inerire a tutta la materia corporea, ma soltanto alla natura ‘arida’, fondamento dell’elemento terra, mentre gli altri elementi naturali presentano una struttura continua, non discreta ; d) l’atomismo bruniano non è accompagnato, come ci si potrebbe aspettare, da una concezione meccanicistica e deterministica del movimento, ma, al contrario, da una spiegazione vitalistica e organicistica : ciò costituisce la ragione per cui B., dopo avervi aderito per un certo periodo, si discosta dal materialismo degli atomisti antichi [1]. Come altri pensatori della prima età moderna, B. elabora una filosofia della natura difficilmente classificabile sia a partire dalle categorie della scienza antica, sia da quelle della scienza moderna. 2. Atomo e minimo. –– Il De minimo, che come si è rilevato contiene la più ampia trattazione dell’atomo, definisce quest’ultimo come una delle tre specie di ‘minimo’ che sono : il punto (minimo geometrico), l’atomo (minimo fisico) e la monade, cioè l’unità, considerata sia in ambito razionale, come il minimo dei numeri, sia in ambito metafisico, come minimo ontologico [2]. L’atomo dunque è il minimo corpo, sostanza di tutti i corpi composti (« ad corpora ergo respicienti omnium substantia minimum corpus est seu atomus »), essenza del composto, che, per contro, risulta accidentale rispetto all’atomo (« compositio accidit atomo, et atomus est essentia compositi » [3]). L’esigenza di pensare l’essere e la grandezza – fisica, numerica e geometrica – a partire da unità indivisibili e di fondare dunque il concetto di atomo su  













1. Atomo e atomismo. –– Utilizzato sia come sostantivo, sia come aggettivo di ‘sostanza’, ‘natura’ e ‘corpo’, il termine atomo e il suo corrispondente latino atomus ricorrono nell’intero arco della produzione bruniana. Il numero maggiore di occorrenze si riscontra nel De minimo (81), nel De immenso (38), nel De rerum principiis (18) e nel De l’infini-







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quello del minimo, della monade e dell’unità è già delineata nei dialoghi italiani. In particolare, nel De la causa la necessità di « riferire la moltitudine e diversità di specie a una e medesima radice » [4], ossia a « un prinicipio individuo » [5], risponde pienamente all’impianto ontologico bruniano di derivazione cusaniana, che concepisce l’essere come uno, coincidenza degli opposti, di minimo e massimo, di atomo e immensità, per cui « l’uno, l’infinito, lo ente, e quello che è in tutto, è per tutto, anzi è l’istesso ubique ; e [...] cossì la infinita dimensione, per non essere magnitudine, coincide con l’individuo, come la infinita moltitudine, per non esser numero, coincide con la unità » [6]. Nel De la causa, B. prende le distanze dall’atomismo antico di « Democrito [...] e gli Epicurei », poiché esso riduce « la sustanza de le cose » alla « materia sola », mentre « è necessario conoscere nella natura doi geni di sustanza, l’uno che è forma, e l’altro che è materia », ovvero « un atto sustanzialissimo, nel quale è la potenza attiva di tutto ; et ancora una potenza et un soggetto, nel quale non sia minor potenza passiva di tutto » [7]. Nel De minimo B. conferma l’esigenza di distinguere nella natura un principio attivo e uno passivo. Nel cap. iii del primo libro, dove con esplicito riferimento alla metempsicosi pitagorica viene sostenuta l’immortalità dell’anima, B. parla infatti di uno « spiritus architectus » [8] che agisce internamente alla materia, aggregando gli atomi intorno a un centro in modo tale da costituire l’individuo corporeo. Questo ‘spirito’ si dipana dal centro del corpo verso la periferia promuovendo lo sviluppo e l’organizzazione delle parti dell’individuo, fino a che, « trascorso il tempo e infranto lo stame della vita, si ricomprime nel centro e nuovamente si espande nello spazio infinito : tale evento viene solitamente identificato con la morte » [9]. Nel cap. ix dello stesso libro del De minimo, B. distingue i principi materiali (ossia la luce, la natura umida e gli atomi, « seu arida ») da una sostanza non materiale, che identifica con la « vim vero animalem ita individuam, ut tota sit in toto et singulis partium, a loci atque temporis conditionibus nihilum per se citra compositionem  



















































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patiens » [10]. Tuttavia questa distinzione – come quella tra spirito e corpo, principio attivo e principio passivo del De la causa – assume i contorni di una distinzione logica, a posteriori, concepita da un intelletto finito il quale riesce a comprendere come tutto sia uno, solo mediante un procedimento analitico che separa ciò che nella sostanza è indivisibile. Questa lettura è confermata dalla definizione bruniana dell’atomo-minimo quale centro di energia vitale, messa in evidenza anche da recenti studi sull’argomento [11]. 3. Atomo e ‘vis animalis’. –– La definizione di atomo come specie di minimo, espressa in particolar modo nel primo dei poemi francofortesi, consente infatti a B. di identificare la minima dimensione corporea con la massima, ossia con l’infinito e con il tutto. In quanto « minimum naturae » [12], l’atomo è la contractio di tutta la dimensione corporea e di tutta la forza vitale che, secondo un duplice perpetuo movimento, dall’atomo si dipana verso il grande e il massimo, dando luogo alla nascita e allo sviluppo dell’individuo corporeo, e nell’atomo infine si ricontrae al momento della morte del corpo. Negli stessi termini viene spiegato il ciclo vitale degli enti negli Articuli adversus mathematicos : « minimi explicatio, seu centri in circumferentiam expansio, generatio est, circumferentiae vero in centrum contractio mors physice loquendo » [13]. Nel De minimo diviene ancora più evidente che l’atomo costituisce un nucleo di energia potentissimo, coincidente ontologicamente con la sfera infinita : « sine fine globus nihil est nisi centrum ubique. / Quare hic simpliciter centrum est, minimumque per omne / totum se fundens, verum, unum, semper, in omni / omneque compositum in minimum revocabitur, ut sit » [14]. Il minimum naturae contiene in sé le energie vitali (« vires ») dell’ente sensibile, per quanto grande questo possa essere, e le esplica in modo mirabile (« explicat alte »). Infatti il minimo supera straordinariamente in energia (« praecellit robore mire ») qualsiasi mole corporea che da esso si sviluppa. Esso coincide con la facoltà naturale del corpo di accrescersi e rafforzarzi (« virtus subiectum corpus audagens, / confirmans »), la quale,  

































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tenendo unite attorno a sé le parti corporee, costituisce e conserva in vita l’ente fisico (« partesique quod eius nectit in unum, / seque ipsum et circum sese isthaec omnia servat ») [15]. La potenza dell’atomo, in quanto minimo, non si riduce dunque alla potenza passiva propria della materia sensibile, ma implica anche quella attiva, vitale e ordinatrice propria del principio formale. Il minimo infatti è « potentissimum omnium », in quanto « eius est componere, augere, formare, et tandem esse compositum, formatum atque magnum usque ad maximum » [16]. L’atomo viene infine paragonato a Dio : in senso assoluto (simpliciter), ossia guardando alla totalità dell’essere, Dio è la monade di tutte le monadi (« monadum monas » [17]), l’entità di tutti gli enti (« entium entitas » [18]), che, esplicandosi nell’universo infinito, dà l’essere a tutte le cose ed è egli stesso tutte le cose, pur non identificandosi con nessuna di esse in particolare. Da un punto di vista relativo, invece, ossia considerando il singolo individuo corporeo, la sostanza dell’ente fisico è l’atomo : ogni atomo rappresenta un centro di forza da cui si irradia l’energia vitale che costituisce, forma e ordina l’aggregato corporeo. Così come Dio garantisce l’essere e l’unità del tutto, l’atomo assicura la sostanzialità e l’unità di ciascun ente fisico : « alia enim capiuntur ubi atomus capitur, et non atomus ubi alia ; ideo proprie individuum dicitur esse ubique, et quia spacium est infinitum, centrum dicitur esse ubique, atomum dicitur esse omnia » [19]. L’atomo è la sostanza di tutti i corpi in quanto è il semplicemente pieno, uno e continuo, è eternamente identico a se stesso, mentre gli aggregati sensibili sono accidenti soggetti ad un eterno mutamento e neppure per un attimo rimangono uguali a se stessi [20]. Dunque la necessità di pensare la materia costituita da corpi indivisibili, e la grandezza geometrica da quantità discrete, in opposizione alla tesi aristotelica della divisibilità infinita del continuum, si fonda – come si legge nei capitoli vi e vii del libro primo del De minimo – su un duplice ordine di ragioni, ontologico e gnoseologico. Da un lato, senza l’unità minima fisica, eterna e immutabile, gli individui  































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corporei non potrebbero costituirsi, poiché la materia si disperderebbe per lo spazio infinito, fluttuando indefinitamente. Dall’altro lato, la costituzione discreta della grandezza fornisce l’unità di misura senza la quale nulla potrebbe essere compreso razionalmente. E così l’assenza della prima parte della grandezza pregiudicherebbe sia l’opera della natura sia la scienza [21]. 4. Atomi e movimento. –– Secondo il modello fin qui delineato la costituzione degli enti fisici si dà a partire da un atomo in cui è contratta la forza vitale capace di aggregare intorno a sé, come a un centro, altri atomi fino a formare un corpo composto. Questo modello viene illustrato alla fine del libro primo del De minimo (cap. xiv) con l’Area Democriti [22], in cui l’atomo, il minimo solido, che è di forma sferica, è il centro attorno al quale si dispongono altri minimi formando il corpo composto. L’aggregazione dei minimi attorno a un centro segue una regola simile a quella geometrica che forma la figura piana a partire da un cerchio centrale intorno al quale si disegnano non più di sei cerchi uguali al primo e a esso tangenti. Tra un circolo e l’altro rimangono necessariamente degli spazi vuoti a forma di triangoli dai lati curvilinei, così come tra i minimi solidi si determinano piramidi dalle superfici curvilinee. Lo spazio in cui gli atomi si muovono e che si frappone a essi quando si aggregano, tuttavia, non è vuoto, come quello degli atomisti antichi, ma riempito dall’etere o dall’aria. L’atomismo bruniano dunque si differenzia da quello degli antichi, perché escludendo il vuoto, esclude anche la possibilità di una spiegazione meccanicistica del movimento della materia primordiale. Il movimento degli atomi nella fisica bruniana, come si è detto, si fonda piuttosto su un principio vitalistico e organicistico. Infatti, a differenza dello spazio geometrico, in quello fisico l’atomo diviene un centro di gravità che attrae altri atomi attorno a sé : è il duplice movimento di espansione e di contrazione della potenza vitale contenuta nel minimo solido a guidare l’aggregazione (agglomeratio) e la disgregazione (exglomeratio) degli atomi di un individuo corporeo, come intorno a un  

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centro [23]. Il momento di espansione dello spirito vitale corrisponde al movimento centripeto con cui gli atomi tendono ad unirsi l’uno all’altro ; viceversa la contrazione della potenza vitale corrisponde a un movimento centrifugo che disgrega e disperde gli atomi nello spazio infinito. Lo spiritus architectus e la vis animalis coincidono con la sostanza indivisibile ed eterna dell’anima [24], la quale è descritta da B. come una forza naturale insita nella materia – un ‘vincolo’ –, identificabile con il principio vitale di autoconservazione degli enti naturali. È l’anima infatti che regola l’influxus e l’effluxus degli atomi, ossia il continuo flusso dei minimi corpi che entrano ed escono dai corpi composti, assicurandone la conservazione : mediante l’influsso di ciò che è conveniente e vitale e l’efflusso di ciò che è estraneo e nocivo, il corpo cresce e si rafforza fino a quando questo ciclo non si invertirà, provocando l’invecchiamento e la morte del composto [25]. Ogni individuo corporeo che abita l’universo, dai mondi ai composti più piccoli, è considerato alla stregua di un animale, e, in quanto tale, costituisce un’unità organica che attrae, tiene unite, ordina e dispone le sue parti al fine di garantire la propria sopravvivenza, per « appetito » o « desio di conservarsi » [26]. 5. Atomi ‘seu arida’. — La costituzione discreta della materia, illustrata dall’Area Democriti, lascia implicito, tuttavia, il motivo per cui, tra la moltitudine infinita degli atomi, alcuni assumano una posizione centrale e altri invece si dispongano intorno. L’Area di Democrito, pur mostrando un’aggregazione di minimi solidi di uguale specie, sembrerebbe presupporre una differenziazione tra gli atomi in base alla quale soltanto alcuni fungono da centro di gravità, mentre gli altri sono destinati a subire l’attrazione dei primi. Solo determinati atomi dunque sarebbero pervasi dalla vis animalis, mentre gli altri si comporterebbero come materia inerte e passiva. La diversità di natura tra i minimi corpi appare altresì il postulato del movimento di influxus ed effluxus, il quale non sarebbe concepibile senza una distinzione qualitativa tra gli atomi, che rende gli uni ‘vitali’, gli altri ‘letali’ per gli organismi  











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viventi. La questione relativa alla natura degli atomi si acuisce ulteriormente in considerazione dell’identificazione degli atomi con la ‘natura arida’, presente in tutte le opere sull’argomento. Nel De l’infinito come nel De minimo, nel De monade come nel De immenso e, ancora, nel Camoeracensis acrotismus, nella Lampas triginta statuarum, nel De magia e nel De rerum principiis la conformazione discreta della materia riguarderebbe infatti non tutti gli elementi naturali, ma solo la terra, costituita appunto di natura arida. Ciò significa che, accanto al modello atomistico troviamo anche una struttura elementare della materia, che distingue la terra, costituita ex indivisibilibus, dagli altri elementi, concepiti invece come continui. Nel De l’infinito per es., nel brano del dialogo iii in cui B. contesta l’ordine aristotelico degli elementi naturali, si legge : « in ogni corpo solido che ha parti coerenti, se v’intende l’acqua la qual gionge e copula le parti, cominciando da minimi della natura ; di sorte che l’arida a fatto disciolta da l’acqua, non è altro che vaghi e dispersi atomi » [27]. Anche nelle altre opere citate la natura umida (natura humens) funge da elemento ‘agglutinante’, unificante, addensante o ‘ispessente’ nei confonti dei più leggeri e secchi atomi, i quali, senza l’acqua vagherebbero indefinitamente e caoticamente nello spazio infinito, come una sorta di cenere (« cineresque, atomique volantes » [28]) o pulviscolo cosmico (« pulvis » [29]). La compresenza di una teoria degli elementi e di una atomistica costituisce un nodo problematico della filosofia naturale di B. : in base alla spiegazione elementare della materia, l’aggregazione degli atomi non risulterebbe più determinata dalla vis animalis, attiva e passiva, intrinseca a essi, in quanto l’arida si configura come materia inerte, che rende necessario l’intervento ‘agglutinante’ della natura umida. La possibilità di sciogliere tale questione – insieme all’altra relativa alla differenziazione qualitativa degli atomi – è rinvenibile nei capitoli ix, x e xi del primo libro del De minimo, dove B., citando Lucrezio, distingue tra il minimo simpliciter, o minimum naturae, primordiale, assoluto, impercettibile al senso umano, e il minimo  

















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sensibile, relativo, divisibile e composto dal minimo assoluto. Esistono tanti minimi sensibili quanti sono i generi e le specie naturali : esistono il minimo bue, la minima mosca, il minimo uomo, tutti visibili agli occhi umani e differenti qualitativamente e quantitativamente tra loro. Per un medico i primi principi delle cose sono i quattro umori, per il chirurgo o l’anatomista la carne, le ossa, i nervi, le cartilagini, per il pittore i capelli, le guance, l’orecchio, il dito, l’occhio. I minimi assoluti invece sono di un unico genere, privi di qualità determinate : « minima quippe iuxta primam formam, qua minima et corpora sunt, indiffererentia habentur omnia » [30]. Questa distinzione delinea due diverse prospettive da cui considerare la materia fisica : una ontologica e assoluta (simpliciter) relativa alla ‘materia prima’ che è costituita da atomi identici e privi di qualità, animati da un principio intrinseco di movimento e di vita ; l’altra fenomenica e relativa alla materia determinata che ammette invece specie differenti di minimi corporei, sia a livello degli elementi, sia a livello delle specie naturali. La distanza che separa i minimi assoluti dai minimi sensibili è colmata da un processo di successive aggregazioni (adiectiones) che l’intelletto umano però non è in grado di esplicitare fino in fondo, poiché « minimum naturae seu reale, ut mire infra sensibile minimum / contractum sit, non est ullius artis definire » [31]. L’uomo non può dedurre il passaggio dal minimo assoluto al minimo sensibile, perché il suo sguardo non va oltre le realtà determinate, ma « non est credibile ullam huiusmodi qualitatem super prima materia immediate fundari » [32]. Gli stessi elementi, nella fisica bruniana, non sono intesi tradizionalmente come determinazioni originarie della materia, poiché anch’essi sono il risultato di una commistione di materia nebulosa (« nebulosa materies »), di vapori, fumi, esalazioni che, contaminandosi a vicenda, producono l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco [33]. Al di fuori della loro commistione nei corpi composti, gli elementi naturali non conservano le proprie caratteristiche (« perdent cuiusque e quatuor nomen fortasse elementi »), riducendosi alla natura atomica  



























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(« natura atoma ») [34]. La differenza qualitativa degli enti sensibili si sviluppa dalla materia indeterminata mediante un’imperscrutabile combinazione di minimi indifferenti, cosicché qualsiasi specie naturale, una volta risolta nelle sue minime parti, non potrà conservare nessuna sembianza del composto : « in eas partes resolutum os, nullam ossis habet formam : caro nullam carnis : lapidis nullam speciem lapis, in iis os, lapis et caro non differunt, sed ex iis diversimode compositis, compactis et ordinatis, caro, lapis, os et caetera fiunt diversa » [35]. La materia prima e la materia determinata, dunque, individuano rispettivamente due livelli di ‘atomicità’. Da un lato l’atomo è inteso come quel minimum naturae coincidente con il massimo, quella potenza infinita insieme attiva e passiva, al di là della dimensione corporea visibile, priva di qualità corporee sensibili, e, in quanto tale, capace di esplicarsi in tutte, dando luogo ai diversi composti. Dall’altro, l’atomo è l’arida, la materia ‘secca’ ed inerte che ha bisogno della natura umida per potersi aggregare in un composto. 6. Atomo o sostanza individua. — Da un punto di vista ontologico e speculativo, la natura atoma finisce per identificarsi con l’indivisibilità, la semplicità, l’unità indissolubile dell’essere. Nei capitoli ii e iii del libro primo del De minimo appare un’ulteriore distinzione relativa all’atomo : privative l’atomicità si ritrova « in corporibus quae sunt primae partes » ; negative, invece, « in iisce quae sunt tota in toto atque singulis, ut in voce, anima et huiusmodi genus » [36]. L’atomo definisce qui il genere della sostanza indivisibile, all’interno del quale si distinguono due specie : l’indivisibilità della parte o del finito e l’indivisibilità del tutto, che è la specie perfetta infinita. In questa seconda specie rientrano la voce, il suono, la luce, ma preminentemente l’anima e Dio, definiti atomi negative. Il movimento di espansione e contrazione, di implicatio ed explicatio proprio dell’atomo negative – dell’anima come di Dio – ha una natura continua e invisibile che, come un perenne respiro, anima gli atomi privative, palesandosi nel movimento di aggregazione e disgregazione dei corpi finiti. La vita  



























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dell’universo fisico e l’avvicendarsi in esso di enti sempre nuovi sono rappresentati come il dispiegarsi di una energia naturale immanente che pervade il tutto (è tutta in tutto), irradiandosi da infiniti centri (mondi o corpi) verso le relative periferie e ricontraendosi da esse verso il centro. In questo modo l’unità semplice del tutto si riproduce eternamente e infinitamente nei singoli individui finiti, concepiti non come pure e semplici aggregazioni meccaniche di atomi, ma come organismi viventi, in cui le parti risultano unite in funzione della conservazione del tutto. Ciò non sarebbe possibile se i minimi naturae non si costituissero come centri relativi di un universo infinito, addensamenti di energia vitale, o potenza divina, da cui si originano e in cui si consumano gli individui naturali. Note. [1] Causa, boeuc iii 169. – [2] De minimo, bol i,iii 139-140. – [3] Ivi, 140. – [4] Causa, boeuc iii 291. – [5] Ivi, 293. – [6] Ivi, 29. – [7] Ivi, 169. – [8] De minimo, bol i,iii 142. – [9] G. B., Opere latine. Il triplice minimo e la misura, La monade, il numero e la figura, L’immenso e gli innumerevoli, a cura di C. Monti, Torino, 1980, 100. Cfr. De minimo, bol i,iii 142. – [10] De minimo, bol i,iii 170. – [11] H. Gatti, G. B.’s Soul-Powered Atoms : from Ancient Sources towards Modern Science, in Late Medieval and Early Modern Corpuscular Matter Theories, ed. by Chr. Lüthy et alii, Leiden, Boston, Köln, 2001, 163-180. – [12] De minimo, bol i,iii 144. – [13] Articuli adv. math., bol i,iii 24-25. – [14] De minimo, bol i,iii 144. – [15] Ibidem. – [16] Ivi, 146. – [17] Ivi, 144, 146. – [18] Ivi, 146. – [19] Ivi, 154. – [20] Ivi, 200. – [21] Ivi, 158-159. – [22] Ivi, 183. – [23] Ivi, 142-143. – [24] Ibidem. – [25] Ivi, 143. Cfr. De immenso, bol i,i 272274 ; i,ii 179-180 ; Infinito, boeuc iv 143-147, 261-263, 289-291. – [26] Infinito, boeuc iv 273, 341. – [27] Ivi, 233. – [28] De immenso, bol i,ii 198. – [29] Ivi, 11. – [30] De minimo, bol i,iii 170. – [31] Ivi, 169. – [32] Ivi, 170 – [33] De immenso, bol i,ii 11. Cfr. De rerum princ., bom 588-647. – [34] De immenso, bol i,ii 10-11. – [35] Camoer. acrot., bol i,i 155. – [36] De minimo, bol i,iii 139-140.  





Bibliografia. K. Lasswitz, Geschichte der Atomistik vom Mittelalter bis Newton, Hamburg-Leipzig, 1890 (rist. anast. : Hildesheim-Zurich-New York, 1984) ; K. Atanasijevich, Le doctrine métaphysique et géométrique de B. exposé dans son ovrage ‘De triplici minimo’, Belgrade, 1923 ; G. Bachelard, Les intui 





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tions atomistiques : essai de classification, Paris, 1933 ; L.L. Whyte, Essay on Atomism : from Democritus to 1960, London, 1961 ; P.R. Blum, Aristoteles bei G. B., München, 1980 (trad. it. : G. B. lettore di Aristotele, Lugano, 2016) ; A. Pyle, Atomism and its Critics : from Democritus to Newton, Bristol, 1997 ; A. Bönker-Vallon, G. B. e la matematica, « Rinascimento », xxxix, 1999, 67-93 ; T. Dagron, Unité de l’être et dialectique. L’idée de philosophie naturelle chez G. B., Paris, 1999 ; A. Clericuzio, Elements, Principles and Corpuscles : a Study of Atomism and Chemistry in the Seventeenth Century, Dordrecht, 2000 ; H. Gatti, G. B.’s Soul-Powered Atoms : from Ancient Sources towards Modern Science, in Late Medieval and Early Modern Corpuscular Matter Theo­ries, ed. by Chr. Lüthy et alii, Leiden-Boston-Köln, 2001, 163-180 ; B. Amato, Il concetto di ‘termine’ nel De minimo, in Letture Bruniane i -ii del Lessico Intellettuale Europeo (1996-1997), a cura di E. Canone, Pisa-Roma, 2002, 13-32 ; F. Puccini, La Geschichte der Atomistik di Kurd Lasswitz e la recezione del materialismo di B. nella scienza tedesca del xix secolo, « Bruniana & Campanelliana », viii, 2002, 2, 399-430 ; T. Dagron, Une phliosophie en devenir ? La question de l’indivisible dans le Camoeracensis acrotismus, in G. B. in Wittenberg (1586-1588) : Aristoteles, Raimundus Lullus, Astronomie, hrsg. v. Th. Leinkauf, Pisa-Roma, 2004 ; M. Cambi, G. B. e la tradizione lulliana : elementi, combinazione e mondi possibili, in Monadi e monadologie. Il mondo degli individui tra B., Leibniz e Husserl, a cura di B.M. d’Ippolito et alii, Soveria Mannelli, 2005, 41-56 ; M. Matteoli, Materia, minimo e misura : la genesi dell’atomismo ‘geometrico’ in G. B., « Rinascimento », l, 2010, 425-449.  























































Barbara Amato demoni (daemones) Già nella tradizione che fa capo a Platone, Simposio 202d-e [1], con il termine ‘demone’ si intende un’entità intermedia tra l’umano e il divino, alla quale viene affidata una funzione di mediazione e raccordo tra le due realtà. Questa unità concettuale diviene un topos nella filosofia neoplatonica non cristiana ed è destinata ad avere un ruolo fondamentale nel dialogo tra paganesimo e cristianesimo nei primi secoli dopo Cristo, anche se con varianti significative. Mentre per i cristiani – infatti – i demoni sono sempre malvagi, in

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quanto angeli caduti, che per loro scelta hanno preferito il male al bene [2], gli autori neoplatonici non cristiani distinguono tra demoni buoni e cattivi [3], talvolta qualificando i primi come ‘angeli’. Negli scritti bruniani la nozione di un’entità media tra umano e divino è veicolata attraverso l’uso di due termini : ‘demone’, appunto, e – assai frequentemente – ‘spirito’ (l’uso al plurale dei due vocaboli è predominante). Per questo nella costruzione della voce e nell’articolazione dei diversi significati saranno considerate le occorrenze di entrambi i nomina. Si tralascerà invece una trattazione specifica del tema del demone ‘socratico’ inteso come ‘genio’, poiché a questo concetto B. si rifà di tanto in tanto utilizzando appunto il termine ‘genio’, e del tema – di origine platonica – dell’amore come ‘grande demone’. Presente in diversi testi bruniani, esso assume un’importanza centrale soprattutto nel De vinculis in genere, ma è affrontato in una prospettiva specifica del tutto estrinseca al tema che qui si intende esaminare. In via preliminare va specificato che la voce, pur tenendo conto di tutte le opere bruniane, è costruita con uno sguardo particolare al De magia naturali, il testo nel quale B. dedica una trattazione specifica al tema dei demoni. Le pagine centrali del trattato [4] sono infatti occupate da due capitoletti – ritenuti intercalati da Felice Tocco [5] e intitolati rispettivamente De vinculis spirituum e De analogia spirituum – in cui B. si sofferma diffusamente sull’argomento. 1. Definizione del demone e suo posto nella scala degli esseri. — Come si è detto, con i termini ‘demone’ e ‘spirito’ B. indica le rea­ltà intermedie tra l’umano e il divino che nella rappresentazione della realtà come una schala entium costituiscono il ponte tra il mondo celeste e le realtà sublunari. Se B. rifiuta in più parti della sua opera l’idea di un universo organizzato gerarchicamente e respinge l’immagine della « scala di natura » come « un gentil sogno, et una baia da vecchie ribambite » [6], tuttavia la concezione di una realtà unitaria, caratterizzata dall’ordo e dalla connexio rerum, per cui le cose inferiori, a ogni livello, si elevano verso le superiori attraverso le intermedie, è costantemente presente nei  









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suoi scritti. Questa articolazione della realtà è descritta attraverso l’immagine neoplatonica della schala naturae già a partire dal De umbris e assume un ruolo centrale nelle opere tarde dedicate alla magia (↗ magia), divenendo il presupposto teorico per l’azione magica : « Principium magiae est considerare ordinem influxus seu schalam entium, qua Deum in Deos, Deos in astra, astra in daemonas, daemones in elementa, elementa in mixta etc. aliquid immittere comperimus » [7]. Nella descrizione della scala i demoni sono quindi collocati tra gli dei e gli uomini recuperando dalla tradizione platonica il ruolo di intermediari comune alle concezioni filosofiche che vedono nell’universo un’unità dinamica e vitale, in cui le cose cospirano, vincolate da mutua charitas, e si corrispondono a vicenda ; così come nell’uomo lo spiritus è intermediario tra corpo e anima (↗ spiritus), gli spiritus – assumendo qui il termine nel senso di demoni – sono, allo stesso modo, intermediari tra l’umano e il divino ; li lega un’omologia strutturale : né corporei, né del tutto immateriali, costituiscono l’anello di congiunzione dei diversi livelli della natura che mantiene una comunione perpetua tra gli aspetti infimi e le sue sfere supreme. In questa prospettiva, B. finisce con assimilarli talvolta – soprattutto nel De magia mathematica [8] – agli angeli della tradizione cristiana e in altri contesti agli eroi della tradizione classica [9]. 2. Gerarchia e classificazione delle diverse specie dei demoni. — Nel De magia B. descrive sei categorie di spiriti : quelli completamente privi di razionalità, « bruta […] sine ratione nocentia » ; i timidi e creduloni, che mancano di ogni capacità di discernimento ; i più sagaci, costituiti di sostanza aerea ; il genere etereo ; i demoni d’acqua o di terra ; infine gli spiriti di fuoco. Il loro ordinamento è stabilito in base a un criterio evidentemente eterogeneo : le prime due specie sono individuate in base al modus operandi e alla loro crescente (per quanto ancora minima) capacità intellettiva ; le rimanenti invece sono descritte in relazione al tipo di « substantia simplex » di cui sono costituite [10]. Pur coincidendo nel numero delle specie indicate e nonostan 



































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te mantenenga moltissimi tratti in comune con la descrizione delle specie di demoni presente nell’opuscolo di Michele Psello (1018-1081 ?) intitolato De daemonibus [11], la classificazione bruniana non segue rigidamente l’ordinamento del dotto bizantino, « campione laico della Christianorum opinio in àmbito demonologico » [12], e figura di riferimento per la costituzione di una scienza demonologica lungo tutto il xvi secolo. Anche nel testo di Psello erano infatti individuate sei categorie di demoni, a seconda delle zone abitate dalle diverse specie di spiriti [13]. Dal cielo sublunare fino ai recessi più oscuri e profondi della terra, creature di crescente materialità si succedono nella sua classificazione : i leliuri, abitanti dell’etere ; gli aerei, inquilini dell’aria ; gli ctoni, che popolano la terra ; gli acquatici, che risiedono nell’elemento liquido ; gli ipoctoni che vivono nel sottosuolo e infine gli odiatori della luce, che popolano le più oscure profondità. Nel corso della trattazione bruniana emergono molti punti di contatto con le caratteristiche dei demoni descritte nell’opuscolo del poliistore bizantino, che è certamente un riferimento centrale per B. nella stesura di queste pagine. Tuttavia, anche nell’adesione alle posizioni più diffuse e accreditate in materia demonologica sullo scorcio del xvi secolo, B. mostra di inserire la sua digressione in un orizzonte filosofico che è il suo proprio. Posto che ogni aspetto della realtà è pervaso dalla presenza di entità spirituali [14] e che le loro specie sono più numerose di quelle della totalità delle cose sensibili, B. sostiene che alcuni spiriti abitino materia più sottile, altri più crassa, alcuni corpi semplici, altri composti, alcuni oggetti dotati di sensibilità, altri insensibilia, per cui le « operationes animae » possono risultare più facili per alcuni, più ardue o addirittura impossibili per altri [15]. La prima specie di demoni descritta in queste pagine è del tutto priva di capacità razionale, ma, alla stregua di veleni e bestie pericolose può arrecare danni gravissimi all’uomo ; si tratta – dice B. – del genere definito dall’evangelista Marco « sordo e muto » [16] – « hoc est sine ratione » – che non riconosce l’imperium di nessuno, né ascolta minacce o preghiere che  





























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gli vengano rivolte. Di questo tipo di demoni parlano le Scritture [17], ricordando come i discepoli di Gesù si dichiarassero impotenti a scacciarli, mentre Cristo stesso sembrava suggerire in questo caso un rimedio naturale (« physicum »), ovvero il digiuno e la preghiera, che assicurassero la purificazione del corpo e l’elevazione della mente. B. suggerisce di affidare i posseduti da questo tipo di demoni ai medici, che con rimedi naturali possano recuperare al corpo dell’energumeno l’equilibrio della complessione organica la cui alterazione costituisce il nutrimento, e l’esca quasi, di questo genere di demoni, che si insedia naturalmente negli organismi dominati dall’umore melanconico. In questo passaggio B. non accenna, come avverrà nelle pagine successive, e in un celebre passaggio del De monade [18], ai toni polemici contro quei medici che, forti dell’efficacia di questo rimedio, riconducono all’azione del solo umore melancolico i fenomeni che si producono nel corpo di un posseduto e si limita a richiamare l’efficacia del remedium naturale. La spiegazione razionalistica delle malattie cosiddette sacre – che ha come noto una storia antica che può essere fatta risalire già a Ippocrate – è di fatto respinta da B., che rivendica una concomitanza di cause : quella fisica legata alla complessione organica, e la reale possessione da parte del demone, che in un certo senso approfitta della particolare temperie dell’individuo per insinuarsi nell’animo dell’ossesso [19]. Il secondo genere di demoni descritto in queste pagine è ancora determinato in base alle capacità razionali (in verità scarse) e agli atteggiamenti assunti di fronte alle azioni dell’uomo. Si tratta infatti di un genere « timidum, suspiciosum, credulum », incapace di discernere tra ciò che è possibile e ciò che non lo è, tra quanto è conveniente o piuttosto sconveniente, alla stregua degli uomini che sognano o sono in preda a turbamenti della fantasia. Non riuscendo a valutare la portata del pericolo cui si espongono, vengono di solito spaventati da minacce di morte, di carcere, di fuoco e facilmente abbandonano i corpi in cui si insediano quando questi pericoli gli vengono prospettati. L’incapacità di discernere l’enti 









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tà delle minacce, la credulità e la vigliaccheria dei demoni più fortemente legati alla materia, sono ricordati anche da Psello [20], che indugia sul particolare delle minacce con oggetti acuminati, tra cui la spada ; questo esempio è presente anche in B. sulla scorta del racconto virgiliano secondo cui Enea, attraversando gli inferi, avrebbe spaventato le ombre dei morti con la spada in pugno, « stricto gladio » [21]. La terza categoria di demoni ricordata da B. viene determinata in base alla tipologia ‘caratteriale’ e alla sostanza di cui si compongono, particolare cui non si accennava nella descrizione delle prime due classi di demoni. Quelli appartenenti a questa terza categoria sono costituiti di sostanza « magis aerea », quindi più sottile e pura rispetto a quella delle prime due specie, per cui le loro funzioni ‘spirituali’ risultano più sviluppate : conoscono le lingue e le scienze, sono più attenti e accorti (« prudentiores »), meno influenzabili rispetto a quelli fin qui ricordati ; non si lasciano persuadere da preghiere e da nessun tipo di culto e in più riescono a farsi beffa dell’uomo, fingendo sentimenti pii e religiosi o simulando timore e ira che non provano. Sono i demoni aerei – « genus invidiosum » – la cui caratteristica è infatti la volontà di insinuare confusione e dubbi nell’uomo, per questo « nihil constanter asseverant », ma « omnia pro arbitrio fingunt » [22]. Analoghe caratteristiche attribuiva Psello ai demoni aerei. La quarta delle specie ricordata da B. è eterea, pura e luminosa (« aethereum vero, purum lucidumque genus »), riconosciuta come buona e amica degli uomini onesti, contrariamente a quanto si dice degli spiriti aerei, alcuni dei quali sarebbero ostili, altri benevoli. B. si mostra qui del tutto fedele alla tradizione neoplatonica, riconoscendo quella bontà e disposizione favorevole di alcuni demoni che era del tutto estranea alla tradizione cristiana [23]. Non è un caso tuttavia che siano assolutamente buoni i demoni di sostanza eterea, pura e lucida, distante in qualche modo dalla materialità più spiccata dei demoni acquei e sotterranei (la quinta specie di demoni ricordati), questi ultimi  

































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assolutamente malvagi, come è naturale, del resto, nella cornice ‘platonica’, che individua nella materia un elemento in qualche modo negativo. Le capacità razionali di questi demoni sono infatti ostacolate dai vincoli dell’elemento corporeo, essi sono perciò timidi e timorosi ; citando un passo del De officiis ciceroniano – « quem metuunt, oderunt » [24] – B. sostiene che essi sono naturalmente portati a fare il male, di cui in qualche maniera si compiacciono (« libenter laedunt ») [25]. Gli spiriti ignei, invece, quelli costituiti dell’elemento più puro e sottile, che più propriamente si dovrebbero chiamare « Dii et heroes », vengono fatti coincidere da B. con i ministri di Dio, quelli che i cabalisti chiamano « Fissim, Seraphim, Cherubim » e cui si allude nel Salmo 104 con le parole « qui facit angelos eius spiritus, et ministros eius flammam ignis » [26]. La citazione del passo scritturale si trova anche in Psello, che la rafforza attraverso un richiamo a Paolo [27] ; tuttavia, mentre il dotto bizantino si limita a citare l’opinione di Basilio circa la corporeità degli angeli [28], B. aggiunge a questa l’autorità di Origene e sostiene che per entrambi « angelos non esse omnino incorporeos, sed spiritales substantias, hoc est subtilissimi corporis animalia, quos per ignes et flammas ignis significat divina revelatio » [29]. Questo è l’unico riferimento agli angeli presente nel De magia. Sulla scorta di Agrippa, ma anche di Tritemio e Pietro d’Abano, grande rilievo si dà invece alla loro gerarchia e classificazione nel De magia mathematica. 3. Corporeità e sensibilità. — Il problema della corporeità dei demoni è assai presente e variamente risolto nella letteratura neo­ platonica [30]. Nel capitolo del De magia dedicato all’analogia spirituum, la corporeità dei demoni è dedotta da B. dal fatto che essi nutrono sentimenti del tutto affini a quelli umani e che sono soggetti alle lusinghe dei sacrifici di animali, che anzi essi stessi avrebbero inventato in quanto origine per loro di grande soddisfazione e piacere [31]. Tra i vari tipi di demoni si distinguono quelli più potenti e famosi e quelli che nella tradizione latina venivano definiti « patellares » [32], ovvero ‘leccapiatti’, poiché non gli erano  































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riservate offerte specifiche, per cui erano costretti a nutrirsi degli avanzi dei demoni più venerati. B. riconosce che l’apporto di questi sacrifici non è affatto necessario per il demone, ma è tuttavia gradito come qualcosa di superfluo, quasi lussuoso, che il demone difficilmente potrebbe concedersi a causa della sua specifica complessione. Il concetto della gerarchia delle potenze superiori che si evince dal curioso riferimento ai « patellares » della tradizione latina, era già anticipato da B. nelle pagine precedenti, in conclusione della classificazione delle sei specie di demoni, in cui si sostiene che sapienza e potenza garantiscono il governo sugli spiriti più ignoranti ad alcuni demoni, che si qualificano come « presides et principes, pastores, duces, rectores, gradus » [33] ; il loro potere non è però eterno, come si potrebbe pensare, ma soggetto alle vicissitudini della vita, ovvero del periodo limitato in cui lo spirito resta vincolato a una determinata sostanza corporea e che non è eterno, sebbene abbia una durata più lunga della vita umana, poiché è più facile che un’anima tenga legato a sé un corpo semplice, che non un corpo composto di contrari, come quello dell’uomo. Il legame temporaneo tra un determinato corpo e un certo spirito è illuminato da B., poco più avanti, attraverso il richiamo alla dottrina – comune alla religiosità orientale e greca – della metempsicosi, che riconduce a una giustizia superiore l’incarnazione delle anime in corpi differenti, al fine di espiare le colpe commesse in una vita precedente. In questo contesto B. ricorda le opinioni di Origene, Pitagora e di altri platonici per cui alcuni demoni non sarebbero che gli spiriti di uomini malvagi, che si trovano a vivere temporaneamente questa condizione, ma che potrebbero divenire migliori, o anche peggiori, incarnandosi di conseguenza in corpi più o meno degni [34]. Posto comunque che i demoni abitino (« incolunt ») sempre corpi materiali, la loro residenza temporanea – sostiene B. – può realizzarsi in animali, piante, pietre e in ogni altro aspetto del reale, ma in nessuno di questi corpi specifici lo spiritus trova la sua perfetta realizzazione e la sua eterna dimora, « sed fluctuat materia de  















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uno in alium spiritum et naturam seu compositionem, fluctuat spiritus de una in aliam materiam ; et hoc est alteratio, mutatio, passio et tandem corruptio, nempe partium certarum et a certis partibus segregatio et cum certis compositio ; nam mors aliud non est praeterquam dissolutio » [35]. Le vicende eterne della vita, con il perenne alternarsi di composizione e dissoluzione di parti, non interessano se non la realtà individua che si produce in un determinato momento e in determinate circostanze, mentre eterna e incorruttibile permane la sostanza : « Atqui neque spiritus ullus neque corpus ullum interit, sed complexionum tantum et actuum mutatio est continua » [36]. Con questa argomentazione, del tutto conforme ai principi della filosofia bruniana, si chiude il capitolo dedicato alla classificazione delle potenze demoniache – che poco tratta dei vincula spirituum annunciati nel titolo – che B. conclude riprendendo il concetto espresso in apertura del trattato, per cui tutte le realtà desiderano conservarsi nello stato presente e non concepiscono forme di esistenza diverse dall’attuale. Ne deriva una sorta di amore che vincola indissolubilmente ogni anima al proprio corpo (e viceversa), mentre dalla diversità degli individui che si originano « ex diversitate naturarum et appulsuum », si genera l’articolata gamma di vincoli con cui si legano gli spiriti e i corpi, oggetto di analisi nella sezione conclusiva del capitolo successivo. B. vi compendia il contenuto del primo trattato del De magia mathematica [37], sottolineando che nella molteplicità dei vincoli descritti di seguito risiede tutta la dottrina relativa alla magia [38]. Dopo la rassegna dei venti vincoli degli spiriti [39] B. rimanda esplicitamente al capitolo di questo trattato intitolato Alberti generalis doctrina, strutturato in 17 paragrafi, in cui si descrivono altri vincula con cui si legano gli spiriti. 4. Epifanie fantastiche. — Nonostante la forte presenza dell’opuscolo di Psello sui demoni, sorprende lo scarso rilievo che in queste pagine bruniane ricopre un concetto assai rilevante nel trattato del dotto bizantino, ovvero il ruolo della fantasia nelle  















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manifestazioni multiformi dei demoni. Nel capitolo sull’analogia spirituum B. sostiene infatti che i demoni siano sostanze invisibili « propter corporis eorum tenuitatem », riappropriandosi così di un concetto tradizionale già espresso nell’Epinomide e presente ancora nel De mysteriis di Giamblico, come nel De abstinentia porfiriano. Agrippa lo aveva riproposto nel capitolo xix del terzo libro del De occulta philosophia richiamando la dottrina di Orfeo sul corpo dei demoni [40] e un passaggio del commento di Calcidio al Timeo platonico [41], in cui si sostiene la maggior visibilità degli spiriti che rivestono una sostanza corporea più densa, ovvero gli acquei e i terrestri. L’invisibilità dei demoni superiori e degli angeli, il cui corpo è costituito di puro etere, era sostenuta da Agrippa attraverso l’immagine suggestiva di un corpo leggerissimo, costituito da una trama di fili chiari e sottili, che i raggi visivi attraversano senza esserne impressionati [42]. Anche in B. sono gli spiriti di terra e di acqua a rendersi visibili, talvolta, « ad libitum concreto et inspissato vapore », condensando, quindi, a loro piacimento un corpo che è di consistenza più materiale rispetto a quello degli spiriti di aria e di fuoco, tanto da assomigliare a vapore. B. assicura di aver fatto esperienza diretta della loro esistenza alle pendici dei monti Libero e Lauro, nella località deserta presso il Tempio di Porto, nella natìa Nola, e ancora sotto una rupe ai piedi del monte Cicada, dove fu anzi oggetto di una sassaiola violenta da parte di questi spiriti, che – come è noto dal testo di Psello, che B. richiama qui esplicitamente – sono del tutto innocui e incapaci di procurare lesioni [43]. Nessun accenno, però, al concetto centrale dell’opuscolo di Psello per cui i demoni, nel loro manifestarsi, mutano la forma dei loro corpi alla stregua delle nuvole del cielo, che cambiano figura sotto l’azione esterna del vento e sembrano assomigliare ora agli uomini, ora ai più svariati animali. Il corpo dei demoni, per natura semplice, duttile e flessibile, si adatta a ogni tipo di forma e non assume queste connotazioni dall’esterno, ma piuttosto dall’innata facoltà fantastica, che agisce dall’interno sul suo corpo, che è spiritus, e come tale in grado di mutare  







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velocemente, sottoponendosi a tutte le trasformazioni [44]. Le forme assunte di volta in volta non possono però mantenersi a lungo proprio perché il corpo dei demoni non è solido [45] e quindi è incapace di trattenere contorni definiti [46]. Al contrario, B. non insiste sul ruolo essenziale della fantasia nelle manifestazioni dei demoni, ma accoglie un concetto strettamente correlato a questo e ampiamente attestato nella tradizione neoplatonica, quello per cui l’azione del demone sull’animo passa per il medio della fantasia. Lo si incontra nelle prime battute del capitolo sui vincoli degli spiriti [47], con una metafora derivata proprio da Psello, per cui l’informazione tra due persone lontane deve essere veicolata da una voce potente, mentre la comunicazione tra due persone vicine si svolge con toni più bassi, o addirittura sussurri nell’orecchio, se si tratta di due persone vicinissime. Il demone, conclude B., non ha bisogno di mezzi come la voce e l’orecchio, ma raggiunge direttamente il senso interno, introducendo impressioni che ci si illude derivino da oggetti esterni o dai nostri pensieri, ma che esso insinua in noi, spesso con la volontà esplicita di ingannarci [48]. Analoghe modalità di azione del demone sull’uomo aveva descritto Psello, per il quale i demoni, che sono spiriti, si insinuano nel nostro spirito immaginativo inducendo fantasie, immagini, memorie di godimenti, tutto senza il medio della voce [49], semplicemente trasferendo nel nostro pneuma psichico le forme che essi hanno tratto dalla loro sostanza immaginativa [50]. Questo concetto torna nelle pagine bruniane riguardanti il vincolo dell’animo che si realizza attraverso la fantasia, in cui si sostiene che il turbamento di questa facoltà può avvenire sia per intervento di un uomo che agisca sui sensi esterni, vincolando come conseguenza la potenza immaginativa, sia in seguito all’azione di un demone, che interviene direttamente sulla fantasia, nel sonno come nella veglia, proponendo immagini fantastiche che sembrano originate da oggetti reali. È ciò che accade ai posseduti da qualche spirito esterno, i quali credono fermamente che le imagines proposte loro dal senso interno abbiano un’esistenza

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oggettiva al di là delle species plasmate dalla fantasia e finiscono per questo con il confondere realtà esterna e imagines phantasiabiles [51]. Il tutto è comunque reso possibile dalla speciale prerogativa del demone, che si ‘intrude’ nel senso interno lasciando credere che le immagini così indotte all’attenzione del posseduto siano invece mediate dalla sensibilità esterna, eccitata da oggetti reali. Ora, come si è visto in Psello, i demoni agiscono sul nostro spirito immaginativo in quanto sono essi stessi spiriti, quindi per una sorta di omologia strutturale che cade invece in B., per il quale questo presupposto resta semmai implicito e non si apre sulle prospettive di comunicazione tra umano e demonico espresse da Psello e rifluite in Agrippa. Si legge nel De occulta philosophia che il corpo dei demoni è di natura spirituale (« spiritale corpus ») ed è quindi sensibile ovunque, tanto da non aver bisogno della mediazione dei sensi per aver percezioni ; la sensibiltà non è infatti mediata da organi distinti, e i demoni « veluti spongiae aquam, sic toto corpore suo sensibilia quaeque hauriunt, aut alio modo nobis ignoto ; neque cuncta quae videmus animantia sensoriis eisdem sunt communita : nam et multa auribus carere novimus, tamen sonum ab his concipi scimus, sed qua ratione ignoramus » [52]. L’immagine dipende da Psello [53] ed è funzionale in Agrippa alla comprensione, pur avvertita come insufficiente, delle modalità con cui le invocazioni e le cerimonie rivolte dagli uomini alle potenze superiori, possano essere recepite da queste. In B., invece, l’azione del demone sul senso interno serve piuttosto a illuminare il ruolo centrale della fantasia nel vincolo dell’animo e a chiarire come questa sia l’accesso privilegiato « ad actiones et passiones affectusque universos, qui sunt in animali » [54] ; il vincolo della fantasia, infatti, consente di dominare anche le facoltà conoscitive più alte, fatte salve, naturalmente, quelle che pertengono alla sfera della razionalità che, richiamandosi a Plotino, B. dichiara immuni alle lusinghe dell’operare magico [55]. 5. La questione delle fonti. — Le tematiche affrontate da B. in questi capitoli, dibattute all’interno della tradizione neoplatonica  



















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e della letteratura cristiana, nonché nella trattatistica demonologica a lui contemporanea, potevano essere giunte alla sua attenzione attraverso canali diversi. Tuttavia, se si fa eccezione per un autore come Psello, non è possibile rilevare un’influenza diretta degli autori antichi, pure più volte citati, sulle pagine bruniane. Le loro opinioni sui demoni erano divenute parte integrante della letteratura sull’argomento ancor prima della traduzione ficiniana delle loro opere ; autori come Agostino ed Eusebio, avevano mediato, per esempio, la diffusione di alcune dottrine attribuite a Porfirio, più volte apostrofato come ‘amico e messaggero’ di demoni [56] ; molte delle dottrine cardine della tradizione neoplatonica erano del resto già note nel Medioevo, attraverso il commento di Calcidio al Timeo platonico – che rendeva disponibili passaggi fondamentali dell’Epinomide – e Macrobio. Tuttavia, l’impatto dirompente sulla cultura rinascimentale è ascrivibile senza alcun dubbio all’infaticabile opera di traduzione di Ficino dei testi di Porfirio, Giamblico, Psello ; il volumetto stampato a Lione, nel 1570, in cui si raccoglievano, oltre al De mysteriis attribuito a Giamblico, il commento di Proclo all’Alcibiade primo di Platone e il De sacrificio et magia, gli scritti di Porfirio De divinis ac daemonibus, l’opuscolo di Psello sui demoni, il Pimander e l’Asclepius ermetici, ebbe una circolazione enorme [57]. È nel solco di questa tradizione, richiamata più volte nel De magia e rifluita abbondantemente nei testi con cui aveva frequentazione assidua, che si inseriscono le riflessioni bruniane sui demoni. Nel De magia mathematica le opinioni degli scrittori neoplatonici de daemonibus sono quasi sempre mediate dalla lettura di Agrippa, cui si aggiungono le auctoritates di Tritemio – la cui autorità B. accetta non senza riserve [58] – e di Pietro d’Abano (i cui Elementa magica furono pubblicati insieme al volume di Agrippa nell’edizione di Parigi del 1567), da cui B. deriva i nomi degli angeli [59]. Nel De monade, oltre alle fonti già segnalate, gli accenni ai demoni si arricchiscono dei riferimenti al commento necromantico di Cecco d’Ascoli alla Sphaera di Giovanni Sacrobosco [60].  





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Questo interesse per le potenze demoniche non deve sorprendere. Negli anni in cui B. scrive la distinzione tra magia naturale e demonica è molto meno marcata di quanto le categorie moderne possano lasciar pensare ; nella schala entium i demoni, come si è visto, trovano una loro posizione centrale e la loro integrazione nel contesto della causalità fisica rappresenta il risultato coerente del progetto ambizioso di naturalizzazione della magia affidato da B. agli scritti dell’ultimo periodo della sua produzione, nei quali il mago, riecheggiando un topos della tradizione magica, da Apuleio ad Agrippa, è identificato con il sapiente dell’antichità, insieme sacerdote e filosofo, conoscitore profondo dei misteri della natura e capace di intervenire attivamente su di essa : « homo sapiens cum virtute agendi » [61].  







Note. [1] Cfr. anche Epinomide, 984e-985b. Per l’etimologia del termine ‘demone’ in Platone, cfr. Cratilo, 398b-c. – [2] La demonologia cristiana indica nella ribellione di Lucifero – ignorata nel Vecchio Testamento e narrata in Apoc. 12, 7-13 – l’inizio della storia delle potenze malefiche. Tra le innumerevoli attestazioni della dottrina relativa alla malvagità dei demoni nel pensiero cristiano cfr. per es. 2Pt 2, 4 ; Agostino, De civ. Dei, ix, 8 e x, 19 ; Origene, De princ., i, Praef. 6 ; i, 5,5 ; i, 6,2 ; Eusebio, Praep. ev., iv, 5 e vii, 16. – [3] La dottrina è già presente nel medioplatonico Apuleio, De deo Socratis, 6 ; cfr. Porfirio, De abstinentia, ii, 36 sgg. ; Giamblico, De mysteriis, i, 5 e 6 ; essa è riportata in Corpus Hermeticum, xvi, 13 e definita « theologorum communis sententia » da Agrippa, De occulta philosophia, iii, xx, ed. by V. Perrone Compagni, Leiden-New York-Köln, 1992, 459. – [4] Cfr. De magia, bom 222-250. – [5] Cfr. Le opere inedite di G. B., Napoli, 1892, 122-127. Sul rapporto tra queste pagine e il De magia math. cfr. S. Bassi, Struttura e diacronia nelle opere magiche di G. B., « Rinascimento », ii s., xl, 2000, 3-17 ; per una rilettura critica delle ipotesi ivi proposte cfr. A. Rossius, Works within a codex : the structure of B.’s ‘magical’ writings, « Bruniana & Campanelliana », xviii, 2012, 2, 453-472. [6] Infinito, oib i 19-20. – [7] Thes. de magia, bom 326 ; cfr. De magia, bom 168170 ; De magia math., bom 4. – [8] cfr. bom 4, ma anche De monade, bol i,ii 453. – [9] Cfr. Furori, oib ii 595. – [10] Il numero di specie in cui vengono distinti i demoni nelle diverse opere bruniane non  



































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si mantiene costante : le sei specie ricordate nel De magia si riducono a quattro nella Lampas trig. stat., bom 1312, e nel De magia math., bom 84. – [11] Con questo titolo diviene nota la traduzione latina che Marsilio Ficino mise a punto attorno al 1485 su un breve compendio, di autore ignoto e risalente alla fine del xiv secolo, del dialogo pselliano De operatione daemonum ; cfr. Marsilii Ficini… Opera…, Basileae, 1576, ii, 1939-1944. – [12] E.V. Maltese, « Natura daemonum… habet corpus et versatur circa corpora » : una lezione di demonologia dal medioevo greco, in Il demonio e i suoi complici. Dottrine e credenze demonologiche nella Tarda Antichità, a cura di S. Pricoco, Soveria Mannelli, 1995, 265-284 : 265. – [13] Sulle fonti della classificazione pselliana cfr. ivi, 276. – [14] Cfr. De magia, bom 230 : « Alii spiritus humana, alii aliorum animalium incolunt corpora, alii plantas, alii lapides et mineralia, et omnino nihil est spiritu destitutum et intellectu ». – [15] Cfr. ivi, 222-224. – [16] Il riferimento è più verosimilmente a Marco l’evangelista, per cui cfr. Marc. 9, 25, che a Marco coprotagonista del dialogo di Psello, il quale cita lo stesso episodio del Vangelo e questa definizione dei demoni, che si ritrova anche in Origene, Commentaria in Mattheum, in pg, xiii, 1105a. – [17] Cfr. Marc. 9, 14-29 e Matth. 17, 14-21. – [18] Cfr. bol i,ii 413-414, ma anche Thes. de magia, bom 384. – [19] Cfr. De magia, bom 276 e Thes. de magia, bom 388. – [20] Cfr. De daemonibus, 1943-1944 : « Cur daemones timeant minas atque patiantur ». – [21] De magia, bom 230 ; cfr. Aeneis, vi, 260, 288-290 ; ma già Omero, Odyssea, xi, 48. L’episodio del libro vi dell’Eneide è richiamato anche da Agrippa, De occulta philosophia, iii, xix, 458. – [22] De magia, bom 226. Ai demoni aerei B. dedica alcuni accenni interessanti anche nel De immenso, bol i,ii 60-62 e 79. – [23] Cfr. De magia math., bom 52 : « De modo alliciendi tam bonos quam malos angelos ». – [24] Cfr. ii, 7, 3, che rinvia al poeta Ennio. – [25] Cfr. De magia, bom 228. Più avanti (ivi, 234), l’esistenza dei demoni sotterranei è sostenuta da B. con un richiamo esplicito ad alcuni passaggi del libro di Giobbe (iii, 3-20), di cui forza volutamente la lettera. – [26] Lo stesso passo è richiamato da B. in De monade, bol i,ii 408 ; De magia math., bom 86 e nel Processo 270. – [27] Cfr. Ep. ad Haebr., i, 7, che infatti cita esplicitamente il Salmo 104 (103 nella Vulgata). – [28] Cfr. Psello, De daemonibus, 1939. – [29] De magia, bom 228. – [30] Cfr. Maltese, « Natura daemonum… habet corpus et versatur circa corpora », 267. [31] De magia, bom 238. Sulla corporeità dei demoni e sulla conseguente sensibilità, B. si sofferma anche a p. 276, dove sostiene che  







































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nel fenomeno di possessione la causa movente ed efficiente sia lo « spiritus ipse daemoniacus », di cui si nega la natura del tutto incorporea proprio in virtù della sensibilità che contraddistingue il demone. Sulla possibilità che i demoni vengano attirati « per sacrificia, holocausta » e che vengano intimoriti « per minas », cfr. ivi, 246, dove l’efficacia di queste pratiche è fondata su una sorta di analogia tra ciò che deve causare la reazione del demone e la sostanza di cui è costituito. – [32] S. Bassi, nell’apparato dell’edizione del De magia (bom 239), rimanda a Ovidio, Fasti, ii, 633-634. – [33] De magia, bom 228 ; che i demoni siano organizzati, come pure gli angeli, in gerarchie precise, è il concetto che sottende al primo trattato del De magia math., bom 12-66 ; cfr. ancora De monade, bol i,ii 399-400 e 466. – [34] Cfr. De magia, bom 236. – [35] Ivi, 230. – [36] Ibidem. – [37] Cfr. De magia math., bom 12-66. – [38] Cfr. De magia, bom 242. – [39] Cfr. ivi, 242-250, i vincula sono contrassegnati con il rimando al capitolo corrispondente del De magia math., ma potrebbe trattarsi, come sostiene Tocco (Le opere inedite, 126), di un’aggiunta posteriore. – [40] Cfr. ed. cit., 458 ; la dottrina qui esposta da Agrippa ha una certa somiglianza con quella attribuita da B. a Porfirio, Plotino e altri platonici a proposito del corpo dei demoni costituito di una commistione, secondo proporzioni variabili, di tutti gli elementi, per cui cfr. De magia, bom 232, che credo risenta a sua volta del commento ficiniano a Enneades, iii, 5, 5, in Ficini Opera, ii, 1715. – [41] Cfr. Calcidio, In Timaeum, § cxxxiv. – [42] Cfr. De occulta philosophia, iii, xix, 458. – [43] De magia, bom 234 ; cfr. Psello, De daemonibus, 1943. Quanto alla possibilità di testimoniare personalmente circa l’esistenza di demoni che si mostrerebbero in alcune regioni e in precise circostanze, cfr. Agrippa, De occulta philosophia, iii, xli, 531. – [44] Cfr. De daemonibus, 1942. – [45] Cfr. ibidem. – [46] Ivi, 1943. – [47] Cfr. De magia, bom 222-224 e Psello, De daemonibus, 1941. – [48] De magia, bom 224. – [49] L’ipotesi che i demoni comunichino mentalmente tra loro e con gli uomini senza la mediazione della voce, viene discussa e negata da Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae (i, qu. 109, a. 3 e ii, iiae, qu. 172, a. 5). Sul linguaggio di angeli e demoni cfr. Agrippa, De occulta philosophia, iii, xxiii. – [50] Cfr. Psello, De daemonibus, 1941. Che l’azione del demone si attui « in phantastico hominis » è sostenuto anche dallo pseudo-Agostino (Liber de spiritu et anima, pl, xxvi, 798) ; il concetto torna ripetutamente in Ficino, cfr. In Timeum, in Opera, ii, 1471 e In Enneades, iii, 2, 3, ivi, 1688 : « Daemo 





























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nes imaginationibus suis absque alio instrumento vel actu passim mirabilia faciunt ». – [51] Cfr. De magia, bom 274-276. – [52] Cfr. iii, xxiii, 468. – [53] Cfr. De daemonibus, 1940. – [54] De magia, bom 280. – [55] cfr. ivi, 284. Sulla corruzione della fantasia che facilita l’abbandono passivo al demone si vedano anche le contractiones 11 e 12 del Sig. sigill. – [56] Cfr. Eusebio, Praep. ev., iii, 6 e Agostino, De civ. Dei, x, 27. – [57] E. Garin, Ermetismo nel Rinascimento, Roma, 1988, 13. – [58] Cfr. De magia math., bom 12. – [59] Cfr. ivi, 32-40 ; per indicazioni specifiche si rimanda all’apparato dell’edizione. – [60] Cfr. bol i,ii 400-401, 466-467, che ricalcano letteralmente alcune pagine del commento di Cecco ; cfr. D. Giovannozzi, Spiritus mundus quidam. Il concetto di spirito nel pensiero di G. B., Roma, 2006, Appendice, 175-179. – [61] De magia, bom, 166.  





Bibliografia. F. Tocco, Le opere inedite di G. B., Napoli, 1892 ; K. Svoboda, La Démonologie de Michel Psellos, Brno, 1927 ; M. Cortesi e E.V. Maltese, Per la fortuna della demonologia pselliana in ambiente umanistico, in Dotti bizantini e libri greci nell’Italia del secolo xv, Napoli, 1992, 129-192 ; E.V. Maltese, « Natura daemonum… habet corpus et versatur circa corpora » : una lezione di demonologia dal medioevo greco, in Il demonio e i suoi complici. Dottrine e credenze demonologiche nella Tarda Antichità, a cura di S. Pricoco, Soveria Mannelli, 1995, 265-284 ; S. Bassi, Struttura e diacronia nelle opere magiche di G. B., « Rinascimento », ii s., xl, 2000, 3-17 ; D. Giovannozzi, « Porphyrius, Plotinus et alii Platonici ». Echi neoplatonici nella demonologia bruniana, « Bruniana & Campanelliana », vi, 2000, 1, 79-103 ; N. Tirinnanzi, Eroi e demoni tra Ficino e B., in La magia nell’Europa moderna. Tra antica sapienza e filosofia naturale, Atti del Convegno (Firenze, 2-4 ottobre 2003), a cura di F. Meroi, Firenze, 2007, 397-416 ; W. Stephens, Habeas corpus. Demonic Bodies in Ficino, Psellus, and Malleus Maleficarum, in The Body in Early Modern Italy, ed. by J.L. Hairston and W. Stephens, Baltimore, 2010, 74-91.  































Delfina Giovannozzi infinito (infinitum) — secc. xvii-xviii 1. Presentazione. — Nel vastissimo dibattito sull’infinito, si ritaglieranno quelle sezioni che possono essere messe in connessione

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con il modo in cui questo tema viene affrontato nell’opera bruniana. Ci si interrogherà al tempo stesso sulla declinazione di un concetto e sulla ricezione del pensiero di B., una ricezione che assume per lo più le forme della confutazione o della presenza sotterranea, ancora ben oltre la metà del Seicento. La fortuna di B., almeno fino a quando John Toland non rimise in circolazione lo Spaccio, è prevalentemente legata alla discussione delle sue teorie cosmologiche, il che rispecchia da un lato l’importanza di questo tema nel suo pensiero, dall’altro la circolazione materiale delle sue opere. Buona parte della diffusione del pensiero di B. ruota quindi intorno all’esame del suo infinitismo e, simmetricamente, buona parte della discussione sull’infinito cosmologico deve confrontarsi con ciò che ne aveva detto B. Vale la pena ricordare i tratti essenziali dell’universo infinito bruniano, in modo da valutare poi più facilmente il tipo di interpretazioni che ne verranno date nei secoli successivi. Infrangendo una plurisecolare tradizione, B. ritiene che possa esistere un corpo infinito in atto sia dal punto di vista dell’estensione spaziale, sia della quantità numerica : l’universo è infinito e infiniti sono i mondi che lo compongono, ossia i sistemi planetari. Netta è l’opposizione alla fisica e alla cosmologia aristotelica e tolemaica, in nome di una filosofia che unisce in maniera originale adesione al copernicanesimo, motivi di ispirazione cusaniana, eredità lucreziane ed elementi averroisti. L’universo infinito è tale in quanto strettamente correlato, fino a diventare inseparabile, all’infinito divino : di esso è immagine e simulacro. Certo, nell’attribuire a Dio l’infinità, B. non fa che rielaborare una lunga tradizione teologica ; ma il modo in cui essa viene declinata è decisamente originale. Gli attributi divini coincidono infatti fino a diventare indistinguibili l’uno dall’altro : per questo Dio, infinito in atto, può solo generare un infinito altrettanto attuale, l’universo, senza che nel divino vi sia spazio per nessun tipo di diversificazione tra atto e potenza, tra intelletto e volontà, tra potenza attiva e potenza passiva, tra potenza assoluta e potenza ordinata, come invece avveniva nella tradizione teologica precedente.  







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2. Né infinito né uniforme : l’universo di Keplero. — La conoscenza, almeno indiretta, delle tesi bruniane è precoce in Keplero. Alla fine del 1603, infatti, Edward Bruce gli scrive riassumendo le caratteristiche salienti dell’universo di B. : l’uniformità materiale (anche le stelle sono composte di elementi simili a quelli terrestri) ; la somiglianza tra i moti del Sole e quelli delle altre fisse ; la presenza di sistemi planetari intorno alle altre stelle ; l’infinità dei mondi [1]. Tre anni dopo, commentando l’apparizione di una nova nel 1604, Keplero prende una risoluta posizione antibruniana, che manterrà per tutta la vita. La sua confutazione muove essenzialmente da argomenti astronomici, cosicché la base metafisica e teologica in cui si ancorano le sue teorie cosmologiche rimane in gran parte nascosta. Keplero prende in primo luogo di mira l’uniformità del cosmo bruniano : cerca così di dimostrare che l’aspetto del cielo non potrebbe mai essere lo stesso per un osservatore situato sulla Terra e per uno posto invece su una stella. L’universo non può quindi definirsi omogeneo : se ne deve concludere che la disposizione delle fisse nello spazio è tale da renderci degli osservatori privilegiati, facendo sì che il cielo stellato visibile dalla Terra sia unico e irripetibile. Keplero ricalca quindi le confutazioni tradizionali dell’infinito, elencando le aporie che comporterebbe l’idea di uno spazio o di un corpo infiniti [2]. Questa linea dimostrativa, che confuta entrambe le caratteristiche dell’universo bruniano, l’uniformità e l’infinità, si rivela di lunga durata nel pensiero di Keplero : con argomentazioni talora diverse riaffiorerà nelle pagine dell’Epitome astronomiae Copernicanae (1618-1621). Mentre le obiezioni all’infinitismo provengono per lo più dall’arsenale della tradizione aristotelica, quelle contro l’uniformità dell’universo sono più originali e mettono a frutto le competenze astronomiche di Keplero. Il suo universo mantiene una struttura più fedelmente copernicana a livello cosmologico : il Sole ne occupa il centro ; in uno spazio immenso, le cui dimensioni sono dettate dalle esigenze dell’astronomia eliocentrica, si muovono i sette pianeti ; alla sua periferia troviamo delle stelle, astri  





















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dotati di luce propria ma non simili al Sole, disposte sfericamente intorno al mondo [3]. Se a sostegno di queste tesi Keplero espone anche una complessa analogia trinitaria, altri motivi, oltre a quelli astronomici, lo inducono a preferire una struttura cosmologica decisamente disomogenea, che ritaglia un ruolo particolare non solo al Sole, cor mundi, ma anche alla Terra. Keplero, infatti, non è disposto a eliminare del tutto il ruolo privilegiato dell’uomo. Egli riporta in vita l’antico tema stoico del contemplator coeli, una concezione compatibile solo con un universo finito e disomogeneo. È quanto appare con estrema chiarezza nella Dissertatio cum nuncio sidereo : Keplero afferma che la posizione centrale della Terra nell’ordine dei pianeti le permette al tempo stesso di separare le due classi di solidi platonici, secondo cui sono disegnate le orbite planetarie, e di essere un osservatorio assolutamente privilegiato all’interno del sistema solare. Solo l’uomo, quindi, può riconoscere appieno la struttura geometrica che presiede alla costruzione del sistema solare, ossia il segno di Dio [4]. Volendo schematizzare, la reazione di Keplero alle teorie bruniane viene dettata dallo stesso tipo di preoccupazioni che muovono l’interlocutore plutarcheo nel De defectu oraculorum : si tratta di proporre un superamento del modello cosmologico aristotelico, opponendosi al tempo stesso all’empio materialismo degli atomisti, in un caso, o di B., nell’altro. Bisogna cioè mantenere la presenza della divinità nel mondo e mostrare la sua azione provvidenziale attraverso il suo sigillo sulla natura, l’ordine. Per Plutarco questo scopo è raggiunto escludendo che i mondi possano nascere dall’incontro fortuito degli atomi ; per Keplero attribuendo al mondo una struttura geometrica che testimonia l’intervento creatore di Dio ed esclude l’infinità dell’universo. 3. Uniforme ma non infinito : l’universo ordinato di Campanella. — L’opinione di Campanella sull’infinità dell’universo si modifica nel tempo, seguendo sia l’evoluzione delle teorie astronomiche, sia le imposizioni dettate dalle condanne ecclesiastiche. Almeno cinque fattori si intrecciano variamente tra  







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loro : la necessità di non contravvenire apertamente a quanto stabilito dalla Chiesa ; l’adesione alla filosofia telesiana ; il rifiuto della cosmologia democriteo-lucreziana ; la forte fascinazione per le scoperte telescopiche di Galileo e l’altrettanto persistente tentativo di conciliare una struttura cosmologica di tipo moderno con gli elementi precedentemente elencati. Il risultato, depurato per estrema sintesi da tutte le oscillazioni che sarebbe possibile registrare nei numerosi scritti campanelliani che affrontano questi temi, porta a una netta condanna dell’infinitismo, in base ad argomenti in gran parte estratti dalla tradizione, che mirano a mettere in luce le aporie dell’infinito in atto. Come in Keplero, però, e in maniera esplicita, è in atto anche una strategia che potremmo definire plutarchea : se l’obiettivo polemico è sia il modello cosmologico atomista sia quello di B., suo moderno emulo, non basta dimostrare che l’universo non possa essere infinito, ma bisogna anche provare che in esso non regni il caso, bensì l’ordine, manifestazione sensibile di un creatore provvidente. L’ordine però è compatibile con la teoria della pluralità dei mondi : è quindi possibile conciliare Tommaso e Galileo. Come afferma l’Apologia pro Galileo, infatti, basta ritenere, come lo scienziato fiorentino, che i diversi sistemi solari siano organizzati in un unico sistema che li ricomprende tutti, per evitare gli errori di Democrito ed Epicuro e trovarsi d’accordo con Tommaso [5]. Saranno la Philosophia realis e la Metaphysica a mostrarci però che la fisica telesiana, da Campanella mai abbandonata in maniera definitiva, si armonizza comunque a fatica con questo universo pluralista : l’analogia tra il Sole e le fisse non è perfetta perché solo il Sole è costituito da fuoco puro, mentre le stelle contengono anche altri elementi, come attesta il fatto che abbiano una luce colorata [6]. Leggere le novità proposte dall’astronomia moderna con le lenti della tradizione classica, come fa Campanella, ha molteplici vantaggi, anche se inevitabilmente introduce fattori distorsivi. Un primo vantaggio è di tipo teorico : è indubbio, per esempio, che esistano delle somiglianze tra il cosmo bruniano e quello degli atomisti anti 















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chi. È questo del resto uno dei motivi dell’interesse per B. manifestato dai membri del Northumberland Circle, in particolare da William Gilbert, Thomas Harriot e Nicholas Hill, e, più tardi, da Henry More. L’altro vantaggio è rendere possibile discutere delle teorie senza essere obbligati a fare nomi che potrebbero attirare l’attenzione dell’Inquisizione : una conseguenza senza dubbio imbarazzante per una persona che, come Campanella, ha vissuto gran parte della sua vita da prigioniero o da sorvegliato speciale. Parlare di Democrito o dei Pitagorici, invece che di B. e dei seguaci di Copernico, può quindi permettere di prendere posizione rispetto al dibattito contemporaneo, ma anche fornire qualche protezione formale rispetto ai guardiani dell’ortodossia. Il rischio è perdere di vista la peculiare struttura argomentativa dell’infinitismo di B., riducendo il dibattito alla grande dicotomia tra fautori del caso e del determinismo, da una parte, e fautori dell’ordine provvidenziale dall’altra. Non tutte le letture di B. sub specie Democriti portano tuttavia a questo esito : basta scorrere la Philosophia Epicurea di Nicholas Hill per trovarvi aperte citazioni del De immenso che insistono sulla semplicità di Dio, sulla coincidenza di libertà e necessità, sull’opportunità che l’infinita potenza divina non rimanga inattiva, e produca quindi un mondo infinito. Ed è questo aspetto della filosofia di B. che attirerà l’attenzione anche di Marin Mersenne. 4. L’infinito e il necessitarismo : Mersenne. — Sia Keplero sia Campanella si concentrano sugli aspetti propriamente cosmologici dell’universo infinito : il loro giudizio su B. nasce certamente da presupposti metafisici, che tuttavia agiscono solo come sfondo influente, senza indurli a prendere in esame i fondamenti filosofici della cosmologia bruniana. Mersenne invece sembra quasi assumere un atteggiamento opposto. Egli affronta le nuove teorie astronomiche a due riprese, nel 1623 e nel 1624. Dapprima la conoscenza delle opere bruniane è indiretta, filtrata essenzialmente dagli accenni che trova nell’Apologia pro Galileo di Campanella e nella Dissertatio cum nuncio sidereo di Keplero. Mersenne legge in seguito numero 







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si testi del filosofo italiano : nell’Impiété des Déistes cita due trattati latini (il De minimo e il Sigillus), e due dialoghi italiani (il De l’infinito e il De la causa). Negli anni successivi, in una continuazione delle Quaestiones in Genesim rimasta tuttora manoscritta, menzionerà anche il De monade e il De immenso : solo Gabriel Naudé ha all’epoca in Francia una conoscenza altrettanto vasta degli scritti bruniani. Sebbene molte cose cambino tra le Quaestiones in Genesim e L’impiété des Déistes, l’impostazione di fondo della confutazione dell’universo infinito rimane immutata. Scarsamente attirato dalla fisica e dalla cosmologia aristotelica, e anzi sensibile alle novità scientifiche, il Minimo sembra interessato unicamente a salvaguardare la libertà di Dio e l’eterogeneità tra il creatore e la creatura. L’origine della sua opposizione a B. va individuata in una radicale distanza teologica dalle tesi del Nolano. Per Mersenne Dio non può essere un agente necessario, perché c’è una differenza tra i possibili concepiti dal suo intelletto, di numero infinito, e le cose, finite, che sceglie di creare. Egli ribadisce dunque che il mondo è il prodotto della libera volontà di Dio, che ha scelto di crearlo finito e unico in modo da testimoniare concretamente il carattere contingente della creatura. Dio, del resto, esplica la sua perfezione non creando enti a lui esterni, che nulla possono apportargli e che non possono nemmeno essere a lui paragonati, ma nella generazione delle persone della Trinità [7]. Questa impostazione è fortemente selettiva : Mersenne, per esempio, ignora quasi del tutto gli argomenti più specificamente fisici del De l’infinito e perfino l’adesione al copernicanesimo. Ne risulta un’immagine che fa del filosofo italiano un eretico bruciato a Roma, autore di pericolose tesi che naturalizzano i miracoli, usano la teoria dell’anima del mondo in funzione immanentista, e dimostrano l’infinità dell’universo su basi necessitariste : un personaggio quindi che poco avrebbe in comune con il progresso scientifico. 5. Presenze sotto traccia : Galilei e Gassendi. — Sempre molto prudente nei suoi scritti e forse effettivamente poco interessato alle indagini cosmologiche, Galileo lascia diffi 









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cilmente trapelare qualcosa del suo pensiero sull’argomento. Quando accenna all’esistenza degli extraterrestri o alle ipotesi sulle dimensioni dell’universo, lo fa attraverso una figura retorica simile : si rifiuta di prendere una posizione, positiva o negativa che sia, ma non per questo rinuncia a rendere ridicole le opinioni degli avversari aristotelici. Nel Dialogo sopra i massimi sistemi, rispondendo a Tycho Brahe che criticava l’eccessiva grandezza del cosmo copernicano, Galileo ricorre a quello che può essere considerato un leitmotif : non dobbiamo giudicare le opere divine a partire dalle nostre capacità di comprensione o, ancora peggio, dalle nostre esigenze e dai nostri gusti. Come afferma anche discutendo della presenza di vita sulla Luna, la ricchezza della natura e l’onnipotenza divina, infatti, superano i limiti che le nostre deboli capacità conoscitive tendono a imporre loro [8]. La logica conclusione è che concetti come grande, piccolo, immenso, piccolissimo, sono termini relativi, che acquistano senso solo nell’ambito di una comparazione tra due oggetti. È solo la nostra immaginazione, e non un reale difetto di natura, a farci credere che l’immensità dell’universo possa essere eccessiva [9]. Ciò potrebbe aprire la via a quanti, come B., sostenevano che l’universo debba essere infinito proprio in rapporto all’onnipotenza divina. Ma Galileo non si pronuncia mai apertamente in questo senso, pur propendendo per questa tesi. In una lettera a Liceti del 1641, Galileo afferma per esempio che non solo ignoriamo quale sia la figura dello spazio, ma che non possiamo nemmeno determinare se lo spazio possegga una figura (cioè se il mondo sia finito o infinito : aristotelicamente finitezza e figurabilità si implicano) [10]. In una precedente lettera a Liceti del 24 settembre 1639, Galilei conferma che a suo parere non esistono dimostrazioni che « concludono necessariamente » né per l’una né per l’altra tesi ; ma aggiunge che proprio questa mancanza di dimostrazioni lo spinge a ipotizzare che l’universo possa essere infinito, visto che solo l’infinito sfugge per definizione alla nostra comprensione. Subito dopo, tuttavia, conclude che in fondo questo è un problema  











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destinato a rimanere insoluto : ci dobbiamo rimettere al testo delle Scritture, come per le questioni più propriamente teologiche della predestinazione e del libero arbitrio [11]. Se la posizione di Galileo sull’universo infinito rimane prudente, non altrettanto si può dire delle sue opinioni sulla sua uniformità. L’universo di Galilei è profondamente diverso da quello kepleriano, a prescindere dalla comune adesione all’eliocentrismo : non ci sono un centro e una periferia ; le stelle sono Soli ; manca qualunque disposizione gerarchica dei corpi celesti che privilegi il nostro sistema o il nostro pianeta. Potremmo quindi dire che Galileo porta a termine un processo che Keplero e Campanella avevano solo iniziato : si appropria del tema bruniano (e, prima ancora, atomista) dell’uniformità dell’universo e lo dispiega compiutamente, indicando così un modo in cui far rivivere le teorie del filosofo italiano. Non solo : i suoi scritti mostrano, seppur timidamente, anche un altro modo per rifunzionalizzare il pensiero di B. Se infatti nel discutere dell’infinità dell’universo non si fa cenno né alla problematica caso/ordine, suscitata dalla reminiscenza delle polemiche anti-atomiste, né al fondamento necessitarista che B. dà alle sue argomentazioni, si stacca questo dibattito da ogni sfondo di tipo teologico, rendendolo disponibile a un esame che si basi solo su principi filosofici e scientifici. Quest’ultimo suggerimento galileiano non avrà molta fortuna nell’immediato, mentre invece incontrerà un favore molto maggiore il tentativo di dissociare il tema dell’uniformità dell’universo da quello della sua infinità. Prendiamo l’esempio di Pierre Gassendi. Il Syntagma philosophicum procede dando un’accurata rassegna dossografica per ogni argomento trattato : è il caso anche della sezione dedicata alle dimensioni dell’universo, dove B. viene esplicitamente menzionato [12]. Le sue prove dell’infinità dell’universo sono però confutate, con ragionamenti che richiamano fortemente alla mente quelli di Mersenne. Gli argomenti che deducono l’infinità del mondo da quella di Dio non sono validi e quindi non ha neanche senso volere un universo infinito per potervi meglio riconoscere la divinità [13].  













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Se tuttavia abbiamo la pazienza di scorrere tutto il Syntagma, possiamo constatare che in altre sezioni dell’opera, dal tenore più tecnicamente astronomico, riaffiorano temi e metafore bruniane. L’universo è dunque composto in modo tale che un ipotetico osservatore abbia l’impressione di trovarsi al suo centro ovunque si sposti ; se si guardasse il nostro sistema da una stella fissa, esso apparirebbe come una qualunque altra stella ; le fisse sono simili al Sole ; i diversi sistemi comunicano tra di loro ; le stelle sono sparse nello spazio e forse ve ne sono alcune, lontanissime, che sfuggono alla nostra osservazione ; l’universo può essere paragonato ad un bosco [14]. Separando il necessitarismo infinitista, rifiutato per motivi teologici spesso connessi a motivazioni epistemologiche (l’infinità dell’universo non è scientificamente dimostrabile), dall’uniformità dell’universo aperto è possibile cercare di traghettare all’interno dell’ortodossia cattolica o protestante le acquisizioni della scienza moderna. È quanto cercheremo di mostrare nei paragrafi successivi. 6. Onnipotenza divina e apologetica : percorsi tra Cinque e Settecento. — Un filo sottile ma tenace sembra legare l’astronomia copernicana e il tema dell’onnipotenza divina. Il mondo eliocentrico, infatti, anche senza essere infinito, non solo è immensamente più grande del mondo aristotelico-tolemaico, ma rompe la continuità tra le sfere celesti, imponendo di situare uno spazio enorme tra Saturno e le stelle fisse. Uno spazio che molti, come Tycho Brahe e Libert Froidmont, riterranno inutile, perché vuoto di corpi, e dunque in contrasto con la saggezza divina, mentre altri, come Christoph Rothmann e Philip van Lansbergen, vi vedranno la manifestazione dell’onnipotenza del creatore. Non che gli oppositori dell’eliocentrismo non avessero a cuore l’onnipotenza divina : solo che la vedevano realizzata nel moto rapidissimo dell’ultima sfera celeste. Nel corso del Seicento, tuttavia, l’idea che un mondo immenso (ma quasi sempre non infinito) traduca in un’immagine materiale la saggezza e la potenza di Dio si rivela ben più seducente di quella di una sfera di stelle dall’enorme velocità. La pluralità dei mondi abitati, insom 













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ma, si presenta come una versione scientificamente aggiornata e teologicamente accettabile del principio di pienezza platonico, con il suo universo popolato dalle diverse gerarchie di spiriti : la tendenza a descrivere come esseri superiori gli abitanti degli altri pianeti, anche per evitare i noti problemi del preadamistismo in versione planetaria, è del resto rintracciabile non solo in Nicola Cusano e in Campanella, ma anche in Athanasius Kircher e perfino in Christiaan Huygens. Un po’ ovunque, con un’accelerazione nella seconda metà del Seicento e una svolta decisiva a fine secolo in Inghilterra, vediamo ripreso il tema dell’immensità del mondo come manifestazione della potenza divina : compare in autori cattolici come Nicolas Caussin e Pierre Borel, o in un protestante come Otto von Guericke, ma diventa un vero e proprio filo conduttore in Inghilterra, dove caratterizza non solo la riappropriazione del platonismo tipica di Henry More, ma anche l’innesto di temi apologetici nelle nuove teorie scientifiche realizzato da John Wilkins e Thomas Burnet. Qualche decennio più tardi, quando una parte della Chiesa inglese sentirà l’urgenza di rispondere all’offensiva dei free­thinkers e al loro modo di riportare in auge le filosofie antiche e rinascimentali, l’uso apologetico delle dimensioni dell’universo e della varietà delle creature che in esso sono contenute diventerà la cifra delle Boyle Lectures e dei newtoniani ortodossi, che riusciranno là dove Galileo e Descartes avevano fallito : far dimenticare B. e la stretta connessione tra l’infinitismo e il necessitarismo, per propagandare invece un universo immenso e uniforme, immagine della saggezza e della potenza di Dio, come un efficace antidoto contro i nuovi panteismi e materialismi. 7. Dizionari e storie della filosofia : Bayle, Morhof, Brucker. — Le prime edizioni delle opere di B. sono rare, soprattutto alcune : è noto che lo Spaccio veniva venduto a prezzi alquanto elevati tra fine Seicento e inizio Settecento, e che chi riusciva a entrarne in possesso, come John Toland, ne diffondeva le tesi ma senza farne prendere delle copie. La conoscenza del pensiero di B. è dunque spesso di seconda mano : di qui l’importanza che  











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rivestono, particolarmente nel suo caso, i dizionari, le enciclopedie e le prime storie della filosofia. L’immagine tramandata è determinata talvolta non solo da precise scelte ideologiche, ma anche dall’impossibilità di avere accesso ai testi originali. Difficile sopravvalutare il ruolo che il Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle ha avuto nel raccogliere, filtrare e diffondere informazioni ma, soprattutto, nell’elaborare categorie interpretative della storia della filosofia antica e moderna. Anche B. ha diritto a un suo articolo : sebbene Bayle non sia affatto simpatetico con il filosofo italiano. Il testo della voce ne loda l’intelligenza e ne mette in luce l’avversione per l’aristotelismo, ma sottolinea anche il carattere empio delle sue opinioni : la Remarque B si incarica infatti di riportare le accuse formulate da Kaspar Schopp. L’antipatia bayliana non è innescata dalla tesi dell’eternità del mondo, dal preadamitismo o dall’interpretazione di Mosè come un mago : la sua origine è altrove. Come sempre, Bayle inserisce l’autore di cui sta parlando in un ampio reticolo di riferimenti teoretici : il primo filosofo citato in questo caso è Descartes, evocato sulla scia di Leibniz e di Pierre-Daniel Huet. Non è però questa la pista che Bayle segue : eppure gli sarebbe stato facile, proprio sulla scorta di Huet, stabilire una genealogia filosofica fondata sull’atomismo e sulla teoria dell’infinità dell’universo, da Leucippo a Descartes, passando per B. Sebbene il copernicanesimo e la cosmologia bruniana siano presenti nell’articolo del Dictionnaire, sebbene Bayle abbia perfino avuto tra le mani il rarissimo Spaccio, grazie a Toland, la cifra del pensiero di B. a suo parere non si trova né nella sua fisica, né nella morale, bensì nella sua metafisica. Bayle ha letto il De la causa e ne ha ricavato la netta impressione che il filosofo italiano sia un monista : non a Descartes e al suo problematico dualismo va quindi accostato, bensì a Spinoza. Con un’aggravante : B. è oscuro, addirittura più oscuro degli scolastici. Si tratta di una lettura in qualche modo inedita, perché Bayle non segue le tracce di Mersenne : quello che lo interessa non è confutare il necessitarismo, o riportare in auge la libertà  















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del volere divino, o ristabilire la distanza tra il creatore e la creatura, ma iscrivere B. nella grande dicotomia tra dualismo e monismo che percorre tutta filosofia occidentale. La sua interpretazione non si fonda quindi sul De l’infinito o sul De immenso, ma sul De la causa, riletto prestando attenzione al tema dell’unità dell’essere e non a quello dell’anima del mondo [15]. Sei anni dopo, nel 1708, vedono la luce postumi i due volumi del Polyhistor di Daniel Georg Morhof. Sebbene le fonti di Morhof siano in gran parte simili a quelle di Bayle, le conclusioni che ne trae l’erudito tedesco sono opposte : B. non è assimilabile a Spinoza, e quindi non è lecito accusarlo di ateismo. Se, come in tutta la ricezione tedesca, viene fatto spazio alle opere lulliane, di cui tuttavia si sottolinea l’oscurità, Morhof sceglie di valorizzare gli scritti cosmologici di B., e in particolare il De immenso, situandolo in una diversa famiglia filosofica. B. è, insieme a Pierre Gassendi, Walter Charleton, e Robert Boyle, un esponente dell’epicureismo moderno che riporta in auge l’ipotesi dell’infinità dei mondi, come del resto faranno in tempi più recenti anche Huygens e Fontenelle. Ritornando sull’argomento, in una galleria di filosofi in cui B. compare in compagnia di David Gorlaeus, Nathanael Carpentarius, Thomas Hobbes, Robert Fludd, Henri de Rochaz e William Gilbert, Morhof precisa parentele e affinità : il De immenso è un prosimetro, comparabile al poema lucreziano ; la cosmologia di B. molto deve a Copernico e a Cusano. La somiglianza tra la Luna e la Terra e l’ipotesi che essa possa essere abitata sono temi che compaiono anche in Galileo, Keplero e Kircher, mentre l’Apologia pro Galileo di Campanella si è incaricata di mostrare che queste teorie non entrano in collisione con il rispetto per il testo sacro. Il quadro delle parentele diventa ancora più complesso poco oltre, quando si discute della quantità dei corpi e del mondo : alla lista di autori già evocati, viene aggiunto Descartes. Pur sottolineando la distanza tra la teoria cartesiana dell’indefinito e quella bruniana dell’infinità dei mondi, Morhof accentua la sostanziale continuità tra la struttura cosmologica dell’uni 







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verso bruniano e quella che emerge dalle pagine di Galileo e di Descartes : il loro universo è un’uniforme ripetizione di sistemi solari, in cui esistono molti soli e molte terre, ossia « plures mundos » [16]. Sotto il segno di Epicuro, Morhof disegna dunque una genealogia dell’astronomia moderna che, portando in primo piano l’opposizione ad Aristotele, espunge i temi che hanno creato tensione con l’ortodossia (si parla dell’esistenza di abitanti su altri pianeti, ma si tace del necessitarismo, del monismo e perfino della compatibilità tra copernicanesimo e letteralismo biblico) e mette in luce parentele reali, ma che si erano create solo grazie a interpretazioni che avevano manipolato in profondità le tesi bruniane. Il prezzo da pagare è occultare ogni altra dimensione dell’opera di B. ; l’effetto non secondario è riabilitarlo rispetto all’accusa di ateismo : B. non è dunque della stessa stregua di Spinoza o di Vanini [17]. A una conclusione simile arriva Jakob Brucker, che però ha alle spalle la celebre polemica tra Mathurin Veyssière de la Lacroze e Christoph August Heumann, che animò le pagine degli Acta philosophorum tra il 1715 e il 1720. Sebbene avesse consultato personalmente Lacroze nel 1737, ricevendone una conferma delle tesi esposte per la prima volta nel 1711 (B. è un ateo, e al suo pernicioso influsso va fatta risalire buona parte del pensiero moderno, ivi comprese alcune opinioni di Leibniz), Brucker sceglie di percorrere tutt’altra strada, ossia di rivisitare le teorie di Heumann, inserendole nel suo personale disegno dell’evoluzione delle teorie filosofiche. B. non è dunque un ateo, ma nemmeno il martire luterano che dipingeva Heumann, sebbene abbia scritto pagine molto elogiative sull’accoglienza avuta a Wittenberg e abbia anche aderito alla Riforma. Lo statuto di relapsus spiega la severità dell’Inquisizione nei suoi confronti : è molto più probabile che sia questa l’origine della sua condanna a morte, piuttosto che la tesi dell’infinità dei mondi o le ingiurie contro il Cristianesimo, dal momento che la Chiesa ha tollerato le empietà di Pomponazzi, Porzio e Cremonini. Bisogna, in breve, distinguere tra il motivo della condanna di B. e il  











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contenuto delle sue opere [18]. Le ragioni della peculiare collocazione di B. nella complessa architettura dell’Historia critica philosophiae sono tuttavia da ricercare altrove : non sono né le sue empietà né il presunto ateismo a sollecitare l’interesse di Brucker. A B. viene dato infatti un posto di tutto rilievo : è il primo esponente del rinnovamento della filosofia, in quanto adepto di quello che Brucker definisce come eclettismo. Si trova in una lista che comprende Cardano, Bacone, Campanella, Hobbes, Descartes, Leibniz e Christian Thomasius, in una sezione dedicata a chi ha apportato cambiamenti non a uno specifico settore della filosofia, ma alla disciplina nel suo complesso. B., dunque, non può essere annoverato tra i meri restauratori di questa o quella setta filosofica antica. Anche secondo Brucker esiste una continuità tra la filosofia di B. e quella di alcuni moderni, Descartes e Leibniz in particolare, ma questa continuità non va identificata tanto in singole tesi che trapasserebbero dai suoi scritti a quelli altrui, quanto nel metodo che struttura la riflessione filosofica nel suo complesso. Se questa è dunque la collocazione di B. nella storia della filosofia, quali sono i tratti del suo pensiero che Brucker valorizza e quale immagine viene dunque veicolata dal suo testo ? Le sue tesi sono nuove, ma astruse, oscure e paradossali [19] ; il suo ingegno è vivo, ma caratterizzato da un’immaginazione feconda fino all’eccesso : è questo il leitmotif della presentazione di Brucker [20]. La classificazione di B. tra gli « ingenia phantastica et enthusiastica » è certamente funzionale a perorare la causa della sua distanza dall’ateismo. B. non possiede quindi la virtus principale di ogni grande filosofo, ma ciò non vuol dire che non abbia trovato nessuna verità. Anzi : l’immaginazione lo ha portato a intuire cose che solo in seguito sono state provate razionalmente [21]. Alla famiglia filosofica meccanicista che va da Democrito a Descartes passando per B., e a quella che invece connette quest’ultimo a Spinoza in nome del monismo si potrebbe aggiungere forse il nesso B.-Leibniz-Spinoza ? No, perché Brucker, pur riportando le accuse di necessitarismo avanzate contro B. [22], e pur  

















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ritenendolo colpevole di empietà, non crede però che sia ateo e nemmeno che sia assimilabile a Spinoza [23]. Si può infatti parlare nel suo caso di monismo, ma non in senso spinozistico, bensì emanativo : B. quindi è sì assimilabile ai Pitagorici e alla scuola eleatica di Parmenide ma, contrariamente alle convinzioni di Bayle, non tutti i monismi sono uguali, perché al modello stoico-spinozista si oppone quello bruniano-parmenideo. B. dunque sarebbe un entusiasta, un panteista, e non un ateo. Le grandi sintesi storico-filosofiche settecentesche mostrano l’esaurirsi della vitalità dell’infinitismo bruniano : altri sono i temi della sua filosofia che possono essere più efficacemente rifunzionalizzati sulla base dell’evoluzione del dibattito filosofico : il vitalismo, il necessitarismo, il monismo. Se e quando compare, l’infinitismo è privato del suo retroterra metafisico e spesso accostato alla teoria della pluralità dei mondi : un’operazione finalizzata a inserire B. tra i padri della cosmologia moderna, insieme a Copernico, Galileo, Descartes e i loro più recenti seguaci, e a rintuzzare le accuse di ateismo, conferendogli un ruolo importante ma al prezzo di semplificare il suo pensiero.  







Note. [1] J. Kepler, Briefe 1607-1611, in Gesammelte Werke, a cura di W. von Dick e M. Caspar, xvi, München, 1954, 39, 86, 116, 142 e 166. – [2] Idem, De stella nova in pede Serpentarii, in Gesammelte Werke, i, München, 1938, 251-257. – [3] Idem, Epitome Astronomiae Copernicanae, in Gesammelte Werke, vii, München, 1953, 43-46, 51. – [4] Idem, Dissertatio cum nuncio sidereo, in Gesammelte Werke, iv, München, 1941, 302-303, 307-309. – [5] Apologia 2001, 135-141. – [6] Phil. realis, 104-106 ; Metaphysica, ii, 52, 53, 70-77, 140, 143. – [7] M. Mersenne, Quaestiones in Genesim, Lutetiae Parisiorum, 1623, 1090-1092 ; Idem, L’Impiété des Déistes, Athées et libertins de ce temps, Paris, 1624, 299-339. – [8] G. Galilei, Dialogo sopra i massimi sistemi, in Le Opere di Galileo Galilei. Edizione Nazionale sotto gli auspici di Sua Maestà il re d’Italia, a cura di A. Favaro, vii, Firenze, 1897, 126-127 e 393-397. – [9] Idem, Carteggio. 1639-1642, in Le Opere di Galileo Galilei, xviii, Firenze, 1906, 530. – [10] Ivi, 293294. – [11] Ivi, 106. – [12] P. Gassendi, Syntagma philosophicum, in Opera omnia, Lugduni, 1658, i, 140. – [13] Ivi, 142. – [14] Ivi, 150-151, 152-155, 505, 512, 533, 579, 586, 666, 668-669. – [15] P. Bayle,  



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Dictionnaire historique et critique, Amsterdam, 1740 (rist. anast. Genève, 1995), i, 679-680. – [16] D.G. Morhof, Polyhistor, in tres tomos, Lubecae, 1708, ii, 27-29, 73-74, 244-245, 355-356, 359, 370-372. – [17] Ivi, 73-74. – [18] J. Brucker, Historia critica philosophiae a mundi incunabulis ad nostram usque aetatem deducta, Lipsiae, 1742-1744, iv-2, 28. – [19] Ivi, 12, 18, 21, 26, 33, 34, 52, 54-55, 60, 62. – [20] Ivi, 15, 22, 29-31, 36, 38, 54, 60. – [21] Ivi, 31. – [22] Ivi, 33, 47-50. – [23] Ivi, 38, 47-62. Bibliografia. A.O. Lovejoy, La grande catena dell’essere, Milano, 1966 ; A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano, 1984 ; R. Sturlese, Bibliografia, censimento e storia delle antiche stampe di G. B., Firenze, 1987 ; S. Ricci, La fortuna del pensiero di G. B. 1600-1750, Firenze, 1990 ; Infini des philosophes, infini des astronomes, éd. par F. Monnoyeur, Paris, 1995 ; M.-P. Lerner, Le monde des sphères. ii. La fin du cosmos classique, Paris, 1997 ; A. Del Prete, Universo infinito e pluralità dei mondi. Teorie cosmologiche in età moderna, Napoli, 1998 ; C. Buccolini, Una ‘Quaestio’ inedita di Mersenne contro il De immenso, « Bruniana & Campanelliana », v, 1999, 1, 165-175 ; Mapping the World of Learning : The Polyhistor of Daniel Georg Morhof, ed. by F. Waquet, Wiesbaden, 2000 ; J. Seidengart, Dieu, l’univers et la sphère infinie : penser l’infinité cosmique à l’aube de la science classique, Paris, 2006 ; M. Cabada Castro, Recuperar la infinitud. En torno al debate histórico-filosófico sobre la limitación o illimitación de la realidad, Madrid, 2008 ; L. Catana, The Historiographical Concept “System of Philosophy”. Its Origin, Nature, Influence and Legitimacy, Leiden, 2008 ; S. Bassi, G. B. nell’interpretazione di Pierre Bayle, in « Et mi feci far una vesta di panno bianco … me partì et andai a Paris ». G. B. e la Francia, a cura di D. Bigalli e R. Gorris Camos, Roma, 2009, 35-52 ; M.Á. Granada, Mersenne’s Critique of G. B.’s Conception of Relation between God and Universe. A Reappraisal, « Perspectives on Science », xvii, 2010, 26-49.  









































Antonella Del Prete minimo (minimum) 1. La rilevanza del concetto di minimo nella filosofia bruniana. –– La categoria concettuale del minimo risulta essere tra le più feconde nell’opera di B. Essa trova applicazione nella speculazione ontologica, così come in quella fisica, cosmologica e matematica, assumen-

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do di volta in volta accezioni e correlazioni semantiche nuove, sebbene tutte riconducibili allo stesso orizzonte teorico. La rilevanza che il minimo riceve nella riflessione bruniana ci è testimoniata senz’altro dalla scelta del filosofo di dedicare ad esso un trattato monografico (De triplici minimo et mensura), trattato che apre la trilogia dei Poemi latini, in cui è raccolta, come in un sistema, la riflessione teoretica più matura di B. Tuttavia, è la trasversalità del concetto di minimo che, attraversando l’intera produzione bruniana e innescandosi con le diverse tematiche da essa toccate, rende imprescindibile lo studio di tale nozione. In ambito ontologico esso rappresenta la contractio dell’essere, coincidente col massimo, sua explicatio. In ambito fisico il minimo è l’atomo, sostanza indivisibile di tutti i corpi ; nella matematica è l’unità, da cui si origina il numero ; in geometria è il punto, da cui scaturiscono tutte le figure, cosicché « naturae et artis subiectum et obiectum, compositio et resolutio agendo et contemplando ex minimo oritur, in minimo consistit et ad minimum reducitur » [1]. L’utilizzo del concetto di minimo in una gamma così ampia di prospettive induce lo stesso B. a una riflessione epistemologica che giunge a considerare il minimo come il fondamento ultimo di una mathesis universalis comprendente, oltre alle scienze speculative, ogni tipo di sapere, compreso quello tecnico. 2. La coincidenza minimo-massimo. –– La nozione di minimo è esplicitamente mutuata da Cusano, il quale la utilizza in reciproca implicazione con il massimo, come espressione della coincidentia oppositorum con cui viene rappresentata la natura di Dio : « deus est magnitudo maxima pariter et minima » [2]. L’assoluta potenza divina è per Cusano tanto eccelsa da trascendere ogni possibile ordine di grandezza : essa non è determinabile né come grande né come piccola, in quanto massimamente grande e massimamente piccola, ossia massima e minima : « non maior quia minimum, non minor quia maximum » [3]. Anche per B. « il primo principio assoluto [...] è tal magnitudine e grandezza, che è tutto quel che può essere. Non è grande di tal grandezza che possa essere  























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maggiore, né che possa esser minore [...] è grandezza massima, minima, infinita, impartibile e d’ogni misura. Non è maggiore, per esser minima ; non è minima, per esser quella medesima massima » [4]. Radicalizzando la nozione della coincidentia di massimo e minimo che in Cusano, secondo la regola della docta ignorantia, giustificava l’incommensurabilità tra l’essere di Dio e l’essere della natura, B. perviene a fondare proprio su di essa l’identificazione Dio-Natura, ovvero la teoria dell’Uno-tutto. Per Cusano la potenza assoluta è propria esclusivamente del principio divino, infinitamente distante dall’universo, il quale è concepito come il regno delle potenze contratte e limitate, dove l’essere non può assumere in nessun modo la dimensione dell’assolutezza [5]. Lo stesso universo per Cusano non è affermato come infinito in atto, ma solo in potenza, è quindi indefinito, interminato. Al contrario, B. non ammette alcuna distinzione tra la ‘potenza assoluta’ e la ‘potenza ordinata’ di Dio : l’universo è infinito e massimo in quanto perfetta explicatio dell’infinita potenza divina. Inoltre, l’infinita potenza del principio non si esprime soltanto nella totalità dell’universo, ossia nel maximum, bensì anche nelle sue parti costitutive, i minimi, da cui si originano tutte le cose : « minimum potentissimum est omnium, quippe quod omne momentum, numerum, magnitudinem claudit atque virtutem. Eius est componere, augere, formare, et tandem esse compositum, formatum atque magnum usque ad maximum » [6]. 3. Il primato del minimo rispetto al massimo. –– Il superamento della prospettiva cusaniana passa attraverso la rivisitazione del rapporto minimo-massimo, che ha luogo soprattutto nel De minimo. In quest’opera la reciproca implicazione dei due poli concettuali perde quella simmetria con cui era stata espressa nelle opere precedenti, inclinandosi a favore del minimo che assume così priorità ontologica rispetto al massimo : « maximum tamen atque minimum ita in unam possunt coire rationem [...] Quamvis potius ratio et natura possit absolvere minimum a maximo, quam maximum a minimo » [7]. La coincidenza dei due opposti non è rinnegata, ma  

















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ripensata nella prospettiva del minimo, con l’intento di sviluppare tutte le potenzialità euristiche di questa nozione. Il minimo precede ontologicamente il massimo, in quanto questo si genera da quello e non viceversa : « maxima quaeque ex minimo, in minimo, ad minimum sunt, per minimumque » [8]. Nel poema il minimo è infatti presentato come la struttura ontologica fondamentale, che si declina secondo le tre principali accezioni di punto, atomo e monade : « minimum est substantia rerum [...] punctum in magnitudine unius et duarum dimensionum, atomus privative in corporibus quae sunt primae partes, atomus negative in iisce quae tota in toto et singulis, ut in voce, anima et huiusmodi genus, monas rationaliter in numeris, essentialiter in omnibus » [9]. Il minimo è dunque il genere sommo dell’essere che comprende tutti i diversi ordini di realtà : inteso come « quantitatis principium » [10], esso è sostanza delle grandezze corporee, ma, in un’accezione più ampia che trascende il genere della quantità, esso è sostanza dell’ente in quanto tale, è « substantiarum substantia, et entitas, qua entia sunt » [11]. Pensare la realtà sub specie minimi permette a B. di esprimere efficacemente la sua ontologia radicalmente antiaristotelica, fondata sulla coincidenza di potenza e atto e refrattaria a considerare la forma come atto dell’essere. La stessa nozione di potenza, intesa cusanianamente come possest, che nel De la causa trovava espressione nella ‘materia’, sostanza comune e continua di tutti gli enti [12], nel primo poema di Francoforte si atomizza, per così dire, in una pluralità infinita di individui minimi. Nel minimo – sia esso inteso matematicamente, fisicamente o metafisicamente – risiede infatti non solo la potenza passiva propria del principio materiale di assumere una determinazione, ma anche la potenza attiva, vitale e ordinatrice, propria del principio formale ed efficiente. Il minimum naturae, l’atomo, non è concepito come materia inerte sottoposta a leggi meccanicistiche, ma rappresenta un centro di forza da cui si irradia l’energia vitale che costituisce, forma e ordina l’aggregato corporeo [13]. La potenza del minimo non è dunque da intendersi come  





















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un ‘essere in potenza a’, una natura passiva, embrionale, imperfetta, bisognosa dell’atto, bensì come ‘potenza di’, efficacia, pienezza assoluta di essere, che non necessita di nulla per esplicarsi. Lo stesso massimo, che è la totalità infinita in atto di tutti gli enti, matematici e fisici, è già potenzialmente presente nel minimo, che è dunque considerato la fonte dell’essere e la sostanza di tutte le cose : « minimum est substantia rerum [...] Est, inquam, materia, seu elementum, efficiens, finis et totum » [14]. Dunque la potenzialità del minimo concerne semplicemente il suo infinito moltiplicarsi ed espandersi nello spazio e nel tempo, mentre riguardo alla sostanza e all’essere il minimo è già atto : « immensum nihil est, nisi centrum ubique ; aeternitas nihil est, nisi semper instans [...] immensum corpus atomus ; immensum planum punc­ tus ; immensum spacium puncti vel atomi receptaculum » [15]. Infatti il minimo è presente ovunque e sempre, il massimo in nessun luogo e mai [16], in quanto il massimo altro non è che la proiezione del minimo in un infinito spaziale e temporale : « maximum nihil est aliud quam minimum. Tolle undique minimum, ubique nihil erit » [17]. Di qui si comprende perché la categoria del minimo finisca per rappresentare più adeguatamente, rispetto a quella del massimo, la natura di Dio. L’essenza del minimo si ritrova infatti in primo luogo in Dio (« ostenditur hoc primo in Deo » [18]), in quanto monade delle monadi (« monadum monas »), entità degli enti (« entium entitas » [19]), « individuus et simplicitas ipsa » [20]. In virtù di tale natura Dio può esser concepito « infra omnia fundans, super omnia gubernans, intra omnia non inclusus, extra omnia non exclusus, omnia per eccellentiam et comprehensione, nihil per definitionem, principium omnia promens, finis omnia terminans, medium nectens et discriminans omnia, centrum ubique » [21]. In seconda istanza l’essenza del minimo può esser rinvenuta anche nell’universo, poiché in esso le tre dimensioni sono indifferenti e il centro è in ogni luogo [22]. L’identificazione di Dio con il minimo approfondisce il concetto di Uno-tutto proprio della nolana filosofia, mostrando come Dio possa essere  











































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concretamente e idealmente presente nel mondo sotto specie di minimo : ogni realtà, fisica o ideale, infatti è costituita da minimi : i corpi si riducono agli atomi, i numeri all’unità, le figure geometriche al punto, ma tutti i diversi generi di minimo non sono che specie determinate del minimo dei minimi, ossia di Dio il quale « metitur et concludit omnia » [23]. Tutte le cose sono comprese tra un massimo ed un minimo, tutte le cose cioè hanno una misura. In natura esistono tanti minimi sensibili quanti sono i generi e le specie naturali : esistono il minimo bue, la minima mosca, il minimo uomo. Tutti questi minimi, qualitativamente differenti, si riducono agli atomi, i minimi corpi indifferenti, che come Dio, sono misura di tutto e centri di potenza vitale da cui si generano tutte le differenti realtà [24]. La nozione di ‘minimo dei minimi’, dunque, consente a B. di svolgere il rapporto Uno-tutto nel rapporto Unotutti, fondando in questo modo la sostanza dei singoli enti che costituiscono l’universo. 4. Minimo e anima. –– Nel iii capitolo del primo libro del De minimo, B. elabora uno degli sviluppi più fecondi della nozione di minimo, che gli consente di attribuire sostanzialità ontologica agli enti individuali. Con esplicito riferimento alla metempsicosi pitagorica, B. rassicura il lettore dal « fatale terrore » della morte [25], riducendola ad un mutamento puramente accidentale, ossia la disgregazione dell’ente composto, che non annulla affatto la sostanza semplice, eterna e indivisibile dell’anima. Quest’ultima, presente in ciascun ente naturale – e non solo nell’uomo – è concepita infatti come un minimo, un nucleo vitale ‘potentissimo’ che determina la generazione e la corruzione dell’individuo. Espandendosi dal centro, fa sì che si aggreghino attorno a sé gli atomi che costituiscono il nostro corpo, determinando la nostra nascita e il nostro sviluppo fino ad un punto massimo, raggiunto il quale, questa energia vitale si ricontrae verso il centro abbandonando a poco a poco le nostra membra fino alla morte : « nativitas ergo est expansio centri, vita consistentia sphaerae, mors contractio centri » [26]. L’anima è, infatti, quella sostanza semplice e in 



















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dissolubile che dal nostro cuore, come da un centro, si espande per dar vita, ordinandole, alle nostre membra. Come uno « spiritus architectus » [27] infuso in ogni ente, essa dà origine, agglomera, disgrega, ordina, vivifica, muove e intesse i corpi composti, fino a che, trascorso il tempo vitale, si ricomprime nel centro, da dove si espande di nuovo « per amplum mundum » [28]. Nel De la causa questa funzione era attribuita all’« intelletto universale, che è la prima e principal facultà de l’anima del mondo » [29], intrinseco alla materia e ragione dell’animazione di tutti gli enti naturali. Esso ci veniva presentato come « la mente, il spirto, l’anima, la vita che penetra tutto, è in tutto, e move tutta la materia » [30], « universale nell’universo », « speciale e particulare nelle parti e membri di quello » [31] perché « spirto si trova in tutte le cose, e non è minimo corpuscolo che non contegna cotal porzione in sé, che non inanimi » [32]. Nel De minimo B. sviluppa il processo con cui lo spirito universale (↗ spirito) si determina in anime speciali e individuali, mediante il concetto di minimo. La « Mens super omnia » [33], Dio, si esplica come « mens insita omnibus » [34], la natura, grazie alla reiterazione infinita dell’Uno, monade delle monadi, in infinite monadi o minimi, dai quali si genera ogni ente. La mensura universale è ab aeterno moltiplicata in mensurae particolari, altrettanto eterne, sottoposte ad un ciclo perenne di espansione e contrazione che dà luogo agli individui naturali. Non risulta, tuttavia, del tutto chiaro nel testo bruniano se la materia corporea degli atomi costitui­sca una sostanza eterogenea alla monade/mens, o se, al contrario – coerentemente con l’assunto dell’unità ontologica originaria –, essa debba essere intesa come sua necessaria explicatio. Si tratta di uno dei punti più controversi della nolana filosofia, con evidenti implicazioni etiche, poiché da esso dipende il modo in cui concepire la sostanzialità e l’immortalità dell’individuo, ovvero se questi conservi le caratteristiche particolari assunte nei vari cicli vitali che attraversa o se, al termine di ogni ciclo, le sue connotazioni si dileguino e permanga soltanto la natura semplice e indifferenziata del minimo da cui esso si origina.  



































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5. Minimum, magnum, mensura. –– Il concetto di minimo è a fondamento della matematica bruniana (↗ matematica). Negli Articuli adversus mathematicos, B. si rivolge ai matematici del suo tempo chiamandoli « ametri », geometri senza metro, privi di una misura, in quanto incapaci di riconoscere il minimo delle grandezze [35]. « Una critica ingiusta ed ed in sé contraddittoria » – osservava Tocco [36] –, e per molto tempo il giudizio negativo dell’autorevole studioso condizionò la considerazione della matematica bruniana. Quest’ultima apparve irrimediabilmente compromessa proprio dalla presenza del minimo, definito dalla studiosa francese Védrine come un « obstacle réaliste », che le avrebbe impedito di astrarre da un contenuto concreto [37]. Tale limite avrebbe reso il filosofo – fautore di teorie innovatrici in ambito cosmologico – incapace di recepire i progressi della matematica del tempo, e le sue costruzioni geometriche un puro « jeu d’enfant » [38]. In linea con tale giudizio, Aquilecchia individuò un « dilemma matematico » nella riflessione bruniana, che se da una lato ammette l’infinitamente grande, dall’altra, nega, con il minimo, l’infinitamente piccolo [39]. Gli studi più recenti, tuttavia, hanno rilevato aspetti che non solo dimostrano la cognizione del Nolano in merito alle questioni matematiche del tempo, ma riconoscono nella stessa inventio minimi una prospettiva alternativa per risolverli [40]. Una prospettiva che, da un lato, si riallaccia a tradizioni geometriche diverse da quella euclidea – in particolare a quella archimedea – dall’altro, sembra persino intuire nozioni attuali come quella dell’infinitesimale [41]. Molti sono i problemi geometrici cui B. tenta di dare una soluzione mediante il concetto di minimo, dalla questione dell’angolo di contatto a quella della sezione dell’angolo, dalla possibilità del punto di essere attraversato da infinite rette alla quadratura del cerchio ; le stesse questioni che dividevano all’epoca matematici del rango di Clavio, Peletier e Simon du Chesne. Mediante la nozione di minimo B. tenta anche una soluzione del problema dell’incommensurabilità tra grandezze eterogenee, quali la linea retta  





















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e la linea curva. L’unità di misura tra queste è data dalla stessa linea retta, concepita, secondo la definizione di Archimede, come distanza minima (« brevissima ») tra due punti dati, rispetto alla quale le linee curve non si configurano più come qualitativamente diverse, ma semplicente come quantità maggiori o massime : « Ut si recta linea est brevissima inter duo puncta, curva est omnis alia a brevissima, curvior longior, curvissima longissima » [42]. Ciò che rende feconda l’introduzione del minimo nella matematica è la dinamicità di questo concetto. Se si considera il minimo solo come parte discreta della grandezza, si resta intrappolati in una geometria atomistica, in quel « jeu d’enfant » che non riesce ad astrarre gli enti matematici da una rappresentazione concreta di essi. L’indivisibilità del minimo va al contrario letta in rapporto dialettico con la grandezza continua e infinitesimale. Se B. ricorre ad ogni sorta di argomento per confutare la tesi dell’infinita divisibilità della grandezza propugnata da Aristotele, è perché questi non intravede neppure idealmente un limite a tale processo [43]. Il minimo, infatti, è estensione finita solo in relazione al magnum, ma assolutamente considerato esso è infinito, al di là della grandezza stessa, in quanto coincidente col massimo. Ciò è testimoniato dalla distinzione che B. fa tra minimo relativo e minimo assoluto, ovvero tra le diverse specie di minimo e il minimo indeterminato cui esse si riducono [44], ma anche dall’introduzione del concetto di ‘termine’ quale limite inesteso delle grandezze. Nella scienza della misura che B. costruisce ‘minimo’ e ‘termine’ non si configurano come enti geometrici determinati, ma piuttosto come funzioni relative che di volta in volta tutti gli enti geometrici possono assumere : il punto, considerato come parte costitutiva della grandezza, è definibile come minimo, ma in quanto estremità della linea è il termine inesteso che la delimita e funge da luogo ideale di congiunzione tra una linea e l’altra. Lo stesso vale per la linea rispetto alla superficie e per la superficie rispetto al solido. Persino il solido può fungere da termine, non certamente rispetto ad una dimensione ulteriore, ma ad un volu 















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me ipotizzato enormemente più grande [45]. 6. Conclusione. Il progetto di un’encyclopedia dei saperi. –– Come si è detto all’inizio di questa voce, la fecondità del concetto di minimo induce B. ad una riflessione epistemologica che trova in questa nozione la chiave per dischiudere una mathesis universalis, fondamento di tutti i saperi, teoretici e pratici. L’intento è esplicitamente dichiarato nell’Epistola dedicatoria al principe Enrico Giulio di Brunswick, con la quale B. presenta la sua trilogia dei poemi latini [46]. In essa B. annuncia che nel primo scritto, il De minimo, la trattazione sarà svolta « in methodo mathematica [...] in virtute definitionum, axiomatum, theorematum » a partire dai primi elementi che sono « terminus, minimum, magnitudo » [47] ; il De monade rivelerà « in methodo divina », ossia aderendo ad un’antica sapienza prevalentemente di origine pitagorica, la relazione tra la monade, il numero e la figura, ovvero tra la sostanza, la differenza specifica e gli accidenti esteriori e singolari [48] ; infine il De immenso, con metodo naturale, si occuperà dell’universo fisico [49]. In tal modo tutti gli oggetti della riflessione matematica, metafisica e fisica « encyclopedia quadam eruuntur, diriguntur, applicantur. Triplici etiam ordine in unius scalae serie distinguuntur, ut cum brevitate sit facilitas, cum facilitate veritas, cum veritate certitudo » [50]. Il De triplici minimo et mensura ad trium speculativarum scientiarum et multarum activarum artium principia contiene già nel titolo il programma enunciato nella lettera citata, allargando l’orizzonte dalle tre scienze speculative alle molte arti « activae ». Tra queste ultime possono essere annoverati tutti i saperi che hanno una valenza operativa : l’arte della memoria, la magia, ma anche la medicina, l’anatomia, la pittura e tutte le arti o tecniche umane che presuppongono, come si afferma nel De minimo, una misura ultima e, nel proprio genere, irriducibile. A fondamento di questo sistema di scienze e di arti vi è dunque la nozione di minimo, che in ciascuna disciplina si declina in modo differente, secondo un ordine gerarchico che dal minimo assoluto si contrae in minimi sempre più complessi. Riguardo alle tre scienze  

























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speculative si può parlare di un triplice minimo – il punto per la geometria, l’atomo per la fisica, la monade per la metafisica. Per quanto concerne le arti, ognuna di esse poggia su un genere di minimo diverso : « medico huic quatuor humores, illi cum igne ea quae ignis operatione segregantur, chirurgico seu anatomico caro, ossa, nervi, cartilagines, pictori capilli, genae, auris, digitus, oculus » [51]. Vi è tuttavia una differenza fondamentale nel modo di concepire il triplice minimo delle tre scienze speculative e quello invece dei minimi delle tecniche. A queste ultime non è concesso di cogliere il minimo in natura ossia reale, poiché questo è mirabilmente contratto al di sotto (« infra ») del minimo sensibile [52]. Soltanto la ragione propria delle scienze speculative può andare oltre ciò che è percepibile con i sensi e scoprire che i quattro umori, la carne, gli occhi ecc. non sono altro che una diversa e sempre più complessa unione di elementi corporei primordiali, gli atomi, qualitativamente indifferenti e, in quanto tali, capaci di dar luogo a tutte le qualità corporee. Allo stesso modo il discorso, ovvero il minimo per l’oratore, è formato da quello che è considerato minimo dal logico, la proposizione ; questa nasce dall’unione di parole e lettere che sono ciò che il grammatico intende per elemento primo. Oltre tali minimi percepibili, tuttavia, solo il geometra può scorgere il punto, la prima unità indivisibile di cui si compongono i segni [53]. In tal modo « reliqua suis ordinibus consequuntur, et in scala scibilium hae quidem ab inferioribus, hae vero a superioribus gradibus scientiae exordium et prima suscipiunt elementa. In analogia igitur quadam in contemplationis universitate minimum atque principium est consistens » [54].  















