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Italian, German, English Pages 713 [714] Year 2020
Luigi Enrico Rossi κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο. Scritti editi e inediti Volume 3: Critica letteraria e storia degli studi
Luigi Enrico Rossi
κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο Scritti editi e inediti
Volume 3: Critica letteraria e storia degli studi a cura di Giulio Colesanti e Roberto Nicolai con la collaborazione scientifica di Maria Broggiato, Andrea Ercolani, Manuela Giordano, Laura Lulli, Michele Napolitano, Riccardo Palmisciano, Livio Sbardella, Maurizio Sonnino con il supporto redazionale di Francesco Paolo Bianchi, Enrico Cerroni, Enzo Franchini, Virgilio Irmici, Michelangelo Pecoraro e con la supervisione editoriale di Serena Pirrotta
ISBN 978-3-11-064491-3 e-ISBN (PDF) 978-3-11-064814-0 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-064505-7 Library of Congress Control Number: 2019953754 Bibliographic information published by the Deutsche Nationalbibliothek The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available in the Internet at http://dnb.dnb.de. © 2020 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Druck und Bindung: CPI books GmbH, Leck www.degruyter.com
| κηληθμῷ δ’ ἔσχοντο κατὰ μέγαρα σκιόεντα (Od. 11. 334, 13. 2)
Indice Sezione 7: Critica letteraria
[nr.]> Bibliografia
1. [36] I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche | 3 2. [94] L’ideologia dell’oralità fino a Platone | 38 3. [128] Lo spettacolo | 63 4. [132] Tipologia del non autentico nel mondo antico | 105 5. [144] L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi | 109 6. [146] L’autore e il controllo del testo nel mondo antico | 122 7. [203] Introduzione all’incontro. Appunti sulle consuetudini editoriali nei testi letterari classici | 141
Sezione 8: Storia degli studi
[nr.] > Bibliografia
1. [49] Rileggendo due opere di Wilamowitz: Pindaros e Griechische Verskunst | 153 2. [55] Karl Reinhardt fra umanesimo e filologia | 176 3. [56] scheda bibl. Ed. Fraenkel, Seminari baresi (1967, 1969) | 194 4. [58] Umanesimo e filologia (A proposito della Storia della filologia classica di Rudolf Pfeiffer) | 195 5. [60] Premessa, in Due seminari romani di Eduard Fraenkel | 215 6. [77] Grammatica greco–latina e metrica in Italia fra il 1860 e il 1920 | 234 7. [89] La letteratura della Magna Grecia negli ultimi cento anni | 254
x | Indice
8. [96] Gli studi greci e latini in Italia prima e dopo l’unità | 267 9. [103] Gli studi aristofanei di Ettore Romagnoli | 276 10. [125] L’approccio non classicistico di Pasolini alla tragedia greca | 282 11. [136] La méthode philologique de Jean Baptiste Gaspard d’Ansse de Villoison et le Venetus Marcianus A | 291 12. [148] Schadewaldt und die griechische Lyrik | 302 13. [170] Riflettendo ancora sull’insegnamento di Fraenkel | 311 14. [185] Insegnare e imparare il greco oggi: la lingua e la cultura | 321
Sezione 9: Ricordi e presentazioni
[nr.] > Bibliografia
1. [95] Sul libro di Giovanni Sega La traduzione dal greco | 339 2. [102] Ricordo di Carlo Gallavotti | 342 3. [109] Premessa, in Studia classica Iohanni Tarditi oblata | 346 4. [111] Conclusioni, in Giornate di studio su Gennaro Perrotta | 350 5. [112] Presentazione della Miscellanea Tarditi | 355 6. [129] Presentazione de I Greci di Einaudi | 358 7. [137] Presentazione delle Vite di Plutarco | 363 8. [138] Presentazione de La musica nel teatro di Pierluigi Petrobelli | 367 9. [150] Commemorazione di Margherita Guarducci | 371 10. [151] Ricordo di Scevola Mariotti (1920–2000) | 373 11. [159] Presentazione degli Scritti in onore di Italo Gallo | 379
Indice | xi
12. [163] Il Teocrito di Gregorio Serrao | 386 13. [166] L’approccio di Marcello Gigante al mondo antico | 397 14. [173] Presentazione de La musica in cento parole di Arrigo Quattrocchi | 406 15. [174] Ricordo di Giovanni Leto | 411 16. [177] Presentazione de Il fiore degli inferi di Paolo Nencini | 413 17. [178] Goethe e l’antico, a cura di Mauro Ponzi e Bernd Witte | 419 18. [179] Presentazione de La lontananza dei greci di Giorgio Camassa | 425 19. [181] Un esploratore della parola | 432 20. [182] Presentazione degli Scritti di Letteratura greca e di storia della Filologia di Giacomo Bona | 443 21. [183] Presentazione del carteggio Tecchi–Valgimigli | 453 22. [186] Presentazione de La lettura nel mondo ellenistico di Lucio Del Corso | 460 23. [188] Nel ricordo di Roberto Pretagostini | 463 24. [189] Metrica e scena. Roberto Pretagostini e il dramma greco | 465
Sezione 10: Varia
[nr.] > Bibliografia
1. [8] rec. A. Colonna, La letteratura greca | 487 2. [11] scheda bibl. I. Lana – A. Fellin, Antologia della letteratura latina, I, Dalle origini all’età di Cicerone | 496 3. [18] scheda bibl. Papiri dell’Università degli Studi di Milano (P. Mil. Vogliano) | 497
xii | Indice
4. [22] Primo congresso internazionale di micenologia | 498 5. [32] Come nasce l’edizione di un classico? | 503 6. [52] Qui te primus ‘deuro de’ fecit (Petron. 58.7) | 506 7. [75] La «blanda follia» dei lirici greci | 521 8. [76] Il romanzo di Alessandro ancora oggi non ha finito di crescere | 524 9. [99] Le parole, la musica e il racconto | 528 10. [101] Il dialetto genovese | 530 11. [104] Riflessioni conclusive, in Intertestualità: il dialogo fra testi nelle letterature classiche | 538 12. [110] Un nuovo vocabolario di greco | 547 13. [119] Sui Greci, oggi | 552 14. [123] Filologia classica e informatica | 554 15. [133] Editoriale | 564 16. [141] Le pecore di Cratino | 566 17. [156] Observations prosodiques, métriques et linguistiques sur le Codex des Visions, Poèmes divers | 569 18. [157] Il nostro credito nei confronti dell’antico e alcuni modi per esigerlo | 572 19. [161] rec. W. V. Harris, Restraining Rage. The Ideology of Anger Control in Classical Antiquity | 579 20. [164. A] Introduzione alla Letteratura greca | 584 21. [164. 1, 7, 9] La giovinezza e la vecchiaia in Grecia | 618
Indice | xiii
22. [164. 3, 5, 11] La donna in Grecia | 627 23. [164. 8] Evoluzione della pronuncia del greco | 637 24. [172] Discorso per la presentazione degli Scritti | 640 25. [180] Lectio magistralis (Freiburg im Breisgau 2005) | 648 26. [184] Le intenzioni dei poeti: delectare e/o docere? | 654 27. [191] What Ancient Egypt meant and means to Mankind | 661 28. [192] Modi della comunicazione e configurazione del testo. Un esercizio di critica testuale ed esegetica (Erodoto, Storie 1.123 s.) | 669 29. [194] Intervista al prof. Rossi | 672 M. Pecoraro – E Cerroni 30. [196] Gluck, quasi duemila e duecento anni dopo Euripide | 675 Index nominum | 678 Index locorum | 693
| Sezione 7: Critica letteraria
I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche sua cuique proposito lex, suus decor est Quint. 10.2.22
1 Premessa (limiti della presente ricerca) Parlare delle leggi dei generi letterari antichi nel giro di una breve trattazione, come qui mi propongo di fare, può sembrare da una parte impresa ambiziosa, essendo il tema troppo vasto; dall’altra può sembrare impresa del tutto inutile, essendo il tema apparentemente familiare e ovvio. Alla prima obiezione vorrei rispondere denunciando fin da principio i limiti, o meglio il ‘genere’ stesso della prestazione. Si tratta di una visione panoramica, necessariamente priva di numerosi dettagli, che dovrebbe segnare, almeno per me, le linee di una ricerca futura in questo campo, fatta da una angolazione lievemente diversa da quella che è stata in uso finora. Una semplice proposta, quindi, o, meglio, una serie di proposte. Molto di quello che dirò è stato già detto, sia pure per lo più in contesti differenti: ma nei riferimenti bibliografici e nell’accennare ai problemi mi atterrò ad un criterio arbitrariamente selettivo e non sempre dichiarerò il mio debito verso altri. Quest’ultimo apparirà comunque evidente, anche se qualche volta lo ignorerò io stesso; e otterrò il vantaggio di non appesantire troppo l’esposizione con un apparato erudito, che, in un argomento come questo, non potrebbe mai essere esauriente. Necessariamente, per di più, i primi risultati di una simile ricerca saranno in gran parte provvisori: essi avranno bisogno di essere ulteriormente controllati, verificati, eventualmente accresciuti. Quello che m’incoraggia alla redazione è il fatto che le idee qui esposte hanno già avuto ascoltatori pazienti e benevoli, che hanno contribuito non poco a renderle più chiare.1 Della esposizione orale, di cui offro qui
|| [Articolo pubblicato in «BICS» 18, 1971, pp. 69–94 (ma già prima letto in varie conferenze, per cui vd. n. 1); ripubblicato in F. Ferrari – M. Fantuzzi – M. C. Martinelli – M. S. Mirto (edd.), Dizionario della civiltà classica, I, Milano, BUR, 1993, pp. 47–84 (con l’aggiunta della nota iniziale *: “Queste pagine sono dedicate alla memoria di P. Fortunato Torniai S.J. Fu lui che, negli anni del liceo, mi fece conoscere il sistema hegeliano di Boeckh e mi sensibilizzò alla problematica dei generi. Lo ricordo con grato affetto.”)] https://doi.org/10.1515/9783110648140-001
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una parziale rielaborazione, saranno peraltro rimasti alcuni pregi, ma anche forse molti difetti. La risposta alla seconda obiezione sarà più complessa e articolata. In realtà l’importanza predominante del genere letterario per le letterature classiche in generale, e per la greca arcaica in particolare, è fatto a tutti ben noto. Le leggi che governano le opere di letteratura sono in origine un prodotto per gran parte spontaneo della situazione storica, nel senso più largo, in cui opera l’autore. All’origine le opere letterarie nascono dalla precisa ‘richiesta’ di un pubblico che vuole determinati tipi di produzione per determinate occasioni ed esige che certe ‘attese’ siano soddisfatte. Passiamo in rapida rassegna i generi più importanti: l’epica narrativa, la cosiddetta epica didascalica, l’elegia e il giambo, la lirica monodica, la lirica corale religiosa e ‘secolare’, il teatro, la storia, l’oratoria. Per alcuni di essi la nostra conoscenza della situazione storica in cui nascono e fioriscono è del tutto soddisfacente: per esempio, per il teatro conosciamo piuttosto bene l’Atene del V secolo, la società che chiedeva un determinato tipo di spettacolo, il modo in cui si svolgevano i concorsi drammatici, i gusti e le reazioni del pubblico di fronte alle varie soluzioni prospettate dagli autori. Ma, per esempio, che cosa sappiamo dell’epica omerica? Possiamo utilizzare la testimonianza, interna ad Omero stesso, su Femio e Demodoco, immaginandoci che l’epica fosse intrattenimento di società regali e ristrette? O l’epopea omerica, nella forma in cui l’abbiamo, appartiene già ad una fase in cui l’epica era diventata passatempo del popolo, com’era sicuramente al tempo del ciclo e com’è oggi presso quei popoli che hanno i cantastorie? E passiamo a considerare Esiodo: per che pubblico ha scritto la sua opera più problematica, le Opere e i giorni? Si tratta di un manuale per l’agricoltura destinato ai suoi compaesani beoti o di uno scritto moralistico–parenetico indirizzato al fratello Perse? O di altro ancora? Abbiamo toccato i due estremi, quanto a condizionamenti storici, il genere che conosciamo meglio e quelli che conosciamo peggio, per i quali forse non troveremo mai risposte soddisfacenti. In mezzo si situano gli altri, per i quali l’informazione non è abbondante, ma è sufficiente o almeno agevolmente integrabile. Prendiamo il ‘campionario’ pindarico. Troviamo gli epinici, che erano scritti su commissione di grossi borghesi, abbastanza ricchi da permetter-
|| 1 Per l’invito un grazie cordiale ai miei ospiti: C. F. Russo, Bari 28.2 e 2.3.1970; E. W. Handley, Londra 28.5.1970; H. Lloyd–Jones, Oxford 1.6.1970; P. Fedeli, K. Müller e M. Puelma, Friburgo/ Svizzera 3.6.1971; Th. Gelzer e O. Gigon, Berna 7.6.1971. A loro e a tutti gl’intervenuti anche un ringraziamento per le critiche e i contributi. Devo molto anche a Gian Biagio Conte, Scevola Mariotti, Gregorio Serrao e Vincenzo Tandoi.
I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche | 5
si lo sport in un’epoca in cui esso non era ancora professionale, o addirittura di personaggi di stirpe regale: tali composizioni, destinate com’erano quasi sempre a una festa pubblica alla quale il popolo partecipava in massa, non sfuggivano all’interesse della massa stessa, ed intendo dire con questo che l’avvìo era dato, sì, dal gusto dei committenti, ma che essi non potevano prescindere dai gusti della società in cui vivevano e alla quale non erano certo in grado di dettar legge completamente (ed è ovvio che, qui in particolare, ci sarà da far distinzione fra regione e regione, fra città e città: penso, per Pindaro, alle differenze fra i committenti principeschi di Sicilia e i vari altri ambienti della Grecia propria in cui operò, Atene, Egina etc.). Tralasciamo qui le altre composizioni secolari, sempre prodotte per occasioni concrete, come per esempio il simposio. La lirica religiosa a sua volta (inni, peani, ditirambi etc.) veniva commissionata dalle amministrazioni cittadine e rispondeva forse più direttamente ancora alle esigenze del pubblico: e qui bisognerebbe per di più distinguere fra le composizioni strettamente cultuali e quelle letterarie (pensiamo a quanto importante questa distinzione sia, per esempio, per il ditirambo). Inutile dilungarci qui sulle occasioni per cui venivano scritti l’elegia e il giambo, la lirica monodica; sulle esigenze a cui rispondevano i logografi e gli storici fino ad Erodoto (con Tucidide si sente l’influenza di un ambiente nuovo, e nell’impianto dell’opera e nella scelta del tema); sull’oratoria, che, nel IV secolo, è forse l’ultimo vero e proprio genere strettamente legato ad un pubblico nel senso antico e che sopravvive, nelle sue pur recentemente fissate forme canoniche, praticamente a tutti gli altri. La problematica che abbiamo qui panoramicamente passata in rassegna è familiare agli studiosi e il sottoporla a nuovo esame sarebbe giustificabile solo da parte di chi fosse in grado di sfruttare su scala totale le recenti acquisizioni dell’antropologia, della storia economica, della storia in generale. Vorrei qui solo aggiungere che il chiarire perché e come certe esigenze si siano via via determinate e imposte agli autori è compito che lasciamo agli storici; e che delicato è soprattutto il distinguere quanto venga realmente ‘imposto’ da un pubblico e quanto sia prodotto delle singole scuole poetiche o delle personalità creatrici, capaci anche di una autonoma autodisciplina compositiva, e capaci così di influire a loro volta sul gusto stesso dei loro pubblici. Questione di misura, che lo storico risolverà secondo la sua vocazione: è certo, comunque, che la Grecia arcaica fa pendere il piatto della bilancia dalla parte del pubblico. Ma è allo storico della letteratura che spetta la ricostruzione delle leggi formali a cui gli autori obbedivano. Ricordiamo, per esempio, il ‘codice’ tematico dell’epinicio: καιρόϛ, μῦθοϛ, γνώμη. Per la letteratura arcaica tali leggi si devono ricavare
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da un e s a m e i n t e r n o delle opere stesse, in mancanza di concrete testimonianze esterne: e la storia dei nostri studi è per gran parte proprio la faticosa riconquista di queste leggi. Gioverà ricordare i principali di tali elementi di caratterizzazione: la t e m a t i c a ovvero i contenuti, la s t r u t t u r a ovvero la disposizione delle parti e le dimensioni, la l i n g u a ovvero il dialetto e il livello stilistico, ed infine il m e t r o ; si aggiungano la m u s i c a e la d a n z a , quand’esse sono presenti. La diversa compresenza e il dosaggio di tali elementi dà alle opere letterarie dell’antichità quella particolare fisionomia che ci porta ad assegnarle ad uno o ad altro genere letterario. Ci porta, ho detto: ma in questo itinerario critico siamo stati preceduti dagli antichi, e non solo dai grammatici più tardi, ma anche dagli autori stessi, che ben conoscevano le regole del genere in cui si accingevano a comporre. Il derivare gli elementi del nostro giudizio sulle opere di letteratura solo dalle opere stesse può comportare qualche pericolo: più sicuro è farci guidare, almeno inizialmente, dalle formulazioni critiche degli antichi, beninteso quando il materiale in questo senso non ci manchi completamente.2
|| 2 Fra le caratteristiche sopra elencate, quella che è stata maggiormente studiata – quasi sempre come categoria moderna – è la lingua. Ma anche qui molto resta da fare: v., per le Gattungssprachen del greco, il quadro pessimistico di H. Happ, Glotta 45 (1967) 84 n. 1 (alle opere da lui elencate aggiungerei almeno un libro fondamentale, G. Björck, Das Alpha impurum und die tragische Kunstsprache, Uppsala 1950; e in genere gli studi degli svedesi, come A. Wifstrand, L. Bergson etc.). Non mancano alcune ricerche su fatti minuti, ma importanti per la caratterizzazione dei generi: per es. Th. Wendel, Die Gesprächsanrede im gr. Epos u. Drama der Blütezeit, Stuttgart 1929; R. Führer, Formproblem–Untersuchungen zu den Reden in der frühgr. Lyrik, München 1967; e maggior conoscenza dei livelli stilistici in rapporto ai generi potrebbe chiarirci la estensione relativa di fatti come la elisione e la sinalefe (v. RFIC 97 (1969) 433ss., spec. 440s.). Bisogna ricordare, inoltre, l’opera e l’insegnamento di Eduard Fraenkel, la cui sensibilità al livello linguistico e stilistico (sia nel greco sia nel latino) è stata sempre uno dei suoi caratteri dominanti di studioso. Per il latino v. H. Happ, Glotta 45 (1967) 60–104 (panorama a p. 85s.; a p. 86 n. 2 Happ annuncia uno studio più ampio) e, data la differenza col greco, le critiche ad Axelson di G. Williams, Tradition and Originality in Roman Poetry, Oxford 1968 p.743ss. Quanto al tema specifico del dialetto, il primo studio scientifico, fondato sull’evidenza linguistica (oggi ovviamente invecchiato), è H. L. Ahrens, Ueber die Mischung der Dialekte in der gr. Lyrik, Kl. Schr. I, Hannover 1891 [1852] p. 157ss. (p. 181: “Der Grund liegt… in dem Umstande, … dass mit den Klängen bestimmter Dialekte sich die Eindrücke ihrer eigentümlichen Dichtungsweisen für jedes hellenische Ohr untrennbar verbanden und selbst durch ein leises Anschlagen der Saiten eines jedes Dialektes sympathetisch erweckt werden konnten”). Per musica e danza si dà il caso che praticamente nulla ci è noto direttamente, in modo che la nostra conoscenza passa necessariamente attraverso la teoria antica: per l’ethos musicale fondamentale il lavoro di H. Abert (1899) e v. da ultimo quello di W. D. Anderson (1966, rist.
I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche | 7
Non va dimenticato, del resto, che il tipo di considerazione per generi, che appare oggi così ovvio, ha lungamente sofferto, specialmente in Italia, della dittatura culturale di Benedetto Croce, che negava valore al genere per la valutazione dell’opera, relegandolo in un secondo tempo tutt’al più al ruolo di ‘pseudoconcetto’ filosofico.3 Era una reazione, certo necessaria, agli eccessi della critica positivistica, che in maniera pericolosamente meccanica aveva recepito la teoria dei generi da una lunga tradizione di cultura, che, attraverso il medioevo e l’umanesimo, aveva creato i nuovi ‘codici’ nel rinascimento e li aveva trasmessi agli accesi polemisti delle querelles e al romanticismo tedesco.4 Ma opere vigorose come la Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (1948) di Ernst Robert Curtius hanno riportato anche da noi l’interesse su questo campo d’indagine, che in realtà la filologia classica non aveva mai ignorato: è dell’immediato ieri la più o meno esplicita polemica anticrociana di una personalità come Giorgio Pasquali5 e basterà ricordare l’influenza duratura che ebbero per le nostre discipline i famosi corsi, redatti nella Encyclopädie, di August Boeckh,6 che dominò gli studi sull’antichità classica dal principio a oltre la metà del secolo scorso.
|| 1968); per la danza e la distinzione fra tragedia, commedia e dramma satiresco (ἐμμέλεια, κόρδαξ, σίκιννις) v. L. B. Lawler, The Dance of the Ancient Greek Theatre, Iowa City 1964. Interessante l’isolamento di un ‘ethos del gesto’ da parte di F. Lasserre, “Mimésis et mimique”, Atti II Congr. internaz. Dramma antico, Siracusa 1967, Roma 1970 p. 245ss. (e dai lavori di G. Capone, 1935 e di A. Spitzbarth, 1946 si potrebbe tentare un primo spoglio dell’evidenza data dagli scoli al teatro). 3 V., in proposito, le vivaci pagine di M. Barchiesi, Maia 12 (1960) p. 247ss. Mario Fubini, Critica e poesia, Bari 1956, spec. p. 143ss. resta fedele a Croce, pur mostrandosi sensibile a esigenze nuove, e accentua il carattere di “semplici strumenti” dei generi e la loro “provvisorietà” (p. 147; avvicinandosi a Dewey, p. 254ss.). 4 Il miglior lavoro sulla storia dei generi nella cultura europea è Irene Behrens, Die Lehre von der Einteilung der Dichtkunst vornehmlich vom 16. bis 19. Jahrhundert. Studien zur Geschichte der poetischen Gattungen, Beihefte zur Zeitschrift für romanische Philologie, H. 92, Halle/Saale 1940. V. anche K. Borinski, Die Antike in Poetik u. Kunsttheorie. Von Ausgang des klassischen Altertums bis auf Goethe u. Wilhelm von Humboldt, I.II, Leipzig 1914–24; B. Weinberg, A History of Literary Criticism in the Italian Renaissance, I.II, Chicago 1961. Bibliografia ulteriore anche in Wellek–Warren, cit. oltre (n. 10), al cap. 17. 5 Per il complesso atteggiamento di Croce di fronte all’antichità classica v. da ultimo p. Treves, Croce e l’antico, in Lezioni crociane, Univ. di Trieste, Fac. di Lettere e Filosofia, 1967 p. 45ss. Da parte di Pasquali un certo ‘cedimento’ sulla questione dei generi in Stravaganze quarte e supreme, Venezia 1951 (ristamp., Firenze 1968) p. 22s. [1929]. 6 A. Boeckh, Encyclopädie und Methodologie der philologischen Wissenschaften, hsg. v. E. Bratuscheck. 2. Aufl. besorgt v. R. Klussmann, Leipzig 1886. Come si apprende dal Vorwort di
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Ora, se le costanti morfologiche delle opere letterarie ci fanno certi, ieri come oggi, dell’esistenza di leggi, quello che invece è incerto o per lo meno poco chiaro – e che non mi pare sia stato fatto mai oggetto di ricerca autonoma ed estensiva – è quale vita le leggi stesse abbiano avuta nel periodo, che appare lungo, in cui non erano state ancora fissate indipendentemente per iscritto; quale fosse la coscienza che gli autori ne avevano: quando precisamente, a seconda dei diversi generi, siano state ‘codificate’; e soprattutto quale sia stato di volta in volta lo s c o p o di tali codificazioni e quali ne siano state le c o n s e g u e n z e per l’attività creatrice. In altre parole, il cammino dalle l e g g i n o n s c r i t t e alle l e g g i s c r i t t e è stato lungo, diverso per i singoli generi e non senza importanti conseguenze per la stessa produzione letteraria. Quello che si è dimenticato troppo spesso è che il genere letterario era una categoria essenziale della stessa e s t e t i c a a n t i c a, categoria che ha avuto vita ed influenza complesse ed articolate. È significativo che una gran parte di quella critica filologica che non ha ignorato i generi li abbia assunti esclusivamente come categoria p r o p r i a , m o d e r n a di giudizio: i generi sono hegelianamente per Boeckh, per esempio, delle categorie immanenti (la poesia, rappresentata da epos lirica dramma, a cui corrisponderebbero, per la prosa, storia filosofia oratoria).7 E solo indiretta (ma, entro tale limite, certamente cospicua) può essere l’utilità, per noi classicisti, della forte rinascita d’interesse per i generi presso la critica letteraria recente e recentissima. Essa si rivolge infatti allo studio di opere moderne, spesso restringendosi addirittura alla letteratura d’una lingua o d’un complesso politico–sociale determinato, o magari a un ristretto numero di generi di maggior successo attuale (il romanzo, per esempio), come tali più utili a servir da ‘reagenti’ per l’intelligenza di sviluppi storici o per l’esegesi di situazioni sociali. Di tale critica sarebbe utile fare un consuntivo per quanto riguarda il tema specifico dei generi. Ci contenteremo qui del
|| Bratuscheck, i ventisei semestri dei corsi metodologici di Boeckh si distribuirono nel periodo 1809–1865. 7 Boeckh, Encyclopädie, passim. I generi corrispondono a categorie immanenti (p. 144ss.; “nach der geistigen Auffassungsweise”, p. 648). È messo per di più l’accento sul Nationalcharakter (per es. p. 128), oltre che sull’individualità dell’autore (p. 124ss.). Ma anche uno storico così sensibile e poliedrico come Boeckh, che giustamente affermava su piano teorico (pur in contraddizione colle premesse) essere le caratteristiche del genere stabilite “in steter Rücksicht auf die lebendigen historischen Verhältnisse” (p. 143) ed essere fondamentale il riconoscimento dello Zweck dell’opera (pp. 131s., 144), non arrivò a studiare il rapporto concreto che lega le leggi dei generi alle varie situazioni, o meglio occasioni storiche.
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succinto ma lucido panorama offerto qualche anno fa da Peter Szondi,8 che, accanto alla negazione crociana (nata come reazione alla hegeliana “Historisierung der Gattungspoetik”, per la quale “Lyrik, Epik, Dramatik werden aus systematischen Kategorien zu historischen”), ricorda da una parte la posizione diametralmente opposta a Hegel rappresentata dalla ipostatizzazione astratta delle tre categorie nei Grundbegriffe der Poetik di Emil Staiger (1946), per cui ‘Lyrik’, ‘Epik’, ‘Dramatik’ diventano ‘lyrisch’, ‘episch’, ‘dramatisch’; e dall’altra la maggior fedeltà alla storia (sempre nel quadro dello storicismo tedesco) che è alla base soprattutto di un Lukács (Die Theorie des Romans era del 1914; più importante per noi è Der historische Roman, del 1957). Ma gli sviluppi recentissimi annunciano, in questo campo, frutti più ricchi ancora: mi riferisco all’interesse predominante per questioni di forma che, dalla riscoperta dei formalisti russi, arriva alla critica letteraria ispirata, in maggiore o minor misura, allo strutturalismo. I generi letterari hanno qui un ruolo protagonistico e, considerati come un ‘sistema di segni’, riscuotono e riscuoteranno ampio interesse nell’ambito della semiologia.9 Da tutto questo può venire a noi utilità indiretta, dicevo: perché il riscoprire oggi con tanta maggiore urgenza la necessità di una considerazione per generi, tale da portare ad indagare la vitalità di certi tipi di prestazione letteraria nelle varie culture e società e la coscienza che delle leggi dei generi stessi abbiano gli autori e i pubblici, non può non condurre il classi|| 8 P. Szondi, Theorie des modernen Dramas, Frankfurt/Main 1963 (11956) p. 10s. Sul libro, e sulla sua importanza per la teoria moderna dei generi, C. Cases, Saggi e note di letteratura tedesca, Torino 1963 p. 330ss. (introduzione alla traduz. ital.). 9 I formalisti russi rappresentano un momento nuovo d’interesse per i generi. Avendo ad oggetto di considerazione la letteratura russa, domina presso di loro l’interesse per la narrativa e le sue categorie, ma importanti sono le aperture sulla tecnica del verso, non senza rilevanza per la teoria dei generi stessi. V. V. Erlich, Russian Formalism, 11954 (più volte ristamp. e trad. in ital., Milano 1966) e Théorie de la littérature, 1965, antologia a cura di T. Todorov (trad. in ital., Torino 1968): interessante, qui, la fine dell’ultimo saggio di Tomaševskij e quello di B. Ejchenbaum sul “metodo formale”. Per lo strutturalismo possiamo ricordare, fra le formulazioni più estensive e recenti, Th. A. Sebeok, in Style in Language, edito dallo stesso, Cambridge/Mass. 1960 spec. p. 221s.; R. Jakobson, ibid. p. 357s.; E. Stankiewicz, in Poetics… [I], The Hague 1961 spec. pp. 11s., 16s. Un’applicazione specifica alla ballata romantica, con osservazioni teoriche, in Cz. Zgorzelski, ibid. p. 689ss. Recentissimo è T. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Paris 1970 spec. p. 7ss., che, tra l’altro, polemizza contro i tentativi del tutto astratti di costruire una nuova classificazione (‘archetipale’) dei generi di N. Frye, Anatomy of Criticism, Princeton 1957 (trad. in ital., Torino 1969). Sempre di Todorov v. anche Poétique in Qu’est–ce que le structuralisme?, Paris 1968. Per un panorama italiano v. I metodi attuali della critica in Italia, a cura di M. Corti e C. Segre, Torino 1970, spec. pp. 336ss. (C. Segre), 414 (M. Corti). Importanti osservazioni sul rapporto generi–autore in C. Segre, I segni e la critica, Torino 1969 pp. 72, 87ss., 89ss. e pass.
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cista, per ovvie analogie di situazioni storiche, a impostare lo stesso problema per l’antichità classica, rimeditando in luce nuova i frutti di una plurisecolare indagine filologica. Giacché – indipendentemente dal maggiore o minore valore teorico che ad esso si voglia assegnare – il genere letterario è un’ i s t i t u z i o n e, colla quale lo storico deve fare i conti perché è uno degli elementi che hanno influenzato l’autore e fa parte quindi del quadro complessivo che gli compete di tracciare.10 Sarà forse utile eliminare qui in anticipo un possibile equivoco. Risulterà chiaro, dal séguito, che una fissazione scritta non rende più cogenti le leggi, ovvero che l’influsso positivo dell’istituzione non è direttamente proporzionale alla sua oggettività. Si vedrà, anzi, che tende ad esser vero proprio il contrario, che, cioè, una maggiore oggettività può dare influsso di segno negativo, ‘a rovescio’. Le scelte espressive (e penso alla lingua stessa) sono tutte in una certa misura ‘obbligate’, condizionate cioè da una t r a d i z i o n e che le carica di certi contenuti o valenze espressive, indipendentemente dalla fissazione scritta di leggi. Tali leggi da una parte non possono essere ignorate anche quando siano non scritte, e dall’altra, anche se codificate, possono essere superate in virtù di una scelta innovatrice, che svecchi dei moduli espressivi e li rivolga con intenzione ad altre più o meno imprevedute direzioni. Considerazioni simili dovrebbero essere oggi del tutto ovvie, ma vorrei portare, ad illustrarle, un esempio illuminante e sicuramente familiare: la musica europea dalla nascita dell’espressività strumentale nel XVII secolo fino ai nostri giorni, per la quale la prassi compositiva è stata accompagnata da una teoria, la famosa ‘dottrina degli affetti’ o Affektenlehre. Anche qui la teoria nasce dal consolidarsi storico di una determinata prassi, per cui per esempio una tonalità o un ritmo hanno una loro carica espressiva, si legano, cioè, ad un determinato ‘affetto’, il che dà origine a un sistema oggettivo di norme; ma in séguito la prassi potrà innovare rispetto al sistema normativo costituitosi in precedenza e darà alle nuove scelte espressive un sapore particolare proprio in virtù dell’opposizione a una tradizione che non è ignorata proprio perché ad essa coscientemente ci si contrappone. Tutto questo non esclude successivi ritorni alla tradizione, magari attra-
|| 10 “The literary kind is an ‘institution’ – as Church, University or State is an institution. It exists, not as an animal exists or even as a building, chapel, library, or capitol, but as an institution exists. One can work through, express oneself through, existing institutions, create new ones, or get on, so far as possible, without sharing in politics or rituals; one can also join, but then reshape, institutions.” (R. Wellek–A. Warren, Theory of Literature, 1949, e più volte ristamp., cap. 17, prendendo da Harry Levin).
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verso esperienze ‘laterali’, ‘non canonizzate’ o popolari: come dice Šklovskij, “nella storia della letteratura l’eredità viene trasmessa non di padre in figlio, ma da zio a nipote” (quella che i formalisti chiamavano ‘canonizzazione del ramo cadetto’).11 È quello che, fra altro, vedremo avvenire nella letteratura alessandrina. Da quanto abbiamo anticipato, si vede come una storia delle leggi dei generi debba cominciare fin dall’epoca arcaica, dall’epoca, cioè, in cui, come vedremo in sufficiente dettaglio, le leggi stesse non sono state ancora redatte, ma sono presenti alla coscienza degli autori: per quest’epoca sono quindi gli autori stessi che vanno interrogati sulle leggi. Saranno redatte solo più tardi, e in modo sistematico solo in epoca ellenistica, ad opera di poeti e di poeti–filologi: e a noi resterebbe solo il compito di raccoglierne gli sparsi materiali. È significativo che un grande studioso dell’alessandrinismo come Rudolf Pfeiffer abbia ispirato, in anni fra loro lontani, due dei pochissimi lavori che, a quanto so, si occupano organicamente del nostro tema: Hans Färber, Die Lyrik in der Kunsttheorie der Antike, München 1936, che è una ordinata raccolta delle testimonianze con un tentativo d’individuazione delle fonti per il materiale più tardo; e A. E. Harvey, “The Classification of Greek Lyric Poetry”, Classical Quarterly 5 (1955) 157– 75, che è un tentativo, esemplare nel metodo, di distinguere la teoria e la terminologia alessandrina da quella che era la prassi (e certamente anche la teoria implicita) dell’età arcaica. Questi due lavori tuttavia, come si vede anche dai titoli, si limitano alla lirica.12 Lo stesso Wilamowitz13 aveva richiamato a suo tempo la necessità di raccogliere le testimonianze relative ai diversi generi della lirica: anche lui aveva limitato la sua attenzione alla lirica. Recentissimo è, infine, il lavoro di Severin Koster, Antike Epostheorien, Wiesbaden 1970, ispirato da Peter Steinmetz: esso ci sarà utile nel séguito, anche perché la categoria ‘epos’ è per gli antichi così vasta da ricoprire forme assai varie. Ma molto resta ancora da fare, ché molti sono i generi letterari. Ed è proprio per questa ragione che non si può considerare senza un certo rammarico il fatto che la monumentale History of Classical Scholarship (Oxford 1968) di Pfeiffer stesso trascuri di affrontare in modo unitario il nostro problema, dando almeno un panorama coerente del
|| 11 Cit. da Erlich, op. cit. cap. XIV. Lascio qui da parte la dottrina etica della musica antica o Ethoslehre (v. n. 2), alla quale peraltro accennerò in fine, a causa della sua natura completamente diversa da quella della musica moderna. Qualche anticipazione in tal senso ho data in Atene e Roma 14 (1969) 42–6. 12 Per la quale v. anche l’introduzione a H. Weir Smyth, Greek Melic Poets, London 1900. 13 Cit. da Harvey, art. cit. p. 157.
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materiale. Strano: non solo quest’opera egregia, trattando della filologia e della letteratura alessandrine, è ricchissima di materiale in tal senso (e ad essa siamo e saremo largamente debitori per lo studio di questo e di molti altri fatti), ma proprio da Pfeiffer, esemplare editore di un Callimaco, ci saremmo aspettati una maggior sensibilità al problema.14 Se la mia informazione non è insufficiente, appare quindi chiaro che ancora manca una ricerca complessiva che veda le leggi dei generi d a l l ’ e s t e r n o , come un dato storico autonomo, e che almeno ponga il problema del momento, diverso per ciascuno dei generi, in cui si sia cominciato a redigerle per iscritto; e soprattutto, come già si è detto, il problema delle finalità delle redazioni stesse e dell’influenza sul lavoro creativo. Quando si parla di estetica antica, altri sono, in generale, i problemi che si affrontano: la funzione e lo scopo della poesia, nella contrapposizione o nell’accordo fra il ‘giovare’ e il ‘dilettare’, fra l’utile e il dulce, e cioè fra la cosiddetta tendenza etica e quella edonistica; il ‘mestiere’ del poeta e la coscienza della sua missione, che comporta il problema dell’ispirazione e della sua origine, divina o no; la verità o meno di quello che il poeta canta; l’inquadramento sociale del poeta e il modo in cui una realtà economica e sociale lo accoglie (in altre parole: chi gli dà il pane quotidiano?);15 e basterà solo un accenno ai numerosi problemi connessi con una visione filosofica della vita e della storia, come quello della contrapposizione ποίησιϛ/μίμησιϛ, se cioè la poesia sia creazione vera e propria o imitazione.16 Nello sfondo, naturalmente, i generi letterari non mancano: e questo è favorito dall’esistenza di una dottrina altamente organizzata degli s t i l i , dottrina che nasce però più tardi, colla
|| 14 Merita menzione anche il quadro tracciato dalla Behrens, op. cit. (n. 4) pp. 1–32 (Die Antike): ma la filologia alessandrina è praticamente ignorata (procede per grossi autori, senza porsi gran che il problema delle fonti) e per di più trascura l’aspetto morfologico dei singoli generi (suo scopo è principalmente quello d’inseguire le tre grandi categorie dell’epico, del drammatico e del lirico attraverso l’estetica europea). Di scarsa utilità è invece J. J. Donohue, The Theory of Literary Kinds. Ancient Classifications of Literature, Dubuque/Iowa 1943. Utile è il panorama di J. Stroux, “Die Anschauungen vom Klassischen im Altertum”, in Das Problem des Klassischen und die Antike (hsg. v. W. Jaeger), Stuttgart 1933 p. 1ss.; e, più specifico, P. Steinmetz, “Gattungen und Epochen der griechischen Literatur in der Sicht Quintilians”, Hermes 92 (1964) 454ss. = Rhetorica, Hildesheim 1968 p. 451ss. La Wissenschaftliche Buchgesellschaft di Darmstadt annuncia M. Fuhrmann, Einführung in die antike Dichtungstheorie. 15 Su questo problema, affacciatosi da non molto all’orizzonte degli interessi di studio dei filologi, v. F. Lasserre, “La condition du poète dans la Grèce antique”, Études de Lettres (Univ. de Lausanne) 5 (1962) 3ss. 16 Per l’estetica arcaica v. G. Lanata, Poetica pre–platonica. Testimonianze e frammenti, Firenze 1963 (con commento). Per le epoche successive non è il caso di dar qui bibliografia.
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retorica, e d’altra parte lo stile è solo uno degli elementi che caratterizzano i vari generi, come si è detto. Ma i generi – ripetiamo – entrano quasi sempre in discussione per una valutazione moderna dell’opera; mentre andrebbero considerati come parte integrante di una teoria che, scritta o non scritta, è sempre esistita, fin dal momento in cui i Greci hanno affrontato la creazione letteraria colla chiara coscienza di una tradizione da seguire, fino, cioè, dall’epoca arcaica. Insomma, quello che mi pare che manchi non è tanto una storia dei g e n e r i , che specialmente nel caso dell’antichità classica deve ovviamente identificarsi colla storia della letteratura, quanto una storia delle l e g g i che hanno disciplinato i generi stessi. È chiaro che un solido lavoro d’insieme può nascere solo sulla base di numerosi ulteriori lavori monografici, sul tipo dei pochi segnalati qui sopra. Che la presente breve trattazione sia solo uno schizzo non è cosa che, dopo quanto ho detto all’inizio, abbia bisogno di ulteriore giustificazione.
2 Il quadro di Didimo – Proclo Il panorama più ampio, e anche relativamente dettagliato, dei generi letterari antichi, pur limitato a quelli poetici, ci viene offerto da Fozio nella sua Biblioteca, dove, nel cod. 239 (318 b 21 ss.), riassume la Crestomazia di Proclo o almeno una parte di essa. La principale distinzione è tra poesia narrativa, o meglio espositiva (διηγηματικόν) e mimica (μιμητικόν): dicotomia, quindi, e lasciamo da parte il rapporto fra la tricotomia platonica e la dicotomia aristotelica.17 Sotto la prima categoria cadono l’epos, il giambo, l’elegia e la poesia melica; sotto la seconda tutto il teatro, e cioè la tragedia, il dramma satiresco e la commedia. Quello che richiama maggiormente l’attenzione di Proclo è la poesia melica, particolarmente ricca di sottocategorie (πολυμερεστάτη), per la quale viene data una distinzione in poesie religiose o dedicate agli dei (εἰς θεούς: inno, prosodio, peana, ditirambo, nomos, adonidio, iobacco, iporchema) e poesie secolari o dedicate agli uomini (εἰς ἀνθρώπους: encomio, epinicio, scolio, canto amoroso, epitalamio, imeneo, sillo, treno, epicedio), mentre alcune composizioni vengono considerate di tipo misto (εἰς θεοὺς καὶ ἀνθρώπους: partenio, dafneforico, tripodeforico, oscoforico, invocazione augurale). Lasciamo qui da parte l’ultima sottocategoria, quella dei componimenti chiamati ‘per situazioni occasionali’
|| 17 Il problema è ancora aperto: v. i commenti di A. Gudeman, Berlin u. Leipzig 1934 e di D. W. Lucas, Oxford 1968 ad Ar. a.p. 48 a 20 ss.
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(τὰ εἰς τὰς προσπιπτούσας περιστάσεις), che sembrano essere al confine fra forme di tipo letterario e forme ancora fedeli a modelli popolari. Fozio scrive il suo riassunto nel IX secolo; Proclo è il neoplatonico del V secolo o, più probabilmente, il grammatico del II. Certamente la dottrina che Proclo riporta è più antica, e precisamente alessandrina. La distinzione fra poesia religiosa e secolare si trovava già in Platone (resp. 607 a ὕμνους θεοῖς καὶ ἐγκώμια τοῖς ἀγαθοῖς, cf. legg. 822 b).18 Ma la fonte originaria di Proclo è sicuramente l’opera περὶ λυρικῶν ποιητῶν di Didimo Calcentero, il grammatico alessandrino del I secolo a.C. che raccoglie e sistema circa due secoli di ricerche filologiche. I parallelismi fra Proclo e i pur scarsi frammenti di Didimo19 sono troppo forti: a parte corrispondenze terminologiche, c’è anche un impianto del tutto simile, e cioè per ogni genere sono dati i principali rappresentanti e – quel che più c’interessa – le caratteristiche salienti (soprattutto contenuto, stile, metro), messe in rilievo da frequenti ‘distinguo’. La derivazione è confermata dai contatti che Proclo mostra colla Vita Ambrosiana di Pindaro, anch’essa di buona fonte alessandrina, e strettamente vicino è anche un passo di Polluce (4.52 ss.).20 Inutile ritracciare qui una storia che ben si conosce e che oggi troviamo lucidamente esposta in Pfeiffer. Tale impostazione del lavoro e tale ordinamento del materiale letterario risultava del tutto naturale dopo l’opera dei primi grandi filologi alessandrini, soprattutto Aristofane e Aristarco, che erano stati editori di testi e avevano finalizzato le loro schematizzazioni prevalentemente a scopi editoriali: pensiamo ai πίνακες callimachei, schedatura universale delle opere letterarie divise secondo i generi,21 e ai cosiddetti canoni, ovvero elenchi di autori considerati classici (πραττόμενοι, ἐγκριθέντες), divisi per categorie letterarie:22 epici giambografi tragediografi commediografi elegiaci lirici, per la poesia; oratori–sofisti storici– geografi grammatici medici filosofi, per la prosa; e presso i Romani, fino a Quintiliano e oltre, ai canoni di autori greci, variamente tramandati, si affiancheranno quelli di autori latini. Per quanto possa apparire deludente, il quadro trasmessoci da Proclo, e risalente a Didimo, è il frammento più ampio, per estensione e completezza di materiale, di un tipo d’indagine filologico–letteraria che potremo fin da ora || 18 A. Severyns, Recherches sur la Chrestomathie de Proclos, II, Liège–Paris 1938 p. 114. 19 Didymi Chalcenteri … fragm. … coll. et disp. M. Schmidt, Leipzig 1854 p. 386ss. 20 Harvey, art. cit. p. 159; Färber, op. cit. I p. 18. 21 Pfeiffer, op. cit. p. 127ss., cf. pp. 152, 160, 181, 218. 22 O. Kroenert, Canonesne poetarum scriptorum artificum per antiquitatem fuerunt?, Diss. Koenigsberg 1897; Pfeiffer, op. cit. p. 207, richiama giustamente il fatto che la parola ‘canone’ con questo valore risale a Ruhnken (1768).
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chiamare d e s c r i t t i v a e che appare a suo luogo in epoca ellenistica, un’epoca che tende a ‘tirar le somme’, a inventariare il patrimonio storico– letterario, facilitata nella sua distaccata razionalistica freddezza dal fatto che praticamente tutti i grandi generi letterari non sono ormai più forme vive, a causa del mutato rapporto fra l’autore e il pubblico.23 La cosa più importante, in questo momento storico, è avere una g u i d a p e r c o m p r e n d e r e le opere del passato.
3 L’epoca arcaica: leggi non scritte, ma rispettate Abbandoniamo adesso per un momento gli alessandrini, che chiaramente – da quanto si è visto – scrivono le leggi, per poi tornare ad essi attraverso una ordinata percursio cronologica. Domandiamoci prima di tutto: in epoca arcaica, quando la disciplina dei generi è ancora legata ad esigenze vive, era verosimile o anche soltanto possibile che ci fossero delle leggi scritte? In altre parole, quando Pindaro componeva i suoi epinici, aveva davanti a sé un ‘manuale’ che ne contenesse le regole essenziali? Nella Nemea IV (forse del 473) Pindaro sta narrando le imprese di Telamone e a un certo punto s’interrompe (33s.) dicendo: “il raccontare per esteso tutta la lunga storia mi è vietato e dalla l e g g e e dal tempo che fugge” (τὰ μακρὰ δ᾽ ἐξενέπειν ἐρύκει με τ ε θ μ ό ς || ὧραί τ᾽ ἐπειγόμεναι). Le parole τεθμός e τέθμιος ricorrono anche altrove (Ol. 7.88, 13.29, Isthm. 6.20, Pae. 6.57; importante è ritrovare τεθμός in Call. ia. 13 (fr. 203 Pf.).41, il che conferma la sua qualità di termine tecnico della teoria letteraria). Che cosa può essere il τεθμός se non la l e g g e d e l g e n e r e , e cioè in questo caso dell’epinicio? E per legge si sa ormai che intendo l’incontro fra le richieste di un committente, le esigenze di un pubblico e la autodisciplina dell’autore. Nell’Istmica I viene detta press’a pocola stessa cosa (60ss.): “di raccontar tutto … me lo vieta la breve misura dell’inno” (πάντα δ᾽ ἐξειπεῖν …||…|| … ἀφαιρεῖται βραχὺ μέτρον ἔχων || ὕμνος).24 Del resto Pindaro, insieme con le frequenti ben
|| 23 V., per il fatto in generale del rapporto col pubblico, G. Williams, op. cit. (n. 2), cap. II (The Poet and the Community). A p. 35 la felice caratterizzazione del poeta alessandrino: “They took the forms of poetry… and used them as moulds which could shape and even suggest their own poetic ideas. In doing this, they treated the relationship to real occasions as part of the convention: so they composed hymns to the gods, without any idea of performing them, or they wrote epitaphs, without any idea of inscribing them on a gravestone, or they wrote symposiastic poetry, without having any real drinking–party in mind.” 24 Per questi passi pindarici v. C. M. Bowra, Pindar, Oxford 1964 p. 196; G. Norwood, Pindar, Berkeley and Los Angeles 1956 p. 167. Anche nell’epica si può riconoscere coscienza di leggi
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note allusioni al suo ‘mestiere’ e al modo come lo esercita in confronto cogli altri, ha anche delle notazioni strutturali minute, come nell’Olimpica VI dove al principio (1ss.), dopo la bella immagine architettonica che rappresenta l’epinicio, afferma che l’inizio dev’essere “splendente da lontano” (ἀρχομένου δ᾽ ἔργου πρόσωπον || χρὴ θέμεν τηλαυγές).25 E non solo Pindaro coltivava molti altri generi della poesia corale di cui ovviamente conosceva le leggi, ma nel frammento di un treno (fr. 139 Sn.) ne fornisce addirittura un elenco, dandone per di più alcune caratteristiche: peana, ditirambo, lino, imeneo, iàlemo.26 C’è da credere che queste leggi fossero già scritte e che Pindaro lavorasse con un manuale? Direi che questo è escluso proprio dal fatto delle frequenti riflessioni sulla poesia e sulla tecnica che compaiono nelle composizioni poetiche e di lui e di altri poeti,27 come se proprio le poesie fossero la sede più naturale (e certamente unica!) in cui parlare di queste cose, coinvolgendosi anche in appassionate polemiche personali. Nell’epoca arcaica i πρὸς τὸν δεῖνα – le opere polemiche che in epoca ellenistica saranno trattatelli in prosa – sono proprio i carmi. D’altra parte, anche in mancanza di opere tecniche specifiche, tacere delle leggi non si può: ogni opera che le ignori è condannata all’insuccesso, esse sono l’espressione più chiara del legame col pubblico. E quale sia la parte più qualificata di questo pubblico abbiamo già visto: si tratta, in epoca arcaica, dei rappresentanti dell’alta cultura, della finanza, del potere politico. Una piccola oligarchia, a cui si contrappone una eletta schiera di artigiani del verso, educati alla tecnica ed eletti a questo da nascita o da contatti coll’ambiente elevato. Da chi hanno imparato Simonide, Pindaro, Bacchilide a scrivere epinici, e prima di loro da chi aveva imparato Alcmane a scrivere parteni? Si è trattato sicuramente di un ‘apprendistato di bottega’. Hanno imparato dai loro immediati predecessori e contemporanei, dal contatto diretto coi loro committenti, magari assistendo loro stessi alle feste, religiose e profane. Ce lo dice bene Bacchilide (Pae. 5.1 s.): “l’uno impara dall’altro, così in antico come oggi” (ἕτερος ἐξ ἑτέρου σοφός || τό τε πάλαι τό τε νῦν). C’è qui una delle più belle affermazioni del sen-
|| compositive (l’ordine narrativo?): v. il κόσμος ἀοιδῆς o κ. ἐπέων in θ 489, Parmenide, Democrito (S. Koster, op. cit. pp. 5, 24). Interessante l’ipotesi di R. Di Donato, Ann. Sc. Norm. Pisa S. II 38 (1969) 267 n. 121: in θ 492 μετάβηθι indicherebbe una deviazione dall’“ordine normale dei canti” (e sarebbe da mettere in relazione con α 10 ἁμόθεν). 25 T. B. L. Webster, CQ 33 (1939) 170. 26 Pindaro ha anche notazioni eurematologiche: fr. 70 b, 71, 125 Sn. (A. Kleingünther, Πρῶτοϛ εὑρετής, Leipzig 1933 p. 136). 27 Fra i pochissimi frammenti che ci son rimasti di Pratina ce n’è uno (PMG 713. ii) in cui il poeta faceva una chiara affermazione polemica di ordine morfologico–formale (le composizioni di Xenodamo sarebbero state da considerarsi iporchemi, e non peani).
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so della tradizione, del legame ad un passato che non si rinnega,28 anche se qualche volta questa tradizione è sentita come un peso, come nel famoso frammento di Cherilo di Samo (fr. 1 Kinkel): “beato chi poetava in antico, ché era più libero; ora tutto è regolato da ferree leggi”.29 Ma si tratta di recusationes compiaciute, dalle quali traspare l’orgoglio dello ζῆλος poetico.30Riportiamo parole di van Groningen: “Ainsi s’accumulent petit à petit une foule d’observations de détail transmises et précisées de génération en génération jusqu’à ce qu’à un moment donné on les combine en un système”.31Né il poeta aveva bisogno di un manuale n o r m a t i v o , come vedremo che parzialmente avverrà in seguito, né il pubblico aveva bisogno di un manuale d e s c r i t t i v o , come abbiamo già visto per l’età ellenistica: troppo legati sono gli uni e gli altri a un costume letterario che deriva dalla vita stessa. Abbiamo qui ben più che un semplice argumentum ex silentio dato dalla sola mancata sopravvivenza di fonti: avremmo torto a considerar perduto quello che ogni verosimiglianza porta a considerare come mai esistito. Abbiamo parlato dell’arcaismo maturo. Ma in epoca più arcaica ancora, in cui la regolamentazione dei generi appare ugualmente rigorosa, ancora più improbabile è l’esistenza di manuali. Pensiamo al nomos citarodico di Terpan|| 28 Secondo D. Pinte, AntClass 35 (1966) 459ss. Bacchilide (10.35–45) ci fornirebbe il primo catalogo conservato di generi letterari che ambisca a una certa completezza: poesia lirica, ovvero epinici; poesia religiosa; poesia erotica; didattica agricola e pastorale. Parole come σοφός, ποικίλος e θυμὸν αὔξειν farebbero chiaro che c’era anche una gerarchia di valori. 29 Choeril. fr. 1 Kinkel: ἆ μάκαρ, ὅστις ἔηνκεῖνονχρόνου ἴδρις ἀοιδῆς, Μουσάων θεράπων, ὅτ᾽ ἀκήρατος ἦν ἔτι λειμών· νῦν δ᾽ ὅτε πάντα δέδασται, ἔχουσι δὲ π ε ί ρ α τ α τέχναι, ὕστατοι ὥστε δρόμου καταλειπόμεθʼ, οὐδέ πῃ ἔστι πάντη παπταίνοντα νεοζυγὲς ἅρμα πελάσσαι. Cf. l’atteggiamento, anch’esso di cosciente orgoglio, di Antiph. fr. 191 K., dove è detto che il poeta tragico è più fortunato perché ha la strada segnata, mentre il comico deve ‘inventare’ tutto di suo. 30 L’esigenza di originalità, addirittura come richiesta di un pubblico, appare ai primordi della letteratura greca: α 351 s. τὴν γὰρ ἀοιδὴν μᾶλλον ἐπικλείουσ᾽ ἄνθρωποι ἥ τις ἀκουόντεσσι νεωτάτη ἀμφιπέληται. E i poeti arcaici introdurranno l’esigenza in prima persona, come Pratin. PMG 710 οὐ γᾶν αὐλακισμέναν ἀρῶν, ἀλλ᾽ ἄσκαφον ματεύων. 31 B. A. van Groningen, La composition littéraire archaïque grecque, Leiden 21960 p. 22. Questo libro è ricco di efficaci osservazioni sui generi e sul legame col pubblico (per es. pp. 22ss., 98, 388ss.; etc.).
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dro, che nel VII secolo introduce a Sparta la prima ‘legge’ o κατάστασις musicale, e alle parti della composizione, rigidamente fissate: ἀρχά, μεταρχά, κατατροπά, μετακατατροπά, ὀμφαλός, σφραγίς, ἐπίλογος.32 E anche il ditirambo presenta fin da epoca arcaica una regolamentazione precisa:33 l’unica difficoltà è qui la distinzione fra il ditirambo cultuale e quello letterario, ma è chiaro che il secondo è in qualche modo legato al primo. C’è però chi pensa che l’esistenza di manuali di tecnica letteraria sia da considerarsi possibile, anzi probabile, almeno per la fine del periodo che stiamo considerando.34 Laso di Ermìone, il maestro di Pindaro per la musica, avrebbe scritto per primo un περὶ μουσικῆς λόγος (Suda s.v.), il che proverebbe l’esistenza del genere manualistico, distinto dall’insegnamento orale e dalla pratica diretta. Siamo di fronte a un manuale, non c’è dubbio,35 ma consideriamo che si tratta qui di un campo che dai greci stessi veniva ritenuto strettamente legato alla scienza, e precisamente alla matematica (dai Pitagorici in poi, sia pure in diversa misura) e che in ogni caso la musica presentava per gli antichi, così come presenta per noi oggi, aspetti ben più – direi – prepotentemente tecnici che non la letteratura. Nel corso del V secolo c’è una ricca fioritura di manuali tecnici: quello di Policlèto sulla scultura, di Parrasio sulla pittura, di Agatarco sulla scenografia, di Anassagora e di Democrito sulla prospettiva, di Ippodamo di Mileto sulla costituzione politica e sull’urbanistica, di Metone sul calendario.36 Senza contare il fatto che man mano, col nascere dell’interesse storico e col raffinarsi della tecnica storiografica, sorge un nuovo tipo di ricerca letteraria che possiamo definire s t o r i c a , per contrapporla a quelle che più sopra abbiamo definite n o r m a t i v a e d e s c r i t t i v a . Nasce l’interesse per lo stabilimento della cronologia, assoluta e relativa, e per il πρῶτος εὑρετής di espedienti e forme.37 Giova qui ricordare la figura di quello che le fonti ci danno come il primo storiografo della letteratura e della musica insieme, Glauco di Reggio (V secolo), figura centrale e poco conosciuta.38 La lista potrebbe conti-
|| 32 Proprio dalla morfologia del nomos, così evidentemente retta da regole, van Groningen (op. cit. p. 22) evince l’antichità delle regole stesse in generale. 33 Harvey, art. cit. p. 173. 34 Di tal parere è per es. Webster, art. cit. p. 170s., che evince l’esistenza del manuale letterario dall’esistenza del manuale musicale di Laso. 35 G. A. Privitera, Laso di Ermione, Roma 1965 p. 37s. 36 Webster, art. cit. p. 170s.; E. G. Turner, Athenian Books in the Fifth and Fourth Centuries B.C., London 1951 p. 18. 37 Kleingünther, op. cit. (n. 26) pp. 23s., 135ss. 38 G. L. Huxley, GRBS 9 (1968) 47ss.
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nuare con opere come i Καρνεονῖκαι di Ellanico, le notizie storico–letterarie date da Erodoto (5.67, sulla tragedia) etc. Sembra chiaro che la riflessione sulla letteratura si concreti all’inizio in opere storiche, e che se di manuale si vuol parlare si dovrà parlare di manuale storico: per le opere normative e descrittive dovrà passare ancora qualche tempo. Da una parte il tipo di ricerca storica c’interessa qui di meno, in realtà solo per l’assegnazione più o meno estrinseca e tradizionale delle varie figure di poeti a determinati generi (epici, lirici, giambografi etc.); e dall’altra siamo ormai in pieno V secolo e stiamo così passando all’epoca che chiameremo classica per contrapporla alla prima, l’arcaica, e alla terza, l’ellenismo. Possiamo concludere la considerazione della prima assegnandole la formula “ l e g g i n o n s c r i t t e , m a r i s p e t t a t e ” ; e possiamo anticipare per la seconda la formula “ l e g g i s c r i t t e e r i s p e t t a te”.
4 L’epoca classica: leggi scritte e rispettate La seconda epoca, che facciamo arrivare fino ad Aristotele, è per noi di particolare interesse. Assistiamo a due fenomeni in stretta relazione fra loro. Alcuni generi si estinguono, come la grande lirica corale (Pindaro muore intorno al 438 e nei suoi ultimi anni è ormai un sopravvissuto); altri nascono e raggiungono in breve un ruolo di primo piano, come la tragedia, la storia, l’oratoria. L’epica è sempre coltivata, naturalmente: ma le diverse reazioni di gusto di fronte a un ‘omerico’ come Antimaco fanno capire che essa non tiene più quel posto di primo piano che aveva in precedenza; e del resto c’era stata la polemica dei filosofi contro lo stesso Omero. Dall’altra parte assistiamo all’inizio, non subito e non sempre sistematico, della ‘codificazione’ delle leggi. Che cosa poteva contenere l’opera di Sofocle περὶ χοροῦ, di cui c’informa la Suda? Ci si dice che era un’opera in prosa scritta contro Tespi e Cherilo, ma niente apprendiamo sul suo contenuto. Era un’opera sulla tragedia in generale? Sofocle ci viene dato dalle fonti biografiche come l’inventore di una serie di espedienti tecnici (il terzo attore, quindici coreuti invece di dodici, scioglimento del singolo dramma dalla tetralogia, ‘scenografia’), anche se per alcuni di essi ci sono dubbi sulla veridicità delle fonti: c’era materiale comunque sufficiente per un lavoro sulla tecnica teatrale. O si trattava solo di problemi tecnici del coro e delle parti liriche? E che senso preciso poteva avere la polemica? Più problematici ancora sono alcuni passi delle Rane di Aristofane. Tutto Aristofane è ricco di notazioni di critica letteraria, preziose per noi che cerchiamo di ricostruire il gusto del pubblico dell’epoca. Ma alla nostra ricerca potrebbero interessare soprattutto alcuni accenni, il cui significato non è stato ancora del tutto chiarito. In ran. 862
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Euripide dà, come elementi costitutivi della tragedia, “le parti recitate, le parti cantate, i nervi della tragedia” (τἄπη, τὰ μέλη, τὰ νεῦρα τῆς τραγῳδίας): c’è sotto una schematizzazione teorica già formata delle parti del dramma? E, in questo caso, che cosa sono τὰ νεῦρα τῆς τραγῳδίας? Il mito, l’intreccio narrativo, oppure si tratta di un’apposizione ai due elementi precedenti? L’ultima ipotesi è stata decisamente rifiutata da Eduard Fraenkel, che ha giustamente voluto salvare il tricolon, e recentemente Carlo Ferdinando Russo, sulla base di importanti paralleli interni e di un passo di Erodoto (2.48) e uno di Platone (legg. 644 e), ha proposto d’interpretare τὰ νεῦρα … come “i fili della Tragedia”, i fili, cioè, che fanno muovere i personaggi, immaginati come marionette (personaggi, movimento scenico più regìa nel senso più ampio, cioè).39 Ma più di questo non possiamo dire, anche se chiediamo aiuto al v. 1114, dove il coro incoraggia gli spettatori a partecipare al giudizio che si deve dare dei due tragici: gli spettatori, infatti, sarebbero competenti, perché “ciascuno, avendo il suo libro, è in grado di capire il giusto” (βιβλίον τ᾽ ἔχων ἕκαστος μανθάνει τὰ δεξιά). Che cos’era questo βιβλίον? Un manuale di poetica e di estetica, come alcuni credono,40 oppure ‘libri’ in generale, per significare che gli spettatori non sono degli analfabeti? Oppure le opere di Eschilo e di Euripide (cf. v. 52s.), su cui gli spettatori possono controllare quello che si dice sulla scena? La natura dell’allusione aristofanea ci implicherebbe anche nel problema, che dalla Einleitung in die griechische Tragödie di Wilamowitz ad oggi ha già una lunga storia, del libro nel V secolo e della sua diffusione.41 Possiamo solo dire che l’esistenza di leggi scritte è, a questo momento, per lo meno probabile. Per avere un sistema organizzato, che ci sia conservato, dovremo aspettare la fine del IV secolo colla Poetica di Aristotele: ma sono proprio le frequenti allusioni polemiche di lui a dei predecessori che ci pongono il problema dell’humus su cui il suo insegnamento è nato.42 Si sa che nella Poetica si parla solo di epos e soprattutto di teatro: sostanzialmente ignorata è la lirica (ad eccezione di ditirambo e nomos), e mi pare
|| 39 Ed. Fraenkel, Beobachtungen zu Aristophanes, Roma 1962 p. 173 n. 3; C. F. Russo, Aristofane autore di teatro, Firenze 1962 p. 323ss. (e Greece & Rome 13 (1966) 9 n. 1). 40 M. Pohlenz, GGN 1920 p. 142ss. = Kl. Schr. II p. 436ss. pensava a un manuale di Gorgia come fonte per la terminologia critico–letteraria delle Rane. Oggi l’ipotesi non trova fortuna (v. M. Gelzer, RE, Suppl.–Bd. 12 (1971) col. 1491); ma Pohlenz stesso, Hermes 84 (1956) 72ss. = Kl. Schr. II p. 585ss. si era in gran parte ricreduto. 41 Wilamowitz credeva di poter ricostruire già per il V secolo una civiltà editoriale simile alla nostra; ma v., da ultimo, E. G. Turner, op.cit. (n. 36), spec. p. 16ss.; B. A. van Groningen, Mnem. 16 (1963) 1ss. 42 Sulle fonti della Poetica v. W. Kranz, Stasimon, Berlin 1933 p. 4ss. e il commento di Gudeman, cit. p. 9ss.
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che il fatto sia significativo.43 La lirica è ormai morta da tempo nelle sue forme originarie e Aristotele volge il suo interesse a generi che conservino un certo grado di vitalità. Le sue intenzioni appaiono chiare, ed è questo che fa di lui un anello fondamentale nello sviluppo degli studi: la sua opera (ed è gran perdita quella del περὶ ποιητῶν e della sezione sulla commedia) vuol essere a mio parere nello stesso tempo s t o r i c a, riallacciandosi all’interesse storico e antiquario risvegliatosi da almeno due secoli; d e s c r i t t i v a, per la illustrazione delle fasi anteriori e per lo studio scientifico della fase vissuta; e infine n o r m a t i v a, volta a dirigere, cioè, la produzione ulteriore di generi che vengono sentiti come ancora vivi, come appunto l’epos e il teatro, anche se sono vicini al loro tramonto:44 ed è proprio la sentita necessità, o anche soltanto utilità di queste norme che ci conferma quello che sappiamo per altra via, come cioè perfino la tragedia stia soffrendo un calo di vitalità, stia diventando anch’essa una specie di relitto. È qui che diventa importante il problema a cui accennavamo in principio, quello degli s c o p i delle trattazioni. Dovremmo essere in grado, specie da questo momento in poi, di seguire due vie convergenti, i cui risultati s’illuminerebbero a vicenda: da una parte mettere alla prova di un’indagine esauriente la ‘resistenza’ dei vari generi nel gusto dei consumatori, e cioè valutarne la vitalità; dall’altra riuscire a capire a quali finalità dovessero servire le codificazioni corrispondenti ai vari generi. È chiaro che una impostazione de-
|| 43 Ma non certo nel senso che si è voluto vedere da alcuni: per es. A. Rostagni, Arte poetica di Orazio, Torino 1930 p. xli ss. pensa che la lirica mal si sarebbe prestata alla distinzione forma– contenuto, facendo così di Aristotele un moderno influenzato dall’estetica idealistica! Direi che l’accenno in 60 a 7 sulla ‘spersonalizzazione’ del poeta sia significativo: il parlare in prima persona sarebbe la negazione della mimesi (qualcuno ha cercato di negare valore al passo, affermando che non si parla di lirica: certo, si parla di epos, ma ugualmente importante è l’esclusione della prima persona per l’epos!). La lirica interessa ad Aristotele solo per alcune notazioni storiche: ditirambo e nomos (cap. I), a cui vanno aggiunti gli ψόγοι autoschediastici, ὕμνοι, ἐγκώμια(48 b 27, cf. 23). La lirica era già diventata fatto letterario, elemento di remota tradizione già nel corso del IV secolo (Wilamowitz, Textgeschichte der gr. Lyriker, Berlin 1900 p. 14 e n. 5, che cita Alex. fr. 135 K., dove, nella biblioteca, è assente la lirica). 44 Il rapporto di Aristotele colla prassi tragica del suo tempo (T. B. L. Webster, Hermes 82 (1954) 294ss.) è problematico, visto che di tale prassi conosciamo così poco. Per esempio, il suo alto apprezzamento dell’Edipo re, che a suo tempo non aveva ricevuto il primo premio, deriva sicuramente da un mutato atteggiamento di gusto. Buone notazioni sull’argomento in E. M. Craik, CQ 20 (1970) 95ss. Notevole è, fra l’altro, il suo insistere sulle reazioni del pubblico teatrale: a.p. 49 a 8, 51 b 25s., 53 a 33ss. e tutto il cap. 26; pol. 42 a 18 ss. (cf. Plat. legg. 658 e); cf. tale interesse anche in Hor. a.p. 98, 100, 153–5, 190, 223s., 225s. etc.
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scrittiva si adatta ad un genere morto, mentre una normativa sarebbe in funzione di una pratica ancor viva, o che, nonostante tutto, si vuole mantenere ancora in vita. Abbiamo visto che in epoca arcaica la viva prassi non richiedeva alcun sussidio normativo, dato il particolare rapporto fra autore e pubblico; e che nel IV secolo la nascita di un sistema normativo per la tragedia coincide colla sua decadenza (certo la si voleva tenere in vita, come elemento tradizionale di una polis per rifiutare la cui decadenza non era sicuramente necessario appartenere a circoli reazionari a oltranza).45 Ma in questo momento ci si presenta un sistema chiaramente normativo, precettistico per almeno un genere vivo, anzi addirittura sorto da poco e già in pieno fiore: l ’ o r a t o r i a. Non dimentichiamo che nell’epoca che stiamo considerando, la seconda, è in atto un profondo rivolgimento nella situazione storico–sociale. Il nostro orizzonte è ristretto adesso praticamente alla sola Atene, ma questo ci permette di andare più in profondità, data la ricchezza della documentazione che abbiamo. La polis ateniese, dal suo sorgere fino alla crisi che si manifesta alle soglie dell’età ellenistica, ci mostra una partecipazione di pubblico che mai era stata così compatta e soprattutto così estesa, e la tragedia del V secolo ne era stata tipica espressione. Ma è solo nel IV secolo che l’oratoria arriva al massimo di successo e di diffusione. La sofistica aveva fatto della cultura un bene acquistabile e fruibile da tutti: essa era diventata un indispensabile bene di consumo e l’oratoria ne diventava il veicolo più importante, colla ricchezza delle sue forme. Penso soprattutto all’oratoria politica e a quella giudiziaria: l’homo novus che si dava alla politica e il cittadino comune che esercitava il mestiere dell’avvocato o che, nella molteplicità dei rapporti giuridici che nascevano da una società in espansione commerciale, aveva bisogno di assistenza legale, non erano più nelle condizioni degli arcaici, che producevano in pochi per un pubblico omogeneo sempre, ma più ristretto. La formazione di una t e c n i c a diventa adesso fatto di tutti, si devono trovare urgentemente altre vie, più veloci, a tutti aperte. Isocrate aveva inaugurato la sua scuola di retorica nei primi anni del IV secolo, ma il suo sistema non sembra fosse ancora definito in un trattato: resta ancora affidato all’insegnamento vivo, e il tono didattico compare qua e là nelle sue orazioni.46
|| 45 Viene in mente Augusto col suo programma politico–letterario di restaurazione del teatro latino, cosi come lo vediamo trasparire in Orazio (A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963 p. 154ss. (1950), anche se la situazione era politicamente ben diversa. 46 Da alcune testimonianze che parlano di τέχνη ο τέχναι (L. Radermacher, Artium scriptores, Wien 1951 p. 153ss.) si è voluto credere che esistesse una Retorica isocratea. F. Solmsen, Die Entwicklung der aristotelischen Logik u. Rhetorik, Berlin 1929 p. 204ss. (v. anche 215 n. 1) riteneva che la polemica aristotelica all’inizio della Retorica (οἱ τὰς τέχνας τῶν λόγων συντιθέντες)
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Ebbene, a soddisfare un bisogno universalmente sentito vengono i ‘codici’ del nuovo genere, le τέχναι ῥητορικαί o Arti retoriche, che, in diversa misura sistematizzate, sono già dei sofisti: ma i campioni più antichi a noi conservati completi sono la Rhetorica ad Alexandrum e la Retorica aristotelica.47 Specie quest’ultima si presenta, nell’impianto e nelle formulazioni, n o r m a t i v a quant’altra opera mai, e precisamente per un g e n e r e v i v o e in pieno fiore. La necessità della divulgazione è solennemente affermata da Aristotele fin dall’inizio, e viene fatta derivare dalla stessa generale u t i l i t à per t u t t i i cittadini: … π ά ν τ ε ς τρόπον τινὰ μετέχουσιν ἀμφοῖν [scil. dialettica e retorica]. π ά ν τ ε ς γὰρ μέχρι τινὸς καὶ ἐξετάζειν καὶ ὑπέχειν λόγον καὶ ἀπολογεῖσθαι καὶ κατηγορεῖν ἐγχειροῦσιν (54 a 4 ss.). È il quadro della nuova società, come l’abbiamo delineato sopra! E poi: “alcuni fanno questo a casaccio, altri fondandosi su una disposizione e una pratica; ma tanto vale αὐτὰ καὶ ὁ δ ῷ ποιεῖν” (ibid. 6 ss.; cf., poco più oltre, τέχνης ἔργον εἶναι; e cf., per la dialettica, top. 101 a 25ss.). Nell’Atene del IV secolo serve ormai un manuale che sia a disposizione dei moltissimi, che sono poi la totalità dei cittadini, che devono imparare a parlare in pubblico. Le Retoriche sono i primi veri e propri manuali divulgativi.48 È questa un’epoca, come si è detto, in cui molti generi nascono. Siamo in un momento in cui salgono le azioni della prosa, e per molti generi si tratta di una specie di ‘traduzione’ dalla poesia alla prosa. Non sappiamo quale grado di organizzazione sistematica avessero, altrove, gli sparsi accenni che troviamo in
|| fosse rivolta proprio contro il manuale di Isocrate. Ma tali ipotesi sembrano tutte da scartare, v. Münscher, RE 9.2 (1916) col. 2224; W. Kroll, RE Suppl.–Bd. 7 (1940) col. 1049. 47 La Rh. ad Alex, fu per lungo tempo creduta aristotelica, ma oggi la si attribuisce per lo più ad Anassimene di Lampsaco e la si colloca poco dopo la metà del IV secolo. Quanto a precedenti manualistici, le polemiche dell’inizio della Retorica aristotelica (e ricordiamo anche Plat. Phaedr. 266 d τὰ ἐν τοῖς βιβλίοις τοῖς περὶ λόγων τέχνης γεγραμμένοις) ci documentano una ricca fioritura del genere, che Aristotele stesso aveva studiato nella sua τεχνῶν συναγωγή, fr. 136ss. Rose (O. Navarre, Essai sur la Rhétorique grecque avant Aristote, Thèse Paris 1900, spec. p. 255ss.: Trasimaco, Teodoro di Bisanzio, Lisia, Iseo, Callippo, Anassimene). Importante per la formazione di Aristotele l’opera di Teodette di Faselide, di cui egli stesso avrebbe fatto una συναγωγή, fr. 125ss. Rose. In A. Burckhardt, Spuren der athenischen Volksrede in der alten Komödie, Diss. Basel 1924 vengono ipotizzate, già per la fine del V secolo, raccolte di Rede– Anfänge (προοίμια) e Rede–Schlüsse (ἐπίλογοι), redatte per Lehrzwecke. 48 Il Prof. A. Momigliano mi fece osservare che questi manuali potevano essere anche destinati a maestri di retorica, il che è del tutto possibile, anzi probabile, anche se non documentabile, a causa del poco che sappiamo della scuola del V e del IV secolo. Ma il fatto non cambierebbe la natura sostanzialmente ‘mediata’ del contatto fra autore e pubblico.
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Isocrate: nell’Evagora (9–11) si parla dell’elogio in prosa di un contemporaneo,49 nel περὶ τῆς ἀντιδώσεως (45s.) della storia letteraria, della storia politica e di nuovo dell’ ἔπαιvoς celebrativo (λόγους … Ἑλληνικοὺς καὶ πολιτικοὺς καὶ πανηγυρικούς); notevole che dichiari espressamente questi λόγους come ὁμοιοτέρους … τοῖς μετὰ μουσικῆς καὶ ῥυθμῶν πεποιημένοις, come eredi, cioè, e quasi nuova versione della grande lirica del passato. Se vogliamo in questo periodo tracce d’interesse teorico per la lirica, oltre che per epos tragedia commedia, dobbiamo cercarne sparsi accenni in Platone.50 Abbiamo già visto come la distinzione fra lirica religiosa e secolare, sicuramente anteriore a lui, sopravviva in Didimo–Proclo. Interessante notare che, parlando di generi lirici, come in legg. 700 b ss., prenda occasione alla determinazione di caratteristiche dei generi da una misoneistica reazione di fronte agli arbitri dei contemporanei, che mescolano un genere all’altro (πάντα εἰς πάντα συνάγοντες) ignorando le severe prescrizioni che la tradizione ha fissate per la musica. Anche qui Platone è intellettualista, antistorico e conservatore e il suo si direbbe un atteggiamento di precettistica ovvero n o r m a t i v i t à p e s s i m i s t i c a .51 Quello che importa ormai mettere in rilievo è che in questa seconda epoca le leggi sono r i s p e t t a t e, come già nella prima, e che, diversamente dalla prima, tendono a fissarsi p e r i s c r i t t o, pur con variabile grado di sistematicità. Tale tendenza si svilupperà nell’epoca successiva: ma è fin da adesso che la riflessione sulla poesia e sulle sue forme passa dalla penna del poeta a quella del teorico puro.
|| 49 Già i sofisti praticavano tale forma prosastica, ma non solo per i contemporanei, come notava Platone (symp. 177 b). 50 La tripartizione della poesia in μίμησις, διήγησις e δι᾽ ἀμφοτέρων è in resp. 393 b ss. Sui generi letterari e l’atteggiamento conservatore di Platone v. p. Vicaire, Platon critique littéraire, Paris 1960 p. 236ss. Harvey, art. cit. p. 159 n. 3 ricorda che la distinzione fra lirica monodica e corale è moderna e deriverebbe, senza reale fondamento, da Plat. legg. 764 d–e (v. anche Färber, op. cit. I p. 16s. e n. 1, che riporta anche Poll. 4.52 μέλη χορικά). È chiaro che Platone parte, come si vede dal contesto, da esigenze pratiche: diversa è la formazione del solista e l’istruzione di un coro! 51 V. anche legg. 701 a colla sua avversione per la θεατροκρατία τις πονηρά. Interessante in Ion 534 c l’assegnazione ‘personale’ di vari generi a seconda dei vari tipi d’ispirazione della musa.
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5 L’epoca alessandrina: la documentazione La terminologia di Platone, e quella che egli rispecchia, sono in più d’un particolare diverse da quella degli alessandrini, e fanno intravedere differenze anche di sostanza nella considerazione dei generi.52 Ed eccoci così di nuovo alla terza epoca, l’epoca dominata dalla filologia dei grammatici. Il fatto che essi siano spesso anche poeti dà un valore speciale alla loro attività teorica: l’inventario del patrimonio tradizionale è fatto con pietas di epigoni devoti. Ma i vecchi generi sono morti, la società è di nuovo cambiata: non più i p o c h i legati da un vincolo sociale determinato (le società arcaiche), non più i m o l t i integrati in un vasto contesto politico–sociale (la polis), bensì i p o c h i s s i m i legati da una tecnica che diventa un mestiere, la filologia, e da una passione, la poesia in un senso più moderno e vicino a noi. In altre parole: la letteratura è ‘consumata’ da quelli stessi che la producono. È questa un’epoca di leggi universalmente scritte e lo scopo che più salta agli occhi è quello della d e s c r i z i o n e . Gli antichi vanno capiti, prima di poterne curare l’edizione, e se ne descrivono le strutture. Eccessivo appare l’atteggiamento di Pfeiffer (History, cit. p. 183), quando afferma che “indeed the whole classification of lyric poems was determined by the needs of the editor, not by any older tradition of poetical theory or artistic practice”. Sembra quasi una giustificazione per aver tralasciato, come dicevamo all’inizio, il nostro tema. Direi, invece, che il criterio classificatorio (non certo improvvisato) e le necessità editoriali dovevano coincidere. Le suddivisioni, fra autore ed autore per assegnarli alle diverse categorie e interne ad essi per distinguere i vari generi (edizione di Pindaro) o i vari metri (edizione di Saffo), dovevano pur rispondere a un’idea delle forme che i filologi alessandrini si fossero fatta: e strano sembrerebbe un atteggiamento volutamente arbitrario, quando ben più naturale dovrebbe apparire un’adesione il più possibile fedele ad una tradizione storico–critica solida ed estesa come quella che abbiamo cercato di delineare qui sopra. Che poi tale adesione non riuscisse perfetta, come abbiamo richiamato a proposito della terminologia, sarà dovuto ad incomprensioni e a catacresi del tutto episodiche, di cui talvolta sono addirittura identificabili l’origine e il cammino.53 Non c’è dubbio: anche nel campo della critica letteraria una tradizione si è già formata ed essa viene rispettata, come ovvio corollario del rispetto della tradizione letteraria. Fin dall’inizio dell’epoca
|| 52 L’aver messo in luce questo fatto è merito non piccolo di Harvey, art. cit. (v. n. successiva). 53 Penso, per es., alla questione di ‘scolio’ ed ‘encomio’ com’è chiaramente esposta in Harvey, art. cit. p. 162ss.: progressiva restrizione del senso di ‘scolio’ e necessità, sentita più tardi, di un’altra designazione, ‘encomio’.
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di cui ci occupiamo, e quindi più di due secoli prima dell’opera di Didimo, numerosi sono i segni del costituirsi di una koiné critico–letteraria, avviata dalle prime grandi personalità di poeti–filologi, nella quale non c’è posto per innovazioni autoschediastiche. La critica letteraria di cui stiamo per trattare si riattacca tutta più o meno direttamente ad Aristotele, né si vede soluzione di continuità in fatto di metodi e di procedimenti. È bene ripetere che la prima esigenza, come premessa all’attività editoriale ‘a tappeto’ (Aristofane di Bisanzio), fu proprio quella della classificazione, che è poi la forma più elementare della descrizione (i πίνακες di Callimaco). Senza dubbio una funzione di primo piano fu svolta dal primo allievo di Aristotele, da Teofrasto, ma dei suoi due περὶ ποιητικῆς e del suo περὶ κωμῳδίας non siamo in grado di dir nulla.54 La scuola aristotelica s’interessò attivamente alla storia letteraria,55 e questo fu di gran peso per tutta la filologia alessandrina, pur se una parte di essa si pose in atteggiamento di polemica nei confronti del Peripato.56 Non ci è comunque in alcun modo chiaro quale delle diverse impostazioni della Poetica aristotelica dominasse le varie opere di critica, di cui spesso ci sono tramandati soltanto i titoli: ricorderemo il περὶ ποιητικῆς καὶ τῶν ποιητῶν di Eraclide Pontico (fr. 166 Wehrli), il περὶ σατύρων di Cameleonte (fr. 37 Wehrli), il περὶ ποιημάτων e il περὶ ποιητῶν di Prassifane, scolaro di Teofrasto (frr. 11–17 Wehrli), il περὶ ἰαμβοποιῶν di Lisania di Cirene, maestro di Eratostene (Pfeiffer pp. 146 n. 1, 153 e n. 3), il περὶ μελοποιῶν di Euforione ed Istro, di poco anteriori ad Aristofane (Pfeiffer p. 183). Inutile continuare qui ad elencare nomi e titoli, visto che questi ultimi si ripetono: basta pensare che tutta questa dottrina si riversa nell’opera di Didimo, dal quale il nostro panorama era cominciato.57 Né è il caso di occuparsi qui dei filoni di critica che si occupano di ποίημα, ποίησις e ποιητής, così come li vediamo rispecchiati nell’Arte poetica di Orazio, e ugualmente lasciamo da parte considerazioni su correnti stoiche ed epicuree: è che, tra i molti temi dell’estetica antica, c’interessa qui solo quello delle leggi dei generi.
|| 54 O. Regenbogen, RE, Suppl.–Bd. 7 (1940) col. 1532. 55 Un panorama degli scarsi resti della letteratura critica dei peripatetici, con riguardo alla distinzione dei generi, in S. Koster, op. cit. p. 85 n. 1. 56 V. per es. Pfeiffer, History, cit. p. 136ss. (Callimaco). 57 Un elenco, incompleto ma utile, di opere di critica letteraria fra Glauco di Reggio (sec.V a. C.) e Didimo in M. Schmidt, Didymi … fragm., cit. p. 386s. Su Didimo v. l’ultimo capitolo della History di Pfeiffer.
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Fra le opere dei critici, sarebbe per noi utile poter distinguere fra trattazioni descrittive e trattazioni storiche: questo è praticamente sempre disagevole, vista la scarsità o addirittura la mancanza dei frammenti, ma che il primo tipo, quello descrittivo, esistesse ed avesse notevole diffusione è certo per numerosi indizi. Interessante, per esempio, la vicenda dei termini μελικός e λυρικός così com’è delineata da Färber: il primo sarebbe usuale nella Kunsttheorie, l’altro nella storia secondo Dichterpersönlichkeiten.58 È, per di più, significativo per una classificazione per generi il fiorire fra i grammatici alessandrini di una letteratura come quella sulla λέξις κωμική, e cioè ricerche su lessico proprio di un genere determinato: a tal tipo di studi aveva dato inizio già Aristotele nella sua Poetica, quando indicava i nomi composti come tipici del ditirambo (59 a 9, cf. rhet. 1404 a 33, 05 b 35, 06 b 1),59 le ‘glosse’ come tipiche dell’epica (59 a 9 s., 61 a 10, cf. rhet. 04 b 23, 06 b 3), la metafora come tipica del giambo (59 a 10) e dell’esametro (59 b 36). Anche qui fioriva sicuramente tutta una letteratura volta a chiarire nello stesso tempo, come accadeva nella Poetica, origini e strutture, che dalla perduta trattazione aristotelica (forse conservata parzialmente nel Tractatus Coislinianus) arriva fino ai tardi περὶ κωμῳδίας dei bizantini.60 Le stesse Antologie epigrammatiche, che cominciano già nel III secolo,61 presuppongono un’attività classificatoria. È strano che da alcuni si sia voluta diminuire l’importanza di una figura, che certo fu centrale, come Apollonio ὁ εἰδογράφος, e cioè ‘il classificatore per generi’, bibliotecario dopo Aristofane:62 si è voluta limitare la sua attività ad una sistemazione delle odi meliche divise per ‘armonie’ musicali (dorica, frigia, lidia etc.), secondo una testimonianza
|| 58 Färber, op.cit. I p. 7ss., spec. 11; ripresa da Pfeiffer, History, cit. p. 182s., v. n. 4. Sulla storia letteraria secondo personalità poetiche, e cioè del tipo περὶ τοῦ δεῖνα, v. Pfeiffer, History, cit. pp. 146, 216s., 222, 239, 259, 264, 275 (il lemma manca nell’Index). 59 Interessante a questo proposito il Pap. Hibeh 172, che ha solo epiteti composti (Pfeiffer, History, cit. p. 92 n. 1): forse parte delle ἄτακτοι γλῶσσαι di Filita? Fondamentale l’attività lessicografica di Aristofane di Bisanzio, con distinzione dell’uso epico, lirico, drammatico, per di più con interessi dialettali (Pfeiffer, History, cit. p. 201). Per tutte queste categorie della Poetica cf. rhet. III.2. 60 Dalla Retorica e dalle Etiche aristoteliche, così come da Teofrasto (Caratteri), discende anche la teoria antica sulla cosiddetta commedia di mezzo (che è distinzione molto posteriore ad Aristotele) e sulla commedia nuova: utile il panorama di F. Wehrli, Motivstudien zur griechischen Komödie, Zürich u. Leipzig 1936, passim e spec. p. 12ss. 61 F. Lasserre, RhM 102 (1959) 222ss. (sul p. Brit. Mus. Inv. 589). 62 Pfeiffer, History, cit. p. 184.
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dell’Etymologicum Magnum.63 Ma gli scoli a Pindaro (ad Pyth. 2, inscr., p. 31.8ss. Drachm.) ci informano che prese posizione per la classificazione della Pitica II (ne sosteneva la natura di ode pitica, nel quadro di una accesa polemica critica); e d’altra parte, posto che assegnasse ‘etichette’ musicali, strettamente regolate dalla dottrina dell’ethos musicale, non avrebbe potuto farlo se non avesse preventivamente stabilito la natura, e cioè il genere, delle composizioni. Insomma, siamo di fronte a una ingente operosità classificatoria, che arriverà fino all’ ὀνοματολόγος di Esichio Illoustrios di Mileto (VI secolo) e, attraverso lui, fino alla Suda. Le caratteristiche dei generi dovevano essere descritte, direi, capillarmente, come si vede da Didimo–Proclo e dagli altri resti sopravvissuti al naufragio di questa classificazione. Chi ha pratica di scoli ricorderà quante volte, per esempio, negli scoli teocritei si parla di ethos del dialetto dorico (suono degli alpha etc.), considerato particolarmente adatto a creare l’atmosfera bucolica (e non è certo qui il caso di additare la goffaggine di simili procedimenti critici). Ogni genere dovrà anche avere un suo determinato tipo di dizione, di ἀνάγνωσις, come ci prescrive Dionisio Trace (p. 6.8ss. Uhlig): “la tragedia va resa in tono eroico, la commedia col tono di tutti i giorni, l’elegia flebilmente, l’epos in tono sostenuto, la poesia lirica con intonazione musicale, i lamenti in modo abbandonato e gemebondo” (… ἵνα τὴν μὲν τραγῳδίαν ἡρωϊκῶς ἀ ν α γ ν ῶ μ ε ν , τὴν δὲ κωμῳδίαν βιωτικῶς, τὰ δὲ ἐλεγεῖα λιγυρῶς, τὸ δὲ ἔπος εὐτόνως, τὴν δὲ λυρικὴν ποίησιν ἐμμελῶς, τοὺς δὲ οἴκτους ὑφειμένως καὶ γοερῶς). Perfino la velocità di lettura, il tempo di dizione (ἀγωγή) va regolato a seconda del genere.64 Da questi pochi cenni si vede quanto utile sarebbe una raccolta di testimonianze in questo senso prese da grammatici, da scoliasti, da lessicografi, da retori anche tardi.65 Ci sarebbe da estrarre una immensa quantità di materiale anonimo, veicolo però di una tradizione cosciente di sé e tenace. Non è da e-
|| 63 Etym. M. 295.53ss. εἰδογράφος· Ἀπολλώνιος εἰδογράφος, ἐπειδὴ εὐφυὴς ὢν ἐν τῇ βιβλιοθήκῃ τ ὰ ε ἴ δ η τ o ῖ ς ε ἴ δ ε σ ι ἐ π έ ν ε ι μ ε ν . τὰς γὰρ δοκούσας τῶν ᾠδῶν Δώριον μέλος ἔχειν ἐπὶ τ ὸ α ὐ τ ὸ [scil. ε ἶ δ ο ϛ ] συνῆγε, καὶ Φρυγίας καὶ Λυδίαϛ, μιξολυδιστὶ καὶ ἰαστί. 64 Vorrei rimandare qui al mio Metrica e critica stilistica, Roma 1963 pp. 86s., 88ss. 65 La bibliografia esistente in questo campo non è abbondante. Ne dò qualche voce: G. Lehnert, De scholiis ad Homerum rhetoricis, Diss. Leipzig 1896; R. Griesinger, Die ästhetischen Anschauungen der alten Homererklärer…, Diss. Tübingen 1907; M. L. Von Franz, Die ästhetischen Anschauungen der Ilias–Scholien, Diss. Zürich 1945; A. Trendelenburg, Grammaticorum Graecorum de arte tragica iudiciorum reliquiae, Bonn 1867; W. Eggerking, De Graeca artis tragicae doctrina, imprimis de affectibus tragicis, Diss. Berlin 1912; etc. Prezioso è l’indice grammatico–retorico agli scoli all’Iliade di J. Baar (Baden–Baden 1961).
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scludere che una simile raccolta ci aiuti a ricostruire qualcosa dei preziosi manuali perduti di quest’epoca.66 Sarebbe comunque una grossa impresa, superiore alle forze di un singolo. A chi obiettasse che troppi sono i generi letterari di cui qui non si fa parola, si potrebbe rispondere non solo invocando i limiti della presente trattazione, ma ricordando anche che molti sono i generi le cui regole ci sono note solo attraverso le opere stesse: ma certo la teorizzazione doveva essere molto estesa. Occorre fare comunque attenzione a non dare dignità di genere indipendente a quello che gli antichi sentivano non più che come una sottospecie di un genere più ampio: è quello che accade per l’epica didascalica, sentita sempre come una sottospecie della più ampia categoria dell’epos.67 Ma è chiaro di quanta utilità sarebbe per noi il poter rispondere, naturalmente solo per la seconda e la terza epoca, alla seguente domanda: quando il tale autore si mette al lavoro, oltre alla tradizione letteraria del genere nel quale si accinge a comporre, ha di fronte a sé anche una letteratura teorico–critica sull’argomento? E quale influenza può quest’ultima avere esercitato su di lui? È quello che, necessariamente solo per sommi capi, ci proporremo fra poco di stabilire per un autore come Teocrito. Fondandoci sulla costituzione di una t e r m i n o l o g i a , possiamo chiederci come veniva designato il concetto di genere letterario.68 Un termine solidamente affermato, pur con qualche sfumatura, sembra essere εἶδος, come si
|| 66 Spunti utilissimi in tal senso verrebbero da M. Fuhrmann, Das systematische Lehrbuch, Göttingen 1960, che fa notare la persistenza, attraverso i secoli, di schemi e procedimenti nella compilazione dei manuali. 67 W. Kroll, RE 12.2 (1925) col. 1842ss.; Koster, op. cit., passim e spec. p. 124ss.: c’è piuttosto da vedervi una differenziazione stilistica, come γένος λεπτόν rispetto ad Omero, e fu certo questo che impose Esiodo come modello agli alessandrini ‘callimachei’ (E. Reitzenstein, in Festschr. R. Reitzenstein, Leipzig u. Berlin 1931 p. 41ss., sulla base di Call, epigr. 27 Pf.). Lo stesso sembra avvenire per la poesia bucolica (v., oltre Koster, Th. G. Rosenmeyer, The Green Cabinet, Berkeley and Los Angeles 1969 p. 14s.) e per l’epillio (W. Alien jr, TAPA 71 (1940) 1ss. ne nega anche l’esistenza come sottospecie dotata di caratteri distintivi – a torto, direi; J. F. Reilly, ClassJourn 49 (1953–54) 111ss. rintraccia il primo apparire della parola ‘epillio’ nel nostro significato storico–letterario in un lavoro di Moriz Haupt del 1854). Un problema a parte rappresenta, com’è noto, l’elegia. Può qui interessare che la parodia era stata studiata, evidentemente come genere a sé, da Polemone d’Ilio, che ne faceva risalire l’origine a Ipponatte (Pfeiffer, History, cit. p. 249). Trascuriamo qui generi, pur teorizzati, come l’epistola etc., per rimanere nei limiti che ci siamo proposti. 68 Devo l’introduzione di questa sezione terminologica a un’osservazione del Prof. E. G. Turner. I lessici mi sono stati di scarso aiuto e il materiale è tutt’altro che completo.
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vede per es. da Plat. legg. 700 b ss. (εἴδη μουσικῆς, εἶδος ᾠδῆς, μέλους); Ar. a.p., init. (περὶ ποιητικῆς αὐτῆς τε καὶ τῶν εἰδῶν αὐτῆς…, anche se poi la parola prende altri valori): Procl. chrest. ap. Phot. bibl. p. 320 a 7, 21 (εἴδη τῆς μελικῆς, εἶδος ᾠδῆς; cf. 15): Etym. M. 295.53ss. (è la testimonianza su Apollonio εἰδογράφος, v. n. 63): Men. Rhet. p.331.1s. Sp. (εἴδη ῥητορικῆς). In Athen. 619 ab addirittura la poesia bucolica è chiamata εἶδος. Nota è poi la storia del termine εἰδύλλιον, nato da εἶδος = ‘composizione poetica’ presso gli scoliasti alessandrini (e va ricordato che già in Isocr. 15.74 εἶδος vale ‘composizione oratoria’, e cioè ‘orazione’). Che anche γ έ ν ο ς veniva usato in maniera pressoché sinonimica ci è chiaro da Ar. rhet. 58 a 33, 36 (cf. Procl. chrest. ap. Phot. bibl. p.321 a 34, accanto all’uso di εἶδος, v. sopra); e v. anche Ps. Plut. mus. 1134 c (γένος τῆς ποιήσεως). Qualcosa di mezzo fra ‘genere’ ovvero ‘tipo’, ‘tema’, ‘stile’ esprime ἰδέα (Ar. ran. 384, Isocr. 2.48, cf. il titolo stesso, περὶ ἰδεῶν, di Ermogene; v. Ernesti s.v. εἴδη); il più vicino al valore ‘genere letterario’ è Ar. a.p. 49 b 8 ἡ ἰαμβικὴ ἰδέα.69 In Antiph. fr. 191 K. sembra che tale valore venga alla parola π ο ί η μ α (μακάριόν ἐστιν ἡ τραγῳδία || ποίημα κατὰ πάντ᾽ …). È bene lasciar da parte τ ρ ό π ο ς , che coinvolge un ben chiaro valore musicale, alle volte difficilmente distinguibile dallo ‘stile’ letterario, legati come sono tutti e due i valori al genere letterario stesso.70
6 L’epoca alessandrina: leggi scritte e non rispettate (I poeti e la ‘normatività a rovescio’) Ma presso gli alessandrini filologia e poesia sono strettamente unite, ed è venuto il momento di chiederci in qual modo la così rigorosa descrizione di una letteratura per gran parte ormai morta possa i n f l u e n z a r e le forme spesso nuove che si vengono creando. Si tratterebbe di un effetto che va al di là degli scopi immediati delle trattazioni. In altre parole: il codice letterario, che nasce con funzione prevalentemente d e s c r i t t i v a , ha anche una sua funzione normativa implicita? Direi di sì, anche se qui, per buona parte degli alessandrini, parlerei di una vera e propria ‘ n o r m a t i v i t à a r o v e s c i o ’ , ovvero negativa. L’epoca ellenistica è l’ultimo momento di quello che è un miracolo costante lungo tutto il corso della letteratura greca, e cioè la capacità di innovare conser-
|| 69 Il significato di ‘stile’, o genericamente ‘tipo di…’, è attestato anche per εἶδος (Isocr. 13.17, Rhet. ad Alex. 41 b 9) e per γένος (Ar. ran. 946s. τὸ γένος … τοῦ δράματος). 70 V. per es., su τραγικὸς τρόπος, Suda s.v. Ἀρίων, A. W. Pickard–Cambridge, Dith. Trag. Com., Oxford 21962 p. 99.
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vando singolarmente integri gli elementi tradizionali. Questa terza epoca scrive le leggi, sì, ma per violarle. Sembra quasi che l’analisi accurata dei generi classici venga fatta apposta per violarne meglio le leggi. Vorrei caratterizzare quest’epoca colla formula “ l e g g i s c r i t t e e n o n r i s p e t t a t e ” . Ed è proprio come annunciavamo in principio: in questa voluta contrapposizione di fronte ad una tradizione secolare emerge un rispetto e una pietas per la tradizione stessa. Ci sarà solo da notare che il procedimento è di natura estremamente intellettualistica: il lavoro di ‘smontaggio’, operato dalla teoria (reso agevole, cioè, dalla accurata descrizione), è seguito nella prassi degli autori da un complicato lavoro di ‘rimontaggio’, che mette insieme gli elementi strutturali più disparati. E di questa n u o v a n o r m a t i v i t à c’è anche il teorico, che è il Callimaco del Giambo XIII. Non più la rigida evocatività dei vari dialetti: si può usare lo ionico, il dorico, il “dialetto misto” (ia. 13.18); non più la specializzazione in un genere solo, che era stata la regola quasi universale finora:71 “qual dio ha ordinato che tu scriva pentametri, tu versi epici, tu tragedie?” (30–2). E Callimaco metterà in pratica lui stesso tali nuovi e rivoluzionari precetti, che in realtà non sono la liberazione dai vecchi nel senso che ad essi si contrappongono ordinando l’opposto: userà il dorico nei due ultimi inni, praticherà un po’ tutti i generi, dandone anche un campionario, ricco per argomenti e per metri, proprio nel libro dei Giambi, espressamente ispirato alla πολυείδεια di un precursore, Ione di Chio (ia. 13, dieg.); e il libro dei Giambi sarà il padre dei numerosi Gedichtbücher o ‘raccolte di poesie diverse’ della letteratura posteriore greca e latina.72 Scriverà addirittura due epinici in distici elegiaci (frr. 383, 384 Pf.) e uno in trimetri giambici (ia. 8); un inno, il V, Per i lavacri di Pallade, sarà anch’esso in distici, oltre che in dorico. Ma forse il ‘delitto’ più grave è la trasformazione del genere più sacro, l’epica, che, rinnegata una sua fondamentale legge strutturale, la grande dimensione,73 diventa l’epillio: e questa novità ha la sua giustificazione, che è teorizzata, più che nel prologo degli αἴτια, nell’Inno ad Apollo e nell’epigramma 28 Pf.
|| 71 In età classica la specializzazione, nel campo del teatro, era perfino degli attori (attori tragici e attori comici): la cosa è resa certa e dalla documentazione sulle rappresentazioni e sugli attori e da Plat. resp. 395a (J. B. O’Connor, Chapters in the History of Actors and Acting in Ancient Greece …, Diss. Princeton, Chicago 1908 p. 39ss.). 72 W. Kroll, Studien zum Verständnis der römischen Literatur, Stuttgart 1924, spec. p. 225ss. Fondamentale per la critica e la composizione letteraria in Callimaco è M. Puelma Piwonka, Lucilius und Kallimachos, Frankfurt/Main 1949; per la varietà e mistione dei generi nei Giambi v. C. M. Dawson, YCS 11 (1950) 1ss. 73 Per Callimaco v. Koster, op. cit. pp. 119, 121; per la teoria aristotelica del μῆκος epico ibid., spec. pp. 55, 66, 71 (cf. spec. a.p. 49 b 12 ss., 62 a 18 ss.).
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Chi credesse che un tale atteggiamento quasi lusivo di fronte agli elementi forniti dalla tradizione fosse un’assoluta novità, sbaglierebbe. Per certi artifici operati già, per esempio, da Aristofane nella severa cornice formale della commedia antica (elementi tradizionali soppressi o trasformati, con conseguente frustrazione dell’attesa del pubblico; etc.) è stata usata la felice espressione Spiel mit den Formen;74 è stato notato che Crizia è l’unico sofista che mette parte della sua dottrina in versi;75 e gli esempi potrebbero aumentare. Ma del primo non dobbiamo dimenticare il legame col pubblico, per cui c’è sempre da credere che un fatto di spettacolo sia sempre in qualche modo ‘richiesto’ e si fondi su esigenze concrete; del secondo si potrebbe meglio dire che si tratta di una ‘controrivoluzione’, di un ritorno, cioè, all’arcaica filosofia in versi. Nuovi non sono i procedimenti, in età ellenistica: è lo spirito che è nuovo. Quello che colpisce è, come già dicevamo, l’intellettualismo delle scelte, la loro quasi assoluta arbitrarietà. Fra i molti fatti che tradiscono la loro natura di più o meno spinto virtuosismo, e che si presentano in quantità ad ogni lettore della letteratura alessandrina,76 ce n’è comunque forse solo uno che si possa paragonare alle libertà aristofanee, ed è anch’esso legato al costume teatrale, che in età ellenistica continua ad esser vivo, pur con leggi e scelte sue particolari: e non è un caso che si tratti del dramma satiresco, una delle forme più interessanti e purtroppo meno conosciute della letteratura greca, che proprio in età tarda presenta una sorprendente vitalità, andando evidentemente incontro ai gusti di un nuovo pubblico. Già a cavallo fra la seconda e la terza epoca c’era stato il Centauro di Cheremone, che Aristotele nella Poetica (47 b 21) chiama μικτὴ ῥαψῳδία ἐκ πάντων τῶν μέτρων e Ateneo (608 c) δρᾶμα πολύμετρον.77 Ma più interessante è il misterioso Agen, il cui autore sarebbe stato un certo Python di Catania o di Bisanzio oppure lo stesso Alessandro Magno e che da Ateneo (50 f, 596 d) viene chiamato σατυρικὸν δρᾶμα ο σατυρικὸν δραμάτιον: il dramma è ambientato
|| 74 Th. Gelzer, RE, Suppl.–Bd. 12 (1971) col. 1521s. 75 Pfeiffer, History, cit. p. 55. E non esitò a sostituire il pentametro col trimetro nel distico elegiaco (fr. 2.2 D3), sia pure per inserire un nome proprio, come notava Efestione. 76 Cercida di Megalopoli (III sec.) presenta la sua filosofia parenetica in forme meliche, in dialetto letterario dorico e nello stile del ditirambo nuovo (Kroll, Studien, cit. pp. 210, 242ss.: anche Orazio, per es. carm. 2.2, 2.10, 2.18, 3.24, ma ha molta più scioltezza di stile); Castorione di Soli compone il suo Inno a Pan in trimetri, per di più con virtuosismi metrici (metra limitati da fine di parola) notati da Clearco (fr. 88 Wehrli) che lo cita (Kroll, Studien, cit. p. 209 n. 13); nei χρονικάdi Apollodoro di Atene troviamo il trimetro (qui, a detta della fonte, lo Ps. Scimno, la ragione è pratica: μέτρῳ … τῷ κωμικῷ … εὐμνημόνευτον; Pfeiffer, History, cit. p. 254s.); etc. 77 P. Guggisberg, Das Satyrspiel, Diss.Zürich 1947 p. 138.
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storicamente con personaggi reali, fornendo un ambiente simile a quello della commedia con tutto l’armamentario di satira personale, ma il tutto in presenza di un coro di satiri.78 Abbiamo qui contaminazione fra dramma satiresco e commedia antica: e qualcosa di simile troveremo in piena età ellenistica nel Menedemo di Licofrone (satira ad un filosofo contemporaneo), mentre nel Dafni o Litierse di Sositeo (Eracle che uccide il mostro e libera Dafni) avremo contaminazione con elementi romanzeschi (ricerca e liberazione dell’amato) e forse anche colla tematica bucolica (il personaggio di Dafni).79 Abbiamo parlato di contaminazione, ovvero di m i s t i o n e d e i g e n e r i , quella che in pagine fondamentali di Wilhelm Kroll è chiamata Kreuzung der Gattungen.80 E vorrei chiudere con un breve panorama del comportamento di T e o c r i t o di fronte ai generi tradizionali e del modo con cui realizza i nuovi. È uno degli esempi più illustri, forse il più illustre, dell’influenza del nuovo codice. Teocrito può venir sentito (e cosi è successo spesso a critici frettolosi) come poeta spontaneo, semplice, ma è forse proprio quest’apparenza a tradire la sua estrema raffinatezza. Lasciamo qui da parte il problema di quello che sembra essere un genere nuovo, la poesia bucolica.81 Quello che più colpisce in lui è proprio la mistione dei generi. Il carme IV, I pastori, si presenta in forma di mimo (dialogo, ma privo di parte amebea), mentre la tematica e l’ambiente richiamano il carme bucolico. Il VI, I bucoliasti, è nello stesso tempo epistola poetica (2) e idillio bucolico nella forma dell’agone. L’XI, il Ciclope, comincia di
|| 78 Guggisberg, diss. cit. p.140. B. Snell, Scenes from Greek Drama, Berkeley and Los Angeles 1964 pp. 99ss., 118ss. fa una seducente proposta di rinnovamento della cronologia e del legame cogli avvenimenti storici (processo e fuga di Arpalo); ma v. le obiezioni di H. Lloyd–Jones, Gnomon 38 (1966) 16s. 79 Guggisberg, diss. cit. pp. 141s., 142. C’era anche un dramma di Sositeo che attaccava il filosofo Cleante (fr. 3 Steffen2; Guggisberg p. 143). Sul dramma satiresco in generale tornerò in altra sede, anche per chiarirmi meglio quale possa essere stato l’apporto, nel senso della contaminazione, dei tragediografi del V secolo (si pensi all’Alcesti come esempio di ibrido fra tragedia e dramma satiresco). Alla storiografia ellenistica (penso soprattutto a Duride di Samo) e al suo pathos schiettamente ‘drammatico’ si può far qui solo un accenno. 80 Kroll, Studien, cit. p. 202ss. (specialmente per i poeti latini, ma con preziosi riferimenti ai modelli greci). Solo in parte utile ancora il vecchio Ph.–E. Legrand, Étude sur Théocrite, Paris 1898 p. 413ss. 81 V. n. 67. Sicuramente, sul piano letterario, la poesia bucolica è creazione di Teocrito: vorrei rimandare a SIFC 43 (1971) 24s., dove la ‘invenzione’ teocritea è ricavata dallo sviluppo, che è immediatamente posteriore, di una ‘maniera’ bucolica; ma v. soprattutto, ora, G. Serrao, Problemi di poesia alessandrina. I. Studi su Teocrito, Roma 1971 p. 11ss., spec. 48, che mi pare abbia dimostrato essere Teocrito stesso, nelle Talisie, a rivendicare a sé lo εὕρημα.
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nuovo come epistola, contiene un canto bucolico d’amore (19ss.) e si conclude come un carme bucolico, con una parola–chiave, credo, in questo senso (80s. ἐ π ο ί μ α ι ν ε ν τὸν ἔρωτα). Il XIII, l’Ila, comincia ancora una volta come epistola e prosegue (16ss.) come un epillio (in dorico nell’epos, per giunta!). Il XVI, Le Cariti, e il XVII, il Tolemeo, sono degli encomi in esametri e il XVI è stato recentemente interpretato come un Bettelgedicht ovvero ‘poesia d’accattonaggio’, un genere popolare che troviamo, in diversa misura stilizzato, nell’Iresione, nel chelidonismo, nel coronisma.82 Il XVIII, l’Epitalamio di Elena, comincia col tono narrativo dell’epillio, per passare poi (9ss.) al vero e proprio canto di nozze. Il XXVIII, la Conocchia, si presenta come un carme di una certa dimensione, per giunta in asclepiadei maggiori e in eolico, mentre il contenuto avrebbe richiesto le caratteristiche di un breve epigramma dedicatorio in distici; e l’epigramma vero e proprio, a sua volta, può presentare – fatto del tutto nuovo, data la novità della tematica – materia bucolica, com’è nel caso degli epigrr. 1– 6.83 Comunque si voglia interpretare il VII, le Talisie, per il quale la definizione di idillio bucolico sarebbe imperdonabilmente restrittiva, resta valida l’osservazione di Mario Puelma, che ci vede una delle variazioni alessandrine del Programmgedicht, come nel prologo degli αἴτια e nel mimo VIII di Eroda.84 Il III, il κῶμος, presenta poi un fatto singolare: la ‘traduzione’ in ambiente campestre di un fatto eminentemente cittadino come il κῶμος, presentato qui nella forma del παρακλαυσίθυρον.85 Ma il vero e proprio ‘scandalo’ è il XXII, i Dioscuri, né credo che la cosa sia comunemente tenuta nel debito conto:86 i generi contaminati sono qui addirittura tre, l’inno (1 ὑμνέομεν, formula innodica comune, cf. 25s.), l’epillio (27ss., la parte narrativa) e infine la poesia drammatica (in realtà vicina al mimo). Il v. 54, infatti, è il primo intervento di Polluce, intro|| 82 R. Merkelbach, RhM 95 (1952) 312ss. Ultimamente G. Wills, CQ 20 (1970) 112ss. vi vede un adattamento di Bettelgedicht a scopo privato, come in Phoen. Coloph. fr.2 D3. 83 Kroll, Studien, cit. p. 207. 84 M. Puelma, MH 17 (1960) 163. 85 E Teocrito conosceva bene il κῶμος cittadino (2.118ss., 7.122, 14.47). Penetrante l’analisi del III di U. Ott, Die Kunst des Gegensatzes in Theokrits Hirtengedichten, Hildesheim 1969 p. 174ss. Sul κῶμος come fatto cittadino e sulle sue forme v. Maia 23 (1971) 10ss. La pointe si trovava subito, all’inizio: 3s. τίμ’ οὐκέτι τοῦτο κατ᾽ ἄντρον || παρκύπτοισα καλεῖς, …; La porta o finestra, da cui usualmente si fa capolino, è sostituita qui dalla … grotta! Il XXV non è autentico, ma è documento prezioso della fortuna della maniera teocritea: sulla mistione di elementi epici e bucolici v. G. Serrao, Il carme XXV del corpus teocriteo, Roma 1962. Sul XXVI Legrand, Étude, cit. p. 429 si domanda se è “un hymne véritable ou un pastiche d’hymne”. 86 In L. Deubner, NJb 47 (1921) 375s. già la chiara individuazione dei tre generi, pur senza precisazioni. Deubner propone tra l’altro (p. 376ss.) la formula di sakrale Solomimen (Mischung von Hymnus und Mimus) per Call. hymn. 2, 5, 6.
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dotto da un προσέειπεν al v. 53; ma il v. 55, la prima risposta di Amico, è data senza formula di ‘dire’ ed è seguita nientemeno che da una sticomitia lunga altri diciotto versi.87 Potrà qualcuno forse pensare che la parte narrativa non sia da considerarsi un epillio, bensì che tenga il luogo della narrazione tipica degl’inni omerici maggiori: si eliminerebbe così uno dei tre generi. Ma a dirci che ha voluto aggiungere al pastiche anche il vero e proprio genere epico narrativo è Teocrito stesso, quando, alla fine del carme (212ss.), confronta la sua poesia, di dimensioni ridotte quali gli sono consentite dalle sue possibilità (ὡς ἐμὸς οἶκος ὑπάρχει), proprio coll’epica, sia che si tratti dell’Iliade sia dei Canti ciprii.88 Ma la contaminazione perseguita con più sottile tenacia è quella fra modi e forme della poesia recitativa e modi e forme della poesia lirica. Già il secolo scorso, con Gottfried Hermann alla testa, aveva cercato simmetrie di tipo priamente strofico (espediente della metrica lirica) nella poesia esametrica dei vari tipi (che è stichica, in quanto recitativa). La Strophenjagd ha una sua ria89 ed ha avuto conseguenze di rilievo nella critica del testo, non tutte acbili. In verità, se in un autore tale ricerca è almeno inizialmente giustificata, questo autore è certamente Teocrito, anche se non si può essere certi che cercasse simmetrie esatte fra le ‘strofi’: penso al refrain nei primi due carmi (anche il refrain di Cat. 64 non è simmetrico); notevoli simmetrie, più o meno evidenti, si trovano ancora nei primi due e nel III; altre sono assai meno evidenti, e aveva torto Hermann, e con lui chi lo ha seguito, a volersene servire per espunzioni o denunce di lacune. Che cos’è tutto questo, se non la volontà di presentare tuosisticamente la strofe, forma della poesia lirica, in carmi esametrici, e cioè
|| 87 Gregorio Serrao mi propone di vedere in alcune caratteristiche della sticomitia (ripetizioni etc.) un’allusione ad un quarto genere, l’agone bucolico. 88 Wilamowitz, Textgesch. der gr. Bukoliker, Berlin 1906 p. 182ss.; cf. Gow. W. Allen jr, TAPA 71 (1940) 17 e n. 57 considera impossibile distinguere l’epillio dall’inno narrativo (ma v. n. 67). A. H. Griffiths mi ha fatto notare che il virtuosismo teocriteo potrebbe far pensare a posteriorità rispetto ad Apollonio (2.1–97): Teocrito farebbe ‘variazioni’ su un modello. Questo confermerebbe quanto ha visto per il XIII e affermato anche per il XXII G. Serrao, Helikon 5 (1965) 494ss. (ora in Problemi, cit. p. 109ss.; v. anche p. 10). Non credo possa ancora convincere A. Köhnken, Apollonios Rhodios u. Theokrit, Göttingen 1965. 89 G. Hermann, De arte poesis Graecorum bucolicae, Leipzig 1849 = Opuscula VIII p. 329ss. Una breve storia della Strophenjagd in A. Ludwich, Homerischer Hymnenbau…, Leipzig 1908 p. 38ss. (Ludwich cercava simmetrie meno regolari ma più complicate, fondate sull’interpretazione simbolica dei diversi numeri: la sua si può definire una Zahlenjagd). Già Boeckh, Encyclop., cit. p. 244 si poneva in posizione critica di fronte alla strofizzazione totale; per Teocrito v. l’equilibrato atteggiamento di Wilamowitz, Textgesch. d. gr. Buk., cit. p. 137ss. (né da trascurare è Legrand, Étude, cit. p. 386ss.).
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recitativi? Del resto tale contaminazione assume forme ancora più raffinate. L’agone bucolico, che nella realtà della vita dei campi era certamente in forme liriche più o meno libere,90 viene presentato anch’esso in carmi esametrici (V, VI e i non autentici VIII, IX); ugualmente il canto bucolico non strettamente agonistico o non strettamente amebeo (1.64ss.; 7.52ss., 96ss.; etc.); ugualmente altri canti di tipo popolare: nel II carmi incantatori; in 3.6ss. il κῶμος in veste di παρακλαυσίθυρον; in 10.24ss. e in 11.19ss. canti d’amore: ancora in 10.42ss. il Litierse, un canto di lavoro e precisamente di mietitori; in 15.100ss. un inno invocatorio; in 24.7–9, infine, viene costretta nella prigione esametrica addirittura una ninna–nanna, e il virtuosismo ci è reso più palese dal fatto che forse è proprio questa la testimonianza più fedele che abbiamo di un genere popolarissimo e certo largamente diffuso quant’altro mai, come si vedrebbe da un’analisi dettagliata (anafore, rime, parole–chiave).91 Il procedimento si presenta in Teocrito in maniera particolarmente raffinata, ma è caratteristico di tutta la poesia alessandrina. Va ricordata qui la brillante intuizione di Friedrich Leo,92 che ha chiarito definitivamente la ragione per cui alcuni versi, già in uso tradizionale, acquistano in età alessandrina un nome nuovo, che si riferisce ad un εὑρετής recente (archebuleo, gliconeo, faleceo etc.). Tali versi erano stati usati dai poeti più antichi nel libero contesto della strofe lirica e vengono usati adesso in successione stichica, come se si trattasse di versi recitativi: questo, e non altro, è lo εὕρημα. Leo era partito dalla ‘stichizzazione’ plautina di misure liriche; e l’ultimo passo – l’adattamento recitativo, cioè, anche della tecnica costruttiva interna del verso – sarà compiuto da Orazio, che imporrà ai suoi versi lirici, sia nella strofe sia nelle successioni stichiche, delle incisioni regolari, che sono anch’esse caratteristica tipica del verso recitativo.93 Siamo passati così ai poeti latini. E il nostro discorso potrebbe ora continuare considerando le loro soluzioni, che fin dagl’inizi sono di tanto vicine a quelle dei poeti alessandrini. Ricordo qui i lavori di Scevola Mariotti su Livio Andronico (1952), Nevio (1955) ed Ennio (1951; 21963), recentemente sintetizzati in un || 90 Christ–Schmid 2.1 (1920) p. 184 e n.4: ce lo proverebbe il canto pastorale μακραὶ δρύες, ὦ Μενάλκα (PMG fr. 850). Dubbi sull’esametro come veste originaria già in Legrand, Étude, cit. p. 422s. Kroll, Studien, cit. p. 204 nota anche che “Mimen im Hexameter sind eigentlich ein Unding”. 91 I. Waern, Eranos 58 (1960) 1ss. 92 F. Leo, Die plautinischen Cantica und die hellenistische Lyrik, Berlin 1897 p. 61ss. I materiali già raccolti in O. Leichsenring, De metris Graecis quaestiones onomatologae, Diss. Greifswald 1888. 93 V. RFIC 94 (1966) 195ss. (su Orazio p. 195s.).
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articolo:94 Ennio sarebbe addirittura più contaminatore di un Callimaco,95 senza contare che i romani arcaici, veri poligrafi nel campo dei generi letterari, recepiscono alla lettera la fine delle specializzazioni, che Callimaco aveva predicata nel suo Giambo XIII. Potremmo considerare, per la teoria e la prassi, Lucilio e Accio; per la teoria Varrone, Cicerone, Quintiliano, Suetonio, a non dire della ricca informazione che, sul piano del gusto letterario, ci viene da autori come Petronio. Per le sottili e ‘mimetizzate’ soluzioni di un Orazio e di un Properzio avremmo inizialmente la guida delle belle pagine, più volte qui richiamate, di Wilhelm Kroll.96 Ma non dimentichiamo che ci eravamo proposti semplicemente d’impostare un capitolo della teoria estetica antica, quello delle leggi dei generi letterari: i latini varieranno le soluzioni pratiche, ma non daranno sostanziali apporti nuovi alla teoria.97 In realtà, per completare la trattazione del nostro tema, sarebbe importante non tralasciare un campo, così strettamente legato alla letteratura, in cui norme – scritte o non scritte – e prassi – fedele o ribelle alle norme stesse – s’intrecciano in costante dialettica: quello della musica, colla sua secolare dottrina d e l l ’ ethos. Ma il nostro discorso è già troppo lungo e, in un certo senso, troppo ‘aperto’: ha già posto troppi problemi, lasciandone molti insoluti, ed è forse tempo di chiuderlo e di ricominciare a riflettere almeno su alcuni di essi.
|| 94 Sc. Mariotti, Belfagor 20 (1965) 34ss. 95 Sc. Mariotti, Lezioni su Ennio, Torino 21963 p. 130ss.; v. anche Maia 5 (1952) 273 ss. 96 Kroll, Studien, cit., spec. p. 202ss. G. B. Conte, Maia 20 (1968) 241 ss. mette in rilievo, per Lucano, “l’inserirsi di una t e m a t i c a drammatica in una f o r m a epica che nelle linee generali è ancora quella tradizionale” e ne dà giustificazione storica. 97 Pur restando il problema, e sul piano della teoria e su quello delle realizzazioni nella prassi, di due generi che a Roma si presentano con caratteristiche di originalità: la satira e l’elegia.
L’ideologia dell’oralità fino a Platone 1 Premesse La letteratura greca, per l’alta cronologia delle sue origini documentate (sec. VIII a.C.), si trova nella condizione di offrire e la testimonianza di una fase orale (i poemi omerici) e la documentazione di una successiva acquisizione della tecnologia scrittoria. Tale acquisizione, che si fa risalire alla metà del secolo VIII a.C. circa,1 non rivoluziona subito le condizioni della comunicazione e della produzione dell’opera letteraria: l’utilizzazione della scrittura è graduale e, quel che è piú interessante, suscita a poco a poco un dibattito culturale che, piú o meno esplicito, dura a lungo, fino almeno al secolo IV a.C., intensificandosi progressivamente.2 Conviene fornirsi in partenza di alcuni strumenti d’indagine e di esposizione, per approssimativi che siano. Per “oralità” si intende qui quella che da alcuni3 viene chiamata «primaria», nella quale cioè il messaggio si realizza oralmente in assenza di una qualsiasi tecnologia scrittoria. Il messaggio viene cosí prodotto, trasmesso e recepito oralmente, e ugualmente orale è il processo con cui si realizza la sua conservazione. Una tale situazione è per lo storico attingibile solo indirettamente, trovandoci noi nella condizione di chi, per la culura greca delle origini, può disporre solo di una registrazione scritta, frutto per di piú di una fase certo lunga di fissazione. Per questa ragione i primi grandi testi letterari che la cultura greca ci offre, l’Iliade e l’Odissea, nell’ipotesi, qui presentata, || [Saggio pubblicato in G. Cambiano – L. Canfora – D. Lanza (edd.), Lo spazio letterario della Grecia antica, I, La produzione e la circolazione del testo, 1, La polis, Roma, Salerno Editrice, 1992, pp. 77–106] 1 Non è il caso di indicare dossografia per un problema già ampiamente dibattuto, sul quale si è affermata ora una communis opinio: si ammette uno iato fra sillabario miceneo e scrittura alfabetica che può esser durato anche alcuni secoli. Su Omero e la scrittura vd. oltre. Dal momento che l’esposizione tocca argomenti che hanno una ricca storia di ricerca anche recente, la bibliografia è molto, e arbitrariamente, selettiva. 2 O. Longo, Tecniche della comunicazione nella Grecia antica, Napoli, Liguori, 1981, che non si limita alla comunicazione letteraria. Un panorama degli studi è M. Fantuzzi, Oralità, scrittura, auralità. Gli studi sulle tecniche della comunicazione nella Grecia antica (1960–1980), in «L & S», a. xv 1980, pp. 593 sgg. Recente è W.V. Harris, Ancient Literacy, Cambridge (Mass.), Harvard Univ. Press, 1989. 3 Per es. p. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale [Paris 1983], trad. it. Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 28, 36. https://doi.org/10.1515/9783110648140-002
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che si vogliano far risalire ad una fase di oralità primaria o integrale, vanno considerati non certo come documento di oralità, ma tutt’al piú come una semplice testimonianza di oralità. Questo varrebbe anche per chi considerasse l’ipotesi di testi «dettati oralmente»,4 non tanto perché sia impossibile una totale fedeltà nel trasferimento del testo orale alla pagina scritta, ma perché, com’è stato giustamente osservato da piú d’uno,5 quando la composizione orale convive con una realtà scrittoria circostante, piú o meno estesa, è da quest’ultima in qualche misura influenzata. In altre parole, i poemi omerici, nella loro facies testuale arrivata a noi (nella misura in cui si vedrà qui oltre), ci testimoniano una fase di composizione orale. Veniamo cosí alla definizione di un altro strumento d’indagine: quello di oralità «secondaria» o «mista».6 Si tratta in questo caso della convivenza di due diversi mezzi di comunicazione, che – come si è appena detto – possono ininfluenzarsi a vicenda a seconda dell’occasione, che a sua volta determina la natura e i contenuti del messaggio. Vedremo come questa situazione si realizza (in modi diversi di volta in volta) nella cultura arcaica e classica greca e come essa influenza la configurazione dei testi. Con utile approssimazione vorrei sostituire la formulazione di oralità mista con quella di “auralità”,7 che prescinde dalla composizione (che può essere o essere stata orale) e porta in primo piano il fattore della pubblicazione (e della ricezione): quest’ ultimo si realizza oralmente (auralmente) anche se il testo sia stato concepito e redatto coll’ausilio della scrittura. È necessario sempre tenere distinti tre momenti: la composizione, che, in assenza di scrittura, fino alla redazione scritta dev’essere
|| 4 Gli oral dictated texts di A.B. Lord, The Singer of Tales, Cambridge (Mass.), Harvard Univ. Press, 1960 (ipotesi originariamente proposta nel 1953). 5 Con particolare forza da G.S. Kirk, The Songs of Homer, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1962, pp. 84 sgg., in diretta polemica con le posizioni di Lord, che era influenzato dal rilevamento della situazione dei canti iugoslavi contemporanei cosí com’era stato avviato dal suo maestro M. Parry. Sul rapporto e sulla interazione fra oralità e scrittura che convivano (sia in Grecia sia oggi) vd. spec. J. Goody–J. Watt, The Consequences of Literacy, in Literacy and Traditional Societies, ed. by J. Goody, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1968, pp. 27 sgg. (trad. it. in Linguaggio e società, a cura di P.P. Giglioli, Bologna, Il Mulino, 1973, pp. 361–405) e, piú recente, J. Goody, The Interface between the Written and the Oral, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1987 (trad. it. Il suono e i segni, Milano, Il Saggiatore, 1989). Per un panorama antropologico dell’alfabetizzazione vd. G.R. Cardona, Antropologia della scrittura, Torino, Loescher, 1981. 6 Mi riferisco di nuovo a Zumthor, op. cit. 7 La dobbiamo a W.J. Ong, La presenza della parola [New Haven–London 1967], trad. it. Bologna, Il Mulino, 1970.
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orale,8 e poi, coll’avvento della scrittura, ne è ovviamente influenzata; la trasmissione, che in origine è orale e poi viene affidata alla scrittura; e la pubblicazione ovvero esecuzione,9 che nel mondo greco continua ad essere orale (aurale) almeno fino al IV secolo a.C. Con diverse sfumature, dovute alla progressiva diffusione della scrittura e al progressivo affermarsi del “libro” come veicolo di contenuti di cultura, quella di auralità è la condizione normale in Grecia fin dal momento in cui siamo in grado di seguire le vicende della comunicazione letteraria: da un momento, cioè, in cui la scrittura è presente ma è ancora lontana dall’avere soppiantato l’originaria comunicazione orale (aurale). Il problema è quindi – com’è stato piú volte affermato – quello di stabilire la misura della mescolanza di oralità e scrittura nei singoli periodi che si considerano e della dialettica culturale in cui i due procedimenti sono coinvolti. Ma anche dopo l’affermazione non solo della scrittura, ma addirittura del libro, che avviene fra V e IV secolo a.C., perdura la pratica della lettura ad alta voce, senza la quale del resto sarebbe inconcepibile tutta la critica letteraria da Isocrate e da Aristotele in poi con il privilegio accordato alle varie forme di eufonia.10 La lettura ad alta voce in un circolo per lo piú ristretto, o magari limitata allo schiavo “lettore” e all’ascoltatore, non è però condizione sufficiente per poter definire aurale una cultura: la pubblicazione e la diffusione sono, in questo caso, affidate alla scrittura e non ad un’occasione pubblica. Bisogna tener presente questa precisazione, quando si parlerà di semplice lettura ad alta voce.
2 L’epica omerica Le premesse erano necessarie per affrontare, ora, la documentazione. Il riconoscimento dell’originaria oralità di Omero nel mondo moderno è uno di quei processi storiografici in cui è laborioso distinguere chi per primo ha detto che cosa: se ne può indicare l’origine e il compimento fra la seconda metà del Sei-
|| 8 Ci si può chiedere che valore dare al concetto di improvvisazione. L’alto grado di formalizzazione della lingua omerica e della materia epica (formularità, scene tipiche, ecc.), che richiedeva (e favoriva) un corrispondente alto livello di “competenza” da parte degli aedi, consentiva certo un margine di libertà compositiva, non però ampio come può far pensare un’idea approssimativa dell’improvvisazione. 9 Uso il termine italiano, che è in realtà l’equivalente dell’inglese performance (sia nella terminologia musicale sia in quella linguistica). 10 Tale situazione continua ad essere quella dell’epoca ellenistica e romana, come si dirà qui oltre.
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cento e la fine del Settecento ad opera di vari studiosi, come l’abate d’Aubignac, Vico, Robert Wood e infine Friedrich August Wolf (1795), che è insieme sia punto di arrivo per l’accertamento documentario delle fonti esterne ad Omero in argomento (la relativamente tarda redazione pisistratea, ecc.) sia punto di partenza per quella che diventò dopo di lui la cosiddetta questione omerica.11 L’affermazione di Wolf che i poemi omerici fossero un corpus di canti trasmessi oralmente in un lungo corso cronologico, e che non potessero quindi essere opera di un singolo, portò la critica a volgersi quasi esclusivamente a quella che fu chiamata l’analisi, e cioè all’identificazione di diverse voci compositive. Ma le conseguenze di tale impostazione diventarono operative all’interno del testo dei poemi, e cioè con lo studio delle caratteristiche della dizione omerica (formularità, ecc.), solo con l’intervento, in questo senso davvero pionieristico, di Milman Parry nel 1928.12 L’importanza di Parry negli studi omerici (a lungo ignorata e in seguito da alcuni pervicacemente negata) sta non tanto nelle singole acquisizioni (la sua definizione di formula come nesso verbale metricamente condizionato è stata piú volte corretta e modificata), quanto nel nuovo oggetto imposto all’attenzione della ricerca: la configurazione linguistica del testo, che si presenta nella forma di un tessuto molto ricco di formule fisse, molto piú ricco di quello offerto da altre epiche anch’esse originariamente nate in condizioni di composizione e di comunicazione orale. Il contenuto dei poemi e l’organizzazione interna del materiale entrano qui in discorso per l’importanza della loro definizione come «enciclopedia tribale»:13 essi appaiono come il deposito dei valori di una intera cultura, nel senso
|| 11 Sulla questione omerica varie messe a punto recenti sono in Zweihundert Jahre Homer– Forschung. Rückblick und Ausblick, hrsg. von J. Latacz, Stuttgart und Leipzig, 1991. Sempre molto utile è A. Heubeck, Die Homerische Frage, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1974. Sull’importanza di Vico, e sulla sua specifica differenza fra voci che vengono confuse tra loro, vd. G. Cerri, G.B. Vico e l’interpretazione oralistica di Omero, in Oralità. Cultura, letteratura, discorso, a cura di B. Gentili e G. Paioni, Roma, Ediz. dell’Ateneo, 1985, pp. 233 sgg., che offre anche un corretto apprezzamento dell’intervento di M. Parry. Le linee qui seguite per Omero sono quelle di L.E. Rossi, I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in Storia e civiltà dei Greci, Milano, Bompiani, 1978, vol. 1 pp. 73 sgg. Vd. anche F. Montanari, Introduzione a Omero con un’appendice su Esiodo, Firenze, Sansoni, 1990, che offre anche una ricca e aggiornata bibliografia. 12 I suoi lavori sono raccolti in The Making of Homeric Verse. The Collected Papers of Milman Parry, ed. by A. Parry, Oxford, Oxford Univ. Press, 1971. 13 E.A. Havelock, Preface to Plato,Oxford, Blackwell, 1963 (trad. it.Cultura orale e civiltà della scrittura, con prefaz.di B. Gentili, Roma–Bari, Laterza, 1973); in The Muse Learns to Write. Reflections on Orality and Literacy from Antiquity to the Present, New Haven–London, Yale Univ. Press, 1986 (trad. it. La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo
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che tutto quello che per tale cultura conta è ripetutamente descritto (la preghiera, l’armatura, la vestizione, la battaglia, ecc.) e presentato come vissuto (l’abbondanza dei discorsi diretti!). Esemplare è lo scudo di Achille nel XVIII libro dell’Iliade, con le sue descrizioni di guerra e di pace. La definizione di Havelock ha un precedente illustre in quella di «libro tradizionale» di Gilbert Murray14 e un equivalente in quella di «libro di cultura» di Lotman e Uspenskij.15 E sarebbe importante poter stabilire di quale cultura sono specchio i poemi e quanto in essi è solo archeologia o anacronismo: rispecchiano l’epoca micenea, il medioevo ellenico o anche momenti ulteriori?16 In realtà i poemi mostrano una stratificazione culturale, difficile da districare, in settori come la tecnica militare, le strutture politiche, gli usi matrimoniali, funerari ecc. Ma quello che importa qui è il fatto che per i greci dall’VIII secolo in poi i poemi si pongono come esemplari in campo sia culturale (eventualmente anche per contrapporsi ad essi) sia letterario (la lingua omerica come prima e mai veramente tradìta lingua letteraria). L’analisi di Parry, continuata dal dopoguerra in poi, ha messo in luce la presenza di nessi formulari (nome–epiteto, formule verbali, ecc.) e di quelle che, da W. Arend (1933) in poi, si chiamano «scene tipiche», continuamente ripetute con o senza varianti: sacrificio, preghiera, giuramento, viaggio, armarsi e vestirsi, sonno, sogno, assemblea, ecc. A questo punto bisogna, in base agli studi degli ultimi decenni, proporre come tali quelli che possono solo definirsi gli indizi interni dell’originaria oralità omerica, che tutti insieme ne danno però prova sufficiente. Si è già accennato alla formularità e all’enciclopedismo, che sono stati rilevati in altre epiche originariamente orali.17 Legata all’enciclopedismo è l’ecumenicità: il concetto di tribú o gruppo ristretto corrisponde a quello che nei paesi anglosassoni è reso col concetto di face to face society. L’epica ha come destinataria un’intera cultura e una cultura unitaria, sia che essa sia stata all’inizio quella delle sole corti sia che fin da principio si sia trattato del pubblico delle panegyreis o feste collet-
|| dall’antichità al giorno d’oggi, Roma–Bari, Laterza, 1987) Havelock traccia il suo percorso intellettuale. 14 G. Murray, The Rise of the Greek Epic, Oxford, Oxford Univ. Press, 1934 (quarta edizione di un libro piú bello che fortunato, la cui prima edizione risale al 1907). 15 J.M. Lotman–B.A. Uspenskij, Tipologia della cultura, trad. it. Milano, Bompiani, 1975· 16 È un dibattito ancora aperto. Per la recenziosità si possono citare i nomi di Finley e di Snodgrass. 17 Si possono qui nominare alcuni famosi poemi epici, cronologicamente e culturalmente distanti fra loro: Gilgamesh, Beowulf, la Chanson de Roland, i Nibelunghi, il Cid, l’Edda, ecc.
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tive (come pensava Murray).18 Enciclopedismo ed ecumenicità sono anche legati ad una caratteristica dell’intero epos arcaico, e cioè la sua “ciclicità”:19 l’epos non comincia e non finisce, bensí si configura come un circolo, da un qualunque punto del quale la narrazione, destinata all’occasione, può cominciare (vd. Od., I 10: la musa è invitata a cominciare ἁμόθεν, da un punto qualunque; e l’Iliade ha un finale alternativo, che la attacca direttamente all’Etiopide). È un fatto che l’ecumenicità non sarà piú caratteristica delle epoche seguenti, nelle quali, al contrario, si assisterà a una progressiva “localizzazione” del fatto letterario. Chi vorrà essere ecumenico, come nel caso singolare di un Erodoto, sarà consapevolmente omerico. Ma l’ecumenicità sarà in genere un retaggio “passivo” dell’epos (la presa di possesso dell’epica da parte di tutti i greci e gl’interventi che sul suo testo sono stati documentati fin dal mondo antico, come quelli attici legati alla redazione pisistratea). Come caratteristica di cultura orale c’è da ricordare la stretta empatia che si stabilisce fra aedo e pubblico e che è testimoniata, fra l’altro, da un bel verso odissiaco (XI 334; XIII 2), dove si descrive l’atteggiamento degli ascoltatori di Odisseo che narra: «e stavano incantati nel megaron ombroso». Coinvolgimento totale fra esecutore e ascoltatore. C’è poi da aggiungere che il sistema formulare ha un suo grado di economicità abbastanza alto (tendenza a evitare formule equivalenti), anche se non si può dire che questa economicità sia assoluta o quasi come voleva Parry:20 rivelandosi anche qui un espediente particolarmente funzionale a una originaria composizione orale. Un indizio forte di oralità è infine da vedersi nel fatto che la scrittura emerge solo nel secolo VIII, come si è detto, e che i contenuti epici vengono da molto piú lontano: e non è concepibile che, legati come essi sono a una versificazione (l’esametro epico), si siano improvvisamente fissati come testo solo alla metà del secolo VIII.21 È certo che i poemi epici vengono da lontano, ma è anche certo che hanno continuato a crescere su se stessi anche in epoca scrittoria e certamente coll’ausilio della scrittura:22 il che ci riporta al problema della convivenza e della interazione dei due procedimenti.
|| 18 Murray, op. cit. L’ipotesi delle panegyreis è stata sostenuta, da noi, da A. Pagliaro e da M. Durante. 19 L. Canfora, Il ciclo storico, in «Belfagor», a. XXVI 1971, pp. 653 sgg. 20 Una ricerca esaustiva sull’economicità è ancora un desideratum (Rossi, I poemi omerici, cit., pp. 114 sgg.). 21 Dissento dai pochi che fanno risalire l’esametro addirittura all’età micenea. 22 A. Dihle, Homer–Probleme, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1970; Rossi, I poemi omerici, cit.
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È poi interessante vedere la possibile presenza tematica della scrittura nei due poemi.23 I due casi che comunemente vengono in discussione sono il sorteggio dei guerrieri achei per la singolar tenzone con Ettore (Il., VII 175 sgg.) e il messaggio affidato a Bellerofonte da Preto con i σήματα λυγρά che devono portare l’eroe ad essere ucciso (Il., VI 168 sgg.). Non sono mancati, fin dall’antichità,24 tentativi di negar fede per vera e propria scrittura a tali testimonianze, che potevano riferirsi a simboli figurativi.25 Anche ammettendo l’ambivalenza del verbo γράφειν, ‘incidere’,26 che ricorre varie volte, colpisce la relativa rarità dell’eventuale prassi scrittoria e l’assenza di immagini o metafore dal campo semantico della scrittura, che diventeranno in seguito piuttosto frequenti.
3 L’epoca lirica (VII–V secolo) È convenzione parlare di “epoca lirica” per tutto il periodo arcaico e tardo arcaico.27 La discussione se almeno i testi esametrici di quest’epoca, a cominciare dall’ancor epico Esiodo a continuare con gli Inni omerici, siano stati composti oralmente o no, è ancora accesa:28 ma, concedendo qualche dubbio per Esiodo, che attinge ad un patrimonio orale anche extraomerico e cioè beotico, sembra sicuro che i lirici della scrittura si servissero. Se c’è un settore nel quale l’improvvisazione sembra ancora praticata, questo è quello dei responsi oraco-
|| 23 A. Heubeck, Schrift, in Archaeologia Homerica, Bd. III, Kap. x, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1979, spec. pp. 126 sgg. 24 È interessante il fatto che gli scolii A ad Il.,VI 169 e 178 (oltre ad altri: vd. Heubeck, loc. cit.) neghino la natura alfabetica dei semata. 25 Vale la pena ricordare anche il φόρτου μνήμων di Od.,VIII 163, che potrebbe essere un “memorizzatore del carico” che si serva della scrittura secondo l’uso delle registrazioni micenee (vd., con la prudenza opportuna, M. Lombardo, Mercanti, transazioni economiche, scrittura, in Sapere e scrittura in Grecia, Roma–Bari, Laterza, 1989, pp. 85 sgg., precisam. pp. 97 sg.); per mnemones nel VI secolo vd. L.A. Jeffery, The Local Scripts of Archaic Greece, Oxford, Oxford Univ. Press, 1961, p. 20. 26 Heubeck, op. cit., pp. 140 sgg. 27 È una definizione di comodo, che ha avuto fortuna, anche se è imprecisa (il sec. VI vede affermarsi la filosofia e il dramma è agli inizi): ma è innegabile la continuità e, direi, la centralità della lirica dal secolo VII al V. Altro discorso meriterebbe la presenza di forme liriche integralmente orali anteriori a Omero (fuerunt ante Homerum poetae). 28 Vd. per es. p. Mureddu, Formula e tradizione nella poesia di Esiodo, Roma, Ediz. dell’Ateneo, 1983, e M. Cantilena, Ricerche sulla dizione epica,I. Per uno studio della formularità degli ‘Inni Omerici’, Roma, Ediz. dell’Ateneo, 1982, che propendono per oralità compositiva dell’epos extraomerico.
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lari:29 le frequenti goffaggini prosodiche e linguistiche sono spia di autenticità (a differenza di quanto credeva la filologia positivistica) perché frutto di perdurante improvvisazione. In quest’epoca la scrittura viene dunque utilizzata per la composizione. Sarebbe pur sempre possibile, in teoria, che un sistema scrittorio venisse utilizzato per scopi diversi dalla composizione letteraria, come sembra sia avvenuto nel mondo miceneo, nel quale la scrittura sillabica sarebbe stata usata solo per registrazioni d’archivio. Ma è dalla configurazione stessa dei testi poetici dell’epoca lirica che l’utilizzazione della scrittura viene confermata. Eccettuando elegia e giambo,30 la lirica sia monodica sia corale, a cominciare da Alcmane in poi, assume forme strofiche sempre piú complicate, a cui si aggiunge la caratteristica della responsione triadica: per citare un estremo, non si potrà credere alla composizione orale della Pitica IV di Pindaro, costituita da tredici triadi e quindi da ben ventisei ripetizioni della complicata strofe. A questo fatto solo strutturale si aggiunge un ben piú forte indizio interno alla lingua, e cioè la presenza costante di omerismi unita però alla singolare assenza di una formularità autonoma della poesia lirica. Quello che è altamente tipico e formalizzato, nella lirica, è non la lingua, bensì la tematica della lode (polare a quella del biasimo in cui si specializza il giambo), che si tratti del laudando nell’epinicio o della polis che commissiona l’inno sacro. La parenèsi dell’elegia è solo un aspetto della lode: una funzione conativa31 che spinge ad agire nel senso indicato da valori comunitari unanimemente pregiati (lodati) e accettati. La cultura dell’epoca lirica è del resto piú alfabetizzata di quanto si credesse fino a poco tempo fa: ne fa fede la frequenza delle iscrizioni, che sono sempre piú abbondanti a cominciare dal VII secolo in poi.32 Ma il legame stretto della produzione letteraria con le occasioni (feste e simposio)33 denuncia il fatto che || 29 L.E. Rossi, Gli oracoli come documento di improvvisazione, in I poemi epici rapsodici non omerici e la tradizione orale, a cura di C.O. Pavese, Padova, Antenore, 1981, pp. 203 sgg. 30 Per i quali, e per la già contemporanea lirica, vd. Rossi, I poemi omerici, cit., pp. 128 sgg. 31 Mi servo del termine nel senso di R. Jakobson, Linguistica e poetica, in Saggi di linguistica generale, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 181 sgg.: nel suo modello di comunicazione la funzione conativa è quella diretta verso il destinatario, la funzione espressa dalla seconda persona (quella espressiva o emotiva sarebbe la prima persona, quella referenziale la terza; tralascio qui le altre funzioni). 32 G.F. Nieddu, Alfabetismo e diffusione sociale della scrittura nella Grecia arcaica e classica: pregiudizi recenti e realtà documentaria, in «S&C», a. VI 1982, pp. 233 sgg. 33 Sul simposio, che ha ricevuto finalmente attenzione negli studi, vd. il recente Sympotica. A Symposium on the Symposion, ed. by O. Murray, Oxford, Oxford Univ. Press, 1990. È ormai da accettarsi la destinazione simposiale di tutta la lirica monodica (Saffo con il tìaso è un caso a sé).
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la circolazione della parola avviene in una situazione di comunicazione ancora pienamente aurale: anche il dramma, piú tardi, vivrà di pubblicazione aurale, pur se la composizione avverrà a mezzo della scrittura. Spie dei livelli e gradi della comunicazione si possono ricavare da alcuni indizi. Se una costante della comunicazione letteraria greca fino al IV secolo è senza dubbio l’auralità (e cioè la pubblicazione orale), è interessante identificarne e valutarne una variabile: quello che vorrei chiamare il grado di perspicuità del testo verbale, che è una conseguenza della sua diversa destinazione, e quindi del suo diverso genere letterario.34 La valutazione comparativa della perspicuità di un testo è uno strumento di comodo, e lo è solo per noi, che i testi li leggiamo, li leggiamo soltanto e li leggiamo tutti nello stesso modo: un greco arcaico non avrebbe potuto prenderlo come un criterio universale valido per testi di destinazione cosí varia.35 La perspicuità non è sempre uguale e, con le sue differenze, rivela il diverso grado di coinvolgimento del pubblico nella comprensione del testo stesso. Un utile test per la valutazione della perspicuità del testo verbale è l’ordine delle parole e la sua episodica artificialità,36 che si manifesta attraverso l’uso piú o meno frequente dell’iperbato,37 e cioè della separazione di parole sintatticamente legate (sostantivo/aggettivo, verbo/complemento, ecc.). Semplificando qui i risultati di statistiche eseguite su campioni abbastanza vasti, si può dire che, dando alla (scarsa) frequenza dell’iperbato in Omero il valore di I, con Bacchilide saliamo a II, e con Pindaro addirittura a 21. Pindaro, in altre parole, è 21 volte piú complesso, nell’ordine delle parole, di quanto non sia Omero. Come si può interpretare questo divario, a prima vista cosí strano?
|| 34 Posso qui rimandare a L.E. Rossi, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, in «BICS», a. XVIII 1971, pp. 69 sgg. 35 Questo avverrà piú tardi nella critica letteraria (vd. oltre). 36 Ho parlato di un test, che mi sembra efficace per la sua facile traducibilità in rapporti statistici: ma ovviamente la perspicuità o meno di un testo è legata anche al lessico (basta ricordare quanto dice Aristotele nella Poetica sulle glosse e, prima di lui, Aristofane su Eschilo nelle Rane). Solo, un’analisi del genere sarebbe molto difficile da formalizzare e darebbe differenze molto meno evidenti fra i diversi testi, vista la natura notoriamente artificiale nel lessico (e nella morfologia) di tutta la lingua letteraria greca. 37 Sulle statistiche che seguono i dati sono in L.E. Rossi, Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, in «Orpheus», n.s., a. IV 1983, pp. 5 sgg., precisam. pp. 8 sgg. Ovviamente ci si riferisce qui al vero iperbato artificiale, visto che ne esistono tipi radicati linguisticamente nel tessuto di lingue fortemente flessionali come il greco. Le statistiche sono ancorate al numero delle parole (intendendo la parola fonetica/metrica, non tipografica) di ogni corpus o di ogni campione: il rapporto fra numero delle parole e un iperbato artificiale è risultato 400/500 per Omero, 40 per Bacchilide, 20 per Pindaro e circa 200 per la lirica del dramma.
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Omero ha uno stile narrativo piano, in accordo con la prevalenza della paratassi. In piú, con Bacchilide e con Pindaro la comunicazione è resa già di per sé piú problematica per la novità dell’esecuzione corale (musicale e orchestica insieme), che, nel processo della comunicazione, crea un disturbo o rumore38 per quanto riguarda il codice verbale. In altre parole: come recepiva il pubblico delle feste il messaggio verbale di Pindaro, reso piú difficile dal rumore del canto e della danza e anche dalla sua complessa elaborazione stilistica? È inevitabile rispondere che non lo recepiva con la chiarezza con cui l’uditorio omerico recepiva l’epos. E la spiegazione sta nel ruolo da assegnare alla parte verbale del codice e del messaggio. Non è da credere che il messaggio verbale di un’ode di Pindaro arrivasse per intero al pubblico delle feste: quanto veniva percepito era costituito da alcune parole–chiave del mito, della celebrazione, della gnome; ma per il resto al pubblico era diretto il messaggio nel suo insieme, anche, quindi, nel suo aspetto musicale e orchestico, in quella parte cioè del codice che possiamo definire spettacolare. Il testo verbale andava quindi in gran parte sprecato? No certo: perché c’era un altro destinatario, al quale proprio il testo verbale era diretto per intero, e cioè il committente, che fruiva di altre occasioni di esecuzione, piú private, e che certo in alcuni casi interveniva anche nella composizione.39 Si ha cosí una forma di adattamento del codice all’uditorio, che è sempre stato operante, ma nel caso della lirica corale siamo in grado di vederne i procedimenti in dettaglio. L’interpretazione qui data del fenomeno è confermata da un altro dato statistico a prima vista sorprendente: i cori dei tragici (la cui pubblicazione avviene in condizioni di comunicazione del tutto simili a quelle dell’ode corale–orchestica di Pindaro, e per di piú con la sovrapposizione cronologica di qualche decennio, e quindi con musica e danza simili) hanno una frequenza di iperbati che, sempre prendendo Omero come unità, arriva soltanto al valore di 2: il doppio di Omero, ma dieci volte meno di Pindaro! Segno che la parte verbale del messaggio, in sé facile e piana (a dispetto di qualche impressione superficiale di noi lettori moderni), è destinata ad arrivare in modo ben piú integrale al pubblico del teatro di Dioniso. È evidente che il drammaturgo attico ha quel pubblico come destinatario unico e che a quel pubblico i grandi problemi etico–politici di cui il coro cantando e danzando si fa
|| 38 Mi servo del concetto di rumore, proprio della teoria della comunicazione, per la compresenza di piú codici sovrapposti (verbale, musicale, orchestico): l’uno può fungere da rumore nei confronti dell’altro. 39 Per i molti aspetti della committenza vanno ricordati i numerosi contributi di Gentili apparsi nel corso di piú di vent’anni.
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portavoce interessano non meno dell’azione drammatica che normalmente si svolge nei trimetri recitati. Ne viene un quadro della cultura aurale che risulta articolato e secondo i modi della comunicazione e secondo la rilevanza relativa della comunicazione stessa, e cioè con l’adattamento del messaggio al destinatario, di volta in volta diverso. La cultura aurale conosce livelli molteplici della comunicazione. La relativa oscurità del testo della lirica corale nell’esecuzione corale è voluta dall’autore, o meglio è richiesta dal genere stesso: le affermazioni sul tipo di quella di Ol., II 83 sgg., in cui Pindaro dice di «aver molte frecce all’arco, sonore (φωνάεντα) – e cioè chiare – per chi le capisce (συνετοῖσιν): ma per la folla hanno bisogno d’interprete; ecc.», sono solenne dichiarazione di esoterismo.40 Qualcosa di simile al codice metaforico del discorso politico di Alceo (l’allegoria della nave, ecc.), rivolto ai compagni di etería, con la differenza che Alceo, e il simposio, hanno come destinatario un pubblico ristretto, mentre Pindaro ne ha uno ristretto e uno “allargato”. Il confronto con la lirica del dramma attico, che ha solo un pubblico allargato, è illuminante e contrario. Un indizio della trasmissione scrittoria della lirica è, per di piú, il riuso simposiale, e cioè la riutilizzazione di testi poetici nati non solo per occasione diversa, ma anche in ambiente diverso. Non s’intende qui già il V secolo, l’epoca della silloge dei carmi simposiali attici (i cosiddetti Carmina convivalia) o della silloge teognidea che, pur radicati almeno alla fine del VI secolo, si formano e si diffondono nel V e al piú tardi (per i carmina) nel IV, epoca per la quale la trasmissione scritta non ha bisogno di essere confermata con indizi di sorta; bensì il VI secolo, che presenta episodi come il “duetto a distanza” di Mimnermo di Colofone (fr. 6.2 W. = 11 G.–Pr.) e Solone di Atene (frr. 20 e 21 W. = 26 e 27 G.–Pr.) sulla desiderabile durata della vita umana: «Magari vivere, sano e sereno, fino a sessant’anni», aveva detto Mimnermo; «Correggi: ottanta», aveva replicato Solone. Ho parlato di indizio, e non voglio neanche dare ad esso troppa forza: la diffusione orale della lirica simposiale anche a distanza doveva pur sempre essere un procedimento normale anche nel corso del VI secolo.41
|| 40 Per chi pensa che l’esoterismo riguardi soltanto le dottrine religiose dell’ode specifica, si può richiamare Ol., IX 100 sgg., ecc.: sono dichiarazioni usuali che selezionano il pubblico (e il messaggio per le diverse parti del pubblico stesso). È superfluo richiamare qui la sociologia aristocratica della φυά. 41 Vd. il mio contributo nella Miscellanea in onore di B. Gentili (Lirica arcaica e scoli simposiali: Alc. 249.6–9 V. e ‘carm, conv.’ 891 P.) di prossima pubblicazione: la trasmissione orale dei testi simposiali risulta in alcuni casi piú fedele della trasmissione scritta, come appare dal confronto del testo offerto dal papiro di Alceo (passato attraverso l’edizione alessandrina) con
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Abbiamo parlato finora di condizioni oggettive della comunicazione. Ci si deve ora chiedere quale coscienza ne avessero i Greci. È già nell’epoca lirica che la dialettica oralità–scrittura comincia a configurarsi come una scelta che si può chiamare ideologica. Ma non è ancora l’alternativa pura e semplice fra due diversi mezzi di comunicazione: è, piuttosto, l’affermazione di contenuti diversi dall’epos. Senofane è un aedo, ma nei contenuti si contrappone all’epica. Del resto, l’epoca lirica non pare essersi mai proposta veramente l’unica alternativa che poteva proporsi, e cioè quella tra auralità e scrittura per la pubblicazione, ovvero per l’esecuzione delle composizioni letterarie. La diffusione del libro è ancora lontana, in prospettiva. Se la pubblicazione orale (aurale) continua, sia nelle feste panelleniche e locali per l’epos e per la lirica corale sia nel canto simposiale per la lirica, sono frequenti i casi di rifiuto degli ideali etici dell’epos o della materia dell’epos stesso, fratto di oralità primaria, ma di una cultura che veniva sentita per piú aspetti come superata. Archiloco rifiuta la figura del guerriero omerico (fr. 114 W.) e getta lo scudo (fr. 5 W.), senza dubbio per rispondere a nuove esigenze di guerra, lui guerriero di professione, che si troverà «un altro scudo non peggiore» per continuare a combattere, essendosi salvato la vita. E si potrebbe continuare. Ma piú interessanti sono i casi di rifiuto esplicito della “menzogna epica” insinuata di contrabbando attraverso la seducente empatia dell’epos stesso. Solone (fr. 29 W. = 25 G.–Pr.) e Senofane (fr. 1.21 sgg. W. = G.– Pr.) rifiutano la materia epica con l’accusa di «falsità» e di «invenzioni degli antichi». Su una linea simile è la critica di Eraclito,42 che esplicitamente polemizza con chi si lascia trascinare dagli aedi (B 104 D.–K.). Pindaro, nella Olimpica 1 (28–34, 52 sg.), rifiuta le molte «narrazioni prodigiose» e le «dicerie degli uomini» che, menzognere, convincono attraverso la charis del canto epico: e rifiuta, cosí, la tradizione di una Demetra antropofaga (stesso procedimento nella Nemea VII in rapporto con il Peana VI). Altrettanto importante è il diverso taglio che viene dato alla narrazione epica, che non deve piú essere lunga e diffusa (come ancora era nell’epico–lirico Stesicoro, cosí vicino a Omero),43 ma deve adattarsi a tempi narrativi più brevi: è ancora Pindaro che, oltre a praticare tale procedimento che in sé era non epico,44 lo teorizza anche, come in Pyth., IV 247 sg., VIII 29 sgg., IX 76 sgg. || quello, che per almeno una lezione è migliore, dei Carmina convivalia in Ateneo (passati attraverso una trasmissione orale simposiale, che ha poi portato alla composizione della silloge). 42 Vd. i vari frammenti raccolti in G. Lanata, Poetica pre–platonica. Testimonianze e frammenti, Firenze, La Nuova Italia, 1963, pp. 116 sgg. 43 Rossi, Feste religiose, cit. 44 L’epica tende a riempire totalmente il tempo narrativo, secondo la bella formulazione di Hermann Fränkel, Wege und Formen frühgriechischen Denkens, München, Beck, 1955, pp. 1 sgg.
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È un’intera cultura che viene, a tratti, rifiutata, in nome di nuove esigenze e di nuovi ideali e in nome di quella verità, a cui la poesia postomerica e attuale deve ispirarsi e che era stata proclamata come principio informatore da Esiodo nel proemio della Teogonia (che è citato espressamente da Bacchilide, v 187 sgg.). In piú, c’era l’interpretazione allegorica inaugurata da Teagene di Reggio fra VI e V secolo, a cui si associò almeno anche Ferecide di Siro,45 che tentava di salvare contenuti eticamente o razionalmente inaccettabili: un altro modo, implicito, di prendere le distanze dalla cultura omerica. La presenza omerica era in sé ingombrante: era sentita da una parte come depositaria di tradizione e dall’altra come espressione di una cultura antropologicamente diversa. Ma in quest’epoca una vera alternativa oralità/scrittura sembra assente: l’oralità primaria è sepolta nella fase preomerica (vd. par. 2), l’uso della scrittura per la composizione non crea ancora problemi (come avverrà fra V e IV secolo) e la comunicazione aurale non ha alternative, condizionata com’è dalle occasioni. La viva voce letteraria ha in quest’epoca valore pecuniario assai alto. È stata messa efficacemente in luce la progressiva omologazione della poesia al mercato che governa, per esempio, l’arte figurativa: anche la poesia è merce, richiesta dai committenti e a questi ultimi offerta dai poeti.46 E il mercato della parola, sempre pubblicata oralmente in un contesto di cultura ancora tenacemente aurale nel V secolo, è molto fiorente: la parola poetica vale addirittura piú della statua, perché la parola annulla lo spazio portando se stessa in luoghi diversi: non è testimone indiretta di gloria (come la fama della statua), ma è la gloria stessa che si offre direttamente al pubblico (concezione, del resto, già omerica del kleos). Pindaro comincia la Nemea v (forse del 483 a.C.) affermando con orgoglio di essere non uno scultore che produce statue destinate a restare immobili sul loro piedistallo, ma un poeta che compone carmi capaci di traversare il mare e di portare lontano la lode del vincitore. L’annotazione scoliastica ci informa che ai parenti del committente Pitea di Egina Pindaro aveva richiesto una somma in sé enorme, tremila dracme (mezzo talento, e cioè circa 13 chili d’argento, secondo la misura attica, e di piú secondo la misura eginetica); che essi avevano disdetto l’incarico, affermando che avrebbero preferito una statua (secondo le testimonianze, un prodotto di assai minor costo);47 ma che alla fine || 45 R. Pfeiffer, Storia della filologia classica dalle origini all’età ellenistica [Oxford 1968], trad. it. Napoli, Macchiaroli, 1973, p. 10. 46 Vd. spec. B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Roma–Bari, Laterza, 19892 (1984), e J. Svenbro, La parole et le marbre, Lund, Diss. Klass. Inst., 1976 (trad. it. La parola e il marmo, Torino, Boringhieri, 1984). 47 Siamo informati, per es., sui compensi per l’Acropoli: Fidia avrebbe ottenuto circa un talento l’anno per lavorare alla statua criselefantina di Atena. La sperequazione risulta ancora piú
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avevano poi confermato l’incarico a Pindaro, che aveva aperto l’ode nel modo che si è detto. Per un Ditirambo per gli Ateniesi aveva avuto un compenso ancora piú grande, settemila dracme, come si conveniva alla commessa da parte di un’amministrazione cittadina. L’orgoglio di Pindaro poeta che si contrappone allo scultore, e la situazione oggettiva del mercato, avevano un fondamento nel pregio in cui erano tenute la parola (e la voce) in una cultura aurale, che della parola viva faceva il proprio strumento non solo primario, ma pressoché esclusivo di diffusione. Per la presenza di immagini prese dalla tecnologia della scrittura basterà ricordare qui l’inizio dell’Olimpica x di Pindaro: «Leggetemi l’olimpionico figlio di Archestrato, in qual parte dell’animo mio è stato scritto». Le immagini scrittorie diventeranno in seguito piú frequenti, specie nei drammaturghi attici. All’interno dell’epoca lirica cadono gli inizi della filosofia. A parte Talete, che secondo le fonti probabilmente non lasciò un trattato scritto, la filosofia presenta il problema dello statuto poetico o prosastico dei primi περὶ φύσεως, ovvero dei primi trattati filosofici (Anassimandro, Anassimene). Quando poi la forma esametrica diventò la norma (Parmenide, Empedocle), la filosofia rientrò di fatto nel genere epico48 e si adattò alle condizioni di comunicazione tipiche di quest’ultimo: esecuzione nelle panegyreis e, in genere, nelle gare citarodiche. Senofane è a tutti gli effetti un aedo, vero concorrente di Omero, col quale polemizza, negli agoni e nei simposi. Lo statuto dell’opera di Eraclito può situarsi in una posizione intermedia, vista la sua natura di prosa ritmica, in armonia con la sua posizione violentemente polemica non solo nei confronti dell’epica (e della tradizione poetica arcaica in generale), ma anche specificamente degli agoni (B 104 D.–K.).49
4 Il V e il IV secolo (la tragedia, l’oratoria) La tragedia attica ha come materiale il mito eroico, quello stesso che era stato trattato dall’epos orale, ma ne è lontana quanto l’epoca orale è lontana dalla polis matura sia come situazione compositivo–comunicativa sia come atteggia-
|| rilevante se si considerano i relativi costi di produzione: e del resto sono confrontati qui due artisti, Pindaro e Fidia, ambedue di grande successo. 48 S. Koster, Antike Epostheorien, Wiesbaden, Steiner, 1970. 49 Anche se si deve riconoscere che la prosa ritmica rivivrà piú tardi nella forma dell’orazione epidittica, che avrà un suo luogo negli agoni. E del resto l’uso della clausola si affermerà, in maggiore o minor misura, in tutta l’oratoria.
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mento ideologico di fronte al mito.50 La composizione è scrittoria e il mito è diventato sempre piú un apologo per la vita etico–politica contemporanea e ha perso il suo carattere di narrazione per essere agito sulla scena. La contrapposizione aristotelica epos/dramma nella Poetica, concepita poco piú tardi, risulterà essere ben di piú che una semplice distinzione di tecniche espositive: sarà il riconoscimento di uno statuto nuovo del mito. L’immaginario della scrittura continua ad essere sempre piú produttivo, certo in rapporto con la sempre maggior diffusione della competenza scrittoria (il dramma attico è tutt’altro che aristocratico ed esoterico: il suo referente è la vita della polis, e la scrittura ne è ormai parte integrante). Uno dei casi piú singolari è nell’Ippolito di Euripide, quando Teseo legge la postuma lettera accusatoria di Fedra contro Ippolito (877 sgg.): «La tavoletta grida, grida cose tremende! [...] Quale, quale canto ho visto che risuona attraverso la scrittura!». È stato giustamente messo in luce51 che si ha qui l’interazione sinestetica vista–udito, che richiama la consuetudine con tutti e due i processi di comunicazione, quello aurale e quello scrittorio.52 È certamente da respingere una valutazione orale in toto del dramma attico come quella che ci offre Havelock:53 anche se in lui gioca l’equivoco fra orale e aurale, è in realtà la dialettica fra aurale e scrittorio che entra in gioco, e in questo senso si può certo affermare, come lui fa, che da Eschilo a Euripide si percepisce uno sviluppo del discorso concettuale che si accompagna alla diffusione della scrittura. Uno sviluppo interno all’auralità, dunque, riconosciuto da un esame interno dei testi. Non dimentichiamo comunque che, fin dai suoi primordi, la pubblicazione del dramma è inizialmente pensata come locale, ateniese, situazione quanto mai lontana dall’ecumenicità dell’epos (l’ecumenicità è diventata a suo modo provinciale, nel senso che si rivolge alla polis riunita nel teatro); e che – quel che piú conta – la polis esercita il suo controllo attraverso la prima scelta che precede il proagone e le rappresentazioni: a questa prima scelta i drammi vanno consegnati scritti, o certo presentati sulla base di un supporto scrittorio.54 La musa omerica come ipostasi del controllo sociale55 è ora sop-
|| 50 È superfluo qui rimandare a lavori ormai classici di Vernant, Vidal–Naquet e Detienne. 51 Ch. Segal, Tragedy, Orality, Literacy, in Oralità cit., pp. 199 sgg., precisam. pp. 218 sgg. 52 Per altri casi di uso coevo dell’immaginario scrittorio vd. Pfeiffer, Storia, cit., pp. 75 sgg. 53 Vd. passim nella sua produzione, con particolare dettaglio in E.A. Havelock, The Oral Composition of Greek Drama, in Oralità, cit., pp. 713 sgg.: il confronto fra Eschilo ed Euripide è avviato sulla scorta delle Rane di Aristofane. 54 Sulla scelta preventiva dei drammaturghi che poi partecipavano al proagone e all’agone drammatico non siamo informati se non da un passo di Platone (Leg., 817d 4 sgg.), dove si parla del «chiedere il coro» e «ottenere il coro» leggendo all’arconte i propri testi (A. Pickard– Cambridge, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford, Oxford Univ. Press, 19682, p. 84). È chiaro
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piantata dalle autorità cittadine, che controllano la fedeltà del drammaturgo all’impegno nei confronti della polis–committente, e cioè dei gusti del pubblico («encomio di Atene» sono definite dalla hypothesis le Supplici euripidee), allo stesso modo che Ierone avrà fatto con Pindaro e Bacchilide nell’ambito della famiglia aristocratica. Solo dopo, fra i poeti a cui era stato concesso il coro, interveniva nel giudizio il pubblico del proagone. La previsione del successo scenico dei drammi doveva svolgere un ruolo importante nei criteri di giudizio della scelta preventiva su chi doveva ottenere o no il coro. È stata, questa, forse la prima esperienza di una “critica” che ha operato una trasposizione da un codice di comunicazione all’altro, dalla pagina scritta (o recitata senza requisiti di scena) alla cavea del teatro: i giudici dei concorsi drammatici sono stati gli immediati predecessori della critica da Aristotele in poi,56 con la differenza che questa trasposizione veniva fatta nel V secolo con piena consapevolezza, mentre Aristotele tale consapevolezza o non l’aveva o la imboscava per la sua valutazione cosí poco drammaturgica dell’evento drammatico.57 La polis ha bisogno della scrittura, e se ne serve, esempio capitale, per le leggi, dai leggendari legislatori arcaici (orali–aurali) a Solone e alle formulazioni dell’Antigone sofoclea.58 E il processo attico, che comincia alla fine del V secolo, si serve ampiamente della lettura delle leggi scritte («recita la legge», suona la nota formula che troviamo nelle orazioni giudiziarie). È del resto nell’oratoria che appare piú evidente proprio la concomitanza e concorrenza fra auralità e diffusione della scrittura, intesa come mezzo sia per la composizione sia per la diffusione. L’oratoria è l’attività primaria dell’oratore, mentre la retorica è la
|| che non dobbiamo pensare a lettura silenziosa delle opere dei concorrenti (e Platone ce lo impedirebbe, anche se in realtà nel suo passo si parla solo di «canti»): ma è comunque un giudizio che astrae dalle molte altre componenti del codice e della comunicazione drammatica. Questo succedeva anche nel proagone (Pickard–Cambridge, op. cit., pp. 63, 67 sg.), nel quale gli attori recitavano senza maschera (Eschine, Ctes., 66–68, e scolio ad loc.). 55 Secondo l’efficace formulazione di Svenbro, op. cit. 56 Vale la pena contrapporsi qui ad una valutazione che appare strana. Pickard–Cambridge, op. cit., p. 97, afferma che, visti i criteri di selezione dei giudici in generale, «sembra improbabile che si richiedesse da loro una capacità critica». E ancora piú strano è che Pfeiffer, op. cit., p. 105 n. 171, si allinei affermando che «questi kritaí non ci interessano». Forse siamo noi a sbagliare se pretendiamo un albo professionale dei critici ateniesi strutturato secondo esigenze nostre. 57 Vd. qui oltre, par. 7. 58 Sul «bisogno di scrittura» della polis vd. D. Lanza, Lingua e discorso nell’Atene delle professioni, Napoli, Liguori, 1979, spec. pp. 58 sgg.; sui primordi della legislazione vd. G. Camassa, Aux origines de la codification écrite des lois en Grèce, in Les savoirs de l’écriture. En Grèce ancienne, éd. par M. Detienne, Lille, Presses Univ., 1988, pp. 130 sgg.
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dottrina dell’oratoria. Non va dimenticato che l’attività dei sofisti si configura come mestiere oratorio da una parte, ma dall’altra è anche la prima organizzazione, a livello superiore, dell’insegnamento, che è insegnamento retorico: e, parallelamente con l’insegnamento orale, i sofisti compongono anche opere scritte (le technai). Questo importante capitolo della storia dell’educazione greca59 (che originariamente era affidata alla famiglia) è poco esplorato anche per la relativa scarsità di testimonianze. Ed è qui, nell’oratoria, che una sommaria descrizione della situazione risulta difficile per la varietà e dei generi oratori e delle situazioni di comunicazione. Quanto ai generi, l’oratoria giudiziaria, politica ed epidittica hanno scopi e destinazioni diverse: la prima il processo, la seconda gli organi cittadini di governo; e la terza è il pezzo di bravura e di propaganda destinato a farsi spettacolo (agoni, ecc.) per un pubblico piú vasto e indiscriminato. L’oratoria giudiziaria è destinata al cliente, che deve recitarla, ed è scritta per questo scopo: significativo che il logografo piú famoso, Lisia, si specializzi come avvocato perché all’assemblea non parla, essendo un meteco. L’oratoria politica è, all’inizio, anche composta oralmente (Temistocle, Pericle): se Tucidide avesse avuto registrazioni scritte, non avrebbe sentito il bisogno di giustificare il suo intervento redazionale (1 22), col quale precisa i criteri della sua ricostruzione dei discorsi. Piú tardi l’oratoria anche politica continuerà ad essere pubblicata oralmente ma sarà diffusa anche per iscritto (Demostene, Eschine),60 e siamo con questa situazione già in pieno IV secolo. Il discorso epidittico può essere – e normalmente è – anch’esso esemplare, e cioè destinato a servire come modello, e il suo punto di partenza è Gorgia, con la sua prosa artificiosa composta con cura per iscritto proprio per esercitare piú efficacemente il suo magico potere di seduzione aurale («la parola è un potente sovrano», fr. B 11 D.–K.) e per offrirsi allo studio degli allievi (tipica è, nel Fedro platonico, la lunga scena didattica sul testo del discorso di Lisia). È stata rilevata, del resto, l’importanza dei sofisti per la diffusione del libro,61 inizialmente con le loro technai ovvero manuali retorici; l’orazione, originariamente destinata alla sola recitazione orale, sarebbe piú tardi diventata orazione–modello, e cioè materia di manualistica retorica, diffusa per iscritto come esempio di oratoria. L’esem|| 59 Su cui vd. da ultimo R. Nicolai, La storiografia nell’educazione antica, di prossima pubblicazione. 60 Su Demostene vd. L. Canfora, Discorso scritto / discorso reale in Demostene, in Sapere e scrittura, cit., pp. 109 sgg., con opportune precisazioni sulle vicende della tradizione dei testi, influenzate dalle motivazioni dei singoli momenti di partenza (supporto della memoria per il cliente, vera pubblicazione scritta, ecc.). 61 Pfeiffer, Storia, cit., pp. 81 sgg.; G.F. Nieddu, Testo, scrittura, libro nella Grecia arcaica e classica. Note e osservazioni sulla prosa scientifico–filosofica, in «S&C», a. VIII 1984, pp. 213 sgg.
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plarità non si limita all’epidittica, perché anche le orazioni giudiziarie e politiche entrano nelle technai o per intero (Antifonte) o per sezioni (esordio, ecc.).62 In uno stadio ulteriore (IV sec.) Isocrate fa scuola con un’oratoria integralmente concepita per iscritto e destinata a diffusione scritta: come dichiarazione programmatica basta richiamare quella, assai lunga e dettagliata, dell’inizio del Panatenaico (10 sgg.). Funzionale a tale concezione è la raffinatezza del dettato (bando dello iato, ecc.). La vittoria della composizione e della diffusione scrittoria è in connessione con un fatto di grande importanza: il divorzio fra genere letterario e occasione volto a raggiungere un pubblico in qualche modo “selezionato”.63 La mistione dei generi, come si usa chiamarla, sarebbe inconcepibile senza la diffusione della scrittura (e del libro), che è premessa per l’affrancamento dall’occasione, e raggiungerà in epoca alessandrina dimensione pressoché totale. Ma la vittoria dello scritto, anche nella composizione, è lungi dall’essere totale: una teoria retorico–didattica, rappresentata da Alcidamante, e contrapposta alla scuola isocratea, sostiene la superiorità del discorso composto oralmente ovvero improvvisato, tale da adattarsi piú compiutamente all’occasione, al καιρός.64 Il richiamo all’occasione è un richiamo alla necessità dell’efficacia sull’uditorio: ed è in nome di questa efficacia che è richiesta la composizione orale, piú duttile nei confronti delle esigenze dell’uditorio. L’empatia creata dall’epos è qui frutto di scelta e di accurata programmazione e si configura anch’essa come dottrina pedagogica, allo stesso modo che pedagogica era la scelta isocratea. In questo panorama si situa la figura di Socrate, oratore e didatta orale per eccellenza. Il forte accento che le fonti pongono sul suo rifiuto totale della scrittura, sulla necessità dello scambio dialogico per la ricerca della verità,65 fanno || 62 Segnalo l’interessante ipotesi di Th. Cole, The Origins of Rhetoric in Ancient Greece, Baltimore–London, Johns Hopkins Univ. Press, 1991, per il quale i discorsi tucididei avrebbero funzione di modelli retorici: diventerebbero quindi molto presto materia di retorica, dopo essere stati (fittiziamente in Tucidide) materia di oratoria. Per la funzione esemplare del discorso giudiziario, spesso diffuso indipendentemente dalla volontà dell’autore, vd. spec. K.J. Dover, Lysias and the ‘Corpus Lysiacum’, Berkeley–Los Angeles, Univ. of California Press, 1968 (non solo per Lisia, ma come costume editoriale in generale). 63 Rossi, I generi letterari, cit., spec. pp. 83 sgg. 64 G. Avezzú, Alcidamante. Orazioni e frammenti, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1982; per il kairos vd. M. Vallozza, ‘Kairòs’ nella teoria retorica di Alcidamante e di Isocrate, ovvero dell’oratoria orale e scritta, in «QUCC», n.s. 21, 1985, pp. 119 sgg. 65 Per lo scambio dialogico come massimo bene, vd. ancora Platone, Apol., 38 a 1 sgg., 40 e 4 sgg.; sullo scambio dialogico “breve” come preferibile rispetto a quello “lungo” vd. soprattutto Gorg., 461 d 6 sgg.; Prot., 334 c 7 sgg.
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capire che la sua posizione è in buona misura eccentrica. L’operazione di Socrate è, in fondo, un istituzionalizzare l’ ἀγοράζειν, la frequentazione dell’agora con la sua ricchezza di scambio dialogico:66 una specie di aggiornamento di quello che era, nell’autentico simposio politico arcaico (che ormai volge al suo tramonto), il βουλεύεσθαι παρὰ πότον, il «parlare di politica fra i calici», che del simposio era il centro. Come del simposio la cosa piú importante era la politica dell’etería, cosí nell’Atene di Socrate la cosa piú importante (per Socrate) era diventata la filosofia, o meglio la ricerca della verità. E ai pochi del simposio corrispondono, nello scambio dialogico di Socrate, potenzialmente tutti quelli che alla ricerca della verità hanno vocazione. Socrate si oppone alle innovazioni che si stanno realizzando nella comunicazione. Dal punto di vista dei mezzi di comunicazione, nel rifiuto della scrittura e del “libro” dei sofisti, il vero reazionario è Socrate piú che Platone, come si vedrà meglio qui oltre. Si è parlato molto dell’ “intervento” di Platone sulla figura di Socrate: ma c’è da considerare quanto dell’autentico Socrate sia stato preso come platonico (per esempio, in fatto di oralità/scrittura) senza in realtà esserlo.
5 Storiografia La storiografia presenta una contiguità cronologica di grande interesse, quella dei contemporanei Erodoto e Tucidide, che operano nello stesso ambiente, ad Atene. Qui, ancora una volta, il mezzo di comunicazione e la fisionomia del messaggio sono scelti con intuitus dell’occasione e del destinatario. Abbiamo testimonianze esterne e interne. Per Erodoto quelle esterne ci vengono dalle notizie di recitazioni pubbliche di sezioni della sua opera67 e dal famoso passo di Tucidide (1 22) nel quale viene espressamente rifiutato il metodo erodoteo della pubblicazione orale: la sua opera deve essere sottratta all’occasione del momento per diventare uno κτῆμα ἐς αἰεί, «un acquisto perenne». Il senso di tale contrapposizione è chiaro se si verificano i due storiografi dall’interno, considerando anche solo il loro dettato: Erodoto “omerico” nella lingua, ampiamente paratattico in una maniera epicamente narrativa, per cui le scelte di organizzazione del testo sono nella direzione di una voluta omericità, tale anche per quanto riguarda i destinatari;68 Tucidide complesso nello stile (come appariva || 66 Il passo classico per l’agora come luogo abituale e naturale di Socrate è al principio dell’Apologia di Platone (17c 6 sgg.). 67 Pfeiffer, op. cit., p. 80. 68 Uno dei tratti omerici di Erodoto è la frequente organizzazione anulare della narrazione, che appare espediente tipicamente orale–aurale (e si presenta anche nell’oratoria).
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anche a Dionigi d’Alicarnasso)69 e, pur attico nella lingua, lontano da “provincialismi” attici. L’uno diretto ad uditori da panegyris, l’altro ad un pubblico panellenico, ma, come si è detto prima, selezionato (un’aristocrazia della politica)70 e raggiunto dalla diffusione scrittoria. Per continuare ad usare uno strumento di valutazione come l’ampiezza e la non selettività dell’uditorio, Tucidide si presenta come la prima integrale negazione dell’antica ecumenicità epica e della nuova diffusione favorita dalla polis: negazione non solo di oralità improvvisatoria, ma addirittura di ogni forma di auralità.71 Alla storiografia posteriore si farà un cenno in seguito.
6 Platone Un punto chiave nella dialettica orale/scritto è la posizione di Platone, che è sempre stata al centro di un vivace dibattito. Platone è favorevole alla scrittura? Oppure è un nostalgico dell’oralità primaria? E come si concilierebbe quest’ultima posizione, che sembra trasparire da alcune sue formulazioni, con la prassi di uno scrittore che secondo la tradizione72 lima il suo dettato e che produce opere dalle quali traspare una consumata cura formale? Per quanto Platone viva in un’epoca di convivenza fra il modo di comunicazione orale e quello scritto, le contraddizioni in cui lo si è visto coinvolto sono tali da desiderare di vederle superate.73
|| 69 Dionigi di Alicarnasso, Thuc., 410 15 sgg. Us.–Rad.: «Pochi sono quelli che possono capire tutto in Tucidide, e questi stessi alcune cose non le possono capire senza esegesi grammaticale». 70 Come lo stesso Dionigi nota nel contesto del passo cit. a n. prec. (cap. 52). 71 È sempre Dionigi (comp. verb., 108 1 sgg.) a notare che lo stile «austero», «duro e acerbo» di Tucidide «non è adatto né alla panegyris né al teatro» (vd. B. Gentili–G. Cerri, Le teorie del discorso storico nel pensiero greco e la storiografia romana arcaica, Roma, Ediz. dell’Ateneo, 1975, pp. 17 sgg.). È un giudizio stilistico, ovviamente, e non possiamo fare di piú che utilizzarlo come un’analisi interna del testo fatta da un critico letterario antico, ma non è poco. 72 Famoso è l’aneddoto tramandato da Dionigi di Alicarnasso, comp. verb., 133.4 sgg. Us.–Rad. (cfr. Quintiliano, VIII 6 64, e Diogene Laerzio, III 37), secondo il quale dopo la morte di Platone sarebbe stata trovata una tavoletta con varie versioni delle poche parole con cui comincia la Repubblica. Lo stesso Dionigi, ibid., afferma che Platone arrivò a ottant’anni continuando a «pettinare e arricciolare» i suoi dialoghi. 73 Per quanto segue sono largamente debitore a G. Cerri, Platone sociologo della comunicazione, Milano, Il Saggiatore, 1991, che ha proposto una soluzione al secolare dibattito (del quale offre una breve sintesi a pp. 77 sgg., oltre a una aggiornata bibliografia).
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Punto di partenza obbligato sono le formulazioni del Fedro. Alla fine del dialogo (274 b 6 sgg.) Platone offre una serrata critica della scrittura, che sarebbe non aiuto per la memoria (μνήμης), ma per la «rammemorazione» (ὑπομνήσεως):74 è il mito del dio Theuth che offre a Thamous re degli Egizi, fra le altre tecniche, anche quella della scrittura, offrendosi cosí alle critiche del re. La memoria ne risulterebbe indebolita per mancanza di esercizio. Segue la critica della parola scritta, che sarebbe cosa morta e quindi muta rispetto alla vitalità del discorso orale, capace di rispondere a chi lo interroghi. Nella Lettera VII (341 b 3 sgg.) la critica di Platone si volge in modo specifico contro la scrittura della filosofia: quest’ultima, come ricerca della verità, non può essere legata alla rigidità del discorso scritto, bensì deve trovare la sua via attraverso la vitalità del discorso orale. Ma Platone nonostante tutto questo scrive, e scrive di filosofia: questa è apparsa una contraddizione, non minore di quella che secondo molti emerge da una parte dal suo rifiuto della letteratura, espresso con forza soprattutto nella Repubblica, e dall’altra dal riconoscimento della utilità della letteratura stessa per l’educazione fantastico–emotiva della gioventú.75 Salvare Platone da alcune contraddizioni, cercando totale coerenza nel suo corpus, sarebbe fargli un torto che la sua rappresentazione orale, e cioè la sua messa in scena dell’euristica filosofica nel dialogo, non merita; e d’altra parte merita anche indulgenza la sua indubbia posizione di compromesso in un momento che è ancora di passaggio fra composizione orale e scritta del discorso (e del resto che Platone sia un nostalgico o, se si vuole, un attardato non è affermazione né inedita né ingiustificata). Ma una coerenza interna, in questo, la si può anche trovare: dalla scrittura della sua filosofia pare che vengano esclusi gli ἄγραφα δόγματα, «le dottrine non scritte»,76 visto che l’insegnamento filosofico è riservato ai pochi che sono in grado di recepirlo oralmente, mentre la massa ne è esclusa (Epist., VII 341d sgg.).77 La sua scrittura non è, quindi, la sistematica esposizione della sua filosofia, ma una serie di “saggi” in cui, tra l’altro, la situazione di oralità viene esposta mimicamente, scenicamente agìta come nel dramma: e in questo Platone, dal punto di vista letterario, è un precursore della || 74 Si veda anche il finale del Fedro. 75 L’accettazione della letteratura (ovviamente non tutta, ma solo quella eticamente valida) per l’educazione è formulata sistematicamente nelle Leggi (809e sgg.): ma per la complessa posizione di Platone vd. Cerri, op. cit., pp. 119 sgg. Vd. anche M. Vegetti, Nell’ombra di Theuth. Dinamiche della scrittura in Platone, in Sapere e scrittura, cit., pp. 201 sgg. 76 Per cui vd. Aristotele, phys., 209 b 11 sgg. 77 È la posizione della scuola di Tubinga (Gaiser, Krämer), per cui vd. da ultimo Th.A. Szlezák, Platon und die Schriftlichkeit der Philosophie, Berlin–New York, de Gruyter, 1985 (trad. it. Platone e la scrittura della filosofia, Milano, Vita e Pensiero, 1988).
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prassi alessandrina di presentare situazioni sceniche anche fuor di teatro (Teocrito, Eroda) e di mimare la comunicazione aurale della festa religiosa (Callimaco negli Inni).78 E del resto la scrittura la accetta per la letteratura, per le leggi e per l’oratoria,79 mostrando in questo una sua scelta di mezzi di comunicazione a seconda dell’occasione e del destinatario. E infine il rifiuto della letteratura in sé, che riassume il suo rifiuto della polis cosí com’è in vista di una polis da rifondare, è anche in funzione dell’affermazione della sola letteratura accettabile, la sua, e cioè i suoi dialoghi, che realizzano forme letterarie varie e molteplici (una “mistione dei generi” già platonica).80 Alla fine del Fedro Platone fa l’elogio di Isocrate, e questo aveva creato difficoltà a molti, proprio per l’apparente contraddizione fra due apologie apparentemente assolute, quella dell’oralità e quella della scrittura: ma il Fedro stesso è tutto una discussione della didattica attraverso la scrittura, come si è osservato sopra a proposito del discorso di Lisia. Insomma, di fronte alla scrittura Platone e Isocrate, questi due grandi intellettuali del IV secolo, sono molto piú vicini di quanto si sia in genere creduto, tutti e due docilmente figli del loro tempo.81 Prima di proporre un breve panorama della situazione ulteriore, necessario per intravedere la via che condusse a situazioni di comunicazione piú simili alle nostre, s’impone una semplice riflessione. Oralità e scrittura si erano presentate, specialmente fra V e IV secolo, come i due poli di un’alternativa, come oggetto di una scelta. Per valutare appieno il peso culturale di tale scelta, e il suo specifico culturale–ideologico, dovremmo essere piú informati di quanto in realtà siamo sulla qualità e sulla disponibilità dei materiali scrittori e sulla estensione dell’alfabetizzazione (quest’ultima dipenderebbe anche dall’estensione della scolarità). In che misura la disponibilità dei materiali e la competenza scrittoria del pubblico hanno potuto condizionare o favorire le scelte in una direzione o nell’altra? In difetto di estesa informazione in questi campi, specie per il V seco-
|| 78 Si sa che quello che un testo antico suggerisce con insistenza sui particolari è un supplemento, o un surrogato, per quanto manca nella situazione della comunicazione: cosí nell’epigramma letterario (ricco di particolari ambientali) rispetto all’epigramma su pietra, cosí anche nel dramma attico (che spesso fornisce nelle didascalie sceniche interne al testo quello che sulla scena manca). 79 Cerri, op. cit., pp. 119 sgg. 80 Per un parzialmente nuovo inquadramento del fatto letterario in Platone, analizzato soprattutto attraverso il Simposio, vd. L.M. Segoloni, Socrate a banchetto da Aristofane a Platone, di prossima pubblicazione. 81 È significativo che in Dionigi di Alicarnasso, comp. verb., 133 2 sgg. Us.–Rad., la notizia della elaborazione decennale del Panegirico di Isocrate sia contigua a quella relativa alle cure stilistiche di Platone riportata sopra.
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lo, dobbiamo da una parte contentarci di prendere a valore facciale le dichiarazioni programmatiche (Tucidide, Isocrate, Alcidamante, Platone e cosí via) e dall’altra, per integrarle in un quadro piú completo, dobbiamo tener conto delle limitazioni, appunto, delle nostre informazioni.82
7 Dopo Platone Con l’epoca ellenistica e con la letteratura alessandrina la scrittura e il libro occupano sempre piú lo spazio che era stato della comunicazione orale, e cioè dell’auralità. Nel campo specifico della letteratura il primo vero liber poetico è quello dei Giambi di Callimaco, che farà scuola a Roma (Catullo, ecc.) e che sarà il “contenitore” della lirica moderna: il liber è forse il primo prodotto letterario del tutto impensabile senza la scrittura, che ne struttura e ne presenta in sequenza obbligata le singole parti (una specie di opposto della circolarità dell’epos di cui si parlava sopra). Per di piú gli inizi di un nuovo genere letterario, quello dell’Antologia poetica, si situano fra II e I secolo a.C. Il genere “antologia” non è altro che la traduzione libresca dell’agone, fosse esso rapsodico, drammatico o simposiale: la serie degli epigrammi in gara l’uno con l’altro si chiude con l’epigramma dell’antologista, che si situa alla fine della serie (in un ordine fisso e visivo, che è quasi una riproduzione grafica della realtà agonale) e si attribuisce cosí la vittoria. Se un cenno di altro andrebbe ancora fatto, sarebbe della storiografia del IV–III secolo che bisognerebbe parlare: Duride di Samo polemizza con lo stile «grafico» di Eforo e di Teopompo, difendendo la sua scelta «mimetica», piú atta al pathos che si richiederebbe alla storia.83 Ma “mimetico” è metafora presa a modi di comunicazione del passato e trasferita a criterio di giudizio letterario per una letteratura della pagina scritta: Aristotele nella Retorica (1413 b 2 sgg.) usa una terminologia simile (‘grafico’ vs ‘agonistico’, questo secondo nel senso di ‘adatto alla recitazione del tipo di quella degli agoni’, che è poi anche della prassi giudiziaria), e si tratta della stessa lingua speciale della critica, che si serve della vecchia terminologia “vocale” con valore metaforico. Non dobbiamo dimenticare che fu già Aristotele nella Poetica84 a
|| 82 L’orientamento prevalente è, oggi, di considerare l’alfabetizzazione piuttosto estesa già a cominciare dal V secolo: vd. Nieddu, art. cit., a par. 3. 83 FGrHist 76 F 1: vd. Gentili–Cerri, op. cit., pp. 26 sgg. 84 Aristotele, Poet., 53 b 1 sgg.: la spettacolarità, o meglio il semplice aspetto spettacolare (opsis) è quasi condannato (vd. il comm. ad loc. di D. Lanza, Milano, Rizzoli, 1987) come non essenziale alla tragedia, che deve ottenere i suoi effetti anche senza questo “di piú” (definito
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considerare perfino il dramma, che alla scena era cosí legato, come un libro disponibile alla lettura. E del resto la filologia alessandrina, ponendo le basi della filologia moderna, ha ridotto a libro tutta una letteratura che non era nata come libro: a parte la preziosa opera di conservazione e di restauro delle opere dei poeti e dei prosatori, basterebbe, per fare ad essa un rimprovero, l’aver trattato come libro un autore come Omero, procedimento che a noi oggi sembra quanto mai inopportuno. Anche se non siamo certi di doverlo attribuire a Zenodoto,85 il famoso principio di metodo espresso con l’aforisma ‘interpretare Omero attraverso Omero’ (Ὅμηρον ἐξ Ὁμήρου σαφηνίζειν), che comprensibilmente ha sedotto la filologia positivistica, è quanto di meno storico si possa immaginare: Omero, appunto, non è un libro in sé conchiuso e una corretta esegesi avrebbe bisogno, per noi come per gli alessandrini, di tutta la tradizione epica a lui anteriore, coeva e posteriore, della quale a noi resta poco o niente e agli alessandrini restava comunque, nell’insieme, non abbastanza.86 D’altra parte, come si è osservato sopra a proposito di Platone, i letterati alessandrini, seppure ormai dipendenti dalla scrittura e dal libro, si sono compiaciuti di “mimare” l’oralità. Il mondo greco arcaico e classico aveva vissuto con viva coscienza la molteplicità dei propri mezzi di comunicazione e aveva operato vari tipi di selezione del pubblico, applicando una sua sociologia della comunicazione. E l’età alessandrina e quella romana, oltre ad adattarsi a situazioni nuove, hanno adottato anche una loro “archeologia” della comunicazione, fedeli in questo a un gusto archeologico che hanno fatto operare in vari settori delle loro culture. Tutto questo – come già si è detto – non significa certo la fine della vocalità, ovvero della lettura ad alta voce per sé o per altri, che è ancora icasticamente descritta, alla fine del IV secolo d.C., nella meraviglia di Agostino che sorprende Ambrogio nella sua stanza tacite legentem (Conf., VI 3 3). L’interesse per la recitazione (destinata se non altro alle declamazioni di scuola, ma utilizzata da
|| ὄψεως κόσμος a 49 b 33). Il mutamento della prospettiva critica non potrebbe essere piú significativo, avvenuto com’era nel corso di pochi decenni. 85 Pfeiffer, op. cit., pp. 350 sgg. 86 Del Ciclo epico ci restano frammenti, ma questi ultimi mostrano segni di recenziorità linguistica, come a suo tempo mostrò Wackernagel. E le tante parole “difficili” di Omero erano un mistero non solo per i letterati–filologi del Museo (basta sfogliare l’esegesi scoliastica), ma anche per coloro che, prima ancora, furono vittime di alcuni “punti leumanniani” (penso alle pagine piú riuscite del classico libro di M. Leumann, Homerische Wörter, Basel, Friedrich Reinhardt, 1950).
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un’oratoria che si specializzava anche nelle conferenze)87 continua ad essere costante in tutta la letteratura grammaticale e soprattutto nella retorica.88 Forse, se si ripercorre all’indietro la storia della ricerca moderna e se si risale fino a qualche decennio fa – quando l’oralità integrale e l’auralità greche erano ancora poco esplorate –, era nel mondo latino che si ricercava, paradossalmente, quello che era difficile trovarvi: per esempio l’esecuzione musicale viva delle odi del libresco Orazio, sedotti come si era dalla sua mimesi del simposio greco arcaico e dalla sua devozione, solo formale, a una tradizione musicale presa di peso dal testo, divenuto ormai muto, dei suoi modelli.89 Per tutto il mondo antico, anche nella sua fase tarda, a cominciare dal momento in cui il libro cominciò gradualmente a diffondersi in Grecia, il leggere fu definito come l’esecuzione di una partitura musicale,90 e questo sia nella prassi descritta dai grammatici sia nella loro terminologia, che rimanda al canto e che trova il suo piú ampio e influente bacino collettore in Quintiliano.
|| 87 A. Chaniotis, Historie und Historiker in den griechischen Inschriften. Epigraphische Beiträge zur griechischen Historiographie, Wiesbaden–Stuttgart, Steiner, 1988, raccoglie documentazione epigrafica per storici itineranti e per recitazioni pubbliche in epoca ellenistica. 88 Per l’attenzione della critica letteraria ad un fatto ben definito come il tempo di dizione vd. L.E. Rossi, Metrica e critica stilistica, Roma, Ediz. dell’Ateneo, 1963, spec. pp. 77 sgg. 89 G. Wille, Musica Romana, Amsterdam, Hakkert, 1967, pp. 234 sgg., offre materiali e storia della questione, anche se purtroppo prende a valore facciale le formulazioni musicali di Orazio. 90 G. Cavallo, Testo, libro, lettura, in Lo spazio letterario di Roma antica, dir. da G. Cavallo, P. Fedeli, A. Giardina, vol. II, La circolazione del testo, Roma, Salerno Editrice, 1989, pp. 329 sgg.; P. Fedeli, I sistemi di produzione e diffusione, ibid., pp. 349 sgg.
Lo spettacolo 1 Premesse 1.1 Dello spettacolo o della spettacolarità Solo una visione ingenuamente classicistica potrebbe portare a restringere lo spazio dello spettacolo in Grecia alle sole tragedia e commedia. Qui si cercherà da una parte di allargare l’orizzonte delle manifestazioni di spettacolarità e dall’altra di fermare l’attenzione su altri generi di spettacolo vero e proprio. Quella greca è una delle culture in cui è agevole seguire il passaggio graduale dalla comunicazione integralmente orale del tempo dell’epica a una progressiva integrazione della scrittura. Si può parlare di un’epoca integralmente orale fino almeno alla metà circa dell’VIII secolo a. C., e cioè poco prima del momento in cui comparvero i primi documenti di scrittura alfabetica1. Venne poi l’epoca oggi opportunamente chiamata ‘aurale’, che si può far arrivare fino al V e al IV secolo a. C., in cui la scrittura ebbe una sua funzione nella composizione ma non nella pubblicazione, che continuò ad essere legata a grandi occasioni comunitarie, ed è la cosiddetta epoca lirica (VII–VI secolo) e tutta l’epoca chiamata ‘attica’ (V–IV secolo: caratterizzata dal dramma e dall’oratoria). E infine venne l’epoca di una sempre maggiore diffusione del libro, che era apparso già nel V secolo a. C., ma che si affermò solo più tardi e che influenzò anche la forma letteraria (il liber poetico). Il libro (in forme materiali diverse) si diffuse solo dall’epoca ellenistica in poi (dal III secolo a. C.): è solo da allora che cominciò una cultura letteraria piú simile alla nostra, che trovò poi nel mondo romano forme di composizione e di comunicazione che ce ne rendono più facile l’approccio. Se con la definizione di cultura ‘aurale’ si è voluto mettere in rilievo l’aspetto uditivo, che per noi è diventato secondario o meglio implicito nella
|| [Saggio pubblicato in S. Settis (ed.), I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. 2. Una storia greca, t. II Definizione, Torino, Einaudi, 1997, pp. 751–793] 1 Sull’oralità si è scritto molto da Milman Parry (1928) in poi: una recente sintesi è R. THOMAS, Literacy and Orality in Ancient Greece, Cambridge 1992. È necessaria una premessa, quanto all’informazione qui offerta: non avendo voluto rinunciare a suggerire argomenti vari e ampi, e tradizionalmente destinati a trattazioni singole, le indicazioni bibliografiche sono di necessità poche e scelte con inevitabile arbitrio. https://doi.org/10.1515/9783110648140-003
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nostra lettura silenziosa, non va dimenticata l’importanza dell’aspetto spettacolare, che coinvolge la vista non meno dell’udito. In Grecia l’epoca d’oro dello spettacolo viene comunemente vista nell’epoca aurale, che ne produsse la manifestazione senza dubbio piú rilevante, il teatro: rilevante sia per l’importanza che rivestì per i contemporanei sia per l’influenza che ebbe per tutte le nostre culture. Ma il teatro è quasi soltanto attico, almeno per quanto ce ne resta, ed è solo una delle forme che la spettacolarità assunse. Chi si interessa allo spettacolo nella Grecia antica non può limitarsi al solo teatro canonizzato dalla polis di Atene dal VI secolo a. C. in poi. Dobbiamo allargare la nostra visuale ad altre forme piú o meno esplicite di spettacolo che si sono realizzate sia in un arco temporale piú ampio sia in altre aree geografiche del mondo greco.
1.2 I requisiti dello spettacolo: una scena e degli attori Lo spettacolo è un rito che richiede una scena e degli attori davanti a un pubblico. La scena fu suggerita dalla natura stessa: la Grecia è una carta geografica perennemente spiegata, con coste quasi sempre in vista proiettate verso stretti golfi e verso isole visibili, anche se lontane, per la secchezza dell’aria; con monti che rispondono a monti, spesso separati solo da valli o da pianure non ampie; con colli arrotondati che dominano le avare pianure e che sono la sede privilegiata delle acropoli. La natura geografica della Grecia è piú dominabile dall’occhio che non quella, per esempio, dell’Italia, che ha sistemi orografici piú maiuscoli e coste meno frastagliate. I teatri, essi stessi prodotti della natura perché sempre addossati al rilievo montuoso del terreno, furono una specie di quinta discreta che non separava del tutto dalla natura circostante perché lo spettatore, almeno dalle file piú alte, poteva vedere il paesaggio di fronte a sé al di sopra della scena: un’esperienza che molti di noi hanno avuto sedendo nel teatro di Epidauro e perdendosi con lo sguardo fra le serie di colli e di monti. La predisposizione allo spettacolo, che in Grecia appare assai diffusa, non aspettò l’affermarsi, dal VI–V secolo in poi, delle strutture materiali del teatro per manifestarsi: si manifestò molto presto, come vedremo, soprattutto con gli agoni, che si celebravano negli spazi aperti dei santuari, ma anche, prima ancora, con la narrazione epica realizzata nei megara dei palazzi micenei. Se poi passiamo a considerare gli attori, un dato antropologico che non si può ignorare o sottovalutare è la gestualità mediterranea: fu notata e auroral-
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mente studiata nel Settecento da Robert Wood2, che se ne serví per spiegarsi i processi di comunicazione dell’epica. La gestualità degli antichi3 è rintracciabile non solo con la documentazione figurativa, ma anche con una ricca documentazione letteraria, che ha spesso provveduto a registrare i moti del corpo come fattore essenziale della comunicazione non verbale con una codificazione abbastanza rigorosa: la letteratura drammatica ne è molto ricca e il commento degli scoliasti la segue passo passo4. La considerazione del pubblico, naturale destinatario dello spettacolo, e delle sue mutevoli esigenze sarà sempre presente nelle pagine che seguono.
1.3 La musica e la danza Un ulteriore fattore di spettacolarità è da individuare nel costante accoppiamento della musica alla parola5. L’epos era cantilenato in una forma di recitativo accompagnato dagli strumenti a corda (φόρμιγξ, κιθάρα) e questi ultimi, con l’aggiunta del principale strumento a fiato (αὐλός) e con un’ulteriore evoluzione degli strumenti a corda (λύρα, βάρβιτον), accompagnarono sempre il canto spiegato della poesia lirica, fosse essa monodica o corale (fig. 1). Quella corale ebbe in piú l’accompagnamento della danza6, che completava cosí un insieme spettacolare che, con parola e musica e danza, non avrebbe potuto essere piú integrato.
|| 2 R. WOOD, Essay on the Original Genius of Homer, London 1769. 3 C. SITTL, Die Gebärden der Griechen und Römer, Leipzig 1890; G. NEUMANN, Gesten und Gebärden in der griechischen Kunst, Berlin 1965 (con modesta documentazione figurativa). Un utile ampliamento alla gestualità medievale è J.–C. SCHMITT, La raison des gestes dans l’Occident médiéval, Paris 1990. 4 Gli scoliasti sono di almeno circa due secoli piú tardi rispetto alle rappresentazioni, ma la gestualità è conservatrice. 5 La migliore introduzione alla musica antica resta il prezioso T. REINACH, La musique grecque, Paris 1926. Per una serie di problematiche aggiornate cfr. i vari contributi offerti da B. GENTILI e R. PRETAGOSTINI (a cura di), La musica in Grecia, Roma–Bari 1988. W. D. ANDERSON, Music and Musicians in Ancient Greece, Ithaca–London 1994, offre anche una discografia (p. 239) di tentativi moderni di rendere (molto) approssimativamente il suono della musica antica. 6 Classici sono i lavori di L. B. LAWLER: The Dance in Ancient Greece, London 1964, e The Dance of the Ancient Greek Theatre, Iowa City 1964. Cfr. anche G. PRUDHOMMEAU, La danse grecque antique, Paris 1965. Materiale importante per la danza nel dramma in A. W. PICKARD–CAMBRIDGE, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford 19682, pp. 232 sgg. [trad. it. Firenze 1996, con utile aggiornamento bibliografico].
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Figura 1. Strumenti musicali.
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Lo stretto legame di musica e parola, che fino al V–IV secolo a. C. fu sempre presente, ci porta anche a domandarci quale dovesse essere la funzione di tale legame. Si dirà che la parola fascinosa e persuasiva del Nestore omerico, primo grande oratore del mondo greco, non era, nella realtà del racconto epico, accompagnata dalla musica, ma la musica discreta del recitativo accompagnava sia il racconto epico in esametri delle imprese eroiche sia le parole degli eroi– oratori riportate tanto spesso in discorso diretto. Una funzione importante della musica era quella di potenziamento del messaggio verbale. Quando la cultura europea inventò l’opera lirica intorno all’anno 1600, lo fece per uno studiato omaggio al mondo antico e celebrò quello che si può chiamare, fra parola e musica, un matrimonio d’amore, programmato e progettato con l’intenzione di un omaggio all’antico. Ma l’unione, già arcaica, di parola e musica fu un matrimonio di convenienza: gli spazi aperti in cui si pubblicava la parola richiedevano un espediente che la rallentasse, che la rendesse piú incisiva e solenne, e questo espediente fu l’intonazione musicale. Si trattò di un progressivo configurarsi delle forme letterarie determinato dalle condizioni materiali della comunicazione e quindi della pubblicazione7: la parola ebbe bisogno della musica, anche se in seguito la convivenza di parola e musica creò qualche problema. Ma la musica, come musica pura, svolse una funzione autonoma fin dagli inizi. La musica greca ci è poco nota sia perché quella piú antica non era registrata per iscritto sia perché la teoria ce ne trasmette il codice in epoca relativamente tarda (dal IV secolo a. C. in poi). Da quel poco che riusciamo a ricostruirne doveva essere, a orecchie moderne, molto semplice: se potessimo sentirne una registrazione, ci meraviglieremmo delle intense reazioni emotive che era capace di provocare e questo ci fa certi di una fortissima sensibilità musicale dei pubblici antichi, che erano auralmente tanto meno sollecitati di noi. Fosse o no accompagnata dalla parola, alla musica fu sempre riconosciuta una grande influenza nel creare reazioni psicologiche molto intense e per questa ragione fu vista come uno strumento politico di primo piano, tanto da dare origine addirittura a un corpus teorico, che noi moderni chiamiamo «dottrina dell’ethos musicale»8. Possiamo rintracciarla fin dalla fine dell’epoca arcaica: Pindaro, nella Pitica I (del 470 a. C.), dedica la prima coppia di strofe e antistrofe alla potenza della musica, che coordina parola, canto e danza, che trattiene l’ira di Zeus e del
|| 7 Ho cercato di offrire una descrizione morfologica delle forme letterarie greche come nate di volta in volta da condizioni oggettive della comunicazione in L. E. ROSSI, Letteratura greca, Firenze 1995. 8 H. ABERT, Die Lehre vom Ethos in der griechischen Musik, Leipzig 1899 (rist. Tutzing 1968); W. D. ANDERSON, Ethos and Education in Greek Music, Cambridge Mass. 19682.
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suo fulmine e che addormenta l’aquila sullo scettro del dio, che placa la violenza di Ares, che ammalia gli altri dèi. Platone, circa un secolo piú tardi, riportava il parere di Damone, maestro di musica di Pericle e teorico dell’ethos musicale, secondo il quale mutamenti nell’uso musicale non possono avvenire senza gravi mutamenti nelle istituzioni politiche9. La dottrina damoniana, che partiva dall’esperienza, ebbe piú successo di un’altra importante dottrina musicale, quella di Pitagora (VI secolo), che legava i rapporti numerici (reali) delle note musicali ai numeri (arbitrari) legati alle funzioni dell’anima. Non appare quindi strano che la regolamentazione degli aspetti tecnici della musica (uso di determinate scale, impiego dei diversi strumenti ecc.) fosse considerato fatto di interesse pubblico, come risulta dalle ferree regole che presiedevano già alle cosiddette καταστάσεις (riforme o scuole musicali) della Sparta arcaica: la prima sarebbe stata quella di Terpandro10 (fine dell’VIII o inizio del VII secolo a. C.), la seconda quella che allinea nomi come Taleta, Xenodamo, Xenocrito, Polimnesto e Sakadas (VII secolo). Un famoso frammento, attribuito dalla fonte a Pratina di Fliunte (inizio del V secolo), si fa eco di una disputa sulla funzione della musica rispetto alla parola, la quale ultima deve dominare: «La Musa ha stabilito che la parola cantata fosse regina: l’aulos serva come secondo, perché ha la parte di inserviente»11. Questa accesa polemica attraversò tutto il V secolo e toccò il dramma, per cosí dire, di striscio, attraverso la parallela attività dei poeti del cosiddetto ditirambo nuovo12, che dalla metà del secolo introdussero innovazioni importanti: canto solistico e composizione astrofica, adatta a dare preminenza al virtuosismo vocale e strumentale. I nomi che si ricordano sono Melanippide, Cinesia, Frinide e Filosseno. Influenzò il dramma in due modi: provocando sia parodia (Aristofane) sia addirittura imitazione (Euripide e lo stesso Aristofane)13. Il gusto del pubblico esigeva forme nuove di spettacolarità anche negli agoni drammatici. E ulteriori virtuosismi sono per noi riscontrabili poco piú tardi nel nomo I Persiani di Timoteo (vissuto fra V e IV secolo). Quando Platone si fa laudator temporis acti e parla di θεατροκρατία τις πονηρά (perversa teatrocrazia)14, ha in mente soprattutto aspetti musicali dello || 9 PLATONE, Repubblica, 424c. 10 Per Terpandro cfr. la testimonianza 18 Gostoli con il commento ad loc. (A. GOSTOLI, Terpander, Roma 1990). 11 PRATINA, fr. 708.6 sg. Page. 12 ‘Nuovo’ rispetto all’antico canto sacro dedicato a Dioniso e ormai del tutto secolarizzato. 13 B. ZIMMERMANN, Critica e imitazione. La nuova musica nelle commedie di Aristofane, in GENTILI e PRETAGOSTINI (a cura di), La musica cit., pp. 199–204. 14 PLATONE, Leggi, 700a sgg.
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spettacolo legati all’antica normativa dei generi letterari e musicali e al loro stravolgimento attuale volto a soddisfare le secondo lui depravate richieste dei nuovi pubblici del tempo (V–IV secolo). E Platone e Aristotele tennero costantemente l’orecchio puntato verso la musica e le sue forme: il peripatetico Aristosseno di Taranto (fine del IV secolo a. C.), detto ‘il musico’ per eccellenza, fu il teorico piú accreditato e il polemista piú acceso contro le innovazioni e a lui si rifece pressoché tutta la teoria musicale ed etico–musicale posteriore. La disciplina che regolava la musica aveva un parallelo nella disciplina della danza, che prevedeva un’analoga distinzione fra movimenti accettabili e movimenti scomposti15. Poco sappiamo dei movimenti del coro del ditirambo. Sappiamo che una severa distinzione regolò lo spettacolo drammatico, assegnando alla tragedia la ἐμμέλεια, al dramma satiresco la σίκιννις e alla commedia il κόρδαξ. Non importa che noi moderni siamo scarsamente in grado di visualizzare le differenze fra i vari tipi di danza16. Visto che quello che conta è l’opposizione, deve valere qui, come anche spesso altrove, il principio ben formulato a suo tempo da Alphonse Dain, che «dobbiamo essere in grado di intravvedere delle differenze là dove gli antichi ne vedevano»17.
2 L’epica 2.1 L’epica come spettacolo Fin dagli inizi la letteratura, affidata com’era a una pubblicazione comunitaria e cerimoniale propria di un’epoca prima integralmente orale e poi aurale, rientrava in quello che possiamo definire spettacolo: un cantore di fronte a un pubblico. L’empatia che si stabiliva fra cantore e pubblico ci è testimoniata da un bel verso odissiaco, che dipinge la situazione emotiva che si creava fra Odisseo narratore delle sue imprese e la corte dei Feaci: «e stavano incantati [ad ascoltare] nel megaron ombroso»18.
|| 15 Famoso l’episodio, narrato da ERODOTO, 6.126 sgg., di Ippoclide che si era ‘danzato via’ (6.129.4 ἀπορχήσασθαι, nel senso di ‘giocarsi’) le nozze con la figlia di Clistene di Sicione mostrando la bassezza del suo carattere con il suo danzare scomposto. 16 Un tentativo, molto documentato ma foriero di scarsi risultati nel senso della visualizzazione, è E. ROOS, Die tragische Orchestik im Zerrbild der altattischen Komödie, Lund 1951. L’arte figurativa, con le sue convenzioni, è un aiuto, sia pure limitato. 17 Cito a memoria la bella formulazione di Dain, che, ricordo, era applicata alla metrica e alle variazioni ritmiche. 18 «κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο κατὰ μέγαρα σκιόεντα»: Odissea, 11.334 e 13.2.
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Figura 2. Megaron del Palazzo di Nestore.
L’incantesimo del canto coinvolgeva anche il narratore, come nel caso di Achille che, per consolarsi del suo cruccio, accompagnandosi alla φόρμιγξ canta imprese eroiche a Patroclo che «lo ascolta silenzioso, aspettando la fine del suo canto»19. L’interazione emotiva che nasceva dal rapporto fra narratore e ascoltatori fu alla base della composizione nella certamente lunga fase di oralità integrale: ce lo testimonia ancora per il V–IV secolo un dialogo platonico, lo Ione. Le reazioni del pubblico si riflettevano sulla capacità improvvisatoria dell’aedo, cosí come doveva avvenire nella commedia dell’arte, altro esempio di produzione improvvisata. La stessa formularità omerica, nonché le cosiddette scene tipiche, ormai non si valutano piú come un semplice espediente mnemotecnico per aiutare la memoria dell’aedo, ma erano soprattutto volte a fornire ai destinatari del canto alcuni punti di riferimento costanti che li orientassero facilmente a seguire il flusso narrativo che era affidato alla voce dell’aedo20. Fra le scene tipiche ricorrenti nell’epica, forse la piú adatta ad essere drammatizzata nella narrazione, e in realtà la piú sfruttata a questo scopo, è la battaglia, sia come tenzone singolare fra due eroi sia come scontro di masse, || 19 Iliade, 9.186–91. 20 Il mio ‘credo’ omerico è in L. E. ROSSI, I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in Storia e civiltà dei Greci, diretta da R. Bianchi Bandinelli, I/1, Milano 1978, pp. 73–147 (sulla funzione del tipico cfr. p. 113).
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che è poi la fonte delle similitudini piú splendide (il leone che assale o che è assalito, le greggi ecc.).
2.2 Lo spettacolo nell’epica Per quanto si è detto, l’epos arcaico si può già considerare di per sé spettacolo, ma ci fornisce anche testimonianza di spettacoli veri e propri. L’Iliade ci offre, nello scudo di Achille, uno spettacolo di danza a cui è esplicitamente associato un pubblico che vi assiste e che si diverte: se vi fosse anche l’aedo che cantava l’epica era questione dibattuta fin dall’antichità21. Ma canto e danza erano sicuramente compresenti, anche se non contemporanei, nell’Odissea, quando Demodoco alla corte dei Feaci canta gli amori di Ares e Afrodite22. Dell’agonistica sportiva come spettacolo, presente nell’epica, si parlerà piú oltre a proposito degli agoni.
2.3 L’arte figurativa come spettacolo Si è molto parlato e si parla molto di narratività figurativa. Lo si è fatto a proposito dell’arte geometrica perché non si voleva perdere l’occasione di metterla a confronto con la narrativa per eccellenza, che è l’epica; e lo si fa specie oggi a proposito dei grandi cicli mitologici che ornano i templi e i vasi dell’età arcaica e classica. Ma molto meno si parla di un fattore eminentemente spettacolare che fin dagli inizi viene proiettato sulle figurazioni, e cioè del movimento: quello che rende un’immagine θαῦμα ἰδέσθαι (meraviglia a vedersi) è il muoversi delle figure, una qualità che alle volte viene data come reale ed è quindi un prodigio dell’artefice, divino o umano. Il manufatto piú famoso dell’epica è lo scudo di Achille fabbricato da Efesto23, nel quale erano rappresentate scene della città in guerra e della città in pace: senza alcun imbarazzo descrittivo, i molti movimenti della folla, dei singoli, degli animali vengono resi come reali, e perfino la terra arata dai buoi «diventa scura, e sembra arata, anche se è d’oro»24. Anche un
|| 21 Iliade, 18.590–605. Non è qui il caso se non di segnalare quella che la filologia alessandrina considerava la Binneninterpolation di 604–5. 22 Odissea, 8.256–65. 23 Iliade, 18.478–608. 24 Ibid., 18.548 sg.
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oggetto minuto come la fibbia di Odisseo, da Odisseo stesso descritta a Penelope, è di tale qualità: Aveva, il divino Odisseo, un mantello di porpora, morbido, doppio, con una fibbia d’oro a duplice scanalatura, e sopra un’incisione, un cane che tra le zampe anteriori teneva un cerbiatto maculato e lo guardava dibattersi; stupivano tutti come – pur incisi nell’oro – il cane cercasse di soffocare il cerbiatto e il cerbiatto cercasse di fuggire, agitando le zampe25.
L’epos è terra di prodigi e le meraviglie sono la norma, ma la descrizione delle opere d’arte (l’ ἔκφρασις) conservò poi come tipica l’evocazione del movimento, che resta come metafora della lingua speciale anche della critica d’arte moderna. I cicli narrativi dei templi erano uno dei tanti spettacoli che il popolo andava ad ammirare negli agoni, come avveniva del resto con la grande narrativa in pietra o dipinta dell’arte religiosa europea. Diversa è la valutazione che va data delle frequenti rappresentazioni attinenti al teatro nell’arte figurativa e specialmente nei vasi: se siano o no fedeli ai testi drammatici a cui sembrano ispirarsi. Ma la stessa intensificazione di questa tematica nei vasi italioti del IV secolo a. C., rispetto alla già rilevante abbondanza del VI–V secolo, testimonia del costante interesse per lo spettacolo drammatico26.
3 Gli agoni 3.1 Gli agoni e la spettacolarità Nel libro VIII dell’Odissea c’è già la rappresentazione di un vero e proprio agone organizzato su ordine di Alcinoo, re dei Feaci, per onorare Odisseo ospite: gare atletiche, danza di un coro di giovani, recitazione di poesia epica. E del resto la data tradizionale della fondazione dei giochi olimpici, il 776 a. C., è abbastanza alta per suggerire un’epoca in cui l’epos era ancora attivamente produttivo. La piú antica e diffusa descrizione di una πανήγυρις è quella di Delo, nell’inno omerico ad Apollo, dove per te [scil. Apollo] si adunano gli Ioni dalle lunghe tuniche coi loro figli e con le nobili spose;
|| 25 Odissea, 19.225–31 (trad. di M. G. Ciani). 26 O. TAPLIN, Comic Angels and Other Approaches to Greek Drama through Vase–Painting, Oxford 1993.
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essi, col pugilato, la danza ed il canto, ti allietano, ricordandosi di te, quando bandiscono l’agone27.
Le grandi occasioni festive, ovvero gli agoni28, ebbero maggiore o minor frequenza di pubblico a seconda che fossero panelleniche o locali e offrirono fin dall’inizio un richiamo agonistico che oggi è paragonabile al grande spettacolo dei campionati di calcio. Il maggiore agone atletico dell’epica è quello dei giochi in onore di Patroclo nel XXIII libro dell’Iliade, quanto mai ricco di particolari addirittura tecnico–sportivi. Questo intenso interesse per l’atletica non si ripeterà piú in poesia, neanche in quelli che furono definiti i cronisti sportivi dell’antichità, i poeti dell’epinicio Pindaro e Bacchilide, anche se fra i due piú sensibile a questo aspetto fu Bacchilide, che fra l’altro ci offre nell’epinicio 3 una splendida descrizione della festa per la vittoria di Ierone: I santuari sono pieni di sacrifici solenni, le strade brulicano di festa; l’oro brilla di lampi, gli alti tripodi cesellati sono collocati davanti al tempio e i Delfii onorano il piú grande recinto di Febo presso le acque della fonte Castalia29.
Ma gli agoni, come si è già detto, non furono solo atletici: offrivano anche gare letterario–musicali. Fra VIII e VI secolo vengono fondati (o verosimilmente solo riformati, perché almeno alcuni dovevano essere piú antichi) i grandi agoni panellenici: Olimpia (776 a. C.), Delfi (586 o 582), l’Istmo (580), Nemea (573). Ma ci fu anche una grande fioritura di agoni locali, fra cui i piú importanti furono quelli spartani: le Carnee (676 a. C.) e le Gimnopedie (668 a. C.). Senza contare la grande quantità di agoni locali minori, citati da Pindaro negli epinici o dai suoi scoliasti30, dei quali si dà qui una scelta: Egina, Argo, Atene, Eleusi, Epi-
|| 27 Inno ad Apollo, 147 sgg. (trad. di F. Cassola). 28 Per gli agoni da ultimo G. F. GIANOTTI, La festa: la poesia corale, in Lo spazio letterario della Grecia antica, I/1 Roma 1992, pp. 143–75, e Storie di calendario: il tempo festivo, ibid., III, Roma 1996, pp. 159–78. 29 BACCHILIDE, Epinici, 3.15 sgg. Se dell’aspetto atletico mi limito qui a questo veloce accenno, è perché l’argomento è trattato in altra parte di quest’opera (vol. I, Torino 1996): H. W. PLEKET, L’agonismo sportivo, pp. 507–37, e M. L. CATONI, Cercando le Olimpiadi, pp. 539–609 (con ricca documentazione iconografica antica e moderna). 30 Il vecchio W. CHRIST, Pindari carmina, Leipzig 1896, pp. LXXXVIII–XCI, ne dà una utile lista.
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dauro, Megara, Rodi, Siracusa, Sicione, Tebe. Nel VII secolo a. C. Esiodo prese parte a un agone a Calcide.31 Qui siamo in un regime spettacolare che si può considerare pieno: sia le prestazioni atletiche sia le solenni esecuzioni cantate e danzate dei canti religiosi e dei canti in onore dei vincitori (gli epinici) erano capaci di attirare grandi pubblici anche da molto lontano per vivere eventi che erano unici e irripetibili nella loro grandiosità spettacolare. Ma anche al di là di ogni connessione con gli agoni, la stessa forma processionale che normalmente prendevano gli eventi religiosi era fatta per dare e per ricevere spettacolo, com’è quello che ancora oggi ammiriamo nel fregio del Partenone. Figura 3. Olimpia nel V secolo a. C.
Un problema che raramente ci si pone è quello dell’attrezzatura architettonica che potesse favorire la vista e l’udito. Non siamo debitamente informati su questo importante fattore, ma proprio la mancanza di informazione precisa e la natura architettonico–urbanistica dei santuari ci fa certi che per le esecuzioni poetico–musicali non c’erano strutture appropriate: in età arcaica, prima della diffusione dei teatri, le esecuzioni avevano luogo negli spazi liberi davanti ai templi e, al piú, poteva venire sfruttato lo stadio, che però era ben lontano
|| 31 ESIODO, Le opere e i giorni, 650 sgg.
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dall’avere le strutture murarie che furono usuali molto piú tardi. È da credere che l’aspetto spettacolare in genere avesse la meglio su ogni altro tipo di attrattiva, soprattutto sulla comunicazione verbale: le parole dei carmi dovevano essere assai meno importanti della danza e del canto, manifestazioni orchestiche e musicali che monopolizzavano l’interesse dei pubblici.
3.2 La spettacolarità degli agoni e il configurarsi del testo letterario. All’ipotesi della preminenza della spettacolarità ci soccorre un aiuto che ci viene dai testi stessi. Se esaminiamo lo stile di Pindaro nei suoi canti corali religiosi (inni, peani, ditirambi, prosodi, parteni, iporchemi) e nei suoi canti per i vincitori degli agoni atletici (gli epinici, corali anch’essi), ci rendiamo conto che dal punto di vista della comunicazione, e cioè della comprensibilità, il suo stile è molto complicato non solo nel lessico (che rincara sull’epos), ma soprattutto dal punto di vista dell’ordine delle parole: elementi sintattici collegati (nome– aggettivo, nome–verbo ecc.) sono spesso separati anche da molte parole estranee al nesso sintattico che li lega. Il fenomeno si chiama ‘iperbato’, e cioè ‘salto’, ed è in realtà normalmente presente nelle due lingue greca e latina, che sono lingue flessionali, ma in Pindaro ha una frequenza molto alta, decisamente superiore ai margini di oscillazione che rendono alle volte delicata la distinzione fra iperbati naturali (comuni in lingue flessionali) e iperbati artificiali (dovuti a una voluta difficoltà del dettato). Capire Pindaro è difficile anche per noi che lo leggiamo a tavolino: figurarsi come doveva esserlo per chi lo ascoltava per la prima e l’unica volta cantato e danzato da un coro, per di piú non in un teatro, che avrebbe fornito una sua acustica, ma in quegli spazi liberi di cui si parlava prima. Si riesce a darsi una spiegazione del fenomeno solo se lo si confronta con delle composizioni diverse che avevano la stessa fusione di parola, canto e danza: i cori del dramma attico. Da una statistica condotta su ampi campioni32 si rileva che i cori del dramma hanno dieci volte meno iperbati di Pindaro, hanno cioè uno stile molto piú piano e andavano quindi incontro al pubblico con una comprensibilità molto maggiore (e vedremo perché). Appare chiaro che nelle feste il fattore, quasi unico, che doveva far colpo sul pubblico era la spettacolarità del coro, che con canto e danza offriva una sua attrattiva al desiderio, appunto, di spettacolo, e dove il testo verbale invece
|| 32 Ho fornito i dati di questa ricerca, da me condotta anni fa, in L. E. ROSSI, Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, in «Orpheus», n.s., IV (1983), pp. 8–11. Quello che è aggiunto al par. 5.4 è conferma di quanto è esposto qui.
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offriva all’immediata comprensione solo alcune parole chiave, che potevano essere il nome del vincitore, il nome della divinità a cui era dedicato il santuario, qualche virtú del vincitore stesso o della famiglia (come forza atletica e ricchezza e generosità), con in piú l’accenno ai miti cantati nel carme, miti che erano ben noti a tutti, per cui bastava un breve richiamo a risvegliare la memoria collettiva. I cori del dramma, invece, che avevano in piú l’acustica a favorirne la comprensione33, erano piú lineari perché il pubblico aveva grande interesse a seguire le profonde riflessioni etico–politiche e il commento drammaturgico che avevano sede proprio nei cori. Da un simile confronto la qualità spettacolare della celebrazione degli agoni ci appare esaltata e giustifica, se mai ce n’è bisogno, l’inclusione di questo fenomeno culturale in un discorso sullo spettacolo. Diverso, e ulteriormente chiarificatore, sarà il discorso in dettaglio sul dramma attico, che offriva una spettacolarità piú integrata, dove i tre codici (verbale, musicale e orchestico) convivevano in maniera piú equilibrata: il coro, da quello della lirica corale arcaica (Alcmane) a quello dell’arcaismo maturo (Pindaro) fino a quello del dramma, visse una progressiva e variabile integrazione spettacolare, in un variabile intreccio di rapporti fra i diversi codici. In termini di teoria della comunicazione, i tre codici agivano, quando piú e quando meno, come ‘disturbo’ l’uno nei confronti dell’altro: la storia e lo sviluppo delle forme sono lí a mostrarci come musica e danza si posero nei confronti della parola in un rapporto di volta in volta diverso a seconda della funzione che doveva far prevalere l’uno o l’altro aspetto, a seconda della valenza globale del messaggio. E si può ben dire che la destinazione prevalentemente spettacolare dei testi poetici composti per gli agoni e per le feste in generale fu il principale fattore che configurò quegli stessi testi. Il complicato ordine delle parole nella lirica corale di Pindaro era la conseguenza necessaria della costruzione triadica (strofe, antistrofe, epodo: AAB, AAB, …) che si ripeteva molte volte (mediamente da tre o quattro volte, fino alle tredici della Pitica IV) e che creava uno schema ritmico sempre uguale da realizzare di volta in volta nelle parole: questo è vero, ma dopo tutto la costruzione triadica, che aveva la sua realizzazione orchestica nelle regolari e ripetute evoluzioni di danza, fu una libera scelta che diventò fattore privilegiato, in quanto spettacolare, rispetto a un’ipotetica maggior trasparenza del dettato verbale. Composizioni metricamente, e quindi orchesticamente, piú semplici erano possibili, anzi le abbiamo già con Alcmane un secolo || 33 L’acustica è un argomento importante ma piuttosto trascurato: uno dei pochi che ne parlano è H.–D. BLUME, Einführung in das antike Theaterwesen, Darmstadt 1978, pp. 58–60.
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e mezzo prima di Pindaro. E vedremo le forme piú semplici dei cori del dramma, che a Pindaro erano contemporanei o di poco posteriori: se nell’ambito della lirica corale metrica e danza a mano a mano si complicarono, producendo lingua meno perspicua, è segno che il messaggio verbale perse progressivamente importanza rispetto agli aspetti spettacolari. Il messaggio verbale restò importante per il committente, per chi aveva commissionato il carme (il vincitore negli agoni atletici, le autorità della polis che celebrava la divinità), a cui erano destinate esecuzioni speciali, in un certo senso ‘cameristiche’: un caso interessante di destinazione differenziata.
4 Il simposio arcaico come spettacolo a se stesso. La Grecia arcaica ebbe un’istituzione che fu una manifestazione fondamentale della vita politica e che influenzò un grande settore della produzione letteraria: intendo il simposio e la poesia lirica monodica, cantata da un ‘solo’34. Il simposio fu un istituto politico, uno spazio in cui gli appartenenti a una stessa parte politica, e solo loro, discutevano e prendevano decisioni su temi di attualità e in cui un momento di svago, anch’esso ritualizzato, era il canto a solo di carmi lirici: Alceo e Anacreonte sono i nomi che subito vengono in mente, ma in realtà tutti i poeti arcaici composero per il simposio, anche quelli che vengono definiti impropriamente poeti solo corali come Alcmane, Stesicoro, Ibico, Simonide, Pindaro, Bacchilide35. Ora, il simposio arcaico non prevedeva un vero e proprio spettacolo, come lo ebbero istituzioni lontanamente simili a Roma, nel Medioevo e nel Rinascimento: ce ne assicurano sia la mancanza di testimonianze sia soprattutto l’architettura delle sale da simposio, piccole e raccolte, strutturate come uno spazio chiuso e autosufficiente36 che doveva accogliere un gruppo ristretto di pari grado aventi diritto con esclusione di chiunque altro (fig. 4). Soprattutto esclusi erano gli appartenenti alla parte politica avversa, che però erano idealmente presenti nel biasimo e nell’invettiva dei carmi che li mettevano alla berli-
|| 34 Sul simposio cfr. M. VETTA (a cura di), Poesia e simposio nella Grecia antica. Guida storica e critica, Roma–Bari 1983; O. MURRAY (a cura di), Sympotica. A Symposium on the Symposion, Oxford 1990; sulla letteratura simposiale cfr. M. VETTA, Il simposio: la monodia e il giambo, in Lo spazio letterario cit., I/1, pp. 177–218. 35 Per questa rivalutazione dell’aspetto monodico–simposiale della poesia arcaica cfr. ROSSI, Letteratura cit., pp. 84–198. 36 Cosí l’ho definito in ID., Il simposio greco arcaico e classico come spettacolo a se stesso, in Spettacoli conviviali dall’antichità classica alle corti italiane del ’400, Viterbo 1983, p. 45.
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na: basta pensare al Pittaco di Alceo, suo grande nemico. Una specie di passerella spettacolare, di spettacolarità interna e implicita, destinata ad accrescere l’empatia e la solidarietà del gruppo, ottenuta con la frequente utilizzazione della prima persona (la cosiddetta persona loquens) e con l’uso del canto alternato da parte dei simposiasti in forma di botta e risposta. Senza contare, poi, la funzione, che il canto simposiale aveva, di rispecchiare il simposio stesso: numerosi sono i canti che hanno contenuto simposiale, che descrivono cioè il rituale del simposio stesso e che chiamiamo ‘metasimposiali’. In questo senso si può parlare di simposio anche come ‘spettacolo a se stesso’37. Solo piú tardi, nel corso del IV secolo, quando il simposio cessò di essere espressione primariamente politica e si privatizzò trasformandosi in occasione di intrattenimento, vere e proprie forme di spettacolo vennero a colmare il vuoto lasciato dai canti politici. Questa fase ci è testimoniata dal Simposio di Senofonte (IV secolo), dove da due ballerini, un ragazzo e una ragazza, veniva inscenato un mimo che rappresentava Arianna e Dioniso. In età ellenistica ci sarebbero stati i grandi banchetti offerti dai sovrani, con ricchezza di elementi spettacolari. Lo spazio simposiale arcaico, protettivo e autosufficiente, in cui tutti i partecipanti venivano chiamati a una spettacolarità autarchica, restò un’esperienza unica. Figura 4. Sala da simposio.
|| 37 Ibid.
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5 Il dramma 5.1 Preistoria del dramma attico Ricostruire i precedenti del dramma attico38 è stato un esercizio praticato fin dai tempi di Aristotele, che nella Poetica ci ha lasciato notizie peraltro succinte e contraddittorie. Gli studiosi piú avvertiti tendono oggi ad essere ragionevolmente scettici ed elusivi39, in sostanza perché le ipotesi fatte sono ormai tante e perché una ricerca del genere dovrebbe giovarsi di ulteriore documentazione, peraltro, in previsione, difficilmente ottenibile. D’altra parte che la tragedia debba i suoi natali al ditirambo o a quello che Aristotele chiama σατυρικόν40, che la commedia nasca dai canti fallici (e da qualche forma di farsa dorica41), derivando il suo nome o da κώμη (villaggio) o da κῶμος (allegra baldoria), sono problemi che, una volta risolti, illustrerebbero, con grande utilità per noi, processi storici ancora oscuri, ma non cambierebbero di molto il nostro inquadramento critico del dramma attico nella sua realtà vissuta nell’ampia sincronia di piú di un secolo di intensa produttività. Figura 5. Satiri.
|| 38 L’opera di riferimento, per i materiali anche se non aggiornato per le proposte di soluzione, resta A. W. PICKARD–CAMBRIDGE, Dithyramb, Tragedy and Comedy, 2a ed. a cura di T. B. L. Webster, Oxford 1962. 39 D. LANZA, La poesia drammatica: i caratteri generali, il dramma satiresco, in Lo spazio letterario cit., I/1, pp. 279–300; G. CERRI, La tragedia, ibid., pp. 301–34. 40 ARISTOTELE, Poetica, 1449a 10 sgg.; cfr. sotto, par. 5.6. 41 Ibid., 1448b, 31 sgg., parla di Megara, sia Nisea sia Iblea. Un riferimento classico è L. BREITHOLTZ, Die dorische Farce, Stockholm 1960.