Note. [1] De minimo, bol i,iii 140. – [2] N. Cusano, De possest, a cura di R. Steiger, Hamburgi, 1973, 10. – [3] Idem, De docta ignorantia, a cura di E. Hoffmann, R. Klibansky, Lipsiae, 1932, 32. – [4] Causa, boeuc iii 209. – [5] N. Cusano, De docta ignorantia, 7, 87-88. – [6] De minimo, bol i,iii 146. – [7] Ivi, 153-154. – [8] Ivi, 139. – [9] Ivi, 139-140. – [10] Ivi, 139. – [11] Ivi, 140. – [12] Causa, boeuc iii 263-265. – [13] De minimo, bol i,iii 144. – [14] Ivi,

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139-140. – [15] Ivi, 154. – [16] Ivi, 153. – [17] Ivi, 140. – [18] Ivi, 147. – [19] Ivi, 146. – [20] Ivi, 147. – [21] Ibidem. – [22] Ibidem. – [23] Ibidem. – [24] Ivi, 171-174. – [25] Ivi, 141. – [26] Ivi, 143. – [27] Ivi, 142. – [28] Ibidem. – [29] Causa, boeuc iii 113. – [30] Ivi, 135137. – [31] Ivi, 121. – [32] Ivi, 133. – [33] De minimo, bol i,iii 136. – [34] Ibidem. – [35] Articuli adv. math., bol i,iii 66. – [36] F. Tocco, Le opere di G. B. esposte e confrontate con le italiane, Firenze, 1889, 167. – [37] H. Védrine, L’obstacle réaliste en mathématiques chez deux philosophes du xvi siecle : B. et Patrizi, in Platon et Aristote a la Renaissance, Paris, 1976, 239-248. – [38] Ibidem. – [39] G. Aquilecchia, B.’s mathematical dilemma in his poem « De minimo », « Renaissance Studies », v, 1991, 315-326. – [40] A. Bönker-Vallon, Metaphysik und Mathematik bei G. B., Berlin, 1995. – [41] M. Campanini, L’inifinito e la filosofia naturale di G. B., « Acme », xxxiii, 1980, 339-369. – [42] Praelect. geom., 7 ; De minimo, bol i,iii 301. – [43] De minimo, bol i,iii 150-168. – [44] Ivi, 169-174. – [45] B. Amato, Il concetto di “termine” nel De minimo, in Letture Bruniane i-ii del Lessico Intellettuale Europeo (1996-1997), a cura di E. Canone, Pisa-Roma, 2002, 13-32. – [46] De immenso, bol i,i 2-8. – [47] Ivi, 6. – [48] Ibidem. – [49] Ivi, 7. – [50] Ibidem. – [51] De minimo, bol i,iii 173174. – [52] Ivi, 169. – [53] Ivi, 169-174. – [54] Ivi, 174.  















Bibliografia. F. Tocco, Le opere di G. B. esposte e confrontate con le italiane, Firenze, 1889 ; K. Atanasijevich, Le doctrine métaphysique et géométrique de B. exposé dans son ovrage ‘De Triplici Minimo’, Belgrade, 1923 ; H. Védrine, L’obstacle réaliste en mathématiques chez deux philosophes du xvi siecle : B. et Patrizi, in Platon et Aristote a la Renaissance, Paris, 1976 ; M. Campanini, L’infinito e la filosofia naturale di G. B., « Acme », xxxiii, 1980, 339-369 ; G. Aquilecchia, B.’s Mathematical Dilemma in his Poem « De minimo », « Renaissance Studies », v, 1991, 315-326 ; A. Bönker-Vallon, Metaphysik und Mathematik bei G. B., Berlin, 1995 ; B. Amato, Il concetto di “termine” nel De minimo, in Letture Bruniane i-ii del Lessico Intellettuale Europeo (1996-1997), a cura di E. Canone, Pisa-Roma, 2002, 13-32 ; L. De Bernart, Numerus quodammodo infinitus. Per un approccio storico-teorico al « dilemma matematico » nella filosofia di G. B., Roma, 2002 ; Aspetti della geometria nell’opera di G. B., a cura di O. Pompeo Faracovi, Lugano, 2012 ; A. Bönker-Vallon, The Measurement of the Immeasurable. Divine Mind and Mathematical Structures in G B.’s De triplici minimo et mensura, in Turning Traditions upside down. Rethinking G. B.’s Enlightenment, a cura di H. Hufnagel, A. Eusterschulte, Budapest-New  



































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York, 2013, 19-33. M. Matteoli, Minimo, in G. B. Parole, concetti, immagini, a cura di M. Ciliberto, Firenze-Pisa, 2014, 3 voll. : i, 233-237.  

Barbara Amato mondo (mundus) È un termine centrale per comprendere aspetti fondamentali dell’opera e della filosofia bruniana, a partire dalla cosmologia. Il suo rilievo è attestato già solo dalla tematizzazione nel titolo di varie opere : De l’infinito, universo e mondi, Centum et viginti articuli de natura et mundo e De immenso et innumerabilibus seu De universo et mundis. Rispetto alla tradizione astronomica e filosofica, il termine viene rielaborato e ridefinito da B. in maniera originale ma non univoca. Esso mantiene infatti una pluralità di significati, cosa particolarmente evidente in ambito cosmologico (come si legge nel De immenso, « Ex triplici mundi significatione, una pro astro, alia pro synodo, tertia pro universo » [1]) e ontologico (come si legge nelle Theses de magia, « mundus distinguitur […] iuxta tria entis genera » [2]). Tale polisemanticità è portato del termine mundus stesso e del corrispettivo greco kovsmo~. Originariamente kovsmo~ significava ‘ornamento’ e ‘ordine’, assunse poi il significato di mondo e universo proprio per sottolineare la struttura ordinata del tutto, soprattutto in Aristotele e nel pseudoaristotelico Peri; kovsmou (De mundo). In Platone il termine indica principalmente il cielo e i corpi celesti (per esempio in Timeo 28b). Ancora nella Naturalis historia di Plinio (ii,1) mundus e coelum sono sinonimi. In contesto cristiano, infine, kovsmo~ assume il significato ulteriore di ‘terreno’ contrapposto al divino, aprendo ad un’accezione di mondo come piano dell’essere. 1. Mondo quale universo. — Il più innovativo contributo di B. alla definizione del termine riguarda la cosmologia, in cui è fatta valere una fondamentale distinzione tra un’accezione ‘volgare’ aristotelica (ma anche tolemaica) di mondo quale cosmo finito, disomogeneo e geocentrico e un’accezione  









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post-copernicana e democritea quale astro, pianeta o stella : « Differentemente prende egli [Aristotele] il nome del mondo, e noi : perché noi giongemo mondo a mondo, come astro ad astro in questo spaciosissimo etereo seno [...] lui prende il nome del mondo per un aggregato di questi elementi e fantastici orbi sino al convesso del primo mobile » [3]. Viene insomma meno, per B., « quel bell’ordine e quella bella scala di natura » della cosmologia medievale e dei peripatetici. Ad essa egli sostituisce uno spazio omogeneo e infinito che ospita infiniti corpi celesti concepiti in analogia con la Terra e gli altri astri del sistema solare. Volgare è dunque la concezione peripatetica del cosmo. Nel De coelo Aristotele presenta l’universo (o ‘mondo’ o ‘cosmo’) come la totalità degli enti corporei, un tutto perfetto, finito, eterno ed unico, all’esterno del quale sono esclusi luogo, tempo e movimento. La perfezione dei cieli, attestata dalla costanza dei loro moti circolari, presuppone una costituzione diversa da quella dei corpi terreni. Questi avrebbero una natura elementare, sarebbero cioè costituiti dai quattro elementi empedoclei (terra, aria, acqua, fuoco), spinti dalla loro natura, pesante o leggera, verso il basso o verso l’alto, dunque in linea retta e mai in circolo, secondo la cosiddetta dottrina dei luoghi naturali. Materia dei cieli è invece un quinto elemento etereo, una ‘quintessenza’ soggetta ad un solo tipo di mutamento : la traslazione circolare. Né leggero, né pesante, questo elemento è ingenerato e incorruttibile, inalterabile e alieno da aumento o diminuzione. Nella visione aristotelica le stelle, infisse nella sfera celeste più esterna, sono trasportate intorno ai poli del mondo. Tale modello prevede che il cielo più alto, detto ‘primo mobile’, conferisca il moto diurno a tutti i cieli sottostanti : al ‘cerchio obliquo’, dell’eclittica e dello zodiaco, e ai pianeti. Ciascuno di questi ultimi è trasportato dalla più interna di una serie di sfere materiali, concentriche e ruotanti. Al centro del sistema sta il globo terrestre. In Metafisica xii,8 Aristotele fissa il numero delle sfere celesti a 55, assommando alle 33 calcolate da Callippo altre 22 sfere, necessarie, secondo lui, per annullare gli effetti  















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dei cieli superiori sui pianeti inferiori, attraverso moti inversi. Nello stesso libro si legge inoltre di un primo motore immobile, causa delle regolarità celesti e del tempo, in quanto causa del moto perfettamente circolare, continuo ed eterno del primo cielo. Tale principio metafisico poté agevolmente essere identificato con il Dio delle religioni monoteistiche. La complessa concezione dell’universo di Aristotele si trovò dunque inserita in una precisa cornice metafisica e teologica. B. rigetta i fondamenti della cosmologia aristotelico-tolemaica a partire dall’identificazione di ‘mondo’, ‘universo’ (finito) e ‘sfera’. L’esplosione infinitistica del ‘mondo chiuso’ in un universo infinito e omogeneo, per citare Koyré, rende inaccettabile la macchina a sfere concentriche dei peripatetici : « Uno [...] è il cielo, il spacio immenso, il seno, il continente universale, l’eterea regione per la quale il tutto discorre e si muove » [4]. Svaniscono le geometrie ‘reificate’ dei matematici (deferenti, epicicli, eccentrici) e le sfere materiali dei fisici (compresa la distinzione Terra-Cielo). Gli orbi stelliferi sono mere fantasie dato che gli astri « non sono come impiastrati in una medesima cupola : cosa indegna che gli fanciulli la possano imaginare, che forse crederebono che se non fussero attaccati alla tribuna e lamina celeste con buona colla, o ver inchiodati con tenacissimi chiodi, caderebono sopra di noi non altrimente che gli grandini dell’aria vicino » [5]. Il mondo come sistema chiuso e ordinato vale dunque solo come accezione ‘volgare’ ed errata dal punto di vista naturale. Oltre che contro Aristotele, tale cosmologia si scontra con la concezione stoica del cosmo finito in uno spazio infinito vuoto (come si legge in Infinito, « [gli stoici] dicono il mondo essere finito ma l’universo infinito ») [6]. B. rigetta tale prospettiva anche nella variante ‘moderna’ di Palingenio Stellato [7], in nome dell’omogeneità dello spazio. Nelle opere latine viene a cadere completamente, per la vicissitudine universale, anche la dottrina del ritorno ciclico di tutte le cose, la teoria platonica e stoica del cosiddetto annus mundi [8], il cui periodo si riteneva legato a quello della precessione degli equinozi, ossia al moto mille 















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nario della sfera delle stelle fisse in direzione opposta a quella del moto diurno [9]. Nonostante la distinzione di principio tra universo infinito e mondi finiti l’accezione tradizionale di mondo fa spesso capolino anche dalle pagine degli scritti bruniani. Ciò avviene o in riferimento a concetti dell’astronomia tolemaica (per es., si legge nella Cena : « par che circa la terra ogni cosa si muova sopra i poli del mondo » [10]) o in riferimento alla fisica celeste aristotelica (come si legge per es. nell’Acrotismus : « Pueriliter dicitur circumferentia mundi praecipua sedes primi motoris » [11]) o più semplicemente per inveterato uso filosofico del termine ( : « Mundus, id est universum, est infinitum. Mundus, id est astrum, non ita » [12]). L’accezione di ‘mondo’ come ‘universo’ viene ammessa in filosofia naturale solo con riserva, nel significato di unità e totalità dell’essere, di ens in senso eleatico : « Primo modo mundum idem est quod universum, et hoc pacto est unus tantum, ut universitas est una absolute secundum quam significationem dixit Parmenides et Xenophanes ens unum » [13]. Altrimenti, il mondo (ciascuno degli infiniti), va inteso quale non ens in quanto il suo rapporto con l’universo è quello incommensurabile tra finito e infinito il che equivale a dirlo « nulla pars » del tutto : « Mundus iste sensibilis (quia finitus) respectu universi, unius, entis, infiniti, nulla est pars ; 2. Ideo recte Xenophani et Parmenidi non ens » [14]. La si può considerare una sorta di ‘conversione dal cielo alla terra’ del pensiero negativo, teologico e neoplatonico in quanto il rapporto finitoinfinito caratterizzava, in tale tradizione, il rapporto tra creatura e creatore. 2. Mondo quale astro e sinodo. — L’accezione principale di ‘mondo’ è dunque per B. quella di astro (« mundus seu aster », « mundus seu stella »). ‘Mondi’ sono gli innumerevoli corpi celesti nello spazio omogeneo e infinito. Rispetto al tutto sconfinato in cui si trovano immersi non hanno proporzione alcuna [15] : ‘mondo’ e ‘universo’ si definiscono per contrapposizione. Le determinazioni che caratterizzano i due termini sono coppie antitetiche e derivano da quella fondamentale finito/infinito : magnitudo/multitudo ; unum  

















































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continuum/numero infiniti ; ingenerabile/geniti ; incorruptibile/corruptibiles [16] ; immensitas/ innumerabilitas; infiguratum/figurati [17] e simili. Gli astri sono composti, in proporzioni diverse, dagli elementi naturali (in ultima istanza riducibili ad una struttura atomica). A tal proposito viene spesso menzionata la dottrina classica dei quattro elementi : terra, acqua, aria, fuoco ; ripartizione che B. ritiene però convenzionale e alla quale perciò non si attiene scrupolosamente : « Non tengo la distinzione [degli elementi], perché lascio ogn’uno distinguere come gli piace, ne le cose naturali […]. Ciascuno di cotai corpi, astri, mondi, eterni lumi è composto di ciò che si chiama terra-acqua-aria-fuoco » [18]. Nell’Acrotismus, per esempio, si legge che gli astri sono formati principalmente di tre elementi : terra, acqua e aria (« Eius materialia principia sunt Terra, seu Atomi, seu Arida, Abyssus seu Styx, seu Oceanus, Spiritus, seu aer, seu coelum, seu firmamentum » [19]). Ad essi si aggiungono il fuoco (ignis) e la caligine (caligo), detti nell’Acrotismus « elementi secondari ». Quanto alla dissolubilità dei mondi, essa non comporta la loro fine effettiva, come B. ribadisce a più riprese nei suoi scritti, riferendo alla vita degli astri il motto platonico (Timeo, 41a-b) : « Voi siete dissolubili, ma non vi dissolverete » [20] e « Vos quidem dissolubiles estis, nequaquam vero dissolvemini » [21]. Nel De immenso B. introduce una nota dubitativa circa la dissoluzione effettiva dei mondi : « Hoc certe nescimus, ut certe scimus composita esse, et consequenter dissolubilia » [22]. Come è stato rilevato [23], nel De immenso viene meno la convinzione, precedentemente espressa da B., che essi siano in grado di mantenersi in essere grazie ad un intrinseco principio di conservazione, in quanto si riconosce la finitezza della loro potentia. Ciò non toglie la possibilità che un principio estrinseco e provvidenziale possa mantenerli in essere e, siccome in Dio potere e volere coincidono, la loro infinita permanenza rimane una tesi quantomeno plausibile, nonostante la concessione « quod si natura dissolubiles […] sunt mundi, dissolvantur » [24]. La cosmologia bruniana prevede l’esistenza di due gene 













































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ri di corpi celesti a seconda dell’elemento su di essi prevalente : soli ignei e terre acquee rotanti intorno ai primi, luminosi per se i primi e per aliud le seconde [25]. Anche le comete sono pianeti, o meglio terre (↗ cometa). Ruotano attorno al Sole mosse da un principio intrinseco, secondo un moto costante e regolare non differente da quello degli altri pianeti [26]. A differenza dei pianeti le comete presentano una coda sempre rivolta alla parte opposta al Sole. Secondo B. si tratta di un fenomeno ottico dipendente dall’angolo con cui la luce solare si riflette sulle esalazioni umide che le comete (come anche i pianeti) emettono nello spazio [27]. I mondi sono grandi animali, viventi in tutte le loro parti e provvisti di un’anima sensitiva e razionale (« Non solo sensitiva […] ma anco intellettiva ; non solo intellettiva come la nostra, ma forse anco più » [28]) per svolgere le loro funzioni organiche : « Interim [mundus] animal est, a mente dependens, perfectissimum, propriam, sicut et nos, animam habens » [29]. Gli astri si muovono nello spazio per provvedere al necessario scambio di vita e calore tra corpi caldi e freddi, soli e terre, secondo una concezione di ascendenza telesiana [30]. Inoltre, tutti i corpi celesti sono abitati, « non meno e niente peggio » del nostro, « perché è impossibile che un razionale et alquanto svegliato ingegno possa imaginarsi che sieno privi di simili e megliori abitanti, mondi innumerabili che si mostrano cossì o più magnifici di questo [...] » [31]. Ovunque, per generazione spontanea, nascono le specie dei viventi. Per sineddoche, il termine ‘mondo’ viene talvolta esteso a indicare un sistema planetario come il nostro : « Tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose » [32] e « gli mondi son composti di contrari ; e gli uni contrarii, come le terreacqui, vivono e vegetano per gli altri contrarii, come gli soli-fuochi » [33]. La cosmologia bruniana è una sorta di estensione ad infinitum del modello copernicano, o meglio ‘pitagorico’. Ogni sistema planetario, o synodus ex mundis (↗ synodus ex mundis) [34] è eliocentrico ma, nella rivisitazione bruniana [35], le coppie di pianeti contrapposti TerraLuna e Mercurio-Venere, nel sistema solare,  

































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e i loro analoghi, negli altri synodi, possono essere rappresentate come ruotanti su ‘epicicli’ contrapposti trasportati da uno stesso ‘deferente’ [36]. La difesa del moto della Terra e del sistema copernicano, sia sul piano fisico sia su quello scritturale, viene affrontata in maniera specifica nella Cena per poi attraversare tutta l’opera bruniana [37]. La Terra, come gli altri pianeti, si muove per la propria conservazione : « Tutte le parti de la terra [...] successivamente devono participar tutti gli aspetti e relazioni del sole, facendosi soggetto di tutte complessioni et abiti [...] a fin che ogni parte venghi a participar ogni vita, ogni generazione, ogni felicità » [38]. L’immensità dell’universo e l’infinità attuale del numero dei mondi sono tesi in evidente rottura rispetto alla concezione aristotelica a sfere concentriche (↗ infinito). B. refuta gli argomenti peripatetici in sezioni portanti dell’Infinito (iv e v) e del De immenso (ii e vii), e riconduce la propria cosmologia alla scuola degli atomisti antichi, ma anche ai pitagorici e ai filosofi della physis in generale : « Or questa distinzion di corpi ne la eterea reggione l’ha conosciuta Eraclito, Democrito, Epicuro, Pitagora, Parmenide, Melisso […] che conobbero un spacio infinito, […] capacità infinita di mondi innumerabili simili a questo » [39]. Il fondamento metafisico del rigetto del cosmo finito si pone però in un’ottica filosofica liberamente mediata dalla Docta ignorantia cusaniana (↗ Cusano) [40] riassumibile nel rigetto della distinzione tra potentia absoluta e ordinata in Dio [41], le cui ragioni sono esposte soprattutto nel De la causa e nel De l’infinito. In questa seconda opera (e poi in quelle successive, soprattutto nel De immenso) B. confuta gli argomenti peripatetici contro l’infinità dello spazio e la pluralità dei mondi. Egli ne mostra dapprima l’inconsistenza ; deduce poi dalla possibilità delle tesi infinitistiche la loro convenienza, necessità e dunque realtà. 3. Mondo quale piano onto-gnoseologico e quale orizzonte naturale. — Nel De umbris i richiami alla distinzione tra mundus intelligibilis [42] e corporalis [43] rimandano all’ontologiagnoseologia platonica. Pur nel rigetto del dualismo metafisico che giunge all’esplicito  













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rifiuto della trascendenza delle idee nell’ultimo libro del De immenso (viii,ix : Ad ideas, substantias separatas et essentias absque esse, et quidditates extra ea quae sunt, metaphysice constantes [44]) ‘mondo’ mantiene l’accezione di grado dell’essere in una cornice emanativa di stampo neoplatonico sin nelle ultime opere di B.. Nel De monade viene riportata una modulazione quaternaria della dottrina neoplatonica : « Ac totidem mundos cognoscit secta Platonis, Primum Divinum, Archetypum dicitque Secundum, Tertius haec formans Animalis nominitatur, Quartus Corporeus » [45]. Nelle Theses de magia la definizione ontologica di ‘mondo’ è più rigorosa : « Mundus distinguitur, ut modo dictum, iuxta tria entis genera, quae ad unum genus reduci non possunt ; intelligibile , naturale et rationale differunt plus quam genere, hoc est non genere differunt, sed differentia sunt genera » [46]. Nell’Oratio valedictoria, scritto retorico e di occasione e non rigorosamente filosofico, il termine ‘mondo’ viene riservato, con un leggero slittamento semantico, al solo piano naturale o sensibile, mentre il piano delle idee archetipiche viene detto ante  















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mundum e quello razionale conoscitivo post mundum : « Hic [a Wittenberg] ergo tandem inter homines sapientia aedificavit sibi domum rationalem et intentionalem, quae est post mundum, ubi inspiciatur umbra primae domus archetypae et idealis, quae est ante mundum, et imago secundae sensibilis et naturalis, quae est mundus » [47]. La terminologia rispecchia la distinzione medievale degli universali : ante rem, in re e post rem. Schema analogo è fatto valere nel Sigillus sigillorum dove, nella sezione De progressu primae formae in ternarium, si distinguono 1. mundus metaphysicus o fons idea­rum, 2. mundus physicus in cui « i vestigi delle idee si imprimono sul dorso della materia » e 3. mundus rationalis sede delle « ombre delle idee » [48]. Nella stessa opera, B. istituisce un circuito onto-gnoseologico che lega tra loro i tre ‘mondi’ : esso procede dal mundus supremus fonte delle idee al mundus ideatum che è a sua immagine e di qui il ciclo si chiude attraverso la contemplatio che muove dal secondo al primo [49]. Tale trias ricompare nel De monade : « Dat triplicem mundum Deitas, Natura, Mathesis » [50]. Riassumendo in una tabella :  























1583 Sig. sigill.

mundus metaphysicus, fons idearum

1588 Orat. valed.

prima domus archetypa et idealis

mundus physicus, idearum vestigia materiae dorso impressae secunda domus sensibilis et naturalis

ante mundum deitas mundus intelligibilis

quae est mundus natura mundus naturalis

1591 De monade 1591 Thes. de magia

Per B. i vari piani dell’essere vanno posti in ordine di continuità secondo la rivisitazione del principio anassagoreo « omnia in omnibus » [51]. Tutto è permeato dalla vita universale, secondo diversi gradi, presentati nel De minimo come una sorta di scala delle anime : « Est deinde super hanc substantialis natura individua anima, quae est in horizonte maiori, ut anima telluris in synodo magna, quae nobis secunda mundi species habetur ;  











mundus rationalis, umbrae idearum numerales domus rationalis et intentionalis umbra primae domus imago secundae domus post mundum mathesis mundus rationalis

superior est anima synodi totius, quae est in universo ; suprema est animus animorum Deus, spiritus unus omnia replens totus, ordinator supra et extra omnem ordinem » [52]. La vita universale attraversa tutti i gradi dell’essere : « Influit enim Anima Mundi in animam Sphaerarum, et haec in animam animalium caeterorum » [53]. La natura è un tutto vivente sottoposto ad un divenire incessante, o vicissitudine. Con riferimen 









mondo

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to principale alla vita universale e all’anima mundi, ‘mondo’ e gli aggettivi corrispondenti ‘mondano’/‘mundanus’ assumono il significato specifico di orizzonte naturale o piano dell’immanenza. In tal senso i corpi celesti vengono chiamati mundana corpora. Similmente l’anima del mondo, a cui è dedicata un’ampia trattazione nel secondo dialogo della Causa in cui viene detta anche ‘fonte delle forme’, corrisponde alla forma universale ed eterna che anima l’universo : « L’anima del mondo [...] è il principio formale constitutivo dell’universo, e di ciò che in quello si contiene ; dico che se la vita si trova in tutte le cose, l’anima viene ad esser forma di tutte le cose » [54]. L’intelletto mondano, si legge, « è l’intima, più reale e propria facultà […] de l’anima del mondo. Questo è uno medesmo, che empie il tutto, illumina l’universo et indrizza la natura a produre le sue specie come si conviene » [55]. La sua azione è estrinseca alle cose, alla maniera del nocchiero della nave che, sebbene sia portato con essa e su di essa, tuttavia vi agisce e la indirizza astraendosene, quasi come se fosse una potenza esterna [56]. Se si tiene conto però del reciproco rimando di forma e materia « tanto che l’una è causa della definizione e determinazione de l’altra » [57], l’anima del mondo non travalica l’orizzonte naturale. Essendo un tutto animato vivente in ogni sua parte, anche l’universo viene paragonato ad un immenso animale : « Oltre dico, che questo infinito et inmenso è uno animale, benché non abia determinata figura, e senso che si referisca a cose esteriori : perché lui ha tutta l’anima in sé, e tutto lo animato comprende, et è tutto quello » [58]. La vita degli astri, anch’essi animali, si esplica nel movimento e nel dare vita e nutrimento alle cose che li popolano : « Come danno la vita e nutrimento alle cose, [...] cossì e molto maggiormente hanno la vita in sé : per la quale, con una ordinata e natural volontà, da intrinseco principio se muoveno alle cose o per gli spacii convenienti ad essi » [59]. L’anima motrice è spinta da un ‘appulso naturale’ consistente nel « cercar ove meglio e più prontamente [un corpo] ha da mantenersi e conservarsi nell’esser presente ; il quale (quantumque  



































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ignobil sia) tutte le cose naturalmente desiderano » [60]. 4. Mondo quale microcosmo. — L’immagine dell’uomo come ‘mondo piccolo’ non è estranea a B. : « Sicut mundum Dei imaginem dixere, ita et hominem mundi imaginem non temere Trimegistus appellavit » [61]. Nella prospettiva infinitistica di B. il nesso tra macrocosmo e microcosmo perde però il significato di una rispondenza strutturale per acquistare un senso principalmente metaforico. In base al principium artis figurativae « quod omnia per omnia possunt figurari » [62], uomo e mondo possono richiamarsi l’un l’altro, ma per opposizione : « Possumus similiter per alias oppositionis species adsimilabile ad suum referre correlativum ; opponuntur enim homo et mundus, ut continens et contentum, magnum et parvum ; aliisque plurimis oppositionis speciebus ; dicetur igitur homo mundi incola, discurrens, parvus, speculator, mortalis, et ita deinceps » [63]. ‘Mondo’ può dunque indicare il microcosmo uomo, per analogia e in maniera impropria dal punto di vista naturale : « Sumitur etiam mundus improprie et proportionaliter seu similitudinarie, ut homo dicitur mundus, quia partibus eius partes universi repraesentat, sicut et modo suo singula animalium et plantarum » [64]. Se nella cosmologia infinitistica viene meno la proporzione tra uomo e mondo finito tale nexus viene ristabilito in una prospettiva cosmocentrica secondo cui ogni punto è sia centro sia periferia della sfera infinita. Il tutto si rispecchia nel minimo. Così, scrive B., « in ogni uomo, in ciascuno individuo si contempla un mondo, un universo » [65]. Il rinnovamento cosmologico non può non legarsi intimamente ad un rinnovamento antropologico. È quanto traspare nell’economia complessiva dei dialoghi filosofici italiani, i quali si aprono con l’esaltazione dell’« aurora » di Copernico che prelude al risorgere dell’« antiqua vera filosofia, per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne della cieca, maligna, proterva et invida ignoranza » [66], e si concludono con un programma di rinnovamento storico e filosofico. B. se ne fa interprete sia nel rovesciamento di ascetismo e insipienza cristiani  









































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per un’etica civile ed una religione naturale (Spaccio) sia nel rigetto dell’aurea mediocritas in favore di un entusiastico slancio individuale alla verità (Furori). Note. [1] De immenso, v,vii, bol i,ii 142. – [2] Thes. de magia, v, bol iii 458. – [3] Infinito, bdfi 404. – [4] Ivi, 375. – [5] Ivi, 372. – [6] Ivi, 347 ; cfr. A. Del Prete, B., l’infini et les mondes, Paris, 1999. – [7] De immenso, viii, bol i,ii. – [8] Cfr. G. De Callataÿ, Annus platonicus. A Study of World Cycles in Greek, Latin and Arabic Sources, Louvainla-Neuve, 1996. – [9] Cfr. De immenso, iii,vii, bol i,i 367 : De vanitate circulorum, et anni illius mundani phantasia platonica et aliorum. – [10] Cena, bdfi 126. – [11] Camoer. acrot., bol i,i 74. – [12] Ivi, 75. – [13] Thes. de magia, v, bol iii 457-458. – [14] Camoer. acrot., bol i,i 81. – [15] Ibidem. – [16] Ivi, 75-76. – [17] De immenso, ii,x, bol, i,i 293. – [18] Infinito, bdfi 388-389. – [19] Camoer. acrot., bol, i,i 81. – [20] Cena, bdfi 119. – [21] Articuli adv. Perip., bca 27 ; Camoer. acrot., bol, i,i 176 e De immenso, ii,v, bol, i,i 274. – [22] De immenso, ii,v, bol, i,i 274. – [23] Cfr. M.Á. Granada, “Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete”. Il problema della dissoluzione dei mondi in G. B., « Paradigmi », xviii, 2000, 261289. – [24] De immenso, ii,v, bol, i,i 272. – [25] Ivi, i,iii bol, i,i 209-213 ; Infinito, bdfi 389. – [26] Cfr. De immenso, iv,xiii, bol i,ii 65-76. – [27] Ivi, 225. – [28] Cena, bdfi 81. – [29] Camoer. acrot., bol, i,i 81. – [30] Infinito, bdfi, 399 ; cfr. H. Gatti, G. B. and Renaissance Science, Ithaca-London, 1999 (trad. it. : G. B. e la scienza del Rinascimento, Milano, 2001), 57-58 e 67-68. – [31] Infinito, bdfi 398. – [32] Ivi, 397. – [33] Ivi, 399. – [34] Già in « Bruniana & Campanelliana », xiii, 2007, 1, 149-156. – [35] Si vedano soprattutto : Articuli adv. math. e De immenso. – [36] Cfr. D. Tessicini, I dintorni dell’infinito : G. B. e l’astronomia del Cinquecento, Pisa-Roma, 2007, cap. 2 e M.Á. Granada, L’héliocentrisme de G. B. entre 1584 et 1591 : la disposition des planètes inférieures et les mouvements de la Terre, « Bruniana & Campanelliana », xvi, 2010, 1, 31-50. – [37] Cfr. A. Koyré, Études galiléennes, Paris, 1939 (trad. it. : Studi galileiani, Torino, 1976) ; P.D. Omodeo, G. B. and Nicolaus Copernicus. The Motions of the Earth in The Ash Wednesday Supper, « Nuncius », xxiv, 2009, 35-59 ; M.Á. Granada, L’héliocentrisme de G. B. – [38] Cena, bdfi 125. – [39] Ivi, 112. – [40] Cfr. anche P. Secchi, “Del mar più che del ciel amante”. B. e Cusano, Roma, 2007. – [41] M.Á. Granada, Il rifiuto della distinzione tra potentia absoluta e potentia ordinata di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in G. B., « Rivista di storia della filosofia », xlix,  

























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1994, 3, 495-532. – [42] Cfr. per es. De umbris, bol ii,i 41. – [43] Cfr. ivi, 48. – [44] bol i,ii 310 : « Quod nusquam distincta essentia ab esse ». – [45] bol i,ii 384. – [46] Thes. de magia, v, bol, iii 458. – [47] bol i,i 14-15. – [48] bol ii,ii 203. – [49] Ivi, 164-165. – [50] bol i,ii 360. – [51] Cfr. per es. Sig. sigill., bol ii,ii 196. – [52] bol i,iii 210. – [53] De monade, bol i,ii 370. – [54] Causa, bdfi 220. – [55] Ivi, 210. – [56] Ivi, 214. – [57] Ivi, 224. – [58] Infinito, bdfi 373. – [59] Cena, bdfi 80. – [60] Infinito, bdfi 413. – [61] Sig. sigill., bol ii,ii 129-130. – [62] Ivi, 136. – [63] Ivi, 137. – [64] Thes. de magia, v, bol, iii 458. – [65] Spaccio, bdfi 469. – [66] Cena, bdfi 25.  





Bibliografia. A. Koyré, Études galiléennes, Paris, 1939 (trad. it. : Studi galileiani, Torino, 1976) ; Idem, From the closed World to the infinite Universe, Baltimore, 1957 (trad. it. : Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano, 1970) ; M.Á. Granada, Il rifiuto della distinzione tra potentia absoluta e potentia ordinata di Dio e l’affermazione dell’universo infinito in G. B., « Rivista di storia della filosofia », xlix, 1994, 3, 495-532 ; G. De Callataÿ, Annus platonicus. A Study of World Cycles in Greek, Latin and Arabic Sources, Louvain-la-Neuve, 1996 ; A. Del Prete, B., l’infini et les mondes, Paris, 1999 ; H. Gatti, G. B. and Renaissance Science, IthacaLondon, 1999 (trad. it. : G. B. e la scienza del Rinascimento, Milano, 2001) ; M.Á. Granada, “Voi siete dissolubili ma non vi dissolverete”. Il problema della dissoluzione dei mondi in G. B., « Paradigmi », xviii, 2000, 261-289 ; P. Secchi, “Del mar più che del ciel amante”. B. e Cusano, Roma, 2007 ; D. Tessicini, I dintorni dell’infinito : G. B. e l’astronomia del Cinquecento, Pisa-Roma, 2007 ; P.D. Omodeo, G. B. and Nicolaus Copernicus. The Motions of the Earth in The Ash Wednesday Supper, « Nuncius », xxiv, 2009, 35-59 ; M.Á. Granada, L’héliocentrisme de G. B. entre 1584 et 1591 : la disposition des planètes inférieures et les mouvements de la Terre, « Bruniana & Campanelliana », xvi, 2010, 1, 31-50.  

















































Pietro Daniel Omodeo











Napoli (Neapolis)





Il rapporto di B. con Napoli, e con la cultura napoletana del suo tempo, costituisce un problema spinoso per gli studiosi. Vincenzo Spampanato, il quale aveva una conoscenza notevole della cultura letteraria meridionale del Rinascimento, pubblicò nel 1899 un vo-

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lumetto su B. e Nola, ricco di notizie e aneddoti, curando poi due edizioni del Candelaio (1909, 1923) che, per la ricchezza del commento storico e linguistico, sono tutt’oggi preziose. Nemmeno l’appassionato studioso nolano ha però dedicato un lavoro specifico a B. e Napoli, pur avendo competenze ed erudizione per cimentarsi in tale impegno [1]. In effetti, la Napoli protagonista del Candelaio è una realtà sfuggente nella successiva opera del filosofo ; presente, tuttavia, come immagine del mondo. 1. Giovinezza napoletana. –– Napoli è la città dell’adolescenza e della giovinezza di B., pertanto della fase decisiva della sua formazione, riguardo sia alla prima esperienza filosofica e letteraria, sia agli studi teologici e all’esperienza conventuale che lo renderanno critico del cristianesimo sulla base di una conoscenza diretta della vita religiosa. La capitale del viceregno, con un cattolicesimo caratterizzato da ortodossia esteriore e attraversato da spinte di riforma, è la scena filosofica epicurea e, assieme, plotiniana del Candelaio, dove le persone – per B. non soggetti dotati di qualche sostanzialità, ma agglomerati di atomi e maschere passeggere, modi di essere nella prospettiva del De la causa – hanno sussistenza nell’azione. Napoli rappresenta la realtà effimera dell’esistenza delle anime individuali come descritta da Plotino (↗ Plotino) [2], una scena adeguata alla metensomatosi e al purgatorio. Nella commedia bruniana, Napoli è la città socratico-platonica dei Sileni di Alcibiade in cui la « sommersa nave de la religion » [3] appare in modo grottesco e che vive di superstizioni fino all’eloquente segreto alchemico di una miracolosa pulvis Christi. Rispetto al dibattito teologico dell’epoca, B. è un difensore del purgatorio, che egli considera non luogo trascendente ma dimensione propria della vita. La Napoli notturna del Candelaio è quindi metafora non di una selva tenebrosa verso l’inferno, ma di una contrada del purgatorio. Figlio di Giovanni e Fraulissa Savolino, B. compì i primi studi a Nola, invogliato probabilmente dal padre, « gentiluomo modesto » come veniva definito colui che era di professione soldato ; è stato ipotizzato che Giovan 











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ni possa aver conosciuto Luigi Tansillo (↗ Tansillo), anch’egli uomo d’arme [4] ; del resto, non erano rari all’epoca i legami tra professione delle armi e interessi nella poesia. Spampanato ha supposto che tra Giovanni Bruno e Tansillo vi sia stata perfino amicizia. Quest’ultimo, che morì nel 1568, fece parte dei Continui [5] del viceré Pedro Álvarez de Toledo e fu impegnato in varie imprese militari al seguito del figlio di quest’ultimo, García Álvarez de Toledo y Osorio. Il padre di B. fu, dal 1560, nella compagnia di uomini d’arme di Baldassarre Acquaviva, conte di Caserta, successivamente nella compagnia di Gonzalo Fernández de Córdoba e, dal 1574 al 1582, in quella del napoletano Ascanio Pignatelli [6]. Ascanio, comandante di una compagnia di cavalleria pesante al servizio degli spagnoli, era anche poeta e aveva studiato tra l’altro filosofia a Padova. Negli anni sessanta del secolo, Pignatelli fece parte dell’Accademia degli Eterei come Adombrato [7], un nome che ricorda quello di Fastidito. Le frequentazioni napoletane del giovane B. dovettero riguardare ambienti eterodossi, in collegamento sia con orientamenti radicali dell’aristotelismo insegnato nelle scuole (averroismo, alessandrinismo), sia con circoli letterari umanistico-letterari in cui, sul piano religioso, dovettero essere ancora vive le dottrine di Juan de Valdés. Talune idee eterodosse circolavano nelle accademie ; nonostante la soppressione disposta dal viceré Pedro de Toledo nel 1547, alcune di esse sopravvivevano negli anni sessanta del secolo anche se in semiclandestinità. Come noto, tra gli anni trenta e sessanta del Cinquecento a Napoli erano diffuse le idee dei protestanti : la salvezza per sola fede, il rigetto del culto dei santi e delle reliquie, la negazione della potestà pontificia e della validità del sacramento della confessione [8]. Meno conosciuta è la diffusione in ambienti eterodossi napoletani di concezioni che rinviavano a Origene e a Pelagio, anche attraverso una radicalizzazione di temi erasmiani. Il giovane B. dovette sentirsi attratto da dottrine che rivendicavano la possibilità dell’uomo di trovare nel proprio intimo la forza di elevarsi alla divinità e, in tale prospettiva, egli poté avvicinarsi a  





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scritti eterodossi pubblicati nella prima metà del secolo ma di cui si parlava ancora negli anni della sua formazione a Napoli, come le opere di Valdés [9] e il Beneficio di Cristo [10]. Di sicuro, gli scritti di Erasmo saranno fondamentali per la formazione di B., così come sarà stata per lui importante la lettura dei testi di autori che si richiamavano ad Erasmo, come i riformatori italiani [11]. È probabile che, da giovanissimo, B. abbia sentito parlare non solo di Tansillo ma anche di un personaggio in vista, a Napoli e a Nola, come Mario Galeota, ingegnere militare e letterato amico di Tansillo, nonché noto valdesiano più volte processato [12]. A un evangelismo di impronta valdesiana, pur con aspetti più radicali, sembra doversi ricondurre la prima esperienza religiosa di B. Negli Eroici furori, B. presenta suo padre come persona riflessiva e ironica [13]. Fu Giovanni che, con ogni probabilità, decise di portare il figlio nella capitale del viceregno per fargli intraprendere gli studi superiori. Solitamente si ritiene che B. si trasferì a Napoli nel 1562, a quattordici anni, ma non è escluso che vi giunse uno o due anni prima. Se a Nola, oltre ai rudimenti di grammatica, egli ebbe un primo contatto con la poesia, fu a Napoli che, per un quindicennio, poté sviluppare il suo talento filosofico e letterario. Si trattò di anni di intense letture e di un’attività febbrile di apprendimento in diversi campi, anche in virtù di una memoria fuori dal comune. In merito alla formazione del filosofo e più in generale riguardo alla sua opera, è stato sottolineato che « Ripercorrere analiticamente le letture del B. è impresa disperata » [14]. Di una notevole memoria artificiale e della capacità di un rapido insegnamento di tale ars, B. si vanterà parlando con Guillaume Cotin [15] ; l’insegnamento dell’arte della memoria (↗ arte della memoria) sarebbe stato inoltre uno dei motivi dell’invito da parte di Giovanni Mocenigo [16]. Non è tuttavia possibile confermare quanto osservato da Francesco Fiorentino, il quale fa riferimento a B. a proposito di un passaggio di Giovan Battista Della Porta nella Praefatio dell’Ars reminiscendi ; Della Porta accenna a un tale che, in virtù dell’ars  







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memoriae, sarebbe stato capace di recitare a memoria orazioni e carmi appena uditi e di altre mirabolanti imprese [17]. Va ricordato che, nella Explicatio triginta sigillorum, B. parla di una conoscenza precoce (da « puer ») dell’ars memoriae sulla base del noto opuscolo del Ravennate, Foenix [18]. Difficile dire se tale esperienza avvenne prima o poco dopo l’ingresso nel convento domenicano, ma questa conoscenza decisiva dovette essere a Napoli e non a Nola. Considerando l’insistenza dell’autore, in alcuni suoi scritti, sul tema di una originaria musa nolana, bisogna ritenere che, seppure in modo ingenuo, il suo approccio alla poesia fu su temi di filosofia naturale. Nonostante le ricerche di Nicola Badaloni [19], ancora non è chiara la portata di un’eventuale influenza sul giovane B. di letterati e filosofi napoletani del Quattrocento e della prima metà del Cinquecento. Oscuro rimane il rapporto tra B. e Della Porta ; nel Candelaio si potrebbe rintracciare qualche allusione a certe ricerche dellaportiane, se non proprio alla napoletana Academia Filosofica Secreta come presentata da Girolamo Ruscelli nel 1567, pur non potendosi del resto identificare quest’ultima con la dellaportiana Accademia de’ Secreti cui farà poi riferimento Pompeo Sarnelli [20]. Nei suoi scritti, B. non cita mai Della Porta, ma egli dovette sicuramente conoscere la Magia naturalis pubblicata a Napoli nel 1558. Tale testo poté esercitare una qualche influenza sul giovane B., che tuttavia avrà letto molto presto il De occulta philosophia di Agrippa di Nettesheim : sin dal Candelaio, è questo il testo che costituisce il riferimento primario delle considerazioni bruniane circa la magia (↗ magia). Nella città partenopea per qualche anno B. seguì lezioni di filosofia, presso lo Studio pubblico e privatamente. Conosciamo i nomi di alcuni suoi insegnanti, in quanto egli li menzionerà nel primo interrogatorio del processo a Venezia : Giovan Vincenzo Colle detto il Sarnese, mediocre aristotelico di orientamento averroista, e l’agostiniano Teo­ filo da Vairano [21], che B. ricorderà in altra occasione con riconoscenza, per le capacità educative e, non escluso, per il richiamo a  









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riportare fedelmente il pensiero degli autori indipendentemente da un proprio assenso [22]. Per certi aspetti, il giovane B. avrà considerato Teofilo da Vairano un maestro sulla base delle riflessioni di Agostino o, anche, di Tommaso d’Aquino, i quali sul delicato ruolo dell’insegnante si erano soffermati nei rispettivi De magistro. Non è comunque un caso se, scegliendo di chiamare ‘Teofilo’ il principale interlocutore di alcuni dialoghi filosofici italiani, B. lo consideri come un « fidel relatore » [23]. In tale ottica, il pur modesto insegnante di provincia sarebbe stato un più apprezzabile educatore rispetto all’universalmente riconosciuto « maestro di color che sanno », che si sarebbe invece mostrato « carnefice delle altrui divine filosofie » [24]. Sul piano filosofico, ‘maestri’ di B. possono considerarsi Aristotele [25], da lui poi disprezzato, lo stesso Averroè per certi aspetti, come pure – oltre ai presocratici, Epicuro e gli stoici – i platonici antichi, in particolare Plotino, e moderni, quali Cusano (↗ Cusano) [26] e Ficino ; in modi diversi, sue guide furono Erasmo e Copernico (↗ Copernico). Tutti autori e scuole filosofiche che B. dovette conoscere negli anni della formazione napoletana [27]. Entrato nel convento di San Domenico Maggiore nel giugno 1565 e rimanendovi per un decennio, fu a Napoli che B. perse la fede. Nel dialogo i della prima parte dei Furori, con riferimento alla sua giovinezza e all’esperienza conventuale, egli scrive di non essersi potuto né voluto dedicare all’otium letterario, avvertendo tra l’altro i limiti tragicomici dei propri tentativi poetici [28]. Tentativi che nascevano sul terreno di una profonda inquietudine spirituale, collegata all’insofferenza nei confronti dei dogmi e dei rituali religiosi, nonché dei rimproveri da parte dei superiori del convento. Ammonizioni cui seguiranno dei provvedimenti di carattere disciplinare [29]. Considerando quanto osserverà poi nei suoi scritti, si evince che la propria insofferenza era dovuta non solo agli asfittici studi teologici, ma anche alla difficoltà di liberarsi dei limiti della propria formazione aristotelica senza cadere in un generico materialismo [30]. Come dichiarerà durante il processo a  













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Venezia, egli avrebbe dubitato circa l’Incarnazione, e quindi circa la Trinità, già dall’età di diciotto anni, più o meno un anno dopo aver preso l’abito domenicano [31]. Il filosofo fa capire che i dubbi sui dogmi della religione risalivano all’anno di noviziato o poco dopo, ma non è dato sapere con certezza se non fossero addirittura precedenti al suo ingresso nel convento di San Domenico Maggiore. È emblematico che proprio al periodo di noviziato sembra risalire un episodio cui si fa riferimento nei documenti processuali. Durante un gioco gli sarebbe capitato in sorte il verso dell’Orlando furioso « d’ogni legge nimico e d’ogni fede » [32]. I procedimenti disciplinari da lui subiti nel periodo conventuale si conclusero all’inizio del 1576 con la minaccia di un più grave processo, e poi con la fuga da Roma (↗ Roma) ; avvertimenti e condanne lo accompagneranno negli anni che seguirono. Il tema dell’allontanamento forzato e dell’esilio sarà ricorrente nei suoi scritti, con l’amarezza di chi è stato violentemente separato da familiari, amici e dai propri luoghi, quindi dalla patria [33]. Al rammarico si unirà la consapevolezza di aver compreso, a seguito del distacco dal proprio ambiente naturale-familiare che, come ritenuto già da Diogene di Sinope, « al vero filosofo ogni terreno è patria » [34] ; significativo, in tal senso, è il dialogo poetico nel De immenso tra la nolana collina di Cicala e il napoletano-campano Vesuvio [35]. Dopo aver lasciato Napoli all’inizio del 1576, B. non vi farà più ritorno. Tuttavia, la città rimarrà per lui un dato identitario e una metafora stessa dell’esistenza : un teatro del purgatorio, come sarà raffigurato nel Candelaio e nello Spaccio de la bestia trionfante. Nell’età che, in virtù della critica dei protestanti, segna l’avvio di una progressiva scomparsa di tale luogo trascendente di espiazione, è significativo che B. ne faccia la dimensione stessa della vita. La Napoli della commedia del Fastidito non è la città decantata per la bellezza naturale, che già all’epoca colpiva i visitatori stranieri, né è una città dannata ; è invece la scena umbratile dello Spaccio, luogo dei contrari e del fato della mutazione : la città che rappresenta adeguatamente la  

















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nolana filosofia [36]. Come è stato osservato, « Se le radici del B. filosofo sono in qualche modo ancorate a Nola, fu Napoli a fornirgli la prima, indimenticabile, immagine del mondo » [37]. In questa prospettiva e riguardo allo Spaccio, si può far riferimento anche a una cappella della chiesa di San Domenico Maggiore dalla quale B. trasse ispirazione per i due cieli, greco-romano e cristiano, di cui si tratta nell’opera con richiamo ad astronomia, astrologia, teologia ed etica [38]. 2. Il « napolitano nato » del Candelaio e una novità su Morgana. –– Nel Candelaio, B. introduce così la città-teatro : « dovete pensare di essere nella regalissima città di Napoli, vicino al seggio di Nilo » [39]. Siamo nel cuore antico, greco e un po’ egizio della città, con quella « imagine del fiume Nilo » ricordata da Angelo Di Costanzo [40]. La Napoli del Cinquecento si presentava come una realtà sociale caratterizzata da forti contrasti ; una città che rendeva quasi visibile l’idea della tensione tra i contrari. La capitale del viceregno vantava, oltre a una bellezza naturale, edifici religiosi e nobiliari sfarzosi. A seguito di alcuni interventi urbanistici promossi nel ventennio del governo del viceré Pedro de Toledo, la città si era ampliata e aveva assunto una fisionomia più moderna. Negli anni sessanta del secolo, Napoli poteva dirsi per l’epoca una metropoli, commercialmente avvantaggiata dal commercio marittimo e culturalmente vivace, con tradizioni salde. La cultura umanistica era ben radicata e trovava espressione a vari livelli della vita cittadina, anche grazie alle numerose accademie che, come ho ricordato, negli anni della formazione di B. vivevano per lo più in semiclandestinità. Nella capitale vicereale la corruzione era diffusa a tutti i livelli, a partire dagli amministratori – spagnoli e locali – agli ecclesiastici, con una plebe stracciona e schiamazzante che non di rado veniva utilizzata spregiudicatamente dai nobili per i loro scopi. Nella commedia, B. prende di mira alcune figure riconducibili alla classe borghese o piccolo borghese, mediocramente benestante, attaccata a ideali o fini svuotati di senso e avara, che scalpitava per conquistare spazio e visibilità pubblica, pro 



















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fittando del fatto che la supremazia del ceto aristocratico – i baroni, le famiglie nobili che da secoli controllavano i seggi cittadini – era stata fortemente ridimensionata dal centralismo spagnolo. Al tempo della stampa del Candelaio (1582), B. era a Parigi e da non molto aveva pubblicato il De umbris idearum, opera menzionata nella stessa commedia [41]. Al centro dei due testi è già presente l’idea di natura che il filosofo approfondirà negli scritti successivi. Oltre che medium tra sfera metafisica e razionale-umana, la natura, in quanto anima universale, diventa oggetto-soggetto. Nella Cena de le Ceneri, B. terrà a rimarcare di essere « napolitano nato et allevato sotto più benigno cielo » [42]. Neapolitanus egli si definirà anche iscrivendosi, nel luglio 1586, nell’albo dell’Università di Marburg [43]. Quindi, Nolano, del regno di Napoli ; come si legge nei documenti processuali : « de civitate Nolae regni Neapolitani » [44]. Riferendosi al cielo più benigno, nella Cena egli polemizza con gli esangui inglesi, che di Sole potevano beneficiare poco. Tuttavia, la Napoli della commedia, non diversamente dalla Londra della Cena, è una città notturna, immersa in un’oscurità che favorisce nascondimenti e raggiri ; un luogo di furfanti e marioli, i quali – i napoletani e non i « londrioti » – risultano però essere strumenti di giustizia. Napoli e Londra, città notturne e labirintiche : in entrambi i casi B. si presenta come pittore ‘naturalista’ ; ancora nel De immenso il filosofo ama presentarsi come un fauno dell’agro nolano che osserva il mondo. L’immagine che B. offre di Partenope è quella di un luogo dei contrari dove la natura stessa, tramite operatori che esprimono pulsioni elementari, si occupa di porre un freno a stoltezza e finzioni degli uomini. Napoli, matrigna/benigna, è come la Circe che ricorre in diversi scritti del filosofo. Sul frontespizio del Candelaio, B. si dichiara « Academico di nulla Academia, detto il Fastidito » [45], ma la definizione pone dei problemi interpretativi. Pur tenendo conto che la commedia fu pubblicata oltre sei anni dopo il suo allontanamento da Napoli, c’è da chiedersi in che modo vada intesa tale affermazione. Più che indicare che fu estraneo alle accademie  

























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filosofico-letterarie napoletane del tempo, è da ritenere che B. voglia ribadire quanto aveva dichiarato nel dialoghetto introduttivo del De umbris, cioè di non essere vincolato a una determinata scuola filosofica [46]. L’intera vicenda del Candelaio si svolge durante una sola interminabile notte napoletana. All’azione principale della commedia si aggiungono altri episodi che, rievocati dai personaggi, rappresentano ulteriori momenti d’azione, in modo da offrire un’immagine unitaria con più centri, di tempo e di linguaggi, che tratteggia anche una precisa mappa della città (via Nilo, via/largo Banchi Nuovi, via San Pietro a Maiella, Vicaria, Fondaco del Cetrangolo, piazza del Carmine, Borgo Sant’Antonio Abate, Borgo dei Vergini ecc.), a partire dal centro spaziale e biografico del sedile di Nido, nelle vicinanze del largo di San Domenico Maggiore [47]. Apparenza e realtà risultano rovesciate, come pure la concezione tradizionale di vizi e virtù in collegamento con i ceti della società : pur essendo tra gli infimi nella gerarchia sociale, sono dei marioli – liberi da astrazioni e illusioni – a ristabilire un ordine naturale. La vita rude dei marioli, con la loro esibita sessualità e le furfanterie, è anche un’avvertenza per non equivocare la dottrina delle ombre delle idee. Le ombre sono animali e non ideali. Nel Candelaio, oltre a una critica di valori della società cristiana, è implicita una sferzata nei confronti dell’autorità vicereale spagnola sentita come estranea alla città, che appare come senza un effettivo governo. Dunque, da una parte, plebei marioli ma realistici ; dall’altra, borghesi vacui, tronfi e irrealistici. B. vuole dire : un potere, che non bada a natura e giustizia, è fragile. In modo meno drammatico, ma non per questo meno eloquente, si tratta del medesimo avvertimento morale che, con richiamo alla « vicissitudine de le cose », si esprime nella Cena de le Ceneri a proposito dei conquistadores spagnoli e delle popolazioni sottomesse con la forza ; un tema che viene anche anticipato nella dedicatoria del Candelaio : « quei che son nel giorno, aspettano la notte », e la Spagna non poteva aspettarsi che la notte [48]. Il biasimo di B. si rivolge alla stolta e  

















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timorosa borghesia cittadina ancor più che alla potenza straniera vessatoria. In merito alla dedicatoria del Candelaio, manifesto di un bruniano essere e tempo, è stato scritto abbastanza. Uno degli aspetti che ha incuriosito gli studiosi è la questione dell’identificazione della misteriosa « Signora Morgana B. » : una donna amata, nolana, napoletana o anche francese ; una maliarda, una prostituta. Spampanato, che cercava di riportare B. sempre a Nola, aveva inizialmente optato per una donna della famiglia materna dei Savolino che avrebbe sposato qualcuno della famiglia di B. ; successivamente, lo studioso aveva identificato la donna con Morgana Borzello [49]. In effetti, dalla lettura del testo sembra che B. si riferisca a una persona in carne e ossa ; d’altra parte, appare evidente una qualche idealizzazione. A livello letterario, la Morgana del Candelaio si richiama alla fata/maga della Vita Merlini di Geoffrey of Monmouth e, specificamente, al personaggio dell’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo ; B. conobbe anche il Morgante di Luigi Pulci. Come ebbi a notare anni fa, Morgana è una enigmatica persona [50], cioè una ipostasi, così come il concetto teologico viene inteso da B. su un piano filosofico ; in tal senso Morgana, come Diana, potrebbe figurare tra le personificazioni (statue) della Lampas triginta statuarum. Morgana è anche la Beatrice del filosofo [51]. Per affrontare adeguatamente il problema bisogna tener conto di altri esempi, più o meno analoghi, che ricorrono negli scritti di B. Per es., nel testo dei Furori – nella parte finale, con richiamo all’Argomento e al sonetto preliminare Iscusazion del Nolano –, Diana viene identificata con Elisabetta I. Se è evidente che, nei Furori, Diana è la figura mitologica che rappresenta la natura come anima universale, per B. non c’è però contraddizione nel considerare la regina inglese un individuo del tutto speciale che, in quel momento storico, rappresenta una personalità con qualità tali (virtù, poteri) da potersi fregiare dell’appellativo di Diana, e questo indipendentemente da un intento cortigiano da parte dell’autore. Non è escluso che una sovrapposizione dei livelli allegorico-letterario  















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e biografico possa valere in qualche modo anche per la Signora Morgana. L’abbreviazione della curiosa intestazione – « Morgana B. » – farebbe tuttavia pensare a Bruno stesso, come a dire la mia Morgana, la mia dea, la mia Musa. Nell’Antiprologo della commedia, le Muse sono nominate come « puttane d’Elicona » [52] ; anche se in altri scritti, le figlie di Mnemosine vengono chiamate in causa in modi meno spregiativi, B. tiene più volte a sottolineare che le Muse si concederebbero troppo facilmente a coloro i quali, forse ispirati ma senza troppo cervello, le invocano. Così come la maga Circe, anche colei che è detta « in superlativo dotta, saggia, bella e generosa mia signora » [53], rivela una duplicità, seppure meno inquietante. Come le Muse, la stessa Morgana ha per B. dei tratti da meretrice. A una donna di costumi liberi allude anche l’appellativo di ‘signora’, come era uso nel Rinascimento definire la cortigiana colta e indipendente, qual è per es. la « Signora Vittoria » del Candelaio. Può risultare singolare considerare come prostituta la personificazione di natura/anima del mondo, ma va tenuto conto che B. intende rimarcare, a suo modo, che l’anima universale guarda a tutti, che è « tutta in tutto e qualsivoglia parte del tutto » [54]. Nel titolo della presente sezione ho fatto riferimento a una novità su Morgana. Posso solo accennare a un punto che svilupperò in altra sede. Non credo che finora sia stato segnalato che, per la dedicatoria del Candelaio, B. si sia ispirato a un testo significativo della letteratura oscena del Cinquecento : il Comento del Grappa nella canzone del Firenzuola ‘In lode della salsiccia’, pubblicato nel 1545 a Mantova. Ancora si discute su chi si celi dietro l’enigmatico Il Grappa, ‘autore’ anche dei Cicalamenti intorno al sonetto ‘Poi che mia speme è lunga a venir troppo’, testo edito sempre a Mantova nel 1545 [55]. Per il momento, mi limito a citare la dedicatoria dell’audacissimo Comento ; penso siano più che chiare le allusioni oscene e la vicinanza della dedicatoria bruniana : « Il Grappa alla sua Signora S. | Io havrei commesso peccato pestello, non pur mortaio, se, sapendo quanto le code vi sieno in grado, et havendone fra le mani una così brava et sfoggiata chente è  





























questa, l’havessi indirizzata ad altri che a voi. Accettatela adunque di buon cuore, et s’ella vi fia grata, riporretela ne’ vostri più segreti ripostigli, là dove solete tener le cose a voi più care. Ma avertite bene a non metterla però in quell’arca che tenete dinanzi alla porta, percioché essendo rotta, sconquassata et per la maggior parte divorata dalle tignuole et rósa da tarli, non sarebbe troppo sicura, anzi ne porterebbe sommo pericolo. Là onde, credo sarà bene la conserviate in quel segreto, donde vi ho veduto più volte cavar l’oro, et che sta di continuo dietro all’uscio. Et a V. S. bascio la lussuriosa mano » [56]. 3. Identificazione di una Donna. Giulia valdesiana a Napoli ? –– Secondo Spampanato le figure femminili, Giulia e Laodomia, che compaiono come interlocutori nel dialogo conclusivo degli Eroici furori sono da ritenere due donne nolane realmente esistite, appartenenti entrambe ai Savolino, la famiglia materna di B. Lo studioso si basa su documenti archivistici, dai quali risulta che nomi come Laodomia o anche Morgana non erano rari nella Nola del tempo [57]. Si tratta quindi di un intreccio tra filosofia ed elementi autobiografici. Che il dialogo conclusivo dei Furori sia da considerarsi fortemente allegorico, è lo stesso B. che lo sottolinea nell’Argomento. Risulta chiaro che, nella figura di Giulia e dei giovani amanti, egli ha inteso comprendere aspetti della propria critica cosmologica, cioè la critica di un oggetto d’amore (un primo motore) che appare inadeguato alle aspettative dei nove amanti poi ciechi, i quali rappresentano le nove sfere celesti del sistema aristotelico-scolastico [58]. Nel testo c’è anche un’implicazione autobiografica, con riferimento all’aristotelica filosofia della natura da lui abbracciata a Napoli in gioventù. Spampanato porta a conferma della identificazione che propone un passaggio dell’Argomento dei Furori, nel quale B. osserva che le due figure femminili non hanno il compito di argomentare quanto viene narrato nel dialogo, ma quello di divinare ; il filosofo rimarca che tale ruolo è « secondo la consuetudine del mio paese » [59]. Si tratta di un ruolo subalterno in confronto alla funzione di interprete che sarebbe proprio di un « maschio ingegno » [60],  













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ma va rilevato che tale ruolo ha una connotazione di sacralità [61]. Spampanato interpreta la parola « paese » del passo citato come richiamo specifico a Nola ; è probabile che B. intenda tuttavia riferirsi più in generale alla Campania, cioè a consuetudini e credenze dell’Italia del Sud. D’altra parte, nel brano dell’Argomento c’è un’allusione alla sacerdotessa di Mantinea del Simposio : Laodomia/Diotima. Giulia e Laodomia non sono pertanto da intendersi nel senso di paesane ignoranti, le quali parlerebbero di una rivelazione di cui loro stesse non afferrano punto ; nel dialogo conclusivo dei Furori c’è un’aura profetica e, direi, religiosa. Così come si riscontra in generale nell’opera, anche in tale dialogo B. non dà informazioni precise su luogo e tempo, ma si limita a talune allusioni ; non viene precisato il luogo dove le due donne si trovano e discorrono, né si danno indicazioni sul periodo in cui accadono i fatti narrati da Laodomia, risalenti a diversi anni addietro. Nel testo ci sono non poche allusioni autobiografiche ; gli elementi reali vengono però assorbiti in una favola che allude a un percorso di conoscenza che, a partire dal bello naturale, conduce i nove giovani, dopo una fallimentare esperienza religiosa (e teo­ logica), a un’elevata esperienza del bello e del bene che soltanto la filosofia può offrire. Dal racconto di Laodomia si comprende che tale ricerca, nel suo momento conclusivo, coincide con gli anni della pubblicazione dei Dialoghi filosofici del Nolano. L’inizio della vicenda è collocato nella Campania felix ; non viene precisato se siamo a Nola o a Napoli. Si direbbe l’agro nolano, ma è probabile che B. alluda a entrambi i luoghi ; quindi, per richiamarci al menzionato brano poetico del De immenso, tra la nolana collina di Cicala e il napoletano Vesuvio. Va notato che pure nella prima parte dei Furori, dove l’interlocutore fondamentale è Luigi Tansillo, scomparso diciassette anni prima della pubblicazione dell’opera, l’ambientazione è indefinita. D’altronde, tutte le scene dei diversi dialoghi del testo sono caratterizzate da un’astrazione ; tale astrazione serve a evidenziare i personaggi su una medesima scena, indipendendentemente che ci si riferisca ad Atteone, a  



















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Diana, Apollo, come pure alle vicende di B. e a figure – come Tansillo – legate alla sua giovinezza. Ho accennato a un’atmosfera religiosa del dialogo conclusivo dei Furori, ed è chiaro se si pensa alla figura di Circe in quanto allegoria della Chiesa cattolica. Nel modo stesso di esprimersi delle due donne – « o sorella » ; « ti priego, sorella » [62] –, viene quasi da pensare che ci troviamo in un convento, in cui Giulia risulta essersi ritirata. L’episodio che la riguarda sembra riferirsi non solo alla bellezza naturale, di cui era dotata in gioventù, ma anche a un certo rifiuto di tale bellezza da parte della donna. Seppure non specificato nel testo, si direbbe che una via religiosa venga quasi suggerita ai giovani amanti dalla stessa Giulia o, perlomeno, che la sua propria scelta vada in quella direzione. Delle due donne, Laodomia è la sacerdotessa, una sorta di religiosa narrante, mentre Giulia, pur essendo personaggio chiave della favola pastorale, rimane una figura sfuggente. Se si considera la vicenda che viene narrata nel dialogo e il ruolo di Giulia, nonché il significato del dialogo nella prospettiva filosofica dell’opera, risulta poco credibile l’identificazione di colei che B. fa capire dotata di una speciale « beltade » con una donna nolana, e – sulla base almeno delle indicazioni offerte da Spampanato – con una contadina o quasi, che sarebbe stata una donna avvenente in gioventù. Le pur poche indicazioni date dal filosofo fanno pensare a una persona distaccata come un’aristocratica, che – stando al racconto – non ha nemmeno bisogno di respingere le profferte dei « nove bellissimi et amorosi giovani », in quanto essi stessi sono consapevoli che non hanno speranza di ricevere da lei « il bramato frutto de l’amore » [63]. Si tratta, quindi, di una donna che, già in giovane età, ha probabilmente fatto una scelta, implicante il rifiuto di essere considerata oggetto d’amore per la propria bellezza fisica. Nel dialogo, Giulia prende la parola tre volte, e solo in uno degli interventi dice qualcosa di sé, riferendosi a una propria ribelle quanto innocente asprezza caratteriale, di persona decisa ad affermare una propria libertà [64]. Ritengo che per la misteriosa figura femminile dei Furori la quale, bellissima in gio 





















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ventù, decide di non offirisi a nessuno dei nove amanti, B. alluda anche a Giulia Gonzaga [65], che Ortensio Lando presenta come una donna che « scordatasi la sua bellezza che paragone non hebbe mai, ha tutti i suoi pensieri al cielo rivolti » [66]. Quella Giulia che svolgerà una funzione importante nella diffusione dell’opera di Juan de Valdés e che, anche per questo, fu odiata da personaggi come Costantino Castriota, il quale – sotto il nome di Filonico Alicarnasseo – scrisse all’epoca una biografia in cui insinuava che, per la nobildonna, l’adesione a dottrine eretiche significava in effetti poter condurre una vita lussuriosa [67]. Nei Furori c’è un’ulteriore spia che ci fa capire come, nel finale dell’opera, il filosofo intenda alludere ai circoli valdesiani con i quali, da giovanissimo, dovette avere qualche contatto : il riferimento agli Illuminati [68]. L’accenno alla Gonzaga starebbe a indicare quel particolare momento della sua vita in cui la scelta religiosa comportò un interesse nei confronti di alcuni aspetti della Riforma e di idee che venivano discusse in ambienti filocalvinisti della città partenopea. L’interesse di B. dovette rivolgersi in particolare verso l’evangelismo valdesiano, verso cioè una ricerca tutta interiore della verità. La dottrina di Valdés comportava un amalgama di alumbradismo, erasmismo e luteranesimo. Fondamentale era la concezione di un’illuminazione interiore come fonte di conoscenza. Anche in virtù di una precoce formazione filosofica, per il giovane nolano dovette trattarsi di un approccio al problema della verità, con l’idea della possibilità dell’uomo di trovare nel proprio intimo la forza di elevarsi alla divinità. Non fu un caso se, nel 1579 in fuga dall’Italia, B. decise di recarsi a Ginevra, dove incontrò Galeazzo Caracciolo, del quale aveva sicuramente sentito parlare a Napoli [69]. Come noto, la brevissima esperienza ginevrina del filosofo fu drammatica : egli finì incarcerato per aver denunciato l’ignoranza di un teologo, professore universitario. Tuttavia, anche se si pronuncerà poi con forza contro la concezione calvinista della salvezza per sola fede e della predestinazione, così come contro altre dottrine dei riformati, B. non poteva  







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che guardare con favore all’esecrazione per la compravendita delle indulgenze, al rifiuto del culto dei santi e delle reliquie (anche del culto della Vergine), come pure alla negazione della potestà pontificia e della validità del sacramento della confessione, per non parlare del rigetto della concezione cattolica dell’Eucaristia e della condanna di un monachesimo parassitario che si univa a un ipocrita voto di castità. Ritornando alla Gonzaga : nel dicembre del 1535, poco più che ventenne e già vedova del conte di Fondi, si era trasferita a Napoli, risiedendo nel monastero di San Francesco alle Monache : « Santo Francesco – scrive Pietro de Stefano – è uno Monastero di Monache, qual sta da una parte al’incontro del campanile di Santa Chiara, da un’altra dirimpetto al palazzo del’Illustrissimo Principe di Bisignano. [...] Nel detto Monastero al presente dimora l’Illustrissima Donna Giulia di Consaga con tanta humiltà, che par proprio una dele sorelle » [70]. Il monastero – in cui Giulia rimase fino alla morte, avvenuta nell’aprile del 1566 – era poco distante dalla Chiesa e dal convento di San Domenico Maggiore. B., che nel giugno del 1565 era entrato nel convento domenicano, già da alcuni anni (almeno dal 1562), frequentava quella zona della città e probabilmente vi abitava. Difficile che egli non abbia avuto notizia della Gonzaga, che era una figura ben nota. Per la ‘Giulia’ dei Furori, egli dovette probabilmente tener conto anche della egloga La Nimpha fuggitiva, composta da Girolamo Muzio e da questi dedicata al cardinale Ippolito de’ Medici, innamorato della Gonzaga. Nella egloga ci sono alcuni elementi che fanno pensare alla misteriosa figura femminile dei Furori. La Ninfa fuggitiva (cioè Giulia Gonzaga), che « splende di beltà fra l’altre belle », si nega alle richieste dell’amante ; anzi, la giovane maledice la propria bellezza naturale che l’avrebbe esposta, « senza colpa », pure al rischio di essere rapita. Il poeta, dando voce all’innamorato Ippolito, la impreca di non fuggire l’amore : « Pensi forse così perpetuamente / passar la verde tua fiorita etade / vedova, et sola senza alcun diletto ? ». Tuttavia, Giulia si mostra « al suo dir  



























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sorda » [71]. Nella città partenopea, la Gonzaga ebbe modo di conoscere e frequentare Valdés, diventando la sua discepola prediletta ; la nobildonna svolse un ruolo importante nella diffusione delle idee del teologo e riformatore spagnolo, promuovendo la traduzione in italiano di suoi scritti e la loro pubblicazione. Dimorando a Napoli, Giulia riuscì negli anni a intessere rapporti sia con personaggi di spicco a livello politico e della Chiesa cattolica, sia con personaggi che nutrivano simpatie nei confronti dei protestanti e che avevano fama di eterodossia, come Pietro Carnesecchi, Mario Galeota e altri ancora. In quel periodo a Napoli circolavano gli scritti di Lutero, Calvino e Melantone. Ancora sino alla seconda metà degli anni sessanta del Cinquecento e oltre, come è attestato da diverse testimonianze e da non pochi processi, la capitale del viceregno risulta essere sotto stretta osservazione da parte del Sant’Uffizio per la notevole diffusione di libri e dottrine eretiche. La formazione filosofica e teologica di B. avvenne in anni in cui ci furono nella città persecuzioni ma anche ribellioni, ed egli ne ebbe sicuramente notizia ; vi farà pure riferimento nei suoi scritti. D’altronde, basti pensare che uno dei confratelli del convento di San Domenico Maggiore, il predicatore Ambrogio Salvio, il quale ricoprì diverse cariche nella Provincia domenicana di Napoli e che B. menziona con ironia nella Cabala, diede nel 1566, durante uno dei processi a carico di Mario Galeota, una testimonianza significativa in cui parlò di un suo tempestoso incontro, avvenuto anni addietro a Napoli, con Juan de Valdés [72]. Nel corso del processo a Venezia, lo stesso B. sembra far capire di aver conosciuto ben presto le opere di Lutero, Calvino e Melantone [73]. Oltre alla diffusione di dottrine critiche nei confronti del culto cattolico, in alcuni ambienti napoletani circolavano idee più radicali, improntate a un’interpretazione estrema di concezioni di Erasmo e vicine a posizioni antitrinintarie. Già in un documento risalente alla fine del 1551 si legge : « in Napoli è una nova seta d’heretici in gran moltitudine, et de primi de Napoli, li quali tra le altre heresie loro tengono Christo non  









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essere Dio ma gran propheta et non essere venuto come messia ma come propheta » [74]. Dottrine come questa circolavano nel periodo in cui B. si trovava nella città partenopea, e anche nei documenti del suo processo si riscontrano idee simili, in forma ancora più grave. Taluni concarcerati a Venezia, poi delatori, dichiareranno che il filosofo avrebbe detto che i profeti erano stati uomini tristi, astuti e ingannatori, e che meritavano una morte vituperosa. Cristo non sarebbe stato diverso dai profeti, per cui la sua morte non poteva essere diversa [75]. È come se, nel carcere, in una condizione di insopportabile costrizione, emergano in B. pensieri e parole risalenti a una giovanile miscredenza degli anni napoletani. Come ho ricordato, egli afferma di aver cominciato a dubitare dell’Incarnazione a partire dai diciotto anni. Il giovane B. sarà stato vicino a posizioni antitrinitarie ; alcuni suoi convincimenti non saranno stati tanto diversi dalle idee di Miguel Servet e, comunque, saranno stati affini agli esiti più radicali dell’erasmismo. La dottrina di Valdés esprimeva, con prudenza e dissimulazione, concezioni proprie della Riforma, come il rifiuto del culto dei santi e di pratiche devozionali da lui ritenute superstiziose. Aspetti, questi e altri (per es. il motivo dell’interior homo), che ritroviamo, a distanza di qualche decennio, in scritti come il De umbris, lo Spaccio, la Cabala e i Furori. Sono temi che – sulla base di un confronto con Erasmo e con dottrine origeniane, come pure con gli scritti ermetici e con autori come Lucrezio – vengono da B. ripensati in maniera radicale e reinterpretati alla luce di una filosofia della natura e di una complessiva critica della religione cristiana. Per il filosofo nolano non è questione di ritrovare, agostinianamente, la luce di Cristo dentro noi stessi ; non è in gioco una illuminatio variamente caratterizzata da toni mistici. In merito alla vicinanza del giovane B. a un evangelismo che è da supporre sia stato di una certa impronta valdesiana e che, per il periodo, si può collocare tra il 1564 e qualche anno dopo, quindi a ridosso del suo ingresso nel convento napoletano di San Domenico Maggiore, si possono individuare taluni ri 





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scontri nei documenti del processo. Si veda, per es., quanto B. dichiara già nel primo interrogatorio : « a Napoli ero stato processato due volte : prima per haver dato via certe figure et imagine de’ santi et retenuto un crucifisso solo, essendo per questo imputato de sprezzar le imagine de’ santi ; et anco per haver detto a un novitio che leggeva la Historia delle sette allegrezze in versi, che cosa voleva far de quel libro, che lo gettasse via, et leggesse più presto qualche altro libro, come è la Vita de’ santi Padri » [76]. Per alcuni elementi di accusa che si leggono nei documenti del processo, è interessante un confronto con « errori et heresie » confessate dall’ex frate benedettino Annibale Salato, processato a Napoli e poi a Roma : « Che non sia bene dire l’offitio della Beata Vergine Maria. Che li santi non possino pregare per noi. Che non si debbano venerare li Santi. Che gli heretici siano megliori et più dotti delli nostri Dottori [...]. Che le cerimonie della Chiesa et reliquie de Santi non vagliano niente » [77]. In merito poi a possibili richiami nei testi a concezioni vicine al valdesianesimo, in una prospettiva filosofica profondamente diversa dalla via mistica, si può per es. menzionare un brano della seconda parte dei Furori, dove alla domanda di Cesarino (che interpreta un sonetto) su come intendere che la mente umana tenda in alto, aspiri cioè allo splendore divino, Maricondo risponde che non si tratta di mirare al cielo empireo, ma di procedere nell’intimo di se stessi, considerando che Dio è dentro di noi. Maricondo aggiunge che quindi non serve a niente « aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al tempio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si vegna exaudito » [78]. Nel brano emerge con forza la rivendicazione di una religiosità interiore : una concezione che era propria degli Spirituali o Illuminati viene a collegarsi con l’idea ermetica di una « religion della mente » [79]. Quei riferimenti, a Giulia e agli Illuminati, assumevano un preciso significato. B. intende rimarcare che l’illuminazione che apre effettivamente alla conoscenza, conducendo a una felicità che è possibile raggiungere in questa vita, non è di carattere religioso [80],  





























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ma filosofico, quindi razionale. In tal senso, un testo chiave, che contribuisce a completare il quadro di Giulia e gli Illuminati, è il dialogo iii della prima parte dei Furori, in particolare le prime pagine [81]. Nei suoi scritti, Valdés parla di una illuminazione dei credenti tramite lo Spirito Santo e, in questa prospettiva, egli fa riferimento a « uomini rigenerati ». La via che il riformatore spagnolo indica è spirituale-religiosa ; egli, pertanto, si esprime contro « coloro che, guidati solamente col suo lume naturale e con la sua prudenza umana, presumono d’intender le cose che sono dello spirito di Dio » [82]. Nei Furori, B. considera su un piano filosofico la via indicata dalla teologia negativa, così come egli prende in esame il tema dell’unione dell’essere umano con Dio, o anche il tema della mors osculi. Nel finale del testo B. vuole anche dire : in gioventù ho fatto esperienza di una via religiosa e teologica alla ricerca della verità, e sono rimasto come cieco. Napoli, che gli aveva fornito « la prima, indimenticabile, immagine del mondo », era per lui un’immagine filosoficamente da rielaborare. Giulia rappresentava in tal senso un tassello significativo.  















Note. [1] Va ricordato che in Spampanato, Vita, figura un ampio capitolo su « Eterodossia a Napoli e processo di G. B. », dopo tre capitoli su « I primi maestri », « Chiericato e professione », « Studi e sacerdozio », nei quali si trattano diversi aspetti dei primi anni trascorsi da B. nella capitale vicereale. – [2] Enn., iii, 2, 15 ; vedi anche iii, 2, 17. – [3] Spaccio, bsp 62. – [4] Uomo d’arme si definiva il soldato a cavallo e con armatura. – [5] Una guardia personale formata da cento cavalieri, metà spagnoli e metà napoletani. – [6] Spampanato, Vita, i, 18-20, 35-45 ; ii, 807-840. In un colloquio del dicembre 1585 con Guillaume Cotin, bibliotecario dell’abbazia parigina di Saint-Victor, B. afferma che suo padre sarebbe ancora in vita (ivi, ii, 650 ; doc. parigini, i). Nel corso del processo a Venezia egli dichiarerà che i suoi genitori erano entrambi morti (Firpo, Processo, doc. 9 : 156 ; costituto del 26 maggio 1592). – [7] Per diverse notizie cfr. A. Pignatelli, Rime, a cura di M. Slawinski, Torino, 1996. – [8] In tali ambienti era diffusa anche l’idea dell’inesistenza del purgatorio. Come ho notato, la concezione bruniana del purgatorio non riguarda però un ‘luogo’ relativo  

























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alle anime dei defunti e alla loro purificazione. Va inoltre osservato che sin da giovane B. dovette essere contrario all’idea di salvezza per sola fede. – [9] In particolare, dell’Alfabeto cristiano (1545) e de Le cento e dieci divine considerazioni (1550). – [10] Il Beneficio di Cristo fu stampato anonimo, per la prima volta a Venezia nel 1543, ed ebbe delle ristampe. La notevole circolazione del testo nel corso del secolo fu dovuta anche alle diverse traduzioni. – [11] Diversamente da Delio Cantimori, Nicola Badaloni – come pure Guido Calogero – individuerà una continuità di motivi tra i riformatori italiani della prima metà del Cinquecento e i filosofi della seconda metà del secolo, tra i quali B. Naturalmente un punto cruciale, che segna la differenza, riguarda l’anticristianesimo del Nolano. – [12] Galeota era tra l’altro in amicizia con Giulia Gonzaga, Pietro Carnesecchi e Galeaz­zo Caracciolo. Per diversi documenti vedi P. Lopez, Il movimento valdesiano a Napoli. Mario Galeota e le sue vicende col Sant’Uffizio, Napoli, 1976 ; cfr. la voce di S. Pastore, in dbi, 51, 1998. – [13] Furori, berf 52. – [14] E. Garin, Storia della filosofia italiana, Torino, 19662, 3 voll. : ii, 672. – [15] Spampanato, Vita, ii, 651, 654-655 (doc. parigini, ii, v). – [16] Firpo, Processo, doc. 9 : 154-155 ; cfr. ivi, doc. 7 : 150-151. Per l’interesse di Enrico III nei confronti di tale ars vedi ivi, doc. 11 : 161-162 (al re, B. aveva dedicato il De umbris idearum con l’allegata Ars memoriae). – [17] F. Fiorentino, Della vita e delle opere di Giovan Battista Della Porta [1880], in Idem, Studi e ritratti della rinascenza, Bari, 1911, 268-269. L’Ars reminiscendi fu pubblicata nel 1602, ma la composizione dell’opera risale a diversi anni addietro. Una versione italiana, L’arte del ricordare, vide la luce già nel 1566 ; l’accenno cui si riferisce Fiorentino è già presente nel testo A’ lettori dell’ed. italiana del 1583. [18] Explicatio, bol ii,ii 130. L’operetta di Pietro Tomai (o Tomasi) fu pubblicata la prima volta a Venezia nel 1491 ed ebbe alcune ristampe nel Cinquecento. – [19] Cfr. in part. alcuni contributi raccolti poi in N. Badaloni, Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano, Pisa, 2004. – [20] G. Ruscelli, Secreti nuovi di maravigliosa virtù..., Venezia, 1567, Proemio, 1r-7v. G. B. Della Porta, Della magia naturale... libri xx, ed. a cura di P. Sarnelli, Napoli, 1677, A’ Lettori, 2-3 n.n. A volte le due testimonianze vengono collegate. Tuttavia, è da ricordare che Ruscelli parla di un’accademia che sarebbe fiorita a Napoli intorno alla metà degli anni quaranta del Cinquecento, mentre l’Accademia de’ Secreti di Della Porta (nato nel 1535) dovette essere attiva negli anni sessanta del secolo,  













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ispirandosi probabilmente a quella. Un preciso legame erano i Secreti di Alessio Piemontese, ritenuto uno pseudonimo dello stesso Ruscelli. – [21] Firpo, Processo, doc. 9 : 154 (Teofilo da Vairano per l’insegnamento privato). – [22] Un riconoscimento per quello che oggi definiamo onestà intellettuale da parte dell’insegnante ; in questo senso è da intendersi quanto B. disse a Guillaume Cotin, parlando di Teofilo da Vairano come « le principal maystre » che avrebbe avuto in filosofia (Spampanato, Vita, ii, 651 ; doc. parigini, ii). Un ‘maestro’ come insegnante più che altro di un metodo ; nel costituto processuale, B. fa riferimento all’insegnamento della logica. – [23] Causa, oib i 746 – [24] Furori, berf 206 (le « divine filosofie » sono quelle dei presocratici) ; per Aristotele « non assai fidel relatore » : Causa, oib i 731. – [25] Nei Furori, B. affermerà di essere stato allevato e nutrito in gioventù nella dottrina degli aristotelici (berf 19) ; cfr. anche Cena, oib i 536. – [26] È da ricordare che nell’antica Libraria di San Domenico Maggiore era conservato un esemplare dell’edizione del 1565 degli Opera di Cusano (G. B. : gli anni napoletani e la ‘peregrinatio’ europea, a cura di E. Canone, Cassino, 1992, 235). B. avrà avuto notizia di concetti cusaniani pure attraverso un volume di Mauro Fiorentino del 1550 (cfr. E. Canone, Variazioni bruniane : i. G. B. e Mauro Fiorentino, « Bruniana & Campanelliana », vii, 2001, 2, 547554). – [27] Da alcuni passaggi della Cena e del De immenso sembra che B. abbia conosciuto l’opera di Copernico già negli anni napoletani, ritenendo inizialmente tale teoria « falsa » ; il rapporto di B. con Copernico si collega alla crisi della sua giovanile militanza aristotelica (cfr. oib i 536 e bol i,i 380-381). Negli anni napoletani, B. avrà avuto modo di conoscere anche l’opera di Telesio, da lui menzionato in un passaggio significativo del De la causa (oib i 677). La seconda ed. del De rerum natura apparve a Napoli nel 1570. – [28] berf 32-33. – [29] Firpo, Processo, doc. 9 : 157, doc. 13 : 171, doc. 15 : 190-192. – [30] Cfr. Causa, oib i 678-679. Per un’efficace immagine dei frati del convento domenicano della sua giovinezza, cfr. Cabala, oib ii 463 ; per i nomi di alcuni frati (Silvio/Salvio, Giorgio/Gregorio) e per delle identificazioni vedi bdi 897-898. – [31] Firpo : Processo, doc. 13 : 170. – [32] L. Ariosto, Orlando furioso, xxviii, 99. Durante il processo a Venezia, un concarcerato (e delatore) aggiunse che B. « si vantava che da putto cominciò a essere nemico de la fede catholica » ; vedi Firpo, Processo, doc. 51 : 249-253. – [33] Spaccio, bsp 186-187 : « che ti cacciaro dallo tuo natio albergo, che ti alienaro da gli amici, che ti allontanaro dal 































































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la patria, e ti bandiro a poco amichevole contrade ». – [34] Causa, oib i 623 ; Diogene Laerzio, vi, 63. – [35] bol i,i 313-315. – [36] Nella Cena, con l’espressione di Purgatorio de l’inferno (oib i 568) B. si riferisce allo Spaccio. – [37] I. D. Rowland, Un fuoco sulla terra. Vita di G. B. [ed. ingl. : 2008], trad. di G. Ernst, Roma-Bari, 2011, 20. – [38] Cfr. E. Canone, La cappella dello Spaccio : due cieli in uno, « Bruniana & Campanelliana », xi, 2005, 1, 29-52. – [39] Candelaio, oib i 276. – [40] A. Terminio [A. Di Costanzo], Apologia di tre Seggi illustri di Napoli, Venezia, 1581, 23v. – [41] oib i 262-263. – [42] Cena, oib i 535. Cfr. il cap. De virtute loci del De rerum principiis, bol iii 554 sgg. – [43] « Iordanus Nolanus Neapolitanus, Theologiae Doctor Romanensis ». Vedi G. B. : gli anni napoletani e la ‘peregrinatio’ europea, 111-112 (Documenti, 49-50, doc. tedeschi, i). – [44] Firpo, Processo, doc. 64 : 335 ; cfr. docc. 27 : 207 ; 65 : 337 ; 66 : 340 ; 71 : 350. – [45] Nell’edizione del Candelaio in oib i non figura la trascrizione del frontespizio ; al suo posto viene riprodotto (fuori paginazione, dopo p. 256) il frontespizio dell’edizione originale che presenta una grafia diversa. Cfr. oib i 284. – [46] bomne i 36 ; cfr. Causa, oib i 688-689. – [47] Per alcune indicazioni sul sedile di Nido (o Nilo) cfr. B. Croce, I Seggi di Napoli, in Idem, Nuove curiosità storiche, Napoli, 1922, 48-52. Oltre al citato testo di Antonio Terminio, cfr. C. Tutini, Dell’origine, e fundation de Seggi di Napoli, Napoli, 1644. – [48] Cena, oib i 452 ; Candelaio, oib i 264 ; per un riferimento al tema dell’avarizia degli spagnoli cfr. Spaccio, bsp 290-291. – [49] G. B., Candelaio, a cura di V. Spampanato, Bari, 1923, xxvi-xxix ; Spampanato, Vita, 64, nota 3. Nelle note dell’edizione einaudiana del Candelaio (Torino, 19641 ; 19815, 169), Giorgio Bárberi Squarotti – richiamandosi a Spampanato – scrive che si tratta probabilmente di « una donna di Nola, conosciuta dal B. negli anni giovanili ». Nel commento all’edizione della commedia in oib i 261, lo studioso aggiunge : « Anche la citazione della Signora Morgana è parodica, facendo riferimento a una prostituta mascherata da celebrazioni roboanti ». Già Giovanni Aquilecchia aveva osservato « neppure risulta chiaro se si tratti di una gentildonna o di una cortigiana » (G. Aquilecchia, Schede bruniane (1950-1991), Manziana, 1993, 339, nota 1). Per le varie interpretazioni della commedia cfr. A. L. Puliafito Bleuel, Comica pazzia. Vicissitudine e destini umani nel Candelaio di G. B., Firenze, 2007, 35 sgg. – [50] E. Canone, Nota introduttiva, boi i xviii, nota 18. – [51] Idem, Magia dei contrari. Cinque studi su G. B., Roma, 2005, 76-78. – [52] oib i 274 ; Causa, oib i  































































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617 : « le puttane muse di Parnaso ». – [53] Candelaio, oib i 262. – [54] Causa, oib i 600. – [55] Entrambi i testi furono stampati senza indicazione dello stampatore, ma si è potuto appurare che questi fu Venturino Ruffinelli. Vedi la recente edizione dei due testi del Grappa, a cura di F. Pignatti, Manziana, 2009 (= Ludi esegetici iii). – [56] Ludi esegetici iii, 293-294 (cit. con qualche modifica). Nel brano c’è probabilmente un richiamo ai Cinque canti di Ariosto. Cfr. Candelaio, oib i 261-262. – [57] Spampanato, Vita, i, 64. – [58] Come indicato dall’autore, i nove giovani amanti, poi ciechi, rappresentano anche le nove Muse. – [59] berf 22. – [60] Ibidem. – [61] Per un confronto : ivi, 6365. – [62] berf 256, 266 – [63] Ivi, 256. – [64] Nel testo si legge : « la mia tanto restia quanto semplice et innocente crudeltade » (ivi, 268). – [65] Dico ‘anche’, per prudenza interpretativa. Del resto, nei Furori si riscontrano, in parallelo, diverse allusioni, e l’autore mantiene volutamente un’ambiguità. – [66] O. Lando, Paradossi, rist. dell’ed. Lione 1543, a cura di E. Canone, G. Ernst, PisaRoma, 1999, 172. – [67] La biografia della Gonzaga è compresa nelle Vite di diverse illustrissime persone di Filonico Alicarnasseo, un testo che, seppure non stampato, ebbe all’epoca una discreta diffusione manoscritta. Cfr. L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello, 1892, 2 voll. : i, 151-158. – [68] berf 267 ; riguardo ai ciechi poi illuminati, è da considerare l’intero dialogo conclusivo dell’opera. Illuminati (Alumbrados, Illuminados) era il temine che designava i seguaci del movimento religioso spagnolo al quale si richiamava Valdés. Per gli Alumbrados si trattava di una illuminazione mistica, di giungere cioè a contemplare l’essenza stessa di Dio per immediata illuminazione dello Spirito Santo. Un accenno a Valdés e al tema dell’illuminazione rispetto ai Furori è presente in N. Badaloni, Note sul bruniano De gli eroici furori [1995], in Idem, Inquietudini, 223, nota 59 (nello stesso vol. cfr. pp. 270-271). Lo studioso parla di « grande illuminazione » e osserva, anche in rapporto al motivo della mors osculi, che il procedimento usato da B. nei Furori « potrebbe con profitto essere avvicinato a una laicizzazione del complesso lavorio psicologico introdotto in Italia da J. Valdés e sviluppato dai suoi discepoli ». Badaloni non fa però riferimento al dialogo conclusivo dei Furori, dove il tema degli illuminati è presente in modo specifico. – [69] Il noto marchese napoletano che, nel 1551, aveva scelto l’esilio volontario a Ginevra. Caracciolo fu poi tra gli organizzatori della Chiesa riformata italiana della città elvetica. Riguardo al soggiorno di B. a Ginevra, cfr. Spampanato,  

























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Vita, i, 279 sgg. ; ii, 627-640 ; per alcune dichiarazioni, non del tutto sincere, dello stesso filosofo : Firpo, Processo, doc. 11 : 160 ; doc. 51 : 290, 295. – [70] P. de Stefano, Descrittione dei luoghi sacri della città di Napoli, Napoli, 1560, 184r. La Gonzaga, all’età di tredici anni, aveva sposato il quarantenne Vespasiano Colonna, rimanendo vedova già nel 1528 ; questi l’aveva lasciata erede del suo patrimonio e dei titoli, a condizione che non si risposasse. Pur corteggiata da molti, Giulia decise di mantenere fede a tale impegno. Nel luglio del 1534, durante un assalto dei corsari, la Gonzaga era dovuta fuggire precipitosamente da Fondi in quanto Khair ad-Din (Barbarossa) intendeva rapirla. – [71] G. Muzio, La Nimpha fuggitiva, in Idem, Egloghe, Venezia, 1550, 126r-v, 128r-v. – [72] P. Lopez, Il movimento valdesiano a Napoli, Appendice, 170-171. – [73] Firpo, Processo, doc. 14 : 177 ; doc. 15 : 191. – [74] C. Ginzburg, I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze, 1970, 69. – [75] Firpo, Processo, doc. 51 : 260, 275-276. – [76] Ivi, doc. 9 : 157 ; cfr. doc. 15 : 190-192 ; doc. 51 : 251, 278-279. – [77] La sentenza, del maggio 1567, è pubblicata in P. Lopez, Inquisizione, stampa e censura nel Regno di Napoli tra ’500 e ’600, Napoli, 1974, 257-259 (cfr. ivi, 74-77). – [78] berf 174. Cfr. J. de Valdés, Alfabeto cristiano, a cura di M. Firpo, Torino, 1994, 88-93. – [79] Spaccio, bsp 259. – [80] Considerando i Furori nel contesto dei Dialoghi italiani, risulta che la critica religiosa di B. è sì rivolta al cristianesimo (cattolici e protestanti), ma riguarda più in generale le religioni monoteistiche. – [81] berf 63-65. – [82] J. de Valdés : Le cento e dieci divine considerazioni, a cura di E. Cione, Milano, 1944, 179, 302 ; cfr. 275-278, 299-310.  



























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to cristiano, a cura di M. Firpo, Torino, 1994 ; M. Miele, Indagini sulla comunità conventuale di G. B. (1556-1576), « Bruniana & Campanelliana », i, 1995, 1-2, 157-203 ; G. B., 1548-1600. Mostra storico documentaria, Firenze, 2000 ; M. Miele, G. B. : i documenti napoletani, « Bruniana & Campanelliana », ix, 2003, 1, 159-203 ; N. Badaloni, Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano, Pisa, 2004 (raccolta di contributi pubblicati dalla fine degli anni cinquanta del ’900) ; G. B. Del Tufo, Ritratto o modello delle grandezze, delizie e maraviglie della nobilissima città di Napoli, a cura di O. S. Casale e M. Colotti, Roma, 2008 (l’opera fu composta nella seconda metà degli anni ottanta del ’500) ; L. Addante, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, Roma-Bari, 2010 ; S. Peyronel Rambaldi, Una gentildonna irrequieta. Giulia Gonzaga fra reti familiari e relazioni eterodosse, Roma, 2012 ; M. Firpo, Juan de Valdés e la Riforma nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, 2016.  























Eugenio Canone







Bibliografia. L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello, 1892, 2 voll. ; Spampanato, Vita (1921) ; G. B., Candelaio, a cura di V. Spampanato, Bari, 19232 (19091) ; E. Pontieri, L’agitazione napoletana del 1564, in Idem, Nei tempi grigi della storia d’Italia, Napoli, 19663, 197-246 ; Storia di Napoli, v, 1 (Il Viceregno), Napoli, 1972 ; P. Lopez, Inquisizione, stampa e censura nel Regno di Napoli tra ’500 e ’600, Napoli, 1974 ; Idem, Il movimento valdesiano a Napoli. Mario Galeo­ta e le sue vicende col Sant’Uffizio, Napoli, 1976 ; C. Ginzburg, A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul « Beneficio di Cristo », Torino, 19772 ; M. Firpo, Tra alumbrados e « spirituali ». Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano, Firenze, 1990 ; G. B. : gli anni napoletani e la ‘peregrinatio’ europea, a cura di E. Canone, Cassino, 1992 ; J. de Valdés, Alfabe 

































panteismo (pantheismus) — secc. xviii-xix 1. Causa, principio, fondamento. « Pensare l’unità ». — Il dibattito sull’interpretazione del panteismo di B. anima la vita intellettuale tedesca degli ultimi trent’anni del xviii secolo, con echi che giungono fino agli anni Quaranta del secolo successivo. L’interesse per questo tema nella filosofia di B. si svolge lungo un arco temporale delimitato da due letture, sotto molti punti di vista, reciprocamente agli antipodi : la seconda edizione dei Briefe über die Lehre des Spinoza di Friedrich Heinrich Jacobi, pubblicata nel 1789 [1], e la monografia di Moriz Carrière sulla Weltanschauung dell’età del Rinascimento, apparsa nel 1847 [2]. Nato dal confronto tra lo stesso Jacobi e Moses Mendelssohn sulla questione del presunto spinozismo di Lessing, il lavoro di Jacobi avrà un peso determinante nella diffusione del pensiero di B. tra gli eruditi ottocenteschi. La prima delle otto appendici che lo corredano presenta un’epitome dei dialoghi ii-v del De la causa [3]. Scegliendo di abbandonare la forma dialogica, l’interprete tedesco subordina la vocazione divulgativa del proprio saggio – che tuttavia non vuol  





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essere in alcun modo una semplice traduzione – al conseguimento di un obiettivo più alto : mostrare le conseguenze che si possono trarre da una filosofia coerentemente monista e panteista, nello stesso senso in cui è monista e panteista la filosofia di Spinoza. Lo spirito che caratterizza l’opera di B., e che Jacobi dal canto suo si è sforzato di riprodurre, è quello dell’’En kaiv pa`n, dell’identità di uno e molteplice. B. deve pertanto essere considerato un precursore di Spinoza e uno dei massimi esponenti del panteismo moderno. A fondamento del panteismo bruniano e spinoziano si trova, secondo Jacobi, la concezione della sostanza divina come causa di tutti gli esseri e la parallela affermazione della coincidenza di Uno e molteplice all’interno di tale sostanza. Questa filosofia monista, in virtù della quale l’assolutamente incondizionato (Dio) si fonde con il condizionato, con ciò che ha una causa esterna (le cose create) conduce B. a una conseguente professione di ateismo [4]. Lo scopo dell’interpretazione di Jacobi è quello di mostrare la pericolosità di tale posizione (bruniana e spinoziana), anche sulla scorta di un’attenta disamina del testo considerato più rappresentativo del pensiero del Nolano. Jacobi suddivide la sua epitome in quattro parti, ciascuna delle quali illustra uno dei principali snodi tematici del dialogo : il concetto di ‘causa’, considerato nei suoi rapporti con il principio generale dell’essere e a sua volta suddiviso in causa agente, formale e ideale ; il concetto di ‘principio materiale’, identificato con la ‘potenza’ ; il principio materiale considerato come ‘soggetto’ ; infine, l’idea dell’‘Uno’ (corrispondente al quinto dialogo De la causa) [5]. L’Auszug esordisce riportando l’affermazione di B. secondo cui tutto ciò che non è esso stesso primo principio o prima causa, deve necessariamente possedere un principio e una causa [6]. Ma cosa dobbiamo intendere con queste due espressioni, ‘prima causa’ e ‘primo principio’ ? L’interprete settecentesco individua nell’uso bruniano dei termini ‘causa’ e ‘principio’ una differenza essenziale : il principio (Grund) è « la ragione interna di una cosa, l’origine della sua esistenza possibile ; la causa (Ursache) è  

















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la ragione esterna di essa, l’origine della sua esistenza attuale » [7]. I due termini rimandano dunque a due distinte concezioni della natura del rapporto tra l’incondizionato e il condizionato, l’Uno e il molteplice, l’eterno e il transitorio. Mentre l’idea di principio poggia su un presupposto esclusivamente logico – in altre parole, rimanda a una divinità concepita anteriormente e indipendentemente dalla sua esplicazione negli enti mondani – l’idea di causa rende ragione della permanenza della sostanza divina nei suoi effetti, spostando dunque l’attenzione sul lato dell’esperienza. L’esatta definizione dei due poli concettuali appare a Jacobi meritevole di ulteriori indagini, in seguito alle quali il critico tedesco giunge a individuare nella divinizzazione della materia l’esito autentico del panteismo del Nolano. Se il principio universale è la materia assoluta, eterna e immutabile, la natura corporea non può essere distinta da quella spirituale ; al contrario, il primo principio avrà una natura insieme formale e materiale, perché secondo la sostanza tutto è uno [8]. A tale proposito, nota Jacobi, né i peripatetici, né i platonici avrebbero ritenuto opportuno distinguere il corporeo dall’incorporeo. B., andando oltre i suoi precursori, indica nella ‘forma’ il principio semplice e unitario al quale la molteplicità delle cose rimanda necessariamente. Il sensibile e l’intelligibile devono essere ricondotti a un fondamento (Grundwesen) comune a entrambi, poiché nessuna delle cose esistenti può trarre il proprio essere da se stessa e nulla si crea dal nulla [9]. 2. La separazione dei due mondi. — Le preoccupazioni manifestate da Jacobi riguardo alle possibili conseguenze razionalistiche (in ultima analisi, irreligiose) della metafisica panteista del Nolano sono invece estranee al giovane Schelling, che dall’estratto del De la causa trae l’ispirazione per comporre il celebre dialogo Bruno [10]. La stessa schellinghiana filosofia dell’identità può essere considerata una tardiva declinazione del panteismo di Spinoza, perché Schelling non si limita ad affermare l’identità o indifferenza di spirito e natura nella sostanza divina, ma fa dell’universo la realizzazione di tale sostan 



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za. Al contrario di Jacobi, Schelling guarda con favore all’identificazione, sostenuta dal protagonista del suo Bruno, di finito e infinito, inconscio (natura) e coscienza (spirito). Le individualità finite sono mantenute nella loro apparente irriducibilità alla sostanza universale, ma solo dal punto di vista della coscienza individuale, finita. Il finito, in realtà, non esiste in sé, ma solo come punto di vista della coscienza, la quale, tuttavia, non può non contenere tutta l’infinità realtà. La vera filosofia, come quella di B., insegna che ogni cosa è in Dio. Tutto ciò a cui noi diamo il nome di realtà è reale per partecipazione all’essere assoluto di Dio, ma è solo nella ragione e per mezzo della ragione che tale partecipazione è attuabile [11]. La ragione riconosce la profonda verità della coincidentia oppositorum, intesa come legge che governa sia l’universo materiale che quello spirituale. L’unità indifferenziata di materia e forma, natura e spirito, si realizza al massimo grado in Dio, sebbene Dio non sia né natura né spirito, ma appunto la loro vivente unità. L’intuizione di questa « sacra unità » tra Dio e la natura è conoscenza assoluta o – il che è lo stesso – conoscenza dell’Assoluto, riconoscimento dell’impossibilità di separare il pensiero dall’essere. La separazione tra il mondo infinito dell’Assoluto e quello finito delle cose reali viene meno nella conoscenza, vale a dire nella presa di coscienza che la verità risiede nell’unico « principio divino e naturale delle cose ». I due mondi, l’infinito e il finito, pervengono all’unità in Dio, inverandosi l’un l’altro. D’altro lato, la separazione tra le sfere della sostanza divina e della natura sensibile è fatta cadere da Schelling anche in considerazione del fatto che separare la natura da Dio significa « ucciderla » : al di fuori di Dio la natura ‘non è’, così come Dio non è concepibile senza la natura. Non però la natura corporea e transeunte, visibile con occhi sensibili, deve essere fatta oggetto della vera filosofia, bensì la natura eterna e incorruttibile, che può essere compresa « solo con occhi della ragione » [12]. La concezione schellinghiana della natura si richiama esplicitamente alla materia assoluta o indifferenziata del De la causa : questa materia non  



















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va confusa con il corpo (come hanno fatto Platone e i platonici), è in sé priva di molteplicità e non contaminata dalle accidentalità che la superficie esteriore delle cose sensibili reca inevitabilmente con sé. In questa materia l’organico e l’inorganico sono una cosa sola, conclude il filosofo tedesco, che sembra qui avvalorare le conclusioni tratte non molti anni prima da Jacobi nella sua epitome del medesimo dialogo bruniano. 3. Gott und Welt. — All’idea di una materia primigenia, ricettacolo di tutte le forme possibili e infinita potenza, può essere ricondotta anche l’interpretazione della filosofia della natura di B. in alcune liriche, ma soprattutto nelle opere di argomento scientifico composte da Goethe tra la fine del xviii e i primi decenni del xix secolo. L’interesse del poeta tedesco per il De la causa è documentato fin dal 1770 : in un’annotazione contenuta nelle Ephemerides degli inizi di quell’anno egli difende B. dalla duplice accusa di empietà e oscurità, sebbene sia costretto ad ammettere che la tesi della coincidenza dell’infinito numerico con l’unità lo lasci ancora perplesso. In B. non è l’essere di Dio, nota Goethe, a generare la molteplicità delle cose sensibili, ma piuttosto « la superficie della sostanza » [13] : in questo egli ravvisa un’« assurdità », ma anche una posizione filosofica assolutamente stimolante e gravida di implicazioni per le scienze della natura. La stessa intuizione della misteriosa unità della sostanza divina con la molteplicità degli enti mondani è sfruttata dal poeta nella lirica – di chiara ispirazione panteista – intitolata Gott und Welt, che mette in versi i pensieri espressi da B. nel commento in prosa al dodicesimo capitolo del quinto libro del De immenso [14]. Cosa sarebbe mai, si chiede Goethe, un Dio ridotto a pura intelligenza, che dall’esterno impartisse il movimento all’universo con il semplice colpetto di un dito ? No, è di gran lunga preferibile credere che la divinità alberghi nel grembo stesso della natura, che le infonda la vita dall’interno, e che tutto ciò che tra gli esseri ha vita sia un effetto della « forza » e dello « spirito » di Dio. Da un presupposto del tutto analogo muovono gli scritti scientifici della maturità, nei quali la natura (organi 





















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ca e inorganica) assume i tratti della potenza dispiegata dell’Uno-tutto ; in essa non si trova possibilità che non si traduca in realtà, potenza che non coincida con l’atto, mentre la materia non è distinta dalla forma, anzi è forma essa stessa. In questo stesso senso può essere letto il significato filosofico della nota teorizzazione goethiana della Urpflanze, archetipo ideale e allo stesso tempo minimo comune denominatore delle forme vegetali presenti, passate e future. Nelle dinamiche vitali degli esseri viventi si rivela all’occhio dello studioso, secondo Goethe, l’uniforme regolarità della legge impressa da Dio all’universo. I numerosi punti di contatto tra l’interpretazione del poeta-scienziato e quella di Schelling testimoniano del clima di amicizia e stima reciproca che in quegli anni si era instaurato tra i due e che aveva indotto lo stesso Goethe a esprimersi in termini di piena approvazione nei confronti del Bruno. In una lettera a Schiller datata 16 marzo 1802 – ancora prima della pubblicazione del dialogo presso l’editore Unger di Berlino – questi dichiara che Schelling ha dato voce alle sue « più intime convinzioni » riguardo alle dottrine del Nolano [15]. Un’annotazione goethiana del giorno precedente registra invece, oltre all’avvenuta lettura dell’opera, lo « scetticismo » che essa ha suscitato in Hegel [16]. 4. L’unico ordine del cosmo. — A dispetto della freddezza mostrata da Hegel nei confronti del Bruno schellinghiano, anche le Lezioni sulla storia della filosofia che egli tenne per più semestri a Berlino tra il 1819 e il 1831 si inseriscono a pieno titolo nel vasto movimento romantico di rivisitazione delle metafisiche panteiste del Rinascimento. In via del tutto generale, la filosofia di B. deve essere classificata come ‘spinozismo’ o panteismo ; ma la dialettica Uno-molteplice e le questioni a essa correlate, come il problema dell’unione o della separazione di Dio dal mondo, finiscono per essere offuscate dalla mystische Schwärmerei, da un entusiasmo incontrollato, che inquina tutti gli scritti di B., in un agitarsi disordinato di una miriade di intuizioni e di stili contrastanti [17]. Lo spinozismo di B. è evidente nella volontà di mantenere ben  











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salda l’unità del principio formale (Dio) e di quello materiale (l’universo), suggello della vita del Tutto [18]. La conoscenza di Hegel dei Dialoghi italiani – in particolare, del De la causa e del De l’infinito – è ancora largamente debitrice della mediazione dell’estratto di Jacobi e dei più diffusi manuali tedeschi di storia della filosofia del xviii e xix secolo. Di queste fonti Hegel fa largo uso nelle sue lezioni universitarie, ma l’interpretazione che da esse ricava è assolutamente in linea con l’impostazione generale del proprio pensiero. Due sono le direttrici da seguire, da parte di chi voglia interpretare la filosofia del Nolano : la teoria dell’animazione universale, di chiara matrice neoplatonica, e la mnemotecnica lulliana. Riguardo alla prima, Hegel afferma la coincidenza della forma con l’intelletto universale, vale a dire con l’intelligenza che infonde la vita e fa muovere dall’interno tutti gli esseri ; questo intelletto è causa della produzione degli enti naturali, nello stesso modo in cui l’intelletto umano è causa della produzione dei concetti [19]. L’intelletto universale, tuttavia, non è niente senza la materia assoluta, assolutamente indifferenziata e informe, ma allo stesso tempo madre di tutte le forme. La definizione dell’esatta natura di questa materia incorporea, presupposto di ogni realtà corporea, è il termine ultimo a cui tende tutta la ricerca filosofica di B., la risposta che egli dà alla domanda intorno al nesso che tiene unito Dio al mondo. Lungi dal poter essere considerato un pensatore ateo, B. manifesta in tutti i suoi scritti una personale e talvolta bizzarra religiosità, che lo porta ad affermazioni sconcertanti, ma nelle quali Hegel è costretto a riconoscere l’impronta di una mente fuori dal comune. Per penetrare nella sostanza divina, B. utilizza fino in fondo le risorse della dialettica degli opposti : Dio è non solo unità di materia e forma, di possibilità e realtà, della causa e di ciò che è causato, è anche unità di maximum e minimum. Nei Poemi francofortesi, in particolare nel De minimo, è contenuta una grande verità : chi vuole indagare sui più profondi segreti della natura deve ricercare i termini estremi di tutte le cose – appunto, il massimo e il minimo – e sco 







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prire che proprio in questi estremi tutte le realtà, Dio compreso, divengono intelligibili [20]. Dio è l’unità che si fa, allo stesso tempo, totalità. Nell’universo non è possibile distinguere il punto dal corpo, né il centro dalla periferia, perché tutto è centro e il centro è dappertutto ; sotto questo riguardo, avevano ragione gli antichi a sostenere che il padre degli dei avrebbe la propria sede in ogni punto dell’universo [21]. L’altra fondamentale componente della speculazione bruniana è la sua lettura in chiave neoplatonica della mnemotecnica di Raimondo Lullo. Nel De umbris, osserva Hegel, l’arte lulliana della memoria fornisce il sostegno metodologico a una metafisica panteistica al cui vertice è posto, ancora una volta, l’intelletto universale o efficiente, produttore di tutte le forme [22]. Questo intelletto universale è inteso da B. nello stesso senso in cui i neoplatonici intendono la forma universale : esso è l’Uno, la sostanza primigenia, dalla cui luce si allontanano, seguendo un processo di emanazione, le sostanze degli enti mondani. Le cose create vivono all’ombra della luce della prima sostanza ; il loro essere è pertanto solo un’ombra dell’Idea originaria, dell’atto primo della luce della sostanza. Il processo di degradazione dell’Idea, tuttavia, prevede anche il cammino inverso, che riporta indietro le cose sensibili dalla dispersione della molteplicità fino all’unità della sostanza : l’inferiore può allora riflettersi nel superiore, il materiale nello spirituale, e viceversa, « perché tutto è una sola essenza » [23] e il processo di caduta è lo stesso del percorso di risalita. Nell’universo e nella mente umana si può riconoscere pertanto – questo è il senso ultimo dell’interpretazione hegeliana – un unico ordine, naturale e insieme soprannaturale, in grado di rendere ragione tanto della sostanza soprasensibile di Dio (da qui il ricorso alla metafisica neoplatonica) quanto della natura sensibile degli enti mondani, tra i quali l’anima dell’uomo. L’esame delle tecniche utili per accedere ai segreti attinenti ai due piani della realtà costituisce una parte integrante della metafisica bruniana ; Hegel non manca infatti di sottolineare come l’arte della memoria di Lullo venga elevata da B. a  













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vera e propria teoria della conoscenza. L’immagine di B. che emerge da queste pagine delle Lezioni hegeliane è quella di un pensatore che, nonostante tutte le sue contraddizioni, riesce a essere sistematico, a conciliare i presupposti della nuova teoria eliocentrica con una concezione della divinità ancora legata al neoplatonismo rinascimentale. Hegel si mostra altresì molto perspicace nel cogliere i punti di convergenza tra i Dialoghi italiani di argomento cosmologico e le opere latine ; in generale, l’intera produzione del Nolano gli appare guidata dall’unico intento di ricondurre il materiale allo spirituale, l’inintelligibile all’intelligibile, il molteplice sensibile all’unità della sostanza divina. L’indiscussa superiorità della sua lettura rispetto a quella degli interpreti ottocenteschi che lo hanno preceduto (con la sola eccezione, per questo aspetto, di Goethe) è forse imputabile al fatto che Hegel può consultare, negli ultimi anni della sua vita, l’edizione curata da Adolf Wagner delle Opere italiane, la quale, pur recando sul frontespizio la data 1830, era uscita, in realtà, alla fine del 1829 [24]. L’edizione Wagner costituirà per lungo tempo l’unica edizione completa degli scritti italiani di B., prima accessibili solo a un ristretto numero di studiosi europei. Dopo il 1830, il panorama degli studi sul Nolano – più specificamente, i contributi sulla questione dell’ateismo o, al contrario, sulla religiosità panteistica del loro autore – si fa molto più ricco e variegato, fino a toccare l’apice intorno alla metà degli anni Quaranta. 5. Ontologia e teologia. — L’improvviso intensificarsi dell’interesse per le opere di B. deve molto alla pubblicazione di tre monografie, uscite in Germania tra il 1842 e il 1847, due delle quali composte da altrettanti esponenti della scuola hegeliana, Joseph Hillebrand e Moriz Carrière. Al terzo autore a cui facciamo riferimento, Franz Jakob Clemens, non si può attribuire la stessa filiazione, dal momento che questo professore di filosofia cattolico, che per qualche tempo visse anche in Italia e al quale spetta il merito di essere stato uno dei primi a ravvisare in Nicolò da Cusa una fonte di importanza cruciale per la comprensione della filosofia di B., si  

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tenne volontariamente a distanza, per tutta la vita, dal richiamo della filosofia assoluta. Con la sua monografia su B. e Cusano [25], Clemens intende offrire ai suoi lettori, oltre a un’interpretazione delle profonde differenze tra i due pensatori, anche una sorta di progetto di rinnovamento della filosofia del suo secolo, allo scopo di salvarla dalla situazione fallimentare in cui, secondo il suo punto di vista, essa è caduta a causa delle scienze positive. Con una buona dose di ottimismo e di entusiasmo in più rispetto a Clemens, Hillebrand, ordinario di filosofia all’università di Giessen a partire dagli anni Venti, offre una visione della filosofia di B. almeno in parte innovativa. Avendo identificato la divinità con l’universo corporeo, B. è un panteista e un materialista allo stesso tempo : per il filosofo italiano è necessario infatti coniare l’apposita espressione di « panteismo materialistico », si osserva nella Propädeutik der Philosophie [26], in modo da non confondere il suo pensiero con quello degli Eleati, che è un « panteismo idealistico ». Pur rivelando il suo debito nei confronti delle più audaci speculazioni degli stessi Eleati e di Platone, B. ha dato vita ad una forma di panteismo assolutamente originale. Nell’ontologia bruniana « il più alto principio di tutto l’Essere è identico all’Essere stesso. Questo principio è la divinità » [27]. Nessun’altra realtà è possibile al di fuori della divinità, che è l’Assoluto ; ogni altra esistenza è solo una forma imperfetta dell’essere della divinità stessa. La divinità di B., sottolinea Hillebrand, è nella stessa misura spirituale e materiale, rispecchia quindi una visione organicistica che lo storico ottocentesco non esita a definire « Schellingianismus » [28]. Nel materialismo, implicito in questa concezione della divinità, e non nell’ateismo, Hillebrand individua poi la causa della condanna di B. al rogo da parte della chiesa cattolica. Gli elementi del panteismo bruniano che possono essere considerati un’anticipazione della filosofia della natura del xix secolo sono oggetto di indagine anche nell’opera maggiore di Hillebrand, l’Organismus der philosophischen Idee [29]. Con questo scritto Hillebrand si propone di dare una rappresentazione dell’e 



















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voluzione interiore dell’Idea, da un duplice punto di vista, scientifico e storico. In entrambe le trattazioni l’Idea, hegelianamente considerata come processo e sviluppo dinamico, assume la forma di un organismo, di una totalità organizzata e sistematica, nella quale ogni parte svolge una funzione essenziale alla vita del tutto. Questa totalità è ben riscontrabile nella storia della filosofia, di cui l’Idea costituisce il principio e la sostanza, restando immanente a essa in ogni parte della sua evoluzione [30]. Pur subendo continue trasformazioni, il principio permane eternamente identico a se stesso e ciò consente di riscontrare, nei momenti salienti della storia del pensiero, convergenze sorprendenti tra autori molto lontani nel tempo. La filosofia di B., da questo punto di vista, appare a Hillebrand tesa a « dimostrare la compiuta immanenza dell’essere nell’infinità delle sue determinazioni, ovvero la pura identità dell’Uno e dei molti come universalità assoluta » [31]. In queste pagine è ancora una volta l’applicazione del metodo dialettico allo studio della natura la più significativa innovazione introdotta da B., nel quadro di una concezione della divinità che assomma in sé l’identità di tutte le opposizioni. B. può essere dunque considerato il vero precursore della filosofia romantica della natura, e la sua posizione è ora definita « panteismo ideale » [32]. La contraddizione con la definizione data dallo stesso Hillebrand nella Propädeutik (« panteismo materialistico ») è in verità soltanto apparente : basti riflettere sul fatto che in B. il principio universale ha una natura sia corporea che spirituale e la materia è la ragione della vita del cosmo, il mezzo attraverso il quale l’essere divino si realizza nelle cose particolari. 6. Il fondamento morale del panteismo di B. — Il superamento del dualismo materia-spirito nella considerazione della divinità da parte di B. è messo a tema anche dalla monografia di Carrière, Die philosophische Weltanschauung der Reformationszeit in ihren Beziehungen zur Gegenwart. Secondo l’autore, i filosofi del Rinascimento hanno dimostrato che è possibile abbandonare non solo il punto di vista dualistico sulla realtà, ma anche l’opposizio 













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ne tra monismo panteistico e deismo. Comprendere il pensiero del Rinascimento può aiutare gli studiosi del xix secolo a capire che il deismo e il panteismo si affidano entrambi a una visione unilaterale del fenomeno religioso, il primo perché concepisce l’essenza divina come assolutamente finita, il secondo come assolutamente infinita. « Il deismo trasforma Dio in qualcosa di limitato, non avendo a disposizione altro che enti finiti [...]. Il panteismo vuole invece vedere in Dio l’unico Essere e salvare l’infinito ; ma anch’esso si rovescia nel suo opposto », nel mondo del molteplice [33]. B. è introdotto da Carrière non solo come « il genio filosofico dell’Italia », ma anche come un animo dotato di una superiore sensibilità per l’elemento spirituale presente in ogni concreta manifestazione della natura, e dunque, non alieno da un’autentica religiosità, che gli permette di « contemplare dall’interno l’infinita realizzazione dell’infinita potenza nel tutto » [34]. Il punto qualificante di questa filosofia è individuato da Carrière nella dottrina dell’identità degli opposti, grazie alla quale B. ha anticipato gran parte dei successivi sviluppi del metodo critico in Cartesio, Fichte, Schelling e Hegel. Ma la dottrina della coincidentia oppositorum ha un fondamento di natura eminentemente teologica, secondo Carrière, il quale fa coincidere l’Uno del quinto dialogo del De la causa con la propria idea di divinità. Tutto ha inizio e fine con l’Uno-Dio ; egli contiene e comprende in sé il tutto, così come il tutto è compreso e contenuto in lui. Ciò che più conta, Dio non soggiace al principio della coincidenza degli opposti, poiché « niente gli è contrario, piuttosto egli porta in sé tutte le opposizioni, le assoggetta e plasma ogni cosa da quelle » [35]. Il Dio di B. presenta sicuramente tutti i tratti propri di un essere assolutamente razionale, ma questo non implica affatto l’esclusione della corporeità, che rappresenta, al contrario, una componente ineliminabile della sua natura. Anche Carrière, come prima di lui Schelling e Hillebrand, interpreta il significato della dialettica forma-materia nel De la causa alla luce della metafora organicistica. La materia assume il  



















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ruolo di sostanza universale e fonte di tutto l’essere, mentre la forma si limita a rendere possibile l’esplicazione della potenza interiore della materia. Gli innumerevoli individui che popolano l’universo sono come le parti dello smisurato corpo vivente, dell’infinito « corpo di Dio » ; la parte e il tutto, quanto alla sostanza, sono una cosa sola, e questa intuizione fa del Nolano il primo vero filosofo ‘idealista’. L’idea dell’animazione universale poggia altresì sulla medesima concezione dell’unica sostanza divina che racchiude in sé l’infinita ricchezza delle determinazioni particolari. La natura è la realizzazione visibile dell’essenza invisibile di Dio ; la potenza divina non disdegna di manifestarsi in ogni aspetto della realtà sensibile, per quanto umile possa apparire. Tali considerazioni inducono Carrière a vedere nel credo panteista di B. un saldo fondamento morale, oltre che ontologico. La distanza che separa l’interpretazione dello storico hegeliano dalle prudenti riserve espresse da Jacobi nell’estratto del De la causa, composto circa sessant’anni prima, si mostra in tutta la sua evidenza. Il merito che B. si è conquistato, agli occhi di Carrière, consiste principalmente nell’aver fatto dell’unità di Dio e della natura un sapere fecondo e vitale, capace di opporsi alle vuote astrazioni della scienza aristotelica. In termini molto simili, e proprio negli stessi anni, anche Christian Bartholmèss [36] legge il De la causa, il De l’infinito e la trilogia francofortese alla luce di un’analoga considerazione morale, oltre che metafisica, del panteismo del Nolano. Come afferma lo stesso B. nell’Oratio valedictoria, filosofia naturale e filosofia morale non sono disgiunte, anzi coincidono, perché la prima non studia solo la storia della natura, ma anche la storia delle opere di Dio. La filosofia ha il diritto e il potere di produrre una teologia razionale e una morale naturale [37]. In B. « Dio è allo stesso tempo l’essenza della vita fisica e della vita morale » [38]. Su queste basi i lettori del secolo successivo costruiranno un’immagine della ‘nolana filosofia’ che renderà finalmente giustizia alla sua capacità di elevare l’animo umano verso le più alte produzioni dello spirito.  











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Note. [1] Friedrich Heinrich Jacobi’s Werke, iv, 2, Leipzig, 18193, 5-46. – [2] M. Carrière, Die philosophische Weltanschauung der Reformationszeit in ihren Beziehungen zur Gegenwart, Stuttgart und Tübingen, 1847. – [3] F.H. Jacobi, op. cit., 5-46. – [4] Ivi, 15-17. – [5] Ivi, 5, 18, 28, 34. – [6] Ivi, 5. – [7] Ivi, 6. – [8] Ivi, 28. – [9] Ivi, 29. – [10] F.W.J. Schelling, Bruno oder über das göttliche und natürliche Princip der Dinge. Ein Gespräch, Berlin, 1802. – [11] Ivi, 168-169. – [12] Ivi, 187. – [13] Goethes Werke, 143 voll., Weimar, 1887-1919, i, 37, 82-83. – [14] Ivi, i, 3, 73-74. – [15] Ivi, iv (Goethes Briefe), 16, 55. – [16] Ivi, iii (Goethes Tagebücher), 3, 53. – [17] W.F. Hegel, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in Vorlesungen, 9, 4, hrsg. v. P. Garniron und W. Jaeschke, Hamburg, 1986, 52. – [18] Ivi, 53. – [19] Ivi, 58. – [20] Ivi, 53-54. – [21] Ivi, 54. – [22] Ivi, 57. – [23] Ibidem. – [24] G. B., Opere, a cura di A. Wagner, Lipsia, 1830. – [25] F.J. Clemens, G. B. und Nicolaus von Cusa. Eine philosophische Abhandlung, Bonn, 1847. – [26] J. Hillebrand, Propädeutik der Philosophie, Heidelberg, 1819. – [27] Ivi, 500-501. – [28] Ivi, 501. – [29] Idem, Der Organismus der philosophischen Idee in wissenschaftlicher und geschichtlicher Hinsicht, Dresden-Leipzig, 1842. – [30] Ivi, 100. – [31] Ivi, 386. – [32] Ibidem. – [33] M. Carriè­ re, op. cit., 7. – [34] Ivi, 365. – [35] Ivi, 412. – [36] C. Bartholmèss, Jordano Bruno, Paris, 1846-1847. – [37] Ivi, ii, 240. – [38] Ivi, 340. Bibliografia. P. von Lind, Moriz Carrière, « Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik », Neue Folge, 1895, 106, 93-101 ; H. Heimsoeth, G. B. e la filosofia tedesca, Essen, 1942 ; W. Beierwaltes, Identità e differenza, Milano, 1989 ; V. Verra, La razionalità della teleologia in Hegel, in Letture hegeliane. Idea, natura, storia, Bologna, 1992, 187-219 ; B. Goodwin, Goethe e la scienza qualitativa, in Goethe scienziato, a cura di G. Giorello e A. Grieco, Torino, 1998, 426-455 ; R.E. Zimmermann, L’originarietà della materia. Sulla fondazione dell’organismo in B. e Schelling, in Dalla materia alla coscienza. Studi su Schelling in ricordo di Giuseppe Semerari, a cura di C. Tatasciore, Milano, 2000, 43-64 ; M. Ivaldo, Introduzione a Jacobi, Roma-Bari, 2003 ; F. Puccini, « Sic non succifluis occurro poeta labellis ». Goethe lettore di B. (1770-1829), « Bruniana & Campanelliana », xii, 2006, 2, 497-521.  













   









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Pitagora (Pythagoras) La fortuna rinascimentale del sapiente di Samo – con il suo profilo irrimediabilmente confuso dallo stratificarsi delle fonti più disparate, che avevano tramandato nei secoli l’immagine complessa di un semidio, mago, ierofante con spiccata vocazione di riformatore politico e morale, nonché matematico e filosofo della natura – passa anche attraverso il pensiero di B. Citato ampiamente nelle opere del Nolano, la sua fisionomia si distingue quasi sempre da quella degli altri filosofi presocratici, in compagnia dei quali talvolta viene ricordato, configurando almeno cinque contesti diversi in cui Pitagora viene chiamato in causa : 1. come precursore delle teorie eliocentriche ; 2. come sostenitore della dottrina dell’anima mundi ; 3. come paladino della teoria della metempsicosi ; 4. come fondatore della dottrina dei numeri ; 5. infine come anello fondamentale della catena della sapienza antica. Va sottolineato che spesso negli scritti bruniani in luogo del nome di Pitagora, ricorre un generico richiamo ai ‘Pitagorici’. 1. Pitagorismo e nuova cosmologia. — Come è noto, le acquisizioni fondamentali della cosmologia bruniana – infinità e omogeneità dell’universo, eliocentrismo, esistenza nel cosmo infinito di altri pianeti, simili per costituzione alla Terra ma invisibili per la loro lontananza, e di altre stelle, analoghe al nostro Sole e centro delle orbite di altri pianeti – sono un dato già definito al momento della pubblicazione del primo dei dialoghi italiani stampati a Londra nel 1584, la Cena de le Ceneri. La nuova dottrina cosmologica proposta da B. in questo testo viene presentata come una provvidenziale restaurazione dell’antica e autentica filosofia, degenerata e vilipesa dall’imporsi delle dottrine geocentriche e geostatiche di Aristotele e Tolomeo. La restaurazione dell’antica vera filosofia annunciata nella Cena ha una sua anticipazione, un’« aurora » – stando alle parole di B. – nella figura di Copernico (↗ Copernico) e nella singolare operazione di recupero del sapere antico da parte dell’astronomo polacco, il  











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quale « benché quasi inerme di vive raggioni, ripigliando quelli abbietti e rugginosi fragmenti ch’ha possuto aver per le mani da l’antiquità, le ha ripoliti, accozzati e rinsaldati in tanto con quel suo più matematico che fisico discorso, cha resa la causa già ridicola, abietta e vilipesa, onorata, preggiata, più verisimile che la contraria » [1]. In effetti è lo stesso Copernico, nell’epistola dedicatoria del De revolutionibus indirizzata a Paolo III, nel cap. v del libro i e in un passaggio che avrebbe dovuto chiudere il primo libro e che fu invece eliminato in fase di stampa – sopravvivendo però nel manoscritto – a presentare la sua teoria relativa al moto della Terra come una restaurazione della cosmologia antica, sepolta nell’oblio. Spinto dalle difficoltà in cui vedeva incagliata la dottrina tolemaica, Copernico racconta di aver cercato nei testi degli antichi una teoria che permettesse di scioglierne le contraddizioni, rinvenendola nella dottrina geocinetica dei pitagorici ; ne presenta due diverse versioni, rintracciate in Cicerone e nel De placitis philosophorum dello pseudo-Plutarco : quella di Iceta e Filolao, che sostiene il moto di traslazione della Terra intorno a un fuoco e quella di Eraclide Pontico ed Ecfanto che prevedono il moto di rotazione della Terra sull’asse. I legami tra la dottrina eliocentrica copernicana e le antiche dottrine pitagoriche divennero presto una costante negli scritti degli autori successivi a Copernico. In una pagina del terzo dialogo della Cena, B. propone una lista dei predecessori di Copernico nell’aver sostenuto la mobilità della Terra : « Niceta Siracusano Pitagorico, Filolao, Eraclide di Ponto, Ecfanto Pitagorico, Platone nel Timeo (benché timida et incostantemente, perché l’avea più per fede che per scienza) et il divino Cusano nel secondo suo libro De la dotta ignoranza, et altri in ogni modo rari soggetti » [2]. Una sequenza di autorità che richiama esplicitamente Pitagora oltre a Niceta, Timeo ed Egesia si legge in un pagina del De immenso [3], testo in cui viene riproposto anche l’elenco che si legge nella prefazione di Copernico al De revolutionibus [4]. In questi passaggi del De immenso, ispirati per stessa ammissione di B. alla lettura critica del secondo libro del  













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De coelo aristotelico, si compie l’assimilazione definitiva del sistema filolaico, che identificava il fuoco centrale della tradizione pitagorica con il fuoco di Vesta – collocato « in centro et meditullio Telluris », come si dice nel De monade [5] – con il Sole della cosmologia copernicana [6]. Se taluni filosofi, tra cui lo stesso Ficino, avevano creduto di interpretare l’ignis di cui si parla in De coelo ii,13, con il fuoco sacro alla dea Vesta, B. rivendica invece la lettura della dottrina pitagorica in termini cosmologici, compiendo l’identificazione tra il fuoco pitagorico e il Sole copernicano. Centralità del Sole e moto della Terra sono per B. gli elementi fondamentali della cosmologia di Copernico, la quale a sua volta non è che la restaurazione dell’antica cosmologia pitagorica. Un altro argomento che conferma l’influenza del pitagorismo nella definizione della cosmologia bruniana può essere rintracciato nell’identificazione della Luna con l’Antiterra, l’astro introdotto dai pitagorici al fine di raggiungere il numero di dieci corpi celesti a coprire lo spazio tra il fuoco centrale e l’ouranós posto all’estremo del cosmo. Collocata in posizione opposta a quella della Terra e per questo invisibile dal nostro emisfero, l’Antiterra era concepita come del tutto simile al nostro pianeta ; le informazioni maggiori su questa dottrina pitagorica ci vengono da due passi aristotelici (De coelo, ii,13 e Metafisica, i,3), ampiamente esaminati dai commentatori, a partire da Simplicio, al quale si deve l’identificazione dell’Antiterra con la Luna, capace di provocare eclissi e limite tra la regione terrestre e celeste, definita per questo « aetheria terra ». Tale identificazione è l’elemento essenziale della descrizione bruniana nel De l’infinito [7] e negli Eroici furori [8], dove ricorre esplicitamente la denominazione di antictona, ‘antiterra’ appunto, secondo la terminologia pitagorica. Nella rilettura di Averroè e di Alberto Magno del passaggio aristotelico, l’Antiterra viene invece collocata sullo stesso orbe sul quale si muove la Terra ma in posizione opposta, in modo da rimanere invisibile, secondo uno schema che sembra corrispondere all’interpretazione del dia 









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gramma copernicano proposta da B. nella Cena che, come è noto, tradisce la lettera di Copernico (il cosiddetto ‘errore copernicano’ [9]). All’origine dell’idea dell’epiciclo a due corpi – Terra e Luna – così come proposto nella Cena sarebbe dunque l’antica teoria pitagorica dell’Antiterra e un’interpretazione in chiave pitagorica della cosmologia copernicana. L’espediente del moto epiciclico della Terra sullo stesso orbe della Luna, che nel diagramma della Cena deve servire a ‘salvare’ le apparenze del diametro solare, non rivelerebbe dunque un’incomprensione da parte di B. del diagramma copernicano ma altro non sarebbe che una lettura pitagorica del cosmo teorizzato dall’astronomo polacco [10]. 2. L’anima del mondo. — Come è noto, il tema dell’animazione universale è un tratto costante del pensiero di B., presente già all’altezza cronologica del Sigillus sigillorum, centrale nel dialogo De la causa, quindi declinato in prospettiva operativa negli scritti tardi della sua produzione. In questo contesto ci si soffermerà in particolare sul richiamo frequente a Pitagora, i pitagorici e il ‘poeta pitagorico’ Virgilio operato da B. nell’ambito della definizione della dottrina dell’anima del mondo. Già nel Sigillus, infatti, descrivendo la natura del senso, distinto nella tradizione neoplatonica in inferiore e superiore – il primo percepisce (« sentit ») una sorta di sollecitazione proveniente dagli oggetti esterni, il secondo invece coglie (« persentit ») la natura delle cose – B. riconosce un diverso significato a questo termine e, dopo aver richiamato anche le accezioni in cui esso viene utilizzato da Epicuro, Democrito ed Empedocle, ricorda come per i Pitagorici esso si identifichi con la mente e lo spirito che garantisce la vita del tutto [11]. Parafrasando i celebri versi del vi libro dell’Eneide virgiliana, B. chiarisce il senso di tali definizioni ricorrendo alla dottrina dell’animazione universale : « Mens enim, quae universi molem exagitat, est quae a centro semen figurat, tam mirabilibus ordinibus in suam hypostasim educit, adeo egregiis technis intexit, exquisitissime plantas lapidumque adhuc spiritu vitae non carentium venas characte 











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rizat et impingit, a quibus omnibus animales virtutes effluere satis est compertum iis, qui in naturalium consideratione non caecutiunt » [12]. È questo principio universale che pervade ogni aspetto della realtà a garantire unità all’insieme delle facoltà conoscitive, le quali non sono altro che l’esplicarsi di una stessa « virtus et cognoscendi principium », che assume denominazioni diverse a seconda degli strumenti di cui si serve e delle funzioni che assolve. Il richiamo esplicito a Pitagora (o più genericamente ai Pitagorici) come sostenitore della dottrina dell’animazione universale che s’incontra nel De la causa [13], nell’Acrotismus [14], nel De magia [15], nella Lampas triginta statuarum [16], fino alle deposizioni processuali [17], in cui si intreccia con il tema scottante dell’identificazione dello spiritus universi con la terza persona della Trinità, non sembra così scontato nel Rinascimento, che privilegia altre ‘filiazioni’ concettuali dal filosofo di Samo, alle quali non è estraneo lo stesso B. Tuttavia questa posizione non appare del tutto peregrina e storicamente ingiustificata. Ricondurre la dottrina dell’anima del mondo alla figura di Pitagora mostra una certa coerenza già alla luce della rilettura in termini platonici della filosofia pitagorica affermatasi con il neopitagorismo, la cui storia è così indissolubilmente connessa con quella del medio e del neoplatonismo, che tracciare sicure linee di confine tra questi indirizzi filosofici si rivela in molti casi impossibile. L’attribuzione della paternità pitagorica a dottrine platonico-accademiche è – come è noto – usuale in questo contesto, tanto che quella che potremmo definire ‘identità pitagorica’ risulta per lo più una costruzione artificiale, fondata sulla pretesa continuità – quando non filiazione – di dottrine platoniche e pitagoriche. Lo stesso Cicerone nel De natura deorum (i, 11), forse influenzato da una rilettura stoica di dottrine pitagoriche [18], attribuiva esplicitamente a Pitagora l’idea che tutta la natura fosse compenetrata e pervasa da un’anima, immanente all’universo, di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli esseri viventi sarebbero manifestazioni [19], testimoniando come una lettura in chiave pitagorica della dottrina  





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dell’animazione universale fosse già presente nella cultura latina del i sec. – come è noto fortemente segnata dall’affermarsi a Roma del neopitagorismo. L’attribuzione a Pitagora della dottrina dell’anima del mondo da parte di B. non meraviglia se si pensa poi che una consolidata tradizione riteneva che Platone, durante un viaggio in Italia, avesse acquistato e poi plagiato uno o più libri del pitagorico Filolao e che nel Timeo avesse descritto la creazione del cosmo e dell’anima del mondo derivando le sue idee dagli scritti del protagonista del dialogo – quel Timeo di Locri di cui si dichiara esplicitamente in apertura del testo la fede pitagorica – e se si ricordano le sillogi di luoghi platonici diffusesi in età ellenistica in ambiente neoplatonico e alessandrino, al fine di ricondurre a Pitagora o ai suoi diretti discendenti dottrine platoniche o neoplatoniche tarde. Sorprende però che questa attribuzione, esplicita in B., non sia presente – almeno per quanto mi consta – negli scritti degli autori suoi contemporanei. Anche la connessione che si legge in B. tra i versi virgiliani di Eneide vi, 724-727, e la dottrina dell’anima del mondo ha una storia antica, che risale almeno ai Padri della Chiesa, tuttavia la qualificazione di Virgilio come ‘pitagorico’ sembra essere una particolarità tutta bruniana. Se è vero che già gli antichi biografi del poeta latino sostenevano la sua adesione al pitagorismo e che il profetismo rintracciato nella iv ecloga, la descrizione dell’Ade e del destino delle anime dopo la morte nell’Eneide, potevano senza difficoltà essere ricondotte nel solco della tradizione pitagorica, è però certo che dei celebri versi del vi dell’Eneide si preferì più spesso l’interpretatio platonica che della dottrina dell’anima del mondo evidenziava la filiazione da Platone piuttosto che dal sapiente di Samo. B. non soltanto si appella a Pitagora introducendo tale dottrina, ma scegliendo di rafforzarla attraverso la citazione virgiliana – come peraltro avveniva da secoli e ancora tra i suoi contemporanei – definisce Virgilio, quel Virgilio che ancora per Campanella è « poeta Platonicus » [20], ‘poe­ta pitagorico’ [21], sottolineando pertanto l’ascendenza pitagorica anziché platonica  



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della dottrina dell’anima mundi. B. sembra così impiegare Pitagora in chiave antiplatonica, probabilmente per prendere le distanze da alcune dottrine di Platone (per esempio quella delle idee come forme separate o l’interpretazione della dottrina anassagorea del nous inteso come mente ordinatrice e separata) e rivendicare la priorità di una sapienza più antica e per questo più autentica, come si vedrà più ampiamente nel punto 5. della presente voce. 3. Metempsicosi e vicissitudine universale. – Un altro punto centrale della filosofia bruniana in cui la figura di Pitagora viene chiamata in campo è il tema della vicissitudine universale come legge fondamentale della natura, attraverso la quale i ‘modi’ dell’unica sostanza si succedono nel tempo, dando luogo all’emergere temporaneo delle forme particolari che si alternano e si susseguono senza intaccare l’unità della sostanza, che di tutte le forme è origine e Anfitrite. Questa legge universale si estende a tutti gli ambiti della natura, regolando il movimento della Terra e degli altri mondi alla ricerca delle condizioni che consentono di preservare la vita, come pure agli aspetti dell’esistenza umana, del singolo come della specie, le cui sorti si alternano nel tempo secondo la legge ineluttabile che porta alla successione di « dominio e servitù, felicità et infelicità, de quel stato che si chiama vita e quello che si chiama morte, di luce e tenebre, di bene e male » [22]. La « revoluzione vicissitudinale e sempiterna », per cui « tutto quel medesimo che ascende ha da ricalar a basso : come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie, grembo e ventre de la natura », è evocata nei Furori [23] attraverso l’immagine della « ruota de le metamorfosi » e strettamente connessa con la dottrina della metempsicosi, inevitabilmente legata al nome dei pitagorici [24]. Gli esiti radicali della dottrina della metensomatosi erano apparsi in tutta la loro forza nella Cabala [25], dove a Pitagorici, Druidi e Saducei viene attribuita la dottrina della trasmigrazione delle anime dal corpo dell’uomo a quello delle bestie e viceversa, concludendo con la sostanziale identità tra anima umana e anima dei bruti, che differi 

















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rebbero solo per ‘figurazione’. Per questa ragione nell’Asino cillenico l’asino ammonisce Micco : « ricordati ch’il tuo Pitagora insegna di non spreggiar cosa che si trove nel seno della natura. Benché io sono in forma d’asino al presente, posso esser stato e posso essere appresso in forma di grand’uomo ; e benché tu sia un uomo, puoi esser stato e puoi essere appresso un grand’asino, secondo che parrà ispediente al dispensator de gli abiti e luoghi, e disponitor de l’anime transmigranti » [26]. Nessuna superiorità ontologica viene dunque riconosciuta all’uomo e nessun destino diverso da quello degli altri esseri gli viene riservato nell’orizzonte di una natura retta dalla legge universale della vicissitudine, nella quale lo stato presente di ciascuno necessariamente si muta negli innumerevoli modi possibili che il futuro riserva all’interno del « fato della mutazione » [27]. Tutto l’universo, naturale e umano, viene a essere regolato da questa legge che realizza nel tempo i modi innumerevoli in cui la sostanza infinita si manifesta, dando un senso all’incessante corrompersi delle cose, delle civiltà, delle vite umane. L’inesausto disfarsi e ricostituirsi delle forme, la loro generazione e corruzione, non è altro che perenne alterazione, che consiste – come si dice nei Libri Physicorum Aristotelis explanati – « in principiorum influxu et effluxu congregatione et separatione, seu appositione et exemtione, unius cum alio et unius ab alio, quae quidem omnia ad rei substantiam aliam atque aliam constituendam non faciunt, sed vere ad hoc ut aliter atque aliter se habeat » [28], mentre una e indissolubile resta la sostanza. Per questo come si dirà nel De minimo [29], non c’è ragione di temere la morte, ma piuttosto – come suggerisce Pitagora – attenderla come un momento di passaggio ; essa comporta infatti una dissoluzione completa per il composto, ma non per la sostanza. E proprio attraverso le parole di Pitagora, così come riportate in chiusura del libro xv delle Metamorfosi ovidiane, B. compendia questa posizione centrale nel suo pensiero nel secondo dialogo del De la causa : « Omnia mutantur, nihil interit » [30]. In questo contesto egli richiama la celebre sentenza che si legge  























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nell’Ecclesiaste (i, 9 : « Nihil sub sole novum »), che Felice Tocco indicò come « l’epigrafe e il compendio » della filosofia bruniana e che si incontra ripetutamente negli scritti di B., dal Sigillus [31] al De la causa [32], ai Libri Physicorum [33] fino al terzo costituto veneto [34], frequentemente collegata al nome di Pitagora, come ancora accade nel celebre autografo di Wittenberg, datato 8 marzo 1588, lo stesso giorno in cui B. pronunciava l’Oratio valedictoria [35]. Pur senza riproporre testualmente la sentenza dell’Ecclesiaste, Pitagora e Salomone vengono chiamati a certificare la verità del perenne mutarsi delle cose senza che questo comporti il reale perire di nulla ancora nel De imaginum compositione : « Interit ergo nihil, quamvis ita “mult”’ agitentur, ut tibi Pythagorae et Salomonis sensa refirmant » [36]. 4. La dottrina dei numeri. – Che il nome di Pitagora negli scritti di B. sia più volte associato alla dottrina dei numeri è un fatto non sorprendente, essendo « i cosiddetti Pitagorici » indicati già da Aristotele come i sostenitori della teoria per cui i numeri sarebbero « l’essenza primordiale di tutto l’universo fisico » [37], la « sostanza di tutte le cose » [38]. È una posizione che B. richiama già nell’Explicatio triginta sigillorum, nella descrizione del xvi sigillo, il numerator, in cui si elencano le immagini mnemoniche che devono rappresentare i numeri e tradurli visivamente. In apertura della descrizione però, B. si sofferma sull’aspetto teorico che è alla base di questa possibilità : il numero include tutto ciò che ha proporzione ; lo si può contemplare in tutte le cose e tutte le cose possono essere contemplate in lui. Per Pitagora esso è « substantia quaedam rerumque primum exemplar » [39]. Analogamente, nel Sigillus sigillorum, nella sezione dedicata alla matematica come uno dei quattro rectores actuum della conoscenza, a questa disciplina si riconosce la capacità di guidare l’intelligenza verso processi di astrazione dalle realtà sensibili (materia, motus, tempus) rendendo capaci di comprendere e contemplare le specie intelligibili. In questo contesto vengono richiamate, sulla scia di un passaggio cusaniano [40], le autorità di Pitagora e Platone  



































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i quali si sarebbero non a caso serviti di concetti matematici per veicolare le verità più profonde e più difficili. Negli scritti successivi, già a partire dal De la causa, queste verità si specificheranno come rapporto tra unità e molteplicità e tra divinità e natura : « considerate che l’intelletto volendo liberarse e disciòrse dall’immaginazione alla quale è congionto, oltre che ricorre alle matematiche et imaginabili figure, a fin o per quelle o per la similitudine di quelle comprenda l’essere e la sustanza de le cose, viene ancora a riferire la moltitudine e diversità di specie a una e medesima radice come Pitagora che puose gli numeri principii specifici de le cose, intese fundamento e sustanza di tutti la unità » [41]. Alla figura di Pitagora viene quindi contrapposta quella di Platone, che pose come fine della sua filosofia « più la propria gloria, che la verità », indicando nella figura, e quindi nel punto di cui si costituisce, la « sustanza e geno universale ». Volendo « più tosto dicendo peggio e con men comodo e appropriato modo, esser stimato maestro, che dicendo megliormente e meglio, farsi riputar discepolo », Platone volontariamente avrebbe deciso di ignorare che i numeri, meglio che i punti e le figure, e l’aritmetica, più che la geometria, possono servire a cogliere la natura dell’unico principio indivisibile [42]. La successione dei numeri, che consente di guardare l’universo in termini di proporzione, ordine e simmetria, è un unico insieme omogeneo, scaturito – come si ribadirà con forza nei poemi francofortesi – dalla ‘migrazione’ della monade nella diade e di questa nel tre e così via, esattamente come l’universo infinito non è che l’esplicarsi nelle cose, e nei mille volti delle cose, dell’unica sostanza [43]. In questo orizzonte la monade, fons et origo numerorum et rerum, viene a coincidere con la stessa divinità [44]. Ma il testo in cui la tradizione pitagorica dei numeri viene ad assumere un ruolo centrale è senza dubbio il De monade, nella cui struttura costruita « per audita » – come B. dichiara nella epistola esplicatoria – una posizione del tutto particolare spetta alla tradizione antica dei pitagorici, sebbene spesso associata a generici riferimenti a ‘cabalisti’ e ‘platonici’ non me 





















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glio identificati. In questo testo la monade è indicata come la sostanza indivisibile delle cose, il numero come la loro specificazione, la figura come ulteriore differenziazione dei principi così esplicati [45]. Le schalae in cui si articola ciascuna sezione dedicata ai numeri, che vanno dall’uno al dieci, descrivono dunque i diversi modi in cui il primo principio si comunica alle diverse realtà. Dalla monade, sostanza di tutte le cose, origine di ogni numero e differenza, procede la diade ; dal primo pari e dal primo dispari si genera il tre, che comprende le specie di tutti i numeri e si esplica nella figura corrispondente del triangolo, a sua volta archetipo di ogni figura ; la monade come substantia numerorum è dunque unica, ma si manifesta nei diversi rapporti quantitativi, che originano infinite forme di vita e di realtà. 5. L’antica sapienza. – I temi appena richiamati si erano mantenuti presenti nella tradizione medievale attraverso Cicerone, il Timeo latino di Calcidio, il commento al Somnium Scipionis di Macrobio, il De nuptiis di Marciano Capella, gli scritti di Boezio e le stesse traduzioni e commentari ad Aristotele (Metafisica e De coelo, relativamente ai passaggi sopra ricordati), solo per limitarsi ad alcuni dei testimoni principali. La diaspora bizantina in Italia del xv secolo aveva poi riconsegnato al mondo latino un gran numero di codici contenenti i testi ermetici, platonici, neoplatonici e neopitagorici, tra cui le sezioni superstiti del Protrettico di Giamblico rintracciate nel 1423 ; gli Aurea verba con il commento di Ierocle, acquistati da Giovanni Aurispa a Venezia nel 1441 e tradotti nel 1449 ; altri codici degli Aurea verba e di scritti neopitagorici spuri riportati da Rinuccio Aretino da un viaggio a Bisanzio. Essi rilanciarono uno straordinario interesse per la stratificata tradizione che veicolavano. Tuttavia, è Ficino l’autore da cui B. deriva la gran parte del materiale utilizzato nelle pagine del De monade appena ricordate. Prima del 1464, non ancora trentenne, Ficino aveva tradotto per uso personale gli scritti neopitagorici di Giamblico : il De vita pythagorica, il Protrepticus, il De communi mathematica scientia e il trattato aritmetico di Teone di Smirne ; il la 











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voro del giovane Ficino non venne dato alle stampe e a quanto sappiamo ebbero accesso ai manoscritti solo Pierleone da Spoleto e Giovanni Pico della Mirandola, mentre la prima edizione del corpus giamblicheo risale al 1556, per opera di Nicola Scutellio. Ne deduciamo tuttavia che già prima della traduzione degli scritti platonici Ficino aveva familiarità con la tradizione che indicava il ‘divino’ Platone come un discepolo dei pitagorici. Nei commenti ai dialoghi platonici Ficino ne sottolinea frequentemente i debiti con il pitagorismo, fino a indicare – probabilmente sulla scia di Proclo [46] e Giamblico [47] – nel De natura mundi et animae attribuito a Timeo di Locri la fonte del Timeo platonico [48]. Ma se nella lettura ficiniana la corretta interpretazione del pensiero platonico dimostra tanto la sua ascendenza pitagorica quanto la sua perfetta conciliabilità con la fede cristiana – nella dedica dell’epitome delle Leggi a Lorenzo il Magnifico, Ficino distingue tra il Platone giovane che riporta idee altrui (come quella della metempsicosi) e il maturo Platone che espone idee proprie, distinguendo tra i « libri Pythagorici » rappresentati dalla Repubblica e quelli propriamente platonici delle Leggi [49] – nell’interpretazione bruniana Pitagora, maestro di Platone ma soprattutto erede della tradizione egizia e zoroastriana, e quindi più vicino al sapere autentico degli antichi sapienti, assume un ruolo preminente e superiore a quello dello stesso Platone. Nella catena della prisca sapientia Pitagora è un anello più antico e quindi meno corrotto, non solo di Platone e dei filosofi greci più tardi, ma di Mosè e dei cristiani di ogni confessione, in cui B. vede impoverirsi e dissolversi l’autenticità e l’efficacia operativa dell’antica religione egizia, in cui l’uomo era cooperatore con l’operante natura [50]. Se l’Ermete Trismegisto ficiniano nient’altro esponeva che « Mosaica mysteria » [51], in B., con un significativo ribaltamento, è Mosè – « addottorato da la corte di Faraone » – a proseguire nelle sue parabole i misteri degli Egizi [52], quegli stessi Egizi che secondo le fonti antiche erano stati maestri di Pitagora [53]. E se Ficino e lo stesso Cusano – che nell’Oratio valedictoria in segno  











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di somma considerazione B. definisce « non Pythagorico par, sed Pythagorico longe superior » [54], se solo non si fosse fatto deviare dall’abito presbiterale – attribuivano al vir Samius il ruolo e la dignità di precursore delle verità cristiane, in B. il rapporto si rovescia e Pitagora assume un ruolo speciale proprio in virtù della sua maggiore vicinanza all’origine della sapienza e della religiosità antiche, quando presso gli Egizi e i Persiani vigeva la consuetudine per cui « de sapientibus fierent reges, et de regibus essent sacerdotes » [55], quando il sapere autentico non era stato ancora cancellato dalla vanità dei sofisti.  







Note. [1] oib i 449. – [2] oib i 494. – [3] Cfr. bol i,i 381. – [4] Cfr. ivi, 384. – [5] bol i,ii 347. – [6] Cfr. De immenso, bol i,ii 8. – [7] oib i 159. – [8] oib ii 623. – [9] Per un bilancio storiografico della questione cfr. D. Tessicini, I dintorni dell’infinito. G. B. e l’astronomia del Cinquecento, Pisa-Roma, 2007, 15-58 : 16, nota 4. – [10] Cfr. Ivi, 15-58. – [11] Cfr. bomne ii 212 ; si veda anche Summa term. met., bol i,iv 108. – [12] bomne ii, 212. – [13] oib ii 599, 663. – [14] bol i,i 177. – [15] bom 240. – [16] bom 1059. – [17] Firpo, Processo 169. – [18] Cfr. Sesto Empirico, Math., 9, 127. – [19] Cfr. De senectute, xxi, 78. – [20] Phil. sens., 525. – [21] La definizione di Virgilio come « pitagorico poeta » è presente anche nei Furori, oib ii 511 e 543, con riferimento al ciclo di reincarnazioni dell’anima ; « poeta di quella setta » (scil. pitagorica) è detto Virgilio nello Spaccio, oib ii 232. Anche la tradizione antica che accosta Virgilio a Pitagora lo fa per lo più in relazione al tema della metempsicosi e cita i versi di Eneide, vi, 748-751 che ricorrono anche nella Cabala, oib ii 451, nei Furori, oib ii 511, nel De monade, bol i,ii 465 e nel De rerum princ., bom 678 ; si veda per es. Girolamo, Adversus Rufinum, iii, 39, pl, xxiii, 508b. Altre attestazioni del Virgilio ‘pitagorico’ sono presenti nella Lampas trig. stat., bom 1008, 1058, 1315. – [22] Cena, oib i 557. – [23] oib ii 513. – [24] Cfr. ivi, 571, 597-599, con significative differenze tra la posizione di platonici e pitagorici circa l’incarnazione dell’anima dell’uomo nell’anima di animali inferiori. – [25] Cfr. oib ii 452. – [26] oib ii 480. Il nome di Pitagora è evocato a sostegno della dottrina della reincarnazione ancora nelle deposizioni processuali, cfr. Firpo, Processo, 176-177. – [27] Sulla possibile incarnazione delle anime in eroi o demoni e sul circolo pitagorico e platonico della conversione vicissitudinale, cfr. De magia, bom 236 e De rerum princ.,  















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bom 678. – [28] bol iii 341 ; cfr. 303-304 e 353. – [29] bol i,iii 141-143. – [30] oib i 665. – [31] Cfr. bomne ii 292. – [32] Cfr. oib i 665 e 729. – [33] Cfr. bol iii 341. – [34] Cfr. Firpo, Processo, 169. – [35] Cfr. G. B. : gli anni napoletani e la peregrinatio europea. Immagini, testi, documenti, a cura di E. Canone, Cassino, 1992, 121-122, 125 (riproduzione fotografica). – [36] bomne ii 822. Pitagora e Salomone sono richiamati insieme anche a proposito dell’anima del mondo, quando ai versi del ‘pitagorico’ Virgilio sono affiancati i versetti della Sapienza. – [37] Metafisica, i,5, 986a 1. – [38] Ivi, 987a 18. – [39] bomne ii 60. – [40] Cfr. De docta ignorantia, i, 11, 30-32. – [41] Causa, oib i 734. – [42] Si veda anche De minimo, bol i,iii 173-174. – [43] Ivi, 269. – [44] Ivi, 136 : « Deus est monas omnium numerorum fons, simplicitas omnis magnitudinis et compositionis substantia, et excellentia super omne momentum, innumerabile, immensum. Natura est numerus numerabilis, magnitudo mensurabilis, momentum attingibile. Ratio est numerus numerans, magnitudo mensurans, momentum aestimans » ; cfr. ivi, 146. – [45] Cfr. bol i,ii 197. – [46] Cfr. In Timaeum commentaria, ed. E. Diehl, Leipzig, 1903-1906, i, 7, 18. – [47] Cfr. In Nicomachi Arithmeticam Introductio, ed. H. Pistelli, Leipzig, 1894, 105, 10. – [48] Cfr. In Timaeum, in Marsilii Ficini Opera, ii, Basileae, ex officina Henricpetrina, 1576, 1468. – [49] Cfr. Opera, ii, 1488. – [50] Sull’« eccellenza del culto de l’Egitto » cfr. Spaccio, oib ii 355 sgg. Per il nome di Pitagora tra le auctoritates della sapienza antica cfr. Articuli adv. Perip., bca 27, n. 77 ; Orat. valed., bol i,i 22 ; De comp. architect., bol ii,ii 43 ; Sig. sigill., bomne ii 208, 226, 239, 269 ; Libri Phys. expl., bol iii 341 ; De monade, bol i,ii 334 ; Lampas trig. stat., bom 1462. – [51] In Pimander, in Opera, ii, 1839. – [52] Cfr. Sig. sigill., bomne ii 268. – [53] Cfr. Diogene Laerzio, Vitae philosophorum, viii,1,3 ; Clemente, Stromata, i,62 e 66. – [54] bol i,i 17. – [55] Epistola dedicatoria et clavis, in bol i,i 193.  





























Bibliografia. P. Courcelle, Interprétations néoplatonisantes du livre vi de l’Énéide, in Entretiens sur l’Antiquité Classique, iii : Recherches sur la tradition platonicienne, Genève, 1955, 93-136 ; Idem, Les pères d’Eglise devant les enfers virgiliens, « Archives d’histoire doctrinale et littèraire du Moyen âge », xxx, 1955, 5-74 ; G. B : gli anni napoletani e la peregrinatio europea. Immagini, testi, documenti, a cura di E. Canone, Cassino, 1992 ; P. Casini, L’antica sapienza italica. Cronistoria di un mito, Bologna, 1998 ; C.S. Celenza, Pythagoras in the Renaissance : the Case of Marsilio Ficino, « Renaissance Quar 



















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terly », lii, 1999, 667-711 ; B. Centrone, Platonism and Pythagoreanism in the early Empire, in The Cambridge History of Greek and Roman Political Thought, by M. Schofield & C. Rowe, Cambridge, 2000, 559-584 ; C.S. Celenza, Temi neopitagorici nel pensiero di Marsilio Ficino, in Marsile Ficin 1499-1999, Actes du xliie Colloque International d’Etudes Humanistes, éd. par S. Toussaint, Paris, 2002, 57-70 ; A. Montano, G. B. e Pitagora, Nola, 2003 ; D. Tessicini, I dintorni dell’infinito. G. B. e l’astronomia del Cinquecento, Pisa-Roma, 2007, 15-58 ; Chr. Joost-Gaugier, Pythagoras and Renaissance Europe. Finding Heaven, Cambridge, 2009 ; D.P. Taormina, Platonismo e pitagorismo, in Filosofia tardoantica. Storia e problemi, a cura di R. Chiaradonna, Roma, 2012, 103-127.  













Delfina Giovannozzi Plotino (Plotinus) Plotino è una delle principali fonti di ispirazione per B. lungo tutto il corso della sua opera. In primo luogo, è opportuno considerare il De umbris idearum : la presenza di Plotino in questo scritto è un fatto ben noto, tanto che nel 1889 Tocco propose di individuare in esso una prima fase plotiniana del pensiero di B. [1]. Sebbene questa interpretazione sia ormai generalmente respinta, resta vero che il De umbris fornisce elementi molto importanti per ricostruire la ricezione di Plotino in B., ricezione che – spesso mediata da Ficino – è comunque estremamente ampia e riguarda l’intero corpus bruniano. L’interpretazione immanentistica sviluppata nel De umbris si ritrova, nelle linee generali, in tutte le allusioni di B. a Plotino, tanto per l’ontologia e la cosmologia (particolarmente nel De la causa), quanto per la gnoseologia e l’antropologia (particolarmente nel Sigillus sigillorum e negli Eroici furori). Saranno considerati qui i riferimenti espliciti o comunque chiaramente identificabili, mentre non saranno per lo più presi in esame paralleli più generali tra il pensiero di B. e dottrine plotiniane o, in senso lato, ‘neoplatoniche’. 1. Il De umbris idearum e la lettura immanentistica di Plotino. — Nel De umbris Plotino è menzionato quattro volte nella sezione De  

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triginta idearum conceptibus ; inoltre, anche quando non è richiamato espressamente, numerose allusioni sono identificabili [2]. Il Conceptus primus. a contiene una parafrasi di Enn. vi, 7 (38), 1. Plotino si richiama alla cosmologia del Timeo di Platone al fine di elaborare la sua concezione della causalità in accordo alla quale il principio divino non agisce in base a previsione o ragionamento (logismov~) : « Cum ipse Deus, vel saltem Deus aliquis animas in generationem demitteret, luciferos in facie oculos fabricavit, et instrumenta caetera reliquis adhibuit sensibus, praevidens videlicet, ita demum animal posse servari, si antevideat audiatque singula, et denique tangat : atque ita alia quidem fugiat, alia prosequatur » [3]. L’espressione « dio o un dio » (oJ qeo;~ h] qeov~ ti~) usata da Plotino è fedelmente resa da Ficino. B., invece, passa nella sua parafrasi da « Deus, vel saltem Deus aliquis » a « Deus ». Il seguito della parafrasi si allontana in modo ancor più netto dall’originale : « Luciferos – inquit Plotinus – in facie Deus oculos fabricavit, caeterisque sensibus adhibuit instrumenta, ut inde tum naturaliter servaverunt, tum etiam cognata luce aliquid contraherent » [4]. In vi, 7 (38) Plotino richiama l’azione provvidenziale del dio intelligibile, distingue quest’azione rispetto alla cura che discenderebbe dal ragionamento discorsivo ; quindi descrive nel dettaglio la natura causale degli intelligibili rispetto a quella dei corpi ; inoltre, spiega quale sia il rapporto tra tutto e parti che caratterizza le realtà autentiche. Su questa base metafisica, egli fonda la sua antropologia che comporta la distinzione di tre livelli dell’uomo (l’uomo ideale, l’uomo che corrisponde all’anima discorsiva, l’uomo sensibile) [5]. B. introduce invece immediatamente l’idea (estranea a Plotino) secondo cui gli occhi contraggono qualcosa della luce da cui discendono. Il concetto di contractio ha un’importante posizione nella filosofia di B. ed è particolarmente usato nelle opere mnemotecniche, dove è associato per lo più all’ascesa noetica dal sensibile all’unità del principio [6]. Nell’elaborare la sua dottrina della contractio B. poteva trarre spunto da Plotino così come da altre fonti appartenenti alla tradizione platonica,  































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sia antiche sia più recenti, in particolare Cusano (↗ Cusano). Per quanto riguarda Plotino, è importante porre in luce non solo i paralleli, ma anche le differenze. Nel Conceptus primus. a B. parte dal motivo plotiniano di dio che plasma sul volto dell’uomo gli occhi portatori di luce ; tuttavia, diversamente da Plotino, egli interpreta immediatamente questo motivo nel senso del vincolo che unisce l’uomo empirico al mundus intelligibilis [7]. In tal modo, B. sottolinea il legame tra l’uomo e dio, che emerge nella connessione tra gli occhi e la luce contratta in essi e in virtù del quale l’uomo può cogliere, pur restando dentro il mondo delle ombre, ciò che oltrepassa l’orizzonte empirico [8]. Il modo peculiare con cui B. si appropria di Plotino risalta con maggiore chiarezza estendendo l’analisi ai Concetti ii. b e iii. c. Il Conceptus ii. b è anch’esso collegato alla discussione plotiniana di vi, 7 (38), 1-3. Diversamente da ciò che accade in Plotino, però, in B. non è la natura causale delle realtà incorporee a essere in primo piano. La sua trattazione è infatti incentrata sull’unicità del principio e sul rapporto tra la gerarchia di questo mondo [9] e il principio unico ; inoltre, l’accento cade sull’iter conoscitivo di chi è in grado di risalire attraverso quest’ordine e « per naturam agens » [10] può ripercorrere tutte le realtà dell’universo. Infine, nel Conceptus iii. c sono riprese le parole di Plotino sull’assenza di riflessione e argomentazione (« consultatio et argumentatio ») nel principio [11]. Tuttavia, ancora una volta, il contesto si allontana da Plotino. In primo luogo, B. parafrasa non solo Plotino, ma anche il riassunto ficiniano per vi, 7 (38), 3 nel quale si introduce l’idea che il principio agisce come una forma che naturalmente si esprime all’esterno [12] ; inoltre, B. aggiunge la precisazione che questa forma esplica ed effonde qualcosa muovendo dalla propria natura [13]. Alla fine del Conceptus iii. c si sottolinea che colui il quale si trova in un tempo e un luogo determinati può conformarsi agli enti divini nelle sue operazioni. La citazione paolina « In carne consistentes non secundum carnem vivimus » [14] chiude questa serrata argomentazione. La trattazione plotiniana  

















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di vi, 7 (38) verte sulla natura intelligibile dei princìpi ed è volta a mostrare come la generazione e l’ordinamento presenti nel mondo fisico non implicano la necessità di postulare mutamento e deliberazione nella causa autentica, per la quale l’essere coincide con il suo ‘perché’ ; tutta l’esposizione è metafisica e condotta a partire dalla dottrina delle cause intelligibili. In B., invece, i primi tre Concetti stabiliscono una polarità tra principio e mondo esplicato ; essi sono mantenuti nella loro distinzione ma, insieme, è rintracciato il vincolo che li unisce così che l’uomo può accedere, restando nel mondo empirico e agendo attraverso la natura, al principio dal quale la realtà esplicata è contenuta. 2. Forma e materia. — La ricezione della metafisica di Plotino in B. comporta una semplificazione della gerarchia dei princìpi e una lettura di essi in senso naturalistico. La distinzione dei tre princìpi ipostatici (Uno sovraessenziale, Intelletto, anima, quest’ultima a sua volta articolata in livelli differenti e distinta dai lovgoi, i princìpi formatori inerenti ai corpi) è fortemente compressa in favore dell’opposizione tra il principio e la natura esplicata. Ciò vale innanzitutto per la distinzione tra Intelletto e anima. Nel De la causa l’intelletto universale è considerato come una facoltà propria dell’anima del mondo [15]. Secondo B., l’intelletto è detto da Plotino « padre e progenitore » [16] in quanto dispensatore delle forme nel mondo della natura. Nel De la causa, B. attribuisce questa dottrina ai Pitagorici e al Timeo [17] ; più in generale, egli la desume dalla tradizione precedente (in particolare da Alberto Magno), assegnando però a essa un senso peculiare conforme al suo immanentismo (l’artefice interno forma la materia « da dentro »). Tuttavia, la concezione dell’Intelletto come datore delle forme per il mondo fisico non si trova affatto in Plotino, e men che mai è plotiniana l’idea che l’Intelletto sia un artefice interno alla natura. Anche la distinzione tra Uno superiore all’Essere e l’Essere/Intelletto viene a cadere. L’idea bruniana di monade e mens come « sustanza soprasustanziale » [18] o « unità super essenziale » [19] rinvia infatti alla dottrina della causa infinita espli 





















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cata in un infinito effetto [20] e ha poco in comune con la teoria dell’Uno trascendente, assolutamente semplice, privo di forma e al di sopra dell’Essere, potenza di tutte le cose in quanto non è nulla di ciò che deriva da esso [21]. Per l’Uno di Plotino non si può parlare di realizzazione o ‘esplicazione’ nella natura. Questa differenza nella concezione del principio va ben tenuta presente, anche se le affinità tra i due autori non devono essere misconosciute. Come è stato sottolineato dagli interpreti, la dottrina plotiniana della causalità – i princìpi non agiscono in base ad arbitrio e riflessione, ma in virtù della loro stessa natura (teoria della ‘doppia attività’), tanto che necessità e libertà convergono – può essere paragonata fruttuosamente con quella di B., nella quale hanno una posizione centrale la critica all’idea di un dio personale e al concetto di ‘potenza assoluta’ [22]. Tuttavia, la diversità tra le loro concezioni è segnalata dalla stessa formula « sustanza soprasustanziale », usata da B. : per Plotino, infatti, l’Uno è ‘sovrasostanziale’ proprio in quanto principio assolutamente semplice che non è in alcun modo sostanza, oujsiva. Inoltre, è estranea a B. l’idea di porre un mondo metafisico separato dal mondo fisico ; da questo punto di vista, B. prosegue la linea delle critiche formulate da Aristotele alle « fantastiche idee di Platone » [23]. Si è osservato che una più adeguata interpretazione delle idee di Plotino non come sostanze o cose a sé stanti, ma come ‘costanti funzionali-dinamiche’ permetterebbe di attribuire a questa dottrina un senso congeniale a B. [24]. Anche se si accettano queste precisazioni, tuttavia, permangono alcune differenze, che emergono soprattutto quando si paragona lo statuto accordato dai due filosofi alla natura fisica e alla materia. Nel De la causa B. si riferisce alla dottrina della materia intelligibile formulata nel trattato ii, 4 (12) De la materia. Plotino ammette l’esistenza di due materie : alla materia dei corpi va aggiunta quella del mondo intelligibile, concepita come il principio di indeterminazione e il sostrato a cui ineriscono le differenze che determinano le molteplici forme [25]. Diversamente dalla materia sensibile, la materia intelligibile possiede  













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tutte le cose insieme e non è associata al cambiamento [26] ; inoltre, essa è sostanza e non è male [27]. Nel De la causa Teofilo offre una dettagliata parafrasi di ii 4 (12), 4 = 160161 [28] ; l’importanza di Plotino come fonte di ispirazione per la dottrina della materia in B. è ben nota (↗ materia). Tuttavia, anche in questo caso B. adatta la teoria di Plotino finendo per modificarla profondamente. In effetti, B. si serve della concezione di Plotino per proporre una propria teoria unificata della materia nella quale l’eterogeneità delle due materie, sostenuta da Plotino e mantenuta nell’esegesi di Ficino [29], viene a scomparire : la materia, per B., è una [30]. I caratteri assegnati da Plotino alla materia intelligibile sono applicati da B. al suo concetto di materia unificata : in tal modo, un unico principio materiale è concepito come appropriato sia alle realtà corporee, sia a quelle incorporee [31]. Ne consegue che nel De la causa Plotino è richiamato come fonte per una concezione che in realtà è agli antipodi rispetto alla sua dottrina della materia sensibile (inerte, priva di potenza causale e incapace di generare alcunché) [32]. Non a caso la dottrina della materia intelligibile, formulata in ii, 4 (12), occupa una posizione tutto sommato marginale in Plotino ed è abbandonata nei trattati della piena maturità, dove prevale l’esigenza di distinguere la struttura del mondo intelligibile rispetto a quella di un composto ilemorfico. Sulla base di queste precisazioni, si può concludere che il richiamo di B. al trattato ii, 4 (12) deve essere valutato con prudenza ed è strutturalmente molto simile alle allusioni a vi, 7 (38) nel De umbris : da un lato, è evidente che Plotino costituisce una fonte per B. ; dall’altra, è altrettanto evidente che le dottrine plotiniane sono modificate in senso naturalistico, tanto da rovesciare il loro intento originario. Considerazioni del tutto analoghe possono essere proposte per la ripresa della tesi plotiniana secondo cui non è l’anima a essere nel corpo, ma il corpo nell’anima, che è il principio da cui il corpo dipende : « Il corpo dunque è ne l’anima, l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Dio, come disse Plotino » [33]. Si tratta di un tema ricorrente : an 



















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che nel De la causa B. pone l’accento sul tipo spirituale di presenza dell’anima nel cosmo e sulla sua distinzione rispetto a una presenza di tipo corporeo e dimensionale. L’analogia con Plotino è chiara : oltre a iv, 3 (27), sono certamente presenti a B. i trattati dedicati all’onnipresenza degli intelligibili – vi, 4-5 (22-23) –, a cui egli allude nel De la causa [34]. Anche in questo caso, però, tesi di sicura matrice plotiniana sono sottoposte ad adattamenti e correzioni in senso naturalistico : l’immanenza dell’anima rispetto a ciò che è contenuto in essa è infatti concepita da B. in modo tale da sottolineare l’interdipendenza causale tra forma e materia ; esse sono l’una causa della determinazione dell’altra [35]. L’idea di una interazione tra forma e materia è del tutto conforme alla concezione immanentistica di B., ma è diversa da ciò che si trova in Plotino, secondo il quale soli princìpi sono quelli intelligibili, mentre la materia è priva di potere causale. A conferma di queste conclusioni va sottolineato un ulteriore punto. Nel De la causa Teofilo sintetizza la tesi plotiniana secondo cui la sostanza spirituale contiene quella materiale. Subito dopo, Dicsono aggiunge a conferma di questa dottrina le parole di Virgilio sullo spiritus che vivifica il cosmo dall’interno (« spiritus intus alit »), tratte dal vi libro dell’Eneide (↗ spirito), giudicandole conformi alla dottrina di Pitagora [36]. L’accostamento tra l’anima del mondo plotiniana e lo spiritus di Virgilio è un aspetto tipico dell’esegesi di Ficino, così come tipica della ricezione di Virgilio nel Rinascimento è l’idea che le sue dottrine fossero non tanto stoiche, quanto platoniche o pitagoriche [37]. Il parallelo istituito da Ficino tra lo spiritus di Virgilio e l’anima del mondo di Plotino è, in effetti, uno dei segnali più chiari della trasformazione rinascimentale di Plotino in senso naturalistico e ha, ad esempio, una posizione centrale in Campanella (↗ plotino nella sezione campanelliana della Enciclopedia). Rispetto a Campanella il caso di B. è più complesso, perché molto più estesa è la sua conoscenza delle Enneadi e la presenza di Plotino nelle sue opere. In ogni caso, il De la causa dimostra come B. incorpori la metafisica di Plotino e la lettura in senso naturali 









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stico dell’anima del mondo proposta da Ficino all’interno della sua originale concezione del cosmo e della causalità. 3. Gnoseologia e antropologia. — Il Conceptus xix. t del De umbris espone la distinzione di sette gradi per i quali si ascende al principio ; questa dottrina è attribuita a Plotino, ma si trova in realtà nel riassunto di Ficino per vi 7 (38), 36 = 727 ed è comunque sottoposta da B. ad alcune correzioni [38]. Nella formulazione di B., essa comprende le seguenti tappe : purificazione dell’animo, attenzione, intenzione, contemplazione dell’ordine, comparazione che si compie in base all’ordine, negazione o separazione, voto. A questi sette gradi B. aggiunge la trasformazione di sé nella cosa (« transformatio sui in rem ») e la trasformazione della cosa in sé (« transformatio rei in seipsum »). È chiara la presenza del tema della ‘conversione’ plotiniana, l’ascesa e il ricongiungimento della nostra anima ai princìpi superiori (l’Intelletto e lo stesso Uno sovraessenziale). Che d’altronde la dottrina della conversione sia ben presente a B. si evince anche dal Conceptus xviii. s, che contiene una citazione di vi, 7 (38), 33 = 724, in cui Plotino (« Platonicorum princeps ») espone il modo in cui l’Intelletto si ricongiunge al primo principio, rapito dall’amore e andando oltre la figura visibile [39]. Paralleli sulla dottrina dell’anima e della conversione si trovano anche altrove, specialmente nei Furori, la cui matrice plotiniana, spesso mediata da Ficino, è stata più volte fatta oggetto di attenzione da parte degli specialisti [40]. Le allusioni implicite ed esplicite a Plotino sono infatti numerose e l’ispirazione generale dell’opera ricalca da vicino la dottrina plotiniana della conversione. Sebbene manchi un riferimento esplicito a Plotino, l’itinerario descritto nel sonetto su Atteone, che conduce all’identificazione dell’intelletto con la divinità e all’assorbimento in essa (« Vedde : e ’l gran cacciator dovenne caccia »), è stato messo in parallelo con il motivo platonico della ‘assimilazione a dio’ e con il ritorno ‘mistico’ dell’anima all’Uno in Plotino [41]. Ai sette gradi elencati nel De umbris corrisponde nei Furori una più schematica distinzione di tre ‘preparazioni’ che B. attribuisce  





















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al « libro Della bellezza intelligibile » – v, 8 (31) – del « contemplativo Plotino » : « “La prima è proporsi de conformarsi d’una similitudine divina” […] ; “secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione et attenzione alle specie superiori ; terzo il cattivar tutta le voluntade et affetto a Dio” » [42]. In realtà, esattamente come nel De umbris, la fonte non è tanto Plotino, quanto Ficino, il cui riassunto per v, 8, (31), 11 è intitolato « Tres gradus in contemplatione divina, ac tres ad eam preparationes » [43]. Sia direttamente che attraverso Ficino, dunque, la concezione plotiniana dell’ascesa verso il principio costituisce per B. una fonte importante. D’altra parte, B. adatta e modifica la fonte plotiniana secondo coordinate ormai familiari. Ad esempio, nel De umbris la ripresa di concetti plotiniani nella sezione sui Trenta concetti delle idee deve essere collegata alla sezione sulle Trenta intenzioni delle ombre : in questo modo, risulta chiaro che per B. il fine non è quello di emanciparsi dai sensi per accedere intellettualmente agli archetipi intelligibili, ma quello di trovare nella dimensione stessa dell’ombra la via d’accesso a ciò che si trova oltre l’orizzonte dei corpi [44]. Anche per quanto riguarda il mito di Atteone, è importante notare che la contemplazione del furioso non arriva alla divinità assoluta (Apollo), ma alla sua « potenza et operazion esterna », simboleggiata da Diana [45]. Per Plotino, l’ascesa conoscitiva può attingere un totale affrancamento dai sensi e dalla ragione discorsiva : l’uomo, in virtù della parte superiore e puramente intellettuale della sua anima, non discesa dal mondo intelligibile, riesce a condividere il pensiero archetipo, non discorsivo e privo di immagini proprio dell’Intelletto, fino a oltrepassarlo rivolgendosi allo stesso Uno sovraessenziale [46]. Per B., invece, l’applicazione della mente al mondo visibile è condizione stessa del nostro accesso al principio, così come lo sono immaginazione e memoria. Particolarmente importanti a questo riguardo sono i riferimenti a Plotino – mediati in modo decisivo da Ficino – nel Sigillus sigillorum. Come nei Furori, la dottrina plotiniana dell’ascesa conoscitiva è una  





























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sicura fonte per B. [47] ; tuttavia, B. sottolinea qui non soltanto i punti di contatto con Plotino, ma anche le differenze. B. fa riferimento a iii, 6 (26), 4.18-23 = 307, alcune linee di difficile interpretazione, relative alla genesi di affezioni come la paura, interpretando le quali Ficino afferma che secondo Plotino esisterebbe un tipo infimo di immaginazione (fantasiva, imaginatio) proprio dei vegetali [48]. Questo tipo di immaginazione (tale, precisa Ficino, « per translationem quandam ») si aggiunge agli altri due distinti da Plotino in iii, 6 (26), 4 : quello dell’anima discorsiva, simile per un certo aspetto alla ragione, e quello sensibile dell’anima irrazionale [49]. B. parafrasa fedelmente Ficino il quale, a sua volta, offre una sistematizzazione della discussione plotiniana (la classificazione dei tre tipi di immaginazione non è come tale presente nel passo di Plotino). Come spesso accade, B. attribuisce direttamente a Plotino l’esegesi di Ficino ; di conseguenza, B. richiama l’esistenza in Plotino di una terza specie di immaginazione collocata nell’ambito vegetale e distinta sia da quella discorsiva sia da quella sensibile. Il retroterra plotiniano e ficiniano di tutta la discussione è evidente, ma B. prende esplicitamente le distanze dalle dottrine che parafrasa. Egli infatti contesta la tesi, attribuita ai Platonici e agli Aristotelici, secondo cui l’immaginazione sensibile si trova negli esseri bruti senza l’immaginazione razionale : questo modo di ragionare, osserva B., è più arbitrario e radicato nella fede che dimostrato con la ragione. Contro la gerarchia tra i tipi di immaginazione e le facoltà conoscitive dell’anima, B. fa valere la tesi secondo cui una mente indivisibile (« individua mens ») è intima alle cose più di quanto le cose divisibili siano intime a sé stesse. La gerarchia delle facoltà, secondo B., deve essere spiegata facendo riferimento al modo in cui cose diverse sono in grado di accogliere l’unica mente indivisibile immanente in tutte [50]. L’approvazione per Plotino/Ficino non è incondizionata : « Plotinus […] si non ex toto, magna tamen ex parte nobis consentire videtur » [51]. La presa di distanza è ancor più netta poco dopo, quan 





















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do B., fondandosi su Ficino e in particolare sul commento a i, 4 (46), 9, attribuisce a Plotino la distinzione tra due tipi di ragione posti tra immaginazione e intelletto : una speculativa e protesa in alto verso l’intelletto, una attiva e in inclinata verso il basso, ossia verso l’immaginazione. Commentando questa distinzione, B. nota : « cur, inquam, non dixerim eandem potentiam hic et nunc passivam, laborantem, declinantem, tunc et ibi adsurgentem, non laborantem et activam ? » [52]. La distinzione delle facoltà a cui B. si richiama non va tanto attribuita a Plotino, quanto a Ficino che compendia e sistematizza Plotino in un senso non sempre fedele al contenuto delle Enneadi. Tuttavia, se valutate in una prospettiva più generale le osservazioni di B. segnalano una profonda distanza rispetto alla stessa fonte plotiniana. Plotino distingue accuratamente più livelli nelle facoltà dell’anima (l’intuizione intellettuale, l’anima discorsiva, l’immaginazione e la percezione, con ulteriori sottili distinzioni e qualificazioni interne), ancorando queste dottrine alla sua metafisica nella quale sono distinti i diversi livelli ontologici a cui appartengono i princìpi intelligibili (l’Intelletto, l’anima, la natura e i princìpi formali che derivano dall’anima). Questa complessa struttura gradualistica è sottoposta da B. a una radicale semplificazione in senso monistico e immanentistico, del tutto analoga a quella che si è notata sopra nell’ontologia e nella cosmologia. A B. interessa sottolineare la continuità dei vari gradi della conoscenza, la quale trova fondamento nell’unità indivisibile della mente universale immanente alla natura esplicata (↗ infinito). In questa prospettiva, la distinzione plotiniana tra i livelli dell’anima e tra i tipi di conoscenza che ciascuno di essi può attingere perde molto del suo significato. Sulla base di queste considerazioni è possibile affrontare il rapporto tra la concezione della memoria di B. e quella di Plotino [53]. In iv, 3-4 (27-28) e iv, 6 (41) Plotino sviluppa una teoria della memoria antiempiristica, rivolta in particolare contro Aristotele e gli Stoici, nella quale la memoria è identificata  









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con una capacità spontanea dell’anima, irriducibile alla conservazione di impressioni ricevute dai sensi. La memoria (come di consueto articolata in più livelli interni correlati all’immaginazione) è concepita come una via d’accesso alla stessa conoscenza noetica (Plotino offre un’originale rilettura dell’anamnesi di Platone, che ne approfondisce alcuni aspetti modificandone altri) [54]. In iv, 6 (41), 1 = 452-453 si trova una batteria di argomenti antiempiristici sulla sensazione e la memoria, diretti a distinguere queste facoltà dell’anima dalla ricezione di impronte provenienti dagli oggetti esterni ; questa sezione è parafrasata nel Sigillus sigillorum [55]. Più in generale, si è sottolineato che la concezione plotiniana della memoria è fonte per le opere mnemotecniche di B., dove la memoria non è associata alla conservazione dei dati sensibili, ma all’ascesa noetica verso il principio [56]. Tutto ciò è innegabile, ma, anche in questo caso, alle analogie si uniscono profonde differenze. Se, infatti, è vero che Plotino concepisce la memoria in senso antiempiristico e come una via d’accesso agli intelligibili, è però altrettanto vero che per Plotino la memoria (qualsiasi memoria, anche quella delle realtà superiori) è subordinata al pensiero puramente intellettuale e privo di immagini [57]. Il fine dell’ascesa filosofica sta nel ricongiungere la nostra anima discesa in un corpo alla sua parte più alta, affrancandosi così dal mondo sensibile e dai suoi condizionamenti. Rispetto a questo ideale ascetico e intellettualistico, la ‘combinatoria fantastica’ di B. e la sua concezione dell’arte della memoria appaiono agli antipodi (↗ arte della memoria, mnemotecnica). 4. Conclusioni. — Allusioni a Plotino e al commento di Ficino si trovano anche nelle opere magiche, soprattutto nel De magia come pure nella Lampas triginta statuarum. Una presentazione dettagliata non può essere proposta in questa sede, ma basterà notare che, anche in questo caso, le tesi portanti della metafisica plotiniana passano in secondo piano rispetto a temi più congeniali a B. (ad esempio la demonologia) [58].  

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È ora possibile trarre alcune conclusioni. In primo luogo, la presenza di Plotino in B. appare sostanzialmente omogenea nell’intero corpus. Non è dunque possibile isolare una ‘fase plotiniana’ nella sua evoluzione. D’altra parte, i riferimenti a Plotino, per quanto numerosi e importanti, sono sempre (fin dal De umbris idearum e dal Sigillus sigillorum) chiaramente soggetti a qualificazioni e adattamenti. In primo luogo, cruciale è la mediazione di Ficino, la cui esegesi in senso naturalistico fa da sfondo costante alla ricezione di Plotino in B. In secondo luogo, l’adattamento ficiniano di Plotino è a sua volta incorporato nell’originale concezione monistica e naturalistica di B. Come si è visto, queste coordinate si ritrovano in tutte le allusioni a Plotino, tanto nella cosmologia e nell’ontologia, quanto nella gnoseologia e nella dottrina dell’ascesa noetica. Stabilire, sulla base di queste considerazioni, se B. possa definirsi o meno un seguace di Plotino e del Neoplatonismo è molto difficile [59]. Sicuramente Plotino è una costante fonte di ispirazione per B. ; d’altra parte, è evidente la trasformazione che B. impone alla sua fonte, in un senso spesso difforme dall’originale e che può essere compreso soltanto in base alle coordinate proprie del pensiero bruniano. L’appellativo di « contemplativo », che B. assegna a Plotino nei Furori [60], segnala probabilmente non solo l’ammirazione di B. per Plotino, ma anche la coscienza della diversità che li separa.  





Note. [1] F. Tocco, Le opere latine di G. B. esposte e confrontate con le italiane, Firenze, 1889, 332 ; critica di Tocco in E. Canone, Il dorso e il grembo dell’eterno. Percorsi della filosofia di G. B., Pisa-Roma, 2003, 82-83.– [2] Cfr. De umbris, § 54, 6, bomne i 86 ; § 61, 3, bomne i 94 ; § 71, 2, bomne i 102 ; § 72, 3, bomne i 102. Ulteriori riferimenti si trovano negli apparati e nel commento di R. Sturlese e N. Tirinnanzi in bomne i, 86-115 e 429-475. – [3] Enn., vi, 7 (38), 1.1-5 = 692 ; cfr. Plato, Tim., 34 a-c ; 41 b-e. Nei riferimenti ai trattati di Plotino seguo la numerazione delle linee di Plotini Opera, ed. P. Henry et H.-R. Schwyzer, 3 voll., Oxonii, 1964-1982 ; è inoltre indicata la pagina della traduzione di Ficino : cfr. Plotini Opera omnia, cum Marsilii Ficini  















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interpretatione…, Fac-similé de l’édition de Bâle, Pietro Perna, 1580, Enghien-les-Bains, 2008. – [4] De umbris, § 54, 6, bomne i 86. – [5] La dottrina è richiamata in De umbris, § 61, 3, bomne i 94, dove B. si basa sul riassunto di Ficino per vi, 7 (38), 5 in Plotini Opera omnia, 697. – [6] Cfr. L. Catana, The Concept of Contraction in G. B.’s Philosophy, Aldershot, 2005. – [7] De umbris, § 54, 11, bomne i 86. – [8] Cfr. Conceptus x. k , § 63, bomne i 96. – [9] De umbris, § 55, 2, bomne i 86. – [10] Ivi, § 55, 13-14, bomne i 88. – [11] Ivi, § 56, 2-5, bomne i 88. – [12] In Plotini Opera omnia, 695. – [13] De umbris, § 56, 6, bomne i 88 : « aliquid e sua natura explicante et effundente ». – [14] 2 Cor., 10, 3. – [15] Causa, oib i 652. – [16] Plotino riferisce spesso l’appellativo ‘padre’ all’Uno e all’Intelletto : per una lista dei luoghi, cfr. J.H. Sleeman (†) & G. Pollet, Lexicon Plotinianum, Leiden-Leuven, 1980, 828-829 s.v. pathvr b). – [17] Causa, oib i 686 ; cfr. Sig. sigill., § 170, 7, bomne ii 274. Per ulteriori riferimenti, cfr. Catana, The Concept of Contraction, 27 nota 94. – [18] Cena, oib i 557. – [19] Furori, oib ii 678. – [20] Cfr. Canone, Il dorso e il grembo dell’eterno, 4-7. – [21] Cfr. iii, 8 (30), 9.1-2 = 351 ; v, 2 (11), 1.5-7 = 494 ; vi, 7 (38), 32.12-14 = 723. – [22] Cfr. A. Del Prete, « L’attiva potenza dell’efficiente » et l’univers infini. G. B. à propos de l’oisiveté de Dieu, in Mondes, formes et société selon G. B., éd. par. T. Dagron et H. Védrine, Paris, 2003, 113-130, con status quae­ stionis. – [23] Causa, oib i 720. Cfr. Canone, Il dorso e il grembo, 19-20. – [24] Così Th. Leinkauf, Einleitung a De la causa, principio et uno / Über die Ursache, das Prinzip und das Eine, bw iii, xxv, nota 37. – [25] Cfr. ii, 4 (12), 4 = 160-161. – [26] Cfr. ii, 4 (12), 3.13-14 = 160. – [27] Cfr. ii, 4 (12), 5.12-39 = 161-162 ; 15.14-37 = 169. – [28] Causa, oib i 710 ; cfr. anche ivi, 716 dove Plotino è chiamato « prencipe nella setta di Platone ». – [29] In Plotini Opera omnia, 150. – [30] Causa, oib i 711. – [31] Cfr. Catana, The Concept of Contraction, 44-46. – [32] Cfr. iii, 6 (26), 7 = 210-211. – [33] Furori, oib ii 566. Cfr. iv, 3 (27), 20.41-51 = 387 ; ulteriori paralleli nella nota ad loc. di M. Á. Granada, oib ii 566 nota 42. – [34] Cfr. Causa, oib i 669-670 : l’esempio della voce è desunto da vi, 4 (22), 12 = 654-655. – [35] Cfr. Causa, oib i 668 (↗ materia). – [36] Causa, oib i 663 ; cfr. Aen., vi, 724-727. – [37] Si veda in particolare, l’excursus intitolato « Coelum est spiritus, et flatus, et verbum animae mundanae : atque est ubique quamvis occultum » nel commento di Ficino a ii, 1 (40), in Plotini Opera omnia, 87-88. – [38] Cfr. De umbris, § 72, 2-8, bomne i 102-104 e il commento ad loc. di N. Tirinnanzi, bomne i 441. – [39] Cfr. De umbris, § 71, 2-6 bomne i 102.  





















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– [40] Plotino è più volte menzionato nei Furori : cfr. oib ii 513, 566, 572, 599, 611. Per maggiori dettagli, cfr. J. Sarauw, Der Einfluß Plotins auf G. B.s Degli Eroici Furori, Borna-Leipzig, 1916. – [41] Cfr. Furori, oib ii 575 e W. Beierwaltes, Actaeon. Zu einem mythologischen Symbol G. B.s, « Zeitschrift für philosophische Forschung », xxxii, 1978, 345354. – [42] Furori, oib ii 611. – [43] Plotini Opera omnia, 552. – [44] Rinvio alle osservazioni di N. Tirinnanzi in bomne i 397. – [45] Cfr. Furori, oib ii, 577. – [46] Cfr. in particolare, iv, 8 (6), 1 = 468 e 8 = 476 ; vi, 7 (38), 35.42-45 = 727. Sul pensiero non discorsivo in Plotino e la possibilità di attingerlo da parte dell’uomo vi è un’ampia letteratura. Per maggiori dettagli cfr. R. Chiaradonna, Plotin, la mémoire et la connaissance des intelligibles, « Philosophie antique », ix, 2009, 5-33. – [47] Il dossier è discusso da Catana, The Concept of Contraction, 7-28. – [48] Cfr. Sig. sigill., § 132, 10, bomne ii 216. – [49] In Plotini Opera omnia, 300-301. – [50] Sig. sigill., § 131, 16-19, bomne ii 214-216. – [51] Ivi, § 132, 10-12, bomne ii 216. – [52] Ivi, § 135, 6-9, bomne ii 222. Per la distinzione di Ficino cfr. Plotini Opera omnia, 27. – [53] Cfr. Catana, The Concept of Contraction, 70-81. – [54] Cfr. Chiaradonna, Plotin, la mémoire. – [55] Sig. sigill., § 124, 11, bomne ii 202. – [56] Cfr. Catana, The Concept of Contraction, 80. – [57] Cfr., ad esempio, iv, 4 [28], 4.6-7 = 399. – [58] Cfr. D. Giovannozzi, « Porphyrius, Plotinus et alii Platonici ». Echi neoplatonici nella demonologia bruniana, « Bruniana & Campanelliana », vi, 2000, 1, 79-103. – [59] Ovviamente una discussione di questo vasto dossier dovrebbe far riferimento non solo a Plotino e al commento di Ficino, ma anche alle altre ‘fonti neoplatoniche’ di B. a cominciare da Cusano. – [60] Furori, oib ii 611.  



































Bibliografia. F. Tocco, Le opere latine di G. B. esposte e confrontate con le italiane, Firenze, 1889 ; J. Sarauw, Der Einfluß Plotins auf G. B.s Degli Eroici Furori, Borna-Leipzig, 1916 ; W. Beierwaltes, Actaeon. Zu einem mythologischen Symbol G. B.s, « Zeitschrift für philosophische Forschung », xxxii, 1978, 345-354 ; Plotini Opera, éd. P. Henry et H.-R. Schwyzer, 3 voll., Oxonii, 1964-1982 ; J. H. Sleeman (†) & G. Pollet, Lexicon Plotinianum, Leiden-Leuven, 1980 ; D. Giovannozzi, « Porphyrius, Plotinus et alii Platonici ». Echi neoplatonici nella demonologia bruniana, « Bruniana & Campanelliana », vi, 2000, 1, 79-103 ; E. Canone, Il dorso e il grembo dell’eterno. Percorsi della filosofia di G. B., Pisa-Roma, 2003 ; A. Del Prete, « L’attiva potenza dell’efficiente » et l’univers infini. G. B. à propos de l’oisiveté de Dieu, in Mondes, formes et société selon  





























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G. B., éd. par T. Dagron et H. Védrine, Paris, 2003, 113-130 ; L. Catana, The Concept of Contraction in G. B.’s Philosophy, Aldershot, 2005 ; Th. Leinkauf, Einleitung a De la causa, principio et uno / Über die Ursache, das Prinzip und das Eine, bw iii, Hamburg, 2007 ; Plotini Opera omnia, cum latina Marsilii Ficini interpretatione et commentatione, Fac-similé de l’édition de Bâle, Pietro Perna, 1580, Enghien-les-Bains, 2008 ; R. Chiaradonna, Plotin, la mémoire et la connaissance des intelligibles, « Philosophie antique », ix, 2009, 5-33.  











Riccardo Chiaradonna privazione (privatio) La privazione è la mancanza di ciò che potrebbe o dovrebbe essere presente. Questo concetto assume rilevanza filosofica con la speculazione di Aristotele, che ne fa uno dei principi fondamentali della sua filosofia della natura e lo utilizza per superare le aporie eleatiche e platoniche sul divenire e sul movimento. Esso viene ripreso e approfondito dai suoi commentatori e giunge a B. che, anche se in modo fortemente critico, assume comunque la fisica aristotelica come punto di riferimento obbligato. Il concetto è quindi da lui studiato, valutato e infine integrato con influenze neoplatoniche, radicalizzato e assunto come condizione di possibilità dell’essere. 1. La privazione in Aristotele e nell’aristotelismo. –– Aristotele definisce il concetto di privazione innanzitutto nelle Categorie, in cui privatio e habitus sono trattati come uno dei quattro generi dell’opposizione. Si può dire che un ente è propriamente privato di qualcosa se e solo se non ha ciò che è atto a possedere per sua natura e in un lasso di tempo ben definito : si ha quindi privazione solo nel caso in cui sia data la possibilità del possesso di ciò che manca [1]. Nel quinto libro della Metafisica, invece, privazione è mancanza assoluta di qualcosa, indipendentemente dal fatto che la natura o il genere di ciò che è affetto da privazione ne preveda il possesso [2]. Il concetto viene poi applicato allo studio della natura nel primo libro della Fisica, in cui Aristotele osserva che tutti i suoi prede 

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cessori hanno posto come principi del divenire e delle cose i primi contrari, in quanto essi non derivano da altro né possono derivare l’uno dall’altro e ciò implica che il processo del divenire si svolga sempre da un contrario all’altro. Tuttavia è necessario un terzo principio perché, se i contrari agissero direttamente l’uno sull’altro, allora muterebbero l’uno nell’altro e la loro contrarietà non sussisterebbe. Questo principio su cui i contrari agiscono è il sostrato, ossia la materia (concetto già apparso nel Timeo di Platone, che la intende come soggetto passivo, ricettivo e libero da ogni forma, che accoglie in sé tutte le cose come una madre), mentre i due contrari sono privazione e forma, che sono tali in quanto l’una è assenza dell’altra. Perciò i principi possono esser considerati anche soltanto due perché la forma, assieme al sostrato, è sufficiente a spiegare il divenire con la sua assenza o presenza ed entrambi permangono nel risultato finale del divenire (il sinolo), quindi la privazione può anche essere considerata un principio necessario ma accidentale. Grazie alla privazione Aristotele riesce a definire il movimento come un’evoluzione verso ciò che è buono e divino, quindi desiderabile. La forma, però, non può desiderare se stessa né ciò che le è contrario, pena la distruzione, e ugualmente la privazione non può desiderare la forma. Solo la materia può essere l’elemento desiderante, mentre l’oggetto desiderabile è la forma, in quanto la privazione è non-essere per sé. D’altra parte, la materia non potrebbe desiderare se non fosse priva di ciò che desidera e dunque la privazione è la causa dell’acquisizione di forma da parte del sostrato. Quindi la materia è, eppure diviene, perché ospita in sé una mancanza, facendosi non-essere per accidente, e senza tale non-essere non si darebbe la processualità della realtà sensibile, che cade direttamente sotto i nostri sensi e che non può essere negata [3]. Nel secondo libro della Fisica Aristotele definisce la natura come principio intrinseco e non accidentale del movimento e della quiete degli enti e conclude che sia la materia che la forma sono natura, quindi anche la privazione, in quanto forma negativa, può essere definita

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natura [4]. I commentatori successivi esplicitano distinzioni e correlazioni con altri concetti della speculazione aristotelica che nella Fisica rimangono implicite. Quando lo Stagirita esamina i diversi tipi di mutamento a partire da considerazioni di carattere linguistico, Averroè distingue tra alterazione sostanziale e alterazione accidentale : l’espressione hoc fit hoc indica che a mutare è la sostanza della cosa, mentre ex hoc fit hoc significa che l’aspetto che cambia è accidentale. Ciò che permane al di sotto del mutamento è definito dispositio substantialis, mentre ciò che si altera è la dispositio accidentalis e da questa differenza deriva anche la distinzione tra i principi per sé del divenire (materia e forma, che permangono) e principio per accidente (la privazione, che non permane). Inoltre, Averroè collega il concetto di privazione a quello di potenza : la materia è in potenza ogni cosa perché è priva di tutte le forme, cioè è in potenza in quanto è caratterizzata accidentalmente dalla privazione, che è puro nulla (non ens per se), ponendosi così come non ens per accidens. Averroè dà anche particolare rilevanza al concetto di materia prima intesa come sostrato universale che precede ogni determinazione in modo tale da rendere possibile l’acquisizione di qualsiasi forma [5]. Ciò è collegato alla questione se la privazione debba essere considerata natura, infatti o è da considerare come forma diminuta rispetto alla perfezione della forma vera e propria, o si distingue tra la privazione relativa a un habitus particolare e la privazione assoluta che caratterizza la materia prima e che può essere definita forma materiae e, quindi, natura [6]. Con queste considerazioni, Averroè mostra di essere consapevole che la privazione, per poter essere considerata a pieno titolo principio primo della natura, deve essere correlata alla materia e assumere un carattere di profonda radicalità. Anche Tommaso d’Aquino riprende la distinzione tra mutamento sostanziale e mutamento accidentale e aggiunge che il divenire simpliciter proprio delle sostanze è un initium essendi, mentre il divenire secundum quid è relativo a quantità, qualità e altri accidenti. Riproponendo la distinzione  



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tra principi per sé e per accidente, precisa che la privazione è semplice assenza di forma che caratterizza accidentalmente il sostrato e non un’attitudine alla forma, opponendosi in questo alla dottrine di Alberto Magno dell’inchoatio formae, cioè di un appetito che la privazione (positivamente considerata come assenza di una forma particolare) provoca nella materia prima, rendendola materia propria atta ad assumere quella particolare forma. L’Aquinate esplicita inoltre il concetto di materia prima come sostrato di ogni forma, conoscibile per analogia con le forme assunte, ma senza l’incisività di Averroè. In riferimento ai concetti di atto e potenza, Tommaso afferma che dalla materia, ente in potenza, il mutamento avviene per sé, mentre da ciò che è in atto il mutamento avviene per accidente, ricollegando esplicitamente all’atto la forma iniziale della cosa che muta e quindi anche la privazione della forma finale che la caratterizza. Lo stretto legame tra materia e privazione è invece sottolineato dal fatto che esse sono unum subiectum, ma alterum ratione, ossia che il sostrato è numericamente unico ma, in quanto costituito da materia e privazione, è duplice per essenza. Fallendo nel riconoscere questo, i platonici hanno disprezzato la privazione e l’hanno confusa con la materia, nella quale hanno posto la dualità (la Diade) che caratterizza invece il principio formale. Inoltre, affermando Aristotele che la forma è qualcosa di divino, ne consegue che la privazione è malum rei [7]. Infine, anche Tommaso ricorre al concetto di forma incompleta, che richiama quello di forma diminuta, per far rientrare anche la privazione nella definizione di natura, escludendo però l’ipotesi della privazione assoluta avanzata da Averroè [8]. Zabarella, aristotelico padovano contemporaneo di B., definisce la privazione come assenza della forma nella materia con potenza a essa e come principio contrario che non permane nel risultato della generazione, ma pone una strettissima connessione con la forma, pur salvaguardando il legame con la materia, che in quanto sostrato del divenire è sempre materia privata. La privazione, infatti, è sempre congiunta concomitanter con una certa forma

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determinata che caratterizza la cosa che cambia. Questa forma iniziale è l’opposto della forma finale assunta dalla cosa fatta ed è potenzialmente atta a farsi scacciare da essa. La privazione ha un ruolo nel processo del divenire solo in quanto connessa ad una forma particolare e solo in virtù di questo aspetto può essere definita natura. Zabarella si ricollega così al concetto di inchoatio formae avversato da Tommaso, ma riduce la privazione a un’entità puramente logica e, in certo modo, a un aspetto della categoria di sostanza. La privazione considerata in senso assoluto è infatti non ens per se e puro nulla e va quindi respinta l’opinione di Averroè secondo cui essa è considerabile come forma della materia prima che per poter accogliere tutte le forme non deve essere caratterizzata da nessuna di esse, quindi neanche dalle privazioni correlate alle forme particolari [9]. Zabarella intuisce inoltre, anche se solo superficialmente, l’influenza platonica : nell’illustrare l’appetito della materia per la forma, mostra il rapporto tra soggetto desiderante, oggetto desiderato e causa del desiderio e afferma esplicitamente che « haec omnia ex Platone in convivio colligantur » [10]. 2. Le opere logico-mnemoniche e i dialoghi italiani. –– Come Aristotele si era occupato della privazione in un contesto logico, collocandola tra i generi dell’opposizione, così anche B. prende in considerazione il rapporto tra habitus e privatio nel De lampade venatoria, un’esposizione dei Topici pubblicata nel 1587 a Wittenberg. Esaminando i principi aristotelici della ricerca dialettica, B. specifica più volte che è necessario considerare la natura delle proposizioni e dei termini e osservare se la predicazione avvenga secondo la categoria della privazione e del possesso. La stessa accezione si ritrova nel passo in cui B. raffigura il soggetto dell’investigazione come una torre circondata da quattro campi che corrispondono ai predicabili elencati da Porfirio nell’Isagoge : « [exigit] an inde contrarie vel contradictorie vel privative vel correlative oppositum absurde consequitur » [11]. Anche nel De lampade combinatoria, un compendio dell’Ars magna di Lullo pubblicato sempre a Wittenberg nel 1587, ritrovia 











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mo la stessa elencazione dei quattro generi dell’opposizione, ma più significativo è il commento che B. appone a una figura che si trovava già nel De compendiosa architectura, pubblicata a Parigi nel 1582. In questa figura mnemonica, B. rappresenta i nove predicati relativi enunciati da Lullo raggruppandoli in tre triadi formate da elementi tali da escludersi reciprocamente. La seconda di queste triadi, l’ordine della suppositio, è costituita da principium, medium e finis. Quest’ultimo si dice in tre modi : finis perfectionis, cioè il fine a cui ogni cosa tende in quanto rappresenta il grado massimo del suo sviluppo, il finis terminationis, cioè il confine che limita un’entità e la definisce come individuo, e il finis privationis, che per B. è « mors, defectus, extinctio » [12] ossia, mancanza ultima che si traduce in annullamento. Non stupisce il fatto che temi e procedimenti simili siano presenti tanto nelle opere aristoteliche quanto in quelle lulliane, perché sia la logica dello Stagirita che l’arte combinatoria di Lullo pongono il problema del collegamento tra termini, elementi primi del linguaggio, per formare proposizioni e sillogismi e per ampliare il complesso della conoscenza umana. Tuttavia, il ruolo della privazione in queste opere è limitato soltanto al suo ruolo di operatore logico astratto, utile per la costruzione di giudizi. La prima concreta applicazione alla filosofia della natura si ha nei dialoghi italiani, in cui B. si oppone allo Stagirita nel dimostrare l’infinità e l’unità dell’universo, dovute al suo essere un’esplicazione dell’Uno, ma non può fare a meno di utilizzare concetti aristotelici. Nel De la causa, la forma è identificata con l’intelletto universale, il quale è allo stesso tempo anche l’efficiente che, pur essendo per sua natura estrinseco alla materia, opera intrinsecamente in essa allo scopo di realizzare la perfezione dell’universo, cioé l’attualizzazione di tutte le forme. La necessaria controparte di questo principio attivo è dunque una potenza che « sì fattamente risponde alla potenza attiva, che l’una non è senza l’altra in modo alcuno » [13] dal momento che non si dà l’essere senza il poter essere e viceversa. La coincidenza di atto e potenza porta B. a sostenere  









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che la materia è un sostrato indifferenziato che, dovendo essere tutto, deve escludere ogni forma particolare, ma tale assenza di determinazioni deriva non dalla privazione, bensì dal possesso di tutte le forme, dal momento che il principio attivo che le dispensa le è, sotto un certo aspetto, intrinseco : « la dico privata delle forme e senza quelle [...] come la pregnante è senza la sua prole, la quale manda e riscuote da sé » [14]. Ma la privazione più radicale è ciò che rende la materia un sostrato atto a divenire qualsiasi cosa e in grado di ospitare in sé l’infinita potenza attiva, che però traduce immediatamente la possibilità in realtà, facendo coincidere nella complicatio privazione e pienezza, atto e potenza, materia e forma, intrinseco ed estrinseco. Proprio su questo legame si svolge la critica alla concezione della materia dei peripatetici « che tanto la proclamano come figlia de la privazione, e simile a l’ingordiggia irreparabile de la vagliente femina » [15]. Aristotele ebbe il merito di elaborare la teoria della privazione, ma non seppe svilupparla correttamente : « fermando il pié nel geno de l’opposizione […] non giunse né fissò gli occhi al scopo : dal quale errò a tutta passata, dicendo i contrarii non posser attualmente convenire in soggetto medesimo » [16]. Lo Stagirita, ponendo la privazione e la forma come due opposti e affermando l’impossibilità della loro coesistenza in uno stesso sostrato, non è stato capace di superare il punto di vista del particolare e di intuire la coincidentia oppositorum, non riuscendo così ad avvicinarsi al punto di vista dell’Uno. 3. Le opere fisiche. –– La Figuratio aristotelici physici auditus è un compendio della Fisica composto e pubblicato a Parigi nel 1586. È divisa in due parti : la figuratio, cioè l’elencazione dei concetti fondamentali della fisica aristotelica e la loro associazione con coppie di immagini (si noti che la privazione è associata alla Parca Atropo e che compaiono anche le figure del Caos, dell’Orco e di Teti, che rappresentano rispettivamente il luogo, il vuoto e la materia) [17], e il compendio vero e proprio. I Libri Physicorum Aristotelis explanati, composti a Wittenberg nel 1588, sono un commento alla Fisica e ad altri testi.  



















In entrambe le opere B. inizia con l’enunciare i tre principi che Aristotele pone a fondamento della natura e così definisce l’ultimo dei tre : « Hoc autem est privationem dicere apud nos, quae significat participationem quandam contrariae formae » [18], ricorrendo arbitrariamente al concetto platonico di partecipazione, che Aristotele critica apertamente nella Metafisica [19]. Nella Figuratio la triade dei principi è inoltre divisa in principi formali e principi materiali, avvalendosi di termini che Aristotele utilizza nel primo libro della Metafisica [20]. Nei Libri Physicorum, B. si sofferma a commentare il ruolo della privazione e afferma che essa è forma che si svigorisce, citando e commentando l’esempio della cecità, che si trova sia nelle Categorie che nella Metafisica : non è la vista ad esser privata, ma sono gli occhi (sostrato) che sono privati della vista (forma), né si parlerà di una privazione della vista (genitivo soggettivo), ma di occhi che sono affetti da una privazione della loro facoltà (genitivo oggettivo). Così la forma, cioè il contrario positivo, è costituita dal possesso della vista, mentre il contrario negativo è la privazione della suddetta facoltà [21]. B. riprende inoltre le osservazioni linguistiche di Aristotele e aggiunge la spiegazione canonica : la formula hoc fit hoc si applica a ciò che permane come sostrato della mutazione, mentre la formula ex hoc fit hoc si applica ai contrari che si succedono. Questa differenza dipende dalla tipologia del cambiamento : quando esso coinvolge la sostanza della cosa che muta, avviene substantive ; ma quando a mutare è solo un aspetto accidentale, allora il cambiamento avviene adjective [22]. In alcune illationes B. ripropone la distinzione tra i principi per sé e il principio per accidente [23] e distingue inoltre tra principi ed elementi : i principi sono elementi che compongono la cosa fatta, mentre la privazione, sebbene ne sia la causa, è principio ma non elemento, poiché non sussiste nel prodotto. Quindi il contrario che recede è la privazione, mentre quello che permane è la forma e, nel definire il risultato del divenire, sono sufficienti materia e forma, anche se la privazione causa il divenire ed è necessaria per spiegarlo [24]. B. ripete  















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inoltre che la materia è non-essere per accidente mentre la privazione è non-essere per sé [25] e commenta anche il riferimento aristotelico alle dottrine non scritte di Platone, nelle quali il filosofo ateniese afferma che i principi primi dell’essere sono l’Uno e la Diade che, concepita come dualità di Grande e Piccolo, sarebbe materia intelligibile. Aristotele ritiene invece che la Diade non sia un sostrato perché grande e piccolo sono semplici attributi che si predicano di un sostrato, non il sostrato stesso [26]. B., che pure riprende le parole di Tommaso e accusa i platonici di disprezzare la privazione, individua invece un’analogia : Platone intende come una sola cosa i due contrari (la Diade), così come noi indichiamo col solo nome di forma i due contrari (forma e privazione) [27], rilevando quindi una tendenza a eliminare la dualità. Il commento riporta poi l’argomento con cui Aristotele superava la tesi secondo cui la materia, caratterizzata dalla privazione, desiderando la forma, suo contrario, desidererebbe il suo annientamento : è sufficiente distinguere tra materia (elemento desiderante) e privazione (causa del desiderio) [28]. Concludendo il compendio e il commento del primo libro B. fornisce la definizione dei tre principi del divenire riassumendo quanto detto : la privazione è il contrario della forma, è causa per sé di corruzione, è compresa nella materia ed è causa del suo appetito alla forma, è principio per accidente del divenire, non sussiste nella cosa fatta, è non-essere per sé, è ingenerabile e incorruttibile [29]. Passando al secondo libro della Fisica, B. riporta fedelmente e senza alcuna discussione la teoria aristotelica secondo cui la privazione è forma negativa e quindi natura : « Privationem quoque si cui naturam appellare libuerit, non satis aberrat, si forte aberret ; privatio quippe forma quae abiicitur est » [30]. Gli Articuli adversus Peripateticos, invece, sono una raccolta sistematica delle obiezioni del Nolano alla fisica aristotelica, compilata in occasione della disputa tenutasi presso il Collège de Cambray nel 1586, ripresa poi a Wittenberg, ampliata e pubblicata nel 1588 col titolo Camoeracensis acrotismus. Il decimo articolo dell’opuscolo è riportato pressoché  













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letteralmente nell’Acrotismus : « Naturae nomine dignius esse formam quam materiam, nusquam probare potuit Aristoteles. Privationem quoque naturae nomine insignire, nescio quam tute potuerit » [31]. Questo è l’unico luogo in cui B. fa riferimento alla dottrina della privazione ed è anche l’unica obiezione che muove allo Stagirita a tal riguardo : Aristotele non ha mai dimostrato la permanenza della forma, che anzi è destinata a sparire con la corruzione ed è quindi una disposizione transeunte e contingente della materia, incapace di sussistere senza di essa. Soltanto la materia permane nel susseguirsi delle forme e quindi soltanto essa è natura e principio. Se la forma non può essere definita principio del divenire, ancor meno può esserlo la privazione, che è addirittura assenza di forma. B. dimostra quindi di conoscere bene la dottrina aristotelica della privazione e di poterle muovere questa sola obiezione, ma considerando la privazione come una causa non permanente, è disposto a utilizzare tale concetto anche nella sua indagine sulla natura. 4. La Summa terminorum metaphysicorum. –– Composta durante il soggiorno a Zurigo nel febbraio del 1591, ma pubblicata solo nel 1595, è un’esposizione sistematica di cinquantadue concetti basilari della metafisica bruniana, condotta sull’esempio del quinto libro della Metafisica di Aristotele. Alla privazione non è dedicata una voce specifica, ma il concetto è trattato innanzitutto nella definizione di Opposita, in cui B. dimostra che i quattro generi dell’opposizione possono essere ricondotti l’uno all’altro e propone una nuova classificazione : opposizione contraddittoria, regionale e privativa. Quest’ultima si configura in relazione alla forma ed è duplice : la prima si ha quando la privazione precede la forma e dà quindi luogo al processo di generazione, la seconda quando la privazione segue la forma, provocando la corruzione [32]. L’opposizione privativa, quindi, è l’opposizione tra generazione e corruzione causata dal susseguirsi di forma e privazione nella materia. Nella definizione di Finis, si ha di nuovo la distinzione tra fine privativo, positivo e perfettivo già riscontra 











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ta nel De compendiosa architectura [33]. B. però inizia ad ampliare il campo di applicazione del concetto di privazione. Nella definizione del termine Veritas, afferma che essa è duplice : la Verità assoluta, cioè uno dei trascendentali, e la verità contraibile, un’essenza in base alla cui presenza qualcosa può essere detto vero. Quindi, l’assenza o privazione di tale essenza è ciò che definisce il falso, la sua negazione invece determina il non-vero [34]. Falso e non-vero, dunque, non sono perfettamente sinonimi : se la verità è adaequatio rei et intellectus, non-vero è ciò che non presenta né può presentare l’adaequatio, mentre falso è ciò che non presenta l’adaequatio, ma può averla presentata o potrà presentarla in futuro. Nella definizione di Quantitas, B. distingue tra infinito negative, ossia ciò che non ha né può avere fine, come Dio, e infinito privative, ossia ciò che potrebbe avere un limite ma non lo ha [35]. È significativo che tra i concetti definiti sia assente proprio la privazione, ma la soppressione della sua definizione è comprensibile se ricondotta all’assenza del termine ‘forma’, che B. omette in quanto non lo ritiene principio del divenire, ma semplice disposizione particolare e transeunte della materia. Si noti però che si avvale del concetto di privazione quando vuole sinteticamente indicare la differenza tra un divenire dinamico e una realtà statica, per la quale ricorre semmai al concetto di negazione. Il falso e il non-vero, l’infinito privative e l’infinito negative, la generazione e la corruzione : tutto ciò che non è irreversibile ed è suscettibile di mutamento o è caratterizzato da un elemento privativo oppure è spiegabile attraverso la privazione. 5. La Lampas triginta statuarum. –– Composta a Wittenberg nel 1587, è un’opera piuttosto vasta e di natura ibrida, ma il concetto di privazione è trattato sistematicamente solo nella prima parte di essa, che consiste nella descrizione delle trenta statue, ossia simboli mnemonici attraverso i quali B. espone i principi fondamentali della sua filosofia della natura, prendendo le mosse dalla base della scala dell’essere, cioè dalla triade inferiore di principi, per risalire al vertice, la triade dei principi superiori. I sei principi  





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sono infigurabili perché, per la loro natura assoluta, non possono essere rappresentati da statue o immagini. Il primo di essi è il Chaos ossia il vuoto, ricettacolo che accoglie tutte le cose : è uno, immobile, infinito e indivisibile, contiene in sé le cose ma non agisce su di esse né subisce le loro azioni e non lo si può cogliere coi sensi. La sua estensione è infinita perché in esso deve essere accolta l’infinita realtà prodotta dal principio positivo. È in tutte le cose perché delimita le loro parti prime, cioè gli atomi, fungendo così da principio di distinzione tra parti omogenee. Infine, se non esistesse lo spazio vuoto che accoglie le cose, esse non sarebbero, tanto che fuori da esso nulla esiste : il Caos è dunque una condizione di possibilità dell’esistenza degli enti. Esso è vuoto perché deve essere in grado di recepire in sé le cose, ma allo stesso tempo è pieno perché effettivamente le contiene tutte. È privo di tutto perché, per essere in grado di ospitare qualsiasi cosa, non deve avere attributi o qualità specifiche ; né possiede le cose che contiene perché non può avere con esse alcun tipo di relazione e deve essere indipendente, neutro e indifferenziato, assolutamente altro dagli enti che contiene [36]. La privazione gioca un ruolo fondamentale soprattutto nel secondo infigurabile, l’Orcus figlio del Caos, che rappresenta l’infinita potenza ricettiva del vuoto. Posto il ricettacolo come condizione di possibilità dell’essere, segue necessariamente l’impulso a riempirlo ed è proprio la mancanza a innescare il desiderio di pienezza, desiderio infinito che si rivolge indifferentemente a tutte le cose perché la privazione che lo provoca è assoluta, tanto che nessun ente finito può soddisfarlo. La privazione è quindi l’elemento catalizzatore del processo di esplicazione dell’essere, sia nel suo aspetto statico che in quello dinamico : dal punto di vista della totalità, infatti, tutto esiste ab aeterno e non c’è alcun venire all’essere dal nulla (per questo la privazione è solo una condizione di possibilità dell’essere e non un principio generativo, così come la triade inferiore ha una priorità solo logica e non ontologica o cronologica), mentre dal punto di vista dei singoli enti ogni cosa, avendo in sé  







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il Caos, è caratterizzata dalla mancanza, per colmare la quale si innescano i mutamenti e le vicissitudini particolari. Inoltre, la stessa indeterminatezza che caratterizza la brama dell’Orco si riflette anche sulle singole cose che, proprio perché affette dalla privazione, hanno in sé la potenzialità di divenire tutto nell’infinito scorrere del tempo, potenzialità che attesta il legame ontologico che intercorre tra l’Uno-Tutto complicato e le sue singole manifestazioni esplicate. Senza la privazione nulla potrebbe esistere e mutare, per questo B. ripete più volte che l’Orco è un male necessario e quindi un bene, causa di ogni delitto e peccato, ma necessario all’ordine dell’universo [37]. I caratteri fondamentali della privazione sono dunque la necessità e l’infinità, in quanto solo un’infinita mancanza provoca l’infinito desiderio che apre adeguatamente all’Uno la possibilità di esplicarsi e di produrre la processualità del reale. Il terzo componente della triade, la Nox ossia la materia prima, ha un duplice aspetto : da una parte è figlia dell’Orco ed è affetta dalla sua stessa privazione, pertanto è infigurabile ; dall’altra ha una sua natura e può essere rappresentata da una statua. Se lo spazio e il desiderio di pienezza sono le prime due condizioni di possibilità dell’essere, la terza è che vi sia un sostrato materiale indifferenziato, teorizzato già da Platone e Aristotele, pronto ad accogliere e a sostenere le infinite manifestazioni dell’Uno e conoscibile solo per analogia con la forma [38]. La materia tuttavia entra nei composti e diviene parte di quegli enti che possiamo conoscere sensorialmente e intellettivamente, pertanto non ci è totalmente ignota e di essa possiamo ideare un’immagine. B. non si riferisce alla materia contratta che costituisce i singoli enti (rappresentata dalla statua di Teti), ma vuole sottolineare la duplicità di questo principio, che completa la triade inferiore del non-essere e contemporaneamente si apre al divenire che sta fra di essa e la triade superiore. La materia si differenzia da Caos e Orco perché essi non entrano in relazione con la forma, mentre la materia prima si unisce ad essa e non ne è separabile, ma non è mai pienamente formata perché è immersa  



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nella privazione, che le è connaturata (come simboleggiano le immense ali nere e i cavalli neri che trainano il suo carro) ed è ciò che permette l’infinito susseguirsi delle forme in essa, che desidera ciò che non ha e disprezza ciò che ha [39]. Infine, B. sottolinea la funzione mediatrice della materia prima, grazie alla quale le condizioni di possibilità dell’essere vengono tradotte in realtà, mettendo in comunicazione le due triadi : « opus immensi universi a matre Nocte et patre Luce progenitum est » [40]. Ciò significa che l’intera realtà è il prodotto dell’unione della materia prima e dello spiritus universi, simboleggiato dalla Luce, il terzo componente della triade superiore, di chiara ispirazione neoplatonica ed ermetica e in perfetta simmetria con la prima. Allo spazio vuoto del Caos corrisponde la pienezza della Mens ; all’infinita potenza passiva dell’Orco corrisponde l’efficacia attivissima dell’Intellectus ; alla materia inerte e indifferenziata corrisponde lo Spiritus universi che tutto ordina e vivifica. La privazione infine compare anche nella descrizione della statua di Demogorgone, che rappresenta le relazioni tra gli enti, tra le quali c’è anche l’opposizione tra habitus e privatio, la quale manifesta una duplice natura secondo la duplicità dei principi del divenire : è privazione della materia (genitivo soggettivo) e privazione della forma (genitivo oggettivo), cioè si riferisce da un lato a ciò che è privo di qualcosa e dall’altro al qualcosa che manca, rivelandosi pur sempre dello stesso genere della forma [41]. Da segnalare, infine, nella descrizione della statua di Saturno, la presenza di una Parca che rappresenta il principio privativo necessario allo svolgersi del processo di generazione e corruzione [42]. Già nella Figuratio la privazione era associata ad Atropo e comparivano altre immagini che, nella Lampas, si ripresentano con le dovute modifiche : il simbolo del luogo diventa il simbolo dell’infinito ricettacolo ; la figura che rappresenta il vuoto diventa l’emblema della privazione e del desiderio ; la materia viene distinta in materia prima, per la quale viene introdotto un nuovo simbolo, e materia contratta. La comparsa degli stessi emblemi in opere quasi coeve testimonia il debito concettuale che B. ha nei confronti di  

















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Aristotele e la continuità speculativa tra le opere aristoteliche e le opere costruttive. 6. Conclusioni. –– Nelle opere aristoteliche B. ha dimostrato di conoscere bene la dottrina della privazione formulata dallo Stagirita, nelle opere critiche non l’ha respinta, ma ha messo in luce che la privazione non può essere definita natura e nella Summa ha continuato a servirsene per distinguere la dinamicità del divenire dalla staticità dell’essere. Nella Lampas, infine, il concetto di privazione acquisisce il ruolo di principio fondante della realtà : se alla base della scala dell’essere non vi fossero il vuoto, la coppia privazione-desiderio e la materia prima, non si darebbero le condizioni di possibilità dell’essere, della sua manifestazione e della vita del tutto. Già Aristotele utilizzava la categoria del desiderio per spiegare il divenire, affermando che la materia brama ciò di cui è priva, ma con intento più esornativo che esplicativo, collocata com’è all’interno di un’allegoria tra il rapporto tra materia e forma e quello tra femmina e maschio [43]. Un simile paragone, però, non può non riportare alla mente il Simposio : se Eros è desiderio, non può che essere desiderio di qualcosa e questo qualcosa non è ciò che già possiede, ma ciò che gli manca. A partire da questa suggestione platonica rintracciabile in Aristotele, B. intreccia in modo inestricabile i due concetti nel presentare l’infigurabile dell’Orco : quando afferma che la privazione produce l’appetito sostiene di citare un proverbio, ma i curatori delle Opere magiche hanno messo in luce che in questo passo può essere in atto un’influenza di Calcidio e del suo commento al Timeo [44], in cui è formulata la teoria della materia prima. Quindi, se è necessaria un’infinita attitudine a ricevere passivamente l’infinita attività del principio primo affinché essa possa esplicarsi, allora tale attitudine deve essere costitutivamente caratterizzata dalla privazione più radicale. Il concetto, che Aristotele utilizzava per superare le aporie eleatiche sul divenire e rendere intelligibile il movimento e che già Averroè aveva radicalizzato, nella Lampas diventa, una volta assimilato alla concezione platonica del desiderio, una delle condizioni di possibilità e uno dei principi fondamentali  





dell’essere e della sua esplicazione, assumendo una centralità che mai aveva avuto nella tradizione filosofica precedente. Note. [1] Cfr. Aristotele, Cat., 10, 12a 26-41. – [2] Cfr. Aristotele, Metaph., v, 22 1022b 15-1023a 5. – [3] Cfr. Aristotele, Phys., i, 6-9, 189a 11-192b 4. – [4] Cfr. ivi, ii, 1, 192b 5-193b 21. – [5] Cfr. Averroè, In Physicam, i, iv, 1-5. – [6] Cfr. ivi, ii, i, 6-7, comm. 15 (f. 53f-k). – [7] Cfr. Tommaso d’Aquino, In Physicam, i, lectt. xii-xv. – [8] Cfr. ivi, ii, lect. ii, n. 8. – [9] Cfr. I. Zabarella, Commentarii in magni Aristotelis libros physicorum, Francoforte 1602, 200-301, 363-367. – [10] Cfr. ivi, 274. – [11] De lamp. ven., bol ii,iii 48. – [12] De lamp. comb., bol ii,ii 274-275 ; cfr. ivi, 278-279 e De comp. architect., bol ii,ii 18. – [13] Causa, oib i 692. – [14] Ivi, 717. – [15] Ivi, 605. – [16] Ivi, 744. – [17] Cfr. Figuratio, bol i,iv 136-138. – [18] Libri Phys. expl., bol iii 293. – [19] Cfr. Aristotele, Metaph., i, 6, 987b 7-14. – [20] Cfr. Figuratio, bol i,iv 142 ; cfr. Aristotele, Metaph., i, 6, 987a 29-988a 17. – [21] Cfr. Libri Phys. expl., bol iii 294. – [22] Cfr. ivi, 300. – [23] Cfr. Figuratio, bol i,iv 151-152. – [24] Cfr. Libri Phys. expl., bol iii 303. – [25] Cfr. ivi, 307. – [26] Cfr. Aristotele, Metaph., i, 9, 992b 1-7. – [27] Cfr. Libri Phys. expl., bol iii 309-310. – [28] Cfr. ivi, 310. – [29] Cfr. Figuratio, bol i,iv 152-153 e Libri Phys. expl., bol iii 313-314. – [30] Figuratio, bol i,iv 155-156. – [31] Camoer. acrot., bol i,i 104. – [32] Cfr. Summa term. met., bol i,iv 47-48. – [33] Cfr. ivi, 44. – [34] Cfr. ivi, 15. – [35] Cfr. ivi, 25. – [36] Cfr. Lampas trig. stat., bol iii 10-16. – [37] Cfr. ivi, 16-24. – [38] Cfr. Aristotele, Phys., i, 7, 191a 7-8. – [39] Cfr. Lampas trig. stat., bol iii 14-36. – [40] Ivi, 19. – [41] Cfr. ivi, 133-134. – [42] Cfr. ivi, 72-73. – [43] Cfr. Aristotele, Phys., i, 9, 192a 16-23. – [44] Cfr. bom 959.  



Bibliografia. B. Amato, La nozione di ‘vuoto’ in G. B., « Bruniana & Campanelliana », iii, 1997, 2, 209-230 ; N. Tirinnanzi, « Materia prima » e « scala della natura » : dalla Lampas triginta statuarum alle opere magiche, in Autobiografia e filosofia. L’esperienza di G. B., a cura di N. Pirillo, Roma, 2003, 37-51.  