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Una rassegna di quello che ha preceduto il dramma ci può essere invece molto piú utile, indipendentemente dai suoi risultati genetici, per capire come si intrattenevano i pubblici nell’epoca della polis arcaica, fino cioè alla metà del VI secolo a. C. Ed è un peccato che si sappia cosí poco, sia per la stessa Atene sia per il resto della Grecia. La ragione profonda sta in un fatto macroscopico, che alle volte si dimentica: che la tragedia e la commedia attiche sono state forse le uniche forme fortemente protette dalla ufficialità della polis, che ne aveva fatto degli spettacoli di stato con regolari concorsi, mentre tutto il resto non fu trasmesso o perché era improvvisato42 o perché fu intenzionalmente rimosso e sommerso. Qualcosa di simile a quanto accadde per i misteri, estranei alla religiosità ufficiale della polis. Da quanto qui sommariamente premesso, e da quanto in sintesi si vedrà piú oltre, ci si può fare un’idea di quello che è costato, in termini di conservazione, il successo e l’egemonia del dramma attico ufficiale: di molte manifestazioni drammatiche, molto influenti nella vita e nella cultura dei Greci, ci resta ora solo memoria indiretta o comunque incompleta e di molte altre è sicuramente scomparsa anche la memoria. La stessa opacità e le stesse incertezze dell’informazione che ci viene da Aristotele su quanto precedette tragedia e commedia sono testimonianza eloquente dell’oblio che coprì quelle forme iniziali di spettacolo, che pure non dovevano mancare di popolarità.
5.2 Strutture materiali del teatro Il dramma ha in comune con le grandi feste il fatto di essere anch’esso legato alla venerazione di una divinità, in questo caso il dio Dioniso, e il teatro, con la presenza dell’altare del dio, è la versione drammaturgica del santuario delle grandi feste panelleniche. Due erano le occasioni in cui in Atene si rappresentavano drammi: le Grandi Dionisie (fondate da Pisistrato dopo la metà del VI secolo), che si tenevano nel teatro di Dioniso in marzo–aprile, quando la stagione permetteva a molti spettatori di venire per mare anche da lontano; e le Lenee, in gennaio–febbraio, a cui partecipavano soltanto gli abitanti dell’Attica, le cui rappresentazioni drammatiche si tenevano in un altro teatro, il Leneo: ma le strutture di quest’ultimo e perfino la sua localizzazione sono incerte, anche se si deve supporre che si trattasse di strutture assai semplici.
|| 42 Come dice ARISTOTELE, Poetica, 1449b, 10 sgg., per il pre–dramma.
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Del teatro di Dioniso (fig. 6) possiamo descrivere e in qualche modo visualizzare due versioni: la struttura lignea del V secolo e quella marmorea del IV, l’una sovrapposta all’altra nello stesso luogo sul versante meridionale dell’Acropoli. I calcoli demografici possono essere solo approssimativi, ma è certo che nel teatro potevano sedere molte migliaia di cittadini, forse dieci, il che significava una notevole porzione della popolazione interessata, che includeva anche i demi dell’Attica: i calcoli variano fra i centomila e i duecentomila abitanti, comprendendo anche le donne, gli schiavi e gli stranieri. Figura 6. Teatro di Dioniso (Atene).
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Gli elementi fondamentali erano la cavea semicircolare43, l’orchestra, in cui danzava e cantava il coro, e infine la scena, destinata all’azione. È possibile che qualche espediente figurativo suggerisse spunti scenografici, che dovevano essere però del tutto elementari: il dettaglio con cui alle volte gli attori descrivono la scena ci fa sicuri dell’assenza di tutto quello che veniva descritto, che doveva essere integrato dalla fantasia degli spettatori, esercitati a questo dall’abitudine alle loro convenzioni teatrali. Fuori di Atene si costruirono teatri, ma solo piú tardi, dal IV secolo in poi, finché cavea e scena furono riprese dai teatri romani, che non erano piú a ridosso dei rilievi, avendo proprie strutture portanti.
5.3 Organizzazione degli agoni drammatici Gli agoni drammatici44 avevano un’organizzazione che si può definire scrupolosa, tipica di una società in cui chiunque poteva essere, oltre che semplice spettatore, anche autore drammatico, attore o coreuta. Candidature così ampie richiedevano dei filtri atti a selezionare il meglio, e il meglio era quello che la collettività chiedeva e autorevolmente esigeva, perché il controllo sulla qualità era compito dei giudici ma anche di un’opinione pubblica che non stentava a farsi sentire. Il messaggio drammatico doveva essere compatibile con una determinata situazione politica e sociale. Figura 7. Teatro di Epidauro.
|| 43 È controversa la forma della cavea del teatro di Dioniso del V secolo, che secondo alcuni era rettangolare: informazione in S. SCULLION, Three Studies in Athenian Dramaturgy, Stuttgart– Leipzig 1995. 44 L’opera di riferimento, ricca di materiali, è PICKARD–CAMBRIDGE, The Dramatic Festival cit.
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Senza entrare in troppi dettagli, alcuni dei quali del resto ci sono del tutto ignoti, proviamo a descrivere le varie procedure delle Grandi Dionisie cosí come si svolgevano nella seconda metà del V secolo, trascurando modificazioni di dettaglio che ebbero luogo prima e dopo quel periodo. Chi voleva poteva presentare tre tragedie e un dramma satiresco all’arconte eponimo, il quale poi ‘attribuiva il coro’ a tre autori, facendo ricadere le spese sul patrimonio di tre cittadini ricchi (i coreghi). Il vincitore veniva proclamato in seguito alla votazione di cinque giudici che venivano sorteggiati fra dieci. L’istruzione del coro era compito di un maestro del coro (il corodidascalo), che fungeva da regista e che per lungo tempo fu normalmente l’autore stesso. Non essendo il teatro una istituzione stabile, il corego doveva provvedere, oltre che all’allestimento del coro, alle maschere e ai costumi, al vettovagliamento per attori e coreuti, alla disponibilità di locali destinati alle prove, che duravano molte settimane. Gli attori, maschi anche per le parti femminili, arrivarono fino al numero di tre: Eschilo cominciò coll’introdurre il secondo attore e Sofocle li portò a tre. Il coro passò col tempo da dodici coreuti a quindici45; la commedia ne aveva ventiquattro. Il calendario delle Grandi Dionisie prevedeva una serie di giornate assegnate alle varie manifestazioni: il cosiddetto proagone, e cioè la presentazione al pubblico degli autori e delle loro opere; processione, offerte alla divinità ed esecuzione di ditirambi; agone delle commedie (cinque); tre giorni dedicati alle tre tetralogie (tre tragedie e un dramma satiresco) che erano in gara. Figura 8 Pubblico a teatro. Frammento di dinos a figure nere firmato da Sofilo. Da Farsalo (primo quarto del VI secolo a. C.).
|| 45 Sarebbe stato Sofocle a portare il numero dei coreuti da dodici a quindici.
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Dal calendario risulta una ulteriore realtà a noi del tutto estranea, e cioè l’impegno apparentemente richiesto agli spettatori, che dovevano sedere in teatro per un’intera giornata, con un totale di ore d’attenzione del tutto inconcepibile per noi, anche escludendo i necessari intervalli per annunci, organizzazione dei coreuti e degli attori. Ma, pur dovendo rimanere notevole l’impegno, non è da pensare che tutti gli spettatori seguissero ogni momento dell’azione scenica: Aristofane ci trasmette una notizia, interessante e divertente, sul comportamento degli spettatori, che potrebbero in ogni momento volarsene a casa se avessero le ali46. Non va dimenticato che si trattava di un vero e proprio concorso, per il quale venivano scelti dei giudici, fra i quali un sistema di sorteggi era destinato a prevenire scelte del tutto arbitrarie. Considerando che il controllo del pubblico, a rappresentazioni avvenute, era certamente un fattore di cui tener conto, i favoritismi dovevano venire notevolmente ridotti.
5.4 Il dramma attico Parlare del dramma attico significa per noi risalire alle origini del dramma europeo, e cioè di un genere letterario cosí affermato nella cultura moderna come il teatro. Questo non ci è facile per la serie di differenze fra il codice drammaturgico moderno e quello antico: molte sono dovute alle condizioni della comunicazione, che si realizzava allora in teatri assai diversi dai nostri teatri moderni; altre possono ascriversi a premesse culturali. Bisogna liberarsi da molte assuefazioni che per noi sono ovvie e che ostano a una reale comprensione del fenomeno nel mondo antico e che rendono difficili le rappresentazioni moderne. Possiamo elencare alcune di queste differenze47. 1. Le rappresentazioni erano legate con le festività religiose in onore di Dioniso e facevano parte integrante del rituale. 2. Le rappresentazioni erano inizialmente uniche: il teatro conosceva originariamente solo delle ‘prime’, senza prevedere riprese successive. Solo dopo la morte di Eschilo (456 a. C.) fu concessa la possibilità di far concorrere repliche
|| 46 ARISTOFANE, Uccelli, 785–89. Altri comportamenti di scarsa disciplina da parte degli spettatori in TEOFRASTO, Caratteri, 11 e 14. 47 L. E. ROSSI, Livelli di lingua, gestualità, rapporti di spazio e situazione drammatica sulla scena attica, in L. DE FINIS (a cura di), Scena e spettacolo nell’antichità, Atti del convegno (Trento 1988), Firenze 1989.
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delle sue tragedie. Riprese regolari vennero fatte solo dal IV secolo in poi48. Rapporti intertestuali fra tragedie e soprattutto fra tragedie e parodia comica sono certamente inferiori di numero a quante crediamo di vederne noi filologi, ma va anche detto che la distanza cronologica di alcuni anni non era tale da impedire al pubblico di coglierne il senso49: la memoria del pubblico, testuale e musicale, era molto superiore alla nostra. 3. Gli attori non erano dei professionisti: la professionalità venne relativamente tardi, nel corso del IV secolo50. 4. Sulla scena erano normalmente disponibili non piú di tre attori parlanti, cosi che le parti (quando erano piú di tre) venivano distribuite fra quegli unici tre attori. Questo comportava che lo stesso attore si trovasse a impersonare piú d’una parte e addirittura che la parte di un personaggio fosse alle volte distribuita fra attori diversi, a seconda della disponibilità sulla scena. L’effetto di straniamento che questo poteva produrre sarebbe oggi per noi assolutamente devastante, ma non lo era per gli antichi, facilitati dalle molte altre convenzioni che qui nell’elenco seguono e che erano accettate come tali. 5. Le parti femminili, sia dei soli sia del coro, erano affidate anch’esse ad attori maschi. La riconoscibilità dipendeva da costume e maschera51. 6. Nell’orchestra era presente il coro, che cantava e danzava commentando liricamente l’azione, e qualche volta debolmente intervenendo nell’azione stessa. Il capo del coro, il corifeo, spesso dialogava con gli attori e poteva quindi presentarsi anche come un personaggio. 7. Le rappresentazioni si tenevano all’aperto in teatri abbastanza grandi, il che determinava un tipo di resa particolarmente lenta e stentorea. Questo era un tipo di non realismo che doveva essere sentito come parte principale di una convenzione, che per noi sarebbe difficilmente accettabile. 8. Gli attori portavano maschere, il che escludeva almeno la mimica facciale, oltre a rendere altamente convenzionale anche tutto il resto del codice cinesico. A questo codice erano continui i riferimenti internamente al testo, che forniva esegesi e soprattutto integrazione a quei movimenti che o non si pote|| 48 La prima ri–rappresentazione regolare di tragedie, anche non eschilee, data dal 386 a. C.; di commedie, dal 339 a. C. (PICKARD–CAMBRIDGE, The Dramatic Festivals cit., p. 124). 49 Il Telefo di Euripide (438 a. C.) è parodiato negli Acarnesi di Aristofane (425 a. C.). 50 P. GHIRON–BISTAGNE, Recherches sur les acteurs dans la Grèce antique, Paris 1976. 51 M. VETTA, La voce degli attori nel teatro attico, in Tradizione e innovazione nella cultura greca. Scritti in onore di B. Gentili, II, Roma 1993, pp. 703–18, ora, con aggiornamenti, in F. DE MARTINO e A. H. SOMMERSTEIN (a cura di), Lo spettacolo delle voci, Bari 1995, pp. 61–78. Cfr. anche G. M. RISPOLI, La voce dell’attore nel mondo antico: teorie e tecniche, in «Acme», XLIX (1996), pp. 3– 28.
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vano realizzare (viso) o potevano non essere appercepibili per la distanza. Sono queste alcune delle didascalie sceniche, che sono peraltro sempre interne al testo, e cioè dette dai personaggi in scena (mentre per noi sono sempre esterne al testo stesso, normalmente in corsivo). Le ragioni sono di natura concretamente editoriale: gli antichi non distribuivano copioni agli attori, che venivano istruiti dal regista (che era spesso l’autore). Figura 9. Coro di animali.
Figura 10. Scena di κόρδαξ.
9. Il registro linguistico risultava cosí piuttosto elevato, straniante anche da questo punto di vista, naturalmente soprattutto nella tragedia, ma anche
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spesso nella commedia, in cui il fattore sovrasegmentale (e cioè le modulazioni della voce, che a noi spetta integrare) doveva segnalare il cambio di registro e l’eventuale intenzione parodica dello stile alto. Ma anche nella tragedia il cambio di registro stilistico era frequente, dandosi colloquialismi e addirittura volgarismi anche violenti in momenti di tensione drammatica particolarmente forte. La recitazione era declamatoria, per ragioni di comunicazione facilmente intuibili: non si trattava propriamente di una scelta, perché i grandi spazi dei teatri non avrebbero consentito una resa naturalistica. 10. Sulla scena siamo molto male informati anche perché non è esauriente la nostra conoscenza dell’architettura dei teatri del V e del IV secolo. È significativo che fino a Sofocle, a cui se ne attribuisce l’introduzione, non si parli di quella che in Aristotele viene chiamata σκηνογραφία52: doveva trattarsi sicuramente di qualcosa di molto semplice (prova ne sia l’abbondanza di descrizioni di luoghi, edifici e oggetti, che necessitavano di descrizione appunto perché non presenti in scena). 11. Quanto agli spettatori, la presenza di donne fra il pubblico è ancora in discussione, anche se sembra probabile che, pur in numero ridotto, ve ne fossero”.53 Rispetto alla spettacolarità, per esempio, degli agoni il dramma attico realizzava una spettacolarità piú intensa che estesa. Mi spiego con un’osservazione non marginale, tanto piú illuminante in quanto interna al sistema greco della spettacolarità. Si è detto piú su quanto diversa era l’importanza del testo verbale nella lirica corale e nei cori del dramma: in questi ultimi le parole si organizzavano in sequenze sintattiche molto piú semplici, perché dovevano raggiungere con chiarezza lo spettatore, molto interessato a coglierne il senso (sporadica interazione con l’evento scenico, ma soprattutto importanti riflessioni etiche suscitate dall’azione). Ora, la struttura strofica del tutto prevalente nella lirica corale è, come si è visto, la complessa triade composta da strofe–antistrofe– epodo (AAB, AAB, …), che si ripete molte volte uguale a se stessa. Nel dramma, invece, le strutture sono ordinariamente due: o quella a triade AAB, CCD, …, ma con triadi diverse l’una dall’altra, o quella a semplice coppia antistrofica AA, BB, CC, …: strutture molto piú variate rispetto alla monotonia della triade lirica corale invariabilmente ripetuta piú volte, e questo non solo liberava le parole dalla schiavitú perenne a uno schema metrico ossessivo, ma apriva a maggior libertà
|| 52 ARISTOTELE, Poetica, 1449a18. 53 Cfr. recentemente G. MASTROMARCO, Donne a teatro nell’Atene di Aristofane, in L. BELLONI, G. MILANESE e A. PORRO (a cura di), Studia classica Iohanni Tarditi oblata, Milano 1995, II, pp. 947– 55.
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sia l’espressione della rilevanza drammaturgica della parola sia, in piú, la musica e la danza, consentendo una piú efficace varietà di movenze54. Il coro intensificava cosí la sua peraltro già in arcaico affermata funzione spettacolare nel quadro di un evento scenico piú integrato, oltre ad assicurare una maggiore funzione al messaggio verbale secondo le considerazioni esposte qui sopra sull’iperbato. Fatte solo alcune riserve, tragedia e commedia si possono bene rappresentare come polarmente opposte nel senso del ‘pianto’ e del ‘riso’55. Il discorso sul dramma satiresco richiederà precisazioni ulteriori.
5.5 La tragedia Il dramma attico è per noi soprattutto la tragedia, e questo per due ragioni: perché ha rappresentato una grande novità come nuova funzionalizzazione del mito (celebrazione della polis democratica di Atene) e perché è la tragedia ad aver avuto seguito nelle nostre culture moderne, mentre la commedia è rimasta una curiosità archeologica, soprattutto nelle forme e nei contenuti della commedia attica antica. La tragedia è stata la nuova versione dell’epos, e cioè il mito presentato alla polis: con i suoi grandi temi etici (rapporto dell’uomo con la divinità, dell’uomo con l’uomo) da una parte ha allargato il suo pubblico rispetto a quello delle corti arcaiche e dall’altra lo ha ristretto rispetto a quello delle grandi feste panelleniche, perché si è rivolta al pubblico di una polis singola, Atene, pur con la partecipazione degli isolani dell’impero ateniese nelle Grandi Dionisie. Il coinvolgimento politico e i riferimenti all’attualità erano fisiologici, ma non hanno mai esaurito il messaggio, che fu di portata globale: se quindi è giusto rilevarne il provincialismo campanilistico (frequente magnificazione propagandistica di Atene), bisogna però anche riconoscerne la portata umana immensa, come del resto non ha mancato di rilevare tutta la cultura moderna. L’Edipo re di Sofocle è per noi moderni la tragedia piú perfetta: è una fabula affascinante, tanto da aver ispirato larghi settori della moderna psicanalisi, ed è per di piú un dramma costruito con straordinaria compattezza drammatica. Piacque molto anche ad Aristotele, che nella Poetica ne parla molto, e spesso
|| 54 Questa precisazione si aggiunge a quanto esposto al par. 3.2 e ne dà efficace conferma. 55 L. E. ROSSI, Il dramma satiresco attico, in «Dialoghi di Archeologia», VI (1972), pp. 248–302. Una recente chiara sintesi delle caratteristiche, spesso oppositive, dei due generi in O. TAPLIN, Comedy and the Tragic, in M. S. SILK (a cura di), Tragedy and the Tragic, Oxford 1966, pp. 188– 202.
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con ammirazione, assumendolo a modello di riferimento per la tragedia perfetta. Se lo prendiamo qui anche noi come esempio di tragedia attica, non è per il suo valore paradigmatico di tragedia perfetta, ma per spiegarci un fatto molto istruttivo che non ha fermato molto l’attenzione dei critici: perché, perfetta per Aristotele e per noi, non ha ottenuto dagli antichi quel plauso che a noi sembrerebbe di dare per ovvio? La tragedia, come già il mito arcaico, fa coincidere due angosciose ricerche: quella di chi ha assassinato Laio re di Tebe, destinata a liberare la città dalla pestilenza che l’ha colpita, e quella del padre da parte di Edipo, due ricerche che approdano al colpevole di un doppio misfatto, Edipo stesso, reo di aver ucciso il padre e di aver sposato la madre. La versione teatrale di Sofocle ha il merito di presentare scena dopo scena i paralleli progressi delle due inchieste con quello che oggi sarebbe l’intreccio di un giallo ben costruito, che tale però per gli Ateniesi non era, visto che il mito era ben noto: l’attrattiva, per gli spettatori, era una sequenza di tensioni sceniche che rispondevano al progressivo mutare della situazione col progredire dell’indagine. La prima a rendersi conto dell’orrendo stato dei fatti è Giocasta, la madre–moglie di Edipo, che corre a impiccarsi; quando poi anche Edipo si sente stretto dalle convergenti testimonianze, si accieca. Non che anche in questa tragedia cosí perfetta secondo i nostri criteri qualche incongruenza, a rigore, manchi. Per darne un esempio, nella serie di affannose inchieste che si susseguono nella seconda parte del dramma, c’è una semplificazione nel numero dei testimoni, che diventano due da tre che avrebbero dovuto essere: il pastore tebano che per ordine del padre Laio aveva esposto sul Citerone il piccolo Edipo perché fosse preda delle fiere; il pastore corinzio che aveva rilevato il piccolo e lo aveva portato a Corinto; l’unico superstite della strage in cui Edipo aveva ucciso Laio. Il primo e il terzo, tebani ambedue, diventano un personaggio solo: di questa incongruenza si può almeno vedere con chiarezza lo scopo, che è quello, assai opportuno, di una semplificazione dell’azione drammatica per ottenere maggiore efficacia scenica (ed eventualmente economia di attori). Ben piú rilevanti sono però le incongruenze che si incontrano altrove. All’inizio dell’Agamennone di Eschilo sono i segnali luminosi delle torce che annunciano la presa di Troia da monte a monte partendo dall’Ida nella Troade: nessuno si sarà meravigliato di vedere apparire Agamennone poco dopo sulla scena di ritorno dalla guerra, e cioè alla fine di un percorso che le esigenze di scena avevano fatto durare meno di un moderno viaggio in aereo. Per l’inverosimiglianza spaziale dei segnali luminosi si può richiamare, come stimolo alla fantasia, il paesaggio greco aperto a tutte le prospettive montane e marine e tale
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da aprirsi a un colossale panorama satellitare che anche noi saremmo in grado di accettare, anzi di ammirare (come facciamo) per la sua travolgente efficacia visiva: ma l’inverosimiglianza temporale si lascia superare solo da chi sia avvezzo a stimoli del genere, come lo erano gli antichi. Le didascalie interne al testo, di cui si parlava sopra, erano frequenti ed erano per lo piú di tipo molto elementare: ad annunciare l’arrivo di personaggi per i quali si sentiva il bisogno di una immediata identificazione provvedevano gli attori stessi, presentando chi entrava in scena o autopresentandosi entrando; quello che non si poteva vedere sulla scena era descritto, come per esempio il pianto o il riso da parte degli attori, che portavano la maschera. Nell’agone drammatico in cui fu rappresentato l’Edipo re, del quale non conosciamo la data esatta (429–425? 411?), i drammi presentati da Sofocle non ottennero il primo premio, bensí il secondo, dopo un tal Filocle, drammaturgo che ci è ben poco noto. Ma, per quanto si è detto sopra sugli agoni, non è probabile che la vittoria fosse dovuta a qualche favoritismo, visto che il controllo del pubblico doveva essere autentico ed efficace: evidentemente i drammi di Filocle fecero migliore impressione di quelli di Sofocle, perché fra l’altro, non dobbiamo dimenticarlo, l’Edipo era solo uno dei quattro drammi di Sofocle. Ma non c’è poi tanto da meravigliarci: a questa tragedia noi daremmo il primo premio assoluto, ma dobbiamo ammettere senza difficoltà che altri drammi potessero avere attrattive comparativamente non trascurabili per il pubblico del teatro di Dioniso. Ma soprattutto le qualità che sono state tanto ammirate piú tardi, e cioè in primis la bella costruzione, non erano tali da imporsi ai contemporanei come distintive. In altre parole: la perfezione drammaturgica non era la stessa per loro come per noi, tante essendo le incongruenze che in tutti gli altri drammi possiamo oggi rintracciare e analizzare. Andavano evidentemente meno per il sottile, sotto questo punto di vista56. Si è molto discusso sulla funzione del coro: se fosse un commentatore dell’azione (e spesso lo era), se entrasse nell’azione (e qualche volta questo avveniva, specie in Sofocle), se fosse un portavoce del drammaturgo (e qui l’esegesi si presenta spesso difficile). È certo che il coro presentava generalmente una communis opinio etica della polis nel suo insieme. Ma, per la prospettiva in cui ci siamo proposti qui di vedere il dramma, una sua funzione sempre presente fu quella spettacolare con il canto e la danza e anche con il costume. Per
|| 56 L’opera classica su questo argomento è T. VON WILAMOWITZ–MOELLENDORFF, Die dramatische Technik des Sophokles, Berlin 1917, che però tende a considerare meno elaborati dal drammaturgo i drammi meno perfetti da questo punto di vista (per Sofocle Elettra e Trachinie), il che mi pare da escludere per le considerazioni fatte qui nel testo.
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l’aspetto coreografico del costume basta pensare all’effetto che debbono aver fatto alcune tragedie di Eschilo, come le Supplici (gli Egizi) e le Eumenidi (le Erinni o Furie). L’importanza della tragedia nella vita ateniese si può misurare dal fatto che la canonizzazione dei tre grandi tragici (Eschilo era morto nel 456 a. C.) era già presente nelle Rane di Aristofane (405 a. C.), a ridosso della morte di Euripide e di Sofocle, che quindi già durante la loro vita dovevano essere stati considerati dei classici. L’interesse e la memoria del pubblico per la produzione drammaturgica doveva essere enorme. E i tre tragici andavano incontro ai gusti di tre o quattro generazioni di spettatori: Eschilo era l’eroe della guerra contro i Persiani ed era ancora legato alla religiosità tradizionale, Sofocle era l’aristocratico i cui grandi eroi solitari (Aiace, Edipo, Eracle, Filottete) subivano l’arbitrio degli dèi senza riuscire a darsene una ragione, Euripide era il causidico che metteva in dubbio i principi di una cultura in crisi e che praticava il mestiere di sofista sulla scena.
5.6 Il dramma satiresco Il dramma satiresco, a stare già alle definizioni degli antichi, era piú simile alla tragedia che alla commedia: lo troviamo ben definito dagli antichi come «tragedia scherzosa»57. Non era commedia, perché i personaggi erano quelli della tragedia, e cioè del mito, che conservavano tutto il loro decoro, il loro ethos tragico; non era tragedia, perché il coro era costituito dai satiri, che avevano la funzione di mettere in burla i grandi personaggi e gli intrecci della tragedia. A voler essere rigorosi, il dramma satiresco è tragedia perché è l’esatto rovescio di quest’ultima, conservandone le forme (prologo, episodi, stasimi ecc.). Ce ne resta un solo esemplare completo, il Ciclope di Euripide, ripresa scenica del famoso episodio narrato nel libro IX dell’Odissea. Non ne conosciamo la data. Il personaggio di Sileno e il coro dei satiri, tutti appartenenti al corteggio di Dioniso, costituivano una cornice parodica per la presentazione fedele dell’episodio epico: ma parodica era solo la cornice, perché il tono dei personaggi elevati restava quello dell’epos. C’è da chiedersi quale funzione avesse per gli Ateniesi questo tipo di spettacolo, che è rimasto unico, non trovando seguito (e spesso neanche comprensione) nei moderni. Le vicende della sua introduzione (499–496 a. C.), a ridosso delle riforme di Clistene in senso democratico (508/507 a. C.), fanno pensare || 57 DEMETRIO, De elocutione, 169.
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all’introduzione negli spettacoli ufficiali di quella tematica di ambiente campestre, tipica dei satiri, legata all’integrazione dei demi campestri e cittadini, promossa appunto dalle riforme. Le funzioni principali, a quanto sembra, dovevano essere due: ricordare e riaffermare la consacrazione a Dioniso degli spettacoli, che si erano andati laicizzando già nel corso dei primi decenni di attività drammaturgica58; e offrire al pubblico uno spettacolo che consentisse una distensione psicologica contestuale, necessaria dopo la visione degli orrori della tragedia. Della forte emotività del pubblico abbiamo varie testimonianze, emotività che andò attenuandosi man mano che ci si abituava a vedere sulla scena le truci vicende del mito, tanto da giustificarci il fatto che già nel 438 a. C. al posto del dramma satiresco si poté collocare una tragedia, l’Alcesti di Euripide, pur a lieto fine59. Della necessità di distinguere il dramma satiresco dal σατυρικόν di cui parla Aristotele nella Poetica si è già detto: il dramma satiresco fu probabilmente una continuazione di quella forma originaria, ma non può identificarsi con essa, strutturato com’è, dal punto di vista formale, sul modello della tragedia.
5.7 La commedia La commedia antica ha un solo personaggio: la polis, che, per riprendere un’immagine utilizzata per il simposio, dà spettacolo a se stessa. Il protagonista unico è la vita cittadina, rappresentata da personaggi di fantasia, con le sue minute vicende e le sue beghe, con la sua vita politica trafitta dagli strali di una critica che non rinunciava a una sua compromissione etica, ma che doveva essere soprattutto divertente. Sulla funzione didattica del poeta, maestro del popolo, Aristofane scrisse una commedia, Le rane (405 a. C.), dove trasformò un tema di cosí grande peso etico in uno spettacolo davvero divertente mettendo in scena l’agone fra Eschilo ed Euripide per il primato nell’arte tragica. La commedia è per noi un efficace antidoto contro ogni invecchiato classicismo, e ci viene dal pieno della cultura attica del V secolo, proprio quella che piú è stata celebrata dal classicismo: gli Ateniesi sapevano anche ridere di se stessi. E ridevano di
|| 58 Consacrazione che trovò una formulazione nel detto paremiografico, applicato alla tragedia matura, «Niente a che fare con Dioniso». 59 Ma a lieto fine sono anche altre tragedie vere e proprie. In realtà lo status dell’Alcesti continua ad essere discusso.
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personaggi reali della città, presentati anche in scena60, tanto che per ben due volte, nella seconda metà del V secolo, si sentí il bisogno di emettere decreti per limitare l’ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν (prendere in giro per nome), quella che doveva apparire come una pericolosa e destabilizzante licenza, che nel simposio aveva un pubblico ristretto ma che qui, davanti a tutta la città, poteva essere sentita come addirittura eversiva. La commedia attica antica, rappresentata soprattutto da Cratino, Eupoli e Aristofane, tradisce le sue origini, diverse da quelle della tragedia, nella sua stessa strutturazione interna, che è molto elaborata. Le sezioni caratterizzanti sono due, la parabasi e l’agone. La parabasi era una lunga sezione, simmetricamente strutturata alternativamente a recitazione e a canto–danza, che interrompeva l’illusione scenica e stabiliva un contatto diretto fra il coro (il corifeo) e il pubblico: il poeta parlava spesso in prima persona, magnificando le sue qualità letterarie, lamentandosi del comportamento del pubblico o lodandolo, attaccando direttamente i suoi concorrenti e la vita politica della città. L’agone metteva l’uno contro l’altro quasi sempre il protagonista e il suo antagonista, soddisfacendo cosí la passione degli Ateniesi per i processi e i dibattiti in generale. Il finale, l’esodo e cioè l’uscita del coro, era una tipica apoteosi del protagonista: tutti si avviavano cantando e danzando per lo piú verso un ricco festino retroscenico. Nell’organizzazione scenica la principale differenza con la tragedia era nel numero dei coreuti, che erano ventiquattro. Vediamo nel dettaglio le Vespe di Aristofane61, rappresentate nel 422 a. C. Un padre (Filocleone, ‘amico di Cleone’) e un figlio (Bdelicleone, ‘schifatore di Cleone’) ruotano attorno alla passione ateniese per i processi, quella passione che Euripide soddisfaceva in tragedia nei lunghi (e alle volte per noi noiosi) dibattiti. Il padre magnifica la sua attività di dicasta (giudice) e il figlio la deride per dissuadere il padre dal continuare a coltivarla: poca paga per i dicasti, strumentalizzazione da parte dei demagoghi. L’agone è naturalmente fra padre e figlio, il quale ultimo mette in opera un processo da farsa per giudicare il cane che ha rubato del formaggio e, ingannando il padre–giudice, lo porta all’assoluzione. Il padre, disperato per l’assoluzione che sente come perdita di potere, si lascia consolare con una senile riscoperta dei piaceri del sesso e della convivia-
|| 60 Come per esempio il discusso demagogo Cleone in Aristofane. Sul problema della maschera fisiognomica (tale cioè da far riconoscere il personaggio) M. FERA CANNATÀ, La resa scenica del Paflagone nei ‘Cavalieri’ di Aristofane, in «Materiali e Discussioni per l’analisi dei testi classici», XXXV (1995), pp. 121–25. 61 Sugli aspetti drammaturgici del teatro di Aristofane in generale cfr. C. F. RUSSO, Aristofane autore di teatro, nuova ed. ampliata, Firenze 1984.
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lità finché, ubriaco, diventa violento. Non c’è un intreccio, ma semplicemente una contrapposizione che si formalizza nell’agone e che dà origine a una serie di episodi comici, uno dei quali, del tutto a sorpresa, è il finale: una sfida alla danza fra Filocleone e i figli del drammaturgo Carcino, che avrà ottenuto notevole effetto comico, come suggeriscono le descrizioni in recitativo e in canto lirico date dagli attori stessi per i propri movimenti di danza mimata62. Man mano che la partecipazione alla vita politica della città63 si andò facendo meno intensa, la parabasi perse la sua funzione e scomparve del tutto (come nelle due ultime commedie conservate di Aristofane: Le donne all’assemblea, 392 a. C., e il Pluto, 388 a. C.). Nel corso del IV secolo la scena fu occupata dalla cosiddetta commedia di mezzo, della quale abbiamo assai poco e che portò, con la commedia nuova e Menandro, alla eliminazione del coro e alla strutturazione dell’azione in senso del tutto nuovo: l’intreccio ruotava intorno a vicende di carattere privato o familiare (da cui la definizione di commedia borghese) e largo posto trovava il tema dell’amore come sentimento, che prima era ignorato a tutto vantaggio del sesso. Menandro (341–292 a. C.) offrí uno spettacolo nel quale il pubblico si identificava con i personaggi attraverso alcuni universali psicologici (amicizia, fedeltà, amore) e si disponeva a una ricezione piú passiva dello spettacolo, accompagnato per mano da una narratività che si realizzava con delle trame vere e proprie, a differenza della commedia antica che si era fondata su una semplice serie di episodi comici. Siamo agli incunaboli del teatro moderno, che passò attraverso l’imitazione della commedia di mezzo e di quella nuova ad opera di Plauto e di Terenzio. L’unica commedia completa di Menandro che possediamo è Il misantropo (ovvero ‘l’uomo dal carattere difficile’), opera giovanile (316 a. C.). Il vecchio Cnemone vive in solitudine in campagna, con la figlia e con la di lei nutrice. Il giovane cittadino Sostrato è innamorato della ragazza e vuole sposarla, ma non riesce ad avvicinare Cnemone, che non vuol essere disturbato nella sua misantropia. Ma Gorgia, il figliastro, e l’amico Sostrato lo tirano su dal pozzo in cui è caduto e il vecchio adotta il figliastro e lo incarica di trovare marito a sua figlia. Al matrimonio della figlia con Sostrato finisce per partecipare anche il vecchio misantropo, costretto da un tranello del servo e del cuoco. Già si delineano qui i personaggi tipici che diventarono l’ingrediente principale delle trame: il vecchio di cattivo carattere, il giovane innamorato, il servo astuto, a cui si aggiunsero in altre commedie la prostituta di buon cuore, il sol-
|| 62 Cfr. sotto, par. 8, per mimo e pantomimo. 63 Sulla partecipazione del pubblico alla commedia cfr. A. C. CASSIO, Commedia e partecipazione. ‘La Pace’ di Aristofane, Napoli 1985.
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dato spaccone ecc. All’altalena di registri, dall’alto al basso, che era tipica della commedia antica si sostituisce qui una lingua borghese media che è veicolo di una comicità alle volte temperata perfino da una vena malinconica. Il pubblico voleva riflettere su se stesso e su tematiche universali piuttosto che ridere sulle vicende della comunità. Di qui il carattere per cosí dire anonimo del personaggio tipico, che, diversamente dalla commedia antica, non aggredisce l’identità dei singoli cittadini.
6 Altre forme di spettacolo drammatico Se c’è un settore in cui molto è quello che non è stato tramandato o che non ha avuto seguito, questo è proprio il campo dello spettacolo, alimentato da iniziative popolari che non sono state protette dall’ufficialità. Un esempio è il σατυρικόν, di cui si è già parlato. Un altro è la farsa megarese, che viene messa in ridicolo da Aristofane come troppo grossolana specialmente nelle Vespe (dove è menzionata espressamente Megara: v. 57), nella Pace, nelle Rane, dove all’iniziale ripetuto disprezzo per questo tipo di comicità seguono poi molti esempi proprio di quel tipo: se scherzi grossolani del genere sono reperibili in Aristofane stesso, è che erano evidentemente destinati a soddisfare le sezioni meno esigenti del pubblico. L’ambiente dorico ci fornisce un autore, Epicarmo (fine del VI e prima metà del V secolo), che ha lasciato di sé una rispettata memoria letteraria: le sue commedie erano di struttura molto semplice e presentavano scene di vita quotidiana e molta parodia mitologica. Epicarmo diede dignità letteraria a farse improvvisate. È notevole come molto si possa scoprire in commedia attica che è dovuto a influsso diretto dalla commedia dorica e da Epicarmo in particolare64. Come la farsa megarese, anche la farsa fliacica, che si sviluppa in ambiente italiota, si fa risalire alle antiche rappresentazioni mimiche della tradizione popolare dorica. Anche per questo tipo di spettacolo, i pochi nomi che ci sono rimasti (primo fra tutti Rintone, attivo a Taranto all’inizio del IV secolo a. C.) non esauriscono certo la sua ricchezza e la sua diffusione: si trattava di parodia mitologico–tragica, materia che evidentemente trovava ampia risonanza nei piú vari livelli di cultura del pubblico. Del mimo di Sofrone (V secolo) e di Senarco (IV secolo) si sa troppo poco, di quelli di Teocrito sappiamo con sicurezza che erano letterari, mentre è meglio
|| 64 ID., Two studies on Epicharmus and his influence, in «Harvard Studies in Classical Philology», LXXXIX (1985), pp. 37–51.
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lasciar da parte Eroda, essendo molto controversa la sua destinazione scenica65. Il mimo letterario si risolse in un concentrato dello spettacolo drammatico, sia che fosse destinato alla scena sia che valesse per una semplice lettura recitata. Del mimo orchestico si parlerà piú avanti. Come si vede, le forme di spettacolo che si possono definire spontanee perché non promosse e non protette dall’autorità furono le forme del riso, come contrapposte a quelle del pianto. Il riso fu sempre sentito come piú pericoloso per la compagine sociale, come prova la disciplina piú volte rinnovata della commedia antica: e per censurare anche la letteratura seria ci voleva la sospettosità globale di Platone, che cacciava dalla sua città ideale tutta la letteratura, per imporre poi copertamente, com’è stato giustamente sostenuto66, i suoi dialoghi come forma di letteratura accettabile perché perfetta. E in realtà il dialogo platonico, specie nella sua fase iniziale e della maturità, è anche, e alle volte soprattutto, spettacolo: mi domando se a qualche regista sia mai venuto in mente di rendere scenicamente l’inizio del Protagora, il celebrato sofista intorno al quale, mentre passeggia e sentenzia, ruotano devoti ascoltatori, sitibondi della sua parola e attenti a non intralciarlo nelle sue evoluzioni.
7 L’oratoria come spettacolo L’oratore offre spettacolo fin dai tempi dell’Odissea: Odisseo dice che anche a un uomo di aspetto dimesso gli dèi possono concedere il dono della parola piena di grazia e la gente lo guarda (λεύσσουσιν) deliziata67: Omero non dice che lo ascolta, bensí che lo guarda. Fino al momento in cui la grande oratoria trova il suo terreno ideale nella democrazia ateniese, dalla metà del V secolo in poi, non abbiamo molte notizie su come la parola politica e giudiziaria venisse prodotta e recepita, ma dai sofisti in poi la nostra informazione è abbondante. Aristofane nelle Vespe prende in giro la mania dei processi che ha colpito gli Ateniesi: il protagonista Filocleone li ama talmente che «si lamenta se non siede nei primi banchi»68. Nell’agone con il figlio, Filocleone elenca le gioie del dicasta e magnifica il suo potere senza limiti69: a lui sono rivolte le suppliche || 65 G. MASTROMARCO, Il pubblico di Eronda, Padova 1979, porta ingegnosi argomenti per la destinazione alla scena. 66 L. M. SEGOLONI, Socrate a banchetto, Roma 1994. 67 Odissea, 8.169–71. 68 ARISTOFANE, Vespe, 88–90. 69 Ibid., 548 sgg.
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delle parti in causa, che cercano con ogni mezzo di ottenere il suo favore. E il dicasta assiste compiaciuto alle reazioni e alle suppliche di coloro che sono coinvolti nei processi come se assistesse a uno spettacolo. Se nei tribunali è un numero relativamente ristretto di cittadini (i dicasti, le parti in causa e i loro sostenitori, qualche spettatore) che assiste ai discorsi, nelle assemblee è l’intera città che si gode lo spettacolo. Tucidide fa dire al demagogo Cleone che la città prende decisioni sbagliate perché i cittadini si lasciano circuire dalle belle parole degli oratori: «E la colpa va attribuita a voi che siete pessimi organizzatori e giudici di concorsi (ἀγωνοθετοῦντες), avvezzi a farvi spettatori (θεαταί) dei discorsi e dei fatti invece ascoltatori (ἀκροαταί)»70. Il discorso di Cleone è ambientato da Tucidide all’interno di un vero e proprio agone oratorio sulla punizione da infliggere ai Mitilenesi: siamo nel 427 a. C., l’anno in cui arrivò ad Atene il sofista Gorgia e destò grandissima impressione71. Gorgia introdusse un’oratoria formalmente molto curata, ricca di artifici retorici e in particolare di parallelismi e di figure di suono. Si sviluppò in questo scorcio del V secolo la riflessione teorica sull’efficacia psicagogica della parola (Gorgia) e sulle tecniche per strutturare ritmicamente il discorso in prosa (Trasimaco di Calcedone): anche qui una teoria degli affetti parallela a quella musicale. Trasimaco viene citato da Aristotele a causa del suo interesse per la ὑπόκρισις, l’arte di recitare, di mettere in scena i discorsi72. La parola ὑπόκρισις è la stessa che designa l’arte dell’attore di teatro ed è ovvio che l’impostazione della voce e del corpo venissero studiate tenendo presente la prassi teatrale73. C’è in piú da notare che, specialmente nei tribunali, le minori dimensioni architettoniche favorivano la pratica, nonché la ricezione da parte del pubblico, di quei fattori della recitazione che erano estranei al teatro e familiari a noi moderni, come la mimica facciale (soprattutto per la mancanza di maschera) e una gestualità piú complessa perché meno convenzionale. L’oratore Eschine, che era stato attore, cita brani di tragedia e lo stesso Demostene (fig. 11), che pure spesso lo deride per i suoi precedenti di tritagonista in teatro, gli riconosce bellezza di voce, memoria, bravura nella recitazione74. Eschine elogia la gestualità composta, come quella dei grandi Ateniesi del passato, e accusa Timarco di muoversi sguaiatamente fino a gettare il mantello75. || 70 TUCIDIDE, 3.38.4. 71 DIODORO SICULO, 12.53. 72 ARISTOTELE, Retorica, 1404b, 12 sgg. 73 Cfr. VETTA, La voce cit. 74 DEMOSTENE, 18.313. 75 ESCHINE, 1.25 sg. Ulteriori (rispetto a quanto indicato a nota 3) precisazioni su questo tipo di gestualità in P. ZANKER, The Mask of Socrates, Berkeley – Los Angeles 1995.
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Dalle parole di Eschine risulta che al suo tempo era abituale per gli oratori sbracciarsi e agitarsi sulla tribuna. La teoria della ὑπόκρισις (actio in latino) si venne perfezionando nel corso dell’età ellenistica: una summa è in Quintiliano76, che, in un’altra sezione della sua opera, accenna ad altri elementi spettacolari a cui poteva ricorrere l’oratore per la mozione degli affetti (ritratto del defunto, vesti insanguinate, schizzo della scena del delitto « tabula sipariove» ecc.)77. L’uso di «sussidi visivi»78 non doveva essere estraneo neanche alle conferenze dei filosofi e degli storici, soprattutto quando l’argomento lo permetteva: abbiamo testimonianza della presenza di carte geografiFigura 11. che nelle scuole dei filosofi79 e per convincere gli SparDemostene. tani Aristagora di Mileto si portò dietro una tavola di bronzo su cui era incisa una carta della terra80. Non sappiamo se Erodoto nell’esporre le sue storie abbia fatto ricorso a sussidi visivi: quello che è certo è che cercava il diletto e il plauso degli ascoltatori. Erodoto doveva essere compreso tra coloro a cui era rivolta la critica di Tucidide perché erano piú attenti al diletto del pubblico che alla verità81, autori di pezzi di bravura destinati a effimero successo (ἀγώνισμα ἐς τὸ παραχρῆμα82) a cui Tucidide contrappone il suo κτῆμα ἐς αἰεί (acquisto perenne). Nel IV secolo l’oratoria si affiancò al teatro e poi lo sostituí nell’educazione dei cittadini: ai paradigmi offerti dal mito subentrarono gli exempla storici. Ma l’oratoria venne incontro anche al bisogno di spettacolo degli Ateniesi: quello che in modo provocatorio Tucidide aveva fatto dire a Cleone diventò realtà quotidiana qualche decennio dopo. In età ellenistica la declamazione di scuola, erede delle esibizioni dei sofisti, divenne un
|| 76 QUINTILIANO, Institutio oratoria, 11.3. 77 Ibid., 6.1.30 sgg. (de adfectibus). 78 L’espressione è di E. KEULS, Rhetoric and visual aids in Greece and Rome, in E. A. HAVELOCK e J.P. HERSHBELL (a cura di), Communication Arts in the Ancient World, New York 1978 [trad. it. Roma–Bari 1981, pp. 169–84]. 79 DIOGENE LAERZIO, 5.51. 80 ERODOTO, 5.49.1. 81 TUCIDIDE, 1.241.1. 82 Ibid., 1.22.4.
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genere molto popolare nel quale si misuravano grandi oratori e giovani studenti di retorica83. Un momento di particolare fortuna di questo genere fu il II secolo d. C. con la Seconda Sofistica: retori greci e latini si contendevano i favori del pubblico con esibizioni (talvolta bilingui) redatte stenograficamente e poi ‘pubblicate’84. Con l’avvento del cristianesimo il carattere spettacolare delle declamazioni e delle orazioni epidittiche passò nelle omelie dei grandi predicatori, che in molti casi venivano trascritte e diffuse, e nelle dispute dottrinarie. Erede di questa prassi fu per esempio un Bossuet nella seconda metà del Seicento francese, con la spettacolarità e il pathos delle sue orazioni, e per venire a tempi piú recenti, fra Ottocento e Novecento, le arringhe di quelli che venivano chiamati i ‘principi del foro’. A partire dal IV secolo a. C. non fu solo la recitazione dei propri discorsi, composti per iscritto o improvvisati, a dare spettacolo, ma anche la lettura di scritti altrui. Com’è noto, Isocrate non destinava i suoi scritti all’assemblea o ai tribunali, ma alla lettura all’interno della scuola e alla pubblicazione scritta. Nell’Antidosi, che, nell’esplicita finzione letteraria, è un discorso giudiziario, Isocrate fornisce istruzioni a chi dovrà leggere il suo discorso85: è un modo per spiegare il proprio codice e al tempo stesso per integrare quello che, in mancanza di una originaria pubblicazione aurale, sarebbe venuto a mancare. Insieme con il diffondersi di una spettacolarità piú superficiale, quella che Platone già combatteva come θεατροκρατία τις πονηρά, si assiste a una singolare contraddizione. Aristotele con la Poetica ci ha lasciato molte notizie (sempre troppo poche) sul dramma attico, ma segna anche il momento dal quale il codice drammaturgico della tragedia non veniva piú compreso, perché non veniva piú vissuto, nella sua interezza: non avrebbe detto, altrimenti, che l’efficacia della tragedia non è impedita dal fatto che la si avvicini al di fuori della rappresentazione e che l’aspetto visivo (la ὄψις) non le è essenziale86. La tragedia lasciò gradualmente il posto ad altre forme, fra cui l’oratoria, specie nel IV secolo, fu predominante.
|| 83 D. A. RUSSELL, Greek Declamation, Cambridge 1983. 84 Per questo cfr. L. GAMBERALE, Confronti e incontri di cultura nell’età degli Antonini, in Filellenismo e tradizionalismo a Roma nei primi due secoli dell’impero, Atti del convegno (Roma, 27– 28 aprile 1995), Roma 1996, pp. 71 sg. 85 ISOCRATE, Antidosi, 12. 86 ARISTOTELE, Poetica, 1450b,18 sg., 1453b, 3 sgg., 1462a, 11, su cui M. DI MARCO, Ὄψις nella ‘Poetica’ di Aristotele e nel ‘Tractatus Coislinianus’, in DE FINIS (a cura di), Scena cit., pp. 129–48.
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8 L’epoca ellenistica Dal III secolo a. C. in poi, per quanto è possibile seguire il panorama greco, il sistema dello spettacolo cambia radicalmente, mutandosi i rapporti fra i vari generi, scomparendone alcuni e apparendone di nuovi87. La tragedia del V secolo continuò a vivere nelle repliche, sostanzialmente del solo Euripide, che restò il tragediografo di maggior successo. Non mancò una produzione drammaturgica (i poeti della cosiddetta Pleiade), ma è pressoché integralmente perduta. Nelle messe in scena di vecchie tragedie e nei nuovi allestimenti non c’era piú spazio per il coro: questo venne ridotto a semplice intermezzo musicale avulso dall’azione scenica e prevalsero le scene a solo che mettevano in risalto la musica e il virtuosismo vocale degli attori. Alla tragedia e alla commedia si vennero a sovrapporre nuovi generi: due varietà del mimo, l’ilarodia e la magodia, vengono accostate da Ateneo rispettivamente alla tragedia e alla commedia, ma vi prevaleva sempre la componente musicale88. Un altro snaturamento della produzione drammaturgica ci è testimoniato da antologie conservate in papiri che contenevano sia soli canti lirici sia sole parti dialogate di una o piú tragedie: tutti pezzi raccolti e destinati a funzioni ben lontane da quelle originarie89, essendo destinati a quelli che oggi si chiamerebbero concerti. Tra gli autori di teatro del primo ellenismo Macone (prima metà del III secolo a. C.) rappresenta bene continuità e cambiamenti90: nativo di Sicione o di Corinto, Macone visse ad Alessandria, dove fece rappresentare sue commedie91 e introdusse il filologo ed erudito Aristofane di Bisanzio allo studio della commedia. Fu dunque insieme autore di drammi (commedie nella tradizione della commedia nuova) e filologo, come furono anche due poeti della Pleiade tragica, Alessandro Etolo e Licofrone di Calcide. Di Macone ci è arrivata una raccolta di χρεῖαι in trimetri giambici nelle quali i personaggi tipici della commedia nuova animano brevi scenette: la commedia si trasforma cosí in bozzetto destinato a un pubblico di lettori. Esemplare è la vicenda del dramma satiresco, che compare, cosí definito dalle fonti, in un dramma intitolato Ἀγήν, che fu rappresentato davanti alle || 87 Sullo spettacolo ellenistico segnalo i vari lavori di I. Gallo, fra cui Teatro ellenistico minore, Roma 1981. 88 ATENEO, 14.620d sgg. 89 B. GENTILI, Lo spettacolo nel mondo antico. Teatro ellenistico e teatro romano arcaico, Roma– Bari 1977, specialmente il cap. 1. 90 A. S. F. GOW, Machon. The Fragments, Cambridge 1965. 91 ATENEO, 6.241f, 14.664a.
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truppe di Alessandro Magno (324 a. C. circa). Se è fondata l’ipotesi che sotto il personaggio del titolo si celi la persona di Alessandro stesso, la funzione encomiastica si univa a quella spettacolare in senso ampio: la qualifica di ‘satiresco’ comportava certo fattori di successo per un pubblico militare, tanto piú che fra i personaggi c’era Arpalo, tesoriere del re, che era fuggito con il tesoro. Altre manifestazioni non fanno che confermare una vitalità tardiva del dramma satiresco, del tutto infedele alle origini ma evidentemente gradita a pubblici nuovi92. Dal IV secolo in poi si afferma una spettacolarità piú grandiosa e superficiale, con un intervento sempre piú massiccio della musica. Ma gli spettacoli piú imponenti e piú frequentati del periodo ellenistico non avevano rapporto con i teatri, che pure vennero costruiti in gran numero come elementi irrinunciabili dell’architettura urbana greca. Erano le cerimonie inscenate nei palazzi dei sovrani a diventare veri e propri spettacoli93: le Siracusane di Teocrito mostrano le reazioni del pubblico che assisteva alla festa in onore di Adone, promossa dalla regina Arsinoe, sullo sfondo del palazzo reale94: la descrizione della ressa, delle opere d’arte «che si muovono come vive, non tessute»95, la citazione di tutto il canto in onore di Adone intonato da una cantante ammiratissima, tutto riprende come in una cronaca visivamente rappresentata uno spettacolo grandioso che ridiventa spettacolo nel mimo teocriteo, fedele alla sua vocazione di genere letterario. Del resto un rito che diventa spettacolo è presente anche nei cosiddetti inni mimetici di Callimaco (Ad Apollo, I lavacri di Pallade, A Demetra), in cui la descrizione accurata del rito esclude la destinazione rituale e mette d’altra parte in rilievo gli aspetti spettacolari del rito stesso96. Agli spettacoli di corte contribuiva spesso la scienza, in particolare la meccanica, che era rivolta in modo quasi esclusivo alla costruzione di macchine da guerra e di meccanismi che stupissero il pubblico delle cerimonie e delle feste. Un repertorio di queste macchine da spettacolo di età ellenistica (porte che si aprono da sé, teatrini meccanici ecc.) ci è offerto dall’opera di Erone (forse I secolo d. C.).
|| 92 ROSSI, Il dramma cit., pp. 294 sgg. 93 Per il palazzo reale che diviene sede di spettacolo si può ricordare l’evento delle nozze di Alessandro Magno a Susa (ATENEO, 12.538c sgg.) con grande numero di attori e compensi enormi. 94 TEOCRITO, 15.22, 15.60. 95 Ibid., 15.82 sg. 96 R. NICOLAI, La fondazione di Cirene e i ‘Karneia’ cirenaici nell’Inno ad Apollo di Callimaco, in «Materiali e Discussioni per l’analisi dei testi classici», XXVIII (1992), pp. 153–73.
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Se l’allestimento degli spettacoli era già stata cura pubblica in occasione delle feste da parte delle singole poleis arcaiche e il dramma lo era stato con particolare accento ad Atene, questo continuò con l’epoca ellenistica, ma con una differenza importante: che a patrocinare le manifestazioni furono i monarchi ellenistici e che il dispendio fu molto maggiore. La munificenza dell’evergetismo aveva un’importante funzione politica di prestigio e continuò in seguito a Roma, dove la spettacolarità raggiunse livelli inediti, com’è ben noto. Nei rapporti con la cultura romana alcune precisazioni sono utili: un caso interessante è il mimo. Il mimo orchestico in senso piú vicino a quello moderno, come sequenza di unità gestuali discrete e non continue come nella vera danza97, veniva dato come invenzione romana nella forma del cosiddetto pantomimo98 e ne veniva precisata anche una data precisa: nel 22 a. C. Pilade di Cilicia e Batillo di Alessandria avevano dato a Roma spettacoli che erano rimasti famosi. Il successo che costoro avevano ottenuto e le ricchezze che i loro colleghi avevano accumulate furono enormi. Ma accettare a valore facciale la notizia del pantomimo come invenzione romana non è, a rigore, giusto: da inequivocabili indizi verbali, metrici e drammaturgici ne riconosciamo manifestazioni anche in Grecia, a stare anche solo ad alcune commedie di Aristofane99. La notizia della novità, anzi ‘invenzione’, romana va spiegata quindi con una presenza del pantomimo in un sistema spettacolare del tutto nuovo nel quale, in assenza di manifestazioni ormai quasi o del tutto scomparse, il pantomimo stesso acquistò un ruolo centrale e autonomo.
9 Considerazioni finali Una sia pur sommaria panoramica dello spettacolo attraverso ottocento anni di cultura greca può condurci ad alcune considerazioni di minima, che devono servire da bilancio provvisorio. Dell’impatto che la tragedia greca ha avuto con il mondo moderno si è già parlato in quest’opera100. Qui sopra si è suggerito
|| 97 Diverso quindi dal mimo letterario (per cui cfr. il par. 6). 98 Su mimo greco e pantomimo romano L. E. ROSSI, Mimica e danza sulla scena comica greca, in «Rivista di Cultura classica e medioevale», 1978, pp. 1149–70. Favorevole all’esecuzione del mimo in Aristofane è anche G. MASTROMARCO, Commedie di Aristofane, I, Torino 1983, p. 31. 99 Nel finale delle Vespe con il mimo dei figli di Carcino, nella parodo della Pace, 301 sgg., nella Lisistrata, 797 sgg. = 821 sgg., nel finale delle Ecclesiazuse, 1165 sgg. Senza contare la danza solistica, presente fin da Omero: ROSSI, Mimica cit., pp. 1159 sg.; e per la danza e il mimo cultuali, solistici e non, cfr. ibid., pp. 1162 sg. 100 D. LANZA, La tragedia e il tragico, pp. 469–505 del vol. I.
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qualche confronto fra i modi dello spettacolo dei Greci e quelli di noi moderni. Dire che lo spettacolo svolge la funzione di soddisfare il bisogno di spettacolarità è dire un’ovvietà, ma è anche dire tutto, perché l’offerta e la domanda si condizionano a vicenda. Si può aggiungere che variano le scelte tecniche a seconda dei mezzi tecnici che si hanno a disposizione e che, secondo le disponibilità economiche e secondo la volontà di utilizzarle, varia anche l’uso che dei mezzi tecnici si può fare: con le numerose scelte che la tecnica sempre offre al bisogno di spettacolarità, la selezione degli strumenti aveva, come ha anche oggi, rilevanza sia politica sia etica. Il mondo greco riuscí a realizzare e a variare i suoi spettacoli con mezzi che oggi a noi sembrano minimi, e in effetti lo erano. Nello spettacolo greco, prodotto di una cultura povera, era piú quello che veniva suggerito che quello che veniva rappresentato. L’economia nell’uso di mezzi spettacolari e la richiesta di sforzo fantastico allo spettatore erano direttamente proporzionali, senza che ne derivassero dei disagi: il codice drammaturgico, o meglio il codice spettacolare, era strettamente economico e produceva un’intesa che appare perfetta fra autori e pubblici. L’ultimo degli scopi fu per loro una resa drammaturgica meticolosamente naturalistica, senza che venisse meno l’intenzione di imitazione della natura, da loro teorizzata con il nome di mimesi in letteratura, e come fu sempre piú accuratamente realizzata nella loro arte figurativa. Ma forse in nessun’altra manifestazione artistica come nello spettacolo si lasciavano allo spettatore ampi compiti di integrazione101. Del resto, in una cultura che faceva spettacolo della parola, come l’abbiamo vista agire soprattutto nell’epica e nell’oratoria in epoche tanto distanti fra loro, ben pochi requisiti di scena erano necessari: forse non è azzardato dire che tutto quello che andava al di là della pura voce recitante (musica, danza, scena) fu quasi sempre a rigore un di piú, volto solo a potenziare in diversi modi l’effetto della voce e della parola. Quasi sempre, però, non vuol dire sempre: perché abbiamo passato in rassegna momenti anch’essi cronologicamente e culturalmente distanti, come la lirica corale arcaica, il ditirambo nuovo102e lo spettacolo ellenistico, in cui l’equilibrio fra parola e musica/danza veniva disatteso a tutto svantaggio della parola. Ne è venuto un panorama variegato, che si sottrae sia a una visione umanistica di classici equilibri sia a ogni tipo di organicistica progressione cronologica.
|| 101 M. FANTUZZI, Sulla scenografia dell’ora (e del luogo) nella tragedia greca, in «Materiali e Discussioni per l’analisi dei testi classici», XXIV (1990), pp. 9–30. 102 Che vide intensificarsi la polemica etico–musicale contro le innovazioni musicali.
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Tavole 1. Strumenti musicali: A.J. Neubecker, Altgriechische Musik, Darmstadt 1977, tav. 1. 2. Megaron: C.W. Blegen – M. Rawson, The Palace of Nestor at Pylos, I 2 (Illustrations), Princeton 1966, tav. 10. 3. Olimpia: G. Maddoli – V. Saladino (a c. di), Pausania. Guida della Grecia V, Milano 1995, LVI–LVII. 4. Sala da simposio: J. Travlos, Bildlexikon zur Topographie des antiken Athen, Tübingen 1971, p. 536 n. 674. 5. Satiri: Th.H. Carpenter, Dionysian Imagery in Archaic Greek Art, Oxford 1986, tav. 20 A (Würzburg 265 6. Teatro di Dioniso: J. Travlos, Bildlexikon zur Topographie des antiken Athen, Tübingen 1971, p. 540. 7. Teatro di Epidauro: A. von Gerkan – W. Müller–Wiener, Das Theater von Epidauros, Stuttgart 1961, Tafel 12. 8. Pubblico a teatro: Atene, Museo Nazionale n. 15499, riprodotto in P. Ghiron–Bistage, Recherches sur les acteurs dans la Grèce antique, Paris 1976, p. 199, fig. 64. 9. Coro di animali: G.M. Sifakis, Parabasis and Animal Choruses, London 1971, tav. 1 10. Scena di cordax: L.B. Lawler, The Dance in Ancient Greece, London 1964, p. 87 fig. 34. 11. Demostene di Copenhagen: I.N. 2782; F. Poulsen, Catalogue of Ancient Sculpture in the Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen 1951, p. 309 s., n. 436a.
Tipologia del non autentico nel mondo antico Perché, parlando del non autentico in letteratura, è opportuno, se non proprio necessario, cominciare dal mondo greco? In fondo, il falso è fiorito anche nell’antico Oriente, in Egitto e nel mondo ebraico prima che in Grecia, e, dopo il mondo greco–romano, è stato praticato nella cultura cristiana1 e nel mondo moderno. La vera ragione sta, secondo me, nel fatto che i greci furono i primi ad attrezzarsi in grande stile per quella reazione al falso che è la critica filologica: com’è noto, la filologia alessandrina2 nell’epoca ellenistica (III–I sec. a. C.) mise a punto un ricco strumentario filologico per lo studio dei testi e si fornì anche di una serie di segni diacritici che accompagnavano le loro edizioni. Ma di una vera e propria critica autenticistica si può parlare fin dal momento, fra VII e VI sec. a. C., in cui in Grecia nacque qualcosa che somiglia al concetto di proprietà dell’ingegno3, e quindi molto prima della articolata filologia alessandrina. Va registrato, tra parentesi, che manca una raccolta della critica autenticistica antica4. Non mi sembra inutile fermare l’attenzione sulle diverse manifestazioni del non autentico in letteratura prendendo spunto dalle categorie in uso presso gli antichi: si tratta di una tipologia molto varia e sfumata, che tocca anche il confine della produzione letteraria autentica. In questi incontri si parlerà di plagio, che è opera altrui (per lo più già pubblicata) fatta passare per propria. Ma c’è anche il falso, che è opera propria fatta passare per altrui, e che è di gran lunga il tipo più frequente nel mondo antico. E sarebbe qui interessante specificare i diversi mezzi e i diversi scopi con cui e per cui si produssero (e si producono) i falsi. I mezzi – è chiaro – si affinano con l’affinarsi di quella che oggi chiamiamo sensibilità filologica5; e gli scopi possono essere i più vari, da quello religioso, a quello politico, a quello dottrinale (come presso i filosofi), a quello puramente letterario, nato da ambizione virtuosistica o magari da desiderio di lucro (frequente nel commercio librario dal IV sec. a. C. in poi). Quanto allo scopo politi-
|| [Relazione (maggio 1996) tenuta presso il Dipartimento di italianistica e spettacolo dell’Università di Roma “La Sapienza”; pubblicata in R. Gigliucci (ed.), Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, «Studi (e testi) italiani» 1, 1998, Roma, Bulzoni Editore, 1998, pp. 15–18] 1 Sui vari periodi storici buona informazione in SPEYER 1971. 2 L’opera classica di riferimento è PFEIFFER. 3 SPEYER 1971, 307 ss. 4 SPEYER 1971, 111 e n. 3. 5 Utili materiali e osservazioni in GRAFTON. https://doi.org/10.1515/9783110648140-004
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co, è interessante seguire le vie per cui si arriva a quella che in un libro recente viene chiamata l’invenzione della tradizione6: vi ho imparato che le “millenarie” tradizioni della monarchia britannica risalgono alle volte solo ai tempi della Regina Vittoria. Un errore di metodo storico che va denunciato è il voler vedere il non autentico come un cancro da eliminare, mentre è solo un fenomeno da capire storicamente. Forse la condanna, a lungo praticata, è derivata da una valutazione etica negativa del falso. Le “invenzioni” hanno sempre un loro significato, che va capito nella funzione che hanno al momento in cui vengono create e che poi conservano o modificano: non ha senso eliminarle come false, perché fanno parte anch’esse della storia. La biografia antica, per esempio, è piena di notizie inventate. Ma inventate quando e perché? Ecco un esempio famoso. È ben noto che i tre grandi tragici (Eschilo, Sofocle, Euripide) sono stati consacrati molto presto in una triade canonica, e presto significa già nel V secolo, se la triade è già operante nelle Rane di Aristofane (405 a. C., alla morte di Sofocle e di Euripide). La biografia antica li unì con un sincronismo artificiale: nel giorno della battaglia di Salamina contro i Persiani (480 a. C.) Eschilo avrebbe combattuto, Sofocle diciassettenne avrebbe cantato il peana di ringraziamento ad Apollo per la vittoria e Euripide sarebbe addirittura nato (quel giorno stesso!). Che cosa significa questo? Che Atene voleva celebrare la sua azione protagonistica contro i Persiani unendo simbolicamente la sconfitta dei nemici con i suoi tre grandi figli: un importante episodio di propaganda nazionalistica. La condannabile condanna del non autentico è già peccato della filologia alessandrina, che, come ho detto, si fece un dovere di praticare intensamente la critica autenticistica. Ora, la critica autenticistica è molto importante, perché diversa è la valutazione che va data all’autentico e al non autentico. Ma sembra che la filologia alessandrina abbia negato le sue cure a tre importanti corpora non riconducibili ad un autore unico, e cioè alla raccolta degli Inni omerici, al corpus teognideo (che contiene molto materiale non di Teognide) e alla raccolta dei Carmina convivalia (quasi tutti anonimi): gli Inni omerici venivano giustamente sottratti all’epos arcaico perché più recenti, ma erano una raccolta di proemi destinati ad aprire le recitazioni dell’epos; gli altri due erano due diverse forme di raccolta di canti destinati al simposio. Insomma: il non autentico deve entrare nella storia così come ci entra l’autentico. Questa conquista, che chiamerei “ideologica”, è abbastanza recente nei nostri studi e non so quanto sia affermata negli studi sulle letterature moderne.
|| 6 HOBSBAWM–RANGER.
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Ho nominato più su una parola magica, “tradizione”. È questa parola che ci porta a configurare una tabella tipologica molto varia e sfumata, come dicevo prima. Provo a elencare alcuni termini non certo con l’intenzione di definirli, il che comporterebbe un discorso grande come il discorso stesso sulla letteratura, ma solo per proporli all’attenzione con lo scopo di intravvedere un confine, pur vago, che segni il rapporto creativo con la tradizione e il grado dell’originalità letteraria: mentre il falso ci condurrebbe a valutazioni molto divergenti a seconda dei casi, il plagio (comunemente chiamato furto dagli antichi) rappresenterebbe invece il grado zero dell’originalità, essendo una riscrittura ovvero un riuso integrale, furtivo perché senza mediazioni. Trattandosi di contatti tra testi, il nesso che si stabilisce è l’intertestualità7. La teoria antica si è molto servita di concetti come quello di imitazione (gr. mímesis, lat. imitatio) e competizione o emulazione8 (gr. zêlos, lat. aemulatio), procedimenti che attivano il rapporto con la tradizione (generi letterari, lingua poetica etc.: spazio metaforico, insomma). Si possono specificare alcuni dei modi, e qui soccorrono termini come citazione (in qualche modo plagio più o meno esplicitamente dichiarato), allusione, parodia, satira etc. Parafrasi, traduzione, centone possono essere visti come in scala discendente di originalità letteraria, che non arriva però al grado zero: anche ai centonari va riconosciuta una loro originalità nella selezione delle “citazioni”, e propongo di definirli “i facchini dell’intertestualità”. Suggerisco altri termini che possono provocare utili reazioni tassonomiche: anonimo, pseudonimo, ortonimo, a cui corrispondono anepigrafo, apocrifo o pseudepigrafo, ortoepigrafo9. Certamente è molto quello che resta fuori da questa mia disordinata lista. Si potrebbe continuare con concetti, molto ampi e in parte discussi, come influenza e fortuna. In tema di plagio e di tradizione, non posso fare a meno di concludere con una splendida battuta per la quale non mi è riuscito di risalire alla paternità e che comunico quindi come anepigrafa, avendo solo buona ragione di credere che risalga ad ambiente iberico (l’ho trovata citata in spagnolo). Mi è sembrata particolarmente adatta a creare un utile cortocircuito mentale: Todo lo que no es tradiciòn es plàgio[*]. Provo a dare la mia esegesi, che non considero certo l’unica possibile, ed è questo il pregio del bon mot di qualità. Il linguaggio letterario,
|| 7 Per un bilancio e per prospettive v. i vari contributi offerti in Intertestualità (convegno cagliaritano del 1994). 8 Le letterature antiche, specie quella greca, vedono la produzione letteraria, in modo molto esplicito, come una gara, un agone con il patrimonio della tradizione. 9 SPEYER 1971, 111. [* Vd. n. 1 a p. 541 di questo volume. – G. C.]
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che vive della e nella tradizione e che opera quindi al livello della connotazione, sarebbe l’unico ad essere creativo e quindi originale; la lingua usuale della comunicazione, che opera al livello della denotazione, non avrebbe nulla di creativo e sarebbe quindi plagio: insomma, tutto quello che non è originale (tradizionale) è plagio. Ma questa era solo una divagazione. [P.S. – Quello che mi ha colpito, ascoltando alcune delle relazioni, è lo statuto, in sé molto vario, della compilazione. Il mondo antico, man mano che si avanza verso le epoche più tarde, vede un continuo espandersi di tale pratica, che si realizza in generi vari, come per es. quello del manuale].
Bibliografia selettiva La philologie grecque à l’époque hellénistique et romaine. A c. di Franco Montanari, «Entretiens sur l’Antiquité classique», Fondation Hardt, 40, Vandoeuvres–Genève 1994 [vari contributi di problematica aggiornata sulla filologia praticata dai greci] BICKERMAN, E. J., Faux littéraires dans l’antiquité classique. En marge d’un livre récent [su Speyer, qui sotto], «Riv. di filol.» 101, 1973, 22–41] GRAFTON, A., Falsari e critici. Creatività e finzione nella tradizione letteraria occidentale, Torino 1996 (Forgers and critics. Creativity and Duplicity in Western Scholarship, Princeton 1990) [di seconda e terza mano, seppur vivace; insiste, giustamente, sulle tecniche del falso; ma ingenuo e inesatto, per es., equiparare Wolf e Niebuhr, cap. III, nella critica autenticistica; e ancora più inesatto e frivolo fare il paragone fra Porfirio, I. Casaubonus e R. Reitzenstein, ibid.] HOBSBAWM, E. J. – RANGER, T. (a cura di), L’invenzione della tradizione, Torino 1987 (The Invention of Tradition, Cambridge 1983) [importante per le tradizioni politiche nazionali] Intertestualità: il dialogo fra testi nelle letterature classiche. Atti del Conv. intern., Cagliari 24– 26 nov. 1994, «Lexis» 13, 1995 OGDEN, D., Greek Bastardy in the Classical and Hellenistic Periods, Oxford 1996 [utile per analogie terminologiche, come gnésios “autentico” e nóthos “bastardo, non autentico”; ma non s’interessa di letteratura] PFEIFFER, R., Storia della filologia classica. Dalle origini alla fine dell’età ellenistica, Napoli 1973 (History of Classical Scholarship. From the Beginnings to the End of the Hellenistic Age, Oxfords 1968) SPEYER, W., Fälschung, literarische, in: «RAC» 7, 1969, 236–77 SPEYER, W., Die literarische Fälschung im heidnischen und christlichen Altertum. Ein Versuch ihrer Deutung, München 1971 STEMPLINGER, ED., Das Plagiat in der griechischen Literatur, Leipzig–Berlin, 1912 [Ziegler 1997: das massgebende Buch; nicht immer zuverlässig in den Zitaten] ZIEGLER, K., Plagiat, RE 20.2 (1950), coll. 1956–1997
L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi Premessa Offro qui non il risultato di una ricerca compiuta, bensì un progetto, pur nettamente delineato, al quale penso da molto tempo e per il quale ho sparso molti accenni nei miei lavori a stampa, che mi scuso fin da ora di dover citare più di una volta. Mi pare, questo di Pisa, il luogo adatto per una prestazione del genere e spero che in discussioni collettive e private mi vengano contributi e anche critiche che eventualmente mi portino a ripensare il tutto. A me è sembrato che il tema dell’unità dell’opera letteraria rientrasse bene nella cornice della nostra grande ricerca1. Vorrei impostare il discorso su una categoria importante di ogni estetica letteraria, e cioè sul p r o b l e m a d e l l ’ u n i t à d e l l ’ o p e r a l e t t e r a r i a n e l l a t e o r i a , perché ne hanno parlato poco, anzi pochissimo gli antichi e quasi per niente i moderni, mentre la critica filologica e letteraria militante fa oggi uso costante di questa categoria dell’unità nel trattare i testi come si configurano nella p r a s s i . Come sempre in fatto di metaletteratura, occorre tener distinta la teoria dalla prassi: e cercherò di attenermi a questo principio, che applicai con qualche successo ormai molti anni fa parlando dei generi letterari2. So bene di trovarmi fra amici che in parte dissentono da me nella valutazione di alcuni casi di prassi, e mi riferisco soprattutto a Omero e a Esiodo3, dove francamente non riesco a vedere unità. Ben lontano dal credermi nel vero, spero di essere prudente nelle mie formulazioni e conto di essere pronto a recepire le loro critiche: tanto più che, fra i presenti, non ci sono unitari ingenui, bensì unitari molto ragionevoli e, dal mio punto di vista, spero che siano almeno interiormente combattuti.
|| [Relazione di convegno (Pisa L 7.6.1999 h. 15), pubblicata in G. Arrighetti (ed.), Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica. Atti del Convegno Pisa, 7–9 giugno 1999, con la collaborazione di M. Tulli, Pisa, Giardini Editori, 2000, pp. 17–29] 1 E questo è sembrato, anche troppo, anche all’organizzatore del nostro Convegno, Graziano Arrighetti, che mi ha dato l’imbarazzante onore di aprire i lavori. Lo ringrazio di cuore. 2 ROSSI, Generi, 69–94 (= 47–84). 3 ROSSI, Poemi, 73–147, ROSSI, Epica, 29–43, ROSSI, Esiodo, 7–22, ROSSI, Ciclo. https://doi.org/10.1515/9783110648140-005
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Teoria estetica e prassi letteraria Specifico quanto ho appena detto sulla scarsa attenzione data alla categoria dell’unità quando si parla non di prassi letteraria, bensì di teoria estetica antica. Prendo spunto dal libro recente di Carchia4, dove trovo trattati tutti i grandi argomenti che ogni studioso incontra nel suo percorso di lettore dei testi antichi, meno quello dell’unità: arte vs natura ovvero τέχνη e φύσις, mimesi ovvero imitazione, mimesi e ἀπάτη, τέχνη e ispirazione, il bello, le sue varie definizioni e i vari atteggiamenti verso di esso, la catarsi, lo ζῆλος ovvero la aemulatio, ἦθος e πάθος, fino a quell’esperienza singolare che è la trattazione del sublime nello Pseudo–Longino. Gli argomenti che ho elencati non coprono certo l’intera gamma, ma sono davvero molti, e tanto più strana mi appare l’assenza quasi costante di un tema importante come l’unità dell’opera, con la quale ci si scontra sostanzialmente solo quando ci si occupa di qualche opera antica particolarmente problematica che di unità nel senso nostro moderno manca o quasi o del tutto: in altre parole, ci si occupa di unità solo quando ci si imbatte in qualche grave imbarazzo da parte nostra, in qualche suo aspetto che, per noi, risulta negativo nella prassi. Dico ‘per noi’, p e r c h é è r a r o c h e c i s i c h i e da se per caso gli antichi avessero un concetto di unità almeno in parte diverso dal nostro o, in certi periodi, non lo avessero affatto. Questo procedere mi sembra tanto più strano quanto più appariscente è la presenza proprio del problema dell’unità nei primi che, nel mondo moderno, si occuparono seriamente di estetica antica, e cioè in quel fiorire di riflessioni che il Rinascimento dedicò alla Poetica di Aristotele e che culminò nella teoria dell’unità di luogo, di tempo e di azione: dalla prima traduzione latina di Giorgio Valla nel 1498 e dalla prima edizione del testo greco a cura di Aldo Manuzio nel 1508, farò i nomi di Pazzi, Robortelli, Maggi, Vettori, Castelvetro, Piccolomini, tutti racchiusi in alcuni fervidi decenni che, dall’inizio del Cinquecento, non raggiungono il Seicento. Non che questi critici concordassero in toto con l’unità di Aristotele, ma almeno lo presero come punto centrale intorno a cui ruotare. Del resto, il principale, se non il primo5, autore antico che parla di unità è proprio Aristotele nella Poetica, e precisamente nei capitoli VIII e XXIII, dove il concetto viene in argomento, non tanto a proposito dell’opera in sé, quanto piuttosto a proposito dell’azione dei due grandi poemi omerici in confronto con il Ciclo epico: le sue perifrasi sono περὶ ἑνός e μία γίνεται πρᾶξις, ἕνα τὸν μῦθον
|| 4 CARCHIA, Estetica. 5 Su Platone rimando a HEATH, Unity, 12–27.
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εἶναι, περὶ μίαν πρᾶξιν τὴν Ὀδύσσειαν συνέστησεν, ἡ μία μίμησις ἑνός ἐστιν, τὰ μέρη συνεστάναι τῶν πραγμάτων οὕτως ὥστε …, περὶ μίαν πρᾶξιν ὅλην καὶ τελείαν etc. L’uso di parole come πρᾶξις e πράγματα fa chiaro che Aristotele parla qui di quello che la teoria letteraria chiama fabula, e cioè il corso delle azioni, indipendentemente dal modo in cui sono arrangiate dal discorso letterario. Per di più in Aristolele troviamo solo perifrasi, perché, riflettendo, ho avuto una grande sorpresa, alla quale non vorrei dare più peso di quanto ne debba avere, ma che mi pare pur sempre notevole: i n g r e c o s e m b r a a d d i rittura mancare una parola per ‘unità’ che esprima un c o n c e t t o c h e a n o i è c o s ì f a m i l i a r e . Se cerchiamo nei lessici, troviamo termini come ἕνωσις (che esprime solo il processo di unificazione), e poi μόνος, τὸ ἀδιαίρετον etc., tutte parole che non c’entrano affatto, alcune delle quali sono per di più tarde. Sappiamo bene che la mancanza di un termine non significa di per sé la mancanza di un concetto, e quindi non voglio premere sull’argomento, ma non si potrà negare che per i Greci, specialisti in termini astratti tanto da mettere in difficoltà i poveri Romani e la da loro riconosciuta patrii sermonis egestas (basta pensare alle loro faticose endiadi!), è tutto sommato significativo che non abbiano mai sentito il bisogno di designare con un termine preciso il concetto d’unità letteraria. Ma di teoria parleremo fra poco: conviene ora, prima di tutto, fare almeno qualche accenno alla prassi.
La prassi letteraria Cominciamo dall’epica arcaica, per la quale è necessario chiarire in anticipo di che cosa si intenda parlare: se delle forme originarie della composizione orale in periodo pre–scrittorio, se del prodotto finale che ci sta di fronte nella forma dei due poemi maggiori, se infine di qualche tappa intermedia e, nel caso sia possibile specificarla, di quale6. Se la maggioranza degli omeristi non possono oggigiorno fare a meno di accettare una fase orale, devono trarne le conseguenze, se non vogliono praticare quello che gli inglesi chiamano lip service. Chi ha redatto i due poemi nella forma in cui li abbiamo – siano essi uno o piuttosto più d’uno, || 6 Sull’importanza di questa precisazione – di solito omessa, tanto da creare tanti equivoci – come preventiva a ogni discorso sull’epos ho richiamato l’attenzione in un contributo a un dibattito promosso da “Symbolae Osloenses” di prossima pubblicazione [On the Written Redaction of Archaic Greek Poetry, in SO Debate. Dividing Homer: When and How were the Iliad and the Odyssey Divided into Songs? (continued), «SO» 76, 2001, pp. 103–112]; ibid. alcune proposte esegetiche offerte in sintesi qui di seguito.
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com’è più che verosimile – si è trovato a mettere insieme non solo nessi linguistici (le formule), ma anche blocchi narrativi (dove alle formule corrispondono le ‘scene tipiche’), adattando il tutto in modo da formare due poemi, e cioè due libri, che non potevano rispondere, come in effetti non rispondono, ad esigenze attuali di totale unità, pur tradendo una certa volontà unificatrice: ce lo testimonia nel mondo degli studi il secolare dibattito fra corrente analitica e corrente unitaria, dove a me pare oggi che si debbano riconoscere gli indubbi meriti di ambedue le parti là dove l’una e l’altra puntano il dito sia su incoerenze sia su coerenze. Guardiamo al punto di partenza, che è la prassi epica orale arcaica. La parola più importante per la poetica dell’epos originario compare a mio parere nel proemio dell’Odissea: Od. I 10 τῶν ἁ μ ό θ ε ν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν. racconta queste cose anche a noi, o Musa, cominciando d a u n p u n t o q u a l u n q u e 7.
L’epos era un ‘ciclo’– e qui ci soccorre la definizione antica – e se ne estraeva un episodio fra i tanti, essendo importante definire da dove si cominciava a raccontare: Od. VIII 500 ἔ ν θ ε ν ἑ λ ὼ ν ὡς οἱ μὲν ἐυσσέλμων ἐπὶ νηῶν βάντες ἀπέπλειον …, cominciando [scil. Demodoco] d a l p u n t o i n c u i sulle navi salparono …
Odisseo introduce così il racconto delle sue traversie: Od. IX 14 τί πρῶτόν τοι ἔπειτα, τί δ᾽ ὑστάτιον καταλέξω;8 quale cosa dirò per prima, quale per ultima?
Mi pare, alla luce di queste testimonianze interne all’epos stesso, che si possa capir meglio che cosa significa il καὶ di Od. I 10, del quale mi sembra che i commentatori non si siano occupati gran che. A chi si contrappone il ‘noi’? Non certo agli dèi, bensì certamente a mortali ‘altri da noi’, e chi saranno questi se non coloro che hanno sentito queste storie ieri e altrove? ‘Cantale, o Musa, an|| 7 È strano come recenti ottimi traduttori abbiano frainteso ἁμόθεν. 8 Cfr. Il. V 703, XI 299, XVI 692 per la lista di guerrieri uccisi: ἔνθα τίνα πρῶτον, τίνα δ᾽ ὕστατον ἐξενάριξαν; (–ξεν, –ξας).
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che a noi, qui oggi, dopo che le hai cantate a tanti altri in passato e in altri luoghi’. Questo conferma la diffusione geografica, l’ecumenicità dell’epos e il legame di questa occasione con l’hic et nunc. In altre parole, ogni racconto, ogni episodio, con le sue eventuali novità (Od. I 351–352 τὴν γὰρ ἀοιδὴν μᾶλλον ἐπικλείουσ᾽ ἄνθρωποι / ἥ τις ἀκουόντεσσι ν ε ω τ ά τ η ἀμφιπέληται), era destinato a un’occasione precisa, al di fuori di una struttura narrativa unitaria di largo respiro. È in questa luce che vanno visti anche i due proemi, che erano all’origine i proemi di una recitazione singola, e non di un poema unitario: solo a un certo momento furono scelti fra i tanti come incipit dei due poemi, prova ne siano i proemi alternativi conservati per l’Iliade9. È stato messo efficacemente in luce10 che, se fossero stati destinati a introdurre i due poemi nella loro forma monumentale, quello dell’Iliade sarebbe stato più chiaro e quello dell’Odissea non avrebbe messo l’accento sul solo episodio dei buoi del sole. Del resto, che cosa altro è il corpus degli Inni omerici se non un prontuario di proemi per singole recitazioni? Ben diversi sono i proemi di due poemi concepiti unitariamente come le Argonautiche e l’Eneide: sono stati destinati a introdurre quelle due determinate opere letterarie e svolgono la loro funzione con precisione e chiarezza. La fungibilità dei proemi è simile alla fungibilità di quelle che ho chiamato ‘sezioni alternative’ nelle Opere e i giorni di Esiodo11: la presenza di due inverni, di due navigazioni e di altri palesi doppioni mi ha fatto pensare alla giustapposizione, operata da un redattore, di sezioni di eguale argomento e di forma diversa destinate a diverse recitazioni, il che ha portato anche quel poema a raggiungere un grado di unità certo molto al di sotto delle nostre esigenze unitarie odierne. Un grado maggiore di unità è quello riscontrabile nella lirica, dovuto anche alla relativa brevità delle composizioni. Ma anche qui c’è qualcosa che, per le nostre esigenze, non quadra. Per gli epinici di Pindaro, per esempio, è tradizionale, e giusta, l’individuazione di tre elementi costitutivi – l’occasione, il mito e la gnome –, per i quali si cerca, e spesso si trova, una connessione interna al testo dell’ode (un mito legato alla personalità del celebrato, una gnome adegua-
|| 9 ROSSI, Esiodo, 16–19 (vd. MONTANARI, Studi, 43–56). 10 Trovo questa osservazione in RENEHAN, Heldentod, 99–116, spec. 115: è molto spiritoso quando suggerisce quello che il proemio dell’Iliade farebbe pensare a chi avesse di fronte a sé solo quei pochi versi (che cioè un guerriero greco divenne pazzo e combatté con le sue truppe contro i greci stessi). Vd. ROSSI, Esiodo, 17–19. 11 ROSSI, Esiodo.
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ta alla persona e all’occasione e simili). Ma, se prendiamo per esempio la Nemea I, queste esigenze di unità non vengono soddisfatte dal testo dell’ode: l’interrogativo sulla pertinenza, nei confronti del celebrato che è Cromio di Etna, del mito di Eracle che da bambino strozza i serpenti è già degli scoliasti, che brancolano nel buio e che alle volte accusano Pindaro di ἀκαιρία, ovvero di imperizia: a leggere queste elucubrazioni scoliastiche c’è proprio da divertirsi. Ora, il rapporto del mito con Cromio può, anzi deve essere stato extratestuale, e cioè puramente situazionale: a noi il compito di spiegarcelo in un modo qualsiasi (popolarità di quel mito nella famiglia o nell’ambiente di Cromio, per esempio). Evidentemente simili connessioni non era necessario che apparissero esplicitate nel testo, visto che il testo stesso era legato a un’occasione esecutiva nella quale simili rapporti non avevano alcun bisogno di essere dichiarati in qualità di realtà del tutto ovvie. Trovo significativo che, in un lavoro peraltro importante sulla struttura delle odi di Pindaro, quello di Wolfgang Schadewaldt12, proprio la Nemea I non venga neanche nominata13: un palese espediente d’imbarazzo. Non parlerò qui degli anacronismi, delle numerose aporie drammaturgiche e di altri tradimenti dell’unità nelle tragedie attiche: evidentemente gli spettatori non facevano caso a fatti del genere. Per trovare un’unità e una coerenza che corrispondano alle nostre esigenze odierne bisogna arrivare alla letteratura dell’epoca ellenistica e romana. Niente di più naturale, dal momento che la comunicazione letteraria era diventata simile alla nostra: la diffusione del libro come manufatto aveva prodotto l’istituto letterario del liber. Da questo momento in poi è lecito guardare alle opere dal punto di vista unitario che è il nostro. Tutto dipendeva, come si vede, dalla differenza delle condizioni della c o m u n i c a z i o n e , integralmente o r a l e fino a poco prima della metà dell’VIII secolo a.C. e poi o r a l e – a u r a l e 14, differenza che ha prodotto quelle che vorrei chiamare le diverse ‘ c u l t u r e d e l l a p u b b l i c a z i o n e ’ 15. Vediamone retrospettivamente le conseguenze per quanto ha a che fare con l’unità, e qui prendo come punto di riferimento quella che è l ’ u n i t à p e r n o i m o d e r n i . Ebbene, che cos’è l’unità per noi? È – direi – il rispetto di una strategia, di un piano che dimensioni e distribuisca le parti a livello sia narrativo sia logico. Per le letterature antiche ci troviamo di fronte a tre fasi: 1) u n i t à
|| 12 SCHADEWALDT, Aufbau. 13 Di questo e di altri aspetti della filologia di Schadewaldt ho parlato in ROSSI, Schadewaldt. 14 Cfr. ONG, Presence, 7–24. 15 Cfr. ROSSI, Autore.
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a g r a d o z e r o (Omero, Esiodo), conseguenza di oralità integrale originaria nella composizione e di auralità nella pubblicazione, e in seguito conseguenza di una redazione che raccoglie, con diversi gradi di rifinitura, blocchi di materiale già esistente16; 2) u n i t à a g r a d o r i d o t t o (la lirica e il dramma), conseguenza della diffusione sì della scrittura, ma anche della persistente auralità della pubblicazione e, in più, di esigenze spettacolari, come si deve dire sia nel caso della lirica corale, sia nel caso del dramma17; e infine 3) u n i t à a g r a d o p i e n o , finalmente la nostra, ed ecco la cultura alessandrina con la diffusione del libro e con quella conseguente istituzione letteraria che è il liber poetico (Callimaco, Catullo, per intenderci). Mi sento di poter concludere che l’unità dell’opera è vista in modo molto diverso dagli antichi fino all’ellenismo in confronto con noi moderni e che quindi è un grande pericolo misurare l’unità di un’opera arcaica e classica secondo criteri che hanno cominciato ad avere corso solo molto più tardi e che oggi sono i nostri.
La teoria applicata, ovvero la critica letteraria Passerò ora a considerare la teoria applicata alle opere di letteratura, e cioè alla critica letteraria vera e propria, e dirò che è precisamente questo il campo nel quale intenderei svolgere la ricerca. È chiaro che qui più che altrove è forte il bisogno di confrontare le valutazioni degli antichi con le nostre, sia per aderire sia per differenziarsi. Ma altrettanto chiaro è che qui meno che altrove si debba soggiacere alla tentazione di considerare gli antichi critici come delle autorità difficilmente discutibili. Le loro formulazioni sono spesso espressione di posizioni che sono frutto di culture assai diverse dalla nostra, ma anche da quella dell’opera da loro considerata: il nostro compito è, piuttosto, quello di capire sempre meglio l’oggetto della critica, e cioè l’opera, e poi di trattarla con gli strumenti nostri, utilizzati con attenzione alle condizioni in cui e alle funzioni per cui l’opera è stata prodotta18.
|| 16 Cfr. ROSSI, Esiodo, 7–22. 17 Cfr. ROSSI, Spettacolo, spec. 763–765, 776–777. 18 Vorrei spezzare una lancia contro una tournure critica moderna che dovrebbe ormai aver fatto il suo tempo: è il credere che si possa trovare indiscriminatamente conferma di una nostra esegesi nella scoliastica antica (‘anche lo scolio dice che …’). Penso che il materiale critico antico vada vagliato attentamente con spirito critico, perfino quando si tratti di evidenza testuale. Quali garanzie ci dà un critico antico lontano qualche secolo dall’opera trattata? È il problema, ben noto agli storici ma meno ai filologi, della valutazione delle fonti.
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Per l’offerta di materiali, che vengono provvidamente aperti alle mie vie esegetiche, giuste o sbagliate che siano, mi è stato e mi sarà molto utile un libro recente di Malcolm Heath19. Questo libro è benvenuto come una delle poche voci che si propongono il problema dell’unità dell’opera come centrale per ogni poetica e per ogni critica letteraria20: indovinate sono le definizioni di critica ‘centrifuga’ (e quindi antiunitaristica), comune presso gli antichi, e di critica ‘centripeta’ (e quindi unitaristica), comune presso i moderni. A me sembrano solo discutibili alcune impostazioni, come sono chiaramente formulate nella sua introduzione21, nella quale, confrontandosi con le aporie unitarie della prassi degli antichi, individua tre vie (lo fa in riferimento alla tragedia): 1) concludere che i tragediografi greci non erano molto bravi (e giustamente la scarta22); 2) cercare di adeguare le tragedie a criteri moderni, per cui, per salvarle, servirebbero concetti alle volte quanto mai tortuosi come ‘elementi centripeti’ vs ‘elementi centrifughi’, ‘fuoco mobile’ etc. (e sono quegli espedienti a cui siamo abituati da molta critica moderna, e che comunemente sembrano necessari per salvare i tragediografi dall’accusa di cui al n. 1); 3) ammettere che gli antichi avevano una loro idea di come le tragedie dovessero esser costruite (ed è a mio parere l’unico itinerario viabile). È questa terza via quella che Heath si propone, e giustamente, ma perché allora rinuncia a darsene di volta in volta una ragione attraverso una contestualizzazione storica23? È un peccato che, giudicando di letteratura, sembri dimenticare che la letteratura è un fatto di comunicazione – come si diceva qui sopra – e che i modi della comunicazione fra epos originario e lirica/dramma erano cambiati almeno una volta e che fra epos originario ed epoca ellenistica erano cambiati almeno due volte. Sulle strategie della comunicazione ho cercato di impostare tutta la mia Letteratura greca24: credo che sia l’unico modo di rendersi || 19 HEATH, Unity. 20 Niente sull’argomento in un’opera ambiziosa, e ancor più recente, come Too, Idea, che si propone un orizzonte socio–politico ed etico (in sé ormai meno nuovo di quanto l’autore affermi), senza alcuna considerazione della sfera cosiddetta formale (e questa è la, discutibile, novità del libro), sfera peraltro così frequentemente visitata dagli antichi. 21 HEATH, Unity, 5–11. 22 Ma perché precluderci la via d’uscita di riconoscere che alcune tragedie, dopo tutto, sono meno riuscite di altre? Il pregiudizio umanistico non dovrebbe arrivare fino al punto di vietarci il giudizio assiologico, una volta chiarite le differenze degli antichi da noi. 23 Uno di quei piccoli particolari, di quei tic che denunciano un originario difetto di orientamento: HEATH, Unity, 9, parla di «audiences and readers», dove i lettori – che siamo noi da Aristotele in poi – sarebbe stato meglio lasciarli da parte, visto che quando la tragedia si legge (e cioè da Aristotele in poi) si è lontani e dalla sua produzione e dalla sua originaria ricezione. 24 ROSSI, Letteratura.
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conto di quanto, altrimenti, rischia di non quadrare. Non basta quindi – come Heath giustamente fa25 – liberare i singoli testi antichi da incrostazioni moderne, dalla nostra ‘colonizzazione’, ma bisogna farlo anche da quelle incrostazioni che di volta in volta presso gli antichi stessi risultavano moderne rispetto ai testi stessi. Posso dare un’idea del materiale che mi troverò a selezionare. Sono termini come μέρος (κατὰ μέρος), τάξις, οἰκεῖος, κόσμος, πρέπων (ἀπρεπής), καιρός (εὔκαιρος, ἄκαιρος), ἔργον, σύστασις, διάθεσις etc. Le parole d’ordine più frequenti in commentatori e scoliasti sono ἐπεισόδιον e ποικιλία–ποικίλλειν–ποικίλος, in grazia delle quali (come manifestazione di varietà per evitare il κόρος) vengono giustificate digressioni, similitudini etc., che comprometterebbero vari livelli di esigenza di unità (e richiamo ancora termini come ἀναπαύειν e ἀνάπαυσις). Ma a questo proposito è necessario rinnovare l’avvertimento di metodo fatto poco fa: la maggioranza delle voci di critica letteraria ci viene dalla l e t t e r a t u r a s c o l i a s t i c a , che è tarda e che, in quanto fiorita dall’epoca ellenistica in poi, è tutta compresa in una cultura del libro. Il pericolo sta nel prendere per oro colato quanto dice uno scolio omerico e nel non fare la necessaria distinzione fra l’estetica dell’epos originario e quella dello scoliasta. Lo stesso va detto per quanto riguarda la tragedia, che ha sofferto i suoi fraintendimenti fin da Aristotele, come dirò meglio qui oltre (Prospettive della ricerca). Una lettura a tappeto della letteratura scoliastica non è impresa da poco, e richiederebbe da una parte l’impegno di più d’una persona e dall’altra la distinzione di genere da genere26. Qui, per ora, mi fermo, sperando di aver dato un’idea di come intendo cominciare e cercherò ora, in conclusione, di precisare meglio le mie concrete prospettive di ricerca ulteriore.
Prospettive della ricerca Ho detto fin dall’inizio che questa mia è una ricerca solo impostata ed è opportuno che esponga brevemente come e soprattutto p e r c h é e c o n q u a l e s c o p o intendo continuarla: il perché e lo scopo stanno nel volermi dare una ragione delle formulazioni degli antichi, spesso lontani nel tempo e nel gusto
|| 25 HEATH, Unity, spec. 137–149, dove offre utilmente un veloce panorama della critica moderna. 26 Segnalo la tesi, attualmente ancora in fattura, di Eleonora Mazzotti, che sta facendo la ricerca negli scoli a Pindaro. Mi propongo di assegnarne di simili prossimamente.
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dalle opere che giudicano, e nel non volermi fermare al quia, come in sostanza fa Heath. Faccio un esempio, anzi due, sfruttando quanto di bene e quanto di male ci viene dall’opera di Aristotele. È noto a noi tutti quanto male abbia fatto Aristotele agli studi sulla filosofia antica: i Presocratici e anche Platone escono male dal quadro storico che ci offre, e c’è voluto e ci vuole ancora una buona quantità di lavoro di restauro per vedere le cose nella giusta luce storica. Anche il secondo esempio viene da lui, e precisamente dalla Poetica: immaginiamo per un momento di non avere nulla della tragedia attica e di avere solo quanto ce ne dice Aristotele. Che idea ne avremmo? Avremmo l’idea di uno spettacolo terapeutico di gruppo organizzato dallo stato, nel quale in fondo la scena e lo spettacolo stesso non contavano tanto quanto le nude parole, mentre sappiamo bene quanto era necessario e curato l’aspetto scenico e perfino scenografico, per esempio in Eschilo27, e non ci costa gran che renderci conto che la stessa catarsi, fuori del teatro e senza la forte empatia creata dall’atmosfera della cavea sarebbe stata assai meno efficace. Avremmo l’idea di uno spettacolo in cui erano presentate v i o l e n t e p a s s i o n i p s i c o l o g i c h e , che non erano necessariamente legate alle passioni politiche della città, mentre sappiamo bene che la p r o p a g a n d a p o l i t i c a era l’ingrediente forse più necessario perché in realtà onnipresente. Avremmo da Aristotele l’idea di un Edipo Re che piacque infinitamente agli Ateniesi, mentre sappiamo bene che ebbe solo il secondo premio rispetto a un tal Filocle a noi ignoto, e non è male cercare di darcene una ragione: e v i d e n t e m e n t e q u e l l e q u a l i t à d i u n i t à e d i c o m pattezza, che ad Aristotele piacevano tanto e che piacciono tanto anche a noi, non erano qualità tali da dare il primato da parte di un pubblico che era abituato, nel proprio teatro, a ingoiare e a farsi piacere le p i ù a u d a c i i n c o n g r u e n z e (pensiamo al libro di Tycho von Wilamowitz28). Potremmo continuare, ma cerchiamo di non far troppi torti ad Aristotele e giustifichiamo storicamente anche lui ricordandoci che insegnava quelle cose quasi un secolo dopo l’akmé del dramma attico, che il dramma attico aveva finito la sua vitalità e che quindi lui poteva sentirsene fuori, pur non rendendosene conto. E adesso mi chiedo: quanto a distanza cronologica e culturale dalla tragedia degli Ateniesi, quella del teatro di Dioniso, che cosa dobbiamo pensare
|| 27 Su Aristotele e la ὄψις vd. da ultimo BONANNO, Ὄψις, 251–278. 28 WILAMOWITZ–MOELLENDORFF, Technik. Anche HEATH, Unity, 1–11, nell’introduzione si pone il problema – e rimanda a un suo lavoro sulle Supplici di Euripide e sulle incongruenze di quel dramma –, ma non si pone il problema di darsene una ragione concreta.
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di tutto quel materiale – la parte di gran lunga maggiore – che ci viene dai commentatori e dagli scoliasti alessandrini? Sono ulteriormente recenziori rispetto ad Aristotele. Ecco: per essere sintetico, dirò che una ricerca che io vedo possibile e utile sarebbe quella di r a c c o g l i e r e l e f o r m u l a z i o n i d e i G r e c i r e l a t i v e a l l ’ u n i t à d e l l ’ o p e r a l e t t e r a r i a – e per questo ripeto quanto mi è utile il libro di Heath – e d i r a p p o r t a r l e a l l e o p e r e p r e s e i n e s a m e e a l l e l o r o e p o c h e – ed è qui che il libro di Heath mi lascia insoddisfatto. Vorrei riprendere una mia vecchia formula29, che ha avuto anche troppa fortuna, ma integrandola: leggi non scritte e rispettate (cioè la prassi) e leggi scritte e, al loro tempo, credute non rispettate perché fraintese. E fraintese per quale ragione? Perché si riferivano a opere troppo più antiche rispetto alla teoria che le prendeva in esame, senza che si tenesse conto del realizzarsi di cambiamenti culturali epocali (oralità – auralità – scrittura – libro). Sarebbe un paziente lavoro di raccordo, consapevole di quello che gli anglosassoni chiamano ‘fallacia’, cioè falsa apparenza. È per questo che spero che le poche considerazioni che ho presentate risultino comunque utili anche a chi crede a delle unità alle quali io personalmente non credo. Chiedo a questi ultimi solo un avvicinamento: che vogliano almeno concordare con me nel riconoscere che non ogni unità antica corrisponde al concetto che di unità abbiamo noi moderni, ma anche che non del tutto aderenti alle opere erano gli strumenti di cui facevano uso i filologi e i critici dell’epoca ellenistica, clienti di una cultura del libro che dalle opere considerate era ormai quanto mai lontana. La considerazione della distanza cronologica dalle opere prese in esame dagli antichi mi sembra un criterio che dovrebbe guidare la ricerca, e non solo in senso criticamente negativo, come si diceva sopra. Per essere concreto: se la distanza cronologica e culturale è fattore negativo, bisogna dire anche che la letteratura scoliastica alle opere dell’epoca ellenistica è molto vicina, e cronologicamente e di conseguenza anche dal punto di vista del gusto, alle opere prese in esame: dovrebbero risultarne discrasie molto minori o nulle fra opere e critica30. Altri criteri verranno messi a fuoco nel corso della ricerca.
|| 29 ROSSI, Generi, 69–94 (= 47–84). 30 Un buon esempio di stretta contestualizzazione fra teoria e prassi è RUTHERFORD, Canons, che si propone di studiare il rapporto «between a literature [quella della Seconda Sofistica] and a stylistic theory» (1). Non vedo perché questo metodo non debba venir applicato a tutta la letteratura antica nel rapporto con ogni critica letteraria, variamente distante dalle opere considerate e variamente finalizzata alla letteratura di volta in volta contemporanea.
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Appendice Do qui un semplice elenco degli interventi che in vivace discussione sono seguiti alla mia relazione. Ne sono molto grato agli intervenuti e li segnalo prima di tutto a me stesso e poi ad altri per una continuazione della ricerca. Si tratta di osservazioni che riguardano sia la teoria sia la prassi. Richiami terminologico–lessicali mi sono venuti da varie parti: τὸ ἕν (Franco Montanari), συμφωνία (Massimo Di Marco), il τέλος dell’Odissea individuato in Od. XXIII 296 dai grammatici alessandrini31 (Graziano Arrighetti), Call. fr. 1. 3 Pf. ἓν ἄεισμα διηνεκές (Roberto Pretagostini), ποίησις e ποίημα (Marco Fantuzzi), Hor. a. p. 23 simplex dumtaxat et unum (Alessandro Perutelli). Più d’uno ha fatto accenni alla teoria organicistica come base dell’idea di unità (Graziano Arrighetti, Francesco Donadi, Mauro Tulli). Maria Grazia Bonanno ha richiamato il legame e la complementarità delle tre tragedie nelle triadi rispetto alla autosufficienza delle tragedie singole. Luigi Lehnus ha fatto una domanda che richiederebbe una vasta ricerca comparatistica: «Quando nasce l’unità nel mondo moderno?». Molto può essermi sfuggito, ma spero che la discussione, cominciata a Pisa in praesentia, continui in absentia.
Elenco delle opere citate BONANNO,Ὄψις = M.G. BONANNO, Sull’ὄψις aristotelica: dalla Poetica al Tractatus Coislinianus e ritorno, in L. BELLONI, V. CITTI, L. DE FINIS (ed.), Dalla lirica al teatro: nel ricordo di Mario Untersteiner (1899–1999), Atti del Convegno Internazionale di Studio, Trento–Rovereto, febbraio 1999, Trento 1999, 251–278 CARCHIA, Estetica = G. CARCHIA, L’estetica antica, Bari 1999 HEATH, Unity = M.HEATH, Unity in Greek Poetics, Oxford 1989 MONTANARI, Studi = F. MONTANARI, Studi di filologia omerica I, Pisa 1979 ONG, Presence = W.J. ONG, The Presence of the Word, New Haven 1967, trad. it. Bologna 1970 RENEHAN, Heldentod = R. RENEHAN, The Heldentod in Homer: One Heroic Ideal, «Class. Philol.» 82 (1987), 99–116. ROSSI, Autore = L.E. ROSSI, L’autore e il controllo dei suoi testi nel mondo antico, «SemRom», in stampa[32] ROSSI, Ciclo = L.E. ROSSI, L’epica greca come ciclo aperto ovvero come spirale infinita, in stampa[33]
|| 31 Rimando a ROSSI, Fine, per i termini della questione. [32 Pubblicato, con il titolo L’autore e il controllo del testo nel mondo antico, in «SemRom» 3, 2000, pp. 165–181] [33 Pubblicato, con il titolo L’epica greca arcaica come ciclo aperto ovvero come spirale infinita, come Introduzione di L’epica classica nelle traduzioni di Caro, Dolce, Pindemonte, Monti, Fosco-
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ROSSI, Epica = L.E. ROSSI, L’epica greca fra oralità e scrittura, in Reges et proelia. Orizzonti e atteggiamenti dell’epica antica, Como 1994, 29–43 ROSSI, Esiodo = L.E. ROSSI, Esiodo. Le opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi, in F. MONTANARI, S. PITTALUGA (ed.), Posthomerica I. Tradizioni omeriche dall’antichità al Rinascimento, Genova 1997, 7–22 ROSSI, Fine = L.E. ROSSI, La fine alessandrina dell’Odissea e lo ζῆλος Ὁμηρικός di Apollonio Rodio, «Riv. Filol. Istr. Class.» 96 (1968), 151–163 ROSSI, Generi = L.E. ROSSI, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, «Bull. Inst. Class. St.» 18 (1971), 69–94 (= F. FERRARI, M. FANTUZZI, M.C. MARTINELLI, M.S. MIRTO (ed.), Dizionario della civiltà classica, I, Milano 1993, 47–84) ROSSI, Letteratura = L.E. ROSSI, Letteratura greca, con la collaborazione di R. Nicolai, L.M. Segoloni, E. Tagliaferro, C. Tartaglini, Firenze 1995 ROSSI, Poemi = L.E. ROSSI, I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in R. BIANCHI BANDINELI (ed.), Storia e civiltà dei greci, I 1, Origini e sviluppo della città. Il Medioevo greco, Milano 1978, 73–147 ROSSI, Schadewaldt = L.E. ROSSI, Wolfgang Schadewaldt und die griechische Lyrik, in Wolfgang Schadewaldt und die Gräzistik des 20.Jahrhunderts. Ein wissenschaftshistorisches Colloquium an der Universität Tübingen anläßlich des 100. Geburtstages von Wolfgang Schadewaldt, 19–20.5.2000, in stampa[34] ROSSI, Spettacolo = L.E. ROSSI, Lo spettacolo, in S. SETTIS (ed.), I Greci. Storia, cultura, arte, società, 2 II, Una storia greca. Definizione, Torino 1997, 751–793 RUTHERFORD, Canons = I. RUTHERFORD, Canons of Style in the Antonine Age. Idea–Theory in Its Literary Context, Oxford 1998 SCHADEWALDT, Aufbau = W.SCHADEWALDT, Der Aufbau des pindarischen Epinikions, Halle 1928 TOO, Idea = Y.L. TOO, The Idea of Ancient Literary Criticism, Oxford 1998 WILAMOWITZ–MOELLENDORFF, Technik = T. VON WILAMOWITZ–MOELLENDORFF, Die dramatische Technik des Sophokles, Berlin 1917
|| lo, Leopardi, Pascoli e altri, Scelta e introduzione di Luigi Enrico Rossi, Apparati di Sebastiano Triulzi, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato,2003, pp. III–XIII] [34 Saggio rimasto inedito e pubblicato in questo volume, pp. 302–310.]
L’autore e il controllo del testo nel mondo antico 1 Premessa Se volessi definire una volta di più il compito che è sempre stato sentito come proprio della filologia – e se mi si perdona il farlo con parole mie e povere dopo tanti illustri precedenti – dirò che consiste tradizionalmente nel seguire passo passo in avanti le vicende dei testi, in sostanza la loro fortuna e le immancabili corruzioni che sempre derivano dalla loro diffusione nello spazio e nel tempo. Ho pensato, oggi, di propormi una prospettiva esattamente opposta, e cioè di guardare all’indietro il rapporto del testo con il suo autore. Dirò cose note, ma – ripeto – in prospettiva diversa: se si guarda il testo dal punto di vista dell’autore, si possono mettere meglio a fuoco sia le aspettative dell’autore stesso sia i mezzi con cui cercava di realizzarle. “Quale sorte avrà il mio testo? Con quali mezzi penso di proteggerlo?”. Naturalmente la domanda preventiva doveva essere “A quale pubblico scelgo di rivolgermi?”, e questo è stato un problema abbondantemente affrontato dagli studiosi, specie in questi ultimi tempi, con le opportune precisazioni sulla destinazione e sulla funzione delle varie opere letterarie nelle singole epoche. Ora, il porsi il problema nella direzione opposta presenta il vantaggio di confrontare meglio il rapporto autore/testo con la nostra situazione di oggi, creandoci una diversa prospettiva che permetta di valutare meglio le differenze fra gli antichi mezzi e modi della comunicazione e quelli di oggi: ne viene una serie di precisazioni che ci consentono di delineare meglio gli scenari che è utile proporsi, ovviamente diversi a seconda delle epoche e delle singole situazioni culturali. La storia della tradizione dei testi, invece, la prospettiva che guarda in avanti e che è tradizionalmente propria della filologia, risponde a criteri stabili, con lo svantaggio, però, di non offrire analogie con il mondo moderno, tanto più lunga e complessa è la tradizione dei testi che provengono dal mondo antico rispetto a quella del nostro mondo moderno. Era un po’ di tempo che quest’idea mi perseguitava: quello che mi faceva esitare era la consapevolezza che per un approccio del genere bisognasse essere più storico che filologo. Ed è stata per me benvenuta l’occasione di presentare
|| [Relazione di convegno (vd. n. 1), replicata poi nel seminario romano di Rossi (Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma) Mc 13.10.1999, ore 16–18, e quindi a Chiavari (AICC) Mt 29.2.2000, Siena L 13.3.2000, Mannheim Mc 24.5.2000; pubblicata in versione ampliata e in italiano in «SemRom» 3, 2000, pp. 165–181]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-006
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queste idee a un pubblico molto qualificato1, che ha riservato loro un’accoglienza quanto meno benevola, tanto più gradita perché quello che segue è in larga misura costituito da proposte di lavoro da fare.
2 L’autore e i suoi testi nell’antichità e ai giorni nostri Con “controllo del testo” intendo i modi in cui l’autore è in grado di proteggere il suo testo dal momento in cui lo congeda (il momento della ἔκδοσις2) e in cui il testo stesso comincia a diffondersi nello spazio e nel tempo3. È naturale partire dalla nostra situazione attuale per crearci una griglia e per domandarci quali delle nostre fasi della vicenda editoriale fossero presenti anche per gli antichi e quali no. Naturalmente per il mondo moderno possiamo prendere a modello il momento attuale4, mentre per il mondo antico dobbiamo distinguere vari momenti, che si possono schematicamente identificare così: dalla oralità integrale dell’epos arcaico (fino alla metà circa del sec. VIII a. C.) si passa gradualmente all’uso della scrittura (VII–IV sec.), finché, con prodromi significativi fin dal V sec., con l’età ellenistica (dal III sec. in poi) si passa alla cultura del libro, sempre più simile alla nostra man mano che si passa al mondo romano. In altre parole, vorrei parlare d e l l e d i v e r s e c u l t u r e d e l l a p u b b l i c a z i o n e come ci si presentano, fortemente diverse l’una dall’altra, nei vari periodi del mondo antico. Parlare della pubblicazione è parlare di un fondamentale momento–cerniera del processo della comunicazione.
|| 1 Questo lavoro è stato presentato, in una precedente redazione dal titolo The Poet and the Control of His Texts, all’ XI Congresso della Federazione Internazionale di Studi Classici (FIEC), Kavala 24–30 agosto 1999. Anche questa volta devo molto agli amici del mio seminario romano. – Il frequente rimando a miei lavori antichi e recenti, per il che mi scuso, ha semplicemente la funzione di risparmiarmi ripetizioni di argomentazioni già date. 2 Fondamentale resta sempre van Groningen 1963, anche se la ἔκδοσις in un primo tempo non corrisponde alla nostra pubblicazione ecumenica: è semplicemente un ‘dar fuori’ il testo da copiare a qualcuno che ne fa richiesta (nelle scuole filosofiche, per esempio). 3 Precisazioni sui due assi dello spazio e del tempo sono ancora un desideratum dei nostri studi. Quello che mi è sempre stato chiaro è che non si possono tracciare confini cronologici precisi (quelli cari alla ormai invecchiata Geistesgeschichte) fra una presunta epoca della diffusione nello spazio e quella della diffusione nel tempo (l’oraziano monumentum aere perennius): i due assi coesistono da sempre e c’è solo da vedere, nei singoli momenti, la prevalenza dell’uno o dell’altro. 4 Anche se l’irruzione dell’elettronica nella comunicazione sta gradualmente cambiando la situazione.
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Se oggigiorno io scrivo, per esempio, un romanzo o un libro di poesie o un lavoro scientifico, passo attraverso varie fasi: prima di tutto la composizione, che è ovviamente scritta; poi passo il mio testo allo stampatore; poi correggo le bozze, finché alla fine vedo il libro e il libro arriva ai depositi e alla vetrina di una libreria. Il mio testo è protetto da copyright, in modo che non corro il rischio del plagio, e, se il mio lavoro ha successo, ottengo del danaro dall’editore. Non c’è neanche il pericolo che il mio lavoro diventi apocrifo5: è improbabile che alcuno vi metta il suo nome. Legislazione e giurisprudenza mi offrono una protezione efficace. Non credo di essere troppo audace se affermo che nessuna di queste fasi della griglia delineata qui sopra era presente nel lungo periodo fra gli inizi della letteratura greca e il IV sec. circa: per di più, prima dell’avvento della scrittura la stessa fase della composizione era diversa perché era orale e il testo orale passava di bocca in bocca per tradizione puramente orale. Sarebbe interessante parlare qui dell’epos arcaico, ma molti lo hanno fatto in questi anni e il quadro che se ne è ottenuto è in grande misura condiviso da tutti6. Resto legato alla formula, offerta alcuni anni fa da Svenbro7, della musa epica come “ipostasi del controllo sociale” a causa della grande importanza politica di quei cantari epici. E d’altra parte, per quanto credo che si possa vedere, l’epica arcaica pre– scrittoria8, presentandosi come una specie di grande ‘arcipelago’ di patrimonio narrativo, non poteva dare vera preminenza al singolo cantore–autore: così, pure in presenza di un vero e proprio testo (anche se orale), il singolo autore si può ben dire che non c’era, o meglio non se ne teneva conto come invece avvenne in seguito, ed ecco perchè, avendo come punti di riferimento autore e opera, l’epica arcaica delle origini non entra nel campo d’indagine che mi sono proposto.
|| 5 Sui vari tipi di falso letterario Rossi 2000. 6 Quello su cui si discorda ancora è il rapporto di questa fase con la redazione scritta dei poemi omerici: il ridiffondersi in forze dell’unitarismo (alle volte a mio parere ingenuo) è risultato chiaro dal convegno “Omero 3000 anni dopo” tenutosi a Genova dal 6 all’8 luglio 2000. Sulla necessaria distinzione fra epos delle origini (frammentato per definizione), periodo intermedio (difficilmente precisabile) e organizzazione a libro dei poemi (tendente a un’unità non del tutto raggiunta) vd. Rossi, Written Redaction. 7 Svenbro 1976, cap. 12: La Muse comme représentation du contrôle social. 8 Sul mio modo di vedere i poemi omerici e l’epica arcaica in generale posso rimandare a Rossi 1971a, 1978, 1981, 1992, 1994, Written Redaction, oltre che al capitolo omerico di Rossi 1995.
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3 L’epoca lirica Concentriamoci ora su quella che è d’uso chiamare l’epoca lirica (secc. VII–V), quando autore e testo scritto erano ambedue presenti, ma esclusi erano stampatore, correzione di bozze, editore, libro e libraio. La scrittura era disponibile e quindi era usata9, ma la pubblicazione era ben diversa dalla nostra: il poeta componeva per un’occasione specifica carmi che erano destinati a pubblici sia molto ampi, come quelli delle feste, sia molto ristretti, come quelli del simposio arcaico. Prendiamo come esempio un tipico poeta simposiale, Alceo. Componeva carmi destinati ad essere eseguiti con accompagnamento musicale nei simposi del suo gruppo politico e, dopo la prima esecuzione, potevano, come di consueto avveniva, essere eseguiti di nuovo molte altre volte in occasioni simili, ma non esisteva alcuna autorità ufficiale per proteggerli, così che alcuni sicuramente andarono perduti, alcuni vennero conservati a causa dell’interesse che avevano per qualcuno e finalmente quelli conservati, attraverso le cure collezionistiche di Tolemeo II Filadelfo, approdarono al tavolo di lavoro dei grammatici alessandrini, che ne fecero la prima raccolta degna del nome di edizione nel senso moderno della parola. In complesso, lo stadio che dal III sec. a. C. in poi poteva venir raggiunto nello spazio di vita dell’autore venne invece raggiunto, nel caso di opere arcaiche, con tre o quattro secoli di ritardo. Qual era il livello di controllo che poteva venire esercitato da Alceo durante la sua vita? E consideriamo che era proprio quello il periodo più pericoloso per un testo. Il controllo, più che dall’autore, veniva esercitato in giro per la Grecia da un pubblico che aveva cominciato a cantare quei carmi e a conservarli10. Sono certo che, dopo alcuni decenni di studi, non sembrerà strano al classicista oralista se dico che la trasmissione orale può essere molto più fedele di quella scritta11. Sappiamo quanto tenace è la memoria dei nostri bambini quando raccontiamo loro una storia fin dalla seconda volta che la raccontiamo: notano, e criticano, ogni più minuta modifica che apportiamo al nostro racconto. Possiamo essere certi che le modifiche a un testo trasmesso oralmente erano molto più modeste di quanto si sarebbe portati a pensare oggi: la sostanziale || 9 Per le complesse costruzioni strofiche della lirica arcaica, per le quali una composizione orale non è neanche lontanamente pensabile, vd. Rossi 1997, spec. pp. 763–765, 776 s. 10 Debbo a Riccardo Palmisciano una formulazione felice per la poesia simposiale: la piccola comunità della consorteria politica si faceva carico del controllo del testo sicuramente ancor più di quanto non facesse il suo autore. 11 Per un caso singolare, e raro, di verifica a noi concessa di quella maggior fedeltà vd. Rossi 1993.
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sanità del testo di Alceo era assicurata da un notevole grado di fedeltà e questa protezione, indipendente dall’autore, arrivava fino a preservare a un testo il nome dell’autore, dal momento che il furto sarebbe stato scoperto e denunciato all’istante. Le modifiche, se c’erano, erano normalmente consapevoli e palesi, come ci chiarisce l’istituto letterario della μεταποίησις.
4 La letteratura ufficialmente protetta Finora ho semplicemente messo insieme dati ben noti, allo scopo di offrire uno scenario coerente della comunicazione letteraria nell’epoca arcaica. Vediamo ora se questo scenario può aiutarci a capire meglio una serie di dati ai quali vale la pena di dare più attenzione di quanto si sia fatto finora. A un certo momento sorse un’idea importante, quella di d a r e a d a l cuni testi una protezione ufficiale sia dal furto sia da modifiche volontarie o involontarie (quello che chiam i a m o c o r r u z i o n e t e s t u a l e ) . L e g r a n d i f e s t e , come quelle di Olimpia per le quali abbiamo la data del 776 a. C., comprendevano gare pubbliche di poesia. Fra le novità che quest’uso comportò ci fu l’introduzione di veri e propri titoli fissi come quelli di Stesicoro, allo scopo di rendere più agevole l’identificazione dei singoli carmi12. Per Stesicoro ho proposto anni fa la definizione di “epos lirico”13 e, per l’epos esametrico tradizionale eseguito nelle feste, sappiamo dallo Ione di Platone che in epoca da noi storicamente controllabile le gare erano soprattutto gare di recitazione, il che ci conferma quanto dicevo prima sulla assenza di vero e proprio autore: alle novità di contenuto era da tempo destinata la poesia lirica. Allarghiamo ora la nostra prospettiva cronologica per considerare una comunità ampia e ben organizzata come l’Atene del VI secolo, che nel giro di pochi decenni avviò due operazioni di controllo dei testi: la redazione pisistratea dell’epica e l’organizzazione dei concorsi e delle rappresentazioni drammatiche. Si trattò di una larga rete di c o n t r o l l o d i s t a t o per testi letterari a cui si dava grande importanza. In realtà siamo abbastanza bene informati che almeno un secolo prima, nel VII sec., la stessa cosa avveniva per i cori a Sparta, ma l’impressione è che la consapevolezza dell’importanza politica dei testi letterari e del controllo ufficiale su di essi non sia stata mai così estesa e così viva come ad Atene. Questa consapevolezza si riflette bene, e si continua, nel IV secolo
|| 12 Per l’interessante e rivelatrice questione dei titoli vd. Nachmanson 1941 e Schmalzriedt 1970. 13 Rossi 1983.
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nell’atteggiamento di Platone, in cui vedo una specie di disperata nostalgia del controllo come istituzione statale, nostalgia inscritta in una visione utopica volta a realizzare un’impossibile igiene politico–letteraria totale con l’eliminazione di una intera letteratura a suo tempo consacrata dalla sfera pubblica. È forse necessario aprire qui una parentesi, allo scopo di eliminare un equivoco sempre in agguato nel riconoscimento della valenza politica soprattutto della tragedia. Alcuni possono ancora pensare che tale riconoscimento porti a una svalutazione di quei testi come poesia, se li si veda – com’è necessario vederli – nella loro qualità di propaganda politica in favore della polis ateniese. Ma il loro lato indubbiamente locale, addirittura provinciale, non ha impedito a quei testi di farsi portatori di valori di tale universalità da imporsi alle nostre culture moderne a distanza di millenni. Più tardi, nel 336 a. C., Licurgo con la sua commissione per il risanamento dei testi dei tragici, che erano stati corrotti e interpolati dall’uso scenico, ci dà ancora una volta conferma della sollecitudine della polis per i testi da essa protetti.
5 La letteratura non protetta ovvero sommersa L’esistenza di testi efficacemente protetti – di cui possediamo soltanto una parte in fondo non grande – non deve farci dimenticare che molti testi di cui abbiamo notizia, e qualche volta anche scarsa documentazione, non era né controllata né tanto meno protetta: è quella che vorrei chiamare l e t t e r a t u r a s o m m e r s a . Molti anni fa Henry Bardon scrisse un libro famoso, al cui titolo mi ispiro, La littérature latine inconnue (I, 1952; II, 1956), che offriva però un panorama di testi maltrattati dalla successiva trasmissione, e cioè di testi trasmessi per frammenti. Con letteratura ‘sommersa’ io intendo, invece, testi maltrattati fin dal primissimo inizio della trasmissione, o anche testi che non hanno avuto alcuna trasmissione affatto. Questi testi non hanno goduto di alcun controllo e di alcuna protezione sia perché le varie comunità non avevano alcun interesse a conservarli sia perché avevano, piuttosto, interesse a nasconderli o addirittura a sopprimerli: quest’ultima categoria è rappresentata da quanto era legato ai misteri. Ma molti di questi testi, che dal nostro punto di osservazione giocano a nascondino, hanno avuto grande importanza nel configurare i vari momenti della cultura greca così come ci si presentano, ed è ovviamente nostro interesse cercare di rimetterli in luce, sia pure di necessità parzialmente. È per questo che da qualche tempo penso che sarebbe utile farne una raccolta, che dovrebbe configurarsi per t e s t i i n t e g r i (rari), per f r a m m e n t i e infine per t e -
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s t i m o n i a n z e . Non sarebbe un compito facile: ma varrebbe la pena affrontarlo. Faccio seguire qui una lista provvisoria, limitandomi però solo a lambire la letteratura dell’età ellenistica. Solo da questo momento in poi, e cioè dal III sec. a. C, diversamente dalle epoche anteriori la letteratura si può distinguere abbastanza nettamente in alta e in popolare o di consumo14, data la diffusione del libro, che permetteva di rivolgersi a pubblici selezionati sia nella direzione dell’alto sia in quella del basso (penso qui per esempio al romanzo): ed è una letteratura che è stata tutt’altro che sommersa. Per l’epoca arcaica e tardo– arcaica, invece, la letteratura greca si può considerare tutta in qualche modo come popolare, perché non era destinata a una élite15 essendo la selezione del pubblico piuttosto locale che di strato sociale. Le pubblicazioni ‘faccia a faccia’ nelle festività coinvolgevano tutta una comunità locale, legata da una cultura quasi totalmente omogenea, senza vere barriere socio–culturali. Fa eccezione il simposio elitario delle origini, quando le composizioni venivano prodotte per i pubblici ristretti delle consorterie politiche. E un caso singolare mi è parso di vedere16 nella lirica corale, che nel caso per esempio dell’epinicio prevedeva una doppia destinazione: il complesso testo verbale era nei suoi dettagli destinato al committente, mentre al pubblico presente all’esecuzione in loco era destinato lo spettacolo nel suo complesso, costituito non solo dalla parola ma anche dal canto e dalla danza. Ed ecco la mia provvisoria lista: 1. I testi iniziatici legati ai misteri. 2. Il σατυρικόν di cui parla Aristotele nella Poetica (1449a 19 ss.): questo a mio parere17 non era già il dramma satiresco attico, ma un precursore di quest’ultimo, come ci mostrano i vasi pre–pratinei della fine del VI sec.18. Il dramma satiresco vero e proprio, quello che tradizionalmente veniva fatto risalire a Pratina (497 a. C)19, ne fu uno sviluppo ed entrò a far parte dei concorsi drammatici ufficiali, e cioè della letteratura protetta per eccellenza.
|| 14 Sulla letteratura di consumo vd. Pecere–Stramaglia 1996. Molto utile è anche Hansen 1998. 15 II primo autore a rivolgersi espressamente ad una élite non strettamente locale – come era quella dei simposi arcaici – fu certamente Tucidide, ed è significativo che con lui ci si trovi agli albori della diffusione libraria. 16 Rossi 1997, spec. pp. 763–765, 776 s. 17 Rossi 1973. 18 Sui vasi pre–pratinei Gallo 1989. 19 Su Pratina da ultimo Napolitano 2000.
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3. I canti simposiali arcaici che non furono riusati nella prassi simposiale successiva20. 4. La favola o folk–tale21. 5. I canti di vittoria, o epinici, che prima di Simonide venivano improvvisati con il ritornello pseudo–archilocheo (fr. 324 W.2) τήνελλα καλλίνικε χαῖρ’ ἄναξ ‛Hράκλεες / αὐτός τε καὶ Ἰόλαος αἰχμητὰ δύο. Il ritornello era fisso e la parte variabile era improvvisata, finché Simonide, secondo la tradizione, introdusse i costosi carmi composti su ordinazione dei committenti e destinati a riempire lo spazio che all’origine era dell’improvvisazione. 6. Gli oracoli non pubblicati, e cioè non facenti parte di raccolte22. 7. Tutto quello che è compreso nella sezione Carmina popularia dei Poetae melici Graeci di Page, considerando che ci sono soltanto i frammenti di testo, mentre bisognerebbe integrare con titoli, testimonianze etc. Importanti i canti di lavoro, i lamenti funebri23, i canti di nozze, tutti testimoniati fin da Omero. 8. La parte non conservata dell’oratoria fra la fine del V sec. e tutto il IV, considerando che le orazioni pubblicate (molte delle quali apocrife) sono redazione di un testo originariamente orale, redazione fatta dagli autori stessi con frequente mimesi dell’oralità24. 9. Tutto quello che si muoveva intorno ai fliàci, per i quali abbiamo molti vasi e pochi testi25. 10. Varie voci come letteratura epistolare, formule magiche, per cui abbiamo documentazione nei papiri di età ellenistica. 11. I materiali di vario tipo finalizzati all’insegnamento26. Ovviamente si potranno aggiungere altre voci, per cui faccio appello al mondo dei dotti. Per una raccolta del genere bisognerà cercare nei grammatici, nella letteratura scoliastica, nelle iscrizioni etc. Da Glauco di Reggio in poi (V
|| 20 Vd. oggi Fabbro 1995. 21 Vd. Jedrkiewicz 1989, Jedrkiewicz 1997, Adrados 1999. 22 Quelle di cui si servirono Erodoto (7. 6. 3: la raccolta degli oracoli di Museo), Pausania etc. 23 Per i quali si attende un ampio lavoro di Riccardo Palmisciano. 24 Sui meccanismi della produzione oratoria resterà sempre fondamentale Dover 1968. Sulla mimesi dell’oralità negli oratori non ci sono studi specifici se non quello di Dorjahn 1957 (dove si hanno richiami a vari lavori precedenti), che però poco verosimilmente crede a vera improvvisazione (ovviamente orale) conservata dai testi. Per i fattori funzionali alla esecuzione orale delle orazioni, che in realtà sono strategie comunicative, vd. Gagarin 1999. Debbo queste segnalazioni a Roberto Nicolai. 25 Sui fliàci fondamentali Gigante 1971, Taplin 1993. 26 Oltre al classico Ziebarth 1913, vd. i più recenti Wouters 1979, Harrauer–Sijpesteijn 1985.
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sec. a. C.) cominciamo ad avere informazione storico–letteraria antica che dobbiamo a vari autori27, molti dei quali sconosciuti: la Poetica di Aristotele ne è l’esempio più illustre e molto materiale può venire estratto, per esempio, dal prezioso de musica dello Pseudo–Plutarco, dalle opere di Strabone, di Pausania, di Luciano, per fare solo alcuni nomi a caso. Da una ricerca del genere si potrebbe ricavare un più coerente contesto del retroterra culturale del mondo greco in generale, mettendo a fuoco generi letterari nei quali la ricerca dell’autore può risultare o impossibile o comunque irrilevante. Per un parallelo in un campo come l’archeologia penso alle recenti ricerche volte a ricostruire la cosiddetta cultura materiale. Un ulteriore vantaggio consisterebbe almeno nel proporci alcune domande, se non sempre nel poter rispondere ad esse: e cioè i vari criteri che di volta in volta hanno condotto da una parte alla conservazione e dall’altra alla perdita dei testi. Per fare un esempio, sarà utile tener presente che a Lesbo a sopravvivere fu la poesia di un perdente politico, Alceo, mentre è andata perduta la poesia del circolo di un vincitore, Pittaco. Noi moderni siamo troppo portati a dare di questi eventi giustificazioni assiologiche che rispecchiano solo i nostri criteri di valutazione, e tendiamo a pensare che la poesia di Alceo si salvò perché era più bella di quella di Pittaco, senza porci il problema di indagare su quali possano essere stati i criteri di valutazione dei contemporanei. Un ammonimento ci viene dalla vicenda dell’Edipo re di Sofocle, la tragedia più perfetta per noi e anche già per Aristotele, che però ottenne il secondo posto dopo quel perfetto sconosciuto che si chiamava Filocle: evidentemente agli spettatori del teatro di Dioniso interessavano di più altre qualità che non la perfetta organizzazione drammaturgica che ci offre quella tragedia di Sofocle. Non ci spiegheremmo altrimenti la noncuranza con cui il pubblico inghiottiva le incongruenze drammaturgiche e gli anacronismi dei poeti tragici, su cui ci ha aperto gli occhi il famoso libro di Tycho von Wilamowitz–Moellendorff, Die dramatische Technik des Sophokles, Berlino 1917. Non dimentichiamo che all’inizio dell’Agamennone la notizia della presa di Troia, annunciata dalla geniale idea della staffetta delle faci, arriva contemporaneamente con il ritorno del reduce, Agamennone, che non aveva certo a sua disposizione l’aereo privato da Troia. In questo campo – e siamo ormai d’accordo in molti – il pubblico aveva esigenze inferiori alle nostre. Insomma, si apre a noi un campo d’indagine dove – ripeto – la frequente mancanza di risposte non ci esime dal porci le domande.
|| 27 Esempio di una ricerca del genere è Bagordo 1998, che per trattati (per lo più συγγράμματα) sul dramma offre nientemeno che 88 autori, quasi tutti minuscoli sconosciuti.
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6 La vecchiaia dei poeti Ho detto sopra (§ 4) che vado cercando spiegazione per alcuni fatti ben noti, ma frequentemente ignorati. Se torniamo a un periodo in cui non esisteva alcuna struttura ufficiale capace di proteggere i testi, e cioè all’età lirica, consideriamo la vita dei poeti che ci hanno lasciato composizioni elegiache, giambiche, lirico–corali e lirico–monodiche. Mi sono spesso chiesto, e ora lo faccio con più determinazione: quale fu la lunghezza media della loro vita? In altre parole: morivano giovani o vecchi? Per ricostruirne la vita dobbiamo naturalmente ricorrere all’antica tradizione biografica, che è quasi sempre poco affidabile in quanto ricca di invenzioni più tarde28. Due sono però le considerazioni che s’impongono: 1) quelle che noi chiamiamo le invenzioni della tradizione29 meritano comunque sempre il massimo rispetto, perché rispondono a esigenze che nascono nella storia e nella storia vivono (tutt’al più è utile poter stabilire quando e perché nascono); 2) difficilmente fatti come la morte prematura e la morte in tarda età possono essere frutto di totale invenzione: l’opposizione giovane/vecchio è tale da essere portatrice di valori biografici molto significativi, come vedremo, e quindi difficilmente falsificabili. È chiaro che, per valutare il senso di tale opposizione, dobbiamo tener presenti le diverse condizioni di vita nel mondo antico rispetto a oggi: sulla differente aspettativa di vita ci informano gli studi degli storici che si dedicano alla demografia30. Qui, più che precise quantificazioni, ci interessa il risultato macroscopico della molto minor durata della vita media nel mondo antico rispetto a oggi. Di tanto più eccezionale deve quindi risultare una vita mediamente lunga, alle volte molto lunga, come quella che la tradizione biografica ci ha trasmesso per tutti i poeti greci almeno fino all’età ellenistica esclusa. Senza entrare in dettagli biografici, che tra parentesi spesso mancano del tutto, proviamo provvisoriamente a nominare i vari poeti per suscitare in noi libere associazioni con l’idea di una eventuale morte precoce: Archiloco, Alcmane, Tirteo, Stesicoro, Solone, Senofane, Alceo, Saffo, Ipponatte, Ibico, Teognide, Anacreonte, Simonide, Bacchilide, Pindaro. Per alcuni la tradizione biografica (magari spesso, a torto, fondata sulle opere dei poeti stessi) ci dà vite assai lunghe, ma quello || 28 Sulla biografia antica Dihle 1970, Momigliano 1971, Lefkowitz 1981, Fairweather 1983, Arrighetti 1987, Arrighetti–Montanari 1993, Gallo–Nicastri 1995, Gallo 1997. Per i poeti arcaici è per fortuna finito l’uso di prendere a valore facciale le loro apparenti dichiarazioni autobiografiche, uso che risale ai biografi antichi dal V sec. in poi: per una presa di posizione vd. Rossi 1995, p. 84 ss., spec. 88. 29 Hobsbawm 1983. 30 Una sintesi molto utile degli studi demografici sul mondo antico è Lo Cascio 1996.
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che conta è che per nessuno di questi poeti ci viene registrata una morte prematura. Lo stesso Mimnermo, che giustamente viene considerato il cantore della giovinezza, nella sua polemica (fr. 6 W.2) contro Solone (fr. 20 W.2), è piuttosto generoso – vista la bassa aspettativa di vita dell’epoca – nel sostenere i sessant’anni in contrapposizione agli ottanta. Se poi guardiamo ad altri generi letterari, troviamo nel V secolo Eschilo, Sofocle e anche Euripide, che muore un po’ più giovane degli altri due, ma sempre in età ragguardevole. Nella commedia abbiamo specialmente Cratino, ma anche Eupoli e Aristofane. In quest’epoca abbiamo per di più mezzi ben più efficaci per un controllo storico affidabile dei dati biografici. Ebbene: si tratta di un puro caso che per alcuni secoli di attività letteraria in Grecia non si trovino personalità come Lord Byron, Giacomo Leopardi, Vincenzo Bellini? Tanto più singolare sembrerebbe un simile risultato casuale per l’età arcaica e classica se lo si confronta con la letteratura sia greca sia latina dall’età ellenistica in poi, quando la mors immatura diventa così frequente da venire assunta come tema compositivo tipico in opere letterarie31. A meno che non si voglia sostenere che la poesia fa bene: se una battuta del genere riscuotesse credito, potremmo aspettarci, da parte di università americane ma ormai anche europee, manifesti pubblicitari del seguente tenore: “Impariamo dagli antichi poeti greci: la poesia fa bene alla salute e quindi frequentate i nostri corsi di composizione letteraria”. Penso che la domanda da porsi sia un’altra: “Come mai tutti i poeti che sono diventati famosi muoiono in tarda età?”. Ebbene: se la domanda ha un senso – e dopo tutto mi pare che dobbiamo porcela – la risposta, finché non se ne trovi una migliore, è una sola: perché e r a l ’ a u t o r e s t e s s o c h e p r o t e g g e v a l a v i t a i n i z i a l e d e i s u o i t e s t i . In altre parole, un autore, che normalmente cominciava la sua carriera letteraria da giovane, se moriva giovane non aveva il tempo e i mezzi per diventare apprezzato e famoso e non aveva quindi possibilità di opporsi al furto del proprio lavoro. Perfino nell’ambito del dramma, che godeva della protezione di cui parlavamo prima, se Aristofane fosse morto giovane – prima cioè di poter presentare commedie a suo nome – mi domando se sarebbe passato ai posteri come autore di qualche commedia giovanile.
|| 31 Sulla mors immatura Vrugt–Lentz 1960 offre un panorama delle varie concezioni sugli ἄωροι da Omero all’epoca imperiale romana da un punto di vista prevalentemente antropologico e storico–religioso. Sarebbe utile uno studio che presentasse la mors immatura come topos biografico e come topos letterario. Roberto Nicolai mi suggerisce che il topos è in genere legato al poeta d’amore. Vd. anche Falkner–de Luce 1989, Mattioli 1995.
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Il poeta che muore di mors immatura compare invece più tardi, nella letteratura alessandrina e in quella romana. Pensiamo ad Asclepiade, a Catullo, a Tibullo, a Persio, a Lucano. Niente di strano, visto che le condizioni dell’editoria erano profondamente cambiate con l’avvento del l i b r o : il libro come artefatto materiale, che sotto l’aspetto editoriale e letterario aveva dato origine al liber poetico, circolava sul banco dei librai e questo fatto agiva praticamente da copyright: nessuno avrebbe potuto appropriarsi furtivamente di materiale letterario senza che chiunque potesse svelare il misfatto. Si aggiunga che un poeta, anche giovane, apparteneva a un circolo letterario ed era ben noto all’interno di questo e anche all’esterno, in una cultura letteraria che era diventata sempre più centralizzata in grandi sedi del mondo antico, come soprattutto Alessandria. I poeti arcaici non appartenevano a circoli letterari semplicemente perché non ne esistevano: c’erano i circoli politici, che si interessavano alla politica più che alla letteratura e d’altra parte, se un controllo dei testi esisteva già in una certa misura (§ 3), non era ancora ecumenico come fu più tardi. Se proprio si vuol trovare il poeta/cantore che muore giovane, la cultura greca prealessandrina ci conduce al mito: Lino e Orfeo muoiono giovani, ma nessuno poteva rubar loro alcunché32.
7 Un esempio di autenticità compromessa in un’età di protezione (Ps.–Theocr. VIII) Se quanto sono venuto argomentando finora ha un senso, si potrebbe pensare che dall’età ellenistica in poi non potessero più esistere composizioni apocrife e ci fosse posto solo per opere ortoepigrafe. Questo però non è assolutamente vero. In età ellenistica l’uso del falso intenzionale, che è solo uno dei vari modi della letteratura apocrifa33 ed è del tutto diverso dal furto di opera altrui, era molto comune come conseguenza dell’estendersi del mercato librario34. Lo scopo del falsario era ovviamente il lucro: chi vendeva un corpus poetico con più composizioni di un autore divenuto famoso otteneva più successo di chi vendeva lo stesso corpus più ristretto. Il successo commerciale, da quello di un corpus oratorio in epoca di processi come nell’Atene del V–IV secolo (§ 5, n. 8 della || 32 Devo questa bella idea al Prof. Emilio Suárez de la Torre, che qui ringrazio. 33 Per i vari tipi del falso letterario rimando di nuovo a Rossi 2000, dove è trattato estesamente il caso di Ps.–Theocr. VIII. 34 Per i corpora contenenti falsi rimando di nuovo al fondamentale Dover 1968, che ne illustra i meccanismi nell’ambito dell’oratoria, meccanismi che restano gli stessi per i corpora poetici dell’ellenismo.
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lista), arrideva ora a un corpus poetico in una cultura di sempre più esteso consumo di letteratura come quella ellenistica. Il corpus teocriteo a noi pervenuto ha un certo numero di questi apocrifi: alcuni, come specialmente l’idillio IX, sono del tutto goffi in quanto prodotti da inabili grammatici che si sono sforzati senza successo: se potevano ingannare il grosso pubblico o anche scoliasti di poco posteriori, non possono certo ingannare noi. Ora, riprendendo in considerazione l’idillio VIII dopo molti anni35, credo di aver trovato l’esempio di un nuovo tipo morfologico di falso letterario che ho chiamato “ a p o c r i f o p r e t e r i n t e n z i o n a l e ” : non quindi un falso confezionato come opera altrui, ma una composizione che all’origine portava i segni di una precisa volontà autoriale autonoma e che in seguito è entrata a far parte di un corpus allotrio. La responsabilità del risultato finale, che è quello di opera apocrifa, va addossata quindi non all’autore, ma al raccoglitore. Un esame approfondito ulteriore del carme mi ha portato a vedere in esso non solo gli elementi non–teocritei – evidenti già per la più avvertita critica filologica e da me a suo tempo accresciuti di un paio36 –, ma anche e soprattutto i segnali, non meno palesi per il fatto di essere impliciti, con i quali l’autore voleva affermare sia il proprio omaggio a Teocrito sia la propria originalità. L’originalità mi è sembrato di vederla – e di vederne l’affermazione implicita – in alcuni espedienti versificatori, in sostanza nel trattamento della strofica esametrica ovvero della strutturazione di due o più esametri in false strofette: l’espediente è frequente in Teocrito. Ma quello che lo distingue da Teocrito (e doveva essere una differenziazione voluta) è il fatto che fra l’altro accumula gli espedienti strofizzanti, in netto contrasto con l’economicità di Teocrito. Non riporto qui l’analisi che ne ho data altrove37: mi basterà dire che il ‘camuffamento’ strofico degli esametri (strutturati a doppia coppia di distici: vv. 63–80) si aggiunge all’uso del distico elegiaco (vv. 33–60). A parte l’inedito teocriteo del distico elegiaco (che poteva anche essere presente in carmi teocritei perduti), quello che conta è la compresenza di espedienti che in Teocrito appaiono sempre isolati. Senza contare la contaminazione plurima di elementi presenti in molti idilli teocritei (III, V, VI, X). L’idillio VIII appare come una specie di summa teocritea impensabile come opera teocritea ma anche e soprattutto come
|| 35 Già in Rossi 1971b mi ero allineato fra quelli che lo ritenevano apocrifo, trovandone ulteriori conferme; per il dettaglio di quanto dico qui di seguito rimando a Rossi 2000. 36 La palese catacresi dell’interiezione σίττα (v. 69), segno evidente della scarsa familiarità dell’autore con la lingua dei pastori e addirittura della lingua colloquiale, come nel caso dei vocativi rivolti al bestiame. 37 Rossi 2000, dove sono discussi anche altri fattori qui neanche accennati.
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prodotto di un falsario: la qualità di summa tradisce una volontà di originalità letteraria, che si dichiara nel suo stesso farsi. Abbiamo qui a rigore non una manifestazione metaletteraria vera e propria, che per essere tale dovrebbe essere esplicita (“io sono l’autore e ho strutturato l’opera in questo modo”): parlerei quindi di metaletteratura implicita (“i miei espedienti vi parlino da soli”), che è poi, in fondo, il procedimento normale della aemulatio. Quello che a me pare evidente è che l ’ a u t o r e d e l c a r m e VIII non voleva fingere di essere Teocrito, ma voleva s e m p l i c e m e n t e e s s e r e t e o c r i t e o . La mia ipotesi consegue a tutto quello che ho argomentato sopra: la sua qualità quasi–teocritea è apparsa teocritea del tutto a un raccoglitore di bocca buona, che non ha esitato a includerlo nel corpus. Evidentemente a quel carme è mancata la protezione dell’autore, che pure a quell’epoca38 aveva a sua disposizione mezzi sufficienti per difenderne l’ortoepigrafia. Morì di morte prematura e magari tanto improvvisa da non fare in tempo a cautelarsi? Non è qui certo il caso di cedere alla tentazione di inventare favole biografiche, trattandosi per di più di un anonimo. Mi pongo solo una domanda, e lo faccio con una certa ansietà: se ne conoscessimo il nome, saprei resistere a quella tentazione?
8 Appendice. Una testimonianza interessante, anche se tarda In un lavoro recente Andrea Bagordo39 ha analizzato per la prima volta da vicino, e per la prima volta correttamente, l’epigramma A. P. 10. 42, attribuito a Luciano, e quindi, se l’attribuzione è giusta, risalente al II sec. d. C.: ἀ ρ ρ ή τ ω ν ἐ π έ ω ν γλώσσῃ σφρηγὶς ἐπικείσθω· κρείσσων γὰρ μύθων ἢ κτεάνων φυλακή40. D i v e r s i n o n d e t t i p r i m a sia posto un sigillo sulla mia lingua: la custodia della poesia dev’esser più forte di quella delle ricchezze.
|| 38 Lo credo di poco posteriore a Teocrito, sulla base di indizi esposti nei miei due lavori già citati. 39 A. Bagordo, Ein anspielungsreiches Distichon, dove l’esegesi minuta mira anche lontano. 40 Ecco le due traduzioni latine offerte da Dübner 1888, p. 258, la prosastica, arcanorum verborum linguae sigillum sit impositum: / melior enim sermonum quam divitiarum custodia, e la poetica, di Grozio, his, quae dicta nocent, linguam tibi pone sigillum. / plus voces, minus est res retinere suas.
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L’autore dice che è più facile rubare poesia che danaro: una testimonianza preziosa sulla fragilità del d i r i t t o d ’ a u t o r e , testimonianza che ha il solo torto di essere tarda rispetto all’epoca di cui stiamo trattando: ma è così singolare, da spingere a considerarla con un certo dettaglio. È strano che, a livello di traduzione–esegesi, si sia andati in direzioni assai diverse, per lo più equivocando l’epigramma come una generica esortazione al silenzio. Basterà qui segnalare diverse traduzioni, più o meno recenti, dell’inizio del primo verso: words that should not be spoken (Paton 1918, p. 25); wunschst du ein Wort zu verbergen (Beckby 1958, p. 497); per i segreti (Pontani 1980, p. 427); die Worte zu hüten (Ebener 1981).
A tutti era sembrato ovvio che si debba intendere ἀρρήτων ἐπέων come “parole da tener segrete”. Per la resa proposta nella traduzione, che è la chiave di tutto l’epigramma, Bagordo confronta Bacchyl. fr. 5. 3 s. M., dove si dice che ἀρρήτων ἐπέων πύλας / ἐξευρεῖν, dal che risulta chiaro che in Luciano il significato dev’essere, come in Bacchilide, “poesia non ancora detta”, “originale”; per il sigillo non si può fare a meno di pensare al famoso distico di Teognide (19 s.41), qui ripreso alla lettera: Κύρνε, σοφιζομένω μὲν ἐμοὶ σφρηγὶς ἐπικείσθω τοῖσδ’ ἔπεσιν· λήσει δ’ οὔποτε κλεπτόμενα.
In Teognide il sigillo è inteso a valore letterale, e cioè come sigillo sul testo, mentre nel nostro epigramma ha evidente valore metaforico come “sigillo sulla lingua”. È, in sostanza, un’esortazione a non rivelare le proprie novità creative, visto che proteggerle sarebbe più difficile del proteggere le ricchezze. Se l’interpretazione dell’epigramma è giusta, rispecchia una realtà editoriale piuttosto arcaica o al più ellenistica che non tarda. Basterà questo a togliere l’epigramma a Luciano e ad arretrarne la cronologia fino almeno ad epoca ellenistica? Oppure si può pensare che si trattasse di un topos a suo tempo molto diffuso e poi diventato uno stereotipo, di cui ci sarebbe arrivato solo questo prezioso esemplare.
|| 41 Vd. l’interessante interpretazione del “sigillo” di Teognide (volto a salvaguardare l’ortoepigrafia) che offre Cerri 1991.
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9 Considerazioni conclusive Aggiungo qui una sintesi di quanto sono venuto argomentando finora. Nella Grecia arcaica il livello di quello che a noi oggi sembra un controllo soddisfacente del testo da parte dell’autore era o nullo o molto basso (§§ 2, 3). L’Atene del V–IV secolo ci offre l’esempio più cospicuo di un controllo statale dei testi (§ 4). Solo dall’età ellenistica in poi la comunicazione letteraria, grazie al sempre crescente uso del libro, diventa sempre più simile alla nostra e il controllo diventa più agevole, anche se non sempre totale, come nel caso singolare rappresentato da Ps.–Theocr. VIII (§ 7). Ho avanzato due proposte, per le quali chiedo verifica. La prima è la distinzione fra letteratura ufficialmente protetta da una parte (§ 4) e letteratura non protetta dall’altra, quella che ho chiamato ‘sommersa’ (§ 5). La seconda proposta (§ 6) è quella riguardante la grande età dei poeti arcaici e classici. Il fatto che i poeti arcaici e classici muoiono tutti vecchi o quasi ha un senso? Mi è sembrato che la protezione dei testi fosse affidata all’autore stesso. Considerando che la mors immatura del letterato interviene solo più tardi, ho proposto di vederne una conseguenza nelle mutate condizioni della comunicazione letteraria, che permetteva un controllo dei testi più esteso e più sicuro. Una testimonianza tarda (§ 8), infine, che a mio parere è interessante anche perché tarda, ci fornisce se non altro il topos letterario della difficoltà della protezione dell’originalità. Una considerazione adeguata dei diversi modi della comunicazione letteraria42 risulta essere essenziale per la comprensione delle opere e del loro situarsi nel quadro di ogni determinato genere letterario, permettendo l’intelligenza della loro funzione. Ma è anche utile per capire i mutevoli meccanismi della conservazione e delle opere stesse e, quando si siano conservate, dell’ortoepigrafia.
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|| 42 Sulla comunicazione letteraria ho impostato tutta la storia della letteratura greca in Rossi 1995.
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|| [43 A. Bagordo, Echtheitsschutz und Verlagswesen in der Zeit der ‘Zweiten Sophistik’ (zu A. P. 10. 42 = Ps.–Lukian, 20 Macleod), «SemRom» 9, 2006, pp. 255–269]
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|| [44 Pubblicato in G. Cerri (ed.), La letteratura pseudoepigrafa nella cultura greca e romana. Atti di un Incontro di studi, Napoli 15–17 gennaio 1998, «AION(filol)» 22, 2000, pp. 231–261] [45 On the Written Redaction of Archaic Greek Poetry, in SO Debate. Dividing Homer: When and How were the Iliad and the Odyssey Divided into Songs? (continued), «SO» 76, 2001, pp. 103– 112]
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Introduzione all’Incontro Appunti sulle consuetudini editoriali nei testi letterari classici 1 Introduzione all’Incontro “Il restauro: parole, figure, suoni, manufatti” Ringrazio il Preside, Roberto Antonelli, per importanti aspetti organizzativi di questo nostro incontro e gli amici archeologi, in primis Maria Grazia Picozzi, per la disponibilità di questo spazio meraviglioso che è l’Odeion1. Il gran numero di amici qui presenti mi fa un grande piacere perché, come dirò qui subito, avremo sicuramente molti argomenti da discutere insieme. L’idea di questa giornata è nata molti mesi fa durante una chiacchierata fra me e Giovanni Pagani2, un carissimo allievo, il quale, illustrandomi la sua grande passione per il restauro del codice e del libro, mi ha ricordato quella norma del restauro che è diventata ovvia e di dominio comune dopo i lavori epocali di C e s a r e B r a n d i 3, una delle glorie della vecchia nostra Facoltà unita: che
|| [I due saggi sono stati pubblicati in «SemRom» n.s. 1, 2012, pp. 1–9] * [Il presente lavoro consiste in una revisione dei due testi Introduzione alla Giornata di discussione su Il restauro: parole, figure, suoni e manufatti (Università di Roma “La Sapienza”, Museo dell’Arte Classica – 21 febbraio 2008); e Appunti sulle consuetudini editoriali nei testi letterari classici, entrambi recitati da L. E. Rossi in occasione dell’incontro del 21 febbraio 2008, ma rimasti incompleti tra le sue carte, dopo la sua scomparsa avvenuta il 19 settembre 2009. Le integrazioni al testo, per cura di Maurizio Sonnino, sono state poste tra parentesi quadre, nel rispetto di quella prassi del restauro filologico “alla Brandi”, di cui proprio Rossi offre lucida spiegazione in queste stesse pagine]. 1 [Il riferimento è alla Sala Odeion del “Museo dell’Arte Classica” (già “Museo dei Gessi”) – posto nell’edificio dell’attuale Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze Umanistiche e Studi Orientali, dell’Università di Roma “La Sapienza” – in cui si era tenuto l’incontro del 21 febbraio 2008]. 2 [L’intervento di Giovanni Pagani (Roma), Il restauro del libro, tenutosi durante l’incontro del 21 febbraio 2008, non è stato incluso negli Atti finali del convegno]. 3 Brandi 1977, [spec. pp. 3–8. Si confrontino, in particolare, quelli che Brandi definiva “i due principi di restauro”, ossia: «Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro» (Brandi 1977, p. 6 [corsivo nel testo]); e (più importante per il discorso sviluppato da Rossi): «Il restauro deve mirare al ristabilimento della unità potenhttps://doi.org/10.1515/9783110648140-007
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cioè r e s t a u r o d e v e e s s e r e v i s i b i l e c o m e t a l e , a p e r t a m e n t e d i c h i a r a t o . Questo mi ha portato a riflettere sul fatto che noi tutti, impegnati con i documenti in qualità di filologi e storici di mestiere, abbiamo questo problema del tutto in comune, qualunque sia l’oggetto del nostro studio, che è poi il prodotto che intendiamo restaurare: non solo un manufatto come il codice, ma tutte le arti visive in genere, la musica e, naturalmente, i testi verbali di ogni tipo, la tipologia che a noi filologi è familiare. Siamo qui in molti, credo, a seguire Brandi. Ma Paolo Marconi, che ci ha consentito con un suo intervento, successivo alla ‘giornata’, di riempire il vuoto, che avevamo lasciato, dell’architettura e dell’urbanistica, non è per Brandi, e questo ci consente di confrontarci con una posizione diversa dalla nostra4. Ogni impegno riguardante il frutto della creazione umana merita il nome di f i l o l o g i a , e come tale viene spesso definito, qualunque sia la natura del suo oggetto. Voglio darvi qui una definizione splendida che ho trovata molti anni fa leggendo la Encyklopädie di August Boeckh, il grande antichista dell’Università di Berlino che operò in tutta la prima metà dell’Ottocento5: La ricerca della parola parlata o scritta – come dice il nome stesso di filologia – è il più originario istinto filologico (der ursprünglichste philologische Trieb), la cui generale diffusione e necessità risulta chiara anche dal fatto che, senza la comunicazione, la scienza in generale e la stessa vita sarebbero male indirizzate (übel berathen): insomma, la filologia è, in effetti, uno dei primi condizionamenti (Bedingungen) della vita, un fattore originario (ursprüngliches) che risiede nella più profonda natura umana e nella catena della cultura. Si basa su un istinto di fondo (Grundtrieb) dei popoli di cultura: anche un popolo privo di cultura può ϕιλοσοϕεῖν, non ϕιλολογεῖν.
|| ziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo» (Brandi 1977, p. 8 [corsivo nel testo])]. 4 [L’intervento di Paolo Marconi (Università di Roma Tre), Filologia e architettura. L’architetto restauratore come filologo, tenutosi il 15 gennaio 2009 all’Università di Roma “La Sapienza”, non è stato incluso negli Atti finali del convegno. Rossi aggiungeva, a questo punto, un riferimento a(i lavori di) Adelaide Regazzoni Caniggia, senza fornire ulteriori precisazioni a riguardo]. 5 Boeckh 1886, p. 11 s. [il cui testo originale (di seguito tradotto da Rossi) recita: «Das gesprochene oder geschriebene Wort zu erforschen, ist – wie der Name der Philologie besagt – der ursprünglichste philologische Trieb, dessen Allgemeinheit und Nothwendigkeit auch schon daraus klar ist, weil ohne Mittheilung die Wissenschaft überhaupt und selbst das Leben übel berathen wäre, so dass die Philologie in der That eine der ersten Bedingungen des Lebens, ein Element ist, welches in der tiefsten Menschennatur und in der Kette der Kultur als ein ursprüngliches aufgefunden wird. Sie beruht auf einem Grundtrieb gebildeter Völker; ϕιλοσοϕεῖν kann auch das ungebildete Volk, nicht ϕιλολογεῖν»].
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L’idea che si realizza in questo incontro è l’accostamento di tanti ambiti fra loro diversi: si tratta di individuare quanto nella problematica del restauro abbiamo di c o m u n e e quanto abbiamo di s p e c i f i c o . Conto molto sul nascere di d o m a n d e forse nuove e certamente utili, che possono provocare r i s p o s t e o anche (il che, com’è stato detto, è ancora più utile) nuove domande. Ovviamente quest’impresa, che credo forse nuova e sicuramente non scontata, non è pensata come esaustiva, tale da coprire l’intero panorama. Si tratta solo di un primo assaggio, dove alcuni di noi parleranno di testi verbali, altri di testi figurativi, altri di testi musicali e altri ancora di manufatti. Mi auguro che alle relazioni segua una generale discussione, che dovrebbe essere una tavola rotonda allargata a tutti i presenti. Ed ecco ora, in disordine, alcune considerazioni preliminari: 1. Partendo dall’impostazione teorica di Cesare Brandi, spero che si possano qui oggi confrontare i vari modi in cui si riesce a mostrare il restauro come tale. Noi filologi siamo abituati a pensare ai t e s t i presentati con nostre convenzioni editoriali. Nelle a r t i v i s i v e ci sono vari espedienti, e così anche per i m a n u f a t t i . Ma il caso della m u s i c a mi pare emblematico: come si fa per evidenziare l’intervento? Cerchiamo di impostare correttamente il problema. A prima vista sembra che, in fatto di correttezza nel restauro, noi filologi siamo i privilegiati, soprattutto in confronto con i musicologi. Ma a ben vedere fra i testi letterari e la musica non c’è quella gran differenza che sembra esserci, perché anche i testi letterari sono soggetti a una esecuzione (o performance che dir si voglia): nel mondo antico era un’esecuzione reale (anche se la lettura privata era alle volte praticata), oggi (e da più di duemila anni) l’esecuzione è totalmente implicita e comporta quindi una esecuzione interiore, che anche in abituale inconsapevolezza non cessa di essere reale e totale. Penso, soprattutto, agli effetti di suono (quelli su cui si sofferma abbondantemente Dionigi d’Alicarnasso nel suo De compositione verborum), per i quali è inevitabile rendersi conto che effettuiamo una esecuzione sonora interiore: questo accade quando leggiamo silenziosamente, e nonostante questo ne registriamo una esegesi critica anche sonora, versi come i danteschi e cigola per vento che va via [Dante, Inferno, 12. 42] o come di neve in alpe sanza vento [Dante, Inferno, 14. 30], ma anche quando ci troviamo di fronte alla semplice grandiosità di un incipit leopardiano come Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea [G. Leopardi, Le Ricordanze, v. 1]. Non vedo, quindi, alcuna differenza teorica fra i testi verbali e i testi musicali: è semplicemente che, per quelli musicali, l’esecuzione sembra più necessaria che per i testi verbali, ma quest’apparenza nasce solo da un difetto di prospettiva. Se la pratica della scrittura e, conseguentemente, della lettura delle
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partiture musicali fosse diffusa come nel caso della scrittura alfabetica, allora non ci sarebbe difetto di prospettiva. Spero che da questo incontro venga qualche idea che ci chiarisca il problema teorico. Nel nostro attuale contesto, che ci porta a riflettere anche sui procedimenti della nostra critica della tradizione dei testi, è certo utile ricordare che questa esecuzione interiore altro non è che la d i c t é e i n t é r i e u r e di Alphonse Dain6, che ha il risultato dannoso, ma interessante perché controllabile, di provocare una serie di errori commessi proprio dal (pur silenzioso) copista di un manoscritto. 2. Un grande problema è a mio parere quello che chiamerei il r e s t a u r o m o n u m e n t a l e , un problema di grande, anzi di bruciante attualità in fatto di arti visive, di conservazione dei beni archeologici, architettonici, urbanistici. Che cosa si deve restaurare, a che cosa si deve dare la precedenza? E poi: come si deve restaurare? Sul “ c h e c o s a ” segnalo la recente polemica di Salvatore Settis e di Carlo Ginzburg su restauri di successo mediatici e commerciali e su una proposta di moratoria allo scopo di riflettere seriamente sulle scelte7. Il pericolo, al quale si dovrebbe sfuggire (ma in genere ci si casca in pieno), è quello del farsi influenzare, nelle scelte, da finanziamenti di successo. Il “ m o d o ” di intervenire divide spesso gli animi nel restauro urbanistico–architettonico e in quello delle altre arti visive. Fino a qualche decennio fa si dovevano riparare i danni più o meno progressivi del passare del tempo, mentre oggi siamo di fronte a forme di deperimento enormemente accelerato, come in un nostro recentissimo passato la guerra e oggi per esempio l’inquinamento: si tratta di danni o istantanei o velocissimi o di cadenza irregolare. Questo problema non si pone per i testi letterari e musicali, se non per i supporti della trasmissione (papiri, codici, libri, lapidi etc., ma lasciamo qui da parte la pur importante filologia dei materiali). Come va eseguito un intervento architettonico e/o urbanistico in un ambiente a ricca stratificazione cronologica? È superfluo ricordare i mille casi che offre la nostra Roma. 3. La necessità di una prospettiva storica8 mi fa porre una domanda cruciale: com’è stata impostata nelle varie epoche l’impresa del restauro? Ci sono stati momenti in cui ogni ricerca di metodo è stata omessa oppure in cui il restauro stesso è stato ignorato tout court? E quali sono state le impostazioni ideologiche, filosofiche, storiche, politiche dei vari momenti storici? E con quali differenze
|| 6 Dain 1949, [pp. 21, 44–46]. 7 [Ginzburg–Settis 2007, con le varie reazioni di Amorevoli 2007, Pinelli 2007, Bonsanti 2007]. 8 Rimando alla prospettiva estetica e alla prospettiva storica di Brandi 1977, [pp. 6, 29–37 e 39– 47, rispettivamente].
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per le diverse specie di documenti? Anche qui spero che alcune preziose impostazioni ci vengano oggi. Penso anche ai vari ordinamenti politico–giuridici in argomento. 4. Tutto quello che svisa l’opera originaria fa nascere i l f a l s o , parziale o integrale. Ovviamente vanno distinti i vari tipi (quello puro e semplice, il plagio etc.) e soprattutto le varie finalità del falso: religioso, filosofico–dottrinale, politico, letterario. Qualche anno fa la riflessione sul falso mi ha portato alla definizione di un interessante caso di falso, il falso preterintenzionale ovvero creato come tale non dall’autore ma dalla trasmissione9. 5. Non va trascurato il problema della r i c e z i o n e , che è particolarmente sensibile per le arti visive (la presentazione nei vari tipi di ambiente) e per la musica (l’esecuzione, gli ambienti, gli strumenti etc.). 6. Un accenno meritano anche la p o e t i c a d e l f r a m m e n t o , che tanta fortuna ha avuto specialmente nella letteratura del Novecento, e l ’ e s t e t i c a d e l l e r o v i n e nelle arti visive. Le rovine possono venire addirittura cancellate: è il caso della Cina, che non esita a sostituire più che a conservare e a restaurare10. Voglio ora dichiarare a tutti i presenti la sostanza di un accordo preso con gli oratori per la r e d a z i o n e d e i s i n g o l i i n t e r v e n t i . Per lasciare dell’incontro una memoria che avrà come sede i «Seminari Romani di Cultura Greca», anche a nome di Maria Grazia Bonanno propongo, come norma editoriale, le seguenti tre categorie fra loro alternative: (a) una r e d a z i o n e a c c u r a t a , completa di note e bibliografia, com’è nell’uso editoriale ‘bennato’; (b) la dichiarata riproduzione della v e r s i o n e o r a l e ; (c) a p p u n t i p e r l e m m i o quasi, in forma di cronaca più o meno giornalistica, per chi non si senta in grado di realizzare neppure l’ipotesi (b). Lasciatemi fare una considerazione che a me pare importante: quante volte abbiamo rinunciato a un incontro – con danno nostro e altrui – perché sapevamo di non essere in grado di realizzare (a)? E quante volte abbiamo realizzato una falsa (a) che, con molti compromessi, era in sostanza una forzata (b)? La (c), la nuda cronaca, è sempre stata, a torto, totalmente esclusa. Propongo di evitare questi vari livelli di inutile disagio, che alle volte produce una dannosa ipocrisia. L’ideale sarebbe di dare un’informazione almeno sommaria dello
|| 9 Rossi 2000. [Sulla tipologia del non autentico e, in particolare, sulle diverse modalità di falso (intenzionale e preterintenzionale) nel mondo antico Rossi si era già soffermato in Rossi 1998, spec. p. 15 s.]. 10 Settis 2006.
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svolgimento della discussione: per alcuni dei molti anni dei miei seminari chiedevo all’inizio della discussione che un paio di volontari si facesse avanti per una sommaria verbalizzazione: e devo dire che si ottennero allora risultati sorprendentemente positivi, ma non c’era, come oggi c’è, la rivista, che sarebbe una sede ottima per questo tipo di verbalizzazioni. Alla fine sia della mattina sia del pomeriggio lancerò la ricerca di volontari volenterosi verbalizzatori e spero che alcuni dei più giovani fra i presenti si facciano generosamente avanti. È bene comunque che chi fa un intervento che desidera sia registrato nella versione a stampa dia oggi stesso al presidente della seduta, o spedisca al più presto a qualcuno di noi, un testo dell’intervento stesso.
2 Appunti sulle consuetudini editoriali nei testi letterari greci e latini Intendo qui semplicemente offrire qualche spunto per la discussione comparativa fra i vari campi del restauro, partendo da quello di cui mi occupo, e cioè i testi letterari. Nel campo dei testi, che è quello che noi filologi frequentiamo, non c’è oggi alcuna possibilità di sfuggire all’imperativo di un restauro quanto mai onesto, palese, autodichiarato: e questo possiamo considerarlo un privilegio. L’armamentario dei segni critici è stato codificato tre quarti di secolo fa nel convegno di Leida del 193111. In quell’occasione si cercò di mettere ordine in alcune fondamentali funzioni operative con un siglario per le fonti e con simboli per gli apparati. Insomma, le nostre consuetudini editoriali sono una specie di scafandro che è fatto ovviamente per renderci impossibile la fuga nell’arbitrio e quindi nella falsificazione. Quando si interviene sui testi, e questo avveniva anche pesantemente soprattutto nell’Ottocento, bisogna apertamente dichiararlo e quindi esporlo alla discussione e a ogni tipo di verifica. Ma non è stato sempre così. E, siccome l ’ a p p a r a t o c r i t i c o è stato sempre il collettore degli scrupoli (più o meno ben diretti) dell’editore, penso che varrebbe la pena delinearne brevemente la storia. Ma, non mancando trattazioni moderne di prim’ordine che è inutile citare qui, mi limiterò a segnalare solo un fatto singolare, che a molti potrà apparire scioccante: dall’ormai classico libro di Kenney, efficacemente ripresentato con aggiunte nella traduzione italiana di Aldo Lunelli12, imparo che grosso modo il 1850 si può considerare co-
|| 11 Dow 1969. 12 Kenney 1995, pp. 197–205 (tutta l’Appendice).
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me l’approssimativo spartiacque fra noi, che consideriamo ovvio l’apparato, lo stemma codicum etc., e tutto quello che precedette Lachmann. In realtà l’apparato e anche le parentesi nel testo furono viste a lungo come una caratteristica che, sopportabile in campo scientifico, era da escludere come una bruttura che intristiva la leggiadria del testo letterario. Incredibile: la stessa numerazione delle pagine veniva sentita come una specie di innovazione ‘tecnologica’ che tradiva la immacolata pagina dei codici13. A non dire dell’apparato, macchia di cattivo gusto14. In fondo, lo stesso apparato di Lachmann era piuttosto semplice15. Da panorami storici del genere “costume della ricerca scientifica” si impara sempre molto, come dal singolare libro di Grafton16 sulla storia della nota a pié di pagina. Credo che qualcosa resti ancora da disciplinare, ed è secondo me soprattutto il campo delle i n t e g r a z i o n i e x e m p l i g r a t i a , di cui penso che non avremo modo di parlare oggi. È qualcosa che somiglia al restauro architettonico delle rovine: è il tentativo di rendere leggibili, ovvero in qualche modo fruibili, frammenti più o meno malandati con la creazione di un contesto, che però deve essere dichiarato come frutto di iniziativa del tutto personale. Penso che non sarebbe fuori luogo proporre una opportuna differenziazione tipografica per distinguere l’exempli gratia da integrazioni che l’editore offre come sufficientemente sicure. Oggi spesso la valutazione della differenza di probabilità è affidata al lettore: non sarebbe male che fosse l’editore a compromettersi col dichiarare apertamente il grado di validità da lui stesso assegnato alle sue proposte. Vedo, quindi, tre categorie di dichiarazione d’intervento: 1) gli interventi che l’editore ritiene sicuri (comunque dichiarati, perché sottoposti a giudizio), 2) quelli proposti con prudenza (con note esplicite in apparato), e infine 3) i veri e propri exempli gratia, che sono integrazioni del tutto personali. La prima e la seconda categoria possono convivere nello stesso apparato, ma per la terza è necessario, a mio parere, un apparato a parte, che, assai più degli altri due, è una specie di p a r z i a l e c o m m e n t o . Un’altra grande questione è, secondo me, il grado di validità dell’ a p p a r a t o d e i l o c i s i m i l e s . Oggi, in chi lo adotta, tale apparato è troppo spesso una raccolta indiscriminata di paralleli cronologicamente sia anteriori sia posteriori al testo in questione. E bisogna però dire che proprio oggi quest’istituto, che può rendere validi servigi al restauro dei testi e alla compren-
|| 13 Kenney 1995, pp. 199–201. 14 Kenney 1995, pp. 201–205. 15 Kenney 1995, p. 138 s. 16 Grafton 1997.
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sione dei fatti letterari, corre maggiori pericoli di una volta proprio per la facilità con cui tale raccolta di materiali si può oggi realizzare con s t r u m e n t i e l e t t r o n i c i 17. Vediamo, alle volte, interi spezzoni di thesaurus che arrivano sulla pagina stampata attraverso il “copia e incolla”, senza che ci sia una valutazione dell’accostamento, che può variare in rilevanza. La rilevanza massima è da assegnare al riconoscimento sicuro o quasi sicuro di quelli che oggi si chiamano r a p p o r t i i n t e r t e s t u a l i fra autore e autore. Questi rapporti possono consistere in: 1) richiami a un passo preciso di altro autore, nel qual caso si ha c i t a z i o n e o a l l u s i o n e oppure 2) possono rientrare in una generica appartenenza alla l i n g u a p o e t i c a del momento. Naturalmente non è irrilevante l’appartenenza all’una o all’altra categoria, ed è giusto che il filologo prenda posizione storico–letteraria quanto più possibile netta. Ma in tutti e due i casi l’accostamento, generico o preciso, può rientrare ed eventualmente sfumare in una ricezione linguistica (semantica, stilistica o che altro) che è in sé “necessaria”, secondo una recente brillante formulazione di Maria Grazia Bonanno18: il costituirsi di una lingua poetica, ieri come oggi, deve servirsi del passato, passato che è niente meno e niente più che la tradizione letteraria. È soprattutto a proposito di questo problema specifico che viene opportuna una precisazione in merito ai criteri che devono sottostare a ogni operazione critico–testuale. Non serve certo riprendere per l’ennesima volta la fondamentale endiadi pasqualiana di “storia della tradizione e critica del testo”, ma è utile estendere il valore che in genere si dà a “ t r a d i z i o n e ” Questa viene comunemente intesa come registrazione dei vari momenti della t r a s m i s s i o n e di un testo (orale o scrittoria che sia): una correzione o un’integrazione verranno proposte considerando le vie seguite dalla corruzione o dalla lacuna nel processo della trasmissione con la considerazione di lingua e cultura dello scriba, ambiente storico, qualità del materiale etc. Ma è ovvio che, nel caso dei testi, per tradizione bisognerà intendere una r i c e z i o n e c u l t u r a l e t o t a l e Tutto questo è ovvio, ma va messo in rilievo che è proprio qui che i loci similes, opportunamente selezionati e ordinati in categorie, possono rendere grandi servigi. In questo contesto vale la pena spendere qualche parola sul cosiddetto h a p a x l e g ò m e n o n che designa una voce che compare una volta sola. Con tutto quello che dei testi antichi è andato perduto e con il pochissimo che relativamente si è conservato (penso che si possa pensare, senza tema di errore, a
|| 17 [Sui rischi di un cattivo uso delle risorse informatiche in filologia Rossi era già intervenuto alla fine degli anni ‘90 (Rossi 1997)]. 18 Bonanno 1990.
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una percentuale molto, ma molto inferiore a 1), penso che sia arduo dare a questa categoria un valore qualunque che non sia, come dovrebbe sempre essere, una segnalazione puramente lessicografica, senza che questa comporti una valutazione assoluta. Penso, per esempio, ai composti epicizzanti di un Eschilo, per i quali sarebbe bene semmai inaugurare la categorizzazione (puramente tentativa) di p r o t o n l e g ò m e n o n , ovviamente sempre appoggiandosi a considerazioni linguistiche (nel caso dei composti eschilei, menzionato qui, si dovrebbe verificare la produttività linguistica di un certo tipo di composto, la frequenza e la caratterizzazione lessicale dei componenti etc.). Insomma, anche qui l’apparato dovrebbe diventare un e m b r i o n a l e c o m m e n t o 19. Si tratta qui – è bene che lo dica esplicitamente – di timidi desiderata, che dovrei in realtà mettermi in condizione di realizzare io stesso. Ma mi si lasci predicare, senza, in toto, razzolare20.
Bibliografia [M. Amorevoli, Alla battaglia dei restauri. “Sì, fermateli”. “Impossible”, «La Repubblica» 4.10.2007] A. Boeckh, Encyklopädie und Methodologie der philologischen Wissenschaften,Leipzig 18862 C. Bon Valsassina, Restauro made in Italy, Milano 2006 [G. Bonsanti, Non sono gli sponsor a dettar legge, «La Repubblica» 4.10.2007] M. G. Bonanno, L’allusione necessaria, Roma 1990 C. Brandi, Teoria del restauro. Lezioni raccolte da L. Vlad Borrelli, J. Raspi Serra, G. Urbani, Roma 1963 [Torino 19772] A. Dain, Les manuscrits, Paris 1949 S. Dow, Conventions in Editing. A Suggested Reformulation of the Leiden System, «GRBS», Scholarly Aids, 2, Durham 1969 [C. Ginzburg – S. Settis, Fermiamo i restauri. Cambiano la nostra storia, «La Repubblica» 3.10.2007] A. Grafton, The Footnote. A Curious History, Cambridge, Mass. 1997 E. Hebborn, The Art Forger’s Handbook, London 1997 E. J. Kenney, Testo e metodo. Aspetti dell’edizione dei classici latini e greci nell’età del libro a stampa, Roma 1995 (ed. or. Berkeley etc. 1974) G. Pasquali, Edizione, in Rapsodia sul classico, Roma 1986, pp. 255–267 (ed. or. 1932) G. Pasquali, Interpolazione, in Rapsodia sul classico, Roma 1986, pp. 267–270 (ed. or. 1933) [A. Pinelli, Gli interventi spettacolo sono un rito di massa, «La Repubblica» 4.10.2007] [L. E. Rossi, Filologia classica e informatica, in T. Orlandi (cur.), Discipline umanistiche e informatica. II problema della formalizzazione, Roma 1997, pp. 173–180]
|| 19 Tale viene sempre considerato l’apparato del Callimaco di Pfeiffer. 20 [Il testo rimane interrotto, con un riferimento incompleto ai due lavori di Settis 2005 e Settis 2006, che potrebbe riferirsi anche a qualche precedente sezione dei due interventi].
150 | Sezione 7: Critica letteraria
[L. E. Rossi, Tipologia del non autentico nel mondo antico, in R. Gigliucci (cur.), Furto e plagio nella Letteratura del Classicismo, Roma 1998, pp. 15–18] L. E. Rossi, Origine e finalità del prodotto pseudepigrafo. Pseudepigrafia preterintenzionale nel Corpus Theocriteum: l’idillio VIII, «AION(fil)» 22, 2000, pp. 231–261 S. Settis, Battaglie senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Milano 2005 S. Settis, Futuro del ‘classico’, Torino 2004 (20062)
| Sezione 8: Storia degli Studi
Rileggendo due opere di Wilamowitz: Pindaros e Griechische Verskunst Recensire di nuovo a distanza di cinquant’anni dal loro apparire il Pindaros (Berlin 1922) e la Griechische Verskunst (Berlin 1921) di Wilamowitz sarebbe impresa difficile e sostanzialmente inutile. Difficile perché bisognerebbe controllare a fondo la ricchissima informazione in tutti i campi dell’antichità classica che W. già settantenne aveva accumulata; e questo andrebbe fatto soprattutto per la storia, che fra l’altro è stato il settore più trascurato dai recensori. Ma sarebbe anche inutile, visto che l’uso continuo di queste due opere da parte degli studiosi ne ha in certo modo setacciato i contenuti scientifici, riproponendone le tesi e le impostazioni ancora valide o anche solo vitalmente stimolanti. Ma lo scopo delle notazioni che qui seguono è un altro: esse sono state a suo tempo destinate ad un seminario tenuto a Pisa dal Professor Arnaldo Momigliano il 13 e il 14 gennaio 1972 sulla personalità umana e scientifica di W. e riappaiono qui solo lievemente rielaborate. Inserendomi nel contesto delle altre relazioni su altre opere di W., mi limito qui a mettere in rilievo alcuni pregi che a me paiono indiscutibili di due libri per gran parte fra loro complementari, nonché alcuni dei più appariscenti difetti metodici di essi che ancora possono trovare seguito. E questo è in realtà, oggi, compito anche troppo facile, ma forse utile e per riproporci la figura dello studioso in alcuni dei settori da lui maggiormente coltivati e per verificare alla luce di nuove metodologie e di nuovi risultati metodi e conquiste che conservano il loro valore solo se collocati nel loro contesto. *** In una lettera da Berlino datata 4.12.1900 al suocero Theodor Mommsen per la morte del fratello di lui Tycho e pubblicata nel carteggio (528–30)1. W. scriveva che, facendo corsi pindarici agli studenti (essi sono elencati nella Bibliografia)2,
|| [Relazione tenuta al Seminario su Ulrich von Wilamowitz–Moellendorff promosso da Arnaldo Momigliano, 13–14.1.1972, “Scuola Normale Superiore” di Pisa; pubblicata in «ASNP», cl. Lett. e Filos., s. III, 3. 1, 1973, pp. 119–145] 1 TH. MOMMSEN – U. VON WILAMOWITZ–MOELLENDORFF, Briefwechsel 1872–1903, Berlin 1935. 2 Wilamowitz – Bibliographie 1868 bis 1929 (redatta da F. Frhr. Hiller von Gaertringen e G. Klaffenbach), Berlin 1929 p. 79 (corso pindarico nel WS 1900–01). Alle pp. 75–83 l’elenco dei corsi, dal WS 1874–75 al WS 1929–30. https://doi.org/10.1515/9783110648140-008
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riteneva opportuno avvicinarli all’aspetto umano degli studiosi che se ne erano occupati, fra cui era stato Tycho Mommsen. Dopo una valutazione dei meriti critico–testuali di Tycho, così continua (529): Allein ich schätze im Grunde subjektiv seine Jugendarbeit über P i n d a r a l s D i c h t e r u n d P e r s o n noch höher. Freilich objektiv ist sie wohl ganz verfehlt, wie wir jetzt urteilen, und sie ist ganz vergessen, dies nur weil Pindar überhaupt, so wie Tycho es wollte, nicht a l s g a n z e P e r s o n betrachtet wird. Und doch war es ein Fortschritt über Böckh, von Hermann zu schweigen, als der junge Mann d e n D i c h t e r d e s Adels aus den politischen Gegensätzen und Strebungen s e i n e r Z e i t zu erklären unternahm3.
W. aveva cominciato a «studiare seriamente» Pindaro alla età di circa vent’anni (ibid., 529) e fin da allora aveva sentito il bisogno di uno studio che tenesse conto del poeta c o m e « p e r s o n a » , c o m e u o m o . Lo stesso aveva affermato alcuni anni prima, sempre in una lettera al suocero e sempre a proposito di Tycho (18.12.1882, da Greifswald; ibid., 137 sg.), ma qui l’accento era posto ancor più vigorosamente sul quadro storico–politico, su quello che nel P. (24, cf. 445 sgg.) viene chiamato Hintergrund: Ausserdem hat mir wieder Pindar eine ganze Reihe hübscher Dinge erschlossen. Das kann auch nicht ausbleiben, wenn man d e r P o e s i e w i e d e r G e s c h i c h t e gerecht zu werden versteht. Böckh fehlte die erste, G. Hermann leider die zweite: sonst wäre nichts zu tun, als auf seinem Pfade zu gehen. Es macht mir übrigens Vergnügen, Deinem Bruder Tycho, der sein Licht immer selbst unter den Scheffel stellt, wenigstens auf dem Katheder zu den Ehren zu verhelfen, die er (obwohl ihm historischer Blick versagt ist) vollauf verdient: denn dass d i e H i s t o r i e hier einen unerschlossenen Schatz birgt, hat er mit Recht empfunden. Die herkömmlichen Phrasendrescher oder Rationalisten, und viel mehr ist Grote im Grunde auch nicht, wissen nicht einmalaus einem Gedichte Kapital zu schlagen, das ein Thebaner nach der Schlacht von Plataiai macht, obwohl die rechtliche Stellung Thebens eigentlich mit dürren Worten darin steht.
La progressiva focalizzazione dell’interesse da un più generale quadro storico a una più precisa delineazione biografica dell’uomo appare dalla stessa carriera intellettuale di W., specie se si considerano i suoi lavori pindarici anteriori al P. Fin dall’Isyllos von Epidauros, che è del 1886, dove in uno degli excursus tratta dell’O. 6, è chiaro che per lui un’ode pindarica è almeno in prevalenza «una fonte storica da combinarsi con altre fonti come sussidio a studi quali la prosopografia, la genealogia, l’etimologia, la geografia, la sociologia, così come la storia in senso generale». Così David C. Young, in quello che a tutt’oggi è il
|| 3 Qui e altrove nelle citazioni gli spaziati sono miei.
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quadro più ricco e dettagliato della critica pindarica nel campo più strettamente storico–filologico4. Le principali pubblicazioni anteriori al P., che sono state in parte rifuse in esso e in parte da W. stesso rinnegate, sono: Ἰάμου γοναί, in Isyllos von Epidauros, Berlin 1886, 162–85 (su O. 6); Euripides. Herakles, Darmstadt 19594 (18891), II, 88 sgg. (su N. 1); Hieron und Pindaros, Sitz.–Ber. Berl. Ak., 1901, 1273–1318; Pindars siebentes Nemeisches Gedicht, Sitz.–Ber. Berl. Akad., 1908, 328–52 (ristampato in Pindaros und Bacchylides, Darmstadt 1970, 126–58): autocriticato –erledigt– in P. 160 n. 1; Erklärung pindarischer Gedichte, Sitz.–Ber. Berl. Ak., 1909, 806–35; Pindaros, Reden und Vorträge, I4, Berlin 1925, 119–45.
L’attività didattica su Pindaro si distribuisce in un arco di tempo di quasi cinquant’anni, per quanto è ricostruibile dai titoli dei corsi riportati nella Bibliografia: Greifswald (SS 1876 – SS1883): WS 1877–78, WS 1881–82; Göttingen (WS 1883–84 – WS 1896–97): WS 1885–86, SS 1893; Berlino (dal SS 1897): WS 1900–01, WS 1906–07, WS 1918–19.
Sarebbe interessante poter seguire anche qui l’evoluzione degl’interessi di W. Notevole che Pindaro compaia sempre in corsi di lezioni, come se W. sentisse il quadro storico–critico più nettamente affidato alla sua personalità di studioso, alla sua capacità di offrire una valida Darstellung, e quindi meno problematico e ‘discutibile’; mentre vedremo, a proposito della Verskunst, che la metrica compare sempre in corsi di seminari e di esercitazioni per principianti. Nell’esigenza di dare concretezza storica al quadro che traccia W. si situa sulla linea Niebuhr–Boeckh, Mommsen (ammirazione per Boeckh e il suo senso storico in P., 7). Nella storia degli studi pindarici questo filone critico è stato inaugurato dallo stesso Boeckh, ed è stato chiamato da Young il metodo della «allegoria storica»5: il suo fondamento sta nell’assunzione che il mito sia
|| 4 DAVID C. YOUNG, Pindaric Criticism, in Pindaros und Bacchylides, Darmstadt 1970, 1–95 (versione riveduta – v. 91 sg. – dell’articolo apparso già in Minnesota Review, IV, 1964, 584–641). Sull’Isyllos 38 sgg.; sul P. 52 sgg. In generale Young appare troppo severo con W., mostrando eccessivo disprezzo per lo Hintergrund in sé, anche se W. va criticato per i mezzi con cui spesso lo ricostruisce. Utile sussidio per lo studio di Pindaro è oggi D. E. GERBER, A Bibliography of Pindar 1513–1966, Philol. Monographs of the Amer. Philol. Assoc. 28, 1969. 5 YOUNG, art. c., 9; cf. 40, dove è feroce (ma vivacemente spiritoso) contro W.: «in authoritative indicatives and past tenses the reader meets statement after statement about the personal lives
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un’allegoria di fatti della vita del poeta o dei personaggi da lui cantati, siano questi fatti più strettamente personali o più genericamente politici. Come questo atteggiamento critico si evolva da attenzione al fatto storico ad una volontà di più precisa ricostruzione biografica, su una linea che da Boeckh attraverso L. Schmidt arriva alle opere giovanili e al P. di W., è stato efficacemente mostrato da Young. Ora, è appena il caso di ripetere che l’attenzione al quadro storico, archeologico, antiquario, mitografico etc. è essenziale, e che elemento del quadro storico in senso lato è naturalmente anche la biografia del poeta: ma farsene lo scopo principale, voler giudicare il prodotto letterario quasi esclusivamente nel contesto biografico, e soprattutto voler ricavare gli elementi della biografia praticamente quasi solo dalle opere di un poeta dell’età arcaica come Pindaro, è un grave errore e forse è la debolezza che più salta agli occhi nel P. di W. come in alcune altre delle sue opere della maturità. I recensori avevano naturalmente subito messo l’accento su questa caratteristica, senza però vederci sempre un limite6, mentre critiche più o meno rilevate furono fatte da altri7. Nulla aggiunge al valore scientifico di questo libro, che avrebbe potuto essere intitolato ‘Biografia di Pindaro’, il fatto che esso appaia come una delle opere più unitarie di W., proprio perché spina dorsale ne è la persona di Pindaro, la sua biografia. W. stesso lo annuncia espressamente nelle pagine introduttive (11) e significativo è che la trattazione della metrica ne venga intenzionalmente esclusa (ibid.), avendola W. riservata alla Verskunst, mit der Absicht …, dies Buch zu entlasten. È certo in questo senso che va inteso il giudizio espresso da Eduard Fraenkel in una conferenza su W. tenuta a Roma il 14 maggio 1969: «forse il suo lavoro più pregevole da un punto di vista letterario»[*].
|| and actions of men who have been dead almost 2,500 years, written as if from the pen of an eye–witness (the style is reminiscent of recent ‘historical fiction’)». 6 A. KÖRTE, Lit. Zentralblatt, LXXIV, 1923 coll. 284–6; C. DEL GRANDE, Riv. indo–gr.–italica, VIII, 1924, 295 sg. 7 A. B. DRACHMANN, Deutsche Lit.–Zeit., XLIII, 1922 coll. 1101–7, che è scettico sulla possibilità d’intravedere la Gelegenheit per la maggior parte dei casi (col. 1104), ma che ritiene giustificato il metodo, visto che in una Gelegenheitspoesie ci sarebbe un forte Hervortreten des persönlichen Elements – ma per lo scetticismo di Drachmann sul biografismo per i committenti v. Moderne Pindarfortolkning, Kjøbenhavn 1891, 5 sgg.; E. BETHE, Neue Jahrbb., LI, 1923, 242 sg., che critica il fatto che l’opera di P. viene considerata semplicemente un mezzo per arrivare alla biografia; O. SCHROEDER, Philol. Wochenschr., XLIII, 1923 coll. 49–55 lamenta che nel Charakterbild finale manchi molto (??) e che W. dica soprattutto quello che Pindaro non è e non può essere per noi moderni (in sostanza quindi, quanto al metodo, approva più di quanto non critichi). [* In seguito pubblicata: E. FRAENKEL, Wilamowitz (traduzione italiana di Luigi Enrico Rossi), «QS» 5, gen.–giu. 1977, pp. 101–118; le parole citate nel testo si trovano a p. 112.]
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Il progressivo emergere e perfezionarsi dell’interesse biografico va visto, fra l’altro, come espressione della tendenza romantica e tardo romantica ad idealizzare il ‘personaggio’: e sarebbe qui utile una rassegna della biografia e dell’autobiografia contemporanee a W., che sarebbero poi sfociate nel ‘giornalismo’ di alto bordo dell’entre deux guerres. Ma tale interesse ha radici più profonde, che sono in buona parte ravvisabili nel clima culturale tedesco. Attraverso la crescente specializzazione tecnica la filologia fa ‘parlare’ il documento in maniera sempre più chiara ed univoca e si acquista così la possibilità di ‘raccontare’ il mondo antico a circoli sempre più ampi di persone di cultura: quella che è stata chiamata la Demokratisierung der Bildung è stata un tentativo in grande di comunicare dei contenuti culturali a una società che se ne mostrava sempre più assetata per riconoscersi e giustificarsi in essi (e di qui gli innumerevoli arbitri antistorici di cui proprio la cultura tedesca si è fatta responsabile): né è certo un caso che la riforma dell’insegnamento in Germania trovi luogo proprio nel corso della vita di W. Ora, un mezzo per ottenere questa Verlebendigung, da W. stesso teorizzata e propugnata, doveva apparire la ricostruzione della biografia del singolo, che doveva poi inserirsi in una ricostruzione storica più ampia8. Che poi fossero soprattutto alcuni personaggi del mondo antico, come Platone e Pindaro, ad eccitare a preferenza di altri l’interesse e la passione biografica di W., è più che naturale, come conseguenza di una elezione simpatetica. Parlando del P., viene infatti spontaneo pensare al Platon (1919, 1920), che sotto questo aspetto è l’opera (non solo cronologicamente) più vicina. L’ovvio parallelo era già stato fatto dai primi recensori9 e, se qui del Platon non mi occupo, è che esso è stato efficacemente presentato anche sotto questo profilo da Margherita Isnardi Parente10. Ma cominciamo dall’aspetto più positivo dell’esigenza di immergere la poesia nella storia. Per completare il quadro delle ascendenze metodologiche di W.
|| 8 Per quanto qui è esposto per sommi capi v. A. HENTSCHKE–U. MUHLACK, Einführung in die Geschichte der klassischen Philologie, Darmstadt 1972 spec. 100–6. Per influenza di posizioni di DILTHEY (Das Erlebnis und die Dichtung) v. ibid., 103 e n. 29. La teorizzazione della Verlebendigung in WILAMOWITZ, Geschichte der Philologie, in GERCKE–NORDEN, Einleitung, Berlin 31921, 1: «Die Aufgabe der Philologie ist, jenes vergangene Leben durch die Kraft der Wissenschaft wieder lebendig zu machen». 9 BETHE, rec. cit. 248; KÖRTE, rec. cit. 285. 10 Sempre nel corso del seminario pisano. Il biografismo del Platon, forse ancor più arbitrario e dannoso di quello del P., è stato bene criticato dalla Isnardi Parente. Quasi tutto contro il Platon, con qualche spunto contro il Sappho und Simonides (1913), è H. CHERNISS, The Biographical Fashion in Literary Criticism, Univ. of. Calif. Publ. in Class. Philol. 12.15, 1943, 279–91.
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c’è da aggiungere che l’attenzione all’arte figurativa è eredità di Welcker11, anche se è strano che proprio da Welcker W. non abbia imparato la lezione più importante, come vedremo in seguito. Notevoli sono le vivaci Darstellungen che offre dei luoghi della carriera pindarica, anche se sono espressamente finalizzate alla ricostruzione di Pindaro uomo. All’inizio del libro viene presentata la Beozia (12 sgg.), con particolare attenzione alla natura del suolo e alle risorse naturali (51 sgg.). Grande amore è dedicato alla ricostruzione della topografia di Tebe al tempo di Pindaro, data come espressione del bisogno di ‘localizzare’ gli avvenimenti della sua vita (24). Seguono, al momento in cui ne viene opportuna la menzione seguendo passo passo la carriera di Pindaro, Egina e Delfi (61 sgg.), Atene (90 sgg.), Sparta (322–4), la Sicilia (224 sgg.), Delo (329 sg.), la Locride (353 sgg.: a proposito di Opunte, O.9), Cirene (369 sg.). Non è questo il luogo per impostare ex novo grosse questioni, come i riflessi dei rapporti coi Persiani, le reazioni di Pindaro e della classe che egli rappresentava di fronte alla sorte di Egina etc. Ricorderemo qui solo che un certo interesse storico–politico è sempre presente in W. e qualche volta è segno di vivace sensibilità, come quando nota (167 sg.) che Pindaro fa per primo Neottolemo re dei Molossi e che in sostanza la N. 7 è una celebrazione di Neottolemo e dei Molossi ispirata al legame che Tebe ha con Dodona (frr. 57–60 Sn., inno a Zeus Dodonèo; i Beoti mandavano ogni anno un tripode a Dodona). Notevole il rilievo dato alla simpatia del poeta per Ierone come fondatore di Etna (297 sg.): Timeo, per il fatto che Etna cade, non avrebbe capito Ierone, a differenza di Pindaro, col quale W. solidarizza. E gli esempi potrebbero continuare. Più notevole ancora è una certa sensibilità storico–sociale, anche se per lo più resta confinata al campo prosopografico: come quando osserva (158 sg.) che Timodemo (N. 2, 485?) non doveva appartenere a classe nobile, altrimenti non avrebbe avuto terreni a Salamina (e del resto nello stesso nome ci sarebbe traccia di appartenenza a classe popolare). In questo senso le pagine più vive sono forse quelle sulla situazione storico–sociale della Beozia (47 sgg.: Bundesstaat, forse il più unitario della Grecia), nonché sul rapporto fra possesso terriero e società (51 sg.). Interessante la nota sulla professionalità del coro ciclico di fronte ai neu eingeführten Bürgerchöre del teatro (92, cf. 111 e n. 1). Il libro è aperto, secondo linee inaugurate a suo tempo da W. stesso (la Einleitung, del 1889; le due Textgeschichten, del 1900 quella dei lirici e del 1906 quella dei bucolici), da una veloce storia della fortuna dall’antichità al medioevo e all’età moderna (1 sgg.; ripresa e completata a 445 sgg.). Ma oggi abbiamo || 11 Belle parole su Welcker in Erinnerungen 1848–1914, Leipzig 21929, 89. Nel P., 8, W. è stranamente severo con Welcker, come ha notato SCHROEDER, rec. cit.
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da registrare grandi progressi in questo campo e le pagine di W. appaiono ormai superate. Dove invece abbiamo ancora da imparare da lui, e dove si muove da padrone, è dove può far valere il suo acume storico–letterario. Abbiamo qui un ricco tesoro di materiali, che vanno dal quadro di un fenomeno letterario, all’esegesi di un passo singolo, al testo. A 233, prendendo spunto da O. 1.14–7 (musica e poesia intorno alla tavola di Ierone), definisce queste composizioni siciliane come Gesellschaftslyrik, adatta anche ad esecuzione solistica (Einzelvortrag), come nel caso di Policrate ed Ipparco e dei Knabenlieder di Ibico e di Anacreonte (cf. 240 per O. 2; 259 per N. 9, cf. O. 5 e P. 5; v. 453 per la letteratura simposiaca e cf. Gr. Versk. 109). A 39 sg. buona caratterizzazione della mitologia pindarica: Pindaro ignora le storie locali che appassionano Corinna (Citerone, Elicona, Parnete, che sono giganti); ama una sorta di Homerisierung (e cioè ‘filiazione’ alla religione olimpica), che fa Ἀγγελία figlia di Hermes (O. 10.4), Ἡσυχία (P. 8) e Ἀτρέϰεια (O. 10.13) figlie di Zeus. Rifiuta il teriomorfismo (Tiergestalt: 40 sgg.): lo stallone Arione, Posidone–cavallo, i Dioscuri–cavalli che nascono sul Citerone (tutti elementi mitologici beotici; v. poi quanto è detto su Apollo, 43 sg., Dioniso, 45 sg., Eracle, 46 sg.). Osservazioni sui generi letterari sono sparse in tutto il libro (e v., a proposito dell’ordinamento alessandrino, 108 sgg.). Notevole che denunci (108 n. 2) la necessità di raccogliere in maniera completa i materiali in tal senso, compito che ancora aspetta chi lo affronti su larga scala12. Non so che sia stata altrove messa in rilievo la differenza fra canti cultuali forniti su ordinazione per una singola celebrazione e liturgische Gesänge, die dauernd in Gebrauch sind, una specie di liturgia stabile, fissa (109). Una delle osservazioni più vivaci, su problemi singoli, è quella di 325 sgg.: Carthaia in Ceo si rivolge a Pindaro per un peana, il IV, e non a Simonide (forse già morto) o a Bacchilide: ed ecco per questa scelta la soddisfazione di Pindaro, che fa lodi smisurate a Carthaia. Numerose sono le splendide osservazioni linguistiche. A 466 con poche parole, che sono espressione del senso dell’ovvio, giudica P. 10.1 ὀλβία Λαϰεδαίμων, μάϰαιρα Θεσσαλία giustamente come frase nominale (δέ [che è nella proposizione successiva] beweist, dass ὀλβία u. μάϰαιρα Prädikate sind): per molti ancor oggi la cosa non è ovvia, come per es. per Puech e, quel che è più grave, per Benveniste, che omette questo esempio nel suo elenco delle frasi nominali nelle Pitiche13. A 103 sgg. buone caratterizzazioni dello stile. Ometto qui di parlare dei contributi critico–testuali, che sono numerosi e rilevanti: sono rintracciabili attraverso una scorsa agli apparati, specialmente di Schroeder e di Snell. Ricorderò solo che W. è contrario, in generale, alla ‘regolarità’ metrica e quindi favorevole alle Responsionsfreiheiten (97, dove parla addirittura di Fanatiker della assoluta regolarità; e cf. numerose analisi singole in Gr. Versk.), in questo in polemica (implicita) con Paul Maas (le
|| 12 A segnalare questo desideratum wilamowitziano è stato recentemente A. E. HARVEY, CQ, V, 1955, 157. Per il problema in generale di raccogliere testimonianze esplicite degli antichi sui generi v. L. E. ROSSI, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, Bull. Inst. Class. Stud., London, XVIII, 1971, 69–94. 13 E. BENVENISTE, Problèmes de linguistique générale, Paris 1966, 161 sg. (1950). Segnalatomi da Meinrad Scheller.
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sue Responsionsfreiheiten sono del 1913 e 1921; ma a 430 n. 1 è d’accordo con Maas per N. 11.11) e in accordo colla cosiddetta scuola storica (Schroeder, soprattutto; in Italia quest’ultima corrente verrà continuata da Perrotta e da Gentili).
Quanto alla sua adesione simpatetica al personaggio, c’è da dire che Platone si offriva con più immediatezza al suo amore di biografo. Per Pindaro, invece, l’impressione che si ha è che si tratti di un legame di odio–amore, o meglio, in maniera più attenuata, di una simpatia in qualche modo contrastata. I due poli positivo e negativo di tale contrasto sembrano essere da una parte il legame di Pindaro coll’ambiente aristocratico e colle città rette a regime aristocratico (e W., rampollo di nobile famiglia, è anche per la nobiltà di nascita di Pindaro stesso, come da lui e da alcuni altri si fa risultare da P. 5.76 –«gli Egidi, miei antenati» –, v. 60, 477 sgg.); e dall’altra non solo e non tanto la coscienza del fatto che Pindaro è, per gran parte della sua lunga vita, un sopravvissuto, un sorpassato nei costumi e nelle idee, quanto soprattutto la passione per tutto quello che si può definire ‘ionico–attico’ e il comparativo minore apprezzamento per quello che W. definisce ‘beotico’. Sulla posizione di Pindaro arcaico in epoca ormai matura W. ha scritto una pagina vivace e incisiva (445), ed è spontaneo dargli ragione: «Non sappiamo se nell’acconciatura dei capelli e nelle vesti Pindaro sia rimasto alla moda vecchia ed ormai abbandonata dell’epoca anteriore alle guerre persiane; ma così era nel suo costume poetico, e quando uno dei suoi ultimi carmi giungeva ad Atene, era come se la più bella delle korai che ora sonnecchiavano nella colata persiana apparisse fra le kanephoroi del fregio del Partenone. Si può pensare che Pindaro saltasse agli occhi fra gli ateniesi come un impiegato a riposo dell’epoca di Federico il Grande colla sua treccia fra la gioventù del 1820». Si pensa qui all’atteggiamento – molto più marcato, beninteso – di dichiarata antipatia di un Gaetano De Sanctis, che in un capitolo famoso della sua Storia dei Greci confrontava Pindaro con Eschilo, vedendo nel primo l’inferiorità di chi non sa stare a passo coi tempi. Quanto alla ‘ b e o t i c i t à ’ , invece, comincia qui la nostra rassegna di posizioni metodiche discutibili. La formulazione più chiara è quella che leggiamo alla fine del libro (463): «Tutto quanto è grande, e che ci sta a cuore, è ionico– attico». Questo mondo sarebbe estraneo a Pindaro. I dolori cominciano quando si tratta di caratterizzare quello che W. intende per ‘mondo beotico’. Un parallelo coll’altra grande voce poetica della Beozia (56) lo porta ad affermare che Esiodo «non raggiunge il tranquillo fluire dei pensieri; i suoi violenti salti hanno spesso sviato i critici, portandoli a mettere in dubbio l’unitarietà della sua opera (die Einheitlichkeit). Vedremo che anche in questo Pindaro è esiodeo ed io penso che questo sia, appunto, la loro comune beoticità (das Boeotische in ihnen)». W. confonde qui le caratteristiche dei rinnovati generi letterari con delle costanti
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etnico–culturali che lui stesso si vuole creare (o che, meglio, prende da una tradizione di studi di cui sarebbe fuori luogo qui ricercare le fila): ed estrae dai due autori una caratteristica che è comune per caso, quella che potremmo chiamare una certa desultorietà del dettato (la ‘mancanza di logica’ degli arcaici), che però si iscrive in un quadro strutturale diverso per i due. Che Esiodo e Pindaro non siano Omero, col suo regolare flusso narrativo, e che seguano vie nuove non significa né che siano equidistanti ugualmente tutti e due da Omero e dagli attici (Pindaro è un anello della catena che porta il mito epico alla drammatizzazione e storicizzazione degli attici), né che manchino di abbondante compagnia in altri ambienti culturali della Grecia arcaica: Esiodo non narra più come Omero perché passa alla riflessione e alla parenesi come la filosofia ionica, e Pindaro spezza il flusso narrativo omerico in una serie di scorci in misura forse un po’ maggiore, ma in maniera sostanzialmente identica al resto della poesia corale, che non è davvero solo ‘beotica’. Ma simpatia è simpatia, e non si discute (11): «Il mio cuore è con gli ateniesi, ma proprio per questo dò volentieri testimonianza del fatto che ho voluto render giustizia anche a questo beota con doveroso amor di filologo (mit der rechten Philologenliebe)». E si legga anche alle pp. 57, 113, dove lo contrappone non solo allo ‘ionico–attico’, ma anche al ‘peloponnesiaco’. Alla Beozia, per di più, manca il mare (12), e per questo mancherebbe mobilità, interesse per il lontano e il nuovo; ci sarebbero però costanza e fedeltà verso gli dei e gli uomini14. Ma anche qui W. confonde ipotetiche caratteristiche di razza con quello che è caratteristico della classe a cui Pindaro appartiene forse anche per nascita ma almeno per elezione, e che è uguale in tutti gli ambienti della Grecia arcaica. E perché mai (10) per Pindaro la conoscenza della natura e dei monumenti sarebbe ancor più necessaria che per la poesia attica? È una delle frequenti affermazioni apodittiche di W., così comuni in tutte le sue opere. Forse perché la sente più locale e meno universale, più provinciale? Certo W., pur nel pregiudizio della ‘beoticità’, è stato altrove più equanime nei confronti di Esiodo, come quando, a conclusione dell’esame del proemio della Teogonia, scriveva (Die Ilias und Homer, Berlin 1916, 476 sg.): So ist denn wohl der Zusammenhang aller Teile klar geworden, und statt hieran herumzuzerren und zu nörgeln, wird man empfinden, wie Arat und Kallimachos und das ganze Altertum empfunden hat, dass hier ein Dichter ersten Ranges zu uns spricht, mag er die homerische Form, gerade weil er Neues und Persönliches zu sagen hat, auch nicht mit
|| 14 Ma non mancano certo in Pindaro metafore ed immagini marine, come W. afferma (ibid.)! Contro that irresponsible statement YOUNG, art. c., 53 n. 107 porta una massa di luoghi pindarici, molti dei quali sono fra i più incisivamente presenti alla memoria di ogni lettore degli epinici. Colossale distrazione? Ostinato partito preso?
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homerischer Leichtigkeit handhaben. B ö o t i s c h e s B l u t ; das hatte Pindar auch. Wir sollen d a s I o n i s c h – A t t i s c h e nicht von ihnen verlangen. Aber wenn wir sie nicht verstehen, sind wir –Böoter.
C’è per lo meno capacità di capire, se non proprio capacità di amare (P. 463: «Pindaro s’impone prima al nostro rispetto, poi al nostro amore»15). Ma la prospettiva, in sé sfocata, lo porta ad alcune ingenuità storico–politiche. Quando parla dell’appartenenza di Pindaro ad una comunità aristocratica (459), com’erano presenti a Tebe ed Egina, se ne lascia scappare una delle più grosse: Ὀλβία Λαϰεδαίμων, μάϰαιρα Θεσσαλία. Wenn wir ehrlich sind, müssen wir eingestehen, dass Pindar kein V a t e r l a n d s g e f ü h l hat; es umfasst ja nicht einmal Boeotien, geschweige Hellas (e si ripete a p. 463; ma non aveva detto, bene, a p. 57 che Pindaro, più che beota, si sente tebano, cadmeo?). Fin qui un luogo comune, del quale oggi è superfluo lo scandalizzarsi (eppure la soluzione era in quanto precedeva, nell’appartenenza alla aristokratische Gemeinde internazionale!). Ma poi viene la grande inesattezza (ibid.): Die Autonomie der Kleinstadt ist für ihn alles, wie sie es zum Verhängnis für die meisten Hellenen war, noch für Aristoteles. W. non pensa che l’autonomia della polis per Pindaro non può essere un problema, non può emergere come tale per il semplice fatto che non è ancora uno dei due poli di un’alternativa: come sarà invece, e lo sappiamo bene, nel quarto secolo (pensiamo alle posizioni, opposte, di un Isocrate e di un Demostene). E potremmo continuare, ma ci limitiamo ad un solo altro esempio. È vero che il 498 (P. 10) è il momento per lodare sia Sparta sia la Tessaglia (124), che sono tutte e due in fase di potenza e di prestigio (Sparta guiderà pochi anni dopo i greci contro la Persia e la Tessaglia è governata da una grande personalità come l’Aleuade Thorax). Ma andava messo più in rilievo che il valore politico della celebrazione è un altro (che del resto W. non manca di menzionare): la comune costituzione aristocratica! E non è neanche vero che, come W. dice, per nessuno dei due paesi Pindaro usi di nuovo espressioni di natura politica: nel fr. 199 Sn. Sparta è di nuovo lodata, questa volta sia per la costituzione politica sia per l’amore alle arti, il che fra l’altro fa pensare che la Sparta di Alcmane non era ancora cambiata del tutto. Qualunque sia la via per cui vi arriva, qualunque sia il prezzo che si vede costretto a pagare, W. ha comunque, alla fin fine, profonda simpatia per Pinda|| 15 Non possiamo non ricordare, a questo proposito, la reazione vivacemente scandalizzata di G. PERROTTA, Saffo e Pindaro, Bari 1935, 106: «Che poeta è mai questo, che prima dev’essere rispettato, poi amato?». Ma Perrotta, da buon crociano, non discute i termini del ‘rispetto’ (ovvero della comprensione) di W., bensì esclude tutto quello che si frapponga al godimento diretto della grande poesia, all’amore per essa.
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ro, che è per lui il nobile cantore di nobili. Le ultime parole del libro (463) esprimono la speranza che il suo sforzo di comprensione abbia guadagnato Pindaro a sé e ad altri «come fedele compagno di vita (treuen Lebensgefährten)»: sia nell’aggettivo sia nel sostantivo c’è l’ethos dello Junker, che nel corso di cinquant’anni di consuetudine ha verificato la sua adesione a un modello di vita a lui vicino e congeniale. Ora, a tale comprensione W. è arrivato proprio attraverso il suo tentativo di r i c o s t r u z i o n e b i o g r a f i c a in grande, ed è venuto il momento di seguire più da vicino i suoi procedimenti. Dalla affermazione della necessità di conoscere la persona (11, cf. 463), si passa ad una narrazione della vita (114 sgg.: alles Erreichbare heranholen), dove molti elementi vengono dati come certi, mentre ciò che li crea è la tenace volontà evocatrice di W.; seguono un quadro della famiglia (57 sgg., e v. anche 438 su moglie e figli dal fr. 104e Schr. = 94c Sn.; 477 sgg., già cit., sul genos degli Egìdi) e il racconto degli anni di apprendistato ad Atene sotto Laso e Simonide (88 sgg.). Se si toglie al quadro quello che di più arbitrario e fantastico vi viene con abilità inserito, quanto ne vien fuori è senz’altro prezioso e va messo accanto alle vivaci Darstellungen geografiche e ambientali a cui abbiamo accennato prima. Quel che va criticato non è tanto il biografismo in assoluto, quanto il biografismo a tutti i costi: il forzare, cioè, i testi a dire quello che non dicono e che non vogliono dire, come vedremo meglio in seguito. A voler entrare in particolari, gli esempi di questo abuso sarebbero legione, anche limitandoci – come sarebbe giusto –a quelli più facilmente smascherabili e guardandoci dall’attribuire a W. errori che appaiono tali solo a chi, come noi, ha il vantaggio di avere a disposizione nuovi materiali e nuove metodologie. Vediamone alcuni. Parlando delle odi per i figli dell’egineta Lampone (N. 5, I. 5, 6), afferma (169) che, «siccome in queste composizioni (la N. 5 e le due posteriori) celebra altri componenti della famiglia, era un amico di famiglia (ein Hausfreund)». Ma il motivo della celebrazione delle glorie familiari è topico, e lo troviamo abbondantemente sviluppato anche altrove! A Freund si dovrebbe dare un significato molto generico, nel senso che in una società così ristretta tutti si conoscevano! Così, in N. 4.22 φίλοισι γὰρ φίλος ἐλϑών non si deve necessariamente vedere (come vuole W. a 401) rapporto d’amicizia: φίλος è notoriamente parola generica, a cui può essere del tutto estraneo ogni concetto d’intimità. Altrove (197) dice che la lode alla fine di I. 8, fatta a Cleandro di Egina e ad un più anziano parente morto, non ha niente di individuale: e dove sarebbe invece l’individualità delle lodi di altri carmi, p. es. di quelli per i figli di Lampone? W. non lo dice. Eppure sa benissimo, e lo dice (451 sgg., spec. 453), che si tratta di poesia d’occasione, su ordinazione, e che la poesia in generale, specie in quest’epoca, è fatto di società. Avrebbe dovuto vedere riflesso di occasione, di ordinazione, di gioco di società soprattutto nelle forme (convenzionali) e nei contenuti (più o meno fissi). Come fa a dire (360), a proposito di Diagora di Rodi (O. 7) e di Senofonte di Corinto (O. 13, cf. fr. 122 Sn.), che «si ha l’impressione che
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Pindaro non avesse rapporti personali né con l’uno né con l’altro?». Se l’impressione (der Eindruck) può esser questa (il che sarebbe da discutere), la soluzione la dà, senza rendersene conto, W. stesso (ibid.): Pindaro doveva essere così contento di avere avuto una commissione da Corinto (che gli era rimasta estranea, v. 3 sg., contro l’interpretazione degli scoli, v. 371 sg.) e una dalla lontana Rodi, che la sua celebrazione va più alle due città che ai vincitori–committenti (per Rodi, poi, v. Isthm. frr. 2, 3). Niente influenza positiva o negativa di rapporti personali, quindi. Come fa a dire (393) che Pae. 9 (del 463), per l’eclissi di sole, è stato scritto più per iniziativa del poeta che per commissione di Tebe, fondandosi sui vv. 34–7 («per amore dei Tebani sono stato spinto a unire il suono degli auloi alla mia poesia»)? Simili affermazioni sono anch’esse topiche e v. quanto già un vecchio recensore16 criticava a proposito di P. 9.1 sgg. («io voglio cantare Telesicrate», 263), notando che tali espressioni non possono escludere la commissione (cf. P. 2.4, I.6; etc.)17.
In conclusione, sembra quasi che a W. dispiaccia (446) che la persona di Pindaro sia rimasta nell’antichità in qualche modo oscura, in contrasto colla popolarità per esempio di un Simonide. Il mondo antico, in sostanza, non ci ha tramandato un’apoftegmatica pindarica. Quali che siano le ragioni di tal fatto, a chi vada alla ricerca di verità biografica non dovrebbe dispiacere troppo che manchino leggende. Per ogni fatto di cui vada accertata l’attendibilità dobbiamo vagliare la documentazione e la tradizione storiografica, e per la vita dei personaggi del mondo antico, trovandoci a scarseggiare di materiale documentario, ci resta la tradizione storiografica, che si presenta per lo più sotto la forma della biografia. Gli studi sulla b i o g r a f i a a n t i c a come genere a sé sono stati praticamente inaugurati dal famoso libro di Leo (1901), ma già lo stesso W. aveva dato rilevanti contributi con un’opera giovanile, l’Antigonos von Karystos, del 1881. Non è necessario entrare qui nei dettagli del problema, che, dopo il libro di Leo, è stato vivacemente discusso: recentemente, poi, la vita euripidea di Satiro18 e la vita pindarica di Ossirinco19 hanno permesso di continuare il discorso con il conforto di nuova documentazione. Due lavori appena usciti di
|| 16 BETHE, rec. cit. 17 Del resto gli stessi famosi futuri pindarici («io loderò», «io canterò» etc.), sui quali tanto si è costruito ‘inventando’ azioni che il poeta avrebbe eseguite successivamente all’ode, hanno valore di presenti ed è stato recentemente riconosciuto che sono «degli elementi convenzionali dello stile encomiastico» (BUNDY, Studia Pindarica. I, cit. oltre, 21; v. anche W. J. SLATER, Futures in Pindar, CQ, XIX, 1969, 86–94). Lasciamo qui da parte problemi spinosi, e a tutt’oggi animosamente discussi, come il possibile rapporto fra N. 7 e Pae. 6. 18 SATIRO, Vita di Euripide. A cura di G. Arrighetti, Pisa 1964 (SCO XIII). 19 G. ARRIGHETTI, La biografia di Pindaro del Papiro di Ossirinco XXVI 2438, SCO, XVI, 1967, 129– 48.
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Momigliano20 danno un panorama della ricerca moderna e prospettano nuove soluzioni: da una parte la tradizione biografica avrebbe trovato forme sue proprie prima della scuola peripatetica e dall’altra in epoca ellenistica l’influenza peripatetica sarebbe stata molto meno forte di quanto si sia creduto finora. Ma, comunque si risolvano questi problemi, patrimonio comune è già da tempo una certa diffidenza verso la tradizione biografica degli antichi: la vulgata biografica di un personaggio si stabilisce su linee che presto diventano tradizionali e canoniche, ma in genere il legame colla verità storica si spezza presto, se pure si possa mai stabilire che sia esistito. Concesso che la tradizione biografica, infatti, nasca già nel quinto secolo, come stanno le cose per i personaggi, per esempio i poeti, dell’età arcaica o tardo arcaica? Emblematico è qui il procedere di un dotto peripatetico, Cameleonte: le notizie sui poeti vengono ricavate da un particolare modo di leggere le loro opere, alle quali queste notizie si chiedono21. Ma qui è necessario domandarsi, allora, quando nasca l ’ a u t o b i o g r a f i a : e, una volta accertato che essa come genere letterario a parte segue linee di sviluppo indipendenti ma non lontane da quelle della biografia22, occorre vedere se per caso si possa individuare una ‘preistoria’ del genere in informazioni autobiografiche che i poeti arcaici ci diano. Ma sotto questo punto di vista si è trovato in essi ben poco23: naturale, del resto, che in opere destinate ad occasioni pub-
|| 20 A. MOMIGLIANO, The Development of Greek Biography, Cambridge Mass. 1971; Second Thoughts on Greek Biography, Mededel. Koninkl. Nederl. Ak. v. Wetenschappen, Afd. Letterkunde, N. R. 34, N. 7, Amsterdam–London 1971, 234–57. Nel primo lavoro, a 107–16, ampia bibliografia. V. anche G. ARRIGHETTI, Satiro, cit., 3–34 pass. e La biografia antica negli studi dell’ultimo cinquantennio, Cultura e scuola, 1966, 37–44. 21 I frammenti di Cameleonte in F. WEHRLI, Die Schule des Aristoteles, IX 2, Basel–Stuttgart, 1969, 45–88; Chamaeleontis fragmenta. Ed. et illustr. V. Steffen, Warszawa 1964. Sul suo metodo F. WEHRLI, Die Schule …, cit., X 2, 1969, 123; Arrighetti, Satiro, cit., 3–34 pass. e SCO, 1967, cit., 140 n. 59, 144 sgg.; MOMIGLIANO, The Development …, cit., 70. 22 Sul rapporto fra biografia e autobiografia e la tendenza di Wilamowitz e Leo a negare quest’ultima (come forma letteraria indipendente) al mondo greco v. MOMIGLIANO, The Development …, cit., 14 sg., che tende a valutare gli sparsi spunti autobiografici della letteratura anteriore all’ellenismo (cf. 23). V. anche, sulla linea W.–Leo, O. GIGON, Artemis Lexikon, 1965, coll. 414–6. 23 Non più che qualche spunto, riportabile però a convenzioni letterarie, si può trarre da una lettura critica di quanto su Esiodo, Archiloco etc. espone G. MISCH, A History of Autobiography in Antiquity, London 1950, I, 67 sgg. (cap. I). Per Archiloco, un poeta esemplare sotto questo aspetto, basti rinviare qui a K. J. DOVER, The Poetry of Archilochos, in Entretiens Hardt X (Archiloque), Vandoeuvres–Genève 1964, 181–222. E. DEGANI, Metafore ipponattee, in «Studi in onore di V. De Falco», Napoli 1971, 89–103 ha giustamente riportato la tematica ‘pitocca’ di Ipponatte a stilizzazione letteraria, liberando il poeta da secolari false incrostazioni biografiche.
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bliche, come sempre è il caso nella letteratura arcaica, i poeti non sentissero il bisogno di fare ‘confessioni’ personali24. In altre parole: trattandosi di poeti, si potrà discutere se la biografia serva o no a capire l’opera d’arte e se quest’ultima non si ponga invece ad un livello diverso, presentandosi, come si sostiene da alcuni, prevalentemente come fatto ‘di letteratura’. Ma quello la cui liceità è in discussione, comunque, è la biografia vera, non la falsa, che in qualità di Cameleonte moderno fa W.: quest’ultima è illecita senz’altro, e lo storico ne registra i fasti solo come documento di correnti e tendenze di natura critica, etica etc. coeve al suo fiorire, sia nel mondo antico sia in quello moderno. Abbiamo visto finora, in W., abusi episodici, che si potevano facilmente evitare con una lettura dei testi almeno poco più attenta alla natura del fatto letterario e delle sue convenzioni. Ma dove il procedere di W. si rivela ancor più pericoloso, proprio per la sua ‘tematica’ coerenza, è nel voler dare realtà biografica agli amori del poeta. Vale la pena fermarsi un momento sulla questione. Qui ancor più decisamente possiamo liberarci della facile accusa di giudicare W. col ‘senno di poi’, perché già nella prima metà del secolo scorso il grande Welcker25 aveva messo in guardia contro la credulità di chi, prendendo spunto dalle loro opere, voleva vedere i poeti arcaici continuamente coinvolti in amori reali e di questi amori voleva seguire le fasi e le vicende attraverso la loro pagina poetica. Le parole di Welcker sono splendide e dovrebbero esser rilette da tutti quelli che si occupano di poesia arcaica. Il poeta avrebbe dovuto essere ben «bizzarro» o «ostinato» – eigensinnig, dice Welcker con spirito26– ad innamorarsi proprio di quei giovani che una commissione esteriore gli imponeva di celebrare e di lodare. Il poeta non è un ricco signore (ein reicher Grundbesitzer) che organizza i giochi per chi vuole lui, bensì un cantore vagante (ein wandernder Kitharöde) che è esposto ad incontri occasionali e ha dei doveri che da quegli incontri derivano, secondo circostanze mutevoli (wie es Zeiten und Umstände brachten). Welcker aveva riportato in primo piano l’importanza della f u n z i o n e c e l e b r a t i v a di questa poesia. Ed è strano che, con la sua ammirazione per Welcker, espressa anche dalla dedica a lui del Sappho und Simonides, W. non abbia preso atto di questa importante lezione27. Quello che Welcker aveva visto || 24 Sul problema in generale com’esso è qui presentato – e cioè sulla impossibilità di ricavare dati biografici dalle opere dei poeti – il Professor Momigliano, nel corso del seminario pisano, ha avanzato qualche riserva. 25 F. G. WELCKER, Kleine Schriften, I, Bonn 1844, 220–50 (recensione all’Ibico di Schneidewin, apparsa in RhM, II, 1834, 211–44). 26 WELCKER, rec. cit., 229. 27 VON DER MÜHLL, art. c. oltre, 171.
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con geniale intuizione fondata solo sulla profonda conoscenza e intelligenza che aveva del mondo antico è stato recentemente confermato, del resto, dallo studio delle f o r m e d e l l a c e l e b r a z i o n e stessa: il linguaggio amoroso della poesia arcaica, coi suoi clichés che fanno pensare a una formularità sui generis, va visto nel quadro di una c o n v e n z i o n a l i t à a l t a m e n t e f o r m a l i z z a t a che si presenta già come del tutto tradizionale, come quella del Minnesang o dei trovatori. Penso a due bei lavori, uno su Saffo e i circoli femminili di Lesbo di Merkelbach28 e uno proprio su Pindaro di Von der Mühll29. Si tratta di avvii a ricerche che devono essere ancora perfezionate e non è caso che il risveglio di una certa problematica anche nel ristretto campo della filologia classica avvenga proprio oggi che l’attenzione agli aspetti formali dell’opera letteraria viene giustamente imposta dalla critica strutturalista delle varie correnti. Ma va detto, a onor di precisione, che il riconoscimento (necessario) degli aspetti formali non è ipso facto già formalismo o strutturalismo: nessuno si sognerebbe di gabellare per strutturalista il vecchio Mezger per la sua schematizzazione dell’ode pindarica secondo la divisione del nomos terpandreo30. Di alcuni fatti formali, di fronte ai quali non si possono chiudere gli occhi, bisogna prendere atto preliminarmente: poi si vedrà come inquadrarli in una valutazione globale dell’opera d’arte, e qui ognuno seguirà vie proprie. Va ricordato per inciso che questo tipo di riconoscimento per Pindaro e la poesia corale in generale è già a buon punto e non solo per la tematica erotica, bensì anche per le convenzioni in generale che reggono questa poesia: vanno ricordati qui gli importanti studi di Bundy31, a cui fa seguito quello di Pavese32. Si tratta, insomma, di una l a n g u e p o e t i c a , che in buona parte è già stata individuata. || 28 R. MERKELBACH, Sappho und ihr Kreis, Philologus CI, 1957, 1–29. V. anche G. LANATA, Sul linguaggio amoroso di Saffo, QU, II, 1966, 63–79. 29 P. VON DER MÜHLL, Weitere pindarische Notizen. 8. Persönliche Verliebtheit des Dichters?, MH, XXI, 1964, 168–72. 30 Su Mezger (1880) e il nomos terpandreo v. YOUNG, art. c., 22 n. 56, 25–8. Ma gli schemi di Mezger – sia detto per inciso – sono del tutto artificiali. 31 E. L. BUNDY, Studia Pindarica. I. The Eleventh Olympian Ode, Univ. of Calif. Public. in Class. Philol. Vol. 18n. 1, 1–34; II. The First Isthmian Ode, ibid., vol. 18n. 2, 35–92. 32 C. O. PAVESE, Semantematica della poesia corale greca, Belfagor, XXIII, 1968, 389–431. È un lavoro importante, che non ha riscosso finora l’attenzione che merita: perfeziona il metodo di Bundy, estendendolo a tutta la poesia corale. Proprio per questo ci si meraviglia di veder confinato il nome di Bundy, al quale andava riservato un posto d’onore nella storia della questione, in una nota (395n. 4); e a BUNDY (Studia Pind. I, 5 e n. 18 e passim) andava p. es. attribuita l’identificazione di «ora» (νῦν, νυν) come nesso ‘formulare’ di particolare importanza (PAVESE, art. c., 394).
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Ma correremmo seriamente il rischio di leggere W. colla matita rossa e blu del ‘senno di poi’, se anche qui non fossimo in grado di segnalare alcuni arbitrari eccessi, che W. avrebbe potuto evitare se non fosse stato sviato dalla sua mania biografistica e solo che avesse saputo leggere il suo autore un poco ‘alla Welcker’. Tali eccessi, per la loro assurdità, sono almeno divertenti. A proposito della P. 6 e di Trasibulo parla addirittura di erotismo (137–9: Erotik)!! Il forzato parallelismo Trasibulo/Antiloco dipenderebbe dal fatto che «lo sguardo di Pindaro era appannato dall’amore» (Pindars Augen sahen vielleicht etwas aphrodisisch)!! Questo è francamente ridicolo, e W. lo avrebbe evitato, solo che avesse sfruttato una chiave che lui stesso ci offre: nel v. 25 sg. («venera gli dei, onora i genitori») vede qualcosa che richiama le Χίρωνος ὑποϑῆϰαι e nel riconoscimento di un’antica tradizione parenetico–didascalica avrebbe trovato la soluzione (v. su N. 3, 177; e v. su P. 1, ultima triade e le ὑποϑῆϰαι al giovane Dinomene, 303, dove per il genere richiama giustamente anche Teognide). Il famoso fr. 123 Sn. per Teosseno sarebbe espressione libera d’amore, molto libera (431), che Pindaro si sarebbe concessa in vecchiaia; mentre in O. 11 per Agesidamo di Locri Epizefiri si sarebbe trattenuto dal confessare il suo amore, che doveva comunque esserci (?!). Efficace è la presa in giro di Bethe, rec. cit., 249: se davvero Pindaro amava tanto Agesidamo, come avrebbe mai potuto dimenticarsi di lui e della promessa di un’ode (O. 10.3) e mandargliela in ritardo? Ma non continuiamo, ché sembra davvero di trovarsi di fronte ad un epigono degli antichi biografi cacciatori e creatori di leggende.
Ricostruito così il ‘suo’ Pindaro, colla sua vita privata e la sua carriera in dettaglio, W. ha comunque ancora un problema di costume da superare. Per essere stato più volte messo in berlina, è ben noto il pregiudizio moralistico, che accomuna W. a tanti altri della Biedermeierzeit e oltre, per il quale Saffo nel Sappho und Simonides diventava, pur di non essere vista per quello che era, la tenutaria di una pensione femminile. Qui nel P. W. è meno esclusivo, ché il mondo ‘dorico’ gli forniva delle giustificazioni. Ma gli pare di fare una grande concessione ad ammettere che anche Ibico (uno ‘ionico’!) potesse essere innamorato di Policrate, il tiranno di Samo o suo figlio: Wer gibt uns ein Recht, die ionische Sitte hiernach einzuschränken? (512). Nel liberare la ionische Sitte da limitazioni artificiali W. è più ‘magnanimo’ che con Saffo. In realtà sappiamo oggi ancor meglio di lui che i vecchi schemi di mondo dorico e non dorico vanno superati, e l’ammissione da lui fatta a denti stretti è oggi confermata da nuovi studi33. Ma è importante ricordare che dobbiamo anche guardarci dal «‘modernizzare’ arbitrariamente il senso del linguaggio amoroso dei lirici, applicando categorie e schemi mentali propri del nostro tempo», com’è stato con ragione
|| 33 K. J. DOVER, Eros and Nomos, Bull. Inst. Class. Stud., London, XI, 1964, 31–42; G. DEVEREUX, Greek Pseudo–Homosexuality and the ‘Greek Miracle’, SO, XLII, 1967, 69–92.
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osservato di recente34. Ma qui il discorso si farebbe troppo ampio e d’altra parte sconfinerebbe dai limiti della filologia classica al tempo di W. entrando nel pieno della problematica antropologica odierna. Un merito indiscutibile del P. resta comunque quello di aver rifiutato nelle forme divenute ormai tradizionali il problema dell’ u n i t à d e l l ’ e p i n i c i o . Lo ha messo di nuovo in rilievo Young nella sua rassegna critica, facendo di W. il protagonista di quella che chiama la «seconda epoca», opposta agli eccessi unitaristici della «prima epoca», che avevano trovato origine nella linea Boeckh– Dissen, e volta a preparare le nuove posizioni della «terza epoca». Studiosi come Schadewaldt, Perrotta, Jaeger, Hermann Fränkel, per non nominarne che alcuni, hanno riaffrontato il problema in modi fra loro diversi, ma tutti si sono giovati della ‘disinfestazione’ wilamowitziana. Essa era stata utile, anche se il problema della unità dell’epinicio era stato da lui stesso messo da parte in nome di un criterio discutibile, e cioè quello di sostituirvi l’unità umano–biografica del poeta (e l’ultima opera su questa linea è C. M. Bowra, Pindar, 1964). Ma qui ci fermiano, ché un discorso non approssimativo e non generico porterebbe a ripensare tutta la critica pindarica del passato e inevitabilmente a proporre linee per il futuro: due imprese che esulano totalmente dal proposito di queste righe. *** La Griechische Verskunst è senz’altro il libro più ‘disordinato’, meno organico di W. In realtà non lo si potrebbe neanche chiamare un libro: è una raccolta di articoli, alcuni, come i primi quattro, costruiti su poderose sintesi, altri, come quasi tutto il resto dell’opera, centrati su problemi singoli (la seconda parte sono le Einzeluntersuchungen, panorami storici di singole forme metriche; la terza è dedicata ad analisi di Einzelne Lieder). Alcuni lavori erano già stati pubblicati in precedenza: De versu Phalaeceo (137 sgg.) nel 1898 (e viene ristampato nonostante W. non sia più sulle posizioni di allora, 137; v. l’aggiunta a 149 sgg.); Commentariola metrica duo (154 sgg.) nel 1895 (anche qui modifiche; e da 205 n. 1 viene il sospetto che ben poco di quanto è ristampato continui a godere dell’approvazione di W.); Choriambische Dimeter (210 sgg.) nel 1902; Trochäen (264 sgg.) nel 1896 (appendice all’edizione delle Coefore); Ungleiche Strophen (470 sgg.) nel 1911.
|| 34 B. GENTILI, Lirica greca arcaica e tardo arcaica, in Introduzione allo studio della Cultura Classica, Milano (Marzorati), estr. s.d. [ma 1972], 65 n. 53.
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Non molti sono i lavori metrici che sono rimasti fuori. Ioniker bei den Lyrikern era in Isyllos von Epidauros, Berlin 1886, 125 sgg. e il capitolo sugli ionici della G.V. (336 sgg.) non lo sostituisce. Ma numerosissimi sono i contributi sparsi qua e là: distribuiti nel commento all’Eracle (1889), nel Sappho und Simonides (1913), nell’apparato dell’editio maior eschilea (1914) e così via. Nel Pindaros – dove, come si è visto, la trattazione ex professo veniva esclusa – a p. 93 sgg. c’è una veloce suggestiva storia della musica e della metrica antiche e a p. 95 l’affermazione dell’importanza della Beobachtung, dell’observatio, col consiglio di cominciare gli studi metrici da Aristofane anziché da Pindaro, come poteva essere spinto a fare chi avesse seguito le orme di Boeckh. Elencare qui i contributi sparsi in altre opere sarebbe fuori luogo: ma forse varrebbe la pena di farne a suo luogo un indice. Il suo interesse costante per la metrica è del resto documentato anche dai corsi da lui tenuti, come risulta dalla Bibliografia: Greifswald: SS 1882, WS 1882–83; Göttingen: SS 1884, WS 1885–86, SS 1888; Berlino: SS 1898, WS 1906–7, SS 1910, WS 1913–14.
Va notato che si tratta solo di seminari e di esercitazioni per principianti; e fuori dal nostro elenco restano vari altri corsi di esercitazioni, come quello sulla lirica di Aristofane (SS 1904) e quelli, assai numerosi, sui lirici. Abbiamo visto che Pindaro, al contrario, compariva sempre in corsi di lezioni. La cosa è facilmente spiegabile: W. sentiva in questo campo particolarmente forte l’utilità didattica della collaborazione universitaria fra docente e studente nel senso della costruzione ‘pezzo per pezzo’ di una tecnica pratica di lettura dei testi poetici. Ma di questo suo atteggiamento dava anche giustificazione sul piano scientifico (G.V. p. VI): Wie es sein müsste, sehe ich jetzt; ob ich es aber leisten könnte, e i n S y s t e m aufzustellen, ist mir fraglich. Denn d i e M e t r i k i s t m i r d o c h v o r a l l e m M i t t e l z u m v o l l e n V e r s t ä n d n i s d e r P o e s i e . Die Not, dass mir dazu kein System verhalf [qui allude chiaramente a Westphal – cf. VII, v. qui sotto], hat mich gezwungen, a u s d e n G e d i c h t e n d i e G e s e t z e i h r e s B a u e s z u e n t n e h m e n , und wohin ich strebte, war am Ende auch nicht ein System, sondern d i e Geschichte der poetischen Formen.
W. non aveva dunque voluto crearsi un sistema. La metrica doveva essere per lui un mezzo per l’intelligenza della poesia e a questo i sistemi non lo aiutavano: più efficace risultava un tipo di studio interno, che ricavava le leggi dalle opere poetiche stesse. Le parole che abbiamo citate, che appartengono all’intro-
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duzione della G.V. e sono quindi del 1921, sono una eco di quanto scriveva a Mommsen da Göttingen venticinque anni prima (28.12.1896)35: Ich finde leider gar keine Zeit zur Produktion, obwohl die Bearbeitung der Lyriker neben ungemein lästiger Arbeit doch zuweilen ganz unerwartete bedeutende Resultate bringt. Hätte ich Zeit, so würde ich d i e M e t r i k g a n z a u s d e r d o g m a t i s c h e n i n d i e h i s t o r i s c h e n B a h n e n l e n k e n können.
Ancor più chiara è qui l’esigenza di non perdere il contatto colla realtà storica della poesia e delle sue forme. È con palese soddisfazione che nella G.V. (VII) dice di essersi liberato, nel corso dell’apprendistato universitario, dalla opprimente sistematicità di Hermann, che era stato un razionalista di stampo kantiano, di Westphal, le cui teorie musicali applicate alla metrica avevano dominato per parecchi decenni, di J. H. H. Schmidt, che era un cliens di Westphal. Il suo metodo è quello dell’observatio, così come la praticavano Bentley e Porson: e dichiara per di più la sua ammirazione per Wilhelm Meyer, che definisce ein Meister der ordnenden Beobachtung. In conseguenza di tali premesse, si capisce come potesse apertamente dichiarare senza imbarazzi il disordine del libro (VI) e definirlo ein harter Kuchen (IX). In realtà la mancanza di sistema significa tutt’altro che incertezza o disordine nei principi fondamentali, pur essendo quella di W. una personalità con attitudini prevalentemente empirico–pragmatiche. Significa soltanto che non ha scritto un manuale, ma non che non sarebbe stato in grado di scriverlo: non ha e s p o s t o un sistema, ma ne ha p r a t i c a t o i principi. È significativo che il più illustre metricista che sia uscito dalla sua scuola e forse a tutt’oggi il più grande metricista del nostro secolo, Paul Maas, abbia costruito un sistema fondato su quegli stessi principi sui quali si fondava la prassi di W.: su quei principi che, derivati dalle complesse elaborazioni di Hermann e soprattutto di Boeckh, risultano ancora oggi quasi per intero del tutto validi. In altre parole: delle ricche analisi di W. non è molto quello che oggi è da scartare o da correggere. La tecnica della versificazione antica era stata recuperata nelle sue linee essenziali da Boeckh (1810, 1811)36 e quanto è venuto dopo, naturalmente nel filone più sano degli studi metrici, è stato soltanto affinamento degli strumenti tecnici boeckhiani. Quando W. parla di rifiuto di sistema pensa quindi soprattutto a Westphal, che, partendo dallo studio della teoria antica, non solo non riconosceva quanto di tardo e di artificiosamente sistematico vi fosse nella teoria antica stessa, ma || 35 Briefwechsel, cit., 519. 36 L. E. ROSSI, La metrica come disciplina filologica, RFIC, XCIV, 1966, 185–207, spec. 188–95.
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rincarava la dose, sovrapponendo ai testi addirittura teoria musicale moderna (la battuta regolare della musica moderna, base della teoria dei logaedi)37. Di qui a stabilire artificiosi quadri storici il passo era breve. Ricorderemo fra l’altro lo smembramento dell’esametro fatto prima da Bergk (1854) e continuato da Usener (1887), accettato poi da Schroeder e da molti altri in seguito, attraverso il quale si voleva arrivare al ‘verso originario’ (Urvers). Ora, W. dichiara espressamente di non accettare la Urgeschichte (84, in contrapposizione soprattutto ad Usener), anche se non sempre è del tutto coerente, come vedremo. La G.V. non è quindi un libro che possa servire da introduzione alla metrica, né è consigliabile metterla in mano a un principiante. Un americano, P. Shorey, che non ne aveva capito il valore, ne fece una stroncatura decisamente acida38, denunciandone il fallimento sul piano pedagogico. E in verità la G.V. è per noi un surrogato, ovviamente insufficiente, di quello che doveva essere 1’insegnamento vivo di W., nel quale la trattazione metrica non era mai disgiunta da una vivace esegesi del testo, secondo il principio della comprensione globale del fatto poetico. Basta scorrere la trattazione di alcuni cantici (come Eur. Hel. 1452 sgg., a 218 sgg., il canto del «remo sidonio»; o la parodo del Ciclope euripideo, 223 sgg.; etc.) per vedere come il commento metrico è mescolato con tutti gli altri elementi esegetici. Chi ha sentito un suo illustre allievo, Eduard Fraenkel, leggere ‘lirica mista’ come la chiamava lui, sa che cosa intendo: penso soprattutto al canto alla giovinezza dell’Eracle, al δέσμιος ὕμνος delle Eumenidi o al coretto delle Rane. Maas e Fraenkel, due allievi di W.: l’uno ha portato ordine nel vitale disordine di W., l’altro (che aveva imparato la metrica anche da Leo) ha continuato la prassi di W. sia negli studi sia soprattutto nell’insegnamento39. Sulla pedagogia metrica W. scrive una bella pagina (VIII), nella quale raccomanda di far rivivere l’antico testo (man muss das Lied von innen heraus zum Klingen bringen) leggendolo ad alta voce, anche se, in efficacia pedagogica, resta al di sotto delle pagine splendide che Hermann aveva scritte nell’introduzione alla sua Epitome doctrinae metricae (1818). Quanto alla teoria antica, della quale W. offre un efficace panorama (58 sgg.), essa è guardata per lo meno con sospetto. W. nota giustamente (59, cf. 86) che essa nasce quando la forza creativa della poesia è finita; che la conosciamo || 37 Tale teoria veniva fondata sul cosiddetto ‘dattilo ciclico’: v. L. E. ROSSI, Metrica e critica stilistica. Il termine ‘ciclico’ e l’ ἀγωγή ritmica, Roma 1963. 38 P. SHOREY, CPh, XVII, 1922, 150–3. 39 Penso che A. M. Dale, recentemente scomparsa (1967), sia stata efficace continuatrice e del rigore sistematico di Maas e dell’empirismo di W., al quale ultimo si avvicinava anche per l’alta efficacia didattica: v. R. P. WINNINGTON–INGRAM, Proceedings of the British Academy, LIII, 423– 36; L. E. ROSSI, RFIC, XCIX, 1971, 172–7, spec. 175.
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solo attraverso elaborazioni tarde e per di più scolastiche; che vale quindi solo nella misura in cui possiamo controllarla sui testi stessi di poesia e in cui dia occasione ad observatio nuova di prima mano. In sostanza è scettico: non ottimista come erano stati Boeckh (che se ne serviva con prudenza) e soprattutto Westphal (che ne piegava le testimonianze a suoi fini), ma neanche negativo come due anni dopo sarebbe stato Paul Maas nella sua Metrica (1923). Il frutto più brillante dell’applicazione di questo metodo (e cioè prudente considerazione della teoria antica e observatio autonoma) è il capitolo famoso sui dimetri coriambici, quelli che oggi correntemente si chiamano wilamowitziani (210 sgg.; l’articolo, come si è detto, è del 1902; il principio metodico è riformulato a p. 238: «nella metrica bisogna unire considerazione sistematica a considerazione storica»). W. raccoglie numerosi esempi di dimetri che sono costituiti prevalentemente, nella seconda parte, da coriambi, mentre la prima è libera; e trova che alle volte dimetri che differiscono nella parte libera rispondono addirittura fra loro. In Efestione (56.5 sgg. Consbr.) trova la trattazione dei dimetri polischematisti coi famosi esempi di Corinna: e il suo dimetro è nato, con la ormai definitiva spiegazione di quelle che una volta sembravano libertà di responsione (esterna e interna, nel senso di Maas) e che oggi vanno considerate solo come manifestazione di elasticità di forme. Le Responsionsfreiheiten, invece, di cui parlavamo a proposito del Pindaros, sono libertà più audaci per le quali non c’è giustificazione metrica così forte come nel caso dei dimetri: W. le accettava, come abbiamo visto, a differenza di Maas (che preferiva essere prudente in metrica e audace nel proporre correzioni testuali). Ora, per il dimetro la critica che si può fare a W. vale per la continuazione del suo discorso su piano storico: il trovare dimetri polischematisti in Corinna lo innamora dell’ipotesi ‘popolare’. Si tratterebbe, secondo lui, di forme antichissime, che si sarebbero poi più tardi ‘normalizzate’ nella forma del gliconeo etc. Riaffiora qui la Urgeschichte, anche se più ancorata al documento storico: 1’‘origine’ è vista in versi documentati, e non ricostruiti astrattamente in laboratorio. Ma niente ci assicura di un tale sviluppo; e per di più, se di Corinna si può accettare la ‘popolarità’ (ma vorremmo che qualcuno ce la dimostrasse definitivamente), molto meno se ne può accettare l’arcaicità40. Tutto questo lascia intatto il valore, enorme, della scoperta di W., purché la si sfrutti per la lirica e il dramma senza varcare all’indietro confini cronologici che i materiali, finché restano quelli che sono, ci impongono di rispettare. Con maggior leggerezza di mano W. tratta, per esempio,
|| 40 K. LATTE, Die Lebenszeit der Korinna, Kleine Schriften, München, 1968, 499–507 (= Eranos, LIII, 1955, 57–67) vuole cronologia bassa, in polemica con Page (1953), che la vuole alta. Gli argomenti di Latte mi sembrano forti, anche se si può continuare a dubitare.
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quello che doveva precedere la lirica eolica documentata (39 sg., cf. 98) e preziosa è la sua osservazione che Anacreonte è praticamente l’unico esempio di una vera e propria lirica ionica, lirica nel senso del tardo arcaismo: e tutte e due, una lirica eolica e una lirica ionica, nelle forme della breve narrazione epico– lirica, dovevano costituire la premessa per l’epos arcaico (mentre Meillet, p. es., parlava solo di cantari epico–lirici eolici). Entrare qui in particolari, per un libro quasi tutto costruito sull’osservazione minuta, sarebbe fuori luogo. Il materiale critico–testuale è stato sfruttato dai vari editori, ma la G.V. resta un libro dove si può sempre trovare qualcosa di nuovo. Fermiamoci brevemente, a conclusione, su quella che è la novità più importante: e cioè il panorama storico delle forme poetiche dei greci, un inedito assoluto nel campo dei nostri studi al momento in cui apparì, come lo erano state le Textgeschichten dei drammaturghi, dei lirici e dei bucolici. Ancora oggi si aspetta chi abbia la forza di riscrivere quelle poche decine di pagine (das Kernstück des Buches, come scrisse Körte nella sua recensione)41. Il materiale è diviso, senza vero e proprio ordine, fra i due capitoli II e IV della prima parte, ed è strano, ché tutti e quattro i capitoli della prima parte sono stati scritti come introduzione alla raccolta: non mancano ripetizioni, ma soprattutto c’è una certa incoerenza ed ambiguità di criteri espositivi, che fanno pensare a lezioni universitarie stampate nella redazione originaria. Il cap. II, nella sua seconda parte (43 sgg.), fornisce un’originale esposizione dello sviluppo della Kunstprosa, intesa come un rinnovamento delle forme poetiche arcaiche (43: Die Kunstprosa hat die Poesie mit Absicht und Erfolg ersetzen wollen): l’impostazione è di capitale importanza per la comprensione dei generi letterari e del loro trasformarsi fra il quinto e il quarto secolo42, e i generi, se in W. non sono mai trattati espressamente, sono però sempre presenti nel sottofondo. La Kunstprosa è una delle forme che può prendere la gebundene Rede, che si contrappone così, nelle due sottocategorie di poesia e prosa d’arte, al vero discorso prosastico (lingua colloquiale, tecnica etc.). La prosa d’arte è quindi una continuazione e riflessa modificazione della poesia versificata, e l’impostazione teorica, oggi fra l’altro ripresa dalla linguistica e dalla stilistica, dà pretesto ad una storia panoramica delle forme poetiche, che occupa la prima parte del capitolo. È questa prima parte che in sostanza ritorna, ampliata, nel cap. IV, Skizze einer Geschichte der griechischen Verskunst (86 sgg.). Nell’una e nell’altra parte disorienta un po’ l’equivoco fra la trattazione di fatti storici fortemente individualizzati (la nascita dell’epica, le singole personalità poetiche etc.), a cui W. è || 41 A. KÖRTE, Neue Jahrbb., XCV, 1922, 318, riferendosi però solo al cap. I. 4. 42 ROSSI, Bull. Inst. Class. Stud., cit., 79 sg.
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naturalmente portato per la sua impostazione storica (e che poi sarà il tessuto capillarmente connettivo di tutto il resto del libro, nella interpretazione di cantici singoli), e la trattazione delle vere ‘forme’ della versificazione (112: die einzelnen Versgeschlechter und die Strophenbildung), che sono quanto in questi capitoli si propone in via principale (112 sgg.: dattili, anapesti, giambi, coriambi, trochei, ionici, docmi, gliconei, dattilo–epitriti, costruzione della strofe pindarica comparata colle più semplici del resto della lirica corale e della monodica; infine un panorama prezioso – 124 sgg. – del Verfall delle forme poetiche, che si estende fino al quarto–quinto secolo d.C. e comprende anche i latini). Ora, tutte e due le linee di lavoro sono necessarie: criticabile è solo la loro confusione, che però compare solo in questi capitoli introduttivi, e fa l’impressione di un semplice difetto di esposizione. I capitoli della seconda parte (Einzeluntersuchungen) sulle singole specie ritmiche sono delle piccole monografie, troppo poche delle quali sono state in seguito, nei cinquant’anni che ci dividono dalla G.V., riprese ed ampliate da altri. E questo è, a mio parere, quanto si dovrebbero proporre gli studi metrici oggi: monografie su singoli autori o generi (poesia corale, dramma etc.) e monografie su singole specie ritmiche, in modo che le une illuminino le altre. L’epoca del vecchio manuale alla Christ è finita, anche se di manuali se ne scrivono ancora, e anche di buoni43. L’attualità della G.V. sta proprio nel non essere un manuale in senso tradizionale.
|| 43 Rimando a quanto scrivevo in RFIC, XCVII, 1969, 314. Sarebbe se mai ora, coll’aiuto che offrono le macchine, di procedere alla compilazione di r e p e r t o r i di versi e di cola.
Karl Reinhardt fra umanesimo e filologia Del modo di far filologia di Karl Reinhardt e del suo inserimento nelle correnti di cultura di tutta la prima metà del nostro secolo cercherò di dare una caratterizzazione sommaria tenendo presenti: 1. le sue affermazioni teorico–metodologiche esplicite (ma sono poche, come vedremo); 2. quanto si può ricavare implicitamente da alcuni spunti delle sue opere (ma questo risulterà assai meglio e più estesamente dalle altre relazioni); 3. quanto è stato scritto su di lui da quelli che lo hanno commemorato o valutato criticamente dopo la morte. A proposito di queste commemorazioni, ringrazio qui pubblicamente Uvo Hölscher, che me le ha inviate in originale o in xerocopia, e le metto a disposizione di tutti i partecipanti al seminario1. Reinhardt ha vissuto intensamente la crisi della filologia positivistica. Erano i decenni che seguivano al fiorire del grande storicismo e che ne mettevano in vivace discussione i fondamenti. Ma di filologia e di metodo filologico parla poco e una volta dà espressione esplicita a questa sua riluttanza. Parla della genesi della conferenza Die klassische Philologie und das Klassische (1942; poi, riveduta, in VWuF, 1948): «Se non fossi stato invitato a farlo, non mi sarei mai espresso su questo tema» (VdA p. 334. 1). In realtà, come spero di mostrare, la
|| [Relazione tenuta al Seminario su Karl Reinhardt promosso da Arnaldo Momigliano, 8–9.4.1975, “Scuola Normale Superiore” di Pisa; pubblicata in «ASNP», cl. Lett. e Filos., s. III, 5. 4, 1975, pp. 1333–1355] * Eccezion fatta per piccoli ritocchi e per le note, è stata conservata la redazione ‘orale’ destinata al seminario pisano. Un grazie cordiale ai miei ospiti e uno specialissimo a Uvo Hölscher, al quale devo, fra l’altro, una sua lettura del mio manoscritto, che mi ha dato l’occasione di discutere epistolarmente con lui su un argomento nel quale la sua competenza è sovrana, essendo egli stato allievo di K. R. Mi permetto di dissentire da lui solo in alcune valutazioni: ma i suoi punti di vista, da me segnalati a suo luogo, restano comunque testimonianza preziosa. Le opere di K. R. citate in abbreviazione sono: Ilias = Die Ilias und ihr Dichter, hsg. von Uvo Hölscher, Göttingen 1961; TuG = Tradition und Geist. Gesammelte Essays zur Dichtung, hsg. von Carl Becker, Göttingen 1960; VdA = Vermächtnis der Antike. Gesammelte Essays zur Philosophie und Geschichtsschreibung, hsg. von Carl Becker, Göttingen 21966 (11960); VWuF = Von Werken und Formen. Vorträge und Aufsätze, Godesberg 1948. Le commemorazioni, elencate in appendice, sono citate col solo nome dell’autore (con un’aggiunta quando siano più d’una). 1 Alla cortesia del Professor Nenci debbo l’aver letto in dattiloscritto le pagine di V. Pöschl su K. R. destinate agli «Annali». https://doi.org/10.1515/9783110648140-009
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posizione di Reinhardt come filologo, o diciamo meglio come studioso dell’antichità classica, non doveva esser facile da definire neanche per lui stesso. La sua fisionomia di studioso ci si presenta un po’ come quella di un eslege, di uno che non si sente a casa sua da nessuna parte. È diventato usuale presentarlo come punto d’incontro di tre correnti d’influenza: Nietzsche, alla cui figura anche umana era legato da ricordi familiari, colla sua insoddisfazione per la filologia positivistica; Wilamowitz, il suo maestro berlinese, colla sua pur solida aderenza alla filologia storicistica, ma con forti nostalgie umanistiche; Stefan George e il suo Kreis, col suo rinnovato gusto poetico di fronte all’antichità classica come Leistung, col suo nuovo cedere a correnti irrazionalistiche di gusto e colla proposta di un ‘nuovo’ umanesimo. Ma nei confronti di t u t t i e t r e questi poli Reinhardt ci si presenta critico, a volte addirittura polemico: il suo ‘credo’ di uomo di cultura e di studioso risulta di conseguenza sfumato, se vogliamo incoerente, fino al limite dell’opportunismo occasionale – per così dire – e con una forte vena di adesione sentimentale e affettiva (si pensi all’ammirazione costante per Wilamowitz, pur nella lucidità delle polemiche, per esempio in campo omerico). Se vogliamo per un momento rinunciare a etichettarlo, diremo che è stato uomo di grande intelligenza e sensibilità, che, in tale qualità, è stato un formidabile lettore dei testi antichi. Hölscher (Chance p. 32) ci dice che conosceva bene la letteratura secondaria, ma che era normale vederlo a tavolino con nient’altro che il suo autore in mano, che leggeva e rileggeva continuamente. Ancora Hölscher (Chance p. 36) ci racconta che, quando decise di andare a Francoforte per seguire i corsi di Reinhardt, cercarono di avvertirlo con discrezione: «Reinhardt non insegna il metodo». Certo, Reinhardt non avrà insegnato ad usare i manuali, a consultare i corpora epigrafici, a servirsi della difficile tastiera dell’evidenza linguistica; non avrà insegnato i princìpi della critica testuale e non avrà offerto una teoria della Quellenforschung, problema quest’ultimo pur da lui fortemente sentito come risulta particolarmente evidente dai suoi studi sulla filosofia antica. Quanto Reinhardt era in grado di offrire era altro: doveva certo comunicare un certo tipo di entusiasmo, di passione ‘vissuta’ per il mondo antico. Per caratterizzare quello che possiamo chiamare il suo eclettismo metodologico, basterà qui dire che la grandezza e la genialità di esso sta soprattutto nel limite che esso si vedeva di volta in volta imposto: ed era il raggiungimento di un concreto risultato di ricerca, prevalentemente di rilevanti novità esegetiche, sia fatti di microesegesi sia specialmente fatti di macroesegesi (Posidonio, Eschilo, Sofocle, Omero). E ricorderemo proprio qui che il ‘nietz-
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schiano’ Reinhardt non dà un posto a Nietzsche nella storia degli studi filologici, perché «troppo povero di prestazioni positive» (VdA p. 345)2. Il dilemma dei decenni vissuti da Reinhardt risulta chiaramente da alcune sue righe di cristallina chiarezza prese dalla conferenza già citata (VdA p. 348). Per uscire dal vicolo cieco in cui si trovavano gli studi di filologia alla fine del secolo c’erano secondo lui tre possibilità: 1. rinunciare all’ideale classico, come lo avevano elaborato il secondo umanesimo e la deutsche Klassik, a vantaggio della scienza, della Wissenschaft (Wilamowitz, pur colle sue contraddizioni, per le quali v. oltre): in altre parole, rinuncia all’umanesimo in nome dello storicismo3; 2. rinuncia alla scienza a vantaggio dell’ideale classico (i letterati: in testa Stefan George)4: in altre parole, rinuncia allo storicismo in nome dell’umanesimo; 3. tentativo di accordare scienza e ideale classico, e cioè storicismo e umanesimo fra loro integrati (il terzo umanesimo di Jaeger)5. Per caratterizzare l’atteggiamento dei georgeani si serve di un’immagine (p. 336 sg.): si era stanchi di navigare nel sempre più largo fiume dello storicismo e si cercò un’isola, il classico V secolo (Jaeger invece rende ‘retroattivi’ i sofisti e il IV, come è noto); ma poi si vide che anche l’isola navigava insieme con tutto il resto e si gettarono àncore di qua e di là per fermarla, e quella georgeana era l’àncora di una professione di fede personale di stampo fenomenologico, gettata però a prezzo di modernizzazione illecita dell’antichità. Ecco intanto una esplicita presa di posizione critica. Ma almeno altrettanto critico è Reinhardt nei confronti dello storicismo del secolo XIX, definito «ingenuo» e della Geistesgeschichte del XX (qui intende Jaeger), che definisce «raffinata» e «sentimentale», e cioè decadente. In realtà dello storicismo ottocentesco, impersonato per lui da Wilamowitz, Reinhardt sente tutto il peso e l’importanza, e vale la pena di seguirlo nello schizzo di storia della filologia che ci offre lui stesso (confer. cit., VdA pp. 334– 60). Prende l’avvio dalla Tagung del 1930 organizzata a Naumburg da Jaeger
|| 2 Seguendo in questo Wilamowitz: v. M. Gigante, PP, 1974, 210 sg. 3 Quanto della ‘filologia’ di Wilamowitz sia dovuto a premesse storicistiche e quanto a una sorta di lealismo nei confronti delle istituzioni universitarie tedesche (a lor volta nate in clima storicistico: l’Università di Berlino fondata da Humboldt!) è soppesato acutamente da D. Lanza, Il suddito e la scienza, Belfagor, XXIX, 1974, 1–32. 4 Su Platone (grande ispiratore di umanesimi: v. anche Jaeger!) come vero ideale del Kreis E. Vermeil, La Germania contemporanea, trad. it., Bari 1956, 175 sgg.; G. L. Mosse, Le origini culturali del terzo Reich, trad. it., Milano 1968, 310–3; M. Isnardi Parente, Platone politico e la VII epistola, RSI, 1969, 261–85, spec. 265. 3; M. Vegetti, Il Pensiero, XVII, 1972, 10. 5 Pöschl assegna R. a questa terza ‘soluzione’: spero che, da quanto segue, il mio dissenso risulti fondato. Su Jaeger v. da ultimo «Il Pensiero» 1972, con contributi di D. Lanza, M. Vegetti ed altri.
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(poi pubblicata nel 1933, Das Problem des Klassischen und die Antike, colle relazioni di Johannes Stroux, Wolfgang Schadewaldt, Paul Friedländer, Eduard Fraenkel, Bernhard Schweitzer, Eduard Schmidt, Matthias Gelzer, Helmut Kuhn). In quella Tagung – dice Reinhardt – ci si rese conto, anche se non si disse espressamente, di una rivoluzione ovvero rotazione (Achsendrehung) nel modo di vedere l’antichità classica fra circa il 1800 e il 1930. La riscoperta dell’antichità come fatto di cui appropriarsi (die aneignende Entdeckung der Antike), e cioè la forma tipica di umanesimo, comincia nel settecento con Winckelmann e continua col secondo umanesimo tedesco. Come simbolo di quest’ultimo Reinhardt prende Die Götter Griechenlands di Schiller (1800) e come simbolo dello storicismo negli studi classici la fondazione del Corpus Inscriptionum Graecarum ad opera di Boeckh (1815; nel 1819 cominciano i Monumenta Germaniae Historica ad opera di von Stein). Con Boeckh, collega di Hegel e poi di Schelling a Berlino e loro cliens filosofico, viene definito nella storia il luogo specifico della filologia (Erkenntnis des Erkannten) e si nega la definizione umanistica, che era arrivata fino alla deutsche Klassik, di filologia classica come studia humanitatis. Ma il dilemma fra l’ideale classico da una parte (col desiderio, o meglio la necessità di farlo rivivere e col conseguente bisogno di dare ad esso una validità sovrastorica) e dall’altra il problema della validità storica degli studi di filologia classica (historistische Wirklichkeit ihres Betriebes) si presenta lungo tutto il corso del secolo (p. 342). Attraverso personalità varie per significato culturale come Droysen (scetticismo: «il filologo è un monografista dell’antichità classica»), Nietzsche (condanna della filologia storicistico– positivistica: «la filologia è un aborto della filosofia e di un idiota o un cretino», lettera a Deussen dell’ottobre 1868, III p. 992; oltre naturalmente alla condanna e al rifiuto dello storicismo in blocco), Dilthey (l’esigenza dell’Erlebnis, e cioè di una Einfühlung, il che è di per sé già premessa a nuovo umanesimo, v. i rapporti di Jaeger con Dilthey) – attraverso questi e altri protagonisti si fa strada la crisi dello storicismo; ed è, a quanto so, una bella intuizione di Reinhardt aver visto tale crisi anche in rapporto con una generale stanchezza di fronte ad una colossale impresa di indagine e documentazione storica che non usciva da se stessa e non riusciva neanche a compiersi, nonostante lo industrieller Gründergeist – possiamo renderlo con ‘pionierismo da capitani d’industria’ – dei grandi organizzatori6: per esempio il CIG, cominciato nel 1815, doveva completarsi in quat-
|| 6 Quasi nello stesso modo si esprimeva, pochi anni prima, Rudolf Pfeiffer (Ausgew. Schr., München 1960, 159, scr. nel 1938): Ein Industriebetrieb auf jenem Riesengebiet setzt ein, das Wolf benannt und Böckh im einzelnen abgesteckt hatte; die Spezialarbeiten mussten von den grossen Organisatoren zusammengefasst werden.
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tro anni, e invece nel 1900, ben ottantacinque anni dopo, era ancora incompiuto, nonostante avesse preso le dimensioni di un’intera biblioteca (come diceva Harnack)7. Gli editori di poeti, per di più (p. 342 sg.), si facevano un punto d’onore scientifico nel disprezzare in quanto poesia i testi poetici che pubblicavano. Vengono poi Wilamowitz e Jaeger, le cui felici caratterizzazioni abbiamo riferite sopra: l’uno (pp. 346–8) fedele alla Wissenschaft, l’altro (pp. 348–50) inteso ad accordare la Wissenschaft coll’ideale classico attraverso il concetto di un nuovo umanistico rinascimento, conquistato coi mezzi stessi della Wissenschaft (un umanesimo di filologi, in altre parole, o addirittura di accademici, come scrisse Snell nella famosa recensione al primo volume di Paideia8). Reinhardt ci ha dato così una lucida sintesi di quello che ha significato l’antichità classica nel mondo moderno: il secondo umanesimo; lo storicismo; lo storicismo in crisi; la rinascita dell’umanesimo e il tentativo di conciliare quest’ultimo collo storicismo. Si ha qui l’impressione che, al di là della valutazione dei singoli atteggiamenti, per lui l’umanesimo serva d i r e t t a m e n t e alla vita (per usare un linguaggio nietzschiano) e che gli studi dei filologi servano ad essa solo i n d i r e t t a m e n t e , servendo in sé solo a fare storia (ma «se la storia non serve alla vita, meglio non farla», secondo Nietzsche). Per l’umanesimo ci ha parlato del concetto del classico e per lo storicismo degli studi filologici: ci aspetteremmo ora che ci parlasse del suo atteggiamento di fronte a tutte e due le alternative, come studioso di fronte alla filologia e come uomo di fronte alla classicità. Ma ci delude: con una schiva recusatio ci parla in realtà solo del suo concetto di classico (pp. 351–60), neanche – quindi – della sua posizione di fronte ad esso. Il suo concetto di classico è in sostanza winckelmanniano, venato di una nostalgia postromantica di ordine ritrovato e di misura. Il classico si realizzerebbe attraverso qualcosa di negativo: attraverso
|| 7 Naturalmente la crisi dell’‘industria’ filologica positivista va vista come una delle tante manifestazioni della crisi della borghesia europea. Giudicando a distanza, non è azzardato dire che la Germania, che nell’ottocento aveva ‘nazionalizzato’ la sua filologia (e che dalle proprie istituzioni accademiche, accuratamente promosse, aveva tratto i suoi vantaggi sul piano politico), ha pagato proprio nel campo degli studi filologici lo scotto proporzionalmente più elevato alla crisi dei nazionalismi. Mi riferisco a questi ultimi decenni, ovviamente solo per quanto attiene al funzionamento della ‘macchina’ filologica. Ma il discorso sarebbe ben più ampio e complesso se si volessero rintracciare le origini della crisi tedesca: si ricordi quanto su figure come Nietzsche, Dilthey, Stefan George diceva in pagine ormai classiche G. Lukács, La distruzione della ragione, trad. it., Torino 1959 (pubblic. in ted. nel 1952). 8 B. Snell, ‘Gött. Gel. Anz.’, CXCVII, 1935, 329–53 [= Ges. Schr., Göttingen 1966, 32–54]. V. anche, sempre di Snell, Die alten Griechen und wir, Göttingen 1962, 26–32, ristampato in Humanismus. Hsg. von H. Oppermann, Darmstadt 1970 (Wege der Forschung, XVII), 542–8.
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limitazione, disciplina, rinuncia (Beschränkung, Zucht, Verzicht). Contrappone Eschilo come rappresentante dell’arcaico a Sofocle come rappresentante del classico. Nell’Edipo re di Eschilo la rivelazione del trivio avviene mediante un Botenbericht, mentre in Sofocle avviene all’interno del dialogo fra Giocasta e Edipo: Sofocle rappresenterebbe, col dialogo, un processo interiore, fatto di misura e di calma, mentre Eschilo sarebbe più teatrale, più ‘drammatico’, meno sereno, più arcaico che classico (v. anche il suo Sofocle). Ma quel che più conta è che per Reinhardt il classico è una categoria umana costante nel tempo, e come tale esso è quindi realizzabile in ogni tempo. Come? Attraverso un processo di spontaneità (das Spontane). Così, nel Tasso di Goethe la dialettica essenza/apparenza (Sein/Schein) sarebbe rappresentata non per cosciente ripresa dell’Edipo di Sofocle (v. il suo Sofocle, dove tale interpretazione del dramma è presentata in dettaglio), bensì indipendentemente da esso, attraverso, appunto, das Spontane: la dialettica Sein/Schein sarebbe infatti interna alla biografia stessa di Torquato Tasso, e quindi interna al tema stesso, non avventizia (e la scelta del tema da parte di Goethe sarebbe già in sé significativa). Il riaffiorare del classico in Goethe sarebbe quindi il riaffiorare di qualcosa di semplicemente umano, Menschliches (per das Spontane in Kleist e J. H. Voss v. per es. TuG pp. 364 sg., 46). È inutile qui rilevare quanto di irrazionalistico vi sia in tale posizione e come essa si ricolleghi ai georgeani, come essa sia in realtà base per un nuovo umanesimo: diverso dal secondo, colle sue austere premesse di formazione e di adesione spirituale (Humboldt etc.); nonché dal terzo (Jaeger), che faceva del rapporto coll’antico una riconquista e un fatto di cultura, di paideia (diremo, più precisamente, un fatto di filologia, posta al servizio della reviviscenza umanistica). Ma anche il terzo umanesimo, l’umanesimo dei filologi, era per lui un’impresa da respingere e questo risulta particolarmente chiaro dalle sue stesse parole (p. 351; cit. da Gelzer, p. 14): Denn das Klassische – man kann es ja nicht untersuchen als ein wissenschaftliches Objekt, dann fängt es an sich zu verkrümeln und geisteswissenschaftlich zu verdampfen. Soll es einen Sinn haben, so muss es dargestellt, erfühlt, ergriffen, Geist und Körper werden – aber das war ja seit je und bleibt die Sache anderer Geister als der Philologen (cf. anche p. 344). Questo riecheggia puntualmente Nietzsche, come nota anche Gelzer. Dalle parole, poi, che seguono a quelle riportate qui sopra risulta chiaro che Reinhardt non intende negare al filologo la possibilità di ‘vivere’ l’antico: essa è, più veramente, appannaggio di spiriti magni, di poeti, di filosofi, ma è p r e m e s s a n e c e s s a r i a alla p u r n e c e s s a r i a attività filologica. Per il terzo umanesimo, in altre parole, punto di partenza è la filologia; per Reinhardt punto di partenza è una adesione di tipo umanistico. La quale ultima sarebbe – da quanto si è visto sopra – una classicità spontanea, sans peine, il riaffiorare di
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una qualità umana costante in individui a ciò predisposti, ovviamente in un ristretto gruppo di aristocratici dello spirito. Non giova, quindi, che alla fine della sua conferenza, rendendosi evidentemente conto di non aver esposto per intero il suo consuntivo, dica esser necessario distinguere fra «classico come tradizione» e «classico come epifania»: ché del primo corno ha taciuto, per quanto riguarda se stesso; e per il secondo, da lui attenuato con classica Dämpfung come «impresa non al di là del possibile», ci ha dato una proposta abbastanza ingenua e disarmata, quella cioè di seguire l’impulso spontaneo alla classicità. Al di là dell’ingenuità della proposta, che sembra appiccicata all’efficace quadro storico solo come battuta ad effetto, c’è comunque da prendere atto del fatto che Reinhardt non ci dice niente della sua attività, del suo mestiere di filologo classico, ché tale è stato (sia pure malgré lui, come dice Schadewaldt p. 1030). Era questo il luogo ideale e per di più il momento ideale (fra i cinquanta e i sessanta, dopo aver scritto tutti i suoi lavori più importanti, escluso solo l’Omero) per professare in dettaglio il suo credo metodologico. Cerchiamolo allora altrove, da quello che sappiamo della sua vita, dei suoi rapporti intellettuali, e dalle sue opere, dove per fortuna non proprio tutto è implicito, ché la sua riluttanza a parlare di questo argomento è qualche rara volta utilmente sconfitta. La biografia di Reinhardt la ricaviamo da un suo schizzo autobiografico (Akademisches aus zwei Epochen, VdA pp. 380–401, del 1955) e da alcune commemorazioni. Nasce a Francoforte nel 1886, figlio di padre omonimo, direttore del liceo locale, già allievo di Usener a Bonn, e, prima, a Basilea del giovane Nietzsche e del vecchio Burckhardt. La casa paterna riceve visitatori interessanti, fra cui Paul Deussen, già amico di Nietzsche. Reinhardt va nel 1905 a studiare filologia a Bonn, come aveva fatto il padre, e vi segue Usener e Bücheler. Passa poi a Berlino, allievo di Wilamowitz. Nel 1910 si addottora con Wilamowitz con un lavoro sulla allegoresi omerica degli stoici. Insegna subito al liceo di Gross– Lichterfelde, fa viaggi in Grecia e in Asia Minore. Nel 1914 si abilita a Bonn presso il suo vecchio maestro August Brinckmann con un lavoro di Osservazioni sui primi tre libri di Strabone («Per fortuna non è mai uscito!», dice Reinhardt a p. 388 con autoironia). Nel 1916 è straordinario a Marburg, nel 1918 ordinario nella neo–fondata università di Amburgo, dal 1923 al 1951 insegna a Francoforte, colla interruzione di un soggiorno a Lipsia fra il 1942 e il 1946. Muore nel 1958 ancora in piena attività scientifica (lavorava a Omero). Come ci testimoniano i suoi commemoratori, il suo carattere era taciturno, il suo raro parlare era spesso impacciato e sostituito da espressiva gesticolazione, ma la sua comunicativa era molto vivace e si esprimeva usualmente in festosa autoironia. Kurt Hildebrandt, che era diventato suo cognato, ci dice che da giovanissimo doveva avviarsi allo
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studio dell’architettura, che suonava il violoncello e che era ottimo conoscitore di pittura europea, oltre che stimato e temuto frequentatore di aste antiquarie. Elenco qui le sue opere principali: Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, 1916; Poseidonios, 1921; Kosmos und Sympathie. Neue Untersuchungen über Poseidonios, 1926; Poseidonios über Ursprung und Entartung, 1928 (= VdA2, 1966); Platons Mythen, 1927 (= VdA2, 1966); Sophokles, 31947 (11933); Aischylos als Regisseur und Theologe, 1949; Poseidonios, R.E. 22.1, 1953; Die Ilias und ihr Dichter, 1961 (postumo, a cura di U. Hölscher).
A questo si aggiunga una serie di lavori di minore estensione, in parte prima raccolti in VWuF, 1948 e poi, insieme con altri, di nuovo raccolti da Carl Becker in TuG, 1960 e VdA, 1960, 21966. Eraclito, Empedocle, Tucidide, Eschilo, Aristofane sono alcuni dei temi da lui trattati; a cui si aggiungono lavori su Goethe, Nietzsche, Schiller, Hölderlin, Hans Carossa, che testimoniano familiarità intensa colla letteratura del suo paese. Dalle date di pubblicazione è evidente una struttura a dittico della sua carriera di studioso: prima la filosofia, poi la grande poesia greca. Due parole sul suo stile (Becker, VdA p. 470; Hölscher, Chance p. 44 sg.): una retorica estremamente raffinata fatta di opposizioni, antitesi, aposiopesi, interrogazioni, sospensioni; le allusioni sono frequenti e, fra le figure, si notano le opposizioni, polari o no, già evidenti da una scorsa ai titoli stessi dei suoi libri. Quello che colpisce specialmente il lettore di lingua non tedesca è una straordinaria abbondanza di forme verbali sostantivate, infiniti e participi, il che dà alla sua pagina una notevole densità9. Uno stile non facile, che però remunera ad usura il lettore che sappia prendersi la pena di decifrarlo nelle sue pieghe più riposte. Vediamo ora di precisare nella maggior misura possibile l’atteggiamento di Reinhardt nei confronti dei tre poli individuati all’inizio. R e i n h a r d t e N i e t z s c h e . Da quanto ci racconta nell’autobiografia delle sue conversazioni con Paul Deussen, e da quanto possiamo immaginare dei racconti del padre, c’è da credere che Nietzsche sia stato uno dei primissimi incontri intellettuali di Reinhardt. Non molto appare del suo debito verso di lui da un articolo del 1935 (VdA pp. 310–33) e da una conferenza tenuta a Parigi nel 1928 (Nietzsche und die Geschichte: VdA pp. 296–309). Nietzsche – a quanto si
|| 9 V. anche H. Lloyd–Jones, CR, XII, 1962, 244.
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legge in quest’ultima – sarebbe stato non uno storico, bensì un «rivelatore» della storia (Erschliesser); si farebbe centro di essa, la porterebbe in sé. «Chiunque altro potrebbe dire – e qui una delle sue impennate estrose –: se m’immagino il mondo senza la mia cattedra, non saprei più dove resterebbe la storia. Nietzsche no» (p. 309). Nietzsche è per Reinhardt un umanista: della celebre formulazione «La storia deve servire alla vita» dice di non sapere quale frase potrebbe essere più umanistica di essa (p. 344). Le perplessità di Reinhardt di fronte alle varie esperienze umanistiche le vedremo meglio in seguito. D’altra parte, per chi aveva già scelto gli studi classici e non era disposto a mettere in discussione tale scelta di fondo, Nietzsche doveva restare pur sempre chi non aveva soluzioni positive da offrire: la tonaca del filologo era stata da lui gettata ben presto alle ortiche, quando cioè si era accorto che essa non faceva per lui. L’alternativa da lui offerta era solo in negativo. Ma al suo grido di dolore (si pensi a Wir Philologen, per non citare altro) Reinhardt si è mostrato sempre molto sensibile. Illuminante è una notazione nell’autobiografia (VdA p. 381): quando arriva a Berlino come studente è colpito dal carteggio Nietzsche–Rohde e da alcune esperienze letterarie neoromantiche (e si ricordi che era il momento del suo primo avvicinarsi al grande Wilamowitz); ebbene, sono queste esperienze a fargli capire che «poteva esistere un’altra Antike, diversa da quella che forniva l’università». Ecco, direi che al di là di una adesione o di un rifiuto della filosofia di Nietzsche, essa, in qualità di e s p e r i e n z a , gli è servita per giustificare un approccio ai classici (e ai filosofi antichi) che si può definire almeno eminentemente p e r s o n a l e . Un rifiuto pregiudiziale della cultura accademica (si pensi allo ‘scandalo’ suscitato dai suoi primi lavori sui filosofi). Più un fatto di sensibilità che un fatto di scelta intellettuale. Della sua scarsa stima del Nietzsche filologo si è già detto. Almeno altrettanto importante per la definizione della sua sensibilità è l’incontro (a distanza, come vedremo) col Kreis di S t e f a n G e o r g e . Come ci dice Kurt Hildebrandt (p. 5 sgg.), nel periodo amburghese (1918–1923) fu Kurt Singer, suo collega, ad avvicinarlo al Kreis. In quel periodo nacque Platons Mythen (1927, VdA pp. 219–95), il suo lavoro più georgeano e quello che più gli danneggiò la ‘reputazione’ filologica. Ma ad un incontro personale con George non si arrivò. Nel 1926 – continua Hildebrandt – si sarebbe mostrato, a Berlino, più desideroso di avvicinarsi a lui, quasi a riparare (als Bekenner, von Ehrfurcht beherrscht, p. 5) suoi precedenti atteggiamenti di autoironia, coi quali avrebbe cercato di assicurarsi la sua libertà. Ma George non era più a Berlino. Anni dopo, nel 1957, Hildebrandt gli avrebbe chiesto per lettera se poteva accennare a questo nelle sue memorie. E Reinhardt gli rispose con una lettera, che Hildebrandt pubblica (p. 6), colla quale in realtà Reinhardt non conferma affatto – come
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invece Hildebrandt dice di ritenere – l’interpretazione data da Hildebrandt stesso dei suoi atteggiamenti del 1926: è piuttosto la conferma della sua ‘timidezza’ del lontano periodo amburghese, del suo vivo apprezzamento per la vivacità intellettuale del Kreis e di una generica adesione di gusto, ma soprattutto del desiderio di conservare veramente la sua libertà. Hölscher (Chance p. 88. 6) reagisce violentemente contro Hildebrandt, ritenendo apocrifa ogni propensione per l’appartenenza al Kreis. A Hölscher, in verità, dà ragione tutto quello che sappiamo del carattere di Reinhardt. Forse – se è possibile a noi giudicare dal di fuori – nel ’26 Reinhardt avrà avuto veramente un desiderio episodico di conoscere George, nato dalla sua non episodica esigenza di dare agli studi filologici un contenuto più vitale, e poi si sarà richiuso di nuovo in se stesso. Inutile dire qui del Kreis: vi appartenevano persone dall’estrazione intellettuale più diversa (qualche nome di personaggi più o meno legati: Dilthey, Ernst e Friedrich Gundolf, Ernst Kantorowicz, Max Commerell etc.; fra i filologi Paul Friedländer, Albrecht von Blumenthal, Karl Meuli etc.)10. Ma ogni umanesimo è una religione nella misura in cui ogni umanesimo per definizione si riflette nella vita: e Reinhardt è rimasto sempre nel fondo un professore tedesco, schivo e umbratile, per di più. Lo avrà forse anche spaventato il proselitismo di tipo ‘massonico’ del Kreis, che mirava ad assicurarsi adepti in vari settori, fra i quali particolarmente curato era quello accademico. Ma la base autentica del suo rifiuto, anche se influenzata da fattori psicologici, è squisitamente intellettuale. In una conferenza del 1953 (Die Krise des Helden, TuG pp. 420–7) Reinhardt parla della decadenza della figura dell’eroe e passa in rassegna Wagner e il borghesismo dei suoi eroi, Nietzsche e lo smascheramento dell’eroe sia della poesia (equiparato ad un attore) sia della storia (visto alla luce dei suoi condizionamenti socio– psicologici), Hitler e la venerazione del suo eroe allo scopo di renderselo schiavo (ma del nazismo parleremo più avanti). Di Stefan George e del Kreis dice che l’eroe vi è venerato come fatto ‘di casta’, aristocratico: ma che l’eroe georgeano non è greco, perché gli manca la Belastung, il ‘peso sulle spalle’: l’eroe greco invece più è grande più ha Belastung, come Achille, Ettore (e viene da ricordare l’eroe sofocleo di Reinhardt, solo colla sua tremenda Belastung). Insomma, con i
|| 10 Su George e il Kreis la letteratura è notevole; si possono qui segnalare Der George–Kreis. Eine Auswahl aus seinen Schriften. Hsg. von G. P. Landmann, Köln–Berlin 1965; St. George. Dokumente seiner Wirkung. Aus dem Fr. Gundolf Archiv d. Univ. London hsg. v. L. Helbing u. K. V. Bock mit K. Kluncker, Amsterdam 1974.
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tentennamenti che crediamo di indovinare, è un po’ come se dicesse: ‘l’ideale georgeano non mi dispiace del tutto, ma è filologicamente troppo scorretto’11. Da questo punto di vista al suo ideale, pur senza soddisfarlo, doveva avvicinarsi di più Jaeger, che offriva un umanesimo con meno ‘errori di grammatica’. È un fatto comunque che sul Kreis georgeano le sue affermazioni sono spesso generiche, quasi neutre: classicismo come epifania (VdA p. 336), innovazione sulla base di una ‘rivelazione’ (Offenbarung) contrapposta al rinnovamento di Jaeger proposto sulla base di una riflessione sulla filologia come Wissenschaft (VdA p. 348); il messaggio del Kreis come ‘buona novella’ (Heilsbotschaft) contro nichilismo e pessimismo (TuG p. 228). Non è sempre chiaramente espresso che cosa Reinhardt accetti e che cosa rifiuti. Insomma, un atteggiamento episodicamente di condanna, ma mite; e allo stesso tempo di simpatia, ma senza vera adesione. In fondo la leggenda di un Reinhardt legato al Kreis deve essere nata originariamente dalle reazioni della critica sia al Posidonio (1921) sia al Platons Mythen (1927). Alle prime risponde con energia nella grande voce su Posidonio della R.E. (22. 1, 1953, col. 611 sgg.): «Il mio libro fu giudicato come un esempio dei lavori di esegesi (Deutungsbücher) alla Gundolf o alla Bertram – e cita Pohlenz e Leisegang –. La mia innere Form – ne parleremo fra poco – sembrò avvicinarsi a Mitte, Gestalt, Schau. Sono stato considerato ‘intuizionista’ (col. 613), il ritratto che ho offerto di Posidonio è stato detto ‘espressionista’, con rinuncia all’esattezza filologica» etc. etc. Vedremo poi come a tutto questo si contrapporrà il suo metodo. A noi qui interessa prendere atto del suo rifiuto di ogni forma di ‘georgeanesimo’. R e i n h a r d t e W i l a m o w i t z (VdA pp. 346–8, del 1942, 21948; 381–4, del 1955; 361–8, del 1957; cf. Becker, VdA p. 470 sg.). Qui le cose si complicano per il fatto di una notevole compromissione affettiva. «E arrivai a Berlino, da Wilamowitz» (p. 381): così, con pathos ‘classico’, l’arrivo dello studente dal grande maestro. In più d’una commemorazione è messo in rilievo con quanto amore Reinhardt descrive la figura solenne di Wilamowitz che pedala sulla sua bicicletta nel traffico di Berlino (p. 382). L’opposizione dei bonnensi, le critiche aspre di Rohde, quelle più moderate di Henri Weil, Hellas und Wilamowitz di Kurt Hildebrandt non fanno altro che attrarlo di più verso il maestro (p. 381 sg.). Schiacciante il confronto tra il Teocrito bonnense di Bücheler e quello berlinese di Wilamowitz (p. 382 sg.): qui Reinhardt impara a capire la differenza fra i pastori di Virgilio e quelli di Teocrito, sente parlare della giovane scuola poetica
|| 11 Hölscher, per litt., vede a fondamento della mancata adesione non ragioni ‘filologiche’, bensì una più generale insoddisfazione per le premesse poste dal Kreis stesso alla reviviscenza dell’antico.
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alessandrina, vede la città ellenistica come sfondo alla poesia (e noi pensiamo all’Orazio lirico di Pasquali). Ma la polemica nei confronti del maestro sarà costante, specialmente negli studi omerici. Di questo bisognerà parlare nella discussione dei singoli lavori. Qui va ricordato un episodio significativo (p. 384). Si rappresenta a Berlino l’Orestea nella traduzione di Wilamowitz in concorrenza con Max Reinhardt (e qui gli interessi teatrali di Reinhardt meriterebbero una trattazione a parte, specie in connessione coi suoi studi sui tragediografi; ma ci occorrerebbe una documentata biografia); Wilamowitz stesso pronuncia le parole introduttive e cerca di rievocare l’atmosfera del teatro di Dioniso; i camerieri portano in giro birra e panini al salame; molti si lasciano suggestionare, Reinhardt e i suoi amici no: «La visione attica non voleva riuscire; c’era qualcosa di allucinante, da circo. Soffrivamo (Wir litten)». Questo contro l’artificiale Verlebendigung di Wilamowitz, contro il suo ‘umanesimo’ troppo superficiale12. È come la falsificazione dell’eroe georgeano: ma qui la reazione è più violenta, certo per Reinhardt il Kreis aveva più buon gusto. Pare quasi – caso unico! – che, quando riporta le critiche del Kreis al Platon del maestro, ci provi un certo gusto (p. 367): Jetzt fiel das schlimme Wort von Gundolf: «Ein Platon für Dienstmädchen. Schade um Wilamowitz». Reinhardt (p. 347 sg.) nota la contraddizione in Wilamowitz fra pensiero e persona: l’impostazione storicistica e la fedeltà alla Wissenschaft da una parte (a p. 346 richiama l’introduzione al Lesebuch) e dall’altra l’impersonamento di una fede umanistica nella possibilità di rivivere il mondo antico. Così, secondo lui, l’umanesimo in qualche modo si poteva salvare, dopo tutto. Vede Wilamowitz come la conclusione di quanto era cominciato con Boeckh, cioè come l’ultimo rappresentante del grande storicismo, con in più quello che chiama «lo charme della contraddizione». E tuttavia – conclude (p. 348) – la soluzione era quasi assurdamente personale, individuale, legata alla figura di lui, irripetibile. Unire umanesimo e filologia, sì: ma solo Wilamowitz poteva farlo.
|| 12 Che per un aspetto certo non secondario avvicina lo storicismo di Wilamowitz a Dilthey. È chiaro che ogni storicismo, nel proporre allo storico il compito concreto di ricostruire il dato e di ‘resuscitarlo’ nella sua verità, gli impone anche di confrontarsi colle sue capacità intuitive. Quando però queste ultime siano ipertrofizzate e assumono funzione prevalente e addirittura autonoma, si ha uno storicismo arbitrario, come quello della Einfühlung di Dilthey. Ora, Wilamowitz era costantemente esposto a tale degradazione: v. per es. i suoi arbitri per Pindaro (L. E. Rossi, in questi «Annali» S. III, 3, 1973, 119–38, spec. 134 sg., dove risalta il ben diverso storicismo di un Welcker) e per Platone (Margherita Isnardi Parente nello stesso numero degli «Annali»). Sugli equivoci a cui può dar luogo oggi la parola ‘storicismo’ (Dilthey etc.), visti nell’ambito degli studi classici, v. S. Timpanaro, Belfagor, XXVIII, 1973, 183–6.
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Siamo ora in grado di inquadrare meglio qualche indicazione più precisa sulla fisionomia di R e i n h a r d t f i l o l o g o . La sua è una soluzione forse altrettanto personale, se pure in una direzione diversa da quella del maestro: con fede meno solida nella filologia e nello storicismo, ma pur sempre con fede; con meno concessioni all’umanesimo, ma senza eliminarlo del tutto. Il suo manifesto più chiaro restano le tre brevi pagine di prefazione a VWuF (1948; = TuG pp. 428–30): qui non ci sono equivoci, sia il classico sia l’umanesimo (e cioè un certo atteggiamento di fronte al classico) sono formalmente esclusi dalla considerazione: si parla solo dell’operare filologico, e cioè, col definire la filologia, si dà un fondamento al suo valore storico. La filologia è problematicità (Fraglichkeit), la sua problematica è «esclusiva» perché è «interna». La filologia diventa problema a se stessa nella misura in cui non sa uscire da se stessa. E da se stessa uscire può, e pure con una certa fiducia: ma bisogna che sia cosciente di avere a che fare con fatti (Erscheinungen) che la trascendono. Deve realizzare una ars nesciendi diversa da quella di Gottfried Hermann: quest’ultima contemplava le lacune materiali della tradizione; qui invece si tratta di qualcosa che sta al fondo, che è «necessariamente irraggiungibile» (notwendigerweise unerreichlich), e la coscienza di questo agisce sui risultati stessi della ricerca. Una methodische Bescheidung («modestia metodologica», ovvero senso del limite) che sa di lasciare sempre qualcosa di inespresso. Capiremo meglio questo ‘qualcosa di inespresso’ se preciseremo con Reinhardt gli scopi della filologia. Non la Gestalt, non la psicologia, non i ‘motivi’ e le loro trasformazioni, non la Geistesgeschichte in ‘–ismi’, bensì l ’ o p e r a ( d a s W e r k ) con le sue leggi immanenti, che sono frutto di tradizione e di emancipazione allo stesso tempo. Quello che domina l’opera è la sua f o r m a i n t e r n a ( i n n e r e F o r m ; cf. Poseidonios, R.E. col. 611 sgg.), e questa forma interna Reinhardt la coglie soprattutto al livello di pensiero (questo è il segno della sua nascita agli studi colla filosofia antica): da tre, quattro frammenti ricavare l a t o t a l i t à che sta dietro ad essi, secondo quanto affermava Friedrich Schlegel (aus drei, vier Fragmenten d a s G a n z e dahinter zu erschliessen). Grande attenzione quindi alle strutture di pensiero (v. per es. TuG p. 125 sgg., su Solone; Ilias pp. 529–31): e, se si potrà discutere sulla validità della ricostruzione di alcune di queste ‘totalità’, nel senso che siano ricostruite con troppa scarsità di materiali (secondo quanto gli fu criticato per Posidonio; o per es. in una sua proposta testuale a Solone o nel giudicare del testo alessandrino di Omero, cf. i luoghi qui sopra citt.), non si può negare che le premesse sono accettabili dal punto di vista del metodo storicistico. La sua sensibilità storica lo porta a puntare il dito su problemi non bene individuati prima, come per es. l’importanza della categoria del sociale–politico nel conflitto fra Agamennone e Achille (Ilias p. 42 sgg.) e, nel rapporto Ettore–
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Paride, la storia archetipica della coppia fraterna costituita da individui diseguali (die Geschichte vom ungleichen Brüderpaar: TuG p. 30). A più d’uno qui sarà presente il modo con cui vengono trattati il giudizio di Paride (TuG p. 16 sgg.) o il raddoppio del tema della nobildonna preda di guerra (Briseide/Criseide: Ilias p. 42 sgg.). La conseguenza delle premesse è, per Omero, la ricerca non tanto di strati, quanto di tradizioni che sottostanno al testo che abbiamo. Per lui il testo omerico è solo occasionalmente un contesto sintattico ‘pieno’ nel senso aristotelico, e in sostanza il suo metodo non differisce da quello usato per la ricostruzione del ‘tutto’ da due o tre frammenti nei filosofi; è come se l’Iliade fosse un coacervo di frammenti, pur composti da un solo autore, dietro ai quali si tratta di riscoprire una totalità di pensiero e di narrazione. Tale totalità è la tradizione epica: l’autore unico avrebbe assunto, quindi, materiale tradizionale. Osserverei qui di passaggio che, salva restando la qualità di ‘capolavoro’ del suo Sofocle, il libro omerico è senza dubbio il più fecondo e il più ‘aperto’: il suo unitarismo infatti non impedisce l’utilizzazione dei suoi risultati a chi unitario non sia e ricordiamo che, parecchi anni prima che il mondo filologico specie tedesco se ne accorgesse, Reinhardt mostra di conoscere Parry e la teoria orale (Ilias pp. 14–16), sia pure per rinnegarla13. Nascono così anche altre categorie, come quella della «situazione epica», del «comportamento (Verhalten) monologico e dialogico», dell’«essere/sembrare» (Sein/Schein) (Schadewaldt p. 1034). L’epica si costruirebbe secondo 1’ «arte dell’episodio», comparata coll’ ‘arte della fuga’ in musica (Ilias pp. 38–41). Non sarebbe difficile tradurre gli strumenti di Reinhardt nella lingua speciale della semiologia: è chiaro che qui potremmo parlare di ‘codici’, anche se confusione potrebbe inizialmente derivare da una non facile distinzione dei livelli di analisi. Ma che cosa è quell’«inespresso» di cui si parlava prima, a che cosa deve mirare la filologia in quello che nel medesimo contesto chiama «salto nell’altro» (Sprung ins Andere: TuG p. 428 sg.)? Valicando i confini della filologia, colla coscienza della necessità di farlo, dove pensa di arrivare? Reinhardt non ce lo dice espressamente, ma siamo in grado di capirlo. È in sostanza una fuga nelle regioni dell’intuizione messa in moto da una simpatia o affinità (come dice Pöschl), da una adesione all’autore studiato. Pur trattandosi di una Aneignung, questo non merita ancora compiutamente il nome di umanesimo: più che organizzarsi, infatti, nella forma di un riflesso atto di fede, resta un fatto d’amore fortemente personale. È un tributo, ma non una compromissione, nei confronti di quell’umanesimo che Reinhardt doveva ammirare in Nietzsche come esigen|| 13 In realtà R. parla soltanto di oral poetry; ma Hölscher, per litt., testimonia di aver sentito da R. il nome di Parry già in un corso del 1935.
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za (non realizzata se non auroralmente nella Nascita della tragedia), in Stefan George come realizzazione (pur discutibile e discussa), in Wilamowitz come ‘complemento’ dell’attività filologica (pur lucidamente riconosciuto nei suoi limiti). Quante volte questa fuga nell’intuizione si sia realizzata e quante volte abbia dato risultati positivi, dovrebbe essere frutto di una rilettura in questa luce di tutte le sue opere (per la quale la competenza spetta agli altri relatori). Schadewaldt ha dato di lui una definizione azzeccata (p. 1035): «il grande solitario, eretico, come era Nietzsche, che torna a casa dalla sua nutrice e madre, la filologia». E l’avventura da cui torna a casa è, appunto, una mai sopita nostalgia per l’umanesimo, quella creatagli dall’insoddisfazione per la filologia. Niente più che una nostalgia, però, ché filologo resta, anche se sa che quel che conta del mondo antico può essere rivelato da altri, non dai filologi. La filologia nutrice e madre è poi un maestro e padre, Wilamowitz, che per di più gli offriva unita nella sua stessa persona la dialettica umanesimo/filologia, ma colla sua Verlebendigung un po’ ingenua, di cattivo gusto, di cui non poteva restare soddisfatto; né poteva attrarlo la rivelazione (Offenbarung) di Stefan George, troppo sgrammaticata, né la attualizzazione (Vergegenwärtigung) di Jaeger, troppo accademica. Vorrei definire la carriera intellettuale di Reinhardt con queste parole: u n f i l o l o g o c l a s s i c o a l l a r i c e r c a d i u n u m a n e s i m o ( n o n t r o v a t o ) . Non possiamo quindi dare tutti i torti a chi lo definisce un umanista (come Gelzer, pp. 12, 14): solo, bisogna dirlo u n u m a n i s t a m a n c a t o , e mancato p e r l u c i d a d e t e r m i n a z i o n e 14. La definizione di Reinhardt ci è risultata così attraverso una serie di negazioni (così come è successo ad altri: Hölscher, Chance p. 43). Il suo amletismo è stato all’origine di alcuni atteggiamenti postumi di appropriazione da parte di altri. Helmut Rahn, fondandosi sugli studi straboniani preparatori al Posidonio (v. Poseidonios, R.E. col. 611) e sulla innere Form, ne ha voluto fare un Kulturmorphologe alla Frobenius (una Literatur–morphologie nel quadro più ampio di una Kulturmorphologie): ed è un’appropriazione entro certi limiti lecita, anche
|| 14 Interiore, mai espressa. Alla mia definizione Hölscher, per litt., obietta che si dovrebbe vedere, così, qualcosa di vano nella ricerca di R., come se un ‘umanesimo’ si potesse veramente ‘trovare’ e lui non l’avesse trovato. Credo però che dalla ‘distanza’ da R. osservata nei confronti dei vari umanesimi con cui si trovò a fare i conti risulti abbastanza chiaramente il suo sostanziale scetticismo di partenza, che poi si manifesta in quello che Hölscher chiama un atteggiamento «critico–ironico». Hölscher media le contraddizioni di R. con una formulazione più sfumata: Was sich von seinen frühesten bis zu den letzten Arbeiten durchzieht, ist eine Frage nach dem menschlichen Dasein in der Welt, ein fast theologisches Interesse (obschon er diese Formel für sich wohl ebenso ironisch abgelehnt hätte), jedenfalls eine Betrachtungsweise, in der das ‘Klassische’ und das ‘Humanistische’ zuletzt doch nur partielle Phänomene sind.
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se meraviglia, per esempio, vedere che Reinhardt, parlando di Gilbert Murray (VdA pp. 373–6, del 1956/57), non accenni agl’interessi antropologici dei classicisti inglesi, che avrebbero dovuto piacergli (1’ ‘antropologo’ Posidonio era pur stato uno dei suoi primi amori; e anche qui ricorderemo Pasquali, che tra parentesi nel suo articolo Cesare, Platone e Posidonio mostra di apprezzare Reinhardt – pass. – e di minimizzare le critiche a Reinhardt fatte: Pag. Strav., I, Firenze 1968 p. 343). Ma assai meno lecita è l’appropriazione al George–Kreis portata troppo avanti da Hildebrandt, come abbiamo visto; e meno di tutte quella al terzo umanesimo tentata in sordina da Jaeger nella sua commemorazione (p. 27 sg.): «Sebbene con qualche occhiata traversa (Seitenblick) a quello che con impazienza chiamava Programmhumanismus, apparteneva alla nostra generazione e aveva lo stesso ethos, come ricorda chi lo vide agl’incontri di Weimar e poi a Naumburg». In realtà del forzato connubio ‘alla pari’ di Jaeger Reinhardt non aveva voluto saperne. No, tali appropriazioni sono meno che lecite, sono addirittura illecite: fra umanesimo e filologia, il baricentro di Reinhardt resta quest’ultima; e il lato umanistico vale per lui solo in statu nascendi, come atto d’amore necessario ad avviare l’attività del filologo. Ci resta un punto da chiarire: R e i n h a r d t e i l n a z i s m o . Il 5 maggio 1933 Reinhardt scrive una lettera di dimissioni al Ministero: «Colla mia venia legendi ho fatto la mia professione di fede all’umanesimo tedesco…; dal momento che all’Università di Francoforte tali tradizioni sono state abbandonate…, mi trovo nell’impossibilità di continuare il mio insegnamento». Tre settimane dopo le dimissioni gli vengono respinte dal ministro: e si trova nel dilemma di «andare fino in fondo o di fermarsi a mezza strada» (VdA p. 390). Reinhardt ci dice quello che sappiamo, e cioè che opposizione organizzata in Germania non ci fu (se non assai tardi, e non confrontabile colle resistenze europee) e che un gesto isolato sarebbe rimasto sterile (p. 390.4). Il confronto con i Göttinger Sieben (pp. 390–3) non regge: allora, nel 1837, l’università tedesca era nel suo fiore e poteva permettersi questi lussi; oggi i nazisti avrebbero sostituito scuole tecniche (Fachschulen) alle università, ed era in fondo quello che volevano. Rimase. Sembra che la sua già più volte citata autobiografia sia stata scritta proprio per permettersi di giustificarsi. «Perché sono rimasto? (pp. 393–6) 1. Senso del dovere nel suo significato più alto, unito alla speranza che in sei mesi tutto sarebbe finito; 2. la ‘concorrenza’ cogli altri colleghi ospitati all’estero; 3. la famiglia; 4. l’assoluta inutilità del gesto in Germania (quello di Kurt von Fritz rimase a lungo del tutto sconosciuto); 5. sentimento generale che si dovesse esser ‘presenti’, qualunque cosa dovesse accadere». E così passa fra Francoforte e Lipsia gli anni del nazismo e della guerra in sordina, vedendosi con gli amici in riunioni «di provocatoria apoliticità» (Hölscher, Chance p. 38). «Ma che cosa significano poi
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le motivazioni?» (Aber was besagen schon die Gründe?, p. 393), dice con amarezza. Insomma, un peso sulla coscienza15. Nelle pieghe della sua storia della filologia poche righe (VdA p. 348) ci illuminano sulla necessità di una funzione politica dello studioso: si tratta di una serie di interrogativi sulla funzione politica, appunto, del terzo umanesimo, funzione ampiamente propagandata da Jaeger stesso. Interrogativi senza risposta, che ne avevano già avuto una nella condanna di Snell alla fine della recensione al primo volume di Paideia richiamata all’inizio, scritta nel lontano 1935: un umanesimo fatto di Hexis e di Ethos è la negazione del politico, perché o per la politica è inutilizzabile o è utilizzabile per qualunque politica, dal momento che rischia di diventare pura letteratura o accademia. In generale Reinhardt, che ha avuto il pesante privilegio di vivere tutta la tragedia della Germania di questo secolo, non fa trasparire troppo, almeno dai suoi scritti, della sua precisa posizione di fronte alle scelte politiche ed etiche del suo paese. Se il suo rifiuto del nazismo è chiaro (tutta una sezione della sua autobiografia, VdA pp. 388–401, è intitolata Nach 1933, e ne viene fuori un quadro ricco di atmosfera dell’avversione dell’intellettuale alla brutalità totalitaria), avremmo voluto saper qualcosa della sua reazione al 1914 e soprattutto al coinvolgimento della generazione dei suoi maestri16. Concludiamo. Politicamente – se così ci è lecito dire – riservato, forse per elezione personale e sicuramente, alla fine, anche per la forza delle circostanze. Intellettualmente non si è mai veramente compromesso: ha preferito la libertà
|| 15 È qui comunque importante la testimonianza personale di Hölscher, per litt.: Es ging von ihm eine ganz starke Kraft der Ablehnung des Hitlerismus aus, und jeder wusste es. Das Einzige, wo ich ihn seine gewohnte Vorsicht und Delikatesse durchbrechen gesehen habe, und nicht nur einmal, war das Politische. Und auch das «provozierend U n p o l i t i s c h e» war, unter der Diktatur, etwas eminent P o l i t i s c h e s . Il peso sulla coscienza è, per Hölscher, non un fatto individuale, bensì la partecipazione individuale a un senso di colpa collettivo della Germania intera. 16 Come per esempio Eduard Meyer e Wilamowitz, che fra l’altro firmarono il documento annessionista del 1915 (352 studiosi). Utile, con ricca bibliografia, è Aufrufe und Reden deutscher Professoren im Ersten Weltkrieg. Mit einer Einleitung hsg. von Klaus Böhme, Stuttgart 1975; per il periodo fra le due guerre v. H. Döring, Deutsche Professoren zwischen Kaiserreich und Drittem Reich, Neue Politische Literatur, 1974, 240 sgg. (devo queste indicazioni a Luciano Canfora). Ma una storia comprensiva dei classicisti europei nella storia (e nell’ideologia) dell’Europa moderna deve essere ancora scritta. Sarebbe importante valutare l’influenza che ebbero sugli studi classici le varie correnti irrazionalistiche a cavallo dei due secoli e i vari atti di fede politica dei singoli filologi: una lukàcsiana ‘distruzione della ragione’ nei nostri studi. Abbiamo per ora, in Italia, spunti importanti in numerosi lavori di Antonio La Penna, Santo Mazzarino, Arnaldo Momigliano, Sebastiano Timpanaro, Piero Treves.
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dell’eclettismo, che gli permetteva di esercitare il suo m e s t i e r e d i f i l o l o g o senza rinnegare le sue profonde n o s t a l g i e u m a n i s t i c h e . Non possiamo concludere con uno dei luoghi comuni della nostra encomiastica: ‘ci ha dato una lezione di metodo’. Possiamo bensì dire che Reinhardt, più che un esempio o un modello, è un ‘incontro’. Pfeiffer (p. 152) dice che «la sua ‘esegesi’ (Interpretationskunst), che si può chiamare ‘organica’, non può essere continuata da nessuno, che non sia un affine nello spirito (ein echter Seelenverwandter)». Una soluzione personale e irripetibile, com’era stata quella del suo maestro Wilamowitz.
Appendice Commemorazioni e valutazioni critiche di K.R. C. BECKER, Nachwort in K.R., TuG, 1960, 431–42; C. BECKER, Nachwort in K.R., VdA, 1960, 461–73; W. BOEHLICH, Kosmos und Sympathie. Zum Tode K.R.s, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 13.1.1958; H.–G. GADAMER, K.R., Die Neue Rundschau, LXIX, 1958, H. 1 (estr., 1–8); H.–G. GADAMER, Zum Gedenken an K.R. Rede, gehalten an der Univ. Frankfurt a.M., Neue Zürcher Zeitung, 30.4.1966; M. GELZER, in Gedenkreden auf K.R., Frankfurt a.M.1959, 7–16; K. HILDEBRANDT, K.R. zum Gedächtnis, Die Neue Rundschau, LXIX, 1958, H.1 (estr., 1–7); U. HÖLSCHER, K.R., Die Gegenwart, XIII, 1958, Nr. 306, 22.2.1958, 110–3; U. HÖLSCHER, in Gedenkreden auf K.R., Frankfurt a.M. 1959, 17–30; U. HÖLSCHER, K.R., Gnomon, XXX, 1958, 557–60; U. HÖLSCHER, Nachwort, in K.R., Ilias, 532–7; U. HÖLSCHER, K.R. in Die Chance des Unbehagens, Göttingen 1965, 31–52 (v. anche 27–30); W. JAEGER, Gedenkworte für K.R., Orden Pour le mérite für Wissenschaften und Künste. Reden und Gedenkworte, 3. Band, Heidelberg 1958/59, 22–30; W. JENES, K.R.s Studien, in W. J., Zueignungen, München 1962, 74–8; K. I. MERENTITIS, K.R., Platon, XIX–XX, 1958, 487–92; R. PFEIFFER, K.R. 14.2.1886 – 9.1.1958, Jahrbuch der Bayer. Akad. d. Wiss., 1959, 147–52; H. RAHN, K.R. und die Kulturmorphologie, Paideuma, VI, 1954, 464–72; W. SCHADEWALDT, K.R. und die klassische Philologie, Schweizer Monatshefte, XXXVIII, H.9, Dez. 1958, 737–44 (= Hellas und Hesperien, Zürich–Stuttgart 1960, 1030–37); B. SNELL, Gedenkwort für K.R., Deutsche Akad. f. Spr. u. Dichtung, 1959, 5 sg.; H. VIEBROCK, in Gedenkreden auf K.R., Frankfurt a. M. 1959, 5 sg.
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[Scheda bibliografica] FRAENKEL E., (I) Dalle esercitazioni di Ed. Fr. sull’«Eumuco» (Bari 1969), «Belfagor» 25, 1970, 673–689; (II) «Pindaro senza lacrime» (Dalle esercitaz. di Ed. Fr., Bari 1967), ibid. 27, 1972, 78–96; (III) La matrona di Efeso e altri capitoli di Petronio (Dalle esercitaz. di Ed. Fr., Bari 1967), ibid. 29, 1974, 687–695 [a cura di Renata Roncali] Si tratta delle redazioni di seminari tenuti a Bari, su invito di C. F. Russo, da Eduard Fraenkel, recentemente scomparso (5 febbraio 1970). Le redazioni, di R. Roncali, sono specchio fedele dell’italiano di F., quanto mai vivace e colloquiale e reso ancor più ‘vero’ dalla conservazione di latinismi, germanismi, anglismi. Il tono è «volutamente ‘popolare’» (come dice la redattrice, I, 673) e rispecchia l’ansia didattica di F. Troviamo in queste pagine diagnosi chiare proprio perché elementari di fatti critico–testuali, discussione di problemi linguistici e stilistici nonché esegetici. Non di rado questi ultimi danno l’avvio a vasti panorami di storia letteraria e di storia del costume. Nelle osservazioni sulla lingua d’uso e sulle ‘antichità’ nel senso più ampio c’è il F. didattico più appassionato ed efficace. Vengono annunciate redazioni ulteriori di seminari su Sofocle, Aristofane, Plauto, Catullo (I, 673; II, 78; III, 687). Dei seminari tenuti a Roma da F. fra il 1965 e il 1969 è stato per ora pubblicato fuori commercio quello del 1968 sul Filottete (Roma 1969); quest’ultimo, insieme con quello sull’Aiace del 1967, sarà presto pubblicato regolarmente a cura dei partecipanti romani. Va tenuto presente che né i seminari baresi (I, 673) né quelli romani sono stati mai rivisti da F., che certo non ne prevedeva una pubblicazione: ma, con questa limitazione, sono documenti unici e preziosi della sua attività didattica e contengono per di piú numerosi contributi inediti.
|| [Scheda bibliografica pubblicata in «RFIC» 103, 1975, p. 380]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-010
Umanesimo e Filologia (A proposito della Storia della filologia classica di Rudolf Pfeiffer) La pubblicazione recente della traduzione italiana della Storia della filologia classica di Rudolf Pfeiffer1 dà occasione a ripensare criticamente i fondamenti della nostra disciplina. Nella folla di traduzioni che invade il nostro mercato librario, troppe si segnalano per la loro palese superfluità, a cui spesso si aggiunge anche il ritardo rispetto all’originale (alle volte decenni e decenni) o la semplice intempestività (mancanza sul mercato di altre, ovviamente propedeutiche, letture). Questa traduzione si segnala per tempestività e opportunità: insieme colla ristampa, anch’essa recentissima, in edizione economica della Storia della tradizione di Pasquali, essa pone le basi per la diffusione fra il pubblico italiano dei principi e della storia di una disciplina, la nostra, troppo frequentemente ignorata dalle persone di cultura; e potrà fornire un aiuto prezioso all’insegnamento universitario della storia della filologia classica, che nei nostri ordinamenti fa quasi sempre la parte della cenerentola. Quest’ultimo è l’obiettivo che merita la priorità. Per chi infatti si accinge oggi, in un momento di generale crisi ideologica, ad affrontare i nostri studi, una presa di coscienza attraverso la storia della nostra disciplina è condizione essenziale per la validità dell’operare filologico. «La storia della filologia classica è filologia classica nel suo farsi» (VII = 31). E per storia della filologia non s’intende solo, ma anche l’elencazione piú o meno ampia di interventi testuali, di imprese editoriali, di scoperte di testi: s’intende soprattutto – se se ne vuol riconoscere il precipuo valore storico – una storia delle scelte di fondo fatte dall’antichità ad oggi, scelte che hanno guidato i modi della manutenzione dei patrimoni culturali e soprattutto la inevitabile selezione nella conservazione di questi stessi. Tanto meglio quando questa storia è fatta da chi ha realizzato per proprio conto una scelta quanto mai chiara e professa una fede netta e precisa.
|| [Articolo pubblicato in «RFIC» 104, 1976, pp. 98–117] 1 R. Pfeiffer, History of Classical Scholarship. From the Beginnings to the End of the Hellenistic Age, Oxford (Clarendon Press) 1968; id., Storia della filologia classica. Dalle origini alla fine dell’età ellenistica. Introduzione di Marcello Gigante. Traduzione di Marcello Gigante e Salvatore Cerasuolo, Napoli (Macchiaroli) 1973. Le citazioni verranno fatte colle pagine dell’edizione inglese seguite da quelle dell’edizione italiana (per es.: 311 = 475). https://doi.org/10.1515/9783110648140-011
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Dell’opera di Pfeiffer esiste anche un’edizione tedesca2; è stata già recensita da studiosi autorevoli3; l’edizione italiana, infine, ha un’introduzione di Marcello Gigante (qui abbreviata Intr.), il quale ha avuto modo di ritornare sull’argomento anche in un articolo (Dal Wilamowitz al Pfeiffer storici della filologia classica, «Par. d. Pass.» 1974, 196–224; qui abbreviato «PP»). L’opera è stata da tutti salutata per quello che è, un prezioso strumento di orientamento e di lavoro; ad essa sono state mosse critiche puntuali, ma sempre per questioni ancora dibattute, per le quali la divergenza d’opinioni è ancora largamente ammissibile. Ma quest’opera è anche altro. Vorrei prenderla qui in esame per un aspetto che, pur non trascurato da almeno alcuni dei suoi critici, va forse messo in maggior rilievo: ed è il rapporto, a mio parere di fondamentale importanza, fra umanesimo e filologia, cosí come viene fuori dalla soluzione storiografica di Pfeiffer stesso. Che ogni discussione su questa Storia e perfino ogni critica si possa fare solo sfruttando la immensa massa di materiali da Pfeiffer raccolta e ordinata è la prova piú lampante – che qui va subito enunciata, per onestà nei confronti dell’autore – del valore autonomo e non condizionato di questo poderoso lavoro. Esso è venuto a colmare un rilevante vuoto (Gigante, Intr., 5 sgg.) ed ha tutti i numeri per restare a lungo fondamentale, finché non sia rinnovato da chi possa veramente misurarsi colla statura intellettuale e culturale di un Pfeiffer. Questo volume, che avrà un seguito (si annuncia a Oxford la continuazione, a cominciare da Petrarca fino al 1850), ha come sottotitolo «Dalle origini alla fine dell’età ellenistica». Ora, il fatto che piú rende perplessi è l’ampiezza del periodo che Pf. assegna alla ‘preistoria’ della filologia (e piú d’un recensore ha espresso i suoi dubbi in proposito; oltre allo stesso Gigante, Intr., 23; «PP», 222 e pass.). Di filologia in senso pieno non si potrebbe parlare, secondo Pf., prima dell’età alessandrina. Escluso ne resterebbe perfino Aristotele colla sua scuola; il vero iniziatore sarebbe Filita di Cos, «poeta insieme e filologo», secondo le fonti antiche. Chi, giustamente, chiede a Pf. una definizione di filologia, la trova nelle prime due righe (3 = 43): «La filologia è l’arte di capire, spiegare e ricostruire la tradizione letteraria». Rispetto alle esigenze che – come vedremo – Pf. ha per una vera filologia, diciamo che questa è una definizione riduttiva: e meglio
|| 2 R. Pfeiffer, Geschichte der klassischen Philologie. Von den Anfängen bis zum Ende des Hellenismus, übers. von M. Arnold, Hamburg (Rowohlt) 1970. 3 Mi troverò a citare (col solo nome del recensore) le seguenti: A. Momigliano, «Riv. Stor. Ital.» 1968, 377–80; J. Griffin, «Oxford Magazine» 16.5.1969, 297 sg.; N. G. Wilson, «Class. Rev.» 19, 1969, 366–72.
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faremo a considerarla una definizione dell’ a t t i v i t à f i l o l o g i c a . Essa diventerebbe una scienza, e una scienza distinta da altre, solo quando le varie attività (studio della lingua, raccolta di materiale erudito, critica letteraria) siano «unite in una consapevole unità» (ibid.). Questo sarebbe successo solo in età alessandrina, colla unione di filologia e poesia. Tale affermazione da una parte non meraviglia chi conosce altri studi di Pf., mentre dall’altra appare nella Storia– dove lo studio esauriente dei materiali, come vedremo, non la conferma – meno fondata che in quelli. Si tratta soprattutto di un articolo del 1938 (Von den geschichtlichen Begegnungen der kritischen Philologie mit dem Humanismus, ora in Ausgewählte Schriften, München 1960, 159–74; sarà abbreviato Begegn.) e di una conferenza del 1961 (Philologia perennis, Festrede gehalten in der öffentl. Sitz. d. Bayer. Akad. d. Wiss. in München am 3. Dez. 1960, München 1961; qui abbreviata Phil. per.)4. Già nel 1938 Pf. esordiva dicendo (Begegn., 159) che in Grecia la filologia «era nata da una dedizione creativa (schöpferische Hingabe) alla grande poesia del passato», e cioè in età alessandrina. È vero che le parole che seguono tradiscono lo scrupolo dello storico onesto: «anche se piú tardi i suoi lineamenti possono talvolta far dimenticare questa sua nobile origine». Vedremo come non solo gli sviluppi dell’alessandrinismo (è a questi che Pf. allude: il divorzio fra filologia e poesia), ma anche quanto precede l’alessandrinismo si ribellino alla definizione di Pf. La prospettiva storica si configura, semplificata, cosí (Begegn., 159 sg.): nel IV secolo la poesia decade e nel III nasce, in forma di devozione riflessa alla grande poesia arcaica e classica, l’attività filologica, funzionalizzata alla creazione di una nuova poesia. Ma già con Eratostene (Begegn., 162) assistiamo all’ipertrofizzarsi dell’aspetto scientifico (cfr. Storia, cap. 2.IV): questo non importa, anzi è processo normale; l’importante è l’avvio dato dalla poesia, a cui segue il divorzio; e cosí si spiega uno Zenodoto, filologo non poeta, allievo di Filita, filologo– poeta (Phil. per., 6). La tradizione filologica passa poi per Roma, dove Pf. ne anticipa la nascita (a differenza del mondo greco, dove invece la ritarda) alla seconda metà del III sec. coi poeti–filologi latini (Livio Andronico in testa, colla sua cura di traduttore), in contrapposizione a chi ne segna l’avvento colla venuta di Cratete a Roma nel 168 a. C. Poi gli studi si dividono in tre grandi correnti (Begegn., 161): la tarda antichità, che passa poi al mondo bizantino; l’Islam;
|| 4 Pf., 88 n. 1 = 158 n. 3 si richiama anche a The Future of Studies in the Field of Hellenistic Poetry, del 1955 e ora in Ausgew. Schr., 148–58. Nell’utilissimo volume Humanismus, hsg. von H. Oppermann, Darmstadt 1970 (Wege der Forschung, 17) è stato ristampato, a pp. 493–510, Von der Liebe zu den Griechen (del 1957, ora in Ausgew. Schr., 277–91), che è però assai meno significativo dei lavori qui presi in esame.
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Roma, che lampada tradit alla cultura europea. Questa prima parte si presenta sostanzialmente uguale nella conferenza del 1961. Nel 1938 nello stesso titolo («Filologia e umanesimo»), nel 1961 nella esplicita formulazione iniziale (Phil. per., 3: filologia e humanistische Bewegung) troviamo la parola–chiave, ‘ u m a n e s i m o ’ : e sembrerebbe da qui (l’antichità) che per umanesimo Pf. intenda precisamente ‘amore per la poesia’. Nella storia della cultura europea dalla rinascita degli studi classici in poi da lui offertaci, con solo qualche differenza di accento, nel 1938 e nel 1961, Pf. è necessariamente piú elastico nel riconoscere caratteristiche umanistiche, anche se un deciso accento invariabilmente posa sull’amore per i poeti di un Petrarca o di un Poliziano. Ma qui la categoria umanistica necessariamente si amplia (e l’importante è che Pf. aderisce in pieno ad essa) allo scopo di abbracciare l’intera cultura europea, nella quale, secondo una prospettiva storiografica ampiamente collaudata, il cristianesimo è l’elemento unificatore e sovranazionale: ed è chiaro come, per la suaccennata adesione, Erasmo sia l’eroe di Pf., che per di piú si sente legato ad un’altra singolare figura di umanista, il suo concittadino Conrad Peutinger5. Nel mondo cristianizzato (orientale e occidentale) la filologia si sacralizza: «Wie sie in Eom den Schritt vom Hellenisch–Nationalen zum Humanum im weitesten Sinne getan hatte, so jetzt vom Humanum zum Divinum» (Phil. per., 10). Come paradigmi di un tale atteggiamento porta un Origene che trasferisce il metodo aristarcheo all’Antico Testamento e un S. Girolamo che impara il mestiere filologico da Donato; Erasmo poi propugnerà una filologia ‘una’, senza distinzioni fra sacro e profano. Come Pf. vede la filologia moderna lo sapremo meglio quando apparirà il seguito della sua Storia. Ma da tutta la sua carriera di storico della filologia risulta comunque già la sua forte vocazione umanistica, che lo porta a configurare il suo ideale di pienezza nella forma di quello che possiamo chiamare un u m a n e s i m o c r i s t i a n o , come ripetutamente ha ribadito Gigante (Intr. e «PP», pass.). Nello sviluppo successivo della cultura europea Pf. vede minacce e pericoli compromettere il suo ideale: il principale è, ovviamente, lo storicismo. E qui il discorso si fa piú impegnativo, perché coinvolge direttamente tutti noi e || 5 Pf. ha dedicato parte considerevole della sua attività di studioso al primo e al secondo umanesimo. Dall’elenco degli scritti curato da W. Bühler per le Ausgew. Schr.(292–7) indico quelli che mi sembrano piú significativi: 8 (J. J. Fugger), 12 (J. Spreng), 49 (Goethe), 54 (Humboldt), 79 (Humanitas Benedictina), 86 (Conrad Peutinger), 93 (umanesimo francese); al prediletto Erasmo si riferiscono 34, 55, 58, 61, 84. Va ricordata la recensione a Jaeger, Paideia I in «Deutsche Lit.–Zeit.» 56, 1935, 2126–34. 2169–78. 2213–9 (severe critiche agli arbitri antistorici di Jaeger). Solo in parte questi lavori sono ristampati nelle Ausgew. Schr. Momigliano ha belle parole per la fisionomia ‘umanistica’ di Pf.
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porta Pf. in primo piano colla sua problematica di filologo militante (che è anche la nostra) e la sua posizione di storico della filologia. Lo storicismo presenta per lui il pericolo di considerare i testi solo come «testimonianze storiche, come documenti di un’epoca e di una società» (Phil. per., 18 sg.)6. In omaggio all’ideale europeo, la sua simpatia va piuttosto a un Hermann che a un Boeckh (la filologia grammaticale–stilistica del primo risulta cosí piú vicina all’ideale umanistico; mentre il secondo sarebbe già preda del ‘pericoloso’ storicismo). Pf. è, in altre parole, per una c u l t u r a e u r o p e a , il cui segno di riconoscimento è il cristianesimo che regge l’opera di personaggi come Petrarca, Erasmo, Giuseppe Giusto Scaligero, Bentley (Phil. per., 21). Lo storicismo è per lui troppo tedesco, troppo poco europeo e cristiano. L’umanesimo storicistico generato da Winckelmann finirebbe col perdere subito e Roma e il cristianesimo, già da Wolf e Boeckh in poi (Begegn., 170 sg.). La fede nella Wissenschaft, divenuta autonoma, si porrebbe come surrogato alla fede nella grecità (Begegn., 172; Phil. per., 19), dove evidentemente Pf. non è cosí unilateralmente ‘umanistico’ da vedere uno scadimento nella sola perdita della fede nella grecità, quanto soprattutto preoccupato dell’eccessivo prevalere della categoria ‘storia’ (Überbetonung des Geschichtlichen, Phil. per., 18). Dobbiamo a questo punto chiederci che cosa noi stessi vogliamo intendere per ‘umanesimo’. Pf., nel panorama della filologia antica, ci ha messi di fronte ad una definizione (implicita) del tutto riduttiva (‘amore per la poesia’), che poi ovviamente si fa piú ampia (ma altrettanto implicitamente) nella considerazione della storia europea. Alla ricerca di un linguaggio comune che ci permetta di capirci dovremo contentarci comunque di una larga approssimazione: ancora ultimamente La Penna7 ci ricorda quanto polivalente e quindi «equivoca» sia la parola, essendo stata «appiccicata all’idealismo e al marxismo, al cristianesimo e al socialismo, al classicismo di Jaeger e all’esistenzialismo di Sartre». Possiamo concordare con lui, vedendo in ogni umanesimo «un distacco dell’uomo dalla natura, tale da deformare il rapporto». Il fatto è che la parola, cosí come la si usa oggi, può collegarsi con ‘uomo’ o con humanitas: nel primo significato designa genericamente un mettere l’uomo al centro; nel secondo lo stesso valore è mediato attraverso l’antichità classica ed ha una sua connotazione storica precisa, creatasi attraverso l’umanesimo italiano ed europeo. È nel primo senso,
|| 6 Nel quadro di una filologia cosí decisamente ‘teleologica’, ha ragione Gigante («PP», 220) a vedere nel «ritorno ad Erasmo… una esorcizzazione contro il relativismo etico implicito nel relativismo storicistico». 7 A. La Penna, La tradizione classica nella cultura italiana, in Storia d’Italia, V (I documenti), Torino (Einaudi) 1973, 1325.
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quindi, che cristianesimo, esistenzialismo, marxismo etc. possono a pieno diritto chiamarsi umanesimi; e si parla spesso di umanesimo per la sofistica, per esempio. Ma qui è il secondo valore che c’interessa8. Possiamo darne una definizione generica (provvisoria e incompleta) individuandolo in una attribuzione di valore esemplare (assoluto e sovrastorico) ad un determinato momento storico (che tale, per la sua assolutizzazione, cessa di essere) e nel conseguente tentativo di rinnovare e vivere tale exemplum. È chiaro che candidato a tale promozione può essere qualunque momento di qualunque civiltà (disaccordo potrebbe nascere dalla necessità di stabilirne i confini): e una sua manifestazione specifica, il fatto cioè che tale promozione sia stata accordata all’antichità classica, sarà considerata un caso (pur sempre storicamente determinato) da uno storicista rigoroso, una necessità da un umanista–classicista (eccellenza, superiore ricchezza dell’antichità classica). Ora, da Winckelmann in poi, gli studi classici si sono trovati sempre, almeno presso i loro cultori piú sensibili, ad oscillare fra i due poli dell’umanesimo e dello storicismo (al quale ultimo, nel campo dei nostri studi, possiamo sostituire qui il nesso ‘filologia classica’, in ragione dello sviluppo degli studi da Wolf in poi)9. Lo stesso Winckelmann, promotore del secondo umanesimo e padre della deutsche Klassik, aveva nello stesso tempo una vocazione storicistica, come Pf. stesso fa notare (Begegn., 169. 172), e di tale ricchezza ha vissuto anche i conflitti10. Pf. non sfugge, a sua volta, a tale conflitto. Da quanto abbiamo esposto delle sue vedute (l’impostazione storiografica della sua Storia, appena toccata qui all’inizio, e soprattutto le adesioni dichiarate nel corso dei panorami storici qui sopra considerati) sembra che la sua scelta vada all’umanesimo. Per di piú, alla fine del suo articolo del 1938 (Begegn., 173 sg.), troviamo una esplicita e calorosa professione di fede umanistica: quando la filologia è accesa dalla humanitas, la sua luce illumina per lungo tempo e, nella misura in cui è ecumenica, è legata al cristianesimo. Ma è significativo che, letteralmente nella stessa pagina, Pf. ci offra anche una pro-
|| 8 Utile è il cit. Humanismus curato da H. Oppermann. Il fatto che esso sia centrato sulla problematica odierna dell’umanesimo negli studi e nell’insegnamento e che la parte del leone sia presa dal secondo e dal terzo umanesimo lo rende germanocentrico e andava opportunamente riequilibrato almeno con una bibliografia selettiva sull’umanesimo europeo. Il lettore italiano non ha bisogno di un rinvio ai numerosi interventi di Cantimori o di Garin. Un orientamento efficace offre C. Vasoli, Umanesimo e rinascimento, Palermo 1969 (vol. 7 della «Storia della critica» diretta da G. Petronio). 9 Su tale oscillazione in un filologo della sensibilità di Karl Reinhardt (e nel suo maestro Wilamowitz) vd. L. E. Rossi, K. R. fra umanesimo e filologia, in stampa presso gli «Annali di Pisa». 10 Come dice Ludwig Curtius, Die Antike Kunst und der moderne Humanismus, in Humanismus, cit., 49–65, precisam. 53 (1927).
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fessione di fede storicistica: esige un rafforzamento e un approfondimento (Verstärkung und Vertiefung) della interpretazione storica, nella piena coscienza della storicità dell’oggetto d’indagine, allo scopo di evitare ogni falsificatoria equazione fra l’antico e il moderno. Se non ci fossero queste affermazioni, ci sarebbe pur sempre l’attività del grande filologo, esegeta ed editore insuperato di testi. Chi non si sentirebbe oggi di sottoscrivere tranquillamente che Pf. è ben piú fedele allo storicismo di quanto lo fosse il suo maestro Wilamowitz? In conclusione, a dispetto di molte sue affermazioni teorico–programmatiche (ma non di tutte), Pf. resta nell’alveo della filologia storicista e quello sarà il suo posto quando sarà entrato ufficialmente nella storia dei nostri studi; dove del resto già lo mette Gigante stesso, il quale registra la sua teoria antistoricista (Intr., 16; «PP», 24), ma dà piú valore alla sua prassi storicista (Intr., 14. 19. 27; «PP», 21 sgg. 26 sg. 30 sg.). Pf. vive dunque a fondo la dialettica umanesimo/storicismo. Come filologo militante è indubbiamente storicista, naturaliter, vorrei dire; a premesse umanistiche informa invece la sua attività di storiografo. Ora, il semplice amore per la poesia, come molla per il costituirsi di una vera filologia in epoca alessandrina, è concetto in sé troppo vago e scialbo, incapace di reggere ad una verifica storiografica. Se lo si vuole ammettere per l’età ellenistica – ma non è utilizzabile neanche per questa, come vedremo –, già vale assai meno per Roma. Non vorrà certo Pf. convincerci che Livio Andronico traduce l’Odissea solo per soddisfare un suo gusto per la poesia bella o solo per venire incontro ad una esigenza consimile nel suo pubblico. Il volgersi alla letteratura greca nel III sec. non era tanto un puro atto d’amor di poesia, quanto piuttosto una volontà politica di dare una letteratura già adulta ad una società che militarmente e politicamente era già adulta: basterebbe pensare all’importanza che ebbe per questa letteratura romana arcaica il teatro, genere quant’altri mai alieno da connotazioni libresche. Non si vuole con questo negare a tali opere (come a nessun’altra) la loro dimensione letteraria: si vuole solo richiamare l’attenzione su altri aspetti, altre funzioni, che possono qualificare piú rigorosamente l’analisi che di esse si fa proprio come testi letterari11. Nell’umanesimo italiano ed europeo, poi, troppo || 11 Disciplinando, per es., la ricerca di finezze, allusioni etc. M. Fuhrmann, Die römische Literatur, in Römische Literatur. Hsg. von M. Fuhrmann (Neues Handbuch der Literaturwiss.), Frankfurt a. Main 1974, 12 giustamente rileva il fatto che Livio Andronico fu spinto non tanto da intenti artistici, quanto piuttosto da un’esigenza dell’aristocrazia romana, che voleva far proprie due manifestazioni della cultura greca: l’insegnamento (la scuola ellenistica) e il teatro. In altre parole, non mi pare che nella letteratura latina arcaica si possa vedere esclusivamente un alessandrinismo letterario con tutto quello che esso comporta (erudizione, allusività, raffinatezza estrema in generale). Quanto all’epos, quelli neviano ed enniano avevano una loro pre-
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piú numerose erano le corde che vibravano: neanche agl’inizi, in Petrarca, ci rassegnamo a vedere l’amor di poesia non solo come ispiratore esclusivo, ma neanche come sufficiente punto di partenza. Quella dell’eccellenza poetica (che naturalmente va vista nel quadro piú ampio dello stile e della retorica) era una delle molte voci che il mondo moderno era in grado di carpire alla lontana antichità classica: quello che si idealizzava, e di cui ci si appropriava, era tutta una cultura, che si cercava poi di accordare coi numerosi elementi inediti e contemporanei. Discorso analogo, anche se diverso, andrebbe fatto per Winckelmann e la deutsche Klassik. Né infine, a ben vedere, possiamo dar ragione a Pf. per l’età ellenistica. Quello che viene preso per amor di poesia non è indiscriminato; non ci si volge, in quanto poeti produttivi, a tutta la poesia arcaica e classica (mentre come filologi la si cura tutta), bensì si fanno delle scelte precise e qualificanti: Esiodo a preferenza di Omero (il γένος λεπτόν), ma soprattutto i giambografi a preferenza della lirica corale e del teatro. Un tentativo, in verità riuscito, di sprovincializzare la nuova letteratura, di liberarla dalla lunga dittatura attica e di renderla piú ecumenica, piú consona al mondo greco allargato da Alessandro Magno. Se consideriamo tale tendenza nel quadro della situazione storica, non possiamo non vedere anche qui – sia pure in misura proporzionalmente minore che a Roma – una funzionalizzazione politica. Che del resto era anche ovviamente presente nell’attività filologica (ché tale bisogna chiamarla) del VI, del V e del IV secolo: un Pisistrato o chi per lui nel VI che cura i poemi omerici (Pf. non ci crede: 6 sg. 25 = 47 sg. 74) o un Licurgo nel IV che cura il testo dei tragici vanno visti in questa prospettiva. Non so poi che senso abbia dire (82 = 151) che di tale edizione licurghea «non dobbiamo sopravvalutare il valore critico»: forse si trattava di incompetenti, privi della piú elementare perizia filologica? Ma erano incomparabilmente piú vicini di qualunque altro alle fonti, e un lavoro si giudica dai risultati, non dall’acume profuso in esso12. Oppure – obiezione solo
|| minente funzione politica: e, quanto al teatro (che percentualmente domina di gran lunga sul resto), ricordiamo che esso deve far presa sull’ampio pubblico seduto nella cavea, senza peraltro cadere nel vecchio pregiudizio di un teatro latino ‘selvaggio’ (esso era pur sempre patrocinato da un’aristocrazia colta). 12 Analoga perplessità suscita Pf. quando (47 n. 2 = 105 n. 171), parlando della critica letteraria del V sec., esclude dal suo interesse i ϰριταί degli agoni drammatici facendo propria un’osservazione ironica di Pickard–Cambridge (Dram. Fest., p. 97 della seconda ediz.): «Sembra improbabile che (ad essi) si richiedesse una capacità critica». Forse qui non è abbastanza presente il fatto che i giudici drammatici erano condizionati nel loro giudizio dal gusto del pubblico (al quale essi stessi partecipavano a loro volta) non diversamente da come lo era, per es., Aristofane nelle sue commedie. Secondo Pf. non avrebbe dunque senso (o confermerebbe l’incompetenza dei ϰριταί) il vecchio problema del perché l’Edipo re non ebbe il primo posto
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apparentemente piú valida – gli scopi meramente pratici, o addirittura parzialità politiche (qui si pensa alla vicenda attica del testo di Omero), ne diminuiscono la credibilità? Questo è del tutto possibile, e del resto ogni intervento umano va smascherato nelle sue precise e reali intenzioni e finalità (è il compito dello storico!): ma allora altrettanto diffiderei di ogni umanistico amor di poesia degli alessandrini e di ogni altra epoca, ben conscio del fatto che il bello stile, e ogni altra categoria affettiva e/o razionalistica, ha consumato i suoi misfatti sui testi e ancor oggi li consuma nella nostra quotidiana attività filologica13. Direi proprio non tanto che l’amor di poesia è atteggiamento pericoloso al pari di qualunque altro, ma soprattutto che è categoria storico–euristica insufficiente a coprire tutti i fenomeni che si prendono in esame: esso manca, o è superato da altre finalità, in troppe delle ‘rinascenze’ filologiche considerate. Se poi speriamo che un concetto piú largo di umanesimo serva allo scopo, sia cioè una cartina di tornasole utile alla identificazione di vera attività filologica, anche qui restiamo delusi. Non darei infatti patente di umanesimo all’età ellenistica, neanche ai suoi inizi. Umanesimo è un atteggiamento che si pone, con una certa distanza, di fronte a qualcosa di ‘altro’14: per l’età ellenistica non mi pare sia questo il caso. Oggi per noi, dopo una ricca tradizione storiografica, è facile isolare l’ellenismo da quanto lo precede; ma mi domando quanto fondamento si possa dare all’affermazione di Pf. (Phil. per., 4) che la filologia poteva nascere solo nel III sec. perché solo allora il passato doveva apparire come qualcosa di concluso (etwas Abgeschlossenes). Gli elementi di diversità e di separazione fra il IV e il III sec. non vanno esagerati, e soprattutto non vanno proiettati indiscriminatamente nella coscienza dei contemporanei di Filita: lasciando da parte per ora il discorso sul Peripato, che faremo fra poco, basta restare nel campo della letteratura e considerare quale fortissimo legame col passato restò la perdurante consuetudine col genere epico, molto piú produttivo
|| negli agoni, mentre vincitore fu un tal Filocle. Su questo L. E. Rossi, Il dramma satiresco attico, «Dial. di Archeol.» 6, 1972, 248–302, precisam. 286 sg. 13 A. La Penna, La tradizione classica, cit., 1337: «La moderna critica del testo ha certo le sue basi… nell’umanesimo italiano: gli umanisti italiani per primi capirono seriamente l’utilità della collazione di codici per stabilire e correggere i testi e (cosa piú importante) l’unità di critica del testo e interpretazione: m a evidentemente la ricerca dell’eleganza è un pericolo continuo per la ricerca della v e r i t à [sottolin. mia]; il gusto è spesso troppo piú forte del rigore logico». Ma anche di quest’ultimo dobbiamo fare uso giudizioso: quante volte gli arcaici, ma anche i classici, ci mettono in difficoltà con una logica che non è la nostra? 14 A. Heuss, Der Humanismus und die Geschichte, «Antike und Abendland» 18, 1973, 173–86, precisam. 174.
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e fruito di quanto ci faccia vedere l’apparente preminenza della scuola callimachea e del gusto letterario da essa propugnato e diffuso: proprio questo ci ricorda K. Ziegler nel recentemente ripubblicato Das hellenistische Epos, Leipzig 1966. Senza parlare della vitalità di un genere teatrale come il dramma satiresco, che continua per tutta l’età ellenistica15. Se poi passiamo a considerare la humanitas romana, richiamiamo quanto abbiamo detto sopra sui suoi limiti in fatto di gusto letterario e di amor di poesia; e finiremo anche per esser costretti a ritardare la sua nascita – come è stata consuetudine critica prevalente – dal III al II sec., al circolo degli Scipioni, il vero momento in cui Roma si avvicinò alla cultura greca con spirito umanistico, e cioè con un desiderio di assimilazione non parziale (che fu poi però abbastanza selettiva: si trattava di trovare una finalizzatissima cifra civile in cui una ristretta oligarchia amasse rispecchiarsi; e dovremo anche rinunciare alla bella visione di un passaggio lineare e ascensionale da un Hellenisch–Nationales a un humanum totale, im weitesten Sinne!). L’unico momento che risponde positivamente alla sollecitazione dell’umanesimo in senso pieno è, cosí, l’umanesimo europeo: sappiamo, certo, che esso è l’ideale di Pf., ma non possiamo forzare altri momenti al letto di Procruste di quest’ultimo. In conclusione, o si fa dare a Pf. un’interpretazione restrittiva di umanesimo, identificandolo episodicamente coll’amor di poesia; oppure lo si deve costringere a trovare atteggiamenti umanistici in momenti culturali in cui essi non sono riscontrabili. Ma, quanto al primo tentativo, occorre ricordare che umanesimo è un di piú rispetto al semplice amor di poesia; e il secondo si scontra colla difficoltà di far quadrare fra di loro concetti storiografici diversi. Se poi Pf. volesse convincerci (ma non mi pare che lo faccia mai esplicitamente) che l’amor di poesia è un minimum non solo necessario ma anche sufficiente (un umanesimo per cosí dire minor), resterebbero sempre quelle vaste aree storiche dove non sembra possibile la saldatura con un precedente avvio dato da un umanesimo sia maior sia minor. A parte la filologia pre–alessandrina, si sentirà Pf. di negare alla erudizione pre–winckelmanniana (che forse di amor di poesia ne aveva almeno un poco) e al positivismo (che quell’amore o non aveva affatto o nascondeva pudicamente dietro le severe esigenze della Wissenschaft) la qualità di || 15 L. E. Rossi, Il dramma satiresco attico, cit. Naturalmente alla conservazione di forme corrispondeva una evoluzione di funzioni: ma in casi simili alla riflessione critica dei contemporanei risalta piú la conservazione che l’innovazione: si crede di conservare, innovando nella realtà. Quale poteva essere il livello di coscienza, in un Filita di Cos, di vivere l’inizio di un’epoca nuova? Ricordiamoci che stiamo parlando soprattutto di letteratura, non di storia politica (dove i cambiamenti furono ben piú macroscopici e sensibili; e gli storici ellenistici ci testimoniano la coscienza di essi).
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filologia in senso pieno? Sono infatti due periodi ambedue staccati dal rispettivo umanesimo che li ha preceduti, l’uno dal primo l’altro dal secondo. Dovremo dunque negare a tutti questi studiosi il titolo di filologi? Tra l’altro, c’è già in questo suo primo volume un culto delle personalità filologiche che lo porta a una certa selettività nei personaggi da trattare (selettività rigorosamente programmata: VII = 32, rinuncia a dar sempre lo ‘sfondo’, il background; VIII = 33, necessità di distinguere «il transeunte e il perenne», con critica a Sandys, «un catalogo di filologi classici… piuttosto che una vera storia della filologia stessa»). Di questa prosopografia filologica (che gli viene rimproverata da Griffin) il pregio è che ci dà degli splendidi ritratti, ma il difetto è che alle volte tali ritratti sono staccati da un loro contesto. Certo, non vogliamo qui negare allo storico la possibilità, se non addirittura il dovere, di dare giudizi di valore: con tutto il rispetto per la congettura (giusta, quando lo sia) di un erudito positivista, riconosceremo volentieri la statura e la ben maggiore influenza storico–culturale di chi all’erudizione (alla ‘tecnica’) sappia unire ricchezza culturale e chiarezza ideologica e magari anche calore di apostolato umanistico; distingueremo una filologia culturalmente integrata e viva da una filologia sterilmente erudita e morta; ma non credo che giovi una preventiva discriminazione, che col criterio di Pf. finisce per essere esclusivamente ideologica, fra filologia e non–filologia (quest’ultima come non vivificata da umanesimi), che releghi la non–filologia in un limbo. Che cosa dovrebbe essere 1’‘erudizione’ peripatetica se non filologia? Storia? Men che mai! Dovremmo allora creare la categoria storiografica della storia dell’erudizione. O crediamo davvero che la categoria di «preistoria della filologia» sia funzionale? Nella storia merita di entrare ogni atomo di verità riconquistata, quello che possiamo chiamare qui, per esempio, il progresso nell’edizione di un testo, antico o moderno che sia16. Indipendentemente dalle sue premesse ideologiche, umanistiche o meno, e anche se l’ideologia sia ad un suo (pur sempre apparente) grado zero, la filologia merita una trattazione storica unitaria: l’unità è tradizionalmente nel nostro caso (‘filologia classica’) quella dell’oggetto di ricerca, l’antichità classica17. Tanto vale allora allargare la ca|| 16 Giusto è il richiamo di A. Momigliano a «studiare insieme i metodi e le scoperte. Un fine discernimento per la solidità dei risultati è la prima condizione per un esatto giudizio sulla importanza del metodo» (nella recensione, del 1949, a A. Bernardini e G. Righi, Il concetto di filologia e di cultura classica nel mondo moderno, Bari 1947; ora in Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, 395). 17 Anche questa unità d’oggetto è, comunque, una unità di comodo, che va costantemente superata con un allargamento di prospettive. In questa chiave va ancora riletto H. Usener, Philologie und Geschichtswissenschaft, in Vorträge und Aufsätze, Leipzig–Berlin 1907, 3–35 (una Rede del 1882), che (in polemica colla Enciclopedia di Boeckh, in sé conchiusa col suo
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tegoria di filologia fino a farle comprendere anche la cosiddetta erudizione pura, senza preventive preclusioni ideologiche. Questo ci libera da strumenti qui inadeguati come la preistoria e, come vedremo, da categorie di giudizio come quelle che etichettano i ‘precursori’ e gli ‘spiriti solitari’. Si vede cosí che per Pf. l’impostazione prosopografica, ovvero per medaglioni, è marcatamente funzionale: gli permette di valutare correttamente personalità che non s’inquadrano, altrimenti, nelle caratteristiche che intende assegnare ad un periodo (Antimaco, come vedremo). L’impostazione prosopografica ha per Pf. anche un suo rilevante riflesso attuale, che risulta evidente nella utilizzazione che fa, rendendole proprie, delle parole che Welcker scriveva nel 1841 (Begegn., 173 sg.): «Anche se la filologia classica resta fra le mani di pochi, non perirà; ché una scienza va valutata non secondo il numero e l’apparenza esteriore, ma nach ihrer inneren Würde». Welcker, e Pf. con lui, rispondono a loro modo a un problema oggi da noi tutti quanto mai sentito, ma è una risposta aristocratica e storicamente fallimentare, che salva la ‘scienza’ filologica come una fede o una chiesa (e in Welcker c’era l’esplicito paragone colla Chiesa); come se per la conservazione e il progredire di qualsiasi contenuto umano, e quindi anche della scienza, si potesse prescindere del tutto dallo Zeitgeist, affidandosi solo all’iniziativa illuminata di qualche singolo. È chiaro che qui Pf. pensa alle sue prestazioni filologiche (e di alcuni suoi colleghi) in un mondo – l’Europa del 1938, quando queste parole furono scritte, o meglio ri–pensate e ri–scritte – che non realizzava l’ideale di umanesimo, o anche solo di amor di poesia, che lui sognava e sogna. Quell’Europa si stava allontanando dalla civiltà in assoluto: e va ricordato da noi tutti che collo Zeitgeist sinistro e deleterio della Germania hitleriana Pf. non ha esitato a misurarsi con coraggio, pagando di persona con un esilio, quello inglese, che oggi è fin troppo facile vedere solo nei suoi aspetti positivi per lui (nonché per il paese ospitante). A questo punto dovremmo finalmente cominciare a parlare in dettaglio della Storia della filologia classica, per domandarci come le premesse storiografiche di Pf., elaborate durante tutta una vita di studioso, abbiano condizionato l’opera e le abbiano dato un volto. Non altro ci proponiamo in questa sede. Ed è proprio a questo punto che appare chiaramente come il discorso sul suo libro || ‘monoclassicismo’) richiama all’allargamento di orizzonti promosso dalla a lui contemporanea comparazione di lingue, letterature e culture in generale: dalla Geschichtswissenschaft la filologia non può staccare, isolandolo, un singolo popolo (Volk). La filologia, quindi, non può dirsi ‘classica’ se non nella misura in cui si occupa del mondo classico, e come ‘filologia’ è solo Vorbild der Methode al servizio della storia. A paragone di un Lachmann, che realizzava una osmosi fra filologie di diverse discipline, Usener è ben piú attuale, colla sua osmosi di culture. Vd. qui oltre, alla fine, sull’antropologia e le prospettive dei nostri studi.
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sia stato non piú – ma anche non meno – che un’occasione per una presa di coscienza, come dicevamo all’inizio: e questo grazie a Pf. stesso e in virtú delle esigenze profonde da cui il libro è nato. Ogni rilievo negativo, infatti, che ci verrà dato di fare lascia intatto il valore davvero inestimabile di quest’opera, sia come raccolta di materiali sia come avvenimento culturale. Lamenteremo solo alcune omissioni, che, date le premesse, sono lucide e coscienti; e metteremo in discussione alcune prospettive, che peraltro discendono con totale coerenza dalle premesse medesime. Ma le omissioni sono facilmente integrabili – solo un critico pedante potrebbe condannarle – e le diversità di prospettiva offrono contestualmente i mezzi per essere eventualmente modificate o superate – solo un critico miope potrebbe lasciarsene sviare, e dovrebbe essere per di piú meschino per lamentarsene. S’impone subito il richiamo a una precisazione: che i requisiti posti da Pf. per vera attività filologica sono richiesti all’inizio di ogni rinascenza filologica, e a maggior ragione al momento della sua ‘invenzione’, l’età alessandrina (l’abbiamo visto a proposito di Filita e dei suoi successori); nei vari séguiti è ammesso il divorzio fra studi filologici e amor di poesia o umanesimo. Cito Momigliano: «Come a Callimaco filologo–poeta seguono prima l’antiquario universale Eratostene e poi il puro critico testuale Aristofane di Bisanzio, cosí alla filologia dominata da interessi poetici, letterari e religiosi di Valla, Poliziano ed Erasmo segue la critica enciclopedica di Scaligero, Casaubono e Salmasio, che poi cede il posto alla critica testuale di Bentley». Ma come si regola Pf. quando addirittura un filologo–poeta nasce prima dell’inizio dell’epoca filologica piena? È il caso, veramente macroscopico, di Antimaco di Colofone, che, a cavallo fra il V e il IV sec., cura una famosa edizione di Omero ed è a sua volta poeta di valore, fra l’altro assai apprezzato da Platone (anche se l’apprezzamento non era generale, come c’informa piú d’una testimonianza). Pf., allo stesso modo con cui chiama «preistoria» la filologia prealessandrina, fa di Antimaco un «precursore» (93 = 165) e «una figura solitaria» (95 = 167 sg.), proiettando per di piú all’indietro una vocazione filologica di un’area geografica identificata come «l’angolo sud–orientale del mondo greco» (93 = 165), le terre in cui circa un secolo dopo nacquero Asclepiade, Edilo, Ermesianatte, Fenice, Arato. Questi sono – ci sia consentito – semplici espedienti (particolarmente elaborato quello dell’area geografica), ma in fin dei conti portano poco danno. Dove invece le premesse si rivelano dannose è, per esempio, nel fatto che la Storia trascura praticamente del tutto l’elaborazione della teoria dei generi lette-
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rari18. È chiaro che Pf. non poteva fare a meno di accennarvi – lo fa a proposito della classificazione dei generi lirici presso Aristofane di Bisanzio (183 = 291) –, ma la valutazione storiografica è quanto meno sorprendente: «l’intera classificazione delle poesie liriche fu determinata dalla necessità dell’editore, non da una precedente tradizione di teoria poetica o di pratica artistica». Ebbene: era proprio qui che Pf. poteva individuare uno dei piú evidenti e significativi legami della cultura letteraria alessandrina col passato, ed è proprio qui che, in omaggio alle sue premesse, ha evitato di farlo. L’industre lavoro erudito (che confluisce in e riparte da Aristotele), le numerose trattazioni, addirittura alcune opere poetiche come i Giambi di Callimaco non erano nate dal nulla: se per l’età prealessandrina vogliamo fare dei nomi, in un settore nel quale inizialmente legiferavano i poeti, potremo ricordare almeno Platone e Aristotele, come testimoni di una lunghissima tradizione; quanto a vere e proprie opere di erudizione di cui abbiamo certa notizia, possiamo risalire almeno fino al V secolo, a Glauco di Reggio, che Pf. fa certo male a non trattare per esteso19. Se Pf. avesse dato un quadro comprensivo della teoria dei generi, non avrebbe potuto fare a meno di rilevare continuità invece di stacco: e sarebbe cosí risultato chiaro che, se durante l’epoca creativa dei vari generi arcaici e classici le leggi dei generi rispecchiano una prassi viva, hanno cioè funzione normativa, in seguito la loro funzione prevalente cambia, diventando descrittiva, e un ampio capitolo della loro utilizzazione diventa ovviamente proprio quello dell’ordinamento editoriale. Affermare poi, come Pf. faceva nel 1961 (Phil. per., 6) e come pesa ancora nella Storia nel senso di una soluzione di continuità fra il Peripato e gli alessandrini, che Aristotele guardava all’indietro mentre gli alessandrini guardano avanti, alla loro poesia, non è storicamente giustificato: anche Aristotele ha una sua poesia che in qualche modo al suo tempo vive ancora e alla quale guarda anche con intenti normativi, e cioè il teatro (si pensi alla Poetica!)20. Nella Storia (272 = 411 sg.), parlando della Techne di Dionisio Trace, afferma essere la tecnica grammaticale «l’ultimo acquisto della filologia ellenistica» ed essere questo
|| 18 L. E. Rossi, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, «Bull. Inst. Class. Stud.», London, 18, 1971, 69–94, precisam. 73, 80, dove muovevo questa critica a Pf. senza ancora inquadrarla nel complesso delle sue premesse e della sua opera e senza darmene una ragione. D’accordo è Gigante, Intr., 14 n. 36; «PP», 216 n. 112. 19 Su Glauco solo 53 n. 8 = 113 n. 212 e 145 n. 1 = 237 n. 140 (andrebbe fatta un’aggiunta negl’indici inglese e italiano). Un’utile monografia è quella di G. L. Huxley, «Gr. Rom. Byz. Stud.» 9, 1968, 47 sgg. 20 Sulla ricerca letteraria antica e sulle sue finalità storiche, normative, descrittive vd. L. E. Rossi, I generi letterari, cit., pass. e spec. 77. Sulla Poetica e sulla compresenza in essa delle tre finalità, p. 78.
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ritardo una riprova del fatto che Aristotele non è stato «il padre della filologia»: ma non va dimenticato (né Pf. lo dimentica: 243 sgg. = 374 sgg.) che gli studi grammaticali furono vivacemente presenti nel pieno dell’età ellenistica (il cap. 2. VII è dedicato a Pergamo), prosperando nella scuola stoica insieme coll’interpretazione allegorica dei testi. Trascurata è anche l’erudizione biografica, che secondo Momigliano21 nasce assai prima del Peripato e, lasciandosi poco influenzare da esso, arriva all’età alessandrina. Comunque si vogliano vedere i rapporti fra i vari generi biografici e il Peripato (c’è una lunga tradizione di divergenti vedute da Leo in poi), è certo che essa nasce prima dell’età alessandrina e di quest’ultima resta una componente di prim’ordine per quanto riguarda l’attrezzatura erudita: e lo stesso Momigliano ha ragione a rilevare, come rileva, questa lacuna in Pf. Il tentativo di tagliare i ponti fra IV e III secolo, di sottrarre agli alessandrini quel retroterra culturale ed erudito sul quale invece in realtà si fondarono – e questo allo scopo di accentuare la loro originalità di inventori della filologia – non sembra riuscito. A parte i settori particolari visti sopra (leggi dei generi letterari, tecnica grammaticale, biografia), è chiaro che per Pf. quella del P e r i p a t o è una presenza ingombrante. Il passaggio di mano in mano di materiali eruditi è cosa sicura: si tratta di capire se ci fu ed eventualmente quale può essere stata una piú vasta influenza culturale del Peripato in età ellenistica. Nel 1938 Pf. scriveva (Begegn., 160) che l’attività della filologia alessandrina sarebbe difficilmente pensabile senza il benefico spirito del Peripato, «aber eine unmittelbare schulmässige Abfolge ist nicht festzustellen». Nel 1961 (Phil. per., 6) parlava di «una prospettiva totalmente diversa, che differenzia la filologia alessandrina da Aristotele e dalla sua scuola ateniese» (la prospettiva diversa è l’ormai noto amor di poesia). Da affermazioni cosí recise Pf. è approdato ora alla visione piú sfumata della sua Storia (lo nota con soddisfazione Wilson, 369), dove l’accento è sempre posto sul rifiuto di vedere in Aristotele il padre della filologia (67 = 130 sg.), ma dove le ammissioni di contatti sono qua e là numerose. Occorre ora fare alcune accurate distinzioni, per evitare di dir le stesse cose trovandosi in sostanziale disaccordo o di dir cose diverse essendo sostanzialmente d’accordo. Parlando di rapporti dell’alessandrinismo col Peripato tre sono i campi in cui questi possono essersi verificati o no: la filosofia (e questa
|| 21 A. Momigliano, The Development of Greek Biography, Cambridge Mass. 1971; Second Thoughts on Greek Biography, Mededel. Koninkl. Nederl. Akad. v. Wetenschappen, Afd. Letterkunde, N. R. 34, Nr. 7, Amsterdam–London 1971, 234–57. Per un aspetto della querelle vd., recentissimo, G. L. Huxley, Aristotle’s Interest in Biography, «Gr. Rom. Byz. Stud.» 15, 1974, 203–13.
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batte in ritirata rispetto a stoicismo ed epicureismo), la poetica (e qui il rapporto è sottilmente dialettico, come vedremo), l’erudizione o filologia (e questo è il campo in cui la continuità di metodi e d’intenti è piú evidente). Pf. tende ovviamente a negare i rapporti su tutta la linea, con solo episodiche ammissioni per il terzo campo. Nel primo caso (l a f i l o s o f i a ) sfonda una porta aperta. L’aristotelismo ha scarsa fortuna specie nella prima età ellenistica: e andava ricordato fra l’altro con piú enfasi il singolare destino degli scritti del maestro. Né c’è, per di piú, un legame necessario fra la filosofia peripatetica e l’erudizione peripatetica: giustamente lo esclude Wehrli22, affermando che Literatur– und Kulturgeschichte, che erano state periferiche nella filosofìa aristotelica, diventano adesso dominanti. E che proprio nell’erudizione e nel lavoro filologico sia da vedere il grande legame che continua a richiamare ad origini peripatetiche è confermato dal fatto che, in età ellenistica, il titolo di ‘peripatetico’ è dato a personaggi di promiscua estrazione filosofica (quando quest’ultima sia in assoluto accertabile), purché si tratti di autori di studi letterari, di biografie, di studi di storia naturale23. Come nota lo stesso Pf. (150 sgg. = 245 sgg.) a proposito di Ermippo, Istro e Filostefano, i termini ‘peripatetico’ e ‘callimacheo’ assumono un valore vago, che non ha comunque piú nessun significato filosofico. Nel caso della p o e t i c a il discorso è diverso. Nell’opporre la poetica cosiddetta callimachea a quella aristotelica i critici hanno avuto ragione. L’avversione degli alessandrini della nuova scuola per il grande epos, quello che Aristotele amorevolmente studiava nelle sue strutture e nel suo sviluppo, è ostentata sia nelle dichiarazioni programmatiche sia nelle realizzazioni poetiche24. Callimaco aveva per di piú scritto un’opera Contro Prassifane, un aristotelico, sulla quale, come opera antiaristotelica, l’ultima parola è proprio quella di Pf. (135 sgg. = 225 sgg.; cfr. 95 n. 4 = 168 n. 51, 125 n. 1 = 209 n. 13), dopo una lunga contesa che aveva visto anche il nostro Rostagni allinearsi sulla vecchia posizione di Rohde (πρός veniva da loro inteso ‘a’, e non – come ormai si deve fare – ‘contro’). Ma, rispetto alla perdurante pratica epica e all’altrettanto perdurante gusto del pubblico per tale genere letterario (Apollonio e i numerosi || 22 F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, H. 102, Basel–Stuttgart 1969, 93–128 (Rückblick. Der Peripatos in vorchristlicher Zeit), spec. 128. K. O. Brink, «Class. Quart.» 40, 1946, 26: l’aspetto speculativo della filosofia di Aristotele non è stato mai assunto in Alessandria; etica e retorica non sono state adottate dalla nuova capitale. 23 K. O. Brink, R. E., Suppl. 7 (1940), col. 904; St. West, «Gr. Rom. Byz. Stud.» 15, 1974, 280 n. 7. 24 K. O. Brink, «Class. Quart.» 40, 1946, 16–9 dà una comoda comparazione delle poetiche di Aristotele e Callimaco. Per il peripatetismo letterario vd. il recente A. J. Podlecki, The Peripate– tics as Literary Critics, «Phoenix» 23, 1969, 114–37.
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poemi ora perduti: vd. il libro di Ziegler ricordato sopra), la poetica callimachea non si presenta in un compartimento stagno e in totale contrapposizione: giustamente è diventato patrimonio comune della critica un’equa valutazione dei numerosi elementi ‘callimachei’ presenti nello stesso Apollonio (anche Pf., 140 sgg. = 231 sgg.)25: e in fondo Callimaco stesso aveva scritto l’Ecale (perché Pf. non ne parla?), poema non certo brevissimo, che in qualche modo veniva a un compromesso colla dottrina aristotelica dell’epos (né con questo se ne vuol negare l’alessandrinismo o affermarne una epicità aristotelica: vd. H. Herter, R. E., Suppl.–Bd. 13, 1973, col. 213). Anche se, dunque, molto delle dottrine professate da Aristotele e dalla sua scuola veniva respinto, c’è da fare i conti con una presenza costante di tali dottrine. Se poi passiamo al campo della f i l o l o g i a , vediamo che esso è l’unico in cui la posizione generale di Pf. è del tutto insostenibile. Pf. stesso del resto, quando parla di Demetrio del Falero e dei suoi rapporti col Tolemeo (99 sgg. = 173 sgg.), anche se soppesa con cura le testimonianze e tende a svalutare l’influenza di Demetrio sull’organizzazione del Museo, è poi costretto ad ammettere che Demetrio «deve essere stato una specie di anello fra Atene e Alessandria». Dovremmo ora seguire punto per punto le varie prestazioni dei filologi alessandrini, vedere in che misura sia lecito ammettere il loro debito verso il Peripato e in che misura tale debito sia ammesso da Pf. stesso: basterà qui ricordare che Pf. riconosce nei Pinakes di Callimaco la continuazione dell’opera degli ultimi sofisti e del Peripato (127 = 213; anche se si affretta a parlare di «un nuovo scopo» dei Pinakes stessi), che a proposito del Περὶ Ἀρχιλόχου di Apollonio dà come almeno possibile l’origine peripatetica del genere περὶ τοῦ δεῖνα (146 = 238 sg.), che dà le ὑποϑέσεις drammatiche come addirittura tipiche per i rapporti fra tradizione peripatetica e filologia alessandrina (193 = 305: una discendenza Aristotele, Dicearco, Callimaco, Aristofane di Bisanzio). Il fatto è che, quando non vi siano esplicite testimonianze in contrario, di fronte alla imponente organizzazione del lavoro erudito avviata dalla scuola di Aristotele, l’onere della prova è tutto dalla parte di chi vuol negare l’influsso di tale scuola26. Di fronte a dati di fatto cosí concreti, a materiali e metodi che sono gli stessi, non basta che Pf. ci ripeta ogni tanto che «lo spirito è nuovo». Mi piace con-
|| 25 S. Koster, Antike Epostheorien, Wiesbaden 1970, 120–2 tenta addirittura, ma senza successo, a mio parere, di conciliare in pieno Callimaco con Aristotele: quest’ultimo chiedeva lo εὐσύνοπτον (Überschaubarkeit) e la scuola callimachea avrebbe uminterpretiert tale esigenza come Kürze. 26 Vd. per es. come G. Arrighetti, Satiro. Vita di Euripide, Pisa 1964, 118 sg. situa Satiro e gli scoli euripidei fra Aristotele ed erudizione alessandrina.
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cludere con una pagina di Kroll27, che efficacemente sintetizza le vedute qui esposte e per la filosofia e per la poetica e per la filologia: «Non bisogna farsi un’idea esagerata dell’influenza diretta della Poetica aristotelica; era un’opera esoterica, che veniva tenuta in gran conto all’interno della Scuola, ma che rimase al di fuori del campo visuale dei grammatici; e sono per l’appunto questi ultimi che condizionano le prese di posizione sulla poetica. Aristarco seguiva in questo e in altri rispetti tradizioni grammaticali, non filosofiche, e anche la loro influenza indiretta su di lui è modesta. C’è si un aspetto di comunanza (Gemeinschaft) fra il Peripato e quest’ultimo, ma è quello del senso comune, che per fortuna non ha a che fare colla Scuola»28. Dire che la filologia è proprio questo senso comune, com’è stato detto piú volte, potrà sembrare una banalità: ma è vero. Le ideologie, umanistiche o meno, che le diano un colore non toccano il suo nucleo di fondo, che è ansia di ricerca. Tale attività merita, almeno come tale, una sua storia unitaria. Se chi scrive si fosse assunto il compito di fare una vera e propria recensione a quest’opera monumentale, bisognerebbe ora non tanto esprimere i singoli punti di dissenso su questioni particolari, quanto soprattutto – dovere troppo spesso dimenticato dai recensori – mettere in rilievo le aree di consenso obbligato per tutti e quelle dove l’ammirazione e la gratitudine sono la reazione spontanea. Dovremmo dire della costante chiarezza del dettato (conservata nella traduzione) e della passione e partecipazione che traspare da ogni pagina; dei mirabili quadri storici che ci vengono offerti, come per esempio la magistrale delineazione del passaggio da oralità a scrittura (cap. 1. II: spec. 24 sgg. = 73 sgg.: anche se assegnare Iliade e Odissea in blocco all’epoca scrittoria – 25 = 73 sg. – dovrà oggi apparire insostenibile; Parry non si elimina con una nota, 25 n. 1 = 73 n. 43); delle segnalazioni di lavori ancora da svolgere (per es. un’edizione || 27 W. Kroll, Das historische Epos, «Sokrates» 4, 1916, 11 n. 2. 28 In base a tutte queste considerazioni, mi sembra assurdo pensare che in un caso Aristofane di Bisanzio e Aristarco abbiano usato la parola τέλος (scoli ad ψ 296) nel suo senso filosofico aristotelico (vd. la Poetica) di ‘culmine dell’azione’, ‘compimento a cui l’azione tende’, e non, come ovviamente viene di intendere, nel senso di ‘fine’ (dell’Odissea; gli scoli hanno anche πέρας). A favore di quest’ultima tesi L. E. Rossi, «Riv. di filol.» 96, 1968, 151–63 (con ulteriori prove sull’accettazione dell’atetesi della fine dell’Odissea da parte di Apollonio Rodio; accettato da A. Heubeck, Die homerische Frage, Darmstadt 1974, 130); C. Moulton, «Gr. Rom. Byz. Stud.» 15, 1974, 153–69 (spec. 153–7). A favore dell’influenza della terminologia filosofica peripatetica sui filologi alessandrini C. Gallavotti, «Maia» 21, 1969, 208–14; H. Erbse, Beiträge zum Verständnis der Odyssee, Berlin–New York 1972, 166–77 (ma senza che venga demolita alcuna delle prove ‘apolloniane’). Pf., 175–7 = 280–3, pur non accettando le prove ‘apolloniane’, accetta l’atetesi di Aristofane e di Aristarco (prende cioè τέλος a valore facciale): anche qui, quindi, stacca gli alessandrini da Aristotele, ma, trattandosi della filosofia, fa bene.
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dei frammenti di Eratostene!, 153 = 250), possibili a chi con uguale competenza domina gli studi filologici di piú di duemilacinquecento anni. Ma lo scopo di queste pagine è un altro: raccogliere una provocazione. Al di là, infatti, della sua insostituibilità come strumento di lavoro, il libro di Pf. è una vera provocazione, per tutti noi, a rispondere ad una responsabilità che è di tutti noi, e cioè le prospettive future del nostro mestiere. Il compito di lampada tradere è anche il nostro. Se la Wissenschaft (e cioè lo storicismo) ha distrutto l’antichità come unità e come ideale (e cioè l’umanesimo), come ebbe a dire una volta Wilamowitz, oggi ci sarebbe da aggiungere che anche l’ideale astratto della Wissenschaft, predicato dallo storicismo, è morto. Sarebbe solo piú difficile dire chi l’ha distrutto, e perché. Ed ancora piú difficile sarebbe intravvedere con quali altri ideali andare avanti. Se dobbiamo accontentarci, almeno provvisoriamente, degli strumenti che abbiamo a disposizione, e se la dialettica umanesimo/storicismo ha veramente un senso, guardare alle realizzazioni di un personaggio come Pfeiffer potrà avere un senso a sua volta. Come filologo militante è stato storicista, su questo non c’è dubbio; come storiografo della filologia la sua prospettiva storiografica è invece coerentemente umanistica. Ma, dopo esserci proposti gl’inconvenienti a cui tale posizione l’ha esposto; dopo aver rifiutato il suo tentativo di ideologizzare in senso umanistico la filologia antica con quel minimum di umanesimo che è l’amor di poesia – nell’attesa di veder trattata nello stesso modo la filologia europea col rinforzo di un umanesimo a piú corde –; dopo aver rifiutato soprattutto le conseguenze storiografiche di tale ideologizzazione; non possiamo fare a meno di riproporci tutta la problematica da capo, soprattutto quando pensiamo al lampada tradere, all’aspetto professionale del nostro mestiere, all’insegnamento, oggi piú che mai in crisi. Un filologo vicino a Pfeiffer, che ne accetta anche la visione storiografica, Heinz Haffter29, ha affermato recentemente che la scuola non può accontentarsi di offrire una Antike vista storicamente e che per questa ragione si è sentita come abbandonata dalla philologische Wissenschaft specie a cavallo fra i due secoli. Vorrei sapere di piú sull’attività didattica di Pfeiffer. Jedes Wort wurde hin– und hergedreht, mi disse una volta un ex allievo monacense di lui parlando dei suoi seminari: con una punta di retrospettivo ‘spavento’, ma con ammirazione. C’è però anche chi ricorda con commozione il suo modo commosso di leggere i poeti. Azzardo una congettura, che dovrebbe venirmi confermata da numerose testimonianze: che il terreno in cui i due poli sono venuti a una me-
|| 29 H. Haffter, Geschichte der klassischen Philologie, in Das Erbe der Antike, Zürich–Stuttgart 1963, 13–30 (richiamato con gratitudine da Pf., 88 n. 1 = 158 n. 3). I concetti qui sopra nel testo a p. 27 sg.
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diazione sia precisamente l’insegnamento. Quello che continuerà comunque ad affascinarci è la sua esperienza ‘mistica’, legata al suo cristianesimo, la sua visione cosí severamente teleologica della filologia, come ha ben messo in luce Gigante (Intr., 16; «PP», 217 sgg.): il suo è l’umanesimo ‘completo’ di Erasmo, non quello solo ‘poetico’ di Filita. Ora, se per dar validità all’operare filologico un umanesimo è necessario – e qui deve esser chiaro che bisogna dar ragione a Pfeiffer –, dovrà essere «un umanesimo moderno, che sia cosciente del proprio tempo» e che sappia vedere i rapporti fra umanesimo e storia30. Un ideale ancora troppo indeterminato: ma basterebbe cominciare a procedere almeno in negativo, liberando l’umanesimo europeo dalle sue incrostazioni inessenziali, prima fra tutte quella di una idealizzazione totale e assoluta dell’antichità classica, che ha poi troppo spesso offerto i suoi servigi, con buona o cattiva coscienza, alle ideologie di potere. A questa purificazione dell’ideale umanistico dovrebbe portarci finalmente, oggi, la prospettiva nuova con cui l ’ a n t r o p o l o g i a ci va abituando a vedere le varie culture. La liberazione dalla cappa classico–eurocentrica renderà il vecchio umanesimo colle sue inattuali reviviscenze non tanto antiquato, quanto del tutto improponibile31. Il passaggio da ‘classico’ a ‘europeo’ a ‘universale’ (e quindi a ‘universalmente umano’) non sarà piú consentito come pigra riassunzione di schemi perenti, né sarà possibile rifondarlo ex novo. Ma qui la prospettiva si amplierebbe a dimensioni che questa nota non vuole – perché non può – comportare. Il frettoloso e provvisorio preventivo esposto qui alla fine vale solo come avvio di un discorso, al quale è importante almeno non sottrarsi.
|| 30 A. Heuss, Der Humanismus, cit., 185 sg. R. Bianchi Bandinelli, Le crisi dell’umanesimo, in Archeologia e cultura, Milano–Napoli 1961, 66–86, precisam. 83 sg. (scritto nel 1950) identifica la crisi dell’umanesimo rinascimentale nella controriforma («il riaffermato principio d’autorità») e la crisi del secondo umanesimo nell’avvento del romanticismo («la fuga nell’irrazionale»). È conseguente, quindi, nel vedere «la migliore possibilità di una rinnovata ripresa dell’umanesimo» nell’«affermarsi, ancora una volta, di quella facoltà di un pensiero razionale, che è troppo fecondo per essere a lungo negato e troppo connaturato con le profonde aspirazioni degli uomini alla libertà…». Se è vero che la «razionalità» non esaurisce l’umanesimo (che non è un lucido illuminismo), resta però vero che la «razionalità» ne è una caratteristica costante. Non fa meraviglia che Bianchi Bandinelli la mettesse cosí vigorosamente in rilievo, parlando proprio nell’immediato dopoguerra. 31 È noto quanto prezioso sia stato negli ultimi cento anni l’apporto di spunti (e talvolta piú che spunti) antropologici negli studi classici: da Usener, Rohde, Fustel de Coulanges etc. nel secolo scorso alle numerose voci del mondo anglosassone nel nostro secolo. Un orientamento di storia degli studi offre C. Kluckhohn, Anthropology and the Classics, Providence 1961 (che propone anche un’interpretazione in chiave antropologica della cultura greca).
Premessa Le redazioni dei due seminari romani di Eduard Fraenkel sull’Aiace (1967) e sul Filottete (1968) di Sofocle, che qui vengono presentate ad opera di un gruppo di partecipanti, non sono state mai riviste da lui, anche se il Filottete era stato redatto e stampato privatamente nel 19691, prima della sua morte (5.2.1970). Abbiamo fondati dubbi che le avrebbe mai autorizzate. Il suo insegnamento era destinato all’aula di seminario: quello che dall’aula doveva uscire, secondo le sue più o meno esplicite intenzioni, erano non tanto contenuti filologici oggettivi, quanto piuttosto menti più aperte e arricchite dal suo insegnamento. Non sappiamo quindi se gli rendiamo un servigio e se compiamo un vero atto di pietas alla sua memoria: per di più nelle redazioni, che abbiamo cercato almeno di conservare fedeli al suo tono vivacemente conversativo e festosamente ironico–polemico, possono esserci sfuggiti errori, inesattezze, importanti omissioni, di cui solo noi siamo i responsabili. Ma sappiamo di obbedire almeno a un dovere di testimonianza. Queste pagine servono strettamente allo scopo di guidare alla lettura delle due redazioni. Il Fraenkel studioso, didatta e uomo è stato già degnamente commemorato da una schiera di amici ed estimatori che lo conoscevano da più anni e più profondamente di noi. Queste commemorazioni – che sono elencate nella nota bibliografica alla fine della premessa – saranno richiamate qui qualche volta (col solo nome dell’autore) per verificare sulla base delle esperienze di altri quanto di Fraenkel abbiamo sperimentato anche noi a Roma. Parleremo solo di F r a e n k e l a R o m a , dunque. Ma non solo della sua didattica e dell’importanza che ha avuto per noi, bensì anche della sua vita e dei suoi affetti romani, per confermare anche noi l’esperienza che tutti hanno avuta di lui: quella di un uomo che aveva fatto degli studi classici il centro della propria esistenza; che sentiva profondamente la funzione didattica come mezzo sia per trasmettere quei valori, nei quali credeva, sia per stabilire rapporti umani non
|| [Premessa pubblicata in Due seminari romani di Eduard Fraenkel. Aiace e Filottete di Sofocle. A cura di alcuni partecipanti. Premessa di L. E. Rossi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, pp. VII–XXX] 1 Appunti del seminario tenuto all’Istituto di Filologia classica dell’Università di Roma da Eduard Fraenkel sul Filottete di Sofocle (13–31 maggio 1968). Redazione di D. Alecu, A. C. Cassio, M. G. Cenci, D. Fogazza, P. Negri, M. Palma, M. Passalacqua, C. Passarella, S. Rizzo, L. E. Rossi, G. Santangelo, E. Troili. Roma 1969 (edizione fuori commercio in 300 copie numerate da 1 a 300). https://doi.org/10.1515/9783110648140-012
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superficiali; e che faceva quindi reciprocamente agire l’una sull’altra l’attività didattica e la vita affettiva. *** Fraenkel conosceva bene l’Italia, che era certo il paese che più amava, e Roma, dove era stato per la prima volta nel 1906. Parlava molto bene l’italiano, con ottimo accento e solo con qualche latinismo, germanismo e anglismo lessicali e sintattici. A Roma era stato infinite volte e aveva molti amici. Fra l’altro, Alfredo Rizzo lo aveva invitato più d’una volta al Liceo «Tasso» a parlare ai suoi scolari: fu lì che per la prima volta incontrò alcuni di quelli che fin da allora caldeggiarono la sua venuta a Roma e che poi parteciparono ai seminari. La nostra storia della presenza di Fraenkel a Roma si limita agli ultimi sei anni della sua vita, fra l’età di settantasei e di ottantun anni. Nell’aprile del 1964 fu invitato da Scevola Mariotti ad Urbino per il conferimento della laurea ad honorem; venne subito dopo a Roma, dove Carlo Ferdinando Russo lo invitò a tenere i seminari che si sarebbero svolti negli anni successivi a Bari2. Quando nel 1965, di ritorno da Bari, passò per Roma, Mariotti lo invitò a tenere una lezione nell’ambito del corso di Filologia classica; e prese accordi per seminari più lunghi, come quelli che aveva tenuti nella stessa Urbino, da tenersi a cominciare dall’anno successivo. Ecco l’elenco che comprende la lezione e i seminari: 21 maggio 1965: lezione sul quarto atto di Plauto, Captivi; 10–18 maggio 1966: seminario su Aristofane, Acarnesi (vv. 1–203, 352–556, 665–75, 719– 835, 860–958, 1174–1234); 27 aprile – 17 maggio 1967: seminario su Sofocle, Aiace (vv. 1–133, 263–330, 430–80, 481– 524, 646–92, 719–814, 815–65, 891–914); 13–31 maggio 1968: seminario su Sofocle, Filottete (vv. 1–134, 220–390, 403–506, 519–675, 927–1080, 1218–1408); 28 aprile – 16 maggio 1969: seminario su Aristofane, Uccelli (vv. 1–460, 737–52, 801–25, 851–957, 1188–1261, 1494–1552, 1720–65).
|| 2 Frutto di alcuni di questi seminari baresi sono le redazioni a cura di Renata Roncali: [I] Dalle esercitazioni di Eduard Fraenkel sull’«Eunuco» (Bari 1969), «Belfagor» 25, 1970, 673–89; [II] «Pindaro senza lacrime» (Dalle esercitazioni di Eduard Fraenkel, Bari 1967), ibid. 27, 1972, 78– 96; [III] La matrona di Efeso e altri capitoli di Petronio (Dalle esercitazioni di Eduard Fraenkel, Bari 1967), ibid. 29, 1974, 687–95. Qui di seguito si citerà: Bari I, II, III.
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Si aggiunsero due conferenze pubbliche: 29 e 30 maggio 1968: Ricordi romani e non romani di un filologo classico3; 14 maggio 1969: Wilamowitz4.
Per l’anno della sua morte, il 1970, era previsto un seminario su Sofocle, Trachinie. Trattandosi di argomenti greci da svolgersi nell’ambito del corso di Filologia classica, era stata affidata a me, in qualità di assistente, la preparazione degli studenti. Due parole sulla preorganizzazione e sullo svolgimento dei seminari. La scelta dell’argomento Fraenkel la faceva con un anno di anticipo: ci faceva scegliere fra greco e latino, dopo di che ci conduceva con apparente dolcezza a scegliere il dramma, tragedia o commedia, che in quel momento gli stava più a cuore. Verso ottobre–novembre arrivava una lettera colla scelta dei passi, la precisa determinazione dei giorni e delle ore, le indicazioni sul testo da seguire e sui libri da avere sottomano5. Al principio dell’anno accademico veniva ufficialmente annunciata da Mariotti la venuta di Fraenkel a primavera: si dava il programma e s’invitava chi volesse ad iscriversi alla preparazione del seminario. Qui le prime preoccupazioni organizzative: Fraenkel voleva poca gente, assolutamente non più di venti partecipanti. Aveva il timore della dispersione, per di più non voleva sottoporsi a sforzi che temeva di non reggere. «Se trovo più di venti persone, non entro neanche nell’aula», disse una volta: credo che ce ne fossero effettivamente almeno ventidue, ma entrò lo stesso. Un momento difficile, superato con un gran sospiro di sollievo. Man mano che imparavamo a conoscerlo, l’atmosfera di tensione del primo anno, avvertibile anche nei mesi di preparazione, lasciava il posto a maggior fiducia in noi stessi. Quello che intimidiva, di Fraenkel, non era la semplice fama di grande filologo, che lui cercava del resto di non far pesare, come impedimento al contatto umano, con il suo tratto a volte perfino gioviale; e del resto il clima sessantottesco era provvidamente abbastanza iconoclasta nei confronti di ogni valore accademico formale per non farsi buttare il fumo negli occhi. Quello che invece, di lui, intimidiva veramente era la grande superiorità intellettuale, che è un valore di sostanza e una categoria psicologica di rapporto non soggetta alle occasioni o al variare delle situazioni. Tutti ricordiamo la tensione della prima seduta sugli Acarnesi, || 3 Da lui quasi improvvisata, sulla base di alcuni appunti stesi a Roma nei giorni precedenti in forma di ‘scaletta’ direttamente in italiano su un piccolo quaderno. 4 Pubblicata in «Quaderni di Storia» 5, 1977, 101–18. 5 V. anche Bari I, 673 e 689, dove C. F. Russo ha pubblicato una di queste lettere.
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in cui il terribile vecchio (δριμὺς πρέσβυς, come amava definirsi) deve aver ‘tagliato a fette’ il silenzio che lo circondava. Nella seconda seduta tutto era già diverso. Non voleva colleghi. Anche a Oxford, dopo i primi anni del famoso pluriennale seminario sull’Agamennone, escludeva i seniores, pensando che la loro presenza inibisse i giovani (Williams, 438). Negli anni romani successivi al primo qualcuno defezionava e qualche nuova leva si aggiungeva: ogni anno c’era così l’iniziale distinzione fra ‘paleofraenkeliani’ e ‘neofraenkeliani’, distinzione che si annullava progressivamente di seduta in seduta, man mano che Fraenkel imparava a conoscere anche i ‘neo’ (voleva sempre una piantina coi nomi). Fra aprile e maggio, le sedute. Negli ultimi tre anni furono sempre nove, di due ore l’una: dalle 16 in punto (cominciava sine tempore) alle 18, ma si finiva spesso un poco più tardi. Chiedeva all’uno o all’altro di tradurre: correggeva qua e là la traduzione, lodava traduzioni azzeccate, e poi cominciava il suo commento selettivo al passo tradotto, proponendo e spesso dando per risolti i problemi. Ma qualche volta, sia che volesse saggiare la preparazione dei presenti sia che volesse veramente sentir pareri su questioni dubbie, faceva domande, anche queste precisamente indirizzate. Timpanaro (p. 91) ha fatto un confronto fra i seminari di Pasquali – dove tutto veniva proposto, magari improvvisando, in maniera problematica – e quelli del Fraenkel fiorentino–pisano degli anni 1954–1960 – dove le soluzioni erano più preordinate, e dove si trattava solo di ‘guidare’ ad esse gli allievi; e, sulla base del già redatto Filottete romano, ha parlato di un «ultimo Fraenkel», meno attaccato alla dogmaticità, più disponibile a discutere, più vicino all’ethos dei seminari pasqualiani (ma si veda quanto Fraenkel stesso dice in Kleine Beiträge, I, 275, n. 3 a proposito di un seminario pisano). Questo fatto, nella misura in cui è stato vero, dipendeva certamente da un ammorbidimento del carattere, notato da molti, e da una accresciuta tolleranza scientifica nell’insegnamento: non certo da senilità, come sa bene chi ha visto Fraenkel fino a pochi mesi o a pochi giorni dalla sua morte, né da affrettata preparazione o da disposizione ad improvvisare. Ma dipendeva anche da un fatto di per sé tutto giovanile, e cioè dalla scelta entusiastica di un nuovo tema di studio, Sofocle. Sofocle è stato per Fraenkel l’amore giovanile degli anni della sua fervida vecchiaia. È per questo che abbiamo scelto per la pubblicazione i due seminari sofoclei, lasciando da parte quelli aristofanei, che proponevano una problematica prevalentemente già risolta da decenni di studio e di riflessione, consacrati per di più in pubblicazioni lontane o recenti. Sofocle invece era diversamente ‘vivo’ fra le sue mani. Dei due qui pubblicati, il più interessante da un punto di vista scientifico è il seminario sul Filottete (si veda nell’indice per es. la voce
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‘lingua’): molti sono gli inediti. Per l’Aiace aveva fatto in tempo a pubblicare qualche cosa proprio in quegli anni6. Ma in tutti e due risalta un fatto comune, ed è il desiderio di penetrare quello che è certamente il più enigmatico e il più affascinante dei tre grandi tragici, colla sua visione lucidamente ed appassionatamente pessimistica del destino dell’eroe isolato dalla polis e dal mondo; il drammaturgo che coll’Edipo a Colono gli offriva la possibilità «di esplorare la dignità e la degradazione della vecchiaia, ma anche di dare una sua risposta ai profondi sentimenti religiosi della conclusione del dramma» (Macleod, 209). Fraenkel ci parlava spesso di un libro su Sofocle che aveva in mente di scrivere e che pensava diviso in tre grandi capitoli: Sofocle in generale, i problemi testuali, i colloquialismi (v. anche ad Ai. 512). Una conferenza su Sofocle da lui tenuta a Monaco all’Accademia Bavarese nel 1969 aveva la stessa struttura tripartita; fra le sue carte conservate a Oxford (v. l’Appendice qui oltre) si conservano molte note a Sofocle. Ma anche dal punto di vista didattico il Filottete è il più interessante. Fraenkel inseguiva problemi nuovi e sentiva il bisogno di discuterne. La sua disponibilità al dialogo era diventata sempre più ampia: ne fanno fede le note ad 134, 386–88 colla ripresa nella seduta successiva, 648, 936 ss. Nell’Aiace, invece, questo appare praticamente solo nell’ultima seduta, nella ripresa del problema della Trugrede. Tale disparità dipende in parte da realtà oggettiva (come ho detto, fra l’altro anche in noi il coraggio di farsi avanti e di discutere aumentava man mano), ma anche dalla diversa qualità delle nostre redazioni: quella del Filottete fu fatta ‘a caldo’, pochi mesi dopo, mentre quella dell’Aiace solo qualche anno dopo, quando molti ricordi personali si erano affievoliti e bisognava attenersi più esclusivamente alle note prese durante le sedute. Ma anche per l’Aiace ci furono discussioni, alcune addirittura animate: peccato che in quei momenti la capacità di prendere appunti fosse, com’era naturale, più scarsa, o addirittura nulla. È inutile segnalare qui i poli su cui s’incentrava la sua selezione: problemi critico–testuali, lingua e stile, micro– e macro–esegesi. Una novità per tutti era la vivezza con cui, magari in un breve inciso o in una digressione più lunga, presentava le figure dei filologi del passato e del presente, alcuni dei quali erano a lui ben noti per rapporto di discepolato o di amicizia, mentre di altri presentava con vivacità una vulgata diffusa negli ambienti universitari da lui frequentati, ma sempre filtrata attraverso il suo apprezzamento personale. Anche
|| 6 Zwei Aias–Szenen hinter der Bühne, «Mus. Helv.» 24, 1967, 79–86; Anreden an nur gedachte Zuhörer, ibid. 24, 1967, 190–3; Anreden an nur gedachte Zuhörer (Nachtrag), ibid. 25, 1968, 179 s.; οὐδ᾽ αὖ μ᾽ ἐάσεις; ibid. 26, 1969, 158.
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dietro la sola opera Fraenkel si divertiva a ricostruire e a presentare l’uomo. Ne escono dei ritratti a tutto tondo, schizzati anche con poche parole, che formano insieme una specie di storia della filologia: a cominciare dai ‘maestri di scuola’ (gli scoliasti antichi), a continuare con un Triclinio, a finire con Giuseppe Giusto Scaligero, Hermann, Otto Jahn, Nauck («un genio!»), Blaydes («una gallina cieca»), Jachmann, Dain, per citarne solo alcuni. Del suo vecchio amico Pasquali parlò a lungo, e con umana profonda simpatia, nella prima delle due conferenze romane. Molti di noi ricordano, ancora, la parodia mimata di Vahlen, serioso e vestito sempre di nero; e quella di Wackernagel (uno dei suoi maestri più venerati), che per pruderie pronunciava la parola χέζειν con un filo di voce (roca) in un angolo dell’aula, rivolto verso il muro. Aveva una spiccata capacità mimica. Non è poi certo un caso che, nei seminari, non compaiano caratterizzazioni di Leo e di Wilamowitz: erano stati i suoi due grandi maestri, ammirati ed amati, ed è come se fossero stati per lui un ‘dato’ troppo noto ed ovvio. O un lungo discorso o niente: poche parole sarebbero state inadeguate. Abbiamo fatto di tutto per conservare le qualità del parlato fraenkeliano: né ci è riuscito difficile, visto che tanta parte dell’efficacia del suo insegnamento derivava proprio dalla passione e dall’immediatezza con cui presentava dati e problemi. Abbiamo anche volutamente conservato alcuni suoi caratteristici solecismi: per es. ‘insano’, ad Ai. 682 s.; ‘particola’, ibid.; ‘morbido’ nel senso di ‘morboso’, ad Phil. 112; ‘abortivo’, ad Ai. 771. È rimasto anche qualche solecismo sintattico. Fu solo al secondo o al terzo anno che avemmo la cattiva idea di correggergli ‘parallela’, evidente germanismo per ‘(passo) parallelo’: la sua reazione fu di rampogna aspro–allegra per il ritardo con cui lo salvavamo da un errore per noi così divertente («questa è una pseudo–parallela», etc.), e da allora disse sempre correttamente ‘parallelo’, nei primi tempi con una punta di malizia. Naturalmente fuori sono rimaste le traduzioni: ed è un peccato, ché spesso le sue osservazioni su di esse erano esegesi della più bell’acqua. Ci furono anche momenti di tensione, che è stato impossibile registrare. Fraenkel era un po’ duro d’orecchio e qualche volta si spazientiva quando l’interlocutore parlava piano o non chiaramente [Bari II, p. 78: «Allora parlate ad alta voce, se possibile non più di tre alla volta (a Roma in dieci): il vecchio è un poco sordo»]. Quando, pur sentendo, non capiva esattamente il tenore della domanda (Lloyd–Jones, 639; Williams, 437) o non si sentiva di affrontare un problema troppo vasto per i limiti di tempo, faceva finta di non sentire e andava avanti: non certo per paura di misurarsi con qualcosa che gli era ben noto e presente, ma piuttosto per l’ansia di portare a compimento il programma, meticolosamente misurato, delle due ore. Si stenterà a credere che regolarmente, un giorno sì e uno no, passava la mattinata all’Istituto Archeologico Germanico, guardando le novità, come
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faceva a Oxford, ma anche preparandosi per la seduta successiva. Non gli capitò mai di affermare che qualcosa di importante che aveva da dire era rimasto fuori perché era tardi: la materia era ‘tagliata’ esattamente per il tempo a disposizione. Tanto più va apprezzata la sua disponibilità a discutere, che evidentemente era programmata anch’essa. Le due ore erano interrotte a metà solo per cinque minuti, quanto bastava per fumare in corridoio una Nazionale Esportazione senza filtro; i toscanelli, scelti dal tabaccaio con cura da lui stesso o fatti scegliere dagli amici, erano la sua gioia dei dopo–cena. *** Il nostro maggiore rammarico è che dalle nostre redazioni sia di necessità rimasto fuori – ed è solo affidato alla memoria vivissima che ne abbiamo – quello che Fraenkel chiamava ‘ l i r i c a m i s t a ’ , e cioè la lettura metrica in tono recitativo sostenuto dei brani lirici. La ‘lirica mista’ ce la offriva in genere, a grande richiesta, alla fine del seminario: e più volte abbiamo sentito da lui il coretto delle Rane e la monodia dell’Upupa dagli Uccelli. Ma le sedute più memorabili di ‘lirica mista’ furono quelle del 13 e del 16 maggio 1969, le ultime di Fraenkel a Roma, a conclusione del seminario sugli Uccelli. Può essere interessante elencare quello che Fraenkel lesse (nell’ordine): Aesch. Prom. 114–92 (intermezzo monodico di Prometeo e parodos delle Oceanine); Sept. 720–32 (II stasimo, I coppia antistrofica); Ag. 104–257 (parodos); Eum.3 21–97 (I stasimo: δέσμιος ὕμνος). Soph. O.R. 151–215 (parodos); Ai. 596–608, 624–34 (I stasimo, I e II strofe); O.R. 863–96 (II stasimo, senza l’epodo); O.C. 668–706 (I stasimo, l’inno a Colono, senza II antistrofe); 1211–48 (III stasimo). Eur. Med. 410–45 (I stasimo); 627–62 (II stasimo); 824–65 (III stasimo, l’inno ad Atene); 976–1001 (IV stasimo); Her. 637–700 (II stasimo, l’inno alla giovinezza); Tro. 511–30, 551– 67 (I stasimo, senza antistrofe); Phoen. 202–13, 239–49 (parodos, I e II strofe); Or. 807–43 (II stasimo); Bacch. 370–85, 403–15 (I stasimo, solo le due strofi); Cycl. 356–67 (I stasimo, solo la strofe). Ar. ran. 180–268 (prologo, dall’ingresso di Caronte; coretto delle rane); 324–36, 340–53, 372–434 (quasi tutta la complessa parodos); av. 209–353 (anapesti e monodia dell’Upupa; i quattro uccelli–comparse; parodos vera e propria).
Di alcune odi tralasciò parti o testualmente tormentate o da lui non considerate essenziali dal punto di vista metrico–drammatico. Alcune scelte sono significative per la storia della formazione del gusto di Fraenkel: per esempio, Aristofane risaliva agli anni di Gottinga con Leo (1909–12, con interruzioni berlinesi,
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v. spec. Williams 418), il canto della giovinezza dell’Eracle e altri passi euripidei ed eschilei erano certamente di ascendenza wilamowitziana, le grandi parodoi dattiliche dell’Agamennone e dell’Edipo Re (messe in rapporto l’una con l’altra) erano scelte nettamente fraenkeliane. Interrompeva spesso la lettura, anche a mezzo di un’ode, per fare commenti, alcuni già consacrati dalla stampa, altri genialmente improvvisati: quelli che ci restarono più impressi furono quelli sul Prometeo, sulle due grandi parodoi, sui quattro stasimi della Medea, sulla Ἰλίου πέρσις delle Troadi (551–67). Una vera rivelazione fu per tutti l’efficacia della recitazione ritmica, spesso messa in rapporto colla musica che doveva accompagnare il canto. Leggeva ictando fortemente, in maniera estremamente chiara e distinta (differenziandosi così da una certa tradizione scolastica sia tedesca sia inglese, che tende a confondere per mancanza di chiarezza); non dava invece alcuna idea dell’accento musicale di parola. È luogo comune celebrare, di lui, il coretto delle Rane e la monodia dell’Upupa, che avevano fatto già il giro del mondo, ma l’impressione più grande ce la fece il δέσμιος ὕμνος delle Eumenidi (fu costretto a farne il bis nella seduta successiva), ‘cantato’ con tensione sacrale–maledica: la ‘singhiozzata’ metrica eschilea venne fuori con un’efficacia insospettata per chi è abituato alla lettura silenziosa delle nostre ore di studio, prive della luce della wilamowitziana ‘attualizzazione’ (Verlebendigung). Il rispetto della quantità (v. Bari III, ad Petron. 111.8: «Voi poveri italiani non sentite la differenza tra sillabe lunghe e sillabe brevi. Era la disperazione del mio amico Giorgio Pasquali, quando assistevo ai suoi seminari»); l’affrettamento (lo ‘stringendo’) dei longa soluti; il ‘rallentando’ trascinato delle clausole finali di strofe; lo stacco fra trimetri o ‘versi lunghi’ e canto (notevole specie nel passaggio canto–trimetro di ran. 268); i versi recitativi resi con istrionesca vivacità, specie le mosse ἀντιλαβαί della scena in trimetri con Caronte di ran. 180–207 (184, il triplice χαῖρ᾽ ὦ Χάρων scandito con timorosa lentezza da Dioniso; 200 e 201, i timidi e risentiti ἰδού di Dioniso, in risposta all’imperioso Caronte!) e quelle di av. 435 ss., in cui tetrametri trocaici catalettici si alternano con il canto: tutto questo resta, per chi lo ha ascoltato, un acquisto perenne. «La metrica era per lui il suono e il movimento della poesia e del canto: recitazione (e perfino vero e proprio canto) predominavano nelle sue lezioni» (Williams, 438, cf. 436). «Fate lavorare le orecchie», diceva sempre. E dopo che uno di noi gli ebbe segnalato le pagine introduttive dell’Epitome doctrinae metricae di Hermann (1818), le distribuì xerocopiate al suo seminario oxoniense: Hermann ammoniva coloro che pretendevano di imparare la metrica sine viva voce magistri (p. V) e li esortava alla troppo trascurata exercitatio aurium (p. VI). ***
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Molto più difficile è per noi, anche a distanza di qualche anno, valutare complessivamente il suo insegnamento, il nostro acquisto, cioè, non in termine di nozioni, ma di conoscenza. Il συμφιλολογεῖν (era parola sua) è senza dubbio un acquisto che dobbiamo a lui e che va al di là del semplice strumento didattico. Ma gli dobbiamo ben di più e ben altro. Non vogliamo dar qui una valutazione della sua personalità culturale né una storia della sua formazione. La sua solida fede umanistica (l’unità del mondo greco e latino!); il suo altrettanto umanistico attaccamento ai grandi testi; il suo violento antidecadentismo; il suo empirismo nemico di ogni rigida pastoia metodologica e di ogni tecnicismo eccessivo (o ‘tecnicalità’, come diceva con anglismo caratteristico): tutto questo e altro è stato messo in luce da chi ben poteva farlo, specialmente da Timpanaro. Il suo umanesimo lo sentiamo oggi lontano dalle nostre esigenze, che ci portano a negare il valore assoluto e paradigmatico del cosiddetto mondo classico e l’unità stessa di quel mondo. Ma non era comunque un umanesimo scolastico: il suo «canone di classici», che imponeva con prepotenza agli altri e su cui ha scritto così bene Timpanaro (spec. 96 ss.), comprendeva anche il barocco Lucano (sul quale aveva lavorato negli anni venti e che era importante per Dante, autore che leggeva e rileggeva continuamente), ma soprattutto comprendeva Plauto e Petronio, e in più Aristofane (La Penna, 18). Non era certo un caso che nel suo ‘canone’ fosse presente tanto teatro: «aveva per il dramma un’inclinazione istintiva, legata a un senso emotivo e contrastato degli avvenimenti e dell’esistenza» (Scevola Mariotti). In senso umanistico, poi, la scelta di Sofocle come amore di vecchiaia è significativa. Sofocle presentava per lui un doppio valore: quello del grande classico autore di grandi opere; e quello dei grandi personaggi, i solitari eroi sofoclei che si sentono e sono esclusi dalla polis (si veda qui, passim, l’apprezzamento così intensamente vissuto delle figure di Aiace e di Filottete). L’identificazione coi grandi personaggi, idealizzati e resi paradigmatici nella loro grandezza, è categoria eminentemente umanistica, periodicamente ricorrente in ciascuno: Fraenkel, senza teorizzarla, l’ha vissuta specialmente nella seconda metà della sua vita – da quando, in Inghilterra, mise mano al commento all’Agamennone –, certo come (umanistico) rifugio dalle sofferenze e delusioni a cui lo esponeva il corso degli eventi. Umanistica era, anche, la sua dedizione alla «interpretazione dei grandi classici», che trovava il suo ideale nel commento (Timpanaro, 93): quanti commenti consigliò, anzi impose a tutti, e quante volte restò deluso! Caratteristica era la sua «propensione tutta umanistica alla pura comprensione del testo» (Puelma, 19), anche se spesso isolata dal suo contesto precisamente politico. Non storico in senso lato, però: ma erano accenni che, nella viva conversazione, emergevano più di rado. Ben più forte era la sua passione per l’archeologia e le antichità e
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per i loro rapporti colle opere letterarie (la sua ammirazione per Otto Jahn!): aveva il dono di saper collegare i testi letterari colla storia del costume. Ben nota era la sua ostentata ed esclusiva predilezione per gli ὅλα ᾄσματα, le grandi opere conservate integralmente, fra le quali operava una selezione di gusto del tutto personale. Ne sentiva l’unità di fondo: chi ha ascoltato la sua lezione sul quarto atto dei Captivi (1965) ha ammirato anche la sua capacità di comunicare tale senso di unità pur nel breve arco di due ore accademiche. Di queste opere aveva una memoria ferrea, inalterata nonostante la tarda età. Tante volte ironizzava contro quello che chiamava sapere ex indicibus: sfogliando i ‘suoi’ testi, non aveva mai bisogno di indici, trovava sempre quello che aveva in mente di trovare. Ora, che cosa ha significato per noi tutto questo? Prima di tutto che, quando Fraenkel ripartiva, ci sentivamo addosso una voglia matta di divorare di nuovo o ex novo i testi, gli ὅλα ᾄσματα: facendo violenza alla nostra stessa formazione scolastica e universitaria italiana, che almeno in questo ha contraddetto fino ad oggi perfino il retorico umanesimo di facciata che la ha sempre contrassegnata (molta grammatica a scuola, molta filologia all’università, ma sempre pochi testi). Insieme colla voglia di leggere i testi, ci lasciava anche gli strumenti per leggerli: il suo istinto per la forma, la formula, il modo di dire, la lingua colloquiale è oggi per noi, nella misura in cui siamo stati capaci di assorbirlo, uno strumento di prim’ordine anche perché singolarmente moderno e attuale. Non sarebbe difficile tradurre alcuni suoi procedimenti in termini di critica letteraria à la page: ma sappiamo che si sarebbe infuriato a morte, vedendoci fare un esercizio di traduzione metodologica che avrebbe giudicato del tutto sterile! «Non riempirti vanamente la bocca col nome ‘metodo’»: è il quarto ‘comandamento’ di Ritschl (v. ad Ai. 573, nota), che era solito ripetere in molte occasioni. Ma Fraenkel è stato per noi anche l’ultimo rappresentante in carne ed ossa della grande Altertumswissenschaft dell’ottocento tedesco. Non è il luogo questo di seguire la dialettica fra umanesimo e filologia, che vediamo nel suo maestro Wilamowitz e che a lui tanto lo avvicina. Si tratta piuttosto di vedere Fraenkel al lavoro filologico nel momento del suo farsi, così come lo abbiamo avuto di fronte nell’aula di seminario. Trattandosi di testi drammatici (e specialmente tragici, a differenza della commedia), quello delle interpolazioni è un problema notoriamente importante. Ebbene: nelle sue opere stampate appare certo meno di quanto non appaia nel parlato del seminario una certa fiducia positivistica ancora quanto mai viva negli strumenti razionalistici e nella critica un po’ ‘chirurgica’ di un Hermann o di un Nauck, senza l’inquinamento (imbarazzante, ma alle volte provvido) di un dubbio storico e antropologico. Fino a che punto i nostri mezzi ‘logici’ possono funzionare per valutare testi da noi culturalmente
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così lontani? In parole più semplici: responsabile del ‘disturbo’, che fa scattare il meccanismo dell’espunzione, è l’autore stesso o la trasmissione del suo testo? Nel primo caso non abbiamo il diritto di considerarlo un ‘disturbo’, nel secondo dobbiamo opportunamente distinguere (interpolazioni antiche di attore, interpolazioni bizantine, etc.). Ora, quella che chiamo la ‘fiducia’ di Fraenkel appare molto esplicita in note come quelle ad Ai. 84 s., 314 (Nauck!), 327 (Nauck!), 430 ss. (Nauck!), 554, 571, 812, 839–42, 855, 1111–17; Phil. 53 (Hermann!), 49 (Nauck!), 1142–44. D’altra parte i suoi ripensamenti sulle interpolazioni, richiamati già sopra (ad Phil. 134; 386–8 colla mantissa nella seduta successiva; 936 ss.), possono essere intesi come un segno di crisi? In sé non è lecito supporlo, visto che anche gli argomenti da noi addotti non innovavano nell’ambito dello strumento di indagine (solo Phil. 134 potrebbe presentare un grosso problema storico–religioso), e la disponibilità di Fraenkel alla discussione è solo segno di onestà scientifica (e di tolleranza umana), ma non necessariamente anche di una revisione del metodo. D’altra parte non è la giustezza o meno delle sue soluzioni che va messa in discussione, quanto piuttosto l’itinerario metodico seguito. Fummo noi a sentire la crisi in maniera molto netta: arrivammo ad elaborare fra noi la necessità di un sistema per graduare le interpolazioni. Ma solo in forma provvisoria e problematica. Perché – diciamocelo francamente –: siamo andati finora molto avanti nel sostituire i ‘vecchi’ criteri? L’ansia di aggiornamento metodologico deve ancora sedimentare, per giovare ai nostri studi, e ci vorrà ancora volontà, intelligenza e tempo. L’acquisto perenne, comunque, nato dalla fiducia e dall’ottimismo fraenkeliani è una sconfitta della pigrizia del critico (o del lettore) conservatore (o della sua stupidità: ricordiamo il detto di Housman), che troppo spesso copre il suo conservatorismo, nato da scarsa penetrazione del testo, con scettico e generico pessimismo. Un ulteriore e più preciso invito, quindi, al contatto diretto e partecipato coi testi. Che il nostro approccio oggi sia e debba essere diverso nulla toglie al valore della sua ‘lezione di lettura’. Se in Fraenkel crisi c’era, era da vedersi in senso più generale e in una direzione esattamente opposta, nella percezione delle forze che dissolvevano (e dissolvono) «quell’unità della filologia e quel posto centrale degli studi classici nella cultura europea a cui egli tanto teneva», come dice Timpanaro (p. 102), il quale gli riconosce anche di avere avuto la coscienza di essere «l’ultimo rappresentante della gloriosa filologia wilamowitziana», senza veri successori (p. 102 s.). Questa crisi si era certamente acuita negli ultimi anni (Bari I, ad Ter. Eun. 552: «Una cosa da fare per l’avvenire – se ci sarà avvenire per la filologia classica – è di analizzare la lingua di Terenzio:…»). Questo senso, sofferto, della fine di un’epoca, e precisamente di un’epoca degli studi; il trapianto in Inghilterra al
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centro della sua brillante carriera (aveva quarantasei anni, nel 1934; pur se dopo si ambientò più di quanto sembrasse possibile all’inizio, v. Lloyd–Jones, 639); la sua avversione per la ‘scelta di metodo’ – fatto culturale–ideologico già illustrato da altri – e soprattutto la sua concezione molto individualistica del rapporto intellettuale – fatto psicologico sul quale vale la pena di mettere l’accento –: tutto questo può spiegare perché Fraenkel in nessuno dei paesi dove visse più a lungo (la Germania, l’Inghilterra, l’Italia) fondò una vera ‘scuola’ nel senso pieno del termine (Lloyd–Jones, “Times” e p. 639 s.). Non volle mai una Festschrift ufficiale, anche se poi, come diremo, fu pronto ad accettarne una non ufficiale da parte di un gruppo di giovani amici. La sua influenza nel campo degli studi classici fu tuttavia – ad ammissione di tutti – enorme. La sua stanza a Corpus Christi College non era «una torre d’avorio, ma un centro di comunicazione cogli altri, diretta o epistolare» (Macleod, 210). A Roma l’atmosfera della sua stanza oxoniense si ricostruiva nelle case degli amici. Non una scuola, quindi, ma un circolo di amici sparsi in tutto il mondo, che parlavano con lui e corrispondevano con lui, e che con lui hanno contratto ingenti debiti intellettuali. *** Ma non si coglie la misura dell’impatto dell’insegnamento di Fraenkel se non si tiene presente la sua sconfinata passione didattica, Lehrer aus Passion, lo definisce Bühler. Nell’insegnamento romano abbiamo sperimentato ancora intatta la partecipazione affettiva che aveva sentita nel suo maestro Leo, come risulta dal mirabile schizzo biografico che ne fece alcuni anni fa7; nonché l’impegno morale (per noi oggi certo troppo idealizzato) che aveva assorbito dal suo maestro Wilamowitz. Di quest’ultimo proprio a Roma aveva detto, nella conferenza su di lui: Wilamowitz pensò sempre, e disse spesso, che era in primo luogo non uno studioso, ma un insegnante. Nella lunga e gloriosa storia dell’insegnamento universitario in Germania non ci può esser stato nessun altro a prendere più sul serio di Wilamowitz i compiti di un professore universitario e a rispondere ad essi con un entusiasmo più grande. Diede alla sua missione tutto il suo intelletto e tutto il suo cuore.
«Il suo bisogno di fondo – ha scritto Momigliano di Fraenkel (p. 56 = 1029) – era trasmettere quanto aveva ricevuto. Voleva essere niente più che un anello della trasmissione. È stato un grande maestro perché era stato un devoto allie-
|| 7 Nella Einleitung a Fr. Leo, Ausgewählte Kleine Schriften, Roma 1960, i, spec. xli–xliii.
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vo». Atteggiamento, questo del lampada tradere, anch’esso quanto mai umanistico, e per di più vissuto con una emotività eccezionale. Prima della seduta iniziale di uno dei suoi seminari, in cui si sarebbe trovato di fronte a dei ‘paleo’ che conosceva bene e a dei ‘neo’ che non conosceva ancora, arrivò ad infuriarsi a morte con uno di noi che gli aveva maldestramente organizzato a sua insaputa un incontro alle 16 con due giovani vecchi amici che amava moltissimo: non sopportava il sovrapporsi di due emozioni per lui così forti. La sorte benigna volle che i due amici calcolassero, sbagliando, il quarto d’ora accademico (cominciava sine tempore, come si è detto) e che non fossero presenti, alle 16 in punto, al suo ingresso in aula, trovando così, pochi minuti dopo, la porta chiusa. Sic nos servavit Apollo, anche questa volta; e ai due amici riservò altrove e in altro momento ben altra festosa accoglienza. Direi che alla luce di questa passione didattica, sentita come una missione, va visto anche il suo antitecnicismo, o meglio il suo tecnicismo ridotto al minimo. Il suo barese Pindaro senza lacrime voleva essere un ‘Pindaro senza le complicatezze tecniche della metrica’, che gli avrebbero alienato – così pensava – la partecipazione o anche solo l’attenzione degli ascoltatori, nella cui condizione di principianti si sentiva impegnato ad immedesimarsi (v. Bari II, p. 78, n.; ad Pind. P. 1.4, 15–20 e 16; P. 11.28; v. anche Bari I, p. 673; ad Ter. Eun. 7–8). Una preoccupazione di ordine didattico, quindi: quanto del resto tenesse alla metrica come elemento del quadro da rivivere abbiamo visto sopra. E anche le discussioni di critica testuale erano di esemplare elementarità e chiarezza. Fraenkel era stato certamente influenzato dall’empirismo inglese, nel suo lungo soggiorno di ben trentasei anni in Inghilterra; ma più certamente ancora agiva su di lui il fascino della volgarizzazione wilamowitziana, come l’aveva vissuta lui da studente liceale nelle lezioni ‘popolari’ che il suo futuro maestro teneva due volte la settimana alle sette di sera di fronte ad un pubblico quanto mai vario. «L’arco di quelle lezioni – disse Fraenkel sempre nella sua conferenza – ricopriva l’intero mondo antico». Nella sua ansia di volgarizzazione, Fraenkel andava incontro – ovviamente senza saperlo, perché partiva da premesse opposte – ad una delle esigenze, ancora nebulose e oscure, che si facevano strada nella ‘contestazione’, che anche Roma in quegli anni andava vivendo, sia pure con un certo ritardo di avvìo rispetto al resto del mondo e d’Italia. Il suo insegnamento, se colla contestazione si fosse scontrato direttamente, sarebbe apparso troppo ‘paternalistico’: ma almeno non era né esoterico né dogmatico. Che cosa abbia significato politicamente il ‘68 non è ancora chiaro: ma chiaro è che è stato un duro colpo e alla vecchia accademia e alla didattica tradizionale dei nostri studi. Ora, come ha reagito Fraenkel e come abbiamo reagito noi alla sua reazione? Come vedeva se
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stesso e il suo operare nel contesto politico e accademico italiano? Politicamente è stato giudicato un «ingenuo» (Williams, 440), che era spesso guidato da istintivi personalismi. Per chi subiva le manchevolezze e incongruenze del nostro sistema universitario aveva comprensione e solidarietà, e quelle manchevolezze e incongruenze destavano in lui reazioni alle volte stizzose: odiava il clima psicologico di clientelismo, era insofferente di fronte a difficoltà concrete, come mancanza di libri, chiusura di biblioteche etc. «Io non sono carnivoro, come molti professori italiani», diceva (carnivoro veramente sapeva essere anche lui, sia pure per ragioni non accademiche!). Ma, quanto a fatti politici veri e propri, noi sapevamo che, di fronte per esempio ad una occupazione dell’Università, non avrebbe assolutamente capito l’esigenza di far saltare un seminario che era pubblico e che come tale era legato alle sorti politiche dell’Università stessa: il fatto didattico era per lui un valore di gran lunga superiore. Si era formato in un mondo diverso, e il diritto a non capire gli andava pienamente riconosciuto. Ci preparammo così in uno stato di autentica trepidazione al seminario sul Filottete, annunciato per il maggio 1968. I valori in conflitto erano per noi almeno tre. Uno era il fattore eminentemente politico: a parte la maggiore o minore identificazione con situazioni concrete che in ciascuno di noi poteva operare, c’era pur sempre l’oggettività di quelle situazioni, oggettività che andava rispettata. Poi c’era il rispetto per lui, che sarebbe rimasto più che deluso da un sia pur piccolo incidente che toccasse l’integrità della sua prestazione didattica. E infine c’era il nostro interesse di studiosi, che nella dialettica dei fatti indubbiamente entrava e che sarebbe rimasto gravemente danneggiato se le sedute di seminario fossero saltate. Una sola volta, in occasione dell’ultima seduta di quel seminario, ci trovammo di fronte ai cancelli chiusi. Che fare? Il vecchio scalpitava. Trovammo una scappatoia. Fraenkel ci considerava veramente tutti amici e ormai, alla nona ed ultima seduta, in un unico corpus di amici si erano fusi ‘paleo’ e ‘neo’: e con questa giustificazione (che confinava colla riserva mentale, tanto da tenere in crisi almeno alcuni), andammo a tener la seduta, quell’unica volta, nella casa di uno di noi[*]. La cosa gli piacque tanto, e tanto minacciose erano le voci che gli arrivavano sulla nostra situazione nell’inverno 1968–69, che le sue lettere di quell’inverno erano piene di richieste in tal senso: εἰ γὰρ αἱ τοιαίδε πράξεις τίμιαι, τί δεῖ με χορεύειν; [Soph. O.R. 895 s.], scriveva, riferendosi alla possibilità di un’altra occupazione. Non riuscivamo a convincerlo, naturalmente; e i nostri patemi d’animo si fecero ancora più forti. Non potevamo a cuor leggero ferirlo così terribilmente; e anche noi saremmo rimasti depauperati di qualcosa a cui tenevamo. Ancora una volta ci salvò un dio, certo più forte di Apollo e di tutti gli || [* Scevola Mariotti. – G. C.]
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Olimpî (fu un caso che il seminario di quell’anno fosse sugli Uccelli?): ogni volta che arrivavamo in Facoltà eravamo pronti ad affrontare la nostra crisi, ma i cancelli li trovammo aperti ogni volta. *** Ma anche la passione didattica di Fraenkel non si capisce appieno se non la si vede nel quadro della sua vorace affettività, che colla passione didattica si ‘contaminava’ intimamente. Anche su questo è stato scritto abbastanza: noi non possiamo che confermare, ma non ci saremmo resi conto del grado a cui il suo attaccamento affettivo poteva arrivare se non l’avessimo sperimentato di persona. Con queste parole concludeva la sua conferenza sui suoi ricordi romani e non romani (1968), che faceva seguito al seminario sul Filottete: Di tutti i miei ricordi romani il più caro, il più sereno, il più incoraggiante è stato il seminario delle ultime settimane nell’Istituto di Filologia classica dell’Università di Roma. I ragazzi e le ragazze di questo seminario hanno collaborato con grande intelligenza ed entusiasmo dionisiaco, un entusiasmo degno del nostro Sofocle. Ho imparato da loro cose indimenticabili. Quasi quasi mi sentivo un Orazio redivivo: virginibus puerisque canto. Grazie a voi, carissimi giovani amici, dalla profondità del mio cuore.
La sua affettività era filtrata solo dall’intelligenza, o meglio dalla sensibilità umana: non sopportava gli insensibili non solo fra gli studiosi, ma anche fra i non addetti ai lavori, che peraltro avvicinava sempre con interesse e con curiosità giovanile. Scevola Mariotti ha raccontato che leggeva Dante ai ragazzi dell’Istituto d’Arte di Urbino; «non importa sapere, ma capire», diceva (Italo Mariotti, 219 = 692). Era diventato amico del gestore della trattoria di Campo Marzio dove andava abitualmente, vicino all’albergo: era entusiasta di tutta la famiglia e fu fiero di essere stato invitato alle nozze della figlia. Il suo carattere, non privo di durezze, negli ultimi anni si era ammorbidito (Lloyd–Jones; Williams, 439); e per di più in Italia, che amava tanto anche per ragioni ‘umanistiche’, si sentiva un altro, trovava una umanità congeniale al suo bisogno di contatto (Williams, 441). Il suo interesse per la cultura italiana moderna era senza dubbio anche conseguenza di questo bisogno di rispondere nel modo per lui più completo alla sua esigenza di contatto. Non era infrequente che arrivasse a Roma pronto a discutere dell’ultimo romanzo di Sciascia o di Volponi, che aveva appena letto ad Oxford; e nelle nostre case scrutava, più che lo scaffale classico – dove era impossibile che trovasse qualcosa che già non conosceva –, lo scaffale della narrativa moderna: si faceva prestare libri su cui, dopo averli subito letti nei giorni successivi, riferiva le sue impressioni. Il suo senso della storia, e nel nostro caso della storia italiana in ogni suo aspetto, era
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«non astratto o analitico, ma emotivo» (Williams, 441). A questo proposito un bell’episodio. Dopo una delle sedute, si scendeva dalla scalinata esterna della Facoltà, illuminata in pieno dal sole del tramonto di maggio. Sdraiati sugli scalini c’erano molti studenti, ragazzi e ragazze, vestiti tutti in modo variopinto, tanto da creare dei contrasti pittorici di colore sul bianco della scalinata. «La Scuola di Roma!», disse Fraenkel guardando in giro con simpatia, colla tipica malizia di quando voleva intenzionalmente sottolineare un’allusione; e noi impiegammo qualche istante per renderci conto che alludeva alla raffaellesca «Scuola d’Atene» delle Stanze del Vaticano. Criticava aspramente, coi tipici gesti della mano e del capo e con parole alle volte dure, solo chi, fra i più e i meno giovani, veramente stimava ed amava; gli altri semplicemente li ignorava. Anche a Roma abbiamo avuto l’esperienza della sua generosità nei confronti degli studenti (Lloyd–Jones; Williams, 441 ss.): si preoccupava delle prospettive future, discuteva anche di concreti problemi finanziari. Alle ragazze del seminario, specie ad alcune, si legava con un’affettività allo stesso tempo intensa e riguardosa. Per una delle cene – che si protraevano fino a tarda notte; e in una gita a Sacrofano si stette a tavola dalle 13 alle 18 – si profilava l’assenza di una delle amate ragazze[*]. Uno di noi scommise, contro il suo ‘pessimismo’, che la ragazza sarebbe venuta, e vinse. Il vincitore ricevette da Oxford il dono scommesso, colla dedica «Colui che perde si riman contento», un omaggio al suo Dante[**]. Fu l’affetto per i suoi più giovani amici italiani che lo portò ad accettare quello che aveva sempre insistentemente rifiutato, una Miscellanea in suo onore. Al compimento del suo ottantesimo anno gli mandammo un volume stampato privatamente in poche copie con contributi di quattordici di noi8. Non l’avevamo avvertito in anticipo ed eravamo incerti di come l’avrebbe presa. Ci rispose con una lettera circolare (Oxford, 19.11.1968), della quale cerco di rendere qui in italiano le vibrazioni affettive:
|| [* Mariangela Bellu o Maria Grazia Cenci, secondo quanto mi precisa Silvia Rizzo. – G. C.] [** A scomettere fu lo stesso Rossi, che poi ricevette in dono da Oxford un libro di Goethe (devo queste notizie a Giovanna Gorgosalice). – G. C.] 8 Omaggio a Eduard Fraenkel per i suoi ottant’anni. Contributi di allievi dei suoi seminari di Pisa, Bari e Roma, Roma 1968 (edizione fuori commercio in 100 copie numerate da 1 a 100; ne furono inviate copie a varie biblioteche italiane e straniere; gli articoli furono poi tutti pubblicati anche altrove, per espresso desiderio di Fraenkel). I contributi erano di: Luciano Canfora, Antonio Carlini, Guglielmo Cavallo, Antonio Dell’Era, Vincenzo Di Benedetto, Paolo Fedeli, Gennaro Lopez, Claudio Moreschini, Carlo Odo Pavese, Oronzo Pecere, Cesare Questa, Renata Roncali, Luigi Enrico Rossi, Vincenzo Tandoi.
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Cari amici, cari allievi (?), la vostra Festschrift non ufficiale, arrivata ieri, mi ha profondamente commosso e nello stesso tempo mi ha spaventato. Avrei voluto che vi foste effettivamente attenuti a quanto avevo così spesso con insistenza dichiarato, che cioè io non desidero alcuna Festschrift in qualsiasi forma. Ora, nel pieno di una intensa attività di insegnamento e di consulenza scientifica, come potrò anche solo pensare di leggere (com’esso merita) ciascuno dei vostri contributi e poi ringraziare personalmente ciascuno di voi? Così dovete frattanto accontentarvi di questo misero surrogato. Spero molto che mi sia presto possibile riparare a quanto non faccio oggi. Tuttavia il debito di gratitudine pesa fortemente su di me. Ma questa preoccupazione è superata largamente dalla gioia per i vostri sentimenti verso di me e per la paziente fatica con cui li avete portati ad espressione. Lasciate che vi assicuri, ex animi mei sententia, che i partecipanti dei miei seminari pisani, baresi e romani mi stanno nel cuore esattamente come i più cari dei miei allievi oxoniensi. E speriamo in ulteriori occasioni di buon συμφιλολογεῖν. σὺν ϑεῶι δ᾽ εἰρήσϑω. Con gratitudine e affetto il vostro molto vecchio amico Eduard Fraenkel.9
Sia ai più sia ai meno giovani fra i suoi amici dava consigli, che erano alle volte dei veri e propri ordini, e questo sia per questioni di lavoro sia per questioni di vita in generale. Se ci siamo trovati qualche volta a eludere le sue affettuose prepotenze, non abbiamo mai rifiutato – e siamo sicuri che se ne è reso
|| 9 Corpus Christi College, Oxford 19. November 1968 Liebe Freunde, liebe Schüler (?), Eure gestern gekommene inoffizielle Festschrift hat mich tief gerührt und zugleich sehr erschreckt. Ich wünschte, Ihr hättet Euch an meine so oft nachdrücklich gegebene Erklärung, dass ich keine Festschrift in irgend einer Form wünsche, auch wirklich gehalten. Wie soll ich jetzt, inmitten einer übervollen Lehr– und Beratungstätigkeit auch nur daran denken jeden Eurer Beiträge so zu lesen wie er es verdient und dann jedem von Euch persönlich zu danken? So müsst Ihr Euch einstweilen mit diesem schäbigen Ersatz begnügen. Ich hoffe sehr dass es mir bald möglich sein wird das jetzt Versäumte nachzuholen. Aber die Dankesschuld lastet schwer auf mir. Aber dieser Kummer wird mächtig übertönt durch die Freude über Eure Gesinnung und die geduldige Arbeit, mit der Ihr sie zum Ausdruck gebracht habt. Lasst Euch versichern, ex animi mei sententia, dass die Mitglieder meiner Pisaner, Bareser und Römischen Seminare meinem Herzen genau so nahe stehen wie die liebsten meiner Oxforder Schüler. Und lasst uns auf weiteres gutes συμφιλολογεῖν hoffen. σὺν ϑεῶι δ᾽ εἰρήσϑω. In Dankbarkeit und Liebe Euer sehr alter Freund Eduard Fraenkel.
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conto – la sua prepotente affettività. A illustrare questa complessa e ricca affettività nel quadro del suo complesso carattere le parole più belle le ha trovate Colin Macleod (p. 210): «Nei suoi attaccamenti più forti accoppiava un sentire intenso con pazienza e comprensione profonde; se qualche volta poteva apparire possessivo o autoritario, era perché non proteggeva mai se stesso e le sue emozioni. Aveva il coraggio di cercare il contatto cogli altri e di cercare appoggio in loro; e da qui derivava il più delle sue debolezze di superficie e della sua forza di fondo». Un debito affettivo, come quello che in diversa misura tutti noi abbiamo contratto con Fraenkel, non si ripaga: si riconosce. *** La redazione dell’Aiace, realizzata nel 1970, si deve ad Albio Cesare Cassio, Marina Passalacqua e Silvia Rizzo, sulla base anche degli appunti di Maurizio Paparozzi; in un soggiorno ad Oxford, coadiuvato da Colin Macleod, Cassio ha operato dei controlli sui libri e sulle carte di Fraenkel; io mi sono limitato ad una revisione sulla base dei miei appunti. La redazione del Filottete, realizzata nel 1968–69, si deve invece a Daniela Alecu, Albio Cesare Cassio, Maria Grazia Cenci, Donatella Fogazza, Paola Negri, Marco Palma, Marina Passalacqua, Carlo Passarella, Silvia Rizzo, Gaetano Santangelo, Ennio Troili e a me stesso. Gli indici sono stati redatti da Cassio e da me. Fra i partecipanti, oltre ai redattori, vanno ricordati anche Vincenza Celluprica ed Enrico Livrea, che sono intervenuti nelle discussioni. Alcuni avevano letto la redazione del Filottete, ed è giusto menzionare qui i più attenti ed utili di questi lettori, Meinrad Scheller e Sebastiano Timpanaro. Colin Macleod ha rivisto tutti e due i seminari in redazione definitiva. Per i controlli finali e per la correzione delle bozze siamo stati aiutati da Giovanna Caggìa, Roberto Pretagostini e Massimo Vetta. A tutti questi amici il nostro caloroso grazie. Alle Edizioni di Storia e Letteratura un grazie speciale non solo per essersi offerte di pubblicare questo libro, ma anche per la sollecitudine con cui ne hanno seguito la realizzazione. La redazione di queste pagine introduttive è anch’essa un fatto corale: sono state lette e migliorate in manoscritto da più d’un amico di Fraenkel e molti episodi e molte atmosfere mi sono state ricordate o comunicate dagli altri partecipanti.
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Appendice Commemorazioni di Eduard Fraenkel C. Becker, Eduard Fraenkel (17.3.1888–5.2.1970), «Jahrb. d. Bayer. Akad. d. Wiss.» 1970, pp. 1–10 dell’estr. W. Bühler, Bedeutender Plautus–Forscher –Lehrer aus Passion, «Die Welt» 10.2.1970. J. Delz, Zum Tode eines grossen Philologen, «Basler Nachrichten» 9.3.1970. W.–H. Friedrich, Eduard Fraenkel (17. März 1888–5. Februar 1970), «Jahrb. d. Akad. d. Wiss. in Göttingen» 1970, 65–70. H. Haffter, Eduard Fraenkel zum Gedenken, «Neue Zürcher Zeitung» 12.3.1970. A. La Penna, Eduard Fraenkel tedesco e latino, in Katà leptòn [VII], «Rassegna pugliese» 6, 1971, p. 18 s. dell’estr. H. Lloyd–Jones, Prof. E. Fraenkel, “The Times” 11.2.19701. H. Lloyd–Jones, Eduard Fraenkel, “Gnomon” 43, 1971, 634–40. C. W. Macleod, Eduard David Mortier Fraenkel, “Oxford Magazine” 13.3.19701. I. Mariotti, Ricordo di Eduard Fraenkel, «Atti dell’Acc. d. Scienze dell’Ist. di Bologna», Classe di Scienze Morali 58, 1969–70, 216–20. I. Mariotti, Per Eduard Fraenkel, «Belfagor» 25, 1970, 690–4. Sc. Mariotti, Ricordo di Fraenkel, «La Nazione» 25.3.1970. A. Momigliano, Eduard Fraenkel, «Encounter», Febr. 1971, 55 s. = Quinto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1975, II, 1026–9. [R. G. M. Nisbet], Prof. E. Fraenkel. Great Classical Scholar (Obituary), “The Times” 6.2.19701. M. Puelma, Prof. Dr. Eduard Fraenkel (Oxford). Dr. h.c. Freiburg 1965, «Informations de l’Université de Fribourg–Suisse», Communications («Informationen der Universität Freiburg– Schweiz», Mitteilungen) 1969–70, Nr. 12, 15 juin, 19–22. S. Rizzo, Ricordo di Eduard Fraenkel, «Rassegna di cultura e vita scolastica» 24, n. 4–5, aprile–maggio 1970, 13 s. S. Timpanaro, Ricordo di Eduard Fraenkel, «Atene e Roma» 15, 1970, 89–103. G. Williams, Eduard Fraenkel (1888–1970), “Proceedings of the British Academy” 56, 1972, 415–42. Va ricordato che al Bibliotecario di Corpus Christi College, Oxford ci si può rivolgere per il “Calendar of the Papers of Eduard Fraenkel, deposited in the Library of Corpus Christi College, Oxford” (collocazione dei mss.: MS CCC DLI). La lista contiene note di F. su lezioni di altri, note di F. su esercitazioni da lui svolte, note di altri (Leo, Jachmann etc.), mss. di opere poi pubblicate da F. e appunti inediti, corrispondenza scientifica note per corsi di lezioni etc. Per ulteriori informazioni rivolgersi al Bibliotecario. È stata di recente pubblicata una bibliografia degli scritti di F.: N. Horsfall, Eduard Fraenkel: Bibliography, “Journ. Rom. Stud.” 66, 1976, 200–5.
|| 1 L’Obituary di Nisbet – che, non firmato, è attribuito a lui da Lloyd–Jones, “Gnomon” 43, 1971, 634 –, Lloyd–Jones, “Times” 11.2.1970, Macleod “Oxf. Mag.” 13.3.1970 sono tutti ristampati in “Pelican”, 1. 2, 1970, 31–3.
Grammatica greco–latina e metrica in Italia fra il 1860 e il 1920 Anche per gli studi di lingua e metrica greche e latine bisogna vedere la situazione sia dal punto di vista della ricerca scientifica, inserita nel più generale clima culturale, sia dal punto di vista della didattica scolastica e universitaria e delle relative istituzioni. I vari aspetti sono strettamente intrecciati nell’Italia immediatamente post–unitaria. È il carattere tecnico di queste discipline che pone il problema della loro stretta integrazione cogli studi di letteratura ed eventualmente della loro propedeuticità: in una situazione per molti aspetti pionieristica, è il problema pedagogico–scolastico ad avere spesso l’assoluta preminenza. La prima legge scolastica e universitaria è quella del ministro Gabrio Casati (13.11.1859, n. 3725; testo in I Problemi della Pedagogia 5, 1959, 269–307, un fascic. tutto dedicato alla legge; la „Facoltà di Filosofia e Lettere“ all’art. 51). La legge era stata promulgata inizialmente solo per il Piemonte e la Lombardia e si estese poco dopo a tutto il resto del territorio nazionale. Già un primo squilibrio si veniva a stabilire fra il Piemonte sabaudo e la Lombardia austriaca; ma assai maggior squilibrio si sarebbe sentito, specie a livello di scuola primaria, col resto d’Italia (a: Bertoni Jovine 1965, 141ss., 148ss.) È stato comunque rilevato fin da principio, e spesso in seguito, che la legge si ispirava prevalentemente a principi pedagogici e scolastici di stampo francese (napoleonico): gerarchizzazione eccessiva (criticata anche da M. Bréal, b: Raicich, 258), mancanza di libertà specie dalla parte degli scolari, concentrazione su scopi essenzialmente pratici, come professionalità acquisizione di un grado accademico etc. (già D. Pezzi, Rivista di filologia e di istruzione classica 1, 1872, 15ss., 225ss., 451ss., 587ss.). Ricordiamo gli scritti di Villari e Bonghi (a), sui quali informazione e sintesi sono state fomite da La Penna (a: sulla relazione Bonghi, v. anche a: Namias, 1049–51). Del resto, l’esempio tedesco, e precisamente prussiano, non veniva ignorato (a: Valentini; b: Raicich, 262), anche se ci fu chi pose l’accento sul modello austriaco (a: Foerster, 21). Una relativa autonomia era lasciata, per esempio, alle singole università (art. 55; a: Foerster, 25ss.; M. Rossi, 1–16), an-
|| [Relazione di convegno (Lille S 1.10.1977); pubblicata in M. Bollack – H. Wismann (edd.), Philologie und Hermeneutik im 19. Jahrhundert II / Philologie et herméneutique au 19ème siècle II, [Convegno Lille 30.9.–2.10.1977], édité par M. Bollack, H. Wismann et rédigé par Th. Lindken, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1983, pp. 275–291; precisazioni nelle pp. 294–296]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-013
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che se in questo va vista più l’iniziale accettazione di un dato di fatto oggettivo (frammentazione politica, che portava ad una situazione quanto mai variata in fatto di ordinamenti locali) che una precisa impostazione ideologica: prova ne sia la progressiva assimilazione delle singole Università e Istituti superiori ad un modello nazionale unico attraverso una serie di emendamenti e nuove leggi nel corso degli anni successivi (a: Saloni; La Penna, 1740s., pass.). La vivace polemica che seguì per alcuni decenni la promulgazione della legge Casati, e che s’incentrava sulla accettazione o meno del modello tedesco sia sul piano pedagogico sia su quello scientifico, tocca in modo particolare proprio le discipline che stiamo trattando. La linguistica comparativa, e precisamente l’indoeuropeistica, era stata nei decenni precedenti conquista tedesca: questo vale anche per chi vuol farla nascere col danese Rask (1818) invece che col tedesco Bopp (1819) (d: Timpanaro). La vera e propria moda degli studi di linguistica generale negli anni successivi alla metà del secolo (b: Timpanaro 1972, 395) veniva a render tangibile questa influenza tedesca (v. anche b: Terzaghi 1939, 87–90). Ne fanno fede le numerose traduzioni da Max Müller, Heyse, Curtius, Schleicher, Whitney, Baur, Delbrück (b: Timpanaro, ibid.). Ora, la moda va vista da una parte come un ingresso in forze nel campo degli studi di antichità classica del metodo positivistico delle scienze (d: Timpanaro); ma dall’altra la moda aveva uno spiccato significato ideologico, mirando a contrapporre il metodo ‚scientifico‘ (qualunque esso fosse) al vecchio umanesimo, in Italia praticamente ormai da secoli tutto latino, di stampo controriformistico– gesuitico e reazionario. È utile ricordare qui la polemica che vide a Torino da una parte Tommaso Vallauri, accanito sostenitore dei vecchi metodi, e i propugnatori di un nuovo tipo di scienza e di scuola, che, sempre a Torino, si trovavano uniti nel gruppo iniziatore della Rivista di filologia e di istruzione classica, nata nel 1872 (b: Timpanaro 1972, spec. 399–403). Perfino in Germania la linguistica era vista come un pericolo per la filologia in generale, e da personalità come Theodor Mommsen; mentre altri (Eckstein) vi vedevano più riduttivamente un pericolo per la formazione umanistica; altri infine confondevano il nuovo indirizzo coll’istituto della Realschule o scuola tecnica in quanto volto anch’esso alla stessa opera di ‚demolizione umanistica‘ (b: Raicich, 261s.). Interessante a questo proposito la posizione di Graziadio Isaia Ascoli (1829–1907), il geniale linguista goriziano che fu tra i pochi, insieme col filologo Comparetti (b: Timpanaro 1969, „D. Comparetti“, 493s.), a non sentire alcun complesso di fronte alla scienza tedesca e che si può a buon diritto considerare il fondatore della linguistica scientifica in Italia: secondo lui le due discipline, e i due indirizzi da esse rappresentati, potevano coesistere, con benefico influsso reciproco (b: Timpanaro 1972, 417s.); se mai, c’è da rimproverargli di aver troppo supinamente ac-
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cettato l’indirizzo umanistico–retorico della filologia così come la si praticava ancora in vasti strati della scuola e dell’università italiana (sui rapporti fra filologia e linguistica v. anche b: La Penna, „La Sansoni …“, 94). Come il vecchio umanesimo, che aveva resistito fino alla fine del settecento, potesse trasformarsi in scienza storica era stato mostrato dalle famose pagine programmatiche di Friedrich August Wolf, nate fra il 1783 e il 1790 e pubblicate nel 1807 (d: p. 810), e di August Boeckh (d). Quest’ultimo aveva avuto un influsso enorme, coi suoi corsi distribuiti in più d’un cinquantennio d’insegnamento (1809–1865; d: p. III), e le sue impostazioni erano state e venivano messe in pratica da una schiera di studiosi, fino a sfumare, a cavallo dei due secoli, nella Geistesgeschichte arricchita dall’esperienza positivistica (Wilamowitz e il suo seguace italiano Pasquali; b: La Penna, „La Sansoni …“, 95, 107s., cf. 105). Fino al 1900 circa, comunque, in questo campo il merito principale va al filologo Girolamo Vitelli (b: La Penna, ibid.), anche se la sua fu una impostazione rigidamente di ‚filologia formale‘ (b: Vitelli). Se d’altra parte si vuole un altro esempio di coesistenza, e precisamente del vecchio umanesimo e dell’incipiente metodo storico, basta risalire alle pagine calde e commosse dell’archegeta della filologia storicistica, a Wolf e alla sua Darstellung (d). Queste tensioni culturali e ideologiche, a cui abbiamo dedicato solo un breve cenno e che meriterebbero ben più ampio discorso, trovavano il loro drammatico campo di scontro politico nella scuola e nell’università, che venivano spesso a porsi come poli di un’antitesi apparentemente inconciliabile. Per illustrare una situazione di crisi, che trova più d’una analogia nel momento attuale, molto efficaci sono le parole di Luigi Ceci (a: 147–63 sulla Facoltà di Lettere; v. spec. 150, 157, 160), che, proprio a proposito degli studi classici, rifiuta il secondo umanesimo tedesco ed è per una scienza dell’antichità alla Wolf–Boeckh– Müller–Welcker: „Il dilemma è netto. La Filologia come scienza applicata è Umanesimo (scuola media); la Filologia come scienza pura (Università) = fondamentalmente Non–umanesimo“. Queste parole venivano scritte nel 1914. Nell’università, quindi, positivismo o aridità antipedagogica, tradurremmo noi, sia pure con parole approssimative. Il bisogno di un pur temperato umanesimo nel campo della scuola, ma anche degli studi, è stato affermato anche di recente da parte di filologi ognuno a lor modo in crisi come Reinhardt e Pfeiffer (d: Rossi 1975; 1976). Nel campo degli studi qui trattato il più grande problema dell’Italia unita era la reimmissione dello studio della lingua greca a livello sia scolastico sia universitario. Fu questa l’audace innovazione della legge Casati (b: Terzaghi 1939, p. 87; Raicich, 263, 537; Timpanaro 1972, 402). In Italia il greco aveva taciuto per quasi trecento anni, per tutti i secoli XVII e XVIII e per la prima metà
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del XIX (b: Curione; Timpanaro 1972, 396ss., 402s.). Già fra il 1514 e il 1539 le cattedre di greco a Roma erano state ridotte da tre a una (b: Curione, 23), e le date sono significative per l’immediata reazione controriformistica; il greco sopravviveva presso i Gesuiti, ma stentatamente, finalizzato com’era alla lettura dei Padri della Chiesa (44ss.); fra il sec. XVI e il XVII le soppressioni di cattedre si susseguono (55ss.): Torino, Napoli, Bologna, Roma; a Padova il greco viene assorbito dalla cattedra di eloquenza e un po’ vitali restano solo Firenze e Pisa; fra la fine del sec. XVII e il principio del XVIII privati e principi istituiscono cattedre qua e là (71 ss.); alla fine del sec. XVIII Napoli, Firenze e Venezia sono in netta ripresa (120ss.). Non è un quadro consolante, e se ne vedono i riflessi nell’attività editoriale e scientifica in generale; e d’altra parte non è questo il luogo di mettere in rilievo personalità eccezionali ed isolate, operanti al di fuori di un contesto generale. L’ideologia pedagogica dei Gesuiti, che tanta parte avevano avuto nell’insegnamento specie in Italia, era quella di preparare la classe dirigente, e il greco doveva continuare a restar fuori. Non che dal punto di vista sociale la legge Casati, specie a livello universitario, si proponesse in concreto scopi più ampi (a: Saloni), considerata anche la disastrosa situazione culturale dell’Italia appena nata: la formazione classica restava un fatto elitario e le scuole tecniche erano una specie di limbo per le classi inferiori. Ma fu comunque un atto di coraggio imporre il greco nella formazione della classe dirigente, con tutta la forza di rottura ideologica che questo comportava e che risulta da quanto abbiamo esposto qui sopra. Le polemiche contro il greco non mancarono anche nei primi tempi e anche da parte di personalità di rilievo. Ovvie le dure reazioni dell’ambiente confessionale, il cui portavoce in questo campo era la gesuitica „Civiltà Cattolica“ (b: Raicich, 264–6). Ma nel questionario dell’inchiesta Scialoia, che è del 1872, già si chiedeva se conservare o no il greco. Le scuole confessionali, prive per di più com’erano di maestri capaci, si dichiararono apertamente contro; Michele Amari era per una limitazione al liceo; favorevoli in pieno erano invece l’ambiente torinese della Rivista, Ascoli, D’Ovidio, Villari, quelli che venivano definiti i ‚germanofili‘ (b: Raicich, 537–41). Nel 1888 le ore settimanali di greco al liceo vennero ridotte da venti a quindici col R.D. 24.10.1888 ed Enrico Cocchia (b: 1888) espresse sulle pagine della Rivista le sue preoccupazioni (dichiarando un suo ingenuo ottimismo sociale – p. 393s. –, pur temperato nel contesto – p. 399; ed ugualmente ottimista si mostrava sulla virtù formativa dello studio delle lingue antiche – p. 400ss.). Ma la legge Casati e il programma Coppino del 1867 (b: Raicich, 263s.) ebbero la meglio, anche per la strenua difesa del gruppo torinese della Rivista, inizialmente diretta da Domenico Pezzi e da Giuseppe Müller (b: Timpanaro 1972). I primi numeri della Rivista sono pieni di interventi sui
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risultati dell’inchiesta Scialoia del 1872: le voci più forti che si levarono in difesa dei nuovi metodi furono quelle di Pezzi stesso (b) e di L. Jeep (b). Quanto i nuovi metodi fossero legati proprio alle sorti del greco è detto chiaramente nel coerente ed appassionato Discorso preliminare, scritto nel 1871, che Giuseppe Müller premise alla traduzione degli esercizi greci di Schenkl (b: Müller 1872). Il metodo comparativo veniva da lui propagandato come l’unico veramente scientifico (p. XXIXs.), anche se una saggia prudenza didattica lo spingeva ad esortare il buon insegnante a non abusarne (p. XXX n.): e, presentandosi gli studi di linguistica greca in Germania come i più aggiornati in questo campo, lo spezzare una lancia per la linguistica comparativa era nello stesso tempo un combattere a favore dell’insegnamento del greco. L’ideale era, ovviamente, aristocratico: il greco doveva servire ad esercitare „le facoltà intellettuali“ e a promuovere „l’ educazione della parte più eletta della gioventù delle moderne nazioni civili“ (p. III, VII, X). La traduzione in greco doveva servire ad apprendere meglio la lingua (p. IV–VI) e veniva finalizzata alla lettura dei testi (p. IX), anzi di molti testi (p. XXXI). Affermò anche, sulla base del modello tedesco, la necessità di concentrare sullo studio dell’antichità classica lo studente interessato ad essa (p. XLIIIs.; a: Pasquali–Calamandrei, 65–76). E anticipò di quattro anni, colla sua proposta, la realizzazione compiuta da Ascoli, di cui parleremo fra poco, di un insegnamento linguistico a parte del greco e del latino (Müller, ibid.). Come si vede, funzione dominante fu svolta allora proprio da Torino, non solo sede della Rivista, ma anche fornita di tipografie all’altezza dei nuovi compiti, come quella tipografia Bona a cui da allora a tutt’oggi si è affidata la casa editrice di Hermann Loescher, pronipote di B.G. Teubner (b: Timpanaro, 1972, 388s.): fu Loescher a pubblicare il maggior numero di libri sia scientifici sia scolastici. Non è questo il luogo di seguire le vicende legislative dell’università e della scuola in Italia nel periodo sotto esame. Ne ha scritto esaurientemente La Penna (a) e da lui possiamo riprendere la valutazione negativa della circolare del ministro Matteucci del 14.9.1862 (La Penna, 1750), che fissava minutamente i piani di studio e gli esami, allontanando definitivamente l’università italiana almeno sul piano delle istituzioni da quella tedesca, dove vigeva e vige ancora „la separazione fra insegnamento ed esame“ (1747), che dà ben maggiore responsabilità formativa allo studente singolo ed un maggior peso alla ricerca scientifica originale (d: Jäger, 152ss.). La legge Gentile del 1923 (R.D. 30.9.1923 n. 2102), che è il limite superiore del nostro periodo, nata in clima idealistico, aveva degli aspetti positivi sempre nel quadro di una formazione elitaria, nell’intenzione di qualificare l’università come sede della ricerca scientifica: essa favoriva, alla tedesca,
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un rapporto più libero fra docenti e studenti (a: Pasquali–Calamandrei, 65–76; Pasquali, 7–73; Di Domizio, 223ss.; La Penna, 1749). Ma anche qui tali aspetti positivi furono obliterati dalla legge De Vecchi del 1935, che stabiliva la rigida distinzione fra materie fondamentali e complementari, distinzione che in parte dura fino ad oggi e in parte è stata corretta dalla confusa liberalizzazione dei piani di studio in vigore oggi da alcuni anni. Quello che colpisce è la precoce rigida titolarità dell’insegnamento linguistico del greco e del latino. Una ricerca esauriente nel campo della denominazione delle cattedre sarebbe interessante, ma da noi è resa difficile dal non ancora realizzato coordinamento dei materiali (annuari ed archivi delle singole facoltà, Archivio generale dello Stato etc.; rarissime sono le notizie in tal senso nelle opere generali sull’università (a); solo in alcune opere su università singole (c) esse sono parzialmente reperibili). Qualche dato, comunque, è possibile fornire. In principio la cattedra milanese di Ascoli si chiamò „Grammatica comparata e di lingue orientali“ (l’ebraico!) e poi, su richiesta di lui al ministro, verso il 1875 cambiò, e per la prima volta, in Storia comparata delle lingue classiche e neolatine (b: Bolelli 1962; Tagliavini, I, 354s.), a Firenze Vitelli tenne Grammatica greco–latina fino al 1894 (b: Terzaghi, Festa, 1422); l’insegnamento passò in seguito ai suoi allievi Nicola Festa ed Ermenegildo Pistelli (b: Terzaghi 1966, 19); Luigi Ceci (1859–1927) insegnò a Roma prima Grammatica indo– greco–italica fra il 1893 e il 1901 e passò poi a Storia comparata delle lingue classiche dal 1901 fino alla morte (G. Devoto, Enciclop. Ital., IX, 1931, s.v.); Emilio Teza (1831–1912) insegnò Storia comparata delle lingue classiche a Padova dal 1889 alla fine (b: Tagliavini, I, 354). Questa partenogenesi gemellare delle due lingue classiche dal corpo del materiale linguistico arioeuropeo può far meraviglia, oggi che alla unità delle due lingue non si crede più: ma la parentela era stata sostenuta nella seconda metà del secolo da G. Curtius, Th. Mommsen, A. Schleicher (b: Tagliavini, I, 477). Se mai, si poteva pensare a una parentela del latino col celtico, affermata proprio in quegli anni, ma anche questa ipotesi di parentela originaria è oggi scartata (b: Tagliavini, I, 439s.). L’unità greco–latina è un fatto di cultura più tardo, che non ha niente a che fare colla parentela originaria delle lingue. Ma la partenogenesi aveva due fondamentali ragioni: da una parte si esitava ad intaccare l’unità umanistica di mondo greco e mondo latino fosse pure in nome di un ideale linguistico–scientifico, tanto più che c’era un ‚umanesimo tutto latino‘ da debellare; e del resto la tradizione in questo senso era illustre e già antica, avendo avuto già un difensore pre–linguistico in Wolf (d: 814; cf. Boeckh, 39). Ma d’altra parte si aveva in vista un vantaggio didattico, essendo il greco e il latino le sole due lingue arioeuropee che rientravano normalmente nel corso di studi
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in lettere classiche. Ettore Stampini (Riv. di filol. 10, 1882, 77) criticò l’accoppiamento, ma solo a sua volta per ragioni pratiche (un anno solo di corso era poco per la massa di nozioni da acquisire) e propose di scindere in due insegnamenti (83). Pasquali parlando nel 1923 di Storia comparata delle lingue classiche, disse, più giustamente, che era „una cattedra nata male“ (a: Pasquali–Calamandrei, 231s.) sia pure riduttivamente per aporie concorsuali; e più tardi, nel 1949, affermò che „una cattedra di storia comparata del greco e del latino è, in sede scientifica, un’assurdità, ma in sede scolastica, o, per parlar più chiaro, per noi ignorantissimi filologi classici, è una necessità“; e si richiamava all’esempio di Wackernagel, di cui era stato allievo, e di cui negli anni ‘20 erano uscite le Lezioni di sintassi incentrate su greco, latino e tedesco (a: Pasquali, 114). Nè si può dimenticare il Traité di Meillet–Vendryes (11924, 21948), sul quale si sono formate generazioni di studiosi. Ma restava, e resta ancora, l’equivoco della destinazione di tali cattedre: mentre infatti in Germania la trattazione propriamente linguistica era ed è riservata agli insegnamenti di linguistica, e la trattazione più o meno riduttivamente normativa era ed è riservata a corsi speciali di esercitazioni o seminari nell’ambito dell’insegnamento delle letterature, in Italia si è sempre giocato sull’equivoco fra le due impostazioni. Nessun dubbio su come insegnasse Ascoli; ma sarebbe interessante trovare testimonianze sui metodi e i modi di comunicare materiali e problemi impiegati da altri docenti. Sul piano dell’attività scientifica non c’è molto da dire. Dal panorama degli studi di greco e di latino dobbiamo lasciar fuori la figura, altrimenti centrale, di Ascoli (b: Bolelli 1962; Timpanaro 21969, 284–357; 1969 Ascoli), che diresse i suoi interessi prevalentemente a problemi di linguistica generale, di semitistica, di dialettologia italiana; come del resto fecero la maggioranza dei linguisti italiani del tempo, che curarono molto la linguistica romanza e la dialettologia italiana (B. Biondelli, E. Teza, G. Flechia, Fr. D’Ovidio, C. Salvioni, C. Merlo, E.G. Parodi, G. Bertoni, M. Bartoli etc). Chi in Italia nel nostro periodo si occupò di greco e di latino fu pressoché totalmente soggetto all’influenza tedesca, ma fu estraneo, o scarsamente interessato, ai grandi problemi che agitavano il mondo dei linguisti: monogenesi o poligenesi delle lingue (b: Timpanaro 11969, cit.; d: Timpanaro 1972), classificazione genealogica o tipologica (d: Morpurgo Davies), il sorgere della scuola neogrammatica a Lipsia (Leskien, Brugmann, Osthoff, Delbrück, Paul etc.) e le polemiche contro di essa (b: Tagliavini, I, 164ss.; Timpanaro 1969, Ascoli). Si trattò di opera di diligente divulgazione, sia che si proponessero traduzioni dal tedesco sia che si presentassero opere sia pur tenuemente originali. Meritorio fu il gruppo torinese della Rivista. Domenico Pezzi (1844–1905), che insegnò a Torino, tradusse, di A. Schleicher, il Compendio di grammatica comparativa e, di Leo Meyer, il Lessico delle radici indo–italo–greche (e: ambedue
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Torino 1869); studiò il dialetto dell’Elide (Torino 1881) e diede qualche contributo nella Rivista; offrì due manuali suoi, uno di grammatica greca e uno di grammatica latina (e: Torino 1888, 1872). La Rivista conduceva intanto la sua dura battaglia contro i vecchi metodi: si veda quanto scrivevano Pezzi stesso e G. Oliva (1, 1872, 311; 594–600) contro l’uso, ancora resistente, delle vecchie grammatiche di Burnouf (e), ancora in uso in Francia. Giuseppe Müller (1823– 1895; b: Timpanaro 1972, 390s.) tradusse la Grammatica greca di Georg Curtius (e), per l’uso della quale i torinesi si batterono sempre, contro le difficoltà che essa incontrava presso gli insegnanti medi (b: Raicich, 544–548). Il già citato Discorso preliminare di Müller è anche una difesa del Curtius contro i detrattori, che semplicemente non lo sanno usare (b: Müller, p. XXXIIss.); e, per farsi un’idea della situazione, vale la pena leggersi le pagine, bene informate sulla base del recente libro di Blass sulla pronuncia del greco (11870; 31888), con cui Müller difende la pronuncia erasmiana nei confronti di chi ne ignorava le basi scientifiche. Insomma, perfino la pronuncia del greco era allora un problema, sul quale ad essere scientificamente informati erano in pochi (b: Raicich, 544– 47). Anche se qui dobbiamo di necessità limitare l’informazione in fatto di editoria scolastica, si devono ricordare le grammatiche scolastiche, che ebbero grande fortuna, di Vigilio Inama (e) e di Vittorio Puntoni (e): quella di Inama fu la prima grammatica scolastica scritta secondo i dettami di Curtius (b: Raicich, 547s.) ed ebbe sulla Rivista (1, 1872, 76–89) una recensione estremamente favorevole di G. Oliva. Si può anche ricordare il fortunato Dialetto omerico di Oreste Nazari (e), che si ristampa ancora oggi, forse in grazia del piccolo lessico che lo completa, ormai più che superato. Per il latino non ci fu una grammatica che, come il Curtius, soddisfacesse l’esigenza di vera informazione scientifica. Restarono più a lungo in uso gli strumenti tradizionali e di nuovo ci fu la traduzione della grammatica di Schultz (e), i cui limiti venivano chiaramente riconosciuti (b: Raicich, 545–59). Le numerose opere ciceroniane di Giovan Battista Gandino (b: Cocchia 1906; Treves 1958, 457–61; Timpanaro 1972, 416s.), lungamente professore a Bologna (dal 1861 al 1907), si pongono più sul piano della stilistica normativa (Cicerone come modello unico dello scriver latino). Sul piano più propriamente linguistico ricorderemo Luigi Ceci (1859–1927), professore a Roma, coi suoi studi di fonetica latina, e, ai confini dell’epoca qui considerata, Francesco Ribezzo (1875–1952), che si occupò di lingue dell’Italia antica e soprattutto di messapico. Di Enrico Cocchia (1859–1930), che diede qualche contributo, si parlerà a proposito di metrica. Chiudiamo coll’accenno ai contributi dei pavesi Carlo Pascal e M. Lenchantin de Gubernatis, ambedue più nettamente filologi che linguisti.
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Niente di veramente rilevante, e questa situazione cambierà solo dopo il grande ulteriore sviluppo della linguistica non soltanto in Germania, ma, dopo i primi anni del secolo, anche in Francia. La linguistica greca e latina si svilupperà in Italia nei decenni successivi alla prima guerra mondiale, e si svilupperà prevalentemente intorno a problematiche che le saranno peculiari e che le daranno l’avvìo, come la storia, l’epigrafia, il diritto; e per il latino va ricordato l’influsso di ritorno che ha sempre esercitato la linguistica romanza. Il discorso sulla metrica è, sia pure di poco, più confortante. A livello istituzionale non si può dire che un insegnamento e un apprendimento della metrica classica sia andato molto oltre il ruolo ancillare di sussidio alla lettura dei poeti (e dei prosatori, quando si sia trattato di prosa ritmica). A quanto so, un insegnamento a parte è cosa di questi ultimi anni, essendo stato l’insegnamento di metrica incluso negli statuti solo di alcune facoltà e solo molto di recente. Che io sappia, la prima proposta di istituire un insegnamento a parte è quella di Ettore Stampini (b: 75s., 89), che nel 1882 lanciava l’idea di una Storia comparata della metrica classica, ma credo che non abbia avuto seguito per decenni. La figura centrale, attiva agli inizi dell’epoca che consideriamo, è quella del veneziano Francesco Zambaldi (1837–1928), per ben quarantanni professore di Letteratura greca a Roma, Messina e Pisa (b: Mancini 1929). Zambaldi è più di quello che si è voluto far apparire, e cioè un volgarizzatore del manuale di Christ (21879): la sua Metrica greca e latina del 1882 (e) è un modello di chiarezza (qualità che gli viene riconosciuta dal suo commemoratore Mancini) e porta un suo contributo personale al chiarimento di vari e intricati problemi. Se lo si vuole classificare in una delle correnti che hanno tenuto il campo, lo si deve mettere nella corrente musicalizzante, quella cioè che, con un arbitrio che oggi non si considera più lecito, estendeva alla metrica antica, in quanto legata alla musica, le categorie ritmiche della musica moderna. La storia di questa corrente comincia già con Boeckh (1811) e continua soprattutto colla prestigiosa Metrica di Rossbach–Westphal (11854–65; 21867–68; 31885–89), che dominò a lungo in Germania e fuori (b: Rossi, 11–21) e infine collo stesso Christ. Per spiegarci in poche parole, una delle conseguenze teoriche che derivò da tale impostazione fu la cosiddetta dottrina dei logaedi: sequenze realmente o apparentemente dattilo–trocaiche o anapestico–giambiche (i gliconei, per es.) venivano ridotte all’isocronia, alla parità di valore temporale della battuta (inteso questo termine nel senso musicale moderno), in modo che per es. un dattilo valesse ritmicamente (temporalmente) come un trocheo. E invece sappiamo che la musica che accompagnava la poesia antica era, almeno in epoca arcaica e classica, strettamente legata alla parola, di cui seguiva il ritmo, senza uguaglianza di battuta. La nascita e la diffusione della metrica musicalizzante si deve alla stragrande
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importanza che ebbe, fin dal primo romanticismo, la musica in Germania: si volevano leggere i versi antichi colla suggestione mensurale della musica moderna, creando così una forma di umanesimo metrico colla sua Verlebendigung. Anche in questo, dunque, un segno – indiretto negli studi classici – del predominio culturale tedesco. È significativo che a questo indirizzo, di puro stampo romantico, non abbia mai aderito la Francia: il più accanito avversario delle teorie di Rossbach–Westphal e della dottrina dei logaedi fu Henri Weil nei suoi studi distribuiti in tutta la seconda metà del secolo e un suo allievo, Paul Masqueray, pubblicò nel 1899 un trattato di metrica che, nel suo impianto grammaticale–efestioneo, era una reazione implicita alla scuola musicalizzante. In questo l’Italia è stata più supinamente influenzata dalla Germania, e lo fu ancora per decenni (basta ricordare i nomi di Romagnoli, Lenchantin, Del Grande), finché con Pasquali venne assorbita la lezione della grande scuola storica, anch’essa del resto tedesca (Usener, Wilamowitz, Leo, Blass, Schroeder), che ha portato recentemente, nell’insegnamento e nella produzione scientifica, agli spunti metodologici di un Perrotta e alle posizioni coerenti di un Gentili. La relativa fortuna degli studi di metrica in questo periodo si deve anche all’interesse suscitato dalla questione della resa in italiano dei versi latini (b: Elwert, 172–204, 211). Il significato ideologico di questo ‚recupero‘ umanistico meriterebbe di essere messo in forte rilievo; a noi basterà rilevare come a tale recupero si debba un interesse scientifico per la metrica antica che, in questo periodo, è specificamente italiano. Non ci si limitò a far rivivere le forme antiche nel verso italiano: pur partendo mediatamente dalla metrica latina grecizzante, invece che direttamente da quella greca, si fu portati a indagare l’interpretazione ritmica degli schemi metrici. La metrica greco–latina diventava cosi qualcosa di ‚attuale‘, che aveva una sua forza d’attrazione. Si potrebbe pensare ad una deutsche Klassik in ritardo esattamente di un secolo, se l’interesse per la trasposizione dei versi antichi in lingua volgare non fosse stata una costante della letteratura italiana fin dal primo umanesimo quattrocentesco (Leon Battista Alberti; e poi, nel Cinquecento, Claudio Tolomei, Lodovico Ariosto, Luigi Alamanni, Gabriello Chiabrera etc. – v. b: Elwert, cit. –; e si pensi a quello che significò a quest’epoca, in Francia, Ronsard e la Plèiade). Ma l’età romantica era stata, da questo punto di vista, un periodo di stasi; così che il periodo che stiamo considerando va visto come una ripresa. Il discorso teorico si sviluppò in modo particolarmente intenso dal momento della pubblicazione delle prime Odi barbare di Giosuè Carducci (1877): e richiameremo nomi come Giuseppe Chiarini e Giovanni Pascoli (e). Ma anche i classicisti puri entrarono in argomento. Zambaldi (e: 1874) teorizzò anche sul verso italiano (distinzione fra versi parisillabi e imparisillabi, più liberi accentualmente i secondi) e sulla sua connessione
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colla metrica greco–latina (sul senso ritmico, ibid., 62s.); nella discussione sulla metrica neoclassica fu tutt’altro che ignorato (v. per es. e: Pascoli, 958). Ettore Stampini, direttore della Rivista dal 1897 al 1923 (b: Timpanaro 1972, 424s.; Gabba, 442), scrisse uno studio specifico su Carducci (e: 21882). Ma il lavoro metrico più importante di Stampini resta quello sulla metrica di Orazio (e: 21912), nel quale segue Masqueray e dichiara, pur nella grande stima, di rifiutare le posizioni musicalizzanti di Zambaldi (ibid., p. III–VI). Due studiosi, alla fine del nostro periodo, mostrano, ancora indipendentemente da Pasquali, di avere appreso qualcosa dalla scuola storica tedesca: Enrico Cocchia, di cui si è già parlato, che col suo libro del 1920 (e) affrontava con competenza linguistica problemi come quello dell’antico carmen latino, dell’allitterazione, del ritmo dei versi antichi, del saturnio; e Nicola Festa che, in un lavoro del 1926 (e), proponeva una pur discutibile tripartizione dell’esametro e del trimetro greci e cercava di ricostruire forme liriche originarie. Il linguistica Luigi Ceci aveva studiato nel 1906 il ritmo in Cicerone (e). Non va dimenticata l’importanza che ha avuto anche in Italia il manuale, limitato al latino classico, di Lucian Müller (e: 21894), che presentava il vantaggio di essere scritto in latino. Grande diffusione ebbe un manualetto scolastico di metrica greca e latina dello stesso Müller tradotto in italiano (e: 1897). È appena il caso di nominare Ettore Romagnoli, nonostante la sua persistente influenza durata fino a pochi anni fa (Del Grande): con alcuni scritti teorici e con le sue traduzioni di poesia greca (b: Degani) si è mostrato vittima di un musicalismo quanto mai ingenuo e privo di autocontrollo. Dalle informazioni di dettaglio che abbiamo fornite possiamo trarre un panorama sommario dei vari tipi di condizionamento subito dalle discipline sotto esame dai vari punti di vista: istituzionale–scientifico, sociologico e culturale– ideologico. La considerazione delle i s t i t u z i o n i mette in luce le aporie di un sistema che, già inizialmente, presenta non già la contrapposizione o la giustapposizione di finalità da una parte pedagogico–professionali e dall’altra scientifiche, bensì un ibrido irrisolto delle due. Si tratta di una manchevolezza di tutto il quadro universitario italiano, che però è particolarmente sensibile per discipline, come quelle linguistiche, che presentano sia il problema della lóro propedeuticità allo studio delle letterature sia quello del loro elevato tecnicismo. Quanto al primo, quello della propedeuticità, funzione assegnata loro da un persistente attardato umanesimo, l’unica autonomia che gli studi linguistici potevano rivendicare per sé era quella di scuola di stile e magari di bello stile (Vallauri e Gandino, pur schierati l’uno contro l’altro); e questo non poteva che
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relegare le due grammatiche e la metrica ad un ruolo ancillare rispetto alle letterature; mentre una vera autonomia linguistica si affermò vigorosamente nell’Italia di questo periodo solo da parte di personalità isolate (Ascoli). Il tecnicismo, d’altra parte, non fu estraneo al costituirsi di questo stato di cose: al di là di influenze culturali o ideologiche, l’Italia mancava di strutture istituzionali e s c i e n t i f i c h e e doveva adattarsi ad un lento processo di acculturazione al ricasco della ben più progredita Germania, dove la scientificità professionale era arrivata a livelli molto alti, dal tempo dell’organizzazione dell’università prussiana, a cavallo fra la fine del Settecento e il principio dell’Ottocento. Il giovane stato unitario si trovò ad improvvisare due inediti: dei ruoli del tutto nuovi (nuovissimi particolarmente per il greco) e delle persone per ricoprirli. Il lento e graduale superamento della mancanza di originalità scientifica e soprattutto della ancillarità delle discipline va visto anche come conseguenza occasionale di questa situazione. In altre parole, chi non aveva il modo o la capacità di formarsi in fretta continuava pigramente a trasmettere il Burnouf e ignorava il Curtius; si limitava a fornire una grammatica normativa al servizio della lettura dei testi e della composizione in lingua. I pochi che, d’altra parte, avevano acquistato gli strumenti tecnici (fu il caso dei torinesi) avevano anche da spendere energie per combattere una battaglia politica contro i conservatori in campo scientifico e i nazionalisti antigermanici. Questo può già bastare a spiegare la scarsità di positivi contributi scientifici. L’aspetto s o c i o l o g i c o , per importante che esso sia, può essere qui soltanto sfiorato, dovendosi riferire a tutto il campo dell’antichità classica. Si potrà solo osservare che, da alcune testimonianze che abbiamo riportate, il carattere aristocratico ed elitario dell’insegnamento viene affermato con particolare accento proprio a proposito delle due lingue cosiddette classiche. A più riprese viene affermata la loro utilità, come studio autonomo, per la formazione delle giovani menti destinate a formare la classe dirigente (Müller, Cocchia etc): resto di normativismo e razionalismo linguistico, ma soprattutto espressione di una tradizione umanistica che in Italia è stata particolarmente tenace (la sfruttò parassitariamente ancora il fascismo) e che insisteva nel dare valore paradigmatico anche alle lingue, espressione di civiltà a loro volta paradigmatiche. Abbiamo visto come tale atteggiamento va riconosciuto anche nell’interesse suscitato dalla metrica. È qui che s’innesta l’aspetto c u l t u r a l e –i d e o l o g i c o . Ma è qui anche che si scopre una singolare contraddizione. Chi infatti, come Müller e altri, si batteva contro l’umanesimo ‚integralmente latino‘ dei Gesuiti, non avrebbe dovuto affermare al suo posto un umanesimo greco–latino: tanto più che l’integrazione del greco veniva propugnata in nome della scientificità linguistica. Ma in realtà la vera lotta non era tanto contro una od altra forma di
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umanesimo, quanto contro la scuola clericale, che per le sue ragioni ideologiche controriformistiche aveva bandito il greco da secoli. Bisognerebbe dedicare ben più che un accenno alla lotta contro la scuola clericale, particolarmente invadente in Italia negli studi elementari e inferiori (a: Bertoni Jovine, spec. 33, 119ss., 144ss.). L’università, creazione nuova del giovane stato liberale, ebbe almeno il pregio di nascere e di conservarsi laica: e, come abbiamo visto, la battaglia per il greco fu vinta. Il panorama che ci si è presentato per le grammatiche e la metrica non è comunque paragonabile a quello delle discipline più prestigiose. Le letterature, la storia, l’archeologia offrono ben di più, in questo periodo, da qualunque aspetto le si consideri. A questa disparità di ‚presenza’ avrà contribuito anche il fatto che attraverso queste discipline, in ragione del loro status e della loro tradizione culturale, più invitante e più facile si presentava l’affermazione dei valori cari alla classe dirigente del giovane stato unitario.
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Precisazioni Le precisazioni che seguono riguardano il solo campo grammatico–metrico. Considerare gli studi classici in Italia sotto l’angolazione del solo studio della lingua greca e latina (e della metrica) è non solo lecito, ma anche utile. Lo sviluppo della linguistica arioeuropea in Germania, che si pone come modello da un punto di vista scientifico, è un fatto che basta da solo a dare a questo settore un’impronta individuale sia sul piano scientifico stesso (scelta di metodo: scientificità contro umanesimo) sia su quello delle istituzioni scolastiche e universitarie (scelta istituzionale: reintroduzione, dopo più di tre secoli, del greco). In altre parole: la comparazione arioeuropea è la grande novità proprio degli anni in cui si fa l’unità d’Italia e nelle altre branche delle discipline antichistiche non c’è niente di confrontabile, sul mercato culturale e didattico. È giusto vedere la riforma Casati come una battaglia fra due fazioni della élite dominante, la battaglia fra clericali e laici sulla questione del greco. Da parte dei laici si ottiche però, direi, una vittoria di bandiera, simbolica, perché le concezioni pedagogiche, sul piano scolastico, continuano ad essere prevalentemente di stampo umanistico (utilità delle due lingue, invece che di una sola, per la ,formazione‘ intellettuale etc.); sul piano scientifico, invece, più che di una riforma si deve parlare di una vera e propria fondazione, anche se all’inizio poco produttiva.