Lucia Girelli Roma (Roma) La Roma di Giordano Bruno è declinata in molti modi, vissuta e narrata nei testi, come del resto altri luoghi della biografia

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bruniana. Roma ai tempi di Bruno è luogo simbolico, è l’Alma Urbs che rappresenta la culla del cattolicesimo, la sede del papato e della Chiesa romana per i suoi accoliti, ma è anche la meretrice, che ospita l’Anticristo (il pontefice) per i riformati. Roma fu la città dove Bruno si avviò all’apostasia, alla fuga dall’Ordine dei predicatori e dalla Chiesa cattolica (1576) e dove la parabola di un esilio densissimo e travagliato si concluse con la prigionia e il rogo (1593-1600). La presente voce sarà divisa, nei limiti concessi dall’intreccio tra le fonti – non sempre univoche – con il dettato dei testi, in due sezioni : Roma nella biografia bruniana e Roma nelle opere di B. 1. Roma nella biografia bruniana. –– Dalle testimonianze a nostra disposizione emergono tre momenti diversi in cui B. si trattenne a Roma : un rapido soggiorno giovanile di cui non abbiamo se non un termine ante quem, il 1 maggio del 1572, durante il quale B. venne ricevuto da papa Pio V e dal cardinale Scipione Rebiba, per mostrare loro i prodigi della sua ars memoriae ; un secondo soggiorno, durante l’inverno del 1576, in cui B. per qualche mese si trattenne nel convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva per motivi di ordine disciplinare e che si concluse con l’apostasia e la fuga da Roma e, infine, la lunghissima prigionia, successiva all’estradizione veneziana, che trovò esito nella degradazione dagli ordini religiosi, nella condanna per eresia e nella consegna al braccio secolare per la pena capitale. B. a Roma ante 1572. Spesso vi è una convergenza di fonti (processuali, archivistiche, testuali) che consentono di ricostruire alcuni passaggi della vicenda personale di B. con relativa certezza, tale da consentirci di redigere con buona approssimazione anche una voce enciclopedica, che ha, rispetto alla letteratura specialistica, la funzione di cristallizzare le informazioni e di renderle disponibili a un pubblico vasto. Non è il caso di questo primo soggiorno romano : di tale soggiorno non v’è certezza di tempi, né di modalità, e ci sia consentito aggiungere, di fattibilità. Sul primo passaggio a Roma di B. abbiamo una sola fonte che – lungi da essere una « testimonianza diretta » di B. come affermato al 











trove [1] – è assimilabile più a un relata refero. Guillaume Cotin, interlocutore parigino del nostro autore, riferì nel suo diario di questo episodio della vita giovanile, narratogli da B. : « Jordanus m’a dit qu’il fut appellé de Naples à Rome par le pape Pius V et le cardinal Rebiba, amené en une coche, pour monstrer sa Mémoire artificielle, récita en hébreu à tout endroit le psolme Fundamenta, et enseigna quelque peu de ceste art audit Rebiba » [2]. Cotin raccolse una confidenza di B. e la trascrisse nel suo taccuino, siamo a Parigi, il 21 dicembre del 1585; dunque, secondo quanto riferiva Cotin, B., ancora studente nel convento di San Domenico Maggiore di Napoli, sarebbe partito alla volta di Roma per mostrare a papa Pio V, non il suo naturale talento nell’arte della memoria ma, nientemeno, « sa Mémoire artificielle » e avrebbe insegnato i rudimenti di tale disciplina anche al cardinal Rebiba. Nessun altro testimone, neanche lo stesso B., farà mai riferimento all’episodio, così come narrato da Cotin; eppure l’eccezionalità di un evento del genere avrebbe meritato almeno un memorandum di fronte agli inquisitori e non solo. B. viceversa ci conferma nella Cabala di aver dedicato a papa Pio V l’Arca di Noè, uno dei testi perduti del Nolano, un testo di mnemotecnica : « non stimando a voi presentata da me cosa men degna che abbia possuto presentar a papa Pio quinto : a cui consecrai l’Arca di Noè » [3]. Tale viaggio, secondo Spampanato, che con molti altri studiosi considera attendibile la testimonianza di Cotin, si sarebbe verificato nel 1568, data la coincidenza di un permesso di viaggio redatto a nome di B., cui venivano concesse literae patentales per condursi in provincia Lombardiae [4]. Nel 1568 B. si trovava al suo terzo anno di studi in San Domenico Maggiore, alle prese con la dialettica e con la filosofia della natura di Aristotele ; una tal impresa poteva solo significare che il provinciale dell’Ordine o il reggente dello Studio napoletano avevano sollecitato e incoraggiato tale esibizione coram papae (certo tale incontro non poteva esser nato dall’iniziativa di un giovane professo e tantomeno B. potè incontrare Pio V e il cardinal Scipione Rebiba per caso mentre si recava in  



















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Lombardia) ; significa inoltre che il reggente o altra figura autorevole, si potrebbe dire Ambrogio Salvio, che conosceva papa Ghislieri, aveva consentito a B. l’accesso ai testi sacri in ebraico e soprattutto aveva deciso di affiancarlo a chi conosceva l’ebraico per la lettura e la pronuncia del Salmo ; significa pure che B. nella sua comunità conventuale godeva di tanta stima e fiducia da essere inviato come allievo dotatissimo di fronte al papa ; fatto plausibile ma difficilmente conciliabile con i provvedimenti disciplinari e le intemperanze del giovane frate. Di tal incontro con Pio V, B. non fece menzione nei Costituti; la sua è un’omissione di cui non si può non tener conto, se l’episodio si fosse verificato, così come narrato da Cotin, avrebbe potuto avere implicazioni importanti per la vicenda processuale. Lungi dall’esser motivo di reticenza, l’incontro col papa, doveva semmai essere motivo di legittimo orgoglio e poteva esser di vantaggio molto più dei riferimenti a Enrico III e a Elisabetta I, forniti dall’inquisito nel corso degli interrogatori. Ovviamente, leggendo verbatim la testimonianza di Cotin, dovremo pure situare ai primi anni degli studi conventuali, l’elaborazione del sistema memorativo bruniano, così come era strutturato e noto ai tempi del primo e del secondo soggiorno parigino di B. La presenza di B. coram papae a Roma nel 1568 o comunque prima della morte di Pio V, avvenuta nel 1572, lascia margini di dubbio e si può dubitare senza per questo dover riduttivamente attribuire a B. o a Cotin scarsa affidabilità ; nella circolarità della comunicazione le aspettative, le intenzioni e le proiezioni dei due interlocutori possono aver prodotto più di un misunderstanding. B. era capace di riconoscere nello sguardo del suo confidente inclinazioni, gusti, desiderata e il bibliotecario curioso e attento aspirava a nouvelles da Roma e dall’Italia, più che da Napoli. Non è un caso che dieci anni di vita conventuale napoletana di B. trovarono pochissimo spazio nel diario del monaco parigino, mentre pochi mesi – se davvero di così poco tempo si trattò – a Roma tanta attenzione. È più probabile che B. avesse dimenticato Napoli, o che Cotin fosse desideroso di notizie roma 







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ne ? Parole, soprattutto parole, fu quanto si scambiarono i due. B. non portò in dono per la biblioteca, di cui Cotin era responsabile nell’Abbazia di Saint-Victor a Parigi, i suoi libri a stampa, si limitò a parlargliene : « a fait imprimer en italien et latin plusieurs livres, comme l’Exposition sur Ars Lulli, de 30 sigillis […] » [5], poi tornò coi soli testi di mnemotecnica. Si guardò bene dal sottoporre all’attenzione del canonico agostiniano i dialoghi italiani, pubblicati a Londra, o di donargli il Candelaio. Come vedremo, la Roma narrata da B. e filtrata da Cotin era insieme inquisitoriale e minacciosa, prodiga e ospitale. B. a Roma nel 1576. Ormai quasi trentenne, frate Giordano si recò a Roma dopo il 30 gennaio del 1576 [6], sotto il pontificato di Gregorio XIII. Si era appena concluso l’anno santo, il primo dopo la chiusura del Concilio di Trento e sebbene il papa auspicasse il permanere dello spirito giubilare e rinviasse la chiusura della porta santa, il popolo, le dame e i cavalieri si apprestavano a tornare a feste e balli in occasione del carnevale, che cadeva il 6 di marzo ; sembra ingiustificata l’ipotesi che lo spirito giubilare avesse impedito ai romani e ai forestieri presenti in città semel in anno insanire [7]. Il secondo soggiorno romano di B. viene considerato breve ma denso di avvenimenti ; stando alla valutazione degli studiosi non andò oltre il declinare della primavera dello stesso 1576. Durante quei pochi mesi romani B. scelse l’apostasia e la fuga ; giunse a Roma frate e se ne allontanò apostata ; si tolse la cocolla, vestì abiti civili, riprese il suo nome al secolo, Filippo, e forse a piedi, vista la rapidità con cui dovettero precipitare gli eventi e la scarsità di mezzi di cui poteva disporre, si diresse a nord, verso la Liguria. A Roma B. era giunto da Napoli, diretto al convento dei domenicani di Santa Maria sopra Minerva, lì si era messo sotto la protezione di padre Sisto Fabri da Lucca. Il padre domenicano, come gli altri esponenti autorevoli degli ordini mendicanti, leggeva teologia in ‘Sapienza’, ed era prassi, essendo l’ateneo romano dedicato alla formazione di medici, speziali, notai e avvocati, che disertavano le lezioni di teologia e metafisica, che i maestri della ‘facoltà teologica’, appartenen 















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ti agli ordini mendicanti, conducessero con loro in ‘Sapienza’ i confratelli che risiedevano negli studi generali [8]. Non è dunque peregrino pensare che tra i domenicani che seguirono le lezioni di Sisto Fabri allo Studium Urbis, potesse esserci anche frate Giordano, giunto a Roma per emendarsi ; bastava percorrere poche decine di metri dal convento di Santa Maria sopra Minerva, attraverso quella che oggi si chiama via della Palombella, per raggiungere le aule della ‘Sapienza’ che davano sulla piazza di Sant’Eustachio. Ma non fu solo Sisto Fabri a insegnare nella ‘Sapienza’ romana, tra gli interlocutori di B. che soggiornavano a Roma in quel 1576, va considerato l’antico maestro, il solo che B. riconobbe come tale, l’agostiniano Teofilo da Vairano, che gli aveva insegnato a Napoli la filosofia e che insegnava, con molto successo di pubblico, la metafisica nell’Università dei papi. È da ricordare che è sempre Cotin a registrare nel suo diario che B. considerava Teofilo il suo vero maestro di filosofia e che mentre i due dialogavano nella Parigi della fine del 1585 erano consapevoli che l’agostiniano era ormai morto. Si ritiene che tale notizia l’abbia portata nella conversazione il nostro B., ma è altrettanto plausibile, visto lo scalpore che fece all’interno dell’ordine agostiniano la morte di Teofilo da Vairano che Cotin ne avesse egli stesso contezza. Nei Costituti veneti B. lascia intendere ai suoi interlocutori che la scelta di sottoporsi a un eventuale giudizio o di chiedere una qualche protezione al procuratore dell’Ordine fosse stata autonoma : « Trovandomi in Roma nel convento della Minerva, sotto l’obedienza de maestro Sisto de Luca, procurator dell’ordine, dove era andato a presentarmi, perché a Napoli ero stato processato due volte : prima per haver dato via certe figure ed imagine de’ santi […] Il qual processo fu rinovato, nel tempo che io andai a Roma, con altri articuli ch’io non so » [9]. In Napoli si muovevano contro di lui accuse gravi ed era stato istruito un secondo processo a suo carico : « prima ch’io andasse a Roma l’anno 1576, se ben mi riccordo, et che io deposi l’habito et uscì della religione, il Provinciale fece processo contro di me sopra alcuni  













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articuli, ch’io non so realmente sopra quali articuli, né de che in particular ; se non che me fu detto che si faceva processo contra di me di heresia, nel quale si trattava di questa cosa del novitiato et altro. Per il che dubitando di non esser messo preggione, me partì da Napoli » [10]. Come sappiamo, di tali ‘processi’ napoletani non vennero rinvenuti documenti e se ne parlò solo nella misura in cui lo stesso B. ne aveva fatto cenno, ma vennero utilizzati per emettere una sentenza severissima nei confronti di B., definito eretico relapso. Durante il soggiorno romano, da Napoli giunsero presto notizie di libri e letture eterodosse (san Girolamo nell’edizione erasmiana) e B. a Roma dovette in qualche modo essere coinvolto in un fatto gravissimo, la morte violenta di un confratello. Della permanenza nel convento romano e delle accuse mosse da Napoli abbiamo conferma dai Costituti veneti, del coinvolgimento nella morte di un confratello abbiamo due testimonianze, quella di Guillaume Cotin, che come abbiamo visto, durante il secondo soggiorno parigino di B. (dicembre 1585-febbraio 1586) divenne confidente del filosofo e quella di Giovanni Mocenigo. Cotin riferisce, in brani per noi densissimi, che B. lo aveva messo a parte dei motivi che lo avevano indotto a lasciare l’Ordine e a fuggire da Roma; l’agostiniano aveva preso nota non solo dei sospetti di eresia e dei pericoli paventati da B. ad essa connessi, ma anche della falsa accusa che gli era stata mossa, di aver gettato nel Tevere un confratello, colui che lo aveva denunciato in Sant’Uffizio : « Est fuitif d’Italie jà par hiuct ans, tant pour un meurtre commis par un sien frèfre, dont il est odieux et en péril de sa vie, que pour éviter les calumnies des inquisiteurs, qui sont ignorans, et, ne concevans sa philosophie, le diroyent hérétique » [11]. Il profilo di tale episodio si ‘chiarisce’ meglio nella prima lettera di denuncia scritta da Giovanni Mocenigo; secondo il delatore, B. si sarebbe accanito contro un confratello, che a suo parere lo aveva denunciato in Sant’Uffizio, gettandolo nel Tevere, fiume tristemente famoso per accogliere molti morti di morte violenta ancora ai tempi di Vico : « M’ha detto d’haver havuto  













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altre volte in Roma querelle a l’inquisitione di cento et trenta articuli, et che se ne fugì mentre era presentato, perché fu imputato d’haver gettato in Tevere chi l’accusò, o chi credete lui che l’avesse haccusato a l’inquisitione » [12]. B. dunque mise a parte di questo episodio sia il Cotin a Parigi, sia Mocenigo a Venezia, la convergenza di due testimonianze dovrebbe indurre a ritenere plausibile tale episodio. Ad oggi dalle carte degli archivi romani non è emersa conferma di un fatto di sangue perpetrato nei confronti di un frate domenicano in quel torno di tempo ; chiunque fosse il confratello di B. è poco probabile che facesse parte della comunità conventuale romana, dove B. visse pochissimo, è piuttosto verisimile che fosse un confratello giunto da Napoli, da San Domenico, o con B. o successivamente, per testimoniare in merito agli articoli contestati allo stesso B. Ma torniamo alla testimonianza cruciale di Cotin, la filosofia cui accenna il bibliotecario, quella che gli inquisitori ignoranti (domenicani come l’ex frate Giordano) avrebbero considerato eretica, sembra la filosofia Nolana del 1585, quella che B. si accingeva a presentare al Collegio di Cambrai, con le theses discusse dall’allievo Jean Hennequin e non la filosofia romana del 1576. In quell’anno il nodo cruciale doveva essere di carattere dottrinale, legato a controversie sulla trinità e sull’arianesimo, non a un sistema filosofico, se è vero com’è vero che B., varcate le Alpi, non cercò immediatamente Tolosa per insegnare la filosofia ma rivolse i suoi passi verso Ginevra, verso un’altra confessione religiosa, verso un’altra teocrazia. Passato e presente sembrano dialogare nel diario del bibliotecario di Saint-Victor e anche quella memoria artificiale che B. avrebbe esposto al Rebiba e a papa Pio V, sembra l’ars memoriae elaborata successivamente alla fuga ; dagli appunti di Cotin emerge un passato non remoto (otto anni soltanto da quando B. aveva varcato le Alpi), ma in cui sembra comunque prematuro situare la mnemotecnica bruniana, pubblicata a partire dal De umbris e ancor più una filosofia Nolana, tali da risultare sospette agli inquisitori, ancor prima che fossero vergate su carta. B. percepiva se stesso come un con 





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tinuum e Cotin lo rappresenta in modo sintonico alla narrazione. Ancora Cotin però accenna anche a un altro episodio che riguarda Roma e il soggiorno del 1576, quello del conseguimento del dottorato. B. avrebbe affermato di averlo conseguito a Roma e non a Napoli, in San Domenico Maggiore; tale testimonianza non ha credito presso la critica e tutti ritengono che B. abbia conseguito i gradi accademici a Napoli. Cotin nella sua nota citava verbatim anche le due theses discusse : « Il est docteur en théologie passé à Rome : en ses positions, qu’il mit pour passer docteur, l’une estoit : Verum est quicquid dicit D. Thomas in Summa contra Gentiles ; l’autre : Verum est quicquid dicit Magister sententiarum ». [13]. Come per l’abboccamento con Pio V e Scipione Rebiba, anche questa testimonianza sul dottorato romano è un coupe de théâtre, ma non rappresenta proprio un unicum nelle testimonianze a nostra disposizione. Lo stesso B. in una delle sue tappe della peregrinatio europea si era qualificato come « theologiae doctor Romanensis », così il 25 luglio 1586 si era immatricolato nell’università di Marburg. Romanensis potrebbe essere considerato sinonimo di appartenente alla Chiesa romana, B. poteva aver deciso di presentarsi come teologo cattolico, ma sarebbe una forzatura leggere così la locuzione, soprattutto in quanto B. stava indicando in un registro universitario il suo titolo di studio. Lasciate le vesti di filosofo, a Marburg, B. si presentava come theologus e dichiarava che tale titolo accademico gli era stato conferito a Roma. Laddove non ostino documenti, che registrino l’avvenuto conseguimento a Napoli da parte di B. dei gradi accademici alla fine del ciclo degli studi formali, il lettore deve tener conto anche di queste testimonianze. Nella cronologia della formazione conventuale di B., Michele Miele situa il conseguimento del titolo di lettore nel luglio del 1575 e ci avverte : « la prestigiosa laurea o dottorato in teologia, [...] quindi era cosa ben diversa dal lettorato, semplice licenza per insegnare » [14]. Se B. alla fine del suo percorso di studi teologici (formali) era in una condizione di sospetto e di conflitto con l’istituzione che lo ospitava e  























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lo doveva promuovere, non si può certo escludere che a B. sia stato impedito di accedere alla discussione finale e che il suo cursus studiorum sia stato sospeso per ragioni disciplinari. Theologus Romanensis o Theologus Neapolitanus, B. a Roma, per quanto breve poté essere il soggiorno, poté riabbracciare il suo antico maestro di filosofia, che dopo Napoli e Firenze era approdato a Roma e lì insegnava la metafisica, l’agostiniano Teofilo da Vairano. Sicuramente era stato Teofilo, collega del famoso Marc-Antoine Muret, a raccontare a B. degli emolumenti che a Roma potevano essere elargiti ai letterati dalla munificenza di principi e papi. Teofilo stava insegnando privatamente la filosofia della natura al giovanissimo Ascanio Colonna e, forse malvolentieri, era prossimo a lasciar Roma e la ‘Sapienza’ – dove insegnava amatissimo dagli allievi e la sua Accademia degli Ardenti era stata appena fondata – alla volta della Spagna, al seguito del rampollo dei Colonna, figlio di Marcantonio, l’eroe di Lepanto, uomo al quale era impossibile opporre un rifiuto [15]. Tali ricordi emergono ancora nell’affabulazione con Cotin : Teofilo, Muret, i compensi invidiati, ancora passato e presente che forse si fondevano. A Tolosa B. avrà saputo che del grande umanista era stata bruciata l’effigie ; a Roma dal maestro Teofilo aveva saputo che Muret, anche lui alle dipendenze di Colonna (insegnava al nipote Marzio), percepiva un ottimo compenso : « mais ils gaignent à privément enseigner les enfans des seigneurs, comme Muret avoit du cardinal Columna 3.000 escus de gages pour enseigner son nepveu » [16]. Non era B. che leggeva Roma in maniera ancipite, era Roma che aveva un doppio profilo, severa e austera nelle manifestazioni pubbliche e nel contempo decadente e disincantata [17], se persino il grande umanista, un pedagogo pederasta, fuggito dalla pena capitale in Francia, sfuggito all’ira dei nobili veneziani perché insidiava i loro rampolli, aveva potuto trovarvi riparo con onore. La prigionia e il rogo : 1593-1600. A Roma, frate Giordano tornò in catene il 27 febbraio 1593; qui dopo sette anni di prigionia nelle carceri del Sant’Uffizio, venne degradato da 











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gli ordini religiosi e giustiziato come eretico relapso e impenitente all’alba del 17 febbraio 1600 in Campus Florae. A Roma B. dovette aver guardato durante gli anni dell’esilio ; sicuramente nell’autunno del 1585 – appena rientrato da Londra a Parigi – si era rivolto al nunzio pontificio, Girolamo Ragazzoni, per chiedergli di intercedere presso il papa, Sisto V, e consentirgli il rientro in seno al cattolicesimo : « non solamente ragionai con monsignor Nontio del caso mio, ma soggiongo hora che l’ho pregato et ricercato istantemente che ne scrivesse a Roma a Sua Beatitudine, et impetrarmi gratia che fosse ricevuto nel gremio della Chiesa catholica et che non fosse astretto a ritornar nella religion » [18]. Di nuovo a Roma e a papa Clemente VIII, aveva guardato da Venezia, ancora uomo libero. La liberalità del papa, che nel 1592, aveva chiamato a insegnare la filosofia platonica in ‘Sapienza’ Francesco Patrizi, lo aveva incoraggiato a ben sperare : « Quando il Patritio andò a Roma da Nostro Signore, disse Giordano : “Questo Papa è un galant’huomo perché favorisce i filosofi e posso ancora io sperare d’essere favorito, e so che il Patritio è filosofo, e che non crede niente” » [19]; forse il progetto che aveva custodito durante l’esilio : rientrare in seno al cattolicesimo da letterato e da laico era percorribile. B. affermò nei suoi Costituti di aver parlato persino a un confratello, Domenico da Nocera – che aveva incontrato a Venezia in occasione del capitolo generale dell’Ordine – del suo progetto di dedicare al papa un testo Delle sette arti liberali e di chieder perdono al papa stesso. Il reggente immediatamente interrogato dall’inquisitore confermò quanto affermato da B.: il filosofo aveva in mente di « quetarsi e dare opera a compore un libro che teneva in mente, e quello poi […] appresentarlo a Sua Beatitudine […] e vedere al fine di posserse ristare in Roma, et ivi darsi a l’exercitio licterale e mostrare la sua virtù e di accapare forsi alcuna lectura » [20]. A suo tempo, Sisto V, a detta del nunzio Ragazzoni non sarebbe stato un interlocutore clemente e papa Clemente VIII si sarebbe rivelato particolarmente duro nei confronti del filosofo ; prima l’estradizione a Roma pretesa e ottenuta dal  























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cardinal Santori, poi la chiusura del processo, voluta dal cardinal Bellarmino e papa Aldobrandini si adeguò nel tempo ai desiderata e alle decisioni di entrambi. B. cercò fino alla fine, tramite la redazione dei suoi memoriali, un contatto diretto con il pontefice, che sicuramente riteneva un interlocutore privilegiato, ma inutilmente. Durante gli anni della prigionia romana non vi sono conferme di un interesse dei filosofi e dei letterati romani nei confronti del Nolano, sebbene Roma pullulasse di telesiani, paracelsiani e non mancassero certo aristotelici materialisti tra i medico-fisici della ‘Sapienza’. Ci limitiamo a segnalare un personaggio di eccezione, tra gli stranieri di passaggio a Roma sul declinare del lungo periodo di detenzione di B., il convertito Matthäus Wacker von Wakenfeld. Il consigliere imperiale apprezzava la filosofia della natura di B. e sarebbe stato, proprio in qualità di seguace di B., uno dei protagonisti della Dissertatio cum nuncio sidereo di Kepler (1610) ; in gioventù, prima della conversione al cattolicesimo era stato pure amico di Philip Sidney, entrambi si erano dottorati a Padova, in tempi diversi e avevano intrattenuto rapporti epistolari [21]. In missione diplomatica, affiancato da un intimo amico alla cui conversione aveva fortemente contribuito – Kaspar Schoppe – Wacker era sceso a Ferrara nel 1598, dove aveva incontrato la corte papale e dopo era giunto a Roma, sempre con Schoppe ; quest’ultimo avrebbe accennato all’arrivo a Roma con Wacker in un testo del 1599 : « cum Illustriss. Domino Vvackerio Legato Cesario in Romam veni » [22]. Dalla missiva che all’indomani del rogo Schoppe spedì all’amico lontano emerge l’ultimo frammento di un dialogo, che aveva avuto come protagonista B. È molto probabile che i due abbiano, prima a Ferrara, dove c’era anche Bellarmino – che forse per pura coincidenza, appena rientrato a Roma diede un’accelerazione al processo che languiva portandolo al suo epilogo – e poi a Roma, ragionato sul destino di B. ; Wacker poteva aver chiesto notizie del processo e aver speso qualche parola di pietà sull’autore di cui conservava i testi nella sua collezione libraria e poi, parlando con  











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l’amico, poteva aver auspicato un esito non infausto. Schoppe dal canto suo, malevolo e trionfale come chi ottiene ragione in un pronostico, lo avrebbe avvisato, quando le ceneri del rogo non erano del tutto spente, che Ille Brunus era diventato un atomo, che era stato accolto nella più nobile tra le famiglie degli atomi e che ormai raccontava, nei suoi infiniti mondi, quello che avveniva nel nostro : « Jordanus ille Brunus […] in Atomorum Baronum familiam est adoptatus […] Iam, credo, in mundis illis innumerabilibus et Simonianis nunciabit, quid in hoc nostro rerum geratur ». [23]. Sulla topografia romana della condanna e del supplizio rimando alla descrizione di Eugenio Canone, che accompagna B. attraverso le vie di Roma dalle carceri di Tor di Nona fino in Campo de’ Fiori [24]. 2. Roma nei testi bruniani. –– Le testimonianze finora descritte hanno in parte delineato il polimorfismo romano ; nei testi di B. emerge questa dimensione fluxa, quasi liquida della città, rappresentata ora con registro comico, ora con invettiva potente. La Chiesa romana era una chiesa politica, le carriere ecclesiastiche erano carriere politiche, neanche il monaco più sprovveduto avrebbe potuto ignorare il margine di tolleranza e di arbitrio che si celava dietro il formalismo della Chiesa cattolica. B. ne era consapevole, così come lo era delle molteplici contraddizioni che affliggevano la capitale del cattolicesimo, ma una cosa è il giudizio morale, altra la valutazione dottrinale, B. non riuscì mai ad aderire alle chiese riformate, troppo dura, troppo punitiva l’antropologia agostiniana di Lutero e Calvino, troppo vile la condizione umana, troppo svalutati la riflessione filosofica, la responsabilità e l’agire umano. Alla ricerca di una domus nell’Europa spaccata dalla Riforma che aveva gettato « in disquarto le famiglie, cittadi, repubbliche e regni », barcamenandosi tra calvinisti rigorosi come i ginevrini, cattolici zelanti come Enrico III, anglicani disincantati come Elisabetta I, per non tacere dei luterani tolleranti wittenberghesi, B. costruì testi dal registro comico, polemico, austero, maestoso, precettistico, a seconda dei tempi, dei luoghi, dell’ispira 











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zione, della contingenza e della necessità. In alcuni di questi testi torna la Roma dei papi e dei bordelli, « come fussero claustri di professe ». Ma non citata in solitaria, quando si parla di ‘puttane’ Roma fa il paio con Napoli e Venezia, « ideste in tutta Italia » : tre città simbolo della penisola, le più rappresentative e che B. conosce bene e di cui ha potuto osservare l’umanità che pullulava nelle strade ; così i ladri e i mendichi che affollavano alcuni dei luoghi simbolo delle capitali : « De simili, se ne vuoi a Parigi, ne trovarai quanti ti piace a la porta del Palazzo ; in Napoli, a le grade di San Paolo ; in Venezia, a Rialto ; in Roma, al Campo di Flora ». Com’è noto il riferimento al campo di Flora è stato espunto da B. in una delle due versioni della Cena, e dunque dalla edizione critica di Giovanni Aquilecchia [25]. Un altro riferimento al luogo in cui B. trovò la morte lo troviamo nel famoso passaggio del De monade su Cecco d’Ascoli, condannato al rogo per magia : « Hinc Ciccus Aesculanus […] fuit in patribulum sublatus Romae, in campo Florae » [26]. In realtà il famigerato autore dell’Acerba era stato arso vivo sì e per ordine di un tribunale ecclesiastico ma a Firenze, in un omonimo Campus florae. Come racconta Colucci nelle sue Antichità picene, citando il Mazzucchelli, Cecco d’Ascoli aveva predetto che per evitare la morte doveva evitare due cose « Africo » e « Campo de’ Fiori » ; per questo non usciva quando spirava l’africo e non si recava a Roma dove c’era Campo de’ Fiori. Quando fu condotto al rogo a Firenze era sicuro di scampare dalla morte finché non scoprì che lì vicino scorreva un fiumiciattolo di nome Africo e quel luogo veniva detto anche Campo di Flora e così capì di essere perduto ! In due contesti il cammino tra Roma e Napoli, tra Napoli e Roma è dipinto come pericoloso o come fonte di guai, nel Candelaio è la traversata del Garigliano verso Roma, compiuta dal leone e dall’asino, i quali per non affogare si tengono fin troppo stretti l’uno a l’altro : all’andata soffre l’asino, ma al ritorno soffre il leone e in modo ben peggiore ! Nello Spaccio lo spazio tra Roma e Napoli è descritto come luogo di briganti e terra di nessuno : « Se è tirato da la gola de ca 

















































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daveri, vadasi rimenando per la Campania, o pur per il camino, ch’è tra Roma e Napoli, dove son messi in quarti tanti ladroni: che da passo in passo, di carne fresca gli vengono apparecchiati più spessi e sontuosi banchetti che possa ritrovar in altra parte del mondo » [27]. L’esperienza del viaggio per raggiungere Roma, come filtra da questi passaggi, non doveva esser stata priva di timori e soprattutto non solitaria ; a conferma di tali pericoli duex italiens confidano a Cotin quanto « tout le chemins, entre Rome et Naples» fossero «en péril et danger». Tra i testi di violenta polemica antiromana vi è l’Oratio valedictoria, recitata a Wittenberg l’8 marzo del 1588, dove Leone X era rappresentato come il Cerbero dalle tre teste e Roma come la città infernale circondata dallo Stige, che la avvolgeva per nove volte : « Hîc triplici illa thiara insignem tricipitem illum Cerberum, ex tenebroso eductum orco vidistis vos, et ille solem. Hîc stygius ille canis coactus est aconitum evomere. Hîc vester et vetras Hercules de adamantinis inferni portis, de civitate illa triplici circumdata muro, et quam novies Styx interfusa coërcet, triumphavit » [28]. E ancora nell’Oratio consolatoria, il lupus romanus, il mostro, tornava a delineare il profilo della tirannide papale e a raffigurare la città eterna. Roma era anche tirannide e ignoranza, come non lodare Lutero che l’aveva sbugiardata, l’aveva sconfitta, l’aveva piegata, come non farne un eroe, un Ercole ? Ma di fragilità, di ipocrisie, di criticità, oltreché di asprezze dottrinali ve ne erano anche in terra protestante e B. sembra finisse sempre col rivalutare le miserie della sede petrina. In estrema sintesi potremmo dire che di fronte a quel caleidoscopio di comunità, di mentalità, di lingue, di tradizioni culturali e religiose che si manifestarono a B. tra Ginevra e Francoforte, egli avrebbe preferito – come fece – vivere da eretico in terra cattolica, che vivere da eretico in terra riformata. È per la Roma repubblicana, la Roma di antica virtù e impegno civile che vengono spese parole di lode, la romanità precristiana, quella civiltà lodata da Machiavelli nei Discorsi, simbolo di virtù e di religione ci 













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vile. Anche per B. i Romani costituivano un modello di società civile : « fu tale la lor legge e religione, tali furono gli lor costumi e gesti, tal è stato lor onore e la felicitade » [29]. È superfluo indicare tutte le occorrenze del lemma Roma, si ricorda invece al lettore che è disponibile a stampa, da tempo, la schedatura dei toponimi e non solo, delle opere latine di B. [30].  





Note. [1] L. Carotti, Roma, in G . B. Parole, concetti, immagini, Pisa, 2014, 3 voll., ii, 1668. – [2] Spampanato, Vita, ii, 654-655. – [3] Cabala, oib ii 412. – [4] Spampanato, Vita, i, 610. – [5] Ivi, ii, 650. – [6] Ivi, i, 306. – [7] Cfr. G. Fragnito, Clelia Farnese. Amori, potere, violenza nella Roma della Controriforma, Bologna, 2013, 65. – [8] C. Carella, L’insegnamento della filosofia alla ‘Sapienza’ nel Seicento. Le cattedre e i maestri, Firenze, 2007, 28. – [9] Firpo, Processo, 157. – [10] Ivi, 191. – [11] Spampanato, Vita, ii, 650-651. – [12] Firpo, Processo, 144. – [13] Spampanato, Vita, ii, 651. – [14] M. Miele, L’organizzazione degli studi dei domenicani di Napoli al tempo di G. B., in G. B. gli anni napoletani e la peregrinatio europea, a cura di E. Canone, Cassino, 1992, 29-50 : 37. – [15] C. Carella, Nuovi documenti su Teofilo da Vairano, « Bruniana & Campanelliana », xviii, 2012, 2, 405-419. – [16] Spampanato, Vita, ii, 652-653. – [17] C. Carella, Roma filosofica libertina nicodemita. Scienze e censura in età moderna, Lugano, 2014. – [18] Firpo, Processo, 196-197. – [19] Ivi, 248. – [20] Ivi, 165. – [21] boeuc, Les procès, doc. 71a, 642-643. – [22] K. Schoppe, Epistola de veritate... ad illustrissimum cardinalem Caesarem Baronium, Romae, 1599, 3. – [23] boeuc, Les procès, doc. 71a, 515-521 : 521. – [24] E. Canone, L’editto di proibizione delle opere di B. e Campanella, « Bruniana & Campanelliana », i, 1995, 1/2, 43-61. – [25] Cena, bdi 75. – [26] De monade, mmi 139. – [27] Spaccio, oib ii 394. [28] Orat. valed., bol i,i 21. – [29] Spaccio, oib ii 394. – [30] C. Lefons, Indice dei nomi, dei luoghi e delle cose notevoli nelle opere latine di G. B., Firenze, 1998.  











Bibliografia. K. Schoppe, Epistola de veritate … ad illustrissimum cardinalem Cæsarem Baronium, Romae, 1599 ; M. Miele, L’organizzazione degli studi dei domenicani di Napoli al tempo di G. B., in G. B. gli anni napoletani e la peregrinatio europea, a cura di E. Canone, Cassino, 1992, 29-50 ; E. Canone, L’editto di proibizione delle opere di B. e Campanella, « Bruniana  &  Campanelliana », i, 1995, 1/2, 43-61 ; C. Lefons, Indice dei nomi, dei  









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luoghi e delle cose notevoli nelle opere latine di G. B., Firenze, 1998 ; S. Ricci, G. B. nell’Europa del Cinquecento, Roma, 2000 ; C. Carella, Nuovi documenti su Teofilo da Vairano, « Bruniana & Campanelliana », xviii, 2012, 2, 405-419 ; L. Carotti, Roma, in G . B. Parole, concetti, immagini, direzione scientifica M. Ciliberto, Pisa, 2014, 3 voll., ii, 1668-1669.  









Candida Carella Spaventa, Bertrando 1. Il carattere della filosofia italiana. — Ciò che contraddistingue gli scritti di Spaventa su B. è la ricerca di una nuova e diversa identità della filosofia italiana rispetto a quella fondata sull’idea del primato cattolico di Vincenzo Gioberti o quella del rinnovamento platonizzante di Terenzio Mamiani. L’ispirazione hegeliana lo allontanava dal primo, mentre dal secondo lo separava un orientamento storiografico che inglobava il movimento filosofico contemporaneo. Gli studi spaventiani su B., e la filosofia del Rinascimento in generale, sono costellati da frequenti riferimenti diretti e polemici a Mamiani, con il quale era entrato in contatto una volta giunto a Torino da Napoli dopo la tragica conclusione dell’esperienza del 1848. Mamiani lo aveva invitato nel comitato torinese dell’Accademia di filosofia italica, istituita a Genova nel 1850, con il compito di studiare la storia della filosofia italiana. A quell’epoca Spaventa ha già idee molto chiare sul ruolo della storia della filosofia in generale e sulla necessità di riannodare i fili della cultura italiana con la modernità. Per un verso, la storia non è dossografia o apologetica, ma ricerca di tratti specifici all’interno di un’unità di genere (« la filosofia è l’espressione più elevata della vita d’un popolo, della vita dell’umanità », scrive nel 1851 in vista del suo primo impegno pubblico nell’Accademia) [1] ; per un altro verso, questo carattere specifico di una cultura non lo si può trovare fuori dalla storia stessa. E se Mamiani invitava i giovani a farsi « imitatori di Pittagora primo e antichissimo istitutore della filosofia italica », non  









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tanto per « difondere la sapienza, ma sì unicamente l’amore di lei » [2], Spaventa denuncia questo ripiegamento verso un platonismo di maniera come una fuga all’indietro che, anziché tutelare l’identità italiana da ingerenze straniere (argomento prediletto da Mamiani, e non solo), la condannava a un pericoloso isolamento. B. non è soltanto l’eroe del pensiero e il martire della storia, ma colui che dischiudendo i cieli « comincia la filosofia moderna », come scrive a Pasquale Villari l’11 marzo 1851 [3], e come ribadisce in quasi tutti gli scritti bruniani del periodo torinese. Quasi ogni pagina scritta da Spaventa su B. negli anni di esilio rimanda alla continua polemica con Mamiani e il suo programma di rinnovamento, a cui oppone il proprio modello della circolazione della filosofia italiana che si fonda su un’idea di precorrimento incline a vagliare tanto le corrispondenze teoriche quanto le differenze e i limiti dei singoli pensatori. Spaventa valuta sempre con attenzione, talvolta eccessiva, le incongruenze di B. rispetto agli sviluppi dell’idealismo hegeliano, cosciente com’è del fatto che in filosofia non si può tornare a un’origine, come intendeva fare Mamiani, ma si deve sempre fare i conti con il presente. 2. Origine degli studi su B. — Il 7 maggio 1851 segna l’avvio degli studi bruniani di Spaventa. A questa data infatti risale un testo che, rielaborato, costituirà i Frammenti di studi sulla filosofia italiana del secolo xvi, apparsi nel febbraio 1852 sul « Monitore bibliografico » di Torino. La sera di quello stesso giorno, inoltre, scrive a Giuseppe Del Re : « ho cominciato oggi appunto a stendere il mio lavoro sopra B. » [4], ma in questo caso si riferisce alla memoria Dei princìpi della filosofia pratica di G. B. letta la sera del 21 giugno successivo in una seduta del comitato torinese dell’Accademia di filosofia italica, il cui testo sarà pubblicato nel 1852. Il ritratto di B., attentamente studiato nel tentativo « di penetrare nella [sua] mente », non può essere esposto che con la cornice che meglio ne mette in risalto i lineamenti, vale a dire le idee universali che B. ha saputo immettere nella storia e che non vanno viste « come semplici virtualità, ma come si manifestano nei loro effetti  























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e risultati, cioè come esistono attualmente nella scienza » [5]. Il progetto di uno studio analitico dell’opera bruniana non può che fare corpo unico con il tentativo di intagliare una nuova cornice storica che dia respiro a una visione della filosofia come unità di vita e pensiero, ma che al tempo stesso sia in grado di superare il paradigma culturale dominante. Ma se la data di nascita degli scritti su B. può essere fissata con certezza, meno facile è risalire alle loro origini. Dopo la parentesi a Montecassino del 1839-1840, dove insegnò sostituendo Stefano Cusani, Spaventa trova a Napoli un clima culturale ideale per i suoi studi. Gli incontri più significativi furono quelli con Ottavio Colecchi, conoscitore ed estimatore del pensiero tedesco (da Kant a Hegel), lo stesso Cusani e Stanislao Gatti, hegeliani (come li definisce Spaventa in varie occasioni rievocative), Luigi Blanch, lo storico che aveva vissuto in Austria, Antonio Tari, che avviò Spaventa allo studio del tedesco. Nel « Museo di letteratura e filosofia » animato da Gatti nel 1841-1843 Spaventa poteva rintracciare il nesso Riforma-pensiero moderno e l’idea che il Rinascimento costituisse un processo interrotto, che occorre recuperare e reinserire nella storia. Un programma che animerà il gruppo di giovani hegeliani al quale Bertrando si unì e che fu espressamente formulato anche dal fratello Silvio in prospettiva della questione più generale della coscienza nazionale. Rievocando gli anni napoletani, Bertrando parla di un periodo pieno di speranze, in cui i giovani (lui compreso) erano animati da un « culto, una religione ideale, nella quale si mostravano degli nepoti dell’infelice Nolano » [6]. Il solo slancio ideale non poteva certo bastare ad alimentare l’interesse del giovane Spaventa nei riguardi di B. Occorreva anche attingere ai testi, cosa non sempre facile a quel tempo. Si sa, ad esempio, che Luigi Blanch aveva portato dall’Austria l’edizione Wagner delle Opere italiane, non facilmente reperibile nella Napoli di quegli anni e nella quale si poteva trovare affermato il carattere anticipatore della filosofia di B. rispetto alla logica hegeliana. Silvio Spaventa ebbe in prestito questa edizione e sicuramente finì anche nelle mani del fratello.  









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3. Il programma torinese. — In una lettera a Silvio del 30 giugno 1855, Bertrando rivela che egli ha « cominciato da vero » gli studi filosofici a 33 anni, ossia nel 1850, quando inizia il suo decennio di fuoriuscito a Torino, intendendo dire che i suoi studi cominciano a dare frutti soltanto nel momento in cui è in grado di recuperarne il nesso con lo svolgimento storico e, soprattutto, quando entra effettivamente nelle trame della vita culturale del paese. E questa militanza prende avvio a Torino, dove lo studio storico si alterna all’attività pubblicistica di più spiccato tenore politico. Il programma di riconnettere il pensiero di B. con l’esperienza complessiva della soffocata rivoluzione napoletana e con la questione nazionale in generale sembra attagliarsi alle sue aspettative. Il tema politico dell’unità italiana s’intreccia con quello dell’unità del pensiero filosofico : non serve rivendicare una generica ‘diversità’ della tradizione italiana rispetto agli stranieri, ma occorre costruire una tradizione diversa, rinsaldare i fili che uniscono l’Italia con il resto dell’Europa e non quelli che la differenziano. E questo lavoro segue un programma ben preciso che si presenta come una concreta analisi della filosofia del Rinascimento, non soltanto richiamato come modello, ma riproposto nella sua articolazione interna, soprattutto attraverso l’esame delle opere di Campanella e B. La prima tappa di questo programma è data dagli Studi sopra la filosofia di Hegel del 1850, dove il richiamo a B. è calato in un linguaggio da manifesto culturale che rivendica l’altezza del compito ideale e mette in luce anche altri aspetti che riguardano l’identificazione progressiva di Spaventa con B. Il Nolano non viene presentato soltanto come il martire dimenticato, il vero maestro dei filosofi tedeschi contemporanei, ma a lui ricorre anche per spiegare i fenomeni con cui lo spirito si manifesta tutto ‘complicato’ e tutto ‘esplicato’. Quest’importante scritto dedicato allo studio di Hegel enuncia dunque un preciso impegno personale. Nei Frammenti di studi sulla filosofia italiana del secolo xvi, l’altro manifesto programmatico apparso nel 1852 ma risalente all’anno precedente, il problema cruciale è l’affermazione  





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di una concezione della nazionalità che non sia pura e semplice astrazione formale. B. vi rimane sullo sfondo e viene ricordato soltanto alla fine, assieme a Galilei e Machiavelli, in una pagina vibrante ma priva di risvolto storiografico. L’incongruità è soltanto apparente, perché i Frammenti sono parte di un testo più ampio a cui Spaventa aveva lavorato nel 1851 e la cui seconda parte, rimasta inedita se si eccettua qualche brano che compare nella prefazione ai Principi di filosofia del 1867, focalizzava l’attenzione su B., considerato come l’« espressione del genio italiano » e « uno de’ padri della filosofia moderna ». È qui che Spaventa espone una divisione chiara del lavoro che in seguito riuscirà a compiere soltanto in modo frammentario : l’« esposizione della idea filosofica nella filosofia italiana del secolo decimo sesto ». Questa esposizione prevedeva in particolare l’estrapolazione dalla dottrina di B. di quegli elementi che, « come germi, si sono svolti nella storia della filosofia moderna ». 4. I primi scritti su B. — Il programma di Spaventa è tutto volto a un rinnovamento culturale basato sulla dimensione civile del pensiero di B., in cui la « più profonda speculazione » è unita « al più vivo entusiasmo » e la « più elevata individualità » alla « coscienza dell’essere universale ». In questa commistione risiede quel « coraggio morale italiano » che Spaventa riconosce come eredità bruniana e che con linguaggio bruniano descrive : « se la verità gl’irradia e lo innamora, non vi ha pericolo che non affronti, non vi ha supplizio che non sostenga, perché quella trionfi » [7]. Questa coscienza civile non condurrà Spaventa a un programma politico, ma a una riflessione, maturata lentamente e costantemente, sulla fenomenologia che egli considererà nella versione hegeliana e in quella che riscopre in B. la fonte più pregiata della metafisica. Il primo saggio, Dei principi della filosofia pratica di G. B., pubblicato nel 1852, ma risalente al 1851, è dedicato allo Spaccio, l’opera dalla quale Spaventa estrae le forme della moralità e del diritto seguendo l’ordito del dialogo nel quale il nolano voleva sostituire forme artefatte con « gli numerati e ordinati semi della sua moral filosofia » (bdi ii  















































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552), traendoli dalla coscienza. Da qui muove Spaventa, che sembra cogliere una sottile attinenza fra le forme della coscienza morale bruniana e le Gestalten della fenomenologia dello spirito hegeliana. Ricercare i principi della filosofia pratica di B. vuol dire per Spaventa da un lato denunciare l’estromissione della libertà di pensiero e dell’autonomia della ragione nella storia intellettuale italiana, dall’altro tentare di recuperare il terreno perduto in questo campo. Il metodo da lui proposto e seguito è quello di basarsi sulle idee universali espresse da B. piuttosto che su quelle riferite all’indole dell’uomo, sempre intrecciata con il carattere particolare dell’epoca. B. è il primo filosofo ad aver fondato la morale non sull’autorità esterna o sul sentimento, ma direttamente sulla ragione, vale a dire sulla coscienza stessa dell’uomo in quanto legislatrice. È qui che Spaventa rintraccia la modernità di B., la sua potenza riordinatrice in forza della spinta razionale e soggettiva, che anticipa Descartes. Quella di B. non è però una morale provvisoria, come la cartesiana, perché al contrario ha tutti i caratteri di una coraggiosa dottrina di una moralità assoluta, che si fonda essenzialmente sul principio della verità. Il campo della morale è quello dell’opposizione tra vero e falso, bene e male ; pertanto la legge morale che scaturisce dalla verità non può essere che assoluta e preordinata a qualsiasi aspetto particolare, a qualsiasi spinta corruttiva. La dimensione etico-civile e sociale di questo saggio è particolarmente congeniale ai suoi interessi del tempo, che trovano parziale riscontro negli articoli apparsi sul « Progresso » nel 1851, tutti dominati dalla necessità di mostrare il vincolo necessario fra filosofia e politica. Il secondo saggio dedicato a B. apparso nel decennio torinese è quello sugli Eroici furori : Dell’amore dell’eterno ritorno e del divino di G. B. (1855). All’epoca Spaventa aveva già pubblicato i primi due contributi su Campanella e aveva pertanto raggiunto un punto di vista più articolato sulla collocazione storica dei due filosofi. Il saggio parte dalla consueta polemica nei confronti della filosofia italica che nel rifiutare la ricerca dell’assoluto si vota a un ateismo speculativo che apre la  







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via a un atteggiamento di pura obbedienza passiva. È nella conoscenza di Dio, della ragione e dell’assoluto, che sono una sola cosa, che va cercata la natura specifica di una tradizione italiana di carattere speculativo che B. aveva già individuato nelle sue linee essenziali. I testi di B. vanno spogliati dagli elementi eterogenei per coglierne l’essenziale, ma questa operazione è possibile « senza mutare sostanzialmente il linguaggio e i modi di dire » di B., anzi ricorrendo spesso alle sue stesse parole. Spaventa è tra i pochi ad aver espresso un giudizio positivo sulla lingua bruniana, la cui precipuità e precisione gli parevano incontestabili. Il tema dell’amore del divino è per Spaventa essenziale allo sviluppo della filosofia speculativa, perché cela il pregio più autentico di B., l’aver cioè negata « ogni mediazione esteriore tra l’anima e Dio » [8]. Secondo Spaventa, in questa fase del suo pensiero, la tesi dell’immanenza è il punto di partenza e di approdo di ogni vera filosofia. L’esposizione degli Eroici furori presentata in questo breve studio non è che una schedatura dell’opera bruniana, a partire in particolare dal secondo dialogo della prima parte, vale a dire dal discorso sui contrari. Nell’illustrare l’appetito razionale in contrasto con la concupiscenza e la presenza immanente della « divina luce » che si impone ai sensi e si presenta come oggetto della volontà all’eroico furore, Spaventa si lascia guidare dalle formulazioni di B., senza interromperle mai con commenti o accostamenti, così come avviene invece nelle sue analisi critiche. Su questo metodo di lavoro, nato da un preciso intento di Spaventa, vale la pena osservare che, pur nella sua asciuttezza, mostra come egli non fosse così prevaricatore sugli autori come è sempre stato osservato : una certa capacità di immedesimazione non gli mancava. 5. La monografia su B. — Il saggio sugli Eroici furori non è un semplice scritto d’occasione, ma fa parte di un progetto di edizione dei dialoghi italiani di B. che Spaventa intendeva accompagnare con una monografia autonoma, a cui lavora nel biennio 1853-1854. Prende accordi in questo senso con Felice Lemonnier, a cui invia nel marzo del 1854  













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un piano dell’opera : prevista in tre volumi, i primi due contenenti i dialoghi bruniani con note, correzioni e prefazioni del curatore ; il terzo destinato a un « mio lavoro originale » costituito da un’« esposizione scientifica della filosofia del B. considerata in sé stessa e nelle sue relazioni coi principali sistemi di filosofia anteriori, contemporanei e posteriori che hanno più stretta attinenza con essa » : lo schema tipico degli studi storiografici di Spaventa. Nell’informare Lemonnier delle sue intenzioni, Spaventa si dilunga sulla necessità di dare forma scientifica alle dottrine bruniane, che non si trovano esposte in trattati sistematici, ma che pure costituiscono un tutto organico che ha bisogno soltanto di essere esposto così come oggi farebbe lo stesso B. se « vivesse in questo secolo, e posto che pensasse […] come pensava nel secolo decimosesto » [9]. Ricercare la forma scientifica, dedurla dalla mente stessa di B., significa indagare anche le teorie dei filosofi che lo precedettero (Lullo e Cusano), di quelli che lo seguirono (Leibniz e Schelling fra gli altri) e dei suoi contemporanei (Cesalpino, Cremonini, Zabarella). È interessante notare l’assenza di Spinoza in questo schema sottoposto a Lemonnier, quasi che Spaventa intendesse sviare l’attenzione dell’editore da un nome ingombrante. Di fatto, però, Spinoza era al centro dell’attenzione di Spaventa, come si può constatare dalla mole di appunti e di lavori preparatori redatti nel periodo di elaborazione della monografia progettata. La ricerca dei punti di contatto fra B. e Spinoza – attraverso l’esame della dottrina della sostanza, dell’attributo e dei modi, così come figura nell’Ethica, e posta a confronto con le tesi presenti in De la causa, De l’infinito, De minimo e altri scritti bruniani – è una delle preoccupazioni costanti di Spaventa. Non manca, sul piano programmatico, la costante polemica contro la critica di Mamiani nei confronti di Spinoza. Questo è il nucleo storiografico del lavoro di Spaventa, che non a caso si richiama anche esplicitamente ai famosi Briefe di Friedrich Heinrich Jacobi del 1785 nei quali per la prima volta veniva esplicitato il nesso B.-Spinoza. Da questo precedente Spaventa viene senz’altro attratto, sia  

















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perché Jacobi nella seconda edizione del 1789 aveva aggiunto in appendice un’esposizione del De la causa che forse gli fornì il modello delle presentazioni dei singoli dialoghi, sia perché dei Briefe assunse in un certo modo la forma letteraria, pensando di scrivere la monografia come una sorta di Lettera sulla dottrina di B., anch’essa collocata al centro di una polemica intellettuale in cui si contrappongono il B. « imaginato da Ritter » e il « vero B. » [10]. Il fatto che l’interlocutore di Spaventa fosse il suo amico medico Angelo Camillo De Meis e non Moses Mendelssohn, e che l’occasione venisse da Ritter e non da un Lessing depotenzia in un certo senso questo originale tentativo, che punta tutto sulla grandezza del soggetto discusso : la filosofia bruniana. Spaventa ha ben in mente l’ordito del suo lavoro : la conoscenza di Dio come espressione della conoscenza assoluta, sul cui carattere immanente aveva già fissato l’attenzione negli scritti bruniani precedenti ; la collocazione di B. nell’ambito della filosofia moderna, come anticipatore di Spinoza e dell’idealismo tedesco ; la critica della filosofia nolana in quanto incapace, così come quella spinoziana, di elevarsi fino alla concezione di uno spirito assoluto che affranchi dal naturalismo e dal panteismo in senso stretto. Ciò che manca a questo ordito, e che di fatto decreterà l’abbandono del progetto, è una vera e propria trama attraverso la quale seguire il filo del discorso. Se, infatti, nella prima parte della Lettera Spaventa propone il principio fondamentale della conoscenza di Dio, nella seconda parte ci si trova di fronte a due autori che vogliono entrambi portare B. fuori dal suo ambito : Ritter lo vuole riportare all’indietro, nell’alveo di Cusano ; Spaventa lo vuole spingere in avanti, verso Spinoza e Lullo, ma anche verso Hegel, dal momento che in B. è presente, proprio in forza degli elementi lulliani, un barlume di quella che sarà la dialettica. Il materiale lasciatoci da Spaventa a tale riguardo è meno elaborato, anche se la polemica con lo storico tedesco è condotta con precisione. La terza parte del lavoro, che affronta il tema del rapporto B.-Lullo, è contraddistinta da una continua presa d’atto dei limiti formalistici che l’ars  



















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magna impone anche a B., il quale però, per Spaventa, identificando pensiero ed essere assume una valenza speculativa che lo rende più simile a Hegel. Questa sezione del testo è piuttosto involuta sul piano dell’esame teorico in quanto a Spaventa mancava la possibilità di un confronto esteso sul piano storico e testuale. L’analisi di Lullo infatti s’interrompe per cedere il passo a un confronto fra B. e Spinoza il quale, in senso stretto, non potrebbe trovare collocazione in questa sede, e a cui infatti Spaventa dedica una sezione a parte della Lettera, destinata al tema della coincidenza degli opposti. Del rapporto B.Lullo Spaventa non parlerà più, e il motivo può essere individuato nel fatto che la logica della corrispondenza, secondo la quale ogni cosa è in ogni cosa, finirebbe con l’assorbire e neutralizzare la spinta vicissitudinale che anima la dialettica di B. La conciliazione è un compito per lo stesso B. e non un esito garantito per sempre : alla sfera logica, che in questa fase di schematizzazione del rapporto B.-Lullo Spaventa sembra prediligere, si sostituirà (o per meglio dire, riprenderà la sua originaria collocazione) la sfera fenomenologica. Nel novembre del 1854 Spaventa abbandona il progetto e sui motivi di questa rinuncia si possono avanzare soltanto alcune ipotesi. In una lettera al fratello del 30 giugno 1855 Spaventa dichiara esplicitamente : « quello che ho fatto non mi piace più » [11]. Le principali fonti storiografiche di Spaventa a quell’epoca erano le storie della filosofia di Ritter e di Hegel e con ogni probabilità egli stesso avvertiva quanto questo non potesse bastare per poter realizzare un lavoro originale. Inoltre, una ricostruzione completa del pensiero di B. non poteva reggersi esclusivamente sulle opere italiane (anche se la progettata edizione con Lemonnier prevedeva soltanto i sei dialoghi londinesi), ma richiedeva una più ampia documentazione testuale soprattutto riguardo alle opere latine, specie quando si fosse trattato di approfondire le opere lulliane. A tale riguardo si sa che il fratello Silvio possedeva l’edizione Gfrörer di B. e nel novembre del 1854 si offre di farla recapitare a Bertrando per il tramite di un amico che si trovava a Malta : « dimmi  











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se Cesare può mandarti le opere latine del B., ché te le manderò ». Bertrando si lamenta spesso, in una serie di lettere del 1855, di non aver ancora ricevuto il volume. Dal fratello, nel maggio 1855, incassa anche un’implicita bocciatura del metodo adottato per l’esposizione dei dialoghi italiani : nel saggio De gli eroici furori Silvio vede mancare, a ragione, una « divisione della materia » che aiuti a « rinvenire chiaramente le idee » e gli suggerisce di mettere in evidenza in modo più appropriato i temi fondamentali dell’opera [12]. Venendo a mancare mezzi e modi, Bertrando abbandona definitivamente il lavoro. 6. Gli studi napoletani. — Il rientro a Napoli consente a Spaventa di avviare due processi di consolidamento della propria prospettiva critica : da un lato definire in modo più articolato la teoria della ‘circolazione’ della filosofia italiana, a cui dedica fin da subito la sua attività didattica ; dall’altro mettere ordine negli studi svolti fino ad allora e cercare di dare loro assetto e vita nuovi. La tesi storiografica di Spaventa si era venuta precisando sempre meglio grazie all’intenso studio dell’opera di Gioberti e a una frequentazione costante di Galluppi e Rosmini in diverse occasioni : si tratta di momenti cruciali per completare il quadro ricostruttivo della filosofia italiana moderna. Il lavoro di messa a punto degli studi già pubblicati doveva invece richiedere un’applicazione di tipo diverso, dal momento che l’attività pubblicistica che aveva svolto negli anni torinesi lo aveva costretto a seguire piste e generi letterari del tutto diversi, dalla voce enciclopedica di carattere compilativo alla recensione, alla diatriba, allo studio di stampo accademico. La soluzione che egli adottò fu quella di non sovrapporre allo Spaventa in difficoltà degli anni Cinquanta lo Spaventa professore, fermo ma pacato : scelse di non togliere il sapore storico ai suoi studi precedenti. E così buona parte degli studi su B. che inserì nei Saggi di critica del 1867 risultano semplici ristampe, sebbene in qualche caso l’autore riprese alcune argomentazioni della sua mancata monografia. Alla prima parte di quest’ultima si richiama il contributo più maturo ed esteso di Spaventa, dedicato alla  



















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dottrina della conoscenza, vale a dire al principio ispiratore della filosofia di B. che aveva in mente di svolgere nel lavoro abbandonato. Il saggio, La dottrina della conoscenza di G. B., risale al 1865 ed è preziosa indicazione del modo in cui Spaventa avrebbe potuto risolvere le questioni di metodo lasciate aperte a Torino. Sebbene anche in questo caso lo studio sia costruito sulla scorta della polemica contro Ritter, il modo in cui questa viene svolta riduce la preminenza dello scontro fra interpreti per mettere in rilievo i tratti essenziali e distintivi della filosofia bruniana. L’obiettivo di Spaventa è mostrare che il principio dell’immanenza della verità nell’infinito (che è viva forma della verità) non spinge B. nella direzione né del misticismo né della dotta ignoranza (a cui Ritter lo riduce), ma è affermato da B. in modo esplicito, sebbene non sistematico, ed è anche intimamente congeniale a una concezione che sostiene essere « conveniente e naturale che l’infinito per essere infinito, venga infinitamente perseguitato » (oib ii 585), perché questo è il segno di quell’‘intimità’ di Dio nella coscienza affermato nel celebre passo de La cena de le Ceneri che Spaventa assume come guida costante della sua riflessione su B. : « noi abbiamo dottrina di non cercar la divinità rimossa da noi, se l’abbiamo a presso, anzi di dentro, più che noi medesimi non siamo dentro a noi » (oib i 455-456). A una polemica più diretta e accademica con Ritter è destinato il saggio Il concetto dell’infinità in B. che Spaventa lesse nel 1866 all’Accademia delle scienze morali e politiche di Napoli. Il testo ripropone parti della monografia torinese e il tema dell’infinito è trattato in una triangolazione fra B., Spinoza e Hegel, a cui Spaventa ricorre per chiarire i punti controversi della questione. B. e Spinoza concepiscono l’infinito sulla scorta della comune distinzione fra immaginazione e intelletto : la prima crede di poter dividere la materia all’infinito, mentre è soltanto il secondo che intende la vera natura della sostanza, la vera realtà dell’infinito. Alla monografia su B. appartiene anche un testo che Spaventa stesso data al 1856 e che colloca nei Saggi di critica del 1867. Si tratta dei Saggi sulla filosofia del Mamiani (Critica  











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dell’infinità dell’attributo), che riprendono la polemica a proposito dello spinozismo, ma questa volta giungendo alla conclusione che B., Spinoza e Mamiani la pensano allo stesso modo, tanto che « la dottrina del Mamiani sullo spazio è vera, o almeno è quella stessa di B. e Spinoza, e nondimeno egli l’ha posta con la lodevolissima intenzione di confutare il panteismo di questi due filosofi » [13]. Il procedimento ironico è tipico degli anni torinesi, durante i quali la pratica pubblicistica aveva messo in luce la brillante vena di polemista di Spaventa. L’ultimo scritto su B., la recensione alla prima edizione della Vita di G. B da Nola di Domenico Berti, risveglia questa vena combattiva, di cui lo stesso Berti era già stato oggetto a Torino. La recensione era destinata inizialmente alla « Nuova antologia » di Firenze, ma la direzione decise di non pubblicarla perché ostile a un’opera che era apparsa a puntate sulla rivista nel 1867. Questo ‘incidente’ culturale fece sì che si accelerassero i tempi per la realizzazione di una rivista napoletana che, a dire di Spaventa, doveva mostrare identità intellettuale, coerenza ideale, garanzia di libertà di stampa e autonomia dai circoli accademici. Il « Giornale napoletano di filosofia e lettere » nasce nel 1872 e si apre proprio con la recensione del volume di Berti, nel quale Spaventa scorge fin da subito il nucleo problematico, quello della collocazione di B. all’interno del solco storico della modernità. Berti si mostra incerto nel giudicare le colpe dei carnefici di B., mentre è pronto nel prendere le distanze dalla filosofia del condannato, e questa incertezza ingenera il sospetto che egli non si sia voluto elevare, da storico, al di sopra di un giudizio condizionato dalla presunta superiorità morale del cristianesimo rispetto alle correnti metafisiche moderne : brunismo, spinozismo, kantismo, hegelismo. Spaventa mette duramente in luce la subalternità intellettuale e ideologica degli italiani che, a distanza di vent’anni, continuano a sostenere il ‘primato’ di Gioberti e Rosmini sulla filosofia tedesca, con l’unica differenza di essersi nel frattempo lasciati persuadere dal positivismo. Intorno al « Giornale napoletano di filosofia e lettere » si ritrovarono i cura 

















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tori dell’edizione delle opere latine di B. che prenderà avvio di lì a qualche anno, nel 1879. Spaventa vi viene appena ricordato da Francesco Fiorentino per i suoi studi su B., ma non per aver dato impulso, anche attraverso l’insegnamento universitario, a una rinascita su basi storiografiche nuove e più appropriate della filosofia nolana. Merito, questo, che Fiorentino riconosce soltanto a Francesco De Sanctis, a cui indirizza la lettera che accompagna il primo volume ; così si potrebbe dire che la fortuna di B. in Italia si apre con la lettera mancata di Spaventa e si chiude con la lettera dedicatoria di Fiorentino. Gli anni napoletani di Spaventa sono quelli in cui B. diventa oggetto di una costante attività didattica che assorbe buona parte delle sue energie e che si riflette anche in alcune testimonianze autobiografiche di quel periodo. B. è al centro dell’elaborazione della teoria della circolazione come emerge dalla celebre Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli pubblicata nel 1862. La prima lezione si apre con la citazione del passo della Cena de le Ceneri in cui si parla del rinnovamento della filosofia antica (boi i 461-462), e nel nome del riscatto di B. l’intera storia del nesso del pensiero italiano con quello europeo viene sviluppata, dal momento che il destino del Nolano è segno stesso di questo nesso : sottoposto all’anatema perdurante in patria, « vendicato da un pezzo » dagli stranieri, i quali « sono verso i nostri filosofi più giusti e generosi che noi non siamo verso di loro ». La possibilità di riannodare B. alla corrente della filosofia moderna è data dall’esplicazione degli elementi con cui egli anticipa Spinoza, e nella quinta lezione Spaventa opera questo allineamento analizzando i concetti di sostanza, di Dio, di effetto infinito, di modo. B. introduce l’idea di una causa infinita, dell’immanenza del divino, sebbene poi non esca da una concezione naturalistica e non possa ricostruire il processo di riconduzione dell’effetto alla causa, anche se ne prospetta la possibilità « negli Eroici furori, che sono appunto la liberazione dell’anima e la sua elevazione e unione con Dio » [14]. Dopo avere destinato buona parte delle sue risorse a smussare le resistenze della cul 















tura filosofica italiana verso gli stranieri e a risvegliare l’interesse per B. e il Rinascimento, negli ultimi anni della sua vita Spaventa si spende per contrastare con forza l’avanzata del positivismo e per dissuadere gli italiani dall’inseguire modelli stranieri. In questo diverso e mutato clima, non ci sono più margini per un impegno pubblico a favore di B., al quale ormai si è deciso di elevare un monumento ; nel comitato promotore di questa iniziativa figurano Mamiani e Augusto Vera, ma non Spaventa, deceduto nel 1883.  

Note. [1] B. Spaventa, Lettera sulla dottrina di B., a cura di M. Rascaglia e A. Savorelli, Napoli, 2000, 211. – [2] T. Mamiani, Nuovo discorso proemiale letto nell’Accademia di filosofia Italica il dì 9 di novembre 1851, Genova, 1852, 3. – [3] B. Spaventa, Epistolario, i, a cura di M. Rascaglia, Roma, 1995, 98. – [4] Ivi, 100. – [5] Idem, Scritti sul Rinascimento, a cura di G. Landolfi Petrone, Pisa-Roma, 2011, 134-135. – [6] Idem, Studi sopra la filosofia di Hegel, in Quattro articoli sulla filosofia tedesca (Kant, Fichte, Schelling, Hegel), a cura di G. Landolfi Petrone, Saonara, 2015, 224. – [7] Cfr. Idem, Lettera sulla dottrina di B., 215-216. – [8] Idem, Scritti sul Rinascimento, 161. – [9] Idem, Epistolario, 124-125. – [10] Cfr. Idem, Lettera sulla dottrina di B., 63. – [11] Idem, Epistolario, 154. – [12] Per questa e la precedente citazione, cfr. S. Spaventa, Dal 1848 al 1862. Lettere, scritti, documenti, a cura di B. Croce, Bari, 19232, 178. – [13] B. Spaventa, Scritti sul Rinascimento, 297. – [14] Idem, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a cura di A. Savorelli, Roma, 2003, 82. Bibliografia. V. Laureani, G. B. e Bertrando Spaventa, Lanciano, 1888 ; F. Alderisio, Un articolo inedito di B. Spaventa circa l’unità organica della filosofia di B. e circa l’attinenza di questa con la filosofia di Spinoza, « Giornale critico della filosofia italiana », 1966, 218-225 ; G. Cacciatore, Note sulla ricezione di G. B. nella filosofia italiana della seconda metà dell’Ottocento, « Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli », xvi, 1984, 295-313 ; A. Savorelli, B. ‘lulliano’ nell’idealismo italiano dell’Ottocento (con un inedito di Bertrando Spaventa), « Giornale critico della filosofia italiana », 1989, 45-77 ; M. Rascaglia, B. nell’epistolario e nei manoscritti di Bertrando Spaventa, in Brunus redivivus. Momenti della fortuna di G. B. nel xix secolo, a cura di E. Canone, Pisa-Roma, 1998, 105-147 ; F. Tessitore, L’idea del Rinascimento nella cultura  





















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idealistica italiana, in Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma, 2002, 216-246.

Giuseppe Landolfi Petrone Tansillo, Luigi Il poeta Luigi Tansillo (Venosa, 1510-Teano, 1568) è l’interlocutore principale dei cinque dialoghi della prima parte degli Eroici Furori, dove intreccia un serrato dialogo con un tale Cicada, che potrebbe essere identificato con Odoardo Cicala, barone di Angri, capitano di galee al servizio di Filippo II, re di Spagna e, come lo stesso Tansillo, coe­taneo del padre di B. [1]. Benché nato a Venosa, Tansillo si considerava nolano a tutti gli effetti (« L’una [città] origin mi diè, l’altra la cuna » [2]) : a Nola aveva infatti trascorso la sua gioventù e a Nola tornava spesso anche da adulto. Pur essendo un autore molto apprezzato nel suo tempo, anche in Spagna, attende ancora un’edizione moderna aggiornata della sua voluminosa e variegata opera letteraria. 1. Vita. — Nato nel 1510 da una famiglia agiata di Nola (la nascita a Venosa risale forse al desiderio della madre, la venosana Laura Cappellana, di partorire in casa), si trasferì a Napoli nel 1532 per prestare servizio alla corte del vicerè don Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga [3]. Nel 1535 fu assunto nel prestigioso reggimento dei continui, le guardie personali vicereali, servendo con il poeta Garcilaso de la Vega i due figli del Toledo, Federigo e García, quest’ultimo (García Álvarez de Toledo y Osorio, quarto marchese di Villafranca) confermato come capitano generale della flotta napoletana dal 1535 in poi. Da continuo, Tansillo partecipò alle missioni militari e diplomatiche del viceré e del figlio don García fino al 1553, viaggiando e combattendo Turchi e pirati dalle galee napoletane. Allo stesso tempo l’uomo d’armi lavorava come poeta di corte, stilando eleganti versi occasionali, che lo portarono agli onori di ammissione all’Accademia fiorentina degli Umidi nel 1540. Nel 1551 sposò, felicemente, Luisa Puccio da Teano, con la quale generò  





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cinque figli [4]. La morte del Toledo nel 1553 rese la sua vita molto più incerta ; conservava il suo status di continuo al servizio di Fernando Álvarez de Toledo y Pimentel, terzo duca di Alba e viceré dal 1556 al 1568, senza però intrecciare un rapporto soddisfacente con il guerriero spietato che più tardi, da governatore della Fiandra, avrebbe guadagnato il titolo di ‘Duca di Ferro’. Mentre partecipava a missioni militari e svolgeva una serie di incarichi amministrativi nel Regno come capitano di giustizia, il poeta continuava a cercare mecenati al di fuori della famiglia Toledo. Le informazioni risalenti agli ultimi anni della sua vita, scarsissime, riguardano le revisioni poste al testo dell’antologia incompiuta Lagrime di San Pietro. Morì nel 1568 a Teano, città natia della moglie, e fu sepolto nella chiesa della Santissima Annunziata [5]. 2. Opere. — Tansillo stilò la sua prima opera verso il 1527 : l’egloga drammatica I due pellegrini. Nel 1532 seguirono le 160 stanze erotiche in ottava rima de Il Vendemmiatore, dedicate al musicista Jacopo Carafa, nobile napoletano, e basate sull’usanza contadina di scambiare versetti scabrosi all’inizio della vendemmia. Quest’ultimo ‘poemetto’, stampato in diverse edizioni ‘pirata’ sotto il titolo Stanze di coltura sopra gli orti delle donne, gli guadagnò un posto nel primo Index librorum prohibitorum nel 1549, rendendo difficile la futura pubblicazione delle sue composizioni più impegnative [6]. Un libro di Versi a Bernardino Martirano, dedicato al letterato napoletano che serviva il Toledo come segretario di Stato, risale al 1540, anno dell’ammissione del Tansillo alla nuovissima Accademia degli Umidi di Firenze, la futura Accademia Fiorentina. Durante il suo servizio come poe­ta di corte del viceré don Pedro de Toledo, e certamente prima del 1546, strinse rapporti di amicizia con don Gonzalo Fernández de Córdoba, terzo duca di Sessa, al quale dedicò due sequenze liriche conservate in manoscritti datati 1546 e 1550. I Sonetti per la presa d’Africa, l’unica sequenza poetica edita a stampa durante la sua vita, furono pubblicati a Napoli nel 1551, un anno dopo la conquista della fortezza di Mahdia, sulle coste dell’odierna Tunisia, da parte di Andrea Doria e  



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García de Toledo, spedizione alla quale Tansillo aveva partecipato personalmente [7]. Nel 1555 dedicò una collezione di versi a Ruy Gómez da Silva, duca di Eboli, consigliere di Filippo II di Spagna e acerrimo rivale della famiglia Toledo, verosimilmente nella speranza di trovare un mecenate più soddisfacente del Córdoba. L’antologia religiosa Lagrime di San Pietro, iniziata nel 1539 e rielaborata dal 1559 in poi nella speranza che venisse revocata la condanna all’Indice, rimase incompiuta al momento della sua morte e fu pubblicata solo nel 1585 [8]. Le composizioni occasionali di Tansillo rispecchiano gli eventi della sua vita in tutta la loro varietà : secondo il Sicanicarum rerum compendium dell’astronomo messinese Francesco Maurolico (1553-1555), scrisse una commedia, « quasi egloga pastorale », messa in scena dopo il Natale del 1539, durante una festa tenuta a Messina da don García per corteggiare una nobildonna locale, donna Antonia Cardona [9]. Il testo, non pervenuto, è spesso identificato, senza evidenza, con il titolo Tirsi ; potrebbe trattarsi invece, come propongono gli editori dell’edizione livornese di Tommaso Masi del 1782, dei Due pellegrini [10]. Nel 1547 indirizzò al viceré la poesia Clorida, un elegante invito a visitare la zona napoletana di Chiaia. Nel 1552, la grave malattia della moglie dopo il parto del secondo figlio gli ispirò la poesia didattica La balia, nella quale incoraggiava le madri ad allattare i propri figli. Il podere del 1560 è una poesia a tema agricolo ispirata alle Georgiche virgiliane e al De Re Rustica di Columella, nonché dal piacere di coltivare quel che in una lettera all’amico Antonio Scarampi, vescovo di Nola [11], l’autore definisce il suo « poderetto ». Un manoscritto del primo Seicento, rinvenuto dallo studioso Erasmo Pércopo nel primo Novecento, contiene un altro Canzoniere di argomento biografico, che narra l’amore impossibile per Laura (potrebbe trattarsi della nobildonna sposata Maria d’Aragona d’Avalos, o della sua dama di compagnia Laura Monforte), e il matrimonio con Luisa Puccio [12]. Tre commedie pubblicate sotto il suo nome da Giorgio Greco nel 1601, Il cavallerizzo, Il sofista, e Il finto, sono invece opere di Pietro Aretino. Versi di  











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Tansillo apparivano spesso nelle antologie contemporanee di poesia ; inoltre l’autore godeva di una straordinaria popolarità fra i musicisti del tempo ; tra i compositori che hanno musicato le sue liriche si contano Jacquet de Berchem, Giovanni Tommaso Benedictis di Pascarola, e Orlando di Lasso [13]. Fra i suoi ammiratori, a parte B., figurano Torquato Tasso, Benedetto Varchi, Annibale Caro, Tommaso Stigliani, Scipione Ammirato, e Miguel de Cervantes. La sua reputazione moderna ha risentito, fin troppo, della caratterizzazione approssimativa di Benedetto Croce, che lo etichettò come « discorsivo » autore di sonetti e canzoni d’amore « alquanto freddi » [14], nonché da un certo disprezzo critico per i generi cortigiani e occasionali, e dalla tendenza generale degli studiosi italianisti a sottovalutare il contributo al patrimonio linguistico di scrittori meridionali: un fenomeno ben evidente peraltro nel confronto fra la ricezione di B. e quella di Galileo Galilei. Secondo la tradizione petrarchesca, Tansillo tendeva a concepire e presentare i suoi versi come parti integranti di estese sequenze poetiche, di canzonieri. Nel suo caso particolare prestava il presunto arco narrativo biografico a scopi filosofici e spirituali di stampo neoplatonico, seguendo una tendenza già presente nella letteratura napoletana a partire da Pontano e Sannazaro [15]. Così l’impegno filosofico dimostrato dal personaggio negli Eroici Furori si pone in una linea di sviluppo coerente con la ricerca già iniziata dall’autore stesso. 3. Influenze su B. e ruolo negli Eroici furori. — Tansillo appare per la prima volta nell’opera di B. nella Cena de le Ceneri (boeuc ii 51) e poi nello Spaccio (boeuc v 339, 365). Echi della sua poesia, da citazioni dirette a risonanze stilistiche e tematiche, sono percepibili in maniera diffusa nelle opere volgari del Nolano, vista l’importanza dello scrittore nella formazione letteraria e filosofica di B. I passaggi osceni del Candelaio, per esempio, ricordano quelli del Vendemmiatore. Tuttavia, la presenza più significativa è senza dubbio quella riscontrabile negli Eroici furori, dove Tansillo figura come interlocutore chiave dei cinque dialoghi della prima parte. Sia Tan 











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sillo sia Cicada sono personaggi che appartengono alla generazione di Giovanni Bruno, padre del Nolano, e figurano addirittura come amici di quest’ultimo. Per la sua mae­ stria stilistica legata all’impegno filosofico, manifesto anche nell’attenta osservazione di una natura aspra e selvatica, Tansillo funge da modello letterario e comportamentale dell’autore stesso. A lui spetta l’elaborazione del percorso interno – da amante distratto a ‘furioso eroico’ – dell’aspirante filosofo, percorso illustrato tramite l’analisi di una serie di sonetti, quattro dei quali prestati direttamente dalle raccolte poetiche di Tansillo : due nel secondo dialogo (« Cara, soave et onorata piaga », boeuc vii 81 ; « O d’invidia et amor figlia sì ria », ivi, 83), e due nel terzo (« D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio », ivi, 127 ; « Poi che spiegat’ho gli ali al bel desio », ivi, 143), seguiti da sonetti esplicitamente attribuiti al Nolano per enfatizzare la continuità di stile e pensiero. Tanti sono i versi di B. creati nello stile di Tansillo, spesso ispirati a temi già affrontati dal poeta, come l’apostrofe alle rupi del primo cieco nel quinto dialogo della seconda parte (ivi, 481), che richiama il famoso sonetto rivolto da Tansillo al paesaggio dei Campi Flegrei (« Strane rupi, aspre monti »). Il secondo dialogo della prima parte (ivi, 99) descrive una cena a casa di « Gioan Bruno, padre del nolano », suggerendo l’esistenza di un’amicizia stretta, altrimenti senza testimonianze e tuttavia verosimile, fra i due militari nolani al servizio del governo spagnolo. Nella seconda parte degli Eroici furori, cambiano gli interlocutori e l’enfasi dell’argomento, passando dallo sviluppo interiore e la crescente autodisciplina del Furioso all’effetto esercitato sul mondo circostante, culmina nel racconto dei nove ciechi e della loro illuminazione finale. In questa traiettoria, Tansillo può essere interpretato, alla stregua della figura di Socrate nel Simposio di Platone, come una figura paterna che ha guidato il filosofo/Furioso nella fase iniziale del suo percorso, ma poi, come il compagno del « passar solitario » del quarto dialogo della prima parte (ivi, 161), o la madre dello stesso dialogo, che deve lasciare volare via i suoi pulcini (ivi, 181), e come i genitori dello  

































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stesso Nolano, ha dovuto, amorevolmente, cedere il passo alla nuova generazione. Note. [1] Spampanato, Vita, 64-65. – [2] G. Remondini, Della nolana ecclesiastica storia, iii, Napoli, 1756, 240. – [3] E. Milburn, Luigi Tansillo and Lyric Poetry in Sixteenth-century Naples, mhra Texts and Dissertations, lvii, Leeds, 2003, 2-34. – [4] S. Volpicella, Vita di Luigi Tansillo, in Capitoli Giocosi e Satirici di Luigi Tansillo editi ed inediti, con note a cura di S. Volpicella, Napoli 1870, ix. – [5] Ivi, x. – [6] Ibidem. – [7] R. Pestarino, Lirica “narrativa” : i Sonetti per la presa d’Africa di Luigi Tansillo, « Critica letteraria », cliii, 2011, 693-723. – [8] Le Lagrime di San Pietro del Signor Luigi Tansillo da Nola mandate in luce da Giovan Battista Attendolo da Capua, Vico Equense, 1585. – [9] Remondini, Della nolana ecclesiastica storia, 245. – [10] Ivi, 246247, seguito da C. Boccia nella bibliografia redatta per Cinquecento plurale, http ://www.nuovorinascimento.org/cinquecento/tansillo.pdf. – [11] La Balia, poemetto di Luigi Tansillo pubblicato ora per la prima volta con annotazioni da G.A. Ranza, Vercelli, 1767, vii. – [12] L. Tansillo, Il canzoniere edito e inedito..., 2 voll., i : Poesie amorose, pastorali e pescatorie, personali, famigliari e religiose, a cura di E. Pèrcopo (rist. anast. dell’ed. Napoli, 1926) ; ii : Poesie eroiche ed encomiastiche, ed. dalle carte autografe di E. Pèrcopo, a cura di T.R. Toscano, Napoli, 1996. – [13] Milburn, Tansillo, 15-16. – [14] B. Croce, M. Sansone, La letteratura italiana : dal Duecento al Cinquecento, Bari, 1967, 349, cit. da Milburn, Tansillo, 19. – [15] Milburn, Tansillo, 20 ; I.D. Rowland, G. B., Philosopher/Heretic, New York, 2008, 45-52.  

















Bibliografia. L. Tansillo, Poesie liriche edite ed inedite di Luigi Tansillo, con prefazione e note di F. Fiorentino, Napoli, 1882 ; Idem, Il canzoniere edito e inedito..., 2 voll. ; i : Poesie amorose, pastorali e pescatorie, personali, famigliari e religiose, a cura di E. Pèrcopo (rist. anast. dell’ed. Napoli, 1926) ; ii : Poesie eroiche ed encomiastiche, ed. dalle carte autografe di E. Pèrcopo, a cura di T.R. Toscano, Napoli, 1996 ; C. Rubino, Tansilliana : la vita, le poesie e le opere di Luigi Tansillo, Napoli, 1997 ; T.R. Toscano, Luigi Tansillo e Nola, Nola e Luigi Tansillo, « Atti del Circolo culturale B. G. Duns Scoto di Roccarainola », nn. 21-22, dicembre 1996 (ma 1997), 85-111 ; poi in Nola fuori di Nola. Itinerari italiani ed europei di alcuni nolani illustri, a cura di T.R. Toscano, Castellammare di Stabia, 2001, 91-118 ; E. Milburn, Luigi Tansillo and Lyric Poetry in Sixteenth-century Naples, mhra Texts and  























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Dissertations, lvii, Leeds, 2003 ; M.C. Pastore Passaro, Luigi Tansillo, in Encyclopedia of Italian Literary Studies, ed. by G. Marrone et alii, New York and London, 2007, 1822-1823 ; L. Tansillo, Capitoli giocosi e satirici, a cura di C. Boccia e T. R. Toscano, Nola, 2010 ; C. Boccia, Bibliografia di Luigi Tansillo, in Cinquecento plurale, http :// www.nuovorinascimento.org/cinquecento/tansillo.pdf (consultato il 5 agosto 2016).  







altra lingua. I Briefe trovano infatti un terreno assai fecondo nelle discussioni relative al panteismo (↗ panteismo) che in quegli anni erano al centro del dibattito filosofico-letterario in Germania. Muovendo da un approccio radicalmente critico nei confronti del panteismo, nell’introduzione all’appendice Jacobi dichiara di voler dare ai lettori un’idea esaustiva della « filosofia dello hen kai pan » [2], il cui maggior esponente identificava, come buona parte dei contemporanei, con Spinoza. Nella sua battaglia contro l’idea di un dio impersonale e di una natura deificata, Jacobi vede infatti in B. – sulla scia di alcune interpretazioni sei- e settecentesche – [3], un precursore di Spinoza ; l’epitome del De la causa ha perciò l’intento di dimostrare come il panteismo porti necessariamente alla negazione del dio personale cristiano e, quindi, all’ateismo [4]. Nel tentativo di dimostrare questa ipotesi, Jacobi presenta un’attenta parafrasi del testo, trascurandone però la disposizione dialogica e tralasciando la Proemiale epistola, le poesie e l’intero primo dialogo, tutte quelle sezioni dell’opera, insomma, che avrebbero potuto distogliere l’attenzione del lettore dall’aspetto più compiutamente speculativo del dialogo. In questa forma ‘ottimizzata’, la versione di Jacobi condiziona profondamente la ricezione ottocentesca della filosofia di B. in Germania (ma di fatto anche in Italia), segnata da una decisa centralità del De la causa nell’interpretazione del pensiero bruniano [5]. Fondamentale nel processo di diffusione della ‘nolana filosofia’ è anche il contributo di Johann Gottlieb Buhle il quale, fondandosi proprio sull’estratto di Jacobi, mette l’accento sui punti di contatto tra B. e l’idealismo tedesco, dando origine a una interpretazione che avrebbe avuto un rilievo decisivo nel dibattito contemporaneo [6]. Il compendio di Jacobi non era tuttavia l’unica fonte disponibile per i lettori tedeschi : è noto, per esempio, che Goethe e Hegel ebbero accesso diretto a diversi testi bruniani [7], mentre secondo alcuni studiosi Schelling, nella redazione del suo Bruno, molto probabilmente si fondò soltanto sulla sintesi di Jacobi [8]. Come si è accennato, nel suo estratto Jacobi aveva seguito l’ordine argomentativo  

Ingrid D. Rowland

traduzioni tedesche 1. Le prime traduzioni. Da Jacobi a Lasson. — Nei due secoli che seguono la sua morte, l’opera di B. è conosciuta soprattutto per talune esposizioni in repertori eruditi e manuali di storia della filosofia, mentre la conoscenza diretta dei testi originali rimane limitata, anche a causa della loro difficile reperibilità : le rare edizioni cinquecentesche erano per lo più conservate in collezioni private, mentre in alcune biblioteche pubbliche vigeva ancora il divieto di lettura. Nella seconda metà del Settecento, maggiori informazioni e un più agevole accesso ai testi del passato alimentano un crescente interesse dei lettori tedeschi per la filosofia di B., fra questi spiccano Johann Georg Hamann e Johann Wolfgang Goethe [1]. Solo con la pubblicazione di Ueber die Lehre des Spinoza, in Briefen di Fried­ rich Heinrich Jacobi il nome di B. diventa noto a un pubblico più vasto. Nell’appendice alla seconda edizione del volume (1789), Jacobi propone un’epitome del De la causa che suscita il vivo interesse dei contemporanei e che può essere indicata come il punto di partenza dell’interesse della cultura tedesca nei confronti dell’opera del filosofo nolano. Il successo dello scritto di Jacobi dimostra come una traduzione riuscita sia più che la mera riproduzione di enunciati in una lingua diversa da quella originale : affinché un testo, che si riferisce a una diversa tradizione linguistico-intellettuale e a secoli precedenti, possa essere effettivamente compreso e assimilato, è necessaria una traslatio che inserisca l’opera nell’ambiente culturale dei lettori di  









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del testo bruniano senza rispettarne però la forma dialogica ; i due editori dell’antologia stampata nel 1824 con il titolo Leben und Lehr­ meinungen berühmter Physiker am Ende des 16. und am Anfange des 17. Jahrhunderts, Thaddäus Anselm Rixner e Thaddäus Siber, traducono invece il De la causa e l’Infinito conservandone la struttura originale. Nonostante Rixner e Siber abbiano il merito di presentare – insieme a notizie biografiche e testimonianze più o meno recenti sul filosofo – le prime traduzioni quasi complete dei due dialoghi bruniani, la loro versione è stata spesso duramente criticata e ritenuta fitta di errori [9]. Uno dei primi traduttori a misurarsi con il latino di B. è invece Johann Friedrich Heinrich Schlosser, che nel 1810 pubblica la traduzione di 138 versi del De triplici minimo imitandone l’esametro latino, anche se in una versione che risulta poco fruibile e inadatta a facilitare la comprensione del testo [10]. Un’antologia di versi è proposta invece da Matthias Koch, professore presso il Ginnasio comunale di Stolp (oggi Słup, in Pomerania), che traduce quaranta sonetti tratti per la maggior parte dagli Eroici furori [11]. Nella sua introduzione, Koch attribui­ sce uno straordinario talento lirico a B. e dichiara che i suoi sonetti sono fra i migliori esempi di questo genere poetico (« Er hat eine Reihe von Sonetten hinterlassen, die ihrer hochpoetischen Haltung wegen zu dem Besten zu zählen sind, was wir in dieser Gattung überhaupt besitzen ») [12]. Tuttavia nella sua traduzione Koch modifica la forma metrica dei componimenti, che nell’originale seguono il modello dei sonetti burleschi (4+4+4+2 versi), anziché la forma canonica di due quartetti e due terzetti [13]. Questa traduzione non sfuggì ad Adolf Lasson, che la definì « eine meist gelungene Uebersetzung » [14]. Si deve proprio a Lasson, specialista di filosofia del diritto e autore di un importante volume su Meister Eckhart [15], la prima traduzione tedesca veramente apprezzabile del De la causa, apparsa nel 1872 sotto il titolo Von der Ursache, dem Princip und dem Einen, come numero 53 della prestigiosa Philosophische Bibliothek, diretta da Julius Hermann von Kirchmann, che ne era stato  









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anche il fondatore. Il programma di questa collana prevedeva edizioni scientificamente rigorose di testi cardine della storia della filosofia ; Lasson vi contribuì con una traduzione precisa, arricchita di annotazioni volte a restituire il contesto storico e filosofico del testo. Questa edizione, basata sul testo messo a punto da Wagner [16], mostrò in modo evidente come la filosofia di B. godesse ormai di un’attenzione che poteva finalmente prescindere dal dibattito sullo spinozismo. Lasson metteva l’accento sull’importanza dell’elemento poetico, sostenendo che proprio attraverso il linguaggio della poesia B. aveva inteso « purificare gli animi dei lettori, colmandoli di entusiasmo » [17]. Riconoscendo il valore della forma linguistica del dialogo, Lasson non poteva tralasciare i componimenti poetici e la struttura retorico-poetica dell’opera, ma presentava ai lettori un testo quasi completo, anche se privo della Proemiale epistola e leggermente abbreviato in qualche passaggio. La traduzione fu varie volte ristampata : la prima nel 1902, con poche modifiche ; quindi nel 1923 e nel 1977, in quest’ultimo caso curata da Paul Richard Blum, con un’introduzione di Werner Beierwaltes e note dello stesso Blum, che vi aggiunse anche una versione della Proemiale epistola. È importante sottolineare come con la traduzione messa a punto da Lasson si superi in qualche modo anche una delle difficoltà maggiori dei primi traduttori delle opere bruniane, quella data dalla singolare struttura dei testi del filosofo, caratterizzati dall’insolita commistione di finzione letteraria e riflessione filosofica. Se la volontà di consegnare ai lettori tedeschi un’immagine di B. come pensatore lucido e coerente, aveva indotto filosofi come Jacobi a evitare di enfatizzare le espressioni poetiche e di dare peso all’immaginazione letteraria, Schlosser e Koch, invece, riconoscendo il talento poetico di B. e la centralità delle sue scelte linguistico-espressive, avevano deciso di pubblicarne i versi. La preferenza per l’uno o l’altro approccio alla traduzione mostra la difficoltà di costruire una versione in cui le due dimensioni dell’opera bruniana risultino compresenti ed intrinsecamente complementari. Il  









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superamento di queste difficoltà è uno dei meriti principali della traduzione di Lasson. 2. Kuhlenbeck. — La traduzione di Lasson segna un primo traguardo nella storia delle traduzioni tedesche di B., anche se, per la preferenza accordata al De la causa, può considerarsi il frutto maturo di quel rinnovato interesse per la filosofia nolana che si afferma sulla scia di Jacobi. Le prime traduzioni di altri scritti bruniani si fanno invece attendere e sono quasi tutte opera di un solo autore, Ludwig Kuhlenbeck, che nel 1889 pubblica la sua versione dello Spaccio, intitolata Reformation des Himmels, aprendo così la strada a una più completa conoscenza del filosofo italiano. A differenza dei suoi predecessori, l’interesse di Kuhlenbeck per B. non è occasionale ; al Nolano dedica infatti un’intensa attività sia come traduttore sia come saggista. Nel 1893 pubblica Zwiegespräche vom unendlichen All und den Welten, la sua versione del De l’infinito, e nel 1898 la traduzione degli Eroici furori sotto il titolo Zwiegespräche vom Helden und Schwärmer. Queste traduzioni, cui si aggiunge l’antologia Lichtstrahlen aus G. B.’s Werken saranno poi inserite nelle Gesammelte Werke (gw) di B., che vedono la luce tra il 1904 e il 1909 per l’editore Eugen Diederichs. Nel sesto volume, che contiene la Cabala, Kuhlenbeck presenta anche alcune opere latine in versione tedesca (Oratio consolatoria, Oratio valedictoria, Articuli adversus Peripateticos) nonché gli atti del processo ; manca invece, fra le opere italiane, il Candelaio. L’edizione di Kuhlenbeck ha il merito di aver reso disponibili per un pubblico tedesco assai vasto numerosi scritti di B. ; per molto tempo essa è rimasta l’unica traduzione dei dialoghi italiani, se si fa eccezione per la Causa e lo Spaccio, disponibili anche nelle versioni di Paul Seliger, di cui si parlerà più avanti. Per coglierne appieno il valore culturale, è fondamentale tener conto del contesto storico in cui venne ideata e data alle stampe [18]. Filosofo e giurista, Kuhlenbeck fu fortemente influenzato dalla corrente monista, dal darwinismo sociale e dalle teorie razziste di Gobineau e Chamberlain, che allora si andavano diffondendo in Europa [19]. Nel suo  





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progetto culturale la filosofia bruniana viene recuperata e inserita nel dibattito attorno alle grandi questioni filosofiche discusse in Germania sullo scorcio del secolo. Questo orientamento lo avvicina all’editore Diederichs che aveva fondato, nel 1896, una casa editrice di grande pregio, soprattutto agli esordi, per l’elegante veste tipografica e un programma assai originale, che spaziava dalle scienze naturali alla teosofia, la letteratura e la sociologia. In un avviso pubblicato nel giornale professionale dei librai si legge : « Die Verlagsrichtung wird durchaus vornehm sein und sich auf Moderne Bestrebungen auf dem Gebiet der Litteratur, Sozialwissenschaft, Naturwissenschaft und Theosophie erstrecken » [20]. Diederichs intendeva contribuire così al dibattito filosofico, letterario e culturale contemporaneo ; egli condivideva gli stessi interessi culturali di Kuhlenbeck, ma non il suo razzismo [21]. Intanto, la figura di B. diventava quasi un simbolo per i monisti tedeschi che si riunivano attorno alla casa editrice e nel GiordanoBruno-Bund für einheitliche Weltanschauung, sotto la direzione di Bruno Wille la presidenza onoraria di Ernst Haeckel. La pubblicazione delle opere di B. si inseriva perfettamente nel progetto culturale della casa editrice ; nel maggio 1903, Diederichs e Kuhlenbeck sottoscrissero un contratto che prevedeva la pubblicazione della Cena e successive traduzioni [22]. Nonostante la presenza della filosofia bruniana nel dibattito filosofico contemporaneo, l’edizione di Kuhlenbeck non fu però un successo commerciale [23]. Il suo interesse ad attualizzare il pensiero bruniano, riportandolo alle tematiche discusse nel dibattito filosofico e culturale del tempo, è particolarmente evidente nelle introduzioni e nelle note che corredano le Gesammelte Werke. All’inizio della sua attività di traduttore Kuhlenbeck mette l’accento soprattutto sul pensiero monista ; si leggono lunghe note che insistono sul rapporto di B. con la filosofia contemporanea, indicandolo come suo geniale predecessore. Kuhlenbeck scrive per esempio in una nota prolissa in Vertreibung der himmlischen Bestie che B. « professa il monismo, ma un monismo tale che include  













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l’idealismo trascendentale » (« B. bekennt sich zum Monismus, aber zu einem solchen Monismus, der den transzendentalen Idealis­mus einschließt » [24]), facendo così di B. il testimone di una corrente filosofica dell’Ottocento. Questa lettura della filosofia bruniana si riflette anche nella scarsa propensione alle annotazioni di tipo storico (per es. rinvii alle fonti, definizioni storiche dei termini utilizzati) ; preferisce invece la comparazione delle idee bruniane con quelle di filosofi e scienziati contemporanei come Schelling, Hegel, Lotze, Darwin, e Nietzsche. In alcune occasioni le note diventano lunghe dissertazioni senza collegamento apparente al testo di B. Negli ultimi volumi, in particolar modo negli Eroici furori, si fa sempre più evidente il razzismo di Kuhlenbeck, che lo spinge a indicare nell’eroismo della ‘razza’ europea e nella sua presunta superiorità sulle altre ‘razze’ l’argomento centrale del dialogo [25]. In merito alla qualità linguistica della traduzione va detto in primo luogo che l’autore era sensibile alla dimensione poetica ed estetica dei testi di B. Egli considera per esempio lo Spaccio una « perla della letteratura mondiale » (« eine Perle der Weltliteratur ») [26] ; sottolinea inoltre l’ingegno poetico dell’autore quando scrive : « Denn B. war in erster Linie Dichter, und erst in zweiter Philosoph, die poetische Intuition eilte seiner philosophischen Reflexion voraus » (« Poiché B. era, in primo luogo, poeta e solo in secondo luogo filosofo, l’intuizione poetica precorse la sua riflessione filosofica ») [27]. La citazione è emblematica perché rivela una concezione della poesia basata sull’intuizione che caratterizza piuttosto l’ideologia letteraria romantica che la poetica rinascimentale. Kuhlenbeck è, infatti, sostanzialmente estraneo alla cultura del Rinascimento italiano, il che spiega perché incorra non di rado in soluzioni stilistiche e lessicali poco convincenti. Per giudicare la qualità della traduzione di Kuhlenbeck bisogna però evitare il vizio dell’anacronismo : l’uso linguistico è notevolmente cambiato e le nostre conoscenze di B. e della storia letteraria del Cinquecento si sono affinate nel secolo che ci separa dal 1900. Più utile e meno fuorviante potrebbe ri 





























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sultare un confronto con la versione contemporanea di Paul Seliger, pubblicata nel 1904 [28]. Traduttore dall’italiano di grande esperienza – tradusse fra l’altro le novelle di Matteo Bandello e anche estratti dal Cortegiano di Castiglione –, Seliger aveva una consuetudine con la lingua e la letteratura italiane che lo distinguono nettamente da quello che potremmo definire il ‘dilettantismo letterario’ di Kuhlenbeck. Un confronto fra le due versioni del primo dialogo dello Spaccio dimostra la competenza di Seliger. Già nel primo paragrafo, Kuhlenbeck rivela delle insicurezze lessicali, scegliendo « Wechsel » per « varietade » e « Angenehmes » per « conveniente », dove Seliger scrive giustamente « Mannigfaltigkeit » e « schickliches ». Inoltre, Kuhlenbeck modifica spesso senza necessità la struttura sintattica, consegnando ai lettori un’impressione poco fedele dello stile di B. Nel secondo paragrafo, per esempio, B. costruisce una serie di parallelismi attraverso la ripetizione del sintagma « il stato di » (« il stato de la fame », « il stato de la sazietà » ecc.). Kuhlenbeck, trovando probabilmente pesante questa ripetizione – mentre in B. essa è essenziale e serve a sottolineare la logica dell’argomentazione – modifica la sintassi producendo un effetto stilisticamente sgradevole, che riduce per di più l’intelligibilità della frase. Seliger la rende invece adeguatamente, ripetendo i sintagmi anche in tedesco, ottenendo così una versione energica e chiara. Un ultimo esempio : nel primo dialogo dello Spaccio si legge una versione italiana di alcuni versi di Lucrezio (« La bella madre del gemino amore ») [29]. I versi sono endecasillabi sciolti, e Seliger, che combina l’accentuazione e il numero delle sillabe secondo il modello italiano, propone un’imitazione soddisfacente del metro in tedesco, mentre Kuhlenbeck preferisce una soluzione ‘assimilatrice’, sostituendo il libero accento germanico al numero fisso delle sillabe. Questo procedere non va criticato in sé ; tuttavia Kuhlenbeck si allontana dallo schema metrico originale, producendo così un’irregolarità assente nell’italiano. Bastino queste osservazioni a dare un’impressione della diversa qualità delle due traduzioni. Quella di Seliger ebbe poco successo, probabilmente perché la  











































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casa editrice che la diede alle stampe era poco famosa, ma forse anche per la mancanza di apparati che potessero rendere più semplice la comprensione del testo. Durante tutto il Novecento lo Spaccio continuò di fatto a essere letto nella versione di Kuhlenbeck. Nonostante i rilievi critici qui espressi, va riconosciuto che le Gesammelte Werke sono senza dubbio un documento importante della cultura letteraria e filosofica nel Secondo Impero e che hanno fortemente contribuito alla fortuna di B. in Germania. Ricerche specifiche, che considerino in quale misura le note, i commenti e le scelte linguistiche di Kuhlenbeck abbiano influenzato la ricezione di B. in Germania, produrrebbero certamente risultati interessanti. 3. Dopo la Seconda Guerra mondiale. — In termini generali si può rilevare come la maggioranza dei traduttori contemporanei abbia un obiettivo sostanzialmente diverso da quello di Kuhlenbeck : mentre egli cercava in B. un contributo alla soluzione dei problemi filosofici e spirituali del suo tempo, i traduttori più recenti mirano a un’approfondita conoscenza storica del filosofo. L’aumento dell’attività di traduzione contemporanea, che non ha inizio subito dopo la guerra, ma sostanzialmente negli anni Ottanta del Novecento, si contraddistingue per un’attenzione sempre più rigorosa per la struttura dei testi e per l’ambiente culturale in cui sono stati prodotti. Fa ancora eccezione l’antologia bruniana messa a punto da Ernesto Grassi e pubblicata nel 1947 sotto il titolo Heroische Leidenschaft und individuelles Leben, nella quale il filosofo nolano viene presentato – secondo una visione attualizzante e del tutto estranea alla filosofia bruniana – come rappresentante dell’esistenzialismo umanista. La prima traduzione integrale di un’opera di B. dopo la Seconda Guerra mondiale appare soltanto nel 1969, presso la casa editrice Insel ; si tratta di Das Aschermittwochsmahl, una versione della Cena redatta da Ferdinand Fellmann, allievo di Hans Blumenberg, che firma l’ampia introduzione intitolata Das Universum eines Ketzers. Mentre l’interpretazione di Grassi non ha avuto un’eco notevole, quella di Blumenberg si può considerare  



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il primo contributo tedesco agli studi bruniani contemporanei che esprima un’idea originale. Totalmente estraneo alla concezione magico-ermetica di Frances Yates, che aveva segnato un momento cruciale degli studi sul filosofo italiano, Blumenberg sottolinea il rapporto di B. con Copernico e con la tradizione astronomica e cosmologica medioevale e rinascimentale. Profondo conoscitore del dibattito interno a questa tradizione, Blumenberg s’inserisce nel filone degli studi che vedono in B. piuttosto un precursore della scienza moderna che un rappresentante della magia, senza però dimenticare l’importanza della dimensione metafisica nel pensiero nolano. Secondo Blumenberg, la metafisica e la cosmologia bruniana mirano a un fine identico, quello di garantire la continua esistenza del mondo contro la volontà assolutamente libera di Dio quale era stata concepita dalla teologia occamista. L’introduzione all’Aschermittwochsmahl presenta in sostanza l’estratto del capolavoro di Blumenberg, La legittimità dell’età moderna. La traduzione di Fellmann è stata inserita, a seguito di un’attenta revisione, nella nuova edizione di Angelika Bönker-Vallon per il secondo volume della edizione bilingue delle opere italiane, pubblicata a partire dal 2007 sotto il titolo G. B. Werke (bw). La qualità della versione di Fellmann e l’interpretazione di Blumenberg non hanno però immediatamente avviato una nuova attività dei traduttori in lingua tedesca. Per quanto riguarda la Causa, esce nel 1977 una ristampa dell’edizione di Lasson ; nel 1986 Philipp Rippel pubblica una nuova traduzione presso Reclam. L’Infinito viene riproposto nel 1968 e nel 1983 nella versione di Kuhlenbeck, mentre solo nel 1994 esce la traduzione di Christiane Schulz per la Biblioteca Universale di Reclam. Questa traduzione non è però inserita in bw, perché il testo italiano utilizzato da Schulz è ormai considerato superato [30] ; il testo è stato nuovamente tradotto da Angelika Bönker-Vallon nel 2007 e pubblicato come bw vii. Lo Spaccio è stato tradotto da Elisabeth e Paul Blum (bw v), mentre la Cabala è disponibile dal 2000 in una versione di Kai Neubauer, ristampata per il sesto vo 



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lume di bw. Anche la traduzione dei Furori, pubblicata per la prima volta nel 1989, sarà ripresa per bw. La prima traduzione del Candelaio si deve invece a Johannes Gerber, che pubblica nel 1995 una versione ridotta per il teatro ; una versione integrale appare nel 2003, messa a punto da Sergius Kodera, poi inserita nel primo volume di bw. Anche le opere latine hanno suscitato negli ultimi decenni l’interesse del pubblico tedesco : Elisabeth von Samsonow pubblica, nel 1991, una traduzione del De monade per la Philosophische Bibliothek, e nel 1995 un’antologia che include, oltre a numerosi passaggi centrali di varie opere latine, una versione completa del De vinculis. Una valutazione dettagliata di queste traduzioni ed edizioni non è necessaria in questo contesto : tutte rispecchiano i progressi dell’ecdotica bruniana contemporanea e tengono conto degli studi più recenti sul pensiero del filosofo. In conclusione, volendo sintetizzare la storia delle versioni tedesche di B. si possono distinguere tre fasi : in quella iniziale si propongono brani di testi, scelti da De la causa, De minimo ed Eroici furori con l’intenzione di rendere noto un autore affascinante ma ancora poco conosciuto dai lettori. La seconda fase, rappresentata soprattutto dall’edizione di Kuhlenbeck, vede in B. un precursore del monismo e dell’età moderna. Per la prima volta si propone l’opera italiana quasi completa (a eccezione del Candelaio) al pubblico tedesco. La terza fase si distingue per l’impegno dei traduttori più recenti nell’inserire le opere bruniane nel loro contesto storico-culturale. La traduzione di B. è oggi nelle mani di specialisti che eccellono anche come studiosi e interpreti e che mantengono stretti rapporti con gli specialisti italiani e internazionali : ciò che resta ancora da fare è un’edizione bilingue dei testi latini.  









Note. [1] Cfr. E. Canone, Introduzione a Brunus redivivus. Momenti della fortuna di G. B. nel xix secolo, a cura di E. Canone, Pisa-Roma, 1998, xix ; S. Ricci, La fortuna del pensiero di G. B. 1600-1750, Firenze, 1990, 45-50. – [2] F.H. Jacobi, Ueber die Lehre des Spinoza, in Briefen an Herrn Moses Mendelssohn, in Werke iv, 1-2, hrsg. v. F. Roth und F.  

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Köppen, Leipzig, 1819, 10. – [3] Cfr. S. Ricci, La fortuna del pensiero di G. B., 239-242 ; W. SchmidtBiggemann, Aspekte der Rezeptionsgeschichte B.s im 18. Jahrhundert, « Zeitsprünge. Forschungen zur Frühen Neuzeit », 1999, 3, 65. – [4] Ivi, 87 ; cfr. S. Ricci, Dal Brunus redivivus al B. degli italiani. Metamorfosi della nolana filosofia tra Sette e Ottocento, Roma, 2009, 50. – [5] Cfr. E. Canone, Il dorso e il grembo dell’eterno. Percorsi della filosofia di G. B., Pisa-Roma, 2003, 27 sg. ; Th. Leinkauf, Einleitung, in bw iii, Hamburg, 2007, cxxiii. – [6] Geschichte der neueren Philosophie, ii, Goettingen, 1800, cxxv. – [7] Cfr. Ricci, Dal Brunus redivivus al B. degli italiani, 71-81 (per Goethe), 81 (per Hegel) ; J.-L. Vieillard-Baron, De la connaissance de G. B. à l’époque de l’« idéalisme allemand », « Revue de métaphysique et de morale », lxxvi, 1971, 406423 : 413-416, 419-422. – [8] Cfr. Canone, Introduzione a Brunus redivivus, xxvii. – [9] Ivi, xxviii. – [10] J.F.H. Schlosser, Versuche von Uebersetzungen aus dem Werk des G. B., von dem Dreifachen, dem Kleinsten und dem Maße, « Studien », vi, 1810, 447466 ; cfr. F. Puccini, « Sic non succifluis occurro poeta labellis ». Goethe lettore di B., « Bruniana & Campanelliana », xii, 2006, 2, 497-519 : 512 sg. ; S. Ricci, Dal Brunus redivivus al B. degli italiani, 73 sg. – [11] Vierzig Sonette von G. B., übersetzt, erläutert und mit einer Einleitung versehen v. Dr. Matthias Koch, ordentl. Lehrer, in Programm des städtischen Gymnasiums zu Stolp für das Schuljahr 1869-1870, Stolp, 1870, 1-48. – [12] Ivi, 3. – [13] Per la metrica di B. cfr. P. Sabbatini, G. B. e la “mutazione” del Rinascimento, Firenze, 1993, 94-104. – [14] Von der Ursache, dem Princip und dem Einen, hrsg. v. A. Lasson, Berlin, 1872, 138. – [15] F. Holz, Lasson, Adolf, in Neue deutsche Biographie, xiii, Berlin, 1982, 678-679. – [16] G. Aquilecchia, L’ecdotica ottocentesca delle opere italiane di B., in Brunus redivivus, 1-17. – [17] Von der Ursache, 139. – [18] Cfr. I. Heidler, Zum Kontext der Gesammelten Werke G. B.s im Eugen Diederichs Verlag (1904-1909), « Bruniana & Campanelliana », iv, 1998, 1, 141-163. – [19] Cfr. J. Szemerédy, Ludwig Kuhlenbeck – Ein Vertreter sozialdarwinistischen und rassentheoretischen Rechtsdenkens um 1900, Dissertation, Zürich, 2003. – [20] Börsenblatt für den Deutschen Buchhandel, n. 220 (21 settembre 1896), 5818 ; cfr. Heidler, Zum Kontext der Gesammelten Werke G. B.s, 149. – [21] Ivi, 154. – [22] Ibidem. – [23] Ivi, 157 sg. per informazioni precise circa le cifre di vendita. – [24] gw ii, Anm. 11, 268. – [25] Cfr. gw v, 293 (nota) sg. – [26] gw ii, 4. – [27] Ivi, 3 sg. – [28] Vertreibung der triumphierenden Bestie, verdeutscht v. P. Seliger, Berlin-Leipzig, 1904. – [29] Cfr. boi iii, 893 sg. – [30] Cfr. bw iv, cxxvii.  













































traduzioni tedesche

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Mulsow, Hamburg, 1991 ; G. B., Über das Unendliche, das Universum und die Welten, a cura di Chr. Schulz, Stuttgart, 1994 ; G. B., Die Kabbala des Pegasus, a cura di K. Neubauer, Hamburg, 2000 ; G. B., Der Kerzenzieher, a cura di S. Kodera, Hamburg, 2003.  