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È chiaro che notizie precise su numero e caratteristiche sociali degli studenti sarebbero utilissime: ma si dovrebbero ricercare con grandi difficoltà i dati negli archivi (come ho già detto), dai quali si dovrebbe comunque rinunciare ad ottenere alcune informazioni essenziali (composizione sociale del corpo studentesco). Ma è chiaro che nell’Italia post–unitaria (e per molto tempo in seguito) il solo fatto di frequentare una facoltà umanistica è socialmente distintivo. A chi cerca delle cifre se ne possono fornire due, che bastano a dare un’idea della situazione culturale e sociale: l’analfabetismo passa, in Italia, dal 75% nel 1861 al 40% nel 1911; nei primi anni dell’unità gli italofoni (utenti abituali della lingua nazionale e non dei dialetti) erano il 2,5% (T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, nuova ediz., Bari 1970, 43, 95). Di conseguenza la scuola, che per l’estrazione sociale dei suoi utenti resiste in maniera conservatrice alle innovazioni scientifiche , perpetua un ideale umanistico, nella migliore delle ipotesi non più solo latino, bensì greco–latino; e lo studio scientifico è impedito dalla esiguità e fragilità delle strutture. Parlerei non solo di un enjeu ideologico– politico, ma anche – e forse in primo luogo – di quello che chiamerei ,vischiosità delle istituzioni‘. Si ha cosi un divorzio fra scienza e scuola. È giusto dire che la finalizzazione sociale e politica pone un limite alla trattazione scientifica dei contenuti. Tanto che l’incertezza e l’ibrido fra professionalità del modello francese e scientificità del modello tedesco non si può vedere, a parer mio, come causa sia del fallito rinnovamento scolastico e didattico universitario sia (almeno inizialmente) della fallita fondazione di un metodo scientifico, bensì come una delle conseguenze dell’arretratezza della società italiana: in questo senso le istituzioni (ibride e compromissorie) non sono che il risvolto formale di una situazione di arretratezza sostanziale (la ,vischiosità‘ di cui ho parlato sopra). Un tentativo ben più efficace di acquisire forme scientifiche e didattiche tedesche avverrà piuttosto colla legge Gentile (1923), ma in quel momento la riforma è più che mai distaccata da una autentica considerazione sociale, che avrebbe dovuto volgersi soprattutto alla considerazione didattica e scolastica in generale: la riforma in realtà si è ispirata ad una adesione alla cultura tedesca così come la propugnava il neoidealismo italiano (Croce, Gentile). Le preoccupazioni sociali, pur episodiche e poco efficaci, della legge Casati sono ormai attenuate, e si può dire che è in questo secondo momento (riforma Gentile) che la fonte d’ispirazione quasi esclusiva è il „prestigio della scienza‟ presso la classe dirigente, desiderosa di innalzarsi finalmente a un livello europeo. Se dal 1859 in poi l’accettazione del modello scientifico tedesco è solo parziale (prevalenza della critica formale a spese della ,totalità‘ boeckhiana), non si può dire per questo che l’Italia non debba niente alla Germania. Influenza si
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deve intendere in senso sia positivo sia negativo, è vox media. La Germania è pur sempre l’asse intorno a cui si ruota. E si può ben dire che l’influenza è a conti fatti negativa, perché l’operazione è difettosa su tutta la linea: da una parte non conduce ad una assunzione totale dei metodi e alla produzione di risultati comparabili in campo scientifico; e dall’altra, in campo didattico e scolastico, fallisce perché si scontra con una realtà sociale che è diversa da quella della Germania. Ma diverso è anche il contesto ideologico: la dialettica fra c1ericali e laici è specificamente italiano, per quanto concerne la scuola come posta in gioco (enjeu). La nozione d’influenza non è quindi ambigua: va solo precisato in quale direzione tale influenza opera. Se il modello prescelto fosse stato un altro, le cose sarebbero andate diversamente. Non si può negare che il modello tedesco sia stato in Italia una ingombrante presenza. E non si tratta di giudicare su una scala di valori assoluti (bene sociale, diffusione della cultura etc.), né di condannare o d’assolvere una classe per l’uso che ha fatto di uno strumento. Qui, credo, si tratta di capire, e cioè di commisurare lo specifico modello scelto con i risultati che ci si proponeva di ottenere; di valutare uno sforzo teleologico come operante internamente a se stesso. In altre parole: le intenzioni, buone o cattive che fossero (secondo un giudizio di valore che qui è opportuno escludere), sono state realizzate o no? La risposta è per grande maggioranza negativa. Si impone la distinzione (e ho cercato di farla) fra istituzioni scientifiche (con tutta la loro carica ideologica) e istituzioni accademico–scolastiche (con le loro implicazioni culturali e sociali). Se le prime solo nel corso di qualche decennio hanno dato qualche frutto sul piano oggettivabile della produzione scientifica, le seconde hanno mostrato la loro inadeguatezza in tutto il corso del periodo qui passato in rassegna e anche oltre. Erano tutte e due soluzioni improvvisate e poco funzionali (anche perché modellate su schemi allotri) per una società fragile nelle sue stesse strutture primarie.
La letteratura della Magna Grecia negli ultimi cento anni Ritagliare cent’anni di ricerca sulla letteratura della Magna Grecia non è del tutto agevole, e per una ragione ben precisa: questo articolato corpus letterario è stato considerato di volta in volta sia come autonomo, con caratteristiche sue proprie (comprendendovi ovviamente anche la Sicilia, in una unità di cultura che unifica in sostanza tutta la grecità d’occidente); sia come parte integrante del più ampio mondo greco, inteso come unità di madrepatria e di colonie. Raramente la presa di posizione di fronte a questo problema storiografico è stata netta, e questo orientamento (o disorientamento) della ricerca è più comprensibile, e addirittura giustificabile, proprio oggi, dal momento in cui si è riconosciuto il susseguirsi di più d’una diversa cultura della comunicazione, e quindi della comunicazione letteraria, nell’arco dei secoli che vanno dall’età arcaica fino all’età ellenistica: da una cultura di composizione orale in toto a una cultura di perdurante pubblicazione orale (per la quale è stato proposto il termine di ‘aurale’) fino a una diffusione sempre crescente, dalla fine del V sec. in poi, della pubblicazione a mezzo della scrittura, che si fa particolarmente intensa durante tutta l’età ellenistica. Le prime due fasi sono più ‘ecumeniche’, più legate a centri di diffusione che, a stare alla documentazione storica, appaiono concentrati nella Grecia propria; l’ultima può sembrare più policentrica, almeno per quel poco o tanto che sfugge al centralismo di Alessandria. E si vedrà che il problema non offre soluzioni univoche: se la letteratura della Magna Grecia presenta caratteristiche regionali, come in effetti succede, esse non sono sempre le stesse né sono allo stesso livello viste nell’ambito dello specifico letterario. Si può dire, comunque, che c’è oggi una situazione peculiare negli studi e nell’approccio: proprio per quest’area le conoscenze storico–archeologiche si sono molto accresciute in questi ultimi decenni, sì da permettere una migliore integrazione della letteratura magnogreca nella storia in generale, situazione che per la Grecia propria era già in larga parte realtà ai tempi di Boeckh e di Welcker. Ed è in questo senso che è giusto cercare di dare una sintesi proprio dal centro di raccolta di questo grande arricchimento d’informazione, e cioè
|| [Relazione di convegno (D 9.10.1988), pubblicata in G. Pugliese Carratelli – A. Stazio – R. Vitale (edd.), Un secolo di ricerche in Magna Grecia. Atti del ventottesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 7–12 ottobre 1988, Taranto, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia, 1989, pp. 213–230]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-014
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Taranto e i suoi convegni. E se anche la letteratura a Taranto è di casa, lo si deve soprattutto a Marcello Gigante, che a questi convegni è stato sempre attivamente presente. Nei suoi confronti siamo tutti debitori, ed io in primo luogo in questa occasione. In realtà questa relazione sarebbe spettata a lui e lui è stato d’altra parte sempre presente nelle relazioni anno per anno tenute qui a Taranto. Io, per parte mia, avrò ottenuto già molto se sarò riuscito a presentare solo alcuni dei problemi ancora aperti sullo sfondo della storia della ricerca più recente. Fra coloro che si sono maggiormente impegnati a dare della letteratura della Magna Grecia una visione d’insieme che ne mettesse in luce gli aspetti comuni c’è Gigante stesso, anche se di questa impostazione ha rifiutato posizioni estreme (come l’eccesso nel reperire originalità locali e caratteri etnici: v. per es. Gigante 1987, 559). Ora, a parte l’orgoglio illuministico con cui Girolamo Tiraboschi nella seconda metà del Settecento faceva cominciare la letteratura italiana con Stesicoro e Ibico, c’è da dire che almeno alla letteratura dell’età arcaica sono stati riconosciuti spesso, anche se non sempre, caratteri – come si diceva – ‘ecumenici’, pangreci. Vale la pena vedere come la storiografia moderna sulla Magna Grecia ha valorizzato e valutato la letteratura. Wuilleumier per Taranto e Vallet per Reggio e Zancle hanno dato ampio spazio alla letteratura come fattore delle culture locali; ma alcuni lavori di sintesi, come Bérard e Dunbabin, la hanno sostanzialmente ignorata come tale. Non si può dire che le grandi sintesi storiche si siano comportate sempre così, pur mostrando una sensibilità differenziata. Molti tendono a privilegiare Pitagorici ed Eleati che, contrariamente ai lirici, vengono considerati importanti per la storia del pensiero e quindi più rilevanti per la storia della cultura: Busolt (I, 364ss.; II, 759 ss.), Ciaceri (II, 140 ss.), De Sanctis (I, 583 ss.). La lirica arcaica viene considerata fenomeno pangreco da Beloch (I.1, 415), Pais (1925, 466 s.), Ed. Meyer (III, 1937, 666), De Sanctis (I, 352, 357), e ultimamente da Musti (214 ss., 310 s.), che mette comunque in rilievo gli interessi locali dei singoli ambienti. Berve e Bengtson si limitano a scarni e occasionali accenni. Chi valorizza il sostrato locale è, notoriamente, Ciaceri, che lo fa pesare anche a livello letterario (II, 140 ss., 164; etc.), trovandosi alla fine su posizioni in parte simili a quelle che fra poco vedremo essere state di Mancuso. Ma il problema del contributo occidentale alla letteratura arcaica (e quindi alla lirica, che è il genere protagonistico della cosiddetta epoca lirica, VII–V sec. a.C.) è per alcuni fattori ancora aperto: vorrei qui segnalarne uno, di non scarsa importanza. Umberto Mancuso, nel suo pregevole libro del 1912 che si proponeva, fin dal titolo, di considerare unitariamente la lirica in Sicilia e in Magna Grecia, affermava nettamente in apertura (p. 10) essere «la lirica corale… in gran
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parte un prodotto dell’Occidente». Mancuso aveva argomentato la sua tesi con il richiamo, oggi non più accettabile, ad una vasta unità dorica. Ma poco prima di lui Wilamowitz (1921, 437 e n. 1, con richiamo a un suo articolo anteriore) aveva proposto, per poi ridimensionarlo, un argomento col quale bisogna continuare a fare i conti: con Stesicoro si inaugura una composizione ritmico–musicale inedita, i cosiddetti dattilo–epitriti. Ora, Stesicoro è fortemente legato al mondo calcidese d’occidente: e ritmo dattilo–epitritico si trova in un canto d’amore calcidese arcaico (873 Page), da cui Wilamowitz e Schroeder vollero addirittura chiamare ‘ritmi calcidesi’ i versi dattilo–epitritici. La via potrebbe essere stata quella che dall’Eubea portava a Reggio e ad Imera? Le parole del canto enì Chalkidéon…pólesin possono alludere a una koiné calcidese che comprendesse anche le colonie d’occidente? L’argomento è ancora fra quelli che attendono decisive conferme o smentite: e non sarebbe privo d’importanza conoscere l’eventuale contributo autonomo dell’occidente in un campo del quale, come si sa, l’occidente è stato vivace cultore, e cioè quello musicale. Ma, pur con possibili caratteristiche locali e addirittura con possibili innovazioni locali, la produzione letteraria d’occidente rientra in una superiore unità che guarda alla madrepatria specie nel mondo arcaico e per tutta la cosiddetta epoca lirica: di questo fatto sono conferma sia la diffusione capillare della committenza sia le occasioni di diffusione, e cioè di pubblicazione del prodotto letterario. Questo approccio al fatto letterario, particolarmente importante per i primi secoli proprio per le condizioni della comunicazione (come si diceva prima), è abbastanza recente, e basta ricordare quello che in questo campo dobbiamo a Gentili. Se ci proponiamo una visione d’insieme della diffusione, vediamo che la madrepatria si impone con un ruolo decisamente protagonistico. Le grandi istituzioni che sono sede della diffusione della letteratura fin da epoca arcaica sono soprattutto le panegyreis, le grandi festività panelleniche. Ancora nel 1955 Nilsson (I, 828) segnalava come desideratum una raccolta di materiali sulle panegyreis, anche perché alle volte non è facile distinguere fra lo status di vera panegyris e quello di festività puramente locale. Ora, la situazione documentaria privilegia del tutto la Grecia propria, dove (Rossi 1983, 16 ss.) abbiamo testimoniate numerose occasioni di recitazione dell’epos (e non solo di quello omerico): i giochi di Calcide per Amfidamante (Hes. op. 650–53), l’agone per Adrasto e Melanippo a Sicione (Herodt. 5.67), i Delia a Delo (Hymn. Hom. Ap. 146–64) e, importantissimi, i Panionia nel santuario di Posidone Helikonios a Micale: tutte istituzioni che possono risalire al 700 a.C. o anche a prima. I Panathenaia sarebbero sorti sotto Pisistrato. Senza contare, poi, i giochi Olimpici, Pitici, Istmici e Nemei. Aggiungerò anche festività locali: Pamboiotia e Ptoia in Beozia, Hyakinthia a Sparta, Eleusinia in Attica, anche se non è attestato che vi
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avvenissero gare rapsodiche (ma è più che verosimile). Per le gare di citarodia ci sono i Karneia a Sparta (Terpandro, VII sec), i Gymnopaidia sempre a Sparta, le Apodeixeis d’Arcadia, gli Endymatia di Argo (Ps–Plut. mus. 1134 bc). Alla ricerca archeologica e storico–religiosa siamo debitori di quanto, comparativamente meno, emerge dalla Magna Grecia e dalla Sicilia, dove abbiamo il santuario di Hera Lacinia presso Crotone, le gare di Siracusa a cui partecipò Cineto nel 504–1 e gli agoni citarodici di Sibari in onore di Hera attestati (Aelian. v.h. 3.43) per la fine del VI sec. Per l’età ellenistica la documentazione è raccolta in un articolo di M.R. Pallone (1984): a quanto sembra, agoni poetico–musicali sono esclusi (sia pure ex silentio) per Magna Grecia e Sicilia, dal che la posizione decentrata dell’Occidente verrebbe ulteriormente confermata. Vorrei anche aggiungere che agoni sportivi locali sono testimoniati in misura molto scarsa: nelle odi di Pindaro vengono nominati solo giochi a Siracusa e a Etna (O.13.111 e scoli ad loc.), mentre, sempre nel corpus pindarico, la madrepatria è presente con decine e decine di giochi (v. il comodo elenco nella vecchia edizione di Christ, LXXXVIII ss.). È da segnalare, comunque, il caso di Sibari e il suo orgoglioso tentativo di rivaleggiare con Olimpia. In conclusione, si può dire che la Magna Grecia (e la Sicilia) producano per il centro, anche se, come si vedrà, i loro prodotti tornano in patria per qualche forma di riuso. Quale dovrebbe essere il corpus di opere di cui parlare qui? È chiaro che, più che l’origine etnica degli autori, conta il loro raggio d’azione. Per Stesicoro, per esempio, per includerlo è sufficiente che abbia avuto rapporti stretti con Locri; quanto a Pindaro, che tra parentesi andrebbe considerato più siceliota che tebano, basta qui ricordare le due Olimpiche (10 e 11) per Agesidamo di Locri. E d’altra parte il commediografo Alessi di Turii avrebbe diritto all’inclusione non tanto per la sua nascita magnogreca quanto piuttosto per aver introdotto nella commedia nuova attica alcuni elementi della farsa magnogreca. Queste indicazioni servono da integrazione della panoramica e da giustificazione per quanto da questo sintetico quadro sarà assente. E segnalo fin da ora l’assenza di Senofane e di Parmenide (che, pure, per gli antichi erano dei rapsodi), dei ricchi ritrovamenti orfici, del pitagorismo: tutto questo è affidato agli storici della filosofia e della religione. E considerando di quanto il materiale negli ultimi decenni si è accresciuto, sarà questo il luogo soprattutto per ricordare i ritrovamenti più fortunati. Cominciando dall’epos, c’è da registrare il ritrovamento del secolo, e cioè la decifrazione del miceneo nel 1952–53, che ha permesso di precisare la geografia del mondo omerico e di precisare, di questo mondo, secondo alcuni la storia e secondo altri la preistoria. E per l’epoca ancora creativa dell’epos è dall’Occidente che viene un contributo fondamentale, la coppa di Nestore da
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Ischia, pubblicata da Buchner–Russo nel 1955. Questo singolare reperto ha documentato la vitalità di una tecnica compositiva che, in pieno ottavo secolo e senza dubbio prima di una fissazione scritta di ampia circolazione dei poemi, rivela una competenza e scioltezza di costruzione strofica in anticipo sugli epodi di Archiloco di ben più di mezzo secolo, rimanendo nel solco di una tradizione epica già affermata e ancora produttiva. La coppa di Nestore, ancora in incognito per quanto riguarda la sua destinazione e l’identificazione del personaggio, finisce per dirci di più sull’epoca in cui l’epos è ancora vitale e sulla sua diffusione in Occidente, che non sull’essere suo proprio. A capire non solo la composizione orale, ma anche i modi della pubblicazione orale (‘aurale’) dell’epos si è arrivati in questi ultimi decenni a seguito degli studi oralistici, da Milman Parry in poi, e della diffusione di nuovi metodi di critica storica e letteraria. Vorrei segnalare un esempio di singolare coincidenza (e arricchimento) di risultati da parte di partiti scientifici diversi. Teagene di Reggio, che vive sotto il regno di Cambise e cioè dopo la metà del VI sec, ci è presentato dalla tradizione come il primo interprete allegorico di Omero, che intendeva così difenderlo dalle accuse del razionalismo di tipo senofaneo. Ora, questo protofilologo prealessandrino, Teagene, che figura professionale aveva? È quello che si chiede la vecchia (e pur solida) filologia di un Wilamowitz (1932, 215.2) e di uno Pfeiffer (1968, 11): Teagene era un esegeta di Omero, come ci dice la tradizione, ma doveva essere anche un rapsodo, perché i rapsodi avevano anche il compito di spiegare Omero, come si vede dallo Ione platonico. Ma a questo accertamento saremmo arrivati anche senza la pur preziosa testimonianza platonica. Altro infatti è il cammino di Jesper Svenbro, un allievo di Havelock e dei francesi. Il testo omerico si è ormai irrigidito in quella forma che Gilbert Murray chiamava ‘monumentale’ e i suoi contenuti, con la impostazione genealogica di ghenos divino ed umano, sono in contrasto con le poleis nascenti (e Reggio timocratica sta diventando tale). L’epos si è allontanato, si è storicizzato e ha bisogno di esegesi adeguata. Ma Teagene non è l’editore moderno di un testo e il confezionatore di un commento, bensì un rapsodo che deve difendere il suo mestiere presso il pubblico contro un Senofane che lo attacca (e che recita le sue proprie composizioni). L’esegesi è funzionale al mestiere di rapsodo. Teagene era in prima istanza rapsodo, e quindi anche esegeta: un rovesciamento della vecchia formulazione. Di Senofane si può supporre (con margine di dubbio) che fosse anche a Zancle: e l’immaginare che la polemica avvenisse da un lato all’altro dello stretto, come propone Svenbro, è forse sconfinare nel romanzo storico, ma rende efficacemente l’idea. Venendo alla lirica arcaica, è Stesicoro il poeta che ci propone la più rilevante rivoluzione critica in grazia degli ultimi ritrovamenti papiracei, soprattut-
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to i frammenti abbastanza estesi della Gerioneide (1967) e del papiro di Lille (1977). Stesicoro è magnogreco, anche se la sua origine oscilla fra Imera, Locri e Matauro, perché i suoi legami con Locri sono quanto mai intensi. Gli studi su questo autore si sono sviluppati gradualmente, negli ultimi decenni, sul piano delle forme (sia linguistico–musicali sia narrative) in parallelo con il piano della ricognizione storica. Voglio qui mettere l’accento sulle forme narrative, che Quintiliano (10.1.62) ci presentava come integralmente epico–narrative e compiutamente liriche, definendo Stesicoro come epici carminis onera lyra sustinentem. L’accurata ricerca formale sia del positivismo sia del terzo umanesimo avevano dovuto credere a Quintiliano un po’ sulla parola, non essendovi testi che lo contraddicessero, ma mancando una verifica soddisfacente. Il papiro di Lille soprattutto (la madre–moglie di Edipo che divide l’eredità fra i figli) ci offre oggi questa verifica: si tratta di un testo continuato abbastanza esteso che ci dà conferma sufficiente della totale narratività di Stesicoro, il quale si presenta così come l’unico lirico conservato che traduca la narrazione epica in metro lirico e nelle forme strofiche della musica. L’utilizzazione di questi nuovi elementi di conoscenza è stata possibile grazie alla rinnovata sensibilità per la destinazione, per l’occasione. Per quali occasioni componeva Stesicoro i suoi lunghi carmi? Lunghi, perché – a stare alle note sticometriche offerte dai papiri – sembra che superassero i mille cola. A più d’uno è risultato chiaro che le sue lunghe narrazioni non potevano essere corali, e cioè accompagnate da musica piena ed eventualmente da danza, ma che dovevano essere monodiche, con un tipo di resa musicale che si avvicinava più all’accompagnamento in ‘recitativo’ dell’epos. Eppure, prima degli ultimi rinvenimenti, nessuno aveva mai revocato in dubbio la natura corale delle composizioni di Stesicoro: mentre la loro naturale destinazione dovevano essere gli agoni citarodici (e cioè monodici) delle panegyreis. È stata l’antropologia inglese, nella persona di Gilbert Murray, a richiamare negli anni trenta l’attenzione sulle panegyreis, a cui accennavo poco fa, e, se questo fatto era stato da lui segnalato in relazione con la diffusione dell’epos, risulterà chiaro il significato di una definizione di Stesicoro che ho proposto qualche anno fa per la sua poesia (Rossi 1983): un’‘epica alternativa’, che si proponeva come rinnovamento dei tradizionali canti epici di tipo omerico sia sul piano dei contenuti (come del resto anche l’epos innovava su se stesso) sia – e qui era la grande novità – sul piano formale della composizione ritmico– musicale. Forse, per l’immobilità a cui si andava progressivamente costringendo il testo epico con la o le fissazioni scritte (Rossi 1978), c’era da parte del pubblico desiderio di novità: anche perché, essendo consueta la presenza dell’epos nei simposi (a cominciare soprattutto da quanto ci testimonia l’Odissea nel libro ottavo), i suoi carmi epico–lirici era naturale che, dopo le grandi prove degli
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agoni, rifluissero nei simposi locali, tanto più che di lui si tramanda che avesse composto anche carmi d’amore, tipici della produzione simposiale (Rossi 1983, 23s.). Vorrei segnalare a questo proposito un atteggiamento di ricerca storico– letteraria che – c’è da sperarlo – ha fatto il suo tempo, ma è stato molto diffuso: fino a poco tempo fa tutti negavano fede a questa testimonianza dei paídeia o paidiká di Stesicoro, soprattutto per una tendenza (contraddetta da molti materiali da lungo tempo disponibili, come il corpus bacchilideo e quello pindarico) ad assegnare ad ogni poeta un genere solo, o almeno una sola modalità di esecuzione (monodica o corale). Alla destinazione simposiale, che io ritengo da tempo propria di tutta la lirica monodica con minime eccezioni, il mondo degli studi si è ultimamente sensibilizzato: e il simposio si va ora studiando sotto i vari profili storico, archeologico e letterario. C’è forse un poeta lirico arcaico del quale si possa dire che non componesse direttamente per il simposio? A parte il caso di Saffo, per la quale il tìaso teneva il luogo del simposio. Nella scelta dei temi dei suoi carmi, e nel dare forma relativamente libera alla materia epico–lirica, Stesicoro è stato messo in rapporto con varie città, che – oggi lo si dice con certezza – erano state i suoi committenti negli agoni. Omero metteva la reggia di Agamennone a Micene (Od. 3.304), mentre Stesicoro la mette a Sparta (216 P.). Questo espediente è stato visto come un omaggio all’ambiente spartano. È un’innovazione rispetto a Omero, ma ha ragione chi, ricostruendo correttamente il mestiere dell’aedo e la sua funzione (Svenbro), ha considerato tipico anche dell’epica omerica questo atteggiamento di libertà e di relativo arbitrio nella configurazione del mito. L’aedo era un personaggio politico, e cantava quanto era gradito ai suoi datori di lavoro: né Stesicoro, da buon poeta epico anch’egli, si comportava diversamente. È così che anche la Palinodia, o le Palinodie, sono legate a Locri per il culto dei Dioscuri, fratelli di Elena, che veniva liberata dall’accusa famosa, e le fonti legano la riacquisizione della vista da parte di Stesicoro con la vittoriosa battaglia del fiume Sagra contro Crotone. Posso qui solo accennare alla problematica a cui ha dato origine il discorso di ‘Giocasta’ (così ormai la si chiama, anche se non è sicuro quale dei vari nomi portasse) nel papiro di Lille: è lei che propone la spartizione dell’eredità fra i figli e questo ruolo politico–giuridico la avvicinerebbe alla figura di Clitemestra nella metopa del Sele, dove la donna è rappresentata con la bipenne brandita in un ruolo virilmente inedito, se, com’è probabile, la metopa si ispira alla versione stesicorea del mito. È ancora da vedere come questo si accordi con l’evoluzione dal ghenos alla polis nelle città d’occidente e come si possa collegare con una particolare situazione della donna nell’aristocrazia di Locri al momento della fondazione (Musti 1978, 37 ss.; Gigante 1974 su Nosside, AP 6.268). E bisogna anche ricordare la leggenda di Enea nel Lazio, forse (non
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con certezza) testimoniata in Stesicoro dalla Tabula Iliaca, oggi di attualità nella ricerca dopo le recenti scoperte archeologiche e nel Lazio e a Roma (v. per es. Horsfall). Tutta la documentazione concorda nel testimoniarci l’integrazione culturale, e specificamente tecnico–musicale, di Stesicoro con Locri, che aveva una sua ricca tradizione musicale. Xenocrito di Locri era stato attivo anche a Sparta; e di tale tradizione abbiamo notizia sia da Pindaro (specie dalle Ol. 10 e 11) sia da un carme popolare locrese (853 P.); e una testimonianza di singolare interesse è quella sui canti di donne in lode di Ierone, che aveva liberato Locri dall’incubo di Anassila di Reggio (ap. Pind. P. 2. 18 ss.). Anche di Ibico di Reggio il frammento più consistente, l’encomio simposiale per Policrate (282 P.), ci è stato restituito in tempi relativamente recenti (1922) da un papiro. Ibico, fin dall’antichità, era stato considerato il gemello per dir così minore di Stesicoro; area di provenienza, prossimità cronologica e lingua (presenza di alcune forme epicoriche) sono stati i fattori di parallelismo sui quali anche la ricerca moderna si è fondata. Ibico è stato giudicato male, in sede di critica letteraria: tutto quello che si è stati capaci di concedergli sono state poche valenze positive, e le molte negative, del termine ‘barocco’ nell’uso comune. Per Ibico il contributo degli studi di storia è stato e sarà quanto mai importante, per aiutarci a capire quanto di giusto e quanto di sbagliato c’è nel gemellaggio con Stesicoro. Tutti e due hanno composto canti narrativi epico–lirici, come testimonia l’attribuzione, incerta fra i due fin dall’antichità, dei Giochi per Pelia. E i suoi frammenti sono prevalentemente erotico–simposiali, genere che, come è stato alla fine riconosciuto, era stato coltivato anche da Stesicoro. Ma sembra chiaro che Ibico, a differenza di Stesicoro, si sia presto specializzato in quest’ultimo genere e il fatto è in accordo con la tradizione che lo vuole a Samo presso Policrate come poeta di corte. Ibico è un poeta di Magna Grecia che scopre il tiranno come committente permanente e va a cercarlo altrove: la Magna Grecia, sotto questo aspetto, è, come si sa, in lieve ritardo. Anche Ibico, quindi, è un poeta in assoluta prevalenza monodico: uno dei danni del gemellaggio è stato il considerare anche lui interamente corale come erroneamente si considerava corale Stesicoro, ma nel caso di Ibico direi che non c’era neanche l’attenuante del dubbio. Solo, c’è da dire che non è certo che proprio tutto in Ibico sia simposiale (e quindi monodico) ed epico–lirico (e quindi, ancora, monodico): c’è la possibilità che, fra i frammenti di un poeta erroneamente considerato corale, qualcosa di veramente corale – mi si passi il paradosso – ci sia. È che la lettura dei lirici su questa falsariga è ancora agli inizi: né è sempre facile sceverare, nei frammenti, il monodico dal corale. Alcmane, per esempio, è un poeta dove questa verifica potrà esser fatta con profitto. È proprio la lirica che si
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gioverà dell’incremento delle edizioni singole, un tipo di attività filologica che è stata inaugurata da Lobel con la Saffo del 1925 e con l’Alceo del 1927 e continuata da Gentili con l’Anacreonte del 1958 e con la collana da lui diretta. Senza dubbio il settore più sorprendente della letteratura magnogreca è quello che ci viene rivelato dai vasi fliacici e dai frammenti di Rintone. A stare alla documentazione, questo appare come un genere locale tipico. La sintesi più ampia la dobbiamo a Gigante (1966 e 1971), che ci offre anche la storia degli studi. I vasi sono entrati nel circuito storico–filologico poco più di un secolo fa e si sono costantemente accresciuti di numero: oggi sono circa duecento. Parlare di letteratura è forse un po’ improprio, perché quello che la frammentata documentazione archeologica e letteraria ci testimonia è piuttosto un costume teatrale, che si è formalizzato testualmente solo tardi in una proporzione sicuramente non alta. Hanno ragione quelli che ne fanno una specie di commedia dell’arte, che avrebbe, maturandosi, espresso una personalità letteraria come Rintone. I vasi sono infatti quasi tutti precedenti a Rintone, che opera al principio del III sec. a.C. La documentazione e la storia della farsa fliacica si sono venute precisando, in poche parole, così: un corpus di vasi magnogreci con rappresentazioni di parodia da modelli tragici e scene di vita quotidiana con costumi caratteristici (imbottitura e fallo) e datati al IV e III sec.; frammenti della ilarotragedia di Rintone e di altri fliacografi, a cominciare dal principio del III sec.; sia i vasi sia i testi mostrano parallelismi con la commedia dorica di Epicarmo e con la commedia attica di mezzo; una notizia trasmessaci da Ateneo e attribuita a Sosibio ci informa che i fliaci d’Italia corrisponderebbero ai deikelistaì della Laconia e ad altri attori di vario nome a Sicione, a Tebe e altrove. Combinare variamente questi dati, com’è stato fatto, non porta a disconoscere una realtà di fondo: che abbiamo testimonianza, e qualche raro documento letterario, di una farsa popolare che sembra essere stata molto praticata in Magna Grecia nel IV–III secolo, ma la notizia di Sosibio (pur non datata) e i paralleli con Epicarmo inducono a risalire almeno al 500 a.C. Il quadro si è esteso così sia cronologicamente sia geograficamente (vari ambienti della madrepatria) e attesta forme, di lunga vitalità e conservatrici, di intrattenimento popolare. Quello che ha creato qualche difficoltà è che queste forme sembrano presenti perfino in Attica, da dove provengono alcuni vasi che si sono definiti ‘fliaci attici’ (Pickard–Cambridge, 216– 18). Si è parlato di influenza del teatro attico sui fliaci, certo per l’indiscusso prestigio delle istituzioni drammatiche ateniesi. Ma si può pensare che queste forme di teatro ‘minore’ fossero presenti, indipendentemente dal teatro della polis, anche in Attica, dove – e questo la differenzia dalla Magna Grecia e dagli altri ambienti della madrepatria – un sistema dram-
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matico molto forte perché ufficiale le ha relegate in secondo piano, permettendo a pochissime testimonianze di emergere. Un problema centrale è sempre stato quello della utilizzazione reciproca dei due tipi di materiale, quello figurativo e quello letterario (tragico, comico e fliacico). Per il dettaglio della lunga storia degli studi rimando anche qui a Gigante (1966 e 1971). La sostanza del contendere è stata nella maggiore o minor fede che si è voluta dare a una corrispondenza di testo figurativo e testo letterario. Più di un secolo fa Ribbeck pensava di poter ricostruire con sicurezza attraverso le figurazioni dei vasi le tragedie greche e, da quelle, le tragedie latine frammentarie. È chiaro che la testimonianza figurativa resta ancora oggi fondamentale, ma quell’ottimismo si è andato gradualmente temperando. Louis Séchan nel 1926 ci ha offerto una panoramica preziosa, in cui fiducia e prudenza si alternano. La farsa fliacica, in più, presenta ulteriori difficoltà, vista la polimorfia del materiale originario: eventuale testo drammatico parodiato, spettacolo fliacico solo eventualmente testualizzato, figurazione su vaso come prodotto finale di un processo ricco di variabili e di incognite. La tendenza è certamente quella di non vedere più nell’arte figurativa una passiva ancilla theatri, restando comunque – proprio per le ragioni addotte – sempre più necessaria una stretta collaborazione fra archeologia e studio letterario dei testi. Gli archeologi potranno aiutarci molto illustrando, per esempio, la varia destinazione sociale dei vasi; e, in più, potranno distinguerci sempre meglio quelli ornamentali di lusso da quelli destinati all’uso simposiale. Che altre forme d’arte popolare di Magna Grecia abbiano lasciato testimonianza già in ambiente attico nel V sec. è significativo per la loro vitalità: penso alle novelle sibaritiche, che emergono addirittura in Erodoto e in Aristofane, oltre che in testimoni più tardi (Gigante 1987, 546 ss.). È merito di Gigante l’avere costantemente segnalato, nei suoi panorami della cultura magnogreca, questi elementi popolari come caratterizzanti. È indubbio che, vista la comparativamente molto maggiore attestazione della letteratura, per esempio, attica, gli elementi popolari appaiono in molto maggior proporzione in Magna Grecia (ricordo anche i canti locresi di cui sopra, oltre ai fliaci). Atene ha in effetti metabolizzato molto del suo patrimonio popolare in forme ufficializzate dalla polis. Una singolarità della Magna Grecia (e della Sicilia) è di averci trasmesso tali forme senza mediazioni letterarie. Un campo di interesse ecumenico, al quale la Magna Grecia ha dato contributi di grande rilievo, è quello della musica. Si tratta per l’epoca arcaica, a quanto sembra, di prassi musicale, con la scuola locrese di cui ho accennato a proposito di Xenocrito e di Stesicoro. E la teoria musicale è rappresentata nel IV sec. da Aristosseno di Taranto, in tutta la cultura antica designato come ‘il mu-
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sico’ per eccellenza, il sistematore del patrimonio musicale sia armonico sia ritmico, al quale ha attinto tutta la teoria posteriore. Tale interesse non prescindeva dalle suggestioni dell’ambiente pitagorico (rapporto di musica e numero), ma Aristosseno, in teoria musicale, è più aristotelico che pitagorico. L’interesse per la musica antica è stato molto vivo negli ultimi decenni, e in realtà è stato nel corso di più di un secolo che si è a mano a mano affrancato da una dannosa sudditanza nei confronti dei principi, soprattutto ritmici, della musica moderna: penso a Westphal e alla sua lunga dittatura dalla seconda metà del secolo scorso in poi fino ai nostri Romagnoli e Del Grande. Per restare ad Aristosseno, va ricordata un’accurata edizione degli Elementa harmonica (R. Da Rios, Roma 1954) e il papiro ritmico che ora, arricchito di un nuovo frammento, è il P. Oxy. 9 + 2687, un prezioso documento dell’applicazione dei principi ritmici aristossenici ai testi, anche se è un prodotto di prassi scolastica (ne ho recentemente dato un commento in: Aristoxenica, Menandrea, fragmenta philosophica, Firenze 1988, 11– 30). L’epigramma in Magna Grecia in età ellenistica è rappresentato da Leonida di Taranto e da Nosside di Locri (Gigante 1971 e 1974). Se qui mi limito ad accennare solo a Leonida, è perché la sua poesia, per lo più ispirata al mondo dei pescatori, dei contadini e degli artigiani, ha provocato una interessante reazione di gusto letterario, che si è innescata nel momento in cui è entrato in circolo il papiro di Eroda nel 1891. Non è un caso che l’edizione di Leonida di Geffcken sia di poco dopo, del 1896, anche se Geffcken non amava il suo poeta. Eroda fu salutato come il poeta veramente realistico della letteratura greca nel momento del successo del realismo europeo, e Leonida fu affratellato a Eroda, ma con molto minor simpatia, perché lo si vedeva in sostanza meno realista di Eroda (il che è vero) e si volle per lo più bollarlo di artificiosità letteraria. Anche questo è vero, ma lo si può accettare a patto di liberare la qualifica da valenze negative. La differenza da Eroda è, in partenza, una differenza di genere letterario: in Eroda il quadretto realistico (il mimiambo, con forte aspirazione di ‘mimesi’), in Leonida l’epigramma per lo più dedicatorio e funerario, una forma che aveva alle spalle una lunga storia di formalizzazione linguistica e compositiva. Oggi ci si rende conto che Leonida da una parte accoglieva il messaggio realista della cultura ellenistica (si pensi all’arte figurativa coeva), ma che d’altra parte lo faceva proprio con la cifra del poeta dotto, che sforzava la lingua a parole rare (o addirittura di conio nuovo) e a epiteti rari: un esperimento letterario che aveva un precedente nell’Ecale di Callimaco (la descrizione in alto stile epico della vita povera di Ecale), ma portato a soluzioni ancora più avanzate. È per questo che io credo che l’avvenimento del secolo sia il grande commento di Gow e Page (1965), che qualche volta è stato criticato come troppo diffuso sui realia (la stes-
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sa critica è più a suo luogo per il commento dello stesso Gow a Teocrito, dove troppe altre cose vengono sacrificate, per esempio la lingua). Ma per un autore come Leonida una buona informazione sui realia è molto utile, per accertare con la maggior possibile precisione i suoi referenti, per esempio i vari oggetti e strumenti di lavoro, allo scopo di valutarne il trattamento linguistico. In altre parole: gli epiteti sono ornamentali o descrittivi con intenzione realistica? In che misura il lessico è realistico e in che misura è mediato da tradizione letteraria? Si tratta di stabilire con approssimazione le proporzioni di una (in sé tradizionale) mescolanza. Sulla mistione fra erudizione letteraria e realismo nella poesia alessandrina ha scritto belle pagine Gr. Serrao (1977, spec. 171 ss.). Chiudo questa veloce rassegna con quella che, con convenzione restrittiva, chiamiamo ‘filologia’, che in Magna Grecia è stata in realtà molto attiva. Di Teagene ho già detto. Orfeo di Crotone e Zopiro di Eraclea, che nel VI sec. fecero parte della commissione pisistratea per i poemi omerici, sono più a loro luogo in tema di orfismo. Qui voglio segnalare che è Glauco di Reggio che non ha ricevuto l’attenzione che merita. Di lui, che visse nel V sec., si tramanda un’opera sulla letteratura e sulla musica, che rischia di essere la fonte, per lo più non menzionata, di quasi tutta l’informazione che abbiamo sulla letteratura arcaica, fonte alla quale attinsero i filologi alessandrini: è questo quasi totale silenzio nell’attribuzione che rende difficile una edizione che non sia costituita dai soli pochissimi frammenti a lui attribuiti dalle fonti. Un pur ricco articolo di Huxley (1968) lascia ancora aperta questa lacuna. A questo punto la rassegna dovrebbe aprirsi a quanto è stato detto sulla Magna Grecia non come produttrice autonoma di letteratura, ma come ambiente letterario e culturale di mediazione, e cioè sull’importante funzione della Magna Grecia per la ricezione della cultura greca a Roma, anche dal punto di vista linguistico. Qui Taranto col teatro, per esempio, ha avuto una funzione preminente. Di questo problema si è occupato il Convegno di Taranto del 1968. Si può dire, solo, che la controversia sul debito di Roma alla Grecia non è più, come per lungo tempo era stata, croce filologica (per recensire tali debiti) e bandiera ideologica (per valutarli).
Riferimenti bibliografici L’elenco che segue non è una bibliografia, ma solo una serie di riferimenti bibliografici che tengono il luogo di note a pié di pagina. Non ho potuto tener conto degli Atti di Taranto 19, 1979 (L’epos greco in Occidente), non ancora pubblicati al momento della redazione della presente relazione. K.J. Beloch, Griechische Geschichte, I.1, Strassburg 19122
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H. Bengtson, Griechische Geschichte, I, München 1965 (trad. it. Bologna 1985) J. Bérard, La Magna Grecia. Trad. it., Torino 1963 (19572) H. Berve, Griechische Geschichte, I, Freiburg/Br. 1951 (tr. it. Roma–Bari 1983) G. Busolt, Griechische Geschichte, II, Gotha 1895 E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, II, Milano etc. 1927 G. De Sanctis, Storia dei Greci, I, Firenze 1939 T.J. Dunbabin, The Western Greeks, Oxford 1948 M. Gigante, Teatro greco nella Magna Grecia, Atti Taranto 6, 1966, 83–146 M. Gigante, La cultura a Taranto, Atti Taranto 10, 1970, 67–131 M. Gigante, L’edera di Leonida, Napoli 1971 M. Gigante, Rintone e il teatro in Magna Grecia, Napoli 1971 M. Gigante, Nosside, Par. d. Pass. 154–55, 1974, 22–39 M. Gigante, La cultura a Locri, Atti Taranto 16, 1976, 619–97 M. Gigante, Civiltà letteraria in Magna Grecia, in: Aa.Vv., Megale Hellàs, Milano 1983, 587ss. M. Gigante, La civiltà letteraria nell’antica Calabria, in: Aa.Vv., Storia della Calabria antica, I, Roma– Reggio Calabria 1987, 527–63 A.S.F. Gow–D.L. Page, The Greek Anthology. Hellenistic Epigrams, I–II, Cambridge 1965 N. Horsfall, Stesichorus at Bovillae?, JHS 99, 1979, 26–48 G. Huxley, Glaukos of Rhegion, GRBS 9, 1968, 47–54 U. Mancuso, La lirica classica greca in Sicilia e nella Magna Grecia, Pisa 1912 Ed. Meyer, Geschichte des Altertums, III, Stuttgart 19372 D. Musti, Problemi della storia di Locri Epizefirii, Atti Taranto 16, 1976, 23–146 D. Musti, Storia greca, Roma–Bari 1989 M.P. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, I, München 19552 E. Pais, Storia della Sicilia e della Magna Grecia, Torino–Palermo 1894 E. Pais, Storia dell’Italia antica, II, Roma 1925 M.R. Pallone, L’epica agonale in età ellenistica, Orpheus 5, 1984, 156–66 R. Pfeiffer, Storia della filologia classica dalle origini alla fine dell’età ellenistica. Trad. it., Napoli 1973 (1968) A. Pickard–Cambridge, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford 1968 L.E. Rossi, I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in: Storia e Civiltà dei greci, I.1, Milano 1978, 73–147 L.E. Rossi, Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, Orpheus, 4, 1983, 5– 31 L. Séchan, Études sur la tragédie grecque dans ses rapports avec la céramique, Paris 1926 G. Serrao, in Storia e Civiltà dei Greci, V. 9, Milano 1977, 171–253 J. Svenbro, La parola e il marmo. Trad. it., Torino 1984 (1976) G. Vallet, Rhégion et Zancle, Paris 1958 U. von Wilamowitz– Moellendorff, Griechische Verskunst, Berlin 1921 U. von Wilamowitz– Moellendorff, Der Glaube der Hellenen, II, Berlin 1932 P. Wuilleumier, Tarente des origines à la conquête romaine, Paris 1939
Gli studi greci e latini in italia prima e dopo l’unità 1. Le letterature greca e latina hanno una posizione per così dire proemiale in un discorso sulla presenza delle culture antiche nel passato dei nostri studi, sia esso lontano o prossimo: e questo è dovuto alla preminenza che è sempre stata data allo studio e all’insegnamento della letteratura nelle intenzioni organizzatrici dei vari momenti umanistici, a cominciare dalla filologia alessandrina fino al primo umanesimo e al secondo, quello tedesco. Questo è avvenuto anche quando, come nell’ultimo momento che ho menzionato (Winckelmann), altre fonti di conoscenza del mondo antico, come l’archeologia o meglio in un primo tempo la storia delle arti plastiche, si andavano facendo sempre più ingombranti e piano piano protagonistiche. Anche la fondazione della Altertumswissenschaft, attraverso i battesimi, quasi contigui nel tempo, di Wolf e di Boeckh, finisce per essere, attraverso i suoi utenti, una serie di percorsi a volta a volta centrifughi e centripeti rispetto alle letterature. Le battaglie umanistiche e antiumanistiche si sono sempre combattute prendendo per insegna o per bersaglio soprattutto le letterature. Penso anche alla retorica e a quella che, proprio a cominciare dal primo Ottocento, fu ‘la battaglia degli stili’ (classicismo e romanticismo, per intenderci, a cui però bisogna aggiungere quanto resta vivo dell’illuminismo, che in qualche modo modifica e complica gli schieramenti, a quanto ci ha insegnato Timpanaro1). La storia, in quanto filtro e abito totalizzante della conoscenza – e questa è proprio una vicenda dell’Ottocento – ha cercato di riportare più volte all’ordine, se così posso dire, le riluttanti letterature, le ha cioè coordinate con le altre manifestazioni della cultura e con le discipline che le studiano: e questo riposizionamento del mobilio scientifico nella casa degli studi è avvenuto man mano che i mobili delle altre discipline prendevano aspetto più elaborato e imponente con l’aumentare della documentazione, con l’affinarsi dei mezzi per valutare quest’ultima e con il nascere di nuove esigenze esegetiche.
|| [Relazione di convegno (L 30.5.1988 h. 11.30 ca), pubblicata in L. Polverini (ed.), Lo studio storico del mondo antico nella cultura italiana dell’Ottocento. Incontri perugini di storia della storiografia antica e sul modo antico, III, Acquasparta, Palazzo Cesi, 30 maggio – 1° giugno 1988, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993, pp. 19–30] 1 S. TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1965 (19692). https://doi.org/10.1515/9783110648140-015
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A questo rilevamento oggettivo vorrei far seguire una considerazione teorica. Io non credo che questa preminenza delle letterature, via via opportunamente ‘castigata’, e di conseguenza dimensionata, sia dipesa in passato dalla maggior mole del corpus documentario rispetto a quello di altri settori. A parte l’impossibilità di trovare criteri comparativi di quantità che siano oggettivi, la letteratura si è sempre trovata in qualche modo in situazione di privilegio proprio per la possibilità del discorso sul discorso, e cioè del meta–discorso. Mi chiedo allora, ma solo tra parentesi: è possibile che, nel campo del mondo antico, le letterature tornino a primeggiare anche dopo che, oggi, le stiamo così efficacemente rimettendo al loro posto per cercare di sfuggire a rinnovati equivoci ‘umanistici’? Lancio la domanda così, per il gusto di farlo, anche perché questi incontri sono più il luogo delle domande e delle proposte che non quello delle pigre certezze. Tornando alla collocazione proemiale delle letterature, dirò che in realtà per la maggior parte dell’Ottocento questa collocazione andrebbe episodicamente messa in discussione a vantaggio di altre discipline come per esempio l’archeologia e soprattutto la linguistica (penso ai numerosi studi di Timpanaro2). E certo questa è una cosa che sapremo meglio alla fine del nostro incontro. Ma proprio per tenere ben presente la traccia che gli organizzatori ci hanno data, e cioè ‘lo studio storico del mondo antico’, sarà bene che ricordiamo che le due letterature sono state in Italia nel corso dell’Ottocento anche, e diversamente l’una dall’altra, bandiera ideologica e, di conseguenza, reagente per l’orientamento culturale e politico; hanno sollecitato un’attività filologica in senso tecnico3, che si è organizzata dalla metà del secolo in poi (la figura di Leopardi è isolata); e, infine, sono state oggetto privilegiato dei vari ordinamenti didattici. Quest’ultima identità degli studi delle letterature e – debbo qui aggiungere – delle lingue è particolarmente importante perché ha egemonizzato soprattutto la scuola, ma anche l’università. In nessun settore come in questo – credo – un discorso sugli ordinamenti didattici merita un posto di primo piano, e non mancheremo di farne cenno alla fine, sia pure in rapida sintesi. 2. Per quanto riguarda l’ideologia e l’orientamento culturale, andrò per ampie contrapposizioni, dal momento che esistono alcuni lavori di primo piano, per di più recenti, dei quali faccio largo uso e che possono risparmiarmi di entrare in
|| 2 TIMPANARO, op. cit., e numerosi altri scritti, come per es. il profilo di G.I. Ascoli in «Letteratura italiana» (I critici), I, Milano (Marzorati) 1976, 303 ss. 3 Sull’equivoco fra ‘ideologia’ e ‘tecnica’ v. comunque L. CANFORA, Ideologie del classicismo, Torino 1980.
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dettaglio4. È chiaro che, volendosi restringere a un’ottica italiana, le vicende politiche del nostro paese hanno orientato, specie dopo la restaurazione, il dibattito politico–culturale. Il secolo si apre con la polemica fra classici e romantici, dove la posta in palio è ben più che la semplice disputa sulla funzione dell’antico in letteratura (il mito etc.): da noi, fra l’altro, il dibattito coinvolge in primo piano la questione della lingua. Se, per alcuni decenni, si può parlare solo episodicamente di uno studio storico sistematico delle letterature antiche, si può però parlare di sensibilità storica all’antico, che, per essere stata funzione soprattutto di letterati più o meno impegnati nel dibattito politico ideologico, prese le mosse in prevalenza dal patrimonio letterario. Penso alla sensibilità storica di un Ugo Foscolo5, che si giovava di una fedeltà non epidermica alla patria greca d’origine e di un coinvolgimento totale nel dibattito letterario e politico all’interno della cultura italiana. La valutazione della presenza di Giacomo Leopardi è più articolata e complessa, come si sa dal rinnovamento della critica leopardiana6, che ha consentito fra l’altro una rivalutazione della sua filologia e delle sue concrete prestazioni filologiche. Non va poi sottovalutata la personalità di Pietro Giordani, dopo i contributi di Timpanaro7: i suoi ideali illuministici, che lo portavano a posizioni autenticamente progressiste, si sposavano tuttavia a un purismo linguistico alimentato da una idealizzazione dell’antico (ideale ‘greco’ di stile). Ma questo non gli impedì di combattere per una scuola laica e moderna. Contraddizioni che portarono ad essere lui stesso, in seguito, segno di contraddizione fra estimatori e detrattori.
|| 4 Fondamentale è P. TREVES, LO studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano–Napoli 1962, da utilizzarsi con le precisazioni della recensione di S. TIMPANARO, «Critica storica» 2, 1963, 603 ss.; A. LA PENNA, L’influenza della filologia tedesca sulla filologia classica italiana dall’unificazione d’Italia alla prima guerra mondiale, in Philologie und Hermeneutik im 19. Jahrhundert, II, hrsg. v. M. Bollack u. H. Wismann, Göttingen 1983, 232 ss.; L.E. Rossi, Grammatica greco–latina e metrica in Italia fra il 1860 e il 1920, ibid. 275 ss. (con bibliogr.); S. TIMPANARO, Il primo cinquantennio della «Rivista di Filologia e di Istruzione classica», «Riv. di filol.» 100, 1972, 387 ss. (e v. anche l’articolo di E. GABBA sul Secondo cinquantennio, ibid. 442 ss.); S. TIMPANARO, Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa 1980; ID., La filologia di Giacomo Leopardi, Roma–Bari 19772; L. CANFORA, op. cit., e i numerosi contributi offerti dai suoi «Quaderni di storia»; numerosi contributi di M. GIGANTE (fra cui da ultimo Classico e mediazione, Roma 1989 e, da lui pubblicato, La cultura classica a Napoli nell’Ottocento, I–II, Napoli 1987). La bibliografia qui citata pecca largamente per difetto (basti ricordare i molti contributi di A. Momigliano) anche per gli autori menzionati. 5 V. da ultimo V. Di BENEDETTO, Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino 1990. 6 Ad opera di Luporini, Binni e, per quanto riguarda la sua filologia, TIMPANARO, op. cit. (a n. 4). 7 TIMPANARO, Classicismo cit. (a n. 1), 41 ss., 119 ss.
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Di contraddizioni, d’altra parte, il secolo è ricco. Giustamente Treves8 ha parlato di «ambivalenza del classicismo». Esso aveva potuto alimentare sia le rivoluzioni americana e francese sia, per secoli, il più retrivo conservatorismo politico e letterario. E anche la reazione a vari tipi di idealizzazione dell’antico, quella che ancora Treves chiama la «decoturnizzazione dell’antico», passa trasversalmente attraverso correnti altrimenti contrapposte: fu merito sia di storici neoguelfi (Balbo, Troya, Manzoni, Capponi: tutti peraltro interessati alla storia medievale), sia di illuministi, principale fra tutti, per il periodo che ci interessa, Pietro Giordani9. E del resto la tendenza a vedere troppo neoguelfismo è stata giustamente contestata10. Per restare alle grandi parole d’ordine, va ricordato che il secondo umanesimo era stato, in sostanza, tutto greco: ma questo, per le ragioni che saranno più chiare qui oltre, non ebbe influenza in ambiente italiano. La rivoluzione francese, invece, e già in precedenza quella americana, si erano ispirate al mondo romano. Il romanticismo, perché nazionalistico, si volse al mondo latino, filtrato attraverso la ricerca di radici nella storia medievale; ma il mondo tedesco conservò anche in sede di rivendicazioni nazionalistiche un legame di elezione con il mondo greco. L’epopea napoleonica divise in maniera duratura gli animi fra cesaristi e tacitisti11. L’umanesimo retorico, che aveva radici antiche e che era stato coltivato dalle scuole confessionali, era tutto latino; mentre il binomio greco–latino fu, dopo la metà del secolo – come vedremo poi – vessillo di scienza e di laicismo. Più tardi, secondo quanto ci ha insegnato Canfora12, il classicismo si troverà ad orientarsi fra i due poli opposti dell’ideologia egualitaria e di quella elitistica, propendendo generalmente per la seconda: ma si avrà la sorpresa di un Wilamowitz elitistico disponibile alla divulgazione e in essa molto attivo, che si acquistò un seguace, proprio nella divulgazione, in Romagnoli. La polemica antigermanica, poi, fu da una parte vessillo di nazionalismo e dall’altra parola d’ordine pseudoscientifica espressamente antifilologica (perfino Comparetti!). Tardiva reviviscenza di questa battaglia, che tale diventò con ogni suo aspetto deteriore, fu la polemica di Fraccaroli e di Romagnoli contro la filologia all’inizio del Novecento.
|| 8 P. TREVES, L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano–Napoli 1962, 36 ss. 9 TIMPANARO, rec. a Treves (cit. a n. 4), 606. 10 Da TIMPANARO, rec. cit., 603 ss. 11 TREVES, Introduzione a Lo studio cit. (a n. 4). 12 CANFORA, op. cit. (a n. 3).
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3. Anche per l’attività filologica in senso tecnico posso fare riferimento agli stessi studi recenti13. È innegabile che un contesto di studi e di scuole manchi in sostanza lungo quasi tutto l’arco del secolo, presentandosi l’inizio dell’Italia filologica solo alla fine del secolo stesso. Questo non è un caso, visto che la didattica universitaria, e anche quella scolastica, si organizzano soltanto con la legge Casati del 1859, la prima legge unitaria in tal campo, come vedremo in seguito. Si può parlare comunque, per tutta la durata del secolo, di alcune personalità di grande spicco. Non si può fare a meno di ricordare qui il nome di un archeologo, Ennio Quirino Visconti, che si può considerare il Wolf italiano, anche se finì per esportare la sua attività in Francia, né si può dire che avesse il seguito che avrebbe meritato14. E anche Bartolomeo Borghesi15 va ricordato qui, e con maggiore pertinenza tematica, perché si servì della sua esperienza storica di epigrafista per interventi su figure della letteratura latina come Catullo, Tacito, Giovenale ed Orazio. Non è comunque possibile parlare, per l’Italia, di una vera e propria produzione filologica e storica nel campo delle due letterature antiche prima di Domenico Comparetti, che fu attivo nella seconda metà del secolo. E questo non per un confronto con quanto avveniva nello stesso tempo in Germania, ma semplicemente per stabilire a posteriori un momento di nascita di quell’attività filologica che, beninteso influenzata dalla Germania16, diventò poi quel tessuto di produzione che ancora oggi si perpetua. Ebbene: quel momento è proprio l’attività di Comparetti17, che, nella sua parziale solitudine, si trova a coincidere con la promozione ufficiale degli studi (organizzazione scolastica e universitaria). Fu autodidatta (e a Roma non poteva essere diversamente, come vedremo fra poco), visse relativamente appartato e la grande varietà delle sue scelte di studio rivelano non soltanto eccezionali doti e competenze profonde, ma anche il carattere personale e per così dire idiosincratico delle scelte stesse, lontane da quello che la professionalità e la specializzazione avrebbero richiesto in seguito agli studiosi (e del resto questa è una fase dalla quale solo oggi stanno uscendo, per esempio, gli studi di orientalistica): non è certo il precursore dello studioso moderno di antichistica chi, pur con eccezionale competenza, si è occupato – || 13 Citati a n. 4. 14 TREVES, Lo studio cit., (a n. 4), 3 ss. 15 TREVES, ibid. 829 ss., a cui vanno aggiunti vari contributi di A. Campana. 16 E questo anche altrove che da noi: v. i contributi sui vari paesi europei in Philologie u. Hermeneutik cit. (a n. 4). 17 S. TIMPANARO, Domenico Comparetti, in «Letteratura italiana» (I critici), I, Milano (Marzorati) 1976, 491 ss.
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per dare designazioni nostre – di filologia (ma avversava la filologia formale in senso stretto), di papirologia, di epigrafia, di mitologia comparata, di storia delle religioni, di tradizioni popolari, di storia della filosofia antica, spaziando per di più dall’antichità al medioevo alla letteratura bizantina, e di molte altre cose ancora: è difficile sceverare le competenze varie e intrecciate che sono confluite nel Virgilio nel medio evo, che Pasquali considerava l’unico libro italiano di filologia classica del secolo scorso. E certo dalla giovanile lettura di quel libro venne a Pasquali la felice formulazione che non esistono discipline separate, ma solo problemi concreti. C’è solo da rammaricarsi che Comparetti non abbia esercitato quell’influenza che dal peso oggettivo della sua ricerca sarebbe stato lecito aspettarsi: persino come direttore della «Rivista di filologia» il suo ruolo fu passivo, pur dovendosi credere che non condividesse la gestione del periodico18. L’Italia unitaria vive il faticoso inizio dell’organizzazione degli studi con la legge Casati (1859), che, pur con difetti di cui si parlerà dopo, ebbe il merito indiscutibile di avere affermato le ragioni laiche dell’istruzione con la reintroduzione del greco, dopo più di tre secoli, nel circuito scolastico e universitario. È da questo momento, che va valutato nella sua importanza, che cessa l’autodidattismo: una delle cause della ridotta produzione filologica e della così rara competenza nel campo del greco, ma anche dell’isolamento in cui si trovavano i più ad operare. È ovvio che, in un ambiente che difettava di strumenti di lavoro e di diffuse conoscenze tecniche, si guardasse al modello tedesco soprattutto per quanto riguardava la ricerca scientifica: l’affermazione d’indipendenza era per lo più dettata da puro nazionalismo, anche perché la svalutazione dell’originalità latina, che trovò il suo culmine in Mommsen, era sentita come una provocazione, e cessò di operare come tale solo all’inizio del nostro secolo con la rivalutazione avviata da Leo. Riconosciute tali condizioni, in un panorama sommario come questo non è possibile elencare i contributi singoli. A Foscolo e a Leopardi ho fatto cenno prima. A Vincenzo Monti si deve qualche intuizione esegetica in contesti omerici ricavata specie dall’epistolario19. Di Pietro Giordani va ricordato il vivace impegno a propugnare lo studio filologico anche nel greco in un quadro di restauro in senso laico della scuola (anteriore alla legge unitaria) destinato a liberarla dalla retorica latineggiante20. Di Angelo Mai non può esser taciuta l’attività edi-
|| 18 TIMPANARO, Il primo cinquantennio cit. (a n. 4), p. 409 s. 19 TREVES, LO studio cit. (a n. 4), 189 s. 20 TIMPANARO, Classicismo cit. (a n. 1), 41 ss., 119 ss.
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toriale, anche se ne sono stati visti i limiti. Amedeo Peyron sostenne la necessità della filologia formale praticandola nel suo lavoro di editore dei papiri torinesi e mostrò anche coinvolgimento con la realtà politica attuale specie con il suo Tucidide, pur passando col tempo a posizioni sempre più ciecamente reazionarie21. Non mi si imputi a colpa se non ripercorro qui per intero una storia che è stata già delineata con ben diversa autorità dalla mia, come ho già detto. L’intreccio tra posizione ideologica, esigenze scientifiche e battaglia per le istituzioni didattiche, fattori che ho tenuti distinti per comodità e brevità di esposizione, risulta particolarmente stretto. E, prima di passare alle istituzioni didattiche, vorrei solo aggiungere alla presente sezione una postilla. Non sembri strano che un campo apparentemente molto tecnico in cui l’Italia ebbe qualcosa da dire sia stato, alla fine del secolo, la metrica. In realtà l’interesse per la metrica, più che a un’esigenza scientifica estesa alle ‘discipline ausiliarie’, fu fenomeno dovuto alla volontà di recupero, in sé tipicamente umanistico, della metrica classica con lo scopo di utilizzarla, di farla rivivere nella poesia italiana moderna: ed era stato già un fenomeno proprio del primo umanesimo in Italia, e, più tardi, in Francia con Ronsard22. L’impegno ‘umanistico’ al servizio della poesia italiana contemporanea non andò comunque disgiunto da serietà di ricerca scientifica: questo è vero sia per Francesco Zambaldi, che fu grecista e personalità molto più spiccata di quanto la critica posteriore abbia in genere riconosciuto, sia per Ettore Stampini, che si segnalò per lavori sulla metrica latina. In effetti, specie dalle prime Odi barbare di Carducci (1877) in poi, il dibattito fu vivace, e basterà che ricordi qui i nomi di Giuseppe Chiarini e di Giovanni Pascoli. 4. E passiamo ora alle istituzioni didattiche e a quelle culturali. Come ho già detto più volte, uno spartiacque non totale, ma certo di fondamentale importanza, è nell’Ottocento l’unità nazionale e la conseguente instaurazione di un ordinamento scolastico e universitario con la legge Casati (1859), che nel campo degli studi classici non è importante solo per il raggiungimento di una unità didattica, ma anche e soprattutto perché riempì un grande vuoto, e cioè l’insegnamento del greco, che aveva quasi totalmente taciuto in Italia (cominciando da Roma) per il bando ad esso decretato dalla Controriforma23. Il nuovo ordinamento reintrodusse sì il greco – non senza feroci opposizioni, di fronte
|| 21 Sia su Mai sia su Peyron v. TIMPANARO, La filologia di Giacomo Leopardi2 cit. (a n. 4). 22 Rossi, art. cit. (a n. 4), 282 ss. 23 ROSSI, art. cit. (a n. 4), con bibliografia.
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alle quali la legge fu un vero atto di lungimirante coraggio –, ma restò in qualche modo un compromesso fra due diversi ed anzi opposti modelli: il modello francese napoleonico, che privilegiava l’aspetto della preparazione professionale, e il modello humboldtiano, che, realizzato con l’Università di Berlino nei primi anni del secolo, affermava decisamente il ruolo di promozione del sapere scientifico. È un’alternativa ancora oggi attuale, ed era anche allora non nuova: il modello di Berlino si opponeva a quello che veniva visto come un decadimento dell’università a mera preparazione professionale come si era venuto configurando nel corso dei secoli, mentre le accademie erano a poco a poco diventate il luogo privilegiato della ricerca vera e propria24. Molto di quanto è avvenuto in Italia nel secolo scorso (e una parte di quanto accade oggi) si capisce solo alla luce della opposizione dei due modelli di istruzione, anche se non sempre lo si trova detto espressamente. Per il greco e per il latino il dibattito, per la precisione, si incentrava sulla attualità e ‘utilità’ del mondo antico, quando non si affermava esplicitamente essere gli studi classici un elemento indispensabile alla formazione della classe dirigente, e cioè in sostanza della élite borghese. In questo senso la legge Casati risultava ambigua, a due facce, come è stato detto molto bene da Timpanaro25, le cui parole voglio citare per esteso: D’altra parte, quella funzione insostituibilmente formativa che la legge Casati attribuiva al latino e al greco implicava una polemica non solo «verso destra», cioè contro la scuola umanistico–clericale, ma anche «verso sinistra», nei riguardi di tendenze democratiche e radicali (non ancora socialiste) che ponevano in primo piano il problema gravissimo dell’istruzione popolare, o, anche se rimanevano ferme al concetto di una scuola di élite rigidamente distinta dalla scuola di massa, l’avrebbero tuttavia voluta orientata prevalentemente in senso scientifico–tecnico e non umanistico.
La fazione clericale si opponeva al greco nella scuola non solo per una perdurante fedeltà al vecchio schema controriformistico, ma anche per la buona ragione che le scuole confessionali non si sarebbero trovate, e in realtà non si trovarono, in condizione di soddisfare la richiesta di insegnanti preparati nel greco; e la fazione laica lo voleva anche per affermare l’unità delle due culture, unità che si richiamava a fondamenti scientifici errati solo quando la si voleva estesa anche alle due lingue. È in questo panorama che svolse una funzione essenziale la «Rivista di filologia e di istruzione classica» con il gruppo che a
|| 24 E. RAIMONDI, Il sapere nella storia dell’Università, «Il Mulino» 36, 1987, 869–881. 25 TIMPANARO, Il primo cinquantennio cit. (a n. 4), 402.
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Torino si trovava unito intorno ad essa26. L’ambiente torinese svolse una preziosa funzione mediatrice nei confronti della cultura filologica tedesca, promovendo anche la traduzione di opere manualistiche. Ma il divorzio fra scienza e scuola continuò, e dura ancora, sia sul fronte universitario sia su quello scolastico: sul primo, perché le contraddizioni dell’ordinamento iniziale non sono ancora sanate per quanto riguarda la formazione alla ricerca scientifica; sul secondo, perché la scuola non si è ancora aperta abbastanza e all’insegnamento delle scienze e a quello delle scienze umane con i necessari aggiornamenti. Mancano purtroppo dati sul numero e sulle caratteristiche sociali degli studenti da una parte, e dall’altra sono molto rare le notizie sulla denominazione degli insegnamenti (notizie che sarebbero molto interessanti per le discipline linguistiche) e sugli argomenti dei corsi27. Ma, se si considera che fra il 1861 e il 1911 l’analfabetismo, dal 75%, scende solo al 40% e che nei primi anni dell’unità gli italofoni abituali sono soltanto il 2,5%28, è chiaro che per l’insegnamento delle culture classiche l’orientamento elitario non è sempre una scelta ideologica, ma anche il riconoscimento di uno stato di fatto: ed è naturale che la scuola resista in modo conservatore alle innovazioni scientifiche perpetuando un ideale umanistico, che nella migliore delle ipotesi è ora non più solo latino, ma grecolatino. La legge Gentile, che è del 1923, sarà un tentativo di recuperare per l’università una didattica di tipo scientifico ispirata al modello tedesco, rimanendo però al di qua di vere preoccupazioni sociali e propugnando un «prestigio della scienza» invocato dalla borghesia, che vorrà innalzarsi a un livello europeo. E questa è, ancora, storia del tutto recente o addirittura contemporanea, legata alle vicende di dibattiti tuttora in corso.
|| 26 V. gli articoli citati (a n. 4) di Timpanaro e di Gabba sul centenario della «Rivista». 27 Per qualche dettaglio v. ROSSI, art. cit. (a n. 4), 279 s., 295 s. 28 T. DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma–Bari 1970, 43, 95.
Gli studi aristofanei di Ettore Romagnoli A me è stato assegnato il gradito compito di parlare dell’incontro a mio parere più felice di Ettore Romagnoli, quello con Aristofane. Un incontro per lui felice – come spero di mostrare – sia come studioso sia come letterato di gusto finissimo. Mi fa piacere comunicare in questa sede che lo ho commemorato agli studenti di Letteratura greca nella lezione conclusiva del corso poche settimane fa. L’ho fatto anche a nome del collega Agostino Masaracchia, che quest’anno è in congedo. Romagnoli è stato un ingegno precoce e precocemente si è dedicato allo studio di Aristofane, che è stato fin dall’inizio frutto di una evidente affinità elettiva. Era uomo di teatro e amò un grande ingegno teatrale, inserito in una grande cultura teatrale come quella dell’Atene del V secolo. Occuparsi di teatro antico significava, allora come oggi, tenere l’occhio sull’archeologia sia per i monumenti sia per le antichità, come avevano fatto prima di lui Welcker, Otto Jahn, Ribbeck: e Romagnoli fu allievo dell’archeologo Loewy, oltre che del filologo Piccolomini. Il suo studio comincia quindi con quei crismi di osservanza filologica e archeologica, che poi avrebbe vistosamente abbandonati, certo prevalentemente per amor di polemica nazionalistica. Conosciamo bene la polemica antifilologica degli inizi del secolo: Romagnoli contro i ‘tedeschi’ con Minerva e lo scimmione, la risposta postuma di Vitelli pubblicata nel 1962, quella di Pasquali del 1920. Ma bisogna rendersi conto che filologia e antifilologia non erano, in quel momento, un’alternativa alla pari, perché l’Italia stava muovendo i primi passi nell’organizzazione degli studi filologici e andava a scuola dai tedeschi, come aveva fatto lo stesso Piccolomini suo maestro, che era stato a Berlino da Kirchhoff e da Mommsen. Non ho bisogno di ricordare che in Italia lo studio del greco venne reintrodotto, dopo più di tre secoli di veto controriformista, dalla prima legge scolastica unitaria, quella del marchese Casati del 1859. Romagnoli, nato nel 1871, cominciò, fra i venti e i trent’anni, col fare il filologo. Nella sua commemorazione nel primo numero di «Maia» (1948, p. 88) Perrotta ci dice che per mesi e per anni della sua vita frequentò la biblioteca || [Relazione di convegno (Mt 7.6.1988, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”), pubblicata in M. Coccia (ed.), Commemorazione di Ettore Romagnoli nel cinquantenario della morte, [promossa da] Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” [e da] Associazione Italiana di Cultura Classica, Roma, GEI, 1995, pp. 43– 49]
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dell’Istituto Archeologico Germanico. Fra il 1894 e il 1902 pubblicò negli «Studi Italiani» diretti da Vitelli vari articoli di critica testuale e di esegesi aristofanea. Ricorderò di questo tirocinio i lavori sugli Uccelli e sugli Acarnesi (25, 1897, 337ss.; 30, 1902, 133ss.) e un ampio lavoro (7, 1899) sul numerale ‘uno’ (come articolo e come aggettivo col valore di ‘solo’) in cui passa in rassegna passo per passo tutta la produzione aristofanea. Nel 1905 pubblica su Aristofane, sempre sugli «Studi Italiani», il suo lavoro aristofaneo di maggiore impegno, Origine ed elementi della commedia d’Aristofane, di quasi 200 pagine. La ricerca formale veniva felicemente praticata dalla filologia positivistica – quella filologia più tardi da lui tenacemente avversata – e ci forniva quelle raccolte di materiali che ci sono preziose ancora oggi. Questa ricerca formale, da uomo di teatro quale era, la diresse verso quei fattori che più lo interessavano: i dèmoni fallici, i costumi, la parabasi; e poi i tipi della commedia popolare, come i tipi del mangione, del ladruncolo, del fanfarone, del servo; e poi il nucleo antico della commedia, come l’agone, le scene di banchetto, i finali nuziali. E tutto questo, ed altro, con costante attenzione all’evidenza archeologica, come gli aveva insegnato Loewy. Questo lavoro gli attirò gli strali di Benedetto Croce, che in un articolo del 1907 (poi ristampato nei Problemi di estetica, 91ss.) gli muoveva varie critiche. Lo accusava di ricercare l’origine (p. 94), «quell’origine che non è in altro che nell’animo stesso del poeta». E ancora (p. 93): «Verrò mostrando … come il Romagnoli, che è filologo e artista, sia, in quanto critico, ancora impigliato nelle categorie di quel filologismo che tenta indebitamente di raggiungere ciò che gli è negato». Lo accusava (p. 96) di aver «considerato l’arte di Aristofane come documento dell’evoluzione che ebbero le istituzioni teatrali», perché (p. 98) «l’arte è nel principio sintetico e non nell’enumerazione ad infinitum degli elementi. Oggi possiamo guardare a queste critiche come a cosa ben nota, e non possiamo non dare torto a Croce e ragione a Romagnoli, anche se oggi diamo meno importanza di quanto facesse lui alla ricerca dell’originalità nella delineazione dei personaggi e più importanza alle innovazioni della tecnica drammaturgica e della lingua. Ma aveva capito un fatto, e qui di nuovo giocava il suo istinto teatrale nel considerare i rapporti fra autore e destinatario: che la commedia di Aristofane era conservatrice, perché così la voleva il suo pubblico. Non mi soffermerò qui su altri lavori sul teatro comico, come il brillante Nel regno di Dioniso. Studi sul teatro comico greco, Bologna, 1918, anche perché qui cominciano ad affiorare, per me e – direi – per noi tutti, ragioni di dissenso (oggi, per esempio, non ci sentiremmo di definire «farsa» il dramma satiresco
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Ichneutai di Sofocle, p. 89ss.). Ma è soprattutto perché voglio passare alla sua traduzione. Nel 1890 – prendo la notizia sempre dalla commemorazione di Perrotta – Romagnoli – aveva 19 anni – saliva una scaletta tortuosa e oscura di una casupola del Corso, verso Piazza del Popolo, entrava in un bugigattolo, che era, allora, la direzione della «Nuova Antologia», e presentava al conte Domenico Gnoli, direttore della rivista, un saggio di versione degli Uccelli di Aristofane. Gnoli era un poeta; e la versione gli piacque, e disse che l’avrebbe pubblicata subito. E così, dopo due anni [1892], essa venne alla luce e fu lodata da Domenico Comparetti».
A diciannove anni Romagnoli aveva dunque già cominciato la sua straordinaria consuetudine con l’attività del tradurre i poeti greci, che mai come nel caso di Aristofane ha dato frutti così eccellenti. Agli Uccelli seguirono altre commedie e poi, nel 1907 e in seconda edizione nel 1914, tutte le undici commedie. Può essere interessante per noi, e addirittura divertente, spigolare ancora fra le pieghe dell’articolo di Croce del 1907: Le traduzioni che il Romagnoli viene da più anni pubblicando di Aristofane e dei frammenti degli altri comici greci mi deliziano per la spontaneità ed eleganza onde riescono, quasi del tutto, a dissimulare la fatica del tradurre.
Lode azzeccata, ma generica. Cercheremo poi di entrare in qualche importante dettaglio. Ma prima vorrei segnalare come, nel tradurre, riusciva a Romagnoli, con istinto geniale, di superare quelle aporie che lui, come studioso, vedeva in Aristofane e che – e questo è divertente – Croce, sempre con formulazioni generiche, giustificava. Romagnoli (nel suo studio del 1895) trovava difficoltà ad accettare le differenze di livello nella lingua dei personaggi aristofanei, come nel Diceopoli del prologo degli Acarnesi; e Croce gli replicava (p. 99): Quelle incoerenze non sono già incoerenze, ma l’intimo e geniale carattere della musa di Aristofane; il quale (come del resto tutti i poeti fanno) concede ai suoi personaggi quel tanto di autonomia che è in accordo col suo proprio stato d’animo (lo stato d’animo è sempre la vera dramatis persona).
La formulazione di Croce ci fa sorridere, oggi: lo scarto di registro stilistico in Diceopoli (e cento altre volte altrove) è la strizzatina d’occhio che l’attore comico, e l’autore, fanno al loro pubblico, come usando un implicito espediente metateatrale attraverso il quale il personaggio fa capire al pubblico che sta assistendo a una commedia, genere letterario in cui questi giochi, al di là dell’ethos del personaggio stesso, sono normali e finalizzati alla creazione del pastiche
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letterario. Altro che lo stato d’animo del poeta! Ma è stupendo vedere come il Romagnoli traduttore capisce e realizza implicitamente tutto questo. Vediamo proprio l’inizio degli Acarnesi (v. 1ss.): Quante trafitte a questo cuore! Gioie n’ebbi poche, assai poche, due o tre; ma dispiaceri… Sì, conta le arene! Vediamo un po’; le gioie quali furono? Lo so, mi rise l’anima, pei cinque talenti ch’ebbe a vomitar Cleone. Che gusto matto fu! Ne vado pazzo pei Cavalieri: fu degna dell’Ellade quell’impresa! [etc.]
È rispettata la prevalenza, che il testo greco offre, del colloquiale sull’aulico. Ma se vogliamo un esempio più ricco di questa mistione, prendiamo a caso un pezzo del dialogo fra Diceopoli ed Euripide (v. 461ss.): [D.] E quanto secchi la gente tu, non te n’accorgi? – Quest’altro solo, Euripide dolcissimo: un pentolin tappato con la spugna. [E.] La tragedia costui tutta mi fura! To’ il pentolino, via, vattene. [D.] Vommene. [etc.]
La sua capacità di variare il registro linguistico è davvero ammirevole. Ma dove si mostra anche versificatore sapiente nel senso della tecnica metrica più raffinata è nella resa delle parti liriche. Qui possiamo davvero parlare di virtuosismo molto avanzato, come nella odé della parodo delle Nuvole (v. 275ss.). Qui endecasillabi e settenari si rispondono fra strofe e antistrofe, e si rispondono anche le rime. Leggo solo la strofe: Sorgiam, perenni Nuvole, la parvenza svelando agile e rorida, dell’echeggiante Oceano padre, ai sublimi vertici dei monti incoronati d’alberi; e contempliamo gli ultimi orizzonti, la sacra terra che nutrica i frutti, il fragorìo dei santissimi fiumi, il fremer cupo dei marini flutti. Ché il sole, infaticato occhio dell’ètere, sfavilla, cinto d’abbaglianti lumi.
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Or via, si scuota il pluvio vel dalle forme eterne, ed alla terra volgasi l’occhio che lungi scerne!
Nella odé della prima parabasi, ancora delle Nuvole, la grande preghiera delle Nuvole alle otto divinità è resa con lo stesso virtuosismo di versi e di rime, ma in più c’è il tentativo di resa del ritmo dell’originale, che, da coriambi in lunghe sequenze, modula a dattili, a dimetri coriambici per chiudere infine con gliconeo più ferecrateo (v. 563ss.): ne viene quella costruzione come a strofette interne alla strofe che è evidente nella costruzione a periodi del testo greco. Qui mi piace leggere sia la strofe sia l’antistrofe: Giove che in cielo domina dei Beati il possente Signore, prima a questa danza invito; e lui che il formidabile tridente vibra, e le amare squassa acque del pelago selvaggiamente e il lito; e il nostro genitore che tutto nutre, il venerando e celebre Etere; e il reggitore dei corsïeri fiammei, che domina coi folgoranti lumi la terra, eccelso Dèmone fra gli uomini ed i Numi! Anche tu scendi, o delio Signor, fra il nostro coro, tu che tieni le cinzie eccelse vette; e tu, dea, che in Efeso il tempio d’oro abiti, ove con gran pompa t’onorano le lidie giovinette; e Palla, che sostiene l’ègida, dea di nostra terra indigena, protettrice d’Atene; e quei che schiara del Parnaso i vertici con faci rutilanti, dell’orge re, Dïòniso, fra delfiche Baccanti!
Un bel tour de force, non c’è che dire, e riconosciamo che produce un effetto fuor del comune, perché è un tentativo, riuscito, di rendere in modo intuitivo nel nostro codice quello che altrimenti con corretti mezzi filologici si può solo ricostruire faticosamente. Questa è tecnica versificatoria intelligente fino al
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confine con la genialità, ma soprattutto severa e disciplinata. Romagnoli si iscrive in una corrente di rinnovamento della tecnica versificatoria che si realizza in Italia, con risultati poetici variamente riusciti, fra la fine e l’inizio del secolo: c’è uno studio filologico sulla metrica che ci porta a fare i nomi di Zambaldi e di Cocchia, ci sono le elaborazioni teoriche e le realizzazioni poetiche di Carducci e di Pascoli. Romagnoli si iscrive fra questi ultimi. Non che i suoi studi metrici vadano trascurati: se qui non ne parlo, è perché le mie ragioni di dissenso – dal suo leggere il verso antico con la misura temporale della musica moderna – non hanno qui alcuna rilevanza. Il suo felice istinto di versificatore ha, anche qui, tradotto, e precisamente tradotto un codice ritmico, quello della poesia greca, nel codice ritmico della poesia italiana. Del Romagnoli studioso di Aristofane questo è stato un successo che ha coronato nel modo più degno i suoi primi studi filologici. E vorrei chiudere ricordando la sistematica pianificazione, da parte di Romagnoli, della traduzione italiana dei grandi classici della poesia greca. Del grande piano aveva realizzato una parte cospicua: Aristofane, i tragici, i lirici. Ieri si è parlato qui dell’inizio della sua traduzione dell’Antologia. Se ne accenno qui, non è per valutare insieme i pregi o i difetti di quelle altre traduzioni, indubbiamente meno felici di quella di Aristofane, ma per mettere l’accento su quel suo programma. Con il suo avversario Wilamowitz aveva qualcosa in comune. Wilamowitz aveva tradotto i tragici; ha lasciato il suo attraente Lesebuch, un’antologia brevemente commentata; a Berlino teneva, alle sette di sera, delle lezioni divulgative. La divulgazione è un atto di ottimismo, di necessario ottimismo: e Romagnoli lo compì, a dispetto delle matrici elitarie della sua filologia (se n’è parlato ieri), anche con la sua attività di militanza teatrale, della quale non ho titolo a parlare, ma che mi contento di ricordare come coronamento e sbocco naturale della sua felice attività di traduttore di Aristofane.
L’approccio non classicistico di Pasolini alla tragedia attica 1. Se vogliamo parlare qui di un approccio non classicistico – e poi vedremo se sia il caso di parlare anche di un approccio anticlassicistico – bisogna cominciare col definire che cosa è il classico e che cosa è il classicismo. In queste definizioni conviene essere molto sintetici e chiari, anche a costo di essere insufficienti o insoddisfacenti: ma non vogliamo essere imprecisi. E definiamo per primo il classico, che è il punto di partenza. Ora, classico è qualcosa di cui si predica l’eccellenza: in campo letterario, il classico sono per noi grosso modo il V–IV secolo a.C. in Grecia e l’età aurea e anche l’età argentea latina, e cioè circa un secolo di mondo letterario greco e circa un secolo e mezzo di mondo letterario latino. Che cos’è, invece, il classicismo? Il classicismo è l’assunzione a modello di qualcosa di cui si è predicata l’eccellenza. Un modello classico ha prodotto vari classicismi, che sono stati chiamati umanesimi dal grande umanesimo italiano del Quattrocento. Facciamo velocemente una panoramica dei vari umanesimi1. Nel IV secolo a.C. Aristotele già guarda alla tragedia attica come un classicista: ci dice per esempio che l’Edipo re di Sofocle è una tragedia stupenda perché è ben costruita dal punto di vista della conduzione drammatica, il che è una qualità che pochi decenni prima gli ateniesi non dovevano considerare come essenziale, dal momento che non a questa tragedia diedero il primo premio, bensì ai drammi di un certo Filocle; ci dice poi che nel dramma quello che più conta è la parola, più dello spettacolo (quella che chiama la òpsis): e, come vedremo, il primato della parola è tipico di tutti i classicismi umanistici. Passiamo poi alla cosiddetta Seconda Sofistica (II sec. d.C.), che rese paradigmatici alcuni usi di stile atticistico. Poi, dopo l’umanesimo italiano, che è stato greco e latino insieme, passiamo all’umanesimo tedesco della fine del Settecento, quello di Win-
|| [Lezione (V 19.1.1996 h. 11) tenuta nell’Aula II della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza” (con il titolo originario di L’anticlassicismo di Pasolini e la tragedia greca) nell’ambito del ciclo di Lezioni su Pier Paolo Pasolini, 10.11.1995–26.4.1996, organizzato dal Dipartimento di scienze del linguaggio della “Sapienza” in collaborazione con l’Associazione “Fondo Pier Paolo Pasolini”; pubblicata in T. De Mauro – F. Ferri (edd.), Lezioni su Pasolini, Ripatransone, Sestante, 1997, pp. 123–131] 1 Per il problema dell’approccio umanistico al mondo antico v. L. E. Rossi, Umanesimo e filologia (A proposito della Storia della filologia classica di Rudolf Pfeiffer), «Riv. di filol.». 104, 1976, 98–117. https://doi.org/10.1515/9783110648140-017
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ckelmann per intenderci (il secondo umanesimo), che è stato soprattutto greco, e poi alle due rivoluzioni, quella americana e quella francese, che sono stati umanesimi storico–politici soprattutto latini2. Abbiamo avuto poi, fra gli anni venti e trenta del nostro secolo, il cosiddetto terzo umanesimo di Werner Jaeger, un filologo, che con il suo famoso Paideia ha voluto vedere la cultura greca esclusivamente sotto la species della formazione, della educazione: un punto di vista assolutamente arbitrario e moderno. Deve essere chiaro che ogni umanesimo tradisce il mondo che privilegia e che eleva a modello. Il tradimento consiste, nella migliore delle ipotesi, nella selezione di una o di alcune caratteristiche di una cultura a scapito di un apprezzamento globale e storico: in altre parole, l’umanesimo santifica i momenti che ha voluto considerare classici e li eleva a modello, cancellandone gli aspetti negativi e mettendone in risalto solo alcuni aspetti considerati come positivi (la bellezza e l’equilibrio del mondo greco, per esempio), consumando così una palese ingiustizia dal punto di vista storico e antropologico. Faccio subito un esempio proprio a proposito di Pasolini, che ha cercato di evitare questa inopportuna santificazione levando dalle sue traduzioni, specie nell’Orestea, tutti quei paludamenti linguistici diventati abituali in tutta una tradizione classicistica che non sapeva leggere il testo greco così com’è, e cioè privo assai spesso proprio di quei paludamenti. Pasolini lo ha capito da letterato e anche da uomo di teatro: è stato fedele alla variabilità dei registri linguistici nella tragedia attica nel senso che ha inserito colloquialismi anche violenti dove ce li mettevano i drammaturghi attici. Ma il classicismo non si limita a un tradimento più o meno dilettantesco e inoffensivo. Segnalo un libro che è certamente ben noto a molti dei presenti: Luciano Canfora, Ideologie del classicismo (Torino 1980). Canfora, con il suo abituale spirito polemico, che per noi è alle volte prezioso, prende di mira alcuni momenti di ‘utilizzazione’ del classico. I classicismi non sono sempre innocenti. Forse qualcuno che si interessa di umanesimo italiano del Quattrocento potrebbe sottoscrivere che quella corrente di pensiero e di gusto aveva una buona dose di innocenza, cioè di entusiasmo allo stato puro. Ma i classicismi in genere non sono innocenti, nel senso che si sporcano le mani, si compromettono, piegano quello che santificano come classico a scopi particolari. Darò una panoramica veloce di quanto ci dice Canfora nel suo libro. Dopo la Grande guerra, la prima guerra mondiale, ci si rifugiò nella tecnica filologica, più neutra, e si pregiò per esempio il Pasquali filologo a scapito del Pasquali ideologo || 2 La rivoluzione francese ha avuto anche modelli greci, come la contrapposizione Sparta– Atene, il berretto frigio etc.
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dell’ideale di Roma. Ma dopo la seconda guerra mondiale – e questo è molto interessante – si potenziano gli aspetti che erano fatti per piacere agli americani. Per esempio Kurt von Fritz, un filologo e storico della filosofia greca, ha messo in grande rilievo la lotta al totalitarismo nella propaganda politica del V–IV sec. a.C.: la evidenziazione della lotta al totalitarismo serviva per contrapporsi sia ai totalitarismi di destra, recentemente sconfitti, sia a quello orientale, che si prospettava come il grande avversario dell’America. Canfora vede il mondo antico nelle mani dei moderni a metà fra una ideologia egualitaria e una ideologia elitaria. Per esempio Wilamowitz, grande figura di dittatore degli studi di antichistica nella prima metà del nostro secolo, è presentato come diviso fra un’affermazione dell’egemonia della filologia classica e un arretramento nelle trincee di una filologia classica isolata. Ma queste sono cose troppo nostre, di famiglia filologico–classica. Naturalmente per l’Italia bisognerebbe illustrare i rapporti fra sciovinismo nazionalistico e studi classici: alludo alla polemica dell’inizio del secolo degli antitedeschi Fraccaroli e Romagnoli contro Vitelli e Pasquali. Anche qui parlo di cose di famiglia, ma ben noto a tutti è lo sfruttamento che il fascismo ha fatto del mito di Roma. In Germania l’attrazione esercitata dalle antichità germaniche con gli aspetti correlati di primitivismo ‘sano’ ha sempre fatto aggio sull’antichità classica, ma è forse il caso di ricordare quanto forte è stato il prestigio sociale del classico impersonato dalla classe accademica: cent’anni fa, o anche solo cinquant’anni fa, un professore in Germania era un padreterno. Oggi le cose sono duramente cambiate, come ben si sa. 2. Abbiamo visto che cosa è il classico e che cosa sono stati alcuni dei vari classicismi. Vediamo ora che cosa è l’anticlassicismo. L’anticlassicismo è il liberarsi, a volte anche violentemente, dal classicismo. Il suo punto di arrivo è una condizione di serenità storica che non si sente in dovere di santificare niente e nessuno: il punto di arrivo è quindi il non–classicismo, ed è l’atteggiamento ideale di uno studioso, di uno storico. Anche se – confessiamocelo – dopo tutto, se esiste una cultura che si offre generosamente alla tentazione del classicismo, questa è veramente la cultura greca: come fascino e come ricchezza è certo superiore al pur affascinante mondo latino. I greci, insomma, hanno capito ed espresso tante cose, diciamo pure quasi tutto. Noi stiamo ripensando quello che a suo tempo hanno pensato i greci. Come si vede, mi sto permettendo un momento di umanesimo anch’io: faccio conto di essere in una luminosa domenica mattina, in cui questo mi sia permesso. Diciamo che il mondo greco merita il classicismo: ma diciamo anche che nessuno di noi merita i danni che il classicismo può portare.
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Una parola che è stata molto usata in questi ultimi decenni è ‘colonizzazione’ e si è parlato di ‘decolonizzare l’antico’ in consonanza con la decolonizzazione politica, riuscita o anche solo tentata, del mondo europeo. La decolonizzazione dell’antico ha due facce: l’eliminazione sia dell’ipoteca del mondo antico su di noi (e quindi dell’indebito classicismo umanistico) sia dell’ipoteca nostra sul mondo antico (e quindi dell’indebita attualizzazione del mondo antico). È un’operazione non facile, che si muove fra la venerazione e la nostalgia per momenti storici veramente splendidi e ricchi e, dall’altra parte, l’amarezza per i danni che il classicismo ha fatto alla nostra cultura. Sfogliavo recentemente un vecchio libro (del 1948) di Giuseppe Prezzolini scritto originariamente in inglese per gli americani del dopoguerra, quindi di necessità estremamente elementare ed incisivo: un capitolo è più o meno intitolato così: Quanto l’umanesimo, gloria dell’Italia, è costato caro all’Italia. Ci è costato l’irrigidimento di alcuni processi mentali che hanno portato, per esempio, al dilagare della retorica. Retorica nel senso negativo di parola e basta, e cioè di parola vuota. Oggi non si parla più male della retorica, perché la si vede come una delle formalizzazioni del comunicare, ma quando ero ragazzo io, in clima crociano, retorica voleva dire parola vuota. E purtroppo l’umanesimo ha portato a questa idolatria della parola in sé, che è stato un duro prezzo da pagare. Non che altre culture lo abbiano pagato meno, come per esempio quella francese. I miei allievi sanno quanti sforzi faccio per decolonizzare l’antico nelle due direzioni chiarite prima, e cioè di non proiettare categorie nostre sull’antico e di non farci alluvionare, intimidire dall’antico. 3. Nel titolo di questa mia lezione ho annunciato, con intenzione, che avrei parlato del non classicismo di Pasolini, intendendo con quella parola la serenità dello storico. Avrei fatto altrettanto bene ad annunciare il suo anticlassicismo, e cioè un suo atteggiamento più attivo contro il classicismo, un atteggiamento fatto di amore e di negazione per un mondo che lo affascinava ma dal quale si è ben guardato dal farsi stregare. Insomma, l’anticlassicismo come cammino per arrivare al non classicismo. La via e il punto d’arrivo risulteranno da quanto dirò. Voglio subito proporre una pagina di Massimo Fusillo3 nella quale sono esposte alcune polarità che Pasolini si è sempre proposte, polarità in cui ha sem-
|| 3 M. Fusillo, La Medea di Pasolini, in: AA.VV., Pasolini e l’antico. I doni della ragione, a cura di U. Todini (Convegno di Salerno, ottobre 1994), Napoli (ESI) 1995. Troppo tardi per tenerne conto è uscito M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Firenze 1996, a cui va rinviato chi si interessi ai problemi qui presentati.
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pre privilegiato il secondo termine: presente/passato, repressione/libertà, tecnologia/natura, borghesia/mondo contadino e sottoproletariato, adulto/bambino, padre/madre, progresso (ovvero crescita)/regressione. Nel secondo termine di queste polarità (passato, libertà, natura, mondo contadino e sottoproletariato, bambino, madre, regressione) c’è tutto Pasolini e non c’è niente di classico, o meglio di classicistico. In lui si trovano molte formulazioni teoriche, ma soprattutto molte realizzazioni nel suo teatro e nel suo cinema. Quindi lo chiamerei anticlassicista nel suo approccio e non classicistico nelle sue realizzazioni. Il suo punto di partenza è tutt’altro che ironico e distaccato, non è quello dello storico. Molti hanno parlato di Pasolini ‘professore’: se mai la sua qualità di professore, o meglio di uomo di cultura, è stata solo strumentale. Alcune sue scelte non vanno però fraintese. Ha proposto, per esempio, un teatro in versi proprio in un periodo in cui l’avanguardia faceva sperimentazioni in forme molto avanzate, molto lontane da alcune forme e da alcuni formalismi, tanto da far apparire la scelta del verso come un fatto di conservazione: ma non lo è, perché nel verso è calata una lingua che tutto è meno che classicistica. Non intendo qui passare in rassegna tutta la tematica classica presente in lui. Mi basta accennare all’Orestiade (1960), al Miles gloriosus (Il vantone, 1960), Pilade (1967), Edipo re (1967), Affabulazione (1969), Medea (1970), senza dimenticare gli affascinanti Appunti per una Orestiade africana (1970). Mi limiterò poi ad alcuni aspetti di Medea e di Edipo. Ora, nella lingua e nell’organizzazione narrativa del suo teatro, una prima e fondamentale operazione anticlassicistica è la volontà di creare uno spettacolo epico straniante di brechtiana memoria. Questo è molto anticlassicistico, se pensiamo ad Aristotele e al suo vedere il teatro come qualcosa che non doveva assolutamente essere straniante. Edipo e Medea sono stati due grandi impegni. C’è voluto del coraggio da parte sua per affrontare queste due grandi opere della cultura drammaturgica greca non tanto perché sono belle (sono io a non voler essere classicista, ora!), ma soprattutto perché hanno addosso una storia critica pesantissima, plurisecolare. La qualità di questi due esperimenti tragici è molto più alta del livello medio delle versioni e delle regie che ci vengono proposte normalmente: o fedeli e noiose o attualizzanti e quasi disgustose nella loro ricerca demagogica del consenso. Il fatto è che si tratta di realizzazioni molto difficili, perché il codice drammaturgico antico è così diverso dal nostro: una fedeltà pseudofilologica è un disastro perché è noiosa e d’altra parte l’attualizzazione può facilmente scadere nel volgare. Vediamo Pasolini al lavoro più da vicino. Nel Manifesto per un nuovo teatro (1968) dice: «il mio teatro è per intellettuali che saranno poi tramite per la classe
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operaia». L’aspetto dichiaratamente didascalico, che ricorda Brecht a servizio della rivoluzione, ha importanza ideologica, ma non tocca la realizzazione. In tutti e due i film, Medea e Edipo, quello che mi colpì molto quando li vidi a suo tempo fu che non si presentavano come una trasposizione cinematografica dei due drammi, bensì come una versione cinematografica dei due miti, con tutto quello che consegue a una scelta del genere, e cioè l’inclusione di quanto nelle tragedie di Euripide e di Sofocle è dato come antefatto e soprattutto la volontà di ricostruire un ambiente proprio dell’arcaicità del mito e quindi ben diverso da quello che i greci del V secolo offrivano come contorno dei fatti rappresentati. La cosa che mi ha colpito di più è stato il modo in cui sono vestiti i personaggi: non con le ricche e decorose vesti con cui erano vestiti nel teatro di Dioniso, ma da poveri straccioni del mito arcaico. Voglio rievocare una delle scene più belle, l’incontro di Edipo con il padre Laio. Laio è il re di Tebe, ma va su un carro trascinato da buoi e vestito in modo molto semplice. Che Edipo sia uno straccione non fa meraviglia, perché è un pellegrino che va da Corinto all’oracolo di Delfi per interrogare Apollo sulla sua famiglia. Ma il re! Il re Laio va solennemente a interrogare anche lui l’oracolo, e ci va in un carro di buoi e con poca gente intorno: questo non è la tragedia attica, questo è il mito arcaico, che tra l’altro va d’accordo con quanto ci dice Tucidide nel primo libro delle sue storie, che la Grecia dell’epica era una Grecia povera, la cui grandiosità e ricchezza narrate dall’epos erano assolutamente non vere, ma spontanee e necessarie all’epos per magnificare quel passato mitico. L’epos ingrandisce le cose, le abbellisce, ma in realtà i greci dell’età dell’epica erano poveracci. Le regge, che in Omero sono fatte di materiali preziosi, in realtà erano modeste: lo sa bene chi è stato a Pilo, dove c’è un palazzo miceneo che viene identificato con la reggia di Nestore. Una reggia micenea è ben lontana da quello che ci farebbero aspettare le descrizioni di Omero. Le convenzioni drammaturgiche del teatro del V secolo non si ponevano certo problemi filologici e vestivano i personaggi secondo quello che si pensava dovesse essere il loro rango. Edipo e Giasone erano personaggi di sangue reale e venivano presentati come se li immaginava il greco del V secolo, e cioè piuttosto eleganti. E questo è uno dei tanti anacronismi attualizzanti della tragedia attica. Se vogliamo rappresentarci uno degli anacronismi a cui la nostra esperienza è particolarmente abituata basta pensare al modo in cui sono travestiti tutti i personaggi della grande pittura europea con temi biblici. Prendiamo Venezia: Tiziano, Veronese, Tintoretto ci presentano personaggi biblici con addosso tutta la ricchezza di Venezia. Si potrà dire che Pasolini ha scelto una soluzione del genere per la buona ragione che l’opposizione ricchezza/povertà, da aggiungere a quelle menziona-
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te poco fa, lo ha sempre portato a privilegiare la povertà anche a livello figurativo, come in Mamma Roma, Accattone, La ricotta, film nei quali la stessa tematica realista non offriva alternative. Ma, se consideriamo il Vangelo secondo Matteo, ci troviamo di fronte a un fenomeno parallelo a quello della tragedia attica: la sua soluzione figurativa è ben lontana da quella della pittura veneta. Sapeva bene che, volendo rappresentare il mito, poteva, anzi doveva comportarsi così. Veniamo ora a considerare elementi più sostanziali della presentazione del mito. Volendo offrire l’intera fabula, ha dato nei due film largo spazio agli antefatti, di cui il pubblico ateniese non aveva assolutamente bisogno, ma di cui aveva bisogno il pubblico moderno, che del mito ha poca o nulla conoscenza. Quindi nell’Edipo ci sono i genitori, nella Medea l’infanzia di Giasone con il famoso sdoppiamento della figura del centauro. Si dirà anche qui che la scelta è dettata da un problema di comunicazione col pubblico, ma è certamente, anche questa, una scelta non classicistica. Ma c’è di più. Edipo è un film quasi muto. L’uccisione di Laio avviene en admirable silencio, come la scazzottatura nell’osteria di Don Chisciotte. I personaggi o tacciono o monologano, qualche volta persino urlano. Ma il classico e il classicismo vivono sulla parola, sulla comunicazione verbalizzata secondo un codice verbale quasi sempre alto e nobile. L’espediente del mutismo crea una scena potente come quella dell’uccisione di Laio, dove tutti stanno in silenzio finché la battuta “Levati, pezzente!” fa scatenare tutto il dramma delle uccisioni. Ecco un procedimento per eccellenza anticlassicistico. Voglio poi far notare un fatto interessante, che ci fa entrare nella carne e nel sangue dell’Edipo di Pasolini, dove l’enigma della sfinge non c’è. Nel mito per far cessare la peste a Tebe bisognava risolvere l’enigma posto dalla sfinge, che suonava più o meno così: “Chi è quell’essere che appena nato va a quattro zampe, quando è adulto su due e quando è vecchio su tre?”. La risposta è “l’uomo”. Nel film l’indovinello non c’è: c’è soltanto la sfinge, presentata per di più in forma molto buffa, ridicola, che esorta Edipo a conoscere se stesso. È una concessione a un freudismo esplicito, anche questa motivata da una necessità di comunicazione col pubblico. Poi c’è un altro fatto di grande interesse, messo in luce recentemente da Maria Grazia Bonanno4. Nella Orestiade africana ci sono le Erinni, le Furie, come nel teatro di Eschilo, dove alla fine si trasformano in Eumenidi, in ‘dee benevole’. Le Erinni e le Eumenidi sono sempre state un problema per la critica e anche per la regia moderna. Ebbene, Pasolini ha trovato una soluzione eminentemente || 4 M. G. Bonanno, Pasolini e l’Orestea: dal ‘teatro di parola’ al ‘cinema di poesia’, «Dioniso», 1993, 135–154.
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anticlassicistica: le ha presentate come alberi, alberi naturalmente con rami paurosamente contorti. Ha negato a loro ogni (umanistica) dignità umano– divina e le ha trasformate in natura. E qui la Bonanno sfrutta questa sua bella intuizione e si fa delle domande sulla cultura di Pasolini. «Ignoro se Pasolini sapesse – cito la Bonanno5 – del mostruoso albero, capace di fare ombra su tutta Micene nel sogno eschileo, o della altrattanto onirica vite che germoglia dal grembo della Mandane di Erodoto (I libro) e che copre minacciosamente l’intera Terra (Soph. El. 422s.; Herodot. 1.108)». Accertare se Pasolini sapesse dei due minacciosi vegetali presenti proprio nella cultura del V secolo può servire ad accertare le sue intenzioni, ma non a precisare la rilevanza dei suoi risultati. A noi le due paurose immagini servono – se ancora oggi ce n’è bisogno – a confermarci che i greci nel V secolo erano ancora portatori di un’arcaica cultura dell’orrido ovvero dell’irrazionale, per citare uno splendido libro di quasi cinquant’anni fa, quello di Dodds, I greci e l’irrazionale. Gli storici delle religioni studiano da tempo gli aspetti orridi della religione greca arcaica, in cui c’è la Gorgone, in cui si pratica l’evirazione delle divinità, cose orrende che nei limiti del possibile la cultura della polis cerca di mettere da parte, di refouler. Pasolini aveva certo più amore per Eschilo che per Sofocle e per Euripide. Eschilo, di cui ha tradotto l’Orestea e che gli ha ispirato alla fine della vita l’Orestiade africana, è il meno classicistico fra i tre grandi drammaturghi. C’è in Eschilo un ottimismo politico di facciata che è appunto quello dell’Orestea, con la vittoria dell’individuo sull’arcaica responsabilità familiare per cui si doveva rispondere delle colpe della famiglia: ma il suo teatro è pieno di orrori, è arcaico quanto poteva esserlo un greco della polis. Sofocle è il drammaturgo che più può invitare a una lettura classicistica e Euripide può invitare a una lettura psicologistica, due atteggiamenti che la cultura moderna ha abbondantemente praticati. Pasolini, proprio in Edipo e in Medea, ha eliminato ogni diaframma classicistico e ha evitato contorsioni psicologistiche e cioè modernizzanti. Non mi pare che la lezione di Pasolini sia stata gran che recepita dai registi che oggi mettono in scena il dramma antico. Rispetto al V secolo, invece di guardare in avanti alla ricerca di attualizzazioni che nelle intenzioni dovrebbero essere accattivanti ma che in realtà sono spesso disorientanti, farebbero meglio a guardare indietro, nell’oscuro patrimonio del mito arcaico, evitando anche oleografie di maniera: non sarebbe un chiedere troppo al pubblico, che sicuramente capirebbe, ma forse è un chiedere troppo ai registi, che si muovono ancora in un clima culturale che legge il V secolo con occhio umanistico, classicistico. Non è colpa loro: è se mai colpa nostra, di noi antichisti, che dovremmo fare || 5 M. G. Bonanno, art. cit., 152.
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tutti avvertiti di quanto in questi ultimi decenni siamo venuti capendo del mondo antico6.
|| 6 In questa redazione ho conservato lo stile orale della lezione. Debbo suggerimenti preziosi, ottenuti sia prima sia dopo la lezione, a Maria Grazia Bonanno, Giovanni Greco, Sandro Onofri, Gabriele Pedullà, Francesco Ursini, Maria Zerbino.
La méthode philologique de Jean Baptiste Gaspard d’Ansse de Villoison et le Venetus Marcianus A En 1788 Jean Baptiste Gaspard d’Ansse de Villoison publia à Venise le Venetus Marcianus A de l’Iliade avec ses précieux commentaires anciens1. On admet généralement que la philologie homérique commença avec les Prolegomena de Friedrich August Wolf sept ans plus tard (1795). Or, ces fameux Prolegomena s’appuyaient sur les scholies publiées par Villoison. Ceci est, à mon avis, vrai, dans les limites que je vais exposer. Ce que je voudrais vérifier ici est jusqu’à quel point Villoison a compris l’importance capitale de sa découverte, relativement à quatre secteurs spécifiques de la philologie homérique: 1) la constitution du texte homérique: le Venetus Marcianus A n’était rien d’autre qu’un nouveau manuscrit de l’Iliade, même si très vite on lui attribua, tout à fait à raison, une importance fondamentale; 2) l’activité philologique et herméneutique des Alexandrins, illustrée par les scholies: elle fut une grande contribution au texte mais elle avait aussi une valeur en tant que telle pour l’histoire de la philologie ancienne; 3) l’histoire ancienne du texte: le témoignage de ces mêmes scholies sur l’activité ecdotique antérieure permettait en effet d’esquisser l’histoire de la tradition ancienne d’un texte, bien que les poèmes homériques ne fussent considérés qu’à partir d’Aristote et des Alexandrins comme un texte figé et un “livre”2;
|| [Relazione di convegno pubblicata in Fr. Létoublon – C. Volpilhac–Auger (édd.) avec la collaboration de D. Sangsue, Homère en France après la Querelle (1715–1900), Actes du colloque de Grenoble (23–25 octobre 1995), Université Stendhal–Grenoble 3, Paris, Champion, 1999, pp. 51–61] 1 Homeri Ilas ad veteris codicis Veneti fidem recensita. Scholia in eam antiquissima ex eodem Codice aliisque nunc primum edidit cum Asteriscis, Obeliscis, aliisque Signis criticis Ioh. Baptista Caspar d’Ansse de Villoison, Venetiis MDCCLXXXVIII (Typis et sumptibus Fratrum Coleti). L’histoire, bien intéressante, des rapports entre Villoison et le manuscrit fait l’objet d’une communication ici (supra) par Luciano Canfora. 2 J’ai essayé de soutenir cette hypothèse particulièrement dans L.E. Rossi, “L’epica greca fra oralità e scrittura”, Reges et proelia. Orizzonti e atteggiamenti dell’epica antica, Como, Ed. New Press, 1994, p. 29–43 (Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Pavia. Incontri del Dipartimento. VII. Pavia, 17 marzo 1994). https://doi.org/10.1515/9783110648140-018
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4) les signes critiques, puisque les scholies offrent un témoignage précieux sur leur utilisation pratique; des listes de signes critiques existaient déjà, mais les scholies A fournissent le corpus le plus ample pour l’utilisation appliquée de ces signes. Je vais essayer de répondre dans l’ordre à chacune de ces questions. 1. Quel aspect Villoison a–t–il trouvé dans le Venetus A pour l’établissement du texte de l’Iliade? Le jugement porté par Thomas W. Allen, dans son editio maior de l’Iliade3, sur l’activité d’éditeur de Villoison est, dans sa concision, fortement réducteur: The celebrated edition of Villoison, Venice, 1788, reproduced the readings and signs of Ven. 454 (A), as well as the scholia of A and of Ven. B (453), to which he adds those of Li. In his edition of Apollonius (Apollonii Sophistae Lexicon Graecum … Lutetiae Parisiorum, 1773) he had given at the end of vol. II, pp. 921–23, the vv. ll. of two Paris MSS., 2684 (P6) and 2766 (P11), on Γ.
Villoison reproduisit donc le texte du Venetus A, et exécuta ce travail avec soin. Il est intéressant de signaler la raison pour laquelle il évita d’imprimer accents et esprits (p. XLVIII)4: ut typographicorum mendorum numerus minueretur (“Afin de diminuer la quantité des erreurs typographiques”), puisque, comme il le dit, au moment de l’impression il se trouvait non pas à Venise, mais en Allemagne, en France et en Grèce. Villoison a–t–il considéré son œuvre comme une édition fondée exclusivement sur le codex optimus5 (vieux préjugé de la critique textuelle d’ancien régime), ou bien, s’étant rendu compte que A était un manuscrit réellement excellent, a–t–il voulu en donner une transcription quasiment diplomatique? En fait son appréciation du manuscrit comme témoin fidèle de l’orthographe ancienne (v. infra, § 2 et 4) fait croire qu’il voulait publier justement ce manuscrit, mais son introduction n’est pas claire sur ce point. Indépendamment de ses intentions, à mon avis le résultat est une sorte de compromis entre les deux options. Il serait du reste ridicule de lui reprocher, aujourd’hui, ce compromis: la méthode philologique moderne faisait alors ses
|| 3 Homeri Ilias. Ed. Thomas W. Allen. Tomus I, Prolegomena, Oxford, 1931, p. 265. 4 En l’absence d’autres indications, le numéro de la page se réfère toujours à l’édition de Villoison. 5 Sur l’histoire du mythe du codex optimus voir G. Pasquali, cité à la n. suivante, passim; très utile pour l’origine de notre terminologie, S. Rizzo, Il lessico filologico degli umanisti, Roma, 1973, par ex. s.v. codex vetustissimus et renvois; A. Dain, Les manuscrits, nouvelle éd. revue, Paris, 1964.
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premiers pas6. Je reviendrai ensuite sur l’évaluation positive que la critique ultérieure a donnée du travail de Villoison. 2. Le patrimoine offert par les scholies a été attentivement étudié par Villoison, comme le montrent clairement ses Prolegomena. Dans leur première partie (p. I– XIII) sont examinés les accents, les esprits, les aspirations internes, les signes de longue et de brève, ainsi que ce qu’il appelle les usages orthographiques des anciens; à cette partie fait suite (p. XIII–XIX) une importante section traitant des signes critiques (sur lesquels nous reviendrons infra, au § 4) et des signes tachygraphiques. Villoison était donc extrêmement intéressé par l’orthographe, dans laquelle il voyait un legs de l’Antiquité la plus reculée, sans doute à tort, parce que pour l’orthographe les témoins les plus sûrs doivent être cherchés dans les inscriptions les plus anciennes7. En tout cas Villoison eut le grand mérite de reconnaître, en homme qui avait pratiqué les manuscrits, l’immense importance du Venetus A pour la quantité absolument extraordinaire d’informations linguistiques qu’il contient (je soulignerai par exemple les aspirations internes), ainsi que pour les informations historico–philologiques dont il est porteur. Nous sentons, dans ses paroles mêmes, son enthousiasme (p. XXXI): Vides igitur celeberrimos totius antiquitatis Criticos, et eos praesertim, qui ex Aristarchea et ex Alexandrina Schola tamquam ex equo Troiano prosiluere, in hisce laudari Scholiis. (“Tu peux donc voir, cités dans ces scholies, les critiques les plus illustres de toute l’antiquité, et ceux–là en particulier, qui sortirent de l’école aristarchéenne et alexandrine comme du cheval de Troie.”)
Et encore (p. XXXIV): Hisce Scholiis, numquam antea vulgatis, maxima Homericis versibus lux effunditur, loca obscura illustrantur, veterum ritus, mores, Mythologia, Geographia explicantur, germana & sincera lectio constituitur, variae variorum Codicum et Editionum lectiones atque Criticorum emendationes perpenduntur. (“Ces scholies, jamais publiées auparavant, répandent une lumière extraordinaire sur les vers homériques; des passages obscurs sont
|| 6 Il est presque inutile que je renvoie à G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo. Seconda ed. con nuova prefazione e aggiunta di tre appendici, Firenze, 1952 (plusieurs fois réimprimé), particulièrement le premier chapitre (malheureusement il ne nomme pas Villoison, mais cela se comprend du fait qu’il a pris en considération seulement ceux qui ont contribué à des progrès substantiels dans le domaine). 7 Comme le fait A.C. Cassio, «La più antica iscrizione greca di Cuma e τίν(υ)μαι in Omero», Die Sprache 35, 1991/3, p. 187–207. Cassio me signale M. Lejeune, “Sur l’accentuation attique de χαμᾶζε”, REA 42, 1940, p. 227–233, qui mentionne explicitement l’accentuation du Venetus A (reconnue comme dérivée d’Hérodien).
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éclaircis, les rituels, les coutumes des anciens, la mythologie, la géographie sont expliquées; une leçon pure et juste est établie, les différentes leçons des différents manuscrits et éditions, ainsi que les corrections des critiques, passent ici en jugement.”)
Les scholies devaient donc servir d’une part à améliorer le texte des poèmes homériques et, d’autre part, à en illustrer le contenu. Je trouve enthousiasmant de voir Villoison regarder le corpus des scholies comme s’il s’agissait d’une de ces colossales éditions cum notis variorum et avec des commentaires immensément érudits, auxquelles les savants s’étaient accoutumés pendant les XVIIe et XVIIIe siècles et qui à leur tour imitaient les corpora scholiastiques des anciens: l’exemple le plus beau à ma connaissance est l’Athénée d’un savant de langue française, Isaac Casaubon (1597sv.; le remaniement de Schweighaeuser est de 1807sv.). 3. Considérons maintenant ce qu’il en est de l’histoire ancienne d’un texte, telle que devaient la faire par la suite Wolf pour Homère (en 1795) d’une part, et un siècle plus tard Wilamowitz8 pour la tragédie, les poètes lyriques et les poètes bucoliques de l’autre. Or, cette signification profonde de la partie la plus importante des scholies échappa à Villoison. D’ailleurs, il n’aurait pu en aller autrement: Villoison était un érudit encore éloigné des toutes nouvelles tendances historico–philologiques et historicisantes (rappelons que selon Meineke l’historicisme naît en Angleterre, peu de temps avant Villoison, pour passer ensuite en Allemagne)9. Le manuscrit l’intéressait principalement en tant que témoin d’un texte plus pur (§ 1) et en ce qu’il présentait des signes critiques (§ 4). Ce n’est que partiellement et même avec une sorte de terreur, pourrait–on dire, que Villoison prend acte de la révolution historico–exégétique qui devait suivre sa publication10: Wolf, qui détruisait toute idée reçue sur Homère, lui apparut comme un révolutionnaire dangereux et inacceptable. Plus tard Goethe eut une réaction assez semblable: la crainte de voir s’effondrer la personnalité || 8 Wilamowitz donna ces contributions, essentielles à nos études, peu avant et peu après l’année 1900. 9 J.E. Sandys, A History of Classical Scholarship. II, Cambridge, 1908 (repr. New York, 1958), p. 397 sv. 10 Sandys, ibid. Tout cela bien que, dans une lettre à Wolf même datée du 17 septembre 1804 par laquelle il le remercie de l’envoi du commencement de son édition maior de l’Iliade, il écrit: «Maintenant je m’empresse de vous remercier de votre excellente Edition de l’Iliade, des Prolégomènes pleins de critique, de sagacité et d’érudition que vous y avez joint et qui me font désirer avec la plus vive impatience la suite de votre Edition et de vos observations sur Homère». Je trouve cette lettre éditée par Ch. Joret, “Trois lettres inédites de Villoison à Fr. A. Wolf”, REG 19, 1906, p. 394–409 (en part. 407–9): l’article m’a été signalé par Luciano Canfora.
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d’Homère. Dans son compte–rendu de 179511 des Prolegomena de Wolf, Christian Gottlob Heyne, tout en louant le soin apporté par Villoison à son édition, déplorait que celui–ci n’eût su recueillir les fruits de sa grande découverte12. Mais au fond, Heyne non plus ne réussit jamais à comprendre jusqu’au bout l’intérêt extraordinaire du matériel scholiastique offert par Villoison. Volkmann13 a porté sur l’édition de Villoison le jugement le plus injustement négatif: eine höchst dilettantische und oberflächliche Arbeit. (“un travail de dilettante, tout à fait superficiel.”) Face à ce jugement, Comparetti14 a très justement réagi avec des paroles fermes: nec belle nec recte intemperanti iudicio editionem vituperat. (“Par un jugement excessif, il insulte de façon inélégante et injuste l’édition.”) En dernier lieu, dans son édition des scholies à l’Iliade15, Erbse célèbre en ces termes Villoison: Primus editorum hic vir doctissimus codice A usus est, cuius vim et naturam feliciter perspexit. … Editionem autem admirabilem post ingentem laborem a.D. 1788 perfecit… (“Premier parmi les éditeurs, cet homme très savant se servit du manuscrit A, dont il avait reconnu avec heureuse intuition l’importance et la nature.[…] Et après un travail énorme, il compléta en 1788 une édition admirable…”)
Si l’on veut faire un reproche à Villoison, c’est d’être né avant Wolf…, et c’est un reproche absurde. Lisons plutôt ses propres paroles sur ce qu’il imagine avoir été la préhistoire du texte écrit d’Homère (p. XXXX): Homericum enim contextum, qui memoriter a Rhapsodis recitabatur, quique omnium ore decantabatur, jam pridem corruptum fuisse constat; cum fieri non potuerit, quin multa
|| 11 GGA 1795, p. 1857–64; réimprimé en appendice à l’édition par R. Peppmüller des Prolegomena ad Homerum de Wolf, Halle 1884, p. 240; je citerai dorénavant les Prolegomena de Wolf par les pages de l’édition de Peppmüller (On peut se servir aussi de F.A. Wolf, Prolegomena to Homer, 1795. Transl. with Introd. and Notes by A. Grafton, G.W. Most and J.E.G. Zetzel, Princeton, 1985, où l’on trouve un bref commentaire). 12 On peut lire dans son regret une certaine ironie; c’est ainsi que l’interprète aussi C. Bursian, Geschichte der classischen Philologie in Deutschland von den Anfängen bis zur Gegenwart, München u. Leipzig 1883, I, p. 526. 13 R. Volkmann, Geschichte und Kritik der Wolfschen Prolegomena zu Homer: Ein Beitrag zur Geschichte der Homerischen Frage, Lepizig 1874, p. 40 et suiv. 14 Homeri Ilias cum scholiis. Codex Venetus A, Marcianus 454 phototypiche editus, Praefatus est Dominicus Comparetti, Lugduni Batavorum 1901, p. XIII et n. 2. 15 Scholia Graeca in Homeri Iliadem (Scholia Vetera). Rec. H. Erbse, Berlin 1969, p. LXVIII.
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necessario demerent, adderent, immutarent, diversi diversarum Graeciae regionum Rhapsodi. (“En effet il est évident que le texte homérique, qui était récité de mémoire par les rhapsodes, et qui se trouvait sur la bouche de tous, était déjà corrompu auparavant; puisqu’il aurait été impossible d’éviter que les différents rhapsodes des différentes régions de la Grèce n’enlèvent, n’ajoutent ou ne changent beaucoup au texte.”)
J’oserais dire que ce sont là les paroles de Villoison les plus significatives, parmi celles que j’ai citées: au fond, il n’a pas ignoré l’histoire du texte; pour lui, les poèmes homériques étaient quelque chose de figé bien avant que les rhapsodes ne commencent à les réciter partout dans le monde grec, en corrompant – dans son opinion – une pureté originelle qui était seulement présumée. On voit qu’en fait la phase orale de l’epos, qui dut être hautement élastique, ne lui était pas inconnue ou étrangère: tout simplement, il la voyait comme postérieure à la fixation du texte, c’est–à–dire qu’il entrevoyait un texte initial comme s’il eût été un ne varietur (un ‘livre’, comme je le disais supra, au § 1), ce qui est contre la nature d’une tradition orale originelle, comme elle avait été reconnue même de son temps (d’Aubignac, Vico, Wood). Il considérait donc une bonne partie de la philologie alexandrine, offerte à ses yeux d’éditeur des scholies, comme un instrument qui aurait permis de revenir à cette pureté originelle, qui n’existait que dans son imagination. Je parle ici avec mon opinion personnelle sur les poèmes (j’ai eu autrefois l’occasion de donner ma profession de foi homérique16), mais je sais qu’en envisageant ainsi la phase que j’ai appelée ‘élastique’ je ne suis pas seul. Entre autres, c’est justement la présence des formules qui a eu comme conséquence beaucoup de turbulence textuelle en favorisant les échanges semblables et les adaptations de formules identiques17. Voilà ce qui nous permet de préciser en quel sens et avec quelles limitations Villoison a été un précurseur de Wolf. Au fond, j’oserais dire que la précieuse édition de 1788 ne fut pour Wolf que la simple occasion de s’occuper à fond de la philologie ancienne sur Homère: elle fut une occasion tout à fait extérieure, puisque la démarche décisive vers l’histoire et surtout la préhistoire du texte homérique oral vint d’une intuition de Wolf lui–même18. Si l’on veut être précis, une telle démarche avait déjà été faite par l’abbé d’Aubignac (1715, mais dès
|| 16 L.E. Rossi, «I poemi omerici come testimonianza di poesia orale», Storia e civiltà dei Greci. Dir. da R. Bianchi Bandinelli, vol. I.1, Milano, 1978, p. 73–147. 17 Cette influence des formules sur la critique textuelle homérique a été bien mise en évidence par Pasquali, ouvr. cité, p. 201 (au commencement du § 2). 18 Du reste Wolf lui–même, Prolegomena, ouvr. cité, p. 58, souligne le fait que dans les scholies le problème de l’écriture n’est jamais mentionné.
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1664), par Giambattista Vico (1744), par Robert Wood (dès 1767)19. Mais Wolf partait d’une base plus solide que ses devanciers, parce qu’il avait à sa disposition un matériel que les autres n’avaient pas eu, c’est–à–dire les scholies de Villoison, et aussi parce que la méthode historico–philologique allait s’affinant, en partie grâce à son propre travail. Après avoir traité de la préhistoire et de l’histoire archaïque du texte homérique, Wolf20 suivit l’histoire du texte à partir de Pisistrate en s’appuyant justement sur les scholies du Venetus A. Il est intéressant de remarquer qu’il n’y eut pas la moindre polémique de la part des contemporains, Wolf en première ligne, contre Villoison: ce dernier ne présentait en fait pas de prise pour une polémique21. Parmi tous ceux qui se sont servis de son œuvre et l’ont évaluée, la note dominante, bien au contraire, semble être celle de la reconnaissance22, une reconnaissance qui est la nôtre encore aujourd’hui. Du reste, comme l’a bien souligné Sir John Myres23, Wolf lui–même n’avait pas réussi à retirer de ce précieux corpus de scholies tout ce que l’on aurait pu en déduire avec plus de calme et de réflexion: entre 1788 et 1795, il n’y a pas beaucoup d’écart, et l’ambiance dans laquelle Wolf travailla n’était pas exactement riche de stimuli en cette direction, même si la correspondance avec Heyne24 après la publication des Prolegomena est un témoignage précieux du développement ultérieur de ses idées.
|| 19 R. Wood, An Essay on the Original Genius of Homer, imprimé en privé en 1767, publié à Londres en 1769, édition posthume An Essay on the Original Genius and Writings of Homer, with a Comparative View of the Ancient and Present State of the Troade, London, 1775 (je prends ces précisions chez Myres, cité infra, p. 59.1). 20 Wolf, Prolegomena, ouvr. cité, p. 122 et suiv. (voir en particulier 134–39, où il commence à citer de façon systématique les scholies). 21 On peut lire chez Wolf, Prolegomena, ouvr, cité, p. 30, un passage qui semble réellement se présenter comme une réponse à la vision textuelle de Villoison, sans que par ailleurs le nom de ce dernier apparaisse: il était normal que les poèmes homériques traversent une phase orale ‘élastique’, comme je l’ai dit plus haut, avec de nombreuses modifications, il fallait donc, avant qu’il ne soient pour ainsi dire figés dans l’écriture, que plusieurs éléments dans les poèmes subissent des changements, que ce soit par un choix ou par le hasard, antequam scripto velut figerentur, plura in iis vel consilio vel casu immutari necesse (esset); ensuite, une fois fixés par écrit, évidemment dès qu’ils commencèrent d’être écrits, il y eut beaucoup de différences, statim ut scribi coepta sunt, multas diversitates habuerunt, etc. 22 Wolf, Prolegomena, ouvr. cité, 8, parle de l’extraordinaire mérite de Villoison, insigne meritum Villoisonii. 23 J. Myres, Homer and his Critics, London, 1958, p. 74 et suiv. 24 Editée par Peppmüller, elle fut publiée en appendice à la réimpression des Prolegomena, ouvr. cité.
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J’essaie d’esquisser une chronologie rapide du chemin parcouru par les idées de Wolf à partir du moment où ses Prolegomena parurent en 1795. On peut signaler que les Prolegomena avaient été initialement conçus comme une introduction à une édition scolaire de l’Iliade qui lui avait été demandée par un éditeur de Halle; une édition plus ample parut ensuite en 1804–1807. Ses théories auraient dû attendre longtemps, avant d’être pleinement comprises et appréciées. Les noms qui comptent sont ceux de Lehrs en 1833 (et les éditions suivantes), La Roche dès 1862, Ludwich en 1884 et en 189825. Une longue série d’études allait suivre, qui devait porter à la reconnaissance de la langue poétique homérique et surtout à celle de la technique de la composition formulaire (Witte, Meister, Parry, etc. jusqu’à nos jours). 4. Quant aux signes critiques26, l’importance de cet aspect fondamental de l’activité philologique des Alexandrins n’échappa pas à Villoison. Il se félicite par exemple du fait que les signes critiques sont non seulement commentés dans les scholies, mais sont aussi utilisés dans le texte même de l’Iliade (p. XIII): Egregius ille Venetus Iliadis Codex hac singulari laude commendatur, quod non solum veterem orthographiam et accentus ac spiritus, secundum antiquissimorum Criticorum leges appositos, repraesentet, sed etiam plurimorum Homericorum versuum initio adpicta exhibeat illa signa critica, scilicet ὀβελόν [je respecte son accentuation], ὀβελὸν σὺν ἀστερίσκῳ, ἀστερίσκον καθ᾽ ἑαυτόν, διπλῆν καθαράν, διπλῆν περιεστιγμένην, ἀντίστιγμα ἄστικτον, ἀντίστιγμα περιεστιγμένον, κορωνίδα etc etc. a veteribus Criticis usurpata ad indicandos versos nothos et spurios, obscuros, corruptos, conspicuos et insignes […] (“Ce remarquable manuscrit vénitien de l’Iliade se signale aussi tout particulièrement, non seulement parce qu’il représente l’orthographe ancienne, avec l’accent et l’esprit, apposés selon les principes de Critiques très anciens, mais aussi parce qu’il exhibe, apposés au début de très nombreux vers homériques, ces signes critiques, c’est–à–dire l’obelos, l’obelos avec astérisque, l’astérisque seul, la diplê simple, la diple periestigmène (diplê avec deux points), l’antisigma, l’antisigma avec deux points, la coronis etc. etc., utilisés par les critiques anciens pour indiquer les vers interpolés, obscurs, corrompus, remarquables pour quelque raison […]”)
Il se vante d’ailleurs (p. XIV), avec raison, d’avoir rendu et dans le texte et dans les scholies: haec signa hactenus amissa, et in omnibus praecedentibus Editionibus omissa. (“ces signes jusqu’à présent oubliés, et omis dans toutes les || 25 Myres, ouvr. cité, p. 74. 26 Reproduits dans l’édition de Villoison p. LIX et suiv. sur la base du Ven. Marc. 453 (le codex B), et en W. Dindorf, Scholia Graeca in Homeri Iliadem ex codicibus aucta et emendata, vol. III, Oxford 1877, p. XX et suiv.
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éditions précédentes”). Ailleurs (p. IV et suiv.) il avait dit, avec plus de précision: …in eodem Codice Homerico, qui non solum antiquas lectiones, sed et antiquam repraesentat orthographiam, quae fortasse et in aliis codicibus nondum satis diligenter excussis latet… (“…dans ce même manuscrit homérique, qui représente non seulement les leçons anciennes, mais aussi l’ancienne orthographe, qui peut–être se cache aussi dans d’autres manuscrits qui n’ont pas encore été examinés avec une attention suffisante…”)
Un des grands mérites de Villoison est donc sans doute celui d’avoir presque inauguré ce qu’on peut appeler la littérature moderne sur les signes critiques. Somme toute, même avec ses limites, on peut ou plutôt on doit l’inscrire dans le véritable panthéon des homéristes.
Appendice au § 4 Les signes critiques sont un sujet qui n’a pas eu beaucoup de fortune dans les études modernes, et c’est peut–être bien de profiter de cette occasion pour signaler qu’il n’y a pas d’études exhaustives et récentes à ce sujet, études qui devraient chercher à établir à mon avis les points suivants: a) Créer une table des différentes significations qui sont attribuées aux signes; l’article de Gudeman, “Kritische Zeichen”, RE 11, 1922, n’est pas très clair et est désormais dépassé, vu la grande quantité de papyrus qui ont (re)vu le jour depuis; naturellement, L. Friedländer, Aristonici περὶ σημείων ᾽Ιλιάδος reliquiae emendatiores, Göttingen, 1853, est toujours utile; mais il n’offre pas de synthèse. D’ailleurs, il faudrait, entre autres, ajouter les signes (comme la coronis) et les significations, parfois différentes, qui sont en usage pour la poésie lyrique (à ce propos, il faut voir le Περὶ σημείων d’Héphaestion): Pfeiffer 1968 n’en donne pas une étude systématique. Pour tout dire, il me faut reconnaître que lorsque j’ai besoin de renseignements précis, je ne sais pas où aller les chercher. b) Dans les limites du possible, au moins suggérer un parcours historique de leurs diverses utilisations et significations, à partir d’un tableau d’ensemble tel celui qui est décrit en a), pour arriver à montrer lesquels parmi les critiques anciens les ont utilisés et de quelle manière (je pense surtout à Aristophane et à Aristarque: v. pour le moment l’étude sur les éditions d’Alcée de A. Pardini, “La ripartizione in libri dell’opera di Alceo. Per un riesame della questione”, Riv. di Fil. 119, 1991, p. 257–284).
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c) Faire une histoire aussi de leur connaissance chez les modernes, connaissance qui avant Villoison était très limitée. d) Donner un panorama des études modernes sur le sujet, depuis l’œuvre si méritoire de Villoison jusqu’à nos jours. Je pourrais donner encore quelques renseignements très sommaires, qui d’autre part sont bien connus, seulement pour montrer comme l’histoire moderne des signes critiques est importante et, en fait, négligée. Je vais me borner à des données, sans me soucier d’en donner toutes les sources en détail. Dans l’Antiquité, les signes critiques étaient apposés à des textes appartenant à toutes sortes de genres littéraires (même à des textes en prose: Turner); la question de savoir si à chaque commentaire correspondait une édition avec des signes critiques et vice–versa, est toujours sub iudice (Turner; contra, Pfeiffer). Le système atteignit un niveau de complexité extrême avec Aristarque, qui consacra à son illustration une section entière de ses Hypomnemata. De toute façon, même si le schéma de Turner est un peu trop rigide, on peut certainement le suivre lorsqu’il affirme qu’un texte équipé de signes critiques documente une activité érudite, que c’est donc un texte en quelque sorte ‘protégé’ (puisqu’il faut maintenir la correspondance entre le texte et le commentaire). Après Aristarque, le système a dû se conserver dans des formes plus ou moins mécaniques, qui dans quelques cas mirent en danger sa cohérence, comme lorsque des grands commentaires on passa à des excerpta plus sélectifs, et ensuite encore, aux scholies marginales: autrement dit, en passant de main en main les signes acquirent des significations différentes. Le système des signes critiques arriva dans le monde latin par le moyen des disciples d’Aristarque; le nom du grammairien romain Aelius Stilon, leur contemporain, est très probablement rappelé dans un passage très corrompu de l’Anecdoton Parisinum, un texte court relatif aux signes critiques, et il devait être accompagné des noms d’autres grammairiens (Vargunteius, Pompée Lenaius?). L’Anecdoton dépend – d’aucuns pensent de façon très directe – d’une œuvre de Suétone, le De notis (cf. la Suda), et il pourrait donc véhiculer du matériel remarquablement ancien. Les deux grandes traditions de commentaires à Homère, aussi bien celle des scholia minora, qui remonte aux glossographes préhellénistiques, que celle des scholia maiora hellénistiques, présentent toutes deux des traces du système de signes critiques élaboré par les Alexandrins. On peut lire dans le Cod. Rom. Bibl. Naz. 6 des scholies D un excerptum sur les signes critiques qui fait penser au fragment anonyme du feuillet 8 du Ven. A. Les signes critiques étaient donc bien
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connus, même avant la découverte du Ven. A; d’ailleurs, Constantin Lascaris résume l’excerptum sur les signes critiques du Cod. Rom. La tradition des scholies D, dans sa forme la plus ample, est entièrement italo–grecque; le Ven. A vient au contraire de Constantinople (Arethas, Efrem?) et fut apporté en Italie par Aurispa, mais son influence sur les éditions d’Homère ne dépassa pas le début du XVIe, et il fut ensuite oublié. Les signes critiques étaient donc connus – comme on l’a dit – bien avant la découverte du Venetus A; leur application ne pouvait toutefois être étudiée, parce qu’on ne disposait pas du manuscrit qui les utilisait de la façon la plus systématique. C’est du moins ce qui ressort implicitement de la praefatio à l’édition d’Erbse, où, dans la description des manuscrits, on ne parle de signes critiques que dans de rares cas, par exemple pour l’Escorial. Gr. 509, et comme d’un moyen pour relier le texte au commentaire; on n’arrive pas à comprendre s’il s’agit dans ces cas de simples marques de renvoi comme les étoiles et les petites croix du cod. C. Les papyrus ont par la suite permis de préciser les modalités de l’utilisation des signes critiques, mais tout en soulevant de nouveaux problèmes dus à ce qu’on peut appeler la fragmentation de leur usage27.
|| 27 Je remercie beaucoup les amis qui ont bien voulu m’inviter à parler à ce colloque ainsi que Madame Paola Ceccarelli pour la révision substantielle de ma version française (ce que j’ai ensuite ajouté meo marte est sous ma seule responsabilité). Les remarques qui ont été formulées après l’exposé oral et les contributions venues des autres orateurs ont été incorporées ici. J’exprime ma reconnaissance à leurs auteurs.
Schadewaldt und die griechische Lyrik 1. Prämisse Es ist für mich eine große Ehre, als Ausländer eingeladen worden zu sein, über Schadewaldt zu sprechen, wofür ich meinen Tübinger Kollegen, und besonders meinem guten alten Freund Thomas Szlezák, vielmals danken möchte. Auch ist es für mich eine echte Freude, zumal ich das jugendliche Pindarbuch (1928) schon in meinen ersten Studienjahren gelesen hatte, so daß es mir keineswegs schwer fallen wird, das Werk auch hier kritisch zu betrachten, wie ich es damals tat, denn seit immer habe ich es gleichzeitig auch bewundert. Ich bin persönlich kein Unitarier, er hingegen war es vom Herzen, aber er war kein oberflächlicher Unitarier, wie er auch in seinem erst zehn Jahre später erschienenen Iliasbuch (1938) zeigte: die Beobachtungen, die er auf beiden Gebieten des Epos und der Lyrik angeboten hat, werden ein Vermögen bleiben. Solche Beobachtungen sind auch für jeden nützlich, der sich mehr an die analytische Seite wendet. Die starke Persönlichkeit Schadewaldts habe ich bei dieser Gelegenheit viel besser schätzen lernen können. Eine Eigenschaft, die ich eigentlich ahnte, worüber ich aber nicht gut informiert war, war seine echt humanistische Haltung der griechischen Welt gegenüber, wobei ich unter humanistischer Haltung die Begeisterung verstehe, ohne die jede Beschäftigung mit unseren Materialien lebenslos wäre1. Mit einem von ihm oft gebrauchten Bild, dem der ‘Begegnung’ mit der Antike, möchte ich etwas auf diesem wichtigen Gebiet näher bestimmen. Eine Begegnung setzt einen Weg zwischen uns und der Antike voraus, und je nach dem Weg, den wir zurückzulegen geneigt sind, entstehen zwei verschiedene Haltungen der Antike gegenüber. Wenn wir den längeren Weg wählen, dann nähern wir uns der Antike mehr, und das würde ich als echten H u m a n i s m u s betrachten, denn so lassen wir uns von der Antike ganz umgeben, und wir denken und agieren wie die Alten, wie es der Fall mit der
|| [Relazione tenuta al convegno Ein wissenschaftshistoriches Colloquium an der Universität Tübingen anläßlich des 100. Geburtstages vom Wolfgang Schadewaldt, 19–20.5.2000. – Inedito, ritrovato in stato lacunoso nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Andrea Bagordo e Giulio Colesanti] 1 Den einseitigen Humanismus im Sinne des naiven ästhetischen Genusses habe ich vor Jahren in Rossi 1976 bekämpft (aber auch Rudolf Pfeiffer erlag den Gefahren der naiven Haltung). https://doi.org/10.1515/9783110648140-019
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florentinischen Frührenaissance war. Wenn wir im Gegenteil einen kürzeren Weg zurücklegen, oder sogar keinen, in dem Sinne, daß wir die Alten näher an uns rücken lassen, dann entsteht eine Haltung, die ich ‚ K o l o n i s a t i o n ’ nennen möchte, laut der nunmehr ganz geläufigen Mahnung ‚décoloniser l’Antiquité’. Bei den beiden entgegengesetzten Richtungen wird die G e s c h i c h t e geopfert, denn der historische Ausblick wird so verfälscht: entweder wir wollen die antiken Kulturen an uns angleichen oder wir wollen die Antike als zu modern fühlen, indem wir den kulturellen Unterschied verkennen. Da eine völlig ausgeglichene Haltung nur eine leere Abstraktion ist, kommt es einfach nur darauf an, die jeweilige Entfernung von jedem von uns zu bestimmen. Wie stellte sich Schadewaldt zwischen den beiden Extremen? Meiner Meinung nach war er einerseits mehr geneigt, die Antike mit seinem zeitgenössischen starken Empfinden zu fassen, zu kolonisieren, sogar zu ‚erobern’, indem er den längeren Weg zurücklegte, was eigentlich eine Störung im Gleichgewicht, aber dafür eine ganz vitale, ist. Aus Gadamer (S. 9) entnehme ich ein kostbares Geflügeltes Wort von ihm: „Man muß etwas riskieren“2. Sich vom Risiko nicht erschrecken zu lassen, das heißt Liebe, und Liebe ist eben das Merkmal der humanistischen Haltung. Aber andererseits war er auch vom Historismus geprägt, so daß bei ihm viel historischen Überblick zu finden ist. Aus seiner begeisterten humanistischen Haltung kommt sein Interesse für das, was Wilamowitz ‚Demokratisierung der Bildung’ nannte3, daß heißt das Streben nach Allgemeinverständigung, die er meistens mit seinen Übersetzungen lieferte, aber auch mit Reden und Vorlesungen. Innere Begeisterung bringt den Willen zur Verbreitung seiner eigenen Freude, zu einer Art Apostelamt. – Liebe u. Einheit ...[*]
2. Antike Lyrik und menschliche Gefühle Um meine etwas verschiedenen Haltungen einigen Problemen gegenüber klarer hervortreten zu lassen, werde ich zuerst das Wesen der antiken Lyrik erörtern, wie ich es sehe, um der Geschichte gerechter zu werden4. Antike Lyrik ist eine Gesamtgattung, die man der modernen Lyrik nicht einfach gegenüberstel|| 2 Schön ist, was Gadamer aus seiner Feder hinzufügt: “Erstaunlich, wie vieles dann gelingt”. 3 Eine Schätzung dieser Haltung habe ich in Rossi 1973 angeboten. [* L’appunto fa intravedere che, alla fine del § 1, Rossi doveva brevemente anticipare due argomenti di cui avrebbe trattato rispettivamente nei §§ 2 e 3] 4 Meine Gesamtübersicht Rossi 1995, bes. [Ss. 84–98, Introduzione alla lirica]
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len kann. Wir sind im Banne der romantischen Ästhetik, die den Ausdruck der inneren Persönlichkeit als Ziel stellt, während die Griechen, besonders die der archaischen Zeit, die der sogenannten ‚Lyrischen Zeit’, sich in ihren Gedichten auf etwas anderes einstellten, und zwar auf Aufwertung allgemein anerkannter Werte der jeweiligen Gemeinde als Stoff und auf Propaganda dafür als Ziel. Das erkennt man inhaltlich aus den Themen, die kaum über das jeweilig Typische hinausgehen und äußerlich aus der Tatsache, daß die Gedichte zu gemeinschaftlichen Gelegenheiten bestimmt waren, wo idiosynkratisch romantische Selbstbekenntnisse mit allzugroßem autobiographischem Inhalt kaum angebracht gewesen wären. Der von Goethe gerade an der Schwelle der romantischen Epoche ausgedrückte Spruch, daß jedes Kunstwerk eigentlich ein Gelegenheitswerk ist, trifft besonders auf die antike Lyrik, und gerade deswegen ist die antike Lyrik kaum mit der modernen zu identifizieren, sei es was Inhalt sei es was Funktion und Ziel betrifft. Nun schwankte Schadewaldt zwischen der Täuschung der Identifizierung und der allerdings starken historischen Einsicht. Natürlich ist die Liebe die gefährlichste Falle, besonders bei Archilochos und noch mehr bei Sappho. Es erübrigt sich hier, auf die vielen feinfühligen Auslegungen hinzuweisen, die ihren Reiz eigentlich in großem Maße seinerzeit hatten und immer bewahren werden. Vielmehr möchte ich ein paar Äußerungen herausheben, die seinen gesunden historischen Verstand zeigen5, wie z.B. als er ([Sappho 1950,] S. 113) ausschließt, „daß die Liebe als seelische Erscheinung erst von der Lyrik ‚entdeckt’ worden sei“ und später noch weiter, immer über die Liebe (S. 138): Es gibt wunderbare Liebeslyrik im Fernen Osten, im Ägyptischen, auch im Alten Testament ist im Hohen Lied eine Sammlung von Liebesgedichten mit hineingekommen. Das ist also nichts, was irgendwann einmal ‚erfunden’ worden wäre, sondern wieder ist es so, daß etwas aus überall vorhandenen volkstümlichen Keimen hochkommt und literarisch und öffentlich wird.
Der Schlüssel zu Schadewaldts Verständnis des eigentlichen Sachverhaltes steht meiner Meinung nach in den letzten Worten des Zitats: „hochkommt und literarisch und öffentlich wird“. Eines ist das Allgemeinmenschliche, das bei der Liebe besonders auffällig ist, aber ganz Anderes ist die Einbeziehung jeweiliger Faktoren und Vorstellungen in die literarische Form. So, was besondere menschliche Eigenschaften betrifft, entgeht Schadewaldt der Versuchung, auf Ent-
|| 5 Wenn man Hegels Ästhetik wiederliest (bes. Ersten Teil, III. 3), ist man erstaunt, daß Begriffe wie Historizität und Rezeption bei ihm schon wirkungsvoll sind. Der Historismus war schon geboren und wird hoffentlich nie sterben.
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deckungen hinzuweisen und Geburtsdaten anzugeben, wie es der sogenannte Dritte Humanismus viel zu oft mit seiner Geistesgeschichte tat: Geist, Mythos, Logos, Liebe, Erziehung usw. sind alle Eigenschaften, die immer da sind, und die Frage ist nicht, wann sie im Menschen auftauchen, sondern einfach wann sie literarisch gestaltet werden. Der nächste Schritt wäre dann, eine ganz verschiedene Frage zu stellen: nicht nur wann, sondern auch warum und wie – und zwar mit welchen Ziel und Funktion und in welcher Form – ist eine bestimmte Eigenschaft in die Literatur eingetreten? Auf Einzelheiten können wir hier nicht eingehen, aber es genügt zu sagen, daß selbstverständlich bei Sappho die Liebe an erster Stelle war, und zwar wegen der einzigartigen soziologischen Natur ihres Kreises. Also war die Quelle ihrer Darstellungen nicht so sehr auf ihre besondere Persönlichkeit zurückzuführen, als vielmehr auf die Bedingungen ihrer Umwelt. Ihre Persönlichkeit – die man keineswegs verkennen darf – war bestimmt groß, und sie spiegelt sich natürlich in ihren Gedichten wieder. Aber einerseits, um sie genau zu bestimmen, müßten wir auch die Gedichte ihrer Kolleginnen und Rivalinnen zum Vergleich haben; andererseits dürfen wir nicht vergessen, daß der Ausdruck ihrer Liebe nicht auf persönliches Selbstbekenntnis gezielt war, sondern auf das Preisen bestimmter Personen bei bestimmten feierlichen Begebenheiten der Gemeinde, wie z.B. in den Hochzeitsliedern bei dem Abschied an ein Mädchen, das ihre Vorbereitung auf die Hochzeit beendet hatte und zur Frau eines adligen Mannes wurde6. Sappho fühlte natürlich die Liebe als menschliche Leidenschaft, die natürlich auch in ihren Versen auftaucht, aber Zweck und Funktion ihrer Aussagen war nicht, ihre persönlichen Gefühle auszudrücken, sondern gemeinsamen Lebensstoff hinsichtlich einer gemeinsamen Feier literarisch zu gestalten. Das gilt für alle Lyriker, die ihre monodischen Werke zum Symposion und ihre Chordichtung zu den großen Festen bestimmten. Niemand hätte von ihnen idiosynkratische Selbstbekenntisse erwartet. – Merkelbach ...[*] Die 1989 veröffentlichten Vorlesungen7 über frühgriechische Lyrik stammen – laut dem Nachwort der Herausgeberin – aus 1959/60 (Archilochos, Semonides, Hipponax, Sappho, Alkaios, Anakreon, Mimnermos, Solon) und 1963
|| 6 Epochemachend für die Kritik ist m.E. R. Merkelbach [1957] gewesen, der auffälligerweise in der Bibliographie der Vorl. fehlt. [* L’appunto suggerisce l’inserimento, in questo punto, di una breve trattazione su Merkelbach 1957] 7 Hier als Vorl. zitiert.
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(Pindar). Im Jahre 1975, als Hellmut Flashar seinen Nachruf schrieb, waren diese Vorlesungen noch nicht erschienen, aber seine Worte über seinen Berliner Unterricht in den unmittelbaren Nachkriegsjahren möchte ich hier wiedergeben (S. 733): die von ihm [...] gehaltenen Vorlesungen waren von einer ganz unpathetischen, fast grazilen Leichtigkeit, von einer so direkt auf die Sache gerichteten Hingabe und einer Faszination, wie...
3. Die Einheit des literarischen Werkes Ein anderes Schibboleth, woraus Schadewaldts Persönlichkeit vor uns lebendig auftritt, ist das Problem der Einheit des literarischen Werkes, was besonders bei seiner Beschäftigung mit Pindar auftaucht. Wie soll man die Gedichte Pindars unter diesem Gesichtspunkt lesen? Gut abgerundete Formulierungen finde ich in seinen Vorlesungen (S. 264f.)8, die auf sein Pindarbuch zurückgehen: Zunächst gibt es eine bestimmte ‚ S a t z u n g ‘ , t e t h m ó s , wie er selbst es nennt, eine Art T a b u l a t u r . Den Nachweis, daß es so etwas gibt, habe ich indirekt geführt und gezeigt, daß zwar jedes Gedicht anders ist, daß es aber eben in diesem Anderssein auf eine zugrundeliegende Ordnung hinweist, die in der Abweichung nachweisbar ist. So läßt sich ein ‚ P r o g r a m m ‘ aufstellen, ähnlich wie man heute etwa bei Beerdigungen dem Pfarrer einen Zettel gibt mit den Punkten, die er in seine Predigt mit einflechten soll; die Hauptdaten, die Namen, was der Tote für Unglück gehabt hat und was er Gutes getan und geleistet hat.
Und dann geht er fort mit der Liste solcher Punkte: Lob des Siegers, seines Vaters, der Familie und der Ahnen, Festort, Gott des Festes, Heimat des Siegers, ihre Götter und Heroen. „Das führt zum Mythos“, so sagt er. Hatte er vielleicht schon Bundy (1962) gelesen, da die Vorlesungen aus dem Jahre 1963 stammen?9 ... wie steht es im Buch? ... – Unsere Einheit und die E. der Alten ...[*]
|| 8 Die Sperrungen stammen von mir. 9 Richard Kannicht hat in der Diskussion richtig darauf hingewiesen. [* In questo punto Rossi doveva riassumere quanto da lui già detto nella conferenza L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi, tenuta a Pisa nel 1999 e citata in bibliografia come in corso di stampa]
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– Beispiele aus dem Buch und den Vorlesungen – forzatura Zwang – ... Ein Gedicht, das Schadewaldt nicht einmal en passant berücksichtigt, ist die erste Nemeische Ode, für Chromios von Aitna komponiert, die aber sehr interessant und lehrreich ist, gerade deswegen, weil sie gar keine Einheit im modernen Sinn aufweist: sein Schweigen darüber scheint eine Verlegenheitslösung zu sein. Nachdem der Dichter allen seinen formalen und substanziellen Pflichten dem Auftraggeber gegenüber entgegengekommen ist, führt er sogar vor der Mitte der Ode (33ff.) den Mythos mit folgenden Worten ein: ἐγὼ δ’ Ἡρακλέος ἀντέχομαι προφρόνως – was ungefähr bedeutet „ich aber lehne mich vom ganzen Herzen an Herakles an“ –, um dann mit einer detaillierten Erzählung der Erwürgung der Schlangen durch den Helden als neugeborenes Kind bis zum Schluß der Ode fortzufahren. Die Frage ist nun: was hat denn Herakles Kind mit Chromios zu tun? Eben die Frage hatten schon die – allerdings chronologisch von Pindar weit entfernten10 – alexandrinischen Grammatiker gestellt, wie wir sie in den Scholien haben (sch. Nem. 1. 49 Drachmann). Was wir dort lesen, ist sogar amüsant. Der Dichter wird als οὐκ εὔκαιρος beschuldigt, sein Verfahren wird als ἀπίθανον bezeichnet, die Haltung der Kommentatoren sei ein ἐπαπορῆσαι und ein διαπορῆσαι, da μηδεμίαν γὰρ ἔχειν εἰς τὰ παρόντα Ἡρακλέα οἰκείωσιν. Die Verlegenheit der zitierten Kommentatoren (Aristarch, Chairis, Chrysipp, Didymos) wird insofern widerlegt, als eine Erklärung vom Scholiasten angeboten wird: die erste Tat des Herakles sei deswegen genannt, weil es die Hoffnung bestehe, daß Chromios auch die anderen Kränze gewinnen könnte. Aber wer würde eine solche Erklärung billigen? Eine weitere Verlegenheitslösung. Nun, wir müssen uns irgendwie Rechenschaft davon geben, aber das gelingt uns nur, wenn wir sie nicht in dem Text des Gedichts suchen, sondern ganz außerhalb, und zwar in dem situationellen Kontext. Der Mythos von Herakles Kind war offensichtlich im Haus des Chromios beliebt und Pindar muß den Auftrag bekommen haben, ihn irgendwie in das Gedicht einzuflechten, was er dann tat, ohne sich zu kümmern, eine ausgesprochene intratextuelle || 10 Ich möchte die Gelegenheit ausnützen, um gegen eine weitverbreitete philologische Gewönheit zu kämpfen, die der supellex interpretatoria gehört (die schöne Bezeichnung finde ich gerade Vorl. 258). Es ist Sitte, eine Stütze für eine moderne These in den Scholien zu suchen und sogar ab und zu finden zu glauben. Das ist m. E. völlig verkehrt: in unserem Fall wie könnte man hoffen, daß ein später Grammatiker, der einer ganz anderen literarischen Kultur angehört, uns eine gültige Einsicht in die lyrische Epoche leisten könnte? Missverständnisse entstehen auch schon bei Aristoteles (vorsokratische Philosophen, Tragödie usw.). Höchstens können wir die Stimme neuerer Kommentatoren bei alexandrinischen Autoren heranziehen.
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Verbindung anzugeben. Deswegen ist also die Einheit des Gedichts scheinbar beeinträchtigt, aber nur in unserem modernen Sinn: die Tatsache, daß wir innerhalb des Textes kein Verhältnis zwischen Chromios und Herakles finden, bedeutet nicht, daß es keines gab: nur, es war extratextuell. Es ist merkwürdig, daß Schadewaldt doch den Schlüssel dafür ganz klar formuliert hatte durch die oben wiedergegeben Worte über den Zettel für den Pfarrer, worauf er dann mit gesundem Menschenverstand humorvoll so fortfährt (a. a. O.): „Einen solchen Zettel muß auch Pindar bekommen haben, er kannte doch nicht alle so genau“. Seine Einsicht war bestimmt scharf genug, um einen wenn auch unbewußten Vorfahren nicht zu brauchen, denn der Scholiast informiert uns über die Haltung von „einigen“, die allerdings Aristarch unberechtigterweise widerlegte (noch zu N. 1. 49 c): ὁ μὲν οὖν Ἀρίσταρχός φησιν, ὅτι οἴονταί τινες, ὅτι ὑ π ό θ ε σ ι ς αὐτῷ ἐδέδοτο τοιαύτη, ὥστε μνησθῆναι τοῦ θεοῦ, ὅπερ ἐστίν, ὡς καὶ αὐτός φησιν Ἀρίσταρχος, ἀπίθανον. Die richtige und abgelehnte Lösung des Problems steckte also bei einigen unbekannten Grammatikern.
4. Schluß Alles in allem, was bleibt ...... – andere Arbeiten über Lyrik (Bibliogr.) Zum Schluß möchte ich einen wunderbaren Satz zitieren, den ich in seinen Vorlesungen gefunden habe (S. 196, vgl. 199f.) und ich außerordentlich reizend fand. Indem er sich eine schöne Aussage Hermann Fränkels teilweise zueigen macht (es kommt hier nicht darauf an, sie wiederzugeben), übt er gleichzeitig seine eigene Kritik über einen Aspekt davon, und dann geht er so fort: Aber es ist ja oft die irgendwie übertriebene Aussage, die einen am meisten beeindruckt, wie ein Pfeil, der trifft und haftet, gerade weil man spürt, daß dabei etwas nicht stimmt, und insofern ist es auch wieder heilsam.
Hätte man die Reaktion eines empfindsamen und ehrlichen Lesers von Sekundärliteratur mit treffenderen Worten ausdrücken können? Vielleicht nur im Vers, was er auch ganz tüchtig hätte leisten können.
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[Literatur] E.L. Bundy, Studia Pindarica. I. The Eleventh Olympian Ode, II. The First Isthmian Ode, Berkeley 1962 A.B. Drachmann, [Rez. W. Sch., Der Aufbau des Pindarischen Epinikion,] “DLZ” 1929, 1092– 1102 H. Flashar, Wolfgang Schadewaldt †, “Gnomon” 47. 7, 1975, 731–736 H.–G. Gadamer, Bespr. von W. Sch., Hellas und Hesperien, 2. Ausg., I–II, Zürich–Stuttgart 1970, K. Gaiser, W. Sch., “Jahrb. d. Heidelb. Akad. d. Wiss.”, 1975, 92–98 [J.] Kakridis, “Ellenika” 29, 1976, 430–5 A. Lesky, Gedenkworte für Wolfgang Schadewaldt, in Reden und Gedenkworte (Orden Pour le Mérite für Wissenschaft und Künste), 12, 1974–75, 115–123 V. Losemann, Nationalsozialismus und Antike. Studien zur Entwicklung des Faches Alte Geschichte 1933–1945, Hamburg 1977, 94–108 R. Merkelbach, Sappho und ihr Kreis, [“Philologus” 101, 1957, 1–29] C. O. Pavese, [La lirica corale greca: Indice dei temi e dei motivi, Roma 1979] [A.] Puech, “RPh” [55,] 1929, 424 L. E. Rossi, Rileggendo due opere di Wilamowitz: Pindaros e Griechische Verskunst, “Ann.Sc. Norm.Pisa”, Cl. Lett. e Filos., S.III, 3.1, 1973, 119–145 L. E. Rossi, Karl Reinhardt fra umanesimo e filologia , “Ann. Scuola Norm.Pisa”, S.III, V.4, 1975, 1333–1354 L. E. Rossi, Umanesimo e filologia (A proposito della Storia della filologia classica di Rudolf Pfeiffer), “Riv. di filol.” 104, 1976, 98–117 L. E. Rossi, Premessa a: Due seminari romani di Eduard Fraenkel . Aiace e Filottete di Sofocle . A cura di alcuni partecipanti. Premessa di L.E.Rossi, Roma (Ediz. di Storia e Letteratura) 1977, VII–XXX L. E. Rossi, Il simposio greco arcaico e classico come spettacolo a se stesso , in: Atti del VII convegno di studio “Spettacoli conviviali dall’antichità classica alle corti italiane del ‘400”, Viterbo, maggio 1982, Viterbo (Stabil. Tipogr. Agnesotti) 1983, 41–50 L. E. Rossi, Letteratura greca . Con la collaboraz. di R. Nicolai, L. M. Segoloni, E. Tagliaferro, C. Tartaglini, Firenze (Le Monnier) 1995 (pp. VII–885) L. E. Rossi, L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi (PI, 7.6.99)[*] W. Schadewaldt, Der Aufbau des Pindarischen Epinikion, Schriften der Königsberger Gelehrten Gesellschaft. Geisteswissenschaftliche Klasse, 5, 1928, H. 3, Halle/Saale 1928, 255–343 [W. Schadewaldt, Ilias–Studien, Leipzig 1938] W. Schadewaldt, Sappho. Welt und Dichtung. Dasein in der Liebe, Potsdam 1950 W. Schadewaldt, Die frühgriechische Lyrik. Tübinger Vorlesungen B. 3. Unter Mitwirkung von M. Schadewaldt. Hsg. v. I. Scudoma, Frankfurt 1989 (21997) [P.] Shorey, [rev. W. Sch., Der Aufbau des Pindarischen Epinikion,] “CPh” [24,] 1929, 215 s.
|| [* Pubblicato in G. Arrighetti (ed.), Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica. Atti del Convegno Pisa, 7–9 giugno 1999, con la collaborazione di M. Tulli, Pisa, Giardini Editori, 2000, pp. 17–29]
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[E. Zinn (herg.),] Hellas und Hesperien. [Gesammelte Schriften zur Antike und zur neueren Literatur (Zum 60. Geburtstag von Wolfgang Schadewaldt am 15. März 1960), Zürich 1960] II, 829–848
Riflettendo ancora sull’insegnamento di Fraenkel Quello che ci ripromettiamo qui non è – credo – una valutazione scientifica della personalità di Fraenkel, bensì un consuntivo, a trent’anni dalla sua morte (1970), di quanto abbiamo avuto la fortuna di ascoltare dalla sua viva voce e di quanto abbiamo cercato e cerchiamo di trasmettere ai nostri allievi. D’altra parte non posso non riferirmi a quanto scrissi ormai molti anni fa1: mi limiterò a qualche ripetizione sintetica, aggiungendo i frutti della pluridecennale riflessione su un’esperienza che tutti noi consideriamo eccezionale. E non credo che io debba censurare qualche ricordo personale, visto che tutti qui abbiamo conosciuto la dimensione italiana di Fraenkel, che dava sfogo più libero e quindi più intenso alla sua forte affettività: abbiamo sperimentato che fortemente affettivo era anche lo stile della sua funzione docente qui fra noi. Posso ora, quindi, passare a esprimermi in prima persona, avendolo fatto sempre in terza nella mia Premessa per rispettare il carattere corale di quel mio scritto di allora (p. XXVIII), debitore di tanto alle voci dei giovani amici che io avevo il privilegio di preparare ai suoi seminari fra novembre e aprile/maggio dal 1966 al 1969. Alcuni di quei giovani di allora sono presenti qui oggi, e molti, presenti e assenti, ricoprono posti di responsabilità nell’università e nella scuola. Guardiamo ora a quell’esperienza con la presbiopia dei più di trent’anni che sono passati. Che cosa ha significato Fraenkel per me e certo per noi tutti qui presenti? Quello che non avremmo mai imparato dai suoi scritti: la V e r l e b e n d i g u n g (che potremmo tradurre con “rivitalizzazione”, o forse meglio “richiamo in vita”) del mondo antico: il suo punto di partenza, nelle sue scelte e nelle linee della sua esegesi, era un atteggiamento schiettamente umanistico di avvicinamento di noi moderni all’antico, un atto d’amore che deve sempre essere la molla iniziale per un percorso che poi deve arrivare (come in lui sempre avveniva) a una valutazione storica del passato e a un opportuno distanziamento di noi da quello stesso passato. L’approccio umanistico puro e semplice sarebbe altrimenti, come ci ha insegnato lo storicismo, oblio della storia: ma, in
|| [Relazione (L 4.12.2000, ore 9) tenuta all’incontro Ricordi dell’insegnamento di Eduard Fraenkel in Italia, 4–5.12.2000, “Scuola Normale Superiore” di Pisa, coordinato da Vincenzo Di Benedetto e Franco Ferrari; pubblicata in «SemRom» 6, 2003, pp. 143–152] 1 Premessa a Due seminari romani di Eduard Fraenkel. Aiace e Filottete di Sofocle. A cura di alcuni partecipanti. Premessa di L. E. Rossi, Roma 1977, pp. VII–XXX (qui di seguito cit. come Prem.). A p. XXIX si trova una lista delle commemorazioni. Le citazioni dai seminari di Fraenkel saranno indicate come Sem. https://doi.org/10.1515/9783110648140-020
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qualità di una categoria psicologica costante – l’amore, appunto, per culture che nel corso della storia si sono rivelate sempre più ricche di insegnamento e di piacere –, va praticato almeno una volta la settimana nella sua forma anche più ingenua, come non mi stanco di ripetere ai miei allievi. Del tutto diverso è l’atteggiamento di chi vuole annettere l’antico a noi, senza mediazioni: è quella che è stata giustamente chiamata colonizzazione dell’antico o, più precisamente, retroattività dei codici culturali. Da questo atteggiamento Fraenkel era istintivamente immune, anche se veniva alle volte praticato nel positivismo otto– novecentesco dei suoi maestri e anche se da parte di molti questo viene ancora oggi strumentalizzato per adescare l’interesse dei giovani con una mistificazione demagogica. Ho detto ‘istintivamente’ a ragion veduta, perché Fraenkel non indugiava in considerazioni di metodo di questo tipo, un po’ per il suo modo di operare, che era diretto e sgombro da impacci metodologici, e un po’ perché allora di questi problemi si parlava ancora poco, almeno nell’università, ancora piena di studenti preparati e motivati: forse il problema era più sentito nella scuola, dove alcuni docenti già ricorrevano a ogni mezzo per rendere più appetibili gli studi classici. Ma quello che ci colpì più di tutto fu la sua V e r l e b e n d i g u n g d e l t e s t o : abbiamo imparato a dar valore alle particelle (così spesso trascurate nell’esegesi e usate a sproposito nelle integrazioni) e a capire i diversi livelli o registri di lingua, da lui resi con una singolare capacità istrionica sia in greco sia anche in italiano, grazie alla sua profonda conoscenza della nostra lingua non solo letteraria – leggeva sempre molto i nostri classici e anche i nostri contemporanei –, ma anche colloquiale. La lingua diventava, in lui filologo, storia della lingua, sia che si trattasse di voci di lessico, sia di fatti sintattici, che lo portavano ad evidenziare sfumature che spesso erano sfuggite a tutti gli esegeti che lo avevano preceduto. I suoi seminari sofoclei ci hanno fatto sentire i colloquialismi e i volgarismi di Sofocle, tanto più forti di quelli degli altri drammaturghi. Era in realtà al suo meglio quando commentava un testo drammatico: questo accadeva forse per la sua passione, tipica per il cittadino del nord, per la tendenza tutta mediterranea alla spettacolarità, come si può vedere dalla sua predilezione per l’Italia, che emerge per esempio dal suo Orazio. E poi, dal testo, ampliava l’orizzonte ai realia, ai riferimenti extratestuali, alle reazioni del pubblico del tempo e alla situazione storica, alle frequenti citazioni tratte con ferrea memoria dal suo canone di autori da lui più amati. Il testo era quindi solo il punto di partenza, e il suo puntiglio nel ricavarne tutto il ricavabile rivelava lo studio e l’impegno di una vita, perché l’immedesimazione nel testo costa fatica. Ce ne rendiamo conto specialmente oggi che viviamo la universale (e non solo italiana) decadenza della scuola e il progressivo adattamento dell’università a
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livelli più bassi di istruzione: i giovani vengono attratti sempre più dall’immagine e dal suono, oltre che dal rapido evolversi dell’universo informatico. Credo che si debba oggi davvero parlare di un progressivo e costante “tramonto del testo”, e non solo di quello greco e latino, ma di ogni testo in generale: la consapevolezza del “piacere del testo” va purtroppo scomparendo a vantaggio del timore della “fatica del testo”, quella che Fraenkel affrontava per vocazione come premessa ineliminabile e dalla quale oggi si tende a fuggire. Un’esperienza testuale davvero unica fu quello che chiamava “lirica mista” (Prem. pp. XIV–XVI): monodia dell’upupa, coretto delle rane, desmios hymnos delle Eumenidi, inno alla giovinezza dell’Eracle e tanto altro. Posso ora confessare che ne ho la cassetta e che ne farò fare un CD. Sono passati più di trent’anni: il suo divieto di registrare si può considerare superato. Famoso restò fra noi l’episodio dell’imbroglio!, da lui urlato con (forse compiaciuta) durezza quando si accorse di rivelatori fili elettrici: e la parola, un internazionalismo colto derivato dalla familiarità con l’opera buffa italiana, gli venne spontaneo. Ebbene, questa è un’occasione benvenuta per sciogliere la riserva di fronte a tanti amici così profondamente coinvolti: mi aspetto che qualcuno mi faccia richiesta di averne una copia. Quelle due sedute del 13 e 16 maggio 1969 furono le ultime di Fraenkel a Roma[*]. La lettura metrica veniva da lui interrotta da splendide pause esegetiche: ripensandoci dopo tanti anni, credo che così si comportassero i rapsodi dell’epos, esecutori e allo stesso tempo esegeti. L’espediente schiettamente musicale del rallentamento e soprattutto del diminuendo nella clausola finale di periodo o di strofe ci è rimasto nella memoria e io lo pratico sempre nella lettura delle parti liriche. Del resto, a molti di noi era nota la sua sensibilità e la sua cultura musicale: negli anni della sua prima formazione a Berlino aveva avuto il privilegio di vivere in una delle maggiori capitali europee della musica. Una volta mi diede una grande soddisfazione. Senza voler compromettere il suo giudizio coll’anticipargli il mio, misi sul giradischi la sonata op. 111 di Beethoven interpretata da Arturo Benedetti Michelangeli (registrata nei primi anni sessanta): personalmente pensavo e penso che a quel grande pianista, pur essendo quel mago della tastiera che era, Beethoven non fosse congeniale e tanto meno quella sonata, della quale bisogna far sentire la grandiosa struttura musicale senza frammentarla in effetti di virtuosismo trascendentale, ovvero di ‘bravura’, da cui alcuni esecutori
|| [* In realtà quest’indicazione è frutto di un errato ricordo di Rossi: le registrazioni in suo possesso (25 pezzi eseguiti da Fraenkel) risalivano infatti alle due ultime sedute del seminario di Fraenkel sul Filottete, del maggio 1968, come lo stesso Rossi annotò in seguito (2007) nel “libretto” che doveva accompagnare il CD. Il progetto del CD non fu poi realizzato. – G. C.]
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sono attirati proprio per la sua ben nota difficoltà tecnica. Ebbene: dopo non molte battute volle interrompere l’ascolto col tipico gesto tedesco della mano aperta e violentemente mossa dall’alto al basso. Ne fui confortato nel mio giudizio e lascio indovinare con quanta gioia. Ma altro ci resta di lui in preziosi documenti. In Prem. p. IX e n. 3 citavo le sue due conferenze pubbliche a Roma: Wilamowitz, 14.5.1969 (poi pubblicata da Luciano Canfora nella mia traduzione dal tedesco – nella quale la lesse – in «QS» 5, 1977, pp. 101–118) e Ricordi romani e non romani di un filologo classico (Roma, 29 e 30 maggio 1968). Un quadernetto, del quale dò notizia solo ora per uno scrupolo di riservatezza simile a quello che avevo per la “lirica mista”, su cui aveva preso gli appunti per la seconda di queste conferenze e che aveva comprato con me a Piazza del Pantheon (48 paginette, da lui numerate, di cui quella di destra era destinata alle peraltro poche aggiunte), mi fu donato dal figlio Ludwig Edward dopo la sua morte e fu da quello che io citai (Prem. p. XXIV) le sue parole finali (8 righe) con le quali ringraziava «dalla profondità del mio cuore» i partecipanti al seminario sul Filottete. La redazione (in italiano) è una via di mezzo fra il lemmatico e il definitivo. Pensavo e penso che sia il caso di pubblicarlo, anche se la forma è più provvisoria di quella della conferenza su Wilamowitz. Ci sono, in italiano quasi sempre molto buono (addirittura idiomatico, e questa rilettura mi ha dato ulteriore conferma della sua padronanza della nostra lingua), notazioni sui suoi anni di scuola (l’odio iniziale per Orazio, causato dal suo insegnante), sui suoi contatti con tanti filologi e non filologi. Ne offro uno squarcio, assai divertente. Parlando del suo professore di liceo, Ernst Hombruch, dice quanto trascrivo dal quadernetto: La prima poesia latina che leggevamo era il proemio (!) delle Metamorfosi di Ovidio: In nova fert animus m u t a t a s dicere f o r m a s / c o r p o r a . Io, pieno di sdegno e rabbia: ma che ordine di parole è questo? butta lui le parole sulla carta come la sabbia da un polverino? Io non voglio studiare una lingua dove tali mostruosità sono possibili. E mi comprai una di quelle traduzioni meccanizzate, parola per parola, le chiamavamo Eselbrücke, “ponte d’asino”, una cosa umiliante, che altrimenti io avrei lasciato alla plebecula. Ma quella esperienza lasciò in me una sorta di trauma, e diventò la radice del mio morbido interesse (i membri del mio seminario ne soffrono) nell’ordine delle parole.
Ma ci colpiva anche la Verlebendigung dei vari filologi del suo (e nostro) passato e del suo presente: Triclinio, Giuseppe Giusto Scaligero, Hermann, Jahn, Nauck, Vahlen, Wackernagel, Jachmann, Dain, Pasquali e altri, oltre naturalmente ai suoi grandi maestri Wilamowitz e Leo (che però non caratterizzò mai con l’umorismo che usava per altri: Prem. p. XIII). «Tu devi imparare a distinguere le intelligenze» (die Geister unterscheiden: comandamento n. 7 di Ritschl, Sem. p. 18). Non solo aveva conosciuto i mostri sacri della filologia, ma
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li presentava come ancora vivi in un traffico di idee e di umori, dandoci così una storia della filologia vissuta, quella non degli studiosi, bensì quella delle personalità dei professori. Quanto alla venerazione per i suoi maestri, Momigliano nella sua commemorazione ha detto, molto giustamente: «È stato un grande maestro perché era stato un devoto allievo». Fraenkel è stato importante per quello che ci ha insegnato sull’insegnamento. Lo scrupolo di precisione e di onestà scientifica nella preparazione di una seduta erano in fondo retaggio di una tradizione tedesca di devozione all’insegnamento e di consapevolezza della dignità della funzione docente, sorretta dalla sua esperienza di una molto alta considerazione sociale, diffusa specie in Germania. Ma una cosa credo che appartenesse proprio a lui e mi ha colpito e accompagnato sempre: il modo in cui tagliava le sue sedute di seminario (che conservavano il tono dell’improvvisazione, ben diverso dal Vorlesen di un testo scritto, a sua volta tradizionale per le lezioni vere e proprie). Commisurava perfettamente la materia al tempo a disposizione – realizzando una sorta di mimesi dell’improvvisazione –, ben sapendo che nell’insegnare (e anche nello scrivere) non si può dir tutto, ma bisogna avere idee precise su quanto si ha da dire e bisogna tagliare in modo opportuno. Non ricordo di avergli mai sentito dire “non c’è tempo per dire questo o questo”, perché tutto era funzionalmente preparato e misurato, con l’esatta previsione dello spazio da lasciare agli interventi nostri (che alle volte interrompeva bruscamente ma con amabilità, certo per rientrare nei tempi). Non sono riuscito a realizzare se non di rado quest’insegnamento sull’insegnamento, ma lo tengo sempre presente. Ed è di grande importanza specialmente oggi: con la riforma, che frammenta in più moduli il vecchio da me (e da molti) rimpianto corso monografico annuale, la necessità di tagliare la materia in sezioni ulteriormente distinte con il più severo rigore possibile (e spesso destinate a pubblici di volta in volta diversi) è diventata una sfida che ognuno di noi affronta come può. Il vecchio corso monografico permetteva qualche indugio su eventuali novità di ricerca personale che si era in grado di comunicare immediatamente agli studenti: oggi questo è reso difficile sia dalla frammentazione in moduli sia dalla scarsa preparazione remota degli studenti. Fraenkel del resto si poneva davanti al suo pubblico come un divulgatore, alle volte addirittura elementare (Prem. p. XXI s.): avremmo mai immaginato quanto questo suo atteggiamento sarebbe stato attuale in una situazione come quella di oggi? Ma certo sarebbe rimasto disgustato di fronte alle tante aporie di un sistema ancora in corso di sperimentazione con la necessità di tante approssimazioni e di tanti compromessi. Ho creduto, a suo tempo (Prem. p. XXII), di riconoscere l’origine della sua ansia di volgarizzazione nell’atteggiamento del tutto simile del suo maestro Wilamowitz: da noi si va facendo strada finalmente la con-
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sapevolezza del fatto che la divulgazione è compito di chi sa molto, e non di chi sa poco. È opportuno ricordare alcune delle sue formulazioni fulminanti (dai nostri Sem.), che colpiscono ancora, rileggendole: È sciocco chiedersi il perché delle interpolazioni: le pazzie di un interpolatore sono mille (p. 5). Il pubblico ateniese è intelligente: aspetta le tragedie alle Dionisie come l’unico spettacolo dell’anno, che beve con tutta l’anima (p. 6). I critici moderni sono conservatori perché ciò risparmia tempo (p. 11). Per la tragedia vale sempre la legge “Una sola cosa alla volta e quella completamente”. Lo spettatore non è commosso dalla perfezione della tecnica drammatica, ma dalla necessità inesorabile delle cose che accadono a uno o due esseri umani (p. 24). La freddezza della tragedia greca è colpa nostra. Il nostro gusto è formato su Shakespeare, dove troviamo molti personaggi e molto moto. L’arte greca è essenzialissima, ed elimina tutto ciò che non appartiene al conflitto. Nella tragedia greca due o tre uomini in lotta, come nelle metope (p. 31).
Le ultime due qui citate sono lapidarie, come le metope evocate. Una sola parola sul suo posto nella storia degli studi. Ricordo che alcuni dicevano, allora, che presentava una filologia vecchia, datata. Erano gli anni fervidi dei grandi rinnovamenti nel metodo, che hanno davvero giovato ai nostri studi, ma chi faceva quella critica (ed erano in molti) ignorava, a suo svantaggio, che la lettura dei testi come veniva praticata da lui era un passaggio obbligato per qualunque ulteriore iniziativa intellettuale. Fra voi non ho certo bisogno di entrare in dettagli, su questo: e diciamoci ancora una volta che possiamo ritenerci fortunati di aver vissuto quell’esperienza, che del resto inglobava in maniera non sistematica quanto poi si sarebbe fregiato di pur utili etichette programmatiche (come la ricezione immediata da parte del pubblico, per fare un solo esempio). Azzardo una congettura sul retroterra della sua attività di studioso. Penso al monumentale commento all’Agamennone di Eschilo2: l’impianto di quel commento non gli sarà stato in qualche modo favorito dal contesto inglese? Se guardo al mondo tedesco, penso all’Elettra di Kaibel (1896), all’Eneide VI di Norden (19273), alla Poetica di Gudeman (1932), ma mi si potrà facilmente integrare. Non penso, invece, all’Eracle o alla Lisistrata di Wilamowitz, che avevano un taglio diverso: quei commenti erano molto selettivi, in quanto offrivano piuttosto alcune idee–guida sviluppate nel commento. Il commento perpetuo in cui uno mette tutta la sua informazione e tutta la sua cultura è – mi pare – più di || 2 Aeschylus. Agamemnon. Ed. with a Commentary by Ed. Fr., I–III, Oxford 1950.
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tradizione inglese, magari pieno di tanto Shakespeare e di tanto Milton, come vediamo in commentatori inglesi a cavallo fra i due secoli. Nella sua Preface, dalla quale cito qui di seguito, aveva in mente illustri predecessori (p. IX): Bentley, Porson, Elmsley, Lachmann, Madvig, Wilamowitz, Housman: non è certo un caso che si tratti in maggioranza di inglesi e che la prassi si sia affermata ulteriormente, con variabile esito di qualità, proprio in quel paese. Che nomini, di Wilamowitz, l’Eracle è del tutto naturale in lui, ma tutti sappiamo che quello che rende unico quel commento è la sua Einleitung. C’è però un fatto che rende unico, e profondamente tedesco, tutto il commento di Fraenkel nel suo insieme, ed è la sua lunga elaborazione nel suo famoso seminario oxoniense (p. VII), da lui definito happy. In quella stessa pagina, che è la prima della prefazione, Fraenkel riconosce con entusiasmo la funzione quasi si potrebbe dire ‘segnaletica’ degli interventi dei suoi allievi, che gli suggerivano disagi e dubbi, ai quali si applicava con tenacia: ed è stata questa genesi a rendere davvero monumentale il suo commento, al quale continuamente attingiamo alle volte con la nostra memoria e spesso con l’ausilio dei suoi indici, che sono una essenziale enciclopedia del suo sapere filologico. Ora, il seminario, come fonte di progresso del sapere, nacque notoriamente in Germania nell’Università di Berlino ai primi del secolo XIX: l’università fece propria una funzione, quella scientifica, che era in precedenza affidata alle accademie. In altre parole: il seminario era nato come prosecuzione dell’operato scientifico delle accademie trasferito nell’università. La riforma napoleonica, negli stessi anni, mirava invece a una università professionalizzante. La prima legge unitaria italiana, quella del marchese Casati del 1859, si ispirò prevalentemente alla Francia, mentre la legge Gentile del 1923 risentì più fortemente l’influenza tedesca. Da noi il seminario alla tedesca fu introdotto, com’è noto, da Giorgio Pasquali. L’innesto del seminario di tipo berlinese–humboldtiano a Oxford fu, come ben sappiamo, un evento storico di tipo sia didattico sia scientifico, ed è questo fatto che rivela la fecondazione reciproca di due culture che proprio in quegli anni si dannavano l’una contro l’altra puntandosi le armi. Il commento all’Agamennone fu concepito fra gli anni trenta e il 1946 (pp. VII, XII) ed è uno dei frutti più illustri, a mio parere, dell’incontro fra due culture e fra due modi di gestire l’insegnamento universitario. Fraenkel era e rimase sempre tenacemente legato alla sua formazione e alla cultura tedesca, come ben sa chi lo ha frequentato poco o molto. A questo proposito devo ricordare un’esperienza personale. Per le feste del 1967–68 mi mandò, con dedica, una fotocopia di un suo scritto del 19303, alla vigilia della presa || 3 Gedanken zu einer deutschen Vergilfeier, Berlin (Weidmannsche Buchhandlung) 1930 (47 pp.).
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di potere del nazismo. Quel lavoro non era stato compreso nei Kleine Beiträge (1964): è uno scritto celebrativo del bimillenario virgiliano, che io non conoscevo e, quando lo lessi, mi resi conto di quanto lui stesso, come tanti altri compagni di sventura, avesse assorbito e conservato della cultura tedesca. In quelle pagine lamentava la scarsa presenza di Virgilio nel mondo che sentiva come suo (specie il grande romanticismo) e ne auspicava una sia pur tardiva annessione. Gli scrissi una lunga lettera, nella quale, un po’ tremando alla prospettiva di una reazione in qualche modo negativa, gli confessavo quanto ero rimasto colpito dalla sua totale integrazione nella cultura di un paese che poco dopo lo avrebbe fatto emigrare: e aggiungevo che molti profughi come lui dovevano aver lasciato in Germania i loro libri e i loro beni, ma non la cultura mitteleuropea, fatto che doveva procurare a molti di loro una sofferta dissociazione in ambienti così diversi come quelli in cui si stabilirono. La risposta non si fece attendere, e fu lucida e serena: quelle considerazioni che io gli proponevo erano proprio quelle che in quei tragici momenti si erano scambiati lui e la moglie Ruth. Fu allora che capii meglio la dedica: ἀρχαῖά γε καὶ Διπολιώδη, uno dei tanti omaggi al suo Aristofane, e mi domando ancora oggi quanto quel significato di “roba del tempo che Berta filava” contenesse di profondamente allusivo. Sono venuto qui a Pisa per questi due giorni da Friburgo in Germania, dove tengo un seminario di qualche settimana, e devo dire che sono rimasto molto suggestionato dal fatto che quell’edificio guglielmino, grandioso ma non di cattivo gusto e ancora funzionale, è stata l’ultima sede accademica di Fraenkel prima della sua emigrazione. Fraenkel era visceralmente attaccato ai suoi libri, pieni di annotazioni antiche e recenti, e spesso interfoliati con pagine bianche atte a contenere le note più lunghe. Lo può dire chi lo ha visitato nel suo ampio studio di Corpus Christi College. Almeno uno di quei libri se l’era per fortuna portato con sé dalla Germania, come ci conferma un elementare calcolo cronologico ricavato da un episodio singolare, che non posso fare a meno di raccontarvi. Un giorno mi telefonò con accento disperato: «Ho perso quarantacinque anni di studi sofoclei» (si era nel 1968). Che cosa era successo? Che aveva dimenticato in un taxi il suo Sofocle dindorfiano, che portava sempre con sé al seminario e che, sbirciandolo, avevamo visto pieno di annotazioni. Che fare? Ebbi l’idea di chiedergli dove aveva preso quel taxi e mi disse che gli era stato chiamato dal portiere del Germanico. Telefonai trepidante alla Biblioteca e da Umbro, il portiere di allora, appresi con sollievo che aveva provvidamente annotato il numero del taxi. Fu semplicissimo informarsi subito alla cooperativa a cui apparteneva il taxi e seppi che avrebbe ripreso servizio la mattina seguente alle 6.30. Telefonai subito a Fraenkel dicendogli che gli avrei dato notizie precise appena le avessi avu-
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te, avvertendolo di ritardare, per la mattina dopo, la sua consueta passeggiata di prima mattina a Piazza Navona, vicina com’era all’albergo Santa Chiara. L’indomani alle 6.30 precise cercai l’autista e presi accordi con lui per la restituzione del prezioso libro, da lui trovato nella sua macchina. Credo di aver chiamato Fraenkel alle 6.40 al più tardi e ne ebbi la gioia di sentirlo sollevato, ma dovetti schermirmi dalle sue immoderate espressioni di gratitudine (mi definì «un genio!», come usava qualificare Nauck), come ben può capire chi abbia seguito il meccanismo del ritrovamento (un genio, come gli dissi, era stato Umbro, se mai). Quello che seguì è solo aneddotica. Per ben due volte telefonò a casa prima delle sette di mattina, dicendo: «Che bello, a Roma si può telefonare a quest’ora, a Oxford invece non si può farlo prima delle nove!». Ma l’anno successivo se ne astenne senza dire più nulla. Questo episodio mi confortò nell’idea, che avevo ovviamente già, che la copia di lavoro di un testo (lo Handexemplar) è un ausilio indispensabile sia allo studioso (in seminario veniva solo con il suo Sofocle) sia al semplice studente. Ho sempre permesso, agli esami, che il candidato leggesse dal suo testo, anche se pieno di scoli interlineari e marginali con traduzioni (ma qualche volta anche con notazioni intelligenti): tanto più che la preparazione generale e la conoscenza del greco sono facilmente accertabili lo stesso. Il libro su cui uno ha lavorato deve continuare a vivere: l’idolatria del libro intatto va esorcizzata. Voglio prendere qui l’occasione per ricordare le tante lettere dirette a me. Sono molte, e si possono classificare in tre tipi. 1. Quelle organizzative per il futuro seminario, piene di indicazioni molto precise sulle sezioni di testo da preparare, tipica espressione di ansia per un evento che lo teneva in grande tensione emotiva (ricordo la richiesta imperiosa di avere sempre, fin dalla prima seduta, la pianta dei circa venti partecipanti con i nomi). 2. Quelle di contenuto scientifico, qualche volta secche e lemmatiche, spesso continuazione di discorsi fatti a voce o di commento puntuale a lavori inviatigli. 3. Quelle più propriamente relazionali, piene di interessamento per la mia famiglia (una molto bella del 1968 a mia moglie Giovanna per la morte del padre), e sempre c’erano i saluti affettuosi alla fine di ogni lettera: «Vi abbraccio tutti e tre» – avevamo allora solo il primo figlio – era un frequente congedo in italiano, forse perché in tedesco non avrebbe saputo esprimere tanta affettività, segno di una assimilazione alla nostra cultura. Devo agli amici qui presenti una spiegazione per il titolo “Seminari Romani di Cultura Greca” per la nostra rivista romana: seminari veri erano quello di Pasquali, quello di Fraenkel, e io ne avevo fatto esperienza a Gottinga e ad Amburgo da Friedrich, Deichgräber, Erbse, Snell; quello mio romano, a parte alcuni fruttuosi cicli interni tematici con la collaborazione degli studenti, è stato ed
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è invece prevalentemente di tipo ‘turistico’ o di ‘stagione concertistica’, legato a inviti a studiosi italiani e stranieri che offrono i loro contributi singoli, ai quali beninteso segue discussione. Ma nello scegliere il titolo della rivista non sono riuscito a sfuggire alla suggestione del nesso “seminari romani”: spero di avere fugato equivoci con una breve nota dell’editoriale della rivista4. I miei seminari sono stati semplicemente la continuazione di quelle mie sedute preparatorie, e non certo dei seminari fraenkeliani; quelle sedute mi hanno introdotto alla consuetudine dell’incontro con gli allievi, che ho poi sentito il bisogno di continuare fino ad oggi, in forme solo parzialmente fedeli al seminario vero e proprio di tradizione berlinese, pasqualiana e infine fraenkeliana. La verità è che della presenza di Fraenkel, ingombrante ma benefica, nessuno di noi si è liberato, perché nessuno di noi vuole liberarsene. Noi siamo ancora in grado di darne testimonianza viva: se i nostri studi, come speriamo, avranno un futuro, contiamo sulle nuove generazioni, alle quali questi ricordi sono destinati.
|| 4 «SemRom» 1, 1998, p. VII, n. 1.
Insegnare e imparare il greco oggi: la lingua e la cultura 1. Breve quadro storico Per introdurre il discorso sulla presenza del greco nella formazione e nella ricerca è utile cominciare da un breve excursus storico dall’unità d’Italia a oggi. La prima legge unitaria sull’istruzione scolastica e universitaria fu, nel 1859, quella del marchese Gabrio Casati, primo ministro dell’Istruzione. Dopo un acceso dibattito il greco, da lingua orientale che era considerato, fu reintrodotto nell’ambito del mondo classico e finalmente riaggregato al latino, ma non senza un acceso dibattito, che si incentrò su due concezioni francamente opposte della cultura antica: una era quella c o n t r o r i f o r m i s t i c a dell’umanesimo esclusivamente latino propugnata dai Gesuiti, che da quasi tre secoli erano preposti alla formazione della classe dirigente; l’altra era una concezione apertamente s t o r i c i s t i c a , che vedeva le due culture strettamente intrecciate l’una con l’altra e che aveva alle spalle una tradizione illustre di studi e di orientamenti risalente recta via agli inizi del secolo XIX, e cioè a Friedrich August Wolf (1759–1824) e ad August Boeckh (1785–1867). Decisiva fu l’influenza del secondo, figura poliedrica di antichista, che fu con i fratelli Humboldt tra i padri fondatori dell’Università di Berlino nel 1809 e che per più di cinquant’anni, fino al 1865, tenne i suoi corsi su questa linea, corsi che furono poi raccolti e pubblicati dopo la sua morte con il titolo di Enciclopedia e metodologia delle scienze filologiche: la filologia come scienza e come punto di partenza per lo studio delle due culture antiche. Tralascio qui la storia, ben nota e ampiamente dibattuta, delle varie fasi di atteggiamento umanistico prima nella cultura latina e poi in quella italiana ed europea, per passare a quanto a metà del secolo XIX il già maturo storicismo tedesco sosteneva: che era non solo l a s t r e t t a u n i t à d e l l e d u e c u l t u r e g r e c a e l a t i n a , ma anche l a i n t e r d i p e n d e n z a d e l l e s p e c i a l i t à s i n g o l e (storia, archeologia, letteratura, e quindi anche principi di metodo filologico, epigrafia, paleografia, studio delle lingue, metrica etc.). Fu quello che il grande Boeckh realizzò in una sorprendente unione personale di iniziative di ricerca. Lapidaria è la famosa formulazione di Giorgio
|| [Articolo pubbicato in «Scienze Umanistiche» 2, 2006, pp. 87–102]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-021
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Pasquali, per cui non esistono singole discipline ma solo singoli problemi concreti, che vanno risolti con l’ausilio anche di quelle discipline che spesso si definiscono come ausiliarie. Nessuno può oggi impunemente negare l’unità della “Scienza dell’Antichità” (Altertumswissenschaft) e ignorarne la funzione di modello nella ricerca e nell’insegnamento. Parlare di interdisciplinarità in questo caso sarebbe del tutto improprio: le specializzazioni sono varie, ma la disciplina è una. La legge Casati aveva già una caratteristica che ha contrassegnato da noi ogni ordinamento sia universitario sia scolastico, e cioè il compromesso fra la f u n z i o n e s c i e n t i f i c o – f o r m a t i v a (che ispirava la riforma tedesca dell’Università di Berlino) e la f u n z i o n e p r o f e s s i o n a l i z z a n t e (che ispirò in quegli stessi anni di primo Ottocento l’ordinamento napoleonico e che poi prese piede definitivamente in Francia). Ma a Gabrio Casati va riconosciuto il grande merito di essersi speso con coraggio, e con successo, contro una visione decisamente oscurantistica dell’insegnamento nel campo del mondo antico. Naturalmente, specie nell’Italia di allora, si trattava di una scuola elitaria, il liceo classico, che si prefiggeva la formazione di una classe dirigente sociologicamente chiusa, mentre le scuole tecniche erano finalizzate alla preparazione al lavoro: ma è chiaro che questo non può portare a sminuire il valore di benefica rottura culturale e ideologica che da un intervento così radicale conseguiva. La reintroduzione del greco comportò grandi difficoltà nel reperimento di chi fosse in grado di insegnare degnamente l a l i n g u a . Questa situazione di fatto influì non poco nel retropensiero della parte avversa: negli ambienti clericali il greco era modestamente praticato e insegnato, fin dalla Controriforma, e solo per la lettura della Settanta, dei Vangeli e dei Padri della Chiesa, una pratica, per così dire, interna e non destinata a indiscriminata fruizione pubblica, apertamente avversata dalla Controriforma stessa in vista della limitazione all’accesso alle Scritture e alla dottrina. Forza trainante fu allora l’ambiente torinese con la casa editrice di Hermann Loescher (un pronipote di B. G. Teubner, il famoso editore della collana di classici), che fornì una serie di traduzioni da manuali scolastici e scientifici tedeschi. Espressione di questo fermento fu la «Rivista di filologia e di istruzione classica», fondata nel 1872 (e pubblicata ancor oggi dalla Loescher; ne ha parlato Timpanaro nel delineare la storia del primo cinquantennio), che avviò un vero dibattito storico–scientifico. La tappa successiva fu la riforma Gentile del 1923, che temperò il professionalismo francese con una forte iniezione di storicismo idealistico tedesco, e che recentemente è stata accusata di classicocentrismo. La situazione attuale si è maturata sotto i nostri occhi, e se ne parlerà qui di seguito solo per alcuni problemi specifici. Le questioni di fondo della formazio-
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ne antichistica sono di attualità, ma i pro e i contro sono ampiamente dibattuti da sempre: la grande sfida che ci si pone precisamente oggi, con la crescente e in sé opportuna invasione delle scienze e delle tecnologie, è lo spazio che alla formazione antichistica stessa si debba o si voglia dare, almeno in alcuni curricula. L’unità culturale del mondo greco–latino appare ormai un’acquisizione storiografica ovvia, se non si ripresentasse oggi al dibattito per ragioni (si spera) non più storico–ideologiche, bensì occasionali e contingenti. L’arretrare dell’interesse per l’antichistica nella scuola e nell’università, che è fenomeno non certo solo italiano ma globale, porta alcuni a difendere le ragioni del latino, ovviamente più richiesto dal mercato dell’utenza (come del resto era anche prima di questa crisi) a spese della parallela difesa del greco. Insomma –sembra che si dica – in una tale emergenza cerchiamo di salvare almeno il latino. Questo porterebbe, in termini concreti, a una ulteriore diminuzione proporzionale delle cattedre sia universitarie sia scolastiche per l’insegnamento del greco, che viene vista come una conseguenza del contrarsi dell’utenza. Niente di più drammaticamente sbagliato per il salvataggio – che voglio ritenere peraltro perseguito in buona fede – del latino stesso e della cultura antichistica in toto. Il latino, apparentemente rinforzato a spese del greco, diventerebbe in brevissimo tempo un insegnamento ancillare rispetto alle letterature e alle culture medievali e moderne, con una ovvia diminuzione di insegnamenti anche nel campo del latino stesso. Ci si limiterebbe alla ricerca di un retroterra, che è certo in genere prevalentemente latino: ma – e qui dico una banalità – sarebbe un retroterra esplorato a metà, senza poter precisare adeguatamente quanto di greco c’è sia nel mondo latino sia nel nostro. E, quanto al mondo moderno, come rapportarsi con il secondo umanesimo winckelmanniano (tutto greco), con il romanticismo tedesco, con Giacomo Leopardi, con Ugo Foscolo, per citare solo alcuni casi esemplari? E come recuperare competenza critica adeguata per valutare i numerosi casi di letteratura contemporanea (distribuiti in tutto il Novecento) in cui il rapporto con il mondo greco risulta così stretto e alle volte determinante per le scelte creative? Basterebbe fare i nomi di Joyce e di Pasolini. Anche sul fronte del mondo moderno la partita sarebbe in passivo. Il salvataggio sarebbe solo apparente o sarebbe solo una breve vittoria di Pirro. Il latino si salva solo se si continua a legarlo al greco.
2. I vari approcci all’antico Sul modo di rapportarsi all’antico imposterò il discorso in modo semplice e schematico, per avere delle linee–guida, sperando di guadagnare in chiarezza.
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Penso che gli approcci all’antico siano di tre tipi: quello umanistico, quello attualizzante e quello storico. Si tratta di atteggiamenti che in noi si presentano sempre, che fanno parte del nostro reticolo psicologico, mentale e culturale: li considero caratteristiche costanti, che si presentano singolarmente come prevalenti a seconda del contesto in cui l’antico viene pensato e vissuto, utilizzato, studiato. È chiaro che nei vari momenti in cui queste tre tendenze si sono manifestate molto forte è stato il plusvalore modellizzante che sta alla base di un diffuso e condiviso sentimento di ammirazione per una lunga e ricca stagione di una parte dell’umanità. Vediamo questi tre tipi di approccio attraverso un’immagine spaziale applicata ai tempi. L ’ a p p r o c c i o u m a n i s t i c o comporta uno spostamento di noi moderni verso il mondo antico. Sentirsi antichi è stato un esercizio frequente, che si è intensificato nell’umanesimo italiano e nel cosiddetto secondo umanesimo winckelmanniano. In altre parole: l’antico viene vissuto come modello da ammirare e, nei limiti del possibile, da imitare, da vivere, da erleben. Il difetto di questo atteggiamento è che, mettendo a confronto due culture, l’antica e la nostra, facciamo torto alla nostra, che crediamo di poter semplicemente trasferire. Tempo e spazio culturale si confondono, a detrimento della nostra identità: noi siamo come gli antichi? No. L ’ a p p r o c c i o a t t u a l i z z a n t e è un avvicinamento della cultura antica alla nostra, un movimento opposto al precedente: in questo modo facciamo torto alla cultura antica, che non si lascia omologare alla nostra. Una serie di equivoci sono nati da questo approccio: la scarsa comprensione di una cultura integralmente orale come quella che ha prodotto l’epos arcaico (fino all’VIII sec. a.C.) e poi della cultura visivo–aurale che è durata fino almeno al IV sec. a.C. (e quindi, per esempio, le false concezioni dell’epica orale arcaica come libro originariamente in sé conchiuso, di Alceo antitirannico, di Saffo femminista, e tante altre). Gli antichi sono come noi? Di nuovo no. Questo atteggiamento è ampiamente quanto impropriamente esercitato oggi per ragioni propagandistico–demagogiche che mirano a presentare il mondo antico come attuale in quanto spiegabile con categorie storico–esistenziali nostre che ce lo rendono utilizzabile, spendibile senza mediazioni: e ci saranno legioni di docenti, nella scuola e nell’università, che avranno ascritto al loro attivo successi didattici (apparenti o caduchi) ottenuti in questo modo. Ma è un grave pericolo, se lo si promuove a ideologia culturale in toto. È un approccio che a mio parere va accuratamente bandito. Forse è troppo audace, richiamandoci alla poesia, parlare di intraducibilità delle culture? O è semplice amor di formula? L ’ a p p r o c c i o s t o r i c o – non ho bisogno di dirlo – è l’unico lecito ed è quello che pratichiamo nel nostro mestiere di filologi e di storici perché evita
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ogni indebito spostamento di culture e si mantiene in uno spazio non dirò neutro, ma almeno approssimativamente mediano: è quello che ci fa capire, e non solo sentire, la distanza del mondo antico da noi, che ci spiega storicamente gli eventi. Solo con questro filtro possiamo utilizzare quel tanto o poco che è traducibile in nostre esperienze attuali. Historia magistra vitae, ma deve essere Storia (con la maiuscola). Naturalmente la storia si costruisce con l’ausilio della f i l o l o g i a , e qui voglio far parlare Boeckh con una formulazione che mette in luce la universalmente sentita necessità della conservazione e della trasmissione del documento. Ecco le sue parole, a dir poco fulminanti: La ricerca della parola parlata o scritta – come dice il nome stesso di filologia – è il più. originario istinto filologico (der ursprünglichste philologische Trieb), la cui generale diffusione e necessità risulta chiara anche dal fatto che senza la comunicazione la scienza in generale e la stessa vita sarebbero male indirizzate (übel berathen): insomma, la filologia è in effetti uno dei primi condizionamenti (Bedingungen) della vita, un fattore originario (ursprünglich) che risiede nella più profonda natura umana e nella catena della cultura. Si basa su un istinto di fondo (Grundtrieb) dei popoli di cultura: anche un popolo privo di cultura può philosophein, non philologein.
Non so davvero chi altro abbia detto con tanta efficacia che la ricerca filologica è, dopo tutto, un istinto o un impulso profondamente radicato nell’umanità come vitale bisogno di verità. Sento però sempre, nell’insegnamento e nel mio vissuto personale, il dovere di riscattare almeno in parte l’approccio umanistico e anche quello ingenuamente attualizzante, con i quali ci si avvicina ai testi antichi senza mediazioni, accettando quel non sopprimibile p l a i s i r d u t e x t e che è alla base di ogni appassionata adesione. Leggere, col piacere di leggerlo, l’Edipo re è un esercizio che noi docenti dobbiamo promuovere negli studenti e che dobbiamo praticare ripetutamente anche noi. È una fase della nostra esperienza intellettuale e direi anche semplicemente mentale, a qualunque livello. Praticando di quando in quando questo approccio mi sono venute sempre tante idee, di cui alcune ho scartate e alcune sviluppate. Quale è stato il discrimine? Il ritorno, ogni volta, al mestiere di storico e di filologo, che mi ha portato a selezionare il buono dal cattivo con la verifica, appunto, della storia e della filologia. Non priviamoci, quindi, di un piacere, che è poi anche utile, se confinato a determinate ore del giorno o ai giorni festivi della settimana.
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3. L’integrazione di lingua e cultura: la lingua, strumento necessario ma non sufficiente A questo punto dovrebbe esser chiara la posizione che raccomando: prima di tutto solidarietà del mondo greco con quello latino, che del primo metabolizza tanta parte; poi approccio correttamente storico alle due culture. Ma qui si pone un altro argomento di dibattito, che a sua volta ha una storia secolare e per il quale vale la pena offrire un sintetico panorama storico: il posto che si deve attribuire alla l i n g u a per una corretta rappresentazione dell’insieme culturale che abbiamo il compito di studiare e di trasmettere. Dalla fine del secolo XVIII in poi due discipline hanno influenzato il nostro approccio, la linguistica e l’antropologia. Gottfried Hermann (1772–1848) credeva fermamente che la lingua fosse l’espressione più totale della cultura greca, e in questo era vicino cronologicamente e in parte ideologicamente allo Herder del Saggio sull’origine delle lingue (1772), che peraltro affermava il primato del linguaggio in generale. Certo, si può pensare che l’espressione linguistica sia la più articolata e la più precisa, ma non certamente, per noi oggi, l’unica totale. Di troppi altri fattori culturali bisogna tener conto, molti dei quali non emergono nella parola conservata perché non sono mai stati affidati alla parola scritta: penso, per esempio, ai misteri, al menadismo etc., vietati o al più tollerati dal potere, in cui peraltro operavano istituti comportamentali di grande peso culturale. E ancora: se Herder, nella sua visione linguistico–filosofica, intendeva il linguaggio in generale, Hermann si rifaceva ovviamente ai testi che lui studiava, e cioè a quelli letterari, e noi ben sappiamo che si trattava e si tratta forzatamente solo dei testi letterari conservati, che sono in realtà così pochi anche oggi che ne abbiamo alcuni in più soprattutto dai papiri. Se, per quantificare il conservato nel grande mare del perduto, volessimo avventurarci in una (del tutto approssimativa e arbitraria) valutazione statistica percentuale, dovremmo ammettere di essere poco sopra o forse addirittura sotto l’unità. Conviene allora stabilire, come ha fatto la Altertumswissenschaft, una sorta di parità, per così dire, democratica fra le testimonianze letterarie e le testimonianze storiche di ogni tipo, quelle che cadono sotto la competenza dell’archeologia, della storia politica e sociale, della religione, del costume etc., e in generale, per i fatti di parola, anche dei testi non letterari. Per di più linguistica e antropologia hanno poi portato alla comparazione e si capì che c’erano lingue che funzionavano in modo molto diverso dalle nostre. Nessuno può più, salvando la faccia, giocare il ruolo del hermanniano puro. Ma possiamo oggi venir costretti a far finta di esserlo, sia pure controvoglia. Dobbiamo difendere le due lingue dagli assalti demagogici di chi vuole relegarle
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a cenerentole delle nostre culture antiche, che sarebbero comunicabili anche per mezzo di t r a d u z i o n i o di generiche sintesi. Quello che più meraviglia è la difesa, da parte di alcuni, della funzionalità delle traduzioni non solo per i testi letterari, per i quali un traduttore accorto può trovare espedienti per una rinnovata configurazione poetica o genericamente letteraria, ma anche addirittura per i testi filosofici, molti dei quali tra l’altro sono in versi o, pure in prosa, hanno un alto grado di configurazione letteraria: soprattutto in questi ultimi c’è però una soglia che non può essere ignorata, quella della terminologia. A non dire poi delle testimonianze letterarie sui monumenti conservati e perduti (basterebbe pensare a Pausania), dove la terminologia ha, per gli archeologi, uguale importanza. Non passo in rassegna il resto. L’approccio in traduzione può, nell’insegnamento, favorire un arricchimento culturale in chi non abbia a cuore l’acquisto di competenze specifiche (v. § 5), ma a chi si potrà delegare la trasmissione di quelle competenze se verranno a mancare quelli che le posseggono? E inoltre: anche chi insegna in traduzione deve assolutamente possedere a pieno titolo le due lingue e il metodo filologico, pena l’inclusione del patrimonio greco e latino in un’area di generico comparativismo (che ha una sua funzione, ma a suo luogo). Se indeboliamo la formazione dei filologi a pieno titolo, il nostro patrimonio letterario perderà gradualmente in autenticità e in credibilità come un monumento del passato vittima di cattiva manutenzione. La filologia, dai grammatici alessandrini ai nostri giorni, è costantemente cresciuta su se stessa con il progressivo recupero dei materiali e con lo scaltrirsi del metodo: vogliamo davvero imboccare una pericolosa retromarcia? Insomma, se solo potesse risultare politicamente utile per la difesa delle due lingue, non esiteremmo a gabellarci tutti come (falsi) hermanniani, magari con un cenno d’intesa fra di noi. Ma sarebbe un consapevole inganno, del quale ci auguriamo non ci sia bisogno.
4. La lingua: l’equivoco fra ‘linguistico’ e ‘normativo’ Con il dibattito post–unitario ci si pose l’alternativa fra lo studio propriamente l i n g u i s t i c o (diciamo glottologico, termine che pare destinato all’estinzione, così come la genuina indoeuropeistica) e lo studio semplicemente n o r m a t i v o delle lingue. Questa alternativa era stata tenuta chiaramente presente anche prima della riforma Gentile. Nella scuola deve necessariamente dominare l’approccio normativo (sia pure opportunamente temperato da alcune nozioni di linguistica storica), e cioè lo studio di quello che con larga approssimazione possiamo chiamare l’attico letterario con la sua propaggine nella koiné; ma nell’università i due tipi di insegnamento devono essere tenuti rigida-
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mente distinti. Una denominazione, per esempio, come Grammatica greca e latina, con ‘grammatica’, favorisce l’equivoco e una adeguata conduzione dei corsi è affidata al titolare. All’insegnamento solo normativo vanno destinati insegnamenti distinti e/o corsi di esercitazioni con una lettura diretta dei testi opportunamente finalizzata. Ma questa denominazione, e quella di Storia comparata delle lingue classiche, favoriscono un ulteriore equivoco, sul piano strettamente linguistico, denunciato da Giorgio Pasquali, il quale disse che «una cattedra di storia comparata del greco e del latino è, in sede scientifica, un’assurdità, ma in sede scolastica, o, per parlar più chiaro, per noi ignorantissimi filologi classici, è una necessità». Perché «un’assurdità»? Perché il greco e il latino non costituiscono una sotto–unità nell’ambito delle lingue indoeuropee (il latino è più vicino al celtico che al greco). Per l’utilità del compromesso («una necessità»), da considerarsi come tale, Pasquali si riferiva alle Vorlesungen über Syntax del suo maestro Jacob Wackernagel, che trattava comparativamente greco–latino–tedesco, e tutti noi ci siamo formati sul Traité di Meillet–Vendryes. La liceità di una trattazione combinata sta non nella parentela linguistica, ma nell’inglobamento in un universo culturale, che, dagli albori della letteratura latina nel III sec. a.C., ha unito in rapporto strettissimo anche le due lingue. Un’unità non originariamente linguistica, ma successivamente culturale. Di qui l’utilità esclusivamente didattica per chi lavora con i testi greci e latini. Parlerei quindi non di comparazione fra le due lingue, bensì di confronto. In realtà la nostra esperienza quotidiana d’insegnamento ci porta a scontrarci spesso con la difficoltà di far capire agli studenti, sia antichisti sia modernisti, che una cosa è la competenza (nel senso linguistico) in una lingua morta o viva che sia (che ci permette di leggere e capire i testi) e un’altra è lo studio linguistico di una o più lingue. È chiaro che una buona informazione in fatto di linguistica storica aiuta a leggere i testi, e in questo sono di aiuto quelle grammatiche scolastiche del greco che forniscono in infratesto nozioni essenziali in questo campo. Ma è vano l’esagerare: risalire all’etimologia remota della parola ‘tiranno’ non è di grande aiuto per capire il diverso valore che quella parola ha nel VI e nel V secolo a.C. e magari nel mondo moderno. Anche in questo caso la linguistica aiuta, ma sarà nella funzione di semantica storica, quella che tradizionalmente chiamiamo histoire des mots. Eppure sperimentiamo quotidianamente, anche in persone di media o di buona cultura, l’interesse, o addirittura l’entusiasmo, per l’ e t i m o l o g i a . Lo scoprire l’origine greca del nome di un raro malanno provoca spesso la gioia di una scoperta, che tra parentesi non si modera quando venga detto che la creazione del termine è moderna, come avviene per quasi tutto il lessico della medi-
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cina. L’esplorazione etimologica sembra una vera e propria rivelazione, mentre è soltanto quella che chiamerei una illusoria scorciatoia storica. Almeno a tutti noi classicisti ha fatto molta impressione sentir dire qualche anno fa, da un rappresentante della classe politica, che cinque anni di greco nella scuola sono troppi, visto che ne basterebbero due per fornire uno strumento etimologico, e cioè per capire le tante parole greche assunte sia dal latino sia dalle lingue moderne. Se lo scopo fosse quello di acquistare così poco, si può ben dire che due anni sarebbero perfino troppi.
5. La realtà odierna dell’insegnamento universitario La competenza nelle varie l i n g u e l e t t e r a r i e greche è oggi piuttosto scarsa anche in studenti interessati e volenterosi, a causa del loro passato scolastico. Sono deboli in morfologia e in elementi essenziali di sintassi e, direi, anche nella conoscenza di un pur ristretto lessico di base. Agli inizi è spesso difficile andare oltre a parole come ánthropos, éros, thánatos, sophía, díke. Il metodo che suggerisco sempre è la lettura di un testo prima in italiano e poi più volte in greco, segnando con la matita a margine le parole che si continua a non capire e che o si cercheranno (dopo) nel dizionario o man mano si chiariranno con il progredire della lettura del contesto. A questo aiutano piccoli lessici (purtroppo non tematici) che sono spesso presenti nelle grammatiche scolastiche. Il difetto della scuola e dell’università italiana è la scarsa abitudine degli allievi alla l e t t u r a dei testi (v. § 2, fin.): quando agli esami mi si dice «ho tradotto la tale opera», io ribatto sempre «mi dica che l’ha letta». Si tratta di tutt’altro che di un puntiglio lessicale: è la prescrizione didattica di un metodo di studio. La scuola non avvia a questo: si leggono pochi testi e li si tratta come un indovinello da risolvere, pur con l’aiuto di ricche note (consentite) e di traduzioni interlineari (tollerate, e così spesso fuorvianti). A non dire della perdurante abitudine di proporre i cosiddetti temi di traduzione senza neanche dare il nome dell’autore da cui vengono estratti, il che impedisce una sensata utilizzazione del dizionario. Questo riguarda i moduli in cui si richiede la lingua. D’altra parte grande interesse suscitano i moduli in cui si parla di cultura greca e di i s t i t u z i o n i l e t t e r a r i e greche, s e n z a o b b l i g o d i c o n o s c e r e l a l i n g u a , destinati a chi non intenda seguire un curriculum antichistico. L’attrattiva del mondo greco è grande, e a questa sollecitazione rispondono non solo quelli che sono usciti dal liceo classico, ma anche – e alle volte con particolare entusiasmo – quelli che a scuola non hanno avuto neanche il latino dello scientifico. Fino a pochi anni fa una tale impostazione dell’insegnamento era presente solo nei
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magisteri sotto la titolatura di “Cultura greca” o simili e prevedeva in linea di principio un panorama che poteva, e in sé doveva, comprendere anche la storia, l’arte, le antichità etc.: non avrebbe dovuto limitarsi alla sola letteratura. Oggi la necessità di rivolgersi a un pubblico non fornito di conoscenze in fatto di lingua coinvolge anche gli storici, gli archeologi etc.: non so peraltro come si possa pretendere questo da chi insegna, per es., Filologia classica o Epigrafia (molte sono, e per gli studenti e per noi docenti, le aporie delle tabelle ministeriali). Ma per la letteratura la cosa è naturalmente possibile e si può realizzare proprio centrando l’attenzione sullo specifico letterario greco: la letteratura greca, tra l’altro, è fra quelle europee la più varia dal punto di vista dei modi della c o m u n i c a z i o n e : dall’oralità integrale dell’epos (fino all’VIII sec. a.C.) si passa a un progressivo diffondersi dell’uso della scrittura (l’epoca visivo–aurale, fino al IV sec.) per approdare alla cultura del libro che sarà quella dell’ellenismo e del mondo romano e che è ancora, non sappiamo bene per quanto tempo, la nostra. Capire questa varietà e rapportarla alle istituzioni letterarie (i generi) porta a una valutazione funzionale più avvertita delle varie realizzazioni testuali: per fare un esempio, gli ateniesi andavano a teatro a vedere tragedie e commedie e non facevano caso alle frequenti aporie e contraddizioni, alle quali siamo tanto sensibili noi che quei testi siamo costretti solo a leggerli. Confesso che, in mancanza di esperienza in questo per me nuovo modo di presentare uno (e uno solo) dei miei moduli annuali, mi sono inizialmente preoccupato. È difficile scrollarsi di dosso vecchie abitudini: ho cominciato a fare esercitazioni come assistente nel 1961 e ho avuto il primo incarico d’insegnamento nel 1965. Mi sono tranquillizzato pensando che avrei semplicemente di poco modificato gli esordi dei miei corsi annuali, dedicati alle istituzioni letterarie: per il modulo destinato ai non grecisti avrei potuto fare gli stessi discorsi, pronunciando non più di cinque parole greche invece che dieci o venti. Mi sono reso conto però subito del fatto che molti si sarebbero limitati a quel solo modulo: e allora ho pensato di inserire verso la fine del modulo un breve impegno monografico su un testo in traduzione, oltre a prescrivere molte letture di altri testi, sempre in traduzione. Devo dire che, dall’esperienza di questi pochi anni, ammirevole (e stimolante) mi appare l’impegno che molti mettono nel leggere i testi e nell’informarsi sulle tappe essenziali della storia culturale e politica. E qui è il docente a trovarsi alla fine in difficoltà: il contemperare la valutazione oggettiva del risultato e la valutazione dell’impegno dello studente porta alle volte a delle vere e proprie crisi di coscienza professionale. Diversa è la situazione che si presenta nei m o d u l i p e r s o l i c l a s s i c i s t i . Qui la conduzione dell’insegnamento torna a un progetto didattico più tradizionale, che è normalmente quello della lettura di un testo in lingua con
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attenzione alla sua forma linguistica e al suo specifico letterario. Naturalmente, per quelli che non hanno seguito un modulo istituzionale, l’inquadramento storico viene in buona parte presupposto e gli studenti vengono indirizzati a letture integrative. Oggi gli studenti per questi moduli sono pochi (in genere, per la mia esperienza di questi ultimi anni, di poco sopra i dieci): e questo permette un tipo di rapporto più tipico del seminario che della lezione cosiddetta frontale. Un problema da affrontare nei due tipi di modulo è quello della s e l e z i o n e d e i t e s t i da leggere, in altre parole quello di un canone. Nei moduli senza lingua è ormai quasi inevitabile offrire come argomento monografico dei testi esemplari che esercitino una particolare attrazione: e lì è chiaro che dovrà trattarsi di opere appartenenti a un canone consacrato da una vecchia tradizione, come epos, lirica, tragedia. Per il superamento di una simile visione classicistica, che oggi è necessario combattere per permettere una visione più ampia dei vari momenti e luoghi della cultura greca, ci si deve impegnare a dar notizie nella parte storico–istituzionale e indicare letture integrative di testi completi e di scelte antologiche. Nei moduli in lingua, invece, ci si può sbizzarrire nella scelta. Ho conservato nel mio insegnamento l’uso del s e m i n a r i o , un luogo e un tempo che si sottraggono alla necessità della verifica perché contengono in sé una verifica implicita. Quando parecchi decenni fa (circa quattro) aggregai ai miei corsi questa iniziativa, gli studenti attrezzati per la lingua erano molti (specie negli anni ‘70 e ‘80) e fra questi molti non era difficile provocare una autoselezione che produceva l’iscrizione volontaria di una ventina o una trentina di loro, che con l’iscrizione stessa si impegnavano a frequentare le sedute, di norma settimanali ma anche più frequenti; naturalmente erano e sono ammesse eventuali dichiarazioni di rinuncia dopo le prime sedute e per le assenze c’era e c’è l’obbligo di giustificarsi, per riguardo a tutto il gruppo, che durante l’anno è un corpus solidale. Questo regime ha sempre favorito il fatto che alcuni dei suoi componenti hanno conservato reciproci rapporti di collaborazione e di amicizia destinati a durare nel tempo. Il principio è sempre stato che chi del tutto liberamente si iscrive si impegna. Dell’uso del seminario in Italia siamo debitori a Giorgio Pasquali, che lo introdusse da noi dopo la sua esperienza a Gottinga. Se c’è qualcosa che, in Germania, ha preceduto sia pure di poco la riforma humboldtiana berlinese, questo fu proprio il seminario instaurato da Wolf a Halle alla fine del secolo XVIII (nel 1787), poi continuato a Berlino da Boeckh circa vent’anni dopo (v. § 1). Le sedute nel nostro seminario romano sono sempre state di due tipi: relazioni di membri del seminario o di ospiti italiani e stranieri (‘seminario turistico’); cicli di sedute su un tema specifico (‘seminario temati-
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co’). È nel seminario che si sono formati i miei migliori allievi ed è qui che il mio insegnamento mi ha sostanziosamente alimentato nella curiosità di ricerca. Oggi è più difficile raccogliere libere adesioni, essendosi il numero dei classicisti assai ridotto; e per di più è difficile avere ospiti da fuori, date le scarse disponibilità di bilancio. Ma vale sempre la pena di continuare, anche perché Roma è nella condizione privilegiata di attirare amici di passaggio, che spesso si mostrano addirittura entusiasti di sottoporre gratuitamente alla nostra discussione le loro idee: li ricambiamo con quel poco o tanto di amichevole ospitalità che siamo in grado di offrir loro. La rivista semestrale «Seminari Romani di Cultura Greca» («SemRom») è nata nel 1998 per ospitare, tra l’altro, proprio le relazioni tenute al seminario. Nei moduli in cui si legge il greco non è raro, leggendo un testo, trovarsi di fronte a problemi di lezione, che comportano un sia pur succinto discorso metodologico di c r i t i c a t e s t u a l e . È sorprendente quanto gli studenti si appassionino a questo tipo di problemi, soprattutto quando si propongano loro i classici criteri del metodo ‘scientifico’ lachmanniano–maasiano formulati more geometrico. Né il loro entusiasmo scema quando, subito e contestualmente al discorso che si sta svolgendo, si mostra loro che quei principi vanno applicati quasi sempre con il sacrificio parziale o totale delle sacre regole e con le lacrime e il sangue che il caso specifico esige: è la verifica, passaggio obbligato di ogni scienza. È come un brivido di scienza applicata, tanto inaspettato quanto benvenuto, perché è un momento di i n c o n t r o f r a l e “ d u e c u l t u r e ” , quella delle scienze esatte e quella delle scienze umane, ed è di tanto più educativo in quanto è un incontro interno alla nostra casa umanistica. Siamo o no una F a c o l t à d i S c i e n z e U m a n i s t i c h e ? Il nesso non è ossimorico, come non lo era in Altertumswissenschaft due secoli fa (§ 1). C’è un settore dei nostri studi nel quale gli studenti arrivano largamente impreparati all’università, perché la scuola lo ignora quasi totalmente: l a m e t r i c a , che serve sia al greco sia al latino, cliente del greco fin dai suoi inizi. Più d’uno fra noi romani la coltiva, eredi come siamo di una tradizione che va da Pasquali a Perrotta a Gentili. È una disciplina preziosa e facile da trasmettere, a patto che si abbia un minimo di sensibilità ritmica e che si pongano in chiaro alcuni elementari concetti di fondo: l’ho sperimentato in tutti i miei decenni di insegnamento. Lo schema di lunghe e brevi, una volta accertato testualmente, va ovviamente interpretato ritmicamente e ci offre quello che chiamo partitura ritmica, tutto quello che ci resta dell’evento musicale e orchestico originario, di per sé non ricostruibile per la mancanza di testimonianze e per la irrecuperabile differenza del codice sia musicale sia orchestico. Ma qualcosa dalla partitura ritmica si può ricavare. Qualche decennio fa un filologo francese,
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Alphonse Dain, ci ha dato una formulazione davvero felice: in mancanza della possibilità di ricostruire l’evento musicale e orchestico totale, la metrica ci permette almeno di vedere delle differenze dove gli antichi le creavano e le sentivano: il passaggio da un ritmo a un altro ci permette almeno di intravedere quello che poteva succedere nel canto e nella danza. Insomma, la metrica ci permette di limitare quella ars nesciendi che Gottfried Hermann ci ha insegnato, giustamente, a praticare. Nelle splendide pagine iniziali della Epitome doctrinae metricae, destinata alla scuola, sua è l’affermazione che la metrica si può imparare difficilmente dai libri, sine viva magistri voce, e che fondamentale è la exercitatio aurium, che plerique negligunt: est autem statim ab initio curandum, ut non dubia et titubante, sed firma et aequabili voce singula pronuncientur. La lettura metrica ad ictus, che è convenzionale, ci permette di comunicare la nostra intepretazione ritmica di un testo poetico: non avendo nella nostra competenza linguistica l’opposizione lunga/breve, della convenzione dell’ictus non possiamo fare a meno. Una moderata dose di istrionismo in questo campo ha sempre dato buoni frutti, risvegliando negli allievi interesse e alle volte perfino entusiasmo. La lettura per ictus aiuta anche a memorizzare i testi poetici. Memorabili furono le recitazioni di “lirica mista” (come lui le chiamava, con allusione al “fritto misto”) che Eduard Fraenkel ci fece a Roma a conclusione dei suoi quattro seminari di nove sedute l’uno tenuti fra il 1966 e il 1969: dal suo abile e funzionale istrionismo credo di aver imparato molto. La lettura metrica, soprattutto della lirica, potenzia il piacere del testo.
6. I problemi della scuola e dell’università italiana visti da un classicista La scuola italiana è ancora, nonostante tutto, in alcune sedi l’ultima scuola di buon livello in Europa e nel mondo, dopo il recente decadere di quella francese: il test decisivo è dato dalla alta valutazione che ottenevano (e che ancora ottengono) i nostri giovani all’estero. Negli ultimi anni la nostra scuola è entrata in grave crisi. Non è il caso di ripetere qui in dettaglio quanto si è ripetuto con insistenza da molti di noi antichisti (sospettati di corporativismo) e da molte personalità di cultura (al di sopra di ogni sospetto): che l’Europa, proprio per l’affermazione dei vari aspetti della propria identità, non può non coltivare un’operante memoria storica delle radici greco–romane: lo si dice sempre in varie sedi e non è il caso di ripeterne qui le motivazioni. La penalizzazione delle materie classiche risponde a un dannoso nonché illusorio demagogismo: è banale nostalgia di classicocentrismo il ricordo, limitato purtroppo alla mia generazione e poco oltre, di quanto poco sforzo richiedes-
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se nell’antica scuola media il famigerato rosa rosae, che ci metteva subito in grado di leggere almeno alcune iscrizioni dei nostri monumenti sia antichi sia rinascimentali e moderni? Il problema – si dice da chi vuole sfuggire al demagogismo – è la difficoltà di trovare spazio orario fra i tanti insegnamenti che si crede sia necessario impartire. Ma dovrebbe venire finalmente il momento di graduare l’importanza, in ogni singolo curriculum scolastico, delle varie materie in vista della funzione culturalmente formativa della scuola, che non può cessare troppo prematuramente. Lo spazio per le materie professionalizzanti va cercato in una fase ulteriore del percorso scolastico, quando si siano dati agli studenti gli strumenti per decidere. E che dire poi, qui tra parentesi, del tacitamente perdurante esilio della musica, in un paese che è stato maestro di musica per l’intero mondo europeo? Sull’università c’è da dire che l’insegnamento soffre della generale cattiva preparazione scolastica degli studenti e che deve in qualche modo adeguarsi ad essa. Non è certo dramma solo italiano. Alla frammentazione della modulistica in parte ci si adatta, in parte si supplisce come si può, perché in realtà con buona volontà si può. Un’aporia non facilmente risolvibile è il fatto che la formazione dovrebbe essere fuori mercato, mentre l’università e la scuola al mercato pare che debbano guardare, anche se non in modo esclusivo. Ma non è questo il luogo di proporre complicate alchimie. E autentico dramma italiano è la miseria dei finanziamenti per l’istruzione e la ricerca. Questa realtà provoca una perversa eterogenesi dei fini, che per la scuola risulta paradossalmente positiva: molti giovani di valore, formatisi egregiamente e alle volte tenaci nel continuare la ricerca, non trovano sbocchi nell’università e, insegnando nella scuola, forniscono alla società e all’università allievi ben preparati. Ma si tratta di sparse sacche di eccellenza. È per di più inevitabile che nell’università questi (pochi) studenti soffrano per il dislivello rispetto agli altri (molti). E a noi docenti resta il difficile compito di graduare sia l’insegnamento sia, come dicevo sopra (§ 5), la valutazione.
7. Lo stato della ricerca in Italia Quello che può meravigliare (in positivo per la ricerca e in negativo per l’insegnamento) è che, proprio in un momento in cui gli studi classici sono attaccati da molte parti nella scuola e nell’università, nel nostro paese da alcuni decenni si registra una vera e propria crescita quantitativa e qualitativa della produzione scientifica nel campo dell’antichistica, e questo, comparativamente, a livello internazionale. Siamo riusciti a far tesoro delle varie esperienze culturali e delle innovative lezioni di metodo dei due secoli passati: abbiamo saputo
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metabolizzare esperienze come lo storicismo idealistico, il positivismo (con la venerazione del documento, oggi favorita dai mezzi elettronici), l’antropologia di Cambridge e del versante francese, la linguistica saussuriana, lo strutturalismo, il marxismo, la psicanalisi, la teoria della ricezione di Jauss e la conseguente attenzione alla comunicazione e alla committenza. L’elenco non è esaustivo, e si può dire che raramente vedo fuori d’Italia una simile sensibilità ricettiva all’apporto di metodo che può venire da una selezione di quanto appare vivo e quanto appare morto nelle varie correnti della critica. E tutto questo è avvenuto da noi con l’innesto sul solido tronco della tradizione rigorosamente filologica di Vitelli e di Pasquali. Penso che il vero problema nostro sia quello dei finanziamenti: il materiale umano è, come sempre da noi, abbondantemente presente, e le conseguenze di questa grave distonia sono state rilevate sopra (§ 6). L’Italia dunque figura oggi molto bene fra i grandi paesi che più hanno contribuito e più contribuiscono al nostro campo disciplinare. La Germania, già madre delle nostre discipline nelle moderne strutture accademiche, riduce gli istituti e gli insegnamenti in alcune sedi una volta prestigiose (un processo che, alla lontana, era cominciato già con Bismarck) e concentra l’attività di ricerca in alcune sedi oggi più vivaci e seriamente impegnate; la Francia, che nel XX secolo ci ha arricchiti nella linguistica e nell’antropologia, ha da molto tempo fatto in gran parte tacere la sua antica vocazione filologica; la Gran Bretagna, prodiga di frutti preziosi, soffre di un reclutamento elitario nel prestigioso triangolo Oxbridge–Londra, che a sua volta fornisce una ristretta élite dirigente in tutti i campi; la Spagna è da alcuni decenni in forte ascesa nella grecistica; gli Stati Uniti, dal secolo XIX originariamente colonia filologica tedesca, offrono un panorama qualitativamente troppo vario per poterne qui improvvisare una valutazione.
Nota bibliografica Segnalo qui alcuni miei lavori, dai quali ho liberamente attinto: Rileggendo due opere di Wilamowitz: Pindaros e Griechische Verskunst, in «Annali della Sc. Normale Pisa», Cl. Lett.e Filos., S. III, 3.1 (1973), pp. 119–145. Karl Reinhardt fra umanesimo e filologia, in «Annali della Sc. Normale Pisa», S. III, V. 4 (1975), pp. 1333–1354. Umanesimo e filologia (A proposito della Storia della filologia classica di Rudolf Pfeiffer), in «Rivista di filologia», 104 (1976), pp. 98–117.
336 | Sezione 8: Storia degli studi
Grammatica greco–latina e metrica in Italia fra il 1860 e il 1920, in Atti del convegno Philologie und herméneutique au 19ème siècle (Lille 1977), II, Göttingen 1983, pp. 275–291 più aggiunte pp. 294–296. Storia e testi della letteratura greca (in collaboraz. con R. Nicolai), voll. I–III, Firenze 2002– 2003 (sulla base di Letteratura greca. Con la collaboraz. di R. Nicolai, L. M. Segoloni, E. Tagliaferro, C. Tartaglini, Firenze 1995). Un esploratore della parola (presentazione di Filologia e storia, “Scritti di Enzo Degani”), in «Eikasmos», 16 (2005), pp. 383–392. Le principali voci bibliografiche richiamate: A. Boeckh, Encyklopädie und Methodologie der philologischen Wissenschaften. Hsg. v. E. Bratuschek, zw. Aufl. v. R. Klussmann, Leipzig 1886 (la prima ediz. era del 1877). La definizione della filologia citata al § 2 è a p. 11 ss. G. Hermann, Epitome doctrinae metricae, Leipzig 1818 (è la versione in usum scholarum dei famosi Elementa doctrinae metricae, Leipzig 1816): nella Praefatio, pp. III–XXI, i consigli didattici sull’insegnamento della metrica, di cui qui al § 5 (spec. pp. V, VI). A. Meillet – J. Vendryes, Traité de grammaire comparée des langues classiques, Paris 19482 (19241). G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1952 (a p. XIV l’impossibilità di tenere separate le varie discipline, qui al § 1). Formulazione simile in Paleografìa quale scienza dello spirito [«Nuova Antologia», 1° giugno 1931], riedito da ultimo in Pagine stravaganti di un filologo, vol. I, Firenze 19943 (v. p. 106). G. Pasquali, Università e scuola, Firenze 1950 = Scritti sull’università e sulla scuola, Firenze 1978 (a p. 358 la funzione utilitaria della coppia greco–latino): v. qui al § 4. S. Timpanaro, Il primo cinquantennio della Rivista di filologia, in «Rivista di filologia», 100 (1972), pp. 387–441. J. Wackernagel, Vorlesungen über Syntax, I–II, Basel 1926, 1928. F. A. Wolf, Darstellung der Alterthums–Wissenschaft, in «Museum der Alterthums–Wissenschaft», I, Berlin 1807. La bibliografia e la pubblicistica recenti e recentissime sull’argomento ‘noi e il classico’ sono molto vaste e contano lavori di pregio, che non è possibile richiamare qui.
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Sul libro di Giovanni Sega La traduzione dal greco – Formulazioni teoriche (traduz. endolinguistica, interlinguistica, intersemiotica – interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici – Jakobson, Saggi di ling. Generale[1], 56 ss., Aspetti linguistici della traduzione – prassi e utilità nell’insegnamento. C’è anche qualche cenno alla storia della traduzione dal greco (dal greco, perché molto importante è la B i b b i a ): Cicerone, S. Girolamo, gli Umanisti (fra cui va messo in rilievo L e o n a r d o B r u n i , con la storia della parola traducere, come mette in luce G. Folena, Volgarizzare e tradurre, Torino (Einaudi) 1991, 71 ss.). – Esercizio non di traduzione, ma sulla traduzione (e per di più traduzioni in varie lingue, dove è interessante mettere l’accento non tanto sulle lingue – perché si pone il delicato problema della competenza in senso linguistico – ma piuttosto sulle diverse culture di cui le varie lingue sono espressione). – Traduzione come fatto di ricezione e di ben definito fatto di fortuna (fra testo e traduzione c’è un delicato rapporto intertestuale come fra testo imitato, alluso etc.). – Parallelo fra critica del testo e traduzione. Maggior fortuna porta grande estensione della tradizione manoscritta (i codici si moltiplicano e il testo si corrompe attraverso l’uso: Ovidio, per es.). Non è vero che un testo trasmesso da pochi o da un solo manoscritto sia più fedele all’originale di un testo trasmesso da molti codici. Un altro esempio: la commedia attica antica, Aristofane, non fu più rappresentato e non ebbe le interpolazioni d’attore che invece hanno le tradizioni ms delle tragedie, che invece furono spesso rirappresentate, soprattutto Euripide. Ebbene: la traduzione si può configurare come una t r a d i z i o -
|| [Intervento nell’ambito della presentazione di G. Sega, La traduzione dal greco. Metodi, esempi, testi, Firenze, La Nuova Italia, 1992, tenuta L 4.5.1992, ore 17, presso la sala degli Incontri Culturali della “Nuova Italia” a Roma, Viale Carso 46 (Bruno Gentili, La traduzione come inesauribile ricezione. Tradurre poesia; Luca Canali, La traduzione come battaglia perduta. Orazio e Petronio; coordina Luigi Enrico Rossi; presente l’Autore) – Inedito, ritrovato in stato di appunti nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano 1966 = 19805.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-022
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n e p a r a l l e l a al testo di partenza, e più si traduce un testo più ci si allontana dall’originale perché le varie traduzioni influenzano tutte le traduzioni ulteriori. – Foscolo che corregge se stesso (Sega, p. 42 ss,): progressiva determinazione e vera e propria correzione d’autore (altro parallelo con la critica del testo)[2]. Possibili domande sulla traduzione 1. Abituale è negli allievi il dire “ho tradotto” o “devo tradurre” Sofocle, Lucrezio, Virgilio. Nel caso dei grandi testi (quelli che comunemente vengono chiamati gli ‘autori’) non sarebbe più giusto che dicessero “ho letto”, “ho tradotto”? Perché c’è una grande differenza fra l e g g e r e e t r a d u r r e . Quale? 2. A livello di orizzonte di attesa, che cosa ci si aspetta di leggere quando si legge una traduzione italiana da un autore straniero, antico o moderno che sia? 3. Che cosa significa l’alternativa fra traduzione letterale e traduzione libera? Sembra una falsa alternativa scolastica, alimentata da una presunta esigenza scolastica di precisione. 4. Umberto Eco ha detto recentemente (in un’intervista?) che i suoi traduttori stranieri lo interpellano spesso per avere delle dilucidazioni sul suo testo e sul modo di rendere nella loro lingua le eventuali allusioni intertestuali in modo da tradurre non tanto le parole quanto l’allusione stessa. Esempio: “Non tirava un alito di vento” etc. è per noi tutti chiara allusione ai Promessi sposi. Le parole, ovviamente, possono non dire nulla al lettore giapponese. Ebbene: è ammissibile una sostituzione totale delle parole, o addirittura un cambiamento di situazione, per consentire nella lingua straniera una allusione altrettanto significativa? 5. A livello scolastico, bisogna che uno studente si senta specificare dal docente che cosa si chiede da lui quando si accinge a tradurre. 6. Nel momento in cui un editore ci chiedesse di tradurre un testo antico o moderno, che cosa decideremmo di sacrificare e che cosa vorremmo conser-
|| [2 Ci si riferisce alle considerazioni espresse da Foscolo nel suo Esperimento di traduzione della Iliade di Omero (1807) su varie traduzioni di Il. I (compresa la sua), e alle correzioni da lui apportate in seguito alla propria traduzione di questo libro in una seconda stesura (manoscritto L–XII, 1817–1818).]