Traduzioni tedesche delle opere di g.b. 1. Raccolte di opere : G. B., Gesammelte Werke (gw), a cura di L. Kuhlenbeck, Leipzig-Jena, 1904-1909 ; i : Das Aschermittwochsmahl, Leipzig, 1904 ; ii : Die Vertreibung der triumphierenden Bestie, Leipzig, 1904 ; iii : Zwiegespräche vom unendlichen All und den Welten, Jena, 1904 ; iv : Von der Ursache, dem Princip und dem Einen, Jena, 1906 ; v : Zwiegespräche vom Helden und Schwärmer, Jena, 1907 ; vi : Kabbala, Kyllenischer Esel, Reden, Jena, 1909 ; G. B., Werke (bw), ed. bilingue, a cura di Th. Leinkauf, Hamburg, 2007- ; i : Der Kerzenzieher, a cura di S. Kodera, Hamburg, 2008 ; ii : Das Aschermittwochsmahl, a cura di F. Fellmann, trad. rivista da A. Bönker-Vallon, introd. e commentario a cura di A. Bönker-Vallon, Hamburg, 2017 ; iii : Über die Ursache, das Prinzip und das Eine, a cura di Th. Leinkauf, Hamburg, 2007 ; iv : Über das Unendliche, das Universum und die Welten, a cura di A. Bönker-Vallon, Hamburg, 2007 ; v : Austreibung des triumphierenden Tieres, a cura di E. Blum e P.-R. Blum, Hamburg, 2009 ; vi : Die Kabbala des pegaseischen Pferdes, a cura di S. Kodera e K. Neubauer, Hamburg, 2009 ; vii : Von den heroischen Leidenschaften, a cura di Ch. Bacmeister e H. Hufnagel, introd. di M. Moog-Grünewald, Hamburg, 2017 ; da segnalare anche l’antologia Giordano Bruno, a cura di E. von Samsonow, München, 1995. 2. Opere singole : G. B., Von der Ursache, dem Princip und dem Einen, a cura di A. Lasson, Berlin, 1872 ; G. B., Reformation des Himmels, a cura di L. Kuhlenbeck, Leipzig, 1889 (rist. 1890, 1899) ; G. B., Zwiegespräche vom unendlichen All und den Welten, a cura di L. Kuhlenbeck, Berlin, 1893, Leipzig, 1896 ; G. B., Lichtstrahlen aus G. B.’s Werken, a cura di L. Kuhlenbeck e M. Carriere, Leipzig, 1891 ; G. B., Zwiegespräche vom Helden und Schwärmer, a cura di L. Kuhlenbeck, Leipzig, 1898 ; G. B. – Heroische Leidenschaft und individuelles Leben, a cura di E. Grassi, Bern, 1947 ; G. B., Das Aschermittwochsmahl, a cura di F. Fellmann, introd. di H. Blumenberg, Frankfurt a.M., 1969 ; G. B., Über die Ursache, das Prinzip und das Eine, a cura di P. Rippel, Stuttgart, 1986 ; G. B., Ketzerkomödie, a cura di J. Gerber, Bern, 1989 ; G. B., Von den heroischen Leidenschaften, a cura di C. Bacmeister, Hamburg, 1989 ; G. B., Über die Monas, die Zahl und die Figur als Elemente einer sehr geheimen Physik, Mathematik und Metaphysik, a cura di E. Samsonow et alii, introd. di E. von Samsonow, commentario di M.  



















































































Bibliografia. J.G. Buhle, Geschichte der neueren Philosophie, in Geschichte der Philosophie, ii, Göttingen, 1800, 703-856 ; J.F.H. Schlosser, Versuche von Uebersetzungen aus dem Werk des G. B., von dem Dreifachen, dem Kleinsten und dem Maße, « Studien », vi, 1810, 447-466 ; F.H. Jacobi, Ueber die Lehre des Spinoza, in Briefen an Herrn Moses Mendelssohn, in Werke iv, 1-2, hrsg. v. F. Roth und F. Köppen, Leipzig, 1819, 5-46 ; Leben und Lehrmeinungen berühmter Physiker am Ende des 16. und am Anfange des 17. Jahrhunderts als Beyträge zur Geschichte der Physiologie im weiteren Sinne, hrsg. v. T.A. Rixner und T. Siber, v, Sulzbach, 1824 ; Vierzig Sonette von G. B., übersetzt, erläutert und mit einer Einleitung versehen v. Dr. Matthias Koch, ordentl. Lehrer, in Programm des städtischen Gymnasiums zu Stolp für das Schuljahr 1869-1870, Stolp, 1870, 1-48 ; J.-L. Vieillard-Baron, De la connaissance de G. B. à l’époque de l’« idéalisme allemand », « Revue de métaphysique et de morale », lxxvi, 1971, 406-423 ; F. Holz, Lasson, Adolf, in Neue deutsche Biographie, xiii, Berlin, 1982, 678-679 ; S. Ricci, La fortuna del pensiero di G. B. 1600-1750, Firenze, 1990 ; P. Sabbatini : G. B. e la “mutazione” del Rinascimento, Firenze, 1993 ; G. Aquilecchia, L’ecdotica ottocentesca delle opere italiane di B., in Brunus redivivus. Momenti della fortuna di G. B. nel xix secolo, a cura di E. Canone, Pisa-Roma, 1998, 1-17 ; E. Canone, Introduzione, in Brunus redivivus, xi-xlv ; I. Heidler, Zum Kontext der Gesammelten Werke G. B.s im Eugen Diederichs Verlag (1904-1909), « Bruniana & Campanelliana », iv, 1998, 1, 141-163 ; W. Schmidt-Biggemann, Aspekte der Rezeptionsgeschichte B.s im 18. Jahrhundert, « Zeitsprünge. Forschungen zur Frühen Neuzeit », 1999, 3, 65-87 ; E. Canone, Il dorso e il grembo dell’eterno. Percorsi della filosofia di G. B., Pisa-Roma, 2003 ; J. Szemerédy, Ludwig Kuhlenbeck – Ein Vertreter sozialdarwinistischen und rassentheoretischen Rechtsdenkens um 1900, Dissertation, Zürich, 2003 ; F. Puccini, « Sic non succifluis occurro poeta labellis ». Goethe lettore di B., « Bruniana & Campanelliana », xii, 2006, 2, 497-519 ; T. Leinkauf, Einleitung, in bw iii, Hamburg, 2007, ix-cliii ; S. Ricci, Dal Brunus redivivus al B. degli italiani. Metamorfosi della nolana filosofia tra Sette e Ottocento, Roma, 2009.  































































Steffen Schneider

enciclopedia campanelliana

ENCICLOPEDIA CAMPANELLIANA

animali (animalia) 1. Le fonti. — Nelle pagine di C. incontriamo frequenti riferimenti agli animali [1]. Come gli altri autori del Rinascimento, egli poteva disporre di un ricco patrimonio di fonti classiche. Aristotele in primo luogo, i cui testi dedicati agli animali (il De partibus animalium, il De generatione animalium, l’Historia animalium) occupano una parte cospicua – se ne è quantificata l’estensione a circa un quarto – della sua produzione. Operando un gigantesco lavoro di sistemazione e coordinamento di un immensa quantità di materiali empirici, in virtù del quale descrive e studia circa 540 specie animali, egli viene considerato a buon diritto il fondatore della scienza zoologica, che conoscerà un fiorente sviluppo nel periodo rinascimentale e moderno. Fra le altre fonti antiche più conosciute cui attingere informazioni, aneddoti, favole, c’erano poi i libri viii-x dell’Historia naturalis di Plinio il Vecchio (23-79) ; il De sollertia animalium di Plutarco (46-127) che, sotto il pretesto narrativo di un confronto fra animali di terra e animali che vivono nell’acqua, per stabilire quale delle due categorie risulti superiore, presenta « un fantasmagorico bestiario, intessuto di tenerezza, devozione, fedeltà, astuzia, calcolo, solidarietà, giustizia » [2] ; il De natura animalium di Eliano (170-235), che a sua volta si configura come un fitto repertorio di exempla tratti dal mondo animale. C. ha inoltre ben presenti pagine di Padri della chiesa, quali Lattanzio, Ambrogio, Basilio, Giovanni Crisostomo, che nei loro testi e nei commenti ai giorni della creazione utilizzavano già i repertori enciclopedici per soffermarsi a lungo a riflettere sulle abilità e le prerogative degli animali. C. ricava riferimenti agli animali anche dalla propria esperienza personale. In più occasioni ricorda l’allevamento dei bachi da seta, una delle voci fondamentali dell’economia della sua regione d’origine – e Ortensio Lando affermava di avere visto i calabresi « pianger più largamente la morte de’ vermi che dei stretti parenti » [3] –, informandoci  











del tentativo da parte di un certo filosofo (da identificare con lui stesso) di suggerire una produzione dei bozzoli più intensa e razionale e sottolineando la pena di un lavoro faticoso e scarsamente remunerativo [4]. Egli, inoltre, deplora l’iniquo sistema di tassazione che regolamentava la transumanza delle greggi fra l’Abruzzo e le Puglie, e se in uno dei passi più noti dell’Utopia Thomas More, in un’immagine icastica, denunciava con sgomento la metamorfosi delle pecore da domestici animali simbolo di mitezza in voraci cannibali che divoravano gli uomini [5], C. addita la dogana di Foggia come « supremo esempio » della « avarizia rapacissima » degli Spagnoli « che non lascia né la robba né il sangue a popoli » [6]. A conferma di un episodio narrato nell’Historia animalium da Aristotele, e ripetuto da Eliano, C. afferma che anche Montedoro, il cavallo del marchese Mario del Tufo, si era sempre mostrato restio a congiungersi con la propria madre, e a proposito di cavalli, ricorda le migrazioni stagionali di quelli calabresi che « in giorni determinati si parteno a schiera da sé soli, e passano ad altra provincia, e soli ritornano secondo l’uso antico che appresero guidati dall’armentario, e in loro è rimasto » [7]. Quanto ai cani, C. riferisce di averne conosciuto uno dall’udito così delicato che « quando sonava la campana, strillava » e in altre occasioni di avere visto due cani da caccia mancare la lepre che inseguivano con troppo ardore [8]. 2. Spiritus, sensus, autoconservazione. — Per C., anche gli animali, come ogni altro ente, sono il prodotto dell’azione del calore solare sulla materia terrestre. Il calore, dopo avere originato i minerali, i metalli, le piante, « animali immobili », attenua la materia al punto da ridurla a un soffio caldo, lo spiritus che, sottile, leggero, mobile, è in grado di staccare dalla terra la porzione di materia entro cui si trova rinchiuso ; ma non potendo fuoruscire dal proprio involucro corporeo lo organizza e lo plasma dall’interno dando origine agli organi atti a garantirgli la vita. L’animale, dunque, è un composto costitui 

























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to da un corpo organizzato in parti e organi e da uno spirito, che si identifica con l’anima organica, e poiché lo spirito, esalando di continuo, tende a consumarsi, gli organi della mirabile statua animata rispondono alla finalità di conservarlo e ricostituirlo, mediante la ricerca e l’assimilazione di cibi resi a lui simili [9]. Gli organismi animali rispondono dunque alla finalità autoconservativa che è comune a tutti gli enti : « l’anatomia mostra che non si può in loro altro desiderare, né levare un ossicello o una piccola fi bra che non si scomponga la fabrica loro, ordinata tutta alla conservazione ». Strettamente connesso con la conservazione della propria vita risulta poi il ‘senso’, che consiste nella capacità, di cui è dotato ogni ente secondo modulazioni diversificate, di riconoscere le cose che giovano da quelle che nuocciono, per perseguire le prime e fuggire le seconde : « perché nulla facultà è più necessaria, in tanta varietà di cose, che la conoscenza del simile che ci serba dal nemico che ci strugge, è forza dire che questo sentimento sia in tutte le cose naturali ; et esperimentiamo in noi che la fuga del male e sequela del bene nasce dal senso di quelle. […] Di più, in ogni cosa ci è l’appetito e amore e l’odio e abborrimento, e ogni amore nasce dalla conoscenza della cosa amata ; e l’amor naturale, dunque, da conoscenza naturale » [10]. È il senso, pertanto, in virtù del quale ogni ente è in grado di orientarsi e di operare scelte conservative, che garantisce la conservazione della vita di ogni ente e conferisce alla natura il suo ordine interno. 3. Le abilità degli animali. — Entro tale orizzonte naturale e sensibile, C. indugia con compiacimento sulle mirabili capacità degli animali. È fuor di dubbio che taluni sia­no forniti di organi sensoriali più raffinati di quelli dell’uomo : l’aquila ha una vista più acuta e il cane un odorato più sottile ; sono dotati di memoria e di reminiscenza : quanti hanno patito eventi dolorosi, al ripresentarsi di occasioni analoghe « s’adombrano e spaventano », e poiché sono in grado di confrontare il simile con il simile non mancano di forme di discorso : « avendo magnato orzo un cavallo, da quello tutti gli orzi conosce »,  







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e i cani « dal moto della selva discorrono a pensar che qualche belva quivi si move », e anzi, secondo un noto esempio, sono capaci di percorrere la via più breve per sorprendere l’animale inseguito nella caccia. C. ricorda poi esempi tradizionali dell’ingegnosità e dell’astuzia degli animali. Il polpo, per mangiare un’ostrica senza venire imprigionato dalle sue valve, « astutamente » vi getta una piccola pietra, in modo che quella non le possa più chiudere ; la seppia emette l’inchiostro per oscurare l’acqua e difendersi da aggressioni esterne ; scoiattoli e volpi utilizzano le loro code per attraversare un fiume ; di particolare ingegnosità è l’astuzia grazie alla quale il ragno tesse la sua tela e vi si « si nasconde in secreto » per catturare le mosche « con mille sillogismi ». Insetti come le api e le formiche conducono una vita associata con una precisa distribuzione di ruoli e attività, e le gru hanno una perfetta organizzazione militare. Gli animali non risultano estranei neppure a valori di rispetto e di onore, giungendo a suicidarsi se costretti a compiere atti contro la propria volontà o se subiscono umiliazione e disprezzo [11]. 4. Linguaggio, profezia, religiosità. — Quanto al controverso problema del linguaggio, è fuor di dubbio che gli animali comunichino e si capiscano, e che le loro voci siano dotate di significato. Il pulcino riconosce il richiamo della propria madre fra mille, i cavalli emettono nitriti diversi a seconda di quanto intendono esprimere, i cani richiamano i loro simili al momento del pranzo, proprio come i monaci vengono convocati nel refettorio dal suono della campanella. Il fatto che noi non comprendiamo la loro lingua, poiché non articolano le voci secondo le nostre modalità, non è una buona ragione per ritenere che i suoni da loro emessi, che a noi sembrano tutti uguali, siano privi di significato : anche le uova delle galline a noi sembrano tutte uguali, mentre la gallinaria le sa distinguere una per una. Per non dire poi che la comunicazione non è solo linguistica. Se i pesci non possono parlare fra di loro, perché non respirano, ciò non esclude che, proprio come fanno i muti fra gli uomini, si scambino « cenni significativi », grazie a movimen 



























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ti delle branchie o della coda [12]. Secondo un esempio che deriva dal De abstinentia di Porfirio e che viene ripetuto da molti autori con qualche variante, noi non comprendiamo la lingua degli animali proprio come non comprendiamo quella di popoli a noi sconosciuti : se Montaigne alludeva ai Baschi e ai Trogloditi, C. fa riferimento ai Tedeschi e ai Cataini [13]. Invece, animali come i cani e le scimmie « ben imparano la lingua nostra », tanto è vero che « portati in paesi lontani non intendono l’altrui lingua », e C. afferma di avere visto a Napoli un cane polacco « che non intendeva niente li napoletani, se non quei che li parlavano in lingua polacca ». Il fatto poi che non riescano a parlare deriva dalla mancanza di strumenti idonei, poiché hanno organi dissimili dai nostri : « come noi non possiamo fare di cetera trombetta, né col corno il suono della campana, né che il balbuziente parli speditamente », ma i pappagalli, che hanno il palato concavo, simile a quello dell’uomo, « ben imparano molte parole » [14]. È inoltre ampiamente noto che gli animali sono dotati di forme naturali di profezia resa possibile dal contatto che si stabilisce fra il loro spirito, talora più sottile e ricettivo di quello umano, e l’aria, che è una specie di sensorio comune. Alcuni, come i corvi e le pecore, prevedono le piogge, altri, come gli alcioni, le tempeste ; altri ancora il prossimo verificarsi di eventi che si stanno preparando, le cui cause sono già presenti come tracce nell’aria : « Gli avvoltoi hanno grande odorato, poiché di cadaveri si pasceno e annusano l’esalazioni da mille miglia. […] Ma quando ancor la guerra non è fatta e si negozia, l’aria patisce quelle voci militari e consegli, perché in lei e con lei si fanno, e gli avvoltoi sentono quegli affetti soliti e corrono dove si trattano l’occisioni, come noi quando vediamo andar il bue alla beccaria » [15]. A differenza di Lattanzio, il quale affermava che, nonostante le loro indubbie capacità, gli animali ignorano la religione, e identificava la diversità radicale dell’uomo proprio nel fatto di essere un ‘animale religioso’ (Div. Inst., iii, 10), C. non nega agli animali neppure forme di religiosità naturale, ricordando noti passi sugli  































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elefanti di Plinio, per sottolinearne, oltre il coraggio, la generosità, l’intelligenza, anche i riti purificatori e le forme di riverenza verso enti superiori come la luna [16]. 5. Affinità e differenze con l’uomo. — L’elogio più ampio delle prerogative degli animali in C. è mirato al riconoscimento che la sapienza divina è diffusa in ogni aspetto della natura e, seppure in forme diverse, riluce in ogni fi bra del grande organismo del mondo. Le capacità animali non devono pertanto stupire, in quanto conseguono alla loro partecipazione alla sapienza comune, entro una prospettiva in cui il naturalismo e il finalismo provvidenzialistico si incontrano con aspetti dell’ermetismo, sulla presenza di un dio intrinseco al mondo vivente, per contrapporre al casus di Epicuro l’ars di una sapienza divina di cui la natura è la manifestazione. Ma il fatto di riconoscere le capacità degli animali, le loro connessioni e affinità con il mondo umano, non deve indurre a stabilire una radicale equiparazione fra uomo e animali in una scala di continuità che progredisce per gradi, e i cui diversi livelli si differenziano secondo il più e il meno, senza salti e differenze, disconoscendo le peculiarità dell’uomo. Questi è sì un animale, ma un animale dotato di requisiti specifici che gli derivano dal fatto di essere il solo detentore della mens, la scintilla divina che, anche se risulta collegata allo spiritus da uno stretto vincolo di solidarietà, da esso si può emancipare. Quanti affermano la sostanziale continuità fra animali e uomo, si mostrano ingrati e ciechi, e a smentire tale atteggiamento basterebbe la considerazione di quelle specificità che sono una sorta di suggello fisiognomico dell’uomo. Se è vero che le caratteristiche dell’aspetto stesso degli animali ne rivelano le finalità – alcuni hanno un collo lungo per procurarsi il cibo nell’acqua ; altri sono agili e veloci, per sfuggire ai pericoli e ricercare alimenti più raffinati ; altri ancora hanno la vista acuta per vedere le prede da lontano –, quelle peculiari dell’uomo – la mano, strumento dell’intelletto, negata alle bestie, e la figura eretta rivolta verso il cielo – « son inditio che in noi alberga animo celeste et atto alle superiori congiungersi, e di operare in  





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terra quel che la natura per tutto mostra, et imitarlo » [17]. 6. L’uomo come animale divino e libero. — Riecheggiando motivi pliniani, C. ricorda le originarie condizioni di svantaggio dell’uomo, che nasce « senza senno e senza forza e senza vesti e senza arme, le quali son concedute alle bestie dalla natura », tanto da sembrare, più che figlio, « figliastro di Dio » ; ma poi aggiunge che ben presto egli è in grado di diventare « dio secondo, miracol del primo » [18]. Gli animali non hanno bisogno delle arti, perché la natura li ha dotati di organi e strumenti che consentono loro di difendersi dalle aggressioni esterne e di procurarsi il cibo adatto. Ma se ogni specie animale esercita quella determinata attività che ne definisce la natura specifica e ne garantisce la conservazione, l’uomo fa ricorso a strumenti e arti innumerevoli, che è capace di riprodurre imitando l’arte divina intrinseca negli enti naturali e costruendo in tal modo un mondo umano esemplato su quello naturale [19]. Inoltre, l’uomo non solo può conseguire una profezia naturale ben più raffinata di quella umbratile degli animali, connessa con i mutamenti dell’ambiente e limitata ai bisogni vitali ; egli infatti può attingere una profezia soprannaturale più alta e pura, del tutto sconosciuta agli animali, in virtù della quale « si stima immortale, ha la religione e culto del vero Dio onnipotente, sa quel che ha da far Dio a gl’huomini senza passion di aria e di cielo, ma per revelatione di angeli e di Dio, e la sua sagacità è tale che conosce la propria immortalità, e che dopo morte li si conviene altra vita, e premio e pena del bene e del mal fatto » [20]. Oltre che divino e religioso, l’uomo è anche, e soprattutto, un animale libero, in quanto è il solo in grado di operare scelte in modo autonomo. Gli animali, pur dotati di un « istinto ragionevolissimo », sono spontanei, ma non liberi. Le loro azioni, infatti, sono sempre sollecitate da passioni e oggetti esterni, e il mutamento che può aver luogo in loro non deriva da una scelta consapevole e volontaria, bensì dal sopravvenire di altre passioni o costrizioni esterne : il cane smette di inseguire la volpe se è sollecitato da una  



























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via più breve, o per paura del leone. Anche l’uomo può essere stimolato a volere o rifiutare mosso dai primi impulsi : può provare un’immediata attrazione per la bellezza di una donna o respingere il medico che gli offre una medicina amara, o, come il fanciullo, ribellarsi al pedagogo che lo punisce. Sta poi alla sua libertà, dopo un indugio e una riflessione, acconsentire o respingere le sollecitazioni sensibili ; l’uomo può esitare ed è in grado di sottrarsi alla coazione delle passioni, di operare calcoli che vadano al di là del semplice vantaggio e della soddisfazione immediata del bisogno ; può soppesare e valutare quale sia per lui la scelta migliore, anche se può cadere in errore. La libertà consiste nell’esame dell’incerto, cosa sconosciuta ai bruti, che, mossi da ogni primo impulso, non possono desistere dal moto verso l’oggetto tramite un ragionamento, e pertanto risultano privi del libero arbitrio [21]. 7. Corpi e anime. — Il richiamo agli animali si collega strettamente al problema dei rapporti fra anima e corpo, e a quello, tormentosissimo, dell’immortalità dell’anima umana. L’esaltazione delle affinità fra uomo e animali non deve neppure sfociare, per C., in dottrine prossime a quelle della trasmigrazione e della metempsicosi sostenute nell’antichità da Pitagora e diffuse, in tempi moderni, fra gli Indiani, i Tartari, molte popolazioni del Nuovo Mondo (↗ Pitagora). In considerazione delle analogie fra le attività e le operazioni dell’uomo e quelle degli animali – ciò che sembra confermato a livello anatomico, visto che Vesalio non trova nell’uomo « membro che non sia negli altri animali, e nel cerebro le medesime celle che nella gallina » –, alcuni pensatori ammettono la possibilità di uno scambio di anime fra corpi umani e animali. Ma, secondo C., anche solo sul piano naturale, l’anima dell’uomo non è commensurabile a tutti i corpi, « perché li pulci, li pidocchi, culici, l’ostriche, gli uncini o ricci sono differentissimi in tutto da noi, e non può il medesimo animo avvivar queste e quelle, né l’anima di un elefante si può mettere in una zanzara, benché incorporea » [22]. Il problema della possibilità di metamorfosi da una condizione umana a una animale  













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aveva poi acquistato una nuova attualità nel dibattito sulla stregoneria. Illustri autori, facendo appello all’episodio biblico della trasformazione in bue del re Nabucodonosor (Dan 4, 30), sostenevano la veridicità della trasformazione delle streghe – da loro stesse asserita nel corso delle confessioni – in gatti, topi, ghiri. Ma, secondo C., si tratta di fenomeni che eccedono l’ordine e le forze naturali, e quanto risulta impossibile per la natura lo è anche per il diavolo. La quantità del corpo umano che si concentrasse in un topo lo renderebbe più duro e compatto di una pietra, e i suoi organi, nell’atto di ritrasformarsi in quelli umani, andrebbero in pezzi. Il diavolo può invece agire sull’immaginazione, e indurre la credenza illusoria della metamorfosi, come molti malati si credono trasformati in galli, meloni e vasi, o il licantropo in lupo ; e chi è stato morsicato da un cane idrofobo è convinto di essere un cane, perché l’umore iniettato con il morso ha alterato il suo spiritus. Se risulta possibile indurre modificazioni sul tenue spirito vitale, non è così nei riguardi del corpo duro, denso, eterogeneo, e la trasformazione di Nabucodonosor è attribuibile esclusivamente a Dio [23]. Fra i moderni che sembrano accostarsi a dottrine ‘pitagoriche’ C. annovera un « dotto fiorentino » esperto in questioni teologiche, che sosteneva la risurrezione degli animali con tanta ostinazione che a fatica C. era riuscito a farlo dubitare di tale dottrina [24]. Per identificare questo interlocutore, Luigi Amabile aveva suggerito il nome del padre Medici, uno dei personaggi con i quali C. aveva avuto occasione di conversare nel corso del suo breve soggiorno giovanile a Firenze (settembre 1592) [25]. In verità, l’identità è altra e possiamo senz’altro affermare che C. faccia riferimento a Francesco Pucci, come viene confermato dalla lettura della recente edizione della Disputatio intercorsa fra l’eretico fiorentino e Fausto Sozzini [26]. Nel discutere questo punto specifico con Pucci, C. intende precisare come l’esaltazione degli animali non debba far dimenticare la diversità della loro condizione e del loro destino rispetto all’uomo. Anche se giunge a dire che, se proprio fosse costretto a scegliere, preferirebbe  





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concedere l’immortalità dell’anima anche agli animali, piuttosto che negarla all’uomo. Dopo la morte, l’anima degli animali, che si identifica con lo spiritus, torna a riunirsi all’aria, come ogni acqua al mare, e vive una vita aerea ; l’anima dell’uomo si innalza fino a Dio per vivere una vita divina [27]. 8. Animali e politica. — Un riferimento al mondo animale che, secondo C., risulta scorretto e non accettabile è quello fatto da quanti egli definisce come ‘politici’ o ‘machiavellisti’, che rinviano agli animali al fine di legittimare il prevalere politico dei più forti [28]. La liceità del dominio dell’uomo sugli uomini è da loro argomentata con esempi derivati da quanto avviene nel mondo animale : il lupo, carnivoro per natura, per natura uccide le pecore per mangiarle, e lo stesso fanno gli sparvieri ; l’aquila domina sugli altri uccelli e la superiorità del leone consiste nella sua capacità di « divorare, vincere e dominare come gli piace ». Anche fra animali non feroci, come asini, cavalli, galline, domina il più forte, e i pesci divorano i propri simili, facendo ricorso alla forza o all’astuzia : tutti esempi che sembrano comprovare la liceità del dominio del più forte sulla base del diritto naturale. A tali argomentazioni C. risponde in modo molto articolato [29]. In primo luogo, il divorarsi dei pesci fra di loro forse ci è stato dato come esempio proprio per metterci in guardia dal diventare preda dei più potenti in nome della natura – e forse verrà un giorno in cui, come dice Isaia (65, 25), il leone si nutrirà di paglia, e il lupo abiterà con l’agnello, cosa che è da intendere non solo in senso allegorico, ma anche storico. In ogni caso, l’uomo in nessun modo, secondo natura, può comandare su un altro uomo in maniera dispotica e senza il suo assenso. Il dominio dell’uomo non si fonda sulla forza naturale. Se fosse così, commenta C., l’uomo per natura sarebbe servo del leone, del cavallo, dell’elefante e degli animali più forti di lui : vediamo invece che può avvenire l’opposto. Nessun uomo viene sottoposto a un animale, se non per derisione, come quando i Goti imposero ai popoli vinti un cane come re in segno di oltraggio [30], mentre il carro trionfale di Marco Antonio fu trainato dai leoni. L’uomo, pertanto, comanda grazie alla sua virtù,  













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e non in base alla forza, e da ciò consegue che il dominio dell’uomo sull’uomo che faccia appello alla forza si configuri come tirannico e risulti contro la natura razionale. Inoltre, solo le belve feroci sono carnivore, e in questo non esercitano un dominio, ma si nutrono di altri animali apprestati dalla natura a tale fine, per i quali, osserva C. curiosamente, « è meglio venire sepolti nel corpo di un animale più che in quello della terra » [31]. Asini, cavalli e galline vivono in anarchia, non sotto il dominio del più forte, per non dire che le gru adottano un perfetto modello di repubblica, simile a quello osservato dagli uomini nella legge naturale, e le api ubbidiscono al migliore fra loro. Per quanto per gli animali e i pazzi risulti naturale ubbidire, per paura, al più potente, per le creature razionali, invece, è naturale sottoporsi al più sapiente e al migliore, e in ogni caso gli animali che vivono in comunità vivono secondo virtù, non ubbidendo e comandando con violenza. Per queste ragioni sono scorretti gli esempi che i politici derivano da animali non comunitari e non della stessa specie, o da quelli che vivono dominati dalla paura, anziché guidati dalla ragione. 9. Il verme con le ali. — Nel variegato panorama rinascimentale occupa poi un posto di rilievo un particolare filone di scritti nei quali sono gli animali stessi a prendere la parola, per giudicare, spesso severamente, il mondo umano. Il testo più famoso di questo genere è il dialogo di Plutarco noto come Grillo dal nome di uno dei due interlocutori, anzi del vero protagonista [32]. Lo scenario è l’isola di Circe, dove Ulisse, dopo che i suoi compagni hanno riacquistato la forma umana, chiede alla dea l’ulteriore favore di far ridiventare uomini anche gli altri greci che vivono nell’isola sotto forma di animali. Circe non ha nulla in contrario, ma a condizione che siano essi a volerlo. Di qui ha inizio il dialogo fra il Grillo e Ulisse, che lo sollecita a ritornare alla condizione umana ; ma, contro ogni aspettativa, Grillo rifiuta questa possibilità tessendo l’elogio della vita animale, che per molti versi risulta superiore a quella umana. Nel brillante e paradossale testo antico, « sfavillante per il brio dello stile e l’arguzia dell’invenzione » [33], la provocatrice perorazione a favore  









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della vita animale intendeva essere una denuncia dei comportamenti degli uomini che hanno stravolto il rapporto di armonia e di solidarietà fra loro e la natura. La polemica, che si nutre di motivi cinici, sofistici, epicurei, era diretta soprattutto contro il rigido razionalismo degli Stoici, che sostenevano in modo assertivo la superiorità dell’uomo in quanto esclusivo detentore del logos. L’opuscolo di Plutarco verrà imitato e ripreso in modo esplicito in testi quali l’Asino d’oro di Machiavelli e soprattutto la Circe di Giovan Battista Gelli. Ma i temi enunciati da Grillo – l’elogio delle virtù degli animali contrapposte all’arroganza razionalistica dell’uomo, che lo rende ingiusto e infelice – riecheggiano anche in altri scritti, e penso soprattutto alla ricordata Apologie de Raymond Sebond di Montaigne, nella quale le pagine straordinarie sugli animali e le loro virtù hanno soprattutto lo scopo di denunciare l’antropocentrismo dell’uomo, che alimenta la sua presuntuosa illusione di giudicare ogni cosa alla luce della propria ragione e del proprio egoismo. C. conosce e cita il Grillo di Plutarco, e anche rispetto a tali tematiche ritiene che sia importante operare delle distinzioni e delle precisazioni. Da un lato, ogni ente, in quanto riflesso ed espressione della sapienza divina che si manifesta nella vita e nella sensibilità, è dotato di dignità e valore, e l’uomo deve imparare a riconoscere le proprie relazioni con il tutto, diventando consapevole di fare parte di una realtà più ampia, anziché proiettare su di essa la propria arroganza. Per ridimensionare la quale C. non esita a fare ricorso a immagini volutamente basse e popolari per ricordargli la sua condizione di ignoranza rispetto alla totalità. Se una rana entra nella nostra casa, le suppellettili che vede le appariranno inutili e prive di senso ; quando vi entra un topo, non capisce a che cosa servono i nostri oggetti, per cui rosicchia i vestiti e imbratta i libri : « così noi siamo nel mondo, che è la casa e l’officina dell’artefice sommo, e molto più ignoranti, e per questo non comprendiamo l’uso delle cose » [34]. Ma C. ricorda anche che l’uomo è il solo animale divino, la cui specificità non si basa sulla ragione e sull’astra 







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zione dell’intelletto, bensì sulla mens, scintilla dell’infinito, che lo rende capace di imitare e riprodurre la creatività divina insita nella natura per costruire il mondo umano, e gli conferisce le responsabilità di un essere libero, in grado di operare delle scelte. In una delle sue più note immagini, non esita a affermare che l’uomo, rispetto al mondo, è come un verme rispetto al ventre dell’uomo ; ma, a differenza del verme, l’uomo, come l’angelica farfalla di cui parla Dante, può mettere le ali e alzarsi in volo [35]. Consapevole dei propri limiti e della propria ignoranza, l’uomo deve evitare la tentazione di un sapere presuntuoso, che diviene falso quando non si riconosce come parziale e in relazione a un tutto più ampio ; ma deve altresì acquisire la consapevolezza della dignità che gli deriva in quanto è una parte della totalità divina, per costruire in modo corretto le proprie conoscenze e operare le proprie scelte.  



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87-88. – [15] Senso delle cose, iii, 8, 137-139. – [16] Ivi, ii, 23, 86-87 ; Ateismo, vii, 70 ; cfr. Plinio, Nat. hist., viii, v, 11. – [17] Ateismo, vii, 68 ; Senso delle cose, ii, 28, 104 ; iii, 8, 139. – [18] Della possanza dell’uomo, in Poesie, 407 sgg. ; cfr. Plinio, Nat. hist., vii, 1. – [19] Ethica, iii, 5, 51-56. – [20] Ateismo, 68. – [21] Ethica, i, 2, 18 ; Quaestio secunda eth., De libero arbitrio, in Ethica, 265-286 : 272-276 ; Metaphysica, pars ii, ix, 5, 7, 198, ii, ix, 6, 3, 202. – [22] Senso delle cose, ii, 28, 103 ; Metaphysica, pars iii, xiv, v, 146. – [23] Theol. l. xiv. Magia e grazia, a cura di R. Amerio, Roma, 1957, 222-224. – [24] Senso delle cose, ii, 29, 105 ; Sens. rer. 1637, 102. – [25] Amabile, Congiura, i, 60-61. – [26] F. Sozzini, F. Pucci, De statu primi hominis ante lapsum disputatio, a cura di M. Biagioni, Roma, 2010, pp 44-46 ; 144-146. L’incontro di C. con Pucci ebbe luogo nel 1594-1595 nel carcere del Sant’Uffizio romano (cfr. Reminiscentur, i, 144) ; sui rapporti Pucci-C., rinvio a G. Ernst, Religione naturale e impostura delle religioni. Contro il De tribus impostoribus, in Eadem, Religione, ragione, e natura. Ricerche su T. C. e il tardo Rinascimento, Milano, 1991, 129-133 ; Eadem, « Sicut amator insaniens ». Su Pucci e C., in Faustus Socinus and his Heritage, ed. by L. Szczucki, Krakow, 2005, 91-112. – [27] Metaphysica, pars iii, xiv, 5, 146. – [28] Quaest. prima pol., in Phil. realis, 77. – [29] Ivi, 8485. – [30] Ivi, 84 ; cfr. anche Ethica, xi, 2, De protestatione, 124. – [31] Quaest. prima pol., 84. – [32] Da altri testi di Plutarco sul confronto con gli animali, e da Porfirio, deriva un’ulteriore serie di problemi, fra i quali quello del vegetarianesimo ; cfr. C. Muratori, Eating (Rational) Animals : C. on the Rationality of Animals and the Impossibility of Vegetarianism, in Ethical Perspectives on Animals in the Renaissance and Early Modern Period, ed. by B. Dohm, C. Muratori, Firenze, 2013, 139-166. – [33] Del Corno, Introduzione, 40. – [34] Metaphysica, pars ii, ix, 9, 3, 217. – [35] Non a caso C. cita i versi di Dante, Purg. x, 124-126, nella dedica al cardinale Richelieu dell’ediz. parigina del De sensu rerum ; cfr. Lettere 2010, 447 (e anche 424).  





























Note. [1] La presente voce riprende, con qualche modifica e senza l’Appendice testuale, il contributo L’analogia e la differenza. C. e gli animali, in The Animal Soul and the Human Mind. Renaissance Debates, ed. by C. Muratori, Pisa-Roma, 2013, 209225. – [2] D. Del Corno, Introduzione a Plutarco, Del mangiar carne. Trattati sugli animali, Milano, 2001, 27. – [3] Ortensio Lando, Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia, a cura di G. e P. Salvatori, Bologna, 1994, 22. – [4] Phil. sens., 146 ; Documenta ad Gallorum nationem, in Opuscoli, 3 ; cfr. anche Senso delle cose, ii, 5, 40 (« l’ova del serico in Calabria vicino al fuoco si svegliano a formarsi ») ; Medic., 399. – [5] T. More, Utopia, a cura di L. Firpo, Napoli, 1981, 125. – [6] Mon. Francia, 456 ; sulla dogana di Foggia, si veda J.A. Marino, Pastoral Economics in the Kingdom of Naples, Baltimore-London, 1988 (trad. it. Economia pastorale nel Regno di Napoli, a cura di L. Piccioni, Napoli, 1992). – [7] Senso delle cose, ii, 23, 86 ; iii, 8, 138. – [8] Ivi, i, 8, 22 ; ii, 23, 87 ; Ethica, 69. – [9] Epilogo, iv, 2, 316-317 ; Senso delle cose, ii, 26, 98 ; ii, 4, 38 ; Epilogo, v, 1, 326-327. – [10] Senso delle cose, ii, 26, 98 ; i, 6, 14-15. – [11] Ivi, ii, 23, 85-87. – [12] Quaestio phys. xlix, art. 2, Utrum voces brutorum sint cum imaginatione et desiderio significandi conceptiones animae, in Phil. realis, 477-480 : 478. – [13] M. de Montaigne, Apologia per Raymond Sebond, in Saggi, ii, xii, a cura di F. Garavini, 2 voll., Milano, 1970, i, 585 ; Senso delle cose, ii, 23, 87. – [14] Ivi,  





































Bibliografia. D. Del Corno, Introduzione a Plutarco, Del mangiar carne. Trattati sugli animali, Milano, 2001, 11-28 ; Animal et animalité dans la philosophie de la Renaissance et de l’Age classique, sous la dir. de T. Gontier, Louvain-Paris, 2005 ; Ethical Perspectives on Animals in the Renaissance and Early Modern Period, ed. by B. Dohm, C. Muratori, Firenze, 2013 ; The Animal Soul and the Human Mind. Renaissance Debates, ed. by C. Muratori, Pisa-Roma, 2013.  





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Ariosto, Ludovico (Ariostus) 1. Presenza di Ariosto nelle opere letterarie. — La presenza di Ludovico Ariosto nella produzione di C. non è immediatamente percepibile, come invece il linguaggio e i temi della poesia di Dante. Nelle due Poetiche, quella italiana della fine del secolo (1596) e quella latina, terza parte della Philosophia rationalis (1638) la cui composizione risale al secondo decennio del Seicento, si trova che, come osservava Gioberti, « Dante è l’idolo del C. ». Egli esercita un grande fascino sul domenicano : sanguigno e diretto, aperto nel cantare il bene e nel denunciare il potere arbitrario anche quando veste gli abiti ecclesiastici. A tale ammirazione sconfinata corrisponde un linguaggio poetico intriso di dantismi, come emerge dall’analisi della Scelta di alcune poe­ sie filosofiche di Settimontano Squilla, pubblicata in Germania nel 1622. Nei confronti del poeta al servizio degli Estensi, invece, chierico per interesse ma laico per mentalità e costumi, C. non dimostra la stessa stima ; ciò nonostante, Ariosto è uno dei poeti moderni maggiormente menzionati, dopo Dante, nelle sue opere di poetica, e motivi ariosteschi sono presenti nella scrittura poetica campanelliana. Compare inoltre, più sporadicamente ma talvolta in modo significativo, anche nelle altre opere dello Stilese. Nella Poetica italiana, analizzando l’uso della finzione (fabula) che ne fanno la Scrittura, i poeti del mondo classico e i suoi contemporanei, C. critica Ariosto « per aver introdotto san Giovanni da poeta falso, e lodato tanto il puttanesmo, e Rinaldo dice, che maledetta sia quella crudel legge, che punisce l’amanti adulteri, e altre novelle impossibili » [1]. D’altra parte, poche righe più avanti si ammette nell’opera di Ariosto la presenza di « belle sentenze, che pone con tanta moralità e documenti », e altrove Ariosto è riconosciuto come poeta capace di « favoleggiare con utile del lettore », cioè inventare un soggetto in mancanza di esempi storici adeguati [2]. Il poema di Ariosto, come quelli di Boiardo e Tasso, è per C. imitazione dei modelli classici (non solo Omero e Virgilio ma an 



















che Valerio Flacco e Lucano) [3]. Nel poema Ariosto ha raffigurato i vari personaggi in ossequio al criterio dell’aptum, se è vero che l’eroe al centro del poema si comporta con generosità e senza viltà, nonostante, soggiunge C., egli impazzisca per amore [4]. Si citano personaggi ariosteschi, insieme ad altri classici e dall’opera di Tasso, nella tipologia dei personaggi del poema eroico : Brandimarte, Ruggero, Aquilante, Sacripante, Gradasso, Mandricardo, Bradamante, Marfisa, Brunello, le Amazzoni, i Giganti, l’arcangelo Michele, Astolfo, l’Ippogrifo, Angelica, Melissa, Atlante, Agramante ; anche i Cinque Canti sono noti a C. Ma non è solo la ricchezza dei riferimenti puntuali (ancora : il palazzo di Atlante, il giardino di Falerina, il sonno del Paradiso terrestre, il gigante Orrilo, le profezie di Merlino [5]) a caratterizzare la presenza di Ariosto ; C. lo ammira « per la vaghezza delle favole e per l’imitazione degli eroi e forse d’ogni altro personaggio, e per le descrizioni belle de’ paesi, fiumi, monti, mari, procelle e d’ogni altra cosa, che vi par vederla, mentre che la dipinge cantando dolcemente » [6]. Tali meriti sono però bilanciati dalla mancanza di unità di azione (« pare un copiatore di favole disunite » ; « bisogna disviarsi, or con Ruggiero, or con Orlando, or con Rinaldo e tanti altri » [7]), infrazione al canone della Poetica aristotelica (o quantomeno alla sua canonizzazione rinascimentale) che C. altrove critica ma che in alcuni punti mostra di seguire. Ancora a proposito dell’unità del poema, C. osserva che alcune imprese di Orlando paiono « più tosto tessute come la storia di Polibio, che come a un corpo di poema pare si convenga » [8] : è interessante che, dopo aver rimproverato a Ariosto una certa libertà nell’uso della fictio, C. accosti l’inventio e la dispositio di episodi del Furioso al racconto storiografico. Tra i meriti dell’Ariosto emerge un elemento che per la poetica campanelliana è assai significativo : l’evidentia della raffigurazione, la capacità di ‘dire’ cose e non vuote parole. Altro merito di Ariosto, poi, è l’aver praticato la satira « per riprendere i vizi tanto de’ principi, quanto della plebe, quanto contro i sofisti e poeti mendaci, e d’ogni altra persona » [9]. Nella Poetica latina, le menzioni e le citazioni  

































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di autori moderni sono assai più rarefatte a vantaggio dei classici greci e latini, oltre che di una scrittura più indirizzata all’approfondimento e chiarimento dal punto di vista teo­ rico ; qui Ariosto è compreso tra i poeti, antichi e moderni, che cantano amori turpi, al fine di suscitare piacere (« nelle loro squisite poesie divertono con la descrizione di amori nefandi ») [10]. Egli confonde inoltre la verità storica : C. confessa che « io stesso, prima di leggere la storia, ero incerto se Orlando e Carlo Magno fossero mai esistiti, tante sono le favole che di loro si narrano » [11]. Discutendo della potestas dei poeti, a cui occorre porre un limite, C. menziona Ariosto che per bocca di san Giovanni demistifica personaggi della storia e del mito antichi [12]. Nella trattazione della favola, C. biasima quelle che falsificano il vero, ma l’esempio ariostesco risulta potenzialmente meno pericoloso di altre falsificazioni a sostegno di tiranni ed eretici, mentre una valenza positiva, in quanto portatrici di significati nascosti, hanno le favole di Astolfo sulla luna e di Ruggero nel ventre della balena : la prima, infatti, « rivela i princìpi di Pitagora e ciò che i Padri immaginano sul Paradiso terrestre, e contiene stupendi significati », mentre la seconda « ci ammonisce che gli uomini vivono nel ventre di un mondo animato » [13]. Per il resto, nella Poëtica latina si menziona Ariosto a proposito degli stessi temi per i quali è ricordato nella Poetica italiana : la qualità dei personaggi e dell’elocuzione, la mancanza di unità del poema. Non si fa cenno ad Ariosto, invece, a proposito del poema satirico, mentre le Satire sono oggetto di citazioni o allusioni in altre opere campanelliane. Nella Rhetorica, poi, assai parca di riferimenti a letterati antichi e contemporanei, gli esempi dei moderni sono tratti da Dante e Tasso, mai da Ariosto. Nella Scelta d’alcune poesie filosofiche sono presenti motivi di derivazione ariostesca sia in alcune poesie sia nel commento ai singoli componimenti (l’Esposizione) ; non si tratta, in verità, di una presenza diffusa, e soprattutto, a differenza di quanto accade per Dante che era modello insieme di temi e di linguaggio, nella poesia di C. la memoria ariostesca agisce prevalentemente  

























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sull’aspetto tematico : i drappi di Gabrina, il castello di Atlante, l’invettiva contro gli stati che si fanno guerra tra di loro anziché agire concordemente per la liberazione di Gerusalemme (cfr. infra). Negli inediti Commentaria ai Poëmata di Urbano VIII [14], Ariosto è menzionato in svariate occasioni : con citazioni o riferimenti dal Furioso e dalle Satire. Nel commento all’ode barberiniana In Sanctum Ioannem Baptistam, a proposito della donna « radix peccati, arma diaboli » C. riporta tre ottave dal c. xxvii del Furioso in cui Rodomonte in preda all’ira lamenta i difetti del sesso femminile [15] ; curiosamente questa tirata misogina è da C. definita « Cantico », definizione che potrebbe suggerire una fruizione del Furioso non diretta e completa, ma per episodi e brani significativi ; oppure una sorta di canone dei difetti femminili da contrapporre al canone della bellezza, le cui origini più antiche sono da ricercare, secondo G. Pozzi, nel biblico Cantico dei Cantici [16]. 2. Presenza di Ariosto nelle altre opere di C. — Se negli scritti letterari la presenza di Ariosto è più marcata, riferimenti al poeta non sono tuttavia assenti in opere di natura differente. Nella lettera a Galilei seguita all’entusiastica lettura del Sidereus nuncius, C. menziona Ariosto a proposito del paradiso terrestre collocato sulla luna, questione metafisica di cui egli stesso ha già trattato e che si discosta appunto dalla « mathematicam negociacionem » che si addice allo scienziato [17]. In quella sorta di piano di studi che è il Syntagma, ai poeti è dedicato l’articolo ii del capitolo iv : Ariosto vi compare insieme a Tasso, Dante, Maffeo Barberini (il papa Urbano VIII autore dei Poëmata di cui C. scrive ampi e piuttosto farraginosi Commentaria) e Marino, ma senza particolare rilievo [18] ; l’operetta autobiografica non illumina ulteriormente sul percorso di accesso alle opere di questi poeti, sulle modalità di fruizione, sui gusti letterari di C. Un personaggio del Furioso è ricordato nell’Ethica, quando a proposito della derisio si porta ad esempio Marfisa che addita come bellissima la deforme Gabrina [19], personaggio che ricorre più volte in C. (cfr. infra). Anche negli Articuli prophetales e nella Città del Sole si trovano riman 























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di ad Ariosto. Nell’articolo iv, nell’ambito di una critica al mondo pagano, C. depreca la moda, in uso nel Rinascimento, di gentilizare, cioè di grecizzare, il proprio nome come hanno fatto Sannazzaro, Pontano e altri [20], ricordando una satira di Ariosto sull’argomento. Più significativa la menzione di Ariosto all’articolo viii, sull’imminente secolo aureo, in cui del Furioso si riporta, in forma inesatta, un distico su un tema centrale per C. : « sotto questo imperatore, solo una greggia fia, solo un pastore » [21]. All’articolo xvii, invece, il poeta del Furioso è nuovamente compreso nell’elenco di poeti impudichi e lascivi quali Franco e Aretino [22] ; stavolta però causa di questa circostanza è l’epoca astrologica, cioè il « saeculum foemineum », frutto di particolari condizioni negli astri [23] tra i cui effetti si trova il prevalere di figure femminili al potere, che C. puntualmente elenca, sia in questo passo degli Articuli prophetales sia in un capitolo della Città del Sole [24]. In tale contesto si giustifica l’incipit del Furioso, che mette in primo piano appunto le donne, come risulta anche dalla Poetica italiana (« Ma invero fu egli al tempo del secolo feminile : però cominciò da le donne, e le difende quanto può » [25]. 3. Un giudizio morale. — Il giudizio su Ariosto è dunque articolato e complessivamente positivo ; C. lo preferisce a Tasso, di cui rileva che « riduce tutta la poetica in belle parole » e « arrecò tante parole e l’infilzò con l’ago, ma concetti comuni e rubbati, e pochi precetti, e giovamento assai meno degli altri » [26]. La critica più rilevante – prevedibilmente – pur mitigata dalla circostanza di aver composto il Furioso durante il « secolo feminile », è quella etica : a proposito del ruolo educativo del poeta, « ne lice ancor dir male dell’Ariosto, per aver introdotto san Giovanni da poeta falso, e lodato tanto il puttanesmo, e Rinaldo dire, che maledetta sia quella crudel legge, che punisce l’amanti adulteri e altre novelle impossibili » [27]. In svariate occorrenze C. menziona Ariosto solo come un nome nel catalogo dei rappresentanti di una letteratura edonistica. Quando però analizza passi ed episodi del Furioso o delle Satire, il giudizio cambia : si fa più articolato, puntuale, con 







































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nesso ad altre tematiche di interesse campanelliano. 4. Intertestualità : appropriazione e uso polivalente. — Nell’Esposizione del sonetto 41 della Scelta si legge : « [scil. il sonetto] loda i Svizzeri e Grisoni di fortezza corporale e fede, e gli biasima che, sendo essi liberi, mantengono l’altre nazioni in servitù, con farsi mercenari […] Poi l’invita alla vera libertà ed a ritogliere a’ tiranni quel ch’è loro. Vedi l’Ariosto, che dice una simile cosa a’ Svizzeri, e gli invita contra il Turco tiranno, biasimandogli che in Italia eran mercenari de’ lupi ». L’ottava ariostesca cui C. si riferisce, dal canto xvii, si colloca in una lunga invettiva politica che il poeta inserisce nella descrizione della giostra di cavalieri in corso a Damasco. Nei Commentaria C. riporterà non una ma quattro ottave da questo canto [28]. In esso, rievocando le glorie del passato, il poeta non può non osservare che nell’epoca a lui contemporanea, invece, Francesi, Spagnoli, Svizzeri e Tedeschi fanno guerra in Italia, già cristiana ; il poeta li esorta a impegnarsi invece per riconquistare i luoghi santi : « Voi, gente ispana, e voi, gente di Francia, / volgete altrove, e voi, Svizzeri, il piede, / e voi, Tedeschi, a far più degno acquisto ; / che quanto qui cercate è già di Cristo. / […] Se ’l dubbio di morir ne le tue tane, / Svizzer, di fame, in Lombardia ti guida, / e tra noi cerchi o chi ti dia del pane, / o, per uscir d’inopia, chi t’uccida ; / le ricchezze del Turco hai non lontane : / caccial d’Europa, o almen di Grecia snida » [29]. In queste ottave, che con l’allusione alle guerre d’Italia riportano il lettore di Ariosto dal leggendario passato carolingio alla scottante attualità, il tono, non usuale nel poema ariostesco, è invece ben congeniale al C. dei sonetti profetali e politici, nonché della Monarchia di Spagna, e anche al Dante delle invettive : il sintagma « superbi e miseri cristiani » usato da Ariosto non può non richiamare il « superbi cristian, miseri lassi » di Purgatorio x, 121. Verso che d’altra parte allo Stilese è ben noto, visto che introduce un passo dantesco più volte citato da C. a proposito dell’immagine dell’uomo come verme : « O superbi cristian, miseri lassi, / [...] non v’accorgete voi che noi siam vermi / nati  



































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a formar l’angelica farfalla, / che vola alla giustizia sanza schermi ? » [30]. L’immagine del verme che si trasforma in farfalla, o del verme nel ventre del mondo, è cara a C., che la usa in svariate opere come ad esempio la Città del Sole, il Senso delle cose, la Theologia, la Scelta, le lettere [31]. Si può ipotizzare che la conoscenza di un passo dantesco così significativo e del suo linguaggio, abbia contribuito a rendere in un certo senso memorabili le ottave ariostesche che di quel passo riecheggiano l’incipit. La denuncia dell’Italia prima dominatrice e ora serva di quanti un tempo a lei erano asserviti, è probabilmente motivo troppo vulgato per fornire precise indicazioni intertestuali, ma comunque è un altro elemento che permette di supporre una lettura non distratta né distaccata di queste ottave da parte di C., che usa questa immagine almeno nel sonetto 37, D’Italia. Altro richiamo ad Ariosto, in questo sonetto, è la metafora che accosta finestre a ferite : « di ampie finestre / spargete il sangue », come in Furioso xv, 120, oltre che nel canto xii dell’Inferno dantesco. La rima acquisto-Cristo, invece, richiama l’incipit del poema tassiano (« Canto l’arme pietose e ’l capitano / che ’l gran sepolcro liberò di Cristo./ Molto egli oprò co ’l senno e con la mano, / molto soffrì nel glorioso acquisto » [32]), il cui argomento si intona a quello delle ottave di Ariosto sulla riconquista di Gerusalemme. Un altro esempio di una lettura che si appropria di temi e motivi volgendoli ai propri obiettivi polemici o ideali è l’uso di materiali ariosteschi nei Commentaria. Nel commento all’ode Adulatio perniciosa, che l’allora cardinale Maffeo Barberini, poi papa Urbano VIII, scrisse nel 1620 in onore di Galilei, ci sono svariati richiami ad Ariosto. Argomento dell’ode è l’adulazione, su cui – ricorda C. – anche Ariosto ha scritto una satira (la Satira i ). Ancora dalle Satire è la citazione che compare poco più avanti, nel Commentum philosophicum ad maiores della medesima ode barberiniana [33] : « Degli uomini son varii li appetiti : / a chi piace la chierca, a chi la spada, / a chi la patria, a chi li strani liti » [34], versi che ricordano altri di C., ad esempio il sonetto 17 della Scelta (Non è re chi ha  





















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regno ma chi sa reggere) sulla necessità di conformarsi alla propria inclinazione. In questa satira citata da C., il poeta critica la vita a corte al servizio dei potenti ; nonostante la si possa immaginare una vita privilegiata, il poeta le preferisce le ristrettezze del proprio ambiente, non fidandosi di illusorie prospettive di potere e guadagno da cogliere nella Roma papale. Ariosto utilizza qui anche il tema, caro a C., dell’abito, dell’aspetto esteriore (o della carica che si riveste) che non corrisponde alle qualità interiori : « Quante collane, quante cappe nuove / per dignità si comprano, che sono / publici vituperii in Roma e altrove ! / Vestir di romagnuolo et esser bono, / al vestir d’oro et aver nota o macchia / di baro o traditor sempre prepono » ; la satira si chiude con una critica feroce a chi « ha meritato con brutti servigi / la dignitate e ’l titolo che puzza / a’ spirti umani, alli celesti e a’ stigi » [35] : versi che ancora ricordano la denuncia contenuta nei sonetti 15, 16 e 17 della Scelta. Il tema dell’adulazione, dell’ipocrisia nel rapporto col potere contrapposta alla parresia che C. invece si riconosce, torna anche nell’altra citazione da Ariosto nel medesimo commento di Adulatio perniciosa : « Alcun non può saper da chi sia amato / mentre felice in su la ruota siede, però c’ha i veri, e i finti amici a lato / che mostran tutti una medesma fede » [36]. Il commento ad Adulatio perniciosa contiene altri richiami ad Ariosto, su temi trattati anche altrove da C., come ad esempio la relatività dei punti di vista : le ferite inflitte da Orlando ai nemici paiono belle a Mandricardo, perché testimoniano il valore dell’eroe, mentre a un medico risultano solo segni certi di morte imminente. Da questi esempi sembra di poter osservare che anche in un’opera di erudizione come i Commentaria, dove il commento, secondo una tradizione ancora viva nella cultura rinascimentale, si traduce spesso in un accumulo di nozioni – talora di riflessioni – su ogni singolo lacerto poetico, la selezione dei riferimenti letterari avviene, da parte di C., in base ai propri interessi : a partire da un tema piuttosto comune e generico, quale quello della varietà dei gusti umani (una sorta di priamel), si menziona e si  



























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cita di Ariosto proprio un testo in cui questo tema è inserito all’interno di una denuncia dell’ipocrisia e del malcostume che anche C. depreca nei propri scritti. Altro motivo ariostesco presente in C. è quello delle vesti di Gabrina : nella canzone 29, Della bellezza segnal del bene oggetto d’amore, C. afferma, a proposito della bellezza e del valore conoscitivo delle metafore, che esse piacciono quando « manifestano con la similitudine la cosa ignota, la quale, in quanto saputa, è ben dell’intelletto, benché in sé ria. E quando non amplificano e non dichiarano, sono brutti gli traslati, come i drappi di Gabrina vecchia dell’Ariosto, vestita di vesti belle ; ed è come il papato in chi deve esser cuoco, dove fa bruttezza doppia : ché mostra mal governo e mal elezione » [37]. Un tema carissimo a C., quello dell’elezione a un ruolo in base alle doti naturali è qui rappresentato attraverso l’esempio negativo di Gabrina, vecchia vestita da giovane ; il tema scaturisce dall’osservazione della funzione conoscitiva del traslato e della metafora (tema rilevante delle poetiche secentesche : si pensi a Tesauro) Gabrina, nel poema ariostesco, è presentata come vecchia e sgraziata, astuta e ingannatrice (« Avea la donna (se la crespa buccia / può darne indicio) più de la Sibilla, / e parea, così ornata, una bertuccia, / quando per muover riso alcun vestilla » [38] ; l’immagine comica della vecchia bardata come la bella eroina (indossa infatti le vesti di Bradamante) funziona nella canzone campanelliana come simbolo della metafora che non mostra nulla di nuovo. Ma Gabrina in C. è anche altro. Nella Poetica infatti è addotta ad esempio di buona rappresentazione, (« l’imitazione è tanto più bella, non quanto più è ornata, ma quanto più rappresenta » ; « Si potrebbe ben dire la Gabrina dell’Ariosto più bella della sua Marfisa, perchè più sapientemente imitata, e l’imitazione è segnale della sapienza possente ben operare »). Dunque Gabrina come simbolo di bellezza segnale del bene in quanto buona e fedele rappresentazione. Cioè, a veder bene, l’opposto della Gabrina simbolo del traslato che nulla aggiunge alla lettura della realtà. 5. Intertestualità e interpretazione. — Commentando la favola ariostesca di Ruggero  





























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naufrago nel ventre della balena, C. dichiara : « ci ammonisce che gli uomini vivono nel ventre di un mondo animale, e che al momento della nascita cadono in una specie di grande mare, e che siamo come i vermi nel nostro corpo, che ignorano noi, la nostra anima e dove essi stessi sono. Non so se l’Ariosto pensò a questo, però raggiunge lo scopo della verità » [39]. La favola di Ruggero, quindi, è interpretata secondo la filosofia campanelliana anche al di là delle intenzioni dell’autore. Nel commento all’ode barberiniana In Sanctum Ioannem Baptistam, la medesima favola di Ruggero è menzionata in relazione all’episodio biblico del profeta Giona nella balena, di cui i cristiani – dice C. – diversamente dagli ebrei, non mettono in dubbio la veridicità ; lo Stilese si premura a questo punto di allontanare eventuali sospetti dalla favola ariostesca, che non mira affatto a screditare l’episodio biblico ma a mostrare appunto che l’uomo è come un verme nel ventre del mondo [40]. In questo caso la menzione del testo di Ariosto sembra piuttosto pretestuosa, funzionale più ad approfondire un tema caro allo Stilese che a commentare i versi della poesia di Maffeo Barberini. Anche il viaggio di Astolfo sulla luna è interpretato come veicolo di messaggi filosofici e « stupendi significati » : « infatti rivela i princìpi di Pitagora e ciò che i Padri immaginano del Paradiso terrestre » [41]. Certo è che la lettura di Ariosto rappresenta per C. una miniera di immagini, personaggi, lessico, concetti ; il potere delle favole ariostesche, in particolare, è tale da commuovere lo stesso C. : « E sebbene sappiamo che queste cose, quando sono descritte nei poemi, sono immaginarie, tuttavia ci rallegriamo, come quando vediamo un ritratto della donna amata. Io, quando leggo nell’Ariosto del valore e degli atti generosi e magnanimi di Orlando, o delle bassezze dei vili, mi commuovo come se assistessi davvero a quelle gesta, e spesso mi vengono le lacrime agli occhi. Ma soprattutto mi commuove la verità, come quando leggo Isaia e ascolto le promesse divine come se fossero pronunciate or ora » [42].  

























Note. [1] Scritti lett., 337. – [2] Ivi, 355. – [3] Ivi, 340. – [4] Ivi, 366. – [5] Ivi, 385. – [6] Ivi, 377-378.

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– [7] Ivi, 378-379. – [8] Ivi, 382. – [9] Ivi, 343. – [10] Ivi, 933-935. – [11] Ivi, 975. – [12] Ivi, 1001. – [13] Ivi, 1101. – [14] I testi superstiti dei Commentaria alle poesie latine di Urbano VIII sono stati trasmessi da tre codici conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Lina Bolzoni, che ringrazio qui per la disponibilità, ne sta preparando l’edizione moderna ; i riferimenti nella presente voce enciclopedica sono alle carte del codice Barb. Lat. 1918 che conserva gran parte dei commenti. – [15] Commentaria, c. 440v. – [16] G. Pozzi, Alternatim, Milano, 1996, 483 ; cfr. anche Idem, Sull’orlo del visibile parlare, Milano, 1993, 145-171. – [17] Lettere, 164. – [18] Syntagma 2007, 94. – [19] Ethica 2011, 138. – [20] Art. proph., 35 e 274. – [21] Ivi, 116. – L. Ariosto, Orlando furioso, xv, 26. – [22] Art. Proph., 273. – [23] Cfr. G. Ernst, donna, in ebc ii, 220-221. – [24] « Della guerra, dell’arti e vitto, delle scienze, e della religione » (Città del Sole, 56-57). – [25] Scritti lett., 337. – [26] Ivi, 537-538. – [27] Cfr. nota 1. – [28] Commentaria, c. 235v. – [29] L. Ariosto, Orlando furioso, xvii, 74, 77. – [30] D. Alighieri, Commedia, Purg. x, 121-126. – [31] Poesie, 37-38 ; Lettere, 324. – [32] T. Tasso, Gerusalemme liberata, i, 1-4. – [33] Commentaria, c. 31v. – [34] L. Ariosto, Satire, iii, vv. 52-54. – [35] Ivi, vv. 271-276 e vv. 311313. – [36] Commentaria, c. 44v ; cit. da L. Ariosto, Orlando furioso, xix, 1. – [37] Poesie, 138. – [38] L. Ariosto, Orlando furioso, xx, 120. – [39] Scritti lett., 1101. – [40] Commentaria, c. 442r. – [41] Scritti lett., 1101. – [42] Ivi, 947.  











Bibliografia. L. Firpo, Introduzione a T. C., Tutte le opere, a cura di L. Firpo, Milano, 1954, xi-lxii ; L. Bolzoni, Introduzione a T. C., Opere letterarie, Torino, 1997, 9-72 ; A. Cerbo, Theologiza et laetare. Saggi sulla poesia di T. C., Napoli, 1997 ; M. Polacco, Intertestualità, Bologna, 1998 ; A. De Vinci, Tra le letture del giovane T. C., Vibo Valentia, 2002 ; G. Ernst, Il carcere il politico il profeta. Saggi su T. C., Pisa-Roma, 2002 ; « Tra mille carte vive ancora ». Ricezione del Furioso tra immagini e parole, a cura di L. Bolzoni et alii, Lucca, 2010.  















Teresa Bonaccorsi avvocato (advocatus)

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buon medico, del buon sovrano, del buon poeta, del buon avvocato e così via. Ciò che poi inevitabilmente rientra nella sfera politica, poiché la sua visione di una società organica, basata sull’abilità, il sapere e la bontà degli individui e delle categorie che compongono il corpo politico, rispecchia le primalità che sostanziano la metafisica campanelliana e quindi il suo pensiero in generale. Ognuno ha un ruolo da compiere e un contributo da offrire, e la società si realizza o si distrugge a seconda del modo in cui ogni individuo adempie alle proprie funzioni e ai propri doveri. Inoltre, la riflessione filosofica di C. spesso si intreccia con vicende o situazioni vissute in prima persona : da questo punto di vista si può comprendere meglio la sua attenzione per « coloro che accusano o difendono i rei operan[d]o secondo la legge, che mira al bene comune e privato » [1]. Come C. ci informa nel Syntagma, all’età di quattordici anni e mezzo il padre avrebbe voluto mandarlo a Napoli dallo zio Giulio, lettore privato di giurisprudenza, in modo che il giovane Giovan Domenico – le cui doti erano già ben note – potesse intraprendere la carriera giuridica [2]. La figura poco nota di Giulio Campanella ci consente di offrire alcune rilevanti precisazioni sulla situazione degli studi giuridici a Napoli in quell’epoca : situazione che C. avrebbe constatato di persona pochi anni più tardi, nel corso del suo soggiorno nella città, durante il quale ebbe modo di frequentare anche persone che esercitavano la professione forense. Fra i giuristi napoletani – che godevano di un’ottima fama, visto che alcuni di loro venivano spesso consultati dalle autorità imperiali su varie e importanti materie di carattere giurisdizionale – è possibile individuare due categorie ben distinte : una costituita dal lettore privato, l’altra dal docente universitario. Il primo si contrapponeva spesso al secondo sia per le parti della giurisprudenza che insegnava ai propri allievi, sia per le idee in genere piuttosto critiche verso il potere politico : i giuristi universitari erano di solito più accomodanti nei confronti dei sovrani. Queste linee generali non erano certo casuali. Nelle università dei luoghi governati dagli Spagnoli, come era il caso di Na 











1. Cenni autobiografici e poetici. — C. fa spesso ricorso a figure reali o fittizie per illustrare il proprio pensiero, e anche per delineare in maniera normativa quali siano i requisiti del

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poli, i docenti tendevano a sottolineare quasi esclusivamente la funzione interpretativa del giurista o avvocato, prestando particolare attenzione alla casistica e mostrando scarso interesse per la riflessione filosofica o dottrinale riguardo alle leggi vigenti. L’intento primario era quello di mantenere e rafforzare lo status quo, vale a dire l’autorità assoluta di chi governava : la legge veniva vista innanzitutto come uno strumento importante nelle mani dell’autorità politica [3]. Ma fra i giuristi partenopei c’era anche un nucleo critico particolarmente attento alla diffusione di nuove idee e valori, che non erano per niente favorevoli alla linea politica di quei sovrani che intendevano istituire un sistema giuridico alquanto rigido e severo. Per questa ragione, anche a Napoli le autorità spagnole pensavano alle scuole di diritto come a strumenti per preparare giuristi e avvocati competenti, ma soprattutto ligi alle loro direttive, e non certo come dei nidi per idee critiche e potenzialmente sovversive. Di conseguenza, le scuole pubbliche venivano tenute strettamente sotto controllo e l’insegnamento prediligeva materie quali l’antico diritto romano e il diritto ecclesiastico o canonico. Diversa la situazione nelle scuole private, nelle quali spesso si insegnavano le materie che venivano escluse da quelle pubbliche, quali la filosofia e la storia del diritto, rami più aperti e speculativi, che tendevano ad approfondire il significato della giustizia in se stessa e della legge in quanto sua espressione, e non come mezzo grazie al quale estendere e rafforzare il potere. Il fatto che Giulio Campanella fosse un lector (lettore privato) di giurisprudenza fa pensare a una sua probabile appartenenza a questo secondo gruppo di giuristi. La posizione che C. adotterà nei confronti di tali problematiche sarà netta : in primo luogo, la riflessione filosofica sulla giustizia, il diritto e la legge in generale precede ogni lavoro interpretativo delle leggi particolari ; in secondo luogo, lo ius (la legge) deve essere al servizio di ciò che è giusto (iustum) e non del potere (iussum), poiché C. condivideva la dottrina tomistica secondo la quale la legge ha come proprio fine il bene comune e non il bene privato dei potenti, ciò che spesso conduce alla tirannia.  





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Anche se C. aveva preferito il bianco saio domenicano alla toga del giurista, il suo interesse per la giustizia e la legge occupa un posto di rilievo nel suo pensiero politico. Pur non avendo intrapreso un percorso formale di studi giuridici, egli era stato più volte chiamato a fornire consigli su materie giurisdizionali a vescovi e amici. Inoltre, ben presto si era venuto a trovare in quelle funeste circostanze nelle quali dovette impegnarsi in prima persona per difendersi contro accuse molto gravi. Fra i protagonisti delle prime fasi del processo seguìto alla fallita ribellione del 1599 ritroviamo due avvocati che, in quelli che Firpo chiama Canti del carcere, vengono contrapposti l’uno all’altro a un paio di pagine di distanza : da un lato l’avvocato fiscale Luise Xarava, definito come un « mostro, ignorante, senza mente umana », che desidera « la sua grandezza » a prezzo del sangue dell’accusato [4] ; dall’altro lato, Giovanni Battista De Leonardis, avvocato dei poveri, un « leon ardente, che si muove / a guerreggiar » per difendere C. « in si noioso intrico » [5], anche se in tempi successivi C., ingiustamente, esprime la sua delusione nei suoi confronti, poiché « per esserli stato contra, lo fecero avvocato fiscale » [6]. A prescindere da tale considerazione, De Leonardis rappresenta la figura del « buon giurista », [7] che aveva scritto una difesa dello Stilese « tanto coraggiosa quanto inascoltata » [8], come sottolineava Firpo, e Xarava, al contrario, sempre a detta di Firpo, l’avvocato « astuto » [9], « implacabile » [10], « troppo zelante e astuto » [11]. Già in queste due poesie vengono delineate le due figure antitetiche del buon avvocato e di quello malvagio ; il primo colmo di virtù e l’altro di vizi ; il primo, sapiente, compie il proprio dovere « d’offizio », e l’altro, ignorante, agisce « sotto a finto zelo » ; uno eloquente, dalla cui bocca « esce vampa di leggi » e l’altro che « di rabbia scoppia, si spaventa e langue ; / muta sembiante di volpino pelo » ; il primo « degno di Cristo e degl’invitti eroi » e l’altro, il fiscale – noto anche come l’advocatus diaboli – uno dei « ministri di Sátan », che « aggirato vien dal perfido angue [cioè da Satana stesso] » [12].  

















































































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2. Lo iurisconsultus perfectus e i legulei. — La rappresentazione dell’avvocato buono e di quello cattivo (nel caso dello Xarava i riferimenti vengono ampliati e inaspriti in altri versi) rientra in quello che Donald Kelley chiama « un dittico che riflette gli estremi del bene e del male » [13] con il quale si può illustrare la topologia della figura dell’avvocato che emerge nella letteratura e negli scritti giuridici e politici dal Rinascimento alla prima età moderna, cominciando con Petrarca fino a Leibniz, che da giovane aveva scritto un breve ma importante trattato in cui delineava lo iurisconsultus perfectus [14]. Il rinnovato interesse per il diritto romano aveva contribuito a ribadire il primato della giurisprudenza, definita dai Romani nello stesso modo in cui i Greci avevano definito la sapienza, vale a dire come la conoscenza delle cose divine e umane [15]. Erano molti i giuristi che esaltavano con orgoglio la propria professione mettendola al pari della teologia e della filosofia, idealizzandola come quella legitima scientia che siede sul trono della sapienza. Nell’altro lato del dittico l’avvocato viene rappresentato da figure che ricordano il manzoniano Azzeccagarbugli, per il quale la professione forense consiste principalmente nell’imbrogliare il prossimo. C. non manca di delineare il suo modello ideale del buon giurista, e più particolarmente del buon avvocato ; il buon « legista » che viene schiettamente contrapposto ai « legulei, che conseguono pingui guadagni difendendo qualsiasi cosa », proprio come il buon legislatore viene contrapposto ai « principi tiranni, che [...] mungono dai sudditi molto denaro » [16]. Da alcuni cenni presenti nelle sue opere possiamo quindi capire che cosa, secondo lui, contraddistingueva il vero legista (lo iurisconsultus perfectus leibniziano) dal leguleio (il pedante antitetico al primo), e quali fossero le prerogative del buon avvocato, prerogative che si potrebbero riassumere in tre caratteristiche principali intrecciate fra di loro e che già abbiamo intravisto nei sonetti ‘degli avvocati’ : la virtù e l’integrità morale (l’uomo giusto) ; la perizia e la conoscenza della legge (l’uomo di scienza) ; e l’abilità di perorare in maniera elegante e persuasiva (l’uomo eloquente).  























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3. « Robur animi est necessarius » [17]. — Il buon avvocato deve essere dotato in primo luogo di animo forte e di bontà morale. Già nel costituirsi dell’ideale rinascimentale il buon avvocato veniva visto come ‘il buon cristiano’ o ‘la buona persona’ che si contrapponeva all’« immagine più oscura e diabolica [...] del proverbiale ‘cattivo cristiano’ », personificazione dell’astuzia machiavellica [18]. Non c’è dubbio che le accuse lanciate da C. contro lo Xarava (« tutti [...] Achitofelli / Sciarava granatese ha superato » ; « puzza d’ateismo » ; « muta sembiante il suo volpino pelo ») riecheggino le critiche indirizzate altrove a Machiavelli, dimostrando così una sua convergenza con una tendenza più ampiamente diffusa nel descrivere il cattivo avvocato. Inoltre, tutti i riferimenti al fiscale che si ritrovano nel suo epistolario sottolineano che egli era scomunicato. Non a caso C. dedica proprio alla figura dell’avvocato alcune pagine del libro x della Theologia (Delle virtù e dei vizi in particolare), dove si sofferma a lungo su vari aspetti della virtù della giustizia. In linea generale, è chiaro che per C. la giustizia come virtù della comunità politica viene meno quando gli ufficiali incaricati di amministrarla sono essi stessi ingiusti e privi di virtù individuali. Dunque, colui che accede all’ufficio pubblico – incluso l’avvocato – deve essere, come si afferma nell’Esodo, « forte, avere il timor di Dio, amare la verità e aborrire l’avarizia » [19]. Queste qualità di integrità morale, necessarie soprattutto per il giudice, valgono anche per l’avvocato in quanto collaboratore dell’ordine giudiziario. Le questioni affrontate da C. nel trattare dell’avvocato sono le stesse che Tommaso discute nella Summa [20], ma in un ordine diverso e con l’aggiunta di alcuni punti non presenti nei testi dell’Aquinate. La prima è la questione del compenso. Mostrando una forte sensibilità nei confronti di un problema del tutto pratico ma di forte rilievo lungo il percorso della giustizia, egli sostiene che è lecito per l’avvocato aspettarsi un giusto compenso per « le fatiche sostenute e gli atti compiuti nello studio della causa, nonché le spese e il tempo impiegato nel patrocinio », precisando comunque che l’avvocato « non  

































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vende la sua scienza » [21] – come se C. volesse specificare la frase usata da Tommaso « si vendat suum patrocinium sive consilium » [22]. Per questi motivi, può ricevere un compenso dallo Stato o dalle parti. Qualora il compenso fosse fissato dalla legge – come pare preferisse C. – l’avvocato non può ricevere di più, « ma se non è fissato, può ricevere quanto porta la consuetudine secondo il luogo, il tempo e la condizione ». Il compenso, dunque, viene accordato secondo norme stabilite. Non è mai lecito – prosegue C. – che nei casi che coinvolgono o richiedono una somma di denaro per la parte interessata l’avvocato patteggi con un cliente un compenso per sé nella forma di una percentuale della somma in questione, « perché non si abbiano a escogitare arti illecite per vincere, ciò che la legge procura di evitare » [23]. In ciò, fra l’altro, consiste l’integrità morale richiesta dall’avvocato nell’adempimento dei suoi doveri : come collaboratore alla ricerca della giustizia, le sue azioni devono essere ugualmente giuste, poiché il contrario costituirebbe una perversione di ciò che il sistema giudiziario stesso aspira a realizzare. Altro requisito morale è la carità. Tommaso affermava, senza entrare nei particolari, che l’avvocato non sempre è tenuto a prestare il proprio servizio gratuitamente quando assiste i poveri [24]. C. si sofferma su questo punto con l’intento di specificarlo ulteriormente : mentre è lecito per l’avvocato ricevere un giusto compenso per le attività svolte, il precetto della carità prevede che egli sia tenuto a patrocinare gratuitamente le cause dei « poveri che versano in estrema necessità ». Notiamo qui una sottile differenza : in C. l’aiuto ai poveri viene dato « ex caritatis praecepto », mentre per Tommaso « ad opus misericordiae pertinet ». Questo precetto della carità è simile a quello del medico che è moralmente tenuto a curare gratuitamente l’ammalato che non può permettersi di pagare – una similitudine usata anche da Tommaso. C. precisa che l’avvocato non è obbligato ad aiutare i poveri al punto da diventare a sua volta bisognoso : deve dare « del suo superfluo » – cioè del suo tempo e fatica – per aiutare il prossimo. Ma in casi di  



































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estrema necessità, come nel caso di pericolo di morte (e anche a questo proposito è possibile cogliere una sfumatura autobiografica), egli deve attingere anche dal suo necessario. Tutto ciò, precisa ulteriormente C., vale in quei casi dove non ci sia a disposizione un altro avvocato, o quando nasca il sospetto che egli non abbia la volontà di prestare aiuto alla parte. C. parla poi delle cause ingiuste e a questo proposito segue da vicino l’argomentazione di Tommaso, secondo il quale è da considerarsi un peccato difendere una causa ingiusta, a meno che l’avvocato sia ignaro dell’ingiustizia della causa ; in questo caso l’ignoranza lo scusa. Poi prosegue facendo due precisazioni. In primo luogo, nel caso che ab initio la giustizia della causa « propenda anche soltanto poco verso una delle due parti, può patrocinare l’imputato assumendone la difesa, se è causa di onore o causa capitale ma non l’attore sostenendo l’offesa ». In secondo luogo, se nel corso dei procedimenti l’avvocato viene a sapere dell’ingiustizia della causa che difende, egli non è tenuto ad abbandonarla e rivelare l’ingiustizia alla parte avversa e al giudice, a meno che la causa non sia grave o non comporti una minaccia per un innocente. Anche a questo proposito, dunque, l’avvocato, come collaboratore della giustizia deve sì difendere gli interessi della parte patrocinata nel processo, ma non al punto da causare ulteriore ingiustizia. All’elenco di Tommaso delle categorie escluse dal praticare l’ufficio di avvocato – persone di cattiva reputazione, i pazzi, gli ignoranti e gli infami –, C. aggiunge anche in maniera specifica gli eretici, « affinché la giustizia non resti contaminata o indebolita » [25]. Questa lista riafferma che l’idoneità dell’avvocato resta collegata alla virtù morale di colui che ricopre l’incarico, ciò che ci consente di comprendere meglio l’intenzione di C. dietro l’uso degli aggettivi nel sonetto contro Xarava e in quello in lode del Leonardi. 4. Uomo di scienza. — Prima di affrontare le questioni appena trattate, nel quadro della discussione della virtù morale della giustizia, C. scrive che « chiunque sa di essere inesperto nella legge e si intromette nell’ufficio  











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di avvocato o procura di salire al seggio del giudice, pecca mortalmente perché mette in pericolo la legge, la verità e il giudizio » [26]. Più avanti ribadisce che « chi, essendo dottore imperito e indegno, si fa avvocato e per la sua ignoranza rovina la causa di cui assume il patrocinio, pecca similmente » [27]. Ecco quindi delineato il secondo aspetto dell’‘avvocato ideale’ : la perizia. Si ricordi che la studiosità è la virtù di colui che ricerca la verità e indaga il fine ultimo delle cose [28], e in questo senso si può capire come lo studio del diritto sia di per sé un’attività morale : nell’ideale campanelliano il giusto o il buono è il sapiente e viceversa, così come l’ignorante o l’inesperto tende più al male e a causare il male. Il cattivo avvocato, personificato nello Xarava, è appunto un « mostro, ignorante, senza mente umana », mentre dalla bocca del buono, personificato nel De Leonardis, « esce vampa / di leggi, d’argomenti e d’altre prove ». In un contesto culturale e intellettuale entro il quale aveva luogo il costituirsi di una ‘nuova scienza’ giuridica, molti giuristi pensavano a nuovi modelli di formazione professionale per l’apprendimento e l’insegnamento della giurisprudenza. Su questo argomento C. non dice molto, ma nelle sue scarne affermazioni ritroviamo delle proposte abbastanza pertinenti. Nel Syntagma – dove l’autore discute appunto il « corretto metodo di apprendere » – egli delinea in maniera generale una formazione umanistica per « chi tratta di scienza morale, di politica », sfere nelle quali rientra lo studio del diritto : coloro che seguono questo percorso formativo devono studiare « la storia delle nazioni, i costumi delle genti, le mutazioni e le forme del vivere [...] se no non potr[anno] mai elaborare una scienza certa di queste cose, perché è dall’individuale che si giunge all’universale, che costituisce il principio delle scienze » [29]. In polemica con il predominio aristotelico diffuso nelle scuole che seguivano Bartolo di Sassoferrato, C. asserisce che la base della scienza politica (e per estensione di quella giuridica) « sarà Platone, che tratta le leggi, la legislazione, il regno e la repubblica nel modo più soddisfacente » [30]. Quello che c’è di buono in Aristotele, insisteva C., lo  



































si deve al suo maestro. È interessante notare che quando nel Syntagma C. nomina autori specifici per le varie discipline, nella sezione « de legistis » non indica nessun giurista o nessun testo in particolare. Invece, egli esprime il proprio rammarico che la moltitudine di leggi e di commenti sulle leggi scritte e non scritte non risulti di nessun giovamento ai giudici, ai clienti e allo stato ; essa diventa, al contrario, « svantaggiosa e pericolosa » e giova solo a quei legulei che difendono qualsiasi cosa pur di guadagnare, e ai principi tiranni che mungono soldi dai sudditi. Bisogna quindi, secondo il C., « ricavare da tanti volumi di Decreti, Decretali, Clementine, Extravaganti, Bolle, un corpo che comprenda ogni cosa, ciò che risulterebbe utilissimo anche al diritto civile ». Risulterebbe opportuno e necessario, quindi, un Compendio, che sarebbe senz’altro uno strumento fondamentale per l’apprendimento e l’insegnamento delle leggi. Alludendo all’oscurità che spesso avvolge le questioni giuridiche, C. sostiene che le leggi « si devono scrivere con stile chiaro, in volgare, di facile comprensione per tutti coloro che devono osservarle e agevole per chi le usa » [31]. Nell’Epilogo magno, soffermandosi sulla virtù politica della giustizia, C. ricorda « Torquato, che ammazzò il figliuo­lo valoroso vincitore per osservar la legge » [32]. Egli tiene a precisare che questo personaggio – come altri – non era ingiusto, ma rigido e duro. La rigidità eccessiva, prosegue, « nasce dall’ignorar l’anima delle legge ». È dunque chiaro che a colui che vuole essere veramente esperto della legge non basta conoscere tutte le leggi scritte e saperle applicare, ma deve anche saper capire « l’anima » o « lo spirito » della legge e la mens dei legislatori, « quelli nelli cui cuori Dio la scolpisce e hanno auttorità di ciò fare » (↗ legge naturale) [33]. L’avvocato sapiente non può ignorare l’anima delle leggi che, per C., ne rivela il senso più profondo e divino, poiché « non esiste diritto alcuno, tra gli uomini, per sé su tutti e tutto. E infatti Dio [che] ha fondato il diritto » [34]. 5. L’eloquenza che distingue l’oro dal piombo. — Il parlar bene (la beneloquenza) è una caratteristica fondamentale del buon avvocato,  









































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ed è anch’essa (insieme con la benevolenza e la beneficenza) una virtù conservatrice che esprime la triplice facoltà delle tre primalità [35]. La beneloquenza è « la virtù che regola il discorso » [36] e si divide in quattro parti : l’affabilità da parte di chi parla ; l’eloquenza nel modo di parlare ; la benedicenza di coloro ai quali si parla ; e la veracità di ciò che si dice [37]. Questi quattro elementi vengono trattati nell’Ethica e possono in questo contesto essere applicati alla perorazione delle cause da parte degli avvocati. Ci soffermiamo brevemente solo sui primi due, poiché il terzo dipende anche da coloro a cui ci si rivolge mentre il quarto è chiaro in quanto non si può perseguire la giustizia se non si dice la verità – e il ruolo degli avvocati consiste proprio nell’ottenere la verità più precisa dalle parti e dai testimoni. L’affabilità si rivela fra l’altro nella capacità di presentare un discorso dotto – che si distingue da quello non dotto (« indocti sermones ») come l’oro dal piombo [38] – e di saper evitare il parlare inutile e futile. L’eloquenza, poi, che è la regola propria del parlare, consiste nel pronunciare un discorso chiaro e breve che basti ad esprimere ciò che si desidera dire. Si deve stare attenti nell’uso di parole straniere e tecniche : le persone veramente eloquenti sanno scegliere bene, mentre « gli uomini ignoranti che lo fanno per sembrare sapienti » si dimostrano ridicoli e vanitosi [39]. C. rinvia il lettore alla sua Rhetorica, dove si legge come l’orazione sia propria di « coloro che accusano o difendono i rei » [40] e in tale contesto offre degli « esempi di un processo oratorio di accusa e di difesa secondo i luoghi comuni e i sentimenti » [41]. L’autore indica di che cosa si deve discutere in vari scenari possibili : se si è certi di un delitto, ma non della colpevolezza dell’accusato, l’accusa deve insistere sull’atrocità del fatto in modo da persuadere che si deve investigare e punire chi l’ha compiuto. Il difensore, invece, « cercherà attenuanti, dicendo che si è mancato per ignoranza, o necessità, o debolezza » [42]. Parlando di altre possibilità, C. si sofferma su come devono essere esaminati i testi, ribadendo (come se volesse ricollegarsi alle proprie vicende) che « un solo teste non vale,  





































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se non a costituire indizio, come non valgono più testi concordi, ma indegni di fede ». Questi e altri elementi, quali l’infamia, la tortura (anche se « dalla sola tortura non si trae prova definitiva, poiché spessissimo lo spasimo è falso testimone ») e la confessione, daranno « materia all’orazione pro e contro l’accusato ». È proprio in questa manifestazione quasi teatrale che il buon avvocato si rivela « un leon ardente, che si muove a guerreggiar » quando « da bocca gli esce vampa di leggi, d’argomenti e d’altre prove ». 6. Conclusione. — Tenendo conto della predilezione di C. per l’etimologia delle parole e la rappresentazione della figura dell’avvocato nei suoi scritti, si può concludere che l’idea campanelliana di questo personaggio rimane legata alla probabile origine del termine, cioè colui che viene chiamato per portare aiuto (ad auxilium vocatus). Introducendo la sezione sull’avvocato nel libro x della Theologia, C. specifica che « si pecca nel processo quando all’imputato, specialmente se è persona illetterata, non si dà un patrocinatore, chiamato solitamente avvocato » [43]. Come si è visto, le vicende vissute da C. in prima persona avevano suscitato in lui una profonda riflessione sul sistema giudiziario che andava ben oltre i fatti contingenti. A distanza di pochi mesi dall’elaborazione della propria strategia difensiva contro le accuse imputategli in seguito alla rivolta di Stilo – articolata nella Prima delineatio defensionum [44] – il filosofo, ormai condannato al carcere perpetuo, cominciò a delineare la propria visione nel suo famoso « dialogo poetico ». Al contrario dell’esperienza comune, il sistema giudiziario dei Solari – fondato sul concetto di una giustizia riparatrice anziché vendicativa – prevedeva che le leggi fossero poche e semplici, e i giudici esperti e giusti nell’applicazione delle sentenze secondo la legge anziché secondo considerazioni estranee o ad personam. Il testo si sofferma su taluni elementi presenti in altre opere di C., come il numero e l’ammissibilità dei testimoni e l’auspicabile brevità dei processi. C’è da notare comunque che nei processi popolari nella Città del Sole non c’è nessuna menzione dell’avvocato. C’è da chiedersi se non rientri  

























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nell’ideale utopico l’auspicio di una società senza avvocati. Note. [1] Scritti lett. (Rhetorica), 719. – [2] Syntagma 2007, 31. – [3] Cfr. F.E. de Tejada, Napoli spagnola, iii, Napoli, 2004, 175 sgg. – [4] Scritti lett., 245 (Sonetto contro il medesimo [don Aloise Sciarava / avvocato fiscale in Calabria]). – [5] Scritti lett., 249 (Sonetto al signor Giovan Leonardi / avvocato de’ poveri). – [6] Lettere 2010, 23 ; Firpo, Processi, 308. – [7] Firpo, Ricerche, 301. – [8] Firpo, Processi, 120. – [9] Ivi, 100. – [10] Ivi, 113 n. 36. – [11] Ivi, 282 n. 26. – [12] Scritti lett., 245. – [13] D.R. Kelley, Jurisconsultus Perfectus : The Lawyer as Renaissance Man, « Journal of the Warburg and Courtauld Institutes », li, 1988, 84. – [14] G.W. Leibniz, Nova methodus discendae docendaeque jurisprudentiae (1667) / Il nuovo metodo di apprendere ed insegnare la giurisprudenza, a cura di C.M. De Iuliis, Milano, 2012. – [15] D.1.1.10.2 (Ulpiano). – [16] Syntagma 2007, 109. – [17] Theologia x (Delle virtù e dei vizi in particolare), 3, 112. – [18] D.R. Kelley, Jurisconsultus Perfectus, 94. – [19] Theologia x, 3, 113 ; cfr. Esodo, 18, 21. – [20] Tommaso d’Aquino, Summa theologica, ii-ii, 71. – [21] Theologia x, 3, 109. – [22] Tommaso d’Aquino, Summa theologica, ii-ii, 71, 4. – [23] Theologia x, 3, 109 – [24] Ivi, 108. – [25] Ivi, 111. – [26] Ivi, 109. – [27] Ivi, 117. – [28] Ethica 2011, 43. – [29] Syntagma 2007, 71. – [30] Ivi, 79. – [31] Ivi, 107. – [32] Epilogo, 553 (si tratta di Manlio Torquato che nella guerra gallica aveva fatto uccidere il figlio perché aveva attaccato il nemico disubbidendo agli ordini ricevuti). – [33] Ivi, 554. – [34] De politica, a cura di A. Cesaro, Napoli, 2001, 53. – [35] Ethica 2011, 91-92. – [36] Ivi, 91. – [37] Ibidem. – [38] Ibidem. – [39] Ivi, 92. – [40] Scritti lett. (Rhetorica), 719. – [41] Ivi, 817. – [42] Ibidem. – [43] Theologia x, 3, 109. – [44] Firpo, Processi, 119-169.  









Bibliografia. G. Di Napoli, T. C. Filosofo della Restaurazione Cattolica, Padova, 1947 ; Q. Breen, Renaissance Humanism and the Roman Law, « Oregon Law Review », xxxviii, 1959, 4, 289-302 ; M.P. Gilmore, Humanists and Jurists : Six Studies in the Renaissance, Cambridge (ma), 1963 ; D.R. Kelley, Vera Philosophia : The Philosophical Significance of Renaissance Jurisprudence, « The Journal of the History of Philosophy », xiv, 1976, 267-279 ; Idem, Homo politicus : the Jurist as Renaissance Man, « The Journal of the Warburg and Courtauld Institutes », li, 1988, 84-102 ; I. Maclean, Interpretation and Meaning in the Renaissance : The Case of Law, Cambridge, 1992 ; T. Kuehn, The Renaissance Consilium as Justice, « Renaissance Quarterly »,  



































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lix, 4, 2006, 1058-1088 ; The Politics of Law in late Medieval and Renaissance Italy, a cura di L. Armstrong e J. Kirshner, Toronto, 2011.  

Jean-Paul De Lucca Calvino, Giovanni (Calvinus) 1. Calvino, calvinismo e riforma politica. — Il nome del riformatore francese è presente nell’opera di C. a partire dagli ultimi scritti giovanili, di argomento politico-religioso. Gli esordi naturalistici e telesiani non forniscono infatti indicazioni esplicite sulla presa di contatto e sulla genesi della fonte calviniana, lasciando tuttavia supporre alla sua base un milieu polemista e controversistico in via di stratificazione negli anni della formazione. In questa direzione, piuttosto che in quella del confronto teologico (presupposto, ma approfondito solo negli scritti maturi) vanno infatti le affermazioni su Calvino del Dialogo politico contro i Luterani, Calvinisti e altri eretici, scritto nel 1595. Il nome del riformatore è accomunato a quello delle altre famiglie protestanti, nel severo giudizio formulato da C. sulle dottrine portanti della teologia riformata e sulle conseguenze prodotte storicamente dalle stesse in seno alla società europea. L’abolizione della libera scelta e della considerazione dei meriti e demeriti, conseguente ad essa, mina alla base quel legame ‘divino’ e perciò stesso naturale, che dovrebbe unire vita spirituale (religione) e materiale (politica), in ossequio ad una visione unitaria e gerarchica che a partire da quest’opera, diventa irrinunciabile nel sistema dello Stilese [1]. L’origine divina del consesso umano genera infatti la dicotomia tra una ragion di Stato naturale e razionale (↗ ragion di stato), secondo la quale è lecito al legislatore paventare, sul modello di quelli eterni, « premi e pene temporali […] acciò si mantenessero uniti nella vita civile con quella felicità, alla quale la repubblica è ordinata » e una « falsa ragion di Stato umana » che contro l’« ordine divino ogni cosa dalla sua prudenza s’impromette ». Di questa seconda sono partecipi in massima parte i  











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riformati. L’origine della Riforma è liquidata nel Dialogo politico come il frutto di un calcolo utilitaristico, che ha individuato e abolito proprio le dottrine religiose meno accettabili per il volgo « irragionevole […] di cose nuove sempre desideroso ». Il caso delle città-repubbliche calviniste osta tuttavia alla simmetria di questo impianto : Girolamo (Marchese Del Tufo) in una battuta del Dialogo politico che riposa su una constatazione obiettiva, fa notare che in molte di esse regnano ordine e unità civile, dipendenti dalla considerazione ragionevole di « virtù » e « vizi ». La risposta campanelliana (affidata alla dramatis persona del telesiano Giacomo di Gaeta) ricorre alla considerazione dell’inclinazione fisiologica dei popoli nordici alla libertà, e ancora una volta al sintagma della ragion di Stato egoistica, in base alla quale governanti e governati svizzeri sotto il pretesto della libertà di coscienza, perseguono la libertà e l’autonomia politica. Il paradigma utilitaristico ascritto alla « repubblica popolare » [2] calvinista, si consolida nelle opere successive, nelle quali al calvinismo è imputata una forte responsabilità pure nella genesi politica del libertinismo [3]. Il libertinismo rappresenta per C. una filiazione indiretta delle dottrine teologiche della predestinazione assoluta, che restituiscono agli uomini l’immagine di un Dio tirannico, e della Grazia assoluta, che dimostra vano ogni sforzo meritorio in termini escatologici. Negli Articuli prophetales i libertini sono « figli dell’empietà di Calvino » [4] e calvinismo, « machiavellismo » [5] e libertinismo vengono di fatto equiparati, secondo uno schema che diventa in seguito di registro. L’elemento che unisce i tre fenomeni è la perversione del corretto rapporto tra politica e religione, tra uso lecito e secondo natura della ragione, e uso strumentale ed egoistico della stessa : i calvinisti « distruggono la natura umana, la sua libertà e la sua razionalità » [6]. Interessante è anche l’appello rivolto da C. alla repubblica di Venezia negli Antiveneti, dove la « repubblica popolare » [7] degli Svizzeri incarna l’aspetto deviante e libertino, di quella coscienza civica fondata sul libero arbitrio e sulla responsabilità personale dei « Romani antichi […] e  









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Lacedemoni e Atheniesi e tutte Repubbliche » [8]. Ancora una volta, la divisione degli animi prodotta dal calvinismo, produce soltanto un’apparenza di unità civica. Riprendendo l’interpretazione fisiologica già avanzata nel Dialogo politico, la coesione fittizia e utilitaristica delle città svizzere si spiega perché « più può in loro la bontà naturale infrenarli al male e la disciplina politica, che non la perversa dottrina di lor religione sfrenarli » [9]. L’opera in cui C. formalizza l’unificazione teocratica del potere politico e di quello spirituale, sullo sfondo dell’identificazione ormai giunta a maturazione di Cristo-Prima Ragione, è la Monarchia del Messia. Scritta in prossimità dell’affaire veneziano, la Monarchia del Messia offre un’interpretazione negativa del Consistoire e degli organi di potere calvinisti. Equiparando in dignità laici e prelati (sulla scorta della dottrina del ‘sacerdozio universale’) l’organo supremo di governo istituito da Calvino, rinnega quel primato ecclesiastico le cui prerogative di dominio derivano, in ultima istanza, da Cristo stesso. In quest’ottica vanno interpretate le battute su quegli eretici che « asseriscono la politica secolare, et soggettano li clerici a quella, che dicono, che ogni cristiano è sacerdote, et che i ministri del publico sono li vescovi, ma che non siano de potestà uguale, e si viva per democratia » [10]. Il caso di Calvino e delle entità politiche rette come la repubblica di Ginevra da apparati ierocratici, è avvertito da C. come pericolo maggiore rispetto alle esperienze politiche del protestantesimo luterano. In quest’ultimo C. rileva nella maggior parte degli episodi storici una semplice convergenza strumentale tra fede religiosa e rivendicazione autonomistica delle aree soggette all’Impero. Ginevra e le repubbliche calviniste prospettano invece una forma deviata del rapporto tra religione e politica, mantenendo apparentemente il rapporto gerarchico tra le due. L’incompatibilità della morale riformata con l’ordinamento repubblicano, accennata già nel Dialogo politico [11], viene tematizzata chiaramente negli Aforismi politici : « La setta Luterana e Calviniana, che nega la libertà del arbitrio e di far bene e male, non si deve mantenere in repu 













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blica » [12]. Un ulteriore sforzo interpretativo è rintracciabile nel tardo De Regno Dei, tentativo di risarcire la lacuna patita con la perdita della Monarchia Messiae nel quale, propugnando ancora l’idea di un’ecumene politica su base teocratica, C. identifica le entità politiche calviniste con un’ « oligarchia » [13], secondo lo schema classico aristotelico : « Gli eretici abbattono la potestà del Pontefice, ritenuta da tutti in tutti i secoli necessaria […]. Alcuni introducono nella Chiesa come rimedio a questa empietà l’oligarchia, come Calvino […] purchè non s’instauri il regno di Dio » [14]. La « repubblica ecclesiastica » contiene in sé tutte le forme non devianti di sistema politico : la « Monarchia nel Papato, l’Aristocrazia nei Cardinali, nei Vescovi, nei Prelati e nei Concili, e la Politia nel popolo » e il suo fine è quello di beatificare Dio, non certo il singolo o i molti come nella « oligarchia » [15]. L’analisi politica dei sistemi ierocratici di governo calvinisti è del resto interessante, perché rivela una presa di contatto diretta avvenuta nella Francia degli anni trenta del ’600. La lettera inviata al Cardinal Francesco Barberini il 4 marzo 1639 chiarisce appunto lo scopo del De regno Dei, destinato a contrastare le dottrine sulla concordia religiosa di La Milletière [16]. Stesso mutato quadro d’analisi offre la missiva a Enrichetta Maria di Borbone Regina d’Inghilterra del 1637. La lettera tradisce il contatto con le teorie dei monarcomachi e pur ripetendo la tesi che « la religione cattolica è secondo natura e conforme a Dio e alla natura […] al contrario la calvinista è contro la natura divina e quella politica » [17], si spinge ad affermare che la libertà di coscienza calvinista consente il regicidio al fine di instaurare « secondo il verbo del Dio calvinista, una repubblica aristocratica » [18]. 2. Calvinismo e Controriforma : il confronto teologico. — L’impianto della teologia calvinista consta di cinque punti : depravazione umana, elezione incondizionata, redenzione limitata, Grazia irresistibile, perseveranza dei Santi. Come le altre confessioni riformate, rispetto alle quali offre una sistemazione più rigorosa, è essenzialmente una teoria della Grazia e della redenzione. Nell’opera di  





































C. il contatto con questi fondamenti è testimoniato già nel Dialogo politico. L’avversione per Calvino « il più perverso di questa settaccia » deriva dalle estremizzazioni compiute dal riformatore riguardo a tematiche centrali : « Calvino accorgendosi che concedendo la libertà d’Adamo […] ne segue ancora che noi ancora per la libertà pecchiamo, la va osservando con mille sottigliezze. Dunque secondo Calvino, non avendo gli uomini libertà d’oprar bene, né dandoli grazia bastante […] seguita che Iddio gode di ponerli nel trabocchetto dicendo […] che volino senza averli date l’ali » [19]. A questo stadio vengono già riconosciuti peculiari del calvinismo il sopralapsarismo, la depravazione della natura umana, l’elezione incondizionata (teoria della gloria Dei) e la redenzione limitata. Ne risulta l’immagine di un Dio tirannico e insincero, per molti versi simile a quello dei maomettani. Dal punto di vista teologico è tuttavia la maturazione della centralità cristica nel beneficio salvifico a stabilizzare il pensiero di C. sulla Grazia. Ad essa si accompagna la riflessione metafisica sulla natura del male e del peccato, che costituirà un solido fondamento al generico largiorismo delle prime opere. Già nel Senso delle cose il nome di Calvino è inserito nel discorso più ampio sulla causalità prima di Dio, la quale comporta soltanto l’essere degli enti, mentre contempla il non-essere come elemento di determinatezza del creato. « E se questo avesse considerato Calvino, non averia fatto Dio causa attiva del peccato » [20]. Stesso immutato registro si riscontra nell’Ateismo [21]. L’attenzione riservata al tema del peccato e del libero arbitrio nelle opere scritte nel primo decennio del ’600 tradisce la presenza di un dibattito teologico interno all’area cattolica, più che a quella riformata. L’idea di causalità legata a quella di predestinazione, costituiva la base della rigida teoria baneziana della praemotio physica, sposata dall’ala oltranzista dei domenicani spagnoli. Nel Quod reminiscentur le tesi sulla predestinazione di Calvino sono velatamente avvicinate a quelle dei cattolici che « concedono che Dio concorre alle azioni fisiche […] anche muovendo come causa » [22]. Secondo questa vi 

















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sione l’azione dell’uomo, seppur volontaria, è libera soltanto in via ipotetica (« in senso diviso ») perché di fatto (« in senso composito ») non può resistere alla causalità divina. Le convinzioni giovanili sull’elezione naturale dell’essere umano e sulla libertà dell’arbitrio, rafforzate dal probabile contatto con le tesi degli ‘spirituali’ negli anni della prigionia romana, inclinano la teologia matura di C. al versante gesuita-molinista, piuttosto che a quello tomista-baneziano. Le violente censure ai Ragionamenti sopra le Litanie di Nostra Signora del Padre Riccardi, riportano più volte le tesi di quest’ultimo al calvinismo, anche in tema di predestinazione : « Anche Calvino afferma che Cristo è morto per i soli predestinati » [23]. Con l’esilio francese e il contatto con ambienti ugonotti, oltre che in risposta alle vessazioni subite dall’ambiente romano dei domenicani oltranzisti (Lemos, Riccardi, Ridolfi ), l’associazione tra calvinismo e tomismo baneziano si approfondisce e si esplicita. In una missiva a Cassiano del Pozzo del 1635, si riaffaccia l’idea che la predestinazione assoluta abbia come conseguenza il libertinismo, tuttavia la devianza è stavolta attribuita a « teologastri » « pseudotomisti » [24]. L’associazione Calvino-Maometto, piuttosto precoce, si arricchisce di un ulteriore termine : quello dei domenicani spagnoli Bañez e Alvarez « più ugonotti ha fatto l’Alvarez, mastro del nostro padre generale e del Mostro, che non Calvino » [25]. Stesso scenario viene presentato in una pagina chiaramente antispagnola della Monarchia di Francia, dove l’Impero è ritenuto inabile ad espletare la missione di convertire gli eretici, proprio per aver gli spagnoli « seminato una dottrina di Maometto e di Calvino, come se fosse di S. Tommaso » [26]. L’associazione trova anche un’interessante esplicazione d’ordine storico nel Compendium de praedestinatione (1637) dove C. afferma che gli Spagnoli, dominati dai maomettani più di ottocento anni « sostengono che Dio ha fatto decreto eterno e irrevocabile su coloro che sono predestinati e riprovati […] e tra questi Bañez e Alvarez » [27]. Dello stesso tenore sono una serie di lettere scritte tra il 1635 e il 1638 a Francesco Ingoli, al Papa Urbano VIII, al Cardinal An 



































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tonio Barberini e al giovane domenicano Tommaso Borelli, dove C. testimonia dello smarrimento dei cattolici francesi, di fronte all’affermazione ugonotta di una sostanziale concordia tra Calvino e san Tommaso. Interessanti infine le annotazioni apposte dal censore al De praedestinatione cento thomisticus, pubblicato a Parigi nel 1636, dove si rileva che nella foga di sottrarli al Calvinismo, l’autore rischia di indurre i francesi nell’estremo opposto della « follia pelagiana » [28]. Nell’accusa di pelagianesimo, abitualmente imputata al molinismo, C. era del resto incorso già in occasione della revisione dell’Atheismus, condotta da una commissione di censori ampiamente monopolizzata dalla corrente dei « pertomisti ». 3. Genesi della fonte calviniana. — Il contatto con la teologia di Calvino e la conoscenza delle vicende storiche delle comunità da essa ispirate, si dimostrano piuttosto precoci nello sviluppo del pensiero campanelliano. Tuttavia fino alle opere della maturità i rilievi mossi sono in larga parte d’ordine generico, e alimentano uno stilema controversista dal quale probabilmente essi provengono. Il quadro dei riferimenti lascia supporre una conoscenza indiretta delle opere di Calvino, mutuata dall’abbondante materiale generato durante l’ultimo scorcio di ’500 in area cattolica. I repertori controversistici, da Bellarmino a Sisto da Siena, sono fonti ampiamente documentabili nell’opera campanelliana. Un influsso fondamentale è esplicitamente attribuito ad una schiera di testimoni diretti della riforma calvinista, con i quali C. entra in contatto a più riprese. L’incontro con testimoni orali, seppur anonimi, è attestato già nel Dialogo politico [29]. Nel Quod reminiscentur C. ricorda i racconti di Pucci « che servì per ventotto anni Lutero e Calvino e teneva a memoria le loro opere » [30] e di Scioppio. Il riferimento al primo è importante anche per ricostruire la genesi di alcuni nuclei concettuali fondamentali dello stilese, come quello del Cristo-Prima Ragione e dell’efficacia universale del sacrificio di Cristo, connessa alla difesa della religione naturale. A Pucci sono inoltre legati autori riformati non favorevoli all’evoluzione in  











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senso autoritario della disciplina ecclesiastica imposta dal calvinismo, come Jakob Andreä, primo ad usare in senso polemico l’argomento dell’affinità col Corano delle posizioni sulla predestinazione di Calvino [31]. L’associazione Calvino-Maometto, declinata da C. sia in senso teologico che in senso politico, potrebbe risalire inoltre all’influsso di un altro polemista attivo in area riformata e noto allo stilese : William Reynolds, autore dell’opera Calvino-Turcismus (1597) [32]. Resoconti dalle aree calviniste erano stati prodotti anche dal Cardinal Osio, il diplomatico polacco cui si riferisce probabilmente un passaggio del Dialogo politico [33] e il suo entourage in cui spiccano Pietro Canisio e Stanislao Rescio. Il primo è ricordato in due passi del libro xiii della Teologia (incentrato sul problema della Grazia) come fonte diretta di notizie sulla Riforma [34], al secondo C. ricorre più volte, già a partire dagli Articuli prophetales : « e le persecuzioni dei calvinisti in Francia, Germania, Svizzera […] sono state talmente feroci che a stento potrebbe credervi, se non chi le ha viste » [35]. Il nome di Rescio compare poi nelle tarde, ma importantissime risposte alle censure dell’Atheismus triumphatus (1631) in associazione al nome di un altro autore fondamentale, anche per comprendere il taglio politicoreligioso che la questione calviniana assume fin dalle opere della giovinezza : Giovanni Botero « Di più il Buttero e Stanislao Rescio […] narrano istorie bruttissime di Calvinisti » [36]. Botero costituisce una fonte d’elezione per C. che lo cita in funzione anticalvinista già nel Quod reminiscentur, in frangenti in cui l’idea di un’incompatibilità profonda tra calvinismo e stabilità politica ritorna con forza [37]. A questo gruppo coerente di fonti, vanno poi aggiunti i nomi di autori sporadicamente citati da C. il cui apporto alla genesi della fonte calviniana andrebbe meglio considerato : da Orazio Torsellini [38] a Jèrome Bolsec, ai corrispondenti ugonotti degli ultimi anni dell’esilio francese.  















Note. [1] Cfr. Epilogo, 552. – [2] Discorsi ai Principi, 138. – [3] Ivi, 140. Di questa evoluzione recano traccia anche le postille latine studiate da

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Firpo in Afor. pol., 40. – [4] Art. proph., 38. – [5] Cfr. Ateismo, 17. – [6] Art. proph., 253. – [7] Antiveneti, 135. – [8] Ivi, 134. – [9] Ivi, 135. – [10] Mon. Messia, 71. – [11] Dialogo politico, 135. – [12] Afor. pol., 117. – [13] De Regno Dei Consideratio, in Phil. realis, 215. – [14] Ibidem. – [15] Ivi, 217. – [16] Lettere, 406. – [17] Lettere 2010, 490. – [18] Ivi, 491. – [19] Dialogo politico, 106. [20] Senso delle cose 2007, 100. – [21] Ateismo, 57. – [22] Reminiscentur, i, 144. – [23] Censure P. Mostro, 60. – [24] Lettere, 309. – [25] A Urbano VIII, in Lettere, 355. – [26] Mon. Francia, 576. – [27] Opuscoli, 130. – [28] Ivi, 163. – [29] Dialogo politico, 134. – [30] Reminiscentur, i, 144. – [31] F. Pucci, De prae­destinatione, Firenze, 2000, 11. – [32] Cfr. Politici e cortigiani contro profeti e filosofi, in G. Ernst, Il carcere, il politico il profeta, Pisa-Roma, 2002, 149. Le nozioni di teologia islamica sono probabilmente mutuate da D. Dionysij Carthusiani Contra Alchoranum et sectam Machometicam libri quinque, Coloniae, apud Petrum Quentel, 1533 ; cfr. Reminiscentur, i, 119. – [33] Dialogo politico, 151 – [34] Theologia, xiii, 199. – [35] Art. proph., 250. – [36] Opuscoli, 45. – [37] Reminiscentur, i, 150. – [38] Cfr. Opuscoli, 37.  

Bibliografia. G. Ernst, T. C. Il libro e il corpo della natura, Roma-Bari, 2002 ; Eadem, Il carcere, il politico, il profeta, Pisa-Roma, 2002.  

Michele Vittori Ermete Trismegisto (Mercurius Trismegistus) 1. « Mercurius, quem vocant Trismegistum ». — Ermete Trismegisto costituisce una presenza costante, per quanto discreta, nell’opera di C., dalla Philosophia sensibus demonstrata (1591) alla Metaphysica (1638). Si tratta di una presenza che include anche l’ermetismo più propriamente medico-alchemico-astrologico (si vedano i riferimenti al libellum Hermetis de medicina ex stellis e, in generale, all’ermetismo astrologico nella Medicina) [1]. È soprattutto nella terza parte della Metaphysica che C. si occupa del significato dell’opera ermetica, dedicando un capitolo (xv, 3) all’esame del sistema teologico e metafisico di Ermete Trismegisto. C. ritiene che Ermete fosse pervenuto tramite rivelazione sovrannaturale alla conoscenza di Dio uno e trino,  



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creatore e governatore dell’universo (in questo più assennato di « turchi », « calvinisti » e « hebrei ») [2]. Secondo C., il tratto distintivo della teologia ermetica risiede nella credenza in tre distinti livelli di divinità : Dio « Crea­ tore di tutte le cose », l’universo (mundus) e l’uomo [3]. L’universo è inteso da Ermete come « figlio di Dio », e in quanto tale riluce ovunque di vita e armonia [4]. L’uomo a sua volta è creatura divina in quanto è stato creato direttamente da Dio e rappresenta un armonico compendio dell’universo ; esso è, nel linguaggio di Ermete, una « mente che procede nel mondo dalla mente di Dio e tutto dispone in ordine » [5]. Del corpus ermetico C. accetta la concezione della creazione come manifestazione di generosità e condivisione divina. Poiché Dio volle che ci fosse un ente che potesse apprezzare la bontà e bellezza del mondo creato, Egli rivestì alcune delle menti di un corpo, così che esse potessero godere delle « cose corporee del mondo » e della loro bellezza [6]. Nella giovanile Philosophia sensibus demonstrata, C. presenta Ermete come un seguace della teoria parmenidea dell’essere (« tutte le cose costituiscono l’uno, immobile e infinito rispetto a se stesso, per quanto risulti finito secondo il nostro intelletto ») : « Parmenide disse la verità (e così anche Platone, ed Ermete nel Pimandro), poiché pose l’Uno come il vero essere e il vero principio, sommamente buono in se stesso e in modo essenziale, senza però negare agli altri enti l’essere, il principiare e la bontà per partecipazione » [7]. Nella Metaphysica, C. accosta la concezione tomista dell’analogia dell’essere alla visione ermetica dell’universo come un sistema di gradi in cui l’essere divino viene in qualche modo partecipato alla natura crea­ta, soprattutto l’uomo (« Naturae rerum esse Deitatis participationem, et Deitatem esse rerum Naturas causaliter et eminenter apud Trismegistum ») [8]. Allo scopo di temperare gli eccessi di certe forme di platonismo e parmenidismo, C. si serve dell’opera di Ermete per sanare la frattura ontologica tra essere e apparenza, unità e molteplicità, intelletto e sensi. La metafisica ermetica preserva il valore degli esseri particolari (entia  













































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alicuius modi) accanto all’essere assoluto e trascendente della divinità (ipsum ens omnino) : secondo Ermete (teste Trismegisto), Dio è anche, in un certo senso, tutta la realtà del mondo creato (omnia haec), poiché « la Sua natura è ogni natura, e il suo nome è ogni nome » [9]. Dio (« come dice Trismegisto ») è « per sé notissimo in ogni cosella », scrive C. nell’Ateismo trionfato [10]. Esaminando gli attributi che Ermete ritiene caratteristici della divinità – vita, immortalità, necessità, provvidenza, natura, anima e mente – C. esclude che gli ultimi tre possano dirsi divini a tutti gli effetti (Dei membra), poiché la natura compete anche agli elementi, l’anima agli animali e la mente agli uomini [11]. Nella visione ermetica dell’essere così come essa viene ricostruita da C., la mente è di natura divina ed è unita direttamente a Dio. Gli esseri umani e gli animali ne partecipano rispettivamente in forma di anima e di natura. Gli uomini che perseguono la mente, trionfano sul fato, l’inesorabile successione di cause (causarum series), e diventano simili agli dèi dopo essere andati soggetti a un processo di rigenerazione interiore [12]. Già nella Philosophia sensibus demonstrata, C. enuncia una posizione cosmologica e soteriologica di chiaro impianto ermetico, a cui rimarrà sostanzialmente fedele per tutto il corso della sua carriera filosofica : ogni cosa nell’universo materiale è il risultato dell’azione conflittuale di forze naturali (caldo e freddo) ; solo l’anima dell’uomo è stata creata direttamente da Dio ed è stata salvata e rigenerata dalla venuta di Cristo (« lapsus eius restauratur a Dei filio, regenerationis authore »). Ermete, « istruito su questo principio dai profeti », riconobbe e diffuse la verità di tale posizione [13]. Riguardo al tema della caduta delle anime nel mondo corporeo, C. considera la questione un punto delicatissimo, che nel Senso delle cose viene descritto come al di là dell’umana comprensione (« né credo potersi dar ragione, perché Dio inchiuda l’anime nei corpi dove stanno carcerate ») [14]. Su questo punto, C. ritiene che Ermete abbia fornito una spiegazione migliore di quella proposta da Origene, per il quale il corpo rappresenterebbe il carcere in cui  





























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espiare la colpa del peccato (anche se C. riconosce la presenza nel corpus ermetico del motivo del corpo come « sepolcro portatile ») [15]. Per Trismegisto, il corpo e il mondo sensibile di cui costituisce una parte integrante svolgono una funzione soteriologica più positiva, essendo riguardati alla stregua di un campo d’azione in cui l’anima può praticare il suo costante esercizio di ascesi in vista del raggiungimento di una piena felicità intelletuale (« esercizio della virtù delle anime ») piuttosto che essere delle occasioni di abbrutimento e avvilimento delle funzioni vitali. Se le anime, si domanda C., sono cadute in conseguenza di una punizione, perché esse non ricordano la condizione di beatitudine a cui sono state sottratte ? Non sarebbe stata una punizione ancora maggiore conservare la memoria della perduta beatitudine ? Della tradizione platonica, C. rigetta anche la tesi secondo cui le anime sarebbero discese nel mondo corporeo per proteggerne l’essere e preservarne la bellezza. Nella Metaphysica, C. riporta la tesi procliana secondo cui « le anime, trovandosi tra le sostanze divine e i demoni, discendono nei corpi inferiori, come se dovessero prendersi cura dei mortali » [16]. In questo caso, la domanda è come sia possibile che le anime intraprendano una missione così nobile senza tuttavia esserne a conoscenza, essendo dimentiche del loro essere e della loro origine. C. risponde facendo notare come « Mercurio sembri spiegare la questione in modo migliore », vale a dire, sostenendo che Dio « introduce le anime non dopo che esse siano state create (antecreatae), ma mentre si incarnano (corporantur), e ciò secondo il modello (specimen) del mondo corporeo e a gloria di Dio, attraverso la conoscenza di questo mondo mirabile, la quale conoscenza solleva l’anima a Dio a partire da questi simulacri » [17]. Secondo C., l’anima, quando dimora nel mondo della natura (in regno mortis et passionum), non ricorda la sua origine e non è nemmeno in grado di godere di piena auto-coscienza, non perché abbia subito un’originaria e strutturale perdita di conoscenza dell’essere, ma, esattamente al contrario, per un eccesso di informazione derivante da una realtà, quella naturale, in  























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continua trasformazione e alla mercè di forze opposte, prime fra tutte il caldo e il freddo. In questo, C. riconosce un’ulteriore vicinanza con Ermete : « Trismegisto chiama il corpo “morte viva” e “veste dell’ignoranza”, dal momento che esso aliena il nostro spirito e la mente dal proprio essere e conoscenza, e li conduce alla conoscenza ed essere del corpo e delle cose esterne. Parimenti ritiene che tutti gli enti inferiori, essendo continuamente agitati dalle passioni delle cose esterne, non riconoscano affatto il proprio essere, ma vengano per così dire alienate dal proprio essere e si trovano in una condizione di pazzia e morte » [18]. È evidente come anche in questo caso la prospettiva ermetica appaia a C. più armoniosa e unitaria, in maggiore sintonia con il mondo dei sensi e dei corpi, rispetto a quella proposta dal platonismo. 2. Magia divina e teurgia. — Fin dal Senso delle cose, C. teorizza il concetto di creazione e provvidenza divina come espressioni supreme di sapere e pratica magica. La nozione di magia divina è anche l’asse portante della teologia filosofica ermetica. L’universo ermetico, così come viene descritto da C., è strutturato in base a livelli di perfezione crescente e decrescente, che vanno da un massimo di intelligibilità e ordine, rappresentato da Dio, ad un minimo di conoscenza e armonia, evidenziato dalla materia. Tra i due estremi si inseriscono vari generi di creature : angeli, demoni, eroi, esseri umani, animali. C. sembra particolarmente affascinato dalla figura ermetica del pantophormion, da lui interpretata in maniera analoga alla Colcodea di Avicenna e come l’angelo supremo che presiede all’opera delle creature angeliche, « costruttori e formatori » dell’universo [19]. Il mondo sensibile è stato creato per volontà divina, e non deriva dalla natura. La potenza creatrice che pervade ogni aspetto della realtà è stata trasmessa da Dio all’universo, e quindi all’uomo. Come Dio ha creato le intelligenze celesti, gli esseri umani e gli animali, formati da un corpo animato dallo spirito dell’universo, così l’uomo è in grado di produrre statue parlanti. Tuttavia, poiché non può creare l’anima, egli dà vita alle statue invocando angeli e demoni. Si tratta di  











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veri e propri « dèi fattizi », elaborati facendo ricorso all’aiuto di potenze demoniche (extra naturam facti) [20]. Nel Senso delle cose, la questione dell’animazione ermetica delle statue viene discussa come una prova a sostegno di un tipo di magia basata sulle prerogative divine dell’uomo e sulla sua capacità di procurarsi energia celeste : « Trismegisto sapientissimo dice che l’uomo è un miracolo del mondo, e più nobile delli dèi o eguale, e che però abbia potestà tanta nel suo senno che può far dèi di marmo e di bronzo, e dargli anima sotto a certe costellazioni, e ricever risposta da loro » [21]. C. esclude che gli esseri umani possano indurre demoni e angeli ad eseguire compiti ad essi assegnati, dal momento che le sostanze celesti non possono essere adescate facendo leva su qualità e operazioni materiali (allectio rerum naturalium). Per render conto delle tecniche di assimilazione di energia celeste descritte da Ficino nel De vita libri tres (1489), C. preferisce seguire una spiegazione fondata sulla sua metafisica delle primalità (↗ primalità) : « quoniam primalitates non moventur a rebus physicis, nisi quatenus corporatae sunt, occasionaliter, et non active » ; si tratta cioè di un processo in gran parte inconscio, esteso all’universo nella sua interezza, in cui l’intervento diretto della coscienza umana e di altri esseri naturali rimane alquanto esiguo [22]. Più specificamente, riguardo alla questione dell’animazione delle statue, già nel Senso delle cose C. aveva inquadrato la credenza ermetica in statue animate all’interno di una più generale visione della provvidenza divina. Riferendosi all’esistenza di vere e proprie schiere contrastanti di angeli « pii et empi », sempre intenti ad ingrossare le loro fila, C. interpreta le statue animate come parte della lotta tra angeli buoni e angeli dannati, lotta tollerata da Dio per fini a noi insondabili (« a gran secreti ») : « Né penso che Trismegisto sia stato grosso a non conoscere questo, quando dice che l’uomo fa li dèi che parlano, imperoché vide che li demonii o angeli sono nelle statue entrati, e si stupì che tanto potesse l’uomo fare » [23]. Nell’Ateismo trionfato, C. interpreta l’animazione delle statue  































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come un’ulteriore prova dell’esistenza di una congiura diabolica su scala planetaria, in un contesto geografico allargatosi a dismisura in conseguenza delle più recenti scoperte geografiche, dove il culto delle potenze demoniche si è esteso a « li tartari di Samarcanda » e alle popolazioni della Cina, Giappone e Brasile [24]. Riguardo a tutta una serie di questioni attinenti a rituali, magia e demoni, C. ritiene che Ermete sia più affidabile di Giamblico, Proclo e Ficino. L’aspetto della teurgia ermetica che maggiormente colpisce l’attenzione di C. è quello di aver delineato le condizioni di possibilità di una comunità trascendente di menti incorporee in cui sono continuamente all’opera rapporti e scambi tra uomini e demoni : « Giustamente Mercurio vede una prova della divinità dell’uomo nel fatto che esso intrattenga rapporti con gli dèi (conversatur cum Diis), e li racchiuda nelle statue ». Anzi, in un certo senso il concetto ermetico di comunicazione con gli dèi si presta a spiegare i più recenti sviluppi nel campo della stregoneria e demonologia. Il volo e il sabba sono conferme, per così dire, sperimentali della pneumatologia ermetica : « si potrebbe anche aggiungere che l’uomo è trasportato in aria dai demoni e che partecipa alle riunioni di streghe e demoni. Infatti egli non potrebbe avere rapporti (negotiaretur) con essi quando si trova ancora all’interno di un corpo, a meno che non faccia parte della comunità delle menti immortali (societas immortalium mentium) » [25]. È l’idea ermetica di una societas mentium che, secondo C., allarga il campo dei fenomeni preternaturali e ne fornisce una giustificazione plausibile, anche al livello della più recente attualità. 3. Umanesimo ermetico. –– Secondo C., il nesso tra Dio come principio creatore e l’uomo come centro della creazione, capace di unire in sé i principi incorporei e corporei della realtà, rappresenta il fulcro della visione ermetica dell’essere. L’uomo è perciò « di natura immortale e mortale », così da soddisfare ad entrambe le origini, vale a dire, « contemplare le sostanze eterne, venerare e pregare i principi divini, e nello stesso tem 





















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po governare e coltivare le realtà terrene e corporee attraverso i saperi pratici, morali e speculativi, attraverso cui l’uomo ha conoscenza e uso di tutte le cose » [26]. C. vede nell’estensione all’essere umano del potere creatore della divinità una delle caratteristiche salienti dell’ermetismo. « Mercurio riconobbe il carattere divino dell’uomo, capace, come il sommo Dio, di crearsi perfino degli dei (potens etiam Deos sibi facere) » [27]. Un’ulteriore confema della forza creatrice dell’anima umana è rappresentata, nella visione ermetica dell’universo, dal potere dell’immaginazione di trascendere i limiti del visibile e del mondo elementare (« l’uomo non si ferma sotto la natura degli elementi »; ↗ immaginazione) : « quando l’uomo va cogitando », dichiara C. nel Senso delle cose, « pensa sopra il sole e poi più sopra, e poi fuor del cielo, e poi più mondi infinitamente ». Aristotele, continua C., bollò questa esigenza di trascendenza come « vana immaginazione », mentre su questo punto C. preferisce seguire Ermete (« dico con Trismegisto ») e descrive lo slancio della mente come prova dell’incorporeità e immortalità dell’anima : « è bestialità pensar tanto basso » [28]. Più in generale, C. interpreta il tema della natura divina dell’uomo come un elemento portante della visione giamblichea-procliana dell’universo, intesa come dimensione permeabile alle influenze del mondo intelligibile, visione ripresa da Ficino riguardo alla possibilità di catturare gli « influssi siderei e angelici » e di riconciliare i livelli inferiori con quelli superiori dell’essere (maritare superiora inferioribus). C. precisa che tanto il programma giamblicheo-procliano che la sua ripresa nella filosofia ficiniana riguardano il livello di una recettività (affectio) di natura fisica e non la sfera dell’agire morale [29]. 4. Ermetismo e utopia. — Non solo C. accetta il presupposto ermetico della natura divina dell’uomo, ma lo espande in direzione di una visione utopistica, in cui santità, sapienza e potenza si incarnano in personalità ‘divine’ capaci di determinare il corso della storia. Si tratta, anche in questo caso, della concezione ermetica della creazione come estensione del potere divino al mondo cre 





































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ato, soprattutto l’uomo : « Noi ammettiamo che ci sia un solo Dio, nel cui verbo sono racchiusi non un solo mondo – il nostro – ma infiniti e innumerevoli, in modo archetipico. Non escludo che questo mondo visibile, dal momento che riproduce il simulacro dell’archetipo e contiene al suo interno tutti i generi delle cose, possa essere chiamato Dio per partecipazione. Sappiamo che anche gli uomini sono chiamati dèi dagli uomini, soprattutto i giudici e i sovrani dei popoli, e che nelle sacre scritture, uomini santi e sapienti al massimo grado, i quali superano gli altri uomini in eccellenza e sovranità, sono detti ‘dèi’ [30]. Come nel caso di Paracelso (↗ Paracelso), tuttavia, C. esclude che l’essere umano possa esercitare un controllo assoluto sul mondo della natura tramite il suo sapere e le sue competenze tecnologiche. È vero che, come C. ama ripetere con Virgilio, le formule magiche possono perfino attrarre la luna (carmina de caelo possunt deducere Lunam, Ecloga viii, 69). Eppure, nonostante l’ottimismo creatore e tecnologico attribuito alla teologia ermetica, C. ribadisce come nessun ente creato sia in grado di alterare l’ordine dell’universo stabilito da Dio, nemmeno gli angeli e i demoni, tanto meno l’uomo : « Il potere (potestas) delle cause seconde si estende solo nella misura in cui viene amplificato dal potere divino ». I prodotti della tecnologia umana (res artificiatae) contengono tanta forza (virtus) e conoscenza (ingenium) quanta ne ha espressa il loro creatore (artifex). Ogni surplus di potere e sapere deriva loro da convenzioni, siano esse convenzioni umane o divine. C. fa l’esempio del denaro (« l’oro non è più nobile dell’uomo, e tuttavia con l’oro compriamo gli uomini, dando ad esso il primato in base ad una decisione [ex instituto] ») e delle parole, che possono addirittura trasformare il pane in carne, quando la convenzione è istituita da Dio (ex divino instituto) [31]. Nella Metaphysica, C. interpreta la visione sacrale dell’universo contenuta negli scritti ermetici (« ogni cosa è un segno e una testimonianza della divinità ») come il fondamento a partire dal quale Cristo istituì i sacramenti, da intendere alla stregua di po 

















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tenti vincoli simbolici e visibili, attraverso i quali « veniamo rigenerati nella vita divina » [32]. Infine, la dimensione politica dell’ermetismo rinascimentale non è certo ignota a C., il quale nella Monarchia Messiae (1633) rappresenta Ermete come un esempio di sublime ierocrazia (maiestas imperii sacrata) : « Trismegisto re degli Egizi è chiamato tre volte massimo poiché era re, sacerdote e filosofo in maniera eccellente » [33]. È soprattutto nel libro xv della Metaphysica che C. unisce la visione ermetica dell’uomo come creatore di divinità alla concezione avicenniana del profeta e a quella platonica del re filosofo. Le radici ermetiche dell’utopia campanelliana sono poi chiaramente evidenti nella Città del Sole [34].  