Sul libro di Giovanni Sega La traduzione dal greco | 341
vare? Trattandosi di espressione artistica, è lecita una distinzione fra prosa e poesia? 7. Che impressione fa la lettura di un testo letterario nell’originale dopo una lettura in traduzione italiana? Anche in questo caso, è giustificabile una distinzione tra prosa e poesia? 8. Riporto parole di Croce dalla prefazione al suo Goethe (1918)[3]: In effetto, le traduzioni non vengono mosse dalla impossibile speranza di dare gli equivalenti delle opere originali, che non soffrono equivalenti, ma, direi, dal desiderio di carezzare la poesia che ci ha recato piacere: di carezzarla coi suoni della lingua che ci è nativa o familiare; – e va da sé che le carezze, attestati di simpatia e di amore, non sempre si esercitano senza dare, alle creature che ne formano oggetto, qualche maltrattamento o tormento, in misura maggiore o minore, secondo la discretezza e il garbo di chi le largisce o le infligge! Perciò accetterei volentieri il giudizio di un poeta inglese (del Tennyson, se mal non ricordo), che le traduzioni poetiche “sono molto dilettevoli sopratutto a colui che le fa”.
|| [3 B. Croce, Goethe. Con una scelta delle liriche nuovamente tradotte, Bari, Laterza, 1919 (= 1959, p. IX).]
Ricordo di Carlo Gallavotti Il 9 febbraio 1992 è morto a Roma all’età di ottantatré anni il Professor Carlo Gallavotti, accademico dei Lincei, che, dopo Napoli, Catania e Bari, per lunghi anni, dal 1949 al 1985, è stato professore ordinario nella nostra Facoltà: titolare prima di Grammatica greca e latina, poi, dal 1958, di Filologia classica e infine, dal 1962, come successore di Gennaro Perrotta, di Letteratura greca. Se prendo la parola per ricordarlo, nonostante il collega Masaracchia sia più anziano e di età e di ruolo su questo insegnamento sul quale siamo i suoi successori, è perché sono stato anche allievo dei suoi corsi e suo assistente nei primi anni. Per di più fu anche relatore della mia tesi di laurea, in sostituzione di Perrotta malato, insieme con Bruno Gentili. Parlo comunque anche a nome di Masaracchia. Del resto ci sono molti altri suoi vecchi allievi che sono attivi in questa Facoltà, alcuni dei quali fanno anche parte di questo Consiglio: le nostre colleghe, in ordine di anzianità, Anna Sacconi, Gabriella Ricciardelli e Marilena Palumbo. Della sua ricca personalità scientifica accennerò solo ai suoi interessi maggiori. Fu allievo principalmente di Augusto Rostagni e di Giorgio Pasquali: al primo risalgono i suoi interessi per la critica letteraria antica e per la poesia alessandrina, al secondo tutto il resto – che non è poco – della sua formazione scientifica. I caratteri salienti della sua personalità, che spiegano le sue scelte e il suo metodo, furono da una parte la curiosità intellettuale e dall’altra l’audacia intellettuale. La curiosità lo ha portato a interessarsi di molti campi di lavoro; l’audacia lo ha portato a privilegiare quei settori dove gli sembrava possibile e opportuno esercitare una funzione pionieristica, dove, in altre parole, ci fosse del nuovo da dire in seguito a nuove scoperte di materiali. Comincerò da questi ultimi campi. Quando, nel 1952, Michael Ventris, un architetto inglese, con l’aiuto di John Chadwick, un filologo classico di Cambridge, decifrò il sillabario miceneo, Gallavotti si buttò con entusiasmo in questo campo di ricerca creando e animando quello che allora fu il Centro di Studi Micenei del CNR e che poi diventò l’attuale Istituto di Studi Micenei ed Egeo– Anatolici. Ne nacque una scuola romana di miceneo da cui uscirono Anna Morpurgo Davies, ora professore a Oxford, e Anna Sacconi, che ora insegna Filolo|| [Annotazione finale di Rossi, qui anticipata: “Commemorazione letta nel Consiglio di Facoltà {Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”} del 10.3.1992, qui presentata {«RCCM» 36. 1–2, 1994, Scritti in memoria di Carlo Gallavotti, pp. 1–4} con piccoli ritocchi”]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-023
Ricordo di Carlo Gallavotti | 343
gia micenea in Facoltà. Nel 1967 organizzò il primo congresso internazionale di miceneo, ed è bello ricordarlo nella nostra sede che, insieme con Napoli, ha ospitato nel 1991 anche il secondo. Nel 1958 fu pubblicato in Svizzera in editio princeps il Dyscolos di Menandro da un papiro che conteneva tutta la commedia con poche lacune. Era la prima commedia completa di Menandro che veniva in nostro possesso e Gallavotti ne fece oggetto di una edizione che fu discussa in memorabili sedute di seminario a cui partecipò tutto il nostro dipartimento, che allora si chiamava ancora Istituto di Filologia classica. E non è un caso che per lunghi anni dedicasse il suo interesse a Saffo e ad Alceo (di cui fece un’edizione), testi che sollecitavano l’iniziativa testuale ed esegetica per le precarie condizioni dei molti papiri e per il fatto che di molti papiri era stato fra i primissimi ad occuparsi. L’interesse per l’estetica antica dette come frutto numerosi studi sulla Poetica di Aristotele, di cui nel 1974 pubblicò l’edizione commentata nella collezione Lorenzo Valla. In fatto di tradizione manoscritta dette le sue cure non soltanto alla Poetica, ma anche all’Antologia Planudea, di cui si occupò intensamente fino ai suoi ultimi giorni. Come tour de force esegetico voglio ricordare ancora l’edizione di Empedocle sempre nella Lorenzo Valla. Tralasciandone molti altri, vengo all’ultimo argomento a cui vorrei accennare, al più prezioso per me e forse per noi tutti, e cioè a Teocrito. Pubblicò Teocrito nella collana dei classici della Libreria dello Stato la prima volta nel 1946, la seconda nel 1955 e la terza edizione, ampiamente riveduta, è appena uscita (1993). Vorrei dire una cosa che a molti può sfuggire, che è però interessante. Se si scorre la ricchissima bibliografia di Gallavotti, le voci teocritee, al di là dell’edizione, sono poche. Segno che aveva studiato poco Teocrito? No: segno che aveva addensato la sua ricchissima conoscenza di Teocrito nell’edizione, dove la dottrina, come in ogni buona edizione critica, è la base del lavoro e resta spesso implicita nelle scelte testuali. E questa edizione, per riconoscimento unanime, è davvero eccellente, tale che è finora insuperata e lo resterà a lungo. Gallavotti rivide tutta la tradizione manoscritta e sfruttò con grande acribia i dati del papiro di Antinoe, uscito negli anni ‘30. A. S. F. Gow, autore della grande edizione commentata del 1950, riconosce di essersi fondato sull’edizione di Gallavotti. Teocrito non è autore facile da pubblicare: a ogni verso ci si confronta con questioni linguistico–dialettali molto spinose. Ebbene: il pregio della sua edizione è quello di aver scelto sempre le soluzioni editoriali più giuste, più indovinate, bisogna proprio dire le più intelligenti. Gallavotti non faceva mai, né nei suoi scritti né nelle sue lezioni, grandi formulazioni astratte di metodo, perché il metodo lo applicava di volta in volta in modo implicito. Il metodo è,
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appunto, intelligenza: e lui ne aveva da vendere. Le cosiddette scienze ausiliarie, che sono tali per il filologo anche se in sé autonome, le dominava alla perfezione: paleografia, papirologia, epigrafia, lingua, metrica. A queste sue ricche competenze dobbiamo tutti moltissimo: aveva assorbito in pieno il detto di Pasquali che «non esistono discipline singole, ma solo problemi», i quali vanno risolti con l’ausilio di tutte le discipline[*]. Per la sede in cui ne parlo, non posso fare a meno di accennare alla sua personalità di didatta. Io ho seguito corsi sulla Poetica, su Saffo e Alceo, su Omero, su Teocrito. Forse le più belle di tutte furono le lezioni su Saffo e Alceo, perché lì si manifestava nel modo più splendido quella audacia intellettuale di cui parlavo prima. Quei testi così frammentari si animavano a poco a poco come per l’opera di un prestigiatore, che li ordinava, li correggeva, soprattutto li integrava con la gioia di chi gioca e ne dava alla fine un’esegesi che era come la conclusione di una grande festa. Chi non è disposto ad accettare il lusus nel proprio lavoro filologico non sarà buon filologo: lui amava enormemente giocare, e lo diceva apertamente. Del gioco rispettava però anche le regole: a una congettura che gli era venuta in mente o che gli veniva in mente nel momento di parlare era anche capace di rinunciare su due piedi, o autocriticandosi o dando ragione a chi lo criticava. Non credo di essere il solo a poter dare testimonianze in questo senso, perché è anche successo che rinunciasse a idee sue già apparse in stampa. Del resto era audace solo in fatto di integrazioni exempli gratia, che erano frequenti in testi di tradizione papiracea frammentaria, ma nel pubblicare testi integri era conservatore piuttosto che innovatore. Le sue lezioni erano un fuoco d’artificio da cui si imparava davvero molto, mentre le conversazioni con lui su materia di studio erano più rare. Le visite nella sua stanza erano sempre brevi: si mostrava sempre disponibile, ma era come se una fretta interiore lo inseguisse e lo portasse a dare a noi allievi un congedo frettoloso, che per un miracolo del suo tratto era anche cordiale. Ma bastava una parola, una notazione brevissima per dare a noi un contributo che valeva più di un lungo discorso; e i lavori degli allievi li seguiva comunque con tenacia, fino alla correzione delle bozze. Una certa riservatezza dipendeva certo dal suo carattere, che nel fondo era schivo e anche timido, nonostante le frequenti dimostrazioni di cordialità e di allegria.
|| [* G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 19522, p. XIII s.: “In primo luogo io sono convinto che almeno nelle scienze dello spirito non esistano discipline severamente delimitate, «scomparti», Fächer, ma solo problemi che devono essere spesso affrontati contemporaneamente con metodi desunti dalle più varie discipline”.]
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E siamo passati così alla sua personalità umana, sulla quale oserò dire solo poche parole. Detestava ogni formalità, era diretto, sincero e aveva una rara qualità: non serbava rancore. Era il risvolto umano della qualità filologica del saper rinunciare alle congetture azzardate. Essere stati allievi di maestri come Gallavotti è un privilegio. Succedergli è un peso.
Premessa Nel contesto di una manifestazione di considerazione scientifica e di affetto personale, come è questa imponente raccolta di studi in onore di Giovanni Tarditi, mi è stata data, da amici a cui sono grato, un’opportunità di cui sono geloso e felicissimo, quella di presentare la personalità didattica e umana del dedicatario. Della carriera scientifica non è qui il luogo di parlare, e per due buone ragioni: una è che Tarditi è da tanti anni, per cosi dire, sul mercato scientifico e non troverei qui la misura giusta per valutarne un peso e un impatto che sono stati già ampiamente valutati dagli utenti dei suoi lavori; ma, soprattutto, è lui stesso a farci sperare che la sua carriera scientifica sia ben lontana dall’essere conclusa. Più che una speranza è una certezza, che deriva dal suo stesso approccio agli studi: leggendolo da ormai tanti anni e rileggendolo adesso, mi rendo conto che non ha mai affrontato un problema che non sentisse fortemente come suo, che non rispondesse a una motivazione intellettuale profonda. In altre parole: Tarditi non si è messo mai al lavoro a freddo. Mi affido a ricordi personali anche lontani. Il riemergere di questi ricordi, oggi, è tanto più significativo quanto più sono lontani, e cioè affidati a una memoria libera da sorveglianze e fortificata fin dall’origine da un vigoroso impatto affettivo. Il contatto con Tarditi è sempre accompagnato da un coinvolgimento totale, che mette in moto vibrazioni umane molto sensibili, forse proprio per il grande rispetto che manifesta nei confronti dell’interlocutore: tanto più lui è riguardoso, tanto più conquista e invade. Ha avuto la sua formazione scolastica e universitaria a Genova e l’ho conosciuto nei suoi anni romani, non nei suoi primissimi, che datano dai primi anni cinquanta: assistente di Gallavotti per Filologia classica, ebbe poi nel 1962–63 l’incarico di Filologia classica, quando Gallavotti passò a letteratura greca come successore di Perrotta. Io, che ero assistente straordinario di Filologia classica, passai per così dire alle sue dipendenze. Il rapporto professionale cominciò con una sua garbatissima ed esplicita professione di scuse, più o meno con parole come ‘Sei mio assistente, ma ritieniti libero di fare quello che credi’. Chi ricorda il clima di quegli anni, valuterà il suo atteggiamento, tanto più che io ero allora proprio all’inizio della mia carriera scientifica.
|| [Premessa pubblicata in L. Belloni – G. Milanese – A. Porro (edd.), Studia classica Iohanni Tarditi oblata, Biblioteca di «Aevum(ant)» 7, vol. I, Milano, Vita e Pensiero, 1995, pp. XXV– XXVIII]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-024
Premessa, in Studia classica Iohanni Tarditi oblata | 347
Ricordo di aver frequentato in quell’anno un suo corso sull’Inno omerico ad Apollo, solo saltuariamente per esplicita concessione sua, ma lo frequentai abbastanza per rendermi conto del suo metodo didattico e soprattutto del rapporto che sapeva instaurare con gli studenti. Dovevano passare alcuni anni prima che venisse il Sessantotto, e alcuni docenti insegnavano ancora con alterigia e distacco, spesso con noncuranza e addirittura con poco riguardo per il loro pubblico: mancava allora quella ‘negoziazione dei ruoli’ di cui oggi, giustamente, si parla tanto (e alle volte la si pratica) in sede di sociologia della comunicazione e di fallimento della comunicazione stessa. Era evidente, per di più, la cura con cui Tarditi si preparava le sue lezioni: io sapevo già bene che non basta la generica competenza sull’argomento, perché l’improvvisazione è subito smascherata dagli studenti ed è presa, con ragione, come una mancanza di rispetto verso di loro. Ma non sapevo, nei miei entusiasmi ancora del tutto giovanili, che la competenza e la preparazione non vanno sbandierate con ostentazione, perché anche quell’eccesso è sentito come offensivo da parte degli studenti, almeno dalla maggior parte di loro. Ebbene, si presentava con una modestia tutta sua, direi con un understatement tutto ligure, e lui sa che quando dico ‘ligure’ so quello che intendo perché sono per metà genovese anch’io: mostrava quel tanto che poteva bastare per far sentire che rispettava profondamente il suo uditorio. Da allora non l’ho più seguito nella sua carriera didattica, ma dall’atmosfera che ho sempre visto e che oggi continuo a vedere intorno a lui capisco che i suoi modi non sono cambiati e capisco quindi le ragioni del suo successo. Ho imparato da lui nozioni e metodo filologico, ma anche qualcosa di molto più importante, e spero di averlo almeno in parte messo in pratica: è stato per me un maestro di stile. Nel 1961, forse in novembre o dicembre, mi aveva proposto di sostituirlo al Liceo «Tasso» per tutto quanto restava dell’anno 1961–62: allora le supplenze si davano brevimano a discrezione del preside e i presidi, se erano seri, davano la supplenza a persone che stimavano. Io fui stimato dal Preside Marino Casotti perché a lui mi aveva presentato Tarditi stesso, evidentemente con parole di stima. Il «Tasso» era una scuola di mitica eccellenza, gli allievi erano molto bravi e più d’uno mi ritrovò poi all’università: alcuni sono oggi miei colleghi a Roma, e nella mia facoltà e in altre. Fu un anno bellissimo, del quale non ho detto forse mai abbastanza esplicitamente a Tarditi quanto gliene fossi e quanto gliene sono grato: gli studenti e il preside, alla fine dell’anno scolastico, vennero al mio matrimonio. Il rapporto che si era stabilito fra me e la scuola fu eccellente, anche se la successione a lui, molto stimato e molto amato, non fu per me del tutto facile, come sempre succede in casi del genere.
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Dal 1964 al 1968 tenne l’incarico di Papirologia a Roma e di quel periodo ho un bel ricordo. Nel marzo 1966 fu correlatore, con Gallavotti relatore, della tesi di Massimo Vetta su Teognide, tesi che io lessi per sua concessione: e avendo io avuto proprio nel 1965–66 l’incarico di Dialettologia greca, Vetta diventò poi il più anziano dei miei allievi, del che sono stato sempre molto fiero. Nel 1967 o nel 1968 lessi in bozze la sua edizione di Archiloco, che porta la data del 1968. Con scrupolosa iperbole quel mio umile intervento diventò, nel ringraziamento a stampa, un «vedere e discutere il manoscritto», ma io ricordo fermamente di aver fatto soltanto quello che ho detto e lo posso perdonare del falso solo considerando proprio il suo estremo scrupolo nei confronti di quelli a cui pensava di dovere qualche cosa. Lo ricordo, negli anni in cui insegnava al «Tasso», venire al Germanico alla fine della mattinata, in genere verso mezzogiorno, per lavorare, appunto, al suo Archiloco. Rappresentava per noi più giovani una figura che appariva già allora sociologicamente arcaica, oggi sempre più rara e forse quasi scomparsa: il professore di liceo che nei ritagli di tempo lavora scientificamente e che si prepara a una futura carriera universitaria. Forse fu lì, al Germanico, che nel poco tempo a disposizione ci fu fra me e lui qualche breve scambio d’idee su minuti problemi archilochei: lo dico per attenuare, ma solo per attenuare, l’accusa di falso che affettuosamente gli ho rivolta. Tutte quelle che precedono sono normali vicende accademiche, che ho raccontate per dare il mio modesto contributo alla storia. Ma non sarebbero sufficienti se non aggiungessi qualcosa per dare la temperatura del rapporto umano di lui con me e di lui con gli altri, specialmente studenti. Molti ricordano il suo tratto signorile, che da alcuni veniva preso forse come troppo riservato, come troppo genovese: ma, al primo insorgere di un’esigenza o di una necessità da parte dei colleghi e soprattutto da parte degli studenti, entrava in gioco la sua efficiente sollecitudine, che non lasciava mai nulla di inevaso, perché prendeva sul serio ogni più minuta particola di quello che sentiva come sua funzione professionale, e quindi come suo dovere. Non è un caso che, sia nella scuola secondaria sia nell’università, sia stato più volte preside e lo sia ancora oggi. Mi domando quanti dei miei tempi verbali al passato debbano oggi trasformarsi in tempi verbali al presente da parte dei suoi colleghi e da parte dei suoi studenti di Milano: tutti, direi. L’etica austera di Giovanni Tarditi gli impedirà certamente di compiacersi, come di cosa non meritata, non tanto di quello che io qui ho detto, ma in toto di quello che è e di quello che è stato. Chi come me ha un’etica, pur severa ma meno austera della sua, non potrà fare a meno di compiacersi, lasciando da parte il pensiero del merito personale, di avere avuto e di avere per collega,
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maestro e amico un uomo come lui. L’augurio, a lui e a noi, è di averlo a lungo ancora vicino. E non posso fare a meno di fare quest’augurio anche e soprattutto alla Signora Gisella e ai figlioli, che gli sono stati e gli sono molto più vicini di noi nei modi e con il calore che sa chi conosce tutta la sua famiglia. Grazie di cuore, caro Giovanni, non solo da me, ma da tutti quelli che ti festeggiano con i loro contributi e da tutti quelli che ti conoscono. Roma, ottobre 1995
Conclusioni È con grande piacere che dico alcune parole di conclusione sui lavori di queste due dense giornate di studio su Gennaro Perrotta. Mi domando se ho titolo a parlare: e mi rispondo di sì, per due ragioni. Una ragione è che sono stato allievo di Perrotta, anche se proprio alla fine: i suoi corsi erano frequentemente interrotti da sue assenze (ricordo corsi su Bacchilide e sulle Trachinie); in più, mi sono laureato con lui, anche se solo formalmente: purtroppo fu assente alla discussione della mia tesi di laurea e lo sostituì Carlo Gallavotti come relatore, mentre correlatore fu Bruno Gentili, il quale, per esplicita preghiera di Gallavotti, svolse le funzioni sostanziali di relatore, visto che la mia tesi era di argomento metrico. L’altra ragione è che, trovandomi a insegnare su una delle due cattedre di Letteratura greca della Facoltà, di Perrotta devo considerarmi successore. E qui entriamo nel vivo della situazione didattica e scientifica della nostra Facoltà, o meglio della Scuola di Filologia classica della nostra Facoltà1. Perrotta, che ha insegnato a Roma per più di vent’anni, è ancora presente nella formazione di tutti noi suoi allievi romani, antichi e recenti: ce ne dimentichiamo spesso, dando così maldestramente ragione a lui, che tutto avrebbe voluto sentirsi fuorché un caposcuola. Per la formazione di una scuola italiana di filologia classica si dà, giustamente, grande importanza a Giorgio Pasquali; ma il suo allievo Perrotta, soprattutto fra noi qui a Roma, ha avuto un’influenza determinante. Perrotta a Roma non continuò scelte e metodi di chi lo aveva preceduto: per rendersi conto di quello che ha significato dal punto di vista dell’innovazione basterà ricordare che fu preceduto dal lungo insegnamento di Nicola Festa (1901–1936) e da quello, pur breve, di Ettore Romagnoli (1936–1938). Io, che come ho già detto sono stato un allievo tardivo, posso testimoniare il molto che del suo insegnamento ci è stato trasmesso da Gentili, pur mediato, è inutile dirlo, attraverso uno spirito critico che era frutto di un necessario ag-
|| [Conclusioni del convegno su Perrotta pronunciate V 4.11.1994 nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”; pubblicate con lievi ritocchi in B. Gentili – A. Masaracchia (edd.), Giornate di studio su Gennaro Perrotta. Atti del Convegno (Roma 3–4 novembre 1994), Pisa–Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1996, pp. 153–158] 1 Mi avvalgo di liberi riferimenti a L. Gamberale, che generosamente ha messo a mia disposizione in bozze il suo ‘Le scuole di filologia greca e latina della Facoltà di Lettere della «Sapienza»’ (spec. § 5.1, su Perrotta), relazione tenuta al convegno «Le grandi scuole della Facoltà», che ha avuto luogo in Facoltà l’11–12 maggio 1994 e che sarà pubblicato prossimamente. https://doi.org/10.1515/9783110648140-025
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giornamento. L’impianto della sua Storia della letteratura greca è crociano e quindi datato, ma non ho mai mancato di segnalarla ai miei allievi come una splendida esperienza culturale, da prendersi con il senso del limite metodico e quindi con sensibilità storica2. Tutti riconosciamo, tra l’altro, che è scritta con uno stile elegante e accattivante, in questo così vicino a quello di Croce stesso, anche se più agile e spezzato. Perrotta è stato, a suo modo, crociano anche nello stile. Allievo di Pasquali, da lui ereditò quella che chiamerei la s e n s i b i l i t à ai problemi filologici, piuttosto che l’attività filologica stessa. Aveva cominciato la sua carriera di studente pensando di dedicarsi alle letterature moderne. Di quella primitiva impostazione mentale gli restò la passione per la letteratura in sé, per il gusto della letteratura, per il «piacere del testo». Fu un uomo di grande gusto, con un pizzico di disprezzo per chi di quel gusto era privo. Si potrà discettare sulla rilevanza o meno del gusto per la soluzione dei problemi filologici e per l’impostazione dei problemi critici, ma non si potrà negare da una parte che gusto e intelligenza sono strettamente imparentati, e dall’altra che l’intelligenza è la traduzione, metodologicamente esatta, di quanto si suole spesso chiamare «metodo». Raramente, o mai, si è sentito Perrotta parlare ex cathedra di metodo: metodo è la soluzione dei singoli problemi ottenuta con intelligenza selettiva. Ed ecco che dalla personalità di Perrotta origina un paradosso: il gusto difficilmente s’insegna e il rapporto di discepolato con lui, nato dal grande fascino che emanava, si fondava in noi sulla convinzione, giusta o sbagliata che fosse, di avere gusto non certo quanto ne aveva lui, ma di averne almeno un po’. In realtà il gusto non era in lui solo virtù innata: lo aveva esercitato sui testi di almeno tre letterature, quella italiana, quella francese e quella tedesca. Al suo tempo un simile apprendistato era più difficile di oggi: non c’erano ancora in editoria gli innumeri sussidi che sono oggi a disposizione di chi voglia servirsene. Per di più, a stare alle testimonianze di chi lo ha conosciuto meglio e soprattutto in anni in cui migliore era la sua salute, il massimo del Perrotta in azione lo si otteneva piuttosto a tavola, fra buon cibo e buon vino, che non a lezione e fra le mura dell’università. Era forse, questa, una manifestazione estrema del suo anticonvenzionalismo, del suo radicato antiaccademismo. Ma è stato certo un fattore che ha contribuito a dissipare, o a non creare addirittura, quell’atmosfera che, nell’ambito dell’università, costituisce quello che comu-
|| 2 Michele Coccia ha richiamato all’opportunità di indurre un editore a ristamparla nella sua integrità originaria, restaurando le lacune volute da chi ha mutilato l’edizione che è oggi diffusa.
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nemente si chiama la scuola. Gentili, nelle sue parole introduttive, ha parlato di «fiducia fra maestro e allievo»: il rapporto con Perrotta si instaurava in realtà non come parte di un rapporto multiplo ma come un dialogo a due, dove quella fiducia nasceva da consonanza intellettuale e, da parte sua, da stima per l’interlocutore singolo. Che cosa ci ha dunque insegnato Perrotta? Un fattore fondamentale — direi — che sta alla base di ogni ricerca storica: il riconoscimento della rilevanza dei singoli problemi. Ogni erudizione superflua, ogni superfetazione puramente accademica era respinta da lui con fastidio, con quei gesti della mano e con quegli sguardi sprezzanti che suonavano condanna e che hanno scoraggiato molti. Naturalmente per affrontare i problemi che si proponeva, e che proponeva a noi, l’attrezzatura storico–filologica era un dato preliminare ovvio, che ciascuno doveva però sapersi procurare da sé: per lo più l’acquisto di questa attrezzatura era compito dell’allievo, perché il maestro non dava più che alcuni puntuti accenni d’avvio. Per di più lasciava ampia libertà nella scelta e nel taglio della ricerca. È qui da vedersi un’altra delle ragioni per cui è difficile parlare di una vera e propria «scuola di Perrotta», ma è anche impossibile pensare la presenza di Perrotta come cancellata dalla nostra comune formazione romana. In principio fu Pasquali e poi venne Perrotta, e proprio per questa minore comunicativa del secondo dobbiamo esser grati a chi, come Gentili, ce ne ha trasmesso i valori didattici e scientifici. Fu come se l’attrezzatura filologica risultasse in lui spezzettata in frammenti, che emergevano di volta in volta per le singole occasioni di ricerca: ma quei frammenti erano magnificamente coerenti e non ci fu difficile integrarli e farne un sistema coerente ed esplicito. Perrotta non ha mai scritto di metrica teorica, ma la conoscenza della metrica, a Roma, è stata introdotta da lui: prima di lui nessuno sapeva che cosa fosse. Il cemento che saldava la comunicazione scritta e orale di Perrotta era il forte spirito polemico, che mi piace sia stato fatto rivivere nelle prese di posizione di alcuni fra noi. Serrao, per esempio, ha difeso con fervore contro di lui il realismo di quel Teocrito l’amore per il quale discendeva proprio per li rami. Riporto le parole di Serrao, che da buon allievo ha ripreso la vis polemica e l’incisività del maestro: «L’antitesi tra premesse realistiche e tendenza idealizzante rendeva quanto mai difficile ed instabile quell’equilibrio che soltanto Teocrito, con la sua raffinatissima arte, aveva saputo creare e mantenere. Dopo Teocrito l’equilibrio si rompe». Perrotta è stato un vigoroso, e quasi sempre spiritoso, polemista. Alcune battute pungenti ci sono state rievocate, per esempio, da Albini e da Sisti. Sarebbe stato un falso storico tacere di una delle sue armi critiche più brillanti, la polemica, e sarebbe stato un impoverimento censurarsi nei suoi con-
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fronti. Del resto, queste giornate sono state un incontro di studio, e non una sterile occasione celebrativa. Ho cercato di dare in sintesi, con qualche inevitabile spunto personale, le riflessioni suscitate in me da queste Giornate di studio per quanto riguarda il come noi allievi cerchiamo di continuare a lavorare. Quello che continuiamo a fare risulta da una panoramica delle singole relazioni. La letteratura alessandrina è stato il primo grande amore di Perrotta. Ce ne ha parlato con passione Serrao, e ne è risultato il quadro di un letterato finissimo, che tale sarebbe stato anche se avesse intrapreso studi di modernistica, con in più una sensibilità per i rapporti intertestuali scaltrita da quella lettura attenta che si impara alla scuola dei testi antichi. Era un anticlassicista, come ci hanno ricordato molti relatori: e proprio anticlassicistico fu in lui l’interesse per la poesia alessandrina, mutuato da quel Wilamowitz a cui tanto doveva e che fu l’oggetto forse più frequente dei suoi strali polemici. Paratore, ha analizzato la sua competenza in fatto di poesia alessandrina nel confronto con i latini, e specialmente con Catullo, e ha giustamente esaltato quel ‘Cesare scrittore’, definito «miracoloso», che comparve nel primo numero di Maia. Il dramma attico fu uno dei suoi interessi costanti: i giovanili studi su Euripide e quello che forse è il suo capolavoro, il Sofocle, ci sono stati illustrati da Masaracchia, che ha messo in rilievo con lucidità la compresenza di elementi neoidealistici con il meglio della filologia positivistica. Albini ha messo l’accento sulla sua sensibilità allo specifico teatrale e all’anticlassicismo (funzionale alla scena) delle traduzioni (Trachinie), che andava di pari passo con uno stile critico incisivo e mai paludato. Sisti ci ha presentato i suoi studi sulla lirica arcaica, tutti sostenuti da grande competenza metrica. E, più specificamente sulla metrica, Morelli ci ha offerto una serie di ricordi autobiografici che vanno dal dissenso sul frammento saffico dell’ode a Cleide alle accese discussioni sul saturnio, svoltesi fra Roma e Tivoli. Ha aggiunto inoltre una sua propria interpretazione del saturnio. Privitera ha caratterizzato la Storia della letteratura greca con il «ruolo psicagogico» che ha avuto nell’avvicinare i liceali di tante generazioni ai grandi autori greci, nello spingerli — e nell’averci spinti — a prendere in mano i testi di cui di volta in volta tratta. E ha trovato qui, in fitta contestualità di motivi, alcune scelte etico–ideologico–politiche, come l’individuo e l’individualismo (l’ammirazione per i grandi e solitari eroi sofoclei) e il cosmopolitismo (la scarsa simpatia per il ristretto panorama della polis e la preferenza per un Isocrate a scapito di un Demostene). Ma soprattutto ne esce quella che definirei una co-
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stante insofferenza, una sovrana impazienza intellettuale. Cito Privitera: «Perrotta era portato a condannare e a rovesciare i giudizi che non condivideva, soprattutto se rispecchiavano una communis opinio: è un tratto che aggiunge alla sua pagina il fascino della scoperta e dà a chi legge l’impressione di parteciparvi». Gigante ha rivisitato scritti in parte remoti e ci ha offerto addirittura degli inediti, alla caccia delle molte tracce implicite e delle poche citazioni esplicite di Croce da parte di Perrotta: ne esce un quadro sensibilmente arricchito dell’intreccio di riflessione e di polemica che ha caratterizzato un periodo tutt’altro che provinciale della nostra filologia. Sul versante della didattica preziosa è stata la testimonianza di Giuliana Cardinali che ha ricordato la sua frequenza ai corsi degli anni 1944–48 e ha definito lo stile didattico di Perrotta, in confronto con la fluidità della Storia della letteratura greca, di «forma espressiva più scabra, ma sempre puntuale e incisiva». Se qualcuno trovasse nelle parole dei relatori e nelle mie toni molto o troppo personali, non sarà che del tutto naturale: parlando di Perrotta abbiamo tutti parlato di noi stessi.[*]
|| [* Nelle Conclusioni lette a convegno (ritrovate nel pc di Rossi) vi era la seguente chiusa, poi eliminata a favore della battuta finale (che precedentemente era collocata dopo il cenno all’intervento di Morelli): “Voglio concludere con un invito, che deve approdare a una presa di coscienza di noi tutti che siamo stati allievi di Perrotta, direttamente i più anziani e indirettamente i più giovani attraverso i più anziani, in qualità di figli, nipoti e pronipoti. Di tutti i fattori della sua ricca personalità che in queste due giornate sono stati messi in luce, ce n’è qualcuno che chiunque fra noi senta a se stesso estraneo? Non vorrei disegnare qui il ritratto del perrottiano–tipo, e questo per ovvie ragioni che non mette conto menzionare: ma sento che quel ritratto–tipo esiste e che molti di noi vi si riconoscono almeno in parte. Fra i lineamenti di quel ritratto c’è anche il dissacrante — e così fecondo — estro polemico, che solo da un’analisi etica melensa potrebbe essere valutato negativamente: e mi chiedo a chi di noi, e anche nei rapporti fra noi, esso davvero manchi.” — G. C.]
Presentazione della Miscellanea Tarditi Comincio prima di tutto col salutare in modo molto, ma molto affettuoso il nostro festeggiato, Giovanni Tarditi, al quale mi associo con almeno tutti i presenti nel fare le mie più sincere congratulazioni per la sua splendida carriera di docente e di accademico e per il modo con cui gli amici hanno voluto onorarlo, e cioè con questi due voluminosi tomi. E gli faccio fin da ora, per rinnovarglieli fra poco, i più calorosi auguri per la continuazione della sua carriera di studioso. Ma io personalmente voglio, e in verità debbo, esprimere la mia gratitudine a Luigi Belloni, Guido Milanese e Antonietta Porro, gli amici che hanno voluto coinvolgermi in questa solenne cerimonia dandomi un compito e una funzione dei quali sono felicissimo e geloso, come ripeterò in seguito: offrire a Tarditi i due volumi e presentare, a mio modesto modo, la sua personalità a tutti i presenti. Decido di non chiedermi che titolo io avessi a questo compito: forse significa qualcosa il conoscerlo da più di quarant’anni? Preferisco considerare questo compito e questa funzione semplicemente come un dono degli amici. Ringrazio anche il Rettore, il Prorettore e il Preside. Prima di tutto ecco questi due bei volumi, che do ora in mano a te, caro Giovanni, perché da questo momento sono anche fisicamente tuoi: tanti auguri da tutti quelli che sono qui dentro, che ci hanno messo qualcosa di proprio. E ci sono anch’io, perché le poche parole che dirò in seguito sono anch’esse stampate qui dentro. Ci sono vari criteri per ordinare i materiali di uno o più volumi miscellanei, e questi tanti più sono quanto maggiore è la mole dell’opera. Qui la mole dell’opera è ingente e ci sono quindi varie ragioni in più per congratularsi con gli organizzatori. Non so se la cosa sia intenzionale o felicemente casuale (propendo per l’intenzionalità), ma mi pare un’idea molto bella l’aver posto all’inizio la sezione “Figura e funzione del poeta”, che normalmente in casi del genere si mette in fondo: Archiloco è stato un autore quanto mai tarditiano e Archiloco è il primo poeta che fa veramente della metaletteratura (gli accenni in Omero e in Esiodo sono nulla in confronto), e lo fa nel quadro di un genere lette-
|| [Presentazione di L. Belloni – G. Milanese – A. Porro (edd.), Studia classica Iohanni Tarditi oblata, Biblioteca di «Aevum(ant)» 7, voll. I–II, Milano, Vita e Pensiero, 1995; pronunciata Mc 24.1.96 all’Università Cattolica di Milano, Aula Pio XI; pubblicata in Studia classica Iohanni Tarditi oblata. Presentazione, Aula Pio XI, 24 gennaio 1996, Università Cattolica del Sacro Cuore, Istituto di Filologia Classica e di Papirologia, [Milano] 1996, pp. 17–21. Il titolo “Presentazione della Miscellanea Tarditi” è quello originario ritrovato in un file del pc di Rossi]
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rario e di una impostazione letteraria, la iambikè idéa, che sono molto fortemente proiettati al fuori di se stessi, che rompono la cornice, che tendono a identificarsi con motivazioni puramente pragmatiche. Che in questa sezione Archiloco sia assente è un puro caso: ma lo voglio interpretare come un caso astutamente sfruttato dai curatori per rendere al dedicatario una specie di coperto omaggio alessandrinamente criptico. Non importa se, poi, mi domando: questo omaggio lo ho decriptato o addirittura l’ho creato in questo momento? È pur vero che qualche volta siamo portati a gareggiare in astruserie con i nostri grandi maestri alessandrini, ma qualche volta, come questa volta qui, mi pare cosa simpatica farlo. Oltre alle sezioni — diciamo — tradizionali, quelle in cui la maggior parte di noi si rispecchia, c’è da rilevare il grande spazio dedicato alla “Tradizione, studio e fortuna degli autori antichi”. È interessante che per fortuna si intenda inizialmente la storia dei testi, ma allora perché non comprendervi anche la critica del testo? È una mia proposta, che vorrei rendere accettabile osservando che ogni unità critico—testuale, sia nella sua fedeltà sia nella sua infedeltà al testo originale, è un momento ben caratterizzato della fortuna di un autore. Largo spazio hanno anche i rapporti intertestuali e anche i centonari, quelli che mi diverto a chiamare i “facchini dell’intertestualità”. È presente anche una breve ma succosa sezione finale su “Letteratura tecnica e archeologia”. Per il resto, questi “Scritti in onore” si distinguono per una grande ricchezza di tematica e di approccio, senza (per fortuna) essere un’enciclopedia, il cui esempio più macroscopico è l’Aufstieg und Niedergang o quelle raccolte comunque enormi che si presentano in più di tre o quattro volumi: vere e proprie Pestschriften, come scherzosamente dicono i tedeschi, anche in vista della difficoltà di reperimento quanto alla disponibilità bibliografica; a questo proposito c’è da sperare che la distribuzione libraria di questi volumi sia efficiente, in modo da mettere a disposizione degli studiosi tanto prezioso materiale. Con gli amici milanesi c’era stata una congiura del silenzio, congiura che è stata svelata solo mezz’ora fa: volevamo fare una sorpresa al festeggiato. Sono stati molto solleciti nel farmi avere in gran segreto le bozze dei due volumi, ma non ho certo avuto il tempo di leggere tutto. Comunque un’idea me la sono fatta: e, se in questo momento mi è lecito esprimermi in contatto diretto con gli autori, senza passare attraverso il dedicatario, desidero congratularmi con loro per i loro contributi: molti di loro sono, per di più, anche dei carissimi e alcuni perfino dei vecchissimi amici. La mia presentazione sarebbe incompleta se non facessi menzione della lunga tabula gratulatoria, nella quale sono presenti tanti amici ed estimatori italiani e stranieri e tante istituzioni, ugualmente italiane e straniere.
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Leggerò adesso il saluto che i curatori mi hanno chiesto di scrivere nelle prime pagine. Spero di adattarmi all’oralità dell’occasione.[*]
|| [* Seguiva a questo punto, nelle pp. 21—28, la Premessa scritta da Rossi (vol. I, pp. XXV– XXVIII), riportata in questo volume nelle pp. 346—349]
Presentazione de I Greci di Einaudi Se prendo la parola per parlare del secondo volume dei Greci , è per limitarmi al campo in cui ho qualche competenza, e cioè i testi letterari. Molto è quello che alla mia competenza sfugge e che in questo volume è presente come reciproca integrazione dei testi letterari, e cioè – grosso modo – storia e archeologia. Quello che credo ci si aspetti da me è una mia valutazione delle presenze dei materiali letterari che servano al quadro generale qui presentato, e cioè al quadro storico della Grecia arcaica. Per fortuna lo spettro che si è a lungo aggirato nella pur ampio campo dei nostri studi è oggi ormai quasi sempre assente: parlo del c l a s s i c i s m o e cioè dell’atteggiamento umanistico che ha idealizzato forme e momenti. Molto chiara in questo senso è la premessa di Settis al primo volume. Il classicismo ha coinvolto in passato, fino a tempi molto recenti, 1) i monumenti figurativi dell’epoca classica (idealizzandone le forme, offrendo la grande tentazione, a cui non si resisteva, di quello che chiamerei il realismo del bello, totalmente opposto al bello del realismo dell’epoca ellenistica), 2) le prospettive storiche (idealizzandone alcuni momenti, come i paradigmi di Atene e Sparta), 3) le forme letterarie (e qui il discorso viene rimandato di pochi minuti). Posso anticipare solo che i vari classicismi sono sempre partiti dai testi letterari, dando a questi un primato che non meritano: proprio la forza dell’evento letterario – come vedremo – ne fa non un isolato protagonista, ma una semplice voce del coro storico complessivo. Ma un’opera come I Greci offre un’altra occasione preziosa, che vedo proprio per i testi letterari. È qui che si offre alla nostra consapevolezza forse più fortemente che altrove la distanza fra i Greci e noi, come è prospettata già dal primo volume: e sarà bene chiarire che il tesoro di esperienza che per noi costituisce la cultura greca possiamo farlo e conservarlo nostro solo se ne riconosciamo l’alterità da noi, senza postularne alcune non più attuali influenze e senza volerne annettere provincie che devono restare indipendenti: la decolonizzazione dell’antico ha cominciato ormai a dare buoni frutti. Vediamo quindi come la letteratura è stata vista anche soltanto nel corso del nostro secolo. – La poesia come evento assoluto: da noi il neoidealismo italiano. La poesia come fioritura autonoma, come prodotto intatto e – possiamo dire col nostro || [Presentazione di S. Settis (ed.), I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. 2. Una storia greca, t. II Definizione, Torino, Einaudi, 1997; letta nel febbraio 1997 all’Istituto Archeologico Germanico di Roma. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; cura del testo di Giulio Colesanti]
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senno di poi – sostanzialmente intangibile perché avulso dal suo contesto. Una fruizione direi fortemente solipsistica e arbitraria, che è solo un momento provvisorio, anche se necessario (ma solo nelle domeniche): il momento dell’interiezione ‘quanto è bello’ è una molla che deve servire al primo approccio, ma non di più. Il primo apprezzamento entusiastico, e non motivato, è legato al gusto. Ebbene: come approccio totalizzante è ormai scongiurato perché, nel momento in cui ci domandiamo p e r c h é e c o m e un’opera è bella e merita la nostra attenzione, sottraiamo il ‘bello’ all’arbitrio mutevole del gusto e lo qualifichiamo con l’‘interessante’ e l’‘importante’. Subentra il secondo momento, una considerazione storica, e il ‘bello’ ne viene così motivato. – Questo secondo momento, che ha avuto i suoi prodromi nello storicismo, vede l’opera letteraria – giustamente – come configurata dalla situazione storica concreta. Diventa come una superficie che riceve luce dalla situazione storica che l’ha creata. Non sto ad elencare i numerosi campi in cui abbiamo capito meglio, o anche per la prima volta, le opere letterarie del passato: l’epica, la lirica, il dramma, la storia, la filosofia, l’oratoria. – Ma opere come questa che abbiamo davanti aiuta a fare un terzo passo, a mio parere fondamentale per far uscire l’opera letteraria da un suo splendido isolamento, nel quale continuerebbe a restare finché la vedessimo come una superficie che solamente riceve luce dal suo contesto storico, finché ne vedessimo soltanto – in altre parole – la sua funzione poetica concentrata nel testo. Ma la letteratura greca arcaica e classica non brilla solo di luce riflessa, bensì brilla anche di luce propria e influenza il suo contesto più di qualunque cultura letteraria moderna: fuor di metafora, i testi letterari furono qualcosa che entrò in un concorso di influenze attive, non furono qualcosa di inerte ma furono anche uno strumento che da una parte rifletteva la realtà (conquista dello storicismo), ma dall’altra anche la configurava. Oltre a una loro autonoma funzione poetica, i testi letterari esercitavano una loro forte funzione conativa, e cioè persuasiva e quindi politica. – Questo vale anche per la lirica, che è profondamente diversa dalla poesia moderna. Le odi di A l c e o sono belle, secondo canoni moderni, ma al loro tempo erano anche qualcosa di più: erano utili. Erano cantate nel simposio della fazione politica di Alceo e servivano per animare i componenti del gruppo e per far sentire i valori che li univano e i disvalori della fazione avversaria. Quelle odi contengono sentimenti umani che commuovono oggi anche noi, ma non venivano composte per esprimere solo quei sentimenti, bensì per svolgere anche la funzione pratica della coesione politica: le sue odi erano armi. Questo vale per tutta la poesia arcaica, in modi diversi. E poi, ripeto: le odi di Alceo sono belle per noi, ma lo furono anche per gli antichi, perché, pur essendo lui
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un perdente, i suoi carmi si sono conservati, mentre quelli dei suoi avversari, che vinsero, sono andati perduti. Se ho preso un esempio dalla lirica è perché proprio la lirica ha corso, e corre, il pericolo di essere fraintesa, proprio perché ‘poesia lirica’ è oggi qualcosa di diverso da quello che era in antico. Più che altrove si è vista nella lirica una categoria che è solo della poetica romantica, nella quale ancora siamo immersi (e siamo giustificati se lo facciamo leggendo la nostra poesia): comunicazione di contenuti interiori che andrebbero direttamente e asetticamente dal poeta al destinatario. No: il poeta arcaico non comunica contenuti personali e fortemente idiosincratici, ma comunica valori condivisi dalla comunità, tanto che il lungo dibattito sul valore dell’‘io’ lirico si può sintetizzare con la formulazione che ‘io’ vale ‘noi’. Alceo non è Leopardi: i suoi carmi sono stati le sue armi più efficaci – come dicevo – per la sua lotta politica perché cantavano valori comuni al suo gruppo politico nell’ambito del simposio. La sua poesia, che pregiava i valori della sua fazione e spregiava gli avversari, aveva anche la funzione che avevano scudi, elmi e lance. – Epos e lirica sono i principali generi dell’epoca arcaica, trattata nel volume: la loro f u n z i o n e era da una parte autocelebrazione e dall’altra riconoscimento dell’identità collettiva, del gruppo. Epica e lirica dovevano convincere gli altri dell’eccellenza di una classe, di un gruppo che doveva a sua volta autoconvincersi dei propri valori. Quando, in un periodo che sarà trattato nel seguito di questa stessa opera, nascerà l’oratoria e la sua teoria, la retorica, questa non sarà una grande novità, perché, con altri mezzi e in altri contesti, continuerà a cercare la persuasione. Quello che dicevo poco fa: la letteratura non solo si configura secondo la realtà che la crea, ma anche contribuisce fortemente a configurare questa realtà. E vediamo ora come, dalla lettura di queste più di 1400 pagine, esce il quadro delle opere di letteratura. La premessa di Ampolo fa rilevare due policentrismi culturali rispecchiati nell’opera: quello della Grecia arcaica, così ricca di voci diverse fra loro nel tempo e nello spazio gegrafico, che struttura una grande sezione dell’opera (‘Diversità e unità del mondo greco’); e il policentrismo degli approcci scientifici degli studiosi che hanno collaborato. Mi limiterò qui a richiamare solo i contributi in cui più forte è la presenza della letteratura o è più riconoscibile per noi la reciproca influenza con l’ambiente storico. L’epica: Di Donato prende lo scudo di Achille come un esempio policomprensivo del mondo epico 227ss. ... Bertolini 1211ss. la tradizione della guerra di Troia e il rapporto fra memoria e presente (mito = non memoria, ma lavorio sulla memoria, per cui il mito si modifica continuamente): la memoria della
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guerra di Troia si è modellata liberamente su una base storica, che ci è dato di ricostruire solo parzialmente. L’epica nelle corti come rispecchiamento dell’ideale eroico come modello (banchetti regali: Carlier 273); L’ideale dell’aristocrazia e dei valori del comportamento aristocratico cantati dalla poesia (Nagy 577ss.) Gli agoni e la citarodia epica (per i santuari Graf 343ss.; per le occasioni dell’epica, della lirica corale divina e umana – l’epinicio – Calame 471ss.); i santuari e la letteratura oracolare (Lévêque 1111ss. spec. 1118ss., 1130ss.); Maddoli, L’Occidente 995ss., così importante per tanta poesia arcaica La grande protagonista di questo periodo è la polis, con il suo intreccio di rapporti politico–sociali ed economici (Ampolo 197ss., Davies 599ss.). Espressione della polis è il s i m p o s i o (Calame spec. 489ss.), che è istituzione politica nella quale si cantano i carmi dei poeti monodici. Le parti monumentali ovvero pubbliche della polis (Marconi 775ss.) sono il pendant dei monumenti letterari, a loro modo pubblici anch’essi. La monumentalizzazione della parola è nella tradizione orale delle leggi (su cui Camassa 561ss.; su Solone Raaflaub 1035ss. e C. Mossé 1325ss) ed è più tardi materialmente realizzata nelle iscrizioni contenenti testi giuridici (ma c’è una tradizione anche di testi letterari incisi: P. O. 7 a Rodi, Le Opere e i giorni di Esiodo nel santuario dell’Elicona). La memoria dei morti da celebrare (i rituali della morte e il culto degli eroi D’Agostino 435ss.): i morti esemplari sono celebrati dalla parola sia epica sia lirica. La filosofia arcaica (Flashar 1231ss.): l’originaria unità di pensiero filosofico e scientifico era segno di un’integrazione totale con la politica delle città. Momenti e figure esemplari (oltre a quelli già da me menzionati): Mida e l’oro, la ricchezza (Roscalla, 1281ss.): il mito della ricchezza, con le sue valutazioni positive e negative, va posto in relazione con il cap. di Parise sulla moneta 715ss. M.J. Luzzatto (la favola e Esopo, 1307ss.) Riedweg (1251ss.) su Orfeo e la forza magica del canto e della musica (Orfeo era creduto autore di poesia cosmologica e teogonica): questo apre alla profondità cronologica del ‘prima’ di Omero, il ciceroniano fuerunt ante Homerum poetae. L. Agostiniani, Lingua–dialetti–alfabeti 1141 ss.: è opportunaente inserito nella sezione ‘Diversità e unità’ perché contribuisce ad avertere l’idea ingenua di un ‘greco’ unitario (lo stesso attico, studiato a scuola, non è che uno dei tanti
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dialetti epicorici e cioè locali, che poi diventa dialetto letterario come lo erano diventati altri dialetti). Da una lettura di questo volume, il primo, nel progetto dell’opera, dedicato alla esposizione storica del mondo greco, risulta quello che chiamerò un prepotente b i s o g n o di letteratura a tutti i livelli della vita greca arcaica: bisogno che ci spieghiamo solo se vediamo, come in quest’opera ci è agevole fare, quali erano le sue funzioni, che oggi definiamo senza esitazioni come prevalentemente politiche. Nella vicenda della storia moderna non c’è niente di comparabile, quanto a compattezza delle funzioni: e qui è una delle differenze fra noi e gli antichi, differenze che rendono tanto più attraente per noi la conoscenza di questo mondo, che è all’origine del nostro.
Presentazione delle Vite di Plutarco Vorrei sintetizzare la fortuna delle Vite di Plutarco, quella antica e quella del mondo moderno, tutte e due ben documentate, e quella contemporanea da favorire, con una formula: un diffuso bisogno di biografia. “Non scrivo un’opera di storia, ma vite” (proem. a Alex./Caes.). Afferma di scrivere solo quanto serve a capire il carattere del personaggio e il suo modo di pensare e di agire (τρόπον καὶ διάθεσιν, introd. a Nicia). La forte connotazione e t i c a dell’impostazione porta anche a conflitti che si possono definire drammatici. La tragedia era stata a suo tempo una specie di aggiornamento dell’epos: dall’eroe epico si passò al cittadino grandiosamente coinvolto con i problemi etico–politici della polis. E in seguito la biografia si presentò come un ulteriore aggiornamento della tragedia, con un protagonista fortemente sbalzato, senza più i molti protagonismi corali della tragedia, un protagonista preso non più dal mito ma dalla storia e dalla politica. La connotazione etica delle Vite, che fu sempre la loro fortuna, è anche alla base dell’equivoco che ha portato Massimo Planude a designare sotto il titolo complessivo di Ἠθικά (Moralia) gli scritti minori, che in realtà sono di argomento molto vario (possiamo elencarli: filosofia, pedagogia, teologia, etica e politica, scienze naturali, antiquaria, critica e storia letteraria, retorica ed epidittica). La funzione m o d e l l i z z a n t e dell’epos, all’origine, si realizzava con la identificazione della classe dominante con gli eroi e serviva ad imporre la classe dominante al popolo. Quella della tragedia era diversa: gli eroi dell’epos diventavano simboli dei conflitti etico–politici che agitavano la polis. La funzione modellizzante delle Vite di Plutarco fu a sua volta diversa: in una società che era diventata una somma di individui, presentava gli eroi della storia (e, ripeto, non più del mito) come concentrato di problematiche etiche impersonate in un individuo che non era necessariamente sempre positivo (Demetrio/Antonio, personaggi discutibili, servono a presentare il vizio come opposto polare della virtù, unico scopo perseguibile; e v. l’inizio della vita di Demostene). Insomma: le Vite
|| [Intervento letto a Salerno, Palazzo Sant’Agostino, nell’ambito della presentazione, tenutasi G 21.1.1999, ore 18, de Le Vite di Plutarco, introd. di Adelmo Barigazzi, a cura di Antonio Traglia, Domenico Magnino, Maria Luisa Amerio, Domenica Paola Orsi, Gabriele Marasco, Angelo Meriani e Rosa Giannattasio Andria, voll. 1–6, Torino, UTET, 1992–1998 (interventi di Luciano Canfora, Italo Lana, Luigi Enrico Rossi; aprono l’incontro Italo Gallo, Luigi Torraca). – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; cura del testo di Giulio Colesanti]
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erano una specie di prontuario etico di problemi e di situazioni concrete: come fossero una specie di etico–retorica aristotelica applicata. La funzione diegetica (ovvero narrativa), e la gioia del racconto, erano ovviamente presenti nell’epos (e la ritroviamo in Erodoto, l’epos in prosa). La tragedia riproduceva sulla scena, con la mimesi drammatica, quello stesso piacere, con i suoi ἀπροσδόκητα, le sue sospensioni, i suoi scioglimenti alle volte inaspettati (la καταστροφή aristotelica). Le Vite continuarono anche questo aspetto narrativo, movimentando l’esposizione nella narrazione del βίος, intrecciata fra pubblico e privato, rilevando le attitudini del carattere sia offrendole come ricavate dal comportamento sia concentrandole in sezioni apposite. Ora, in presenza di un’impresa editoriale di grande impegno e di grande qualità come quella della benemerita casa UTET, siamo in grado di identificare le ragioni di un possibile s u c c e s s o o d i e r n o delle Vite? Non c’è bisogno di ricordare il bisogno odierno di modelli e di identificazione, preparato da tutta una produzione biografica che si è intensificata fra l’Ottocento e il Novecento borghesi (basterebbe pensare alla inflazione di biografie di Napoleone, cominciata con i Mémoires d’outre–tombe di Chateaubriand). Questa letteratura era destinata a un pubblico borghese, e quindi ancora statisticamente ristretto, mentre oggi il bisogno di biografia si va estendendo man mano che aumenta il livello di vita e di promozione culturale. Se sempre meno stanno diventando quelli che saranno in grado di leggere le Vite in greco, il pubblico che può avvicinarsi a una buona traduzione in lingua moderna sono sempre di più (fin dalla famosa traduzione di Amyot, che ha alimentato tanti uomini di cultura del passato). E sappiamo – credo – quanto piaccia anche a chi non sa il greco leggersi un classico con il testo accanto: è un residuo, del tutto perdonabile, di feticismo, di amore per il libro–oggetto. A noi classicisti si impone quindi sempre di più il compito di p r o p a g a n d a r e questo tipo di letture (e questo tipo di acquisti!). Quando, molti anni fa, insegnavo al liceo, cercavo di incitare gli allievi a ‘leggere’ testi (e lo faccio anche oggi all’università, perché credo che serva). Cerco sempre di eliminare la brutta parola ‘tradurre’ (come chi dice: ‘ho tradotto l’Edipo re’): leggere vuol dire o leggere in italiano o leggere in greco aiutandosi con traduzioni, o leggere il greco come facciamo noi classicisti, che prendiamo il lessico solo per qualche paroletta strana che troviamo qua e là. Mi fu chiesto, sempre allora, a scuola: “Ma professore, che cosa c’è di veramente bello da leggere nella letteratura greca?”. E io, pensando di dover dare una risposta pronta e sintetica, dissi: “Leggetevi Platone e Plutarco, e poi ditemi se ci avete provato piacere o no. E leggeteli saltando dal testo alla traduzione e poi piano piano vi abituerete a leggere senza lessico”. Dovevo trovare testi che u-
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nissero contenuti attraenti con una scrittura per lo meno un po’ accogliente: e credo di non avere sbagliato nella scelta delle mie proposte. Naturalmente in Plutarco c’è, a differenza di Platone, anche l’attrattiva della narrazione, che entra in concorrenza con la narrativa moderna, concorrenza non sempre svantaggiosa. È di nuovo una questione di capacità di propagandare, come dicevo. Il ritorno ai classici, anche quelli delle letterature moderne, è tema sempre presente nel dibattito culturale contemporaneo. Ricordo di aver letto la battuta di un linguista (Martinet, mi pare), che era anche critico letterario militante e che chiedeva al suo lettore, come domanda non ovvia e importante: Avez–vous lu Pétrarque?. Non dobbiamo vergognarci di chiedere ai nostri amici se hanno letto Plutarco. Se non l’hanno letto, mettiamo loro la voglia di farlo al più presto. È per quanto ho detto che mi permetto di dissentire da Adelmo Barigazzi, che, concludendo nel primo volume (1992) l’introduzione generale di questa grande serie che oggi si conclude, diceva che (p. 64), essendo oggi “scomparsa l’ammirazione per la dignità e grandezza morale ... in una società materialistica e consumistica come la nostra ... non c’è posto per Plutarco”. Non voglio discutere il suo pessimismo sulla cultura odierna del puro guadagno e del consumo, anche se è ovvio che mi piacerebbe essere un po’ più ottimista (ma riconosco che per l’ottimismo c’è poco spazio, specie fuori d’Italia). Ma, pure se io voglia condividere il pessimismo di Barigazzi, non so estenderlo alla fortuna odierna di Plutarco, che è stato, sì, letto e amato da campioni di morale e da esemplari di moralismo, ma anche da personaggi senza troppi scrupoli e spregiudicati come Enrico IV intorno al 1600 (“Parigi val bene una messa”!). Non credo che questi leggessero solo biografie come quella di Silla, cercandovi suggerimenti di crudeltà e di perfidie. Un uomo politico di oggi, se qualcuno come si spera ne ha la capacità culturale, vi può trovare, invece, suggerimenti per mimare quelle virtù che sono accette alle masse del villaggio globale affacciato al piccolo schermo, considerando soprattutto che ad essere particolarmente accetta può essere addirittura la mimesi stessa di quelle virtù in sé e per sé: la virtù come spettacolo e rappresentazione, e non vorrei essere qui più pessimista di Barigazzi ... È vero che Plutarco è ispirato da un afflato etico confermato dalla vicenda della sua vita stessa, permeata di spirito religioso e di profondo amore per la sua piccola patria, Cheronea: tutte passioni nobili che sa infondere a quasi tutti i suoi soggetti biografici. Ma non imposterei il problema unicamente sul piano etico puro. A un lettore cinico di oggigiorno – e Dio sa quanti ce ne possono essere – mi sentirei in perfetta coscienza di suggerire una chiave di lettura che a me pare perfettamente lecita e, se non edificante, almeno divertente: quella di trasformare la terza persona usata dal narratore in una virtuale
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prima persona del biografato e di vederci qualcosa di simile alla mitomania e alla caricatura della rispettabilità borghese che troviamo nella prima persona del Felix Krull di Thomas Mann. La vera differenza sarebbe poi che gli antichi di Plutarco tendevano invero a una rispettabilità eroica, e non certo borghese. Ma a questo punto potrei essere accusato, e perseguito, per un vero eccesso di pessimismo, anche se vorrei che questi miei spunti venissero recepiti come non del tutto minimalistici: qualcosa di serio in quanto ho detto credo che si possa trovare. Non credo che sia poco se mi limito a raccomandare le Vite di Plutarco – come dicevo prima – e per la sua magica immedesimazione modellizzante e per l’attrattiva della sua capacità di narratore. La narrazione è sia quella di grandi vicende politiche sia quella di aneddotica biografica, dove le battute pungenti andrebbero raccolte in un manuale (e gli antichi li facevano, questi manuali, e Plutarco vi attinse). Una gioia beotica del raccontare, diversa ma non inferiore alla gioia ionica del raccontare che troviamo in Erodoto. La Lust zu fabulieren di Goethe.
Presentazione de La musica nel teatro di Pierluigi Petrobelli Temo che l’unico mio titolo a parlare oggi del libro di Pierluigi Petrobelli sia il fatto, del tutto casuale ma provvido, che siamo stato compagni di studi alle lezioni di Luigi Ronga in quella che oggi si chiama “La Sapienza” e che allora era semplicemente l’Università di Roma[*]. E oggi la sorte benevola ci ha voluti colleghi d’insegnamento nella stessa facoltà in cui abbiamo studiato. Diventammo amici, indipendentemente dal fatto – che scoprimmo poco dopo esserci conosciuti – che a conoscersi erano anche la sua famiglia, padovana, e quella di mia moglie, veneziano–padovana. Mi sento quindi autorizzato a dire, in partenza, qualcosa di personale, di autobiografico, e questo senza scusarmene, anzi, convinto di offrire il meglio di quel poco che posso offrire. Forse di una cosa devo scusarmi, comunque: di parlare, come di necessità farò, un poco (e forse anche troppo) anche di me stesso. In realtà devo dire che a unirci c’era anche qualcosa d’altro, e cioè la comune passione per gli studi e per la musica, pur con una differenza: lui la musica l’aveva coltivata fin da piccolo, io invece mettevo le mani sul pianoforte per la prima volta solo in quegli anni, intorno ai miei venti, così, per passione e basta, con risultati tecnici miserevoli ma per me soddisfacenti. Con quanta gioia Pierluigi assaporava i suoi soggiorni romani dagli zii, non parendogli vero di godere di quella che gli sembrava allora una metropoli in confronto con la sua piccola Padova e non sapendo ancora in quali metropoli ben più grandi avrebbe vissuto e lavorato in futuro (prima San Francisco e Los Angeles; poi New York, di cui Princeton è quasi un sobborgo; infine Londra, dove ha a lungo insegnato al King’s College). Debbo dire che l’essere provinciale, e ugualmente l’essere cittadino del mondo, sono rispettivamente un difetto || [Intervento alla presentazione di P. Petrobelli, La musica nel teatro. Saggi su Verdi e altri compositori, Torino, E.D.T., 1998, tenutasi a Roma, nel foyer del Teatro Costanzi, G 25.2.1999, ore 17 (interventi di Fabrizio Della Seta, Mara Fazio, Luigi Enrico Rossi, presente l’Autore). — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; cura del testo di Giulio Colesanti]
[* La secolare definizione di “Sapienza” fu abolita in coincidenza del trasferimento (1935) dalla vecchia sede del Rione Sant’Eustachio alla nuova città universitaria di Marcello Piacentini, per poi essere ripristinata solo nel 1982.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-029
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(grave) e una virtù (grande) con cui si nasce, e Pierluigi è nato con una vocazione alla totale sprovincializzazione, che ha coltivata con spontaneità e con successo sia in giro per il mondo sia in Italia. Quanto agli studi, era chiaro fin da allora non solo quello che ci faceva simili – la passione, come ho detto – ma anche e soprattutto quello che ci faceva differenti l’uno dall’altro. Pierluigi aveva fantasia, estro, coraggio intellettuale, qualità necessarie in una disciplina come la storia della musica, che in Italia stava muovendo i suoi primissimi passi e anche all’estero non è che fosse tanto antica (il suo maestro Oliver Strunk è stato uno dei santi fondatori della musicologia americana); io invece, per carattere e per scelta, mi barricavo dietro le tranquillizzanti sicurezze assicuratemi da una disciplina – la filologia classica – vecchia come l’ordinamento universitario europeo, che nelle sue forme attuali risale a non più e a non meno di due secoli circa, quanti ne corrono fra il cosiddetto secondo umanesimo di Winckelmann e la fondazione della Humboldt Universität di Berlino. Allora ero in grado solo di intravvedere da lontano a quante opportune, anzi provvide, turbolenze la mia disciplina sarebbe andata incontro, per essere oggi, nella breve spanna di pochi decenni, tanto diversa da allora. La differenza era che la filologia classica stava lentamente diventando turbolenta, mentre la contemporanea storia della musica turbolenta nasceva. Questo dava origine ad appassionate discussioni, che sempre finivano con un passo di avvicinamento dell’uno all’altro, piccolo o grande che fosse. Ma in realtà – ricordiamolo, caro Pierluigi – in fondo tanto lontani l’uno dall’altro non eravamo. Eravamo allievi – come ho detto – di Luigi Ronga, che fu – proprio negli anni della nostra frequenza presso di lui – il primo in Italia ad avere una regolare cattedra ordinaria di Storia della musica e solo dal relativamente a noi vicino 1957 (era stato a lungo incaricato, sempre presso la nostra Facoltà di Lettere): fu il primo, perché bisogna escludere da questa cronologia l’insegnamento di Fausto Torrefranca, che aveva ricoperto una cattedra di Storia della musica prima a Roma, dal 1913, e poi a Milano e a Firenze, ma si trattava di una cattedra onorifica ad personam e non di una cattedra in organico. Mi concedo qui una divagazione: di questo ritardo rispetto al mondo tedesco non c’è poi da meravigliarsi troppo o addirittura da scandalizzarsi. Pensiamo che la storia dell’arte era entrata in organico nelle nostre università solo intorno alla fine del secolo XIX (nel 1898, mi pare), ma ricordiamoci che il nostro ordinamento universitario unitario risaliva, appunto, solo all’unità d’Italia, e precisamente alla legge del Marchese Casati del 1859. L’Italietta dovette prendere il suo tempo per formarsi e non meravigliamoci se, rispetto ad altri grandi paesi euro-
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pei, di tempo dovrà forse prendersene ancora un po’, anche adesso che siamo entrati a far parte di quello che alcuni con buono spirito – e con latina ironia – chiamano l’Impeuro. Ma dopo la divagazione ritorniamo a Ronga, che era un crociano, ma vivaddio un crociano intelligente, non certo uno di quelli dediti all’estetica dell’interiezione, di quelli che esclamavano ‘Quant’è bello, quant’è bello!’ e che poi, alla richiesta del perché, tiravano fuori l’arma spuntata dell’intuizione. Non per niente Ronga si era formato anche a Dresda (su cui faceva a noi allievi racconti pieni di nostalgia), assorbendo quel poco o tanto di meglio che poteva ancora offrire il positivismo. Ora, come potevano mettersi le cose per due giovincelli come noi, appassionati ma inesperti, un po’ presuntuosi ma ancora poco solidi? Il rifiuto del crocianesimo era facile per Petrobelli, visto che la giovane musicologia italiana poteva permettersi anche il lusso di ignorare del tutto una storia degli studi che in quel campo ancora non esisteva o quasi; e io, da filologo classico, avevo il prezioso patronato di Giorgio Pasquali, morto da poco (nel 1952), che aveva sempre rifiutato Croce e che aveva fatto vedere come Croce avesse trattato ben poco il mondo antico (qualcosa su Terenzio e poco più) e per di più molto male. In questo andavamo d’accordo, che crociani non eravamo davvero e che stimavamo immensamente Ronga proprio perché era un crociano molto, ma davvero molto intelligente. Già: ma che cosa eravamo, in fin dei conti? Eravamo questo, che ci ponevamo – lui di fronte alla produzione musicale da incipiente professionista e io di fronte a quella stessa produzione come dilettante e di fronte al mio mondo greco e romano da incipiente professionista anch’io – con una grande esigenza di concretezza. Volevamo capire come si erano svolte concretamente e realmente le cose nei momenti più antichi e comunque lontani da noi, per capire, semplicemente per capire. L’apprezzamento estetico è atteggiamento eminentemente umanistico, che secondo me non va rifiutato in blocco per un secco filologismo, ma va praticato per il necessario e nutriente piacere del testo, anche se va riservato alle domeniche e ai giorni festivi come coronamento del duro lavoro storico–filologico degli altri giorni della settimana. Ora, una unione molto stretta fra l’uno e l’altro momento, quello filologico e quello umanistico, è un problema che nella musica, e nel teatro in musica si pone in modo molto più forte che per il mondo antico, perché in quella cultura (quella dell’opera) siamo noi stessi ancora totalmente immersi, sia nelle consuetudini di scena sia nel codice musicale, e a questo proposito non posso che citare verbatim la bella formulazione di Petrobelli (p.1):
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... il teatro in musica viene qui considerato sì come documento culturale del passato, ma anche ed allo stesso tempo come un’esperienza artistica contemporanea immediata e diretta.
Il bisogno di concretezza si manifestò in lui fin dalla tesi di laurea su Giuseppe Tartini (nato a Pirano d’Istria nel 1692 e morto proprio a Padova nel 1770): e quanti momenti di irrequieta insubordinazione vivemmo insieme, perché Ronga era intelligente – non mi stancherò mai di ripeterlo – ma era pur sempre un crociano. Se nella mia ricerca di giustificazioni per il fatto che sono qui posso avanzarne una ulteriore, pur tenue, la vedo nel mio interesse per la metrica e per la musica antiche, una competenza, qualunque essa sia, che ho acquistata partendo dalla mia passione per la musica moderna. Credo di aver parlato già anche troppo di tante cose e in fondo molto poco specificamente del libro di Petrobelli che oggi viene presentato, e non l’ho fatto anche perché ad altri veramente competenti spetta – ed è spettato – il parlarne. Posso dire che vi vedo il punto d’arrivo di una lunga e bella avventura intellettuale, del cui punto di partenza sono stato non solo testimone ma anche integralmente partecipe.
Commemorazione di Margherita Guarducci Il fatto, per me onorifico ma anche imbarazzante, che a commemorare Margherita Guarducci in questa sede sia io, dipende dalla volontà dei soci di questa illustre Accademia, che mi hanno fatto credere di essere io il meno lontano dagli interessi scientifici di lei[1]. Ho cercato di fare del mio meglio, ma devo dichiarare subito il mio debito nei confronti di due colleghi, Maria Letizia Lazzarini e Domenico Musti, che sarebbero stati ben più qualificati di me per questo compito: la prima come allieva e diretto successore nella cattedra di Epigrafia greca dell’Università di Roma “La Sapienza” e il secondo come allievo e, in qualità di storico greco, particolarmente interessato a tutti gli studi di lei e a lei legato da un antico rapporto personale, sostanziato di un continuo dialogo scientifico. Un mio rammarico è il non aver seguito i suoi corsi quando ero studente[2]: tutti sappiamo quanto fortuito è alle volte il piano di studi che gli studenti si fanno agli inizi. Ma subito dopo la laurea mi risultò più volte indispensabile consultarla personalmente, e la sua risposta seguiva sempre animata dal vivo desiderio di giovare. Capitò pure che qualche volta fosse lei a consultare me: è stata una delle persone con cui ho sperimentato quanto gratificante sia per un giovane la stima di uno studioso più anziano e più esperto. Senza contare che, per la vastità dei nostri campi d’indagine, l’esperienza insegna a formulare le domande giuste alle persone che ne sanno più di noi in un campo specifico: è una pratica della quale mi sono sempre giovato perché ho trovato sempre altamente remunerante il sano atto d’umiltà che tale pratica comporta. Margherita Guarducci è stata una protagonista. Ma, se ci affacciamo con rispettoso interesse nelle pieghe della sua personalità, e se ci chiediamo come ha vissuto il suo protagonismo, ci rendiamo conto che il suo – mi si conceda l’apparente paradosso – è stato un protagonismo tutto interiore, ispirato da una || [Commemorazione di Margherita Guarducci (20.12.1902 – 2.9.1999) letta a Roma all’Accademia dell’Arcadia Mc 6.12.2000, ore 17.30 — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 Rossi peraltro aveva partecipato al Volume in onore di Margherita Guarducci («Archeologia classica» 25–26, 1973–1974) con il saggio Un’immagine aristofanea: l’‘amante escluso’ in nub. 125 sg. (nelle pp. 667–675).] [2 Margherita Guarducci ha insegnato Epigrafia e Antichità greche nella Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma dal 1931 al 1973 (prima come incaricata e poi dal 1942 come titolare); sua opera fondamentale è il manuale di Epigrafia greca (vol. I–IV, Roma, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1967–1978). Rossi si è laureato in Lettere alla “Sapienza” il 24.2.1959.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-030
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sola grande passione sentita come vocazione: l’apostolato, sia negli studi sia nella fede. Quanto agli studi, ben nota era la sua passione e il suo impegno didattico nel quotidiano insegnamento universitario. Ancora più rilevante è stata la sua presenza nel campo che dell’insegnamento istituzionale dev’essere lo sbocco, e cioè la vera e propria scuola scientifica, e la sua è da molto tempo presente nelle nostre università e nella storia degli studi. La passione scientifica dominante di questa studiosa è stato il progresso della scienza intesa come graduale conquista della verità: le domande che si poneva con la sua fervida intelligenza, e con la curiosità tipica delle persone intelligenti, esigevano una o più risposte, che si dava alla fine della ricerca con costante rispetto – lo ripeto – della verità. [Ricordo del resto il suo] libro sulla verità del 1995[3]. E infine, sovraordinata a ogni verità scientifica e genenericamente umana, c’era per lei la verità rivelata, la fede con la maiuscola, che la portava a difese e a polemiche appassionate. Penso soprattutto alla posizione centrale che si è trovata ad avere nella ricerca che la ha appassionata più di tutte nella vita, il sepolcro e le ossa di San Pietro[4]. Anche chi, con competenza maggiore della mia, ha dissentito e dissente da lei non solo sulle risultanze materiali di quella ricerca, ma anche e soprattutto sul ruolo che quelle risultanze possono avere per il Cristianesimo vissuto oggi, non dovrebbe mancare di tributarle il più grande rispetto e la più onesta ammirazione per il modo con cui ha vissuto quella che ha sentito sempre come una missione.
|| [3 M. Guarducci, Verità. Meditazioni, esperienze, documenti in tempi antichi e recenti, Roma, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1995] [4 Margherita Guarducci, per incarico di Pio XII, partecipò nel 1952 alle indagini archeologiche ed epigrafiche nella necropoli vaticana, ritrovando delle ossa da lei attribuite a San Pietro e dei graffiti su muro; a tutta la questione dedicò in circa quarant’anni vari libri, a partire da I graffiti sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano (vol. I–IV, Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana, 1958) fino a Le chiavi sulla pietra. Studi, ricordi e documenti inediti intorno alla tomba di Pietro (Casale Monferrato, Piemme, 1995) e Le reliquie di Pietro in Vaticano (Roma, Ist. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1995).]
Ricordo di Scevola Mariotti (1920–2000) A darmi titolo per le poche pagine che seguono è il mio rapporto personale con Scevola Mariotti, rapporto che è durato per quasi quarant’anni, dal momento cioè che nel 1963 fu chiamato alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”1 a ricoprire la cattedra di Filologia classica, presso la quale ero allora assistente[2]. A questo si aggiunga il dolore di aver dovuto oggi cancellare il suo nome dal Comitato scientifico dei “Seminari Romani”, a cui aveva aderito con entusiasmo e di cui faceva parte con profitto di tutti noi. Dirò, anzi, che fu uno dei primi a cui parlai dell’idea di fondare una rivista e se ne mostrò entusiasta, anche se inizialmente esitavo a parlargliene, visto che mi mettevo da novellino in concorrenza con una testata antica e gloriosa di cui lui era direttore, la “Rivista di filologia e di istruzione classica”[3]. Di lui hanno già parlato pubblicamente, subito dopo la morte (6.1.2000), vari amici e allievi come Luciano Canfora4, Leopoldo Gamberale5, Piergiorgio Parroni6, Silvia Rizzo7, Michela Rosellini8. E c’era già la poderosa biografia scien-
|| [Ricordo di Scevola Mariotti (24.4.1920 – 6.1.2000) scritto appositamente per «SemRom» 3, fasc. 1, 2000, ma poi non pubblicato. — Inedito, ritrovato nel pc di Rossi (con ultime correzioni datate al 15.4.2000); la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] 1 Che allora era ancora semplicemente l’Università di Roma. [In effetti lo Studium Urbis, con il trasferimento nel 1935 nella nuova Città universitaria piacentiniana, aveva perso la secolare denominazione di “Sapienza”, per poi riacquisirla soltanto nel 1982 per Decreto del Presidente della Repubblica.] [2 Rossi fu assistente alla cattedra di Filologia classica dall’1.2.1960 al 31.8.1973, sotto gli insegnamenti di Gallavotti, Tarditi e Mariotti.] [3 Mariotti diresse la “Rivista” (fondata nel 1872) dal 1980 al 1999, ma già ne era stato condirettore fin dal suo arrivo a Roma nel 1963 (sotto le direzioni Gallavotti e Maddalena); Rossi fondò i suoi “Seminari Romani di Cultura Greca” nel 1998.] 4 L. Canfora, [Scevola Mariotti, la filologia come democrazia], “Corriere della Sera”, [7 gennaio 2000, p. 29] e [Scevola Mariotti, il maestro che sapeva reclutare, “Corriere della Sera”, 8 gennaio 2000, p. 35. Canfora ha anche presentato la raccolta degli Scritti di Filologia classica di Mariotti (Roma, Salerno editrice, 2000), “Corriere della Sera”, 25 agosto 2000, p. 29, e quindi ha ricordato Mariotti nell’articolo Le “questioni di metodo”, «Res publica litterarum» 23, 2000, pp. 13–20 (poi riedito in L. Canfora, Le vie del classicismo 3. Storia, tradizione, propaganda, Bari, Edizioni Dedalo, 2004, pp. 67–76.] 5 L. Gamberale, [Scevola Mariotti], “Studi Romani” 48, 2000, pp. 134–139, [nella rubrica Membri dell’Istituto scomparsi.] 6 P. Parroni, Ricordo di Scevola Mariotti, «Maia» 52, 2000, pp. 617–620. https://doi.org/10.1515/9783110648140-031
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tifica (ricca di tratti umani) che Sebastiano Timpanaro gli aveva dedicato anni fa9. Ma forse il ritratto scientifico più sintetico e insieme efficace fu quello che lui stesso offrì a noi in Facoltà nel maggio 1990 nella lezione conclusiva della sua carriera d’insegnamento, che si mostrava restio a fare in quella forma, che sarebbe stata ufficiale e a suo modo solenne: fui io stesso a convincerlo, con qualche sforzo, a strutturarla come tale. Fu un peccato che, a quanto so, nessuno di noi ne prendesse appunti, perché fu un modello di ‘contributo alla critica di se stesso’, tanta fu la lucidità con cui delineò la sua presenza negli studi, indulgendo non dico affatto, ma meno del solito, al suo peraltro civilissimo uso di minimizzare tutto quello che lo riguardava. Io non parlerò quindi della sua personalità nell’insieme delle doti scientifiche e del lato umano: non farò altro che aggiungere qualche ricordo personale ai tanti che affiorano continuamente presso tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui, limitandomi a quegli episodi e a quelle spesso fulminanti formulazioni dalle quali abbiamo imparato il metodo e soprattutto l’etica della ricerca. Molto efficacemente Parroni ha messo in luce l’aspetto solo apparentemente ludico del suo approccio agli studi. Il rigore filologico era il decalogo per l’avventura intellettuale che lo appassionava, e cioè la ricerca della verità dei testi fino a dove fosse possibile raggiungerla con ragionevole fondamento. Ricordo alcune lezioni nelle quali si prendeva il “Messaggero” del giorno e se ne discutevano i palesi errori di stampa: ne venivano percorsi alle volte interessanti e sempre divertenti, dai quali si usciva con la convinzione che la filologia non era astratta alchimia di dotti ma verifica valida per tutti i fatti di comunicazione: noi maturi ne eravamo già convinti, ma la funzione didattica per i più giovani era di primaria importanza. Ricordo anche le lunghe sedute nelle quali discusse con me il decalogo tipografico della “Rivista di filologia”[10], operazione che lui viveva come di alto artigianato e nella quale esercitava il suo razionalismo intelligente, tale perché se ne serviva sempre con senso della funzione. Quando una volta gli feci presente il mio imbarazzo di fronte all’uso tipograficamente antiestetico di citare le parole greche dei titoli in tutte maiuscole, disse che sì, che gli sembrava ragionevole scriverle in minuscolo, con un’argomentazione che mi colpì per la sua || 7 S. Rizzo, [Scevola Mariotti, lo stregone delle opere perdute], “Alias”. [Suppl. settimanale de] “Il Manifesto”, [anno 4, n. 6, sabato 10 febbraio 2001.] 8 M. Rosellini, [Ricordo di Scevola Mariotti], “La parola del Testo” 4, 2000, pp. 189–192. 9 S. Timpanaro, [Scevola Mariotti], “Belfagor” [48, 1993, pp. 271–326, nella rubrica Ritratti critici di contemporanei.] [10 Rossi dal 1963 al 1973 collaborò con la “Rivista di Filologia e di Istruzione Classica” condiretta da Mariotti, redigendo l’Indice analitico di ogni annata.]
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elementare evidenza: “Sarebbe come scrivere, citandoli, I PROMESSI SPOSI in tutte maiuscole solo perché sul frontespizio è così”, e da allora risolsi quello che per me era un fastidioso problema tipografico. Frequenti erano i casi in cui lo stile degli studi veniva definito con formulazioni davvero felici, che restano ferme nella memoria. Una volta, parlando di una recensione, se ne uscì con queste precise parole: “Mah, quei recensori che imparano tutto dal recensito ...!”. La competenza era la condizione per occuparsi di un argomento specifico con la responsabilità che un recensore deve sentire come esigenza di fondo. Al di là della bibliografia di uno studioso, era proprio la sua competenza la qualità che più gli stava a cuore, e cioè quello che gli si poteva chiedere, sia al livello della semplice informazione sia a quello dell’intuito critico. Operava in questo – io penso – la convinzione da lui vissuta, che è anche nostra, che il dialogo fra studiosi dev’essere anche diretto e non solo cartaceo, che niente può sostituire il dialogo con un interlocutore vivo e presente, dal quale vengono idee con confutazioni e conferme, oltre a informazioni bibliografiche preziose. Mi viene in mente una formula da Eunapio usata con intento iperbolicamente laudatorio, ma che vale in grado variabile per tutti gli amici con cui parliamo di studi: βιβλιοθήκη ἔμψυχος, περιπατοῦν μουσεῖον[11]. Questo resta particolarmente vero oggi che il computer può sfornarci con poco sforzo biblografie smisurate, nelle quali è difficile se non impossibile orientarsi. Ormai è più difficile di quanto fosse una volta realizzare una vera esaustività dell’informazione, e, se venisse simulata, sarebbe facile smascherarla. L’aiuto, la segnalazione di un confratello negli studi, che opera selettivamente come una ‘biblioteca vivente’, può essere alle volte preziosa: ma occorre scegliere con giudizio lo scaffale umano competente. Di qui la sua ricca galleria di partner dialogici che è aspirazione di tutti noi avere ricca come la aveva lui. Oggi è sempre più faticoso, per le condizioni di vita in cui ci troviamo, realizzare un contesto di scambio diretto che era proprio della realtà e dell’ideale degli umanisti. Con tutto quello che di sorpassato e di inaccettabile ci ha lasciato l’ideologia dell’umanesimo, questo aspetto di stile di vita resta attuale, anche se oggi non ci è possibile realizzarlo se non in misura asssai ridotta. Ma dobbiamo avere coscienza della menomazione che ce ne viene. Il moltiplicarsi di incontri congressuali, tipico del nostro tempo, può solo in minima parte soddisfare questa esigenza. La funzione didattica da lui svolta può essere ed è stata illustrata da chi con lui si è formato fin dall’inizio assai meglio di quanto possa fare io, che entrai in contatto con lui quando ero già formato come giovane studioso. La voce comu|| [11 Eunap. vit. sophist. 4. 1. 3.]
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ne, alla quale mi associo per mia personale esperienza, è che le sue lezioni erano una perenne palestra del ragionare, e questo ben si conveniva a lui, che professò sempre la filologia come rigoroso costume non dico solo intellettuale, ma anche semplicemente mentale. Possedeva come pochi altri gli strumenti di quella che chiamerei la toilette filologica, ma da alcune pur venerate regole si liberava ogni volta che apparissero produttrici di non–verità. Mi rendo conto oggi di aver assorbito da quelle lezioni, alle quali come assistente presi parte per dieci anni, un principio che formulo sempre più o meno così con i miei allievi: che ad applicare con scrupolo i criteri codificati della critica testuale si arriva alle volte a un risultato che, a guardarlo col buon senso del vero storico, non può che apparire falso. Alla fine del percorso filologico, se non lo si considera una cerimonia rituale, bisogna ripetere quello stesso percorso all’indietro guidati alla verifica proprio dal semplice buon senso. Questo non è certo acquisto da poco, e oggi lo vedo come uo degli aspetti più positivi di un contraltare che allora mi appariva qualche volta come negativo, e cioè il dover assistere a lezioni che non erano mai – per sua espressa ammissione – preparate in anticipo. È un uso che tutti in maggiore o minor misura abbiamo praticato e che pratichiamo, consapevoli che una dose d’improvvisazione rende più vivace e incisivo il discorso, e con questo tacitiamo anche la coscienza, alle volte turbata dall’autoaccusa di episodica trascuratezza e di pigrizia: ma pochi – credo – sapevano farlo come lui, che ci metteva anche un pizzico della sua autoironia autodifensiva, da alcuni falsamente ipervalutata e ipocritamente censurata come cinismo. Certo è che in quelle ore non se ne usciva mai con una improvvisata sciocchezza, vigile com’era e intellettualmente e – lo ripeto – mentalmente. A quanto credo l’unica lezione che si preparò interamente (io lo aiutai con controlli e verifiche e, mancando allora le fotocopie, con una ‘lavagnata’) fu la bella prolusione romana della primavera del 1964, Falsi enniani senza falsario12. Insostituibile è stata per molti la sua funzione di consulenza. Mariotti era lettore puntiglioso di tutto quello che gli veniva sottoposto e aveva il dono di ambientarsi subito anche in campi che frequentava meno o addirittura per niente. Il suo segreto me lo rivelò una volta in anni lontani, quando mi diede la sua personale definizione della “persona veramente intelligente”. Se inevitabilmente pensava a se stesso – perché intelligente era in grado veramente alto – certo non lo rese esplicito, per la sua abitudine alle buone maniere e alla formale modestia: la sua definizione delineava colui che coglie i nessi essenziali di un || 12 Ora Falsi enniani di Girolamo Colonna?, in Lezioni su Ennio, Urbino 1991 (2a ediz. accresciuta), pp. 131–146.
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argomentare anche in un campo al quale si trovi ad essere totalmente estraneo. Era il suo autoritratto. Una volta, circa trent’anni fa, dopo la lettura di un mio lavoro in manoscritto[13] – che trattava testi a lui non del tutto consueti – mi disse che, sì, gli piaceva, ma che un particolare passaggio del ragionamento non lo convinceva del tutto, esprimendosi con quel riguardo e anche con quel disagio di chi è consapevole di fornire qualcosa di incompleto. Ebbene, che aveva individuato proprio un nodo spinoso che mi pesava glielo dissi solo dopo che, in una notte quasi del tutto insonne, ebbi trovato la soluzione, guidato dalla sua provvidenziale e benvenuta intuizione. Mariotti è stato una personalità ben presente nella vita accademica italiana. La ricchezza e l’abbondanza dei suoi contatti personali gli permettevano, oltre lo scambio scientifico, anche quello accademico. A quelli che con insipido moralismo lo hanno censurato si deve obiettare che, pur con qualche compromesso che il nostro mestiere obbliga qualche volta a fare, ha promosso persone che stimava. Nella nostra Facoltà il suo attivo ipercritico controllo ha dato frutti duraturi. La personalità umana di Mariotti è stata troppo complessa perché la si possa definire con qualche formula. Come l’ho sperimentato io, mi è apparso uomo di grande intelligenza, di essa prigioniero in quanto la volgeva anche contro se stesso con la sua perenne insoddisfazione e con la sua autocritica, peraltro esplicitamente confessata solo fino a un certo punto, ma comunque evidente. Dell’intelligenza era prigioniero anche nei rapporti con gli altri: un vero rapporto personale doveva nascere da stima intellettuale. Con quelli che gli apparivano ignoranti o sciocchi era feroce e se ne usciva alle volte con ritratti che erano poi divertenti, visto il suo senso dell’umorismo. Quello che a molti appariva disposizione al rancore era spesso l’incapacità – alle volte giustificata – di ricredersi sul suo giudizio negativo a proposito di alcuni. Ma posso testimoniare che qualche volta si ricredeva, e allora il rapporto prendeva altre vie, proficue per lui e per gli altri[14].
|| [13 Si tratta certamente del saggio I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, recitato in vari seminari tra il 1970 e il 1971 e infine pubblicato in «BICS» 18, 1971, pp. 69–94: infatti a p. 86 n. 1 viene ringraziato, insieme ad altri tre studiosi, anche Mariotti.] [14 In una precedente versione, Rossi in questo punto aveva inserito quanto segue, come ultima vera considerazione del suo ricordo: “Non credo sia il caso qui di tacere di un incidente accademico – visto che ebbe notorietà nell’ambiente – del quale mi trovai ad essere per qualche tempo protagonista: pochi anni dopo tutto si sanò e si poté veramente non parlarne più.” L’“incidente”, ben noto nell’ambiente universitario romano, e di cui lo stesso Rossi non faceva mistero, era stato il seguente: nell’ambito delle agitazioni studentesche romane del 1977, Rossi di fronte ad alcuni studenti aveva puntualizzato a Mariotti l’inopportunità di trattenere a lungo in
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La sua presenza scientifica continua non solo nei suoi scritti, ma anche nei tesori di dottrina e di acume sparsi a piene mani nelle opere altrui. Un’idea che a molti è venuta è quella di raccogliere questi suoi contributi annidati in lemmi di apparato o in note a pié di pagina, senza contare le idee di interi lavori che molti hanno realizzate, idee testimoniate dalle premesse a quegli stessi lavori. La ‘biblioteca vivente’ impersonata in lui continuerà a lungo a essere tale.[15] [Nota di necrologio pubblicata su «SemRom» 3. 1, 2000 (stampa gennaio 2001), p. VII, a firma della Direzione ma in realtà di pugno di Rossi[16]] [Il 6 gennaio 2000 è morto Scevola Mariotti. A questa rivista viene a mancare un membro prestigioso del Comitato scientifico: era stato tra i primi a rallegrarsi della nostra iniziativa e a condividerne la responsabilità scientifica. Non è solo a questo titolo che ci uniamo al dolore della famiglia e al rimpianto del mondo degli studiosi, perché con lui avevamo un rapporto, più o meno antico, di frequente colloquio scientifico e di amicizia. L’assenza della sua forte personalità è e sarà sentita come la perdita di un costante punto di riferimento. LA DIREZIONE]
|| prestito i libri della Biblioteca, per non sottrarli in tal modo agli studenti; della quale osservazione Mariotti sul momento si era risentito. Tuttavia la freddezza tra i due durò veramente poco, perché in seguito proprio Mariotti fu tra i principali sostenitori e promotori di Rossi nel vittorioso concorso per la cattedra di Letteratura greca del 1980.] [15 In una versione precedente il ricordo finiva invece con queste parole: “A quanto ho scritto si associano i condirettori di questa rivista, Maria Grazia Bonanno e Roberto Pretagostini, naturalmente con esclusione di quanto è espressione del mio rapporto personale, che è stato più antico e per un lungo periodo più intenso, di quello che anche loro hanno avuto con lui. Comune a tutti noi è il sentimento di gratitudine per quanto gli dobbiamo e il rimpianto per una presenza di cui si sente oggi la mancanza”.] [16 Nello stesso file del ricordo di Mariotti figura in calce la prima versione di questa nota (diversa in piccoli punti).]
Presentazione degli Scritti in onore di Italo Gallo È non solo un grande onore, ma anche un grande piacere presentare, con il collega Gabriele Burzacchini[1], gli Scritti in onore di un maggior collega, maestro e carissimo amico, Italo Gallo, editi da Luigi Torraca. Ho avuto solo, all’inizio, un imbarazzo, che ora renderò esplicito cercando di eliminarlo: pur essendo stato a suo tempo invitato a partecipare, ho dovuto rinunciare, come spesso mi succede a causa della mia lentezza e – non vorrei dirlo – della mia pigrizia: in casi del genere prego gli amici degli amici di includermi almeno nella tabula gratulatoria. So che questa manca per le lunghe e complesse vicissitudini che spesso addirittura impediscono, in questi nostri tempi di avanzante oscurantismo, la pubblicazione anche di opere di grande pregio: rallegriamoci, piuttosto, che questa sia arrivata in porto. In mancanza della tabula, quindi, conto che la mia presenza in questa veste mi consenta di congratularmi con il festeggiato non solo per il volume che oggi gli consegniamo, ma anche per la sua lunga e solida carriera di studioso, dalla quale tutti abbiamo appreso tanto, così che in molti campi possiamo ritenerci suoi allievi, anche lontani dalla sua Salerno e dalla sua Campania. Insieme con le congratulazioni gli esprimiamo quindi la nostra gratitudine e il nostro affetto più sincero. Poche parole di presentazione per questo bel volume, che testimonia materialmente quanto ho appena detto. Hanno collaborato studiosi italiani e straieri. Molti sono i contributi relativi agli interessi principali del festeggiato, e ci sono anche contributi che toccano argomenti da lui sempre tenuti sott’occhio. La varietà degli interessi qui rappresentati mostra la varietà delle personalità di studiosi che a lui si sentono legati e che da lui hanno imparato. A parte i molti contributi al Plutarco dei Moralia e anche delle Vitae, troviamo molto che ha a che fare con la grecità imperiale e con il mondo greco più tardo fino al bizantino. La grecità arcaica e classica è riccamente presente, con abbondanza di studi
|| [Intervento letto Mc 20.3.2002 nell’Aula Magna del Liceo classico “Torquato Tasso” di Salerno, nell’ambito della presentazione di L. Torraca (ed.), Scritti in onore di Italo Gallo. Pubblicazioni dell’Università degli studi di Salerno. Sezione Atti Convegni Miscellanee 59, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002 (relatori Luigi Enrico Rossi e Gabriele Burzacchini). — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 L’intervento di Burzacchini, dal titolo Italo Gallo maestro di humanitas, sarebbe poi stato pubblicato in «Eikasmós» 13, 2002, pp. 375–382.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-032
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sul dramma attico, né sono assenti la storia e la filosofia. In alcuni casi la grecità tarda si incontra con tradizioni biografiche. Lasco da parte altre tematiche e, se anche fossi capace di dar conto di ogni contributo come merita, intratterrei il pubblico con un lungo elenco di titoli, a cui non potrebbe non seguire una parola di commento e di apprezzamento. Tra gli autori mi limiterò a ricordare, con rimpianto, quelli che oggi sono assenti perché ci hanno recentemente lasciati nelle more della stampa: Enzo Degani, Marcello Gigante e Scevola Mariotti. Interpreto il sentimento di tutti i presenti, e in particolare del dedicatario, se dico che sono presenze ancora vive fra noi per quel molto che ci hanno lasciato, di insegnamenti e di memoria di amicizie. E ora vorrei non tanto parlare in dettaglio di Italo Gallo come studioso, il che ci porterebbe a una relazione paene infinita. Vorrei piuttosto dire quello che la sua attività scientifica ha significato per me e per i miei allievi. Metterei al primo posto i suoi studi di papirologia e le sue ricerche sulla biografia dei poeti. Nel primo campo ho potuto soltanto apprendere, sia dalle sue opere scientifiche sia dalle sue opere didattico–divulgative, che si sono imposte in Italia e all’estero come preziosa e chiara introduzione a questo ampio campo di competenze. Dirò che il suo stile è dei più distesi e concreti, come succede in chi sa qualcosa e ha qualcosa da dire. Il suo stile scritto non fa che confermare la sua prassi didattica, che ho sperimentato solo qualche volta sentendolo parlare ma che mi viene rievocata da molti fra i suoi allievi diretti, qui presenti in quantità. Gallo è stato anche un teorico della papirologia, perché non poteva non mettere a frutto la sua ricca esperienza in sintesi di grande efficacia. Ma questo gli è stato permesso perché il suo approccio alla papirologia è stato determinato fin dall’inizio da un interesse speciale e specifico per i testi che lo hanno interessato: dalla pratica alla teoria, quindi, come dalla ricerca minuta alla sintesi. Vorrei poi mettere nel massimo rilievo i suoi studi sulla biografia antica, anche perché questa interessa tanti autori arcaici e classici che ho studiato con passione. C’è stato e c’è chi la svaluta dal punto di vista storico, al punto da trovarci alle volte di fronte a edizioni di autori antichi privi delle Vitae. È invece una produzione per noi preziosa, pur essendo quasi sempre molto tarda rispetto alle personalità di cui tratta, ma questo poco toglie al loro valore: dico ‘poco’ solo per un sofferto rispetto a coloro che considerano oggetto di storia solo i fatti contemporanei al fatto centrato, mentre ben sappiamo che le biografie, come tanti altri generi storici, ci danno tanto, testimoniando della fortuna di un autore o di un’opera e vanno quindi ascritte al capitolo della ricezione postuma, che arriva fino ai nostri giorni. Non importa se un aneddoto biografico sia probabilmente o accertabilmente falso: esso, specie quando ne sia databile anche
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approssimativamente il responsabile, è testimonianza (storica, appunto) della vita postuma dell’autore ed è documento prezioso di un momento storico più tardo. Azzarderei una formulazione che non so se l’amico Italo approverebbe o no: la biografia antica è come il mito, che cresce su se stesso a partire da un momento iniziale che è per noi normalmente irraggiungibile e che in fin dei conti non importa raggiungere, come invece cercava di fare il positivismo con il suo ‘mito originario’. È lo stesso che accade in linguistica, dove l’etimologia ci dice tanto, sì, ma non ci dice nulla sulla storia della parola nel momento in cui la incontriamo, che è poi il momento che ci interessa per leggere una cultura. A chi abbia occhio per vedere e orecchio per ascoltare, ogni più tarda testimonianza, per fantasiosa che sia, può dirci alle volte più di una irrilevante notizia di prima mano. Certo, di questo Gallo è convinto, se no non avrebbe dedicato tante cure a questo settore così poco visitato. Ma è convinto anche che ci possano venire notizie preziose: è un po’ il corrispondente storico del recentiores non deteriores pasqualiano. Cito le sue stesse parole dagli Studi sulla biografia greca, Napoli 1997, p. 173, scritte nel 1995: A mio giudizio, pur con ogni prudenza, la tradizione antica merita in linea di massima assai maggior fiducia di quanto le sia stata accordata, talora ipercriticamente. [...] Altre notizie fornite da tardi eruditi non vanno a priori sottovalutate o screditate: in questo come in altri settori nuove e fortuite acquisizioni papiracee o epigrafiche hanno smentito ricostruzioni basate su aprioristiche ricostruzioni che prescindevano da tradizioni ritenute a torto inaffidabili o basate su presunti autoschediasmi.
Gli studi sulla biografia greca hanno portato Gallo a sfatare molti idoli della tribù biografica, primo fra tutti il lavoro in sé pionieristico ma sorpassato del grande Friedrich Leo, che operava quella famosa (e negli studi duratura) distinzione schematica fra la biografia aristotelica e quella grammaticale: è anche vero che, dopo tanti decenni, il materiale si era accresciuto e il panorama si era ampliato, così da permettere alla sua profona familiarità con testi vecchi e nuovi di attenuare quel rigido confine. Ma lo hanno portato anche a scontrarsi con quello che per noi è il biografo principe dell’antichità, e cioè con Plutarco. Credo che questo sia stato il passo di avvicinamento a quella enorme produzione, sia autentica sia apocrifa, che va sotto il nome di Moralia: si tratta di quelle operette di minor mole che conducono noi moderni a una rilettura storico–critica di tanti aspetti, alle volte remoti, della vita e della cultura antica. Dirò subito che queste opere non erano state studiate (e molte continuano a non esserlo) per decenni, molte da più di un secolo, quando la filologia positivistica si era contentata di accertarne l’autenticità o la natura apocrifa. I rinnovati studi sui Mo-
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ralia (che datano dal primo congresso di Roma nel 1985[2]), promossi e patrocinati da Gallo, hanno da una parte offerto a noi filologi edizioni e commenti rigorosi, ma hanno anche alimentato un interesse dell’editoria di alta divulgazione inteso a soddisfare la curiosità del lettore colto alla caccia di testi non classici e alle volte anticlassici. In questo Gallo, per ragioni generazionali formatosi in una scuola di stampo umanistico, ha saputo allargare il canone dei testi a cui dedicarsi e ha saputo liberarsi da quanto di negativo l’atteggiamento umanistico ha in sé per aver recepito con alta tempestività quell’approccio più schiettamente storico che dall’atteggiamento puramente umanistico sa liberarsi. Così sono nate le sue predilezioni che, per vaste che siano, privilegiano testi non consacrati dalla selezione umanistica. Fondatore e condirettore del Corpus Plutarchi Moralium (ben 37 volumi finora editi dal 1988 al 2001); editore di alcuni dei Moralia; presidente della Sezione Italiana della International Plutarch Society[3]; organizzatore di numerosi convegni nazionali e internazionali su Plutarco (il prossimo a Pavia a giugno). Un interesse specifico nel quale ci siamo felicemente incontrati è il dramma satiresco, anche qualche volta con dei parziali dissensi, inevitabili in argomenti dove l’unanimismo è impossibile e dove quel che conta è la presentazione documentata e onesta delle proprie vedute. Gallo ha il merito di aver riportato l’attenzione su testimonianze vascolari, in parte ignorate, che risalgono alla seconda metà del VI secolo e che rappresentano scene satiresche: credo che l’unica divergenza fra me e lui sia il maggior valore che lui dà a queste testimonianze per la storia e la comprensione del dramma satiresco attico, quello che comincia ad essere presente nelle rappresentazioni ateniesi nei primissimi anni del V sec. ad opera di Pratina di Fliunte. Ricordo una bella relazione sua al mio seminario romano, e la ricordo come un vero successo proprio per la sua pacata disponibilità alla discussione, che non è dono di tutti e che è la condizione per lo scambio delle idee e per il progresso degli studi[4]. Lo ringraziai allora e sono felice di poterlo fare, ancor più pubblicamente, oggi.
|| [2 I cui atti sono pubblicati in F. E. Brenk – I. Gallo (ed.), Miscellanea plutarchea. Atti del 1° Convegno di studi su Plutarco, Roma, 23 novembre 1985, «Quaderni del Giornale filologico ferrarese» 8, Ferrara 1986.] [3 Gallo fu presidente della sezione italiana dal 1984 al 2005, ma fu anche presidente della società internazionale dal 1996 al 1999 (poi presidente onorario dal 2000 al 2016).] [4 In realtà Gallo, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma, non tenne un vero e proprio seminario (pomeridiano) della sola cattedra di Rossi, ma fece una “conferenza di Dipartimento” in orario mattutino Mc 1.3.1989, dal titolo di Eracle derubato e le origini del dramma satiresco attico (poi edita in Ricerche sul teatro greco, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, pp. 23–36: a p. 23 Gallo ricorda la lezione alla “Sapienza”, osservando che era
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Anche se si tratta di un campo in cui non ho né competenza né conoscenze, penso che debba qui almeno ancora menzionare la sua passione per la storia locale: persone (tante), luoghi (Salerno, il Vallo di Diano, Padula etc.), la toponomastica locale, la cultura umanistica del meridione, ma anche lavori su personalità di storia politica locale. È, questo, un campo per il quale ho un rispetto quasi religioso, perché è espressione della pietas per le proprie origini. Ma ricordiamoci anche che la storia locale è Storia con la maiuscola: Benedetto Croce cominciò la sua carriera di storico illustre scartabellando archivi locali. La storia si fa, e le si può anche cambiare volto, ricercando nelle più remote regioni del documento, e sollecitando la memoria di cose e di persone. La storia è la punta della piramide delle storie locali, che oggi, con il disordine e la dispersione (non voglio ancora dire con la scomparsa) del documento, rischiano di sorreggere la piramide in qualità di pure congetture. Non è senza profondo significato che diriga la “Rassegna Storica Salernitana” [5]. Italo Gallo è una di quelle figure di intellettuale che sociologicamente si era eclissata in questi ultimi decenni, e lui ha il merito di averla incarnata, questa figura, in tempi in cui era diventato sempre più difficile farlo. Parlo di chi, dopo studi severi, ha per anni praticato l’insegnamento scolastico al più alto livello di competenza e di passione, senza trascurare lo studio scientifico, finché i risultati di quest’ultimo gli hanno procurato il ben meritato riconoscimento accademico[6]. Queste considerazioni di storia degli studi e della pratica degli stessi devono sempre tener presenti le condizioni materiali nelle quali ci si trova a vivere e a lavorare. I suoi primi studi scientifici risalgono all’inizio degli anni sessanta, quando mancava la fotocopia, che ci rende così più facile oggi lo studio anche senza avere nel proprio luogo di lavoro una grande biblioteca: io posso immagi|| stata “seguita da un dibattito da cui ho tratto utili spunti. Un grazie cordiale vada ai colleghi A. Masaracchia e L. E. Rossi e a tutti gli intervenuti alla discussione”).] [5 Gallo nel 1984 rinnovò la pubblicazione (interrotta nel 1967) della rivista «Rassegna Storica Salernitana», assumendone la direzione. Nel 1983, peraltro, era stato il principale promotore della ricostituzione della “Società Salernitana di Storia Patria”, di cui fu presidente a partire dal 1987. Si aggiunga che dal 1980 al 2000 fu presidente della sezione salernitana della AICC– Associazione Italiana di Cultura Classica.] [6 Gallo, nato nel 1921, è stato docente nelle scuola Media e nel Liceo–Ginnasio dal 1946 al 1972 e poi preside di Liceo–Ginnasio dal 1973 al 1977 (quando andò in pensione anticipatamente in virtù del servizio militare svolto nel 1941–1946); in parallelo all’attività nella scuola ha avuto incarichi di insegnamento universitario a Salerno (nel 1969–1971 di Civiltà greca al Magistero, dal 1972 di Papirologia all’Università), divenendo quindi, per concorso, Ordinario di Letteratura greca nel 1980 (nel 1980–1984 alla “Federico II” di Napoli, nel 1984–1991 a Salerno, rimanendovi poi come fuori ruolo fino al 1996.]
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nare quanta forza di volontà, quanta capacità di organizzazione personale abbia dovuto mettere in opera chi viveva a Salerno e che, per trovare un fondo librario di tutto rispetto come a lui serviva, doveva andare almeno a Napoli. Certo, la Salerno di allora non era quella di oggi, perché la disponibilità di libri era certo molto minore e del resto sappiamo bene che ogni bibioteca è lo specchio di chi la usa e la arricchisce giorno dopo giorno. Questa figura sociologica era molto comune nell’Italia e nella Germania dell’ottocento e dei primi decenni del novecento, dandosi allora alcune condizioni che la favorivano, fra cui, oltre a una qualità della vita meno degradata e a un maggior rispetto per la classe docente, bibliografie più contenute, che spingevano a un contatto più intenso con i testi, il che ha permesso le ancor preziose raccolte di materiali del positivismo; ma c’è anche da dire che a giovarsi di queste condizioni erano pochi, che vivevano in città dotate di biblioteche filologiche ben fornite. Oggi condizioni materiali assai migliorate, grazie all’intensificarsi della comunicazione, permettono di nuovo a quella figura di riprodursi: e lo spero per molti dei nostri allievi che, in mancanza di immediato riconoscimento universitario, è da augurarsi che possano e vogliano continuare a produrre, pur impegnati in una scuola tra l’altro sempre più invasiva dal punto di vista burocratico. Ma Gallo ha fatto tutto questo proprio nei decenni in cui era più difficile farlo: lo vedo, sotto questo aspetto, uomo di un’epoca di passaggio, che ha saputo rivivere il passato e anticipare il futuro. Io sono convinto che la sua produzione scientifica sia stata alimentata più che in altri da una paziente e amorevole lettura intima dei testi antichi, l’unica che possa portare a risultati fondati e originali. Ma l’insegnamento scolastico non è stato per lui, a mio parere, un ostacolo da superare. Io l’ho conosciuto quando era già uno studioso maturo, ma da quello che apprendo dai suoi allievi di oggi, e che apprenderei dai suoi antichi allievi di liceo, mi fa capire che la scuola è stata per lui utile quanto lo è stata ai suoi allievi: gli ha dato quella concretezza e chiarezza che noi tutti ammiriamo nei suoi scritti e, in più, quell’umanità che proprio la scuola dà a chi la pratica con passione. Quel poco o tanto di chiarezza e di umanità che può venire riconosciuto nel mio stesso insegnamento è stato una conquista consentitami dal poco che ho insegnato nella scuola superiore, molto poco in realtà, due anni scarsi da supplente, ma sufficiente a darmi per l’insegnamento la prospettiva giusta: se io la abbia raggiunta o no, è importante qui affermare che per Italo Gallo quell’esperienza deve essere stata determinante. Da qui non solo il modo di insegnare e di rapportarsi agli altri, ma anche la scelta dei temi di studio, sempre vitali e mai sterili o accademici.
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Noi onoriamo oggi una personalità di studioso e di uomo che, muovendosi (per dirla con abusata ma efficace metafora) in punta di piedi, ha impresso un’orma non cancellabile nel campo dei nostri studi. Il nostro omaggio non è gratuito per due motivi: prima di tutto perché esso è più che meritato, e poi anche e soprattutto perché con esso gli chiediamo l’assicurazione, che lui onorerà certamente, di continuare a lavorare come ha sempre fatto e di continuare a offrirci i materiali e gli spunti di riflessione di cui vogliamo essergli grati anche in futuro.
Il Teocrito di Gregorio Serrao Di Gregorio Serrao parlo con commozione, per averlo avuto amico carissimo per quasi cinquant’anni e per il legame di affetto che legava le due famiglie, ivi compresi i miei due figli, che erano per lui come dei nipoti. Vorrei, prima di entrare in argomento, mettere brevemente l’accento su tre aspetti della sua personalità intellettuale e umana, che ho ben conosciuti e di cui mi sono immensamente giovato: il suo approccio ai testi, la sua vivida intelligenza e la sua calda e vibrante capacità affettiva. Quanto al suo approccio ai testi, posso dire che non credo di avere mai incontrato chi si immergesse in essi con tanta vorace passione. La sua era una lettura slow, tutt’altro che fast, che io gli invidiavo, perché è l’unica che porta a vero contatto con i testi e, avendone letti e studiati molti, era portato a scoprire rapporti intertestuali, alle volte inediti, con l’autore che aveva di fronte e che leggeva e rileggeva con amore. Fu per me il mio primo maestro: non saprei dire quanto gli debbo. Leggere e rileggere: realizzava quello che poi apprendemmo essere stato il metodo di Leo Spitzer, il Zirkel im Verstehen, il ‘circolo della comprensione’, dove a ogni rilettura si rileva uno di quelli che Spitzer chiamava i tic stilistici. Era in sostanza la vecchia observatio, parola che circolava molto allora fra noi e che, retaggio del positivismo, si rivelava strumento sempre valido di ricerca. E la sua erudizione, che rende difficile dar conto qui in dettaglio di tanti suoi lavori, non risultava mai fine a se stessa: era sempre finalizzata a un’idea importante, che gli veniva da associazioni alle volte davvero geniali. Associazioni che, in un’era pre–elettronica, non potevano essere, per lo più, se non associazioni di letture recenti o remote assimilate con pazienza e amore. L’intelligenza acuta e penetrante era un’altra delle sue qualità. L’intelligenza è in sostanza sensibilità alla gerarchia dei problemi e all’economia per risolverli: ci sono problemi più o meno importanti e, per risolverli, la soluzione più economica è sempre la migliore. Lui la cercava sempre, scartando il superfluo. La sua prontezza nell’afferrare i problemi mi colpiva sempre. Una volta tanti anni fa, per telefono, gli sottoposi tre passi teocritei in maniera del tutto neutra,
|| [Relazione di convegno (Cagliari G 28.2.2002, ore 11.30, Aula Magna della Facolà di Lettere e Filosofia) pubblicata in Giornata di studio in memoria di Gregorio Serrao, studioso di poesia alessandrina, «AFLC» n.s. 20 (57), 2002, parte I, pp. 39–49; la prima sezione era già stata pronunciata S 30.6.2001 (con piccole varianti, come risulta da un file dell’ultimo pc) come commemorazione di Serrao († 31.1.2001) in una riunione della Consulta Universitaria del Greco tenuta nella Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-033
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e, dopo una pausa di riflessione, quello che mi disse fu: “Chico mio, hai ragione!”, con la sua caratteristica ‘o’ aperta calabrese. La pausa era durata una manciata di secondi e gli era bastata per capire la mia idea e, quel che mi fece un gran piacere, per approvarla. Quanto, infine, ad amicizia e affetto sapeva offrirli in un modo che era a un tempo affabile e critico: è per questo che non gli ho mai sentito dire una vera cattiveria nei confronti di chi sapevo che gli era amico. È stato guida e amico prezioso anche per molti dei miei allievi, più e meno giovani. E questo suo modo risaltava tanto più quanto più pienamente la sua intelligenza e il suo acume si dispiegavano nei giudizi sulle cose e sulle persone. Non vi mancavano mai né un delizioso umorismo né una sovrana benevolenza nei confronti del genere umano, anche quando le sue critiche erano aspre (e sempre spiritose). Nelle polemiche scientifiche, quando difendeva un’idea alla quale era tenacemente attaccato, era accanito – direi – soprattutto nei confronti degli amici: lo abbiamo sperimentato in molti, sia in privato sia in pubblico. Era la manifestazione più schietta del suo rigore intellettuale e nello stesso tempo della sua grande passione per gli studi, che lo portavano sempre a risultati profondamente meditati: era difficile essere in grado di rimproverargli un partito preso. Mi rendo sempre più conto che – per usare un aggettivo perento – era una persona davvero delicata. Nei lunghi anni in cui ebbe a combattere con disturbi di vario tipo, nei contatti personali il tempo dedicato alle notizie sulla sua salute era sempre minimo: il che lasciava sempre largo spazio ai discorsi sugli studi e sulla situazione universitaria e accademica, oltre che politica. Mi si scuserà se, anche parlando qui di seguito dei suoi studi, continuerò a inserire molto di autobiografico: lo farò sia per ragioni emotive sia per riguadagnare alla memoria una storia degli studi vissuta per decenni in parallelo da lui e da me. Ma è ora che parli del tema assegnatomi dagli organizzatori di quest’incontro, che di nuovo, e pubblicamente, voglio ringraziare. Fra le tante cose che gli debbo, una è il mio amore per Teocrito trasmessomi dal suo. Mi domando però a quale titolo dovrò parlare proprio dei suoi studi teocritei: forse una tenue ragione può essere il fatto che io mi sento un Theocriteus descriptus, e dopo tutto i codici descripti sono sì inutili per una ricostruzione dello stemma, ma possono per avventura contenere qualche congettura indovinata. Confido che nella mia ristretta ma appassionata produzione teocritea qualche piccolo progresso si possa trovare, naturalmente sempre nell’ambito di una descriptio Gregoriana. C’è da dire, in apertura, che i contributi teocritei, tutti di grandissimo valore, sono stati per lo più ignorati dalla filologia internazionale. Da una parte
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quella filologia rivela la propria provincialità (e spesso ignora l’italiano: lo sappiamo in molti) e dall’altra va considerata anche la trascuratezza di Serrao nel propagandare i propri lavori. Se ne lamentava spesso, ma forse non ne vedeva le cause, che in parte derivavano da una sua del tutto perdonabile pigrizia e in parte certo maggiore dalla ingenua fiducia che i suoi lavori, così convincenti per tanti di noi suoi amici che ce ne servivamo e li citavamo sempre, si affermassero da sé per la loro incontestabile eccellenza. Un errore di valutazione, di cui è bene che siamo consapevoli tutti noi, specie oggi che la bibliografia, spesso irrilevante, si va accumulando a valanga. Serrao ha studiato Teocrito per più di quarant’anni, perché il suo primo lavoro, quello sul carme XXV1, che è del 1962, era la rielaborazione dalla sua tesi di laurea con Gennaro Perrotta, che era già di qualche anno prima. Ma è stato ben lontano dall’essere auctor unius auctoris. A parte la sua profonda conoscenza di tutta la letteratura dell’età ellenistica anche romana, frequentava assiduamente e ripetutamente Omero, i lirici, il dramma, con una spiccata prefenza per la poesia, che era anche mia e che derivava a tutti e due da una formazione inizialmente crociana trasmessaci da Perrotta stesso e dal Gentili di allora, che però si sentiva stretto il crocianesimo addosso, ma eravamo tutti – maestri ed allievi – vaccinati dalla filologia di Pasquali, in modo che le successive novità nell’esegesi sia storica sia formalistica ci trovarono ben attrezzati per assorbirle. Ma precisamente da Perrotta gli derivava l’interesse per la poesia alessandrina, che discendeva per li rami dalla rivalutazione di quella letteratura che era andato propagandando Wilamowitz a cavallo fra i due secoli. Un grato riconoscimento di debito e una onesta presa di distanza nei confronti dell’antico maestro ebbe modo di offrire nel 19962, quando lo si commemorò all’Accademia dei Lincei. A lui doveva comunque la chiarezza e l’efficacia del dettato, e vorrei proporne qui un paio di stilemi che mi sembrano tipici: “Intendere la figura di Lykìdas diversamente significa rinunciare ad intendere il significato del carme”3; e, ribattendo a Wilamowitz su ἑνδεκαταῖος (v. oltre), “Così tutto è chiaro, ma ad accettare questa ipotesi permane una sola difficoltà: che le parole chiarificatrici sono del filologo tedesco e non del poeta greco”4.
|| 1 G. Serrao, Il carme XXV del Corpus teocriteo, Quaderni RCCM, Roma 1962. 2 G. Serrao, Gli scritti sulla poesia ellenistica, in Giornate di Studio su Gennaro Perrotta, Roma 1996, pp. 55–71. 3 G. Serrao, La cultura ellenistica. II: Letteratura. 3. La poetica del «nuovo stile»: dalla mimesi aristotelica alla poetica della verità. Teocrito. Callimaco. Apollonio Rodio, in Storia e Civiltà dei Greci, direttore R. Bianchi Bandinelli, V 9, Milano 1977, p. 204. 4 G. Serrao, Incoerenze e imitazioni omeriche in Teocrito (X 12 e II 4, 157), Helikon 3, 1963, p. 439.
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Già quel suo primo lungo saggio sul carme XXV rivela nel metodo lo studioso che abbiamo conosciuto fino ai suoi ultimi lavori. Serrao si è lungamente maturato in silenziose letture, favorite dalle vicende della sua giovinezza, che lo hanno portato tardi alle stampe. Ci sono studiosi – e ne conosciamo – che si maturano in stampa: Serrao è maturato prima del suo opus primum. Quello che va detto di questo suo opus primum è la sua perdurante validità. Può riuscire difficile a molti studiosi giovani e meno giovani rendersi conto di quanto minore fosse allora la disponibilità di strumenti di lavoro. Per Omero c’era il vecchio index di Gehring e il lexicon di Ebeling, ma mancavano le concordanze di Prendergast–Dunbar (ristampate nel 1962). Eravamo poi in pochi, allora, a conoscere Milman Parry (1928 ss.) e la sensibilità alle formule (comunque non esaurite da Parry, e per di più già annunciate da Witte e da Meister) si otteneva nel disarmato modo di lettura spitzeriano che ho illustrato poco fa. C’era sì il grande commento di Gow (1950), ma era utile soprattutto per i realia e molto meno in campo linguistico, metrico e testuale (dove Gow stesso riconobbe l’importanza dell’edizione di Gallavotti, 11946). A questo proposito devo ricordare la sua grande passione per la linguistica indoeuropea (fu lui a farmi leggere l’Introduction di Meillet) e per la metrica eravamo tutti debitori dei lavori di Gentili e soprattutto del suo insegnamento. Quanto alla reperibilità di quello che allora esisteva, si tende oggi a dimenticare che allora non c’erano non solo le tante ristampe che poco dopo si diffusero, ma neanche le fotocopie. Perrotta, nel suo come sempre geniale studio del 1926, aveva messo in luce l’eccessivo e cattivo uso che di Omero faceva l’anonimo del XXV. Serrao andò avanti in questa direzione, arricchendo le discordanze con il Teocrito degli epilli autentici e collocando sempre meglio l’anonimo nella imitatio di Teocrito. Ma in un campo fu in grado di andare molto avanti, e cioè nella metrica recitativa dell’esametro. Io ho scoperto in lunghe conversazioni con lui sia il prezioso Wifstrand, Von Kallimachos zu Nonnos, del 1933 sia il famoso articolo sull’esametro di Hermann Fränkel (1926, 1960), che fu poi all’origine del mio (ricordo le belle chiacchierate di Gottinga nell’estate 1960)[*]. La sua meticolosa analisi metrica, fatta sulla base delle leggi dell’esametro alessandrino (leggi di Meyer I–II–III; di Tiedke etc.)5 lo portò a risultati sempre più stringenti. Quanto alla || [* Rossi e Serrao nell’estate del 1960 si erano recati insieme a Göttingen soggiornandovi poi per alcuni mesi. I saggi di H. Fränkel cui si allude sono Der kallimachische und der homerische Hexameter, «NGG» 1926, pp. 197–229, e Der homerische und der kallimachische Hexameter, in Wege und Formen frühgriechischen Denkens, München 1955, pp. 100–156 (19602, 19683); il lavoro sull’esametro di Rossi è Estensione e valore del ‘colon’ nell’esametro omerico, in B. Gentili (ed.), Scritti in onore di Gennaro Perrotta, «StudUrb» 39, 1965, pp. 239–273. – G. C.] 5 G. Serrao, Il carme XXV del Corpus teocriteo, Quaderni RCCM, Roma 1962, p. 21 ss.
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sua sensibilità linguistica, ricordo le belle pagine sugli avverbi in –ως6, dove si rivela l’acume di chi sa valutare la produttività linguistica di un’epoca così lontana dal modello omerico: un fatto spontaneo di lingua, tanto spontaneo da sfuggire al controllo di un imitatore, l’anonimo, che per di più era troppo pedissequo e proprio per questo, in fondo, infedele. Il carme XXV, non autentico, è un epillio. Avendo avuto ora l’occasione di rileggermi tanti dei suoi lavori (specialmente Teocrito: poetica e poesia)7, non posso fare a meno di notare che affiorò, nel seguito, una sua valutazione del genere epillio che non dà ad esso quella qualifica di assoluta novità letteraria che merita invece la poesia bucolica. Apollonio è epico del ‘libro’ concepito come grande opera unitaria, dell’epica grande, del μέγα βιβλίον, così com’erano stati visti l’Iliade e l’Odissea da Aristotele, ma in realtà già da Pisistrato e poi da Ipparco con la sua organizzazione ἐκ διαδοχῆς per le recitazioni. Io penso (e non potrò mai più discuterne con lui) che la ripresa dell’epos per episodi non era in Teocrito naturalmente una ripresa consapevole di quello che io credo essere stato l’epos originario, e cioè un diffuso arcipelago di narrazioni singole (nozione di cui si era persa traccia), quanto piuttosto il legame con una ancora fluida divisione in canti non sempre corrispondenti agli episodi, come ci è testimoniata dal finale dell’Odissea considerata autentica fino a metà di un canto, a 23. 296. Il problema del momento della divisione in canti resta ancora aperto: tanti anni fa (1968)[*] credetti di trovare una implicita ma chiara presa di posizione metaletteraria nell’opera stessa di Apollonio in favore della non omericità del finale dell’Odissea (e aggiungerei per es. il caso dell’Eneide omerica divisa fra Il. 20 e 21), il che farebbe ritardare, rispetto ad Apollonio stesso, la divisione in libri. Per Teocrito narrare l’epos a episodi doveva essere fatto normale, tanto che un autore economico come lui – spero di averlo mostrato in un mio recente articolo sullo Pseudo–VIII[**] – sentì il bisogno di presentarlo mescolato con altri generi (soprattutto motivi bucolici, particolarmente ‘suoi’, ma anche epistola
|| 6 Id., p. 28 ss. 7 G. Serrao, Teocrito: poetica e poesia, in La letteratura ellenistica. Problemi e prospettive di ricerca, Quaderni di SemRom 1, Roma 2000, pp. 45–61, in particolare p. 51 ss. [* L. E. Rossi, La fine alessandrina dell’Odissea e lo ζῆλος Ὁμηρικός di Apollonio Rodio, «RFIC» 96, 1968, pp. 151–163.] [** L. E. Rossi, Origini e finalità del prodotto pseudoepigrafo. Pseudoepigrafia preterintenzionale nel Corpus Theocriteum: l’idillio VIII, in G. Cerri (ed.), La letteratura pseudoepigrafa nella cultura greca e romana. Atti di un Incontro di studi, Napoli 15–17 gennaio 1998, «AION(filol)» 22, 2000, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 2000, pp. 231–261, con discussione a pp. 263– 272.]
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poetica, inno, dramma, tono serio–comico)8 per imprimervi il suo suggello, necessario per farsene riconoscere autore. Nella poesia bucolica invece, che era nuova e non aveva bisogno di ulteriori ‘segnali’ o ‘marchi personali’, la mistione era per lo più con il mimo, parente stretto per la comune appartenenza realistica in toto. Su questo tornerò fra poco. Uno dei suoi articoli più fortunati è Incoerenze e imitazioni omeriche in Teocrito (X 12 e II 4, 157), su ἑνδεκαταῖος e δωδεκαταῖος9. Qui la soluzione di due apparenti aporie teocritee (2. 4, 157; 10. 12) viene risolta con ancora non osservati richiami omerici. Sono sicuro che un Serrao di qualche tempo dopo si sarebbe almeno proposto, per le due cifre (11 e 12), di cercare le origini di un’antropologia numerica. Le Note teocritee di Cagliari10 sono quattro gioielli di critica testuale e di esegesi: ricordo qui l’acuto rilevamento (p. 58 ss.), nel finale del XIII, dell’ironia teocritea su Eracle che a piedi raggiunge il Fasi con un confronto stupendo con l’Eracle della Gerioneide di Stesicoro, che va a piedi, ma senza ironia11. C’è, a p. 61, la prima idea della ἁσυχία, che sarà tema abbondantemente sviluppato in seguito, come vedremo. In L’idillio V di Teocrito: realtà campestre e stilizzazione letteraria (1975), abbiamo uno dei suoi lavori più importanti, appunto quello sull’idillio V12. Qui Serrao, attraverso uno studio minuto dello scambio agonale, riesce a trovare un senso realistico alla vittoria di uno dei due contendenti con una intuizione felice, ma preparata con puntiglio proprio da quello studio minuto. Non riusciva ad accettare quel troppo letterario ‘mascherato pareggio’ che poco prima avevo proposto io (e non mancai di dargli in seguito ragione, anche in stampa)[*]: un idillio così realistico non poteva, secondo lui, concludersi in modo così artificio|| 8 Su cui v. Id., specialmente p. 58 s. 9 G. Serrao, Incoerenze e imitazioni omeriche in Teocrito (X 12 e II 4, 157), Helikon 3, 1963, pp. 437–447. 10 G. Serrao, Note teocritee, QIFGC 3, 1968, pp. 53–61. 11 Se n’era occupata anche M.G. Bonanno, da lui citata in Teocrito: poetica e poesia, in La letteratura ellenistica. Problemi e prospettive di ricerca, Quaderni di SemRom 1, Roma 2000, p. 56. 12 G. Serrao, L’idillio V di Teocrito: realtà campestre e stilizzazione letteraria, QUCC 19, 1975, pp. 73–109. [* Rossi aveva proposto il ‘mascherato pareggio’ in Vittoria e sconfitta nell’agone bucolico letterario, «GIF» n.s. 2 [23], 1971, pp. 13–24; diede poi ragione a Serrao nella sua Letteratura greca, Firenze, Le Monnier, 1995, p. 613 (“La vittoria va a Comata, e sembra che la motivazione sia reale, nascosta nelle pieghe di complesse corrispondenze e opposizioni tematiche fra botta e risposta, e proprio queste corrispondenze e opposizioni erano la regola dell’agone reale”). – G. C.]
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samente letterario, e aveva ragione. Costruì quello schema di responsioni orizzontali e verticali che tutti abbiamo ammirato, e ne risultò alla fine una trascuratezza di responsione che ben giustificava la sconfitta. La visione di Teocrito in Wilamowitz e in Perrotta era quella di un poeta letteratissimo, che mediava fortemente fra la realtà e gli elementi realistici trasferiti nelle composizioni, mentre Serrao ebbe sempre una sensibilità particolare per quegli elementi realistici stessi e trasferì quella sua sensibilità nell’approccio a un poeta letterato, sì, ma soprattutto realista, approccio che non sentì mai il bisogno di giustificare con etichette di metodo alla moda, ben sapendo che quello che faceva era giusto. Quella sensibilità al realismo di fondo gli veniva dalla sua Calabria natale e dal lungo soggiorno in Sardegna, tutte e due terre che hanno conservato e conservano ancora elementi tradizionali arcaici e autentici da lui utilizzati più volte per confermare su piano etnologico le sue esegesi. Va ribadito che la comparazione etnologica si fa strada piano piano, senza rumore teorico, certamente favorita dalla prossimità cagliaritana di persone egregie, che in quegli anni facevano di questa città uno dei centri più vivaci di cultura universitaria. Sempre più evidente è l’intenzione di scoprire, dietro il livello letterario di un letteratissimo, le esperienze che quella realizzazione letteraria avevano ispirato. In La poesia bucolica: realtà campestre e stilizzazione letteraria13 richiama, per la rispondenza agonale, la istèrria e la torrada sarde e tante altre volte (ne ricordo molte in Teocrito e una in Callimaco) si è richiamato a esperienze calabresi vissute in diretta. Ma di questo riparleremo alla fine. Si può davvero dire che Teocrito e il suo realismo è stato per Serrao il centro da cui si è irradiato il suo interesse per la letteratura greca in generale, che lui ha saputo leggere per differentiam e per similitudinem. Nella seconda categoria devo includere il suo splendido articolo La parodo del Ciclope euripideo14, che prende in esame gli aspetti realistici di quel mondo pastorale come sono presentati dall’autore, con tante consonanze teocritee da una parte e calabresi dall’altra. Sul realismo in letteratura, che è stata una sua costante, si è scritto molto, ma pochi come lui hanno saputo riconoscere nei vari casi da lui presi in esame quel distacco fra realtà e realismo che è la stilizzazione letteraria e che può raggiungere anche livelli minimi: erano questi i testi da cui era più attirato, sempre tenendo presente il contenitore letterario e le sue convenzioni.
|| 13 G. Serrao, La cultura ellenistica. II: Letteratura. 2. La poesia bucolica: realtà campestre e stilizzazione letteraria, in Storia e Civiltà dei Greci, direttore R. Bianchi Bandinelli, V 9, Milano 1977, p. 183, 25. 14 G. Serrao, La parodo del Ciclope euripideo, MCr 4, 1969, pp. 50–62.
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Questo approccio alla poesia non solo teocritea fu il raggiungimento di una maturità che lo accompagnò in tutta la sua produzione successiva. Nell’articolo La poetica del «nuovo stile»: dalla mimesi aristotelica alla poetica della verità15, dopo la ripresa dell’Idillio V, offre un’analisi per me definitiva della figura di Licida nel VII, che lo porta, molto oltre al fondamentale articolo di Puelma, a chiarire il valore programmatico dell’idillio sostanziato anche di consuntivo retrospettivo: ‘io sono l’inventor della poesia bucolica, che ho già praticata con successo, e vengo ora investito da un pastore, Licida’. Anche qui analisi minuziosa, anche qui puntigliosa, volta a riscattare dall’abusata ‘mascherata bucolica’ un quadro che è tutt’altro che salottiero. Ed è qui che emergono due intuizioni fondamentali: quella di ἀλάθεια e quella di ἁσυχία. Cito la formulazione lapidaria di p. 220, che torna anche altrove (e lo merita)16; L’antitesi tra premesse realistiche e tendenza idealizzante rendeva quanto mai difficile e instabile quell’equilibrio che soltanto Teocrito, con la sua arte raffinatissima, aveva saputo creare e mantenere (ἀλάθεια / ἁσυχία). Dopo Teocrito l’equilibrio si rompe. La visione della natura perde la sua forza originaria: il paesaggio, non meno della lingua, diventa povero e convenzionale: i pastori di Teocrito si trasformano in “pastori da salotto” e talvolta, peggio ancora, in letterati ciarlieri travestiti da pastori: nasce così la “mascherata bucolica” e il genere bucolico diventa soprattutto poesia di evasione.
Non mi soffermerò su vari altri lavori teocritei: quello su Alfesibeo e Alfesibea in Teocrito e Virgilio17 né su alcune voci minori dell’Enciclopedia Virgiliana18. Ma una voce maggiore, il Teocrito19, è una preziosa sintesi di lavori anteriori, dove troviamo la più precisa e informata storia del testo (trattata anche altrove)20, evidentemente finalizzata allo scopo, che era quello di presentare al lettore la situazione editoriale che Virgilio aveva di fronte. E gli fu facile contro-
|| 15 G. Serrao, La cultura ellenistica. II: Letteratura. 3. La poetica del «nuovo stile»: dalla mimesi aristotelica alla poetica della verità. Teocrito. Callimaco. Apollonio Rodio, in Storia e Civiltà dei Greci, direttore R. Bianchi Bandinelli, V 9, Milano 1977, pp. 200–253. 16 G. Serrao, La genesi del poeta doctus e le aspirazioni realistiche nella poetica del primo ellenismo, in Studi in onore di A. Ardizzoni, Messina 1978, p. 928. 17 G. Serrao, Modello epico e nome bucolico: ‘Alfesibea’ ed ‘Alfesibeo’ in Teocrito e Virgilio, in La lirica greca da Archiloco ad Elitis. Studi in onore di Filippo Maria Pontani, Padova 1984, pp. 213– 218. 18 Si tratta delle voci Alfesibeo, Amarillide, amebeo, Aminta, in Enciclopedia Virgiliana, I, 1984, rispettivamente alle pp. 94–95, 122–123, 133–134 e 137–138. 19 G. Serrao, Teocrito, in Enciclopedia Virgiliana, V, 1990, pp. 110–118. 20 G. Serrao, Teocrito, in Dizionario di Scrittori Greci e Latini, III, Settimo Milanese 1987, p. 2186, n. 3.
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battere l’assurdo approccio numericistico di Irigoin[*], che non aveva fatto i conti con quanto era caduto, nella tradizione manoscritta, dei distici elegiaci dell’VIII: ricordo con quanta prontezza polemica reagì a quell’articolo appena letto. Un argomento che per anni gli stette a cuore fu quello della recusatio– excusatio21, che fu anche oggetto di una relazione al mio seminario romano[**]. Non mancò di polemizzare con molti amici, anche aspramente. La sua linea era quella di rivendicare a Teocrito e a Callimaco quello che a molti era sembrato un espediente metaletterario tipicamente romano e mise a utile confronto le recusationes–excusationes, di molto anteriori, di Teocrito nel VII e di Callimaco nel prologo degli Aitia. Considerando i suoi ultimi lavori, si nota un intensificarsi del richiamo etnologico a giustificazione del realismo. Mi riferisco a quel lavoro su Calpurnio Siculo e Teocrito XIII22, dove l’aggancio realistico è di nuovo calabrese e si presenta come memoria vissuta del comportamento della chioccia e dei pulcini (p. 73). Segno di passione locale è la rivalutazione in chiave etnologica dei versi di un poeta dialettale calabrese dell’ottocento, Giuseppe Monaldo23, che lo porta a rileggere Saffo, Teocrito e Virgilio. Ricordo qui “la festa del grillo” a Firenze nel giorno dell’Ascensione, a proposito dei grilli canterini in Theocr. VII e nell’Antologia24. È con Teocrito: poetica e poesia, scritto per il convegno romano sulla poesia ellenistica25, che Serrao ci offre il suo purtroppo ultimo lavoro, ricco di novità presentate nel quadro della sua visione di Teocrito. È qui che trovo pienamente
|| [* J. Irigoin, Les bucoliques de Théocrite. La composition du recueil, «QUCC» 19, 1975, pp. 27– 44.] 21 G. Serrao, All’origine della recusatio–excusatio: Teocrito e Callimaco, Eikasmos 6, 1995, pp. 141–152, cfr. Teocrito: poetica e poesia, in La letteratura ellenistica. Problemi e prospettive di ricerca, Quaderni di SemRom 1, Roma 2000, p. 45 ss. [** Serrao presso il seminario di Rossi (Roma “La Sapienza”), G 1.2.1996 ore 16–18, parlò di Un’interferenza concettuale in Callimaco (fr. 1. 9 Pfeiffer). – G. C.] 22 G. Serrao, Calpurnio Siculo V 64s. e Teocrito XIII 12s., in Munuscula Minuscula, Roma 1997, pp. 69–74. 23 G. Serrao, «Filologia» ed «Antropologia culturale»: motivi dell’antica poesia greca in un poeta dialettale calabrese dell’ottocento, RCCM 41, 1, 1999, pp. 67–73. 24 G. Serrao, All’origine della recusatio–excusatio: Teocrito e Callimaco, Eikasmos 6, 1995, p. 147. 25 G. Serrao, Teocrito: poetica e poesia, in La letteratura ellenistica. Problemi e prospettive di ricerca, [Atti del Colloquio Internazionale, Università di Roma “Tor Vergata”, 29–30 aprile 1997], Quaderni di SemRom 1, Roma 2000, pp. 45–61.
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centrata la sua valutazione dell’epillio, di cui parlavo prima. Ma, per una sintesi, credo che sia meglio cedere la parola a lui (p. 59): Il ‘bucolico’ che Teocrito inserisce in questi carmi [e cioè in quelli non bucolici] rappresenta il suo personale sigillo, il marchio inconfondibile che egli intende imprimere alla sua poesia. E non è solo perché della poesia bucolica si ritiene l’εὑρετής, il primus ego, ma soprattutto perché ritiene la poesia bucolica adatta alle sue capacità letterarie e conforme alle sue inclinazioni ideali. Il mondo bucolico, seppure idealizzato, incarna per Teocrito quell’aspirazione all’ἁσυχία che contemporaneamente teorizzavano le scuole filosofiche del tempo e in particolare quella epicurea. Perciò Teocrito, pur partendo da premesse realistiche e qualche volta da una realtà quasi documentaria, tendeva inevitabilmente ad idealizzare i pastori e la loro vita.
In questo ultimo lavoro Serrao ci ha configurato un Teocrito arricchito. Dopo una vita intera passata a rintracciare elementi realistici, ecco che ci avverte che questi, insieme con la intera produzione bucolica, erano un mezzo per un fine, e il fine risulta essere stato una espressione profonda di se stesso. Qui ritorna, non rinominata, quella ἀλάθεια del V, di cui ho accennato sopra e che io in realtà ho sempre intesa come propensione al realismo, ma che Serrao26 aveva intesa come fedeltà al proprio ethos di poeta bucolico, senza però liberarci del tutto da un lieve senso di ambiguità, perché questa interpretazione risulterebbe un po’ in bilico rispetto alla vocazione ‘veritiera’ che Serrao sostiene in Callimaco. Ho parlato di ambiguità lieve, perché le due esegesi sono ampiamente conciliabili perché complementari: il poeta bucolico voleva e doveva essere realista, ma d’altra parte non poteva celare il suo amore per quella realtà, che sentiva aderente alla propria natura. Non ce l’aspettavamo, in un autore alessandrino, questa propensione per una sia pur pregnante espressione di se stesso come una dichiarazione di appartenenza a una filosofia così piena di richiami etici come quella di Epicuro (da cui la ἁσυχία, una delle più belle scoperte di Serrao): direi che quello che fa rientrare il suo Teocrito nei ranghi di una poesia prevalentemente volta all’esterno, e sempre così pudica del sé, è proprio quella tenace pregnanza, che fa sì che sotto la sottile allusività di questo diabolico maestro della comunicazione letteraria ci siano ancora, io credo, molte novità da scoprire con ulteriori letture che prendano esempio da Serrao. Qualunque sia il valore che si voglia dare ad ἀλάθεια, o pratica del realismo oppure fedeltà alla propria
|| 26 G. Serrao, La cultura ellenistica. II: Letteratura. 3. La poetica del «nuovo stile»: dalla mimesi aristotelica alla poetica della verità. Teocrito. Callimaco. Apollonio Rodio, in Storia e Civiltà dei Greci, direttore R. Bianchi Bandinelli, V 9, Milano 1977, p. 220 e La genesi del poeta doctus e le aspirazioni realistiche nella poetica del primo ellenismo, in Studi in onore di A. Ardizzoni, Messina 1978, p. 928.
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vocazione, la messa in primo piano di quest’ultima mi appare una forma di interiorizzazione di Teocrito come personaggio e quasi di identificazione con lui da parte di Serrao. Chiudo – riprendendo ad anello dall’inizio – col ricordo del suo entusiasmo e della sua passione per i suoi testi. Molti di noi lo avranno sentito recitare con voce a suo modo impostata tanti versi teocritei, che attraverso di lui ci sono rimasti nella memoria. Voglio ricordarne uno solo, che grazie alla sua resa mi fulminò per la straordinaria, inaudita novità di trattamento dell’esametro, così singolarmente lontano – col suo pathos– dall’ethos del verso omerico27 (1.66): πᾷ ποκ’ ἄρ’ ἦσθ’, ὅκα Δάϕνις ἐτάκετο, πᾷ ποκα, Νύμϕαι;
Questo suo approccio, che definisco umanistico nel senso del vero piacere del testo, era il punto di partenza per una successiva severa indagine storico– filologico–critica, e quella indagine era anche il punto dal quale tornare al godimento di un testo chiarito e arricchito. Fortunati, ma anche saggi, quelli di noi che riescono a realizzare un tale percorso almeno ogni tanto. Se ho ragione ad attribuirgli, nella sua interiorizzazione di Teocrito, una sua presumibile simpatetica identificazione in lui, avremmo un altro tratto, ben più avanzato, di approccio umanistico, e possiamo ben perdonargli questo spontaneo e vitale tradimento umanistico del metodo storico, visti i frutti che ha portato proprio nella filologia e nella storia e di cui tutti ci siamo giovati. L’approccio umanistico è un momento insopprimibile del nostro commercio con i testi perché è l’espressione di una passione che è l’unica garanzia contro l’arida erudizione filologica.
|| 27 G. Serrao, Il carme XXV del Corpus teocriteo, Quaderni RCCM, Roma 1962, p. 66.
L’approccio di Marcello Gigante al mondo antico Sento il bisogno di ringraziare con molto calore chi ha voluto che io parlassi qui tra voi di Marcello Gigante. E desidero che il mio rispettoso ma amichevole saluto vada soprattutto alla vedova, la Professoressa Valeria Lanzara Gigante, che ha avuto il privilegio di passare con lui una vita piena di soddisfazioni e, credo, anche di fatiche largamente condivise. Marcello Gigante è mancato il 23.11.2001 all’età di 78 anni: oggigiorno da madre natura ci si poteva aspettare più di qualche anno in più. Si è laureato a Napoli a 21 anni e perfezionato a 22. Ancora molto giovane, nel 1956–57, è andato in Germania, a Bonn, con una prestigiosa borsa della Fondazione Humboldt: allora non era come oggi, perché i contatti con l’Europa erano assai meno intensi e, per sprovincializzarsi dall’Italietta del dopoguerra, ci voleva volontà e coraggio. Ha insegnato Filologia bizantina all’Università di Napoli dal ’53 al ’60; dal ’60 al ’68 a Trieste; nel ’68 è tornato alla sua Napoli, dove fino al ’95 a Napoli, alla Federico II, ha insegnato Grammatica greca e latina e poi Letteratura greca, ma ha poi continuato a dirigere il Dipartimento fino al ’98, raggiunta l’età del pensionamento. Gigante è stato una personalità poliedrica e pressoché onnipresente nella storia degli studi classici degli ultimi decenni: e questo non solo come studioso di tavolino, il cui campo d’interessi ci prenderebbe ore solo per una elencazione; non solo come docente prima di scuola secondaria e poi universitario, che ha affascinato e formato generazioni di studiosi; ma anche come animatore di una serie di iniziative assolutamente uniche nel loro genere e delle quali non potremmo oggi fare a meno. Questo ampio raggio di attività poteva caratterizzare una persona di energie eccezionali ma anche di un entusiasmo eccezionale che quelle energie ha dirette e rese utili. Senza la sua presenza, che si è fatta sentire per decenni, il panorama dei nostri studi sarebbe più povero. A questo punto mi chiedo, guardando con tutta l’attenzione di cui sono capace a questa enorme attività di studioso, di docente e di organizzatore, a quale titolo mai io possa darne un’idea a coloro che oggi mi ascoltano. In pochi fra i campi di cui lui si è occupato io posso dire di avere una certa familiarità; poche volte, pur significative, ho avuto occasione di sentirlo ex cathedra; e infine, di fronte alle istituzioni scientifiche che lui stesso ha fondato o rifondato, io sono
|| [Commemorazione di Marcello Gigante (20.1.1923 – 23.11.2001) preparata per essere letta a Santa Severina S 29.3.2003. — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; cura del testo di Giulio Colesanti] https://doi.org/10.1515/9783110648140-034
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stato tacito ammiratore e qualche volta ne sono stato privilegiato ospite. Ma credo di aver conosciuto lui come persona, nei tanti anni di contatti sempre fruttuosi: ed è come tale che vorrei ricordarlo, consapevole del fatto che uno studioso non è una macchina che produce semplicemente per una carica astratta, ma è un uomo che decide di darsi a un’attività e a quella dedica le sue forze e le dirige spinto da un atto d’amore che dà autenticità al suo agire. Se c’è un’attività che è soggetta a un difficile confronto fra le esigenze intellettuali e quelle della vita di ogni giorno, questa è proprio la scienza, la scienza pura: e mi domando a quali fonti di energia umana si sarebbe appellato oggi Marcello Gigante, oggi che gli studi disinteressati in generale, e soprattutto le nostre discipline, trovano ostacoli di ogni genere, fra cui il primo è il disinteresse di chi dovrebbe promuoverle. Sono sicuro che sarebbe stato capace di frenare questa decadenza con la sua vitalità e la sua capacità di aggregare forze di ogni tipo intorno a progetti, a reazioni, a iniziative: è questa una delle tante ragioni per cui dobbiamo rimpiangerlo oggi più che mai. Ecco: alla fine risolvo il mio imbarazzo coll’appellarmi a quell’unico titolo, di cui sono fiero, e cioè la sua stima e la sua amicizia, di cui mi ha dato negli anni molte prove. Non posso qui dar conto in dettaglio dell’enorme produzione di Gigante, per ragioni sia di tempo sia di competenza. Cercherò di presentarvela in scorcio, concedendomi di necessità alcune scelte personali, e cominciando da una considerazione preliminare. Tutti noi sappiamo che cosa è stato l’Umanesimo italiano del Quattrocento e del primo Cinquecento: è stato la prima ripresa di contatto con i grandi testi delle due letterature greca e latina, con una adorazione dei testi in sé, senza troppe preoccupazioni di indagare il contesto storico di quei testi: erano (e sono anche per noi) belli, splendidi e hanno portato quei grandi intellettuali a identificarsi con essi e con gli autori. Pensate a Machiavelli, che la sera si ritirava in casa e, con abiti curiali, si leggeva i classici. Tutto questo portò a formare un canone di autori grandi e grandissimi, dai quali raramente si usciva. L’approccio umanistico è peraltro una categoria eterna dell’animo umano: è un affrontare il testo per il puro piacere del godimento del testo stesso, senza filtri. Io lo pratico ogni tanto, e dico agli allievi di praticarlo anche loro, magari la domenica: ma poi non dobbiamo dimenticarci che siamo storici e che ogni testo va inserito nel suo momento storico. Ebbene: anche Marcello Gigante avrà ogni tanto praticato questo approccio umanistico, non so in quale giorno della settimana, per procurarsi un godimento puro: ma poi, per studiare e per scrivere di filologia e di letteratura, si richiamava alla sua solida formazione storicistica che lo faceva risalire, lui per di più di formazione napoletana, al magistero storicistico di Giambattista Vico. Il suo canone di autori, peraltro amplissimo, è
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tutt’altro che umanistico: è un canone che comprende anche testi ingrati e difficili, spesso mutili, che lui ha letti, esplorati, capiti, corretti, restaurati con una vigilanza storica che costa fatica, ma che è l’unica via per produrre qualcosa che abbia valore scientifico. Il resto, al di là del piacere personale, sono amabili chiacchiere, e lui non ne ha mai fatte. Il libro che lo ha portato alla ribalta degli studi è stato Nomos basileus del 1956 (premiato dall’Accademia dei Lincei), libro che lessi da studente (una seconda edizione è del 1993, con un’appendice): partendo da un enigmatico passo di Pindaro, ha tracciato una storia di quello che, nei vari momenti, ha significato per i greci la legge. Negli anni ’50 aveva ancora fortuna il cosiddetto Terzo Umanesimo di Werner Jaeger, che assolutizzava categorie astratte come la paideia, la formazione educativa: Gigante se ne è salvato trattando la legge come fenomeno storico e quindi mutevole nel tempo (in poche parole: dalla sacralità alla valenza laica). Una scelta certo non umanistica, ma storicamente nutrita, è stata la sua attività, continua negli anni, di studioso della cultura bizantina. Qualcuno (non ricordo chi) disse una volta che nel bizantino – scandalo! – quasi tutte le preposizioni reggono l’accusativo (ecco un esempio di puro atteggiamento classicistico–umanistico, e cioè antistorico). Già: sarebbe un po’ come dire che l’italiano non vale nulla perché non ha più le declinazioni latine. In realtà tutto quello che abbiamo di greco antico, a parte i papiri, ha viaggiato nel tempo attraverso la cultura bizantina, che va capita nella sua specificità, per di più cristiana. In questo campo Gigante ha speso molte delle sue energie, non contentandosi di pubblicare, tradurre e commentare testi, ma rappresentando degli interi ambienti culturali. Ricorderò un’opera giovanile, Poeti italo–bizantini, del 1953, dove si sente anche una pietas locale, l’interesse per il Sud d’Italia, ispirazione sempre attiva in lui, seguita da molti altri lavori, aperti al bizantinismo propriamente bizantino, cioè costantinopolitano: la traduzione di Massimo Planude del Somnium Scipionis di Cicerone, studi sul Panormita, su Demetrio Mosco, l’opuscolo XVII di Teodoro Metochita in edizione princeps (1965). L’altro versante è rappresentato da Cultura latina a Bisanzio (1962, 1976), che si propone un tema sempre attuale anche oggi, i rapporti fra Oriente bizantino e Occidente romano. Scelte eminentemente storiche sono l’edizione delle Elleniche di Ossirinco (1949) e i numerosissimi contributi e studi alla Costituzione degli Ateniesi dello Pseudo–Senofonte. Nella scelta giovanile dello storico di Ossirinco vedo già in nuce la passione papirologica, che lo avrebbe portato in anni successivi a dedicare tanto di sé alla papirologia ercolanese.
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Ma vediamo le sue scelte più precisamente letterarie. Direi che ogni testo letterario che affrontava doveva avere qualche legame forte con la storia, la sociologia, la filosofia, l’ambiente in generale. Ho in mente due libri che non solo mi sono piaciuti, ma che mi sono stati molto utili, tutti e due del 1971. L’edera di Leonida è una monografia su Leonida di Taranto, poeta del III sec. a. C., la cui produzione è dedicata in gran parte alle classi umili: famosi erano anche in antico i suoi epigrammi dedicatori di strumenti di lavoro di artigiani, marinai, contadini e specie di pescatori. Qui Gigante è al suo meglio: l’indagine sociologica e di ambiente lo appassiona; senza contare che Leonida ha una sua visione pessimistico–cinica della vita, e dell’interesse di Gigante per la filosofia si è già detto e si dirà di nuovo. Ancora più interessante, e per me ancora più utile, è stato Rintone e il teatro in Magna Grecia, un lavoro in un campo in cui Gigante è stato ineguagliato maestro e di cui si era occupato prima e di cui si occupò anche dopo questo libro fondamentale. Centrale è il problema della farsa fliàcica, a noi nota soprattutto dalle testimonianze di vasi italioti. Viene qui dimostrato, attraverso un’analisi minuta delle testimonianze vascolari e dei pochi frammenti, che si tratta di un genere locale, pur se fa riferimento alla tragedia attica, messa costantemente in parodia. In questo lavoro si realizza un’unione troppo spesso ignorata: l’integrazione fra la documentazione letteraria e quella archeologica, che è un fattore fondamentale per ricostruire un intero ambiente culturale, esigenza – non dovrei aver bisogno di ripeterlo – sempre sentita e realizzata da Gigante. Non ci resta che ammirare quella che chiamerei vera e propria agilità intelletuale. Anche qui una scelta non umanistica e nettamente storicistica, motivata da un forte interesse per il mondo italico. Civiltà delle forme letterarie nell’antica Pompei, che è del 1979, è un altro esempio di questa integrazione, che permette una visione d’insieme dell’archeologia e delle forme più o meno letterariamente connotate come i graffiti. Vengo ora alla sua produzione filosofica. L’attenzione alle fonti lo portò a compiere un lavoro di largo respiro, come il Diogene Laerzio di Laterza tradotto e commentato (che ha varie fasi editoriali con rinnovate cure: 1962, 1983, 1998): e senza numero, anteriori e successivi alla prima edizione, sono i contributi a questo prezioso autore in forma di note esegetiche e testuali e visioni d’insieme (ricordo la sintesi storico–critica in ANRW 36.6 del 1992 sul decimo libro, quello dedicato a Epicuro e all’epicureismo). La vocazione per Filodemo risale ad anni lontani, a cinquant’anni fa almeno. I lavori su Parmenide e Velia, su Epicureismo, Stoicismo e Scetticismo si affiancano con continuità all’attività del Centro per lo studio dei papiri ercolanesi, di cui parleremo fra poco. Innumerevoli sono i suoi contributi sulla rivista del centro, le “Cronache ercolanesi” e su “Elenchos”, la rivista che consacrò la collaborazione fra lui e il compianto Gabriele
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Giannantoni, mio compagno di studi e vecchio amico. Il tentativo di estorcere informazione dagli avari papiri ‘neri’ (così li chiamammo in una visita memorabile al Centro in cui Marcello guidò me e mio figlio decenne) ha portato molte volte a esiti più che apprezzabili. E Filodemo è risultato, proprio in seguito alla sua recuperata dimensione storica anche in senso quantitativo, un personaggio di grande rilievo. Sono grato alla Signora Valeria per l’invio di un prezioso inedito del marito, Il libro degli epigrammi di Filodemo, Napoli (Bibliopolis) 2002, che contiene tutti gli epigrammi, compresi quelli già in antecedenza studiati e tradotti, con un essenziale commento, l’ultimo lavoro del marito da lei pubblicato postumo, dove compare tra altro un lavoro del 1998, che qui porta il titolo Per la storia della debarbarizzazione di Filodemo, dove la figura del filosofo– scrittore viene opportunamente rivalutata rispetto a chi voleva farne un barbaro orientale (Gadara di Siria gli aveva dato i natali) che non sapeva di greco, almeno quando scriveva in prosa. Gigante giustamente lo riabilita in pieno, passando in rassegna i vari esponenti della critica, e propone una rilettura dell’opera filosofica (p. XXVII) per distinguere stile dossografico (dove Filodemo “si fa storico leale di dottrine altrui”) e stile polemico, che ricorre ad altri registri. La storia del vituperato Filodemo teorico è davvero divertente. D’altra parte anche qui non si è lasciato sfuggire l’occasione di presentare un quadro della cultura romana come contesto di questo dotto e ricco signore stabilitosi a Ercolano: l’epicureismo latino è stato un fenomeno culturale che ha segnato l’identità di Roma. E al progetto di continuazione degli scavi ad Ercolano Gigante ha dedicato molte delle sue energie negli ultimi anni (ne ha parlato anche la stampa) ed è un vero peccato che lui ora non ci sia più. È ora proprio qui, in un campo centrale della sua attività, che non mi faccio scrupolo di fermarmi: troppo materiale suo, troppe problematiche che sfuggono alla mia competenza. Ma va detto ancora che, oltre ai lavori suoi, specie in questo campo, non si contano i lavori di altri da lui proposti, avviati, seguiti e pubblicati. La bibliografia di un vero maestro, per grande che sia, è superata da quella di chi gli deve poco o, più spesso, molto. Vorrei almeno, in questa mio lacunoso panorama, ricordare alcuni degli autori a cui ha dato contributi testuali o esegetici nelle sue più o meno fulminee note o in lavori di più ampio respiro: Esiodo, Archiloco, Epicarmo, Eschilo, Antimaco, Menandro, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio e tanti altri. Gigante era perito in utroque, qualità che diventa sempre più rara proprio per la segmentazione dell’insegnamento, funesta per le nostre discipline. Numerosi sono i suoi contributi alla storia dei nostri studi. Valutazioni di studiosi del passato e ritratti di studiosi contemporanei, che comprendevano anche la pubblicazione di inediti: ricorderò le lettere di Omodeo a Croce (1975–
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76), i rapporti Croce–Valgimigli e Croce–Momigliano. Permettetemi di elencare disordinatamente, dalla sua galleria di ritratti, alcuni studiosi e non solo studiosi, per cui comincio dai numerosi scritti su Quasimodo e passo poi a Winckelmann, Vico, Pfeiffer, Wilamowitz, Usener, l’editore Teubner, Festa, Vitelli, Nietzsche, Pasquali, Perrotta. E non è tutto, perché in questo elenco mancano alcuni studiosi legati a lui da fraterna amicizia, fra cui ricorderò ora solo Domenico Mustilli. Molte sono poi le sue commemorazioni di amici scomparsi. Un posto a parte merita l’attività su Leopardi, per ovvie ragioni napoletano come Virgilio: la contiguità nella morte e tanti aspetti comuni della vocazione poetica (ricordo qui la sua attività personale e di promozione sul Virgilio bucolico). Ho riletto recentemente, nella bella riedizione del “Mulino” (Leopardi e l’Antico, 2002, anche questo gentilmente inviatomi dalla Signora Valeria), due lavori fondamentali: Leopardi e la filologia classica a Napoli nell’Ottocento e Lettura dell’Ultimo canto di Saffo. Nel primo c’è la rivendicazione della fervida atmosfera culturale di una grande capitale che era, e come dico sempre che ancora è, Napoli, col ricordo di persone e fatti che senza il suo grande sforzo di erudizione sarebbero stati condannati all’oblio; nel secondo il letterato consumato si mostra fine conoscitore delle fonti non solo antiche ma anche settecentesche di Leopardi. Ho parlato di erudizione: è la madre della storia, come ben sa chi ha seguito la carriera intellettuale di Benedetto Croce, da giovane topo di archivi napoletani e solo dopo grande storico e filosofo. Passiamo ora alle iniziative di organizzazione della ricerca, campo nel quale Marcello Gigante ha avuto un ruolo determinante per il nostro paese. Il suo capolavoro è stato, nel 1969, la fondazione del “Centro per lo studio dei papiri Ercolanesi”, una resurrezione dell’antica “Officina dei papyri” e, nel 1971, la fondazione della rivista del Centro, “Cronache Ercolanesi”, di cui fu il direttore: le date sono significative, perché sono immediatamente posteriori al suo ritorno a Napoli, che avvenne nel 1968: è chiaro che questi progetti covavano già nella bora triestina. Per decenni il Centro ha formato giovani studiosi specializzati e ha accolto con generosità studiosi italiani e stranieri, mettendo loro a disposizione l’attrezzatura del Centro. Lo ricordo nell’ultimo Congresso internazionale della FIEC a Kavala, in Grecia, a chiedere sostegno ai colleghi stranieri per un’istituzione che riscuoteva il rispetto di tutti. Instancabile la sua attività per l’Associazione Italiana di Cultura Classica, che qui in modo speciale oggi lo ricorda, a vario titolo per più di trent’anni, e negli ultimi venti come Presidente. Per più di cinquant’anni è stato magna pars della “Parola del Passato” e dal 1983 condirettore, con Umberto Albini, degli “Studi Italiani di Filologia Classica”. Troppo lungo sarebbe elencare ora le innumerevoli iniziative di minor rilievo, che si sono realizzate in una città fervida di cultura come Napoli, che tra
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l’altro conta editori molto numerosi, anche piccoli, ma di grande qualità: fra i non piccoli, Macchiaroli e Bibliopolis non hanno mai fatto mancare appoggio a Gigante, di cui sarebbe troppo lungo qui elencare le iniziative e le collane da lui dirette: basterà che ricordi quella di Bibliopolis per la filosofia epicurea, che ha accolto tanti lavori, suoi e di altri, sui papiri ercolanesi e sulla filosofia epicurea in generale. Un aspetto non secondario dell’apertura del dotto all’esterno, del non chiudersi nella torre d’avorio delle proprie ricerche, è il dedicarsi alla divulgazione: molti dei lavori suoi sono in sedi divulgative e in uno stile più accogliente del solito. Anche in Italia si è fatta strada l’idea che a divulgare dev’essere chi sa tutto, non chi sa poco. E d’altra parte la divulgazione si va facendo largo anche nelle nostre discipline, e questo con successo presso un pubblico che sembra interessato all’antico. Un buon auspicio per i nostri studi? Non credo che questo basti per contrastare politiche scolastiche che da tempo fanno temere il peggio. Tiriamo le fila di quanto ho voluto dire finora. Ho molto insistito sulle sue scelte non umanistiche, non formalmente classicistiche, che lo hanno portato a studiare testi e momenti storici al di fuori del canone, e questo per una scelta storicistica che noi tutti cerchiamo di realizzare. Se prima ho messo l’accento sulla fatica che la storia costa, dopo aver passato in veloce rassegna la sua attività, è il caso di dire che la storia remunera largamente i suoi fedeli. E anche se io sono sicuro che Marcello Gigante abbia avuto i suoi momenti di indisturbato piacere umanistico del testo, come dicevo prima, sono anche sicuro che i numerosi settori di storia che lui ha da storico trattati gli abbiano dato un altro tipo di piacere, che è quello di riscoprire pezzi di verità e di collegarli insieme per ricostruire delle verità sempre più ampie, di inserire sistemi in un sistema sempre più ampio, per prendere a prestito terminologia matematica. Bastava sentirlo parlare con entusiasmo, in pubblico e in privato, del progresso dei suoi studi e dei suoi programmi di lavoro. È stato insignito di varie onorificenze, delle quali penso che fosse giustamente fiero come riconoscimento dei suoi meriti sia scientifici sia organizzativi. Ricorderò per brevità solo quelle straniere: la British Academy, l’Accademia di Heidelberg, quella di Atene e l’Istituto Archeologico Germanico a Roma. I suoi contatti internazionali erano numerosi e vivaci. Voglio ricordare che Gigante ha insegnato per undici anni nella scuola. Sono sicuro che il suo dono di chiarezza e di essenzialità, che tutti gli hanno sempre riconosciuto e che è caratteristico anche del suo stile scientifico, è stato rafforzato da quell’esperienza: chi l’ha fatta (e anch’io l’ho fatta, sia pure per soli due anni) sa che nel parlare ai giovani bisogna essere concisi e chiari, non prolissi e fumosi, e questo valeva e vale anche per l’insegnamento universitario.
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Chi ha insegnato nella scuola porta anche nell’università quelle qualità didattiche che permettono di trasmettere la conoscenza con quel tanto di entusiastica incisività che la rende assimilabile da parte di chi ascolta. Io ho sperimentato più d’una volta Gigante in apostrofi al pubblico: per solenni che fossero le occasioni, per difficili e astrusi che fossero i contenuti, gli riusciva sempre di incatenare l’attenzione del pubblico con una vivacità, uno spirito alle volte caustico, e quindi divertente, sempre diretto allo scopo del comunicare, con una mimica facciale e gestuale che chi non lo conosceva bene non si sarebbe mai aspettato. Era piccolo di statura, e non gli manco di rispetto se lo ricordo così come Pindaro parla di Eracle: anzi, ne metto in rilievo la per me miracolosa dinamica comunicativa, che era dovuta, oltre che al suo entusiasmo, anche alla ampia gestualità napoletana, che è forse la più generosa del mondo e la più amabile. Potrà interessare i miei ascoltatori il fatto che il primo libro che trattò esaurientemente di gestualità fu stampato proprio a Napoli alla metà dell’Ottocento, ma purtroppo ho perduto il riferimento bibligrafico. Ma è ora che mi richiami a quell’unico titolo che credo di avere per parlare a voi di lui, come dicevo all’inizio: la stima e l’amicizia reciproca. Faccio una congettura, che sicuramente non sono il primo ad avanzare. La sua passione per la filosofia di Epicuro e per Filodemo non era solo occasionalmente dovuta alla sua contiguità topografica alla Villa di Ercolano, ma anche e soprattutto al fatto che il kepos, il Giardino epicureo con la sua teoria e la sua pratica dell’amicizia siano state a lui congeniali per carattere. Raramente ho incontrato persone che fossero così intimamente strutturate sul rapporto di amicizia. Quando quel rapporto lo sentiva stabile, si apriva e alla discussione scientifica e alla confidenza personale; quando non ne era sicuro, era guardingo, ma si sentiva che soffriva. Voglio raccontare due episodi molto personali, rivelatori del suo vero bisogno di amicizia: sono fatti per cui gli debbo gratitudine, e spero di non essere inopportuno in questa sede. Una volta, ormai molti anni fa, per mia leggerezza gli diedi l’impressione di aver mancato alla sua fiducia in me come amico: quando me ne resi conto, colsi la prima occasione per riconoscere la mia goffaggine e fargli le mie sincere scuse. Il fatto poco comune non fu che accettò semplicemente le mie scuse, ma che le accettò con gioia e come con sollievo per la ripresa di un rapporto di confidenza di cui fui felice certo almeno quanto lo fu lui e proprio perché lo fu lui. Questo significa che il rancore, tipico del costume accademico, si poteva con lui dissipare con un atto di sincerità. E poi non era schiavo di equivoci: sapeva distinguere comportamento da comportamento. Quasi dieci anni fa mi trovai nell’impossibilità di soddisfare un suo lecito desiderio accademico: capì che c’erano difficoltà oggettive e ricordo con commozione una cena romana in cui ogni ombra, se mai c’era stata, risultò dissipata. Ebbi così modo, io ben
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più giovane, di sperimentare un rapporto di colleganza del quale nella mia esperienza non so trovare molti esempi simili. Mi congedo da te, caro Marcello, e da voi, cari ascoltatori, sperando di avervi dato un ritratto il meno inadeguato possibile non solo e non tanto di uno studioso, ma soprattutto di un uomo di non comuni qualità personali.
Presentazione de La musica in cento parole di Arrigo Quattrocchi Arrigo Quattrocchi, La musica in cento parole. Un piccolo lessico, Roma (Carocci) 2003 Non ho titolo particolare per presentare questo aureo libro, o meglio prezioso agile libretto, se non la mia qualità di dilettante musicale (e a quelli come me è esplicitamente destinato) e la mia antica amicizia e il grande affetto per l’A(utore): non mi sarà difficile comunque sfuggire ai pericoli dell’amicizia e dell’affetto, vista la qualità e dell’A. stesso e di questa sua opera. L’introduzione, densa e concisa, dà un quadro sintetico della storia dell’educazione musicale in Italia, opportunamente messa a confronto con quella dei paesi nordeuropei di tradizione non cattolica, nei quali la prassi musicale religiosa è affidata ai fedeli, mentre in Italia la Chiesa ha affidato sempre l’esecuzione di quella musica a professionisti da essa stessa formati e forniti. Di qui un’assenza della musica dalla nostra formazione scolastica, che non è solo della riforma Gentile del 1923, ma era anche della prima legge scolastica del regno unitario che fu la legge Casati del 1859. La grande diffusione della musica classica in forma di riproduzione in disco ha enormemente ampliato, durante tutto il secolo scorso, la massa di ascoltatori che non hanno accesso non solo alla prassi musicale vera e propria, ma neanche alle più elementari nozioni di teoria. È un pubblico che peraltro merita rispetto, e non solo perché compra dischi (e cioè dal punto di vista economico), ma anche dal punto di vista culturale: sono ormai molti in Italia i semplici ascoltatori di musica che hanno una maturità culturale più che degna di rispetto e che sentono la curiosità di saperne di più su tanti aspetti tecnici della musica, che in sé non sono astrusi né incomprensibili, salvo l’essere rappresentati da termini tecnici che hanno bisogno di essere spiegati e che si possono spiegare facilmente. Naturalmente ci vuole il dono della capacità di divulgazione: e a chi sa poco non deve parlare chi sa poco (come spesso succede, specie da noi), bensì chi sa molto e sappia spiegarsi in modo chiaro: e l’A. fa parte di questa piccola schiera di divulgatori veri. Possiamo già dirgli il nostro grazie.
|| [Presentazione letta V 26.3.2004, ore 18, presso la sede dell’Accademia Filarmonica Romana (Casina Vagnuzzi). — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]
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“La musica in cento parole”: in realtà basta guardare l’indice delle parole in fondo al libro per rendersi conto che sono quasi duecentocinquanta, perché molte compaiono all’interno dei singoli lemmi. Il libro viene incontro all’ascoltatore medio di musica riprodotta con la frequente menzione di opere significative, segnalate fra le più popolari e amate. L’amatore di musica può così ritrovare fra i suoi dischi le composizioni segnalate destinate a chiarire “il riferimento a procedimenti compositivi che siano chiaramente rilevabili anche al semplice ascolto, prescindendo dai dati che sono analizzabili solamente a partire dalla musica scritta”. È così che vanno utilizzate le citazioni, ovviamente episodiche: sotto FANTASIA, si ha la storia di una forma musicale con rimandi a singole composizioni di Frescobaldi, Bach, Mozart, Schubert, Schumann e al poema sinfonico. Ma questo libro, per le sue caratteristiche di agilità e di chiarezza, va letto per intero, e non per lemmi singoli. Ne viene fuori una teoria musicale completa e una vera e propria sintetica storia della musica. Chi lo legge per intero sarà in grado di mettere insieme alcuni dispersi – per così dire – grappoli tematici, come quello, che a me è sembrato particolarmente importante, d e l l a s t o r i a d e l c o s t u m e m u s i c a l e i n E u r o p a e i n I t a l i a . Una delle voci per me più belle, per questo tema, è quella della p r a s s i e s e c u t i v a , che mi ha insegnato molto in un campo nel quale si crede di sapere, ma non si sa. Per noi è naturale pensare a un responsabile dell’esecuzione musicale (direttore o altro), che si fondi consapevolmente su quelle che vengono definite le basi filologiche dell’epoca etc. Ma questa prassi ha avuto un inizio quando si è cominciato ad eseguire a n c h e la musica del passato, e non solo quella contemporanea, il che cominciò con la prima età romantica. Nell’epoca barocca, per esempio, tutta concentrata sulla musica contemporanea, le tante libertà pur lasciate dalla approssimazione della scrittura musicale erano temperate dalla volontà degli autori, che davano i loro precetti in forma orale e diretta, come si faceva nel teatro greco, tragedia e commedia, quando gli autori stessi erano i registi delle loro rappresentazioni, pensate originariamente per una sola esecuzione. È chiaro che una preoccupazione storica nasce solo quando ci si confronta con la musica del passato: ed è per questo che la musicologia e la storia della musica nascono nell’Ottocento, dopo che si comincia a rieseguire la musica del passato: si cerca di ricostruire una prassi musicale non più in uso e si cerca di ricavare tutto il ricavabile da edizioni delle opere musicali il più possibile vicine alle intenzioni del’autore: è quello che facciamo noi filologi con i testi del nostro
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passato remoto. Non c’è quindi da meravigliarci se la P a s s i o n e s e c o n d o M a t t e o d i B a c h fu riscoperta ed eseguita da Mendelssohn circa un secolo dopo la sua composizione (v. la bella voce PASSIONE, dalla Passione all’oratorio). Ho dato, in breve sunto, quello che si trova leggendo anche le voci DILETTANTISMO, DIRETTORE, EDIZIONE CRITICA, MUSICOLOGIA. A questo proposito, posso dire che in Italia la prima cattedra ordinaria di Storia della musica all’Università arrivò in gran ritardo e fu quella di Roma ricoperta nel 1957 da Luigi Ronga, del quale mi onoro di essere stato allievo; dal 1937, credo, ci fu a Firenze per alcuni anni Fausto Torrefranca, ma, a quello che so, si trattava di una cattedra ad personam. Oggi viviamo un costume musicale diverso da quello preromantico e da quello romantico: si esegue quasi esclusivamente la musica del passato e raramente la contemporanea, che adotta codici ovvero grammatiche musicali fortemente innovative e, quel che più conta, fra loro diverse: ora, sappiamo che la musica è fortemente legata all’assuefazione: siamo da secoli assuefatti alla scala tonale e ogni devianza ferisce il nostro orizzonte di attesa sonora. Preziose, quindi, sono le voci che spiegano la tecnica dei diversi tipi di musica modernissima e contemporanea, per la quale l’ascoltatore si trova in difficoltà quando non venga informato (in modo comprensibile) del codice espressivo di quella musica: i programmi di sala, dei quali l’A. ha grande esperienza, e i fascicoletti dei dischi offrono alle volte introduzioni o troppo generiche o troppo tecniche. Ma guardiamoci voci come TONALITÀ, ATONALITÀ, SERIALISMO, DODECAFONIA, MINIMALISMO, MUSICA ALEATORIA, MUSICA CONCRETA, MUSICA ELETTRONICA e troveremo quel tanto di informazione che può davvero darci qualche arma per capire la grammatica di quello che ascoltiamo. Azzardo qui una mia valutazione: alla musica moderna, nelle sue varietà, è possibile, per ora, un approccio intellettuale e ancora assai poco un approccio emotivo. Mi si permetta di concludere con un’esortazione, sorretta da una mia esperienza personale di tanti anni fa, che mi sembra utile raccontare per esteso. Nel dicembre 1955 fu annunciato per Santa Cecilia un concerto di Clara Haskil. La conoscevo come una grande che poi mi si rivelò grandissima e corsi a far la fila all’Argentina, dove allora si tenevano i concerti di S. Cecilia. Ero in quarta galleria. L’esperienza di Clara Haskil: mirabile equilibrio di dinamica, d’intensità, all’interno di un volume sonoro molto tenue.[1] Mi spiego: i suoi ff erano || [1 Questa parte in “grassetto” indica che Rossi avrebbe parlato estemporaneamente del concerto della Haskil.]
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al più un f o un mf, se confrontati alla media della nostra assuefazione auditiva; e lo stesso si può dire dei suoi p, pp, che sfumavano nel pur percepibile quasi– silenzio. Che cosa mi dimostrò questa esperienza? Oggi tutti siamo in grado di risentire quante volte vogliamo questa grande pianista attraverso le tante registrazioni che circolano. Ma, risentendole, io, che ho avuto la fortuna di ascoltarla dal vero, sono in grado di cogliere il suo mirabile fraseggio nella tenuità e concentrazione della sua intensità. La registrazione, anche la più accorta e tecnicamente scaltrita (come NON erano certo quelle di allora), appiattisce e livella il suono, oppure lo corregge in modi che non sempre rispettano la verità dell’evento musicale singolo. Concludo quindi queste poche parole di apprezzamento per un lavoro davvero prezioso affermando, di fronte alla enorme diffusione della musica riprodotta e alla frequente trasmissione anche in diretta radio o TV di eventi musicali, che la partecipazione diretta nelle sale e nei teatri è un’esperienza non sostituibile. empatia[2] Il cambio di canale per la diffusione del messaggio musicale (dal vero al disco e alla trasmissione) ha portato anche a un’altra conseguenza: la ricerca, da parte soprattutto dei solisti, della p e r f e z i o n e t e c n i c a (e Fischer, Cortot, anche Gieseking? Li abbiamo sentiti steccare al vivo, li sentiamo alle volte steccare anche nelle registrazioni ufficiali, e tanto più nelle registrazioni di fortuna: ma che importa? La tecnica sola non basta). Credo davvero che la lettura di questo libro possa spingere i dilettanti di oggi ad andare a n c h e nei teatri d’opera e nelle sale da concerto. Spero che li spinga ad avere più curiosità ancora di quelle che il libro soddisfa, che sono già molte. A meno che fra i fruitori della musica riprodotta non si pensi a quelli che accompagnano una cena con una ballata di Chopin o con una sonata di Schubert: a quelli, cioè, che Hanslick – il grande critico formalista dell’Ottocento – chiamava (e con maggior ragione chiamerebbe oggi) ‘fumatori di oppio sonoro’. Ma non c’è una legge che vieti l’uso improprio di una componente della nostra vita così importante come la musica: e quindi diamo il benvenuto anche ai fumatori di oppio sonoro, sperando che almeno alcuni di loro, tra una ‘fumata di musica’ e l’altra, siano spinti ad avvicinarsi a questa grande arte con più impe-
|| [2 Questa annotazione in “grassetto” rivela che Rossi voleva improvvisare, durante la lettura della presentazione, un parallelo tra il rapporto empatico che legava l’aedo omerico e il suo pubblico (Od. 11. 334 = 13. 2) da una parte, e dall’altra il rapporto che unisce i musicisti e i loro ascoltatori in una sala da concerto o in un teatro nell’ambito di un’esecuzione dal vivo.]
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gno e chiedano aiuto alle pagine di cui abbiamo fin qui parlato. Grazie a chi mi ha ascoltato e soprattutto grazie al nostro Arrigo.
Ricordo di Giovanni Leto Per la grande stima e il grande affetto che ci legava e ci lega prima alla persona e oggi alla memoria di Giovanni Leto[1], ci sentiamo in dovere di adeguarci, per quanto possiamo, a quel tratto inconfondibile della sua personalità che era la sua parsimonia nell’espressione verbale: una ne diceva e cento ne pensava, nel senso che, quando parlava, lo faceva distillando le sue parole da un mare di riflessioni inespresse, ma alle volte intuibili nella sua pur parca mimica dello sguardo, parole che sceglieva con cura per non tradire una innata propensione all’essenzialità, e cioè alla verità. Un vero intellettuale, ricco di umanità e profondamente onesto, non spreca alcun fattore di comunicazione che rischi di ingenerare confusione nel messaggio: è per questo che i suoi silenzi erano eloquenti come le sue parole. Vorrei definirlo un ecologo della parola. La sua natura riservata, schiva e direi addirittura pudica, era stata rafforzata, a quanto penso, dalle sue scelte intellettuali e professionali, che lo portavano a contatto con il mondo stesso della comunicazione più scatenata e selvaggia, quella del cinema, della radio, della televisione, diciamo pure della estroversione totale o quasi[2]. Da qui il bisogno non solo di difendersi, ma anche di contribuire a disinquinare quel mondo: niente può essere più inquinante della parola, come ben sappiamo tutti, specie oggi che l’informazione ci sommerge con fiumi ininterrotti di verbosi messaggi, ora elusivi ora confusi ora apertamente menzogneri. Giovanni era essenziale e sincero: lo sanno bene gli amici e tutti quelli con cui ha avuto intensi contatti di lavoro. Ora, se c’è un campo in cui l’uso della parola deve rispondere a queste sue esigenze profonde, è la poesia, della quale parlerò ora con voi, cercando di dire il più possibile, senza tradire la brevità, anche per rispetto a lui. Non è facile, ma sento il dovere di provarci. Era una passione da lui tenuta quasi segreta, non || [Ricordo di Giovanni Leto (1929–2004), datato 3.12.2004 (non si è potuto accertare, neppure con l’aiuto della famiglia Leto, se questo ricordo sia stato pronunciato, e quando; non c’è memoria di una lettura ai funerali di Leto [† 4.10.2004]). — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 Rossi era molto amico della famiglia Quattrocchi, da cui proveniva la moglie di Leto, Gabriella (1930–2019, docente di Latino e Greco nel Liceo “Terenzio Mamiani” di Roma, traduttrice di Properzio e Ovidio, scrittrice, poetessa).] [2 Leto era entrato in RAI nel 1955 vincendo un concorso per programmisti, e rimanendovi poi fino alla pensione nel 1994; si è occupato di programmi culturali, di teatro, di musica, di cinema e di fiction, ma anche di politica aziendale ricoprendo incarichi di rilievo (è stato Presidente dell’Associazione Programmisti, Vice Presidente dell’ADRAI).] https://doi.org/10.1515/9783110648140-036
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ostentata. Ho letto con passione la sua raccolta Impiegato di concetto, uscita nel 2001[3], con composizioni di varia cronologia. La sua passione per la poesia era antica, fin dalla sua tesi di laurea su Leopardi, solo recentemente data alle stampe[4], dove ci si rivela una giovanile propensione a un pessimismo non platealmente cosmico, ma sottilmente e quasi gentilmente ragionato. Questo suo modo lo avvicina a mio parere al citato Eliot (“aprile / non è crudele”, p. 16) con il suo tranquillo argomentare, dimesso e quasi prosastico. Trovo una formidabile formulazione metapoetica in Monologo 1942, una poesia di guerra quasi ungarettiana, ma dico ‘quasi’ perché leggo: “Splende la luna nuova sulla neve / ma non dirò parole di poesia / nel mio atto notturno di coscienza”. La mia impressione è che ‘parole di poesia’ voglia non dirle mai, per il timore che non siano autentiche: ed è forse per questo che la sua produzione è quasi tutta in endecasillabi (o quasi–endecasillabi), come per affidare la sua pacata prosa a quel fattore poetico musicalmente configurante che è la metrica (e ricordo qui la sua passione e la sua competenza nel campo della musica). Ma parole di poesia, nonostante la sua diffidenza, gli vengono naturalmente, con un nesso, con un’immagine: lo specchio (Lo Specchio, p. 52) lo trovo fulmineamente definito “conchiglia di un mare / di limpidi abissi turbati”. Tanti sono i versi che vorrei citare, ma mi limiterò a pochi[5]: del resto c’è la bella prefazione di Plinio Perilli. Un volto (p. 22): ........... La nube (p.34): ........... Un’attrice (p. 38): ........... dalla consuetudine dello spett. Autunno e morte (p. 95): ........... pudore Diario di un anno. 7 (p. 142): ........... Un incipit schiettamente leopardiano (p. 146): “Lunga e fredda è la notte d’inverno”, un decasillabo che è in realtà un endecasillabo decapitato: sarà stata una variatio consapevole rispetto al modello? Mi piace pensarlo. Belli i finali Frammenti, per es. (p. 157): ........... L’impiegato di concetto (p. 56 ss.) è la più lunga e appare chiaro perché dia il titolo alla raccolta: è un condensato di esperienze di vita e di lavoro, una testimonianza preziosa.
|| [3 G. Leto, L’ impiegato di concetto. Poesie, Roma, A. Stango, 2001.] [4 G. Leto, Leopardi: il percorso di una crisi esistenziale, Calcata, Edizione Del Giano, 2004.] [5 Rossi ha annotato solo i titoli delle poesie (con le relative pagine) dalle quali voleva citare i versi: certamente aveva sottolineato i versi prescelti, in modo da leggerli al momento della recitazione del ricordo, nella sua copia personale (non ritrovata) della raccolta di Leto.]
Presentazione de Il fiore degli inferi di Paolo Nencini Paolo Nencini, Il fiore degli inferi. Papavero da oppio e mondo antico. Introduzione di Giorgio Bignami, Roma (Franco Muzzio Editore) 2004. Ringrazio per l’invito a parlare di un libro che ha per noi antichisti un interesse enorme, sia per quello che offre sia per quello che suggerisce. Ne parlerò qui, fra tanti cultori di discipline diverse, da antichista. L’Autore, da anni carissimo amico, è un vero infiltrato nelle nostre file[1] e questo suo lavoro mostra un’informazione e un rigore di metodo storico che ne fa in realtà un antichista vero. Ora, il libro risulta essere di bruciante attualità e confesso che mi hanno colpito sia la pacata scrittura storica di Paolo Nencini, dalla quale ho appreso moltissimo, sia la sferzata polemica dell’Introduzione di Giorgio Bignami (a cui sono legato da vecchi ricordi: siamo stati compagni di scuola), che mi ha prospettato con violenza la posta in gioco: la posizione da prendere fra due opposti modi di porsi il problema della droga, uno (uso parole semplici) crudamente deterministico e uno, invece, storico e di condizionamento ambientale. Le conseguenze di una scelta di campo non mi sono mai apparse così chiare. Le testimonianze che l’A. porta per l’uso del papavero da oppio, sostanza psicoattiva, sciorinate con intelligente esegesi storica, mi hanno impressionato. L’uso edonico di questa e di altre sostanze simili, anche in culture in cui erano largamente disponibili, risulta da questo studio inaspettatamente (almeno per me) minoritario rispetto ad altri usi, alle volte molto diffusi: quelli ornamentale, alimentare, terapeutico, simbolico e rituale. Non meno interessante è la storia dell’uso moderno, che l’A. dichiara fuori dal suo presente campo d’indagine ma di cui ci informa qua e là. Trascurerò adesso quanto risulta chiaramente sul
|| [Presentazione letta G 17.2.2005, ore 16.30 a Roma, nella Sala degli Affreschi del CSV Lazio – Centro di Servizio per il Volontariato, nell’ambito della presentazione del libro di Paolo Nencini organizzata da Theores – Scuola Superiore di Lavoro Sociale (Parsec – Cooperativa Sociale). — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 In quanto Ordinario di Farmacologia presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Nencini avrebbe poi tenuto un seminario presso la cattedra di Rossi (Facoltà di Scienze Umanistiche della “Sapienza” di Roma) Mc 18.5.2005, ore 16–18, dal titolo Razionalizzare l’irrazionale: oppio e vino nel mondo greco dal punto di vista della psicofarmacologia, poi pubblicato nella rivista diretta da Rossi («SemRom» 7. 2, 2004 [ma stampa febbraio 2006], pp. 251–268).] https://doi.org/10.1515/9783110648140-037
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comportamento delle varie culture del mondo antico e sul reciproco rapporto dei diversi usi. Dalla ricca documentazione offerta per l’uso del papavero da oppio nel mondo greco e romano, imparo quanto importante fosse l’uso simbolico (che si riflette nell’uso ornamentale) e terapeutico (su quello r i t u a l e l’A. è molto prudente e pratica quella che noi chiamiamo ars nesciendi, l’arte di non sapere). Voglio concentrarmi su un ristretto campo che mi è familiare e sul quale la lettura di questo libro mi ha illuminato, portandomi a farmi alle volte delle domande nuove: mi limiterò a parlare della Grecia del periodo della polis, l’organizzazione della città–stato (come la si chiama comunemente), fra VII e IV sec. a. C. In mancanza di un apprezzabile uso edonico del papavero da oppio (come apprendo da queste pagine), per un opportuno parallelismo, che può confermarci la fisionomia di una cultura, osserverò con occhio per me (lo confesso) in parte nuovo l’uso di una sostanza come il vino, il cui uso edonico non è certo assente, ma significativamente diverso dall’uso moderno di ogni forma di alcolici e di altre sostanze psicoattive. Il vino era considerato dono della divinità, il dio Diònysos, ma il suo uso eccessivo era condannato. Il vino era elemento fondamentale del simposio arcaico e classico, al punto che il momento del bere era distinto dal momento del pasto e veniva sempre dopo il pasto: veniva consacrato non solo al canto ma soprattutto alla conversazione (e, nel simposio politico, alla discussione dei problemi politici). È chiaro fin da ora che il fattore edonico era sì presente (con conseguente licenza per l’eros), ma quel che contava era la misura: la quantità del bere e la qualità (erano prescritte varie misure in rapporto con l’acqua, che producevano una specie di moderna sangrìa) erano accuratamente stabilite a ogni incontro simposiale da quello che si chiamava ‘il re del simposio’. Già questo dato storico, ben noto all’A., ci illumina su un orientamento che distingue la cultura antica dalla nostra: il fattore psicoattivo veniva considerato non come un isolatore della persona, ma piuttosto come un agente che favoriva le reazioni interpersonali: si godeva insieme, e per questo bisognava non oltrepassare la soglia della perdita di coscienza. Il vino come fattore aggregante, non isolante. Tutto questo, che l’A. ben conosce, non deve portarci a credere che gli eccessi fossero assenti. Tutt’altro. Una condanna è sempre la prova che gli eccessi esistono e che sono un problema da affrontare: non solo l’eccesso portava all’isolamento, faceva fallire la funzione aggregante, ma era in sé un pericolo per la comunità. La bella pagina platonica che Nencini riporta (dalle Leggi, p. 188) ci informa che l’ordinamento ideale per Platone doveva vietare il vino ai minori di
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diciott’anni perché, con la loro forza fisica, sarebbero stati un pericolo per ti[2]. Già in Omero οἰνοβαρής (‘appesantito dal vino’) è un insulto, che Achille scaglia contro Agamennone nella famosa lite (Il. 1.225). La lirica destinata al simposio è spesso metasimposiale, e cioè descrive il simposio stesso, e qualche volta (Alceo, Anacreonte) ci descrive l’antisimposio, quello cioè che oltrepassa la misura[3]: una censura che mostra un preciso orientamento culturale, che rifiuta un eccesso, pur praticato. Non è un caso che il Ciclope Polifemo venga accecato da Odisseo e dai suoi compagni con l’aiuto dell’eccesso di vino nel nono canto dell’Odissea. Una delle pagine più belle della letteratura greca, e nel nostro caso emblematica, è il finale del Simposio di Platone: dopo un incontro tanto serio e con personalità di tanto rilievo, alla fine tutti si sono addormentati sotto l’influenza del vino e solo Socrate, all’alba, esce perfettamente sobrio per la sua giornata piena d’incontri in città. Insomma: non che nello stesso castigato simposio mancasse l’eccesso, ma questo non era mai solitario: la funzione aggregante del vino non fa che essere confermata da testimonianze simili. In Grecia c’era sempre una preoccupazione che oggi chiameremmo sociale (con un attualismo forse inopportuno), ma che io chiamerei ‘comunitaria’. In altre parole: mancano testimonianze dell’ubriacatura solitaria! La ‘vecchia ubriaca’ di arte ellenistica è, appunto, tarda e non mi risulta che si vada oltre a un quadretto di genere: e gli ubriachi, per esempio, nella commedia di Menandro vengono presentati in genere come delle macchiette, e l’A. lo sa bene. Quello che ci fa pensare, leggendo queste pagine, è la quasi totalmente diffusa funzione comunitaria e non individuale di tutti gli agenti psicoattivi nelle varie culture ed epoche antiche considerate, in quasi totale contrasto con il nostro mondo. Da un punto di vista genericamente culturale questo, a mio parere, è un modo di rapportarsi alla contrapposizione di razionale e irrazionale. L’uso di sostanze psicoattive è – credo– la reazione a stati di disagio da cui si vuole uscire con l’interruzione del controllo razionale. E vorrei qui proporre in generale proprio il problema dell’ i r r a z i o n a l e : che atteggiamento avevano i greci di fronte a una componente così importante della natura umana? Quello che ho letto nel libro sulle varie forme di ipnosi, di rapimento estatico, di pratica sciamanica nelle varie culture (compresa la greca, con la pizia a Delfi) mi spinge a qualche riflessione sulla fuga dal razionale, sulla pur episodica interruzione
|| [2 Plat. leg. 666a.] [3 L’allusione è ai due eccessi di Alc. 346 V. (invito a bere prima del tramonto) e Anacr. 33 G. (bere “tutto d’un fiato” e al modo scitico tra fracasso e schiamazzi all’interno di un simposio greco).]
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del controllo: nei casi ricordati l’isolamento è individuale, beninteso, e basterebbe la pratica profetica per capirne la funzione. Ma vediamo se troviamo conferma di una normale funzione edonica comunitaria. Ora, dai vari umanesimi (quello del rinascimento italiano e quello winckelmanniano di fine ‘700, per citarne solo due) il mondo greco ci è stato presentato come da una parte unitario e dall’altra perfettamente sereno. Né l’uno né l’altro modello storico sono corretti: il mondo greco da una parte è vario e non è limitato all’Atene classica (che conosciamo meglio: per il resto, in fatto di geografia e di cronologia, ci sono comunque alcune costanti) e dall’altra non è per niente bello e sereno. Il dominio dell’irrazionale era vasto, e veniva anche riconosciuto come problema con cui confrontarsi. L’istituirsi di un tessuto collettivo razionalizzato come la polis aveva bisogno di liberarsi di quei ‘disturbi’ della convivenza civile che potevano metterla in pericolo. Da qui il problema della società organizzata, per non dire precisamente del potere, di esorcizzare quelle forze destabilizzanti, ma di esorcizzarle in chiave collettiva. Gli aspetti irrazionali della cultura greca sono stati messi in luce da opere fondamentali per il nostro approccio moderno all’antichità classica: basterà ricordare Nietzsche, La nascita della tregedia del 1871, Dodds, I greci e l’irrazionale del 1951, quest’ultimo giustamente molto caro all’A. Ora, l’istituirsi di un tessuto collettivo razionalizzato come la polis aveva bisogno di liberarsi di quei ‘disturbi’ della convivenza civile che potevano metterla in pericolo. Vorrei esporre ora alcune considerazioni sui modi più o meno istituzionalizzati di canalizzare l’aggressività e il disagio psicologico in generale, allo scopo di prevenirne le manifestazioni pubbliche incontrollate, fonte di disordine. Ne dò un provvisorio e disordinato campionario. Partirei dalla prima manifestazione di microsocietà razionalizzata, e cioè dalla hetairia (o confraternita) arcaica e dal suo rito principale, – il simposio. Ne abbiamo già parlato. – La musica e la danza con la cosiddetta teoria etica della musica, la Ethoslehre di Pitagora e di Damone[4], che si basava sulla sperimentazione delle musiche, e secondo me la prima sperimentazione avveniva proprio nei simposi aristocratici, nei quali si potevano studiare le reazioni alle singole musiche, e an-
|| [4 Su cui vd. L. E. Rossi, Musica e psicologia nel mondo antico e nel mondo moderno: la teoria antica dell’ethos musicale e la moderna teoria degli affetti, in A. C. Cassio – D. Musti – L. E. Rossi (edd.), Synaulía. Cultura musicale in Grecia e contatti mediterranei, «AION(filol)» Quaderni 5, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 2000, pp. 57–96.]
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che a quelle considerate negative e dannose[5]. Importante l’aspetto terapeutico. La musica e il ritmo erano molto importanti, sia sul piano della canalizzazione o prevenzione (lo si vede per es. nel menadismo) sia su quello della terapia. Dal momento che le harmoniai avevano un effetto psicagogico così dettagliatamente catalogato (dorico, ionico, frigio etc.) e dal momento che alcune erano calmanti e altre erano eccitanti, ne consegue che la musica aveva importanza politica perché era fenomeno che coinvolgeva le forze sociali (Plat. resp. [424c] “non ci sono cambiamenti nella musica che non siano anche politici”, riportando parole di Damone). E non mancano casi di terapia omeopatica (Ippocrate, Giamblico, Galeno). – catarsi aristotelica: pietà e terrore: la tragedia del V sec. e la sua funzionalizzazione psicologica, che era a mio parere già presente prima di Aristotele: Dramma satiresco: presa in giro della tematica tragica, dopo le tragedie, per sollievo degli spettatori[6] – commedia, soprattutto con il suo frequente rovesciamento dei rapporti civici, con la sua aggressività personalizzata (ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν), ma anche con i suoi disordinati komoi finali: la commedia quindi come sfogo, e non solo come fonte di ideologia del contenimento. – menadismo e feste femminili: canale di sfogo per la donna, chiusa in un suo mondo separato (niente femminismo!): le Baccanti di Euripide sono un bel documento (fra l’altro, le follie rituali delle donne prescindevano dal vino, erano sobrie); le Tesmoforie ad Atene (molte di queste manifestazioni non sono emerse e costituiscono quella che ho recentemente chiamato la letteratura ‘ s o m m e r s a ’ [7] perché in un modo o nell’altro censurata, v. spec. i misteri). Come si vede anche da queste poche voci, quella che chiamerei la fuga dalla coscienza non è, nella cultura greca, fatto individuale, ma collettivo, comunitario, sia nella teoria sia – e questo è per noi molto interessante – nella prassi
|| [5 Rossi aveva ipotizzato la sperimentazione musicale nel simposio nel suo saggio La dottrina dell’«éthos» musicale e il simposio, in B. Gentili – R. Pretagostini (edd.), La musica in Grecia, Roma–Bari, Laterza, 1988, pp. 238–245, in part. pp. 241–245; vd. anche Musica e psicologia nel mondo antico, cit., p. 62 con n. 14.] [6 I due appunti di Rossi in “grassetto” erano funzionali a due brevi spiegazioni estemporanee: sulla catarsi aristotelica (poet. 1449b 27–28), e sul dramma satiresco quale tragedia scherzosa “a scopo di distensione” degli spettatori che già realizzava la catarsi nella prassi scenica (per cui vd. L. E. Rossi, Il dramma satiresco attico. Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico, «DArch» 6, 1972, pp. 248–302, in part. pp. 255–257 e 268–271).] [7 In L. E. Rossi, L’autore e il controllo del testo nel mondo antico, «SemRom» 3, 2000, pp. 165– 181, nelle pp. 170–173.]
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quotidiana, dove e quando siamo in grado di spiarla. Questo segna una grande distanza dal nostro mondo. Per la terapia, per esempio, un greco avrebbe sgranato gli occhi di fronte a una delle nostre istituzioni terapeutiche, che in linea di principio sono la somma di una quantità di individui. Quella somma per loro era un’unità, e cioè la comunità in qualunque modo si configurasse, perché la fuga dall’io e il ritorno alla coscienza non era visto come fatto individuale ma comunitario. Per concludere. Quando le cosiddette scienze umane, in questo caso la storia, vanno al passo con le scienze (in questo caso con la medicina, la farmacologia e tante altre) è buon segno. Ed è un buon ritorno al mondo greco arcaico, nel quale filosofia e scienza erano tutt’uno. Questo felice libro ha già risvegliato molta attenzione e continuerà a farlo.
Goethe e l’antico, a cura di Mauro Ponzi e Bernd Witte Grazie ... Mi domando solo se chi ha imparato così tanto da un libro sia adeguato per contribuire a presentarlo. La forte personalità di Goethe, così influente nella cultura tedesca e quindi europea, mi porta necessariamente a fare una premessa sui vari modi di approccio alle due culture classiche, e specialmente a quella greca, utile in un momento come il nostro in cui non tanto il modo dell’approccio, quanto piuttosto l’approccio stesso appare essere in crisi. Un grande pregio di questo convegno, e quindi di questo volume, è quello di avere centrato l’interesse sul fatto letterario, lasciando pur sempre in sottofondo l’aspetto storico–artistico figurativo, molto più ampiamente visitato dalla storiografia moderna, che non ha mancato peraltro di rilevarne il rapporto con la letteratura e la filosofia. Ma qui il cammino critico segue il percorso inverso, partendo cioè dalla letteratura, e insegue il rapporto di Goethe scrittore con la letteratura antica. Qui sta l’unità e l’utilità di questo convegno e di questo volume. Goethe ha vissuto per intero, nella sua lunga vita (1749–1832), quella che non esito a definire la più grande rivoluzione culturale anteriore a quella che stiamo vivendo noi oggi: dall’epoca della parrucca e del codino, allo Sturm und Drang, al classicismo del secondo umanesimo winckelmanniano, all’illuminismo, al trauma della rivoluzione francese, alla parentesi napoleonica, al primo romanticismo. La cultura tedesca ha sentito il bisogno di periodizzare queste esperienze, squisitamente individuali, con il termime Goethe–Zeit. Non c’è quindi da meravigliarsi se, sia soprattutto nella teoria sia anche nella prassi, Goethe ci mostra ripensamenti, contraddizioni, scelte arbitrarie. Imposterò il mio discorso in modo semplice e schematico, per avere delle linee–guida: sarà un modo per capirsi meglio. Penso che gli approcci all’antico
|| [Presentazione di M. Ponzi – B. Witte (a cura di), Goethe e l’antico (Atti del Convegno Internazionale Goethe e l’antico, organizzato da M. Ponzi e B. Witte, Roma, Goethe–Institut, 12–13 novembre 1988), Roma, Lithos, 2005; recitata Mc 11.5.2005 presso il Goethe–Institut di Roma, presenti i due curatori. — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-038
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siano di tre tipi: quello umanistico, quello attualizzante e quello storico. Si tratta di atteggiamenti che in noi si presentano sempre, che fanno parte del nostro reticolo psicologico, mentale e culturale: li considero caratteristiche costanti, che si presentano singolarmente come prevalenti a seconda del contesto in cui l’antico viene pensato e vissuto, utilizzato, studiato. È chiaro che nei vari momenti in cui queste tre tendenze si sono manifestate molto forte è stata quella specie di plusvalore modellizzante che sta alla base di un diffuso e condiviso sentimento di ammirazione per una lunga e ricca stagione dell’umanità. Vediamo questi tre tipi di approccio. L’approccio umanistico comporta uno spostamento di noi moderni verso il mondo antico. Sentirsi antichi è stato un esercizio frequente, che si è intensificato nell’umanesimo italiano e nel cosiddetto secondo umanesimo winckelmanniano. In altre parole: l’antico viene vissuto come modello da ammirare e, nei limiti del possibile, da imitare, da vivere, da erleben. Il difetto di questo atteggiamento è che, mettendo a confronto due culture, l’antica e la nostra, facciamo torto alla nostra, che crediamo di poter semplicemente trasferire. Tempo e spazio culturale si confondono, a detrimento della nostra identità: noi siamo come gli antichi? No. L’approccio attualizzante è un avvicinamento della cultura antica alla nostra, un movimento opposto al precedente: in questo modo facciamo torto alla cultura antica, che non si lascia omologare alla nostra. Una serie di equivoci sono nati da questo approccio: la scarsa comprensione di una cultura integralmente orale come quella che ha prodotto l’epos arcaico (fino all’VIII sec. a. C.) e poi della cultura visivo–aurale che è durata fino almeno al IV sec. a. C. (e quindi l’epica arcaica come libro in sé conchiuso, Alceo antitirannico, Saffo femminista, e tanti altri). Gli antichi sono come noi? Di nuovo no. Questo atteggiamento è ampiamente quanto impropriamente esercitato oggi per ragioni propagandistico–demagogiche che mirano a presentare il mondo antico come attuale in quanto spiegabile con nostre categorie storico–esistenziali che ce lo rendono utilizzabile, spendibile senza mediazioni. Ma è un pericolo, se lo si promuove a ideologia culturale in toto. L’approccio storico – non ho bisogno di dirlo – è l’unico lecito ed è quello che pratichiamo nel nostro mestiere di storici perché evita ogni indebito spostamento di culture e si mantiene in uno spazio non dirò neutro, ma almeno approssimativamente mediano: è quello che ci fa capire, e non solo sentire, la distanza del mondo antico da noi, che ci spiega storicamente gli eventi. Ma se, da una prospettiva di storici di mestiere ovvero nel nostro caso di filologi, ci spostiamo a quella della creatività, le cose cambiano, e anche gli atteggiamenti che abbiamo scartati si rivelano produttivamente attivi, e quindi non condannabili. Nessuno di noi può dimenticare Nietzsche e il suo Wir Philo-
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logen con la condanna della filologia pura decretata proprio da chi aveva cominciato come filologo. L’approccio ingenuo, direi disarmato, è sia il primo sia il secondo. Le plaisir du texte di rolandbarthesiana memoria ci porta inevitabilmente a una immedesimazione anche ingenuamente umanistica o attualizzante e va praticato almeno una volta la settimana, come dico ai miei allievi, perché si rivela un fecondo atto d’amore, fruttuoso anche per la ricerca storica. Questo comporta anche una forma di attualizzazione, una fruizione personale, idiosincratica, libera dalle pastoie di un vero e proprio sistema: non il trasferimento del mondo antico nel nostro, ma fiori colti nel giardino del classico, anche a costo di farli appassire per la mancanza della loro humus, ma con la consapevolezza di metabolizzarli per un nostro personale bisogno, che stabilisce poi rapporti intertestuali immediati, sia pur furtivi, se si vuole. È quello che, più che furto, chiamerei a p p r o p r i a z i o n e , come forma del tutto individuale dell’attualizzazione. Sbaglio se, dalla lettura del volume, applico questa categoria a Goethe? Spero di spiegarmi meglio con le evidenze concrete che questi studi mi offrono. In realtà Goethe vive in pieno la fervida stagione del secondo umanesimo, quello che chiamiamo winckelmanniano. Non che mancasse la consapevolezza della l o n t a n a n z a d e i g r e c i , una bella formula che devo a uno storico, Giorgio Camassa (La lontananza dei greci, Roma 2004)[1]: nella Geschichte di Winckelmann molti sono i luoghi in cui l’ammirazione per i greci è velata dalla nostalgia di chi si sente ormai diverso, estraneo, da un ‘non più’ (Camassa, p. 8), restando pur sempre all’arte greca un valore di modello insuperabile. Imparo qui che H a m a n n (p. 60, Schrader) ha detto: “imitare gli antichi in modo da assomigliare loro il meno possibile”. H e r d e r ...[2] Naturalmente, bisognerebbe qui distinguere il Goethe Stürmer dalle sue successive avventure culturali, ed è quanto qui fanno gli studiosi nel volume, centrando quasi sempre su singole opere. Ma non intendo farlo qui: vorrei solo – come ho già detto – seguire la mia impressione della libera appropriazione, che mi pare sia una costante della sua personalità di colto ladro. La sua ‘classicità stürmeriana’ (Schrader, p. 54 ss.) lo porta a valutare positivamente anche
|| [1 Rossi avrebbe presentato anche questo libro, all’incirca un mese dopo: vd. pp. 425–431 in questo volume.] [2 Nel testo il nome di Johann Gottfried Herder è solo appuntato; probabilmente Rossi doveva citarlo, in questo punto, in contrapposizone con Johann Georg Hamann, per dire che era ostile ai modelli classici, che riteneva pedanti, e alla loro imitazione, che condannava come artificiosa, preferendo invece guardare ai canti popolari e a Ossian, giudicati come modelli di spontaneità e sincerità.]
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gli aspetti selvaggi, come il mondo satiresco, a non parlare del protervo eroismo di un Prometeo. Sia Omero (Witte) sia Pindaro/Orazio (Ponzi) sono saccheggiati. L’eroicità omerica viene introiettata per es. con la vicenda di Patroclo (Künstlers Morgenlied). Interessante che la reazione inizialmente negativa alla disintegrazione dei poemi omerici ad opera di Fr. Aug. Wolf (1795) sfocia con un grido di sollievo (p. 29): “Chi osa combattere contro gli dei? E chi contro uno solo?”. Per Pindaro, commovente è l’appropriazione di un nesso, ἐπικρατεῖν δύνασθαι ‘capacità di dominio’, riferito all’auriga ma riferito a se stesso, Goethe. Anche l’avventura lessicale στῆθος/πραπίδες reso con ‘sentimento/ragione (p. 39) è improvvisata. Ma soprattutto la φυά, ‘natura’, in Pindaro è concetto aristocratico, mentre Goethe lo intende come ‘genio personale’ (p. 40). Importante è che sia Omero sia Pindaro (sia anche Shakespeare) siano presi a modello per una sorta di e r o i c i t à d e l l o s t i l e l e t t e r a r i o ! Ed è interessante, con Ponzi, vedere quanto pietismo è presente nel giovane Goethe. Il Laocoonte e il Torso del Belvedere (Voßkamp, Cometa) mi sembrano prodotti di un malinteso: la contesa del bello vs il brutto e il caratteristico, e anche la questione della drammaticità dell’opera figurativa (istantaneità vs dimensione temporale), si scontrano contro una realtà storica: sono opere ellenistiche, che cercano anche l’orrido e si esercitano sulla sequenza drammatico, mentre il bello classico winckelmanniano (statico) si rifà all’arte del V secolo. Il paesaggio (Zimmermann) nella Novella: il gusto della descrizione (superiore al modello stesso di natura) è preso dal romanzo greco (Longo Sofista), che è postellenistico: era stato l’ellenismo ad aver sviluppato il gusto per l’ἔκφρασις, la descrizione. Come per il Laocoonte e il Torso: quanto unitaria sembrava a Goethe la lunga e varia storia della cultura greca! Arte e natura (Borsò): importanza del paesaggio (Il Viaggio in Italia): (p. 13), Röm. Eleg. V, “toccare il marmo delle statue”! L’analisi di Seefahrt (Neymeyr): nel momento critico dell’emancipazione dalla natia Francoforte all’avventura cortigiana di Weimar, il colto Goethe ricorre all’immagine della navigazione (già in Alceo) e alla costanza dello stoico: Seneca.
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La libera manipolazione del mito di Ifigenia e la riabilitazione di Agamennone (Schönborn, p. 82 ss.): la Schönborn (p. 99) ha una formula felice: “Il vero padre di Ifigenia è l’autore”, una ennesima autoidentificazione. Il Faust II (Schmidt, Mattenklott), per il quale non ho avuto mai particolare simpatia – lo confesso –, appare un collage in cui antichità, medioevo, età cortese si mescolano in libertà. Mi è venuto da riflettere sul Faust I, dove mi pare che ad essere strumentalizzato è il medioevo maledetto di Mefistofele, mentre Faust risponde a suggestioni eroiche e superomistiche nettamente moderne. A questo punto non ci fa più meraviglia la strumentalizzazione dei misteri eleusinii (Anton, p. 208 ss.), anzi di tutto il misterico a lui accessibile (neoplatonismo, ermetismo, cabbala). Una serie di figure–simbolo in sé piene di fascino, ma per di più decisamente fuori da ogni classicismo. Questa preziosa raccolta di studi mi presenta una figura di Goethe classicista per me nuova. Lo vedo adesso sciolto da pastoie ideologiche che me lo legavano a una visione falsamente unitaria, peraltro anch’essa – come ho detto – tutta da rivedere e in parte rivista, del secondo umanesimo winckelmanniano. Il suo rapporto con il mondo antico è sicuramente legato a una concezione modellizzante, o meglio positivamente assiologica: i greci sono una grande cultura, un grande mondo, un grande valore. Ma per lui, personalità molto forte e accentratrice e cliente, nella teoria e nella prassi, delle più varie correnti moderne di arte, di scienza della natura, di pensiero, quel mondo diventa un serbatoio, un deposito al quale attingere per delle appropriazioni che non sempre rispettano il materiale, tradito e metabolizzato. Ed è proprio questo che ho chiamato appropriazione, attualizzazione personale, diciamo pure sereno furto, segno della vitalità di una tradizione, comunque, e prodotto da un prepotente vitalismo. Anche Goethe è per noi oggi un classico e cioè uno dei preziosi reperti custoditi nel nostro deposito come uno dei campioni del grande canone dei classici: un deposito in perenne accrescimento, un accumulo di paradigmi e modelli ai quali siamo destinati ad attingere sempre, con furti sereni, non turbati da faticose pastoie ideologico–culturali. Finirò con una formidabile battuta di Borges, che coglie al volo il significato di tradizione: [(domanda) Gérard de Nerval disse: “Il primo che operò la similitudine della donna con la rosa era un poeta, il secondo che lo fece fu un imbecille”. Che reazione ha di fronte a questa frase?
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(risposta di Borges) Il terzo è un classico. (Risate)][3].
La ricezione (termine nato a Costanza con Jauss) è lievemente diverso dal nostro ‘fortuna’ o dal tedesco Nachleben: è propriamente categoria dell’appropriazione, che si costruisce di volta in volta la tradizione (letteraria, nel nostro caso). La tradizione è una continua costruzione in divenire, un deposito che ogni volta viene portato in vita. Se fosse una raccolta di fossili, dovremmo dar ragione all’antiquaria, contro la quale lo stesso Winckelmann aveva combattuto. Insomma: meglio tradire che ignorare.
|| [3 La battuta è stata formulata da Borges in un’intervista (“Vuelta”, n. 117, 1986, p. 31), e Rossi l’aveva già citata nella sua Letteratura greca, Firenze, Le Monnier, 1995, p. 9.]
Presentazione de La lontananza dei greci di Giorgio Camassa Aureo libretto. Offre in forma davvero leggibile una sintesi di vari risultati ottenuti dall’A(utore) in molti anni di ricerca profondamente originale. È un libro breve: Plinio e la lettera breve.[1] Non sarò capace di fare altrettanto, di dare cioè un’efficace sintesi di pagine così sintetiche. Per le quali bisogna congratularsi con l’A. e con l’editore. Il titolo è un programma: La lontananza dei greci. Imposterò il mio discorso in modo semplice e schematico, per avere delle linee–guida: sarà un modo per capirsi meglio, anche a costo di schematizzazioni, che proprio questo libro ci aiuta a smascherare. Penso che gli approcci all’antico siano di tre tipi: quello umanistico, quello attualizzante e quello storico. Si tratta di atteggiamenti che in noi si presentano sempre, che fanno parte del nostro reticolo psicologico, mentale e culturale: li considero caratteristiche costanti, che si presentano singolarmente come prevalenti a seconda del contesto in cui l’antico viene da noi pensato e vissuto, utilizzato, studiato. È chiaro che nei vari momenti in cui queste tre tendenze si sono manifestate molto forte è stato il plusvalore modellizzante che sta alla base di un diffuso e condiviso sentimento di ammirazione per una stagione davvero lunga e ricca dell’umanità. Non vogliamo idealizzare l’antico, ma riconoscere che è stato grande è un ovvio dovere di onestà intellettuale e storica. Vediamo questi tre tipi di approccio. L’approccio u m a n i s t i c o comporta uno spostamento di noi moderni verso il mondo antico. Sentirsi antichi è stato un esercizio frequente, che si è intensificato nell’umanesimo italiano del Rinascimento e nel cosiddetto secondo umanesimo winckelmanniano alla fine
|| [Presentazione di G. Camassa, La lontananza dei greci, Roma, Quasar, 2004, letta Mt 7.6.2005, ore 18, a Roma, presso la Libreria Bibli. — Inedito, ritrovato in stato completo in un file dell’ultimo pc di Rossi e anche in un documento a stampa (con correzioni e aggiunte autografe); la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 L’appunto in “grassetto” sarebbe stato sviluppato oralmente con una puntualizzazione sulla fatica richiesta dalla sintesi, che Rossi era solito introdurre citando la frase (che molto gli piaceva per il suo tono paradossale) “scusami se ti ho inviato una lettera lunga, ma non ho avuto tempo di scrivertene una più breve”, da lui attribuita a Plinio il Giovane (in realtà l’aforisma è variamente attribuito a non pochi scrittori; è certo che lo ha detto Pascal, alla fine di Provinciales XVI); vd. anche p. 573 di questo volume.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-039
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del ‘700. In altre parole: l’antico viene vissuto come modello da ammirare e, nei limiti del possibile, da imitare, da vivere, da esperire (erleben). Il difetto di questo atteggiamento è che, mettendo in contatto le due culture, l’antica e la nostra, facciamo torto alla nostra, che crediamo di poter semplicemente trasferire. Tempo e spazio culturale si confondono, a detrimento della nostra identità: noi siamo come gli antichi? No. E poi, quali antichi? Il grande difetto di questo atteggiamento è quello di fissare come modello un momento preciso del percorso di una cultura: Sparta arcaica, l’Atene del V secolo, o la Roma augustea, per esempio. L’approccio a t t u a l i z z a n t e è un avvicinamento della cultura antica alla nostra, un movimento opposto al precedente: in questo modo facciamo torto alla cultura antica, che non si lascia omologare alla nostra. Gli antichi sono come noi? Di nuovo no. Una serie di equivoci sono nati da questo approccio: la scarsa comprensione di una cultura integralmente orale come quella che ha prodotto l’epos arcaico (fino all’VIII sec. a. C.) e poi della cultura visivo–aurale che è durata fino almeno al IV sec. a. C. (e quindi l’epica arcaica come libro in sé conchiuso, la lirica arcaica intimista come la nostra, Alceo antitirannico, Saffo femminista, la l i b e r t à e l a d e m o c r a z i a , e tanti altri). Questo atteggiamento è ampiamente quanto impropriamente esercitato oggi per ragioni propagandistico–demagogiche che mirano a presentare il mondo antico come attuale in quanto spiegabile con nostre categorie storico–esistenziali che ce lo rendono spendibile senza mediazioni. Ma è un pericolo se lo si promuove a ideologia culturale in toto, e un inganno demagogico se lo si usa nell’insegnamento, pur con buone intenzioni. L’approccio s t o r i c o – non ho bisogno di dirlo – è l’unico lecito ed è quello che pratichiamo nel nostro mestiere di studiosi perché evita ogni indebito spostamento di culture e si mantiene in uno spazio non dirò neutro, ma almeno mediano: è quello che ci fa capire, e non solo sentire, la distanza del mondo antico da noi, che ci spiega storicamente gli eventi. Ma se, da una prospettiva di storici di mestiere, ci spostiamo a quella della creatività e del vissuto, le cose cambiano, e anche gli atteggiamenti che abbiamo scartati si rivelano produttivi. Nessuno di noi può dimenticare Nietzsche e il suo Wir Philologen con la condanna della filologia pura decretata proprio da lui, che aveva cominciato proprio come filologo. Gli approcci ingenui, direi disarmati, sono sia il primo sia il secondo, e – come dicevo – ci capita inevitabilmente di praticarli ogni tanto e, se ne siamo consapevoli, hanno la funzione di un vitale atto d’amore, d’entusiasmo in quanto piacere del testo (Barthes). Questo comporta sempre una forma di fruizione personale, idiosincratica, libera dalle pastoie di un vero e proprio sistema: non il trasferimento del mondo antico nel
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nostro (e viceversa), ma fiori colti nel giardino del classico, anche a costo di farli appassire per la mancanza della loro humus, ma con la consapevolezza di metabolizzarli per un nostro personale bisogno, che stabilisce poi rapporti immediati, sia pur furtivi, se si vuole. È quello che, più che furto, chiamerei appropriazione, come forma del tutto individuale dell’attualizzazione. Questo vale per l’arte figurativa, per la letteratura, per la politica, per tutta la cultura antica in generale. La fase storica da cui l’A. prende le mosse è un momento comunemente considerato come umanistico, e cioè il cosiddetto secondo umanesimo di Winckelmann, fra fine Settecento e primo Ottocento. Due fattori si intrecciano, quello artistico e quello politico. Il nome di secondo umanesimo può far pensare (secondo gli schemi da me offerti prima) a una identificazione con l’antico: ma quanto vari sono stati, in questo periodo, i livelli di consapevolezza, così come ce li presenta l’A.! Winckelmann, che ha dato il nome a questo ricco periodo, era partito da una folgorazione per la bellezza e dal modo in cui l’arte la aveva rappresentata (la statuaria classica). Ma poi, entrando in contatto con tanti altri aspetti della vita dei greci e soprattutto con le loro istituzioni politiche, quella perfezione veniva a cambiare funzione: non più meta da raggiungere di nuovo, bensì modello a cui tentare (anche senza successo) di accostarsi, sia nell’arte sia in politica, ma questi tentativi hanno mostrato proprio a quella gente sempre più e sempre meglio la d i s t a n z a . Proprio nella Geschichte di Winckelmann molti sono i luoghi in cui l’ammirazione per i greci è velata dalla nostalgia di chi si sente ormai diverso, estraneo, da un ‘non più’ (p. 8), restando pur sempre all’arte greca un valore di modello (insuperabile). Ho trovato recentemente una formulazione estrema di H a m a n n , concittadino e amico di Kant (p. 60[2], Schrader): “imitare gli antichi in modo da assomigliare loro il meno possibile”). Winckelmann non arriva a tanto, ma i suoi scritti “brulicano”, come dice C., di dichiarazioni di estraneità. E già in Winckelmann si comincia a capire che la profonda osmosi fra politica e arte, propria del mondo greco, non è accettabile per il mondo moderno. Il discorso sulla libertà dei Greci e dei moderni ha qui profonde radici. L’arte greca (arte figurativa, letteratura, musica) era legata a una committenza e a un controllo schiettamente politici, diciamo comunitari, a differenza dal divorzio che si sarebbe pienamente consumato con il nascente romanticismo, che predicava l’indipendenza della personalità artistica creatrice. E la politica? C. ci fa vedere, con una lucida carrellata, come le rivoluzioni || [2 In M. Ponzi – B. Witte (a cura di), Goethe e l’antico, Roma, Lithos, 2005, presentato da Rossi quasi un mese prima del libro di Camassa: vd. pp. 419–424 in questo volume.]
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dell’epoca, specie quella francese, si richiamano sì ai Greci (e ai Romani), ma sentono iati incolmabili: Saint–Just nel 1791 (p. 13): “Gli antichi legislatori avevano fatto ogni cosa per la repubblica, la Francia ha fatto ogni cosa per l’uomo”, e poi, lapidario: “i diritti dell’uomo avrebbero causato la rovina di Atene o di Lacedemone. Là si conosceva solo la propria cara patria, per lei ci si scordava di se stessi”. Non posso qui dare un’idea della ricchezza di queste dense pagine, dove sono richiamati, tra gli altri, nomi come Montesquieu (lo spirito di commercio!), Rousseau (“voi non siete né greci né romani, siete mercanti, artigiani, borghesi ...”), Robespierre, Mirabeau, Benjamin Constant. È proprio quest’ultimo, nel 1819, in De la liberté des anciens et des modernes) che suggerisce a C. una bella formulazione (p. 17): “importante, ai nostri fini, è la consapevole, serena messa a distanza dell’antichità e, con l’antichità, di ogni tentativo di riproporne indebitamente il sistema di valori”. Una felice prospettiva a cui ci porta C. è questo progressivo d i s i n g a n n o che sposta il mondo antico altrove: dalla identificazione umanistica e dalla appropriazione attualizzante (sia in arte sia in politica), che appaiono impossibili, alle aule universitarie, soprattutto quelle della Berlino dei fratelli Humboldt (1809–10), dove l’antico approda a una visione storica, ovviamente non neutra ma necessariamente ideologica (specie con C. O. Müller). La cultura: dalle accademie all’Università di Berlino.[3] Insomma, che cosa resta di questo secondo umanesimo che sia realmente umanistico? Resta il punto di partenza, che serve per misurare la lontananza. Ed è questa consapevolezza della lontananza che ci chiarisce la nostra identità di moderni. Fu un’epoca assai complessa, questa, che la cultura tedesca ha sentito il bisogno di chiamare con un nome che si mostra funzionale per comprenderne tutte le valenze, assai varie fra loro: “epoca di Goethe”, Goethe–Zeit. Goethe ha vissuto per intero, nella sua lunga vita (1749–1832), quella che non esito a definire la più grande rivoluzione culturale anteriore a quella che stiamo vivendo noi oggi: dall’epoca della parrucca e del codino, allo Sturm und Drang, al classicismo del secondo umanesimo winckelmanniano, all’illuminismo, al trauma della rivoluzione francese, alla parentesi napoleonica, al primo romanticismo, agli inizi della rivoluzione industriale. La cultura tedesca ha sentito il bisogno di
|| [3 L’appunto in “grassetto” indica che Rossi doveva sviluppare in modo estemporaneo un breve discorso sulla “cultura per la cultura”, prima appannaggio delle Accademie quattro– cinquecentesche in opposizione alle Università finalizzate allo scopo pratico dell’esercizio di una professione, ma in seguito penetrata anche nelle realtà universitarie grazie al seminario humboldtiano dell’Università di Berlino.]
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periodizzare con un nome queste esperienze, che risultano essere tutte presenti nella ricca personalità di Goethe. I tre capitoli centrali fanno il punto storiografico moderno su tre fattori importanti della cultura greca, che ci impongono nel dettaglio nette differenze con quanto noi diamo per scontato nella nostra esperienza: spazio, tempo e politica. Lo spazio (cap. II): la polis, come anche il palazzo arcaico, sfugge a un concetto moderno di territorio uniforme, per individuare vari settori che hanno funzioni diverse, subordinate ai bisogni della collettività di cittadini che ne è titolare: il centro della vita politica (il méson), gli spazi sacri della città e della campagna circostante, la campagna stessa, le zone costiere: niente di confrontabile con la nostra concezione uniforme dell’area nazionale e con la nostra ossessione dei confini. Il tempo (cap. III) è localmente scandito dalle magistrature delle singole poleis, che danno il nome all’anno. Credo che il sistema cronologico comune che partiva dalla prima olimpiade del 776 a. C. fosse un contrappeso all’importanza delle cronologie locali teso ad affermare l’identità comune dei greci, che è un fattore importante nella loro cultura. Il cap. IV, molto ricco, ci parla della politica. Aristotele ci dice che una polis non può avere né troppo pochi né troppi cittadini: o non sarebbe autosufficiente o non sarebbe una polis ma un ethnos, un popolo, una nazione, non raggiungibile dalla voce dell’araldo per riunirsi nell’assemblea (Polit., p. 59). Alla polis greca è estraneo il nostro concetto di territorio e, ancor di più, anche quello di cinta muraria: la polis è una comunità consultiva e decisionale, i cittadini di pieno diritto e non certo gli abitanti in genere. C. lo dice chiaramente (p. 72): pensare la polis greca eliminando i concetti attuali di stato e di democrazia è difficile ma necessario, e lo si pratica da poco, da parte degli storici più avvertiti. E, soprattutto, democrazia: il demos, i cittadini della polis sono confrontabili col nostro concetto di popolo? Per di più la parola ‘democrazia’ copre tante realtà, oggi, e forse più d’una nell’ambito di uno stesso paese. Di nuovo la lontananza, ma in questo caso anche la lontananza di noi da noi. Il quinto ed ultimo capitolo (Mutamento) richiama in composizione anulare il primo e dà forte unità al libro, un’unità fortemente originale: l’umanesimo winckelmanniano aveva registrato una distanza fra sé e i greci, e dopo tutto i greci stessi non si sentivano, per così dire, uguali a se stessi nel senso che mostravano di avere acquisito una consapevolezza chiara del proprio mutare nel tempo. La cultura greca è in continuo sviluppo in tutti i campi, e mostra di sa-
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perlo: è come se i greci volessero avvertire i successivi umanesimi, che ne hanno irrigidito l’immagine in simboli e in atteggiamenti fissi, in epoche e luoghi precisi (l’Atene classica, per es.); noi greci siamo in perpetuo movimento, e lo sappiamo. Noi veniamo investiti da un apparente paradosso: che, nel passaggio dalla cultura orale alla scrittura, da un dichiarato rigore conservatore delle leggi si passa a un dichiarato bisogno di riconoscere la necessità del cambiamento, dell’innovazione. La legislazione consuetudinaria orale si muta da sé; quella scritta, sentita come un progresso, ha bisogno di continue riscritture. Ci viene offerta qui un’osservazione importantissima (p. 79) che ci fa riflettere: i greci, nel loro lessico politico, non hanno una parola che corrisponda al nostro ‘rivoluzione’ (ed è un’ironia delle sorti storiche che i greci siano stati chiamati in causa proprio dalla rivoluzione prima americana e poi soprattutto da quella francese). La compattezza del tessuto costituzionale ammette non salti violenti, ma quelle che oggi chiamiamo riforme. Naturalmente il panorama è vario: i Pitagorici erano conservatori, come tendeva ad esserlo Sparta; Atene si vantava di adattarsi a situazioni nuove e non è un caso che ad Atene si ritrovassero, da varie provenienze, i sofisti con il loro relativismo. La costituzione dei padri è sacra, ed è proprio per questo che le innovazioni, necessarie, si registrano, per misurare la lontananza: qui è la bella intuizione di C., che lega il primo all’ultimo capitolo. Fra la ricca documentazione che porta, citerò solo Ippocrate (p. 91 s.), che confronta l’Asia dal clima costante con la Grecia dal clima variabile; un’impostazione che non ci soddisfa, ma ci soddisfa la sua conclusione: “Sono i mutamenti, in tutte le cose, che tengono desta la mente degli uomini e non le permettono di restare inattiva”. Chi leggerà queste pagine troverà ricca documentazione da Omero, dai tragici, da Erodoto, Tucidide, Platone, Aristotele etc. Le maledizioni contro chi ardisca mutare le leggi, già presente nell’antico oriente, continua ad esser formulata ed è (p. 108) espressione dell’“angoscia dinanzi al mutamento delle leggi, sentito come capace di destabilizzare l’istituto della polis, ... mentre le leggi in effetti mutano”. Le minacce sono una specie di esorcismo. Voglio concludere con le due pagine conclusive del primo capitolo, che, dopo che le precedenti avevano così efficacemente guardato al passato europeo, vengono al presente e a un possibile futuro. “Oggi si sta consumando un’altra fase dell’allontanamento dei greci” (p. 24); “Ora che si va eclissando il modello di ‘civiltà occidentale’... si allontanano nettamente anche i suoi padri riconosciuti” (p. 25). Devo ricorrere ancora a citazioni verbali, chiarissime, che dichiarano in sintesi i fattori del nostro ulteriore attuale mutamento: “l’accentuarsi del ruolo subalterno della politica sino a divenire una cassa di risonanza e una for-
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ma di rappresentanza dell’economia, la ridefinizione dei diritti civili in assenza dello stato (di diritto) cui eravamo abituati e rispetto a cui premeva di rivendicarli, la rimodulazione della libertà religiosa in un quadro di (ri)emergenti fisionomie teocratiche, la spinta a una riscrittura della storia che sarebbe riduttivo etichettare come ‘revisionismo’ ” (p. 25). Insomma (p. 26), si eclissa “il modello di civiltà di cui appunto i Greci erano ritenuti fondatori”. Ma la faticosa costruzione di un’identità nuova non ci può esimere dal continuare a misurare questa lontananza, che sarà percepibile solo se continueremo ad avere presenti quei punti da cui ci siamo sempre allontanati: e qui il discorso si dovrebbe allargare alle nostre istituzioni scolastiche e in genere culturali. Bisogna leggere e insegnare a leggere. Ma non è questo il luogo di fare appelli o di esprimere auspici: sarebbe inutile, visto che chi è qui al mondo antico è interessato. Propongo solo una formula che da qualche tempo mi perseguita. Perché si sente parlare tanto di d e b i t o nei confronti dell’antico? La parola ‘debito’ evoca fatica, sensi di colpa, eventuale insolvenza. In fondo un debito (almeno fino ad oggi) lo abbiamo bene o male onorato: dai naufragi della storia abbiamo conservato quel che restava dei monumenti, abbiamo ancora molti testi che leggiamo e che curiamo, abbiamo presenti i loro modi di guardare al mondo e all’esistenza. Preferirei parlare di c r e d i t o nei confronti dell’antico, di un nostro diritto a usarli come punto di riferimento, e questo credito possiamo esigerlo solo se non interrompiamo il contatto della conoscenza storica[4]. A l l o r a , a c h e s e r v e a noi l’antico? Ci serve – lo ripeto – a identificarci per differentiam. A che serve la storia? A questo. Ma bis o g n a c o n o s c e r l a . Finora il nostro mondo ha sempre misurato le distanze dall’antico: se ora stacchiamo la spina, per ignoranza dell’antico e della storia, non sapremo da dove veniamo e sapremo sempre meno dove stiamo andando.
|| [4 Rossi tra il 1999 e il 2002 aveva presentato in varie sedi una conferenza dal titolo Il nostro credito nei confronti dell’antico e alcuni modi per esigerlo: vd. pp. 572–578 in questo volume.]
Un esploratore della parola 0. Ringrazio la redazione di «Eikasmós» e tutti gli allievi di Enzo Degani per avermi affidato un compito che sento largamente superiore alle mie forze. Ricordarlo oggi con i due poderosi volumi di scritti che abbiamo di fronte a noi è fare i conti con uno studioso che ha coltivato una serie di interessi molto vari e – voglio mettere l’accento su questo aspetto – che ha lavorato molto, davvero molto: tanti sono gli studi che la scelta dei curatori ha dovuto lasciar fuori. E qui non potremo parlare delle opere maggiori, di Aion, dell’edizione di Ipponatte e degli Studi su Ipponatte, nonché dell’impresa felice di «Eikasmós». La sua dedizione al lavoro era totale, e dal suo laboratorio uscivano continuamente contributi di gran pregio perché sostenuti da una formidabile passione per la ricerca. Lo dico con parole sue (p. 1168): «la filologia […] esige dedizione, sacrificio, impegno totale». Dar conto anche solo della metà della metà di quanto qui è presentato sarebbe impossibile: mi limiterò ad alcune riflessioni sulla sua personalità scientifica riferendomi ad alcuni lavori che già ben conoscevo e ad alcuni che mi son trovato a leggere per la prima volta. Ed è doveroso un riconoscimento ai curatori, a cui tra l’altro si debbono le agili introduzioni alle varie sezioni. 1. Dovrò cominciare con un luogo comune, che è stato per lo più anche giustamente negato, e cioè che Enzo Degani (D.) sarebbe stato un ‘hermanniano’. Da troppo tempo nessuno di noi, e neanche lui lo ha fatto, può definirsi più hermanniano puro, se non per una approssimazione che farebbe torto alle trasformazioni che la nostra cultura ha subito nel corso degli ultimi due secoli. Mi soffermerò brevemente su due discipline che hanno cambiato il nostro approccio, la linguistica e l’antropologia. Hermann credeva fermamente che la lingua fosse l’espressione più totale della cultura greca, e in questo era vicino cronologicamente e in parte ideologicamente allo Herder del Saggio sull’origine delle lingue (1772), che peraltro affermava il primato del linguaggio in generale; e lo si può vedere sia come cliente della cultura razionalistica dei lumi (la lingua come sistema razionale) sia come uno dei padri dell’estetica letteraria romantica: ricordiamo il suo interesse per la poesia popolare. Certo, si può avere l’illusoria || [Intervento letto G 30.9.2004, ore 16, nella Sala Ulisse dell’Accademia delle Scienze di Bologna, per la presentazione di M. G. Albiani et alii (edd.), Filologia e storia. Scritti di Enzo Degani, voll. I–II, Hildesheim–Zürich–New York, Georg Olms Verlag, 2004 (relazioni di Graziano Arrighetti e Luigi Enrico Rossi); pubblicato in «Eikasmós» 16, 2005, pp. 383–392]
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impressione che l’espressione linguistica sia la più articolata e la più precisa, ma non certamente, per noi oggi, l’unica totale. Di troppi altri fattori culturali bisogna tener conto, molti dei quali non emergono neanche nella parola conservata, visto che così poco ci resta: alle volte mi viene voglia di azzardare delle percentuali, ma mi scoraggio dopo le prime cifre della prima decina. In più, molti contenuti non sono mai stati affidati alla parola scritta: penso, per esempio, ai misteri, al menadismo, etc., dove operavano istituti comportamentali che con la parola non hanno a che fare. E ancora: se Herder, nella sua visione linguistico–filosofica, intendeva il linguaggio in generale, Hermann si rifaceva ovviamente ai testi che lui studiava, e cioè a quelli letterari, e noi ben sappiamo che si trattava e si tratta forzatamente solo dei testi letterari conservati, così pochi – come dicevo – anche oggi che ne abbiamo alcuni in più soprattutto dai papiri. Conviene allora stabilire, come si è fatto, una sorta di parità, per così dire, democratica fra le testimonianze letterarie e le testimonianze storiche di ogni tipo, quelle che cadono sotto la competenza dell’archeologia, della storia politica e sociale, della religione, del costume, etc., e in generale, per i fatti di parola, dei testi non letterari. Linguistica e antropologia hanno poi portato alla comparazione. Bopp si era posto, dopo lo studio sul verbo di alcune lingue (1816), il problema della comparazione (1833), ma comparava tra loro soltanto lingue indoeuropee, e solo più tardi si capì che c’erano lingue che funzionavano in modo tanto diverso dalle nostre. Sul versante antropologico già Vico aveva capito che l’epos greco non era da trattare come le letterature moderne, e agli albori della filologia italiana Comparetti aveva studiato l’epos nordico. D. sapeva bene tutto questo. Se dai suoi scritti si ricava una simpatia e direi una solidarietà per Hermann come reazione a vecchi e contemporanei antifilologismi, vediamo bene come una simile etichetta lo avrebbe tradito. È per questo che parlo solo di simpatia e solidarietà: basta vedere i numerosi luoghi in cui parla di Wolf, di Boeckh e di Müller per veder trasparire, anche da un punto di vista programmatico, la sua integrazione nella nostra scienza totale dell’antichità. Vogliamo una formula sbrigativa? Da Wolf a Vitelli, direi. Ma, a breve distanza dalla sua scomparsa così drammaticamente prematura, sarebbe oggi dalle circostanze costretto a interpretare il ruolo del hermanniano puro. Siamo costretti a esserlo anche tutti noi, oggi, sia pure controvoglia. Il compito della difesa delle due lingue antiche della nostra tradizione culturale non può più derivare da un innalzamento della lingua ad espressione sovrana o anche principale di una cultura, come dicevamo prima. Ma dobbiamo difendere la lingua dagli assalti demagogici di chi vuole relegarla a cenerentola delle nostre culture antiche, che sarebbero comunicabili tutt’al più per mezzo di traduzioni o di generiche sintesi. Dal momento della sua scomparsa, la situazione è
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velocemente peggiorata e possiamo immaginare quali sarebbero state oggi le sue reazioni. Se solo potesse essere utile, non esiteremmo a gabellarci tutti come (falsi) hermanniani, magari con una strizzatina d’occhio fra di noi. 2. Non amava solenni formulazioni programmatiche, così che tutto questo è in lui di norma implicito e diviene apertamente esplicito in quel lavoro che ha dato il titolo a questa raccolta e che è stato definito il suo testamento scientifico: Filologia e storia (1999). Bisogna dire che la scelta solo per così dire hermanniana di D. è stata non un fatto di puro integralismo linguistico o letterario, bensì una scelta istintiva da un lato, divenuta poi una consapevole curiosità culturale dall’altro e, in più, uno strumento per percorsi ulteriori. La sua formidabile conoscenza della lingua (morfologia, sintassi, lessico e storia), scelta adolescenziale (come ci dice nei suoi ricordi liceali, 1307ss., del 1990), era frutto di una sua disposizione naturale, che lo portava a una instancabile esplorazione, per la quale si era ben presto attrezzato – come si dice oggi – con una marcia in più, e cioè con la sua competenza nel campo di quella che con termine generale è la l e s s i c o g r a f i a antica, tardoantica e bizantina; ma la riconquista di una unità lessicale o testuale non era mai fondata su un gioco meccanico di filologia formale, bensì si giustificava con le condizioni di a c c e t t a b i l i t à c o n t e s t u a l e nel senso più ampio: dietro la riscoperta di una glossa e dietro la scelta o la correzione testuale troviamo un istituto, letterario o latamente culturale che sia. Il suo punto di partenza era predeterminato dal suo progettato punto di arrivo: la sua passione glossematica lo portava a imbattersi in tematiche le più varie, e difficilmente troviamo suoi interventi in questo campo che si limitino al puro dato linguistico senza che da esso nasca l’interesse per l’istituzione culturale di cui la parola è espressione. In questo campo la sua competenza, e i suoi contributi, non sono limitati a quanto in questa raccolta va sotto il titolo «Lessicografia», ma è presente in una percentuale altissima di lavori, ed è spesso la molla che fa scattare l’interesse: penso per esempio alle molte note e raccolte di note testuali, ad alcune ricche recensioni, che sono sempre un modello di impegno scientifico appassionato e onesto. La nota testuale apre sempre problemi nuovi o rettifica problemi vecchi. Vorrei definirlo u n e s p l o r a t o r e d e l l a p a r o l a , che, dal suo cilindro magico, che poi era sia la sua memoria sia l’instancabile esplorazione – appunto – del lessico e dei lessici, era capace di estrarre delle associazioni davvero straordinarie. Voglio dare qui un paio di esempi, scelti fra mille. Uno è ben presente a tutti noi, ed è l’esegesi inizialmente discussa da vari studiosi, nell’Archiloco di Colonia, di παρὲξ τὸ θεῖον χρῆμα (p. 32, 1977, ma già 1975) attraverso la scoperta della decisiva voce esichiana che glossa il nesso con ἔξω
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τῆς μίξεως: la «divina cosa» va quindi intesa come «l’atto sessuale completo». Ma l’esegesi antica del passo singolo è per lui ben lontana dall’esser tutto, perché c’è qualcosa di più interessante ancora. Alcuni fra i molti partigiani della non autenticità archilochea avevano portato un argomento che poteva avere qualche peso (almeno ex silentio), e cioè l’apparente assenza dell’esegesi antica sul carme, ma la glossa esichiana, con il suo riferimento così preciso al locus classicus, gli confermò e ci conferma l’interesse degli antichi per il carme stesso e l’autenticità archilochea. Aveva rotto il silentium antico sul carme: ma c’era voluta la sua caparbia tenacia per ritrovare quella voce flebile, ma decisiva. Sul piano del metodo, una conferma forte della fragilità di ogni argumentum ex silentio. Un altro contributo davvero invidiabile è quello che chiarisce in Ar. Pax 741 la menzione di «Eracli impastatori» (Ἡρακλέας τοὺς μάττοντας) rifiutati come tema banale, fra altri, da Aristofane nelle sue commedie. Eracle che impasta? Antichi e moderni si sono trovati in difficoltà, offrendo o esegesi generiche o emendamenti. Sommerstein aveva supposto che nel Sileo euripideo Eracle, schiavizzato, potesse esser stato costretto anche a impastar pagnotte: per D. il richiamo al Sileo, con onestà scientifica attribuito a chi di dovere, lo spinge a rivedersi puntigliosamente le testimonianze di quel dramma satiresco, e che cosa scopre? Quello che all’autore del rimando era sfuggito: che Tzetze, liberato da errori e indebite correzioni, parla di Eracle che ψωμοὺς μεγάλους ἐποίησε e che negli Anecdota Crameri si legge di Eracle che ἄρτους τε μεγάλους ἐποίησε. Le parole ἄρτος e ψωμός (pp. 463ss., 1995) sono diacronicamente equivalenti per ‘pane, pagnotta’, l’una antica e l’altra di molto seriore (bizantina, cf. greco moderno ψωμί). Una bella lezione di scienza storica (riconquista di una tematica legata a Eracle), di metodo di lavoro (puntiglio) e di onestà scientifica (riconoscimento del suggerimento iniziale). Una delle maggiori conquiste di metodo in campo lessicografico è l’individuazione della ‘coppia contigua’ operata da Marzullo e sostanzialmente reinterpretata da D. nel 1977/1978 (pp. 730ss.), che la ribattezzò ‘coppia sinonimica o endiadica’. L’importante articolo Problemi di lessicografia greca abbiamo avuto nel 1977 il privilegio di averlo in anteprima a Roma (come segnalato da lui stesso in nota), quando ne fece oggetto di una relazione dietro invito al mio seminario romano: in quell’occasione la discussione fu vivace e la sua disponibilità all’ascolto confermò quanto ci viene testimoniato dal sodalizio bolognese. La sua conquista consisteva nel razionalizzare, storicizzandole, alcune voci che sembravano, e non sono, incomprensibili o assurde. La prima categoria è quella propriamente sinonimica, giustamente individuata dagli antichi in Omero, notoriamente incline all’accumulazione. Particolarmente interessante è la sua seconda categoria, quella delle coppie sostantivo–aggettivo o viceversa, che so-
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no coppie solo contestuali tali da far risalire agevolmente al locus classicus – perché lo rispecchiano – e rispondenti a una loro logica esegetica; così πυκνά non viene spiegato con πτερά (o viceversa, se si corregge l’ordine), bensì le due parole vengono solo assunte come contestualizzate nella ben nota formula omerica πτερὰ πυκνά: in altre parole, il grammatico dice sinteticamente «gli πτερά si associano all’aggettivo πυκνά» (in Omero, ovviamente). L’individuazione di queste tipologie non è fine a se stessa, ma apre a conclusioni di peso (pp. 732 e in part. 733), che hanno avuto séguito in molti lavori della scuola deganiana: «alla base di questo fenomeno lessicografico sta effettivamente la tendenza degli antichi esegeti a ricavare dal testo classico ogni possibile sussidio per le proprie chiose». Niente di diverso, a mio parere, accadeva nella biografia antica, che cercava le informazioni (e credeva di trovarle) nelle opere degli autori: insomma, u n a v e r a t e s t o c r a z i a l e t t e r a r i a h e r m a n n i a n a a n t e l i t t e r a m ? Sì, il vero hermannismo va cercato ben prima di Hermann perché, nel lavoro dei grammatici e nella scuola antica, tutto girava intorno ai testi, alla parola dei testi letterari. Un lavoro di sintesi storica è La lessicografia (pp. 790ss., del 1995), preceduta da una versione anteriore per la Marzorati (1987): non è solo una preziosa prosopografia, ma soprattutto la delineazione dei vari approcci dei Greci alla parola e un’aggiornata sintesi della complicata geologia di un plurisecolare lavorio erudito. All’inizio è la glossa, e cioè la parola difficile, e in principio c’è sempre Omero, fondamento primo dell’educazione: questo ci fa capire i procedimenti illustrati poco fa, che sono all’inizio della lunga catena, e qui troviamo gli importanti rapporti con la successiva scoliastica, specie omerica. D. ci fa seguire il progressivo allontanarsi dell’attività esegetica dal contatto diretto con i testi per finire, attraverso l’ellenismo, all’epoca imperiale, tardoantica e bizantina, quando il lavoro diviene sempre più di seconda e terza mano, e quando alla finalità di informazione esegetico–erudita se ne aggiungono altre, come quella precettistica (per es. l’atticismo). Questa rinascita d’interesse per un campo assai trascurato, ma vivo fra i suoi allievi, arricchirà progressivamente anche la storia della fortuna dei testi. Le due paginette di Il mostro di Irvine, del 1992 (pp. 914s.), rivelano un atteggiamento davvero interessante. Tutti noi soffriamo del fatto che il Thesaurus elettronico è niente più che un index e una concordanza (per di più senza apparati, come lui notava), e chissà quanto dovremo aspettare prima che, con l’aiuto dell’informatica ma con un massiccio intervento umano, si ottengano dei veri lexica di autori singoli, per poi approdare magari fra decenni a un grande Liddell–Scott elettronico, a un ecumenico lexicon. Aegri somnia, direte. Ma D. attacca il Thesaurus sul suo stesso attuale terreno, quello della, pur disagevole,
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completezza: «la sua oceanica ‘cariddi’ avrà forse ingollato quasi tutto, ma certo non ancora tutto ciò che era ingollabile». E lo dimostra con testi bizantini e con una glossa di Esichio. Insomma, per continuare con la sua immagine ipponattea, si presenta implicitamente come una Cariddi che non ingolla, ma che serve in tavola e consuma i frutti di una autonoma, umana elaborazione. A proposito della incalcolabile ricchezza del patrimonio d’informazione linguistica e testuale contenuta in questi due volumi, mi permetto di suggerire ai benemeriti curatori un addendum che sarebbe prezioso: un index verborum, a integrazione dell’ottimo indice analitico dovuto a due curatori. Ci permetterebbe di utilizzare questo mostro linguistico–lessicale che D. era, così perfettamente umano e ragionante: una vera miniera, e, conoscendolo, credo che l’immagine del minatore non gli sarebbe dispiaciuta. Spesso note critiche, che si ripetono da un lavoro all’altro, riappaiono o arricchite o riassunte, e sarebbe quindi opportuno riportare anche le occorrenze ripetute, che alle volte compaiono per di più in contesti e per scopi diversi. Sarebbe un’apprezzabile appendice, umana appunto, al disumano meccanicismo del mostruoso Thesaurus informatico che ci troviamo a dover usare. 3. Confessiamoci con sincerità un fatto che, credo, ci riguarda un po’ tutti, con poche eccezioni. I g r a n d i l a v o r i d ’ i n s i e m e , possibili comunque in età non propriamente giovanile, sono faticosi, ce li risparmieremmo volentieri, ed è per questo che ci riduciamo normalmente a dedicarci ad essi solo quando ci vengano commissionati. Sono lavori che richiedono uno sforzo di sintesi e la capacità di selezionare l’informazione dossografica. Ebbene, ammiro la capacità di D. in questo genere impervio perché trovo sia commissioni sia lavori interiormente necessitati e realizzati per scelta. Della lessicografia ho già detto. Oltre la tragedia (pp. 255ss., del 1979), ricordo qui la poesia parodica (pp. 497ss., del 1982), la poesia gastronomica (pp. 529ss., 547ss., del 1990/1991), l’epigramma (p. 596, del 1993). La parodia e la gastronomia: due gioie, per lui, una impersonata dal suo autore d’elezione, Ipponatte, e l’altra professata nella vita privata. Dovrò qui selezionare molto arbitrariamente. Una delle sue sintesi che a suo tempo più mi ha interessato è stato il contributo per la Fondation Hardt (pp. 414ss., 1993) su Aristofane e l’invettiva personale del giambo. È un vero e proprio lavoro di sintesi ed è la dichiarazione della sua posizione sulla commedia, tante volte trattata nei dettagli. Allora mi trovai sostanzialmente d’accordo con alcune critiche e alcuni dubbi che espressero in stampa gli altri partecipanti all’incontro. Oggi vedo quel lavoro più chiaramente in quelle che mi sembrano le sue motivazioni, lo ‘storicizzo’, per usare una parola e un procedimento suoi.
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Si era nel momento in cui più intensamente circolava nei nostri studi l’idea bachtiniana del carnevale, che tendeva a inglobare in un ampio insieme antropologico fenomeni diversi e lontani nel tempo. Ma a suo (giusto) parere – e, conoscendolo, questa reazione era inevitabile – quella teoria nella sua forma più generica, peraltro oggi in genere seguita con molta cautela, era troppo povera di concreti guadagni euristici. E allora si trovò a difendere, a mio parere per reazione, un altro tipo di insieme, una connessione letteraria fra generi: a questo si sentiva portato da una interiorizzazione del dettato verbale, che oggettivamente (una sua categoria di concretezza) legava Aristofane a Ipponatte. Solo, molti dei richiami verbali e tematici (l’escrologia, la derisione scommatica, la parodia, etc.) appaiono più fatti di persistenze culturali che segni di una parentela propriamente letteraria. Qui, a mia giustificazione, devo confessare una mia idiosincrasia del tutto personale: la mia ripugnanza a chiamare ‘letteratura’ la produzione greca fino almeno a tutto il V secolo per i suoi così diversi modi di pubblicazione e di ricezione rispetto a quanto si affermò definitivamente fra IV e III secolo: c’erano tante non controllabili interferenze fra testi e istituti verbali e culturali vivi, affidati all’uso e alla memoria, e solo alle volte riconducibili a un testo preciso. Ma non posso non sottoscrivere quanto, da storico avvertito, D. dice con chiarezza proprio in quel contesto (p. 436): «I due generi [scil. giambo e commedia] […] hanno in effetti molto in comune [specialmente la ἰαμβικὴ ἰδέα] […]. Non a caso i due generi fiorirono in periodi storici particolarmente ‘caldi’– per la giambografia: l’età della lotta tra γένη rivali, delle guerre ed espansioni coloniali, quella di Archiloco e Semonide; l’età delle tirannidi quella di Ipponatte, altrettanto piena di inquietudini sociali». La situazione politica dell’età della commedia ci è ben più nota, e lui non aderiva alla valutazione politicamente agnostica della commedia stessa. Ho citato le sue lucide parole perché mi hanno spinto a rileggere queste pagine con gioia, e una serie di accostamenti mi è sembrata comunque illuminante. Voglio ricordare un altro importante lavoro di sintesi, Ipponatte e i poeti filologi (pp. 131ss., 1995). Qui D. affronta una strana crux storico–esegetica, elusa o mal risolta da altri, quella cioè della spiegazione della preferenza degli Alessandrini per Ipponatte rispetto ad Archiloco. A parte l’omericità di Archiloco, che in Ipponatte diventa parodica (e quindi gradita agli allusivi callimachei), la diabolica versatilità linguistica e le dissacrazioni di quest’ultimo erano fatte per attirare i filologi e i poeti filologi (in part. pp. 128, 136). Filologo Ipponatte non era, nel senso alessandrino: ma certo fornitore, al suo selezionato pubblico della consorteria, di abili e anche sofisticate armi verbali, destinate a piacere molto più tardi a un pubblico diversamente selezionato e desideroso, più che di armi, di piacere letterario, in parte – beninteso – destinato a una politica più di
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consenso che non di lotta. Rimetto in gioco il suo lucido quadro storico citato poco fa per giambo e commedia e lo riciclo per giambo arcaico e poesia ellenistica. E qui, in tema di Ipponatte e di Aristofane, vorrei segnalare due lavori in cui viene data documentata ragione di procedimenti di t r a d u z i o n e . Come! Un hermanniano che si preoccupa di tradurre? Ebbene: queste note di traduzione sono esegesi della più alta qualità, da cui molto si impara. Pochi esempi. Per Ipponatte (pp. 101 ss., 1984) viene rifiutato per μητροκοίτης (‘che si giace con la madre’) il ‘fottimadre’ di Romagnoli, «seducente, ma in tal caso il greco non è triviale»: un’attenzione per il suo autore, violento ma non volgare, che usa un composto di alto livello stilistico, senza cadere in basso, almeno nella forma. Nel 1990 (pp. 387ss.) esce una dettagliata giustificazione delle scelte fatte per la traduzione delle Nuvole siracusane. A parte la brillante idea di ‘Sparagnippide’ per Fidippide (p. 120), trovo un autentico capolavoro di intelligenza linguistica – ὀλίγον (χρόνον), ‘un po’ di tempo’ e ἀκαρῆ (χρόνον), ‘un istante’ – e di conoscenza del processo attico, che, in risposta a Socrate che gli chiede «Che fai se uno te le suona?», lo porta a far dire a Strepsiade (vv. 494–496) così: «Le prendo, me ne sto buono un po’ [ὀλίγον], per non buscarne di più [un’aggiunta per funzionalizzare il moderato accusativo temporale ὀλίγον], e mi cerco dei testimoni; poi, un solo istante [ἀκαρῆ] e faccio querela!» (p. 398). Un regista accorto dovrebbe inscenare un’eloquente gestualità per non perdere quello che le parole fanno chiaramente intendere: le ben note didascalie interne ai testi del dramma hanno bisogno di un lettore moderno dall’orecchio assai fino. Traduzioni azzeccate sono comunque frequenti nelle note testuali: in Matrone εὖ εἰδὼς δειπνοσυνάων, che ricalca Od. V 250 εὖ εἰδὼς τεκτοσυνάων, viene reso con «esperto in pranzitettura» (p. 550), che conserva in italiano un’eco della parodia epica. Ricordo che Croce, nell’introduzione al suo Goethe, dice che la traduzione è un atto d’amore per il testo tradotto. 4. Si è detto più volte, e l’ho ripetuto anche qui, che D. non era incline ai proclami programmatici. Anche in questo era pasqualiano[*]. A quanto so del suo itinerario politico, e a quanto leggo specie nelle pagine dedicate a filologia e marxismo, delle strettoie ideologiche era nemico; nel 1979 (p. 961), parla di
|| [* Rossi allude ad una formulazione – che spesso citava – di Giorgio Pasquali, secondo la quale non esistono discipline singole e precisamente delimitate, ma solo singoli problemi “che devono essere spesso affrontati contemporaneamente con metodi desunti dalle più varie discipline” (Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 19522, p. XIII s.): il che conduce al rifiuto di un singolo metodo valido universalmente per tutte le situazioni. – G. C.]
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«sterile dogmatismo», ma poco dopo (p. 963), reagendo a ipocriti sincretismi, dice anche: «è vero che il marxismo non è dogmatico, ma la sua ‘flessibilità’ dovrà pure avere dei limiti». Ebbene, anche in un campo da lui molto praticato, quello della s t o r i a d e g l i s t u d i , l’orientamento di metodo non è affidato a proclami, bensì alle singole scelte operate dai personaggi da lui delineati, scelte che vengono di volta in volta segnalate e poi approvate o censurate, beninteso con i dovuti riferimenti alle varie situazioni culturali e quindi con equilibrate giustificazioni storiche. Ha perfino apprezzato l’alleanza di filologia e archeologia, propiziata da Loewy, nei primi anni del pur detestato Romagnoli (pp. 937ss., del 1968); ha riconosciuto alcuni meriti di Fraccaroli (p. 1088); è stato forse un po’ ingeneroso con Comparetti (pp. 1061–1064), quando lo censura così duramente per le Laminette orfiche, per i Papiri letterari ed epistolari e per l’edizione della Guerra gotica di Procopio: vedo comunque qui l’impegno di chi si sente tenuto a valutare ogni singola voce di un’intera produzione. Ogni opera è sottoposta a una vera e propria recensione, per approdare alla fine a una valutazione complessiva dello studioso. Sbaglio se vedo qui lo scrupolo di un coscienzioso commissario di concorso? Si trattava di concorsi postumi, ma importanti perché volti a dare un posto non nell’istituzione, bensì nella storia. In verità il settore di storia degli studi, così ben rappresentato in «Eikasmós», è uno dei più ricchi, in questa raccolta. Mi colpisce un fatto: la tenace autopsia delle opere dei vari studiosi trattati, una serie di recensioni, come dicevo. Di fronte all’enorme massa d’informazione che ci offre, devo congetturare – per non scoraggiarmi del tutto – che almeno qualche voce di bibliografia discussa sia frutto di seconda mano: ma temo che siano poche davvero. Qui trova posto un lavoro formidabile, che – se ricordo bene – fu originato da una committenza, per di più pressante e urgente: La filologia greca nel secolo XX in Italia (del 1989). Dello stesso anno è la storia del greco a Bologna, dove sento fra le righe il giusto orgoglio di chi sentiva di aver lasciato traccia ben percepibile in questo ateneo: e qui leggo il modo con cui è presentata la vicenda politica di Coppola (pp. 1165ss.), vicenda da lui non certo approvata, ma rispettata in quanto onesta e totale (p. 1169: «[Coppola] non va […] confuso con quei classicisti che per opportunismo strizzarono l’occhio al regime e lo fiancheggiarono al punto di diventarne magari i corifei: il suo ‘contributo’ […] fu assai più intenso, fattivo, di prima linea»). Un riconoscimento etico, anche se non culturale e politico. Mi dispiace liquidare così in fretta pagine tutte fondamentali, dalle quali emergono anche figure minori ma importanti per la nostra storia (ho conosciuto tanti a me ignoti, come per es. Pelliccioni): la sua attività verteva soprattutto sulla filologia italiana, alla ricerca delle nostre radici, mentre quella d’oltralpe
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la commissionava per lo più per «Eikasmós». Vorrei aggiungere un’impressione globale di lettura di questa sezione: quella di una simpatetica pietas biografica che lo porta a seguire con passione il Bildungsroman di ciascuno, ricostruito con tenace accuratezza archivistica. Pare quasi che ripensi al proprio, e non facile, romanzo di formazione: dai primi studi scolastici (pp. 1307ss.), alla immatura vocazione per la chimica industriale (p. 969), alla conversione agli studi classici propiziata da Diano (pp. 969ss.), al periodo patavino, a quello cagliaritano con Marzullo, all’approdo finale al magistero bolognese. 5. Vorrei sintetizzare con una immagine il poco che mi è riuscito di dire sul molto: per Enzo Degani l a p a r o l a è s t a t a u n a s p e c i e d i b i g l i e t t o d ’ i n g r e s s o non a uno spettacolo vissuto passivamente, bensì all’itinerario attivo in un sistema o meglio in un universo, quello di un autore, di un genere, di un momento culturale. La sua esplorazione della parola lo portava a contatto con una quantità non solo di autori minori, ma anche di generi minori e poco esplorati. Quello che rende molto attuale il suo approccio è – com’è stato più volte riconosciuto – il suo costante punto di arrivo antiumanistico, diciamo – per capirci meglio – a n t i c l a s s i c i s t i c o . Anche su questo nessun proclama, se non la occasionale derisione di chi va a caccia di eccellenze umanistiche, trovandole o inventandole. La cultura greca ha in sé i suoi antidoti contro il classicismo: basta accorgersene, e lui se ne accorgeva. Un esempio di presa di posizione storico–letteraria è la documentata conferma di Filosseno di Citera come autore del Deipnon (1998: pp. 564ss.): a lui viene negato da molti come indegno di un ditirambografo, ma (cito, p. 582) «credo che in nessuna letteratura manchino esempi di autori, pur serissimi, che occasionalmente si siano dedicati a composizioni di natura frivola e scherzosa». E cita l’accoppiata tragedia/dramma satiresco, l’attribuzione antica a Omero del Margite e della Batracomiomachia, e infine Ennio, «l’insigne vate degli Annales», che compose «i sorridenti Hedyphagetica». Non è forse superfluo dire che uno degli idoli del classicismo paludato, sempre in agguato, è quella che chiamerei la specializzazione del degno e del serio, contraddetta da una visione storica sia del mondo antico sia del mondo moderno, che ci offrono numerosi esempi di unione personale, di versatilità, funzionale o elettiva che sia. Leggendo di séguito questi lavori, non si può fare a meno di segnalarne la s c r i t t u r a . Lo stile di D. si è sempre distinto per la chiara esposizione della documentazione e per il rigore delle inferenze: uno stile di fatti concreti, da spiegare chiaramente prima a sé e poi agli altri, e vedo qui la realizzazione di una mimesi scritta dell’insegnamento orale, che dagli allievi viene ricordato come chiaro e trasparente nella sua essenzialità. Uno stile di per sé humilis per-
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ché umile dev’essere la ricerca. Cito a caso (p. 82, del 1980): la «mancanza di umiltà […] della filologia non sembra l’alleata più raccomandabile». Tutti ricordiamo, d’altra parte, l’ostinazione, anche polemica, con cui difendeva una testimonianza attendibile, un dato testuale sicuro. E molte volte leggendolo ci si diverte: la vis polemica, fonte spesso principale della sua reazione intellettuale, si stempera col crescere in età in discorso più pacato, ma non rinuncia mai all’immagine pungente, alla battuta dotta o popolare, quest’ultima dettata da un orecchio sempre attento a raccogliere perle di tradizione dialettale, sia del natio Veneto sia degli altri ambienti in cui si è trovato a lavorare e a vivere. Testimonianza di uno studioso che, pur chiuso nella sua petrarchesca cameretta, ha guardato al mondo e alla vita. Uno stile del quale poco si può imparare, perché è personale, ma che aiuta non poco a seguire le vie intricate della filologia e della storia.
Presentazione degli Scritti di Letteratura greca e di storia della Filologia di Giacomo Bona* Prima di tutto congratulazioni agli amici Vittorio Citti e Gian Franco Gianotti per aver realizzato un’impresa che alla memoria di Giacomo Bona era dovuta ed era dovuta a tutti noi, amici e lettori di uno studioso e di un docente che ha lasciato grande rimpianto e per i contenuti che ha trasmesso e per lo stile con cui ha svolto il suo magistero. E poi grazie per avermi chiesto di fare questa presentazione, che è anche una sorta di riparazione per una causa certamente dovuta al mio personale disordine: a suo tempo non avevo certamente reagito tempestivamente alla comunicazione dell’iniziativa e all’ultimo momento non si è riusciti a inserirmi nella tabula in memoriam, nella quale mi sento idealmente presente. E un saluto a tutti gli amici torinesi e non. Il mio pensiero va soprattutto alla Signora, la Professoressa Luciana Bona Quaglia, e ai figlioli, Edoardo e Maria Enza, che ho conosciuti bambini. Per dar ragione delle sue argomentazioni e dei suoi contributi ci vorrebbe ben altro che la breve sintesi che qui intendo dare: mi limiterò quindi a segnalare quello che a me lettore ha dato più contributi alla riflessione. La brevità ha dei pregi, ma alle volte ha il difetto di essere ingiusta. A Giacomo Bona ero legato da un’amicizia antichissima, ai cui inizi non sono neanche in grado di risalire con precisione. È stato per me, come per molti altri, amico di una vita, e questo anche se i contatti diretti si distribuivano con intervalli ampi, e oggi mi dico con tristezza che erano troppo ampi. Ma era di quelle persone che, come si dice, si ritrovano sempre come le si è lasciate: la sua fedeltà a un rapporto di stima e di amicizia era assoluta. Ricordo che mi è stato vicino in alcuni momenti in cui si ha bisogno di una parola fraterna. Il suo humour era tale da non offuscare mai la sua bontà e la sua sincerità di fondo, perché era sempre annunciata da un percettibile segnale (spesso un brillìo negli occhi). E anche perché la sua ironia nasceva da una fonte che sta diventando rara, e cioè l’autoironia. Questa premessa vale a dichiarare il rispetto e la pas-
|| * Questo contributo e i due successivi, di A. Corcella e V. Citti, corrispondono agli interventi tenuti [a Torino] il giorno [Mc] 25 gennaio 2006 [ore 16] in occasione della presentazione del volume, a cura di V. Citti e G. F. Gianotti, Amsterdam (Hakkert) 2005[; il contributo è stato poi pubblicato in «Quaderni» del Dipartimento di Filologia, Linguistica e Tradizione classica “Augusto Rostagni” dell’Università degli Studi di Torino, n.s. 5, 2006, pp. 13–21].
https://doi.org/10.1515/9783110648140-041
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sione con cui ho riletto alcune sue pagine che mi erano note e con cui ho letto quelle che non conoscevo. Voglio aprire queste mie notazioni rilevando una sua qualità: l’estrema leggibilità della sua scrittura. Non ho avuto se non di rado l’occasione di ascoltarlo parlare, ma si trattava di occasioni solenni, congressuali. Nella semplicità e – voglio dire – profonda onestà espositiva della sua produzione sento la sollecitudine del maestro che fa lezione e che vuol essere capito dai suoi allievi, che vuole convincerli con prove fondate, salvo esprimere dubbi quando si debba esercitare la hermanniana ars nesciendi. Citava con abbondanza i testi che discuteva, e i suoi lavori sono ricchi di epesegesi mai superflue, sempre sobrie, sempre finalizzate alla conduzione del suo pacato ragionare. Credo proprio di non sbagliare pensando che il suo stile derivi da una prassi d’insegnamento di alta qualità didattica, che – dobbiamo riconoscerlo – non guasta neanche nell’esposizione scientifica, che tante volte rischia di cadere nell’esoterismo del sottinteso o del presunto ovvio. È stato un lettore attento, soprattutto appassionato, dei testi. Poteva conoscere la letteratura secondaria, ma ammiro la forza, direi la testardaggine, con cui si volgeva al testo e lo analizzava allontanando quello che, prendendo a prestito dalla teoria dell’informazione, chiamerei il ‘rumore’ o ‘disturbo’ del parere altrui, al quale ritornava poi con rispetto, ma forte di acquisizioni prodotte dalla lettura diretta. È così che mi immagino il suo percorso mentale. Ma da quale motivazione veniva la sua lettura e rilettura dei testi? Io tendo a distinguere due tipi di lettura, non dal punto di vista ideologico bensì pratico e fattuale: uno è la lettura libera del testo, quella che definirei umanistica, scevra da impacci – anche se seriamente storico–filologici –, un godimento diretto, del quale devo rendere conto solo a me stesso. Certo, se ci limitassimo a questo approccio in sostanza impressionistico, non ne verrebbe alcun guadagno per la ricerca, anche perché saremmo continuamente esposti, addirittura inconsapevolmente, a letture in parte ambientate nel mondo antico (trasferendo noi stessi nell’antico, come gli umanisti d’antan, e quindi facendo torto alla nostra cultura moderna) e in parte attualizzanti (trasferendo l’antico nel contemporaneo, facendo quindi torto all’antico, come si fa spesso oggi). Ma l’approccio libero è una categoria mentale insopprimibile, e questo tipo di approccio va raccomandato almeno nei giorni festivi, per ritornare poi nella settimana lavorativa alle nostre preoccupazioni storiche, unico antidoto ai due atteggiamenti polari segnalati prima. Ebbene, non posso fare a meno di prendere alcune parole, che faccio mie, dalla bella Presentazione di Vittorio Citti (p. III): gli stava a cuore «la composizione delle antitesi, in modo da salvare per quanto possibile l’unità di ispirazione di un’opera nella forma in cui era stata trasmessa». In altre parole,
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un lettore che privilegiava gli hóla àsmata, come Fraenkel chiamava le grandi opere conservate per intero. E il canone delle opere che amava era precisamente umanistico, perché più remunerativo in questo approccio: soprattutto l’epos e la tragedia. Vedo in lui un approccio umanistico che ritengo non solo lecito, ma addirittura raccomandabile: perché era poi seguito da una rigorosa verifica storico–filologica del suo iniziale atto d’amore. Posso solo osservare che il suo approccio iniziale lo portava naturaliter a posizioni sostanzialmente unitarie, più lecite – secondo me – in tragedia (i primi libri della cultura greca, come disse Wilamowitz) che non nell’epos. I suoi testi dovevano avere un inizio, un centro e una fine e non dovevano troppo resistere nelle loro eventuali incoerenze interne. Da qui il suo approccio asistematico (come dice ancora Citti, p. VI), che rispondeva a esigenze interiori non – per così dire – programmabili: e questo si nota sia nei lavori la cui motivazione era una scelta sia in quelli commissionati in occasione di incontri o congressi. Ripeto: grandi testi, e possibilmente integri. Non credo di sbagliare se attribuisco parte del suo iniziale spaesamento all’insegnamento della Papirologia, che a un certo punto gli fu assegnato dalla Facoltà: dovette essere inizialmente duro rassegnarsi a frustuli di testo, che non erano certo la sua vocazione. Una innegabile virtù di Giacomo era (ed è, nei suoi scritti) la modestia, ma anche la fermezza, con cui presentava, sia a voce sia negli scritti, le sue idee. Leggendo di seguito queste pagine, quante volte troviamo una umile, ma comunque ferma, dichiarazione: ‘così mi sembra’, ‘a mio parere’ e simili. Perché parlo anche di fermezza? Perché quelle formule erano anche un modo, signorilmente discreto, di affermare la propria paternità di un’idea, di una soluzione. Citti ha scritto (p. III) parole che faccio di nuovo mie, per esperienza altrettanto personale: «Giacomo Bona era il personaggio che durante un viaggio in ferrovia o alla fine di una cena ti prendeva a parte con discrezione, e, con l’aria di chi ti sta raccontando un modesto pettegolezzo da cortile accademico, ti metteva di fronte» (e qui continuo con parole mie) a un argomento che gli stava veramente a cuore, e per la gioia di esporlo e per metterlo alla prova del parere del suo interlocutore. Posso dire che da lui ho imparato un certo modo di amare le mie idee. Il suo primo scritto, Il noos e i nooi nell’Odissea, è del 1959: rivela un’attitudine che resterà in lui costante, ed è per questo che ne parlo a lungo. Una lettura del testo fatta davvero con amore e con costante vigilanza esegetica. Allora non c’erano non dico gli strumenti elettronici che abbiamo oggi, ma neanche la ristampa delle concordanze omeriche. Era, per di più, un mondo di ricerche omeriche che era dovunque pre–parryano, perché Parry, che scrisse fra il 1928 e
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il 1935, non sfondò negli studi se non molto tardi, si può dire non prima degli anni ‘60, specie in certi ambienti (lo scoprii a Roma, nel generale deserto, nel 1960). E sappiamo quanto tempo ci volle perché penetrasse nella critica tedesca. Io – come tutti noi, credo, oggigiorno – ho difficoltà a definire senza sfumature il mio approccio a Omero: penso – per essere breve – che le certo numerose redazioni dall’orale allo scritto di parti dell’arcipelago epico abbiano seguito una via verso un’unità, non certo raggiunta compiutamente nel senso moderno della parola, ma solo parzialmente realizzata. Confesso che mi sento lontano da un approccio unitario. Ma quello di Bona era un unitarismo diverso da quello che viene largamente praticato oggi, con continui ammiccamenti a teorie formalistiche e/o sistemiche di vario tipo. Direi, invece, che l’unitarismo di Bona è un unitarismo onesto, come onesti erano anche sia l’analisi sia l’unitarismo di ormai quasi due secoli, figli ambedue di quel positivismo che oggi guardiamo spesso con aria di sufficienza senza riconoscere ad esso il merito di aver pazientemente letto i testi e averci fornito tanti rilevamenti interessanti (senza i mezzi di ricerca che abbiamo oggi): l’unitario, fra l’altro, non disdegnava di discutere i dati degli analitici. Sostengo da qualche tempo che, senza sentirmene certo la forza, quella letteratura critico–esegetica (sia unitaria sia analitica) dovremmo rileggercela tutta (e forse sarà proprio l’informatica ad aiutarci). Ma torniamo al lavoro di Bona. Il suo punto di partenza (p. 3) è Od. 18.130–7, dove Iro, il pitocco di Itaca, considera la misera sorte degli uomini, il cui «pensiero (nóos) è tale quale il giorno che invia il padre degli dei e degli uomini», è cioè mutevole (lascio da parte il problema analitico, al quale B. non sfugge, se le parole di Iro siano al loro posto in quel contesto e il possibile rapporto con Archiloco). Il punto di arrivo (p. 42) è la lode che Atena fa di Odisseo (Od. 13.330–32): «nel tuo animo è stabile il nóema; sei gentile (epetés), saggio e prudente (anchínoos e echéphron). Per questo ti proteggo nella sventura». La promozione di Atena è la promozione di B., che si impegna – con successo, devo dire – nel delineare un Odisseo dell’Odissea (esclude giustamente l’Odisseo dell’Iliade) come eroe perfetto, perché il suo nóos è giusto e non muta e si rivela anche negli accorti inganni. Mi piace sottolineare una, fra le tante, notazioni che colpiscono (p. 48s.): l’accorto parallelo, nel XIX dell’Odissea, fra il sorriso di Odisseo di fronte alla diffidenza di Penelope, sorriso compiaciuto, e quello di Calipso nel V di fronte alla diffidenza di Odisseo, altrettanto compiaciuto. È l’unico esempio che, in questa sede, posso portare di una delle tante notazioni preziose, che aiutano a superare le strettoie della fredda lettura filologica e che apre a quel plaisir du texte che era il suo. Da quanto ho detto, si può capire quanto vorrei rileggere approfonditamente i suoi Studi sull’Odissea, che sono del 1966. Da questo studio giovanile vedo l’ansia di trovare una coerenza che non esito a definire profon-
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damente etica, un orizzonte di pensiero che lo accompagnerà sempre nelle sue scelte di studo. Nel lavoro su hypsípolis e ápolis nell’Antigone (57ss., 1971) si manifesta pienamente il suo interesse filosofico–etico–politico e il suo bisogno di reperire una coerenza interna all’opera, per la quale rivendica la funzionalità drammaturgica del primo stasimo, da alcuni visto come un corpo estraneo: il coro non sa ancora chi sia stato l’autore della straordinaria azione di seppellire Polinice, e può quindi esprimersi in termini generali sia etici sia politici: il coro assume quindi un atteggiamento che oggi si chiamerebbe bi–partigiano. Riporto sue parole conclusive (p. 70): «In questo punto del dramma…, opportunamente, mi pare, il Coro non indica esplicitamente, fra Antigone e Creonte, il giusto e il colpevole, lo hypsípolis e l’ápolis; né avrebbe tutti gli elementi necessari per farlo: esso non sa ancora, per esempio, quali motivi abbiano spinto ad agire l’ignoto seppellitore.» I due aggettivi vengno esaminati con acume, coinvolgendo nella discussione le concezioni politiche dell’Atene dei sofisti (Protagora). Nel lavoro sull’Elettra di Sofocle (p. 129ss., 1986) la ricerca nasce dal bisogno di valutare prossimità e distanza della tragedia di Sofocle dalle Coefore e di liberare Sofocle da una sudditanza che la moderna critica riconosce in Eschilo, dettata da pigrizia esegetica. Anche qui il fuoco della discussione è etico. La legge del taglione ispirerebbe Elettra, secondo i critici, ma B. rilegge alcuni versi (580–83, p. 132ss.) e l’intera tragedia per escluderlo. Un caso di esegesi veramente acuta è la valutazione funzionale di quello che viene da lui definito ‘paesaggio’ e che è la realtà scenica di Micene, con inusuale minuzia descritta dal pedagogo nel prologo (p. 136ss.), ad un Oreste che ne era stato allontanato bambino e che quindi non poteva riconoscere nulla. Ma B. non punta certo a questa funzionalizzazione razionalistica: il dramma greco ha ben altre e maggiori aporie e secondo me, se Oreste avesse riconosciuto luoghi che non poteva conoscere, nessuno fra gli spettatori ci avrebbe fatto caso. Ed ecco una delle sue tante intuizioni: «Nell’indicare i vari luoghi il pedagogo non si limita a dirne il nome ma sempre v’aggiunge un epiteto o accenna brevemente ad un mito ad essa connesso. Ora, tale modo di presentare i singoli luoghi indugiando di volta in volta a ricordarne la storia deve avere una funzione nell’introduzione del dramma» (p. 137). La funzione che B. mette in luce è la contestualizzazione della missione di Oreste come timorós del padre nel luogo e in tutta la storia mitica della famiglia, che così viene rievocata e reinterpretata, missione che gli viene affidata dall’oracolo di Apollo e che non ha a che fare con l’arcaica legge del taglione. Tutto si tiene, in questo bel lavoro, e testimonia, come ho detto più volte, una lettura che scende davvero nelle profondità del testo.
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Due lavori, in stretta connessione l’uno con l’altro, trattano Eschilo e la tragedia (229ss.) e fattori essenziali della polis come il rapporto con la religione e il coinvolgimento delle donne, fatti visti in filograna con la tradizione epica (243ss., 1997). In questi lavori l’attenzione alla problematica etica ed etico– religiosa continua. Non entro nelle considerazioni sulle motivazioni della catena di omicidi, che mi trovano d’accordo e che del resto erano state discusse anche nell’articolo sull’Elettra di Sofocle. Mi ha colpito molto la funzionalizzazione del coro femminile dei Sette alla messa in rilievo della dimensione eroica di Eteocle, coll’opportuno parallelo con il dialogo Ettore–Andromaca: ‘noi eroi e uomini vs. voi donne’. Quanto all’Agamennone, voglio segnalare una delle sue formulazioni davvero intelligenti (240). In perfetta coerenza con le motivazioni di Clitemestra per l’assassinio del marito, ecco le sue parole: «Nessun messaggero avrebbe potuto e saputo dire ad un tempo quanto era accaduto ed esprimere tutta la esultanza interiore e l’intima gioia colla quale Clitemestra aveva agito; solo lei poteva esprimere compiutamente tutto questo». Insomma: la regina come messaggera dell’animus con cui da lei stessa è stato organizzato e compiuto il delitto. Quanto altro in questa rivisitazione antropologico–etico–religiosa di Eschilo ci avrebbe regalato il nostro carissimo amico se non ne fosse stato distratto prima da pesanti oneri didattici, a cui rispondeva con scrupolo, e poi dalla disagiata e logorante situazione logistica degli ultimi anni. Il lavoro sull’Encomio di Elena di Gorgia (73ss., 1974) va visto come un ulteriore tentativo di salvare una coerenza etica persino in Gorgia, per noi (e non solo per noi) tradizionalmente il retore ingannatore. Sulla potenza del lógos la formulazione è fulminante (p. 88): affermando che per Gorgia il lógos domina la vita degli uomini, e che agisce nella poesia, negli incantesimi, nella politica, dice: «Ma esso non fa mai approdare l’uomo a una certezza salda e sicura. [E qui B. aveva esaminato anche le teorie dei fisiologi]. È un logos che vive divorando se stesso, distruggendo via via quanto prima ha creato e sostituendolo con altro che domani distruggerà» [corsivo mio]. Splendido. A me resta solo qualche dubbio sulla autodefinizione che Gorgia dà del suo Encomio come paígnion. E anche il nómos che dice di essersi imposto (p. 77) siamo sicuri che «non possa essere, come è stato spesso supposto, una generica norma retorica», ma una superiore istanza etica? Questi dubbi che mi restano (in sé leciti per le ambiguità di Gorgia) non intaccano la mia ammirazione per un lavoro fra i più impegnati di questa raccolta. Vengo all’articolo su Elena, «la più bella di tutti i mortali» nel fr. 16 V. di Saffo (93ss., 1978). Questo a me pare uno dei suoi lavori più belli. Intanto mi piace il deciso rifiuto del locus similis di Il. 15.661–4, che viene abitualmente riportato negli apparati per il legame con genitori, moglie e figli, accortamente
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sostituito con Od. 4.261–4, in cui Elena si rappresenta come è rappresentata in Saffo, vittima di una divinità che le ha fatto dimenticare patria e famiglia, un’interpretazione del mito di Elena «che si può definire religiosa» (95). Quei paralleli riportati, alle volte indiscriminatamente, negli apparati di loci similes li leggeva o rileggeva davvero e li valutava con severa attenzione. E fin qui tutto fila. Ma segue una domanda importante: perché Saffo la definisce «la più bella»? E la più efficace risposta (97ss.) viene dall’Inno ad Afrodite, 33–44, dove la potenza della dea non lascia scelta, per la sua predilezione per Elena la bellissima. Le sue parole conclusive non possono non venir ricordate (101s.): «Quello che a noi potrebbe apparire capriccio o inclinazione personale, per Saffo è manifestazione della potenza divina … omissis … Così interpretata, l’ode di Saffo si ricompone in una sobria unità poetica, in cui nulla è superfluo o puramente esornativo». E forse, qui, il più sobrio è il nostro Giacomo: perché non rimettere l’accento anche sulla profonda funzionalità della Priamel iniziale, che non è affatto esornativa? Veniamo ai due lavori su Cratino (149ss., 181ss., 1988, 1992). B. conosceva bene il suo Aristofane, e penso che a Cratino si sia avvicinato con impegno nel suo insegnamento che definirei papirologico–frammentario, ma anche qui, nel primo di questi lavori, non rinuncia a costruirsi con pazienza una sua visione d’insieme che va oltre quanto si ricostruisce dalle testimonianze soprattutto di Aristofane. Lo spunto gli viene dal P.Oxy. 663 (1973) del Dionisalessandro con la hypóthesis. Che la commedia fosse politica e avesse come bersaglio Pericle è pacifico: ma quello che dà il tono al contributo è l’accostamento e il confronto fra Pericle–Zeus, tiranno razionalizzatore della vita cittadina, e l’età d’oro di Cimone, l’aristocratico benefico, come risulta dal frammento degli Archilochi in cui il grammatèus Metrobio (nome parlante) la rimpiange (161ss.). Viene quindi esclusa la parodia mitologica (p. 156), perché «la vicenda mitica si svolgeva, sia pure con toni comici, come una vicenda seria, quasi tragica, se in essa si poteva (anzi si doveva) scorgere la rovinosa ombra della guerra che incombeva su Atene». Con il ‘quasi tragica’ solidarizzo in pieno, se ha un senso la mia identificazione (proposta recentemente) della polis come vero eroe della commedia politica, e cioè ‘eroe tragico della commedia’[*]. Sulla stessa linea si situa il lavoro sul fr. 223 K. –A. di Cratino col rovesciamento polare del tema della polis ideale (p. 191): il viaggio è quello di una «evasione frustrata» da una Atene negativa a
|| [* L. E. Rossi, La polis come protagonista eroico della commedia antica, in Il teatro e la città. Poetica e politica nel dramma attico del quinto secolo, Atti del Convegno Internazionale Siracusa, 19–22 settembre 2001, premessa di G. Picone, introd. di M. G. Bonanno e G. Mastromarco, «Quaderni di Dioniso» 1, Palermo, Palumbo, 2003, pp. 11–28.]
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luoghi altrettanto negativi. La vera utopia secondo me non è quella di alcune commedie (come per es. gli Uccelli), bensì quella della polis positiva com’è in tutte le commedie politiche, anche presentata in due visioni assiologiche polari: avanzavo questa proposta in un mio articolo e mi rammarico di non aver conosciuto in tempo questi due contributi di B. Il lavoro su P.Oxy. 3537 (p. 193ss., 1995) rivela di nuovo intelligenza del testo. In un papiro di epoca intorno al 300 d.C. si legge un’etopea da progymnasma che risponde alla domanda ‘Che cosa avrebbe detto Esiodo alle Muse?’. Lascio da parte la dotta panoramica sul tópos dell’investitura poetica, per mettere l’accento sull’acume di un’osservazione (B. non era per vocazione un congetturatore, ma era un selezionatore severo delle congetture altrui): in una nota (196.7) ci informa che Barigazzi aveva pensato al v. 3 míe tis Mousôn con tis indefinito che si richiamava a una sororum di Verg. ecl. 6.65, ma, a parte considerazioni di tipo testuale, dice: «intendendo tis come indefinito, si passa ad un tono meramente narrativo, mentre l’interrogativa iniziale [al v. 1] sottolinea una certa meraviglia dell’animo, che si manifesta nelle interrogative successive, che non vanno eliminate». Di nuovo il contesto, letto riletto meditato. Il lavoro su Pindaro nella prassi poetica e nell’industria filologica alessandrina (p. 205 ss., 1995) è una lucida disamina di una serie di rapporti intertestuali, specie in Callimaco e in Teocrito. In Teocrito 24, l’Eracle bambino (209ss.) mi ha attirato la puntigliosa segnalazione che Teocrito fa degli elementi borghesi (antieroici), ma anche razionalistici (in Pindaro, N. 1 i serpenti entrano dalle porte magicamente spalancate, mentre in Teocrito entrano dalla porta «là dove c’era un vuoto negli stipiti»). Quanto alla disturbata quiete borghese della casa teocritea, così efficacemente descritta da lui e segnalata da B., vorrei dare un piccolo contributo (che non credo sia mio all’origine): in Pindaro all’allarme accorrono eroi, in Teocrito i servi di casa. Quanto alle citazioni omeriche in Plutarco (p. 171ss., 1991), vorrei solo segnalare l’acume con cui B. nota la voluta (e virtuosistica) decontestualizzazione di Omero fatta da Plutarco nel de cupidit. divit. (2.524a, a p. 173): «i carri vuoti» (Il. 15.453) sono quelli che non hanno più il guerriero, che è caduto, mentre in Plutarco sono i carri vuoti dell’avido: «Due immagini che sottolineano in un caso la tragicità della morte in battaglia, nell’altro l’inanità delle aspirazioni dell’avido, che si rovina con le sue stesse mani». Qui vorrei dichiarare una mia limitazione di metodo, che vale anche per altri casi in questa presentazione: ignoro – per ovvie ragioni di limiti d’informazione – se altri abbia fatto in anticipo questa osservazione: ma B. la ha certo formulata suo Marte, e di questo mi fa certo la sua abituale scrupolosa onestà nelle attribuzioni. L’osservazione è indubbiamente bella, e merita di esser messa in rilievo: è uno di quei casi in cui,
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mancando una presenza nella ricerca recente, vale la pena rischiare di ripetere qualcosa di già detto, che è però entrato nel regno dell’oblio. Credo che questa mia (secondo me inevitabile) ‘approssimazione’ bibliografica, necessaria proprio oggi che siamo assaliti da sciami bibliografici ingovernabili, possa trovare indulgenza, se non comprensione. Ma era, questa, una considerazione tutta mia. I lavori sul mito di Edipo (103ss., 1984) e su quello di Medea (219ss., 1995) sono due informate panoramiche, delle quali mi pare più importante la seconda, che mette in luce (p. 219) «quegli aspetti e quei momenti della storia di Medea meno fortunati da un punto di vista letterario, in quanto non furono oggetto dell’attenzione di illustri autori nella loro rielaborazione del mito». La nuova facies della letteratura greca (109ss., 1986) è il titolo suggestivo di un altro informato panorama, nel quale si mettono bene in evidenza i cambiamenti nella nostra visione del sistema letterario nei singoli momenti, spinti dalle nuove acquisizioni, soprattutto per Archiloco e Stesicoro. È il manifesto della sua ansia di aggiornamento non certo solo bibliografico, ma – direi – di visione panoramica del corpus di materiale letterario a disposizione. La passione per la figura di Amedeo Peyron lo aveva portato, negli ultimi anni (dal 1984 in poi), a scavare negli archivi con determinazione e tenacia e aveva trovato documentazione inedita preziosa per l’ulteriore valutazione di una personalità davvero notevole, che aveva anche il pregio di preparare il protagonismo filologico–classico immediatamente postunitario di Torino e di inquadrarsi in esso. Non ho bisogno di ricordare qui quanto scrisse Timpanaro anni fa sulla «Rivista di filologia» in occasione del centenario. Rilevo solo che con la prima legge scolastica e universitaria unitaria, che è del 1859 e che si deve al Marchese Gabrio Casati, si ebbe il coraggio di svellere finalmente il greco dalla solidarietà con le lingue orientali e di introdurlo nel ginnasio–liceo classico a fianco del latino, nonostante fiere opposizioni (pochi sapevano il greco e l’ambiente ecclesiastico ne sapeva troppo poco). Vedo qui un giustificato campanilismo sabaudo, gestito però con la sobrietà dello studioso. Da questi lavori, che offrono parecchi inediti, ho imparato molto. La mole di informazione bio–bibliografica e storica raccolta da B. è amplissima e tradisce una furia lavorativa che deve aver pesato sulla sua salute negli ultimi anni. Si tratta di scambi epistolari inediti in cui i protagonisti sono Peyron, Mai, Niebuhr, Cobet, Jacopo Morelli. Mi ha colpito, vista nei dettagli evenemenziali più minuti, la polemica ciceroniana fra Peyron e Niebuhr da una parte e Mai dall’altra, dove compare un dislivello culturale, e non solo filologico, fra la Roma del tempo e Torino. Ne risulta un ritratto sintetico del metodo di Peyron (p. 330): «un esame linguistico del testo e un
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costante riferimento al mondo a lui contemporaneo, e che lui ha conosciuto.» L’interesse di questi scambi epistolari è grande, anche per la loro vivacità: mi piace ricordare Peyron che rimprovera a Mai di aver dato uno schiaffo a Niebuhr per dare un pizzicotto a lui (pp. 343, 354). Da questo materiale, per il quale non ho la competenza per entrare in dettaglio, estraggo solo una notizia per me importante (p. 330): l’interesse di Peyron per i dialetti greci e la precoce consapevolezza (1838) della rilevanza delle epigrafi per questo studio linguistico. Dissento solo da una formulazione di Peyron: «la loro lezione [scil. delle epigrafi] è certa, né vi si possono sospettare errori di scrivani, come nei testi a penna»: sarebbe bastata una prolungata consuetudine con questi materiali per fargli ‘sospettare’ errori del lapicida o della sua fonte. Voglio chiudere con la segnalazione della sua pietas nei confronti di quelli che considerava i suoi due maestri, Leonardo Ferrero e Antonio Maddalena, uniti in una bella dedica (p. 129), l’uno per averlo introdotto all’amore per l’antico al liceo e l’altro perché «mi insegnò l’umiltà nel lavoro e nello studio». E voglio segnalare (p. 229*) il ricordo di Maddalena, maestro di lettura della tragedia. E ancora il bell’articolo sulla «Rivista di filologia» del 1980, Antonio Maddalena recensore. La recensione come interpretazione, dove ritorna sull’umiltà: «Questo sentire umilmente ma con dignità il proprio mestiere di maestro di scuola…». Pietas: qualcuno ha detto tempo fa, parlando di uno studioso egregio, che era stato un vero maestro proprio perché era stato un devoto allievo[*].
|| [* Lo aveva detto Arnaldo Momigliano a proposito di Eduard Fraenkel, a p. 56 di Eduard Fraenkel, «Encounter», Febr. 1971, 55 s. = p. 1029 di Quinto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1975, II, 1026–1029 (Rossi aveva citato questa definizione di Momigliano già a p. XXI della sua Premessa a Due seminari romani di Eduard Fraenkel. Aiace e Filottete di Sofocle. A cura di alcuni partecipanti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, pp. VII– XXX: vd. p. 226 s. di questo volume). – G. C.]
[Presentazione del carteggio Tecchi–Valgimigli] Bonaventura Tecchi – Manara Valgimigli, Epistolario. A c. di Silvana Marini e Alberto Raffaelli, Firenze (Franco Cesati Editore) 2005. Prima di tutto un grazie di cuore agli amici Silvana Marini e Alberto Raffaelli per aver pensato a me per presentare un prodotto davvero egregio di competenza filologica e di amore per la storia della cultura italiana. La qualifica a fare questo mi viene solo dalla loro amicizia, perché sono ben lontano dal conoscere a fondo due personalità così ricche e complesse negli studi e nella produzione letteraria come quelle di Tecchi, germanista a Roma, e di Valgimigli, grecista a Padova, il che sarebbe necessario per collocare in un quadro generale quanto emerge da questo carteggio durato ben 26 anni (1939–1965) e interrotto solo dalla morte di V. Silvana Marini ha curato l’edizione critica dei testi, mentre Alberto Raffaelli ha curato le note. Non credo che avrò molto da aggiungere rispetto alla Presentazione di Luca Serianni e alla documentata Introduzione di Silvana Marini, e men che meno alle cure filologico–editoriali sempre di Silvana Marini e alle note a pié di pagina di Alberto Raffaelli, davvero informatissime in fatto sia di cultura tedesca sia di antichistica. Mi limiterò a ripescare nella memoria antiche letture e alcuni ricordi personali per inquadrare quanto questa corrispondenza mi suggerisce: e lo farò da modesto antichista, dando rilievo a problemi, appunto, che più mi stanno a cuore. E mi troverò a citare di nuovo passi già citati dai curatori, senza sempre darne la fonte. Sono stato cliente di Valgimigli nel senso che ho fin dai miei primi anni di studio letto i suoi Poeti e filosofi di Grecia, le sue traduzioni e i suoi commenti (ricorderò qui la Poetica di Aristotele). Di Tecchi, invece, sono stato allievo circa cinquant’anni fa, in un corso per me memorabile su Mörike, all’esame finale del quale posso dire con orgoglio che Tecchi mi chiese se intendevo laurearmi in letteratura tedesca: era venuto in superficie il mio interesse per il Lied romantico e tardo romantico e quindi per l’accoppiata Mörike/Hugo Wolf. Ma mi ero votato fin dal principio dei miei studi prima alla storia della musica (L u i g i R o n g a ) e poi definitivamente al greco. Questo non mi ha certo impedito di approfondire con lui dal punto di vista letterario il romanticismo e il tardo ro-
|| [Presentazione letta L 30.1.2006, ore 17, alla Biblioteca Alessandrina di Roma. — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] https://doi.org/10.1515/9783110648140-042
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manticismo tedesco. Quello che mi colpì nel suo approccio fu la tendenza a leggere i testi in chiave autobiografica, che allora non apprezzai in pieno, perché ero influenzato dalla mancanza di autobiografismo nella lirica greca arcaica (che aveva in assoluta prevalenza valori comunitari condivisi, e non personali): ma poco più tardi mi si fece chiaro quanto distante fosse la lirica greca dalla lirica moderna, e soprattutto romantica (ed era questo il centro degli interessi di Tecchi), lirica che fa parlare proprio l’io con profondità idiosincratica, e quindi autobiografica. Io allora ero ancora alla ricerca di strumenti critici adeguati e correvo il rischio di leggere Mörike con occhio antichistico. Posso dire tra parentesi che ancora oggi c’è qualcuno che, con strumenti attardati e in posizione polare rispetto alla mia di allora, legge gli arcaici greci con occhio critico moderno: ma questo con Tecchi non ha a che fare. Ho rievocato recentemente la sua figura di studioso, di letterato e di docente con V a n d a P e r r e t t a , ora mia collega in Facoltà e allora mia collega di studi: [ne abbiamo] rievocato fra noi [la] l e n t e z z a (c o n c e n t r a z i o n e d i u n a a p p a s s i o n a t a i s p i r a z i o n e ), che allora per noi, giovani impazienti, era troppo slow, ma poi [è stata] rivalutata; [e] Svevia, terra di poeti (che è però di qualche anno dopo, del ‘64). In qualche modo questo carteggio fa rimpiangere che non ci possa essere pervenuta notizia dettagliata dei loro incontri personali, che, dopo la prossimità patavina, tante volte venivano programmati e poi tante volte fallivano, come vediamo dallo scambio epistolare. Ma anche da questo carteggio le due personalità emergono in modo chiaro: in tutti e due un approccio sia filologico sia soprattutto letterario, nel senso di una militanza attiva: in T. romanziere, saggista e traduttore, in V. filologo, saggista e traduttore, ma ambedue lettori appassionati dei testi nel senso più pieno di un moderno umanesimo. In tutti e due l’attenzione allo stile, che nel carteggio (come ha rilevato Serianni) si lascia andare a colloquialismi, ma che altrove fa di questi due intellettuali due presenze importanti nella storia del nostro stile letterario. La comune passione di letterati faceva loro scrollar di dosso l’etichetta professionale e professorale. Divertenti parole di V. (144, 8.48) non potevano venir formulate se non con la certezza che fossero condivise. Nell’invitarlo a Ravenna per una lectura Dantis alla Classense dice a T.: “Da te mi piacerebbe un discorso su Dante e la cultura tedesca, ma non insisto sul tema perché sento l’onore e il fastidio di tutti quelli che vogliono da me cose greche, Dio ci benedica per questa nitidissima scritta che ci portiamo sul petto di professori, io di greco e tu di tedesco. E dunque fa’ tu come vuoi.” Forse c’entrava anche il disgusto per il nascente “tangherume professorale”, espresso proprio un mese dopo (146, 9.48). Del resto, senza entrare qui in dettagli che l’introduzione e le note forni-
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scono in abbondanza, vedo che tra le persone che, in absentia per corrispondenza o in praesentia per contatti diretti, i due frequentavano c’erano personalità letterarie e di cultura di primo piano, mentre ben poco appare di frequentazione di colleghi accademici (a parte Marchesi, e forse Marino Barchiesi, di cui dirò dopo). Questo naturalmente non impediva all’uno e all’altro di chiedere informazioni nell’un campo e nell’altro. È più frequente che sia V. a chiedere a T. informazioni su letteratura e filologia tedesca. In una lettera (160, 9.51), T. manda a V. “i passi, che ho creduto più importanti, di Goethe su Omero”, evidentemente in un allegato che V. poi scorporò dalla lettera. Si lamenta di “uno sciagurato” che gli ha mandato nomi e titoli sbagliati, come Wolff con doppio ‘f’ e Homer wider (invece di wieder) Homer. È interessante il seguito di questo argomento di carteggio. In 170 (8.53) T. dà notizia a V. dell’ondeggiare di Goethe fra il suo unitarismo e l’analisi wolfiana, ma scrive Wolff con due ‘f’, evidentemente per distrazione (e la editrice fa bene a non correggere). La correzione la fa T. stesso nella lettera successiva (171, meno di un mese dopo, 9.53): leggo in apparato che la precedente era dattiloscritta e quindi lui l’aveva riletta nella sua copia. In quest’ultima gli dà un elenco di ben 17 luoghi omerici goethiani, e curiosamente Wolf è corretto, ma non il wieder: scrive ‘Omero contro Omero’ (due volte), proprio come era nella lista datagli dallo “sciagurato” di due anni prima. Anche questa lettera è dattiloscritta e quindi è da pensare che avesse copiato (anche qui distrattamente) quella lista, a sua volta dattiloscritta: era stata forse da lui integrata, perché una l’aveva mandata nell’allegato (perduto, come ho detto) di due anni prima. Questa modesta indagine filologica ha interesse solo per documentare la distrazione di T., che credo fosse una sua caratteristica. Ma più interessante è la posizione di V. su Omero, quando in 168 (7.53) gli aveva chiesto di nuovo su Goethe e Omero: “Io non voglio rifare la questione omerica né occuparmi di tutti i fessi più o meno tedeschi che se ne sono occupati, ma solo ridare la impressione di una grande e intimissima unità poetica dell’Iliade quale a me pare evidentissima” (e v. la n. p. 123.174, dove A. Raffaelli elenca con precisione i luoghi in cui V. prende questa posizione). Io – come tutti noi, credo, oggigiorno – ho difficoltà a definire senza sfumature il mio credo omerico: penso che le certo numerose redazioni dall’orale allo scritto di parti di quello che io chiamo l’arcipelago epico abbiano progressivamente seguito una via verso un’unità, non certo raggiunta compiutamente nel senso moderno della parola, ma solo parzialmente realizzata. Quello che posso dire qui è che mi sento lontano da un approccio integralmente unitario, che era quello di V. Ma era un unitarismo diverso da quello che viene largamente praticato oggi, con continui ammiccamenti a teorie sistemiche e/o formalistiche di
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vario tipo. Direi, invece, che l’unitarismo di V. è un unitarismo onesto, come oneste erano state anche sia l’analisi sia l’unitarismo degli almeno 150 anni precedenti, figlie ambedue di quel positivismo che oggi guardiamo spesso con aria di sufficienza senza riconoscere ad esso il merito di aver pazientemente letto i testi e di averci fornito tanti rilevamenti interessanti, senza avere i mezzi informatici che abbiamo oggi per il reperimento dei passi. Sostengo da qualche tempo che, senza sentirmene certo la forza, quella letteratura critico–esegetica, sia unitaria sia analitica, dovremmo rileggercela tutta (e forse sarà proprio l’informatica ad aiutarci). Non posso fare a meno di dire due parole su Goethe, del quale del resto T. ha così bene meritato (anche facendomelo amare). Goethe ha vissuto per intero, nella sua lunga vita (1749–1832), quella che non esito a definire la più grande rivoluzione culturale anteriore a quella che stiamo vivendo noi oggi, e ne ha capiti e fatti propri i singoli momenti con grande capacità di assimilazione: dall’epoca della parrucca e del codino, allo Sturm und Drang, al classicismo del secondo umanesimo winckelmanniano, all’illuminismo, al trauma della rivoluzione francese, alla parentesi napoleonica, al primo romanticismo, addirittura alla rivoluzione industriale. La cultura tedesca ha sentito il bisogno di periodizzare queste esperienze con il termine, quanto mai opportuno, di Goethe–Zeit, che mette in rilievo la grande personalità di chi ne è stato e il notaio e il partecipe. Non c’è quindi da meravigliarsi se, sia soprattutto nella teoria sia anche nella prassi, Goethe ci mostra ripensamenti e contraddizioni. In un primo tempo reagì violentemente a Wolf, che pubblicò i suoi Prolegomena ad Homerum nel 1795, sentendosi sottratto Omero come autore. Poi venne a più miti consigli, accettando quanto non poteva rifiutare di Wolf stesso, da critico acuto quale era. In E. Grumach, Goethe und die Antike, Berlin 1949, 172 trovo un passaggio del 1820 (quindi di età avanzata) dove esprime la sua stima per Wolf e per il suo acume, ma dice anche che si trova a sperimentare una specie di sistole e diastole (bellissimo!) fra analisi e unitarismo, dichiarandosi alla fine pronto a perdonare a Omero le tante incongruenze. Insomma: l’Omero unitario – bisogna dirlo – risponde a un bisogno profondo di noi tutti, anche se lo studio storico– filologico ci obbliga a fare i conti con una evidenza in contrario. Ma, per ritornare al nostro tema, ribadisco la mia profonda simpatia per l’approccio umanistico di tutti e due i corrispondenti. Mi piace T. che, in 159 (9.51), scrive: “nelle lunghe estati, prendo in casa un poco in mano ogni tanto il vecchio mio greco: leggo Omero, un canto (spesso aiutandomi con la tua traduzione) e viene ogni tanto il mio vecchio maestro di Bagnoregio (84 anni) e mi legge Luciano. ... Quanto la lettura di un po’ di greco mi riposa e mi dà ala!”. Tante volte a me sono venute idee, che ho poi elaborate filologicamente, in
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questi momenti di approccio umanistico e libero da impacci, che mi sento in dovere di raccomandare al filologo di professione almeno una o due volte la settimana come invito al plaisir du texte e di conseguenza come alimento alla ricerca scientifica. Sulla reticenza in fatto di riferimenti puntuali alla situazione bellica e politica, abbastanza è stato detto da Silvana Marini nell’Introduzione. In tempo di guerra c’era naturalmente la censura. Quanto al dopo, si nota una perdurante riservatezza in merito. Mi colpisce molto lo scambio subito dopo l’8 settembre 1943: c’è un vuoto fra l’agosto e la fine di settembre da parte di V. (98 e 99), certamente dovuto anche alla difficoltà di comunicazione postale oltre che alla censura, ma anche dal fatto che T. aveva avuto in ottobre l’incidente della falsa denuncia alle SS e dei pochi giorni di carcere (ma anche V. avrà poco dopo un’esperienza simile, come imparo da p. 80 n. 83). Ma nei due c’è stanchezza e sfiducia: V. (104, 12.43) poco dopo scrive: “Siamo stanchi [e nel plurale sento vibrare la consonanza, che non ha bisogno di esplicite conferme epistolari, come notavo prima]. Anche io sono stanco. Tutti siamo, presso gli uni e presso gli altri, in sospetto, e varrebbe la pena alla fine, di esser meno innocenti di quanto non siamo noi scrittori e studiosi innocentissimi” (noto che ‘scrittori’ precede ‘studiosi’). Si nota una specie di assenteismo politico, che trovo più comprensibile in T., che però si rammarica più volte (ed è davvero commovente) di aver perso i contatti con Marchesi, antico sodale padovano, per evidenti ragioni di aperto schieramento politico e di immersione nell’attività politica stessa (114, 9.45: “ma lui è troppo preso dalla politica che a me non interessa più”, e qui preziosa è la n. 97 dove si dà notizia dell’impegno politico di T. nel ‘44, che spiega il “non più”) e poi ancora (116, 10.45; 120, 12.45; 126, 6.46; 135, 6.47): insomma, per due anni lo insegue direttamente e indirettamente e alla fine, evidentemente con dolore, si rassegna. – Del resto tutti e due sono persone molto sensibili, e tutti e due duramente provati da s v e n t u r e f a m i l i a r i . Non entro qui in dettagli, ma la lettura continuata di questi testi fa risaltare la profonda sofferenza di T. e, pur con qualche concessione al dettaglio, la ritrosia nel comunicarlo, un po’ per la sfiducia che questo giovi e un po’ per riguardo all’amico. Il quale peraltro non manca di informarsi costantemente delle preoccupazioni domestiche di T., avendo avuto esperienze tragiche precedenti. – Sull’ a m b i e n t e c u l t u r a l e non ho da aggiungere niente, se non l’accenno di poco fa alla loro comune allergia nei confronti del mondo strettamente accademico.
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– E aggiungo poco a quanto è stato già osservato sulle f o r m e e p i s t o l a r i . È stata notata la varietà delle apostrofi e delle firme: ne guardo ora alcune in ordinata diacronia, e prendo una sequenza di due anni degli inizi, fra il ‘40 e il ‘41, dal momento in cui V. impugna il diminutivo “Venturino” (17, 11.40 – 26, 4.41): “Caro Venturino / f.to Manara; Caro Valgimigli / Tecchi; Caro Tecchi / Manara; Caro Valgimigli / Tecchi; Caro Bonaventura / Manara; Caro Bonaventura / M. Valgimigli; Caro Valgimigli / Tecchi; Caro Bonaventura / Manara; Caro Valgimigli / Tecchi; Caro Tecchiolino / Manara”. Si sente la resistente maggior riservatezza di T., che V. qui vorrebbe finalmente sgominare col “Tecchiolino”. Ma non ci riesce, almeno non subito. Infatti, dalla continuazione (27, 6.41 ss.), si segnala: “Caro Bonaventura / Manara, 2x; Caro Bonav. / M. Valg.”; (nel testo) “il mio Signor Venturino / Manara” [un altro tentativo]; etc.; poi “Carissimo Valg. / Tecchi; Caro Bonav. / Manara”; e poi finalmente (ma con una esitazione) nel 7.42 (57) “Carissimo / Venturino, seguito da “Caro amico mio / Manara” (58, 7.42). Da questo momento (dopo quasi tre anni) si infittiscono i “Venturino”, nell’apostrofe di V. e nella firma di T. La riservatezza di T. ha resistito alle aggressioni dell’amico, ma poi ha ceduto. Questo, a parte reazioni personali, ci fa sentire la distanza dall’oggi, dove i cognomi sono ormai proscritti, fra i giovani (e fra alcuni anche maturi) anche nelle presentazioni. Anche sul l e s s i c o f a m i l i a r e è stato già notato molto. Segnalo in V. “fo conto ... di essere costì” (79, 12.42), un vezzo toscaneggiante; sempre di V., “Caro Venturino bello” (217, 6.62), un meridionalismo, ma in forma non usuale (col ‘caro’), che diventa poco dopo, più correttamente, “Venturino bello” (218, 9.62), ma corretto era già stato anni prima (119, 11.45). Ai più stretti colloquialismi va aggiunto (213, 12.60), di V., “Alla poesia concediamo tutto, al quattrinaccio porco niente”. Di T. segnalo una invenzione linguistica bellissima, nel periodo (il ‘46) in cui tutti e due si lamentano dei collegamenti ferroviari: “così viaggiando in treno come in moto pulsante” (124, 4.46). Non so se, in tema di lingua, si può ravvisare in T. (143, 8.48) un’influenza del tedesco: “non dubitare della mia fedeltà”: noi diciamo ‘amico fedele’, ma molto meno usuale è da noi ‘fedeltà’ (come sinonimo di amicizia) di quanto sia nel tedesco ‘Treue’. In V. (6, 5.40), che aveva il tedesco meno familiare ma non tanto da ignorarne le parole–chiave, sento in “ho di te desiderio e malinconia” una specie di esegesi di ‘Heimweh’, parola ricca di connotazioni che noi traduciamo sbrigativamente con ‘nostalgia’ (tra parentesi: parola assente dal greco antico ma nata nel latino scientifico del ’600 come nostalgia [νόστος + ἄλγος, ‘desiderio doloroso del ritorno’] e poi recepito dal francese nel ‘700 come nostalgie).
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Una sola osservazione su un dettaglio editoriale, di per sé del tutto opinabile. La formulo più come segno di doverosa mia attenzione di lettore che come una critica all’editrice, che comunque mi perdonerebbe, ne sono certo. In 134 (V. a T., del 5.47) “inaugurazione Lincei” è stato integrato “inaugurazione [ai] Lincei”. Sento l’originale come una forma di – come dire – trascuratezza da modestia, quasi per non far pesare all’amico fraterno l’accademica appartenenza. Sbaglio? Forse. T. allora non era linceo: lo sarebbe diventato più tardi, poco prima della morte. Poi, una semplice segnalazione. In 189 (6.55) c’è, da parte di T., un enigmatico invito a V., che era appema tornato a Padova dopo il periodo ravennate alla Classense (1948–55): “Salutami Marino”. Potrebbe trattarsi di Marino Barchiesi, valoroso latinista di formazione padovana, che insegnò a Padova e fu poi, più tardi, chiamato all’Università di Pisa. Barchiesi, che ho prima letto e poi conosciuto personalmente, era molto interessato alla cultura tedesca, e non solo a quella filologica: un sodale quindi del tutto ideale per chi cercava, come i due corrispondenti, consonanze culturali prima che professionali. Vorrei concludere, anche se molto di più si dovrebbe dire di un’impresa condotta con acribia e – lo si sente – con amore. E mi è permesso dire che, nella antica e bella tradizione nostrana, mi piace definirla come un’impresa familiare? La riservatezza con cui questa qualifica è stata taciuta in stampa dovevo, almeno in questa sede, tradirla, per congratularmi con più calore con la mamma Silvana e con il figlio Alberto. Tanto più che alla famiglia sono legato anche dal discepolato, così affettuosamente sempre riconosciuto, di un altro figlio, Enrico.
Presentazione de La lettura nel mondo ellenistico di Lucio Del Corso Lucio Del Corso, La lettura nel mondo ellenistico, Roma–Bari (Laterza) 2005, pp. XIV, 151 Questo libro ci offre un’approfondita analisi storica, condotta con la competenza di uno studioso davvero egregio, e tocca un argomento di scottante attualità per noi tutti. Oggi siamo in un momento di veloce passaggio da un modo a un altro della comunicazione: i mezzi nuovi che si sono affermati velocemente mettono in crisi la nostra lettura tradizionale, quella pazientemente continuativa parola dopo parola di un testo scritto, per di più per molti di noi più anziani senza le recenti strategie tipografiche che sono entrate nell’uso (come abbondanti illustrazioni, box, riquadri, grassetti, sottolineature, colori diversi etc.): direi che i libri, oggi, somigliano quasi tutti a quelli che quando io ero ragazzo erano solo i libri per l’infanzia, con in più l’espediente – oggi – di sovrapporre l’una all’altra come più schermate televisive. Siamo ridiventati tutti bambini, oggi, per quanto riguarda la lettura, tanto da aver bisogno di aiuti, inviti, facilitazioni? C’è chi è convinto che siamo al tramonto della lettura. Ma lasciamo al futuro la sua capacità di sorprenderci e rivolgiamoci, con la guida di questo libro, a un momento aurorale della lettura, ai suoi inizi, al momento in cui viene per la prima volta introdotta in una cultura l’uso della scrittura, premessa indispensabile per la lettura. Questo è il libro di uno studioso serio, che ha fatto ricerche pazienti in campi in cui è ancora faticoso farle: ha dovuto leggersi una quantità di testi antichi per trovare accenni a quanto gli interessava e ha sfogliato le raccolte epigrafiche, per esempio, allo scopo di trovare nelle epigrafi menzioni di personaggi che nelle varie città greche venivano premiati per la loro attività di lettori pubblici etc. (in questo campo l’ultima ricerca era quella di Margherita Guarducci del 1929, p. 71, e dopo di allora il materiale si è più. che triplicato, a detta di Del Corso). [Notevole è anche la] Nota filol. p. 115.68 [sui basilikòi nòmoi]. Nonostante questo, il libro si lascia leggere, oltre che studiare, come dirò meglio alla fine segnalando alcuni accorgimenti.
|| [Presentazione letta a Perugia Mc 11.10.2006 alla Biblioteca comunale Augusta. — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]
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– La cultura greca ci offre un panorama assai ricco di vari modi della comunicazione: oralità, auralità, scrittura[1]. – L’epoca della diffusione del libro è senza dubbio il III sec. a. C., l’età ellenistica, quella che segue alle imprese di Alessandro Magno. – Il IV sec.: dalla fine del V si comincia ad affermare il libro, che si diffonde sempre più nel IV. Influenza sulla composizione letteraria (Isocrate). – def.[inizione] d. gramm.[atica] di Dion. Thr. p. 22; lettura p. 23 + actio – ANEDDOTI [p. 30 compito limit. dei grammat., p. 33 caratter.[izzazione] del filosofo, p. 43 peto durante il meletàn, p. 97 lett. cattiva (ad alta voce) delle Bacch.]: – la lett.[ura]: Eroda, Mim. III [p. 109 s.]: madre che va dal maestro; piccola borgh[esia].; ambiente aless.[andrino] ellenizzato (forse non proprio Alessandria). – p. 108 tipi di lettura individ.[uale]: progressiva eliminazione della voce (ancora Agostino, però, sec. IV) Un merito di questo libro è quello di stabilire vari punti di vista: diverse sono le categorie di persone interessate alla lettura. Di grande interesse è il cap. II, Filosofi e medici. Le scuole filosofiche avevano sempre più bisogno di un testo scritto a cui riferirsi nell’insegnamento interno alla scuola e anche – direi – per la propaganda all’esterno. Paradosso apparente: il Fedro di Platone proprio nel IV sec. a. C. sferra il famoso attacco contro la scrittura (– un dio offre al faraone la scrittura, ma il faraone la rifiuta, affermando che la scrittura indebolirebbe la memoria). Ma questo attacco contro la scrittura è a suo posto proprio in un momento in cui la scrittura si diffonde, e d’altra parte Platone 1) non ne ha bisogno per l’insegnamento perché, per l’elaborazione della sua dottrina all’interno della scuola, l’insegnamento e la discussione sono orali, come ci ha chiarito la Scuola di Tubinga con Gaiser e Szlezák; 2) della scrittura si serve, e come, magari con una implicita strizzatina d’occhio, per diffondere quei capolavori letterari
|| [1 Certamente Rossi, nel leggere la sua relazione, doveva sviluppare meglio quest’appunto attraverso un intervento estemporaneo. Seguono poi sei capoversi allo stato di appunti, in gran parte anch’essi da integrare ma tramite lettura di alcune parti delle pagine del libro qui appuntate: in effetti, sulla copia personale di Rossi del libro di Del Corso (conservata nel suo studio di Via Aventina), in corrispondenza delle pagine qui segnate vi sono evidenziazioni accanto alle parti da leggere.]
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che sono i suoi dialoghi, che sono appunto opere letterarie e non di volta in volta l’edizione aggiornata della sua dottrina. Ma le scuole filosofiche hanno bisogno della scrittura, perché la scuola deve continuare anche dopo la morte del santo fondatore. Fra le tante testimonianze raccolte dall’A., ne citerò qui solo alcune. p. 37 s. Zenone, Epitteto. – Di interresse ancora maggiore è la sezione dedicata ai medici (49 ss.). Ci si può meravigliare che per noi una delle fonti più abbondanti per l’informazione su questioni editoriali e di autenticità siano le opere di un famoso medico, Galeno, vissuto nel II sec. d. C. A parte la necessità per l’apprendista medico di leggersi le opere del corpus ippocratico (Ippocrate, V sec. a. C., ma le opere del corpus sono più tarde: caso di un caposcuola morto). – sono interess.[anti] i grammatici (p. 21 ss.). Un aspetto che vorrei mettere in luce è lo stile di questo lavoro scientifico, che, a differenza di molti altri, è singolarmente piano e leggibile, a volte perfino elegante. L’abbondanza delle note a pié di pagina e soprattutto la mole di molte di queste possono spaventare un semplice lettore colto e non professionale, ma, se questo lettore supera l’impatto visivo, può tranquillamente leggere il solo testo, che è sufficiente a se stesso: perderà alcuni contenuti di gran pregio, ma la sostanza gli resterà chiara lo stesso. La nota a pié di pagina è un genere letterario a sé (un storico americano, Anthony Grafton, ne ha molto spiritosamente scritto di recente la storia[2]). La nota è un po’ la decorazione del dotto appesa al bavero che giustifica la qualità dell’abito, ed è questa che conta. La prosa di Del Corso si lascia leggere con piacere anche ad alta voce: l’uso degli antichi rivive oggi nel recitativo dell’opera lirica, che si giova di parole rotonde e ben disposte (come diceva Dionigi di Alicarnasso duemila anni fa). Questo è un libro non solo sulla lettura, ma anche sull’ascolto. In fondo, quando noi leggiamo silenziosamente (come Agostino si meravigliò di veder fare ad Ambrogio vescovo nel IV sec. d. C.), ci basterebbe un attimo di riflessione per renderci conto che, quando leggiamo, costruiamo mentalmente una implicita recitazione sonora: ma ci capita solo quando sentiamo che il testo che stiamo leggendo la merita davvero. E concludo dicendo che questo testo la merita.
|| [2 A. Grafton, The Footnote: A Curious History, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1997 (La nota a piè di pagina: una storia curiosa, trad. it. di Gianna Lonza, Milano, Sylvestre Bonnard, 2000).]
Nel ricordo di Roberto Pretagostini* Non posso che ripetere qui quanto ho detto nella cappella di “Tor Vergata”, nel dicembre scorso[**], in uno stato di profonda commozione per un evento tanto traumatico quanto improvviso. Io ho il privilegio, che oggi pago molto caro, di aver avuto Roberto Pretagostini poco più che ventenne come allievo e come laureando nel lontano 1972: sono stato, come si usa dire oltralpe, il suo ‘padre di laurea’[***]. Ora, non c’è esperienza o vicenda di vita che possa non dico cancellare, ma anche solo attenuare la consapevolezza di questo tipo di paternità, che da parte dell’allievo non è subita come quella naturale, ma è frutto di una iniziale scelta: la fedeltà del maestro nei confronti dell’allievo è naturale che sia totale e altrettanto naturale è che i padri non si aspettino di dover seppellire i figli. Diverso è il rapporto se lo si vede in direzione ascendente: è del tutto normale che l’allievo cresca liberamente, si liberi gradualmente e segua sue vie di sviluppo, come ben sa chi ha una famiglia e dei figli. È stato esattamente il suo percorso: dopo un periodo, proficuo per lui e per me, di stretta collaborazione scientifica e accademica (è stato assistente alla mia cattedra), da un certo punto in poi ha seguito vie nuove e si è trovato in ambienti diversi che lo hanno indubbiamente arricchito. Si è occupato prevalentemente di poesia lirica arcaica, di dramma attico, di poesia ellenistica, di teoria e di prassi metrica. Non è questo il luogo né il momento per riandare in dettaglio alla sua carriera scientifica. Ma una cosa va detta: fin dai suoi primi studi ha realizzato il più rigoroso metodo di lavoro, che non concedeva né alla faciloneria né all’improvvisazione. Le sue scelte partivano sempre da un interesse e da una curiosità vitali: durante lunghi anni lo ho avuto interlocutore prezioso per scambio d’idee a proposito di lavori suoi e miei. Per l’insegnamento posso testimoniare direttamente solo per gli anni del suo assistentato, durante i quali ha seguito attivamente molti allievi del corso,
|| * Discorso di commemorazione pronunciato nell’assemblea della Consulta Universitaria del Greco il 14 aprile 2007[, Facolta di Lettere/Scienze Umanistiche della “Sapienza” di Roma; pubblicato in «Eikasmós» 18, 2007, pp. 409–410]. [** In occasione delle esequie di Roberto Pretagostini (17.2.1949 – 9.12.2006), tenutesi L 11.12.2006, ore 14, presso la cappella universitaria dell’Università di Roma “Tor Vergata”.] [*** Pretagostini si è laureato alla “Sapienza” di Roma nel luglio 1971 con L. E. Rossi relatore e C. Questa correlatore, con una tesi dal titolo Verso e periodo. Ricerche sulla lirica di Aristofane. – G. C.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-044
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che gli sono rimasti poi sempre legati[*]. Per i suoi anni di “Tor Vergata”[**] molti di noi hanno sentito il giorno del funerale la commossa testimonianza dei suoi allievi. E in quel giorno stesso abbiamo sentito parole altrettanto commosse di molti colleghi e amici. Ricordo che alcuni, particolarmente legati a lui da forte amicizia, hanno parlato, anche se affettuosamente, di qualche difficoltà di rapporto: quando si riusciva a superarle, però, ci si rendeva conto che ne era valsa la pena. Penso che questa sia stata un’esperienza comune a molti di noi. Non aveva quello che si dice un carattere facile, ma una cosa è certa: il primo a soffrire e a pagare per quelle difficoltà era lui stesso. Devo ricordarlo anche come condirettore e prezioso collaboratore della rivista «Seminari Romani di Cultura Greca», l’organo dei miei ormai quasi quarantennali seminari, nei primi anni dei quali si era formato lui e con lui tanti altri allora e in séguito: più d’uno è qui presente oggi[***]. Il suo atteggiamento nei confronti del mondo accademico è stato sempre estremamente produttivo. A tutti noi è nota la sua sincera e profonda passione per l’istituzione, fosse essa rappresentata dall’interlocutore politico, dal contesto dei colleghi, dalla Facoltà, dal Dipartimento, e infine da questa Consulta, della quale è stato più volte Presidente[****]. Voglio mettere l’accento proprio sulla sua passione: se c’era qualcuno che aveva fede nella propria responsabilità e nella propria azione, questo era lui, in un contesto spesso infiacchito dal pessimismo e dal disincanto. È uno dei suoi lasciti più rilevanti, al quale sento che dobbiamo ispirarci.
|| [* Pretagostini è stato assistente di Rossi (Roma “La Sapienza”, cattedra di Letteratura greca II) dall’a.a. 1972/73 all’a.a. 1981/82; tra il 1975/76 e il 1984 ha fatto da correlatore a undici laureandi di Rossi. – G. C.] [** Divenuto professore universitario incaricato già nel 1977 a Urbino, vi è quindi rimasto come associato e poi come ordinario fino al 1996, passando infine a Roma “Tor Vergata”.] [*** La rivista «Seminari Romani di Cultura Greca», fondata nel 1998, era condiretta da L. E. Rossi, M. G. Bonanno e R. Pretagostini; i seminari di Rossi, tenutisi sempre alla “Sapienza” di Roma, erano iniziati nel 1968.] [**** Nei due bienni consecutivi 1995–1997 e 1997–1999, e poi ancora negli altri due bienni consecutivi 2001–2003 e 2003–2005.]
Metrica e scena. Roberto Pretagostini e il dramma greco 1. Premessa1 Un ellenista non può fare a meno di misurarsi con il dramma attico, onnipresente nei nostri studi, anche se è altamente consigliabile che tale presenza non dipenda da un’impostazione anacronisticamente umanistico–classicistica. Ma non è, e non è stata, di tutti la sensibilità al fatto scenico sentito in tutte le sue componenti, che erano la parola (da cui lo sforzo di immaginarne il suono e la cadenza), la musica (e qui le note sono dolenti per assenza quasi totale di materiale) e infine la danza (affidata per noi a schematiche rappresentazioni per lo più vascolari). Da qui, in chi non si contenta di una lettura silente dei testi, nascono i faticosi tentativi di recupero dell’evento scenico nella sua totalità. Sensibilità in questa direzione era presente fin dai primi studi di Roberto Pretagostini2 e continuò a caratterizzare molte delle sue scelte di ricerca. È significativo che questa problematica si sia affermata in lui fin dal principio, quando si occupava soprattutto di metrica, e quando i problemi nascevano e si definivano, come la sua tesi di laurea3, da appassionate discussioni fra lui e me: ho avuto infatti il privilegio di laurearlo nel 1972, appena ventitreenne, a Roma “La Sapienza”. Mi si perdonerà, spero, quel poco o tanto di autobiografico che queste pagine, per ovvie ragioni emotive e anche intellettuali, contengono: mi sono infatti reso conto di quanto il mio iniziale antico interesse per la metrica e per la musica, trasmesso a un allievo intelligente e capace di metabolizzare in maniera attiva le idee del giovane maestro, avesse a che fare con l’esecuzione, o – come si usa dire oggi –
|| [Articolo pubblicato in «Dioniso» 6, 2007, pp. 10–22] 1 Sono grato al Direttore di «Dioniso» per avermi chiesto di ricordare Roberto Pretagostini, scomparso prematuramente il 9/12/2006, dando conto qui dei suoi contributi allo studio della scena greca. 2 D’ora in avanti R.P. 3 R. Pretagostini, Verso e periodo. Ricerche sulla lirica di Aristofane, tesi di laurea inedita, Roma “La Sapienza”, 1971. L’importanza del periodo, entità di utile ma difficile identificazione, è stata messa in rilievo da Dain (1965, 155ss.) e segnalata da ROSSI (1966, 186, 191ss.) sulle orme di Dain stesso. Vedi PRETAGOSTINI (1978). https://doi.org/10.1515/9783110648140-045
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con la performance4, e quindi con la scena5. Mi giustifico la presenza di questi elementi autobiografici con la natura anche commemorativa, oltre che scientifica, di questo scritto. Ora, l’applicazione dell’interesse metrico alla realizzazione scenica è uno dei riflessi più interessanti, perché più naturali, degli studi metrici stessi. Tutto quello che ci resta della musica e della danza, componenti essenziali dell’evento scenico, è la sequenza di lunghe e di brevi che i nostri testi verbali ci hanno conservato, sequenza che non è decifrabile nel suo valore ritmico–musicale totale perché è semplicemente quello che io ho sempre chiamato l a “ p a r t i t u r a r i t m i c a ” : ma, secondo una felice formulazione di Alphonse Dain, questa ci permette almeno di sentire delle differenze là dove gli antichi ne sentivano6: En fait [...] c’est quand un mètre est opposé à un autre que son caractère se dégage. L’étude des changements rythmiques à l’intérieur d’un ensemble permet de reconnaître, sinon le caractère expressif de chaque rythme, du moins les divers caractères qu’il est susceptible de prendre.
Parlerò qui dei lavori di R.P. in cui si affronta, per risolverlo, qualche problema dei testi del dramma antico, e può darsi che qualcosa mi sia sfuggito, visto che il dramma è una presenza pervasiva nei suoi scritti. Una collocazione privilegiata spetta ovviamente a quelli in cui sono trattati espressamente il teatro e i testi teatrali, e cioè le parti liriche del dramma, ma anche i versi recitativi (§ 3). Tuttavia prima di questi, essendo fondamentali – come si è detto – l a m u s i c a e i l r i t m o v e r b a l e e m u s i c a l e (e quindi la metrica come unica documentazione del tutto), parlerò di quelle ricerche che, pur non sempre rendendolo esplicito, hanno però sempre un ovvio rapporto implicito con la realtà del dramma (§ 2): va ribadito che i l d r a m m a r e a l i z z a l a p i ù
|| 4 Non amo i troppo numerosi prestiti diretti dall’inglese e ho sempre rifiutato performance, ma recentemente mi sono reso conto che, rispetto a “esecuzione” (comune per la prassi musicale), la parola inglese evoca forse più efficacemente la presenza e la prestazione dell’esecutore. Trovo, indipendenti dalle mie riflessioni, quelle di BONANNO (1999, 270 n. 57): «del termine performance, nel senso di ‘esecuzione’, ‘rappresentazione’, non si può fare a meno in quanto ineguagliabile traduttore – assieme a to perform, ‘compiere’, ma anche ‘eseguire’, ‘rappresentare’; performer, ‘esecutore’, ‘attore’; performable, ‘eseguibile’, ‘rappresentabile’, in senso musicale e teatrale – del greco πϱάττειν o δϱᾶν e famiglia». 5 Mi sono ritrovato a confrontarmi di nuovo in pieno con questo mio interesse in ROSSI (1997). 6 DAIN (1965, 233). Dain parla della scelta dei ritmi da parte degli autori e si riferisce, senza nominarla, alla teoria dell’ethos dei ritmi e alla contrapposizione di un ritmo a un altro. Si verificherà l’efficacia della sua formulazione qui nel § 2.
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complessa, anzi completa, forma di comunicazione e trascurare una delle sue componenti porterebbe a delineare una realtà monca e a incorrere in incomprensioni che possono essere gravi. E questo nel contesto di una cultura che di ogni manifestazione di comunicazione faceva spettacolo, più o meno integrale7. Restano però ovviamente fuori quei lavori di metrica nei quali l’argomento è trattato da un punto di vista puramente teorico. Le teorie metriche degli antichi (§ 4), nella misura in cui siano ricostruibili, meritano considerazione nel nostro contesto perché ci aiutano a capire come gli antichi recepivano la realtà delle esecuzioni e come ne parlavano, ma – come vedremo – l’aiuto che ci viene offerto in questo campo risulta essere molto esiguo, il che non esimeva dal trattarne.
2. Lavori di teoria metrica la cui portata sul dramma è fondamentale anche se alle volte implicita In questa categoria rientrano lavori che, per la loro chiarezza teorica e per la loro rilevanza nel metodo di approccio, meritano di lasciare davvero traccia non solo negli studi metrici, ma anche negli studi sul dramma: mi domando quanti finora si siano resi veramente conto del valore di questi lavori. Comincio da quello che più chiaramente, e anche esplicitamente, mette la metrica in stretto rapporto con la realizzazione scenica: Sistemi ϰατὰ ϰῶλον e sistemi ϰατὰ μέτϱον8. Non sarà inutile richiamare qui oggi, in tempi di diaspora ideologica in fatto di metrica, alcuni concetti metrici fondamentali che erano allora comuni a R.P. e a me. Questi concetti fondamentali risalgono a Boeckh, al quale mi ero richiamato ormai molti anni fa9 partendo da alcuni spunti interessanti di uno studioso, Alphonse Dain10, particolarmente sensibile, come editore di testi drammatici (la sua edizione di Sofocle è per tutti noi in manibus), a problemi di colometria e di sticometria. La mancata distinzione fra colometria (identificazione dei cola) e s t i c o m e t r i a (identificazione dei versi), quasi mai frequentata nelle enunciazioni, non dipende tanto da confusione terminologica, quanto piuttosto da una inspiegabile scarsa consapevolezza, in molti, della differenza || 7 ROSSI (1997). Mi troverò a citare spesso, per comodità espositiva, lavori miei. 8 PRETAGOSTINI (1978). 9 ROSSI (1966), prendendo spunto da Dain, con le premesse di ROSSI (1963a): è notevole che l’interesse per Boeckh sia stato attivamente coltivato in ambiente francese: da Dain e dal suo allievo Jean Irigoin. 10 DAIN (1965).
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fra colon e verso11, che sarà utile richiamare qui. C o l o n è l’unità ritmica reale minima, che è sempre parte costitutiva di un’unità superiore e indipendente, sia essa il verso o il sistema12; v e r s o è la più piccola unità ritmica indipendente e in sé conchiusa. È chiaro che una sequenza, per es. un gliconeo, può essere verso indipendente o colon costitutivo di un verso più ampio. È a Boeckh13 che dobbiamo non tanto la definizione di verso in sé, quanto piuttosto l’individuazione e la chiara enunciazione dei quattro c r i t e r i per accertarne l’esistenza: 1. fine di parola, 2. iato, 3. elemento indifferente finale14 e (mancando 2. e 3.) 4. cognitio metrorum15. Quest’ultima, di fondamentale importanza, altro non è che l’attenzione al contesto: criterio s i n t a g m a t i c o se ci si riferisce al microcontesto di una composizione; criterio p a r a d i g m a t i c o se ci si riferisce a tutta la produzione poetica, accertando che una determinata sequenza faceva parte dell’orizzonte d’attesa ritmico del pubblico. Una distinzione fondamentale è poi quella fra u n i t à m i s u r a t i v e e u n i t à r i t m i c h e r e a l i , nel senso che solo le seconde erano percepite dall’orecchio degli antichi pubblici, essendo destinate le prime solo alla misurazione astratta16: le prime sono i m e t r a , i secondi sono i c o l a . Esempi di metra: metron trocaico, giambico, anapestico, coriambico; esempi di cola: dime-
|| 11 In molti casi le formulazioni di Dain sono accettabili solo come provocazione alla riflessione: ed è stato questo il grande guadagno, per me, nel formulare quello che considero il mio ‘credo’ lirico. Il mio ‘credo’ recitativo è ROSSI (1996a). 12 Per la definizione di sistema vedi qui oltre. 13 BOECKH (1811); ROSSI (1966, 188s.), (1975, col. 1211.50ss.), (1985, 8ss.: cito anche queste dispense, che, nate ben prima, negli anni hanno ormai acquistato grande diffusione). Fino a Gottfried Hermann compreso, nella sua analisi metrica e nelle soluzioni d’impaginazione fornite nell’edizione pindarica di Heyne (1817 [1798]), il verso era identificato nel colon, fatto particolarmente dannoso in tutte le edizioni pindariche precedenti a Boeckh (e anche in qualcuna posteriore). 14 ROSSI (1963a): “elemento” e non “sillaba”, perché è riferito allo schema astratto del verso (la scarsa utilità di DEVINE – STEPHENS [1975] dipende dall’aver loro inspiegabilmente ignorato questa distinzione fondamentale); “indifferente” (proposto allora da me) e non anceps, perché sia sillaba sia elemento sono o brevi o lunghi e mai ambigui. La mia innovazione terminologica (“elemento indifferente”, da ἀδιάφοϱον, indifferens, come provvidamente dicevano gli antichi) deriva da premesse ben altro che solo terminologiche. L’uso di “elemento” (per lo schema astratto) invece di “sillaba” (per il verso concreto) è peraltro già della chiarezza mentale di MAAS (1929, § 32). 15 Della cognitio metrorum ho segnalato l’importanza in ROSSI (1966). 16 ROSSI (1966, 186ss.), (1975, col. 1211.25ss.), (1985, 7s.).
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tro trocaico, giambico, anapestico, gliconeo (e tutti i cola eolici), enoplio, prosodiaco etc.17. Il verso, ovviamente, o è unitario o è un aggregato di cola. Ora, da queste premesse, che dovrebbero essere tanto ovvie da avere a mala pena bisogno di venir riformulate, discende che un verso o un sistema costruiti ϰατὰ ϰῶλον sarà differente da un verso o un sistema costruiti ϰατὰ μέτϱον. Altra breve premessa: che cos’è un s i s t e m a ? È in sostanza un verso, ma col termine si designa una sequenza di metra o di cola più lunga dei soliti versi (vengono chiamati versi quelli che ripetono i loro elementi misurativi costitutivi – i metra – due, tre, quattro, sei volte18), come, per fare un esempio di chiara costruzione per metra, Aristoph. Ach. 665–75 (in responsione con 692–701), in cui abbiamo una strofe costituita da versi che sono polimetri di cretici (4, 6, 8, 9) e che, semplicemente per la loro lunghezza, prendono nella teoria antica (e nella prassi moderna) il nome di sistemi. Ci sono però casi in cui la distinzione non è immediatamente evidente e risulta solo da un’attenta valutazione di diversi fattori del testo. R.P. prende in esame (pp. 168–72) due casi di molto evidente problematicità, e cioè Soph. OC 228–36, 243–49 (non in responsione) e Aristoph. Ran. 384–88, 389–93 (in responsione). Nel caso dell’OC abbiamo una sequenza di 26da in cui i 4da (tetrametri dattilici, e cioè alcmani) sono in sinafia fra loro e poco dopo, ma non in responsione, abbiamo una sequenza di sei 4da (alcmani) separati da fine di parola; nel caso di Ran. abbiamo (questa volta in responsione) una sequenza di cinque 2ia (dimetri giambici) che nella strofe sono separati da fine di parola mentre nell’antistrofe sono in sinafia. Come comportarsi nella presentazione tipografica? Infatti i singoli metra, se si decide per sequenza ϰατὰ μέτϱον, andrebbero presentati senza soluzione di continuità (su una lunga riga, in altre parole), mentre, se si opta per la strutturazione ϰατὰ ϰῶλον, vanno isolati i singoli tetrametri dattilici e i singoli dimetri giambici. Non è il caso qui di esporre la discussione dei vari casi citati e di risolvere i dilemmi: ci basta averli richiamati. Naturalmente con i cretici degli Acarnesi (qui sopra) il dubbio sulla strutturazione in cola non c’è, per il fatto che a quanto pare non esistevano nell’orizzonte d’attesa ritmico del pubblico dei dimetri o dei tetrametri cretici come cola. || 17 La distinzione fra cola costruiti ϰατὰ ϰῶλον e cola costruiti ϰατὰ μέτϱον è esposta chiaramente in SNELL (1982, 37); la categoria di cola ambigui, che si possono presentare in un modo o nell’altro secondo il contesto, è mia: ROSSI (1975, col. 1212.47ss.; col. 1217.51ss.), (1985, 14s.); in ROSSI (1966) non era ancora presente. 18 Dimetri, trimetri, tetrametri, esametri: in realtà i sistemi sono anch’essi versi, ma è d’uso conservare questa innocua distinzione antica (vedi per es. Heph. 63, 4ss. Consbr.), purché si sia consapevoli del fatto che è una distinzione in sé del tutto convenzionale.
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Lo scopo di questo sforzo esegetico sui ritmi è soltanto quello della presentazione editoriale della pagina? O non sarà piuttosto che la pagina, a seconda di come si presenta, dovrà rivelare una realtà di esecuzione diversa? L’impaginazione dell’editore moderno ha la funzione di riflettere una distinzione che nasce dall’esistenza originaria di almeno due diverse modalità di esecuzione: l’una per i sistemi (o versi) di un tipo e l’altra per i sistemi (o versi) dell’altro tipo. Voglio dare la parola a R.P., riportando i suoi efficaci ipsissima verba19: Sebbene queste realtà [scil. le realtà musicali] per noi siano ormai perdute, il recupero di un elemento significante in campo metrico, come senz’altro è la distinzione fra sistemi ϰ α τ ὰ ϰ ῶ λ ο ν e sistemi ϰ α τ ὰ μ έ τ ϱ ο ν , ci consente di ipotizzare per la musica e la danza, accanto ad una differenziazione in base al ritmo, un’ulteriore differenziazione, nell’ambito di un medesimo ritmo, in base al tipo di sistema. In questo senso non mi sembra azzardato pensare, in via di ipotesi, p e r l e r e a l i z z a z i o n i o r c h e s t i c h e del dramma antico, ad un fraseggio più complesso, ad un respiro più ampio nelle danze legate a sistemi ϰατὰ ϰ ῶ λ ο ν , così che l’articolarsi delle evoluzioni orchestiche potesse coincidere con l’articolarsi dei cola, m e n t r e p i ù m o n o t o n i , r i g i d i , s t e r e o t i p a t i dovevano risultare i movimenti di danza che accompag n a v a n o s i s t e m i ϰ α τ ὰ μ έ τ ϱ ο ν . [spaziati miei]
La diversa natura della costruzione stichica corrisponde dunque al diverso trattamento – approssimativamente registico, diciamo – della musica e della danza20. Direi che oggi un regista (colto, s’intende) dovrebbe tener conto di tutto questo, ma – tengo a porre l’accento su quanto segue – non tanto per ottenere una ricostruzione “filologica” (qui la parola ha bisogno delle virgolette) che, se pure potesse riuscire, per la sua criptica miseria non avrebbe, e neanche meriterebbe, un solo destinatario, ma piuttosto per introdurre una differenziazione purchessia che ricalchi (liberamente, è chiaro) quella differenziazione (a noi per l’eternità ignota, perché non sapremo mai come qualcosa si differenziava da altro) che il drammaturgo aveva escogitato per quell’occasione scenica. È qui – nella “lettura” di un fatto, la differenziazione in sé – che si capisce quanto mai bene il valore della formulazione di Dain riportata poco fa. Simile per rilevanza nella problematica dell’esecuzione pare a me Lecizio e sequenze giambiche o trocaiche21. R.P. si pone il problema in questi termini: quando ci si trova davanti a una sequenza h g h g h g h, questa è un lecizio oppure un dimetro trocaico catalettico puro? Nei singoli casi in cui compare
|| 19 PRETAGOSTINI (1977, 166). 20 La stessa utilità aveva, nella tesi di laurea, la definizione di periodo (vedi n. 3, qui sopra). 21 PRETAGOSTINI (1972).
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sarà l’uno o sarà l’altro? Un qualunquista dirà che è la stessa cosa: ma così non può essere, perché da questa accorta indagine si vede che l’uso del lecizio rispecchiava evidentemente una realtà ritmica singolare rispetto a quella del ritmo trocaico, che ammetteva l’impurità della sede pari del metron trocaico (h g h h). R.P. si dà la pena di controllare tutti i casi di sequenza pura presenti nei testi e conclude per valore di lecizio solo quando tale sequenza compaia in c o n t e s t i privi di sequenze impure, le quali darebbero invece la certezza del valore trocaico anche delle sequenze pure. L’equivoco trocaico, che nel lecizio è evidente e che per il lecizio è risolto dall’analisi dei contesti, è escluso a priori nel caso dell’itifallico (h g h g h h), che tutto può essere meno che una “tripodia” trocaica: è, chiaramente, una sequenza fortemente unitaria dal punto di vista ritmico, non misurabile in metra. Sull’importanza del c o n t e s t o , qui confermata dal caso del lecizio, non è il caso di soffermarsi ulteriormente: è il ben noto c r i t e r i o s i n t a g m a t i c o , di cui si è parlato sopra a proposito della cognitio metrorum di Boeckh, e che Pasquali aveva enunciato efficacemente con il detto «dimmi con chi vai e ti dirò chi sei»[*]. Il fatto che l’occasione per la distinzione fra ritmo trocaico e lecizio, che a me appare ormai fondamentale, si presenti quasi esclusivamente in contesti drammaturgici (e non lirici) ci fa certi che q u e s t o t i p o d i i n dagine ha rilevanza nel dramma e solo nel dramma. Grande importanza sia teorica sia sostanziale ha Il colon nella teoria metrica22. Alla base della ricerca c’è un’idea intelligente, che porta a un risultato davvero utile. Prendiamo dei cola che finiscono “in levare” ovvero “in tempo debole”, come per es. l’enoplio e l’itifallico: come ci si deve comportare per indicare la quantità dell’ultimo elemento quando si fornisce lo schema astratto di questi versi? È d’uso servirsi dei simboli a e f , ma c’è un inconveniente di fondo al quale non si fa quasi mai la dovuta attenzione: il primo segno significa nell’uso che “la regola” è la lunga (in basso), il secondo invece che “la regola” è la breve, ma né l’una né l’altra soluzione vanno bene per i casi di elemento “libero” (vedremo che è il caso dell’enoplio)23. Ma c’è di più: ci può essere qualche || [* PASQUALI (1934), p. 104 (“Per l’analisi dei singoli versi [scil. la filologia moderna] è partita dalla considerazione che non solo responsione ma anche prossimità devono in ritmica indicare normalmente identità o parentela. Membri ritmici che sogliono stare insieme devono anche essere imparentati: massima fondamentale anche per l’analisi ritmica è: «Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei».”). Era, questa, una delle citazioni predilette di Rossi durante le lezioni di metrica. – G. C.] 22 PRETAGOSTINI (1974). 23 Per l’elemento libero, e solo per quello, uso da sempre il segno x. Non rientra nelle possibilità qui previste il punto coronato W , che è il segno musicale di pausa atto a segnalare
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caso di finale per es. lunga anche in levare (vedremo che è il caso dell’itifallico nel suo elemento finale). Ebbene, all’origine della ricerca di R.P. c’è, in forma iniziale di ipotesi, che poi viene confermata, un’idea semplice e geniale, e cioè che l a v e r a n a t u ra di un colon si rivela solo quando esso è in sinafia c o n q u a n t o s e g u e (perché quando è verso autonomo, e cioè quando chiude una sequenza, c’è l’indifferenza finale a guastare il tutto). La verifica della validità dell’ipotesi viene condotta su cola per i quali non c’è alcun dubbio sulla quantità finale, perché, essendo “in battere” ovvero “in tempo forte”, deve essere sempre lunga. Ed ecco i risultati statistici su una raccolta che viene prospettata come completa, e cioè il controllo del più semplice colon di questo tipo, il dimetro giambico puro acataletto (g h g h g h g h). Ebbene, le statistiche sono impressionanti (p. 277): su 248 casi, 228 finiscono con un elemento lungo, 20 con due brevi (la naturale risultanza della soluzione della lunga), nessuno (!!) con una singola breve: segno che il ritmo giambico durava fino alla fine del colon. R.P. può ora, e solo ora, passare tranquillamente all’esame di tutti i casi che riesce a raccogliere di enopli (pp. 278s.) e di itifallici (pp. 279ss.), e che cosa scopre? Che nel caso dell’itifallico in sinafia l’elemento finale è sempre lungo (h g h g h h)24, mentre nell’enoplio è libero (X h X h X h x). Ed ecco la formulazione della legge (p. 276): « u n a s e q u e n z a r i v e l a l a s u a vera struttura metrica solo quando si presenta sotto forma di colon in sinafia col colon successivo». Confesso che è solo da allora che posso risparmiarmi ogni imbarazzo nel presentare lo schema astratto (il verse design, contrapposto al verse instance) di questi due cola dando tranquillamente l’elemento finale senza alternative (nell’un caso libero e nell’altro lungo): enoplio (X h X h X h x), itifallico
|| l’elemento indifferente finale di verso (e anche per questo i due simboli di cui sopra nel testo, che vengono comunemente usati, sono quanto mai inopportuni): ma qui stiamo parlando di cola, non di versi (si tratta qui di indicare la quantità dell’ultimo elemento del colon, che è o breve o lungo e non l’elemento indifferente finale di un verso, che può essere realizzato da sillaba indifferentemente lunga o breve). Il punto coronato è stato proposto in origine (ma non adottato) da MAAS (19293, § 32) ed è stato adottato la prima volta da me in ROSSI (1963a). Qualcuno ha cominciato a capirne la grande utilità, come MACDOWELL (1971, 29), DOVER (1968, 89), ZIMMERMANN (19852, 4 e n. 1). PARKER (1976, 25ss.), che accuratamente richiama MAAS (19293) e ROSSI (1963a), ha dei dubbi sull’utilità, ma almeno ne parla. 24 Nonostante sia in levare, il che poteva far pensare (e continua a far pensare a quasi tutti) che dovesse essere per forza libero: le analisi esaustive, condotte con metodo rigoroso, riservano sempre delle sorprese.
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(h g h g h h)25. La natura ritmica piena dei due cola doveva essere familiare a orecchie antiche. Nel solco degli studi sulla resa vocale è anche Dizione e canto nei dimetri anapestici di Aristofane26, centrato sulla diversa resa dei dimetri anapestici (2an), a seconda che siano recitativi o lirici, in un autore che, per ragioni di genere letterario, è particolarmente ricco di anapesti. La discussione si impegna nei casi dubbi, dove vengono meno i tre criteri che sono stati stabiliti per la classificazione: quello strutturale, quello metrico e quello linguistico. L’esametro nel dramma attico del V secolo: problemi di ‘resa’ e di ‘riconoscimento’27 rientra in quella categoria di lavori che partono da interesse per le famiglie ritmiche presenti nel dramma e che vediamo ormai ben rappresentata28. Questo lavoro29 trova luogo in questo paragrafo perché pone un importante problema di resa, che viene formulato con la possibilità che il pubblico riconoscesse quale tipo di sequenza dattilica stava ascoltando. Il docmio nella lirica corale30: molto dibattuta per la valutazione del fenomeno tragico nel suo impatto sul pubblico è una vecchia questione, quella dell’origine del docmio, il ritmo “agitato” per eccellenza e quindi quanto mai adatto alla tragedia31. Fu invenzione della tragedia o nacque prima di essa? La communis opinio è per la prima ipotesi, che credo giusta. La grande obiezione contro chi aderisce alla seconda (come fa R.P.) è che in tragedia il docmio appare quasi sempre in contesto con se stesso, e cioè in sistemi docmiaci, mentre in lyricis avremmo (se si trattasse di docmi) sempre sequenze isolate32, che si prestano ad analisi docmiaca solo perché la loro scansione appare dubbia ed è quindi trascinabile nell’ambito docmiaco33. Né la famosa ninna–nanna, che è cantata dal coro con molti docmi al povero Filottete stordito dalla sofferenza || 25 Così faccio, da allora, ogni volta che se ne presenta l’occasione (vedi per es. ROSSI [1975, col. 1217.39 e 42] e [1985, 26, sub § VI, c. 2]): nei miei decenni di insegnamento ho sempre dato notizia di questa e di altre inventiones (soprattutto, oltre che qui in PRETAGOSTINI [1974], in PRETAGOSTINI [1972] e [1978]) col nome dell’inventor, come possono testimoniare intere generazioni di allievi, ai quali ho sempre fornito matrice per fotocopia degli articoli. 26 PRETAGOSTINI (1976a). 27 PRETAGOSTINI (1995a). 28 PRETAGOSTINI (1972), (1976a) e (1979a). 29 Come del resto PRETAGOSTINI (1976a). 30 PRETAGOSTINI (1979a). 31 Sembra incredibile, ma per l’ethos dei ritmi è sempre prezioso il vecchio ABERT (1899). 32 Il fatto viene onestamente notato a p. 116, ma non ne viene riconosciuto il grande valore di prova in contrario. 33 Il docmio si presenta in tante forme diverse ed è quasi impossibile negare la qualità di docmio a una sequenza, per quanto ritmicamente bizzarra essa sia.
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(Soph. Phil. 827ss.), vale a togliere al docmio il suo carattere agitato, “tarassico”, così tipico della tragedia: il caso di Sofocle non è che un normale tradimento dell’orizzonte d’attesa del pubblico, che trova la sua efficacia proprio nella sua eccezionalità. A questo studio resta forse solo il fascino di ogni lavoro che vada controcorrente. Ho sempre considerato Le prime due sezioni liriche delle Nuvole di Aristofane e i ritmi ϰατ᾽ ἐνόπλιον e ϰατὰ δάϰτυλον (Nub. 649–651)34 il colpo di genio di un giovane di grande talento. R.P. fa un’osservazione molto acuta: nelle Nuvole di Aristofane, ai vv. 649–51, Socrate, che vuole istruire il vecchio rozzo Strepsiade, gli dice che gli insegnerà ad avere buone maniere in società e a distinguere i ritmi ϰατ᾽ ἐνόπλιον da quelli ϰατὰ δάϰτυλον. R.P. si accorge che questa uscita fa seguito, a poca distanza, a due parti corali, la prima delle quali (275–90 = 298–313) è costruita in palese contestualizzazione dattilica e la seconda (457– 75) è in grande prevalenza dattilo–epitritica35 e ne inferisce giustamente, a quanto so per primo, che quei due corali erano l’esemplificazione preventiva (prima della battuta di Socrate a Strepsiade) dei due generi ritmici, quello dattilico puro e quello dattilo–epitritico. Se la sua observatio coglie nel segno, come io credo, siamo di fronte a uno dei tanti casi in cui viene di nuovo a proposito la formulazione di Dain: non sappiamo come quei due ritmi si differenziassero, ma siamo in grado di verificare che si differenziavano. Si rende qui necessaria una breve parentesi sui d a t t i l o – e p i t r i t i , così chiamati da Rossbach e Westphal e da Maas molto opportunamente interpretati con la messa in rilievo delle due cellule D (h w h w h) ed e (h g h) inframmezzate da un elemento libero (un esempio: D x e)36. Da molto tempo Gentili rifiuta l’interpretazione ritmica di Maas37, che a me sembra così opportuna e chiarificatrice: della questione, che finora non ho mai affrontato sistematicamente, mi sto || 34 PRETAGOSTINI (1979b). 35 Vedi le analisi metriche di ZIMMERMANN (1987, 15s., 17) e di PARKER (1997, 186–91). 36 MAAS (19293, §§ 6, 55 [ma già in «Berl. Philol. Wochenschr.», 1911, 327]): segnalo qui i più rari d1, h w h, e d2, w h). In realtà un primo germe delle cellule maasiane era già nella denominazione “dattilo–epitriti” introdotta da ROSSBACH – WESTPHAL (1856, 382ss.), (1868, 778ss.), (1889, 404ss.), che già evidenziava la natura dattilica della cellula D e la natura “epitritica” della cellula e con l’aggiunta dell’elemento libero interposito h e, e h, e cioè h h g h, h g h h rapporto epitritico, e cioè 4/3 o 3/4). Peccato che poi Rossbach e Westphal abbiano annacquato il tutto con l’idea “musicalizzante” moderna della cosiddetta teoria logaedica, che voleva uniformità di battuta (Taktgleichheit) fra dattili e trochei; per questo rimando a ROSSI (1963a, 1 1 ss.). 37 La formulazione più recente è in GENTILI – LOMIENTO (2003, 197ss.). Ho sempre riconosciuto, per mezzo secolo, di aver avuto da Gentili l’iniziazione alla metrica, il che mi rende lecita l’espressione di questo parziale dissenso.
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occupando in altra sede[*]. Del resto nell’articolo di R.P. l’interpretazione ritmica dei dattilo–epitriti non è neanche sfiorata. La scoperta di R.P. invita irresistibilmente ad andare avanti nella via da lui aperta. Le situazioni sceniche sono chiare: un po’ prima della battuta di Socrate, durante tutte e due le parti corali il vecchio rozzo e ignorante è sulla scena: nel primo caso (vv. 275ss., dattili) sente il coro retroscenico delle Nuvole e nel secondo (vv. 457ss., dattilo–epitriti) si realizza addirittura un duetto lirico. Sembra chiaro che queste due parti corali esemplificano, sì, come afferma R.P., i due generi ritmici, ma non riesco a sottrarmi all’idea che questo venisse anche scenicamente rappresentato, con espedienti che potevano essere di vario tipo: sono consapevole del principio, comunemente accettato, che niente avviene sulla scena che non trovi la sua esplicitazione nel testo38. In altre parole: i due ritmi sono diversi, Strepsiade è troppo rozzo per saperli distinguere, ed ecco che, anche canticchiando lui stesso, mostra la sua goffaggine. Quello che io ritengo sicuro non è un vero e proprio movimento scenico, bensì qualcosa di gestuale e/o di tono verbale, che sicuramente era realizzato: penso che il testo non dica, e non possa dire, tutto quello che in scena avveniva o poteva avvenire. Certo è che anche questa volta, come poco fa, avvertirei il regista (colto), che sarei felice di avere sottomano39, pur senza sapere che cosa suggerirgli.
|| [* Nella conferenza–saggio Riflessioni sui dattilo–epitriti, poi edita postuma in «SemRom» 11, 2008 {ma stampa 2010}, pp. 139–167. – G. C.] 38 Non serve che indichi bibliografìa. 39 Dattilo–epitriti ed esametro dattilico dovevano avere forte riconoscibilità (mi piace il “riconoscimento” di R.P. in PRETAGOSTINI [1995a]). Né vale obiettare che i primi erano lirici e il secondo era recitativo: va ricordato che l’esametro, quando è usato in lyricis, si comporta come l’esametro epico recitativo quanto a incisioni. Cito un mio test singolarmente illuminante (come tale – «höchst lehrreich» – è stato giudicato da Hermann Fränkel, per litt. 24/05/1966: vedi ROSSI (1996a [1965], 311s.): la monostrofìca Nemea IX di Pindaro è in dattilo–epitriti e il primo verso della strofe è D h D h (h w h w h h h w h w h h), e cioè una sequenza che per la successione di lunghe e brevi potrebbe essere un esametro: ebbene, di undici ripetizioni due sole (!!), per incisioni, potrebbero essere esametri perfettamente regolari (36, 46), mentre quattro sarebbero esametri rari (1, 6, 41, 51: senza incisione pentemimere o trocaica), uno rarissimo (26: contro il ponte di Hermann) e addirittura quattro (si noti: quattro su undici!) assolutamente impossibili (11, 16, 21, 31: divisi in due parti uguali, quello che io da qualche tempo chiamo “ponte di mezzo”, regola mai violata). Non si poteva desiderare prova migliore per dimostrare l’irrilevanza della métrique verbale in tutta la poesia lirica greca: a quanto so, questo principio fondamentale della lirica, che la distingue dalla poesia recitativa, viene segnalato esplicitamente per la prima volta in ROSSI (1966, 195ss.); in ROSSI (1998, spec. 171ss.) viene evidenziato il comportamento assolutamente non greco di Orazio, peraltro giustificato dal fatto che la sua lirica non era cantata.
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Ebbene: quanto si ricava da quella che risulta essere una testimonianza davvero antica è che sicuramente (e la sicurezza è ormai totale dopo la conferma dataci da R.P.) il ritmo che noi moderni chiamiamo dattilo–epitritico era chiamato ϰατ᾽ ἐνόπλιον40. Ma da qui a inferirne una natura di quei ritmi diversa da quello che appare dalla luminosa semplicità dell’esegesi ritmica maasiana ce ne corre: t e r m i n o l o g i a e i n t e r p r e t a z i o n e r i t m i c a s o n o d u e f a t t i i n d i p e n d e n t i l ’ u n o d a l l ’ a l t r o . Ebbene: rendiamoci conto che R.P. usa semplicemente la terminologia: li chiama ϰατ᾽ ἐνόπλιον– epitriti (come fa Gentili) e basta, senza aderire all’interpretazione ritmica di Gentili. Eppure l’articolo è stato visto da molti (da tutti?) come un’adesione senza condizioni: e invece dice ben altro e vale per ben altro, come si è già detto sopra. Metro, significante, significato: l’esperienza greca41 è una tipica relazione da convegno: riafferma principi di esegesi altrove appoggiati con ben altra forza. A conclusione di questa sezione42, quella della metrica sulla scena, c’è da dire che molti di questi lavori43 si fondano su r a c c o l t e d i m a t e r i a l e , raccolte che sono state realizzate tutte (meno l’ultima) in epoca pre– informatica, quando cioè lavori del genere costavano ancora lacrime e sangue: così come avveniva in piena epoca positivistica, epoca da rivalutare appunto per questo tipo di attività, che non consentiva raccolte oziose come succede oggi quando vengono appese, in ricerche scientifiche, delle inutili liste prese dal Thesaurus elettronico (per dimostrare magari inutili tesi). E questa disposizione (e disponibilità) è restata costante in R.P. anche in studi di altro argomento, come si vedrà qui nel seguito. È pur vero, però, che ancora nessuno, a quanto so, ha fornito per gli schemi metrici strumenti simili a quelli che fornisce il Thesaurus per il materiale verbale44: sarebbe assai meritorio fornirli. || 40 Chiamarli, come fa Gentili, ϰατ᾽ ἐνόπλιον–epitriti rivela una indebita (e dal suo punto di vista inopportuna) dipendenza dalla designazione di Rossbach–Westphal (dattilo–epitriti): perché, allora, non rendere ϰατ᾽ ἐνόπλιον con “enopliaco”? Ma contro un eventuale uso anche del semplice “enopliaco” avrei un’obiezione forte: da quanto detto più su, niente è più estraneo dell’enoplio (che ha libertà dell’elemento in levare) al ritmo dattilo–epitritico (che nella cellula dattilica non ha quella libertà). 41 PRETAGOSTINI (1990). 42 Non discuto PRETAGOSTINI (1986), che presenta lo scontro di due posizioni rigide, al limite della faziosità. 43 PRETAGOSTINI (1972), (1974), (1976a), (1979a) e (1995a). 44 In epoca informaticamente ancora aurorale avevo lanciato un appello, tuttora non raccolto, in ROSSI (1973, 145 n. 1) e poco dopo in ROSSI (1975, col. 1217.4ss.): «Bei der Herstellung einer höchst erwünschten Liste von Kola und Versen (Typologie und Vorkommen) könnten die Computer behilflich sein: eine solche Liste würde eine vollständigere Einsicht in die Morpholo-
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Spero di aver mostrato quanto questi lavori, che sono integralmente di metrica, abbiano a che fare in generale con il dramma e con la scena ben più di quelli che vedremo nella sezione che segue e che affrontano pur interessanti problemi singoli: ma che non hanno la portata generale di quelli fin qui trattati.
3. Analisi di testi del dramma Qui saremo più sintetici: i contributi sono solidi, ma a mio parere non raggiungono, per il teatro, i livelli di rilevanza di quelli della sezione precedente. Problemi di esegesi testuale e drammaturgica sono trattati in L’episodio di Caronte (Aristoph. Ran. 180–270)45; Un problema di interpretazione metrica: Eur. Troad. 256–8 e 265–746; Parola, metro e musica nella monodia dell’Upupa (Aristofane, Uccelli 227–262)47. Gli spettacoli ad Atene negli Acarnesi di Aristofane48 è una bene informata rassegna della situazione dello spettacolo ad Atene nella seconda metà del V secolo. La rappresentazione dell’ Ἀγήν e la nuova drammaturgia49 trasferisce la competenza per la scena nell’epoca ellenistica, che da qualche tempo era diventata il suo centro d’interesse: viene discussa la natura a metà fra commedia e dramma satiresco di alcuni fattori del singolare spettacolo prodotto per Alesssandro Magno in trasferta militare. Di molto maggiore interesse sono alcune rassegne di materiale: I metri della commedia postaristofanea50, un’accurata raccolta con conclusioni non ovvie sull’impegno lirico della commedia di mezzo (si suppone che metri lirici venissero recitati); Forma e funzione della monodia in Aristofane51; Parola e metro in Sofocle52 e Osservazioni sulla metrica nelle tragedie di Eschilo53 sono panoramiche di stile e di scelte ritmiche dei due drammaturghi. Questi lavori, richiesti per
|| gie der ant[iken] V[erskunst] und ein besseres Verständnis ihrer hist[orischen] Entwicklung gewähren». 45 PRETAGOSTINI (1976b). 46 PRETAGOSTINI (1977). 47 PRETAGOSTINI (1988). 48 PRETAGOSTINI (2001). 49 PRETAGOSTINI (2003a). 50 PRETAGOSTINI (1987). 51 PRETAGOSTINI (1989). 52 PRETAGOSTINI (2003b). 53 PRETAGOSTINI (2004).
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occasioni congressuali, devono essergli costati, al momento, poca fatica perché nascevano da una competenza antica, la conoscenza approfondita della testualità metrica dei drammaturghi acquisita da lungo tempo, dai primissimi anni, per quei lavori di grande originalità di cui si è parlato nel § 254: i materiali erano disponibili da anni. In altre parole, R.P. raccoglieva qui i frutti delle pazienti e puntigliose letture giovanili delle parti liriche di tutto il grande dramma attico. Sappiamo tutti per esperienza che chi non ha fatto con quell’impegno certe letture da giovane non le farà poi mai più.
4. Le teorie metriche degli antichi In che misura sono ricostruibili le teorie degli antichi? E di quali antichi? Dei contemporanei delle grandi stagioni creative ci restano solo minuti brandelli. Si dà il caso che quello che ci resta in una certa quantità e in soddisfacenti contesti non risale indietro oltre l’età alessandrina, ed è in verità quasi sempre di molto posteriore55, di origine per di più umile, segnata inesorabilmente dalle esigenze dell’insegnamento scolastico. Il fascino del controcorrente, che abbiamo segnalato sopra a proposito di Il docmio nella lirica corale56 (§ 2), va segnalato anche qui: R.P. credeva che da quanto ci resta della teoria antica si potesse ricavare molto. Non sto qui a dare un panorama della ricerca contemporanea: del resto, in netta opposizione, molto è stato detto sopra a proposito di Le prime due sezioni liriche delle Nuvole di Aristofane e i ritmi ϰατ᾽ ἐνόπλιον e ϰατὰ δάϰτυλον57 (§ 2). “Mousike”: poesia e “performance”58 è un’agile sintesi di teoria e di storia musicale adattata al contesto editoriale. In L’interpretazione metrica di Aristofane, Acarnesi, 285 = 336 e lo scolio di Eliodoro59 il problema affrontato è quello dei versi in responsione 285 e 336 degli Acarnesi, che presentano la facies di due pentapodie anapestiche. Non è questo il luogo per affrontare il problema: basti registrare l’analisi dello scolio di Eliodoro, un metricologo del I sec. d.C. del quale vorremmo avere di più, visto che dal poco che abbiamo risulta essere assai superiore a tutti gli altri.
|| 54 PRETAGOSTINI (1972), (1974), (1976a) e (1978). 55 ROSSI (1996a [1965]). 56 PRETAGOSTINI (1979a). 57 PRETAGOSTINI (1979b) 58 PRETAGOSTINI (1998). 59 PRETAGOSTINI (1995b).
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Lessico della metrica e della ritmica greca e latina60 è un apprezzamento dei lavori della scuola messinese per l’allestimento di un ben desiderabile lessico della terminologia metrica antica. C’è qui da registrare quello che l’inglese designa con lip service, e cioè preghiera solo recitata con le labbra (devozione solo verbale), a difesa della terminologia dei ϰατ᾽ ἐνόπλιον–epitriti (e non di altro, come si è visto qui sopra61). Più interessante, perché più impegnato, è Le teorie metrico–ritmiche degli antichi. Metrica e ritmo musicale62. In apertura si ha una fiera opposizione alle parole di Pasquali sulle teorie antiche63 (basta citare, p. 369, «la dottrina della metrica greca non può essere se non descrittiva ed empirica»; e poi a p. 370: «classificazione meccanica o speculazione inutile»). Viene rivendicata la validità dell’approccio storicistico (p. 370), che era in sé proprio anche di Pasquali, e che era disceso per li rami fino a Gentili, e nessuno può oggi permettersi di dissentire in fatto di impostazione generale, specie fra noi: ma il torto, nello specifico, sta a mio parere nel mettere sullo stesso piano testimonianze teoriche di epoche troppo varie (tarde), riferibili a tipi di sensibilità musicale e a livelli di cultura troppo distanti fra loro, e non li si può appiattire su un’esperienza reale che si situa fra VIII e IV sec. a.C.64. Le cose si complicano ulteriormente quando si vuol mettere d’accordo questi brandelli di (tarda) teoria antica con la prassi editoriale sia dei papiri sia dei manoscritti medievali (pp. 382ss.). Ancora più rischioso è dar fede alla presentazione della pagina che di volta in volta è stata data per i testi poetici, presentazione che può dipendere (e in alcuni casi comprovatamente dipende) da comodità o da economia di spazio o, infine, da episodico puro arbitrio. In verità non sono molti oggi coloro che sposano questo atteggiamento65. Il peggio avvie|| 60 PRETAGOSTINI (1991). 61 Vedi PRETAGOSTINI (1979b). 62 PRETAGOSTINI (1993). 63 Nella giustamente famosa voce Metrica greca dell’Enciclopedia Treccani (1934), oggi più volte ristampata [= PASQUALI 1934, p. 104]. 64 Vedi PRETAGOSTINI (1979b) supra § 2. 65 Per es. FLEMING – KOPFF (1992). WILLETT (2002) vuole per sé una patente antropologica e gliela possiamo anche concedere (p. 11): «there is no reason to believe that Greek choral lyric was exempt from the limitations of working memory», le quali limitazioni ultime (p. 12) possono molto variare da individuo a individuo e si suppone che Willett si riferisca a quelle dell’autore ed esecutore arcaico; ma poi viene una sorprendente affermazione (p. 13): «we have strong evidence to prefer it [scil. la colometria alessandrina] over the modern colometry [scil. Boeckh]». Gli alessandrini sarebbero stati quindi più in regola con l’antropologia di quanto fosse Boeckh: e con gli autori arcaici, allora, come la mettiamo? Non potremmo ignorarli, se avessimo una qualche documentazione!
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ne poi quando, in tema di accordo, alla teoria tardo–antica e alla prassi editoriale delle fonti manoscritte si vuole aggiungere la teoria moderna, rappresentata (inevitabilmente) da Boeckh66: naturalmente non è questa la sede in cui mi propongo di controbattere queste tesi, ma mi piace riattizzare lo scandalo che suscito quando dico, con perfetta convinzione, che su molti (e fondamentali) aspetti della tecnica versificatoria antica ne sappiamo più noi del dopo–Boeckh di quanto ne sapessero i maestri di scuola che hanno prodotto scoli e trattatelli tardi67. A difesa di R.P. si può dire che anche qui68 la difesa della posizione teorica è atto di fede disimpegnato, senza vera compromissione data da ricerca autonoma.
5. Considerazioni conclusive Spero, con la mia attenzione così fortemente centrata sui lavori di metrica, di non aver dato l’impressione di una parzialità egocentrica da riferire all’interesse da me sempre portato alla metrica e alla musica antiche. È necessario forse che io ripeta quanta importanza tutto questo plesso di ricerca ha per il dramma antico: conto di averlo mostrato in qualche dettaglio. L’impostazione qui da me adottata va vista anche come una reazione al poco interesse che ormai da parecchi anni si dedica alla metrica. È sorprendente che la musica, di cui ci resta tanto meno, sia oggi tanto più frequentata. C’è da rimpiangere la fervida atmosfera di ricerca che gli studi metrici hanno registrato fino agli anni cinquanta e sessanta. In quegli anni erano nati i miei interessi, le mie curiosità e le mie competenze. È una grande perdita il fatto che una voce autorevole, che fra noi doveva continuare nella ricerca e nell’insegnamento, abbia taciuto così prematuramente.
|| 66 FLEMING (1996). La confusione mentale, fra l’altro, regna sovrana: Fleming (ignaro perché certamente mal guidato) usa (a sproposito) il termine elementum indifferens (evidentemente senza consapevolezza del portato teorico sostanziale) senza sapere che il protos heuretés o inventor della utilizzazione del termine antico era ROSSI (1963a, spec. 61–71); vedi supra n. 13. 67 Del resto anche il colto Orazio alle volte mostra la corda, come mi pare di aver dimostrato in ROSSI (1998). 68 Come si notava sopra a proposito di PRETAGOSTINI (1991).
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[Recensione] Aristide Colonna, La letteratura greca. Storia della letteratura greca antica dalle origini al V sec. d. Cr. Torino, S. Lattes & C. Editori, 1962, pp. VIII, 814. Ecco una storia della letteratura greca che raggiungerà lo scopo per il quale leggiamo nella fascetta editoriale che essa è nata: «giovare alla Scuola ed alla cultura italiana». Il materiale è offerto con generosità e con chiarezza, per di più con ricche appendici bibliografiche in fondo a ogni capitolo. La storia del Colonna presenta tutti i pregi che ne possono raccomandare l’uso al tecnico che ha bisogno d’un manuale comodo e maneggevole, allo studente universitario che ha bisogno d’un’opera che dia affidamento, all’uomo colto che cerca un libro informato che si lasci leggere, allo studente di liceo che desidera poter almeno scorrere con l’occhio quello che è costretto a lasciare, anche solo momentaneamente, da parte. La precisione dell’informazione, curata fino all’aggiornamento dei dati più recenti, e la sicurezza della dottrina fanno di quest’opera già un classico del suo genere. È naturale che una storia letteraria nuova risvegli l’interesse per problemi di metodo. L’A. se ne rende conto fin dalla prima pagina, se recisamente afferma (p. VII) che «la trattazione procede in gran parte per generi letterari». È ancora dell’immediato ieri un clima culturale in cui un’affermazione simile sarebbe apparsa eretica: e tutti sanno quanto pregiudizio una tale posizione abbia portato da noi agli studi in generale, e specialmente a quelli classici. Perché la considerazione del genere letterario, ripudiata dall’estetica come non filosofica, veniva trascurata dai più totalmente, anche come elemento culturale storicamente condizionato e condizionante, come parte, cioè, della cultura di cui l’opera d’arte è espressione. La sensibilità al genere è, nelle letterature antiche, la regola: il genere è uno degli elementi essenziali per la produzione dell’opera. Non che essa si debba giudicare in base a uno schema razionalistico più o meno arbitrario, secondo un principio pseudostorico di sviluppo, pienezza e decadenza: già da tempo chi ragiona così è tacciato di gretto e retrivo positivismo. Ma occorre ricordare che l’autore antico ha sempre di fronte a sé un ‘modello’, uno schema: il fatto che egli poi magari lo superi (e spesso mettendo a bella posta l’accento su tale superamento) non fa che confermare il peso, sul piano storico– culturale, dello schema stesso. Di qui l’importanza di ricerche volte a determi-
|| [Recensione pubblicata in «RCCM» 6, 1964, pp. 188–194]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-046
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nare le caratteristiche delle varie forme e i vari atteggiamenti che di volta in volta le varie epoche, o i vari autori, prendono di fronte ai dati della tradizione letteraria. Il positivismo — ripetiamo — prendeva quegli schemi come misura del giudizio: mentre noi li prendiamo come uno dei tanti elementi di una realtà storica da ricostruire in ogni sua parte. Si pensi, per fare un esempio, alla importanza che assume il genere e la ‘topica’ nell’opera di Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern 1948 (31961), per la comprensione della latinità medievale. Del resto, nel Croce stesso i generi, banditi da principio come concetti filosofici, rientravano poi come schemi di comodo senza i quali ogni discorso di critica letteraria sarebbe diventato molto difficile: e in fondo il valore della reazione della estetica crociana va considerato — com’è stato osservato — in rapporto agli eccessi positivistici. I quali nascevano, si ricordi, da alcune impostazioni che venivano dal clima del romanticismo maturo: e basterebbe pensare al peso che ebbero durante tutto l’ottocento (per arrivare, con le tardive propaggini scolastiche, fino ai giorni nostri) le ipostatizzazioni e gli schemi storici che noi oggi leggiamo nella Encyclopädie di Boeckh (21886): p o e s i a epica lirica drammatica e p r o s a storica filosofica oratoria (v. ivi spec. pp. 143 sgg., 648 sgg.). Tutto questo era accompagnato da quelle considerazioni sul «genio delle stirpi» (eolica individualistica e monodica, dorica collettivistica e corale, ionica temperata), ingiustificabili pure in chi aveva di fronte il singolare fenomeno del dialettalismo letteratissimo e tradizionalistico dei Greci, che avevano legato ad alcuni generi etichette dialettali come marchi di fabbrica e per così dire di proprietà (e di qui l’importanza storica della determinazione dell’εὑρετής, fatta alle volte con arbitrio più o meno palese). Ma si categorizzava il non categorizzabile, e questo era già un errore: e non si teneva abbastanza presente, inoltre, che l’autore antico s’inseriva non semplicemente nella tradizione lirica o drammatica, ma più precisamente nella tradizione di quel determinato genere lirico o drammatico, di cui aveva immancabilmente presenti alcuni macroscopici lineamenti strutturali, precipitato di secoli di uso o di usura del genere stesso, sia che volesse rispettarli sia che volesse ostentatamente superarli (si pensi alla agilità con cui gli alessandrini si muovono nelle ‘leggi’ dei generi). Sarebbe interessante — e chi scrive va raccogliendo da tempo il materiale per farlo — un paragone ovvero un parallelismo fra la teoria antica dei generi e quella dell’ethos musicale (che legava a determinate armonie determinate virtù psicagogiche): e questo allo scopo di vedere in qual misura nell’un settore e nell’altro operasse una qualsiasi teoria e in qual misura ci si volgesse liberamente, nella ricerca di mezzi espressivi, a forme storicamente di volta in volta legate, nella realtà delle opere, a un messaggio piuttosto che a un altro, per scelte misteriose — a cui, tra parentesi, la scienza moderna vuol sem-
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pre trovare una ragione (ma tale scienza non potrà esser mai una scienza storica). Quando una teoria, comunque, è attestata ed esiste, è dovere dello storico tenerne conto: non perché essa sia o fosse in grado di ‘regolare’ quello che regolare non si può, bensì perché la sua presenza può dare un particolare sapore addizionale ai singoli atti di libertà creativa che, così qualificati, diventerebbero, per così dire, anche degli atti d’ ‘insubordinazione’ a una tradizione più o meno saldamente affermata. Da quanto precede risulta chiaro come una presa di posizione programmatica così decisa, quale è quella del Colonna, sia da salutare con vivo compiacimento, e soprattutto in campo di storiografia letteraria greca. Un legame diretto con l’atteggiamento romantico vediamo, è vero, a p. 155, dove appare senz’altro azzardato il dire che in ogni storia letteraria la prosa precede la poesia, appunto in contrasto con la posizione romantica, che affermava esattamente il contrario in omaggio al concetto di poesia primitiva o di ‘primitività della poesia’ e di sviluppo dal primitivo al raffinato e decadente proprio di ogni letteratura. Affermazioni del genere, sia in una direzione sia nell’altra discendono da premesse astratte, e non storiche, e non sembrano da accettare: soprattutto quando ad appoggio della tesi si portano i testi micenei, che, per il loro carattere così decisamente aletterario, interessano, più che la storia della letteratura direttamente, la storia della lingua e, in senso più lato, quella della civiltà. Ma quello che conta è che l’A.,dopo la premessa metodica, ci dà poi realmente abbondante informazione sui generi: e lo fa nel modo più opportuno, e cioè non con un ‘cappello’ istituzionale avulso dalla trattazione, ma ogni volta che se ne presenta l’occasione, a proposito di ogni concreto ‘inventore’. E così ci vengono date notizie sul parteneo (p. 112) a proposito di Alcmane, sull’epinicio (p. 119), sull’epigramma (p. 121) e sul treno (p. 121 sg.) a proposito di Simonide. Non mancano anche altri generi a cui più raramente si accenna nelle storie letterarie, come l’epistola erotica (pp. 429, 749), l’epillio (p. 554) con l’indicazione delle testimonianze per il termine, la biografia peripatetica (p. 659 sg., e si vedano le note bibliografiche a p. 669), ed ugualmente utili sono le notizie sulla triade stesicorea (p. 116). Per quanto riguarda l’orazione come genere (trattata a proposito di Antifonte, p. 279), avrebbe giovato forse, accanto allo schema del genere, qualche accenno alla ‘profondità’ storica della sua formazione: ricordiamo la questione della divisione in sette parti dell’antica retorica siciliana, a cui segue in un secondo tempo la prassi degli oratori attici di dividere nelle quattro parti tradizionalmente considerate essenziali (introduzione, narrazione, argomentazione e testimonianze, perorazione). E qui possiamo forse aggiungere qualche altro desideratum, dal momento che premesse metodologicamente così sane e la competenza dell’A. non potevano non ingenerare aspettative precise.
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A p. 328, ad esempio, dopo le notizie sulle origini si sente la mancanza di una descrizione delle parti della commedia, così com’era stato fatto, pur brevemente, per la tragedia, a p. 178 sg. Ma soprattutto si sente la mancanza, arrivando a Pindaro, di notizie precise su quelle forme poetiche di cui non s’è ancora in precedenza parlato, come peana, ditirambo, (coi grossi problemi letterari, storico–musicali e storico–religiosi), prosodio, iporchema, encomio (p. 142). Le fonti sono scarse, è vero, e qualche volta anche sottilmente contraddittorie: ma questo non fa che rendere più necessario in inventario ordinato dell’informazione che abbiamo. Essa è comunque sufficiente per far sorgere un grosso problema storico, messo recentemente in luce da A. E. Harvey (The Classification o f Greek Lyric Poetry, «Classical Quarterly» 1955, p. 157 sgg.): quello della distinzione fra la teoria dei generi al tempo, poniamo, dei lirici arcaici e all’epoca della teorizzazione alessandrina. Non si dimentichi che tracce di un grande sistema storico–letterario si hanno solo da Aristotele in poi: prima si hanno solo spunti sparsi, come quelli di Platone, e, naturalmente, le opere stesse dei poeti. I filologi alessandrini elaborarono la teoria e il senso della tradizione era ovviamente cambiato nel volger di qualche secolo, come si vede, appunto, dalle testimonianze stesse: e il giudicare la lirica arcaica col metro della filologia alessandrina sarebbe errore in tutto simile a quello di chi volesse giudicarla con categorie e schemi moderni. È in questa luce che vanno impostati problemi singolari come quello dell’atteggiamento di certi poeti alessandrini, che hanno di fronte a sé una tradizione venerabile ed antica e una classificazione attuale fatta con criteri storico–letterari da una classe di filologi (e spesso son filologi essi stessi):ma hanno, in più, coscienza della loro libertà e capacità innovatrice e gran desiderio di farne uso, magari proprio per ‘far scandalo’. Si ricordi il caso dell’epinicio callimacheo per Sosibio (fr. 384 Pf.), scritto nientemeno che in distici elegiaci! Ma un discorso del genere ci porterebbe forse troppo lontano. Ci si consenta ancora di osservare, a proposito di questa ‘sezione’ così importante dell’opera e, a nostro parere, così bene impostata, che un solo sospetto di formalismo evoluzionistico ci è venuto leggendo quanto si dice a p. 318 a proposito della tragedia, nato forse solo da qualche ambiguità dell’espressione: poiché nella «maturità piena» e nell’«inizio della decadenza di questo genere letterario» è da vedere certamente — a differenza di quanto possa sembrare lì per lì — un apprezzamento del gusto contemporaneo e immediatamente successivo, che è inseguito nel suo progressivo spegnersi nell’età alessandrina, amante della poesia letta e non più o molto meno della poesia scenica recitata (e si veda quanto giustamente si osserva a pp. 498, 515). L’attenzione al genere si manifesta, poi, anche nella disposizione della materia, che, specie nell’ultima parte dell’opera, sacrifica spesso, e giustamente, l’esigenza della disposizione rigi-
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damente cronologica per permettere più chiari avvicinamenti di opere fra loro imparentate per genere. Troppo lungo sarebbe elencare i punti nei quali questo libro non può che suscitare la più incondizionata approvazione. Come pure sembra inutile dare partitamente notizia delle varie soluzioni che l’A. dà dei vari problemi storico– filologici: tale è la dottrina e tale è l’equilibrio che l’A. mostra, da rendere inutile quello che sarebbe, qui, un insufficiente surrogato della lettura diretta, pieno di pur doverose lodi. Quello che rende il lavoro particolarmente utile — s’è detto — è la precisione e la copia dell’informazione, che permettono una consultazione fiduciosa e veloce. Utilissimi sono, ad esempio, i numerosi elenchi di opere minori o perdute, come per Sofocle (p. 224 sgg.), gli oratori attici (pp. 430 sgg., 437, etc.), Menandro (524 sgg.), Teofrasto (540 sgg.), Plutarco (i cosiddetti moralia, p. 664 sgg., con i titoli latini in uso per le citazioni), Galeno (p. 712 sg.), Luciano (p. 736 sgg.), etc. L’A. ci dà poi, in capo alle note bibliografiche, le notizie essenziali per la storia dei vari testi insieme con un succinto schema della tradizione manoscritta: e qui vediamo al lavoro l’editore peritissimo e il paziente collazionatore di codici, che ha quella invidiabile esperienza che ha. Troviamo molto felice l’inserzione, qua e là, di una ‘categoria’ storico–letteraria consistente nella formazione dei singoli autori e nelle loro ‘letture’ (Eschilo p. 189 sg., Sofocle p. 210, Erodoto p. 249, etc.). Particolarmente felici ci sembrano alcuni capitoli, come quello che dà una chiara delineazione della seconda sofistica (p. 720 sgg.), campo nel quale l’A. può vantare una competenza specifica, e degna di lode è l’idea di dare informazione aggiornata su alcuni dei più importanti studi neotestamentari (pp. 761 sgg., 778 sg.), nel quadro di un’alta valutazione precisamente storico–letteraria del Nuovo Testamento, come inizio della letteratura greco–cristiana. Precise e chiaramente schematiche le notizie sui πολυϑρύλητα della nostra disciplina: così ci è apparsa, ad esempio, la preistoria moderna della questione omerica (pp. 17–19), dove, cosa insolita in un libro italiano, al Vico è dato quel posto di omerista prefilologico che gli spetta e come vero iniziatore della moderna filologia omerica è dato il Wolf (o forse gli italiani, col loro consueto portare il Vico in primo piano, reagiscono alla trascuratezza di molti stranieri, che lo ignorano del tutto?). Dovunque traspare, poi, dalle numerose vivaci notazioni sparse qua e là, l’autopsia dei testi, rinnovata magari ancora una volta in occasione della composizione dell’opera. Ma la lista, come abbiamo detto, si allungherebbe troppo: e passiamo così, com’è consuetudine, alla discussione di alcuni punti particolari, in cui le affermazioni dell’A. possono apparire troppo personali per aspirare ad una generale accettazione. L’A. è, a proposito della questione omerica, chiaramente unitario (p. 24): Omero, autore dei due poemi, sarebbe vissuto nella seconda metà del sec. IX.
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Occorreva forse far miglior giustizia alla corrente analitica (alla quale dobbiamo, tra parentesi, più della metà di quanto a tutt’oggi, sappiamo su Omero), ricordando almeno qualcuno dei più famosi e grossi ‘scandali analitici’ che sono stati sempre all’origine di ogni atteggiamento analitico (i famosi duali del 1. IX dell’Iliade, ad es.). Ci sembra infatti che quanto si dice a p. 35 non sia sufficiente a metter da parte le contraddizioni che nel testo omerico si trovano in grande abbondanza: non ci sembra che basti invocare le differenze nella trattazione del mito fra l’età micenea e l’età della composizione dei poemi, anche ammesso che se ne debba postulare una gestazione così lunga. Troviamo continuamente nei poemi anche contraddizioni del tutto gratuite, che potremmo chiamare ‘strutturali’, che vanno cioè contro certi elementi prestabiliti di struttura, dei quali si poteva fare a meno: in tal senso queste contraddizioni sono ‘gratuite’. Ché diverse son quelle che vanno contro la realtà, la ‘verità di natura’: esse, sì, hanno giustificazioni puramente poetiche e sono lì a dimostrarci che Omero non è un verista e che sa idealizzare a suo modo la realtà, astraendone e facendole magari a volte violenza. Né avrebbe d’altra parte nociuto alla causa unitaria ricordare, come fa ad esempio il Lesky nella sua recente storia letteraria, i non pochi passi per i quali non si può non supporre un’attenta volontà armonizzatrice (richiami, singolari concordanze, etc.). Quanto alla lingua (p. 35 sgg.), l’A. dice giustamente che si tratta di linguaggio letterario e artificiale (l’ipotesi della mescolanza di dialetti parlati, l’eolico e lo ionico, a cui si accenna a p. 22 solo per rimandare alla spiegazione giusta data dopo, andava forse riportata con condanna più recisa, come ipotesi già antica ma oggi totalmente screditata). Ma l’ipotesi (p. 36) di un dialetto «acheo», che sarebbe il miceneo, come fondo della lingua omerica, «arricchito» di forme eoliche e ioniche, potrebbe richiamare le obiezioni di più d’un linguista (e la ipotesi fu avanzata assai prima che la scrittura micenea venisse decifrata, come leggiamo in C. J. Ruijgh, L’élément achéen dans la langue épique, Assen 1957, p. 10, n. 2). Senza contare che anche lo storico avrebbe da avanzare più d’una riserva — com’è stato in realtà già fatto — all’ipotesi di un epos miceneo già formato (si pensi ai lavori del Webster e alle reazioni che hanno suscitate). Prendendo spunto dalle osservazioni sulla lingua omerica, cadono qui opportune alcune osservazioni su passi dell’opera che s’interessano alla lingua dei vari autori. L’A. non trascura mai di accennare al problema del dialetto, e lo fa colla consueta competenza. A p. 3, tuttavia, non è sufficiente dire che i dialetti «non si fusero col passare del tempo in un’unica lingua letteraria»: essi in realtà si fusero parzialmente gli uni cogli altri per formare le varie lingue letterarie (l’omerica, il cosiddetto dorico della lirica corale, etc.). Per questo a p. 4 l’affermazione che Bacchilide, pur essendo di origine ionica, «non si servì del
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suo dialetto, ma di quello dorico», appare inesatta e comunque in contraddizione con quanto l’A. dice qua e là, giustamente, in brevi e ben informate note sulla lingua dei vari autori, sul carattere letterario e composito delle lingue stesse. Per la medesima ragione non c’è accordo generale su quanto dell’attico che si ritrova in Anacreonte sia da attribuire alla «non breve permanenza del poeta ad Atene» (p. 108) e quanto, piuttosto, alle vicende della trasmissione dei testi; e lo stesso si dica di Erodoto (p. 246), dove dal Colonna, profondo conoscitore in materia, ci si sarebbe aspettato qualche breve cenno sul dibattuto problema testuale–dialettale. Per le stesse ragioni non ci sentiamo di assentire in tutto a quanto viene detto, a tale proposito, su Alcmane (p. 114): il problema dei cosiddetti eolismi di Alcmane è per molti aspetti simile a quello dei cosiddetti eolismi teocritei (sono stati trovati anche a Cirene): se si può discutere sulla designazione di Vordorisch, da alcuni proposta, si può essere certi che non può trattarsi d’imitazione di lirica lesbica (e comunque non della grande, che è cronologicamente, sia pur di poco, posteriore). A proposito, poi, di Corinna (p. 129) occorre notare che il grado di letterarietà della sua lingua, e perciò della sua opera, è ancora un discusso problema. A p. 62 si parla inoltre delle forme dialettali singolari in Esiodo: in proposito va tenuto presente che i genitivi plurali in –ᾶν non si possono a rigore definire dorici (ed è noto quanto dibattuta sia la questione), ma neanche eolici, ché quelli eolici nella tradizione papiracea di Saffo e Alceo (con tutti i limiti che ad essa si vogliano imporre) appaiono con baritonesi, e cioè semplicemente in –ᾱν, pur derivando, come si sa, dalla contrazione di –άων (E. M. Hamm, Grammatik zu Sappho und Alkaios, Berlin 1957, pp. 42 sg., 147). E un cenno avrebbero meritato anche altri cosiddetti dorismi esiodei, come, in primo luogo, i famosi accusativi plurali brevi (–ᾰς). Infine, ci sembra che la designazione di ‘ionico antico’ per il miceneo (p. 155) sia da considerare infelice, tanto più che, stando al valore della terminologia corrente, appare in contrasto colla definizione di ‘acheo’ data a p. 36 (occorre tenere sempre presente il divario cronologico fra le testimonianze del miceneo — secoli XV–XIII — e quelle degli altri dialetti, posteriori di molti secoli). ‘Ionico antico’, inoltre, potrebbe ingenerare confusione con la ‘lingua omerica’ così com’essa è nei poemi, con tutti i suoi impasti dialettali, creando equivoco con la definizione degli antichi come παλαιὰ Ἰάς, contrapposta da essi a quella dello ionico più recente di un Erodoto. Ci si consentano alcune altre osservazioni di dettaglio, che vorrebbero dar testimonianza dell’interesse con cui non si può non condurre la lettura dell’opera, e ripetiamo che si elencano qui di seguito solo alcuni dissensi su questioni particolari. «Avveduta e conservatrice» era stata, sì, la critica alessandrina in genere (p. 1sg.): ma non si dimentichi l’arcigno razionalismo di alcuni
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critici (si veda quanto il Colonna stesso riporta, giustamente, su Zenodoto a p. 644). I verbi per «vedere» sono in Omero dieci (p. 36), e si potevano citare tutti, seguendo una prassi utilissima qui del resto spesso seguita: ὁρᾶν, ἰδεῖν, λεύσσειν, ἀϑρεῖν, ϑεᾶσϑαι, σϰέπτεσϑαι, ὄσσεσϑαι, δενδίλλειν, δέρϰεσϑαι, παπταίνειν (v. B. Snell, Die Entdeckung des Geistes3, Hamburg 1955, p. 18). A p. 44 al giudizio negativo di Aristotele sui poeti ciclici si aggiunga quello di Orazio nella Poetica (131 sgg.), interessante appunto perché ci documenta la continuità dello atteggiamento attraverso la critica alessandrina. A proposito degl’inni omerici (p. 50) sarebbe stato forse opportuno un accenno alla questione dibattuta della distinzione fra ὕμνος e προοίμιον. A p. 101, proprio perché l’A. prende così decisamente posizione per l’autenticità dell’epitalamio di Ettore e Andromaca attribuito e negato a Saffo, era forse opportuno, magari in bibliografia (pagina 108 sg.), un accenno alla questione e agli Studi di poesia eolica del Marzullo (1958), che ha recentemente ripreso il problema, concludendo, come il Colonna, per l’autenticità, contro il rigorismo linguistico del Lobel. Per Corinna (p. 128) l’A. propende per la cronologia alta: ma era forse utile un accenno alla bassa, autorevolmente sostenuta da molti studiosi. A p. 135 si traduce forse un po’ troppo liberamente, da Pind. fr. 198 sg. Sn., le parole ἐπαίδευσαν ϰλυταὶ Θῆβαι con «Tebe … la madre amata che lo ha nutrito». A p. 144 c’è da osservare che non c’è da fidarsi troppo del gusto estetico del medioevo, che ci ha tramandato molte cose per puro caso o spesso per pregiudizio moralistico (il «naufragio medievale»): comunque, a proposito delle opere perdute di Pindaro, la scelta antologica che ci salva i soli epinici, dovuta a considerazioni pedagogico– religiose, è già dell’età degli Antonini (lo si evince dalla documentazione papiracea, che da quel momento in poi ci fornisce solo frammenti di epinici: v. J. Irigoin, Histoire du texte de Pindare, Paris 1952, p. 93 sgg.). A p. 212 fra le innovazioni sofoclee andava forse aggiunta quella attestataci da Aristotele (poet. 1449 a 19) come σϰηνογραφία (si ricordino i numerosi spunti ‘scenografici’ che offre, ad esempio, una tragedia come il Filottete; si veda comunque la nota di Gudeman ad loc.). Damone (p. 243), maestro di Pindaro per l’educazione musicale, non è proprio il primo a interessarsi all’ethos musicale: egli era stato preceduto dai Pitagorici, il che è certo, sebbene non sia chiaro quanto abbia influito su di lui la teoria numerica né le testimonianze di Platone, anch’egli in incerto rapporto con la teoria numerica stessa, valgono a toglierci dall’incertezza (e un accenno alla dottrina musicale sarebbe stato bene anche sotto Pitagora, a p. 166 sg.). A p. 326 οἱ ἐξάρχοντες (τὸν διϑύραμβον: Aristot., poet. 1449 a 10) è tradotta impropriamente con «che iniziavano a cantare», mentre a p. 173 ἐξάρχειν era reso bene con «intonare» (per il verbo come termine tecnico v. A. Pagliaro, Saggi di critica semantica, Messina–Firenze 1953, p. 27 sgg.). A p. 563 ci si sareb-
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be aspettato qualche cenno in più sulla polemica letteraria alessandrina e sui suoi addentellati anche con Teocrito (a p. 589 non c’è alcun richiamo). A p. 593, a proposito del famoso verso teocriteo χὠς ἴδον ὣς ἐμάνην, ὥς μοι πυρὶ. ϑυμὸς ἰάφϑη (2.82) leggiamo che esso avrebbe «una immediatezza ed una forza degna delle migliori creazioni di Saffo». Questo, su un piano di accostamenti di gusto, può non essere falso: ma non conviene dimenticare che il verso, pur vibrante di un pathos nuovo (e così pure 3.42), viene a Teocrito da uno dei casi più evidenti di volontà d’imitazione omerica (Ξ 294 ὡς δ᾽ ἴδεν, ὥς μιν ἔρως πυϰινὰς φρένας ἀμφεϰάλυψεν), dal che siamo illuminati ancora una volta sul metodo dei poeti alessandrini e sulla prudenza che dobbiamo usare nello accostarci ai loro versi (inoltre il Colonna intende « … come … come … come …» allo stesso modo di Verg., Aen. 8.41 ut vidi, ut perii, ut me malus abstulit error: ma si veda la nota del Gow al passo teocriteo). A p. 645 non era da tacere, a proposito di Aristofane di Bisanzio, l’importantissimo intervento filologico nella colometria dei poeti, tanto più che l’A. mostra perfetta padronanza del fatto metrico, abbondando in note volte a definire, sotto tale aspetto, le qualità dello stile dei vari poeti. A p. 566 c’è solo da notare che a proposito del fr. 9 Powell di Simia (trimetro anapestico catalettico) Efestione dice soltanto che Simia usò il verso (26.14 Consbr. ὅλον ποιημάτιον ἔγραψεν), mentre Σιμιαϰόν (34.18) è chiamato propriamente l’asclepiadeo maggiore ipercataletto (che Efestione considera, com’è noto, tetrametro antispastico) e Σιμίειον (21.11) il pentametro dattilico catalettico. Dell’esametro μείουρος, infine, sarebbe meglio dire «che ha l’ultimo longum realizzato da sillaba breve», piuttosto che «con un giambo alla fine» (p. 681), sebbene quest’ultima sia la definizione dei metricologi antichi. Resterebbe una piccola lista di sviste tipografiche, che sono sorprendentemente poche vista la mole del volume. L’A. le eliminerà in una sicuramente prossima riedizione dell’opera, conseguenza normale della diffusione che essa merita e che ad essa auguriamo. Quando avremo aggiunto che la veste tipografica non lascia niente a desiderare quanto a chiarezza ed eleganza, potremo ripetere quanto abbiamo già detto e lasciato intendere: un libro ottimo, che farà veramente del bene alla cultura italiana, a tutti i suoi livelli.
[Scheda bibliografica] LANA I. – FELLIN A., Antologia della letteratura latina. VoI. I: Dalle origini all’età di Cicerone. Messina–Firenze, D’Anna 1965, pp. 692 I criteri didattici sono pienamente validi. I capitoli comprendono o una grossa personalità o un particolare aspetto della storia politico–letteraria. Per la distribuz. dei passi scelti, basti vedere com’è articolato il capitolo plautino: una commedia intera (Pseud.) con testo, traduz. a fronte e breve commento; di alcune altre solo alcune scene sia in testo, traduz. e note, sia in testo e note, sia in sola traduz. Le notizie che precedono sono sempre strettamente finalizzate alla comprensione dei passi. Ogni capitolo ha, infine, una succinta bibliografia, L’ispirazione generale è chiaramente storico–politica: si mira soprattutto a intendere i rapporti fra intellettuali e stato (p. 15). Le numerose voci di autori moderni servono a chiarire particolarmente tale aspetto. Didatticamente eccellente è l’idea della sezione finale, Inviti alla lettura, che raccoglie agili riassunti di opere quasi tutte presenti fra i passi scelti. Sarebbe forse stata utile qualche nota generale sullo stile arcaico (allitterazione, asindeto ecc.): il lettore troverà comunque materiale sparso nelle note.
|| [Scheda bibliografica pubblicata in «RFIC» 93, 1965, p. 382]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-047
[Scheda bibliografica] Papiri dell’Università degli Studi di Milano (P. Mil. Vogliano), vol. III, Milano– Varese, Istit. Edit. Cisalpino 1965, pagine XVI–227, tavv. 10 Contiene testi letterari (111–126, a cura di F. Caizzi, I. Cazzaniga, A. Colonna, V. De Marco, M. Vandoni), testi documentari (127–203, a cura di M. Biscottini, E. Cantarella, G. Carrara, M. Vandoni), testi demotici (1–7, a cura di E. Bresciani, P. Pestman), nonché esaurienti indici (a cura di K. Tomberg). Ci limitiamo a dar notizia di alcuni testi letterari. Interessante, a proposito di Π 467 (nr. 114, I d. C.), verso che presentava già varianti antiche, la presenza d’una ulteriore variante (sul valore della quale come tale il De Marco avanza prudentemente qualche dubbio). Versi aggiunti, in condizione peraltro di quasi totale illeggibilità, sono quelli di Ap. Rh. 3, 1302 a, b, c (nr. 121, IV d. C.); ivi, al v. 1300, ἀν]αμυρμύρουσιν, che conferma una vecchia congettura di Ruhnken. Di notevole interesse, inoltre, i frammenti di encomia (nr. 123, III a. C.) a Minosse, Radamanto, Tideo (e altri?): a parte l’interesse del genere letterario, che si riattacca a Gorgia, Isocrate ecc. (pp. 27, 37 sgg.), notare la presenza della παράγραφος per separare tra loro i cola sintattico–recitativi (p. 22): si tratta di una importante conferma dell’antichità della colizzazione recitativa retorica che troviamo ad esempio nei codici medievali scritturali e liturgici in forma di ‘punteggiatura colizzante’ (argomento che aspetta ancora d’esser studiato a fondo).
|| [Scheda bibliografica pubblicata in «RFIC» 95, 1967, pp. 254–255] https://doi.org/10.1515/9783110648140-048
Primo congresso internazionale di micenologia Dal 27 settembre al 3 ottobre 1967 si è svolto a Roma, nella sede del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il primo congresso internazionale di micenologia. Il congresso è stato organizzato dal Centro di studi micenei ed egeo–anatolici del CNR (promotori ed animatori Carlo Gallavotti e Giovanni Pugliese–Carratelli), sotto il patrocinio del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Dopo i quattro ‘Colloqui’, che si erano svolti a Gif–sur–Yvette (1956), Pavia (1958), Wingspread (1961) e Cambridge (1965), con una partecipazione necessariamente ristretta di studiosi e con un arco d’interessi puntati principalmente sui più urgenti problemi della tecnica archeologico–epigrafica e filologico– linguistica, la convocazione di un vero e proprio congresso su larga scala, con la partecipazione di numerosi specialisti, ha permesso d’inquadrare i complessi problemi, suscitati o rinnovati da questa ancor giovane branca dei nostri studi, in una prospettiva più ampia, che ha spaziato dalla filologia in senso stretto alla storia della cultura e alla storia letteraria, dall’archeologia e dall’epigrafia alla storia politica, economica, religiosa. Le mattine sono state dedicate alle relazioni, che si sono tenute in sedute plenarie; i pomeriggi alle più brevi comunicazioni, tenute in ben cinque sedute contemporanee, nelle numerose accoglienti aule del CNR. Il Congresso si è articolato in tre sezioni, archeologica, filologica, storica che, nei pienissimi pomeriggi, si sono a loro volta frequentemente sdoppiate. I congressisti avevano a loro disposizione i tre volumi degli «Atti» provvisori, in forma di bozze rilegate, che contenevano tutte le relazioni e comunicazioni giunte alla Segreteria in tempo utile (la stragrande maggioranza). Diamo qui di seguito i titoli dei singoli contributi, avvertendo che ci limitiamo a quella parte del ‘calendario’ delle sedute che è stato effettivamente realizzato. Alcuni contributi, che non sono stati presentati a causa dell’assenza degli autori e che non sono stati letti da altri, saranno comunque pubblicati nell’edizione definitiva degli «Atti». RELAZIONI (sedute plenarie): 27.9: D. Levi, Continuità della tradizione micenea nell’arte greca arcaica (questa prima seduta era stata aperta da G. Pugliese–Carratelli, in qualità di Presidente del Centro, a cui erano seguiti V. Caglioti, Presidente del CNR e A. Ferrabino, Presidente del Consiglio
|| [Cronaca pubblicata in «RFIC» 96, 1968, pp. 120–124]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-049
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Superiore delle Accademie e Biblioteche, in rappresentanza del Ministro della Pubblica Istruzione). 28.9: S. Marinatos, La cultura micenea nel quadro dell’antropologia e dell’archeologia mediterranea; N. Platon, L’archeologia micenea: risultati e prospettive. 29.9: E. L. Bennett, Diplomatica e paleografia della Lineare B; J. Chadwick, La pubblicazione dei testi micenei; M. Lejeune, Relazione sul greco miceneo. 30.9: C. Gallavotti, Tradizione micenea e poesia greca arcaica; S. Marinatos, I recenti scavi a Thera; F. Schachermayr, Sul problema della migrazione greca. 2.10: O. Masson, Le scritture ciprominoiche e le altre scritture cipriote; V. Georgiev, Lo stato attuale della decifrazione dei testi in Lineare A; L. R. Palmer, La lineare A e le lingue anatoliche. 3.10: V. R. Desborough, Storia e archeologia nell’ultimo secolo dell’era micenea; G. Pugliese–Carratelli, I micenei nella storia del Mediterraneo.
COMUNICAZIONI (distribuite nelle varie sezioni: archeologica, filologica, storica): 27.9 (sez. archeol. I): A. Akerström, Il laboratorio d’un vasaio a Berbati presso Micene; W. A. McDonald, Missione archeologica in Messenia: 1964–1967; M.–Th. Picard, Torake nell’iscrizione di Pilo Sh 736; J. Raison, Ricerca sulla cronologia delle scritture micenee: le iscrizioni su vasi; E. D. Phillips, Riferimenti odissiaci a popoli e luoghi italici considerati alla luce dell’archeologia micenea. 27.9 (sez. archeol. II): E. Wace French, Schliemann e il vasellame di Micene (letto dalla Signora Craigh); V. Karageorghis, Mobilio omerico a Cipro; I. K. Raubitschek, La statuetta dell’«adorante Stanford»; J. A. Sakellarakis, Avorî di Archanes. 27.9 (sez. filol. I): M. Durante, Le vicende linguistiche della Grecia fra l’età micenea e il medioevo ellenico; H. M. Hoenigswald, Le scritture sillabiche e la scrittura etrusca; O. Szemerényi, Il miceneo: pietra miliare fra indoeuropeo e greco storico. 27.9 (sez. filol. II): L. Deroy, I toponimi micenei in –wo del tipo Erinowo; L. Godart, Le quantità d’olio della serie Fh di Gnosso; A. Heubeck, da–mo–ko–ro; P. Iliewski, Nuovo esame delle tavolette Cn di Pilo; J. T. Killen, Le tavolette opi di Cnosso; H. Mühlestein, Alcuni nomi micenei con pi– iniziale davanti a consonante. 28.9 (sez. archeol. I): P. Åström, La distruzione di Midea; J. Caskey, Scavi recenti a Ceo; Nojorkam, Il bassorilievo della porta dei leoni non è miceneo; id., L’affresco minoico del «principe dei gigli» è restaurato in modo incompleto; A. Sakellariou Xenaki, Un cratere d’argento con scena di battaglia proveniente dalla quarta tomba di Micene; R. V. Schoder, Le principali località micenee viste dall’aereo; N. Yalouris, Trovamenti micenei e premicenei nella regione d’Olimpia.
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28.9 (sez. archeol. II): G. S. Korres, Opaion; I. Pini, L’origine delle tombe a camera scavate nella roccia minoiche e micenee; V. E. G. Kenna, Differenza fra sigilli cretesi ed elladici implica differenza nel loro rispettivo uso in Lineare B? (letto da Killen); F. Makkay, Note sull’archeologia delle relazioni fra Creta, Micene e l’Europa centrale. 28.9 (sez. filol. I): A. Bartoněk, Sul problema dell’allungamento di compenso in miceneo; M. Doria, Strumentali, ablativi e dativi plurali in miceneo: alcune precisazioni; M. Lejeune, L’assibilazione di ϑ davanti a ι in miceneo; M. D. Petruševski, Le designazioni di colore in greco miceneo; O. Carruba, Atena e Ares preellenici. 28.9 (sez. filol. II): F. R. Adrados, wanaka e rawaketa; D. M. Jones, Un 267.4: ze–so– me–no; W. Merlingen, sapida (PY An 656.4); C. Milani, surate / surase; C. J. Ruijgh, Note sulle parole we–je–we, we–je–ke–a2, we–ja–re–pe e to–ro–qa; Chr. Survinu, La radice *pel– nei testi micenei; G. Maddoli, kono e ponokijo. 28.9 (sez. storica): A. Brelich, Religione micenea: osservazioni metodologiche; M. Gérard, emaa2 nelle tavolette micenee designa il dio Hermes?; B. C. Dietrich, Note sulle tavolette in lineare B nel contesto della religione greca e micenea; K. Kerényi, Possibile valore di di–wo–nu–so–jo e da–da–re–jo–de; G. A. Privitera, Dioniso nella società micenea. 29.9 (sez. archeol. I): C. W. Beck – G. C. Southard, La provenienza dell’ambra micenea; H.–G. Buchholz, Sull’origine dell’ossidiana nell’epoca micenea; V. Milojčić, L’epoca micenea in Tessaglia; A. M. Bisi, Fenici e micenei in Sicilia nella II metà del II millennio? (in margine al cosiddetto Melqart di Sciacca); N. F. Parise, Pani di rame del II millennio a. C.: considerazioni preliminari; L. R. Palmer, Cnosso: verso una soluzione definitiva; O. Höckmann, Antica navigazione nel mare Adriatico; B. Neutsch, Sopravvivenza preistorica e micenea in alcuni nuovi ritrovamenti degli scavi di Policoro. 29.9 (sez. filol. I): A. Morpurgo–Davies, Il trattamento di * e * in miceneo e arcadico– cipriota; E. Risch, Le formule introduttive in miceneo; P. Wathelet, L’allungamento di compenso in miceneo e in Omero. 29.9 (sez. filol. II): D. De Venuto, Il segno 82 del sillabario miceneo; Y. Duhoux, La sintassi micenea a proposito della nozione di ‘errore’; D. W. Packard, Uno studio delle tavolette minoiche in lineare A; M. Pope, La natura della scrittura pittografica cretese; J. Taillardat, opisukoqe opikapeeweqe: «gli archivisti e gli scribi»? 29.9 (sez. storica I): G. Garbini, Elementi egei nella cultura siropalestinese; J. Harmatta, Nomi Aḫḫiyawa – nomi micenei; L. A. Stella, Considerazioni storiche sui testi scritti di Tebe; F. J. Tritsch, La lettera di Bellerofonte. 29.9 (sez. storica II): T. W. Blawatskaja, La struttura politica degli stati achei del secondo millennio; F. G. Lo Porto, Italici e micenei alla luce delle scoperte archeologiche pugliesi; R. F. Willetts, Zeus miceneo nella Creta centrale.
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2.10 (sez. archeol.): T. Dothan, Alcuni popoli del mare e la loro eredità micenea; F. Biancofiore, Osservazioni sulle origini degli stanziamenti micenei in Apulia; Ch. Kardara, L’artigianato itinerante; M. B. Sakellariou, Ephyra; V. Tusa, La questione degli Elimi alla luce degli ultimi rinvenimenti archeologici; A. Tusa Cutroni, Sopravvivenza di un motivo miceneo su monete siceliote; E. De Miro, Il miceneo nell’Agrigentino; C. Laviosa, Il Lord di Asine è una sfinge? 2.10 (sez. filol.): J.–P. Olivier, I problemi della pinacologia micenea; J. J. Reich, La funzione dei segni naturalistici nella scrittura geroglifica minoica; S. Davis, Decifrazione della scrittura minoica pittografica (geroglifica) e della Lineare A; A. Sacconi, Syllabica signa quae in inscriptionibus Mycenaeis compendiorum vice adhibentur et ideogrammatum officio aliquando funguntur. 2.10 (sez. storica I): Sh. Yeivin, L’orientamento dei templi micenei e la loro possibile influenza nei paesi del litorale orientale del Mediterraneo; G. Piccaluga, Myc. i–je–re–u: osservazioni sul suo ruolo sacrale; I. Chirassi, Poseidaon–Enesidaon nel pantheon miceneo. 2.10 (sez. storica II): U. Bianchi, Aspetti ‘aurei’ della regalità greca arcaica e suoi eventuali precedenti micenei; S. Calderone, Terminologia catastale e diritto successorio nel mondo miceneo; H. van Effenterre, Un lawagetas dimenticato; H. Ota, Struttura della società micenea e e–re–u–te–ra; A. De Lorenzi, Il lawagetas in Omero.
Le comunicazioni non presentate o lette al Congresso, e già stampate negli «Atti» provvisori, sono dovute a: M. Andronikou, N. Barbu, G. Caputo, P. Chantraine, P. Conte, F. J. De Waele, H. Geiss, C. H. Gordon, N. S. Grinbaum, J. Knobloch, S. Levin, G. Nagy, J. V. Otkypšcikov, L. G. Pocock, L. Press, B. Rutkowski, V. V. Ševoroškin, R. Stopa, P. Walcot, L. Winniczuk. Il 3 ottobre, nella seduta plenaria conclusiva, hanno parlato M. Lejeune, D. Levi e P. Meriggi, tirando brevemente le somme dei risultati acquisiti e ringraziando gli organizzatori. Il prossimo Congresso internazionale è stato annunciato per il 1970, con sede a Salamanca. Il 30 settembre, nel pomeriggio, c’era stata una riunione dei membri del CIPEM (Comité International pour les Études Mycéniennes) all’albergo «Excelsior». Ugualmente all’«Excelsior», a conclusione del Congresso, è stato tenuto un ricevimento. Immediatamente dopo il Congresso si è organizzato un viaggio a Taranto e Reggio Calabria. A Taranto si era aperta per l’occasione la mostra «I micenei in Italia» con materiale proveniente da varie regioni italiane (Puglia, Sicilia, Isole Eolie, Campania, Lazio, Sardegna). Nelle varie sedute gl’interventi sono stati numerosi e hanno dato luogo alle volte ad animate discussioni. Essi compariranno nell’edizione definitiva degli
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«Atti», a cui stanno alacremente lavorando i miceneisti romani e che compariranno nel giro di pochi mesi.
Un grande filologo ci parla dei segreti del suo mestiere
Come nasce l’edizione di un classico? HERMANN FRÄNKEL, Testo critico e critica del testo. Traduzione dal tedesco di Luciano Canfora. Nota di Carlo Ferdinando Russo, Le Monnier 1969, pp. 90, L. 2.000 Le nitide edizioni dei classici che prendiamo in mano quando sentiamo il bisogno di quello che si chiama un «testo critico» hanno una gestazione lunga e faticosa. Il tipo di lavoro che esse richiedono è qualitativamente uguale a quello richiesto per una edizione seriamente documentata di un qualunque autore anche moderno: solo quantitativamente c’è una sensibile differenza, essendone i problemi di estrema laboriosa difficoltà. Non c’è infatti praticamente mai, per gli antichi, un manoscritto d’autore (che pure, come si sa, non esimerebbe da lavorìo filologico): ci si trova, invece, a raccogliere e valutare materiale di diversa natura ed epoca, che va in genere dal frammento papiraceo di poco prima o poco dopo Cristo al manoscritto medievale, senza contare le eventuali citazioni o imitazioni indirette che di questo o quel passo possano aver fatto autori contemporanei o posteriori (anch’essi peraltro trasmessi nelle stesse fortunose condizioni dell’autore che si sta pubblicando). Insomma, una trasmissione che dura secoli e le cui fasi per noi più antiche sono già lontanissime dall’autore stesso. Qual è il valore, relativamente fra loro e assolutamente in rapporto al dettato originario dell’autore, di questi testimoni? Come deve comportarsi l’editore, chi fornisce – cioè – un suo testo dell’autore che pubblica, quando si trova a dover scegliere fra due o più lezioni diverse; quando capisce che il testo in qualche punto, pur concordemente tramandato, è corrotto e ha bisogno di restauro; quando si trova a stabilire l’esistenza di una lacuna, meccanicamente (Iacerazioni, sbiadimenti) o congetturalmente accertabile? Le risposte a queste ed altre domande simili costituiscono il corpo di quella dottrina che viene chiamata «critica del testo». Sembra, a prima vista, che i principi che dovrebbero stare alla base delle singole soluzioni siano del tutto elementari, che attengano più alla sfera del buon senso che a quella della sottile elaborazione teorica: ed in realtà è veramente cosi. Solo, da un quadro storico che ci presenti il lento affer|| [Recensione di H. Fränkel, Testo critico e critica del testo, Firenze, Le Monnier, 1969 («Bibliotechina del Saggiatore» 31), pubblicata su «Paese Sera» di V 30.1.1970, p. 9]
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marsi delle idee fondamentali dall’umanesimo ad oggi (ricordo qui soprattutto le pagine di Giorgio Pasquali e quelle recentissime di Sebastiano Timpanaro), c’è da concludere che la strada del buon senso è lenta e faticosa. E non dimentichiamo che gli stessi critici alessandrini, a cominciare dal III secolo a.C., erano già dei filologi, con loro metodi critico–testuali. Paul Maas, il grande filologo tedesco morto recentemente ad Oxford, ci aveva dato una breve summa teorica qualche decennio fa. Ma in un campo come questo quel che conta è imparare dall’«arte» stessa. La sensibilità indispensabile, pur retta da alcuni principi, si affina colla pratica; la facoltà associativa, che ne è materia prima, va sottoposta a paziente tirocinio. Di qui l’enorme interesse di poter entrare nella bottega artigianale di uno di questi sapienti «restauratori»: e Hermann Fränkel, uno del più grandi filologi viventi, ci «racconta» senza pedanteria la sua esperienza di editore di Apollonio Rodio, l’autore del famoso poema epico sulla spedizione degli Argonauti, vissuto nel III secolo a.C. L’agile libretto che abbiamo davanti è la traduzione italiana di una scelta dalla sua Einleitung (Gottinga, 1964). «La massima parte del tempo e dell’energia è stata spesa nel tentativo di comprendere il testo, ritornando continuamente su ogni passo, e nel costituire il testo valutando il più rettamente possibile varianti e congetture, già esistenti o da escogitare nuovamente» (p. 8); «… l’interpretazione non solo è un presupposto della critica del testo, ma anche trae vantaggio da essa: quanti passi si comprendono più a fondo perché si è stati costretti da un problema testuale a vagliarli e a rimeditarli con più cura!» (p. 54). La prima operazione da fare è leggere e cercar di capire: e questo va fatto sempre con una disposizione di costante diffidenza, giacché anche là dove crediamo di capire si annida una corruzione, più pericolosa in quanto corriamo il rischio di trasmetterla all’infinito (un esempio bellissimo a p. 28ss.). Fränkel ci racconta anche particolari che possono sembrare, ma non sono, banali (p. 3s.): come un esemplare dell’edizione a lui precedente (Seaton, 1900), da lui usata come copia di lavoro, venisse alla fine mandata in tipografia, ovviamente tutta rimaneggiata, e come ne originassero nella prima tiratura della sua edizione alcuni errori di stampa di cui non si era accorto e che non aveva corretti. Nella confessione c’è una implicita solidarietà cogli scribi antichi, che erano esposti agli stessi pericoli a cui siamo esposti noi oggi, scrivendo originalmente o sotto dettatura o copiando, o magari correggendo bozze. Che cos’è, infatti, la critica testuale se non un’accanita caccia all’errore, che va prima scoperto, poi spiegato ed infine sanato? È chiaro che queste operazioni richiedono una certa dose di razionalismo, che potrebbe venire in qualunque momento smentito dal fortunato ritrovamento di un altro testimonio. La conoscenza dello stile, della cultura, ecc. è alla base del processo di ricostruzione,
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che mira a stabilire quello che dovrebbe essere uscito dalla penna dell’autore. In altre parole, si può ben formulare come ipotesi di lavoro che «l’autore sa sempre meglio di tutti ciò che bisogna dire e come» (p. 38). Ma l’autore, che dobbiamo pazientemente imparare a conoscere, siamo noi in qualche modo a costruircelo, e per di più «questa presunzione vale soltanto per testi di qualità letteraria relativamente elevata» (p. 38): e cioè, se il testo oggetto delle nostre cure è mediocre, più difficile sarà individuarne quelle costanti di vario tipo che potrebbero aiutarci a restaurarlo là dov’esso è corrotto. Credo che Fränkel sia il primo ad affermare con tanta chiarezza quella che è sempre stata una convinzione di noi tutti, al livello, appunto, del buon senso. Infinite sono le vie dell’errore? Ebbene, enumeriamone almeno alcuni dei tipi più frequenti (p. 72ss.), indagandone i processi meccanici e soprattutto quelli psicologici. Sarebbe ora, tra parentesi, che gli psicologi si decidessero ad aiutare i critici del testo, continuando con impegno specialistico preciso quanto aveva già fatto Freud col suo studio famoso sul lapsus. Il volumetto è aperto da una «nota» di C.F. Russo, che inquadra la personalità dell’autore e fra l’altro segnala alcuni contributi suoi propri in materia; l’indice è molto ricco ed è in gran parte indipendente dall’originale; la traduzione precisa e scorrevole. Queste pagine sono rivolte soprattutto agli studenti, ma gioverebbero a tutti proprio per la concretezza di approccio a cui invitano, nel campi più disparati della cultura. Sono per di più del tutto «leggibili», hanno il tono vivace e dimesso dell’autobiografia. E trovo conferma d’immediatezza e sincerità in una schietta confessione, che vale per ogni campo di studio e che ha un particolare valore, venendo come viene da un grande studioso (p. 7 n. 2): «È sempre più difficile mantenersi a galla sulla corrente della nuova produzione scientifica che cresce rapidamente di anno in anno. Il postulato secondo cui ogni studioso che produce conosce con assoluta completezza e profondità tutto ciò che ha rapporto con l’ambito del suo lavoro è da tempo divenuto una finzione: per la maggior parte di noi si tratta soltanto di un compromesso».
Qui te primus ‘deuro de’ fecit (Petron. 58.7) Alle risa sfacciate di Ascilto (57.1) per l’ultima peregrina trovata conviviale di Trimalchione (56.7 sgg.), Ermerote, colliberto del padrone di casa (57.1, 58.3, 59.1), reagisce con improperi (57.2 sgg.). Gitone, che si era a lungo trattenuto, scoppia a ridere all’ultima battuta di Ermerote (58.1). Questo provoca un nuovo fuoco di fila da parte di Ermerote (58.2 sgg.), che è rivolto per gran parte contro Gitone.1 Una delle sue imprecazioni suona così: 58. 7 Athana tibi irata sit, curabo, et qui te primus deuro de fecit.2
Il Traguriensis (H), qui unico testimone, ha Sathana (precede –s!), corretto da Heinsius. L’apparato dell’editio maior di Buecheler (1862) informa su una quantità di proposte, sull’assurdità delle quali, specialmente di alcune, non è necessario spender parole: de uiro deiecit Iac. Gronouius, de cerebro deiecit Goesius, de curuo refecit Schefferus, de coruo olorem fecit Iacobsius, condocefecit Reinesius, de cureo (pro ϰουϱείῳ) defecit Reiskius, oecuro defecit hoc est sine οἰϰουϱῷ iussit esse Burmannus. decuro perperam ferebatur in H esse quod de puero valere Oriolius p. 33 credidit.
Buecheler proponeva in apparato, ma con esitazione (suspicabar), di leggere nervo desuefecit. Come si vede, quasi tutti avevano pensato a corruzione di parole latine. Al numero di quelli che hanno voluto restaurare in veste latina il deuro de si può aggiungere Heraeus, che nel 1909 proponeva dubitanter di leggere depudefecit;3 di altre proposte non vale forse neanche la pena far menzione. Ma, come si è visto, a qualcuno era pur venuto in mente che sotto la grafia latina si potes-
|| [Relazione tenuta Mt 30.5.1972 al seminario romano (Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma); pubblicata in «SIFC» 45, 1973, pp. 28–45] 1 Da 58. 2 a 58. 7. Non capisco come E. V. MARMORALE in Petronii Arbitri Cena Trimalchionis, Firenze 19553, ad 58. 5 dupunduarius possa affermare che «da questo punto Ermerote si scaglia di nuovo contro Ascilto e si rivolge a lui fino alla fine». In K. MÜLLER – W. EHLERS, München 1965 trovo l’indicazione zu Askyltos, giustamente, subito dopo 58. 7 (58.8 ego et tu è chiaramente rivolto ad Ascilto: v. anche G. PUCCIONI, «Paideia» 6, 1951, p. 101. 1). 2 A quanto vedo dall’editio maior di Buecheler, il codice ha la divisione deuro defecit (cfr. E. THOMAS, Studien zur lateinischen und griechischen Sprachgeschichte, Berlin 1912, p. 112). 3 Petronii Cena Trimalchionis nebst ausgewählten pompejanischen Wandinschriften, hsg. v. W. HERAEUS, Heidelberg 1909 (in appar.). https://doi.org/10.1515/9783110648140-051
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se nascondere del greco4 (Burman, Reiske): i personaggi di Petronio lo usano così generosamente nei loro discorsi, che c’è quasi da meravigliarsi del ritardo con cui l’idea è nata e del ritardo ulteriore con cui s’è affermata.5 All’origine dei due filoni interpretativi ancora oggi in auge sono due ulteriori proposte di Buecheler. La prima in ordine di tempo fu quella di ravvisare nella grafia latina la corruzione di un aggettivo greco in –ώδης, e Buecheler proponeva nella sua seconda edizione (1871) δημώδη e nella terza (1882 = 1895) ἐλευϑερώδη. A Friedlaender, che lo accettava nel suo commento,6 Ludwich proponeva, raccomandandolo e dal punto di vista paleografico e da quello semantico, ληϱώδη. Ancora recentemente c’è stato chi ha ripreso ληϱώδη7 e chi ha continuato la ‘passerella’ degli aggettivi in –ώδης proponendo ϑηϱιώδη.8 Se queste ultime riprese non fossero così recenti, non varrebbe neanche la pena confutarle. I diversi aggettivi proposti creano ciascuno evidenti aporie di senso (specialmente l’ultimo: ‘bestiale’ non sembra essere insulto adatto a Gitone!). Per di più gli aggettivi in –ώδης sono particolarmente disadatti al contesto proprio in virtù del valore del loro suffisso formante. Essi esprimono una qualità stabile che si richiama ad un sostantivo per affinità analogica, per es. αἱματώδης, ‘sanguinolento’, ‘color sangue’ ecc. Non sono né poetici né colloquiali, bensì p r o s a s t i c i , t i p i c i d i l i n g u a s p e c i a l e o t e c n i c a della scienza e della || 4 Sulla traslitterazione del greco in latino nel testo di Petronio v. E. THOMAS, Studien cit., p. 112; negli autori latini in generale (ma Petronio è assente!) W. NIESCHMIDT, Quatenus in scriptura Romani litteris Graecis usi sint, Diss. Marburg 1913. 5 Sui grecismi in Petronio v. soprattutto A. H. SALONIUS, Die Griechen und das Griechische in Petrons Cena Trimalchionis, Helsingfors 1927; A. MARBACH, Wortbildung, Wortwahl und Wortbedeutung als Mittel der Charakterzeichnung bei Petron, Diss. Giessen 1931, p. 119 sgg.; A. ERNOUT, Aspects du vocabulaire latin, Paris 1954, pp. 81–4. Sul greco nei discorsi di Ermerote v. spec. THOMAS, Studien cit., p. 113; SALONIUS, Die Griechen cit., p. 22 sg.; G. BENDZ, «Eranos» 39, 1941, p. 42 sg. Sul problema della caratterizzazione dei personaggi a mezzo soprattutto dei volgarismi v. la messa a punto di A. DELL’ERA, Problemi di lingua e stile in Petronio, Roma 1970, p. 21 sgg. (spec. 24). La forma Athana, non attestata altrove in latino, testimonierebbe imprestiti da aree parlanti dialetti non ionico–attici (tipo choragus, contrapposto a strategus): sul problema in generale v. E. H. STURTEVANT, «Trans. Proc. Am. Philol. Assoc.» 56, 1925, pp. 5–25; BEATRICE FRIEDMANN, Die ionischen und attischen Wörter im Altlatein, Diss. Helsingfors 1937 (pp. 7 sgg., 116 sg.: panorama dell’assunzione di elementi linguistici ‘dorici’ direttamente dai greci dell’Italia meridionale o attraverso la mediazione dell’etrusco; bibliografia essenziale, Schulze, Fiesel, Devoto, Pasquali, Ernout ecc.). 6 Petronii Cena, Trimalchionis. Mit deutscher Übers. u. erkl. Anmerk. von L. FRIEDLAENDER, Leipzig 19062, p. 301 (dov’è anche una stravagante proposta di Heraeus, l’ibrido greco–latino delir–ώδης). 7 G. PUCCIONI, « Paideia » 6, 1951, pp. 102–4; «Atene e Roma» 6, 1961, p. 17. 8 T. BOLELLI, «Ann. Sc. Norm. Pisa» S. II 28, 1959, p. 314 sg.
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filosofia (significativo che siano rarissimi negli oratori).9 Dai liberti greci di Petronio ci aspettiamo o lingua direttamente colloquiale o, se mai, specie in contesti affettivamente ‘mossi’ come quello in cui ci troviamo, parodia più o meno stabilizzata di lingua poetica elevata:10 ma mai espressioni di lingua prosastico– tecnica non usuale! La seconda importante proposta di Buecheler è quella da lui avanzata, pur dubitosamente (an …?), nella sua quarta edizione (1904): che cioè il testo, senza necessità di correzioni, si possa intendere come la traslitterazione del greco δεῦϱο δή, imperativo ellittico colloquiale che vale ‘vieni qui!’. La proposta fu fatta propria pochi anni dopo da Thomas (1912),11 che fu a sua volta seguito dalla maggior parte degli editori ed esegeti: Salonius, Marbach, Heraeus, Bendz, Maiuri, Sedgwick, Marmorale, Schmeck, Müller–Ehlers.12 Comune a tutti questi
|| 9 P. CHANTRAINE, La formation des noms en grec ancien, Paris 1933, pp. 429–32: Omero ha solo λυσσώδης; rari in poesia, sono presenti nella prosa ionico–attica, nella lingua della filosofia e della scienza (Tucidide, sensibile ai neologismi tecnici, ne è ricco e normale ne è l’uso in Aristotele; ma è quasi assente negli oratori). V. anche A. DEBRUNNER, Griechische Wortbildungslehre, Heidelberg 1917, pp. 194–6. 10 Il richiamo a Lucil. 187 Marx (dove sono presenti ληϱῶδες e μειϱαϰιῶδες), voluto da ERNOUT (appar. ad loc.), non calza: in Lucilio c’è costruzione artificiale di omoteleuto per ragioni parodiche (come dice la fonte stessa del frammento, Gell. 18. 8), costruito con quelle stesse parole ‘tecniche’ che definiscono l’omoteleuto stesso (cfr. i μειϱαϰιώδεις σχηματισμοί di Dion. Hal. ad Amm. de Thuc., p. 437. 4 Us.–Rad., cit. da Marx). Sul frammento luciliano v. I. MARIOTTI, Studi luciliani, Firenze 1960, pp. 76 sg., 82 sg.: i due termini sono fra quelli che (p. 71) definisce «i grecismi scientifici, così medici come filosofici e retorici» o (p. 75) «i grecismi tecnici che L. attinge senza scrupoli alla terminologia grammaticale o in largo senso retorica». 11 E. THOMAS, Studien cit., pp. 111–16, che sbaglia ad attribuirla all’editio maior di Buecheler. Interpreta (p. 116) «qui te accedere (oder accedentem) fecit» (cfr. p. 114: «der dir den Appell beigebracht hat», «der dich abgerichtet hat»). 12 A. SALONIUS, Petroniana I., Commentat. Heikel, Helsinki 1926, p. 133; A. SALONIUS, Die Griechen cit., p. 23 («der dich zuerst zu gehorchen gelehrt hat»: deuro de inteso come Kommandowort); A. MASBACH, Diss. cit., p. 145; W. HERAEUS, Kl. Schr., Heidelberg 1937, p. 112; G. BENDZ, «Eranos» 39, 1941, p. 42 sg.; A. MAIURI, La Cena di Trimalchione di Petronio Arbitro, Napoli 1945, p. 191; W. B. SEDGWICK, Cena Trimalchionis of Petronius, Oxford 19502 ad loc.; E. V. MARMORALE, comm. cit., ad loc.; H. SCHMECK, Petronii Cena, Trimalchionis, Heidelberg 1954; Petronii Arbitri Satyricon, ed. K. MÜLLER. München 1961, in appar.; K. MÜLLER – W. EHLERS, Petrons Schelmengeschichte, München 1965 («…. den, der dich als Heda erfunden hat»). E. PARATORE (Il Satyricon di Petronio, Firenze 1933, II, p. 194. 4) contamina i due filoni esegetici: accettando deurode, lo considera «una forma avverbiale derivata nel linguaggio plebeo da δεῦϱο per analogia con gli aggettivi in –ώδης» (ma la proposta – v. comunque quanto si è detto sopra sulle formazioni in –ώδης – potrebbe avere un senso solo se si volesse riconoscere un aggettivo, un peraltro improbabile gr. δευϱώδης!. Non capisco come nel contesto sintattico si possa situare un avverbio, che per di più, non essendo un neutro avverbiale, non risponderebbe a nessun tipo di forma-
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esegeti è il valore di comando generico dato a ‘vieni qui!’. Il valore dell’espressione sarebbe, quindi, «chi ha fatto di te un ‘vieni qui!’», e cioè chi ti ha imposto obbedienza, chi ti ha avviato a fare lo schiavetto. Quello che ad alcuni (per es. Thomas) è sembrato un utile parallelo contestuale, 58.2 qui tibi non imperat, «questo che non sa farti stare al tuo posto» (riferito naturalmente ad Ascilto), a me sembra invece elemento atto a dissuadere dall’esegesi esposta qui sopra. Gitone, certo, durante il banchetto ad pedes stabat (58.1) e in generale faceva, senza esserlo, le parti di schiavetto (26.10): ma del tutto inopportuno, o comunque troppo fiacco, mi sembrerebbe un ripetuto richiamo all’apparente condizione servile sfruttato in un’imprecazione. E questo proprio perché di tali richiami è intessuto tutto lo sfogo di Ermerote contro Gitone, tenuti però al livello del semplice insulto: 2 quando vicesimam numerasti?, … crucis offla, corvorum cibaria, 3 plane qualis dominus talis et servus, 5 nisi dominum tuum in rutae folium non conieci, … dominus dupunduarius.13 Mi pare che una differenziazione fra le due maiuscole imprecazioni sarebbe quanto meno opportuna, tanto più che nella prima viene invocato Giove e nella seconda Atena–Minerva, l’uno personificazione dell’autorità (il dominus) e l’altra dea dell’educazione, delle arti e dei mestieri. Vedremo che a questa differenziazione ci porterà non tanto una semplice possibilità, quanto una vera necessità esegetica. Una conquista sicura della ricerca precedente è comunque il riconoscimento del nesso proposizionale δεῦϱο δή e il valore sostantivale assegnatogli. Tale fenomeno sintattico, comune in lingua colloquiale, è abbondantemente rappresentato in Petronio: 44.2 esurio (pur corretto in esuritio da Buecheler, v. ancora K. Müller), 45.12 adhibete, 57.11 accede istoc, forse 58.3 eug’ euge (Salonius).14 Il costrutto è documentato anche con facio, e nello stesso Petronio: 118.5 sumendae voces a plebe semotae, ut fiat ‘odi profanum vulgus et arceo’ (ut …. arceo secl. Fraenkel ap. Müller: ma è opportuno?); v. ancora Lucil. 232 Marx (= 239 Krenkel) ut …. τὸν δ’ ἐξήϱπαξεν Ἀπόλλων fiat, Quint. 7. 9. 10 ecc.15 Significativo
|| zione avverbiale greca). Meglio l’incertezza di P. PERROCHAT, Pétrone. Le festin de Trimalcion, Paris 19522, p. 99, che oscilla fra i due filoni, ma almeno li tiene distinti. 13 Cfr. ancora 58.3 qui tibi non imperant, che EDUARD FRAENKEL ha espunto ap. MÜLLER, nelle due edizioni, 1961 e 1965. 14 E. THOMAS, Studien cit., p. 114 (ottimo esempio è anche Ar. vesp. 666 sg. εἰς τούτους τοὺς ῾οὐχὶ πϱοδώσω τὸν Ἀϑηναίων ϰολοσυϱτόν, || ἀλλὰ μαχοῦμαι πεϱὶ τοῦ πλήϑους ἀεί᾽. E ancora Cic. Cat. mai. 19.70 usque ad ‘plaudite’ veniendum est); BENDZ, art. cit., pp. 41–4 (che riporta anche, da BIRT, «Rhein. Mus.»75, 1926, p. 118, Varr. Men. 498, 521 Bue.). 15 Thes. l. Lat. s. v. facio, col. 114. 68 sgg. (trovo anche Papin. epigr. v. 3, p. 42 Morel sic fiet ‘mutua muli’, che non si sa però bene che cosa voglia dire). Gli esempi riportati tendono qualche volta a sfumare nella citazione. Conviene avvertire che il costrutto, con fio (che si accosta a
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che la proposizione con valore di sostantivo o di attributo sia usata spesso per caratterizzare delle persone o delle categorie: oltre ad uno degli esempi petroniani dati sopra (58.3; 37.10 quemvis ex istis babaecalis mostra adattamento morfologico) e all’esempio luciliano, si veda ancora Hor. sat. 1. 2. 120 illam ‘post paulo’ ‘sed pluris’ ‘si exierit vir’, Tac. ann. 1. 23 ‘cedo alteram’ come soprannome, ecc., a cui si aggiunge una testimonianza epigrafica come CIL VI 27938 M. Valerio Adhibe.16 Per il valore generico di comando ad avvicinarsi (‘vieni qui!’) c’è stato chi si è richiamato, per confermarlo, al quasi contestuale 57. 11 accede istoc.17 Ma la contiguità è del tutto casuale e la definirei un ‘brutto tiro’ giocato da Petronio ai filologi: a 57.11 accede istoc è dato come esempio di cosa facile, e cioè chiamare uno schiavo (ingenuum nasci tam facile est quam ‘accede istoc’), con un valore proverbiale di frase fatta che è stato giustamente supposto:18 niente, comunque, che pregiudichi il valore da dare a δεῦϱο δή o che ne possa influenzare l’interpretazione. Ugualmente inutile mi sembra, inoltre, il cercare la traduzione latina nelle glosse, come si è fatto fin dall’epoca del famoso studio di Heraeus:19 che δεῦϱο δή ed espressioni affini corrispondano a veni hic (per huc), illuc accedite, accede istoc e simili è fatto del tutto sicuro e ovvio, come pure ovvia, senza bisogno di conferme dalle glosse, è la loro appartenenza al livello linguistico colloquiale. In greco δεῦϱο, ‘qui!’, ha valore d’imperativo ellittico.20 La presenza della particella δή potrebbe spingere ad un’impresa non facile, quella di determinarne l’etimologia e soprattutto la sfumatura semantica: la definizione di hervorhebende Partikel (Frisk, s. v.) è evasiva, ma è quanto di meglio si può dire per lasciare aperte le numerose sfumature di accentuazione affettiva che essa può
|| sum in alcuni usi, v. LEUMANN–HOFMANN–SZANTYR, II, pp. 306, 395), è forse meno audace che con facio (quest’ultimo s’inquadra comunque nelle costruzioni con doppio accusativo, v. LEUMANN–HOFMANN–SZANTYR, II, p. 43 sg.). 16 BENDZ, art. cit., p. 43, che si rifà a F. SKUTSCH, Kl. Schr., Leipzig–Berlin 1914, p. 412 sg. (1910) e a HERAEUS, supplem. alla sesta edizione. Dello stesso tipo è Ar. vesp. 666 sg. riportato sopra. V. I. KAJANTO, Super–nomina, Helsinki 1966, p. 52 su cedo alteram (niente su Adhibe). 17 Per es. THOMAS, Studien cit., p. 114; SALONIUS, Petroniana I. cit., p. 133; HERAEUS, Kl. Schr, cit., p. 112; MARMORALE ad 58.7. 18 A. OTTO, Die Sprichwörter …, Leipzig 1890, p. 2. I Nachträge, Darmstadt 1968, pp. 125 (1901), 231 (1903), non fanno che rimandare a HERAEUS, che oggi va aggiornato in Kl. Schr., p. 112. 19 W. HERAEUS, Die Sprache des Petronius und die Glossen, Leipzig 1899, completamente rifatto in Kl. Schr, cit., pp. 52–151; sul nostro passo p. 112. V. anche THOMAS, Studien cit., p. 113; SALONIUS, Petroniana I. cit., p. 133. Notevole l’acume di GOETZ, che in «Corp. Gloss. Lat.»VI, p. 337 ha visto deuro de in d e v o t e Graece veni hic. 20 SCHWYZER, p. 632; SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 339; su vari tipi d’imperativo colloquiale v. L. E. ROSSI, «St. Ital. Filol. Class.» 43, 1971, p. 19, cfr. 15.
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dare.21 Ma δή è solidamente attestato proprio con imperativi22 e il compito di valutarne la ‘temperatura’ potrebbe restringersi, ai nostri scopi, agl’imperativi stessi e precisamente ai casi di δεῦϱο δή: per es. Sapph. fr. 127 L.–P. δεῦϱο δηὖτε Μοῖσαι, Eur. I. A. 630 ϰαὶ — δεῦϱο δή — πατέϱα πϱόσειπε σὸν φίλον (con forte colorito affettivo), Ar. eccl. 952 δεῦϱο δή, δεῦϱο δή, φίλον ἐμόν, δεῦϱό μοι πϱόσελϑε …, 960 δεῦϱο δή, δεῦϱο δή, … (il duetto fra la giovane e il giovane), Theopomp. fr. 32. 4 K. δεῦϱο δή, γεμίσω σ᾽ ἐγώ (apostrofe a una tazza), Pl. resp. 477 d δεῦϱο δὴ πάλιν …. ὦ ἄϱιστε.23 Penso che già dal non molto che il greco ci offre (anche se il materiale si potrebbe accrescere con una ricerca ulteriore) si possa ottenere ben più che una determinazione dei diversi valori affettivi dell’espressione. È qui il momento di ricordare che Buecheler nella sua quarta edizione di Petronio (1904) aveva proposto di dare un particolare valore al δεῦϱο δή che proponeva di leggere, come risulta dalla sua voce di apparato: an δεῦϱο δή? i. e. accedere ad se vel sequi ut delicium. Non meravigli il fatto che ho ritardato fino a questo momento l’importante precisazione di Buecheler: essa è rimasta infatti praticamente lettera morta per tutta l’esegesi petroniana.24 Il ‘vieni qui!’ potrebbe avere per Buecheler una particolare sfumatura e r o t i c a . Ora, fra gli esempi greci riportati sopra uno solo ce n’è che possa reggere tale valore, e cioè quello famoso della serenata delle Ecclesianti di Aristofane. La situazione è decisamente erotica: si tratta di un particolare tipo di duetto d’amore, e cioè di una specie di παϱαϰλαυσίϑυϱον a botta e risposta. Ma a prima vista sembra che una specializzazione erotica di δεῦϱο δή sia quanto meno difficilmente documentabile, basata come sarebbe su questo solo caso.
|| 21 J. D. DENNISTON, The Greek Particles2, Oxford 1954, p. 203 sg.; SCHWYZER–DEBRUNNER, p. 562 sg. 22 DENNISTON, p. 216 sgg. (e v. la specializzazione del δή in espressioni più o meno irrigidite, e più o meno ridotte a valore interiezionale, come ὅϱα δή, ἔχε δή, φέϱε δή, ἄγε δή ecc.); su δεῦϱο δή come imperativo ellittico v. L.–S.–J. s. v. δεῦϱο I. 2 e DENNISTON, p. 218. A questo si può accostare il valore di vυv enclitico in casi come Ar. Lys. 930 δεῦϱό νυν ὦ χϱυσίον (Cinesia a Mirrine!), cfr. il più ‘secco’873 ϰατάβηϑι δεῦϱο. 23 THOMAS, Studien cit., p. 113 riporta Telete, p. 13. 6 Hense ‘δεῦϱο δή’ φησί. ϰἀνταῦϑα ἄγει αὐτὸν ϰαὶ εἰς τοὺς ϑέϱμους (ma Hense stesso in appar.: fort. ‘δεῦϱο δή’ φησιν ‘ἐνταῦϑα ϰαὶ ἄγει’ legendum cum Gnomol. Paris., confrontando Ar. eccl. 738 sg. φέϱε δεῦϱο …. ἐνταῦϑα). 24 K. MÜLLER, 1961, per es., non ritiene che sia neanche più necessario riportare le parole di Buecheler in apparato (come precedenti editori, episodicamente, avevano fatto), contentandosi di dargli la paternità del δεῦϱο δή generico. L’unico a negarne espressamente il valore erotico, pur senza portare argomenti (ma anche uno dei pochissimi a prendere almeno atto dell’idea di Buecheler; v. ancora PUCCIONI, «Paideia» 6, 1951, p. 101) è, a quanto credo, THOMAS, Studien cit., p. 114 («…. ganz allgemein und ohne den in Buechelers ut delicium liegenden Nebensinn »). Ernout riporta, sì, le parole di Buecheler in apparato, ma segna crux nel testo e traduce «à celui qui le premier t’a rendu aussi insupportable»!!
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Non mi risulta che Buecheler sia mai andato oltre la concisa e quasi oracolare affermazione del suo apparato petroniano: ma credo che, anche solo sulla base dell’unico esempio aristofaneo, una specializzazione erotica di δεῦϱο δή (che doveva ovviamente convivere col valore di comando generico) si possa veramente provare, chiarendo in modo definitivo — come spero — il tormentato passo petroniano e fornendo una prova di più della solidità di dottrina e dell’acume di Buecheler. Certamente Buecheler aveva pensato al passo aristofaneo e ne aveva intuito il valore. Vediamolo più da vicino. Il giovane sta per strada, mentre la ragazza sta o alla finestra o sul tetto della casa.25 Molti avevano definito tutto il duetto come un παϱαϰλαυσίϑυϱον, e cioè come una serenata fatta alla porta della persona amata:26 ed è merito recente di Bowra27 l’aver definitivamente chiarito che esso ha solo «qualche somiglianza col παϱαϰλαυσίϑυϱον» (in realtà solo la strofe di lui, se mai, colla richiesta di aprire la porta, 962, che si ripete nel ritornello 971 = 974, e col motivo del ϑυϱαυλεῖν, 963 ϰαταπεσὼν ϰείσομαι), ma che in realtà è un canto amebeo e precisamente un ‘duetto d’amore’ (a love duet) di una forma che doveva essere comune e di livello popolare. Bowra ha messo in rilievo la poca funzionalità scenica di due dei tre ritornelli (il primo e il terzo). Rileggiamoli qui tutti e tre: I.
(lei)
||| δεῦϱο δη, δεῦϱο δή, φίλον ἐμόν, δεῦϱό μοι πϱόσελϑε ϰαὶ ξυνευνέ μοι τὴν εὐφϱόνην ὅπως ἔσει.
952
(lui)
||| δεῦϱο δή, δεῦϱο δή, φίλον ‹ἐμόν›, ϰαὶ σύ μοι ϰαταδϱαμοῦσα τὴν ϑύϱαν ἄνοιξον‧ ….
960
|| 25 Sul problema della situazione scenica v. ED. FRAENKEL, Kleine Beiträge, Roma 1964, I, pp. 473–7 (1936), che è per il tetto; C. F. RUSSO, Aristofane autore di teatro, Firenze 1962, pp. 348 e 349. 5, che è per la finestra (in Russo ulteriore bibliografia). 26 Fra gli altri P. MAAS, «R. E.»18. 3 (1949), col. 1202. — Sul παϱαϰλαυσίϑυϱον in generale v. ancora W. HEADLAM – A. D. KNOX, Herodas, Cambridge 1922, p. 83 sg.; F. O. COPLEY, Exclusus amator, Madison 1956. 27 C. M. BOWRA, On Greek Margins, Oxford 1970, p.149 sgg., spec. 149–55 (= «Am. Journ. Philol.» 79, 1958, p. 376 sgg.). Come spesso altre volte, anche qui B. B. ROGERS (The Com. of Ar., IX– X, London 1902, ad loc.) aveva visto giusto: «in my judgement this is not a παϱαϰλαυσίϑυϱον at all, but the youth from below is singing to the girl at the window, just as she from above has been singing to him»).
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II.
III.
(lei)
μέϑες, ἱϰνοῦμαί σ᾽, Ἔϱως, ϰαὶ πόησον τόνδ᾽ ἐς εὐνήν τὴν ἐμὴν ἱϰέσϑαι. |||
958
(lui)
μέϑες, ἱϰνοῦμαί σ᾽, Ἔϱως, ϰαὶ πόησον τήνδ᾽ ἐς εὐνήν τὴν ἐμήν ἱϰέσϑαι. |||
967
(lei)
ἄνοιξον, ἀσπάζου με‧ διά τοι σὲ πόνους έχω. |||
971
(lui)
ἄνοιξον, ἀσπάζου με‧ διά τοι σὲ πόνους ἔχω. |||
974
Di questo canto alcuni elementi, che però non incidono su quanto abbiamo da dire, sono incerti: testo, responsione, divisione fra i personaggi.28 Il terzo ritornello, se va diviso fra i due come ritiene anche Bowra e come sembra del tutto opportuno, presenta l’incongruenza della richiesta «aprimi!» in bocca a lei (971), richiesta che è scenicamente giustificata solo in bocca a lui (974). Ma anche il secondo ritornello, la cui divisione fra i due è sicura (le due strofi, siano o no in responsione metrica, vanno assegnate separatamente ai due), è poco funzionale, questa volta in bocca a lui: a pregare Eros per invitare al proprio letto chi si ama può essere solo la ragazza (958 sgg.), che sta in casa, e non il ragazzo (967 sgg.), che sta in strada. Bowra, trascurando questo secondo ritornello, sostiene che le incongruenze emergano anche nel primo: secondo lui «vieni qui, aprimi!» sarebbe del tutto naturale in bocca a lui (960 sgg.), mentre || 28 Per 961 sg. ho riportato il testo di Coulon (Wilamowitz): il testo è qui variamente discusso, ma quanto a noi interessa è il valore di ritornello di 952=960. Discussa è tutta la responsione antistrofica delle due parti (v. WILAMOWITZ, Griechische Verskunst, Berlin 1921, p. 477 sg.; Aristophanes Lysistrate, Berlin 1927, p. 215 sg.; J. W. WHITE, The Verse of Greek Comedy, London 1912, p. 182 sg.; BOWRA, op. cit., p. 154 sg.). Controversa è anche la distribuzione fra i due personaggi di 969–72 e 973–5 (HALL–GELDART e WILLEMS, per es., dividono fra i due; così anche VAN LEEUWEN, che accetta la correzione di v. VELSEN 971 ἄνελϑε ϰἀσπάζου, che, come si vedrà, non è necessaria; Coulon assegna invece tutto al giovane; anche su questo v. BOWRA, op. cit., p. 154, che ha ragione a dividere fra i due e a non alterare il testo): ma mi pare che l’esistenza di due ritornelli sicuramente amebei (il primo, δεῦϱο δή, δεῦϱο δή, e il secondo, 958 sg. = 967 sg.) renda sicura la divisione amebea anche di 969 sgg. (a cui appartiene il terzo ritornello, ἄνοιξον ἀσπάζου με ….).
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«vieni qui, vieni!» lo sarebbe assai meno in bocca alla ragazza (952 sgg.), visto che per necessità dev’esser lei a scendere e ad aprire la porta. Questo proverebbe, secondo Bowra, l’irrigidimento di formule fisse di canti amorosi e la sua conclusione è che «le parole di apertura, δεῦϱο δή, δεῦϱο δή, sarebbero appropriate ad ogni invito all’amore, e tale era certamente la loro origine in questo tipo di poesia». Penso che si debba arrivare alle conclusioni di Bowra, ma seguendo una via diversa. Le sue osservazioni sul primo e sul terzo ritornello, da noi estese al secondo, servono soltanto a documentare l’esistenza di canzoni amorose che possono esser cantate, con valore di generica ‘dichiarazione’, senza riguardo al preciso valore situazionale delle parole: qualcosa di simile avviene anche oggi nelle ripetizioni strofiche del canto popolare e anche del melodramma oppure nella versione, per es., per voce di soprano di un Lied su testo e con situazioni ‘maschili’ originariamente scritto, per es., per voce di baritono. Ma tali osservazioni non dimostrano, da sole, una necessaria specializzazione o estensione del valore dei ritornelli. Questo è particolarmente evidente nel secondo e nel terzo: «Eros, fallo (falla) venire nel mio letto!» e «aprimi!» conservano il loro valore preciso di azioni determinate, da chiunque siano pronunciati, anche, cioè, dal personaggio a cui scenicamente ‘non convengono’. E così sarebbe per il primo ritornello, quello che a noi qui più interessa: l’esser pronunciato dal personaggio a cui esso ‘non conviene’ scenicamente (in questo caso lei, 952 sgg.) non fornisce eventuali precisazioni sul valore di δεῦϱο δή, che continuerebbe ad avere un suo eventuale significato unico ed univoco, una sua eventuale monovalenza semantica (‘vieni qui!’ in senso generico, e non specificamente erotico), così come monovalenti sono e restano i nessi degli altri due ritornelli. Le precisazioni sul valore di δεῦϱο δή nel nostro contesto ci vengono, invece, da un esame sintattico–semantico i n t e r n o al primo ritornello stesso. Se il nesso valesse solo genericamente ‘vieni qui!’, il primo ritornello, in bocca al ragazzo (960 sgg.), andrebbe reso «vieni qui (sc. ad aprirmi) e corri giù ad aprirmi!»: la presenza di ϰαί coordinante (δεῦϱο δή, … ϰαί …. ϰαταδϱαμοῦσα …. ἄνοιξον) renderebbe sensibile una insopportabile tautologia, essendo contenuto in ϰαταδϱαμοῦσα …. ἄνοιξον un doppione di δεῦϱο δή. È evidente che quest’ultimo nesso non può avere il significato generico di ‘vieni qui!’, perché, dato il ϰαί, deve differenziarsi semanticamente da quanto segue: e se diamo ad esso il valore di specifico invito erotico, le stesse parole suonano, con molto maggiore appropriatezza, « v i e n i ( s c . a l m i o a m o r e ) e c o r r i g i ù a d a p r i r m i ! » . Vien voglia di proporre un valore molto espressivo, del tipo ‘stacci, ti prego!’. Tale risultato viene confermato dalle parole di lei (952 sgg.), dove δεῦϱο δή, δεῦϱο δή, … δεῦϱό μοι ….non costituiscono una triplice anafora di
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δεῦϱο, che andrebbe resa «vieni qui, vieni qui, … vieni qui da me …!», improbabile per lo meno per ragioni ritmico–sintattiche (il terzo δεῦϱο, che è staccato, si allaccia ritmicamente e sintatticamente a quanto segue; i primi due, poi, hanno ellissi del verbo, mentre il terzo ha il normale valore di determinazione verbale, δεῦϱό μοι πϱόσελϑε). Per di più, dal confronto colle parole di lui (960), comune alle due ripetizioni del ritornello è solo δεῦϱο δή, δεῦϱο δή, mentre il successivo δεῦϱο di lei non fa più parte del ritornello vero e proprio e se ne stacca: i due inviti iniziali, limitati ai due δεῦϱο δή, si rispondono l’un l’altro formalmente e semanticamente. Anche nelle parole di lei va visto — è chiaro — lo specifico invito erotico, seguito dall’invito preciso a trascorrere la notte: « v i e n i ( s c . al mio amore) e vieni qui a passare la notte con me!». Abbiamo qui inoltre un bell’esempio, forse il più ‘parlante’, della differenza fra δεῦϱο δή, carico di connotazioni affettive, e il semplice δεῦϱο, più secco e positivo. Le considerazioni di Bowra, da noi opportunamente estese, restano comunque utili anche nel nostro contesto. La giusta conclusione che si tratti di canto popolare (ricavata dalla possibilità di ripetizioni scenicamente ‘non convenienti’) deve portare la nostra attenzione sul fatto che le parole in questione ne costituiscono l ’ i n c i p i t . Per trasformata che la canzoncina potesse risultare in una eventuale più o meno profonda rielaborazione aristofanea,29 della quale è metodicamente prudente ammettere la possibilità, certo l’incipit doveva essere quello: è inutile ricordare qui quanta importanza avesse l’incipit nel mondo antico per le opere di letteratura in generale30 e quanta ne abbia ancor oggi per canti popolari o canzonette. Le parole di apertura creano l’atmosfera. La data delle Ecclesianti aristofanee (392 a. C.) è quindi un sicuro terminus ante quem per l’inizio della possibilità di valore erotico in δεῦϱο δή. In accordo
|| 29 Purtroppo ci manca per lo più, in casi del genere, il controllo che ci permetterebbe la conoscenza del vero canto popolare, non svisato da possibile stilizzazione di più o meno alta ambizione letteraria: i resti testuali dei carmina popularia sono miseri e rimane il compito di ricostruirne altri, pur con ogni prudenza (cfr. L. E. ROSSI, «Maia» 23, 1971, p. 10 sgg., pass.). Qui comunque Aristofane sembra davvero molto vicino ai suoi modelli popolari. Problemi analoghi si hanno, per es., per la preghiera: qual è, per es., il punto di partenza delle parodie aristofanee? Sul problema, metodologicamente importante, v. da ultimo W. HORN, Gebet und Gebetsparodie in den Komödien des Aristophanes, Nürnberg 1970 e soprattutto i lavori ormai classici di Ed. Fraenkel, H. Kleinknecht, Th. Gelzer. 30 Per il valore dell’incipit (che fino a un certo momento serve addirittura da titolo) in opere di letteratura v. da ultimo L. E. ROSSI, «Riv. di filol.» 96, 1968, p. 151 sgg.; G. B. CONTE, «Strumenti critici» 1971, p. 325 sgg., spec. 329 parla di «specializzazione ‘incipitaria’ della memoria ritmico–compositiva».
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con quanto abbiamo argomentato prima sul testo di Petronio, non può essere che questo il valore dell’espressione anche nel contesto petroniano, né deve far meraviglia che esso si sia conservato nel corso dei secoli. Ed è proprio la scelta del greco per un’espressione colloquiale così comune in ogni lingua a dare all’espressione stessa una sua p r e g n a n z a e s p r e s s i v a che la differenzia dalle corrispondenti latine, meglio ancora se contestuali o quasi (il vicino accede istoc di 57.11!).31 Tornando al passo petroniano nel suo insieme, resta da porsi qualche problema sintattico ed eventualmente testuale che il contesto, così com’è trasmesso, può far nascere. Prima del qui Thomas Reinesius (1587–1667) aveva integrato un ei (…. et ‹ei› qui te primus …: «Atena mandi in malora te e chi per primo …»), accolto ultimamente da Müller. L’integrazione mi sembra opportuna. Senza di essa dovremmo risolvere in uno di questi tre modi, elencati in ordine di crescente (pur sempre tenue) probabilità: 1) «Atena e chi per primo … ti mandino in malora»: inutile soffermarsi sulla precarietà di un simile enunciato, dal momento che nelle imprecazioni, in genere, iratus è un dio;32 2) ammettere un mutamento di costruzione, a cui si potrebbe forse pensare, data la concitazione del discorso («Atena sia adirata con te e [vada in malora] chi per primo …»);33 3) ammettere un’ellissi del dativo pronominale, che, pur attestata, sembra in realtà un po’ dura.34 Ma l’integrazione ei ha anche, rispetto alle altre soluzioni, il || 31 VINCENZO TANDOI, a cui debbo molto per questo lavoro, mi fa notare che la sfumatura erotica del δεῦϱο δή può trovare riscontro, in un latino più letterario, nell’uso di huc ades (per es. Verg. ecl. 2. 45 huc ades, o formose puer; 9. 39 huc ades, o Galatea, anche se quest’ultimo è traduzione di un vero ‘vieni qui!’, Theocr. 11. 42), dietro cui può scorgersi tuttavia una formula di lingua quotidiana (Petr. 23.3 huc huc ‹cito› convenite o Carm. Priap. 13.1 huc huc, quisquis es, quest’ultimo con ellissi del verbo). 32 O, al più, l’imperatore: Thes. l. Lat. s. v. irascor col. 374. 50 sgg., 82 sgg. (per es. Pl. Amph. 392, 934; Plin. epist. 4. 25. 2; esempi interni a Petronio: 25. 4, 44. 5, 62. 14). 33 Si potrebbe pensare a un sottinteso pereat o occidat (Cat. 66. 48, Prop. 4. 3. 19): v. oltre per l’imprecazione al πρῶτος εὑϱετής di mali. Cfr. il plautino ut pereas (Epid. 513, Pers. 281) ecc. (A. MÜLLER, «Philol.»72, 1913, p. 501 sg.). Non so se tale fenomeno di sovrapposizione di due costruzioni possa ravvisarsi in Petr. 44.3 aediles male eveniat, come pensano FRIEDLAENDER e MARMORALE, ad loc. (A. GUERICKE, De linguae vulgaris reliquiis apud Petronium et in inscriptionibus parietariis Pompeianis, Diss. Königsberg 1875, p. 52); E. LÖFSTEDT, Philologischer Kommentar zur Peregrinatio Aetheriae, Uppsala 19362, p. 218 pensa invece a estensione dell’uso dell’accusativo, comune in latino volgare (LEUMANN–HOFMANN–SZANTYR, II, p. 34). 34 KÜHNER–STEGMANN, II, p. 281 sg. (Cic. sen. 27 ut agerentur gratiae (eis) qui venissent; Tusc. 5. 20 Xerxes praemium proposuit (ei) qui invenisset novam voluptatem, ecc.); v. anche E. LÖFSTEDT, Coniectanea, Uppsala 1950, pp. 10–16. Giustamente K. F. NÄGELSBACH, Lateinische Stilistik, bes. v. I. Müller, Nürnberg 19059, p. 387 nota che si può sottintendere is, «nicht aber die eigentlichen Demonstrativa hic, ille, iste». V. ancora LEUMANN–HOFMANN–SZANTYR, II, p. 555 sg. Ancora a
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notevole vantaggio di rendere la nostra invettiva sintatticamente corrispondente a quella, così tramandata, di 58.2: curabo, iam tibi (ubi cod.) Iovis iratus sit, et i s t i qui tibi non imperat.35 Questa è l’unica utilizzazione lecita, a mio parere, che si può fare di 58.2: parallelismo sintattico del tipo d’imprecazione. Qualche dubbio può sorgere ancora per l’interpretazione della relativa stessa, qui te primus ‘deuro de’ fecit. Dal commento di Marmorale, per es., dove leggiamo la traduzione «chi per primo t i d i s s e ‘vieni qui’»,36 si può ricavare che sia possibile prendere il fecit come equivalente di dixit, nel senso dell’italiano ‘fare’ (o del francese ‘faire’) = ‘dire’. Ma questo valore non è attestato prima del IV–V sec. d. C.37 e, anche se si deve pensare che forme colloquiali possano essere molto più antiche del momento delle loro prime attestazioni scritte, è almeno poco prudente assumere tale significato nel I sec. d. C.; tanto più che bisognerebbe correggere il te in tibi, rendendo ulteriormente alto il ‘costo’ di questa via esegetica. Facere è, del resto, verbo semanticamente polivalente già in latino arcaico e classico, specie in lingua colloquiale,38 e, fra gli altri, il valore di coire, largamente attestato,39 potrebbe a prima vista sembrare opportuno qui. Deuro de sarebbe in tal caso parentetico esclamativo, fatto di cui si ha più d’un esempio in Petronio stesso (ricordiamo 37.9 babae babae, 59.2 coco coco).40 Ma qui, in
|| TANDOI devo la segnalazione di W. A. BAEHRENS, «Philol.», Suppl.–Bd. 12, 1912, pp. 324–9 (la raccolta più ricca, che viene comunemente ignorata, di esempi di questo tipo di ellissi). 35 C. STÖCKER, «The Petronian Society» vol. 1 n. 1, giugno 1970, propone d’integrare isti anche in 58. 7, invocando una (nuovamente falsa!) analogia con 58. 2 isti qui tibi non imperat. Ma intendere che Ermerote si riferisca ad Ascilto, qui presente, rende sbiadito l’insulto, eliminando la prospettiva temporale nella quale si pone in questi casi la … lunga carriera di prostituzione (v. oltre). Ascilto non è il primo, ma solo … l’ultimo che ha adescato il ragazzo! 36 V. anche la traduzione di CIAFFI: «chi ti ha fatto ‘ps, ps’ per primo». 37 Peregr. Aether. 21.5 faciens vale sancto episcopo, v. E. LÖFSTEDT, Philol. Komm, cit., p. 165 sg., dove viene istituito un valido parallelo fra il classico valedicere e il tardo valefacere. 38 J. B. HOFMANN, Lateinische Umgangssprache, Heidelberg 19513, p. 165 (Allerweltsverbum);E. LÖFSTEDT, Philol. Komm. cit., pp. 162–8. 39 Thes. l. Lat. VI col. 121. 40 sgg.: Cat. 110.2,5; Lucr. 4. 1112, 1195; ecc. In Petronio 45.8, 87.9 (87.5 è secondo me più incerto: si q u i d vis, fac iterum). — Per facere = cacare v. Thes. col. 121. 52 sgg. e FRIEDLAENDER ad Petr. 47. 4. 40 62. 9 matauitatau è stato a lungo tormentato, ma convincente mi sembra HERAEUS, Addenda a BUECHELER6 (1922), che mantiene il testo e ne fa un’interiezione parentetica, pensando alla magia di scongiuro (mata vitata Ἐφέσια γϱάμματα sapiunt). Meno persuasivo, da ultimo, DELL’ERA, op. cit., p. 201 sgg., dove v. i numerosi altri tentativi.
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presenza dell’accusativo te, avremmo bisogno di un valore futuere o simili, che pare non attestato.41 Anche questa esegesi è senz’altro da scartare. I dubbi qui esposti, come si vede, non toccano l’essenziale, e cioè il valore di deuro de. Conviene comunque eliminarli e restare all’interpretazione sintattica che si era presentata per prima come la più ovvia. Le parole di Ermerote Athana tibi irata sit, curabo, et ‹ei› qui te primus ‘deuro de’ fecit significano a mio parere, senz’ombra di dubbio, « A t e n a m a n d i i n m a l o r a t e , c i penso io, e chi per primo ha fatto di te un ‘vieni, am o r e ’ , u n ‘ p s t ! p s t ! ’ , u n p r o s t i t u t o ! » . Δεῦϱο δή va restituito anche in Petronio alla sfera erotica, alla quale inequivocabilmente appartiene. Come soprannome caratterizzante, magari affermatosi a livello gergale, può essere solo di chi risponde a un richiamo erotico dopo l’altro, e cioè a chi vive nell’ambiente della prostituzione. Tenendo presente che qui si tratta di un’imprecazione che contiene in sé un insulto, va ricordato che già in Grecia esposta alla critica e al disgusto era non tanto l’omosessualità in sé quanto la prostituzione.42 Nel mondo romano la situazione sarà stata varia, cambiando da epoca a epoca e soprattutto da ambiente ad ambiente: il Satyricon, per es., sembra imperniato su una parodia dell’amore eterosessuale del romanzo, se è fondata l’interpretazione — oggi prevalente — che fu inaugurata da Richard Heinze nel 1899.43 Ma è la prostituzione che resta il fulcro di un vasto settore del lessico dell’ingiuria: basta pensare alla più o meno esplicita riprovazione della commedia latina, che tenderà a non assumere neanche la figura della prostituta di
|| 41 Non credo si possa invocare 77. 1 tu dominam tuam de rebus illis fecisti: v. fra l’altro A. STEFENELLI, Die Volkssprache im Werk des Petron im Hinblick auf die romanischen Sprachen, Wien– Stuttgart 1962, p. 36 (de + sostant. = ablativo strumentale; diverso il tipo unus de nobis, Petr. 44.10, v. STEFENELLI, p. 84, già plautino e poi romanzo). 42 K. J. DOVER, «Bull. Inst. Class. Stud.», London 11, 1964, p. 31 sgg.; G. DEVEREUX, «Symb. Osl.» 42, 1967, p. 69 sgg. 43 R. HEINZE, «Hermes» 34, 1899, p. 494 sgg. In P. VEYNE, «Rev. Étud. Lat.» 42, 1964, p. 310. 2 il punto sul problema critico e sulle fonti greche. P. PARSONS, A Greek Satyricon?, «Bull. Inst. Class. Stud.», London 18, 1971, p. 53 sgg., appena apparso, può dare qualche elemento nuovo di notevole interesse (si tratta del P. Oxy. 42. 3010, del II secolo d. C., qui pubblicato per la prima volta). — Per la pederastia sentita a Roma come mos Graecus v. W. KROLL, «R. E.» 11. 1 (1921) col. 905 sg.: forse per questo l’accusa di omosessualità come insulto è rara nella commedia latina (S. LILJA, Terms of Abuse in Roman Comedy, «Ann. Acad. Scient. Fenn.», Ser. B, Tom. 141. 3, Helsinki 1965, p. 69 sg.). Interessante in Petronio, come testimonianza di costume contemporaneo, 85. 2 e tutto l’episodio del ragazzo di Pergamo. Particolarmente censurata a Roma è l’effeminatezza: I. OPELT, Die lateinischen Schimpfwörter und verwandte sprachliche Erscheinungen, Heidelberg 1965 ce la presenta usata di frequente come insulto alla vita privata dell’uomo politico (pp. 154–7), dell’imperatore (p. 174 sg.) ecc. (v. in Petr. 9.6, 81.5 ecc.).