Note. [1] Medicina, 116, 266, 276. – [2] Metaphysica, xv, 168a ; Ateismo, 45, 174. – [3] Phil. sens., 36, 286 ; Metaphysica, xv, 186a. – [4] Metaphysica, xv, 168b ; Senso delle cose, 118. – [5] Phil. sens., 28, 38. – [6] Phil. sens., 209 ; Metaphysica, xv, 167. – [7] Phil. sens., 25-26. – [8] Metaphysica, i, 108a. – [9] Ivi, ii, 2a. – [10] Ateismo, 38. – [11] Metaphysica, xv, 169. [12] Ivi, xv, 167-168a. – [13] Phil. sens., 30. – [14] Senso delle cose, 104. – [15] Senso delle cose, 104 ; Ateismo, 78 ; Metaphysica, xiv, 154. – [16] Metaphysica, xv, 168a, 187b-188a. – [17] Ivi, xv, 170. – [18] Ivi, vi, 63a ; Asclepius, 11. – [19] Metaphysica, xv, 169, 174 ; Phil. sens., 38. – [20] Metaphysica, xv, 167, 168b, 186a. – [21] Senso delle cose, 164-165. – [22] Metaphysica, xv, 186b. – [23] Senso delle cose, 217-218. – [23] Ateismo, 151-152. – [25] Metaphysica, xv, 187b. – [26] Ivi, xv, 167b. – [27] Ivi, xv, 186a. – [28] Senso delle cose, 90. – [29] Metaphysica, xv, 186a. – [30] Ibidem. – [31] Ibidem. – [32] Metaphysica, xvii, 238b-239a. – [33] Monarchie du Messie, 86-88. – [34] Città del Sole, 9.  















Bibliografia. F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, trad. R. Pecchioli, Roma-Bari, 1985 [1964 ; 1969], 389-428 ; G. Formichetti, Ermete Trismegisto nelle opere di T. C., in La città dei segreti. Magia, astrologia e cultura esoterica a Roma (xv-xviii), a cura di F. Troncarelli, Milano, 1985, 70-77 ; B.P. Copenhaver, Hermes Trismegistus, Proclus, and the Question of a Philosophy of Magic in the Renaissance, in Hermeticism and the Renaissance Intellectual History and the Occult in Early Modern Europe, ed. by I. Merkel and A.G. Debus, Washington, 1988, 79-110 ; A. Isoldi Jacobelli, T. C. ‘Il diverso filosofar mio’, Roma-Bari, 1995 ; D.P.  









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Walker, Spiritual and Demonic Magic : From Ficino to C., University Park, PA, 2000 ; G. Ernst, T. C. Il libro e il corpo della natura, Roma-Bari, 2002 (trad. ingl. Dordrecht, 2010) ; Hermetism from Late Antiquity to Humanism. La tradizione ermetica dal mondo tardo-antico all’umanesimo, ed. by P. Lucentini et alii, Turnhout, 2003 ; F. Ebeling, The Secret History of Hermes Trismegistus. Hermeticism from Ancient to Modern Times, tr. by J. Assmann, Ithaca and London, 2007 ; C. Moreschini, Hermes Christianus : The Intermingling of Hermetic Piety and Christian Thought, tr. by P. Baker, Turnhout, 2011 ; G. Giglioni, Heavenly Negotiations in Ficino’s De Vita Coelitus Comparanda and Their Place in C.’s Metaphysica, « Bruniana & Campanelliana », xix, 2013, 1, 33-46.  

















Guido Giglioni giustizia (iustitia) 1. Premessa. — Il tema della giustizia rappresenta un nodo centrale del pensiero campanelliano ; esso pervade in maniera trasversale, e sotto vari profili, gran parte delle tematiche dell’ampio progetto enciclopedico del filosofo stilese : non solo ne La Città del Sole ma anche nei libri della Theologia e della Metaphysica, così come nel trattato morale dell’Ethica e le opere politiche quale il De politica (la quarta parte della Philosophia realis). Dalla giustizia come caratteristica essenziale del Dio creatore (iustitia originalis) e quindi infusa nella sua opera come caratteristica universale del creato (iustitia naturalis), si passa alla giustizia intesa in senso morale come una delle virtù cardinali – una virtù che tuttavia ha un carattare generale nel senso che collega insieme tutte le altre virtù come base del vivere associato, vale a dire della comunità politica, della quale la giustizia è la virtù regina. La specificazione della giustizia avviene nelle società per via delle singole leggi, chiamate anche iura proprio perché rispecchiano lo ius, vale a dire quel che è giusto : e così si passa alla giustizia legale (iustitia legalis), dove la giustizia rappresenta la misura secondo la quale le leggi particolari si definiscono giuste o ingiuste, e così anche determinate procedure e prassi giuridiche.  





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Questa voce si articola dunque in modo tale da ripercorrere le tappe di questo passaggio, dalla giustizia universale o generale alla giustizia legale o particolare, passando per la giustizia naturale (intesa sia in senso strettamente naturalistico che in senso morale). 2. Giustizia originale e universale. — Dio, per C., non è semplicemente eterno, ma è l’eternità stessa. La legge eterna, dunque, altro non è che lo stesso Dio. « La legge eterna e prima », scrive nel De politica, « è Sapienza onnipotente e Ragione, per la quale Dio immaginò, creò e governa e muta tutte le cose, e conduce al proprio fine anche le cose variabili invariabilmente » [1]. Perciò la iustitia Dei non richiama soltanto l’atto del giudizio particolare e universale ma soprattutto l’atto di creare e ordinare : prima di essere Giudice Eterno, Dio, la Prima Ragione, è il Legislatore Eterno, da cui traggono la loro origine tutte le leggi. Questo quadro unitario si basa sul principio fondamentale dell’unità dell’essere, che nella metafisica campanelliana viene illustrato tramite la dottrina primalitaria. Dalla legge eterna deriva quella naturale, che essendo « immessa negli animi dei uomini e in tutte le cose, come attività direttrice dello stesso Dio » riconduce il tutto verso il bene. Ed è proprio per questo che le leggi umane che violano lo ius naturale sono ingiuste, perché tale violazione risulta contraria al fine stesso per il quale esistono. Qui bisogna ricordare che C. auspica l’approssimarsi dell’uomo e della società allo stato di natura pura, e cioè alla forma più alta e perfetta dell’essere morale e sociale – nonostante la presenza del peccato – realizzabile grazie al conseguimento delle virtù e all’abbandono dei vizi ; esso non corrisponde però allo stato d’innocenza, inteso da C. come quella condizione soprannaturale priva del peccato che cessò immediatamente e permanentemente in conseguenza del peccato originale, relegando così l’uomo a una condizione puramente naturale [2]. Come spiega C. a proposito della grazia – ad esempio nel libro xiii della Theologia – l’uomo, dopo la caduta di Adamo, è stato privato dei suoi doni soprannaturali (ma non di quelli naturali) e della iustitia originalis stabilita da Dio.  















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Si potrebbe dire che questo primo tipo di giustizia appartiene all’ordine puramente divino e metafisico, mentre la iustitia naturalis, da parte sua, appartiene all’ordine naturale e morale, ed è la giustizia alla quale l’uomo può ed è chiamato ad accostarsi. 3. Giustizia naturale e morale. — Il concetto campanelliano di giustizia naturale riunisce motivi tomistici di carattere morale con motivi esplicitamente naturalistici di matrice telesiana. La virtù, nel quadro del naturalismo etico telesiano, risulta strettamente connessa con lo spiritus corporeo. Nell’enumerazione delle virtù presente nel libro ix del De rerum natura, Telesio predilige la sapienza (sapientia) come la più importante fra di esse precisamente perché rappresenta la facoltà o l’abilità conoscitiva dello spirito [3]. La sapienza serve a rafforzare o a mitigare le azioni e le passioni in modo che l’uomo conservi se stesso, contribuendo di conseguenza alla conservazione della comunità politica e dell’intero universo. Giovano alla società umana anche altre virtù, quali la giustizia, la verità, la beneficenza, la gratitudine, l’uguaglianza, la mansuetudine e così via. Nel capitolo sulla giustizia [4], Telesio spiega come una società composta da singoli individui abbia bisogno di questa virtù per la conservazione e il benessere della vita. Nella società i molti agiscono come parti di un unico organismo : dal momento che il singolo non è in grado di gestire tutte le operazioni necessarie per la propria conservazione, l’autoconservazione può realizzarsi soltanto in quanto l’individuo fà parte di un corpo, e cioè grazie alle operazioni degli altri. La giustizia, quindi, è la virtù che collega le azioni del singolo a quelle degli altri componenti dell’organismo sociale, per il bene di tutti [5]. È proprio per questo motivo che Telesio connette la virtù della giustizia a quella della generosità, attraverso l’opposizione tra « uno spirito sublime e generoso » che vuole condividere il proprio bene con altri, e quello « molto vile e malvagio », proprio dell’ingiusto. Il naturalismo etico telesiano, nonché il suo uso particolare dell’immagine organica della società umana, sono riecheggiati nell’i 









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dea campanelliana dell’unità collaborativa ordinata verso il fine dell’autoconservazione e della felicità presente nel libro x della Theo­ logia, il De virtutibus et vitiis speciatim. Qui C. ribadisce che la giustizia richiede che tutti siano utili a tutti gli altri, come le membra di un corpo vivo [6]. Più le repubbliche umane sono unite, dice poi C. nell’Ateismo trionfato con un preciso rinvio a Telesio, più rappresentano un corpo – il corpus reipublicae. Nel trattato campanelliano sulle leggi, il De legibus generatim (ll. xiv-xv della Theologia) troviamo un esempio interessante di come C. ricongiunge la prospettiva telesiana e quella tomistica. Infatti, la considerazione principale dello ius naturale come partecipazione di quello eterno segue precisamente la relativa questione nella Summa theologiae [7]. Nelle sue principali opere etiche, politiche e giuridiche, C. riassume così i tre precetti fondamentali dello ius naturale derivati dalla iustitia naturalis [8] : ogni bene è da conseguire, ogni male è da evitare [9] ; la vita umana si conserva e si esalta nella società [10] ; la cosiddetta ‘regola d’oro’ : « Tutte le cose che voi volete che gli uomini facciano a voi, fatele anche voi a loro » [11]. In verità tutti i precetti del diritto naturale derivano dal primo, e cioè dall’appetitus per il bene (vale a dire la conservazione) e la ripugnanza del male (vale a dire la distruzione). Anche se per certi aspetti lo ius naturale in Tommaso d’Aquino non è privo di elementi relativi a diritti soggettivi, per evitare di darne una definizione del tutto soggettiva egli definisce lo ius appunto come ciò che è giusto (quod iustum est). Riecheggiando Tommaso, C. osserva che la radice etimologica della parola ius è iustum (il giusto) anziché iussum (il potere). Tommaso però muove dal presupposto – per molti aspetti prevalentemente antropocentrico – secondo il quale la distinzione tra legge eterna e legge naturale avviene in base all’applicazione della prima a tutte le creature razionali e irrazionali, dove la seconda si riferisce in modo specifico a quelli razionali in quanto tali. Non c’è dubbio invece che C., sulla scorta del naturalismo d’ispirazione telesiana, volesse proporre un concetto più ampio dello ius naturale, che sottolineasse la  











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caratteristica basilare delle leggi fisiche della natura che regolano sia la creazione nella sua totalità che la natura rationalis. Nell’ottica campanelliana, lo ius naturale si fonda sulla premessa che gli esseri umani fanno integralmente parte del creato senziente e autoconoscente (nonostante siano distinti per il loro carattere razionale) e che quindi tendono verso l’autoconservazione come loro fine ultimo. Ed è solo una volta chiarito questo punto che C. prosegue a definire lo ius naturale come una legge morale, collegandolo così con la coscienza e con la giustizia intesa perciò come virtù morale, seguendo Tommaso d’Aquino. La distinzione fondamentale tra la legge naturale degli animali e la legge naturale razionale/morale consiste nel fatto che mentre la prima tende semplicemente alla conservazione della vita (ut vita servanda) a seconda della specie, nel caso degli uomini la conservazione della vita implica la regola del vivere insieme (secundum naturam lex convivendi quae est iustitia) [12]. Dal momento che la giustizia è la virtù comune e generale della società che conduce al bene di tutti – nella stessa maniera in cui la virtù è la regola privata che conduce verso il bene privato – essa è la base fondamentale stessa della politica e il nesso principale di quest’ultima con l’etica, organizzantesi intorno alle leggi che altro non sono che specificazioni e determinazioni della giustizia nel particolare. Nel comunitarismo campanelliano, il bene privato non si può separare dal bene comune. E quindi il terzo precetto dello ius naturale, ossia la ‘regola d’oro’, è alla base della comunità politica, la ‘naturalità’ della quale si desume in base agli altri precetti. 4. Giustizia politica e sociale. — Già il titolo del capitolo xv dell’Ethica di C. è emblematico : Sulla conservazione politica e la giustizia, sua virtù [13]. Si è già visto come la conservazione sia il fine ultimo di ogni cosa e come la società, stabilita dalla natura stessa, abbia quindi come suo proprio fine la conservazione comune di tutto il corpo politico. Come la virtù è la legge privata dell’individuo che opera in funzione del proprio fine, così tutte le virtù congiunte insieme si chiamano giustizia, su cui si fonda la legge, che è la  

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virtù comune che dispone la società verso il proprio fine. Prima di passare alla giustizia legale – dove le leggi particolari sono appunto le specificazioni di questa virtù generale – conviene considerare alcuni punti generali sulla giustizia politica o sociale, e cioè (a) il nesso tra etica e politica ; (b) la relazione tra giustizia ed equità ; (c) la differenza tra ius e dominium, e (d) la giustizia distributiva. Collocandosi nettamente lungo la linea giusnaturalista, C. rivendica la dipendenza della politica dall’etica [14] come fosse la prima quasi un’emanazione della seconda, o meglio due facce della stessa medaglia, l’una interna e l’altra esterna, relativamente alle azioni umane. La giustizia è la virtù che conserva la società umana e che a questo scopo raduna e governa i singoli ; la virtù generale che unisce e conserva le parti e il tutto [15]. Su questo punto C. appare in sintonia con ciò che dice Aristotele nella Politica : la giustizia, che è necessariamente accompagnata da tutte le altre virtù, è una virtù che regola le relazioni sociali e risulta quindi necessaria all’esistenza stessa della società politica [16]. È chiaro comunque che per C. la giustizia non è semplicemente una virtù speciale (accompagnata da altre virtù) ma l’unità sintentica di tutte le virtù che viene attualizzata nel corpo politico. Contro Aristotele, invece, C. ritiene che la funzione della legge non consista unicamente nel formare dei buoni cittadini, ma anche delle buone persone – in quanto specificazioni della giustizia, le leggi necessariamente insegnano qualcosa sulla giustizia stessa, rendendo coloro che le osservano più virtuosi, ossia più giusti, non solo nella sfera pubblica come cittadini, ma anche come individui privati. È da notare che altrove C. formula osservazioni acute e profonde sull’efficacia pedagogica ed esortativa della legge [17]. In C., la rivendicazione del nesso tra etica e politica è esplicitamente finalizzata a far fronte alle teorie politiche di Machiavelli e dei suoi seguaci, fondate sulla separazione tra le due sfere, con la conseguente confusione della « ragione politica » con la « ragion di stato ». Infatti, il nesso tra etica e politica si trova proprio nell’idea della giustizia come  















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la virtù politica, proposta da C. come l’alternativa alla « ragion di stato » (↗ ragion di stato) machiavellica che, a suo dire, viene mascherata per somiglianza con la aequitas, la parola usata dallo stesso C. come termine intercambiabile per iustitia [18]. Riproponendo la celebre definizione del giurista romano Celso, C. definisce la giustizia come « arte del bene e dell’equo, cioè del bene che conserva la società e dell’equo che si richiede in entrambi gli atti. E come la medicina, che è oggetto dell’arte, si prende per l’arte medesima, così in questa definizione del giureconsulto Celso il diritto che è l’oggetto si prende per la virtù medesima » [19]. La parola equità viene usata intercambiabilmente con la parola giustizia perché è la sua caratteristica : nella loro unità stabilita dalla giustizia, gli individui sono resi equi tra loro in quanto ognuno riceve ciò che gli spetta. Entrambi i concetti giustificano (da iuste facere : fare giustizia) e rendono equi. La giustizia rende ogni cosa giusta precisamente perché tramite l’equità ogni individuo singolarmente e la società nella sua totalità possono raggiungere il loro bene. Come già accennato, per coloro che « machiavelizzano » – per usare il neologismo campanelliano – la giustizia è sinonima del potere (iussum) di chi domina, mentre per C. la giustizia trova la sua vera etimologia nella parola giusto (iustum). È per questa ragione che, negli esordi dei capitoli relativi alla giustizia delle opere etiche e politiche, C. ripropone sempre la distinzione tra ius e dominium : lo ius (inteso come diritto) « esiste tra gli eguali in quel in cui sono eguali » ed è « la regola della ragione che giustifica, cioè rende equi le estensioni e le operazioni adeguandoli così al loro fine » ; il dominio invece è l’estensione dell’atto di potere del superiore verso gli inferiori a esso soggetti in ciò in cui sono inferiori e in questo il dominio può essere giusto o ingiusto [20]. Si deve sottolineare ancora una volta che per C., in polemica con i machiavellisti, la giustizia (intesa come virtù anziché come semplice atto di potere) rimane sempre il punto di riferimento che giustifica (cioè rende giusta) o meno l’autorità (cioè l’esercizio del potere) e le leggi.  



























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Gli atti della giustizia consistono nel commutare e nel distribuire, mentre il suo oggetto è ciò che è giusto o equo nei medesimi atti di commutazione e distribuzione, che sono troncati in ius per apocope [21]. Dal momento che sia la giustizia distributiva che quella commutativa hanno per loro oggetto il fare giusto, per C. essi non sono due forme distinte di giustizia ma invece due modalità diverse della stessa virtù generale. La giustizia commutativa opera rispetto all’uguaglianza fondamentale tra tutti gli uomini e concerne i diritti fondamentali di ogni persona a prescindere dai propri meriti e dalle posizioni che occupa o dalle mansioni che svolge [22]. La giustizia distributiva, invece, deriva dal bisogno di distinguere in maniera proporzionale e ineguale sulla base del merito o dello status (es. fra venditore e compratore, padrone e lavoratore ecc.) – ma solo in quelle cose in cui sono ineguali. I diritti politici e civili (inclusa l’autorità) rientrano in questa categoria o modalità della giustizia, ma devono comunque mirare a rendere giustizia nell’ordine sociale. La giustizia commutativa e distributiva viene messa in atto per via delle regole del vivere insieme (regulae vivendi in communi), e cioè dalle leggi (leges) o diritti (iura) che stabiliscono ciò che è equo e giusto. Ed è proprio per questa ragione che la legge è la virtù della società. 5. Giustizia legale. — La giustizia legale, in primis quella distributiva, dunque, rappresenta l’applicazione e l’amplificazione (applicatio et amplificatio) delle singole virtù per il bene della comunità. È da notare che, nel Delle virtù e dei vizi in particolare, C. entra nel merito anche della giustizia applicata alle transazioni fiscali e commerciali, ma qui ci limitiamo a rilevare cinque punti salienti concernenti la giustizia legale : (A) la legge come spirito del corpo politico – C. afferma che è proprio della giustizia porre leggi, che sono le regole di tutte le singole virtù, principalmente del ben fare (beneficientia), sviluppate e applicate alla conservazione della comunità, come le singole virtù sono un’unica giustizia divenuta regola particolare di questa o quell’altra passione e operazione. Nella visione organicistica della società, la sapien 

za e la religione sono l’anima ; il senato e gli ufficiali sono il corpo ; i soldati e gli artigiani, i suoi beni esterni ; i predicatori, gli insegnanti e gli ambasciatori, la sua lingua ; gli scienzati, gli occhi, e così via. Lo spirito del corpo politico è la legge : lex iustitiae sit spiritus [23]. Questi riferimenti alle leggi come gli spiriti del corpo politico rimandano al libro ix del De rerum natura. Per Telesio, l’autoconservazione è il fine ultimo dello spirito, che deve conoscere la sua propria natura ed il potere delle cose per reagire ed adeguarsi a loro. In più, lo spiritus può considerare il sommo bene anziché semplicemente i beni particolari e come ogni ente, non può, secondo natura, seguire o desiderare nessun altro bene se non la conservazione di se stesso nella propria natura, e non può patire nessun altro male se non la propria corruzione. La giustizia legale – sempre secondo Telesio, ma anche secondo C. – deve considerare il bene comune di tutti, e cioè dell’organismo nella sua totalità. Quando ci opponiamo alla natura (repugnemus naturae) – dice Telesio – siamo ingiusti e distruggiamo (dissolvamus) la società umana [24]. Le leggi, quindi, si distinguono fra giuste e ingiuste in base alla loro conformità o meno con la giustizia naturale. (B) i legislatori – Dalla precedente considerazione scaturisce il ruolo fondamentale dei legislatori, che, a quanto afferma C., « devono sapere poco meno di quelli divini » [25]. Dal momento che secondo natura si è tutti uguali e si vive in uno stato di uguaglianza stabilito dalla legge [26], è proprio alla natura (e allo ius naturale) che i legislatori umani devono fare riferimento quando pongono leggi (dette positive) dirette al fine di stabilire la coesione sociale, nella stessa maniera – ricorda C. – in cui nel corpo umano le singole parti amano e desiderano l’unione con le altre parti e detestano la divisione. Per C. la legge (ius) in generale è la regola o il decreto della ragione (regula rationis) che stabilisce ciò che è giusto (iustum). La pluralità delle leggi (iura) corrisponde alle specificazioni della giustizia. La ratio della legge « può e vuole il sommo bene comune » [27]. Il legiferare è essenzialmente un atto della ragione che stabilisce la ratio o la sostanza di una leg 

















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ge secondo i princìpi della giustizia. Il legislatore, nella filosofia giuridica campanelliana che segue quella tomista, è la causa efficiente della legge : egli deve (1) avere l’abilità e l’autorità (cioè il potere – la prima primalità – per dare alla legge la sua efficacia coercitiva in funzione della giustizia) ; (2) essere sapiente (la seconda primalità ; per capire lo ius oggettivo e razionale, dal quale deriva la natura prescrittiva e direttiva della legge) ; (3) essere buono (nel senso morale, cioè le sue azioni devono essere motivate dall’amore – la terza primalità – per la giustizia). (C) la giustizia punitiva – In un passaggio ben noto de La Città del Sole, C. esprime un’opinione presente in altri trattati : se vivessimo secondo la legge naturale, non ci sarebbe bisogno di tribunali e di un sistema di giustizia punitiva, poiché ogni malfattore, sentendo la sua propria coscienza ed il parere dei suoi fratelli, farebbe volontariamente penitenza per i suoi peccati. Questo non significa che i tribunali vadano contro lo ius naturale. Anzi, sono necessari proprio ex iure naturali perché « senza tribunali, » afferma C., « tutte le società andrebbero in rovina » [28]. Infatti, dal momento che nel mondo vi sono tanti mali, la giustizia punitiva, nonché le sentenze esemplari, risultano sia necessarie sia vantaggiose. Tale giustizia non deve mai essere vendicativa, ma sempre intesa a salvaguardare la conservazione della comunità. Come evidenziato anche ne La Città del Sole, il solo scopo della punizione è quello di far sì che la parte colpevole diventi consapevole della sua relazione con gli altri membri della società. Il timore della pena, poi, non è per C. lo strumento principale dell’efficacia della legge. In maniera abbastanza originale – e in parziale disaccordo con Tommaso d’Aquino – il filosofo stilese sottolinea l’efficacia pedagogica o istruttiva della legge, che forma la coscienza (morale quanto politica) sulla necessità di osservare la legge e al contempo rende gli uomini più consapevoli dell’essenza stessa della legge, vale a dire della giustizia. (D) la giustizia distributiva globale – un aspetto interessante del pensiero cosmopolitico di C. e della sua visione di una struttura organizzata a livello mondiale si rivela nell’auspicio di un  

















giustizia distributiva globale, tesa ad evitare i mali sociali quali le guerre, le pesti e le carestie. Per offrire solo un esempio fornito dal filosofo stesso : se l’Italia, che soffre la carestia, e l’Egitto che gode di una sovrabbondanza di cibo che spesso va sprecato, fossero soggetti ad un solo monarca, l’Italia non sofrirebbe più di fame mentre l’Egitto avrebbe comunque abbastanza cibo e potrebbe anche trarre vantaggio dall’eccedenza delle altre nazione per soddisfare altre necessità [29]. Un governo universale potrebbe facilitare il movimento di persone da un clima estremo e sovrappopolato soggetto ad alluvioni verso ambienti più favorevoli. Dal momento che le migrazioni di persone che fuggono da disastri naturali o da condizioni ingiuste è spesso la causa di guerre, aggiunge acutamente C., un sistema di governo mondiale che regolasse e gestisse in maniera giusta e adeguata lo spostamento di migranti sulla base dei principi della solidarietà e dell’ospitalità servirebbe a ridurre la possibilità di conflitti e a stabilire la giustizia oltre i confini territoriali. (E) il giudizio e i giudici – Nella tradizione giusnaturalista, il giudizio, ovvero il dire o definire ciò è giusto (ius dicere), veniva descritto ontologicamente come un atto della ragione (actus rationis) e moralmente come un atto della prudenza (actus prudentiae) perché rappresenta una chiara identificazione di quel che è vero e quel che è falso, del bene e del male, e di quel che è possibile e quel che è impossibile. C. enfatizza esplicitamente questo punto : il giudizio non è soltanto l’atto della ragione o della prudenza, ma è l’atto della giustizia stessa [30]. Anché se egli concorda con quella parte della definizione tomistica del giudizio come appunto « un atto di giustizia », evita ogni riferimento all’altra parte che definisce il giudizio come « l’atto del giudice in quanto tale ». Seguendo Aristotele, infatti, Tommaso definiva il giudice come « la personificazione della giustizia (iustitia animata) » [31]. La posizione di C. non è finalizzata semplicemente a polemizzare contro elementi esplicitamenti aristotelici. Il suo intento è piuttosto quello di ridurre al massimo l’arbitrarietà soggettiva nel atto del giudizio in favore di  















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criteri quanto più possibile oggettivi ai quali il giudice è tenuto ad aderirsi. A tal proposito, C. non trascura coloro che hanno l’onere di giudicare o determinare ciò che è giusto : egli dedica un’ampia sezione del libro della Theologia che tratta delle virtù proprio alla figura dei giudici. C. discute in maniera interessante e con vari rinvii autobiografici le qualità richieste ai giudici e la questione della validità dei giudizi da loro pronunciati ; sia i giudici sia i loro verdetti devono esibire la qualità fondamentale della giustizia. 6. Conclusione. — Il tema della giustizia, così centrale non solo nel pensiero ma anche nelle vicende del filosofo stilese, rispecchia in maniera molto chiara l’architettura del suo pensiero enciclopedico, passando dalla teologia alla metafisica, poi alla filosofia della natura, all’etica, alla politica e infine al diritto, e cioè dalla giustizia originale e universale a quella naturale, morale, politica e infine legale. La sua è una riflessione che passa dall’esperienza vissuta molte volte in prima persona nonché indirettamente recepita da eventi e circostanze delle quali era ben consapevole alla formulazione di principi e teorie coerenti e sostanziate. Proprio in relazione a questo aspetto vi sono due elementi che non rientrano nello scopo di questa voce ma che vanno comunque segnalati : il vizio opposto alla giustizia, e cioè l’ingiustizia, che consiste nel non fare quel che la legge comanda e fare quel che la legge vieta [32], e la giustizia procedurale, che deve rispettare i princìpi della giustizia naturale come per esempio il nemo iudex in causa propria e l’audi alteram partem – princìpi che da quanto si legge nelle sue difese scritte [33] e nelle sue lettere furono più volte tacitamente o esplicitamente evocati da C. stesso nella sue vicende giudiziarie.  





Note. [1] De politica, a cura di A. Cesaro, Napoli, 2001, 81. – [2] Ethica 2011, 145 ; Theologia, xv (De legibus generatim; inedito. Le citazioni si riferiscono al cod. 1077 della Bibliothèque Mazarine di Parigi), cap. 6, artt. 2-3. – [3] B. Telesio, De rerum natura, Neapoli, 1586, 367. – [4] Ivi, 374. – [5] Ivi, 366. – [6] Theologia, x (Delle virtù e dei vizi in particolare), 3, 27. – [7] Tommaso d’Aquino, Summa  

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theologica, ii-i, 91, 2. – [8] Cfr. R.M. Pizzorni, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino, Bologna, 2003, 370. – [9] De politica, 51. – [10] Ibidem. – [11] Theologia, xv, 994-995. – [12] Ivi, 996. – [13] Ethica, 155. – [14] Ath. triumph., 242-243. – [15] Theologia, x, 3, 25 e passim. – [16] Aristotele, Politica, iii, 13, 1283 a23-40. – [17] Theologia, xv, 1005 ; Quaestiones politicae, in Phil. realis, 72. – [18] De politica, 83. – [19] Theologia, x, 3, 29 ; vedi D.1.1.1 (Ulpiano) : « Nam ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi ». – [20] Ethica, 155 ; De politica, 49. – [21] Theologia, x, 3, 29. – [22] De politica, 53 ; Theologia, x, 3, 31. – [23] Ethica, 155 ; De politica, 95. – [24] B. Telesio, De rerum natura, 375. – [25] De politica, 93. – [26] Quaestiones politicae, 72-73. – [27] De politica, 79. – [28] Theologia, x, 3, 87. – [29] Theologia, xv, 4 – [30] Theologia, x, 3, 85. – [31] Tommaso d’Aquino, Summa theologica, ii-ii, 60, 1. – [32] Theologia, x, 3, 41. – [33] In particolare nella Prima delineatio defensionum, in Firpo, Processi, 122-169.  















Bibliografia. R. Amerio, Il sistema teologico di T. C., Milano-Napoli, 1972 ; Lex et Libertas. Freedom and Law according to St. Thomas Aquinas, a cura di L.J. Elders, K. Hedwig, Città del Vaticano, 1987 ; N. Kretzmann, Lex iniusta non est lex. Laws on Trial in Aquinas’ Court of Conscience, « American Journal of Jurisprudence », xxxiii, 1988, 99-122 ; L. De Franco, Introduzione a Bernardino Telesio, Catanzaro, 1995 ; R. Bondì, Introduzione a Telesio, Bari, 1997 ; M.C. Murphy, Consent, Custom, and the Common Good in Aquinas’s Account of Political Authority, « The Review of Politics », lix, 1997, 2, 323-350 ; A. Cesaro, La politica come Scienza. Questioni di filosofia giuridica e politica nel pensiero di T. C., Milano, 2003 ; G. Ernst, Ragion di stato, in ebc i, 317-329 ; M.C. Murphy, Natural Law in Jurisprudence and Politics, Cambridge, 2006 ; J.-P. De Lucca, ius gentium, in ebc ii, 243-256.  

























Jean-Paul De Lucca Immacolata Concezione La dottrina dell’Immacolata Concezione della Vergine, proclamata dogma della Chiesa cattolica con la bolla Ineffabilis Deus dell’8 dicembre 1854, riguarda problematiche teologiche di grandissima rilevanza, come quella della trasmissione per via naturale a tutti gli uomini del peccato originale e della

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generalità della Redenzione concessa dal sacrificio di Cristo. Prevedendo un’eccezione a tali verità teologiche, costituita dall’esenzione di Maria (↗ Maria Vergine) dalla macchia del peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento e in vista dei meriti di Cristo redentore, la Chiesa ha dovuto nel corso dei secoli sviluppare una specifica dottrina che fu oggetto di accese discussioni e persino motivo di intervento di potenze secolari affinché si giungesse a una definizione dogmatica. Una particolare intensificazione dei dibattiti in tale ambito specifico si ebbe nel basso Medioevo, quando i due principali ordini mendicanti si schierarono su posizioni opposte riguardo all’ammissibilità della dottrina dell’Immacolata : da una parte i domenicani, che sulla base di quanto contenuto nella Summa di S. Tommaso d’Aquino iniziarono a considerare la dottrina dell’Immacolata semplicemente come ‘probabile’, dall’altra i francescani, che attraverso il magistero di Giovanni Duns Scoto divennero i principali sostenitori della veridicità di quella dottrina e anche della necessità di un pronunciamento dogmatico ufficiale. 1. La questione dottrinale : alcuni cenni. — Il peccato originale si trasmette attraverso il seme di Adamo ; è ovvio, dunque, che la discendenza adamitica di Maria è stata da sempre uno dei più forti argomenti in favore della tesi macolista. E sulla natura stessa del peccato originale la definizione agostiniana di peccatum naturae, in base alla quale tutti sono infetti dal peccato originale in forza della naturale solidarietà dell’uomo nei confronti del peccato, dovette esercitare notevole influenza sulla teologia successiva, anche dopo la sistemazione effettuata da S. Anselmo nell’xi secolo, vero e proprio tournant della mariologia cristiana. Per Agostino la solidarietà con il peccato si attualizza in ciascun discendente di Adamo attraverso la generazione, che a sua volta si realizza nella concupiscenza inerente. È questa la via mae­stra per affermare senza ombra di dubbio che Cristo era estraneo al peccato originale, ma per questa stessa strada si metteva in pericolo il privilegio mariano, in quanto la trasmissione del peccato avrebbe in questo  





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modo riguardato anche la madre di Cristo, concepita per via carnale e non attraverso l’azione dello Spirito Santo (opinione, quest’ultima, da sempre considerata dalla Chiesa come eretica). Uno dei tratti salienti della dottrina lapsaria agostiniana è proprio l’instaurazione di un nesso essenziale tra la concupiscenza generativa e la trasmissione del peccato originale, al punto che alcuni hanno interpretato tale nesso come pura e semplice identificazione : l’essenza del peccato sarebbe, per Agostino, la concupiscenza, nesso che S. Anselmo avrebbe definitivamente risolto dando al peccato un attributo psicologico, volontaristico, e non fisico e fisiologico, proprio della concupiscenza. Conseguente alla legge dell’universalità del peccato originale è un altro concetto, centrale nella soteriologia e nella mariologia, che è quello di debitum peccati, ossia l’universale necessità, derivante dalla natura umana, di contrarre il peccato originale. Sul debitum applicato al caso di Maria le posizioni sono state diverse e anche contrastanti ; le incertezze, del resto, non furono completamente risolte a tale riguardo nemmeno con la definitiva proclamazione del dogma dell’Immacolata, e la questione continua tuttora ad appassionare i teologi in vista della possibile proclamazione di un nuovo dogma, quello di Maria come coredentrice dell’umanità. Accanto a coloro che negano che la Vergine possa essere stata toccata da qualsivoglia debitum peccati, i teologi si suddividono a loro volta tra i sostenitori di un debitum proximum di Maria (la Vergine avrebbe potuto contrarre il peccato originale ma Dio ha sospeso nel suo caso l’applicazione della legge) e i sostenitori di un suo debitum remotum (Maria avrebbe potuto essere inclusa nei disegni peccaminosi di Adamo ma Dio l’ha esentata da questi disegni e quindi dalla contrazione del peccato originale). Ciò che risulta interessante notare di queste discussioni è l’estrema fluidità delle interpretazioni date alla dottrina di Tommaso, che nel xvi secolo presero due strade precise, contrarie l’una all’altra ma entrambe sorte dalla scuola domenicana : quella segnata da Tommaso de Vio, il Caietano, e  





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quella inaugurata da Ambrogio Catarino Politi, prevalentemente macolista la prima, immacolista la seconda, ma entrambe basate su una personale interpretazione della dottrina dell’Aquinate. Per il Caietano l’opinione della totale preservazione di Maria dal peccato originale, e più precisamente dal debitum, sostenuta in passato dai francescani Duns Scoto e Francisco de Mayronis, non è ortodossa in quanto contraddice l’universalità della Redenzione, che non può conoscere eccezioni ; da tali premesse, derivanti da un’interpretazione letterale di taluni luoghi della Summa, il Caietano giunge a una sorta di Immacolata ‘a metà’, un’Immacolata ottenuta mediante una « Sanctificatione Mariae ante animationem » che fa però iniziare la vita terrena di Maria nel peccato. Dall’altra parte c’è il Catarino, il quale formula una chiara e personale concezione anti-debitista, derivante anche dalla sua particolare devozione all’Immacolata, propria dell’ambiente senese, e dalle sue letture scotiste [1] : per Catarino esiste in Maria una ragione di necessità teologica che, trascendendo qualsiasi congruenza basata sulla naturale discendenza adamitica, reclama la sua non inclusione nell’Adamo sovrannaturale. E tale ragione è la sua maternità divina, che conferisce a Maria una trascendenza assoluta nei confronti del peccato. In una posizione intermedia si sarebbe collocato successivamente il gesuita Francisco Suárez, che partendo da una refutazione del pensiero di Catarino, e quindi sostenendo la presenza del debitum in Maria, si opponeva in realtà anche alla dottrina del Caietano [2]. Si tratta in ogni caso di correnti dottrinali che si basano tutte sulle diverse e contrastanti interpretazioni del magistero del Dottore Angelico e che avrebbero acquisito un significato del tutto particolare dopo il Concilio di Trento. L’interpretazione stretta, letterale, di Tommaso fatta dal Caietano sul tema dell’Immacolata costituì la base teorica per quel gruppo di teologi spagnoli che nel xvii secolo contrastarono il dilagante movimento immacolista, difeso e attivamente sostenuto dai sovrani asburgici ; e tutto ciò nonostante il pronunciamento tridentino, che se non definiva l’Immacolata  









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come dogma di fede spostava senza dubbio l’asse del dibattito teologico verso la questione del debitum piuttosto che su quella – ormai superata – del concepimento di Maria nel peccato. 2. Connotazioni politiche di una polemica dottrinale. — L’Immacolata Concezione andò acquisendo nel corso del tempo anche precise connotazioni di carattere politico, visto che diverse monarchie europee individuarono nella devozione all’Immacolata e nella difesa della sua dottrina un potente strumento di identificazione nazionale e di eccitamento della pietà popolare. Attaccata nelle sue basi dottrinali dalle riforme protestanti, la Chiesa di Roma per moltissimo tempo non ritenne opportuno giungere, in questo campo specifico, al pronunciamento dogmatico. Il Concilio di Trento, infatti, si limitò a fissare il principio dell’universalità del peccato originale e della sua trasmissione, ammettendo però ufficialmente la possibilità dell’esenzione di Maria dall’applicazione di questa legge, con un esplicito rinvio alle costituzioni apostoliche Cum praeexcelsa (1477) e Grave nimis (1482-1483) volute dal francescano conventuale Sisto IV, particolarmente favorevoli alla dottrina dell’immacolato concepimento. A partire dalla metà del xvi secolo il clima di generale irrigidimento dottrinale che calò non solo sui rapporti tra Chiesa cattolica e chiese riformate (si veda la nascita della teologia controversista) ma anche all’interno della stessa Chiesa di Roma, e di cui furono protagonisti soprattutto gli ordini religiosi, non risparmiò l’annosa questione del privilegio mariano. Celebre è ad esempio lo scontro che vide opporsi il gesui­ ta Juan de Maldonado, professore di teologia scolastica presso il collegio di Clermont, alla maggior parte dei professori di teologia della Sorbona di Parigi, poiché aveva negato nei suoi corsi che la Vergine era stata concepita senza peccato. In realtà Maldonado aveva semplicemente affermato che, vista la scarsa solidità dell’argomentazione patristica in proposito e visto il comportamento dei padri conciliari, l’Immacolata poteva essere considerata come la dottrina più probabile (« probabilior ») e che sarebbe stato scorret 



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to sia definirla dogmaticamente, sia trattare tale dottrina dal pulpito come se fosse una verità di fede, sia instillare nei fedeli l’avversione nei confronti di coloro che si schieravano contro la definizione dogmatica [3]. Gli scontri più violenti tra macolisti e immacolisti avvennero agli inizi del xvii secolo in Spagna, complice l’attitudine della monarchia asburgica a ergersi a campione dell’ortodossia cattolica e a difensore dell’unità della dottrina. Si tratta del resto di anni di svolta nella storia dei rapporti tra Santa Sede e monarchia asburgica, in cui ai tentativi di sganciamento dal peso politico della Spagna, messi in atto in special modo dai pontificati Aldobrandini e Borghese, corrispose il rinnovato sforzo da parte di Filippo III di costruire una religione nazionale che sottintendesse anche uno specifico rapporto tra sudditi e sovrano. L’Immacolata Concezione, la cui definizione dogmatica nel corso del Seicento fu costantemente richiesta, a tratti pretesa, dalla monarchia spagnola si prestava in modo particolare a diventare il simbolo di una religione dell’onore maschile e della purezza femminile che si faceva specchio a sua volta di una vera e propria ossessione nei confronti dell’eterodossia religiosa e di una monarchia che si voleva presentare su scala continentale e addirittura planetaria come immune dalla macchia disonorante ed ereditaria dell’eresia, quella colpa che si trasmette di padre in figlio, specie nel caso di giudaizzanti e moriscos [4]. 3. Il contesto politico-culturale delle dispute dottrinali post-tridentine. — Per comprendere a pieno il significato dell’intervento di C. nella controversia sull’Immacolata Concezione bisogna avere ben presente il contesto non solo culturale e dottrinale ma anche politico ed ecclesiologico degli anni a cavallo tra Cinquecento e Seicento, e in modo particolare la posizione che assunse in maniera sempre più netta la monarchia asburgica. L’interventismo spagnolo in questioni di carattere dottrinale era in effetti iniziato prima dei disordini immacolisti di Siviglia del 1613, evento che diede l’avvio alla lunga contrattazione tra Madrid e Roma per la proclamazione del dogma. Fu nel 1588 che una con-

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troversia teologica di grandissimo spessore e dalle conseguenze politiche imprevedibili era esplosa in tutta la sua virulenza. Proprio quell’anno veniva infatti dato alle stampe a Lisbona il trattato di un gesuita spagnolo, Luis de Molina, che aveva lo scopo di fornire una soluzione nuova e – secondo il suo autore – rivoluzionaria allo spinoso problema della ‘concordia’ tra grazia e libero arbitrio nel processo di giustificazione. Non è possibile indugiare in questa sede sui dettagli della complessa controversia de auxiliis divinae gratiae, che vide opporsi per parecchi anni gesuiti e domenicani. Sorta in Spagna, la disputa venne successivamente avocata a Roma da Clemente VIII nel 1594 e si concluse solo sotto Paolo V, nell’agosto del 1607, quando si decise che l’opera di Molina non poteva essere né condannata, né approvata. Si metteva in tal modo a tacere la questione proibendo alle due parti di innescare nuovamente la polemica, sia verbalmente che per iscritto ; un’imposizione del silenzio che scontentò profondamente i domenicani, certi fino a poco tempo prima di essere a un passo dalla condanna della dottrina molinista. L’accusa che i domenicani muovevano ai gesuiti era essenzialmente quella di essere dei falsi tomisti, dei tomisti ‘impuri’, in quanto la ‘scienza media’, il cardine del sistema molinista, contraddiceva secondo loro la dottrina di Tommaso (e quindi il sistema agostiniano della grazia), da cui si poteva dedurre un concetto come quello di mozione fisica, secondo il quale l’uomo, in virtù del dono della grazia, è ‘fisicamente’ mosso e portato a compiere il bene, comprimendo in tal modo il libero arbitrio a livelli non lontani dal luteranesimo e dal calvinismo. Nel pieno di questo scontro – che era all’inizio di tipo dottrinale ma che assunse sempre di più coloriture di carattere politico, in quanto la monarchia spagnola di Filippo II mal tollerò il colpo di mano di Clemente VIII di sottrarre la questione alla competenza del Sant’Uffizio – C. decise di intervenire scrivendo nel 1591 un’opera dal titolo De auxiliis contra Molinistas et pro Thomistis (andata perduta), in cui criticava la posizione assunta dai suoi confratelli spagnoli difendendo l’im 

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portanza del libero arbitrio (così schiacciato nell’interpretazione di Domingo Báñez, il principale tomista ‘rigido’ accusatore dei gesuiti) e mettendo in evidenza la scarsa attendibilità del concetto di premozione fisica. Nel xiii libro della sua Theologia, inoltre, iniziata nel 1613 e portata a compimento ancora prima della sua scarcerazione, in cui il filosofo di Stilo affronta specificamente la questione della grazia e in particolare della predestinazione individuale post praevisa merita, C. scrive che la grazia infallibilmente efficace sostenuta dai tomisti puri è inconciliabile con la libertà umana ; per tale motivo C. si avvicina all’interpretazione del Molina introducendo il concetto di predestinazione conseguente, risultato della necessaria libera risposta dell’uomo alla predestinazione antecedente, senza la quale l’intero sistema soteriologico cattolico cadrebbe, a tutto vantaggio dell’eresia luterana e calvinista [5]. C. affrontò le due questioni – l’ausilio della grazia e l’Immacolata Concezione di Maria – da un punto di vista dottrinale ; il contesto politico, come si diceva, è però estremamente significativo. Gli anni caldi delle discussioni che avvennero a Roma in seno alla Congregazione de auxiliis, espressamente istituita da papa Aldobrandini per trovare una soluzione alla disputa tra gesuiti e domenicani, videro infatti il moltiplicarsi dei tentativi di Filippo III (asceso al trono nel 1598) e del suo entourage di forzare la mano al pontefice per giungere a una definizione dottrinale della controversia de auxiliis. Un’azione diplomatica sempre più marcatamente filodomenicana che si sarebbe riproposta negli anni successivi : sia intorno al 1612, quando a controversia già ufficialmente chiusa da Paolo V il Valido di Filippo III, il duca di Lerma, istigato dal confessore regio, il domenicano Luis de Aliaga, tentò il tutto per tutto per spingere il papa a condannare i gesuiti ; sia quando, a partire dal 1615, la monarchia spagnola intraprese una vera e propria campagna diplomatica in grande stile per ottenere dalla Santa Sede la definizione del dogma dell’Immacolata Concezione. In quest’ultimo caso i domenicani, da grandi favoriti delle gestioni politiche della monar 







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chia, furono costretti a passare a una posizione difensiva, in quanto l’ordine a cui apparteneva C., tranne rare eccezioni, era contrario alla definizione dogmatica dell’Immacolata Concezione della Vergine proprio sulla base di una lettura a suo giudizio autentica dei relativi passi dell’opera dell’Aquinate. L’attitudine della Spagna nella questione dell’Immacolata, così come era accaduto nella disputa sulla grazia, fu dunque tutt’altro che remissiva nei confronti di Roma. Nei territori di Sua Maestà Cattolica la controversia si era posta sin dall’inizio come una questione di fedeltà al tomismo. Per i domenicani i novatori, coloro che si opponevano alla pura dottrina di Tommaso, erano degli eretici che l’Inquisizione avrebbe dovuto giudicare, « porque por estos passos començaron Lutero, y Calbino, y dezían predicando, que Nuestra Señora fue concebida en pecado original, como vos, y como yo, y como las demás mugeres » [6]. Tutto diventava occasione di scandalo, di agitazione popolare, e in questo clima surriscaldato, a differenza di ciò che era accaduto a Parigi quattro decenni prima, è la teologia di Tommaso a costituire il principale terreno di scontro e di accusa reciproca. Tommaso divenne rispettivamente simbolo di sicura ortodossia oppure prova irrefutabile dell’arroganza dei domenicani, colpevoli di voler imporre la loro scuola teologica sulle altre, irrimediabilmente tacciate di eterodossia [7]. I due ordini religiosi ufficialmente in conflitto sulla questione dell’Immacolata furono i domenicani e i francescani, ma vi è stato anche chi ha voluto individuare nei disordini andalusi un’accorta regia gesuitica. È quanto esplicitamente fa intendere lo storico domenicano spagnolo Maximiliano Canal, il quale cita a tale proposito il passo di una lettera del gesui­ta Lugo a un confratello della residenza di Madrid in cui suggeriva ai confratelli spagnoli di contrastare i domenicani nel campo della devozione mariana nell’intento di « distogliere forze » dall’azione incessante che a Roma i domenicani stavano compiendo nella difesa dell’agostinismo : « V. P. haga que en esa Provincia atiendan los nuestros mucho a despertar la devoción de la Concepción,  











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puesto que en España está tan valida, para ver si con esso se divierten los Padres dominicos, que acá nos tienen muy apretados defendiendo a S. Agustín, i juzgo que si no ai quien divierta la fuerza, vencerán en el punto principal de los ausilio » [8]. Sorprendente in ogni caso l’ammissione di una sorta di interdipendenza tra la questione de auxiliis e la disputa sull’Immacolata in un momento certamente successivo alla chiusura della controversia sulla grazia decretata da Paolo V. La continui­tà non solo temporale, ma anche di presupposti e motivazioni, tra la controversia de auxiliis e la disputa sull’Immacolata Concezione di Maria non poteva trovare conferma più lampante. Si apre però un interrogativo al quale è difficile dare una risposta soddisfacente. Canal non fornisce infatti né la data precisa della lettera, né il riferimento archivistico corretto. Se il Lugo a cui si riferisce Canal è il famoso teologo Juan de Lugo, allora si può stabilire con relativa certezza che la missiva è databile a un periodo successivo al 1621, in quanto nel 1607, quando Paolo V chiuse la disputa de auxiliis, Lugo era un semplice studente di teologia a Salamanca, mentre giunse a Roma solo nel 1621, dove insegnò teologia presso il Collegio Romano fino al 1642. La datazione post 1621 di questa lettera è importante perché, se confermata, getterebbe una luce inedita su una questione poco indagata dalla storiografia, ossia l’intenzione manifestata da Urbano VIII (eletto pontefice nel 1623) di riaprire la controversia de auxiliis e, in un certo senso, anche sull’intervento di C. nella disputa sull’Immacolata, che è collocabile proprio negli anni 1624-1625. Nella controversia sulla grazia era stata Roma ad avocare a sé una questione dottrinale nata e sviluppatasi in Spagna, mentre nella disputa sull’Immacolata è Madrid a forzare la situazione, cercando di ottenere da Roma la definizione del dogma sia attraverso l’istituzione di una Real Junta de la Inmaculada Concepción, che a fasi alterne sopravvisse fino al 1820, sia attraverso l’invio a Roma di ambasciatori straordinari che si affiancassero all’ambasciatore ordinario al fine specifico di perorare a Corte e in Curia la causa della definizione dogmatica, generan 

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do tra l’altro la palese irritazione di Paolo V e non piccoli conflitti di competenze tra i due ambasciatori spagnoli. E se nella de auxiliis la monarchia asburgica era intervenuta per appoggiare la causa domenicana, ora sono proprio i domenicani a dover giustificare la propria posizione dottrinale al cospetto dell’esuberante devozione immacolista dei sovrani ed eventualmente a organizzare una veloce quanto necessaria marcia indietro per conformarsi al volere regio. La storiografia domenicana, fino a quella novecentesca, ha cercato di dimostrare il pronto adeguamento dell’ordine se non proprio agli orientamenti immacolisti della monarchia, quanto meno alla causa della definizione dogmatica, in obbedienza a una sorta di ragion di Stato dottrinale. Quando il vescovo di Cartagena Antonio de Trejo giunse a Roma nel 1618 in veste di ambasciatore straordinario per trattare con il papa la questione della definizione dogmatica, portava con sé varie lettere di raccomandazione tra cui spiccava proprio quella di Luis de Aliaga, evidentemente convintosi (o portato a convincersi) dell’utilità di una definizione dogmatica in tema di Immacolata. E nei primi mesi di quello stesso 1618 era giunto nelle mani di Filippo III un memoriale redatto da un domenicano (con ogni probabilità il padre Juan de la Puente) nel quale si consigliava apertamente al sovrano l’adozione di misure disciplinari nei confronti del suo stesso ordine – evidentemente diviso al suo interno sulla questione – al fine di ottenere, in ragione di un necessario patriottismo ecclesiastico, il totale allinea­ mento dei domenicani alla politica regia : « Puede y debe vuestra majestad – scriveva de la Puente nel suo memoriale – poner en cura esta Religión. Puédeseles proponer a los mismos Padres que su orden es la maestra de España, por la qual excelencia debe conformarse con vuestra majestad y sus reynos en el sentir del magisterio que se platica » [9]. Un allineamento, quello che de la Puente consigliava a Filippo III di esigere, che avrebbe faticato a farsi strada nell’ordine domenicano ma che nel corso degli anni rappresentò un problema di non poco conto per coloro che si sentivano investiti della missio 





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ne di preservare la purezza della dottrina di Tommaso. Il realismo politico dell’Aliaga si espresse in questa occasione in maniera eclatante, tanto che il confessore regio si risolse a rivolgersi con toni tutt’altro che deferenti al maestro generale dei domenicani. Nel maggio del 1618, pochissimo tempo dopo il memoriale di Juan de la Puente e a ridosso della convocazione del capitolo generale dell’ordine che si sarebbe dovuto svolgere a Lisbona, Aliaga metteva dapprima al corrente il generale delle angustie che i domenicani di Castiglia erano stati costretti a sperimentare negli ultimi anni in ragione del successo del movimento immacolista, anche dopo i parziali pronunciamenti papali (« tiene la orden contra si en la materia las Personas Reales, los Grandes, el pueblo, la Religiones, las Universidades »), per poi chiedere misure adeguate a una situazione giudicata di estrema gravità : « Sumamente deseo que alumbre Dios a V. P. R.ma para que las órdenes que fuere servido dar sean muy convenientes y el mundo las tenga por muy justificadas. Si su S.d quiere que la Orden no desista sino que tenga la doctrina que manda que no se enseñe en la Iglesia, mándele a la Orden que lo haga assí, pero mandar en lo público que no se enseñe la doctrina y mandar en secreto que la Orden no la deje, como estoy informado que V. P. R.ma señala, no es amparar la doctrina de los santos, y es no sólamente desamparar la orden, pero antes aventurarla y perderla, y los que nos an precedido no an merezido esto a la Santa Sede » [10]. Nessuno spazio Aliaga concede in questa missiva alle ragioni dottrinali di un eventuale allineamento dei domenicani all’immacolismo. A definire tali ragioni dottrinali ci avrebbe pensato pochi anni dopo C., notoriamente non allineato all’aristotelismo e al tomismo rigido coltivato all’interno del suo ordine, in modo del tutto particolare nelle province spagnole. 4. Il contributo di C. ai dibattiti sull’Immacolata. — C. si pose l’obiettivo di richiamare l’attenzione dei vertici domenicani sulla plausibilità teologica di una adesione all’immacolismo. Quando ancora si trovava nel carcere di Castel Nuovo, in anni peraltro caratterizzati da intense trattative diplomatiche  









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tra Roma e Madrid sulla questione specifica dell’Immacolata (non è dato sapere quanto C. ne fosse edotto), lo Stilese decise di intervenire nelle discussioni immacoliste argomentando la necessità per i domenicani di conformarsi a una dottrina che era ormai dominante nella Chiesa e nel popolo dei fedeli. Alla base dell’Apologeticus in controversia de Conceptione beatae Virginis adversus insanos vulgi rumores, opera composta negli anni 16241625 (secondo la datazione di Luigi Firpo), c’è dunque un intento prettamente ‘politico’, nonostante l’impianto dottrinale. C. volle dedicare lo scritto al cardinale spagnolo Gabriel de Trejo y Paniagua, fratello del cardinale francescano Antonio de Trejo (l’ex ambasciatore straordinario per la questione dell’Immacolata), terziario francescano, membro di spicco della fazione spagnola del Sacro Collegio e fervente sostenitore dell’opinione pia e della sua definizione dogmatica [11]. Proprio da Trejo C. sperava non a caso di ottenere protezione e appoggio in vista della tanto sospirata scarcerazione ; a partire dal 1615, anno della nomina a cardinale, Trejo aveva infatti accumulato prestigiosi incarichi, diventando membro fisso delle Congregazioni dell’Indice, del Concilio e dell’Inquisizione. L’Apologeticus, che C. lasciò manoscritto e in poche copie, non ebbe verosimilmente molta diffusione negli anni immediatamente successivi ; probabile anzi che sia stato presto dimenticato. Ebbe però gli onori della stampa nel tardo Seicento, quando il francescano Pedro de Alva y Astorga ritenne particolarmente opportuno raccogliere in un volume gli scritti di quattro autori domenicani che si erano pronunciati in favore del dogma dell’Immacolata – Ambrogio Catarino, lo spagnolo Vicente Justiniano Antist, il francese Guillaume Pépin e C. –, quattro voci fuori dal coro in un ordine religioso che aveva strenuamente combattuto contro la definizione dogmatica. Alva y Astorga, in due diverse pubblicazioni [12], non riprodusse però integralmente lo scritto di C., soprattutto per ragioni di delicatezza, visti i poco lusinghieri giudizi in esso contenuti sugli altri ordini religiosi. Solo nel 1969, grazie al lavoro di confronto compiuto da Luigi  



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Firpo tra i manoscritti conservati a Granada e a Roma (nell’Archivio Propaganda Fide) e le parziali edizioni esistenti, è stato possibile dare alla luce la versione integrale e fede­ le all’originale dello scritto campanelliano. Nell’Apologeticus C., che nel 1591, poco prima del suo arresto per la composizione della Philosophia sensibus demonstrata, era intervenuto nella controversia de auxiliis attaccando l’interpretazione di S. Tommaso adottata dai suoi confratelli spagnoli, giustifica la sua adesione all’immacolismo proprio sulla base della dottrina dell’Aquinate, punto attorno al quale ruota tutta l’argomentazione. Gli scritti di S. Tommaso possono per C. essere interpretati sia in senso macolista, sia in senso immacolista. Il Dottore Angelico – argomenta lo Stilese – è infatti alquanto contraddittorio sulla questione : egli è favorevole all’Immacolata Concezione nel suo commento al primo libro delle Sentenze, che è un’opera ultimata e quindi più autorevole, mentre la Summa non è stata rivista a causa della prematura morte del santo. Se – continua C. – Tommaso avesse conosciuto la celebrazione universale della festa della Concezione, le costituzioni apostoliche di Sisto IV, i decreti del Concilio di Trento e le Rivelazioni di S. Brigida, tra l’altro approvate dalla Chiesa, egli avrebbe certamente ritrattato quanto aveva scritto nella Summa circa la purificazione di Maria dal peccato originale (Summa, iii, 27, 2). Inoltre è anche da considerare che mentre nel commento alle Sentenze di Pietro Lombardo (Sentenze, i, 44) Tommaso esprimeva opinioni sue, nella Summa esponeva opinioni altrui. Da notare è che C. attribuisce molta importanza alle Rivelazioni di S. Brigida, sia perché si tratta di una testimonianza autentica, sia perché risolve un problema insolvibile per Tommaso, che sulla scorta di Agostino riteneva che l’atto coniugale inficiato dalla concupiscenza non era senza peccato, e quindi non poteva generare una creatura senza colpa. Maria, però, aveva rivelato a S. Brigida che i suoi genitori non avevano agito per concupiscenza, ma solo per divina carità e quindi senza peccato. La rivelazione sembra avere un valore comprovante decisivo per C., come sarebbe accaduto nel  

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1858, a dogma già proclamato, nel caso delle apparizioni mariane di Lourdes di cui fu protagonista Bernadette Soubirous. Nell’Apologeticus lo Stilese pensò persino di inserire il racconto di una visione avuta da un domenicano vivente : « Praeterea, hoc tempore quidam frater Dominicanus, cum rogaret Deum pro discenda huius rei veritate, vidit beatum Dominicum et divum Thomam et alios filios sancti Dominici, qui praecepit sancto Thomae ut responderet. Ac sanctus Thomas in suggestum ascendens, praedicavit de incontaminatione conceptionis mirifice. Iste vir sanctus vivit ; nolo plura addere, sed quod salus ex Dominicanis est. Sunt et aliae revelationes et miracula in testimonium immaculationis, nullae autem contra, ut perspicuum sit, meliores esse Thomistae eos Dominicanos, qui librum i Sententiarum sequuntur, quam qui iii partis doctrinam, et gloria sit Thomistarum, quod non nisi beata Virgo sui charissimi Thomae argumenta contraria bene solvere potuit » [13]. Più che un’analisi dottrinale l’Apologeticus è nel suo complesso un pamphlet polemico indirizzato contro tutti coloro che in quegli anni si erano scagliati contro l’ordine di S. Domenico in ragione del suo presunto macolismo. C. vuole invece dimostrare che non esiste teologo più favorevole alla pia opinione di Tommaso d’Aquino e che non esiste ordine più devoto all’Immacolata di quello domenicano. La disamina delle ragioni della superiorità teologica dell’ordine domenicano è molto ampia e copre la prima parte dell’opera, fino al capo vi ; tale superiorità è chiara non solo rispetto agli ordini nuovi, gli ordini di chierici regolari nati nel Cinquecento, che C. liquida senza troppi riguardi, ma anche all’ordine francescano, che a suo parere ha prodotto uomini e dottrine importanti per la storia della teologia cristiana ma che comunque non possono competere con la grandezza di Tommaso, del Caietano, di Cano, Soto e di tutta la seconda scolastica spagnola. Tale vis polemica è peraltro strana se si considera che lo scritto si voleva indirizzato a un cardinale così vicino ai francescani, da cui C. sperava di ricevere appoggio, ma che avrebbe potuto ragionevolmente infastidirsi alla  









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lettura di commenti così poco lusinghieri nei confronti dell’ordine serafico. La seconda parte dell’Apologeticus, la più consistente (capi vii-xix), affronta il nodo propriamente teologico riabilitando completamente la conformità immacolista del pensiero dell’Aquinate : gli argomenti tomistici positivi sono insolubili per lo stesso Tommaso, mentre quelli negativi sono dedotti da S. Bernardo e da S. Agostino, e dunque già confutati o confutabili. Altri due elementi avrebbero dovuto per C. spingere i vertici dell’ordine ad appoggiare la tesi immacolista : il comune sentire dei fedeli – alla stregua della ‘fama’, elemento di prova sempre più importante nella procedura giudiziaria del periodo – e le recenti deliberazioni pontificie. Il nucleo centrale dell’Apologeticus si può rintracciare nella difesa del primato teologico dell’ordine domenicano, oggetto quest’ultimo di critiche e duri attacchi in ragione della polemica immacolista, dei quali evidentemente C. doveva essere al corrente. Lo scritto si conclude con una vibrante esortazione ai confratelli, « sal terrae et lux mundi », affinché interpretino Tommaso nella maniera più giusta, senza rigidità ed eccessi, evitando in tal modo una dannosissima condanna pontificia, che sarebbe implicitamente arrivata dalla proclamazione dogmatica, e unendosi alla Chiesa e ai fedeli tutti nel difendere l’immacolato concepimento di Maria.  







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que defienden y siguen la opinión pía, de que la Virgen N. S. fue concebida sin pecado original, Biblioteca Nacional de España, Ms. 9956, f. 44. – [7] Cfr. P. Broggio, La teologia e la politica. Controversie dottrinali, Curia romana e monarchia spagnola tra Cinque e Seicento, Firenze, 2009, 150 sgg. – [8] M. Canal, El padre Luis de Aliaga y las controversias teológicas de su tiempo, « Archivum Fratrum Prædicatorum », i, 1932, 107-157: 142. – [9] Ivi, 149. – [10] Ivi, 155. – [11] Cfr. M.A. Visceglia, Roma papale e Spagna. Diplomatici, nobili e religiosi tra due corti, Roma, 2010, ad indicem. – [12] P. de Alva y Astorga, Monumenta dominicana ex quatuor auctoribus S. Ordinis Praedicatorum, qui pro Immaculata Virginis Conceptione ex professo scripserunt, Lovanio, 1666 ; Idem, Radii solis zeli seraphici coeli veritatis pro Immaculatae Conceptionis mysterio Virginis Mariae, Lovanio, 1666, cc. 2196-2217. – [13] L. Firpo, Il « De Conceptione Virginis » di T. C., « Sapienza », xxii, 1969, 182-248: 244; si segnala la recente ed. del testo in T. C., Due opuscoli teologici, a cura di M. Miele, Lugano, 2015.  













Bibliografia. P. de Alva y Astorga, Monumenta dominicana ex quatuor auctoribus S. Ordinis Praedicatorum, qui pro Immaculata Virginis Conceptione ex professo scripserunt, Lovanio, 1666 ; Idem, Radii solis zeli seraphici coeli veritatis pro Immaculatae Conceptionis mysterio Virginis Mariae, Lovanio, 1666, cc. 2196-2217 ; M. Canal, El padre Luis de Aliaga y las controversias teológicas de su tiempo, « Archivum Fratrum Prædicatorum », i, 1932, 107157 ; O. Casado, Mariología clásica española. i. La Inmaculada Concepción y su problemática teológica en la mariología española de 1600 a 1655, Madrid, 1957 ; J.I. Tellechea Idígoras, La Inmaculada Concepción en la controversia del P. Maldonado, S. J., con la Sorbona, Vitoria, 1958 ; L. Firpo, Il « De Conceptione Virginis » di T. C., « Sapienza », xxii, 1969, 182-248 ; L.B. Gillon, T. C. et les doctrines de la grâce, « Sapienza », xxii, 1969, 8-26 ; J.B. Carol, A History of the Controversy over the « Debitum Peccati », St. Bonaventure-New York, 1978 ; A. Prosperi, L’immacolata a Siviglia e la fondazione sacra della monarchia spagnola, « Studi Storici », xlvii, 2006, 481-510 ; G. Caravale, Sulle tracce dell’eresia. Ambrogio Catarino Politi (1484-1553), Firenze, 2007 ; P. Broggio, La teologia e la politica. Controversie dottrinali, Curia romana e monarchia spagnola tra Cinque e Seicento, Firenze, 2009 ; M.A. Visceglia, Roma papale e Spagna. Diplomatici, nobili e religiosi tra due corti, Roma, 2010.  











Note. [1] Cfr. G. Caravale, Sulle tracce dell’eresia. Ambrogio Catarino Politi (1484-1553), Firenze, 2007, 33-47. – [2] Cfr. O. Casado, Mariología clásica española. i. La Inmaculada Concepción y su problemática teológica en la mariología española de 1600 a 1655, Madrid, 1957, 23-36 ; B. Carol, A History of the Controversy over the « Debitum Peccati », St. Bonaventure-New York, 1978. – [3] Cfr. J.I. Tellechea Idígoras, La Inmaculada Concepción en la controversia del P. Maldonado, S. J., con la Sorbona, Vitoria, 1958. – [4] Cfr. A. Prosperi, L’immacolata a Siviglia e la fondazione sacra della monarchia spagnola, « Studi Storici », xlvii, 2006, 481-510. – [5] L.B. Gillon, T. C. et les doctrines de la grâce, « Sapienza », xxii, 1969, 8-26. – [6] Memorial sumario de las veynte y quatro informaciones que el Arçobispo de Seuilla mandó hazer, cerca de las contradiciones, que los religiosos de santo Domingo han hecho a los  















































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1. Quid sit incarnatio. — Tra i modi in cui Dio si comunica all’uomo, l’incarnazione è per C. – come del resto per la tradizione tomista nella quale si inquadra, non senza elementi di originalità, la sua produzione teologica –, il supremo e totale. Nel libro xviii della Theologia, intitolato Cristologia e dedicato a questo argomento, tale eccellenza viene messa in rilievo mediante il confronto con le tre modalità del comunicarsi divino. Se, ponendo in essere le cose, Dio si manifesta nel creato, reso partecipe delle sue proprietà, capace di « trasmutarsi », e nell’uomo, il quale, mediante il dono della grazia, diviene fruitore della beatitudine divina, l’incarnazione rappresenta la massima delle comunicazioni, nella misura in cui Dio stesso assume la natura umana nella sua interezza e si esprime nel linguaggio umano. Tale modo viene denominato incarnazione proprio a indicare che Dio assume non solo la mente e lo spirito dell’uomo, ma la sua natura nella sua interezza, sino all’infima componente materiale : « quidem dicitur incarnatio ex eo quod non modo mentem et spiritum, sed etiam carnem assumit » [1]. La risposta al problema speculativo più rilevante, ossia perché l’incarnazione sia la massima comunicazione e la massima opera di Dio, presuppone che egli si sia effettivamente fatto uomo, come attesta la Scrittura, ciò che sembrerebbe inconciliabile con la dottrina primalitaria di C. 2. Le dubitationes circa l’incarnazione. — L’incarnazione di Dio appare impossibile in rapporto alla primalità prima, la Potenza, nella misura in cui l’assunzione dell’umanità da parte della divinità sembra introdurre in Dio la composizione, la qual cosa è esclusa dal suo essere assolutamente semplice e immutabile. Non solo, ma egli si comporrebbe di elementi contraddittori, sarebbe al tempo stesso genito e ingenito, capace di patire e impassibile. Se Dio può umanarsi, non può anche forse « lapidescere, arborescere et metallescere » ? Inconciliabile con la primalità seconda, la Sapienza, sembrerebbe la discrepanza tra Cristo e il profilo messianico che di lui era stato tratteggiato dai profeti : era  

















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stato profetizzato signore dell’orbe, e invece, dopo secoli, non pare essere stato riconosciuto nemmeno dalla centesima parte del mondo ; era annunciato come pacificatore, mentre « bella saevissima ex Christo secuta sunt etiam inter Christianos, et nondum finis » ; era atteso come rinnovatore del genere umano, che sarebbe ritornato al vigore primordiale, e della natura, nella quale sarebbero diventati mansueti i serpenti e il basilisco, mentre il genere umano continua a essere afflitto da molte malattie e la natura straziata dall’antagonismo biologico e fisico. Il confronto con la terza primalità, l’Amore, solleva la questione della convenienza dell’incarnazione, la quale sarebbe del tutto inopportuna, dal momento che « quod enim conveniens est, bonum est eis, quibuscum fit convenientia ». Ora, né l’uomo né Dio paiono acquistare alcun bene dall’unione. Per il primo, che non ha bisogno dei beni nostri, l’incarnazione non solo non sarebbe utile, ma potrebbe risultare nociva : « Praeterea aut incarnatus est propter melius, aut propter deterius, aut propter aequale sibi. Non propter melius, quia non potest meliorari Deus, alioquin non est Deus. Nec propter deterius, quia non potest deficere, nec conveniens fuisset illi incarnatio. Nec propter aequale : nihil enim acquisivit nisi humanitatem, quae longe deterior est quam divinitas » ; per il secondo, invece, potrebbe comportare la perdita della propria natura, dal momento che estremi infinitamente opposti « non possunt sine utriusque malo misceri, vel imbecillioris saltem miscibilis ». L’assunzione dell’umanità da parte della divinità comporterebbe per l’uomo solo patimenti e ignominia, « ergo videtur incarnatio nihil homini profuisse ad iucunditatem, sed potius ad dolorem » [2]. Delle gioie che Cristo avrebbe provato dopo la Resurrezione ci sarebbe solo credenza e non storica certezza, tanto che esse sono state ritenute da Giudei, Gentili e Maomettani frutto di invenzione. Alcune testimonianze, fra le quali C. annovera la lettera dello pseudo-Lentulo a Tiberio, considerandola autentica [3], attestano che Cristo sarebbe stato visto solo piangere, mai ridere. Non solo : egli avrebbe trasmesso tale propensione ai suoi seguaci.  































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L’inconvenienza massima si evidenzia nell’intero disegno di salvezza prescelto. Di tutto il genere umano, che si intendeva salvare, solo una minima parte pare conseguire effettivamente la salvezza, come l’autore rilevava già nella sua giovinezza. Dagli atti del processo risulta, infatti, che per lui « era cosa incredibile che costoro christiani si salvassero, che a comparazione del mondo li christiani sono un’ongia, et che tutto il resto del mondo si danni, et che questi soli si salvino, non è da credere » [4]. Solo una minoranza delle nazioni del mondo, dopo tanti secoli dall’incarnazione conosce Cristo, solo una minoranza dei cristiani è cattolica e solo una minima parte è pia e santa. Pertanto « melius et convenientius atque minus indecorum sit, ut Deus non foret incarnatus, quam per hanc incarnationem tam minimam salutem conficeret » [5]. 3. I dieci segni. — C. ritiene di poter fornire una dimostrazione della verità dell’uomoDio, capace di sciogliere le dubitationes relative all’incarnazione e superare le incongruenze, avvalendosi della testimonianza della Scrittura. La soluzione da lui proposta nella Theologia si avvale della teoria dei dieci segni, già adombrata in altri luoghi [6], la quale rappresenta una sorta di ‘diagnostica’ [7] della divinità di Cristo. Nella Metaphysica C. afferma di aver stabilito un criterio infallibile « ut autem agnoscimus qui sint a Deo missi, et qui a ratione, et qui a diabolo simia Dei ». In primo luogo, chi è inviato da Dio può compiere azioni che oltrepassano a tal punto il naturale svolgimento dei fenomeni, che possono essere attribuite solo a una causa superiore. « Miracula ergo sunt diploma », e innanzi a colui che li compie la natura si inchina, proprio come « qui mittitur a Rege, defert diploma regis manu firmatum, cui omnes subito populi inclinantur et oboediunt » [8]. I miracoli operati da Cristo sono numerosi ma, quand’anche non ne avesse compiuti, C. sottolinea che sarebbe sufficiente l’eccezionalità della sua vita a provarne la divinità. C. distingue i miracoli di Cristo in cinque classi, che poi esamina una per una. La prima comprende i miracoli ex Deo, come le voci che giunsero dall’alto a testimoniare la divinità  



















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di Cristo quando ricevette il battesimo da Giovanni e quando si trasfigurò sul Tabor. Alla seconda classe appartengono i miracoli in angelis : angeli buoni che giubilano alla sua nascita, lo servono nel deserto, lo confortano nel Getsemani, mentre i diavoli sono da lui dispersi e domati. Nella terza trovano posto i miracoli fatti a beneficio degli uomini, i più numerosi : guarisce gli infermi, perdona i peccati e risuscita i morti ; nella quarta quelli riguardanti le creature irrazionali. La quinta classe, che comprende i miracoli fatti negli astri, assume un significato peculiare nella riflessione di C. Prima di soffermarvisi, l’autore si era limitato a segnalare i luoghi scritturali nei quali vengono narrati i miracoli di Cristo. Giunto alla trattazione dei miracoli compiuti nei cieli, organizza la trama della sua riflessione sull’argomento in modo da potervi ribadire le proprie dottrine cosmologiche e astrologiche [9]. È, infatti, la nascita di Cristo il momento principale di quella commotio caeli et terrae che, iniziata già alcuni secoli prima per attestarne l’avvento e osservata alla fine del secolo vi a. C. dal profeta Aggeo, è destinata a durare sino a quando il cielo e la terra periranno. Tale commotio consiste, in primo luogo, nell’avvicinamento dei pianeti e in particolar modo del Sole, il quale, da principale sorgente di vita, dei movimenti e dei mutamenti che avvengono sulla Terra, diviene, con il tempo, la causa della distruzione della Terra stessa [10]. Segnali ed effetti di questo graduale avvicinamento sono : la riduzione dell’eccentricità, il rapporto tra il fuoco, ossia la Terra, e l’orbita solare, « quae nimirum sub Hipparcho anno 127 ante nativitatem Christi erat 414 partium, [...] sub Copernico vero 265 » [11] ; il restringimento dell’orbita solare, per cui l’anno si è accorciato, e la diminuzione dell’angolo fra l’equatore celeste e il piano dell’orbita solare ; lo spostamento degli apogei di tutti i pianeti in rapporto alla serie dei segni, intervenuto dopo l’avvento di Cristo : « quel del sole era a quattro di Gemini ed or [1628] si trova in dieci del Cancro » ; l’accorciamento del cono d’ombra durante le eclissi e dell’ombra degli gnomoni ; si sono anticipati, infine, gli equinozi e i solstizi.  

























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Per quanto riguarda il resto dell’universo, si dànno anomalie che riguardano le stelle fisse, le quali compiono un motus in posteriora mentre in passato si muovevano in avanti, mediamente in ragione di 1° ogni 66 anni ; tale anomalia è iniziata « subito dopo la profezia di Aggeo », che aveva annunciato : « adhuc modicum et movebo coelum et terram, et veniet desideratus cunctis gentibus » [12] – ovvero il Messia – cioè « 500 anni prima di Cristo ». A partire da allora, divergenze sempre più rilevanti furono notate dagli astronomi, per cui le stelle che erano al 0° dell’Ariete sono ormai arrivate a lambire i Gemelli. Tutto ciò avrebbe indotto il Pontefice a riformare il calendario [13]. Per spiegare tali ‘esorbitanze’, gli astronomi hanno fatto riferimento al moto in posteriora nell’ottava sfera, completato, secondo Tolomeo, in 36000 anni. In base al principio aristotelico per cui a ogni moto semplice deve corrispondere un corpo semplice, ogni moto nuovo delle stelle doveva essere attribuito a una sfera particolare. Gli astronomi hanno, quindi, postulato l’esistenza di un ulteriore cielo ‘fisso’ superiore a quello delle stelle fisse, ritenendo « che debbano necessariamente ammettere la nona sfera tutti coloro che abbiano osservato che l’ottava si muove da occidente a oriente » [14]. C., reputando che la precessione non sia nata con l’Universo, ma iniziata pochi secoli prima della venuta di Cristo, contesta l’esistenza di cieli anastri. È, dunque, a causa della precessione dei segni, oltre che del restringimento delle loro orbite, che si ha lo spostamento degli absidi planetari ; in particolare, gli apogei anticipano di oltre 30° [15]. È anomala, infine, l’apparizione di una nuova stella annuciata dalla Sibilla tiburtina, effettivamente osservata da Tycho Brahe nel 1572 e descritta nel De nova stella, cui se ne aggiungono altre (nell’Egloga si ricorda quella nel « petto del Cigno »), delle quali C. sottolinea la valenza profetica [16]. Se le alterazioni, preannuncianti l’avvento di Cristo e attestanti la sua divinità al momento della nascita, risultano impercettibili a chi le osserva a occhio nudo per la lentezza con cui viene modificato lo stato della volta celeste, i miracoli celesti avvenuti alla sua morte  

























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furono ben visibili. Nel momento in cui si manifestava maggiormente la fragilità della sua natura umana sulla terra, il segno della sua divinità si manifestava chiaramente nei cieli. Come durante la passione, « quando ab hora sexta usque ad horam nonam tenebrae factae sunt super universam terram praeter ordinem naturalem, obscuritate sole in diametro lunae » [17]. Se i miracoli costituiscono per C. il primo segno della divinità di Cristo, quasi ne fossero il « diploma », a esso se ne aggiunge un secondo, cioè il martirio, vale a dire « il sigillo del sangue sparso », dove « chi ha sangue senza miracoli, ha il sigillo senza patente ». Tale segno consente di distinguere i cristiani dagli eretici, i quali « desiderano morire per la legge loro, perché sono ingannati » [18] ed è escluso che possano esibire gli altri segni. La certezza della verità predicata e delle divine promesse ha fatto sì che Cristo e i suoi discepoli andassero incontro con letizia ai tormenti « quasi oculis cernentes coronas a Deo in certamine tanto paratas ». I « riscontri di profeti c’han antevisto la sua venuta » sono il terzo segno che rende possibile identificare chi è stato inviato da Dio [19]. Dai profeti Cristo era stato « multis ante seculis preconizatus Deus et homo, moriturus pro genere humano, redempturus Israel, conversurus mundum ad veri Dei cultum, sicut declaravimus in cap. 1 et 2 de oraculis Patriarcharum et Prophetarum et Psalmorum multipliciter ». Si tratta della nota della prophetia praevia (« Si enim eius adventus praedictus est per servos Dei, signum est, licet non tam efficax, quod ipse sit, quem praedixerunt »), accanto alla quale deve avverarsi la prophetia propria (« Si quae praedixit evenerunt et quae in cogitationibus latent introspexit. In his duobus vide an prophetia sit naturalis, an divina, an diabolica, de quibus inferius disseremus »), che rappresenta il quarto segno : « Si quae ipsa prophetat, eventus comprobabit. Si enim aliquod futurum esse dicit determinate, et non venit, scimus illum hominem non fuisse a Deo, vero domino praeteritorum auctore » [20]. La quinta nota è la sublimità della vita : « inspicienda est vita eius ; si enim quae prae 



















































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dicat facit, et secundum naturae virtuosae regulas vivit, divinus est ». Colui che è stato inviato da Dio sarà riconosciuto come tale, se esibirà anche la sesta nota, cioè che i principi della sua dottrina siano « secundum naturam, et philosophiam rectissimam, nihil obscoeni, impii, impossibilis ex contradictorio falsi vitiosique admittentia ». C. ritiene che a chiunque li esamini appariranno manifesti la perfezione della dottrina di Cristo e l’accordo di questa con la natura e la morale. Gli insegnamenti di Cristo sono naturali, sebbene si conoscano per rivelazione supernaturalis : « Naturalia sunt quae secundum naturam se habent, licet supernaturali rivelatione cognoscantur » [21]. La legge e la religione di colui che è stato inviato da Dio devono possedere, oltre che la massima perfezione, un altro tratto caratteristico (settima nota), cioè devono poter trasformare gli uomini « in deos, extasi, prophetia, et miraculis, et vitae probitate, et martyrii voluntate decoratos ». I credenti, per grazia, diventano capaci di operazioni divine, nella misura in cui essi vengono deificati nella facoltà conoscitiva e nella volontà. Mantenendosi fedele al suo schema primalitativo, C. fa notare, infine, che nei credenti risplende la carità « ut omnibus auxilio et consilio prosint, nec sibi sed toti se natos mundo credant » [22]. La concordia dei discepoli tra loro e con il mae­stro rappresenta la successiva nota che C. ritiene presente in Cristo. Tra i Vangeli esiste un perfetto consenso : benché si possano trovare elementi differenti, non è mai dato cogliere contraddizione o smentita : « Omnes enim profitentur se testes esse Verbi Dei atque eandem dicere veritatem tam in historia factorum quam revelatorum, ita ut quid mirabile sit » [23]. Le ultime due note sono la carità universale, che stringe i Cristiani tra loro e al loro capo Cristo, « quoniam erat eis cor unum et anima una », e la stima sovrana delle cose divine (« divinorum superomnia appretiatio »). Essa è considerata da C. la « maxima nota » e consiste nel posporre tutto a Dio, « qui sufficientissimus est omnibus vastissimis desideriis complendis », disprezzando le cose mondane. Tale nota è considerata la maxima dall’autore, probabil 











































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mente perché esprime la conformità al maggior ammaestramento consegnato da Cristo e riferito, in particolare, da Matteo : « Quaerite autem primum regnum Dei et iustitiam eius, et haec omnia adicientur vobis » [24]. Il complesso di tali segni si trova solo in Cristo e nei Cristiani, come rilevato nell’Ateismo – « Hor solo in Christo e suoi apostoli io trovo questi marchi e tutti questi contrassegni verificarsi ampiamente ; egli li mostrò e li diede ai suoi [...], e a tutti gli altri poi si vede mancar qualche prova delle predette » [25]. Vi è una notevole assonanza tra la riflessione che C. viene svolgendo in queste pagine e quanto aveva scritto Ficino nel De Christiana religione, nel quale, benché non vi si trovi un elenco di tali segni, viene espressa la medesima persuasione della divinità di Cristo, fornita dalla santità della sua vita e dai miracoli. 4. Il fine dell’incarnazione. — Dopo aver dimostrato che Dio si è veramente incarnato, in base alla veridicità delle testimonianze e all’esame delle dieci note, C. ritiene che sia necessaria un’indagine sul fine dell’incarnazione. Non si può, infatti, rispondere alla questione se sia possibile e vero il fatto dell’incarnazione, « nisi prius propter quid [Deus] est incarnatus ». Il problema della finalità, la quale, concernendo la primalità terza, ha nell’organismo ontologico un ordine di processione dalla Potenza e dalla Sapienza, include in sé le difficoltà riguardanti le altre primalità. Dunque, la sua soluzione, contenendo implicitamente la risposta alle questioni sollevate dalle altre primalità, consente di appianare ogni difficoltà. La linea argomentativa di C. segue tre tappe fondamentali, che coincidono con i tre diversi assunti circa la causa fondamentale dell’incarnazione. La prima posizione è quella di Tommaso e Bonaventura, per i quali Dio si è incarnato per rimediare al peccato di Adamo, senza il quale l’incarnazione non sarebbe avvenuta. Con questa affermazione si ammette che la perfezione dell’uomo e dell’universo è un motivo per l’incarnazione ; ciononostante si rileva che l’incarnazione è dovuta principalmente alla caduta : il peccato estremo della caduta richiedeva un rimedio altrettanto estremo. La seconda te 



















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oria, cui fa riferimento C., è quella sostenuta in particolare da Scoto, secondo il quale Dio ha scelto di comunicarsi alla creatura in tutta l’ampiezza della sua comunicabilità, a prescindere dal peccato di Adamo. L’ultimo punto preso in esame da C. è rappresentato dalla posizione di coloro che egli chiama i teologi ‘recenti’, cioè dalla sua : « Tertia opinio est recentiorum, quod voluntas incarnationis et permittendi peccatum non se habent sicut prior et posterior, cum illa non sit propter hanc, neque haec propter illam, quamquam mysterium incarnationis fuerit primo praedefinitum per voluntatem communicationi perfectae » [26]. Se nel Dialogo politico, redatto nel 1595, C. aveva sostenuto la tesi tomista – affermando che « Dio predestinò nell’istesso tempo che antivedea tutte queste cose [sc. il peccato di Adamo] il suo figliuolo, sua virtù e suo senno, ad incarnarsi e morire per soddisfare al merito dei nostri mali » [27] – è nella Theologia che precisa la propria posizione definitiva, con la dottrina della ‘duplice predestinazione’ [28], formula che sembra ricalcare nella terminologia quella protestante, ma il cui utilizzo da parte di C. si inserisce, in realtà, in tutt’altro orizzonte tematico. Per C., al momento della creazione, Dio ha predestinato tutti gli uomini alla beatitudine. D’altra parte : « ad quid pater bonus, filios ad furcam et ad gladios generat ? ». Tale prima predestinazione è antecedente alla previsione dei peccati e dei meriti : Dio ha fatto le creature libere affinché potessero essere causa della propria gloria. In loro pertanto essere, virtù ed essenza « bonae sunt ad summum bonum destinatae ». Il raggiungimento di tale fine, tuttavia, non si verifica infallibilmente, proprio nella misura in cui « Deus non est causa solus, sed simul cum libertate creaturarum est concausa », per cui « quando Deus cooperatur concausans una cum libera causa, effectus non sequitur infallibiliter », altrimenti non si verificherebbe il peccato. Conseguentemente, proprio per l’inefficacia della prima predestinazione e in previsione dei peccati e dei meriti, Dio ha operato la seconda, la quale avviene mediante il « remedium incarnationis Christi », a patto che Cristo venga  



































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riconosciuto e non vi sia la perseveranza nel peccato sino alla fine. La seconda predestinazione, nella misura in cui tiene conto dei meriti dell’uomo, il quale abbia accettato e ben utilizzato gli auxilia divina necessari a supplire alle mancanze umane, a differenza della prima, sortisce effetto. La chiave per comprendere il fine dell’incarnazione viene individuata da C. nella distinzione di una predestinazione all’incarnazione in un corpo immortale, cioè l’incarnatio ad gloriam, e la seconda predestinazione in un corpo mortale, ossia l’incarnatio ad redemptionem. La prima predestinazione di Cristo è anteriore alla previsione del peccato adamitico e indipendente da essa : la predestinazione di Cristo e di tutti gli angeli e i santi, dei quali egli è il capo, avvenne primariamente nella volontà antecedente, e non « ex praevisis meritis, ergo multo minus praevisis peccatis » [29]. Quando la Scrittura e i Padri affermano che Cristo non è venuto al mondo se non per il peccato, le loro parole devono essere intese con riferimento non alla sua prima predestinazione, ma alla seconda, conseguente alla previsione del peccato di Adamo. L’incarnazione del Verbo non è stata occasionata dal peccato dell’uomo, poiché essa era già il fine dell’universo, ma lo è stata semmai la sua incarnazione come redentore : « nihil derogat decretis divinis, si Christus incarnandus immortaliter deinde incarnatus est mortaliter ». Il peccato di Adamo ha variato lo scopo dell’incarnazione, ma non poteva motivarla, e il peccato stesso fu permesso « non ut fierent, quae facienda erant, sed [ut] cum gloria mirificentiori fierent non temerata hominum libertate » [30]. C. opera, quindi, una conciliazione tra le diverse posizioni, che sarebbero tutte valide in quanto considerano aspetti diversi della venuta di Cristo : « Et utrique bene dicunt : illi respexerunt incarnationem ad gloriam ut possibilem etiam ad redemptionem, isti de facto ad redemptionem » [31]. È la prospettiva paolina, recepita mediante il filtro scotista, a rendere comprensibile il passaggio, compiuto da C., dal motivo dell’incarnazione alla predestinazione. Se la predestinazione dell’uomo si radica in quella di Cristo,  























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non può trattarsi in alcun modo di predestinazione alla rovina, dal momento che Cristo presenta se stesso come Vita e Resurrezione. Il disegno di Dio si attua soltanto in positivo e non in negativo : egli ci ha predestinati non al bene o al male, bensì soltanto al bene o, come Paolo chiarisce : « nam quos praescivit et praedestinavit conformes fieri imaginis Filii eius » [32]. La predestinazione è un atto eterno, aveva affermato Scoto, indipendente da ogni realtà creata, mediante il quale Dio predestina l’uomo alla partecipazione alla gloria della vita divina che precede per sé la visione del peccato e la dannazione. Se questo vale per la predestinazione in generale, a fortiori deve valere per la predestinazione di Cristo [33]. Poiché Dio agisce con logica e con ordine, si deve ritenere che, nell’atto del predestinare, ordini alla vita gloriosa Cristo prima di ogni altro eletto, volendo che Cristo sia il più vicino al fine, cioè a lui stesso. Pur rimanendo fedele alla tradizione tomista, C. ne inquadra i temi in una prospettiva scotista, per cui, mentre sottolinea la defezione dell’uomo e la sua incapacità di rinascere alla vita divina, cosa che ha reso necessaria la seconda predestinazione di Cristo, assume l’amore di Dio quale causa primaria dell’incarnazione. Essa è il compimento supremo dell’unione amorosa di Dio con la creatura, ed era in capite libri del disegno creativo : « Quando noi amiamo una persona da dovero, ci svisceriamo, e ci vorriamo dare il sangue e l’anima e noi stessi (pensi questo chi fu innamorato). Hor Dio, che è più amoroso di noi, perché alle amate sue creature non haverà dato se stesso e ’l sangue e ’l corpo potendo ? » [34]. 5. Le modalità dell’unione. — Come sostenuto da Tommaso [35], al quale C. si riferisce esplicitamente, l’unione della componente divina e di quella umana in Cristo non può realizzarsi nella natura. Una natura, infatti, si può costituire a partire da due o più elementi in tre modi : o dando origine a una composizione di elementi, rimanendo essi integri e senza trasformarsi, la qual cosa non può avvenire in Cristo, dal momento che il risultato di questo tipo di unione non produrrebbe qualcosa di veramente unita 

















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rio ; o partendo da elementi esistenti in sé, ma già trasmutati, i quali danno luogo a un misto ; tuttavia, essendo la natura divina immutabile, non può esserci mescolanza di cose molto distanti tra loro ; o, infine, a partire da principi imperfetti, come la forma e la materia dalle quali risulta l’uomo. Nemmeno tale terzo modo, però, è utile a spiegare l’incarnazione, nella misura in cui in essa le due nature sono perfette, secondo la loro condizione. L’incarnazione non è avvenuta « per trasmutationem Dei in carnem neque hominis in Deum, sed per assumptionem naturae hominis ad unionem personalem hominis cum Deo, absque ulla Dei iactura » [36]. L’unione tra le due nature, l’umana e la divina, in Cristo non è né un’unione sostanziale, né un’unione accidentale, ma un’unione personale, per cui esse sono unite nella persona del Verbo, il quale, oltre a possedere la natura divina, assume per libero volere anche quella umana. Nonostante si richiami a Crisostomo e Ambrogio, C. riprende anche su questo punto un’argomentazione tomista, ricorrendo all’immagine del rapporto anima-corpo non solo per stabilire la tipologia dell’unione della natura umana con quella divina, ma anche per chiarire il ruolo specifico delle due nature. Il rapporto del corpo con l’anima può essere inteso in due modi : o come causa materiale, e allora il corpo funge da materia dell’anima, forma del corpo ; o come causa strumentale, e in questo caso il corpo diviene strumento dell’anima nello svolgimento delle sue azioni. Delle due modalità soltanto la seconda si può riferire all’unione ipostatica. La natura umana, infatti, non può fungere da materia rispetto alla natura divina, né questa svolge il ruolo di forma rispetto alla natura umana. Ciò che accade, invece, è che la natura umana è congiunta alla natura divina quale strumento. Nell’unione ipostatica, essa funge da strumento congiunto della divinità [37]. Alla natura divina spetta il ruolo di causa principale di tutto l’agire umano di Cristo, mentre alla natura umana compete il ruolo di causa strumentale dello stesso agire divino del Verbo. In quanto causa agente strumentale,  













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la natura umana ha qualità e prerogative sue proprie. Alla specificità dell’agire umano si devono addebitare tutte le debolezze [38] che accompagnano sia il corpo, sia l’anima di Cristo : i bisogni corporali, la fame, la paura, il dolore, la tristezza, la morte ecc. Gli atti di Cristo sono anch’essi duplici : gli uni fluiscono dalla natura divina, gli altri sono umani, e derivano dalla natura assunta. Essi sono in rapporto attraverso la communicatio idiomatum, espressione che, se considerata in senso ontologico, indica l’appartenenza reale degli attributi della natura umana e della natura divina all’unica persona del Verbo incarnato ; se presa in senso logico, indica l’attribuzione all’unico soggetto, cioè alla persona del Verbo incarnato, di uno o più predicati relativi alla sua natura umana e di uno o più predicati relativi alla sua natura divina. Seguendo Tommaso [39], C. considera la communicatio idiomatum una conseguenza dell’unione delle due nature sul piano logico, collocando la questione che la riguarda tra quelle cristologiche accessorie. Tommaso era stato il primo a farlo, anche in modo formale ; da Pietro Lombardo, infatti, la communicatio idiomatum veniva trattata come uno degli aspetti dell’unione stessa [40], con un approccio che si rivolgeva alla dimensione ontologica della questione. Tale collocazione, ripresa da C., risentiva, forse, dell’influsso di Alberto Magno, nel quale la communicatio idiomatum viene presentata sempre in stretta connessione con l’unione ipostatica, ma come una delle sue conseguenze. Dall’affermazione del suppositum di due nature consegue che si può predicare di esso quanto appartiene a entrambe, che le proprietà umane possono essere predicate del Figlio di Dio in concreto e che, in virtù dello scambio, non importa da quale nome si prendano le mosse nella predicazione, nella misura in cui le proprietà sono egualmente predicabili, poiché il nome si riferisce sempre primariamente al suppositum.  







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bile, Congiura, iii, 421. – [5] Theologia, xviii, i, 30. – [6] Cfr. Theologia, xviii, i, 38 ; Metaphysica, Prooemium, 86-88 ; ivi, 215 ; Ateismo, 142. – [7] Cfr. R. Amerio, Diagnostica della religione positiva in T. C., « Rivista di filosofia neo-scolastica », xxiv, 1932, 181-184 ; Idem, L’opera teologica di T. C., « Rivista di filosofia neo-scolastica », xxi, 1929, 410-430. – [8] Metaphysica, iii, 266. Cfr. Ateismo, 186. – [9] Cfr. Theologia, xviii, i, 44-48. – [10] Cfr. Metaphysica, iii, 8 ; Theologia, xviii, i, 56 ; Quaestiones, 9-10 ; Antiveneti, 135. – [11] Cfr. Theologia, xviii, i, 58 ; Theologia, xxv, 172-176 ; Metaphysica, iii, 9 e 19 ; Art. proph., 68 ; Discorso di Fra T. C. sopra la cometa e trave apparsi di novembre 1618, a cura di G. Ernst e L. Salvetti Firpo, « Bruniana & Campanelliana », ii, 1996, 1-2, 69 ; Lettere, 219-220 ; Astrol. 22, 29 e 69-71. – [12] Ag, 2, 7-10. – [13] Cfr. Theologia, xxv, 57 ; Theologia, xviii, i, 53 ; Art. proph., 69-70. – [14] Giovanni Pico della Mirandola, Disputationes adversus astrologiam divinatricem, a cura di E. Garin, Firenze, 1946-1952, ii, 229. – [15] Cfr. Theologia, xix, 138 ; Theologia, xviii, i, 53. – [16] Cfr. Scritti lett., 289 ; Theologia, xviii, i, 55 ; Theologia, xxv, 131-133 e 185. – [17] Theologia, xviii, i, 60. – [18] Ateismo, 186. Cfr. Metaphysica, iii, 266 ; Theologia, i, i, 26 ; Theologia, xviii, i, 64. – [19] Ateismo, 186. Esiste una discrepanza tra la numerazione delle note che C. elenca in queste pagine del Theologicorum liber xviii, e quella del liber i, nel quale, infatti, essa è la quarta. – [20] Theologia, xviii, i, 68 ; cfr. Theologia, i, i, 26 ; Metaphysica, iii, 266. – [21] Metaphysica, iii, 266-268. Cfr. Theologia, i, i, 26 ; Theologia, xviii, i, 82 ; Ateismo, 198. – [22] Cfr. Theologia, xviii, i, 86-92. – [23] Ivi, 92. Cfr. Theologia, i, i, 28 ; Ateismo, 187. – [24] Mt, 6, 33. – [25] Ateismo, 187. Cfr. Theologia, xviii, i, 92. Cfr. Mc, 16, 17 ; 2 Cor, 12, 12. – [26] Theologia, xviii, i, 94-98. – [27] Discorso politico, 248. – [28] Theologia, xviii, i, 104 : « praedestinatio, quae est actus Dei sibi bene placentis, duplex est ». – [29] Ivi, 104-108. – [30] Ivi, 110. Cfr. Gv, 3, 17 ; Lc, 19, 10 ; Mt, 9, 13 ; Gal, 4, 4 ; 1 Tm, 1, 15. Cfr. Ireneo di Lione, Adversus haereses, v, 14, i ; Agostino, Sermones, 174, 2 ; Atanasio di Alessandria, Adversus Arianos oratio, 2, 56 ; Giovanni Crisostomo, In epistulam ad Hebraeos, 5, i ; Ambrogio, De Incarnationis Dominicae sacramento, 6, 56 ; Leone Magno, Sermo 77, 2. – [31] Theologia, xviii, i, 110. – [32] Rm, 8, 29. Cfr. anche Ef, 1, 3-14. – [33] Cfr. Duns Scoto, Ordinatio, i, d. 41, n. 40 ; Opus Oxoniense, iii, d. 7, q. 3. – [34] Ateismo, 175-176. – [35] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, iii, q. 2, art. 1. – [36] Theologia, xviii, i, 170. – [37] Ivi, 154-155. – [38] Ivi, 178 ; Theologia, xxv, 92 ; Theologia xxi, i, 94-96 ; ii, 46. – [39] Cfr. Theolo 























































































Note. [1] Theologia, xviii, i, 18-22. Cfr. Theologia, vi, 12 ; Lettere, 141 ; Ateismo, 109. – [2] Ivi, 2628. – [3] Cfr. M. Erbetta, Gli apocrifi del Nuovo Testamento, Torino, 1981, 137-141. – [4] Cfr. Ama 











maria vergine

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gia, xviii, ii, 86. Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, iii, q. 16, a. 4 ; Scriptum super libros Sententiarum, iii, 1, q. 2, a. 4, ad 3 ; iii, 5, q. 2, a. 2, arg. 4 ; iii, 5, q. 2, ad 4 ; iii, 21, q. 1, a. 1, qc. 2, arg. 4 ; iii, 22, q. 1, a. 2, ad 1 ; De unione Verbi incarnati, 5, ad 9 ; Super Evangelium S. Matthaei lectura, lectio 4. – [40] Cfr. Pietro Lombardo, Sententiae, iii, d. 6.  













Bibliografia. R. Amerio, Il sistema teologico di T. C., Milano-Napoli, 1972 ; G. Ernst, Religione, ragione e natura, Milano, 1991 ; Eadem, T. C. Il libro e il corpo della natura, Roma-Bari, 2002 ; M. Muccillo, La pubblicazione della Theologia, in Laboratorio C. Biografia. Contesti. Iniziative in corso, Atti del Convegno (Roma, Fondazione Caetani, 19-20 ottobre 2006), a cura di G. Ernst e C. Fiorani, Roma, 2008, 213-239.  