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nobili sentimenti, propria della commedia nuova.44 Nel Satyricon non mancano casi in cui l’accusa di prostituzione si presenta in forma d’insulto violento: si ricordi come a 81.5 Encolpio si scagli contro Gitone (tamquam mulier secutuleia …) e come Criside insulti Polieno–Encolpio a 126.1–4; e la lista potrebbe continuare (69.1 agaga est; ecc.). Parrebbe strano che nel nostro passo Ermerote infuriato, che ne dice a Gitone di tutti i colori, rinunciasse a un insulto così topico e così appropriato al personaggio, com’esso è presentato da Petronio stesso. Non so se vado a caccia di nimis subtilia vedendo un senso nell’invocazione ad Atena–Minerva, dea, come s’è detto, dell’educazione, delle arti e dei mestieri, che tra l’altro è presente come tale all’inizio della Cena: nel vestibolo della sua casa Trimalchione è rappresentato sulla parete mentre Minerva … ducente Romam intrabat (29.3). È proprio immediatamente dopo il nostro passo, del resto, che Ermerote affronta con Ascilto il suo ‘complesso’ dell’educazione e del livello sociale: 58.7 non didici geometrias …; 8 iam scies patrem tuum mercedes perdidisse, quamvis et rhetoricam scis; se la prende anche con Agamennone, 13 bella res et iste qui te haec docet, mufrius, non magister. Quanto a ‘mestiere’, la servitù non lo è — è una condizione, uno stato di vita —, mentre la prostituzione è il mestiere che può venir definito tale nel modo più pregnante, il ‘mestiere’ per eccellenza. L’imprecazione è, per di più, topica, se le si dà il senso da noi proposto: è la maledizione al πϱῶτος εὑϱετής di mali, a colui che primus ha introdotto qualche peste fra gli uomini. Il motivo, legato a quello dello εὕϱημα utile, è comune in commedia greca e latina,45 ma non solo in commedia: e un parallelo proprio per la prostituzione può essere Tib. 1. 4. 59 sg. at tua, qui venerem docuisti vendere primus, || quisquis es, infelix urgeat ossa lapis. L’uso del greco per espressioni della sfera erotica ripropone il problema della parte che il greco assume nella lingua latina, nei vari momenti della sua storia.46 I personaggi di Petronio sono greci, è vero, e si muovono nell’ambiente di una Graeca urbs: ma parlano latino, giacché Petronio si rivolge a un pubblico romano e i grecismi dei suoi personaggi non possono non essere quelli che sono || 44 Per restare alle ingiurie, v. I. OPELT, op. cit., pp. 91–100 (il mezzano), 106–9 (la prostituta e la mezzana); S. LILJA, op. cit., pp. 60–2. 45 Il motivo è documentato, con grande abbondanza di materiale greco e latino per gli εὑϱήματα buoni e cattivi, da F. LEO, Plautinische Forschungen, Berlin 19122, pp. 151–4. Per il πϱῶτος εύϱετής di mali, scarsi accenni in A. KLEINGÜNTHER, Πϱῶτος εύϱετής, Leipzig 1933, p. 97 sg. 46 Oltre i lavori cit. all’inizio per Petronio, v. in generale LEUMANN–HOFMANN–SZANTYR, II, p. 759 sgg.; A. MEILLET, Esquisse d’une histoire de la langue latine, Paris 19526 pass.; J. MAROUZEAU, Quelques aspects de la formation du latin littéraire, Paris 1949, spec. p. 125 sgg. Ancora utile F. O. WEISE, Die griechischen Wörter im Latein, Leipzig 1882.
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acclimatati ed ‘accettati’ nel latino della classe media, anche se qualcosa sarà stato accolto da sfere gergali coeve di colonie magno–greche. I grecismi erotici e genericamente conviviali sono comunque frequenti e appaiono essere per lo più parole di larga diffusione,47 come si può facilmente vedere dalle attestazioni presso altri autori. Non è qui il luogo di riprendere il problema, che è di vasta portata e che aspetta ancora una trattazione dettagliata e completa, con sufficiente attenzione alle nuove metodologie della linguistica (isolamento di vari momenti considerati sincronicamente, distinzione di classe sociale ecc.). Ma vale la pena notare qui che sarà stata proprio la già antica specializzazione del greco nel linguaggio erotico, che appare già affermata nella commedia, a contribuire a dare al greco stesso, a Roma, il carattere di ‘lingua dell’intimità’, di lingua della comunicazione spontanea, veloce.48 Non è stato senza conseguenze di rilievo il fatto che — come notava Meillet nella sua Esquisse (19526, p. 109) parlando della introduzione dei primi grecismi attraverso gli strati bassi della società — «à Rome, le vocabulaire de la vie sérieuse était tout latin, celui du plaisir était grec». Nella vita quotidiana il richiamo erotico poteva, certo, essere espresso in latino, così come poteva realizzarsi in un semplice gesto di adescamento: ma, a parte le preferenze linguistiche dei singoli o di particolari ambienti, che potevano anche portare a far scegliere nella vita quotidiana il greco δεῦϱο δή, è certo che in un’opera di letteratura il nesso idiomatico greco doveva esser sentito come portatore di un ben più forte valore espressivo.
|| 47 Prendo dalla lista dei grecismi di ERNOUT, Aspects cit., pp. 81–3, anche se non vanno messi tutti sullo stesso piano: agaga (69.1), bacciballum (61.7: ?), cinaedus (21.2, 23.2, 24.2), comissor (23.1), comissator (65.3), cymbalistria (23.1), embasicoetas (24.1, 2, 4; 26.1), ephebus (85.3; 86.2, 5; 87.1, 7), laecasin (42.2), lupatria (37.6: suffisso gr.), pigiciaca (140.5: corrotto?), propin (28.3), propinatio (113.8: suffisso lat.), spado (27.3, 5), spatalocinaedus (23.3), spintria (113.11), tangomena (34.7, 73.6: ?), topanta (37.4), zelotypus (45.7, 69.2); ecc. 48 Interessante, seppure panoramico e limitato a spunti, J. M. PABÓN, El griego, lengua de la intimidad entre los Romanos, «Emerita» 7, 1939, pp. 126–31 (in sostanza si esemplifica da Cicerone in poi, per le classi colte; sull’amore p. 129: Lucr. 4. 1160 sgg., Iuv. 6. 191 sgg.).
Completa l’edizione dell’Antologia Palatina
La «blanda follia» dei lirici greci L’antologia è prodotto editoriale specie oggi ben noto a tutti, ma quel corpus di poesia che va sotto il nome di Antologia Palatina è strutturato in modo diverso dalle nostre antologie moderne. Chi si prendeva questa cura sceglieva dei componimenti poetici, li metteva insieme per genere e per argomento e aggiungeva una o più composizioni proprie, creando così come il verbale di una gara poetica fittizia, dove la vittoria, nelle intenzioni dell’antologista, doveva spettare nel giudizio del pubblico all’antologista stesso, ultimo della serie. È uno dei modi, questo, in cui si manifestava lo stretto legame con la tradizione letteraria, quello che i greci chiamavano zelos e i romani aemulatio (emulazione), per cui l’antico, il classico, il consacrato dalla tradizione era tenuto in vita e riattualizzato per virtù di un continuo e rinnovato gareggiare, dove sempre si cercava di superare il modello. La similarità di argomento per le varie serie di composizioni era un prodotto, per di più, di quella tecnica associativa che guidava in Grecia, fin da età arcaica, anche il pensiero filosofico. È così che è nato, e si è variamente strutturato con l’intervento di molte mani, il nostro corpus poetico. Il nome di Antologia Palatina è però convenzionale, anche se in certo modo storicamente giustificato: infatti non si tratta solo dei componimenti contenuti nel famoso codice palatino (da cui il nome) di Heidelberg, divenuto noto intorno al 1600, ma comprende anche i componimenti in più contenuti in un altro codice famoso, iI marciano greco 481 (conservato a Venezia), scritto dal monaco Massimo Planude intorno alI’anno 1300 e diffuso in stampa nel 1494: i componimenti che la raccolta planudea contiene in più sulla Palatina costituiscono oggi il XVI ed ultimo libro della Palatina stessa, e più correttamente questo libro si dovrebbe chiamare (e in gergo si chiama) Appendice Planudea, così che il complesso dei libri si dovrebbe chiamare (e qualcuno in gergo lo chiama) Antologia greca. Ma anche questo nome potrebbe condurre in errore. Non si tratta di un florilegio di tutta la poesia greca antica, ma di un singolo genere, l’epigramma: una breve composizione di due versi, o poco più, generalmente nella forma del distico elegiaco (un esametro e un pentametro accoppiati) che ebbe fortuna particolare proprio in epoca alessandrina, quando appunto l’Antologia cominciò la || [Recensione di F. M. Pontani (a cura di), Antologia Palatina, vol. IV, Libri XII–XVI, Torino, Einaudi, 1981; pubblicata sul “Giornale di Sicilia” di Mc 6.1.1982, p. 3]
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sua millenaria storia. La prima antologia infatti fu messa insieme dal poeta Meleagro di Gadara intorno al 70 a.C. col titolo di «Corona» e comprese anche alcuni poeti arcaici come Archiloco (VII sec. a.C.), Anacreonte e Simonide (VI sec.). Il materiale di Meleagro fu ripreso e accresciuto da altri poeti o letterati, fra cui Filippo di Tessalonica (40 d.C.), Agazia di Mirina e Costantino Cefala; il codice palatino di Heidelberg rispecchia appunto la raccolta di Cefala, almeno dal libro IV al XII. Quanto a testi poetici, l’Antologia si trova così a ricoprire un periodo di circa 1600 anni, mentre la gestazione della raccolta dura circa 1000 anni, quanti ne corrono fra Meleagro e Cefala. Gli epigrammi che molti di noi hanno in mente, per averli almeno letti a scuola, sono quelli amorosi di Callimaco, di Asclepiade, di Meleagro, di Rufino, e quasi tutti vengono dal libro V, dedicato appunto alla poesia amorosa. Il quarto volume della Einaudi, col quale si chiude un’ingente fatica editoriale durata solo poco più di tre anni (Antologia Palatina, a cura di Filippo Maria Pontani, voI. IV, Libri XII–XVI, «I Millenni», 1981), ci riserva per l’amore il libro XII, 258 epigrammi che cantano l’amore pederotico per i giovani, detto Musa puerilis e messo insieme, più o meno nella forma in cui lo abbiamo oggi, da Stratone di Sardi (130 a.C.). È forse la nostra sensibilità, ancora condizionata dall’estetica romantica, a farci godere di meno gli altri libri dell’Antologia, come il IV (dediche di oggetti), il VII (iscrizioni sepolcrali), il IX (descrizioni di opere d’arte) ed altri, compresi in questo volume einaudiano (XIII, epigrammi in metri vari; XIV, virtuosismi matematici e indovinelli; XV, miscellanea; XVI, l’Appendix Planudea, anch’essa miscellanea). Certo non è un caso che la produzione epigrammatico–amorosa dei poeti che abbiamo richiamati più su si presentasse sotto il velo di elegante distacco, quasi di gioco. Di recente uno studioso americano ha definito felicemente l’amore dei poeti alessandrini una «blanda follia» (D. H. Garrison, Mild Frenzy, 1978). Le contemporanee filosofie epicurea e stoica presentavano l’amore come una malattia da evitare, e così questi poeti avrebbero trovato la giusta «distanza», che arrivava fino al distacco ironico, per guarire da questa malattia. Come è diverso questo mondo da quello dei poeti arcaici, in cui l’amore è sì un male terribile e violento, ma non se ne dà medicina: gli si va incontro come si va incontro al fato. Bisognerebbe ora dire in dettaglio come Pontani ha affrontato il non facile compito di rendere fruibile questo patrimonio poetico con una traduzione che rende i vari livelli stilistici dell’originale, misto com’esso è di aulicismi e di colloquialismi. Non mi risulta che il tema della lingua dell’epigramma alessandrino sia stato trattato a fondo in sede filologica: ebbene, Pontani lo ha affrontato in sede pratica, mostrandosi ancora una volta (o ancora di più?) quel for-
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midabile artefice sempre in emulazione con se stesso, da buon allievo dei suoi antichi. Metricamente ci rende l’esametro con un esametro accentuativo italiano, secondo i precetti di Pascoli, ma per il pentametro preferisce (e ha ragione) l’endecasillabo: «Gagliardamente beviamo! Mio povero amico, fra poco (esametro pascoliano) / riposeremo quella notte lunga (endecasillabo)» (Asclepiade, XII, 50.7–8, p. 29). I virtuosismi di Pontani nel tradurre il libro XIII (quello dei metri vari) sono un ghiotto boccone per quelli del mestiere. Ma, risolto a livello tecnico il «programma» metrico, Pontani ci regala come prestazione poetica quello che a mio parere è il meglio riuscito della sua pluridecennale attività di traduttore. Accontentiamoci di dare un breve campionario. Per il virtuosismo del far corrispondere verso a verso: «Faccio baldoria, ma vino non è che mi satura: è fuoco» (Meleagro, XII, 85.7, p. 45). Per la leggerezza con cui viene resa la leggerezza dell’originale: «Sgridami, Archino, se fu volontario quel chiasso alle porte: / se involontario, passami l’ardire! / Mi ci costrinsero il vino e l’amore: ché questo tirava, / quello non consentiva l’equilibrio. / Venni, ma nome e cognome non dissi gridando: soltanto / bacia la soglia. È colpa? Sono in colpa» (Callimaco, XII, 118, p. 62). Per I’eleganza ironica di Stratone bastino due esempi: «Torto ti faccio coi baci? La credi un’ingiuria codesta? / Fammi pagare il fio: baciami tu!» (XII, 188, p. 95) . «Io non ho voglia, e mi baci: ti bacio che tu non hai voglia. / Fuggo? Sei buono. Incalzo? Sei cattivo» (XII, 203, p. 103).
Pregi di una biografia scritta da Robin Lane Fox
Il romanzo di Alessandro ancora non ha finito di crescere L’aspetto più affascinante del condottiero è la metamorfosi ideologica realizzata nelle varie imprese Alessandro Magno è la figura che forse più ha eccitato la fantasia dei biografi, e questo per una quantità di ragioni: per la vastità e la profondità del rivolgimento storico che in essa trova il suo simbolo, per la varietà dei paesaggi storici e geografici da essa evocata, per l’interesse psicologico che una figura così ricca offriva. L’annessione dell’universo orientale da parte della cultura di cui siamo eredi era avvenuta, su un piano storiografico e antropologico, un secolo prima di Alessandro, con Erodoto e con la sua serena curiosità per il diverso e per «l’altro», soprattutto nel mondo egiziano e in quello persiano; ma la osmosi vera e propria non poteva prescindere da una concreta volontà politica che avesse al suo servizio entusiasmi e forze adeguati al disegno. L’integrazione peraltro non modificò l’aura esotica con cui l’Oriente sempre continuò a presentarsi: e questo spiega perché intorno ad Alessandro e alle sue imprese si cominciò ad intessere subito dopo la sua morte, e addirittura prima di essa, un’attività di cronaca sempre più romanzata, che si alimentava delle leggende che intorno al suo nome fiorivano anche nelle più lontane province dell’impero. Il «romanzo di Alessandro», che è designazione tecnica per le varie e tarde redazioni, non ha ancora finito di crescere su se stesso e ci offre continuamente prodotti nuovi. Il pregio della biografia di Robin Lane Fox (Alessandro Magno, Einaudi, pagg. 572, lire 28.000) sta nel fondarsi su una rigorosa analisi storica e nello stesso tempo nel non tradire lo stile biografico, caro a lettori di media e alta cultura, che vuole la personalità non tanto al centro di un quadro quanto piuttosto a soggetto unico di esso. Ma dà anche una visione chiara della concreta situazione storica nella quale la grande personalità ha operato. Il regno macedone nasceva da un intricato groviglio di sovranità tribali, dal quale l’emergere di una personalità d’eccezione poteva solo avvenire all’inizio e conservarsi nel seguito attraverso una serie di altrettanto intricate congiure di palazzo. La leg-
|| [Recensione di R. L. Fox, Alessandro Magno, Torino, Einaudi, 1981; pubblicata sul «Giornale di Sicilia» di G 13.5.1982, p. 3] https://doi.org/10.1515/9783110648140-053
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gendaria incolumità di Alessandro (che non si risparmiò poi mai, soprattutto in guerra), si affermò fin dalle prime mosse del giovane principe nella scacchiera irta di pericoli della sua rete familiare e tribale. Non per nulla la propaganda antimacedonica, che trovava in Atene il suo più acceso rappresentante in Demostene, si compiaceva di presentare i macedoni come addirittura dei barbari, o quanto meno dei greci ad uno stadio di sviluppo politico e civile assai arretrato. Nel 333, in Egitto, Alessandro, dopo aver fondato quell’Alessandria che sarebbe poi stata di gran lunga la più importante fra le tante fondazioni dello stesso nome, fece la sua conquista più grande, quella che si sarebbe rivelata la più esportabile di tutte sul piano ideologico: la conquista della generazione da Zeus. Inoltrandosi con un piccolo seguito a quasi cinquecento chilometri ad occidente del Nilo, in pieno deserto,visitò il santuario di Zeus Ammone nell’oasi di Siva e ne tornò con la certezza, opportunamente propagandata dallo storico di corte Callistene (che era anche parente di Aristotele, il maestro di giovinezza di Alessandro), della sua discendenza da Zeus, così come figli di Zeus erano i suoi prediletti eroi del mito. È singolare la scarsità di particolari biografici su questo misterioso episodio nella sua vita. Certamente la località, remota e appartata, era stata scelta con intenzione, per circonfondere la rivelazione con un mistero che ne accreditasse la veridicità. Fox ci fa capire come la filiazione celeste stesse diventando man mano una necessità ideologica, tale che potesse alimentare la continuazione della gigantesca impresa. Alessandro era partito con un forte esercito dalla montagnosa ed appartata Macedonia, un piccolo regno periferico rispetto sia alla Grecia sia al grande mondo che gli stava dinanzi. In principio, finché si teneva sulle coste del Mediterraneo (Asia Minore, Fenicia, Egitto), poteva propagandare se stesso come il vindice dei greci oppressi dal gran re di Persia. Ma dall’Egitto il suo itinerario ulteriore lo avrebbe portato nel cuore del vasto impero persiano, e la propaganda iniziale cessava di aver valore coll’allentarsi dei rapporti diretti della Persia col mondo greco. La divinizzazione avveniva in un ambiente propizio come quello dell’Egitto faraonico, vecchio come il mondo, secondo le tradizioni, e dedito al culto del faraone, e tale divinizzazione lo predisponeva a quel ruolo di erede dei re di Persia che diventava necessario a giustificare la continuazione della sua spedizione. È proprio questo l’aspetto più affascinante dell’impresa di Alessandro: la sua metamorfosi ideologica realizzatasi materialmente in itinere. Il progetto iniziale, ereditato a suo tempo dal padre Filippo, di vendicare e liberare i greci era del resto un’impostazione politica tutt’altro che rivoluzionaria, essendo stato il perno attorno a cui si era sviluppata l’azione politica, diplomatica e militare in Grecia dal tempo della rivolta contro i persiani delle colonie greche ioniche
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(grosso modo nell’anno 500 a.C.). Quando Alessandro prese possesso nel 330 a.C. delle immense ricchezze accumulate in Babilonia e soprattutto poi, dopo la morte del re Dario e dopo la conquista di Susa e di Persepoli, sempre più doveva divenir chiaro a tutti che era lui l’erede del regno di Persia: questa era la grande, inaudita novità. La storiografia a lui contemporanea o di poco successiva, nella sua parte più conservatrice e più legata a valori macedoni o greci in generale, prese a criticare e a deplorare il suo abbandonarsi al lusso sfrenato degli orientali. Ma erano voci di reazionari intimiditi. In realtà Alessandro non faceva altro che assumere il tenore formale dei monarchi di cui doveva ormai proclamarsi il successore: le vesti, il diadema, la famigerata proscinèsi ovvero l’inchino e il gesto del bacio di fronte all’autorità più che umana del re, la fitta trama di mediazioni cerimoniali che doveva proteggerlo e soprattutto separarlo dai suoi sudditi, e quanti altri fattori ancora, potevano sembrare ad alcuni un folle arbitrio, specie se si pensa all’etica della hybris: «non tentare di farti uguale agli dei». Tutto questo aveva scatenato i timori e le gelosie di un ambiente che fino a quel momento era stato solo di macedoni e di greci, di compagni d’infanzia diventati compagni d’arme e fiduciari d’imprese militari (che si ribellarono alla proscinèsi). Ma non era un gratuito arbitrio: ora si presentavano con urgenza le esigenze dell’amministrazione di terre vaste e diverse, per cui l’integrazione nell’ambiente delle varie classi dirigenti era una necessità. Alessandro si integrò e volle che anche i suoi macedoni si integrassero. Anche i re persiani avevano rispettato le strutture amministrative che avevano trovato nelle terre da loro conquistate, e Alessandro non faceva che assumere una prassi già collaudata, proponendosi a modello delle varie ideologie imperialistiche che lo avrebbero seguito. Alessandro morì a Babilonia nel 323 a.C., a poco più di trent’anni, di febbri o di veleni, non si sa. In dieci anni di campagne (ma questo termine suona come una stonatura, riduttivo com’è), figlio periferico ma devoto di una grande cultura, quella greca, collezionò forse il più gran numero di primati e precedenze che la storia registri in una sola persona. Ma pochi sanno, se non hanno letto questo libro (che si raccomanda anche per l’eccellente traduzione di Guido Paduano) o se non si sono imbattuti in un passo della Vita di Alessandro di Plutarco (57;5) che egli fu il primo occidentale a vedere, pur senza saperlo, una sorgente di petrolio. Presso le frontiere fra l’Afghanistan e la Russia, a Balkh, nel 328, fu visto sgorgare dalla terra un liquido che fu giudicato simile all’olio d’oliva, in una terra che non era certo propizia alla coltivazione degli olivi (e davanti a gente
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che ne aveva la nostalgia). Il fatto fu preso per un prodigio e se ne trassero fausti auspici.
Le parole, la musica e il racconto “Fior di narciso / per quanto tempo son rimasto appeso / sperando di vedere un tuo sorriso / e gli occhi belli tuoi che m’hanno ucciso”. Tutto qui è “appeso”: la musica tra i diversi codici musicali mescolati da Piovani, le parole tra i diversi codici poetici di Cerami. Cerami — lo sappiamo — è versatile: gli sono familiari la prosa incisiva, la citazione poetica, la parodia, l’ironia e alle volte anche il volo lirico commosso, che è affidato agli stornelli. Alcuni ce li canticchieremo uscendo da teatro. Anche quelli non proprio lirici, appesi fra Petrolini e Totò: “Ve lo prometto, Signora Nazione: / appena mi procuro vitto e alloggio / la prima che mi piace me la foggio”. Tutto è appeso, come il protagonista, il Signor Novecento: “Il secolo che nasceva insieme a me / mentre un altro stava morendo”, “Sono stato partorito a cavallo”. E appese sono, fra loro, anche musica e poesia: nel cinema sono accostate, qui sono fuse, senza che l’una prevalga sull’altra. Tutta la poesia antica era cantata, con un accompagnamento musicale discreto, che rispettava le parole. Questo è il segreto di Cerami—Piovani. Non si parlava una volta del ‘fine dicitore’? Oggi è scomparso, nessuno sa più che cosa le due parole vogliano dire. Dev’essere una bella fatica preparare i musicisti e gli attori—cantanti per realizzare il giusto equilibrio: Aristofane era regista delle proprie commedie. Lo spettacolo ha come sottotitolo “Racconto musicale”. L’antica poesia epica, l’Iliade e l’Odissea, erano grandi racconti, e Il Signor Novecento è un racconto musicale epico, perché non racconta la storia di un uomo, ma la storia di un’intera cultura, che è la nostra, fatta delle memorie dei nostri nonni, dei nostri padri e nostre che vanno trasmesse ai nostri figli: l’Italietta e la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale, il consumismo con i loro diversi modi dell’etica, della politica, del costume. Diversi, ma hanno sempre un’aria di famiglia, della nostra famiglia. Questo racconto soddisfa un nostro forte bisogno di epica, come dimostra nel cinema il successo dei due cicli di Heimat. La storia di un uomo o quella di un’anima non ci bastano più, perché
|| [Scheda, datata 1.1994, per il ‘programma di sala’ dello spettacolo Il Signor Novecento, Racconto musicale di Vincenzo Cerami [versi] e Nicola Piovani [musica], per il debutto del 19.4.1994 al Teatro Nazionale di Roma, regia di Vicenzo Cerami e Nicola Piovani, con gli attori della Compagnia della Luna (Lello Arena, Norma Martelli, Francesca Breschi, Donatella Pandimiglio) e i solisti dell’orchestra Aracoeli diretti da Nicola Piovani; il racconto in versi di Cerami è stato poi edito da Grin nel 1994, a cura di N. Messina. — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; il titolo è quello originario di Rossi; la cura del testo si deve a Giulio Colesanti]
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l’uomo e l’anima hanno perso la loro identità, e possiamo ritrovarla solo cercando le radici. Questo bello spettacolo vengano a vederlo i politici di ogni stagione, quelli che dovrebbero pensare alla scuola, e si convincano anche qui in teatro che i racconti epici delle radici sono ascoltati con avidità oggi come tremila ani fa. E restino anche loro “appesi”, come il tutto il pubblico, a questo ‘fine dicitore’ che ci racconta in musica le cose nostre.
Il dialetto genovese Il mio principale titolo a parlare qui del genovese è di essere per metà genovese, da parte di madre[1]; poi: mi sono sposato qui nel 1962[2]. Adesso che, recentemente, ho perduto Mamma, il mio attaccamento alle mie origini per metà genovesi è aumentato molto: è come trovarsi soli sul fronte della difesa della memoria. Fino all’età di 10–12 anni la mia cadenza genovese, presa dalla Nonna materna, dalle zie materne e dai cugini, era fortissima: fu Mamma che mi esortò a moderare quella cadenza. Più tardi arrivai a correggere anche alcuni fatti di accento: per es. sono riuscito a dire ‘stélla’ e non ‘stèlla’ (forse mi è riuscito facile perché ‘stella’ è una parola anche fortemente letteraria, poetica); ma ‘vèrde’ non riesco a estirparlo per dire ‘vérde’. E non rimproveratemi per questo: è il mio mestiere che mi spinge a moderare i genovesismi, perché insegno e devo quindi avvicinarmi all’italiano comune. Vedrete, da quanto vi dirò in seguito, che non lo faccio certo per ideologia antidialettale. Ma ho una garanzia: quando mi arrabbio, la cadenza genovese originaria torna fuori, e torna fuori con forza. Qui sento parlare genovese o almeno sento la cadenza. Ma, un fatto singolare: la radio e la televisione sono largamente nutrite di telefonate e di interviste degli ascoltatori, che diventano così dei protagonisti. E allora, perché si sente così poco il genovese? Forse il proverbiale carattere chiuso dei genovesi. (Prima di entrare nella casa di un genovese passano secoli; e quindi i genovesi ne escono anche con difficoltà, di casa).
|| [Conferenza tenuta L 28.11.1994 h. 16 a Roma, nel Chiostro della chiesa di S. Giovanni Battista dei Genovesi, nell’ambito delle manifestazioni organizzate per l’anno 1994/1995 dalla Congregazione della Madonna della misericordia di Savona in Roma. — Inedito, ritrovato in un file dell’ultimo pc di Rossi e anche in un documento a stampa nello studio di Via Aventina; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 Maria Campanella (Genova 24.6.1905 – Roma 18.6.1994), genovese da generazioni; a seguito del padre Luigi, costruttore, si era trasferita a Roma con tutta la famiglia (la madre Cornelia Rossi, e le due sorelle Giulietta e Elena, poi coniugate ripettivamente Florio e Magnani); aveva quindi conosciuto Amilcare Rossi (figlio di Enrico, Lanuvio 1.1.1895 – Roma 31.5.1977), all’epoca deputato e Presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, e lo aveva sposato nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri il 27.6.1932; unico figlio fu Luigi Enrico.] [2 Rossi si è sposato con Giovanna Gorgosalice a Roma il 27.6.1962, proprio nella chiesa di S. Giovanni Battista dei Genovesi; il pranzo di nozze fu allestito nel Chiostro della chiesa stessa.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-055
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Descrizione del dialetto Dirò d’ora in poi ‘genovese’ per ‘ligure’, salvo che non ci sia bisogno di precisare. E veniamo adesso al dialetto in sé. Darò pochi elementi descrittivi glottologici, visto che non dobbiamo coinvolgerci in dettagli tecnici. I linguisti assegnano i dialetti liguri ai dialetti gallo–italici, come i dialetti emiliani, lombardi e piemontesi, il che vuol dire che sul latino si è sentita un’influenza delle lingue parlate nella Gallia (Devoto–Giacomelli p. 10s.). Ma i liguri hanno meno influenze galliche rispetto agli altri dialetti che abbiamo nominati perché quello che hanno di gallico è venuto loro da influenze padane (e cioè: gli elementi gallici non li hanno avuti direttamente dalla Gallia): i liguri non sono mai stati gallici e la lingua che si parlava in Liguria prima del latino era una lingua che conosciamo assai poco e che chiamiamo leponzia. La romanizzazione della Liguria è stata tardiva e superficiale: i Liguri sono stati un popolo appartato e geloso della propria indipendenza, favorita anche dalla conformazione del suolo, che permetteva una efficace difesa da ogni aggressione. [I liguri forti e buoni nemici dei Romani (Livio ) …:] Tito Livio dice che i Liguri erano i nemici ideali del popolo romano perché erano austeri e poveri e non suscitavano quindi il desiderio delle rapine e dei saccheggi. I primi contatti con i romani risalgono al 218 a.C., quando Cornelio Scipione sbarcò in Liguria venendo dalla Spagna e andando verso la Valle Padana. Nel 180 a.C. furono deportati nel Sannio i Liguri Bebiani e Corneliani e fu allora che si conclusero le ostilità fra i popoli romano e ligure. Ma la romanizzazione più piena si ebbe in età augustea, e cioè pochi anni prima di Cristo, e del resto – come dice Devoto (L’Italia dialettale, pass.[im]) – la latinità ligure è in sé poco latina e, come dice Devoto, quasi “barbarica”. Fonetica. Fatti singolari: la n velare è fonema autonomo (denti). C’è chi dice (Devoto–Giacomelli p. 12) che “i dialetti liguri più di altri possono dare l’impressione di una Babele fonetica”. E mi spiego. Dalla metà dell’Ottocento in poi i linguisti hanno individuato alcune leggi fonetiche che regolano le trasformazioni da una situazione fonetica all’altra. Darò qui alcuni esempi di esiti regolari e alcuni di esiti irregolari. Esiti regolari (Devoto–Giacomelli p. 12s.). Per esempio il suono finale U per l’italiano comune O. Esiti irregolari (ibid. p. 12s.). Un esempio: spostamento dell’accento in mèistru, ‘maestro’ (lat. magister). Le consonanti sono molto deboli, scompaiono: la storiella del toscano e del genovese che gareggiano nel dire poche consonanti: Io vidi un’aquila volare, frase con poche consonanti; il genovese domanda: a éia e âe? (questo è genovese corretto; ma oggi si direbbe a g’aveiva e âe?, con tre
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consonanti, e cioè attenuando le caratteristiche dialettali più spinte, e cioè avvicinandosi un poco all’italiano comune). Lessico. (Coveri[–Olivieri]) I fatti più interessanti sono sempre i fatti lessicali. I conservatorismi del genovese: i latinismi: ankö da hanc hodie (i genovesi che parlano italiano comune dicono ‘quest’oggi’). Le cosiddette parole–bandiera, e cioè le parole che sono solo o prevalentemente liguri (Coveri 1991, p. 32): – frè e sö, che sono anche latinismi conservatori (da fratrer e soror, mentre fratello e sorella vengono da fratellus e sorella, due diminutivi del latino tardo; cfr. orecchia da auricula, un diminutivo tardo da auris); – scagnu da lat. skamnon = sgabello; – fantìn, fantina da lat. infans, = celibe, nubile; in Corsica fandinu, nel greco di Chio come prestito fandina; – mandillu (anche Monferrato, Nizzardo e Corsica) = fazzoletto, dal lat. mantelum (e non dallo sp. mantilla); – cètu, ‘pettegolezzo’ (ma non so da dove venga). Menagramu Voci dell’arabo, che si trovano solo in ligure. (Navigatori e commercianti genovesi nel Mediterraneo). – macramé = asciugamano (mahhrama); – zerbìn = tappetino, dall’isola di Gerba in Tunisia (da cui i nomi–cognomi Zerbino, Zerbini); – dàrsena (variante veneta è arsenale, in Dante arzanà); – camallu (hàmmal). Fraseologia. Caccià i diné cume i denti, i can in zeizha, ghe pa’ d’aveighe u mundu, sfuggire una persona come una ‘pistolla di cana curta’ … Presenza del genovese nell’italiano. ‘mugugno’, di origine marinaresca (il cui successo sembra dovuto a un discorso di Mussolini del 1940: Coveri 1991, p. 32) etc. In generale si tratta di voci della gastronomia (pesto, trenette, acciughe; interessante vernaccia, da Vernazza, lat. Vulnetia, che poi si è diffuso in Toscana e in Sardegna); e soprattutto di voci della marineria e della pesca (scoglio già in Dante, molo, ciurma, carena). Ma non serve descrivere troppo in dettaglio il dialetto, qui fra noi. Sarebbe tra l’altro noioso.
Storia di Genova (Per spiegarci meglio il dialetto) Etimologia di Genova. Sembra sicura la parentela del nome con Ginevra (nomi indoeuropei), = ‘sbocco’ oppure ‘angolo, insenatura’ (gr. γόνυ ‘ginocchio’ oppure γένυς ‘bocca’: riferito alla morfologia geografica). Genova è presente nelle testimonianze storiche fin dal VI sec. a.C., quando era un piccolo centro di commerci. Poi si alleò con Roma, il che le costò, nel 205 a.C., la distruzione ad opera di Magone, fratello di Annibale il cartaginese (da
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cui la parola magun[3]): Livio 28.46.8: Genuamque nullis praesidiis maritimam oram tutantibus repentino adventu cepit). Ma tre anni dopo, nel 202, Roma la ricostruì perché era un buon centro per i traffici marittimi. Nel medioevo fu sotto i Franchi. Poi diventò libero comune, non riconoscendo l’autorità dell’imperatore. La ‘Compagna’ aveva a capo il vescovo (il primo fu Arialdo); nella Compagna si organizzarono i nobili, che avevano nelle mani sia il potere politico sia il potere economico, una caratteristica di Genova: la società è così organizzata in armatori, mercanti, marinai, artigiani, ex servi della gleba. Genova fin da allora dà la preminenza all’interesse e al potere privato; una società di tipo timocratico, fondata cioè sulla potenza patrimoniale. Di qui due conseguenze: l’avarizia proverbiale, che però si ritrova in tutte le società simili, in tutte le società ad alto livello di specializzazione mercantile; e la diffusione di un lessico e di una fraseologia nella quale l’organizzazione commerciale e il danaro hanno un posto preminente. Darò ancora alcune notizie, che sono peraltro molto vive nella memoria cittadina, che ama molto la propria città, e soprattutto la propria storia (e – perché no – i propri agi e il proprio danaro), come in tutte le società benestanti e quindi un po’ chiuse, un po’ difese. La rivalità con Pisa vide Genova vittoriosa alla battaglia della Meloria (1284); e la rivalità con Venezia, fondata sulla concorrenza nel Mediterraneo orientale, vide Genova soccombente, ma non le impedì di avere delle vere e proprie colonie nel Levante: nell’Egeo ebbe le isole di Lemno, Samotracia, Lesbo, Samo e soprattutto Chio – davanti a Smirne – ancora piena di cognomi liguri; alcune città addirittura della Crimea; e stazioni commerciali a Cipro e ad Alessandria d’Egitto. ‘Chi vuol vedere Pisa vada a Genova’, si dice. Ma perché non si dice ‘Chi vuol vedere Genova vada a Venezia’? Perché Venezia ebbe da far meglio che saccheggiare Genova: dominò e saccheggò il Levante, creando però anche una cultura che per alcuni secoli fu tra le più splendide del mondo. Venezia fu una delle capitali del mondo, con la sua potenza politica contrapposta a quella della Chiesa, con lo splendore delle sue stoffe e della sua pittura, con la sua musica. In Italia di simili capitali mondiali, che sono durate come tali per alcuni secoli, ne abbiamo più che in alcun altro paese europeo: Palermo nel sec. XII e nel Duecento con i Normanni; poi Siena, Firenze con le banche e la letteratura e l’arte figurativa; Napoli con la pittura e soprattutto con la musica; e non dimentichiamo che la ricca Milano, ricca fin dalla tarda antichità, è stata anche capitale dell’Impero romano d’Occidente.
|| [3 Nel modo di dire genovese aveì o magun, corrispondente all’italiano avere il magòne.]
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Ma fermiamoci alla contrapposizione bruciante Genova/Venezia. Venezia era in posizione geografica più opportuna per dominare il Levante, e lo dominò. Quando poi, con la scoperta dell’America, il mondo andò in direzione opposta, verso occidente (e decretò la progressiva decadenza di Venezia), Genova purtroppo era in posizione di nuovo geograficamente svantaggiata, perché il Mediterraneo cessò di essere il centro del mondo e cedette il potere all’Oceano Atlantico: di qui l’ascesa di paesi come il Portogallo, la Spagna, l’Olanda e infine l’Inghilterra. (Se vogliamo continuare a fare la storia del mondo per mari e per oceani, è dei nostri giorni il passaggio del centro del mondo dall’Atlantico al Pacifico, con le nuove Genova e Venezia, che sono il Giappone e gli Stati Uniti). Il breve panorama storico che ho fatto non ha altro scopo se non quello di spiegare la storia con la lingua e la lingua con la storia. La lingua è condizionata dalla storia, è un pezzo della storia: teniamoceli stretti, i nostri dialetti, perché sono la storia dell’Italia, un paese ricco di storia e di cultura come nessun altro al mondo, anche se politicamente contiamo poco. Ma si vive anche di memorie. Ora, il dialetto, ovvero la lingua, si spiega con la storia. E con la storia, e precisamente con la natura mecantile della Repubblica genovese, ci spieghiamo l’uso molto precoce del dialetto invece del latino in atti pubblici sia interni alla repubblica sia in atti di vera e propria politica internazionale (Coveri 1992, in Bruni, p. 70): addirittura nel Trecento nei confronti del re di Cipro (c. 1320), dei Grimaldi di Monaco (1349–50), del re d’Ungheria (1352), dell’ammiraglio di Turchia (1358), del Gran Chan dei Tartari (1380–81) etc. (Migliorini–Folena 1952, pp. 12, 4, 63). Se si pensa che la Repubblica durò fino al 1797, con la breve reviviscenza della repubblica democratica giacobina che durò due anni (1797–99: Coveri p. 88), sono quasi cinque secoli in cui i genovesi usarono il dialetto addirittura come lingua diplomatica. E come ce lo spieghiamo? Con la necessità di chiarezza di una società mercantile che doveva capire bene quello che firmava: anche l’estrema semplificazione dell’inglese i linguisti la spiegano così, come della lingua di un popolo di mercanti che hanno bisogno di uno strumento di comunicazione semplice e chiaro. La grande vitalità ufficiale del dialetto durò a Genova, con alterne vicende, fino all’unità d’Italia, e cioè fino al 1861. Dopo la Repubblica giacobina della fine del ‘700, Genova fu annessa alla Francia nel 1805 e poi al Regno di Sardegna, cioè al Piemonte, nel 1815. È interessante ricordare che nei tribunali il dialetto fu usato fino al 1805 (Coveri 1992, p. 443). La vitalità del dialetto come mezzo di comunicazione è oggi limitata ad alcuni strati delle classi popolari e alla alta borghesia e alla nobiltà, e in queste
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due classi l’uso del dialetto è vessillo di conservazione e di attaccamento alle tradizioni. Situaz. attuale: ...[4] (Coveri 1974 p. 95 , 1974a)
Letteratura dialettale (Coveri 1992) Martin Piaggio +1843, Giambattista (Giobatta) Vigo (1844–1891: poeta proletario) e Nicolò Bacigalupo (seconda metà dell’800: poeta borghese, poeta di una città in trasformazione urbanistica e sociale: l’esposizione universale del 1883 e la fondazione del partirto socialista creano a Genova la vocazione di una città industriale e operaia; la piccola borghesia de scagnu “distoglie gli occhi dalla città dei vivi per erigere il proprio monumento autocelebrativo con la città dei morti, la necropoli di Staglieno” (Coveri 1992, p. 450); nel Sciô Niculin Bacigalupo, alla fine dell’ ‘800, esprime la sua nostalgia per un ordine sociale perduto per sempre). Fra il 1868 e il 1883 fioriscono a Genova dei giornali dialettali, i “Giurnali pe cianze e pe rie” (confrontabile, per il passato, soltanto la stampa giacobina napoletana, cioè durante la rivoluzione francese): Frou–Frou, di buon livello; poi ce ne furono altri pettegoli e scandalistici, che non durarono molto: O Cittadin, 1871; O Sciu Reginna e o Sciu Tocca, 1872; O Castigsamatti, 1885: O Zeneize, O Ficcanasu etc. furono travolti da un processo del 1883 con
|| [4 L’appunto bibliografico seguente indica che Rossi, a questo punto, aveva intenzione di leggere parte di una pagina di uno scritto di Còveri 1974, illustrativa della situazione del dialetto genovese in quel periodo (pagina che in effetti si trova acclusa alla versione a stampa della conferenza ritrovata nello studio di Rossi, con segno di evidenziazione sui versi di Gismondi): “la coscienza di classe può mescolarsi ad altre motivazioni (l’orgoglio di appartenere ad un gruppo specializzato – i lavoratori del settore portuale, per esernpio –; in qualche caso, la diffidenza verso gli immigrati). Di fatto, tali ipotesi non sono, per il momento verificabili, se non per via di indizi. Si veda la testimonianza (riferibile alla situazione dei primi anni Cinquanta, ma in gran parte tuttora valida) del poeta dialettale Alfredo Gismondi: ... Ma i Zeneixi? E chi l’è chi parla ancon / zeneise in casa con i sò figgiêu? / pêu dase ancon i nobili nostrae. / Ma vallo a dâ da intende ai bûtteghae, / ciassë e sciognoëte da giornä d’anchêu! / senti però che bello menestron: / Figgia: / «Mamma, mi son trovata una päura! / c’erano dei camalli che si davano: / e che pugni, belandio, si cioccavano! / pareva quando giocano alla mura ... (da Pöveo Zeneize! e Pöveo Italian!). E poco sopra aveva accennato alla presenza degli immigrati (tanfae de calabreise e siciliàn / che ti t’attasti scinna se ti gh’ë). Il quadro è completo e i goffi tentativi di approdare all’italiano da parte di piccoli commercianti, popolane e «signorinette del giorno d’oggi» sono oggetti di una feroce parodia. Il senso dell’orgoglio municipale ferito, che sovrintendeva alla polemica antitoscana del Foglietta e del Cavalli, si accompagna qui a nuovi risentimenti, secondo la norma che chi abbandona uno strumento linguistico, e dimostra di voler uscire dalla comunità che di quello strumento si serve, suscita innanzi tutto la reazione del gruppo respinto.”]
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l’accusa di estorsione nei confronti di alcuni esponenti dell’amministrazione cittadina.
Letteratura italiana dei liguri Mi limito al Novecento e ai contemporanei ancora viventi: Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale, Carlo Bo, Giorgio Caproni, Italo Calvino, Edoardo Sanguineti. Genova e Liguria dei letterati (Coveri–Surdich): Giorgio Caproni, non ligure ma gran cantore di Genova; Camillo Sbarbaro; Eugenio Montale. Due linguisti liguri illustri: Giacomo Devoto, Alfredo Schiaffini. – L’orgoglio del dialetto. La campagna antidialettale. Il senso d’inferiorità del dialetto in alcune regioni d’Italia, ma non – credo – in Liguria.
[Bibliografia] Ascoli I. G., “Arch.Glott.Ital.” 2, 1876, 111–160 [Beniscelli, A. – Coletti, V. – Còveri L., La Liguria, in: F. Bruni (a cura di), L’italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionale, Torino (UTET) 1992, 45–83 (il contributo di Còveri inizia a p. 64)] Canepari L., Italiano standard e pronuncie regionali. Con due audiocassette, Padova (CLEUP) 1986, 3a ed. Casaccia G., Dizionario genovese–italiano, II ed., Genova 1876 [Còveri, L., Lingua, dialetto e società. Appunti sulla situazione idiomatica genovese, in «Resine. Quaderni liguri di cultura», gennaio–marzo 1974, 93–99] (... i molti estratti mandatimi 11.94)5 [Còveri L., Per una dialettologia urbana: progetto di ricerche sociolingustiche nella città di Genova, in Dal dialetto alla lingua: atti del IX Convegno per gli Studi Dialettali Italiani (Lecce, 28 settembre–1 ottobre 1972), Pisa (Pacini) 1974a, 87–95] [Còveri L., Presenza del dialetto nella Genova d’oggi, in Dialetti Liguri. Atti del Convegno su storia e vita dei dialetti liguri, Genova (Sagep) 1974b, 95–108]
|| [5 Rossi da Roma, il 27.9.1994, aveva inviato una lettera all’indirizzo privato di Genova di Lorenzo Còveri (ordinario di Linguistica italiana in varie Università e infine nell’Università di Genova, esperto di dialettologia ligure), manifestandogli la sua esigenza di documentarsi il meglio possibile in vista della conferenza (ancorché divulgativa) che avrebbe dovuto tenere di lì a due mesi, e richiedendo a Còveri vari suoi lavori che aveva trovato citati in altri studi; Còveri rispose inviando vari suoi estratti nel novembre 1994, in tempo per la conferenza. La lettera a Còveri e i materiali ricevuti da Rossi sono ancora conservati nel suo studio di Via Aventina nel dossier della conferenza sul dialetto genovese, insieme ad altro materiale (una versione a stampa della conferenza, il programa 1994/95 della Congregazione della Chiesa dei Genovesi, il biglietto d’invito alla conferenza di Rossi, etc.]
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[Còveri L., Un Casaccia fiammingo, in «A Compagna» a. VII, n.s. 1, gennaio–febbraio 1976a, 3 s.] [Còveri L., Cento anni di vocabolari dialettali in Liguria, in «A Compagna» a. VII, n.s. 4/5, luglio–ottobre 1976b, 1–3] [Còveri, L. – Olivieri, R., Dimmi come parli. La Liguria dei dialetti, in «La mia terra. Per cominciare a conoscere la Liguria» (supplemento 20/21 del quotidiano Il Secolo XIX), Genova, Il Secolo XIX, 1982a, 77–88] [Còveri, L. – Surdich, L., Montale & Co. La Liguria delle lettere, in «La mia terra. Per cominciare a conoscere la Liguria» » (supplemento 45 del quotidiano Il Secolo XIX), Genova, Il Secolo XIX, 1982b, 177–180] Còveri L., Mussolini e il dialetto. Notizie sulla campagna antidialettale del fascismo (1932), in: Aa.Vv., Parlare fascista. Lingua del fascismo, politica linguistica del fascismo, “Movimento operaio e socialista” n.s. 7, 1984, 117–32 Còveri L., Per un’indagine sui ligurismi nell’italiano: fonti e metodologia di ricerca, “Quaderni dell’Atlante lessicale toscano” 4, 1986, 147–56 [Còveri L., La carta dei dialetti della regione, «Le pietre & il mare. Rivista delle province liguri», a. IV, n. 1, gennaio–marzo 1991, 31–34] [Còveri L., Il dialetto e la letteratura dialettale nel secondo Ottocento, in AA.VV., La letteratura ligure. L’Ottocento, Genova (Costa & Nolan) 1992, 443–461] [Còveri L., La Liguria nell’Italia linguistica oggi, in Dialetto, lingua viva. Convegno organizzato dalla Consulta Ligure delle Associazioni per la cultura, le arti, le tradizioni e la difesa dell'ambiente (Genova, 26 maggio 1991), Genova (Consulta Ligure) 1993, 33–46] [Devoto G., L’Italia dialettale, in I dialetti dell’Italia mediana con particolare riguardo alla regione umbra. Atti del V Convegno di Studi Umbri, Gubbio, 28 maggio – 1 giugno 1967, Perugia (Fondazione “Centro italiano di studi sull’alto Medioevo”) 1970, 93–127] [Devoto G. – Giacomelli G., I dialetti delle regioni d’Italia, Firenze (Sansoni) 1972 (19915), 10–19 (Liguria)] [Forner, W., Italienisch: Areallinguistik I. Ligurien, in G. Holtus – M. Metzeltin – Ch. Schmitt (Hrsg.), Lexicon der Romanistischen Linguistik, B. IV, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1988, 453–469] Frisoni G., Dizionario moderno genovese–italiano e italiano–genovese, Genova 1910 Mauri P., La Liguria, in: Letteratura italiana. A cura di A.Asor–Rosa, Storia e geografia. Vol. III, L’età contemporanea, Torino (Einaudi) 1989, 339–84 Mengaldo P.V., Dante [de] vulg.[ari] el.[oquentia], [in Dante Alighieri, Opere minori 2, a cura di P. V. Mengaldo, Milano,] (Ricciardi) [1979] [Migliorini B. – Folena G., Testi non toscani del Trecento, Modena (Società tipografica modenese) 1952] Parodi E. G., Studi liguri, “Arch.Glottol.Ital.” 14, 1898, 1–110; 15, 1899, 1–82 Raffaelli S., Le parole proibite. Purismo di stato e regolamentazione della pubblicità in Italia (1812–1945), Bologna (Il Mulino) 1983 Rohlfs G., Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. I–II, Torino (Einaudi) 1966, 1969 Serianni L., Storia della lingua italiana. Il primo Ottocento: dall’età giacobina all’Unità, Bologna (Il Mulino) 1989 Serianni L., Storia della lingua italiana. Il secondo Ottocento: dall’Unità alla prima guerra mondiale, Bologna (Il Mulino) 1990 Toso F., Letteratura genovese e ligure, I–VI, Genova (Marietti) 1989–91
Riflessioni conclusive Poche volte, come nel corso di questo convegno e soprattutto alla fine di esso, mi sono trovato a interrogarmi con assoluta urgenza sul significato del nostro e del mio lavoro. Cerco qui di formulare il frutto di alcune riflessioni che sono forse in parte mie, ma che debbono la loro esistenza all’incontro, appunto, intertestuale con le relazioni degli oratori. La ragione dell’urgenza sta nel fatto che questo convegno ha proposto, come tema centrale e anzi unico, l’intertestualità, quello che spesso era ancora ritenuto solo uno dei procedimenti delle letterature greca e latina e quindi uno dei filoni e dei metodi d’indagine della nostra attività filologica e critico–letteraria. Oggi, dopo la maturazione di questi ultimi decenni favorita anche dai contributi della linguistica, ci siamo chiariti non solo e non tanto che si tratta di un procedimento di tutte le letterature, ma soprattutto che è il procedimento tipico dell’attività letteraria in sé, che in esso è racchiuso quello che dobbiamo definire lo specifico letterario. Chi scrive letteratura usa una lingua letteraria che si è venuta costruendo attraverso i secoli di una specifica cultura, e ‘lingua’ significa in questo caso tutte le istituzioni di cui un codice è fatto, e cioè il lessico, il livello di lingua, lo stile, il metro, il genere letterario. Le culture possono essere più d’una, nel senso dell’assimilazione: inutile ricordare la Graecia capta per i romani, e ovvia è anche la lignée poesia – poesia latina – Petrarca – lirica europea moderna. Tutto questo non può non comportare un rapporto continuo e ‘necessario’, per usare l’efficace aggettivo usato da Maria Grazia Bonanno nel titolo del suo libro del 1990, con tutti i testi precedenti: l’‘allusione necessaria’ è lo spazio metaforico in cui vive la connotazione letteraria. Il rapporto di un testo con i testi che lo circondano si realizza in una prospettiva cronologica che va dal passato di quel testo (paradigmaticità recepita al passivo, per così dire: gli antichi come modello) al presente di quel testo (sintagmaticità del sistema letterario contemporaneo) e finalmente al futuro di quello stesso testo (paradigmaticità agita all’attivo). Quest’ultimo viene comunemente rubricato come fortuna di un testo, e quindi riguarderebbe soltanto i testi che lo seguono: ma è esperienza comune, anche se non sempre teorizzata, che le reazioni degli epigoni aiutano sempre a scoprire nuove valenze dei testi anteriori: «La luce di un testo la possono accendere soltanto altri testi», come ha || [Relazione conclusiva di convegno (Cagliari S 26.11.1994); pubblicata in V. Citti (ed.), Intertestualità: il dialogo fra testi nelle letterature classiche. Atti del Convegno internazionale, Cagliari 24–26 novembre 1994, «Lexis» 13, 1995, pp. 275–281]
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Riflessioni conclusive, in Intertestualità: il dialogo fra testi | 539
detto Miralles. Abbiamo capito che l’intertestualità è un corto circuito fra testi che va seguito anche nei suoi aspetti retroattivi, e quindi da Virgilio a Omero, per capirci, oltre che da Omero a Virgilio. Virgilio ci fa capire meglio Omero, ce ne fa scoprire valenze che non avremmo viste. In altre parole, vedo le opere di Virgilio rispetto a Omero come una sorta di meta–letteratura quasi sempre implicita e qualche volta esplicita, che diventa poi anche critica letteraria e storia letteraria. Ora, il rapporto fra testi è lo specifico letterario, come dicevo, perché il codice di un’opera è la lingua letteraria come si è venuta formando, come si sta formando e come si formerà. Il codice letterario si sovrappone al codice linguistico e lo ingloba, come anche la connotazione ingloba in sé la denotazione, modificandola con valenze nuove. La comunicazione letteraria vive del suo codice, che è costituito dalle opere di letteratura, tutte quelle che un ambiente culturale è in grado di raggiungere e di fare proprie, di metabolizzare. Questo convegno ci ha proposto in modo definitivo la pervasività totale dell’intertestualità. ‘Ditelo con i testi’, deve essere il nostro motto. Langue poetica e parole poetica. Ci si può trovare di fronte a una generica appartenenza al codice, e allora l’intertestualità è totale nel senso che in un testo agiscono tutti i testi di un determinato istituto letterario (il genere epico: il poema epico come architesto), la langue. Ma il rapporto fra testi può restringersi, può privilegiare una determinata parole, e allora l’intertestualità si intensifica, si concentra: e allora nasce l’allusione, il richiamo preciso, la citazione, la monogamia testuale. Non è il caso di entrare qui nello spinoso problema di definire che cosa intendiamo per ‘testo’: diamolo per empiricamente chiaro. Dirò solo che darei meno importanza di quanta ne ha data Edmunds alla distinzione fra testo scritto e testo orale, e certo non parlerei di intertestualità cominciando solo dall’inizio della pratica della scrittura. Questa visione è influenzata troppo dal nostro atteggiamento di fronte alla parola, che per due millenni è stato un rapporto con la parola scritta: il rapporto dei greci dell’età arcaica, cultura orale/aurale, era con la parola parlata e agita, addirittura indipendentemente dal fatto che un testo fosse stato fissato con la scrittura o no, com’è il caso del dramma, che era scritto ma volitava nelle acustiche dei teatri e riviveva quotidianamente nella memoria dei cittadini, i quali godevano a sentirsela ripetere sulle scene e a riconoscerla. Fra il Telefo di Euripide (438 a. C.) e gli Acarnesi di Aristofane (425) passano tredici anni, il che ci fa capire che la memoria verbale e scenico– tematica dei greci era molto superiore alla nostra proprio per il fatto di trovarsi confrontata con una cultura aurale. La mancanza di un rapporto quotidiano con la scrittura portava a una pratica continua della memoria, a una manutenzione
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della memoria, del tutto paragonabile alla prassi odierna di canticchiare La donna è mobile: e, se questo continuava ad esser vero nel V secolo, ancora più vero era stato all’epoca dell’epos arcaico composto oralmente. Edmunds ci ha prospettato solo rapporti fra testi orali e testi scritti e viceversa. Ma vediamo chiaramente che esistono rapporti intertestuali non solo fra Omero e la poesia dell’età lirica (da orale a scritto, ma pur sempre aurale), bensì anche all’interno di Omero stesso (da orale a orale). Senza contare i caratteristici e istruttivi rapporti fra testo e testo nella pratica simposiale del riuso e della metapoiesis. Ed è qui che dobbiamo chiederci: che cosa abbiamo fatto finora, specialmente noi antichisti che lavoriamo su un materiale così intensamente intertestuale? Gli antichi avevano per la tradizione una venerazione che mi piace definire quasi maniacale. Se, alla fine di queste due dense giornate, dovessimo scoprire che nel passato non abbiamo praticato l’intertestualità, ci sentiremmo colpiti da una tremenda crisi d’identità, da un attacco di schizofrenia acuta. Dovremmo dirci «Non so più cosa son, cosa faccio» e dovremmo esclamare, all’opposto di Monsieur Jourdain, «Je n’ai jamais fait de la prose!» In realtà, l’abbiamo sempre praticata, ma forse oggi abbiamo capito che l’intertestualità È tutto. Il pericolo sarebbe quello di praticarla solo episodicamente, come del resto avevano fatto gli antichi, definendola con il campo semantico di mimesis / zélos e di imitatio / aemulatio, termini che presi alla lettera ci appaiano restrittivi, ma che nella sostanza contengono i concetti fondamentali dell’istituzione letteraria: modello e competizione. Possiamo scaricare sugli antichi solo la responsabilità per l’essere stati noi spesso episodici, perché abbiamo su di loro solo il merito di aver creato un sistema teorico più raffinato, di essere dei super– scoliasti. Episodica in questo senso è stata l’intertestualità dei filologi positivisti, verso i quali dobbiamo però riconoscere di avere debiti ingenti: hanno raccolto molto materiale, hanno segnalato molti contatti fra i testi, anche se usando il confer come segno diacritico indiscriminato. G.B. Conte ha definito molti anni fa questo procedere come ‘conferrismo’. Di confer ne troviamo a iosa negli apparati delle nostre edizioni critiche e dobbiamo riconoscere che sono in realtà materiali preziosi, ma così come ce li ha offerti la filologia positivistica, e cioè indiscriminatamente e tutti sullo stesso piano, sono soltanto materiali da elaborare: dobbiamo ogni volta saggiarne la pertinenza e la rilevanza, ordinandoli in una graduatoria assiologica che ce ne mostri la funzione precisa. L’intertestualità può essere infatti anche una trappola, quando non si sia in grado di dimostrare che il contatto è storicamente possibile o probabile, e cioè ‘necessario’ nel senso oggettivo di cui si parlava prima e non solo necessario soggettivamente all’esegeta che vada in cerca di accoppiamenti acrobatici. Salvo poi alle volte mettere del tutto da parte casi di rilevanza a grado zero, come parole e nessi di
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langue comune (e anche di langue poetica comune), che non provano affatto il contatto diretto fra testi, e tanto meno il corto circuito. Sembra una regola ovvia: ma non è poi sempre praticata. Quanto al livello di coscienza del rapporto intertestuale, è un problema che non mi pongo, e dirò perché. Se si tratta di codice linguistico in generale, e cioè di langue, ho appena sottinteso che l’atto linguistico è al di sotto del livello di coscienza, né è il caso di entrare qui nei complessi problemi di psicologia linguistica (Piaget, per evocare un nome). Se invece si tratta di rapporto di parole, penso che sia in condizioni normali impossibile accertare il grado di coscienza, di volontà, di Kunstwollen che sottostà a un accostamento intertestuale. Impossibile, mi pare, è la biografia della memoria profonda individuale, ma è anche inutile: anche se un ideale biografo che stesse accanto a Teocrito mi comunicasse che quel determinato accostamento era in lui non cosciente, lo metterei ugualmente fra quelli da registrare. Per una valutazione letteraria ci interessa l’opera che ci sta di fronte, non l’autore. Per chiudere queste poche note, ho due belle citazioni da offrire, due bons mots che ho scoperti di recente. Senza essere riuscito a scoprirne la paternità1, ho trovato una formulazione: «Tutto quello che non è tradizione è plagio». Non sono sicuro di che cosa intendesse la persona geniale che l’ha creata, tanto più che sono costretto a vederla fuori dal suo contesto, ma ci sento tante valenze, tutte importanti, e posso tentare di offrire almeno una delle esegesi possibili. Un atto di comunicazione che si situi all’interno del codice linguistico comune è plagio nel senso che prende dal codice linguistico parole e nessi con senso denotativo e basta, lasciandole tali e quali; mentre, se si situa all’interno di una tradizione letteraria, la comunicazione diventa creativa in quanto fa vibrare in sé quella tradizione e l’atto, in quanto creatore, è imitatio ma non è plagio perché è innovatore. Si potrebbe proporre una traduzione paradossale: «Solo chi imita è originale», dove ‘imitare’ porta con sé la banalità che consente in super-
|| 1 È – penso – di ambiente iberico (Rafael Alberti?), avendolo io trovato in contesto spagnolo: «Todo lo que no es tradición es plagio». Sarei grato a chi ne scoprisse la paternità. [Rossi lo citerà anche nell’Introduzione della Letteratura greca del 1995 (Firenze, Le Monnier, p. 9, vd. la riedizione del 2002 a p. 598 di questo volume), e anche in seguito (vd. p. 107 in questo volume), sempre dichiarando di non conoscerne l’autore. Si tratta in realtà di un aforisma di Eugenio d’Ors (1881–1954); la versione completa, in catalano, è «Fora de la Tradició, cap veritable originalitat. Tot lo que no és Tradició, és plagi» («Glosari. Aforística de Xènius», XIV, La Veu de Catalunya, 31–X–1911), mentre la versione in castigliano recita: «Clasicismo. Sólo hay originalidad verdadera cuando se está dentro de una tradición. Todo lo que no es tradición es plagio» (1911, «Primeros lemas», XVII, Gnómica, 1941) – G. C.]
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ficie l’efficace paradosso, ma si riscatta con il senso di mimesis = imitatio di cui si parlava prima. L’altro bon mot è di Borges, ed è degno di lui2. In un’intervista gli fu chiesto che cosa pensasse di un detto di Gérard de Nerval: «Il primo che operò la similitudine della donna con una rosa era un poeta, il secondo un imbecille». Un poeta così profondamente romantico, in effetti, non poteva che rifiutare programmaticamente il classicismo. E Borges rispose secco, suscitando una risata nell’uditorio: «Il terzo è un classico». Voleva certo dire non solo che un poeta vive all’interno della tradizione, ma anche – se vogliamo dare senso pregnante alla sua battuta – che chi vive nella tradizione è un poeta. Quelli che qui seguono sono solo i miei appunti presi dalle relazioni, esposti nell’ordine in cui le relazioni stesse sono state tenute. Edmunds ci ha richiamati alla storia della parola, che è della Kristeva (1966), e alle formulazioni teoriche di quelli a cui la Kristeva stessa si riferiva, come Ph. Sollers. Tutto appare quindi molto recente, ma non ci ha dato la preistoria del procedimento critico, che – come dicevo – è invece assai lunga, databile fin dal mondo antico. Ci ha fornito una lista di varie problematiche dell’intertestualità, come tipologia, funzione, livello (parole e nessi versus genere), aspetti metapoetici (espliciti), intenzionalità; ci ha proposto varie definizioni di testo, lasciando capire la sua simpatia per quelli non tradizionali, ma in sostanza operando principalmente (come senza danno facciamo quasi tutti noi) con quella tradizionale che è storica e storicistica. La Bonanno ha il merito non solo di averci dato ulteriori precisazioni teoriche e la loro storia, ma anche di averci restituito una buona coscienza filologica: l’esplorazione della opacità di ogni testo è proprio compito del filologo, o, come lei ha detto, del «lettore–filologo», che si serve di strumenti antichi per risultati alle volte sorprendentemente nuovi, frutto anche – vorrei aggiungere – di quella buona coscienza oggi ritrovata. La sua lettura raffina le precedenti letture di Callimaco fatte su Omero, ma scopre anche nuove valenze in Omero stesso, guidata dalle alchimie di Callimaco. Il testo proiettato nel futuro, il testo infinito di Barthes: vorrei prendere un’immagine dal nostro laboratorio storico– letterario, quella del ciclo epico, e parlare del ciclo perenne dei testi. Barchiesi ci ha presentato alcuni epici romani còlti nel loro divincolarsi, esplicitamente dichiarato e vittorioso, fra le reti dei loro architesti e testi, comportandosi da veri Protei che sanno resistere ai lacci e che si offrono, ben coscienti, all’applauso. Fra le sue mantisse di riflessione mi ha colpito il coraggio, || 2 L’ho citato nella mia Letteratura greca, Firenze 1995, 9. L’ho ricavato dal periodico Vuelta, 117, 1986, 31. Sono grato a Lucio Ceccarelli per avermelo segnalato.
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ovvero l’eliminazione del troppo consueto pudore, con cui ha proposto la necessità del giudizio di valore di un testo (la cultura e l’abilità di un autore, per dirla in modo semplice)3. Perché i nostri pudori? – mi chiedo: forse (e rispondo per me) come reazione all’estetica crociana dell’interiezione «quanto è bello!». Leggendo molti anni fa l’Aegritudo Perdicae, prodotto di ambiente draconziano del V sec. d.C., mi colpì quanto risultasse difficile praticarvi la critica testuale a causa delle modeste qualità dell’autore, del quale è a volte impresa disperata identificare le intenzioni: correggendo o integrando testi del genere, la coerenza si rischia di crearla, non di restaurarla, tradendo il nostro mestiere. L’interiezione viene più facile al negativo: «quanto è brutto!». Siamo al confine con i centonari, veri facchini dell’intertestualità. Noi abbiamo bisogno di operare – insomma – con opere belle: e Barchiesi ci mostra, in una veloce retrospettiva storica, che abbiamo progressivamente allungato il canone delle opere belle. A D’Ippolito siamo grati per un panorama storico dei metodi e degli studi che informa esaustivamente sulla ricca area italiana, comprendente sia classicisti sia italianisti e critici letterari, e lui stesso vi ha contribuito con vari lavori. Ha ulteriormente riflettuto su implicazioni teoriche e su strumenti di lavoro. Utili alcune formulazioni, come la vecchia Quellenforschung come ‘fase statica’ e la successiva ‘fase dinamica’ che confluiscono nell’attuale fase più matura. La parte esemplificativa tocca testi come Omero, Mimnermo, Virgilio, Sinesio, Nonno e i Vangeli, su cui mette alla prova i suoi strumenti e la sua terminologia (alle volte forse troppo frantumata, ma è solo un mio parere). Molto interessanti sono le sue considerazioni, basate su precise formule, sulla mancanza di una consapevolezza di genere autonomo nel caso del romanzo, che veniva sentito come una propaggine della storiografia. Rösler ci ha guidati, con l’escrologia, in un intreccio di rapporti fra giambo arcaico, tragedia e commedia, impostando una contestualità rituale che era quella delle feste delle Tesmoforie. Come fa da tempo, parte dai testi e ci apre delle prospettive sul più ampio contesto culturale in cui nascono. Si può ben parlare qui di una strategia ormai da molti anni predicata e praticata da G.B. Conte, la ‘sociologia delle forme’.
|| 3 Ne ho parlato, ad altro proposito, nella relazione Letteratura di filologi e filologia di letterati nel convegno Poeti e filologi, filologi–poeti tenuto a Brescia il 26–27 aprile 1995 per l’Università Cattolica di Milano [pubblicata poi in A. Porro – G. Milanese (edd.), Poeti e filologi, filologi– poeti: composizione e studio della poesia epica e lirica nel mondo greco e romano. Atti del congresso Brescia, Università Cattolica, 26–27 aprile 1995, «Aevum(ant)» 8, 1995, Milano, Vita e Pensiero, 1995, pp. 9–32].
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Judet de La Combe ha affermato, giustamente, che «un testo è l’indice di un altro»: vorrei solo dire che è ‘un lessico di tutti gli altri’, dove, nel nostro uso, ‘lessico’ spiega le parole, mentre ‘indice’ ne sarebbe solo l’elenco. Ci guida attraverso un percorso esegetico che è obbligato: le difficoltà del testo di Eschilo si risolvono soltanto con un appropriato riferimento a Omero, al quale il tragediografo si rifà per affermare sia la propria prossimità sia la propria distanza rispetto all’epos passando attraverso la lirica: Eschilo assimila in tragedia la forma dell’elogio lirico e la sostanza del dolore epico, e cioè Eschilo come ‘allegoria’ di Omero. Mi piace ricordare qui il Los–von–Homeros di G. Björck4, e cioè il progressivo allontanarsi da Omero di tutti i testi che lo seguono. Kuch ha presentato la panoramica di un tema narrativo molto popolare, quello della battaglia di Salamina, offrendoci una falsariga su cui potremo meglio impostare proposte di rapporti fra testi. Pretagostini ci ha fatto vedere più le differenze che le somiglianze, queste ultime da sempre notate, nel primo episodio di una lunga catena intertestuale, quello dell’investitura poetica in Esiodo e in Callimaco. L’investitura è episodio reale in Esiodo, ma sogno in Callimaco, per tendenza realistico–razionalistica; le muse dettano al primo, mentre il secondo pone domande e ottiene risposte, in omaggio a una poetica che si propone come più piena d’iniziativa, innovatrice. Due dettagli che non sono né casuali né insignificanti, e che, una volta individuati, sono in perfetto accordo con la nuova cultura. Il poeta alessandrino è sorvegliato, quasi ossessionato dalla volontà di funzionalizzare tutto: sta a noi scoprire le sue sottili strategie. Zimmermann ha scoperto l’ideologia letteraria di Longo Sofista nell’opposizione a Platone, con la quale viene promossa l’arte a scapito della natura; e nell’opposizione a Tucidide, con la quale viene promosso il racconto fantastico a scapito dell’evento storico, e il riferimento è esplicito perché anche il suo romanzo viene da lui chiamato ktêma. Il romanzo riflette su se stesso e si crea uno statuto tutto suo, non rinunciando a riferirsi alle antiche autorità e ai loro testi, sia pure per capovolgerle. Flores ci conduce con la guida dei nostri strumenti filologici (linguistica, histoire du mot, critica testuale, storia delle religioni) in un rifrangersi dei testi da Omero a Livio Andronico a Gellio e in direzione opposta, non senza conseguenze storico–esegetiche sullo status dell’epica romana arcaica. I rapporti intertestuali consentono ovviamente di fare anche storia: e sono storia, perché sono letteratura.
|| 4 G. Björck, Das Alpha impurum und die tragische Kunstsprache, Uppsala 1950, 217 e pass.
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Perutelli ci ha presentato prima un Orfeo agli Inferi virgiliano, patetico (come da poetica virgiliana) e sintetico (come da poetica dell’epillio vicino alle sue origini: epica in scorcio); e poi un Orfeo agli Inferi ovidiano, razionalista secondo il nuovo atteggiamento ovidiano e narrativamente più diffuso, più epico nel senso della grande narrazione epica che non lascia vuoti e che esige che vengano riempiti i vuoti lasciati dall’epillio virgiliano (fu H. Fränkel che ci prospettò tanti anni fa il ‘pieno’ narrativo dell’epica arcaica). Abbiamo visto come il rapporto intertestuale sia continuamente sottolineato da Ovidio con riferimenti alle volte quasi del tutto espliciti e alle volte con la volontà ostentata di fare diversamente dal modello. Miralles ci offre un tour de force col quale affronta i maledettamente oscuri coliambi di Persio. Anche qui vengono mobilitate le armi della filologia, diciamo, più tecnica: critica testuale (lambunt/ambiunt), esegesi delle parole, criteri compositivi (posizione dei coliambi all’inizio o alla fine). Miralles non si dispiacerà se dico che il testo da lui affrontato non è di quelli che metteremmo nel canone dei belli, secondo quanto dicevamo prima: anzi, questo non fa che aumentare il nostro debito verso di lui per il fatto di aver cercato di chiarirlo almeno in parte. Guerrini ci ha offerto un’altra delle sue prestazioni iconologiche, nelle quali è ormai uno specialista, illustrando i modi di un’epoca, come il Rinascimento, fervidamente impegnata a una intertestualità che travalica i confini fra codice letterario e codice figurativo. Alle origini delle stilizzazioni iconologiche troviamo sempre, con la sua guida, dei testi: ed è un procedere dal testo all’immagine per un pubblico che non legge ancora e che preferisce vedere (ce lo ricorda Auerbach) piuttosto che ascoltare. Per di più la figura si alimenta alla parola di generi e di epoche diverse: Virgilio, Properzio, Lattanzio. Questo convegno ha trasformato materia tradizionale di studio in un plesso incandescente di nuove idee e di nuove esigenze. Vorrei dar voce a una di queste esigenze. Si è parlato in prevalenza di rapporti fra testi letterari. Ma una cultura vive in una continua diffrazione e rifrazione reciproca di testi letterari e di testi figurativi: questo è molto vero oggi, specie dal momento in cui è nato il cinema, a cui si è poi affiancata la televisione con una grammatica figurativa ancora in tumultuosa formazione; ma è stato vero sempre, sia nel mondo antico sia nei lunghi secoli della grande arte figurativa europea. La relazione di Guerrini è stata esemplare in questo senso. Rivolgersi sistematicamente ai rapporti fra letteratura e arte figurativa, nell’ambito del nostro mondo antico, comporta il riconoscimento della avvenuta traduzione reciproca dei due codici in termini dell’altro: il poeta che traduce in parole il monumento artistico e l’artista che traduce in immagini il testo letterario. È intertestualità anche questa, che passa
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attraverso l’adattamento di codici diversi. Pensando ad alta voce, o currenti calamo, mi viene di ricordare «la presa di Troia secondo Stesicoro» dell’iscrizione sulla Tabula Iliaca Capitolina con tutti i problemi intertestuali che il rapporto fra Stesicoro e l’artista figurativo rappresenta. Non che questi problemi stesicorei non siano stati trattati, tutt’altro: forse l’esempio mi è venuto in mente proprio per la ricchezza di bibliografia recente, fra l’altro anche italiana. Si tratterebbe solo di formalizzare motivazioni e procedimenti: da una parte, per esempio, motivazioni politiche (la presenza centrale di Enea nella Tabula) e dall’altra i procedimenti narrativi dell’arte figurativa (soprattutto quelli dei grandi cicli dei templi) confrontati con quelli della parola. Si tratterebbe solo di coordinare sempre più e sempre meglio i risultati del lavoro degli archeologici e dei filologi5. Concludo con la formulazione di un ulteriore desideratum. A continuazione di quanto si è detto in questo convegno, sarebbe molto utile che si provvedesse a un affinamento ulteriore dei nostri strumenti d’indagine: l’appetito viene mangiando, come si dice. L’intertestualità è tutto, ma è pur vero che è un tutto assai articolato. Sarebbe bene che si riflettesse in grande e in dettaglio su quelli che sono per noi oggi gli istituti dell’intertestualità (allusione, citazione, parafrasi, traduzione, riuso, metapoiesis, parodia, satira etc.) e sulle funzioni di questi istituti, partendo sempre da casi particolari con valore esemplare. Ma altrettanto se non addirittura più utile (e mi riferisco a quanto dicevo sopra) sarebbe una storia della sensibilità al fatto intertestuale e della valutazione che se ne è data via via fin dall’antichità e fino ai giorni nostri, sfruttando la nostra competenza nel mondo greco e romano e facendo fare assaggi nell’immenso campo delle letterature moderne e della critica letteraria modernistica. Sistema e storia, dunque, o storia e sistema: il chiasmo è necessario, per non dare precedenze a un’indagine piuttosto che a un’altra, dovendosi marciare sempre su doppio binario. Tutto questo è semplicemente un invito a non interrompere quella riflessione che qui abbiamo intensamente praticata e che è necessario periodicamente rinnovare.
Un nuovo vocabolario di greco Voglio cominciare con un paradosso, ma dico subito che è solo apparente. Al ginnasio e al liceo capivo con grande fatica i testi greci, perché di traduzioni italiane ce n’erano poche (e di queste molte erano brutte) e d’altra parte, come ci veniva giustamente prescritto di fare, dovevamo tenerci lontani dai famigerati traduttori interlineari, che a me tra l’altro non piacevano affatto, pieni di errori com’erano e per di più sbagliati nella stessa concezione, che era quella (ingenua) che si potesse rendere verbum de verbo. L’aiuto veniva dai commenti scolastici, che spesso offrivano la traduzione di un passo dopo l’altro e altrettanto spesso niente di più. Fu solo dopo, all’università, che mi venne voglia di capire se il greco fosse possibile “leggerlo” e non “tradurlo”, come si diceva in gergo scolastico, ahimé giustamente, ma tanto valeva che invece di “tradurre” si dicesse “indovinare”, perché a scuola la fatica del vocabolario era improba: le parole avevano tanti significati, e quale diavolo era quello giusto, adatto al passo che si stava leggendo? Il vocabolario, poi, il vecchio e glorioso Rocci, era stampato male, era pieno di errori anch’esso, ma soprattutto non era chiaro tipograficamente: bisognava fare una fatica improba per capire come era strutturato il lemma. Ne è annunciata, tra parentesi, un’edizione completamente rinnovata[*], che ridarà vernice a questo strumento a cui debbo, e molti con me, la mia onesta carriera scolastica: potrà così continuare a svolgere la sua collaudata funzione nella scuola, sia pure a un livello inferiore a quello del vocabolario, appena uscito, di cui parlerò qui oltre.
|| [Recensione di F. Montanari, Vocabolario della lingua greca, con la collaborazione di I. Garofalo e D. Manetti, Torino, Loescher, 1995; recitata (la prima parte) da Rossi a lezione (Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma) G 30.11.1995, in occasione di una visita di Franco Montanari che avrebbe parlato nel pomeriggio al seminario romano; pubblicata su «Lettera dall’Italia» 40, ott.–dic. 1995, pp. 64–65, con alcuni minimi tagli (qui ripristinati tra parentesi quadre in base al testo trovato nel pc di Rossi); il titolo originario era Il greco, una lingua antica e tenace (poi cambiato dalla redazione)] [* Il Vocabolario greco–italiano di Lorenzo Rocci (Roma, Dante Alighieri, 1939), in quel periodo, era sottoposto da qualche anno ad aggiornamento e revisione da parte di un gruppo di grecisti romani sotto la direzione di L. M. Segoloni ed E. Tagliaferro (molti di coloro che lavoravano al progetto erano allievi di Rossi); il ‘nuovo Rocci’, però, sarebbe uscito solo molti anni dopo, e ad opera di diversi curatori (L. Rocci, Vocabolario greco–italiano, Nuova edizione, Roma, Dante Alighieri, 2011). – G. C.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-057
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Fu un grande momento quando – ripeto, solo all’università – arrivai a formulare un’idea pazza, ma vera e fondamentale: il vocabolario serve per tradurre, ma non per leggere e, siccome la cosa importante è leggere, il vocabolario non serve . Come feci a verificare questa intuizione, che mi parve e mi pare ancora geniale? (E geniale era, come tutte le cose nate da disperazione pura). Fu semplice: amavo perdutamente Platone, di cui avevo letto alcuni dialoghi in sparse traduzioni italiane e gran parte degli altri nella traduzione francese di Léon Robin pubblicata nella “Pléiade” (Allora non c’erano ancora le tante traduzioni di autori antichi con testo a fronte che ci sono oggi). Mi dissi che dovevo assolutamente accostarmi al greco di Platone, ma che quel greco andava letto e non tradotto, perché mettersi col lessico sul tavolo a decifrare un testo così splendido sarebbe stata quanto meno una profanazione. Quando possedevo abbastanza bene in traduzione un dialogo dei più belli (Simposio, Fedone, Apologia di Socrate ), prendevo contatto timidamente con il testo greco e mi meravigliavo di quanto fosse quello che ero in grado di capire. Certo, c’erano qua e là nella pagina delle parole di cui non sapevo ancora il significato, ma coglievo più o meno il senso della frase, visto che avevo ancora fresca in mente la traduzione. Questa fu la mia prima lettura. Nella seconda alcune parole che la prima volta non capivo mi venivano incontro chiare per virtù del contesto; e a quelle che continuavo a non capire mettevo una crocetta a matita sul margine e, ma solo a dialogo finito, prendevo finalmente il Rocci. Dopo questo procedere, che durò alcuni mesi, possedevo un buon lessico mio personale ed ero in grado di affrontare le ulteriori letture, sia di Platone sia di altri autori, con una competenza linguistica sempre crescente, arrivando a distinguere non solo i vari significati, ma anche a giudicare del perché in tanti casi veniva usata una parola invece del suo apparente sinonimo. Non starò a dire con quanta gioia mi sentii affrancato da quello che chiamerò ora il “cattivo uso del vocabolario”, capace com’ero finalmente di leggere, ricco di una competenza in una lingua che mi era apparsa fino allora affascinante ma diabolicamente difficile. Avevo rotto il ghiaccio e avevo capito non che il lessico non serve, ma che serve al momento giusto e nel modo giusto. Certo, di strada ne avrei avuta ancora molta da fare, e ne ho ancora molta, perché il greco non è una lingua sola, ma nel corso di 3.400 anni (tanti ne corrono dai primi documenti micenei al bizantino e poi al neogreco di oggi) possiamo contarne qualche decina. Ma è una lingua tenace, che ha conservato dei venerandi monumenti lessicali: la parola ‘grano, frumento’ è rimasta immutata nel corso dei millenni: me–re–u–ro in miceneo, áleuron in greco antico, alevrì in neogreco.
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Dell’appena apparso Vocabolario della lingua greca (GI, per ‘greco–italiano’), curato con grande competenza e intelligenza da Franco Montanari per la Loescher di Torino (con la collaborazione di Ivan Garofalo e Daniela Manetti; fondato su un progetto di Nino Marinone, 1995, pp. IV – 2.298), è già un piacere leggere le due pagine della Prefazione. Il curatore, che è un esperto della filologia e della scuola degli antichi, ci racconta che già per il V sec. a.C. abbiamo testimonianza di scolaretti che leggevano l’Iliade e l’Odissea e la traducevano nella loro lingua attuale, risalendo la lingua epica ad almeno tre secoli prima di loro ed essendo quindi piena di parole per loro desuete e difficili. Segue una storia succinta ma esauriente della lessicografia greca moderna e una esposizione dei criteri seguiti, che non potrebbero essere più sani, ma li risparmio qui al lettore, perché dovrei entrare in dettagli che interessano solo i filologi. Il lavoro è stato davvero enorme e possiamo dare atto a Montanari di aver compiuto “un atto di coraggio” e non “di incoscienza”, come lui si esprime concludendo le sue pagine introduttive. La novità maggiore, o meglio la più appariscente, di questo vocabolario è la strutturazione dei singoli lemmi, che lo rende molto facilmente utilizzabile anche nei lemmi molto lunghi. Il lemma ágo (valore più frequente ‘conduco’) comporta più di 200 righe di 4,6 centimetri ciascuna in caratteri piccoli (ma chiari), e questo potrebbe spaventare: ma niente paura, perché le 28 righe iniziali, evidenziate su fondo grigio, presentano un vero e proprio sintetico indice dell’intero lemma, che è poi sviluppato nel dettaglio con altrettanta chiarezza tipografica. Il greco è stato sempre ricco di metafore per la sfera sessuale ed è purtroppo questa l’unica delle tante ricchezze che viene citata dai divulgatori come motivo di interesse per il greco. Ma quante altre ragioni [di interesse] ci sono! Io non so niente di medicina, ma, quando mi parlano di una diagnosi con una parola strologante, faccio un figurone perché so di che si tratta. Le parole greche nelle lingue moderne sono tante (un amico greco tanti anni fa costruì una pagina in italiano tutta di parole prese dal greco): “metodo”, “tecnica”, “cinema”. E i nomi propri? Prendiamo Teodòro [(‘dono di Dio’)]: noi lo diciamo con l’accento latino, sulla penultima, ma a Venezia, che è sempre stata a contatto col mondo greco da secoli, la forma è Tódaro, con l’accento greco. La nostalgia per gli studi classici è viva, oggi, sia in chi ha fatto il liceo classico sia in chi ha fatto altri studi: me lo sento ripetere con diversa intonazione di voce da gente della più diversa estrazione e istruzione. Una verifica di questo fatto la abbiamo davanti agli occhi tutti noi che insegniamo nelle università italiane: il numero degli studenti universitari di greco aumenta ogni anno dappertutto. Sembra che chi ha studiato il mondo antico sia più bravo in informati-
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ca rispetto addirittura a chi si dà alle scienze, ed è naturale: l’elasticità mentale di chi ha una cultura storica è superiore a quella di chi si esercita nelle palestre, [per esempio], della sola matematica. Pare che i nostri parlamenti e i nostri governi non si siano resi conto di quello che appare tanto chiaro al volgo. Il disinteresse della classe politica nei confronti della scuola è tenace, impera un rifiuto, caparbio e riottoso, della consapevolezza che la scuola è il primo investimento di un paese moderno. Se si avrà finalmente, a cinquant’anni dalla nascita della Repubblica, un serio atto di contrizione e un serio cambiamento di rotta, segnaleremo di nuovo ai giovani, reclutati oggi in strati sociali sempre più vasti, degli strumenti per avvicinarsi direttamente alle fonti che parlano le lingue della nostra storia, senza costringere i malinconici nostalgici a passare attraverso una divulgazione, di stampa e televisiva, che è spesso cialtronescamente improvvisata.
Com’è fatto Quello che anzitutto colpisce, del Vocabolario della lingua greca della Loescher, è la grande chiarezza e leggibilità, dovuta, nonostante i caratteri [siano] piuttosto piccoli, alla disposizione su tre colonne che consente di avere una riga più breve e più dominabile dall’occhio. I passi sono o solo citati o anche tradotti (molto bene, tra l’altro) e sono scelti con particolare cura: accanto ad alcuni con una ineliminabile efficacia esemplare, non sono trascurati altri la cui presenza si giustifica con il loro valore letterario e storico–culturale, fornendosi così una specie di “chi l’ha detto” nascosto o implicito. Se il fruitore non va di fretta e dedica un po’ di tempo al lemma, troverà passi come il famoso incipit della Metafisica di Aristotele (sotto il lemma orégo al medio): pántes ánthropoi toû eidénai orégontai physei, che è tradotto “tutti gli uomini mirano naturalmente al sapere”. Grande attenzione è dedicata all’Antico e specialmente al Nuovo Testamento, fatto raro perché questi testi non rientrano nel canone di quelli normalmente letti a scuola: ma bisogna assumere una prospettiva che nel canone li faccia entrare, per la loro enorme importanza sia culturale (tutta la nostra cultura ne è permeata) sia linguistica (ci offrono una preziosa testimonianza del greco parlato dell’epoca). Una parola già in sé ricca di significati come lógos ha qui una documentazione abbondante, sotto 1 d, con passi citati e con passi anche tradotti, dandosi i suoi valori ebraico–cristiano e teologico. Quanti sono (ancora!) quelli che ricordano l’incipit del vangelo di S. Giovanni «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio ...»? [Sono passi con cui cristiani e non cristiani devono
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fare i conti. Le traduzioni date sono abbondanti e perfino eleganti nella loro puntualità ed essenzialità.] Molto utile è la copiosità di nomi propri, che risolveranno i dubbi sulla loro ortografia. Altrettanto utili sono le forme non indicative di ausilio come per es. heîlon aoristo di hairéo, “prendere” (ed è piccola disavventura che lo spirito sia dato come dolce, eîlon: gli errori appaiono essere assai pochi): ma ci saranno professori troppo vecchio stile che protesteranno contro questo (così innocente) ausilio. Finché la scuola non si svecchierà, strumenti così onestamente raffinati rischieranno di essere o rifiutati o sottoutilizzati.
Sui Greci, oggi 1. Quali greci, oggi, abbiamo nella scuola italiana? Abbiamo i greci che ci hanno lasciato in eredità varie correnti di pensiero e pedagogiche: il classicismo umanistico, e cioè idealizzante; il cristianesimo, che insieme con tante cose belle ci ha anche trasmesso un codice etico che non era quello dei greci – per es. la sessuofobia; il romanticismo, con una sua visione profondamente scorretta ma almeno entusiastica; Nietzsche, con la sua imposizione della dicotomia fra apollineo e dionisiaco, mentre Dodds[1] ci ha insegnato a vedere l’uno e l’altro e a capire soprattutto uno dei due, il dionisismo con i suoi eccessi, che era stato imboscato sempre, a cominciare dai greci stessi con la loro religione olimpica della polis, che negava tutta la religione arcaica, profondamente crudele; i regimi totalitari occidentali, il fascismo e il nazismo, che si sono disinvoltamente serviti sia del mondo greco sia di quello romano. Non a ognuna di queste correnti di pensiero (che sarebbe più giusto chiamare ideologie) corrisponde un progetto pedagogico distinto: quello che ha dominato fino al nostro ieri immediato è un progetto di pura stampa umanistica, che privilegia i testi letterari (a discapito dell’archeologia, della cultura materiale, dell’epigrafia, della letteratura cosiddetta bassa, etc.) e per di più con un metodo grammaticale normativo che rende tutto profondamente noioso. 2. Canone rassicurante: equilibrio, armonia, classicità (ma v. fascismo e nazismo). Nonostante Nietsche, l’aspetto scuro e dionisiaco viene ignorato. E non si tratta soltanto della religione arcaica, ma anche delle infinite crudeltà della cultura greca proprio nell’epoca che per noi è quella del bello, e cioè l’Atene del V sec. a.C. Pensiamo solo alla guerra del Peloponneso, che vide dispiegarsi tutta la gamma della cattiveria umana (Melo[2] etc.). Le Troiane di Euripide[3].
|| [Traccia scritta per l’intervista di S 4.5.1996 per il programma radiofonico “Palomar. Pensieri sulla scrittura, sulla lettura e sulla poesia” di Radio RAI (alcune parti erano da supplire in modo estemporaneo, e infatti una nota finale precisa che poi il testo è stato “accresciuto un po’ nella conversazione telefonica”). — Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 E. R. Dodds, The Greeks and the Irrational, Berkeley, University of California Press, 1951.] [2 Si allude all’atto di imperialismo gratuito con cui gli Ateniesi nel 416 a. C. conquistarono l’isola cicladica di Melo, trucidandone tutti gli uomini e deportando donne e bambini come schiavi (Thuc. 5. 84–116). L’appunto era da sviluppare oralmente.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-058
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3. Che cosa ci serve oggi della grecità? . Prima di tutto ci serve capirla, poi potremo utilizzarla. Utilizzarla: parola brutta, perché la storia è lì per essere conosciuta e per illuminarci, non per essere usata, se no ricadiamo nell’errore dell’umanesimo. Restiamo nell’ambito della letteratura: il concetto di unità dell’opera letteraria[4]. 4. Lo studio del greco, nonostante le spinte antiaristocratiche (necessità di leggere il nostro paesaggio, tutta la nostra cultura). Il greco va studiato per capire il nostro mondo culturale e anche per capire il nostro paesaggio. I meridionali, in questo, sono privilegiati, perché sono costretti a capire il paesaggio che hanno intorno: l’esperienza di Crotone[5]. (accresciuto un po’ nella conversazione telefonica)
|| [3 Rossi doveva sviluppare oralmente anche questo punto, precisando che le Troiane, rappresentate ad Atene nel 415 a. C., sono una tragedia antimilitarista di Euripide, con evidente allusione (e critica) ai fatti di Melo di pochi mesi prima che avevano turbato le coscienze ateniesi: con riferimento al mito di Troia infatti, veniva messa in scena la stessa situazione di Melo (una conquista con uccisione di tutti gli uomini e deportazione di donne e bambini come schiavi).] [4 Anche questo punto era da sviluppare nel corso dell’intervista con un breve discorso improvvisato, con idee sulle quali Rossi rifletteva proprio in quel periodo: G 16.5.1996 al suo seminario romano (Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza”) avrebbe infatti parlato delle Opere e giorni di Esiodo affrontando appunto la questione dell’unità dell’opera letteraria per gli antichi e per noi (relazione poi pubblicata come Esiodo, Le opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi, in F. Montanari – S. Pittaluga [edd.], Posthomerica I. Tradizioni omeriche dall’Antichità al Rinascimento, Genova, Facoltà di Lettere, 1997, pp. 7–22); la stessa questione sarebbe stata poi affrontata in modo più ampio qualche anno dopo con un intervento in convegno a Pisa (pubblicato come L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi, in G. Arrighetti [ed.], Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica. Atti del Convegno Pisa, 7–9 giugno 1999, con la collaborazione di M. Tulli, Pisa, Giardini Editori, 2000, pp. 17–29.] [5 Rossi qualche tempo prima aveva presentato la sua Letteratura greca (1995) al Liceo “Pitagora” di Crotone su invito del docente Pasquale Attianese, il quale conduceva scavi archeologici nel Crotoniate in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica della Calabria.]
Filologia classica e informatica Qui di seguito espongo, in forma di appunti solo parzialmente ordinati, alcune possibilità che conosco e che vorrei universalmente applicate e alcuni desiderata che non so se siano stati già realizzati o se lo saranno in un prossimo futuro. È inevitabile che, proponendo formalizzazioni — diciamo — tradizionali, la cui esigenza è nata in epoca pre–informatica, io mi ponga da ignorante di fronte alla possibilità di una reale applicazione informatica: in questi appunti, in altre parole, parlerò di alcuni procedimenti della filologia e porrò ai competenti delle domande e qualche volta delle richieste, partendo dai miei interessi, che sono quelli di filologo e di storico letterario nel campo del mondo greco antico. Spero che questo porti a un dibattito utile e ai filologi e agli informatici, i quali ultimi ci chiedono di utilizzare i grandi mezzi che hanno e che desiderano mettere a nostra disposizione. Quanto dico qui di seguito è stato discusso ampiamente con l’amico Tito Orlandi, che ringrazio per avermi invitato qui a parlare. Questo non significa che io esponga idee comuni e soprattutto che io abbia capito tutto quello che lui sa proporre con la sua scienza di filologo e di informatico insieme. Tengo a dire che non avrei saputo né pensare né formulare tanti problemi senza la sua benvenuta caparbietà informatica. Vorrei parlare di vari argomenti, che prospetto in forma lemmatica: 1) conservazione e archiviazione del patrimonio: un problema di descrizione, premessa per una prima interpretazione; 2) lettura dei testi; 3) lavoro filologico sui testi (constitutio textus e indices verborum); 4) integrazioni non verbali al testo verbale. Farò infine un accenno al problema dell’informazione circa le iniziative di lavoro informatico che pullulano nel mondo. Insisterò molto sulla visualizzazione, che è uno degli aspetti che ha maggior richiamo per noi profani. Ma, quando non sia espressa, è sempre sottintesa l’esigenza primaria di che cosa visualizzare: e qui interviene la possibilità, che l’informatica ci offre, di una formalizzazione assai più vasta e dettagliata di quanto sia mai stata realizzata in passato.
|| [Relazione tenuta all’Accademia dei Lincei L 28.2.1994, ore 16; pubblicata in T. Orlandi (ed.), Discipline umanistiche e informatica. Il problema della formalizzazione (Ciclo di seminari, febbraio–giugno 1994), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1997, pp. 173–180]
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1. Conservazione e archiviazione: descrizione La conservazione e l’archiviazione rispondono a un’esigenza di descrizione1. Tipo di scrittura, foratura, tipo e sistema di rigatura, interlinea, proporzione fra testo e margine, decorazione, identificazione delle mani etc. Va sfatata l’illusione che un testo consista nella semplice «sequenza di lettere alfabetiche», come giustamente dice Tito Orlandi. Ora, qui è fortissima la funzione del computer come protesi dei sensi, perché può aiutarci nel reperimento di caratteristiche del supporto materiale e alla loro messa in codice. È chiaro che l’informatica potrà rivelarci delle caratteristiche singolari del materiale che ci erano sfuggite e che, per di più, sarebbe stato molto difficile catalogare con metodi tradizionali: starà a noi decidere preventivamente se ritenerle rilevanti o no e se, quindi, formalizzarle. Nel dubbio, sarà bene recepirne in gran numero per una utilità che potrebbe rivelarsi in futuro. Ricordo il detto di un compilatore di indices verborum di molti decenni fa: ogni lavoro di indicizzazione è inizialmente imprevedibile nelle sue applicazioni. D’altra parte, l’informatica ha spalle forti e può reggere il compito di recepire e tesaurizzare molti materiali e molti criteri per selezionarli, alcuni dei quali possono essere messi in quiescenza in attesa di una futura utilizzazione. La descrizione del materiale manoscritto dovrebbe essere non solo sincronica, ma anche diacronica, nel senso che di ogni caratteristica del manufatto librario dovrebbe darci anche la profondità cronologica, che si potrà mettere in memoria e visualizzare. In questo caso funzionerebbe anche come protesi della memoria. Possiamo chiamarla una descrizione dinamica. Penso a una pagina di codice presentata al video, per esempio, con espedienti di diversità di colori. Questi procedimenti permetterebbero di conservare assai più comodamente (e cioè sinotticamente) le caratteristiche del manufatto di quanto sia oggi possibile mettendo insieme in un lungo ‘polisindeto’ i vari contributi degli studiosi sul manufatto stesso: il polisindeto sarebbe, per me, l’apparato critico, con tutto quello che da esso oggi ricaviamo per la descrizione dei singoli codici, ma in più va considerato tutto quello che nell’apparato non trova luogo (la configurazione generale del manoscritto, di cui si è parlato sopra: argomento della codicologia). È ovvio, poi, che la collazione diretta da parte degli studiosi risulterà enormemente facilitata attraverso il progressivo espandersi di Internet. In vista di queste e altre possibilità l’informatica risulta essere una rivoluzione assai più rilevante di quanto sia stata l’invenzione della scrittura e, poi, || 1 Segnalo A. Petrucci, La descrizione del manoscritto. Modelli e problemi, Roma 1984.
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l’invenzione della stampa. La stampa ha consentito una più facile trasmissione e una più abbondante diffusione dei testi. Oggi l’elettronica (a parte la ulteriormente accresciuta diffusione e la velocità della stessa stampa) può consentire, sul piano della conservazione e dell’analisi del materiale, quella descrizione simultaneamente sincronica e diacronica del manufatto librario che non sarebbe possibile con alcuno dei mezzi finora a disposizione. La fotografia appare oggi, in confronto, un mezzo molto povero di descrizione, perché non va molto oltre la copiatura a mano o la stampa: del resto la stampa è stata spesso per molto tempo, almeno fino alla fine del Settecento, la riproduzione di un singolo codice nella forma di una specie di fotografia primitiva, il che ha portato per esempio a una quantità enorme di segni grafici che dovevano riprodurre non solo i singoli segni alfabetici, ma anche le legature fra segni e le abbreviazioni nelle scritture tachigrafiche. Oggi possiamo mettere in memoria ben di più, come materiale: e possiamo anche aggiungere le nostre esegesi del materiale stesso.
2. Lettura La macchina funziona come una gigantesca lente d’ingrandimento di tipo particolare: l’immagine digitalizzata può essere scomposta in modo da amplificare e selezionare varie caratteristiche (ductus, inchiostri etc.). Ma è anche in grado di presentare delle ipotesi di lettura di segni deboli, di valutazione di spazi vuoti, tutto sulla base di una avanzata formalizzazione dei caratteri, che potrebbe essere affiancata in un prossimo futuro da programmi che riconoscano i caratteri con sempre maggior dettaglio. Sarà possibile collegare il microscopio elettronico al personal computer?
3. Lavoro filologico sui testi 3.1. Gli indices verborum Lo sfruttamento nel lavoro filologico dell’informatica è stato fino ad oggi piuttosto modesto: e una delle ragioni sta nella diffidenza di chi ammoniva, e ancora giustamente ammonisce, a non chiedere alle macchine o tutto o troppo, ma c’è anche il rischio di chiedere troppo poco. Finora abbiamo quasi soltanto numerosi indices verborum di singoli testi o di interi corpora inseriti in memorie di massa. Sono così enormemente facilitate le indagini di presenza e di frequenza.
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Sono diventate quasi istantanee le indagini lessicali, di stile e anche quelle che vengono chiamate più propriamente stilometriche, come quelle fatte a suo tempo su Platone da Lutoslawski e quelle più recenti di Dover sull’oratoria e sulla retorica (da lui peraltro esplicitamente condotte con metodo tradizionale). Quello che fino a poco tempo fa non si poteva sperare è la visualizzazione dei contesti: vedere in varie sinossi i lemmi nel loro contesto è vantaggio non da poco. In greco, poi, questo è di grande importanza, oltre che in generale per l’ordo verborum, anche per la quanto mai necessaria contestualizzazione delle particelle. Tutto questo avviene su testi più o meno convenzionalmente considerati come costituiti. Il miglioramento dei corpora avviene con la continua sostituzione di testi migliori, com’è attualmente per il Thesaurus linguae Graecae nelle sue successive edizioni.
3.2. La constitutio textus Ma resta il problema perenne della constitutio textus: qui credo che si sia fatto poco con l’informatica, per la diffidenza, del resto sacrosanta, di cui parlavo prima. Si tratta semplicemente di chiedere alla macchina solo quello che può dare. È chiaro che, in ultima analisi, la vera unità primaria è la singola lezione. Siamo in molti a credere che l’informatica possa rendere più agevole la collazione automatica binaria o multipla dei singoli codici: il computer segnala dove divergono le varie lezioni. E il computer ci può offrire — penso — delle possibilità nuove di visualizzazione sinottica di dati non solo verbali, ma anche quelli di cui sopra ai §§ 1 e 2, che possono aiutare a valutare i dati verbali: un segno, anche letto bene, può essere polivalente a seconda delle scritture, come i nessi di più lettere e le tachigrafie. Naturalmente, la collazione, aiutata dal computer, va preparata attraverso l’attenta lettura dei testimoni: ora, da chi far leggere il testimone? Dal computer o dall’occhio umano? Per arrivare a farlo leggere al computer occorrerebbe istruirlo a riconoscere tutti i grafemi, e le loro varianti, delle scritture librarie, il che allo stato attuale non è ancora prestazione possibile. Una volta ottenuta una rilevazione analitica quanto mai accurata, occorre raccogliere i frutti della collazione e rilevare le divergenze tra i singoli portatori della tradizione. Sulla base di questa rilevazione, il materiale va affidato allo iudicium umano, che dovrà valutare le singole unità testuali: in altre parole, l’intervento umano resterà sempre insostituibile, ma si realizzerà su un materiale più agevolmente e velocemente ordinato di quanto non avvenga finora, e quindi con grande economia di lavoro individuale.
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Un’esigenza primaria del lavoro filologico sui testi è quella di individuare la tipologia degli errori: grafici (a seconda delle varie scritture), auditivi (e qui entra la linguistica con la fonetica e con la valutazione dei vari tipi di pronuncia locale), psicologici in senso ampio (in cui rientrano varie tipologie: salto dal medesimo al medesimo, omoteleuto, omeoarchon, errore polare, fraintendimenti di parole originati da stati psicologici o da situazioni culturali etc.). L’informatica potrà aiutarci qui a indicizzare e a classificare. Potrà aiutarci anche — ma solo aiutarci — nel delicato problema di come comportarci quando si presentino dilemmi a noi tutti familiari come ‘normalizzare o non normalizzare’ (in fatti di morfologia, di dialetto, di lessico etc.).
3.3. L’impaginazione della poesia Mi pongo una domanda, ancora: quanto è possibile che l’apparato critico, oggi a pié di pagina, venga sostituito con visualizzazioni differenziate all’interno del testo? Ne verrebbe facilitata la riproduzione dell’organizzazione grafica originaria della pagina del testimone, e cioè nel papiro, nel codice e perfino nell’edizione a stampa di un autore moderno: penso alla giustezza della pagina, alle fini di rigo, all’interlinea etc. Questo è un fattore che ha grande importanza per esempio nella poesia, e va riprodotto (nella fase della conservazione) dai manoscritti per poi elaborarlo (nella fase dell’edizione) in un testo moderno attendibile, che deve presentare una interpretazione metrica (verso, colon) moderna, nostra, ma dovrebbe anche segnalare la impaginazione originaria dei versi lirici. Non molto è stato fatto dai filologi in questo senso, finora. È raro che si pensi che la colometria non solo dei papiri, ma anche quella dei codici medievali ha la sua importanza: è pur sempre uno dei fattori con cui si può e si deve stabilire uno stemma (concordanza o discordanza nella colometria), anche se lo si deve usare con più parsimoniosa prudenza, perché alle volte il copista va a capo per ragioni di momentanea e del tutto occasionale opportunità di impaginazione.
3.4. L’impaginazione della prosa Anche per la prosa il problema non è trascurabile: anche il testo prosastico va conservato nella sua impaginazione allo scopo di studiare i portatori della tradizione (e qui entriamo nella codicologia). Ma si può poi presentare un’esigenza esattamente contraria: il testo in sé, nella fase editoriale, può essere liberato da quella che si può vedere come la schiavitù dell’impaginazione, specie quando si
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tratti di testi prosastici che erano destinati alla pubblicazione orale, alla recitazione, come una buona parte dell’oratoria: lì andrebbero evidenziati per es. i cola sintattici e i cola ritmici2, alle volte evidenziati originariamente da segni diacritici. Per dirla con uno slogan: «il testo liberato dalla pagina». Il testo va liberato dalla materialità del suo supporto grafico, ma non per un esercizio sterile, bensì allo scopo preciso di un sempre maggiore rispetto per il testo stesso e per la sua funzione originaria. Un testo originariamente destinato a fruizione aurale è svincolato dalla schiavitù dell’impaginazione.
3.5. La presentazione dinamica del testo È chiaro che non solo il testo, ma anche la constitutio textus deve considerarsi come un’operazione continuamente in fieri. Nessun filologo serio può dire di aver costituito un testo definitivo di un autore, anche se si tratta di un autore moderno. Ora, il mezzo elettronico potrebbe evidenziare, più di qualunque altro espediente grafico della stampa, quali sono quegli elementi del testo che sono visti dall’editore come più chiaramente provvisori di altri. Il successivo editore potrà concentrare la sua attenzione su quegli elementi per riflettere sulla possibilità di fare progressi e potrà trovare altri elementi che per lui si rivelino come provvisori. Non tanto il testo come ‘opera aperta’, quanto, più precisamente, il testo come ‘testo aperto’ e la sua presentazione come presentazione dinamica. Prima (§ 1) si parlava di presentazione dinamica del testimone: qui si parla di un’operazione analoga per il testo stesso.
3.6. L’indicizzazione metrica Vent’anni fa3, sapendo di informatica ancora meno del poco che ne so oggi, avevo proposto una formalizzazione delle varie problematiche metriche: allora pensavo a un indice delle varie forme di colon e di verso, ottenuto attraverso la messa in memoria dei vari paradigmi. Ovviamente, occorre che il filologo stabi|| 2 Fra i pochi esempi di analisi di questo tipo, condotti con strumenti tradizionali, vanno citati alcuni classici lavori di Ed. Fraenkel: Kolon und Satz II, «Gött. gel. Nachr.» 1933, 319–354 = Kleine Beiträge zur klassischen Philologie, Roma 1964, 93–130; Noch einmal Kolon und Satz, «Sitzungsber. Bayer. Akad.». Philos.–hist. Kl. 1965, Heft 2; Leseproben aus den Reden Ciceros und Catos, Roma 1965. 3 «Verskunst», in Der kleine Pauly, vol.V, coll. 1210–18 (precisam. col. 1217.4–10). Mi permetterò qui di seguito di citare alcuni lavori miei.
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lisca in partenza quello che va messo in memoria, in altre parole l’indice nasce da idee precise sulla interpretazione da dare alle singole sequenze (versi coriambici, dattilo–epitriti etc.). Ma oggi penso anche alla messa in memoria di lunghe sequenze, la cui colizzazione è ancora dibattuta, volta a scoprire le eventuali ripetizioni di cellule ritmiche: il materiale così disposto potrebbe avviare nuove interpretazioni. Il problema preventivo è poi quello della interpretazione prosodica: dove si deve o si può o non si può avere, per esempio, correptio attica? Questo compito potrà essere molto facilitato dalla manipolazione finalizzata del materiale verbale dei testi compresi nel Thesaurus linguae Graecae.
4. Che cos’è un testo? Andrebbe ora posta la grande domanda: «che cos’è un testo?» La risposta a questa domanda è data in genere dai critici della letteratura, ed è varia: la più elementare, a datare da Aristotele, è che il testo è un enunciato o una serie di enunciati. Per il critico del testo la risposta tradizionale è semplice e del tutto pragmatica: testo è quel tessuto verbale (secondo il valore della parola textus, su cui v. Quintiliano 9.4.13) che di volta in volta il filologo si propone di costituire in una forma il più vicina possibile alla sua origine. Il passaggio a una visione più ampia del concetto di testo, come il «testo aperto» di cui parlavo al § 3.5, dovrà essere graduale e bisognerà adattarsi a realtà testuali molto varie.
4.1. Testo scritto e testo orale Nella fase della documentazione e dell’edizione moderna di un testo antico scompare la distinzione fra testo orale e testo scritto, perché il testo orale viene normalmente affrontato dal filologo nella sua redazione scritta: ma la distinzione resta ed è importante, perché molti testi della letteratura greca erano stati in origine orali e poi sono vissuti in tradizione orale e sono stati pubblicati auralmente. Può darsi che con l’informatica i testi orali si possano affrontare a prescindere dalla loro redazione scritta, perché in realtà tutti i testi (e non solo quelli orali) esistono prima della scrittura.
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4.2. Le varie fasi della storia di un testo Piuttosto, essendo il testo (orale o scritto) qualcosa che diviene, che esiste in fieri, il problema sarà quello di definire quale fase della storia di un testo si voglia considerare, e quindi prima di tutto interpretare e poi pubblicare. Un esempio: dei lirici greci arcaici per lo più possiamo arrivare a ricostruire, e quindi a pubblicare, solo l’edizione alessandrina, restando le fasi anteriori al III sec. a.C. a noi ignote o poco note o note solo in alcune poche unità testuali (per es. morfemi dialettali, lessico etc.). Pubblicare l’edizione alessandrina di un testo arcaico non è, del resto, un ripiego privo di valore storico: è pubblicare un testo nel momento in cui viene considerato come fisso in senso librario, mentre le fasi anteriori erano variamente ‘aperte’, come nel caso di Omero. Il computer può certamente aiutarci a visualizzare, formalizzandoli e selezionandoli, questi vari strati di informazione storica4.
4.3. Non un testo, ma più testi Sempre più, poi, si fa strada la consapevolezza metodica che spesso ci troviamo non di fronte a un testo, ma a più testi. È il caso, riconosciuto sempre più di frequente, non di testimoni singoli di un’opera singola, bensì di redazioni di un filone di genere: basterà qui segnalare la problematica dei lessici antichi, che non si possono ricondurre a una unità testuale originaria, presentando essi caratteristiche comuni ma anche una individualità propria. Qui il lavoro di collazione, tradizionale in testi unitari, è più delicato e certamente il computer ci può aiutare.
|| 4 Per lo status del testo omerico segnalo alcuni miei lavori recenti: L’ideologia dell’oralità fino a Platone, in: Lo spazio letterario della Grecia antica, Roma 1992, pp. 77–106 (precisam. 104 s.); L’epica greca fra oralità e scrittura, in: Reges et proelia. Orizzonti e atteggiamenti dell’epica antica. Incontri del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Pavia, Como 1994, pp. 29–43 (precisam. 35 s.).
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5. Integrazioni non verbali al testo verbale Quello dei fattori non verbali è un problema che mi sono posto, vista la natura dei testi che mi trovo quotidianamente a trattare5. Non so fino a che punto si possa ipotizzare l’evidenziazione visiva di quelli che vengono chiamati in linguistica i fattori sovrasegmentali, e cioè l’intonazione, le pause, e in più l’eventuale gestualità: fattori che sono particolarmente importanti per una letteratura come quella greca che vive per secoli, fino all’Ellenismo in gran parte compreso, in una cultura prima esclusivamente orale e poi prevalentemente aurale, e cioè legata alla pubblicazione e alla fruizione orale (§ 4). Anche opere concepite con la scrittura venivano poi pubblicate e fruite oralmente. Questo sarebbe di importanza primaria nella letteratura drammatica e nell’oratoria. I fattori sovrasegmentali sono fattori linguistici, ma sono notoriamente, per le loro varietà locali e individuali, difficili da chiudere in un codice ben definito: ma non dovrebbe essere difficile elaborare un codice con una ridotta quantità di segni, molto superiore comunque ai pochi segni diacritici che possediamo oggi, come interrogativo, esclamativo, puntini di sospensione etc. Quello che mi aspetto dall’informatica è il reperimento di espedienti di codificazione e di evidenziazione che siano più efficaci degli attuali semplici segni diacritici, sia pure moltiplicati. Tutto questo deriverebbe però da un lavorio di esegesi affidato inizialmente all’intervento umano, in parte già realizzato dai filologi e in continuo accrescimento, ma che ha ancora il difetto di non essere sufficientemente formalizzato e di non poter essere incorporato nel testo come tale.
6. L’informazione e il coordinamento: necessità di un codice etico C’è infine — non possiamo tacerlo — il problema dell’informazione e del coordinamento delle iniziative, che va affrontato allo scopo di non fare lavori inutili, perché risulterebbero doppioni di lavori già fatti, e di poter profittare di nuovi programmi e di nuove tecnologie (forme nuove di scanning con fibre ottiche etc.). Sappiamo che informazione e coordinamento in questo campo sono stati finora difficili da ottenere, e in realtà oggi c’è molto da sperare nelle reti telematiche. Ma ci sono state, e ci potranno essere, anche varie cause non tecniche: per
|| 5 Livelli di lingua, gestualità, rapporti di spazio e situazione drammatica sulla scena antica, in: Scena e spettacolo nell’antichità. Atti del Convegno (Trento, 28–30 marzo 1988), Firenze 1989, pp. 63–78.
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esempio, la gelosia per alcuni ritrovati tecnologici. A questo scopo sarebbe necessaria l’elaborazione e l’osservanza di una specie di codice etico scientifico, che dovrebbe portare a pubblicare progetti e risultati ottenuti in sedi di massima diffusione. Si tratterebbe soltanto di estendere al veloce progresso scientifico e tecnologico un codice etico che vige, ed è largamente rispettato, negli studi condotti con metodi tradizionali.
Editoriale La nostra rivista, come vuol suggerire il suo titolo, nasce da un’esperienza di seminari, che è ormai più che trentennale. Quando, nel lontano 1965, cominciò l’insegnamento di uno di noi all’Università di Roma, che allora non aveva ancora ripreso il suo antico nome di “La Sapienza”[*], si verificò una felice coincidenza: la rinnovata frequentazione di Roma da parte di Eduard Fraenkel, che fino al 1969 vi tenne i suoi seminari, preceduti sempre da alcuni mesi di esercitazioni propedeutiche1. L’uso di tenere seminari è poi continuato a “La Sapienza” fino ad oggi, e i «Seminari Romani di cultura greca» («SemRom») vogliono dar voce a quell’attività, che recentemente si è integrata e arricchita con seminari e incontri di studio organizzati presso gli insegnamenti di greco dell’Università di Roma “Tor Vergata”: il coordinamento fra le due sedi è già stato sperimentato con successo. Fra quelli che hanno contribuito in anni antichi e recenti a tante vivaci discussioni molti si sono affermati sia nell’università sia nella scuola e alcuni hanno cooperato oggi, a diverso titolo, alla nascita della rivista. Pensiamo che questa iniziativa si distingua da altre del genere per la scelta di costituire a suo nucleo le relazioni presentate, appunto, ai nostri seminari, che si sono rivelati sia un’occasione di dialogo fra studiosi di riconosciuta esperienza sia una palestra preziosa per i più giovani. La collaborazione fra due sedi universitarie di una stessa città — nel nostro caso Roma, meta di frequenti visite di studiosi italiani e stranieri — favorirà un più intenso scambio culturale. Naturalmente la rivista si alimenterà anche degli articoli che ci verranno inviati. Data la rispettiva specificità della cultura greca e di quella latina, ci è sembrato opportuno focalizzare l’interesse soltanto su quella greca, riservando comunque uno spazio ai contributi che colgono i rapporti fra le due culture. La rivista privilegerà contributi storico–letterari e filologici, senza però rinunciare a quelli relativi alle altre discipline del nostro campo di studi. Il materiale sarà strutturato in vari occhielli, riconducibili a due categorie: quella dei generi, largamente intesi, e quella delle discipline.
|| [Editoriale del primo numero della rivista «Seminari Romani di cultura greca» (Quasar editore) fondata nel 1998 e condiretta da Luigi Enrico Rossi, Maria Grazia Bonanno e Roberto Pretagostini; pubblicato in «SemRom» 1, 1998, pp. VII–VIII] [* La secolare denominazione di “Sapienza” per l’Università di Roma, deposta nel 1935 in coincidenza del trasferimento di sede nella nuova Città universitaria di Piacentini, fu ripresa solo nel 1982, per Decreto del Presidente della Repubblica. – G. C.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-060
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Alla varietà degli argomenti corrisponderà la pluralità degli approcci: la discussione potrà avvalersi non solo delle diverse competenze, ma anche dei diversi metodi, che oggi tendono a sincretismi spesso opportuni. Non intendiamo fare orgogliosi consuntivi e proporre formule univoche, ma la mancanza di preclusioni intende essere non un atto di pigrizia o di agnosticismo culturale, bensì una scelta consapevole al fine di realizzare un dialogo a tutto campo sia intorno a un tavolo sia a distanza. Il successo di una rivista è il risultato della felice interazione di più forze. Contiamo molto sul comitato scientifico, al quale non risparmieremo richieste di consulenza; non esitiamo a riporre grande fiducia nella competenza e nell’entusiasmo della redazione; siamo certi infine del sostegno dell’Editore, a cui va la nostra gratitudine per aver voluto intraprendere con noi un nuovo percorso nella sua già affermata attività in campo antichistico. Luigi Enrico Rossi Maria Grazia Bonanno Roberto Pretagostini || 1 Di questa fondamentale esperienza ho tracciato la storia in Due seminari romani di Eduard Fraenkel. Aiace e Filottete di Sofocle. A cura di alcuni partecipanti. Premessa di L. E. Rossi, Roma 1977, pp. VII–XXVIII. I seminari successivi legati ai miei corsi sono stati la continuazione di quelle esercitazioni da me guidate: a Fraenkel va riconosciuto l’avvio di una consuetudine di cui sono stati in tanti (me compreso) a giovarsi. [L. E. R.]
Le pecore di Cratino Sulla Stampa del 3 ottobre Guido Ceronetti critica la pronuncia del greco antico praticata nelle nostre scuole come «insensata, raccapricciante», e poi «cadaverica» e, ancora, come «una spaghettata di assurdità fonetiche, trasmettitrici di un verbo mummificato». Difende, in alternativa, la pronuncia dei greci di oggi, che sono eredi del mondo bizantino, e che, invece di pronunciare oi Athenàioi, pronunciano i Athinèi (spero che «Afinèi» sia un semplice errore di stampa). A suo parere questo fatto sarebbe salvifico. Appare quindi urgente dare qualche informazione. Non si tratta di «una spaghettata», perché a pronunciare come noi il greco – e cioè con la pronuncia cosiddetta erasmiana – è tutto il mondo dei grecisti delle principali culture europee – esclusi i pochi che diremo poi –, e cioè italiani, tedeschi, francesi, spagnoli, insieme con tutti quelli che di queste stesse culture sono clienti (anche gli americani, colonia filologica tedesca). Esclusi ne sono due gruppi. Uno comprende l’Olanda e l’Inghilterra (con il Commonwealth), che in realtà praticano una lieve variante (posizione ‘latina’ dell’accento): la parola ànthropos (‘essere umano’) la pronunciano anthròpos perché la penultima (un omega) è lunga. Poca cosa, in fondo. L’altro gruppo è rappresentato solo dai greci, e dopo tutto, [per ovvie ragioni di assuefazione,] li si può ben capire. Sbaglierebbe chi credesse che si ricorra qui a un semplice criterio maggioritario, perché questa maggioranza, in un secolo e mezzo di studi linguistici seri e faticosi, ha acquisito la fondata convinzione che Erasmo aveva ragione. Le pecore di Cratino (un commediografo ateniese del V sec. a. C.) direbbero, con la pronuncia bizantina e moderna, vi vi, mentre alla scuola di Erasmo avevano imparato a dire correttamente bê bê[*]; la parola ‘salute’ in dialetto ionico, erasmianamente hügiéie, secondo una pronuncia che viene data come «vita, e non
|| [Articolo pubblicato su «La Stampa» di M 12.10.1999, p. 26 (nella rubrica “La lettera di Oreste del Buono”), contro un precedente articolo di Guido Ceronetti pubblicato sulla prima pagina de «La Stampa» di D 3.10.1999 (nella rubrica “Lanterna rossa”). Il titolo è stato deciso dalla redazione (quello originario di Rossi era in realtà: Quale pronuncia per il greco antico?), la quale ha operato anche dei tagli sul testo originario (qui indicati in parentesi quadre in base al testo trovato nel pc di Rossi e da lui distribuito a stampa ai suoi allievi).] [* Si allude alla famosa onomatopea βῆ βῆ di Cratin. fr. 45 K.–A. ὁ δ᾿ ἠλίθιος ὥσπερ πρόβατον βῆ βῆ λέγων βαδίζει, “lo sciocco cammina facendo be be come una pecora”.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-061
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polvere di morte», dovrebbe suonare ijiìi. [No, no: prima di aprir bocca bisogna informarsi, leggere, studiare, viaggiare.] Altro che «spaghettata». Prima di autoinfliggerci un provincialismo collettivo, conviene essere più prudenti, allo scopo di non cadere nella trappola del provincialismo individuale. E ancora più prudente deve essere chi abbia un minimo di senso di responsabilità culturale, che lo dissuada dall’esercitare un vacuo [(e ahimé inscio)] demagogismo, che, creando l’equivoco del requiem per il greco, può seriamente danneggiare gli incauti o coloro che si trovino ad essere, ma incolpevolmente, ignoranti. Il greco è una materia che nella scuola italiana si insegna ancora bene: speriamo che duri. [Per conservare la nostra memoria europea, che è per così gran parte greca, ci sarà sempre bisogno di qualcuno che la lingua la sappia, e bene, e che ne conosca la storia, pronuncia antica compresa. A chi ignori queste cose è utile consigliare di leggere tutto in traduzione: così potrà praticare la pronuncia che preferisce.][*] *** 4.10.1999 Egregio Direttore,
[**]
|| [* Ceronetti replicò in calce all’articolo: «I Professori, si sa, hanno sempre ragione, anche quando è la vita a dargli torto. Ma io non sono un prof., sono un bruto … Ho fatto lo spazzino a Delfi, lo stracciaio a Mitilene … Resta che la pronuncia erasmiana è “morto che parla” e fuori dai recinti universitari ha il corso di una moneta bucata». Rossi avrebbe poi ripreso la questione nella scheda Evoluzione della pronuncia del Greco (in L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, vol. 3A, Firenze, Le Monnier, 2003, p. 11 s.). Ceronetti, invece, avrebbe replicato le sue idee su «Il Corriere della Sera» di V 20.7.2012, p. 30 (L’eredità di Ulisse vale più dello spread), invocando «una crociata per l’abbandono radicale dell’assurda, imbecille, ignominiosamente incomprensibile pronuncia accademica (la detta erasmiana, regole da lingua morta), tuttora irremovibile dagli studiosi, tuttora scelleratamente impartita nell’insegnamento superstite delle nostre scuole»; e sarebbe stato rimbeccato D 22.7.2012 sul blog Filelleni (https://filelleni.wordpress.com/2012/07/22/guido-ceronetti-versus-erasmo-da-rotterdam/) da Emanuele Greco, Direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene (Guido Ceronetti e la lingua greca: non capisce un’acca!), il quale avrebbe citato il precedente intervento di Rossi facendo anche lui l’esempio delle pecore di Cratino. – G. C.] [** Lettera di accompagno dell’articolo, inviata via fax a Marcello Sorgi direttore de “La Stampa”, e con minime modifiche a Luciano Genta della redazione di “Tuttolibri” (suppl. culturale de “La Stampa”), Ferruccio De Bortoli direttore de “Il Corriere della Sera”, Ezio Mauro direttore di “Repubblica”, Simonetta Fiori resp. del settore culturale di “Repubblica” (in tutti questi ultimi casi con l’aggiunta finale: “Pronti a sottoscrivere la mia reazione all’articolo di Ceronetti sono i colleghi che ho fatto in tempo a raggiungere telefonicamente: Graziano Arrighetti (Pisa; attuale Presidente della Consulta Universitaria del Greco), Maria Grazia Bonanno (Roma “Tor Vergata”), Luciano Canfora (Bari), Albio Cesare Cassio (Roma “La Sapienza”), Massimo Di Marco (Roma “La Sapienza”), Roberto Pretagostini (Roma “Tor Vergata”). Ma sarebbe stato
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compro il Suo giornale ogni giorno perché lo considero (e non sono il solo) uno dei migliori nel panorama non solo nazionale ma anche internazionale. Ora, ieri 3 ottobre 1999, leggo un articolo in prima pagina sotto la rubrica “Lanterna rossa” a firma di Guido Ceronetti, un intellettuale che alcuni intellettuali stimano, sulla pronuncia del greco nella scuola italiana. Mi corre purtroppo l’obbligo di segnalarLe che un prodotto di così presuntuosa e demagogica ignoranza non doveva proprio comparire sul Suo giornale. Le accludo in foglio a parte una mia replica, che spero si sia depurata dall’indignazione che, a prima lettura, quell’articolo mi ha risvegliato. Mi creda se Le dico che non è desiderio di protagonismo a spingermi a chiederLe di pubblicare la mia replica nella stessa evidenza con cui è stato presentato l’infelice articolo: è, invece, il dovere, che sento imperioso, di difendere quel poco in cui la scuola italiana opera ancora bene. Il greco, dove la propaganda anticulturale dei nostri politici ancora consente che sia insegnato, è insegnato benissimo, e con pronuncia corretta, da quel drappello di persone colte, appassionate, coraggiose e stoltamente disprezzate che ancora lo insegnano, alcune delle quali ho l’onore di aver avuto per allievi universitari. Per di più, un colpo gobbo sferrato in modo così miserevolmente maldestro, e dettato dalla più pura ignoranza sia storica sia linguistica, ingenera equivoci che potrebbero spingere molti a dire: ‘Beh, dopo tutto, ha ragione chi vuole cancellare il greco dalla scuola, visto che è insegnato così male’. Nella mia replica mi sono risparmiato di discutere il delirante ultimo capoverso dell’articolo di Ceronetti – ma Glielo segnalo –, dove l’ignoranza sui Vangeli, la loro storia e la loro lingua, ignoranza evidentemente maturata attraverso decenni, diventa patologica[*]. Non ne parlo per riguardo a Lei, ma anche perché simili sciocchezze mortificano ogni estro critico. La ringrazio e La prego di accogliere i sensi della mia immutata stima e i miei distinti saluti. Luigi Enrico Rossi prof. ord. di Letteratura greca all’Università di Roma “La Sapienza”
|| facile, avendone il tempo, ottenere un plebiscito.”). – Inedito, ritrovato da Elena Rossi tra le sue carte del padre; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [* Ceronetti, a chiusa del suo pezzo, scriveva: “Anche i Vangeli oltre alla disgrazia di essere dei rifacimenti ellenistici in luogo di getti bollenti di palestinese autentico di Giudea romana, a leggerli in base alla pronuncia scolastica (accolta anche dalla Chiesa d’Occidente) diventano una spaghettata di assurdità fonetiche, trasmettitrici di un verbo mummificato”.
Observations prosodiques, métriques et linguistiques sur le Codex des visions, Poèmes divers * Mes observations éparses portent sur la prosodie, la métrique et la langue et, si elles sont justes, je les offre à qui sera en condition de les exploiter pour des précisions sur la culture et les goûts littéraires des auteurs, ne voulant pas toutefois donner l’impression de lire ces textes avec le crayon rouge et bleu. La compétence linguistique et la culture littéraire d’un individu et d’une époque sont des faits historiques précieux qu’il faut toujours prendre en compte comme tels: on sait bien que, par exemple, la langue progresse en transformant les erreurs en institutions linguistiques. Quelques–unes de mes observations sont une addition aux pages linguistiques de l’édition; pour quelques autres j’ai tout simplement cherché à donner une explication1. 1. P r o s o d i e . L’abrégement épique montre une productivité remarquable, vu son utilité pour l’adaptation de mots divers, mais normalement dans l’épos on l’emploie à la frontière des mots tandis qu’ici on l’emploie à l’intérieur (épique χαμαιευνάδες, type qui cependant est rare même en poésie hexamétrique): J. 72 δικαίων, cf. 160 δικαίοις à la fin du pentamètre, A. 65 ἐμπαλαιωθήσονται. L’abrègement interne est fréquent dans les vers iambiques de la comédie particulièrement avec les formes de ποιεῖν. Il y a des interventions totalement arbitraires: J. 14 βουληφόρων avec le êta mesuré comme bref; D. 7 δη[μαγωγ]όν, si l’intégration est juste2, serait un arbitraire prosodique semblable au précédent. || [Relazione di convegno (Ginevra V 2.6.2000, ore 17); pubblicata in A. Hurst – J. Rudhardt (édd.), Le Codex des Visions. Actes du «Colloque Charles Bally», Genève 1er–4 juin 2000, Genève, Droz, 2002, pp. 69–71] * Merci à André Hurst et Jean Rudhardt de m’avoir invité à ce colloque si intéressant où, en petit comité, on a discuté à loisir à mi–chemin entre les deux niveaux, si bien visibles sous un soleil sans nuages, de Genève en bas et du Mont–Blanc en haut: c’était comme si le dos du Salève était un grand avion à l’ancre et que nous étions des «hôtages» dans une prison dorée. J’ai accepté avec joie après quelques moments d’hésitation, comme je connais mes limites, l’objet de la rencontre étant tout à fait nouveau pour mes compétences. Je donne donc ici tout simplement quelques réactions de lecture au sujet de textes que normalement je ne fréquente pas, dans l’espoir d’être d’une manière ou d’une autre utile à mes amis, et dans la certitude de l’être à moi–même. 1 Je me réfère naturellement à l’édition d’A. Hurst et J. Rudhart, que je cite comme «Edit.». 2 Voir la note des Edit, ad loc., p. 144 s. https://doi.org/10.1515/9783110648140-062
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A mi–chemin entre prosodie et métrique – parce qu’il s’agit d’un phénomène prosodique conditionné par la position métrique – on voit la persistante productivité linguistique de la première loi de Schulze (celle de l’allongement de la première voyelle de ἀθάνατος). Dans J. 6 nous avons, dans ce qu’on appelle une «agglomération contextuelle» (peu de distance entre les phénomènes), ἀόρατον et ensuite 8, 18 διαβόλου, –οιο, un mot fréquent dans la prose chrétienne et difficile à placer en poésie. Mais J. 35 ἀτάκτοις est bien maladroit, soit parce que le mot aurait pu être placé diversement dans l’hexamètre, soit parce qu’on pouvait bien dire τ’ ἐν ἀτάκτοις, en modifiant la suite. Je vois ici l’influence de la doctrine scolaire des voyelles dites δίχρονοι (a, i, u) dans le sens que quelquefois elles sont brèves et quelquefois elles sont longues, la notation donc d’un simple fait graphique, mais on pouvait l’entendre aussi dans le sens d’une réelle possibilité d’être mesurées soit comme longues soit comme brèves, ce qui est naturellement faux3. 2. M é t r i q u e . Si l’on considère les hexamètres, on constate un bon respect de leurs lois, bien que cela puisse dépendre du fait que la langue est essentiellement épique avec quelques rappels de la langue de poètes plus tardifs comme Apollonios (Edit., p. 28). Ces lois sont essentiellement au nombre de deux: le pont de Hermann et ce que je propose d’appeler le «pont du milieu», c’est–à– dire l’interdiction de la coupe du vers en deux parties identiques entre le troisième et le quatrième dactyles, loi qui n’est pratiquement jamais enfreinte en grec4. Ainsi, avec les choix lexicaux, s’explique l’infraction très rare du pont de Hermann (Edit., p. 27: Jes. 25, A. 20). Je ne pense pas que les quelques fins de mots simultanées après la quatrième et la cinquième longues soient dignes d’être remarquées (Edit., p. 27), comme il s’agit seulement d’une tendance et en surcroît d’une tendance de l’hexamètre de Callimaque (Maas, Metrik, § 97): ces auteurs ne semblent pas si raffinés. Le traitement du pentamètre fait naître, au contraire, des doutes sur la compétence métrique de l’auteur de l’Adresse aux Justes (J.). Non seulement il y a, comme le notent les Edit. (p. 27), des hiatus fréquents entre les deux hémistiches et même deux cas de brevis in longo, mais – ce qui est plus grave – quelquefois (4. 26. 64.114. 130) le deuxième hémistiche n’est pas pur, c’est–à–dire qu’il n’est pas dactylique. C’est une loi très respectée, mais je ne saurais pas dire
|| 3 Pour les autres cas cf. Edit., 24 sq. Sur cette catégorie des grammairiens v. L. E. Rossi, Anceps: vocale, sillaba, elemento, «Riv. di Filol.» 91 (1963) 52–71, part. 53–56. 4 Elle est ignorée seulement par certains humanistes.
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quand elle commence à être enfreinte. J. 154 offre une syllabe en plus: peut–être le texte est–il corrompu, vu aussi qu’en outre il y a la mesuration ἀγλαῷ avec le deuxième alpha long (mais on peut le pardonner comme un cas de δίχρονος, bien qu’il s’agisse d’un mot épique). 3. L a n g u e . Il n’y a pas beaucoup à noter en plus de ce qu’offrent les Edit. Je pourrais noter que Abr. 3 ἑὸν ϕίλον υἷα, vu aussi en contexte avec 11 ἐμὸν ϕίλε τέκνον, montre que l’auteur a ajouté les possessifs ignorant ici l’usage homérique de ϕίλος, qui en comporte déjà la valeur. En Jes. 2 ἀγλαόεντι on a une extension impropre des composés en Fεντ–, qui sont normalement composés avec un nom («riche en») et pas avec un adjectif (cf. 20 ἀστερόεντ’, qui est numériquement correct). On a la joie de saluer l’entrée dans l’hexamètre chrétien du grand mot choriambique παντοκράτωρ (J. 79), qui était déjà dans la Septante. Voir aussi comme un autre grand nom, le nom de lieu Jérusalem, est adapté comme Ἱερουσαλύμοιο (A. 53) et comme Ἱροσόλυμα (A. 36. 41) avec prosodie ondoyante de l’upsilon dans le même poème (cf. aussi X. 27). Tout cela donne à réfléchir sur le nombre si exigu de ce type de mots dans des textes qui, tout en traitant des arguments si peu épiques, sont bien enracinés dans la langue de l’épos: il suffit de jeter un coup d’œil à l’index des mots à la fin de l’édition.
Il nostro credito nei confronti del mondo antico e alcuni modi per esigerlo Signor Presidente, membri dell’Accademia Parnassos, cari vecchi amici, Signore e Signori, mi è difficile trovare parole per ringraziare del grande onore che mi viene fatto offrendomi di far parte di questa Accademia, la più antica e la più nobile della Grecia[1]. Non credo di avere vero titolo per questo onore, perché non credo sufficiente il fatto che io ho amato e insegnato per molti decenni la cultura della Grecia antica e ho frequentato, anche questo per molti decenni, la Grecia di oggi, imparando ad amare la sua cultura moderna attraverso i carissimi vecchi amici che ho in questo paese. È per questo che il mio grazie è particolarmente sentito. Ho cominciato a visitare la Grecia nel lontano 1958, quando la Grecia era ancora povera, e povera era anche l’Italia. Ho visto crescere i due paesi da allora in poi, finché ora ci troviamo uniti in un’unica patria europea, rafforzata dalla moneta unica, l’Euro. Sono poi stato qui in viaggio di nozze nel 1962 con la mia macchina, il che mi ha permesso di visitarla anche in zone allora poco turistiche: ricordo la notte che passammo a Mavrommati Ithomis in casa di un contadino che si chiamava Xenophon. Ci incamminammo in piena notte per arrivare al levar del sole sulla cima del monte Ithomi, con la guida del guardiano degli scavi. Poi sono tornato molte volte, sempre con mia moglie Giovanna, e abbiamo imparato insieme a sentirci chez nous in questo paese così ospitale e così simile al nostro: il Mediterraneo è una grande unità culturale. Nel 1965 passammo più di un mese a Patmos, dove ho potuto conversare con i monaci del || [Conferenza tenuta a Roma, Università di Castel Sant’Angelo, V 17.12.1999, ore 15, e al Palazzone di Cortona, presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, L 3.9.2001, ore 9 (forse anche un paio di altre volte, in sedi non annotate, 4.2000 e 8.2001); accresciuta quindi della parte intoduttiva e letta in neogreco ad Atene, Palazzo “Kostis Palamas”, M 19.2.2002, in occasione della nomina di Rossi a Membro Onorario dell’Associazione Filologica “Parnassòs”; pubblicata in versione neogreca come Τί μας ὀφείλει ἠ ἀρχαιότητα (il nostro credito nei confronti dell’antico), «Parnassos» 44, 2002, pp. 391–399. – La versione che qui si presenta, trovata nell’ultimo pc di Rossi, è quella più ampia, preparata nel gennaio 2002 per la traduzione neogreca, ed è inedita; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]
[1 L’Associazione Filologica “Parnassòs” (Φιλολογικὸς Σύλλογος “Παρνασσός”) è un’Accademia greca con sede ad Atene, fondata nel 1865.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-063
Il nostro credito nei confronti del mondo antico e alcuni modi per esigerlo | 573
Monastero e dove molti anni dopo vi tornò mia moglie con nostra figlia Elena, accolte come si accolgono i vecchi amici. E non starò a ricordare le tante altre volte, perché sono davvero tante. Fin dalla prima volta ho cercato di imparare la vostra dimothikì: non credo di aver fatto molti progressi, e qui sono grato a chi ha tradotto le mie pagine ..............[2] Amo il vostro paese e ne ho seguito con trepidazione le vicende politiche. Amo la vostra letteratura, nella quale ho trovato alcune delle voci più pure della poesia moderna. Amo il vostro paesaggio, pieno di ricordi del mondo antico: poche colonne trasformano un paesaggio, ed è quello che accade per esempio al Capo Sunion, che senza quelle colonne sarebbe solo un’espressione geologica. Ed è questa una delle tante ragioni che tiene uniti i nostri due paesi: le memorie del passato, che appartengono a tutta l’umanità colta, ma che sono qui accanto a noi, le vediamo tutti i giorni, e sappiamo che i grandi capolavori del pensiero e dell’arte sono stati creati proprio in questi nostri paesaggi, in Grecia e in Italia, in presenza dei nostri monumenti. E di questo vorrei parlare oggi, e cioè soprattutto di noi greci e italiani, ovvero del nostro credito nei confronti del mondo antico e di alcuni modi per esigerlo.
1. Premessa Per cominciare, dirò che voglio prendere esempio dagli antichi nel cercare di essere breve e sintetico. È un esercizio che costa fatica, ma è importante. Plinio il Giovane scrisse una volta in una sua lettera: “Ti ho scritto una lettera lunga perché non ho avuto il tempo di scrivertene una breve”, significando così che a quella lettera era mancato il labor limae, la faticosa limatura[3]. Da qui la passione degli antichi per la brevitas, per l’aforisma. E la mia parola d’ordine di oggi è c r e d i t o , e n o n d e b i t o , n e i c o n f r o n t i d e l l ’ a n t i c o . Si parla tanto di debito, e si tratta di parola e di concetto sgradevoli, perché evocano sforzo, fatica, eventualmente anche insolvenza, mentre tutti siamo felici quando scopriamo che abbiamo dei crediti da esigere. Ma vediamo un po’ di che credito si tratta e come possiamo esigerlo. È importante, per questo, sgombrare il terreno dai tanti modi sbagliati di stabilire il nostro rapporto con l’antico: solo dopo esserci chiariti le idee su quel-
|| [2 Zissis Melissakis, cui Rossi era stato indirizzato dal di lui zio Panaghiotis Nikolopoulos: Rossi da Roma, il 7.1.2002, gli aveva inviato via fax il testo, con accluso un biglietto in cui gli chiedeva di tradurre in neogreco le sue pagine.] [3 Vd. n. 1 a p. 425 di questo volume.]
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lo che non si deve fare, o che non si può più fare, potremo chiarirci le idee su quello che possiamo e che quindi dobbiamo fare.
2. Quello che non si deve fare Due sono gli atteggiamenti che mi sembrano oggi da evitare: da una parte l ’ a t t e g g i a m e n t o p u r a m e n t e u m a n i s t i c o e dall’altra la cosiddetta c o l o n i z z a z i o n e o a t t u a l i z z a z i o n e d e l l ’ a n t i c o . L’umanesimo è stato, ed è ancora oggi, il desiderio di prendere l’antico a modello totale e quindi di immedesimarsi in esso, col rischio di non vedere la specificità della nostra cultura attuale: ne viene messa in pericolo la nostra stessa identità storica e culturale. È c o m e u n t r a s f e r i m e n t o d i n o i s t e s s i n e l m o n d o a n t i c o : in questo caso falsifichiamo l’identità di noi moderni. L’altro atteggiamento da evitare è polarmente opposto al primo, è come un trasferimento del mondo antico nel nostro mondo moderno, che è il sovrapporre categorie nostre alle culture che l’antichità ci ha lasciate, col rischio di stravolgere quelle culture con la vana illusione di attualizzarle: in questo caso falsifichiamo l’identità degli antichi. Cominciamo dall’u m a n e s i m o . L’ideale degli umanisti era di tornare alle forme di vita degli antichi – quelle quotidiane e quelle culturali – riconosciute come eccellenti e in qualche modo santificate e definite ‘classiche’. Certo, la cultura greca e quella romana, che alla greca doveva tanto, erano culture di livello molto alto, diciamo tranquillamente che erano di livello altissimo: ma non è lecito considerarle come le uniche. Il grande umanesimo italiano del Rinascimento è stata una stagione fervida e uso l’aggettivo ‘fervido’ perché penso al grande amore che animò quella gente nei confronti dei testi letterari, del pensiero filosofico e delle arti figurative sia dei greci sia dei romani. L’umanesimo è un atto d’amore ed è quindi una categoria eterna dello spirito che non va certo annullata o tarpata. Leggere un testo antico o guardare una statua o un edificio con amore è qualcosa di cui non solo siamo capaci, ma di cui abbiamo grande bisogno, e che dobbiamo poter fare almeno la domenica mattina o in una bella vacanza fra colli ameni: ma non possiamo farne una bandiera perenne, perché le cose degli antichi, oltre ad amarle, dobbiamo anche capirle. Quale è dunque il rimedio? Inserire l’antico nella s t o r i a , capirne i condizionamenti concreti: la tragedia attica, adorata dall’atteggiamento umanistico, poteva fiorire solo in Attica nel V sec. a. C. e di quel tempo e di quelle situazioni porta con sé i segni positivi, come la sensibilità ai grandi problemi della vita, della morte e del dolore, ma porta anche i segni occasionali, come per esempio l’eccessivo orgoglio e addirittura il campanilismo ateniese, comprensibile in opere che dovevano es-
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sere rappresentate davanti a un pubblico ateniese, che voleva essere celebrato positivamente nella sua storia antica e recente. Per di più, come ci ha insegnato George Steiner in La morte della tragedia (1961), la tragedia antica non ha la speranza, mentre la cultura cristiana ci ha insegnato la speranza, a ragione o a torto: la tragedia greca non è più, nel suo intero, cosa della nostra cultura. Dobbiamo leggerla storicamente. Passiamo ora al difetto opposto, alla sovrapposizione delle nostre categorie moderne all’antico, a quella che è stata chiamata la c o l o n i z z a z i o n e o a t t u a l i z z a z i o n e d e l l ’ a n t i c o . Colonizzare/attualizzare significa sovrapporre qualcosa di nostro a quello che nostro non è: in altre parole, questo atteggiamento legge il mondo antico in chiave moderna, con la pericolosa pretesa di attualizzare l’antico. Questo atteggiamento è purtroppo molto praticato nella scuola, dove viene fatto passare per democratico, mentre è solo tristemente demagogico: è un’ingenua impostura messa in opera da docenti in cerca di popolarità a buon mercato, o è anche un’astuzia di alcuni studiosi e di alcuni editori che non guardano tanto per il sottile allo scopo di attirare il pubblico; e dico questo per onestà storica, anche se oggi un po’ di demagogia a favore dell’antico sarebbe preziosa, e invece assistiamo al perfetto contrario, perché la demagogia estrema consiste nel negare l’importanza stessa dell’antico, come fanno molti nostri politici. È così che, per esempio, Saffo viene fatta passare per femminista, mentre al mondo di Lesbo intorno al 600 a. C. mancava la condizione perché il femminismo moderno vi mettesse radice: il mondo di Lesbo, e di tante altre culture locali della Grecia di varie epoche, teneva rigorosamente separati i due mondi maschile e femminile, senza che potessero venire in conflitto l’uno con l’altro come invece avviene oggi, creandosi così una contrapposizione che agli antichi era estranea. Anche qui l’antidoto è di nuovo la s t o r i a . Avere, come abbiamo, lo storicismo nel nostro patrimonio di memoria storica ci permette di capire storicamente le realtà che trattiamo: ed ecco che Saffo riprende il suo posto di educatrice, in ambiente chiuso e raffinato, di giovani donne dell’alta società, alle quali va negata anche l’accusa di omosessualità perversa dal momento che venivano preparate al matrimonio, a diventare mogli di uomini che, come loro, provenivano dall’alta aristocrazia. È naturale che Saffo, dopo la lunga consuetudine di rapporto di discepolato, le salutasse con dolorosa nostalgia in splendidi carmi – che venivano cantati per l’occasione – al momento in cui lasciavano il gruppo per avviarsi al matrimonio. Ma evidentemente qualcuno oggi ancora pensa che non dovesse affezionarsi a loro e che ogni forma di legame di lei con loro debba essere visto come perverso. È l’atteggiamento di un Baudelaire, che ha creato poesia grande perché era un grande poeta, ma con le sue donne maledette ha assunto un atteggiamento che
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oggi si definisce giustamente come antistorico e che molti filologi hanno seguito. Niente di più tendenziosamente falso, che va eliminato con quella che la cultura classicistica francese più avvertita ha chiamato la décolonisation de l’antiquité. Anche Archiloco è stato visto come poeta maledetto: quando dice che ha buttato lo scudo non lo fa per deridere Omero, perché il suo mestiere era quello di soldato e non di eroe epico, che, in quanto eroe, praticava il mestiere di morire gloriosamente. Archiloco doveva vivere per lavorare come soldato e guadagnare per mangiare.
3. Quello che si può e che si deve fare Sgombrato il campo da dannosi equivoci, domandiamoci come dobbiamo confrontarci con l’antico. Dobbiamo individuare i v a r i m o m e n t i e i v a r i l u o g h i delle culture greca e romana, e quando parlo di momenti e di luoghi intendo combattere un altro luogo comune, e cioè che si tratti di due culture monolitiche, mentre in realtà si sono articolate al loro interno in esperienze culturali molto varie sia diacronicamente nel tempo sia sincronicamente nello spazio. Il mondo greco arcaico non è né quello cosiddetto classico né quello ellenistico né quello che va dall’età imperiale in poi: l’ideale del guerriero (con le corrispondenti forme del canto poetico) è diverso in Omero, in Archiloco e in Alceo; il paesaggio (con la sua funzione nell’economia complessiva) non è lo stesso nei tragediografi (V sec.) e in Teocrito (III sec.); né la leggera ironia di Luciano (II sec. d. C.) va messa alla pari con l’appassionato sarcasmo di Aristofane (V sec. a. C.). I decenni e i secoli non passano invano, né le varie aree culturali partono e arrivano alle stesse posizioni: preso un periodo determinato, l’Atene del V secolo è ben diversa dalla Sparta contemporanea. Lo stesso si deve dire di Roma. Fatto questo, possiamo parlare di debito solo nel senso che tante cose ci vengono da quei mondi in termini di arricchimento culturale: si tratta solo di un consapevole r i c o n o s c i m e n t o . Di questa eredità dobbiamo identificare quelli che la hanno elaborata: pensiamo all’etica, alla politica, al godimento estetico e a tante altre cose ancora. Non entro in dettagli, perché basta fare un semplice atto di autoconsapevolezza e a ciascuno di noi verranno in mente le molte cose che, più o meno trasformate, sono diventate nostre, carne della carne della nostra cultura moderna, e del resto niente è rimasto com’era: la cultura greca è stata assorbita dalla cultura romana, che la ha poi trasmessa al cristianesimo. Solo in questo senso dobbiamo parlare di debito, ma è in fondo parola da evitare, perché evoca erroneamente – come dicevo prima – un senso di dove-
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re e di costrizione. Parliamo invece, come ho annunciato fin dall’inizio, del nostro credito.
4. Il nostro credito nei confronti dell’antico A me è parso sempre davvero strano che, quando si parla del mondo antico, si taccia sempre del nostro credito e si parli, con una specie di moralismo culturale, del nostro debito. Noi moderni non ci siamo comportati sempre male nei confronti dell’antichità classica. Non è il luogo, questo, di fare dei bilanci, ma tutto sommato il patrimonio che gli antichi ci hanno legato lo abbiamo dopo tutto conservato, con molte perdite, è vero, anche però con un notevole bilancio in attivo. Qui mi tocca fare un po’ di nazionalismo culturale, ma lo faccio senza la remora del ‘culturalmente scorretto’, che in questo caso sarebbe solo ipocrita. Noi greci e noi italiani abbiamo convissuto gomito a gomito con le antichità greche e romane, e in questo non voglio togliere i loro diritti a tutti quei paesi mediterranei che con l’antico hanno, altrettanto bene e altrettanto male, convissuto: penso naturalmente alla Grecia e all’Italia in primo luogo (Grecia che però ha avuto mezzo millennio di dominazione turca), ma anche alla Spagna, alla Francia, all’Africa settentrionale e all’Egitto ellenizzato, insomma a tutto l’impero romano, che ha inglobato in sé il mondo greco insieme con tanti altri. Questo riguarda soprattutto i m o n u m e n t i a r c h e o l o g i c i , perché poi nella conservazione delle s c r i t t u r e nessuno oserebbe negare che ad essere in primo piano sono stati proprio i bizantini col conservare, come eredi centrali della cultura greca. Non solo la maggior parte dei codici portatori di quei testi preziosi stanno nei nostri paesi o da qui derivano, ma da circa un secolo e mezzo la cultura filologica italiana, e da qualche decennio quella greca, si fanno sempre più onore. Siamo insomma i maggiori creditori dell’antico: dopo tutto siamo stati, nell’Umanesimo e nel Rinascimento, il grande c r o c e v i a d e l l a d i s t r i b u z i o n e della cultura antica: la Grecia, sotto la dominazione turca, ha cominciato assai presto a mandare da noi i suoi dotti esuli. A riscuotere questo credito e a sfruttarlo abbiamo una specie di diritto di progenitura, che è una importante giustificazione etico–storica. Come dobbiamo far fruttare questo credito? Per i b e n i a r c h e o l o g i c i basta che ci guardiamo intorno, e vedremo che, oltre ai monumenti già ampiamente sfruttati, ce ne sono tanti altri della cui esistenza e presenza dobbiamo solo accorgerci. Basterebbero le statistiche sempre crescenti dei visitatori dei siti storico–archeologici, specie quando siano stati meglio adattati alle esigenze del pubblico, come vediamo nei nostri paesi e nel resto d’Europa negli ultimi decenni. Ha stentato a farsi strada la nozione ovvia che più visitatori significano
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più danaro, da distribuirsi fra i monumenti più bisognosi di restauro e di adattamento alle esigenze di cui si parlava qui sopra. Ma i monumenti vanno capiti con la conoscenza delle lingue e delle letterature. Per i t e s t i l e t t e r a r i l’espandersi del tempo libero ha creato un’importante area di consumo: i miei studenti di letteratura greca diminuiscono, in questi ultimi anni, ma in compenso resto meravigliato a vedere quanta è ancora la gente che si appassiona ai casi di Edipo e che legge con curiosità l’Egitto, ovvero il secondo libro di Erodoto, o addirittura strane operine esoteriche di Plutarco. Chi potrà in futuro alimentare queste curiosità molto utili ma superficiali? Solo gli specialisti, finché ne esisteranno: la vera divulgazione la sa fare bene solo lo specialista.
5. Che cosa si sta facendo? Il fatto più inspiegabile è che queste considerazioni si fanno sì strada nel campo della conservazione dei beni culturali, ma non si sono mai tradotte in una p o l i t i c a s c o l a s t i c a che tenda a creare le condizioni perché di quella migliore conservazione si possa fruire efficientemente. Abbiamo musei e siti archeologici molto bene attrezzati e non so chi fra pochi anni avrà quel poco di cultura classicistica che lo spinga a visitarli e non so quante guide ben istruite ci saranno per illustrarli ai visitatori. Gli editori continueranno per un po’ a pubblicare le buone edizioni divulgative di testi che ancora, per inerzia, hanno successo, ma che poco a poco andranno a finire nei remainders. Che cosa si potrà fare per sensibilizzare i politici, che sempre di più vengono anche loro da una scuola impoverita? Lo slogan che andrebbe loro strombazzato nell’orecchio è il seguente: che la vera demagogia sana (perché ce n’è anche una sana) è non il negare un patrimonio comune a tutti, ma è il distribuirlo (con opportuna urgenza) a tutti. La difficoltà, per noi umanisti, è quella di farci ascoltare dai politici, e non solo in Grecia e in Italia, ma in tutto il mondo. Che cosa possiamo fare? La risposta non è facile. Il nostro augurio è che una istituzione gloriosa come questa, che così benevolmente mi accoglie, possa contribuire con sforzi comuni a raggiungere il nostro scopo.
[Recensione] W.V. Harris, Restraining Rage. The Ideology of Anger Control in Classical Antiquity, Cambridge/Mass. & London 2001 Si usa dire, di un libro, che lo si è letto con molto interesse: ed è vero, come lo è nel mio caso, ed è per questo che il libro mi ha suscitato dei problemi e mi ha offerto delle idee che senza di esso non mi sarebbero venute. Ma è necessario che dica anche che lo ho letto con il mio interesse, che è quello di chi si occupa principalmente del mondo greco. Dichiaro così i limiti della mia reazione a un lavoro che, per quanto so, si presenta, per la sua estensione e profondità, come un inedito nel campo dei nostri studi. L’A. offre quello che promette, e cioè (p.23) tratta “non l’ira, bensì i tentativi di controllare l’ira”. Non che manchi un saggio di definizione dell’ira presso greci e romani, sentito come ovvia necessità ma esperito con piena consapevolezza dei limiti imposti dall’antropologia (capp. 2, 3, 4), con un accurato esame lessicale (cap. 3: μῆνις, ὀργή, χόλος, κότος, θυμός, ὀχθεῖν, μενεαίνειν, χαλεπαίνειν, ἀγανακτεῖν, nonché ira, furor, indignatio etc.). Per la varietà dei fenomeni psicologici presi in esame, e per la varietà dei termini usati per designarli, mi contenterò qui di assumere una definizione generica dell’ira come mancanza di controllo nella manifestazione dell’aggressività (e aggiungerei, sul piano terminologico, anche famiglie lessicali come per es. μῖσος, μισεῖν etc.). H. si riconosce (p. X) nella categoria della storia culturale e sociologica e si scusa preventivamente di alcune omissioni di testi, di non aver dato molto spazio all’invettiva oratoria e alla poesia dello psogos (invective), al giambo cioè. Ma questo è un inutile mettere le mani avanti, perché già dal titolo risulta che H. vuole parlare dell’ideologia del controllo dell’ira, e in alcuni generi letterari e in alcune pratiche rituali (come dirò) l’ira (o l’aggressività) è semplicemente agita per ragioni particolari, e non teorizzata. Dirò fra poco che l’ira agita tiene tuttavia un posto di particolare importanza, in sé non teorizzata se non tardi ma sempre praticata. L’ira va vista (come fa H.) come fenomeno sia psicologico– individuale sia sociologico in generale in quanto concepito come malattia (parte IV: capp. 14, 15, 16), e quindi come pericolo per la società. L’ideologia mette in
|| [Recensione datata al 10.6.2002, in alcune parte ancora allo stato di abbozzo. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] https://doi.org/10.1515/9783110648140-064
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opera anche una sua prassi, che non è fatta solo di considerazioni teoriche, ma anche di precetti o consigli. Ora, le riflessioni che questo lavoro invita a fare sono molte, una delle quali secondo me è che controllo non vuol dire solo repressione o punizione o terapia (argomenti a cui H. dà ampio spazio), ma anche prevenzione. Sia sul piano individuale sia su quello collettivo le reazioni psicologicamente giudicate come negative sono difficilmente disciplinabili con precetti o consigli: c’è anche un modo di canalizzarle in modi innocui per la società perché opportunamente istituzionalizzati. Gli aspetti irrazionali della cultura greca sono stati messi in luce da opere fondamentali per il nostro approccio moderno all’antichità classica: basterà ricordare Nietzsche, La nascita della tragedia del 1871, Dodds, I greci e l’irrazionale del 1951 e gli aspetti primitivi della religione arcaica messi in luce negli ultimi decenni da Walther Burkert. Ora, l’istituirsi di un tessuto collettivo razionalizzato come la polis aveva bisogno di liberarsi di quei ‘disturbi’ della convivenza civile che potevano metterla in pericolo (e in questo senso molto utile è l’analisi dei testi letterari che H. fa nel cap.8, “Vivere insieme nella polis classica” considerando tragedia, storiografia, commedia: e apprezzo il suo buon senso nel trattare l’ira degli dei (pp. 5s. in generale, 173s. in trag.), del resto eredità dell’epos: io la vedrei, in tragedia, come ipostasi dell’ineluttabilità del fato, secondo quanto abbiamo imparato da G. Steiner, La morte della tragedia, dove la differenza fra tragedia antica e dramma moderno è vista nella incapacità degli antichi di razionalizzare il dolore). Molto importante è quanto H. dice (p. 165s.) sull’infittirsi delle considerazioni teoriche sulla convivenza civica nella seconda metà del V sec., come espressione del timore per una polis ateniese sentita in costante pericolo, costituzionale e sociale. (un’osservazione minuta: non metterei però sullo stesso piano la ἁσυχία di Pindaro, che era ideale aristocratico spartano–dorico nel senso della concordia della classe dominante – non ricordo dove ho trovato il precetto che gli Spartiati non devono mai litigare fra loro ...). L’ambiente ateniese del VI–IV sec., invece, mette in primo piano considerazioni sociologiche di più ampio respiro, volte a una ampia convivenza civica. Vorrei esporre ora alcune considerazioni mie sui modi più o meno istituzionalizzati di canalizzare l’aggressività in generale, allo scopo di prevenirne le manifestazioni pubbliche incontrollate, fonte di disordine. È qui che propongo una mia integrazione alla tematica del libro. Ne dò un provvisorio e disordinato elenco. Partirei dalla prima manifestazione di microsocietà razionalizzata, e cioè dalla hetairìa arcaica e dal suo rito principale – il simposio. È ben noto che il
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simposio, luogo di destinazione di tutta la lirica monodica arcaica, era regolato da un galateo molto severo: niente ubriachezza, niente liti, costumatezza etc.). Ma la lirica simposiale è ricca di documentazione in contrario. Crizia (fine V sec.): simposio spartano contro antisimposio; antisimposi in Alceo, in Anacreonte, descritti sempre come attività degli altri, ma l’aristocrazia poteva permettersi episodiche trasgressioni proprio nel simposio, che notoriamente era una riunione ristretta ... E poi c’era la teoria etica della musica, la Ethoslehre di Damone, che si basava sulla sperimentazione delle musiche, e secondo me la prima sperimentazione avveniva proprio nei simposi aristocratici, nei quali si potevano studiare le reazioni alle singole musiche, e anche a quelle considerate negative e dannose. – giambo, simposiale; la ἰαμβικὴ ἰδέα: Archiloco (“hai preso la cicala per l’ala”), Ipponatte – ἀραί (curse tablets, p. 13) M. Giordano, La parola efficace, Roma 1999; Euforione di Calcide, Ἀραί o Ποτηριοκλέπτης (qui si innesta il più generale problema della letterarizzazione di usi in origine non letterari; si sono trovate tavolette in Attica del V sec. a.C., più tardi i papiri magici). – le ἐπαοιδαί, canti di incantesimo – commedia, soprattutto con il suo frequente rovesciamento dei rapporti civici, ma anche i suoi disordinati κῶμοι finali: la commedia quindi come sfogo, e non solo come fonte di ideologia del contenimento. – γεφυρισμοί, ‘scherzi dal ponte’, fatti durante la processione fra Atene ed Eleusi; secondo le scarse fonti (misteri!) κατὰ τοὺς ἐνδόξους πολῖτας (forse una letterarizzazione, in strofette semplici, nelle Rane ) – situazioni coribantiche, cultuali o patologiche – menadismo e feste femminili: le Baccanti (menadismo nero, mentre in Atene all’epoca c’era soltanto il menadismo bianco, incruento), le Tesmoforie (molte di queste manifestazioni non sono emerse e costituiscono quella che ho recentemente chiamato la letteratura ‘sommersa’[1] perché in un modo o nell’altro censurata (v. specialmente i misteri) – musica e danza (348.44 no!, 351, 372); aspetto terapeutico (31). Questo è un campo in cui francamente dissento da H., che sicuramente me lo perdonerà. La musica e il ritmo erano molto importanti, sia sul piano della canalizzazione o prevenzione (lo si vede per es. nel menadismo) sia su quello della terapia. Dal momento che le ἁρμονίαι hanno un effetto psicagogico così dettagliatamente catalogato (dorico, ionico, frigio etc.) e dal momento che alcune sono calmanti e || [1 In L. E. Rossi, L’autore e il controllo del testo nel mondo antico, «SemRom» 3, 2000, pp. 165– 181, nelle pp. 170–173.]
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altre sono eccitanti, ne consegue che la musica ha importanza politica perché è fenomeno che coinvolge forze sociali (Plat. resp. [424c] “non ci sono cambiamenti nella musica che non siano anche politici”, riportando parole di Damone). E non mancano casi di terapia omeopatica (Giamblico, Ippocrate o Galeno: tutta antica dottrina o pitagorica o damoniana, o alle volte tutt’e due). Ma anche qui non siamo nel campo della teorizzazione ideologica, che è l’argomento dichiarato di H., bensì in quello della prassi preventiva o terapeutica. Scettici sulla potenza della musica furono solo Epicuro e, naturalmente, Filodemo, oltre al famoso Pap. Hibeh 13, del 1906, certamente sofistico: sono quelli che H. Abert chiamava i formalisti della musica. L’aspetto terapeutico della musica (quindi non solo psicacogico) è stato in realtà trascurato dai moderni: ma v. Lassere, Plut. De la musique, 1954, (spec. 63, Aristotele omeopatico) e W.D. Anderson, Ethos and Education in Greek Musik, 1966, 142 (Aristot.) e 65 s. + 237.4 per Plat. (naturalmente non omeopatico per calmare i Coribanti). – ἱερὴ νοῦσος Attraverso il percorso del libro di H. – e, ripeto, non avrei offerto questa formulazione prima di leggerlo – vedo una ideologia che si fa strada fin da Omero, che diventa sociologia nell’Atene del VI–IV sec., volta a preservare la comunità; ma prende poi consistenza per l’individuo specialmente dal IV sec. in poi con le filosofie cosiddette etiche, stoicismo ed epicureismo e mondo romano. Le istituzioni destinate alla prevenzione o canalizzazione dell’aggressività, di cui abbiamo parlato, sono attive ben prima che si crei un coerente piano ideologico.
Appendice Penso che la catarsi, teorizzata tardi da Aristotele, venisse sentita come praticata da sempre (è questo il senso che dò a prevenzione contrapposta a teorizzazione) – Vorrei proporre un’anticipazione della stessa catarsi tragica (che H. ben conosce, 45ss., 351), che non bastava, all’inizio: al principio del V sec. (497 a.c.), ben prima che Aristotele teorizzasse la catarsi, nacque il dramma satiresco (ex. di preoccupazione dell’ethos pubblico, della salute sociale), specie per i primi decenni della tragedia (lessico della paura in Aesch., de Romilly e Snell); e il dramma satiresco, come ‘rovesciamento della tragedia’, serve ad esorcizzare lo spavento degli spettatori, specie nei primi decenni; poi non più, perché il pubblico si abitua agli orrori sulla scena: nel 438 il dramma quarto in tetralogia era l’Alcesti, che, con tutto il suo Eracle ubriaco, dramma satiresco non è. Segno
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della fine della funzione sdrammatizzante, che però per alcuni decenni aveva giocato un ruolo importante (specie con Eschilo).
Introduzione alla Letteratura greca Per una storia della letteratura: metodi e strumenti La storia della letteratura Queste pagine non sono solo una breve introduzione alla letteratura greca in sé, ma anche un’introduzione alla storia della letteratura greca, e cioè ai modi e alla funzione di un’esposizione storica. Sono insieme una dichiarazione di metodo e una esposizione sommaria dei metodi di altri, questi ultimi visti quanto più possibile storicamente, e cioè dando ragione e fondamento alle singole posizioni critiche. Questo è indispensabile per un uso corretto del manuale e per una giusta valutazione delle posizioni qui prese. Gli orientamenti del passato e quelli del presente hanno tutti in sé qualcosa (o anche molto) di giusto e di opportuno. Nella complessità del fenomeno letterario ogni momento storico ha privilegiato uno o più aspetti, e anche qui ne verranno privilegiati alcuni, ma sarà un successo di questa esposizione se il lettore sarà messo in grado di non perdere di vista nessuno degli aspetti essenziali per la comprensione del fenomeno letterario in quanto tale. Occorre conoscere sia le cosiddette istituzioni letterarie sia la fortuna e i modi della loro fortuna, e cioè la loro storia: e si potrà così capire anche quanti e quali aspetti di questo mondo letterario sono stati combinati insieme in vario modo dalle singole correnti critiche. L’avventura intellettuale è un bricolage e bisogna imparare a capire come viene praticato e – perché no? – anche a praticarlo.
La letteratura come fatto di comunicazione Per la cultura greca, e ancor più per la cultura greca arcaica e classica, una premessa del genere è necessaria, perché si è sempre meglio riconosciuto, in questi ultimi decenni, che si tratta di un mondo altro dal nostro, che presenta cioè tratti culturali profondamente diversi. Riconoscendo queste differenze, ci si può || [Introduzione pubblicata in L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, Firenze, Le Monnier, vol. 1, 2002, pp. 1–20 (revisione di L. E. Rossi, Letteratura greca, Firenze, Le Monnier, 1995, pp. 1–19 e 845–850]
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liberare da false verità e da dannose ovvietà: il confronto fra più culture, e fra le loro letterature, tanto diverse fra loro (la nostra e la greca), porta più facilmente a un apprezzamento privo di pregiudizi dello specifico letterario che quelle singole culture hanno espresso. In altre parole: per capire le letterature bisogna partire dalle culture e, per uscire dal generico, possiamo intanto dire che quello che per noi è letteratura svolgeva nella cultura greca arcaica e classica una funzione molto più ampia di quanto non accada oggi. L’unica considerazione teorica generale che è necessario premettere è che la letteratura è un fatto di comunicazione, come ogni fenomeno legato alla parola. Questo sembra banale, ma lo è tanto poco che proprio da questa verità – messa oggi in primo piano per merito degli studi di linguistica – sono venuti gli strumenti più preziosi (perché semplici da utilizzare) per capire non solo i modi in cui si è fatta in passato e i modi in cui si fa oggi la letteratura, ma anche come si è fatta in passato e come si fa oggi la storia della letteratura. Per illustrare il processo della comunicazione ci serviremo del modello elaborato dal linguista russo Roman Jakobson in quanto chiaro ed efficace. Lo schema di questo modello (si veda la Tavola) evidenzia in maiuscolo i sei grandi fattori della comunicazione e in minuscolo le funzioni corrispondenti. TAVOLA: modello della comunicazione secondo Jakobson CONTESTO (referente) funzione referenziale, denotativa, cognitiva 3a persona MITTENTE DESTINATARIO (destinatore, codificatore) (decodifìcatore) funzione espressiva, emotiva funzione conativa la persona MESSAGGIO 2a persona funzione poetica CONTATTO (canale) funzione fàtica CODICE funzione metalinguistica Da R. Jakobson, Linguistica e poetica, in Saggi di linguistica generale, Milano 1966 = 19805, pp. 181–218 (già in Style in Language, a cura di Th.A. Sebeok, New York– London 1960, pp. 350–377)
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I vari fattori della comunicazione Ogni processo di comunicazione (sia semplicemente linguistico sia di natura letteraria) parte da un mittente che indirizza un messaggio a un destinatario. La comunicazione avviene in un contesto (la realtà che circonda gli attori del processo), attraverso un contatto (la voce nell’ambito di certe condizioni ambientali, la scrittura su determinati supporti materiali ecc.) per mezzo di un codice (ovvero un complesso di norme familiari e al mittente e al destinatario: un sistema di segni, nel nostro caso la lingua con, in più, le istituzioni letterarie). In ogni processo di comunicazione tutti i sei fattori sono presenti, ovviamente: ma diversa può essere di volta in volta la gerarchia delle singole funzioni, alcune delle quali possono essere in certi casi predominanti e altre tenui fino a potersi considerare assenti. Si tratta, per ogni singolo enunciato, di un accento minore o maggiore sull’una o sull’altra delle funzioni, come passiamo subito a verificare su un esempio concreto. Per rendere più chiaro il modo in cui qui si vuole che sia considerato il processo, leggiamo la prima strofe di una lirica di Eugenio Montale, I limoni (da Ossi di seppia): Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti: io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi qualche sparuta anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni, discendono tra i ciuffi delle canne e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
L’identificazione dei fattori è semplice: mittente è il poeta; messaggio è il testo; destinatario è tutto il pubblico che verrà raggiunto dal libro (anche se il poeta ha in mente, in prima istanza, qualche destinatario privilegiato); canale o contatto sono le condizioni in cui il lettore riceverà il messaggio (e cioè in sostanza la lettura della pagina); contesto è la realtà in cui l’autore si trova a vivere e alla quale si riferisce (i poeti, alcune piante, elementi del paesaggio ligure, con in più il valore che questi elementi hanno come metafore del fare poetico); codice è la lingua italiana nella forma di una lingua poetica che vuole realizzare una sua sobria essenzialità e uno schema metrico che, pur libero, conserva alcuni aspetti della forma cosiddetta chiusa (cinque endecasillabi, due settenari, tre versi più lunghi; un parco uso di assonanze e di rime).
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Le corrispondenti funzioni della comunicazione Vediamo ora quale funzione svolgono i singoli fattori e soprattutto in quale reciproco rapporto gerarchico stanno le funzioni stesse. Il messaggio è una dichiarazione di poetica: Montale dice di voler rinunciare alla poesia aulica e di volersi concentrare su valori più intimi. Ecco un messaggio che parla di se stesso, che dichiara il suo codice poetico, e che svolge quindi una rilevante funzione metalinguistica come tutte le poesie ‘programmatiche’: è la poesia che parla di se stessa. I riferimenti al contesto (terza persona) non mancano, ed è interessante notare che la funzione referenziale è filtrata attraverso una fitta trama di simboli che culminano nel finale, dove i limoni diventano «le trombe d’oro della solarità». La presenza della prima persona, e cioè del mittente, si fa sentire fortemente («io, per me, ...»): qui Montale confessa la sua poetica, pone se stesso in primo piano e dichiara il proprio modo di far poesia con un certo pathos. Questo mette in opera una forte funzione espressiva o emotiva. La funzione incentrata sul destinatario (seconda persona), e cioè la forza del messaggio volta a determinare o a modificare l’atteggiamento del destinatario – la funzione detta conativa dal latino conor, «cercare di» – non sembra qui molto attiva: si può dire tutt’al più che Montale, ovviamente, cerca di convincere il destinatario della bontà della sua scelta di poetica, ma questo scopo è largamente implicito. La seconda persona è, sì, presente nella prima parola «ascoltami»: ma la funzione che tale parola svolge a un semplice livello linguistico è piuttosto quella fàtica (dal latino fari, «parlare»), e cioè vagamente discorsiva, una formula per richiamare l’attenzione dell’ascoltatore: è una tipica formula di controllo o di verifica del canale, ovvero del contatto con il destinatario. Resta da dire della funzione poetica, quella che si incentra sul messaggio stesso nella sua precisa configurazione, quella che, per la sua efficacia, conta sulla forma: qui, in Montale, si tratta di un determinato raccordo di temi, di simboli, di metafore, di scelte linguistiche e di artifici metrici. Questa funzione non sarebbe attiva in un qualunque enunciato comunicativo prosastico («a me piacciono molto i limoni», o simili), ma è quella specifica della letteratura, nel senso che in un enunciato letterario non manca mai: è la configurazione di un testo letterario, sia poetico sia prosastico, con la sua forma unica e insostituibile. Ma la funzione poetica può esser presente, per esempio, anche in enunciati pubblicitari che siano particolarmente legati alla forma per la loro efficacia: «Se
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bevi Neri ne ribevi» e simili. Qui però la funzione conativa è la dominante: il messaggio equivale a «Bevete Neri!».
Gerarchia delle funzioni Questo discorso preliminare aiuta a rendersi conto di quali siano le funzioni della comunicazione letteraria originaria e quali quelle che le singole correnti critiche hanno privilegiato o invece trascurato. Perché è chiaro che ogni prodotto letterario, nel momento della sua creazione, mette in atto una gerarchia delle funzioni: è compito poi della critica darne conto in sede critico–storica, cercando di evitare la sovrapposizione di categorie culturali proprie. Nella poesia di Montale che abbiamo esaminato sopra, oltre ovviamente alla funzione poetica, appaiono predominanti quella metalinguistica (o metaletteraria) e quella espressiva o emotiva. Le altre sono decisamente in sottordine. Per orientarsi sull’opera di Montale il compito della critica è facilitato dal fatto che si tratta di un poeta contemporaneo che appartiene alla nostra stessa cultura. Ma se esaminiamo un testo appartenente a una cultura diversa dalla nostra, e per di più molto lontana nel tempo, non ci è lecito usare le nostre categorie culturali. Eppure questo errore è stato compiuto più volte e in modi vari. La funzione espressiva o emotiva è quella dominante nella lirica moderna. Ma in Grecia non lo è affatto né nella lirica né in alcun altro genere letterario. Il poeta antico, e specialmente quello arcaico, ben più che esprimere i moti interiori del proprio animo (funzione espressiva, prima persona), esprime sentimenti e valori condivisi dalla collettività. Le funzioni che emergono sono quelle della seconda persona (la conativa, che mira al convincere) e quella della terza (la referenziale, che si riferisce alla realtà circostante, comune al poeta e al suo pubblico). Questo modo di lettura della letteratura arcaica, e specie della lirica, non è in realtà molto diffuso, ma sarà applicato qui analiticamente nella trattazione dei singoli autori. Il problema del modo di lettura è particolarmente importante a proposito dei poeti lirici, che a torto, quanto a poetica, sono stati a lungo avvicinati alla lirica moderna: due casi significativi – uno di Archiloco e uno di Saffo – di fraintendimento modernizzante verranno discussi introducendo il discorso sulla lirica arcaica[*]. Diventerà sempre più chiaro – e speriamo che in parte già lo sia – quanto sia utile, anzi prezioso, avere uno strumento critico che || [* Vd. L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, Firenze, Le Monnier, vol. 1, 2002, pp. 208–210.]
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permetta di far luce con poche parole, e cioè con pochi termini precisi, sulla posizione critica che di volta in volta viene assunta. Il modello di comunicazione di Jakobson appare molto adatto a questo scopo.
L’occasione Quello che ha troppo frequentemente impedito la comprensione del fenomeno letterario arcaico è stato il mancato riconoscimento di un fatto che, una volta messo in luce, risulta macroscopico: e cioè che la composizione letteraria fu per molti secoli (almeno fino al IV secolo a.C.) motivata da un’occasione comunitaria, nella quale avveniva la solenne pubblicazione attraverso l’esecuzione (che oggi molti insistono nel chiamare performance, ma si tratta a nostro parere di un anglismo inutile). È il momento di considerare da vicino questa situazione di fatto, che la storia ci documenta e che è in rapporto con la natura del contatto o canale di comunicazione. Si era detto di frequente, in critica di ispirazione idealistica, che i Greci avevano scoperto la profonda parentela, ovvero natura comune, di parola e musica per il fatto che fino almeno a tutta l’epoca classica l’esecuzione era di norma accompagnata dalla musica (e spesso anche dalla danza). Ai Greci veniva attribuito un entusiasmo quasi ideologico nell’avere individuato questa parentela e con lo stesso calore l’aveva vissuta l’estetica musicale romantica, innamorata della propria musica: basterebbe pensare alla storia del melodramma moderno, dal primo Seicento con Monteverdi fino al secondo Ottocento con Wagner e la sua «opera d’arte totale». Ma per i Greci si trattava di altro: si trattava solo della messa in scena del messaggio letterario, destinato com’esso era a un’occasione e disposto per lo più per grandi spazi all’aperto. Il messaggio raggiungeva la sua massima efficacia con un adattamento opportuno al canale, che non solo consentiva l’unione con la musica, ma che anzi in certo modo quest’unione la richiedeva perché fosse ottenuto il massimo dell’effetto: i grandi spazi dei santuari nelle feste, l’ampia cavea di un teatro per il dramma avevano bisogno di un suono pieno da far risuonare come per riempire, per ammobiliare quelle grandi acustiche. La musica serviva per potenziare il messaggio. Parola e musica furono unite presso i romantici da un matrimonio d’amore, ma in Grecia quest’unione fu un matrimonio di convenienza. Che la cultura greca avesse scoperto l’alfabeto poco prima della redazione dei poemi omerici nell’VIII secolo a.C. è patrimonio della cultura storica moderna fin dal Settecento. Ma, prima che si arrivasse all’uso della scrittura come
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strumento non solo di composizione e di conservazione dei testi ma anche di diffusione (Tucidide, Isocrate, Platone: V–IV secolo a.C.), passarono alcuni secoli. Solo più tardi si arrivò all’uso comune del libro, proprio dell’età ellenistica e della letteratura alessandrina (IV–III secolo a.C): prima di allora la pubblicazione avveniva esclusivamente nell’atto dell’esecuzione pubblica, com’è di norma oggi per la nostra musica. Ma la sala da concerto, oggi, è pur sempre l’equivalente di una sala di lettura di biblioteca: mentre nella cultura greca arcaica e classica l’opera letteraria veniva non soltanto eseguita, ma anche composta proprio per quella occasione pubblica. Di questa situazione di fatto, che configurava a suo modo il messaggio letterario, si era resa ben conto la prima grande filologia moderna (Boeckh, Welcker) fra Settecento e Ottocento, e non è un caso che sia stato il contemporaneo Goethe ad affermare che ogni opera d’arte è opera d’occasione, operando nei confronti della letteratura a lui contemporanea un’estensione di categorie antiche, in gran parte ancora attuali per tutto il Settecento, ma per lui, che era un preromantico, già superate. Per la poetica romantica l’opera nasce da una prepotente necessità interiore, e non da un’occasione esterna. In seguito la critica moderna avrebbe indebitamente fatto propria l’operazione opposta: avrebbe omologato la letteratura antica a quella moderna, romantica, e avrebbe dimenticato l’occasione esterna, leggendo la poesia antica come quella confessione intimistica (romantica) che essa assolutamente non era.
I generi letterari Non si sminuisce certo il valore della letteratura greca arcaica e classica definendola poesia d’occasione, come appare chiaro che è ormai d’obbligo fare. L’occasione per la quale i singoli componimenti furono prodotti è sempre o testimoniata all’interno dei componimenti stessi o documentata dall’evidenza storica. Appare chiaro, in tali condizioni, quanta importanza avesse il genere letterario, l’istituzione che dettava le leggi compositive, funzionali alle singole occasioni. Il genere letterario come strumento critico era caduto in grande disgrazia durante tutta la lunga dittatura dell’estetica crociana, specialmente in Italia. In realtà Croce non aveva capito molto del mondo antico e non a caso se ne era occupato assai poco. Il genere letterario è un’istituzio ne che, nel sistema letterario di un determinato momento storico, raccoglie intorno a sé opere che hanno caratteri distintivi comuni (tematica, dimensioni, lingua, metro ecc.). Questi caratteri distintivi
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rispondevano in Grecia a precise funzioni: celebrazione di dèi o di uomini, parenesi ovvero esortazione, intrattenimento simposiale ecc. La poesia epica, i vari generi lirici, il dramma erano delle realtà con le quali gli autori erano chiamati (e sono ancora oggi chiamati) a misurarsi. Non si capisce un’opera, specialmente antica, se non ci si riferisce al genere letterario a cui appartiene, e non si capisce il genere se non si capisce l’occasione alla quale era destinato.
L’epos In principio era l’epos. Omero raccontava le imprese degli eroi dell’antica leggenda, eroi che vantavano una discendenza divina. Per che pubblico e in quali occasioni? In origine i poemi erano recitati, o meglio resi con una sorta di cantilena musicale (il ‘recitativo’), con l’accompagnamento della phórminx, uno strumento a corda, nel μέγαρον dei palazzi micenei, come risulta nell’Odissea dalla rappresentazione del cantore Demòdoco presso i Feaci e del cantore Femio a Itaca. Un racconto ha sempre una forte funzione referenziale, perché la narazione si riferisce a una realtà, che nostro caso era quella degli eroi: si è acceso da tempo il dibattito, piuttosto, su quanto il mondo degli eroi fosse lontano dalla realtà storica dei cantori, e i pareri divergono, ma questo dibattito è per noi qui indifferente. Certamente un’altra funzione era fortemente attiva: quella conativa (seconda persona), perché quei canti da una parte rappresentavano un modello per i re e per l’aristocrazia e dall’altra dovevano raccomandare quella classe presso il popolo convincendolo della sua eccellenza. In seguito l’epica si rivolse a strati sempre più ampi di destinatari entrando a far parte degli agoni ovvero delle gare, in cui, in occasione di una festività (in genere una πανήγυρις, e cioè un raduno di molte genti), i cantori gareggiavano presentando le loro versioni dei fatti eroici. Fu così che si formò il corpus dell’epica, che comprendeva i due poemi maggiori (conservati) e i molti poemi del Ciclo epico (perduti). È presente a volte anche un’altra funzione, quella metalinguistica: perché più di una volta gli aedi riflettono sulle norme (ovvero sul codice) del loro poetare, come quando invocano la Musa ispiratrice. La funzione espressiva sembra essere invece al suo minimo: l’epica è il genere letterario della terza persona, il più oggettivo possibile; la seconda, come s’è detto, è implicita nella funzione conativa; ma la prima è in sostanza inesistente. È inutile richiamare anche qui la funzione poetica, che si manifesta in misura forte nell’alta formalizzazione della lingua letteraria (che in Grecia – come
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meglio vedremo in seguito – fu sempre istituzionalmente lontana dalle forme della comunicazione quotidiana) e nella disciplina metrica dell’esametro.
La lirica La successiva lirica, il cui fiorire durò fra il VII e il V secolo a.C., si distinse in due grandi sottogeneri: la lirica monodica, destinata al canto di un solo, e la lirica corale, destinata all’esecuzione di un coro (che cantava e danzava allo stesso tempo). I due sottogeneri si differenziavano per caratteristiche formali interne (tipologia metrica e tematica, moduli narrativi), anche se, dato il frequente stato frammentario della conservazione, non ci è sempre agevole distinguerli. Ma quel che conta è che erano destinati a due diversi tipi di occasione: al simposio la lirica monodica (Saffo con il suo tìaso era un’apparente eccezione) e alle grandi feste religiose la corale; corali erano anche i canti che celebravano i vincitori nelle gare sportive (gli epinici) e, probabilmente, i canti per i funerali (i θρῆνοι). La lirica monodica, nonostante la varietà delle sue forme (elegia, giambo e poesia melica propriamente detta, da μέλος, «canto») sembra essere stata destinata a un solo tipo di occasione, e cioè al simposio nelle sue varie forme locali. Il simposio era la celebrazione comunitaria propria di un’organizzazione politica, ed era quindi un’istituzione politica. Delle varie funzioni della poesia lirica – senz’altro le più riccamente differenziate – si è già parlato offrendo un esempio tratto da Montale. Contrariamente a quanto farebbe pensare un improvvido confronto con la lirica moderna, conviene solo anticipare quanto forte doveva essere la funzione conativa: a specchiarsi nella lirica sia monodica sia corale era la classe dirigente della polis, che voleva presentarsi con un’immagine quanto mai positiva. L’opera letteraria continuò a rispondere, come già ai tempi dell’epos, a esigenze di propaganda e di immagine.
Il teatro Un’esposizione anche approssimativa del codice che regolava il genere drammatico deve partire dall’esposizione delle condizioni in cui è nato il dramma attico, l’unico che possediamo in misura soddisfacente. In occasione di grandi festività religiose venivano indetti concorsi di stato per l’allestimento di spettacoli scenici. La selezione dei drammi destinati alla rappresentazione veniva
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effettuata da una commissione pubblica, che doveva però sempre tener conto del prepotente giudizio della collettività. A differenza del dramma borghese in senso moderno (Ibsen, Pirandello), in cui vengono presentate le conflittualità di un singolo individuo, più o meno condivise dall’ambiente o da settori dell’ambiente, il teatro tragico ad Atene era la rappresentazione scenica di grandi conflitti etici (la colpa, il rapporto con il divino, il significato della sofferenza), conflitti che coinvolgevano un’intera comunità, e cioè la cittadinanza di Atene che frequentava in massa il proprio teatro. La recitazione del testo drammatico antico può essere definita con un termine della teoria drammaturgica moderna: quello dello ‘straniamento’, usato da Brecht per definire il suo teatro ‘epico’ contraddistinto da una recitazione non realistica, straniante appunto, che esclude l’immedesimazione dell’attore, teorizzata invece e praticata da un altro grande regista e critico del teatro, il russo Stanislavskij. In Grecia gli attori erano sempre e solo uomini, anche per le parti femminili. Ce n’erano solo due e, da un certo punto in poi tre, in modo che un attore si trovava a recitare parti diverse; e qualche volta la stessa parte, secondo le opportunità della scena, veniva affidata ad attori diversi. Gli attori portavano maschere. Le rappresentazioni si tenevano all’aperto, in teatri piuttosto grandi (che potevano contenere alcune migliaia di spettatori), in modo che anche le condizioni esterne della comunicazione erano diverse da quelle di oggi. Per quanto riguarda la lingua, essa era normalmente di livello molto alto (a parte episodici colloquialismi) con molte riprese da Omero e dalla grande lirica. Tutto cospirava a rendere il modo di recitazione antico solenne e straniante, tale da far divenire la scena attica inadatta a sottili rappresentazioni di processi psicologici nei personaggi sulla scena. Per di più il teatro attico offriva poche possibilità dal punto di vista scenico e registico: un regista moderno sarebbe profondamente scontento di essere obbligato a operare con requisiti scenici così spogli e disadorni. Con questo non si vuole cancellare la personalità del singolo autore, che era sempre presente e operante: si vuole soltanto ridimensionarla in quanto motivazione non certo unica, e neanche prima, del processo di comunicazione letteraria. Forme e convenzioni drammatiche – e non solo quelle linguistiche – erano piuttosto rigide e si identificavano con una tradizione che era particolarmente rispettata come patrimonio comune di una collettività. È solo così che possiamo riconoscere e collocare adeguatamente l’intervento individuale dei singoli autori, quello che faremo trattandoli singolarmente.
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Lo straniamento linguistico A questo punto è bene parlare di un altro aspetto relativamente estraneo al concetto moderno di letteratura. Si tratta di quello che si può chiamare ancora una volta ‘straniamento’, cioè distanziamento, ma ora riferito al livello linguistico. Ogni letteratura elabora varie lingue letterarie, che proprio in quanto tali si distanziano dalla lingua d’uso: questo è vero anche per la lirica moderna, che ha, per esempio, imparato da Petrarca una lingua letteraria apparentemente facile, ma percorsa da una fitta trama di riprese e riferimenti ai suoi classici latini. Ma lo straniamento linguistico nella letteratura greca va di norma oltre questa misura. I Greci restarono sempre attivamente coscienti della loro tradizione poetica: per quasi millecinquecento anni composero esametri in una lingua che, se innovava un poco nel lessico, si rifaceva pur sempre alla morfologia omerica. La grande poesia lirica ebbe vita più breve, fra il VII e il V secolo a.C., ma abbastanza lunga per mostrare anch’essa una singolare e costante fedeltà alla tradizione: ogni composizione corale, per esempio, doveva avere una coloritura di dorico per rispettare una tradizione che si faceva risalire all’ambiente dorico. Qualcuno potrebbe pensare che, almeno agli inizi, queste tradizioni poetiche si servissero di una lingua in qualche modo e luogo comunemente usata. Ma non sembra che sia stato così neanche agli inizi. Fu nei primi anni del XX secolo che della lingua omerica venne data una definizione (Karl Meister) che può sembrare strana, ma che è l’unica efficace per capire l’atteggiamento dei Greci di fronte al fatto letterario: «lingua artificiale» (Kunstsprache). Nessuno può aver mai usato il miscuglio di forme ioniche ed eoliche come esso si presenta nei poemi omerici. E così è, in dettagli che si vedranno meglio a proposito dei singoli lirici, anche per la grande poesia lirica. Ecco un altro criterio, questa volta del tutto interno ai testi, che ci servirà per una corretta verifica delle funzioni: una lingua così rigida doveva lasciare spazio più ristretto a interventi individuali, così come li concepisce la poetica moderna.
I dialetti letterari I dialetti parlati e i dialetti letterari I Greci hanno sempre sentito il bisogno di tenere ben distinta la lingua letteraria dalla lingua di tutti i giorni, più di quanto accada normalmente nelle letterature moderne. Il risultato è quello che abbiamo chiamato sopra ‘straniamento’ linguistico.
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Com’è capitato di precisare più di una volta, i dialetti d’uso locale sono una realtà distinta dai dialetti letterari e sono oggetto di studio della dialettologia, una disciplina specifica della linguistica: questi dialetti sono detti comunemente ‘dialetti epicòrici’ (da χώρα, «regione»). Per l’epoca più arcaica sono documentati per gran parte da iscrizioni, ma in complesso il materiale che abbiamo è poco e siamo costretti a integrare il molto che ci manca con la documentazione letteraria, che è infida proprio per la sua natura letteraria. Quello della scarsità della documentazione è il grande problema della dialettologia greca ed è reso più grave dalla discontinuità cronologica delle testimonianze e dalle differenze profonde tra i vari tipi di documenti che ci permettono di ricostruire le caratteristiche e l’evoluzione dei dialetti (per esempio, fra le iscrizioni dialettali, quelle ufficiali contenenti decreti, quelle letterarie contenenti testi letterari, vasi, graffiti sui muri ecc.). Per di più la distinzione tra testimonianze epigrafiche e letterarie su cui fin qui ci siamo basati è solo in apparenza semplice e automatica. Nel XIX secolo, quando c’era grande sensibilità al fatto letterario, ma ancora poca esperienza nel campo della linguistica generale, si considerava pressoché sicuro che la lingua delle iscrizioni rispecchiasse la lingua parlata, ma questo è risultato vero solo in piccola parte. Per la sua stessa natura di documento destinato a durare, l’iscrizione risponde a precise leggi di genere, distinte secondo le funzioni e i destinatari dei testi: ci si riferisce qui all’iscrizione esposta al pubblico, come per esempio le epigrafi funerarie o i decreti; diverso è il caso dei graffiti estemporanei su muri o su vasi. Abbiamo un campionario che va dal letterario alto al parlato basso. Per esempio, un’iscrizione funeraria in versi adotterà forme proprie della lingua poetica; un decreto seguirà la tradizione della lingua giuridica e amministrativa ecc. Per questo motivo siamo costretti ad ammettere che la lingua parlata in gran parte ci sfugge e che dobbiamo continuamente valutare la qualità dei documenti prima di usarli come testimonianze per ricostruire la lingua parlata stessa. I grandi gruppi dei dialetti epicorici I Greci classificavano i dialetti in tre grandi gruppi (ionico, eolico e dorico) corrispondenti alle tre stirpi greche che in tempi diversi occuparono la penisola greca, le isole dell’Egeo e le coste dell’Asia Minore. Questa tripartizione resta alla base di ogni tentativo di classificazione dei dialetti, almeno per un’epoca che va dal VII al IV secolo a.C. Ai tre gruppi tradizionali gli studiosi aggiungono oggi il gruppo arcadico–cipriota e, su un piano diverso per motivi cronologici, il miceneo.
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Il gruppo ionico viene più correttamente denominato ionico–attico, perché il dialetto attico ha caratteristiche sue proprie che lo distinguono da tutti gli altri dialetti del gruppo (ionico d’Eubèa, ionico delle Cìcladi, ionico d’Asia). Il gruppo eolico comprende tre dialetti distinti: l’eolico d’Asia, testimoniato soprattutto dal dialetto di Lesbo, il beotico e il tessalico. Il gruppo dorico comprende numerosi dialetti parlati prevalentemente nel Peloponneso (laconico, corinzio, argolico, megarese, messenico, rodiese, cretese) e i cosiddetti dialetti di nord–ovest (Grecia di nord–ovest: eleo, etolico, locrese, focese). Il gruppo arcadico–cipriota comprende due dialetti parlati in aree geograficamente molto lontane tra loro. La parentela tra questi due dialetti è spiegata con l’arrivo di coloni dal Peloponneso a Cipro intorno al 1200 a.C. Gli Arcadi, premuti dai Dori, si sarebbero allontanati dal Peloponneso attraverso la Trifilia, regione con sbocco al mare a sud–ovest dell’Arcadia. Secondo questa teoria l’antenato comune dell’arcadico e del cipriota sarebbe un dialetto parlato nel Peloponneso nel XIII secolo a.C., fino all’invasione dorica, che sarebbe identificabile con un particolare tipo di miceneo. Al gruppo appartiene anche il molto periferico panfilio, nella costa meridionale dell’Asia Minore. I dialetti letterari Si usa qualche volta dire, per esempio, che l’epos è in ionico e che la tragedia è in attico. Tali etichette sono sintetiche e apparentemente comode, ma sono false. Nessun singolo autore compone nel suo dialetto epicorico natìo, perché il dialetto è determinato dal genere letterario: il dialetto fa parte del codice di quel determinato genere. Ma va detto anche che nessun genere letterario adotta in toto un determinato dialetto epicorico: si tratta sempre di dialetti letterari, e cioè di mistioni dialettali che risalgono a una specifica tradizione poetica. La facies linguistica delle opere di letteratura è stata giustamente definita ‘lingua artificiale’, perché non c’è opera che rispecchi integralmente una determinata parlata locale. In altre parole: nessun poeta ha mai composto versi nella lingua che parlava. Fin da principio, e cioè addirittura da Omero, sono presenti elementi di lingua popolare, che sono come incastonati in un contesto alto e che, con maggiore o minore densità a seconda dei generi e degli autori, mirano a effetti di particolare efficacia. La lingua dell’epica fu, come i contenuti dell’epica stessa, il risultato di una secolare stratificazione. Fu la lingua letteraria per eccellenza, nel duplice senso che fu artificiale in massimo grado e che fu il modello di tutte le lingue letterarie che seguirono. La lingua dell’epica appare a noi come una mistione di ionico e
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di eolico, ma le si fa più giustizia chiamandola semplicemente ‘lingua omerica’, come si fa oggi tenendo conto degli apporti che si riconoscono provenienti da altri gruppi dialettali (arcadico–cipriota). L’elegia ha un debito immenso nei confronti dell’epos: la lingua dell’elegia è sostanzialmente quella dell’epos. Ma un grande debito verso l’epos lo ha anche il giambo, che rispetto all’epos è polare nei contenuti (biasimo invece di lode). L’importanza di Sparta come committente di carmi corali per le feste religiose ebbe conseguenze sulla lingua della lirica corale che, soprattutto ai suoi inizi, con Alcmane, si presenta come un dorico letterario, cioè influenzato dalla tradizione dell’epica e da quella della melica eolica (Terpandro). La componente dorica andrà via via attenuandosi, senza però eliminarsi del tutto. La melica monodica sembra aver avuto un relativo maggior riguardo per il dialetto parlato nelle zone di composizione e di fruizione iniziale: così per i poeti eolici (Alceo, Saffo) e il dialetto eolico e così per Anacreonte e lo ionico d’Asia. Ma il debito verso la lingua letteraria (e cioè omerica) restava sempre molto forte. La filosofia, nata a Mileto, rispettò a lungo questa sua origine microasiatica e, sia in prosa sia in poesia, non si discostò sostanzialmente mai da uno ionico letterario. Il dramma attico rispecchiò le esigenze del suo pubblico, che era quello dei teatri di Atene, e sovrappose i suoi debiti letterari a una lingua sostanzialmente attica: il dialogo appare portatore di omerismi e di liricismi, mentre le parti cantate assolvono al loro debito nei confronti della tradizione dorica quasi esclusivamente con la leggera patina dorica data dall’uso (peraltro neanche generalizzato) dell’alpha dorico. La grande storiografia ebbe comportamenti diversi: Erodoto è un raccontatore omerico, e di Omero si serve nella tecnica narrativa e nello ionico letterario; Tucidide si rivolge alle élite intellettuali pangreche e usa un attico privo di eccessivi localismi (usa, per esempio, –σσ– invece di –ττ–, e cioè il ben più dialettalmente diffuso θάλασσα invece del troppo provinciale θάλαττα). In età ellenistica la letteratura alessandrina opera la più grande rivoluzione nella lingua letteraria che mai vi sia stata, col recepire già nel IV secolo a.C. fin da Menandro (per ragioni di mimetismo linguistico) e fin da Aristotele (per ragioni di funzionalità scientifica) le numerose innovazioni lessicali (parole nuove, composti nuovi) che la lingua contemporanea produceva.
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I dialetti e la tradizione manoscritta Non sempre forme dialettali presumibilmente presenti nei vari testi sono arrivate fino a noi attraverso la tradizione manoscritta. La principale responsabile di tale processo di corruzione è Atene, che, con la sua preminenza culturale, ha visto passare per le mani dei suoi scribi la maggior parte della letteratura prealessandrina. È per noi naturale attribuire a questi scribi quelle che noi chiamiamo atticizzazioni: il filologo–linguista deve operare oggi, anche in questo campo, un delicato lavoro di restauro.
I Greci e la tradizione Siamo ora in grado di tirare le fila del discorso, più volte affrontato, del rapporto dei Greci con la loro tradizione letteraria. È stato detto giustamente (Hermann Fränkel) che l’alto grado di raffinamento formale del prodotto letterario greco (questo vale anche per la letteratura latina) ci permette, da un frammento anche piccolo, di renderci conto di molti elementi perduti dell’opera nella sua completezza. Questo fatto ci aiuta molto per il lavoro filologico di ricostruzione, perché è frequente che ci troviamo di fronte a frammenti anche molto scarni. Le regole del gioco letterario erano severe a tutti i livelli: per la lingua, per la tematica, per la struttura della composizione nel suo insieme. Così, quando da un frammento cerchiamo di ricostruire l’intero, ci troviamo sempre di fronte a un ventaglio di alternative relativamente ristretto. Questo dato di fatto dipende dal rispetto che i Greci avevano per i singoli codici letterari, ma non toglie nulla all’originalità della letteratura greca, tutt’altro: il riconoscere nei singoli casi tratti originali alle volte molto forti è forse l’esperienza più sorprendente che ci riservano questi testi, per tanti versi così legati alla tradizione, per la quale i Greci avevano un rispetto quasi maniacale. Questo rispetto da parte dei Greci ha aiutato non poco noi moderni a capire quanto sia importante, anche oggi, che dietro a ogni testo letterario sia viva e vissuta la tradizione che lo precede e che in qualche modo lo crea. Oggi si parla di ‘rapporti intertestuali’, e cioè del rapporto che lega un testo all’altro, ovviamente anteriore. «Tutto quello che non è tradizione è plagio»: non sono riuscito a scoprire l’autore di questo splendido aforisma[*]. Ma me ne illustra il significato un’altra
|| [* Vd. n. 1 a p. 541 di questo volume. – G. C.]
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splendida formulazione, una battuta di quel genio della letteratura che fu Jorge Luis Borges, formulata in un’intervista («Vuelta»,n. 117, 1986, p. 31): (domanda) Gérard de Nerval disse: «Il primo che operò la similitudine della donna con la rosa era un poeta, il secondo che lo fece fu un imbecille». Che reazione ha di fronte a questa frase? (risposta di Borges) Il terzo è un classico. (Risate).
Gérard de Nerval (1808–1855) era un romantico, che vedeva ogni forma di debito letterario come un fatto di mancanza di spontaneità: ma per noi il secondo della catena «donna = rosa» non è certo un «imbecille», bensì un poeta che recepisce una tradizione già formatasi, perché si può considerare la similitudine donna/rosa come divenuta già tradizionale. Borges, con una brillante battuta elusiva, si contentò di dire che a essere diventato un classico era il terzo.
La retorica Un altro modo, tipicamente antico, di imbrigliare la lingua e il discorso e di straniarli rispetto al quotidiano era la retorica. Nessun discorso può fare a meno della retorica: noi parliamo continuamente con metafore, alcune delle quali sono diventate, come si dice, ‘spente’ (nessuno sente più che la parola ‘arrivare’ è partita dalla metafora di ‘giungere a riva’). Ma i nostri testi letterari sono ricchi di metafore vive. E i Greci erano generosi di tutte quelle che vengono chiamate figure, sia di pensiero sia di parola (anafore, antitesi ecc.). La retorica si cominciò a teorizzare dai sofisti in poi (V secolo a.C.), ma una viva coscienza retorica era già presente in Omero, dove Nestore e Odisseo venivano riconosciuti – all’interno dei poemi – come maestri di arte oratoria. Soprattutto dopo decenni che la retorica è stata assente dalla scuola, ci è difficile renderci conto fino a qual punto di minuzia potesse arrivare la teoria e quanta efficacia venisse attribuita dai Greci alla prassi della retorica, e cioè all’arte oratoria. La sensibilità del pubblico era fortissima sotto questo aspetto. E anche questa è per noi una faticosa riconquista, quando leggiamo un testo antico: dobbiamo renderci conto del grande ruolo che ha avuto la retorica nella composizione letteraria e della grande efficacia che doveva avere presso i destinatari. Dobbiamo, in altre parole, riuscire ad accorgercene, perché la nostra sensibilità non è più spontaneamente disposta a questo. E dopo le tante polemiche estetiche e pedagogiche contro la retorica, è il caso di riaffermare ancora una volta – oggi che la retorica antica e moderna ritorna finalmente anche
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nell’insegnamento – l’alto potenziale di originalità stilistica che i Greci realizzarono anche attraverso la rigida griglia della retorica.
Verso altri modi della comunicazione dal V secolo a.C. in poi: nuovi generi letterari In continuità con le forme letterarie che abbiamo esaminato si pongono la filosofia, la storia e l’oratoria: tutte e tre fiorirono nel contatto diretto con il pubblico, che venne assicurato dal tipo di pubblicazione orale. Si può dire che il primo a innovare nel modo della pubblicazione fu Tucidide alla fine del V secolo, con la sua polemica famosa contro le opere destinate a compiacere il pubblico attraverso i racconti favolosi (μυθώδης): e la sua fu davvero la prima opera greca che mostrò i segni, anche internamente e cioè nello stile e nella struttura, di una cultura che andava ormai diventando ‘scritta’, nel senso dell’essere destinata più alla lettura (magari in piccolo circolo) che alla recitazione davanti al grande pubblico. Da questo momento, e cioè dalla fine del V secolo a.C., si innescò il processo che trasformò il tipo della comunicazione: da orale essa divenne scritta. È per il suo ormai maturo uso del libro come strumento di comunicazione (e di ampia diffusione) che la letteratura alessandrina, fiorita tra la fine del IV e il principio del III secolo a.C., viene considerata – a ragione – più moderna, più vicina a noi. Questo non avvenne senza mutamenti politici e sociologici, di cui si parlerà di volta in volta. Ma quello che importa precisare qui è che la nostra distanza di cultura, o meglio ancora di costume, da un epigramma di Callimaco o da un carme bucolico di Teocrito è considerevolmente minore di quella che ci occorre superare leggendo un carme di Saffo o una tragedia attica. La letteratura alessandrina cominciò a rivolgersi a un pubblico letterato che era unito da un interesse più propriamente ‘letterario’, diversamente dalla letteratura arcaica e classica che si rivolgeva, attraverso il canale orale, a un pubblico unito dal legame di gruppo o di polis. Quando ci riferiamo a ‘noi’ – è un avvertimento da dare – ci consideriamo ancora all’interno di un tipo di cultura letteraria che sta però continuamente cambiando di anno in anno, e forse di mese in mese, sotto l’impero dei mezzi di comunicazione di massa. Quello che attraverso la televisione sta sempre più diventando il ‘villaggio globale’ (per ampiezza di pubblico e contemporaneità di messaggi) ci fa vivere un’esperienza che può renderci meno lontana ed estranea la cultura orale arcaica: ci stiamo allontanando dalla cultura scrittoria e, se non
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verso l’oralità, stiamo andando verso una cultura dell’immagine. Si aggiunga il continuo progredire dell’informatica: il mondo sta vivendo una veloce rivoluzione non solo di cultura, ma anche, nel profondo, di strumentazione mentale. È un discorso importante, questo, a cui dobbiamo qui solo accennare di sfuggita: ma è fuor di dubbio che anche il nostro rapporto con l’antico va velocemente cambiando.
Paradigmi mitici e contenuti etici come patrimonio comune È stato relativamente facile misurare la distanza della nostra cultura dalle diverse culture antiche per quanto riguarda i modi della comunicazione. Si è trattato di una elementare premessa di base: è stato sufficiente considerare le istituzioni letterarie e i modi del loro operare. Ma queste istituzioni sono state create da successivi stadi di una cultura che le aveva formate come funzionali a sé. E qui dovrebbe aprirsi un’altra premessa almeno altrettanto ampia per illustrare i contenuti di quella cultura e i suoi codici. Tutto questo verrà illustrato di volta in volta in sede di introduzione ai vari periodi e all’interno degli autori più significativi. Qui, nell’avvertire che i codici psicologici, sociologici e di comportamento erano diversi dai nostri, è bene fare una segnalazione generale: che, cioè, la letteratura arcaica e classica è caratterizzata da una predominanza del contenuto etico proprio per quella che si può chiamare l’ecumenicità del suo pubblico: soprattutto nella Grecia arcaica e classica un messaggio letterario era rivolto a un pubblico che si poteva spesso considerare totale. Quanto più ampio era il raggio dei destinatari tanto più ampia era naturale che fosse la risonanza, e cioè l’importanza, dei contenuti. La comunità si riconosceva nei contenuti etici perché questi erano ancorati a figure e a situazioni del mito che, a dispetto della situazione di frammentarietà politica, era comune a tutti i Greci. La Grecia era un mosaico politico, ma era anche una grande unità culturale. Qui sta la ragione profonda del fatto che quanto si affidava alla comunicazione letteraria era molto più globale e coinvolgente di quel che avviene oggi, e si trattava di contenuti etici che non erano mai individuali ma sempre comunitari, anche se a esprimerli era formalmente (ovvero grammaticalmente) l’‘io’ individuale. Un poeta arcaico come Ipponatte, e in misura minore anche Archiloco, sono stati definiti più volte ‘poeti maledetti’, nel senso che avrebbero espresso atteggiamenti controcorrente e in aperta sfida all’etica del loro tempo e del loro am-
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biente. Niente di più falso, se (come purtroppo è stato più volte fatto) si prende quella infelice definizione alla lettera: si vedrà chiaramente che non c’era posto per un tipo simile di sfida. Anche dal punto di vista dei contenuti, e specificamente dei contenuti etici, si vedrà che 1’espressione individualizzata dell’atteggiamento non era mai violenta e immediata, nella sostanza, come spesso avviene nel mondo moderno: era, invece, molto più mediata, trovandosi a dover dare una risposta in larga parte positiva alle ‘attese’ del pubblico, che era legatissimo alla tradizione. Ipponatte (che tra l’altro era un nobile), con il suo mondo povero e ‘pitocco’, non era uno sboccato blasfemo che riversava indiscriminate note di biasimo, ma un poeta che innovava nei contenuti (un mondo povero contrapposto al mondo alto dell’epica), ma sempre in rispondenza a una sensibilità che continuava comunque a misurarsi con i valori dell’epos. Così come prima di lui Archiloco, che cantava il comandante militare brutto ma valoroso, si contrapponeva alla tradizione epica, che aveva idealizzato il guerriero, perché nuove erano le esigenze, anche tecniche, della guerra del suo tempo. E va ricordato d’altra parte che il biasimo della poesia di ispirazione giambica era l’opposto polare della lode: come la lode era destinata al gruppo e ai suoi componenti, così il biasimo era diretto contro i suoi nemici. Un altro modo – polare, appunto – di realizzare la funzione conativa, che mirava alla propaganda di tutto quello che era considerato positivo. Viene comunemente detto che a essere coinvolta più di altri generi letterari nei valori etici è stata la tragedia attica. Ma è solo un errore di prospettiva critica. Il V secolo a.C. fu un’epoca di crisi di valori e di conflitti profondi e il coinvolgimento, nella tragedia, prese quasi sempre la forma del dibattito. Si formalizzava così a livello letterario la prassi del dibattito dei tribunali e delle assemblee del popolo, due momenti della vita comunitaria che appassionavano gli Ateniesi, alle volte anche smodatamente come ci fa vedere Aristofane nelle Vespe (422 a.C.). Il dramma attico non è più ‘etico’ di quanto lo sia stata la cultura arcaica. Fu poi la letteratura alessandrina a inaugurare un atteggiamento più moderno, più vicino a noi, lasciando spazio anche al gioco letterario. Dicendo ‘anche’ si vuole qui esplicitamente polemizzare con un atteggiamento critico che ha voluto vedere negli alessandrini solo l’aspetto del gioco, l’aspetto ludico, mentre la letteratura dell’età ellenistica era anch’essa a suo modo fortemente legata a valori sia etici sia politici, trovandosi in questo a non innovare rispetto al passato.
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La filologia come condanna e come vocazione Ci siamo finora concessi l’illusione che la letteratura greca sia un corpus di opere interamente a disposizione del nostro controllo critico. Ma è un atteggiamento provvisorio, di comodo. Questo corpus è tutt’altro che completo, nel senso che molte sue lacune, e neanche tutte, ci sono note come tali: di molte opere riusciamo solo a congetturare l’esistenza, di altre abbiamo solo il titolo, molte le abbiamo solo in frammenti, e finalmente alcune ci sono arrivate complete ma con il testo variamente corrotto. E di qualcosa infine (di quanto?) non saremo mai in grado di parlare: di quello che si è perduto senza che noi neanche lo sospettiamo. Ora, il restauro di questo grande quadro è affidato alla nostra attività filologica. La filologia dev’essere sempre presente, pur se alle volte in misura largamente implicita, nel nostro approccio a qualunque tipo di testi, anche moderni e contemporanei: la rettifica, anche solo mentale, di un evidente errore di stampa in un giornale è in sé attività filologica. Ma nel trattare i testi antichi a questa attività si deve lasciare uno spazio molto ampio, visto il lungo tratto di tempo e la varietà di vicende che ci separano dal momento in cui i testi furono composti. Di fronte a una simile situazione di fatto, sembra oggi perfino strano che si sia potuto dibattere a livello scientifico sull’utilità e sull’inutilità della filologia. Lo si è fatto in Italia al principio del Novecento: dalla parte di chi predicava una fruizione ‘immediata’ dei testi antichi erano Giuseppe Fraccaroli ed Ettore Romagnoli; dalla parte di chi riconosceva la necessità dell’attività filologica erano Girolamo Vitelli e Giorgio Pasquali. Non c’è dubbio che a confortare posizioni puramente intuizionistiche c’era una buona dose di demagogia: mettersi di fronte a un testo senza mediazioni dà l’illusione (deleteria) di far meno fatica. Ma, siccome la demagogia dell’antifilologismo e dell’immediatezza si annida ovunque, sarà bene riaffermare sempre la necessità assoluta che la fruizione di un testo antico passi attraverso la mediazione della filologia. La filologia è una condanna, ma può diventare anche una vocazione, se se ne riconosce il ruolo e la funzione nel percorso intellettuale. La filologia può avere il suo fascino. La tradizione di un testo antico, ovvero la sua trasmissione – come vedremo meglio nella seconda parte di questa introduzione – dura da un tempo che si misura a millenni e il mezzo di trasmissione è cambiato più volte: da una trasmissione orale (1’epos originario) si passò alla trasmissione con il mezzo tecnologico della scrittura (a cominciare, grosso modo, dal 750 a.C.), che però per un lungo periodo deve aver concorso con la trasmissione orale. Nel XV secolo intervenne, infine, la stampa.
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Nel mondo antico un’attività filologica paragonabile alla nostra si affermò su larga scala a cominciare dal III secolo a.C. ad Alessandria, nell’ambiente del Museo: le opere vennero ordinate secondo criteri vari e il testo venne sanato da quelli che apparivano errori (venne ‘emendato’) e commentato. Fu l’epoca della prima attività editoriale in senso moderno. Attraverso la filologia alessandrina passò non tutto, ma certo quasi tutto quello che oggi leggiamo. Per valutare correttamente il materiale giunto fino a noi (iscrizioni, papiri, manoscritti medievali ecc.) dobbiamo partire proprio dal delineare la storia della tradizione di un testo fin dal mondo antico. Dobbiamo proporci la storia della tradizione anche per il lungo periodo anteriore alla filologia alessandrina, attività che fu inaugurata da Wolf per Omero alla fine del Settecento (1795) e da Wilamowitz per i lirici (1900) e per i bucolici (1905). Dopo di che è la nostra filologia a dover intervenire: anche noi abbiamo il compito di leggere criticamente i testi, di capirli, di emendarli: è l’attività che si concretizza in quelle che si chiamano, appunto, edizioni critiche.
I codici della comunicazione letteraria La filologia moderna si esercita, per di più, anche nella prudente ricostruzione di fattori che nelle letterature moderne sono senza confronto più documentati: parlo soprattutto della lingua e del metro. Di fronte a un fenomeno linguistico che appaia anche solo un poco inconsueto, bisogna essere in grado di stabilire in che misura si allontana dalla norma, e per questo è necessario avere un quadro il più preciso possibile della norma stessa, che si tratti della norma puramente linguistica o della norma del codice letterario ovvero del genere. Per accertare un colloquialismo dobbiamo poter ricostruire la lingua cosiddetta dell’uso (e cioè accertarci che sia realmente un colloquialismo) per sentire le differenze dalle parole di registro più alto. Stabilendo, poi, un rapporto intertestuale, e cioè di allusione di un testo a un altro, dobbiamo soppesare se esso è usuale (capitale è il caso del perenne ‘omerizzare’) oppure se è un fatto singolare; ma c’è caso che possa trattarsi di un semplice fatto dell’uso linguistico quotidiano, che non nasce dal rapporto fra due o più testi. Quanto alla metrica, si dimentica spesso che – lo abbiamo detto – la poesia greca fino ad almeno tutto il V secolo a.C. e anche oltre, è sempre accompagnata dalla musica. Ora, della musica antica non ci restano se non scarsi e scarni documenti che non risalgono più in su del II secolo a.C., rimanendo noi nell’ignoranza di quella che era stata la musica della lirica arcaica e del dramma attico. Lo schema metrico, che alle volte riusciamo a ricostruire con fatica, è
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solo la ‘partitura ritmica’ di questa musica, niente di più (come se di musica moderna ci rimanesse soltanto lo scheletro ritmico affidato alla percussione) e, di fronte all’elasticità con cui il ritmo antico si legava alla parola, spesso anche avere la partitura ritmica (la sequenza di lunghe e di brevi) non è avere molto: schemi metrici apparentemente uguali o simili potevano corrispondere a delle realtà ritmiche che la sensibilità degli antichi percepiva come molto diverse. Vedremo quanta importanza questo può avere in tutta la lirica arcaica anche per una corretta assegnazione dell’etichetta del genere letterario. Ma i disagi non si fermano qui, e vanno affrontati con metodo. Quanto, per esempio, dei condizionamenti istituzionali ci sono poco noti o addirittura ignoti? È questo il campo che si suole designare con il nome di ‘antichità’: le antichità sacre, che ci sono essenziali per conoscere le condizioni di pubblicazione dell’epos, della citarodia e della lirica corale, perché ci illustrano come venivano organizzati gli agoni e le feste; le antichità simposiali, che fanno da contesto alla lirica monodica, destinata al simposio; le antichità teatrali, dalle quali veniamo a sapere in che modo erano organizzati gli agoni drammatici e in quali ambienti (i teatri) e in quali condizioni erano rappresentati i drammi. E così via per la politica, il diritto, la guerra, l’economia ecc. Per tutta questa materia ci è essenziale l’aiuto degli archeologi, degli epigrafisti, degli storici e di tanti altri cosiddetti specialisti: e ricordiamo il detto di Giorgio Pasquali, per il quale «non esistono discipline distinte, ma solo problemi»[*].
Le correnti della critica Come dev’essere ormai chiaro, l’esposizione, che qui segue, della storia della letteratura greca non sarà falsamente neutrale, come prescriverebbe un falso ideale di obiettività manualistica. Ogni volta che ci si troverà di fronte a interpretazioni di fondo che siano state o siano ancora controverse, si ha l’ambizione di offrire le problematiche e i problemi singoli in modo che le diverse posizioni prese appaiano motivate, sia le altre sia la nostra. Ed è per favorire un primo orientamento che si dà qui in brevissima sintesi la storia degli studi moderni nel nostro campo, nominando solo poche correnti importanti e facendo solo alcuni nomi che servano da riferimento. Accenniamo solo all’intensa vicenda del primo Umanesimo, quello italiano del XV e XVI secolo, che riscoprì il mondo greco in Occidente e lo legò in un sistema coerente con quello latino, la cui memoria peraltro non si era mai spen|| [* G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 19522, p. XIII s.]
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ta. L’Umanesimo si costruì una serie di ideali e li attribuì a questi due mondi, innalzandoli poi a modelli senza tempo: questo è per noi il significato del termine ‘umanesimo’. Ma il vero inizio degli studi moderni è da ravvisarsi nel cosiddetto secondo Umanesimo, quello che vide Johann Joachim Winckelmann (1717–1768) riscoprire l’arte antica e Friedrich August Wolf (1759–1824) teorizzare l’attività filologica dandone un grande sistema: risale a lui il termine «scienza dell’antichità», Altertumswissenschaft. Il sistema di Wolf fu poi perfezionato da August Boeckh (1785–1867), quest’ultimo professore a Berlino e collega, nei primi anni di attività, di Hegel. Lo storicismo idealistico diede un’impronta duratura ai nostri studi e proprio nei nostri studi tale impronta è rimasta quasi sempre presente in seguito, anche in correnti che più o meno esplicitamente intendevano negare la storia. Poi, durante la seconda metà dell’Ottocento, si affermò anche negli studi antichistici il positivismo, che con il suo ideale di obiettività si dedicò a una tuttora preziosa raccolta e classificazione di materiali, molti dei quali aspettano ancora di essere valutati. In Inghilterra agli inizi del XX secolo si segnalò la cosiddetta scuola antropologica di Cambridge (Jane Harrison, Gilbert Murray, per fare solo due nomi), che non a caso era nata in un Paese che era a contatto con le così varie culture del suo impero coloniale: i campi che più si giovarono di questo orientamento furono la religione, l’epica e il dramma attico. In Italia la filologia nacque alla fine del XIX secolo, con l’unità nazionale, e chi la inaugurò va riconosciuto in uno studioso molto versatile, Domenico Comparetti (1835–1927). Ma, dopo essere rimasti alcuni decenni sotto il fascino del positivismo tedesco, si passò da noi sotto il fascino del neoidealismo di Benedetto Croce, che finì con l’essere la negazione della storia e con il propagandare un dannoso impressionismo critico, che fra l’altro svalutò, e non promosse affatto, la ricerca filologica stricto sensu. Ma il filone filologico, debitore alla Germania, continuò a essere operante pur tra accese polemiche inquinate da spunti nazionalistici. Il maggior merito di questo sviluppo va a Giorgio Pasquali (1885– 1952), che operò non solo con i suoi scritti ma anche con il grande successo della sua attività di docente. In Germania, dopo la prima guerra mondiale, si affermò il cosiddetto terzo Umanesimo, che nella persona di Werner Jaeger (poi emigrato in America) esercitò un tenace impegno a proiettare le categorie di una propria ‘storia dello spirito’ al mondo antico: ma non va dimenticato l’altrettanto accanito impegno nell’esegesi minuta dei testi, che ha dato frutti preziosi validi ancora oggi.
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La Francia ha offerto, e continua a offrire, i risultati della sociologia e della psicologia storiche inaugurate da Louis Gernet fra le due guerre. Al linguista svizzero Ferdinand de Saussure e al suo Corso ginevrino (1913) dobbiamo l’emergere in primo piano degli studi di linguistica: la lingua è un sistema di segni che ‘si tengono’ l’uno con l’altro (come – diceva Saussure – i pezzi degli scacchi nel corso di una partita: se se ne sposta uno, cambia il valore di tutti gli altri). A queste conquiste della linguistica va riportato lo strutturalismo. Di qui da una parte la ricezione nel circuito culturale della scuola di Praga, dei formalisti russi ecc., che hanno puntato l’attenzione sugli aspetti formali della letteratura; dall’altra lo straordinario ramificarsi della semiologia (scienza dei segni), che ha studiato le singole culture come sistemi di segni, includendo quindi anche aspetti del costume come la moda, la cucina ecc. Bisogna aggiungere i contributi che sono stati offerti dal marxismo (con l’accento posto sui condizionamenti economico–sociali) e dalla psicanalisi (che, nei suoi atteggiamenti più equilibrati, ha richiamato una giusta attenzione sulla personalità dell’autore non in sé, ma come risulta strutturata nell’opera singola). Nel 1928 l’americano Milman Parry pubblicò i suoi primi studi sull’epiteto tradizionale in Omero, inaugurando la ricerca sulla tecnica formulare epica: partendo dal dato delle formule ricorrenti, la cosiddetta teoria oralistica (così chiamata perché sostiene che la redazione scritta dei poemi mostra chiari segni della formazione orale dell’epos) ha raggiunto risultati schiettamente antropologici per le società preomerica e omerica. Un altro americano, Eric A. Havelock (scomparso nel 1988), ha esteso lo studio antropologico a tutta la cultura classica sempre sotto l’aspetto dell’opposizione oralità/scrittura. Quest’orientamento ha trovato dapprima molto seguito nel mondo anglosassone, ma almeno dagli anni Settanta ha preso piede anche in Italia e in Germania. Uno sviluppo recente, per il quale si deve molto a Bruno Gentili, è l’attenzione alle condizioni esterne della comunicazione e della produzione stessa del messaggio. Occorreva riportare l’attenzione su fattori come l’occasione dell’opera letteraria e la committenza dopo che la minuta filologia positivista li aveva dimenticati: bisogna ricordare qui Boeckh e Welcker, tutti e due attivi prima della metà dell’Ottocento, le cui pagine si leggono ancora oggi con profitto e con gioia intellettuale. Passi importanti sono stati fatti in questi ultimi decenni dalla cosiddetta teoria della ricezione di Hans Robert Jauss, che mette il destinatario al centro della comprensione del fatto letterario.
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Indicazioni di metodo. Un programma di minima Questi brevi cenni storici non esauriscono la ricchezza degli orientamenti che hanno guidato gli studi negli ultimi decenni. Ma saranno sufficienti per dare l’avvio al riconoscimento dei propri debiti verso tutti coloro che hanno aumentato le nostre conoscenze e che hanno affinato i nostri strumenti di ricerca. Si può tutt’al più dichiarare un programma di minima, al quale si è qui sempre rimasti fedeli: 1) rifiutare ogni scialbo atteggiamento umanistico che idealizzi e consacri singoli momenti (come quello, per esempio, che indicava un percorso in ascesa fino al V secolo e in discesa dopo, condannandosi a un fuorviante ‘atticocentrismo’): 2) evitare la «retroattività dei nostri codici culturali», che siamo sempre portati a estendere, esercitando un illecito «imperialismo del presente sul passato» (Cesare Segre): l’autore antico ha diritto a essere considerato e capito come membro di una comunità culturale profondamente diversa dalla nostra; 3) approfittare di quanto l’antropologia ci ha fatto conoscere e riconoscere, aprendoci gli occhi proprio sulle culture diverse e insegnandoci a capirle; 4) restare legati a una visione storica che si prefigga anche di capire in qual modo è stata fatta la storia della letteratura a partire dagli antichi stessi, ricordando inoltre che gli antichi hanno, sì, conservato, ma hanno anche dato l’avvio alla lunga storia delle perdite e delle distruzioni.
La trasmissione dei testi della letteratura greca Fattori di perdita: le selezioni e le distruzioni La letteratura greca è stata selezionata più volte nel corso di molti secoli, a partire dalla fissazione scritta dei poemi omerici (che cominciò nell’VIII secolo a.C, e che comportò anch’essa una selezione) fino alle prime edizioni a stampa della fine del XV secolo d.C: ventitré secoli durante i quali tutte le opere che abbiamo, le grandi e le piccole, hanno corso il pericolo di scomparire per sempre; e molte, anzi moltissime, sono scomparse per sempre. Le selezioni sono state a volte drastiche. Solo alcuni esempi: della storiografia classica ed ellenistica di circa 400.000 pagine di edizioni moderne (per avere un termine di riferimento) che sono state ricostruite, ci sono rimaste circa 10.000 pagine, compresi i frammenti; delle 1700 tragedie rappresentate ad Ate-
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ne dal tempo di Tespi (dagli agoni del 535 a.C.) alla fine del V secolo a.C. (morte di Euripide e di Sofocle) ce ne sono rimaste intere solo 31; delle 600 commedie prodotte a partire da circa cinquant’anni dopo ce ne sono rimaste solo 11 intere (Aristofane) e ancora peggiore è la situazione per il teatro tragico e comico del IV secolo a.C, del quale sopravvive intero il solo Misantropo di Menandro. Oggi non si crede più – come si faceva fino a qualche decennio fa – all’opera di un retore (e cioè di un maestro di scuola) del II secolo d.C. che avrebbe selezionato tutte le opere che ci sono pervenute intere. Si cerca, invece, di ricostruire come lentamente nel corso dei secoli si sono succeduti i mutamenti del gusto, le diverse scelte scolastiche, la disponibilità di copie: tutti fattori che hanno portato al progressivo impoverimento del patrimonio letterario della grecità. Nelle varie epoche vennero apprezzati di più (e quindi costantemente trascritti) autori diversi per scelte guidate da criteri più o meno individuabili. Per di più, a epoche di maggiore produzione libraria si susseguirono epoche più povere di libri: il II secolo d.C., per esempio, rappresenta un momento di grande vitalità dell’Impero romano e in particolare della sua componente greca, che ricostruisce la propria identità culturale anche attraverso lo studio appassionato e l’imitazione dei grandi classici. Per quanto riguarda la scelta degli autori, l’atticismo, e cioè il rifarsi ai modelli attici che data soprattutto dal II secolo a.C. in poi, determinò la progressiva scomparsa della prosa ellenistica (non attica, e quindi ritenuta non ‘classica’) e il ritorno agli autori prosastici del V e del IV secolo a.C.: la vita e la morte dei vari generi letterari hanno seguito vie diverse. Ovviamente, quando un testo non interessava più e non veniva più trascritto, era molto facile che i pochi esemplari superstiti venissero smarriti e che quel testo andasse perduto per sempre. In questi casi la conservazione è dipesa da fattori anche casuali e imprevedibili. A impoverirci non sono state, però, soltanto le selezioni pianificate. Ci sono stati momenti drammatici in cui si sono verificate disastrose distruzioni. Ne abbiamo alcuni esempi assai dolorosi. La biblioteca del Museo di Alessandria, che conteneva intorno a 700.000 volumi, bruciò nella guerra scatenata da Cesare nel 48 a.C e non possiamo neanche approssimativamente quantificare l’immensa perdita di testi che ne seguì. A Roma nell’80 d.C. andò in fiamme anche la biblioteca pubblica del Portico d’Ottavia: l’imperatore Domiziano mandò un corpo di scribi ad Alessandria per cercare di riparare i danni. I danni che si succedettero durante il Medioevo sono anch’essi difficili da quantificare. Basterà ricordare l’infelicissima IV crociata (XIII secolo d.C.) con il cosiddetto Impero latino, in cui i crociati distrussero indiscriminatamente quantità enormi di testi preziosi saccheggiando i tesori ancora ingenti di Costantino-
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poli. Ma il danno finale fu la presa da parte dei Turchi nel 1453. L’attività filologica dall’Umanesimo in poi si deve definire un processo di restauro da parte di una cultura pentita dei suoi brutali eccessi del passato.
Fattori di conservazione: le scuole e le biblioteche Il momento di massima alfabetizzazione è, a Roma, la prima età imperiale. Da Vespasiano (69–79 d.C) in poi lo Stato romano prese provvedimenti a favore degli insegnanti e delle scuole. La diffusione delle scuole municipali e il sostegno statale all’istruzione non sono direttamente correlati con la qualità dell’insegnamento e con una produzione libraria differenziata. Anzi nel IV secolo d.C., quando gli imperatori promuovevano l’istruzione per formare una classe di funzionari efficienti, si deve registrare una generale contrazione del numero degli autori letti e l’affermazione di manuali sistematici, di epitomi e di selezioni antologiche a scapito della lettura diretta dei testi, secondo una tendenza cominciata almeno tre secoli prima. Le scuole agirono dunque come importante fattore di selezione e di conservazione del materiale selezionato, ma non esercitarono un’azione lineare e omogenea, perché non omogenea era la struttura del sistema educativo. Il mondo ellenistico aveva grandi biblioteche di corte e piccole raccolte librarie legate all’attività delle scuole filosofiche e alle esigenze dell’insegnamento. Si tratta in entrambi i casi di raccolte private, che potevano essere messe a disposizione di un pubblico più o meno vasto: il sovrano si compiaceva della presenza a corte di eruditi e di poeti; gli allievi del filosofo o del retore avevano accesso ai loro libri; gli allievi di un ginnasio donavano libri al ginnasio e ne erano i più diretti beneficiari. In questi casi si può parlare al più di istituzioni semipubbliche. La più grande biblioteca del mondo antico fu la biblioteca di Alessandria fondata dai Tolemei e per secoli centro di produzione libraria e di studio dei testi. La sua importanza nella trasmissione dei testi è stata grande non soltanto per la quantità delle opere che ha permesso di conservare, ma anche per la qualità dei testi, oggetto di cure filologiche ed editoriali. I Romani crearono le prime biblioteche veramente pubbliche: grazie alla munificenza dell’imperatore e a quella di privati molte città ebbero biblioteche municipali; sotto Costantino, all’inizio del IV secolo, Roma arrivò ad avere ben ventotto biblioteche pubbliche (anche se questo numero così alto, che ci viene testimoniato, ha creato perplessità fra gli studiosi).
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Per la conservazione della letteratura greca ha grande importanza la fondazione della biblioteca imperiale di Costantinopoli sotto Costanzo II alla metà del IV secolo.
La scrittura e i materiali scrittori La storia della trasmissione dei testi è anche storia della scrittura e dei materiali scrittori. Il passaggio da una scrittura all’altra può essere ovviamente fonte di errori: è il caso degli errori cosiddetti di maiuscola, che si sono verificati nella grande traslitterazione da esemplari in maiuscola su nuovi codici scritti in minuscola a partire dal IX secolo (per esempio ΑΑ può essere stato letto Μ o viceversa). I materiali scrittori che ci interessano sono il papiro, la pergamena e tutti i materiali su cui sono state eseguite iscrizioni (legno, ceramica, bronzo, pietra ecc.). Le caratteristiche del papiro ne permettevano la coltivazione soltanto in alcune aree: questo fatto condizionò la disponibilità di papiro. Proprio da un blocco delle esportazioni di papiro dall’Egitto sarebbe nato il ricorso alle pelli animali essiccate e levigate: la cosiddetta pergamena, dal nome della città di Pergamo, che per prima se ne sarebbe servita. Anche la materia scrittoria influisce sulla conservazione: il papiro è facilmente deperibile e richiede quindi frequenti copie del testo. I papiri che abbiamo si sono conservati per particolari ragioni ambientali (le secche sabbie egiziane nella maggior parte dei casi, la carbonizzazione seguita all’eruzione del Vesuvio nel caso dei papiri di Ercolano). La pergamena, al contrario, è un materialle molto resistente, ma era anche molto costosa: i libri copiati su pergamena in genere si conservarono, ma se ne fecero solo pochi. In periodi di crisi economica si preferì usare la poca pergamena disponibile per i libri che più servivano (in ambiente monastico: Bibbie, salteri ecc.): molte opere della letteratura classica non furono più trascritte. In altri casi opere considerate meno importanti sono state cancellate e la pergamena è stata riutilizzata per altri testi (palinsesti), A partire dall’VIII secolo in Oriente (e dal XII in Occidente) è stato introdotto l’uso della carta, un materiale scrittorio di facile produzione e a basso costo che contribuì all’enorme diffusione successiva del libro come veicolo di cultura. Un importante fattore di turbativa nella trasmissione dei testi è costituito anche dai mutamenti della tipologia libraria. La progressiva affermazione del codice (il libro di papiro o di pergamena) in luogo del rotolo di papiro determinò la necessità di nuove trascrizioni.
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La filologia classica e la tradizione del testo Di tutta la letteratura greca antica non ci è giunto alcun autografo. Si può dire addirittura che, dell’intera produzione letteraria greca antica, noi non possediamo nessun originale, cioè nessuna opera che si presenti nella redazione definitiva stabilita dall’autore nel momento in cui ‘pubblicò’ la sua opera, ovvero nel momento in cui permise che se ne traessero copie e che, in tal modo, l’opera stessa si diffondesse. Ciò che ci è arrivato invece, nella maggior parte dei casi, sono soltanto delle copie totali o parziali dell’originale oppure frammenti più o meno brevi, tramite citazioni o parafrasi. La tradizione che ci tramanda un testo si distingue in diretta (papiri e manoscritti medievali che contengono quel testo) e indiretta (le citazioni da parte di altri autori che a loro volta sono tramandati attraverso papiri o manoscritti). Nella tradizione indiretta vengono fatte rientrare anche traduzioni, parafrasi, loci similes ecc., quando appaiano utili alla costituzione del testo. Nel processo di copiatura si distingue l’antigrafo, il libro da cui si copia, dall’apografo, il nuovo libro risultato dalla copiatura. La copiatura di un’opera non era meccanica ed era soggetta a errori e alterazioni, involontari o consapevoli. Quanto più passavano i secoli e le copie si succedevano alle copie, tanto più il testo di un’opera si presentava in forma corrotta, e tendeva ad allontanarsi dalla forma stabilita dall’autore. Per restituire un testo il più vicino possibile all’originale la filologia deve studiare la storia della tradizione, cioè della trasmissione di un testo attraverso le sue copie conservate e perdute. L’archetipo è il più antico esemplare (conservato o ricostruito) di un testo al quale possiamo risalire ed è il capostipite, cioè l’antenato comune di tutta la tradizione. Molto spesso è un codice realizzato nel IX o nel X secolo al momento della traslitterazione dalla maiuscola alla minuscola. Talvolta di un testo possediamo anche testimoni papiracei. I papiri ci trasmettono un testo di molto precedente rispetto all’archetipo, anche se non sempre di qualità migliore. A volte i papiri sono gli unici testimoni (anche se parziali) di opere che non ci sono altrimenti giunte: la nostra conoscenza di Callimaco, a parte gli Inni, si deve in gran parte ad essi, e lo stesso vale per Alcmane, per Bacchilide, per Menandro.
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La critica del testo Quando un’opera è tramandata da più manoscritti, è necessario classificare questi manoscritti e stabilire i rapporti che li legano, prima di stabilire il testo. Questo procedimento si definisce ‘teoria stemmatica’ perché ha per scopo la ricostruzione dello stemma, cioè dell’albero genealogico dei testimoni di un testo. La teoria stemmatica, pur con importanti e isolate anticipazioni (Poliziano, Erasmo da Rotterdam), fu enunciata per la prima volta nel Settecento da un gruppo di filologi che si interessavano del Nuovo Testamento. In seguito fu definitivamente consacrata a metodo della filologia da Karl Lachmann (1850). La teoria stemmatica si articola in tre fasi: recensio, examinatio, emendatio. Il primo momento è la recensio, cioè la raccolta e la descrizione di tutti i testimoni di un’opera. Il confronto tra le lezioni offerte dai vari testimoni (collazione) permette di determinare le relazioni che intercorrono tra loro. La ricostruzione dello stemma serve a stabilire il valore dei diversi codici e la loro utilità nella ricostruzione del testo. È evidente che l’antichità di un manoscritto non gli conferisce di per sé una particolare autorità: un manoscritto recente attraverso il quale si può ricostruire un antico ramo di tradizione può essere più utile di un manoscritto di veneranda antichità. È il principio dei recentiores non deteriores definito da Giorgio Pasquali. Tracciato lo stemma si esamina il testo ricostruito dell’archetipo (examinatio). Se è corrotto in alcuni punti (come sempre avviene), si deve emendarlo in base a vari criteri (emendatio). L’emendamento deve chiarire la genesi dell’errore e deve essere quanto più possibile economico, cioè deve intaccare il meno possibile il testo tramandato. La critica testuale ha quindi lentamente modificato i propri metodi e i propri obiettivi. Da una parte è venuta meno la fiducia cieca nelle soluzioni meccaniche, dall’altra la storia della tradizione è diventata via via storia di un testo, della sua fortuna, del contesto culturale nel quale si è trovato a interagire con altri testi. La tecnica critico–testuale insomma è stata posta al servizio della storia della cultura e offre servigi preziosi non soltanto ai filologi classici, ma anche a chi studia la cultura medievale greca e latina e l’Umanesimo.
Le attuali edizioni critiche Vediamo ora che cosa c’è nell’edizione critica. Una prefazione, in genere in latino (ora anche in inglese; per esempio nell’edizione oxoniense di Sofocle curata da Lloyd–Jones e Wilson), che elenca
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e descrive i testimoni del testo, rende ragione dello stemma e illustra i criteri seguiti dall’editore. Il testo presentato, frutto di una scelta dell’editore, che stabilisce quello che è per lui il testo che ha più probabilità di avvicinarsi all’originale. In una edizione critica non può mancare l’apparato critico, il luogo in cui l’editore rende ragione delle sue scelte: riporta le lezioni degli altri codici o dei papiri accolte o non accolte (e che siano significative); segnala gli emendamenti inseriti nel testo, a scapito delle lezioni tràdite; segnala proposte sue o di altri che egli non ha accolto nel testo; esprime dubbi in caso di varianti quasi equivalenti. In alcuni casi le proposte di emendamento possono essere exempli gratia, cioè puramente esemplificative del contenuto (perché per esempio la lacuna è troppo ampia). A volte, accanto all’apparato critico, c’è anche l’apparato dei loci similes, cioè l’indicazione dei luoghi precedenti o posteriori a un determinato passo, che hanno qualche rapporto interrestuale con quel passo. Quando un’edizione comprende molti testi di tradizione indiretta, può essere presente anche un apparato che indichi le fonti dei vari frammenti.
Le cosiddette discipline ausiliarie Se intesa come disciplina complessa, che mira a ricostruire la trasmissione di un testo all’interno di culture diverse, la filologia si deve avvalere dell’apporto di molte altre discipline. Queste si sono da tempo affrancate dal ruolo di ancelle della filologia e hanno conquistato una propria autonomia: nel loro insieme costituiscono dei segmenti tra loro interdipendenti della storia della cultura. È comunque importante ricordare che i confini tra le discipline sono in parte di comodo, in parte convenzionali: il paleografo non può fare a meno di studiare la struttura materiale dei testimoni, come il codicologo non può trascurare la scrittura e il contenuto dei codici; l’epigrafista e il papirologo devono avere conoscenze paleografiche e così via. Alcune discipline hanno per oggetto i testimoni che conservano i testi letterari: codicologia, paleografia, papirologia, epigrafia. Altre sono essenziali per decifrare il codice linguistico, metrico, retorico e stilistico dei testi. La codicologia studia la struttura materiale del manoscritto e ha per fine la descrizione analitica di tutti i suoi aspetti (dimensioni, materiale usato, rigatura, decorazione, legatura ecc.). La paleografia si occupa della storia della scrittura, dei problemi di trascrizione dei testi (per esempio come si devono sciogliere le abbreviazioni), della
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datazione e della localizzazione dei manoscritti attraverso l’identificazione del tipo di scrittura impiegata. I dati forniti dall’analisi paleografica devono essere integrati da quelli provenienti dallo studio codicologico. Individuare il luogo di produzione di un manoscritto può essere importantte per la storia della tradizione: per esempio, se di un testimone si stabilisce l’origine italo–greca (cioè da un’area periferica del mondo bizantino), ci sono buone probabilità che questo testimone rappresenti un ramo di tradizione indipendente dagli altri. I papiri, per i particolari problemi che presentano, richiedono la conoscenza di tecniche specifiche e sono oggetto di una disciplina autonoma, la papirologia. Oggetto della papirologia sono sia i papiri contenenti testi letterari sia quelli contenenti documenti. La papirologia nacque con le prime importanti scoperte di papiri (Ercolano: 1752–1754; papiri egiziani pubblicati a partire dal 1788). Fino a oggi sono stati rinvenuti oltre 4000 papiri letterari. L’epigrafia studia i documenti iscritti su pietra, ceramica o altri materiali. Le sue competenze si estendono allo studio delle antichità istituzionali, pubbliche e private, a cui i documenti si riferiscono. Molte epigrafi sono importanti per la storia della letteratura: quelle che contengono testi poetici, cronache, cataloghi di vincitori negli agoni, testi di culto, responsi oracolari. L’uso dei documenti epigrafici fu praticato dagli storici fin dai tempi di Erodoto. Lo studio sistematico cominciò in età ellenistica, con le prime raccolte di epigrafi (Polemone d’Ilio). Nel Settecento l’epigrafia (come parte dell’antiquaria) contribuì a fondare il metodo della storiografia moderna, basata sullo studio dei documenti. Accanto all’epigrafia va menzionata la numismatica, lo studio delle monete, importante non solo per la storia economica e politica, ma anche per la storia delle forme linguistiche. L’indagine filologica ha per oggetto dei testi: non può quindi fare a meno di quelle discipline che studiano la lingua nei suoi vari aspetti. La conoscenza della fonetica, della morfologia e della sintassi può essere risolutiva per scegliere tra due varianti o per identificare una corruttela. La storia della lingua è necessaria per collocare nel tempo i fenomeni linguistici e per stabilire quale sia il livello di lingua usato da un autore. L’analisi sistematica della lingua fu praticata dai Greci a partire dall’età ellenistica ed era funzionale all’attività filologica. Lo studio storico della lingua greca iniziò soltanto nel XIX secolo grazie agli apporti della linguistica comparata e poi della linguistica generale. La lingua greca presenta, come si è visto, una notevole varietà di dialetti, alcuni dei quali sono stati impiegati come lingue letterarie. Lo studio dei dialetti è di fondamentale importanza soprattutto per la letteratura arcaica, ma testimonianze dell’uso dei dialetti continuarono fino all’età imperiale. La dialetto-
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logia greca in età moderna nacque dopo la pubblicazione del corpus delle iscrizioni greche a opera di August Boeckh. Lo studio della metrica, cioè della partitura ritmica che si può ricostruire dalla sequenza delle sillabe lunghe e delle sillabe brevi, è spesso decisivo per stabilire un testo poetico. Del codice letterario di un testo fanno parte anche l’ornamentazione retorica e lo stile, inteso come scelta individuale dell’autore all’interno degli schemi fissati dalla tradizione. Sia della retorica sia della stilistica deve tener conto il filologo, il quale si dovrà avvalere anche della conoscenza della storia letteraria.
Bibliografia Critica testuale e storia della tradizione G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 19522; H. Fränkel, Testo critico e critica del testo, trad. it. Firenze 19832 (Göttingen 1964); AA.VV., Geschichte der Textüberlieferung der antiken und mittelalterlicben Literatur. I, II, Zürich 1961, 1964; L. Canfora, Conservazione e perdita dei classici, Padova 1974; P. Maas, Critica del testo, trad. it. Firenze 1975 (Oxford 19604); F. Brambilla Ageno, L’edizione critica dei testi volgari, Padova 1975; G. B. Alberti, Problemi di critica testuale, Firenze 1979; S. Timpanaro, La genesi del metodo del Lachmann, Padova 19812; G. Cavallo (a cura di), Libri e lettori nel mondo bizantino. Guida storica e critica, Roma–Bari 1982; G. Cavallo (a cura di), Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, Roma–Bari 19843; R. Antonelli, Interpretazione e critica del testo, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, IV. 1. L’interpretazione, Torino 1985, pp. 141–243; G. Cavallo, Conservazione e perdita dei testi greci: fattori materiali, sociali, culturali, in Tradizione dei classici, trasformazione della cultura, Roma–Bari 1986, pp. 83–172; P. Stoppelli (a cura di), Filologia dei testi a stampa, Bologna 1987; L. D. Reynolds – N. G.Wilson, Copisti e filologi, trad. it. Padova 19873 (Oxford 1968); R. Tosi, Studi sulla tradizione indiretta dei classici greci, Bologna 1988; S. Mariotti, Filologia classica, in Enciclopedia Italiana, Appendice V, 1992, pp. 228–230; E. Pöhlmann, Einführung in die Überlieferungsgeschichte und in die Textkritik der antiken Literatur, I. Altertum, Darmstadt 1994. Codicologia A. Dain, Les Manuscrits, Paris 19753; A. Petrucci, La descrizione del manoscritto. Storia, modelli, problemi, Roma 1984. Paleografìa R. Devreesse, Introduction à l’étude des manuscrits grecs, Paris 1954; AA.VV., La paléographie grecque et byzantine, Paris 1977; A. Petrucci, La scrittura, Torino 19862.
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Papirologia R. Pack, The Greek and Latin Literary Texts from Graeco–Roman Egypt, Ann Arbor 19652; E. G. Turner, Papiri greci, trad. it. Roma 1984 (Oxford 19802). Epigrafia M. Guarducci, Epigrafiagreca, I–IV, Roma 1967. Storia della lingua A. Meillet, Lineamenti di storia della lingua greca, trad. it. Torino 1976 (Paris 1913, 1930); O. Hoffmann – A. Debrunner – A. Scherer, Storia della lingua greca, trad. it. Napoli 1969 (Berlin 19694). Dialettologia Sui dialetti epicorici un manuale maneggevole, anche se ormai non più aggiornato, è C. D. Buck, The Greek Dialects, Chicago–London 1955 (3a ediz.). Fondamentale per la descrizione dettagliata dei singoli dialetti resta A. Thumb – E. Kieckers – A. Scherer, Handbuch der griechischen Dialekte, I–Il, Heidelberg 1932–59. Molto sintetico, ma aggiornato e ricco di bibliografia, R. Schmitt, Einführung in die griechischen Dialekte, Darmstadt 1977. Sui problemi e sui metodi della dialettologia e con un’appendice di testimonianze tradotte, Y. Duhoux, Introduzione alla dialettologia greca antica, Bari 1986 (Louvain–la–Neuve 1984). Fra le monografie sui singoli dialetti, dal punto di vista del metodo è ancor oggi inestimabile E. Bourguet, Le dialecte laconien, Paris 1927. Sui rapporti fra lingua epicorica e dialetto letterario la prima sintesi, ancor oggi di grande utilità, è A. Meillet, Lineamenti di storia della lingua greca, trad. it. Torino 1976 (Paris 1913, 1930); O. Hoffmann – A. Debrunner – A. Scherer, Storia della lingua greca, trad. it. Napoli 1969 (Berlin 19694). Oltre al fondamentale H. Collitz – F. Bechtel, Sammlung der griechischen Dialekt–Inschriften, Göttingen 1884–1915, le più utili raccolte di iscrizioni dialettali sono E. Schwyzer, Dialectorum Graecorum exempla epigraphica potiora, Leipzig 1923 e P. A. Hansen, Carmina epigraphica Graeca saeculorum VIII–V a. Chr.n., Berlin–New York 1983. Metrica B. Gentili, Metrica greca arcaica, Firenze–Messina 1950; L. E. Rossi, La metrica come disciplina filologica, «Riv, di filol.» 94, 1966, pp. 185–207 (sui fondamenti della metrica lirica); R. Pretagostini, Il colon nella teoria metrica, «Riv, di filol.» 102, 1974, pp. 273–282; B. Gentili – R. Pretagostini, Lessico della metrica e della ritmica greca e latina, in Atti del I seminario sui lessici tecnici greci e latini (Messina 8–10 marzo 1990), a cura di P. Radici Colace e M. Caccamo Caltabiano, Messina 1991, pp. 65–74.
La giovinezza e la vecchiaia in Grecia In età arcaica Nella cultura greca compare un fenomeno sociologico che differenzia nettamente la Grecia da Roma, e cioè lo scarso apprezzamento dell’età avanzata, che a Roma veniva pregiata per l’accumulo d’esperienza, da esercitare soprattutto in politica, mentre in Grecia la bilancia pende a favore della giovinezza come l’età in cui l’uomo si realizza più pienamente. L’invecchiamento è sintomo della vita mortale, ed è con l’ambiguità nata dall’opposizione giovinezza/vecchiaia che il mito ci racconta di Titono, amante dell’Aurora, a cui gli dèi concessero eccezionalmente vita senza fine, ma non la conservazione della giovinezza. L’Iliade è il poema della guerra e quindi dei giovani, che sono tutti belli e forti, di una bellezza che non viene mai descritta con dettagli anatomici (l’unico vero ritratto è quello del bruttissimo Tersite, come c’insegnò a suo tempo Giorgio Pasquali[*]). Un vecchio apprezzato per la sua grande età e quindi per la sua saggezza è Nestore, che nel campo di battaglia spicca per la sua solitudine; e non va dimenticato Priamo, soprattutto quello che compare nell’ultimo libro dell’Iliade, il cui dolore per la morte del figlio Ettore a opera di Achille gli assicura la nostra simpatia nonché quella dello stesso uccisore del figlio. Questo ci fa capire che il panorama delle valutazioni dell’età non manca di eccezioni e non si lascia definire in modo univoco, a non parlare poi di netti confini cronologici, che mal si adatterebbero a realtà culturali e sociologiche così sfumate. Nell’Odissea il protagonista è giovane come gli altri eroi, ma si può essere portati a dimenticarlo perché è pieno d’esperienza dovuta alle sue peregrinazioni e alle sue sventure, come ci dice il proemio del poema. Quello che in lui spicca è la sua molto decantata astuzia, e questa è una qualità che prescinde dall’età: Odisseo è l’eroe astuto per eccellenza. Anche a Itaca troviamo dei vecchi che s’impongono all’ammirazione: Eumeo, il fedele porcaio, Euriclea, l’affe-
|| [Schede pubblicate in L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, Firenze, Le Monnier, vol. 1, 2002, pp. 315–316, vol. 2A, 2003, pp. 631–632, vol. 3A, 2003, pp. 75–76] [* G. Pasquali, Omero, il brutto e il ritratto, «Critica d’Arte» 5, 1940, pp. 25–35, riedito in Id., Terze pagine stravaganti, Firenze 1942, pp. 139–166 (= Id., Pagine stravaganti di un filologo, vol. II, a cura di C. F. Russo, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 99–118).] https://doi.org/10.1515/9783110648140-066
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zionata nutrice dell’eroe, e infine suo padre Laerte. Ricompare il vecchio Nestore, che ospita Telemaco a Pilo. La giovinezza è la condizione per partecipare alle gare atletiche delle grandi festività panelleniche: Olimpia, Delfi, Nemea, l’Istmo, oltre alle molte gare locali. La vittoria nelle gare panelleniche innalza il giovane a un livello di popolarità e di quasi divina adorazione che non è confrontabile con quanto accade oggi nel mondo sportivo: l’acclamazione popolare che investe il vincitore è ben testimoniata dagli epinici di Pindaro e di Bacchilide, nei quali è frequente l’ammonimento al celebrato a non insuperbirsi e a non sentirsi simile agli dèi. La celebrità di questi giovani è panellenica, mentre altre celebrità, che rientrano nel campo della poesia e della politica, sono inizialmente ristrette alla città di appartenenza, per poi diventare patrimonio culturale comune: basta pensare al vecchio Solone. Ricordiamo anche i Sette Saggi, di cui Solone fa parte, che, essendo di varia provenienza, testimoniano proprio della comunanza di patrimonio culturale. Gli indovini, per di più, sono presentati sempre come vecchi e ciechi, così come il poeta per eccellenza, Omero: la cecità (legata alla vecchiaia) è stata giustamente interpretata come segno di chiaroveggenza realizzata attraverso l’occhio interiore. Nella poesia lirica monodica, simposiale e prevalentemente erotica, la giovinezza, nell’uomo e occasionalmente nella donna, è la sola a essere pregiata. Segnaliamo due frammenti rivelatori: uno di Alcmane, sicuramente simposiale (26), e uno di Anacreonte (395 P. = 36 Gentili), in cui i due poeti si rammaricano della loro grave età: quasi fossero una richiesta di simpatia non necessariamente autobiografica (ma forse sì) per la condizione del vecchio. La famosa disputa fra Mimnermo (che si augurava di arrivare ai sessant’anni) e Solone (che lo esortava a correggere in «ottanta») non va vista come un’antitesi giovinezza/vecchiaia —a dispetto del fatto che Mimnermo fosse famoso per il suo pessimismo e il suo rimpianto per la giovane età — bensì come la contrapposizione di due filosofie della vita: sessant’anni era infatti un’età a cui pochi arrivavano, essendo la vita media enormemente più bassa di quella del mondo moderno, a non dire di quello a noi contemporaneo. Tutto questo serva a correggere un quadro che ha prodotto la retorica della perenne giovinezza dei Greci, che vivevano invece fin dall’età arcaica una realtà ben più sfumata. Va segnalato qui un fatto di natura sociologica, che trova la sua spiegazione forse nelle condizioni in cui nascevano e si diffondevano i testi in età arcaica e tardoarcaica.Tutti i poeti di quest’epoca ci vengono presentati dalla pur tarda tradizione biografica come vissuti fino a tarda età: e non è, questo, un fatto che la tradizione biografica, ricca di leggende, poteva inventare di sana pianta. In
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un tempo in cui non esisteva un’adeguata protezione della proprietà letteraria, quello che oggi chiamiamo copyright, è forse da pensare che l’autore fosse il primo protettore della sua opera, che così sfuggiva al pericolo di farsi ‘rubare’ il prodotto del suo ingegno. Con l’età arriva la fama, non solo locale, e protegge l’opera. Il poeta che muore di mors immatura è figura che compare sporadicamente in età ellenistica, quando la diffusione non solo della scrittura (già affermata da secoli) ma soprattutto del libro, cambiò radicalmente il rapporto della comunicazione letteraria. E tale figura è addirittura frequente a Roma.
In età classica Nel periodo che qui si considera (VI–IV secolo a.C.) le fonti per costruire un quadro attendibile del rapporto giovinezza/vecchiaia sono solo apparentemente più abbondanti che non nell’epoca arcaica, perché sono testimonianze che dobbiamo ricavare da generi letterari di diversa natura e funzione, il che rende difficile separare la realtà sociologica dalla prospettiva offerta dalle fonti letterarie. Per di più, la stragrande maggioranza delle testimonianze riguarda Atene: e si può dire che sul piano giuridico l’assistenza dei vecchi non era regolata da leggi previdenziali, restando affidata ai membri della famiglia o agli schiavi dell’οἶκος (che è l’equivalente del latino familia). Di qui la frequentemente espressa angoscia dei vecchi senza discendenza, che vedono in pericolo non solo l’assistenza, ma anche e soprattutto i degni onori funebri. Una testimonianza preziosa nel senso della pietas nei confronti dei vecchi praticata dai familiari sono alcune delle splendide steli funerarie attiche conservate nel Museo Archeologico Nazionale di Atene, che offrono commoventi immagini di vecchi: ma naturalmente sono espressione di livelli sociali molto alti. Purtroppo ci manca quello che a questo proposito offre per il mondo moderno il romanzo alla Balzac e alla Zola, con la sua realistica rappresentazione di vari strati socio–economici.
Il contrasto generazionale La contrapposizione assiologica vecchiaia/giovinezza (a volte positiva, più spesso negativa) non subisce sostanziali alterazioni rispetto all’età arcaica: la celebrazione della giovinezza come l’età più desiderabile per i piaceri che offre e la sua nostalgica celebrazione nell’età avanzata erano stati temi comuni nella lirica erotico–simposiale arcaica, ma ora viene a galla prevalentemente il contrasto generazionale, nel senso che sembra privilegiata una visione più chiara della funzione sociale dei vecchi nei confronti dei giovani, frutto di una società
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che appare più articolata. In questo quadro necessariamente sommario ci si concentrerà sulla vecchiaia, dal momento che i giovani vengono normalmente visti come oggetti di funzione educativa, spesso in contrasto con i padri, e come tali facilmente preda di distorsioni etiche, con una ricaduta sulla stabilità politica vista come rischiosa. Ma la giovinezza può anche essere portatrice di slanci generosi: a questo proposito va ricordato il contrasto fra Odisseo, freddamente calcolatore, e il giovane e generoso Neottolemo a proposito del comportamento nei confronti di Filottete nell’omonima tragedia di Sofocle. Naturalmente bisogna distinguere la consapevolezza della propria grande età, che offre lo spunto a considerazioni negative, e la valutazione della vecchiaia in sé, che si apre a prospettive alle volte positive.
La commedia Una fonte interessante, anche se non sempre univoca, è la commedia di Aristofane. A parte la frequente presenza di cori di vecchi, le prime commedie conservate per intero, dagli Acarnesi (425 a.C.) alla Pace (421 a.C.), ci danno nel complesso l’impressione di una forte simpatia del giovane commediografo per i vecchi, che certamente in gran numero saranno stati nella cavea del teatro, e anche loro, come i vecchi coreuti, si saranno lamentati delle limitazioni di ogni tipo imposte dall’età. La presentazione del vecchio Filocleone nelle Vespe, e dei suoi compagni dicasti del coro, non è senza tratti di forte solidarietà, anche perché gli anziani rappresentano (pur se ormai cronologicamente distanti qualche decennio) gli attori dell’ultima eroica impresa storico–mitica della città, la guerra contro i Persiani (sui maratonomachi, frequentemente celebrati, si veda per esempio Acarnesi, vv. 179–181): e del resto i vecchi, privi ormai di collocazione nella società, si consolavano con il misero soldo dicastico. Nei Cavalieri leggiamo la simpatetica presentazione di vecchi colleghi commediografi come Magnete e Cratete, ma specialmente di Cratino (vv. 518 ss.), che non ha più l’antica approvazione del pubblico a causa della sua diminuita capacità dovuta agli acciacchi dell’età, mentre per i suoi antichi meriti gli sarebbero dovuti e il pensionato onorifico nel Pritaneo e un seggio privilegiato a teatro. I protagonisti vecchi (Diceopoli, Demo, il già ricordato Filocleone, Trigeo) sono oggetto di simpatia (il vecchio Demo, ipostasi della gente della città, alla fine dei Cavalieri viene miracolosamente ringiovanito!). Solo il bizzarro Strepsiade delle Nuvole è tale da non ispirare eccessiva solidarietà, ma la commedia è quella che più d’ogni altra presenta la polemica generazionale che coinvolge il figlio Fidippide attraverso il contrasto fra il Discorso giusto (la vecchia generazione) e il Discor-
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so ingiusto (la nuova): ma il finale della commedia, con l’incendio del Pensatoio socratico, risolve, senza risolverlo, il conflitto con una inaspettata trovata simile a un komos generale, via d’uscita tipica della commedia.
La tragedia Con la tragedia siamo in altra atmosfera, più —direi —schiettamente ideologica. La rappresentazione più nobile della vecchiaia, con la sua dignità e la sua autorità, è quella dell’infelice Edipo cieco dell’Edipo a Colono sofocleo. È la più commossa rappresentazione della grave età, eroicamente sopportata con il peso delle pur incolpevoli trasgressioni (parricidio e incesto). Va ricordato che è opera del poeta novantenne, e qui la autoconsapevolezza e la valutazione esterna coincidono in virtù della partecipazione di un pubblico che non poteva non aderire a tali sollecitazioni. Una singolare figura di vecchiaia femminile è Ecuba in due tragedie di Euripide che hanno per soggetto le conseguenze della presa di Troia. Nell’Ecuba la protagonista, regina e madre, vive l’uccisione dei due figli Polidoro e Polissena: l’alternanza fra l’abbandono al dolore e la furia di vendetta ne fa una delle figure salienti del teatro tragico, che si ripresenta come solenne rappresentante della giustizia nelle Troiane. La frequenza sulla scena attica di queste figure solenni, quasi comparabili con la matrona romana, ha fatto pensare a una collocazione particolare della vecchia vedova nella famiglia, confermata dalle fonti, quasi che la sua autorità venga a rimpiazzare quella che era attribuita all’uomo dalla sua funzione sociale. Ovviamente il dramma vive di sue stilizzazioni e di suggestioni non direttamente traducibili in realtà sociologica. Una domanda da porsi è quella del perché quasi tutti i cori di tragedia sono rappresentati da vecchi: evidentemente i vecchi erano i più adatti a commentare dall’esterno, con la loro impotente saggezza, gli eventi luttuosi che si svolgevano sulla scena tragica. Una conferma indiretta ci viene dal coro dell’Aiace di Sofocle, costituito dai marinai di Aiace, che intervengono nell’azione per cercare il cadavere del loro capo: va ricordato che Aristotele nella Poetica nota che proprio Sofocle faceva intervenire il coro come un personaggio.
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Storiografia e oratoria Se abbandoniamo il teatro e affrontiamo altri generi letterari, come la storia e l’oratoria, il problema della valutazione si ripropone in altre forme. Prendiamo le parole di Pericle in Tucidide 2,44,4: «Voi che invece siete in età ormai avanzata, ritenete di aver fatto un guadagno se avete avuto una sorte felice per il periodo più lungo della vostra vita, mentre quello che vi resta da vivere sarà breve, e alleviate il vostro dolore col pensiero della loro gloria: il desiderio di onori è la sola cosa che non invecchia mai, e quando l’età ci ha reso inabili non è il guadagno, come alcuni dicono, il massimo piacere, ma l’onore». [trad. M. Cagnetta]
Più che rappresentare una realtà da leggersi a valore facciale, queste parole esprimono un ideale da considerarsi inserito in una visione propagandistica positiva che pervade tutto il discorso di Pericle. Tenendo presente questo limite, la testimonianza resta comunque di grande interesse. Un quadro certo vicino alla realtà ci offre l’orazione di Lisia Per l’invalido, databile alla fine del V secolo. C’era ad Atene una legge (Aristotele, Costituzione degli Ateniesi 49,4) che stabiliva parametri di assistenza per i poveri che fossero inabili al lavoro: il cittadino che nell’orazione si difendeva da un accusatore che voleva fargli negare il sussidio portava a sua giustificazione anche l’età. Ovviamente anche qui bisogna tener conto di una strategia oratoria che spingeva ad accentuare la contrapposizione fra giovani e ricchi da una parte e l’interessato, anziano e povero, dall’altra.
La giovinezza età dell’amore Quanto all’espressione poetica della nostalgia della giovinezza come età dell’amore, la troviamo piuttosto nell’epoca della lirica arcaica e tardo–arcaica e, poi, nell’epigramma alessandrino: il periodo dal VI al IV secolo lascia spazio ad altri generi letterari, che non favoriscono questa tematica. Del resto, il lamento sulla propria vecchiaia e sulla propria debolezza erotica è lamento in sé tipicamente maschile: le orrende vecchie delle Donne all’assemblea di Aristofane, che per legge stabilita (utopicamente) dalle donne pretendono di accoppiarsi con amanti giovani, sono solo maschere comiche volte a suscitare il riso.
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Una realtà complessa Siamo di fronte a una realtà complessa e per di più affidata a fonti di attendibilità molto diversa. I valori tipici della vecchiaia appaiono sia episodicamente riconosciuti sia più spesso ignorati. L’arte figurativa di quest’epoca ci rappresenta per lo più corpi giovani, sia divini sia umani (lo stesso Zeus non si può definire «un vecchio», vigoroso come viene reso, a dispetto della sua paternità degli dèi). Per trovare rappresentazioni realistiche di vecchi bisogna aspettare, più ancora che la letteratura, l’arte figurativa ellenistica. Gli scrittori vecchi continuano a fornire prodotti di valore nonostante la loro età: è il caso di Sofocle e di Isocrate, sulla cui vecchiaia ha lavorato la tradizione biografica nel caso di Sofocle e la stessa funzione ha avuto l’autocelebrazione nel caso di Isocrate, che spesso si vanta di poter raggiungere le vette della sua techne nonostante l’età.
In età ellenistica Per un’ideologia della vecchiaia, che avvia alla sua rivalutazione nella cultura romana, si può confrontare l’atteggiamento delle epoche precedenti con una formulazione di Epicuro giuntaci per tradizione gnomologica (Gnomologium Vaticanum 17): «Non il giovane è felice, ma il vecchio che ha vissuto una vita bella; perché il giovane nel fiore dell’età è mutevole ludibrio della sorte; il vecchio invece giunse alla vecchiezza come a tranquillo porto, e di tutti i beni che prima aveva con dubbio sperato ora ha sicuro possesso nella tranquilla gioia del ricordo» (trad. G. Arrighetti). La vecchiaia in età ellenistica deve anch’essa, come la donna, il suo maggior ruolo nell’arte, letteraria e figurativa, al gusto realistico di rappresentare situazioni umane che prima erano solo occasionali e non protagonistiche. L’arte figurativa è ricca di rappresentazioni di vecchi e di vecchie: fra l’altro il realismo contribuisce alla realizzazione di nuovi effetti figurativi (le rughe, per esempio, con la loro virtù luministica di movimento delle superfici). La giovinezza era legata all’ideale eroico, che ormai cedeva alla rappresentazione dell’individuo: il giovane Alessandro Magno da una parte è mitizzato e dall’altra, pur idealizzato, è personaggio storico, di una storia per di più ancora presente e attuale.
La ‘commedia nuova’: Menandro Nella commedia nuova, e segnatamente in Menandro, la contrapposizione giovinezza/vecchiaia assume in modo esclusivo una valenza generazionale e quin-
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di sociologica, senza che ne derivi una valutazione assiologica a favore della giovinezza (com’era in precedenza): i giovani cercano di realizzare i loro progetti e i loro sogni erotico–amorosi nonostante l’opposizione dei padri. Ma anche i vecchi sono presentati con tratti che, nonostante tutto, ce li rendono in qualche modo simpatici: è il caso, per esempio, del Cnemone menandreo del Dyskolos, che, pur nella caratterizzazione del burbero evidenziata anche dal titolo della commedia, ha tratti di schietta umanità.
La poesia alessandrina Il virtuosismo letterario di un Callimaco arriva a eroizzare addirittura una povera vecchietta, Ecale, che nel poemetto omonimo ha il ruolo della vera eroina: il rovesciamento dei ruoli rispetto a Teseo è il naturale sbocco di una infrazione del codice epico, voluta dall’autore, che però ha la sua base nel mutato ordine di valutazione della realtà e in conseguenza di una estensione del criterio estetico di realismo. Il carme 21 del corpus teocriteo, generalmente negato a Teocrito ma di pura ispirazione alessandrina, presenta due pescatori, che non solo sono vecchi, ma anche poveri: due qualità che erano uscite dall’universo in genere negativo che le inglobava e che si prestavano a rappresentazioni che univano caratterizzazione ad atteggiamento simpatetico.
Il romanzo Il romanzo offre una frequente rappresentazione della bellezza giovanile, sia maschile sia femminile, che in genere provoca l’innamoramento a prima vista. Molti sarebbero gli esempi dal Dafni e Cloe di Longo Sofista, dove la perfetta bellezza dei due protagonisti si inquadra in una cornice bucolica che ne idealizza ulteriormente le fattezze. Non mancano elementi descrittivi, confinati però in una genericità che, erede dei modi dell’epos, si ritrova spesso nella narrativa anglosassone moderna, dove alle volte ci si contenta di definire ‘regolari’ le fattezze di una persona ‘bella’. Basti qui riportare qualche esempio, che tradisce una sia pur idealizzata caratterizzazione. Eliodoro (Storie etiopiche 1,2): «su uno scoglio sedeva una ragazza di una bellezza irresistibile, tale da far pensare che fosse una dea». «Questi [il giovane disteso a terra davanti a lei] era sfigurato dalle ferite e sembrava riaversi appena come da un sonno profondo simile alla morte; eppure, anche così, la sua bellezza virile appariva rigogliosa e il fiotto di sangue che gli arrossava le guance faceva risplendere ancora di più il candore
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della carnagione» (trad. O. Vox). Senofonte Efesio, Le storie efesiache di Anzia e Abrocome 1,1: «Questo Abrocome si faceva di giorno in giorno sempre più bello, e insieme all’avvenenza del corpo crescevano in lui anche le qualità dell’animo»; 1,2: «La bellezza di Anzia era tale da suscitare stupore, ed eccelleva di molto sulle altre ragazze. A quattordici anni, il suo corpo fioriva nella beltà e la leggiadria della sua acconciatura contribuiva ancor di più a farla ammirare: biondi i capelli, per lo più sciolti, in parte intrecciati, mossi dal soffio del vento; le pupille vivaci, raggianti come si addice a una fanciulla, austere come si conviene a una persona assennata; il vestito era un chitone purpureo fino al ginocchio, cinto alla vita e ripiegato sulle braccia, ricoperto di pelle di cerbiatto; faretra a tracolla, frecce, giavellotti branditi, cani che la seguono. Più di una volta vedendola nei pressi del tempio gli Efesii la venerarono come Artemide» (trad. G. Annibaldis). Quanto alla rappresentazione della vecchiaia, senza entrare qui in dettagli, il romanzo fa uso di figure scarsamente individualizzate e piuttosto tipizzate, che ruotano attorno ai protagonisti e ne favoriscono o ne ostacolano le vicende.
La poesia epigrammatica La poesia epigrammatica insiste su due filoni principali: i pregi della giovinezza e le caratteristiche della vecchiaia, che oscillano fra la tardiva libidine e la saggezza. Interessante è il tema del rapporto fra poeti anziani e Muse. Ai vv. 37–38 del Prologo dei Telchini Callimaco fa un’affermazione dai chiari risvolti autobiografici: «quanti, infatti, le Muse guardarono con occhio non bieco, canuti non li allontanarono dalla loro amicizia» (trad. L. Sbardella). Qui, per la prima volta, il rapporto tra poeta e Muse è caratterizzato come un rapporto di ϕιλία, e cioè di vera e propria amicizia e assistenza, che accompagna l’intera esistenza del poeta stesso, che garantisce una vecchiaia ancora produttiva e onorata. E lo stesso concetto, le Muse protettrici della vecchiaia del poeta, si riscontra anche in Posidippo, SH 705: qui c’è addirittura la richiesta da parte del poeta di una statua che lo onori in vecchiaia, non dopo la morte. La vecchiaia in sostanza, non solo è un momento della vita in cui il poeta può ancora produrre qualcosa di buono, ma è il momento in cui è giusto che raccolga i frutti del suo rapporto privilegiato con le Muse. Prodromi di questa concezione sono già nell’Eracle di Euripide, ai vv. 673–686, dove il vecchio cantore rivendica un rapporto mai interrotto con le Muse, ma nei poeti della prima età ellenistica sembra assumere una rilevanza particolare.
La donna in Grecia In età arcaica La questione della collocazione della donna nella cultura greca arcaica e sub– arcaica può prendere l’avvio da un mito molto antico, già noto all’Odissea, che è quello tebano. L’intreccio della tragedia di Sofocle, l’Edipo re, è fedele alle grandi linee originarie del mito arcaico. Edipo, figlio del re Laio, uccide senza saperlo suo padre e diventa re di Tebe sposando, di nuovo senza saperlo, la vedova del re, che è poi sua madre. Quest’ultimo fatto ha portato a pensare a un resto di cultura matrilineare, e cioè alla donna come punto di riferimento per la successione al potere (mater semper certa, pater incertus). Si sa che i Greci, arrivando alle loro sedi, soppiantarono una cultura di tal genere, instaurando una cultura patrilineare, tipica delle genti indoeuropee. Si può dire tra parentesi che il miracolo del mito, e poi anche dell’intreccio dell’Edipo, è che l’eroe è anche figlio di suo padre, e cioè del re, il che accorda le esigenze di ambedue le culture. Ma da qui a inferire una cronologia precisa per la nascita del mito (e cioè l’eventuale momento di passaggio) ci corre molto. Del resto questo stato di cose è presente nella stessa Odissea, dove i pretendenti alla mano di Penelope, sposa del lungamente assente Odisseo, mirano alla conquista del potere proprio attraverso il matrimonio con la regina. Va premesso che in ogni periodo della cultura greca la donna di elevata condizione sociale gode di particolari privilegi rispetto alla collocazione delle donne di bassa estrazione. Nell’Inno ad Afrodite abbiamo un caso singolare: a innamorarsi del mortale Anchise è addirittura una dea: e la altrimenti normale pruderie epica qui è superata, ma con tale leggerezza di tocco, da farci trovare di fronte a quella che è forse la più delicata scena di seduzione di tutta la letteratura greca. Nei poemi omerici abbiamo affascinanti figure di donna. A parte la bella Elena, che non gode di buona fama a causa della rottura del vincolo matrimoniale con Menelao perché fugge con il troiano Paride, abbiamo una serie di ritratti che ispirano rispetto e simpatia: nell’Iliade compaiono donne del campo avverso, quello troiano, perché è là che si svolge la guerra: Ecuba, la madre sollecita, Andromaca, la sposa devota al marito Ettore, e in più Teti, che è però una divi|| [Schede pubblicate in L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, Firenze, Le Monnier, vol. 1, 2002, pp. 437–438, vol. 2A, 2003, pp. 587–589, vol. 3A, 2003, pp. 163–164]
https://doi.org/10.1515/9783110648140-067
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nità minore, la madre di Achille. Singolare è il pantheon della religione ufficiale (indoeuropea), dove, nonostante il primato maschilista di Zeus, le divinità femminili (in specie Era, sposa di Zeus) godono dello stesso rispetto e di poteri simili a quelli delle divinità maschili. L’Odissea ci offre prima di tutto Penelope, la sposa di Odisseo, che, nonostante la sua alta posizione dinastica, obbedisce agli ordini del figlio Telemaco. Nausicaa, la giovane e bella figlia del re dei Feaci Alcinoo, si innamora a prima vista di Odisseo appena giunto a terra e lo conduce alla casa dei regali genitori. Due figure di donne–dee s’impongono per la loro umanità, Calipso e Circe: ambedue s’innamorano di Odisseo, ma ambedue lo lasciano poi continuare nella sua ricerca dell’amata Itaca, in seguito a dialoghi di alto patetismo. Va ricordata anche un’affascinante figura di vecchia, la nutrice di Odisseo Euriclea, che rappresenta un personaggio sociologicamente inferiore con aspetti, però, di grande saggezza, oltre che di affetto per il suo pupillo. Altrimenti le donne (e le dee) sono tutte giovani e belle, di una bellezza che anche qui non è presentata con caratteristiche particolari. Nella poesia lirica (dal VII secolo a.C.) la donna è, come era da aspettarsi, legata alla sfera erotica, e viene presentata ο come oggetto di desiderio amoroso oppure, al contrario, come vecchia e sfiorita, dunque da respingere e da irridere. La donna sfiorita è uno dei bersagli preferiti dai poeti giambici: in poeti come Archiloco e Ipponatte la vecchia fa anche parte di un panorama realistico che comprende personaggi di basso profilo sociologico. Ma negli stessi poeti c’è anche, più raramente, la donna nel suo fiore, per la quale è da ipotizzare posizione sociale alta (come per esempio nell’Archiloco di Colonia) oppure condizione di etera, visto che è cantata nel simposio, dove la donna era ammessa solo in funzione di intrattenimento musicale ed erotico. Anche in Anacreonte, il cui simposio prospetta una realtà sociale molto varia (Gentili), troviamo i due tipi di donna. Sparta e Lesbo ci offrono situazioni particolari, che non è escluso esistessero anche altrove. A Sparta abbiamo i cori femminili di Alcmane, nei quali traspare una divisione netta fra una società maschile e una femminile di alta formazione pedagogica, che si estende anche all’atletica con gare simili a quelle dei concorsi panellenici, dai quali la donna era peraltro esclusa. A Lesbo, intorno al principio del VI secolo a.C., opera Saffo, che ci presenta il quadro di una società che riservava a donne di alto lignaggio un’educazione quanto mai raffinata in istituzioni educative che, oltre a promuovere rapporti di intimità fra allieve e maestre, preparava le giovani al matrimonio, naturalmente nello stesso ambito sociale. Parlare di femminismo in questi casi, come pure si è fatto, è del tutto improprio, vista la separazione delle due sfere maschile e femminile nel-
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l’età della formazione e il fatto che per la donna matura, madre di famiglia e signora della casa, c’è da pensare a condizioni simili a quelle di altri luoghi ed epoche nell’ambito dell’età arcaica. È però notevole che Saffo riabiliti la figura epica di Elena di Troia, celebrata perché ha seguito l’amore, «ciò che piace». La figura sociologica della donna, pressoché sempre in qualità di signora della casa ma, sul piano giuridico, considerata come una sorta di appendice del marito, compare in testi di vario tipo, e specialmente dalle Opere e i giorni di Esiodo (VII secolo a.C.) e, più tardi, dagli oratori attici del V–IV secolo. È da questi ultimi che abbiamo soprattutto notizie – che si riferiscono però al diritto attico e che ci danno quindi un panorama cronologicamente e localmente ristretto – inferiore a quello più ampio che ci aspetteremmo se per altri ambienti avessimo più notizie di quelle, scarse, che ci vengono dall’età arcaica e sub– arcaica (Sparta e Lesbo, appunto). Si vedrà in seguito come e quanto le cose cambieranno in età ellenistica e soprattutto a Roma.
In età classica Rispetto all’età arcaica, le fonti ci presentano la donna in prospettiva socio– culturale diversa: allontanandosi ogni traccia di cultura matrilineare, scompare la donna–regina ο la donna–principessa dell’epos e d’altra parte la figura femminile acquista una sua più precisa fisionomia nella società che si trasforma, grazie anche a una maggior varietà dei generi letterari che ce ne danno testimonianza. Ferma resta comunque la sua dipendenza dal marito per quanto riguarda il diritto e l’aspetto patrimoniale. Le testimonianze più corpose in questo campo ci vengono, nell’epoca tardo–arcaica e classica, dal dramma e dall’oratoria, specie quella giudiziaria, che rivela rapporti sociologicamente vissuti nella realtà. La moglie ha una funzione sociale importante, che però la limita nei suoi diritti e nelle sue possibilità di esprimersi: è la madre dei figli legittimi, sta usualmente a casa per filare tessuti e per organizzare e guardare la casa (Senofonte, Economico 7,17–37); le donne di buona famiglia hanno anche un’istruzione (leggere, scrivere, cantare), il che le rende adatte all’educazione dei figli fino alla prima adolescenza. È Pericle nel suo epitafio (Tucidide, 2,45,2) a darci un quadro ideale del comportamento della donna: «Se mi tocca, da ultimo, far parola anche della virtù di cui daranno prova quelle donne che ora vivranno in stato di vedovanza, mi limiterò a un piccolo consiglio: grande è la vo-
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stra gloria se non tralignate dalla vostra natura e se fra gli uomini si parla di voi – della vostra virtù ο delle critiche che vi si possono rivolgere – il meno possibile». [trad. M. Cagnetta]
Tutto questo in contrasto con il fatto che le vedove, specie quelle dell’alta società, godevano di una maggior libertà, in vista della loro età. Non sfuggono i tratti idealizzanti della società ateniese, tipici di tutto il discorso di Pericle.
Nell’oratoria giudiziaria Dall’oratoria giudiziaria ricaviamo materiale anch’esso influenzato dalle strategie difensive ο accusatorie del processo. Lisia nella Contro Diogìtone (32,11) ci presenta una donna che, di fronte a una situazione che viene dipinta come drammatica, si dichiara pronta a fare quello che normalmente non farebbe: «Alla fine la loro madre mi scongiurava e mi supplicava di riunire suo padre e gli amici, dicendo che, anche se in passato non era abituata a parlare in mezzo agli uomini, la grandezza delle disgrazie la costringeva a spiegare a noi tutto quello che riguardava i loro guai».
Sempre da Lisia si può ricavare molto altro. Nella Contro Eratostene, per esempio, un’orazione che dipinge la realtà a tratti assai vivaci, la moglie infedele conosce il futuro amante, Eratostene, a un funerale (par. 8), una delle rare occasioni di incontro per una donna sposata, incontro per di più reso difficile dalla separazione delle donne dagli uomini (par. 9). Le donne di bassa condizione potevano uscire di casa per lavori tipicamente femminili, uno dei quali era l’attività commerciale al mercato (si veda per esempio Aristofane, Donne alle Tesmoforie, 446–452). Si specializzano funzioni diverse da quella di moglie: la concubina (παλλακή), ovvero amante fissa, gode di maggior rispetto della prostituta occasionale (ἑταῖρα). Una figura come Aspasia, prima amante e poi moglie di Pericle, era donna colta e figurava da ‘first lady’ nella vita politica di Atene. Nel IV secolo abbiamo la famosa Frine, che fu la modella preferita di Prassitele. Una specie di codice femminile ci è fornito da un famoso passo di un’orazione giudiziaria del corpus demostenico (non autentica; forse di Apollodoro, oratore della cerchia demostenica), la Contro Neera, 59,122: «Perché in questo consiste la convivenza matrimoniale con una donna, nel far figli con lei, nel presentarli ai frateri e ai demoti come figli legittimi, e nel far sposare le figlie come figlie proprie. Noi ci teniamo le cortigiane per il nostro piacere, le concubine per la cura quotidiana del nostro corpo, le mogli per la procreazione di prole legittima, e per avere una fida custode del focolare». [trad. E. Avezzù]
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Nella tragedia Se passiamo al teatro, né la tragedia né la commedia ci danno uno specchio fedele della condizione reale della donna. La tragedia trovava nelle sue fonti mitiche uno stuolo di donne che dal mito stesso ricavano una loro fondamentale giustificazione genealogica spesso come generatrici di eroi per mezzo dell’accoppiamento con una divinità (Zeus e Alcmena generano Eracle), e per questo basta pensare al Catalogo delle donne di Esiodo. L’eccezionalità tipologica di alcune figure femminili non deve far pensare a un rispecchiamento di realtà quotidiana: se ne offre qui un breve elenco. La feroce e ‘virile’ Clitemestra dell’Agamennone di Eschilo è fedele al mito, ed è stata giustamente vista come portatrice di un’autorità quasi matriarcale. La stessa Antigone, nell’omonima tragedia di Sofocle, nella prima parte della tragedia è anch’essa un’eroina ‘maschile’ per la tenacia con cui propugna la validità delle ‘leggi non scritte’, che non possono permettere che il cadavere del fratello Polinice sia lasciato senza sepoltura; ma nella seconda parte della tragedia è vittima femminilmente piangente per la durezza del tiranno Creonte. Deianira nelle Trachinie di Sofocle e l’Alcesti euripidea, la prima con la sua sottomissione a Eracle e la seconda con la sua generosità nei confronti del marito Admeto, rientrano in un quadro, pur idealizzato, della moglie fedele. Fedra, con il suo amore incestuoso per il figliastro Ippolito, doveva risultare al pubblico stesso di Euripide come figura controversa: ne abbiamo la prova attraverso il fallimento della prima versione della tragedia, l’Ippolito velato, che aveva suscitato reazioni negative per la scena dell’aperta confessione del suo amore da parte di Fedra, il che aveva portato Ippolito a velarsi per la vergogna; Euripide aveva provveduto a creare una nuova versione, l’Ippolito portatore di corona, dove la nutrice si assumeva il ruolo di mezzana nonostante la disperata esitazione di Fedra. Il presentare sulla scena un amore incestuoso era un’audacia che aveva evidentemente bisogno di cautele. Il successo di questo dramma nella letteratura posteriore fu enorme, e il seguire le modifiche apportate alla lettura euripidea del mito portano a riconoscere scelte etico–culturali di volta in volta diverse nelle varie epoche. La Medea di Euripide è certo la figura femminile più sconvolgente del teatro tragico. Non è solo donna, eroina volitiva e perfida, ma è anche barbara (in quanto straniera) e per di più maga: un tale accumulo di ‘diversità’ deve avere in qualche modo, di nuovo, colpito il pubblico, visto che la tragedia, nel 431 a.C., ottenne solo il terzo posto (dopo Euforione e Sofocle: non sappiamo con quali drammi). Medea è una delle tragedie che più hanno incontrato il gusto dei Romani e dei moderni, che ne hanno ammirato la serrata e patetica costruzione
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drammaturgica e che ne hanno preso molte volte ispirazione per nuovi drammi. È questo un altro dei non pochi casi in cui la valutazione dei contemporanei non è quella testimoniata dalla fortuna dell’opera presso i posteri. È forse per questo che le interpretazioni moderne di questo dramma offrono orientamenti differenti fra loro. Un fattore doveva comunque in qualche modo attenuare agli occhi del pubblico contemporaneo la sua sete di vendetta nei confronti del fedifrago Giasone consumata con l’orrenda uccisione dei figli: ed era quello della reciprocità dell’amore, tema sempre presente nelle varie epoche della cultura greca, reciprocità che qui veniva tradita. Come si vede da questa veloce rassegna, le principali figure femminili della tragedia non offrono materiale utile a ricostruzioni sociologiche, ma emergono per la loro eccezionalità e per i tratti singolari di ognuna di esse. Non che manchino, anche in tragedia, accenni chiari alla realtà femminile quotidiana, pur se idealizzati. Il lamento di Andromaca nelle Troiane di Euripide ne è un esempio (645–656): «Io invece miravo alla buona reputazione, e quando più l’ho raggiunta, la fortuna mi abbandona. Tutte le virtù, credi, che si sono trovate per una donna, io le praticavo con puntiglio nell’abitazione di Ettore. E tanto per cominciare, se una non resta dentro, ci sia ο non ci sia motivo di chiacchiere per le donne, già la cosa di per sé si tira addosso una brutta nomea: ecco, io mandavo via ogni voglia, rimanevo a casa. E non lasciavo entrare nella mia dimora le maliziose ciarle delle femmine, avevo il mio naturale buon senso a maestro di onestà e bastavo a me stessa. E allo sposo offrivo il silenzio e un volto sereno: sapevo dove potevo averla vinta sul marito, e dove dovevo lasciare a lui la vittoria» [trad. G. Tonna]
Nella commedia La commedia ci offre materiale che è stato rielaborato dallo spazio metaforico comico e che è stato utilizzato a torto dalla moderna corrente femministica. La Lisistrata con il ricatto sessuale ai mariti assenti per la guerra come arma di pressione per la pace; le Donne all’assemblea con la sostituzione delle donne nell’esercizio delle funzioni politiche per un risanamento delle ingiustizie della polis: due incursioni nel mondo dello scherzo comico e dell’utopia che, ben lungi dal mettere in crisi la società, finiscono per confermare la validità delle istituzioni. Basta immaginarsi il pubblico che esce dal teatro dopo due commedie del genere: è quasi grottesco pensare che si sentisse destinatario di un messaggio femminista, che sarebbe stato totalmente decontestualizzato in una società che teneva nettamente distinti i rispettivi ruoli dell’uomo e della donna. Uno dei mezzi del comico sta proprio nel rovesciamento dei ruoli di una società
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che è abbastanza solida nelle sue istituzioni da tollerare, anzi da apprezzare, tali finzioni. Un’altra commedia di Aristofane, le Donne alle Tesmoforie, ci offre una visione quanto mai fedele delle frequenti feste delle donne, dove la comunicazione interpersonale di un ambiente chiuso agli uomini trovava le sue forme più libere. Nonostante siano chiari i tratti principali ricavati dalle testimonianze di varia natura qui riportate, la realtà sarà stata certamente più sfumata. Si sono prodotte recentemente delle raccolte di materiale sulla condizione della donna nel mondo antico[*], ma bisogna sempre – come qui si è visto – tenere in conto il contesto in cui sono inserite, la condizione sociale, l’ambiente socio–politico della città, il genere letterario: un luogo comune come la totale segregazione nello spazio domestico può essere stato utile al testimone antico come punto di riferimento etico ideale e ha torto chi oggi prende a valore facciale quelle formulazioni al solo scopo di farne un bersaglio polemico attuale.
In età ellenistica Anche se la donna cominciò in epoca ellenistica a godere di una più ampia libertà di comportamento e di una maggiore partecipazione alla vita della città, la sua situazione giuridica e sociale non cambiò molto: va ricordato che Demetrio Falereo, alla fine del IV secolo a.C., istituì i γυναικονόμοι, un consiglio di «sorveglianti delle donne» con il compito di censurare la condotta femminile e quindi di limitare la stravaganza degli uomini. Fu, piuttosto, la rappresentazione della donna nella letteratura a trovare spazio molto più ampio, ispirata com’era a un realismo molto più accentuato e a un approfondimento psicologico inedito, che si richiamava soprattutto a Teofrasto.
Le donne della commedia nuova Proprio per queste ragioni le donne della commedia nuova che hanno risalto sono prevalentemente le concubine e le etere, che ci danno fra l’altro uno spaccato sociologico fedele alla realtà quotidiana, a differenza di quanto avveniva, per esempio, nella tragedia del V secolo con le eroine del mito; nella commedia
|| [* L’allusione è al volume collettaneo Le donne in Grecia, a cura di Giampiera Arrigoni, Bari, Laterza, 1985 (poi 20082). – G. C.]
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antica le etere erano invece presenti solo episodicamente, e non tanto per la loro figura individuale quanto piuttosto come rappresentanti di una categoria del variato panorama sociale della città. Da Menandro in poi, e cioè dalla commedia nuova, la presenza della donna si fece sempre più costante, e forse la maggior novità, peraltro non del tutto frequente, fu la presenza della donna di estrazione ‘borghese’, della sposa legittima e madre (come la Pànfile degli Epitrèpontes, di sentimenti umanamente delicati): ma, dal momento che la signora della casa offriva così poco di caratteristico e di individuale, visti i rigidi binari in cui era incanalata la sua funzione sociale, l’approfondimento psicologico, per di più in positivo, fu riservato alla donna di condizione sociale più bassa, che si trovava a dover reagire a situazioni complesse, ben lontane dalla monotona tranquillità della vita di famiglia. Queste donne erano certo più interessanti e le vediamo presentate con viva simpatia. Menandro ci offre, così, una ricca schiera di bonae meretrices. Negli Epitrèpontes tale parte è rappresentata dalla psaltria Abròtono, una musicista che viene presa a nolo in occasione di banchetti per fornire prestazioni artistiche e sessuali. Carisio, un giovane marito, ha ripudiato la moglie Pànfile perché dopo solo cinque mesi di matrimonio le è nato un figlio. In un intreccio assai complesso, il lieto fine è assicurato sia dalla ragionevolezza di Carisio, che si dispone al perdono, sia dall’altruismo di Abrotono, che si fa inizialmente passare per la madre, sedotta a una festa, e poi riesce, con complicati sotterfugi, ad attribuire il bambino a Pànfile stessa, che ne era poi la madre vera, essendo stata lei a esser violentata da Carisio durante quella festa. Abrotono agisce contro il suo stesso interesse, perché Carisio si era messo a vivere con lei, ma questo non la trattiene dal contribuire alla felicità familiare del suo amante e dal dare al bambino lo stato sociale che gli compete, come figlio legittimo. Sentimenti e atteggiamenti analoghi Menandro ci mostra, fra gli altri, nel personaggio di Crìside, l’etera di Samo nella Samia, e in quello di Glicera nella Perikeiromene: quest’ultima si distingue anche per il suo grande amore fraterno. Ambienti femminili piccolo–borghesi ci offrono Teocrito nelle Siracusane (Id. 15) e specialmente Eroda nei suoi mimiambi: in quest’ultimo le parti femminili sono in netta prevalenza, che si tratti di mezzane, di meretrici ο di donne di estrazione sociale quanto mai varia. A questo quadro realistico, in realtà piuttosto ricco, non si lascia del tutto adattare una grande figura della letteratura, la Medea delle Argonautiche di Apollonio Rodio, che tanto deve alla omonima eroina euripidea per la scelta, già di Euripide, di tratteggiarne il carattere e la psicologia (ovvio ricordare quanto le debba, poi, la Didone virgiliana). Qui il realismo psicologico si discosta dal realismo sociale, perché la donna è un’eroina e la sua annessione al mondo dei
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comuni mortali era già avvenuta nella tragedia euripidea. Sarebbe interessante poter misurare la distanza di queste rappresentazioni femminili con i loro prototipi epici di età arcaica, in questo caso con l’epos perduto degli Argonauti. Le poche fonti ellenistiche documentarie non ci offrono se non qualche papiro con lettere private e qualche iscrizione (epitafi, dediche, ex voto).
Dall’epigramma ellenistico all’elegia latina Uno sviluppo che non è chiaro, per la scarsità delle testimonianze, è il passaggio dall’epigramma ellenistico erotico all’elegia latina d’amore. Quanto la Lyde di Antimaco (V–IV secolo) debba alla Nannò di Mimnermo (VII secolo) resta incerto, perché incerta è l’unitarietà del personaggio femminile e la costruzione di una vera storia d’amore. Ermesianatte (III secolo), con la sua Leonzio, offriva una serie di storie a tema amoroso; il pathos episodico di poeti come Asclepiade ο Posidippo non ci illumina. Il V libro dell’Antologia, quello dedicato agli epigrammi erotici, ci offre un panorama ampio di vari secoli di questo genere letterario, che sembra aver conservato la caratteristica che diremmo frivola dell’amore come encomio della bellezza, gioco dei sensi e schermaglia reciproca. Ne offriamo un bell’esempio di Filodemo (Anth. Pal. 5,124): «Spoglia l’estate non è, per te non ancora s’annera / quel grappolo di grazie verginali. / Ma dei giovani Amori s’affilano rapide frecce, / la fiamma cova, Lisìdice, occulta / Miseri amanti, lo strale sta là sulla cocca: fuggiamo / Presto sarà l’incendio: io l’indovino» (trad. F.M. Pontani). Vorremmo poterlo seguire in dettaglio, questo passaggio alla figura della donna nell’elegia latina, capace di sostenere un ruolo privilegiato in quello che si può chiamare la vera e propria storia di un amore (Catullo, Properzio ecc.): l’anello mancante sono certo i poetae novi, dei quali abbiamo troppo poco. Lo iato fra l’epigramma ellenistico e l’elegia latina resta un vuoto che non siamo in grado di colmare: la vera chiave esegetica in sede storica deve essere la diversa posizione sociale della donna e della matrona a Roma. Si potrebbe così spiegare lo sviluppo di un importante tema letterario, che ha avuto un lungo seguito fino al romanzo moderno, del quale ci sono però ignoti i passaggi intermedi. Il romanzo antico, anch’esso distribuito su qualche secolo, più che della donna ci parla delle vicende della coppia, divisa da impedimenti di varia natura e poi riunita: l’amore, più che per se stesso, è utilizzato come una specie di motore che avvia e sostiene l’avventura (si veda la scheda a p. 75).
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Le grandi regine del mondo ellenizzato Un capitolo a parte è quello delle diverse culture con cui il mondo greco, prima ristretto e chiuso in se stesso, ora viene a contatto. Già in Macedonia il ruolo politicamente rilevante di Olimpiade, madre di Alessandro Magno, preannuncia le figure di donne regali di poco posteriori come Arsinoe e Berenice: la donna, nell’Egitto tolemaico grecizzato nelle sue strutture politiche e amministrative, assurge ai massimi ruoli del potere in virtù del matrimonio di regnanti tra fratello e sorella, per i Greci incestuoso ma per gli Egizi del tutto normale e dai Greci conquistatori accettato per ragioni politiche di contesto. Da qui le celebrazioni dei re e, insieme, delle regine da parte dei poeti (Callimaco, Teocrito, Apollonio Rodio), che si integrano in questa nuova realtà istituzionale non greca. Quello che colpisce è che nella letteratura viene ignorata ogni altra manifestazione della vita locale: pur realistica, l’arte alessandrina ignora le classi del sostrato egizio, le bandisce dal suo angolo visuale. Tale fatto viene spesso trascurato, ma è notevole per la persistente centralità culturale che fa intravedere: l’ellenizzazione dell’Egitto e dell’Oriente fu un fatto di cultura cittadina, al punto che, tra l’altro, il contesto agrario egizio non ispirò non solo un Teocrito, ma neanche i continuatori della poesia bucolica. L’interesse di un Eschilo ο di un Erodoto per il diverso è ormai lontano, quando invece ce lo saremmo aspettato in un mondo, quello inaugurato da Alessandro Magno, caratterizzato da un accentuato ecumenismo. La spiegazione che si affaccia come plausibile è quella dei destinatari delle opere letterarie, che sono in greco e che si rivolgevano a un pubblico ovviamente ellenofono. In realtà è solo nella storiografia che c’è un cospicuo filone ‘erodoteo’ e l’interesse per il diverso si incanala in generi letterari affini, che arricchiscono la storiografia in senso stretto: θαύματα («esseri e fatti prodigiosi», e quindi ‘esotici’), geografia descrittiva di paesi remoti, peripli, storiografia regionale (come gli Ἰνδικά, ovvero descrizioni dell’India, mondo dischiuso da Alessandro).
Evoluzione della pronuncia del greco Chi conosce il greco antico e va oggi in Grecia è bene che si tolga ogni illusione di capire senza difficoltà sia la lingua scritta sia soprattutto quella parlata. La delusione è grande, ma non ci sono difficoltà a farsi capire e a capire in situazioni d’emergenza perché i Greci – dal momento che la loro lingua è parlata solo da poco più di dieci milioni in patria e dai trapiantati all’estero – hanno quello che si può ben chiamare un complesso di superiorità linguistico: molti sono vissuti all’estero e parlano bene varie lingue europee, fra cui anche l’italiano. L’Italia è molto amata e ci si può trovare a parlare italiano anche con persone di modesto livello socio–culturale. Ma chi vuole penetrare a fondo la cultura di un Paese moderno, pieno di fascino nella sua psicologia popolare e nella sua travagliata storia, deve prepararsi. Del resto la fatica per chi sa il greco antico non è grande: la si può paragonare grosso modo a quella che può fare da noi uno straniero di lingua non neolatina che sappia il latino. Bisogna tener conto però, in più, che in Grecia la situazione linguistica, a parte la pronuncia, è ancora molto fluida: assai viva è la tradizione ecclesiastica del greco bizantino, da cui deriva la lingua che viene chiamata «pura» (καθαρεύουσα, katharévusa) e che fino a pochi anni fa era praticata, per esempio, nella stampa quotidiana e che ancora oggi è scritta dai più conservatori. Ma la lingua dello scambio interpersonale è la cosiddetta lingua ‘popolare’ (δημοτική, dhimotikì), che è in continua evoluzione nella sua semplificazione progressiva dei morfemi (nominali e verbali) e della sintassi. Ormai da molto tempo è anche lingua scritta, ma da alcuni anni per di più è graficamente semplificata: sono stati aboliti gli spiriti e, fra gli accenti, si è conservato solo quello acuto, eliminando il circonflesso e il grave. Questo rende alle volte faticosa la lettura dei giornali per chi sa il greco antico ed è abituato a una grafia non riformata.
Lessico Troppo lungo sarebbe qui parlare della lingua: basterà dire due parole sul lessico. Molte parole vengono dal turco (per la dominazione turca, la ‘turcocrazia’, durata circa mezzo millennio), ma molte anche dal latino (σπίτι, «casa», da || [Scheda pubblicata in L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, Firenze, Le Monnier, vol. 3A, 2003, pp. 11–12]
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hospitium) e soprattutto dall’italiano (πόρτα, μποτίλια, pronunciato botìlia) e addirittura dal veneziano per la lunga dominazione politica e culturale di Venezia (πηρούνι, «forchetta»; μπρόκες,«chiodi»): sono casi interessanti di importazione della cosa insieme con la parola.
Pronuncia Ma vediamo qualche particolare della pronuncia. Senza entrare qui in dettagli storici, si può dire che quella che adottiamo noi è sicuramente quella che fu in uso fino almeno al IV–III secolo a.C. Poi intervennero, scaglionati nel tempo, mutamenti fonetici che portarono man mano a quella alterazione del rapporto tra segno e suono che rende il greco di oggi così diverso dall’antico. Si dà qui di seguito qualche indicazione. La pronuncia delle vocali è quella che riserva le maggiori sorprese. Le vocali e i dittonghi a cui corrispondono le grafie ι, ει, οι, υ, η corrispondono tutte al suono /i/, per cui si parla di ‘itacismo’ (e così si spiegano tanti errori di copisti medievali e bizantini di testi classici): un esempio spesso citato, e divertente, è chirògraphos, che può corrispondere sia a χειρόγραϕος (da χείρ, «mano») sia a χοιρόγραϕος (da χοῖρος, «maiale»). Il dittongo αι si pronuncia /e/: εἶναι, oggi είναι pronunciato ìne. Quanto ai suoni consonantici, tutte le occlusive sonore (rappresentate da β, γ, δ) sono diventate spiranti (così βουνό, «monte», suona vunò; δείχνω, «indico», suona dhichno). Questo comporta che il suono delle occlusive sorde, suono ancora vivo come tale, deve essere rappresentato con espedienti che si chiamano «digrammi» (due lettere per un solo suono): la parola ‘birra’ è scritta μπίρα, perché, se fosse scritta βίρα, si pronuncerebbe vìra. I casi più intriganti sono quelli di nomi propri stranieri: se proviamo a immaginarci come si scriva il nome di Greta Garbo (con ben tre sonore), stenteremo a credere che viene reso graficamente con Νκρέτα Νκάρμπω. È un singolare destino che i trattati che hanno fatto epoca sulla pronuncia del greco siano tutti molto divertenti a causa degli equivoci che possono nascere dalle diverse pronunce: a cominciare da quello di Erasmo da Rotterdam (De recta Latini Graecique sermonis pronuntiatione dialogus, 1528), la cui pronuncia è quella che noi oggi quasi in tutto il mondo adottiamo, al libro di Friedrich Blass (Über die Aussprache des Griechischen, Berlin 1871, 18883), che diede fondamenti linguistici alla corrente erasmiana. Divertente è anche il libro dell’olandese Heinrich Christian Hennin (Graecam linguam non esse pronuntiandam secundum accentus, Utrecht 1684): era erasmiano, ma voleva posizionare l’accento alla latina, e cioè sulla penultima quando è lunga – per esempio ἄνθρωπος pronunciato anthròpos – ed è la pronuncia adottata ancora oggi in
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Olanda, in Gran Bretagna e nei paesi del Commonwealth; è interessante ricordare che gli Stati Uniti, colonia filologica tedesca nel corso dell’Ottocento, adottano la pronuncia erasmiana come noi. Sostenitore della pronuncia bizantina fu invece Johannes Reuchlin (1455–1522), da cui la pronuncia detta «reuchliniana», che è quella dei Bizantini e dei Greci moderni. Blass porta due esempi divertenti: in un frammento del commediografo Cratino (V sec. a.C.) il verso delle pecore è reso con βῆ βῆ, che con la pronuncia reuchliniana sarebbe vi vi; e poi immagina per assurdo la pronuncia della parola ὑγίεια, «salute», che in ionico sarebbe ὑγιείη inverosimilmente pronunciata ijiìi (oggi γιά). La conferma del fatto che la pronuncia erasmiana è la più corretta è frutto di studi svolti per un secolo e mezzo con severi criteri linguistici: dico la più corretta, e niente più, perché i mutamenti non si sono verificati tutti in un solo momento, e quindi, per pronunciare la lingua dei singoli momenti storici, dovremmo adottare pronunce diversificate sia nei suoni vocalici sia in quelli consonantici. Noi «erasmiani» abbiamo quindi sostanzialmente ragione, anche se dobbiamo dichiarare qualche parziale compromesso: per evitare tali compromessi anche nel latino, noi italiani in genere non adottiamo la pronuncia cosiddetta corretta (Kaisar), giustificandoci con una continuità storica che era già matura nel IV–V secolo d.C. (ai tempi di Agostino). Dobbiamo però stare attenti a non ferire la suscettibilità di molti fra i Greci di oggi, che sono quasi tutti convinti di praticare la pronuncia corretta del greco antico: li possiamo capire, se ci immedesimiamo nella loro nativa consuetudine di lettura reuchliniana dei testi antichi, che viene universalmente adottata nelle loro scuole e che ha dalla sua il fatto di richiamarsi anch’essa a una continuità storica, peraltro molto più varia e incostante della nostra.
Discorso per la presentazione degli Scritti Ringrazio prima di tutto il Preside di Facoltà[1], il Direttore del Dipartimento[2] e, in questa splendida cornice dell’Odeion[3], gli amici archeologi: tutti hanno contribuito a rendere possibile questo incontro. Ringrazio poi gli amici che hanno parlato prima di me[4]: a parte l’impegno che hanno messo nella lettura del volume, non posso rifiutare quanto hanno detto su di me, perché sarebbe scortesia; né posso confutarlo, perché siamo in uno di quei casi in cui la verità oggettiva, se anche esistesse, sarebbe del tutto irraggiungibile, secondo una formulazione dei nostri antichi. Per non peccare quindi anche contro la filosofia, affidiamoci alle emozioni, vostre e mie, che di questa irraggiungibile realtà fanno pur sempre parte. Naturalmente grazie a tutti i presenti, colleghi amici studenti parenti e, non ultimi, mia moglie e i miei figli[5]. Ma soprattutto ringrazio tutti voi, allievi di tanti decenni, e non solo quindi il curatore della miscellanea[6], il comitato scientifico[7] e gli altri che hanno partecipato con i loro scritti[8], ai quali va co-
|| [Discorso di ringraziamento tenuto al termine della presentazione, avvenuta V 5.3.2004, ore 15.30, nell’Aula Odeion della Facoltà di Lettere/Scienze Umanistiche della “Sapienza” di Roma, del volume ΡΥΣΜΟΣ. Studi di poesia, metrica e musica greca offerti dagli allievi a Luigi Enrico Rossi per i suoi settant’anni (a cura di Roberto Nicolai, Quaderni di «Seminari Romani di Cultura Greca» 6, Roma, Quasar, 2003), con interventi di Maria Grazia Bonanno (Univ. di Roma “Tor Vergata”), Gian Biagio Conte (Scuola Normale Superiore, Pisa), Massimo Di Marco (Univ. di Roma “La Sapienza”). – Inedito, ritrovato tra i suoi files da Silvia Rizzo; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 Paolo Matthiae.] [2 Rino Avesani.] [3 L’aula Odeion, sita nel piano seminterrato della Facoltà di Lettere e Filosofia (all’epoca divisa in Facoltà di Lettere e Facoltà di Scienze Umanistiche) della “Sapienza” di Roma; l’Odeion ospita alcuni calchi del “Museo dei Gessi” della “Sapienza”, e quindi rimanda agli studi di archeologia, i quali hanno i loro ambienti appunto nel piano seminterrato.] [4 Maria Grazia Bonanno, Gian Biagio Conte e Massimo Di Marco, i quali hanno illustrato gli scritti della miscellanea.] [5 Giovanna Gorgosalice e i due figli Giacomo Claudio ed Elena Giulia.] [6 Roberto Nicolai.] [7 Il comitato scientifico della rivista “Seminari Romani di Cultura Greca”, nei cui Quaderni è stato pubblicato il volume.] [8 Massimo Vetta, Albio Cesare Cassio, Roberto Nicolai, Maria Broggiato, Manuela Giordano, Giulio Colesanti, Sabrina Mingarelli, Livio Sbardella, Riccardo Palmisciano, Andrea Ercolani, Andrea Bagordo, Ester Cerbo, Michele Napolitano, Maria Grazia Palutan, Margherita Bertan, Rosa Rossi, Fabio Cannatà, Maurizio Sonnino, Luigi Maria Segoloni, Claudio Tartaglini, Lorenzo Argentieri, Roberto Pretagostini, Mario Cantilena.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-069
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munque un pensiero particolare. A costruire la mia ormai lunga carriera di docente tutti i miei allievi hanno contribuito in modo fondamentale: lo dirò meglio fra poco. La sorpresa è riuscita perfettamente: per più di due anni avete lavorato in silenzio, e anche l’editore[9] – al quale sono grato per la veste del volume e per la sua presenza – è stato molto bravo a nascondermi il tutto. In realtà dovrebbe essere sempre così, ma di rado riesce, e la sorpresa è riuscita perché siete stati molto bravi e anche perché avete scelto una formula molto felice, solo gli allievi, il che ha reso più facile la vostra congiura. Adesso sarebbe ipocrisia di maniera dire che vedo solo ora il volume: l’ho avuto fra le mani di recente, l’ho letto con gioia e qui posso solo dirvi che sarei fiero di firmare col mio nome ognuno dei vostri contributi, se non fosse fin troppo facile scoprire la pseudonimia attraverso competenze tanto varie quanto varie sono le vostre personalità scientifiche. Conto di dare risposte dettagliate a ciascuno di voi. Ringrazio tutti voi prima di tutto perché vi definite miei allievi, ma vi ringrazio anche perché non solo ho imparato e continuo a imparare tanto da voi, ma perché quasi tutti voi mi avete dato un aiuto essenziale, direi anche professionale, nella conduzione del mio insegnamento. Penso qui soprattutto ai più anziani, che in anni ormai lontani sono stati – sembra una favola – assistenti al mio insegnamento e oggi sono maestri a loro volta[10]. Ma penso a tutti voi e a quanti siete, anche in giovane età, già dei maestri, sia nell’università sia nella scuola. Dopo la bella cena augurale di quest’estate (e anche quella fu frutto di una congiura), nella quale mi deste a sorpresa l’indice del volume non ancora stampato[11], nella lettera che vi ho mandata vi ho detto quanto avete imparato da tanti altri davvero grandi maestri della nostra università romana[12]; ma ho o|| [9 Severino Tognon, proprietario della casa editrice Quasar.] [10 Si allude a Massimo Vetta, Albio Cesare Cassio e Roberto Pretagostini.] [11 La sera del 20 luglio 2003 Rossi fu invitato a cena insieme ai due figli dalla moglie Giovanna, al ristorante Taberna Piscinula in Trastevere, per festeggiare lì il suo 70° compleanno; ma, all’arrivo al ristorante, Rossi trovò lì schierati tutti i partecipanti alla miscellanea, i quali gli fecero gli auguri, lo invitarono a cena con la sua famiglia, e gli diedero, come (anticipo di) dono, la notizia degli Scritti in suo onore, consegnandogli una brochure stampata contenente l’indice degli Scritti (poi pubblicati nel dicembre 2003; il piano originario, elaborato da tempo, era in realtà avere gli Scritti già pronti e stampati per poterglieli consegnare in quell’occasione, ma ritardi di stampa lo impedirono). La sorpresa fu possibile solo grazie all’aiuto di Giovanna e dei figli, che erano al corrente di tutto.] [12 Dopo la cena Rossi, come primo e quasi immediato ringraziamento, inviò il 6.8.2003 a tutti i partecipanti alla miscellanea una email (che è stata recuperate da Roberto Nicolai), nella quale diceva:
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messo di dire tutto quello che avete imparato e continuate a imparare, e a farmene partecipe, nei diversi ambienti in cui vi siete trovati e vi trovate a imparare, a insegnare e a lavorare. E, quando penso a quanto importante è quello che avete imparato dopo, resto sinceramente sbalordito – credetemi – che molti di voi abbiano memoria così tenace da ricordare tanto di quello che avete imparato durante. La vostra testimonianza, che è così viva e concreta, mi fa ritornare quello che, senza la vostra testimonianza, sarebbe rimasto inevitabilmente al di fuori di me. L’insegnamento è un seminare alla cieca, senza sapere, come inve|| “Oggetto: Cena e Scritti Velletri, agosto 2003 A tutti gli autori di Rhysmos Carissimi amici, credetemi, sono sincero se vi dico che ho tardato un po’ a scrivervi perché ho dovuto riprendermi dalla immensa sorpresa, che tale è stata, e della cena e degli Scritti offertimi da voi. La cena. Pensavo che mi aspettasse un tavolo per cinque prenotato a mio nome per un festeggiamento strettamente di famiglia, quando ho visto una grande schiera di volti ben noti: credo che la mia meraviglia fosse evidente a tutti. Poi, avvicinandomi al tavolone, ho notato il dépliant accanto ad ogni posto e lì per lì ho creduto che fosse il menu. “Che stile, che esagerazione!”, mi sono detto. Ma poi l’ho visto da vicino, l’ho aperto e la meraviglia si è trasformata in qualcosa che ho difficoltà a formulare. A ringraziarvi per la cena non sono soltanto io, perché si associano Giovanna, Giacomo ed Elena con il suo Giacomo, tutti peraltro complici nell’imboscata che più proditoria di così non poteva essere. Gli “Scritti offerti dagli allievi”. Al curatore e agli autori devo fare prima di tutto un complimento: come avete fatto a nascondermi in modo così compatto il lavorio di tanto tempo? Siete stati bravissimi e avete fatto quello che in pochi casi del genere riesce, forse perché quasi sempre ne manca la volontà, mentre dovrebbe essere sempre così. E poi in questo caso, venendo a saperlo, vi avrei dissuaso con ogni mezzo: mi conoscete, credo. E vi avrei dissuaso per la ragione che spesso ho detta a molti di voi. Chi ha avuto il privilegio di essersi formato in un grande mercato didattico e scientifico come la nostra università romana ha avuto modo di imparare da tanti, ma tanti grandi maestri. E, guardando all’indice dei vostri contributi, vedo sotto il nome e sotto i titoli personalità tanto ricche e varie da essere fiero di una cosa soprattutto: di avere fin dall’inizio cercato di rispettare – credo e almeno spero – la personalità di ognuno di voi, che poi si è andata arricchendo col seguire le vie più varie. È questo che mi ha permesso, e mi permette tuttora, di profittare delle vostre così diversificate competenze. Voi dite di avere imparato da me: ma dovete essere sempre consapevoli del tantissimo che ho imparato, e che imparo, io da voi, sia dal punto di vista scientifico sia da quello umano. Tirare le somme di debiti e crediti in casi simili è impossibile, e in fondo sono contento che non lo si possa fare. Naturalmente sono molto impaziente di leggervi, e so che potrò farlo molto presto. Insomma, sono commosso e felice che vi consideriate miei allievi, a patto che accettiate il grande grazie e il grande affetto del vostro maestro elementare Chico P. S. – So che a qualcuno manca la posta elettronica: conto che alcuni di voi si prendano la cura di fare da intermediari. Grazie.”.]
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ce fa il seminatore dei campi, che cosa ne verrà fuori: ed è qui che l’allegoria della parabola del seminatore fa cilecca. Insegnando non solo non si conosce il terreno, ma neanche si è in grado di valutare quello che si semina. Posso dire di essere stato fortunato. Spero di aver rispettato sempre la personalità intellettuale di ciascuno di voi, non costringendovi a scelte obbligate: e questo mi viene confermato dalla varietà dei vostri interessi e delle vostre competenze, di cui negli anni sono stato e sono proprio io a giovarmi. Un augurio particolare a molti di voi. Il docente di scuola secondaria che continua a studiare è una categoria sociologica che era, quando ero giovane, pressoché estinta, per le mutate condizioni di vita di tanti decenni precedenti. Oggi può rinascere grazie a mezzi tecnologici che ieri non c’erano. Ma ci vuole molta forza: vedo che molti di voi ce l’hanno. Se c’è qualcosa per cui faccio veramente il tifo, è proprio la forza che molti di voi mostrano nel continuare a studiare e a produrre sul piano scientifico, pur non avendo avuto ancora riconoscimenti concreti, oltre alla grande stima che tutti hanno per voi. Molti ricordi: i corsi, il seminario, le vostre tesi, i vostri primi lavori, letti, discussi e poi corretti in bozze. Quante idee mi sono venute o durante i corsi o discutendo con voi: spero di aver dato sempre a ciascuno il suo, menzionando i vostri nomi. Se ho fatto torto a qualcuno, è stato del tutto involontariamente. Non so perché ad alcuni studiosi costi tanto il riconoscere un debito scientifico: per me è non solo un dovere, ma addirittura una gioia. E può essere davvero una gioia, quando a un’idea iniziale, accreditata a chi di dovere, si aggiunga qualcosa di proprio. Torno ai vostri Scritti contenuti in questo prezioso volume: mi riconosco – come ho già detto – in ciascuno di essi. L’essenziale è nell’approccio, e alle volte anche nello stile, che io credo di aver cercato sempre di finalizzare alla comunicazione di idee chiare, e così vedo che è in voi. Ma tenete presente che anch’io ho imparato dai miei maestri. Non voglio qui infliggervi il mio Bildungsroman, il mio romanzo di formazione, ma intendo almeno offrirvi una considerazione forse di qualche interesse. Voi sapete bene che io mi sono formato in clima crociano: la mia licenza liceale coincide con la morte di Croce[13], più di mezzo secolo fa: ma la sua dittatura intellettuale durò da noi in Italia ancora a lungo, prima quasi compatta e poi a grandi macchie di leopardo. Gennaro Perrotta, per ragioni generazionali, era e restò crociano, ma era un crociano intelligente e non rinunciava certo a praticare la più severa filologia; diversamente se ne liberarono Carlo Gallavotti e Scevola Mariotti, e in Bruno Gentili, a sua volta allievo || [13 Rossi ha conseguito il diploma di Maturità classica presso l’Istituto “Massimiliano Massimo” di Roma all’inizio dell’estate 1952; Benedetto Croce è morto il 20.11.1952.]
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di Perrotta, la liberazione da Croce fu sofferta, e come tale fu molto istruttiva, ma fu altrettanto totale. Io maturai a poco a poco una specie di astio per un approccio che sempre più mi pareva sbagliato specialmente nelle letterature antiche: e qualche volta la mia polemica può essere sembrata a voi anche eccessiva, astiosa, appunto, come contro chi aveva minacciato la mia comprensione del materiale che trattavo. L’ho definita l’estetica dell’interiezione (‘quant’è bello, quant’è bello!’), tanto che da alcuni di voi ho avuto più volte il rimprovero (che ormai merito di meno) di aver usato poco quella stessa interiezione (che è lecita, anzi doverosa, a patto che se ne diano ragioni concrete che non siano il puro e arbitrario coincidere con l’intuizione dell’autore). E non posso dimenticare, in questo veloce bilancio, il contributo alla mia formazione venuto fin dai lontani anni passati fra questi banchi dai colleghi di studio, fra i quali nominerò qui solo Gregorio Serrao, amico e poi collega più che caro, fin dai primi anni anche maestro alla pari degli altri che ho nominati: fu lui, con il suo amore immenso per i testi che leggeva, a farmi capire inizialmente che l’approccio umanistico, che è un atto d’amore, non poteva essere disgiunto dall’approccio storico–filologico, che è un percorso di ragione. Continuo a consigliare ai miei allievi più giovani di muoversi fra tutti e due questi poli di approccio. Ebbene, c’è qualcosa che mi è rimasto, di quella formazione crociana: la preminenza che ho sempre data, più o meno consapevolmente, ai testi poetici e alle loro leggi metriche e alla loro sfuggente ricostruzione musicale. E ricordo qui anche quello che per alcuni di noi qui presenti è stato un grande maestro, Eduard Fraenkel[14], con la sua passione per i grandi testi, appunto, che a lui veniva da una formazione intellettuale certo lontana dal crocianesimo nostrano. Se questo fosse un errore, lo denuncerei e me ne scuserei, perché lo vedo anche in gran parte di voi. Ma non è stata una scelta sbagliata, dal momento che una riflessione più matura proprio su quei mostri sacri del nostro patrimonio, tanto intensamente visitati nei secoli, ci ha portati sempre a liberarli da perduranti incrostazioni umanistiche, romantiche e moderne che erano a loro estranee. Quante volte, nelle nostre riflessioni comuni, ci siamo trovati a riconoscere la genuinità storica dei nostri grandi autori: era come il liberare le basiliche paleocristiane dalle loro incrostazioni manieristiche e barocche. Posso citare qui
|| [14 Fraenkel dal 1966 al 1969 tenne dei seminari alla “Sapienza” di Roma presso la cattedra di Filologia Classica di Scevola Mariotti, e Rossi, che era assistente di Mariotti, fu incaricato della preparazione dei partecipanti ai seminari (come rievocato in Due seminari romani di Eduard Fraenkel. Aiace e Filottete di Sofocle, a cura di alcuni partecipanti, premessa di L. E. Rossi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, pp. VII–XXX).]
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solo pochi casi: l’epica, la lirica monodica in rapporto con il simposio e quella corale con le feste panelleniche. Facendo un consuntivo, che è inevitabile perché l’occasione mi costringe a farlo, devo concludere dicendo quanto l’insegnamento è stato importante per me. Senza di esso, la mia produzione scientifica, per quello che vale, non sarebbe esistita del tutto. E a più di un’iniziativa avete collaborato in maniera determinante: penso alla rivista “Seminari Romani di Cultura Greca”[15], alla Storia della letteratura[16], alla recentissima antologia (Storia e testi della letteratura greca)[17]. So qual è il segreto dell’insegnamento: è un certo entusiasmo che ho messo fin dai miei primissimi impegni didattici, che per un paio d’anni ho avuto anche nella scuola[18]. Voglio raccontare qui un episodio, che molti di voi già conoscono, perché l’ho raccontato molte volte, tanto ne sono fiero, ed è qui presente uno scolaro di allora, oggi collega in una disciplina scientifica, che può confermarvelo[19]. In una seconda liceo mi infervoravo a illustrare la geografia dialettale della Grecia, allora rivoluzionata dalla recente decifrazione del
|| [15 Rivista fondata nel 1998 insieme all’allievo Roberto Pretagostini – e a Maria Grazia Bonanno –; allievi vi erano anche nel Comitato scientifico (Mario Cantilena, Albio Cesare Cassio, Massimo Vetta) e nella Redazione (Roberto Nicolai come segretario, e poi Giulio Colesanti, Andrea Ercolani, Michele Napolitano, Riccardo Palmisciano, Laura Rossi, Livio Sbardella, Maurizio Sonnino.] [16 L. E. Rossi, Letteratura greca, con la collaborazione di R. Nicolai, L. M. Segoloni, E. Tagliaferro, C. Tartaglini, Firenze, Le Monnier, 1995; Colesanti, Napolitano, Palmisciano e Sbardella collaborarono alla revisione.] [17 L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, 3 voll., Firenze, Le Monnier, 2002–2003, che rielaborava la precedente Letteratura greca aggiungendovi le parti antologiche, di molte delle quali furono autori numerosi allievi.] [18 Rossi, dopo la laurea (24.2.1959), ottenne delle supplenze in tre licei classici di Roma: “Luciano Manara” (8.4–15.6.1959), “Manieri–Copernico” (ottobre–novembre 1961, I Trimestre), e “Torquato Tasso” (29.1–15.6.1962, in sostituzione di Giovanni Tarditi affidatario di insegnamento universitario presso la “Sapienza”), affiancando tale attività a quella di assistente volontario e poi straordinario presso la cattedra di Filologia Classica della “Sapienza” (a partire dall’1.2.1960).] [19 Giovanni (Gianni) Maschio, professore associato di Meccanica Razionale alla “Sapienza” di Roma, che era stato allievo del II F del Liceo “Tasso” nel 1962. Maschio, che era sempre rimasto in contatto con Rossi, sicuramente gli aveva preannunciato per tempo la sua presenza nel giorno della presentazione degli Scritti (il che spiegherebbe perché Rossi lo citi come presente nel discorso che, con molta cura, aveva di certo redatto in precedenza): infatti in quell’occasione Maschio, che era anche titolare di un’agenzia tipografica, gli consegnò un’elegante ripubblicazione, da lui stesso curata, del manualetto di metrica che Rossi distribuiva in forma di dispensa agli studenti (nella prima pagina, dopo Archil. fr. 128 W. posto in epigrafe, figura la dedica “A Chico, maestro ma soprattutto amico. / 5 marzo 2004 Gianni).]
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miceneo, ed ero giovane, allegro, di ottimo umore. Due bravissimi scolari, in fondo all’aula, chiacchieravano fra loro. “Se avete da parlare, non avete che da andare in corridoio”, dico. Mentre cominciano lentamente ad alzarsi, uno della prima fila mi fa colla mano un segno negativo. “Che c’è?”, “No, Professore, Lei non può mandarli fuori”, “Come, non posso? Disturbano voi e me!”, “No, Professore, Lei non ha il diritto di mandarli fuori: è troppo poco arrabbiato!”. Ebbene, era proprio vero: mi scappava da ridere sotto i baffi. Senza che io sottilizzi sulla natura di quel ‘diritto dell’ira’, naturalmente si diffonde una gran risata distensiva generale, i due si risiedono e io riprendo a parlare della migrazione dorica[20]. Tutti voi qui presenti sapete certo quanto l’insegnamento può essere divertente, sia per chi insegna sia per chi sta a sentire. Naturalmente può esserlo quando sia motivato e – devo aggiungere oggi, purtroppo – quando non sia sfavorito da situazioni di disagio oggettivo, oggi certo molto più frequenti di ieri. Ma l’insegnamento è anche un mestiere molto difficile, delicato: sono consapevole di non averlo sempre praticato al meglio, perché richiede una costanza di equilibrio psicologico e, diciamo, di umore, che può essere compromesso da momenti e periodi di crisi. Nessuno di noi ne è immune, ma – per non dare un quadro falsamente idillico del mio e del vostro vissuto, in un momento così importante e serio per voi e per me – mi preme dire che in quelle fasi ho sofferto || [20 L’episodio, rimasto in qualche modo famoso fra gli allievi di quell’anno, avvenne in realtà nel III F del Liceo “Tasso” (ma Rossi lo attribuì alla classe II probabilmente perché fuorviato dall’annunciata presenza di Maschio, il quale apparteneva al II F ma, essendo stato bocciato a giugno 1961 quando frequentava il II F 1960/61 – più che altro per intemperanze caratteriali –, per recuperare l’anno perso sostenne insieme al III F gli Esami di Maturità nell’estate 1962 con abbreviazione di corso, e quindi, per preparare i programmi d’esame, si trovava spesso nel corso dell’anno a frequentare le lezioni del III F: il che ha certamente confuso i ricordi di Rossi). Che l’episodio riguardi la classe III lo attestano i ricordi congiunti degli ex allievi del III F Cesidio Gualtieri, Guido Parravicini e Franco Ruggieri (li ringrazio molto per tutte le informazioni fornitemi); lo confermano poi il programma di Greco del III F ed il relativo tabellino giornaliero delle lezioni (ancora conservati in copia nello studio di Rossi in Via Aventina): in base al programma Rossi nel corso dell’anno, come riferimento al programma del primo anno di Liceo, lesse Od. 6. 1–148 fornendo “nozioni elementari di dialettologia”, e in base al tabellino è possibile datare l’episodio a G 5.4.1962, quando Rossi parlò di “situazione linguistica della Grecia arcaica” e di “lingua omerica” (mentre invece in II F – di cui anche sono conservati programma e tabellino – pur leggendo i lirici monodici e corali Rossi non fece una lezione specifica sui dialetti). I due studenti del III F che chiacchieravano erano i compagni di banco Guido Parravicini (poi professore associato di Fisica alla Statale di Milano) ed Enzo Pasqualucci (poi ingegnere e titolare di un’impresa di restauri), che in effetti, come ricorda Rossi, erano fra gli allievi migliori (ma che con Rossi, evidentemente, si permettevano un certo rilassamento della pur sempre ferrea disciplina); lo studente che impedì la punizione era Sergio Doria.]
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almeno quanto alcuni miei allievi ne sono stati delusi. Sappiate però che siete stati sempre voi, di generazione in generazione, ad aiutarmi ad uscire da quelle fasi. Ve ne sono immensamente grato, così come sono grato alla mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto nel mio forte coinvolgimento professionale. È tempo di chiudere. Quando ho cominciato la mia carriera di docente, tutto mi aspettavo – siete in dovere di credermi – fuorché di trovarmi coinvolto in una circostanza come questa. L’averla creata è merito di tutti voi, che avete saputo conservare quel legame non solo con me, ma anche fra di voi: e per me questo è un premio molto probabilmente immeritato e certamente del tutto insperato.
[Lectio magistralis (Freiburg im Breisgau 2005)] Magnifizenz, Spectabilitäten, sehr verehrte Kollegen, lieber Bernhard Zimmermann, liebe Freunde aus Deutschland und aus Italien, meine Damen und Herren! Zuerst vielen Dank für Ihre Anwesenheit. Dann muß ich einigen wohlwollenden Freunden für die Hilfe danken, die meine totale Mißhandlung Ihrer Sprache verhindert hat. Was Ihnen fremdartig anmuten wird, stammt aus meiner Feder. Es fällt mir äußerst schwer, für die große Ehre, die mir zuteil wird, einen gebührenden Dank zu formulieren. Zumindest darf ich meine übermäßige Freude für ein Geschenk aussprechen, das ich als kaum verdient empfinde. Geschenke bekommt man ja umsonst. Dasselbe gilt auch für die Worte, die über meine Person und Tätigkeit gesagt worden sind. Und im Voraus möchte ich auch Professor Rengakos für seine Festvorlesung danken. Über ein anderes Geschenk muß ich gleich etwas sagen. In Freiburg habe ich den Höhepunkt meiner Beziehung zu Deutschland erlebt. Mehrmals hatte ich in verschiedenen deutschen Universitäten Vorlesungen und Seminare gehalten, aber im Wintersemester 2000/01 wurde mir die für mich einzigartige Gelegenheit angeboten, im Rahmen des Unterrichts von Professor Zimmermann eine lange Reihenfolge von Seminarsitzungen zu halten. Mein Thema war „Die literarische Kommunikation im archaischen und klassischen Griechenland: Epos, Lyrik und Drama“. Vor einem ungemein interessierten Publikum, worunter auch Kollegen waren, konnte ich meine ‚Glaubensbekenntnisse‘ vortragen und durch lebendige Diskussionen nicht nur wertvolle Beiträge bekommen, sondern auch die kompetente Teilnahme der Freiburger fortgeschrittenen Studenten bewundern. Lassen Sie mich sagen, dass ich Freiburg schon Vieles zu verdanken hatte: heute kommt noch etwas sehr wichtiges hinzu. Das Einzige, was ich als kaum genügende Motivation für das alles erwähnen kann, ist meine Liebe zu Deutschland und zur deutschen Kultur: als Kind || [Allocuzione letta V 9.12.2005 presso la Albert– Ludwigs– Universität Freiburg, in occasione del conferimento della Laurea honoris causa in Lettere a Rossi da parte di quella Università. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi e anche in versione a stampa; cura del testo di Andrea Bagordo e Giulio Colesanti]
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habe ich auf Italienisch Grimms Märchen und als Jüngling u. a. Goethe und Thomas Mann gelesen. Als ich nach meiner Schulzeit die Entscheidung traf, mich der Altertumswissenschaft und insbesondere der Gräzistik zu widmen, war es mir ein Bedürfnis, mich mit der deutschen Sprache ernsthaft zu beschäftigen, um einen engeren Kontakt zur deutschen Altertumswissenschaft zu haben. Mit der deutschen Kultur war ich eigentlich sehr früh durch die deutsche Musik der Klassik und der Romantik leidenschaftlich verbunden: in meiner allerersten Jugend machte ich lebendige Erfahrung mit den größten deutschen Sängern der Zeit, die Lieder von Schubert, Schumann, Brahms und Wolf in den römischen Konzertsälen als Gastkünstler zu singen pflegten, wodurch für mich Goethe, Heine, Chamisso, Eichendorff, Mörike mehr als bloße Namen waren. Dichterliebe und Frauenliebe und –leben ließ ich mir übersetzen und durch wiederholtes Schallplatten–Hören konnte ich Vieles sogar auswendig lernen: die Musik ist ja eine mächtige Gedächtnishilfe. Meine erste musikalische Spracherziehung führte jedoch zu gefährlichen Mißverständnissen: als ich anfangs nach Deutschland als Student kam, war ich wirklich der Meinung, daß Wagners „seligstes Weib“ eine angemessene Anrede an eine ehrwürdige Dame sei. Glücklicherweise hatte ich eine rechtzeitige Warnung. Entscheidend war eigentlch mein Aufenthalt als DAAD–Stipendiat in Göttingen (Akademische Burse) und Hamburg (Europa–Kolleg) im Jahre 1960–61. Am Anfang waren jeden Morgen im Rundfunk die Nachrichten meine tägliche Sprachspritze und so konnte ich in kurzer Zeit den Vorlesungen von unvergeßlichen Professoren folgen (ich nenne nur einige: Friedrich, Neumann, Deichgräber, Snell, Erbse). Die Tradition der deutschen Altertumswissenschaft, die bei uns durch Leute wie Vitelli und Pasquali seit Jahrzehnten stark ansäßig war, konnte ich durch die Erinnerungen vieler meiner Dozenten fast als gegenwärtig erleben. Abgesehen davon, dass ich das große Glück hatte, einen Gymnasiallehrer gehabt zu haben, der deutsch konnte und uns die Namen und die Lehren Friedrich August Wolfs und August Boeckhs zu vermitteln wusste. Deutschland hatte damals die Kriegszeit, wie wir alle, erst seit fünfzehn Jahren hinter sich: der eiserne Vorhang war schon da, die Berliner Mauer noch nicht. Im Sommer 1960 hatte ich zwei wichtige Erlebnisse: einen kurzen Aufenthalt im noch nicht geteilten Berlin, wo ich drei Jahre später, 1963, mit meiner Frau den Checkpoint Charlie (für Ausländer) überquerte, um dann einem lieben deutschen Freund in der Leipziger Straße zu begegnen, der uns in unvergeßli-
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cher Weise führte (er war durch den Übergang für deutsche Bürger eingelassen worden). Ebenso erlebte ich eine Wanderung durch den Harz von Göttingen aus: aus Braunlage erreichten wir eine Gegend, wo mir aus der Landkarte ein Waldpfad sehr angebracht schien. „Aber der läuft gerade der Zonengrenze entlang!“, sagten die vier deutschen Freunde. So war es in der Tat und es war nicht einfach, die Freunde zu überreden: für gut zwei Kilometer konnten wir die Grenzsteine sogar berühren und der Stacheldraht und die grünen Wachtürme aus Holz waren in der geschnittenen kahlen Waldstreife sehr bedrückend. Seit jener Zeit ist meine Beziehung zu Deutschland sehr rege geblieben. Häufig ist immer der Austausch und der Besuch zwischen Rom und Deutschland gewesen. Mit vielen alten Freunden bin ich durch eine jahrzehntelange gegenseitige Gewogenheit verbunden geblieben. Und der wissenschaftliche Austausch hat uns beiderseitig bereichert. Nun möchte ich kurz über meine weitere Beziehung gerade zu Freiburg sprechen. Zuerst kann ich nicht umhin, einen großen Freiburger Lehrer zu nennen, dem gegenüber die Dankbarkeit von uns Römern nie genügend ausgesprochen werden kann, und zwar Eduard Fraenkel, der gerade von Freiburg aus nach England übersiedelte. Wir hatten das Glück, ihn in Rom zwischen 1965 und 1969 als Gastprofessor zu haben, und ich brauche nicht, die Wirkung seiner Seminare zu betonen. Wir verdanken ihm mehr als ich jetzt sagen kann. Dazu empfinde ich eine besondere Verwandtschaft und Nähe zur heutigen Freiburger Altertumswissenschaft. Wir betrachten beiderseits das Erbe unserer Forschungstradition als grundlegend, aber ohne unangebrachte Reverenz. Eigentlich hat das 20. Jahrhundert viel Neues in Methode und Ansichten beigetragen, was wir nur zu unserem Nachteil ignorieren können, weil viel Gutes – wenn auch nicht alles – darin steckt: besonders heute, daß die strengen Ideologien aller Art ihre bindende Kraft verloren haben, muß man meiner Meinung nach unseren kulturellen Beruf durch eine Art Bricolage treiben, im Sinne daß wir unsere Werkzeuge entweder zu ändern oder mindestens zu erneuern brauchen, indem wir verschiedenartige Forschungsinstrumente in verschiedenen Kritikrichtungen herausangeln können. Wir haben daraus zu lernen und dadurch umzulernen: vor uns steht keine geringe Auswahl. Übrigens hat uns gerade Deutschland ein glänzendes Beispiel dafür geboten. Die hierzulande so treffend genannte Goethe–Zeit, mit der außerordentlichen Persönlichkeit Goethes im Zentrum, der in seiner Lebenszeit (1749–1832)
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einen reichen Kulturwandel erlebt hat, lebt uns vor, jede neue Erfahrung nicht nur zu verstehen, sondern sich zu eigen zu machen. Die ungemein schnelle Aufeinanderfolge ist erstaunlich: von Perücke und Zopf zum Sturm und Drang, zur Klassik des sogenannten zweiten Humanismus Winckelmanns, zur Aufklärung, zum Trauma der französischen Revolution, zur Parenthese Napoleons, zur ersten Romantik, und schließlich zum Beginn der industriellen Revolution. Es war eine Zeit, die wohl mit unserer Gegenwart zu vergleichen ist, so zahlreich und rasch sind die Änderungen, die wir heute erlebt haben und erleben. Hoffentlich werden Sie meine Ehrerbietung Goethe gegenüber nicht bezweifeln, wenn ich ihn für den klügsten Kulturbricoleur halte. Ich muß also ganz kurz etwas über meine Einstellung wenigstens zu einigen von den modernen wissenschaftlichen Trends darlegen, wenn auch mit einer hier notwendigen Vereinfachung: ich beschränke mich auf einige davon, die für die Literaturgeschichte besonders wichtig sind. Der historisierende Idealismus in Geschichte und Kunst war in Italien von Benedetto Croce vertreten. Was die Ästhetik betrifft, muß ich gestehen, daß ich seinen Ansichten nie beistimmen konnte: von ihm habe ich aber mindestens etwas Wichtiges gelernt, und zwar wie man die antiken Texte nicht lesen darf (seine Lehre der willkürlichen reinen Intuition führt zur reinen Interjektion „wie schön!“ oder „wie häßlich!“, und damit Schluß, ohne geschichtliche Begründung). Den Positivismus empfinde ich als durchaus noch aktuell, wenn auch problematisch, im Sinne der Materialsammlung, die bei unseren Vorfahren mühsam und daher sehr zielbewußt war. Hingegen ist das Sammeln in der elektronischen Informationskultur sogar allzu einfach geworden, so daß wir dafür mehr als früher jedes Mal einen genauen, wohl bedachten Zweck angeben müssen: die Gefahr ist heute, daß man zwecklose und daher nutzlose Materialien anbietet, während unsere Alten ernst überlegen mußten, ob die Arbeit die Mühe wert war oder nicht. Und das war ein gesunder Zustand. Was sie als Gelehrsamkeit geleistet haben, ist bemerkenswert, und wir sollten ihre Arbeiten keineswegs mit Überlegenheitsgefühl, sondern mit Ehrfurcht immer wiederlesen, eine wohl mühsame aber an sich unabdingbare Pflicht. Der Marxismus hat ökonomische und soziale Zustände hervortreten lassen, die wir nicht als ausschließlich bedingend betrachten können, die wir aber nicht vernachlässigen dürfen. Ein persönliches Beispiel: den grundlegenden Aufsatz von Ernst Risch (1964) über das Attische und über die so schnelle Wandlung des Dialekts in der kurzen Zeitspanne des Peloponnesischen Krieges konnte ich damals lesen, indem ich mir die plötzliche soziale Mischung von Bauern und Stadtbewohnern (wie bei Aristophanes) vergegenwärtigte. Die Kommunikationstheorie hat uns klargemacht, daß die äuße-
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ren Umstände der ursprünglichen Aufführung (Mündlichkeit, Schriftlichkeit usw.) und die Bedingungen irgendeiner späteren Wahrnehmung eines literarischen Textes unsere Aufmerksamkeit verdienen. Die Rezeptionstheorie hat Begriffe wie Nachleben und Fortleben (bei uns fortuna) scharf präzisiert, indem der direkte Adressat richtig eingeschätzt und der jeweilige Nutzer der literarischen Texte aus einem unklaren Nebel herausgebracht wird. Über die humanistische Haltung (und zwar über ein freies ‚Genießen’ des Textes) möchte ich sagen, daß sie ab und zu willkommen ist: die wenn auch unhistorische Bewunderung kann als ergiebige Quelle der Begeisterung für unsere Tradition mindestens samtags und sonntags gute Dienste leisten: es gibt Zeit (die Arbeitswoche) für die Wissenschaft, aber es muß auch Zeit (das Wochenende) für le plaisir du texte geben, was ich ‚Glück beim Lesen’ nennen möchte: aus diesem Glück (aus einer vorläufigen Unmittelbarkeit des Textes) können gute Eingebungen für die Forschung entstehen. Dazu muß man besonders heutzutage darauf aufmerksam machen, daß wir die Zentralität des Textes, und zwar des ursprünglichen Wortlauts, immer noch zu betonen haben: diese Mahnung ist nicht überflüssig, denn wir müssen die Tendenz bekämpfen, die eine allgemeine Gültigkeit der Übersetzungen billigt: Übersetzungen sind eine mächtige Hilfe zur Verbreitung des Interesses für das Altertum, aber die ernste Forschung benötigt eine genaue Kenntnis der antiken Sprachen. Wir würden also damit zum Problem der Didaktik und des Schulunterrichts kommen. Und ich weiß, daß es in Freiburg eine enge Zusammenarbeit zwischen Schule und Universität gibt. Ein Wort noch über eine andere Art Verwandtschaft, die ich mit Ihnen in Freiburg empfinde. Wir sind nicht nur Gelehrte, sondern auch Dozenten. Mancher Gelehrte widmet sich ausschließlich der Wissenschaft, und leistet dabei beachtliche Fortschritte. Dennoch gibt es auch einen anderen Aspekt. Die Forschung muß auch so betrachtet werden, als sei sie auch in die Zukunft projiziert, denn man muß an diejenigen denken, die unsere Arbeit fortsetzen werden. Das ist eine Pflicht, die unseren Gesetzgebern und Behörden institutionell vertraut ist: uns bleibt die Hoffnung, daß unsere Bedürfnisse mehr Interesse und Beachtung bei unseren Politikern finden werden. Eigentlich haben wir im Moment schlechte Vorahnungen, denn der Unterricht erlebt in unserer aktuellen Welt eine wesentliche Krise. Aus meiner Erfahrung habe ich allerdings gelernt, daß unser Beruf auch eine bemerkenswerte persönliche, individuelle Seite miteinbezieht. Dem Unterricht und zwar den Studenten gegenüber sind wir Menschen und nicht bloß Staatsbedienstete, weil wir Menschen vor uns haben. Vor uns sitzen Studenten mit ihrer Empfindlichkeit, mit ihren Gefühlen, mit eigenen Meinungen, mit verschiedenartigen Bildungsgeschichten: sie ver-
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dienen als Individuen unsere Rücksicht. In unserem Beruf muß man auch Phantasie, Einbildungskraft, emotionelle Beweglichkeit haben. Unsere Schüler werden später keine einfachen Träger einer sterilisierten Lehre sein. In diesen Jahren habe ich sehen können, dass eine solche menschliche Beziehung im Unterricht bei den Kollegen, die ich in Freiburg kenne, eine Tatsache ist. So etwas darf ich mit guten Gründen sagen, denn einige meiner Schüler haben hier eine außerordentliche gastfreundliche akademische und menschliche Aufnahme erhalten, ja sogar eine spezifische Funktion. Freiburg ist für sie zur wahren Alma mater geworden, und dafür muß ich dieser Universität sehr dankbar sein. Warum denn diese Wanderung aus Rom? Rom ist leider zu groß: „La Sapienza“ ist augenblicklich die größte Universität Europas, und deswegen darf sie, trotz der Anstrengungen vieler von uns, den Titel Alma noverca verdienen. Dazu möchte ich noch sagen, daß ich mich besonders freue, festzustellen, daß ich die Hochschätzung, mit der mich einige Freunde ehren, zu einem nicht unerheblichen Teil meinen ausgezeichneten Schülern verdanke, die meine beste Botschafter sind. Zum Schluß: meine Dankbarkeit Ihnen gegenüber müßte im Detail ausführlicher begründet werden als ich in diesem kurzen Vortrag aussprechen konnte. Kürze hat Vorteile, aber in diesem Fall erweist sie sich als mangelhaft. Dafür bitte ich um Verständnis.
Le intenzioni dei poeti: delectare e/o docere? [Handout] Luigi Enrico Rossi, Le intenzioni dei poeti: delectare e/o docere? 1. Varie funzioni della poesia in Grecia e necessità di individuarne l’intreccio e la prevalenza: edonistica, propagandistica (interna o esterna), paideutica. Intreccio della edonistica con qualunque altra. 2. Necessità di distinguere il momento della produzione da quello delle successive ricezioni. La concezione della poesia come strumento di funzione paideutica: quando e perché nasce? 3. Due esempi paradigmatici: epos e simposio. Due funzioni originarie: edonistica e di cemento identitario (propaganda interna). Un’altra funzione si affaccia: la propaganda esterna nell’epos eseguito nelle feste. 4. La ricezione dell’epos. Pisistrato: letteratura protetta e non protetta. 5. Esiodo, Teogonia: un caso a sé. 6. La melica monodica: il simposio (v. sopra). 7. La melica corale. In quella ‘agli dèi’ esaltazione di realtà religiose e politiche locali; in quella ‘agli uomini’ (epinicio, treno) celebrazione di personaggi singoli legati, sempre, a realtà locali (e autopropaganda degli autori, che sono sul mercato). Forza culturalmente unificante è il mito, che ha una sua funzione paideutica (per destinatari diversi). 8. Il dramma attico. Politicamente protetto (tragedia e commedia). Tragedia/commedia = pianto/riso (ambedue fonte di piacere: per il pianto cfr. lo horror e il noir di oggi). 9. La tragedia e il paradigma mitico, che può essere paideutico. 10. Aristofane e l’autopropaganda della commedia. Un equivoco sulle Rane. 11. Senofane, Eraclito, Platone: rifiuto della funzione paideutica. – Gorgia, Platone, Aristotele, Eratostene: accettazione o rifiuto della funzione edonistica.
|| [Handout e canovaccio della relazione tenuta S 29.4.2006, ore 17, al Centro Congressi Porto Conte, Tramariglio (SS), al Convegno Nazionale AICC Poeti maestri – Poetiche e didattica poetica nella letteratura greca, Sassari 29–30.4.2006, organizzato dall’AICC – Associazione Italiana di Cultura Classica, Delegazione di Sassari. – Inediti, ritrovati nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]
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12. Nascita di un canone (epos e dramma attico), protetto da Atene, finalizzato alla affermazione di una identità forte. Il canone di Aristofane, Rane. 13. Conclusione: grande peso della funzione edonistica anche in epoca arcaica e classica. Dall’ellenismo in poi: piacere intellettuale (propriamente letterario) e propaganda. – Appendice. La vera letteratura didattico–tecnica: dall’epoca ellenistica in poi. A. Gorg., Hel. 8–9 εἰ δὲ λόγος ὁ πείσας καὶ τὴν ψυχὴν ἀπατήσας, οὐδὲ πρὸς τοῦτο χαλεπὸν ἀπολογήσασθαι καὶ τὴν αἰτίαν ἀπολύσασθαι ὧδε. λόγος δυνάστης μέγας ἐστίν, ὃς σμικροτάτωι σώματι καὶ ἀφανεστάτωι θειότατα ἔργα ἀποτελεῖ· δύναται γὰρ καὶ φόβον παῦσαι καὶ λύπην ἀφελεῖν καὶ χαρὰν ἐνεργάσασθαι καὶ ἔλεον ἐπαυξῆσαι. ταῦτα δὲ ὡς οὕτως ἔχει δείξω· δεῖ δὲ καὶ δόξηι δεῖξαι τοῖς ἀκούουσι· τὴν ποίησιν ἅπασαν καὶ νομίζω καὶ ὀνομάζω λόγον ἔχοντα μέτρον· ἧς τοὺς ἀκούοντας εἰσῆλθε καὶ φρίκη περίφοβος καὶ ἔλεος πολύδακρυς καὶ πόθος φιλοπενθής, ἐπ’ ἀλλοτρίων τε πραγμάτων καὶ σωμάτων εὐτυχίαις καὶ δυσπραγίαις ἴδιόν τι πάθημα διὰ τῶν λόγων ἔπαθεν ἡ ψυχή. B. (Gorg.) Plut., glor. Ath. 348 c ἤνθησε δ’ ἡ τραγῳδία καὶ διεβοήθη, θαυμαστὸν ἀκρόαμα καὶ θέαμα τῶν τότ’ ἀνθρώπων γενομένη καὶ παρασχοῦσα τοῖς μύθοις καὶ τοῖς πάθεσιν ἀπάτην, ὡς Γοργίας φησίν (76 B 23 DK), ἣν ὅ τ’ ἀπατήσας δικαιότερος τοῦ μὴ ἀπατήσαντος, καὶ ὁ ἀπατηθεὶς σοφώτερος τοῦ μὴ ἀπατηθέντος. ὁ μὲν γὰρ ἀπατήσας δικαιότερος, ὅτι τοῦθ’ ὑποσχόμενος πεποίηκεν· ὁ δ’ ἀπατηθεὶς σοφώτερος· εὐάλωτον γὰρ ὑφ’ ἡδονῆς λόγων τὸ μὴ ἀναίσθητον. τίν’ οὖν αἱ καλαὶ τραγῳδίαι ταῖς Ἀθήναις ὄνησιν ἤνεγκαν; ὡς ἡ Θεμιστοκλέους δεινότης ἐτείχισε τὴν πόλιν, ὡς ἡ Περικλέους ἐπιμέλεια τὴν ἄκραν ἐκόσμησεν, ὡς Μιλτιάδης ἠλευθέρωσεν, ὡς Κίμων προῆγεν εἰς τὴν ἡγεμονίαν. C. Dissoi logoi, fr. 3. 17 (90 DK) τέχνας δὲ ἐπάγονται, ἐν αἷς οὐκ ἔστι τὸ δίκαιον καὶ τὸ ἄδικον. καὶ τοὶ ποιηταὶ οὐ [το] ποτὶ ἀλάθειν, ἀλλὰ ποτὶ τὰς ἁδονὰς τῶν ἀνθρώπων τὰ ποιήματα ποιέοντι. D. Xenophan. 21 B 10 D.–K. ἐξ ἀρχῆς καθ’ Ὅμηρον ἐπεὶ μεμαθήκασι πάντες E. Aristoph. ran. 685–687 τὸν ἱερὸν χορὸν δίκαιόν ἐστι χρηστὰ τῇ πόλει ξυμπαραινεῖν καὶ διδάσκειν. πρῶτον οὖν ἡμῖν δοκεῖ ἐξισῶσαι τοὺς πολίτας κἀφελεῖν τὰ δείματα. *****
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Grazie agli organizzatori del convegno per l’invito a parlare. Dovrò parlare per grandi generalizzazioni. La fotocopia deve servire a orientare gli ascoltatori. Approfitto per esporre delle riflessioni che mi stanno a cuore da tempo. E parlerò in parte a braccio ... 1. Varie funzioni della poesia in Grecia e necessità di individuarne l’intreccio e la prevalenza: edonistica, propagandistica (interna o esterna), paideutica. Intreccio della edonistica con qualunque altra. È diffusa, nei nostri studi di antichistica, la concezione del poeta–maestro, di colui cioè che con la sua opera svolge la sua funzione di educatore del popolo: nel nostro caso o di una cultura greca unitaria e addirittura ecumenica (l’epos arcaico) o di una cultura con tratti decisamente locali (il simposio delle varie fazioni; il teatro per la polis democratica ateniese). Ora, questa concezione genericamente paideutica ha radici nel mondo antico ed è lì che vogliamo capirla, per quanto possibile, nelle sue sfumature: non per cancellarla, ma per collocarla nella sua giusta luce. La paideia come parola d’ordine della cultura antica ha avuto fortuna in alcuni momenti antichi e per alcun generi letterari, e lo vedremo. Nel mondo moderno mi limito ad accennare a un fenomeno relativamente recente (anni ’30): – Jaeger e il terzo umanesimo e la paideia ...; in fatto di categorizzazioni astratte sovrapposte alla realtà storica preferisco la ‘agonalità’ di Jakob Burckhardt, che ha il merito di cogliere una vera costante della cultura greca, anche letteraria: lo ζῆλος ovvero aemulatio. Ma è fuor di dubbio che la funzione paideutica, ovvero di educazione etica, era presente ed era anche sentita come presente, pur non non essendo esclusiva e alle volte nemmeno la principale. 2. Necessità di distinguere il momento della produzione da quello delle successive ricezioni. La concezione della poesia come strumento di funzione paideutica: quando e perché nasce? Penso che si debbano distinguere vari momenti nella vita di ogni opera letteraria (e artistica in generale). Il primo è il momento originario della produzione poetica, quando l’autore compone avendo in mente il pubblico a cui si rivolge e la funzione che il pubblico si aspetta che la sua opera debba avere. Poi viene la ricezione della sua opera in tutti i momenti successivi della fruizione dell’opera stessa, dall’antichità (che è quella che qui ci interessa) fino ai giorni nostri: è quello che in italiano normalmente chiamiamo ‘fortuna’.
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3. Due esempi paradigmatici (e incipitari): epos e simposio. Due funzioni originarie: delectare e cemento identitario (propaganda interna). Un’altra funzione si affaccia: la propaganda esterna nell’epos eseguito nelle feste. Offro subito un esempio concreto, quello dell’epica arcaica, che è sempre stata sentita alla base della cultura greca, sia come strumento di alfabetizzazione (Omero nella scuola ......) sia come repertorio etico e psicologico (a parte alcune dissidenze sparse nel tempo, come Senofane, Eraclito e Platone). Ma vediamo l’epica ai suoi inizi, nella sua fase creativa: con quali finalità è nata l’epica? Quale era il suo destinatario originario, quale la sua funzione e quali le conseguenti attese del pubblico? L’epos sembra nato nelle corti e per le corti del medioevo ellenico con la precisa funzione di cementare l’identità di un gruppo, in questo caso le dinastie aristocratiche arcaiche, e di proporle come paradigmatiche sia al gruppo stesso sia a chi da quel gruppo era governato: in sostanza, se un aspetto didattico si vuol vedere, è semplicemente quello di contenitore culturale, di ‘enciclopedia tribale’, per usare la felice invenzione definitoria di Havelock. E allora, se questa premessa è valida, avanzerei un apparente paradosso: all’origine l’epos svolge una funzione didattica nei confronti proprio di chi non ne ha alcun bisogno, perché di quell’impianto ideologico (l’etica eroica e guerresca) condivide i valori. Se dal megaron ci spostiamo alla piazza del santuario per le feste (Od. 8: Demodoco canta il secondo canto davanti al palazzo), si deve pensare a una funzione diversa da quella di cemento comunitario, ed è se mai una forma di propaganda. Ecco quindi una ulteriore funzione, oltre alla paideia e al cemento comunitario: la propaganda (parola stranamente quasi bandita nei nostri studi storico–letterari sulla grecità arcaica e tardoarcaica). Ma c’è una funzione comune a tutti i mittenti ovvero destinatori (i poeti) che, più che un pallido docere o un energico propagandare, emerge come dominante, pur in presenza delle altre due: è quella del delectare, della goethiana Lust zu fabulieren, la gioia del raccontare e del sentire il racconto, quello che nei poemi epici è coperto dalla terminologia del τέρπειν e della τέρψις ἀοιδῆς. Ho sempre in mente quello che a me pare la più bella formulazione metapoetica dell’epos, racchiusa in un verso odissiaco che compare un paio di volte ([Od. 11. 334, 13. 2]): κηληθμῷ δ’ ἔσχοντο κατὰ μέγαρα σκιόεντα, “ed erano presi da incantagione nel megaron ombroso”. Ecco quindi una ulteriore e importantissima funzione, l’intrattenimento o il divertimento, che serve ovviamente come cavallo di Troia per le eventuali altre. Non va dimenticata la funzione storica, fondamentale per la ricezione posteriore di Omero (per es. Hdt., ma anche Thuc.), ma presentissima anche per i primi fruitori dell’epos: mito, genealogie etc. Esiodo: la verità nella Teogonia.
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Lo stesso paradosso dell’insegnare a chi non ne ha alcun bisogno lo applicherei ancor di più al simposio arcaico e tardo–arcaico: i valori che vengono cantati in quegli ambienti sono valori comunitari totalmente condivisi dal ristretto pubblico a cui quella letteratura poetica è rivolta: orientamento della lotta politica e celebrazione della propria fazione anche in contesto con la demonizzazione della parte avversa; poi c’è la tematica dell’eros; e poi il galateo del simposio nella tematica metasimposiale. A questo proposito vorrei segnalare un fatto ben noto, ma che nella nostra prospettiva acquista un rilievo particolare, e cioè il cosiddetto antisimposio, quello contro le regole del buon galateo, come lo vediamo per es. in Alceo e in Anacreonte ([Alc. 346 V., Anacr. 33 G.]): le fazioni aristocratiche erano del tutto capaci di violare le norme del simposio costumato, e lo facevano certo comunemente, tanto che quelle censurabili descrizioni dei poeti erano in fondo – io penso – una vera e propria provocazione alla trasgressione (tempo fa ho supposto che il luogo di sperimentazione delle musiche pericolose e vietate fosse proprio il simposio aristocratico: l’aristocrazia è padrona della legge, non schiava ...)[1]. Finora abbiamo parlato, per via esemplificativa, del momento primo delle opere arcaiche, quello della creazione per la fruizione immediata. Ma, se c’è un genere letterario eternamente presente alla cultura greca, questo è l’epos. E vediamo le reazioni all’epos lontane dalla sua origine. Comincio da un momento assai tardo, perché è una voce significativa. ...... È notevole che uno scienziato–filologo come Eratostene, che aveva intorno a sé la letteratura ellenistica ma alle sue spalle Omero e il resto, ci abbia lasciato una testimonianza preziosa (da Pfeiffer 1973, 268, che mi segnala M. G. Bonanno): fr. I A, 20 Berger, ποιητὴν γὰρ – ἔφη – πάντα στοχάζεσθαι ψυχαγωγίας οὐ διδασκαλίας, “(Eratost.) diceva che il poeta ha come scopo la psicagogia, non l’insegnamento”. Qui non è tanto l’esclusione della διδασκαλία a interessarci, quanto piuttosto l’affermazione della ricerca, da parte dei poeti, della ψυχαγωγία, e cioè del coinvolgimento emotivo. E in questa luce va visto l’altra famosa affermazione di Eratostene contro quelli che volevano trovare riscontri di geografia omerica: [“si potrà scoprire dove si sono svolte le peregrinazioni di Odisseo quando si troverà il calzolaio che ha cucito l’otre dei venti” (apud Strab. 1. 2. 15 = Eratosth. fr. I A, 16 Berger)]. Con Eratostene, nel III sec. a. C., siamo nel pieno della ricezione postuma della grande letteratura dell’epoca arcaica, tardo–arcaica e classica, nella quale || [1 Vd. L. E. Rossi, La dottrina dell’«éthos» musicale e il simposio, in B. Gentili – R. Pretagostini (edd.), La musica in Grecia, Roma–Bari, Laterza, 1988, pp. 238–245, in part. pp. 241–245.]
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la cultura greca, diventata di nuovo ecumenica, gode a specchiarsi nelle opere di letteratura che la tradizione le ha conservato e a celebrarne gli effetti fondativi di cultura. Lett. protetta e non protetta ..... Per di più il sistema letterario ellenistico dava largo spazio alla letteratura didascalica vera e propria, quella che si proponeva di trasmettere dei saperi specifici (e qui nessuna distinzione fra poesia e prosa, salva la grande efficacia della messa in verso dei contenuti per aiutarne la memorizzazione). Se Eratostene fosse il solo ad affermare quanto afferma, sarebbe sospetto, perché il suo approccio razionalistico a Omero lo portava ovviamente a non fare credito alla poesia come ‘verità’: ma sono felice di aggregarlo, ora, a importanti voci che lo hanno preceduto, e cioè a Gorgia, a Platone, ad Aristotele per quella che chiamerei la r i c e z i o n e e m o t i v o – e d o n i s t i c a della poesia, che altro non è se non una continuazione della ricezione originaria. Cominciamo da un testo famoso, l’Encomio di Elena di Gorgia, dove al centro dell’argomentazione è da una parte la parola in sé e dall’altra la parola poetica. (traduz. Lanata): (8) La parola è un possente signore, che con corpo piccolissimo e affatto invisibile compie azioni veramente divine: può infatti far cessare il timore, togliere il dolore, produrre la gioia e accrescere la compassione. ... (9) ... La poesia tutta io considero e definisco parola con metro, che in chi l’ascolta infonde un brivido di timore e una compassione carica di pianto e una bramosia che indulge al dolore; e dinanzi alla prosperità e alla sfortuna di avvenimenti ed individui estranei, per opera della parola l’anima prova una sensazione propria.
Poi: Plut. glor. Ath. 5 p. 348 C (82 B 23 DK) (trad. Lanata): Fiorì la tragedia e venne celebrata in quanto fu meravigliosa audizione e spettacolo per gli uomoni di quel tempo, e offrì con i suoi miti e con le sue passioni un inganno, per cui, come afferma Gorgia, chi inganna è più nel giusto di chi non inganna, e chi si lascia ingannare mostra più sensibilità di chi non si lascia ingannare.
Dissoi logoi, 3.17 (90 DK) (p. 224 Lanata): ... i poeti compongono le loro opere in vista non della verità, ma del piacere degli ascoltatori.
Prendiamo le formulazioni metapoetiche della melica corale: sono naturalmente episodiche (non sistematiche: v. miei Gen. lett.[2]) e non sono certo
|| [2 L. E. Rossi, I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, «BICS» 18, 1971, pp. 69–94.]
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esegetiche per il destinatario: sono una forma di autopropaganda, quello che oggi chiameremmo più propriamente pubblicità di azienda. – paideia B. Snell, Gesammelte Schriften, Göttingen 1966, 32–54 (recens. a W. Jaeger, Paideia I, 1933) = “GGA” 197, 1935, 329–353 Terzo Umanesimo, per superare il II, estetizzante 37 s.] “erziehrische Bedeutung heisst also erz. Wirkung ohne erz. Absicht” 40 ss.] spec. qui obiez. c/ le generalizzazioni (Tyrt. a Sparta: non estensibile!): arricchimento dei lirici 48 ss.] Zusammenfassung Per concludere, spero che sia risultato chiaro il mio intento di portare in primo piano la funzione del delectare, molto presente agli autori (compresi i cantori dell’epos) e di cui erano molto consapevoli tutti i fruitori fin dall’inizio della circolazione di un’opera letteraria, oltre a quelli che hanno riflettuto sulla comunicazione letteraria. Sulla funzione paideutica è stato posto l’accento (retrospecttivamente) quando si è avuto il bisogno di un riconoscimento identitario, e questo è successo durante tutto l’arcaismo fino al classicismo attico. L’ellenismo, con le sue innovazioni nella comunicazione letteraria, ha portato due novità: 1) il godimento dell’opera letteraria come tale in senso moderno (il plaisir du texte), che resta sempre nell’ambito del piacere; 2) una forte preminenza del fattore propaganda. Della letteratura didascalica in senso stretto abbiamo già accennato. Tutto questo vale inevitabilmente anche per la letteratura latina, che nasce moderna fin dai suoi inizi grecizzati.
What Ancient Egypt meant and means to Mankind Thank you very much, dear Colleagues of Cairo University, for the invitation, which I have accepted with enthusiasm. In my paper I shall formulate some thoughts on Egypt, then I shall consider the relationship of Egypt with Greece and Rome. After that, since this meeting celebrates the Centenary of teaching Ancient Greek at Cairo University, I shall briefly sketch the history of Italian didactics in this field1.
1. My personal experience of Egypt and a new perception of space, of dimensions, of time and of historical stratification I am very happy to be here. It is my fourth stay since 1997, when I first came as a tourist, and visited the usual ‘must see’ sights, namely the Egyptian Museum, the Pyramids, Luxor, Thebes, Assuan and Abu Simbel. On my ensuing trips, I gathered many roses left unpicked, to use an Italian saying. After the first trip, for I was professionally active and, with the help of many good friends I came to know the country from the inside. At the outset, I feared I would go crazy: I did not expect to be so emotionally vulnerable. I suddenly realized that I was taking this trip too late in life, since I learned here to measure four important factors in a totally new way, viz. space, dimensions, time and its slowness, speed. Let us start with s p a c e . Egypt is a country absolutely unique, with a river running in the rigorous North–South direction as if it were following a compass: it cleaves the country into two parts, dividing the living, towards the East (the rising sun), from the dead, towards the West (the setting sun): I am thinking, of course, of Luxor–Thebes, the most impressively preserved organization of
|| [Conferenza tenuta alla Cairo University ai primi di marzo 2008 (ma vd. anche n. 1); pubblicata in O. Fayez Riad (ed.), The Proceedings of the International Symposium “A Hundred Years of Greek and Latin Studies at Cairo University”, 1–2 March 2008, held by the Department of Classics, Faculty of Arts, Cairo University, with the Cooperation of the Greek Cultural Center, the Greek Educational Office, and the Italian Cultural Institute, Classical papers vol. VIIII, Cairo, Cairo University Press, 2008, pp. 9–17] 1 I had presented part of the contents of this paper during a meeting with colleagues and students at Al–Azhar University in November 1999 [e al seminario romano, Mc 17.11.99, ore 16–18]. https://doi.org/10.1515/9783110648140-072
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space. The river, exactly oriented North–South, is a kind of meridian, and as such it was treated by Eratosthenes, the Greek scholar who, towards the end of the third century b. C., one June 21st (the day of the solstice) calculated with near precision the circumference of the earth; to do so, he compared the inclination of a shadow at Alexandria and the absence of any shadow at Assuan, being Assuan nearly at the tropic. Simply: he treated the Nile as a meridian, a very useful one indeed. Add to this the neat borderline between desert and cultivated, tilled, land, which you do not only cross as you do anywhere else in the world, but which you can also follow step by step for more than 1200 kilometres along the course of the great river, seeing that borderline in all its length. In this respect, seen on a map or even from the plane, Egypt has no parallel. Secondly, I must turn to the aspect of d i m e n s i o n s : this ancient world of yours is the first and last one to be able to give elegance, that is to say beauty, to things enormous, colossal. Think of the pyramids and of their size compared to, for instance, the Parthenon: Cheops’ Pyramid has closed to its base a building for the archaeologists, and that is, I think, just a little smaller than the Parthenon. Think of the Sphinx, think of the size of the columns in the temple at Karnak. I never saw similar dimensions in my life, dimensions that, although gigantic, have not lost the grace of proportions. And then there is t i m e : ancient Egyptian culture, as far as we can trace it back, existed for at least three thousand years (if not much more) before the Christian Era (31 b. C., when Egypt became a Roman Province, is the conventional date). If you add the further two–thousand–year span you have five thousand years, meaning that you go back in time much further than our Greco– Roman world does. Three thousand years mean that ancient Egyptian culture was far longer lived than the Church of Rome, which has now reached about two thousand. What a shock for someone born in Rome, the city called eternal, to discover that this city, only two millennia and three quarters old (founded in 753 b. C.), is relatively new! Time, in Egypt, has an extremely slow and steady pace. But at the same time there is a regular a c c e l e r a t i o n i n t i m e : think of the speed of the all to brief dawns and sunsets, due to the proximity of the Tropic. In Italy we are used to more gradual changes in our own sky: especially
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in the South of Egypt I am always struck by the swift passing from darkness to light and vice–versa. Still, the most important and exceptional feature seems to me to be the r i c h n e s s o f h i s t o r i c a l s t r a t i f i c a t i o n : think of a country where, in history, different peoples left in succession so many traces: the pre– Egyptians, the Egyptians, the Hyksos, the Hebrews, the Assyrians, the Persians, the Greeks, the Romans, the Byzantine Christians, the Arabs, the Turks; and one must not neglect the recent colonial experience of France and Britain. I am surely forgetting something. The visitor is often at a loss when he tries to understand what he has in front of him, in trying to untwine the ropes of history. This can be an exciting exercise, provided you have a competent friend to warn you at all times.
2. The Greeks who so much admired Egypt The first voice to speak extensively to us about Egypt was H e r o d o t u s , a Greek historian of the second half of the fifth century b. C. He wrote in prose, but his prose, unlike what Aristotle said (51 b 2 ff.), was in my opinion sheer poetry. Add that he superbly defined Egypt a “gift of the Nile” (Hdt. 2.5). I would like to know if there is evidence of this definition in the Egyptian sources: that Egypt owes its existence to the Nile is obvious, but if the precise word “gift” is Herodotean, I shall go on considering him a creator and a poet. But Herodotus with respect to Egypt was not only a poet. Egypt drove him mad: it even made him forget that he was a Greek, a man who belonged to a people so proud they hardly have an equivalent. Not even the Romans, with their boasting that they were grand, that they had conquered everybody while acting generously to the submitted, were so unbearable (“We the Romans are not discouraged in misfortune and we are not arrogant in good luck”). The Greeks were more insufferable yet: one need only think that they considered their mother tongue to be the language of mankind, while all other peoples, whom they called “barbarians”, spoke in their opinion with the twittering of swallows. The Athenians, if we trust Pericles in Thucydides’ second book, were even worst in boasting their excellence and add that Theseus in many Attic tragedies opens the gates of Athens for persecuted of all kinds, proving himself to be a great bore because of the monotony of such a role. Now, on the contrary, what does Herodotus do in Egypt, as he tells us in his second book? He speaks with the priests and he believes all that they tell him, so that he becomes hum-
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ble because of the alleged enormous antiquity of their culture and religion. It is needless to remind you with how much love he speaks of the habits of the Egyptians, even the most outlandish and alien to the Greek way of life. In other words, he falls in love with this country, and his behaviour is the same as those who are madly in love: just as they forget themselves in front of the object of their love, so too does he forget himself to be a proud Greek. A century and a half before Herodotus, the great Athenian politician S o l o n behaved in a similar way: he gave his people new laws and, in order to avoid being involved in civic unrest, he decided to go for a long time abroad. And where did he go? Of course to Egypt, where he would feel better than anywhere else. And another admirer of Egypt was Herodotus’ forerunner H e c a t a e u s of Miletus. Between Solon and Herodotus lived P y t h a g o r a s , whose importance can scarcely be overvalued: he is said to have gone both to Babylon and to Egypt. What Egyptian culture meant to Plato and to the whole of the fourth century can only be alluded to here. Notwithstanding the claims of some later biographers, Plato never visited Egypt. Mary Lefkowitz2 has recently discussed this kind of b i o g r a p h i c a l i n v e n t i o n : very frequently, from the Hellenistic period onwards, great men of the past were credited with what was necessary in order to become a great man, that is to say the voyage of instruction to Egypt, the ‘Bildungsreise’ of German culture.
3. Hellenistic Greece, Rome and our modern world coming in touch with Egypt Egypt has driven more than one great man mad. Think of A l e x a n d e r t h e G r e a t , who was more arrogant than anyone else. He was in fact no ordinary man, so he could think himself superior to all others, but where did he get the idea of being nothing less than a god, the son of Zeus? During his stay in Egypt, of course, in the temple of Ammon–Zeus in the desert. He convinced himself of his own divine nature, an essential condition in order to convince the others. This kind of self–centeredness had rather important consequences for the history of mankind, as we all know very well. || 2 Lefkowitz 2007.
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Egypt also drove J u l i u s C a e s a r mad. In this instance, there was a very serious case of falling in love with a very beautiful woman, Cleopatra, who has been considered the most beautiful woman on earth, a kind of Helen of Troy, although perhaps she was not. But that falling in love soon became a formidable political–cultural plan: Caesar, had he not been killed by Brutus and Cassius, would have displaced the centre of the world from Rome, the West, to Egypt, the East. His successor was more well–balanced, but Egypt went on being what O c t a v i a n A u g u s t u s had made of the country, namely a province not of the Roman state but a personal one of the emperor. And in the same line was his great rival, A n t o n i u s . I can only mention a well known trend that had so much success in Rome, viz. the so–called ‘ i m i t a t i o A l e x a n d r i ’ on the part of the R o m a n e m p e r o r s 3: Augustus, Vespasian, Septimius Severus, Caracalla, Constantine. Political influence was obviously exercised by Rome on Egypt4, but cultural and religious influence went the other way round, from Egypt to Rome5. Not to speak of the wide–spread imitation of Egyptian art not only in the Roman world, but in Renaissance and modern Europe as well6. Egypt has also driven N a p o l e o n mad. He was first a soldier, then a corporal, then a general and finally an emperor. His job was to make war, many wars, all the wars of his time (he got the habit of winning them all) and after the wars he ruled the areas he had conquered. At the very beginning of his career he became one of the most effective cultural organizers there ever were, and he went on having the same function in the various countries he conquered. But only Egypt could make of him a scholar, an Egyptologist: modern Europe owes to him the invention of Egyptology, a discipline that, at the time, was brand new. Being Italian I have to mention our great musician G i u s e p p e V e r d i . He did not go mad, but he did an extraordinary thing: when he was appointed to compose an opera with an Egyptian topic for the opening of the Suez Channel, he composed Aida with a music that both then and today is felt by everybody to be ancient Egyptian. But the music of ancient Egypt is totally unknown:
|| 3 Pugliese Carratelli 2008. 4 Coarelli 2008. 5 Fraser 1972. 6 Lo Sardo 2008 (many contributions). A very interesting perspective is offered by Said 1978.
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he simply invented chords, intervals, harmonies, rhythms that gave, and still give, the impression of something ancient and exotic. Think only of the Nile scene in the third act and of the sinuous melodic phrases rendered with the various wind instruments. He did not achieve what every historian and philologist would like to achieve, that is to restore an old document, but succeeded instead in producing a brilliant forgery. Aida was one of the most impressive achievements of his long and successful career, and this was possible because he had been brought into contact with the magic of Egypt. To sum up: Herodotus, Alexander the Great, Julius Caesar, Augustus, Antonius, many Roman emperors, Napoleon, Giuseppe Verdi. With these illustrious predecessors, it will not seem strange if Egypt drives me mad as well. I used to consider myself well–balanced and self–ironic enough, but you are wholly entitled to think that, in adding my name to that illustrious list I have become more seriously deranged that any other; which would mean that the dangerous curse of the pharaons is still lingering in this country.
4. Egypt in Greek literature It would be useless to list here all the references to Egypt to be found in the literature composed up to the IV century b. C. Let’s see in detail what happens in Hellenistic culture. For the following remarks I owe much information to an article by Ophelia Fayez Riad7, which is a very useful list of literary references to Egypt in Alexandrian literature. It has always seemed quite strange to me that, compared with the previous periods, Greek literature of the Hellenistic age, when the two cultures came into closer contact, does not show any increased interest in Egypt. I find this remarkable. As we have just seen, Egypt was much admired by the Greeks, and, after Alexander the Great, the Egyptian world was, so–to–say, right next door to the Greeks, but it does not seem that they took any special notice of this. Right outside the gates of Alexandria, which was a truly Greek city, the vast Egyptian world began, with its agriculture and its peasants, its technical devices, its maritime tradition, its sociological relationships, its reli-
|| 7 O. Fayez Riad, Quelques éléments égyptiens dans la poésie alexandrine, in The Proceeding of the International Symposion, The Poetics of Comparative Literature, 12–13 apr. 2006 (ed. Ahmed Etman), Cairo 2007, pp. 117–145. The article is in Arabic and I owe a French abstract to the kindness ot the Author.
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gion etc. The only thing that became really dominating in politics, and consequently in literature, was the organization of political power, since this was taken totally from Egypt: the royal ceremonial, the marriage between brother and sister (incest: quite un–Greek!), the divine nature of the Pharaohs, etc. But this depended on a political plan that had to respect local conservatism, so as not to give trouble to the vast Egyptian world. One must not forget that Egypt was a Hellenized country; that the Greeks were extremely interested in that country because it was the one they admired most; and finally, that they not only had never ruled on a whole foreign country before, but also had never had to deal with such an enormous geographical surface and with so many people. Apparently, however, Egypt interested them in the same measure both before and after Alexander; and only as far as a few elitist cultural aspects were concerned. I am especially struck by the example of Theocritus: when he wanted to represent the countryside (in his bucolic idylls), he chose his own agricultural culture; and when he wanted to describe a religious festival, he chose a Greek one in Alexandria (idyll XV). In many other cases the sources quote the Egyptian world, as Ophelia Fayez Riad shows8: we should also add authors like Strabo and Philo. But in my opinion t h e i m p o r t a n c e , t h e f u n c t i o n of that material cannot be compared with what Egypt traditionally meant to the Greeks. When they got so close as to have a common borderline, the two worlds were separated just by that borderline: the inner core of Egyptian culture was foreign to them. I would like to see this topic to be treated in full detail.
5. The Ancient World in Italy My congratulations for the present meeting, with which you are celebrating one hundred years of teaching Greek at Cairo University. Egypt and Italy both have a great historical tradition behind them, that has been many times intertwined. Both our people have a good reason for teaching the Greek language and Greek literature. Allow me to sketch a short history of teaching Greek both at school and at university in my country. Italy became a modern unitarian state as late as 1859:
|| 8 She very aptly orders the material into four categories: nature, folklore (mainly magic), art, religion and its relationship to politics.
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before that date it was divided into many smaller states. So the first national law was passed only in 1859, and was due to the intelligence of the Marchese Casati, then Minister for Education. The introduction of teaching Greek at school and university met with very strong opposition: it was even difficult at that time to find teachers, since the whole education system had more or less the same imprint as an exclusively Latin kind of Humanism, promoted, among others, by the Jesuits. Casati was clever enough to win the battle: and Turin, at the time the capital of Italy (since Rome remained under the Pope until 1870), became leader in the teaching of Greek. An important change in the organization of didactics came in 1923 with the law signed by another Minister of Education, Giovanni Gentile, the philosopher client of an idealist and classicist Germany: he was an assertive supporter of the importance of classical antiquity both in the school and in the university. He was inspired by the creation of Humboldt University at Berlin: there, at the beginning of the 19th century, with what was to all effects a great innovation, scientific research was to pass from the academies to the seminars held in university structures. I feel myself to be the son of this kind of institution, since I have been holding a seminar myself for forty years. Gentile had given much importance to the Greek and Roman worlds. Nowadays Classics are in great decline, and not only in Italy. We can only hope that our rulers will be able to change this universal trend, since it would be foolish to ignore or even cancel the great legacy of Greece and Rome.
BIBLIOGRAPHY9 – F. Coarelli, Roma e Alessandria, in Lo Sardo, pp. 37–47 – P. M. Fraser, Ptolemaic Alexandria, Oxford 1972 – F. Hartog, [tr. it.] Lo specchio di Erodoto, [Milano 1992 (Paris 1980)] – M. Lefkowitz, Visits to Egypt in the Biographical Tradition, in Die griechische Biographie in hellenistischer Zeit. Akten des internationalen Kongress vom 26.–29. Juli 2006 in Würzburg. Hsg. von Michael Erler u. Stefan Schorn, Berlin–New York 2007, pp. 101–113 – E. Lo Sardo (a cura di), La Lupa e la Sfinge. Roma e l’Egitto dalla storia al mito, Milano (Electa) 2008 – G. Pugliese Carratelli, La “imitatio Alexandri” nel mondo romano, in Lo Sardo, pp. 29–35 – E. Said, Orientalism, New York 1978
|| 9 I offer only an extremely selective choice, being the subject so widely treated.
Modi della comunicazione e configurazione del testo. Un esercizio di critica testuale ed esegetica (Erodoto, Storie 1.123 s.) A proposito di Herodt. 1.125.1 (visto stamattina, 14.11.07) Ciro ἀκούσας ταῦτα, la lettera a Ciro nella lepre morta (Correggere o non correggere?) – Livello linguistico: vale ‘ascoltare’? O ‘leggere’? O ‘capire’? – Livello storico–sociologico–antiquario: se ‘ascoltare’, bisognerebbe pen-
sare alla necessità di uno schiavetto lettore totalmente fedele; e magari a un Carlomagno illetterato? – Livello editoriale: Hdt. orale e facilità di sostituzione di un verbo più pro-
prio con ἀκούω, che veniva naturale dopo la citazione verbatim della lettera, come ci sono tanti ἀκούω dopo un discorso diretto. Può essere originario di un Erodoto che parla o di un qualunque altro recitatore, la cui versione sia stata assunta all’origine della tradizione manoscritta. Il terzo livello (quello editoriale) porta a disinnescare gli altri due e a non correggere. Colonna traduce “ricevuto questo messaggio”
|| [Appunti (del 14.11.2007), e abbozzo di conferenza (probabilmente del tardo marzo 2008) che Rossi intendeva tenere L 31.3.2008 all’Università di Parma (ma poi non recitata e sostituita da altra). – Inediti, ritrovati nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo si deve a Giulio Colesanti] https://doi.org/10.1515/9783110648140-073
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(per Parma, 31.3.08) Modi della comunicazione e configurazione del testo. Un esercizio di critica testuale ed esegetica (Erodoto, Storie 1.123 s.) – oralità: l’aedo ‘guardato’: Od. 11.363 ss., 17.518 ss. – ἀκούσας: contesto in apparente contraddizione, no, vera contraddizione (verifica del valore delle parole): – prima reazione: è corrotto uno dei due passi: il primo è una lunga frase, perfettamente inserita nel contesto; il secondo è ἀκούω (NON ‘leggere’, ma ci provo e non ci riesco) – TRADUZIONI della parola – tentativo di supporre la sostituzione di una parola con un’altra: ‘riflettere, considerare, soppesare’ etc.: lessici ital.–gr., Woodh.: ἐνθυμεῖσθαι, (ἐν)νοεῖν, φροντίζειν, (ἐκ)λογίζεσθαι, (ἐπι)σκοπεῖν – il contesto culturale: c’è sempre un lettore, per un personaggio grande, anche se qui sembra che il testo lo escluda; ma Ciro è giovane e non in situazione di potere – l’uso linguistico di Erodoto (più che l’usus scribendi è l’usus della formalizzazione): ἀκούσας dopo disorsi diretti – la situazione della comunicazione: aurale–visuale; i due casi omerici di ‘vedere l’oratore’; il probabile modo di marcare auralmente il passaggio dalla dieghesis alla mimesis (Aristotele, a. p. [1448a21–24]); l’unico caso di lettura di un discorso diretto (qui sì che la situazione culturale conta) – i vari momenti di nascita del testo e i vari piani del testo nato e cresciuto: .....
Hom.: il cantore epico, l’aedo è guardato, non ascoltato: Od. 17. 518–520 (Eumeo, Odisseo: è una similitud., e c’è anche l’ascoltare!!); Stanford cfr. 13.1s. (ma non serve) v. Wil., Herakl. [AE] Qualcuno potrà dire che ho esagerato nell’isolare i vari momenti del mio ragionamento critico–testuale e nel razionalizzare fino all’estremo le mie prese di posizione. Ma forse è stato utile, perché ora mi permette di dare in estrema sintesi quello che a me pare il risultato: che non ho ragione di dubitare del testo se mi offre quell’ ἀκούσας, che poi tradurrò gioiosamente proprio come “avendo ascoltato” e magari mettendo una nota che giustifichi il rispetto per una subdola (e quanto mai rivelatrice) persistenza, un tenace (e quanto mai prezioso) relitto di una situazione comunicativa che non dobbiamo mai perdere di vista.
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Bibliografia Hdt., ediz. A. Andrisano (a c. di), Biblioteche del mondo antico. Dalla tradizione orale alla cultura dell’Impero, Roma 2007 ..... vari capp. J. Balogh, Voces paginarum, I–II, “Philologus” 82, 1927, pp. 84–109, 202–240 G. Cavallo (a c. di), Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, Bari 1975 ...... vari capp. P. Chantraine, Les verbes grecs signifiant “lire” (anagignosko, epilégomai, entunchano, analégomai), Mélanges H. Grégoire, Paris 1950, pp. 115–126 L. Del Corso, La lettura nel mondo ellenistico, Bari 2005 U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano 1990 A. Ercolani, Omero. Introduzione allo studio dell’epica greca arcaica, Roma 2006 E. Lohan, De librorum titulis apud classicos scriptores Graecos nobis occurrentibus, Diss. Marburg 1890 R. Ortolano, [La lettura tra pensiero e voce: interiorizzazione ed espressione vocale. Considerazioni sul lessico del leggere e in particolare sull’uso di ἐπιλέγομαι in Erodoto, Tesi di Laurea specialistica a.a. 2007/2008, Facoltà di Scienze Umanistiche della “Sapienza” Università di Roma, da discutere il 19.7.2008, relatore L. E. Rossi, correlatore M. Broggiato, pp. 50–58] J. E. Powell, A Lexicon to Herodotus, Hildesheim 1960 L. Sbardella, Oralità. Da Omero ai mass media, Roma 2006 C. Schrader, Concordantia Herodotea, Hildesheim etc. 1996
Intervista al prof. Rossi Premessa Luigi Enrico Rossi, ora professore emerito di Letteratura greca presso la facoltà di Scienze Umanistiche[*], è il decano degli studi di poesia e metrica del mondo greco, autore del manuale in uso presso molti licei, che ha firmato insieme all’allievo e collega Roberto Nicolai. Letteratura come comunicazione, fatto artistico dotato di una sua irriducibile specificità, ma impensabile al di fuori dei suoi spazi codificati … ecco alcuni dei capisaldi del suo approccio ai testi e alla cultura greca. Una lettura che passa attraverso la necessaria disamina di quel paramento formale così caratteristico della poesia antica che è la metrica, ambito in cui ha dato importanti contributi; non senza un ampio pubblico di allievi che lo ha spesso seguito nella ricerca, fino a occupare cattedre in varie università italiane.
Intervista al professor Rossi Leggendo gli scritti autobiografici di un filologo d’eccezione come Wilamowitz, ci ha colpito la rievocazione dei primi anni di studio all’Università, quando ancora timido e insicuro avanzava nella dottrina. Sempre interessa conoscere i percorsi che conducono gli uomini alle grandi mete. Lei come ha scoperto la sua passione per la letteratura greca? In realtà ho sempre avuto passione per questi studi. Un ruolo importante per la mia formazione lo ha avuto il mio professore del liceo, gesuita, Padre Fortunato Torniai, un toscanaccio di Laterina in Valdarno, un personaggio pazzesco. A lui devo stimoli fondamentali, come la conoscenza della teoria hegeliana dei generi letterari di Boeckh. Fui costretto a diventare stenografo, per seguire il suo fiume di parole. Ciò mi diede, molto dopo, lo stimolo per un’idea, || [Intervista pubblicata su «Il Giornale di Letterefilosofia.it» nr. 4 di L 30.6.2008, pp. 1–2 (bimensile degli studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” Università di Roma); ripubblicata poi su «YAWP Giornale di letterature e filosofie» http://www.letterefilosofia.com/ intervista-al-prof-rossi/ (dove è riprodotta anche l’ultima coppia di domanda–risposta)] [* Rossi era stato proclamato Professore Emerito della Facoltà di Scienze Umanistiche della “Sapienza” Università di Roma con Decreto Ministeriale del 30.1.2008. – G. C.] https://doi.org/10.1515/9783110648140-074
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in un periodo in cui nessuno scriveva sui generi letterari (non dobbiamo dimenticare che eravamo a diciotto anni dalla morte di Croce, che con la sua estetica impose una dittatura sulla critica, specialmente su quella italiana), pubblicata nell’articolo “I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche” del 1971[*]: un articolo pubblicato da un’università inglese in lingua italiana. Dopo anni spesi tra ricerca e insegnamento, che bilancio si sente di trarre dell’esperienza universitaria, anche alla luce del rapporto con gli studenti? Il rapporto con gli studenti lo potete descrivere meglio voi. Immagino che non sarà un risultato cattivo, soprattutto perché ho sempre cercato di svolgere contestualmente ricerca e didattica. Francamente confesso che la ricerca solitaria mi ha sempre stancato mentalmente. Se volessi schematizzare, direi che ho trovato alimento nell’insegnamento per due motivi: innanzitutto perché era un modo brutale di divertirsi (ora mi diverto ancora di più con le libertà che mi concedo per l’età), poi perché, seriamente, ho da dire che le idee più belle mi sono venute facendo lezione. Questo mi ha impedito di rincretinire … Venendo ora al metodo, qual è lo sguardo che getta sui fatti umani uno studioso di poesia? Perché studiare letteratura e non storia greca? Chi sceglie di occuparsi di letteratura sceglie un documento della storia, caratterizzato da ciò che amo chiamare “specifico letterario”. Una parte del passato tra le più belle, che per questo richiede una preparazione il più possibile ampia e profonda. Mi piace ricordare, a questo proposito, i tre possibili approcci al mondo classico che hanno avuto corso nella storia degli studi, fino a oggi. Il primo è quello umanistico, che tende entusiasticamente a farci immedesimare negli antichi, facendo però torto alla nostra cultura, che resta comunque cosa altra e diversa. L’altro è quello attualizzante, che cerca di avvicinare i greci e i latini al mondo di oggi, facendo certo torto alla loro cultura, la cui conoscenza da parte nostra non sarà mai, necessariamente, completa e definitiva. Il terzo è l’approccio storico–filologico, che indossiamo dal lunedì al venerdì nelle aule universitarie e ci dota dell’opportuno senso critico: ma il sabato e la domenica ho sempre suggerito a tutti di fare come faccio io, abbandonandosi ad un approccio senza schemi, spontaneo e gioioso. || [* Pubblicato in «BICS» 18, 1971, pp. 69–94.]
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L’ultima parola, quindi, spetta alla filologia? A questo domanda di rito mi piace rispondere citando una meravigliosa formulazione di un maestro come pochi, A. Boeckh, filologo vissuto ormai due secoli fa, il quale scriveva che se la Filosofia è una possibilità aperta a tutti i popoli, non così è la Filologia, intesa come studio geloso del proprio passato, segno di consapevolezza storica evoluta. Lo studio della tradizione è viatico prezioso e necessario per farsi amanti e critici della propria cultura. Sapevate che il grosso delle memorie della monarchia britannica, dal Cinquecento in poi, in realtà è un ammasso di invenzioni dell’età vittoriana? Lo studia lo storico E. Hobsbwam in un felice libro intitolato “L’invenzione della tradizione”. Certamente la filologia è una condanna, ma può diventare una vocazione. Quali sono le sue passioni al di fuori del mondo accademico? Amo la musica, quella classica perché il resto è cialtroneria. Mi sento nazionalpopolare ed amo il romanticismo tedesco e l’Opera italiana, in particolare Verdi. Per la classica contemporanea, invece, ho bisogno che il compositore mi fornisca delle chiavi di lettura, altrimenti stento a capirla. Vuole lasciare un messaggio, da studioso del passato, ai giovani studenti che si affacciano su questo mondo accademico? Non sono il papa, quindi non lascio messaggi. Il messaggio è implicito nel mio insegnamento. Michelangelo Pecoraro e Enrico Cerroni
Gluck, quasi duemila e duecento anni dopo Euripide L’Iphigénie en Aulide di Gluck, rappresentata a Parigi nel 1774, deriva alla sua prima origine da quella di Euripide, datata al 405 a. C., attraverso la mediazione della Iphigénie di Jean Racine (1674: proprio cent’anni prima di Gluck) e nella rielaborazione librettistica, sulla base di Racine, di Marie Fr. Louis Gand Bailli du Roullet detto “Le Blanc”. Ai quasi 2.200 anni dopo Euripide (per la precisione 2.179) vanno aggiunti i 235 che separano noi da Gluck: è importante precisare questo, perché quanto dobbiamo fare adesso è semplicemente mettere la tragedia di Euripide al fuoco del 1774, e non al fuoco del nostro 2009, che sarà compito dell’esecuzione musicale e registica presentataci dal Teatro dell’Opera di Roma. L’Iphigénie en Aulide è sembrata a molti l’opera di Gluck che, attraverso la rielaborazione letteraria moderna, rispetta maggiormente l’originale e il suo lieto fine. E vediamo di precisare i contorni di quest’originale. È la tragedia di un drammaturgo settantacinquenne. Le navi dei greci sono radunate nel piccolo golfo di Aulide, di fronte all’Eubea, pronte a salpare per sbarcare dall’altra pare del Mare Egeo, attaccare Troia e recuperare la bellissima Elena, che, sposa di Menelao (che è fratello di Agamennone, capo della spedizione), è fuggita con il principe Paride, figlio del re di Troia Priamo. La dea Artemide (dai latini chiamata Diana) impedisce la levata dei venti, necessari per muovere la flotta, perché è adirata con Agamennone che le ha mancato di rispetto uccidendo alla caccia una cerva a lei sacra: si placherà solo con un sacrificio di sangue, la cui vittima prescelta dovrà essere Ifigenia, figlia di Agamennone stesso e di Clitennestra. L’esercito scalpita e Agamenone, combattuto fra l’affetto paterno e il senso del dovere militare, si decide infine a far venire la figlia da Argo in Aulide con il pretesto di maritarla ad Achille. Ma l’inganno viene ben presto scoperto e Agamennone è irremovibile: Ifigenia lo supplica invano, ma poi, sconcertando tutti, finisce per offrirsi vittima al coltello dell’in|| [Saggio pubblicato su «Il Giornale dei Grandi Eventi» anno XV, n. 17, del 17.3.2009, p. 8, in occasione dell’allestimento dell’Iphigénie en Aulide di Gluck al Teatro Costanzi di Roma, 17– 29.3.2009, direzione di Riccardo Muti; verrà poi utilizzato anche nella presentazione del volume curato da L. Secci, Il mito di Ifigenia. Da Euripide al Novecento (in coll. con N. Bietolini, Roma, Artemide, 2008) recitata V 17.4.2009 a Villa Mirafiori (“Sapienza” Università di Roma). Il testo presentato (anche nei minimi fatti grafici o editoriali) è quello originario dell’autore, ritrovato nel suo ultimo pc]
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felice padre. Ma, al momento della catastrofe, interviene la dea sottraendo la giovane, cui sostituisce una cerva e la giovane viene da lei trasportata sulla sponda estrema del Mar Nero, dove fra i Tauri diviene sacerdotessa della dea stessa. Ma questa è poi l’altra tragedia euripidea, Iphigénie en Tauride, messa in musica anch’essa da Gluck cinque anni dopo (1779). Tutto il dramma, che viene rappresentato postumo essendo della fine della vita di Euripide, è ritmato da numerose tempeste psicologiche, che portano i personaggi a ricredersi continuamente con vigorosi effetti drammaturgici. Tragedia amatissima da tutti i pubblici, antichi e moderni, non piacque, qualche decennio dopo, ad Aristotele, che ebbe il torto di applicare superficialmente il suo pur giusto criterio di coerenza nel carattere dei personaggi. Il fatto che la trama euripidea piacesse a Gluck per la ragione del lieto fine andava incontro al gusto borghese del pubblico dell’opera, come ha proposto con acume Theodor W. Adorno in un brillante scritto di più di cinquant’anni fa: la borghesia ama rispecchiarsi nella vicenda cantata sulla scena e la vuole emozionalmente vivace, oltre che verosimile. A questo proposito vale la pena di leggere quanto lui stesso scriveva nella Préface alla tragedia, criticando gli autori greci che avevano scelto la versione luttuosa, quella del vero sacrificio della fanciulla (li elenca: Eschilo, Sofocle, Lucrezio, Orazio “e molti altri”) e anteponendo quelli del lieto fine: “Ho riconosciuto con piacere, per l’effetto che ha prodotto sul nostro teatro tutto quello che ho imitato o da Omero o da Euripide, che il buon senso e la ragione erano gli stessi in ogni secolo. Il gusto di Parigi si è ritrovato conforme a quello di Atene”. (Le ultime parole sono, a mio parere, incantevoli! ...). Del resto la definizione del teatro di Euripide come teatro ‘borghese’ è uso costante della critica di noi moderni. Va notato che le grandi linee della famosa riforma drammaturgica di Gluck rientravano non solo nella prospettiva della Camerata de’ Bardi fiorentina, ma anche nella tessitura compositiva dello stesso Euripide. Gluck ebbe a dire una volta che prima di scrivere un’opera tentava di dimenticare di essere un musicista, e questo significava in fondo che musicista era e musicista si sentiva, ma anche che sentiva crescere in sé la sensibilità dell’autore di teatro. Vista l’importanza da lui data agli affetti e al pathos (vicino anche in questo al patetico Euripide), non fa meraviglia che fosse ammirato e amato dai romantici sia della prima sia dell’ultim’ora: Ermst Theodor Amadeus Hoffmann e Richard Wagner. C’è, piuttosto, da aggiungere alla vulgata critica su Gluck un fatto raramente messo in luce: la sua immersione nella cosiddetta “teoria degli affetti” (Affektenlehre), che era stata già degli antichi (molto sensibili psicologicamente alla loro musica e inclini a disciplinarne politicamente l’uso per l’effetto potentissimo sulla psicologia delle masse) e si era poi trasformata nei moder-
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ni, a cominciare da Vincenzo Galilei (fra Cinquecento e Seicento), in un prontuario espressivo degli affetti dell’animo: gioia, dolore, amore, odio etc. La teoria degli affetti moderna arriva a lambire il primissimo romanticismo, che poi praticherà l’espressione perenne degli affetti con maggiore o minore spontaneità senza bisogno di pastoie teoriche.
Index nominum a cura di Francesco Paolo Bianchi, Maria Broggiato, Enrico Cerroni, Andrea Ercolani, Enzo Franchini, Manuela Giordano, Virgilio Irmici, Laura Lulli, Michele Napolitano, Livio Sbardella, Maurizio Sonnino Accio, Lucio: 37 Achille: 42, 70–71, 188, 618, 628 Admeto: 631 Adone: 101 Adorno, Th. W.: 676 Adrasto: 256 Afrodite: 71 Agamennone: 188, 260, 423, 675 Agatarco: 18 Agazia di Mirina: 522 Agesidamo di Locri: 168, 257 Agostiani, L.: 361 Agostino d’Ippona (santo): 61, 462, 639 Aiace: 91, 622 Akerström, A.: 499 Alamanni, L.: 243 Alberti, L. B.: 243 Alberti, R.: 541 n. 1 Albini, U.: 352–353, 402 Alceo: 48, 77–78, 125, 126, 130, 131, 298, 305, 324, 343–344, 359–360, 420, 422, 426, 493, 577, 597, 658 Alcesti: 631 Alcidamante: 55, 60 Alcinoo: 72 Alcmane: 17, 76–77, 131, 261, 489, 493, 597, 612, 619, 628 Alcmena: 631 Alecu, D.: 232 Alessandro Etòlo: 100 Alessandro Magno: 33, 101, 202, 524– 526, 624, 636, 664, 666 Alessi di Turii: 257 Alfesibea: 393 Alfesibeo: 393 Alien jr., W.: 29 n. 67 Alighieri, Dante: 223, 229 Allen, W. Th.: 292 Amari, M.: 237 Ambrogio (santo): 462 https://doi.org/10.1515/9783110648140-076
Amfidamante: 256 Àmico (personaggio mitologico): 35 Ammone–Zeus: 524, 664 Ampolo, C.: 360 Amyot, J.: 364 Anacreonte: 77, 131, 174, 305, 493, 521, 597, 619, 628, 658 Anassagora: 18 Anassila di Reggio: 261 Anassimandro: 51 Anassìmene di Lampsaco: 23 n. 47 Anassìmene di Mileto: 51 Anchise: 627 Anderson, W. D.: 65 Andromaca: 448, 494, 627, 632 Andronikou, M. : 501 Antifonte: 55, 489 Antigone: 447 Antimaco di Colofone: 19, 207, 401, 635 Antonelli, R.: 141 Antonio, Marco: 665–666 Apollo: 72, 287, 447 Apollodòro di Atene: 32 n. 76 Apollonio ὁ εἰδογράφος: 27 Apollonio Rodio: 35 n. 88, 211, 212 n. 28, 390, 504, 636 Arato di Soli: 207 Archiloco: 49, 131, 258, 304–305, 355, 401, 434–435, 438, 446, 451, 521, 576, 577, 581, 588, 601–602, 628 Arena, R.: 530 Arend, W.: 42 Ares: 68, 71 Areta: 301 Argentieri, L.: 640 n. 8 Arialdo: 533 Arianna: 78 Ariosto, L.: 243 Aristagora di Mileto: 98 Aristarco di Samotracia: 14, 212, 298–
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300, 307 Aristofane: 20, 32, 46 n. 36, 52, 68, 84– 85, 91–95, 102, 106, 132, 170, 183, 194, 223, 276–281, 298, 339, 437– 439, 449–450, 477, 530, 539, 577, 602, 609, 621, 623, 630, 633, 651, 654–655 Aristofane di Bisanzio: 14, 26–27, 207– 208, 211, 212 n. 28, 495 Aristosseno di Taranto: 69, 263–264 Aristotele: 19–20, 23, 26, 40, 46 n. 36, 52–53, 58, 60–61, 69, 79–80, 87–89, 92, 97, 99, 101, 110, 111, 117–119, 128, 208–209, 211, 291, 342, 390, 416, 429, 490, 494, 582, 597, 622– 623, 654, 659, 663, 670 Arpalo: 101 Arrighetti, G.: 567 Arsinoe II Filadelfo: 101, 636 Artemide (vd. anche Diana): 675 Ascilto: 506, 509, 518, 519 Asclepiade: 133, 207, 635 Ascoli, G. I.: 235, 237–240, 245 Aspasia: 630 Åström, P.: 499 Atena (vd. anche Minerva): 50, 446, 509, 516, 518–519 Ateneo: 100, 262, 294 Attianese, P.: 553 n. 5 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano: 22 n. 45, 665–666 Aurispa, G.: 301 Aurora (divinità): 618 Avesani, R.: 640 n. 2 Bacchilide: 16–17, 46, 47, 50, 53, 73, 77, 131, 350, 492, 612 Bach, J. S.: 407–408 Bacigalupo, N.: 535 Bagordo, A.: 135, 136, 302, 640 n. 8, 648 Balbo, C. : 270 Balzac, H. (de): 620 Barbu, N.: 501 Barchiesi, A.: 542–543 Barchiesi, M.: 455, 459 Bardon, H.: 127 Barigazzi, A.: 365
Barthes, R.: 426 Bartoli, M.: 240 Batillo di Alessandria: 101 Baudelaire, C.: 575 Baur, F. C.: 235 Becker, C.: 182 Behrens, I: 12 n. 4 Bellini, V.: 132 Belloni, L.: 355 Bellu, M.: 230 Beloch, K. J.: 255 Bendz, G.: 508 Bengston, H.: 255 Bennett, E. L.: 499 Bentley, R.: 171, 199, 207, 317 Bérard, J.: 255 Berenice II: 636 Bergk, Th.: 172 Bertan, M.: 640 n. 8 Bertolini, F.: 360 Bertoni, G.: 240 Bertram, E.: 186 Berve, H.: 255 Bethe, E.: 156, 168 Bianchi, U.: 500 Bianchi Bandinelli, R.: 214 n. 30 Bignami, G.: 413 Binni, W.: 269 n. 4 Biondelli, B.: 240 Biscottini, M.: 497 Bismarck, O. von: 335 Blass, F. W.: 243, 638–639 Blaydes, F. H. M.: 220 Blume, H.–D.: 76 Blumenthal, A. von: 185 Bo, C.: 536 Boeckh, A.: 7–8, 35 n. 88, 142, 155, 156, 170, 173, 179, 187, 199, 205 n. 17, 236, 242, 254, 267, 321, 325, 331, 433, 467–468, 472, 480–481, 488, 606–607, 616, 649, 672, 674 Bona, G.: 443–452 Bonanno, M. G.: 145, 288, 290 n. 6, 542, 564–565, 567, 640 n. 4, 645 n. 15, 658 Bonaparte, Napoleone: 364, 651, 665– 666
680 | Index nominum
Bonghi, R.: 234 Bopp, F.: 235, 433 Borges, J. L.: 423–424, 542, 599 Borghesi, B.: 271 Borsò, V.: 422 Bossuet, J.–B.: 99 Bowra, C. M.: 169, 512–515 Brandi, C.: 141, 143 Bréal, M.: 234 Brecht, B.: 287, 593 Breschi, F.: 530 Bresciani, E.: 497 Brinckmann, A.: 182 Briseide: 189 Broggiato, M.: 640 n. 8 Brugmann, K.: 240 Bruni, L.: 339 Bruto, Marco Giunio: 665 Bücheler, F.: 182, 186, 506–508, 511–512 Bühler, W.: 198 n. Bundy, E. L.: 167 Burckhardt, J.: 182, 656 Burkert, W.: 580 Burman, P.: 506 Burnouf, J.–L.: 245 Burzacchini, G.: 379 Busolt, G.: 255 Byron, G. G.: 132 Caggìa, G.: 232 Caglioti, V.: 498 Caizzi, F.: 497 Calame, C.: 361 Calderone, S.: 501 Calipso: 446 Callimaco: 12, 26, 31, 37, 59–60, 101, 115, 207–208, 210–211, 264, 392, 394– 395, 450, 544, 600, 612, 625–626, 636 Callippo: 23 n. 47 Calpurnio Siculo: 394 Calvino, I.: 536 Camassa, G.: 361, 421, 425–431 Cambise: 258 Cameleonte: 26, 165–166 Campana, A.: 271, n. 15 Campanella, L.: 530
Campanella, M.: 530 Campanella Florio, G.: 530 Campanella Magnani, E.: 530 Canfora, L.: 54, 192 n. 16, 230 n. 8, 268 n. 3, 270, 283–284, 291 n.1, 294 n. 10, 314, 363 n., 373, 503, 567 Cannatà, F.: 640 n. 8 Cannatà Fera, M.: 93 Cantarella, E.: 497 Cantilena, M.: 640 n. 8, 645 n. 15 Capponi, G.: 270 Caproni, G.: 536 Caputo, G.: 501 Caracalla (soprannome di Marco Aurelio Severo Antonino): 665 Carchia, G.: 110 Carcino: 94 Cardinali, G.: 354 Carducci, G.: 243–244, 273, 281 Carlier, P.: 361 Carlini, A.: 230 n. 8 Carlo Magno: 669 Carossa, H.: 183 Carrara, G.: 497 Casati, G.: 234, 276, 317, 321–322, 368, 406, 451, 668 Casaubon, I.: 207, 294 Caskey, J.: 499 Casotti, M.: 347 Cassio, A. C.: 94, 95, 232, 293 n. 7, 567, 640 n. 8, 641 n. 10, 645 n. 15 Cassio Longino, Gaio: 665 Castelvetro, L.: 110 Castorione di Soli: 32 Catullo, Gaio Valerio: 60, 115, 133, 194, 271, 353, 635 Cavallo, G.: 230 n. 8 Cazzaniga, I.: 497 Ceccarelli, L.: 542 n. 2 Ceccarelli, P.: 301 n. 27 Ceci, L.: 236, 239, 241, 244 Celluprica, V.: 232 Cenci, M. G.: 230, 232 Cerami, V.: 530 Cerbo, E.: 640 n. 8 Cercida di Megalopoli: 32 n. 76 Ceronetti, G.: 566–568
Index nominum | 681
Cerri, G.: 57 Cerroni, E.: 674 Cesare, Gaio Giulio: 353, 609, 665–666 Cesare Ottaviano: vd. Augusto Chadwick, J.: 342, 499 Chaniotis, A.: 62 Chantraine, P.: 501 Chateaubriand, F.–A.–R. de: 364 Cheope: 662 Cheremone: 32 Cheride (grammatico): 307 Cherilo: 19 Chiabrera, G.: 243 Chiarini, G.: 243, 273 Chirassi, I.: 501 Christ, W. von: 175, 242 Ciaceri, E.: 255 Cicerone, Marco Tullio: 37, 339 Cinesia: 68 Ciro II di Persia (Ciro il Grande): 669–670 Citti, V.: 444–445 Cleandro di Egina: 163 Cleante: 33 n. 79 Cleone: 93, 97–98 Cleopatra (VII Filopatore): 665 Clistene (politico ateniese): 91 Clistene di Sicione (tiranno): 69 Clitemestra/Clitennestra: 260, 448, 631, 675 Cobet, C. G.: 451 Cocchia, E.: 237, 244, 246, 281 Coccia, M.: 351 Cole, Th.: 55 Colesanti, G.: 640 n. 8, 645 nn. 15–16 Colonna, A., 487–495, 497 Colonna, G.: 376 n. 12 Cometa, M.: 422 Commerell, M.: 185 Comparetti, D.: 235, 270–272, 278, 295, 440, 606 Constant, H.–B.: 428 Conte, G. B.: 37 n. 96, 540, 640 n. 4 Conte, P.: 501 Coppola, G.: 440 Corinna: 173, 493–494 Cortot, A.: 409 Costantino, Flavio Valerio Aurelio (Costan-
tino il Grande): 610, 665 Costantino Cefala: 522 Costantino Lascaris, 301 Costanzo (II), Flavio Giulio: 611 Cratete: 197, 621 Cratino: 93, 132, 449, 621, 639 Creonte: 447, 631 Criseide: 189 Criside: 519 Crisippo (grammatico): 307 Crizia: 32 Croce, B.: 7, 252, 277–278, 341, 342, 369, 383, 401–402, 488, 590, 606, 643– 644, 673 Cromio di Etna: 114, 307–308 Curtius, E. R.: 7, 488 Curtius, G.: 235, 239, 241, 245 D’Agostino, B.: 361 d’Aubignac, F. H.: 41, 296 D’Ippolito, G.: 543 d’Ors, E.: 541 n. 1 D’Ovidio, F.: 237, 240 Dafni: 33 Dain, A.: 69, 220, 314, 333, 466 Dale, A. M.: 172 n. 39. Damone: 68, 416–417 Davies, J. K.: 361 Davis, S.: 501 De Bortoli, F.: 567 De Lorenzi, A.: 501 De Marco, V.: 497 De Miro, E.: 501 De Sanctis, G.: 160, 255 De Waele, F. J.: 501 Degani, E.: 380, 432–442 Deianira: 631 Deichgräber, K.: 319, 649 Del Corso, L.: 460–462 Del Grande, C.: 243, 264 Delbrück, B.: 235, 240 Dell’Era, A.: 230 n. 8 Demetra: 49 Demetrio (retore): 91 Demetrio Falereo: 211, 633 Demetrio Mosco: 399 Democrito: 16 n. 24, 18
682 | Index nominum
Demodoco: 4, 71, 649 Demostene: 54, 97, 162, 353, 630 Deroy, L.: 499 Desborough, V. R.: 499 Deubner, L.: 35 n. 86 Deussen., P.: 179, 182 Devoto, G.: 531, 536 Di Benedetto, V.: 230 n. 8 Di Donato, R.: 360 Di Marco, M.: 567, 640 n. 4 Diana (nome latino di Artemide): 675 Diano, C. A.: 441 Dicearco: 211 Didimo Calcentero: 13–15, 24, 26, 28, 307 Didone: 634 Dilthey, W.: 179–180, 185 Diodoro Siculo: 97 Diogene Laerzio: 57, 98, 400 Dionigi di Alicarnasso: 57, 59, 143, 462 Dionisio Trace: 28, 208 Dionìso: 47, 78, 80–82, 84, 90–92, 118, 130, 414 Dioscùri (Castore e Polluce): 260 Dodds, E. R.: 289, 416, 580 Domiziano, Tito Flavio: 609 Don Chisciotte: 288 Donato: 198 Doria, S.: 645 n. 20 Dothan, T.: 499 Dover, K. J.: 55 Drachmann, A. B.: 156 Droysen, J. G.: 179 Dunbabin, T. J.: 255 Dunbar, H.: 389 Durante, M.: 43 n. 18, 499 Duride di Samo: 33 n. 79, 60 Ebeling, H: 389 Ecale: 625 Ecateo di Mileto: 664 Eckstein, F. A.: 235 Eco, U.: 340 Ecuba: 622 Èdilo: 207 Èdipo: 89, 91, 259, 287–288, 451, 622, 627 Edmunds, L.: 542
Edward, L.: 314 Efestione (metricologo): 32 n. 75, 173, 243, 298, 495 Èforo: 60 Efrem: 301 Ehlers, W.: 508 Ejchenbaum, B.: 9 n. 9 Elena: 627–628, 665, 675 Eliodòro: 478, 625 Eliot, T. S.: 412 Ellanìco: 19 Elmsley, P.: 317 Empedocle: 51, 183 Encolpio: 519 Enea: 260 Ennio, Quinto: 37, 441 Enrico IV di Borbone (re di Francia): 365 Epicarmo: 95, 401 Epicuro: 400, 582, 624 Epitteto: 462 Era: 628 Eracle: 33, 91, 114, 307, 383 n. 4, 631 Eraclìde Pontico: 26 Eraclìto: 49, 51, 183, 654, 657 Erasmo da Rotterdam: 198–199, 207, 213, 566, 613, 638 Eratostene di Cirene: 197, 207, 213, 654, 658–659, 662 Erbse, H.: 295, 301, 319, 649 Ercolani, A.: 640 n. 8, 645 n. 15 Erinni (dee): 91 Ermerote: 506–507, 509, 517 n. 35, 518–519 Ermesianatte di Colofone: 207, 635 Ermippo: 210 Ermogene: 30 Ero(n)da: 34, 59, 96, 264, 634 Erodoto: 5, 19, 43, 56, 69, 98, 289, 364, 366, 491, 493, 578, 615, 636, 657, 663–664, 666, 669–671 Erone: 101 Eros: 513–514 Eschilo: 20, 46 n. 36, 52, 83–84, 89–92, 106, 118, 132, 177, 181, 183, 289, 316, 401, 447–448, 491, 544, 582 s., 631, 636, 676 Eschine: 53–54, 97–98 Esichio di Mileto: 28
Index nominum | 683
Esiodo: 4, 29 n. 67, 50, 74, 109, 113, 115, 160–161, 355, 361, 401, 544, 629, 631, 654 Esòpo: 361 Eteocle: 448 Ettore: 188, 448, 494, 618, 627 Euforione: 26, 581, 631 Eumeo: 618, 670 Eupoli: 93, 132 Euriclea: 618, 628 Euripide: 20, 52–53, 68, 85, 91–93, 100, 106, 132, 287, 289, 339, 353, 539, 552, 582, 609, 626, 631–632, 634 Färber, H.: 11, 27 Faust: 423 Fayez Riad, O.: 666–667 Fedeli, P.: 230 n. 8 Federico II di Prussia (Federico il Grande): 160 Fedra: 631 Femio: 4 Fenice: 207 Ferecide di Siro: 50 Ferrabino, A.: 498 Ferrero, L.: 452 Festa, N.: 239, 244, 350, 402 Fidia: 50–51 Filippo di Tessalonìca: 521 Filita di Cos: 27 n. 59, 196–197, 204 n. 15, 207, 214 Filocle (tragediografo): 90, 118, 130, 203 n. 12, 282 Filodèmo di Gadara: 400–401, 582, 635 Filone di Alessandria: 667 Filosseno di Citera: 68, 441 Filostefano: 210 Filottete: 91, 473, 621 Finley, M. I.: 42 n. 14 Fiori, S.: 567 Fischer, E.: 409 Flashar, H.: 306, 361 Flechia, G.: 240 Fleming, Th. J.: 480 Flores, E.: 544 Fogazza, D.: 232 Folena, G.: 339
Foscolo, U.: 269, 272, 323, 340 Fox, R. L.: 524 Fozio: 13–14 Fraccaroli, G.: 270, 284, 440, 603 Fraenkel, E.: 6 n. 2, 20, 156, 172, 179, 194, 215–220, 311–313, 315, 317, 319– 320, 333, 445, 509 n. 13, 644 e n. 14, 650 Fränkel, H.: 49, 169, 308, 389, 475, 503– 505, 598 Frescobaldi, G.: 407 Freud, S.: 505 Friedländer, L.: 299, 507, 516 n. 33 Friedländer, P.: 179, 185 Friedrich, W.–H.: 319, 649 Frine: 630 Frinide: 68 Fritz, K. von: 191, 284 Frobenius, L.: 190 Fusillo, M.: 285 Fustel de Coulanges, N. D.: 214 n. 31 Gadamer, H.–G.: 303 Gaiser, K.: 461 Galeno: 416, 462, 491, 582 Galilei, V.: 677 Gallavotti, C.: 342–342, 346, 348, 350, 389, 498–499, 643 Gallo, I.: 379–385 Gamberale, L.: 350, 373 Gand Bailli du Roullet, M. F. L. (detto “Le Blanc”): 675 Gandino, G. D.: 241 Garofalo, I.: 549 Geffcken, J.: 264 Gehring, A.: 389 Geiss, H.: 501 Gelzer, M.: 179, 181 Genta, L.: 567 Gentile G.: 252, 317, 322, 406, 668 Gentili, B.: 243, 256, 262, 332, 342, 350, 352, 388–389, 476, 607, 628, 643 George, S.: 177–178, 180 n. 7, 184–185, 190 Georgiev, V.: 499 Gernet, L.: 607 Giamblico: 416, 582
684 | Index nominum
Giannantoni, G.: 400–401 Giasone: 632 Gieseking, W.: 409 Gigante, M.: 196, 198, 199 n. 6, 208 n. 16, 213, 255, 262–263, 269 n. 4, 354, 380, 397–405 Giocasta: 89, 260 Giordani, P.: 269, 272 Giordano, M.: 581, 640 n. 8 Giove (nome latino di Zeus): 509 Giovenale, Decimo Giunio: 271 Girolamo (santo): 198, 339 Gìtone: 506–507, 509, 519 Glauco di Reggio: 19, 26 n. 57, 129, 208, 265 Gluck, C. W.: 675–677 Gnoli, D.: 278 Godart, L.: 499 Goethe, J. W. von: 181, 183, 230, 294, 304, 341–342, 366, 419, 421, 423, 428– 429, 455–456, 590 Goetz, G.: 510 n. 19 Gordon, C. H.: 501 Gorgia: 20 n. 40, 54, 97, 497, 654–655, 659 Gòrgone (mostro mitologico): 289 Gorgosalice, G.: 230, 530, 640 n. 5, 641 n. 11, 642 n. 12 Gow, A. S. F.: 264–265, 343, 389 Graf, F.: 361 Grafton, A.: 147, 462 Greco, G.: 290 n. 6 Griffiths, A. H.: 35 n. 88 Grimaldi di Monaco (dinastia): 534 Grinbaum, N. S.: 501 Gronov, J. F.: 506 Grumach, E.: 456 Gualtieri, C.: 646 n. 20 Guarducci, M.: 371–372 Gudeman, A.: 316 Guerrini, R.: 545 Gundolf, E.: 185–186 Gundolf, F.: 185 Hamann, J. G.: 421, 427 Harnack, A. von: 180 Harris, W. V.: 579 ss.
Harrison, J.: 606 Harvey, A. E.: 11 Haskil, C.: 408 Haupt, M.: 29 n. 67 Havelock, E. A.: 42, 52, 258, 607, 657 Heath, M.: 116, 117, 119 Hegel, G. W. F.: 9, 179, 606 Heinze, R.: 518 Hennin, H. Ch.: 638 Hera: 257 Heraeus, W.: 506, 508, 510, Herder, J. G.: 326, 421, 432–433 Hermann, J. G. J.: 35, 172, 188, 199, 220, 224, 314, 326, 333, 432–433, 468 Heubeck, A.: 499 Heyne, C. G.: 295, 297, 468 Heyse, K. W. L.: 235 Hildebrandt, K.: III 182, 184–186, 191 Hobsbawm, E.: 674 Hoenigswald, H. M.: 499 Hofmann, E. Th. A.: 676 Hölderlin, F.: 183 Hölscher, U.: 176–177, 185, 189 n. 13, 190 n. 14, 192 n. 15 Housman, A. E.: 317 Humboldt, A. von: 321, 428 Humboldt, W. von: 321, 428 Hurst, A.: 570 Huxley, G. L.: 208 n., 209 n., 265 Ibico: 77, 131, 255, 261 Ieròne I di Siracusa (tiranno): 53, 261 Ifigenia: 423, 675–677 Iliewski, P.: 499 Inama, V.: 241 Ione di Chio: 31 Ippocrate: 416, 462, 582 Ippodàmo di Mileto: 18 Ippolito: 631 Ipponatte: 29 n. 67, 131, 305, 438–439, 601–602, 628 Irigoin, J.: 394 Iseo: 23 n. 47 Isnardi Parente, M.: 157 Isocrate: 22–23, 40, 55, 59–60, 162, 353, 497, 590, 624 Istro (detto “il callimacheo”): 26, 210
Index nominum | 685
Jachmann, G.: 220, 233, 314 Jacobs, F.: 506 Jaeger, W.: 169, 178–179, 186, 190–192, 198 n. 5, 199, 283, 399, 606, 656 Jahn, O.: 220, 224, 276 Jakobson, R.: 45 n. 31, 339, 585 Jauss, H. R.: 335, 424, 607 Jeep, L.: 238, Joyce, J.: 323 Judet de La Combe, P.: 543–544 Kaibel, G.: 316 Kant, I.: 427 Kantorowicz, E.: 185 Karageorghis, V.: 298 Kardara, Ch.: 499 Kenney, E. J.: 146 Keuls, E.: 98 Killen, J. T.: 499 Kirchhoff, A.: 273 Kleist, H. von: 181 Kluckhohn, C.: 214 n. 31 Knobloch, J.: 501 Körte, A.: 174 Koster, S.: 11 Kristeva, J.: 542 Kroll, W.: 33, 37, 212 Kuhn, H.: 179 La Penna, A.: 234 La Roche, H. T.: 298 Lachmann, K.: 147, 317, 613 Laerte: 619 Laio: 89, 288, 627 Lanzara Gigante, V.: 397, 401 Laso di Ermìone: 18, 163 Lattanzio, Lucio Cecilio Firmiano: 545 Laviosa, A.: 499 Lawler, L. B.: 65 Lazzarini, M. L.: 371 Lefkowitz, M.: 664 Lehrs, K.: 298 Leisegang, H.: 186 Lejeune, M.: 499, 501 Lenchantin de Gubernatis, M.: 241, 243 Leo, F.: 36, 164, 165 n. 22, 172, 209, 220, 221–222, 233, 243, 314, 381
Leonida di Taranto: 264–265, 400 Leopardi, G.: 132, 269, 272, 323, 360, 402, 412 Leskien, A.: 240 Lesky, A.: 492 Leto, G.: 411 Leumann, M.: 61 Lévêque, P.: 361 Levi, D.: 498, 501 Levin, H.: 10 n. 10 Levin, S.: 501 Licìda: 388, 393 Licofrone di Calcide: 33, 100 Licurgo: 202 Lino: 133 Lisania di Cirene: 26 Lisia: 23 n. 47, 54–55, 59, 623, 630 Livio Andronìco: 37, 197, 201, 544 Livio, Tito: 531 Livrea E.: 232 Lobel, E.: 262, 494 Loescher, H.: 322 Loewy, E.: 276–277, 440 Longo Sofista: 422, 544 Lopez, G.: 230 n. 8 Lotman, J. M.: 42 Lucano, Marco Anneo: 133, 223 Luciano: 130, 135, 577 Lucilio, Gaio: 37 Lucrezio Caro, Tito: 340, 401, 676 Ludwich, A.: 35 n. 88, 298 Lukács, G.: 9 Lunelli, A.: 146 Luporini, C.: 269 n. 4 Luzzatto, M. J.: 361 Maas, P.: 171–173, 474, 504 Machiavelli, N.: 398 Macleod, C.: 232 Macone: 100 Maddalena, A.: 452 Maddoli, G.: 361 Madvig, J. N.: 317 Maggi, V.: 110 Magnete: 320 Mai, A.: 272, 451–452 Maiuri, A.: 508
686 | Index nominum
Mancini, A.: 242 Mancuso, U.: 255 Manetti, D.: 549 Mann, Th.: 366 Manuzio, A.: 110 Manzoni, A.: 270 Marbach, A.: 508 Marchesi, C.: 455, 457 Marconi, C.: 361 Marconi, P.: 142 Marinatos, S.: 499 Marini, S.: 453, 457 Marinone, N.: 549 Mariotti, S.: 37, 216–217, 229, 373–378, 380, 643, 644 n. 14 Marmorale, V.: 506 n. 1, 508, 516 n. 33, 517 Martelli, N.: 530 Martinet, A.: 365 Marzullo, B.: 435, 441, 493–494 Masaracchia, A.: 276, 342, 353, 383 n. 4 Maschio, G.: 645 n. 19, 646 n. 20 Masqueray, P.: 243–244 Masson, O.: 499 Mastromarco, G.: 96 Matteucci, C.: 238 Matthiae, P.: 640 n. 1 Mauro, E.: 567 Mazzotti, E.: 117 n. 26 McDonald, W. A.: 499 Medea: 451, 631, 634 Mefistofele: 423 Meillet, A.: 174, 240, 389, 520 Meineke, A.: 294 Meister, K.: 298, 389, 594 Melanippide: 68 Melanippo: 256 Meleagro: 521 Menandro: 94, 342, 490, 401, 597, 609, 612, 624, 634 Menelao: 627, 675 Meriggi, P.: 501 Merkelbach, R.: 167, 306 Merlo, C.: 240 Metone: 18 Meuli, K.: 185 Meyer, E.: 192 n. 16, 255
Meyer, L.: 241 Meyer, W.: 171, 389 Mezger, F.: 167 Milanese, G.: 355 Mimnermo: 48, 132, 305, 543, 619, 635 Minerva (nome latino di Atena): 509, 519 Mingarelli, S.: 640 n. 8 Minosse: 497 Mirabeau, H. G. R. de: 428 Miralles, C.: 539, 545 Momigliano, A.: 23 n. 47, 165, 166 n. 24, 205 n. 16, 207, 209, 315, 402 Mommsen, Th.: 153, 171, 235, 239, 272, 276 Mommsen, Ty.: 153, 154 Monaldo, G.: 394 Montale, E.: 536, 586 ss., 594 Montanari, F.: 113, 547 ss. Montesquieu (Charles–Louis de Secondat): 428 Monteverdi, C.: 589 Monti, V.: 272 Morelli, G.: 353–354 Morelli, J.: 451 Moreschini, C.: 230 n. 8 Mörike, E.: 453–454 Morpurgo Davies, A.: 342 Mossé, C.: 361 Mozart, W. A.: 407 Mühlestein, H.: 499 Müller, G.: 237–238, 241 Müller, K.: 508 Müller, L.: 244–245 Müller, M.: 235–236 Murray, G.: 42–43, 191, 258–259, 606 Musa (divintà): 68 Mussolini, B.: 532 Musti, D.: 255, 371 Mustilli, D.: 402 Myres, J.: 297 Nägelsbach, K. F.: 516 n 34 Nagy, G.: 361, 501 Napolitano, M.: 640 n. 8, 645 nn. 15–16 Nauck, A.: 220, 314, 319 Nauck, J. N.: 224 Nausicaa: 628
Index nominum | 687
Nazari, O.: 241 Negri, P.: 232 Nencini, P: 413–414 Neottolemo: 621 Nerval, G. de: 423, 542, 599 Nestore: 599, 618–619 Neumann, G.: 649 Nevio, Gneo: 37 Neymeyr, B.: 422 Nicolai, R.: 129 n. 24, 132 n. 31, 640 nn. 6 e 8, 645 nn. 15–16, 672 Niebuhr, B. G.: 451–452 Nietzsche, F.: 177–185, 189–190, 402, 416, 420, 580 Nilsson, M. P.: 256 Nojorkam, G.: 499 Nonno di Panopoli: 543 Norden, E.: 316 Nosside di Locri: 264 Odìsseo: 69, 72, 96, 446, 599, 618, 621, 627–628, 670 Olimpìade d’Epiro (madre di Alessandro Magno): 636 Oliva, G.: 241 Olivier, J.–P.: 501 Omero: 4, 19, 29 n. 67, 38 n. 1, 40–41, 44 n. 27, 46–47, 49, 51, 61, 69–73, 96, 109, 115, 177, 188–189, 203, 207, 258, 294–295, 300–301, 344, 355, 361, 388–389, 422, 435–436, 441, 446, 450–451, 455–456, 491–494, 539–540, 543–544, 577, 593, 596, 599, 619, 657–659, 676 Omodeo, A.: 401 Ong, W. J.: 114 Onofri, S.: 290 n. 6 Orazio Flacco, Quinto: 22 n. 45, 27, 36, 37, 62, 229, 244, 271, 401, 422, 475, 480, 494, 676 Oreste: 447 Òrfeo: 133, 361, 544–545 Òrfeo di Crotone: 265 Origene: 198 Ortolano, R.: 671 Ossian: 421 n. 2 Osthoff, H.: 240
Ota, H.: 501 Otkypšcikov, J. V.: 501 Ottaviano: vd. Augusto Ovidio Nasone, Publio: 339, 401, 411, 545 Paduano, G.: 526 Page, D.: 173 n. 40, 264 Pagliaro, A.: 43 n. 18 Pais, E.: 255 Pallone, M. R.: 257 Palma, M.: 232 Palmer, L. R.: 499 Palmisciano, R.: 640 n. 8, 645 nn. 15–16 Palumbo Stracca, B. M.: 342 Palutan, M. G.: 640 n. 8 Pandimiglio, D.: 530 Paparozzi, M.: 232 Paratore, E.: 353, 508 n. 12 Paride: 189, 627, 675 Parmenide: 16 n. 24, 51, 257, 400 Parodi, E. G.: 240 Parrasio: 18 Parravicini, G.: 646 n. 20 Parroni, P.: 373–374 Parry, M.: 41–43, 212, 258, 298, 389, 445–446, 607 Pascal, C.: 241 Pascoli, G.: 243, 273, 281 Pasolini, P.: 282, 285–289, 323 Pasquali, G.: 7, 191, 218, 222, 236, 240, 243, 272, 276, 283–284, 314, 317– 319, 321, 328, 331, 335, 342, 350– 352, 369, 388, 402, 471, 479, 504, 603, 605–606, 613, 618, 649 Pasqualucci, E.: 646 n. 20 Passalacqua, M.: 232 Passarella, C.: 232 Patroclo: 70, 73, 422 Paul, H.: 240 Pausania: 130, 327 Pavese, C. O.: 167, 230 n. 8 Pazzi, P. de’: 110 Pecere, O.: 230 n. 8 Pecoraro, M.: 674 Pedullà, G.: 290 n. 6 Penelope: 72, 446, 627–628 Peppmüller, R.: 295 n. 11, 297 n. 24,
688 | Index nominum
Pericle: 54, 68, 449, 623, 630, 663 Perretta, V.: 454 Perrotta, G.: 162 n. 15, 169, 243, 276, 278, 332, 346, 350–354, 388–389, 392, 402, 643–644 Persio Flacco, Aulo: 133, 545 Perutelli, A.: 544 Pestman, P.: 497 Petrarca, Francesco: 196, 199, 202, 365 Petrobelli, P.: 366–370 Petronio Arbitro, Gaio: 37, 223, 506–520 Peutinger, C.: 198 Peyron, A.: 273, 451–452 Pezzi, D.: 237–238, 240 Pfeiffer, R.: 11–12, 25, 53, 179 n. 6, 193, 195–214, 236, 258, 298–300, 302 n. 1, 402, 658 Phillips, E. D.: 499 Piaggio, M.: 535 Picard, M.–Th.: 499 Piccaluga, G.: 501 Piccolomini, E. (filologo): 276 Piccolomini, E. S. (papa Pio II): 110 Pickard–Cambridge, A. W.: 53, 65, 79, 82, 202 n. 12 Pietro (santo): 372 Pilade di Cilicia: 101 Pindaro: 5, 14–16, 18–19, 25, 45, 47–51, 53, 67–68, 73, 75–77, 113–114, 131, 154–157, 160–164, 167–169, 187 n. 12, 257, 261, 306–308, 399, 422, 450, 494, 580 Pinte, D.: 17 n. 28 Piovani, N.: 530 Pisistrato: 80, 202, 256, 390, 654 Pisitelli, E.: 239 Pitagora: 68, 416, 494, 664 Pìtea di Egìna: 50 Pittaco: 78, 130 Planùde, Massimo: 363, 399, 521 Platon, M.: 498 Platone: 24–25, 52–61, 68–70, 96, 99, 118, 127, 157, 160, 207–208, 364– 365, 494, 544, 548, 590, 654, 657, 659, 664 Plauto, Tito Maccio: 94, 194, 223 Plinio il Giovane (Gaio Plinio Cecilio Se-
condo): 425, 573 Plutarco: 379, 381–382, 450–451, 578, 655 Pocock, L. G.: 501 Pohlenz, M.: 20 n. 40, 186 Polèmone di Ilio: 29 n. 67, 615 Policleto: 18 Policrate di Samo: 168 Polidòro: 622 Polifemo: 415 Polimnesto di Colofone: 68 Polinice: 447, 631 Polissena: 622 Poliziano (Angelo Ambrogini): 207, 613 Pollùce (Dioscùro): 35 Pollùce, Giulio: 14 Pompeo Leneo: 300 Pontani, F. M.: 522 Ponzi, M.: 419, 422 Porro, A.: 355 Porson, R.: 171, 317 Pöschl, V.: 176 n. 1, 178 n. 5, 189 Posidippo: 626, 635 Posidone Helikonios: 256 Posidonio: 177, 186, 188, 191 Prassifane: 26 Prassitele: 630 Pràtina di Fliunte: 68, 128, 382 Prendergast, G. L.: 389 Press, L.: 501 Pretagostini, R.: 232, 463–465, 544, 564 ss., 567, 640 n. 8, 641 n. 10, 645 n. 15 Prezzolini, G.: 285 Priamo: 618, 675 Privitera, A.: 353–354 Proclo: 13–15, 24, 28 Procopio: 440 Prometeo: 422 Properzio, Sesto Aurelio: 37, 411, 545, 635 pseudo–Longino: 110 pseudo–Plutarco: 130 pseudo–Scimno: 32 n. 76 Puelma, M.: 34 Pugliese Carratelli, G.: 498–499 Python di Catania (o di Bisanzio): 33 Quasimodo, S.: 402
Index nominum | 689
Quattrocchi, A.: 406, 410 Quattrocchi Leto, G.: 411 n. 1 Questa, C.: 230 n. 8 Quintiliano, Marco Fabio: 14–15, 37, 57, 62, 98, 259 Raaflaub, K. A.: 361 Racine, J.: 675 Radamante: 499 Raffaelli, A.: 453, 455 Rahn, H.: 190 Raison, J.: 499 Rask, R.: 235 Raubitschek, I. K.: 499 Reich, J. J.: 501 Reilly, J. F.: 29 n. 67 Reinach, T.: 65 Reinesius, T.: 506, 516 Reinhardt, K.: 176–193, 236 Reiske, J. J.: 506–507 Renehan, R.: 113 Reuchlin, J.: 639 Ribbeck, O.: 263, 276 Ribezzo, F.: 241 Ricciardelli, G.: 342 Riedweg, Ch.: 361 Rintone: 95, 262, 400 Risch, E.: 651 Ritschl, F. W.: 224, 314 Rizzo, A.: 216 Rizzo, S.: 230, 232, 373, 640 Roben, L.: 548 Robespierre, M. de: 428 Robortello, F.: 110 Rocci, L.: 548 Rohde, E.: 186, 188, 214, 217 n. 31 Romagnoli, E.: 243–244, 264, 270, 276– 281, 284, 350, 440, 603 Roncali, R.: 194, 216 n. 2, 230 n. 8 Ronga, L.: 367, 408 Ronsard, P. de: 243, 273 Roos, E.: 69 Roscalla, F.: 361 Rosellini, M.: 373 Rösler, W.: 543 Rossbach, A.: 242–243, 474, 476 Rossi, A.: 530
Rossi, C.: 530 Rossi, E. G.: 568, 640 n. 5, 641 n. 11, 642 n. 12 Rossi, En.: 530 Rossi, G. C.: 640 n. 5, 641 n. 11, 642 n. 12 Rossi, L.: 645 n. 15 Rossi, R.: 640 n. 8 Rostagni, A.: 21 n. 40, 342 Rousseau, J.–J.: 428 Rudhardt, J.: 570 Ruggieri, G.: 646 n. 20 Ruhnken, D.: 497 Russo, C. F.: 20, 93, 194, 216, 503, 505 Rutherford, I.: 119 Rutkowski, B.: 501 Sacconi, A.: 342, 501 Saffo: 25, 131, 167, 260, 304–305, 324, 343–344, 394, 402, 420, 426, 448– 449, 493–494, 575, 588, 594, 597, 600, 628–629 Sakadas di Argo: 68 Sakellarakis, J. A.: 499 Sakellariou Xenaki, A.: 499 Sakellariou, M. B.: 501 Salmasio, C. (Claude Saumaise): 207 Salonius, A. H.: 508 Salvioni, C.: 240 Sandys, J. E.: 294 n. 10 Sanguineti, E.: 536 Santangelo, G.: 232 Satiro: 211 Saussurre, F. de: 607 Sbarbaro, C.: 536 Sbardella, L.: 626, 640 n. 8, 645 nn. 15–16 Scaligero, G. G.: 199, 207, 220, 314 Schadewaldt, W.: 114, 169, 179, 182, 302– 304, 306–308 Scheller, M.: 232 Schelling, F.: 179 Schenkl, K.: 238 Schiaffini, A.: 536 Schiller, F.: 179, 183 Schlegel, F.: 188 Schleicher, A.: 235, 239–240 Schmeck, H.: 508 Schmidt, E.: 179
690 | Index nominum
Schmidt, J. H. H.: 171 Schmidt, L.: 156 Schoder, R. V.: 499 Schönborn, S.: 423 Schrader, H.–J.: 421 Schroeder, O.: 156, 256 Schubert, F.: 407 Schultz, S.: 241 Schumann, R. A.: 407 Schweighaeuser, J.: 294 Schweitzer, B.: 179 Scipione, Publio Cornelio (console nel 218 a. C., padre dell’Africano): 531 Séchan, L.: 263 Sedgwick, W. B.: 508 Segoloni, L. M.: 640 n. 8, 645 n. 16 Segre, C.: 608 Semonide Amorgino: 438 Senarco di Siracusa: 95 Seneca, Lucio Anneo: 422 Senofane di Colofone: 49, 51, 131, 257, 654–655, 657 Senofonte: 78, 629 Senofonte di Corinto: 163 Senofonte Efesio: 626 Serrao, G.: 35 n. 87, 265, 352–353, 386– 396, 644 Settimio Severo, Lucio: 665 Settis, S.: 358 Ševoroškin, V. V.: 501 Shakespeare, W.: 316–317, 422 Shorey, P.: 172 Sileno: 91 Simonide: 16, 77, 131, 163–164, 489, 521 Sinesio: 543 Sisti. F.: 352–353 Šklovskij, V. B.: 11 Snell, B.: 180, 192, 319, 649, 660 Snodgrass, A.: 42 n. 14 Socrate: 55–56, 415, 474 Sofilo: 83 Sofocle: 19, 53, 83, 87–91, 106, 130, 132, 177, 181, 194, 215, 218–219, 223, 229, 282, 289, 319, 340, 447–448, 467, 491, 609, 621–622, 624, 627, 631, 676 Sòfrone di Siracusa: 95
Sollers, Ph.: 542 Solone: 48–49, 53, 131, 188, 305, 361, 619, 664 Sommerstein, A. H.: 435 Sonnino, M.: 141, 640 n. 8, 645 n. 15 Sorgi, M.: 567 Sosibio: 262, 490 Sositeo: 33 Speyer, W.: 105, 107 Spitzer, L.: 386 Staiger, E.: 9 Stampini, E.: 240, 242, 244, 273 Stanford, W. B.: 670 Stanislavskij, K. S.: 593 Stein, H. F. K. von: 179 Steiner, G.: 575, 580 Stesicoro: 49, 77, 126, 131, 255–263, 451, 544–545 Stopa, R.: 501 Strabone: 128, 658, 667 Stratone di Sardi: 522 Strepsiade: 474–475 Stroux, J.: 179 Strunk, O.: 368–369 Suárez de la Torre, E.: 133 n. 32 Suda: 28 Svenbro, J.: 124, 258 Svetonio Tranquillo, Gaio: 37, 300 Szemerényi, O.: 499 Szlezák, Th. A.: 58 n. 77, 302, 461 Szondi, P.: 9 Tacito, Publio Cornelio: 271 Tagliaferro, E.: 645 n. 16 Taleta di Gortina: 68 Talete di Mileto: 51 Tandoi, V.: 230 n. 8, 516 n. 31 Taplin, O.: 88 Tarditi, G.: 346–349, 355, 370, 645 n. 18 Tartaglini, C.: 640 n. 8, 645 n. 16 Tasso, T.: 181 Teagene di Reggio: 50, 258, 265 Tecchi, B.: 453–459 Telamone: 15 Telemaco: 619, 628 Temistocle: 54 Tennyson, A.: 341
Index nominum | 691
Teocrito: 29, 33–36, 59, 95, 101, 134–135, 265, 342, 344, 352, 386, 450, 495, 541, 577, 600, 625, 636, 667 Teodette di Faselide: 23 n. 47 Teodòro di Bisanzio: 23 n. 47 Teodòro Metochita: 399 Teofrasto: 26, 48, 84, 106, 131, 136, 348, 491, 633 Teopompo: 60 Terenzio Afro, Publio: 94, 369 Terpandro: 18, 68, 256 Tersite: 618 Tèseo: 625, 663 Tespi: 19, 609 Teti: 627 Teubner, B. G.: 322, 402 Teza, E.: 239–240 Thamous (re degli Egizi): 58 Theuth: 58 Thomas, E.: 508–509 Tibullo, Albio: 133 Tideo: 497 Tiedke, H.: 389 Timarco: 97 Timoteo di Mileto: 68 Timpanaro, S.: 218, 223, 232, 267–269, 274, 322, 374, 451, 504 Tiraboschi, G.: 255 Tirteo: 131 Titòno: 618 Tognon, S.: 641 n. 9 Tolomei, C.: 243 Tolemeo II Filadelfo: 125, 211 Tomaševskij, B. V.: 9 n. 9 Tomberg, K.: 497 Too, Y. L.: 116 Torniai, F. SJ: 3, 672 Torraca, L.: 379 Torrefranca, F.: 368, 408 Trasibùlo (figlio di Xenocrate di Agrigento): 168 Trasimaco di Calcedone: 23 n. 47, 97 Treves, P.: 269 n. 4, Triclinio, Demetrio: 220, 314 Trimalchione: 506, 519 Troili, E.: 232 Troya, C.: 270
Tucidide: 5, 54–57, 60, 97–98, 128, 183, 287, 544, 590, 600, 629, 657, 663 Turner, E. G.: 30 n. 68, 300 Tusa Cutroni, A.: 501 Tusa, V.: 501 Untoni, V.: 241 Ursini, F.: 290 n. 6 Usener, H.: 172, 182, 205 n. 17, 214 n. 31, 243, 402 Uspenskij, B. A.: 42 Uzzi, G.: 642 n. 12 Vahlen, J.: 220, 314 Valgimigli, M.: 402, 453–459 Valla, G.: 110 Valla, L.: 207 Vallauri, T.: 235 Vallet, G.: 255 van der Goes, W.: 506 van Effenterre, H.: 501 van Groningen, B. A.: 17, 18 n. 32 Vandoni, M.: 497 Vargunteio, Quinto: 300 Varrone, Marco Terenzio: 37 Vendryes, J.: 240 Ventris, M.: 342 Verdi, G.: 665–666, 674 Vespasiano, Tito Flavio: 610, 665 Vetta, M.: 94, 232, 348, 640 n. 8, 641 n. 10, 645 n. 15 Vettori, P.: 110 Vico, G. B.: 41, 296–297, 398, 402, 433, 491 Vigo, G.: 535 Villari, P.: 234, 237 Villoison, J.–B.–G. d’Ansse de: 291–301 Virgilio Marone, Publio: 318, 340, 393– 394, 401–402, 634, 539, 543, 545 Visconti, E. Q.: 271 Vitelli, G.: 236, 239, 276, 284, 335, 402, 433, 603, 649 Von der Mühll, P.: 167 Voss, J. H.: 181 Voßkamp, W.: 422 Wace French, E.: 499
692 | Index nominum
Wackernagel, J.: 61, 220, 240, 314, 328 Wagner, R.: 185, 589, 676 Walcot, P.: 501 Wehrli, F.: 210 Weil, H.: 186, 243 Welcker, F. G.: 166, 187 n. 12, 206, 236, 254, 276, 607 Westphal, R.: 170, 242–243, 264, 474, 476 Whitney, W. D.: 235 Wifstrand, A.: 389 Wilamowitz–Moellendorff, T. von: 90, 118, 130 Wilamowitz–Moellendorff, U. von: 11, 20, 160–175, 177–179, 182, 184, 186– 187, 190, 201, 213, 220, 226, 236, 243, 256, 258, 281, 284, 294, 303, 314–317, 353, 445, 604, 670 Wille, G.: 62 Willett, S.: 479 Winckelmann, J. J.: 200, 202, 267, 283, 424, 427, 606, 651 Winniczuk, L.: 501 Witte, K.: 298
Wolf, F. A.: 41, 200, 236, 239, 267, 271, 291, 294–298, 321, 331, 433, 455– 456, 491, 641, 604, 606 Wolf, H.: 453 Wood, R.: 41, 65, 296–297 Wuilleumier, P.: 255 Xenocrito di Locri: 68, 261, 263 Xenodamo di Citera: 68 Yalouris, N.: 499 Yeivin, Sh.: 501 Zambaldi, F.: 242–244, 273, 281 Zanker, P.: 97 Zenodoto di Efeso: 61, 197 Zenone: 462 Zerbino, M.: 290 n. 6 Zeus (vd. anche Ammone, Giove): 67, 449, 525, 624, 628, 631 Ziegler, K.: 204, 211 Zimmermann, B.: 544 Zola, É.: 620 Zopiro di Eraclea: 265
Index locorum a cura di Francesco Paolo Bianchi, Maria Broggiato, Enrico Cerroni, Andrea Ercolani, Enzo Franchini, Manuela Giordano, Virgilio Irmici, Laura Lulli, Michele Napolitano, Livio Sbardella, Maurizio Sonnino Aesch. – Agamemnon: 218 – Ag. 1 ss.: 89 – Ag. 104–257: 221 – Eumenides: 91, 172 – Eum. 321–397: 221 – Oedipus rex: 181 – Prom. 114–192: 221 – Supplices: 91 Aeschin. – Ctes. 66–68: 53 – Tim. 25 ss.: 97 Alc. fr. 346 V.: 415 n. 3, 658 Alcm. PMG 26 Page = fr. 90 Calame: 619 Alex. fr. 140 K.–A. (Linos): 21 n. 43 An. Crameri ap. Schol. in Aristoph. 1/A Proleg. de com. XIc p. 45,48–54 Koster: 435 Anacr. – fr. 33 G. = PMG 356 Page: 415 n. 5, 658 – fr. 36 G. = PMG 395 Page: 619 Anth. Pal.: 394 – 5. 124: 635 – 6. 268: 260 – 10. 42: 135 – 12. 43 (Call. epigr. 28 Pf.): 32 – 12. 50. 7–8: 523 – 12. 85. 7: 523 – 12. 118 (Call. epigr. 43 Pf.): 523 – 12. 188: 523 – 12. 203: 523 Antiph. fr. 189 K.–A. (Poiēsis): 17 n. 29, 30 Ap. Rh. – 2. 1–97: 35 n. 88 – 3. 1302: 497 – de Archilocho: 211 Archil. – fr. 5 W. 2: 49 – fr. 114 W.2: 49 – fr. 128 W.2: 645 n. 19 https://doi.org/10.1515/9783110648140-077
– fr. 196a W.2: 434–435 – fr. 324 W.2: 128 Aristoph. – Acharnenses: 85, 217 – Ach. 1–8: 279 – Ach. 285: 478 – Ach. 336: 478 – Ach. 461–465: 279 – Ach. 665–675: 469 – av. 209–353: 221 – av. 785–789: 84 – eccl. 952: 511, 514–515 – eccl. 952–955: 512 – eccl. 958–960: 513 – eccl. 960: 511, 514–515 – eccl. 960–963: 512 – eccl. 967–969: 513 – eccl. 971–972: 513 – eccl. 974–975: 513 – eccl. 1165 ss.: 102 n. 99 – Lys. 797 ss.: 102 n. 99 – Lys. 821 ss.: 102 n. 99 – nub. 275–290: 279–280, 474–475 – nub. 298–313: 474–475 – nub. 457–475: 474–475 – nub. 494–496: 439 – nub. 563–574: 280 – nub. 595–606: 279 – nub. 649–651: 474 – pax: 95 – pax 301 ss.: 102 – pax 741: 435 – Plutus: 94 – ranae: 91–92, 95, 172, 655 – ran. 52 s.: 20 – ran. 180–207: 222 – ran. 180–268: 221 – ran. 324–336: 221 – ran. 340–353: 221 – ran. 372–434: 221
694 | Index locorum
– ran. 384: 30 – ran. 384–388: 469 – ran. 389–393: 469 – ran. 862: 20 – ran. 685–687: 655 – ran. 946 s.: 30 n. 69 – ran. 1114: 20 – thesmophoriazusae: 94 – thesm. 446–452: 630 – vespae: 93, 95 – vesp. 88–90: 96 n. 68 – vesp. 548 ss.: 96 n. 69 – vesp. 666–667: 509 n. 14 Aristot. – Ath. pol. 49. 4: 623 – fr. 125 R.: 23 n. 47 – fr. 136 R.: 23 n. 47 – phys. 209 b 11 ss.: 58 – poetica: 52, 88–89, 92, 208, 212 – poet. 1447b 21: 32–33 – poet. 1448a 21–24: 670 – poet. 1448b 27: 20 n. 43 – poet. 1448b 31 ss.: 79 – poet. 1449a 8: 21 n. 44 – poet. 1449a 10: 494 – poet. 1449a 10 ss.: 79 – poet. 1449a 18: 87 – poet. 1449b 8: 30 – poet. 1449b 10 ss.: 80 – poet. 1449b 12: 32 n. 73 – poet. 1449b 33: 61 – poet. 1450b 18 sg.: 99 – poet. 1451b 2 ss.: 663 – poet. 1451b 59 s: 21 n. 44 – poet. 1453a 33s.: 21 n. 44 – poet. 1453b 1 ss.: 60 – poet. 1453b 3 ss.: 99 – poet. 1459a 9: 27 – poet. 1459a 19: 27 – poet. 1459b 36: 27 – poet. 1460a 7: 20 n. 43 – poet. 1461a 10: 27 – poet. 1462a 11: 99 – poet. 1462a 18 ss.: 32 n. 73 – pol. 1342a 18 ss.: 21 n. 44 – rhet. 1354a 4ss: 23 – rhet. 1354a 6ss.: 23
– rhet. 1358a 33: 30 – rhet. 1404a 33: 27 – rhet. 1404b 12 ss.: 97 – rhet. 1404b 23: 27 – rhet. 1405b 35: 27 – rhet. 1406b 1: 27 – rhet. 1406b 3: 27 – rhet. 1413b 2 ss.: 60 – top. 101a 25 ss.: 23 Asclep. AP 12. 50. 7–8: 522 Athen. – 2. 50f: 33 – 6. 241f: 100 – 12. 538c ss.: 101 – 13. 596d: 33 – 14. 608c: 33 – 14. 619a–b: 30 – 14. 620d ss.: 100 – 14. 664a: 100 Augustin. conf. 6. 3. 3: 61 Bacchyl. – 3. 15 ss.: 73 – 5. 187 ss.: 50 – fr. 5. 1 s. Sn.–M: 16 – fr. 5. 3 Sn.–M: 136 Bodmer Codex of Visions – A. 20: 571 – A. 36: 571 – A. 41: 571 – A. 53: 571 – A. 65: 569 – Abr. 3: 571 – D. 7: 569 – J. 6: 570 – J. 14: 569 – J. 35: 570 – J. 72: 569 – J. 79: 571 – Jes. 2: 571 – Jes. 25: 571 – X. 27: 571 Call. – contra Praxiphanem: 210 – epigr. 28 Pf. (AP 12. 43): 32 – epigr. 43 Pf. (AP 12. 118): 523
Index locorum | 695
– fr. 1 Pf.: 394 – fr. 1. 3 Pf.: 120 – fr. 1. 37–38 Pf.: 626 – fr. 27 Pf.: 29 n. 67 – fr. 198 Pf. (ia. 8): 31 – fr. 203. 18 Pf. (ia. 13): 31 – fr. 203. 30–32 Pf. (ia. 13): 31 – fr. 203. 41 Pf. (ia. 13): 15 – fr. 383 Pf.: 31 – fr. 384 Pf.: 31, 490 – Hecale: 211 – hymni: 59 – hymn. Ap.: 32 – hymn. Pall.: 31 – iambi: 60 – pinakes: 211 Carm. Priap. 13. 1: 515 n. 31 Catull. – 64: 36 – 66. 48: 515 n. 33 – 110. 2: 516 n. 39 – 110. 5: 516 n. 39 Chamael. fr. 37 W.: 26 Choer. fr. 1 Kinkel: 17 Cic. – Cat. mai. 19. 70: 508 n. 14 – sen. 27: 515 n. 34 – somn. Scip.: 399 CIL VI 27938: 510 Clear. fr. 88 W.: 32 n. 76 Cratin. – fr. 1 K.–A. (Archil.): 449 – fr. 223 K.–A.: 449–450 Crit. fr. 4.2 W.2: 32 n. 75 Demetr. de elocut. 169: 91 Demosth. – 18. 313: 97 – 59. 122: 630 Diod. Sic. 12. 53: 97 Diog. Laert. – 3. 37: 57 – 5. 51: 98 Dion. Hal. – comp. verb. 108. 1 ss. Us.–Rad.: 57 – comp. verb. 133. 2 ss. Us.–Rad.: 59 – comp. verb. 144. 4 ss.: Us.–Rad.: 57
– Thuc. 410. 15 ss. Us.–Rad.: 57 Dion. Thr. – Techne: 208 – p. 6. 8 ss. Uhlig: 28 Dissoi logoi fr. 3. 17 (90 D.–K.): 655, 659 Dur. Sam. FGrHist 76 F 1 Jacoby: 60 Epic. sent. Vat. 17: 624 EM 295, 53 ss.: 28 n. 63, 30 Eratosth. fr. I A, 16, 20 Berger: 658 Eunap. vit. sophist. 4. 1. 3: 375 Eur. – Alcestis: 92 – Bacchae: 416 – Bacch. 370–385: 221 – Bacch. 403–415 : 221 – Cyclops: 91, 172 – Cycl. 356–367: 221 – Hercules furens: 172 – HF 673–686: 626 – Hel. 1452 s.: 172 – Her. 637–700: 221 – Hipp. 877 ss.: 52 – IA 630: 511 – Med. 410–445: 221 – Med. 627–662: 221 – Med. 824–865: 221 – Med. 976–1001: 221 – Or. 807–843: 221 – Phoen. 202–213: 221 – Phoen. 239–249: 221 – Sileus: 435 – Supplices: 53 – Telephus: 85 – Tro. 511–530: 221 – Tro. 551– 567: 221–222 Gorg. – Hel. 8–9: 655, 659 – Hel. 73 ss.: 448 – fr. B 11 D.–K.: 54 Heliod. 1. 2: 625 Hell. Oxy.: 399 Hephaest. – 21. 11 Consbr.: 495 – 26. 14 Consbr.: 495
696 | Index locorum
– 34. 18 Consbr.: 495 – 56. 5 ss. Consbr.: 173 Heracl. fr. B 104 D.–K.: 49, 51 Heracl. Pont. fr. 166 W.: 26 Hero(n)d. mim. 8: 34 Herodot. – 1.108: 289 – 1. 123–125: 669–671 – 2. 5: 655 – 2. 48: 20 – 5. 49. 1: 98 – 5. 67: 256 – 6. 126 ss.: 69 – 6. 129. 4: 69 Hes. – op. 650 ss.: 74 – op. 650–653: 256 – theog. 1 ss.: 50 Hom. – Ilias: 212, 390 – Il. 1. 225: 415 – Il. 5. 703: 112 – Il. 6. 168 ss.: 44 – Il. 7. 175 ss: 44 – Il. 9. 186–91: 70 – Il. 11. 299: 112 – Il. 14. 294: 495 – Il. 15.661–664: 448 – Il. 16. 467: 497 – Il. 16. 692: 112 – Il. 18. 478–608: 71 – Il. 18. 548 sg.: 71 – Il. 18. 590–605: 71 – Il. 18. 604–605: 71 – Il. 20–21: 390 – Il. 23: 73 – Odyssea: 212, 390 – Od. 1. 10: 43, 112 – Od. 1. 351 s.: 17 n. 30, 113 – Od. 3. 304: 260 – Od. 4. 261–264: 449 – Od. 8: 72 – Od. 8. 163: 44 n. 25 – Od. 8. 169–171: 96 – Od. 8. 256–265: 71 – Od. 8. 500: 112 – Od. 9: 415
– Od. 9. 14: 112 – Od. 11. 334: 43, 69 – Od. 13. 2: 43, 69 – Od. 13. 330–332: 446 – Od. 18. 130–137: 446 – Od. 19. 225–231: 72 – Od. 23. 296: 120, 390 – hymn. Hom. Ap. 146–64: 256 – hymn. Hom. Ap. 147 ss.: 72–73 – hymn. Hom. Aphr. 33–44: 449 Hor. – a. p. 89: 21 n. 44 – a. p. 100: 21 n. 44 – a. p. 153–155: 21 n. 44 – a. p. 190: 21 n. 44 – a. p. 223 s.–: 21 n. 44 – a. p. 225 s.: 21 n. 44 – carm. 2. 2: 32 n. 76 – carm. 2. 10: 32 n. 76 – carm. 2. 18: 32 n. 76 – carm. 3. 24: 32 n. 76 – sat. 1. 2. 120: 510 Isocr. – 2. 48 (Nicocl.): 30 – or. 4 (Panegyr.): 59 – 9. 9–11 (Ev.): 24 – 12. 10 ss. (Panathen.): 55 – 13. 17 (soph.): 30 n. 69 – 15. 12 (antid.): 99 – 15. 45 s. (antid.): 24 – 15. 74 (antid.): 30 Liv. 28. 46. 8: 533 Lucil. fr. 232 Marx (= 239 Krenkel): 509 Lucr. – 4. 1112: 517 n. 39 – 4. 1195: 517 n. 39; Lys. – 1. 8–9: 630 – 32. 11: 630 Meleagr. AP 12. 85. 7: 523 Men. dyscolos: 94 Men. Rhet. 331. 1 s. Sp.: 30 Mimn. fr. 6 W. 2 = 11 G.–Pr.: 48, 132
Index locorum | 697
Papin. epigr. v. 3. p. 42 Morel: 509 n. 15 Peregr. Aether. 21. 5: 517 n. 37 Petr. – 9. 6: 517 n.43 – 23. 3: 151 n. 31 – 25. 4: 515 n. 32 – 26. 10: 509 – 29. 3: 519 – 37. 9: 517 – 37. 10: 510 – 44. 2: 509 – 44. 3: 516 n. 33 – 44. 5: 516 n. 32 – 45. 8: 517 n. 39 – 45. 12: 509 – 56. 7: 506 – 57. 1–2: 506 – 57. 11: 509–510, 516 – 58. 1–2: 509 – 58. 1–3: 506 – 58. 2: 517 – 58. 3: 510 – 58. 7–13: 519 – 59. 2: 505, 517 – 62. 14: 516 n. 32 – 69. 1: 519 – 77. 1: 518 n. 41 – 81. 5: 518–519 – 85. 2: 518 n. 43 – 87. 5: 517 n. 39 – 87. 9: 517 n. 39 – 118. 5: 509 – 126. 1–4: 519 PHibeh 172: 27 n. 59 Philod. AP 5. 124: 635 Phot. – bibl. 318b 21 ss.: 13 – bibl. 320a7, 21: 30 – bibl. 321 a 34: 30 Pind. – fr. 70b Sn.–M.: 16 n. 26 – fr. 71 Sn.–M.: 16 n. 26 – fr. 94c Sn.–M.: 163 – fr. 122 Sn.–M.: 163 – fr. 123 Sn.–M.: 168 – fr. 125 Sn.–M.: 16 n. 26 – fr. 139 Sn.–M.: 16
– fr. 198a–b Sn.–M.: 494 – fr. 199 Sn.–M.: 162 – Isthm. 1. 60 ss.: 16 – Isthm. 6. 20: 15 – Isthm. 8: 163 – Isthm. frr. 2–3: 164 – Nem. 1: 450 – Nem. 1. 33 s.: 307 – Nem. 3. 177: 168 – Nem. 4. 22: 163 – Nem. 4. 33 s.: 15 – Nem. 5: 50 – Nem. 5. 1: 163 – Nem. 5. 6: 163 – Nem. 7: 49, 164 n. 17 – Nem. 9: 475 – Ol. 1. 28–34: 49 – Ol. 1. 52 s.: 49 – Ol. 2. 83 ss.: 48 – Ol. 6. 1 ss: 16 – Ol. 7: 163 – Ol. 7. 88: 15 – Ol. 9. 100 ss.: 48 – Ol. 10. 1 s.: 51 – Ol. 10. 3: 168 – Ol. 11: 168 – Ol. 13: 163 – Ol. 13. 29: 15 – Pae. 6: 49 – Pae. 6. 57: 15 – Pae. 7: 164 n. 17 – Pae. 9: 164 – Pyth. 1: 67, 168 – Pyth. 2. 4: 164 – Pyth. 4: 45, 76 – Pyth. 4. 247 s.: 49 – Pyth. 5. 76: 160 – Pyth. 6: 168 – Pyth. 6. 25 s.: 168 – Pyth. 8. 29 ss.: 49 – Pyth. 9. 1 ss.: 164 – Pyth. 9. 76 ss.: 49 Plat. – apol. 17c 6 ss.: 56 – apol. 38a 1 ss.: 55 – apol. 40e 4 ss.: 55 – epist. 7. 341b 3 ss: 58
698 | Index locorum
– epist. 7. 341d ss: 58 – Gorg. 461d 6 ss: 55 – Ion: 70 – Ion. 534c: 25 n. 51 – leg. 644e: 20 – leg. 658e: 21 n. 44 – leg. 666a: 415 n. 2 – leg. 700a ss: 68 – leg. 700b ss: 24, 30 – leg. 701a: 24 n. 50 – leg. 764d–e: 24 n. 50 – leg. 817d 4 ss.: 52 – leg. 822b: 14 – Phaedrus: 54, 59 – Phaedr. 226d: 23 n. 47 – Phaedr. 274b 6 ss.: 58 – Protagoras: 96 – Prot. 334c 7 ss.: 55 – respublica: 57 – resp. 393b: 24 n. 50 – resp. 395a: 31 n. 71 – resp. 424c: 417, 581 – resp. 477d: 511 – resp. 607a: 14 – symp. 177b: 24 n. 49 – symp. 223d: 415 Plaut. – Amph. 392: 516 n. 32 – Amph. 934: 516 n. 32 – Epid. 513: 516 n. 33 – Pers. 281: 516 n. 33; Plin. (jr.) epist. 4. 25. 2: 516 n. 32 Plut. – Alex. 1. 2: 363 – Antonius: 363 – de cupidit. divit. 2. 524a: 450 – de glor. Ath. 348c: 655, 659 – Demetrius: 363 – Demosth. 1. 1 ss.: 363 – Nic. 1. 5: 363 – Sulla: 365 – Vitae: 362–366 Poll. 4.52 ss.: 14, 24 n. 50 Posidipp. SH 705: 626 POxy IV 663: 449 POxy XXVI 2438 (vita Pindari): 164 POxy XLII 3010: 518 n. 43
Pratin. – PMG 708. 6 Page: 68 – PMG 710 Page: 17 n. 30 – PMG 713 Page: 16 n. 27 – PMG 850 Page: 36 n. 90 Praxiph. frr. 11–17 W.: 26 Prop. 4. 3. 19: 516 n. 33 ps.–Plut. mus. 1134c: 30 Quint. – 6. 1. 30 ss.: 98 – 7. 9. 10: 509 – 8. 6. 64: 57 – 10. 1. 62: 259 – 10. 2. 22: 3 – 11. 3: 98 Rhet. ad Alex. 41b 9: 30 n. 69 Sapph. – fr. 16 V.: 448 – fr. 127 L.–P. (= V.): 511 Satyr. vita Euripidis: 164 Schol. in Aristoph. – 1/A Proleg. de com. Xia II pp. 35,62 – 36,2 Koster: 435 – 1/A Proleg. de com. XIc p. 45,48–54 Koster: 435 Schol. in Hom. – ad Il. 6. 169: 44 n. 24 – ad Il. 6. 178: 44 n. 24 – ad Od. 23. 296: 212 n. Schol. in Pind. – ad Nem. 1. 49 III pp. 18–21 Drach.: 307– 308 – ad Pyth. 2 II p. 31. 8 ss.: Drach.: 28 Sim. fr. 9 Powell: 495 Sol. – fr. 20 W.2 = 26 G.–P.: 132 – frr. 20–21 W.2 = 26–27 G.–P.: 48 – fr. 29 W.2 = 25 G.–P.: 49 Soph. – Ajax: 91, 219 – Aj. 84–85: 225 – Aj. 314: 225 – Aj. 327: 225 – Aj. 430: 225
Index locorum | 699
– Aj. 512: 219 – Aj. 554: 225 – Aj. 571: 225 – Aj. 573: 225 – Aj. 596–608: 221 – Aj. 624–634: 221 – Aj. 812: 225 – Aj. 839–842: 225 – Aj. 855: 225 – Aj. 1111–1117: 225 – Antigone: 53 – Electra: 90 – El. 422 s.: 289 – El. 580–583: 447 – Oedipus Coloneus: 219 – OC 228–236: 469 – OC 243–249: 469 – OC 668–706: 221 – OC 1211–48: 221 – Oedipus rex: 90–91, 202 n. 12, 363 – OR 151–215: 221 – OR 863–896: 221 – OR 895: 228 – Philoctetes: 91, 219 – Phil. 49: 225 – Phil. 53: 225 – Phil. 134: 225 – Phil. 386–388: 225 – Phil. 827 ss.: 473–474 – Phil. 936: 225 – Phil. 1142–1144: 225 – Trachiniae: 90–91 Stesich. Ger.: 391 Strab. 1. 2. 15: 658 Strat. – AP 12. 188: 523 – AP 12. 203: 523 Tac. Ann. 1. 23: 510 Ter. Eun. 553: 225 Theocr. – 1. 64 ss: 36 – 1. 66: 396 – 2. 4: 391 – 2. 82: 495 – 2. 118 ss: 34 – 2. 157: 391
– 3: 34 – 3. 6 ss: 36 – 3. 42: 495 – 4: 33 – 5: 36, 390–393, 395 – 6: 33, 36 – 7: 34, 393–394 – 7. 52 ss: 36 – 7. 96 ss: 36 – 7. 122: 34 – 8: 36, 390, 394 – 8. 33–60: 133 – 8. 63–80: 133 – 9: 33 – 10. 12: 391 – 10. 24 ss: 36 – 10. 42 ss: 36 – 11: 34 – 11. 19 ss: 34 – 11. 42: 515 n. 31 – 13: 34 – 14. 47: 34 – 15: 658 – 15. 22: 101 n. 94 – 15. 60: 101 n. 94 – 15. 82 sg.: 101 n. 95 – 15. 100 ss: 36 – 16: 34 – 17: 34 – 18: 34 – 22: 34–35 – 24. 7–9: 36 – 24. 209 ss.: 450 – 25: 388, 390 – 28: 34 Theogn. 19 ss.: 136 Theophr. – char. 11: 84 – char. 14: 84 Theopomp. fr. 32. 4 K.: 511 Thuc. – 1. 22: 54, 56 – 1. 22. 4: 98 – 1. 241. 1: 98 n. 81 – 2: 654 – 2. 44. 4: 623 – 2. 45. 2: 629–630
700 | Index locorum
– 3. 38. 4: 97 Tib. 1. 4. 59–60: 519 Timoth. Persae: 68 Varr. Men. 498. 521 Bue.: 509 n. 14 Verg. – Aen. 8. 41: 495 – ecl. 2. 45: 516 n. 31 – ecl. 9. 39: 516 n. 31 Vita Pindari (= POxy XXVI 2438): 164
Xenophan. – fr. 1. 21 ss. W.2 = G.–P.: 49 – fr. 21 B 10 D.–K.: 655 Xenophon. – Ath.: 399 – oec. 7. 17–37: 629 – symposium: 78 Xenophon. Eph. – 1. 1: 626 – 1. 2: 626