Deborah Miglietta Maria Vergine (Maria Virgo) 1. Madre del Figlio di Dio. — Il tema mariano viene affrontato da C. in diversi scritti, redatti in momenti differenti e sollecitati da esigenze speculative eterogenee, nei quali, benché non venga offerta una trattazione sistematica, è possibile reperire elementi sufficienti a ricostruire il profilo di Maria nei suoi tratti essenziali. Nelle Censure sopra il libro del Padre Mostro, viene sottolineata la natura propriamente umana di Maria, contro Ricciardi, che ne avrebbe fatto un « Dio creato, zoppicante e dimezzato ». C. afferma a più riprese che ella è « pura umanità, che non è mischiata con la divinità » [1]. Tutti i singolarissimi privilegi di Maria (pienezza della grazia, verginità, assunzione, mediazione) sono considerati da C., conformemente alla tradizione cattolica, come legati al compito unico della sua maternità divina. Nella Theo­ logia, il ruolo di Maria viene precisato ulteriormente : la sua missione trova il proprio fondamento nel suo compito materno. C. tratteggia i lineamenti di una donna vera, in tutta la sua realtà biologica, come dimostra la notevole attenzione dedicata, nel corso della riflessione, alla sua corporeità, per dare conto della quale egli recupera tutta la propria riflessione fisiologica, mentre spiega,  









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per esempio, le dinamiche della gestazione del corpo del Verbo incarnato e le modalità del parto. Nella filigrana della trama speculativa dell’autore si coglie la predominanza dell’interesse cristologico : C. insiste sulla specificità dell’umanità di Maria, perché possa essere colta in tutta la sua evidenza la realtà del corpo di Cristo. Egli sottolinea pertanto il modo in cui ella ha concorso al concepimento con tutti i suoi elementi [2], concezione che lo allontana dalla dottrina tomistica del concepimento, secondo la quale nella formazione e nell’organizzazione del corpo di Cristo, « non vi fu niente da parte della beata Vergine che fosse attivo » [3]. Nel rifiuto dell’affermazione della passività femminile nella procreazione, propria della medicina della tradizione aristotelica, in favore della tradizione medica galenica e dell’attestazione del ruolo attivo svolto dalla donna nel concepimento, C. ricalca le orme dei pensatori francescani. Con Bonaventura, egli contrasta la dottrina per la quale il contributo di Maria consiste solo nella somministrazione del principio materiale [4] e, riferendosi esplicitamente a Scoto [5], afferma la cooperazione reale al concepimento del Cristo, svolta da Maria, la quale non si è limitata al ruolo di fornitrice di materia passiva (il sangue mestruale), ma ha svolto nella sua interezza il ruolo attivo, che svolge qualsiasi madre. Nella generazione del Verbo Incarnato, l’intervento della causa principale naturale (l’uomo) è stato sostituito da quello dello Spirito Santo, che ha reso attiva quella fecondità che Maria già possedeva per natura, agendo come causa principale e conferendo alla generazione di Cristo un carattere soprannaturale. C. pone inoltre in rilievo che Dio non ha voluto che suo figlio entrasse nell’umanità solo in virtù di una sua decisione : la venuta al mondo di Cristo è dovuta risultare sia dall’iniziativa suprema del Padre, sia dal consenso della madre. Quando Maria apprende che avrebbe concepito corporalmente, concepisce mentalmente. Il Verbo si incarna materialmente in lei quando esprime il suo consenso. L’influsso delle fede di Maria nel concepimento di Cristo, al quale C. consa 







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cra diverse pagine delle Censure sopra il libro del Padre mostro [6], non è indicato in modo esplicito nella testimonianza evangelica. Esso è stato posto in evidenza dalla tradizione dei Padri [7], che hanno affermato che Maria aveva concepito nella mente, prima di concepire nel corpo. Concepire mediante lo spirito e concepire mediante la fede sono due espressioni che indicano l’azione determinante di queste due forze nella generazione del bambino. C. vede in esse una manifestazione dello spirito umano, della sua vis imaginativa : basti pensare a quanto si legge nel Senso delle cose sul potere ‘magico’ della credenza. Benché questo tema sia lumeggiato in diversi luoghi del corpus campanelliano, laddove l’autore riflette sul concepimento in generale e sull’efficacia plastica e formativa dell’immaginazione [8], per il caso particolare di Cristo, egli non prende in considerazione questa componente. Si tratterebbe di riconoscere una forza psicologica, mediante la quale le virtù personali di Maria sussidierebbero, in un certo modo, la sua maternità. Le affermazioni patristiche non ammettevano una spiegazione di questo genere [9] : se la fede di Maria esercita un influsso nella generazione del bambino, non è in virtù di una intensità di pensiero, ma in virtù della parola divina. Quali siano poi le virtù personali della madre di Cristo, C. cerca di spiegarlo, avvalendosi della propria metafisica. Mantenendosi fedele al consueto schema primalitario, egli fa notare che, quanto al principio potestativo naturale, esso non è presente in Maria in modo di molto superiore alle altre donne. Per natura, ella è stata dotata di una costituzione sana, che ha saputo preservare mediante una condotta sobria, mentre godeva della stessa custodia angelica, che prima del peccato conservava gli uomini nell’innocenza. Conformemente alla tradizione patristica, l’autore pone l’accento sulla fortezza di Maria : gli episodi della sua vita, riferiti dai Vangeli, celebrano l’eccezionalità della sua sopportazione delle fatiche, della povertà e delle variazioni climatiche [10]. Ben lungi dal far consistere la grandezza di Maria in facoltà eccezionali, C. indica le ragioni per le quali occorre affermare la limitatezza del  





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suo principio potestativo soprannaturale : la molteplicità delle grazie ricevute e l’assenza di miracoli compiuti in vita, come insegnato da Tommaso, i quali sono stati operati solo dopo la morte di Cristo. Circa il principio conoscitivo, Maria possiede tanta conoscenza naturale, quanta ne occorre agli uomini viatores per giungere alla conoscenza delle verità soprannaturali. Se Maria sembra essere, a prima vista, un membro tra gli altri della specie umana, anche se eminente, e non pare esercitare nessuna funzione paragonabile a quella degli apostoli o dei loro successori, essa è contraddistinta dalla sua fede somma nelle cose divine e dalla sua maternità divina, per le quali « non c’è nessuna creatura che possa in qualche virtù essere paragonata a lei » . C. chiarisce tale affermazione alla luce della propria gnoseologia : Maria ha avuto, fin dal primo istante della sua concezione, l’uso della ragione – privilegio concesso anche a Giovanni Battista, che era sobbalzato nel ventre materno, profetando e riconoscendo l’avvento di Cristo –, dono per il quale la sua anima ha riconosciuto sin da subito il proprio Principio, amandolo di innato amore e innata conoscenza, più di se stessa, secondo la descrizione della Metafisica e come narrato nelle Revelationes brigidine. Inoltre Anna aveva ricevuto, al momento della santificazione dell’anima di Maria nel suo grembo, una letizia inenarrabile. Occorre riconoscere poi che quanto accade all’anima umana, al momento dell’infusione nel corpo, che incorre nell’oblio di sé e di Dio, nel caso di Maria non si verifica : la sua incontaminatezza la preserva da tale dimenticanza. La fede di Maria, per il legame mai scisso con il proprio Creatore, le ha inoltre consentito di assolvere il ruolo di « maestra degli Apostoli » [11]. Il forte accento posto sul ruolo attivo della donna nel concepimento speciale di Maria, da un lato, e il privilegio gnoseologico attribuitole in virtù della sua immacolatezza, beneficio della sua divina maternità, dall’altro, esortano l’autore alla dimostrazione della totale assenza di impurità nella materia, da cui ha origine l’uomo Cristo. 2. Immacolata. — È noto come la tesi della preservazione di Maria dal peccato originale  













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sia stata propria della scuola francescana e come, nel corso dei secoli xiv-xvi, si siano accese intorno ad essa dispute teologiche e conflitti tra gli ordini religiosi, che affondano le loro radici negli intricati sviluppi dogmatici e liturgici della questione relativa all’Immacolata concezione (↗ Immacolata Concezione). Lungo i secoli, la posizione del magistero è stata prudente : Papa Sisto IV introduce la festa liturgica della Concezione, ma non si pronuncia sul piano dogmatico ; con le bolle Cum Praeexcelsa (1477) e Grave Nimis (1482) proibisce a maculatisti e immaculatisti di accusarsi vicendevolmente di eresia ; successivamente, il divieto di discutere sulla questione viene ribadito dal Concilio di Trento (1545-1563). Nel 1618, a seguito dell’imposizione di professione in favore dell’Immacolata concezione a tutti gli ecclesiastici, da parte di Pedro Giron, duca d’Ossuna e viceré di Napoli e di Sicilia, che aveva provocato la ribellione dei domenicani, alla cui sentenza acconsentivano parte del clero e del popolo, C. redige l’Apologeticus in controversia de Conceptione beatae Virginis adversus insanos vulgi rumores [12], nel quale prende le distanze dalla dottrina maculatista della scuola domenicana e cerca di chiarire la posizione tomistica sull’argomento. C. introduce a parlare lo stesso Tommaso d’Aquino, che si rivolge ai domenicani, invitandoli a desistere da una vana resistenza, ispirata da mal consigliato zelo. La tesi dell’Immacolata concezione di Maria sarebbe stata sostenuta nel commento alle Sentenze, ed è da considerarsi preferibile a quella maculatista della Summa, nella misura in cui, sebbene quest’ultima sia un’opera successiva, non ha autorità di emendare la precedente, in quanto la prima è stata sottoposta ad una scrupolosa revisione da parte dell’autore, mentre la seconda è rimasta incompiuta e priva della revisione finale per la sua sopraggiunta morte. Le Sentenze costitui­rebbero, inoltre, l’esposizione delle proprie convinzioni, mentre la Summa conterrebbe dottrine altrui. Gli argomenti tomistici a favore dell’Immacolata concezione sono considerati da C. insolubili dallo stesso Tommaso, mentre gli argomenti che la negano, i quali sono dedotti da altri autori,  





sono confutabili e già di fatto confutati. C. fa riferimento in particolare a un passo del Commento [13], nel quale Tommaso, paragonando la purezza di Maria a quella degli altri santi, sottolinea il grado eccellente di Maria, la quale risulta libera, sia da ogni peccato attuale, sia esso mortale o veniale, sia dal peccato originale. Tale definizione, tuttavia, non riguarda l’attività santificante di Dio all’inizio dell’esistenza di Maria, per cui ella conserva la potenzialità del peccare : il fomes peccati. A differenza di Tommaso, benché egli si consideri erroneamente in accordo con lui, C. esclude che in Maria vi fosse il fomes. Il riferimento al commento alle Sentenze come allo scritto in cui Tommaso avrebbe enunciato la sentenza immaculatista – benché C. ricorra a ogni mezzo, per cercare di porre fine a ogni dubbio sull’accordo dell’autore, riferendo persino della visione avuta da un domenicano vivente, testimonianza che ha forse valore autobiografico – appare in realtà errato, nella misura in cui, anche all’interno di esso, vi sono diversi luoghi, nei quali viene affermato il concepimento nel peccato originale e la successiva santificazione di Maria, avvenuta dopo l’infusione dell’anima. Vi è un’obiezione cristologica di origine agostiniana, sostenuta sia da Bernardo sia da Tommaso nella Summa, secondo la quale l’assenza del peccato in Maria da un lato contrasterebbe con i dati biblici dell’universalità del peccato negli uomini e della redenzione operata da Cristo e dall’altro porterebbe Maria sullo stesso piano di Cristo : C. risponde che l’Immacolata concezione non è un’eccezione alla redenzione universale operata da Cristo, ma ne è piuttosto la massima realizzazione. Maria viene infatti preservata dal peccato, non liberata, come avviene per gli altri uomini : per tale ragione rimane comunque inferiore a colui che l’ha salvata. Si tratta di una forma di redenzione preventiva o preservativa, per la quale C. si mostra ancora una volta debitore nei confronti di Scoto [14]. Cristo, in quanto perfettissimo mediatore, possiede ed esercita il grado più perfetto di mediazione, che consiste non solo nel liberare una persona dal male già contratto, ma nel prevenire che essa lo contragga. La redenzione,  





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quindi, può essere non solo liberativa, ma anche preservativa, come quella esercitata da Cristo nei confronti della madre. L’altra obiezione, proveniente dalle concezioni morali del tempo, che tendevano a identificare con il momento della trasmissione del peccato il rapporto coniugale che dava origine al concepimento, e che, per questo, rendevano impossibile che qualcuno fosse concepito senza contrarre il peccato, viene superata da C. attraverso una disquisizione sulle modalità del concepimento di Gioacchino e Anna, così come vengono riferite da Brigida di Svezia. C. riferisce di aver sempre accettato e difeso la sentenza di coloro che identificano il momento della santificazione di Maria con quello dell’annuncio dell’angelo, fino alla predilezione per l’insegnamento delle Revelationes di Brigida di Svezia, nelle quali l’autrice riferisce che Maria le ha rivelato che i suoi genitori non hanno agito per concupiscenza, ma solo per divina carità e, quindi, senza peccato [15]. 3. Vergine. — C. professa la concezione verginale di Cristo nelle Censure sopra il libro del Padre Mostro e, pur non avendo esclusa a priori all’interno di tale scritto, l’ipotesi che Cristo potesse nascere persino da una meretrice – d’altra parte il Figlio di Dio avrebbe potuto, infatti, trarre la sua umanità da qualsiasi materia, come insegnato da Tommaso – egli afferma che Maria è stata perpetuamente vergine [16]. Se il concepimento verginale, in quanto attestato dagli evangelisti e indicato dalla tradizione come un’esigenza della filiazione divina di Cristo, non pone difficoltà, e conseguentemente può essere assunto come un dato di fatto, la verginità durante il parto necessita di un esame, in grado di dissipare ogni perplessità [17], che coincide con la descrizione delle dinamiche del parto di Maria. Nei volumi della Theologia dedicati a questo tema l’argomentazione appare fortemente intrisa di assunti fisiologici, benché l’autore esprima le difficoltà di una spiegazione fisiologica dell’intera gestazione di Cristo e della sua nascita senza il riferimento a un costante miracolo. In seguito all’esenzione dal peccato, la natura si trovò in Ma-

ria ricondotta alla sua perfezione e integrità originarie, nella quale tutte le operazioni si compiono con gaudio. Il dolore del parto deriva dalla maledizione con cui nasce l’uomo affetto dal peccato originale, pertanto « nel parto verginale [...] la santità tolse il dolore ». Se ogni atto che giovi a conservare la natura, sia nell’individuo che nella specie, produce piacere – ossia il « senso del bene presente » – in chi lo compie, ancora più grande doveva essere il gaudio che accompagnava il parto del Figlio, maggiore di quello del coito [18]. La sua spiegazione teologica mette l’integrità fisica nel parto in rapporto con l’immunità dalla concupiscenza, la quale ha come conseguenza un singolare dominio delle forze spirituali sugli organi e processi fisici, e, come aveva chiarito anche nella sua trattazione specifica sulla grazia, Maria non poteva peccare per un privilegio speciale, che configura la sua singolare elezione [19]. Riprendendo poi Agostino, le cui parole riecheggiano nel testo di Brigida laddove Maria riferisce la scelta di Cristo di nascere in tal modo, C. evidenzia l’opportunità del suo parto, come quello che conveniva a Dio [20]. Dalle Revelationes, C. fa propria l’immagine, già delineata da Isaia [21], presente in alcuni Padri [22], secondo la quale Cristo è uscito dal grembo di Maria come un fiore dall’albero. La verginità corporale di Maria durante il parto rappresenta l’irradiazione della sua verginità morale, due realtà che costituiscono la verginità integrale, perfetta, la quale esclude in primo luogo che il parto abbia compromesso l’integrità della sua verginità corporale e in secondo luogo, conseguentemente, tutti quei fenomeni fisiologici che accompagnano un parto ordinario (lesioni somatiche, dolori, ecc.). Per spiegare tale mistero, oltre a servirsi di diverse analogie di origine patristica quali l’uscita di Cristo dal sepolcro sigillato, il suo passaggio attraverso le porte chiuse, la penetrazione dei raggi solari attraverso il vetro, la nascita del Logos dal seno del Padre, C. approfondisce la descrizione tomistica. Il parto di Maria è stato indolore nella misura in cui non vi è stata rottura dei claustri vaginali, ma la « compenetrazione miracolosa dei corpi », resa pos 











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sibile dalla potenza di Dio. C. esclude che durante il parto di Maria vi sia stata la fuoriuscita di mestruo, poiché Cristo non poteva entrare in contatto con tale « superfluità viziosa », la quale è « nemica della natura, perciò da eliminare ogni mese ». Tale assenza è da riferirsi alla perfezione di Maria : una volta formatosi, il corpo del figlio viene preservato all’interno di una prima membrana dagli escrementi, i quali vengono espulsi in una seconda. Due sono infatti le membrane che avvolgono il feto nella descrizione campanelliana, come egli scrive anche nel Liber sextus dei Medicinalia e nel Physiologiae Compendium e come attestavano i fisiologi moderni [23]. Qualora esse non fossero state efficaci a impedire il contatto del corpo di Cristo con le superfluità fuoriuscite da Maria, C. ipotizza che esse siano state eliminate dai pori della cute della madre, essendosi trasformate in vapore tenue. C. ritiene poi che non si possa ammettere che il parto di Maria sia avvenuto in presenza di altri : esso è avvenuto in solitudine, contrariamente alla raffigurazione che ne ha fornito la tradizione. Quanto alla verginità di Maria dopo la nascita di Cristo, a chi obietta che la Scrittura parla talvolta di fratelli e di sorelle di Cristo, C. risponde che si devono intendere parenti prossimi di questi : « non si può ritenere che Giuseppe abbia osato violare il luogo, nel quale sapeva essere stato concepito il Salvatore dallo Spirito Santo, né la Vergine fu così ingrata, verso un tanto [grande] figlio unigenito, affinché come in cielo è unigenito del Padre, così in terra fosse unigenito della madre » ; seguendo l’interpretazione scritturistica tradizionale, secondo C. il fatto che il Salvatore morente affidi sua madre alla protezione di Giovanni, dimostra che ella non aveva altri figli. 4. Addolorata. — La trattazione del dolore di Maria, al momento della Passione e morte del Figlio, che si trova sviluppata in poche note a margine della ricostruzione del drammatico epilogo della vita di Cristo, rende ancora più evidente il carattere cristologico della mariologia campanelliana : come i privilegi di Maria, anche ciò che di lei merita di essere preso in considerazione è costituito in 





















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tegralmente in relazione al Verbo incarnato. Se la presenza di Maria è attestata dalla Scrittura solo ai piedi della croce, mantenendosi fedele alle Revelationes di Brigida, C. ritiene che ella abbia assistito non solo alla flagellazione, ma anche all’incoronazione di spine e al trasporto della croce, giungendo all’apice della sofferenza, al momento della trafittura del costato del figlio [24]. Seguendo l’adagio patristico e in particolar modo Damasceno, nella sua descrizione della ‘compassione dalle viscere’ (sympatheia splachnon) [25] della madre di Cristo, C. vede nelle sofferenze patite da Maria in occasione della Passione del Figlio la realizzazione della profezia della spada di Simone [26], secondo la quale Cristo avrebbe rappresentato il segno di contraddizione (seméion antilegómenon) : conseguentemente l’opposizione (antiloghía) da parte di molti si sarebbe sollevata contro di lui, giungendo a farlo morire ; al suo destino si sarebbe associata la madre, sulla cui anima si sarebbe abbattuto il dolore, come una spada di grandi dimensioni (rompháia). Tra le diverse interpretazioni fornite dall’esegesi, che C. poteva leggere anche in un breve cenno di Tommaso [27], secondo le quali tale spada simboleggerebbe un dubbio di fede (Origene), la parola di Dio (Ambrogio), la passione (Agostino), C. mostra di conoscere e prediligere quella di Antonino da Firenze, del quale ricalca fedelmente l’argomentazione [28], indicando in tale profezia la dimostrazione della presenza di un’allusione nella Scrittura – nella quale non si trova una descrizione esplicita del dolore di Maria ai piedi della croce – all’intima partecipazione di Maria al tragico destino del Figlio. L’ampiezza e l’intensità del suo dolore sono determinate dal fatto che nessuna madre aveva mai amato tanto il proprio figlio, non solo perché unigenito e generato senza l’ausilio di un padre umano, ma perché vero Dio, per cui i dolori, che le altre donne sostengono nel parto, vengono vissuti da Maria al momento della Passione, in forma talmente acuita da poter essere considerati più atroci di quelli del martirio [29]. La tradizione presenta Maria ai piedi della croce in preda a una sofferenza profonda,  



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che viene esternata tuttavia in un pianto sommesso, negando ogni espressione di un dolore troppo umano ; gli apocrifi della Passione descrivono invece una donna che affronta la morte del Figlio con lo svenimento e con l’esplosione parossistica in urla, lamenti, percussione del petto e graffi del volto, come il Vangelo di Nicodemo (Atti di Pilato, cc. i-xvi), oppure le attribuiscono l’attassamento, ossia uno stato di ebetudine stuporosa. Lungi dal volerne sminuire, in questa circostanza, la creaturalità, C. ne sottolinea piuttosto la compostezza del dolore, ponendo in rilievo la sua eccellenza morale. Durante tutte le tappe della Passione, sino al momento culminante del Calvario, egli riconosce a Maria un dolore contenuto, nella misura in cui, come si trova fissato nella sua trattazione delle virtù, l’atto morale più eccellente è la sopportazione dei mali. Come Cristo, anche Maria non soccombe al dolore, altrimenti occorrerebbe riconoscerle delle passioni moralmente viziose [30]. Il pianto di Maria non era disperato, non solo perché sapeva che il Figlio moriva per la salvezza degli uomini, una verità della quale non poteva dubitare in virtù della sua relazione particolarissima con Dio, ma soprattutto perché ella, « come si addice ad una donna santa, dominava le proprie passioni ». Per quanto infatti il dolore morale, che nasce nell’anima dall’apprensione degli oggetti dolorosi, sia più intenso e ‘acerbo’ del dolore del corpo, come si trova precisato nel Theologicorum liber xxix, l’uomo che padroneggia le proprie passioni e, più raramente, la donna – di qui l’eccellenza morale di Maria – è in grado di opporvi una solida resistenza. Nello scenario del Golgota, infine, si distingue l’episodio durante il quale Cristo, rivolgendosi alla madre e al discepolo, li affida l’un l’altra come madre e figlio (Gv 19,25-27) [31]. Tenendo sempre presente l’argomentazione di Antonino, C. non vede, come altri autori, in queste parole, il richiamo ad una funzione di maternità universale di Maria e della sua missione di corredentrice del genere umano, ma mette in evidenza il fatto che Cristo, in vista della dissoluzione della propria umanità, tiene conto dei bisogni futuri della  





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madre, insegnando all’uomo che egli ha un debito nei confronti dei propri genitori. Il ruolo corredentivo di Maria è limitato, per C., al suo apporto alla redenzione di Cristo e la sua funzione è solo quella di mediatrice, per cui ode le preghiere degli uomini, e quella dello stesso C. presente nelle Poesie, nel Verbo di Dio, suo figlio [32]. 5. Assunta. — La dottrina dell’assunzione corporale di Maria dopo la morte non risulta fondata sui testi scritturistici, malgrado la connessione secondaria di alcuni passi biblici con questo tema dottrinale : essa si trova stabilita nella più antica delle fonti a disposizione, che C. mostra di conoscere, ossia la lettera di Epifanio vescovo di Salamina ai cristiani d’Arabia [33]. L’autore afferma che la vita di Maria non può aver avuto uno svolgimento e un termine, come tutti gli altri mortali, ma si dice incapace di stabilire se sia morta o meno. Su un tema sul quale Tommaso, fonte principale della teologia campanelliana, non ha lasciato una trattazione ex professo, ma solo alcuni cenni occasionali, nei quali viene sostenuta la certezza dell’assunzione di Maria – ella è stata esaltata su tutti i cori degli angeli, poiché è Madre di Dio, e dal bene infinito, che è Dio, trae una certa dignità infinita [34] –, C. esibisce la propria conoscenza della letteratura cristiana apocrifa – come gli scritti dello pseudo-Melitone trascritti da Gelasio – la quale narra il trapasso della Madre di Cristo, con dovizia di particolari, e, pur divergendo su alcuni punti, è concorde nel ritenere che il suo corpo, dopo la morte, non sia rimasto nel sepolcro. Alcune pagine del De divinis nominibus dello pseudo-Dionigi Areopagita [35] – scritto dal quale ricava l’informazione circa l’età in cui Maria è morta, che doveva essere avanzata, per consentirle di avere il tempo di edificare la Chiesa – sono lette da C. come testimonianze oculari dell’accaduto, nella misura in cui l’autore avrebbe assistito alle esequie di Maria e alla successiva sparizione del suo corpo. Prendendo le mosse da uno dei capisaldi della sua dottrina, ossia la validità della testimonianza rispetto a ogni opinione, C. propone anche un calcolo dell’età di Maria al momento della morte, sulla base dei fatti  

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riportati : se Dionigi si è convertito alla fede per opera di Paolo, diciotto anni dopo la morte di Cristo, tale data corrisponde al cinquantadue dopo Cristo e, se vi si aggiunge il tempo precedente, calcolato da tutti in quindici anni, evidentemente il trapasso di Maria non può essere avvenuto prima dei sessantasette anni. Ma Dionigi assistette al transito della Vergine non subito dopo la conversione, per cui è verosimile che la Vergine sia vissuta settantadue anni. Una sintesi delle acquisizioni mariologiche antiche su questo tema viene letta da C. nel ventaglio dottrinale omiletico di Damasceno, dove trova spazio tutto l’arco della vita di Maria, dal concepimento verginale alla gloriosa dormizione, e che egli elegge ad autorità principale su questo tema. Con Damasceno, C. fa notare che, se il Figlio è morto, anche la madre doveva morire, per non essere adorata come maggiore del Figlio. La sua morte, tuttavia, non è avvenuta per malattia, ma per comando di Dio, come accaduto a Mosè e Aronne, e senza alcun dolore, per la sua immunità dal peccato originale e per l’atrocità del dolore, che la morte del Figlio le aveva causato in vita. Al suo transito assistono tutti gli Apostoli, tranne Tommaso, che, una volta rientrato, recatosi al sepolcro per portare il proprio omaggio al corpo della Vergine, lo trova vuoto. C. mostra di riconoscere a Maria una condizione di passibilità e di mortalità, analoga a quella di Cristo, riscattata dalla morte con la glorificazione anticipata del corpo, assunto in cielo. Resa immune, per l’esenzione dalla macchia originale, dalla corruzione della morte, non viene però esentata dalla morte : Maria muore, ma il suo cadavere non conosce corruzione, come ricorda anche nell’art. 2 della Quaestio Physiologiae xxxv. Se Cristo con la sua morte ha vinto il peccato e la morte e, sull’uno e sull’altra, riporta vittoria, in virtù di Cristo, chi è stato rigenerato soprannaturalmente con il battesimo, tuttavia, per legge generale, Dio non vuole concedere ai giusti il pieno effetto di questa vittoria sulla morte, se non quando sarà giunta la fine dei tempi. Conseguentemente anche i corpi dei giusti, dopo la morte, si dissolvono e, soltanto  



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nell’ultimo giorno, si ricongiungeranno ciascuno con la propria anima gloriosa. Da questa legge generale, Dio ha reso esente Maria, la quale per il privilegio del tutto singolare della sua concezione immacolata, non fu soggetta alla legge di restare nella corruzione del sepolcro, né dovette attendere la redenzione del suo corpo, alla fine del mondo [36]. L’assunzione corporea della Madre di Cristo, va considerata per C. alla luce degli altri suoi privilegi : era necessario che colei che nel parto aveva conservato illesa la sua verginità, preservasse senza alcuna corruzione il suo corpo dopo la morte ; colei che aveva visto suo Figlio sulla croce, ricevendo nel cuore quella spada di dolore, dalla quale era stata immune nel darlo alla luce, non poteva che contemplarlo seduto alla destra del Padre. L’elogio per Maria è tale da condurre l’autore ad ammettere, nell’ultimo volume della Theologia, che, quand’anche il corpo di Maria fosse sulla terra, nonostante non ci sian­o ragioni per ritenerlo, poiché non è mai stato ritrovato, non sarebbe meno glorioso che nell’empireo. Tale sublimità rappresenta tuttavia il risultato delle numerose grazie che ella ha ricevuto de congruo : nessuna crea­ tura avrebbe potuto, infatti, meritarle de condigno [37].  





Note. [1] Censure sopra il libro del Padre Mostro : « Ragionamenti sopra le litanie di Nostra Signora », a cura di A. Terminelli, Roma, 1998, f. 271v. Si veda A. Terminelli, La Vergine Maria, Madre di Dio, nel pensiero di T. C., Roma, 1982 (Tesi di dottorato in teologia con specializzazione in mariologia). – [2] Theologia, xix, 92. – [3] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theol., i, q. 118, a. 1, ad 4, e la successiva q. 119 ; In iii Sent., d. 3, q. 2, a. 1. – [4] Bonaventura da Bagnoregio, In iii Sent., d. 3, p. 1, a. 2, q. 2. – [5] Theologia, xix, 96. Il richiamo a Scoto su questa questione è presente anche nelle Censure sopra il libro del Padre mostro, ff. 261r e 273r. Cfr. anche Phil. sens., 233. – [6] Censure sopra il libro del Padre mostro, ff. 256v ; 307r ; 307v ; 308r ; 308v. – [7] Si veda, a questo proposito, A. Müller. Ecclesia-Maria. Die Einheit Marias und der Kirche, Freiburg Schw., 1952, 211 e sg. – [8] Cfr. G. Giglioni, Immaginazione, spiriti e generazione. La teoria del concepimento nella « Philosophia sensibus demonstata », « Bruniana & Campanelliana », vi, 1998, 37-57 ; Idem, Imma 

























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ginazione, in ebc, i, 2006, 251-257. Cfr. Phil. sens., 245-248 ; Città del Sole, 46 ; Senso delle cose, 272, 303312. – [9] J. Pintard, Le principe “Prius mente quam corpore...” dans la patristique et la théologie latines, « Bulletin de la Société française d’Études Mariales », 1970, 56 e sg. – [10] Theologia, xx, 42. – [11] Theologia, xx, 58. – [12] L’opera, pubblicata una prima volta a cura e con l’introduzione di L. Firpo, in Sapientia, xxii, 1969, 182-248, è ora edita in T. C., Due opuscoli teologici. De conceptione beatae virginis de praecedentia praesertim religiosorum, a cura di M. Miele, Lugano, 2015. – [13] Tommaso d’Aquino, In iii Sent., d. 44, q. 1, art. 3. Tale passo si trova citato in Theologia, xix, 54. – [14] Apologeticus, 227-228. Cfr. G. Duns Scoto, Opus Oxoniense, ii, d. 32, q. un., n. 4, n. 7, n. 12, n. 14 ; Reportata Parisiensia, iii, d. 3, q. 1, n. 4. – [15] Cfr. Brigida di Svezia, Revelationes, Romae, 1606, cap. 49, 214 e cap. 55, 309.– [16] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa theol., iii, q. 31, a. 4. Il riferimento si trova in Censure, f. 290. La verginità di Maria viene affermata nei seguenti ff. : 282v ; 283r ; 284r ; 284v ; 285r ; 286r ; 286v ; 287r ; 289v ; 290v ; 308r ; 308v. – [17] Cfr. Ateismo, 203 ; Theologia, xix, p. 74. – [18] Theologia, xix, 108. – [19] Theologia, xiii, 32. – [20] Ivi, 68 ; Theologia, xix, 76. Si vedano in particolare Agostino d’Ippona, Sermo 192 : Miramur Virginis partum e Brigida di Svezia, Revelationes, cap. 49, 301. – [21] Is. 11,1. [22] Cfr. Ireneo di Lione, Adversus haereses, iii, 20,3 : pg 7, 944 ; sc 211, 392 ; Idem, Demonstratio praedicationis apostolicae, 59 : sc 62, 123-124 ; Eusebio di Cesarea, Eclogae propheticae, 7, 1, 26-56 : pg 22, 496-504 ; gcs 23, 302-308 ; Ippolito da Roma, Benedictiones Isaac et Iacob, i : po 27, 76-79. Infine, è interessante rilevarne la presenza anche in un autore del secolo vi : cfr. pseudoEpifanio, In laudes sanctae Mariae Deiparae : pg 43, 488. – [23] Cfr. Girolamo Fabrici d’Acquapendente, De formato foetu, Venetiis, 1600, 6-7 ; J. Fernel, Physiologia, lib. vii, cap. 9, 236-237 ; Andrea Vesalio, De humani corporis fabrica libri septem, rist. anast. dell’ed. del 1543 a cura di J. Pigeaud, Paris, 2001, lib. v, cap. xvii, 541-542. – [24] Theologia, xxi, ii, 32. – [25] Giovanni Damasceno, De fide, iv, 14: pg 94, 1920. – [26] Lc 2, 35. – [27] Tommaso d’Aquino, Summa theol., iii, q. 27 a. 4. – [28] Antonino da Firenze, Chronicorum opus, pars i, tit. vi, cap. iii, Lugduni, 1586, coll. 388-389. – [29] Gregorio Magno, Homiliarum in Evangelia, lib. i, hom. iii, 3 : PL, 76, col. 1087. Cfr. Theologia, xx, 60. – [30] Cfr. Theologia, x, i, 124 e xviii, ii, 30. – [31] Theologia, xxi, ii, 32, 110, 134. – [32] Cfr. Madrigale 11, in Poesie, 188 e Theologia, xx, 63. – [33] Epifanio di Salamina, Adversus haereses, l. iii, t. ii (Haeres.  







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lxxviii) : pg 42, col. 717. – [34] Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theol., i, q. 25, a. 6 ; iii, q. 83, a. 5 ad 8 ; In IV Sent. d. 12, q. 1, a. 3, sol. 3 ; In Symbolum Apostolorum expositio art. 5. – [35] Dionigi Areopagita, De divinis nomibus, cap. iii, par. ii : pg 3, col. 682. – [36] Theologia, xvii, 46. – [37] Cfr. Theologia, xix, 180 e xviii, 204.  









Bibliografia. R. Amerio, Il sistema teologico di T. C., Milano-Napoli, 1972 ; A. Terminelli, La Vergine Maria, Madre di Dio, nel pensiero di T. C., Roma, 1982 ; G. Ernst, Religione, ragione e natura, Milano, 1991 ; Eadem, T. C. Il libro e il corpo della natura, Roma-Bari, 2002.  





Deborah Miglietta





























































musica (musica) 1. Introduzione pitagorica. — « Si deve stimare che tutte le voci del mondo son musica al mondo tutto, e così i moti del cielo, sendo il suono movimento sentito » [1]. Ad una lettura attenta, questa frase riassume il pensiero di C. sulla musica. Prova tangibile della voce di ogni singola cosa che concorre all’armonia del Creato, la melodia, attraverso il sensorio comune dell’aria, altera lo spiritus e gli trasmette passioni e conoscenze, lo fortifica e lo consuma. Tali principi riportano subito alla mente Pitagora, che non a caso C. richiama sovente nel riflettere sulla virtus di voci e strumenti, e che può dunque rappresentare il filo conduttore di queste considerazioni, ma con una doverosa precisazione. Pitagora è il mistico protettore della musica che non ha lasciato una traccia scritta, e già nel iv secolo il suo insegnamento è oggetto di un’intricata schermaglia fra i suoi commentatori che, ben prima della critica musicologica di Otto e Novecento, impedisce ad Aristotele di attribuirgli con certezza il seme della scienza armonica. Ciò nonostante, l’Accademia antica riconduce la dottrina di Platone all’impronta di Pitagora con una sicurezza tale da essere per lo più accolta senza esitazioni dal Rinascimento e dallo stesso C. Detto ciò, il principio fondamentale del pitagorismo poggia sulla fisica dei contrari. Il Creato viene dedotto per via analogica  



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riconducendo forze antagoniste, rappresentate dal pari e dal dispari, alla temperata unità della consonanza. Mescolandosi nel cosmo come il grave con l’acuto, il sapiente dosaggio dei numeri genera spazio e tempo, spiega le rivoluzioni astrali, la crescita dell’embrione, e offre un modello di analisi per tutti i fenomeni d’azione a distanza : la vibrazione simpatica delle corde ; le proprietà di erbe, pietre e talismani ; la migrazione delle anime ; la passione del simile per il simile ; il potere psichico dei modi musicali (ethos). C. esamina accuratamente l’articolata miscela di celeste misura e sciamanico eccesso in Pitagora, e ne propone una ricostruzione avveduta e coerente con la sua concezione del corpo della natura. Per non smarrirsi nel labirinto dei suoi scritti ed entrare subito nel vivo dell’argomento, conviene fare riferimento soprattutto al Senso delle cose e al commento di C. all’ode barberiniana sulla podagra di Clemente VIII. 2. Musica, spiritus, podagra e tarantole. — L’ode mostra con chiarezza che l’interesse di C. per la musica è anzitutto terapeutico. Riprendendo un passo scritturale noto a generazioni di medici e demonologi (1 Sam 16, 14-23), egli veste Maffeo Barberini dei panni del pastore, il quale grazie all’ausilio della musica « ad Clementem, tamquam David ad Saulem contra spiritum afflictionis, […] contra spiritum podagrae accersitur ». A sostegno dell’efficace connubio curativo del canto con la lira, ricorda che « Pythagoras passiones quaslibet mutari musica docuit » [2]. C. attinge al topos retorico dell’encomium musicae tramandato dal quadrivium di Boezio, che fa di musica e medicina due scienze sorelle. Come ha sottolineato Brenno Boccadoro, la solidarietà della loro relazione non va però esagerata, poiché ancora nella prima età moderna la musicoterapia si regge su uno statuto epistemologico piuttosto precario. Più teo­rizzata che praticata e decisamente restia a sottostare a infallibili regole di prescrizione, la disciplina paga il prezzo platonico della superiorità dell’idea sul fenomeno terreno, e quindi dell’ars musica inudibile sull’ars practica sensibile. Ben lo testimonia la musica del polso, accolta da  

















Pietro d’Abano e criticata da Gentile da Foligno, che viene trasmessa nei secoli non tanto dalla tradizione ippocratica e galenica, ma dal florilegio di Boezio sulla musica humana, con la matematica dell’ethos che astrae i temperamenti degli uomini fissandoli in regole universali (De institutione musica, i, ii). Ed è ancora sulla base di Boezio e di un ristretto gruppo di autorità canoniche – Orfeo, Pitagora, Damone, David, Eliseo – che i teorici rinascimentali infarciscono l’arte medica di nozioni d’armonia, come nel caso di Ficino, che trasforma l’ethos in una farmacopea di modi musicali appropriati e in una pratica incantatoria di dubbia ortodossia (De vita, iii, 21). Nel Senso delle cose, C. fa riferimento ai medesimi racconti per sostenere la tangibile azione dei suoni sullo spiritus : « Pitagora con la musica sanò i furiosi, Damone gli ebrii, Timoteo induceva ira o pietà […], Orfeo contemplazione, Terprando sanò i sordi […]. E questo avviene perché lo spirito così opera come è mosso e affetto ; chi è caldo, scalda, chi è freddo, affredda » [3]. Per C. lo spiritus è il fulcro dell’intervento terapeutico. È questo soffio caldo e mobile situato nel cervello, infatti, ad entrare in contatto con il mondo esterno, e dalle modificazioni che ne riceve hanno per lui origine moti conservativi o distruttivi. C. mette in risalto l’efficacia dei suoni sugli spiriti dei contadini pugliesi alterati dai veleni delle tarantole [4]. La musica induce un « piacevole moto allo spirito che poi muove il corpo e suda e sana » [5]. Le melodie vanno scelte in base alla specificità del veleno e della complessione del tarantolato, « e quando si suona la gagliarda, non si può ballare la spagnoletta, perché il suono muove lo spirito d’una foggia, né lo lascia che possa il corpo egli muovere d’un’altra ; e così si sana la furia col contrario suono » [6]. Anche nel caso della podagra, è la contrazione dello spiritus a incidere negativamente sul corpo e la psiche. Grazie a una musica gioviale, afferma C., « amplificatur spiritus, et, ad munera sua revocatus, eos qui exhalaverant reficit » [7] ; così ventilati, purgati e richiamati gli spiriti verso le parti interne del corpo, la digestione risulta favorita e la malattia può essere  























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lenita o sconfitta. Il buon medico è perciò colui che, attraverso i moti musicali più adatti per lo spiritus, ripristina l’armonia dell’uomo riconnettendolo all’organica statua di Dio e del Creato di cui è parte [8]. 3. La lettura musicale del corpo e del cielo. — Essendo considerata per antica tradizione un pharmacon, al contempo veleno e antidoto, C. sa che la musica va impiegata con cautela. Nell’Epilogo magno, ad esempio, osserva che a causa della natura tattile dell’udito lo spiritus « percepe il suono, cioè il moto dell’ae­re, e discerne la grandezza et piccolezza, sottilezza e grossezza di chi l’aere spinge, secondo che più o meno è battuto ». Ne consegue che « li suoni grandi schifa, perché lo battono nel concavo della testa fortemente et lo condensano et li fan male – sendo egli rado – ; et li suoni sottili, perché lo lacerano et divideno, cosa odiosa alla continuità » [9]. Come si vede, il metro di giudizio dei modi musicali è costantemente calibrato sullo spiritus. Per la sua natura aerea, Ficino lo associa alla melodia : in virtù della musica humana, infatti, l’anima e il corpo costituiscono gli estremi di una consonanza, lo spiritus è il loro mediano e pertanto si identifica con l’armonia che li concilia (In Timaeum, ii, 18). I suoi sbalzi di temperatura oscillano fra i poli del caldo e del freddo, di cui C. sottolinea il perpetuo scontro, come il suono oscilla fra l’acuto e il grave. Il compito della matematica armonica è appunto quello di individuare un modulo unificante che pitagoricamente mette d’accordo le qualità contrarie. È in quest’ottica che, nell’Epilogo magno, C. sostiene l’importanza della medietas musicale : « dunque né [suoni] molto gravi né molto acuti fan musica, ma mezzani ; et quando sono composti insieme, uno batte lo spirito per diretto, l’altro per piano, et lo ventilano et lo purgano et rinforzano ». Come insegna Boezio, per individuare « il temperato [che] a noi è proprio », C. consiglia di servirsi del polso, che più di ogni altra cosa « dà regola alla quantità de i suoni musicali » [10]. La questione è affrontata anche nella Medicina. Poiché il simile viene conservato dal simile e il battito cardiaco trae origine dall’atto vitale dello spirito animale, è al suo ritmo che me 



























dici e oratori devono prestare la massima attenzione per esercitare al meglio le loro arti [11] (↗ medicina). Per i pitagorici il numero è immanente alle cose stesse e fondamento della loro intelligibilità. Come tramandano Giamblico, Nicomaco e un versetto della Scrittura (Sap 11, 21), esso plasma la materia salvandola dal caos proteiforme. Ancora nel Seicento, i teorici musicali associano al valore contingente del numero un significato allegorico, scelto a loro discrezione, ricorrendo anche a metafore sessuali per illustrare il carattere dei suoi rapporti. Nell’Apologetico, difendendo se stesso e le virtù dei numeri da sospetti d’eresia, C. chiede provocatoriamente : se non avessero una precisa proprietà, « perché [allora proprio] il terzo, il quinto e l’ottavo numero della voce consuonano » ? [12]. Se fosse stato presente, Ficino l’avrebbe sostenuto spiegando che la causa della consonanza della quinta (3 :2), ad esempio, è dovuta al congiungimento del pari femminile con il dispari maschile in un modulo unificatore, il 5, che rimanda alla piacevole unione di Venere e Adone (Epistula de rationibus musicae, in P.O. Kristeller, i, 51). Ancor prima di lui, Plutarco avrebbe potuto ricordare l’armonia del vino alla quinta (3 :2), in cui due coppe d’acqua temperano le esalazioni calorifiche nel sangue delle tre alcoliche (Quaestiones conviviales, iii, 9). Da qui ha origine l’atavica relazione fra musica ed ebbrezza, scatenata o placata da differenti proporzioni aritmetiche ; da qui si rinnova l’interesse del neoplatonismo – Ficino, Paolucci, Zarlino, ma anche Cardano – per la matematica quadriviale che analizza febbre, tempo critico e sviluppo dell’embrione. C. abbandona l’aritmetica astratta per sposare una più palpabile idea di consonanza e dissonanza, ossia di piacere o di dolore per lo spiritus, more geometrico, attraverso la misura delle quantità aeree di moto generate dalla vibrazione che è sostenuta, fra gli altri, dal De rerum natura di Telesio. C. si trova nel vivo di un dibattito scientifico che, stimolato dai progressi dell’eliocentrismo, pone l’esistenza del concerto celeste e il venerato Pitagora di fronte alla prova dell’e 













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sperienza (↗ cosmologia). Egli deve avere ben presenti gli studi di Keplero, che ancor più di Copernico è ossessionato dal Dio archimusico di Platone. Ubi materia, ibi geometria : rivoluzionando lo statuto delle discipline quadriviali, Keplero fa della geometria la chiave per dedurre da premesse evidenti le leggi archetipe. Il movimento astrale non è più l’immagine simbolica di un’aritmetica ideale, ma la manifestazione oggettiva della realtà misurabile dall’interno stesso della materia (Harmonices Mundi, iii). Nell’Epilogo magno, C. ritiene indubbia l’esistenza della musica mundana, « perché per tutto vi è un moto, et ogni moto nel farsi si chiama moto et nel sentirsi si chiama suono ; et […] i cieli si movono armoniacamente e dilettano il loro Architettore » [13]. Secondo C. il concerto celeste è però inudibile a causa dell’assuefazione uditiva degli uomini. Nell’Ateismo, con un’immagine efficacissima, paragona il mondo a un « molino animato » [14] : chi vi lavora si abitua al suo frastuono assordante senza più percepire la musica degli astri. Eppure quelle melodie esistono, e nella Città del Sole auspica l’invenzione di uno strumento auricolare in grado di sopperire ai difetti dell’udito [15]. 4. I demoni, la peste e i miracoli della fede. — Con la musica astrale, C. tocca un punto delicato della dottrina di Ficino che, come è noto, fa di immagini, pietre, talismani e canti dei ricettacoli artificiali in cui si concentrano le proprietà di forze celesti ad essi collegati da leggi di corrispondenza universale più o meno occulte. Daniel Pickering Walker ha messo in evidenza come quel salmodiare incantatorio rischia di interagire con spiriti intelligenti trasformando un procedimento allopatico, principalmente finalizzato a ristabilire l’equilibrio umorale, in un’operazione di magia diabolica. Fra le autorità più citate per dirimere la questione ci sono Tommaso d’Aquino e il suo più noto commentatore, Tommaso De Vio. Entrambi ritengono che, per le loro affinità astrologiche, alcune sostanze naturali possono avere certi poteri di cui è lecito servirsi ; per contro, se dei caratteri vengono incisi su pietre o degli incanti sono impiegati con delle erbe, ad esempio,  















tutti gli effetti che ne conseguono sottendono un patto diabolico (ii iiae, q. 96, art. 2). A questa sentenza fa riferimento anche C., che non intende rescindere i vincoli fra cielo e terra. Sollecitato dal crescente intervento censorio nel campo della magia pagana, intende piuttosto spiegarli alla luce di principi fisici, stabilendo al contempo un opportuno distinguo ortodosso fra l’effetto mirabile e quello miracoloso della musica. Come ha osservato Maurizio Cambi, avendo negato la possibilità che voci e strumenti possano essere percepiti dagli abitatori del cielo e vincolato l’efficacia del carmen alla capacità del destinatario di comprenderne il significato, C. vanifica i prodigi del canto orfico, mettendosi al riparo da derive eterodosse. Nel Senso delle cose, afferma che voci e suoni hanno una forza magica anche in quanto segni, non soltanto in quanto moti, « perché noi vedemo l’oratore e il poeta far l’uomo piangere, allegrare e adirare, ricordandoli cose che per natura muovono a questo » [16]. Orfeo può attrarre gli uomini – e talvolta alcune specie di animali – perché possono comprendere i significati dei suoi canti, ma ciò non è possibile per gli altri enti. In Magia e grazia, C. precisa infatti che pur ammettendo « nei corpi inanimi esista il senso, […] non per questo però essi potranno muoversi in direzione di un suono, contrariamente alla tendenza naturale ». È soltanto Dio a poter conferire alle melodie una tale virtù [17]. La comunicazione musicale ha precisi confini sia in senso verticale, verso il cielo, che orizzontale, verso la terra, e i diversi enti che li popolano. Il problema si ripropone in materia di esorcismo. Avendo letto Psello (De operatione daemonum) e Agostino (De divinatione daemonum), ed essendo molto attento agli insegnamenti della cultura popolare, C. sa che i demoni, mediatori fra cielo e terra, sono fatti di un soffio sottile che, grazie all’aria, entra in contatto con il soffio dell’immaginazione umana. Essi possono così confondere la mente con allucinazioni sonore, dalla piacevole melodia che seduce al rumore assordante che impedisce l’orazione. Forte di una tradizione ancestrale sullo pneuma e sul Pitagora sciamano, un  







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nutrito filone dell’esorcistica di Cinque e Seicento – Canali, Menghi, Polidoro, Porri e Visconti – considera la musica un possibile segno di possessione, e basandosi sull’autorevolezza dell’episodio di David e Saul, si interroga sull’efficacia di salmodie e campanelle per liberare gli ossessi. La china è doppiamente scivolosa, perché rischia di confondere la melanconia con la possessione, e di equiparare la forza del suono a quella dello scongiuro. Nel Senso delle cose, C. ritiene che la malinconia sia in effetti « sedia degli spiriti maligni e del demonio, […] che si diletta di quelle fuligini, et entra e si serve di quelle per dar orrore alla mente e frenarla », tanto è vero che « partendosi l’umore, il demonio, che di quello si serviva, si parte » [18]. Nella Metaphysica, chiarisce tuttavia che essendo un ente naturale, e come tale limitato da precisi vincoli, il suono non agisce sul demone direttamente, ma come una sorta di qualità contraria sullo spiritus alleviando la sofferenza del vessato [19]. Ancora una volta, è necessario il beneplacito di Dio perché la musica possa scacciare il Diavolo. Così come è la fede a donare efficacia alla lira di Davide, simbolo della croce, facendone l’oratore, il profeta e il legislatore cui C. guarda a modello. La fede, scrive nel Senso delle cose, si coniuga con la fiducia, « perché la fiducia è la metà della forza, […] e quanto più ti fidi in cosa alta, tanto più l’animo cresce » [20]. Come per la profezia e la magia, C. preserva così il raggio d’azione divino dalla naturalizzazione integrale (↗ magia naturale ; profezia). Altrettanto istruttiva è la relazione fra musica e peste. Nella Medicina, C. consiglia di utilizzare campane unte di profumi e i rumori delle armi da scoppio per purgare l’aria infetta [21]. Con il benestare di Dio, questa operazione permette anche allontanare i demoni (↗ peste). Grazie al medium dell’aria, la campana può agire sui loro corpi, così sottili da essere sensibilissimi ai moti esterni, come attestano le sempre attuali teorie pselliane nel settecentesco Traité des cloches di Jean-Baptiste Thiers. Anche nel De siderali fato vitando C. consiglia di ascoltare « musica gioviale e venerea, perché la malignità ven 















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ga frantumata » ; un verbo che, nel suo lessico mimetico e aderente alla natura, rimarca la tangibile azione della vibrazione sull’aria [22]. Come ha scritto Teodoro Katinis, questi suggerimenti attingono ad una medicina che, coinvolgendo al tempo stesso anima e corpo, fa dell’esercizio della letizia amicale, aromatica e musicale, una cruciale arma psicosomatica contro la malattia. L’invito al « viver lieto, […] continente e sobrio », raccomandato da Ficino [23], conosce ampia fortuna nella letteratura medica dei secoli successivi, e si pone in antitesi con la produzione di stampo savonaroliano che insiste sulla mortificazione dei sensi. Tale contrapposizione interessa anche la musica. Se una serie di opuscoli sulla peste, stampati dallo zelante circuito di Carlo Borromeo, indica nei madrigali licenziosi una causa particolare di contagio, a metà Seicento, nelle sue requisitorie sui mali degli spettacoli, il gesuita Giovan Domenico Ottonelli deve ammettere l’utilità di cantilene epiche per sconfiggere il morbo. Ciò è dovuto anche alla lettura allegorica dei modi musicali di cui si è detto, che invita a classificazioni del tutto arbitrarie e muovendo dalle categorie del durum e molle, della contrazione e dilatazione, crea una serie dicotomica di affetti melodici : gioia e tristezza, entusiasmo e pigrizia, voluttà e temperanza, serenità e ira, e così via. 5. La musica e i pericoli dell’immaginazione. — L’ethos dei modi consente alla teoria armonica antica di distinguere fra melodie virtuose e viziose, come attestano i dialoghi della Repubblica (iii, 398c-401a) e delle Leggi (vii, 800b-804c) che, nella Metaphysica e nel Senso delle cose, C. cita a sostegno della necessità di conservare la musica per il bene dello Stato : « è vero la mutazione della musica significare mutanza di costumi e di stato, come Platone conobbe, e oggi si prova nei Luterani, che con quella mutarono la religione » [24]. Questo avviene perché l’aria alterata dai suoni agisce sullo spiritus immaginante [25] (↗ immaginazione). L’immaginazione, scrive ancora C. nel Senso delle cose, « mai si perde […], ma ben si deprava per passion grande » [26], e per il suo volto  



















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oscuro, irrazionale e non verbale, il medico e l’oratore devono maneggiarla con prudenza. Sull’« imaginativa » agiscono i demoni melanconici, i veleni delle tarantole e quei moti di paura che influenzano negativamente lo spiritus. Esso « accoppiando un moto con l’altro, compone diversi sensibili insieme, o se li divide per il medesimo sensibile e fa immagini mostruose, tronche o composte » [27]. Ficino descrive la polifonia come un essere provvisto di membra, respirazione e di una serie di affetti propri delle facoltà inferiori dell’anima, che l’uomo condivide con gli animali : imaginatio, phantasia, spiritus phantasticus (De vita, iii, 21). Dalla piramide psichica ficiniana (lambda) si apprende che lo pneuma fornisce all’immaginazione un substrato di visioni le quali, in una sorta di digestione a salire, vengono assimilate dalla memoria, che le pone armonizzate in cima all’intelletto (Theologia platonica, xvii, 2 ; In Timaeum, xxxiv). L’intensità della vibrazione è la variabile che determina la passione e, di conseguenza, ciò che l’immaginazione offre all’intelletto. Ad esempio, una dissonanza complessa risulta indigesta perché si basa su un rapporto numerico illogico, che impedisce alla psiche di ricondurre la frammentarietà delle sensazioni all’unità dell’intelletto. In assenza di un freno moderatore, nella sintassi dell’intervallo o nel testo verbale, la rappresentazione sonora può condurre fino all’altro da sé, secondo le declinazioni di alienatio, excessus mentis e raptus, cui recenti studi musicologici stanno guardando con rinnovato interesse. La questione non appare secondaria per C., e meriterebbe di essere maggiormente indagata da futuri studi. Nella Metaphysica, riportando dottrine degli scettici, egli descrive l’esperienza conoscitiva come una forma di alienazione, di lacerante conflitto fra anima e corpo : « scire est alienari. Alienari est insanire et perdere proprium esse et acquirere alium » [28]. Nel Senso delle cose, ricorda invece che « li sensi son certi più che ogni altra conoscenza nostra » [29]. È per questa ragione che risulta ancora una volta fondamentale il ruolo degli oratori, i quali devono preservare lo spiritus immaginante  





















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dagli eccessi di calore modulando un suono ad esso consonante e coniugato al ritmo del verso. Nell’antica Grecia, prosegue C., « la musica lidia effemminava gli uomini, la lacedemonica li facea virili » [30]. Ai moderni non sono rimaste tracce di quelle armonie, e la disputa tra Gioseffo Zarlino e Vincenzo Galilei mostra tutta la difficoltà di individuare, attraverso i singoli elementi della grammatica sonora, dei criteri oggettivi per qualificare gli affetti musicali. In tal senso, l’esempio proposto da Descartes di un cane che frustato al suono del violino fugge ogni qual volta risente lo strumento è eloquente (Oeuvres, i, 133-134). Essendo la frusta a terrorizzarne l’immaginazione, qualunque melodia avrebbe provocato un’analoga reazione nell’animale. Il senso della musica assume così un valore psicologico soggettivo, a seguito di un’associazione accidentale tra un particolare episodio e una musica che ne diviene segno rammemorativo. In C. la quantificazione del piacere e del dolore sonoro more geo­metrico, di cui si è detto, sembra combinarsi con una dimensione personale dell’ascolto, irriducibile a universali regole di sintassi armonica, legata all’esperienza sensoriale della conoscenza : « Quel ch’io appresi col senso – scrive nel Senso delle cose – mi resta in memoria, e quando mi sono scordato o fatto incerto, torno a sentirlo con l’udito » [31]. In conclusione, per C. l’armonia non è pura metafora della creazione, ma prova concreta che un’arte divina è all’origine dell’« ordinata fabrica del mondo » ; infatti « essa musica non è una cosa, ma diversi percotimenti d’aria da diverse corde fatti, e tanto dura quanto esse corde son sonate da chi ha l’arte » [32]. Nella sua particolarissima declinazione del pitagorismo, la musica sembra essere azione più che speculazione, concreto impiego delle virtù delle armonie per vivificare lo spiritus. E di fronte al platonismo, in cui l’idea e la sua scorza sensibile divorziano, caricando le categorie pitagoriche di limite e illimitato di una valenza moralmente imputabile nei confronti del piacere, C. fa appello alla via scolastica. Come ribadisce a proposito degli influssi astrali,  



















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solo la mente è il luogo delle scelte morali connesse con la libertà dell’arbitrio, e solo all’uomo spetta di consentire o deviare dalle sollecitazioni sensibili. Note. [1] Senso delle cose 2007, 59. – [2] Levamen podagrae, bav, Barb. Lat., 1918, 61r, 78r (G. Formichetti, I testi e la scrittura. Studi di letteratura italiana, Roma, 1990, 22, 38-39). – [3] Senso delle cose 2007, 59-60. – [4] Ivi, 189-191. – [5] Ivi, 211. – [6] Ibidem. – [7] Levamen podagrae, 83v (Formichetti, 43). – [8] Ibidem. – [9] Epilogo, 406. – [10] Ivi, 408 (tutto il capitolo Dell’udito, iv, 12, è di estremo interesse). – [11] Medic., 141, 161-162. – [12] Apologetico, in Opusc. astrol., 151. – [13] Epilogo, 406-407. – [14] Ateismo, 38. – [15] Città del Sole, 92. – [16] Senso delle cose 2007, 210-211. – [17] Magia e grazia, 197. – [18] Senso delle cose 2007, 143. – [19] Metaphysica, i, 171-172. – [20] Senso delle cose 2007, 212. – [21] Medic., 104-05, 326. – [22] De siderali fato vitando, in Opusc. astrol., 95. – [23] M. Ficino, Consilio contro la pestilentia, in T. Katinis, Medicina e filosofia in Marsilio Ficino. Il « Consilio contro la pestilentia », Roma, 2007, 206. – [24] Senso delle cose 2007, 211. – [25] Metaphysica, i, 172. – [26] Senso delle cose 2007, 79. – [27] Ivi, 55. – [28] Metaphysica, i, 20. – [29] Senso delle cose 2007, 107. – [30] Ivi, 60. – [31] Ivi, 107. – [32] Ivi, 9.  



Bibliografia. P.O. Kristeller, Supplementum Ficinianum, Firenze, 1937 ; D.P. Walker, Spiritual and Demonic Magic from Ficino to C., London, 1958 ; R. Descartes, Oeuvres, éds. Ch. Adam, P. Tannery, Paris, 1969 ; La musica nella Rivoluzione scientifica del Seicento, a cura di P. Gozza, Bologna, 1989 ; G. Formichetti, I testi e la scrittura. Studi di letteratura italiana, Roma, 1990 ; B. Boccadoro, Ethos e varietas. Trasformazione qualitativa e « metabole » nella teoria musicale dell’Antichità greca, Firenze, 2002 ; T. Katinis, Medicina e filosofia in Marsilio Ficino. Il « Consilio contro la pestilentia », Roma, 2007 ; M. Cambi, Musica Medicina Magia. Saggi su Ficino e C., Nola, 2010 ; B. Boccadoro, Musica spiritum curat, in Handbuch der Musik der Renaissance, hrsg. v. A. Lindmayr-Brandl et alii, Laaber, v, 2012 ; G. Ernst, Immagini e figure del pensiero filosofico di C., « Bruniana & Campanelliana », xviii, 2012, 1, 71-85 ; The Emotional Power of Music. Multidisciplinary Perspectives on Musical Arousal, Expression and Social Control, ed. by T. Cochrane et alii, Oxford, 2013.  































Manuel Bertolini

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Padova (Patavium) 1. Condizioni socio-economiche della città. — Nell’ultimo decennio del Cinquecento Padova sfiorava i 30.000 abitanti, demograficamente in ripresa dopo la falcidia causata dalla peste del 1575-1576 (in cui tra centro urbano e contado perirono 12.000 persone). La cifra indicata rappresenta ad ogni modo il massimo per l’intero periodo della dominazione veneziana : in effetti, anche a causa delle scelte urbanistiche successive alla guerra di Cambrai (abbattimento di borghi ed edifici suburbani attorno alle mura), Padova restò bloccata nello sviluppo edilizio, imprenditoriale e financo artistico, con pochi episodi di rilievo, fino allo scorcio del Settecento. Dopo l’assoggettamento alla repubblica di San Marco (1405) una serie di confische, prima a danno degli antichi signori Carraresi e dei loro più stretti parenti e sostenitori, poi di eminenti cittadini coinvolti in congiure reali o pretestuosamente inventate, fino a dopo il 1509, aveva fatto passare la proprietà di una quota rilevante di beni immobili e di attività produttive in mani veneziane, impoverendo anche le risorse tributarie del territorio a vantaggio della Dominante (↗ Venezia), con esiti di una sorda ma impotente ostilità, lucidamente descritta in un passo degli Antiveneti [1]. Di questa realtà urbana si può dire che i due motori economicamente e culturalmente più importanti fossero il Vescovato e l’Università : il primo dotato delle rendite più cospicue in territorio veneto [2], grazie all’estensione della diocesi (ancor oggi molto più ampia dell’attuale circoscrizione provinciale) e all’entità dei possedimenti fondiari ; la seconda per il movimento indotto dall’immatricolazione e dalla frequenza di studenti, molti dei quali stranieri (la cifra annua dei nuovi iscritti sfiorava ancora le 1.000 unità, di cui oltre un quarto di provenienza non italiana) [3]. Il primo era saldamente nelle mani di famiglie nobili di Venezia, anzi in questo periodo quasi un feudo della famiglia Corner (Federico, Alvise e Marco in successione, dal 1577 al 1625, e poi ancora, con brevi intervalli, Marco Antonio e Giorgio fino  





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al 1663). La seconda (cessato da tempo ogni diritto all’elezione dei docenti da parte degli studenti) era rigidamente controllata dal Senato veneziano, tramite la magistratura dei Riformatori, pur potendo contare sul privilegio di essere l’unico ateneo in tutto il territorio della Repubblica. Il vescovo poi era anche detentore del Cancellierato dell’Università, il che creava non pochi problemi agli ancora numerosi studenti protestanti e ortodossi e ai non molti ebrei, da quando, con la bolla In Sacrosanta (1564), il Pontefice aveva imposto l’obbligo di una professione di fede cattolica previa al conseguimento della laurea. Per aggirare tale disposizione normalmente si faceva ricorso alla concessione del titolo da parte di un conte palatino, oltretutto economicamente meno onerosa. Sulla storia di Padova e sulle sue condizioni politiche, nella prospettiva universalistica delle proprie concezioni, C. non ha molte occasioni di soffermarsi : oltre a quanto già ricordato si riscontrano cenni al mito delle origini antenoree e al ruolo di madre di Venezia (sia pure in subordine ad Aquileia) [4], all’ovvio esempio della tirannide di Ezzelino [5], al più puntuale (ma inesatto) ricordo della damnatio memoriae imposta da Venezia ai superstiti Carraresi, costretti ad assumere il nome di Papafava [6], all’insuccesso dell’assedio imperiale durante la guerra della Lega di Cambrai, dovuto alle scarse risorse finanziarie [7], e infine alla recente chiusura delle scuole gesuitiche per eliminarne la concorrenza allo Studio [8]. 2. Incontri e attività nei mesi di libertà. — Alla volta di questa città si muove C., tra il cadere del 1592 e l’inizio del 1593, dopo aver lasciato Napoli ribellandosi all’ordine dei superiori di rientrare in Calabria, e dopo aver cercato invano una nuova sistemazione prima a Roma e poi, con molte ingenue speranze, a Firenze. Secondo la sua testimonianza l’intenzione che l’aveva mosso era quella di cercare di pubblicare, a Padova o a Venezia, opere già da lui composte [9] : ma a Bologna tali scritti gli vennero sequestrati (due anni più tardi li avrebbe ritrovati, come corpi di reato a suo carico, in mano agli inquirenti nelle carceri romane del Sant’Uffizio). Certo  



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l’urgenza di far conoscere le proprie idee e la perdita dei manoscritti sottrattigli a Bologna spinsero C. a riscrivere alcune di quelle opere, mentre altre gli venivano suggerite dalle sollecitazioni dell’ambiente universitario. Va detto fin da subito, per altro, che i documenti finora ritrovati sul soggiorno padovano di C. sono davvero pochi, e di portata per lo più circoscritta, lasciando molti vuoti difficilmente colmabili, se non con le informazioni fornite da accenni sparsi nelle opere del filosofo. Ma tali notizie potrebbero essere alterate da intenti apologetici, o comunque da esigenze di cautela e di riservatezza ; in altri casi la precisione del ricordo può essere stata appannata dai lunghi e travagliati anni trascorsi, e in definitiva da un filtro personale in qualche modo deformante. Anche il primo incontro con Padova fu, come a Bologna, movimentato, e rischiò di condizionarne il soggiorno fin da subito. Trovata ospitalità, ovviamente, nel convento domenicano di S. Agostino, non erano ancora passati tre giorni dal suo arrivo che C. rimase coinvolto in un’inchiesta (forse eccessivo classificare questo episodio come secondo processo, come spesso si fa) per un episodio di tentata violenza ai danni del Padre generale dell’ordine, Ippolito Maria Beccaria. Non sono finora noti documenti diversi dalle dichiarazioni che C. fa in merito all’episodio [10] e francamente le sue giustificazioni appaiono confuse e poco lineari. Certo è che l’assoluta libertà di movimento di cui godette nei mesi seguenti e l’assenza di provvedimenti a carico suo confermano che venne scagionato, non sappiamo se pienamente o con formula dubitativa. Poiché il Beccaria in quell’anno fu a Padova in due momenti (ai primi di gennaio e tra la fine di marzo e gli inizi di aprile), potrebbe essere incerta la cronologia del fatto ; tuttavia una serie di considerazioni permette di indicare come più probabile la data alta (primi di gennaio del 1593) : innanzitutto C. dichiara di aver assistito a dissezioni anatomiche (anzi di averle operate, una passione che non lo lasciò più) [11]. Ora le lezioni di anatomia si tenevano di norma nel mese di gennaio (durante il quale tacevano tutti gli altri insegnamenti) da parte del titolare, Girola 





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mo Fabrici d’Acquapendente ; una seconda serie di dissezioni veniva attivata in orario diverso nel mese successivo ad opera di altro docente, mentre nel resto dell’anno, anche per motivi climatici, non avevano luogo [12]. Poiché quasi sicuramente a gennaio del 1594 C. si trovava già carcerato (impossibilitato quindi alla frequenza delle lezioni anatomiche), e poiché l’aggressione al Beccaria avvenne quando lo stilese era a Padova da non più di tre giorni, sembra da scartare la data primaverile. Del resto, che C. fosse a Padova almeno già nella prima metà di marzo si può dedurre anche dalla menzione della tragica morte dell’astrologo tedesco Valentin Nabod, episodio che riemerge molti anni più tardi, ma con precisione di particolari (anche se, fondendo nome e cognome, C. lo nomina ‘Vaivoda’) [13] : il delitto secondo un cronista coevo sarebbe avvenuto verso il 2 marzo del 1593, e venne scoperto il 10, quando il corpo era già in fase di putrefazione [14]. Verosimilmente risale ai primi giorni del 1593 anche l’incontro con Galileo (↗ Galileo), incaricato dal Granduca di Toscana di recapitargli una missiva che possiamo immaginare di sostanziale, benché cortese, diniego di ogni prospettiva d’impiego al proprio servizio. A giudicare dalle lettere superstiti indirizzate da C. a Galileo (la prima risale al gennaio del 1611) è decisamente improbabile che da quel fugace incontro si siano sviluppati nell’immediato una conoscenza e un dialogo dottrinale più intensi (mai dichiarati da C.) : la vera scoperta di Galileo fu per C. la lettura del Sidereus nuncius [15]. Del resto anche i testi epistolari superstiti, con il passaggio dal latino, lingua dei dotti, della prima all’italiano delle successive, venato da espressioni idiomatiche e familiari, dimostrano il variare del tono, che va improntandosi a un parlar « libero » tra « savi » [16]. Qualche dubbio resta pure sull’immatricolazione di C. alla facoltà di Arti : ripetutamente, in memoriali difensivi dopo l’arresto in Calabria, il filosofo per dimostrare il proprio lealismo di suddito spagnolo sostiene di essersi iscritto alla natio Hispana [17] ; il Brugi gli attribuì invece l’appartenenza a quella romana (senza indicare la fonte della notizia [18]) : difficile pronunciarsi  



















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su chi abbia ragione. Certo è che il contesto apologetico delle dichiarazioni campanelliane ospita altre forzature e dichiarazioni non veritiere, e quindi i dubbi appaiono legittimi. Il successivo caposaldo dal punto di vista cronologico è il 26 giugno, giorno in cui C. fu tra i testimoni della laurea in medicina di G. B. Clario [19]. Poco dopo, nel mese di luglio, a Roma venivano esaminati dal Sant’Uffizio gli scritti di C. sequestrati a Bologna [20]. L’unica scrittura stesa a Padova che ci sia pervenuta è la lettera al Granduca di Toscana Ferdinando I del 13 agosto, per sollecitare l’assegnazione di una lettura universitaria, prospettando l’eventualità di essere nominato alla cattedra di metafisica dell’ateneo patavino (effettivamente vacante quella in viam Thomae per l’anno accademico successivo). Il testo, al di là della superficie di tale probabilmente infondata vanteria (non potendo egli contare su alcun titolo accademico), sembra indicare una sostanziale insoddisfazione per la situazione del momento, accanto però all’orgogliosa rivendicazione della propria originalità, fonte auspicata di una « mutazion ch’avverrà da le nuove mie dottrine » [21]. Il primo dei documenti successivi è un decretum del Sant’Uffizio romano in data 3 febbraio 1594, e si riferisce già a un C. carcerato [22]. Se si eccettua l’esperienza delle dissezioni anatomiche, né altre discipline né alcun docente dell’Università sembrano aver lasciato un segno di rilievo nella formazione di C. Certo l’aristotelismo di stretta osservanza del Piccolomini o del Cremonini non era fatto per appassionarlo, ma piuttosto per stimolarlo a reazioni polemiche : a Cremonini v’è uno svogliato accenno nell’epistolario solo su sollecitazione del corrispondente (il Peiresc), oltre a qualche incolore menzione nel De Gentilismo non retinendo [23]. Anche in campo teologico non rimangono segni di interesse di C. per nessuno dei docenti : così Angelo Andronico, titolare dell’insegnamento in viam Thomae, che sarà durante l’Interdetto uno dei teologi minori a fianco di Sarpi in difesa di Venezia [24], non sembra ricordato in nessun luogo da C. Antonio Riccoboni, titolare di retorica, studioso di stretta osservanza aristotelica, veniva annoverato  







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da C., insieme con il Bembo e altri, tra gli imitatori incapaci di offrire apporti originali [25]. Del resto, a smitizzare il rilievo del biennio patavino per la formazione di C. ha già provveduto il rinvenimento e la pubblicazione dell’ultima (seconda per datazione) delle tre lettere sottratte da Guglielmo Libri a un codice parigino [26], per il cui contenuto ci si era fidati del fantasioso sunto di un bibliotecario francese che faceva intravedere a Padova una specie d’incontro al vertice degli intellettuali italiani dell’epoca, legando insieme Galilei, C., Sarpi e Della Porta. Il testo dice invece esattamente il contrario, che quegli incontri non ci furono. Della Porta fu conosciuto (ma separatamente) da Sarpi e da C. nella sua residenza napoletana, e col teologo servita C. non ebbe mai rapporti diretti ; quanto a Galileo si è già visto che la conoscenza fu limitata probabilmente a un solo incontro. Alle ricche biblioteche padovane, del cui patrimonio il Tomasini in anni successivi ha lasciato diligente regesto [27], non v’è alcun cenno in C., che a Firenze era rimasto invece stupito dalla ricchezza di quella medicea. È vero che quella domenicana di S. Agostino risultava singolarmente carente di un fondo di manoscritti minimamente interessante, costituita com’era quasi solo di stampati, ma non mancavano certo a Padova luoghi come la famosa raccolta del Pinelli (a quella data ancora integra), o le biblioteche di S. Antonio, di S. Giustina, di S. Giovanni da Verdara, citate con ammirazione da altri visitatori. Eppure non si può dire che quei mesi passassero senza sollecitazioni culturali : così ad esempio la pubblicazione di un’opera del medico veronese Andrea Chiocco (laureato a Padova), in cui veniva tra l’altro confutata la tesi telesiana dell’unicità dello spirito animale, provocò da parte di C. la composizione di un Apologeticum de venarum, nervorum et arteriarum origine et de pulsatione, inviato nell’immediato ad Ascanio Persio e a Lelio Orsini a Roma : altra copia, portata poi in Germania da Kaspar Schoppe vi fu da costui smarrita. Tuttavia ancora nell’edizione 1637 della Physiologia essa è ricordata, e probabilmente lo scheletro delle sue argomentazioni è riconoscibile  





nella Quaestio xxxvi che segue il testo [28]. Sempre al periodo padovano appartengono altre opere, tutte perdute, ricordate nel Syntagma [29] : Physiologia iuxta propria principia, pure inviata all’Orsini e al Persio ; Rhetorica nova (chiara, nell’aggettivo, la contrapposizione agli aristotelici come Riccoboni), per dei nobili studenti veneti ; un consulto in volgare ad Angelo Correr sulla liceità che i diplomatici stranieri usino la propria lingua davanti al Senato veneziano ; un importante testo politico (interesse che si manifesta in C. a partire da questo momento), il De monarchia Christianorum, di cui l’autore si mostra particolarmente soddisfatto, e a cui fa più volte riferimento in opere di poco successive [30]. Un testo complementare, indirizzato al papa e citato immediatamente dopo nel Syntagma, il De regimine Ecclesiae, per il fatto che l’autore ricorda di averne conservato l’autografo, successivamente rubatogli in Calabria, è più verosimile che appartenga al periodo romano (1595-1597) : datazione con cui sembrano concordare le espressioni usate in altri testi [31]. Della vita che si svolgeva in città e nel contado il C. fu, come al solito, osservatore attento e particolarmente ricettivo, tanto che ricordi puntuali emergono nelle sue opere, a volte anche in collocazioni inattese : così nel libro dell’opera teologica dedicato agli esseri soprannaturali, discutendo della reale esistenza dei giganti e della loro possibile origine da congiunzioni tra esseri umani e creature soprannaturali, attesta di aver visto a Padova un uomo alto dodici palmi [32]. Nella Poetica italiana, riguardo le origini della commedia, istituisce un parallelo tra le feste antiche e le celebrazioni del raccolto « come s’usano li balli nelle ville padovane » [33] ; e anche nella più tarda redazione latina, a proposito dell’elocuzione conveniente al teatro comico, giudica legittimo il ricorso, per particolari caratteri, a lingue straniere come la dalmatica o a varianti dialettali come il linguaggio rustico pavano, secondo esempi certamente di ambito padovano [34]. Probabilmente per averne sentito parlare a Padova, C. menziona lo Speroni, giudicandolo poco elegante nelle orazioni, ma migliore nei dialoghi, e ricordando la sua  

















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tragedia Canace [35]. Né gli sfuggì nel parlare veneto il tratto caratteristico della caduta di consonanti interne e della lenizione della lettera l intervocalica [36]. Anche alcuni fenomeni meteorologici e alluvionali osservati nel Padovano trovarono in seguito precisa descrizione [37]. In fin dei conti l’unico personaggio di cui ci resta documentata a Padova una duratura – e non felice – frequentazione da parte di C. è il già ricordato Giovan Battista Clario, suo correo nel processo inquisitoriale tra Padova e Roma. Costui lascerà qualche memoria del C. (sotto pseudonimo) in qualche epigramma latino e nei suoi Dialoghi [38], dopo averne ricevuto il dono di un’Ars versificatoria latina, forse già iniziata a Padova e conclusa nelle carceri del sant’Uffizio a Roma [39]. In seguito i rapporti, imbarazzanti per entrambi, vennero interrotti ; ma nel 1609 a Graz, dov’era archiatra degli Arciduchi d’Austria, Clario riuscì a scandalizzare lo Schoppe ricordando le pratiche di interrogazioni demoniache compiute assieme al frate a Padova [40]. Del resto è un punto su cui C., lungi dal farne mistero, offre precise indicazioni nel contesto della sua Theologia, nel libro dedicato appunto alle creature sovrannaturali, dove ricorda come a Padova il diavolo, in corpore foeminae inclusus, seppe dirgli esattamente il nome della madre (Caterina), morta vent’anni prima, ma tacque poi imbarazzato di fronte alla più nozionistica domanda di quali fossero le parole iniziali del Timeo platonico [41]. Successive evocazioni, di spiriti liberi questa volta, avvennero a Napoli, nella speranza, alla fine delusa, di riuscire a intercettare un vero angelo, oltre ai demoni ingannatori e di limitato sapere [42]. Altri stimoli vennero pure dall’incontro con studenti stranieri e dalle discussioni, anche accese, che ne nascevano : un gruppo di inglesi è ricordato nel Dialogo politico contro i Luterani [43] ; uno spagnolo e un ebreo parteciparono al fallito tentativo di liberarlo dal carcere, e nel contesto di queste discussioni è probabilmente da inserire la disputa con Ottavio Longo, all’origine del processo inquisitoriale. 3. Prigionia, processo ed estradizione. — In data ignota, anteriore agli ultimi di gennaio del 1594, C. e Clario vennero incarcerati su  





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denuncia, formulata nel tentativo di alleviare la propria posizione, da Ottavio Longo di Barletta, già arrestato a Vicenza. La perquisizione degli effetti personali di C. fece emergere un libro di geomanzia (di cui sostenne di aver avuto l’intenzione di chiedere licenza all’inquisitore) ; una deposizione di Niccolò Fanti gli attribuì un sonetto blasfemo contro Cristo (per C. opera dell’Aretino) ; la discussione con Longo, intenzionato a farsi ebreo, ricadeva sotto il capo di discussione de fide con un giudaizzante, e nel corso di essa più volte sarebbe stato citato un De tribus impostoribus, contro Mosè, Cristo e Maometto, che Longo gli attribuiva, mentre C. ne sosteneva l’origine e la stampa tedesche, risalenti ad almeno trent’anni prima. Ma un testo ufficiale (l’abiura di A. Vitali) rivela che dietro questi capi si profilava, ben più minacciosa, l’accusa di ateismo. Il primo accenno al loro caso, nei decreta del Sant’Uffizio romano, reca la data dell’8 febbraio 1594, ed è l’invito, da Roma a Padova, a procedere alla tortura per tutti e tre, a cominciare dal Longo [44]. Il 3 maggio la Congregazione, preso atto che il barlettano ha subito il rigoroso esame, ne sollecita l’esecuzione anche per Clario e C. Il 22 giugno una delibera del Consiglio del convento di S. Agostino richiede che sia il Sant’Uffizio ad assumersi le spese per il mantenimento del C., a cui forse da qualche tempo era stato concesso il soggiorno in convento loco carceris. Dopo l’acquisizione agli atti (6 luglio) di una scrittura del Longo, il 15 di quel mese il ricevimento di una lettera di raccomandazione dell’Arciduchessa d’Austria Maria d’Asburgo, richiesta dal Clario (figlio del medico personale degli Arciduchi), ha l’effetto di portare la discussione della causa alla presenza del pontefice Clemente VIII, il che avviene il 21 luglio. In tale seduta plenaria la quasi totalità degli intervenuti propende per ulteriori sessioni di tortura, variando solo l’ordine e la maggiore o minore gravità con cui applicarla agli inquisiti ; l’unico parere contrario al rigoroso esame per C. (per cui viene precisato qui reducatur prius ad carceres) è quello di Tragagliolo, motivato per altro dalla convinzione che la colpevolezza del frate fosse già pienamente dimostrata. Nel 





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la notte tra il 29 e il 30 luglio ebbe luogo un maldestro tentativo di liberare i prigionieri, orchestrato da amici del Clario, forse in seguito all’avocazione a Roma del processo. Di conseguenza il 3 agosto il Consiglio dei Dieci a Venezia emanò un provvedimento per giungere all’individuazione e alla punizione dei colpevoli (nel testo è citata la già decisa estradizione a Roma dei prigionieri) ; il 6 il provvedimento fu pubblicato a Padova, e il giorno stesso uno dei componenti della banda, tale Giacomo Damiani di Alba, protetto da immunità, denunciò gli altri responsabili. Il 18 agosto, in base a una lettera del vescovo padovano Alvise Corner del 5, a Roma si prese atto della tentata effrazione e dei provvedimenti presi dalle autorità venete, concedendo l’assoluzione per eventuali irregolarità canoniche negli stessi ; il papa se ne compiacque il 20 con Paolo Paruta, oratore veneto presso la santa Sede. Il 12 settembre Damiani (probabilmente in procinto di abbandonare Padova) cedette, con procura all’oste mestrino Bernardino Ferretto, il diritto a liberare un bandito, ricompensa della sua delazione. Il 17 abiurò e fu degradato l’unico catturato della banda, il prete veronese Antonio Vitali : nel testo dell’abiura si dice che C. e Clario sono sotto processo « per atheisti ». Alla fine di settembre o ai primissimi di ottobre C., Clario e Longo partono per Roma, dove vengono registrati nelle carceri del Sant’Uffizio il giorno 11 ottobre. Intanto, il 6 di quel mese, Vitali era stato giustiziato pubblicamente mediante decapitazione. Il processo per la tentata effrazione, ritardato dalla presenza come imputati di due chierici contumaci (Brini e Fanti, degradati infine in absentia il 13 : negli anni successivi riuscirono per altro a far riconoscere l’irritualità di tale procedura), si concluse il 14 con la sentenza, per tutti i colpevoli identificati, di bando perpetuo (in realtà riscattabile dopo 10 anni). Il processo a Roma si concluse con l’abiura de vehementi per i tre incriminati (di cui non è nota la formulazione) ; Longo fu condannato alle galere, Clario rilasciato qualche mese dopo l’abiura, C. trattenuto nel convento di S. Sabina loco carceris, fino a che nel 1598 gli fu ingiunto di ritornare in Calabria, affidato alla sorveglianza dei superiori.  













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4. Padova e la circolazione delle opere campanelliane. — Se nel breve periodo trascorso a Padova C. non ebbe modo di crearsi una vasta rinomanza, in seguito i casi clamorosi della congiura di Calabria e del suo processo favorirono sicuramente l’interesse riguardo la sua persona e la sua opera, e Padova, grazie anche alla circolazione collegata alla presenza di tanti studenti dai più vari interessi, ebbe un certo rilievo nella diffusione dei suoi scritti, : realtà di cui del resto lo stesso C. fu consapevole [45]. Citando solo i casi più importanti, si ricorderà che nel 1611 Tobia Adami vi trovò una copia manoscritta del Compendium de rerum natura, che farà stampare nel 1617 a Francoforte ribattezzandolo Prodromus philosophiae instaurandae. Per parte sua, Gabriel Naudé nel 1632, durante il secondo soggiorno padovano, avrebbe avviato trattative presso l’editore Crivellari per la stampa del Syntagma, venendone per altro distolto dallo stesso autore, per timore che l’iniziativa gli fosse addebitata come violazione degli obblighi assunti con le autorità ecclesiastiche [46].  

Note. [1] Antiveneti, 84 ; ivi, 108, C. giungerà a preconizzare la ribellione delle città sottomesse. – [2] Per 15.000 ducati annui in atti camerali coevi : P. Gauchat, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, iv, Monasterii, 1935, 275 ; ma 20.000 secondo il nunzio L. Taverna in un dispaccio del 1594. – [3] Sui motivi dell’alta frequenza straniera : P. Gualdo, Vita Ioannis Vincentii Pinelli…, Augustae Vindelicorum, 1607, 70-72. – [4] Antiveneti, 1314, 48 ; Poesie, 205-206. – [5] Scritti lett., 402 ; Dialogo politico, 99-100 ; Ateismo, 130 ; Phil. realis, 80, 134 ; Ethica 2011, 236. – [6] Afor. pol., 134 ; Politica, in Op. lat., 406. – [7] Ivi, 404. – [8] Antiveneti, 119. – [9] Syntagma, 36-37. – [10] Lettere 2010, 77, 121, 148. – [11] L. Firpo, C. e Galileo. Discorso, « Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino », ii, Classe di sc. morali, storiche e filosofiche, ciii, 1969, 51-52. In Ateismo, 35 C. arriverà a investirsi di quel ruolo : « noi anatomisti ». – [12] G.F. Tomasini, Gymnasium Patavinum, Utini, 1654, 72. – [13] Opusc. astrol., 126. – [14] N. de’ Rossi, L’historie di Padova (1562-1621), Padova, Biblioteca civica, bp 147, 175 ; G. Ernst, Introduzione a Opusc. astrol., 28-30. – [15] Lettere 2010, 189-196, e a conferma ivi, 339 (a Galileo), 510 (al granduca Ferdinando II de’ Medici). – [16] Lettere 2010, 209. – [17] Firpo, Processi, 278,  































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281. – [18] B. Brugi, L. Andrich, Rotulus et matricula… Gymnasii Patavini, a. 1592-93, Padova, 1892, 29-30. – [19] La data del 23 indicata da L. Firpo, C., T., in dbi, xvii, Roma, 1974, 376 corrisponde alla professione di fede del laureando, a cui C. non fu presente ; la data corretta in Idem, Clario, Giovanni Battista, ivi, xxvi, Roma, 1982, 139. – [20] Catholic Church and Modern Science, a cura di U. Baldini e L. Spruit, Roma, 2009, i/2, 981. – [21] Lettere 2010, 8-9. – [22] Catholic Church and Modern Science, 982. – [23] Lettere 2010, 399 ; Gent., 8, 20, 21. – [24]. R. Coulon, Andronico, Angelo, in Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques, ii, Paris, 1914, 1791-1792. – [25] Syntagma, 92-93. – [26] G. Ernst, E. Canone, Una lettera ritrovata : C. a Peiresc, 19 giugno 1636, « Rivista di storia della filosofia », xlix, 1994, 237-254 ; il testo annotato ora in Lettere 2010, 454-456. – [27] G.F. Tomasini, Bibliothecae Patavinae manuscriptae publicae et privatae, Udine, 1639. – [28] Quaest. physiol., in Phil. realis, 363-376. – [29] Syntagma, 36-39. – [30] Ad es. Scritti lett., 331, 359, 361, 405 ; Dialogo politico, 149, 159, 172 ; Prima delineatio defensionum in Processi, 142-143. – [31] Syntagma, 38-41 ; Processi, 142-143. – [32] Theologia, v, Roma, 1970, 32-33. – [33] Scritti lett., 408-409. – [34] Scritti lett., 1196-1197. Problematico per altro il riferimento al Tomitano (morto nel 1576) come autore di tali testi. – [35] Syntagma, 98-99 ; Scritti lett., 403. Cfr. anche Quaest. tertia oecon., in Phil. realis, 179-188 per il Dialogo della usura. – [36] Epilogo, 416. – [37] Ivi, 269, 296 ; Physiologia, in Phil. rea­ lis, 33, 45. – [38] G.B. Clario, Epigrammatum libri tres, Graeci Styriae, 1600 ; Idem, Dialoghi, Venezia, 1608. Su di lui, oltre a Firpo (citato a nota 19), S. Villani, Clario, Giovanni Battista, medico e letterato, in Nuovo Liruti, a cura di C. Scalon et alii, ii/1, Udine, 2009, 736-737. – [39] Syntagma, 42-43. – [40] Amabile, Castelli, ii, 47. – [41] Theologia, v, Roma, 1970, 104-105. – [42] Ibidem ; per altre testimonianze cfr. G. Ernst, Autobiografia di T. C., in Laboratorio C. Biografia contesti iniziative in corso, a cura di G. Ernst e C. Fiorani, Roma, 2007, 22-27. – [43] Dialogo politico, 134. – [44] Cfr. nota 20. Il resoconto che segue integra i dati di Catholic Church and Modern Science, di G. Moro, Documenti veneti su C. e sul processo per la fallita evasione, « Bruniana & Campanelliana », xv, 2009, 2, 463-487 e di G. Angeli, Lettere del Sant’Ufficio di Roma all’Inquisizione di Padova (1567-1660), a cura di A. Poppi, Padova, 2013 – [45] Lettere 2010, 296. – [46] Syntagma, 38-39 ; Amabile, Castelli, ii, 267.  

















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Milano, 1975 ; A. Stella, L’età postridentina, in F. Agostini et alii, Storia religiosa del Veneto, vi: Diocesi di Padova, a cura di P. Gios, Venezia-Padova, 1996, 226-237 ; A. Poppi, Chiesa e Università, ivi, 558-561 ; L. Spruit, I processi campanelliani tra Padova e Calabria : documenti inediti dall’Archivio dell’Inquisizione romana, in T. C. e la congiura di Calabria, a cura di G. Ernst, Stilo, 2001, 233-253 ; V. Frajese, Profezia e machiavellismo, Roma, 2002, 39-48 ; L. Spruit, T. C. e l’Inquisizione. Note sulla nuova documentazione del Sant’Uffizio, in Laboratorio C. Biografia Contesti Iniziative in corso, a cura di G. Ernst e C. Fiorani, Roma, 2007, 85-104 ; T. C., in Catholic Church and Modern Science, a cura di U. Baldini e L. Spruit, Roma, 2009, i/2, 975-1032 ; G. Moro, Documenti veneti su C. e sul processo per la fallita evasione, « Bruniana & Campanelliana », xv, 2009, 2, 463-487 ; Storia di Padova dall’antichità all’età contemporanea, a cura di G. Gullino, Padova, 2009, 185-211 ; G. Ernst, T. C. Il libro e il corpo della natura, Roma-Bari, 2002, 24-30 ; G. Angeli, Lettere del Sant’Ufficio di Roma all’Inquisizione di Padova (1567-1660), a cura di A. Poppi, Padova, 2013, vi, xi, xv, xix, 44, 94, 119, 141, 143-146; G. Moro, Tracce dell’incontro con C. nelle opere di Giovan Battista Clario, «Bruniana & Campanelliana», xxi, 2015, 55-65.  



























Giacomo Moro



Paracelso (Paracelsus)











Bibliografia. Relazioni dei Rettori veneti in Terraferma, iv, Podestaria e Capitanato di Padova,

Più che a Paracelso, la voce dovrebbe essere dedicata ai paracelsiani o al paracelsismo in genere, poiché va detto fin da subito che C. rivolse certamente maggiore attenzione al movimento paracelsiano (i Paracelsistae) – e più in particolare ad alcuni esponenti francesi del paracelsismo – che non a Paracelso. Non sembra che C. avesse conoscenza diretta dei testi di Philippus Aureolus Theophrastus, se non in traduzione latina, com’è il caso del De natura rerum, testo che in realtà è di non facile attribuzione, pubblicato nel 1537, tradotto in latino da Georg Forberger (ca. 1543-ca. 1604) nel 1573 e citato più volte da C. Né, ad eccezione di Oswald Croll (ca. 1563-1609) e Gerhard Dorn (ca. 1530-1584), C. fa dei nomi specifici quando menziona i Paracelsistae. Lo stesso vale per la parte più propriamente medica. Nella Medicina (1635),

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i riferimenti a Paracelso sono scarsi e spesso generici, soprattutto in quei contesti, come materia medica e terapia (cure per distillazione) in cui, in base alle sue stesse dichiarazioni, ci si aspetterebbe un maggiore interesse nei confronti di rimedi chimici e paracelsiani. Prima del suo arrivo in Francia, C. poteva aver avuto informazioni riguardo a Paracelso e al movimento paracelsiano da amici e conoscenti, come Giambattista della Porta (ca. 1535-1615), Tobias Adami (1581-1643), Jacques Gaffarel (1601-1681) e Caspar Schoppe (1576-1649). Sappiamo come lo stesso Adami avesse suggerito dei possibili nessi tra la filosofia di Paracelso e quella di C., individuando delle convergenze tra la fisica telesiana e la medicina paracelsiana. Come indicato nella prefazione al suo Prodromus philosophiae instaurandae (1617), Adami si proponeva di sintetizzare il concetto telesiano-campanelliano di spirito senziente come materia elaborata dai processi antiperistatici di caldo e freddo con la nozione dei tria prima paracelsiani (sale, zolfo e mercurio), interpretati come principi corporei organizzati da forze seminali di natura ideale. Ma è soprattutto negli ultimi anni della sua vita, trascorsi in Francia dal 1634 al 1639, che C. venne in contatto diretto con idee diffuse dai paracelsiani negli ambienti culturali parigini. Da questo punto di vista, la lettera a Peiresc del 22 agosto 1635 è un importante documento che restituisce il tipo di atmosfera paracelsiana che si poteva respirare a Parigi negli anni trenta del Seicento. « Son venuti alcuni da me », scrive C. a Peiresc, « con strane opinioni e simili a Paracelso » ; e continua dicendo che, pur non essendo d’accordo con le loro idee, si rallegra che essi non siano « soggetti alle volgari opinioni » (intendendo per « volgari opinioni » la filosofia scolastica aristotelica). Il punto principale che divide C. dai paracelsiani francesi è il loro tentativo di spiegare fenomeni naturali come il magnetismo, le simpatie naturali e tendenze finalistiche in natura a partire da « elementi insensati e irrazionali » [1]. Nella Metaphysica, C. dedica un certo numero di pagine ad una critica serrata e dettagliata delle posizioni dei paracelsiani francesi, indicati genericamente come Galli chimici [2]. Va infi 





















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ne anche tenuto conto di un certo numero di fonti indirette, da cui C. aveva potuto trarre informazioni riguardo alla figura e alle tesi di Paracelso, come i Disquisitionum magicarum libri sex di Martin Delrio (1551-1608), pubblicati per la prima volta negli anni 1599-1600. In ogni caso, sia che la conoscenza di C. delle idee paracelsiane sia da attribuire ad influenze dirette o indirette, vi sono certamente degli aspetti per i quali la filosofia di Paracelso assume per C. un importante spessore speculativo. Tali aspetti possono essere riportati fondamentalmente a tre : il rapporto delle idee paracelsiane con la filosofia campanelliana e con la tradizione filosofica nel suo insieme ; le implicazioni antropologiche e teologiche di certe dottrine paracelsiane ; il concetto di materia vivente e la spiegazione paracelsiana dei processi vitali in natura. Da questo punto di vista, non è certamente un caso che la discussione più articolata e impegnata della visione paracelsiana dell’universo si trovi proprio nella Metaphysica. 1. Filosofia della natura. — Secondo C., i principi della filosofia della natura paracelsiana si riducono a pochi presupposti di fondo : un generale materialismo, l’analogia tra il microcosmo e il macrocosmo, il principio onnipervasivo dell’assimilazione (in virtù del quale i simili attraggono i simili, si sviluppano assimilando i simili e curano i simili). Più interessante è il modo in cui C. contestualizza storicamente la discussione della filosofia della natura paracelsiana. In più luoghi, egli avvicina la metafisica della materia di Paracelso e dei paracelsiani alla concezione del cosmo di Anassagora, degli stoici e di Seneca. Si tratta di un accostamento originale, che tradisce l’intento campanelliano di inserire i paracelsiani all’interno di una precisa tradizione nella storia della filosofia (materialismo presocratico, stoicismo e correnti eterodosse della genuina sapienza italica, da Parmenide a un Telesio pre-primalitativo da leggere in chiave neo-empedoclea). Per quanto riguarda Anassagora, C. ritiene che i paracelsiani abbiano ridato credito e vigore al modello della « panspermia » anassagorea, in cui l’intelletto – sorta di precorrimento dell’intelletto agente aristotelico – agisce da  











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principio separatore rispetto ad una massa infinita di particelle di specie diverse (sequestratio particularum). Da questa massa, in cui « omnia esse in omnibus », la mente unica e separata elabora gli enti naturali, « estraendo e ordinando incessantemente le specie delle cose ». Significativamente C. definisce questa teoria come sermo Paracelsista, osteggiato da medici tanto antichi che moderni [3]. I paracelsiani, « ripiegando su Anassagora ed Empedocle », ritengono non solo che « in ogni singolo elemento vi siano i tre principi » – vale a dire, il sale, lo zolfo e il mercurio (da C. chiamati a volte corpulentiae) – ma anche che « tutti gli elementi siano in tutti gli elementi ». E quindi, continua C., « si dà acqua terrestre, aerea e ignea, oltre all’acqua ; e terra terrestre, acquea, aerea e ignea ; aria aerea, acquea terrestre e ignea ; e infine fuoco o cielo igneo, aereo, acqueo e terrestre » [4]. Secondo C., la ratio del ragionamento paracelsiano fa leva sul principio anassagoreo dell’omnia in omnibus. Più in particolare, la visione cosmologica paracelsiana ha molti aspetti in comune con il modo in cui Anassagora aveva già a suo tempo risposto all’aporia parmenidea dell’essere come assenza di generazione. In entrambi i casi, si postula che ogni ente naturale sia « trasferito, separato e ordinato da un intelletto », poiché nulla può derivare da ciò che già è o da ciò che non è [5]. Contro Anassagora, Empedocle e Paracelso, C. dichiara che il concetto di elemento non va confuso con quello di materia. La materia è ciò da cui una cosa deriva ; l’elemento è ciò di cui una cosa si compone. In questo senso, la materia è più originaria di qualunque elemento [6]. In pieno spirito telesiano, C. riduce gli elementi a due – la terra e il sole – considerati come « sedi delle cause attive » (il freddo e il caldo) [7]. Le trasformazioni naturali risultano da tensioni, resistenze ed equilibri più o meno precari che si vengono a instaurare tra i due elementi in costante opposizione (contrariorum mistio conciliatorum). C. concorda con Empedocle che « l’azione verrebbe a cessare » in natura se non vi fosse una fonte di contrasto accanto al principio in base al quale ogni ente ten 











































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de ad espandere la propria natura al di fuori di sé (« ogni effetto è il modo in cui una causa effonde la propria somiglianza »). Tuttavia, col preporre un intelletto ai vari processi di formazione delle cose, Anassagora sembra essersi avvicinato maggiormente alla verità di quanto non abbia fatto Empedocle, con la sua nozione di conflitto non-intenzionale (imperita discordia). L’ordine presente nell’universo non si può spiegare facendo riferimento ad un effetto secondario – accidentale e non pianificato – risultante dal contrasto tra il caldo e il freddo (posizione questa che, secondo C., accomuna Empedocle a Telesio e ai medici in generale). C. ritiene che l’intelletto anassagoreo – e di conseguenza il principio della separazione spagirica per azione del fuoco – non basti a render conto dell’ordine dell’universo : « Non bisogna pensare che le particelle di carne, osso e nervo preesistano nel cibo, ma che degli elementi resi idonei dalla forza della carne, auto-generativi e auto-moltiplicativi, si trasformino in carne ». L’idoneità (aptitudo), l’auto-generazione e auto-moltiplicazione dei costituenti elementari della natura presuppongono però un livello metafisico più profondo del semplice contrasto tra qualità corporee tra loro opposte e richiedono una spiegazione più plausibile che non sia quella basata su un principio attivo esterno all’universo materiale. In altre parole, il senso, in quanto abilità di riconoscere i simili e i contrari in natura, richiede una fondazione più originaria che non sia quella rappresentata dai semplici meccanismi naturali. Tale fondazione va cercata, secondo C., nelle primalità (↗ primalità). Non occorre supporre che un intelletto separato dal cosmo intervenga dall’esterno ad ordinare la materia in specie e individui. Una tale forza auto-generativa e auto-moltiplicativa può solo essere attribuita alle facoltà primalitative dell’essere : « non è necessario assumere che l’intelletto divino da tutta l’eternità si sia trovato di fronte le cose, formate dalle loro specie invisibili, in uno stato di confusione, in modo che Egli abbia potuto renderle visibili e ordinate ; bisognava piuttosto fornire le cose di forze auto-moltiplicative oltre al senso, cosicché  















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l’intelletto, servendosi dell’azione del sole e della passione della terra, potesse formare gli enti secondi in maniera molteplice. Tuttavia, la moltiplicazione non andava attribuita alla materia, ma alle cause e specie attive, certamente non in base a quanto esse hanno di fisico, ma secondo le primalità ; infatti il calore non si moltiplica in quanto calore, ma in quanto capace e desideroso di moltiplicarsi » [8]. Detto altrimenti, il senso della natura presuppone l’intelletto, ma tale intelletto non può essere la mente anassagorea, l’intelletto aristotelico-averroistico o la Licht der Natur paracelsiana, ma il tessuto primalitativo dello stesso essere, e in ultima analisi Dio : « il calore – e ogni cosa – può, sa e desidera, poiché Dio può, sa e vuole, e non poiché il calore in quanto tale possa, sappia e voglia ; e tanto più può, sa e vuole, quanto più partecipa delle primalità » [9]. Quando alcuni paracelsiani dichiarano la terra essere « acqua essiccata », essi non possono sottrarsi alla domanda relativa al principio attraverso cui (a quo) l’acqua viene trasformata in terra. « Non da se stessa, altrimenti tenderebbe, amerebbe e contribuirebbe alla propria distruzione – cosa a cui l’acqua non può tendere, desiderare e fare, dal momento che il calore non può raffreddare se stesso, né il freddo riscaldare se stesso. Né tantomeno può l’acqua essere trasformata in terra dalla stessa terra, poiché questa non può generare se stessa prima di esistere come tale » [10]. La stessa argomentazione si ritrova nel libro xiv della Theologia [11]. Per quanto riguarda gli stoici e Seneca, C. sembra voler ritrovare il principio anassagoreo e paracelsiano della commistio rerum nelle Quaestiones naturales di Seneca [12]. Secondo C., gli stoici errano nell’equiparare Dio ad uno spirito corporeo (non recte spiritum corporeum Deum) e nel porre la materia e Dio sullo stesso livello di esistenza eterna (coaeternantes materiam Deo) [13]. Alcuni paracelsiani presuppongono l’esistenza di « un unico spirito identico per tutti i corpi », ma allora non si capisce da dove derivino le differenze tra il caldo e il freddo, e quelle tra gli stati di umidità e secchezza nella materia. Se essi ricorrono alla « contrazione ed espansio 

























ne della materia », e – « cosa ancor più straordinaria » – chiamano la forma degli elementi « lo spirito della vita » e lo considerano essere « di un unico tipo in tutta la materia » (« tale è il dio degli stoici »), la conseguenza sarà allora che « la forma di tutti gli elementi è una » [14]. I paracelsiani, argomenta quindi C., « dovrebbero dirci come i contrari possono mescolarsi e pacificarsi ». In particolare, essi dovrebbero spiegare come possano darsi degli effettivi contrasti e « antipatie » naturali in un universo che è ritenuto essere costantemente regolato da un unico tipo di spirito vitale, nato insieme a tutti gli enti (unigeneus cunctis). C. contesta l’ipotesi che le innumerevoli differenze dell’universo materiale possano risultare da una stessa identica forma, l’unica forma dello spiritus vitae. Ciò significa che l’universo campanelliano rimane al fondo un universo telesiano, in cui contrarietà ed opposizioni sono altrettanto importanti quanto sintesi e conciliazioni [15]. Un altro punto che, secondo C., unisce i paracelsiani ad Anassagora è la loro visione degli elementi naturali. Come Anassagora, anche Paracelso e i paracelsiani ritengono che vi sia una realtà materiale più profonda al di là dei quattro elementi della tradizione empedocleo-aristotelica : gli elementi sono considerati come dei ricettacoli che contengono i tria prima, e ancora più in profondità, oltre agli elementi e ai loro fondamenti spagirici (sale, mercurio e zolfo), si cela un’ulteriore natura, una natura astrale (natura astralis, astralitas o semplicemente astrum), detta ache « quintessenza » o « forma del misto » [16]. I veri elementi sono dunque dei principi vitali « invisibili », chiamati astra. Essi sono « come delle anime racchiuse all’interno dei corpi ». Per spirito vitale (spiritum vitae) i paracelsiani intendono « un elemento interno capace di moltiplicarsi all’esterno » [17]. Paracelso e i suoi seguaci paragonano il principio astrale che governa le funzioni naturali e vitali dei corpi ad un seme. Come nel seme, è necessario che l’involucro corporeo esterno si corrompa affinché l’interno nucleo spirituale possa sprigionare la sua forza : « affinché l’energia si moltiplichi, il corpo, dal quale essa è impedita e soffocata,  























































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deve corrompersi, così da potersi procurare un nuovo corpo ». Questa sarebbe la ragione per cui tutti i semi muoiono nel corpo precedente, così che essi « possano moltiplicarsi dopo averne ottenuti di nuovi ». Allo stesso modo, l’uomo interno non risorge a nuova vita se non muore prima l’uomo esterno, come testimoniato dall’apostolo Paolo. Da questo punto di vista, i rimedi chimici dei paracelsiani sono equiparati all’« astro più interno », che dev’essere separato dalla sua natura corporea (corpulentia) tramite l’azione del fuoco, così come la virtù seminale lo è tramite l’azione del calore esterno. Così facendo, il principio astrale racchiuso nelle sostanze materiali agisce sul corpo umano e accresce la potenza del suo astro interno, mentre espelle le materie e gli affetti morbosi, giacché « il corpo si nutre del corpo, e lo spirito dello spirito » [18]. Quando i paracelsiani parlano di virtù seminali, essi non dicono con chiarezza da dove derivino tali principi, « se da idee generate dalla mente divina, dagli elementi corporei (corpulentiae) o dal grembo della materia » [19]. Come nel caso dei concetti di forma e astralitas, C. ritiene che la nozione paracelsiana di forza seminale inclini pericolosamente verso una visione materialistica della natura, in questo simile all’uso dei semina fatto da Francesco Patrizi (1529-1597). Nel libro vi della Theologia, C. accomuna Paracelso a Patrizi, presentati come due autori che attribuiscono un ruolo centrale ai principi seminali (causae seminariae) nella spiegazione dei processi naturali (Paracelso, in particolare, è descritto come un sostenitore della tesi dell’immortalità delle « ragioni » seminali) [20]. Da un punto di vista più propriamente fisico, C. critica l’incapacità dei seguaci di Paracelso di mediare il piano della pratica sperimentale con quello della speculazione filosofica (« i paracelsiani dimostrano acutezza nelle loro operazioni, ma sono alquanto ottusi nel loro giudizio »). C. ravvisa tutta una serie di contraddizioni nel modo in cui i paracelsiani hanno confuso i diversi livelli esplicativi corrispondenti rispettivamente agli elementi, ai principi metafisici e alla materia. « Se accettano i quattro elementi », scrive nella Metaphysica, « li rica 































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vano maldestramente dalla composizione di zolfo, sale e mercurio, i quali certamente sono dei corpi più originari (corpora priora), in quanto sono i principi costitutivi dei corpi composti (componentia compositis) [21]. Un certo numero di critiche campanelliane alla teoria degli elementi e principi paracelsiani si appunta intorno al ruolo del fuoco nelle trasformazioni materiali. Qui la tensione tra il livello della corporeitas e della spiritalitas diventa particolarmente evidente. Secondo gli alchimisti e i seguaci di Paracelso, il fuoco non corrompe e trasforma, ma « altera separando ». C. riconduce anche questa tesi al principio anassagoreo della commistio omnium cum omnibus, in quanto nell’universo post-parmenideo non si danno effettive generazioni e trasformazioni di elementi e specie naturali, ma solo separazioni e ricombinazioni dei principi primi. « Pertanto anche i paracelsiani non possono generare alcunché se non a partire dai principi esistenti ; quindi pongono ogni elemento in ogni elemento a livello spirituale (spiritaliter), per poi aggiungere a livello corporeo (corporaliter) sale, zolfo e mercurio ; e una volta che questi siano stati estratti, non rimane che la materia che non viene affetta dal fuoco, da essi chiamata caput mortuum » [22]. Contro il materialismo anassagoreo-paracelsiano, C. esclude risolutamente che i processi di generazione possano ridursi a forme di « estrazione ». Le specie delle cose non sono latenti nel « grembo della materia », né la « potenza della materia » può dirsi di per sé « attiva e produttiva » [23]. Anche nel caso del fuoco, poi, si ripresenta la stessa obiezione più volte rivolta da C. al sistema dei principi ed elementi paracelsiani, vale a dire, il loro agire senza essere regolati da alcun principio di conoscenza : « Quale forma di sollecitudine (pietas) deve mai possedere il fuoco per liberare gli elementi dai loro vincoli e spogliare le forme della loro materialità ? » [24]. 2. Medicina. — Nel Syntagma de libris propriis (1632 ; 1642), C. riconosce a Paracelso il merito di aver contribuito in qualche modo al progresso della farmacologia (in destillatoriis et medicinis chymicis aliquid promovit), ma di aver anche detto una gran quantità di  





































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sciocchezze nel campo più propriamente filosofico (in speculativis vero ineptit plerumque) [25]. Nella Medicina, presenta le varie tecniche distillatorie come il maggior contributo apportato da Paracelso alla preparazione di rimedi medici [26]. Tuttavia, come già notato da Michel-Pierre Lerner, nonostante le affermazioni positive riguardo agli aspetti pratici della medicina paracelsiana, la farmacopea campanelliana rimane in gran parte tradizionale e refrattaria a possibili prestiti dalla materia medica chimica [27]. In campo medico, C. critica l’impostazione generale della medicina paracelsiana in quanto basata sul principio secondo cui i simili curano i simili. Muovendo da premesse telesiane, C. riduce il campo di applicazione dell’approccio omeopatico alla sfera della profilassi e prevenzione (medicina preservativa), ma la terapia non può evitare il principio della cura allopatica per contrari [28]. C. condanna inoltre Paracelso per aver indebitamente confuso il piano della pratica medica con quello della fede religiosa e di non essere stato in grado di individuare la specificità di quella particolare dimensione ai confini tra natura e sovrannatura, definita da C. come « transnaturale ». Se riconosce a Paracelso il merito di aver dimostrato l’esistenza di malattie causate da incantesimi e malefizi di origine diabolica, lo accusa tuttavia di empietà per aver ritenuto che tali disturbi possano essere curati applicando i principi della magia demonica (maleficia maleficiis tollere), quando invece essi andrebbero trattati invocando direttamente l’aiuto di Dio e degli angeli (per theologiam, non per medicinam), ad eccezione di quei casi in cui il diavolo o i suoi emissari tormentano le proprie vittime servendosi di mezzi naturali (atrabile, bile gialla o erbe velenose) [29]. Diversamente da Paracelso, C. sostiene che le malattie causate da streghe con l’aiuto del diavolo debbano debellarsi ricorrendo ad esorcismi, preghiere e contrizione interiore. « Il medico non pensi quindi che quanto si trova scritto nei libri degli esorcisti sia del tutto vano », ammonisce C., e continua facendo notare come perfino Paracelso apprezzi questi mezzi come « autentici rimedi » [30]. Richiamandosi a casi a cui  











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aveva potuto assistere in prima persona, C. ammette la realtà di disturbi di origine diabolica che possono essere sanati ricorrendo unicamente ai principi della fede. Ippocrate riconobbe l’esistenza di morbi divini, e Paracelso ha ragione ogni volta che ammette l’efficacia delle pratiche religiose come strumenti di guarigione. Su questo punto, la maggiore differenza tra le posizioni di C. e quelle di Paracelso risiede nel modo in cui quest’ultimo spiega il potere curativo della religione come un processo naturale e in fondo una forma positiva di superstizione dai ragguardevoli effetti pratici [31]. Riguardo alla nozione paracelsiana di un principio curativo « astrale » interno alle sostanze naturali, C. distingue tra due vedute prevalenti all’interno del movimento paracelsiano. Secondo alcuni, ogni astralitas – ad esempio, del fegato, della cicuta e delle piante in genere – è in grado di curare il corrispondente disturbo specifico ; secondo altri, « nel corpo di un uomo perito per morte violenta si trovano le autentiche astralitates tramite cui un uomo viene guarito da ogni disturbo » [32]. Alcuni paracelsiani identificano il principio astrale e seminale con la forza dell’immaginazione, che « ritengono essere così potente, anche negli esseri umani, da poter trasformare i metalli e qualsivoglia corpo » C. rigetta una tale concezione del potere alterativo dell’immaginazione, tanto nella versione aristotelica (secondo cui l’« anima immaginante » può produrre caldo e freddo contraendo e dilatando le parti del corpo) che in quella assai più radicale promossa da Avicenna. Qui C. si richiama alle critiche di Tommaso contro Avicenna, le quali fanno altrettanto bene al caso dal momento che è « come se Tommaso stesse discutendo la stessa questione con i paracelsiani » (↗ immaginazione) [33]. Infine, C. rigetta la nozione paracelsiana di rimedio universale, ritenuto capace di eliminare ogni genere di disturbi, anche i più recidivi e violenti, rimedio « ricavato dal metallo più nobile », nel quale sarebbero contenute « le forze di tutti gli astri inferiori, nello stesso modo in cui nel sole si trovano le forze degli astri eterei » [34]. C. non ritiene possibi 





























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le che questo medicamento, da essi chiamato « luce, vita, balsamo, quintessenza e spirito vitale », possa contenere in sé « tutti gli elementi pienamente attualizzati e elaborati, e le forme di tutte le cose, tanto terrestri che celesti ». In altre parole, un tale rimedio non sarebbe altro che « l’intero universo », anzi un universo in cui tutto è stato ricondotto ad una condizione di perfetta rigenerazione fisica e spirituale (totus mundus regeneratus). Inevitabilmente, continua C., i medici paracelsiani sono condannati a non mantenere le loro promesse quando essi proclamano di essere in grado, con uno stesso rimedio, di « guarire l’intero universo, trasformare tutti i metalli e ridar vita alle cose morte ». Infine, nell’attribuire poteri sovrannaturali al loro balsamo universale, i paracelsiani non sono in fondo molto diversi da certi aristotelici contemporanei, i quali « ritengono che perfino i miracoli compiuti dai santi avvengono in virtù di un bilanciamento (aequatio) degli elementi, come hanno scritto Pomponazzi e altri in modo inesperto tanto quanto empio » [35]. 3. Religione. — Le osservazioni più interessanti a proposito dell’opera di Paracelso da parte di C. sono di natura teologica ; più specificatamente, esse riguardano le possibili conseguenze a livello di escatologia e teodicea che derivano dal concetto paracelsiano di vita e intelligenza artificiale. L’« eretico » Paracelso, scrive C. nell’Apologia pro Galileo, ritiene che esseri umani vivano non solo sulla superficie terrestre, ma anche in altre zone dell’universo (in aëre, in aqua, et sub terra). C. descrive questa tesi come un’insana sententia, di cui aveva letto nelle Disquisitiones magicarum di Martin Delrio e nel già menzionato trattato di Paracelso, De natura rerum, più volte citato da C. in diverse delle sue opere. L’assurda conseguenza sarebbe che anche per queste creature umane si dovrebbe presupporre processi di redenzione, stati di bea­ titudine e immissione di anime immortali da parte di Dio [36]. L’osservazione di C. si carica di importanti significati di valore teo­ logico e antropologico, in quanto accenna ai limiti che definiscono la nozione di umanità. Se pigmei e giganti sembrano rientrare  

























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a pieno diritto nella specie homo, che dire di altre creature ritenute da Paracelso esistere all’interno dell’universo, come ninfe e creature silvane ? L’omuncolo si presenta allora come caso limite per eccellenza. Nel libro xiv della Theologia, C. ritiene possibile che, con l’aiuto del diavolo, maghi privi di ogni scrupolo possano generare forme elementari di vita (metalli, piante e animali imperfetti, animalcula e ibridizzazioni mostruose). Discutendo di accoppiamenti innaturali tra uomini e animali, uomini e diavoli, dei e ninfe, dei e donne – definiti « coiti naturali nella sostanza, ma non nel modo » – C. descrive tutta una fenomenologia di generazioni umane-poco-umane, arrivando a sostenere che con i metodi descritti da Paracelso si riu­scirebbe anche a generare animali che, in base ai principi delle trasformazioni naturali, possono solo derivare da atti di copulazione tra esemplari di sesso maschile e femminile. Questi maghi trovano il modo di mantenere fresco lo sperma, plasmano la terra a mo’ di utero e riescono a produrre uomini e cavalli [37]. Nell’edizione latina del Senso delle cose pubblicata a Parigi nel 1637, C. torna a discutere del De natura rerum paracelsiano. Paracelso, riferisce C., si vanta di aver ricevuto questo « arcano degli arcani » – la produzione dell’omuncolo – direttamente da Dio. Si sofferma quindi ad esaminare analiticamente le fasi principali del processo come esse vengono descritte nel trattato paracelsiano. In questo caso, C. ha una conoscenza diretta del trattato paracelsiano nella traduzione latina del già citato Forberger, da cui cita anche un brano. I principi alla base del processo di produzione dell’omuncolo sono la putrefazione (considerata come « il termine delle trasmutazioni »), il rapporto tra calore e umidità (« l’inizio della generazione proviene dal caldo e dall’umido ») e la possibilità di richiamare in vita organismi ritenuti essere definitivamente morti (« tutte le cose distrutte dalla putrefazione possono essere rigenerate »). Nel concreto, le istruzioni riportate da C. si possono riassumere nel modo seguente. Si chiuda in un contenitore appropriato del materiale organico ridotto in polvere e lo si conduca a putrefazione  





















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fino ad ottenerne un « flegma mucillaginoso ». Questa sostanza, « sottoposta all’azione continua di un determinato grado di calore, suole trasformarsi in materia vivente », quindi in uccelli, serpenti e altri animali inferiori. Paracelso ritiene che il processo possa anche condurre alla produzione di esseri umani – gli omuncoli appunto – qualora si usi dello sperma umano al posto di organismi ridotti in cenere. Dopo essere stato sigillato ermeticamente nell’apposito contenitore per circa quaranta giorni, e sollecitato da una fonte costante di calore (preferibilmente animale), lo sperma dà origine ad una creatura del tutto simile ad un essere umano, ma « trasparente e senza corpo ». Nutrito ogni giorno con sangue umano, seguendo tutte le dovute cautele e applicando le regole del caso (caute et prudenter), dopo quaranta settimane l’omuncolo diviene un « un vero infante », il quale, allevato ed educato nella debita maniera, si trasforma in un autentico sapiente. La ragione, spiega Paracelso (o l’autore paracelsiano), è che gli omuncoli sono il prodotto della tecnologia umana (arte nati sunt). Come dire che, proprio perché artificiali, essi sono quanto di più razionalmente umano si possa dare in natura. Fin qui il brano riportato da C., il quale accetta di Paracelso il principio secondo cui « tutto deriva da sostanze putrefatte ». Tuttavia per C. ciò non basta a spiegare il sorgere di un organismo vivente, poiché in questo caso si richiede anche il concorso di un artefice capace di comunicare idee e scopi all’ente prodotto. C. non esclude che, a livello puramente teorico, si possa ricavare un essere vivente dal seme animale, o perfino ricostituire un essere umano vivente da una cadavere umano fatto a pezzi e quindi ricombinato in un contenitore in grado di operare da incubatore, come si dice avesse fatto Enrique de Aragón, marchese di Villena (1384-1434), umanista e poeta morto in odore di necromanzia, citato da C. insieme ad altre fonti più note, come Alberto Magno. Anche in questo caso, però, C. dubita che si possa in qualche modo rimpiazzare artificialmente la funzione operata dallo spirito  



















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della donna, il quale impregna costantemente il seme maschile dello spirito vitale e soprattutto gli conferisce il senso del proprio essere (idea sui). Infine, il vaso in cui si effettua l’esperimento non può mai dirsi « vivifico » come la vulva. Eppure, nonostante tutte queste obiezioni, C. sembra non escludere la produzione artificiale dell’omuncolo (Negare tamen non audeo). In linea di principio, qualora si arrivasse a costruire un surrogato meccanico dell’organo femminile della generazione e si riuscisse ad elaborare una qualche forma di intelligenza artificiale, capace di organizzare il materiale e le varie fasi del processo, un tale risultato non sarebbe di per sé impossibile. E la ragione per cui C. pare essere affascinato dalla possibile realtà di un tale esperimento è fondamentalmente di natura teologica : « qualora si dia origine ad un corpo umano, Dio non nega di infondervi la mente ». Ulteriori obiezioni rivolte a Paracelso tradiscono la stessa curiosità teologica. Giganti e ninfe non discendono dagli omuncoli attraverso generazione artificiale, ma sono prodotti di natura – a meno che, continua C. proponendo ulteriori distinguo di natura teologica, « le intelligenze esecutrici della provvidenza divina non abbiano usato di quest’arte in qualche regione, come fece Dio al momento di creare Adamo ». In secondo luogo, C. esclude che esseri creati artificialmente possano dirsi essere più razionali (prudentiores) di quelli prodotti dalla natura, e soprattutto che essi possano addirittura assurgere al ruolo di maestri degli uomini generati per vie naturali, dal momento che per C. « la natura è più sapiente dell’arte » [38]. Da questo punto di vista, C. non condivide l’ottimismo e fiducia di Paracelso nei confronti delle illimitate potenzialità della tecnica umana. Egli ritiene che il potere dell’arte rimanga comunque inferiore rispetto a quello della produttività naturale. D’accordo con Tommaso, afferma ad esempio che l’oro prodotto artificialmente non potrà mai eguagliare l’oro reperibile in natura. Le tecniche umane possono « agevolare la natura nella sua opera », ma non perfezionare la  





















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natura, come vorrebbe Egidio Romano (ca. 1243-1316) [39]. In generale, i dubbi sollevati riguardo alla vera natura di pigmei, giganti e omuncoli dimostrano che la questione che maggiormente interessa C. è quella relativa ai criteri in base ai quali un essere che a tutti gli effetti sembra essere razionale possa anche dirsi umano. Per quanto Paracelso ineptit in speculativis, l’aspetto per C. speculativamente più affascinante delle teorizzazioni sperimentali paracelsiane risiede quindi nelle implicazioni teologiche.

und F. Niewöhner, Amsterdam, 2002, 193-210 ; D. Kahn, Alchimie et paracelsisme en France (1567-1627), Genéve, 2007, 464-465; M. L. Bianchi, Natura e sovrannatura nella filosofia tedesca della prima età moderna. Paracelsus, Weigel, Böhme, Firenze, 2011.

Note. [1] Lettere, 424. – [2] Metaphysica, ii, 195b. – [3] Ivi, 187a. – [4] Ivi, 188a. - [5] Ivi, 188b. – [6] Ivi, 190b. – [7] Ivi, i, 26a. – [8] Ivi, ii, 191b-192a. Cfr. i, 101b. – [9] Ivi, ii, 192a. – [10] Ivi, 194b. – [11] Theologia, xiv, 198 – [12] Metaphysica, ii, 188b. – [13] Ivi, i, 84a, 98b. – [14] Ivi, ii, 194b-195a. Cfr. ivi, 138b : « Stoici Deum includunt mundo, tanquam spiritum omnia permeantem ac formantem et temperantem ». – [15] Ivi, ii, 195a. – [16] Ivi, 187a. – [17] Ivi, 187b-188a. – [18] Ivi, 188a. – [19] Ivi, 195a. – [20] Theologia, vi, 94-96. – [21] Metaphysica, ii, 194ab. – [22] Ivi, i, 84 ; ii, 187b, 188b-189a. – [23] Ivi, ii, 189b. – [24] Ivi, 195b. – [25] Syntagma 2007, 78-80. – [26] Medicina, 290-291, 337 – [27] M.-P. Lerner, C. et Paracelse, in Alchimie et philosophie à la Renaissance, sous la direction de J.-C. Margolin et alii, Paris, 1993, 383. – [28] Medicina, 75. – [29] Ivi, 79. – [30] Ivi, 304. – [31] Ivi, 351-352. – [32] Metaphysica, ii, 187ab. – [33] Ivi, 195a. – [34] Ivi, 187b. – [35] Ivi, 196ab-197a. – [36] Apologia pro Galileo, 20, 178 ; De sensu rerum 1637, 208. – [37] Theologia, xiv, 220. – [38] De sensu rerum 1637, 207-208. Cfr. Paracelsus, De natura rerum libri septem, in Opera, Geneva, 1658, ii, 86b-87a. – [39] De sensu rerum 1637, 218.

Nell’ambito di quello che Eugenio Garin definì « il ritorno dei filosofi antichi », la tradizione pitagorica occupa un posto rilevante, e al tempo stesso peculiare. L’assenza di opere ascrivibili direttamente a Pitagora, il carattere in un certo senso iniziatico della scuola e l’accavallarsi delle testimonianze, nonché il continuo tentativo di riportare le varie dottrine al maestro, hanno senza dubbio contribuito a conferire a questa tradizione taluni tratti enigmatici. Nel tardo Rinascimento e nella prima Età Moderna la presenza di dottrine pitagoriche (o quantomeno ritenute tali) aumenta notevolmente. Ciò è dovuto a diverse cause : l’inclusione di Pitagora e della cosiddetta scuola pitagorica all’interno della cosiddetta prisca theologia, per opera di autori quali Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola ; la pubblicazione dei De revolutionibus orbium celestium libri sex di Niccolò Copernico, nel 1543, nei quali l’autore considera Filolao di Crotone e Iceta di Siracusa i primi ad aver sostenuto il moto terrestre. A partire dalle considerazioni copernicane, le dottrine pitagoriche divengono quindi un riferimento scientifico per i pensatori dell’epoca. Di queste suggestioni risente senz’altro anche la riflessione filosofica di C., sebbene in maniera peculiare. Non vi è infatti un indirizzo univoco nella lettura campanelliana di Pitagora e del pitagorismo : è possibile però individuare alcuni aspetti caratterizzanti che tendono a presentarsi in maniera congiunta, legati alla figura del filosofo di Samo. Tali aspetti denotano un uso in un certo senso strumentale da parte di C., che nella maggior parte dei casi è legato a finalità argomentative o addirittu-











Bibliografia. H. Trevor Roper, The Paracelsian Movement, in Renaissance Essays, London, 1985, 149-199; B. Joly, La rationalité de l’alchimie au xviie siècle, Paris, 1992 ; M.-P. Lerner, C. et Paracelse, in Alchimie et philosophie à la Renaissance, sous la direction de J.-C. Margolin et alii, Paris, 1993, 379-393 ; M. L. Bianchi, Introduzione a Paracelso, Roma-Bari, 1995 ; M.-P. Lerner, T. C. en France au xviie siècle, Napoli, 1995 ; G. Ernst, T. C. Il libro e il corpo della natura, Roma-Bari, 2002 (tr. inglese Dordrecht, 2010) ; G. Giglioni, Medicine, in Brill’s Encyclopaedia of the Neo-Latin World, ed. by P. Ford et alii, 2 vols., i, 679-690 ; C. Gilly, C. and the Rosicrucians, in Rosenkreuz als europäisches Phänomen im 17. Jahrhundert, hrsg. v. C. Gilly  













Guido Giglioni

Pitagora (Pythagoras)











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ra polemiche. Naturalmente, non si tratta di motivi separati tra loro da compartimenti stagni : piuttosto, di volta in volta, C. tende a mettere maggiormente in risalto uno degli aspetti ; l’importanza che, nelle differenti occasioni, essi assumono è legata soprattutto al contesto retorico nel quale si muove C. L’interesse per la tematica pitagorica affonda le proprie radici negli inizi della riflessione di C., a partire dalle discussioni con Colantonio Stigliola, durante il soggiorno a Napoli negli anni 1589-1592 [1]. Tra le opere che a tutt’oggi risultano perdute, ma delle quali abbiamo testimonianza grazie a C. stesso, figura un testo dal titolo Philosophia pythagorica carmine lucretiano instaurata, in tre libri, la cui stesura risalirebbe addirittura al 1591 [2]. 1. Il sapiente. — Secondo C. Pitagora può essere iscritto a pieno titolo nella schiera di quei sapienti che, secondo differenti gradazioni, hanno nello stesso tempo contribuito e preso parte alla rivelazione sapienziale che ha avuto luogo, nella storia, in età anteriore a quella propriamente cristiana. Pitagora fu maestro di sapienza, legislatore e fondatore di una scuola filosofica assai rilevante, che ebbe la sua maggior fioritura in Calabria. È proprio tale elemento che secondo C. differenzia in senso specifico Pitagora e i suoi allievi più illustri, Filolao di Crotone e Timeo di Locri. Rifacendosi infatti alle notizie riportate da Gabriele Barrio nel suo De antiquitate et situ Calabriae, pubblicato nel 1571, C. afferma la provenienza calabrese di Pitagora [3]. Giova sottolineare che, soprattutto per ciò che concerne le notizie biografiche su Pitagora, il testo di Barrio costituisce una fonte privilegiata per C. Da quest’opera infatti, C. attinge spesso anche informazioni di seconda mano, provenienti originariamente dai classici, come Cicerone e Aulo Gellio [4]. Tale aspetto è presente soprattutto nelle opere di carattere polemico, come la Philosophia sensibus demonstrata e l’Apologia pro Galileo : in entrambi i testi C. prende le difese di autori a lui cari, seppur secondo modalità differenti. Soprattutto nella Philosophia sensibus demonstrata, la provenienza calabrese di Pitagora e dei suoi allievi più illustri ne fà, dal punto  





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di vista di C., il capostipite di una tradizione filosofica italiana, ma soprattutto originaria della Calabria, terra alla quale C. sarà sempre legato, e alla quale non mancherà di fare riferimento in tutte le sue opere. Nella Philosophia sensibus demonstrata emerge piuttosto chiaramente l’aspetto per così dire simbolico (sarebbe forse meglio dire rappresentativo) di Pitagora. In numerosi passaggi del testo C. rimarca come le dottrine di Pitagora, Filolao e Timeo costituiscano la base concettuale per l’elaborazione del pensiero di Platone [5]. C. si rifà alla tradizione legata alla formazione pitagorica di Platone, secondo la quale tra i maestri di Platone vi sarebbero stati Timeo di Locri e Filolao di Crotone, le dottrine dei quali Platone avrebbe ripreso soprattutto per ciò che concerne il principio materiale dal quale il mondo avrebbe avuto la sua origine (per mezzo dell’azione su di esso del caldo e del freddo), ma anche a proposito delle dottrine sul rapporto tra generazione e immaginazione. Più in generale, tutta la cosmogonia esposta nel Timeo di Platone, come l’impressione delle forme presenti nella mente del dio nella materia, o l’idea che i cieli abbiano carattere elementale, che pure C. non condivide, viene attribuita da C. proprio al filosofo locrense [6]. L’immagine che emerge da questo ritratto di Pitagora e del pitagorismo assume ulteriori sfumature dai riferimenti presenti nelle lettere di C. In due lettere indirizzate a Paolo V, risalenti rispettivamente all’agosto del 1606 e all’aprile del 1607, C. menziona Pitagora, insieme con Anassagora, Socrate, Seneca e Lucano, come esempio di sapiente che venne condannato dagli uomini del proprio tempo : è evidente il riferimento alle proprie vicende giudiziarie e, più in generale, al tema del nemo propheta in patria [7]. A distanza di anni, C. presenta un ritratto simile di Pitagora, nell’Apologia pro Galileo. Rifacendosi alla testimonianza di Ambrogio, secondo la quale Pitagora sarebbe stato ebreo, o quantomeno avrebbe conosciuto l’insegnamento mosaico, C. ha modo di recuperare l’aspetto più marcatamente religioso di Pitagora, inserendolo però in un contesto in qualche modo affine a quello  

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cristiano [8]. Tra le dottrine insegnate da Pitagora, vi sarebbero state l’unicità di Dio, il movimento dei cieli, l’esistenza di sistemi celesti, l’eliocentrismo e la natura elementale dei pianeti : Pitagora avrebbe appreso tutto ciò proprio attraverso la dottrina mosaica. Nell’Apologia l’immagine di Pitagora descritta nella Philosophia sensibus demonstrata si rafforza : egli non è più semplicemente partecipe, per usare un’espressione cara a Romano Amerio, del Cristo-Prima razionalità in naturalibus, ma avrebbe avuto, in qualche modo, un contatto più ravvicinato, se non più diretto, con l’ambito della Rivelazione. La forte presenza di questo ‘motivo’ relativo alla figura di Pitagora in opere dal carattere, per così dire, polemico offre un elemento molto utile per cogliere quale potesse essere una delle finalità di questo utilizzo della figura di Pitagora e del pitagorismo : quello strumentale e polemico. 2. Lo strumento polemico. — L’immagine sapienziale di Pitagora che C. dipinge nella Philosophia sensibus demonstrata e nell’Apologia pro Galileo presenta un carattere, per certi versi strumentale. La maggior parte delle occorrenze del nome di Pitagora, e dei suoi seguaci è legata, in entrambe le opere, al tentativo di rafforzare i fondamenti delle dottrine difese, ossia rispettivamente quelle telesiane e galileiane. Nel primo caso infatti, C. presenta di fatto Pitagora come primo esponente di quella tradizione filosofica fondamentale, che troverebbe la sua espressione migliore, e più recente, proprio in Bernardino Telesio : basti pensare all’uso della definizione ciceroniana di Pitagora come princeps philosophorum. Tale argomentazione sottende, nemmeno troppo velatamente, l’affermazione della ‘dissonanza’ delle dottrine aristoteliche, quali erano state opposte a Telesio dal giurista napoletano Giacomo Antonio Marta, proprio rispetto a tale tradizione filosofica. Una strategia argomentativa analoga viene appunto riproposta da C., a distanza di quasi trent’anni, nell’Apologia pro Galileo. Tramite il recupero della figura di Pitagora e delle sue dottrine, C. ha modo di difendere la liceità dell’indagine copernicana e galileia 







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na. Tale difesa viene portata avanti lungo un duplice percorso : da un lato, le tesi copernicane e galileiane costituirebbero una ripresa e una riscoperta delle dottrine pitagoriche di Timeo di Locri, sul moto diurno della Terra, e di Filolao di Crotone, sul moto annuale, trovandosi quindi ad avere nobili antecedenti che ne supportano la veridicità [9]. Dall’altro lato, proprio queste dottrine sarebbero, secondo C., molto più compatibili con il dettato dei Padri della Chiesa di quanto non lo siano quelle aristotelico-tolemaiche [10]. Stabilendo inoltre una connessione diretta tra pitagorismo e insegnamento biblico grazie alla testimonianza ambrosiana, C. dà opera a una messa in discussione del rapporto tra aristotelismo, teologia e scienza, che egli stesso avverte come in realtà dannoso. In tale contesto, Pitagora assume quindi la funzione di garante della legittimità dell’indagine galileiana non solamente per quanto riguarda il punto di vista scientifico, ma anche quello teologico. Forzando ulteriormente la prospettiva, nell’Apologia C. arriva addirittura ad affermare che le numerose critiche alle dottrine pitagoriche presenti negli scritti aristotelici sarebbero di fatto da considerarsi un attacco di Aristotele all’insegnamento mosaico : a riprova di tali asserzioni, C. si rifà a Giovanni Pico della Mirandola, secondo il quale Aristotele avrebbe conosciuto gli scritti mosaici [11]. Per mezzo di Pitagora, la difesa compiuta da C. delle tesi galileiane cerca non solo di sostenere gli attacchi, ma anche di rintuzzarli. 3. L’interlocutore filosofico. — Anche nelle opere dedicate più specificamente all’esposizione del proprio pensiero, la presenza di Pitagora e delle dottrine pitagoriche è molto spesso legata ad argomenti di carattere astronomico, perciò sempre in stretta relazione con le posizioni copernicane e galileiane. L’analisi di C. prende però in considerazione anche talune concezioni relative ad altri contesti : di fatto C. instaura un vero e proprio dialogo con le dottrine pitagoriche, esprimendo, ove necessario, le proprie perplessità e le proprie critiche. Nel De sensu rerum et magia, C. discute infatti la psicologia pitagorica, forse l’elemento dal suo punto di vista più  





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problematico delle dottrine pitagoriche. Il concetto di metempsicosi non incontra certo il favore di C. [12], che ciò nonostante riconosce a Pitagora un merito indiscutibile : l’aver saputo cogliere la presenza di un principio di animazione e di sensibilità in tutta la natura. Secondo C., è a partire da questo che Filolao (e con lui Copernico) avrebbe sostenuto il movimento della Terra [13]. Inoltre, pur non avendo saputo riconoscere la differenza che separa l’anima dell’uomo da quella dei bruti, Pitagora è un sostenitore dell’immortalità di questa [14]. La figura di Pitagora è presente anche nelle opere più tarde, come quelle contenute nelle cosiddette raccolte parigine. In questi testi, nonostante sia ancora presente una particolare attenzione per la problematica cosmologica, attraverso differenti registri retorici e contesti argomentativi, C. attua un confronto diretto con le dottrine pitagoriche, sebbene lette in piena continuità con quelle copernicane e galileiane. Nelle Quaestiones physiologicae (pubblicate nel 1637, ma la cui stesura e rielaborazione è frutto di vari anni) dopo aver esposto le proprie dottrine in merito alla natura del cielo e della terra, C. le mette alla prova, prendendo in analisi una serie di proposizioni che vengono poste genericamente come frutto delle osservazioni copernicane e galileiane : il risultato di questo esame è di fatto positivo per la fisica campanelliana, che ne esce rafforzata [15] La legittimità di tale confronto, del termine di paragone e quindi dell’esito deriverebbe, secondo C., dal dettato pitagorico sottostante e che fungerebbe quindi da garanzia. La stessa strategia della continuità viene attuata anche a proposito del moto dei cieli : C. difende le posizioni pitagoriche sul moto della terra e sull’armonia prodotta dai cieli contro Aristotele, adducendo principalmente argomentazioni tratte proprio da Copernico. Prendendo posizione in merito alla controversia sulle comete inaugurata da Tycho Brahe, C. si fa però critico dei Pitagorici Ippocrate ed Eschilo, secondo i quali le comete sarebbero oggetti celesti che, a distanza di lunghi intervalli, discenderebbero nel cielo della Terra. Tale opinione viene criticata da C. sulla base dell’analisi della  





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luminosità delle comete : contrariamente ai pianeti, esse appaiono da subito alla massima luminosità, per poi diminuire progressivamente [16]. Tale approccio, che si potrebbe definire dialettico, è presente anche nella Metaphysica. C. chiama in causa i Pitagorici di nuovo in merito a problemi di astronomia e ancora una volta le loro dottrine sono trattate in continuità con il copernicanesimo. Nelle dottrine astronomiche pitagoriche vi sarebbe molto di vero, sia sulla composizione dei cieli, sia sul moto degli astri, più di quanto vi sarebbe in Aristotele [17]. Inoltre, le argomentazioni contro i Pitagorici addotte da Tolomeo vengono ritenute prive di validità, come mostrato proprio da Copernico per mezzo di ragioni prospettiche [18]. Nel momento in cui la prospettiva si sposta dall’ambito più strettamente astronomico a quello cosmologico, il punto di vista di C. si discosta da quello pitagorico, divenendone anzi critico. C. rifiuta infatti la concezione pitagorica secondo cui gli astri sarebbero in realtà sistemi aventi una composizione simile a quella terrestre : da tale posizione conseguirebbe che Dio avrebbe creato altri mondi soggetti agli stessi mali del nostro, il che andrebbe a detrimento della sua bontà [19]. Tale distacco diviene ancor più marcato nel momento in cui la discussione arriva a trattare l’ambito ontologico-metafisico. C. rimprovera ai Pitagorici di aver ricondotto tutta la realtà ad un principio oppositivo, e perciò stesso dualistico, determinantesi nelle dieci coppie di contrari composte da Finito/ Infinito, Dispari/Pari, Uno/Molti, Destro/ Sinistro, Maschio/Femmina, Quiete/Moto, Retto/Obliquo, Luce/Tenebre, Bene/Male, Quadrato/Rettangolo [20]. Tutte queste coppie sarebbero in ultima analisi i dieci generi di contrari derivanti da un’opposizione originaria tra Bene e Male. Secondo C., tale concezione sottenderebbe un errore di fondo : l’opposizione tra Bene e Male è infatti solo relativa, non assoluta. Gli enti sono buoni in sé, e ‘malvagi’ l’uno rispetto all’altro. Queste coppie di contrari appartengono inoltre a differenti contesti, spesso del tutto eterogenei : ad esempio, dove il Retto e l’Obliquo sono solamente di pertinenza della  







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figura, Finito e Infinito sono invece determinazioni che riguardano tutti gli enti [21]. Le dottrine pitagoriche sulla generazione dei corpi a partire dalla composizione di punti, linee, superfici e figure devono perciò essere intese come concernenti il modo in cui noi comprendiamo la realtà, e non il modo in cui essa ha origine ed è strutturata [22]. Tutto ciò trova un suo corrispettivo in ciò che C. afferma a proposito della concezione pitagorica del numero. Mentre i Pitagorici hanno correttamente attribuito il carattere di sostanza delle cose all’unità, essi hanno però errato nell’estendere questo carattere al numero che, secondo C., possiede unicamente un carattere accidentale [23]. A parziale giustificazione dei Pitagorici, C. sostiene che secondo Pitagora tale carattere sostanziale sarebbe stato proprio del numero trascendentale, del quale il numero aritmetico sarebbe una partecipazione [24]. L’ultima occorrenza rilevante di Pitagora nella Metaphysica è nella sezione del libro xvi dove vengono elencate le note che distinguono i veri profeti e i veri legislatori dagli ingannatori. C. sostiene che i legislatori che non sono guidati da Dio, ma dalla ragione naturale, non possano essere ingannatori, a meno che non ingannino se stessi, come nel caso di Licurgo. Vi sono però alcuni che fuggono dall’inganno dannoso, ma non da quello utile : è proprio il caso di Pitagora, che finse di esser stato a contatto con gli dèi per due anni, e Numa Pompilio (che come si è detto C. ritiene proprio allievo di Pitagora), il quale sostenne di aver ricevuto le leggi a Nemi dalla ninfa [25]. La presenza di quest’ultimo aspetto, quello di Pitagora legislatore, che ricorre assai di frequente anche in molte delle opere di C., è senza dubbio emblematica. La Metaphysica è infatti uno degli ultimi testi pubblicati da C., ma le prime notizie riguardanti la sua redazione risalgono agli esordi della sua produzione : come la preoccupazione di C. per tale opera ha attraversato la maggior parte della sua vita, così la figura di Pitagora ne ha attraversato la riflessione [26].  



Note. [1] Apologia 2001, 138. – [2] Firpo, Bibliografia, 57. – [3] Phil. sens., 31. – [4] G. Barrio, De anti-

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quitate et situ Calabriae, ex typographia S. Michae­ lis ad Ripam, Romae, 1571. – [5] Phil. sens., 30-31. – [6] Ivi, 63. – [7] Lettere 2010, 24-35 e 75-91. – [8] Apologia 2001, 190 e sgg. – [9] Ibidem. – [10] Ivi, 122. – [11] Ivi, 190 sgg. – [12] Senso delle cose 2007, 84. – [13] Ivi, 133. – [14] Ivi, 103 e 89. – [15] Quaestiones, q. x, art. iv, 100-104 ; cfr. anche q. xi, art. i, 105-121. – [16] Ivi, q. xxiv, art. ii. – [17] Metaphysica, xi, xiii, i, 61a-62b. – [18] Ivi, xv, xv, iii, 65a-65b. – [19] Quaestiones, q. x, art. iv, 104. – [20] Metaphysica, ii, iii, vi, 112b-113a. – [21] Ibidem. – [22] Ivi, ii, v, i, 201a-202b. – [23] Ivi, vii, i, v, 115a-116b. – [24] Ivi, vii, i, v, 115b. – [25] Ivi, xvi, vii, iv, 215a-216b. – [26] Ancora in tarda età, C. ritorna sulla figura di Pitagora : cfr. la lettera del novembre 1634 a Urbano VIII nonché la dedicatoria della Metaphysica a Claude Boullion dell’agosto 1638 (Lettere 2010, 353-358 e 516-520).  



Bibliografia. G. Barrio, De antiquitate et situ Calabriae, ex typographia S. Michaelis ad Ripam, Romae, 1571 ; G. Ernst, Religione, ragione e natura. Ricerche su T. C. e il tardo Rinascimento, Milano, 1991 ; Eadem, Il carcere, il politico, il profeta. Saggi su T. C., Pisa-Roma, 2002 ; Eadem, T. C. Il libro e il corpo della natura, Roma-Bari, 2002 ; C.L. JoostGaugier, Pythagoras and Renaissance Europe. Finding Heaven, Cambridge-New York, 2009.  







Manlio Perugini Scolopi (qui de Scholis Piis attitulantur) 1. Cenni storici. — Nei primi giorni di primavera del 1600 in un edificio vicino a Campo de’ Fiori, dove circa un mese prima era stato arso vivo Giordano Bruno, Giuseppe Calasanzio sistemava i banchi della prima scuola popolare completamente gratuita. Avviate nel 1597 nella chiesa trasteverina di Santa Dorotea e da allora costrette a continui spostamenti, le Scuole Pie avrebbero trovato una sede definitiva nel 1612 presso la Chiesa di San Pantaleo. Secondo la Formula Vitae calasanziana, accettata e formalizzata dal Breve pontificio del 1617, tutti gli « operaii » di questa lodevole impresa volta a istruire i poveri avrebbero lavorato « gratis et nullo stipendio ». In quell’anno le Scuole possedevano già due case, quella di San Pantaleo e una di recentissima istituzione a Frascati, ma molte altre furono presto inaugurate anche  







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oltre i confini territoriali imposti dal Breve, che proibiva alla congregazione di espandersi « ultra 20 ab Urbe miliaria » [1]. Nonostante le restrizioni pontificie, la diffusione delle Scuole raggiunse rapidamente l’Umbria, la Liguria, il Modenese, quindi Napoli (1626) e Firenze (1630), e nel 1631 la Moravia. A partire dal 1630, dopo lunghe e intricate difficoltà burocratiche, Calasanzio riuscì ad avviare corsi di studi superiori. A Firenze alcuni giovani Scolopi divennero seguaci di Galileo e nel 1638 fonderanno la Scuola superiore di matematica, diretta dal piarista Clemente Settimi e appoggiata dalla corte granducale. Nonostante il clima di censura e di repressione intellettuale creatosi all’indomani della condanna del 1633, gli Scolopi fiorentini rimarranno fedeli amici dello scienziato e continueranno a frequentare la villa di Arcetri anche quando, nel 1638, egli perderà irreparabilmente la vista. In quel periodo, nell’« infortunio dell’esser cieco », sarà specialmente il padre Settimi ad assisterlo « per molte ore » come lettore, segretario ed amico [2]. 2. C. e le Scuole Pie. — Se lo studio della matematica fu così avanzato lo stesso può dirsi per gli studi filosofici, almeno in riferimento a talune collaborazioni. Nell’ottobre del 1631 giungeva nella casa di Santa Maria Maddalena, a Frascati, T. C., al quale Calasanzio affidava undici dei suoi chierici perché ricevessero lezioni di filosofia. Una scelta coraggiosa, quella del padre generale, che così si legava a un personaggio scomodo e turbolento come il frate di Stilo, reduce da una prigionia trentennale con la duplice accusa di eresia e cospirazione contro la Spagna. Secondo Romano Amerio, il C. sarebbe giunto agli Scolopi proprio attraverso Galileo o i circoli degli Scolopi galileiani [3]. Tuttavia, vi sono buone ragioni per ritenere che egli abbia conosciuto le Scuole Pie diversi anni prima che queste entrassero in contatto con lo scienziato. È probabile che C. abbia avuto contatti diretti con persone vicine al Calasanzio già durante la carcerazione : nel 1624 ricorda Cypriano Martines, un chierico spagnolo residente « ad Scholas Pias », definito come un « amicus » stimato per onestà ed erudizione [4]. Si incontra un primo rife 





















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rimento alle Scuole Pie nel De dictis Christi, il l. xxiii della Theologia, scritto tra il 1618 e il 1621, dove C. presenta e contesta gli argomenti dei politici contro gli ordini religiosi, rilevando che « nell’arco di cinquant’anni sono sorte innumerevoli congregazioni, come i Gesuiti, i Paolini, i Geronimiti, i Somaschi, Crucillarii […] ; come anche quelli chiamati delle Scuole Pie (qui de Scholis Piis attitulantur), i Cappuccini e l’ordine dei Minori » [5]. Questo apparentemente distratto accenno a « quelli delle Scuole Pie » testimonia come già durante la detenzione C. disponesse di informazioni piuttosto puntuali in merito all’opera calasanziana. Significativo il fatto stesso che nella discussione si faccia posto alle recentissime Scuole Pie e non ad altre istituzioni allora più note e consolidate come i Teatini, i Fatebenefratelli o i Caracciolini di Napoli. In secondo luogo, gli Scolopi sono ricordati significativamente prima e accanto ai Cappuccini e ai Minori, vale a dire insieme alla famiglia francescana, al cui carisma il Calasanzio si era ispirato. Inoltre il contesto di questa citazione all’interno della questione pro/contra le istituzioni religiose mostra che C. conosceva bene gli intralci e le opposizioni subite dalla congregazione. 3. Lezioni campanelliane. — Un aspetto non ancora approfondito sia negli studi campanelliani che in quelli scolopici riguarda la natura dei rapporti fra C. e le Scuole Pie. Piuttosto oscuro rimane, ad esempio, il contenuto dell’insegnamento campanelliano all’interno dell’Ordine. L’interpretazione delle fonti induce a ritenere che l’insegnamento campanelliano abbia iniziato quegli undici chierici scolopi (alcuni dei quali, non a caso, successivamente annoverati fra i galileiani) alla nuova filosofia della natura di cui Galileo rappresentava per C. un esponente importante. Lo scienziato, almeno a partire dal 1629, giocò un ruolo fondamentale nella storia dell’Ordine : ne segnò l’indirizzo scientifico e ne compromise inevitabilmente il destino. Nel 1641 lo scolopio Mario Sozzi, probabilmente un informatore al servizio dei Gesuiti e del Sant’Uffizio, presentava all’Inquisizione una dura denuncia a carico dei confratelli Francesco Michelini, Cle 











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mente Settimi, Ambrogio Ambrogi, Angelo Morelli e Carlo Conti, citati quali seguaci di Galileo. La delazione conteneva un elenco delle opinioni e delle dottrine sostenute da ciascuno di loro, affermando che « tutti li sopradetti tengono che non ci sia né più vera, né più certa scienza di questa di Galileo che insegna per via mattematica, chiamandola nova filosofia, e vero modo di filosofare ; e più volte hanno detto […] che questo è il vero modo di conoscere Dio ». Michelini addirittura chiamava « il Sig. Galileo oraculo » [6]. La testimonianza del Sozzi lascia intravedere il profilo filosofico del pensiero degli Scolopi galileiani, verosimilmente influenzato dalle dottrine campanelliane. Lo stesso C., nell’ Apologia pro Galileo – che, pubblicata in Germania nel 1622, era stata l’unica voce che si era levata in difesa dello scienziato – aveva riconosciuto nella ratio philosophandi galileiana il « vero modo di filosofare », volto a una lettura diretta della natura e opposto al libresco modus aristotelico, basato sull’opinione e il principio di autorità. L’ipotesi di un’influenza campanelliana sul pensiero di Michelini e degli altri è rafforzata dal fatto che C. godeva di grande stima da parte dei padri scolopi e li frequentò finché non ebbe lasciato l’Italia. Significativa è una lettera del 12 ottobre 1634 (solo nove giorni dopo C. partirà per Parigi) in cui padre Michelini invia a Galilei i saluti di C., ricordato familiarmente insieme a Castelli, Borelli e Magiotti. Nella primavera del 1630, a Roma, C. ebbe modo di rivedere Galilei dopo molti anni dal loro primo incontro giovanile a Padova, e nel periodo successivo si interessò da vicino al suo caso, come è testimoniato dalle sei lettere scritte allo scienziato fra l’aprile 1631 e l’ottobre 1632. Sono gli stessi anni in cui il frate tiene lezione ai giovani piaristi di Santa Maria Maddalena. In considerazione del suo personale coinvolgimento nell’affaire Galilei appare verosimile ch’egli ne abbia parlato ai suoi allievi a Frascati. In un passo della lettera a Galileo del 5 agosto 1632, riferendosi al Dialogo sopra i massimi sistemi, C. scrive : « Io [lo] difendo contra tutti […] : ma i miei discepoli sanno il misterio. […] Queste novità di verità antiche di novi mondi, nove stelle,  



















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novi sistemi, nove nazioni etc., son principio di secol nuovo » [7]. Ebbene, fra questi suoi discepoli vi erano proprio quelli della scuola piarista di Frascati. 4. L’Apologia pro Scholis Piis. — Frutto dei rapporti con le Scuole Pie è il campanelliano Liber Apologeticus contra impugnantes Institutum Scholarum Piarum, citato nel Syntagma come Apologia pro Scholis Piis [8] e collocabile fra la fine del 1631 e l’inizio del 1632. L’opuscolo si propone di difendere l’opera piarista dalle accuse e dai ‘mormorii’ dei suoi oppositori, perorandone la causa e i principi fondamentali, primo fra tutti il diritto naturale e sacro all’istruzione. Non fu mai pubblicato, forse circolò in forma di manoscritto fra le sedi scolopiche e cadde nel silenzio. Creduto perduto, fu rinvenuto nell’Archivio Provinciale del Collegio degli Scolopi di Carcare da Leodegario Picanyol, che nel 1932 lo pubblicò per la prima volta nelle « Ephemerides Calasanctianae » [9]. Dal punto di vista strutturale, l’Apologia si articola in una Prefazione e due capitoli, nei quali vengono enunciate le disputationes contro i politici, « vera scientia veroque zelo vacuos » e quelle contro i religiosi, « zelo sine scientia percitos », entrambi avversi alle Scuole Pie. L’impianto formale riproduce la struttura scolastica della quaestio, utilizzata da C. in molti altri testi, fra i quali la stessa Apologia pro Galileo, e che si articola secondo le tradizionali suddivisioni : la titolazione (Ad politicos, Ad religiosos), l’esposizione della tesi da confutare, il Sed contra, la Responsio e, in ultimo, la confutazione puntuale delle obiezioni. 5. La persecuzione del profeta. — « Gli iniziatori di opere di grande utilità, divinamente ispirati ad agire per il bene dei mortali, all’inizio non furono mai accolti volentieri dal mondo, anzi spesso con senso di sdegno e di ripulsa » : l’esordio del Liber Apologeticus presenta immediatamente il contesto entro il quale C. vuole inserire l’attività delle Scuole Pie ; è il contesto dei profeti, di coloro che, sollecitati da Dio a compiere grandi imprese e a guardare oltre lo status vigente, patiscono proprio per questo persecuzioni dal mondo. Tutta la vicenda campanelliana è mossa da  























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una forte sensibilità e progettualità profetica. Non a caso, nella prefazione è citato un trattato latino che non ci è pervenuto, scritto nei primi anni di prigionia, che, suddiviso in due parti, esaminava rispettivamente l’ineluttabilità del supplizio dei profeti e la certezza della loro rinascita « gloria cumulatos », dopo l’apparente sconfitta [10]. Quella del profeta è dunque la storia di un paradosso, il paradosso di Cristo in un mondo che « sempre crucifige i suoi benefattori ; ma poi resuscitano al terzo giorno, o ’l terzo secolo » [11]. È una storia che C. conosce di persona, non solo attraverso le storie altrui, ma dalle proprie tribolazioni, alle quali fuggevolmente fa riferimento lungo l’Apologia, associando alla causa calasanziana la rivendicazione implicita, ma sempre presente, della propria innocenza. 6. Ad politicos. — Se l’azione del profeta è sempre avvertita come sovversiva e minacciosa rispetto all’assetto costituito, la diffusione delle Scuole Pie appare destabilizzante per diversi ordini di ragioni. Innanzi tutto, secondo l’accusa politica, il loro moltiplicarsi penalizza e depaupera la società, che si trova a doverli mantenere ; in secondo luogo, estendendo l’istruzione ai più poveri, normalmente destinati alle attività più umili, determina un vuoto nelle categorie professionali più infime, prospettando un sovvertimento gerarchico in cui nobili e politici saranno costretti a dedicarsi ai lavori agricoli o artigianali, trascurando l’amministrazione della cosa pubblica. L’opera calasanziana è inoltre del tutto inutile, giacché all’insegnamento attendono già i padri gesui­ti e molti maestri laici. La risposta di C. a queste imputazioni si basa su dimostrazioni teologiche e argomenti di natura filosofico-politica. È innanzitutto voluntas Dei che le scienze siano impartite a tutto il popolo e, conseguentemente, è Dio stesso a benedire l’iniziativa piarista. Ma il sapere fortifica il singolo non solo come soggetto spirituale-individuale, ma anche come soggetto sociale, nel potenziamento della sua attività. L’opera calasanziana, inoltre, non costituisce un corpo economicamente parassitario rispetto alla cosa pubblica, un’accusa semmai valida per  











la Compagnia di Gesù, considerata vera dilapidatrice del pubblico erario : gli Scolopi, infatti, non posseggono beni e non mendicano che pane e acqua. Le Scuole Pie, dunque, sottraggono poco e molto danno allo Stato in termini di servizio. La loro apertura universale dell’insegnamento, lungi dall’essere rovinosa per l’ordine sociale, consegna ai vertici della politica, secondo principi rigorosamente meritocratici, i migliori per natura e non per casata. Del resto Cristo – ricorda C. – scelse i suoi apostoli fra umili pescatori. Andando oltre la retorica verbosa dei politicanti C. ne smaschera la logica meschina di fondo, mostrando come la classe politica nasconda, dietro l’articolata argomentazione in difesa del bene sociale, nient’altro che la paura di essere scalzata e privata dei suoi privilegi. 7. Ad religiosos. — Se è vero che « fra ogni dodici ci è un Giuda » [12], il Liber apologeticus non manca di rivolgersi anche ad alcuni religiosi, i quali non protestano apertamente come i politici ma, peggio, « murmurant ». Questo verbo, più volte reiterato nella quaestio, esprime efficacemente la natura subdola, meschina e perciò maggiormente temibile delle invidie e delle inimicizie clericali. I religiosi mormorano contro le Scuole Pie accusandole di essere superflue, sia sul piano degli studi inferiori sia di quelli superiori ai quali gli Scolopi iniziavano a dedicarsi proprio in quegli anni, ponendosi in competizione pericolosa con la Compagnia di Gesù. Altri ancora insinuavano che, oltre al faticoso servigio dell’insegnamento, gli Scolopi esercitano tutti gli altri ministeri sacerdotali, caricandosi di un cumulo di uffici che sarebbe necessario interdire. Ma anche questa volta le ragioni ufficiali nascondono, secondo C., il desiderio inconfessato di tenere l’ordine scolopico in una condizione di minorità politico-ecclesiastica. La responsio ad religiosos è senza dubbio la pagina più filosofica del Liber, quella in cui è sviscerato il problema teologico e antropologico che sottende all’apologia. Padroneggiando con abilità le fonti scritturali, C. dichiara « abominandi » coloro che impediscono o tacciano di inutilità sociale lo studio delle scienze e, in particolar  













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modo, della teologia, prima sapientia e luce di ogni sapere, bagaglio necessario per non cadere negli inganni dell’erudizione sofistica. Non è un caso se gli eretici spendono più tempo « in grammaticando, rhetoricando quam in philosophando » [13], presentando al popolo argomenti attraenti quanto vuoti, come un re iniquo vestito di oro e di porpora. La logica peripatetica ha trasformato il « genus humanum […] in [genus] pecorinum », istituendo una gerarchia umano-sociale fondata su un presunto principio di superiorità ontologica di alcuni rispetto ad altri. Nemico di un tale preconcetto che interdice la speculazione filosofica e la felicità stessa alle categorie più umili (come se nel genere umano vi fossero « plures species », delle quali « alia capax, alia incapax »), C. proclama il diritto naturale e divino di ogni uomo al sapere e alla ricerca intellettuale, oltre che il dovere sociale e religioso di garantirlo [14].  











Note. [1] Bullarium Religionis Scholarum Piarum, Madrid, 1899, Bulla iv, 18-21. – [2] G. Galilei, Le opere, ed. naz. a cura di A. Favaro, Firenze, 18901907, xvii, 11. – [3] Cfr. R. Amerio, Di un punto meno noto del periodo romano del C., « Rivista di filosofia neo-scolastica », xxiv, 1932, 4, 358, 360. – [4] Lettere 2010, 284. Per i primi contatti di C. con Calasanzio e le Scuole Pie rinvio a M. Erto, Introduzione a T. C., Libro apologetico contro gli avversari delle Scuole Pie. Liber apologeticus contra impugnantes Institutum Scholarum Piarum, « Bruniana & Campanelliana », xx, 2015, 1, 255-278. – [5] Theo­ logia, xxiii, 172. – [6] L. Picanyol, Le Scuole Pie e Galileo Galilei, Roma, 1942, 141-143. – [7] Lettere 2010, 340. – [8] Syntagma 2007, 62. – [9] Per le successive edizioni del testo rinvio alla Nota al testo della cit. ed. di M. Erto, 25-28. – [10] Il riferimento è al Cur sapientes et prophetae, spesso citato nelle lettere e nel Sintagma, 64, con un significativo titolo-sommario. – [11] Lettere 2010, 510. – [12] Ivi, 295. – [13] Apologeticus, ii, 313. – [14] Ivi, 312.  







Bibliografia. Roma, Archivio Generale Storico delle Scuole Pie, Ms. Reg. Cal. 11C (ixe) ; Constitutiones Congregationis Pauperum Matris Dei Scholarum Piarum, Roma, 1622 ; G. Giovannozzi, Scolopi galileiani, Firenze, 1917 ; P. Vannucci, Il C. e il Calasanzio, « La cultura », xii, 1933, iv, 923-932 ; L. Picanyol, Le Scuole Pie e Galileo Galilei, Roma, 1942 ; Idem (a cura di), Epistolario di San Giusep 









pe Calasanzio, Roma, 1951-1956 ; F. Giordano, Il Calasanzio e l’origine della scuola popolare, Genova, 1960 ; O. Tosti, Giovan Francesco Fiammelli e l’introduzione degli Scolopi in Firenze, « Ricerche », v, 1985, 1, 3-67 ; G. Sántha, L’opera delle Scuole Pie e le cause della loro riduzione sotto Innocenzo X, Roma, 1989 ; M.-P. Lerner, Le science galiléeenne selon T. C., « Bruniana & Campanelliana », i, 1995, 121-156 ; G. Cianfrocca, Una testimonianza del C. sulle Scuole Pie, « Archivum Scholarum Piarum », xx, 1996, 1-13 ; G. Ernst, « L’aurea età felice ». Profezia, natura e politica in T. C., in T. C. e l’attesa del secolo aureo (iii Giornata Luigi Firpo – 1° marzo 1996), Firenze, 1998, 61-88 ; Eadem, T. C., RomaBari, 2002.  





























Stella Carella







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Spagna (Hispania) Il posto assegnato alla monarchia spagnola nell’economia globale del progetto politico di C. risulta centrale, e anche il noto ripensamento degli anni successivi al 1632, la cosiddetta svolta filo-francese, rappresenta non tanto un’inspiegabile ed opportunistica palinodia quanto piuttosto il prodotto logico e coerente di una visione politica complessiva che poggia su pilastri concettuali chiaramente identificabili : l’unità cristiana, il concetto di monarchia universale, il rapporto tra politica e natura [1]. 1. Unità e comunità : la «monarchia religiosa» e l’idea di Impero universale. — Nella complessa costruzione del pensiero politico di C. il punto di riferimento costante, il metro di giudizio ineludibile, è senz’altro quello di un’unità cristiana che si estrinseca storicamente in una Monarchia christianorum (titolo di uno scritto giovanile andato purtroppo perduto) guidata dal pontefice romano. L’idea dell’Unum ovile et unus pastor rigetta l’ipotesi di un deprecabile accentramento del potere spirituale e del potere politico nelle mani di un unico capo. Nessun richiamo positivo, dunque, a figure storiche come quelle di Cesare, Ciro e Alessandro Magno ma, semmai, a Carlo Magno e Costantino. C. accorda al pontefice la superiorità rispetto agli altri principi temporali, che sono chiamati a  



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collaborare con la Chiesa e con il suo capo supremo per il raggiungimento del fine ultimo, l’unità dei cristiani e il governo ottimo sotto la guida del vicario di Cristo. Le divisioni interne devono essere per tale ragione abbandonate ed evitate, e l’eresia religiosa combattuta con tutti i mezzi possibili. Nel Dialogo politico contro Luterani, Calvinisti e altri eretici (1595) C. spiega le ragioni per cui le dottrine protestanti siano da considerare come esiziali per il corretto funzionamento e la conservazione degli organismi politici. Il più o meno rigido predestinazionismo di luterani, calvinisti e altri gruppi religiosi eterodossi, negando il valore del libero arbitrio svaluta l’importanza dell’operare dell’uomo nel mondo e, dunque, anche dei meriti e dei demeriti degli individui. Se si afferma che gli uomini nascono già giudicati e non da giudicare sulla base del loro comportamento terreno, i principi avranno la tendenza a non agire secondo giustizia ma ad imitare Dio nel suo arbitrio, trasformandosi in tiranni ; i popoli, d’altra parte, si renderanno con ogni probabilità sediziosi, perché constatata l’irrilevanza del proprio agire ai fini della salvezza gli individui saranno portati a non porre freni al proprio comportamento. Da queste basi concettuali si dipana un discorso politico, che lo Stilese sviluppa in diverse opere, ad alto contenuto utopico e profetico [2] e indirizzato tanto ai principi italiani quanto al sovrano pontefice e ai re di Spagna e Francia. Nei Discorsi ai principi d’Italia le idee guida dell’unità e della comunità si esprimono sotto la forma dell’esortazione rivolta ai potentati italiani a non « contraddire alla Monarchia di Spagna, ma favorirla » e a stringere alleanza politica con il pontefice, padre comune, garante della giustizia e della pace e, soprattutto, difensore dagli attacchi esterni dei nemici della fede. Nel Del governo della Chiesa (poi confluito nei Discorsi universali del governo ecclesiastico) C. si rivolge direttamente al pontefice per indicargli « con quali mezzi non in conflitto con le opposizioni dei principi di tutto il mondo […] con le sole armi ecclesiastiche possa costituire l’unico ovile sotto l’unico pastore » [3]. Nel De Monarchia Messiae (1606), opera composta  









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contro Venezia nei momenti iniziali dell’Interdetto, l’ideale teocratico del filosofo calabrese sarebbe stato compiutamente enunciato, in polemica con i teologi romani, che con il Bellarmino proponevano soluzioni giudicate da C. troppo cedevoli agli interessi degli stati (potestas indirecta in temporalibus) e con un ampio ricorso all’analogia e alla metafora organicistica come strumenti analitici di un sistema di «reggimento» universale, sotto la guida del vicario di Cristo, che fosse la perfetta sintesi tra potere spirituale e potere temporale. Se la monarchia universale deve essere intesa nel senso di comando unico nelle mani del capo spirituale, il pontefice, su tutta la Repubblica cristiana, C. procede allora a identificare la potenza politica sulla quale sarebbe dovuta ricadere la responsabilità di farsi braccio armato di tale unificazione. Superando la concezione tradizionale, che lo avrebbe irrimediabilmente portato verso il Sacro Romano Impero, è la Spagna degli Asburgo ad essere indicata per tale funzione, una monarchia che avrebbe dovuto recuperare pienamente la propria identità imperiale, accettare di sottomettersi alla tutela e all’autorità della Chiesa di Roma e operare al fine di garantire la pace, la giustizia, il benessere e l’integrità della fede cristiana in tutto il globo. La monarchia spagnola e non l’Impero tedesco avrebbe dovuto assumersi tale compito storico, idea che era del resto perfettamente in accordo con un pensiero politico dell’epoca che ben aveva delineato l’immagine della necessaria preminenza della Spagna su tutte le altre nazioni della Cristianità proprio in virtù della purezza della fede, della prontezza con la quale i focolai eterodossi erano stati debellati, ma soprattutto del rapporto simbiotico, storicamente determinato, instauratosi con la Chiesa di Roma (si vedano, tra gli altri, i lavori di Virgilio Malvezzi, Juan de Salazar, Juan de la Puente, Gregorio López Madera, Camillo Borrell) [4]. L’incipit del Proemio della Monarchia di Spagna non lascia spazio a dubbi : « Camminando da levante a ponente, la monarchia universale per mano d’Assirii, Medi, Persiani, Greci e Romani, i quali furono divisi in tre teste dell’aquila imperiale,  



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venne finalmente in mano de Spagnoli, ai quali, dopo lunga servitù e divisione, il fato divino poi unitamente, con più meraviglia che a predecessori, l’ha conceduta, come per il circolo delle cose umane lor toccava » [5]. 2. La Monarchia di Spagna nel contesto degli scritti filo-spagnoli (1593-1608). — Per comprendere a pieno il significato del ruolo attribuito alla monarchia spagnola nel progetto politico globale di C. non si può limitare l’analisi alla pur fondamentale Monarchia di Spagna. In una lettera al cardinale Francesco Barberini del 4 dicembre 1634 è C. stesso, appena giunto a Parigi e dunque in un momento di disgrazia del frate domenicano agli occhi del partito spagnolo, a fare l’elenco dei «crediti» acquisiti nei confronti della monarchia asburgica : « […] che non pensi che sciocchezza mia mi fe’ tanto odioso a Spagnoli, perché ho scritto per loro la Monarchia di Spagna, il Panegirico à príncipi d’Italia per quella, gli Articoli prophetali : e l’hanno e si serveno di questi in Ispagna » [6]. Alle opere menzionate da C. se ne possono certamente aggiungere altre, come il trattatello Sui diritti del Re Cattolico sul Mondo Nuovo (posto in appendice alla Monarchia del Messia), e gli Arbitrii sopra l’aumento delle entrate nel Regno di Napoli. Tutti questi scritti esprimono un corpus coeso di concezioni e di argomentazioni politiche che vanno tutte nella stessa direzione : celebrare la grandezza della monarchia spagnola, convincere i sovrani asburgici a porsi alla testa del movimento di unificazione del mondo sotto il comando del pontefice e consigliare gli altri principi cattolici di sottomettersi a tale disegno. La composizione di queste opere è tutta racchiusa nel periodo 1593-1608, anni problematici e convulsi per C., che vanno dal soggiorno padovano alla celebre congiura calabrese fino ai primi anni della sua prigionia napoletana, anni comunque particolarmente prolifici dal punto di vista letterario. La tensione utopica è forte nell’insistito vagheggiamento di un’unificazione del mondo conosciuto sotto l’egida della Chiesa cattolica grazie alla forza economica, politica e militare della Spagna degli Asburgo. È, in ultima analisi, la trasposizione nella realtà politica del tardo Cinquecento  











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del sogno della Renovatio Ecclesiae a muovere la penna del filosofo calabrese : un cristianesimo riportato alle sue origini e una società che potrà finalmente vivere in pace, fraternità e giustizia. Il re di Spagna ha il compito di unificare il mondo per consegnarlo nelle mani del Vicario di Cristo ; per fare ciò la monarchia spagnola deve difendere la Chiesa dagli attacchi dei nemici, deve liberarla dalla minaccia costante degli infedeli (turchi ed eretici) (« […] secondo il fato non ponno [gli spagnoli] aver dominio, se non come liberatori della Chiesa dalle babiloniche mani, cioè da Turchi ed eretici, e sotto tali auspicii vincendo i Mori, furo da Dio remunerati di tanto imperio » [7]) ma anche porsi al suo servizio, abbandonando malsane tentazioni di autonomia o, peggio, di fratture scismatiche. La missione storica di porsi al servizio del papa spetta ora, e senza alcun dubbio, alla Spagna. La Francia di Carlo Magno ha assunto in passato tale munus, ma ora è una potenza divisa e infestata dall’eresia ; i re di Spagna, invece, hanno ricevuto dai pontefici il titolo di re cattolici e hanno combattuto vittoriosamente contro i mori. Chi si mette al servizio della Chiesa è destinato a dominare il mondo, perché così facendo sottomette, secondo un principio che C. concepisce in opposizione a Machiavelli, la prudenza dell’arbitrio (causa seconda) alle cause superiori, al fato, che è Dio (causa prima). Anche dal punto di vista della «causa seconda», ossia la prudenza, l’arbitrio umano, ben diversa dall’astuzia (« la prudenza è diversa dall’astuzia, che alcuni chiamano ragion di stato […] la prudenza accorda con la causa prima, che è Dio […] l’astuzia mira al gusto solo e al proprio cervello […]. La prudenza è magnanima e guarda alle cose per verità grandi ; l’astuzia è pusillanime e […] declina a superbia » [8]), la monarchia universale è necessariamente destinata ad instaurarsi sotto il comando del pontefice romano, giacché la religione è sempre superiore alla politica e ai prìncipi temporali (« contra la religione non vagliono armi, se non un’altra religione migliore senza armi, o peggiore, ma che gusti al volgo e sia più armata » [9]). Nessun principe potrà mai  



















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aspirare a grandezza superiore a quella della Chiesa di Roma, e infatti lo stesso Carlo Magno, per diventare signore del mondo, si proclamò difensore della Chiesa. Allo stesso modo deve operare il re di Spagna, in quanto l’unica alternativa sarebbe farsi « religione nova, il che gli è contraddetto da Dio e dalla ragione politica » [10]. Bisogna allora inaugurare una stagione nuova dei rapporti tra la monarchia spagnola e il papato, abbandonando definitivamente controversie, tensioni e inimicizie. Per far ciò il re cattolico deve porsi alla guida delle nazioni cristiane per sottrarre terre ai turchi e agli eretici, facendo emettere scomuniche ai danni di chi non volesse collaborare e « servirsi de buoni predicatori che mettessero inanti questo negozio » [11]. A questo punto il pontefice metterebbe senz’altro da parte i sospetti e cesserebbe di opporsi al re di Spagna, un’opposizione causata dal timore di un’alleanza antiromana dei principi secolari che metterebbe a rischio l’autonomia della Chiesa ; è per tale ragione che il papa « desidera che stiano [i regni] divisi, acciò che, mancando o per apostasia o per inimicizia, l’uno sia aiutato dall’altro ». Facendo, invece, il re di Spagna una tale dichiarazione e inviando vescovi e cardinali ai governi di Fiandra e del Nuovo Mondo, « levarà la suspicione al papa, e le cose riusciranno a suo modo » [12]. Al Modo d’usar con gli ecclesiastici è del resto dedicato l’intero capitolo vii della Monarchia di Spagna, in cui C. consiglia alla Spagna di servirsi del clero per governare le regioni più difficili, « perché i popoli fieri più verranno alli costumi loro che a quelli della severità spagnola », anche se avverte che « deve tener però sempre capitani a guerra subordinati a quelli » [13]. Il cattolicesimo romano appare qui, sempre in polemica con Machiavelli e con i teorici della ragion di Stato, in tutto il suo significato di miglior cemento sociale possibile, di «segreto» dell’ubbidienza politica e della stabilità sociale, di strumento ottimo nelle mani del monarca per la costituzione dello stato e la sua conservazione, in ultima analisi di superiore criterio a cui i principi devono obbligatoriamente piegarsi (con innegabili vantaggi).  

























Nel capitolo viii della Monarchia di Spagna C. illustra i fattori, tutti legati alla prudenza e all’opportunità (e dunque alle cause seconde), da cui dipende il mantenimento e l’accrescimento della potenza spagnola. Essi sono 1) la virtù del re ; 2) la bontà delle leggi opportunamente fatte ; 3) la sapienza del consiglio ; 4) la giustizia degli ufficiali ; 5) l’obbedienza dei baroni ; 6) l’abbondanza e la disciplina di soldati e capitani ; 7) la sicurezza del tesoro ; 8) l’unione dei propri regni ; 9) la discordia dei nemici ; 10) l’amore dei popoli verso il re e tra loro e i buoni predicatori favorevoli al dominio. C. insiste molto, fino al punto di diventare uno dei temi principali del trattato, se non il principale in assoluto, sul concetto di unità. I termini «unità», «unione», «concordia», «armonia», «pace» puntellano l’analisi svolta dal filosofo calabrese sui caratteri fondamentali dell’associazione politica e, specularmente, sui compiti che ricadono su chi detiene la responsabilità dell’azione di governo. Il corpo politico è paragonato ad un organismo vivente e pertanto il principe deve essere in grado di favorire l’efficace collegamento tra le varie membra attraverso delle tecniche unitive. L’unione, fondamento della stabilità del corpo politico e strumento di dominio su territori vasti ed eterogenei, è di tre tipi : l’unione degli animi, l’unione dei corpi, l’unione delle fortune, ossia dei beni. L’unione degli animi è « fatta dalla religione, e questa è la più forte, perché unisce nazioni diversissime in opinione […]. Così il Papa domina in Europa, Asia, Africa e America a tutti Cristiani con questo vincolo, e l’imperatore germanico non può dominare Germania, unitissima d’armi, di corpi, riti, abiti e costumi, perché li manca questa prima unità, e vi sono tante opinioni quante teste » [14]. L’unione dei corpi riguarda sia la disciplina militare, un campo in cui i regni cristiani dovrebbero apprendere qualcosa dall’Impero Ottomano (« in questo modo il Turco domina a Macomettani, Cristiani ed Ebrei nel suo stato, benché diversi d’opinione »), sia le politiche matrimoniali, che dovrebbero mirare a «spagnolizzare» le popolazioni dei territori sottomessi, al fine di temperare i principali difetti della costituzio 



























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ne fisica e del temperamento iberici. L’unione delle fortune ha come principale obiettivo l’accrescimento del benessere economico, dei traffici commerciali e della navigazione, strumento privilegiato di comunicazione tra le diverse – e lontane tra loro – membra. Da questo punto di vista C. non risparmia critiche – nella Monarchia di Spagna ma anche nei successivi Arbitri sopra l’aumento delle entrate del regno – alla politica economica e finanziaria della monarchia spagnola. Spese eccessive, inutili sprechi, incapacità di trattenere in Spagna la moneta di pregio e i metalli preziosi provenienti dal Nuovo Mondo, lento declino dell’artigianato e dell’agricoltura a tutto vantaggio di categorie sociali parassitarie, e una criminale speculazione sul commercio del grano, acquistato da usurai e commercianti e rivenduto al triplo del suo prezzo, « puzzolente o mischiato con altro grano, e fanno venire [i mercanti], oltre la fame, pure la pestilenza » [15]. Dopo aver passato in rassegna i fattori grazie ai quali la monarchia spagnola avrebbe potuto acquisire il dominio sull’intero globo a vantaggio della monarchia universale del pontefice C. passa ad occuparsi delle sue diverse parti e dei rapporti che il re cattolico avrebbe dovuto intrattenere con le nazioni del mondo : l’Italia, la Germania, la Francia, l’Inghilterra, la Polonia, Moscovia e Transilvania, le Fiandre, l’Africa, la Persia e la Cina, l’Impero Ottomano, il Nuovo Mondo. Sono in particolare le affermazioni relative alla ribellione dei Paesi Bassi, contenenti spregiudicati consigli politici che arrivavano fino all’indicazione della necessità di eliminare fisicamente Maurizio di Nassau, ad aver scatenato le accuse di machiavellismo ipocrita rivolte al filosofo di Stilo da diversi osservatori, sia contemporanei che successivi. Il capitolo xxvii della Monarchia di Spagna, quello relativo appunto alle Fiandre o « Germania Bassa », venne pubblicato a parte nel 1617, molto probabilmente a Leida, in latino e all’interno di un volume miscellaneo dal titolo Speculum consiliorum hispanicorum [16]. L’anno di pubblicazione riveste una certa importanza, in quanto si situa nel pieno della Tregua dei Dodici Anni e anche dello  







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scontro dottrinale e politico tra rimostranti (detti arminiani) e anti-rimostranti (detti gomaristi). I primi propendevano per una concezione moderata del predestinazionismo calvinista, accordando un peso maggiore alla volontà umana nel processo di giustificazione. La querelle dottrinale aveva anche importanti implicazioni di carattere politico, in quanto gli arminiani sostenevano una certa autonomia dell’azione dei magistrati rispetto alla direzione religiosa della società (rifiutavano, cioè, una completa subordinazione della sfera politica a quella religiosa) e anche un’organizzazione di stampo federalistico dello stato olandese. Lo Stadhouder Maurizio di Nassau prese partito in favore dei gomaristi, visto che era suo interesse mantenere un certo livello di centralismo, mentre l’Avvocato d’Olanda, Johan Van Oldenbarenvelt, sosteneva il partito arminiano, i cui simpatizzanti furono subito sospettati di connivenze papiste. La pubblicazione del Discursus de Belgio subiugando all’interno dello Speculum deve essere inserita in tale congiuntura storico-politica ; C. vi insiste sul primato delle ragioni politiche su quelle religiose nelle cause scatenanti la ribellione dei Paesi Bassi, sui gravi errori commessi dagli spagnoli, che avevano voluto perseguire una cieca politica di intolleranza religiosa attraverso l’introduzione nelle Fiandre dell’Inquisizione spagnola. Il filosofo di Stilo sembra propendere per soluzioni politiche di pacificazione e di almeno relativa tolleranza, o quanto meno di allentamento della morsa repressiva, lasciando una certa autonomia alla sfera politica (andando incontro, in questo senso, alle posizioni degli arminiani), in contraddizione con il pensiero, da lui ripetutamente espresso, che sostiene la necessità di un assoggettamento della sfera politica a quella religiosa. Il fronte gomarista poteva interpretare pro domo sua tale assoggettamento nel senso della preconizzazione di una teocrazia di stampo ginevrino, sebbene nel quadro di una unità monarchica di tipo universalistico. Da qui si vede quanto il Discursus potesse prestarsi ad interpretazioni ed usi differenti. Prevalse probabilmente l’interpretazione che voleva C. il sostenito 

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re di una linea politico-dottrinale vicina agli arminiani, visti dai loro avversari come dei traditori filo-papisti, degli indebolitori della sicurezza dello stato nella misura in cui contestavano l’ortodossia dottrinale calvinista e proponevano una riforma federalista [17]. C. reputa essenziale il controllo, da parte della Spagna, delle Fiandre e del Basso Reno per la costituzione dell’Impero universale ; inoltre le navi e i marinai olandesi sono assolutamente necessari per combattere contro il nemico inglese. L’eresia nei Paesi Bassi è considerato un problema più politico che strettamente dottrinale : dal momento che sarà risolta la questione politica gli olandesi, afferma C. non senza una certa dose di mancanza di realismo, torneranno agevolmente nel seno di santa madre Chiesa. Da un punto di vista dottrinale risulta molto interessante l’analisi che il filosofo calabrese fa della pericolosità della diffusione delle conoscenze linguistiche e, soprattutto, filologiche nelle regioni del Nord Europa come focolaio per la nascita dell’eterodossia religiosa. « […] volendo essi far nuove Bibbie e tirare i Padri e le istorie a dogmi loro – argomenta C. – hanno imparato quasi tutti la lingua latina, greca ed ebrea, con sottigliezze grammaticali assai, e son fatigosi nelli studi, e scrivono libri longhissimi e assaissimi e tutto il Settentrione esercita la guerra grammaticale e non spirituale contra noi, i quali abbiamo trascurato le lingue, perché abbiamo vinto gl’Ebrei, Greci e Latini tutti soggiogandoli al Cristianesimo, e privandoli di stato e sacerdozio, […] onde non curiamo più le dispute sottili con loro in grammatica, e fuggiamo la lunghezza delle discipline, confidati nell’ingegno, e la fatica dei lunghi libri, e però essi ci stancano e ci soverchiano nel disputare e scrivere, benché non ci vincano ». Il rimedio a tale stortura sta nello scoraggiare in quei paesi lo studio delle lingue antiche introducendo nuove arti, « nelle quali noi siamo migliori di loro », anche se il re cattolico dovrebbe incentivare nelle sue città lo studio dell’arabo, « per armare i popoli contra Turchi, Mori e Persiani » [18]. C. passa poi ad illustrare i gravi errori di condotta politica commessi dagli spagnoli nella gestione del problema olandese : hanno  

















imposto l’Inquisizione spagnola e nella loro politica di dominio hanno preferito usare il «bastone», i metodi coercitivi, invece della «lingua», dello strumento della persuasione, mancando di sfruttare a loro vantaggio le divisioni all’interno dello stesso fronte protestante. In tal modo gli spagnoli non hanno fatto altro che rendersi odiosi. A questo punto, sottolinea C., forse sarebbe meglio lasciar stare i Paesi Bassi e dedicarsi ad altro, perché la storia insegna che un popolo che lotta per la propria libertà non può essere vinto [19]. 3. Il Nuovo Mondo, la monarchia spagnola e la monarchia universale. — Al pari delle Fiandre, nel pensiero politico di C. il Nuovo Mondo è un indice, una cartina al tornasole del ruolo provvidenzialisticamente assegnato alla monarchia spagnola nel progetto di costituzione della monarchia universale sotto un unico capo spirituale e anche della bontà del suo operato a tale fine. La scoperta colombiana è letta dal filosofo domenicano come segno del destino e come annuncio di una epoca d’oro nella quale, come prevede la profezia giovannea, il mondo sarà riunito sotto un unico pastore e una sola legge. C. afferma a più riprese che il Nuovo Mondo è solo relativamente ‘nuovo’ ; egli prende partito contro gli assertori della radicale novità e alterità del Nuovo Mondo e dei suoi abitanti in quanto le nuove terre devono essere inserite nella ‘normalità’ europeo-occidentale. Per C., infatti, la conquista e la colonizzazione spagnola dell’America sono la conditio sine qua non per il compimento del progetto di riunificazione di tutta l’umanità sotto un solo comando. Gli indiani hanno conosciuto la vera fede ma l’hanno dimenticata ; bisogna allora vivificare questa fede perduta, dimostrare la razionalità del messaggio divino, attraverso l’uso della lingua e non della spada, attraverso il convincimento, che passa per la predicazione e il buon esempio di vita, e non attraverso la coazione. Ecco allora emergere la prospettiva missionaria propria della sua opera Quod reminiscentur, in cui centrale è il concetto platonico di reminiscenza, secondo il quale apprendere è ricordare (‘anamnesi’). È per tale ragione che C. prende decisamente partito in favore della legittimità  



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della conquista del Nuovo Mondo da parte degli spagnoli e anche della necessità di reprimere in maniera violenta le ribellioni indigene, ma per la stessa ragione la sua critica nei confronti del comportamento di conquistadores ed encomenderos è implacabile. Già nella Monarchia di Spagna l’accusa nei confronti del comportamento degli spagnoli nel Nuovo Mondo è molto duro. Perso di vista l’unico obiettivo della Conquista, l’annuncio del Vangelo e l’accoglimento della moltitudine degli indios nel grembo di santa romana Chiesa, gli spagnoli hanno amministrato battesimi di massa senza significato alcuno, per la Chiesa e per gli indigeni stessi : « […] senza regola persuadevano il Cristianesimo dicendo : Battezzatevi, che anderete in Paradiso, e che Dio fu crocifisso per li nostri peccati, le quali cose pareano assurdissime, dire che l’acqua ti manda in Cielo, e che Dio possa morire, ecc. » [20]. Negli anni successivi al 1634 proprio la constatazione dell’indegno comportamento di conquistadores e amministratori nel Nuovo Mondo ebbe un ruolo decisivo nel cambiamento di opinione di C. nei confronti della monarchia spagnola. Siamo senza dubbio di fronte a un caso di eterogenesi dei fini, in quanto dalle pesanti accuse rivolte agli spagnoli avrebbe attinto a piene mani la leggenda nera antispagnola degli anni successivi. Proprio nell’illustrazione della centralità della conquista e colonizzazione dell’America nell’economia del disegno provvidenzialistico dell’instaurazione della monarchia universale C. sottolinea un aspetto che si rivela di grande importanza : in America gli spagnoli sono tenuti ad operare correttamente sia perché gli indigeni si convertono grazie alla forza della parola e dell’esempio (argomento classico del discorso missionario degli ordini religiosi insediati in America), ma anche perché il vero ed unico sovrano del Nuovo Mondo è il romano pontefice. Quest’ultimo, infatti, ha concesso le terre appena scoperte o da scoprire ai Re cattolici esclusivamente nella misura in cui questi avessero favorito la civilizzazione e la cristianizzazione degli indigeni. Solo in questo modo la scoperta del Nuovo  









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Mondo può essere una tappa nella riunificazione del globo sotto un solo pastore. Il pontefice per C. non è un arbitro ma il vero dominus orbis, « dominum vel rectorem totius orbis in temporalibus ac spiritualibus » (Monarchia del Messia). La preminenza della sfera spirituale su quella temporale per quanto riguarda il dominio sui territori del Nuovo Mondo, rappresenta un concetto diametralmente opposto a quello portato avanti dalle autorità spagnole e ufficialmente fissato, ai tempi di Filippo II, nella Junta Magna del 1568, che disciplinava in senso restrittivo qualsiasi discussione riguardante i diritti della Corona spagnola, sorvegliando sull’eventuale risorgenza delle argomentazioni lascasiane. Per C. il dominio spagnolo sull’America (e anche l’uso della forza, quando necessario) è sì legittimo ma deriva in toto da una concessione pontificia, per cui la Spagna è solo lo strumento del disegno divino di unificazione del mondo sotto l’egida del pontefice. Gli indios non devono essere considerati dei nemici al pari di ebrei e maomettani ; essi sono fratelli che hanno dimenticato la fede, che si sono allontanati, e nei confronti dei quali bisogna usare metodi di correzione fraterna. Il trattamento riservato agli indigeni diventa un’argomentazione strategica nel discorso complessivo di C. Se questo trattamento non è consono la Spagna diventa ipso facto indegna della propria missione storica ; se l’indio non è un nemico sono gli spagnoli stessi a poter diventare nemici nel caso in cui ostacolassero il disegno divino riservando un cattivo trattamento ai nativi. Il favore accordato alla Spagna per la realizzazione del disegno provvidenzialistico dell’unificazione del mondo è dunque fortemente condizionato. È il pontefice che deve decidere quale potenza appoggiare : la scelta sarebbe ricaduta su quella che si fosse dimostrata disposta a far prevalere le ragioni della Chiesa e dell’evangelizzazione su quelli propri, di tipo economico e politico. Gli spagnoli non devono far altro che adattare il proprio agire politico ai disegni divini, e alle indicazioni della Chiesa di Roma, vero e unico interprete sulla terra di tali disegni.  









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Gli spagnoli devono essere ringraziati per aver allargato gli orizzonti geografici europei, ma proprio per tale ragione essi hanno delle responsabilità. Non è interessante sapere se la conquista è avvenuta all’origine in maniera legittima ; molto più importante è stabilire la legittimità delle motivazioni e soprattutto dei risultati concreti, alla fine del processo. E per operare correttamente la Spagna deve « attendere e tesorizzare nel Mondo novo più sopra gli uomini che sopra l’oro e l’argento », attenendosi a quattro criteri : evangelizzare nella lingua dei nativi sull’esempio degli antichi evangelizzatori e creare un clero indigeno, unico in grado di vincere la resistenza, religiosa e culturale, delle popolazioni ancora ribelli ; popolare i territori conquistati e non spopolarli mediante inutili eccidi, e ridurre in schiavitù coloro che rifiutano di convertirsi ; istituire in ogni parte del Nuovo Mondo un seminario militare di fanciulli, un seminario per le donne, un seminario per marinai, « che avanti a trent’anni il Re non averà bisogno di gente strana per le guerre, e averà fedeli e sicuri soldati, come il Turco » [21] ; vista la distanza dalla Spagna, favorire al massimo grado l’unione, religiosa, politica ed economica. 4. Gli anni della disillusione e la Monarchia di Francia. — Già nel 1632, quando a Roma scrisse il Dialogo politico tra un Veneziano, Spagnuolo e Francese circa li rumori passati di Francia, osservando la situazione politica europea e valutando quale potenza avrebbe potuto aspirare al primato continentale (e quindi farsi strumento della monarchia universale del papa), C. la individuava nella Francia di Richelieu, una nazione che, nonostante innegabili difficoltà ormai passate, mostrava tutti i segni dell’ascesa, a fronte di una monarchia spagnola visibilmente in preda alla crisi e al declino. Quegli stessi fattori che avevano autorizzato C. a individuare nella monarchia spagnola la potenza in grado di inverare il sogno di una riunificazione del globo sotto un comando unico si trasformano ora in terribili capi d’accusa. L’impero asburgico è paragonato ad un mostro a tre teste, composto da territori distanti tra  

















loro e, soprattutto, disuniti. La navigazione, strumento fondamentale di comunicazione e unione, è entrata in crisi anche a causa della pirateria olandese, che ha reso le rotte estremamente insicure, mentre alcune posizioni strategiche stanno rischiando di saltare, minando alla base la tenuta dell’intero organismo politico. Ancora una volta i Paesi Bassi diventano un punto di osservazione privilegiato : è così che C. interpreta la rivolta olandese come uno strumento della Provvidenza divina nella misura in cui aveva contribuito all’indebolimento della potenza spagnola, visto che quest’ultima si era trasformata nel principale ostacolo all’instaurazione della monarchia universale. Gli spagnoli avevano la colpa storica di aver oppresso l’Italia, di aver fatto diventare il pontefice l’elemosiniere del re di Spagna e di aver in tal modo lasciato campo libero agli eretici nel Nord Europa. La monarchia spagnola non aveva saputo spagnolizzare i territori controllati, non avendo favorito in nessun modo l’integrazione (anche attraverso i matrimoni misti) e la partecipazione delle popolazioni al governo del vasto impero, così come non aveva saputo ‘tesorizzare’, adottando una politica economica e finanziaria che si era rivelata fallimentare, specie nel Regno di Napoli, la patria dello Stilese, funestata dall’avidità e dall’oziosità dei baroni e da una pessima amministrazione della giustizia, con magistrati, specie di grado inferiore, che « sogliono aggrandire i delitti per farsi grandi appresso al signore ». A completare il quadro c’era anche il pessimo uso della religione, perché gli spagnoli si fingono religiosissimi e zelanti ma in realtà essi sono dei « distruttori della fede cattolica », degli ipocriti che « si serveno di Dio e della fede cattolica romana, ma non serveno a Dio, né alla fede » [22]. È per questa strada che C. arriva a giustificare l’alleanza di Richelieu con gli eretici : qualsiasi azione è lecita per combattere gli Asburgo, d’Austria e di Spagna, causa della rovina dell’Europa. Nella Monarchia di Francia l’appello che, anni prima, era stato rivolto ai principi italiani si capovolge. Se nei Discorsi ai principi d’Italia l’esortazione era stata quella di ac 















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cettare il dominio spagnolo in nome della costituzione della monarchia universale guidata dal pontefice, ora quegli stessi principi sono incitati a liberarsi da un giogo che essi avevano accettato, secondo C., solo per timore di ritorsioni e per presunti vantaggi materiali che, in realtà, non esistono. La Francia non deve far altro che far capir loro che non si pone come nuovo dominatore ma come liberatore da una iniqua tirannia. Note. [1] Cfr. G. Ernst, C. politico, in T. C. e la congiura di Calabria. Atti del Convegno di Stilo (18-19 novembre 1999), in occasione del iv Centenario della Congiura, a cura di G. Ernst, Stilo, 2000, pp. 15-41. – [2] Cfr. Eadem, Il carcere, il politico, il profeta. Saggi su T. C., Pisa-Roma, 2003, 6180. – [3] Cit. in G. Ernst, C. politico, 16. – [4] Cfr. A. Sarrión Mora, Identificación de la dinastía con la confesión católica, in La Monarquía de Felipe III : la Casa del Rey, i, eds. J. Martínez Millán, M.A. Visceglia, Madrid, 2008, pp. 246-299. – [5] Monarchie d’Espagne, 2. – [6] Lettere, 363. – [7] Monarchie d’Espagne, 30. – [8], Ivi, p. 36. – [9] Ivi, 46. – [10] Ibidem. – [11] Ivi, 52. – [12] Ibidem. – [13] Ivi, 58. – [14] Ivi, 216. – [15] Discorsi ai principi d’Italia, 168. – [16] Il titolo completo dell’opera è Speculum consiliorum hispanicorum in quo regis hispaniarum machinationes variae contra Evangelicos pro nova Monarchia fundanda, a diversis authoribus, tamquam in tabella repraesentantur. – [17] Cfr. J.L. Fournel, La Cité du soleil et les territoires des hommes. Le savoir du monde chez C., Paris, 2012, 165-171. – [18] Monarchie d’Espagne, 300-302. – [19] Cfr. J.L. Fournel, La Cité du soleil et les territoires des hommes, 185. – [20] Monarchie d’Espagne, 344-346. – [21] Ivi, 350. – [22], Ivi, 426.  

Bibliografia. G. Ernst, Note e riflessioni sulla «Monarchia di Spagna» di T. C., in La storia della filosofia come sapere critico. Studi offerti a Mario Dal Pra, Milano, 1984, 221-239 ; Eadem, La ruse et la nature. Remarques sur le rapport C./Machiavel en marge de la « Monarchie d’Espagne », « Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques », lxxii, 1988, 252-262 ; Eadem, Introduzione, in T. C., La Monarchia di Spagna : prima stesura giovanile, a cura di G. Ernst, Napoli, 1989, 3-19 ; Eadem, Monarchia di Cristo e Nuovo Mondo. Il «Discorso delle ragioni che ha il re Cattolico sopra il nuovo emisfero» di T. C., in Studi politici in onore di Luigi Firpo, a cura di S. Rota Gribaudi e F. Barcia, ii, Milano, 1990, 11-36 ; Eadem, La critica della Spagna nell’ultimo  

















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C., « Colloquium Philosophicum », i, 1996, 47-65 ; J.H. Headley, T. C. and the Transformation of the World, Princeton, 1997 ; G. Ernst, C. politico, in T. C. e la congiura di Calabria. Atti del Convegno di Stilo (18-19 novembre 1999), in occasione del iv Centenario della Congiura, a cura di G. Ernst, Stilo, 2000, 15-41 ; P. Tuscano, Tra utopia e realismo : il trattato Della Monarchia di Spagna di T. C., « Cuadernos de Filología Italiana », 2000, n. extraordinario, 357-374 ; L. Guerrini, Osservazioni sul concetto di Teocrazia universale nell’ultimo C., « Bruniana & Campanelliana », viii, 2002, 2, 375-398 ; G. Ernst, Il carcere, il politico, il profeta. Saggi su T. C., Pisa-Roma, 2003 ; F. Clemente, Fra realismo politico e vocazione utopica. La Monarchia di Spagna di T. C., « Segni e comprensione », xii n.s., n. 64, 2008, 103-125 ; A. Sarrión Mora, Identificación de la dinastía con la confesión católica, in La Monarquía de Felipe III : la Casa del Rey, i, eds. J. Martínez Millán, M.A. Visceglia, Madrid, 2008, 246-299 ; J.L. Fournel, La Cité du soleil et les territoires des hommes. Le savoir du monde chez C., Paris, 2012.  



































Paolo Broggio traduzioni tedesche — scritti politici La diffusione degli scritti politici in Germania inizia in sordina nel giugno 1607, quando C., dal carcere, invia a Kaspar Schoppe molti manoscritti, tra cui De monarchia hispanica, Discorsi ai prìncipi d’Italia, Aforismi politici, De sensu rerum, Civitas solis, Monarchia Messiae, Atheismus triumphatus. Schoppe non riuscirà – o non vorrà – pubblicarli, ma comincerà a farli circolare tra un’ampia cerchia di eruditi italo-tedeschi, anche grazie a un interessamento sempre più diffuso per la sorte del filosofo. Nel 1608 persino l’arciduca Ferdinando (il futuro imperatore Ferdinando II) chiede che gli siano procurati i manoscritti della Monarchia di Spagna e dei Discorsi ai prìncipi d’Italia [1]. I temi trattati in alcuni di questi scritti sono del resto di estrema attualità per la particolare contingenza storica : hanno quindi un’eco immediata e potente nel panorama socio-politico dell’epoca, poiché si affacciano sulla scena proprio nella fase ricca di tensioni che prelude allo scoppiare della Guerra dei Trent’anni. Fra le numerose opere di argo 

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mento politico di C., quelle che si impongono all’attenzione del mondo germanofono e che avranno ampia risonanza sono soprattutto la Monarchia di Spagna, il Discorso sui Paesi Bassi, che circola prima come testo autonomo e poi nella rielaborazione all’interno della Monarchia stessa, e i primi due Discorsi ai prìncipi d’Italia. La loro risonanza però si esaurisce una volta mutato definitivamente lo scenario europeo, nella seconda metà del Seicento : nelle epoche seguenti quegli scritti non verranno più presi in considerazione e le posizioni politiche di C. saranno del tutto ignorate o liquidate con un commento sbrigativo in quanto espressione soggettiva di una situazione contingente. Questo giudizio è destinato a cambiare soltanto nella seconda metà dell’Ottocento, quando si vedrà in C. un precursore del comunismo e del socialismo, ma prevalentemente in riferimento alla Città del Sole. Il periodo in cui l’attività dei traduttori tedeschi si concentra sugli scritti politici di C. è dunque essenzialmente la prima metà del Seicento, segnata dalla Guerra dei Trent’anni. 1. Il contesto storico. — Il Seicento si apre in un’atmosfera di grande tensione, nonostante la tregua nel lungo conflitto che aveva visto fronteggiarsi nell’ultimo scorcio del Cinquecento la Spagna e le province dei Pae­ si Bassi, sostenute dall’Inghilterra ; un conflitto non ancora risolto che, intorno al 1617, si sta nuovamente riacutizzando. È proprio nei Paesi Bassi che viene stampato per la prima volta, dopo un periodo di circolazione sotterranea, il Discorso sui Paesi Bassi in versione latina in una miscellanea di scritti antispagnoli [2]. Con il riaccendersi delle ostilità la casa di Orange-Nassau aveva avviato una propaganda mirata e sistematica per formare un fronte comune contro la Spagna, e in quest’azione rientra la pubblicazione dello Speculum Consiliorum Hispanicorum, che raccoglie alcuni testi sul tema della ‘quinta monarchia’. All’intenzione, apertamente enunciata sul frontespizio, di smascherare le macchinazioni del re di Spagna per fondare una nuova monarchia universale, si unisce l’intento, più immediato e pressante, di influenzare l’opinione pubblica, smuovendo le  



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numerose posizioni di neutralità e di non-intervento formulate dai regnanti dei territori limitrofi. La risonanza è istantanea : molti testi ne riprendono immediatamente i contenuti e nel 1618 compare una prima traduzione olandese [3]. L’ideale campanelliano di una teocrazia papale universale, di cui la Spagna controriformista sarebbe lo strumento, acquista un valore di grandissima attualità e sembra dare definitiva sostanza allo spettro della quinta monarchia, considerate le pretese di Filippo II al trono inglese e la situazione in cui versano i Paesi Bassi e la Germania dilaniata dalle lotte confessionali. Su questo sfondo cupo e inquietante, gli scritti campanelliani passano di mano in mano e, grazie a Tobias Adami, nel 1618 arrivano anche a Tübingen, dove riscuotono subito l’interesse di Christoph Besold e Johann Valentin Andreae [4]. Andreae si sofferma sulle Poesie filosofiche ma accoglie nelle proprie opere anche spunti dalla Città del Sole e dalla Monarchia di Spagna [5] ; Besold, celebre giurista più volte rettore dell’università di Tübingen, si concentra invece sugli scritti politici. Nel frattempo la defenestrazione di Praga ha dato inizio alla Guerra dei Trent’anni ; la Boemia ribelle elegge come proprio re il giovane Federico V, principe calvinista elettore del Palatinato, ma l’alleanza di Ferdinando II con il potente Massimiliano di Baviera e l’accordo segreto di reciproco sostegno siglato fra i due rami della casa d’Asburgo determinano una supremazia schiacciante. Contemporaneamente gli spagnoli stanno predisponendo un massiccio schieramento di truppe ai confini meridionali del Palatinato, pronti a occuparlo : dopo la sconfitta dell’Invincibile Armata è divenuto un passaggio indispensabile per approvvigionare l’esercito, ora che è ricominciata anche la guerra contro i Paesi Bassi. Dai luoghi più minacciati parte una fortissima azione di propaganda : una marea di volantini, libelli e pamphlets invade la Germania nella speranza di scuotere gli animi e creare un fronte comune per contrastare il pericolo spagnolo che incombe su tutta l’Europa. È uno dei momenti più gravi e più drammatici dell’epoca e una delle fasi di massima attività pubblicistica [6].  









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2.  La Monarchia di Spagna. — In breve tempo Besold riesce non solo a procurarsi una trascrizione della Monarchia di Spagna, ma anche ad approntarne la traduzione, forse pressato dalla drammaticità degli eventi. Nel 1620 uscirà infatti il testo completo in traduzione tedesca, ma mentre Besold sta per ultimare il lavoro giunge la notizia della devastante avanzata dell’esercito spagnolo nel Palatinato. Egli capisce di avere fra le mani un testo scottante e decide di darlo immediatamente alle stampe. Il trattato sembra infatti dare conferma delle ipotesi peggiori : la Spagna ha davvero intenzione di sottomettere tutta l’Europa, e con qualsiasi mezzo, come dimostrano i consigli dati al re di Spagna dal saggio e bene informato C. Stamparlo aiuterebbe non soltanto a rendere note le effettive intenzioni degli spagnoli e il loro subdolo agire privo di scrupoli, ma fornirebbe la molla ideale per rendere più unito e determinato il fronte dell’opposizione e scuotere persino le convinzioni degli alleati stessi degli spagnoli. Così, senza aspettare di aver completato tutta la traduzione, Besold estrapola dal testo quei brani che meglio possono servire allo scopo, e cioè i capitoli 23 e 24 riguardanti la Germania e la Francia, e li pubblica in anteprima [7] : nell’arco del 1620 si susseguiranno addirittura quattro diverse edizioni del pamphlet. Dal frontespizio si identifica subito il registro elevato, opera di erudizione per un pubblico colto ; l’autore non viene nominato, ma è qualificato come italiano (il che significava allora vicinanza alla Spagna e al papato da una parte, e tradizione politica machiavelliana dall’altra) e descritto come celebre ed estremamente saggio. È interessante notare come la Germania sia considerata nel suo insieme, a prescindere dalle divisioni confessionali, poiché tutto il Paese appare minacciato dallo stesso pericolo ; anzi, si allarga ulteriormente la cerchia dei destinatari abbinando il capitolo sulla Francia – è la fase in cui lo schieramento protestante, e il Palatinato in particolare, cerca in tutti i modi di convincere la vicina Francia a scendere apertamente in campo. Nel corso dell’anno esce poi anche la Monarchia di Spagna in traduzione integrale  







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[8]. A differenza di quanto era avvenuto per l’estratto, l’opera è chiaramente attribuita a C., mentre resta anonimo il traduttore ; il lungo titolo precisa che si parla non soltanto delle caratteristiche di tutti i regni europei, ma anche de ratione status : da giurista esperto Besold ha riconosciuto gli inserti boteriani e sottolinea da una parte l’attualità del testo, dall’altra la sua valenza di manuale giuridico-politico. Se gli elementi filosofici e metafisici, il desiderio di rinnovamento e di una religiosità più sincera e intensa sono entusiasticamente condivisi, in materia politica Besold esprime delle perplessità rispetto al pensiero di C. e considera tendenziosa la profezia dell’imminenza di una quinta monarchia, che ritiene una fandonia alimentata dal papa, dai gesuiti e da gruppi di facinorosi che trarrebbero profitto dalla guerra. La breve prefazione del tipografo (o più probabilmente dello stesso Besold) tesse gli elogi di C., del suo alto ingegno e della sua illuminante filosofia, e allo stesso tempo invita a non tener conto degli errori che il testo contiene e delle spregevoli astuzie che di tanto in tanto vi sono mescolate [9]. Se, quindi, nel pamphlet si era posto l’accento sull’attualità e il progetto di monarchia universale trovava ampio spazio per intenti propagandistici, qui si privilegiano i contenuti politici e un livello più generale e teorico. La diffusione dell’opera fu vasta e immediata, e segnò l’ingresso di C. nel circuito della propaganda legata più da vicino alle vicende belliche. Lo testimonia un altro opuscolo tra la moltitudine di scritti propagandistici, soprattutto di fogli volanti, che si richiamavano l’un l’altro formando una complessa rete di rimandi testuali. Si tratta dell’anonimo e famosissimo Spanisch MuckenPulver [10], che offre un lucido e realistico esame delle origini e delle prime fasi della guerra, oltre che della sua portata storica. Il testo, in cui si fa più volte riferimento a C., ripropone tutti gli elementi tipici della propaganda antispagnola così come si era configurata nella seconda metà del Cinquecento, nella cosiddetta ‘leggenda nera’ : l’associazione diabolica fra Spagna e gesuiti, il richiamo alla quinta monarchia, l’elenco di infamie, tradimenti e stragi com 





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messi dalla cattolicissima Spagna. In questo quadro fosco Machiavelli, C., Spagna, Italia e gesuiti sono considerati un’unica forza diabolica, senza alcuna differenziazione fra le posizioni. Si cita esplicitamente la Monarchia di Spagna nella traduzione di Besold, appena uscita e immediatamente recepita. Dopo un breve intervallo, in cui lo scenario della guerra si evolve rapidamente, viene pubblicata nel 1623 una seconda edizione della Spanische Monarchy, in cui il traduttore esce allo scoperto. Il frontespizio ricalca quello dell’edizione precedente, ma con alcune significative variazioni : si annuncia la presenza di una seconda parte, aggiunta da Besold ; si specifica che la traduzione è stata « diligentemente rivista e corretta » e cade il riferimento all’attualità, ormai drasticamente cambiata : Federico V, che capeggiava l’unione dei protestanti, ora deriso come ‘il re d’inverno’, è sconfitto e fuggito, gli spagnoli hanno conquistato il Palatinato e le sorti del conflitto sembrano ormai decise. La relativa stabilità della situazione permette a Besold di rivelarsi, non soltanto come traduttore ma anche come giurista che esamina la questione, insita nell’opera di C., circa la migliore forma di governo. In appendice alla traduzione egli formula infatti un parere ‘tecnico’ dove valuta se sia opportuno che tutti i regni cristiani si riuniscano sotto un unico re o se sia preferibile che rimangano divisi ; la risposta propende chiaramente per la seconda ipotesi. Besold sente dunque il bisogno di prendere posizione riguardo alla teoria campanelliana di unificazione universale, e la pone su un piano squisitamente giuridicopolitico ; l’argomentazione, pur nominando anche il diritto e l’autonomia dei singoli popoli, si mantiene prudente e ha carattere prettamente storico, senza toccare la recente attualità. La conclusione, infatti, rivela un atteggiamento rassegnato : ciò che il futuro riserva è noto soltanto a Dio, l’uomo non può che affidarsi a lui senza dar credito alle numerose e inquietanti profezie a cui molti si aggrappavano in quegli anni così cupi. 3. I Discorsi ai prìncipi d’Italia. — Gli scenari della guerra si spostano man mano verso Nord, ma vedono imperversare le armate  















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imperiali comandate da Wallenstein e Tilly. Fogli volanti e pamphlets sono incentrati sulle battaglie, sulle città conquistate e saccheggiate e sui protagonisti degli eventi ; la propaganda antispagnola prosegue con minore intensità ma con toni sempre più disperati, e anche i testi campanelliani continuano a circolare. Nel 1626 abbiamo ad esempio un’altra edizione latina dello Speculum Consiliorum Hispanicorum con il Discorso sui Paesi Bassi, mentre nel 1628 si affaccia sulla scena un nuovo testo : i Discorsi ai prìncipi d’Italia. Se Besold nel 1623 aveva prospettato come via d’uscita dalla guerra il riconoscimento del pluralismo politico degli Stati territoriali, l’anonimo che, nel 1628, traduce e commenta i Discorsi vede invece come unica alternativa al trionfo cattolico, fosse anche intesa provocatoriamente, il dominio dell’infedele. Per effettuare questo estremo capovolgimento l’autore prende spunto dai primi due Discorsi ai prìncipi d’Italia, che traduce e ai quali fa seguire un’accesa confutazione [11]. Il Compendium… de papana et hispanica monarchia è composto infatti da 36 fogli, di cui i primi sei contengono il testo campanelliano insieme a proemio e dedicatorie, mentre gli altri trenta sono occupati dal commento, particolarmente interessante poiché documenta un nuovo atteggiamento, decisamente più polemico, nella ricezione del pensiero campanelliano [12]. Il frontespizio riassume brevemente il contenuto dei due Discorsi, sottacendo i riferimenti all’Italia ma richiamando subito alcune parole d’ordine : monarchia universale, paragone fra turchi e spagnoli, piano giuridico-politico dell’argomentazione. L’autore (che vari indizi riconducono all’ambiente erudito fra l’università di Tübingen e la corte di Stoccarda) si definisce « un intrepido avversario della ragion di Stato », identificata con l’esecrabile politica di stampo machiavellico, ed enuncia chiaramente l’intenzione di confortare i perseguitati dalla tirannia ispano-pontificia e ammonire sia chi si lascia abbindolare dall’apparenza della forza e del potere, sia chi crede di poter rimanere neutrale. Il traduttore dimostra un’eccellente conoscenza dell’italiano e non fatica a seguire i passaggi bruschi e le asperità del 









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la scrittura campanelliana, consegnandoci un lavoro praticamente impeccabile. Egli separa inoltre con molta cura testo e commento : la traduzione si attiene strettamente al verbo campanelliano, precisa e puntuale ; al termine viene annessa una confutazione appassionata e piena di foga, curiosamente oscillante tra la citazione erudita da una parte e l’invettiva colorita e popolare dall’altra, in cui i due Discorsi vengono esaminati e contestati punto per punto. Il commentatore è un estimatore della letteratura italiana, da cui traduce con disinvoltura anche sonetti petrarcheschi e terzine dantesche, ma la sua valutazione della figura di C. è ben diversa da quella benevola ed equilibrata data in precedenza da Besold, Adami e Andreae : C. viene completamente screditato, accusato di opportunismo, finzione e ipocrisia ; il tono è molto aggressivo, anche se sempre erudito, e fa leva sul diffuso anticurialismo tedesco. Nel suo commento l’anonimo riprende tutti i difetti che C. rimprovera ai turchi e li ribalta sugli spagnoli ; il confronto tra i due sistemi politici si conclude con l’affermazione, variamente declinata in Lutero e già utilizzata nella propaganda antispagnola, « meglio turchi che papisti », con un completo rovesciamento della tesi campanelliana [13]. Se nelle prime traduzioni l’accento era collocato sul piano politico, l’argomentazione viene ora decisamente spostata sul piano confessionale, contro il papa più che contro la Spagna, tanto che i turchi, seppur temibili per la schiavitù in cui costringono i nemici, appaiono più tolleranti in materia di religione e quindi preferibili. L’autore dimostra di conoscere bene le vicende di C. e ritiene le sue opere filo-spagnole frutto di mero opportunismo, scritte dal carcere per blandire papa e imperatore e smentire la gravissima accusa di aver voluto riformare non solo la politica, ma anche la religione. L’argomentazione si fa man mano sempre più serrata, e mutuando argomenti anche dalla Monarchia di Spagna, si dimostra come gli spagnoli siano molto peggiori dei turchi, perché sopprimono la cultura e il libero pensiero attraverso censura e inquisizione. Lo prova del resto la vicenda stessa di C. che, per liberare la Calabria, non aveva esitato a prende 













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re accordi con i turchi ; il suo filo-ispanismo sarebbe quindi solo opportunistica ipocrisia per ottenere la scarcerazione. La rabbia dell’autore è tutta rivolta contro Spagna, papato e gesuiti, più che contro gli Asburgo austriaci : il Sacrum Imperium mantiene ancora, anche per i protestanti, la sua autorevolezza, per quanto fortemente incrinata. Il secondo bersaglio dell’invettiva emerge dunque solo parzialmente, ed è la debolezza dell’attuale imperatore, accusato fra le righe di essersi lasciato raggirare dagli spagnoli e di aver rinunciato a esercitare le sue funzioni, usurpate di conseguenza dal papa. La soluzione che si prospetta sullo sfondo è un riequilibrio dei poteri, la speranza in un imperatore forte che sappia opporsi alle macchinazioni diaboliche di Spagna e papato e riportare la pace in un’Europa ormai esausta. Ma lo scenario è destinato a cambiare di nuovo, sia per l’estromissione di Wallenstein, sgradito ai prìncipi cattolici perché divenuto troppo potente, sia per l’intervento di Gustavo II Adolfo di Svezia nel 1630 a fianco dei protestanti. Le tipografie si riattivano e producono una nuova ondata di fogli volanti e pamphlets inneggianti al leone del Nord con un improvviso picco di attività pubblicistica, che si spegnerà però di colpo con la precoce morte di Gustavo Adolfo nel novembre del 1632. In questa atmosfera di rinnovato entusiasmo, anche gli scritti del filosofo calabrese tornano rapidamente a circolare. Nel 1630 appare infatti una seconda edizione dei due Discorsi ai prìncipi d’Italia, nella stessa traduzione del Compendium ma con un nuovo frontespizio : più semplice e snello, si concentra su pochi ma decisivi dettagli, mentre il riferimento alla ritirata spagnola rispecchia la situazione decisamente più favorevole [14]. Il testo si rivolge espressamente ai prìncipi protestanti e ai loro sudditi, per dimostrare ancora una volta quanto fosse grande il pericolo che ora finalmente appare scongiurato. Con accenti trionfali campeggia, al centro del frontespizio, il motto « meglio turchi che papisti ». 4. Il Discorso sui Paesi Bassi. — Nell’entusiasmo del 1630 viene per la prima volta tradotto anche il Discorso sui Paesi Bassi, che fino ad allora era circolato soltanto in latino.  









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Ne risulta un opuscolo di 16 pagine di cui, nel corso di un anno, vengono stampate ben quattro edizioni [15]. Il titolo (« L’amo da pesca spagnolo ») sottolinea l’inganno con cui la Spagna, grazie ai subdoli consigli di C., vorrebbe far abboccare al suo amo non soltanto Germania e Francia, ma anche i Paesi Bassi. Nonostante il testo originale fosse incentrato solo su questi ultimi, Germania e Francia vengono nominate per prime, per coinvolgere un pubblico più vasto e rendere meglio la dimensione europea – o universale – delle mire spagnole. Il Discorso, in cui si rimprovera a Carlo V di aver lasciato allontanare Lutero vivo dalla dieta di Augusta e si consiglia di limitare al massimo la libertà di coscienza in quanto porterebbe con sé anche il desiderio di libertà politica, è utilissimo per smascherare la slealtà del nemico cattolico, ben documentata dai suggerimenti pratici che C. fornisce al re di Spagna, esempi perfetti di subdolo machiavellismo. La carica polemica del testo tocca ancora una volta uno dei punti nodali del conflitto, come testimonia l’alto numero di ristampe. Alle prime quattro edizioni ne seguono infatti altre due nel 1632, che portano l’indicazione tipografica « uff den Frontiren » [16], riferimento alla zona di confine con i Paesi Bassi, luogo di rifugio per tutti i dissidenti che stimolavano un’intensa attività propagandistica e mantenevano vivo l’interesse per le vicende delle confinanti province. Se il testo del Discorso rimane quello pubblicato due anni prima, molto diverso è il titolo, di carattere satirico, forse più vicino ai fogli volanti da cui riprende anche uno dei temi ricorrenti. Un cliché riproposto in molteplici variazioni era infatti quello che alludeva alla proverbiale avidità e ingordigia dello spagnolo : nelle illustrazioni era raffigurato pingue e seduto a una tavola imbandita, dove le città tedesche conquistate erano le portate di un ricco banchetto. Ora però lo spagnolo ha fatto indigestione, e lo si vede assistito da diversi medici che porgono cure di vario tipo, tutte con una forte valenza comico-satirica. La stessa immagine è ripresa nell’opuscolo, che pone in primo piano la sete smodata della Spagna, dimostrata anche dalla condizione del fegato di C., che risulta  









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surriscaldato – un effetto che la medicina galenica del tempo attribuiva all’abuso di alcol. Il frontespizio dunque fa passare il discorso di C. per il delirio di un ubriaco e pone in maggiore evidenza la sua distanza dalla real­ tà, ormai così mutata in questa fase della guerra da far apparire il progetto spagnolo di egemonia universale ridicolo e astruso. 5. Conclusioni. — La profezia campanelliana dell’avvento della quinta monarchia venne dunque subito recepita e amplificata dalla propaganda protestante, che a essa fece riferimento in tutte le fasi della guerra, con accenti e sfumature diverse. A questo tema è legata la diffusione degli scritti politici di C. in Germania, che si mantiene in genere su un livello piuttosto erudito : si tratta in prevalenza di Flugschriften, testi discorsivi e argomentativi di media lunghezza, ma non manca di interessare anche i brevissimi e più divulgativi fogli volanti. C. compare infatti anche in un foglio che ha per argomento la boriosa propaganda cattolica [17]. Essa è simboleggiata da un gigantesco tamburo che domina la grande illustrazione, mentre il testo, composto da 72 alessandrini a rima baciata, si presta a essere memorizzato e declamato. Si tratta di un piccolo capolavoro letterario, costruito intorno a un raffinato gioco di parole sulla campanella e sul tamburo : declinate con abilità riguardo a forma, materiale e suono, le due metafore permettono di ripercorrere l’andamento della guerra e il mutare dei tempi, in un fitto intreccio di rimandi ad altri testi e allusioni all’attualità. Ma il vero tema, estremamente moderno, è il potere della propaganda e della comunicazione su vasta scala, che con il suo clamore può mistificare la realtà e influenzare in modo determinante l’opinione pubblica e l’agire politico. Nell’invocazione finale, infatti, non si chiede a Dio di sconfiggere il nemico in battaglia, bensì di neutralizzarne la capacità comunicativa. La macchina della propaganda era ormai divenuta uno strumento importante nella conduzione della guerra, i cui alterni destini erano sempre accompagnati e commentati da pamphlets e fogli volanti in grande quantità. Spesso commissionati dalle varie fazioni o da singole case regnanti, ser 



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vivano a legittimare fatti e azioni e a raccogliere consensi, facendo leva sulle paure e sui timori di un vasto pubblico grazie a un uso consapevole e mirato del mezzo di comunicazione e delle sue potenzialità. La ricezione degli scritti politici di C. si era aperta con la traduzione della Monarchia di Spagna messa a punto da Christoph Besold, che aveva inizialmente rimarcato la visione d’insieme della riflessione campanelliana mettendo in secondo piano i dettagli più provocatori e discutibili del C. politico ; ma le drammatiche vicende della guerra fanno ben presto dimenticare un simile atteggiamento equilibrato e alcuni elementi del suo pensiero, opportunamente selezionati, sono amplificati e ritagliati a misura dai protestanti, per fornire materiale a tutti i livelli del dibattito : giuridico, politico-strategico e confessionale. Così gli scritti campanelliani, e in primis la Monarchia di Spagna, diventano quasi un vademecum della politica e della diplomazia spagnola. La loro ricezione avviene in prevalenza presso un pubblico istruito e abituato alla lettura, che non disdegna i toni polemici ma privilegia una visione storica di ampio respiro ed è in grado di cogliere i numerosi riferimenti dotti alla letteratura e all’antichità, oltre che alle Sacre Scritture. I traduttori, quasi sempre anonimi come era in quei casi consueto, mostrano non solo erudizione, ma specifiche conoscenze politiche e giuridiche, quelle di chi è direttamente coinvolto nei fatti : si muovono nell’ambiente di corti, cancellerie e curie e si dimostrano di conseguenza molto attenti alle ripercussioni locali degli avvenimenti. Da questo punto di vista, le opere del filosofo lungamente recluso sono di una sconcertante attualità. Nonostante la sua visione degli equilibri di potere internazionali venga profondamente travisata, e nonostante la sua concezione universalistica, ancora tutta medievale, non sia più al passo con i tempi, come dimostra il parere dello stesso Besold, le opere politiche di C. sono andate dritte al fulcro dei delicatissimi equilibri tra le massime potenze dell’epoca. Rilette, di volta in volta, alla luce di avvenimenti specifici, hanno provocato gli animi, stimolato a prendere posizione, alimentato il dibattito :  







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dal 1617 al 1632, in quindici anni, vengono tradotte in tre lingue diverse (olandese, latino e tedesco, a cui si aggiungerà più avanti anche l’inglese), per un totale di 17 diverse edizioni. C. è dunque ben presente in tutti i generi di testo propagandistici che, con i loro titoli a effetto e una retorica molto persuasiva e colorita, si servono spesso di satira e parodia, ma liberano tutto il loro potenziale comunicativo una volta posti in relazione con i testi che li precedono e da cui riprendono temi, motivi, personaggi. Note. [1] K. Jaitner, Einleitung, in K. Schoppe, Autobiographische Texte und Briefe, i : Philotheca scioppiana, München, 2004, 51-60. Sul ruolo di Schoppe come mediatore nella ricezione degli scritti campanelliani cfr. anche A. Panichi, « Homo ingeniosissimus » e « fucatus doctor ». Hermann Conring interprete di C., « Bruniana & Campanelliana », xxii, 2016, 1, 23-33. – [2] Speculum Consiliorum Hispanicorum. In quo regis Hispaniarum Machinationes variae contra Evagelicos pro nova Monarchia fundanda, Lugduni, 1617. Il terzo dei quattro scritti compresi nel volume è il Discursus de subjugando Belgio. Cfr. J. Arndt, Der spanischniederländische Krieg in der deutschsprachigen Publizistik 1566-1648, in Krieg und Kultur. Die Rezeption von Krieg und Frieden in der Niederländischen Republik und im Deutschen Reich 1568-1648, hrsg. v. H. Lademacher und S. Groenveld, Münster, 1998, 401-418. – [3] Cfr. Firpo, Bibliografia ; R. De Mattei, Studi campanelliani, Firenze, 1934, 45-46. – [4] C. Gilly, C. and the Rosicrucians, in Rosenkreuz als europäisches Phänomen im 17. Jahrhundert, Amsterdam, 2002, 193-210 ; L. Firpo, Tobia Adami e la fortuna del C. in Germania, in Storia e cultura del Mezzogiorno. Studi in memoria di U. Caldora, Cosenza, 1978, 77-118. – [5] J.V. Andreae, Reipublicae christianopolitanae descriptio, Argentorati, 1619 ; idem, Mythologiae Christianae sive Virtutum et vitiorum vitae humanae imaginum Libri tres, Straßburg, 1619, 10. – [6] P. Schmidt, Spanische Universalmonarchie oder « teutsche Libertet ». Das spanische Imperium in der Propaganda des Dreißigjährigen Krieges, Stuttgart, 2001 ; M. Grünbaum, Über die Publicistik des Dreißigjährigen Krieges von 1626-1629, Halle, 1880, 37-77. – [7] « Discursus Eines weitberümbten / hochvernünfftigen Italianers / so etwann Königlicher Mayestät in Hispanien praesentirt, Und in dem von Allerhand Mitteln gehandelt würdt / mit welcher vorschub das gantze Teutschland / und Franckreich under das Hispanische Joch ge 



























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bracht : und also ein sattes Fundament / deren so lang gesuchten fünfften Monarchy / gelegt werden möchte. Newlich von dem Italianischen / nach anleitung jetziger zeit unnd leuffe beschaffenheit / in unser Teutsche Sprach ubergesetzt », s.l., 1620. – [8] « Thomas C., von der Spanischen Monarchy / Oder / Außführliches Bedencken / welcher massen / von dem König in Hispanien / zu nun mehr lang gesuchter Weltbeherrschung / so wol ins gemein / als auff jedes Königreich und Land besonders / allerhand Anstalt zu machen sein möchte », s.l., 1620. – [9] La prefazione riprende i toni entusiastici della Praefatio ad philosophos Germaniae di Tobias Adami (cfr. G. Ernst, Figure del sapere umano e splendore della sapienza divina. La Praefatio ad philosophos Germaniae di Tobias Adami, « Bruniana & Campanelliana », x, 2004, 1, 119-147), e cerca di mitigare le forti critiche che Caesarius Branchedauria aveva mosso a C. nella sua Oratio praemonitoria [...] de Mutatione Imperii Romani et ortu Pontificum, in Monita politica ad sacri romani imperii principes de immensa curiae romanae potentia moderanda, Francofurti, 1609, 5-32. Cfr. G. Moro, Chi era davvero Caesarius Branchedauria ?, « Bruniana & Campanelliana », xxii, 2016, 1, 11-21. – [10] « Spanisch MuckenPulver, Wessen man sich gegen dem König in Spanien und seinen Catholischen Adhaerenten versehen solle », s.l., 1620. Cfr. J. Pollmann, Eine natürliche Feindschaft : Ursprung und Funktion der schwarzen Legende über Spanien und die Niederlande, 1560-1581, in Feindbilder. Die Darstellung des Gegners in der politischen Publizistik des Mittelalters und der Neuzeit, hrsg. v. F. Bosbach, Köln, 1992, 73-93. – [11] « Compendium librorum politicorum de papana et hispanica monarchia. Zwey Discurs Bruder Thomas Campanellen / Von des Bapsts / und Spaniers vermeinter rechtmessiger gewalt / und deroselbigen mit dem Römischen und Türckischen Keyser vergleichunge / ja vorzuge », s.l., 1628. – [12] Cfr. Firpo, Ricerche, 203-210 ; R. De Mattei, Un « Compendium » anticampanelliano, in T. C. (1568-1639). Miscellanea di studi nel quarto centenario della sua nascita, Napoli, 1969, 157-168. – [13] Cfr. J. M. Headley, « Ehe Türckisch als Bäpstisch » : Lutheran Reflections on the Problem of Empire 1623-1628, « Central European History », xx, 1987, 1, 3-28 ; D. Briesemeister, « allerhand iniurien schmehkarten pasquill vnd andere schandlose ehrenrürige Schriften vnd Model ». Die antispanischen Flugschriften in Deutschland zwischen 1580 und 1635, « Wolfenbütteler Beiträge », iv, 1981, 147-190, in part. 172-175. – [14] « Zwen Discurs des Spanischen Abzugs / Von einem Liebhaber der Warheit / Wegen des Bapsts unnd Spaniers vermeinter rechtmessiger  











































































Gewalt / unnd deroselbigen mit dem Römischen unnd Türckischen Keyser Vergleichunge / Ja Vorzuge. Denen Evangelischen Chur- und Fürsten / sampt ihren lieben Unterthanen publicirt. Ehe Türckisch als Päpstisch », s.l., 1630. – [15] « Spanisch Angelhacken. Das ist : Discours Fr. C.e, Darinnen Er dem König von Hispanien Mittel und Wege zeiget / wie Er DeutschLand / Franckreich / insonderheit aber NiederLand Angeln und in seine Gewalt bringen könne », s.l., 1630. – [16] « Spannischer ubergrosser Durst nach Hoch- und NiderTeutschen Landen. Auß Beschawung der hitzigen Leber Fr. C.e, und seim geführten Discurs befunden. […] Gedruckt uff und außgegossen uff den Frontiren. mdcxxxii ». – [17] « Abcontrafactur der grossen mächtigen und noch nie erhörten Trummel der Ligae, So sie weit und breit rühren / Volck zu werben / und Teufflisch Geld auff die Hand geben ». J.R. Paas, The German political Broadsheet 1600-1700, Wiesbaden, 1985, vi, 1720-1723 ; Deutsche illustrierte Flugblätter des 16. und 17. Jahrhunderts, hrsg. v. W. Harms, München, 1980, ii, 428-429 ; entrambi ne segnalano diverse edizioni. Bibliografia. R. De Mattei, Un « Compendium » anticampanelliano, in T. C. (1568-1639). Miscellanea di studi nel iv centenario della sua nascita, Napoli, 1969, 157-168 ; L. Firpo, Tobia Adami e la fortuna del C. in Germania, in Storia e cultura del Mezzogiorno. Studi in memoria di U. Caldora, Cosenza, 1978, 77-118 ; D. Briesemeister, « allerhand iniurien schmehkarten pasquill vnd andere schandlose ehrenrürige Schriften vnd Model ». Die antispanischen Flugschriften in Deutschland zwischen 1580 und 1635, « Wolfenbütteler Beiträge », iv, 1981, 147-190 ; J.M. Headley, « Ehe Türckisch als Bäpstisch » : Lutheran Reflections on the Problem of Empire 1623-1628, « Central European History », xx, 1987, 1, 3-28 ; G. Ernst, Introduzione, in T. C., Monarchie d’Espagne et Monarchie de France, Paris, 1997, vii-xlviii ; J. M. Headley, T. C. and the Transformation of the World, Princeton, 1997 ; J. Arndt, Der spanischniederländische Krieg in der deutschsprachigen Publizistik 1566-1648, in Krieg und Kultur. Die Rezeption von Krieg und Frieden in der Niederländischen Republik und im Deutschen Reich 1568-1648, hrsg. v. H. Lademacher und S. Groenveld, Münster, 1998, 401-418 ; P. Schmidt, Spanische Universalmonarchie oder « teutsche Libertet ». Das spanische Imperium in der Propaganda des Dreißigjährigen Krieges, Stuttgart, 2001.  







































Laura Balbiani

comp osto in car atter e s e r r a da n t e da l la fabr izio serr a editore, p i s a · rom a . imp ress o e r ilegato da l la t ip o g r afia di ag nan o, ag na n o p i s a n o ( p i s a ) .

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B RU N I A NA & C A MPA NELLI A NA Ricerche filosofiche e materiali storico-testuali supplementi Collana diretta da Eugenio Canone e Germana Ernst i. Brunus redivivus. Momenti della fortuna di Giordano Bruno nel xix secolo, a cura di Eugenio Canone, pp. xlv-338, 1998 [studi, 1]. ii. Ortensio Lando, Paradossi. Ristampa dell’edizione Lione 1543, presentazione di Eugenio Canone, Germana Ernst, pp. xviii-232, 1999 [testi, 1]. iii. Antonio Persio, Trattato dell’ingegno dell’Huomo, in appendice Del bever caldo, a cura di Luciano Artese, pp. xii-312, 1999 [testi, 2]. iv. Enzo A. Baldini, Luigi Firpo e Campanella: cinquant’anni di studi e ricerche, in appendice Luigi Firpo, Tommaso Campanella e la sua Calabria, pp. 68, 2000 [bibliotheca stylensis, 1]. v. Tommaso Campanella, Lettere (1595-1638), a cura di Germana Ernst, pp. 176, 2000 [bibliotheca stylensis, 2]. vi. Germana Ernst, Il carcere, il politico, il profeta. Saggi su Tommaso Campanella, pp. 192, 2002 [studi, 2]. vii. Letture bruniane (1996-1997), a cura di Eugenio Canone, pp. x-322, 2002 [studi, 3]. viii. Eugenio Canone, Il dorso e il grembo dell’eterno. Percorsi della filosofia di Giordano Bruno, pp. xii-256, 2003 [studi, 4]. ix. Mario Equicola, De mulieribus. Delle donne, a cura di Giuseppe Lucchesini, Pina Totaro, pp. 8o, 2004 [materiali, 1] x. Luigi Guerrini, Ricerche su Galileo e il primo Seicento, pp. 200, 2004 [studi, 5]. xi. Giordano Bruno in Wittenberg (1586-1588). Aristoteles, Raimundus Lullus, Astronomie, hrsg. von Thomas Leinkauf, pp. viii-152, 2004 [studi, 6]. xii. Margherita Palumbo, La Città del Sole. Bibliografia delle edizioni (1623-2002), con una appendice di testi critici, pp. 116, 2004 [bibliotheca stylensis, 3]. xiii. Francesco Paolo Raimondi, Giulio Cesare Vanini nell’Europa del Seicento, con una appendice documentaria, pp. 580, con figure b/n, 2005 [studi, 7]. xiv. Girolamo Cardano, Come si interpretano gli oroscopi, introduzione e note di Ornella Pompeo Faracovi, traduzione del De Iudiciis geniturarum di Teresa Delia, traduzione del De exemplis centum geniturarum e dell’Encomium astrologiae di Ornella Pompeo Faracovi, pp. 108, con figure b/n, 2005 [testi, 3]. xv. Enciclopedia bruniana e campanelliana, diretta da Eugenio Canone, Germana Ernst, vol. i, cura redazionale di Dagmar von Wille, pp. xiv, coll. 368, con figure b/n, 2006 [enciclopedie e lessici, 1]. xvi. The Alchemy of Extremes. The Laboratory of the Eroici furori of Giordano Bruno, a cura di Eugenio Canone, Ingrid D. Rowland, pp. 176, 2006 [studi, 8]. xvii. Nicholas Hill, Philosophia Epicuraea Democritiana Theophrastica, a cura di Sandra Plastina, pp. 192, 2007 [testi, 4]. xviii. Francesco La Nave, Logica e metodo scientifico nelle Contradictiones logicae di

Girolamo Cardano, con l’aggiunta del testo dell’edizione lionese del 1663, pp. 100, 2006 [materiali, 2]. xix. Giordano Bruno, Centoventi articoli sulla natura e sull’universo contro i Peripatetici. Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus Peripateticos, a cura di Eugenio Canone, pp. xxii-54, 2007 [testi, 5]. xx. Dario Tessicini, I dintorni dell’infinito. Giordano Bruno e l’astronomia del Cinquecento, pp. 205, 2007 [studi, 9]. xxi. Tommaso Campanella, Sintagma dei miei libri e sul corretto metodo di apprendere. De libris propriis et recta ratione studendi syntagma, a cura di Germana Ernst, pp. 136, 2007 [bibliotheca stylensis, 4]. xxii. Gian Mario Cao, Scepticism and orthodoxy. Gianfrancesco Pico as a reader of Sextus Empiricus, with a facing text of Pico’s quotations from Sextus, pp. xviii-104, 2007 [materiali, 3]. xxiii. Luis Vives, L’aiuto ai poveri (De subventione pauperum), a cura di Valerio Del Nero, pp. viii-116, 2008 [materiali, 4]. xxiv. Cornelius Gemma. Cosmology, Medicine and Natural Philosophy in Renaissance Louvain, a cura di Hiro Hirai, pp. 160, 2008 [studi, 10]. xxv. Gabriel Naudé, Epigrammi per i ritratti della biblioteca di Cassiano dal Pozzo, a cura di Eugenio Canone, Germana Ernst, traduzione di Giuseppe Lucchesini, pp. 64, 2009 [testi, 6]. xxvi. Sylvie Taussig, L’Examen de la philosophie de Fludd de Pierre Gassendi par ses hors-texte, pp. viii-100, 2009 [materiali, 5]. xxvii. Giordano Bruno, Acrotismo Cameracense. Le spiegazioni degli articoli di fisica contro i Peripatetici, a cura di Barbara Amato, pp. 144, 2009 [testi, 7]. xxviii. Enciclopedia bruniana e campanelliana, diretta da Eugenio Canone, Germana Ernst, vol. ii, cura redazionale di Giuseppe Landolfi Petrone, pp. xvi, coll. 402, 2010 [enciclopedie e lessici, 2]. xxix. Tommaso Campanella, Selected Philosophical Poems, edited, annotated, and translated by Sherry Roush, pp. 172, 2011 [testi, 8]. xxx. Bertrando Spaventa, Scritti sul Rinascimento (1852-1872), con appendice e materiali testuali, a cura di Giuseppe Landolfi Petrone, pp. 390, 2011 [testi, 9]. xxxi. Eugenio Canone, L’Argomento degli Eroici furori di Bruno, pp. 128, 2011 [materiali, 6]. xxxii. Ornella Pompeo Faracovi, Lo specchio alto. Astrologia e filosofia fra Medioevo e prima età moderna, pp. 212, 2012 [studi, 11]. xxxiii. Emblematics in the Early Modern Age. Case Studies on the Interaction Between Philosophy, Art and Literature, edited by Eugenio Canone, Leen Spruit, pp. 120, 2012 [studi, 12]. xxxiv. Christophe Poncet, La scelta di Lorenzo. La Primavera di Botticelli tra poesia e filosofia, testo francese con traduzione italiana di Germana Ernst, pp. 120, 2012 [studi, 13]. xxxv. Bernardino Telesio tra filosofia naturale e scienza moderna, a cura di Giuliana Mocchi, Sandra Plastina, Emilio Sergio, pp. 184, 2012 [studi, 14]. xxxvi. The Animal Soul and the Human Mind: Renaissance Debates, edited by Cecilia Muratori, pp. 244, 2013 [studi, 15]. xxxvii. Dilwyn Knox, Copernico e la gravità. La dottrina della gravità e del moto circolare degli elementi nel De revolutionibus, pp. 128, 2013 [studi, 16].

xxxviii. Tommaso Campanella, Tre questioni politiche contro Aristotele, a cura di Germana Ernst, 2013, pp. 116 [materiali, 7]. xxxix. Jacques Gaffarel between Magic and Science, edited by Hiro Hirai, 2014, pp. 120 [studi, 17]. xl. Tommaso Campanella, Libro apologetico contro gli avversari dell’Istituto delle Scuole Pie. Liber apologeticus contra impugnantes Institutum Scholarum Piarum, a cura di Maurizi0 Erto, pp. 80, 2015 [materiali, 8]. xli. Tommaso Campanella, Economica. Questioni economiche, a cura di Germana Ernst, pp. 132, 2016 [materiali, 9]. xlii. Enciclopedia bruniana e campanelliana, diretta da Eugenio Canone, Germana Ernst, vol. iii, cura redazionale di Delfina Giovannozzi, Manlio Perugini, pp. xviii, coll. 414, 2017 [enciclopedie e lessici, 3].